CRESCITA E DECLINO Studi di storia dell'economia romana Elio Lo Cascio «L'ERMA» di BRETSCHNEIDER
I saggi compresi in questo volume intendono delineare i caratteri e le linee di sviluppo dell' economia romana dall'età repubblicana al tardo antico, proponendo un quadro basato su alcune idee forti: la drastica differenza delle economie del passato rispetto a quelle che hanno accompagnato e seguito la rivoluzione industriale; la loro comparabilità; il carattere comunque dinamico delle economie premoderne e di quella romana in particolare, senza che questo implichi l'esistenza di un percorso rettilineo e necessario. I diversi aspetti dell'economia romana considerati nelle varie parti del libro sono l'agricoltura, il rapporto tra popolazione e risorse, i mercati e i prezzi. Un'ultima sezione, sull'interpretazione weberiana dell'economia romana, è motivata dal fatto, innegabile se si guarda alla letteratura antichistica soprattutto degli ultimi trent'anni, che la lczione weberiana ha suscitato un interesse che va ben al di là di quello meramente storiografico. ELIO LO CASCIO (Palermo, 1948) è professore ordinario di Storia romana presso l'Università di Roma "La Sapienza". La sua produzione scientifica si può considerare incentrata attorno a quattro nuclei tematici: la storia amministrativa dell'età del principato e del tardo impero; la storia istituzionale di età repubblicana; la storia economica e sociale del mondo romano; infine la storia della popolazione, nei suoi riflessi sulla vicenda economica e sociale del mondo antico. Tra le sue pubblicazioni: Il princeps e il suo Impero, Bari 2000; e i volumi a sua cura Roma imperiale. Una metropoli antica, Roma 2000; Mercati permanenti e mercati periodici nel mondo romano, Bari 2000; Production and public powers in classical antiquity (con D.W. Rathbone), Cambridge 2000; Credito e moneta nel mondo romano, Bari 2003; Innovazione tecnica e progresso economico nel mondo romano, Bari 2006.
In sovracopertina: Affresco raffigurante una città portuale. (Stabiae, I sec. a.C., IV Stile). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
CENTRO RICERCHE E DOCUMENTAZIONE SULL' ANTICHITÀ CLASSICA MONOGRAFIE ---------------32---------------
ELIO
Lo
CASCIO
CRESCITA E DECLINO STUDI DI STORIA DELL'ECONOMIA ROMANA
«L'ERMA» di BRETSCHNEIDER
ELIO Lo CASCIO Crescita e declino Studi di storia dell'economia
Copyright
2009 «L'ERMA» Via Cassiodoro,
romana
di BRETSCHNElDER 19 - Roma
Tutti i diritti riservati. È vietata la riproduzione di testi e illustrazioni senza il permesso scritto dell'Editore.
Lo Cascio, Elio Crescita e declino: studi di storia dell' economia romana / Elio Lo Cascio. - Roma: «L'ERMA» di BRETSCHNEIDER, 2009. - 380 p. ; 17x24 cm. (Centro ricerche e documentazione sull'antichità classica. Monografie; 32) ISBN 978-88-8265-562-4 CDD 21. 330.937 1. Roma antica - Economia I. Lo Cascio, Elio
Volume pubblicato
con il contributo
del MIUR
SOMMARIO
Premessa.
. . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . .. . . . . . . . . .
1
INTRODUZIONE CRESCITA E DECLINO: L'ECONOMIA
ROMANA IN PROSPETTIVA STO-
RICA. . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
5
L'AGRICOLTURA ROMANA TRA AUTOCONSUMO, RENDITA E PROFITTO I.
LA PROPRIETÀ DELLA TERRA, I PERCETTORI DEI PRODOTTI E DELLA RENDITA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
19
La proprietà della terra in Roma arcaica, 20 - L'emergere della piccola proprietà contadina, 23 - Dalle fattorie alle villae, dall' autoconsumo al mercato, 26 - Le conquiste transmarine, l'afflusso di ricchezza in Italia e i problemi sociali del II secolo a.C., 35 - Affittuari e salariati, 43 - L'Italia e le sue produzioni agricole nell'età de II' imperialismo, 48 - Il nuovo assetto politico-amministrativo dell'impero c i suoi effetti sull'economia agraria della penisola, 55 - L'evoluzione della proprietà e le opzioni dei proprietari nel nuovo scenario, 58 - La "crisi" e gli sviluppi di età tardoantica, 66 II.
OBAERARII
(OBAERATl):
LA NOZIONE
DELLA DIPENDENZA
71
IN VARRONE III.
CONSIDERAZIONI
SULLA
STRUTTURA
E SULLA
DELL' AFFITTO AGRARIO IN ETÀ IMPERIALE.
DINAMICA
. . . . . . . . . . . . .
91
Premessa, 91 - La varietà delle affittanze e degli affittuari, 92 - Modello africano e modello pliniano, 97 - Dinamica dell' affitto agrario e dinamica della popolazione, 108 IV.
L'ECONOMIA DI PLINIO.
DELL'ITALlA
ROMANA NELLA TESTIMONIANZA
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
115
VI
CRESCITA E DECLINO
POPOLAZIONE I.
POPOLAZIONE
E RISORSE
E RISORSE NEL MONDO ANTICO. . . . . . . . . . . .
139
La natura della documentazione antica, 139 - Documentazione comparativa, modelli demografici e struttura per età e per sesso delle popolazioni antiche, 144 - I numeri assoluti, 150 - La dinamica delle popolazioni antiche, 157 Il.
IL RAPPORTO UOMINI-TERRA
NEL PAESAGGIO DELL'ITALIA
ROMANA. . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . .. III.
MOVIMENTI
DEMOGRAFICI E TRASFORMAZIONI
PRINCIPATO E TARDOANTICO: LO DI SCHIAVITÙ FINLEY.
ANTICA
SOCIALI TRA
A PROPOSITO DEL IV CAPITO-
E IDHOLOGIE
MODERNE
DI MOSES
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . .. . . . . .. . . . . .
MERCI,
165
MERCATI
179
E PREZZI
E GLI SCAMBI INTERMEDlTERRANEI
195
Il.
LA VITA ECONOMICA E SOCIALE A POMPEI. . . . . . . . . . . . . . .
211
III.
PREZZI IN ORO E PREZZI IN UNITÀ DI CONTO TRA IL III E IV
I.
IL DENARIUS
SEC. D.C. IV.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
CONSIDERAZIONI
SU CIRCOLAZIONE
MONETARIA, PREZZI
E
259
FISCALITÀ NEL QUARTO SECOLO V.
MERCATO LIBERO E "COMMERCIO AMMINISTRATO" IN ETÀ TAROOANTICA. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
VI.
L'APPROVVIGIONAMENTO
DELL'ESERCITO
WEBER
TI.
E
L'ECONOMIA
WEBER E IL "CAPITALISMO ANTICO"
273
ROMANO: MERCA-
TO LIBERO O "COMMERCIO AMMINISTRATO"?
L
235
. . . . . . . . . . . .
287
ROMANA . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
299
L'IMPERO PATRIMONIALE E LA «MORTE LENTA DEL CAPITALISMO ANTICO»:
L'INTERPRETAZIONE
WEBERIANA DEL PAS. . . . . . . . . . . .
317
Bibliografia. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
337
Indice delle fonti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
369
Indice analitico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
377
SAGGIO DALLA REPUBBLICA
AL PRINCIPATO.
PREMESSA
I saggi ricompresi in questo volume sono stati pubblicati in un lungo arco di tempo, a partire dai primi anni '80 del secolo scorso, anche se la maggior parte è stata edita negli ultimi quindici anni. Ho ritenuto opportuno riprendere anche qualche vecchio lavoro, dal momento che mi sembrava che bene si integrasse nel disegno complessivo dei caratteri fondamentali e delle fondamentali linee di sviluppo dell'economia romana che queste pagine vorrebbero presentare. I saggi sono stati rivisti e corretti tacitamente, in talune occasioni in misura più consistente, soprattutto nel caso di qualche significativo mutamento di opinione o per eliminare fastidiose ripetizioni. In parte è stato anche aggiornato (se non aggiunto ex-novoy l'apparato erudito, per tenere conto, entro limiti ovviamente molto modesti, del dibattito successivo alla loro prima uscita. Ma non è stata modificata la loro struttura e forma, anche dipendente dalla sede dell'originaria pubblicazione: dunque si troveranno nel libro saggi concepiti per volumi indirizzati (come si dice) a un pubblico colto e saggi più specificamente rivolti a un pubblico di specialisti. L'ambizione è quella di proporre un quadro certo non sistematico dell'economia romana nel suo divenire, ma che vorrebbe avere una sua coerenza di fondo: un quadro basato su alcune idee forti - la drastica differenza delle economie che precedono la rivoluzione industriale e la transizione energetica rispetto a quelle successive, ma perciò anche la loro comparabilità sui piani più diversi; il carattere comunque dinamico delle economie del passato e di quella romana in particolare, ma senza che questo possa significare il rinvenimento di un percorso rettilineo e necessario. Quel che si vuol proporre è dunque non un modello complessivo e totalizzante, ma un' analisi nei limiti del possibile rigorosamente basata su alcune prese di posizione teoriche di fondo. I diversi aspetti dell'economia romana presi in considerazione nelle varie partizioni del libro sono l'agricoltura, il rapporto tra popolazione e risorse, i mercati e i prezzi, senza nessuna pretesa, com' è ovvio, né di esaustività, né di sistematicità. L'aggiunta di un' ultima sezione, sull' interpretazione weberiana dell'economia romana, è motivata dal fatto, innegabile se si guarda alla storiografia antichistica soprattutto degli ultimi trent'anni, che la lezione weberiana ha suscitato un interesse che va ben
CRESCITA E DECLINO
2
al di là di quello meramente storiografico: mi è sembrato perciò che l'inserimento di questa sezione fosse pienamente giustificato in un volume sui caratteri e sull'evoluzione dell'economia romana. Weber continua a essere ancor oggi un interlocutore di rilievo, ed è stato comunque l'ispiratore di alcune fra le più fortunate teorie sulla natura delle economie antiche e sul loro funzionamento, che hanno dominato il dibattito scientifico. Il saggio introduttivo, che porta lo stesso titolo del libro, vuol essere una sorta di giustificazione non tanto o non solo di questo stesso titolo, quanto dell' approccio complessivo. Tringraziamenti vanno anzitutto a Giuseppe Zecchini per avermi proposto di raccogliere in volume alcuni dei miei saggi sull'economia romana e per avere voluto accogliere il volume nella serie del Cerdac, e a Marco Maiuro, a Giovanna Merola e a Gianluca Soricelli, che mi hanno aiutato nella revisione dei testi originari, suggerendomi opportune integrazioni all'apparato delle note a piè di pagina e alla bibliografia. Vanna Merola ha anche curato gli indici. Devo poi sentitamente manifestare la mia riconoscenza, com' è ovvio, a tutti gli amici, troppo numerosi per citarli qui, che nel corso di molti anni hanno discusso con me e molte volte hanno manifestato il loro dissenso sulle mie opinioni spesso eterodosse, a partire da quelli che negli anni '70 a Cambridge attorno alla figura carismatica di Sir Moses Finley e forti della sua impareggiabile lezione si formavano assieme a me come studiosi delle economie e delle società del mondo antico. Ma soprattutto ho un debito di riconoscenza nei confronti di molti dei miei allievi delle università nelle quali ho insegnato, dalla cui intelligente autonomia di giudizio ho tratto continua ispirazione. romana in prospettiva storica è apparso nella «Rivista di Storia Economica» n.s., XXTII, 2007, 269-82, e in «Scienze umanistiche» 2, 2006, 29-41; La proprietà della terra, i percettori dei prodotti e della rendita in G. Forni e A. Marcone (a c. di), Storia dell'agricoltura italiana. J. L'età antica. 2. Italia romana, Firenze, Accademia dei Georgofili, 2002, 259-313; Obaerarii (obaerati): la nozione della dipendenza in Varrone in «Index» Il, 1982, 265-84; Considerazioni sulla struttura e sulla dinamica dell'affitto agrario in età imperiale, in H. Sancisi-Weerdenburg, R.I. Van der Spek, H.C. Teitler, H.T. Wallinga (eds.), De agricultura. In memoriam P.W de Neeve, Amsterdam, Gieben, 1993, 296-316; L'economia dell'Italia romana nella testimonianza di Plinio, in Plinius der Jiingere und seine Zeit, hg. v. L. Castagna u. E. Lefèvre, Munchen-Leipzig, Saur, 2003, 281-30 l; Popolazione e risorse nel mondo antico, in V. Castronovo (a c. di), Storia dell'economia mondiale, J. Dall'antichità al medioevo, Roma-Bari, Laterza, 1996,275-99; Il rapporto uomini-terra nel paesaggio dell'Italia romana, in «Indcx» 32,2004,
Crescita e declino: l'economia
107-21; Movimenti
demografici e trasformazioni
sociali tra Principato
e tar-
PREMESSA
3
doantico: a proposito del IV capitolo di Schiavitù Antica e Ideologie Moderne di Moses Finley, in «Opus» J, 1982, 147-59 (col titolo A proposito del IV capitolo di Ancient Slavery and Modern Ideology: movimenti demografici e trasformazioni sociali tra Principato e Basso Impero); Il dcnarius e gli scambi intermediterranei, in G. Urso (a c. di), Moneta mercanti banchieri. l precedenti greci e romani dell'Euro, Pisa, ETS, 2003, 147-65; La vita economica e sociale a Pompei, in F. Zevi (a c. di), Pompei, II, Napoli, Banco di Napoli, 1992, 113-31 (col titolo La vita economica e sociale); Prezzi in oro e prezzi in unità di conto tra il //1 e IV sec. d. c., in Prix et formation des prix dans les économies antiques, textes rassemblés par Jean Andreau, Pierre Briant, Raymond Descat, Entretiens d'Archeologie et d'Histoire, S. Bertrand-de-Comminges, musée archéologique départemental 1997, 161-82; Considerazioni su circolazione monetaria, prezzi e fiscalità nel quarto secolo, in Finanza e attività bancaria tra pubblico e privato nella tarda antichità: definizioni, normazione e prassi, Atti del XII Conv. Internazionale dell' Accademia Romanistica Costantiniana (Perugia-Spello, 11-14 ottobre 1995), Napoli 1998, 121-36; Mercato libero e commercio amministrato in età tardoantica, in C. Zaccagnini (a c. di), Mercanti e politica nel mondo antico, Roma, «L'ERMA» di Bretschneider, 2003, 307-25; L'approvvigionamento dell'esercito romano: mercato libero o 'commercio amministrato'?, in L. de Blois & E. Lo Cascio (eds.), The Impact ofthe Roman Army (200 BC-AD 476). Economie, Social, Political, Religious and Cultural Aspects, Leiden-Boston, Brill, 2007, 195-206; Weber e il «capitalismo antico», in M. Losito - P. Schiera (a c. di), Max Weber e le scienze sociali del suo tempo, Bologna, Il Mulino, 1988, 401-22; L'impero patrimoniale e la «morte lenta del capitalismo antico»: l'interpretazione weberiana del passaggio dalla Repubblica al Principato, in A. Storchi Marino (a c. di), L'incidenza dell' antico. Studi in memoria di Ettore Lepore, I, Napoli, Luciano, 1995,261-79.
INTRODUZIONE
CRESCITA E DECLINO: L'ECONOMIA ROMANA IN PROSPETTIVA STORICA
Le analisi effettuate di recente della composizione degli strati della calotta polare artica e dei sedimenti di bacini lacustri in Svezia, Svizzera e Spagna hanno rivelato che il grado della polluzione da piombo e da rame dell'atmosfera dell'emisfero settentrionale, in conseguenza delle operazioni di trasformazione del minerale estratto dalle miniere di argento e di rame, in un certo periodo del mondo antico, e cioè i quattro secoli a cavallo degl'inizi dell'era cristiana, è stato tale da essere eguagliato solo in un' epoca successiva all'avvio della rivoluzione industriale l. Il dato in sé è assai significativo, giacché mostra non soltanto che l'attività economica nel Mediterraneo unificato da Roma deve essere stata assai intensa, ma più specificamente che assai elevato deve essere stato il grado di monetarizzazione dell'economia: la polluzione da piombo è, infatti, un indicatore dell'entità della produzione dell'argento, e dunque della moneta argentea, mentre la polluzione da rame indica che anche la produzione di moneta enea deve avere avuto dimensioni assai ragguardevoli. In ultima analisi il dato suggerisce che gli scambi commerciali, "lubrificati", per dir così, da un' enorme quantità di moneta, integrata da strumenti creditizi peculiari e notevolmente sofisticati di cui siamo venuti a conoscenza da recenti e meno recenti scoperte epigrafiche e papiracee, devono essere stati assai vivaci 2. Lo stesso quadro è peraltro quello che emerge dallo studio dei relitti dei naufragi delle navi onerarie rinvenuti lungo le coste del Mediterraneo: il numero dei relitti risalenti a questi stessi quattro secoli è molto più elevato del numero di quelli risalenti a epoca precedente e successiva, ciò che suggerisce che il volume del traffico commerciale si deve essere attestato in questi secoli su livelli mai più raggiunti in seguito. Scambi così intensi testimoniano a loro volta una produzione globale molto elevata, spia di elevata popolazione e presumibilrnente spia di elevata produtti-
l
Riferimenti
infra, 195.
'In/io, 195 sgg.; m: CALLATAY
2005.
6
CRESCITA E DECLINO
vità: testimoniano, vale a dire, l'esistenza di un'economia in grado di produrre un elevato surplus 3. Quanto al livello del popolamento delle regioni del Mediterraneo, e segnatamente dell'Italia, si può a mio avviso sostenere che l'ipotesi più aderente al quadro documentario a nostra disposizione parrebbe suggerire che la popolazione in età augustea e nei primi tempi dell'età imperiale deve avere raggiunto livelli poi raggiunti nuovamente solo assai più tardi: per l'Italia solo nel diciottesimo secolo". Ci si può chiedere se, a questa elevatezza della produzione globale e della popolazione rispetto alle età precedenti e alle età successive, abbia corrisposto un livello parimenti elevato del prodotto pro capite, il segnale più eloquente, in definitiva, della individuale prosperità. Che sappiamo del tenore di vita di cui godevano nella multiforme realtà dell'impero sovranazionale e plurietnico di Roma i suoi abitanti? Dobbiamo pensare che la popolazione elevata dell'impero, fosse, proprio per il fatto di essere così elevata, anche malnutrita, sottoalimentata? O viceversa potremo individuare in essa una popolazione che vive ben al di sopra della sussistenza? Due altri "segnali" sono stati individuati di recente attraverso, ancora una volta, l'ausilio offerto dalle scienze della natura: l'entità, variabile nel tempo, del consumo di carne di maiale come lo si può stimare dai resti organici delle ossa degli animali; e i dati antropometrici sulla statura media della popolazione, ricavati dalla documentazione degli scheletri. Si tratta di dati che mostrano una coerenza di fondo e che non sono falsificabili con le normali procedure della ricerca storica. Un saggio recente di Wim Jongman ha raccolto la documentazione sino ad oggi pubblicata e proveniente da un cospicuo numero di siti romani, una documentazione ovviamente parziale dalla quale non può dedursi nulla più che degli ordini di grandezza, e tuttavia abbastanza significativi 5. Il consumo di carne di maiale sembra incrementarsi, nel complesso del mondo romano, ben più di quanto si incrementi la popolazione. Per quanto riguarda i dati antropometrici gli studi in questi ultimi trent' anni di antropometria storica o auxologia hanno conosciuto un rinnovato sviluppo. Nei dati in questione, raccolti soprattutto in occasione del reclutamento militare, si riconosce un'indicazione significativa del livello nutrizionale, della salute e della generale qualità della vita, nonché del grado di "social equality": i dati rivelano, in effetti, nel mondo
3
PARKER
4
Lo
1992; MEIJER 2002; DE CALLATAY & MALANIMA 2005 e rif. ivi.
CASCIO
'JONGMAN
2006.
2005.
INTRODUZIONE
7
contemporaneo, quanto una marcata diseguaglianza sociale possa essere riflessa sulla differenza di statura. Se confrontati con quelli ricavabili dai resti scheletrici rinvenuti nelle necropoli del mondo antico, essi ci danno un'informazione del tutto inattesa: c'è una netta differenza tra il livello medio di statura degli abitanti del mondo mediterraneo in età greca e romana e quello degli abitanti delle medesime regioni nel diciottesimo e diciannovesimo secolo (senza che si possano ascrivere le differenze a fattori genetici). Bisogna per di più tenere conto del fatto che il campione antico non riguarda solo giovani reclute, ma individui adulti e sappiamo che la statura nell'età adulta diminuisce gradualmente. Ora, si è notato che la statura media dei coscritti in Italia nel 1854 era di 162,64 cm, vale a dire oltre 5 centimetri inferiore rispetto a quella - di 168,3 cm - che è stato possibile calcolare su un campione di 927 scheletri di maschi adulti rinvenuti in tutta l'Italia e relativi a un arco cronologico che va dal 500 a.c. al 500 d.C. Il livello di statura antico sarebbe stato eguagliato, in base ai dati relativi alle reclute dell' esercito italiano, solo nel 1956, dunque con la coorte dei nati nel 19366. Che cosa siamo autorizzati a dedurre da dati del genere? Apparentemente una conclusione che parrebbe paradossale: che l'Italia e più in generale il mondo mediterraneo nel suo complesso, e quali che ne fossero le differenziazioni regionali, risultava in età romana, non solo più affollato di gente e, nel suo complesso, più produttivo, ma anche con un tenore di vita più elevato di quanto non sia stato in molti periodi della sua storia successiva, e ancora in epoche assai recenti. Ne dedurremo altresì che c'è stato - e ancora una volta quali che siano le differenziazioni regionali e quale che sia l'arco temporale nel quale va collocato nelle diverse aree - un "declino": un declino demografico e produttivo, e presumibilmente anche un declino nel tenore di vita, un declino da associare evidentemente, in ultima analisi, con il declino del mondo antico sino alla dissoluzione di una organizzazione politica unitaria in occidente. Ma ne dovremo dedurre, altresì, che c'è stata anche "crescita" (e tanto "estensiva", vale a dire crescita di quel che possiamo definire il Prodotto Interno Lordo dell' Impero, determinata dal mero incremento della popolazione, quanto "intensiva", l'autentica crescita economica, la crescita del prodotto pro capite). Dobbiamo, vale a dire, ritenere che il mondo mediterraneo non solo nell'ottavo secolo a.c. o nel quinto, ma ancora nel terzo secolo a.c., quando Roma avviava le sue conquiste transmarine, non era né altrettanto popolato, né altrettanto "ricco" di tre o quattro &
KRON
2005.
8
CRESCITA E DECLINO
secoli più tardi, nell'epoca del gibboniano "apogeo". Ne dedurremo più in generale che quella dell'età romana è un'economia tutt'altro che immobile. È questa una conclusione che assevera, quant' altre mai, mi sembra, la crisi del paradigma finleyano - a buon diritto definito ancora negli anni ottanta la "nuova ortodossia": un paradigma che ha dominato negli anni settanta e ottanta la discussione sulla natura e sulle "performances" delle economie antiche soprattutto, ma non solo, nel mondo anglosassone. TI libro di Sir Moses Finley, The Ancient Economy, apparso in Inghilterra e negli Stati Uniti nel 1973 e subito tradotto in molte lingue (la traduzione italiana fu una delle prime se non la prima in assoluto a comparire), ha avuto un'influenza decisiva nell'orientare il dibattito scientifico, non solo perché proponeva un quadro di grande coerenza e in termini perentori, per nulla sfumati, ma perché mirava a integrare la rapida presentazione dei caratteri di quella che il Finley definiva unitariamente appunto l'economia antica nel più ampio quadro delle economie preindustriali. Interlocutori di Finley erano dunque, e dichiaratamente, non solo quegli antichisti di cui pure egli non mancava di sottolineare lo scarso spessore teorico, ma economisti e storici delle economie più tarde. Converrà rapidamente delineare gli elementi del paradigma finleyano 7. Finley partiva dalla constatazione se si vuole banale della distanza che avrebbe separato l'economia antica dalle economie capitalistiche: mutuando la caratterizzazione di questa distanza e dei suoi tratti salienti da Max Weber, da Karl Polanyi, e in definitiva anche dalle varie "teorie degli stadi" in voga nella letteratura della scuola storica dell' economia, di cui una versione ovviamente del tutto peculiare era lo stesso materialismo storico marxiano. Questa radicale distanza portava, prima di tutto, a ritenere sostanzialmente inutilizzabili per intendere il funzionamento dell'economia antica e i comportamenti e le motivazioni degli attori economici privati e "pubblici", le categorie della scienza economica classica e soprattutto neoclassica, in quanto nata col nascere del capitalismo industriale moderno. Finley seguiva sostanzialmente Polanyi nel postulare una netta contrapposizione tra il mondo precapitalistico e il mondo capitalistico, per il fatto che nel primo l'economico sarebbe stato "embedded", "incastrato", nel sociale e nel politico, laddove il mondo capitalistico avrebbe visto la sua autonomizzazione. (Incidentalmente va detto che si può riconoscere nell'insistenza su questa contrapposizione anche un sotterraneo orientamento sostanzialmente critico nei confronti de Il'ideologia 7
Per quel che segue Lo
CASCIO
1991 a.
INTRODUZIONE
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liberale e per certi versi anche di quella marxista H). Per un altro verso si evidenziavano le differenze con l'economia capitalistica in modo netto: si sottolineava il rilievo fondamentale che avrebbe avuto la produzione primaria e dunque veniva considerato del tutto limitato il ruolo del commercio e della manifattura, sicché la città antica veniva considerata come città consumatrice (e non c'è bisogno di soffermarsi sulle ascendenze sombartiano-weberiane di questo concetto); si insisteva su un supposto mancato coinvolgimento nel commercio e nella manifattura delle élites dei proprietari terrieri, che avrebbero mantenuto un'ideologia da rentier (sarebbe mancata, quanto meno nell'élite, una mentalità imprenditoriale); si metteva in rilievo l'assenza di un'integrazione economica tra le varie aree e di conseguenza l'assenza di una specializzazione produttiva; veniva negata, infine, qualsiasi possibilità di crescita che non fosse legata alla conquista e all' impero, ma che fosse il prodotto per esempio dell'innovazione tecnica e della sua diffusione. Per quel che riguarda gli attori economici pubblici Finley negava che si potesse parlare di una "politica economica" consapevolmente perseguita da un'organizzazione politica antica e contestava gli storici modernizzanti (soprattutto quelli attivi fra le due guerre) che volevano contrapporre politiche "liberali" o "Iiberiste" a politiche "dirigiste". In sostanza si individuavano tutta una serie di contrapposizioni tra l'antichità greca e romana e una modernità definita tradizionalmente come l'occidente grosso modo successivo alla rivoluzione industriale, ma senza attribuire evidentemente alle trasformazioni radicali venute in conseguenza di quest'ultima un valore di discrimine decisivo, se weberianamente i prodromi, per non dire il primo emergere, del capitalismo venivano collocati pur sempre assai prima, e senza in definitiva - mi sembra - riconoscere il salto che separa, in termini qualitativi non meno che in termini quantitativi, la crescita possibile di una "advanced organie eeonomy" (per definirla nei termini felici in cui la definisce Tony Wrigley)? e la crescita venuta in connessione con la rivoluzione industriale e con la rivoluzione energetica, con l'avvento dei combustibili fossili. L'economia antica veniva caratterizzata come quella che si basava su tutta una serie di assenze e su una presenza. La presenza era ovviamente quella della schiavitù, anche se veniva messa in discussione l'utilità euristica del ricorso a categorie come quelle di "modo di produzione" e di "formazione economico-sociale", e anche se opportunamente ne veniva messa in rilievo la centralità, rispetto al ruolo che la schiavitù B Si 9
vd. illihro recente di NAFISSI Si vd. ora WRIGLEY 2004.
2005.
CRESCITA E DECLINO
lO
avrebbe assunto nelle autentiche società schiavistiche del Nuovo Mondo, società marginali e periferiche di un mondo assai diverso, ormai avviato verso il capitalismo "'. Le assenze erano quelle di una produzione di massa e di un mercato del lavoro libero nella forma del lavoro salariato; l'assenza di un orientamento verso il profitto degli attori economici e l'assenza di un calcolo razionale e sinanco della stessa possibilità di un calcolo razionale da parte di questi stessi attori; l'assenza di un'accumulazione diversa da quella appunto consentita dalla guerra c dalla conquista imperiale; l'assenza di un'integrazione economica, che vuoI dire assenza di mercati integrati (e semmai presenza di quel che Finley seguendo Polanyi definiva "commercio amministrato"); infine l'assenza di una crescita nel senso dell' incremento della produttività e del reddito pro capite, per esempio determinata dall'utilizzazione economica di innovazioni tecnologiche. L'economia del mondo antico si caratterizzava dunque come un'economia immobile. Infine c'è un ulteriore aspetto dello scenario delineato da Finley su cui mi sembra opportuno insistere. Veniva negata da Finley qualsiasi possibilità di effettiva quantificazione, data l'inesistenza di statistiche antiche (quella che Hugo Jones definiva l"'ignominiosa verità") Il e dato il carattere stesso della documentazione antica: scarsa, episodica, inaffidabile. Né Finley mostrava un grande interesse per le quantificazioni effettuate dagli studiosi della cultura materiale, che sarebbero pervenuti, su queste basi, a conclusioni spesso definitive. E tuttavia l'asserita impossibilità di quantificazione diveniva inevitabilmente, ma illegittimamente, un vigoroso argomento a favore dell' ipotizzato immobilismo delle economie antiche, nella loro struttura di fondo: dell' assenza di dinamicità. Si faceva equivalere in questo modo, e implicitamente, la pretesa impossibilità di misurare un fenomeno con l'assenza o con la scarsa rilevanza del fenomeno stesso. La reazione nei confronti del quadro costruito dal Finley è cominciata ad emergere nettamente già nei primi anni '80 e fra i suoi critici più penetranti vanno annoverati alcuni degli studiosi a lui più vicini. Ricorderò, tra gli altri, il compianto Keith Hopkins (lo studioso che per primo ha appunto parlato, e non per caso, di "nuova ortodossia" finleyana) 12, il quale ha inteso correggere il quadro di Finley su aspetti molto rilevanti, che toccano alcuni temi di fondo, anche di carattere metodologico.
IIIVd. Il
12
pure FINLEY 1980a.
JONES 1948, 3. HUPKINS 1983, IX-XXV;
si vd. in particolare
HOPKIN~ 1978 e HOPKINS 1980; HOPKINS 1995/6.
INTRODUZIONE
11
Tipico il caso dell'impossibilità di quantificazione (quell'impossibilità - detto tra parentesi - che consentiva a Finley di ignorare totalmente nella costruzione del suo modello interpretativo la dinamica demografica). Attraverso un'astuta considerazione di ciò che è quantificabile nella documentazione materiale e il ricorso a quel che viene definito il "parametric modelling", Hopkins ha recuperato, nello studio di aspetti rilevanti dell'economia romana, quella dimensione diacronica sostanzialmente assente in Finley. Questa stessa dimensione è, peraltro, quella che emerge con maggiore nettezza nelle posizioni dell'antichistica italiana soprattutto di orientamento marxista, che si sono espresse nei lavori, di significato epocale, del gruppo di antichistica dell'Istituto Gramsci: dai volumi su Società romana e produzione schiavistica a quelli su Società romana e impero tardoanuco's.Yi modello finleyano è stato messo in discussione in modo radicale soprattutto da Andrea Carandini e dalla sua scuola 14. Va tuttavia osservata una parziale adesione da parte degli studiosi italiani del Gramsci ad alcuni elementi del paradigma finleyano e a uno in particolare: l'idea secondo la quale solo con l'avvento del capitalismo moderno si sarebbe avuta l'''autonomizzazione'' dell'economico dal sociale e dal politico (di qui l'accusa di economicismo a quei critici di Finley che svalutano la significatività di questa contrapposizione o che non aderiscono all'idea di Polanyi, e dei critici dell'economia di mercato, della "grande trasformazione"); o ancora il rilievo attribuito alla presenza e anzi alla centralità della schiavitù nel determinare l'ideologia dei ceti dominanti e le "risposte" dei ceti subalterni nel mondo antico. Oggi le posizioni critiche nei confronti del modello finleyano si sono moltiplicate, come tra l'altro emerge, per un verso, da numerose opere collettive su aspetti specifici - sui commerci e i mercanti, sui "mercati" e sul loro funzionamento, sul ruolo della moneta e del credito, sull'influenza esercitata dall'azione delle autorità pubbliche su produzione e commercio, sul ruolo economico delle città, sull'innovazione tecnica e sul suo rapporto con la crescita 15 - e per un altro verso da un'altra opera collettiva appena uscita, la nuova Cambridge Economie History oJ the Greco-Roman World, che tuttavia si pone come finalità quella di superare l'opposizione giudicata sterile tra finleyani e antifinleyani,
GIARIJINAe SCHIAVONE(a c. di) 1981; GIARDINA (a c. di) 1986. Si vd. tra i suoi vari contributi quelli raccolti in CARANDINI 1999b. "PARKINS & SMITH (eds.) 1998; Lo CASCIO (a c. di) 2000b; Lo CASCJO(a c. di) 2003; Lo CASCIO & RATHBONE (eds.) 2000; MATTlNGLY & SALMON (eds.) 2001; PARKINS (ed.) 1997; Lo CASCIO (a c. di) 2006; vd. pure alcuni dei saggi ricompresi in de BLOIS & RICH (eds.) 2002; SCHEIDEL & VONREDEN (eds.) 2002; BANG, IKEGUCHI,ZICHE (eds.) 2006. 13 14
CRESCITA E DECLINO
12
tentando di costruire un nuovo e più sofisticato apparato concettuale per interpretare le caratteristiche peculiari delle economie antiche "'. Le posizioni critiche ed anche quest'ultima impresa si riconducono in larga misura a una presa di posizione metodologica di fondo: l'affermazione non solo della legittimità, ma dell'utilità euristica di una considerazione comparativa dell'economia ellenistico-romana (più che di quella greca) e di altre economie preindustriali, tanto dell'Occidente europeo, quanto dell 'Oriente asiatico. La finalità fondamentale, se posso dir così, del libro di Finley, in parte dipendente anche dal suo carattere di libro rivolto anzitutto a un pubblico, come si è già avuto occasione di notare, di non antichisti, era di spiegare, di fronte al "modernismo" volgare e facile, dominante negli studi sull'economia antica al suo tempo, la natura della radicale differenza tra economie contemporanee ed econome antiche. Ma, paradossalmente, in questo esercizio, Finley seguiva Weber nello svalutare di fatto il carattere epocale delle trasformazioni poste in essere dalla rivoluzione industriale e dalla rivoluzione energetica, e dal venir meno delle economie agricole tradizionali. Finley, in sostanza, seguendo Weber, allontanava troppo l'economia imperiale romana dalle economie più sviluppate dell'Occidente europeo, come quella dell'Olanda e dell'Inghilterra prima della Rivoluzione industriale, perché avvicinava troppo queste ultime alle economie nate dalla Rivoluzione industriale stessa 17: economie radicalmente diverse per la brusca accelerazione che ne è derivata del tasso di crescita del prodotto pro capite, per la drastica riduzione del settore primario, per la moltiplicazione della quantità di energia a disposizione. La revisione oggi in atto nello studio delle economie antiche e segnatamente di quella imperiale romana parte dunque dal presupposto di una similarità nella struttura di fondo delle "economie organiche" del passato e dunque di una loro comparabilità. Ma inevitabilmente parte anche dal presupposto che il mondo preindustriale nel suo complesso è stato tutt' altro che immobile: ha conosciuto importanti episodi di crescita, come per esempio quello che ha caratterizzato l'Inghilterra tra il diciassettesimo e il diciottesimo secolo, e sino al 1760, vale a dire prima dell' avvio della Rivoluzione industriale stessa. Oggi si parla, come recita il titolo di un libro divenuto familiare anche agli studiosi dell' economia del mondo antico (dell'economista e storico economico Eric Jones) di una "Growth recurring" 18: una crescita, come si è detto, attestata anche
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SCHEIDEL, MORRIS,
Si vd. quanto osserva i x E.L. JONES 2000.
17
SALLER
(cds.) 2007. 1990,27 s.
PLEKET
INTRODUZIONE
13
prima della Rivoluzione industriale e in regioni estranee all'Occidente europeo le cui origini, caratteristiche e modalità per certi versi sarebbero addirittura comparabili a quelle che hanno caratterizzato, certo con infinitamente maggiore velocità, la crescita delle nazioni europee a partire dal diciannovesimo secolo. Un altro storico dell'economia, studioso della Cina, Kenneth Pomeranz, si è chiesto, in un suo libro anch'esso divenuto familiare agli studiosi delle economie antiche, che cosa abbia determinato la "great divergence" tra l'Europa nordoccidentale e l'Asia orientale al momento dell'avvio di una crescita industriale sostenuta, nonostante la presenza di sorprendenti similarità tra Europa e Asia, ancora visibili alla metà del diciottesimo secolo; e ha riconosciuto nella disponibilità e nell'uso del carbone fossile, per un verso, nel commercio col Nuovo Mondo, per un altro verso, le ragioni del decollo 19. In questa sede non interessa ovviamente entrare nel merito di un simile problema. Interessa piuttosto ribadire ancora una volta che il cammino più fruttuoso da seguire nello studio dell' economia romana è, per un verso, quello che passa per un programmatico ricorso al materiale comparativo, per un altro verso, quello che consiste nell'inventare nuovi modi di analizzare la documentazione soprattutto materiale, alla ricerca di quei segnali che indichino il cambiamento tanto nella direzione della crescita, quanto nella direzione del declino. Quest'ultimo è un punto decisivo, a me sembra. Il dibattito che si è svolto a partire dalla pubblicazione del libro di Finley ha ripreso i termini della vecchia controversia che oppose Karl Biicher a Eduard Meyer, la cosiddetta controversia primitivisti-modemisti, in un aspetto essenziale: si sono continuate ad affrontare due maniere diverse di concepire l'evoluzione economica complessiva dell'occidente: in chiave lineare e in chiave ciclica. La teoria biicheriana di una successione di stadi, di Stufen, dall"'economia domestica chiusa", tipica dell'antichità e dell' Alto Medioevo, alI"'economia cittadina", tipica del Basso Medioevo, all'''economia nazionale", tipica del mondo moderno, differenziantisi fra di loro in base al numero di passaggi attraverso i quali ogni prodotto perveniva dal produttore al consumatore, era una delle tante teorie degli stadi elaborate dalla scuola storica dell'economia?', Una simile teoria, come le altre teorie degli stadi, concepiva l'evoluzione economica dell'occidente come lineare o linearmente progressiva. Per Meyer viceversa quella che egli definiva "l'evoluzione storica universale" aveva carattere ciclico. Non casualmente Meyer insisteva sulle analogie che, a suo avviso, la storia del
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POMERANZ
'
Si vd. Lo
2000.
CASCIO
1991 a, 313 sgg.
14
CRESCITA E DECLINO
mondo antico greco-romano presentava con la storia europea dal quattordicesimo al diciannovesimo secolo: e l'insistenza su un tale confronto è visibile nel più grande fra gli storici modernizzanti del ventesimo secolo, Rostovtzeff. La persistenza del contrasto fra le due concezioni si può dire che sia, in qualche misura, implicita nello stesso affascinante tentativo da parte di Aldo Schiavone di interpretare in parallelo l'evoluzione di Roma antica e quella dell' occidente moderno". Il parallelismo è insistito, ed esplicito: ma paradossalmente proprio per arrivare a negare una prospettiva in qualche modo ciclica, per ribadire la sostanziale "alterità" dell'evoluzione verso la modernità dell'Europa medievale e moderna rispetto agli sviluppi del mondo' antico: per ribadire la natura di "storia spezzata", di tentativo abortito che hanno le apparenti anticipazioni nel mondo romano di sviluppi che caratterizzeranno l'occidente europeo. Caratteristico, e illuminante, è in Schiavone il rovesciamento della formula di Rostovtzeff. Rostovtzeff aveva sostenuto che le differenze tra i conseguimenti dell' economia imperiale romana e quelli delle economie dell'Europa moderna andavano poste su un piano esclusivamente quantitativo. Per Schiavone il confronto sul piano quantitativo non va necessariamente a scapito del mondo romano, ma egli insiste, tutt' al contrario, sulle differenze su un piano qualitativo. E l'elemento che giustifica in ultima analisi perché il pur possibile "decollo" non vi sia stato è il rilievo che avrebbe avuto la schiavitù nel dar forma alla struttura economica del mondo romano. Il fatto è che Schiavone, pur così influenzato dal generale quadro delle economie antiche che Weber aveva proposto in relazione al problema dell' origine del capitalismo moderno, non è forse disposto a condividere il giudizio che Weber dava nella chiusa della sua opera forse più significativa sull'economia romana: "Il continuum dello sviluppo mediterraneo-europeo non ha conosciuto finora né 'cicli' in sé conclusi, né un andamento 'rettilineo' univocamente orientato. A volte è capitato che taluni fenomeni della civiltà antica di cui si erano perse completamente le tracce sono poi riemersi in un ambiente del tutto estraneo't ". Questo giudizio di Weber mi sembra che meriti tuttora di essere condiviso. Esso ci aiuta, per un verso, a evitare qualsiasi teleologismo nell'apprezzamento dell'evoluzione dell'economia romana, per un altro verso, ci aiuta a ricostruirla, quest' evoluzione, in termini corretti, di discontinuità: di crescita, per l'appunto, e di declino. Un approccio del genere, peraltro, aiuta anche a trarre il massimo profitto da un'analisi
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1996. 1981,353.
SCIIIAVONE
22WEBER
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INTRODUZIONE
dichiaratamente comparativa dei conseguimenti dell' economia romana, che valga anche a coglierne le specificità, e su vari piani: dai caratteri della produzione primaria, alla diffusione dei rapporti mercantili, all'integrazione progressiva dei mercati, al rapporto cangiante nello spazio e nel tempo tra popolazione e risorse; all'apprezzamento del tenore di vita. Su tutti questi piani si sono realizzati enormi passi avanti anche attraverso l'uso di nuovo materiale documentario e innovative maniere di analizzarlo. Gli esempi portati all'inizio mi sembra che mostrino incontrovertibilmente come, su un piano meramente quantitativo, c'è crescita e in due sensi: crescita del prodotto lordo complessivo e crescita del prodotto pro capite. La crescita del prodotto complessivo è peraltro legata alla crescita della popolazione. La crescita del prodotto pro capite è indotta anche da una diffusione delle innovazioni e del loro uso (basti ricordare come le indagini più recenti siano valse a sfatare un mito storiografico che ha dominato gli studi medievistici, oltre che quelli antichistici: il mito, vale a dire, di una diffusione del mulino ad acqua nelle regioni europee solo a partire dall' Alto Medioevo}", C'è diffusione dei rapporti mercantili a spese dell'autoconsumo e diffusione della moneta e di strumenti creditizi sofisticati e di conseguenza drastica riduzione dei costi di transazione, che porta peraltro a una sempre più accentuata integrazione dei mercati ". C'è crescita dell'urbanizzazione e crescita dunque del settore secondario e di quello terziario. C'è crescita del living standard, anche se permangono i limiti posti a una qualsiasi economia "vegetale" od "organica": ciò che rende una considerazione dell'evoluzione demografica essenziale per comprendere l'evoluzione anche economica e del living standard. L'evoluzione demografica anzi si può considerare che sia quella che condiziona maggiormente l'evoluzione economica sullungo periodo nel senso della "crescita". Ma l'evoluzione demografica condiziona l'evoluzione economica anche nel senso del "declino" (sul ruolo che giocano in questa direzione le grandi epidemie a partire dalla pestilenza di età antonina - un ruolo sul quale vado insistendo da molti anni ", mi sembra che si stia realizzando un consenso di massima). Il fatto è tuttavia che ci sono persino maggiori resistenze ad accettare l'idea di un mondo romano che conosce una crisi, una decadenza, un declino. È caratteristico di questi ultimi anni un dibattito vivace, che investe proprio la stessa legittimità del ricorso alla nozione e al termine di crisi e non solo per ciò che riguarda più specifi-
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2006, e riferimenti ivi; si vd. ora Lo CASCIO & Lo CASCIO 2005a, e riferimenti ivi; HARRIS 2006. Infra, Il 3; Lo CASCIO 1991 b; Lo CASCIO I 997c. BRUN
MALANIMA
2008.
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camente l'evoluzione economica del mondo romano. Mi basti rinviare alle sofisticate e acute analisi effettuate in più sedi di recente da Andrea Giardina sulla valenza con la quale termini quali appunto "crisi", "trasformazione", "transizione" sono adoperati, spesso con scarso rigore, in molti degli studi più recenti sul terzo secolo d.C. e sulla tarda antichità 26. Osserverò soltanto, seguendo anche qui Giardina, che queste prospettive revisioniste non sembrano spesso essere sollecitate dalla scoperta e dalla pubblicazione di una nuova documentazione o da un nuovo approccio alla documentazione già nota, che valgano a falsificare la visione tradizionale, ma piuttosto da un'opzione ideologica evidente. Non si vuole vedere la "crisi" o, peggio, la "decadenza" o il "declino", anche per l' ansia di offrire una rappresentazione che si vuole avalutativa dell' evoluzione del mondo antico: una rappresentazione che di fatto tuttavia esclude la stessa possibilità di qualsiasi evoluzione. Viene negata qualsiasi radicale discontinuità, e vengono dunque non tanto considerate arbitrarie le periodizzazioni tradizionali, quanto illegittima una qualunque periodizzazione. Più ancora che per altri aspetti le prospettive revisionistiche tradiscono nel caso dell'evoluzione economica e sociale il loro fondamento ideologico. In qualche misura si nega la crisi o il declino economico perché si nega sinanco la possibilità di una crescita, perché si pensa, ancora una volta, a un mondo antico statico, secondo il paradigma finleyano. Ma se il mondo preindustriale è un mondo non immobile e se la "growth" può essere "recurring" vorrà parimenti dire che si dànno logicamente anche periodi nei quali non solo tale crescita viene meno, ma si innescano meccanismi recessivi, che è legittimo definire come indicativi di una "crisi", e in ultima analisi che si avvii un declino.
2" A. GIARDINA, L'Italia, il modo di produzione 233-64; GIARDINA 1999.
schiavistico
e i tempi di una crisi, in GIARDINA 1997,
L'AGRICOLTURA ROMANA TRA AUTOCONSUMO, RENDITA E PROFITTO
L
LA PROPRIETÀ DELLA TERRA, I PERCETTORI DEI PRODOTTI E DELLA RENDITA *
Tra la fine del quinto secolo a.C. e gl'inizi del quarto i Romani combatterono una lunga guerra contro una fra le più importanti città etrusche, il cui territorio era contiguo a quello di Roma, trovandosi sull'altra riva del Tevere in corrispondenza del territorio romano. Si trattava forse del primo impegno bellico continuo per un numero cospicuo di anni, in ciò differenziandosi dalle guerre che Roma aveva sinora combattuto, con cadenza di conflitti stagionali, coi propri vicini: secondo la tradizione la guerra sarebbe durata dieci anni, come la guerra di Troia. Proprio in ragione della sua durata si sarebbero avute importanti innovazioni nella stessa organizzazione dell'impegno bellico: se prima i cittadini romani che avessero un certo patrimonio combattevano a proprie spese (e chi era troppo povero non era chiamato a servire nell'esercito), potendo tornare alla fine della campagna militare al proprio lavoro nei campi, ora divenne necessario istituire un soldo, per permettere ai soldati di sopravvivere senza lavorare la terra, e divenne correlativamente necessario istituire un tributo che finanziasse il soldo e che venisse pagato da chi era rimasto a casa, per esempio perché troppo anziano per servire nell' esercito l. La conclusione del conflitto vide la presa della città etrusca, che venne distrutta. Il suo territorio venne integralmente confiscato: si trattava di un'acquisizione territoriale di enormi proporzioni (che più che raddoppiava l'ager Romanus, il territorio della città), tanto che vennero create quattro nuove tribù (i distretti territoriali nei quali, secondo la tradizione a partire dalle riforme del re Servio Tullio, 1'ager Romanus risultava diviso). La terra venne distribuita in lotti considerati dalla tradizione di * [La natura e l'originaria destinazione del saggio richiedevano che tanto i riferimenti alle fonti, quanto la menzione della sterminata letteratura moderna sul tema fossero limitati all' essenziale. Per una bibliografia ragionata degli studi anteriori agli anni '70 del ventesimo secolo sull'agricoltura romana rimando a WHITE 1970b. Opere generali sulla storia agraria dell'Italia in età romana: KOLENDO 1980; MARCONE 1997; si vd. pure WHITE 1970a e la raccolta di studi a c. di L. CAPOGROSSI COLOGNESI 1982, nonché i sintetici profili dell' evoluzione della proprietà agraria e del lavoro agricolo a Roma dello stesso A., CAPOGROSSI COLOGNESI 1995 e CAPOGROSSI COLOGNESI 1997. Si vd. anche la rassegna di WITSCHEL 2001]. l Liv. 4. 59. 10-11,60.
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CRESCITA E DECLINO
estensione non disprezzabile, sette iugeri (pari a un ettaro e 3/4), che vennero dati - e si trattava di un'innovazione significativa - non solo ai capi famiglia, ma anche ai figli adulti 2: ne dovremmo dedurre che in tal modo veniva a risolversi temporaneamente un problema di pressione della popolazione sulle risorse che doveva avere caratterizzato i decenni precedenti (e che sembrerebbe suggerita, se ne accettiamo in un modo o nell' altro la credibilità, dalle cifre indicative dei risultati dei censimenti che la tradizione ci ha trasmesso per il quinto secolo). La soluzione fortunata del conflitto con Veio può essere assunta legittimamente come data di inizio di una storia della proprietà agricola a Roma: è il primo evento per il quale la coerenza stessa dei dati che la tradizione ci offre ne rafforza la credibilità. È il momento nel quale si afferma il modello della piccola proprietà individuale e, con esso, quella figura del piccolo proprietario autosufficiente che è coltivatore diretto ed è anche soldato, che caratterizzerà in larga misura i secoli dell'espansione di Roma in Italia e poi nel Mediterraneo. Che cosa ci sia stato prima bisogna riconoscere che, dato lo stato della nostra documentazione, è avvolto, in larga misura, nella nebbia: ciò che, comprensibilmente, ha sollecitato l'ingegnosità dei moderni Ce non solo degli storici), i quali in un lavorio plurisecolare hanno prospettato le teorie più varie. Molti hanno sostanzialmente accolto l'idea che a caratterizzare le fasi più risalenti della storia della città sarebbe stata la presenza e anzi il rilievo di forme di appropriazione collettiva della terra. LA PROPRIETÀ
DELLA TERRA IN ROMA ARCAICA
Secondo la tradizione confluita in Dionigi di Alicarnasso, il fondatore della città avrebbe diviso il territorio di Roma in tre parti: una sarebbe andata ai singoli privati; un'altra parte sarebbe stata destinata a un'utilizzazione comunitaria; e la terza sarebbe stata appannaggio del re e dei templi. La divisione dell' ager Romanus viene connessa dalle nostre fonti con l'istituzione delle prime ripartizioni del corpo civico e dell'esercito, le curie e le centurie: a ciascuna curia sarebbero andati cento heredia, cento lotti di due iugeri ciascuno da detenere in proprietà privata, e ogni centuria (unità di cento uomini in armi) avrebbe potuto contare su duecento iugeri (ciò che darebbe ragione del fatto che il termine di centuria avrebbe anche assunto una significazione specifica di lotto di terra di duecento iugeri). 2
Liv. 5. 30. 8-9.
l. LA PROPRIETÀ DELLA TERRA, 1 PERCETTORI DEI PRODOTTI E DELLA RENDITA
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J moderni hanno tentato, in base a questi pochi dati, di ricostruire un paesaggio economico e sociale credibile per la Roma dell' età monarchica 3• Secondo i più, bisognerebbe partire dalla constatazione che, date le condizioni dei terreni (di dubbia fertilità, talora paludosi) e data la rudi mentalità delle tecniche, due iugeri (circa mezzo ettaro) sarebbero stati del tutto insufficienti a sostentare una famiglia: ciò che renderebbe del tutto probabile che i bina iugera della tradizione abbiano costituito l'orto individuale, destinato a integrare una ben più importante partecipazione a uno sfruttamento comunitario della terra. A rafforzare questa convinzione di una comunitaria utilizzazione agricola del territorio si sono fatti valere assai spesso i confronti con modelli collettivistici diversi, per esempio relativi al mondo germanico o slavo. Ma, per un verso, questi confronti, che pure possono essere illuminanti, non vanno accolti in modo meccanico. Per un altro verso, il ragionamento circa l'inadeguatezza dei bina iugera della tradizione a sostentare una famiglia potrebbe non essere del tutto accettabile: in astratto, una coltivazione intensiva avrebbe potuto sopperire a buona parte delle esigenze di apporto calorico di una famiglia, che potrebbe avere trovato un complemento per la propria alimentazione in altre forme di sfruttamento dell'ambiente (come la caccia, la raccolta o ancora, e soprattutto, l'allevamento del bestiame). E tuttavia, vista alla luce di quella che dobbiamo supporre sia la probabile organizzazione della società romana arcaica, una società strutturata per gentes, dunque per clan o per gruppi parentelari veri o fittizi, cui erano associate persone in una situazione di dipendenza, i clientes, l'idea di un controllo comunitario della terra agricola sembra in effetti la più probabile. Dobbiamo ritenere, perciò, che questo terreno comune fosse appannaggio delle stesse gentes: l'ager publicus originario sarebbe stato, cioè, un ager gentilicius. Anche se va ribadito che la nozione di ager gentilicius è una costruzione dei moderni, va riconosciuto che si tratta di una costruzione molto verosimile: così come, prima della formazione di una res publica (ciò che forse impropriamente definiamo lo "stato" romano), deve esservi stata, all' alba della storia della città, una diversa organizzazione politica imperniata sulle gentes, così la terra dev' essere stata dei clan familiari. Si è peraltro fatta l'ipotesi che fosse il capo del clan, il pater gentis (anche questa un' espressione in verità coniata dai moderni, sul modello di pater jamiliasi, a disporre l'utilizzazione della terra della gens suddividendola fra gli appartenenti al clan, oltre che regolando l'accesso ai pascoli e ai boschi di pertinenza del territorio della
] Sulle prime fasi della storia di Roma in generale COLOGNESI 1981 a; 1988a; 1994.
POGROSSI
CORNEII
1995. Sulla terra in Roma arcaica,
CA-
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CRESCITA E DECLINO
gens: dai gentiles e dai clienti egli avrebbe ricevuto parte del raccolto e prestazioni di lavoro da effettuare sulla parte, cospicua, che rimaneva di sua pertinenza. Si avrebbe la conferma di un' organizzazione siffatta in una particolare testimonianza archeologica, qual è quella fornita dai resti relativi alla prima fase di esistenza di un insediamento rurale localizzato a nord di Roma, sulla via Flaminia e nei pressi del Tevere, a circa un km. e mezzo da quella che sarebbe stata la linea delle Mura Aureliane, la cosiddetta "villa dell' Auditorium" 4. Quando vengono a dissolversi queste forme comunitarie legate alle gentes, si afferma, per un verso, il dominium - e cioè la proprietà privata che non accetta limitazioni di .sorta - sull' ager privatus e la possessio la semplice detenzione soggetta a norme e regole e limitazioni di vario carattere - sull' ager publicus: le due forme appaiono essere in qualche misura in competizione e la tradizione sembra rivelare che, al di là del conflitto per la parificazione politica, la lotta tra patrizi e plebei avesse, per posta, anche il controllo della terra, coi patrizi interessati a mantenere il controllo dell' ager publicus, che avrebbero sfruttato mediante forme di lavoro dipendente fornito da liberi senza terra, che restavano nella clientela dei patrizi, e i plebei interessati alla sua distribuzione in lotti in proprietà privata. Dobbiamo ipotizzare, come si è detto, che dovesse esservi una pressione della popolazione sulle risorse, che spiega come in buona misura il lavoro dipendente richiesto dai patrizi potesse assumere la forma della servitù per debiti, com'essa appare regolarnentata nella Legge delle Dodici Tavole (della metà del quinto secolo). Il debitore insolvente (e si trattava ovviamente di prestiti in natura, non essendo ancora l'economia romana un' economia monetarizzata: per esempio, dobbiamo supporre, prestiti di sernenti dopo un cattivo raccolto) era soggetto a sanzioni severissime, che potevano arrivare sino all'uccisione o alla vendita trans Tiberim (cioè al di là del territorio romano e anche al di là del territorio delle comunità latine che facevano parte della Lega di cui anche Roma faceva parte)", Il debitore poteva, però, come pare, pagare il suo debito col proprio lavoro. Secondo una brillante ipotesi dei moderni, era proprio questo, in definitiva, il vantaggio più concreto che il creditore poteva ricavare e dunque la vera finalità della servitù per debiti; essa avrebbe risposto a una precisa esigenza: quella di garantire una riserva di forza lavoro dipendente, quando ancora la struttura sociale prevalente era fatta di piccoli proprietari coltivatori e quando ancora la schiavitù come 4 Sulla Villa dell' Auditorium già TERRENATO2001; e ora CARANDINI, D'ALESSIO, DI GIUSEPPE (a cura di) 2006; la precocità della Villa dell' Auditorium non appare, peraltro, più un caso così isolato: si vd. gli Atti in c.d.s. del secondo convegno sul Suburbium, tcnutosi a Roma nel novembre 2004. 5 XII Tab. III, 1-7.
