FRED CHAPPELL DAGON (Dagon, 1968) Dedicato ai George Garretts, ai Peter Taylors e alla memoria di Richard McKenna. Ph'ng...
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FRED CHAPPELL DAGON (Dagon, 1968) Dedicato ai George Garretts, ai Peter Taylors e alla memoria di Richard McKenna. Ph'nglui mglw'nafh Cthulhu R'lyeh wgah'nagl fhtagn. Parte I 1 Alle 9.30 del mattino l'uomo entrò nella stanza a piano terra. La stanza, che si affacciava a ovest su un azzurro quasi penoso e sull'ardita catena di montagne al di là della minuscola valle, era la stessa che i suoi nonni chiamavano il "salotto del sole". Avanzò in linea retta nella stanza e si arrestò. Gli sembrava di sentire l'intera struttura della casa vibrare sotto i suoi passi. Rimase immobile a considerare, o meglio a riflettere, su tutto quanto c'era, in realtà, da considerare. L'onere dell'eredità incominciava già a pesargli un po'. La stanza sapeva di muffe familiari e le due finestre, macchiate e ondulate, erano modeste con le loro tendine grigie e trasparenti. Sull'apertura a forma di bifora della porta esterna la tenda del vetro era talmente tirata tra le due aste sopra e sotto che il tessuto formava delle costole rigide, immobili come le dita di un morto. L'uomo fece un passo ed esitò di nuovo, fermandosi ad ascoltare un tintinnio di vetri cauto e sommesso da qualche parte nella casa. Spinse il peso avanti e indietro, continuando a meditare e ondeggiando sui talloni. Possibile che la carie del legno avesse sfaldato tutte le assi del pavimento? Non riusciva nemmeno a convincersi che fosse il caso di dubitarne, mentre fissava con espressione crucciata le linee regolari dell'impiantito in legno scuro di quercia, con ogni asse solidamente accostata all'altra. Persino lo strato di polvere steso attorno ai suoi piedi come una garza non smorzava del tutto la dura brillantezza del legno. Si accorse di detestare il pensiero di quelle file coscienziose buttate per aria fino a esporre l'ampio strato di suolo nudo e rozzo, uno strato da sventrare in seguito per arrivare all'ossatura cadente della casa. Ma era probabile che
non ci fosse modo di impedirlo. Sospirò e, mentre inspirava, gli atomi carichi di energia della polvere gli stuzzicarono con insistenza le narici. Starnutì due volte, si stropicciò il naso con un movimento circolare del polso e strofinò le sopracciglia con il palmo della mano. Aveva udito veramente un'eco ai suoi starnuti? La stanza non sembrava così grande da permettere dei veri e propri fenomeni di risonanza. Misurava circa sei metri di lato e aveva un soffitto molto alto, ma sembrava fatta apposta per ospitare presenze secondarie e riverberanze acustiche. La stanza non finiva lì. Di fronte a lui due porte doppie, divise in piccoli rettangoli di vetro, chiudevano fuori ciò che costituiva in realtà il resto della sala. Nella porta a sinistra la sua immagine era visibile in tutta l'altezza, con la mano ancora sopra al viso, frammentata in tanti segmenti quanti erano i rettangoli di vetro. L'uomo lasciò ricadere la mano pallida lungo il fianco e il movimento balenò nel vetro. Si spostò verso la parete occidentale e ancora una volta la sua immagine, più larga e scura, gli si accostò. La testa e il torso lo fronteggiarono, segmentati in una specie di disegno ovale fatto di triangoli arrotondati, apparentemente ammucchiati tra gli scaffali del vecchio scrittoio in legno scuro. Lui si strinse nelle spalle e si girò dall'altra parte. Il divano basso, una specie di orrore obeso sommerso da guanciali e cuscini stravaganti, riposava imperturbabile contro il muro opposto. Era drappeggiato con un tappeto stampato, ma non si faticava granché per indovinare che cosa ci fosse sotto: una stoffa color vinaccia, pelosa e pungente, e tre grossi cuscini appoggiati direttamente sulle molle. Il tappeto di lana aveva due frange di nappa rossa e raffigurava una scena levantina. Un venditore di vini al mercato, comodamente seduto sotto la tenda, osservato dall'alto del cammello da uno straniero in turbante e, più indietro nella strada polverosa, una donna ritorna dal pozzo con la brocca dell'acqua sulla spalla. Il quadro era interrotto da una profusione di cuscini e cuscinetti, verdi, rossi, gialli, a fiori vistosi, con uccelli dall'aria astuta o tristemente saggia. Due di questi cuscini, gemelli e oblunghi, erano sistemati proprio nel centro del divano, così vicini da sembrare le Tavole del Decalogo. Erano bianchi, o almeno lo erano stati in origine, e faticosamente impunturati con del filo azzurro tanto da formare motti e disegni strettamente collegati. Quello di sinistra raffigurava una ragazza, con i lunghi capelli turchini sparsi attorno al viso e gli occhi innocenti chiusi dal sonno. Il motto recitava: HO DORMITO E SOGNATO CHE LA VITA ERA BELLA. Ma la storia continuava e sul cuscino successivo tutta l'originale innocenza era scomparsa, strappata via.
La ragazza stava in piedi, con le mani avvinghiate al manico di una scopa tondeggiante e i capelli tirati in una pettinatura severa. Alle sue spalle la sagoma scoraggiarne di una zangola. MI SONO SVEGLIATA E HO SCOPERTO CHE LA VITA ERA DOVERE. I cuscini, rigidi e gonfi, se ne stavano impettiti come vescovi carichi di disapprovazione. Sarebbero stati perfetti, pensò lui, come pietre tombali di serie per intere generazioni in grigio. Non era affatto difficile immaginare le dita di sua nonna, resistenti e nodose, lavorare stancamente a quelle sfibranti massime, epitaffi più che eloquenti. Ed era ancora più scoraggiante il dubbio che quel compito fosse stato svolto invece dalla madre della nonna. Lui dubitava, d'istinto, che ci fosse qualcosa nel suo sangue capace di far capo a un uso così amaro della ragione. La sua natura non era altrettanto inflessibile, ecco. O forse no. Neanche questo era vero. Il vivere annoiato, antiproibizionista e disinvolto non aveva intaccato la sua natura puritana. Non per davvero. Era capace di curvarsi sotto un paio di ceppi di legno per fare una casa, o di tracciare con l'aratro un solco lungo e diritto come una freccia assassina. Semplicemente non ce n'era bisogno. Il mondo era diventato più semplice, persino il cielo. L'indole originaria sopravviveva ancora dentro di lui e nemmeno tanto nascosta, dunque non era poi così strano che quei due cuscini gli suscitassero nella mente sottili visioni dei cupi decenni passati. Vedeva i suoi antenati maschi con l'aspetto granuloso e tozzo di chi è stato intagliato nella pietra. Loro non bevevano e non fumavano, non leggevano nemmeno e tutti i libri che non fossero quello grande e nero venivano considerati efficienti strumenti di Satana. L'unico svago consentito era quello di cui lui rappresentava la prova vivente. E probabilmente neanche quello. Se li immaginava, quei baffuti progenitori, accostarsi alle mogli per procreare con l'andatura rigida e la faccia imperturbabile di quando si preparavano a uccidere il maiale. E forse per loro non c'era una grande differenza. Non che le donne fossero molto meglio. Le mani sembravano nodi di dolore, boccioli appassiti senza schiudersi, e gli occhi erano imbottiti di quello stesso ghiaccio opaco che congelava la paura nei loro cuori. Eppure... Eppure c'era qualcosa di vagamente rassicurante nel pensiero di quei gelidi principi a cui i suoi padri si erano appellati per i doveri, militari o familiari, oltreché per la conduzione delle loro ricche fattorie. Qualcosa di indefinito lo ferì e lo preoccupò, tanto da fargli distogliere lo sguardo dalla contemplazione dei cuscini. Nella parte opposta a quella dove si trovava c'era l'ampio ingresso di una sala da pranzo buia e formale e, nell'angolo vicino, un'ampia e compiacente poltrona di vimini. Lui si gi-
rò ancora e poi ancora, sentendo come una cosa viva le finestre che scorrevano sotto lo sguardo e lo scintillio segmentato dei vetri della porta. Si ritrovò, per un incidente momentaneo, faccia a faccia con il muro. Era intonacato e lui riusciva a individuare nelle sue venature la curva della cazzuola da muratore o le tracce attorcigliate dei capelli. Nel silenzio del mattino, il muro sembrava dotato di una voce propria, come tutto il resto nella stanza. La fonte di luce, un aggeggio di stagno dorato che reggeva una serie di lampadine nude, pendeva dal soffitto sospeso a una catena, pure dorata, e un cavo elettrico spesso e ritorto si infilava di sghembo tra gli anelli. Davanti al divano stipato di cuscini c'era un tavolino basso, in legno color mogano, con un piano in vetro sotto il quale certe antiche fotografie potevano al massimo sbiadire, ma non arrotolarsi per l'età. Erano quattro file di quadrati grigi e neri, attimi di mimica congelata che lui non intendeva esaminare. Altro oro sulla parete sopra il divano, per una cornice rettangolare che racchiudeva l'immagine a colori anemici, "tinti", dei volti di sua nonna e di suo nonno. Tutti e due erano visibilmente in posa per la fotografia, severi come se avessero complottato in anticipo di processare il fotografo e condannarlo ai lavori forzati per tutta la vita. Gli occhi del nonno erano di un azzurro gelido, il colore del cielo di marzo spazzato dai venti e riflesso nelle acque ghiacciate di uno stagno. Il processo di coloritura, qualunque fosse, aveva in qualche modo trasformato quegli occhi in invitanti bersagli per frecce assetate. Mascelle volitive, nasi decisi, orecchie disposte ad accogliere solo suoni consentiti. Gli occhi della nonna erano grigi e lo sguardo, per quanto indubbiamente risoluto, non era così deliberatamente impostato. Nella fronte spaziosa e negli occhi che apparentemente guardavano lontano non c'era tutta la bellicosa sicurezza del marito. Vi si leggeva piuttosto, e anche lui doveva ammetterlo, una traccia di sofferta e tuttavia incrollabile umanità. Era comunque un'espressione inflessibile e lui si ritrovò a strofinarsi la mano sul viso come se, camminando, fosse incappato in una ragnatela. Indietreggiò in modo goffo, come se potesse ritrarsi da un'azione involontaria, o meglio, da chissà quale vago pensiero l'avesse ispirata. Non era affatto contento di scoprire che la sua mente gli si rivoltava contro così spesso. Scostò con una manata una pila di cuscini e si sedette sul divano, poi rovistò nel taschino della camicia per trovare una sigaretta. L'odore di quel vecchio pezzo di arredamento lo sommerse. Non era un odore propriamente acido ma piuttosto agrodolce e quasi palpabile; anche stantio, certo, ma con un'atmosfera di vecchi tempi passati così pungente da dare quasi u-
n'impressione di freschezza. Un odore che suggeriva cosa? Vestiti voluminosi chiusi in custodie troppo vecchie, di modo che l'efficacia del profumo scompariva nel tessuto. Oppure lunghe domeniche pomeriggio osservanti passate con il predicatore metodista a tu per tu con una scatola di vecchi dolcetti al cioccolato. O ancora piovosi funerali pomeridiani organizzati proprio in quella stanza e adorni di fiori che avevano abbandonato da poco i loro nauseabondi fantasmi. Gli sembrò che il suo spirito annegasse nell'odore di quel divano e nel torrente impetuoso di ricordi che gli aveva riversato addosso. Accese la sigaretta e aspirò una profonda boccata di fumo come per proteggersi, quasi che lo stesso fumare fosse un atto di sfida contro il passato. Il fumo si alzò lentamente, con volute fiacche che si dividevano e rimanevano sospese immobili nell'aria, tanto da sembrare quasi solide. Era lui, infatti, a sembrare inconsistente; persino il suo corpo, di cui il rigido divano sosteneva a malapena il peso, sembrava vaporoso, quasi etereo. I fenomeni reali a lui connessi non erano sufficienti a riportarlo forzatamente sul piano dell'esistenza. La stanza era così silenziosa da permettergli di udire il suono impercettibile del petto che sfregava contro il tessuto della camicia quando respirava, e per un attimo denso di terrore gli sembrò addirittura che quel suono diventasse sempre più debole, fino a scomparire. Lasciò cadere il fiammifero annerito in un minuscolo posacenere dall'aria assurda, un disco di porcellana con certe linee dorate (ancora!) e, nel centro, una rosa rosea e orrenda. Il fiammifero spento giacque di traverso sulla rosa come una micidiale cicatrice, e lui lo notò con un colpevole fremito di trionfo. Quasi di riflesso, schiacciò la sigaretta ancora nuova sul fiore, lasciandovi una traccia viva di cenere nera. Le piccole braci morirono all'istante. Allora si alzò e attraversò la stanza. Come aveva sospettato, la ribaltina dello scrittoio scuro era chiusa ma i cristalli della vetrinetta lasciarono intravedere una piccola chiave di ottone sul ripiano centrale. La serratura si rivelò riluttante ma alla fine cedette, mettendo in luce un interno meno ammuffito di quanto lui si fosse aspettato. C'erano una mezza dozzina di cassetti rigidamente allineati e un certo numero di caselle sporgenti. Lettere, fotografie, blocchetti di matrici di assegni, un boccettino in cui l'inchiostro si era essiccato fino a diventare una crosta nera tutt'intorno, una penna Waterman con un pennino giallo scolorito... Estrasse a forza da una nicchia una busta che non voleva saperne di uscire e scrollò fuori la lettera che vi era contenuta. La carta, di tipo economico, era scurita dalla polvere e le parole sembravano scritte faticosamente a colpi di matita spuntata,
grigio su grigio. Lui tenne il foglio sopra la testa e girò la schiena alla finestra. Le parole gli ballarono tenui davanti agli occhi.... immagino che l'acconto di Jasper sarà adeguato in ogni caso per codesta Vs. e possano rinnovarsi con fiducia i buoni rapporti di vicinato, in nome di una consuetudine che risale al 1500. Naturalmente si trattava di denaro. Lui lasciò cadere il foglio, che scese senza svolazzare, e si pulì le dita nelle gambe dei pantaloni. Da un cassetto chiuso faceva capolino l'angolo lucido di una istantanea, che lui sfilò senza aprire il cassetto. All'inizio non riuscì a distinguere i contorni, ma alla fine capì che si trattava semplicemente di un'automobile, una Dodge o una Plymouth degli ultimi anni '30, nera e parcheggiata con una certa audacia sotto le ardite linee verticali di un noce. Che significato poteva avere? Lui la fissò come se si trattasse di un messaggio urgente ma indecifrabile, sicuramente personale. L'auto non era nuova e comunque non sembrava fotografata a tale titolo. Forse non si trattava d'altro che del semplice desiderio di finire in fretta un rullino, in modo che un fratello con il braccio sulle spalle della zia o il cuginetto con il broncio e gli occhi sbarrati potessero vedere finalmente la luce del giorno nei loro rettangolini bordati di bianco. Eppure la macchina era lì, così totalmente e schiettamente fedele a se stessa come se fosse stata inventata proprio per sconcertare. Lui cercò di infilare di nuovo l'istantanea nella fessura superiore del cassetto ma incontrò una resistenza nascosta. La fotografia si piegò e la superficie friabile si ricoprì di una rete di minuscole linee, come un piatto di ceramica incrinato. Allora rinunciò e lasciò che la foto ciondolasse sul davanti dello scrittoio come una lingua ebete e incapace di gusto. Quando lanciò nuovamente un'occhiata all'immagine cupa del suo viso riflesso nella vetrinetta, gli occhi gli parvero pieni di paura. Si girò di nuovo verso i pannelli di vetro delle porte doppie, e questa volta cancellò i lineamenti accostando direttamente il viso a uno dei pannelli. Chiuse le mani a coppa, appoggiandole sulle tempie come se cercasse di vedere il più lontano possibile sotto la luce accecante del sole. L'interno dell'altra stanza parve spostarsi galleggiando per venirgli incontro. La fila di finestre sulla parete opposta era oscurata da una processione disordinata di arbusti sempreverdi che crescevano al di là dei vetri, tanto che la stanza era persino più buia di quella in cui lui si trovava. Girò la maniglia. La serratura produsse un cigolio sinistro ma l'anta di destra ruotò abbastanza agevolmente verso l'interno. Lì c'era la muffa vera, un odore così saturo dell'inamovibilità del tempo che non si capiva come mai la sua pressione non avesse provocato uno scoppio e scardinato porte e
finestre. L'uomo entrò, lasciandosi dietro una fila di impronte opache sul pavimento polveroso, mentre i granelli di polvere attutivano i suoi passi, aderendo alle suole come la tela di un ragno. Era proprio questo, la polvere, un'immensa ragnatela color borotalco. Addossato al muro c'era un lungo salotto basso dall'aria scomoda, con gli schienali ornati in legno massiccio che ostruivano i davanzali delle finestre. Questa volta, il divano non era ricoperto da alcun tappeto, ma l'imbottitura risultava invece decorata con ampi arabeschi ricamati che suggerivano una giungla malamente stilizzata. C'erano quattro tavolini identici a gambe sottili, destinati all'esposizione di ninnoli e ingombri di altri minuscoli posacenere dall'aria poco invitante, oltreché da un certo numero di pallide scatoline di legno. Alla parete orientale era appoggiato un pianoforte verticale nero che in qualche modo sembrava cedere sotto il proprio peso. Lui attraversò la stanza per raggiungerlo e lo aprì. I tasti erano scoloriti, giallastri, incrinati e in alcuni casi del tutto privi di avorio. Schiacciò cautamente il la centrale, poi si cimentò con un accordo semplice. Il do risuonò come un semplice battito sordo, il la e il mi produssero una dissonanza. Non c'era dubbio che le corde fossero arrugginite e che le intere viscere dello strumento avessero subito disordini e danni. Lui si pulì ancora una volta le dita nei pantaloni, cercando di strofinar via la polvere che sembrava filtrare a poco a poco nei pori della pelle. Si strofinò anche la faccia, con la mano gelata, e la parte posteriore del collo. Sulla cassa del pianoforte languiva un grosso centrotavola di pizzo elaborato. Sembrava una retina per i pesci, una trappola fantastica per catturare... che cosa? Ma certo. Qualunque cosa abitasse l'aria sovraccarica di quella stanza. Anche dopo che si fu scostato dallo strumento l'acre accordo gli rimase sospeso nelle orecchie, immobile come una maledizione dalle parole indelebili scritta su qualcosa che doveva rimanere sacralmente vuoto. L'uomo alzò le spalle e le lasciò ricadere con un sospiro; si sentiva come se avesse esaurito tutte le proprie forze in uno sforzo fisico estenuante e mai, prima di quel momento, aveva avuto l'impressione che la sua volontà fosse così allo stremo, così completamente dispersa. Mai prima di allora si era reso conto con tanta chiarezza dell'inutilità dei propri desideri e di come potessero venir cancellati con facilità, semplicemente azzerati, da una presenza estranea, un luogo o un oggetto, qualunque cosa che fosse violentemente ed egoisticamente se stessa... Ma il senso del passato racchiuso in quelle due stanze, o meglio in quell'unica stanza divisa, non era semplicemente il peso generico di una personalità ormai morta, ma una belligeranza volontaria, un'ostilità quantomai attiva.
In piedi immobile nel centro della prima stanza lui avvertì il pavimento vibrare debolmente sotto i piedi ed ebbe la certezza che la casa stesse tendendo i propri muscoli per fargli del male. Stava per attaccare. Ma proprio in quel momento Si udì un rumore di passi e il ticchettio dei tacchi alti che avevano causato le vibrazioni, e infine Sheila, la sua graziosa moglie dai capelli biondi e dalla pelle chiara, fece capolino alla porta che dava sull'ingresso. — Vieni fuori, Peter — gli disse. — Vieni via. 2 — Non mi ero accorto che si stava avvicinando l'ora di pranzo. Non ne avevo la più pallida idea — disse lui. In piedi lì fuori, sotto lo splendido cielo di giugno, si sentì perfettamente a proprio agio stirando i muscoli delle braccia e delle spalle, come se si fosse appena svegliato da un sonno cupo e poco riposante. Aprì la bocca per assaporare l'aria luminosa e la scoprì tiepida. Non si era accorto di aver immagazzinato così tanto freddo all'interno della casa. Non lontano si sentiva un uccello cantare con una gran profusione di suoni, e il canto assomigliava a pura filigrana. — Da' qui — aggiunse lui. — Lo porto io. — Tolse il grosso cesto di vimini dalla mano tesa della moglie. — Dove andiamo? La voce di lei era limpida e spontanea come acqua fresca. — La fattoria è tua, decidi tu. Qual è il posto migliore, in questa magnifica proprietà, per fare un picnic? — Non conosco i posti più di quanto non li conosca tu, ormai. In ogni caso, credo che sarebbe meglio non allontanarci troppo. Devono consegnarci la roba, oggi. Sheila osservò Peter di sottecchi. Suo marito. Alto e maldestro, con il corpo tutto ossa e spigoli, aveva già incominciato a preoccuparsi. La "roba" che dovevano portare era costituita in massima parte da libri, quaderni di appunti e lunghi elenchi, raccolti perlopiù in fascicoli incomprensibili. Temeva forse di non finire in tempo il suo libro, che a volte chiamava "studio". Avevano ancora 2500 dollari della somma che si erano concessi, e ora anche quel posticino delizioso per lavorare. La tranquilla fattoria era piovuta addosso a loro come un dono del cielo, sottoforma di eredità da parte dei nonni, eppure Peter continuava a preoccuparsi. Persino in quel paesaggio caldo e luminoso lui era tutto teso a chissà quale indagine interiore. Mentre attraversavano il prato rado davanti alla casa Sheila spezzò la
cima di un lungo ramoscello di platano e ne mise un'estremità in bocca. Peter dondolava il cesto senza un ritmo preciso, camminando. L'altezza e le membra ossute gli davano un aspetto saltellante. Arrivarono sulla polverosa strada giallo-rossastra che costeggiava la fattoria per dirigersi a nord, e lui esitò. — Dove andiamo, adesso? — domandò. — Da una parte o dall'altra siamo sempre sulla proprietà. Era vero. L'orrenda grande casa era sistemata quasi al centro di un ampio terreno agricolo, quattrocento acri dalla vaga forma di una mano aperta. La casa era circondata da dolci colline, sicché da qualunque parte andassero prima o poi si sarebbero trovati ad affrontare una salita. — I suoi desideri sono ordini, mio signore — scherzò lei. Peter le lanciò un'occhiata. — Bene... — Gaiezza e ironia più o meno dolce, Sheila era fatta così. Alzò una spalla e puntò con decisione verso la loro auto, la vecchia Buick azzurra parcheggiata sullo scivolo dietro casa. — Oh, andiamo a piedi, per favore! — lo fermò lei. — È una giornata così bella e calda... camminare non ci porterà via così tanto tempo e potrai tornare al più presto ai tuoi orribili vecchi libri e ai quaderni di appunti. Non siamo qui solo perché tu lavori, no? — È sicuramente la ragione principale. O almeno lo spero. — In ogni caso si arrese, e girandosi di scatto la prese per mano. Altrettanto rapidamente, in modo quasi involontario, lei la ritrasse. Quella mano sulla sua era asciutta e fredda, anzi gelata, allarmante nel tepore del sole. — Sarà meglio che ti abitui alle passeggiate — gli disse. — Adesso che siamo in campagna le esperienze rustiche saranno all'ordine del giorno. Dovrai bere il latte appena munto, rubare il miele nelle arnie e mangiare i fiori selvatici. Diventerai un felice figlio della natura e so già che sarai perfetto. — Lo sono già. Voglio dire, un felice figlio della natura. Dopo un centinaio di metri o poco più la strada incominciava a salire, tagliando il fianco di una collina. Un piccolo corso d'acqua, lento e scuro, correva sul fondo stretto del campo sottostante e si perdeva in serpentine pigre e senza riflessi, perché le erbe e i cespugli che affollavano le sue rive non lasciavano trapelare alcun riflesso. Sheila lo indicò con un cenno. — Perché non stendiamo la coperta vicino a quel piccolo torrente? — propose. — Sembra così fresco e gradevole. — Vuoi davvero andarti a infilare in mezzo a tutte quelle erbacce? Scommetto che il campo è pieno di ragni e di serpenti. E poi, il terreno laggiù sarà umido, così vicino all'acqua.
— Le erbacce non ti faranno niente — gli assicurò lei. Lisciò il fianco morbido dei pantaloni di cotone rosa. — Vieni, cuor di coniglio! Sarà bellissimo, te lo prometto. — Gli prese la mano e lo tirò con forza verso il ciglio della strada. — Aspetta un minuto. — Lui passò il cesto nell'altra mano e il peso lo fece inclinare visibilmente. — A proposito, si può sapere che cosa hai messo qui dentro? È pesante come il piombo. — Ogni genere di sorprese — rispose lei. — Hamburger di piombo, panini di piombo, mostarda al piombo... Attraversarono il campo senza grosse difficoltà e comunque lei aveva ragione. Vicino al torrente c'era fresco. Trovarono uno spiazzo erboso, sgombro di arbusti e ombreggiato da una barriera di salici dalla chioma arruffata. Sheila spiegò una tovaglia, l'appoggiò sull'erba e vi strusciò sopra in ginocchio per stenderla meglio. Poi si rialzò in piedi e infilò le dita tra i sottili capelli biondi per scostarli dalle tempie. — Oh, è incantevole. — Guardò il marito, con occhio vagamente ansioso e scrutatore. — Non è vero, caro? — Il torrente lambiva le rive con piccole onde intermittenti e l'acqua scura si muoveva lenta e sognante tra le ombre. Qua e là vi occhieggiava un improvviso riflesso di luce. Il viso di Sheila si rischiarò per un attimo sotto i raggi del sole. — Dovremmo venire a mangiare sempre qui. — Io non ci sto — replicò lui. — Non ho nessuna intenzione di scendere dal letto e di sguazzare tra il fango e le erbacce per colazione. — Per colazione no! Non fare lo stupido. — Lei rise e incominciò a togliere i piatti di carta dal cestino. Ne tenne uno davanti agli occhi e lo rimirò tristemente. — Peccato che non sia porcellana finissima — commentò. — Sarebbe stata più intonata, dato che ho deciso di festeggiare. — Non avrei mai accettato di portare il cestino fin qui se ci fosse stata dentro della porcellana. Lei esibì un ampio sacchetto di carta marrone e ne sfilò una deliziosa gallinella al forno. — Voilà! — C'era anche del vino, un bianco della California con la bottiglia verde e una stagnola rossa che ne rivestiva l'estremità superiore. E c'era un'insalata mista imprigionata in una piccola vaschetta di plastica. — I piatti sono solo per l'insalata, in ogni caso. Dovrai adattarti al ruolo di figlio della natura e mangiare il pollo con le tue belle mani nude. Guarda, ho portato anche del condimento pronto all'uso. — Tolse dal cesto una bottiglietta e incominciò ad agitarla con grande energia. Per tutto quel tempo lui aveva continuato a fissarla, sbalordito. — Dove
hai preso tutta questa roba? Il pollo e tutto il resto... E poi, che cos'è che dovremmo celebrare? — C'è un vecchio ristorantino in città, e i gestori sono stati felicissimi di vendermi un pollo arrosto. Vedi? Mentre tu hai passato la mattina con la testa fra le nuvole in casa io mi sono data da fare a progettare e preparare queste cosette per tutti e due. Solo per renderti felice. Lui sospirò. — E che cosa festeggiamo? — La nostra vacanza. O il semplice fatto di trovarci qui in un posticino fresco vicino all'acqua. O un'altra cosa qualsiasi. Perché no? — Mmmm. — Tono dispiaciuto in calo. Lui sentiva di avere ancora così tanto da fare che anche essere felice per l'occasione avrebbe rappresentato quasi una minaccia o un atto di malaugurio nei riguardi di una felice conclusione del lavoro. — Qualunque cosa. Festeggeremo tutto quello che vuoi. Le forze pagane residue nel Puritanesimo americano. — Un tantino prematuro, forse. — Peter pronunciò le parole seccamente, isolandole con brevi pause. Non poteva farne a meno. Lei mise il broncio. — E adesso, per favore, non fare il musone. Se incominci adesso sarai di cattivo umore per tutta l'estate e rovinerai la vacanza a tutti e due. Senza contare che non riuscirai nemmeno a lavorare, se non sarai allegro. — Scusa — disse lui. Ma anche quella parola risultò tronca. — Ascolta... — Sheila, che era in ginocchio, si protese attentamente in avanti sulla tovaglia spiegata e gli tirò il lobo di un orecchio. — Mangia. Bevi. Divertiti e non pensare. Non è successo niente di male e niente succederà... E poi guarda che cosa ti ho preparato per quando avrai finito di mangiare. — Rovistò per un attimo nel cestino e ne tirò fuori un sigaro panciuto. — Se non va bene giuro che ti strozzo — minacciò. — Era il più caro che avessero. Lui parve finalmente rilassarsi, o fu la tensione del corpo ad allentarsi. Si lasciò cadere all'indietro sull'erba e rise. I raggi del sole gli illuminarono qua e là il petto e il viso con piccole macchie luminose simili a tremuli occhi gialli. Anche lei rise, con una specie di liquido cinguettio. Poi si interruppe all'improvviso. — Spero che tu non rida di me — osservò. Sbatté le palpebre e sgranò gli occhi. Il dubbio servì solo a farlo ridere più forte. Rideva di entrambi e soprattutto di quel nocciolo duro e concentrato che sentiva dentro di sé e che gli
faceva paura. Ombre inquiete gli si riversavano giù per la gola mentre altre ombre, di foglie, gli balenavano sul viso. — Oh, che cosa sei! — Sheila incominciò a irritarsi. Si guardò intorno cercando qualcosa da gettare contro il suo magro torace convulso. — Non sto ridendo di te. — Lui alzò la mano e le sorrise. — No, davvero. Non sto... Ma sei troppo, per me. Decisamente troppo. — Sì, hai ragione. Tu sei un felice figlio della natura. Semplice. Puro. Non puoi comprendere la mia sofisticata complessità. — Prese la vaschetta di plastica, che era umida, e rovesciò l'insalata in un piatto di carta. — Tieni, figlio della natura. Mangia. ...sei proprio una bestia. — È vero, in più di un senso — commentò lui, e la sua voce acquistò involontariamente una sfumatura seria. — Sono un semplice, mentre tu hai una natura piuttosto sofisticata. In ogni caso capisci tutti e due meglio di come io capisca me stesso. Lei prese la bottiglia di vino, tolse la stagnola e svitò il tappo. Poi versò il vino nei bicchieri. — Tieni — disse. — Butta giù questo e chiudi il becco. Mi farai venire il mal di testa con tutte queste osservazioni psicologiche. Peter si zittì e mangiarono in silenzio. Lui continuò a guardarla, a osservare i freschi capelli biondi spruzzati di luci e di ombre, il suo modo così naturale di muovere le mani, il candore della sua gola. Era così graziosa, con gli occhi chiari e il corpo minuto e femminile. Così graziosa da mozzare il fiato. Aveva emozioni vivaci e immediate. Captava e rispondeva a ogni impercettibile variazione in ciò che la circondava senza esitazioni o reticenze, tanto da fargli spesso dimenticare l'acutezza al cromo e la solidità della mente che brillava dentro di lei. Sheila era, tutto sommato, in possesso di un intelletto notevolissimo, superiore anche al suo. Peter esalò un sospiro di gola, quasi ansioso, senza smettere di osservarla. Lei arrossì sotto quello sguardo fisso, e probabilmente lo fraintese. Oh, oh. Era dunque quello l'effetto auspicato della brezza? L'attenta preparazione del picnic, da parte di Sheila, non era altro che il preludio alla gioia insolita di far l'amore all'aperto. "Sotto gli occhi di Dio e di chiunque altro." Appoggiato all'indietro, Peter tirò fuori il fazzoletto e si pulì le dita umide dagli umori del pennuto. Sorrise, con un sorriso lieve e ombroso. Lei si mosse di nuovo, guardò lontano. Divenne inquieta sotto il suo sguardo. — Be'? Che c'è, adesso? — chiese. — Per caso hai visto qualcosa che non avevi visto prima? Lui sogghignò, prese il bicchiere di carta incerata e glielo porse. — Be-
viamo ancora qualcosa. Sua moglie fece l'atto di ritrarsi. — Non so — disse. — Forse hai già bevuto abbastanza. Troppo, anzi. Incominci già ad avere lo sguardo da ubriaco. — Riempì il bicchiere fino all'orlo. — Così, bambina — approvò lui. — Ungimi bene. Lei depose la bottiglia e gli lanciò un osso di pollo. Peter fece uno scatto, con un movimento esagerato e improvviso, la prese per una spalla e la rovesciò indietro. Le impedì di liberarsi prendendola per un braccio e tenendola stretta. Sheila tirò più forte che poteva, con il viso rosso e accaldato. Rotolarono selvaggiamente uno sull'altro, sull'erba e sulla tovaglia. Alla fine lei gli inchiodò una spalla a terra con il ginocchio avvolto nella tela rosa e lo immobilizzò. La sua voce assunse una durezza strana e sorda. — Idiota. — Chi, io? — Peter rimase sdraiato. Le sfiorò delicatamente un seno con l'indice, vi chiuse la mano a coppa. — Sì, hai ragione — confermò. — Idiota — ripete lei. La nota dura nella sua voce si sciolse. Lui si sentì improvvisamente languido e pigro. — Sì. Sì, davvero — mormorò. I capelli di Sheila si erano sciolti e nella matassa luminosa era rimasto impigliato un ramoscello e qualche filo d'erba. Lei lo sovrastava da una posizione di dominio, come se si protendesse dal cielo. Sembrava condiscendente, e intensamente felice. Nel contorno dei cespugli alle sue spalle balenò qualcosa di rosso e rotondo che all'inizio lui scambiò per una palla. Lo strano oggetto dondolò e scomparve. — Fermati un secondo — disse lui. L'afferrò per il dorso della mano e strinse con decisione. — Aspetta... Fammi alzare. Lei si tolse e si mise seduta, chiudendo le braccia attorno alle ginocchia. Peter si alzò in piedi e un ometto grasso sbucò dal boschetto di ontani. La faccia era davvero come una palla, rossa come il ketchup per il vento e il caldo, con un fosco sorriso così fisso da sembrare dipinto e una stopposa barbetta giallastra che gli macchiava il mento e il collo. Si fece avanti, come se rotolasse goffamente, con le mani a pugno sprofondate nelle tasche della tuta. Sotto la tuta non portava la camicia e i rotoli di grasso del torso dondolavano su e giù con un movimento tremulo quando respirava. Un capezzolo lasciato scoperto dalla salopette brillava obeso, come il seno di una ragazzina appena arrivata alla pubertà. L'uomo non indossava la camicia ma in compenso portava il cappello, un feltro nero ormai informe che doveva aver assaporato i suoi calci un numero infinito di volte. Dimostrava poco meno di sessant'anni.
— Chi sei? — domandò Peter. Una domanda aspra e stizzosa. — Ed Morgan — rispose lui. — Abito poco lontano, qui dietro. — Puntò il pollice alle proprie spalle, indicando il nord. — Stavo giusto seguendo un po' il torrente. Ho messo giù qualche trappola per i topi muschiati, con le corde, e volevo proprio controllarle. A quest'ora è un po' tardi, si capisce, ma sono stato occupato per tutta la mattina. Lui non gli fece la domanda che avrebbe voluto, ma solo la prima che gli venne in mente. — Perché dici che è tardi? L'ometto grasso gli rivolse una lunga occhiata ingenua. — Be' — spiegò poi — controllare le trappole è la prima cosa che un uomo dovrebbe fare, appena sveglio. A quest'ora qualunque topo muschiato si è già mangiato mezza gamba per liberarsi. E se per caso non l'ha fatto c'è sempre qualche vecchio cane bastardo che arriva e se lo porta via. Avrei dovuto venire all'alba ma questa mattina avevo da fare, l'ho detto. — Chi ti ha dato il permesso di mettere le trappole lungo il torrente? — Il modo di fare dell'intruso lasciava trasparire una genialità untuosa e incurante, oltreché un atteggiamento di possesso arbitrario così inamovibile da infastidire Peter e da tendergli i muscoli delle scapole fino a farli fremere. Eppure, riuscì a imprimere un tono assolutamente incolore alla domanda. — O bella. Nessuno, direi — replicò quell'altro. — Non ci ho mai pensato. Le trappole qui le ho sempre messe. Le metteva mio padre e immagino anche suo padre prima di lui. A dire la verità, stavo per chiedervi io che cosa ci fate voi due qui. Poi ho pensato che forse era meglio lasciar stare. — Il ghigno fosco non gli abbandonò il viso neanche per un attimo, nemmeno quando girò la testa di lato per sputare lontano una boccata di tabacco. Lui irrigidì tutti i muscoli, pur senza muoversi. — Sono Peter Leland — dichiarò. — Il proprietario della fattoria. Per un secondo che parve interminabile il tizio grasso si limitò a guardarlo. — Ma guarda — commentò alla fine. — Allora deve proprio essere il nipote di Miss Annie. Non le so dire quante volte l'ho sentita parlare di suo nipote. Ci ha fatto una testa così sul fatto che era un predicatore e tutto il resto. Per tutte le tavole della legge! Era orgogliosa di lei come un pavone. Non credo che ci sia mai stata una grande rappresentanza di predicatori, nella famiglia Leland. Lui sentì quegli occhi soppesarlo, valutare il suo peso e forse anche il valore. Probabilmente studiava nello stesso modo anche i topi muschiati. Peter si sentì in trappola e la cosa lo esasperò. — Devo dedurre che vivi in
questa fattoria? — Be', mio caro, direi proprio di sì. A meno che lei non stia progettando qualcosa per buttarmi fuori. Che io mi ricordi, ho sempre saputo che noi Morgan abitiamo nella fattoria dei Leland. Vivevamo qui anche prima, quando la fattoria era ancora proprietà del vecchio Jimson. E non so nemmeno dire da quant'altro tempo siamo qui. Il ghigno parve allargarsi appena e Peter ebbe l'impressione che nel soppesarlo l'uomo lo avesse trovato in qualche modo carente. Non era un'impressione gradevole. Si impose di rilassare i muscoli degli avambracci e si rese conto con una certa sorpresa che aveva trattenuto l'impulso di schiaffeggiare l'intruso fin dal momento della sua comparsa. Non sopportava quella sua sfrontata sicurezza, appena al di qua del limite consentito. Senza contare che odiava sentirsi chiamare "mio caro". — Nessuno mi ha avvertito che nella fattoria c'erano degli affittuari. Il signor Phelps non ne ha fatto parola. — Il signor Phelps era il legale incaricato di occuparsi di tutte le questioni burocratiche riguardanti il passaggio di proprietà. Morgan alzò il feltro nero e si grattò la nuca. Sulla sommità della testa aveva una piccola chierica perfettamente circolare, con le stesse dimensioni e lo stesso colore del cappello di un fungo velenoso. — Be', non so che cosa dirle — replicò. — Forse siamo qui da tanto tempo che ormai la gente ci da per scontati. Io so solo che abitiamo qui da sempre. — Il suo sguardo cambiò obiettivo per un attimo. — Quella è la sua graziosa mogliettina? Sheila era ancora seduta sull'erba, con le ginocchia strette al petto. Arrossì, in modo quasi impercettibile, e rivolse a Morgan un sostenuto cenno di assenso. — Sì, quella è la signora Leland — disse Peter. Parlò con riluttanza, con la sgradevole sensazione che quella conferma lo facesse in qualche modo rinunciare a un punto di vantaggio. — Proprio un bocconcino delizioso — commentò l'altro. — È di sicuro la Leland più graziosa che abbia mai visto. Lei strappò un'erbaccia e la lasciò cadere, apertamente infastidita. Peter indurì il tono, deciso ad affrontare il nocciolo della questione. — Dove abiti, allora? Immagino che avrai una casa all'interno della proprietà. — Sentì che il risentimento della moglie ricadeva su di lui più che su Morgan, e la cosa lo esasperò. Non era giusto. Il tizio più anziano puntò ancora una volta il pollice al di là delle spalle flaccide. — Dritto per di là, oltre il torrente. Si vedrebbe anche da qui, se
non ci fosse il boschetto. Se vuole venire, le farò dare un'occhiata intorno. Non c'è granché, ma noi ci siamo abituati e non abbiamo mai avuto di più. — Sì, credo che verrò — acconsentì Peter. — Voglio capire bene quello che c'è da capire. — Si girò verso la moglie. — Vuoi venire anche tu, tesoro? Lei lasciò cadere dalle mani un altro filo d'erba. — Questa volta no — rispose. Si alzò e ripulì i pantaloni con una certa ostentazione. — Preferisco tornare a casa. Ho ancora molte faccende da sbrigare. — Ti raggiungo presto — promise lui, allontanandosi a malincuore. Morgan aveva già incominciato a camminare tra i cespugli, aprendosi negligentemente un varco tra i rami che gli ostruivano il passaggio e lasciandoli poi liberi di ritornare dov'erano. Sheila si diede da fare per raccogliere i resti del pranzo e riunì tutto nel cestino. Era avanzato un quarto di vino. Lei chiuse meglio il tappo e guardò la bottiglia con espressione quasi dispiaciuta. Lui, intanto, seguiva goffamente la scia di Morgan. L'erba brulicava di insetti e ogni tanto qualche tralcio di rovo gli uncinava i pantaloni. A un certo punto rischiò addirittura di inciampare perché il terriccio ammucchiato da un topo muschiato attorno all'entrata della sua tana gli franò sotto i piedi. Il torrente era attraversato da un ponte di fortuna, costituito da un tronco stretto, con la parte superiore appiattita. Il legno portava ancora i segni dell'accetta, ma l'uso ne aveva smussato le asperità. Morgan vi salì per primo, le mani sprofondate in tasca con noncuranza. Peter lo seguì guardingo, con le braccia tese in fuori nel tentativo di bilanciarsi. Attraversarono anche il boschetto che si trovava dall'altra parte e scorsero finalmente la casa di Morgan. Era una costruzione bassa e rovinata dalle intemperie, schiacciata contro il fianco della collina dimodoché mentre la parte a est poggiava solidamente a terra la parete e il minuscolo porticato a ovest erano appollaiati su sei lunghe travi contorte. Il tetto di lamiera non splendeva sotto il sole, ma tradiva qualche balenio di tanto in tanto, come se fosse sul punto di subire una metamorfosi per il caldo. Le finestre, poche, erano buie e dal camino tozzo usciva un esile filo di fumo. Appena dietro la casa, in un angolo del cortile cosparso di sporcizia, sorgeva una specie di sudicia rimessa. — Eccoci arrivati — annunciò Morgan. — Immagino che per lei non sarà molto, ma noi ci siamo abituati. Non abbiamo bisogno di altro, ecco. Davanti a loro si stendeva quello che un tempo doveva essere stato un prosperoso campo di trifoglio. Adesso era punteggiato da chiazze di carote
selvatiche e di ambrosia, mentre il trifoglio cresceva giallo e stentato per colpa della cuscuta parassita che gli succhiava la linfa. Morgan vi si avventurò con allegria, evidentemente compiaciuto delle condizioni dell'erba, e Peter si sforzò di seguire fedelmente ogni suo passo. Gli sembrava quasi che, in quel campo così sofferente, avrebbe potuto trovarsi a pestare chissà quali orrori. Oltrepassarono la recinzione di filo spinato che circondava il cortile, una barriera molle e arrugginita, e girarono attorno alla casa per raggiungere una veranda bassa sul retro. In casa si sentiva un rumore familiare, come di stoviglie in cucina, ma quando Morgan mise piede sulle tavole lisce del pavimento tutti i rumori all'interno cessarono di colpo. Lui si girò, con un ghigno ancora più ampio di quello che aveva esibito prima. — Entri — disse. — C'è solo gente di famiglia, qui dentro. Lui entrò. All'iniziò non riuscì a respirare. L'aria all'interno era calda e densa, sembrava quasi che si appiccicasse ai capelli e alla pelle. La cucina economica nera a legna era accesa e sui fornelli fumavano coscienziosamente tre o quattro pentole, o padelle. Il soffitto era basso, macchiato di grasso, e il calore aleggiava sopra la testa come una coperta spessa. Il pavimento di tavole di legno era nudo e rotto in più punti, tanto che dalle fessure era possibile scorgere il terreno sottostante alla casa. Sulla destra, davanti alla finestra, c'era un tavolino dall'aria malsicura ricoperto da una tovaglia cerata. Il disegno a quadri bianchi e rossi era quasi sparito per lasciare il posto a uno sbiadito color creta. Dal soffitto pendevano due strisce di carta moschicida marrone, ormai perfettamente inutili. Le fastidiose creature brulicavano ovunque, tanto che in un attimo lui ne ebbe le mani e le braccia coperte. E attraverso l'odore umido di chissà quale inimmaginabile pietanza, gli giunse anche, alla fine, l'odore autentico della casa. Non era acre, ma piuttosto pesante, caldo e untuoso, con qualcosa che ricordava il pesce e una sfumatura dolciastra e sgradevole di cibo andato a male. Lui ebbe l'immediata visione di una vegetazione scura e straordinariamente lussurreggiante che esplodeva in una straordinaria fioritura per marcire subito dopo. Lo stesso odore rancido di uno sperma incredibilmente ricco. Accanto alla cucina economica c'era una donna che sembrava più vecchia di Morgan, con i capelli di un bianco giallastro inframmezzati qua e là da ciocche grigie. Era immensa, persino più grassa di Morgan, e la sua ampiezza era pari perlomeno a metà stufa. Indossava un vecchio vestito di cotone stampato, da cui la carne sembrava voler straripare da un momento all'altro, e Peter rabbrividì al pensiero che quel corpo mostruoso riuscisse
ad avere la meglio e si presentasse nudo davanti a lui. In contrasto con il torso gigantesco le braccia e le gambe sembravano corte, com'erano corti e lenti i movimenti che la donna compiva per badare alle sue pentole sul fuoco. Usava le proprie membra per quel tanto che era necessario e basta, come se si trattasse di appendici più o meno irrilevanti. Ciò che invece risultava evidente era la grassezza dei seni, del ventre, delle cosce. Lei rivolse a Peter un'occhiata lunga ma superficiale, poi rivolse lo sguardo impassibile e incapace di emozioni a Morgan. Quando quest'ultimo presentò Peter, la donna non si preoccupò nemmeno di rispondere con un cenno del capo. — Mia moglie Ina — disse Morgan. — E questa è mia figlia Mina, l'unica a essere rimasta con noi. Gli altri ragazzi sono andati tutti lontano, in posti diversi. Immagino che per loro qui non ci fosse niente così importante da convincerli a restare. Ma Mina è rimasta con i suoi vecchi. Era seduta al tavolo dall'aspetto malsicuro. Lui non riuscì a stabilirne l'età, forse quattordici, o quindici, o sedici anni. Stava a guardare e giocherellava con due ciocche di capelli appiccicosi, neri come l'onice. Si appoggiò all'indietro nella piccola sedia di legno scricchiolante e gli rivolse un'occhiata asciutta e severa. Lui si sentì avvolgere da quello sguardo, che non era un vero e proprio sguardo, ma semplicemente un atto involontario degli occhi che rimanevano fissi. Occhi larghi come uova, così grigi da risultare bianchi per intero, carichi di riflessi, quasi del tutto immobili. All'inizio avvertì uno sgradevole formicolio sotto pelle. Quel volto gli sembrava senza naso tanto era piccolo e piatto, schiacciato sulla faccia della ragazza come se fosse stato cera. Anche il corpo, appoggiato all'indietro sulla sedia in quel modo, squadrato e senza curve, sembrava compiacente come la pietra, pervaso da una gran calma e capace di infinite attese. E questo era il succo del suo atteggiamento, infatti. La ragazza continuava a giocherellare con le ciocche di capelli, senza smettere di guardarlo. Assurdo. Quel corpo così tozzo e quella faccia così piatta e sgradevole, innegabilmente simile a quella di un pesce, esercitarono su di lui un'attrazione immediata. Il fascino da cui si sentì soggiogato era lo stesso che avrebbe potuto esercitare su di lui un serpente che srotolava pigramente le sue spire per muoversi sul pavimento. Stentava a crederci. Forse era colpa dell'odore folle e selvatico di quella casa, che gli confondeva i sensi e le impressioni. Eppure dovette far ricorso a tutta la propria forza di volontà per distogliere gli occhi da lei. — Questo è Peter Leland, il nuovo proprietario di tutta la fattoria — disse Morgan. — È il nipote di Miss Annie, e fa il predicatore. Per quanto ne
so, è l'unico Leland che abbia mai fatto il predicatore. Mina abbozzò un cenno di assenso lento e morbido, senza smettere di guardare Peter. Si rivolse direttamente a lui, quando parlò. — Sei maledettamente attraente — dichiarò. — Sei così attraente che potrei mangiarti tutto. Scommetto che ci riuscirei. — La sua voce era suadente, densa come il cotone. Morgan ridacchiò. — Non le dia retta — consigliò. — Se le dà retta anche solo per un momento lei la farà diventare matto. Glielo giuro. Ma la follia era già incominciata e per tutto il tragitto di ritorno alla grande casa di mattoni, mentre seguiva le curve della strada rossiccia attraverso le colline invece del torrente, la faccia piatta e scura della ragazza rimase sospesa nella sua mente come una spia di avvertimento. Peter non riuscì a distogliere il pensiero dalla sua immagine. 3 Lo stesso Peter Leland sarebbe stato disposto a confessare che la scelta del ministero come professione era scaturita in modo confuso dalla sua immaginazione fumosa e un po' degenere. Avrebbe ammesso che vedeva la religione cristiana come una forzatura singolare e poco allegra, e che tale visione era da considerare una colpa a cui lui si sentiva incapace di porre rimedio. Era semplice. La sua nerissima immaginazione lo obbligava a prendere tutto troppo sul serio ed esercitava un'influenza parzialmente debilitante sul suo lavoro. Per esempio, non possedeva il dono di consolare gli ammalati e le sue visite in ospedale, compiute insieme ai membri della congregazione di cui faceva parte, si convertivano ogni volta in un fiasco imbarazzante. Alcuni dei suoi sermoni avrebbero potuto competere per angosciosità con quelli di Jonathan Edwards, anche se Peter non poteva vantare un sacro fuoco altrettanto impetuoso e zelante. Un sintomo di quell'immaginario tormentoso risultava chiaro nelle fantasie che riguardavano suo padre, morto quando lui era ancora troppo piccolo per conservare dei ricordi. A quel tempo tutta la famiglia viveva ancora lì alla fattoria ma la madre di Peter, una volta rimasta vedova, era tornata dai genitori che abitavano nella parte più orientale dello stato portando il figlio con sé. La famiglia di lei era decisamente agiata, dato che suo padre possedeva una concessionaria di importanti apparecchi elettrici, e così Peter aveva potuto frequentare l'unica università dello stato, esclusiva ed essenzialmente privata. La madre era morta quando lui era
ancora una matricola, dopo un deperimento lento e progressivo, e Peter ne era rimasto sconvolto, profondamente addolorato, ma non sorpreso. Era sempre stata una donna minuta, pallida e silenziosa e il figlio, in modo più o meno conscio, aveva sempre attribuito la sua pacata compostezza al dolore per la precoce vedovanza. Quello era comunque un argomento su cui lei manteneva il più assoluto riserbo e Peter dava scarsamente credito alle voci familiari che la dipingevano come una ragazza allegra e vivace, prima del matrimonio. Quelle voci non rientravano in alcun modo nel quadro che lui si era fatto. Quando, una volta, le aveva chiesto in che modo fosse morto suo padre lei aveva rifiutato con decisione di parlarne, accennando solo al fatto che si era trattato di una strana e terrificante malattia. Così, nella sua mente cupa di adolescente, Peter aveva incominciato a immaginare che la malattia fosse ereditaria e a chiedersi quando si sarebbero manifestati anche su di lui i primi sintomi. Li immaginava improvvisi e dolorosamente fatali, come un drappo di lana nero e soffocante lasciato cadere su di lui senza preavviso, oppure graduali e tormentosi, una bolla di metallo tenero che si dissolveva nell'acido. E persino dopo essersi lasciato l'adolescenza felicemente alle spalle non aveva mai perso la vaga e segreta convinzione che i suoi giorni fossero contati e che una fine profondamente amara lo attendesse dietro l'angolo, quando meno se l'aspettava. Tale certezza giustificava in parte la sarcastica attitudine ai colpi di testa, ma era comunque principalmente un sintomo. Un segno della vocazione autodistruttiva che minava per intero la sua natura. Era soprattutto a causa di questo che aveva finito per diventare un ministro attivo del culto, anche se sarebbe stato mille volte più felice, oltreché a proprio agio, con una vita di solo studio. Di sicuro, avrebbe preferito l'esame di complicati manoscritti greci o della propria turbolenta coscienza alla responsabilità, che avvertiva pesantissima, per il benessere delle anime della piccola congregazione nella Prima Chiesa Metodista di Afton, Nord Carolina. Nello studio dei pesanti volumi rilegati in cuoio la mente non gli sembrava mai stanca. Ma quando si fermava a considerare l'invitante possibilità di dedicare più tempo a quell'attività, nella sua testa si levava una voce che l'accusava di voler scegliere la via dell'autoindulgenza. E lui le dava retta senza nemmeno troppi rimpianti. Durante l'ultimo anno di università e poi quelli di seminario si era preparato come meglio poteva per incontrare il mondo nella veste di ministro di culto cristiano, attivo e militante. Che poi avesse idee insolite su come effettuare tale preparazione era
una conseguenza della vita ritirata che aveva sempre condotto. Sua madre, comprensibilmente, era stata molto protettiva nei suoi confronti, e per quanto strano la sua famiglia d'origine l'aveva assecondata. Era come se anche loro condividessero i presentimenti che Peter nutriva circa il proprio destino. In qualche modo erano stati contenti, oltreché sollevati, della sua scelta professionale e lo avevano aiutato volentieri a entrare in seminario. A dispetto del poco interesse per le cose terrene manifestato negli anni della giovinezza, Peter aveva svolto il suo ministero in modo più che decoroso, anche senza riscuotere successi entusiasmanti. Forse era la costante consapevolezza della propria fragilità a renderlo più tollerante verso le debolezze altrui, ma le esortazioni contro i peccatucci della sua congregazione, e c'erano solo peccatucci nella città di Afton, venivano espresse in termini gentili e dignitosamente umoristici. Eppure lo studioso in lui premeva per uscire. Una volta spacciò per sermone una disquisizione su un certo problema storico di teologia e i fedeli, da parte loro, si mostrarono tolleranti. Forse apprezzavano il fatto di avere finalmente un predicatore con del cervello, perché la loro tolleranza si spinse anche più in là di quanto fosse ragionevole aspettarsi. Magari riuscirono persino a interpretare correttamente il succo di quei discorsi così dotti, insieme ai gesti che lui si imponeva di fare per indicare che anche dall'altra parte, al di fuori della competizione sfrenata che comprendeva il loro mondo conosciuto, le cose non erano facili. E il succo era che la fede non scende dal cielo come una pioggerellina sottile, ma si forma in seguito a una continua agonia intellettuale e spirituale. Era anche abbastanza semplice concludere quel discorso con l'impronta dei sermoni convenzionali, perché ogni autentico problema morale finisce per mettersi in contrasto con la vita quotidiana dell'uomo. Era stato durante una di quelle prediche, per l'appunto, che era emerso il suo attuale progetto. Sebbene all'inizio l'argomento non fosse stato niente di più del pretesto per un sermone, riflettendo in seguito sulle sue stesse parole la questione lo aveva affascinato a tal punto da spingerlo a dedicare a quell'abbozzo di ricerca tutto il tempo che riusciva faticosamente a sottrarre al lavoro, nei limiti imposti dal suo rigido senso del dovere. Con il passare del tempo decise di farne una monografia, forse un libro. Si concesse un paio di mesi di vacanza, e l'inaspettata eredità della fattoria rappresentò un colpo di fortuna pressoché incredibile. Dal conto di rispàrmio familiare, quasi inconsistente, si era concesso un prelievo di tremila dollari, anche se non era affatto sicuro che tutto quel denaro sarebbe servito davvero. — Tremila dollari è il tetto massimo — aveva detto a Sheila.
Per il sermone aveva preso spunto dal Primo Libro di Samuele. "E quando si alzarono al mattino seguente, udite, Dagon era caduto al suolo a faccia in giù davanti all'arca del Signore, e la testa di Dagon ed entrambi i palmi delle mani erano spiccati alla radice, e di Dagon era rimasto solo il tronco. Per questo, nessuno dei sacerdoti di Dagon, né altri che fossero venuti nella sua casa hanno più oltrepassato la soglia di Dagon in Ashdod fino a ora." Poi aveva ricordato ai fedeli la storia di Sansone, consegnato nelle mani dei Filistei dalla prostituta Dalila. "E i capi dei Filistei si riunirono per offrire un grande sacrificio a Dagon loro dio e per fare festa, perché Dagon aveva consegnato Sansone loro nemico nelle loro mani." Era stato proprio il tempio di Dagon, aveva detto, quello che Sansone aveva distrutto a mani nude, abbattendone i pilastri. Peter, con l'aspetto ancora più slanciato nei paramenti che cadevano a piombo, pallido e severo mentre si protendeva dal pulpito, aveva informato la platea non particolarmente attenta che Dagon era solo una delle tante divinità pagane legate alla fertilità. Nell'antica terra dei Fenici il suo nome era legato alla parola dagan, "corno", mentre il suo nome derivava in realtà da una radice semitica che significava "pesce". Aveva anche citato la descrizione di Milton nell'elenco degli angeli caduti. Quegli poscia venia ch'aspra ferita Sentì nel cor quando il suo stesso vide Simulacro impossente a un tratto monco Farsi dall'Arca prigioniera, e dentro Al tempio suo le mani e la spiccata Testa balzarne rotolando al suolo De' suoi scornati adoratori al piede. Dagon fu il nome suo, marino mostro, Uom sopra e pesce in basso. Aveva fatto notare come la figura di Dagon avesse colpito la sensibilità degli studiosi rinascimentali, e come la sua vicenda fosse stata riferita da Selden, Sandys, Purchas, Ross e persino da Sir Walter Raleigh nella sua storia del mondo. I fedeli della congregazione avevano incominciato a spostare il peso da una natica all'altra, inquieti e risentiti sotto quella piena di versi e di nomi poco familiari. Ma Peter aveva continuato a seguire i suoi appunti, dicendo che l'immaginazione umana era stata messa duramente alla prova nel tentativo di liberarsi da quella mutilata immagine del-
la fertilità. Il culto di Dagon aveva viaggiato fino alla lontana America. Lesse loro, dalla storia della colonia di Plymouth di William Bradford, la parte che riguardava il Monte Wollaston. Dopodiché caddero in un'epoca di grande licenziosità e condussero una vita dissoluta perdendosi in ogni sorta di profanazioni. E Morton divenne Signore del Malgoverno e stabilì, nientemeno, una Scuola di Ateismo. Accumularono nelle loro mani grandi ricchezze, ottennero altri profitti dal commercio con gli Indiani e dilapidarono tutto bevendo e ubriacandosi, sia di vino che di acque forti in grandi eccessi... E innalzarono anche un palo di maio, attorno al quale danzarono e bevvero tutti insieme per molti giorni, invitando le donne indiane come compagne di danze e di salti e scatenandosi come spiriti o piuttosto come demoni in pratiche anche peggiori. Proprio come se avessero fatto rivivere e celebrassero le festività romane dedicate alla dea Flora, o i riti licenziosi dei folli Baccanali. Allo stesso modo Morton, per mostrare il suo talento poetico, compose rime e versi, alcuni tendenti alla lascivia e altri intesi a denigrare personaggi e a generare scandali, che appose al palo di maio vano e idolatra. Cambiarono anche il nome del posto, e invece di chiamarlo Monte Wollaston lo ribattezzarono Montegiocondo, come se quella gaiezza dovesse durare per sempre. Ma non durò, perché poco dopo Morton venne rispedito in Inghilterra e il suo posto fu preso da quel degno gentiluomo di nome John Endecott, il quale portò con sé un'ordinanza con l'ampio sigillo del governo del Massachusetts. Costui, visitando quelle zone, diede ordine che il palo di maio venisse abbattuto e biasimò gli abitanti per le loro pratiche profane e li ammoni a preoccuparsi di compiere un miglior cammino. Così loro stessi, o altri, cambiarono di nuovo il nome del luogo in cui vivevano e lo chiamarono Monte Dagon. A quel punto, Peter aveva chiuso il quaderno di appunti, utilizzando i pochi minuti rimasti per predicare con grande zelo. Il culto di Dagon, aveva detto, sopravviveva ancora in America. Le caratteristiche che rendevano quel dio così affascinante per gli uomini erano chiaramente evidenti anche nella società che li circondava. Non era forse dominante in Dagon il concetto di fertilità? Ebbene, da tutte le parti proveniva l'invito a un'attività sessuale frenetica, incessante e irragionevole. Tutti i divertimenti, compresi i più seri legati alle arti, sembravano presupporre il sesso come base. Questi ciechi Baccanali erotici erano inevitabilmente legati al denaro, ba-
stava solo pensare alla onnipresente pubblicità, con tutte quelle ragazze che mettevano l'occhio sulla difensiva. Era solo un semplice esempio. E il potere del denaro non dipendeva in ultima analisi dalla proliferazione continua di un prodotto dopo l'altro, oggetti già morti creati senza pensare affatto al loro uso futuro? Non si trattava forse in massima parte di gingilli privi di qualsiasi utilizzo giustificabile? Non era dunque vero che l'intera cultura commerciale americana ostentava questa produttività irrazionale e sfrenata, chiaramente analoga a un'orgia sessuale? La produttività fine a se stessa in realtà era la negazione di se stessa, dichiarò Peter, e diventava quasi una sorta di impotenza. Proprio questo era il paradosso contenuto nella figura di Dagon. Adorarlo significava adorare una divinità storpia e mutilata, un dio di cui rimaneva "solo un torso monco". Dagon aveva perso la testa e le braccia, gli rimanevano solo i lombi, e al di sotto della cintola era pesce, creatura incapace di pensiero per antonomasia. Dagon era insieme simbolo della fertilità e dell'infertilità, rappresentava il difetto dell'uomo che agiva senza riflettere, che faceva senza sapere perché, che andava senza sapere dove. Era una semplice coincidenza che Montegiocondo fosse diventato Monte Dagon dopo che Endicott aveva fatto tranciare il palo di maio? Non era forse la logica continuazione di un culto dedicato a una sessualità tarpata? Il distrutto Dagon e il palo tronco non si specchiavano forse a vicenda? Difficile considerarlo una coincidenza. Ma anche se i due aspetti fossero stati indipendenti, scaturivano comunque da un malessere umano, da una eccessiva importanza data a una soddisfazione fisica del tutto egoistica, all'onanismo, all'impotenza, al nihilismo che viaggiava a velocità ultrasonica. Era questo modo di pensare inconscio che Peter suggeriva di estirpare dal cuore. La vita cristiana, insisteva, era necessariamente una vita di riflessione a cui risultavano estranei i movimenti inutili, oltreché il dispendio inesauribile di sostanza e di spirito. Esortò i suoi fedeli a mantenersi continuamente vigili e ammise che non stava chiedendo loro una cosa facile. Si fermò lì e si accorse per la prima volta della noia pesante che aveva suscitato con le sue parole. L'intera congregazione sedeva immobile davanti a lui, come uno schieramento di pietre scolorite dal sole. Peter le guardò stancamente, poi guardò Sheila, sistemata come sempre nel banco frontale per dargli coraggio. I capelli biondi le ricadevano sulle spalle del vestito blu, con onde morbide e lucenti. Sorrideva. Il petto si sollevava e si abbassava pesantemente, come sotto il carico di un sospiro greve e canzonatorio. Peter la vide passarsi
il dorso della mano sulla fronte come per togliersi un sudore del tutto immaginario... e si sentì sommergere per un attimo dalla collera. Se per sua moglie il sermone non era interessante, tanto peggio. Lui aveva compiuto un tentativo onesto, aveva espresso qualcosa di cui si preoccupava sinceramente. Sua moglie, se voleva rispettare il volere di Dio, doveva stare dalla sua parte... Ma lo sforzo di quel lungo sermone era stato così grande che anche la collera svanì, lasciandolo semplicemente stanco e infastidito. Le rispose con un rassegnato alzar di spalle e annunciò l'inno finale. — Fratelli, cantiamo il salmo 124, "O tu, amore nascosto di Dio" — disse. — Solo la prima e l'ultima strofa, prego. — Lo aspettava un lungo pomeriggio di instancabili prese in giro, in tono semiserio, da parte della sua bella e intelligente moglie. In qualche modo la temeva. Come avversaria intellettuale Sheila era formidabile e quando lo coglieva in fallo non lasciava correre facilmente. Un atteggiamento che il più delle volte lui non poteva fare a meno di odiare, pur riconoscendo che la sua natura ne aveva bisogno per acquisire un equilibrio più globale e duraturo. Se fosse andato deliberatamente a cercare quelle qualità in grado di servire da antidoto per la sua natura pessimistica e il più delle volte pomposa, anche se in modo involontario, non avrebbe potuto trovare di meglio del carattere di sua moglie. Un carattere pratico, deciso e molto spesso schiettamente sarcastico. Il matrimonio con una donna più cupa e meno scettica si sarebbe di certo concluso con un patto suicida, mentre Sheila si rifiutava, molto semplicemente, di prenderlo sul serio come lui aveva la tendenza a fare. — Quante sciocchezze... — Lui non poteva fare a meno, in un certo senso, di invidiarle una generosità di movimenti piena e sentita, ma accettava il fatto di essere diverso, tutto qui. Si sentiva molto più contorto e riflessivo. Dunque, lei lo avrebbe rimbrottato. Gli sembrava quasi una medicina cattiva che non si poteva evitare. Ha un sapore così sgradevole che deve far bene per forza. Gli sarebbe piaciuto che la barriera, o comunque quel muro che lo divideva dalla vita comune si infrangesse. Desiderava in modo genuino pavoneggiarsi e spassarsela nelle acque tiepide del quotidiano, del meschino e del banale di cui erano intrise le esistenze. Gli sarebbe piaciuto passare ore a poltrire di mattina davanti al caffè, o a scegliere i calzini da comperare e le cartoline da spedire. Ma non poteva essere diverso da come era, e nemmeno sua moglie sarebbe stata in grado di cambiarlo. Uno snervante senso di colpa lo spingeva a studiare, imparare, predicare, compiere visite, fustigare e svolgere opere buone. Lo tormentava il dubbio che un esagerato senso di colpa non
potesse dare origine a nessuna autentica buona azione. Non riusciva a risolvere la questione, né tantomeno a dimenticarla. E comunque c'era sempre Sheila. Lei lo aveva sposato appena uscito dal seminario, sebbene i loro contatti in quei quattro anni fossero limitati quasi esclusivamente alle lettere. Il corteggiamento e la proposta di matrimonio erano venuti prima, quando lui era ancora all'università dove lei studiava. Sheila aveva sopportato quei quattro anni di attesa senza grandi drammi, persino allegramente, tanto che Peter non poteva fare a meno di chiedersi se la natura della moglie non fosse molto meno esigente verso la sua di quanto la sua non fosse nei confronti di quella di lei. I difetti da cui era afflitto erano quelli di una eccessiva solidità e forse era proprio alla solidità che lei aveva bisogno di aggrapparsi. Il suo spirito libero rischiava anche troppo facilmente di scivolare nel frivolo. Per Peter, l'idea che sua moglie avesse bisogno di lui era confortante, lo aiutava a non considerarsi un vero e proprio parassita. Lei era una ragazza a posto e sarebbe stata un'ottima madre, ma sebbene fossero sposati da quattro anni, lui ne aveva ormai trantadue, i figli non erano ancora arrivati. Quella mancanza preoccupava soprattutto Peter, che la sentiva come un debito che qualche esattore sconosciuto gli avrebbe chiesto prima o poi di pagare, magari quando era più che mai impreparato. Un altro semplice esempio di come l'imprevedibilità del destino avrebbe potuto sorprenderlo senza difese. — Perché non ci hai letto addirittura l'enciclopedia per intero? — chiese Sheila. Scodellò con grazia vivace nei piatti la fresca insalata che aveva preparato per il pranzo domenicale. — Quello sì che sarebbe stato divertente. — Dubito che si debba venire in chiesa per divertirsi — obiettò lui. — Uau. Prova a dirlo di nuovo. — Forse ci si dovrebbe presentare alla funzione con una ragionevole speranza di edificazione. Sheila gli lanciò un'occhiata mordace. — Lo sai che cos'è l'inferno? Edificazione priva di divertimento. Immense montagne di noia. L'ira era svanita per non tornare, e Peter si sentiva svuotato. — Oh, andiamo. Non era poi così male, ti pare? — Non so. Quanto vuoi peggiorare, al massimo? — Io non desidero affatto peggiorare. Anzi, se vuoi saperlo, personalmente pensavo che fosse un'orazione molto interessante. Quasi sexy. — Tutto per via di un'idea che ti è venuta. Solo per questo sostieni che ti
piace. Ma io dubito che gran parte di quell'idea possa applicarsi alla gente di adesso. Mi sembra così... accademica. E storicamente lontana. — È proprio questo il punto. Io non penso che sia lontana. Non hai ascoltato l'ultima parte? Tentavo di dimostrare la pertinenza... — Sì, sì, l'ho sentita. Ma non mi piace. Lei si alzò di scatto e abbandonò il tavolo. Peter si sentì deluso e scontento finché non la vide ritornare, pochi minuti dopo, per versare il caffè. — Sbrigati a berlo. Voglio documentarmi di persona su tutto quel sesso americano folle, selvaggio e senza limiti di cui continui a parlare. 4 Il lavoro non si presentava facile. L'idea continuava ad affascinarlo e a sembrargli un'intuizione valida e terrificante, ma fino a quel momento non aveva ancora aperto i pacchi di libri, carte e appunti. Al mattino dormiva fino a tardi, il che era insolito per lui, e si rigirava inquieto nell'alto letto scuro della camera in cui avevano scelto di sistemarsi, al primo piano. I sogni lo tormentavano, facendolo svegliare di colpo sudato e con uno strano sapore acre in bocca, ma al risveglio era incapace di ricordarli. Ne ricordava solo le atmosfere, strane e buie, e certi odori. Si alzava e faceva colazione, senza mancare di notare che per qualche ragione il suo appetito era aumentato. Lui, che non si era mai interessato granché al cibo adesso si sentiva perennemente affamato. Dopo colazione vagabondava per la casa, quasi sempre in silenzio, e nel pomeriggio faceva lunghe passeggiate all'interno della proprietà, generalmente solo. Di tanto in tanto, senza nessuno stimolo apparente, nella sua mente faceva capolino il bizzarro volto di Mina e sempre, senza eccezioni, quell'immagine gli faceva sentire lo stomaco in rivolta e uno sgradevole formicolio sottopelle. Si lamentava in continuazione. — Di sicuro non ti ho mai visto così irrequieto — osservò Sheila un giorno. — È solo che non riesco a incominciare il lavoro. — Se fossi in te non me ne preoccuperei tanto. Ho sempre sentito dire che chi scrive trascorre lunghi periodi, a volte, senza riuscire a prendere una penna in mano. Scrittori professionisti e gente del genere, intendo. — Qui non si tratta di questo. — Non avrebbe voluto assumere un tono tanto aspro. Lei si strinse nelle spalle. — Be', io non mi preoccuperei comunque. Ti
meritavi una bella vacanza, in ogni caso. — Non prima di aver concluso qualcosa di concreto. Rivolgeva gran parte delle proprie attenzioni alla casa. Era abbastanza grande da permettere lunghe esplorazioni: sedici stanze in tutto, senza contare i numerosi sgabuzzini, le aree di disbrigo e l'ampia soffitta. In piedi in una stanza, in un altro piano e all'estremità opposta dell'edificio, Peter riusciva a sentire tutti gli spostamenti di Sheila. Per lui la casa era viva fino a quel punto. Il piacere che provava a curiosare di qua e di là era oscuro, come la maggior parte dei suoi piaceri. Aprì bauli e cassetti e rimase a contemplare il gran numero di vestiti rigidi e trasparenti, le camicie e i pantaloni di lana scura. Per quanto scomodi sembrassero, a volte represse a stento l'impulso di indossarli per scoprire, come avrebbe fatto un bambino, in che modo si fossero sentiti esattamente i suoi progenitori dentro a quegli abiti. Adesso che il suo rapporto con la casa diventava più intimo gli sembrava che le sue innumerevoli supposizioni a proposito dei nonni e dei loro padri fossero state corrette solo in parte. Aveva mancato qualcosa di importante e di essenziale su di loro e poteva scoprirlo dentro di sé, se guardava abbastanza a fondo. Non si trattava solo di arcigno Puritanesimo, ma di qualcosa ancora più oscuro, se possibile. Uno dei bauli era quasi colmo di corrispondenza e di biglietti di Natale ricevuti; al di sotto, sparsi, c'erano almeno tre dozzine di proiettili per fucili da caccia di vario calibro. Ma lui non aveva visto fucili, in casa. Da un cassetto uscì una minuscola scatoletta di latta piena a metà di capsule di dinamite. La corrispondenza era impossibile. Solo una piccolissima percentuale'di lettere risultava firmata, la calligrafia era spesso indecifrabile e la stesura infarcita di sgrammaticature. "A noi non ci possiamo pagare così tanto, e alora mi aspetterei cuello che voi aveva oferto la prima volta... il mio ligale scrive ogi volta... la Riligione che Voi dicete di proffessare." C'erano parole così dichiaratamente incomprensibili da sembrare traslitterazioni da chissà quale lingua esotica, magari il Pnakotico antico: "Nephreu", "Yogg Sothoth", "Ka nai Hadoth", "Cthulhu". Gli sforzi compiuti nel tentativo di decifrare le lettere e di scrutare parole ormai sbiadite sotto la luce fioca lo stancavano, gli annebbiavano la vista e a volte gli procuravano lancinanti mal di testa. Aveva l'oscura sensazione che proprio quelle lettere fossero in qualche modo responsabili degli incubi che lo assalivano nei suoi tardi sonni mattutini. E le lettere gli ricoprivano le mani di una polvere che poi doveva sfregare via a fatica. Sheila osservava quelle esplorazioni con il consueto divertito spirito di tolleranza ma il suo atteggiamento, che un tempo Peter considerava prezio-