I. LA PROPRIETÀ DELLA TERRA, I PERCETTORI DEI PRODOTTI E DELLA RENDITA
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"chattel-slavery", come schiavitù-merce, non si era affermata, ma vi erano comunque accentuati dislivelli di ricchezza fondiaria. Non è casuale che l'altro tema "caldo" del conflitto sociale tra patrizi e plebei fosse, oltre che il controllo della terra agricola, quello dei debiti 6. L'attenuazione del conflitto, se non la sua soluzione, poteva venire dall' acquisizione di nuova terra agricola: quella per l'appunto che consegue all'incameramento del territorio veientano. L'EMERGERE
DELLA PICCOLA PROPRIETÀ CONTADINA
Si può dunque datare con ragione agl'inizi del quarto secolo il pieno affermarsi della figura del piccolo proprietario contadino e soldato, che darà la sua impronta all' evoluzione successiva, ma anche agli aspetti più significativi della concezione caratteristicamente romana del1a terra e del suo sfruttamento, del1a valutazione positiva dell' attività agricola e, per converso, di quella negativa del commercio. I lotti di terra distribuiti dopo la conquista dell' ager Veientanus erano pur sempre di dimensioni contenute ed è interessante osservare come la limitatezza dei fondi era a tal punto concepita come un valore che persino agli stessi rappresentanti del ceto dirigente venivano attribuite dalla tradizione proprietà di dimensioni analoghe (si pensi, ad esempio, alla maniera nella quale la tradizione costruisce la figura di Cincinnato, la modestia del cui fondo veniva considerata esemplare 7). La proprietà individuale continuava peraltro a essere integrata dallo sfruttamento, soprattutto a fini di pascolo, di terreni comuni. In epoca successiva l' ager compascuus è il terreno riservato allo sfruttamento comunitario di uno specifico gruppo di proprietari - e dunque con]' esclusione dal diritto a parteciparvi di altri. La conquista di Veio non dovette essere in grado di risolvere compiutamente il problema della pressione della popolazione sulle risorse, se è vero che il tema della servitù per debiti continua a occupare i resoconti della tradizione annalistica ancora per tutta la prima metà del quarto secolo sino al1'abolizione, con una lex Poetelia (del 326 o 313 a.C.)8, quanto meno dei suoi aspetti più odiosi, anche se rimaneva tuttavia la possibilità, e sarebbe rimasta per lungo tempo, dell' addictio, dell'attribuzione temporanea del debitore in solvente al suo creditore in una forma comunque di dipendenza. La risoluzione in qualche modo definitiva del problema sociale della servitù per debiti si ebbe nei decenni successivi, 6 Sulla servitù per debiti la teoria ricordata è quella di 199-221); vd. pure in geli. PEPPE 1981. 7 Liv. 3. 26. R. 8 Liv. 8. 28; Dion. 16.5.
FINLEY
1965 (= FINLEY
1981, 150-66; trad. il.
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CRESCITA E DECLINO
tra la fine del quarto e gl' inizi del terzo secolo, attraverso, ancora una volta, l'utilizzazione della terra conquistata e dunque con la politica di colonizzazione. Dopo il conflitto coi Latini e la rifondazione su nuove basi dell'egemonia romana sul Lazio e sulla Campania, durante i decenni che videro il confronto bellico di Roma con le popolazioni osche che abitavano le regioni appenniniche, conclusosi con ulteriori, enormi acquisizioni territoriali, Roma creò tutta una serie di nuove comunità cittadine, le colonie latine, nel Lazio meridionale, in Campania, nell' area appenninica, in Apulia, quasi a circondare il territorio dei Sanniti, certo in funzione strategica, ma anche come valvola di sfogo di una popolazione eccedentaria. I cittadini di queste nuove comunità erano, in larghissima maggioranza, romani che rinunziavano alla cittadinanza per divenire cittadini della nuova comunità. In compenso, ricevevano un lotto di terreno. La consistenza di questo movimento di popolazione dovette essere cospicua, se guardiamo ai dati che la tradizione annalistica ha preservato circa il numero di maschi adulti dedotti in ognuna di queste colonie (si va dai 2.500 maschi adulti di Cales e di Luceria, ai 6.000 di Alba Fucens, ai 20.000 di Venusia). Dopo la conclusione del conflitto coi Sabini, altri cittadini si videro assegnato un lotto di terra nell' ager conquistato da Manio Curio. Un altro fattore che poté contribuire a risolvere il problema sociale della servitù per debiti dovette essere la crescita delle città e in primo luogo, ovviamente, di Roma, una crescita che significava anche una diversificazione del paesaggio sociale urbano, connessa con il complessificarsi dei rapporti economici e con l'emergere del mercato come strumento e luogo degli scambi. Ma la conquista si risolse in un' acquisizione di terra agricola di dimensioni ben più cospicue rispetto a quella che poteva essere distribuita in proprietà privata. Quando un territorio veniva annesso, la res publica poteva utilizzarlo in vari modi. Il primo era ovviamente quello di una sua ripartizione in lotti e di una sua distribuzione, sia accompagnata dalla creazione di una nuova struttura cittadina, la colonia, per l'appunto, sia senza che ciò avvenisse (e si trattava allora, di una distribuzione viritana, e cioè individuale dei lotti). Era necessario procedere, in questo caso, a un' organizzazione agrimensori a, attraverso la delimitazione delle aree da distribuire e dei singoli lotti, oltre che a opere di sistemazione agraria, per esempio in terreni tendenzialmente paludosi: una sistemazione condotta in un primo momento attraverso l'individuazione di particelle rettangolari (strigae e scamnai e più tardi di particelle quadrate delle dimensioni di 200 iugeri (le centuriae). Ma l'ager conquistato, divenuto ager publicus populi Romani, poteva anche essere venduto dalla res publica (che tuttavia manteneva una sorta di diritto di proprietà eminente
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su di esso), compito al quale provvedevano i questori (donde la denominazione di ager quaestoriusìs, ovvero poteva essere ancora affittato dai censori, per periodi quinquennali. La parte restante veniva lasciata alla libera occupazione di chi volesse. Naturalmente l'insorgere stesso di queste forme di utilizzazione mostra come ormai nella società romana vi fossero grandi disparità nelle fortune individuali: gli acquirenti dell' ager quaestorius e gli affittuari dei terreni affittati dai censori dovevano essere interessati a uno sfruttamento dei terreni agricoli che andava ben al di là delle esigenze di consumo di una famiglia contadina; e in questa prima fase dell' espansione territoriale in Italia, soprattutto con le conquiste di Manio Curio in Sabina, dovette essere, presumibilmente, lo strumento dell'alienazione questori a quello più largamente impiegato. Queste più ampie unità fondiarie alienate dai questori necessitavano di mano d'opera, che ora non era più fornita dai servi per debiti. Il problema economico che era nato dall'abolizione della servitù per debiti fu risolto dall'affermarsi della schiavitù, dell'affitto agrario, del bracciantato agricolo, tre fenomeni che, contrariamente a quanto sostenuto da una lunga tradizione di studi, vanno visti come sostanzialmente paralleli (anche se con qualche possibile décalage temporale), e paralleli perché rispondono tutti e tre allo sviluppo, qualitativo e quantitativo, dell'economia agraria della penisola. Va fatta, a questo riguardo, una considerazione preliminare, che vale tanto per questa prima fase della storia agraria dell'Italia romana, quanto per le fasi successive. In una certa misura parlare di un' evoluzione dell'Italia agricola nel suo complesso potrebbe considerarsi fuorviante. Certamente si può parlare di un'unificazione politica dell'Italia sotto Roma con i primi decenni del terzo secolo (anche se andrà messo in rilievo come questa unificazione abbia comportato, sino al turning-point della Guerra Sociale, una notevole differenziazione delle forme di egemonia esercitate da Roma, il che significa nella natura dei rapporti che ciascuna comunità manteneva con la città dominante). Ma certo non è parimenti legittimo parlare di un'unificazione economica (e dunque, in primis, delle modalità di sfruttamento agricolo del territorio): di un'unificazione in questo senso si può parlare solo nella misura in cui l'evoluzione dell' economia della penisola è condizionata, come si vedrà, dall'esistenza stessa di un grande centro di consumo come Roma, col suo milione di abitanti alla fine dell'età repubblicana. A impedire un'evoluzione in senso unitario fu soprattutto l'estrema varietà degli ambienti geografici, e anche a modeste distanze l'uno dall'altro. Sicché è del tutto naturale che l'eco"Sic. Flacc. de cond. agro 152.22-25 La.
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nomia agraria della Cisalpina, come un osservatore attento qual era Polibio precocemente notava IO, dovesse essere nettamente diversa da quella delle regioni appenniniche, o della piana campana, o del Tavoliere, o del Salento. Di una tale varietà nelle modalità di sfruttamento del territorio e di conseguenza nelle forme insediative abbiamo, peraltro, ora una testimonianza indiscutibile nella documentazione archeologica, messa a disposizione dalle indagini di scavo e di superficie. DALLE FATTORIE ALLE VILLAE, DALL' AUTOCONSUMO
AL MERCATO
L'espressione più caratteristica di questo sviluppo, quantitativo e qualitativo, dell'economia agraria romana già a partire dal III secolo ma poi soprattutto nel II e l secolo a.c. è certo la villa cosiddetta schiavistica 11: quella struttura, cioè, descritta, dagli scrittori romani di agronomia, a partire da Catone, e che è sostanzialmente caratterizzata, sul piano della finalità economica, dalla produzione di una o più derrate per il mercato (anche se apparentemente non viene abbandonata la vocazione autarchica, che si esprime nel cercare di acquistare il meno possibile dall' esterno: il padre di famiglia, dice Catone, dev'essere vendace e non emace: 2.7), e sul piano dell'organizzazione della produzione, dalla squadra di operai agricoli fissi, di norma di condizione servile, con il complemento quantitativamente cospicuo di una manodopera stagionale libera: un'unità produttiva che richiede forme specifiche di gestione, il che vuol dire un calcolo economicamente orientato dei costi e dei ricavi. Il rilievo che hanno le nuove motivazioni dei proprietari risulta evidente dalla stessa strutturazione dei trattati, pur con le loro differenze (si registra una maggiore complessità di prospettive e di tematiche nei Rerum rustica rum libri, in forma di dialogo, di Varrone e nel complesso un' analisi assai più dettagliata in Columella, mentre il quadro di Palladio, riferendosi a un periodo assai più tardo, è ovviamente assai diverso) 12. Ma è proprio il primo dei trattati a mostrare forse nella forma più icastica i nuovi orientamenti, pur all'interno di una presentazione di cui sfugge talora l'intima logica. Il de agricultura, che è la prima opera in prosa della letteratura latina che ci sia pervenuta per intero, continua a costituire per gli esegeti moderni un problema proprio per questo motivo: perché non ne risulta pienamente riconoscibile l'intima struttura e PoI. 2. 14 sgg. " Sulla villa c le trasformazioni IO
dell'economia
italica CARANDlNl 1995; 1989; ma si vd. ora anche
MARZANO 2007. 12 Su Catone e gli altri scriptores de re rustica in particolare MARTIN 1971; WIllTE 1973; si vd. da ult. l'ed. con trad, a fronte e commento del de agricultura catoniano, a C. di L. CANALIe E. LELLl, Milano 2000.
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nemmeno ne risulta del tutto sicura la finalità, il che vuol dire anche che non risulta definibile il destinatario, il pubblico cui è rivolta. L'operetta tratta di temi disparati: dai criteri che bisogna seguire quando si acquista un fondo o quando si costruisce una villa, ai metodi da adottare per i diversi tipi di colture, agli accorgimenti da seguire per conservare i vari tipi di derrate, ai modi di preparazione di determinati cibi, con la presentazione di quelle che non impropriamente possono definirsi "ricette". L'elemento che guida la costruzione del discorso in questo "trattato" del tutto sui generis appare essere la piena consapevolezza del fatto che la finalità della produzione agraria sta nella vendita dei prodotti: una consapevolezza che si esprime, per esempio, nei consigli sulla migliore localizzazione del fondo. È significativo che proprio il primo capitolo dell'operetta catoniana sia quello nel quale si danno consigli in merito a quale fondo acquistare e a come predisporlo per la produzione. Alcuni di questi consigli non superano quel che potremmo definire il buon senso contadino (visitare il fondo che si vuole acquistare più volte, osservare quale sia la condizione economica dei vicini, perché "vicino ricco, posto propizio", garantirsi che il luogo sia fertile e salubre, che vi sia abbondanza d'acqua). Altri sono viceversa assai più significativi, perché sono la migliore testimonianza di quale sia la direzione delle modificazioni in atto. Per esempio il fondo dev'essere collocato là dove vi è abbondante manodopera e soprattutto collocato vicino a un centro abitato di buone dimensioni, o vicino al mare, a un fiume navigabile, o a una "via bona celebrisque", a una buona strada, che sia molto frequentata 13 (una prescrizione che sarà ripetuta da Varrone 14 quando osserverà che "fundum fructuosiorem faciunt vecturae, si viae sunt, qua plaustra agi facile possint" e che incidentalmente dimostra come le strade, nonostante i costi comparativamente assai elevati del trasporto terrestre rispetto a quello per via d'acqua, assolvessero comunque a un'importante funzione economica, come è stato messo in rilievo di recente 1\ e non solo strategica, come si sostiene comunemente). Vale a dire che è colta la necessità che l'unità produttiva possa approvvigionarsi di uno dei fattori di produzione, il lavoro, dove quest'ultimo sia abbondante e dunque più conveniente 13 De agro I. 1-3: «Praedium quom parare cogitabis. sic in animo habeto: uti ne cupide ernas neve opera tua parcas vi sere et ne satis habeas semel circumire; quotiens ibis, totiens magis placcbit quod bonum erit. Vicini qua pacto niteant, id animum advcrtito: in bona regione bene nitere oportehit. Et uri] ti eo introeas et circurnspicias, uti inde exire possis. Uti honum caelum habcat; ne calamitosum siet; solo bono, sua virtute valeat. Si poteris, sub radice montis siet, in rneridiem spectet, loco salubri; operariorum copia siet, bonumque aquarium, oppidum validum prope siet; si aut mare aut amnis, qua naves ambulant, aut via bona celebrisque». 14 Varr. R.R. l. lo. 6. Il LAURENCE 1998; 1999.
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(e la prescrizione ritorna poco dopo, nel capitolo 4, quando appunto, parlando dei buoni rapporti che si devono avere coi vicini, Catone osserva come in questo modo più facilmente sarà possibile appaltare i lavori e più facilmente trovare gli operarii, i lavoratori a giornata); e nello stesso tempo è colta la necessità che la proprietà possa trovare un facile smercio alle proprie produzioni 16. Parimenti la consistenza dell' instrumentum per la produzione -lavoratori, animali e strumentazione agricola - e dell'attrezzatura per la trasformazione dei prodotti agricoli (come i torchi per la produzione del vino e dell'olio), ovvero per la loro conservazione, dev'essere rapportata alle effettive possibilità di smercio, per evitare che le spese si mangino tutti i ricavi 17. Non è allora casuale che il capitolo l si chiuda con quella celebre classifica della redditività delle colture (con l'esclusione dell'allevamento, di cui Catone non parla, ma che sappiamo essere stato considerato da lui come il più redditizio sistema di sfruttamento della proprietà) 18, che è tutta costruita sul presupposto di uno smercio dei prodotti, e che vede al primo posto la vigna, al secondo l'hortus irrlguus, l'orto, al terzo il saliceto, al quarto l'oliveto, al quinto il prato, al sesto il campo coltivato a frumento, al settimo il bosco da tagliare per far legna, all' ottavo l'albereto, al nono il bosco da ghiande 19. Sono alcune fra queste, anche se non tutte, le utilizzazioni agrarie che poi Catone esaminerà nel corso del trattato. E le esaminerà in questa chiave: la rispondenza delle esigenze di manodopera e in genere di instrumentum alle dimensioni dell'unità produttiva. Di qui anche i calcoli che vengono prospettati del numero di persone necessarie per rendere produttivo un vigneto di 100 iugeri e un oliveto di 240 iugeri 20: si è di recente sostenuto, e a ragione, che queste specifiche estensioni vanno intese come possibili "unità di management", e non necessariamente come unità di proprietà 21. Forse si dovrà andare ancora oltre e considerarle come "ideali" o "esemplari" unità di management, le cui dimensioni sono scelte per rendere immediatamente evidente il calcolo del numero di persone
16 de agro 4: «Vicinis bonus esto: farniliam ne siveris peccare. Si te libenter vicinitas videbit, facilius tuas vendes, operas faeilius loeabis, operarios facilius conduces; si aedificabis, operis, iurnentis, materie adiuvabunt; si quid (bona salute) usus venerit, henigne defendent». 17 de agl'. I. 5·6: «lnstrumcnri ne magni siet, loco bono sict. Videro quam minimi instrumcnti sumptuosusquc ager ne siet. Scito idem agrum quod hominern, quamvis quacstuosus siet, si sumptuosus erit, relinqui non rnultum». IX Cic. de li/T 2. 25. 89. l') de agl'. I. 7: «Praedium quod primum siet, si me rogabis, sic dicam: de omnibus agris optimoquc loeo iugera agri centum, vinca est prima, vel si vino multo est; secundo loco hortus irriguus; tertio salictum; quarto oletum; quinto pratum; scxto campus frumentarius; septimo silva caedua; octavo arbustum; nono glandaria silva», 20de agro 10-1 I. AUBERT 1994, cap. 3; sul management delle unità fondiarie vd. anche CA~I.SEN 1995.
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richiesto e per consentire una più facile comparazione delle spese e dei rendimenti, senza che queste indicazioni numeriche abbiano, di per sé, una specifica funzione normativa. Vale a dire che è improprio considerare generalizzabili questi dati numerici e sostenere che la villa "catoni ana" destinata alla produzione di vino dovesse essere estesa mediamente per cento iugeri e quella vòlta alla produzione dell'olio 240 iugeri. A parte il fatto che la stessa trattazione catoniana non si riferisce, in astratto, a un fondo ideale, ma a una realtà territorialmente ben definita, quella del Lazio meridionale e della Campania settentrionale, e dunque, semmai, a quest' area potrebbero riferirsi le misure indicate, a contraddire la legittimità di una generalizzazione vale la stessa critica che, su questo piano, Varrone rivolge a Catone (mettendola in bocca a un altro celebre scrittore di agricoltura, Tremellio Scrofa): quella appunto di non avere chiarito le cose, con l'individuare una specifica estensione così dell' oliveto come del vigneto, dal momento che non risulterebbe esplicitato di quanto proporzionalmente crescerebbe o diminuirebbe il numero dei lavoratori richiesti col crescere o col diminuire dell' estensione del fondo ", Procedimenti argomentativi analoghi seguirà più tardi Columella: e anche in questo caso risulta difficile attribuire un significato normativo ai 100 iugeri di vigneto o ai 200 di arativo, sui quali vengono operati i calcoli, essenzialmente per individuare l'input di lavoro necessario per l'una e per l'altra utilizzazione agricola 23. Il fatto è che, superata la soglia del podere coltivato per la mera sussistenza dalla famiglia contadina, le dimensioni non solo delle unità di proprietà, ma anche delle stesse "unità di management" dovevano essere, già precocemente, assai varie, comportando semmai una soglia minima, al di sotto della quale il vilicus risultava sottoccupato, e una soglia massima, al di sopra della quale un solo vilicus non sarebbe bastato. Se l'elemento di cesura col passato che si coglie nello scritto catoniano è questo irrompere di un nuovo modello di produzione agricola orientata verso lo smercio dei prodotti sul mercato, tuttavia si osserva la persistenza di aspetti di un 'ideologia legata ancora al passato, quella che si riallaccia ai maiores nella lode del bonus agricola bonusque colonus e lo contrappone al mercante e al fenerator. Questi aspetti sono esplicitati nella praefatio che una lunga tradizione di studi ha voluto vedere quasi in contraddizione con il resto dell'opera". Ma la valutazione negativa del commercio e della feneratio, contraddetta peraltro sul piano
2"Varr. R.R.!. 18. 1-5. Col. de agro 2. 12; 11.2. 24 Sulla praefatio catoniana in parto 23
GABBA
1988, 89-105.
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dei comportamenti concreti dallo stesso Catone, come rivela la biografia plutarchea", non sembra tanto avere, alla sua base, una condanna di tipo morale. Certo, se vogliamo credere al celebre aneddoto raccontato da Cicerone nel de officiis (2. 89), Catone avrebbe espresso una radicale condanna dellafeneratio per motivazioni morali: un interlocutore avrebbe chiesto a Catone di pronunciarsi sulla redditività delle varie forme di sfruttamento della proprietà della terra e Catone avrebbe espresso la sua ben nota preferenza per l'allevamento; ma di fronte alla successiva domanda relativa alla profittabilità dell'usura rispetto a quella dello sfruttamento fondiario Catone avrebbe risposto stizzito, quasi paragonando il prestito a interesse all'omicidio. E tuttavia non si può dire che l'ideologia antimercantile di Catone sia eticamente motivata: essa nasce da un altro genere di preoccupazioni. Com'è stato acutamente messo in rilievo, 1'opposizione alla mercatura, intesa come grande commercio marittimo (quella che Cicerone definirà, sempre nel de officiis, la mercatura magna et copiosa, nel distinguerla dal commercio al minuto?"), nasce dalla consapevolezza della necessità di evitare, nell'utilizzazione del proprio patrimonio, quei rischi che possono mettere a repentaglio la propria posizione sociale e di conseguenza, in una società organizzata timocraticamente, il proprio ruolo politico. Vediamo apparire già in Catone quella che sarà l'oscillazione forse più caratteristica nell'atteggiamento dei ceti proprietari: l'oscillazione tra la ricerca del guadagno sul mercato, esito di una mentalità nettamente acquisitiva, e la ricerca della sicurezza della rendita: insomma l'oscillazione tra volontà di accrescere i propri profitti e volontà di garantirsi entrate, seppur più modeste, più sicure. La testimonianza che offre il trattato catoniano delle trasformazioni in atto nell' economia agraria della penisola a partire dal terzo secolo è stata confermata dall'indagine archeologica, che soprattutto in questi ultimi decenni ha rivolto particolare attenzione alla ricostruzione dei siti rurali. Tali siti sono stati studiati giovandosi delle descrizioni degli scrittori de re rustica: i confronti tra la documentazione archeologica degli edifici rurali per la produzione, la trasformazione e la conservazione delle derrate, delle fattorie e delle ville, con la presentazione che ne fanno gli agronomi sono spesso stringenti e ne viene la conferma, se cc ne fosse stato bisogno, del carattere molto pratico e concreto della trattatistica agronomica romana. Il caso emblematico è quello della villa di Settefincstre, nel territorio della colonia latina di Cosa, che pare rispondere in pieno, nelle sue strutture, e nelle fasi centrali della sua esistenza, alla descrizione di
25 26
Plut. Cafo Maior 21. 6. Cic. de off 1.42. 151. Sul luogo, da ultimo,
DI GENNAKO
2004, 54.
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una villa ideale che leggiamo in Columella (1. 6): con la pars urbana, dove risiede il proprietario quando visita il fondo, la pars rustica, dove è allogato l'instrumentum, laparsfructuaria, con gl'impianti per la lavorazione e la conservazione dei prodotti 27. Le ultime ricognizioni archeologiche hanno, tuttavia, mostrato che la villa come residenza di campagna e come edificio rurale, con una determinata strutturazione degli spazi, precede l'affermarsi del cosiddetto "modo di produzione schiavistico", tanto da doversi mettere in discussione che sia dimostrabile un passaggio graduale dalla piccola fattoria che produce per i bisogni della famiglia contadina, alla fattoria più grande, alla vera e propria villa schiavistica. L'organizzazione produttiva delle unità fondiarie che hanno la loro proiezione sul piano architettonico nelle villae non è solo quella legata allo sfruttamento del lavoro servile (o a quella particolare forma di sfruttamento del lavoro servile che viene considerata quella caratteristica, appunto, del cosiddetto "modo di produzione schiavistico"). In più, è stata messa in discussione la possibilità di leggere davvero, come si era tentato di fare, nei resti materiali, un'articolazione in fasi cronologicamente distinte, corrispondenti, in qualche misura, alle descrizioni dei tre agronomi: vale a dire la possibilità di isolare nella documentazione archeologica un modello catoniano, un modello varroniano, un modello columelliano. Possiamo individuare questa fase più antica della storia della villa in un sito assai vicino ai limiti della città di Roma in età repubblicana, e già ricordato: quello rinvenuto nel luogo dell'erigendo Auditorium. Il sito dell' Auditorium mostra una continuità di occupazione addirittura dal sesto secolo a. C. sino al secondo d. C. (anche se risulta difficile datarne con sicurezza il momento dell'abbandono). Già nella seconda fase di esistenza del sito, tra gl'inizi del quinto secolo e la fine del quarto, le dimensioni e la struttura del complesso, che prevede la caratteristica compresenza di ambienti residenziali e di ambienti per la produzione e la conservazione delle derrate, suggeriscono il confronto con le ville più tarde. Nella fase successiva, tra la fine del quarto e la metà del terzo secolo, la separazione tra pars urbana e pars rustica è più netta, e nella fase successiva la pars urbana viene a essere più riccamente decorata. A partire da questo momento la singolarità della villa dell' Auditorium viene men028• Questa nuova evidenza archeologica mostra la difficoltà di ricostruire, non solo sul piano delle strutture architettoniche, ma ovviamente anche sul piano dell'evoluzione sociale ed economica un percorso lineare. È
Sulla villa di Settetinestre, zx Cfr. supra n. 4.
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CARANDINI
(a c. di) 1985.
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probabile che vi sia stata, sin dal momento nel quale comincia ad affermarsi un tipo di sfruttamento agrario più orientato verso la commercializzazione delle produzioni, la coesistenza di più "modelli" di unità fondiaria, con le connesse strutture abitative. Si è peraltro messo in rilievo come nello stesso Livio, e per un' età risalente, si trovino attestate denominazioni diverse per i diversi tipi di edificio rurale, da villa a casa a tugurium, e si è dunque tentato, in base, alla documentazione archeologica esistente di siti nei pressi di Roma, di proporre una tipologia che distinguesse, appunto i piccoli edifici costruiti in materiale deperibile (casupole rurali di 20-50 mq.), dalle strutture più grandi, di 120-300 mq., con murature in pietra e copertura di tegole, e ancora dalle fattorie di 600-] 500 mq., caratterizzate da una corte centrale fiancheggiata da una molteplicità di ambienti con funzione tanto residenziale quanto produttiva". Qualunque tipologia, tuttavia, pur avendo un indubbio valore euristico, tende a semplificare una realtà che doveva essere estremamente variegata. Ne viene di conseguenza che non possiamo generalizzare il modello della villa "catoniana" o "varroniana " o "columelliana". Si è potuto mostrare che se, sul litorale dell' Etruria meridionale, si afferma appunto il modello della villa, ben più diffuse sono le fattorie di assai più modeste dimensioni per esempio attorno a Roma o ancora in alcune zone della Campania (come]' ager Pompeianus). Così, nella zona orientale del suburbio di Roma si rileva l'emergere, nel corso del terzo secolo, di fattorie e fondi che sembrano avere in qualche misura dimensioni "prestabilite", attorno ai 50-70 iugeri, con opere di canalizzazione delle acque che sono anche opere di delimitazione l0. Nell'area a sud della città i fondi hanno dimensioni più cospicue (80-100 iugeri). In queste aree si rileva una coltivazione intensiva della vite (attestata da trincee scavate nel tufo) e la coltivazione dei cereali, ortaggi, legumi tra i filari di viti, secondo procedure che vediamo presenti nelle istruzioni degli agronomi 31. Ciò che accomuna fattorie e ville è, per un verso, il fatto che le une e le altre corrispondano a terreni sfruttati intensivamente e, per un altro verso, il fatto che individuino unità che sicuramente producono per il mercato. Sembra improprio, perciò, come una lunga tradizione di studi ha fatto, in particolare in Italia, considerare generalizzabile il modello di un'unità fondiaria di dimensioni medio-grandi, che utilizza prevalen-
zv Sulle denominazioni degli edifici rurali in Livio e sulla documentazione archeologica dci siri nei pressi di Roma, CIFANI 1998, Sulle fattorie nel suburbio di Roma ora VOLPE 2000; vd. anche SANTILLO FRIZELL, KLYNNE (a c, di) 2005, con un'indicazione parzialmente diversa dell'estensione dci fondi, )0 VOI.PE 2000. 192; vd. CAIWSO, GIOIA, VOLPE 1998; GIOIA, VOLPE (a c, di) 2004; VOLPE, HuvZENDVELD
2005. 1997.
), HF.DlNI
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temente, o quasi esclusivamente, schiavi senza famiglia, accasermati negli ergastula, gli ambienti archeologicamente ben individuabili dove sarebbero stati allogati gli schiavi: in molti siti gli ergastula non ci sono n, Andrà, intanto, dato il giusto rilievo alla presenza e alla rilevanza del lavoro libero nella stessa villa catoniana: un lavoro libero utilizzato nella forma di due tipi di contratto descritti dai giuristi successivi, la locatio-conductio operis - vale a dire l'affidamento di un'operazione specifica, come la raccolta delle olive e la spremitura dell'olio, a un "appaltatore" esterno, che assume in tal caso la funzione di conductor e che può personalmente compiere il lavoro - e la locatio-conductio operarum, l' "assoldamento" di braccianti a giornata, che sono in tal caso i "locatori" delle proprie operae, del proprio lavoro, un personale che noi definiremmo salariato. E interessante osservare come proprio i lavori maggiori siano quelli affidati a personale verosimilmente libero: il raccolto del grano; la raccolta delle olive; la spremitura; la raccolta dell'uva". La fattoria o villa catoniana, in quanto unità di produzione, ha un rapporto con l'esterno ormai molto consistente e certo essenziale per il suo funzionamento, tanto per l'acquisizione dei fattori di produzione (del lavoro, ma anche dell'attrezzatura e in genere dei manufatti) quanto per la commercializzazione (come dimostrano i capitoli finali del trattato, che descrivono i contratti di vendita delle ulive e del vino). La già citata osservazione circa il paterfamilias, che ha da essere vendace e non emace, è proverbiale ": è l'espressione di una presa di posizione ideologica - quella che vuole esaltare le virtù tradizionali del piccolo proprietario coltivatore diretto, che produce per i bisogni propri e della propria famiglia - più ehe corrispondere all'effettiva realtà dei rapporti economici. La stessa conclusione va tratta dal luogo famoso della praefatio al primo dei Renon rusticarum libri di Varrone sui vari tipi di lavoratori che si possono utilizzare in un'intrapresa agricola e sulla quale si ritornerà. Ciò che si deduce da questo passo è, per un verso, la rilevanza dei rapporti che l'unità fondiaria deve avere con l'esterno, al livello di acquisizione del fattore lavoro, e, per un altro verso, il rilievo che anche nelle unità basate sul lavoro servile continua ad avere il lavoro libero. L'impressione di un'unità agricola nella quale il lavoro è prestato quasi soltanto dagli schiavi, sotto la direzione del vilicus, lo schiavo "manager",
l' Si vedano ora, peraltro, su un piano più generale, le serie obiezioni di RO'I H 2007 alla tesi vulgata di un rapporto dei sessi drasticamente squilibrato a favore dei maschi nella popolazione servile delle unità produttive agricole basate sul lavoro degli schiavi. n Cat, de agro 136, 144-147. )4 Lo Osservava già Max Weher sulla scia di Gummerus: vd. Lo CASCIO 1982d, 129 con n. 32, p. 142.
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coadiuvato dalla sua compagna, la vilica (per la quale pure Catone individua dei compiti specifici), forse dipende dal fatto che, come si è supposto, il de agricultura è concepito come un insieme di istruzioni per chi deve sovrintendere, appunto, al lavoro degli schiavi: si è notato che mancano, nella parte del trattato nella quale è descritto il calendario delle operazioni agricole, proprio le più importanti, ma andrà osservato che queste più importanti operazioni non sono quelle che vengono effettuate valendosi del personale servile collocato stabilmente sul fondo, ma sono quelle date in appalto all'esterno. Per converso, Catone dà istruzioni sulle attività che lo schiavo deve svolgere durante le feriae. Della sia pure rudimentale razionalità della gestione il fatto che il lavoro di base sia affidato agli schiavi è, dunque, un aspetto rilevante, di cui l'agronomo deve tenere conto, ma non ]' esaurisce, ciò che spiega il perché forme razionali di sfruttamento si possano presentare (in Italia come in altre regioni dell'impero) senza il ricorso alla manodopera servile. Non è forse improprio allora chiedersi, come ha fatto recentemente uno studioso francese, il Dumont, se si possa davvero parlare di villa schiavistica, per la villa descritta dagli scrittori de re rustica, quando il lavoro libero vi è utilizzato in maniera così massiccia". In conclusione si può dire che gli elementi comuni, e strettamente connessi fra loro, che sembrano dare unitari età di sviluppi a ciò che accade nell' economia agraria in Italia tra il terzo secolo e il primo a.c. sono l'intensificazione delle colture e l'espansione della produzione per il mercato. A determinare l'uno e l'altro fenomeno è il forte incremento della domanda, in conseguenza del crescere della popolazione, delle città e in particolare di Roma, ma anche dei mercati di sbocco soprattutto del vino italico nelle regioni extra-i tali che e di cui rappresentano una testimonianza di eccezionale importanza le anfore rinvenute nelle varie aree verso le quali si dirigono le esportazioni, la Spagna e poi la Gallia meridionale e ancora l'Africa (dalle cosiddette greco-italiche alle cosiddette Dressell, prodotte nella stessa zona delle anfore greco-italiche). A permettere questa trasformazione dell' economia agraria è, per un verso, l'allargarsi stesso della terra disponibile in Italia, soprattutto a seguito delle confische ai danni delle comunità dell' Italia centromeridionale, che avevano defezionato nel corso della Guerra Annibalica e che alla sua conclusione furono severamente punite, per un altro verso l'afflusso di "capitali" e di manodopera, in forma di schiavi, a seguito delle grandi conquiste transmarine.
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DUMONT
1999.
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LE CONQUISTE TRANSMARINE, L'AFFLUSSO DI RICCHEZZA IN ITALIA E I PROBLEMI SOCIALI DEL
TI
SECOLO A.C.
La Seconda Guerra Punica - una guerra combattuta in larga misura e per molti anni in Italia - e la sua conclusione fortunata ebbero conseguenze importanti per l'evoluzione economica dell'Italia nei decenni a venire. Secondo un'affascinante ipotesi moderna (che tuttavia non può ormai essere più accettata, per lo meno nella forma radicale nella quale era stata espressa), l'''eredità di Annibale" si sarebbe fatta sentire condizionando la storia successiva della penisola sino addirittura al ventesimo secolo: le conseguenze devastanti del conflitto stesso e di ciò che sarebbe venuto dopo - la desolazione di ampi tratti del territorio dell 'Italia meridionale - spiegherebbero la persistente condizione di sottosviluppo, sperimentata dal Sud dell' Italia in epoca successiva 36. Se un quadro così catastrofico è certamente smentito dall'indagine archeologica di scavo e di superficie.", non si può dubitare che gli effetti soprattutto della confisca di enormi territori a molte delle comunità dell'Italia centromeridionale e la loro trasformazione in ager publicus populi Romani, solo in parte destinato alla distribuzione agli stessi veterani della Guerra Annibalica, ma in larghissima misura lasciato alla libera occupazione dei più ricchi fra i Romani e fra gli alleati, furono davvero alla base dei più rilevanti fra i problemi economici e sociali della penisola nel corso del II secolo. In parte l' ager publicus disponibile venne utilizzato per crearvi unità fondiarie a coltivazione intensiva e tendenzialmente specializzata, in più larga misura consentì l'espandersi, a livelli sino ad allora sconosciuti, "in senso 'quasi industrializzate" s'è detto giustamente, di una pratica pur antichissima quale l'allevamento transumante, con la concomitante espansione, specialmente nelle città non distanti dai tratturi o dalle loro destinazioni finali in pianura, come Taranto e alcune città campane, di alcune attività manifatturiere legate all'allevamento, come la produzione della lana e dei tessuti di lana 38. Le unità fondiarie per una produzione tendenzialmente specializzata e il grande allevamento transumante sono i due tipi di utilizzazione agraria che rappresentano, nella loro individualità, la sostanza delle trasformazioni dell' economia agraria della penisola, anche se è possibile rilevare l'esistenza di forme, che potremmo definire di utilizzazione mista del territorio: la villa di Termitito in Lucania si segnala per essere assieme
TOYNBEE 1965. Vd. pure BRUNT 1971, 19872. "Una recente messa a punto in Lo CASCIO C STllRCHI M"'RINO (a c. di) 2001. "Sulla transumanza e la sua diffusione GABBA, PASQUINUCCI 1979. .'6
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utilizzata come tappa finale di un percorso di transumanza e come unità specializzata nella produzione del vin039. Ma per entrambi i tipi di utilizzazione agraria erano necessari capitali e manodopera a buon mercato. Le conquiste transmarine che si scaglionano nel corso del II secolo e che proseguiranno nel primo, sino alla sistemazione delle nuove province orientali con Pompeo, fanno affluire in Italia capitali, arricchendo i privati oltre che la res publica, e schiavi in misura tale da consentire quest'espansione. Le aree nelle quali soprattutto si impiantano le ville come unità produttive specializzate e legate a importanti mercati di sbocco. sono essenzialmente le aree costiere a nord e a sud di Roma, la Campania, alcuni tratti delle regioni meridionali. Le aree interessate dal grande allevamento transurnante sono, ovviamente, quelle della dorsale appenninica dal Sannio alla Lucania ai Bruzi, dove si collocano i pascoli estivi, e le aree in pianura e più prossime alle coste del Lazio, della Campania, della Lucania e soprattutto dell' Apulia (andrà osservato come elementi di continuità si rilevino tra la rete dei calles, i percorsi della transumanza, e la rete tratturale di età aragonese e successiva, con un percorso antico non molto diverso dal tratturo che collegava L'Aquila e Foggia). Già agl'inizi del Il secolo abbiamo notizia di rivolte di schiavi pastori 40, ciò che conferma i dati numerici impressionanti relativi alle schiavizzazioni di massa, che le nostre fonti registrano. Un altro aspetto di rilievo delle trasformazioni innescate dalla conquista in direzione di una sempre più spinta razionalizzazione produttiva è l'emergere di una nuova regolamentazione giuridica, di un diritto commerciale vero e propri041• Quest' evoluzione deve connettersi con la sempre più spinta utilizzazione, da parte dei proprietari delle fortune fondiarie più consistenti, di un personale, di condizione servile, che gestisca le varie unità nel caso, normale, di una loro assenza dai fondi, determinata dal loro trasferimento nelle città e segnatamente a Roma, per svolgervi la propria attività politica. Oltre al vilicus, cui è affidata la gestione della singola unità produttiva, si affermano una serie di altre figure (actores, procuratoresi che devono curare gl'interessi del proprietario assenteista. Una lunga tradizione di studi ha voluto collegare il fiorire della nuova agricoltura, definita da un grande storico di tendenza modernizzante quale Rostovtzeff come "metodica e capitalistica", a una netta e definitiva decadenza della piccola proprietà contadina, tendenzialmente autosufficiente, a un declino di quel contadiname libero che aveva costituito il w Sulla villa di Termitito, DE SIENA e GIARDINO 200 l. '" Liv. 41. 29. S-9 (185 a.c.); 41. 6-7 (I ~4 a.c.). " Sull'emergere di un diritto commerciale a Roma, tra i vari lavori di l-. SERRAO e della sua scuola, si vedano SERRAO 19~9; DI PORTO 19~4; vd. anche CERAMI, DI PORTO, PETRUCCI 2004'.
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nerbo dello stato conquistatore del Mediterraneo. I piccoli proprietari contadini sarebbero stati rovinati, per un verso, dal fatto di essere impegnati in lunghe campagne militari fuori d'Italia e dunque di dovere lasciare andare alla deriva i propri piccoli poderi (senza contare che molti di essi sarebbero morti in guerra), e per un altro verso dal fatto di non potere contare più come in passato sull' integrazione ai propri consumi consentita dall'utilizzazione dei terreni comuni, visto che proprio su tali terreni comuni, occupati anche al di là di ciò che avrebbe consentito la normativa che regolava la possessio dell' ager publicus, si erano andate creando le grandi aziende dei più ricchi proprietari, lavorate in larga misura da un personale di condizione servile. La prima legge che avrebbe fissato un modus agrorum, un limite massimo di occupazione da parte di ciascuno di terreno pubblico, sarebbe stata, secondo la tradizione, una delle leges Liciniae Sextiae del quarto secolo+', La norma sarebbe stata ripresa forse all' indomani della Guerra Annibalica, ma sappiamo che veniva considerata da Catone, al momento nel quale pronunciò una famosa orazione a favore degli abitanti di Rodi, nel 169, sostanzialmente lettera morta'". La decadenza dei piccoli proprietari avrebbe avuto, peraltro, un risvolto preoccupante per la stessa classe dirigente: poiché obbligati a servire nell' esercito erano coloro che avevano un certo livello di patrimonio, e ne erano esclusi coloro che non raggiungevano questo livello (i cosiddetti proletariii, l'impoverimento di molti piccoli proprietari, magari costretti a svendere i loro piccoli poderi ai più ricchi, li avrebbe esonerati dal servizio militare, con conseguenze facilmente immaginabili in un momento di ulteriore espansione come furono questi decenni del secondo secolo. È in questo scenario che bisogna collocare l'attività riformatrice di Tiberio Gl'acca, tribuno nel 133, poi ripresa dieci anni dopo dal fratello Gaio. Tiberio propose una legge che, da un lato, ristabiliva un limite per l'occupazione individuale dell'ager publicus (500 iugeri, incrementabili a 1.000, nell'ipotesi in cui l'occupante avesse avuto figli) e che, dall' altro lato, prevedeva che i 'terreni così recuperati venissero distribuiti in lotti di dimensioni modeste ai cives Romani (e, secondo qualcuno dei moderni, anche ai socii ftalici) senza terra.". La proposta di Tiberio incontrò resistenze fortissime, ma, nonostante il tribuno venisse assassinato, venne approvata e si insediò una commissione che avrebbe
" fORSÉN 1991. La tesi vulgata, risalente a Niebuhr, secondo la quale il limite avrebbe riguardato l'occupazione di aga publicus e non (o non anche) i terreni detenuti in proprietà privata è stata messa di recente in discussione da RATHBONE 2003, seguito da RICH 2007; ma si vd. quanto osserva CAPOGROSSI COLOGNESI 2007. 4' Gell. 6. 3. 37 (= ORF, fr, 168, Malc.) 44 App. B. C. l. 9. 37; Liv. Periodi. 58; VÙ://l. 64.
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dovuto procedere alla rivendicazione del terreno illegalmente occupato, alla sua organizzazione agrimensoria e alla sua distribuzione: una commissione sulla cui attività siamo informati, oltre che da alcuni scritti del corpus degli agrimensori romani, anche da una testimonianza epigrafica di rilievo, quali sono i cippi che delimitavano le aree rivendicate dalla res publica e che sono stati trovati in alcune zone dell' Italia centromeridionale ". Il programma agrario di Tiberio fu ripreso dieci anni più tardi dal fratello Gaio, all'interno di un più complessivo progetto riformatore. La proposta di riforma agraria di Tiberio è stata spesso giudicata in qualche misura "conservatrice": nella misura in cui avrebbe teso a riproporre un modello di economia e di società, basato sulla piccola proprietà contadina tendenzialmente autosufficiente, che era un retaggio del passato. Ma le spinte in direzione di una trasformazione radicale dell'economia e della società romane sarebbero state irresistibili. E il declino del contadiname libero, un fenomeno soprattutto determinato da una drastica riduzione della natalità, irreversibile. Di tale declino si considera ulteriore prova la diminuzione del numero dei civium capita, dei cittadini maschi adulti registrati in occasione del censimento, che pare rilevarsi nel corso dei decenni centrali del II secolo e più in generale la stazionarietà se non il declino della popolazione libera dell' Italia che sarebbe attestata dal confronto tra i dati, che leggiamo in Polibio, relativi alla consistenza delle forze militari che Roma coi suoi alleati poté mettere in campo al momento di un pericolo mortale come l'invasione dei Celti nel 225 a.C.46, e i risultati dei censimenti augustei 47, interpretati, diversamente da quelli di età repubblicana, come quelli che ci danno il numero totale dei cittadini romani, ivi compresi, cioè, donne e bambini. In realtà questa pur fortunata ricostruzione, che ha tenuto il campo incontrastata per molto tempo, non sembra essere in tutti i suoi elementi accettabile.". Va anzitutto rilevato che la stessa documentazione archeologica non dimostra affatto né una generalizzata scomparsa delle più piccole unità produttive, quelle verosimilmente collegabili con la piccola unità contadina, né un complessivo spopolamento delle campagne dell'Italia. Va ancor più sottolineato come la presenza del lavoro libero stagionale nelle unità produttive specializzate - un lavoro libero che non avrebbe potuto essere fornito se non dai piccoli contadini di condizione
45 Non meno di quattordici sono quelli sinora rinvenuti, con una concentrazione in aree specifiche dell'Italia meridionale come il Vallo di Diano: elenco completo in CAMPBELL 2000, 452-53. 46 PoI. 2. 23-24. 17 R.G. 8. 4X Lo CASCIO 1994; 199911; 2000; 2001a; 2004; 2008; e si vedano tra gli altri i contributi di RICH 1982; 2007; di ROSENSTEIN 2003 e 2007; di De L1GT 2004; 2006; 2007a; 2007b.
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libera che coltivavano i loro poderi adiacenti alle ville - fosse strutturaImente necessaria a garantire l'efficienza stessa della produzione, che altrimenti avrebbe dovuto contare su un personale servile più numeroso (né sono attestati come fenomeno quantitativamente di rilievo a Roma gli schiavi "in affitto", diversamente per esempio che ad Atene). Ora, la possibilità di impiegare stagionalmente questo lavoro libero implica che vi fosse, in qualche misura, disoccupazione nascosta o sottoccupazione nei poderi tendenzialmente autosufficienti dei piccoli contadini. Va infine sottolineato che, se l'idea di una stazionarietà o peggio di un declino generalizzato della popolazione romana di condizione cittadina tra il terzo e il primo secolo a.c. risulta controintuitiva, quando si consideri che questi sono i secoli in cui Roma conquista l'impero, l'ipotesi di una drastica diminuzione della popolazione rurale è difficilmente compatibile con quanto sappiamo circa, per un verso, la crescita delle città e segnatamente di Roma - una crescita dovuta all'inurbarsi di molti contadini - e per un altro verso circa l'importanza anche quantitativa del movimento di emigrazione, organizzata e spontanea, dapprima verso la Cisalpina e poi verso alcune delle province transmarine, come le due Spagne e la Gallia meridionale: la diminuzione della popolazione rurale dovrebbe semmai ascriversi a queste due cause e, dunque, si dovrebbe supporre, solo in via mediata a quelle trasformazioni dell'economia agraria della penisola che avrebbero determinato la rovina dei piccoli proprietari. Ma è probabile che non vi sia stata alcuna tendenza alla diminuzione della popolazione rurale. Non si può dire, intanto, che la attestino con sicurezza le cifre dei censimenti che ci sono state trasmesse per il II secolo. Siamo in grado di stimare con una qualche precisione l'ordine di grandezza degli effettivi dell'esercito romano nel corso della guerra annibalica e delle guerre successive, che portarono alla conquista dell'intero bacino del Mediterraneo, giacché conosciamo il numero delle legioni attive e il numero di uomini per legione. Messe a confronto con le cifre dei censimenti, le cifre relative al numero degli effettivi rivelerebbero, a prima vista, che il peso della coscrizione sulla popolazione maschile sarebbe stato eccezionalmente elevato e praticamente senza paralleli nella storia sino alle guerre mondiali del ventesimo secolo:". Anche ammesso il carattere militarista della società romana nel periodo della conquista, una tale conclusione risulta difficilmente credibile. Poiché i dati relativi alle forze militari in campo non sembrano potersi seriamente mettere in discussione, dovremo pensare che sono le cifre dei censimenti a dare un'immagine non pienamente corrispondente alla realtà della situazione demografica del Il secolo: il 4y
Lo
CASCIO
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numero dei non registrati, dei cosiddetti incensi, deve essere stato assai alto e di conseguenza la popolazione dell' Italia assai più elevata di quanto non sembrino suggerire le cifre trasmesse dalla tradizione 50. Lo scenario che Plutarco e soprattutto Appiano descrivono come sfondo all' azione dei Gracchi non sembra, peraltro, comportare necessariamente che i decenni precedenti avessero registrato un forte decremento del libero contadiname.". Se è indubitato che, alla base di quest'azione, ci dovesse essere la preoccupazione di garantire un numero adeguato di potenziali reclute per gli eserciti con cui Roma andava conquistando il mondo mediterraneo, non è detto che la preoccupazione nascesse da una valutazione dell' evoluzione' demografica della popolazione contadina: la preoccupazione nasceva da una corretta valutazione di un fenomeno di tendenziale pauperizzazione della popolazione rurale, una pauperizzazione che doveva essere il portato non già di un suo decremento, ma, tutt' al contrario, di un suo incremento, di una pressione della popolazione sulle risorse, di una tendenziale sovrappopolazione: quella che può al meglio spiegare tanto la crescita dimensionale delle città e di Roma in particolare, tanto la scala dell' emigrazione. I termini che Appiano usa per indicare la situazione di disagio generalizzato delle plebi rurali (aporia e dysandriai sono perfettamente compatibili con un simile scenario ". La preoccupazione era che si potessero mettere in moto i malthusiani "freni preventivi", che vi potesse essere una riduzione della natalità, in conseguenza della sovrappopolazione. Che la persistenza della piccola unità contadina fosse condizione imprescindibile della economicità della villa schiavistica, tanto nella forma della piccola proprietà, quanto nella forma che comincia a divenire significativamente importante già verosimilmente alla fine del II secolo, de 11' affitto agrario (la locatio-conductio rei) e forse anche della colonia parziaria, giacché era da essa che i proprietari delle ville potevano trarre il lavoro aggiuntivo necessario nei momenti di picco dell' attività agricola, è mostrato in modo icastico da un celebre luogo del primo libro dell'opera varroniana che si è avuto già occasione di citare. Varrone mette in bocca a Scrofa, uno dei suoi predecessori come trattati sta de re rustica, una sorta di classificazione di tutti i vari tipi di instrumentum che servono per la coltivazione del fondo, nonché di tutti i tipi di lavoratori ehe possono essere impiegati sul fondo. La presentazione varroniana vuoI assolvere alla funzione, com' è stato detto, di "analisi definitoria" e 50 Sull'evoluzione economica e demografica dell'Italia tra la tarda repubblica e l'età imperiale la tesi prospettata è quella argomentata in Lo CASCIO 199%. cfr. Lo CASCIO I994c. 51 Plul. ti». 8.4; 9. 4-6; App. s.c. 1.9.35; l. Il.43. " Cfr. anche SILVESTRINI 2004.
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dunque di descrizione esaustiva di tutte le possibilità che si danno nello sfruttamento di un qualsiasi tipo di unità fondiaria (un' analisi definitoria che è perfettamente conforme al gusto classificatorio che l'erudito Varrone mostra in tutta la sua opera). Varrone comincia col citare due tipi di distinzioni che vengono normalmente fatte, nell'ambito delle res che servono per la coltivazione del fondo: una è quella tra gli homines e gli adminicula hominum; l'altra è quella tra diversi generi di instrumentum: il vocale, cui appartengono (come spesso si dimentica) non solo gli schiavi, citati a mo' di esempio, ma in generale tutti coloro che materialmente coltivano il fondo; il semivocale, come esempio del quale si citano i buoi; e il mutum, come esempio del quale si citano i carri 01. Il seguito del passo elenca tutti i possibili coltivatori di un fondo, che, alla loro volta, si distinguono in schiavi e liberi: 'Tutti i campi si coltivano con uomini di condizione servile o con liberi o con gli uni e con gli altri: si coltivano coi liberi, o quando sono gli stessi liberi a coltivare per proprio conto, come la maggior parte dei pauperculi coi loro figli, o quando quelli che coltivano si servono di mercennarii, allorché eseguono le operazioni di maggiore impegno, come vendemmie e fienagioni, servendosi di operae, prese in affitto, di liberi; e quando a coltivare sono quelli che i nostri han definito obaerarii e anche ora sono numerosi in Asia e in Egitto e nell' Illirico" 54. Gli obaerarii non sono una realtà dell'Italia contemporanea a Varrone, ma evidentemente sono assimilabili ai più antichi "servi per debiti" (il termine, che è un hapax, è connesso col più frequentemente usato obaeratusi: sono quei "servi", lavoratori dipendenti di vario tipo presenti in molte aree del mondo ellenistico e ancora in Gallia, che non sono né liberi né schiavi, e per i quali il parallelo più prossimo nella realtà romana (che all'epoca di Varrone conosceva ormai solo quella che il giurista Gaio definirà più tardi la summa divisio de iure personarum, la distinzione, appunto, tra liberi e schiavi) doveva essere quello dei non più esistenti servi per debiti. Più interessanti per noi, perché evidentemente considerati un elemento normale del paesaggio sociale dell'Italia all'epoca di Varrone sono per un verso i pauperculi che coltivano cum. sua progenie, i piccoli contadini, e per un altro verso i mercennarii, i lavoratori salariati, utilizzati, evidentemente dai più grandi proprietari, per le operazioni di maggiore impegno. Tra chi sono assoldati i mercennarii'Pì Evidentemente, quanto meno in parte, tra gli stessi pauperculi. Si è discusso, Varr, R.R. 1. 17. I. 541bid., 1. 17. 2; cfr. infra, I 2. " Che i mercennarii fossero in larghissima 1990. 5J
misura di condizione
servile è stato sostenuto da
BORGE
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peraltro, se i pauperculi siano solo i piccoli proprietari o anche gli affittuari o solo gli affittuari. V' è chi ha sostenuto che si tratterebbe solo dei primi, altri li ha identificati nei soli affittuari (perché i piccoli proprietari indipendenti non potrebbero, di per sé, costituire un oggetto di interesse per Varrone e per il pubblico cui è rivolto il suo trattato - ma il fatto è che la classificazione vuole essere esaustiva, come si è detto). La più probabile soluzione è che si tratti dei pauperculi in genere, che possono essere proprietari e affittuari, e possono non essere né l'una né l'altra cosa, ma solo mercennarii, ma possono pure essere, assieme, proprietari, affittuari e salariati. In verità la logica della classificazione varroniana vuole che a distinguere nell' ambito dei lavoratori agricoli sia non già il rapporto giuridico-formale che lega la terra a chi la coltiva, il che avrebbe comportato in primis una differenziazione tra chi coltiva la terra in quanto proprietario e chi coltiva la terra in quanto affittuario, ma il tipo di rapporto, concreto, del lavoratore col fondo e dunque il tipo di lavoro in quanto tale, caratterizzato dalle condizioni in cui si svolge e dalle finalità cui è destinato. In altri termini si avrebbe torto a supporre che il lavoro libero a integrazione del lavoro servil e nelle aziende più grandi fosse prestato solo da un particolare settore di lavoratori agricoli. La cosa più naturale è che il piccolo proprietario fosse anche colono e salariato: che vi fosse, dunque, una coesistenza di ruoli che avrebbe consentito alla famiglia contadina di sopravvivere. La classificazione di Varrone dimostra l'assoluto rilievo che ha il lavoro libero nell'agricoltura del suo tempo. Rivela pure in quali modi esso fosse prevalentemente adoperato da quei proprietari, tendenzialmente assenteisti, ai quali Varrone si rivolgeva col suo trattato. Egli fa osservare a Scrofa, nel seguito del discorso, che è conveniente utilizzare i salariati nei luoghi malsani - utilizzare gli schiavi avrebbe potuto significare mettere a repentaglio un capitale! - e anche, nei luoghi salubri, quando si tratta di compiere i lavori agricoli più importanti, come la vendemmia e la mietitura, scegliendo persone in grado di tollerare le fatiche, con un'età non inferiore ai venti due anni e ben disposte ad apprendere.". Queste osservazioni sembrano rivelare come, per Varrone ed evidentemente per il suo pubblico di ricchi proprietari, il lavoro agricolo in quanto tale non fosse più nobilitante. Non c'è l'esaltazione, che c'era in Catone, del bonus agricola bonusque colonus: andrà sottolineato come anche i lavoratori liberi del fondo siano considerati, alla stessa stregua degli schiavi, instrumentum vocale. Anche se quest'atteggiamento di scarsa considerazione per il lavoro, quanto meno per il lavoro svolto in 56
Vano R.R. I. 17.3.