so, ora lo feriva profondamente nell'orgoglio. Si sentiva già abbastanza infantile per conto proprio, anche senza che lei si immischiasse. In ogni caso, sua moglie si teneva occupata badando alla casa. Mantenere pulite anche solo le quattro o cinque stanze di uso quotidiano era un compito che la impegnava per tutto il giorno. Inoltre si stava confezionando un vestito, lavorando con la macchina per cucire a pedale sistemata nell'atrio a piano terra. Gli schiocchi bizzarri e intermittenti della macchina risuonavano per tutta la casa con un rumore che ricordava il ronzio di uno sciame di api. Quando Peter le passava vicino, nei suoi vagabondaggi, lei alzava lo sguardo senza smettere di lavorare e gli rivolgeva un sorriso che, nelle intenzioni, era amichevole e comunicativo. Ma lui non lo restituiva. Si limitava a posarle distrattamente una mano sulla spalla e passava oltre per tornare alle sue esplorazioni. La soffitta era la parte peggiore. Stretta e molto alta, riceveva luce da un'unica finestrella tonda, quasi un oblò, sistemata in alto proprio sotto la volta del tetto. Ma bastava quella luce, aspra e gialla, a riempire tutto l'ambiente. Si combinava alla polvere, ce n'era a tonnellate, e l'atmosfera andava alla testa come una febbre. La luce giallastra era calda e accecante e lui la respirava con deliberata lentezza. Gli sembrava quasi di percepirla con ogni nervatura del corpo. La soffitta era essenzialmente vuota. Sul lato sinistro scendevano delle travi nude, punteggiate qua e là da chiodi piantati per sostenere certe giacche di lana dall'aspetto fumoso per la calura e un paio di ampi copriletti intrecciati color tabacco. Sul pavimento erano ammucchiati grossi fasci di giornali, fragili e gialli come i raggi del sole che entravano, e in quella luce le parole stampate avvizzivano fino a diventare illeggibili. Lui sfiorò con l'alluce un grosso giornale ripiegato e il giornale scivolò in silenzio nella polvere spessa. Nella sua mente l'immagine del volto di Mina oscillava avanti e indietro come una bottiglia vuota che galleggia sull'acqua. La parete di destra era costituita semplicemente da una fila di travi e di assicelle nude attraverso le quali la calcina indurita sembrava ancora stillare a poco a poco. Alla parete erano appoggiati un tritacarne rotto e un barilotto vuoto sulla cui apertura intere generazioni di ragni avevano tessuto la loro tela. Verso sud, sulla parete da dove entrava la luce, era disposto uno strano assortimento di catene. Nell'angolo, dove una coppia di travi incontrava il pavimento della soffitta, due chiodi robusti infilati in altrettanti anelli tenevano saldamente inchiodate al legno le rispettive catene. Le catene, piuttosto grosse, risalivano le travi fino a un'altezza di circa due metri e
mezzo, fissate a intervalli regolari da una serie di grosse cerniere e poi, da quella altezza, pendevano di circa trenta centimetri. All'estremità di ognuna erano attaccati dei grossi bracciali di ferro, simili in qualche modo ai coltri di un aratro, tranne che per un cardine laterale che ne permetteva l'apertura e la chiusura. Clac. I bracciali di ferro avevano uno spessore che superava il centimetro e mezzo e la serratura era probabilmente provvista di un meccanismo interno. Guardando meglio scoprì una linguetta di tipo flessibile, dentellata da una parte sola, che scivolava in una fessura interna e risultava provvista, all'estremità, di una minuscola leva capace di spostarsi avanti e indietro. Era chiaro che la leva sganciava il dente di arresto all'interno del bracciale, permettendone l'apertura. Nella luce giallastra, le catene sembravano rosse e lui passò un bel po' di tempo a osservarle. Poi toccò uno dei bracciali con l'indice e lo fece dondolare piano. Si udì un lieve e inquietante cigolio quando la catena urtò contro l'ultima cerniera in alto. Peter stimò a occhio che il diametro maggiore del bracciale, che era ovale, misurasse circa dieci centimetri. Vi passò il dito all'interno e lo ritirò rossastro. Ruggine, pensò. Ma non si sfaldava, e non era granulosa come la ruggine. Si alzò in punta di piedi ed esaminò il punto in cui era sistemata la cerniera, che probabilmente pizzicava. Sul ferro rosso scintillavano dei minuscoli peli biondi, simili a quelli che si trovano sul dorso del braccio, o a delle ciglia. Lui spalancò gli occhi e si succhiò il labbro. Strinse il bracciale di ferro attorno al polso e lo richiuse con uno scatto. Annuì constatando che si adattava alla perfezione. Se anche l'altro polso fosse stato imprigionato nel bracciale gemello lui non sarebbe più stato in grado di raggiungere la leva e di liberarsi. In piedi, appiattito contro la parete e con il braccio appeso in quel modo verso l'alto, Peter avvertì quasi una sensazione di leggerezza, un senso di vertigine come se stesse galleggiando. All'inizio il ferro era freddo, ma si riscaldò e il polso all'interno incominciò a sudare. Lui avvertì quasi subito una gran sete. Potrei mangiarti tutto, aveva detto lei. Potrei mandarti giù intero e sputar fuori tutti i tuoi vestiti. Peter dondolò pigramente il braccio. Non era neanche tanto scomodo, tutto sommato. Il ferro sfregò contro il ferro. Lui girò il polso nel bracciale. Sì, pizzicava un po' in corrispondenza della cerniera. Premette con il pollice la leva di apertura e la leva si spostò docilmente, troppo docilmente. Il bracciale non si aprì. Peter mosse la leva avanti e indietro un paio di volte e tirò forte per liberare il polso, ancora e ancora. Poi rimase completamente immobile. Spirali di polvere si alzarono e si posarono con rilut-
tanza, con le volute giallastre che sembravano planare dolcemente al suolo. Ormai era chiaro che non sarebbe riuscito a liberarsi. Cercò di ricordare dove avesse visto una grossa lima, nelle lunghe esplorazioni compiute all'interno della casa. Era in grado di chiamare Sheila? Lei si trovava al piano terra, impegnata in chissà quale faccenda domestica. Peter la chiamò due volte, ma la sua stessa voce gli sembrò smorzata. Il suono si mischiò alla polvere e andò a posarsi in silenzio sul pavimento. Ormai i piedi si spostavano a fatica e lui starnutì due, tre volte. Lassù era tutto incredibilmente senza vita. La casa, quasi animata in tutti gli altri punti, nella parte superiore sembrava morta. O forse Sheila era insensibile alla sua vitalità. Peter tese la mano verso l'altro bracciale, afferrò il margine di catena che stava al di sopra e fece sbattere il pesante cerchio di ferro contro la trave. Lo picchiò più e più volte, osservando come la trave vibrasse sotto i colpi e sentendo il pavimento tremare violentemente sotto i piedi, ma quando smise di picchiare non percepì nessun rumore di passi. Lei non veniva, non lo aveva sentito. Poi finalmente avvertì dei passi, ma non sembrava che si avvicinassero. Non sembrava che andassero proprio da nessuna parte. La sua immaginazione gli giocava un brutto scherzo, non c'era nessuno che camminava. Non aveva naso, Mina, proprio come un pesce. Stava immersa in un oceano di sperma. La polvere si alzò fino a lambirgli la vita, ma sembrava aver perso il suo intenso colore giallo. Il tempo passò e la luce diventò più debole. Lui si appoggiò al muro, cercando di non respirare troppo a fondo, ma non servì. Continuò a starnutire senza riuscire a fermarsi, con gli occhi ormai pieni di lacrime che captavano la luce di nuovi bagliori. Com'era possibile che sua moglie non sentisse la casa tremare quando martellava con il ferro contro la trave? Vibrava tutto, l'intera struttura ne risultava scossa. Lui riprese a battere la catena e continuò per un po', prima di fermarsi. Le gambe incominciavano a dolergli e il dolore gli sembrava insopportabile. Il meccanismo di chiusura all'interno del bracciale aveva finito per arrugginirsi, come aveva fatto a non pensarci? E non era ruggine, ma sangue, quel che lui aveva toccato nella parte interna del ferro. Vecchio sangue rappreso, che non si sfaldava, a differenza della ruggine. Si era fatto sempre più tardi. La mente e gli occhi erano pieni di paura, e la casa si popolava di suoni, tutti sbagliati. Rumori di cose che scivolavano e si sfregavano le une contro le altre. Era come se il ferro gli si congelasse nelle gambe. Non poteva far altro che compiere respiri brevi, perché quando inalava a fondo starnutiva e
rischiava di strozzarsi, ma pensarci complicava le cose e alla fine si ritrovava a dover compiere un respiro più lungo, che lo faceva tossire fin quasi a vomitare. Lo assalì il pensiero, fulmineo come il modo in cui il ferro lo aveva imprigionato, che quello fosse il luogo dove era morto suo padre. Non c'erano prove, ma la sua mente non ne aveva bisogno, poiché tutta la casa era impregnata di quella certezza. E la sua mente viveva di quella casa. Il bracciale si adattava alla perfezione e l'immagine nella sua mente era qualcosa di già sperimentato. Stava lì con entrambe le mani incatenate, riverso contro il muro caldo, a sudare copiosamente nei vestiti che lui stesso aveva insozzato. Non sarebbe riuscito a sopportare di rivivere tutto di nuovo. Ma poi capì che quell'uomo, l'uomo che vedeva, era troppo piccolo e troppo grasso... Gli avevano detto che suo padre era morto quando lui aveva quattro anni, e sapeva anche che era più basso di quanto lui non fosse adesso. Le catene erano sistemate troppo in alto per lui... doveva essersi slogato le braccia. Ma perché avevano fatto in modo che il figlio, Peter, salisse fin lì a vedere? Il vecchio Leland, non pazzo ma sconvolto da un'ira furibonda e disumana, con il sudore che lo ricopriva come una vernice giallastra. La visione andò in pezzi. Che cos'era che avevano voluto fargli vedere? Lui non riuscì a vedere. C'era solo una strana luminescenza biancastra nella parte alta del muro, senza naso, indecifrabile come Mina. Nell'oscurità gli oggetti, il tritacarne rotto, le giacche appese, erano colati fuori dai loro margini occupando spazi superiori alla massa. Ormai era notte e la casa moltiplicava i rumori immaginari, che di certo si sarebbero avvicinati sempre di più, senza mai arrivare. Ma sotto la porta stretta comparve un lembo di luce, morbido e ondeggiante. Si inarcò e scomparve. Poi apparve di nuovo. Lui la sentì. — Peter? Peter! Sei qui? — Sì — le rispose. Anzi, non disse proprio niente. Aveva la gola inceppata. Gracchiò, con la bocca gonfia e impotente. Quando lei aprì la porta, lo spostamento d'aria alzò la polvere, ora invisibile nel buio. E lui tossì, e tossì ancora, in modo convulso, e si pulì la bocca incrostata di sangue nel braccio appeso. Immaginò l'aspetto che avrebbe avuto ai suoi occhi e pensò che l'avrebbe spaventata a morte, poi girò la testa per fronteggiare la luce e impose alle labbra nere di sorridere. Lei teneva in mano una lampada a cherosene che aveva trovato da qualche parte in casa. Lui cercò di trattenere di nuovo il fiato, ma tremò, sentendo l'aria raschiargli il petto. Era Mina, non Sheila. Si sentì quasi sul punto di
piangere e distolse il viso, poi si girò di nuovo a guardare... No. Era Sheila, con l'oscurità raccolta sui capelli biondi e con la lampada davanti a sé, bassa, tanto che il naso non aveva più contorni, e sembrava sparito. — Dev'essere bruciata una valvola, credo — disse. — Non sono riuscita a trovare una lampada migliore. Ma si può sapere che cosa ci fai quassù, in ogni caso? — Gli mise la luce vicina. Fino a quel momento non l'aveva ancora visto bene. Lui abbozzò di nuovo un sorriso, e cercò di trattenerlo. — Mio Dio. — Sheila l'aveva visto. Peter continuò a sperare che lei non facesse cadere la lampada. L'attico si sarebbe incendiato, prendendo fuoco come una scatola di cerini. — Mio Dio, Peter... Le parole gli uscirono di bocca come uno sciroppo nero e amaro. — C'è una grossa lima nel cassetto in alto della cassapanca, all'imboccatura delle scale. Se potessi... Sua moglie gli si avvicinò. Il calore della lampada gli si sparse sul viso e sul collo. — Ma che cosa... — Vai a prendere la lima, Sheila. — Non avrebbe potuto essere più esplicito nella sua preghiera. Lei lo fissò in viso, poi distolse lo sguardo per puntare gli occhi sulla fiamma. Aveva ruotato lo stoppino troppo in alto. Dalla lampada si alzavano volute di fumo nere e il fornelletto bulboso continuava ad annerirsi. — Sì — disse. Quando si girò per allontanarsi la sua ombra divenne enorme e ricadde come una coltre spessa e rancida sulla stanza, e su di lui. La sagoma del suo corpo, raccolta attorno alla lampada, risultò invece scura e compatta, lambita appena dalla polvere e dall'orrore di quella stanza. Peter si sentì sollevato quando la vide scomparire oltre la porta, ma sapeva che sarebbe tornata. Aveva paura per lei. La situazione in cui l'aveva trovato era sconvolgente come lui si era aspettato e non poteva fare a meno di provare nei suoi confronti una terribile pietà. Gli sembrava quasi che le gambe avrebbero smesso di sostenerlo da un momento all'altro. Tremavano e non accennavano a fermarsi. Peter sentì sua moglie scendere le scale, dopodiché subentrò un silenzio assoluto e inaspettato. Non c'erano più rumori a cui l'immaginazione potesse aggrapparsi. Si raschiò la gola e con la lingua rigirò in bocca un grumo di catarro viscido. Si leccò le labbra, avevano un sapore acre e sembravano gonfie. Quando lei tornò era di nuovo padrona di sé, almeno in apparenza. Gli si avvicinò in fretta e con l'aria sicura, tenendo la lima con la mano sinistra.
— Cose da pazzi — dichiarò. — Proprio come un bambino. Non riesco a capire come tu abbia potuto cacciarti in una situazione del genere. Solo i bambini piccoli non riescono a tenersi lontani dai guai. Lui le prese la lima. — Ho bisogno di bere — disse. — Non credo di farcela, senza un po' d'acqua. — Incominciò subito a sfregare l'attrezzo contro un'estremità della catena di ferro. — Cose da pazzi — ripeté lei. Scomparve di nuovo. Nel buio, lui continuò a sfregare con energia la lima contro la catena, finché dovette fermarsi perché il braccio non ce la faceva più. Aveva ricominciato a sudare e lo sforzo lo faceva ansimare. Pensò a come doveva sembrare stupido e sentì chiaramente che qualcuno lo osservava, notava divertito tutte le sue mosse e persino i pensieri. Mina. Lei ritornò con l'acqua. — Te n'ho portata un bel po' — disse. — Sembrava che ne avessi maledettamente bisogno. — Depose a terra un secchio di ferro pieno a metà. Dentro ci galleggiava lentamente un boccale. — Tieni — continuò, porgendoglielo. I primi sorsi trasformarono l'arsura che aveva in bocca in una viscida pellicola coagulata, che sputò fuori. Lo sputo piombò sulla polvere con lo stesso rumore di una grossa corda che cade. Lui incominciò a deglutire un sorso dopo l'altro. Desiderava l'acqua a tal punto da arrivare quasi a morderla. Si accoccolò, con la testa che girava, tuffò una mano nell'acqua e si sciacquò la faccia. La superficie dell'acqua si riempì di polvere e il riflesso del suo viso divenne più scuro. Riprese a lavorare con la lima. Sheila si era ripresa, molto meglio di quanto lui si fosse aspettato. — Lo sai come fanno a catturare le scimmie per lo zoo, nella giungla? Fanno un buco nel guscio di una noce di cocco. Prima legano saldamente la noce, si capisce, poi ci mettono dentro della frutta più piccola di cui le scimmie sono ghiotte. Il buco è grande quanto basta per infilare la mano, ma diventa troppo stretto quando la scimmia tenta di estrarre il pugno con cui tiene saldamente il suo bottino. Così non riesce più a liberarsi ed è troppo avida o troppo stupida per lasciar perdere la frutta. Fanno così. E vuoi sapere una cosa? Non avevo mai creduto che riuscissero davvero a catturare le scimmie in questo modo, finché non ti ho visto qui in piedi con la mano imprigionata lì dentro. E tu non hai nemmeno la scusa della frutta, o di qualcosa che sia servito da esca per convincerti a infilare la mano in trappola. Ti è mai capitato di mettere il pugno nel fuoco, solo perché le fiamme sono così calde e affascinanti? Non intendo adesso, sei troppo intelligente per compiere una sciocchezza del genere, ma quando eri più giovane. Magari
quando eri in collegio? Lui scosse la testa, cercando di nasconderle l'amarezza che gli traspariva sul viso. Ormai era riuscito a tagliare l'anello in un punto e stava cercando di produrre una seconda apertura. Pensò che lei continuasse a parlare per placare il proprio nervosismo. Riprese a sudare copiosamente e rimpianse di aver imbrattato l'acqua nel secchio. La sete aveva ricominciato a tormentarlo. — E sai un'altra cosa? Quando non ti trovavo, immaginavo già che avrei scoperto qualcosa del genere. Dico sul serio, puoi credermi. Da come frugavi in tutti gli angoli e i buchi della casa si sarebbe pensato che ti aspettavi di trovare un tesoro, una pentola piena d'oro. Magari dietro a un pannello segreto, o a qualcosa del genere. Davvero. Non ho mai visto nessuno così invasato prima d'ora, ma è il tuo modo di fare, certo. Riesci sempre a trovare qualcosa nei dintorni da prendere sul serio almeno quanto il cancro. Vuoi proprio che te lo dica? Mentre ti guardavo vagare di qua e di là come un pazzo avevo una gran voglia di dirti che se la casa ti faceva quest'effetto potevamo sempre prendere una tenda e andarla a montare in mezzo ai campi. Oppure, se queste fissazioni non accennavano a diminuire, potevamo tornarcene subito da dove siamo venuti. Ma sapevo già che non avresti lasciato la casa se prima non ottenevi qualcosa. Proprio come quelle scimmie che gli indigeni catturano nella giungla. Peter era ormai libero, ma dovette fermarsi. I muscoli dell'avambraccio si erano stirati per il violento sforzo. Sheila continuava a parlare e lui desiderò che la piantasse, che stesse un po' zitta. Strofinò l'avambraccio contro la coscia e si asciugò il sudore dal viso con la spalla sinistra, già lurida e bagnata perché non era la prima volta che serviva a quello scopo. Poi tornò al lavoro. — ...E se pensi che te la stia facendo pagare, hai ragione — continuò Sheila. — Non credere neanche per un attimo che non te lo meriti. L'estremità della catena sbatté contro il muro e rimbalzò, il braccio cadde a piombo, e il bracciale di ferro gli colpì la gamba. Il colpo gli sarebbe costato un livido. Ma era libero. Si sedette, abbracciandosi le ginocchia improvvisamente contratte per il dolore. Anche la vista si contraeva e si espandeva a turno, e lui si sentiva quasi sul punto di scoppiare a piangere. Alla fine si alzò, con Sheila che lo sorreggeva. — Andiamo giù — propose. Le tolse di mano la lampada, riavvolse lo stoppino, e scese le scale al suo fianco. Aveva ancora in mano la lima; i quattro anelli del bracciale dondolavano e gli battevano contro la gamba. Alla luce oscillante della
lampada la casa era più strana che mai, le ombre si approfondivano e si sovrapponevano le une alle altre, diventando quasi vive. I mobili verniciati riflettevano la luce di passaggio a chiazze, e le chiazze somigliavano a tanti occhi appannati. L'alone di luce li accoglieva entrambi, lui leggermente chino sulla moglie, sporco, stanco e assorto, con la catena penzoloni. Lei sosteneva con la spalla gran parte del suo peso, gli teneva un braccio attorno alla vita e la mano avvinghiata alla camicia. In cucina si sciolsero. Peter appoggiò la lampada sul piano scanalato del lavandino e si sciacquò le mani e la faccia con l'acqua fredda, scrollando la testa. Quando si rialzò, l'acqua gli rigò la camicia. — Bene — disse. — Vado a dare un'occhiata al quadro delle valvole. — Lei prese la lampada e lo seguì nel corridoio di fianco alla cucina. Peter non ebbe nemmeno bisogno di aprire lo sportello. — L'interruttore è abbassato — osservò. Sul pavimento, il piede incontrò qualcosa di morbido e caldo. Lui si chinò e raccolse un pesante cappotto di lana blu. Tutta la casa ne era piena. — Doveva essere appeso all'interruttore — osservò. — Probabilmente il peso lo ha fatto abbassare e ha causato l'interruzione della corrente. Lei si portò la mano alla bocca, con un certo imbarazzo. — Mi sono rialzata di colpo — confessò. — Non immaginavo che... Mi dispiace. — Si strofinò appena il mento, in un gesto di incredulità. — Mi dispiace. Lui rialzò l'interruttore. Le luci si accesero di colpo e tutto apparve spoglio, i mobili e le pareti. Anche a loro sembrò improvvisamente di essere nudi, tanto che distolsero in fretta gli occhi, quasi vergognandosi. Fu solo un attimo. Peter tolse la lampada dalle mani della moglie e girò lo stoppino fino a farlo scomparire. La fiamma svanì e dal fornelletto si alzò una breve nuvola di fumo nero. — Tieni. — Le porse il cappotto e lei lo prese, senza quasi osare guardarlo. Strinse l'indumento contro di sé e una falda ricadde, nascondendola quasi per intero. Lei guardò il marito. — Mi dispiace — ripeté. — Mi dispiace davvero. Peter fece tintinnare la lima sul bracciale di ferro che gli serrava il polso. — Mi toglierò questo e poi farò un bagno — dichiarò. — Con un mare di acqua calda e almeno sei stecche di sapone. — Benissimo — approvò lei. — Mi sembra un'ottima idea. Io intanto preparerò la cena. Saranno già le nove. Lui ci pensò su. — Per me no, grazie. Non credo di voler mangiare. — Capisco. Un caffè, allora? — Un caffè. Va bene.
5 Nell'atrio aveva trovato una piccola sedia diritta con un sedile di canna arcuato. Vi si sedette e incominciò a limare il bracciale, lentamente e con metodo. La polvere granulosa gli cadde sulle scarpe. Pensava di riuscire a tagliare la linguetta interna nel punto in cui il bracciale si chiudeva. Poi sarebbe stato libero. Non aveva fretta, ormai, ma la paura non lo abbandonava. Aveva visto suo padre in quel modo, un uomo non molto alto con gli occhi sgranati e terribili. Ereditando la fattoria aveva ereditato anche Mina, ed ereditando la casa aveva ereditato anche le catene. C'era qualcos'altro in arrivo, qualcosa che correva per raggiungerlo. Non aveva mai immaginato che lo spavento potesse avere dimensioni così enormi come quando Sheila era arrivata in soffitta con la lampada e lui l'aveva scambiata per Mina. Doveva rivedere quella ragazza anche se, era chiaro, si trattava solo di una povera creatura ordinaria. La casa e le ore di isolamento lavoravano nella sua testa e una serie di immagini scombinate si mescolavano in una folle danza. Ma lui non riusciva a convincersi; tutti i suoi pensieri, persino il suo corpo, mancavano totalmente di certezze. Quanto erano davvero attendibili i suoi ricordi? Aveva perso il cammino, diceva sua nonna, nel ricordo. Ma non era possibile che quella voce possedesse davvero il timbro che lui aveva registrato nella mente. Sembrava quasi il rumore di un pezzo di metallo che strideva contro un altro. Nessuna voce umana poteva suonare in quel modo. Solo l'immagine della fotografia sbiadita nel salotto del sole avrebbe potuto parlare così. Ha perso il cammino, e guarda che cosa gli è successo. Succederà anche a te, se ti perderai come tuo padre. Lui si contorceva per allontanarsi, lottava per non vedere, ma le dita della nonna, forti e imperiose come il ferro, gli imprigionavano i polsi. Non avrebbe voluto guardare quella parete della soffitta, ma non ne aveva potuto fare a meno. Adesso gli sembrava quasi di essere stato chiamato per giudicare suo padre, ma non conosceva i parametri secondo cui il giudizio doveva essere espresso. Smise di limare e si grattò il naso. Forse, le impressioni del suo primo contatto con la casa erano corrette, e quei parametri erano scomparsi dalla terra per sempre. Oppure no... Quel che risultava certo era che non riusciva a cancellare dalla mente l'immagine di Mina. Gli si presentava davanti agli occhi con frequenza sempre maggiore, e la confusione tra lei e sua moglie sembrava priva di ogni ragione logica, persino nell'oscurità strisciante e nella luce fioca. Lui
riusciva a spiegarla solo con un senso di attesa inevitabile. Infatti, era stato convinto che dietro la porta della soffitta sarebbe comparsa Mina. E il volto della ragazza, inciso nella memoria, era totalmente autonomo. Non rispondeva ad alcuna manovra della sua immaginazione, non si prestava ad accostamenti ed era assolutamente e unicamente se stesso, come l'aglio, di cui non è possibile confondere il sapore. Ma qual era il suo significato? Perché aleggiava indistruttibile nei suoi pensieri, accendendosi e spegnendosi come una luce che lanciava messaggi in un codice indecifrabile? Il bracciale cadde sul fresco pavimento di piastrelle e lui, con la mano destra bollente per lo sforzo, lasciò che anche la lima facesse la stessa fine. Continuava a sentire sul polso la pressione del ferro. Si chinò in avanti per riposare, con i gomiti sulle ginocchia. Poi raddrizzò la schiena sulla sedia e sferrò un calcio al pesante anello di ferro ormai aperto, con tutta la forza che aveva. Il bracciale scivolò sul pavimento, colpì la parete e, di rimbalzo, slittò indietro fino a sfiorargli di nuovo il piede. Peter si alzò e attraversò l'atrio per raggiungere la porta del bagno, massaggiandosi il polso. La vasca, alta e ingiallita, poggiava su quattro piedini a forma di zampa. Lui si chinò e spinse il tappo nel foro di scarico. Aprì il rubinetto dell'acqua calda e inspirò grato il vapore che incominciò a salire; aveva avuto una gran paura che la corrente fosse mancata così a lungo da far raffreddare completamente la scorta nel serbatoio. Il suo volto, riflesso nello specchio chiazzato dell'armadietto sopra il lavandino, non gli procurò un trauma ma costituì piuttosto una dolorosa conferma. Gli occhi e la bocca sembravano fessure intagliate in una carta rigida e grigia. I margini delle palpebre risultavano arrossati e i capelli erano duri e ispidi per la polvere che vi si era appiccicata. Mentre l'acqua continuava a scorrere, Peter si sciacquò il viso nel lavandino scheggiato. L'acqua gli pizzicò il polso facendoglielo bruciare e lui si accorse dell'ampia escoriazione sierosa che il ferro vi aveva prodotto. Si spogliò. La camicia e la canottiera vennero via a fatica perché il sudore e la polvere, combinandosi, gliele avevano incollate alla pelle. Le tenne davanti a sé, con il braccio teso, e le trovò quasi irriconoscibili. Allora le lasciò cadere a terra e decise che le avrebbe bruciate. Infine scavalcò il bordo della vasca e si immerse, lasciando che l'acqua gli lambisse le membra ricoperte di polvere. Dopo un po' incominciò a strofinarsi con energia e l'acqua divenne quasi color inchiostro. Fu costretto a scaricarla per farne scendere della nuova. Rimase lì, con gli occhi chiusi, a crogiolarsi nell'acqua pulita. Udì la porta aprirsi e alzò lo sguardo in tempo per vedere entrare Sheila, con
qualcosa tra le braccia. Le guardò il viso roseo e ovale, con il mento leggermente appuntito, e pensò che assomigliava a un'unghia femminile sapientemente laccata. — Bene — commentò lei. — Hai l'aria di essere perfettamente fuori pericolo, ormai. — Sì, credo che sopravviverò. — Peter pronunciò le parole lentamente, con la lingua ancora impastata. — Con l'aiuto di Dio. — Ti ho portato i vestiti e gli altri indumenti puliti. Ho fatto bene? — Bene, grazie. E il caffè? — Lo vuoi adesso? Dentro la vasca? — Sheila vide l'espressione che aveva sul volto. — Oh. Certo. Vado a prenderlo. Dovrebbe essere pronto. Tornò indietro quasi subito con la tazza e il piattino, bilanciandoli sulla mano sinistra con cura persino eccessiva. Peter si rialzò a sedere nell'acqua e allungò una mano, ma lei fece bruscamente un passo indietro. Parte del caffè si rovesciò nel piattino. — Mio Dio — sussurrò. — Guardati il polso. È orribile. Il tuo povero polso... Lui si sentì sommergere dalla vergogna. Rituffò la mano ferita nell'acqua e la nascose sotto la coscia. — Non è niente — assicurò. — Ma come, niente! È tutto rovinato. Da' qui, fammi vedere. Dobbiamo metterci subito qualcosa, ha un aspetto orrendo. — È tutto a posto, davvero. Sheila gli piantò in viso i suoi gelidi occhi grigi. Per lui fu come uno spruzzo di acqua ghiacciata e, di colpo, scoprì che desiderava rifugiarsi il più lontano possibile da quello sguardo. Sua moglie era in possesso delle prove più schiaccianti, e conosceva tutta la sua colpa. Lei si allontanò con cura dalla vasca, l'aggirò e depositò tazza e piattino sulla vaschetta del water. Poi tornò indietro e si mise seduta sul bordo della vasca. — Non è tutto a posto, e non capisco proprio come puoi ancora sostenerlo. L'escoriazione è estesa, e sanguina. Fammi vedere. — Allungò una mano e cercò di afferrargli il polso, ma lui lo tirò indietro in fretta, nascondendolo dietro la schiena. — No — disse. Sheila si raddrizzò e scrollò l'acqua dalla mano paffuta e lucente. Incominciò a parlare lentamente, con dolcezza. — Peter, che cos'hai? Perché non mi dici se c'è qualcosa che ti tormenta? Che cosa è successo, davvero, in soffitta? Lui scrollò la testa. — Niente. Non è successo niente. Mi sono solo comportato come uno stupido, mettendomi a giocare con quelle catene.
— Non è vero. — Anche Sheila scrollò la testa, e i riflessi di luce danzarono sui suoi vaporosi capelli biondi. — Non ti avevo mai visto così. Anzi, non avevo mai visto nessuno in quello stato. — Si passò un braccio sugli occhi. — E spero di non vederlo mai più. Era crudele. Lui attese, ma alla fine fu costretto a parlare. — Non c'è proprio niente di strano. Mi sono solo incuriosito per quelle catene, proprio come le scimmie di cui parlavi tu. Dopotutto, non è che possono succedere grandi cose a qualcuno che se ne sta da solo in soffitta. — E in quel momento sentì che la tradiva, anzi, che tradiva entrambi. Eppure, non poteva essere solo una bugia innocua, intesa a proteggere sia lei che i suoi sentimenti? — Oh, non è vero! Non è affatto vero. — Il tono era al limite dell'esasperazione. — Sai bene che c'è dell'altro... È durato troppo a lungo. Ho capito che qualcosa non andava fin dal giorno che siamo arrivati qui. — Questa è bella! Si può sapere di che cosa parli? — Una domanda tesa a metterla in imbarazzo, a farle descrivere qualcosa per cui era impossibile trovare una descrizione adeguata e, di conseguenza, a strapparle un'accusa priva di concretezza. E, forse, un'accusa era proprio quello che lui desiderava di più. Lei scansò la trappola con la stessa destrezza con cui una vedova paffuta, alzando l'orlo della gonna, scanserebbe una pozzanghera sudicia. Osservò la fronte di Peter che incominciava a imperlarsi. — Non credo che questo posto giovi alla tua salute. Anzi, sono convinta del contrario. Ormai ho la certezza che non avremmo mai dovuto venire qui. Lui capì di trovarsi su un terreno molto meno insidioso, ma non aveva ancora riguadagnato la propria sicurezza. — È una dichiarazione un po' sciocca, non trovi? Dico davvero. Sembra uscita da un racconto dell'orrore, da un film di Bela Lugosi o roba del genere. Ti rendi conto che non ha senso? Sheila si alzò in piedi lentamente, anche se era molto irritata. Incominciò a camminare avanti e indietro, con passi precisi e militareschi come quelli di un uomo. Peter aveva perso il conto di tutte le volte che l'aveva mentalmente paragonata a un uomo. E forse, in certi aspetti fondamentali, Sheila era davvero molto più maschile di quanto non fosse lui stesso. — Non farlo — lo avvisò. Il tono era quello di un chiaro avvertimento. — Non trattarmi con condiscendenza. E lascia perdere la frase: "Dico davvero". La condiscendenza non ti si addice, non hai lo spessore per elargirla. E mi conosci troppo bene. Sai che non parlo solo per parlare.
— Non intendevo metterla su questo piano. È chiaro. Ma devi ammettere che, da come l'hai impostata, la faccenda sembra piuttosto sciocca e costruita. — Niente affatto. — Lei gli si trovava alle spalle, ferma, e la sua voce era tesa e uniforme. — Solo che tu hai deciso di non parlarne. Non con me, almeno. E non sai nemmeno se torneremo mai a parlarci o no. Sei trasparente come un bambino. Vai a farti fottere, Peter Leland. Non intendo dirti altro. Vai a farti fottere. Lui si girò, sbalordito. Girò anche il torso e lei gli lanciò contro la tazzina del caffè. Il viso era pallido per l'ira, bianco come il bianco degli occhi. Il lancio venne eseguito con la grazia un po' maldestra di un ragazzino di dieci anni, il caffè bollente si rovesciò sulla spalla e sul fianco di Peter e la tazzina andò a infrangersi contro uno dei rubinetti sulla vasca. Il caffè, una macchia scura nell'acqua, si sparse come un temporale che annerisce progressivamente il cielo. Lui rimase completamente senza fiato. Non riusciva a pensare, non riusciva nemmeno a concepire che sua moglie fosse stata capace di un atto di violenza. Ma lei non se ne pentì. Marciò fuori, con il solito passo rigidamente militare, senza degnarlo di uno sguardo. Scomparve in corridoio, con la schiena e le spalle rigide. Non sbatté la porta e non la chiuse. L'aria fredda che regnava nelle altre stanze si riversò su di lui. Ancora senza fiato, Peter non riuscì nemmeno a ridere della sua collera. Non si era mai sentito meno allegro. Si alzò lentamente, muovendosi con attenzione. Era difficile scorgere le schegge di porcellana nell'acqua diventata scura. Si sedette in bilico sul bordo della vasca, cercando con i piedi il pavimento. Scorse poco lontano il manico ricurvo e sottile della tazzina che si era rotta. Per quanto straordinario, il manico conservava intatta tutta la propria fisionomia. Lui si fece strada sul pavimento in punta di piedi, indossò la biancheria, i calzini e le scarpe. A quel punto era un po' più sicuro, ma non si sentiva affatto meglio. Raccolse i pochi cocci sul pavimento e li buttò nel water, poi svuotò la vasca e recuperò i pezzi di porcellana rimasti sul fondo. A quel punto capì di non saper più che cosa fare. L'immagine di se stesso imprigionato in quelle catene era stata davvero così sconvolgente? Cercò di esaminare la cosa a mente fredda, con la casa attorno che si faceva sentire come una presenza viva. In cucina prese una nuova tazzina e si versò il caffè. Sul tavolo c'era un pacchetto delle sigarette di Sheila, alla menta; ne sfilò una e l'accese. Non fumava più sigarette di quel tipo da quando
aveva vent'anni. La sensazione era sicuramente insolita, ma non sgradevole. Aspirò una boccata dopo l'altra e alla fine riuscì quasi a sentirsi soddisfatto, poi bevve lentamente il caffè e, quando l'ebbe finito, si alzò. Intuì, più che sentire, i movimenti di Sheila nella camera al primo piano. Si stava preparando per andare a letto. Lui compì il percorso inverso attraverso le stanze vuote, attento a spegnere tutte le luci. Salì le scale al buio, appoggiandosi al corrimano solido e fresco, e mentre saliva gli venne in mente come le cose della casa, i mobili e persino le scale, o i muri, gli sembrassero importanti, ricchi di un significato comprensibile ma ancora misterioso. Al contrario, tutto ciò che non era collegato alla casa, o a quella sua nuova capacità di comprenderla, misteriosa quanto si vuole, non lo sfiorava e non rivestiva alcuna importanza. Forse perché gli sembrava estraneo. E quale autentico collegamento aveva Sheila con la casa, o con il suo passato? O con lui? Era un'intrusa, chiaro. Un'intrusa sgradita. Lei era sdraiata sotto le coperte con il viso rivolto al muro, per non vederlo quando entrava. Il letto aveva una testiera solida, alta almeno un metro e ottanta, e scura come la maggior parte dei mobili della casa. La testa chiara di sua moglie sembrava ancora più piccola, sul fondo della testiera, quasi l'unghia di una mano gigante. Meglio evitare di rivolgerle la parola. Aveva lasciato accesa solo la lampada del grosso tavolo da toeletta, e fu alla luce di quella lampada che Peter si spogliò. Il suo corpo si riflesse nei tre specchi del tavolo. Era molto pallido, per effetto di quella piccola lampada che diffondeva intorno una fioca luce biancastra, ma in qualche modo sembrava anche insolitamente scuro. Era come se la sua pelle riflettesse in qualche modo le tinte cupe dei mobili, o se l'oscurità inquietante della soffitta avesse contagiato anche lui. Le ombre gli si addensavano in particolare attorno agli occhi, le pupille avevano acquistato una profondità liquida e cupa che non avevano mai avuto e riflettevano la luce della lampada soltanto attraverso minuscole scintille. Il corpo era magro, con le costole in vista come se la pelle fosse appena sufficiente per coprire tutte le ossa. Ma la cosa sembrava perfettamente naturale. Peter spense la lampada e, nel buio, si avvicinò cautamente al letto e vi salì. Le lenzuola erano in cotone grezzo, ma non per questo meno gradevoli. Lui stese le gambe magre e le rilassò. Gli parve quasi di sentire l'energia ricominciare a fluire lentamente nei muscoli. Prima non si era reso conto di essere esausto fino a quel punto. — Sheila — chiamò a bassa voce. Ma lei non rispose e il suo corpo non tradì alcun movimento, nemmeno di ri-
pulsa. Non serviva a nulla cercare di parlarle subito. Stancamente, Peter incominciò a chiedersi che cosa ci fosse tra loro da rappezzare. In tutta onestà non avrebbe saputo dire qual era il nocciolo del diverbio che li aveva separati. Di colpo si rifiutò di pensarci, cacciò i dubbi fuori dalla mente e finì per addormentarsi. Un sonno amaro, attraversato fin dall'inizio da incubi malevoli e giallastri. Lui era sempre se stesso, ma un se stesso monolitico e impersonale, gigantesco. Non c'era nessun altro eppure, a tratti, gli sembrava che nella parte conscia di sé balenassero le immagini di immense città bianche e deserte, scintillanti di geometrie bizzarre e vertiginose. Così vertiginose da dargli la nausea. E quando queste immagini rimanevano ferme venivano immediatamente inghiottite da una specie di oceano odoroso, color bianco latte. Quella stessa acqua marina fragrante e gessosa attaccò anche lui, e il suo corpo incominciò a dissolversi. A poco a poco diventò trasparente, uno spettro filiforme, una semplice nervatura allungata e tormentosamente viva. Percepiva fortunosamente una voce, in quella sostanza lattea, e la voce parlava con chiarezza e straordinaria risonanza. — Iä, Iä. Yogg Sothoth. Nephreu. Cthulhu. Tutto scomparve in un lampo, all'improvviso. Peter continuò a sognare ma il sogno successivo gli arrivò così nitido e diretto da dargli l'illusione di costruirne lui stesso il disegno, a poco a poco. Sheila era sdraiata lì di fianco, ferma, severa e immobile come una roccia. Lui aveva raccolto nelle membra una nuova straordinaria energia. Era troppo leggero e, spinto dalla fame grande e bruciante di lei, si muoveva con troppa agilità e sveltezza. La uccise. Era confuso perché per tutto il tempo, mentre la uccideva, aveva soltanto pensato di fare l'amore. E lei non aveva mai parlato, non aveva mai emesso neppure un suono... La notte aveva continuato ad avanzare e si era fatta molto più tarda, finché nel vano della finestra non era comparso un brandello di luna. Sembrava sottile e a buon mercato, come un oggetto di plastica. Lui parlava, continuava a sussurrare nenie monotone con una voce densa e profonda, gremita di parole che per primo non riusciva a distinguere né a sentire. La luce si riversava nella stanza come una membrana sporca e si aggrappava a ogni oggetto come un velo di cenere grigia e granulosa. Lui le parlava e lei non rispondeva, ma nel letto si allargava una grossa macchia di sangue scuro, quasi bluastro sotto i raggi di quella luna economica. Con i suoi umori tendenti all'azzurro gli inzuppava il braccio, la spalla e persino il petto. Si mischiava nel letto al suo sperma e lui aveva il corpo che tremava, etereo ed evanescente come il fumo di una caffettie-
ra. Voleva alzarsi, ma continuava a sprofondare all'indietro. Era come fare il bagno, o affogare. La testiera del letto lo sovrastava, come una porta nera. In lui, ogni fibra era fluida, ma smaniosa e impotente. In quella luce detestabile, il suo corpo viveva una penosa agonia. Aprì gli occhi. Freddo di sudore, alzò gli occhi verso la sagoma scura della testiera. Sheila giaceva accanto a lui immobile, ma respirava a fondo e senza difficoltà. Nel sonno si lasciò sfuggire anche un sospiro. Peter rimase steso per un po' a pensare, poi si girò di lato e tornò a dormire, a vivere sogni ancora più pesanti e amari. 6 I giorni seguenti accentuarono le stranezze che li dividevano. Sheila gli parlava appena e distoglieva persino lo sguardo quando lo vedeva passare. Non che lui cercasse la conversazione. Passava, immerso nei propri pensieri, rinchiuso in se stesso e preoccupato della casa. I libri e gli appunti per la monografia sul Puritanesimo giacevano inutilizzati, sparpagliati senza cura dopo la svogliata apertura delle casse. La casa lo aveva reclamato ancora una volta per sé e Peter era tornato a esaminare angoli e muri solo per scoprire, o per avere l'impressione di scoprire, che la loro struttura geometrica era densa di errori, che le finestre e le porte erano tutte leggermente fuori posto. Tornò alle lettere. Curiosò attentamente tra le tracce sbiadite che si nascondevano sotto spessi involucri di polvere. ...quel pezzo di terra al confinare con la proprietà dei Mackintosh vale in probabilità 500 doll, più o meno... si parla di vergognosi incidenti... con tutto il tempo che sprecano a parlare non si penserebbe che abbiano lingue così nobili... e persino se la sua Riligione è come voi dichiaraste, non ci è ragione di credere che non la infrangerebbe per venire... Sothoth, Nephreu, forse... tutte le voci... Questo giorno ho camminato le sette miglia fino ai tornanti di Madison e me ne son fatto buon uso e buon sangue, molto meglio di quanto mi avesse ordinato il dottore. Naturalmente ho preso cura di tenermi ben distante dal boschetto di Ransom, dove il corpo di xxxxxx è stato trovato morto e spaventosamente mutilato. Tempo delizioso persino per Maggio, con già qualcosa del calore d'estate. Osservati uccelli senza grande interesse, perlopiù corvi, cardinali, e una rondine di granaio la quale spero prenda casa tra di noi.