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condizioni di dipendenza, non avrà riguardato l'intera società romana, certo avrà condizionato pesantemente la stessa maniera nella quale l' élite proprietaria gestiva i propri interessi fondiari. È evidente che la società romana si è strutturalmente ancor più differenziata: e che la distanza tra ricchi e poveri si è accresciuta. La classificazione varroniana non ci dice, tuttavia, se la piccola unità contadina, ancora pienamente vitale, fosse ancora, nella stragrande maggioranza dei casi, nelle mani di piccoli proprietari, secondo il modello tradizionale, o se, viceversa, avesse acquisito ormai, proprio a seguito delle vicissitudini della proprietà agraria in Italia, in larga misura la forma dell'affitto agrario. AFFITTUARI
E SALARIATI
È nel quadro della non generalizzabilità del modello della villa, della persistenza della piccola unità contadina che va visto 1'emergere o meglio l'espandersi dell' affitto agrario 57 : un processo che comincia già nel secondo secolo, ma che viene ancor più promosso dalla grande dislocazione delle proprietà in Italia che fa seguito alla colonizzazione sillana e poi a quella cesariana e triumvirale e augustea. Ciò che la diffusione dell' affitto attesta direttamente è il processo di concentrazione fondiaria, un processo che, oltre che riguardare anche quelle aree dell'Italia che non sono interessate dallo sviluppo della villa, è per molti versi indipendente, nelle cause che lo determinano, dalla diffusione dell'unità produttiva specializzata e basata sul lavoro servile. Ne sono alla radice, appunto, le modificazioni nella struttura della proprietà in Italia, a partire dagli ultimi decenni del secondo secolo a.c., dapprima con la liquidazione del programma graccano, di cui è chiara testimonianza una legge agraria del 111 a.C., tràdita per via epigrafica 58, e in seguito con i rivolgimenti politici che accompagnano i decenni delle guerre civili; e lo è forse pure, in parte, lo stesso atteggiamento dei ceti proprietari nei confronti dell'investimento e del rischio, spesso più favorevole all' acquisto di nuove terre piuttosto che all'investimento in migliorie e al diretto coinvolgimento nell'intensificazione delle colture. Nella misura in cui il processo di concentrazione colpisce la piccola proprietà contadina, è
j7 Sull'affitto agrario la monografia più importante degli ultimi anni e che ha avuto maggiore influenza nell'orientare il dibattito successivo è quella di DE NEEvE 19H4a; per molti versi innovativo è pure il libro di SCHEIrlF.1. 1994; si vd. pure alcuni dei saggi ricompresi in SANCISI-WEERDENBlJRG, VAN DER SPEK, TEITLER, WALLINGA (eds.) 1993; in CARLSEN, 0RSTED E SKYDSGAARD (eds.) 1994; in "Scienze dell'antichità» 6-7, 1992-93; in Lo CASCIO (a c. di) 1997. 5H CII, l', 585 = Roman Statutes, I, 2.
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assolutamente ovvio il pensare che, a costituire la forza lavoro nei poderi affittati, siano stati in larga misura gli stessi ex piccoli proprietari divenuti affittuari. Così dev' essere accaduto nel caso delle proprietà acquisite dai seguaci di Silla e dai beneficiari delle distribuzioni nelle colonie sillane, che peraltro, come per esempio, a Pompei, non riguardarono solo i beni dei proscritti, ma una ben più cospicua estensione di terreni confiscati. Spesso i coloni sillani devono avere venduto i lotti ricevuti assai presto: ma è improbabile che ad acquistarli siano stati i piccoli proprietari; in molti casi ne avranno conservato la proprietà, ma non li avranno lavorati personalmente, come coltivatori diretti, né mediante squadre di schiavi e un vilicus, ma appunto dandole in affitto. In verità, la ricostruzione delle concrete modalità attraverso le quali 1'affitto agrario emerge e poi si diffonde è resa più difficile da due circostanze. La prima è che il significato primario del termine di CO!OflUS è quello di "coltivatore" - noi diremmo coltivatore diretto: solo più tardi il termine si specializza nel significato di "affittuario di un fondo", il significato che ha nelle fonti di età tardo-repubblicana e imperiale, come Plinio il Giovane, o nei giuristi. Questo rende più complicato ricostruire le prime fasi della diffusione dell' affitto agrario (se non si deve pensare, col Mommsen, che l'istituzione risalga addirittura all'età monarchica). La seconda circostanza è che in realtà l'affitto agrario individua una specifica modalità di utilizzazione della proprietà, ma non individua, di per sé, una specifica modalità di organizzazione della proprietà a fini produttivi, in relazione anche alle dimensioni del fondo dato e preso in affitto, né, per conseguenza, individua negli affittuari un unitario e compatto gruppo sociale. Le indagini più recenti, in effetti, hanno messo in evidenza la grande varietà di situazioni che si riscontrano fra gli affittuari, il che vuol dire la grande diversità dei modelli di gestione della proprietà presa in affitto. Per un verso, vi sono i grandi affittuari, che possono essere, alla lor volta, o una sorta di "doppione" dei proprietari assenteisti, ovvero una sorta di "middle-men", di imprenditori agricoli, con motivazioni, atteggiamenti e modi di agire non diversi da quelli del proprietario che cura personalmente il suo fondo ai fini del conseguimento di un profitto: in questo senso si potrebbe dire che questi ultimi assolvono, dunque, a una funzione "progressiva". Per un altro verso, vi sono gli affittuari di piccoli lotti, i pauperculi che coltivano cum sua progenie. Tra un estremo e l'altro vi sono tutta una serie di condizioni intermedie. Questa varietà di situazioni impedisce di vedere nell'emergere o nel diffondersi dell'affitto agrario l'esito in qualche modo obbligato della crisi della villa schiavistica e del cosiddetto "modo di produzione schiavistico", e in qualche misura l'anticamera della condizione dei coloni tardoantichi, vincolati
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al suolo, e addirittura, in prospettiva, dei servi medievali. Va evitata qualunque tentazione di leggere l'evoluzione dell' economia agraria romana, e in particolare in Italia, in chiave teleologica. In realtà il processo che mette in moto l'affitto agrario è lo stesso che mette in moto l'''agricoltura metodica e capitalistica", e cioè la mercantilizzazione dell' economia agraria: anche il piccolo affittuario, dovendo comunque pagare il canone in denaro, deve intrattenere un rapporto col mercato, deve commercializzare parte delle sue produzioni e deve, dunque, intensificare la produzione e anche la produttività (per mantenere tendenzialmente invariati i propri consumi). Da questo quadro potrebbe sganciarsi solo la colonia parziaria, il "métayage", di cui sappiamo assai poco. Sembra escluso che i partiarii'" che compaiono nel trattato catoniano siano affittuari di terra agricola che pagano il canone in forma di quota del raccolto; sembrano essere, piuttosto, agricoltori che si assumono, per appalto, il compito di svolgere operazioni specifiche (la politio, la cura della vinea), o salariati che vengono pagati in natura. In età imperiale il "metayage" compare come fenomeno quantitativamente cospicuo in talune aree provinciali come l'Africa 60, mentre è significativo che, a parte un riferimento in una lettera pliniana che ha fatto pensare ai moderni, come si vedrà, sia che la colonìa parziaria fosse diffusa da tempo immemorabile, sia che si trattasse di una novità, essa sia evocata, nelle fonti giuridiche, in un solo frammento del Digesto, risalente a Gai061• Parimenti è la mercantilizzazione de Il'economia agraria a consentire la diffusione del lavoro salariato (che può essere pagato anche con parte del prodotto o in natura, ma in generale è pagato con una me rces, mercede, in denaro). È difficile dare una valutazione quantitativa del rilievo che ha l'utilizzazione del lavoro salariato, dato per scontato negli scriptores de re rustica, e regolamentato da un apposito contratto, la locatio operarum (un lavoro salariato che deve riguardare i liberi, e non gli schiavi, come si è pure voluto sostenere recentemente) 62. Qualche indicazione episodica emerge da osservazioni incidentali delle fonti antiche: per esempio sappiamo dell'esistenza di lavoratori avventizi "pendolari" o "itineranti" nella Sabina da un luogo della biografia suetoniana dell' imperatore Vespasiano>', una situazione che non dev'essere stata molto diversa da quella che conosciamo per qualche àmbito provinciale (da una celebre iscrizione africana sappiamo dell' esistenza di turmae messo rum, che si "~iCat. de agr. 137. (,[)Cfr. ad es., l'iscrizione di Henchir Mettich, e/L VII I, 25902 (= FIRA J', 100); e vedi infra, 100 sgg. (,1 D. 19.2.25.6 (Gai IO ad edictum provinciale). lo' SUl'rCI, n. 55. (,.1 Suet. Vesp. 1.4.
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spostavano da un luogo all' altro )64. È in generale il lavoro salariato nel suo complesso, per esempio in àmbito urbano, a essere scarsamente "visibile" nelle nostre fonti, anche se sulla sua rilevanza, nonché sulla sua spinta specializzazione non possono esservi dubbi, se solo si guarda a un documento assai più tardo, certo, ma che deve riflettere aspetti per molti versi "strutturali" degli scenari dell' economia romana, come l'edictum de pretiis del 30 l d.C., una generale regolamentazione dei prezzi, ma anche dei salari, e che dunque rivela l'esistenza di un' accentuata divisione del lavoro: vi sono fissate le retribuzioni di una serie assai numerosa di mestieri, per lo più urbani, ma compaiono anche quelle di braccianti agricoli e pastori. E significativo che per alcuni àmbiti provinciali per i quali possediamo una documentazione più ricca e più informativa, come l'Egitto, con i suoi papiri, si possa dimostrare il rilievo quantitativo delle varie forme del lavoro salariato, anche quello prestato dai lavoratori occasionali nei periodi di picco dell' attività agricola. Un complesso di documenti egiziani di un periodo successivo, il terzo secolo d.C., che formano l'''archivio'' di una grande proprietà fondiaria del Fayum gestita con criteri razionali, può peraltro servire come utile elemento di comparazione per comprendere un rilevante aspetto di questa organizzazione del lavoro agricolo, dettata dalla stessa natura dell' agricoltura mediterranea, che prevede una forza di lavoro fissa e l'integrazione di lavoro stagionale in determinati momenti dell' anno. Nel caso della tenuta egiziana anche la forza lavoro fissa è fatta di liberi salariati e da lavoratori liberi è costituito a maggior ragione il personale avventizio. Ora, ciò che si osserva è che la retribuzione di questi lavoratori occasionali è più elevata di quella dei lavoratori fissi. È probabile che la circostanza rifletta la maggior forza contrattuale dei lavoratori stagionali, determinata per un verso proprio dal fatto che l'offerta di lavoro risponde in questo caso a un' accresciuta domanda, e per un altro verso dal fatto che a fornire il lavoro aggiuntivo sono in larga misura lavoratori agricoli impegnati in unità produttive che essi gestiscono autonomamente, come proprietari e come affittuari, e non sono solo, o prevalentemente, contadini senza terra 65. Se è vero che l'espansione dell' affitto agrario e l'espansione del sistema della villa, con il necessario corredo di un lavoro libero saltuario, sono due aspetti di un medesimo processo, 1'estenuarsi della peasant economy dei piccoli proprietari autosufficienti, ne consegue che forse il prodotto più cospicuo delle trasformazioni dell'economia agraria della penisola è l'impiantarsi di un mercato (imperfetto quanto si vuole, e/L v III, 11824, su cui in particolare DESIflERI '" Sull'archivio di Heroninos, RATHBONE 1991.
ò4
1987.
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ma pur sempre mercato) non solo della terra, ma anche del lavoro. Ne consegue, altresì, che l'opzione fra diverse possibili gestioni dell'unità fondiaria e diverse possibili utilizzazioni di un lavoro libero o servile è ricondotta a una pura scelta economica. Un luogo del trattato columelliano " è, al riguardo, illuminante. Discutendo dell'opportunità di effettuare l'operazione della pastinatio, lo "scasso" per procedere all'impianto della vigna, utilizzando forza lavoro avventizia Columella osserva: «quod tamen ita faciendum erit, si suadebit operarum vilitas». Come a dire che la scelta è ricondotta, senza residui, a una considerazione di efficienza produttiva, legata a un'analisi di costi e ricavi (e non c'è bisogno di dire che osservazioni come questa si ritrovano con frequenza nella letteratura agronomica). Parimenti, per ciò che riguarda la commercializzazione delle produzioni, l'orientamento produttivo di talune aree della penisola è evidentemente condizionato, nel suo evolversi, dalle situazioni di mercato che si realizzano tanto nella penisola, quanto nelle province. La considerazione delle spese e dei ricavi diviene il criterio fondamentale per preferire una particolare forma di organizzazione produttiva e una particolare combinazione dei fattori (del lavoro libero e di quello servile, ad esempio), all'interno di una varietà estrema di forme e di combinazioni: così, la villa schiavistica descritta dagli scrittori de re rustica, per lo stesso carattere normativo che vogliono avere le loro opere, va considerata piuttosto un tipo ideale, al quale possono più o meno approssimarsi le «ville», o piuttosto (come forse sarebbe più corretto dire) i fundi, come unità produttive, che si ritrovano nella varietà delle situazioni regionali. La forza-lavoro, servile e libera, può essere utilizzata nelle maniere più varie: il servus come schiavo accasermato ovvero, e precocemente, già sin dall'età tardorepubblicana, come colonus, con una sua indipendenza di gestione del podere che gli viene affidato e per lo sfruttamento del quale egli paga, alla stregua di un affittuario di condizione libera, un canone; il libero come affittuario o come colono parziario o come mercennarius, ovvero, insieme, come affittuario (o colono parziario) e come mercennarius. La testimonianza offerta, per un periodo successivo, dall' epistolario pliniano sembrerebbe, per l'appunto, attestare la grande varietà di opzioni che si aprono al proprietario, non esclusa, forse, nemmeno quella, come si vedrà, di affidare ad una persona diversa dal proprio vilicus o dal proprio procurator, e cioè a un grosso affittuario-imprenditore non assenteista, la gestione economica di un'intera proprietà. La grande varietà di opzioni nell'uso della terra e del lavoro che si aprono ai proprietari, peraltro, può considerarsi in qualche misura anche "Col. de agro 2. 2. 12.
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la conseguenza dell'estrema diversità dei paesaggi agrari nelle varie aree dell'Italia e anche in ambiti regionali limitati, come per esempio il suburbio di Roma. Questa varietà dei paesaggi agrari determina a sua volta la varietà delle economie agrarie, direttamente condizionate dalle possibilità di smercio delle diverse produzioni: a Roma, nei più che 400 centri urbani della penisola e della pianura padana e infine nelle province. L'ITALIA
E LE SUE PRODUZIONI
AGRICOLE NELL'ETÀ
DELL'IMPERIALISMO
Proprio la presenza di un grosso mercato di sbocco nelle aree provinciali da poco conquistate da Roma si può dire forse la caratteristica più significativa e singolare dell'espandersi dell'agricoltura italica. Come ha mostrato, in modo incontrovertibile, l'indagine archeologica, la fioritura dell'economia agraria della penisola nel secondo e soprattutto nel I secolo a.c. è dovuta in misura consistente all'invasione delle regioni soprattutto dell' occidente mediterraneo da parte delle produzioni specializzate delle aziende schiavistiche italiche. Questo straordinario sviluppo delle esportazioni è una delle manifestazioni più eclatanti, sul piano economico, della supremazia politica dell'Italia e dello stesso drenaggio di risorse e di capitali in cui essa si traduce. Esso vale, tra l'altro, a garantire in una certa misura lo stesso rifornimento degli schiavi, acquistati spesso con il ricavato della vendita dei prodotti italici, o scambiati direttamente con essi 67. A questo sviluppo delle esportazioni non è presurnibilmente estranea una politica protettiva delle produzioni italiche che ha lasciato qualche traccia nelle nostre fonti 68. Ad assumere un ruolo di primo piano in questo movimento di esportazione sono, tra i prodotti agricoli, 1'olio e soprattutto il vino?", come si è visto, la produzione più caratteristica della villa schiavistica. Si è parlato, ancora recentemente, per le unità specializzate nella produzione del vino, di "piantagioni" e di "economia di piantagione" e ci si può chiedere se l'uso di questo termine, che subito evoca realtà assai diverse - per clima, tipo di produzione, modalità di utilizzazione della forza lavoro - si possa considerare legittimo e non anacronistico. Certo a rendere profittevole la nuova "azienda" agraria è la possibilità che offre di una specializzazione produttiva e per questo specifico aspetto si potrebbe definire piantagione anche l'unità basata sul lavoro servile, perché, nonostante quest' ultima 67 Vd. Diod. Sic, 5. 26 circa la possibilità in Gallia per i mercanti romano-italici di ottenere uno schiavo per un' anfora di vino. 6' Cic. de rep, 3. 9. 16: «nos vero iustissimi hornincs qui Transalpinas gentes oleam et vitern serere non sinimus, quo pluris sinr nostra oliveta nostraeque vineae»: cfr. Lo CASCIO 1982a. oo Sull'esportazione del vino italico in particolare TCIIERNIA 1986.
I. LA PROPRIETÀ DELLA TERRA, I PERCETTORI DEl PRODOTTI E DELLA RENDITA
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non assolva a una funzione analoga a quella che avrebbero svolto più tardi, nella divisione delle aree produttive nell'ambito dell'economiamondo europea, le piantagioni americane, presenta un carattere comune con esse: si tratta di unità produttive se non «rnonocolturali», visto che le esigenze di consumo della forza-lavoro servile vengono, in linea di massima, soddisfatte attraverso le stesse produzioni interne, comunque caratterizzate da quel che è stato definito una «policoltura al servizio della monocoltura» o una «policoltura accessoria», rivolta non solo alla produzione, ma anche alla lavorazione o semi-lavorazione, di una o due specifiche derrate da commercializzare (il vino, appunto, o l'olio, anche se si è pensato anche alla possibilità, per alcune di queste unità, di una concomitante produzione cerealicola anch'essa da commercializzare)?", Ma rimane il fatto che lo scenario all'interno del quale si collocano le "piantagioni" antiche è del tutto diverso da quello entro il quale si collocano le vere e proprie piantagioni americane. Secondo una teoria che ha avuto in passato una certa fortuna e che è stata ancora recentemente riproposta, con varia accentuazione, la connessione tra specializzazione produttiva della villa e utilizzazione del lavoro servile accasermato nascerebbe dal fatto che, come sosterrebbero gli stessi agronomi, il lavoro degli schiavi sarebbe più adatto alla viticoltura e all' olivicoltura, quello dei liberi alla granicoltura. Quale che possa essere il grado di plausibilità e il fondamento, nelle indicazioni normative della letteratura agronomica, di una simile teoria, sembra legittimo dubitare del fatto che questo potesse essere davvero il motivo principale dell'utilizzazione degli schiavi in questo tipo di azienda specialistica, se è vero che gli schiavi venivano adoperati, con profitto, nelle colture seminative (e non solo, come si è detto, per soddisfare i consumi interni della villa) e se è vero che non impossibile era una viticoltura affidata al lavoro libero dei coloni. Un'utilizzazione del lavoro servile in àmbito agrario si poteva, peraltro, realizzare, come si è visto, anche senza la creazione della «caserma» di schiavi. La caratteristica economicamente significativa della villa come unità produttiva (e, si potrebbe dire, dello stesso «modo di produzione schiavistico») non stava tanto nel fatto di utilizzare il lavoro servile, ma nel modo in cui lo utilizzava: nella maniera, cioè, in cui l'unità produttiva realizzava l'articolazione interna del lavoro, con la specializzazione dei compiti e con l'utilizzazione di manodopera aggiuntiva e stagionale, garantendo il massimo di profitto con il minimo di spesa, talché sarebbe stato possibile impiantare ville, nel senso di unità produttive strutturate di media grandezza e destinate a una produzione da 70
Riferimenti
in Lo
CASCIO
1991. 334. nn. 56~58.
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commercializzare, anche senza la «caserma» di schiavi, come dimostrano i successivi sviluppi nelle province occidentali. Era naturalmente necessario il soddisfacimento di alcune condizioni, perché fosse possibile l'impianto di un simile tipo di azienda: accanto alla necessità di più cospicui investimenti di capitale, una produzione almeno in parte specializzata doveva necessariamente comportare una circolazione non strettamente locale dei prodotti; doveva dunque inserirsi in uno scenario generale di non eccessiva frammentazione economica. La specializzazione produttiva poteva sussistere dove aree di una certa ampiezza potessero economicamente integrarsi: l'orientamento produttivo prevalente delle singole aree sarebbe stato, a quel punto, determinato, oltre che dalla profittabilità delle singole colture, dai differenziali dell'incidenza del costo di trasporto sui differenti prodotti dai luoghi di origine ai luoghi di smercio, nonché dal differente grado di deperibilità delle derrate. Nell' orientare le "vocazioni produttive" delle singole aree ad avere una funzione di primo piano era il mercato, enorme, di Roma. È comprensibile, dunque, che sia stato in questi ultimi anni applicato da più studiosi al caso di Roma imperiale il modello per la prima volta proposto dall'economista tedesco del diciannovesimo secolo von Thiinen, poi ripreso e reso più elaborato e sofisticato da economisti e geografi di tempi a noi più vicini 71. Laddove Ricardo è interessato a dare una spiegazione teorica del perché si determinino livelli diversi di rendita fondiaria a seconda della produttività in termini fisici, e dunque della fertilità, dei vari terreni, von Thiinen vuole spiegare, al livello teorico, perché, nell' ipotesi di un sistema economico "chiuso", senza importazioni ed esportazioni, e nell' ipotesi di una pari fertilità di tutti terreni, le loro diverse possibili utilizzazioni economiche si localizzino in funzione del mercato di sbocco. Le produzioni più deperibili - dell'orticoltura o del latte e dei suoi derivati non conservabili - saranno quelle più vicine al mercato; le altre utilizzazioni agrarie si localizzeranno a seconda di quale garantisce la rendita comparativamente più elevata in rapporto ai costi di trasporto delle derrate. Nell'Italia romana la funzione di "località centrali", di centri di consumo, sarà stata svolta in generale dalle concentrazioni urbane. Ma soprattutto ad assorbire una quantità di prodotti senza comune misura con il resto dei centri urbani sarà stata la città di Roma, una città-monstre col suo milione di abitanti. Sia la testimonianza degli scriptores de re rustica, sia la documentazione archeologica sembrano confermare in modo puntuale come la 71 Il modello di von Thunen è stato ingegnosamente Roma e l'Italia da ilE NEEVE 1984d; e più recentemente
utilizzato per studiare il rapporto economico da MORI.EY 1996.
tra
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specializzazione produttiva delle varie aree della penisola, che si realizza a partire dall'età tardorepubblicana, e l'intensificazione delle colture siano strettamente connesse alla distanza "economica" di queste varie aree dal grande centro di consumo rappresentato da Roma. Così i praedia suburbana sono comprensibilmente quelli più intensivamente coltivati da una popolazione rurale assai numerosa. Per esempio, la zona più vicina a Roma tra il corso del Tevere e quello dell' Aniene (che oltretutto potevano consentire un rapido ed economico trasporto delle derrate a Roma) registra una forte densità di insediamenti già in età arcaica; dopo una flessione che raggiunge il suo culmine con la prima metà del II secolo, c'è una forte ripresa con la seconda metà del II secolo e prima metà del I a.c. 72. Nei due secoli successivi si perviene a un livello di occupazione che non ha eguali sino addirittura ai nostri giorni. In quest' area l' occupazione si estende anche a zone di fondovalle, che erano tendenzialmente soggette a saturazione idrica, ma che venivano in continuazione reclamate proprio dato il loro elevato valore economico (ciò che, incidentalmente, può essere considerato una prova del fatto che queste aree della Campagna Romana, che sarebbero state semi deserte nella prima età moderna e tendenzialmente soggette alla malaria, devono essere state, in età romana, sufficientemente salubri e sostanzialmente immuni dalla malattia, diversamente da quanto si è voluto sostenere anche di recente 73, se vi poteva vivere una popolazione così numerosa). Andrà peraltro messo in rilievo che aree anche fisicamente più lontane di altre potevano essere "economicamente" più vicine: dal momento che il costo del trasporto via mare o via fiume navigabile era di gran lunga più modesto del trasporto via terra (coi carri o con le bestie da soma), era più conveniente trasportare le derrate da località abbastanza distanti da Roma localizzate nei pressi della costa a sud o a nord della città, ovvero, all'interno, nella valle tiberina, che non da zone dell'Italia centrale o dello stesso Lazio anche assai più vicine, ma lontane dal mare o dal corso del Tevere e dei suoi affluenti. La specializzazione produttiva soprattutto delle aree nei dintorni di Roma era, ovviamente, permessa dal fatto che Roma risolveva i suoi problemi di approvvigionamento di cereali, ricorrendo alle importazioni dalle province "granarie" (dapprima la Sicilia e la Sardegna, poi la Spagna e l'Africa e infine l'Egitto), importazioni che, oltretutto, pagava solo in misura modesta, visto che il grano che le perveniva era è in gran parte di origine contributiva, il prodotto delle imposte in natura e, più
72
WITCHE~
" SALLARES
2005; cfr. in generale 2002. ~
COARELLI
&
PATTERSON
(cds.) 2008.
r I
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tardi, dei canoni in natura pagati dai coltivatori delle grandi proprietà imperiali 74. Quanto alle altre città dell' Italia, è probabile che la maggior parte di esse si approvvigionasse di grano nelle zone più prossime. Si è anzi sostenuto, di recente, che il processo di spinta urbanizzazione che interessa l'Italia nel penultimo e soprattutto nell'ultimo secolo dell'età repubblicana avrebbe determinato un incremento "strutturale" del prezzo del grano. Questo incremento spiegherebbe lo stesso sviluppo dell'affitto agrario in Italia: secondo questa tesi, come si è visto, la piccola unità affittata sarebbe stata più adatta della villa schiavistica alla cerealicoltura, come sembrerebbero suggerire gli agronomi 7S. In verità, non abbiamo informazioni adeguate sul livello del prezzo del grano in Italia nell'ultima fase dell'età repubblicana, anche se l'ipotesi di un suo aumento, che pure non può che essere meramente speculativa, ha una sua plausibilità. Quel che è incontrovertibile è che la sempre più spinta urbanizzazione, legata a un complessivo incremento della popolazione anche per effetto dell'importazione di schiavi, deve avere rappresentato un potente incentivo tanto all'ampliamento delle aree coltivate, quanto allintensificazione e alla razionalizzazione delle colture. Per questo specifico aspetto sembrerebbero soccorrere, come utile elemento di comparazione, i due «modelli di sviluppo rurale» costruiti da Jan de Vries, come introduzione alla sua analisi del rapporto tra dinamica della popolazione e trasformazioni dell'economia rurale olandese tra cinque e settecento 76. l due modelli che de Vries individua sono legati alla crescita della popolazione contadina, sono le due possibili risposte che una società di «piccoli contadini autosufficienti» ha a disposizione di fronte a una crescita della popolazione. La prima risposta è quella che porta a una divisione delle proprietà contadine, a un' intensificazione delle colture attraverso l'adozione di tecniche che comunque diminuiscono la produttività del lavoro, a situazioni nelle quali la stessa possibilità di autosufficienza non è garantita, talché i contadini, lungi dal disporre di un surplus da commercializzare, devono «entrare» nel mercato del grano per acquistarlo, senza peraltro potere rappresentare essi stessi un mercato di sbocco per i manufatti prodotti in àmbito cittadino. I contadini, sottoccupati, tenderanno, viceversa, a produrre essi stessi i manufatti di cui hanno bisogno. Si determina una più spinta ineguaglianza sociale, se le rendite crescono e le remunerazioni del lavoro diminuiscono e nel contempo il prezzo del grano si incrementa. L'altro modello identifica
74 Lo CASCIO
1990; e si veda ora il quadro offerto da
ERDKAMP
" DE NEEVE 1984. 106 sg .. 113 sg .• 127 sgg. e passim. 7(,
DE
VRIES
1974.
2005. cap. 5.
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l'altra possibile risposta alla crescita della popolazione: questa risposta prevede non già la suddivisione delle unità contadine, ma una diversa allocazione del proprio tempo da parte del "piccolo contadino" tra le attività agricole e quelle volte alla produzione di beni non agricoli, a vantaggio delle prime. Alla tendenziale diminuzione della produttività del lavoro, ehe consegue all 'intensificazione delle colture, il "piccolo contadino" risponde attraverso la specializzazione e attraverso un ingresso nel mercato in qualità di venditore di beni agricoli specializzati che crescono di prezzo. La crescita della popolazione in àmbito rurale non conduce a un progressivo impoverimento, ma è riassorbita in parte dall'intensifìcazione stessa delle colture, per esempio nel caso in cui un'orticoltura intensiva si giovi della vicinanza dei propri prodotti al mercato urbano, in parte dall'inurbamento, a sua volta consentito dalla crescita delle attività produttive urbane. Insomma, questa serie concomitante di sviluppi può riassumersi come una spinta sempre più decisa verso l'ulteriore espansione del mercato a spese dell'autoconsumo: l'urbanizzazione può considerarsi in questo caso un effetto della specializzazione (anche se ne può essere in realtà un incentivo). Il modello, per essere applicabile alla realtà dell'Italia nella sua fase economicamente "ascendente", deve naturalmente tenere conto di talune peculiari caratteristiche: deve tenere conto, in particolare, della presenza cospicua degli schiavi, tanto in ambito rurale, quanto in ambito urbano, e della stessa diffusione del modello della villa schiavistica. Ma è vero che esso può spiegare in che forme si realizzi l' interazione di tutta una serie di fenomeni - la crescita della popolazione, la crescita di numero e di dimensioni dei centri urbani in Italia, la tendenziale specializzazione produttiva, l'intensificazione delle colture - che nel loro insieme sembrano cooperare a incrementare in misura radicale tanto la produzione agricola complessiva, quanto la stessa produttività della terra e del lavoro 77. Sembra comunque sicuro che il processo che porta alla specializzazione produttiva e all'intensificazione delle colture abbia riguardato non solo le aree più direttamente connesse col centro di consumo rappresentato da Roma, ma tutta l'Italia, proprio per la densità senza paragoni degli insediamenti urbani e per le loro dimensioni. Ed è in questo quadro che si deve valutare il tentativo, che è stato fatto di recente, nell' interpretazione dell' evidenza archeologica delle varie regioni d'Italia, di articolare il modello della villa, introducendo la nozione, in parte suggerita dalla stessa testimonianza degli agronomi, di "villa periferica"7X, in quanto 77Vedi 7k
injra, 10R sgg" e Lo CASCIO in c.d.s, La nozione di "villa periferica" è stata introdotta da
CARANUlNI
1994;
CARANUlNI
1995,
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contrapponibile alla villa centrale, alla villa perfecta, di cui l'espressione archeologicamente più eclatante è la villa di Sette finestre. Caratteri della villa centrale sono la vicinanza a Roma, a città, porti e vie di comunicazione; lo sfruttamento, intensivo, di terreni fertili e localizzati in aree salubri; il forte investimento di capitali che essa richiede; le dimensioni tutto sommato contenute dei fondi; l'utilizzazione dcllavoro di schiavi non incatenati; una misura modesta di integrazione stagionale del lavoro dei liberi, che vengono utilizzati solo quando non se ne può fare a meno. La villa periferica sarebbe viceversa quella lontana non solo da Roma, ma in generale dagli sbocchi mercantili; quella che sfrutta terreni meno fertili e meno salubri; quella che comporta minori investimenti; quella le cui colture sono estensive e i cui fondi sono più grandi; il proprietario può sorvegliarla di meno; il lavoro è affidato piuttosto a coloni (liberi e schiavi). Le attività artigianali sono svolte all'interno della villa. C'è un ultimo aspetto che differenzierebbe la villa periferica rispetto a quella centrale, forse l'aspetto più importante: la villa periferica sarebbe un fenomeno più durevole nel tempo della villa schiavistica classica. Ora, sino a che punto le situazioni concrete che si ritrovano nei più vari ambiti regionali della penisola siano avvicinabili al "modello", al "tipo ideale" della villa periferica è difficile dire. È presumibile che per esempio la diffusione dei mercati urbani, essendo fenomeno che riguarda pressoché tutta l'Italia, abbia teso a confinare alle zone più interne e più impervie le unità che si approssimano di più al modello. Ma c'è una considerazione più forte che suggerirebbe di non attribuire un forte valore euristico al modello stesso. In realtà, la nozione stessa di villa periferica è stata elaborata non solo per superare le difficoltà che pone, al livello archeologico, individuare strutture nettamente differenziate per i vari tipi di edifici rurali, ma soprattutto per risolvere il problema forse più spinoso che pone la vicenda della villa schiavistica in Italia, che è quello delle ragioni e dei tempi del suo venir meno, pur in presenza di alcuni elementi ovvi di continuità tra le strutture produttive della fase di espansione dell'economia agraria della penisola e le strutture produttive che seguono questa fase. Mentre è possibile ricostruire, come si è visto, con una qualche plausibilità perché e quando comincino a diffondersi le ville schiavistiche in Italia, molto più complesso è intendere i meccanismi che portano al venir meno di una peculiare utilizzazione del lavoro servile qual è quella che si realizza nella villa classica. Ciò che si vuole spiegare col modello della villa periferica è perché e come il modello della villa si perpetui anche quando viene meno lo sfruttamento degli schiavi negli ergastula. Il fatto è che non è forse la nozione di villa schiavistica o di modo di produzione schiavistico quella più adeguata a "catturare" la
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varietà di forme nelle quali si esprime la trasformazione delle strutture economiche dell'Italia a seguito della conquista dell'impero, e parimenti a spiegare perché questa situazione non possa perpetuarsi al di là dei primi decenni della nostra era. IL
NUOVO ASSETTO POLITICO-AMMINISTRATIVO
E I SUOI EFFETTI SULL'ECONOMIA
DELL'IMPERO
AGRARIA DELLA PENISOLA
Certo due fenomeni sembrano sicuri, con la stabilizzazione augustea e la fine delle grandi conquiste e delle schiavizzazioni di massa (ancora importantissime in età cesariana, se un milione sarebbe stato il numero dei prigionieri gallici portati in Italia da Cesare 79): la notevole decrescita delle esportazioni verso le province, anche se si tratta di un processo graduale, e la "crisi", se di crisi possiamo parlare, della forma classica della villa, della villa perfecta, della villa con gli ergastula e un personale servile consistente. Si tratta di due fenomeni evidentemente collegati, anche se la natura della connessione è discussa. Le varie spiegazioni che sono state fornite della decrescita delle esportazioni e della "crisi" della villa, o quanto meno della trasformazione, rilevabile per esempio a Settefinestre, della sua vocazione produttiva, che non è più quella della coltivazione specializzata della vite, sono numerose e spesso si integrano, vale a dire che non sono mutuamente esclusive". V'è chi ha insistito, come Max Weber alla fine del diciannovesimo secolo (ma la tesi è stata di recente ripresa e riformulata con ulteriori, acute argomentazioni) sull'inaridirsi delle fonti di approvvigionamento esterno di schiavi, che avrebbe determinato l'esigenza di passare da un certo modo di utilizzazione del personale servile a un altro: vale a dire dalla "squadra" di schiavi accasermati negli ergastula e senza famiglia a un'utilizzazione di famiglie servili, cui si dà un podere autonomo (sicché assume un ruolo centrale in questo passaggio la figura del servus quasi colonus). V'è chi, come Rostovtzeff, ha viceversa visto nel processò l'esito della "concorrenza" che avrebbero esercitato nei confronti dell 'Italia le province soprattutto occidentali, una concorrenza che avrebbe rovinato le aziende specializzate. Fra gli storici rnarxisti del dopoguerra è stata particolarmente seguita la tesi della cosiddetta "anelasticità" della villa, l'incapacità, vale a dire, per una struttura organizzati va come quella della villa, il cui personale fisso è costituito da una squadra di schiavi, di funzionare, superata una certa soglia dimensionale, per le difficoltà stesse e i costi che avrebbe
70 XI'
Plul. Caes. 15; App. Celt. 2. Si veda, da ult., la disamina di MARZANO 2007.
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comportato il sovrintendere all'attività della forza-lavoro. Un corollario di questa teoria, e in generale delle impostazioni di ascendenza marxista, è la tesi secondo la quale le unità basate sulla squadra di schiavi, appunto non eccessivamente estese, sarebbero state sostituite, con la progressiva concentrazione delle proprietà, da assai più estesi latifondi, suddivisi in piccole unità affittate ai coloni SI. Va tuttavia messa in rilievo, ancora una volta, la difficoltà di un approccio generalizzante, che non solo si proponga di rinvenire una spiegazione monocausale, ma che voglia applicare un modello esplicativo siffatto all'intera Italia, senza tenere conto della varietà delle situazioni regionali. C'è un solo elemento che può considerarsi davvero unificante nella variegata realtà dell' Italia della prima età imperiale, ed è la sua condizione di privilegio dal punto di vista amministrativo e soprattutto fiscale: il suolo dell'Italia è immune dal tributo fondiario. Bisogna partire da qui per intendere se vi è potuta essere per avventura un' evoluzione unitaria che spieghi il perché venga progressivamente meno il ruolo dell'Italia, come esportatrice di determinate derrate dell'agricoltura specializzata (oltre che di determinati manufatti) e di conseguenza perché le aziende che producevano queste derrate si trovino, se non scompaiono, nella necessità di orientare in una diversa direzione le proprie produzioni, o utilizzando in maniera diversa il lavoro servile, ovvero ricorrendo, e in varie forme, al lavoro libero. In effetti il privilegio amministrativo-fiscale dell'Italia sembra essere un elemento assolutamente cruciale nel determinare]' evoluzione dell'economia agraria della penisola. La documentazione archeologica mostra che, a voler considerare l'Italia nel suo complesso, è nella prima età imperiale, tra primo e secondo secolo d.C., che si raggiunge il picco più alto nel numero e nella densità degli insediamenti rurali 82. E questo il periodo nel quale parrebbe che si abbia la massima estensione dell'area coltivata, che comincia ad allargarsi, in taluni ambiti regionali, come per esempio alcune zone dell'Etruria meridionale, ai terreni marginali. Ne dedurremo che si fa nuovamente sentire una forte pressione della popolazione sulle risorse. E tuttavia ora non sembrano essere più a portata di mano quelle occasioni di incrementare la produttività dell'economia dell'Italia nel suo complesso, che erano disponibili in precedenza. La stabilizzazione augustea ha significato che sono venute meno le forme estreme di sfruttamento dell'impero: si è avviata una fase il cui esito
"Per le varie tesi sulla 'crisi' della villa GIARDINA 1997,233-64. <2 Fatte salve le significative differenziazioni regionali in questo processo, sulle quali insiste da ultimo PATTERSON 2006, cap. l.
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non può che essere, inevitabilmente, un ricquilibrio delle economie entro la compagine imperiale. Il momento alto dell'espansione dell'economia italica è stato il momento che ha fatto immediatamente seguito all'acquisizione dell'impero. Una volta che la conquista si è stabilizzata, la posizione di primato politico dell'Italia tende a tramutarsi paradossalmente in un potente fattore di degrado. L'integrazione economica del mondo mediterraneo, che nel momento alto della conquista si è espressa attraverso l'espandersi del commercio di esportazione nelle province soprattutto occidentali di derrate e manufatti italici, appare ora la necessaria conseguenza di quella maggiore concentrazione di capitali monetari nella penisola, in forma di tributo e di rendite fondiarie, in cui si esprime sul piano economico la signoria politica. 11 flusso di capitali dalle province all'Italia, che provoca questa concentrazione, ha cioè carattere strutturale: e in quanto tale non può non determinare, per un verso, uno strutturale deficit della bilancia commerciale della penisola, che comincia dunque a consumare assai più di quanto non produca, per un altro verso un peggioramento dei "terrns of trade" delle province nei confronti dell' Italia, che può rappresentare un potente incentivo all'espansione delle economie provinciali a spese di quella italica. Vale a dire che in Italia il costo dei fattori di produzione e i prezzi sono più alti: di conseguenza comincia a essere maggiormente conveniente produrre in provincia e vendere in ltalia, piuttosto che produrre in Italia e vendere in provincia. È inevitabile che, in questa situazione, in àmbito agrario, vengano meno criteri di più efficiente utilizzazione delle risorse, legati alla specializzazione produttiva, e che si comincino a utilizzare terreni di produttività marginale, nel momento in cui l'''optime eolere", per citare un eelebre passo di Plinio il Vecchio'", corrisponde all'utilizzazione (conforme al modello della peasant economy) di un'unità aggiuntiva di lavoro cui comunque bisogna assicurare la sussistenza: Plinio contrappone appunto il "bene colere" all'''optime colere", l'ottima coltivazione, che è a suo avviso rovinosa, salvo dove il coltivatore gestisca la fattoria lui stesso con la propria famiglia e appunto impieghi un personale ehe dovrà mantenere in ogni caso. Ciò che è avvenuto è che si è ristretta la possibilità di un'occupazione nei settori più e meglio inseriti nel mercato, per lo meno per talune aree della penisola. Sicché l'inevitabile risposta all'ulteriore crescita della popolazione non può che essere, appunto, il tendenziale ritorno alle colture di sussistenza: venendo a restringersi i mercati extraitalici delle merci italiche, viene meno la possibilità di soddisfare i consumi integrando le stesse produzioni agricole della penisola
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Plil1. N.H. I R. 38
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attraverso l'importazione di staple-foods quali il grano (un'importazione che avrà interessato, nella fase dell' espansione dell' economia italica, non solo Roma, ma una serie di concentrazioni urbane in Italia, quelle ad esempio più vicine alle coste a nord e a sud di Roma, come le popolose città campane, in grado di pagare queste importazioni, appunto, con i prodotti della propria agricoltura specializzata e coi propri manufatti). Ciò che succede nell'Italia dell' età imperiale è che il ritorno alla cerealicoltura di alcune delle aree che hanno conosciuto l'espansione delle colture specializzate, come avviene a Settefinestre, nella misura in cui è espressione del ridimensionamento del ruolo trainante dell'economia della penisola, e di quello delle sue esportazioni, può paradossalmente tendere ad aggravare, anziché attenuare, lo squilibrio popolazione-risorse. Se la diminuzione dei flussi monetari determinata dalla perdita dei mercati per il vino italico estranei alla penisola può consigliare gl'investimenti fondiarii in provincia ai ceti elevati, ai ceti subalterni non rimangono molte alternative per rispondere alla sovrappopolazione: a parte, ancora una volta, l'emigrazione, resta il passaggio a colture di sussistenza, caratterizzate da una minore produttività del lavoro, e l'utilizzazione sempre più estesa dei terreni marginali: il pliniano "opti me colere", per l'appunto, che lo stesso Plinio però considera, a ragione, come scelta economicamente non ottimale. L'EVOLUZIONE
DELLA PROPRIETÀ E LE OPZIONI DEI PROPRIETARI
NEL NUOVO SCENARIO
Si è sostenuto che i libri che trattano dei prodotti della terra della Naturalis Historia di Plinio, e in particolare il diciottesimo, diano espressione a uno specifico orientamento dei proprietari italici, che sarebbe quello di ridurre drasticamente le spese, anche in presenza di rendimenti sempre minori.". Dall'altro lato si collocherebbe Columella, che si fa viceversa portavoce di un' ulteriore spinta verso l' efficientizzazione e la specializzazione agricola, come dimostrerebbe il celebre passo, assai discusso e anche di recente, nel quale Columella " propugna, ancora nella tarda età neroniana, le colture specializzate da commercializzare e in particolare propone un paragone tra la redditività della vigna e la redditività di un altro modo di impiego del denaro, il prestito a interesse, o ancora la redditività di altre utilizzazioni agrarie, come la cerealicoltura: un paragone che va a tutto vantaggio della vigna. Si è discusso dei limiti entro
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MARTIN
1971, part. 375 sgg.
'5 Col. de agro 3. 3.
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cui si possa davvero parlare di "calcolo razionale" e di "razionalità" di gestione, per i conti che sciorina Columella Rh. A una linea interpretativa che nega che il proprietario romano avesse modo di gestire, in termini di razionalità economica, i propri fondi, attraverso l'individuazione dei marchiani "errori" che commetterebbe l'agronomo, non tenendo conto di voci importanti del bilancio dell'azienda, quale ad esempio l'ammortamento del capitale, ovvero stimando le altre in modo irrealistico, si è voluto opporre che il carattere "bisettoriale" dell' azienda schiavistica descritta dagli scriptores de re rustica, in parte destinata alle produzioni da vendere alI' esterno sul mercato, in parte a quelle necessarie per la stessa sussistenza della propria forza lavoro, renderebbe illegittimo perché antistorico il volere valutare i calcoli di Columella negli stessi termini del calcolo capitalistico: se alcune voci di spesa, ad esempio, non sono computate è perché nell' azienda schiavistica, come in quella feudale polacca analizzata da Witold Kula in un celebre libro.", tutto ciò che non viene acquisito all'esterno con una spesa monetaria, viene considerato gratuito. E tuttavia, al di là della controversia sugli "errori" di Columella, al di là della bontà o meno dei suoi calcoli, quel che va messo in rilievo come il fatto decisivo è che, nel prospettare questi suoi calcoli, Columella ragioni da imprenditore agrario: ritenga, cioè, di potere convincere i suoi lettori sulla base di un'argomentazione che considera come normale non solo la commercializzazione delle produzioni della villa, ma la ricerca del profitto monetario come scopo della produzione, operata attraverso un computo, sia pure non perfetto, delle spese e dei ricavi. A orientare il proprietario dev'essere la ricerca di un tale profitto monetario, concepito come quello che deriva dall'insieme dei capitali monetari investiti nella vigna, se è vero che Columella mette in conto capitale non solo l' acquisto del fondo, ma quello d'un esperto vinitor, dei vitigni, dei pali di sostegno e la stessa perdita subita dal proprietario nei primi due anni in cui immobilizza una somma di denaro Senza ricavarne un reddito e se è a questo totale che viene rapportato il rendimento della vigna negli anni in cui questa comincia a produrre. Insomma, non c'è dubbio alcuno che Columella ragioni qui da imprenditore agrario, e non da rentier. Dobbiamo dedurne che la progressiva mercantilizzazione dell'agricoltura, con la connessa tendenza all'estenuarsi dell'unità contadina autosufficiente, ha avuto un rilevante riflesso sul piano dell'evoluzione delle mentalità:
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MACVE 87
Per i conti di Columella in particolare DUNCAN-JOI'ES 1985. 241 sgg.; e si veda quanto osservano BRESSON KULA 1970.
1974. 39 sgg.; CARANDINI 1988, 233 sgg.; & BRESSON 2004, part. 96 sgg.
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l'affermarsi, cioè, di una mentalità da imprenditore agrario, sia che portatore ne sia lo stesso proprietario sia che portatori ne siano i soggetti ai quali il proprietario rentier affida la gestione. Un esempio ulteriore ed estremamente significativo del diffondersi di questa mentalità è dato rilevarlo in quel che grosso modo nello stesso periodo Plinio " scrive a proposito del ricco liberto Q. Remmio Palemone, un famoso grammatico, che, avendo acquistato una grande proprietà a Nomento, non lontano da Roma e avendo affidato la coltivazione della vite a un noto "esperto" (che peraltro aveva già dato prova, nella stessa zona nomentana, di sapere impiantare vigne assai produttive e aveva perciò visto crescere enormemente il valore del proprio fondo di dimensioni modeste), vi avrebbe fatto cospicui investimenti, tanto da incrementare in misura eccezionale e in pochi anni la produzione del vino e da conseguire profitti enormemente elevati. La proprietà di Remmio Palemone sarebbe poi passata a Seneca che l'avrebbe pagata un prezzo addirittura quadruplo rispetto a quello al quale Palemone l'aveva acquistata, conservando la sua eccezionale produttività, ricordata anche da Columella 89. Plinio spiega il comportamento di Palemone come dovuto non già al suo "coraggio" (la virtus animi), evidentemente nell'affrontare il rischio dell'investimento, ma alla sua "vanità": può darsi che, nel caso specifico, avesse ragione, ma certo è illuminante che lo stesso naturalista consideri come una spiegazione alternativa, per 1'appunto, la virtus animi. Naturalmente si pone il problema di comprendere quanto questa mentalità di cui si fa portavoce Columella e di cui potrebbe essere espressione 1'agire di Remmio Palemone sia diffusa nell' Italia alla metà del I secolo d.C., e in presenza delle difficoltà che cominciano ad avvertirsi, ad esempio, proprio nella viticoltura italica: né va escluso che, sebbene il ragionamento dell' agronomo sulla rispettiva convenienza di viticoltura e cerealicoltura si riferisca indubitabilmente all'Italia, la sua prospettiva possa essere in una certa misura più ampia e meno legata ai problemi concreti e immediati dell'agricoltura dell'Italia del suo tempo, visto che patria di Columella è la provincia spagnola della Betica, che gode di un indubbio sviluppo che si accentuerà nel periodo successivo. Ciò che ci dobbiamo chiedere è sino a che punto, nell'insistere perché il proprietario ragioni, nelle sue scelte economiche, da imprenditore agricolo e non da rentier, Columella davvero rifletta un comune sentire dei proprietari in Italia o se invece ormai non stia prevalendo un' altra logica, quella che privi legia come finalità la sicurezza dell' entrata, piuttosto che il suo
"N.H. 14.49-51. '" de agro 3. 3. 3.
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incremento attraverso un' oculata politica di investimento: due scelte, entrambe, come non vi è bisogno di ribadire, "razionali", anche se per motivi diversi. Una scelta, intanto, quella tra lavoro servile e lavoro libero, dobbiamo presumere, come si è già visto, che venisse fatta dipendere, comunque, dal costo relativo, per un verso, degli schiavi e, per un altro verso, delle remunerazioni dei liberi. Le remunerazioni dei liberi, in presenza di una pressione della popolazione sulle risorse, devono essere state in discesa, mentre il prezzo degli schiavi deve essere stato in ascesa, con la fine delle grandi schiavizzazioni in massa 90. È vero che altre fonti di approvvigionamento degli schiavi, interne ai territori dell' impero romano o esterne ad esso, continuavano a essere disponibili, come il commercio, l'esposizione degli infanti, o la vendita di sé o dei propri familiari, e soprattutto l'allevamento. Ma sembra certo che, per un verso, l'allevamento era lungi dal potere garantire la riproduzione naturale della popolazione servile, in presenza, oltretutto, di una pratica così diffusa come continuava a essere la manomissione, e per un altro verso le altre fonti di approvvigionamento non potevano garantire che un complemento modesto e certo quantitativamente non paragonabile a quello fornito dalle schiavizzazioni in massa a seguito dell'attività bellica. In queste condizioni dobbiamo supporre che già a partire dall' età augustea, con le ultime campagne ai confini dell'impero, il numero degli schiavi sia cominciato a declinare c, di conseguenza, il loro prezzo a salire Cel'ulteriore attività bellica sino al terzo secolo non sarà stata in grado, se non in determinate occasioni, come con le campagne traianee in Dacia, di garantire ulteriori arrivi in massa di nuovi schiavi in Italia). Più difficile è stabilire se e come la dinamica del prezzo della terra in Italia potesse influenzare i due possibili atteggiamenti dei proprietari - da imprenditori o da rentiers: un prezzo, oltretutto, che poteva essere condizionato da specifiche decisioni dell'autorità imperiale (e quali che fossero, di queste decisioni, le motivazioni specifiche). Per esempio da una lettera di Plinio il Giovane?' sappiamo che l'imperatore Traiano avrebbe imposto a coloro che si candidavano alle magistrature e al senato di Roma di investire un terzo della propria fortuna in terra italica. L'occasione immediata del provvedimento era stata la scandalosa corruzione che si accompagnava ad ogni elezione a Roma, quando i facoltosi provinciali che aspiravano a entrare in senato impiegavano una quantità considerevole di denaro liquido in munera e prestiti. Traiano
'XI
Lo CASCIO 2002b.
')]Ep, 6. 19, su cui in particolare Lo CASCIO 2000a, 251 sg., 271 sg.; e vd, infra, 118 sg.
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voleva costringere questi ricchi provinciali a impiegare diversamente il proprio denaro «ritenendo vergognoso che coloro che aspiravano alle cariche considerassero Roma e l'Italia non come la propria patria, ma, come se fossero viandanti, come un ospizio o un ricovero» (<<deforme arbitratus (et erat) honorem petituros urbem Italiamque non pro patria sed pro hospitio aut stabulo quasi peregrinantes habere»), Il rimedio prescelto avrebbe provocato, con i passaggi di proprietà che si sarebbero verificati in conseguenza della legge, 1'effetto di elevare artificialmente il prezzo del1e terre italiche (e in particolare di quelle intorno a Roma, come ci dice espressamente Plinio). La misura traianea era tale, dunque, da influenzare pesantemente il mercato della terra: i venditori dei terreni avrebbero ricavato un profitto ulteriore da potere impiegare per esempio nell'acquisto di terre più a buon mercato in provincia (come Plinio consiglia di fare al destinatario della sua lettera); i nuovi proprietari, nella misura in cui comperavano a un prezzo non conforme allivello delle rendite, sarebbero stati incentivati a non vedersi diminuire il valore delle terre acquistate (una volta esauritosi l'effetto della legge) e dunque sarebbero stati incentivati ad apportare migliorie che accrescessero la redditività delle proprietà e comunque il suo valore: migliorie che sarebbero potute consistere anche solo nella costruzione di una nuova villa o nell'abbellimento della pars urbana di quella che già fosse stata eventualmente presente sul fondo. È stato recentemente messo in rilievo come abbiamo una spettacolare conferma dell'efficacia della misura traianea (poi ripresa, in una forma attenuata, da Marco Aurelio) dalla documentazione archeologica nel suburbio di Roma. Si rileva una trasformazione delle modalità insediative e del paesaggio agrario: nel suburbio si edificano grandi dimore o si trasformano precedenti costruzioni in grandi dimore, che sono quasi vere e proprie domus cittadine, possedute dalla nuova aristocrazia di origine provinciale che deve insediarsi stabilmente in Italia'", L'analisi onomastica della documentazione epigrafica peraltro ha consentito di localizzare le proprietà dei senatori nel suburbio e in altre aree della penisola, anche se non può ovviamente essere in grado di dare una dimensione quantitativa specifica all' estensione delle proprietà, così come non può servirei ad individuare i modi usuali di acquisizione delle proprietà (se attraverso i passaggi ereditari o I'acquisto) ". Le informazioni forse più significative su quali fossero le motivazioni che guidavano i più ricchi proprietari nelI'acquisto di nuove proprietà e,
Per gli effetti della misura trai anca sui candidati alle cariche e al senato di Roma in particolare 1986. 'n Per le proprietà senatorie in Italia ANDERMAHR 1998. 92
COARELLI
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più in generale, nella gestione del proprio patrimonio fondiario in Italia derivano certamente da alcune lettere dell' epistolario pliniano, che sono state ancora recentemente fatte oggetto di numerose, acute analisi?'. Plinio, per di più, possedeva proprietà tanto nei pressi di Roma (sulla costa a Laurentum), tanto nella valle Tiberina, a Tifernum Tiberinum (l'odierna Città di Castello), tanto nella pianura padana nel territorio di Como, la sua patria, e, visto che è in generale possibile individuare a quale proprietà egli si riferisca, possiamo dire di avere una quadro che riguarda più realtà regionali. Va certamente riconosciuto che l'obiettivo fondamentale che ha Plinio nella gestione del suo patrimonio fondiario è di garantirsi la sicurezza della rendita, con lo scopo di mantenere intatta la propria posizione sociale, il che vuoI dire evitare i rischi di investimenti azzardati, com'è stato messo in rilievo recentemente (Kehoe). E però è anche vero che questo obiettivo, pur non essendo quello della massimizzazione del profitto, richiede comunque un comportamento economicamente "razionale", che è possibile rinvenire nelle concrete scelte operate da Plinio: così non mancano considerazioni direttamente economiche, per esempio, nelle decisioni relative all' acquisto di una proprietà, e in ogni caso non manca una cura attenta per la gestione, per esempio per i rapporti che vanno tenuti con gli affittuari (anche se Plinio affetta di considerare particolarmente fastidioso questo impegno, se paragonato a quelli pubblici e alla sua attività di uomo di lettere)<J5. Sembra sicuro che, pur essendo possibili diverse scelte - la gestione diretta, mediante unafamilia di schiavi, l'affitto dell' intera proprietà a un unico affittuario o la suddivisione della tenuta tra più poderi da affittare a coloni, quest'ultima maniera di sfruttare il proprio patrimonio fondiario fosse, ormai, quanto meno all' epoca di Plinio, prevalente. Certo, che la proprietà di Plinio, come quella dei suoi vicini, fosse affidata a piccoli affittuari, parrebbe rivelarlo la frequenza con la quale i problemi che si trovano ad affrontare i coloni trovano un'eco nelle lettere. I problemi sono in larga misura quelli che vengonodalla difficoltà, per gli affittuari, di pagare regolarmente il canone d'affitto, il cui livello doveva essere elevato e presumibilmente rapportato ai raccolti delle annate migliori: un ulteriore indizio del fatto che i coloni dovevano avere un'assai limitata capacità contrattuale nei confronti dei proprietari, ciò che potrebbe indicare come vi dovesse essere una pressione della popolazione. Quando non riusciva a pagare, l'affittuario chiedeva remissiones che Plinio Su Plinio proprietario fondiario in particolare MARTIN 1967; DE NEEVE 1990; KEHOE 1988b; 1989; KEHOF. 1993; ROSA FIO 1993a; Lo CASCIO 1992-93; cfr. infra, 115 sgg .. 95 Un'analisi dettagliata delle lettere plinianc relative alla gestione del suo patrimonio fondiario infra, 115 sgg. "!4
KEHOE
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concedeva, in linea di massima, perché interessato a mantenere un buon rapporto coi coloni. Ma l'atteggiamento di Plinio non era necessariamente quello degli altri proprietari: donde le frequenti rinegoziazioni del contratto e il pericolo, sempre immanente, per il colonus di dover abbandonare il fondo. Va ribadito, in ogni caso, che continuavano a rimanere aperte ai proprietari le opzioni più varie, e continuavano a essere presenti gli atteggiamenti più diversi nella gestione del proprio patrimonio, anche in ragione del ruolo sociale ricoperto; e parimenti dobbiamo presumere che le più varie, anche in ragione delle diverse realtà regionali, dovessero essere così le dimensioni delle singole unità fondiarie come le modalità della loro gestione. A una conclusione siffatta invita anche un altro genere di testimonianza, quella fornita dai giuristi. l frammenti del Digesto che riguardano, magari tangenzialmente, i problemi della gestione della proprietà fondiaria e in particolare i rapporti dei proprietari con gli affittuari sono numerosi: a sollecitare l'interesse dei giuristi sono i casi nei quali proprietari sono dei minori, e quindi vi è bisogno di un tutore che gestisca per loro, e ancora le questioni relative ai passaggi ereditari dei fondi. I frammenti dei giuristi riguardano in larghissima misura l'Italia, e in questo senso sono certamente informativi, ma vi sono dei problemi: intanto non possono essere esclusi sempre interventi dei compilatori di età giustinianea, ma soprattutto v'è chi ha messo in rilievo come la documentazione giuridica non possa considerarsi come quella che riflette, senza mediazioni, la realtà economica e sociale. È innegabile, in ogni caso, che la testimonianza dei giuristi ancora una volta confermi il carattere estremamente variegato così delle unità fondiarie, come degli atteggiamenti dei proprietari 96. In conclusione siamo legittimati a supporre che un generale trend sia riconoscibile nell' economia agraria dell' Italia fra I e II secolo d.C. (anche se è esclusa una qualsiasi stima quantitativa): quello verso la progressiva sostituzione del lavoro servile con il lavoro libero e di conseguenza una tendenzialmente sempre maggiore diffusione, nelle proprietà soprattutto dell'élite, dell'affitto agrario e, forse, della colonia parziaria'", presumibilrnente assai più comune nelle province (ciò che in parte giustifica perché sia ricordata una sola volta nel Digesto, com' è bene ribadire). Un altro sviluppo che sembrerebbe essere suggerito dal complesso della nostra documentazione è quello verso una progressiva sempre maggio-
% 97
Sulla testimonianza dei giuristi a proposito della gestione delle proprietà fondiarie Si vd. in/m, 128 sgg., a proposito della testimonianza pliniana al riguardo.