Cthulhu (?). Nyarlath. (?)... e avrò la mia SODDISFAZIONE, come ho avuto prima di dirne con te... non farà alcuna differenza, può anche strisciare e supplicare e leccarmi le scarpe... SODDISFAZIONE... ... quali riti meglio impiegati per portare questo alla luce, io non conosco devo consultare. Può essere che Stoddard (?) sia meglio informato, e certamente i Morgan tengono le chiavi di ogni comportamento di tal sorta, ma hanno le labbra cucite, in qualità di adepti più alti. In qualsivoglia caso la questione deve essere compiuta e sebbene trovi me stesso altamente inadatto posso solo dire che, almeno, sono disposto e che alcun altro si è fatto avanti. Dovete riconoscere che esso atto richiede una disciplina quasi intollerabile per chiunque abbia un minimo di debolezza, e che si prevede una notevole sofferenza fisica. Spero grandemente di essere pari al compito e di poter sopravvivere per vederlo portato a termine. Se così non sarà, si capisce che la perdita risulterà minima, specie se si intenda misurare che cosa si è perso con quel che si è guadagnato. ...questa notte e per sempre l'oscurità Cthu... Lui si ripulì le dita dalla polvere, simile a una sottile pellicola d'olio o di sudore, e starnutì. Lasciò cadere i fogli fragili sulla ribaltina aperta dello scrittoio e guardò la pila di lettere sciolte con distratto disgusto. Non ne capiva una riga, nemmeno una parola, eppure non poteva impedirsi di sperperare ore e giorni a studiarli. "Tutte sciocchezze" avrebbe detto Sheila, anzi l'aveva già detto. Peter si staccò dallo scrittoio a fatica e andò fuori. Era il primo pomeriggio di una giornata limpida. Sua moglie sedeva su una sedia della cucina vicino al margine incolto del cortile, con un romanzo in mano. Per un attimo lui fu tentato di avvicinarsi, per cercare di fare la pace e di abbattere la stupida barriera sorta tra di loro. Ma il suo orgoglio, rigido e cupo, lo trattenne impedendogli di muoversi. Si girò invece verso la collina dietro casa e finì per incamminarsi a ridosso della palizzata di legno, in direzione dei campi aperti. Tornò indietro di corsa quando la udì gridare, spaventata. — Peter! Peter! Il libro giaceva a terra, aperto, e lei era in piedi dietro la sedia, con le mani avvinghiate allo schienale e gli occhi fissi al suolo, davanti a sé. Lui guardò e vide un serpente. Non se ne stava raccolto in posizione di attacco,
ma piuttosto in attesa, apparentemente tranquillo, con la testa rotonda sollevata di poco e la lingua tremula. Era lungo circa un metro, con la pelle di un colore marrone opaco. Peter impugnò il manico di un rastrello rotto, recuperandolo in fretta tra i rifiuti radunati vicino alla palizzata e si incamminò senza fretta verso il bordo del cortile. Il serpente si voltò verso di lui, dolcemente e senza scatti. Era una semplice biscia di campo, assolutamente inoffensiva. — Non ti fa niente — assicurò lui, avvicinandosi. — È del tutto innocuo. — Si sentiva allegro come non gli capitava da molto tempo. — Uccidilo — disse lei. — Non me ne importa se è innocuo. Uccidilo. Peter allungò il bastone e la biscia indietreggiò di scatto, spaventata. Sheila strillò e balzò indietro. — Non ho intenzione di ucciderlo — dichiarò lui. — Non ce n'è ragione. Non può farti niente e per di più è un animale utile nei campi. Mangia i topi e gli insetti più nocivi. — Non era proprio sicurissimo di quest'ultima osservazione. — Vuoi chiudere il becco e uccidere quell'orrore? Non sopporto la sua vista, e nemmeno il pensiero che giri indisturbato qui intorno. — No. Non voglio ucciderlo. Prenderò un altro bastone e lo porterò... Lei sollevò la sedia e cercò di usarla per colpire la biscia, ma era troppo scomoda. La mise da parte, raggiunse Peter con passo deciso e gli strappò il bastone dalle mani. Lui fece automaticamente un passo indietro, sconcertato. Sheila era chiaramente maldestra e spaventata, colpì il serpente dietro la testa e per tutta la lunghezza del corpo, e continuò ripetutamente a colpire, senza neanche guardare dove. La biscia si contorse, sibilò, strisciò e cercò di fuggire, ma ormai era ferita. Lei lasciò cadere il bastone a terra e corse via, verso il centro del cortile. Aveva le guance rigate di lacrime e singhiozzava. — Peter, accidenti a te... Lui raccolse il bastone, ormai furente. Una collera sorda e bruciante lo assalì al pensiero che a quel punto non gli restava che uccidere l'animale. Bastarono due colpi secchi assestati sulla testa e il serpente si arrese, raccogliendosi sempre più su se stesso. Peter infilò un'estremità del bastone sotto a quel corpo che si contorceva e lo scagliò lontano tra l'erba alta. Mentre ritornava indietro e attraversava il cortile per raggiungere Sheila lo sentì sbattere contro un mucchio di foglie secche. — Io lo so perché non volevi farlo... Non volevi ucciderlo perché mi odi, lo so! E anch'io ti odio. Odio anche il solo vederti! — Cagna schifosa. — La sua collera si era come coagulata, diventando
un peso bollente dentro di lui. Tutti i sentimenti ne risultavano offuscati. Lanciò il bastone contro la palizzata e ricavò una lieve soddisfazione dal fragore che produsse, roteando e sbattendo contro le assi di legno. Poi girò lentamente le spalle alla moglie e si allontanò con deliberata lentezza, per ritornare in casa. Una volta all'interno respirò meglio. Vagabondò da una stanza all'altra, confuso e irritato, mentre una certezza lievitava dentro di lui. Ancora una volta andò a fermarsi nel salotto del sole, vicino allo scrittoio ingombro di carte, dove rimase a lungo rigido e immobile. Riconobbe il pensiero che si annidava dentro di lui e annuì con aria grave, come se volesse dichiararsi seriamente d'accordo con se stesso. Poi mise quel pensiero da parte e si girò automaticamente verso le carte sparpagliate. — ulhu Iä! Iä! Yogg... ...la luna ha attirato il male corno sbagliato il male ha attirato corno sbagliato sbagliato male corno attirato questa notte più che mai proprio questa notte più che mai notte questa più che mai oscurità Cthu. Aveva temuto che le vacche allarmate dall'Occasione e indebolite dal pascolo già secco e danneggiato di questo micidiale Settembre avrebbero perso il latte, ma non è successo e gliene danno tuttora 3 o4 quarti per diem. Alcune sgraveranno presto. Il cielo continua a essere molto rosso all'imbrunire, anche se a tratti viene inframmezzato da striature verdi o color porpora, cosicché pare che il tempo secco reggerà. Mister Peter è molto concentrato e assorto nelle sue ricerche chimiche, e i successi alterni dei suoi tentativi producono effetti tangibili anche sulla sua disposizione. A volte è tetro, molto spesso sfiduciato. Il tempo di codesti giorni mantiene comunque un effetto pernicioso su ognuno. E per un certo numero di notti Peter rimase a vegliare da solo fino alle prime ore del mattino. Rimaneva per ore seduto al tavolo della cucina a fumare una dopo l'altra le sigarette di sua moglie, senza gustarle, e a bere litri di orrendo caffè nero che lui stesso si preparava. Sheila andava a letto molto prima, e si metteva ostinatamente a dormire. Poi anche lui saliva in camera, ma non dormiva. Se ne stava sdraiato, con gli occhi spalancati nel buio, ben scostato dalla moglie e attento a non sfiorarla nemmeno. Era
pieno di disgusto... Quella notte rimase ancora una volta seduto da solo, a fumare in silenzio e a buttar giù lunghe sorsate di caffè amaro, fino alle quattro del giorno dopo. Ogni tanto annuiva con convinzione, assentendo con se stesso. Alla fine si alzò, fuori incominciava già ad albeggiare, spense la luce squallida che aveva sopra la testa e uscì dalla cucina. L'avrebbe uccisa. Attraversò il piccolo soggiorno di fianco alle scale e, passando davanti al camino, impugnò il lungo attizzatoio appoggiato sotto la cappa. Era freddo e pesante, di una pesantezza che lo appagò. Lo tenne in avanti, scostato dal proprio corpo. Gli sembrava quasi che quell'oggetto avesse il potere di guidare il suo cammino come il lampo di un temporale. Si lasciò alle spalle il soggiorno e percorse il lungo corridoio buio, poi incominciò a salire lentamente le scale, contando i gradini a uno a uno. Sostò per un attimo davanti alla porta della camera da letto. Alla fine sollevò il chiavistello ed entrò. L'aria era fresca, ma odorava di pelle tiepida. Lui mise a fuoco il profilo indistinto dei mobili e individuò all'istante la sagoma imbacuccata di Sheila sotto le coperte. Aveva il respiro profondo e ogni tanto sospirava nel sonno. Lui si avvicinò ancora al letto. Sua moglie si trovava dalla parte opposta, scrupolosamente raccolta nella propria metà, con la schiena girata verso di lui. Dormiva, ma il suo corpo era teso. I capelli biondi scintillarono mentre lui li osservava, impegnato nel tentativo di stabilire dove si trovasse con esattezza la base del cranio. L'ideale sarebbe stato colpire il nervo della nuca, per finirla subito. Colpì. Lei si sollevò di scatto, con gli occhi sbarrati e impossibilitati a vedere, e con lo sguardo fisso, silenzioso e terribile. Poi ricadde indietro, in silenzio, e l'immagine si intorbidì. Peter colpì e poi colpì ancora. L'aveva uccisa. L'attizzatoio cadde a terra e lui rimase in piedi accanto al letto, guardando senza capire la pozza confusa, il lenzuolo, una coscia fredda e le macchie che imbrattavano ogni cosa. Anche la temperatura si era abbassata e lui si strinse le braccia attorno al torace, nel tentativo di frenare il tremito che lo scuoteva. Non vedeva che cosa ci fosse nel letto, l'arco delle spalle e i capelli non più lucenti, e il mucchio di lenzuola sporche di sangue... eppure non riusciva a smettere di guardare. Si girò, inciampando, cercò di trovare i vestiti nel buio e li indossò, in qualche modo. Non intendeva accendere la luce. Negli specchi, anche con la luce alle spalle, sarebbe sembrato un fantasma con il corpo trasparente, forato come una specie di insolito colabrodo. Le narici avvertivano un odore sgradevo-
le, denso e gessoso. Lui continuò a deglutire, ma la bocca e la gola rimasero rivestite da una specie di pellicola viscida e rancida. Aveva un gran freddo. Gli sembrava che il suo corpo, di colpo, fosse in grado di percepire solo le sensazioni più terribili ed estreme. Uscì dalla stanza, attraversò il corridoio e scese le scale, percorrendo tutta la casa come se camminasse nel sonno. I piedi intorpiditi contrastavano con i passi sicuri, ma ormai era padrone di se stesso. La luce coagulata e fioca aleggiava ormai dappertutto, e una nuova alba sudicia si affacciava sbadigliando all'orizzonte. Lui tossì e sputò contro uno dei muri color caglio, ma la bocca era ancora impastata e appiccicosa. Raggiunse la porta laterale e mise persino una mano sul pomolo gelato, ma non lo girò. Girò le spalle, invece, e tornò indietro a grandi passi, attraversando le stanze al piano terra, una dopo l'altra, evitanto soltanto lo stretto corridoio in penombra che conduceva alle scale. La sua immagine apparve e scomparve negli specchi, nelle porte a vetri, nelle ante trasparenti dei mobili e lui continuò a massaggiarsi con il palmo delle mani, come se il suo corpo fosse un unico campionario di formicolii. Non osservò, ma percepì comunque ogni mobile, e ne venne in cambio percepito in silenzio, come se ognuno di loro possedesse intelligenza e una specie di cupa saggezza. Nel salotto del sole si scoprì fermo, dopo aver ruotato su se stesso chissà quante volte, con il viso rivolto ai due cuscini gemelli, bianchi e ovali. HO DORMITO E SOGNATO CHE LA VITA... Emise un riso privo di sonorità, e il suono gli uscì dalle labbra piatto, duro e inespressivo. Attraverso la porta a vetri sulla sinistra riusciva appena a individuare la sagoma tozza e pesante del pianoforte scordato. Ruotò ancora su se stesso. Poi percorse tutta la casa fino alla porta laterale e uscì all'esterno. Non ci fu nulla che prese il volo, nessun senso di liberazione o di sollievo. La luce non sembrava più forte qui che altrove e continuava a pendere su di lui come uno straccio umido. Il sole non era ancora comparso e sopra le colline orientali si vedeva solo una macchia grigiastra e più luminosa. I due noci maestosi nella parte bassa del cortile sembravano più nitidi e massicci che mai e i rami folti facevano ricadere sugli alberi più bassi una penombra, più che un'ombra vera e propria, dalla vaga forma di automobile. Lui distolse lo sguardo. Costeggiò la parte in ombra della casa fino alla strada polverosa, e la percorse per circa venti metri. Lì la prospettiva si allargava, le montagne in tinta unita si rincorrevano sotto il cielo di settentrione e i campi dai contorni frastagliati si stendevano sotto di lui, attraversati dallo stretto torrente color fumo. Tutto sembrava costruito in miniatu-
ra, raccolto, incanalato. Nella luce grigia stava sospesa una scintilla solitaria di luce gialla-arancione, immobile. Sembrava rotonda e partiva direttamente dalla finestra della cucina della baracca in affitto. Senza esitazioni, Peter incominciò a camminare sulla strada che scendeva a tornanti dalla collina, attratto da quell'unica minuscola macchia color fiamma presente nel paesaggio. Non gli era venuto in mente che Morgan potesse essere sveglio. Non sapeva che ore fossero. L'alba imbiancò il cielo, ma la natura rimase color ferro e una strana luce maligna pervase anche la rugiada. Lui dovette fermarsi due volte, cercò l'aiuto delle erbacce umide sul ciglio della strada e si chinò in avanti cercando rabbiosamente di liberare le scarpe da pugni di argilla arancione. Lottò per mantenersi in equilibrio sulle gambe. Poi ritornò faticosamente sulla strada e proseguì, un piede davanti all'altro, pesanti come mattoni. Alla fine arrivò, sostò brevemente sul bordo della strada che sovrastava la casa e scese nel cortile con passo slegato e malfermo, orribile a vedersi. In quel momento la casa gli sembrò piccola, tozza, malandata. Sul tetto di lamiera la rugiada aveva incominciato a condensarsi e a scendere in rivoli sottili. Lui entrò nel portico vacillante e privo di grondaie e uno scroscio d'acqua lo colpì sul retro del collo, inzuppandogli la camicia. Aprì la porta, senza bussare, e rimase lì immobile come dentro una fotografia. Morgan non c'era. L'aria gli sembrò quantomai rancida e irrespirabile, con la stufa a legna già accesa per cucinare e le mosche in piena attività, pronte ad assalirlo. Il tavolo della cucina, sempre malsicuro e ricoperto da una tela cerata dai colori indefiniti, sorreggeva una lampada a cherosene dalla fiamma gialla, così minuscola che d'un tratto a lui sembrò impossibile averla scorta dall'alto della collina. Mentre ci pensava, Mina si protese in avanti e girò la vite fino a far scomparire del tutto lo stoppino. La fiamma si spense e un filo di fumo nero si alzò a fatica dal fornelletto. Erano soli, nella luce granulosa e lugubre dell'alba. In tutto quel grigiore era grigia anche lei, con il volto impenetrabile e senza naso che lui aveva ricordato cento, mille volte. Ora, quello stesso volto sembrava quasi luminoso e pareva galleggiare in avanti, verso di lui. Ancora una volta il suo corpo, piatto e squadrato, senza dimensione, era pervaso da un senso di tranquilla attesa, di inamovibile soddisfazione. E, ancora una volta, il suo sguardo indugiò su di lui rimanendo semplicemente immobile, e Peter se ne sentì soggiogato. Occhi grandi, larghi come uova. I capelli unti e appiccicati, neri come l'onice, le incorniciavano il viso
minuto e ne accentuavano la luminosità. Lì, in quella cucina fumante, lui sentì finalmente caldo. La voce era morbida e densa come un batuffolo di cotone. — Non ho mai visto nessuno che avesse un aspetto così rivoltante — disse. — Mai nessuno conciato peggio di te. Lui non rispose, e aveva ricominciato a tremare. L'odore di unto e di pesce gli riempiva la testa. — Sarà meglio che vieni qui e ti sistemi — insisté lei. — Devi proprio avere un attacco di qualcosa di brutto. Di certo, il tuo aspetto è pessimo. Peter si sedette sulla sedia che le stava di fronte, un arnese scricchiolante, con il fondo di canne semidistrutto. Spinse le mani in avanti sulla cerata, senza cercare niente. — Rimani lì intanto che ti vado a prendere del caffè. Mi sembra che possa farti bene. Credo proprio di non aver mai visto un uomo così a terra. Involontariamente lui si ritrasse. Era seduto vicino alla stufa e Mina avrebbe dovuto avvicinarsi per prendere il caffè. Non voleva che succedesse. Lei si alzò e mosse qualche passo verso la stufa, ma si fermò. Un lento sorriso si diffuse sulla sua faccia inespressiva. — Mi sembra proprio che ti farebbe bene qualcos'altro, più ancora del caffè. Vado a prenderti un certo otre, lo tengo qui dietro. Ci scommetto qualunque cosa che quello ti farà senz'altro meglio. — Si girò e infilò la porta che aveva alle spalle. Lui la sentì spostare una cassa e rovistare probabilmente in mezzo a dei vestiti. Ritornò tenendo per il collo tozzo un otre da quattro litri e dondolandolo senza fatica contro il fianco, sfiorando la gonna di cotone nero. Le caviglie erano olivastre, piene e muscolose. Mise l'otre sul tavolo, senza farlo sbattere, e gli passò accanto per raggiungere la stufa. Lui, con le natiche incastrate nel sedile rotto della sedia, cercò freneticamente di scostarsi. La guardò portare in tavola un grosso boccale da caffè scheggiato e riempirlo per metà con il liquido che usciva dall'otre. Lei rise senza allegria. — Immagino che i Leland non bevano mai direttamente dall'otre — osservò. Gli mise gentilmente il boccale davanti e girò il manico in modo che potesse impugnarlo senza fatica. — Ecco fatto. Vai. Aveva un odore e un gusto oleoso, di granoturco andato a male. Lui lo inghiottì con avidità e sentì subito la fronte imperlarsi di sudore. Sapeva con assoluta certezza che sarebbe stato male. Male da morire. Bevve di nuovo. Non aveva mai provato tanta gratitudine per qualcosa da bere. La giornata si prospettava calda. Ormai l'alba era arrivata e la cucina
traboccava di una luce calda e umida, spirituale e gialla. Lei era in piedi nella stanza, vicino alla porta aperta della camera da letto. Lui si accorse di vederla finalmente con minuziosa chiarezza, totalmente, in ogni centimetro. Si asciugò la fronte con il polso imbrattato di sangue. Si sentiva maledettamente appiccicaticcio. Parte II 1 In qualunque punto ci si trovasse il pavimento scricchiolava e dava l'impressione di dover cedere da un momento all'altro, eppure la baracca, per quanto umida e traballante, era sempre piena di movimento. Il vecchio andava e veniva senza sosta e Dio solo sapeva quali fossero le sue occupazioni. La madre era quasi totalmente priva di una propria libertà di azione, spostava raramente la sua massiccia mole e anche ferma, in piedi, occupava uno spazio spropositato. A volte Peter aveva l'impressione che il peso della sua ingombrante presenza gravasse sull'aria della casa e sui movimenti fisici e mentali di tutti coloro che vivevano lì. Gli sembrava addirittura che quel peso avesse effetto persino sulla pressione del suo stesso sangue. Anche Mina andava e veniva in continuazione. Gli faceva visita e poi scompariva. — Devo prendermi cura di te — gli diceva. — Qualcuno deve pur farlo. Lui giaceva nel letto ruvido e cencioso, all'interno della stanza che fungeva in massima parte da magazzino. Oppure vagabondava da una stanza all'altra, tenendosi ben lontano dalle porte e dalle finestre aperte, dopodiché tornava sul letto di Mina e si sedeva diritto, tenendo le mani sulle ginocchia e tenendo lo sguardo fisso sulle macchie immutabili della parete opposta. Continuava a bere, non aveva mai smesso per tutte e tre le settimane che era rimasto lì. O forse erano di più, ormai? Mina lo riforniva di whisky di contrabbando, con espressione quasi sempre impassibile e soltanto a tratti stancamente sarcastica. Lui detestava il sapore aspro e oleoso di quella roba, lo trangugiava in fretta e poi respirava a bocca aperta. Di notte lei lo schiacciava sulla trapunta macchiata e lacera e lo invogliava a fare l'amore, silenziosa come l'acqua di uno stagno. Era Peter che a volte si lasciava sfuggire un grido, quando lei gli piantava le unghie nella schiena o i denti gelidi sulle spalle, sul collo e sul viso. Lottava con tutte le sue forze per non emettere alcun suono e se dalla gola tesa e contratta gli sfug-
giva un gemito, più tardi riusciva sempre a persuadersi di averlo solo immaginato. Mina era implacabile come un gelido vento invernale. Non aveva sentimenti, né passioni, e sembrava adempiere a quell'impegno con una sorta di distaccata curiosità. Lui si trovava costantemente in uno stato di lucido delirio da acido. Gli oggetti gli balzavano davanti e gli sembravano cento volte più luminosi, per quanto li vedeva bene. Il tavolo traballante, la caffettiera di porcellana azzurra opaca e scheggiata, la testiera del letto con le sbarre di ferro, tutto aveva un profilo netto e bruciante. A volte rimaneva sdraiato sulla trapunta imbottita e pensava al vecchio Morgan, e alla sua faccia rossa e rotonda. Continuava a essere convinto che se gli avessero conficcato di sorpresa uno spillo dietro l'orecchio la sua faccia sarebbe scoppiata come, un palloncino di plastica, lacerandosi in mille brandelli. Intanto, beveva e si interrogava sulla possibilità di afferrare la bocca di una persona per un angolo e di strappar via con un colpo secco tutte le sue smorfie o i sogghigni insensati. Finalmente si sarebbe vista alla luce del giorno l'espressione reale di una faccia. Ma quale sarebbe stata? Un'espressione di disgusto, forse? Una gioia tremenda e spietata? Una mancanza totale di espressione? Purtroppo non si poteva provare. Le smorfie e i sogghigni erano troppo scivolosi perché si potesse strapparli via. Altre volte si ritrovava inspiegabilmente in ginocchio, aggrappato alle sbarre in fondo al letto con tutta la forza che aveva. — Padre Nostro che sei... — incominciava a dire. — Padre Nostro, Padre Nostro, Padre Nostro, Padre Nostro. — Non riusciva ad andare oltre. Picchiava la testa contro le sbarre finché sulla fronte non gli compariva una serie di strisce profonde, rosse e livide. Poi sudava e si rotolava sul pavimento come un maiale. Si tastava le guance con affetto. La sua faccia doveva essere ridotta proprio male con tutti i colpi che lui stesso si procurava e con i morsi che le infliggeva Mina. Non aveva bisogno di radersi, anzi, non ricordava più l'ultima volta che si era fatto la barba. Ci pensava Mina, forse? Un'ondata di nausea lo assalì al pensiero che lei stesse in piedi con un rasoio vicino al suo viso. Oppure parlava, in modo febbricitante ma chiaro. Per essere precisi, era fortemente convinto di cavarsela ancora in modo assai brillante. Parlava del contrasto tragico e inevitabile tra gli obiettivi culturali di una civiltà, o di tutte le società in genere, e gli obiettivi della religione che di quella cultura faceva parte. Spiegava come fosse giunto alla fine a riconoscere la necessità di un temperamento morboso per la piena comprensione di qualsiasi codice religioso. Picchiava il palmo aperto sul tavolo. — È solo attraver-
so la sofferenza che si arriva alla comprensione — dichiarava. — Solo attraverso la più pura e intensa esperienza di dolore. — Scuoteva gravemente la testa. — È così che io sono arrivato a sapere le cose che so. — In quei momenti gli sembrava di avere sessantacinque o settant'anni, si sentiva stranamente protettivo nei confronti degli altri e pervaso da un sentimento di paterna benevolenza. Gli altri lo avrebbero guardato con gli occhi pesanti e l'espressione ottusa mentre lui esponeva elaborate giustificazioni teologiche per il suicidio, per l'indigenza più estrema e per qualsiasi eccesso fisico o emotivo. A volte rimaneva semplicemente seduto nella poltrona imbottita del soggiorno, piena di buchi e di macchie, a fissare il camino minuscolo in cui giacevano ancora le ceneri polverizzate dell'ultimo fuoco invernale. Anche allora borbottava in continuazione tra sé, ma senza nemmeno sapere che cosa stava dicendo. Forse si trattava di una lunga disquisizione sulla natura della colpa e sulla sua possibilità di essere totalmente individuale. E all'improvviso si interrompeva per gridare e chiedere aiuto perché gli sembrava di tornare piccolissimo e di essere finito nel camino in mezzo alla cenere grigia e rosata. Mina arrivava di corsa e gli schiacciava le spalle contro lo schienale della poltrona con le sue dita scure e gelide. — Stai fermo — diceva. — Va tutto bene. Devi solo rimanere fermo. — Teneva la faccia immobile sopra la sua per un tempo così lungo che lui non poteva fare a meno di alzare gli occhi per guardarla. A quel punto non riusciva più a distogliere lo sguardo, ed era ridotto al silenzio. All'interno di quel monologo senza fine si infilavano strane parole senza senso. Parole che lui non conosceva e che appartenevano forse a un linguaggio ignoto, creato per esprimere la più cupa disperazione. — Yogg Sothoth... Cthulhu... Nephreu... — Allora avvertiva il solito sapore orrendo in bocca e ricominciava a bere. Luglio era appena iniziato e le giornate si susseguivano cocenti. Nei campi i raccolti sembravano aver ceduto il passo a erbacce di ogni tipo, grasse e magre, che languivano insieme sotto il sole. Gli insetti ronzavano in continuazione e durante il giorno l'aria era calda e pesante. La dilatazione dovuta al calore ogni tanto provocava degli scoppi nel tetto di lamiera e il rumore, secco e improvviso, ricordava molto da vicino quello dei petardi. Per molti giorni non piovve e la strada si coprì di una polvere giallastro-rosata che si alzava in nuvole alte al passaggio delle macchine e poi si posava lentamente, rivestendo le erbacce e le foglie dei cespugli. Di notte l'aria era più fresca e tranquilla, i grilli cantavano ma l'oscurità li faceva sembrare lontani. Solo a quell'ora si riusciva a sentire il rumore del torren-
te che scorreva più in basso, e anche il raro sciacquio di qualcosa di piccolo e scuro che si tuffava nell'acqua. Peter pensava subito, con simpatia, ai topi muschiati di Morgan. I visitatori si susseguivano senza interruzione e Peter si teneva il più possibile lontano dalla loro vista, in luoghi dove poteva stare raccolto. Si trattava per la maggior parte di contadini, uomini corpulenti e taciturni con la faccia rugosa e segnata dal sole. Ancora adesso lui non riusciva a credere di aver impiegato tanto tempo per scoprire in che modo Morgan si guadagnasse realmente da vivere. Faceva il contrabbandiere. Da qualche parte nella fattoria un alambicco fumava lentamente digerendo e distillando il mais. Era persino divertente pensare che il padre di Mina doveva per forza acquistare il granturco da qualcuno dei suoi clienti. Di sicuro, non lo coltivava da solo. Era un commercio fiorente? Ed era possibile che Morgan, a dispetto della povertà che ostentava, fosse in realtà un uomo ricco? Un altro pensiero divertente. In ogni caso, finalmente si spiegava la scorta infinita di bottiglie di cui Mina sembrava essere la dispensatrice. Ma c'erano sere particolari, che Peter odiava, in cui sei o sette dei clienti di Morgan si riunivano nella cucina fumante. Allora lui non parlava, ma si limitava a rimanere immobile sulla trapunta imbottita, come un animale intento a mimetizzarsi. Era costretto a indovinare il numero dei presenti dalle voci, dai borbottii gutturali che udiva e dall'occasionale colpo sul pavimento di qualche scarpone pesante e solenne. Spesso avvertiva qualche risatina affannosa e furtiva e in altre occasioni un'unica voce che gridava. Non parole ma un suono che esprimeva... sorpresa e spavento, forse, o dolore fulmineo, o un'estasi dolorosa e tormentata. Nessuna delle possibilità, o magari tutte e tre insieme. Qual era la risposta? Peter si sforzava di immaginare che cosa ci potesse fare Mina in mezzo a loro. Naturalmente era un'idea di Morgan che la figlia incoraggiasse gli uomini a bere, ma lui non avrebbe scoperto di che cosa si trattava, semplicemente perché non voleva andare a vedere. Mina si faceva viva di tanto in tanto, per dargli un'occhiata e portargli da bere se necessario. Gli buttava magari addosso una coperta e gliela rimboccava fin sotto al mento, con una certa insolenza. I primi bottoni della camicetta erano sempre slacciati e quando si chinava sul letto lui le osservava i seni piccoli, sodi e inespressivi. In quei momenti la pelle era un po' più calda del solito grazie alla lunga permanenza in cucina, ma restava comunque fredda. Un giorno ci fu un lungo e impressionante temporale estivo. Per la prima volta dopo molto tempo, lui scoprì che la luce non gli sembrava più insop-
portabile, tanto che si avventurò nel minuscolo portico sul retro, che costeggiava la casa in tutta la sua lunghezza. Il ciliegio selvatico sotto casa, con la chioma scarmigliata per colpa del vento freddo che spirava da nord, protendeva freneticamente i rami verso chissà cosa, mentre le mosche uscivano a frotte dallo spazio aperto per venirsi a raccogliere sulle braccia e sul viso di Peter, senza che lui si preoccupasse di scacciarle. Se ne stava seduto su una goffa sedia a dondolo dal sedile piatto, muovendo solo l'indice della mano destra per tamburellare il ginocchio con lentezza e regolarità, seguendo il ritmo che via via, secondo lui, il temporale andava assumendo. Accelerò gradualmente i battiti. Grigio scuro su grigio, il cielo stava radunando le proprie forze, lento e ampio come un sonno senza sogni. Passarono apparentemente chilometri e chilometri cubici d'aria prima che le grosse gocce d'acqua del temporale incominciassero finalmente a cadere. Poi tutto si scaricò di colpo, inzuppando con gran fragore il tetto di lamiera della casa. Il primo lampo fu accecante, sembrò quasi che la più vicina delle colline occidentali si fosse squarciata fino alla base, e il lampo risalì nel cielo con la stessa rapidità di uno scoiattolo che si arrampica su una scala contorta. Non ci fu alcun brontolio di avvertimento e la scarica si tramutò all'istante in un tuono spaventoso. Lui cadde carponi sulle assi logori del portico palpitando e tremando come un cane ferito. Per un secondo immaginò che l'aria sì fosse caricata di particelle elettriche. Se respirava, i polmoni si sarebbero fulminati. Un attimo dopo era già in piedi e correva verso il soggiorno buio, dove rimase in piedi vicino al camino, aggrappandosi alla pietra di torrente intonacata con entrambe le mani. Continuò a girarsi di qua e di là. Alla fine mise entrambe le mani in tasca e raggiunse con perfetta noncuranza un angolo della stanza, dove rimase con le spalle schiacciate contro le pareti e la faccia incuneata proprio nell'angolo. Continuò a tremare, ma almeno smise di credere che respirare sarebbe stato pericoloso. Quando Mina gli passò le dita umide sulla nuca lui, all'inizio, non si mosse. Poi si girò di scatto, con gli occhi vuoti e la faccia pallida. Lei lo prese per le spalle e lo pilotò verso la poltrona imbottita davanti al camino, sistemandolo in modo che non avesse più la possibilità di osservare la tempesta che si scatenava fuori. Un velo compatto color inchiostro incominciò a scendere lungo le pareti della cappa. Le infiltrazioni si allargarono e continuarono a scendere, accompagnate di tanto in tanto da qualche scroscio di pioggia autentico, che cadeva sulle ceneri polverizzate con un rumore bizzarro. Come se qualcuno si lasciasse sfuggire di colpo uno sbuffo. Peter non diede segno di notare nulla.
Più tardi si era già notevolmente calmato, ma sembrava comunque più loquace del solito, eccitato e quasi gaio. Il temporale si allontanava ma gli alberi e il tetto continuavano ancora a scaricare acqua. Intanto, il paesaggio si accendeva degli ultimi riflessi del sole. — Ascolta — le disse. — Ascolta. È vero quando dicono che Dio parla agli uomini dalle nuvole di tempesta. Ero seduto qui, e le mie orecchie non erano mai state più chiuse. È arrivato da me quando ero seduto qui come morto. Morto e sepolto. Mi è sembrato di voler lottare per tornare vivo di nuovo, per essere ancora vivo in qualche modo, anche se non sapevo come. Ancne se avessi saputo come, non avrei avuto il coraggio, non avrei avuto la forza di trovare il coraggio. Dio mi ha parlato attraverso i cieli, ed ero morto, ma sono resuscitato. Prima ho dovuto essere ucciso, capisci? Ucciso davvero. E sai qual era il problema? Non che non avessi il coraggio di affrontare di nuovo la vita, ma piuttosto che non avevo la forza di essere veramente morto. Ho dovuto accettarlo, prima che potesse succedermi qualcosa di veramente buono. Poi ha tuonato e allora sono stato certo di essere veramente morto, e sono rimasto morto per un lungo, lunghissimo tempo. Nel frattempo sono passate intere epoche, e io me ne sono appena accorto. Ero in una specie di vuoto, capisci? In un luogo dove tutto è oscurità e spazio libero. Poi, finalmente, ho avvertito il respiro di Dio. L'ho avvertito con grande chiarezza. — Si passò la punta delle dita sul retro del collo, con delicatezza e riverenza. — Ecco, proprio qui. Ho sentito letteralmente il respiro di Dio sfiorarmi la nuca. Mina lo tenne prigioniero con il suo sguardo vagamente ipnotico. — Sono stata io — dichiarò. — Stavo solo cercando di risvegliare la tua attenzione. Lui non parve aver sentito. Sorrise, in preda a un doloroso sconcerto. — Purtroppo, non riesco a ricordare le parole — si lamentò. — Non in modo esatto, in ogni caso. Non ricordo tutte le parole... Non è strano che le abbia dimenticate? Ricordo una quantità di altre cose, ma nessuna che abbia importanza adesso. È molto strano, non credi? — In ogni caso, adesso stai bene — osservò lei. — Scommetto che farei meglio a portarti qualcosa da bere. Lui scrollò la testa, con aria spazientita. — Voglio pensare — replicò. Sentiva che era sul punto di ricordare, se non proprio le parole a cui anelava così disperatamente, almeno qualcosa di pari importanza. Qualcosa che poteva costituire una rivelazione. Mina uscì, sorridendo con negligenza. Lui rimase seduto dov'era e len-
tamente, senza poter intervenire in alcun modo, osservò quello spettacolare evento balenargli nella mente e scomparire. Per un momento denso di panico non riuscì a ricordare nemmeno l'ombra di quel che gli era successo, ma qualcosa alla fine ricominciò a fluire e lui si sentì nuovamente felice. Adesso sapeva con certezza che gli era successo davvero qualcosa di straordinario, qualcosa di fausto e invidiabile. Era abbastanza. Bisogna accontentarsi di quel che si ha, pensò. Inutile aspettarsi troppo, dato che nessuno ti offre mai nulla su un piatto d'argento. Si alzò e andò a cercare Mina in cucina. — Credo che fosse una buona idea quella di offrirmi da bere. Lei stava in piedi a gambe larghe, con le mani appoggiate sui fianchi. — Dici? — Sì. — Peter si morse il labbro superiore. — Non ne sono più tanto sicura — ribatté lei. — Non vedo perché dovrei continuare a rimpinzarti di alcol ogni volta che lo chiedi. Che cosa ci guadagno, in fondo? Lui la guardò con aria incerta. — Be'... — Dubito che saresti mai capace di prenderti cura di me, buttandoti anima e corpo nell'impresa. Dunque, non ci ricavo nulla. — Lo fissò dritto negli occhi. — Ecco... — La fronte di Peter incominciò a imperlarsi di goccioline minutissime di sudore. Lei gli mise la punta delle dita contro il petto e lo spinse leggermente indietro. — Vai a sederti, è meglio — osservò. — Ti porterò qualcosa quando ho tempo, se mi ricordo. Lui tornò in soggiorno e si mise seduto ad aspettare, vagamente sconcertato. Che cos'era a farla agire così, in ogni caso? Che cosa le aveva fatto? Si massaggiò senza fretta il fianco sinistro con un lento movimento circolare, cercando di riflettere. Negli ultimi tempi aveva accusato un dolore ricorrente, qualche volta acuto e molto più spesso sordo e persistente. In quel momento sembrava essersi localizzato lì. La stanza era troppo luminosa, e anche fuori la luce pareva eccessiva, come succede sempre dopo che un temporale ha spazzato l'aria. Mina arrivò dopo un po', portando un orcio da un quarto pieno del solito liquore giallino. Niente bicchiere o boccale, stavolta. Peter avrebbe dovuto bere a canna. — Ecco quello che volevi — gli disse. — C'è nient'altro che posso fare per accontentarti? — Lui alzò gli occhi per guardarla, con un'espressione di supplica inconsapevole. Ma lei non era portata alla pietà.
Peter si pulì la bocca e bevve. Il liquido era troppo caldo, come se fosse finito addirittura sul fuoco, e lui sentì lo stomaco insorgere nel tentativo di espellere quella roba, ma riuscì a tenerla giù. Strinse convulsamente l'orcio con ambedue le mani e alcune gocce gli sbrodolarono la camicia già lercia, scendendo sul tessuto rigido e imbrattato. L'orlo del recipiente gli tintinnò contro i denti. Si sentì subito meglio, ma dimenticò in un attimo l'intera giornata e quel che era successo. Tutto venne inghiottito dal silenzio. Rimase seduto a bere a lungo e con la mente vuota, senza il minimo senso di perdita. Era stanchissimo. Il che non gli impedì, poco dopo, di incominciare di nuovo a tormentarsi rincorrendo la sensazione di aver dimenticato qualcosa di importante e fondamentale. L'inquietudine lo riassalì. Depose l'orcio sul pavimento e si passò il palmo delle mani bollenti sul viso, più e più volte. Poi avvertì un formicolio al petto e alle gambe e incominciò a grattarsi con energia. Infine, muovendo freneticamente i piedi, urtò l'orcio che si rovesciò. Rimase per un attimo a guardarlo con espressione ebete, poi si precipitò a raddrizzarlo. Il liquido oleoso si sparse lentamente sul pavimento consunto, e il suo odore si alzò tutt'intorno alla poltrona, circondandola per intero come una tenda pesante e invisibile. Nell'orcio ne erano rimaste solo tre dita e lui le inghiottì in fretta, come se avesse paura di perdere anche quelle. Poi tenne le mani languidamente appoggiate al recipiente e lasciò che un'ondata di lacrime vuote gli riempisse gli occhi e rotolasse giù per le guance. Rimase immobile, senza singhiozzare, vinto da un pianto disperato e copioso, che non dava segno di fermarsi. Si sentiva stupido, ma così stupido! Mina non gli avrebbe più portato altro liquore, dopo che l'aveva sprecato. Era implacabile. Forse, lui poteva fare in modo che non se ne accorgesse. Non aveva ancora finito di pensarlo che si era già tolto la camicia. La usò per asciugare la pozzanghera sul pavimento, dopo essersi messo in ginocchio. La camicia divenne subito nera e puzzolente e lui si girò per andarla a strizzare nel lavandino. — Che cos'è successo ancora? Si può sapere che cosa credi di fare? Peter balzò in piedi e lasciò cadere il cencio umido sul sedile della poltrona. Scrollò la testa senza parlare. — Togli quel maledetto cencio da lì — gli intimò lei. — Che casino hai combinato stavolta? — Era fredda come il ghiaccio, con la voce priva di espressione. — Niente — rispose lui. — Non sarai stato male di nuovo, vero? È quello il lerciume che cercavi di pulire?
— No — ribadì lui. — Non è niente. Lei venne più vicino. — Oh. Sei riuscito a rovesciare la bella scorta che ti avevo portato. Che cosa pensavi di farci? Darne un po' anche al pavimento? Non val la pena rifornirti di liquore, se poi lo sprechi così. — È successo per sbaglio. — Non vali niente per me, lo sai? Da te non riesco a cavar fuori niente di utile. — Mi dispiace. Non volevo rovesciarlo. — Be', non è certo la cosa più idiota che tu abbia combinato. Non hai concluso altro che disastri, da quando sei qui. Ce n'è abbastanza per farci impazzire tutti. E guarda come pensavi di rimediare! Che cosa metterai, adesso, al posto della camicia? Non ci hai pensato? Lui la teneva ancora in mano, bagnata e maleodorante. La guardò con aria lugubre. — Non lo so. — Non credo che tu possa contare su qualcosa per sapere — commentò lei. — Ti manca del tutto il cervello, questo è il guaio. Peter assunse un'espressione ancora più triste Era chiaro che lei non gli avrebbe più fornito niente da bere. — Adesso ti dirò che cosa devi farci, con quella camicia. Vai di là in cucina e mettila nella stufa. Non voglio più vedermi intorno un luridume simile. Fai come ti ho detto. — Lo guardò avventurarsi verso la porta della cucina e aggiunse: — Immagino che dovremo metterti a regime d'acqua. Peter andò dove lei gli aveva detto ma non riuscì a trovare il gancio da infilare nello sportello della stufa per aprirlo. Tolse dal cassetto una forchetta e cercò di risolvere il problema con quella. — Che cosa vuoi fare, adesso? — Mina era ferma sulla soglia a guardare. — Non sono riuscito a trovare il gancio. — Che cosa? Si può sapere perché continui a borbottare? Parla più forte se vuoi che ti capisca. — Non riuscivo a trovare il gancio — ripeté lui. — È lassù — disse lei. — Oh. — Peter rimise a posto la forchetta, prese il gancio e aprì lo sportello. In fondo al focolare c'erano dei tizzoni accesi. Lui schiacciò la camicia all'interno, anche se dubitava che bruciasse, e richiuse lo sportello. Liberò il gancio e lo tenne in mano per guardarlo meglio. Era un oggetto curioso, in ferro battuto, con la punta a forma di scarpa quadrata. Immaginò di usarlo per colpire Mina. Le avrebbe rigato il viso di striature rosse e blu.
L'avrebbe riempita di sangue. — Meglio di no, fratello — disse lei. — Meglio che la pianti subito di pensarci. Metti giù quel maledetto arnese e torna qui dentro. Mi piacerebbe proprio sapere che cos'hai. Sei l'individuo più folle che abbia mai conosciuto. Metti giù quella roba, ho detto. Lui non si azzardò ad esitare ancora. Ripose il gancio sullo scaffale e tornò verso la porta. Mina era tornata in soggiorno e lo fissava con espressione gelida e divertita. — Credi proprio di poter fare ancora paura a qualcuno, conciato così? Non saresti capace di uccidere neanche un gatto! Datti pure tutte le arie che vuoi, ma l'unica cosa che ti viene bene è combinare guai e far casino in un modo o nell'altro. Tutto qui. Nessuno è più disposto a prenderti sul serio. — Ancora una volta gli si avvicinò e gli mise la punta delle dita sul torace nudo e magro, per spingerlo indietro. — Immagino che il modo migliore per impedirti di fare danni sia di metterti a letto e lasciarti bere. Dubito che ti importi di qualcos'altro, a parte te stesso. — Continuò a spingere. — Avanti, vai a metterti a letto. Verrò fra un minuto a cantarti la ninna nanna. Lui obbedì. Si sedette sul materasso e incominciò a togliersi in fretta le scarpe, le calze e i pantaloni. Poi si sdraiò, stanco, con addosso solo un paio di mutande luride. Restò dalla propria parte e cercò di dormire, ma aveva i nervi sovraeccitati per la stanchezza e la collera trattenuta a stento. E comunque non voleva chiudere gli occhi. Respirava rauco. Finalmente lei arrivò, portando un altro dei suoi innumerevoli orci di whisky di mais. — Tieni — disse. — E se versi anche questo o combini altri guai, giuro che sarà l'ultimo che riuscirai a ottenere in questa casa. Ricordatelo. Ho di meglio da fare che non badare a te tutto il tempo. — Mise l'orcio sul pavimento di fianco al letto, si raddrizzò e lo guardò dritto negli occhi. — Non mi rimangio mai quello che dico — chiarì. Poi se ne andò, chiudendosi decisa la porta alle spalle. Lui attese qualche secondo, finché il respiro tornò a essere meno affrettato. Cercò di non pensare a quanto Mina, ormai, lo terrorizzasse. Perché lo trattava sempre così male? Non le aveva fatto niente, per quel che ricordava. Si chinò e prese l'orcio, che in origine doveva servire per la frutta. Bianca e grigia, leggermente tinta di giallo, la faccia di Sheila lo guardò da dentro il minuscolo specchio di whisky. Sorrideva, e il sorriso era fisso e immobile. Gli tremò la mano e la faccia si dissolse. Andò bene perché si rovesciò solo qualche goccia sul petto. Lei continuava a sorridere. Peter girò l'orcio e tolse la fotografia bagnata dal bordo interno, dove Mina l'aveva
attaccata. Se l'era procurata togliendola dal suo portafoglio. In quel momento rimpianse di non averla colpita, di non averla coperta di sangue. Il volto di Sheila era imprigionato tra le sue dita, con la carta molle e bagnata. Nessuno, pensò, si era mai sentito più abietto e miserabile di come si sentiva lui in quel momento. Dondolò la testa sul petto, da una parte all'altra. La fotografia non voleva staccarsi, tanto che lui provò a scrollare la mano sempre più forte una, due, tre volte. Era comunque sempre molto attento a non rovesciare altro liquore. Doveva pur difendersi, in un modo o nell'altro. Alla fine si ripulì le dita dalla fotografia passandole sulla trapunta, come se qualcosa di sporco le avesse imbrattate. Si chinò per rimettere l'orcio dov'era, con molta cura, e poi giacque disteso, immobile, con le braccia lungo i fianchi. Incominciò a lamentarsi, e il suo gemito si alzò di tono per diventare sempre più forte. Non sembrava nemmeno più un gemito, ma piuttosto il lamento di una mucca che aveva perso il latte. Un muggito dopo l'altro, senza potersi più fermare. Gli sembrò di andare avanti per ore. Ma Mina tornò e gli venne subito vicino. — Stai zitto — ordinò. — Smettila con questo maledetto rumore. — Lo colpì forte, sulla faccia. — Chiudi il becco e stai zitto. — Un altro schiaffo, ancora più forte, e lui sentì un piccolo suono argentino mischiarsi al proprio cupo terrore. Incominciò a respirare con maggiore regolarità e il lamento divenne sommesso. Lei lo colpì un'ultima volta, con meno violenza, prima di girare le spalle e allontanarsi. — Che mi venga un colpo se non faresti diventar matto chiunque, con tutte queste fesserie. — Uscì. Peter continuò a gemere per un po', poi riuscì a ricomporsi in qualche modo. La fotografia era ridotta a brandelli umidi, spappolati sulla trapunta. Lui incominciò a consolarsi con il whisky. C'erano anche volte in cui si dimostrava gentile e malinconico, quasi allegro. Sorrideva con aria triste, ma non amara, e parlava con voce calma e uniforme. — Le lachrimæ rerum — declamava. — C'è qualcosa nel segmento di paesaggio che si vede dalla finestra che può darti un'ottima idea di quel che Virgilio intendeva veramente con questa definizione. Ed è tutto nel modo in cui la finestra limita il paesaggio, capisci? Intensifica l'illusione di poter vedere un universo in miniatura. Che è appunto la prima cosa che viene in mente di fronte a quelle due semplici parole, anche se dubito che si tratti di un riflesso conscio. Ma in fondo alla mente, da qualche parte, c'è sempre un quadro reale della limitatezza dell'esistenza fisica e dei suoi effettivi confini, oltre alla percezione corrispondente dell'immensità
del vuoto o del nulla che racchiude l'esistenza fisica e a cui quest'esistenza in realtà appartiene. Di conseguenza includere la personalità umana, il proprio io, in questo piccolo universo, equivale a considerarsi piccolissimi. — Ne rise amabilmente tra sé. — È tutta una questione di proporzioni, capisci? — Sei pieno di merda come un tacchino natalizio — commentò Mina. Lui annuì e sorrise gentilmente. Si sentiva vecchio e maturo. — Lo so. E non volevo annoiarti — disse. — Ma lo capisci, non è vero? Lo capisci che per me è difficile mantenere viva la mente, continuare a farla funzionare. Dato il peso delle circostanze, e considerato quello che sono diventato, sento che devo fare di tutto perché la mia intelligenza non si perda. So bene che queste sono solo speculazioni vuote e un po' stupide, ma in me si accentua la paura che la mente non sia più in grado di operare sul materiale che le viene offerto. Le cose che succedono con più frequenza perdono di significato e io non posso farci nulla. E per quanto limitata possa essere stata la mia vita, e spesso le limitazioni sono state veramente gravi, sono sempre stato in grado di trarre qualcosa di utile da ogni avvenimento. Dove per "utile" si intenda intellettualmente edificante o... moralmente istruttivo. Già, proprio questo. Ogni episodio che mi succedeva lo consideravo un avvenimento morale. Riuscivo sempre a trovare un'interpretazione. Ora non ci riesco più. Mi sembra che non ci sia nessuna morale calzante e gli avvenimenti hanno perso qualsiasi concatenazione logica. Nessuno sembra produrne un altro. Le cose sono quello che sono, e basta. O forse mi sto solo creando una serie infinita di problemi. Uno dei miei difetti è sempre stato quello di farmi troppi scrupoli inutili. — Ma quali scrupoli! — rise lei. Era riuscita a trovare il suo libretto di assegni chissà dove e glieli aveva fatti firmare tutti, in bianco. Peter non aveva esitato, non poteva importargliene di meno. Avvertiva solo una certa mite e distaccata curiosità circa l'utilizzo finale di quel denaro, ma non fece domande. Sapeva che lei gli avrebbe mentito, e in ogni caso non avrebbe saputo che cosa farsene di quei soldi. Poteva forse pensare di acquistare qualcosa, dopo che lui stesso era stato venduto o meglio, svenduto in quel modo? Le giornate diventavano sempre più calde e nei campi incolti attorno alla casa risuonava il ronzio di una moltitudine di cavallette. Il sole era bianco come zucchero, immenso nel cielo. A volte lui si sentiva terribilmente depresso e osservava uno strettissimo silenzio. Pensò al suicidio. Pensò di tagliarsi i polsi. Si immaginò steso sul
letto immobile, pallidissimo dopo che tutto il sangue l'aveva abbandonato. Forse ci sarebbe stato un funerale anche per lui nella grande casa di mattoni rossi, nel salotto del sole buio e ormai in disuso, con il suo lungo corpo adagiato su un catafalco soffice, accanto al pianoforte che nessuno suonava più da anni. Ma sapeva che era tutto sbagliato. Senza dubbio lo avrebbero gettato così com'era in un campo aperto e lo avrebbero lasciato a decomporsi sotto il sole. Cibo per i topi muschiati. Era una conclusione molto più appropriata. Una sepoltura adatta a lui, in fondo. Non si aspettava niente di più, per se stesso. Per la verità, aveva smesso di aspettarsi qualsiasi cosa. Impiegava ore intere ad approfondire sogni ad occhi aperti come questo, per poi ritrovarsi placato ma tetro. Il suo corpo si sentiva troppo pesante. E anche a letto lei divenne spietata. Peter ne usciva snervato ed esausto, con il viso, il collo e le spalle doloranti di ferite fredde e amare. Ma perché, perché? Qualunque cosa Mina volesse, alla fine, non era nulla che il suo corpo potesse darle. Povero corpo ormai distrutto. Lei non era soddisfatta. Peter scoprì che nemmeno il sangue la placava. Che cosa voleva? Come poteva una natura tanto flemmatica essere così esigente? Lui si rintanava per sfuggirle, spendeva le proprie energie fino all'ultimo, veniva lottando per ritrovare il respiro. Il cuore sembrava sul punto di scoppiare, batteva convulso, sempre più convulso. E tutta la faccenda era malsana. Che cosa gli sarebbe successo dopo? Sarebbe caduto in un sonno profondo, dove viveva incubi che poi non era in grado di ricordare e dove continuava a sentire l'alito da pesce di Mina e il sapore untuoso della sua pelle. Oppure sarebbe rimasto vittima di uno dei suoi accecanti mal di testa, che gli spaccavano in due la mente come se fosse stata di pietra, rendendolo pazzo di dolore. Che cosa voleva lei, di preciso? Di certo, non gli lasciava niente. E Peter non voleva ammettere di aver gridato, stretto nella sua morsa. Con il buio i visitatori sarebbero tornati, come ogni giorno della settimana. Quella volta lui rimase a bere in soggiorno e Mina lo lasciò lì, non lo spinse verso la camera da letto. Chiuse la porta della cucina. Peter, immerso nel consueto torpore, restò seduto sulla sedia sporca e udì senza ascoltare i borbottii e il suono di grosse scarpe che si trascinavano e battevano sul pavimento. Alla fine si alzò e uscì nel portico sul retro. Faceva più freddo di come pensava e le stelle di un'estate in piena maturità erano sparse per tutto il cielo. Non c'era luna. La notte aveva un buon profumo, l'odore caldo dell'erba, dei fiori e della terra nei campi, unito alla fresca fragranza dell'acqua che scorreva nel ruscello. Era la prima notte che usciva e scen-
dendo i gradini di legno ricurvo avvertì quasi una vaga euforia. Stese in fuori le braccia e si accorse di aver dimenticato, fino a quel momento, che cosa significasse sentire il corpo libero. Era come se un ingombrante cappotto di lana gli fosse stato tolto di colpo. Se ne andò in giro nel cortile basso e rado, ruotando le braccia e osservando le stelle. Sembravano immobili, imprigionate tra le minuscole foglie del ciliegio selvatico come tra le maglie di una rete. Una brezza lieve mosse i rami e anche le stelle si mossero, danzando piano. Lui girò attorno all'angolo destro della casa, diretto verso la strada. Passò davanti alla finestra e la luce dell'unica lampada del soggiorno, sistemata su un tavolino basso di fianco alla poltrona imbottita, lo investì in pieno dandogli una consistenza rosata ed eterea. Era una sensazione bizzarra rimanere lì fuori in piedi a guardare nella stanza da dove era appena uscito. Gli sembrò quasi di vedersi seduto là dentro, cupo e immerso in un silenzio ancor più tetro di lui. Uno spettacolo pietoso, o un'immagine disprezzabile. L'orcio da un quarto era appoggiato vicino alla lampada, ormai mezzo vuoto. Lui salì sulla strada con passo malfermo, spingendo avanti i piedi come se camminasse con le scarpe da neve. Nella ghiaia del fondo stradale trovò due pietre arrotondate e ne tenne una in ciascuna mano, stringendole un po' e cercando una rassicurazione nella loro solidità, nella loro assoluta concretezza. Poi le gettò in alto, lontano, nel campo sottostante. La finestra della cucina formava un rettangolo irregolare di luce arancione sul pendio inclinato, e lui sentì ancora una volta quel grido intenso e insondabile. Un grido che lo attrasse inesorabilmente verso quella finestra così spoglia. Rimase in piedi, fuori dal campo visivo. La stanza traboccava di robuste sagome maschili. Lungo il bordo del tavolo vicino alla finestra, una mano giaceva spalancata sotto la luce viva. Era immensa. Le lentiggini che la ricoprivano sembravano grosse come monete e le vene rigonfie erano spesse come corde. Più che una mano, sembrava la sua parodia in formato gigante, una burla incomprensibile. Contro la parete più lontana, accanto alla porta della camera da letto dove dormiva Peter, stava appoggiato un contadino alto. Indossava un paio di jeans azzurri e una camicia di cotone a quadri, con le maniche rimboccate fino ai bicipiti tanto da lasciare scoperti gli avambracci dalle ossa solide e i gomiti appuntiti. La faccia era piccola e sottile in confronto al corpo e la sproporzione risultava accentuata dalla vicinanza della mano, che al contrario era enorme. L'uomo aveva un naso adunco e affilato e un paio di sopracciglia ispide sotto cui brillavano due
piccoli occhi grinzosi, lucidi per la concentrazione. Fissava affascinato qualcosa al di fuori del campo visivo di Peter e si passava di tanto in tanto la lingua sulle labbra sottili, con un movimento rapido e furtivo. Si strofinò il mento con il dorso della mano, poi si spostò in avanti verso il tavolo, si impossessò di un bicchiere di cristallo mezzo pieno di whisky di mais e lo tracannò d'un fiato. Qualche goccia di liquido gli gocciolò agli angoli della bocca e gli macchiò la camicia mentre la sua ombra, ora che lui si trovava vicino al tavolo e alla lampada, ricadeva scura e gigantesca sulla porta della camera da letto. Dopo qualche secondo il contadino indietreggiò e tornò ad appoggiarsi alla parete, senza aver mai staccato lo sguardo da un certo punto nella stanza dove succedeva qualcosa capace di tener viva la sua attenzione per tanto tempo. Anche Peter avrebbe voluto vedere, ma temeva che Mina lo scorgesse. E poi che cosa ci guadagnava? Sicuramente niente di gradevole. In ogni caso, avrebbe dovuto risalire sulla strada e aggirare il rettangolo di luce. Raccolse di nuovo una pietra e se la rigirò tra le mani. Aveva il palmo sudato per una strana e crescente eccitazione. Che cos'era che tutti al mondo sapevano tranne lui? Sentiva che un fenomeno grave e severo gli veniva nascosto, un fenomeno di cui intuiva l'importanza e l'imminenza, e moriva dalla voglia di svelare il mistero. C'erano altri due uomini allineati contro la parete occidentale, accanto alla porta del soggiorno, ed entrambi indossavano una tuta con la pettorina. Uno, biondo e tarchiato, portava una maglietta rossa così sbiadita da sembrare gialla anche lei come la luce della stanza. L'uomo teneva lo sguardo fisso verso quel qualcosa che catalizzava l'attenzione di tutti e a un certo punto il suo volto si contrasse nell'ombra di un sorriso che non aveva nulla di gioioso. Un anticipo di sorriso, forse, o una specie di smorfia involontaria come prima di una vaccinazione. Il suo collega indossava una ruvida camicia da lavoro azzurra, con i bottoni slacciati fin sotto la pettorina dèlia tuta. Era più alto e apparentemente più vecchio, dato che sul petto gli cresceva una selva di peli grigi e ispidi. In volto aveva la stessa espressione impassibile di Mina, o quasi, ma anche il suo sguardo era fisso come quello di tutti gli altri, a testimonianza di un interesse vivissimo. Lo stesso Morgan stava in piedi vicino alla porta esterna, con le mani in tasca, la faccia rossa come sempre e gli occhi pieni di pigra malizia. Mina voltava la schiena alla finestra. All'inizio Peter non riuscì a vederla bene, anche se distingueva i capelli scuri e arruffati sciolti sulle spalle, la camicetta slacciata e chiaramente aperta in tutta la sua lunghezza, le cosce
nude e olivastre sotto il margine del tavolo. Non riusciva a vederle la vita. La ragazza era seduta al contrario sulla sedia, a cavalcioni di un uomo basso e grasso che teneva la schiena appoggiata al sedile. Le gambe nude dondolavano ritmicamente e senza indolenza, e a Peter sembrò che cantasse. Cantava una nenia dolce che lui non poteva sentire. Le gambe divaricate si muovevano avanti e indietro e a un tratto lui la vide stringere con forza le spalle del contadino e fissarlo intensamente negli occhi. Lo stesso metodo che usava anche con lui quando voleva calmarlo durante una delle sue crisi. L'uomo aveva la faccia grassa e rossa rovesciata contro lo schienale e stava a bocca aperta, con le labbra che si contraevano e rilassavano regolarmente attorno alla cavità buia della gola. Da un angolo di quella bocca schiumante scendeva un filo lucente di saliva. A un tratto la bocca incominciò a spalancarsi con esagerazione anche maggiore, per poi arrivare quasi a chiudersi. Un pesce che annegava nell'aria. Le gambe nude di Mina dondolavano con agilità, sempre più veloci. I muscoli sotto le palpebre dell'uomo palpitarono, anche loro a tempo, e il respiro divenne un rantolo rauco all'interno della gola. Sempre tenendogli la mano destra avvinghiata alla spalla, Mina cercò qualcosa sotto il tavolo, senza guardare. Ne tirò fuori un serpente, che da floscio divenne subito eretto. Lei teneva l'animale appena sotto la testa, lasciando che il suo lungo corpo le si avvolgesse a spirale attorno a tutto il braccio. Il serpente era marrone, chiazzato di macchie di un colore più scuro. Peter non capì di che specie fosse. Mina lo tenne per un attimo scostato di lato, poi incominciò lentamente ad avvicinarlo alla faccia dall'uomo. Sotto il bordo del tavolo le gambe dondolavano a un ritmo sempre più frenetico. Il contadino emise una grossa bolla di saliva. Il suo respiro si era fatto di gran lunga più pesante. Fu Mina a scegliere il momento esatto. Avvicinò con decisione il serpente e lo strofinò sulla guancia dell'uomo. La bestia dal corpo chiazzato si contorse e il movimento fu freddo e fulmineo. L'uomo gridò, ma il suono parve provenire da un punto imprecisato della cucina invece che dalle sue labbra. Era un suono totalmente autonomo, un'espressione di follia pura e incomprensibile. — Iä! Iä! Mina gli fece eco con aria grave e tranquilla. — Iä! — Il tono era affermativo. E tutto si concluse. Lei tenne ancora il serpente scostato da sé, poi chinò la testa in avanti e appoggiò la bocca sul collo del contadino. Quando si raddrizzò, l'impronta bianca e ovale dei suoi denti sulla pelle acquistò per Peter un significato molto chiaro. Le gambe avevano smesso di dondolare.
Lei si srotolò il serpente dal braccio, proprio come avrebbe srotolato un bracciale, e lo lasciò cadere con noncuranza sotto il tavolo. L'animale strisciò per un attimo e poi rimase immobile, tanto che Peter lo giudicò morto. Mina scese senza difficoltà dalle ginocchia della sua vittima, un po' come se avesse scavalcato un muretto di pietra basso, e poi rimase in piedi dall'altra parte del tavolo a raddrizzarsi la gonna nera e a passarsi lentamente le dita sulle cosce. La camicetta trasandata era ancora completamente aperta sul davanti e un piccolo seno solenne ammiccava ciecamente contro Peter attraverso la finestra. Lui uscì in fretta dalla zona illuminata e girò la schiena alla casa. Là dentro avevano ricominciato a parlare. Lui salì di nuovo sulla strada, evitando con cura il rettangolo di luce gialla, e ridiscese nel cortile. Gli sembrava che ci fosse molto più fresco di quando era uscito. Oltrepassando la finestra del soggiorno lanciò un'occhiata all'interno, e si fermò. Dapprima non riuscì a capire. Poi, guardando più attentamente, vide che c'era proprio lui seduto nella vecchia poltrona imbottita. Il suo corpo allampanato e tutt'ossa era immobile. Stava là seduto, addormentato in posizione scomoda, con accanto l'orcio semipieno. Lui rimase a contemplarlo per alcuni minuti, finché non gli sembrò tutto chiaro. Solo allora proseguì, attorno alla casa e su per i gradini. Entrò in soggiorno, andò a sedersi in poltrona e si sistemò con cura in posizione rannicchiata di riposo. Sarebbe stato tutto un brutto sogno, uno di quegli incubi terribili che lo ricoprivano di sudore gelido e immoto. Cercò la posizione giusta, secondo quel che aveva visto, e si addormentò quasi subito, respirando liberamente e in modo regolare, senza muoversi. Si mosse solo una volta, appena appena, quando risuonò ancora il grido rauco e inespressivo che lui aveva già sentito. La voce era diversa e, stranamente, il grido fu seguito da uno scroscio di risate fioche. 2 All'inizio di agosto Mina trovò quello che cercava. Il caldo si era fatto infernale. Il cielo opprimeva la terra più da vicino e il paesaggio sembrava appiattirsi, si srotolava davanti agli occhi all'infinito, cotto dal sole e senza interruzioni. In quella calura metallica non si riuscivano nemmeno a distinguere le diverse forme di vegetazione e l'immenso sole bianco era punteggiato di macchie gialle e nere. — Ho trovato qualcuno che può portarci via — annunciò Mina. — Sono stufa marcia di questo posto. Non ho nessuna intenzione di rimanere qui a
vegetare per sempre. Il ragazzetto biondo si appoggiò allo stipite della porta, rilassato e indifferente. Si portava sempre addosso una grazia liquida e incurante. Le braccia gli ricadevano lungo i fianchi e dalla sigaretta che teneva tra le dita con garbo squisito e languido un sottile filo di fumo gli saliva lungo tutto il corpo. Si chiamava Coke Rymer. Peter, seduto nella solita poltrona imbottita, lo osservava con attenzione. Detestava Coke Rymer con tutto il cuore. Lo odiava. Non ricordava con precisione quando fosse comparso, sbadigliando e guardandosi attorno con quegli slavati occhi azzurri che non sembravano notare nulla e tuttavia continuavano a osservare, a guardare senza curiosità. I capelli biondi striati di ciocche più scure erano raccolti in alto in un ciuffo alla Pompadour, rigido e bisunto, stretto sul di dietro in un codino frusto. — Coke sa guidare — continuò Mina. — Può portarci dovunque decidiamo di andare. Peter annuì. Perché glielo diceva? Non le importava la sua opinione e si disinteressava di lui, almeno per il momento. Rimase seduto in poltrona per tutto il giorno e si fermò a dormire lì anche la notte. Un modo per negarsi al letto di Mina, o forse il letto era stato negato a lui. — Che cosa me ne faccio di te se non riesci neanche a fottere? — aveva chiesto lei. Una domanda senza risposta, naturalmente. E un problema di cui lui, in ogni caso, non riusciva a preoccuparsi. Lo considerava solo una tortura di meno, per il momento. Sentiva dentro di sé molte cose danneggiate, e una in particolare spezzata senza rimedio, anche se non sapeva con precisione quale. In fondo, non poteva importargliene di meno. La sua capacità di soffrire si era appiattita e Mina, purtroppo, lo sapeva. Avrebbe sicuramente trovato il modo di risvegliarla. Ma Peter riusciva ormai a contemplare senza rancori lunghe e intense giornate di dolore, e ci pensava spassionatamente, come se si trattasse di una mastodontica biblioteca piena di libri, che lui doveva leggere dal primo all'ultimo. — Sono in grado di guidare qualunque cosa abbia le ruote — dichiarò Coke Rymer. — Ti porterò dove vuoi, bellezza. — Aveva una strana voce tenorile, sottile e lacrimosa, sempre sul punto di scivolare in un falsetto stridente. — Basta che mi indichi la strada e io parto. Peter annuì di nuovo. Tanto non faceva differenza. — Ho parecchie faccende da sistemare, prima — disse lei. — Ma non ci metterò molto. — Gli passò rasente attraverso la porta, andò in cucina e scomparve nella camera sul retro. Lo aveva sfiorato con la coscia.
Il ragazzo biondo rimase dov'era e continuò a guardare Peter con indifferenza. L'unico movimento era quello di portarsi alla bocca la sigaretta quasi finita per aspirarne lentamente il fumo. Lui aveva di nuovo una gran sete. In quegli ultimi giorni era rimasto senza whisky di mais e non aveva fatto altro che tracannare litri di acqua, compiendo innumerevoli viaggi per raggiungere la mestola e il secchio in cucina. Si alzò e si avvicinò alla porta, mentre Coke Rymer si degnava appena di spostarsi, limitandosi a piazzare il piede destro dalla parte opposta dello stipite. Peter gli si fermò esattamente davanti, guardando con negligenza quella faccia scialba da biondo, appannata da un sorriso fisso e da un'espressione meschina e ipocrita. La sua indifferenza rimase inalterata, dato che non valeva la pena di prendersela. Si girò e uscì attraverso la porta che immetteva nel portico, giù per i gradini fino al cortile. Il caldo era impossibile, e imbottiva l'aria come una specie di paglietta abrasiva metallica capace di grattar via la pelle. Il clangore cupreo del sole riempiva le orecchie. Non c'era brezza, nemmeno un cenno, nemmeno una lievissima corrente nell'aria. Era tutto così caldo e immobile che anche la fiamma di un cerino sarebbe risultata del tutto invisibile. Il rombo di quel calore sovrastava persino il ronzio degli insetti. Sotto la ruvida camicia di cotone, che Mina gli aveva portato sottraendola al guardaroba del padre, Peter sentì le costole gocciolare per il sudore. Cercò riparo sotto l'ombra immota del ciliegio selvatico e rimase in piedi a fissare la luce accecante dei campi che si stendeva fino all'ultima e più abbagliante collina. Udì dei passi sui gradini incurvati del portico e si voltò. Coke Rymer veniva verso di lui, sotto una luce color ottone. In quella calura il corpo da biondo sembrava ondeggiare come il vapore, provvisto di un peso molto inferiore a quello di un normale corpo umano. Il ragazzo si fermò ancora una volta davanti a Peter, con il solito sorriso strisciante e immotivato. — Cercavi qualcosa qui fuori, bamboccio? — Piegò la testa di lato, con grazia. Lui si strinse goffamente nelle spalle. L'unica cosa di cui aveva la netta percezione in quel momento era l'assoluta stupidità di quel ragazzo. Quanti anni aveva, a proposito? Impossibile che superasse i diciannove o i vent'anni, e forse era addirittura sotto i diciassette. Un semplice tappo per la birra, economico come un giocattolo di plastica; qualcosa da caricare a molla e lasciar guizzar via sul pavimento, prevedendone ogni mossa meccanica. In breve tempo la plastica di cui era composto si sarebbe spaccata e il giocattolo sarebbe stato da buttare. Che cosa se ne faceva Mina? Non
riusciva proprio a capire che cosa ci trovasse in quel ragazzetto slavato. Gli voltò la schiena per tornare verso la casa. Coke Rymer gli mise una mano sudaticcia sulla spalla. — Ehi, aspetta un minuto, capo. Non è gentile andarsene quando qualcuno ti parla. E a me non piacciono le persone poco gentili. Lui si girò. — Leva quella mano — disse. La voce era impastata di sonno. — Non mi piacciono neanche le persone che mi danno degli ordini, specialmente quando si tratta di polli bastardi come te. Non so che cosa ci stai a fare ancora qui, tra l'altro. Perché non te ne vai, finché sei ancora in tempo? Non hai proprio niente che ti trattenga, mi sembra. Se fossi in te mi metterei su quella strada e toglierei subito il disturbo. Senza esitare, e anche senza pensarci troppo, Peter gli sferrò un calcio mirando al ginocchio. Lo mancò e prese invece la parte bassa della coscia. Coke Rymer indietreggiò di un paio di passi, con un movimento goffo. — Sei proprio un villano, vero? Per Dio, adesso staremo a vedere. — Nel bel mezzo della frase la voce gli si spezzò e cadde in un falsetto rauco, come se il calcio avesse finalmente infranto la sua indifferenza. Il ragazzo strinse i pugni e li tenne scostati dal corpo. Poi abbassò la testa e caricò Peter come un torello maldestro. Lui era calmo come un pezzo di legno, libero da qualsiasi pensiero. Ancora una volta non ebbe esitazioni. Fece un passo avanti e alzò il gomito proprio in faccia a Coke Rymer. Il colpo rimbalzò indietro come una scossa elettrica, ma lui non ci fece caso. Questo tipo di dolore non era importante e, a essere sinceri, nemmeno il combattimento in sé aveva alcun senso. Si trattava comunque di un compito in più che lui non aveva cercato, ma che doveva comunque portare a termine. Il ragazzo indietreggiò ancora, barcollando, dopo che Peter lo aveva centrato in piena fronte. La pelle biondastra si arrossava ma non sembrava incline ai lividi né alle spaccature. — Tu... figlio di puttana. — Ansimava. Peter riuscì quasi a sentire nei propri polmoni il peso della calura che l'altro inspirava. Rymer caricò di nuovo, esattamente nello stesso modo, ma questa volta si fermò prima e sferrò un pugno goffo di sinistro, colpendolo sui bicipiti. Peter rimase sorpreso dell'incredibile mancanza di forza di quel pugno e fece un passo indietro, senza più curarsi di stare in guardia. Coke Rymer avanzò con passo incerto, e tutti e due incominciarono a girare in tondo. Nel caldo intenso era come duellare sott'acqua. Coke si produsse in una se-
rie interminabile di finte inutili, continuando a tempestare di pugni l'aria cocente. Peter arretrava lentamente, tenendo d'occhio con espressione sognante la spalla sinistra del ragazzo. In qualche modo sembrava una strategia molto intelligente. Avrebbe indotto il ragazzo ad abbassare la guardia in modo da colpire al momento più opportuno per lui. Per un attimo se ne sentì deliziato. Il meccanismo di quella lotta, per quanto inutile e sciocca, incominciava a interessarlo. Provò una pietà quasi paterna per il suo avversario e per la sua maldestra stupidità. Era un gran peccato che stessero lì fuori ad agitarsi e a compiere sforzi con quel caldo. Di sicuro, il ragazzo aveva bisogno di apprendere molte astuzie in più di quante non ne conoscesse in fatto di combattimenti. Peter indietreggiò e tentò anche lui una finta. Fece un passo avanti e si produsse in un breve allungo di sinistro. L'effetto sorpresa fu dalla sua. Coke Rymer, che non era stato nemmeno sfiorato, inciampò nei suoi stessi piedi e cadde all'indietro, rotolando nella polvere. Si rialzò ansimante, con la maglietta imbrattata di sabbia rossastra. Teneva le labbra schiuse e respirava attraverso una fila di denti neri e storti. Si guardò cautamente intorno e assunse di nuovo le sue ridicole pose da pugile. Era troppo. Peter ridacchiò, poi rise forte. Sorrise al ragazzo, assai divertito, almeno per il momento. Poi si girò di colpo e prese a camminare verso i gradini del portico. Sarebbe anche entrato in casa, se non avesse sentito Coke Rymer che gli correva dietro, pestando i piedi sulla terra battuta. Guardò e incassò immediatamente la testa tra le spalle, incominciando a indietreggiare con grande lentezza e cautela. Nella mano di Coke scintillava la lama di un coltello, e il ragazzo lo maneggiava con aria sciolta e sicura. D'un tratto tutto si era ribaltato. Con quel coltello Rymer poteva anche ucciderlo, ed era tanto stupido da farlo davvero. Peter si sentì perduto. Mantenne l'equilibrio con espressione guardinga, e si impose di non guardare più verso il coltello. Dove aveva letto che in combattimento bisogna sempre guardare gli occhi dell'avversario e mai l'arma? Forse in qualche stupido romanzo giallo, ma non era affatto certo che fosse la politica giusta. Lì fuori, sotto la violenta luce estiva, gli occhi di Coke Rymer erano tutta iride, con le pupille che si riducevano a due minuscoli puntini neri. Lui ebbe paura. Ricordò la bizzarra goffaggine del ragazzo e la giudicò il suo unico punto di vantaggio. Indietreggiava lentamente e a zigzag, attento comunque a non cadere. Mise in pratica di nuovo la tattica precedente, avanzando di colpo per tentare una finta, ma fu un errore. Coke Rymer si protese in avanti con noncuranza e gli colpì la spalla sinistra con il coltello.