KEHOE
1997.
I. LA PROPRIETÀ
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re concentrazione della proprietà. A rivelare tale concentrazione della proprietà nel corso dei primi due secoli dell'impero sono in particolare due documenti epigrafici singolari e di grande interesse, i due catasti che registrano, in età traianea, le proprietà ipotecate da quei proprietari terrieri delle due comunità di Veleia, sull' Appennino parmense, e dei Ligures Baebiani, nel Sannio, che furono coinvolti dall'imperatore in un ingegnoso programma di assistenza sociale, gli alimenta 98. In molte comunità dell' Italia i proprietari ricevevano, come prestito irredimibile, una somma di denaro, sulla quale pagavano un modico interesse destinato a finanziare gli "assegni familiari", se possiamo chiamarli così, che andavano ai fanciulli e alle fanciulle di famiglie bisognose. A fronte del prestito, i proprietari dovevano obligare e cioè appunto ipotecare proprietà fondiarie di valore molto elevato rispetto all' entità della somma ricevuta in prestito: i due documenti ricordati registrano le proprietà obbligate, il loro valore e l'entità del prestito ricevuto?" Dall'analisi della denominazione dei singoli fondi sembra doversi concludere che tra l'età augustea e l'età traianea non solo vi devono essere stati frequenti passaggi di proprietà, ma anche un progressivo accorpamento di fondi una volta distinti. Un tale accorpamento può avere preso la forma dell'aggregazione di singole unità contigue che vedevano trasformata la propria gestione ovvero che mantenevano la loro caratteristica di unità produttive autonome. La concentrazione della proprietà può avere anche riguardato unità fondiarie non contigue, che andavano a costituire quello che un rescritto dell'imperatore Severo Alessandro avrebbe definito più tardi un «late diffusum ... patrimonium» 100. Nemmeno di questo fenomeno si può naturalmente dare una valutazione quantitativa, anche se qualche luce, e per uno specifico problema come quello delle dimensioni delle unità produttive, oltre che per specifiche aree, è potuta venire dalla documentazione archeologica. Si è già visto come da un lato la stessa documentazione archeologica relativamente all'occupazione di terreni marginali, dall'altro la testimonianza pliniana suggeriscano una pressione della popolazione sulle risorse che, alla metà del II secolo, può essersi trasformata in vera e propria sovrappopolazione. A risolvere il problema sarebbe intervenuta, alla metà degli anni' 60, una grave epidemia, presumibilmente di vaiolo. È in conseguenza della drastica riduzione della popolazione che deve essersi mutato il rapporto tra terra e lavoro: deve essersi incrementata la capacità contrat'JX e/L IX, 1455 (Ligures Baebianiv; CII, XI, 1147 (Veleia; nuova edizione critica in CRINITI [a c. di] 2006,259-361). "') Sugli alimenta Lo CASCIO 2000a, 223-83. 1IH1 c.r. 5. :)
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tuale dei lavoratori, affittuari o salariati, e deve presumibilmente essersi accentuata, in conseguenza delI' alta mortalità, la spinta verso un' ulteriore sempre maggiore concentrazione fondiaria, visto che molte proprietà venivano ereditate da un numero sempre più esiguo di proprietari. LA "CRISI" E GLI SVILUPPI DI ETÀ TARDOANTICA
È stato ragionevolmente sostenuto di recente che l'iniziativa imperiale degli alimenta volesse essere una risposta a una progressiva pauperizzazione in alcune zone dell' Italia, che poteva far temere che, in una situazione di pressione della popolazione, si mettessero in moto i malthusiani "freni preventivi" se non quelli "repressivi": gli alimenta sarebbero stati espressione di una politica "popolazioni sta" o "pro-natalista", analoga a quella seguita da alcuni governi in Europa nel ventesimo secolo, come il regime fascista in Italia 101. Peraltro è possibile che i prestiti ai proprietari fossero intesi come quelli che dovevano incentivarli a ulteriormente intensificare le colture. Il meccanismo dei prestiti e delle usurae sarebbe dovuto valere ad 'aggirare' la tradizionale immunità italica: il meccanismo degli alimenta avrebbe introdotto in modo possiamo dire indiretto un onere fondiario, destinandone i proventi a una finalità socialmente accettabile. L'intendimento primario dell'imperatore dev'essere stato davvero quello di trovare lo strumento per esercitare la propria liberalità nei confronti dei pueri e delle puellae. Ma introdurre in qualche modo surrettiziamente un onere fondiario avrebbe potuto rappresentare lo strumento anche per incentivare i proprietari a utilizzare in modo più efficiente le proprie terre ed eventualmente a operare riconversioni agrarie che accrescessero la produttività. La stessa sproporzione nella diffusione del programma alimentare per le regioni d'Italia, che vede la più alta concentrazione di città dotate di alimenta imperiali nelle aree centrali della penisola e in generale in quelle economicamente più vicine a Roma, parrebbe suggerire che le riconversioni in questione potessero essere anche funzionali all'incremento dei prodotti agricoli, e in particolare del grano, destinati all' enorme mercato romano. E tuttavia una tale finalità era conseguibile se davvero ci si avvicinava, in Italia, a una situazione "malthusiana"? Lo scoppio della pestilenza dell'età antonina avrebbe modificato radicalmente il quadro 102. Per intendere i suoi effetti soccorre la documenta1987; Lo CASCIO 2000a; vedi pure WIERSCHOWSKI 1998. Sulle pestilenze del Il e III secolo c i loro effetti Lo CASCIO 1991 b; Lo CASCIO 1997c; DUNCANJONES 1996; SCHElDEL 2002; sulla 'peste antonina' come turning-point della storia economica imperiale soprattutto ZELENER 2003; ne revoca in dubbio la rilcvanza BRUUN 2007. 101
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PATTERSON
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zione comparativa, soprattutto quella relativa a molte regioni europee in conseguenza dello scoppio della "peste nera" alla metà del XIV secolo. La conseguenza per i superstiti, nella popolazione contadina, dev' essere stato un tendenziale miglioramento delle proprie condizioni di vita, con l'abbandono dei terreni marginali, il passaggio a colture estensive o all'allevamento, e con conseguente modificazione della dieta, dal momento che era cambiata la struttura dei prezzi relativi e i prezzi dei cereali erano diminuiti in rapporto agli altri prezzi. Dobbiamo in generale presumere che la capacità contrattuale dei coltivatori, degli affittuari come dei braccianti, si sia incrementata. Un'ulteriore spinta in questa stessa direzione dev'essere venuta dai rivolgimenti politico-militari e dall'ulteriore flessione della popolazione alla metà del III secolo, dovuta a ulteriori scoppi epidemici che durarono per un altro ventcnnio. Che questa aumentata capacità contrattuale abbia cominciato a suggerire ai ceti proprietari forme di coazione extra-economica per trattenere la forza lavoro sui fondi è possibile, ma non ne abbiamo una sicura conferma 103. Una lunga tradizione di studi ha collegato l'origine del "colonato", l'imposizione di un vincolo alla mobilità sociale e geografica di buona parte della popolazione contadina attestata dalle fonti tardoantiche, in chiave continuistica, alla stessa condizione dei coloni affittuari dell' alto impero, interpretando ad esempio la stessa testimonianza pliniana, come la prova di una netta inferiorità sociale che avrebbe portato precocemente, e certo già durante la "crisi" delIIl secolo, al vincolo al suolo 104. Recentemente si è sostenuto che l'impressione che la condizione dei piccoli affittuari si aggravi col passaggio al quarto secolo è dovuta al fatto che cambia la natura della nostra documentazione, soprattutto perché abbiamo ora molti più testi legislativi imperiali. E tuttavia questa interpretazione non convince: non dev'essere casuale che nel Codice Giusitinianeo, che raccoglie costituzioni imperiali già del II secolo, i primi accenni al vincolo al suolo siano del quarto secolo avanzato. In realtà di un vero e proprio vincolo' al suolo non sembra potersi parlare prima dell' età dioclezianea (e anzi la prima costituzione imperiale che vi fa esplicito riferimento è di età costantiniana 105). Con la riforma fiscale di età tetrarchica, che prevede una ricognizione complessiva periodica degli abitanti e delle proprietà in tutte le regioni dell'Impero, ivi compresa per la prima volta 1'Italia (ciò che ha un'ovvia conseguenza sugli sviluppi futuri dell' economia agraria della penisola), il vincolo al 1111 Cfr. infra, 179 sgg .. ,,~ Sul problema del 'colonato tardo-antico' CASCIO (a C. di) 1997; ROSA FIO 2002. "" C.Th. 5. 17. I del 332 d.C.
in parto
MARCONE
1988, e molti dei contributi
in Lo
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suolo assume una sua funzione specifica come strumento per contrastare qualsiasi tentativo di evasione fiscale: il colono è legato al suolo, e cioè al suo podere, perché lo stato deve potere riscuotere l'imposta che grava su di lui. Vale a dire che l'introduzione di un sistema integrato di imposizione personale e patrimoniale, con la cosiddetta capitatio-iugatio, reca con sé l'affermazione da parte dello stato del principio che in linea di massima la forza lavoro sui fondi non deve né muoversi, né cambiare occupazione. Naturalmente che lo stato imperiale avesse la possibilità di far rispettare il vincolo è un'altra questione: la stessa numerosità dei testi legislativi che sanzionano la fuga dei coloni dimostra che il fenomeno doveva essere estremamente diffuso. Va sottolineato come il vincolo imposto ai coloni giovasse ai ceti proprietari di cui la classe dirigente dell'impero e in definitiva lo stesso potere imperiale erano espressione: era il vincolo al suolo che impediva che si determinasse una "concorrenza" tra i proprietari nell' accaparrarsi il lavoro, che impediva, cioè, che la remunerazione del lavoro (in qualunque modo espressa) potesse salire. D'altra parte le esigenze finanziarie dello stato erano in forte crescita da quando il primo drastico decremento della popolazione aveva inevitabilmente ridotto la produzione globale e il numero dei produttori, e cioè il numero dei contribuenti. Le esigenze finanziarie dello stato, determinate dalla necessità di mantenere comunque in piedi un' organizzazione amministrativa e soprattutto un esercito efficiente, facevano sì che esso entrasse in concorrenza con i ceti proprietari nell'estrazione del surplus dai produttori dci beni primari. La soluzione, ormai in un migliorato rapporto tra terra e lavoro, era quella di sfruttare il venir meno della concorrenza tra i proprietari per potere estrarre dai ceti contadini una quota sempre più elevata di surplus. A beneficiare di questa situazione non erano i soli proprietari. Sebbene sia difficile reperirla nella nostra documentazione relativamente all'Italia, doveva essersi accresciuto il rilievo anche quantitativo di una specifica categoria di affittuari, assimilabile, per certi aspetti, all' urbanus colonus di cui aveva parlato, con un atteggiamento di grande diffidenza, Columella Inn. L'urbanus colonus era censurato da Columella in quanto si trattava, in qualche modo, di un doppione del grande proprietario assenteista, ma è ovvio che in molti altri casi sarà stato viceversa colui che, con spirito e con mentalità imprenditoriali, avrà gestito la proprietà, sollevando il proprietario dalle incombenze, e anche dai rischi, dell'intrapresa. A favorire l'ulteriore diffusione di una figura del genere, quella del grande affìttuario, o del conductor, come viene in linea di massima 106
Col. de agr. 1.7.3.
I. LA PROPRIETÀ DELLA TERRA, I PERCETTORI DEI PRODOTTI E DELLA RENDITA
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definito, avrà contribuito in primo luogo l'allargamento consistente della proprietà imperiale anche in Italia. Se Tacito poteva sostenere che negli anni di Tiberio le proprietà del princeps fossero in Italia sostanzialmente modeste 107, la situazione che rivelano i due catasti di Veleia e dei Ligures Baebiani è già molto diversa. Peraltro la documentazione epigrafica consente di seguire questo allargamento della proprietà imperiale, dovuto soprattutto ai beni che l'imperatore riceveva in eredità, o ancora all'incameramento da parte del fisco imperiale dei beni che rimanevano senza eredi, e dovuto anche alle confische operate soprattutto in certi frangenti, come per esempio in occasione di conflitti civili quale quello che oppose il soccombentc Clodio Albino a Settimio Severo. Noi conosciamo il ruolo che questi grandi affittuari giocavano in altre regioni dell'impero, come l'Africa, soprattutto proprio per ciò che concerne le immense proprietà imperiali. In Africa i conductores stipulavano contratti di affitto quinquennali con l'amministrazione fiscale, cui garantivano un'entrata certa. Essi poi gestivano l'insieme della tenuta, il cosiddetto saltus, subaffittando, dietro corresponsione di partes agrariae, di parti del raccolto, e prestazione di un modesto numero di giornate lavorative, le parcelle ai veri e propri coltivatori, ai coloni, i quali avevano tuttavia la possibilità di rimanere indefinitamente sul proprio podere o quanto meno sin tanto che ne garantissero la coltivazione 108. Che i rapporti tra i grandi affittuari e la forza-lavoro libera utilizzata nelle tenute fossero analoghi anche in Italia non è molto probabile. Ma non sembra potersi mettere in discussione la presenza di questi middle-meno Il loro ulteriore incremento sarebbe stato un ovvio portato del processo forse più rilevante cui si assiste in Italia nel passaggio dal principato all'età tardoantica, quello della concentrazione fondiaria: un processo ulteriormente favorito, come si è detto, dalla mortalità di crisi in occasione di scoppi epidemici. Un ulteriore sviluppo merita, peraltro, di essere notato: specialmente per quanto riguarda la proprietà imperiale, è probabile che i conductores, che stipulavano contratti per un quinquennio, si vedessero confermato di quinquennio in quinquennio il contratto. E qualche testo legislativo sembrerebbe addirittura suggerire che l'amministrazione fiscale, a volte, tentasse di trattenere i conductores, anche quando essi non desiderassero rinnovare il contratto alle medesime condizioni: segno della difficoltà che l'amministrazione imperiale incontrava nel trovare chi volesse prendere in affitto le tenute. L'esito di questo sviluppo sarebbe stato 1'emergere di contratti di affitto senza limiti di
Tac. Ann. 4. 6. 7. ma KEHOE 1988a, c infra, 100 sgg. 107
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CRESCITA E DECLINO
tempo. I conductores in questo caso venivano per molti versi ad assimilarsi a dei proprietari: proprietari che dovevano comunque continuare a pagare un canone all' amministrazione fiscale. È comunque il processo di sempre più forte concentrazione fondiaria che dà la sua caratteristica di fondo alle campagne tardoantiche in Italia e ne determina le differenze con la situazione precedente. Le unità fondiarie tardoantiche erano, si è osservato (Vera), "unità economiche", anche se non erano più unità produttive. Erano unità economiche, anche quando non vi fosse una contiguità territoriale dei vari fondi o agri che le componevano, perché vi era un'unità di gestione delle rendite che gli assai meno numerosi e assai più ricchi proprietari tardoantichi traevano dalle proprie terre 109. D'altra parte i canoni pagati in natura dai produttori primari erano venduti sul mercato dai proprietari o dai grandi affittuari: era al loro livello che poteva continuare ad avvenire una commercializzazione delle produzioni. La "grande tenuta", se non vogliamo definirla "latifondo", termine che evoca realtà molto diverse da quella dell'Italia tardoantica, poteva essere ancora prospera: certo garantiva al suo proprietario livelli favolosamente elevati di rendite. Che queste "grandi tenute", queste massa e fundorum, come vengono a definirsi in Italia (e solo in Italia), assomigliassero già a una struttura fondiaria qual era quella, bipartita, della "riserva signorile" o del "maniere" è, comunque, del tutto da escludere: soprattutto perché del tutto diverso era lo scenario economico, sociale e soprattutto politico entro il quale si collocavano. Né si può dire che il praetorium, l'edificio fortificato, un vero e proprio "palazzo" di tipo urbano, che assumeva la funzione di centro della tenuta, alla maniera nella quale la villa aveva rappresentato il centro del fundus, assomigliasse in alcun modo al castello medievale. Così come il "colonato" non può considerarsi l'anticamera della "servitù" medievale, così la tenuta tardoantica non può essere vista, direttamente, come un preannuncio di Medio Evo.
1"9
Sugli sviluppi tardoantichi
si vd., tra i numerosi saggi recenti di D. Vera, VERA 1995 e 1999.
II. OBAERARII (OBAERATI): LA NOZIONE DELLA DIPENDENZA IN VARRONE*
Nel cap. 17 del primo libro de re rustica, nell' àmbito di quella «teoria generale» dell' agricoltura che Varrone mette in bocca a Scrofa l, viene offerta, com'è noto, una classificazione, che vuole essere esaustiva, dei lavoratori agricoli: omnes agri coluntur hominibus servis aut libcris aut utrisquc: Iiberis, aut cum ipsi colunt, ut plerique pauperculi cum sua progenie, aut merccnnariis, cum conducticiis liberorum operis res rnaiores, ut vindemias ac facnisicia, administrant, iique quos obaerarios nostri vocitarunt et etiam nunc sunt in Asia atque Aegypto et in lllyrico complures (ed. Goetz).
La classificazione sembrerebbe tradire il gusto dello studioso Varrone per quel tipo di «definitional analysis», come l'ha chiamata lo Skydsgaard ', che mira a determinare l'àmbito semantico di una parola o la portata di un concetto attraverso la loro contrapposizione o il loro confronto con altre parole o concetti che riguardino un medesimo contesto. Delle categorie di lavoratori di condizione libera individuate da Varrone, su una sola si soffermerà, nel seguito del discorso, l'autore - su quella dei mercennarii -, ma Varrone avverte la necessità di far riferimento, in termini che ai suoi lettori saranno anche risultati chiari 3, ma che a noi propongono un delicato problema interpretativo, alle altre categorie individuabili di liberi coltivatori: per un verso, quelli che «ipsi colunt» - e Varrone ne indica un esempio nei pauperculi che coltivano «cum sua progenie»; per un altro verso, «ii ... quos obaerarios nostri vocitarunt et etiam nunc sunt * [Tra i lavori che trattano del luogo varroniano, comparsi dopo la pubblicazione dci presente saggio ricordo Johne, in JOIlNE, KOHN, WEBER 1983.69-73; DE NEEVE 1984a, I 79-182,222-24 e passim; MRoZEK 1989,83-84; FLACH 1990, 157-59; e soprattutto SCHEIDEL 1994,46-7, 183-891. l Cfr. in particolare SKYDSGAARD1968, IO sgg.; R. MARTIN 1971,273 sgg. 2 SKYDSGAARD1968,33 sg.: vd. anche SKYDSGAARD1980,67. 3 SKYUSGAARD1968,36, ha messo in rilievo come «thc definitional divisions seem - as the contemporary reader must also have felt them to be - superfluous. in thc sense that they do not elarify something unknown or difficult, but appear rather as pedanti c elaboration of somcthing obvious. It is, so to say, definition for definition's sake».
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CRESCITA E DECLINO
in Asia atque Aegypto et in lllyrico complures». l primi sono stati per lo piu identificati nei piccoli "coltivatori diretti", nei piccoli proprietari contadini, ma, come si vedrà", non è mancato chi vi ha voluto vedere, forse non senza giustificati motivi, i piccoli affittuari, i coloni. Nei secondi si sono generalmente riconosciuti la stessa cosa degli obaerati, termine questo più comune dell' hapax obaerarius, e cioè i "servi per debiti", soprattutto in ragione del fatto che, in un luogo altrettanto celebre del de lingua Latina (7. 105), dopo aver definito, nel proporre un'etimologia della parola, il nexus, Varrone considera sinonimo di nexus proprio obaeratus. "Servo per debiti" è, peraltro, senza ulteriori precisazioni, definizione affatto generica: e in effetti, al momento di meglio caratterizzare la realtà alla quale allude Varrone, sono sorte differenti interpretazioni. Una di queste interpretazioni, che pure ha avuto, nel corso della storia degli studi, una certa fortuna, e che si può far risalire a Fustel de Coulanges, dev'essere, mi sembra, senzaltro accantonata: Fustel, riconoscendo in quelli che «ipsi colunt» i piccoli proprietari e notando la mancanza dei piccoli affittuari, dei coloni, dalla definizione varroniana, era propenso a riconoscere negli obaerarii questi medesimi affittuari che si erano indebitati nei confronti del padrone della loro terra, che erano rimasti in arretrato nel pagamento del canone ed erano per ciò stesso costretti, anche loro malgrado, a rimanere sul fondo. Il Fustel collegava, in particolare, il passo varroniano non solo con le allusioni frequenti nelle lettere pliniane ai coloni in difficoltà nel pagamento del canone, trattenuti di fatto, a suo dire, sul fondo dal proprietario, anche alla scadenza del contratto, ma anche con un luogo columelliano (l. 3. 12), nel quale l'indignazione dell'autore per l'inaudita estensione di certe proprietà si esprime attraverso l'accenno a fondi occupati non già solo «ergastulis», ma pure «nexu eivium». È noto quali conseguenze il Fustel traesse da questo ipotizzato meccanismo mediante il quale il colonus, per i reliqua non pagati, sarebbe stato trattenuto sul fondo, nello spiegare le origini del colonato vincolato al suolo della tarda antichità". Quest'interpretazione è tornata, sia pure in modo allusivo e prudente, ma con esplicito riferimento alle posizioni di Fustel, in vari interventi del Finley". Ora, quale che possa essere il rapporto che si intende istituire tra il COZOfZUS in arretrato col pagamento del canone del l' età tardorepubblicana e imperiale e il colonus tardo antico, vincolato al suolo, non sembra che il passo di Varrone, in sé, giustifichi l'interpretazione proposta. Come 'Cfr. infra. 1 RRS, 1 R sg. 1974,93 sg. con n. 15; FINLEY 1980, 1J9 sgg.; FINLEY 1981, 196 sg., cfr. 100 sg. con p. 225, n. 33; cfr. pure KALTENSTADLER 1978,36 sg. nn. 32 e 36, 63 sgg.: 50, 55; e MAZZA 1979,482 n. 54. 'l'USTEL
(, FINI.EY
DE COULANGFS
II. OBAERARII (OBAERATI):
LA NOZIONE
DELLA DTPENDENZA IN VARRONE
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già riconosceva, contro Fustel, il Gumrnerus, e prima ancora Zumpt e Heisterbergk, nonché Heitland e, in epoca piu vicina a noi, ad esempio, Brunt, K.D. White e De Martino", non c'è dubbio che Varrone consideri gli obaerarii come una realtà concreta dell'epoca sua non più in Italia, ma in tal une regioni extraitaliche: e questo non tanto perché degli obaerarii si dice «quos nostri vocitarunt» e non «quos vocitant», quanto perché si aggiunge che «etiam nunc» sono presenti in grosso numero in Asia, Egitto e Illirico". II problema è, dunque, non quello di identificare, per l'età varroniana, presunti obaerarii italici, ma effettivi obaerarii asiani, egiziani, illirici. A quali lavoratori, in queste aree, si riferisce Varrone? o, che è lo stesso, qual è la natura e il significato del paragone che Varrone istituisce fra una categoria di lavoratori agricoli del passato in Italia e una categoria di lavoratori agricoli del presente in Asia, Egitto e Illirico? Si è sostenuto, da parte di Max Weber, che il luogo varroniano attesterebbe l'esistenza diffusa della servitù per debiti nell'Egitto e nell' Asia - «qui come conseguenza del sistema romano dell'appalto delle imposte» - oltre che nell'Illirico; altri ha voluto cercare, a giustificazione della definizione varroniana, altre testimonianze dell'insorgenza di servitù per debiti nel mondo asiano e in quello egiziano di età ellenistica e romana: cosi Lewald e Westermann hanno collegato il passo varroniano con la documentazione, offerta dai papiri, di istituti di assai incerta e discussa identificazione, mentre Briant, nel concludere la sua analisi dell' origine del rapporto di dipendenza cui erano soggetti i laoi dell' Asia Minore ellenistica, ritrovandola in quella sorta di 'indebitamente' nei confronti del re, in cui si risolve, a suo avviso, l'obbligo del pagamento del phoros, esso stesso una specie di debito perpetuo, «une dette contractée par le vaincu par rapport au vainqueur ... le signe de la soumission», sostiene che appunto evidentemente a una tale situazione si riferisce l'accenno
7 ZUMPT 1845,6 sg.; HEISTERBERGK1876,24 con n. 2; GUMMERUS 1906,62 sg.; HEITLAND 1921, 182,216; BRUNT 1971,414 n. 6; WHITE 1970,366,368 con n. 93, 516; De MARTINO 1979, 105 sgg., 269 sgg. 'GARNSEY 1980, 36, 46 n. 11, sostiene che «the existence of debt bondage in the late Republic ... is not ruled out by Varro's sentence on obaerarii»; e spiega: «can we assume that Varro was consciously excluding eontemporary Italy when he said that the obaerurii existed still in numbers in Asia. Egypt and IIlyricum? And il' so, was he right'?». Che Varrone ritenesse gli obaerarii non più esistenti nell'Italia della sua epoca è certo, per via, appunto, come mi sembra, di quell' «etiam nunc»; che la frase varroniana intesa nell'unico modo in eui la si può intendere, basti ad escludere l'esistenza del «debt-bondage(evidentemente nella forma dell'addictio), non si può naturalmente sostenere: certo è che, comunque, essa non può essere in alcun modo utilizzata come prova di una diffusa pratica di asservimento per debiti nell'Italia della tarda Repubblica. Parrebbe correttamente individuare nell'vetiam nune» (e non tanto nel «nostri vocitarunt») l'elemento decisivo per intendere il senso della dichiarazione varroniana PEPPE 1981,170sg.
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CRESCITA
E DECLINO
varroniano". Rostovzev e Frank hanno viceversa parlato genericamente, per gli obaerarii di area orientale citati da Varrone, di «serfs», senza ulteriori specificazioni, senza cioè porsi il problema se il termine in Varrone assumesse una significazione più precisa, mentre Broughton, traducendo anch' egli con «serfs» il termine varroniano, ha per un verso sostenuto che «people who pay off dues by labor seem to be meant by the term», per un altro verso ha fatto riferimento, a mo' di esemplificazione, all'obbligo di prestazione di operae imposto ai coloni dei saltus imperiali africani e asiani IO. Naturalmente la sorte di questa qualificazione di «serfs» attribuita agli obaerarii orientali non può che in un certo senso seguire quella cui è andata soggetta la visione rostovzeviana dei rapporti di dipendenza, in àmbito ellenistico, come rapporti sostanzialmente feudali Il. Finley, dal canto suo, in La servitude pour dettes, dove non è ancora influenzato dalle considerazioni di Fustel, oltre che affermare di essere «incapable de trouver un mot grec approprié à la situation hellénistique que Varron pouvait proprement avoir rendu par obaerati, qui en son temps était un mot qui sappliquait normalement à une dette monétaire (et non pas à des «redevances», quasi féodales ou autre)>>, ritiene che l'accenno varroniano dimostri come «un savoir limité peut ètre dangereux, car Varron, ayant appris qu'une certaine catégorie de travailleurs dépendants se rencontraient fréquemment dans l'Orient hellénistiquc et aussi chez les barbares du nord, s'empresse d'en conclure qu'ils étaient tous des «esclaves» pour dettes à la manière de l'ancienne Rome»; e più recentemente la Corbier, osservando come]' opposizione tra i «cadres sociaux de l'Occident, relativement plus mobiles, et ceux de l'Orient, où se perpétuent des formes de sociétés paysannes préexistant à la conquète romaine ... était suffisammcnt réelle pour ètre ressentie comme telle par Ies conternporains», ha concluso che «pour évoquer des réalités sociales dont il ne trouve pas la correspondance dans l'Ttalie de son temps - ni dans la langue latine -, Varron ... assimile une bonne part (complures) de paysans d'Egypte, d'Asie et du vaste Illyricum d'alors ... des obaerati: asservis pour dettes - ce qui suppose de sa part une vision assez imprécise de l'origine de leur Iien» 12. n fine che mi propongo, in quanto seguirà, sarà, per un verso, quello di verificare in che misura questo drastico giudizio, più che delle coà
, WEIlER 1981,232; LEWALD 1910; WESTERMANN 1929,48 sgg.; BRIANT 1972, part. 116 sgg.; cfr. pure MACMuLLEN 1974, 34 sg., 51 sg. IO ROSTOVZEV 1980,274; FRANK 1933,360; BROUGHTON 1938,692. Il Cfr. in particolare BRIANT 1972 e la lett. ivi ricordata; vd. pure, con un'impostazione più sfumata, MUSTI 1977, parto 237 sgg. 12 FINLEY 1965, 174 n. 51 (la nota risulta soppressa nella edizione in lingua inglese del saggio in FINI.EY
19X I);
CORIlIER
19RO, 93.
TI. OBAERARII (OBAERATI): LA NOZIONE DELLA DIPENDENZA IN VARRONE
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noscenze, delle capacità di intuizione socio-economica varroniane sia effettivamente inevitabile, per un altro verso, quello di appurare se un rinnovato tentativo di definizione dell'àmbito semantico di obaerarius nonché l'analisi interna del passo del de re rustica possano aprire la strada a una comprensione non soltanto della natura dei lavoratori «liberi» d'Asia, Egitto e Illirico, cui intende riferirsi Varrone, ma anche della sua personale nozione delle forme di dipendenza diverse dalla «chattelslavery», diverse, cioè, da quella forma di dipendenza, della quale, per personale e diretta esperienza, non doveva avere difficoltà a riconoscere i tratti salienti. Il primo problema che si pone è, naturalmente, quello di intendere il significato specifico del termine obaerarius, che è hapax. Già l'editio princeps veneziana di Giorgio Merula, pur in presenza di un unanime «obaerarios» della tradizione manoscritta, correggeva in «obaeratos»; e, nonostante che «obaerarios» venisse ripristinato nelle correzioni apportate dal Poliziano a quell' editio princeps in base al Marciano oggi perduto (di cui si è sempre riconosciuta l'autorevolezza), Pier Vettori ritornava, nella sua edizione lionese del 1541, alla forma «obaeratos». «Obaerarios» veniva poi accolto nell' edizione commentata di Schneider, del 1794, ma giustificandolo in base a una curiosa teoria, mutuata dalle Antiquitatum Latinarum Graecarumque enarrationes et emendationes di Pontedera (1740): che Varrone avesse inteso con il riferimento agli obaerarii, serbare la memoria dell'etimologia di operarius: «Varro scilicet obiter, ut solet, etymologiam vocabuli operarius tradere voluit, monente Pontedera. Ab ob aera fit opera, hinc operarius quasi obaerarius» 13. In sostanza, l'espressione «iique quos obaerarios nostri vocitarunt» non andava intesa come terzo elemento di una tripartizione dei liberi in quelli che «ipsi colunt», nei mercennarii, negli obaerarii, perché altrimenti Varrone avrebbe fatto seguire allo strumentale «rnercennariis» un altro strumentale: «iisque quos». L'espressione andava viceversa interpretata come un' aggiunta ill ustrativa (ed esplicativa, visto che incidentalmente, e implicitamente, riferiva l'etimologia di operarius) del «mercennariis» precedente: «e son questi (e cioè i mercennariii quelli che i nostri han definito obaerarii» 14. Si arrivò anzi a correggere «obaerarios» non già in «obaeratos» ma in «operarios»; e la correzione fu ad esempio accolta dal Rudorff, che, dalla presenza di operarii nella definizione varroniana volScript. r.r. l. 2, ed. l.G. SCHNEIDER, Lipsiae 1794,299 Segue l'opinione di Schneider il SAVIGNY 1850, II 43 sg., mentre il WILCKEN 1899, T 698 sgg., prospettando anch'egli l'equivalenza obaerarius-operarius. propone di correggere «iique quos» in «idque quos». Il
14/bid.
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CRESCITA E DECLINO
le dedurre importanti elementi per la sua ricostruzione delle origini del colonato l'. L'abbandono della teoria «etimologica», nonché della correzione di «obaerarios» in «operarios», significò, da un lato, tornare ad emendare il termine in «obaeratos», dall'altro lato indusse a considerare un'inelegante variatio quella adottata da Varrone per aggiungere il terzo elemento della sua tripartizione. Così il Keil, accogliendo «obaeratos», notava nel suo commento come il nesso che ci si aspetterebbe dovrebbe essere «aut iis quos obaerarios nostri vocitarunt» e che perciò è da giudicare che la menzione di questo terzo genus libero rum hominum «ad ea quae antecedunt... neglegentius accomodatum est» 16. A far propendere decisamente (e, mi pare, ormai definitivamente) per l' «obaerarios» della tradizione manoscritta è stato un intervento del Goetz 17. Egli ha ritenuto difendibile «obaerarios», pur convinto che il termine alluda sostanzialmente alla medesima realtà di obaeratus, perché lo ha ritrovato nel glossario Abavus maggiore, dove appunto si legge: «obaerarius ob aes obligatus» (Corp. Gloss. V 630, 15). A questa glossa ne segue un'altra (che il compilatore di Abavus ha tratto dal glossario ab absens): «obaeratus ut plus dicat quam quod habet», inteso dal Goetz «qui plus debet quam quod habet», ciò che fa pensare che il compilatore del glossario abbia voluto esplicitamente mettere in rilievo la diversa sfumatura di significato dei due termini. Non solo: fra le glosse greco-latine dello pseudo-Filosseno ce n'è una, per aerarius, che è illuminante: «aerarius unoXPEroç» (Corp. Gloss. II 12, 19). Giacché è immetodico pensare che obaerarius sia «Grundforrn», si deve ritenere che aerarius, in questo specifico senso di unoXPEro<;, e obaerarius stiano fra di loro come, ad esempio, nubilus e obnubilus e che obaerarius sia la forma che ha prevalso. Non che questo possa mettere in discussione l' «obaeratus» del passo del de lingua Latina; piuttosto è da pensare, ad avviso del Goetz, che obaeratus, ritrovato da Varrone nelle sue fonti giuridiche, rappresenti appunto la «juristische Form», mentre il «bauerliche Latein» avrebbe conosciuto anche la forma obaerarius. Si vedrà in seguito se la spiegazione che della duplicità della forma obaerarius-obaeratus fornisce il Goetz sia l'unica possibile 18; per intanto, quel che va messo in rilievo è che non c'è dubbio che l' obaerarius del de re rustica alluda alla medesima realtà dell' obaeratus del de lingua Latina: a una realtà, è bene notare, tutta romana, quella dei rapporti tra creditori e debitori com' essi sono presentati dalla tradizio1828, 179 sg. 1891, 56; un simile giudizio compare ancora nelle brevi note di commento dall' Heurgon. nella sua edizione (Les Belles Lettres. 1978, 139). 17 GOETZ 1912-13,298 sg. "RUOORFF Il,
KEIL
IK
lnfra, R7.
apposte al passo
II. OBAERARII
(OBAERAn):
LA NOZIONE
DELLA DIPENDENZA
IN VARRONE
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ne relativamente al quinto e quarto secolo a.C. Gioverà allora esaminare se le occorrenze del termine obaeratus possano fornire qualche indicazione ulteriore per intendere la definizione varroniana. Se si eccettuano quei casi in cui obaeratus significa semplicemente «indebitato», «carico di debiti» 19, nonché quegli altri nei quali è probabile che il riferimento ai debiti dell' obaeratus implichi pure una sua condizione di dipendenza, di «servitù per debiti»?", sono le occorrenze del termine nel bellum Gallicum e negli Anna/es di Tacito, con riferimento alla realtà sociale delle popolazioni celtiche.", quelle che dànno, a mio avviso, occasione a considerazioni utili anche a intendere il discorso varroniano. E la ragione è, mi pare, fondamentalmente il fatto che Cesare, come Varrone, sta tentando di tradurre in termini familiari a un pubblico romano una realtà sociale e una realtà economica che sono a questo pubblico del tutto estranee 22. Ciò naturalmente significa non solo che il quadro della società celtica che Cesare ricostruisce con terminologia romana non può che rappresentare, in certa misura, la personale interpretazione che ne dà lui stesso, il che è ovvio, ma che tali termini gli consentono di prospettare, di questa realtà sociale, una descrizione solo sommaria: ed è noto a quali discussioni ha dato luogo, a partire dalla polemica tra d' Arbois de Joubainville e Fustel de Coulanges, ogni tentativo di configurare con un minimo di precisione, a partire dal testo cesariano, i caratteri essenziali della struttura socio-economica
lO Seno de ben. 6.41. 2; Suet. Div.Lul. 27. 2 (cfr. Gloss. Suet.: «alienum es dcbcntium»: IHM 1901, 358); Suet. Div. lui. 46; Tac. Ann, 3. 60. I; 6. 17. 3. 20 Cic. de rep. 2. 38; Liv. 6. 27. 6; 26. 40. 17; Plin. N.H. 34. I; Ambr. in l'sa lm. 118 serm. 14.41. l e epist. 41. 7. 21 Caes. B.G. 1. 4. 2; Tac. Ann. 3. 42. 2. Il LEWAI.O 1910, IO n. 3, seguito ora dal PEPPE 1981, 172 sgg., ritiene che sia necessario spiegare perché Varrone non menzioni la Gallia fra le regioni caratterizzate da una numerosa presenza di obaerarii (o obaerativ; a me parc che non sia necessario ricorrere a ipotesi complesse: Varrone sta evidentemente procedendo a un'esemplificazione e dunque non ha bisogno di essere esaustivo nella sua elencazione. 22 Di un problema di interprctatio Romana delle forme della dipendenza celtica parla, ad es., M. CLAVELLÉVÈQUE 1979,305 sgg., e 1980,96 sg. Il GAHHA 1983 ha attirato l'attenzione sulla probabile persistenza, pur nelle mutate condizioni della diffusa penetrazione rornano-italica (coloniaria e non), dei rapporti economici e sociali esistenti nelle regioni della Gallia Cisalpina sotto controllo celtico (c si vedano, già in questa direzione, le osservazioni di HAYWOOD1933 sgg.). Altre regioni italiche (e per esempio l'Etruria) hanno potuto pur esse conoscere persistenze, ancora in avanzata età repuhhlicana, di quelli che definiremmo "modi residui" (anche se pur in questo caso, la dettagliata definizione della complessa "sociologia del mondo etrusco", per riprendere il titolo di un saggio famoso di S. MAZZARINO 1957, resta discussa; si veda TOREI.I.I 1981,76 sgg. 257 sgg.). Non c'è dubbio, peraltro, che così l'affermarsi del cosiddetto "modo di produzione schiavistico" in talune regioni dell'Italia, come pure la probabile, anche se forse solo progressiva, diffusione delle forme del diritto romano che s'accompagna alla diffusione della civitas. avranno teso a far presto scomparire le situazioni di dipendenza caratteristiche di tali modi residui. In queste condizioni, non sembra illegittimo ritenere che appunto le forme di organizzazione sociale ed economica del mondo celtico dovessero apparire, a un osservatore romano, qualche cosa di sostanzialmente estraneo alla sua più diretta esperienza e alle sue strutture mentali.
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gallica e in particolare le varie categorie di «dipendenti» (e adopero qui volutamente un termine generico): servi, ambacti, clientes, obaerati=. Quel che viene normalmente riconosciuto per il termine cliens, vale a dire che esso viene adoperato indistintamente per qualunque situazione di dipendenza che si voglia tradurre in termini romani 24, vale cioè, a mio avviso, anche per il termine obaeratus: è troppo evidente, in sostanza, che l' obaeratus della società gallica coeva a Cesare non può che alla lontana assomigliare al nexus romano, e solo per talune sue caratteristiche generalissime. In Cesare gli obaerati compaiono una volta associati ai clientes. Orgetorige, chiamato a comparire, in catene, per scolparsi dei suoi accordi segreti con Castico e Dumnorige, raduna tutta la suafamilia, nonche i suoi clientes ed obaerati e nel giorno stabilito li conduce al luogo del processo, per riuscire a sottrarsi, attraverso questa forza di dissuasione, al giudizio: «Die constituta causae dictionis Orgetorix ad iudicium omnem suam familiam, ad hominum milia decem, undique coegit et omnes clientes obaeratosque suos, quorum magnum numerum habebat, eodem conduxit: per eos ne causam diceret se eripuits ". La medesima associazione compare anche in Tacito, a indicare il vulgus che ha preso le armi a seguito di Florus: «aliud vulgus obaeratorum aut clientium arma cepit» 26. E noto, peraltro, come nel VI libro del bellum Gallicum, venendo a descrivere la nobiltà celtica distinta nei due gruppi dei druidi e degli equites, Cesare spenda qualche parola per caratterizzare l'insieme della plebs ad essi sottoposta: Caes. B.G. 6. I3.In omni Gallia eorum hominum, qui aliquo sint numero atque honore, sunt duo; nam plebes paene servorum habetur loco, quae nihil audet per se, nulli adhibetur concilio. Plerique, cum aut aere alieno aut magnitudine tributorum aut iniuria potentiorum premuntur, sese in servitutem dicant nobilibus: in hos eadem omnia sunt iura quae dominis in servos ".
23 Il tentativo più sofisticato e articolato di intendere. a partire da un' attenta analisi terminologica (non sempre, peraltro, interamente convincente) dei testi antichi che ad essa si riferiscono, l'evoluzione delle forme della dipendenza celtica e di quella che viene definita «ambactitude» in questo quadro, è il tentativo di DAUBlGNEY 1979; vd. pure LEWUILLON 1975, parto 536 sgg.; WHIGHTMAN 1975; WHIGHTMAN 1978; CLAVEL LÉVÉQUE 1979. "CosÌ ad es. FINLEY 1981, 181; vd. pure per lo specifico caso cesari ano WlIIGHTMAN 1975,589 sg. 25 B.C. 1.4. Quale sia la valenza specifica difamilia e in che senso lafami/ia si distingua da clientes e obaerati è problema a lungo dibattuto: si vd, la discussione del luogo cesariano da parte del DAUBIGNEY 1979, 157 sg., 171 sg., secondo il quale si tratterebbe, appunto, degli ambacti, come strato sociale di dipendenti, distinto da clientes e obaerati. 2ò Ann. 3.42. 2; per il valore di «aut» cfr. il commentario di Koestermann ad l. e ad I. 55. l; 2. 30. 2. 27 La connessione di questo luogo cesariano con la menzione degli obaerati a 1.4 corre, ovviamente, tutta la storia degli studi ed è generalmente ripetuta dai più recenti commentatori.
II. OBAERARII (OBAERATI):
LA NOZIONE
DELLA DIPENDENZA
IN VARRONE
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La plebes gallica si caratterizza, agli occhi di Cesare, come interamente formata di dipendenti e come quella, anzi, che «paene servorum habetur loco»: i più entrano (volontariamente?") in rapporto di dipendenza (esese in servitutem dicant nobilibus»), quando sono oppressi o dall' aes alienum, o dalla magnitudo tributorum o dalla iniuria potentiorum. Dal confronto tra questo luogo e l'altro in cui sono menzionati gli obaerati si è dedotto che gli ohaerati sarebbero appunto quelli che sono entrati, a causa dei debiti, in un rapporto di dipendenza nei confronti dei loro creditori 29. Questa conclusione non mi sembra in tutto giustificata dal solo testo cesariano: e non tanto perché manca, in quest'ultimo passo, il riferimento esplicito agli obaerati come a quelli che son divenuti dipendenti in quanto oppressi dai debiti, quanto perché il luogo cesari ano in realtà non dice che i nobiles in servitù dei quali coloro che sono oppressi dai debiti si pongono, sono i loro stessi creditori. Ma anche ammettendo come l'ipotesi più plausibile che il passo debba essere inteso come comunemente lo si intende, resta il fatto che, agli occhi di Cesare, al di là della diversità di occasioni che lo determinano, il rapporto di dipendenza è sempre il medesimo. Se pure gli obaerati si distinguono, agli occhi di Cesare, dai clientes in quanto è stata la loro situazione di indebitamento a farli porre «in servitutern» dei nobili, dai clientes non si distinguono, agli occhi di Cesare, in ciò che concerne la loro attuale situazione di dipendenza. La coppia «clientes obaeratosque» ha in sostanza, presumibilmente, un valore endiadico", Vien fatto di pensare, allora, all'assunto 2R Cfr. LEWALU 1910, l. cit., sulla scia di MITTEIS 1891,359, anche se, naturalmente, non potrà accogliersi né l'idea che il passo attesti una «Selbstverkauf in die Sklaverei. né la conclusione che, per quest'ultimo motivo, la condizione degli obaerati di cui parla Cesare non possa essere assimilabile a quella degli obaerarii extraitalici del luogo varroniano (per il Lewald «Schuldknechtschaft analog der der nexi»): vd. PEPPE 1981, 172 sg. La natura in qualche modo contrattuale del rapporlo che si instaura tra equites e appartenenti alla plebes viene in generale implicitamente riconosciuta, mentre il DAUBIGNEY 1979, 172, ha sostenuto che «dica re peut avoir son sens solennel, quasi religieux, de "se vouer", "se consacrer?», sicché «on rctrouvcrait alors la dévotion au chef caractéristiquc dc l'aliénation dc l'ambacte ... Sese in servitutem dicant exprime done avant tout l'aliénation de celui que se proclame lié par un voeu, un serment qui I'introduit dans une dependance presque volontairc». 29 Il DAUBIGNEY 1979, 171 sg., osserva, peraltro: «On peut. .. se demander si, au l'' siècle avant notre ère, la dette n' était pas devenue une des antichambres de la dependance, si les obaerati incapables de rembourser leurs créanciers (mais ceux-ci seulement) ne devenaient pas leurs ambactes»: la considerazione del Daubigney si muove naturalmente nell'ambito della sua complessiva ricostruzione di un' «ambactitude», all'epoca cesariana, come ormai "forme pré-esclavagiste de dépendance», come sbocco in qualche misura unitario di originari rapporti di natura diversa e differenziata. 10 La WHIGHTMAN 1975,590 sg., esprime il dubbio che servi, clientes, obaerati, ambactl siano, per Cesare, denominazioni diverse di un'unica realtà: «The word [clientes] is frequently linked with others <servi et clientes, clientes obaeratosque, ambactos clientesque - in such a way to leave some doubt whether these classes are supposed to be identified with or distinguished from one another»; analogamente in WHIGHTMAN 1978, 103, la studiosa considera possibile che il riferimento cesariano agli obaerati sia il tentativo da parte di un romano di descrivere il più basso fra i due livelli della clientela celtica (che la Whightman ipotizza, sulla scia di una lunga tradizione di studi e sulla base del confronto con le altre
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fondamentale del celebre saggio che il Finley ha dedicato alla servitù per debiti nel mondo antico: «La "dette" peut aussi avoir été ménagée pour créer une situation de servitude, de meme qu'entre égaux son but peut avoir été d'entretenir des liens de solidarité ... la force de travail et les liens de solidarité ont été des objectifs plus anciens, historiquement, que le profit sous forme d'intérèt.. les dettes servaient au créancier plutòt à obtenir davantage de main-d'oeuvre dépendante qu'à s'enrichir par intérèt» 31; vien fatto di pensare alla ricostruzione che dell' origine della servitù per debiti nella stessa Roma ha proposto il Gilnther: una servitù per debiti la cui funzione essenziale è appunto quella di determinare un'offerta di lavoro dipendente.". Ora, quali sono le caratteristiche essenziali, per Varrone, della romana servitù per debiti, della condizione del nexus e cioè dell' obaeratus? Non si vuole entrare, qui, nel merito della complessa questione della configurazione strettamente giuridica del nexum, del rapporto tra nexum ed esecuzione personale, della distinzione tra nexi e addicti, del preciso àmbito di validità e delle puntuali conseguenze che ebbe la lex Poetelia Papiria'", Si vuol solo delineare l'idea che del nexum aveva lo stesso Varrone. Ebbene: dal passo del de lingua Latina, pur corrotto e di difficile interpretazione (valga per tutti il caso dell'inciso «dum solveret», che si può giustificare sia ipotizzando che il nexus pagasse il debito col suo lavoro, sia supponendo che la condizione di asservito fosse praticamente definitiva, a meno che il nexus stesso non fosse stato in grado di pagare società celtiche). Il DAUBIGNEY 1978, l. cit., è propenso a ritenere che, mentre Cesare distingue ambacti, clientes e obaerati, «la formulation développée par Tacite peut laisser penser qu'il a confondu, sous la catégorie d' obaerati, les ambactes et les débiteurs». Per la verità, anche la formulazione cesariana parrebbe suggerire che così il termine di clientes come quello di obaerati non siano altro che approssimazioni terminologiche per la definizione di un' unitaria categoria sociale, là dove il termine di riferimento è costituito - né potrebbe essere altrimenti - dalla società romana nel suo sviluppo storico. Osta all'idea che Cesare voglia individuare, pur adoperando termini diversi (c in un caso un termine celtico), un gruppo sociale sostanzialmente omogeneo (quali che poi siano state, nella realtà concreta, le differenziazioni al suo interno in termini di statuto giuridico e sociale) il fatto che, nel luogo citato del primo libro, si distingua tra lafumiliu di Orgetorige, da una parte, e i suoi clienies e obaerati, dall'altra; ma è noto (c si vedano, tra i più recenti, i contributi già citati della Clavcl Lévèque e di Daubigney) come proprio sul senso difamilia in questo passo cesariano si siano scontrate le opinioni degli studiosi: né mi sembra accertato che la scelta tcrminologica ccsariana dehha essere giustificata, come pure intelligentemente la vuoI giustificare il DAlJBIGNEY 1979, 157, considerandola indicativa anch'essa della «déformatiou historique chez César(come quella che si rivelerebbe attraverso I'inespressa equiparazione degli ambacti ai servi romani). 31 FINT.F.Y 1965, 167. 12 GÙNTHER 1959, 231 sgg. J3 La letteratura su questi temi è sterminata: mi basti rimandare all'attenta analisi contenuta nel volume di PEPPE 1981. Naturalmente non interessa in questa sede risolvere il problema se nexus e obaeratus coprissero effettivamente, per la coscienza dei parlanti dell'epoca varroniana, il medesimo campo semantico: anche chi neghi l'equivalenza di nexus e obaeratus (termine certo dalle significazioni meno specifiche di nexusi, come il Peppe, non potrà non riconoscere, in base al passo del de IL, chiaro per questo aspetto, come Varrone consideri le due parole come sinonimi.
II. OBAERARII
(OBAERATI):
LA NOZIONE
DELLA DIPENDENZA
IN VARRONE
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materialmente il suo debito e non, dunque, mediante le sue operae+y, da questo passo mi pare che comunque si deduca che gli elementi che, agli occhi di Varrone, definiscono il nexus (e perciò anche l' obaeratus) sono: a) il fatto che si tratti, dal punto di vista della condizione personale, di un liber; b) il fatto che sia obbligato a prestare operae; c) il fatto che le operae le presti «in servitute». Vale a dire che Varrone, descrivendo un'arcaica condizione romana la prospetta in termini pressoché analoghi a quelli che Cesare adotta nel rappresentare la condizione della plebes gallica, che è considerata «paene servorum loco», che si dà «in servitutem» dei nobili, nei confronti della quale «eadem omnia sunt iura quae dominis in servos», Se, una volta posta in essere, la servitù per debiti, agli occhi di Cesare non si distingue necessariamente dagli altri tipi di rapporti di dipendenza che hanno un'origine diversa, è possibile che, agli occhi di Varrone, fossero proprio le caratteristiche comuni che poteva presentare la servitù per debiti romana con altri tipi di dipendenza a suggerire l'opportunità, o la liceità, di un paragone fra gli uni e l'altra? Non si vuol dire che Varrone non abbia consapevolezza della peculiare caratteristica del nexus, dell'obaeratus e dunque dell'obaerarius; ma che, convogliando ognuna di queste parole la nozione di servitù, oltre che quella di debito, ed essendo d'altra parte, una sola la situazione a Roma che può, sia pure alla lontana, apparentarsi a quella che Varrone conosce diffusa in oriente 35, l'antiquario non trova di meglio, per definire la seconda, che ricorrere alla prima. Varrone, diremmo, vuol rappresentare meglio che può la forza lavoro coatta caratteristica di quello che noi chiamiamo 'modo di produzione asiatico' (o 'tributario' 36): ma quello che noi chiamiamo 'modo di produzione asiatico' è al di là dell'orizzonte cittadino del romano, al di là anche delle possibilità terminologiche offerte dalla lingua latina: chi non voglia ricorrere a una perifrasi deve accontentarsi di una definizione approssimata.". In altri termini, l'accenno agli obaerarii non è, come qualcuno ha voluto vederlo, la spia del gusto erudito dell' antiquario Var34 Si veda PEPPE 198 I. 164 sgg. " O. meglio. l'unica situazione non solo delle cui caratteristiche fondamentali Varrone poteva pre· sumibilmenìe avere una memoria storica precisa, ma anche quella che, pure in Roma, può aver rappresentato quel fenomeno di massa che storicamente precede, a offrire una riserva di lavoro dipendente, la «chattel-slavery». 3(, Secondo la scelta tenninologica di P. Briant: cfr. BRIANT 1982 . .lO Non si vuoi certo con questo sostenere che Varrone abbia «scoperto» il modo di produzione asiatico, ma che abbia avuto una chiara consapevolezza di quanto fosse diversa da quella della villa schiavistica o della piccola unità fondiaria in Italia l'organizzazione dell'attività agricola nell'àmbito di quello che il MUSTI 1981, 245, ha definito il «modo di produzione dispotico-servile-vicanico» delle regioni orientali. Che la lingua latina non offrisse a Varrone un termine adeguato a individuare e a definire, con un minimo di precisione, le varie possibili condizioni, esterne all'esperienza romana ma a lui note, «fra
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rone: è significativo che il termine sia introdotto senza essere spiegato, come, dunque, termine di cui il lettore non poteva non comprendere le valenze ", A Varrone non interessava chiarire, in questo contesto, chi fossero gli obaerarii della Roma arcaica, ciò che il lettore doveva sapere bene, ma piuttosto dire che qualcosa di simile a quelli erano i lavoratori, pur di condizione libera, d'Asia, Egitto e Illirico. Qualcosa di simile e non la stessa cosa. Chi non vuol pensare che il parallelo tra obaerarii italici e, diciamo così, obaerarii asiani, egiziani, illirici sia un tentativo di definizione approssimata, e unitaria, delle varie forme di dipendenza orientali, si troverà di fronte al dilemma o di ritenere, come il Finley, che Varrone, ignorante di cose orientali, reputasse i dipendenti asiani, egiziani, illirici tutti servi per debiti; ovvero di pensare che Varrone, molto più informato di noi, conoscesse, come un fatto assai diffuso e peculiare d'Asia, Egitto e lllirico, una servitù per debiti che a noi riesce difficile considerare come un fatto caratteristicamente comune di quelle regioni. Che Varrone fosse poco informato, però, non si può dire: il riferimento all' Asia e all'Illirico parrebbe essere il riflesso di una personale esperienza. Lo Skydsgaard ha messo in rilievo la funzione e il significato dell' «esemplificazione», nel trattato varroniano, un' esemplificazione che si sostanzia in genere delle conoscenze autoptiche dell' autore: gli esempi sono tratti generalmente da Reate, dalla Spagna, dall' Asia Minore ". Quanto all'Illirico, che egli vi sia stato lo fa dire a Cossinio nel II libro delle res rusticae, laddove vien riferito della forza quasi maschile delle donne illiriche, nonché dei loro liberi costumi sessuali: pare che abbia preso parte alla campagna di Cosconio nel 78-774°. In queste condizioni, non ritengo che l'osservazione varroniana sui lavoratori d'Asia Egitto e Illirico derivi dalle sue fonti ellenistiche, come pare sostenere il Rostovzev": essa ha viceversa il sapore di una considerazione personale, basata su personali esperienze. Che Varrone, al contrario, conoscesse in dettaglio situazioni che dovevano essere tutto sommato marginali, a giudicare dalla documentazione superstite, quale ad esempio quella degli unoxpEu crwflU'tU di P. Col. inv. 48042 o degli à:ywytflOt delle cr'Uyxmpi]ans o della libertà e la schiavitù,' non è naturalmente casuale: anche la «servitù per debiti» è, per Varrone, né può essere altrimenti, dipendenza di un libero .lS Naturalmente il lettore appartenente a quella «fairly sophisticatcd and relatively leisured class of landowncrs» che costituiva il suo pubblico: questa definizione in WHITE 1973, 492 . .l9 SKYDSGAARD 1968, cap. Hl. 40 R.R. 2. 10.7-9; cfr. ClCHORIUS 1922, 191 sgg.; BROUGHTON 1952, Il 86 sg., 92. 11 ROSTOVZEV 1980, l. cito 42 WESTERMANN 1929, l. cit.; cfr. pure WESTERMANN 1938,9 sgg.; va peraltro osservato come l'interpretazione di P. Col. inv. 480 come quello che attesta una situazione di servitù per debiti (nonché di altri documenti che pure sono stati intesi in questo senso) viene messa in discussione: vd. in particolare MODRZEJEWSKI 1962, 75 sgg.
II. OBAERARll (OBAERATI): LA NOZIONE
DELLA DIPENDENZA
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la stessa napajlovTJ in Egitto+', e soprattutto che a tali situazioni potesse riferirsi sostenendo che esse riguardavano «complures» in quelle regioni, mi sembra in generale poco credibile.". Ha ragione Finley, hanno ragione Rostovzev, Broughton, Frank, ha ragione Briant: quelli cui Varrone vuole alludere sono la gran massa della forza lavoro in quelle aree: sono i basilikoi georgoi egiziani 45, i laoi asiani, sono quei dipendenti del tipo dei trecentomila prospelatai citati da Teopompo come «ilotizzati» dagli Ardiaioi dell'Illirico ". Sono essi che sono paragonati da Varrone agli obaerarii romani, ma lo sono, evidentemente, entro quei ristretti limiti in cui lo possono essere: per il fatto di essere, dal punto di vista della condizione giuridica personale, liberi, o cioè non servi, non «chattel-slaves»; per il fatto di prestare le operae, il che vuol dire per il fatto di lavorare non per sé o per una retribuzione, ma per altri e per un obbligo; per il fatto di essere, pur liberi, «in servitute». Sono queste le caratteristiche per le quali Varrone sente la necessità di far riferimento agli obaerarii della Roma arcaica, per definire questi dipendenti del suo tempo. Sono queste le caratteristiche per le quali Varrone avverte l'esigenza di inserire la loro menzione nella sua rassegna dei lavoratori agricoli, una rassegna, ripetiamo, che vuol essere esaustiva. È opportuno, a questo punto, verificare se l'analisi interna della classificazione varroniana consente una simile ipotesi interpretativa. Varrone sta facendo una disamina delle res che servono per la coltivazione del fondo. Due sono i possibili criteri di distinzione: uno è quello che differenzia gli
LEWALD 1910. su cui PEPPE 1981, 174 sg. (c lett. ivi cit.). È. appunto, la ipotizzabile sostanziale m~rginalità di queste situazioni nei vari milieux richiamati da Varrone ciò che invita non solo a «rigettare l'ipotesi che egli pensi ad uno specifico istituto del mondo ellenistico», ma anche quella che «Varrone si riferisse ... semplicemente al risultato unitariamente considerato, al quale differenti istituti portavano. cioè la prestazione delle opere, nei campi, da parte del debitore», come sostiene il PEPPE 19R l, l. cit.; mancherebbe, in questa prospettiva, un .effettiva giustificazione del «complures». Proprio il fatto che l'accentuazione vien posta, dato il contesto. solo sulla prestazione delle operae, inviterebbe invece a supporre che la prospettiva cornparativistica varroniana, come la definisce il Peppe, individuasse certe caratteristiche comuni che, proprio sul piano della prestazione delle operae, potevano apparentare nexi, obaerati, obaerarii ai vari dipendenti di area orientale. 45 Anche chi metta in rilievo, come il MODRZEJEWSKI 1979, 173 sgg., la natura contrattuale del rapporto che lega il j3acrtÀtKòc:;'YEOlpyOC:; all'amministrazione regia (<
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homines dagli adminicula hominum; l'altro è quello che distingue tre genera di instrumentum: il vocale, cui appartengono non solo i servi, citati a mo' di esemplificazione, ma ovviamente tutti coloro che materialmente coltivano il fondo, il semivocale e il mutum. Il seguito del passo elenca tutti i possibili coltivatori di un fondo, che alla lor volta si distinguono in schiavi o in liberi. Un'ulteriore distinzione è operata da Varrone fra i liberi: e normalmente si dice, come si è visto, che si tratta di una tripartizione. A escludere, però, che Varrone distingua, sic et simpliciter. tra i pauperculi, i mercennarii e gli obaerarii è proprio un fatto che, come s'è detto:", ha rappresentato una difficoltà per i commentatori varroniani: l'ultimo elemento di questa tripartizione rion è collegato, come potrebbe pensarsi, agli altri due da un aut più lo strumentale (<
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Cfr. supra, 75 sg.
Il. OBAERARII (OBAERATl):
LA NOZIONE
DELLA DIPENDENZA
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Quel che mi par certo, in conclusione, è che Varrone ha cura di non mettere sullo stesso piano mercennarii e obaerarii, mentre sullo stesso piano degli obaerarii sono posti, verosimilmente, sia coloro che «ipsi colunt», sia coloro che «colunt mercennariis». Ma chi sono quelli che «ipsi colunt»? Si è detto che, generalmente, conforme a quella che pare la più piana interpretazione della frase varroniana, essi sono stati identificati nei piccoli proprietarii coltivatori che lavorano il proprio podere con l'aiuto della propria famiglia". Gummerus, chiedendosi perché mai Varrone non nomini espressamente in questo passo i coloni, i piccoli affittuari, ne ha riconosciuto la ragione nel fatto che gli affittuari, grandi o piccoli, non potevano essere considerati da Varrone lavoratori del fondo e quindi non potevano costituire per lui oggetto d'interesse: l'unico legame che essi avevano con la proprietà era rappresentato dal pagamento del canone, sicché «fur die Gutswirtschaft im engeren Sinne waren die Pachter von keiner Bedeutung». Gummerus ha allora concluso che Varrone doveva aver ricompreso nella categoria dei pauperculi, che «ipsi colunt», non solo i piccoli proprietari, ma anche gli affittuari:". Mihaescu e più recentemente Mireille Corbier hanno sostenuto, dal canto loro, che i pauperculi sarebbero solo i piccoli affittuari 50. «La rassegna dei lavoratori agricoli», afferma la Corbier, «si applica ... alla manodopera che coltiva il fondo, e non all'insieme della popolazione rurale. Verità ovvia quella di Varrone, se gli omnes agri ricoprono la totalità delle terre come si ritiene comunemente; il passo di Varrone diventa invece ricco di significato se gli omnes agri vengono identificati nel fundus di cui l'autore parla al paragrafo precedente». Si deve perciò escludere che i liberi che «ipsi colunt» siano identificabili nei piccoli proprietari coltivatori; «essi sono invece per definizione coloni». Come si vede, alla base del ragionamento della Corbier, c'è la stessa osservazione che faceva il Gummerus: l'interesse di Varrone non è rivolto astrattamente all'intero complesso dei lavoratori agricoli, ma a quelli che concretamente possono essere adoperati da un proprietario romano, il destinatario del trattato. Una simile interpretazione del significato della rassegna varroniana urta, però, contro notevoli difficoltà: anzitutto, l'espressione adoperata da Varrone per introdurre il suo discorso, «omnes agri coluntur», solo forzatamente può considerarsi riferita unicamente a quegli agri ai quali potrebbe essere
" Interpretazione tradizionale, essa viene riproposta da BROCKMEYER 1968, 125, e WHITE 1970. 335 sg. 49 GUMMERUS 1906,64 sg.; cfr. GARNSEY 1980, 36. 51' MIHAESCU 1953,528 (non vidi), cit. da KALTENSTADLER 1978,65 n. 33a; CORBIER 1981, 1428 S.; per DOHR 1965, 34, non vi è modo di decidere se i pauperculi coltivino terra propria o affittata; vd. pure MARTIN 1974, 268.
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interessato l'eventuale destinatario del trattato; l'espressione sembra, viceversa, conformemente allo schema generale della «teoria dell' agricoltura» esposta da Scrofa, introdurre una sistematica e «definitoria» analisi dell'intera materia; in secondo luogo, la menzione degli obaerarii, una realtà non più presente in Italia, alla quale va assomigliata una forza lavoro, che, almeno nel caso dell'Egitto>', non può interessare il proprietario romano, secondo quest'interpretazione non si giustificherebbe; infine, la stessa espressione adoperata a indicare la categoria di cui fanno parte i pauperculi, «cum ipsi colunt», sarebbe un ben strano e ambiguo modo di riferirsi ai soli piccoli affittuarii. L'interpretazione del Gummerus, peraltro, così com' è prospettata, non può accogliersi nemmeno: essa è contraddittoria, in quanto, per un verso, ipotizzando che Varrone menzioni i piccoli proprietari, considera la classificazione varroniana come riferita all'intero complesso dei lavoratori agricoli; per un altro verso, spiega la mancata menzione dei piccoli affittuari come gruppo a sé con il fatto che essi, in quanto tali, non interesserebbero l'eventuale destinatario del trattato. E tuttavia ritengo che il Gummerus ha ragione a sostenere che coloro che «ipsi colunt» sono, per Varrone, sia i proprietari che gli affittuarii. La classificazione varroniana intende rappresentare, non c'è dubbio, la totalità dei lavoratori agricoli: ma intende rappresentarla, appunto, in quanto, diremmo, totalità di lavoratori 52. Vale a dire che suo criterio distintivo non è il rapporto giuridico formale che lega la terra a chi la coltiva, il che avrebbe comportato in primis una differenziazione fra chi coltiva la terra in quanto proprietario e chi la coltiva, ad esempio, in quanto affittuario, ma il tipo di rapporto, concreto, del coltivatore col fondo e dunque il tipo di lavoro in quanto tale, caratterizzato dalle condizioni in cui si svolge e dalle finalità cui è destinato. Intesa in questo modo, la ripartizione varroniana dei lavoratori individua anzitutto quelli che «ipsi colunt», tra i quali saranno proprietari e affittuari, poi individua coloro che coltivano valendosi di mercennarii, tra i quali potranno ancora una volta esservi tanto i proprietari che gli affittuari; poi individua come gruppo a sé gli obaerarii. In che cosa si distinguono, questi ultimi, dalle due categorie precedenti? Si può dire che ciò che caratterizza le due prime categorie individuate da Varrone è il fatto che esse riguardano coltivatori che hanno una gestione autonoma del fondo, volta a un'acquisizione diretta del reddito che ne deriva: se ne dovrà concludere che gli obaerarii si "Se non. anche, nel caso dell'lllirico: cfr. PEPPE 1981, 174. "Eviterei, per evitare un anacronismo, di attribuire a Varrone l'individuazione di un concetto come quello di "forza lavoro", come fa, ad esempio, implicitamente, PERL 1977,424, o del lavoro come uno dei "fattori" della produzione, come esplicitamente fa il KALTENSTADI.ER 1978, 13, con 63 n. 30.
IL OBAERARII
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distinguono da queste due prime categorie perché ciò che ad essi manca è l'autonomia di gestione, perché essi non lavorano per se stessi, ma a beneficio di altri? Concludo con due osservazioni. La prima è relativa alla presunta equivalenza semantica di obaerarius e di obaeratus. Che l'attenzione di Varrone sia volta alla condizione di dipendenza nella quale vengono conguagliati gli antichi obaerarii della realtà italica (dipendenti obbligati per debiti) con gli attuali lavoratori coatti dell' Asia, dell'Egitto, dell'111irico, potrebbe avere determinato la scelta di un termine come obaerarius, al posto di obaeratus, che, participio di significazione passiva, reca, esso sì, dunque, la nozione del gravame che ha determinato la condizione di dipendenza. In effetti, il suffisso -ario, che non ha, nella sua vasta presenza nella lingua latina, una valenza semantica definibile in modo specifico, e piuttosto indica, su un piano generale, una certa pertinenza", ha determinato, nella stessa area lessicale cui appartengono obaeratus e obaerarius (da aes), il termine aerarius, che, fra l'altro, indica, secondo l'interpretazione del Fraccaro, oggi generalmente accolta 54, quel civis, notato dal censore, per esempio, come dice Gellio, per non avere adeguatamente coltivato il suo campo55, che viene a essere punito col fargli appunto, pagare un più elevato tributo: aerariumfacere significa appunto trasferire un cittadino contribuente in una categoria particolare, quella di coloro che devono pagare di più. Non sembra perciò senza significato che, nel nostro caso, alla parola che evoca la passività dell'indebitato, Varrone abbia preferito la parola che probabilmente si riferisce a una sia pur obbligata attività: all' attività, appunto, di un lavoratore che è, comunque, in condizione di dipendenza 56. La seconda osservazione riguarda, più in generale, il senso dell'intera rassegna varroniana. Si è detto come il significato generale della classificazione dei lavoratori agricoli, proposta da Varrone, sia stato oggetto di discussione soprattutto in rapporto al problema se tale classificazione debba intendersi motivata da un generico e astratto interesse definitorio nei confronti della totalità delle forme del lavoro agricolo o non piuttosto dallo specifico interesse rivolto a quella forza lavoro che in concreto può Cfr. in particolare NICHOLS 1929. 1933 = FRACCARO 1957, 143-70; cfr. NICOLET 19l10, 10ll sg. 55 GelI. 4. 12. 1. 56 Non occorre ribadire come, nel cercar di intendere la differente sfumatura di significato di obaerarius, rispetto al più comune obaeratus, ci muoviamo nel campo delle mere ipotesi. Anche nel campo delle mere ipotesi si muovono i tentativi di intendere la differente sfumatura di significato di obaerarius rispetto a nexus: così GONTHER 1959, 241, ha sostenuto che «Obaerarius bezeichnet die finanzi elle, nexus die rechtliche Seite der gleichen Erscheinung». 5.1
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essere adoperata dal proprietario destinatario del trattato. Si è concluso che l'analisi interna del luogo varroniano non pare consentire se non la prima delle due interpretazioni. E tuttavia alcuni elementi del quadro offerto da Varrone sembrano prospettare una difficoltà, che non può risolversi se non prestando attenzione ai fondamenti ideologici da cui muove la classificazione varroniana. Notava il Brugnoli come nella nozione di instrumentum vocale non c'è, non ci può essere, l'idea dello sfruttamento: egli riferiva, come comunemente si fa, la definizione al solo servus", Notava ancora il Brugnoli come lo statuto del libero lavoro salariato sia in qualche misura determinato dallo statuto del lavoro servi le e come da ciò derivi l'ideologia del disprezzo del lavoro manuale.", Ora non è casuale, io credo, che in realtà la definizione varroniana di instrumentum vocale si applichi a tutti i lavoratori agricoli 59, mentre i servi sono citati solo come esempio, come lo sono i plaustra, per il genus mutum, o i boves per il semi vocale. Ora, il fatto significativo è che, volendo essere la classificazione varroniana una classificazione esaustiva dei lavoratori agricoli e volendo dunque ricomprendere anche i piccoli proprietari coltivatori, essa riconduca, in fondo, alla nozione di instrumentum anche chi, logicamente, non vi dovrebbe essere ricompreso: chi lavora per proprio conto, chi non può che essere instrumentum a se stesso. Siamo assai lontani dall'ideologia del «bonus agricola bonusque colonus» catoniano. La contraddizione spesse volte rilevata nel trattato catoniano tra l'atteggiamento di imprenditore agrario, produttore per il mercato, che Catone mantiene nel corso di tutta l'opera, e l'atteggiamento in qualche misura tradizionali sta della praefatio'", è, in certo senso, risolta da Varrone nel momento in cui viene a estenuarsi la positività della figura del libero proprietario coltivatore, tradizionale nerbo dello stato romano, con l'essere anch'egli ricondotto alla nozione di instrumentum. C'è, in mezzo, ovviamente, la conclusione del processo di trasformazione della società
"BRUGNOLI 1982.4. "Talehé Cicerone può definire la merces, la retribuzione del lavoro salariato, come auctoramentum servitutis: de IdI l. 150; cfr. Lo CASCIO 1975-76 e la lett. ivi cit. 59 Come hanno messo in rilievo SKYDSGAARD1968, 16,33 sg.: SKYDSGAARD1980, 68; KALTENSTADLER 1978, 13, 63 n. 30; e soprattutto PERL 1977,423-29, il quale osserva, sulla scia di STEINWENTER 1942,26 sgg., come la tripartizione dei genera instrumentorum è modellata a partire dall'ambito grammaticale e in particolare sulla tripartizione delle litterae, mentre meno risulta connessa conia celebre bipartizione aristotelica di opyava: EJ.1.'I'UXa: e a'l'uxa:; va peraltro messo in rilievo, come non manca di fare lo stesso Peri, che anche la definizione aristotelica di opyavov EJ.L'I'UXOV comprende «jeden Menschen in untergeordneter, ausftìhrender Funktion (1tàç U1tllPE'tl)ç), den korpcrlich Arbcitcndcn, unabhangig davon, ob er Freie oder Sklave ist; er schliesst also auch die freien niedrigen Handwerker und Lohnarbeitcr in die Gattung der opya:va: ein und ordnet sie antropologisch den Sklaven gleich». '" Ma si veda come Gabba in GABBA-PASQUINUCCI 1979,32 sgg., propone di risolvere tale contraddizione.
II. OBAERARII
(OBAERATI):
LA NOZIONE
DELLA DIPENDENZA
IN VARRONE
89
romana: la trasformazione, voglio dire, del ruolo e del peso di questo nerbo tradizionale dello stato romano che è stato costituito dai piccoli proprietari contadini; c'è, la decadenza, nei modi in cui l'ha lucidamente e finemente analizzata il Gabba, della piccola proprietà contadina". II libero coltivatore che lavora il suo campo «cum sua progenie», il pauperculus, può interessare il proprietario, imprenditore o rentier, in due modi: o perché gli può offrire, come hanno messo in rilievo analisi recenti del Garnsey e dello Skydsgaard'", la possibilità d'una razionale conduzione dell'unità produttiva basata sul lavoro servile, che necessita, come osserva lo stesso Varrone, anche di una supplementare forza lavoro saltuaria e stagionale, col fornirgli una riserva, appunto, di questa forza lavoro, o perché gli può dare, con l'affitto agrario e la colonia parziaria, una possibilità di esimersi dall'impegno personale nella gestione del proprio patrimonio fondiario. E in quest' ottica soltanto che Varrone può, certo con dubbia coerenza, ricondurre anche il piccolo proprietario contadino alla nozione di instrumentum.
6] Gabba in GAIlIlA-PASQUINUCCI 1979 [Ma si veda ora, per una diversa valutazione delle modalità e delle ragioni di tale decadenza Lo CASCIO 1l)l)Yb, c supra, 36 sgg., con la letteratura ivi cit.]. 62 GARNSEY 1980, 34 sgg.; SKYDSGAARD 1980,65 sgg.; cfr. pure FINLFY 1981, 9Y; CAPOGROSSI CoLOGNESI 1981, 1448 SS.; 533 sgg.; CAPOGROSSI COLOGNESI 1Y82, 90 [Lo CASCIO 1991, part. 332 sgg.l.
III. CONSIDERAZIONI SULLA STRUTTURA E SULLA DINAMICA DELL' AFFITTO AGRARIO IN ETÀ IMPERIALE
PREMESSA
Importanti contributi recenti sull' affitto agrario nell' età del Principato, e in primo luogo quelli di P.W. de Neeve, hanno posto su nuove basi l'indagine su alcuni temi fondamentali della storia agraria imperiale. Il riesame delle lettere di Plinio il Giovane, nonché degli accenni degli scriptores de re rustica e dei frammenti del Digesto, da un lato, e la rinnovata analisi delle "grandes inscriptions" africane, dall' altro lato, paiono fornire, nonostante gli ovvi limiti delle fonti in questione, una serie di indicazioni utili a individuare le varie configurazioni, in termini economici, della locatio-conductio e della colonia parziaria, in base all' àmbito regionale interessato, alla natura del canone, all'estensione dei fundi, al sistema di sfruttamento adottato, all' obiettivo della produzione. Quel che questi studi recenti forniscono è una sorta di nuova tipologia dell' affitto agrario, che, nel mentre ne evidenzia la natura di fenomeno complesso, ne differenzia sul terreno dei rapporti economici e sociali i protagonisti, in modo più sofisticato e rigoroso che nei precedenti studi e anche attraverso un sistematico ricorso al materiale comparativo l. Due sembrano essere le più rilevanti conclusioni che paiono emergere, tra loro evidentemente collegate: la prima è che è illegittimo supporre che gli affittuari romani siano stati sempre o anche solo predominantemente poveri «peasant farmers»: in effetti è vero il contrario, per lo meno per alcune aree «centrali» dell'impero e in certi periodi; perciò - e questa è la seconda conclusione, argomentata in termini più o meno espliciti e, com' è ovvio, in modo vario dai vari autori citati - è illegittimo postulare un' «evoluzione necessaria», in Italia e nelle province occidentali, dalla locatio-conductio dei fondi rustici al «colonato vincolato al suolo» della tarda antichità: l' «inferiorità sociale» di alcuni coloni nell' età del Princi-
I
DE NEEVE
anche Lo
CASCIO
1984a; 1984b; 1990; 1992-93.
KEHOE
1988a; 1988b; 1989;
SCHEIDEL
1989; 1992; 1994; vd.
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CRESCITA E DECLINO
pato non va vista come ciò che sta alla radice della posizione di inferiorità, sul piano dello statuto giuridico personale, del colonus tardoantico. Partendo da questi recenti lavori, il presente contributo si propone di individuare talune caratteristiche «strutturali», in termini propriamente economici, dell' affitto agrario nei primi due secoli dell' età imperiale, nonché di formulare alcune ipotesi generali sulle linee di sviluppo dell' affitto agrario e della colonia parziaria nei diversi àmbiti italici e provinciali. I ragionamenti che verranno condotti, a questo proposito, partono dal presupposto che a rappresentare le effettive determinanti dell' «agrarian change» siano variabili quali la domanda e l'offerta dei fattori produttivi, in primo luogo terra e lavoro. Detto altrimenti: scopo del contributo è di presentare un quadro di sintesi della struttura e dell' evoluzione dell' affitto agrario che ha alla sua base un fermo convincimento, quello espresso da Pieter Wim de Neeve nel suo ultimo contributo: «ancient agrarian history is first and foremost agrarian history, that is, economie history, and only secondly ancient»2. LA VARIETÀ DELLE AFFITTANZE
E DEGLI AFFITTUARI
Quel che soprattutto i più recenti contributi paiono mostrare è che la maggior parte delle testimonianze che possediamo sull' affitto agrario si riferisce in effetti a persone il cui rapporto con la terra e con lo sfruttamento agricolo non va necessariamente visto come quello caratteristico di una «subsistence farming». La locatio-conductio dei fondi rustici, in effetti, accomuna, sul piano dell'unitarietà del contratto, modelli di sfruttamento fondiario estremamente diversificati, che coinvolgono, in una sorta di continuum, persone che si collocano ai più diversificati livelli di ricchezza e di potere, in analogia, ovviamente, con quanto avviene nella locatio-conductio degl'immobili urbani 3. E dunque, come quest'ultima", anche l'affitto dei fondi rustici interessa soprattutto le nostre fonti (in particolare quelle giuridiche) nella misura in cui coinvolge persone con qualche risorsa e di un qualche peso sociale". La differenziazione non riguarda, peraltro, solo l'ovvio aspetto dell' estrema varietà nelle dimensioni delle singole unità fondiarie affittate: si può dire che al di là di questo fattore, anche se in ovvia connessione con esso, ce ne stia un altro più decisivo, e cioè il grado del rapporto che ogni unità affittata, da quella
2
DE NEEVE
1990, 364.
4
CAPOGROSSI COLOGNESI 1986, 334 sgg. Cfr. FRIER 1980, part. 39 sgg.
5
SCHEIDEL
3
1989, a proposito, in particolare,
della testimonianza
columelliana;
si vd. già
FRIER
1979.
III. CONSIDERAZIONI
SULL' AFFITTO
AGRARIO IN ETÀ IMPERIALE
93
dell'urbanus colonus di Columclla" a quella del colono pliniano, intrattiene con il mercato, tanto al livello dell' acquisizione dei fattori, quanto allivello della commercializzazione dei prodotti. Il quadro può essere ulteriormente articolato attraverso l'utilizzazione della documentazione archeologica: soprattutto quella fornita dalle indagini di superficie, condotte in diverse zone del Mediterraneo, e in particolare in Italia e in Grecia. È stata fatta recentemente l'ipotesi che le piccole e medie «fattorie», che è possibile distinguere dai più grossi siti corrispondenti alle «ville», siano da considerare testimonianza non solo o non tanto della persistenza di una piccola proprietà contadina, ma anche della diffusione dell'affitto agrario". Naturalmente l'ipotesi pone una serie di problemi: in primo luogo, com' è stato osservato da chi ha avanzato l'ipotesi, i siti in questione non possono certamente considerarsi come quelli occupati dai coloni con minori risorse e meno legati al mercato: quelli, per intenderei, che possiamo considerare a un' estremità del continuum. Per questi coloni si pone un problema di loro «visibilità»: giacché è probabile che la loro esistenza, la loro presenza in un sito non abbia di fatto lasciato pressoché nessuna traccia archeologica. Sicché anche la testimonianza dei surveys, come peraltro mostrano alcuni casi di fattorie per le quali una documentazione è stata fornita anche dallo scavo, è comunque testimonianza di affittuari con qualche risorsa 8• In secondo luogo, e più in generale, la testimonianza archeologica come non può dire nulla di sicuro circa la condizione giuridica del suolo o del personale che lavora il fondo, se libero o schiavo", così nulla di sicuro può dire in merito a quale sia il titolo - se proprietà o locazione - in base al quale chi gestisce l'unità fondiaria la gestisce. La testimonianza archeologica, tuttavia, nella misura in cui sembra essere in grado di fornire qualche indicazione circa le dimensioni delle unità fondiarie, in quanto unità di gestione, può suggerire qualche ragionevole ipotesi sul carattere prevalente dello sfruttamento: se legato, cioè, all'esistenza di sbocchi esterni all'unità stessa, per le sue produzioni, oppure no. Va ribadito che è nella qualità e nella misura del rapporto con l'esterno che va visto il discrimine più rilevante all'interno del continuum dell' affitto agrario. Secondo un' opinione oggi largamente condivisa, il modello più efficace, euristicamente più utile, per intendere il funzionamento dell' economia romana, in quanto economia fondata sostanzialmente sulla produzione di beni primari, è, per l'appunto, quello dell' economia «duale» 6
1. 7. 3.
7
FOXHALL
8 9
1990. Ma si vd. le difficoltà che pone un tentativo di tipologia in questo senso: FINLEY 1975, 87 sgg.; GABBA 1982a, 378.
FOXHALL
1990.
r I
94
CRESCITA E DECLINO
o «bisettoriale»: un' economia che prevede, cioè, a fianco di un settore commercializzato e monetarizzato, che è ovviamente il più dinamico, la persistenza di un settore, difficilmente valutabile nella sua consistenza ma certamente assai ampio, di autoconsumo, caratterizzabile nei termini della chayanoviana «peasant economy» o della braudeliana «vita materiale», dei valori d'uso, in quanto distinta dalla «vita economica» IO. Come ogni «modello», anche questo della bisettorialità dell'economia imperiale romana appare inevitabilmente per un verso troppo rigido e per un altro verso troppo generico per «catturare» la realtà nella sua varietà e complessità, proprio in quanto si basa su una semplificazione necessariamente schematizzante: sarebbe errato, in ogni caso, supporre che il discrimine tra autoconsumo e mercato vada visto come quello che obbligatoriamente passa tra un'unità fondiaria e un'altra, mentre si tratta di un discrimine che può ovviamente passare all'interno di una medesima unità fondiaria 11. È parimenti condivisa l'opinione secondo la quale, sia pure con una serie di décalages temporali a seconda delle varie aree, gli ultimi due secoli dell' età repubblicana e i primi due dell' età imperiale assistano, in Italia e poi nelle province occidentali, a una crescita economica che è caratterizzabile anche come crescita del settore mercantile-monetario a spese di quello dell'autoconsumo. Effetto e causa, a un tempo, di questo crescere del settore del mercato e della moneta è, sostanzialmente, la spinta urbanizzazione dapprima dell' Italia e poi delle province occidentali 12. Anche il diffondersi dell' affitto agrario si inquadra in questo sviluppo: ne rappresenta, anzi, uno dei prodotti più cospicui. Diversamente da quanto ha ritenuto una lunga tradizione di studi, accomunante gli studiosi di estrazione marxista ai seguaci delle impostazioni weberiane, le indagini più recenti non vedono più, e talvolta programmaticamente, la diffusione dell' affitto come l'esito del «declino» dell' economia schiavistica. Naturalmente il passaggio dall'utilizzazione del lavoro servile a quello libero dei coloni era presentato, nelle varie ricostruzioni, in forme varie e come determinato da cause varie: l'inaridirsi delle fonti di approvvigionamento degli schiavi, l'abbandono di una mentalità «capitalistica» da parte dei ceti proprietari, coerente con un restringersi dei mercati di sbocco delle produzioni specializzate delle unità schiavistiche, e
IO Lo CASCIO 1982a, 389 sgg.; Lo CASCIO 1991a, 327 sgg., in particolare a proposito di CORBIER 1981 e di CARANDINI 1983; non comprendo il motivo per cui questo sarebbe «an inadequate model for interpreting the intricate, vertically integrated economies of the Roman Mediterranean region»: FoXHALL 1990, 113. Il Lo CASCIO 1982 a; cfr. DE NEEVE 1990, 364 sg. 12 PLEKET 1990,79 sgg.; Lo CASCIO 1991a, 327 sgg.
III. CONSIDERAZIONI
SULL' AFFITTO AGRARIO IN ETÀ IMPERIALE
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in primo luogo del vino; l' «anelasticità» delle unità fondiarie basate sul lavoro servile; nella ricostruzione per qualche verso più sofisticata, che distingue l'unità proprietaria dall'unità di gestione, la concentrazione delle proprietà che, assieme all'impossibilità, per le aziende schiavistiche, di allargarsi oltre un certo limite, sarebbe stata il fattore potente che avrebbe concorso alla frammentazione delle unità produttive in àmbito agrario. Va ascritto a merito di taluni fra i contributi più recenti 13 l'avere, intanto, distinto con maggiore chiarezza e rigore i vari profili in base ai quali va costruita una tipologia delle unità fondiarie nel mondo romano - il profilo della proprietà, quello della gestione manageriale, quello dell' organizzazione della produzione, quello della condizione giuridica personale della forza lavoro impiegata -; e di avere perciò consentito di cogliere l'indebita confusione di piani diversi che veniva compiuta dalla tradizione di studi alla quale si faceva riferimento, allorché si legava in un rapporto causale il declino della schiavitù e l'emergere dell'affitto agrario. Ma soprattutto è merito delle indagini più recenti, e particolarmente della ricostruzione complessiva della «private farm tenancy» compiuta da de Neeve '", l'avere sempre più chiaramente messo in rilievo il sostanziale parallelismo che vi è tra la diffusione della villa schiavistica, del «modo di produzione schiavistico» nell'Italia dell' espansione imperiale, e l'estendersi dell'affitto agrario (anche se con un presumibile décalage temporale di un fenomeno rispetto all'altro) 15: sviluppi, entrambi, di un unico processo, quello, per l'appunto, di una sempre più spinta «rnercantilizzazione» della produzione dei beni primari in Italia, legata per un verso a un accentuato processo di urbanizzazione e per un altro verso all' essor delle esportazioni soprattutto dirette verso le regioni del Mediterraneo occidentale. Le trasformazioni dell' economia agraria della penisola vanno nel senso di una sempre maggiore specializzazione produttiva, connessa con l'ampliamento delle dimensioni sia dell'unità produttiva sia dell'unità di gestione: ed è naturale che tale specializzazione soprattutto si manifesti nell' azienda che appare essere, da questo specifico punto di vista, più progressiva, la villa perfecta degli scriptores de re rustica 16. Ma si avrebbe torto a ritenere assente da questi sviluppi l'affitto agrario, e per una serie di ragioni. In primo luogo, e ovviamente, perché a essere affittate possono essere le stesse unità produttive delle dimensioni e delle caratteristiche delle «ville», e a soggetti economici che non si presentano soltanto come una sorta di 1984c; AUBERT 1991, part. 139 sgg. 1984 a. 15 Ma vedi ora De LIGT 2007a. 16 Vd. in particolare CARANDINI 1989. 13
14
DE NEEVE DE NEEVE
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CRESCITA
E DECLINO
«doppione», economicamente e socialmente, dei proprietari assenteisti 17 qual è appunto l'urbanus colonus di Columella, ma che sembrano assolvere alla funzione di veri e propri «imprenditori» agricoli 18. In secondo luogo, perché la garanzia più che della sopravvivenza, della stessa efficienza della villa schiavistica è data dalla disponibilità di un lavoro libero stagionale, che è assai spesso fornito dai liberi affittuari, che coltivano le più piccole unità contigue alla villa stessa 19. In terzo luogo, e soprattutto, perché ciò che determina l'espansione dell'economia della villa è anche ciò che, potenzialmente, è in grado di determinare la trasformazione radicale dell' economia contadina: la spinta, vale a dire, verso la mercantilizzazione delle produzioni che l'espansione imperiale è stata in grado di determinare. Da un certo punto di vista, e nella misura in cui la diffusione della locatio-conductio dei fondi rustici, in Italia, è l'esito di una concentrazione fondiaria (e comunque di mutamenti anche drammatici della struttura della proprietà, nel corso del I sec. a. C.), si può dire che proprio l'affermarsi dell'affitto agrario determini una più accentuata mercantilizzazione della produzione di beni primari, in quanto l'unità affittata viene a sostituirsi, in parte almeno, alla piccola proprietà contadina tendenzialmente autosufficiente. In altri termini, si potrebbe sostenere che l'affitto agrario, se è davvero esso il fattore che più d'ogni altro intacca la piccola proprietà contadina, sia quello che vale ad allargare la quota di surplus commercializzato: se il piccolo proprietario contadino può non avere rapporti col mercato, un sia pur limitato rapporto col mercato e la moneta deve avere il colonus obbligato al pagamento di un canone monetario. La varietà delle affittanze e degli affittuari sembra essere, dunque, anch' essa un prodotto di una modificazione radicale dello «scenario» produttivo. Così come a determinare il carattere dello specifico «modo di produzione schiavistico» non è ovviamente la mera utilizzazione di un lavoro servile, ma l'organizzazione di questo lavoro all'interno di una specifica unità produttiva, sicché minore rilievo ha in effetti la condizione giuridica personale del lavoratore rispetto ai compiti che è chiamato in concreto ad assolvere e ai modi in cui li assolve, parimenti ciò che ha davvero rilievo, a diversificare i caratteri che assume la locazione dei fondi rustici, non è in sé il tipo del contratto, ma il fatto che alla sua base vi sia comunque una relazione dell'unità affittata con il mercato che può essere più o meno stretta.
17
CAPOGROSSI
COLOGNESI
1989. 19 Vd. in particolare IX
1986, 331 sgg.
SCHEIDEL
RATHBONE
1981; e supra, 38 sg.
III. CONSIDERAZIONI
SULL' AFFITTO
AGRARIO IN ETÀ IMPERIALE
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Anche per l'affitto e per gli affittuari (come per gli schiavi e la schiavitù)20 si può perciò parlare di uno «spettro» di differenti condizioni, accomunate solamente dall'identità del tipo di contratto. A un'estremità è, lo si è detto, l'affittuario di una villa: che può certo essere l'urbanus colonus di Columella, ma può essere anche, come si è osservato, un effettivo «imprenditore»; a un altro estremo è certo il varroniano pauperculus che coltiva «cum sua progenie»21, e la cui relazione con il mercato è limitata, anche quantitativamente, dalla mera necessità di acquisire la moneta con cui pagare il canone d'affitto, ma che per il resto si configura davvero come un «subsistence farmer». Dunque, non solo non si può dire che vi sia sviluppo necessario dalla villa schiavistica, come unità fondiaria di «medie» dimensioni, al latifondo parcellizzato fra piccoli coloni come «peasant farmers» tendenzialmente dipendenti, ma nemmeno la tipologia dello sfruttamento agrario può ridursi alla contrapposizione dei due modelli, per l'appunto, della villa schiavistica, caratterizzata da una spinta specializzazione produttiva, che fa assumere ad essa il carattere di «piantagione», e della grande proprietà parcellizzata, che possono avere presumibilmente rappresentato, nell'Italia centro dell'impero, le due configurazioni quantitativamente maggioritarie: essa certo comprende tutta una serie di forme intermedie, a distinguere le quali vale, come criterio maggiormente significativo, quello della maggiore o minore relazione con il mercato, tanto sul piano dell' acquisizione dei fattori produttivi, quanto su quello della commercializzazione delle produzioni. MODELLO
AFRICANO E MODELLO PLINIANO
E veniamo, con questo, all'ultima e forse più rilevante ragione per la quale sarebbe illegittimo studiare l'essordell'affitto agrario al di fuori di una considerazione complessiva delle trasformazioni che subisce l' economia dell'Italia e poi quella delle province nel senso di una sempre maggiore espansione dei rapporti mercantili-monetari. La ragione è che proprio attraverso l'espandersi dei rapporti mercantili e monetari e l'instaurarsi di quello che con piena legittimità può definirsi un mercato dei fattori produttivi, in primo luogo della terra e del lavoro, vengono meno, perché si trasformano, quei rapporti di dipendenza «altri» rispetto alla chattel-slavery che hanno caratterizzato, presentandosi, com' è ovvio, in
1974, cap. 3. R.R. l. 17; il pauperculus non è solamente il piccolo proprietario, ma nemmeno è soltanto il piccolo affittuario, come vorrebbe sostenere CORBIER 1981,428 sg.: cfr. supra, 85 sgg. 20 21
FINLEY
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CRESCITA E DECLINO
varie forme nelle diverse realtà territoriali dell' impero mediterraneo, il mondo rurale22• Vale a dire che l'inserimento in uno «scenario» economico caratterizzato dal mercato e dalla moneta, come vale a precisare nella direzione di una giuridicamente garantita «proprietà privata» l'individuale detenzione della terra, così non può che portare alla sostituzione degli strumenti di costrizione extraeconomica, che erano alla base delle possibili forme di dipendenza in àmbito agrario, in strumenti di costrizione economica: d'ora in avanti, a fissare i termini del rapporto proprietari-coloni (o comunque proprietari-lavoratori rurali), sarà in una misura sempre più accentuata il gioco della domanda e dell' offerta, e dunque il prezzo, del fattore produttivo costituito dal lavoro agricolo, come che tale prezzo si esprima: come prezzo d'acquisto dello schiavo, come importo della merces del giornaliero, come ammontare del canone d'affitto per il colonus. L'impostazione rostovzeviana, tendente a ricostruire a partire dai rapporti agrari prevalenti nell' àmbito dei regni ellenistici la genesi del colonato tardoantico ", e in genere le tesi di coloro che tendono a far risalire ad epoca preromana la genesi dei «rapporti di dipendenza» in àmbito agrario, destinati a riemergere con più piena evidenza e unitariamente nella tarda antichità, vanno corrette in ciò: che qualunque sia la maniera nella quale si vogliano configurare, nella sostanziale esiguità della documentazione disponibile, le «forme di dipendenza» nei regni ellenistici o nell' Africa preromana, sembra certo che non si possa parlare di un' assoluta continuità col «colonato» tardoantico e ciò non tanto perché venga meno, nel corso del principato, l'inferiorità sociale dell' elemento contadino in queste realtà provinciali, rispetto ai ceti dei proprietari (o dei grandi affittuari, dei «Grofìpachter» o dei «tenants-inchief», per adoperare le denominazioni prevalenti nella storia degli studi per indicare i conductores, ad esempio, dei saltus imperiali in Africa), ma perché tale inferiorità sociale prende forme diverse dal passato, né si esprime (ovvero ancora non si esprime), in termini giuridici, come franca condizione di dipendenza di chi in qualche modo sia, al di là della summa divisio de iure personarum, a metà tra la condizione di libertà e quella di schiavitù: essa assume caratteristiche diverse rispetto al passato, nella misura in cui l'inserimento sia pure parziale di queste varie realtà rurali in uno scenario mercantile-monetario, nel quale si innescano meccanismi indubbi di integrazione economica allivello intermediterraneo, sostanzialmente posti in essere dal ruolo economico differenziato che 22 E per esempio, a Roma, i rapporti, lato sensu, di clientela: per il precarium come possibile antecedente dell'affitto agrario vd. ROSAFIO 1991, cap. 1; ROSAFIO 1993b; ROSAFIO 2002, 29-48; per le province africane in particolare WHITTAKER 1978 e 1980. 23 ROSTOVZEV1901; ROSTOVZEV 1910 a e b; cfr. MARCONE 1988,49 sgg.; MARCONE 1994.
III. CONSIDERAZIONI
SULL' AFFITTO AGRARIO IN ETÀ IMPERIALE
99
vanno assumendo l'Italia e le province 24, mette in mano a chi detiene, a vario titolo e in varia forma, il maggior potere contrattuale derivante dal possesso della ricchezza, le armi nuove del mercato e della competizione mercantile. Anche questi sviluppi naturalmente vanno visti come più o meno compiuti e conclusi nelle diverse realtà regionali: sicché, ancora per questo specifico aspetto, si osservano differenze nelle caratteristiche di fondo dei rapporti economici accomunati dall'identità, dal punto di vista giuridico, della locatio-conductio, E si può dare il caso di affitto agrario che non può configurarsi nemmeno come locatio-conductio, com' è certo la colonia parziaria, che lega il proprietario del fondo a chi lo lavora «quasi societatis iure» come dice Gaio nell'unico luogo del Digesto nel quale di colonia parziaria si tratta 25. A parte le sparse attestazioni della sua esistenza in Italia, che non permettono di farsi alcuna idea circa l' àmbito e i tempi della sua diffusione, che sembra essere stata in ogni caso più tarda rispetto alla diffusione della vera e propria locatio-conductio dei fondi rustici 26, il métayage (o il métayage dei coltivatori associato alfermage di «middle men» imprenditori) sembrerebbe essere la forma prevalente di affitto agrario o almeno è quella specificamente attestata, e pour cause, in quelle aree che vanno conoscendo in ritardo, come pare, così gli sviluppi dell'urbanizzazione, come quelli dei rapporti mercantili-monetari. Naturalmente, com'è stato ribadito da de Neeve ", la vera distinzione tra fermage e métayage non sta nel fatto che il canone viene pagato nei due sistemi in forma diversa, nell'un caso in denaro e nell'altro in natura: si può ben dare il caso, e anche nel mondo antico, di un canone fisso e non proporzionale al raccolto, ma che viene negoziato e pagato in natura (come si può dare astrattamente il caso di métayage che preveda il pagamento di una quota del reddito monetario, di una partecipazione agli utili). Ma, di fatto, fermage e métayage (ovvero tenancy e sharecroppingv", se si esclude l'area egiziana, nella più gran parte dei casi si contrappongono anche su questo piano, come mostra la maniera stessa nella quale Plinio riferisce del suo intendimento di passare da un V. FREYBERG 1988; Lo CASCIO 1991 a; Lo CASCIO 1994 a; e si vd. infra, 195 sgg .. D. 19.2.25.6. 26 DE NEEVE 1984; anche se una tale diffusione in Italia della colonia parziaria o della mezzadria non è detto affatto che debba collocarsi, come pure si è voluto sostenere in passato, giusto in età traianea e sulla scia della normativa africana (DE NEEVE 1990, 367, contro SIRAGO 1958, 174-80 e ancora Johne in JOHNE, KOHN, WEBER 1983,144); e si vd. infra, 128 sgg .. 27 DE N EEVE 1984b; DE N EEVE 1990. 28 O affitto e mezzadria o colonia parziaria; DE NEEVE 1990,391, ha ragione a mettere in rilievo la distinzione, nel nostro ordinamento, tra «mezzadria» e «colonia parziaria»; la precisazione è utile, anche se mi sembra inevitabile una qualche ambiguità nell'uso di queste espressioni con riferimento alla realtà imperiale romana. 24
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sistema all'altro: un passaggio da una locazione «nummo» a una locazione «partibus»?". Sembra dunque legittimo sostenere che, ad avere pari rilievo, nel caso del métayage, rispetto alla variabilità del canone in rapporto al raccolto, è il fatto che il canone sia pagato in natura: eliminando, dunque, per l'affittuario, la necessità del ricorso al mercato per acquisirvi la moneta con cui pagare il canone stesso. Il caso che conosciamo meglio, anche se non tanto da potere risolvere alcune delle questioni più spinose, è quello dei latifondi imperiali in Africa, per via della singolarissima testimonianza delle «grandes inscriptions». Naturalmente sorge il problema della misura in cui è legittimo generalizzare all'Africa nel suo complesso o addirittura ad altre province gli elementi «strutturali» dei rapporti tra amministrazione imperiale, conductores e coloni deducibili da questa documentazione africana che si riferisce a una specifica area della Proconsolare, di precoce occupazione romana, o anche solo se sia legittimo estendere ai latifondi privati la portata della normativa prevista per i latifondi imperiali (la cui specifica valenza in termini giuridici è peraltro anch' essa discussa). Al di là di controversie che durano sin dal momento della scoperta e della prima pubblicazione di questi testi, e che riguardano la natura e lo specifico àmbito di validità della lex o consuetudo Manciana (mentre forse minori problemi sembrerebbe porre la successiva lex Hadriana de rudibus agris et iis qui per decem annos continuos inculti sunt), si può dire che è possibile impostare una rigorosa analisi economica delle modalità di sfruttamento dei latifondi africani, che parta, com' è stato lucidamente e convincentemente messo in rilievo nella ricostruzione più recente 30, dalla considerazione degl' interessi differenziati che hanno i tre attori che entrano nella gestione: i coloni, che godono di un diritto perpetuo di occupazione sulla terra fin tanto che la coltivano, a fronte del quale devono partes, quote di prodotto fisico differenziate a seconda delle varie colture (normalmente terze, ma anche quarte o quinte) e alcune, poche, operae, giornate di lavoro nei momenti di picco dell'attività agricola; i conductores, ai quali viene appaltata, attraverso contratti presumibilmente individuali di durata quinquennale, la riscossione delle partes per conto dell' amministrazione imperiale e ai quali è anche verosimilmente affidata la gestione complessiva delle singole unità fondiarie,fundi o saltus; il fiscus imperiale, interessato a garantire l'estrazione del massimo di surplus possibile dai latifondi imperiali, e verosimilmente in forma di
Plin. Ep, 9. 37. 3; cfr. infra, 128 sgg .. KEHOE 1988a; vedi pure KEHOE 2007, eh. 2. Una nuova copia della [ex Hadriana è stata rinvenuta nel J999 a 5 km. da Am WasseJ: DE Vos 2004, 42-45. 29
30
III. CONSIDERAZIONI
SULL' AFFITTO
AGRARIO IN ETÀ IMPERIALE
101
prodotti fisici, soprattutto grano ed olio, da destinare all' approvvigionamento della popolazione urbana di Roma e alle distribuzioni. L'elemento di maggior rilievo, dal punto di vista dell'analisi economica del fenomeno, è precisamente la duplicità dei soggetti che entrano in rapporto, contestualmente, ma ciascuno con propri differenziati interessi, con l'amministrazione imperiale. Il colono è un affittuario, ma una serie di elementi ne rende, per un verso, più sicura e salda la posizione contrattuale, rispetto a quella dei normali affittuari, e, per un altro verso, influenza in misura decisiva le sue scelte di gestione economica e di investimento: in primo luogo, il fatto stesso che l'occupazione e la detenzione della singola particella sia condizionata alla sua coltivazione e dunque determinata da una precisa opzione del colono stesso; in secondo luogo, il fatto che sia parimenti il colono a decidere quale debba essere il tipo di utilizzazione agraria; in terzo luogo, il fatto che il colono paghi non già un canone fisso, in denaro o in natura, ma una quota parte del prodotto. Più disposto a impiantare talune colture specializzate, ma che comportano un maggiore impegno finanziario, e che non sono immediatamente produttive (e anzi incentivato a farlo da una politica di iniziale esonero dal pagamento delle quote), di quanto non sarebbe un affittuario a tempo, ma meno disposto di quanto non lo sarebbe un affittuario che pagasse un canone fisso in denaro o una quantità fissa di prodotto, il cultor Maneianus è tuttavia evidentemente pronto ad abbandonare la coltivazione della sua specifica particella, qualora questa tenda a vedere decrescere, per lo stesso esaurimento di un suolo scarsamente concimato, la propria produttività e nel contempo sia disponibile del terreno vergine da occupare e coltivare alle medesime condizioni. Né può considerarsi prova di una condizione di «dipendenza» del colono l'obbligo impostogli di prestare alcune giornate di lavoro, operae, nella parte che il eonduetor riserva alla sua gestione diretta e che sembra essere la fattoria centrale 31: la stessa loro esiguità - 6 o 12 l'anno, nei fondi imperiali per i quali possediamo una specifica documentazione - nonché il fatto che debbano essere prestate esclusivamente nei periodi di picco dell' attività agricola dimostrano che la loro funzione non è in alcun modo assimilabile a quella svolta dalle eorvées nel sistema del maniero o della riserva signorile medievale. Esse rispondono a un' altra esigenza, perfettamente comprensibile alla luce di quella che è una caratteristica di fondo dell' agricoltura mediterranea (e quindi anche di quella del Tell), la variabilità estrema dell' input di lavoro richiesto nel corso dell' anno agricolo: rispondono, vale a dire, all'esigenza di fornire quella integrazione di lavoro stagionale che è ne31
Ciò che mi sembra sicuro, nonostante
quanto argomenta
KEHOE
1988a, 140 sgg.
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CRESCITA E DECLINO
cessaria per garantire l'efficienza della gestione. Una delle condizioni per la sopravvivenza dell'unità produttiva italica basata sul lavoro degli schiavi, com' è stato riconosciuto da una lunga tradizione di studi a partire da Max Weber, è per l'appunto che la «squadra» di schiavi che lavora tutto l'anno sul fondo venga integrata, nei momenti particolari nei quali è necessaria l'utilizzazione di un numero maggiore di braccia, da un lavoro stagionale aggiuntivo di giornalieri, di norma fornito dai liberi: mercennarii che possono essere lavoratori «pendolari» o itineranti 32, ma verosimilmente più spesso sono gli stessi piccoli proprietari o anche affittuari dei dintorni, alla ricerca di un' occupazione aggiuntiva. Ciò che è caratteristico della normativa che regola i rapporti tra coloni e conductores in Africa è che a questi ultimi viene fornito contrattualmente e gratuitamente l'uso di questo lavoro aggiuntivo e che i primi sono obbligati a prestarlo non già contro il pagamento di una merces, ma in base ai termini stessi dell' accordo che regola la possibilità, per essi, di coltivare terreni non coltivati e di averne un usus proprius (o un ius possidendi ac fruendi heredique suo relinquendi). In qualche modo si potrebbe dire che il fatto che la prestazione di lavoro aggiuntivo sia per i coloni obbligata, rappresenti, paradossalmente, un' ulteriore prova del fatto che la loro posizione è contrattualmente forte: quasi che ciò mostri che, se non vi fosse un obbligo del genere, sarebbe estremamente difficile, per i conductores, procurarsi il lavoro stagionale aggiuntivo di cui hanno bisogno. Più difficile rimane, non potendo si fornire una risposta sicura a una serie di interrogativi di cruciale riliev033, il chiarire le determinanti delle opzioni economiche dei conductores. È certo che la loro posizione è pesantemente condizionata dal fatto che devono rinegoziare, ogni cinque anni, il proprio contratto colfiscus imperiale: ciò rende parzialmente difformi da quelli dei coloni gl'interessi dei conductores, nella misura in cui questi ultimi sono ovviamente disposti a sacrificare a una maggiore produzione nell' immediato quell' eventuale suo incremento futuro che sarebbe provocato ad esempio dall'impianto di nuove colture necessitanti di qualche anno per essere redditizie. E tuttavia non è detto che i conductores non possano vedere con favore, essi stessi - per esempio nel caso della cerealicoltura -, l'allargamento dell' area coltivata, visto che un tale allargamento si riflette ovviamente in un incremento stesso della produzione fisica dell'intera unità appaltata; e questo perché è probabile che, se il colonus deve dare al conductor una quota del raccolto, il con32 Si vd. il caso ben noto di quelli ingaggiati dal bisnonno di Vespasiano, che «ex Umbria in Sabinos ad culturam agrorum quotannis commeare soleant», Suet. Vesp. 1.4, o, per l'Africa, le turmae messo rum guidate dal mietitore di Maktar: e/L VIII, 11824 = /LS 7457, su cui DESIDERI 1987. 33 Nonostante le considerazioni di KEHOE, 1988a, cap. IV.
III. CONSIDERAZIONI
SULL'
AFFITTO
AGRARIO
IN ETÀ IMPERIALE
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ductor debba dare all'amministrazione imperiale una somma di denaro prefissata o, come accadeva coi decumani in Sicilia in età repubblicana, una quantità prefissata di prodotto, quella stabilita dal contratto", e qualunque incremento nell' ammontare del raccolto significa dunque l' incremento della quota dal conductor stesso riscossa. È altamente probabile che effetto finale dell'introduzione, o della conferma, di una normativa quale quella prevista dalla lex Manciana e poi dalla lex Hadriana sia stato quello di una continua espansione dell' area coltivata, di un avanzamento della frontiera delle colture, espansione e avanzamento legati, per un verso, a un indubbio processo di sedentarizzazione di popolazioni nomadiche, per un altro verso a un incremento sostenuto della popolazione (che sembra certo, pur in assenza di dati quantitativi assolutamente incontrovertibili) 35. Il quadro vulgato, «ottimistico», degli effetti della presenza romana in Africa." non sembra per questo specifico aspetto potersi seriamente mettere in discussione e la documentazione archeologica non fa che dare conferme spettacolose di una prosperità che dura in Africa anche quando sembrano visibili altrove i segni di un più o meno definitivo declin037• Si è sostenuto che, a obbligare il fisco imperiale a scegliere una soluzione che appare essere, rispetto a quella del contratto temporaneo e non basato sulla corresponsione di quote, al meglio una soluzione «second best» sia stato il «chronic shortage of suitable coloni», rapportato a una «chronic abundance» di terreni non coltivati 38. Discende di qui che i coloni non devono e non possono essere considerati, com' è stato sostenuto da una lunga tradizione di studi, come poveri contadini «dipendenti»: oltre ad avere risorse e capitali in quantità sufficiente a consentire loro di intraprendere la coltura degli agri rudes nonché di quelli lasciati incolti, e di impiantarvi colture specializzate che abbisognano di cospicui investimenti, questi coloni appaiono essere in una posizione contrattuale assai forte, tanto nei confronti dei conductores, quanto nei confronti del fisco imperiale: posizione contrattuale che dipende dal fatto di essere pochi, comparativamente alla terra disponibile. In altri termini, la condizione di questi coltivatori, la natura e la durata della loro detenzione della terra, la natura e l'elevatezza del canone da essi pagato si fanno dipendere da una peculiare, «strutturale», relazione che si instaura in Africa tra disponibilità di terra e disponibilità di lavoro agricolo. 34 35 36 37 38
KEHOE 1988a, 127 e passim. Cfr. LASSÈRE 1977. CHARLES-PICARD 1959. Cfr. p. es. CARANDINI 1986. KEHOE 1988a: IX, 72, 226 e passim.