Lui balzò lontano e ricominciò a muoversi in tondo. Il taglio in sé non era profondo, ma di lì a poco incominciò a bruciare. Non si era accorto di sudare tanto. Si guardò furtivamente alle spalle e poi ruppe l'accerchiamento e corse via, tuffandosi sotto le tavole di legno che pavimentavano il portico. Lo spazio sotto la casa era a forma di cuneo, dato che l'edificio poggiava proprio alla base della collina ed era sostenuto, lungo tutto il lato occidentale, da grossi tronchi contorti. Là sotto c'era poca luce e molto silenzio, ma non era meno caldo che fuori, anzi. L'aria, stagnante e densa di polvere, risultava di certo difficile da respirare e le sensazioni del suo corpo gli ricordarono quelle vissute in precedenza nella soffitta buia della casa dei nonni. Avanzò di corsa per qualche metro sotto la casa, poi si girò a guardare. Non c'era ancora traccia di Coke Rymer, per il momento, nemmeno nel tratto aperto sotto il portico, dove avrebbe dovuto passare. La comparsa di un paio di gambe in jeans, di una spessa cintura di cuoio guarnita di borchie e di una maglietta lurida fu quasi casuale. Peter sentì il ragazzo ridacchiare come un matto. — Perché non ti metti subito a correre, bastardo? — lo provocò Coke Rymer. — Voglio proprio vedere come te la cavi nei duecento metri. — Altra risatina. Teneva il coltello lungo il fianco e incominciò a tagliuzzare con noncuranza uno dei gradini del portico. — Sei proprio matto come un cavallo se pensi che verrò a strisciare là sotto con te! — esclamò. — Non è il mio stile, mettermi a pancia in giù sotto le case per acciuffare i bastardi deficienti come te. Niente da fare, bamboccio, non ci casco. Ti aspetterò qui, finché non ti deciderai a venir fuori. — Piantò il pugnale in uno dei sostegni e lo lasciò lì, a portata di mano. Sotto la casa, il suono della sua voce giungeva cavernoso e condito da un sibilo irreale. — Giuro che ti aspetterò qui, anche se dovessero passare degli anni. E quando ti degnerai di uscire ti taglierò a fettine il sedere. — Altre risate. Con molta calma, tolse un pacchetto di sigarette dalla tasca dei jeans e se ne accese una. A parte l'apertura dalla parte del portico, l'intercapedine sotto la casa era fiancheggiata da una schiera di tavole grezze. Peter riuscì a poco a poco ad abituarsi alla poca luce che filtrava attraverso le fessure. Era quasi piegato in due e per stare comodo avrebbe dovuto accovacciarsi a terra, ma non voleva farlo, così come non voleva vedere quella faccia gialla e inamovibile sopra di sé. La polvere era spessa e gli arrivava quasi alla tomaia. Si spostò, cercando di trovare un punto più comodo e gli sembrò di pestare dei cocci. Guardò meglio e si accorse che si trattava dei frammenti di un
orcio. — Mi piacerebbe proprio sapere che cosa diavolo credi di poter fare là sotto — lo canzonò Coke Rymer. — Non hai via di scampo, bellezza. Nessuna alternativa a parte il vedertela con me. Perché non ti decidi una buona volta ad accettare la realtà? Lui si spostò a sinistra e si accoccolò al suolo. Ora la faccia del ragazzo era nascosta dai gradini del portico. Di lui si vedeva solo un ginocchio in jeans, una mano che reggeva con negligenza una sigaretta accesa e il manico del pugnale che sporgeva dal pilastro. Peter attese di ritrovare la calma, di ristabilire il ritmo del respiro. Pensò di tentare una sortita e di sbucare in silenzio al di là dei gradini, dalla parte opposta a quella dove si trovava Rymer, ma capì che non era una buona idea. Il ragazzo, in piedi, lo avrebbe visto subito. Non sarebbe ruscito ad arrivare neanche a metà del cortile. Ma se aspettava ancora un po' Mina li avrebbe fermati. Di sicuro non avrebbe lasciato che il biondino lo uccidesse... O forse sì? Che cosa sapeva di lei, in ogni caso? Che era impenetrabile. Il solo fatto che incoraggiasse Coke Rymer era del tutto incomprensibile. Le sue motivazioni erano nascoste in fondo all'oceano. Peter sospirò. Spostandosi ancora a sinistra, ostinandosi nel tentativo di cancellare dalla propria vista ogni minimo segmento di Coke Rymer e del suo coltello, finì per urtare con un piede qualcosa di solido e di metallico. All'inizio non riuscì a capire che cosa fosse, sepolto com'era sotto lo strato spesso di polvere. Scavò con le mani e finalmente riuscì a tirarla fuori. La leva di una pompa per l'acqua. Bellissima. Lunga circa ottanta centimetri, in ferro massiccio. Presentava una leggera curvatura a S e una delle due estremità, quella del manico, era liscia e forniva un'impugnatura ideale. L'estremità opposta, invece, si assottigliava fino a diventare piatta e presentava una serie di fori da tre quarti di pollice, distanziati con regolarità. Lui si perse per un attimo a immaginare come avrebbero fischiato quei fori una volta che la sua nuova arma avesse incominciato a roteare nell'aria. La soppesò e la trovò perfettamente maneggevole, adeguata alla sua mano. La tenne davanti a sé, ammirandone la mole e la sagoma leggermente ricurva. Ormai innamorato, incominciò ad agitarla. Poteva finalmente uscire. Si sarebbe mosso in silenzio sotto la casa, aiutato dallo strato di polvere che attutiva i rumori, e avrebbe mantenuto i gradini tra sé e Rymer. Poi sarebbe sbucato fuori all'improvviso, in piedi e pronto a battersi. Incominciò a strisciare in ginocchio verso la striscia di luce. Spingeva con delicatezza la pompa davanti a sé, compiendo respiri
frequenti e leggeri per evitare di starnutire. Quando raggiunse il limite della casa impugnò il manico dell'arnese di metallo e si preparò a uscire. Coke Rymer stava ancora parlando. Evidentemente, parlare gli piaceva molto. — Te lo dico ancora una volta, bellezza. Non mi importa se dovrò aspettare degli anni per vederti venir fuori. Ho tutto il tempo del mondo. — Si interruppe e lanciò il mozzicone di sigaretta ancora acceso sotto la casa, in mezzo alla polvere. Peter uscì di scatto, perché gli occhi si erano ormai abituati alla luce. Il ragazzo lo sentì e si girò, riprendendo il pugnale dal punto in cui l'aveva lasciato con la stessa noncurante sicurezza con cui un altro avrebbe acceso un fiammifero. Si fissarono, da una parte all'altra dei gradini incurvati, e passò un secondo o due prima che Coke Rymer si accorgesse della leva di ferro che lui teneva nella mano. — Che cos'è quella specie di arnese che hai trovato? — domandò. Incominciò ad aggirare i gradini. — Qualcosa che non ti piacerà affatto. La leva di una vecchia pompa dell'acqua. Adesso ho anch'io qualcosa per farti a pezzi il sedere. Ma il ragazzo non avanzò. Rimase immobile, con gli occhi fissi sulla sagoma ricurva della leva. Toccava a lui, adesso, rifugiarsi sotto la casa? Era decisamente troppo. Peter pensò che sarebbe davvero morto dal ridere se a quel punto Rymer avesse incominciato a strisciare nella polvere proprio come aveva fatto lui poco prima. No. Il ragazzo incominciò a spostarsi lateralmente per ritornare verso il cortile. — Non ti servirà a niente. So anche lanciarlo, questo. — Quasi senza guardare, e con una mano sola, rovesciò il pugnale per tenerlo dalla parte della lama, con scioltezza immutata, tra il pollice e l'indice. Ma nei suoi occhi parte della sicurezza si era persa e la voce vacillava di nuovo sull'orlo del falsetto. Peter balzò in avanti e gli spinse la leva contro lo stomaco, impugnandola come una sciabola. Non fu un colpo forte, ma una dimostrazione decisa ed esplicita del proprio vantaggio. Gli occhi azzurri strabuzzarono e la pelle da biondo si chiazzò di rosso. — Getta il coltello — ordinò Peter. Fu il primo a sorprendersi. La sua voce era bassa e stranamente roca. — Se getti il coltello non sarò costretto a farti uscire il cervello dal cranio. — Vai al diavolo. Nessun figlio di puttana mi convincerà a gettare il coltello. Se proprio dovrò gettarlo da qualche parte sarà nella tua pancia. Ma di sicuro era chiara, anche per lui, la superiorità... — Ma bravi! Andate pure avanti. Ci tengo a vedere che vi fate fuori l'u-
no con l'altro. — Mina, logicò. Era in piedi sul portico a guardare, e decise di mettersi ancora più comoda prendendo posto nella sedia a dondolo mezza rotta. Incominciò a oscillare dolcemente avanti e indietro, abbracciando l'intera scena con il suo sguardo immobile. — Prego, continuate — disse ancora. — Non avevate deciso di accopparvi? Nessuno di voi due vale quello che ci vuole per mantenerlo ed è molto tempo che non assisto a un bel combattimento. Vediamo che cosa sapete fare. Peter e Coke Rymer si guardarono con espressione impotente. Ormai, tutta la loro animosità si era raffreddata. Lei lo capì e rise. Una risata dura, aspra e anonima. — A quanto pare, se dipendesse da voi non ne vedrei per un bel pezzo, di combattimenti. Non avete la stoffa, dico bene? — Di nuovo la solita risata incolore. — Oh, merda. — Coke Rymer piantò svogliatamente il pugnale nei gradini del portico. — Posso prendermi cura del nostro amico qui presente quando voglio. Non mi preoccupano di certo né lui né il suo dannato ferrovecchio. Cosa credi? Potrei farlo fuori anche a occhi chiusi. Peter pensò che se fosse stato in lui non ne sarebbe stato tanto sicuro. Tacque, augurandosi comunque di non perdere mai di vista la leva della pompa. La sua vita era legata a quell'arnese, adesso. La connessione gli parve chiara come se la leva e la sua vita fossero unite dagli anelli di una catena scintillante. Già, una catena. Da un po' di tempo, la sua vita sembrava strettamente vincolata al ferro e la necessità di tener vicina la leva non lo sorprendeva più di tanto. Anzi, gli sembrava inevitabile. — Non sono sicura che sia tutto così semplice come dici — osservò Mina. — Il signor Leland potrebbe anche dimostrarsi un osso duro, più di quanto immagini. Quello che so è che non ti consiglio di provarci molto presto, perché non ho intenzione di lasciar correre. C'è del lavoro da sbrigare qui intorno, bisogna preparare i bagagli per la partenza e voi mi dovete dare una mano. — Per me non c'è problema — replicò Coke Rymer. — Sono pronto a partire quando vuoi, e per dove decidi tu. Peter salì i gradini, con la leva stretta in pugno. Era l'unica cosa solida che gli rimaneva, ormai. Gli tremarono le gambe e anche la mano destra, che era vuota. Su di lui scese, a posteriori, una gran paura per lo scontro con Rymer. Una paura che gli strinse il cuore e gli annebbiò la vista. Si fermò proprio sul margine del portico, e Mina lo fissò divertita. — E tu, cosa credi di fare, adesso? — gli chiese. Lui si inumidì le labbra aride e fissò l'aria cupa e ombrosa al di sopra
della sua testa, ben attento a non guardarla in faccia. — Berrei volentieri qualcosa — dichiarò. — Allora, immagino che non ti riferisca all'acqua — insinuò lei. — Vuoi del liquore, giusto? — Sì. — Peter continuò a non guardarla. — Che cosa ti fa credere che ne avrai? Per quale motivo pensi di meritarlo? Hai fatto qualcosa per me, ultimamente? — No. — Lui parlò lentamente. — No, ma... — Ma che cosa? Aveva la mente vuota. Alzò le spalle e le lasciò ricadere. Impotente. Coke Rymer parlò al suo posto, e la voce era lamentosa e aggressiva al medesimo tempo. — Non capisco perché ti ostini a volerlo ancora intorno. Si può sapere che cosa te ne fai di un vecchio ubriacone folle come lui? — Zitto — tagliò corto lei. — Io e il signor Leland abbiamo ancora molte cose da fare insieme. Non è vero, signor Leland? Lui annuì, muto. — Anche se non sai più fottere. Peter annuì di nuovo. Lei si alzò senza sforzo per andargli vicino e lui tornò a rannicchiarsi in se stesso, senza che il corpo si muovesse in alcun modo. Gli occhi d'argento di Mina presidiavano l'intero arco della sua conoscenza. Lei gli mise con noncuranza una mano sul pene e la ritirò senza fretta. — No, non più. Ma rimane sempre qualcos'altro, non è vero? Se vai a sederti sulla sedia a dondolo vedrò se riesco a trovare quello che cerchi. Qualcosa che ti faccia crescere un po' di peli sul petto. — Sogghignò. — Che ti faccia un po' più uomo. — Si allontanò quasi danzando, andò alla porta e si girò. Questa volta si rivolse a Coke Rymer e parlò in tono secco e perentorio. — Smettila di trastullarti con delle stupidaggini e vieni dentro. C'è un sacco di lavoro da sbrigare se abbiamo davvero intenzione di andarcene. — D'accordo — ribatté lui. — Ti ho già detto mille volte che sono pronto. — Smise di raschiar via le tacche che aveva inciso sul gradino del portico e piegò il coltello per rimetterlo in tasca. Poi salì i gradini con la sua solita grazia elastica e seguì Mina all'interno, indugiando un secondo per rivolgere a Peter una sola occhiata, rapida e dispettosa. Lui rispose con una risatina. Quell'ultimo sguardo assomigliava in modo buffo e straordinario alla classica abitudine infantile di tirar fuori la lingua. E Coke Rymer era appunto questo: un bambino viziato. Viziato e lurido, oltreché usurpatore e dispensatore di castighi. Oscurava la luminosità pe-
sante dell'aria, e persino nel suo pallore cieco e totale c'era una zona d'ombra, una macchia di muffa che generava altro marciume. Peter inclinò la sedia a dondolo avanti e indietro, ma il movimento acuì il senso di nausea risvegliato in lui dalla paura posticipata, tanto che dovette fermarsi in fretta e rimanere seduto immobile nella penombra del portico a guardare fuori. La calura stagnante non si era allentata. I rami del ciliegio selvatico sembravano afflosciarsi e le foglie avevano un'aria burrosa nella luce del sole. Lui rimase in attesa, finché Mina non ricomparve reggendo per il bordo, senza fatica, uno di quegli orci che gli erano diventati anche troppo familiari. — Ecco qui — gli disse. — Adesso puoi bere. Ma stai bene attento a non rovesciarlo o a sprecarlo in qualche modo, altrimenti non ne vedrai più neanche una goccia finché vivi. Tornò in casa. Lui guardò il paesaggio attraverso i fumi dell'alcool. Un paesaggio che, grazie a quel liquido giallastro, sembrava anche più caldo, screpolato e folle. Incominciò a bere, con metodo e regolarità. Dopo un'ora delirava e giaceva sul pavimento in posizione fetale, con le mani strette con forza tra le ginocchia. Declamava profezie a voce alta, senza capo né coda. E poi incominciò a bisbigliare. — Mina ha ragione — ripeteva, e al sibilo del suo bisbiglio faceva eco il fruscio dei vestiti che strusciavano contro le tavole del portico. Si contorse e strisciò, senza avanzare di un centimetro. — Mina ha ragione a proposito del serpente. Viviamo tutti come serpenti, succhiando nella polvere, succhiando tutto. È la sostanza da cui siamo stati creati, e che dovremo abitare. Dobbiamo lottare per diventare riservati e detestabili, coltivare il male che è dentro di noi e spaccarci la testa con i nostri stessi zoccoli. Perché andiamo così orgogliosi della capacità di camminare eretti? Che cosa ci guadagniamo? Nessun animale velenoso cammina eretto, ed è una profanazione. Meglio che ognuno mostri la sua vera natura, sempre. Meglio s... — Si era spinto avanti, verso il limite del portico, e urtò con la fronte contro un pilastro di sostegno. Alzò la testa e incominciò a mordere febbrilmente la base del pilastro. Il legno sapeva di polvere amarognola e salata. Lui chiuse gli occhi e continuò a rosicchiare finché l'attacco di convulsioni non passò, poi giacque immobile, completamente sfinito. Sudava e il gusto amaro del legno defluiva attravarso i pori. Una strana e acuta chiarezza si impadronì di lui. Si sentì sommergere da un senso abissale di vergogna e girò gli occhi verso la porta, sapendo in anticipo che cosa avrebbe visto. Il suo stesso viso, la bocca e le orecchie brucianti di disgusto e di paura.
— Ma che bello spettacolo! — esclamò Mina. — Sei proprio tutto da vedere, lo sai? — Non rise, ma si girò e scomparve di nuovo. Aggrappandosi al pilastro, Peter riuscì faticosamente a rimettersi in piedi e scosse la testa con forza, nel tentativo di schiarirsi la mente. Avanzò barcollando fino alla sedia a dondolo e si rannicchiò all'interno, ricominciando a bere. Mina faceva così, da sempre. Appariva e scompariva quando voleva e ogni cosa era sotto il suo diretto controllo. Peter ricordò quello che aveva sognato ad occhi aperti solo poche settimane prima. Quando lei avesse finito di succhiargli via la vita dal corpo lo avrebbe scaricato, letteralmente, in un campo sotto i raggi brutali del sole. Nudo e in decomposizione nella calura... Ora capiva che non sarebbe stato così fortunato. Quel destino era stato riservato al corpo bianco di sua moglie. Sheila, che lui aveva ucciso, giaceva là fuori da qualche parte, a marcire sotto il sole caldo del sud. Sforzandosi di pensare ad altro, girò la testa e la scrollò di nuovo, con forza. Non aveva bisogno di affidarsi all'immaginazione, per quel che riguardava Sheila. Mina era stata chiara nel descrivergli che cosa ne aveva fatto, e l'aveva ripetuto più e più volte. Naturale... Mina faceva sempre tutto quello che le piaceva. Andava e veniva, e i suoi spostamenti non sottostavano ad alcuna previsione. L'unica certezza è che sarebbe sempre stata presente nei suoi momenti di massima degradazione. Ormai Peter aveva capito che era proprio questo il motivo per cui lei continuava a tenerlo con sé. Solo per osservare quanto in basso lui riusciva a scendere. Era diventato un insolito animale da esperimento e lei lo usava di proposito per misurare, suo tramite, la resistenza di un'intera specie. Ma anche lui, in fondo, avvertiva una curiosità glaciale e distaccata. A quali estremi poteva spingersi un uomo in quell'incalzante oscurità? Quando si fosse divorato anche il cuore, che cosa gli sarebbe rimasto per spingere avanti la macchina del proprio corpo? E a che punto quella macchina avrebbe smesso di identificarsi con lui? Sperimentò un breve e nebuloso attimo di illuminazione. In un certo punto incorporeo, che apparteneva a chissà quale tempo e quale spazio, l'umanità dentro di lui si sarebbe dissolta fino a scomparire, per lasciar posto al semplice universo. Un solo universo, almeno. Quello umano. Nella visione momentanea e parziale, che insperabilmente gli era stata concessa, lui avvertì l'oscura presenza di altri sistemi, di altri universi in cui l'umanità, la sua umanità, avrebbero perso di significato e di importanza. Colonie di scintille luminose che si accalcavano e lo irridevano. Freddo infinito. Peter scosse la testa per la terza volta e bevve ancora assaporando grato il rigurgito che dallo stomaco risaliva dentro di lui.
3 Erano in viaggio. Avevano caricato Peter sul sedile posteriore con la stessa noncuranza usata per caricare nel bagagliaio tutte le cose preparate da Mina. Lui rimase seduto senza parlare durante tutta la fase finale dei preparativi, sopraffatto dall'aspetto e dall'odore anche troppo familiare dell'automobile. La sua, naturalmente. Mina aveva preso possesso di tutto quanto un tempo era appartenuto a lui e a Sheila, e non c'erano dubbi su quel che intendeva farne. Avrebbe sperperato tutto, con gran cura. Peter osservò il ruvido tessuto a coste sopra la testa e l'intelaiatura consunta che rivestiva i sedili. Non sarebbe stato buffo se il tettuccio apribile avesse funzionato, ora che la macchina apparteneva a Mina? Lui non era mai riuscito a smuoverlo. Si chiese se nello scompartimento riservato ai guanti ci fosse ancora la minuscola copia rilegata in pelle del vangelo di San Giovanni. Di sicuro, Mina non avrebbe saputo che cosa farsene. Era ancora un po' brillo, si preoccupava di rimanere seduto eretto e teneva le mani intrecciate tra le ginocchia. Partirono e basta, senza saluti o effusioni di vario genere. Né Morgan né sua moglie, che comunque non si era fatta quasi mai vedere neanche prima, si affacciarono per augurare buon viaggio o sventolare la mano. Mina e Coke Rymer finirono quel che dovevano finire dentro casa, e senza dubbio anche Rymer venne spinto alla disperazione sulla trapunta rancida. Poi, finalmente, presero posto in macchina. Il ragazzo incominciò a guidare e lei si sedette con fare distratto, allungando le braccia nude sulla sommità dello schienale anteriore. Si guardava attorno con placida curiosità. Peter, invece, non si sentiva affatto curioso. Stava seduto immobile, sopportando il flusso dell'aria calda su di sé e il peso del paesaggio in movimento. Dietro la macchina, la polvere giallo-rossastra si alzava in ali compatte come il legno per poi disperdersi in particelle separate. Peter si guardò indietro solo una volta, e vide la baracca andare su e giù nella foschia giallastra, come se galleggiasse. Oltrepassarono la grande casa di mattoni rossi, la casa del delitto, e Peter voltò la testa. Era comparsa davanti a lui all'improvviso dietro una curva stretta della strada, stagliandosi come una presenza inquietante contro il fianco della collina. Lui si girò per non vederla. La sua sola presenza lo disturbava. Gli riportava alla gola il sapore acido della colpa che ormai da tanto tempo cercava di inghiottire e cancellare. Nessun ricordo in partico-
lare, niente di perfettamente definito. Solo una nausea immensa e informe che gli paralizzava i nervi e lo obbligava a tenere la testa girata. Non voleva ricordare, tutto qui. Negava persino la memoria di quel che era successo. Di fianco alla strada, le fattorie si susseguivano senza interruzione. Su una staccionata di confine un grosso gallo dai colori vistosi e metallici batteva le ali e innalzava il suo canto, nonostante il giorno fosse già nato da un pezzo. Anche il suo grido lacerante risultò meccanico. Il torrente zigzagava nei campi sottostanti, non molto diverso da come appariva dalla casupola di Morgan. La luce del sole splendeva a gocce sulle foglie vitree della quercia velenosa. Due farfalle bianche si rincorrevano in una frenetica danza acrobatica e l'ombra delle querce massicce si posava a intermittenza sulla strada e sulla macchina. Mucche pezzate su colline a chiazze. Reticolati di filo spinato, con i pali di sostegno piegati per dispetto e arrugginiti dal tempo. Tetti grigi e arroventati di casette per le galline. Granai rossi e grigi, con l'aria vacua e pingue al medesimo tempo, e poi casette bianche ordinate e trascurate casupole di mezzadria, ciascuna guarnita di lato da file di panni stesi che sventolavano nella brezza. Rumore di ghiaia smossa e soffi di vento. Finalmente raggiunsero l'asfalto e Coke Rymer accelerò l'andatura. L'aria che si rovesciava addosso a Peter si rinfrescò e aumentò in volume. Il ragazzo si concentrò nella guida. Trattava spesso il volante in modo feroce ma possedeva una precisione fulminea e non staccava mai gli occhi dalla strada che aveva davanti, pur trascurando del tutto lo specchietto retrovisore. Nemmeno Mina si rivolse mai verso il sedile posteriore dove si trovava Peter. Di tanto in tanto passava lentamente le dita lungo la parte superiore del sedile di guida. Era assorta in chissà quali distratti pensieri e anche la leggera curiosità iniziale per il cambiamento di scenario sembrava ormai svanita. Peter si concesse un po' di relax. I primi momenti in macchina gli avevano causato un lieve malessere, ma poi si era lasciato andare tentando di assorbire i movimenti obliqui della macchina con il proprio corpo e, alla fine, sentì di esserci riuscito. La macchina non era una bella macchina, e incominciava ad avere i suoi anni, ma lui non si era potuto permettere di meglio. Vibrava senza rimedio e, dopo una frenata brusca, rombò in modo allarmante salendo di giri. Avrebbe dovuto comperarsene una nuova molti anni prima, ma gli era sembrato che non ce ne fosse un effettivo bisogno e poi, naturalmente, c'era sempre la questione dei costi. Anche adesso, non conosceva il motivo di tutta quell'importanza data alla macchina. Non ave-
va idea di dove fossero diretti e sapeva solo che puntavano verso est, allontanandosi dalle montagne. Non era al corrente della destinazione finale prevista da Mina, sempre che ce ne fosse una. Lei, pensò, era perfettamente capace di spostamenti del tutto immotivati. E mentre lo pensava capiva che non era affatto vero. Anche se mancavano di una destinazione, gli spostamenti della ragazza non sarebbero mai stati senza scopo. Tutte le sue energie tendevano in un'unica direzione, e non vacillava mai. Lui l'aveva osservata con attenzione, molte e molte volte, e il suo spirito d'osservazione era ben allenato. Non era mai riuscito a indovinare le sue vere mire, e di conseguenza anche le azioni della ragazza gli sembravano misteriose e a volte completamente folli. Eppure, non dubitava che alla base di tutte quelle azioni ci fosse un unico filo conduttore e che quello stesso filo l'avrebbe aiutato a sciogliere il mistero, una volta che fosse riuscito ad afferrarlo. Queste riflessioni lo resero inquieto, tanto che incominciò a spostare i piedi davanti al sedile, cercando la presenza solida della pompa. Ne avvertì la sagoma consistente sotto la suola e se ne sentì consolato. Abbassò gli occhi per guardarla e si concesse un lieve sorriso, sfidando la massa d'aria che dal finestrino anteriore si riversava con fragore contro di lui. Si ripromise di prendersi cura della sua nuova arma, di lucidarla fino a farla splendere e poi... sì, di regalarle un bagno in olio leggero per preservarla dalia ruggine. Attimo di riflessione. Perché non pensare anche a un'impugnatura di plastica, già che c'era? Bastavano pochi centimetri di un tubo di gomma per innaffiare... Eppure, sarebbe stato giusto conoscere le intenzioni di Mina. Sembravano così strettamente connesse alla sua stessa vita. Doveva esserci una ragione per spiegare tutto quello che era stato costretto a sopportare. Nella sua mente si formò l'idea del castigo, ma non l'idea del crimine per il quale doveva essere punito. Non si trattava dell'omicidio. Ormai, anche quella era una parola vuota e il ricordo di Sheila era scomparso per lasciare il posto a un'impressione di luce vivissima, qualcosa che non c'entrava più con la persona in sé... No, non si trattava dell'omicidio, ma di qualcosa ancora più terrificante. Qualcosa che precedeva di gran lunga tutto quel che lui poteva ricordare, e persino la sua vita, la sua nascita. I pali del telefono, scuri e affusolati, si susseguivano con monotona ripetitività e le loro ombre si infilavano nell'abitacolo dell'auto come spade. Il tracciato candescente dei binari ferroviari ora correva lungo la strada, gareggiando con loro in velocità. Si poteva seguire il cammino del sole nel cielo guardando la lunghezza del riflesso lanciforme che si alzava in lonta-
nanza dai binari. Un'impressione di luce priva di calore. A un certo punto sorpresero un treno, affiancarono il carro di servizio rosso e corsero di pari passo con i vagoni merci. Lui li sentì sobbalzare sugli scambi. Ta-tan tatàn, ta-tan ta-tàn. Sorpassarono la locomotiva diesel, che lanciò nel vento il suo orribile grido roco. Sfrecciarono su stretti ponti di cemento e percorsero salite e discese mozzafiato attraverso colline scure e boscose. Coke Rymer sceglieva autostrade secondarie. Probabilmente Mina gli aveva chiesto di evitare la rete di comunicazioni interstatali a scorrimento veloce. Ancora una volta Peter non ne capiva la ragione, dato che in quel modo le strade da percorrere non erano certo meno pubbliche. Le macchine si avvicinavano in senso contrario e scivolavano via nello spazio di un battito di ciglia. Autocarri con il cassone appesantito da sacchi e sacchi di fertilizzante arrancavano davanti a loro, e Coke Rymer imprecava, rallentando di colpo. Ogni volta, Peter era convinto che sarebbero andati a sbattere nel rimorchio. Si faceva piccolo piccolo e immaginava di soffocare sotto un fiume di fertilizzante puzzolente. Invece, continuavano ad andare avanti. Ogni tanto entravano in qualche stazione di servizio dall'aria anonima per fare benzina e Coke Rymer tirava fuori qualcuna delle sue battute. — Devo andare nella stanzetta dei ragazzi. — Oppure: — Vado un attimo a incipriarmi il naso. — La sua stupidità era poco appariscente, ma in lui c'era sempre qualcosa di vagamente sinistro. Mina andava al bar e ritornava portando a Peter una bibita e un sacchetto di craker al formaggio o al burro di arachidi. L'involucro era sempre polveroso e lui si puliva le dita nei pantaloni. Ma beveva e mangiava senza far storie. Ormai, sul fondo dell'auto c'erano già quattro lattine vuote che rotolavano scontrandosi. In una delle stazioni Peter andò alla toilette e lì, in mezzo all'odore acre del disinfettante e davanti a una finestra stretta tagliata nel muro di cemento, formulò l'idea assurda di una fuga. Ma non c'era proprio niente da cui scappare. Non era prigioniero e nessuno lo tratteneva con la forza. Più semplicemente, si sentiva legato a Mina in modo totale. Era prigioniero di se stesso e l'unica evasione sarebbe stata rappresentata dalla morte. Non esistevano alternative. Si lasciò sfuggire un involontario sospiro, abbassò la cerniera della patta e alleggerì la vescica. La luce del sole gli colpì gli occhi come uno schiaffo. Incominciò a far tardi e il sole si preparò a scendere alle loro spalle. Il cielo verso est si colorò di arancio e si popolò di nuvole dalla forma bizzarra e selvaggia. Ma loro continuarono ad avanzare. Il panorama si appiattì e le città divennero visibili molto prima di arrivarci, anche perché le
luci formavano aureole bianche e spettrali all'orizzonte. I giovanotti èrano tutti fuori, agghindati, instancabili nel far la corte alle ragazze. Allegre decappottabili, ispide code di volpe attaccate alle antenne per le radio. Ogni cittadina era uguale all'altra, tutte appiattite nella pianura come francobolli schiacciati su un album. Edifici di mattoni dalla struttura angolosa sotto la luce del tramonto, simili a biscotti lasciati fuori dal forno a raffreddarsi. Eppure tutto quadrava e il panorama risultava perfettamento omogeneo. Oltre gli snelli filari orizzontali delle colture di canne o di cotone, le linee verticali delle fattorie scolorite sembravano assolutamente adeguate, con i loro frontoni sopra il porticato, la loro struttura slanciata, la loro ossuta spigolosità. L'intera pianura era immersa in una veglia sonnolenta, in attesa della notte, del fresco, dell'imparzialità delle stelle. Oltrepassarono numerosi drive-in, e le gigantesche facce piatte di attori sconosciuti sfilarono via in fretta nel buio. Visioni rapide e oppressive di amori travolgenti e di violenze, un assaggio frettoloso e allucinato del cuore segreto del paese. Davanti a quegli schermi enormi Peter si sentì sfrontato e vagamente in imbarazzo. Era come sbirciare dalle finestre del bagno. Aveva incominciato a rinfrescare, ma lui continuava a sentire caldo. La sua pelle era ricoperta da uno strato sabbioso di polvere e da una pellicola di sudore ormai evaporato. I fari in avvicinamento sulla carreggiata opposta gli bruciavano gli occhi e torturavano i nervi esacerbati. Continuavano ad andare avanti e lui avrebbe voluto gridar loro di fermarsi. Di fermarsi, accidenti. Non stavano andando proprio da nessuna parte, e non c'era nessun posto dove andare. Perché non la smettevano? Perché era così necessario starsene appallottolati lì dentro e continuare a torturarsi sull'inconsistenza del paesaggio? Si chinò e raccolse l'unico oggetto che gli dava conforto, la leva della pompa. La tenne sulle ginocchia stringendola forte per non lasciarsela sfuggire e la tensione che aveva nel petto incominciò ad allentarsi. Passò e ripassò le dita lungo la curva liscia del metallo. Quell'arma era lui. Gli avrebbe permesso di bucare il mondo e gli avrebbe garantito una carica di eroismo tenuta perfettamente sotto controllo. Appoggiò la testa all'indietro, sullo schienale. Le palpebre vacillarono. Finì per appisolarsi, con le dita delicatamente appoggiate alla superficie di metallo liscio. Nel sonno, in un sogno vivido e inquieto, era diventato un ragno, anzi, un innocuo papà gambalunga. Percorreva i campi a zigzag, cercando l'acqua con fiuto infallibile. Aveva dimensioni variabili, cresceva fino a diventare mostruoso e poi diminuiva. Galleggiava al fresco sulla superficie dell'acqua, quando la trovava, sotto le grandi fronde sospese dei salici pian-
genti, che tenevano lontana la luce del sole. I campi ondulati cantavano dolcemente. All'interno di un sogno aspro e amaro c'era dunque una parte più serena, con acque punteggiate di ombre salutari e spiazzi circolari sotto gli alberi, freschi e accoglienti come abbracci. Ma nei campi surriscaldati il suo corpo un po' instabile sulle sei lunghe gambe diventava pazzo e dolente. Nessuno dei suoi mille occhi sapeva più dove volgersi, uno sguardo vitreo li teneva avvinti con una forza impossibile da spezzare. Lui si muoveva di sghembo, e avrebbe preferito non muoversi affatto. Non ce n'era ragione, nessuno scopo valido. La macchina a sei gambe rappresentava la sua stessa volontà e lui era un prigioniero in trappola. Gli venne in mente che quella era, tutto sommato, una rappresentazione fedele dei suoi malesseri e, nel sonno, si sentì in qualche modo placato. Il sudore smise di scendergli dalle ascelle lungo i fianchi e la stretta sulla leva della pompa si allentò. — Forza, bamboccio. Puoi uscire di lì. Abbiamo trovato il posto che cercavamo. Lui si svegliò all'istante. Erano fermi e Coke Rymer gli scrollava la spalla attraverso il finestrino aperto. Non aveva idea di dove fossero. C'era un buio pesto e l'aria era fresca. La macchina era circondata da alberi, che frusciavano nella brezza notturna. Lui districò le gambe e uscì, sentendosi rigido e intontito. Alzò la testa e cercò il cielo. Qua e là qualche stella faceva capolino tra le foglie e vi sostava per un attimo prima che i rami, muovendosi, la spazzassero fuori dalla vista. Peter piegò le gambe, le raddrizzò e ruotò la testa da una parte e dall'altra. Respirò a fondo con gratitudine, ma quando si mosse in avanti barcollò perché la lunga immobilità gli aveva irrigidito le gambe. Mina, comodamente appoggiata al parafango anteriore, si riposava. Niente sembrava preoccuparla, lei sapeva dov'era e dove li aveva portati. — Spero che tu abbia dormito bene — ironizzò con sarcasmo. — A quanto pare è l'unica cosa che sai far bene, non credi? Dormire. Dormire e basta. Potresti essere proprio un vero esperto. Lui le girò la schiena, grattandosi le reni con entrambe le mani. — Oppure potresti bere liquori — insisté lei. — Avevo dimenticato quest'altra tua grande dote. Dunque, ci sono due cose che sai fare. Peter si allontanò dalla macchina, inoltrandosi a casaccio nel buio. — Dove credi di andare? — lo fermò Mina. — Torno fra qualche secondo — rispose lui. — Andrà a fare una pisciatina — commentò Coke Rymer. — Vuoi che
venga con te, bellezza? Vuoi che ti tenga la mano? C'era buio e faceva fresco, e lui incominciò a sentirsi meglio, non più tanto appesantito. Il suo corpo era ancora appiccicoso per il viaggio e mentre si fermava a urinare ascoltò i rumori dei dintorni nella speranza di cogliere anche quello di un corso d'acqua che scorresse nelle vicinanze, per poter sciacquar via con l'acqua la polvere della strada, almeno in parte. Il suono dell'acqua non c'era, ma il fruscio delle foglie tormentate dalla brezza gli assomigliava abbastanza, e sembrava altrettanto confortevole e rinfrescante. Ecco... Ora si sentiva davvero meglio. Mentre ritornava verso la macchina si permise un vago sorriso e un pensiero gli attraversò la mente. Mi sono svegliato e ho scoperto che la vita era dovere. Lo stavano aspettando, in piedi accanto alla macchina. — Noi dormiremo dietro. Tu puoi sistemarti davanti, se vuoi — gli comunicò Coke Rymer. — Il volante ci sarebbe d'impaccio, capisci? — Va bene. — Oppure, se preferisci, puoi dormire per terra qui fuori. Se vuoi saperlo, non me ne frega un accidente di quel che fai. — Va bene — ripeté lui. La sua condiscendenza privò Rymer della possibilità di aggiungere altro. Il ragazzo rimase per un attimo incerto. — Be'... — Oh, maledizione. Vieni — tagliò corto Mina. Lo prese per un braccio, aprì la portiera della macchina e lo spinse dentro. — Se fosse per te immagino che staremmo qui in piedi a parlare per tutta la notte. Ma c'è di meglio, da fare. — Si girò verso Peter. — Perché non vai a fare un'altra bella passeggiata? Non credo che ci sia niente nei dintorni pronto a divorarti. L'unico rischio è che ti perda. Quindi, non ti allontanare troppo e guarda dove vai. — Salì anche lei a bordo e chiuse la portiera. Una passeggiata non era proprio quel che gli ci voleva in quel momento, anche perché si sentiva stanco. Ma era comunque meglio obbedire. Peter mise le mani in tasca e incominciò a camminare, desiderando intensamente una bella bottiglia di liquore. Il viaggio sarebbe stato infinitamente più sopportabile, con qualcosa da bere a portata di mano. Mina lo sapeva, eppure non gli dava niente... Cercò di non pensarci, ma riuscì solo a peggiorare le cose. Persino i suoi neuroni sembravano reclamare un po' d'alcool. La brezza non si era placata e adesso spirava più fredda di quanto fosse desiderabile. Lui continuò a camminare senza meta, ignorando tutto ciò che lo circondava. Ogni tanto alzava lo sguardo, senza fermarsi, e gli sembrava che le stelle galleggiassero all'indietro sopra le sagome irregolari degli al-