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CRESCITA E DECLINO
Anche in Italia, e verosimilmente nella valle Tiberina, negli stessi anni nei quali si collocano le disposizioni dei procuratores imperiali per il fundus Villae Magnae Varianae, Plinio registra una «penuria colonorum» 39. Ma siamo autorizzati a considerare la notazione pliniana come indicativa dell'esistenza, nell'Italia traianea, di un fenomeno analogo a quello africano e parimenti diffuso? È opinione generalizzata che con «penuria» Plinio intenda riferirsi effettivamente a uno «shortage» 40; e tuttavia si è osservato come la notazione pliniana debba alludere non già a una generalizzata «mancanza» di coloni e meno che mai a una generalizzata crisi dernografìca ", ma piuttosto alla difficoltà di reperire idonei conductores"; e cioè affittuari finanziariamente solidi 43: affittuari, vale a dire, che riescano a garantire una sana gestione, che non rimangano in continuazione in arretrato col pagamento del canone, che non chiedano remissiones, che, una volta che abbiano perso la speranza di potere continuare a rimanere sul fondo, non consumino tutto quello che vi è, talché al proprietario, per rivalersi, non rimane che confiscare quanto i coloni hanno di proprio sul fondo, gl' invecta et illata. Se i coloni africani appaiono essere agricoltori piuttosto facoltosi e in ogni caso garantiti nel possesso perpetuo delle proprie particelle, qualora vogliano continuare a coltivarle, ma liberi anche di abbandonarne la coltivazione, per volgersi verso terreni più produttivi, qualora ciò risulti di loro vantaggio, se, in qualche caso, i coloni pliniani sembrano anch' essi «substantial farmers», piuttosto che «typical peasants» 44, non si può dire che il complesso delle sparse allusioni dell' epistolario pliniano debba o possa leggersi tutto in questa chiave; i coloni di Plinio e dei suoi vicini e amici sono sicuramente assai spesso non solo coltivatori dalle modeste risorse, ma anche ridotti in una posizione contrattuale di grande debolezza: sono costretti a frequenti rinegoziazioni del contratto, sono sempre in pericolo di dovere abbandonare il fondo e anche nel caso (o soprattutto nel caso) in cui rimangano debitori 45. Se, per i coloni dei saltus africani si può dire che lo «sharecropping» sia, in presenza di una detenzione della terra perpetua e trasmissibile ereditariamente, una indicazione in più della loro posizione di forza -lo «sharecropping» quale condivisione del rischio -, il passag3. 19. 7; DE NEEVE 1990: 399 sg., per la localizzazione delle terre di cui si parla nella lettera. Ma cfr. il parere assai diverso espresso infra, 120 sg. 41 DE NEEVE 1990,393; e cfr. infra, 120. 42 Plin. Ep. 7. 30. 3. 43 CORBIER 1981,432; DE NEEVE 1990,387, n. 126. 44 DE NEEVE 1990; e vd. KEHOE 1988b. 45 Come sembra incontrovertibi1mente che si debba dedurre da 9. 37. 2: «inde p1erisque nulla iam cura minuendi aeris alieni, quod desperant posse persolvi; rapiunt etiam consumuntque quod natum est, ut qui iam putent se non si bi parcere». 19
40
III. CONSIDERAZIONI
SULL' AFFITTO
AGRARIO IN ETÀ IMPERIALE
105
gio alla colonia parziaria, per i coloni di Plinio, appare essere pensato (certo in questa stessa funzione di maggiore condivisione col proprietario del rischio di un cattivo raccolto) come una maniera per meglio garantire al proprietario stesso di riuscire a ricavare un reddito dalla propria proprietà 46. L'impressione che se ne ricava è che, se la dinamica di «land» e «labour» giova ai coloni africani che allargano l'estensione delle colture ai subseciva e ai terreni abbandonati, essa non giovi, viceversa, ai coloni pliniani. Soprattutto un elemento sembrerebbe suggerire che una tale diversità nella posizione contrattuale degli uni e degli altri attesti una diversa e assai maggiore pressione dell' offerta di lavoro agricolo, rispetto alla terra disponibile, nelle regioni italiche in cui si collocano i fondi pliniani, a paragone di quanto avviene in Africa: ed è per l'appunto la circostanza - chiara al di là di ogni ragionevole dubbio - che i coloni di Plinio rimangono solo temporaneamente sui fondi, per il periodo del contratto, o comunque che sono chiamati a rinegoziare alla scadenza il contratto. Ora l'affitto temporaneo e la frequente rinegoziazione del contratto non sembrano essere fenomeni che occorrano con probabilità, qualora vi sia una condizione di equilibrio nella domanda e nell'offerta dei fattori: gli ovvi effetti negativi di un frequente turn-over nella conduzione dei fondi rustici, tanto per il proprietario quanto per il conduttore, rappresentano indubbiamente un incentivo alla stabilità. Ma l'affitto temporaneo e la frequente rinegoziazione del contratto, viceversa, si determineranno, qualora si determini una situazione di competizione, o tra i proprietari nell' accaparrarsi i coloni, o tra i coloni nell' accaparrarsi i lotti da coltivare. Nel primo caso ci troveremmo di fronte a un indizio di pressione della domanda di lavoro agricolo; nel secondo, di fronte a un indizio di pressione dell' offerta del lavoro agricolo. Ora, dalle lettere pliniane non sembrerebbe in nessun caso potersi dedurre che la frequente rinegoziazione dei contratti e l'affitto temporaneo siano considerati come tali da giovare ai coloni, tutt' altro; né vi è alcuna menzione del tentativo, da parte dei proprietari, di trattenere, con incentivi o 'con la coazione, il colono sul fondo: ne dedurremo, allora, che la frequente rinegoziazione e l'affitto temporaneo siano in qualche modo indizio di una pressione dell' offerta di lavoro agricolo, destinata, com' è ovvio, a determinare una più debole posizione contrattuale per il colonus. Detto in altri termini: se in Africa il colono abbandona la coltivazione ogni volta che vuole, nla se non vuole è garantito nel suo possesso perpetuo, il colono «pliniano» non vorrebbe abbandonare, ma in determinate situazioni perde ogni speranza di potere
46 9. 37. 3: «Occurrendum ergo augescentibus nummo sed parti bus Iocem ... ».
vitiis et medendum
est. Medendi una ratio, si non
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CRESCITA E DECLINO
rimanere. La stessa «strutturale» funzione delle remissiones, quale sembra doversi dedurre dalla documentazione giuridica relativa, che non è certo quella di alleviare la condizione dei coloni", ma semmai quella di consentire di mantenere il canone a un livello più elevato, compatibile con il livello produttivo del fondo nelle annate buone:", dimostra una «strutturale» debolezza contrattuale dell' affittuario, la cui genesi potrà vedersi oltre che nella tradizionale posizione di inferiorità dei ceti contadini 49, in uno squilibrio, che parrebbe avviarsi a divenire esso stesso «strutturale», tra domanda e offerta di lavoro agricolo, per un' eccessiva pressione di quest' ultima 50. D'altra parte, il fatto che in età severiana, in un momento nel quale (per le ragioni che si diranno più avanti) una simile pressione dev' essere ormai venuta meno, le norme relative alla remissio mercedis sembrino modificarsi a vantaggio dei ceti proprietari 51 potrebbe ben trovare la sua spiegazione nel fatto che, proprio in ragione della maggiore difficoltà di trovare affittuari in numero adeguato, i livelli dei canoni siano discesi, rendendo per l'appunto ormai troppo onerose per i ceti proprietari le norme in questione. È possibile che una tale pressione dell' offerta di lavoro agricolo vada considerata come conseguente a una situazione di pressione della popolazione nelle aree della penisola nelle quali si manifesta? Com' è ben noto, l'osservazione sulla «penuria colonorum» è stata tradizionalmente intesa come quella che indicherebbe l'esistenza di un problema, semmai, di spopolamento delle campagne italiche, e la creazione degli alimenta, che si registra giusto negli anni di Traiano, se non già di Nerva, è stata parimenti interpretata, dalla storiografia contemporanea, come motivata dalla volontà di reagire a una crisi demografica in atto 52. E tuttavia è possibile che la finalità demografica indubbia del programma alimentare debba essere letta in una chiave diversa 53: quasi che il problema non fosse tanto quello di provocare un aumento della natalità, in una situazione di spopolamento, quanto piuttosto quello di evitare che si mettessero in moto i malthusiani «freni preventivi» (se non addirittura quelli «repressivi») in una situazione di eccessiva pressione della popolazione sulle risorse: nel qual caso, per l'appunto, il programma alimentare andrebbe inteso come sintomo di una sovrappopolazione dell' Italia tra primo e 47 48
DE NEEVE 1983. CAPOGROSSICOLOGNESI 1986,336
sgg.; ma cfr. ROSAFIO 1991 a, 81 sgg.; ROSAFIO 1991b, 251
sgg. FINLEY 1980, 142, sulla scia di Fustel e di Weber. Infra, 165 sgg. 51ROSAFIO 1991 a e b, a proposito di D. 19. 2. 15. 4, e di c.I. 4. 65. 8. 52DuNCAN-JONES 1982, 288 sgg., e ivi letteratura; ma vedi infra, 170 sgg. 53 EVANs 1981, 436 sgg.; ma vedi Lo CASCIO2000a, 282 sg.; e infra, 170 sgg.
49
50
III. CONSIDERAZIONI
I!
107
secondo secolo. In verità, provvedimenti quali quello domizianeo, di limitazione della coltura della vite.", vanno interpretati certamente quali segnali di una crisi di sovraproduzione vinicola, che ha il suo pendant in una crisi di sottoproduzione cerealicola, in Italia e nelle province, che potrebbe ben essere coerente con un problema di sovrappopolazione ". Né sembrano mancare indizi archeologici, sia pure esili, del fatto che la penisola, al volgere del primo secolo, in realtà dovesse registrare, in particolare in alcune sue aree centrali, un' occupazione del suolo estesa anche a terreni marginali 56. Più in generale, vi sono ragioni per le quali sembrerebbe doversi revocare in dubbio la corrente ortodossia belochiana-bruntiana circa l'interpretazione delle cifre dei censimenti augustei e dunque circa il livello della popolazione libera dell' Italia in età augustea: che non sarebbe, dunque, da collocarsi, come ordine di grandezza, attomo ai quattro milioni, ma attorno a una cifra decisamente superiorc "; per un altro verso, si è insistito ancora recentemente sugl' indizi (esili ancora una volta, ma non meno significativi) di un sia pure contenuto incremento della popolazione dell'impero nel corso dei primi due secoli del principato ". Che in età traianea una pressione dell'offerta di lavoro, in alcune aree della penisola, potesse essere il portato di una più generale pressione della popolazione sulle risorse, sembra essere dunque proposizione plausibile. Come si vede, ciò che pare distinguere i due «modelli» dell'affitto agrario che le nostre fonti ci consentono di isolare nei loro elementi strutturalmente più rilevanti è la differente disponibilità di terra e lavoro nelle due situazioni. In Italia parrebbe determinarsi una pressione dell' offerta di lavoro, in presenza di una stabile offerta della terra; in Africa ciò che avviene è sicuramente il contrario: parrebbe esservi un'ampia disponibilità della terra e, perciò, uno strutturale shortage del lavoro rispetto alla terra disponibile: si intende, peraltro, che proprio questo strutturale squilibrio è quello che spiega l'incremento, sul lungo periodo, della terra coltivata e, assieme, quello della popolazione (e, di conseguenza, come sembrerebbe lecito sostenere, della stessa urbanizzazione, nonché del ruolo sempre più di primo piano che le province africane vanno assumendo nell'impero). La strutturale differenza dei due modelli sembrebbe anche ciò che può aiutare a spiegare, dunque, la differenza nell' evoluzione rispettiva, nella dinamica del mutamento agricolo.
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f
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I
SULL' AFFITTO AGRARIO IN ETÀ IMPERIALE
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Fonti, p. es., in KEHOE 1988a, 42 n.18. Lo CASCIO 1991 a, 361 sgg. Lo CASCIO 1994c; e infra, 170 sgg. Lo CASCIO 1994c; Lo CASCIO 1994b; Lo PLEKET 1989, 55 sgg.; FRIER 2000b.
CASCIO
e
MALANIMA
2005.
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CRESCITA
DINAMICA
DELL' AFFITTO
E DECLINO
AGRARIO E DINAMICA
DELLA POPOLAZIONE
In un suo bel libro recente, David Grigg ha delineato i vari «modelli» dell' «agricultural change», prospettati dagli storici, economisti, geografi o sociologi che si sono a vario titolo e con vari intendimenti interessati della storia dell'agricoltura europea e americana?'. Com'era da attendersi, la sintesi di Grigg si apre precisamente con l'esame dei due contrapposti modelli che legano l' «agricultural change» all'incremento di popolazione: il modello malthusiano e quello, che in qualche modo ne rappresenta il rovesciamento, tanto nell' individuazione della direzione causale del rapporto tra popolazione e «land-use», quanto nell' apprezzamento della positività o della negatività dell'incremento stesso della popolazione, di Ester Boserup. Non c'è bisogno di ribadire l'importanza che per le situazioni premoderne, e anche per quella del mondo romano, deve riconoscersi all'evoluzione demografica come determinante del mutamento nella produzione dei beni primari. Ma è forse possibile articolare ulteriormente il nesso popolazione-agricoltura e in una direzione tale da rendere ragione dei differenti esiti cui perviene 1'affitto agrario nelle varie realtà regionali del mondo romano. Ancora una volta non possiamo che tentare di formulare ipotesi interpretative circoscritte a quei casi che la limitatezza stessa nonché il peculiare carattere della documentazione antica consentono di ricostruire con qualche dettaglio e di formulare tali ipotesi nel senso di un semplice «model-building»: le ipotesi in questione, per questo stesso motivo, non possono che fondarsi sul materiale comparativo. Per questo specifico aspetto sembrerebbero soccorrere i due «rnodels of rural development» costruiti da Jan de Vries, come introduzione alla sua analisi del rapporto tra dinamica della popolazione e trasformazioni dell' economia rurale olandese tra cinque e settecento; i due modelli sono stati recentemente utilizzati da Wim J ongman per analizzare il rapporto tra attività rurali e urbane nella Pompei rornana'". I due modelli di «agricultural change» che de Vries individua sono legati alla crescita della popolazione contadina, sono le due possibili risposte che una società autosufficiente di «peasant farmers» ha a disposizione di fronte a una crescita della popolazione: il «peasant model» e lo «specialization model», La prima risposta è quella che porta a una divisione delle proprietà contadine, a un'intensificazione delle colture attraverso l'adozione di tecniche che comunque diminuiscono la produttività del lavoro, a situazioni nelle quali la stessa possibilità di autosufficienza non è garantita, talché 1985. 1974,4 sgg.;
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GRIGG
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DE VRIES
JONGMAN
1988,91 sgg.
III. CONSIDERAZIONI
SULL' AFFITTO
AGRARIO IN ETÀ IMPERIALE
109
i contadini, lungi dal disporre di un surplus da commercializzare, devono «entrare» nel mercato del grano per acquistarlo: un mercato in cui il prezzo, per effetto dell'incremento di popolazione, è cresciuto in rapporto agli altri prezzi e in rapporto alle remunerazioni del lavoro. Peraltro, in questa situazione i «peasant farmcrs» non possono rappresentare essi stessi un mercato di sbocco per i manufatti prodotti in àmbito cittadino. Tenderanno, viceversa, a produrre essi stessi i manufatti di cui hanno bisogno: tenderanno a tenersi lontani quanto più possono dal mercato. Di questa situazione possono approfittare i più grossi proprietari o comunque le persone agiate e il risultato è una spinta verso la concentrazione fondiaria: essi possono approfittare della crescente domanda (e dunque del prezzo crescente) del grano. Si determina una più spinta ineguaglianza sociale, se le rendite crescono e le remunerazioni del lavoro diminuiscono e nel contempo il prezzo del grano si incrementa. Nel contempo, nell'ambito della stessa popolazione contadina, si determina un'incrementata differenziazione sociale. L'altro modello identifica l'altra possibile risposta alla crescita della popolazione: questa risposta prevede non già il morcellement delle unità contadine, ma una diversa allocazione del proprio tempo da parte del «peasant farrner» tra le attività agricole e quelle volte alla produzione di beni non agricoli, a vantaggio delle prime. Alla tendenziale diminuzione della produttività del lavoro, che consegue all'intensifìcazionc delle colture, il «peasant farmcr» risponde attraverso la specializzazione e attraverso un ingresso nel mercato in qualità di venditore di beni agricoli specializzati che crescono di prezzo. La crescita della popolazione in àmbito rurale non conduce a un progressivo impoverimento, ma è riassorbita in parte dall'intensificazione stessa delle colture, per esempio nel caso in cui un' orticoltura intensiva si giovi della vicinanza dei propri prodotti al mercato urbano, in parte dallinurbamento, a sua volta consentito dalla crescita delle attività produttive urbane; la pressione dell'offerta di lavoro in àmbito urbano è tale da mantenere bassi i salari, ma l'impiego che l'inurbato trova non ha i caratteri di saltuarietà e di casualità del lavoro da giornaliero nell' àmbito agrario. Insomma, questa serie concomitante di sviluppi può riassumersi come una spinta sempre più decisa verso l'espansione del mercato a spese dell' autoconsumo: l'urbanizzazione può considerarsi in questo caso un effetto della specializzazione (anche se ne può essere in realtà un incentivo). In che modo e in che misura i due modelli possono essere utilizzati per intendere i differenziati sviluppi dell' affitto agrario, nell' Africa e nell' Italia dell' età imperiale? La situazione africana, certamente, non può considerarsi rispondente né all'uno, né all'altro modello, e per un motivo: perché il fattore terra non è (come nel modello di de Vries) dato.
L
110
CRESCITA E DECLINO
La popolazione in Africa cresce, si potrebbe dire, in rapporto a una crescita della stessa area coltivata: non vi è, pertanto, né assoluta necessità di un'intensifìcazione delle colture, né morcellement delle unità di sfruttamento; le forze che possono giocare nell' orientare o meno verso la commercializzazione delle proprie produzioni sono altre. È stata fatta la ragionevole ipotesi che la situazione africana presentata dalle «grandes inscriptions» sia in qualche misura semmai paragonabile a quella polacca tra XVI e XVIII secolo, analizzata da Witold Kula. Se l'Italia dell'espansione imperiale, l'Italia delle grandi trasformazioni legate all'affermarsi del sistema della villa e del cosiddetto «modo di produzione schiavistico», è in qualche modo, si potrebbe dire, «centro» di un' «economiamondo», l'Africa va sempre più divenendo la sua periferia: da questo specifico punto di vista, è significativo che il termine di confronto, per quest'ultima, sia visto precisamente in un'altra «periferia» di un'altra «economia-mondo», piuttosto che nel «centro» di quest'ultima. Ora l' ormai classico «modello» di Witold Kula prospetta non solo una duplicità di orientamenti nell' agire economico da una parte dei signori feudali e dall'altra dei servi, ma individua in modo differenziato l'obiettivo della commercializzazione del surplus da parte degli uni e da parte degli altri: i signori feudali vendono il grano per l'esportazione, laddove i contadini vendono il surplus nei mercati locali; ora sarebbe possibile ipotizzare che parimenti i coloni africani per un verso reagiscano alle situazioni di mercato in modo analogo a quello in cui reagiscono i contadini polacchi, da «peasant farmers», vale a dire vendendo meno proprio quando i prezzi sono più alti; per un altro verso, che destinino questa quota della propria produzione, al di là delle partes e al di là del proprio consumo e del seme, a una commercializzazione nei mercati locali 61. Se per l'Africa i due modelli alternativi, di risposta a una crescita della popolazione, prospettati da de Vries si rivelano inutilizzabili, possono essi, viceversa, aiutare a capire l'evoluzione dell' economia agraria in Italia e in questo quadro anche quella dell'affitto agrario? L'interpretazione vulgata dei censimenti augustei implica che l'Italia tardorepubblicana, l'Italia dell'affermarsi della sua economia agraria specializzata, l'Italia che è centro di un' «economia-mondo» prima di essere centro di un «impero-mondo», sia anche un'Italia che vede scemare la propria popolazione libera e anzi drammaticamente cadere quella delle campagne 62. Vi sono tuttavia ragioni, mi sembra, probanti per rifiutare, con tale vulgata interpretazione dei censimenti augustei, anche questa, già a prima
61
KEHOE 1988a, 166 sg.; 219 sg., con il riferimento
62
HOPKINS
1978, cap. I.
a KULA 1970.
III. CONSIDERAZIONI
SULL' AFFITTO AGRARIO IN ETÀ IMPERIALE
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vista implausibile, ipotesi di un crollo della popolazione dell'Italia e in particolare delle sue campagne concomitante proprio col periodo di massima fioritura, «imperialistica», della sua economia'". E la prima e più immediata ragione è, paradossalmente, proprio l'accentuato processo di urbanizzazione: proprio in un periodo in cui non solo la popolazione di Roma cresce a dimensioni colossali per effetto dell' inurbamento di una parte della popolazione contadina, ma cresce fortemente il numero e l'entità delle altre concentrazioni urbane nella penisola, anche per effetto del processo di municipalizzazione, non si vede sulla base di quale produzione di beni primari potessero sopravvivere, al di là di Roma, nutrita sempre più dalle province, le centinaia di città della penisola. Ester Boserup ha potuto recentemente mettere in rilievo come, in una società preindustriale, non si dà urbanizzazione accentuata di un territorio, se ad essa non corrisponde una crescita consistente della popolazione rurale del territorio stesso?'. A meno di non ammettere, dunque, che l'ipotizzato crollo della popolazione dei liberi nelle campagne sia stato più che controbilanciato da un afflusso di schiavi ben più cospicuo di quello ipotizzato per esempio dallo stesso Hopkins, si dovrà concludere che va rimessa seriamente in discussione l'idea di una popolazione dell'Italia in forte decremento tra il terzo e il primo secolo a.C.: idea che ha per base, come si è già osservato, un' assolutamente ipotetica e implausibile interpretazione di un singolo dato documentario, qual è quello fornito dalle Res gestae a proposito dei censimenti del 28 a.C., dell'8 a.C. e del 14 d.C. Se dunque l'Italia dell'accentuata crescita economica è anche, come sembra ragionevole, un' Italia la cui popolazione libera oltre che servile è pur essa in forte crescita, possiamo chiederci quale dei due modelli individuati da de Vries, di risposta dell' elemento contadino a una crescita della popolazione, sia applicabile ad essa. Ora, nonostante i ragionamenti in negativo recentemente prospettati proprio in rapporto al caso di Pompei, di una città, vale a dire, ben al centro degli sviluppi che si legano all' affermarsi dell' economia della villa e del «modo di produzione schiavistico» 65, sembra di potere riconoscere molti degli elementi dello «specialization model» precisamente in casi quale quello della città campana e in generale dei centri urbani e delle aree rurali dell'Italia centrale tirrenica. È vero, peraltro, che le fortune dell' economia italica, legate all' espansione imperiale, sono destinate rapidamente a venir meno: e proprio in ragione di quella diversa, meno sbilanciata integrazione
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Lo
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BOSERUP
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JONGMAN
CASCIO
1994c. 1981, cap. 6. 1988.
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economica intermediterranea che le stesse necessità di sopravvivenza di un organismo imperiale promuovono'". L'Italia traianea è ormai un'Italia che non esporta più le produzioni delle sue aziende specializzate, è un'Italia che ha perso il suo primato; ed è dunque assai probabile che la pressione della sua popolazione determini, in talune aree almeno, quegli sviluppi che de Vries sintentizzava nel suo «peasant rnodel»: frammentazione delle unità produttive, ricerca dell' autosufficienza e conseguente ritrarsi sempre più accentuato dal mercato, crescita dello squilibrio, in termini di potere contrattuale, fra elemento contadino e grandi proprietari e così via - quegli sviluppi che sembrerebbe di poter leggere, in controluce, in talune lettere dell' epistolario pliniano. È probabile che gli ulteriori sviluppi dell' affitto agrario e della colonia parziaria siano anch' essi pesantemente condizionati, come in ogni altra situazione preindustriale, dalla dinamica della popolazione. Mi è sembrato di dovere legare i pur esili indizi di un ricorso sempre più consistente alla costrizione extraeconomica da parte dei ceti proprietari soprattutto nel senso, ovviamente, di un tentativo di limitazione della mobilità dell' elemento contadino - all'evoluzione demografica di lungo periodo, che vede, a partire dalla crisi dell' età antonina e per tutto il corso del III secolo, una popolazione in serio decremento 67. Credo, per fare un solo esempio, che sia ragionevole ipotesi che le lamentele, apparentemente accolte, dei coloni del saltus Burunitanus, non attestino, genericamente, la posizione contrattualmente forte degli «sharecroppers» africani", ma più specificamente il tentativo, da parte dei conductores, di modificare a loro favore, in una determinata congiuntura per essi sfavorevole, i termini del loro rapporto coi coloni, valendosi dell' arma extraeconomica rappresentata dal potere coercitivo dei procuratori imperiali con essi collusi: è plausibile che la pretesa dei conductores di richiedere non solo partes più elevate, ma anche un maggior numero di operae, nascesse da una situazione di accentuata diminuzione della forza lavoro sul saltus, che verrebbe fatto di connettere con il calo demografico degli anni '60 del secondo secolo?". È guardando, ancora una volta, alla dinamica di land e labour, d'altra parte, piuttosto che a un ipotizzato processo di sempre più grave indebitamento dei coloni (secondo la prospettiva fusteliana), che mi sembra debba essere affrontato il tema del rapporto, se rapporto vi è, tra il sistema delle affittanze e il colonato vincolato al suolo della tarda antichità: 66 67 6X 69
Lo Lo
1991 a, 358 sgg. 1991 b, 707 sgg., e infra, 179 sgg. KEHOE 1988a, 112 sgg. Lo CASCIO 1980b, 278 sg. [= Lo CASCIO 2000a, 303 sg.]. CASCIO CASCIO
III. CONSIDERAZIONI
SULL' AFFITTO AGRARIO IN ETÀ IMPERIALE
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mi sembra (aderendo, peraltro, a una lunga tradizione di studi) che si debba considerare improponibile qualsiasi spiegazione dell' introduzione del vincolo alla mobilità geografica (e sociale) dell' elemento contadino, che prescinda dal probabile determinarsi di uno squilibrio, sul lungo periodo, e in un senso opposto rispetto all'Italia «pliniana», tra domanda e offerta di lavoro agricolo, al quale si risponde, per l'appunto, con un' arma extraeconomica. Ma una riflessione in questa direzione merita di essere sviluppata altrove 70.
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lnfra, II 3; si vd. in generale Lo
CASCIO
(a c. di) 1997.
L
IV. L'ECONOMIA DELL'ITALIA ROMANA NELLA TESTIMONIANZA DI PLINIO
È difficile sopravvalutare 1'importanza della testimonianza fornita dall'epistolario pliniano (e per certi versi da alcuni capitoli centrali del Panegirico) ai fini della ricostruzione che possiamo tentare e della valutazione che possiamo proporre della situazione economica dell'Italia tra la fine del I e g1'inizi del II secolo. Il rilievo che assume l'opera pliniana deriva non solo dall'esiguità per non dire assenza di fonti coeve, ma soprattutto dal fatto che essa traduce con assoluta immediatezza la visione che Plinio ha delle questioni economiche di cui parla, le motivazioni del suo agire in quanto proprietario, le sue reazioni. Va per di più sottolineato come la testimonianza fornita dall'epistolario possa essere letta - e si tratta di un caso unico - alla luce di una parallela documentazione epigrafica ed archeologica. In effetti, significative informazioni sono quelle che ci fornisce, anche per questo aspetto, la famosa iscrizione postuma che elenca le liberalità di Plinio nei confronti di Como (oggetto di recente di una lucida e innovativa disamina da parte di Werner Eck) l, mentre la villa di Plinio a Tifernum Tiberinum (a Colle Plinio, a nord di Città di Castello nel territorio del comune di S. Giustino), il cui sito era stato identificato già nel '600, è oggetto da circa venticinque anni di una sistematica indagine archeologica, che ha confermato per molti versi e nello stesso tempo ha dato maggiore concretezza alla famosa descrizione della villa in Tuscis (a 5.6)2. Oltre tutto l'indagine archeologica ha privilegiato la pars fructuaria, la meglio conservata' confermando tra 1'altro come la vocazione produttiva della villa fosse in buona misura legata alla coltivazione della vite. La documentazione di scavo ha consentito anche di individuare, sia pure con qualche incertezza, i proprietari precedenti e successivi a Plinio, dal primo, da identificarsi in M. Granius Marcellus, proconsole di Bitinia nel 14-15 d.C.,3 all'ultimo, ILS 2927; ECK 2001. BRACONIe UROZ SAEZ (a c. di) 1999; vedi ora BRACONI2008; BRACONIe UROZ SAEZ 2008. 3 Si tratta del personaggio famoso di Tac. Ann. 1. 74, di famiglia originaria di Puteoli, legata a Mario, presente in Umbria a Hispellum, dov'è attestato un Granio quinquennalis (CIL XI, 5264); traccia degl'interessi della famiglia in quest'area può essere considerato anche il toponimo Gragnano, diffuso nella zona. I
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Non sembra comunque escluso che, a un certo punto, ne sia divenuto proprietario Plinio seniore dal quale sarebbe pervenuta al nipote". La testimonianza pliniana si rivela illuminante su vari piani. Essa ci informa sulla mentalità dei ceti proprietari quale risulta riflessa dai comportamenti di Plinio nella gestione del proprio patrimonio fondiario e più in generale delle proprie disponibilità liquide; sull' organizzazione interna delle unità produttive e sul rapporto tra produzione e commercializzazione; sul peso rispettivo delle varie forme di lavoro (servile e libero) e in particolare sul peso rispettivo di schiavi e coloni; sulle condizioni dell' economia agraria della penisola in generale, e in rapporto a quella delle province, quanto meno nelle sue caratteristiche "strutturali". Su ognuno di questi aspetti v' è stata in questi ultimi decenni e in particolare nell'ultimo una notevole fioritura di studi, che tuttavia non sempre ha portato a interpretazioni universalmente condivise". Restano molte incertezze tanto sulla puntuale ricostruzione delle singole questioni, quanto sui limiti entro cui siamo autorizzati a generalizzare alcuni dei dati che emergono, anche in ragione dell'estrema varietà delle situazioni regionali nelle condizioni economiche della penisola, oggi dimostrata dalle indagini archeologiche di scavo e di superficie. Il fatto stesso che le lettere pliniane si riferiscano ad ambiti geografici così diversi come il territorio di Como, la valle tiberina e la costa del Lazio a sud della foce del Tevere parrebbe vanificare qualsiasi tentativo di costruire un quadro unitario di quest' economia. In quel che segue tratterò anzitutto di taluni nodi interpretativi presentati da alcune lettere che sono tuttora controversi, e che sono relativi alle motivazioni che stanno dietro alle scelte di Plinio, all' organizzazione delle sue tenute, alle modalità del loro sfruttamento. Cercherò poi di segnalare quanto la testimonianza di Plinio parrebbe suggerire, a livello generale, a proposito della questione, tradizionalmente assai dibattuta dalla I'imperatore".
4 La proprietà sarebbe stata ereditata dal figlio, Granio Marciano, proconsole della Betica tra il 25 e il 34 (vd. p. es. ALFOLDY 1969, 149 sgg.), suicidatosi nel 34 per essere stato accusato di lesa maestà (Tac. Ann. 6. 38,4). Non si può escludere che già ora la proprietà sia stata incamerata dal patrimonium imperiale (dallo stesso Tiberio? i bolli laterizi con scritta CAESAR secondo l'UROZ SAEZ I999b, 192 sg., potrebbero datarsi in quest'età). Ma è certo che la tenuta sarebbe passata nel II secolo al demanio imperiale: UROZ SAEZ, l. cito (una ricostruzione diversa in MAIURO 2007, 297-301). 5 L'appartenenza a Plinio il Giovane è attestata dalle tegulae con la scritta CPCS: UROZ SAEZ 1999a, 46 sg.; UROZ SAEZ 2008. 6 Su Plinio proprietario fondiario in particolare SIRAGO 1958, part. 22 sgg., 103 sgg.; MARTIN 1967; SHERWIN-WHITE 1966, passim; DUNCAN-JONES 1974, cap. I; Johne, in JOHNE-KoHN- WEBER 1983, 145; BACKHAUS1987; DE NEEVE 1990; KEHOE 1988b; KEHOE 1989; KEHOE 1993; ROSAFIO 1993a(trad. it. in ROSAFIO 2002, 81-109); Lo CASCIO 1992-93; e supra, 104-106; CAPOGROSSICOLOGNESI 1992-93, passim (nuova versione in CAPOGROSSICOLOGNESI 1996, capp. IV-VII). Poco di nuovo nel contributo di FELLMETH 1998, che peraltro non tiene conto di questi studi più recenti.
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storiografia moderna a partire almeno dalla grande opera di Rostovzev 7, se si possa davvero parlare di una crisi dell' economia italica parallela alla crescita economica delle province (o addirittura da essa determinata, come appunto voleva Rostovzev) e se si possa riconoscere una tale crisi come già in atto o come incipiente tra la fine del I e il II secolo d.C., e dunque presenterò una serie di considerazioni sui caratteri strutturali e sulle tendenze di lungo periodo dell' economia agraria dell' Italia di età imperiale. In questo quadro insisterò sul rilievo che ha la dinamica della popolazione, di cui è possibile cogliere un riflesso solo indiretto nella testimonianza pliniana, ma che mi sembra abbia un' importanza cruciale nel determinare come si muovano alcune delle variabili sulle quali si orienta il comportamento dei proprietari italici, e cioè l'evolversi dei prezzi dei fattori produttivi, terra e lavoro, in rapporto all' evolversi dei prezzi dei prodotti. Proprio l'evoluzione di breve e di lungo periodo dei prezzi dei fattori produttivi e dei prodotti mi sembra che abbia un peso notevole, nell' orientare le scelte dei proprietari come Plinio. Va sottolineato anzitutto come non vi sia la ben che minima allusione, nell' epistolario, a un'utilizzazione in chiave autarchica delle produzioni dei propri fondi. Vi è, viceversa, una netta e chiara connessione con il mercato. Le proprietà di Plinio sono sfruttate in vista di una totale commercializzazione delle produzioni o di un ricavo monetario attraverso i canoni di affitto. Non meraviglieranno, allora, le molteplici allusioni che emergono nelle lettere ai prezzi, alla loro estrema variabilità sul breve periodo, come effetto immediato dell' entità dei raccolti a sua volta dipendente dalle condizioni atmosferiche, e alla variabilità del reditus che ne consegue. Così, ad esempio, a 4. 6, Plinio lamenta il fatto che questa possibilità di reditus è compromessa, per la proprietà di Tifernum Tiberinum, dal fatto che il raccolto è stato distrutto dalla grandine, mentre nella proprietà della regio Transpadana il raccolto è stato talmente abbondante che ora si preannuncia una vilitas". Quanto al prezzo dei fattori produttivi, se sembra esservi un unico riferimento assai generico, come vedremo, al prezzo degli schiavi - in particolare deifrugi mancipia - come un fattore di cui tener conto in una 7 ROSTOVZEV 1933; ROSTOVTZEFF 2003 (nuova edizione della traduzione italiana, corredata di una serie di testi inediti, a cura di A. Marcone). x «Tusci grandine excussi, in regione Transpadana summa abundantia, sed par vilitas nuntiatur: solum mihi Laurentinum meum in reditu. Nihil quidem ibi possideo praeter tectum et hortum statimque harenas, solum tamen mihi in reditu. Ibi enim plurimum scribo, nec agrum quem non habeo sed ipsum me studiis excolo; ac iam possum ti bi ut aliis in locis horreum plenum, sic ibi scrinium ostendere. Igitur tu quoque, si certa et fructuosa praedia concupiscis, aliquid in hoc litore para. Vale»: la lettera è indirizzata a Iulius Naso.
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scelta di investimento (a 3. 19), le allusioni al prezzo della terra e al suo dipendere dal reditus che se ne può ricavare sono molteplici (e trovano, per questo secondo aspetto, un parallelo nella sostanzialmente coeva documentazione fornita dai due catasti di Veleia e dei Ligures Baebiani, compilati per la gestione del programma alimentare) 9. A questo proposito una delle più significative testimonianze è certo quella fornita dalla lettera nella quale Plinio allude alla misura traianea che impone a coloro che si candidano alle magistrature e al senato di Roma di investire un terzo della propria fortuna in terra italica (6. 19) "', Il provvedimento ha prodotto l'effetto di elevare artificialmente il prezzo delle terre italiche e in particolare di quelle intorno a Roma, come ci dice espressamente Plinio, che consiglia al suo corrispondente di vendere, a questo punto, le proprietà in Italia e acquistarne altre nelle province dalle quali provengono gli aspiranti senatori, dove i prezzi stanno, per l'eccesso dell' offerta, calando. La misura traianea influenza, dunque, pesantemente il mercato della terra: i venditori dei terreni in Italia potranno ricavare, dall'incremento di prezzo, un profitto ulteriore da potere impiegare per esempio nell' acquisto di terre più a buon mercato in provincia; i nuovi proprietari, nella misura in cui comprano a un prezzo non conforme al livello delle rendite, sono incentivati a non vedersi diminuire il valore delle terre acquistate (una volta esauritosi l'effetto della legge) e dunque ad apportare migliorie che potranno consistere anche solo nella costruzione di una nuova villa o nell' abbellimento della pars urbana di quella già presente sul fondo. Andrà incidentalmente osservato come una spettacolare conferma dell' efficacia della misura traianea (poi ripresa, in una forma attenuata, da Marco Aurelio) Il proviene dalla documentazione archeologica nel suburbio di Roma. Si rileva una trasformazione delle modalità insediative e del paesaggio agrario: nel suburbio si edificano grandi dimore o si trasformano precedenti costruzioni in grandi dimore, Lo CASCIO2000a, 230 sgg., parto 233 con n. 45 e ivi riferimenti. «Scis tu accessisse pretium agris, praecipue suburbanis? Causa subitae caritatis res multis agitata sermonibus. Proximis comitiis honestissimas voces senatus expressit: 'Candidati ne conviventur, ne mittant munera, ne pecunias deponant'. Ex quibus duo priora tam aperte quam immodice fiebant; hoc tertium, quamquam occultaretur, pro comperto habebatur. Homullus deinde noster vigilanter usus hoc consensu senatus sententiae loco postulavit, ut consules desiderium universorum notum principi facerent, peterentque sicut aliis vitiis huic quoque providentia sua occurreret. Occurrit; nam sumptus candidatorum, foedos iIIos et infames, ambitus lege restrinxit; eosdem patrimoni i tertiam partem conferre iussit in ea quae solo continerentur, deforme arbitratus (et erat) honorem petituros urbem Italiamque non pro patria sed pro hospitio aut stabulo quasi peregrinantes habere. Concursant ergo candidati; certatim quidquid venale audiunt emptitant, quoque sint plura venalia efficiunt. Proinde si paenitet te Italicorum praediorum, hoc vendendi tempus tam hercule quam in provinciis comparandi, dum idem candidati illic vendunt ut hic emant. Vale». La lettera è indirizzata a Mecilio (o Metilio) Nepote: cfr. SHERWIN-WHITE 1966, 376-78. Il H.A. Mare. Il.8. 9
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che sono quasi vere e proprie domus cittadine, possedute dalla nuova aristocrazia di origine provinciale che deve insediarsi stabilmente in Italia 12. Ma la più significativa testimonianza in Plinio dell' ovvia attenzione, nel momento di un investimento fondiario, al prezzo della terra in rapporto al reditus che se ne può conseguire è quella fornita dalla lettera a Calvisio Rufo, suo amico di Como (3. 19) 13. Alla fine della presentazione delle varie considerazioni che sollecitano all' acquisto di una nuova tenuta contigua alla sua o che lo sconsigliano Plinio mette in rilievo come un argomento forte a favore dell' acquisto sia proprio la convenienza del prezzo, in rapporto al reditus che potenzialmente la tenuta è in grado di garantire, se gestita in modo oculato. La convenienza del prezzo lo indurrebbe addirittura non solo a richiedere ai suoi debitori la restituzione delle somme che ha loro prestato, ma a prendere lui stesso in prestito il denaro necessario (<
COARELLI 1986; vd. anche supra, 61 sg. «Assumo te in consilium rei familiaris, ut soleo. Praedia agris meis vicina atque etiam inserta venalia sunt. In his me multa sollicitant, aliqua nec minora deterrent. Sollicitat primum ipsa pulchritudo iungendi; deinde, quod non minus utile quam voluptuosum, posse utraque eadem opera eodem viatico invisere, sub eodem procuratore ac paene isdem actoribus habere, unam villam colere et ornare, alteram tantum tueri. Inest huic computationi sumptus supellectilis, sumptus atriensium topiariorum fabrorum atque etiam venatorii instrumenti; quae plurimum refert unum in locum conferas an in diversa dispergas. Contra vereor ne sit incautum, rem tam magnam isdem tempestatibus isdem casibus subdere; tutius videtur incerta fortunae possessionum varietatibus experiri. Habet etiam multum iucunditatis soli caelique mutatio, ipsaque illa peregrinatio inter sua. lam, quod deliberationis nostrae caput est, agri sunt fertiles pingues aquosi; constant campis vineis silvis, quae materiam et ex ea reditum sicut modicum ita statum praestant. Sed haec felicitas terrae imbecillis cultoribus fatigatur. Nam possessor prior saepius vendidit pignora, et dum reliqua colonorum minuit ad tempus, vires in posterum exhausit, quarum defectione rursus reliqua creverunt. Sunt ergo instruendi, eo pluris quod frugi, mancipiis; nam nec ipse usquam vinctos habeo nec ibi quisquam. Superest ut scias quanti videantur posse emi. Sestertio triciens, non quia non aliquando quinquagiens fuerint, verum et hac penuria colonorum et communi temporis iniquitate ut reditus agrorum sic etiam pretium retro abiit. Quaeris an hoc ipsum triciens facile colligere possimus. Sum quidem prope totus in praediis, aliquid tamen fenero, nec molestum erit mutuari; accipiam a socru, cuius arca non secus ac mea utor. Proinde hoc te non moveat, si cetera non refragantur, quae velim quam diligentissime examines. Nam cum in omnibus rebus tum in disponendis facultatibus plurimum tibi et usus et providentiae superest. Vale»: cfr. SHERWIN-WHITE 1966,253-59. 12
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favore e contro l'acquisto che vengono messe in campo da Plinio, dimostra come la massimizzazione del profitto conseguibile non fosse l'unico obiettivo che guidava le scelte di investimento. C'è un altro obiettivo che viene perseguito, ed è quello di garantirsi un reditus sicuro, anche se modesto, di evitare, entro certi limiti, i rischi dell'intrapresa, attraverso vari mezzi. Alcuni studi recenti, soprattutto di Dennis Kehoe 14, hanno molto insistito su questa finalità, e non si può che concordare sul rilievo che ad essa va riconosciuto. Ma sarebbe un errore ritenere che massimizzazione del profitto e ricerca di un' entrata sicura fossero obiettivi radicalmente opposti e visti sempre come tali nel concreto operare dei proprietari. Ancor più illegittimo sarebbe ritenere l'obiettivo di un' entrata sicura come economicamente meno razionale della massimizzazione del profitto. Anche comportamenti che non rispondono in prima istanza a questo obiettivo si rivelano razionali. Così va sottolineato che la ragione per la quale Plinio censura il comportamento del proprietario del fondo che egli ha intenzione di comprare e che è andato così tanto giù di prezzo - l'aver venduto gli attrezzi dei coloni che egli aveva loro sottratto come pignora - è il fatto che è proprio questo comportamento che in ultima analisi gli ha nociuto, dal momento che, seppure è riuscito temporaneamente a rivalersi, ha tolto ai propri coloni ogni possibilità di risollevarsi e dunque ha ulteriormente incrementato i reliqua. Plinio attribuisce la perdita di valore del fondo, che è passato dal valere cinque milioni di sesterzi a valerne tre, per un verso alla penuria colonorum e per un altro verso alla communis temporis iniquitas, che hanno prodotto una riduzione del reditus che può trarsi dalle proprietà e di conseguenza una riduzione del prezzo. Mentre risulta difficile individuare quali siano le difficoltà alle quali Plinio allude con la seconda espressione, data la sua estrema genericità, il nesso penuria colono rum è stato di solito inteso o come quello che indica una generale mancanza di potenziali affittuari, da qualcuno addirittura imputata a un presunto spopolamento generalizzato delle campagne d'Italia 15, o, più precisamente, come quello che allude alla difficoltà di reperire affittuari adeguati, per esempio finanziariamente solidi, come potrebbe suggerire un' altra lettera, dove si mette in rilievo quanto sia raro «invenire idoneos conductores» (7. 30) 16. Devo dire che anche io ho ritenuto in passato incontrovertibile questa seconda interpretazione 17. E tuttavia mi sembra oggi che essa urti contro una notevole difficoltà. Se noi inSupra, n. 6. MARTIN 1967,83. 16 CORBIER 1981,432; DE NEEVE 1990,387, con n. 126; cfr. anche MARTINI 1986. 17 Lo CASCIO 1992-93, 267 con n. 41; Lo CASCIO 2000a, 261 con n. 135; cf. anche supra, 104.
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terpretassimo penuria colonorum nel senso di "scarsezza, mancanza di coloni", non solo diverrebbe assai meno chiaro il rapporto, che invece l'intero contesto della lettera sembra suggerire, tra il comportamento del possessor prior, la perdita dell' instrumentum che ha portato gli attuali cultores a essere imbecilli e la drastica caduta del valore della tenuta, ma diverrebbe inspiegabile, a meno di non ritenere la mancanza di coloni fenomeno universalmente diffuso - diffuso anche nella regio Transpadana dove si trova il corrispondente di Plinio - e noto a tutti, l'uso dell'aggettivo dimostrativo: «hac penuria colonorum». L'uso del dimostrativo sarebbe invece perfettamente comprensibile se con penuria colono rum si alludesse alla rovinosa situazione nella quale si sono trovati i cultores che si sono visti vendere i propri attrezzi 18. Il senso di penuria sarebbe, allora, quello, originario, di inopia, o quello che ha poi nel latino tardo, di egestas, "povertà", "mancanza di risorse". In questo caso, col genitivo, non verrebbe indicato «id quod dccst», ma «id vel is cui aliquid deest», come recita il TLL 19. Ancora c'è razionalità di comportamento nella scelta di Plinio, che ha venduto l'uva sull'albero (o lo stesso vino prima della vendemmia e della vinificazione) a un prezzo rivelato si poi eccessivo, di concedere uno sconto ai negotiatores suoi acquirenti (8. 2)20: è vero che Plinio osserva IX Che il termine possa alludere alla "poverty" dei coloni, piuttosto che alla "scarcity" Cedunque allo "shortage") di coloni, è ipotesi che viene esplicitamente esclusa da DE STE. CROIX 1981, 217 con n. 15, p. 582, dove è citato come «the nearest parallel» della lettera pliniana, Cic. 2Verr. 3. 125-8 (l'aratorum penuria). DE NEEVE 1990, 393 n. 26, ricorda pure la penuria aprorum di Plin. Ep. 9. IO. l: ma andrà osservato come questo sia il solo altro caso in cui la parola compare nell'epistolario pliniano. 19 Un confronto significativo mi sembra Hier. inAm. 7.14-171. 406 «et pastorum famem ac penuriam consolantur»; ma vd. pure, ad es. Apul. Mel. 4. 28. 2: «ne sufficienter quidem laudari sermonis humani penuria poterat». 20 «Alii in praedia sua proficiscuntur ut locupletiores revertantur, ego ut pau peri or. Vendideram vindemias certatim negotiatoribus ementibus. Invitabat pretium, et quod tunc et quod fore videbatur. Spes fefellit. Erat expeditum omnibus remittere aequaliter, sed non satis aequum. Mihi autem egregium in primis videtur ut foris ita domi, ut in magnis ita in parvis, ut in alienis ita in suis agitare iustitiam. Nam si paria peccata, pares etiam laudes. Itaque omnibus quidem, ne quis 'rnihi non donatus abiret', partem octavam pretii quo quis emerat concessi; deinde iis, qui amplissimas summas emptionibus occupaverant, separati m consului. Nam et me magis iuverant, et maius ipsi fecerant damnum. Igitur iis qui pluris quam decem milibus emerant, ad illam communem et quasi publicam octavam addidi decimam eius sumrnae, qua decem milia excesserant. Vereor ne parum expresserim: apertius calculo ostendam. Si qui forte quindecim milibus emerant, hi et quindecim milium octavam et quinque milium decimam tulerunt. Praeterea, cum reputarem quosdam ex debito aliquantum, quosdam aliquid, quosdam nihil reposuisse, nequaquam verum arbitrabar, quos non aequasset fides solutionis, hos benignitate remissionis aequari. Rursus ergo iis qui solverant eius quod solverant decimam remisi. Per hoc enim aptissime et in praeteritum singulis pro cuiusque merito gratia referri, et in futurum omnes cum ad emendum tum etiam ad solvendum allici videbantur. Magno mihi seu ratio haec seu facilitas stetit, sed fuit tanti. Nam regione tota et novitas remissionis et forma laudatur. Ex ipsis etiam quos non una, ut dicitur, pertica sed distincte gradatimque tractavi, quanto quis melior et probior, tanto mihi obligatior abiit expertus non esse apud me «èv Of: iii 'ttJlii 1ÌJlf:V K<XKÒç; 1ÌOf: K<XtÈcrSÀoç;»Vaie»: la lettera è indirizzata a Calvisio Rufo: cfr. SHERWIN-WHITE 1966,448-50.
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come «alii in praedia sua proficiscuntur ut locupletiores revertantur, ego ut pauperior», ed è vero che egli sottolinea come l' aequitas dovrebbe guidare i comportamenti anche economici dei proprietari, ma ancor più significativa mi sembra la considerazione secondo la quale concedere lo sgravio, e in misura differenziata e maggiore a coloro che hanno già pagato, non solo incentiverà a pagare le somme dovute, ma indurrà i negotiatores oggi favoriti a restare "clienti" in futuro, a comprare ancora da Plinio. Come si vede motivazioni extra-economiche (il conformarsi all' aequitas) e motivazioni rigorosamente economiche si mescolano. Questa stessa mescolanza di motivazioni economiche e di motivazioni extraeconomiche la cogliamo nella lettera a Calvisio Rufo sull' acquisto del fondo contiguo al suo a Tifernum ". Plinio mette in rilievo ciò che lo sollecita all'acquisto e ciò che viceversa lo spaventa. Lo attira la stessa «pulchritudo iungendi», vale a dire l'attrattiva che esercita (diremmo su un piano "estetico") il potere unire alla sua questa nuova proprietà, il che consentirebbe, oltretutto, di conseguire vantaggi più concreti, quale quello di potere visitare in un solo viaggio le due tenute, quello di farsele amministrare dal medesimo procurator e dai medesimi actores, o ancora quello di potere adornare e rendere adeguata come residenza per i soggiorni che Plinio vi farà una sola delle due ville, laddove l'altra andrebbe solo mantenuta in buono stato. Va anche tenuto conto, dice Plinio, del risparmio che potrebbe derivare dalI' avere in un unico luogo, piuttosto che dispersi in più posti, suppellettili, domestici, giardinieri, operai e l'attrezzatura per andare a caccia. D'altro canto Plinio ritiene che potrebbe essere imprudente avere una proprietà così grande soggetta alle medesime condizioni meteorologiche: una tale preoccupazione consiglierebbe di ripartire la proprietà tra più località. Oltretutto cambiare posti e viaggiare tra una tenuta e l'altra delle proprie è piacevole. Plinio mette poi in rilievo la fertilità e la salubrità della tenuta, nonché la varietà delle utilizzazioni dei vari agri che la compongono, tra i quali hanno una posizione di rilievo, in quanto dànno un reddito modesto ma sicuro, le silvae. Ancora una volta, le motivazioni extra-economiche (tra le quali deve farsi rientrare anche la stessa «pulchritudo iungendi») si mescolano a quelle più strettamente economiche: quelle che-potremmo intendere, in qualche modo, come indicative di una consapevole ricerca di economie di scala. E certo l'ampliamento della propria fortuna fondiaria doveva essere considerato un obiettivo, anche per ragioni di prestigio sociale: è ormai venuta meno, tra i ceti elevati, l'ideologia della frugalità, anche se il termine compare come quello che ispira in generale la propria condotta 21
Supra, n. 13.
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proprio in Plinio+. Ma ancora una volta la volontà di evitare gli eccessivi rischi dell' intrapresa è pure presente, come una considerazione che deve, in talune situazioni, pesare, anche se in questo caso non vale a sconsigliare a Plinio l'acquisto della tenuta. Anche le scelte relative alla gestione del patrimonio fondiario sembrano derivare da un' attenta considerazione comparativa dei costi e dei ricavi, non disgiunta dalla volontà di evitare, o di distribuire i rischi. A queste finalità risponde la diversificazione delle colture. È troppo evidente che le proprietà di Plinio sono costituite da campi coltivati, colture arboree, vigneti, prati, boschi, e che solo in alcuni casi l'utilizzazione economica adottata è suggerita come l'unica possibile dalle condizioni ambientali (così, la proprietà del Laurentinum è utilizzata in parte come pascolo invernale di greggi transumanti). Strettamente connessa con la diversificazione è la parcellizzazione in più poderi di dimensioni contenute. Dalla volontà di perseguire congiuntamente questi obiettivi è pure condizionata la scelta se gestire attraverso la propria [amilia le singole unità produttive nelle quali si ripartiva l'intera proprietà o se affittarle a coloni: un' opzione sempre aperta e ovviamente influenzata, in concreto, dalla disponibilità di forza-lavoro libera o servile, e un' opzione forse mai definitiva, potendosi sempre passare dalla gestione diretta all' affitto o viceversa. Mi sembra che una simile conclusione debba essere tratta dalla stessa lettera a Calvisio Rufo. Si è già visto come Plinio censuri il comportamento del possessor prior, che, per rivalersi dei reliqua, degli arretrati degli affitti, ha spesso venduto, in precedenza, i pignora dei coloni, riducendone tuttavia, in questo modo, e definitivamente, le capacità produttive. Dunque bisogna ricostituire l'instrumentum e bisogna dotare la tenuta di buoni schiavi, dal momento che nessuno nei dintorni usa schiavi vincti (cioè incatenati: i servi vincti dovevano essere evidentemente i meno mansueti). Plinio osserva, appunto, che «sunt ergo instruendi, eo pluris quod frugi, mancipiis; nam nec ipse usquam vinctos habeo nec ibi quisquam». Il problema che si pone è se soggetto di «sunt ergo instruendi» siano i coloni, citati in precedenza, ovvero gli agri, parimenti citati in precedenza (come a me sembrerebbe più probabile per via del fatto che nella frase successiva soggetto di «emi» non possono ovviamente che essere gli agri). In base alla prima interpretazione, Plinio ipotizzerebbe di rimpiazzare, a sue spese, l' instrumentum e dunque di fornire i mancipia agli stessi (o ad altri?) coloni"; nel secondo caso, si tratterebbe più 222.4.3; ma i riferimenti allafrugalitas concepita come una dote sono molteplici: l. 14.4; 22. 5; 2. 4.3; 6. 6; 4. 19.2; 5. 19.9; 6.8.6. 23 È questa l'interpretazione della maggior parte degli studiosi: da Sherwin-White, a Martin, a Duncan-Jones, a Finley, a Frier, a de Ste. Croix, a Corbier, a Johne, a Garnsey-Saller, a Kehoe, a Backhaus,
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verosimilmente di passare da una gestione mediante coloni, alla gestione diretta, mediante un vilicus o un actor e una squadra di schiavi 24. È ovvio che, se accettassimo la prima interpretazione, ne dovremmo concludere che i coloni ridotti in cattive acque dalla vendita dei pignora dovevano essere, in partenza, proprietari di schiavi e che gli schiavi erano appunto tra i pignora venduti dal precedente proprietario. Va, tuttavia, considerato che questa sarebbe l'unica lettera dell' epistolario pliniano dalla quale risulterebbe, adottando questa prima interpretazione, che i coloni con cui Plinio ha a che fare - i coloni ai quali fa riferimento nelle lettere - sono proprietari di schiavi 25, e dunque, quanto meno in partenza, abbastanza agiati: sembra perciò imprudente volerne trarre conclusioni di ordine generale circa specificamente questo aspetto del possesso degli schiavi da parte dei coloni. Che peraltro il riferimento ai mancipia possa essere solo a quelli che, in qualità di actores o di procuratores, devono sovrintendere alle attività dei coloni, sembra escluso dal contesto (non avrebbe ovviamente senso ipotizzare come possibile alternativa l'uso come actores o procuratores di servi vincti), così come nulla nella lettera autorizza a pensare che ciò che Plinio ha in mente sia di sostituire gli affittuari del vecchio proprietario (liberi e/o servi quasi coloni) con propri servi quasi coloni, come pure si è voluto supporre26• Mi sembra allora del tutto probabile che la lettera testimoni il fatto, confermato da altre lettere che mostrano un interesse specifico da parte di Plinio per le attività produttive della propria tenuta nel loro concreto e quotidiano svolgersi (come per esempio 9. 20), che non tutta la proprietà di Tifernum e presumibilmente anche non tutta quella di Como, fosse affittata a coloni: ciò che avrebbe significato, per Plinio, quanto meno prima del passaggio, rivelato da 9.37, alla colonia parziaria, il lasciare agli stessi coloni la responsabilità della commercializzazione dei prodotti. Proprio la lettera, cui si è già accennato, nella quale Plinio ricorda lo sconto che ha concesso ai negotiatores testimonia, viceversa, un suo
a De Martino: rif. in
1990, 385 n. 116, che la fa propria; si aggiunga ROSA FIO 1993a, 69; e cit. infra (a note 24 e 26). 24 È questa l'interpretazione favorita da HEITLAND 1921, 320, n. 4; cfr. anche Lo CASCIO 1992-93, 258. Si potrebbe astrattamente pensare che, anche nell'ipotesi che soggetto di «sunt ergo instruendi» siano gli agri, Plinio pensi di mantenere una gestione affidata a coloni: in quest'ultimo caso, laddove i coloni del precedente proprietario avrebbero avuto schiavi, Plinio fornirebbe egli stesso, in quanto proprietario, i mancipia, a questi stessi coloni impoveriti o a nuovi coloni di modeste risorse. In questo senso tende a non attribuire rilievo alla questione di chi debba considerarsi soggetto della frase il CAPOGROSSI COLOGNESI 1992-93,213 sg., n. 89 (cfr. anche CAPOGROSSI COLOGNESI 1996,284 sgg.). 25 Andrà ribadito, in effetti, che qualunque sia l'interpretazione che si voglia dare di ciò che Plinio ha intenzione di fare acquistando la tenuta, una cosa è certa: i mancipia introdotti nella tenuta stessa saranno i suoi e non quelli di un eventuale colonus. 26 CAPOGROSSI COLOGNESI 1986, 354 con n. 79 a p. 719. CAPOGROSSI
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COLOGNESI
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pieno coinvolgimento nella commercializzazione 27. Non vi si parla della produzione e delle sue modalità e rimane incerto pure se ciò che Plinio ha venduto è l'uva (che poi sarà trasformata in vino dai negotiatores stessi) oppure, come sembra assai più probabile, il vin028• Se questo secondo è il caso, Plinio non dice in quale modo provveda all'attività di trasformazione, tant' è che sono state avanzate molteplici ipotesi al riguardo. Y' è chi ha supposto che il vino venduto sia quello prodotto nella parte del fondo gestita direttamente da Plinio e lavorata dalla sua [amilia rustica, integrata, e supervisionata, dai suoi schiavi di città 29 (secondo lo schema che parrebbe attestato da un'altra lettera, 9. 20)30. Y' è chi ha supposto che l'uva o il vino siano i canoni in natura pagati dai coloni parziari (e la lettera si riferirebbe dunque a un momento successivo rispetto a quello di 9. 37)31. Il compianto Pieter Wim de Neeve più recentemente ha prospettato come l'ipotesi più plausibile quella secondo la quale Plinio avrebbe affidato a un redemptor la vendemmia e la vinificazione, secondo uno schema presente nel trattato catoni ano 32 (anche se con una cruciale differenza: che il redemptor sarebbe assoldato, in questo caso, dal venditore e non, come in Catone, dal compratore). De Neeve è andato ancor più in là, collegando più strettamente questa lettera con l'altra lettera 9. 20: gli urbani citati in quest'ultima lettera, chiamati a sovrintendere ai rustici, sarebbero proprio il redemptor con la sua squadra, mentre i rustici sarebbero il personale stabile delle unità produttive (anche se viene lasciato impregiudicato se in questo personale debbano riconoscersi gli schiavi ovvero i coloni}". La soluzione di De Neeve è certo ingegnosa, ma non del tutto persuasiva e comunque va messo in rilievo non solo che nella lettera non v' è alcuna allusione all'ipotetico redemptor, ma che la menzione di urbani e rustici è in un' altra lettera e non in questa. Anche se non possiamo dire di avere certezze al riguardo, mi sembrerebbe più plausibile, an-
27 8.2: cfr. supra, n. 20. Peraltro questa lettera non è l'unica dalla quale parrebbe potersi dedurre che buona parte del reditus proviene dalla commercializzazione del vino: si vedano ancora 9. 16,20 e 28. 28 Per esempio SHERWINWHITE 1966, 449, e CORBIER 1981, 439, pensano che a essere venduta è l'uva sull'albero; DE NEEVE 1990,377. 29 SHERWIN-WHITE 1966,449, cfr. 500; lo segue DE NEEVE 1984b, 139. 30 «Tua vero epistula tanto mihi iucundior fuit quanto longior erat, praesertim cum de libellis meis tota loqueretur; quos tibi voluptati esse non miror, cum omnia nostra perinde ac nos ames. Ipse cum maxime vindemias graciles quidem, uberiores tamen quam exspectaveram colligo, si colligere est non numquam decerpere uvam, torculum invisere, gustare de lacu mustum, obrepere urbanis, qui nunc rusticis praesunt meque notariis et lectoribus reliquerunt. Vale»: la lettera è indirizzata a Venatore: cfr. SHERWIN-WHITE 1966,504. 31 SIRAGO 1958, 118 sg. 32 Cato de agro 144, con riferimento alla raccolta delle olive e alla loro spremitura. 33 DE NEEVE 1990, 376 sgg.
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che alla luce della documentazione archeologica che parrebbe suggerire una produzione centralizzata del vino nella villa di Plinio, che la vendita in questo caso si riferisca a uva o più probabilmente a vino prodotto nella parte della tenuta gestita direttamente, o per il tramite di actores, da Plinio stesso. Il ruolo di Plinio nella commercializzazione è comunque chiaro: l'acquisto è stato fatto certatim da numerosi compratori che sono negotiatores e nella previsione che il prezzo dell'uva o più probabilmente del vino andasse su. In realtà il prezzo è calato e dunque i negotiatores si ritrovano ad aver pagato di più del prezzo corrente (diremmo del prezzo del forum rerum venalium). Di qui lo "sconto" che fa Plinio, che ha, come si è visto, anche motivazioni economiche. Farò un'ulteriore osservazione: se il prezzo è sceso, è perché il raccolto è stato nell'area più abbondante del previst034, dunque l'uva o il vino da commercializzare sono in una quantità maggiore. E allora concedere lo "sconto" può incentivare i negotiatores ad acquistare di più di quanto pattuito. Dalla stessa frequenza con la quale compare il riferimento ai propri coloni e dalla sostanziale esiguità di riferimenti espliciti a propri schiavi parrebbe comunque risultare sicuro che la maggior parte dei fondi di Plinio fossero affittati. Il problema semmai che si pone è di decidere se i coloni di Plinio debbano considerarsi piccoli contadini coltivatori diretti, affini ai pauperculi che coltivano cum sua progenie, per riprendere la definizione varroniana (R.R. 1. 17), ovvero middle men, piccoli "imprenditori" agricoli, che coltivano anche valendosi di un personale servile di loro proprietà, come vorrebbero alcuni studi recenti. Ora, è del tutto probabile che nella variegata realtà dell' Italia romana l'affitto agrario dovesse essere fenomeno che, riguardando unità delle più diverse dimensioni a gestite nei modi più diversi, copriva le più disparate condizioni economiche e sociali, e dunque possiamo considerare certo che nelle campagne della penisola non dovesse mancare affatto la figura del conductor imprenditore, con buone disponibilità finanziarie, com' è del tutto probabile che molti dei frammenti del Digesto che trattano della locatio-conductio di fondi rustici riguardino, o riguardino anche, questi affittuari agiati. Più problematico, tuttavia, mi sembra voler riconoscere nei coloni di Plinio qualche cosa di diverso dai piccoli affittuari, dai pauperculi, proprio per la evidente precarietà e, direi, inferiorità sociale con le quali vengono rappresentati nelle lettere e che una lunga tradizione di studi ha pur riconosciuto. Si è già visto come la tesi secondo la quale i coloni di Plinio disponessero autonomamente di personale servile si basi 34
Vi è forse una connessione, anche per quest'aspetto,
con quanto viene detto a 9. 20?
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su un'interpretazione discutibile, e comunque non sicura, di una sola lettera. C'è però un' altra lettera famosa che è stata intesa, anche di recente, come quella che testimonierebbe che Plinio avrebbe affittato nientemeno che per 400.000 sesterzi, per un anno o per un lustro, una sola proprietà a un unico conductor. La lettera è quella del decimo libro (lO. 8) con la quale Plinio, allora praefectus aerarii Saturni (siamo nell'estate del 98 o del 99), chiede a Traiano un mese di congedo per potersi recare a Tifemum Tiberinum, non solo ad avviare la costruzione di un templum nel quale porre le statue dei precedenti principes che egli ha ereditato e alle quali ha ora l'intenzione di aggiungere quella di Traiano, ma anche ad effettuare la locatio degli agri che possiede in quella regione, locatio che gli rende più di 400.000 sesterzi "; l'operazione non può essere differita e Plinio ne spiega la ragione: «Agrorum enim locatio adeo non potest differri, ut proximam putationem novus colonus facere debeat». Inoltre le continuae sterilitates lo costringono a prendere in considerazione l'eventualità di concedere remissiones, di cui però non può calcolare l'ammontare se non è sul posto. Parrebbe probabile che qui «novus colonus» debba essere inteso come singolare collettivo e che dunque l'ammontare del canone, di 400.000 sesterzi, non sia relativo (o come canone annuale o come canone per un intero lustrum) a un unico contratto di locazione, ma sia quello complessivo degli agri affittati della sua tenuta, come oltretutto sembrerebbe suggerire il contesto: e questa è l'interpretazione comunemente accolta, per esempio, tra gli altri da Brunt, da Sherwin-White, da Duncan-Jones ". De Neeve, con altri studiosi, ha ritenuto viceversa che «novus colonus» debba intendersi come effettivo singolare: il che naturalmente porterebbe a identificare nel colonus in 35 «Cum divus pater tuus, domine, et oratione pulcherrima et honestissimo exemplo omnes cives ad munificentiam esset cohortatus, peti i ab eo, ut statuas principum, quas in longinquis agris per plures suecessiones traditas mihi quales acceperam custodiebam, permitteret in municipium transferre adiecta sua statua. Quod quidem ille mihi cum plenissimo testimonio indulserat; ego statim decurionibus scripseram, ut assignarent solum in quo templum pecunia mea exstruerem; iIli in honorem operis ipsius electionem loci mihi obtulerant. Sed primum me a, deinde patris tui valetudine, postea curis delegati a vobis officii retentus, nunc videor commodissime posse in rem praesentem excurrere. Nam et menstruum meum Kalendis Septembribus finitur, et sequens mensis complures dies feriatos habet. Rogo ergo ante omnia permittas mihi opus quod incohaturus sum ex ornare et tua statua; deinde, ut hoc facere quam maturissime possim, indulgeas commeatum. Non est autem simplicitatis meae dissimulare apud bonitatem tuam obiter te plurimum collaturum utilitatibus rei familiaris meae. Agrorum enim, quos in eadem regione possideo, locatio, cum alioqui CCCC excedat, adeo non potest differri, ut proximam putationem novus colonus facere de beat. Praeterea continuae sterilitates cogunt me de remissionibus cogitare; quarum rationem nisi praesens inire non possum. Debebo ergo, domine, indulgentiae tuae et pietatis meae celeritatem et status ordinationem, si mihi ob utraque haec dederis commeatum XXX dierum. Neque enim angustius tempus praefinire possum, cum et municipium et agri de quibus loquor sint ultra centesimum et quinquagesimum lapidem»: cfr. SHERWIN-WHITE 1966,571-75. 36 SHERWIN-WHITE, loc. cit.; DUNCAN-JONES 1974, 19 sg.; DUNCAN-JONES 1986, 296; BRUNT 1988,248 n. 32; KEHOE 1989,571 sg., n. 39.
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questione un imprenditore con notevoli risorse37• Gli argomenti portati dallo studioso olandese (la locatio al novus eolonus si contrapporrebbe nella stessa lettera ai contratti, non in scadenza, relativi ad altre locationes, quelle per le quali Plinio penserebbe a remissiones; la penuria eolonorum rilevata appena qualche anno più tardi e intesa come mancanza di idonei eonduetores, di eonduetores finanziariamente affidabili, mal si concilierebbe con il tentativo di trovare una pluralità di nuovi affittuari) non sembrano tali da superare l'indubbia difficoltà rappresentata dalla stessa entità così elevata della rendita, anche qualora la ritenessimo relativa a un intero lustrum. Non escluderei nemmeno, peraltro, che, come è stato sostenuto da Kehoe, l'espressione «novus colonus» si riferisca non già a un "nuovo colono" o a dei "nuovi coloni", rispetto al vecchio o ai vecchi, nel senso di un' altra, diversa, persona (o di altre, diverse persone), ma all'affittuario che ha firmato un nuovo contratto 38. Plinio, in altri termini, vuol dire che deve andare nella sua tenuta perché non può rimandare la locatio, e cioè la stipula dei nuovi contratti, che talora potranno prevedere come contraente chi è stato già eolonus nel passato lustrum, e talora no. Se non si accoglie l'interpretazione proposta da De Neeve, viene meno l'unica testimonianza, nell'epistolario, dell'esistenza di coloni agiati, con risorse cospicue. Non mi sembra dubbio, in conclusione, che l'immagine fornita da Plinio dei propri coloni, che lo disturbano in continuazione con le loro querelae, sia quella di affittuari di modeste risorse, spesso in difficoltà per l'elevatezza stessa del canone, rapportato, com' è stato ragionevolmente sostenuto, al rendimento delle annate migliori e non di quelle peggiori: un ulteriore indizio del fatto che i coloni dovevano avere un' assai limitata capacità contrattuale nei confronti dei proprietari. Quando non riusciva a pagare, l'affittuario chiedeva remissiones che Plinio concedeva, in linea di massima, perché interessato a mantenere un buon rapporto coi coloni. Ma l'atteggiamento di Plinio non era necessariamente quello degli altri proprietari: donde le frequenti rinegoziazioni del contratto e il pericolo, sempre immanente, per il eolonus di dover abbandonare il fondo anche nel caso (o soprattutto nel caso) in cui rimanesse debitore, come rivela la lettera a Valerio Paulino. In questa lettera (9. 37) Plinio si rivolge al suo interlocutore per scusarsi di non potere essere presente a Roma, nel momento in cui questi en.17 DE NEEVE 1990,379 sgg.; e già DE NEEVE 1984a, 17,82, 166 con n. 228; cfr. pure in questo stesso senso CORBIER 1981,432; ROSAFIO 1993a, 70, ritiene che il novus colonus sia effettivamente un piccolo affittuario di uno solo degli agri cui si fa riferimento nel passo: un'interpretazione che sembra improbabile alla luce del contesto . .1X KEHOE 1988b, 35, n. 60.
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trerà in carica come console suffetto ". Ma il fatto è che deve provvedere a dare in affitto per più anni i suoi praedia/" e trovare soluzioni nuove ai problemi che si sono presentati nel corso del precedente quinquennio (il periodo di validità normale di un contratto di affitto agrario, dopo il quale, se non si procedeva a stipularne uno nuovo, il contratto veniva rinnovato anno per anno tacitamente). I problemi in questione sono quelli determinati dal fatto che, nonostante molte remissiones, gli arretrati dei coloni sono cresciuti ed essi ormai non cercano più di diminuire i reliqua, visto che disperano di essere in grado di pagare il proprio debito, sicché non si curano più di garantire la produttività futura dei praedia, ma cercano di trarre il massimo dalla terra, dal momento che pensano di non poter trarre alcun beneficio a non farlo. A questo punto Plinio ritiene che non ci sia che un rimedio: quello di affittare i terreni non già dietro la corresponsione di un canone in denaro, ma dietro la corresponsione di una parte del raccolto, in tal modo cointeressando gli affittuari a una buona gestione e evitando che rimangano, nelle annate cattive, nuovamente in arretrato nel pagamento del canone. Si è discusso se il modo nel quale il passaggio alla colonia parziaria viene presentato da Plinio nella sua lettera testimoni che la colonia parziaria dovesse essere diffusa, ormai, in Italia, o tutt' al contrario fosse una novità: gli studiosi moderni, partendo dallo stesso testo pliniano, hanno dato sia l'una che l'altra risposta. Ma anche se non vi fossero incertezze nell' interpretazione della lettera pliniana, rimarrebbe la difficoltà e se vogliamo l'illegittimità di generalizzare le conclusioni alle quali porta questa pur così eloquente testimonianza. Va ribadito che continuavano a rimanere aperte ai proprietari le opzioni più varie, e continuavano a essere presenti gli atteggiamenti più diversi nella gestione del proprio pa-
39 «Nec tuae naturae est translaticia haec et quasi publica officia a familiari bus amicis contra ipsorum commodum exigere, et ego te constantius amo quam ut verear, ne aliter ac velim accipias, nisi te Kalendis stati m consulem videro, praesertim cum me necessitas locandorum praediorum plures annos ordinatura detineat, in qua mihi nova consilia sumenda sunt. Nam priore lustro, quamquam post magnas remissiones, reliqua creverunt: inde plerisque nulla iam cura minuendi aeris alieni, quod desperant posse persolvi; rapiunt etiam consumuntque quod natum est, ut qui iam putent se non sibi parcere. Occurrendum ergo augescentibus vitiis et medendum est. Medendi una ratio, si non nummo sed parti bus locem ac deinde ex meis aliquos operis exactores, custodes fructibus ponam. Et alioqui nullum iustius genus reditus, quam quod terra caelum annus refert. At hoc magnam fidem acres oculos numerosas manus poscit. Experiundum tamen et quasi in veteri morbo quaelibet mutationis auxilia temptanda sunt. Vides, quam non delicata me causa obire primum consulatus tui diem non sinat; quem tamen hic quoque ut praesens votis gaudio gratulatione celebrabo. Vale»: cfr. SHERWIN-WHITE 1966,518-22. 40 Sembra potersi con tranquillità respingere la proposta, fatta da BRAVO 1985, di leggere anziché «necessitas locandorum praediorum», «necessitas Tuscanorum praediorum»; l'espressione «necessitas agrorum locandorum» a 7.30 fornisce, come pure il Bravo non può fare a meno di sottolineare, un «perfetto 'Iocus parallelus'»; in ogni caso il senso generale del passo non cambierebbe anche se adottassimo la lezione proposta da Bravo.
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trimonio, anche in ragione del ruolo sociale ricoperto; e parimenti dobbiamo presumere che le più varie, anche in ragione delle diverse realtà regionali, dovessero essere così le dimensioni delle singole unità fondiarie come le modalità della loro gestione. Dalla relativa frequenza con la quale compaiono i coloni nell' epistolario e dalla relativa scarsezza di riferimenti agli schiavi siamo forse legittimati a supporre, in ogni caso, che un generale trend sia riconoscibile nell'economia agraria dell'Italia fra I e II secolo d.C. (anche se è esclusa una qualsiasi stima quantitativa): la progressiva sostituzione del lavoro servile con il lavoro libero nelle campagne e di conseguenza una tendenzialmente sempre maggiore diffusione, nelle proprietà soprattutto dell' élite, dell' affitto agrario e, forse, della colonia parziaria, presumibilmente assai più comune nelle province (ciò che in parte giustifica perché sia ricordata una sola volta nel Digesto, com'è bene ribadire):". La scelta tra lavoro servile e lavoro libero doveva, quanto meno in parte, essere fatta dipendere, per un verso, dal costo degli schiavi e, per un altro verso, delle remunerazioni dei liberi, e dunque dobbiamo supporre che vi fosse un trend in ascesa nell' offerta di lavoro libero e un trend in discesa nell' offerta di lavoro servile. La progressiva sostituzione, nonché la posizione contrattualmente debole dei lavoratori liberi nei confronti dei proprietari sembrano perciò avere avuto alla radice un differenziato trend nella dinamica della popolazione servile e della popolazione libera ". Con la fine delle grandi schiavizzazioni in massa il prezzo degli schiavi deve essere stato in ascesa. È vero che altre fonti di approvvigionamento degli schiavi, interne ai territori dell'impero romano o esterne ad esso, continuavano a essere disponibili, come il commercio, l' esposizione degli infanti, o la vendita di sé o dei propri familiari, e soprattutto l'allevamento. Ma sembra certo che, per un verso, l'allevamento era lungi dal potere garantire la riproduzione naturale della popolazione servile, in presenza, oltretutto, di una pratica così diffusa come continuava a essere la manomissione, e per un altro verso le altre fonti di approvvigionamento non potevano garantire che un complemento modesto e certo quantitativamente non paragonabile a quello fornito dalle schiavizzazioni in massa a seguito dell'attività bellica:". In queste condizioni dobbiamo supporre che già a partire dall' età augustea, con le ultime campagne ai
D. 19.2.25.6 (Gaio). Lo CASCIO 1992-93; e supra, 108 sgg. 43 Mi sia consentito rinviare a quanto osservo, a proposito del recente dibattito tra William Harris e Walter Scheidel circa il peso rispettivo delle varie fonti di approvvigionamento degli schiavi, in Lo CASCIO 2002b. 41
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confini dell' impero, il numero degli schiavi sia cominciato a declinare e, di conseguenza, il loro prezzo a salire (e l'ulteriore attività bellica sino al terzo secolo non sarà stata in grado, se non in determinate occasioni, come con le campagne traianee in Dacia, di garantire ulteriori arrivi in massa di nuovi schiavi in Italia). Sembra certo che Plinio non potesse contare su un numero cospicuo di schiavi rurali, e che talora spostasse sulle sue tenute, nei momenti di picco dell' attività agricola, gli schiavi urbani. Mi pare immotivato dedurre, con Carcopino, con Duncan-Jones e più recentemente con Werner Eck, dal fatto che la fondazione alimentare istituita a Como per i suoi liberti provvedeva a cento persone, che i suoi schiavi dovessero essere almeno 50044• Secondo questi studiosi se cento erano i liberti fatti oggetto della liberalità di Plinio, è perché la legislazione augustea (la lex Fufia Caniniai= prevedeva che, per potere dare libertà col testamento a 100 schiavi, bisognasse possederne almeno 500. Ma il punto è che non sappiamo se tutti gli schiavi oggetto della liberalità di Plinio fossero stati liberati per testamento, e credo, anzi, che abbiamo qualche indicazione del contrario da un' altra lettera (8. 16), nella quale Plinio evoca la suafacilitas manumittendi. talché la morte dei suoi che viene ricordata è morte di schiavi ormai liberati: «videor enim non omnino immaturos perdidisse, quos iam liberos perdidi». Se poi i cento beneficati sono, come sembra verosimile, non ex-schiavi dell' intera familia. ma schiavi della tenuta di Como, ciò indurrebbe ad escludere la possibilità che siano stati tutti manomessi testamento: sarebbe ben strano che, nell'uniformarsi al dettato della lex Fufia Caninia, Plinio manomettesse esclusivamente suoi schiavi di Como e non anche servi di Tifernum o, a maggior ragione, della [amilia urbana di Roma. Possiamo viceversa presumere che cento siano (alcuni fra) gli schiavi manomessi a Como nel corso della vita di Plinio (e ancora viventi alla sua morte) e che, nella familia di Plinio, vi sia stato un continuo e consistente "turn-over", per la frequenza delle manomissioni. Ma se è così possiamo supporre che il numero complessivo degli schiavi in ogni momento ricompresi nella [amilia di Plinio, non necessariamente dovesse essere elevato. La documentazione archeologica peraltro mostra che, a voler considerare l'Italia nel suo complesso, è nella prima età imperiale, tra I e II secolo d.C., che si raggiunge il picco più alto nel numero e nella densità degli insediamenti rurali. E questo il periodo nel quale parrebbe che si abbia la massima estensione dell' area coltivata, che comincia ad allar-
44 45
L
CARCOPINO 1967,85; DUNCAN-JONES 1974,24; ECK 2001, 229 sg. n. 13. Gai. Inst. 1. 42 sgg.; si vd. per es. GARDNER J 991.
132
CRESCITA E DECLINO
garsi, in taluni ambiti regionali, come per esempio alcune zone dell'Etruria meridionale, ai terreni marginali 46. In assenza di un incremento della popolazione servile, ne dedurremo che è l'offerta di lavoro libero che dev' essere stata al suo massimo: la concorrenza fra i potenziali giornalieri o piccoli affittuari deve avere fatto scemare la merces dei primi, e aumentare i canoni che pagavano i secondi. È questa la realtà riflessa dalle lettere pliniane: né, a sostenere il contrario, potrà valere in alcun modo (e comunque la si interpreti) l'allusione alla penuria colonorum della lettera a Calvisio Rufo:". È stato ragionevolmente sostenuto di recente che la stessa iniziativa imperiale degli alimenta volesse essere una risposta a una progressiva pauperizzazione in alcune zone dell'Italia, che poteva far temere che, in una situazione di pressione della popolazione, si mettessero in moto i malthusiani "freni preventivi" se non quelli "repressivi": gli alimenta sarebbero stati espressione di una politica "popolazioni sta" o "pro-natalista", analoga a quella seguita da alcuni governi in Europa nel ventesimo secolo, come dal regime fascista in Italia 48. È, a mio avviso a partire da qui, dal riconoscimento dell' esistenza di un serio problema di sovrappopolazione in molte aree della penisola al volgere del I secolo d.C. che vanno spiegati gli sviluppi differenziati nelle economie dell'Italia e delle province, una volta che l'organismo imperiale si è rinsaldato e stanno progressivamente venendo meno le forme più eclatanti di sfruttamento dei territori conquistati e si sta affermando un' integrazione meno sbilanciata entro il mondo mediterraneo divenuto romano. In un celebre luogo del Panegirico (29), Plinio esalta il modo in cui Traiano ha risolto, con giustizia, i problemi dell' annona di Roma. Dopo aver ricordato come l' optimus princeps abbia favorito l'intensificarsi dei traffici, aprendo strade e costruendo porti, «ut quod genitum esse usquam, id apud omnes natum vidcretur», Plinio afferma che ormai il rifornimento di Roma non è più il grave peso dei sudditi, non è più il segno della prepotenza del vincitore: Nonne cernere datur ut sine ullius iniuria omnibus usibus nostris annus exuberet? Quippe non ut ex hostico raptae perituraeque in horreis messes nequiquam quiritantibus sociis auferuntur. Devehunt ipsi quod terra genuit, quod sidus aluit, quod annus tulit, nec novis indictionibus pressi ad vetera tributa deficiunt; emit fiscus quidquid videtur emere. Inde copiae, inde annona de qua inter licentem vendentemque conveniat, inde hic satietas nec fames usquam.
46 47 4X
Lo CASCIO 1994c, 112 sgg. Cfr. supra, 119 sgg., con n. 13. PATTERSON 1987; vd. pure Lo CASCIO 2000a, 280 sgg.; e infra, 171 sg.
IV. L'ECONOMIA
DELL'ITALIA
ROMANA NELLA TESTIMONIANZA
DI PLINIO
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E nei due capitoli successivi racconta come da Roma, paradossalmente, siano venuti i rifornimenti di grano che hanno consentito all'Egitto di superare una drammatica carestia. Plinio conclude: Quam nune iuvat provineias omnes in fidem nostram dieionemque venisse, postquam eontigit prineeps, qui terrarum feeunditatem nune hue nune illue, ut tempus et neeessitas poseeret, transferret referretque, qui diremptam mari gentem ut partem aliquam populi plebisque Romanae aleret ae tueretur.
È difficile credere che il mutato rapporto dell' organizzazione annonaria con le province sia una pura invenzione di Plinio, e che lo sia lo stesso episodio dell'invio del grano romano in Egitto: la gravità della carestia dell' anno 99 è confermata dalla documentazione papiracea. Al di là dell' amplificazione retorica, si può riconoscere nelle parole del panegirista, forse, il ricordo d'una riforma effettiva, attuata dall' amministrazione traianea, una riforma per la quale l'approvvigionamento di grano egiziano (o africano) perdeva il carattere della requisizione forzosa. Il luogo del Panegirico sembra, in sostanza, suggerire come fosse ormai difficile per l'Italia continuare a vivere decisamente al di sopra delle sue risorse com' era avvenuto nei secoli dell' espansione imperiale. È in questo mutato rapporto con le province che va vista la sostanza della "crisi" dell'economia italica. Certo due fenomeni sembrano sicuri, con la stabilizzazione augustea e la fine delle grandi conquiste e delle schiavizzazioni di massa: la notevole decrescita delle esportazioni verso le province, anche se si tratta di un processo graduale, e la "crisi", se di crisi possiamo parlare, della forma classica della villa, della villa perfecta, della villa con gli ergastula e un personale servile consistente. Si tratta di due fenomeni evidentemente collegati, ma la natura della connessione è discussa, così com'è discussa la causa dell'uno e dell'altro fenomeno: le varie spiegazioni che ne sono state offerte spesso si integrano, nel senso che possono considerarsi non mutuamente esclusive (l'inaridirsi delle fonti di approvvigionamento degli schiavi, che avrebbe determinato l'esigenza di passare da un certo modo di utilizzazione del personale servile a un altro: dalla "squadra" di schiavi accasermati negli ergastula e senza famiglia all'utilizzazione di famiglie servili; la rostovzeviana "concorrenza" delle province soprattutto occidentali; la cosiddetta "anelasticità" della villa e così via):". Va in ogni caso messa in rilievo la sostanziale illegittimità di un approccio generalizzante, che non solo si proponga di rinvenire una spie49
2006.
L
Si vd. ora il lucido quadro di
GIARDINA
1997, 233-64; vd. pure Lo
CASCIO
2006b; e
TCHERNIA
134
CRESCIT A E DECLINO
gazione monocausale, ma che voglia applicare un modello esplicativo siffatto all'intera Italia, senza tenere conto della varietà delle situazioni regionali. C'è un solo elemento che può considerarsi davvero unificante nella variegata realtà dell' Italia della prima età imperiale, ed è la sua condizione di privilegio dal punto di vista amministrativo e soprattutto fiscale: il suolo dell'Italia è immune dal tributo fondiario. Bisogna partire da qui per intendere se vi è potuta essere per avventura un' evoluzione unitaria che spieghi il perché venga progressivamente meno il ruolo dell' Italia, come esportatrice di determinate derrate dell' agricoltura specializzata (oltre che di determinati manufatti) e di conseguenza perché le aziende che producevano queste derrate si trovino, se non scompaiono, nella necessità di orientare in una diversa direzione le proprie produzioni, o utilizzando in maniera diversa il lavoro servile, ovvero ricorrendo, e in varie forme, al lavoro libero. In effetti il privilegio amministrativo-fiscale dell'Italia sembra essere un elemento assolutamente cruciale nel determinare l' evoluzione dell' economia agraria della penisola. La stabilizzazione augustea ha significato che sono venute meno le forme estreme di sfruttamento dell'impero, ma è rimasta, a dare espressione al primato dell'Italia nella complessa realtà imperiale, l'immunità fiscale: solo che è proprio questo privilegio, paradossalmente, a rappresentare un potente fattore di riequilibrio delle economie entro la compagine imperiale. L'integrazione economica del mondo mediterraneo, che nel momento alto della conquista si è espressa attraverso l'espandersi del commercio di esportazione, nelle province soprattutto occidentali, di derrate e manufatti italici, appare ora la necessaria conseguenza di quella maggiore concentrazione di capitali monetari nella penisola, in forma di tributo e di rendite fondiarie, in cui si esprime sul piano economico la signoria politica. Il flusso di capitali dalle province all'Italia, che provoca questa concentrazione, ha cioè carattere strutturale; e in quanto tale non può non determinare, per un verso, uno strutturale deficit della bilancia commerciale della penisola, che consuma assai più di quanto non produca, per un altro verso un peggioramento dei "terrns of trade" delle province nei confronti dell' Italia, che può rappresentare un potente incentivo all'espansione delle economie provinciali a spese di quella italica. In Italia il costo dei fattori di produzione e i prezzi sono più alti: di conseguenza comincia a essere maggiormente conveniente produrre in provincia e vendere in Italia, piuttosto che produrre in Italia e vendere in provincia 50. Lo stesso effetto di progressiva "decentralizzazione" è prodotto dalla diffusione della 50
VON FREYBERG
1989; Lo
CASCIO
1991a, 358 sgg.; Lo
CASCIO
1994a.
IV. L'ECONOMIA
DELL'ITALIA
ROMANA NELLA TESTIMONIANZA
DI PLINIO
135
tecnologia 51: alcune produzioni vengono ora fatte localmente, e dunque si assiste inevitabilmente al declino delle aree dove più precocemente la nuova tecnologia era stata adoperata. Insomma, l'Italia che è vissuta al di sopra delle proprie risorse nella fase della conquista dell'impero (il che potrebbe voler dire anche che la sua popolazione è cresciuta al di sopra della stessa sua carrying capaciiyy", vendendo le produzioni specializzate della propria agricoltura e i propri manufatti e traendo in varie altre forme un surplus dalle province, deve ormai sempre più contare su se stessa e sulle proprie produzioni ed è dunque comprensibile che comincino ad apparire i segni di un qualche malessere nelle campagne della penisola, un malessere in ultima analisi determinato dalla pressione della popolazione sulle risorse agricole. Sono i segni di questo malessere che mi pare si intravvedano in alcune delle lettere di Plinio.
51 GUNDERSON 1976; GREENE 1992; GREENE (a c. di) 2006. 52 Lo CASCIO 1994c; TCHERNIA 1994.
2000; vd. ora alcuni dei saggi ricompresi in Lo
CASCIO
POPOLAZIONE E RISORSE
L
POPOLAZIONE E RISORSE NEL MONDO ANTICO
1.
LA NATURA
DELLA DOCUMENTAZIONE
ANTICA
Nel settimo libro della Naturalis Historia, Plinio ricorda il dato emerso dall'ultimo censimento compiuto da Vespasiano e relativo al numero dei centenari e ultracentenari di una delle regiones dell'Italia, l'Emilia. Tali centenari e ultracentenari sarebbero stati, complessivamente, 81: 54 di cent' anni, 14 di centodieci, 2 di centoventi cinque, 4 di centotrenta, 4 di centotrentacinque o centotrentasette, 3 di centoquaranta I. Il dato pliniano è facilmente controvertibile: un pari numero di ultracentenari non è attestato dai censimenti odierni, ma soprattutto non sono attestati, oggi, o forse non ancora, centotrentenni o centoquarantenni. Esso mostra due tipiche tendenze rilevabili in società scarsamente alfabetizzate: la tendenza all'arrotondamento e quella all'esagerazione dell' età. Questo pur così interessante documento può considerarsi, dunque, per certi aspetti, emblematico della natura della documentazione antica: inaffidabile, anche quando non è (come non è in questo caso) aneddotica, e oltretutto tanto discontinua da non essere, per lo più, passibile di quantificazione. Discontinua, si direbbe, piuttosto che semplicemente esigua: per certi versi, la documentazione antica che possa servire ad analizzare la struttura e i movimenti della popolazione nell' antichità, e soprattutto in età romana, si può dire che sia, anzi, a confronto di altri periodi anche successivi, quantitativamente rilevante". Dalle fonti letterarie sono state conservate, in verità, un numero notevole di cifre relative alle dimensioni delle popolazioni antiche, tanto
N.H. 7. 157; 159; 162-4; cfr. Flegonte di TraIIes, FGrHist 257 F 37. Una bibliografia ragionata sulle tematiche di storia della popolazione romana è quella di SUDER 1988. Si vd. anche Lo CASCIO 2006c, sulla storia dell'indagine moderna. Opera d'insieme sulla demografia romana, sulle fonti, sui metodi di indagine, sull'uso dei modelli demografici è quella di PARKIN 1992; vedi anche SUDER 2003. Fondamentale il saggio introduttivo di W. Scheidel in SCHEIDEL (a c. di) 2001, nonché il capitolo dello stesso Scheidel dedicato alla demografia in SCHEIDEL, MORRIS, SALLER (eds.) 2007. Le questioni metodologiche sollevate dalla natura della documentazione antica sono pure esaminate da SALLARES 1991; questo libro, le cui tesi generali e le cui conclusioni rimangono controverse, contiene analisi di grande interesse tanto sul problema delle determinanti della dinamica demografica nel mondo greco, quanto sul problema del rapporto tra popolazione e risorse nell' Attica di età classica. I
2
I~ I~ li Il
140
CRESCITA
E DECLINO
per il mondo greco, quanto per il mondo romano: basti pensare che per nessuna popolazione europea premoderna ci è stata trasmessa una serie parimenti significativa, e che copra un arco temporale parimenti ampio, di dati censitari quali quelli che la nostra tradizione ci ha lasciato per l'età repubblicana di Roma e per la prima età imperiale. E quanto alla struttura per sesso e per età della popolazione, possiamo contare su un complesso di documenti cospicuo e di carattere vario. Così, un numero consistentissimo di dati è a prima vista ricavabile dalla documentazione delle epigrafi funerarie che riferiscono l'età alla morte: epigrafi che si contano a migliaia se non a decine di migliaia per tutto l'ambito territoriale dell' impero mediterraneo di Roma, con punte significative per la stessa città di Roma e per esempio per l'Africa del nord 3• Altri dati, più modesti quantitativamente, ma, come si vedrà, assai meglio in grado di fornire risposte circa la struttura per età e per sesso di una popolazione antica sono quelli che ci vengono da un complesso documentario peculiare, qual è quello costituito dalle kat' oikian apographai (e cioè le "dichiarazioni casa per casa"), che veniva richiesto agli abitanti dell'Egitto romano di fornire alle autorità locali periodicamente, in occasione del censimento". Infine, si è tentato di costruire una «tavola di mortalità» attraverso le informazioni che possiamo trarre da un luogo celebre del Digesto, che riferisce l'opinione del giurista Ulpiano"; in questo luogo viene effettuato un calcolo del valore capitale di un lascito ereditario consistente in un vitalizio, valore capitale che ovviamente deve dipendere dal numero degli anni che il beneficiario ha la probabilità di vivere: vale a dire che viene prospettato dal giurista un calcolo sia pure grossolano della «speranza di vita» alle varie età". Naturalmente ciò che manca allo storico dell' antichità è quel tipo di documenti d'archivio, da potere studiare autenticamente in chiave quantitativa, di cui può disporre lo storico della popolazione dell'Europa in età tardomedievale e moderna: documenti, vale a dire, come il catasto fiorentino del 14277, i cui dati hanno consentito ben diversamente sicure conclusioni circa le variabili demografiche della popolazione della Toscana nel quindicesimo secolo, o come le centinaia di registri parroc-
.1 Sono molti i tentativi che sono stati fatti per costruire, delle tavole di mortalità per il mondo romano: tra gli ultimi è questi tentativi le obiezioni di HOPKINS 1966-67. Si vd. ancora 2002; PAINE & STOREY 2006. 4 Per i documenti censuali egiziani si veda BAGNALL & FORD 1997. 5 D. 35. 2. 68 pro (, Sulla cosiddetta 'Tavola di mortalità' di Ulpiano FRIER 7 HERLIHY e KLAPISCH-ZUBER 1988.
sui dati degli epitaffi con l'età alla morte, quello di SUDER 1990; valgono, di fronte a PAINE & STOREY 1999; STOREY & PAINE FRIER 1994; BAGNALL, FRIER & RUTHER-
1982.
L
L POPOLAZIONE
E RISORSE NEL MONDO ANTICO
141
chiali utilizzati, per diverse regioni europee, attraverso il metodo della ricostruzione delle famiglie. Il problema, perciò, non è soltanto quello del numero assoluto delle cifre riferite dalle fonti antiche o della quantità di informazioni di tipo quantitativo ricavabili dalla documentazione, quanto quello dei limiti entro cui le une e le altre possono essere fatte oggetto di quelle sofisticate elaborazioni statistiche che sono la caratteristica della nuova storia quantitativa - elaborazioni che richiedono che il campione su cui si basano sia rappresentativo e non presenti troppe o troppo consistenti distorsioni - mentre rimane ovviamente esclusa la possibilità di analisi di tipo microdemografico, quali quelle basate sui dati dei registri parrocchiali. Sembrerebbe che conclusioni meglio fondate sulle dimensioni delle popolazioni antiche e sulla dinamica del popolamento nelle varie regioni del Mediterraneo siano permesse dall' analisi della documentazione archeologica e dei resti materiali. Così, sin dal secolo scorso si è tentato di stimare il numero degli abitanti delle città dall'estensione del territorio racchiuso dalle mura. I risultati, tuttavia, appaiono piuttosto deludenti, anche nei casi meglio documentati. A parte lovvia considerazione che la popolazione di una città può essere stata assai variabile nel corso del tempo, va osservato che non sempre è possibile considerare la superficie racchiusa entro le mura come identificantesi con quella dell' abitato: l'area urbanizzata può essere andata ben al di là della cinta muraria, come nel caso di Roma in epoca successiva alla costruzione delle mura cosiddette serviane (del quarto secolo a.C.)8 o, talvolta, può essere stata meno estesa, come ad esempio in tal uni centri urbani dell' Italia antica, dove erano ricompresi entro le mura ampi spazi non abitati che potessero accogliere la popolazione del contado nei momenti di emergenza, e come presumibilmente a Pompei negli ultimi anni della sua esistenza, dopo il terremoto del 62 d.C., che aveva in parte distrutto la città, e prima dell'eruzione del Vesuvio del 79, che l'avrebbe fatta scomparire. Va per di più osservato che la densità abitativa di un centro urbano dipende, com' è ovvio, da tutta una serie di fattori economici, sociali, culturali, e non può considerarsi costante, né nel tempo, né nello spazio, anche nel caso di civiltà compatte, che si basano su un modello di organizzazione sociale uniforme. Nell'Italia romana coesistevano, così, centri urbani nei quali era prevalente, come unità abitativa, quella della domus tendenzialmente unifamiliare, e quella del cenaculum (o del meritorium o deversorium), l' «appartamento» inserito in un edificio di abitazione a più piani, l'insula: da un lato c'era Pompei, dall'altro lato Ostia o la stessa Roma.
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o come
nel caso di molte delle città romane della Pianura Padana: ora Lo
CASCIO
2007d.
142
CRESCITA E DECLINO
È naturale che il numero di abitanti per ettaro edificato a Pompei dovesse essere di gran lunga inferiore a quello di Ostia o di Roma, ma è in ogni caso estremamente problematico arrivare a stime assolute della densità abitativa, giacché lo stesso numero dei piani delle insulae non sarà stato uniforme nemmeno a Roma, dove pure era imposto, in età imperiale, un limite all'altezza degli edifici". Parimenti insicure sono le stime dell'entità del popolamento nelle città antiche che si sono tentate a partire dalle dimensioni dei luoghi di spettacolo - circhi, teatri, anfiteatri - e dal numero di persone che potevano verosimilmente ospitare; o ancora quelle tentate a partire dalla portata degli acquedotti: per queste ultime vale, ancora una volta, la considerazione che le esigenze di consumo idrico di un centro urbano dipendono dalle abitudini sociali e culturali di una popolazione e non si possono perciò considerare in alcun modo una costante. Anche per gli àmbiti rurali, e forse più ancora per essi, è parso possibile, negli ultimi decenni, attraverso il raffinamento delle tecniche di indagine archeologica di superficie, pervenire a valutazioni del popolamento di singole aree, in base al numero di resti di manufatti che ancora affiorano sul terreno: interpretando, vale a dire, la densità dei rinvenimenti in una determinata area come un indicatore diretto non solo del numero e delle dimensioni degl' insediamenti nella stessa area, ma anche, per conseguenza, dell' entità del popolamento, e sempre tenendo presente quale possa essere stata, date le limitazioni delle tecniche agricole, la misura massima di persone che potevano essere sostentate da una determinata area (la sua carrying capacity). Questo si è tentato per talune zone così della Grecia propria, quali la Beozia o il Peloponneso orientale, come dell' Italia centromeridionale preromana e romana, come della Spagna romana '". Naturalmente il problema che pongono siffatte indagini è che l'interpretazione dei dati offerti dalla ricognizione non può essere univoca: non si può ritenere che la densità, ad esempio, dei frammenti ceramici che si rinvengono rifletta in modo meccanico e generalizzato l'entità del popolamento, né, peraltro, si può pensare che le tecniche di indagine adoperate nelle ricognizioni effettuate, ad esempio, trenta o quarant' anni fa, siano state parimenti efficaci, nel rinvenire le tracce delle frequentazioni dei vari siti, rispetto a come lo sono le ricognizioni odierne, assai più scaltrite e sofisticate: paragonare i dati relativi a talune aree derivati dalle ricognizioni più antiche a quelli relativi ad altre aree fatte più re970 piedi con Augusto: Strab. 5. 3. 7; il limite sarebbe stato fissato a 60 piedi da Traiano: Epit. de Caes. 13. 13: cfr. ROBINSON 1992,35 sgg. IO Sull'utilizzazione della 'survey archaeology' ai fini della ricostruzione della storia della popolazione si vd. in particolare alcuni dei contributi ricompresi in BINTLlFF, SBONIAS(eds.) 2000b; per l'Italia centrale WITCHER 2005; e ora la dissertazione di A. LAUNARO 2008.
I. POPOLAZIONE E RISORSE NEL MONDO ANTICO
143
centemente oggetto di ricognizioni sistematiche può far correre il rischio di sottostimare l'entità del popolamento nelle aree del primo gruppo, rispetto all' entità del popolamento delle aree del secondo gruppo. Si è pure tentato di trarre dati sulla mortalità delle popolazioni antiche dalle analisi dei resti osteologici, che sono in grado di chiarire le patologie che hanno portato ai decessi, nonché, entro certi limiti, di suggerire quale sia stata l'età, oltre che il sesso, dei defunti. Ma anche le conclusioni che si possono trarre da questa classe peculiare di resti materiali sono meno certe di come si sia inizialmente sperato: anche in questo caso sono non tanto o non soltanto le analisi biologiche e antropologiche specifiche nella loro individualità a essere messe seriamente in discussione, quanto la rappresentatività del campione costituito, per ogni necropoli, da un numero comunque sempre contenuto di resti scheletrici che si scaglionano in un arco temporale spesso imprecisabile e in ogni caso talvolta assai ampio". In definitiva, proprio le cifre tratte da rilevazioni censuali e che la tradizione letteraria ci ha conservato rimangono il fondamento più solido che ancor oggi possediamo per valutare l'entità del popolamento e la sua dinamica, e per due motivi: perché quelli che i demografi definiscono i dati di situazione (i dati censuali) erano evidentemente molto più facili da conseguire da amministrazioni statali rudimentali quali erano quelle antiche, di quanto non fossero i dati di flusso (numero dei nati, numero dei morti per un segmento temporale definito), che implicavano non solo rilevazioni periodiche, ma anche una qualche analisi statistica di queste rilevazioni periodiche: in altri termini era molto più facile contare gli uomini, per uno stato antico, che individuare una tavola di mortalità. L'altro motivo è che le rilevazioni sulla popolazione rispondevano a intenti eminentemente pratici: uno stato antico era interessato a registrare e dunque a conoscere il numero dei suoi contribuenti o dei suoi potenziali soldati, o dei cittadini ammessi al godimento dei diritti politici, non già, genericamente, quello dei suoi abitanti. Non v' era un autonomo interesse statistico, l'interesse per un'indagine demografica autonoma. I dati cifrati che rinveniamo nelle nostre fonti, peraltro, non ci consentono di pervenire a nulla più che a un'individuazione di ordini di grandezza. Ma sono gli ordini di grandezza che sono per noi essenziali per valutare come abbia giocato la popolazione e in particolare la dinamica demografica sulla struttura delle economie antiche e sulla dinamica economica di lungo periodo: di come si sia presentato, nelle varie epoche, il rapporto popolazione-risorse. E non è un caso che sia stato per l'appunto Il
Si vd. SCHEIDEL 2001, 12, 19,23 sg. e passim, con la letteratura
ivi citata.
l 144
CRESCITA E DECLINO
l'interesse per questo rapporto che ha determinato non solo la nascita della demografia moderna come disciplina autonoma, ma anche l'interesse per lo studio delle popolazioni antiche. Tale studio si è presentato inizialmente, nel settecento, come aspetto particolare, se si vuole, della «Querelle des anciens et des modernes»: come occasione per confrontare meriti e demeriti delle società antiche a confronto delle moderne. Nella polemica che oppose David Hume a Robert Wallace il problema era in definitiva quello di decidere non solo se il mondo antico fosse stato più popolato del mondo moderno, come sosteneva Wallace contro Hume, ma quale delle organizzazioni economiche e dei sistemi sociali fosse meglio in grado di garantire uno stabile equilibrio tra popolazione e risorse 12. La discontinuità e la sommarietà delle informazioni che ci possono derivare dalla documentazione antica, nonché l'insicurezza circa la rappresentatività e l'assenza di distorsione del campione rappresentato da alcune classi di documenti richiedono tuttavia che, anche solo per pervenire a stime attendibili dell' ordine di grandezza delle popolazioni antiche, nonché a conclusioni di larga massima circa la loro struttura e la loro dinamica, si utilizzino, come strumento di verifica, la documentazione comparativa e i modelli elaborati dalla demografia contemporanea. 2.
DOCUMENTAZIONE
COMPARATIVA, MODELLI DEMOGRAFICI
E STRUTTURA PER ETÀ E PER SESSO DELLE POPOLAZIONI
ANTICHE
Si pone allora il problema di individuare quali siano le realtà legittimamente comparabili a quelle del mondo greco-romano. Per quanto riguarda l'evoluzione demografica, in larga misura basata su fatti di natura biologica, costanti nel tempo e condizionati, in quanto tali, solo entro certi limiti dall' evoluzione economico-sociale e culturale dei gruppi umani interessati, si può sostenere che vi è una parentela di fondo fra i regimi demografici delle popolazioni del passato, prima della cosiddetta «transizione demografica». Con quest'ultima espressione viene indicato quel periodo, diverso per le varie popolazioni europee ed extraeuropee, in cui si è determinata una divaricazione tra tasso di mortalità, caduto per effetto di un miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie e alimentari, e tasso di natalità, mantenuto si viceversa elevato. Una tale divaricazione, il formarsi di questa sempre più larga forbice tra i due tassi, ha determinato la crescita rapida della popolazione a un tasso di incremento annuo assolutamente impensabile nell' epoca precedente, l'epoca pretransizionale, quella, per l'appunto, definita d'ancien régime. Per intendere la portata 12
Sulla controversia
Hume- Wallace si vd.
CAMBIANO
1983; in generale ora Lo
CASCIO
2006c.
I. POPOLAZIONE
E RISORSE NEL MONDO ANTICO
145
del cambiamento, basterà osservare come si sia passati da incrementi, sul lungo periodo, dell'ordine dell' 1-2 per mille a incrementi dell'ordine dell' 1-2 per cento: da incrementi, vale a dire, che provocano il raddoppio di una popolazione nel giro di settecento-trecentocinquant' anni a incrementi che ne provocano il raddoppio nel giro di settanta-trentacinque anni. Un primo punto di partenza, quindi, nell'analisi delle popolazioni antiche è dato: la comparazione va effettuata con popolazioni «pretransizionali», con popolazioni caratterizzate da altissimi tassi di mortalità e, di conseguenza, da una «speranza di vita» alla nascita assai bassa, ma anche con tassi di natalità (e dunque di fecondità) parimenti elevati: con popolazioni, dunque, che, sul lungo periodo, non possono registrare che incrementi contenuti. Tra l'altro che il regime demografico del mondo antico nel suo complesso non potesse essere che quello, in generale, delle popolazioni pretransizionali lo suggeriscono (al di là degli accenni delle fonti che possono essere interpretati in questo senso, come, si è fatto, e ingegnosamente, per il luogo famoso di Ulpiano già citato) le analisi osteologiche cui si è fatto cenno. Per quanto riguarda il problema specifico della ricostruzione della struttura e della dinamica delle popolazioni antiche, si può dire che, al di là dell'utilizzazione del materiale comparativo, si è rivelato poi di grande utilità euristica il ricorso a taluni specifici modelli demografici 13, elaborati nel corso degli ultimi decenni per scopi molto pratici e concreti: proprio al fine, per un verso, di consentire la valutazione della qualità dei dati relativi a popolazioni contemporanee, sulla cui attendibilità vi sia qualche sospetto, e, per un altro verso, di fornire una stima delle «statistiche vitali» (tasso di mortalità, di natalità, di fecondità, di riproduttività) in casi di popolazioni contemporanee (per esempio del Terzo mondo) nei quali tali statistiche siano carenti o assenti. I modelli più comunemente usati ai fini che si sono detti e certamente anche quelli di maggior interesse per lo storico della popolazione, sono i modelli relativi alle popolazioni «stabili», costruiti in quest'ultimo quarantennio e sempre più perfezionati. Che cos' è una popolazione «stabile»? Si può dimostrare che una popolazione che ha un flusso di nascite e di morti di intensità costante nel tempo, va ad assumere una struttura per età parimenti costante e dunque «stabile». In assenza di movimenti migratori e di variazioni drammatiche dei tassi di mortalità e di natalità (o di fecondità), una popolazione tende dunque non soltanto a crescere o a decrescere a tassi costanti (a seconda se il tasso di natalità supera o è inferiore a quello di mortalità) ovvero a rimanere stazionaria (nel caso in cui i due tassi di mortalità e 13
COALE, DEMENY & VAUGHAN
1983; cfr.
LI VI
BACCI 1975 e NEWELL
1988, eh. 12.
146
CRESCITA E DECLINO
di natalità sono eguali), ma tende anche ad assumere (e quali che siano le condizioni di partenza) una specifica struttura per età che è peculiare di quella specifica combinazione dei tassi di natalità e di mortalità. È ovvio che nessuna popolazione concreta può effettivamente considerarsi «stabile»: la «stabilità», vale a dire, è un' astrazione. Ma è parimenti vero che le popolazioni storiche tendono, in generale, alla stabilità e che le combinazioni, ad esempio, tra determinati valori dei tassi di mortalità e di natalità individuabili attraverso l'astrazione del modello stabile, si rinvengono grosso modo, com' è ovvio, e almeno sul lungo periodo, nel caso delle popolazioni concrete. L'analisi teorica della popolazione stabile, nonché l'uso, sempre più spinto, delle elaborazioni statistiche hanno così consentito la costruzione di modelli «empirici», empirici appunto in quanto basati, in una qualche misura, su dati esistenti: tavole di mortalità e strutture per età per gruppi di popolazioni stabili. La costruzione di queste tavole di mortalità modello, di queste strutture per età modello, distinte per gruppi di popolazioni di cui si può empiricamente mostrare che presentano peculiari affinità nelle loro caratteristiche demografiche (per quanto attiene allivello complessivo della mortalità, nonché per quanto attiene alle caratteristiche differenziali della mortalità per età e per sesso), consente in sostanza di inferi re dalla conoscenza di alcuni parametri tratti da dati esistenti una stima del livello dei parametri ignoti per tutte quelle popolazioni che si avvicinano alla condizione della stabilità. Così, ad esempio, conoscendo la struttura per età di una popolazione e conoscendo la speranza di vita alla nascita è possibile stimare il tasso di natalità e di conseguenza individuare il tasso di incremento della popolazione nel suo complesso. Oppure, conoscendo la distribuzione per età della popolazione e il suo tasso di incremento, si possono dedurre il tasso di natalità e quello di mortalità. Il risultato più rilevante dell'uso di questi modelli demografici, come si è osservato, è di consentire di risalire, dalla conoscenza dei soli dati di situazione, a stime dell'intensità dei flussi: purché si possa considerare la popolazione in questione, per un verso, come appartenente a un gruppo di popolazioni accomunate, come si è detto, da peculiari caratteristiche e, per un altro verso, come approssimantesi alla condizione della stabilità. Ora, quale può essere l'utilità dei modelli demografici quando la documentazione quantitativa che si possiede o è assolutamente peculiare, qual è quella desumibile dagli epitaffi con l'indicazione dell'età alla morte, o dai dati, sempre relativi all'età alla morte, derivabili oggi dall'analisi dei resti osteologici, ovvero è addirittura del tutto inesistente? In casi come questi, l'uso delle tavole di mortalità modello può consentire di saggiare la qualità e dunque la validità dei dati che si possiedono, la rappresen-
I. POPOLAZIONE
E RISORSE NEL MONDO ANTICO
147
tatività e non distorsione del campione; o di fare ragionevoli deduzioni circa l'implausibilità o, si potrebbe dire, l'impossibilità demografica di un determinato fenomeno che si suppone avvenuto. Un esempio di tale utilizzazione è quello con il quale si è potuta dimostrare la sostanziale inaffidabilità del campione costituito dalle epigrafi funerarie. Sulla base di questi documenti si sono costruite delle Tavole di mortalità, che apparentemente dovrebbero consentire di stimare il regime demografico vigente in determinate aree dell' impero romano e in determinati momenti. Tali tavole di mortalità presentano, tuttavia, peculiari caratteristiche: fermo restando che esse sembrano confermare in larga misura che la speranza media di vita alla nascita si collocava tra i venti e i trent' anni, dunque, su un livello che è quello delle popolazioni pretransizionali, esse tuttavia paiono rivelare, per un verso, l'esistenza di spiccate differenziazioni regionali, per un altro verso una distribuzione apparentemente assai singolare della popolazione per età e per sesso: una distribuzione che non ha confronti con qualunque nota, e sicura, distribuzione per età e per sesso di una popolazione contemporanea o storica. Così, ad esempio, dalle iscrizioni funerarie dovrebbe dedursi che coloro che arrivavano all' età di dieci anni sarebbero vissuti, in media, soltanto altri vent' anni a Roma, ma altri quaranta e più in Africa. Ora, se è possibile che le condizioni igienico-sanitarie di una città come Roma (una metropoli di un milione di abitanti, senza confronti nell' occidente europeo prima della Londra dell'inizio del diciannovesimo secolo) fossero talmente precarie da rendere ivi più accentuata la mortalità rispetto alle zone rurali, come accade in generale nel mondo preindustriale 14, va osservato che i dati relativi all' Africa non solo non trovano confronti nemmeno nelle altre regioni dell'impero, ma si riferiscono anch'esse ad àmbiti comunque urbani. La ragione dell'anomalia africana non sta tanto, allora, in una pretesa maggiore longevità della popolazione africana in generale, ma nel fatto che i presunti novantenni, centenari e più che centenari costituiscono il 7% del campione nelle iscrizioni africane, ma meno dell' 1% a Roma: vale a dire che anche in Africa è rilevabile quella tendenza all'esagerazione dell' età che spiega, come si è visto, il dato curioso di Plinio sull'Emilia dell' età ftavia. Anche la distribuzione della popolazione per età e per sesso, qual è rivelata dalle epigrafi funerarie e per tutto l'impero, appare essere assolutamente singolare e senza confronti. Così, a una mortalità infantile nettamente inferiore rispetto a quella che ci aspetteremmo in una popolazione caratterizzata da una speranza di vita alla nascita di vent' anni (dunque 14
Ma si vd. quanto viene messo in rilievo in Lo
CASCIO
200 l b; 2006a.