beri. Continuava a chiedersi se si era allontanato abbastanza, se aveva concesso ai due compagni di viaggio una sosta abbastanza lunga da soddisfare le esigenze di Mina. Alla fine si girò e incominciò a percorrere il cammino in senso inverso. Non fece granché fatica. Il sottobosco era abbastanza rado e anche gli alberi crescevano lontani e ben distanziati. Gli capitò due o tre volte di uscire dal sentiero e di doverlo ritrovare districandosi tra cespugli e macchie di erica. Non ci furono comunque grossi problemi, e così finì per tornare troppo presto. Arrivò al margine dello spiazzo dove c'era la macchina e si fermò, sentendo i brontolii strozzati di Coke Rymer che provenivano dal sedile posteriore. Si buttò goffamente a terra e rimase seduto con le gambe incrociate, ad ascoltare. Si ritrovò ancora una volta a sorridere, con ironia ma senza gioia, e rimase ad aspettare. Udì il respiro basso e sibilante, il solito snervante brontolio. Tutti i meccanismi crudeli di un accoppiamento senza amore. Attese senza curiosità, certo della conclusione che ne sarebbe seguita. E la conclusione venne. Il grido angosciato di Coke Rymer risuonò due volte e si perse nella brezza e nell'oscurità. Anche lui ne subiva il dolore. Uno schiocco. I denti freddi di Mina, il suo fiato che puzzava di pesce. Era assidua e instancabile. In una parola, implacabile. Peter sorrise sinceramente soddisfatto per la prima volta dopo molto tempo. Lei non aveva nessuna pietà, e non sarebbe passato molto tempo prima che Coke Rymer diventasse come lui, un uomo non più uomo e ormai incapace di fottere. Anche lui sarebbe stato un individuo spezzato, qualcuno che aveva lo spessore di un foglio di carta velina... Di colpo, Peter si trovò a rimpiangere la leva della pompa. Avrebbe dovuto portarla con sé, dato che senza si sentiva spaventato. Non possedeva altre armi, proprio lui che ne aveva così bisogno. Di sicuro, non c'era un altro uomo al mondo altrettanto indifeso e sprovveduto, invischiato in una trappola incomprensibile e maledettamente pericolosa. La terra e il cielo non potevano far altro che guardarlo, senza nessuna possibilità di offrirgli soccorso. Che cosa l'avrebbe placata? Indugiò ancora. Attese finché gli parve che fosse trascorso un tempo decente e sorrise per la terza volta perché nella mente gli era comparsa la parola "decente". Alla fine si alzò, passandosi automaticamente le mani sui pantaloni per togliere la terra umida che vi era rimasta. Raggiunse la macchina e aprì la portiera del posto di guida con la massima delicatezza. All'interno rimase buio perché la luce sul tettuccio non funzionava, neanche per Mina. Lui lanciò un'occhiata di dietro. Coke Rymer era schiacciato
contro il sedile, già addormentato, con il respiro pesante che usciva a fatica attraverso la bocca spalancata. Mina se ne stava sdraiata un po' più in là, appoggiata al gomito, e occupava quasi tutto lo spazio. Non era neanche scarmigliata. Guardò Peter con i suoi occhi chiari e stranamente luminosi, rivolgendogli la parola con voce pacata ma non roca. — Allora, hai fatto una bella passeggiata? — Sì, grazie — rispose lui. Non riuscì a impedire che nella voce gli guizzasse una piccola scintilla di trionfo. Sperò che lei non la notasse. — Mi fa piacere per te — ribatté Mina. — Un po' di moto è quel che ci vuole se ti interessa recuperare le forze. Lui si mise carponi e cercò di raggiungere l'altro sedile strisciando con le mani e le ginocchia. Voleva avere il volante dalla parte dei piedi. — Sai una cosa? — continuò lei. — In questo momento non mi dispiacerebbe affatto sbatter fuori dalla macchina il vecchio Coke. Dormirà come un sasso per un bel pezzo. Se vuoi venire qui dietro a tentare la fortuna, io mi sbarazzerò del ragazzo. — Il tono era pigro e incolore e gli occhi sembravano due grosse macchie grigie. — Credi che ti andrebbe ancora un po' di esercizio? Tutta la precedente serenità di Peter si dissolse. — Grazie, preferirei di no — rispose. Lei tirò in su con il naso per mostrargli tutto il proprio disprezzo. — Lo immaginavo già. Peter si stese, poi si rialzò per chiudere la porta. Ritrovò la posizione giusta e rimase lì, amareggiato e ferito. Sentiva un gran bisogno di riprendersi la leva della pompa, ma era deciso a non chiederle che fine avesse fatto. Giacque a lungo sveglio, tenendosi gli organi genitali nella mano sinistra. Ma alla fine il sonno lo vinse, regalandogli una pausa di silenzio senza sogni e un risveglio sereno e riposato, nella luce del sole. L'unico guaio era la sete, un'arsura sconfinata al pensiero delle riserve alcooliche di Mina. Nel primo pomeriggio arrivarono a Gordon, una città non diversa dalle decine di altre che avevano oltrepassato durante il viaggio, per quel che Peter poteva vedere. La campagna circostante era piatta e nella brezza che spirava da est c'era un lievissimo accenno di salsedine. Probabilmente l'oceano distava solo qualche chilometro. Lì l'erba lottava per crescere e la terra era spesso nuda, con uno strato di polvere biancastra e rosata che ricopriva uno strato compatto di argilla. In quel punto il terreno argilloso era sul punto di lasciare il posto alla sabbia e i due tipi di suolo si mischiavano
l'uno con l'altro. Anche la luce del sole sembrava polverosa, formava uno strato spesso sulle foglie degli alberi di magnolia e si raccoglieva in macchie accecanti come neve nelle fessure più alte delle siepi di bosso. — Eccoti accontentata. Questa è la città dove volevi tanto arrivare — disse Coke Rymer. — E adesso cosa vuoi che faccia? — Gira un po' intorno e lasciami guardare — rispose lei. — Ti dirò io dove ti devi fermare. — Bene. Sei tu il capo. — Appunto. Le strade di Gordon sembravano tranquille. Le macchine stavano parcheggiate su ciascun lato della strada principale, infilate appena possibile sotto l'ombra compiacente delle querce o degli alberi di magnolia. Sui marciapiedi transitavano bambini negri dallo sguardo intenso, con i costumi da bagno bagnati appesi alla cintura. Le case erano principalmente edifici bianchi di legno a due piani ma qua e là si vedevano anche delle piccole bifamiliari in mattoni, con le scatole argentate dei condizionatori d'aria che sporgevano dalle finestre meno assolate. Nella piazza principale correvano due coppie di binari ferroviari, una accanto all'altra, e la città ne risultava praticamente divisa in due. Nella parte a est dei binari le case dei ricchi lasciavano gradualmente il posto a quelle di chi si lamentava di una semplice rispettabilità e via via scendevano fino a espressioni di netta povertà. Il lastricato di asfalto si stringeva e si rompeva ai bordi. Le case bianche erano a un piano solo, con i cortili spogli e polverosi delimitati da blocchi di cemento grezzo. — Gira qui — ordinò Mina. Coke Rymer, compiacente, svoltò a sinistra in una strada rossa, piena di buche e di sporcizia. I fossati laterali traboccavano di ceneri nere e le case non erano più bianche ma grigie o marroni, macchiate dalla pioggia e sbiadite dal sole. Si trovavano nel quartiere negro e non c'erano più insegne agli angoli che indicassero il nome delle strade. Lì, le strade erano senza nome. Ogni tanto si incontrava qualche squallido negozio di alimentari, con il rivestimento in falsi mattoni rappezzato con manifesti di pubblicità per aperitivi o medicine contro il mal di testa. — Ecco. Fermati qui — disse lei. Rymer si fermò, lasciando il motore acceso. Erano usciti dal quartiere negro per entrare nella triste zona dei poveri bianchi. Sulla destra c'era una casa bianca e tozza, ma l'attenzione di Mina era puntata sull'edificio di sinistra. La casa era piccola e ospitava al massimo quattro o cinque stanze. Sul retro si vedeva una palizzata in legno
di quercia grezzo dipinta di marrone in modo molto approssimativo. Il marrone era così scuro da sembrare creosoto e delle finiture bianche non rimaneva ormai che un lontano ricordo. Il terreno di fronte alla casa, privo di cinta, era spoglio e polveroso come gli altri. Il tetto, in lamiera grigia galvanizzata, assomigliava molto a quello della casa dei Morgan tra le montagne. Peter non vi scorse niente di interessante. C'erano centinaia, milioni di costruzioni identiche a quella... Eppure, era quella che Mina voleva e che aveva cercato. — Puoi parcheggiare — dichiarò la ragazza. — Il posto che cercavamo è questo. Coke Rymer spense il motore e tutti e due scesero a terra. Si appoggiarono al fianco surriscaldato della macchina. — Non vedo che cosa ci sia di tanto meraviglioso in questo posto — commentò il ragazzo. — E chi ci abita, in ogni caso? — Non ci abita proprio nessuno — rispose lei. — Ci abiteremo noi. Lui si strinse nelle spalle e si succhiò gli incisivi. A tutta prima Peter rimase allibito. Non aveva senso, proprio nessuno. Poi lo sconcerto si tramutò in sollievo. Avrebbero scaricato il bagagliaio della macchina, e lui poteva aiutarli a portare tutto in casa. Così, Mina gli avrebbe concesso qualcosa da bere come ricompensa. 4 Quando Peter si svegliò il suo corpo ossuto tremava, e non solo per il freddo del mattino, ma perché quella era la condizione normale al risveglio. Lottò per liberare le membra e le catene sbatterono sul pavimento pieno di schegge della cucina con gran fragore. Non desiderava aprire gli occhi. La luce del primo mattino gli avrebbe ferito il cervello come una scarica di proiettili. Nella stanza l'odore del whisky rovesciato e delle briciole di cibo ormai rancide era appena alleggerito da qualche folata d'aria che entrava. Forse il vetro della finestra si era rotto, o qualcuno aveva lasciato la porta aperta. La luce gli batteva sulle palpebre, formando al di sotto una spessa cortina rossa e abrasiva che gli martellava le tempie. Un rutto incontrollabile gli riportò in gola tutto il fetore delle sue stesse viscere e mentre lottava per respirare, con la bocca aperta per dissipare quel sapore mortifero, le gocce di sudore incominciarono a scorrergli lungo tutto il corpo, inzuppandogli la camicia e i pantaloni già salati e appiccicosi per le settimane di uso ininterrotto. Sussultò.
Poi giacque immobile, cercando di ascoltare, ma tutto quel che riusciva a sentire era il proprio respiro pesante e stentato. Lo trattenne e sentì il sangue brulicargli nelle orecchie. A parte lui, non sembrava sveglio nessuno, e dunque gli conveniva stare fermo. Se li svegliava, e il rumore delle catene avrebbe svegliato chiunque, loro lo avrebbero tempestato di calci. Cercò di spostare la testa in un'altra posizione, senza muovere le braccia e le gambe, in modo che il sole non gli battesse più sugli occhi. Non servì. Il giorno aveva iniziato il proprio corso terrificante, e il sole avvelenava già il cielo. Lui sentiva i raggi funesti infiltrarsi subdoli nei pori. Gli sembrava che coppie di mani metalliche gli strizzassero a intermittenza la spina dorsale. E non c'era verso di riuscire a mettere la faccia in ombra. Cadde in un dormiveglia agitato, ma si svegliò di soprassalto per la paura di far tintinnare le catene nel sonno. Con la sua bocca larga, Mina gli avrebbe strappato il pomo di adamo dal collo. L'avrebbe sputato sul pavimento per schiacciarlo sotto il calcagno grosso e volgare, come si fa per uccidere gli scarafaggi. Peter immaginava con chiarezza la faccia immota china su di lui, sentiva il suo fiato sordido e vedeva i denti, simili a centinaia di aghi implacabili. Dalle labbra gli sfuggì un gemito, che lui troncò subito serrando la gola come se dentro ci fosse una serratura d'acciaio. Se incominciava a gemere non sarebbe più stato capace di fermarsi, il lamento sarebbe cresciuto di tono fino a trasformarsi in muggito e loro avrebbero continuato a picchiarlo finché i muggiti non si fossero spenti. Il gemito cessò. Il petto gli doleva ancora forte dove lo avevano preso a calci l'ultima volta. Lui si sforzò disperatamente di rilassare i muscoli per smettere di tremare, mentre fiumi e fiumi di lacrime gli rigavano la faccia. Se apriva gli occhi le lacrime vi avrebbero conficcato mille e poi altre mille lame. Era comunque così stanco da perdere conoscenza. Cadde in un sonno tinto di giallo, amaramente disturbato dal suono di un trapano elettrico e dall'odore di pesce e melma scura. Sognò di non avere più faccia. Gli occhi si erano tramutati in chiazze scure e opache sulla schiena grigia come pietra e lui nuotava per sempre in quel mondo di oggetti solidi che, per il suo nuovo corpo, erano diventati liquidi. Nel sogno non c'era niente che lui potesse toccare, e il corpo era un semplice prolungamento del proprio essere, senza una natura conoscibile. Si svegliò di nuovo, questa volta assalito da una sete bruciante. La luce del sole non gli inondava più la faccia e tuttavia non ebbe la sensazione di aver dormito particolarmente a lungo. Avvertì una presenza calda. Dapprima gli occhi rifiutarono di aprirsi e lui pensò che glieli avessero chiusi
per sempre con dei ganci. Allora incominciò a battere la testa da una parte e dall'altra, lamentandosi e fregandosene delle catene. Riuscì ad aprire gli occhi, anche se per il momento non poté vedere nulla, ma di colpo trovò difficile respirare. Espirò con forza e un'inspiegabile piuma di pollo si sollevò e poi gli si incollò a una guancia. Rantolò per ritrovare il fiato e quando riuscì a vedere scoprì che era tutto buio. Eppure, oltre l'oscurità, c'era una palla bianca e luminosa da cui si irradiavano tutti i mali possibili. Non riuscì a pensare altro. Nella sua testa ogni cosa sembrava essersi disfatta. Alla fine capì che stava guardando il sole. Splendeva attraverso il tessuto grigio scuro e arrossava appena i muscoli tesi delle gambe che salivano ad arco sopra la sua faccia. Le conosceva già. Erano le gambe sode e paffute di Mina. Distingueva la curva rigida del polpaccio e le cosce arroganti e irriverenti. Spinse lo sguardo fino a risalirne l'interno tinto di rosa. Seppe di aver sempre avuto ragione. Lassù, nel punto di giunzione dove doveva esserci la sua rosa di donna c'era invece un ragno grande come una mano, ricoperto di peli aggressivi e ispidi come spini. Peter non riuscì a smettere di guardare. Gli si chiuse la gola e il petto incominciò a sollevarsi per reclamare aria. Avvertiva già i primi rantoli. Gli si aprì la gola, ma era difficile respirare perché i gemiti erano incominciati. L'avvio fu subito inarrestabile e lui seppe che stavolta non c'era speranza. I muggiti l'avrebbero sopraffatto e loro non si sarebbero stancati di prenderlo a calci. — Zitto, taci — ordinò lei. — Possibile che tu non sappia mai stare al gioco? — Con la mano che non teneva sollevata la gonna si toccò là sotto e strappò via il ragno. Lo tenne sopra la sua faccia e anche se ormai si capiva che era un giocattolo con il corpo di pelo, la struttura di fil di ferro e le gambe a molla, Peter non riuscì più a ricacciare il lamento in fondo alla gola. Il tono si alzò e il momento dei muggiti divenne sempre più vicino. Mina lasciò ricadere la gonna e chinò la faccia sopra di lui, girandosi un po' perché Peter potesse vedere meglio tutto il disgusto che provava nei suoi confronti. — Va bene, l'hai voluto tu. — Scrollò il finto ragno in mano e glielo lasciò cadere sul viso. Lui si sforzò di non cedere, strinse i denti e lottò per ricacciarlo indietro, ma il terrore silenzioso e inarrestabile si riversò fuori dalla sua bocca, un muggito dopo l'altro, in un crescendo di assoluta follia. Era così spaventato che non riusciva nemmeno ad ascoltarsi. Ma sentì Mina che strillava. — Coke! Coke! Vieni qui subito. Vieni qui! Il ragazzetto biondo e slavato arrivò ancor prima che lei smettesse di gridare. Non la guardò neppure e mise immediatamente il tacco dello sti-
vale sul petto di Peter, schiacciando sempre più forte. Schiacciò finché lui non riuscì più a respirare e dovette per forza smettere di muggire. Poi si accoccolò e gli si sedette addosso, saltando su e giù con tutto il proprio peso, per impedirgli di far uscire le sue paure. Incominciò a picchiare sulle braccia e sulle gambe, con un grande fragore di catene, e a sfregargli le membra contro il pavimento. Incominciò a schiaffeggiargli la faccia, prima con una mano e poi con l'altra. — Come mi chiamo io? — chiese. — Coke. Lo schiaffeggiò ancora. — E poi? Qual è il nome intero? Peter si sentì raggelare. Non ricordava più nulla. Formulò dei suoni, da cui non emerse alcun nome. — Avanti, bamboccio. Pensaci bene. Qual è il mio nome per intero? — Gli schiaffi erano aumentati di numero e di intensità. — Coke Rymer — disse lui. — Adesso sì che ci siamo — approvò il biondo con voce suadente. — Ormai può bastare. — Si rialzò, con la stessa grazia indolente e noncurante di sempre. — Ti daremo qualcosa da bere, okay? — Senza aspettare risposta, gli sferrò ancora un calcio, all'altezza del collo. — Bravo bambino — disse. Lui gemette per il colpo, ma dopo che le prime espressioni di dolore furono superate si abbandonò a un lamento che, finalmente, divenne solo un palpitare silenzioso e teso del petto. Continuò a tenere lo sguardo fisso sugli occhi azzurri e acquosi di Coke, e la sua espressione era densa di paura e di dolore, ma non di odio. Aveva esaurito il suo odio per sempre. Apparentemente soddisfatto, Coke Rymer si inginocchiò e incominciò a sganciare i bracciali di ferro che gli incatenavano i polsi e le caviglie. Continuava a rivolgergli pacate rassicurazioni. — È tutto a posto, adesso. Tutto sistemato. Te la caverai benissimo, bellezza. Te la caverai in modo egregio. — Quando ebbe sciolto tutte le catene porse il mazzo di chiavi a Mina, insieme alla catenella in cui stava infilato. Lei si fece passare la catenella sulla testa, infilò il mazzo nella scollatura della camicetta di cotone e si abbottonò. Rimase un po' scostata da tutti e due, tenendo le braccia incrociate. Coke Rymer alzò Peter di peso, lo aiutò a rimettersi in piedi e lo sostenne finché non gli sembrò in grado di mantenere l'equilibrio anche da solo. Lui vacillò, con la testa reclinata quasi completamente sul petto, dondolando avanti e indietro. Mosse faticosamente qualche passo nella stanza e si appoggiò all'indietro contro il tavolo da pranzo dall'aspetto fragile.
Massaggiò con cura i polsi, ulcerati e scarlatti nel punto in cui i pesanti bracciali di ferro avevano strappato via la pelle. Si sentì sommergere da una grande pietà, nel vederli ridotti in quel modo. — Oh — sbuffò Mina. — Non sono quelle le vere ferite. Non è niente. — Gli daremo un buon sorso di liquore — disse Coke Rymer. — Lo rimetterà in sesto ancora prima che ce ne accorgiamo. Farà di lui un uomo nuovo. — Spalancò uno degli sportelli della rachitica credenza a muro. Dentro, era zeppo di bottiglie vuote e di bicchieri rotti. Ne tolse una bottiglia da un litro piena di uno strano liquido denso e incominciò a scuoterla, controllandone il contenuto davanti al fiume di luce che entrava dalla porta aperta. — Che cosa mi dai per questa? — chiese. Mostrò i denti in un sorriso tirato. Peter non riuscì a tirar fuori altro che un grugnito. E anche quello risuonò come una manciata di ghiaia in una scatola. — Forza, dagliela — incitò Mina. Rimase a guardare con espressione paziente, come se fosse curiosa di vedere che cosa succedeva. Era evidente che la curiosità non sarebbe mai apparsa apertamente sul suo viso. Il ragazzo gli tese la bottiglia e lui attese prudentemente un secondo per vedere se la ritraeva di scatto. Poi l'afferrò con entrambe le mani e si limitò a tenerla stretta per paura di farla cadere o di rovesciarne il contenuto. Bevve a brevi sorsi convulsi. Il liquido era torbido, tiepido e molliccio, con qualcosa di ardente in sottofondo. Mentre abbassava la bottiglia Peter abbassò anche la testa, e poi di nuovo la strinse forte tra le dita, contraendo i muscoli del petto e quelli dello stomaco all'interno. Voleva tener giù quella roba, non intendeva lasciarsela sfuggire. Rimase rigido, dalla testa ai piedi. Dopo un lungo istante i conati di vomito scomparvero e il sudore ricominciò a coprirgli la pelle. Mina non aveva smesso di guardarlo. Parlò in tono controllato e tranquillo. — C'è del sangue di pollo in quel liquore. Lui era immerso in un'indifferenza quasi letargica. La faccia della ragazza gli sembrava un foglio bianco da cui non era possibile cavare nulla. — L'hai fatto da solo — continuò Mina. — Sei stato tu a tagliare la testa alla gallina e a ficcarle il collo giù per la bottiglia. Immagino che non te lo ricorderai, ma l'hai fatto davvero. Soltanto ieri sera. — Nella luce del mattino, i suoi occhi sembravano più chiari che mai. Coke Rymer ridacchiò sotto i baffi. Lui fissò la bottiglia che aveva in mano con espressione incerta, poi la mise con cura sul tavolo. Al punto in cui si trovava, non c'era più nulla che
potesse sconvolgerlo. Rimase in attesa, immobile e perplesso. Lei mosse i piedi e si rivolse a Rymer. Aveva la stessa aria perfettamente rilassata di chi ha appena visto concludersi con successo un difficile gioco di prestigio. — Io e le ragazze dobbiamo uscire — annunciò. — Voglio qualcosa di nuovo da mettere per stasera. Intanto, sarà meglio che lo tieni d'occhio perché non combini guai, e fagli anche pulire un po' questo posto. Non lasciarlo bere troppa di quella roba, altrimenti non concluderà più niente. E fallo anche pranzare. Deve pur mangiare qualcosa, ogni tanto. La mente di Peter incominciò a schiarirsi. I passaggi angusti di ciò che conosceva delle sue fatiche e delle sue paure emergevano a poco a poco dal fumo umido. Capì che Mina parlava di lui ma che non era necessario ascoltare. Poi, invece, dovette farlo. Lei gli stava dicendo qualcosa. — Vai là dentro e sveglia le ragazze. — Era un ordine. — Bisogna sbrigarsi, se vogliamo andare. — Aspetta un minuto — si intromise Coke Rymer, girandosi verso di lei. — Voglio fargli vedere qualcosa. — Si avvicinò al punto in cui si trovava Peter e allargò la mano sul tavolo, con le dita ben distanziate. — Guarda qui, bellezza — disse. — E tieni gli occhi aperti. — Prese dalla tasca un grosso coltello a serramanico e se lo rigirò nella mano libera. Lo sfiorò con il pollice e una lama lunga e affilata scattò in fuori, sporgendogli dal pugno e fendendo l'aria. Peter fece un passo indietro, tremando. Riconosceva il coltello, e non voleva provarlo sulla propria pelle. Non voleva neanche vederlo. Coke Rymer lo appoggiò sul tavolo e con l'indice lo fece girare come una trottola. Rideva divertito. Sollevò l'arnese dalla parte della lama, tenendolo tra il pollice e l'indice. — Guarda — suggerì. Indugiò un attimo e poi lanciò con precisione il coltello in alto. L'arma ruotò vorticosamente su se stessa, e brillò come una ruota a pioli metallica. Quando scese si piantò sul piano del tavolo, tra il dito medio e l'anulare della sua mano sinistra. Il ragazzo ridacchiò ancora. Il coltello vibrò per un attimo e poi rimase immobile. — Adesso basta con queste stupidaggini — tagliò corto Mina. — Voglio che faccia qualcosa di utile, oggi. Non mi piace che tu perda tempo a fare confusione e a giocare con lui. Lascialo sbrigare le faccende che deve sbrigare. Coke Rymer chiuse il coltello e lo mise via. Poi si girò verso di lei. — Vuoi che gli porti via quella vecchia leva della pompa? — Non è necessario. Smetti solo di distrarlo e lascialo in pace. Crea già
abbastanza problemi quando è in condizioni normali anche senza che tu lo stuzzichi. — Non gli ho fatto niente di male. — Lascialo perdere, ho detto. — Mina si rivolse a Peter. — Ti avevo chiesto di svegliare le ragazze, mi sembra. Non ho intenzione di perdere tutta la mattina per colpa tua. Camminando in modo goffo, lui si avviò con riluttanza alla porta della camera da letto. Voleva che lei chiarisse bene a Coke che non doveva toccare la sua pompa. Doveva impedirglielo. La leva gli dava sollievo con la sua lunghezza, con la sua struttura massiccia. Adorava accarezzare la curva delicata del suo corpo liscio e gli piaceva semplicemente averla vicino, tenersela davanti, ammirarne il peso e la splendente brillantezza. Aveva passato ore e ore a fregarla, lucidarla e oliarla. Sapeva che Mina traeva una certa soddisfazione dal pensiero che lui la considerasse un sostituto dell'organo maschile. Dunque non doveva permettere a Coke di scherzarci sopra... Non avrebbe mai capito quel ragazzo. Non c'era niente, in lui. Proprio niente. Non c'era nessuna buona ragione perché lei continuasse a tollerarlo. Passò pesantemente attraverso la soglia stretta ed entrò in soggiorno. Lì dentro la luce era più tenue e non gli rintronava la testa. Davanti alla finestra a nord il tendone lacero era abbassato quasi del tutto e nei fori brillavano scintille e isole di luce. Dalla finestra a ovest si vedeva chiaramente la casupola bianca e tozza dall'altra parte della strada, tutta gialla nella luce del mattino. Un cuscino giaceva spiegazzato sul pavimento, caduto probabilmente dal divano a molle che si trovava dall'altra parte della stanza. Il divano era rivestito da un lurido tessuto color vinaccia, chiazzato d'unto in più punti, e l'imbottitura spinosa dello schienale si era quasi completamente sfatta. Sul tavolino nero vicino a una delle due estremità troneggiava una radio che, come sempre, era accesa. Peccato che nessuno si fosse preoccupato di sintonizzarsi su una stazione, e così dall'altoparlante usciva solo un concerto di scariche elettrostatiche. In un angolo, qualcuno aveva lasciato due scatole di carte, rotte, e alcuni fogli di giornale che si erano sparpagliati sul pavimento. Sulla parete a est, di fianco alla porta, Marilyn Monroe, Jayne Mansfield e Elvis Presley fissavano gli ospiti dalla carta dei rispettivi manifesti da quattro soldi, punteggiati da escrementi di mosche. Sotto il bordo del divano e in due angoli consecutivi della stanza c'erano ancora i resti anneriti del rivestimento che un tempo aveva coperto il pavimento di linoleum, ora graffiato e opaco.
La camera da letto si trovava a sud del soggiorno e Peter entrò senza bussare. Un pesante tendone verde impediva alla luce dell'unica finestra di entrare e, difatti, nella stanza l'oscurità era molto più compatta che non in soggiorno. Lui dovette aspettare finché gli occhi non si furono abituati. Ammucchiate nel lettino d'angolo, perché quello matrimoniale a sinistra era di Mina, le ragazze si mossero inquiete, avvertendo nel sonno la presenza di Peter. Lui si avvicinò, ghermì una spalla bianca che sporgeva dalle coperte e la scrollò sforzandosi di essere il più gentile possibile. La carne palpitò sotto le sue dita senza nerbo. — Mmm... — Lui ci riprovò. Altro mugugno e poi la ragazza si rialzò a sedere. La faccia affilata, per colpa della poca luce, sembrò quasi staccata dal resto del corpo, simile a una lanterna fioca. Era Bella. I capelli neri si rovesciarono in avanti, nascondendole il viso. Lei scrollò la testa, alzò le braccia e mandò i capelli dietro le spalle. Il volto e i seni tornarono a essere perfettamente visibili. Le sue mammelle erano come facce senza lineamenti, e dondolarono dolcemente su e giù mentre lei si raccoglieva i capelli. Enid si mosse nel sonno, girandosi dalla loro parte, e fece scivolare il braccio sottile sul ventre di Bella. Lei smise di occuparsi dei capelli e per un attimo accarezzò con dolcezza quel braccio mollemente appoggiato su di sé. Un'altra delle piccole soddisfazioni che Mina si concedeva, pensò Peter. Le piaceva il fatto che Bella e Enid stessero insieme. La prima tamburellò dolcemente sulle spalle dell'altra. — Tesoro — chiamò con voce roca e impastata di sonno. — Svegliati. Se non sbaglio, Mina vuole che ci alziamo. Dai. — Enid si seppellì tra le coperte. Bella alzò lo sguardo su Peter. Uno sguardo astratto, quasi assente. A lui sembrò per un attimo che la ragazza volesse qualcosa, e il pensiero lo spaventò. Indietreggiò dal letto, inciampando. — Che cosa pensi di poter fare? — lo apostrofò lei. La sua voce aveva riguadagnato l'abituale durezza. — Vattene via. Tornatene nel posto a cui appartieni. Mentre usciva, lui vide Bella riprendere i preliminari amorosi sul corpo di Enid. Mina parlava con Coke Rymer in soggiorno e lui passò senza fermarsi, attraversò la cucina e uscì nel portico sul retro. Voleva controllare la sua pompa e assicurarsi che si trovasse ancora dove l'aveva nascosta. Era l'unica cosa che ricordasse del giorno prima. Il portico scricchiolò e ondeggiò sotto i suoi passi, con le assi indebolite dal tempo e dalle termiti. Due manciate di grosse mosche azzurre e verdi banchettavano sulla carcassa
decapitata di un pollo, abbandonata proprio lì in mezzo. Ronzavano senza tregua su quel cadavere nauseabondo, con un rumore che assomigliava a una sequela di imprecazioni soffocate. L'aria era già calda, viscida, e il ronzio delle mosche sembrava aumentare la tirannia di quella calura. Lui spinse il pollo con l'alluce nudo e le mosche si alzarono in volo, formando una specie di disegno a imbuto, poi tornarono immediatamente a posarsi. Lui si passò un braccio sulla bocca. Non riusciva a capire come avesse potuto fare una cosa del genere. Tutta la luce del sole sembrava concentrata sulla sagoma dell'animale ucciso. Peter scese in mezzo alla polvere soffice del cortile sul retro della casa. Il cortile era piccolo e sotto la polvere giaceva uno strato compatto e ardente di argilla. Un recinto di fil di ferro per maiali, ormai strappato in più punti, ne intaccava i confini rettangolari e qua e là facevano capolino lunghi tralci di rovi. Nell'angolo più a nord del cortile c'era una piccola rimessa bassa e cadente, da cui lui distolse lo sguardo senza nemmeno riflettere, con la forza dell'abitudine sostenuta da un elementare istinto di conservazione. Il portico sembrava steso sul retro della casa come un tappeto di scarto e il suo pavimento era sostenuto, all'esterno, da una pila di pietre intonacate. Peter ne costeggiò il bordo e sbirciò al di sotto. Laggiù, di traverso in uno spazio vuoto tra due pilastri, aveva nascosto la leva della pompa. Quando ne trovò l'impugnatura capì di aver trattenuto il fiato fino a quel momento, e l'aria gli uscì dalla bocca e dal naso in un'unica ondata, pesantemente carica degli umori di quel che era successo nelle sue viscere. Ancora una volta, Peter si pulì la bocca. Tirò fuori la sua arma e la tenne bene in vista davanti a sé, calda e solida com'era. La soppesò nella mano, la contemplò nella luce del sole e la esaminò da tutte le parti per scoprire eventuali macchie di ruggine o di sporco. Ma era pulita e splendente come il mercurio. — Dunque è lì che la tieni nascosta? Magnifico. Adesso so quel che volevo sapere. Lui alzò lo sguardo. Coke Rymer stava in piedi sul bordo del portico, appoggiato a un pilastro e intento a tagliuzzarlo con il suo coltello. Costernato, Peter fece un passo indietro. Coke Rymer gli rivolse uno dei suoi immotivati sorrisi. I denti erano piccoli e gialli. — Non desideravo sapere nient'altro. Solo dove tenevi nascosto quel maledetto arnese. Peter indietreggiò ancora, dondolando con aria guardinga la leva davanti alle proprie gambe, come un pendolo. Decise che se il biondo si azzardava
a scendere in cortile lo avrebbe colpito a sangue. Gli sfuggì un gemito. L'altro ripiegò il coltello e lo rimise in tasca. — Ehi, smettila. Non ti faccio niente. — Sogghignò di nuovo. — Sarà meglio che vieni su e incominci a sbrigare quelle certe faccende per conto di Mina. È capace di diventar matta se non trova tutto a posto, e immagino che tu non voglia farla inquietare, vero? Se lei se la prendesse con te, alla fine avresti un aspetto molto peggiore di quello che hai già, credimi. Lui continuò a tenersi alla larga, ma smise di dondolare la leva davanti a sé. Invece, se la strinse con affetto sul cuore. Coke Rymer lo guardò. — Puoi portare quel vecchio arnese con te, se vuoi. Per quel che me ne importa. — Si girò ed entrò rapidamente in casa. Peter si trascinò con passo malfermo su per i gradini scricchiolanti del portico. Le faccende non erano un problema. Sperava solo che non lo obbligassero a mangiare le solite rivoltanti fette di pane tostato alle uova, per pranzo. 5 Non mancava molto a settembre. In un altro dei suoi rari momenti di lucidità, Peter si sedette a ispezionare il proprio corpo. Ce n'era una buona porzione, in vista. Ormai lo vestivano solo con dei vecchi calzoncini da bagno azzurri, a brandelli, indipendentemente dal tempo. Le tavole dell'odiato pavimento al mattino erano dure e fredde come il ghiaccio e il sudore mischiato alla sporcizia gli rigava il corpo come se si trattasse di vernice. Sulla parte bassa della spalla c'erano ancora le tracce delle cicatrici a mezzaluna color argento che i denti di Mina gli avevano lasciato come ricordo. Ora, incominciavano a essere lambite e nascoste dai tatuaggi. Dove non era sporco da far paura, la pelle sembrava la copia di un libro a fumetti. Avevano incominciato dalla base della colonna vertebrale. Ricordava di essere rimasto steso sul letto di Mina, aggrappato alle sbarre di ferro a piangere senza ritegno, mentre un Coke Rymer insolitamente nervoso imprecava e lo malediceva, con in mano un ago elettrico ancora caldo. Mina sorvegliava la scena con calma. — No, non lì. Non lo stai facendo come ho detto io — protestava. — Non mi hai capito. — Poi si chinava in avanti e toccava delicatamente il punto che secondo lei doveva essere decorato. Il corpo di Peter sussultava, come se a sfiorarlo fosse di nuovo quel maledetto ago incandescente. — Sì, sì! Ho capito — replicava allora Rymer, con voce lamentosa ed esasperata. — Se solo riuscissi a convincere questo fi-
glio di puttana a stare fermo! — Un sudore oleoso gocciolava dalla sua faccia alla schiena di Peter, scendendogli poi a solleticargli il fianco. Una tortura indicibile. Alla fine della prima seduta gli avevano portato un paio di specchi per fargli rimirare l'opera compiuta. Debolissimo, lui si era alzato dal letto lasciandovi l'impronta fradicia e bruciante del proprio corpo. Poi aveva guardato nel punto che gli indicavano. — Tutto qui? — non aveva potuto fare a meno di gridare, pieno di angoscia e rabbia impotente. — Tutto qui? — Nello specchio c'era la sua pelle e, su una parte infinitesima, solo un minuscolo cerchietto giallo un po' storto, grande come un quarto di dollaro, con all'interno una testa scura indefinita e alcune lettere, almeno così sembrava, di un alfabeto a lui sconosciuto. Gli avevano disegnato una moneta sulla spina dorsale? Oppure il sole, in una specie di ingloriosa parodia? Non era possibile che tutto si riducesse a quello. Il dolore snervante e l'attesa intollerabile... a che cosa erano valsi? Adesso, ormai, ci aveva fatto l'abitudine. In fondo, non era peggio che venir assaliti da un esercito di formiche rosse. Si davano il turno un po' tutti, Coke, Bella e persino Enid, ma lui non piangeva più sotto l'ago. Le sedute avevano incominciato a sembrargli quasi necessarie e ogni volta aspettava con fredda curiosità quel che ne sarebbe uscito. La piccola moneta d'oro, o forse era un sole, era stata quasi oscurata. Doveva cercare con attenzione nello specchio prima di riuscire a individuare il vecchio punto di inizio in quel tappeto fantasmagorico che era diventata la sua schiena. E su quella schiena, niente era ciò che sembrava, non c'erano linee di demarcazione, né confini. Niente di conclusivo e tutto in via di definizione. Lì un grosso occhio, marmoreo e fluido, là una mano monca, con le dita unite da un velo di sperma. Acini color porpora apparentemente simili a uva, ma sciolti e senza niente che li legasse, coltelli in via di fusione ma comunque crudeli, capelli come felci azzurre. E poi chiazze irregolari color bianco giallastro, forse stelle che precipitavano nel vuoto, macchie di sconvolgente silenzio in quella giungla rauca e stridente. Una verzura policroma suggeriva una fecondità impossibile e insensata, inducendone persino l'odore, ma l'impressione complessiva era transitoria come rugiada. E qui? Forse un uccello color inchiostro che lottava per prendere forma? E quegli altri erano pesci, o non piuttosto tendini scarnificati e sciolti? Un grumo di alghe spinose?... Un verme?... E quelle strane sagome che gli lambivano le spalle e il petto cancellando le cicatrici dei denti di Mina, non potevano essere che lembi di fiamme verdi, rovesciate. In modo silenzioso e superficiale Peter poteva condividere l'evidente
piacere che gli altri traevano dalla loro impresa. Adesso era il turno di Bella. Lo avevano già sistemato supino sul letto e lui poteva osservare la concentrazione suprema di quel viso affilato. La ragazza bruna usava l'ago con la stessa cura che avrebbe impiegato per cucire un prezioso ricamo e la cosa, in un certo senso, lo lusingava. Quando lavorava su di lui, nel suo atteggiamento non c'era più traccia della stupefatta insolenza che riservava agli uomini che lei e Enid si portavano a casa. Era chiaro che il suo interesse per loro si limitava al denaro. Aveva modi bruschi e il suo corpo odorava sempre di terra, di quella sporcizia sabbiosa che c'era fuori, battuta senza pietà dai raggi del sole. Anche Mina era molto attiva durante le sedute, per quanto la sua faccia, enigmatica come sempre, non mostrasse mai il minimo interesse. Ma Peter sentiva la sua presenza e ne traeva una folle e incongrua felicità. Evidentemente lo stavano preparando, sistemando per qualcosa di cui lui non era ancora a conoscenza. Ma, tutto sommato, il fine ultimo gli risultava indifferente. Sospettava che le sue esibizioni serali, di cui non ricordava nulla, fossero sempre più frequenti e assurde e che si stesse dunque avvicinando per lui chissà quale orrendo culmine. Ma non gli importava. L'attenta e costante prosecuzione dei tatuaggi gli regalava quasi l'illusione di diventare a poco a poco un altro. Il vecchio Peter o forse l'unico, non che gliene importasse, veniva a poco a poco cancellato. Lui resuscitava, invece, un centimetro dopo l'altro. E quel pensiero lo elettrizzava, leniva le sue feroci depressioni e lo sosteneva durante i momenti in cui si sentiva cadere, cadere sempre più in basso, in un pozzo vuoto tra gli atomi. Era seduto nel minuscolo portico sul retro, con la leva della pompa in mano e il sole del primo pomeriggio che gli accarezzava il petto come un batuffolo di cotone spesso. L'aria era zuccherosa, per la gioia dei mosconi che ronzavano tutt'attorno. Enid uscì di casa e venne a sedersi vicino a lui, sollevò la gonna fino alle cosce e lasciò dondolare le gambe bianche al sole. Lui non si tirò in disparte. Non aveva paura di Enid, anzi, provava per lei una specie di struggente pietà. Non aveva niente di speciale, ma era allegra, vuota come l'aria, e anche lei paurosa. Era bionda come Coke Rymer, ma sottile e graziosa, senza ombra di crudeltà. Eppure, Peter sentì il bisogno di spostare furtivamente la mano per toccare la leva della pompa. E si sentì subito meglio. La voce della ragazza era un sospiro cantilenante. — Devo fare sempre come te — confessò. — Devo fare tutto quello che mi dice Bella, proprio come succede a te con Coke. È buffo, come funziona.
Peter non rispose. Parlare gli faceva male perché aveva la gola bruciata da tutto il liquore ingurgitato. Lei spostò le gambe e la pelle luccicò sotto il sole. — E poi, Bella e Coke devono fare quello che dice Mina. Buffo. — Si strinse nelle spalle, fragili come foglie secche. — Ma a me non importa quello che fanno. Non possono fare proprio niente che mi preoccupi davvero. Lui fu quasi sul punto di aprire bocca. Voleva dirle che si sbagliava, che loro potevano farle cose che nemmeno immaginava e che il dolore e l'umiliazione sarebbero stati superiori a ogni umana comprensione. Peggio ancora, l'avrebbero privata della consolazione dell'offesa. Non le avrebbero lasciato nulla. — Immagino che sarò io la prossima della lista — continuò lei. — Lo so bene. Voglio dire, quando tu te ne sarai andato del tutto. Finiranno di occuparsi di te e incominceranno con me. Ma non me ne importa, perché mi è già capitato di sopportare il peggio. Lui scrollò amaramente la testa. Era chiaro che la ragazza si riferiva alla sua morte. Per un istante si chiese perché l'avessero detto a Enid e non a lui. Non c'era dubbio che la conoscenza anticipata della propria fine sarebbe stata la fase meglio studiata di tutto il trattamento che gli avevano inflitto. Ma ne scartò subito l'ipotesi. Non gliel'avevano detto, no. Enid sapeva della sua prossima fine esattamente come lo sapeva lui, e come l'aveva sempre saputo, anche prima della morte di Sheila. Si corresse. Prima che assassinasse Sheila... Ma Enid si sbagliava comunque. L'aspettavano torture inimmagginabili. Era destinata a essere una vittima, proprio come lui. Non aveva né la determinazione né la possibilità di reagire. Eppure, Peter non poteva evitare di ammirarne il coraggio. Se non altro, lei indovinava parte di ciò che sarebbe successo e continuava a mantenere un atteggiamento rassegnato. Naturalmente il coraggio, di qualunque natura fosse, non era mai sufficiente, da solo. Ci voleva anche un tenace amore per la vita, e una ferrea volontà di sopravvivenza, qualità di cui Enid sembrava totalmente sprovvista. Nel cammino verso la fine, lei sarebbe stata semplicemente quella che era già, una vittima predestinata. E forse, quella consapevolezza avrebbe reso tutto più semplice. A Peter era capitato di pensare che le cose sarebbero state meno dolorose per lui se fosse riuscito a rassegnarsi, ad accettare senza lotte qualunque nuova e oscura prova che gli venisse presentata. Ma un nuovo inquietante pensiero emerse in superficie. Era possibile che Enid fosse stata scelta da Mina proprio come esempio? Era plausibile che la sua sottomissione e la sua dimostrazione di coraggio
non fossero altro che tentazioni finali preparate apposta per lui? Stavano forse tentando di infrangere l'ultima scintilla di integrità che ancora gli rimaneva, un'integrità che lui non riusciva a scorgere ma che forse costituiva uno smacco per Mina? Oppure questi pensieri non erano altro che autolusinghe a buon mercato? Il dubbio era come un crudele anello di ferro e Peter reagì, come sempre, sollevando la sua lucida pompa in un ultimo tentativo di consolazione. Ma questa volta non bastò. L'autocommiserazione lievitò nel suo cuore di pari passo con le lacrime che gli premevano sotto le palpebre. La leva della pompa, come qualsiasi altro oggetto a parte le catene, le assi del pavimento e l'ago per i tatuaggi, stava perdendo la propria identità. La leva non era nulla senza l'autorità del suo sostegno originale. Si staccava inesorabilmente da lui, e lui finiva per restare completamente solo. Enid scese con leggerezza dal portico e gli passò davanti per raggiungere gli scalini ed entrare in casa. Peter ascoltò il fruscio impercettibile dei suoi piedi nudi sul legno e sul linoleum. Poi sentì la voce tagliente di Bella che accoglieva la sua amichetta bionda in soggiorno. — Ecco finalmente la nostra piccola Enid. Graziosa, no? — Aveva una voce penetrante, Bella, con un timbro quasi tenorile, e di gola. — Dovresti metter su qualche chilo, tesoro — suggerì. — Sei tutt'ossa! Naturalmente ti amo ancora, se non altro perché sei bionda. Sono sempre andata matta per le bionde. Tu, comunque, saresti perfetta con un po' di carne in più. — Tacque per un po' e lui poté immaginarsi la scena senza difficoltà. Bella seduta sul divano spelacchiato con il suo lungo vestito marrone, le gambe accavallate alla maniera degli uomini, con la caviglia sul ginocchio opposto, e le lunghe cosce flaccide e polverose al vento. La vedeva spegnere la sigaretta con un movimento secco e deciso del polso. — Vieni qui — la sentì dire. — Vieni qui dalla mamma. Sospirò. Le luci arroventate del pomeriggio incominciavano lentamente a placarsi. Il sole era sceso più in basso, ma la luce restava bianca e caldissima. Sembrava quasi che il paesaggio si fosse inarcato verso l'alto, più che il contrario, come se il calore che aveva inzuppato la polvere e compresso la terra non fosse bastato, e non fosse destinato a bastare mai. Nel fulcro del mondo c'erano profondità gelide che si ricreavano in continuazione, un freddo purissimo e restio, capace di assorbire tutto il calore del sole e di ogni altro punto di luce, e di struggersi per lui. Questo gelo formidabile si rivoltava all'improvviso contro Peter. Lui l'aveva sentito avvicinarsi e adesso ne avvertiva la presenza con tanta precisione da rabbrividi-
re, in previsione di ciò che sarebbe successo. Capiva che le leggi di ogni fenomeno naturale si rivoltavano contro di lui. La leva della pompa era diventata leggera come il vimini, quasi incorporea. Non c'era più un solo punto di contatto tra il suo stesso corpo e il mondo. Il suo corpo brillava di una luce sgargiante, e galleggiava in un vuoto altrettanto sgargiante. Ma qualcosa gli affondava nella spalla. Qualcosa che aveva un peso. Guardò. La mano di Coke Rymer era scesa su di lui e Peter si alzò sforzandosi di non vacillare, rifiutando la crudele profferta di aiuto del ragazzo per rimettersi in piedi. Ma gli crollò addosso, perché ormai trovava impossibile mantenersi in piedi senza aiuto, e l'altro reagì spingendolo indietro con rabbia e colpendolo con il gomito sulla parte sinistra del mento. — Accidenti a te! — esclamò. — Perdio, se te la farò pagare! — Gli assestò un manrovescio sugli occhi, poi lo prese per mano e lo condusse dentro. Lui aveva gli occhi annebbiati dalle lacrime, e gli sembrava di avere in testa una trivella che scavava, scavava... Coke Rymer lo appoggiò alla parete butterata della cucina, proprio come un altro avrebbe appoggiato una tavola a un muro, intanto che sbrigava qualcos'altro. Tornò indietro per osservarlo meglio e l'attenzione meschina e crudele che gli aveva sempre dimostrato sembrò in gran parte svanita. Ormai, occuparsi di lui doveva sembrargli un'abitudine e l'esperimento era durato anche troppo a lungo per corservare intatti tutti i suoi motivi di interesse. A quel punto, tutto tendeva all'accelerazione, verso un finale succoso. — Allora, bellezza, posso darti qualcosa da bere? La sagoma di Coke Rymer ondeggiò nella nebbia davanti a lui. Peter tentò di fermarla ma non ci riuscì. Scrollò la testa. Non poteva bere più niente. Il suo corpo non era più in grado di accettarlo, il liquore non rimaneva nello stomaco neanche mezzo secondo, e lui non trovava più nessun conforto nel bere. — Sei sicuro, bellezza? Un tempo ti saresti buttato nel fuoco per una bottiglia. Lui rimase muto e immobile. — E va bene, come vuoi. Andiamo. Là dentro ci aspettano. Coke Rymer lo guidò, trascinandolo, verso la camera da letto immersa nella penombra, e Peter si lasciò cadere con un sospiro grato nell'ampio letto di Mina. Afferrò senza farsi pregare le sbarre della testiera e si preparò per la nuova seduta di tatuaggio. Ancora una volta, toccava a Coke. Mina stava in disparte, alle sue spalle, pronta a intervenire. Bella schiacciò
l'interruttore della lampadina nuda che avevano sopra la testa e la stanza ne risultò illuminata in modo aspro e senza ombre. Peter abbassò lo sguardo sul proprio lungo corpo con interesse quasi clinico. Non aveva immaginato di poter diventare ancora più magro di quanto non fosse già stato, tutto angoli e nodi. Le costole erano spaventosamente evidenti, scarne e rigide come le dita dei morti. Quando respirava, la pelle sembrava scorrervi sopra con riluttanza, al punto da protestare. Povero corpo, impotente e palpitante di attesa di fronte alla destinazione finale... Coke Rymer si impadronì di un laccio all'altezza dell'ombelico di Peter, lo slacciò con pochi movimenti decisi e incominciò a sfilare i calzoncini da bagno laceri dai fianchi della sua vittima. Lui si contorse e gemette. — Per favore, non ricominciare con quel dannato miagolio — disse Mina. — Cerca solo di tenere il becco chiuso. Tanto non potresti farci niente in ogni caso. Ormai, non riusciva a far uscire dalla gola altro che brontolii indistinti. — Piantala. Non c'è niente qui che possa farti davvero male, non vedi? Smettila di piagnucolare senza motivo e rimani tranquillo. La camera da letto spoglia si stava riempiendo di uomini. Si accalcavano l'uno vicino all'altro, irreali e un po' grossolani. Indossavano camicie sportive o bianche, con il colletto aperto. Lui non riuscì a contarli, perché la luce violenta della lampadina lo accecava. Ma pensò di riconoscerne alcuni. Erano clienti, il genere di uomini che le prostitute si portavano in casa. Avevano la faccia rossa e cotta dal sole e l'aria da teppisti. La feccia di Gordon reclutata, Dio sa come, fuori dai chioschi di birra e di hamburger e portata lì dentro per lo spettacolo. Non parlavano. Se ne stavano in silenzio lasciandosi sfuggire solo qualche occasionale bisbiglio, accompagnato dal risolino relativo. Coke Rymer impartì lo strappo finale e il costume gli cadde ai piedi. — Fatto, per Dio — dichiarò. Peter si voltò a guardarlo. Non lo aveva mai visto tremare e sudare in quel modo. Sembrava quasi che avesse più paura di lui e la cosa, in qualche modo, aveva senso. A Coke rimaneva pur sempre Mina da temere, mentre lui ne era ormai fuori. Qualunque cosa stesse per succedergli, la ragazza non gli faceva più paura. Era un pensiero buffo e strano, ma quando rise, dalla gola gli uscì solo un gorgoglio lacerante. — Smettila — lo zittì Mina. — È l'ultima volta che te lo ripeto. Lui strinse i denti, tanto da sentirli sfregare gli uni contro gli altri. Sì, sarebbe rimasto zitto. Non tanto per paura di Mina, ma nella speranza di deludere Coke. Sapeva che il ragazzo sperava in vistose reazioni di dolore da parte
sua, e che tali reazioni rappresentavano una grossa fetta dello spettacolo che lui era tenuto a fornire. Ma anche Coke incominciava a perdere colpi. Probabilmente, dopo Peter ed Enid, sarebbe venuto anche il suo turno. Per un attimo, Peter rimpianse di non potervi assistere. Gli sarebbe piaciuto conoscere le reazioni del ragazzo di fronte alle sorprese che Mina aveva preparato per lui. Di qualunque cosa si trattasse, il trattamento sarebbe stato diverso da quello riservato a lui, magari anche peggiore. Di colpo, avvertì una strana simpatia nei confronti del ragazzo, che in quel momento si faceva largo in mezzo alla schiera di stranieri, impugnando l'ago elettrico dal manico nero, con il cavo penzoloni. Fu quasi contento di non dover assistere allo spettacolo della sua fine. Rymer si chinò brontolando di fianco alla testata del letto per infilare la spina nella presa e lui ne approfittò per guardargli la parte superiore del bizzarro codino da pirata. Poteva quasi riconoscere al fiuto il suo nervosismo. Lo spettacolo era importante per il ragazzo come per lui. Peter si aggrappò alle sbarre di ferro con tutta la forza che aveva, mentre Coke si rialzava e si chinava su di lui in una sorta di trionfale incertezza. Ma, per una volta, le sbarre sembrarono sfuggirgli dalle dita, proprio come la leva della pompa che aveva perso la sua concretezza. In tutto il mondo non c'era più nulla in cui lui potesse toccare e ritrovare la sua perduta virilità. Tutto andava ormai alla deriva. Mina venne più vicino. Era pronta a incominciare. Appoggiò la punta del dito indice sulla lingua fredda e si chinò per toccare il torace di Peter, appena al di sotto del capezzolo destro. — Qui — disse. — Puoi incominciare da qui. Coke si girò e si sedette sul bordo del letto, appoggiandosi con tutto il proprio peso in modo che Peter scivolasse appena contro di lui. — Sposta il culo più in là — protestò poi. Ancora una volta, la sua voce era scivolata nei toni liquidi e incerti del falsetto. Peter si spostò e Coke si chinò lateralmente su di lui. Sudava già con abbondanza e le gocce oleose cadevano dalla fronte alla pancia di Peter, dove andavano a perdersi nell'ombelico. Lui continuò a tenersi forte e a stringere i denti per mantenere il silenzio. Di tanto in tanto, dalla cerchia di stranieri si alzava un mormorio scontento e sprezzante. Forse si erano aspettati di più dallo spettacolo, e Peter era troppo tranquillo per soddisfarli. Del resto, lui non voleva offrire loro proprio nessuna soddisfazione. E invece, all'improvviso, si ritrovò a borbottare in tono rauco mentre tutti si facevano avanti per guardare più da vicino. Non poteva vedere bene a quale disegno Coke fosse intento con il suo ago;
guardare era impossibile, a meno di volersi slogare il collo. C'era comunque un'oscura fascia color verde e porpora che si stendeva sul suo petto da destra a sinistra e andava via via riempiendosi per congiungersi a un'altra striscia che gli lambiva già da prima la spalla. Attorno al tatuaggio la pelle era arrossata, gonfia e accaldata. Il disegno, sempre che si potesse chiamarlo tale, gli sembrava come un grosso continente rossastro che si gettava nel mare. La parte superiore del petto era intorpidita, ma la cosa non gli procurava alcun sollievo. In compenso, aveva smesso di borbottare. Gli unici suoni, ormai, erano l'ansimare intenso dei cinque o sei uomini riuniti intorno e il ronzio caldo e regolare dell'ago elettrico, simile al volo di un calabrone ormai lontano nell'aria estiva. Non c'era abbastanza azione. Lui percepì la noia di Mina e non rimase affatto stupito quando lei bagnò di nuovo il dito e glielo mise sullo zigomo della guancia sinistra, poco al di sotto dell'occhio. — Ecco — la sentì dire. — Ricomincia da qui. Coke Rymer fermò l'ago sopra il collo di Peter e si girò a guardarla. — Perché dovrei ricominciare ancora da lì, adesso? — protestò. — Non ti sembra che abbia già lavorato abbastanza, per oggi? — La sua voce e il solito piagnucolio da donnetta lacrimosa. — Lavorare. Tu non sai che cosa significhi, lavorare! Non ne conosci neanche la parola. Vai avanti, e fai come ti ho detto. Il ragazzo si girò di nuovo verso Peter. Gli tremava selvaggiamente la mano. Per la prima volta, lui gli lesse negli acquosi occhi azzurri un atteggiamento che non era né di paura né di indifferenza nei suoi confronti, e nemmeno di insolente disprezzo. Assomigliava piuttosto alla comprensione, addirittura alla solidarietà. La scoperta lo spaventò più di qualunque altra cosa. Se in Coke Rymer poteva risvegliarsi un sentimento del genere, significava che la fine era davvero vicina, e si avvicinava sempre di più. — Allora si riparte, bellezza — disse Coke. — Tienti stretto il cappello. Alla prima incisione dell'ago la testa gli schizzò di lato, trafitta da un dolore lancinante. Enid era in piedi in fondo al letto, e attraverso le palpebre serrate lui vide che aveva la bocca in movimento. Le labbra si arrotondavano e si allargavano per ogni respiro, pur senza produrre alcun suono. Le si leggeva negli occhi una pietà inutile e sconfinata. Lui pensò che avrebbe fatto meglio a tenerla per sé, se non voleva che Mina uccidesse due piccioni con una stessa pietra. Coke lo afferrò saldamente sotto il mento con la mano sinistra e le dita gli schiacciarono con forza le ghiandole salivari sotto le orecchie. — Che
Dio ti cavi gli occhi — imprecò. — Tieni ferma la testa. Lui ne prese mentalmente nota. Voleva meno guai possibili, e desiderava che tutto si concludesse al più presto. Ma quando sentì di nuovo l'ago sulla guancia, la testa ebbe un nuovo scatto. Non riuscì a impedirlo. Il corpo gli divenne rigido per l'apprensione e un liquido caldo incominciò a scorrergli giù per la faccia, fino alla bocca. Era salato. Quando la testa aveva sussultato, l'ago doveva avergli lacerato la guancia. Guardò Coke, disperato. L'aveva fatto arrabbiare, pur senza volerlo. Adesso per il ragazzo sarebbe stato facile, in un raptus di collera, affondargli l'ago elettrico in un occhio. Ma Coke si girò, per rivolgersi a Mina. — Non ho nessuna intenzione di continuare — dichiarò. — Ne ho abbastanza. Se ti va, puoi andare avanti anche da sola. Dannazione. Lei non sorrise, ma la voce suonò divertita. — D'accordo. Va bene così. Immagino che tu abbia avuto una giornata dura e me ne dispiace molto. Consegna quell'ago a Bella e vai pure a coricarti da qualche parte. Dormi bene. — Nella stanza in fiamme era l'unica ad aver conservato tutta la sua freddezza. — Verrò a occuparmi di te tra poco. Bella si aprì la strada con qualche spinta attraverso quel circolo un po' irreale di uomini in attesa. — Dammi l'ago — ordinò. — Non ho mai creduto sul serio che avessi il fegato di portare a termine il lavoro... Non è vero che una volta lui l'ha svergognato in un combattimento? — Rivolse la domanda direttamente a Mina. — Non è vero? Non è vero che Coke aveva paura di qualcosa come lui? — Gesticolò in direzione di Peter, con l'ago che aveva preso dalle mani del biondo. L'ago era ancora in funzione, e produceva un ronzio sommesso. Coke si alzò dal letto e attraversò la cerchia di uomini scostandoli in modo maldestro e ripulendosi la faccia sudata con la mano. Mina prese il suo posto accanto al bordo del letto, con un movimento netto e aggressivo. — Non ci riuscirò mai — disse Peter. — Non posso rimanere fermo. — Ma le parole si trasformarono in rantoli striduli, generati dal dolore e dalla paura. Mina lo scrutò dalla sua postazione al centro del semicerchio. Sembrava chiaro, dall'espressione calma degli occhi, che aveva capito perfettamente il senso di quei rantoli. — Va tutto bene, tesoro — gli assicurò. — Non preoccuparti di nulla. Ci prenderemo perfettamente cura di te. — Toccò la spalla ai due uomini che le stavano più vicini, all'interno del semicerchio. Loro la guardarono aspettando ordini, vergognosamente spaventati. — Te-
netegli i piedi — disse lei. — Immobilizzatelo per bene. Loro afferrarono Peter per le caviglie, senza esitare. Gliele pressarono con tanta forza contro il materasso gibboso che lui fu costretto a lasciar andare le sbarre della testiera a cui si era aggrappato fino a quel momento. Aveva gli avambracci intorpiditi per la fatica, i tendini del polso doloranti e il palmo livido e scarlatto. — Tenetegli anche le mani, voi. Dobbiamo impedirgli di saltare di qua e di là per tutto il letto. Uno degli uomini, bizzarro e paonazzo come tutti gli altri, prese Peter per la mano destra, gli piegò il gomito a viva forza e gli mise l'avambraccio sotto il collo. Poi inchiodò i polsi uno sull'altro e li tenne pressati con il ginocchio. Il suo volto era indecifrabile. Rafforzò la propria posizione tenendosi alla testiera. Bella occupò il posto di Coke sul bordo del letto. Prese il mento di Peter tra il pollice e l'indice e girò la guancia lacerata verso di sé. — Guarda qui che roba — commentò. — Coke ha fatto proprio un bel casino. — Quella parte dovrai lasciarla perdere adesso — osservò Mina. — Parti più in basso. — Inumidì il dito indice, si protese dal fondo del letto e toccò Peter nel punto in cui il tormento erotico sarebbe stato maggiore. Ma lui non possedeva più una vera sessualità. Lei si raddrizzò, con l'espressione ancora palesemente annoiata, e dagli stranieri in semicerchio si levò un mormorio... Era forse di soddisfazione? Sembravano tutti in attesa. Lui annuì. Proprio come pensava, non c'era modo di sfuggire al dominio mentale di Mina. Ormai riusciva ad anticiparne ogni mossa. Inorridì al pensiero che lei avesse usurpato la sua mente fino a quel punto, e proprio quella mente lavorava per produrre la sua stessa umiliazione. Bella si alzò e si spostò verso il fondo del letto. I muggiti lo travolsero, implacabili. Ma ormai gli altri non se ne preoccupavano più e lasciavano che si lamentasse come voleva, assorti nel loro lavoro. Peter continuò a svenire e a riprendere conoscenza. Il mondo era in fiamme davanti a lui, rantolava e svaniva tra le scintille. Solo il più fragile dei tentacoli riusciva ancora a tenerlo ancorato a quella realtà. Alla fine lo riportarono indietro per l'ultima volta. Coke Rymer aveva ripreso il suo posto e aiutava uno degli stranieri a sollevarlo di peso per rimetterlo in piedi. Rischiarono di farlo cadere, perché lui aveva perso completamente il controllo delle proprie membra. — Tutto fatto, bellezza — assicurò il ragazzo. — Adesso non c'è altro. Mina si fece avanti e lo guardò da capo a piedi mentre gli altri due lo te-
nevano immobilizzato per le braccia e le spalle. Peter non riuscì a vederla bene e, per la verità, non la guardò in faccia. Tuttavia avvertì la pressione gelida del suo sguardo su tutto il corpo. — Non ti piacerebbe vedere che cosa ne è saltato fuori? — chiese lei. — Credo proprio che il nostro lavoro ti abbia nettamente migliorato. — Si rivolse a Coke e a quell'altro. — Portatelo qui di fronte allo specchio. I due lo trascinarono davanti all'armadio, cercando di tenerlo diritto. Lui vide la propria immagine e annuì giudiziosamente. Le gambe erano sempre nude, e l'ago non le aveva nemmeno sfiorate. Eppure non gli appartenevano più, non erano più in grado di sostenerlo. Sembravano ormai così estranee e prive di importanza che si sarebbe potuto eliminarle. Il resto del corpo era cancellato, assorbito per intero in un altro piano di esistenza, un fosco universo senza sede dove ogni ordine era una parodia amara e dilatata nello spazio. Persino la pelle nuda sfuggita all'opera dell'ago faceva parte del tutto, e la macchia di sangue sul suo viso risultava fondamentale e rivestiva un'importanza assurda. Ormai il suo corpo era diventato un fiume, e fluiva lontano. Lui annuì di nuovo. — Molto bene — approvò Mina. — Sono contenta di vedere che ti piace. Anch'io penso che ti doni molto. — Si rivolse a Coke e a quell'altro. — Portatelo là fuori dove vi ho detto. Loro incominciarono immediatamente a trascinarlo verso la porta. Il grappolo di stranieri si sciolse e i due gli fecero attraversare il soggiorno, girarono ed entrarono in cucina. Faceva buio, ma l'aria non si era ancora rinfrescata. Persino le stelle sembravano troppo vicine e troppo calde, e nell'oscurità si nascondevano manipoli di ombre ancora più scure. Lui inspirò a fondo, in maniera convulsa, e gli parve quasi di aver trattenuto il respiro per ore. In realtà non era così, ma nell'aria che aveva respirato non aveva trovato abbastanza nutrimento per i suoi polmoni. Il pavimento del portico scricchiolò sotto i loro passi pesanti e strascicati, e i gradini dell'ingresso protestarono con vivacità anche maggiore. Lui non opponeva di certo resistenza, ma non poteva nemmeno aiutare i due che lo sostenevano. Non gli rimaneva niente, del suo corpo. Anzi, non aveva più un corpo. Inciampando nella polvere spessa lo portarono fino a uno spiazzo arido. Peter alzò lo sguardo al cielo e lo trovò angusto e abietto, impaziente di precipitarsi contro di lui. Seppe con certezza dove erano diretti. Poco lontano, nella rimessa bassa e rovinata dalle intemperie, il dio permetteva di tanto in tanto al proprio essere di manifestarsi nel mondo delle percezioni. Ricordava di aver temuto quell'edificio oscuro con il suo altare carico di
odio profondo e spaventoso, ma ora non vedeva l'ora di arrivare. Rimpiangeva quasi di non poterlo raggiungere di propria spontanea volontà. Coke Rymer alzò il chiavistello della porta logora e poi, insieme al suo collega, lo scaraventò all'interno. Lui cadde sulla schiena e per qualche minuto rimase immobile. Sapeva che nessuno sarebbe venuto ad aiutarlo a mettersi seduto. Nessuno sarebbe entrato lì dentro. Coke Rymer rimase per un attimo a guardarlo attraverso lo spiraglio della porta e gli lanciò un saluto debole e canzonatorio, proprio come avrebbe lanciato un pezzo di carne putrida a un cane. — Bye, bye, bellezza — cicalò. — Immagino che non potremo vederci per un po'. Ti auguro una lunga e felice permanenza. — Si volse e si accodò a quell'altro, poi tutti e due insieme scomparvero nella notte gremita di ombre. Lasciarono la porta aperta, un rettangolo grigio scuro scarabocchiato dai tralci arruffati dei rovi. Peter udì Mina che si avvicinava e strisciò all'indietro sul pavimento di terra battuta, ingombro di rotoli di carta e di pannocchie. Lei si sporse in avanti attraverso la porticina bassa della rimessa e si attaccò alla parte alta dello stipite per non cadere. — Eccoti sistemato — disse. — Si sta comodi lì dentro, vero? Hai proprio l'aria di uno che ha intenzione di farcela. Ti senti bene? Lui non fu in grado di rispondere. — Be', a me sembra che tu stia bene. Adesso ti lascerò solo e tornerò a vederti fra un po'. Tutto quel che riuscì a vedere di lei furono i suoi luminosi occhi grigi, due macchie lucenti nell'oscurità. Annuì, anche se non era certo che Mina potesse vederlo. — Già, so bene che non dubiti del mio ritorno. — Lei rise, un suono lieve e secco, privo di qualunque allegria. Fece un passo indietro, chiuse con delicatezza la porta, spinse il chiavistello al suo posto. Lui rimase ad aspettare. La sentì andare via e poi non sentì più nulla per molto altro tempo. A un certo punto avvertì un debole fruscio nell'angolo opposto della rimessa. Un topo, forse. E poi di nuovo il silenzio, interrotto solo dal suo respiro irregolare. Fuori o dentro il petto il dolore era uguale. All'interno della capanna il buio sembrava denso come l'inchiostro e lui non riusciva a farci l'abitudine. Distingueva a malapena la sagoma del falso altare, una serie di tavole slegate e diseguali appoggiate su due cavalletti rachitici. Molto lentamente il suo respiro aumentò di volume e divenne un rantolo. Un rantolo che lacerava la gola. Il rantolo crebbe e lui ne avvertì
gli effetti attraverso la pelle. Quello non era più il suo respiro. Capì. Aprì la bocca e sentì intere galassie riversarsi giù per la gola, simili a una spessa polvere insapore che lui non poteva sputare, e nemmeno vomitare. Il respiro era gelido sulla sua pelle e le raffiche di vento si riversavano a ondate su di lui, senza mai sollevare la polvere del pavimento. Lentamente alzò la mano per tastarsi il viso. Lo sentì così freddo e asciutto da non sembrare neanche di carne, ma piuttosto di legno, o di cuoio. Lui non era più lui... L'aria si riempì di scintille di luce vaga, ma non era luce autentica. Un cerchio di oscurità, un imbuto che succhiava via tutta la luce compresa quella del suo corpo, percorso da strane pulsazioni fosforescenti. Lui lo guardò, trapassandolo con lo sguardo. Vide ampi grumi di polvere e una membrana scintillante e sottile nel punto in cui nascevano le nebulose... Laggiù c'era qualcosa di solido. Un muro privo di angoli e di protuberanze. No, niente di solido. Una semplice parete ricurva che respirava sopra di lui. Occhio. Dente. Una visione che balenava e veniva cancellata, spazzata via freddamente. Il dio Dagon si impossessò dell'altare. Simile a un rettile. Senza gambe. Con ali tronche e squamose, inutili e incapaci di volare. Il dio Dagon non raggiungeva il metro di lunghezza. Era grasso e rotondo come il ventre di un coccodrillo. Non si riusciva a vederne la bocca, nascosta al di sotto del corpo, ma lui sapeva com'era. Un ghigno perfido da serpente e doppie file di denti velenosi nel gozzo. Da una parte un occhio nittitante, e dall'altra probabilmente nulla, solo una macchia cieca e appannata, uno strumento per scrutare nella quintessenza delle cose. L'occhio visibile era grigio, quasi bianco. Il corpo color rosa grigiastro assomigliava alla cenere in disfacimento e le squame lo ricoprivano per intero, rotte e scheggiate, strettamente sovrapposte le une alle altre. Respirava, e per respirare gli ci voleva molto tempo. Il ventre di rana si contraeva per poi distendersi. La figura simile a rettile era immobile e non aveva modo alcuno per muoversi sopra la terra. Lui riconobbe il dio Dagon. Un idiota. Il dio era onnipotente ma non possedeva l'intelligenza. Dagon incarnava il volere nudo e incontrollabile. Il dio onnipotente era essenzialmente stupido. Peter rise e i suoi denti brillarono nel buio. Affrontò il dio. La presenza di Dagon rimosse il tempo, così come una pietra sposta l'acqua generando cerchi nello stagno. Nello sguardo che li
incatenò passarono sicuramente ore. Solo un rettile idiota, lacerato e tronco. Il dio Dagon se ne andò. All'improvviso balenò e guizzò via. Peter finalmente si rilassò. Sorrise nel buio. Aveva affrontato quella manifestazione incomprensibile ed era sempre se stesso. Era sempre Peter Leland. Sbatté le palpebre, grato, e distolse con noncuranza lo sguardo dall'altare. Sentì Mina arrivare e girò il viso verso la porta, continuando a sorridere nel buio, incurante e rilassato. Lei aprì la porta ed entrò senza esitazioni. Nella mano destra teneva il pugnale di Coke Rymer, che scintillava debolmente. Prese nella sinistra una manciata dei suoi capelli, e Peter si inginocchiò in avanti e alzò la testa. Poi, con gioia, scoprì la gola per offrirla alla lama. 6 Peter Leland morì e passò attraverso la morte in un nuovo modulo di esistenza. Non dimenticò la sua vita precedente e finalmente arrivò a capirla. Il nuovo punto di forza della sua psiche era rappresentato da uno spazio luminoso e indefinito da cui poteva guardare indietro verso quel piccolo angolo di terra in cui aveva vissuto e rivedere i passi salienti della propria esistenza senza sentirsi amaramente limitato dall'infelicità e dalla paura. Non abbandonò con la morte la comprensione trionfale della propria identità, acquisita nell'incontro a tu per tu con Dagon. Aveva superato la prova. Nella macchia di luce in cui si trovava, il tempo non aveva più significato e lui vedeva la propria carriera dipanarsi davanti ai propri occhi all'infinito e ne rideva, senza più rancori o rimpianti. Ormai la sua personalità, per intero, era un'entità clinica libera e benevola. Adesso capiva la sofferenza e il perché della sofferenza. In un cosmo quasi completamente inanimato solo il sentimento umano è interessante o di rilievo per l'indagine spirituale. Non c'è nient'altro di saliente nell'intero tracciato dello spazio senza limiti, e la sofferenza è semplicemente un mezzo per scolpire un disegno in un certo arco di tempo, per caricare di significato umano ciascun singolo secondo. La sofferenza è il più dispendioso di tutti i sentimenti umani, ma anche il più intenso e il più prezioso, perché l'unico capace di umanizzare un universo altrimenti insensibile. E non era solo il corso della sua stessa vita a insegnarglielo, ma quello di tutte le altre vite. Da lassù, finalmente, percepiva con atteggiamento imparziale il senso globale del destino umano.
La metafora lo divertiva e la cosa era essenziale, dato che in quel posto la metafora era parte della sostanza. Lui non possedeva più una vera forma fisica, a parte la metafora. E ora sembrava che il suo compito fosse quello di trovare e cogliere la propria immagine in ogni possibile forma dell'universo. In pratica, doveva diventare una specie di catalogo vivente dell'esistenza fisica e degli dei. C'erano metafore per ogni cosa e a volte tutta la sua vita passata gli appariva come la traccia lucida di un serpente sulla pietra umida di un sentiero nel parco, o come un cubo nero di ferro di cinque centimetri per lato, o un ritaglio di epidermide scolorita, o un laccio di scarpa logoro. In lui non c'era più rabbia né rimpianto, e nessuna nostalgia per i limiti dolorosi che aveva oltrepassato con una metamorfosi. Si sentiva pervaso da una benevolenza immotivata e comunque libera di esprimersi. Contemplava con gioia l'unità di se stesso e di ciò che lo circondava, decideva quale forma il suo essere dovesse prendere e pensava in modo sognante e muto a ogni possibile alternativa. Passarono probabilmente intere ere galattiche prima che rinunciasse e prendesse la forma di Leviatano. Assunse così le sembianze del grande pesce, con la sagoma lucente lunga qualche decina di anni luce. Peter era ormai pervaso da una grande quiete e, mugghiando gioiosamente, incominciò a sguazzare e a pavoneggiarsi nella ricca oscurità che fluisce tra le stelle. FINE