148
CRESCITA E DECLINO
molto bassa), farebbe seguito, a Roma e nelle regioni dell'impero, una mortalità nelle classi di età giovanili incredibilmente più elevata e una mortalità delle classi di età più anziane incredibilmente meno elevata rispetto a quella, appunto, di una popolazione caratterizzata da speranza di vita alla nascita di vent'anni. Vale a dire che la tavola di mortalità modello, in questo caso, serve a individuare l'implausibilità o addirittura l'impossibilità demografica di quella mortalità specifica per età, che dovremmo dedurre qualora supponessimo statisticamente significativo e non distorto il campione rappresentato dalle epigrafi funerarie. Le ragioni della distorsione, per quanto attiene alla registrazione dell' età, sono le più varie. Una è la tendenza all'arrotondamento dell'età. Il numero dei morti in età che terminano con zero o con cinque è enormemente più elevato rispetto al numero dei morti delle età intermedie. Un altro motivo di distorsione può essere rappresentato dal fatto che i genitori tendono a commemorare i propri figli morti in età giovanile molto più spesso: di qui il numero eccezionalmente elevato, in proporzione, delle iscrizioni che ricordano morti nelle età tra l e 19 anni. Un altro fattore di distorsione è quello che deve stare alla base di un' altra singolare caratteristica del campione tratto dalle epigrafi funerarie: e cioè l'eccezionale sovrarappresentazione degli uomini rispetto alle donne. Anche qui i confronti suggeriscono che una popolazione nella quale la leggera prevalenza dei maschi alla nascita, di 1.05 maschi per una donna (prevalenza che è un fatto biologico), non solo si perpetui, ma anzi si accentui nelle età successive sino a raggiungere un valore medio per tutte le età di 135 maschi per 100 donne (il dato derivabile dalle epigrafi funerarie romane) è una popolazione che non può darsi nella realtà, anche se è certamente vero che una prevalenza numerica dei maschi è stata assai spesso registrata tra le popolazioni europee d'ancien régime demografico e si registra ancora, per ragioni discusse, tra alcune popolazioni contemporanee (per esempio l'indiana o la cinese) 15. Una base apparentemente assai più affidabile per valutare quale possa essere stata una tipica composizione per età e per sesso di una popolazione antica la forniscono i dati derivabili dai documenti censuali egiziani, quando li si confronti, per l'appunto, con le tavole di mortalità e le strutture per età modello delle popolazioni stabili. Una volta sottoposti a sofisticate procedure di correzione delle possibili distorsioni del campione, questi dati hanno recentemente consentito di costruire due tavole di mortalità e due strutture per età per i due sessi, che appaiono sostanzialmente plausibili (anche se apparentemente più sicure per ciò 15
Si vd. p. es Lo
CASCIO
1994b, 35 sg. e la lett. ivi citata.
1. POPOLAZIONE
E RISORSE NEL MONDO ANTICO
149
che concerne le femmine che per i maschi). Da queste tavole risulta confermato che la speranza di vita alla nascita tanto per i maschi che per le femmine in una provincia dell'impero romano durante l'età del principato non doveva superare verosimilmente i ventidue-ventitré anni per le femmine e i venticinque- venti sei anni per i maschi e che, di conseguenza la popolazione di sesso maschile dev' essere stata nettamente maggioritaria, nel complesso della popolazione (forse dell' ordine di 117 maschi per 100 femmine). I documenti censuali egiziani forniscono informazioni circa altre variabili demografiche, in grado di incidere significativamente sulla fecondità, come l'età al matrimonio delle donne, e anche degli uomini. I dati egiziani appaiono in linea, in questo caso, almeno per le donne, con i dati che sono stati estrapolati dalla documentazione epigrafica per Roma e per altre aree occidentali dell'impero: essi paiono confermare che l'età al matrimonio delle donne nei primi secoli dell' impero, se pure non così bassa come la si era in precedenza stimata, doveva essere comunque sotto i vent' anni, e seguire dunque il pattern normale delle popolazioni pretransizionali del Mediterraneo, un pattern diverso da quello che si è potuto individuare come caratteristico dei paesi dell' Europa nordoccidentale nella prima età moderna. Viceversa l'età al matrimonio degli uomini era in Egitto più tarda e nelle province occidentali dell' impero assai più tarda e questo fatto controbilanciava in parte gli effetti positivi sulla fecondità che aveva la bassa età al matrimonio delle donne 16. Gli esempi citati mostrano in che modo i modelli demografici possono essere adoperati per saggiare la bontà delle conclusioni che si possono trarre circa il regime demografico vigente da classi di documenti specifici. Ma c'è un' altra utilizzazione delle tavole di mortalità e delle strutture per età modello che si dimostra di grande importanza nelle indagini sulla storia della popolazione del mondo antico: attraverso di esse è possibile stimare, a partire dai dati numerici registrati nelle nostre fonti, che si riferiscono assai spesso a un settore specifico della popolazione, per esempio i maschi adulti di determinate classi di età, l'entità complessiva della popolazione. Proponendo un quadro affidabile della composizione per età della popolazione, valgono talvolta anzi a indicare quale sia l'interpretazione demograficamente più plausibile di dati numerici per i quali non è del tutto sicuro a quali settori della popolazione si riferiscano; ovvero valgono a dimostrare l'impossibilità demografica di talune conclusioni che da queste stesse cifre gli studiosi moderni hanno voluto trarre.
16
l
Sull'età
al matrimonio
a Roma SALLER 1987; SHAW 1987.
150
CRESCITA E DECLINO
3. I NUMERI
ASSOLUTI
Le indagini più recenti di storia della popolazione romana (meno quelle di storia della popolazione greca) hanno concentrato la propria attenzione sulla struttura della popolazione, sulla storia della famiglia e delle relazioni matrimoniali, su tematiche connesse con una valutazione dei regimi demografici vigenti nel mondo antico, quali ad esempio il ruolo della donna nella società o la diffusione di pratiche come l'esposizione o l' infanticidio o la diffusione delle balie e l'effetto che questa diffusione può avere avuto sulla dinamica della fecondità. Si tratta dunque di indagini che spesso proprio attraverso un programmatico orientamento verso la dimensione qualitativa, e la contestuale e conseguente rinuncia alla dimensione quantitativa, intendono caratterizzare il proprio interesse per le popolazioni antiche come calato nell' àmbito della storia sociale, più che di quella economica. Meno si è tentato, per lo meno in questi ultimi tempi, di estrapolare dagli sparsi accenni che troviamo nelle fonti letterarie ed epigrafiche stime dei numeri assoluti. Le cifre che possediamo possono presentare problemi per tre ordini di motivi: perché nella trasmissione manoscritta sono proprio le cifre ad essere più facilmente soggette a corruttela, mentre quelle tràdite per via epigrafica sono in numero sostanzialmente esiguo; perché non sempre, per un complesso di ragioni, possiamo considerare la testimonianza antica che ce le tramanda come fededegna e, infine, perché la stessa interpretazione delle cifre può risultare controversa. E tuttavia, non possiamo sperare di ricostruire lo scenario della vita economica e sociale e financo politica di un determinato ambito territoriale in un determinato periodo dell'antichità che superi il mero impressionismo senza una qualche indicazione dell' ordine di grandezza della popolazione. Così, non è possibile intendere, ad esempio, il funzionamento dell'economia dell' Attica o le stesse caratteristiche peculiari della democrazia ad Atene nel quinto o quarto secolo, senza una qualche idea di quanti fossero gli abitanti - cittadini, meteci, e cioè stranieri, e schiavi - nello stato-città di Atene 17. E le caratteristiche peculiari dell' espansione imperiale romana tra il terzo secolo a.C. e l'età augustea saranno ovviamente ricostruite in maniera diversa se, a partire dalle cifre del numero dei cittadini censiti che la tradizione letteraria ed epigrafica ci ha tramandato per l'età repubblicana e per la prima età imperiale, interpreteremo come in espansione o come in declino la popolazione della penisola. In generale, poi, una qualche sti-
17
ora
Per la storia della popolazione greca si veda la rassegna di 2006; BRESSON 2007, parto 61 sgg.
HANSEN
GALLO
1979; vd. pure
GALLO
1999; e
I. POPOLAZIONE E RISORSE NEL MONDO ANTICO
151
ma del numero assoluto della popolazione è essenziale per comprendere come si presenti il rapporto popolazione-risorse, che in economie basate sulla netta prevalenza della produzione di beni primari significa sostanzialmente come si presenti il rapporto tra terra agricola e disponibilità di lavoro. Le cifre che troviamo nelle nostre fonti, tanto per la Grecia, quanto per Roma, quanto ancora, per esempio, nella Bibbia, per il popolo ebraico, sono in generale riferite al numero di uomini in armi o al numero degli adulti in grado di portare le armi. Abbiamo poi una serie di cifre che si riferiscono all'intera popolazione o quanto meno agli adulti di condizione libera, ma si tratta di cifre sparse che consentono al più di farsi un' idea sommaria dell' ordine di grandezza di talune realtà antiche, mentre del tutto inattendibili si sono dimostrate la maggior parte delle pur esigue cifre che ci sono state tramandate del numero degli schiavi in specifici contesti. Quanto alla popolazione dei centri urbani, in quanto distinta da quella dei territori corrispondenti delle città, le notizie che abbiamo sono pressoché inesistenti, salvo che per alcuni grandi centri dell' impero come Alessandria, entro certi limiti Costantinopoli nel quarto secolo e soprattutto Roma: ma anche in questi casi si tratta di notizie certamente relative a una parte soltanto della popolazione complessiva, e si pone quindi il problema di come stimare il resto. Così, per Roma, le Res gestae di Augusto e numerosi accenni delle fonti letterarie ci hanno trasmesso il numero dei beneficiari difrumentationes (le distribuzioni gratuite di grano) e di congiaria (i donativi in denaro distribuiti dagl'imperatori) 18. Sappiamo che in linea di massima il grano andava ai liberi di condizione cittadina e maschi adulti, mentre i donativi in denaro erano distribuiti anche ai minori di diciassette anni. Si pone allora il problema di stimare da queste cifre, relative a una parte degli abitanti della città, la popolazione complessiva e di controllare la stima attraverso altri possibili indicatori del livello della popolazione, quali il consumo di grano che si faceva nella capitale in vari momenti, o il numero (attestato dalla documentazione giuridica tardoantica 19) delle razioni di carne di maiale distribuite nel corso del quarto secolo, o ancora il numero delle insulae e delle domus registrate in taluni documenti di tipo catastale che ci sono pervenuti sempre per il quarto secolo d.C. 20.
18 Il numero dei beneficiari dellefrumentationes si ricava in modo indiretto per l'ultimo secolo della repubblica da Cic. 2 Verr. 3. 72; Plut. Cat. Min. 26. l; Caes. 8. 6; in età cesariana: Suet. Div. lui. 41. 3; per l'età augustea: Res Gestae 15; Lo CASCIO 1997a; Lo CASCIO2000c; Lo CASCIO2001d, e lett. ivi. 19 C.Th. 14.4. lO; cfr. anche C.Th. 14.4.4 e Nov. Valent. 36. 20 l cd. cataloghi regionari, su cui Lo Cxscro 2000c, 24 sg. e letto ivi; e si vd. ora l'importante discussione in STOREY 2002.
152
CRESCITA E DECLINO
La documentazione che possediamo per la Grecia risulta significativa, in verità, solo per Atene con l'Attica 21. Si tratta di cifre tratte da registrazioni specifiche, che in parte sono giunte direttamente per via epigrafica, in parte ci sono trasmesse dalle fonti letterarie, Tucidide in testa. Esse derivano da documenti di carattere vario: elenchi, demo per demo, di coloro che raggiungevano l'età per essere iscritti negli stessi demi come cittadini (ma che potevano, per ragioni varie, risiedere fuori dell' Attica); elenchi, parimenti demo per demo, dei cittadini che erano ammessi alle riunioni dell' assemblea; infine un elenco centralizzato, non sappiamo in che modo tenuto a giorno, di tutti i cittadini maschi dai diciotto ai cinquantanove anni potenzialmente in grado di servire nell' esercito, perché fisicamente idonei. Le iscrizioni che ci sono pervenute riflettono una riforma che si ebbe negli anni trenta del quarto secolo a.C., che riorganizzava l'addestramento delle potenziali reclute, di diciotto e diciannove anni: esse riferiscono, demo per demo, e in occasione di più anni, il numero di questi maschi che raggiungevano l'età militare (gli efebi) e potevano in seguito servire come opliti. Gli autori ci trasmettono i dati relativi agli uomini in campo in specifici eventi bellici, o ai potenziali reclutabi li, o ancora informazioni numeriche relative al concreto svolgersi delle attività politiche e giudiziarie, o al numero di coloro che parteciparono a distribuzioni straordinarie di cereali. Un censimento generale di cui ci è noto il risultato venne effettuato da Demetrio di Falero nel 317 a.C., in occasione di una modificazione costituzionale: in esso vennero enumerati tutti i maschi adulti, ivi compresi meteci e schiavi. Le cifre che ci fornisce Ateneo", attingendole a Ctesicle, sono rispettivamente di 21.000 cittadini, 10.000 meteci e nientemeno 400.000 schiavi: cifra, quest'ultima che, specialmente quando la si consideri assieme ad altre cifre del tutto destituite di fondamento di popolazioni servili date dallo stesso Ateneo, si rivela assolutamente incredibile.". Non sembrano esservi ragioni di dubitare, viceversa, della credibilità delle cifre relative al numero di cittadini e di meteci. Il censimento di Demetrio Falereo avrebbe avuto qualche anno prima un precedente in occasione dello stabilimento di un' oligarchia ad Atene, sconfitta nella Guerra Lamiaca, da parte di Antipatro: allora, i diritti politici vennero limitati a quegli Ateniesi che possedevano un censo di almeno 2.000 dracme, e ciò ebbe per effetto di escludere 12.000 cittadini, secondo Plutarco ", o 22.000, Cfr. GOMME 1933; HANSEN 1985. Athen. Deipnosoph. 6, 272c = Ctesicle FGrHist 245 Fl. 23 Ma non tutti concordano sull'indifendibilità di questa indicazione DEscAT 2006, 67 sgg. 24 Phoc. 28. 21
numerica: si vd. ora ANDREAU,
I. POPOLAZIONE
E RISORSE NEL MONDO ANTICO
153
secondo Diodoro 25 • Questa discordanza tra il dato plutarcheo e quello diodoreo, nonché il rapporto che va istituito tra questa cifra e quella del numero degli Ateniesi nel 317 costituiscono l'oggetto di un vivace dibattito sulla consistenza del numero dei cittadini e, in rapporto ad esso, della popolazione complessiva dell' Attica nel corso del quarto secolo che non è soltanto un mero dibattito erudito. Ritenere che la popolazione dell' Attica non superasse una certa soglia numerica significa, infatti, accreditare la tesi secondo la quale la produzione di beni primari sarebbe stata in grado di soddisfare nelle annate normali i consumi complessivi: che l'Attica sarebbe stata autosufficiente per quanto riguarda la produzione cerealicola. Porre la popolazione dell' Attica al di sopra di un certo limite significa viceversa ritenere le importazioni di grano un fatto strutturale e dunque concepire l'economia ateniese, in termini più «moderni», come necessariamente più integrata con le economie delle altre regioni del Mediterraneo orientale: come dipendente, cioè, in larghissima misura dalle importazioni di cereali da aree anche assai distanti, quali l'Egitto o la Russia meridionale. E tuttavia il fatto che il censimento come computo complessivo della popolazione adulta di sesso maschile rappresentasse ad Atene un evento eccezionale limita di fatto le possibilità tanto di rispondere, coi dati contraddittori che abbiamo, a questo genere di doman~e, come anche di vedere in termini dinamici il rapporto popolazione nsorse. Apparentemente assai migliore è lo stato delle nostre conoscenze per Roma. Possediamo, trasmesse dalla tradizione annalistica confluita sostanzialmente in Livio e nelle periochae liviane, una serie numerosa di cifre indicanti i risultati di poco meno di quaranta censimenti effettuati, di norma ogni cinque anni, nel corso dell' età repubblicana; le cifre vengono riferite, nelle nostre fonti, con quella che appare essere formula ufficiale: «censa sunt civium capita tot» 26. Possediamo, peraltro, nelle Res gestae?', l'indicazione cifrata dei risultati dei tre censimenti effettuati nel 28 a.C., nell'8 a.C. e nel 14 d.C. Anche i risultati dei censimenti augustei sono introdotti con l'espressione «censa sunt civium capita tot». Al di là delle perplessità che ciascuna cifra, in sé, può suscitare, il complesso delle cifre relative all' età repubblicana risulta credibile, perché basato su una documentazione affidabile. Indubitato sembra poi essere 25
18.18. Nonostante i molti progressi conseguiti in questi ultimi decenni nel campo della demografia storica e l'ampliamento consistente della base documentaria disponibile per la storia greca e romana, rimane ineguagliata, come raccolta sistematica dei dati cifrati presenti nella documentazione antica e come opera d'insieme sulla popolazione greco-romana la Bevolkerung der griechisch-romischen Welt di K.J. Beloch (BELOCH 1886). Sul census a Roma PIÉRI 1968; Lo CASCIO 2001c. 27 R.G. 8. 26
154
CRESCITA E DECLINO
il valore delle cifre relative all' età augustea. Vi sono, tuttavia, problemi: se indiscusso, dato il significato e le funzioni del census a Roma, sembra essere che l'espressione civium capita alluda a maschi adulti nei censimenti di età repubblicana, indiscutibile non è stato considerato dagli studiosi che tale espressione alluda a tutti i maschi adulti. Ma il problema più grave che presenta la serie delle cifre dei censimenti è un altro. Il numero dei civium capita è nel 28 a.C., pari a più di quattro volte quello risultante dall'ultimo censimento dell'età repubblicana, del 70-69 a.C.: 4.063.000 rispetto a 900.000 (o 910.000)28. L'interpretazione di questo salto ha sempre costituito un problema. Si è in generale ritenuto impossibile giustificare l'enorme incremento del numero dei civium capita, se non si ammette che il criterio stesso del computo e dunque la nozione stessa di civium capita siano mutati. Non sarebbe possibile considerare la quadruplicazione del numero dei cittadini semplicemente come il portato dell' estensione della cittadinanza romana alle comunità della Transpadana, avvenuta nel 49 a.C., della politica di colonizzazione, nonché di un incremento naturale della popolazione: e se n'è allora dedotto che, laddove le cifre dei censimenti in epoca repubblicana indicano il numero dei maschi adulti, quelle dell' età augustea indicherebbero l'intera popolazione cittadina. Questa tesi, avanzata per la prima volta dal Beloch alla fine del secolo scorso, è stata fatta propria dalla maggior parte degli studiosi 29. Secondo altri studiosi l'incremento del numero dei civium capita tradurrebbe viceversa semplicemente una molto più efficace registrazione in occasione dei censimenti di età augustea: il numero dei non censiti sarebbe drasticamente diminuito a partire dal momento in cui si sarebbe consentito a ogni cittadino sui iuris (cioè capo famiglia) di farsi registrare nella propria città di residenza, senza essere costretto a venire a Roma a presentarsi davanti al censore, com' era accaduto in precedenza. Ora, la prima e fondamentale obiezione contro la prima delle due tesi viene da una considerazione non solo di ciò che sempre, nel corso della sua storia, il census ha significato - della sua natura stessa e delle sue tradizionali finalità - ma anche del carattere espressamente tradizionalista di questa ripresa del census da parte di Augusto. I Romani non hanno proceduto a contare gli uomini per pure ragioni statistiche: l' enumerazione rispondeva a precise finalità pratiche. In questo senso sicuramente inutile sarebbe stato calcolare il numero delle donne o dei fanciulli, che Liv. Per. 98; Flegonte di Tralles FGrHist 257 F 12.6. La tesi di BeIoch sul significato delle cifre dei censimenti augustei in rapporto a quelli di età repubblicana è stata ripresa nella splendida analisi complessiva di BRUNT 1971, e ora riaffermata, ad es., da SCHEIDEL2004. Per la tesi contrapposta (e per una stima assai più elevata della popolazione dell'Italia in età augustea), Lo CASCIO 1994b; Lo CASCIO 1994c; KRON 2005b; Lo CASCIOe MALANIMA 2005. 2X
2~
I. POPOLAZIONE
E RISORSE NEL MONDO ANTICO
155
non avrebbero potuto adempiere ad obblighi di natura militare, o fiscale, né avrebbero potuto usufruire dei diritti politici. Ma ancor più gravi aporie sembra presentare la tesi belochiana, quando si considerino le sue implicazioni «demografiche» 30. Al di là di qualsiasi argomento filologico, si può dire che la soluzione belochiana va respinta precisamente per la stessa ragione per la quale è sembrato sinora che dovesse essere necessariamente accolta come l'unica soluzione possibile: perché è quella che pare configurare la situazione demograficamente meno plausibile. È anche qui l'utilizzazione delle strutture per età modello a permettere una simile conclusione. Da queste è possibile dedurre, come si è visto, quale sia la struttura per età di una popolazione «stabile»: dunque è possibile calcolare, ipotizzando che la popolazione romana, dato il suo livello di mortalità, si avvicini a una particolare struttura tipo per età della popolazione, quale possa essere, nel complesso della popolazione, il peso delle classi di età che individuano i maschi adulti. Nel caso in esame, una volta stimata in ventidue anni e mezzo la speranza di vita alla nascita delle donne e in un valore di poco superiore quella dei maschi, si può calcolare in poco più del 30% la percentuale dei maschi al di sopra del 17 anni nel complesso della popolazione, se la popolazione è in moderata crescita al tasso dello 0,5% annuo, nel 32% se la popolazione è stazionaria, in poco meno del 34%, se la popolazione è in declino dello 0,5% l'anno. Che cosa è possibile dedurre da un calcolo del genere? Se Beloch ha ragione nel supporre che i civium capita in età augustea comprendessero l'intera popolazione cittadina, si potranno calcolare allora in poco più di 1.200.000, o in 1.300.000, o in poco più di 1.370.000 i maschi adulti nel 28 a.C., una cifra di poco superiore a quella, di 980.000 (910.000 censiti + 70.000 uomini impegnati negli eserciti e perciò non censiti) 31 , che si può calcolare a partire dal dato relativo al 70-69. Ora, questa differenza in più nel numero dei maschi adulti nel 28 rispetto alla cifra del 70-69 a.C., è comunque troppo esigua, se deve, com'è naturale, tener conto, dei nuovi cives delle comunità della Gallia transpadana donate della cittadinanza nel 49, del numero dei cittadini maschi adulti nelle province, e ancora del numero, certamente assai consistente, degli schiavi liberati, che a Roma divenivano cittadini e non semplicemente liberi: differenza troppo esigua, si è detto, a meno di non supporre che appunto i decenni tra il 70 e il 28 abbiano assistito a un vero e proprio crollo della popolazione libera dell' Italia.
30 31
Per quel che segue Lo CASCIO 1994b; 1994c; 2001 a; Lo Secondo la congettura di BRUNT 1971,97, tav. VIII.
CASCIO
in c.d.s.
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CRESCITA E DECLINO
E tuttavia proprio quest'ultima ipotesi - di un crollo della popolazione libera - non tiene. Sappiamo che le città in Italia erano poco più di quattrocentotrenta in età augustea, e di queste non meno di trecentottanta erano quelle al di sotto del Po. Gli ultimi secoli della Repubblica videro in Italia, in effetti, uno sviluppo urbano che non aveva precedenti. Naturalmente la popolazione dei centri urbani sarà stata tutt' altro che quantitativamente uniforme, ma, a voler calcolare un valor medio anche solo di mille persone per ciascun centro urbano, lo stesso numero delle città porterebbe la popolazione urbana dell'Italia a poco meno di mezzo milione di persone, cui vanno aggiunti gli almeno altrettanti liberi di Roma. Se dovessimo supporre che vi sarebbe stato un crollo della popolazione libera dell'Italia, dovremmo ammettere, allora, che si trattò di un tracollo della popolazione libera delle campagne, in larghissima misura inurbatasi. Ma a questo punto dovremmo supporre che il rapporto tra popolazione non impegnata nella produzione dei beni primari e popolazione totale fosse elevatissimo, assai più elevato di quello che qualsiasi confronto con altre realtà preindustriali potrebbe suggerire, ovvero dovremmo supporre che nelle campagne d'Italia il lavoro degli schiavi avesse pressoché totalmente rimpiazzato quello dei liberi: conclusioni entrambe poco plausibili. .'- ~-.Vi sono, dunque, come sembra, solidi motivi per ritenere che l'ordine di grandezza della popolazione libera dell'Italia nell' età augustea non può essere stato di 4-5 milioni, bensì di una cifra decisamente superiore, non lontana presumibilmente dai 12-14, con una densità dell'ordine di più o meno 50 abitanti per kmq. Una tale stima della popolazione libera, a meno di non volere pensare a un livello di popolazione complessiva certamente irrealistico, deve naturalmente portare a considerare nettamente minoritario il peso dell' elemento servile nel complesso della popolazione. È questo un caso nel quale l'indagine sulla popolazione sembra fornire argomenti di notevole peso ai fini della stessa ricostruzione di uno scenario economico e sociale. Calcolare in dodici-quattordici milioni gli abitanti liberi della penisola in età augustea, peraltro, significa prospettare anche una specifica valutazione della dinamica della popolazione libera di condizione cittadina nel corso degli ultimi due secoli dell' età repubblicana. Se le cifre dei censimenti augustei riproducono, come quelle di età repubblicana, il numero dei maschi adulti, non potremo parlare di un crollo della popolazione libera, che sarebbe, per certi aspetti, controintuitivo nel periodo nel quale si collocano una serie di sviluppi tra loro intimamente collegati: la conquista dell'impero; un'espansione economica senza precedenti, testimoniata dal diffondersi in molte regioni extraitaliche e segnatamente del
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Mediterraneo occidentale delle produzioni specializzate - il vino e l'olio - delle unità produttive agricole e delle manifatture del centro Italia; l'urbanizzazione accentuata dell' Italia e un' emigrazione consistente di cives Romani nell'Italia padana e nelle province. 4.
LA DINAMICA DELLE POPOLAZIONI
ANTICHE
L'analisi delle cifre dei censimenti sembra dunque fornire un' indicazione di rilievo circa la dinamica della popolazione nell'Italia romana tra III e I secolo a.C. Naturalmente i dati censuali non possono dare che indicazioni di larga massima, e sul lungo periodo. Combinati alle informazioni che possiamo trarre da un famoso luogo di Polibio ", nel quale viene registrata (a partire da ottime fonti) la consistenza numerica degli uomini in età militare a Roma e nell'ambito dei suoi alleati italici, alla vigilia di un'invasione delle popolazioni celtiche nel 225 a.C., essi consentono, se intesi nel modo che si è detto, di misurare l'ordine di grandezza dell' incremento di popolazione registratosi in Italia nei due secoli tra il 225 e il 28 a.C. Per altre situazioni non abbiamo la possibilità di arrivare sia pure solo a un ordine di grandezza dell'incremento (o del decremento) della popolazione sul lungo periodo. Va certamente poi messo in rilievo che, poiché la stazionarietà di fatto non esiste, anche i trend di lungo periodo non possono non occultare quelle continue oscillazioni della popolazione che dobbiamo supporre siano avvenute anche nel mondo antico, come in tutte le altre situazioni pretransizionali. Quel che possiamo comunque sicuramente affermare è che vi devono essere stati limiti ferrei alle possibilità di incremento delle popolazioni antiche, determinati dal fatto che qualunque incremento del tasso di natalità, provocato da un aumento del tasso di fecondità, non può essere stato in grado di controbilanciare un tasso di mortalità che rimaneva sostanzialmente assai elevato: sembra certo che, più che mutamenti nella dinamica della fecondità, abbiano avuto un peso nel determinare i trend di lungo periodo, le variazioni del tasso di mortalità, soprattutto in conseguenza del periodico determinarsi di periodi di mortalità di crisi, per effetto, più ancora che di generalizzate carestie, di generalizzati scoppi epidemici. Sembra agevole accertare, da un' analisi complessiva della documentazione scritta, messa a confronto con quella offerta dai resti materiali, individuare alcuni di questi trend di lungo periodo. Così, è ovvio che la colonizzazione greca a partire dall'VIII secolo deve avere avuto come potente fattore causale la sovrappopolazione determinatasi in alcune aree 32
2. 23 sg., su cui in parto Lo
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2000b.
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della Grecia continentale e insulare. Sembra parimenti chiaro, dalla documentazione relativa ai sepolcreti dell' Attica, che vede incrementare in misura esponenziale il numero delle sepolture, che nello stesso periodo vi dev' essere stato uno spettacoloso incremento di popolazione nell' Attica 33. Parimenti la testimonianza di Poli bio e di altri autori circa il notevole regresso demografico registrato dalla Grecia nell' età ellenistica e nel primo periodo della soggezione ai Romani sembra trovare una conferma incontrovertibile nei dati ricavabili dalle ricognizioni archeologiche di superficie. Parimenti, da questi dati, e da un' analisi degli sviluppi dell'urbanizzazione, sembra venire una conferma dell'incremento generalizzato della popolazione in molte aree tanto occidentali quanto orientali dell'impero nei primi due secoli del principato, nonché, presumibilmente, della stessa Italia nel corso del medesimo periodo, con differenziazioni regionali avvertibili 34. Questo incremento parrebbe confermato dallo stesso mero incremento della documentazione epigrafica, in parte legato, com' è ovvio, anche ad altri fattori di natura latamente culturale. Che la popolazione dell' impero nel suo complesso, in conseguenza dello stabilimento della pax Augusta, abbia sperimentato un regolare incremento è tesi generalmente condivisa. Al di là di una controversa documentazione archeologica, che parrebbe rivelare, per lo meno per molte aree soprattutto dell'Italia e delle province occidentali, un'intensificazione degl'insediamenti rurali, al di là degl'indubbi progressi dell'urbanizzazione, ancora una volta soprattutto nelle province occidentali e meridionali, una qualche indicazione su quale fosse il trend demografico della prima età imperiale, per lo meno per la penisola italiana, la possono offrire per l'appunto i risultati dei tre censimenti augustei e quello, a noi noto da Tacito ", del censimento effettuato da Claudio nel 47 d.C. Queste quattro cifre attestano un incremento complessivo, in settantacinque anni, dell'ordine del 50%, o cioè dell'ordine del 5 per mille annuo. Naturalmente in questo incremento del numero dei cittadini è compresa una quota, di dimensioni difficilmente valutabili, che non pertiene a un incremento naturale, ma all' estensione della cittadinanza attraverso le manomissioni o a seguito della fondazione di colonie in provincia; ovvero in seguito all' acquisizione del diritto di cittadinanza romana, nelle città
33 SNODGRASS 1977; SNODGRASS 1980,21 sgg.; ma si vedano le forti obiezioni di MORRIS 2007, 214 sgg., sull'interpretazione del dato delle sepolture; l'incremento consistente della popolazione non sembra, comunque, da mettersi in discussione: MORRIS 2007, 218 sg. 34 PLEKET 1990,56 sgg.; FRIER 2000b. 35 Annales Il. 25; la cifra è da preferire rispetto a quella data da Eus. Chron. Arm., sub 01. 206, 2, e a quella data da Ier. Chron., sub 01. 206, 2.
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provinciali di diritto latino, da parte di coloro che accedono alle magistrature e ai senati locali, dunque da parte delle élites di queste comunità. In più, bisogna, ovviamente, tenere presente che il dato relativo ai civium capita non si riferisce comunque esclusivamente all'Italia e oltretutto comprende e dunque cela l'emigrazione dalla penisola. Nel 48 d.C. si può stimare il numero complessivo dei cittadini romani dell'Italia e delle province, ivi compresi donne e fanciulli, in 20.000.000-21.500.000, con un incremento complessivo, rispetto al 14 d.C., del 22% e un tasso di incremento annuo del 5.7 per mille: anche in questo caso un tasso plausibile, giacché in questa cifra è compresa la quota degl' incrementi del numero dei cittadini derivanti dall'estensione della cittadinanza e dalle manomissioni. Ci si può chiedere quali sarebbero gli effetti di tassi d'incremento dell' ordine del 4-5 per mille. In assenza di eventi disturbatori - se la popolazione è stabile o si approssima alla condizione della stabilità -, tassi di questo genere significano un raddoppio in più o meno un secolo e mezzo. Si tratta di incrementi credibili? Per tentare di dare una risposta a questa domanda, dobbiamo porcene un' altra: quali possiamo supporre che siano le determinanti della dinamica demografica, nella specifica situazione «pretransizionale» dell'impero romano? Il dibattito teorico, a proposito dell' evoluzione demografica delle popolazioni preindustriali, è assai vivace. Si potrebbe dire che esso si muova attorno al problema se debba accogliersi una prospettiva malthusiana, che vede nelle risorse la variabile indipendente e nella dinamica demografica la funzione, ovvero se debba accogliersi una prospettiva che rovescia questo rapporto, vedendo, come fa la Boserup, nella dinamica demografica la variabile indipendente e nelle risorse (e cioè l'estensione dell'area coltivata e l'intensità delle colture), al contrario, la funzione. In più, va rilevato che anche tra coloro che aderiscono a una prospettiva malthusiana, v' è chi insiste piuttosto sul peso che avrebbero i malthusiani «freni repressivi» nel determinare la dinamica della popolazione, dinamica che dunque vedono condizionata dal variare nel tempo della mortalità, e coloro che insistono sul peso che avrebbero, semmai, i «freni preventivi» e dunque interpretano la dinamica demografica come condizionata dal variare nel tempo della fecondità.". Un ulteriore problema è quello della rispettiva incidenza, nel determinare la dinamica della mortalità, in società che non hanno conosciuto ancora i progressi igienico-sanitari delle popolazioni
36 Per la dinamica demografica e il suo rapporto con le risorse nelle società pretransizionali si vd. ad es. GRIGG 1980; GRIGG 1985; ROTBERG & RABB (a c. di) 1983. Dei libri di E. Boserup, si vd. in particolare BOSERUP 1981.
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post-transizionali, della malnutrizione, da un lato, e delle malattie infettive, dall' altro. Così, si è di recente autorevolmente sostenuto che, sul lungo periodo, la storia demografica europea, dal XIV secolo al XVIIIXIX, quando si inizia la fase della forte crescita determinata dalla consistente e definitiva flessione della mortalità, non rivela una correlazione positiva tra popolazione e alimentazione, secondo il classico modello malthusiano. La dinamica della mortalità sarebbe molto più chiaramente correlata al ciclo epidemiologico, indipendente, a sua volta, dal livello di nutrizione. Detto in altri termini, a far variare la popolazione sul lungo periodo sarebbe l'oscillazione della mortalità, e questa sarebbe a sua volta determinata in larga misura dai grandi scoppi epidemici 37. Anche una prospettiva quale quest'ultima tende a riconoscere, dunque, come poco rilevante l'impatto delle variazioni della fecondità, soprattutto perché quest'ultima, non potendo scendere al di sotto di una certa soglia - a meno di una rapida estinzione della popolazione in questione -, non può che muoversi all'interno di un arco di valori ristretto, limitato verso l'alto dal massimo biologico. Detto in altri termini, lo stesso arco di valori attorno a cui oscilla il tasso di mortalità normale, prima della sua drastica e durevole caduta con la «transizione demografica», è tale da impedire di per sé una crescita consistente e sostenuta nel tempo della popolazione. I demografi hanno individuato lo «spazio» della crescita delle popolazioni del passato come quell' arco di combinazioni possibili tra fecondità e mortalità necessario perché sia possibile un determinato incremento della popolazione: e si può dimostrare - ciò che peraltro è di senso comune - che «le combinazioni di rapidissima crescita della popolazione e di alta mortalità sono chiaramente impossibili, a causa del livello impossibile di fecondità che implicano»38. Sembra indubitato, dunque, che la prima età imperiale abbia assistito quanto meno in Italia e in alcune regioni dell'impero a una crescita di dimensioni tali da essere compatibile con il regime demografico vigente nel mondo antico; ma tuttavia una tale crescita si sarà approssimata al massimo conseguibile in una popolazione pretransizionale. Per di più un tale incremento del popolamento, se è stato sostenuto, in Italia, almeno in una prima fase, dalla posizione di primato dell' economia italica nell' àmbito del Mediterraneo, ha dovuto significare, peraltro, in alcune zone della penisola, l'estensione, tra il I e il II secolo, dell' occupazione 37 La tesi di una mancanza di correlazione, sul lungo periodo, tra dinamica demografica e alimentazione è stata sostenuta, con riferimento alla storia demografica europea, da LIVI BACCI 1987. Sul rapporto popolazione e alimentazione nel mondo greco-romano si vd. ad es. GALLO 1984; GARNSEY 1988; ma cfr. ora JONGMAN2006; 2007. 3X COALE, DEMENY & VAUGHAN 1983,29.
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del suolo a terreni non utilizzati in precedenza e dunque verosimilmente marginali: indizio, parrebbe, di una pressione consistente della popolazione sulle risorse: ci si avvia in queste aree a una situazione malthusiana. D'altra parte, le occasioni di creare un più consistente surplus, determinate dalla crescita di età tardorepubblicana vanno venendo meno, nel momento in cui cominciano a crescere le province. È a questo punto che si può avvertire, quanto meno in Italia o in alcune zone dell'Italia, un problema di sovrappopolazione. Vale a dire che, in àmbito agrario, vengono meno criteri di più efficiente utilizzazione delle risorse, legate alla specializzazione produttiva, e che si cominciano a utilizzare terreni di produttività marginale, nel momento in cui l' «optime colere», come definisce lo sfruttamento intensivo del terreno, in un luogo celebre, Plinio il Vecchio 39, corrisponde all'utilizzazione (conforme al modello della «peasant economy») di un'unità aggiuntiva di lavoro cui comunque bisogna assicurare la sussistenza. Ciò che è avvenuto è che si è ristretta la possibilità di un' occupazione nei settori più e meglio inseriti nel mercato, per lo meno per talune aree della penisola. Nella misura in cui vanno restringendosi quei settori che sono impegnati nella produzione di beni destinati a un mercato urbano (ed esterno all'Italia), il rapporto popolazione-risorse muta. Il problema non è dunque solo rappresentato da un presumibile, continuo, ulteriore incremento della popolazione, ma dal fatto che, venendo a restringersi i mercati extraitalici delle merci italiche, viene meno la possibilità di integrare le stesse produzioni agricole della penisola attraverso l'importazione di grano. Ciò che succede nell'Italia dell' età imperiale è che il ritorno alla cerealicoltura di alcune delle aree che hanno conosciuto l'espansione delle colture specializzate, nella misura in cui è espressione del ridimensionamento del ruolo trainante dell' economia della penisola, può paradossalmente tendere ad aggravare, anziché attenuare, lo squilibrio popolazione-risorse. Una diversa evoluzione è quella che interessa altre aree occidentali dell'impero, che paiono assistere a un forse ancor più vigoroso incremento della popolazione, come l'Africa settentrionale. In Africa la crescita demografica corrisponde al progressivo avanzarsi della frontiera delle colture nei confronti della steppa predesertica, soprattutto attraverso l'espansione dell' olivicoltura, e alla connessa sedentarizzazione delle popolazioni nomadiche berbere: in queste condizioni si può dire che il rapporto popolazione-risorse non muti e ciò può spiegare la crescente prosperità che conosce questa parte del mondo romano, destinata a durare ancora a lungo, quando altre zone sono ormai in evidente declino: un 39
Plin. N.H. 18. 38.
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rigoglio economico destinato a rimanere ineguagliato, per queste aree, sino a tempi a noi vicini. È in questo quadro che va visto l'impatto della "peste antonina":", la malattia infettiva, presumibilmente il vaiolo, portata negli anni '60 del secondo secolo d.C. dai reduci della campagna partica di Lucio Vero e diffusasi rapidamente nella maggior parte dell'impero. La "peste antonina" ha suscitato un vivace dibattito storiografico: alla tradizionale enfatizzazione della sua gravità e della gravità dei suoi effetti, cui si era ingegnosamente cercato di trovare qualche sostegno documentario nelle attestazioni dei papiri egiziani, ha fatto seguito il tentativo di dimostrarne l'irrilevanza come evento e di valutarne come trascurabili le conseguenze. Una più serena valutazione delle testimonianze che possediamo, oggi arricchite da nuovi e decisivi documenti egiziani di non ambigua interpretazione, consente ormai di metterne in rilievo il significato di evento epocale nella storia del principato. La lunga durata di quella che appare essere una vera e propria pandemia risulta parimenti indiscutibile. È possibile, peraltro, che la malattia infettiva sia rimasta endemica nei decenni successivi: è comunque certo che una malattia epidemica, di incerta identificazione, ma di ancor maggiore gravità, tornò a colpire l'impero a partire dalla metà del terzo secolo e per altri vent' anni. Mancano certo dati quantitativi, che consentano una stima complessiva del calo demografico, ma non sembra immotivato comparare gli effetti della pandemia sulle condizioni produttive generali dell' impero con quelli che può avere avuto sulle condizioni produttive delle varie regioni europee la "peste nera" del XIV secolo. Se è così, le discussioni che si sono accese sulla validità esplicativa di taluni fra i "modelli", in primo luogo il "modello demografico", neomalthusiano, nella ricostruzione della storia economica del continente europeo, e in particolare del suo segmento che ha al suo centro, come evento epocale, la "peste nera" del XIV secolo, possono allora valere a fornire un utile quadro di riferimento per tentare di definire la direzione causale dei nessi individuabili tra oscillazioni demografiche e fluttuazioni economiche di lungo periodo. In ogni caso l'accentuazione del peso delle grandi epidemie nel dar forma alla storia demografica europea, che, come si è detto, caratterizza una delle più recenti sue generali ricostruzioni, già di per sé inviterebbe ad attribuire un ruolo parimenti decisivo alle grandi pandemie che colpiscono l'impero a partire da quella dell' età di Marco. Si è già osservato come il regime demografico vigente in una popolazione pretransizionale, caratte40
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Per le pestilenze dell' età antonina e della metà del III secolo e i loro effetti, Lo 1997c; DUNCAN-JONES 1996; SCHEIDEL 2002; ZELENER 2003.
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1991 b; Lo
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rizzato da una bassa speranza di vita alla nascita e dunque da un' elevata mortalità, non consente, anche in presenza di un elevato tasso di fecondità, che incrementi modesti: il totale recupero demografico prende perciò molto tempo, proprio in ragione del fatto che, sul lungo periodo, in condizioni pretransizionali, la differenza tra tasso di natalità e tasso di mortalità non può mai superare determinati valori. È illuminante il dato dell'evoluzione della popolazione inglese dopo il 1348: essa continuò a decrescere per circa un secolo dopo la Peste nera e ci volle forse un altro secolo e mezzo perché si raggiungesse il livello della metà del quattordicesimo secolo. Si può calcolare, perciò, che, qualora riteniamo che la peste antonina abbia determinato una mortalità aggiuntiva tale da provocare la diminuzione del 20% della popolazione dell'impero nel suo complesso (una stima, tutto sommato, prudente), per recuperare questo calo della popolazione, con un tasso di crescita del 3 per mille, sarebbero stati necessari pressoché 75 anni; vale a dire che la popolazione non sarebbe potuta pervenire al medesimo livello dell' età di Marco, prima che si determinassero quegli altri scoppi epidemici di pari se non addirittura di maggiore gravità, che sono attestati a partire dalla metà del III secolo e per altri due decenni. Le epidemie della metà del III secolo intervengono dunque ad aggravare una situazione che è già compromessa. Lo scoppio della peste antonina deve avere innescato, perciò, una serie di processi nella vita economica e sociale dell' impero destinati a rivelarsi decisivi per le sorti dell' organismo imperiale, per lo meno nella sua parte occidentale. La diminuzione della popolazione avrebbe dovuto tendenzialmente provocare un miglioramento delle condizioni di vita della popolazione contadina, nella misura in cui fosse stato possibile, per essa, «spendere» la propria incrementatata capacità contrattuale. Ma l'equilibrio sociale sul quale si reggevano la costruzione imperiale e le sue cellule di base, le città, tendeva a frenare se non a impedire questo processo. I ceti proprietari si trovavano a godere di una posizione di preminenza sociale tale da rendere quanto meno problematico, per la massa della popolazione contadina, giovarsi della migliore situazione contrattuale nella quale veniva ora a trovarsi. Alla lunga, semmai, proprio l'impossibilità, per i ceti proprietari, di valersi della propria posizione di forza, sul piano stesso dei rapporti economici, per esempio nella contrattazione degli affitti agrari, avrebbe reso necessario il ricorso a strumenti di costrizione extraeconomica, primo fra i quali quello di limitare e alla fine di impedire la mobilità geografica della popolazione contadina, attraverso l'imposizione del vincolo al suolo. Né 1'autorità centrale avrebbe potuto non favorire e alla fine sanzionare una simile evoluzione. Lo stato imperiale contava, per la sua so-
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pravvivenza, proprio sul ruolo che giocavano le élites proprietarie, alle quali era demandata la responsabilità non solo, in generale, dell' organizzazione della vita associata allivello cittadino, ma specificamente, e allo stesso livello, della riscossione delle imposte. Donde la contraddizione insuperabile che l'autorità imperiale si trovava di fronte: per un verso, l'estrazione del surplus da parte dello stato, in forma di tassazione, da una ormai ridotta popolazione contadina entrava in seria competizione con l'estrazione del surplus in forma di rendita da parte dei ceti proprietari e dunque avrebbe dovuto tendere a far scemare questa seconda quota di surplus; per un altro verso, proprio per garantirsi la riscossione delle proprie imposte, l'impero non poteva rinunziare a garantirsi la solidarietà dei ceti proprietari, con la conseguenza di non potere diminuire più di tanto la quota di surplus da essi sottratta, a meno di non volere mettere a repentaglio il loro ruolo sociale. L'esistenza di questa contraddizione spiega una serie di fenomeni, nella dislocazione dei vari gruppi sociali e nei loro rapporti reciproci, rilevabili nel corso del III secolo, ma già avviati con gli ultimi decenni del II. E forse spiega pure, sul più lungo periodo, almeno in parte, dapprima lo stesso processo di irreggimentazione dell' intera società ai fini della conservazione di un unitario stato imperiale, che è uno dei tratti più caratteristici della tarda antichità, poi lo stesso dissolversi, nell' occidente, di un'organizzazione politica unitaria:".
41
Cf. infra, 179 sgg.
II. IL RAPPORTO UOMINI-TERRA NEL PAESAGGIO DELL'ITALIA ROMANA Un luogo del de controversiis agrorum di Agennio Urbico ci fornisce un'informazione significativa sul popolamento rispettivo delle campagne dell'Italia e delle province, di cui è certo singolare che, se non mi sbaglio, non si sia mai sottolineata l'importanza (con la notevole eccezione del Brugi) l nelle discussioni sul popolamento dell'Italia romana nel corso della sua storia. Agennio sta discutendo delle controversie che possono sorgere sui loca sacra et religiosa e in questo quadro mette in rilievo come secundum legem populi Romani deve osservarsi una magna religio et custodia dei luoghi sacri. Osserva pure come ai legati delle province vengano date istruzioni di far sì che tali luoghi vengano custoditi, dunque preservati come sacri. Aggiunge Agennio che ciò (e cioè la custodia di tali luoghi sacri) è più facile nelle province, e ce ne dà la ragione: «in Italia autem densitas possessorum multum improbe facit, et lucos sacros occupant, quorum solum indubitate p. R. est, etiam si in finibus coloniarum aut municipiorum» (vale a dire che in Italia l'abusiva occupazione dei luoghi sacri è fenomeno assai più frequente e la causa ne è la densitas possessorum, la densità e dunque il gran numero dei possessoresi': Il contrasto tra Italia e province è dunque in questo caso ricondotto dal gromatico alla maggiore frammentazione nella detenzione della terra e perciò alla differente densità - mi sembra legittimo dire - del popolamento delle campagne. Che questa sia l'unica possibile interpretazione del luogo di Agennio mi sembra certo. Osserverò che Brugi, per un verso, contestava Matthiass ', secondo il quale sarebbero stati i grandi possessores a BRUGI 1897, pp. 274 sgg. De controv. agr., p. 56 La. = p. 86 La. = p. 47 Th.: «hoc facilius in prouinciis seruatur: in Italia autem densitas possessorum multum inprobe facit, et lucos sacros occupant, quorum solum indubitate p. R. est, etiam si in finibus coloniarum aut municipiorum». La recente traduzione inglese di CAMPBELL 2000, 45 (<
2
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incorporare nei propri latifondi i territori dei templi, rilevando come il gromatico da cui riprende Agennio (che Brugi identifica con sicurezza in Frontino) alludesse non alla vastità dei possessi, ma appunto alla densità dei possessori, e rilevando, pertanto, come la pretesa morte della piccola proprietà contadina fosse un «preconcetto»; per un altro verso, Brugi, pur sostenendo che densitas possesso rum fosse «frase da intendere con prudenza» 4, di fatto sembrava sottolineare come questa testimonianza mal s'accordasse con la generale ricostruzione del popolamento dell'Italia data dal Beloch nella Bevolkerung, Il primo problema che pone il luogo di Agennio è se il gromatico pensi a una condizione in qualche modo «strutturale» dell'Italia rispetto alle province o abbia in mente una fase precisa nella quale la densitas possesso rum si è determinata. A monte di questo è, più in generale, il problema di quando scriva Agennio e il problema di quanto riprenda, in questo specifico passo, dalla sua fonte, nonché la questione, com'è ovvio, della datazione di questa fonte. Per quel che riguarda la datazione di Agennio, mi sembra che quella argomentata da ultimo da Mauro De Nardis, nella sua dissertazione di dottorato dell'University College London e accolta anche da Brian Campbell", la fine del quarto secolo, si possa considerare pressoché sicura. Quanto al problema della fonte di Agennio, come si sa Lachmann e già Niebuhr l'identificavano in Frontino, e il parere è ancor oggi largamente condiviso, mentre il Thulin parlò, senza prendere posizione, di optimus fons. Ammessa questa derivazione da Frontino o comunque da un optimus fons in ogni caso databile in età flavia, si tratta poi di precisare la natura e i limiti di questa derivazione per quel che riguarda il nostro passo. Si può ritenere che Agennio trovasse l'osservazione sulla densitas possesso rum, e nei termini in cui la presenta, nell' optimus fons, o si tratta viceversa di una sua aggiunta? Nella bibliografia recente il passo non è stato considerato, salvo appunto che da De Nardis. Secondo De Nardis questo luogo e altri tre nei quali c'è parimenti questa contrapposizione tra Italia e province (o tra l'Italia assieme ad alcune province, da una parte, e altre province come l'Africa dall'altra), sarebbero da considerare aggiunte dello stesso Agennio, volte a confermare la rilevanza della contrapposizione di condizione giuridica tra solum Italicum e solum provinciale, sulla quale egli si diffondeva nella parte iniziale del suo trattato (la parte che nell' Arceriano reca quella che appare essere l'attribuzione di un tardo amanuense a un Simplicius)", 4 «Ognuno se ne persuaderà il quale mediti le conclusioni del Beloch ... sulla scarsa popolazione d'Italia»: e Brugi rinvia alla Bevolkerung, S DE NARDIS 1994, cap. IV; CAMPBELL 1996,76 con n. 7; CAMPBELL 2000, XXXI s. 6 P. 23 Th.; cfr. in particolare GRELLE 1963,30 ss.
II. IL RAPPORTO UOMINI-TERRA
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D'altronde, anche questa parte nella quale viene affermata la contrapposizione tra solum Italicum e solum provinciale per De Nardis non deriverebbe da Frontino o comunque dall' optimus fons di età ftavia, ma sarebbe stata dallo stesso Agennio ripresa da un manuale di diritto, che potrebbe essere quello di Gaio, con la sua distinzione tra i praedia stipendiaria e tributaria delle province e il solum Italicum 7. Le aggiunte di Agennio, ivi compresa quella sulla densitas possesso rum, tuttavia, non avrebbero avuto nulla a che fare con la differente condizione giuridica del suolo: questi passi «were meant to corroborate the theory Urbicus found in his source, but probably could not understand because this particularity (difference between ownership of Italic soil and provincial soil) had already fallen in disuse» 8. La spiegazione di De Nardis è ingegnosa, ma non mi sembra pienamente convincente: se è vero, com'è vero, che all'epoca di Agennio Urbico la distinzione di condizione giuridica tra solum Italicum e solum provinciale era un fatto del remoto passato, non si comprende il motivo per il quale Agennio l'avrebbe dovuta introdurre, andandola a ricavare da un manuale di diritto. Sembra più plausibile che anche questa distinzione fosse nell' optimus fons: e se così è, verrebbe meno la ragione per la quale dovremmo supporre, ad avviso del De Nardis, che l'osservazione sulla densitas possesso rum fosse di Agennio e non della sua fonte. Insomma, non mi sembra che abbiamo modo di stabilire a quale epoca si debba riferire l'osservata densitas possessorum, se al primo o al quarto secolo e semmai mi pare nel complesso più probabile che il riferimento vada ascritto a Frontino o comunque all' optimus fans di età ftavia. Peraltro, non escluderei nemmeno che qui venisse messo in risalto un aspetto della contrapposizione Italia-province che non era di per sé riferibile a uno specifico momento della vicenda dell'Italia romana, ma rappresentava un suo dato vorrei dire strutturale: e cioè appunto non solo l'assai maggiore densità del popolamento rispetto alle aree provinciali, ma il fatto che tale maggior popolamento si traducesse in una continua, o forse meglio ricorrente, pressione della popolazione sulle risorse: quella pressione che poteva spiegare, tra l'altro, le usurpazioni di terreno del tipo di quella ricordata da Agennio. Nel parlare di un tale «strutturale» maggior popolamento dell'Italia so bene di andare contro una radicata communis opinio, che ha alla sua base la generale ricostruzione del popolamento del mondo antico data più di
7 8
Gai. 2. 7; 21. DE NARDIS 1994,87.
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cento anni fa dal Beloch e ripresa, per il mondo romano, dall' opera del Brunt". Ma il fatto è che di questa generale ricostruzione si può anzitutto mostrare, come ho cercato di fare in varie sedi, la fragilità sostanziale del punto di partenza (e cioè la particolare interpretazione delle cifre dei censimenti augustei a paragone di quelli repubblicani) IO. E in secondo luogo si può mostrare come tale generale ricostruzione si riveli contraddetta tanto dalla documentazione archeologica, quanto da una serie di accenni nelle stesse fonti soprattutto per quanto riguarda gli ultimi decenni del primo secolo e i primi del secondo d.C. Il complesso della nostra documentazione sembra rivelare significativi indizi non solo di una densità del popolamento nella penisola che non sarebbe stata eguagliata che nella avanzata età moderna, ma anche di una talvolta drammatica pressione della popolazione sulle risorse, di una vera e propria sovrappopolazione Il. Certo, la documentazione archeologica di scavo e soprattutto di superficie rivela un' estrema varietà di sviluppi nelle differenti aree della penisola. Come va divenendo sempre meglio evidente 12, la storia degli insediamenti è estremamente frastagliata a seconda delle zone (e va notato come la stessa immagine di una solitudo [taliae che deriva da qualche accenno ciceroniano o senecano 13 si spieghi come per l'appunto riferibile a specifiche e circoscritte aree). E tuttavia è innegabile che appunto in alcune zone della penisola (per esempio dell'Etruria meridionale) sia rilevabile un'utilizzazione di terreni marginali per le colture, che non può che interpretarsi come segno di una pressione della popolazione sulle risorse agricole. Gl'indizi che mi sembrano più significativi di una tale pressione sono quelli che riguardano i decenni finali del primo secolo d.C. Perché tale pressione si avverte in questi decenni? Lo strutturale riequili-
BELOCH 1886; BRUNT 1971, 19872. Lo CASCIO I994b; Lo CASCIO 1994c; Lo CASCIO I999b; Lo CASCIO2000b; Lo CASCIO200 Ia. Il Lo CASCIO I994c. Che nel mondo romano vi possa essere stata una vera e propria sovrappopolazione è una "possibilità" che è stata argomentata da FRIER 2000, part. 100-5; FRIER 2001. Frier sostiene, soprattutto in base alle conclusioni alle quali inviterebbero i documenti censuali egiziani da lui studiati assieme a Bagnall (BAGNALL & FRIER 1994), che la mortalità nel mondo romano sarebbe assai più elevata che in generale nella Europa della prima età moderna e solo marginalmente più bassa di quella delle popolazioni antropologiche del periodo preistorico e che dunque la speranza di vita sarebbe stata più bassa che nell'Europa dell'età moderna. Causa di quest'alta mortalità non sarebbero tanto o soltanto gli squilibri economico-sociali (e per esempio la malnutrizione che avrebbe interessato settori ampi della popolazione) o ancora la facilità delle comunicazioni e ancor più l'entità delle concentrazioni urbane che avrebbero facilitato la trasmissione delle malattie epidemiche. Causa fondamentale sarebbe stata appunto la sovrappopolazione, che avrebbe determinato l'insorgere dei malthusiani "freni repressivi". Su questa generale teoria, avanzata con estrema cautela dal Frier (appunto come una mera "possibilità"), vd. Lo CASCIO2004. 12 Si vd. da ult. Lo CASClO-STORCHIMARINO (a c. di) 2001; e ora PATTERSON2006, ch. I. 13 Cic. de lege agro 2. 71; ad Att. 8. 3.4; Seno Ep. moro 87. 7. 9
IO
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brio tra Italia e province, che si attua lentamente e progressivamente nel corso della prima età imperiale, dell' integrazione "sbilanciata" che aveva caratterizzato la fase della conquista e dell'acquisizione dell'impero non può essere rimasto senza effetti sull' economia della penisola 14. Si voglia o meno accettare in tutte le sue articolazioni il modello tasse/commercio di Hopkins nella sua versione originaria o in quella di recente corretta IS, credo che non si possa negare, perché è nella stessa logica della costruzione dello stato imperiale, per come lo conosciamo, che l'Italia, a partire dallo stesso stabilimento della pax Augusta, può ormai drenare sempre meno risorse dal resto del mondo mediterraneo. L'Italia che è vissuta al di sopra delle proprie risorse nella fase della conquista dell'impero (il che potrebbe voler dire anche che la sua popolazione è cresciuta al di sopra della stessa sua carrying capacity) 16, vendendo le produzioni specializzate della propria agricoltura e i propri manufatti e traendo in varie altre forme un surplus dalle province, deve ormai sempre più contare su se stessa e sulle proprie produzioni ed è dunque comprensibile che comincino ad apparire i segni di una pressione della popolazione sulle risorse agricole. Il passo famoso di Tacito che ricorda il lamento di Tiberio 17 traduce questa preoccupazione: una volta l'Italia era in grado di sostenere i propri eserciti fuori d'Italia, oggi il benessere di Roma dipende dalle importazioni. Ma l'integrazione sbilanciata tra l'economia italica e le economie provinciali non può durare, per ragioni economiche: a un certo punto conviene di più produrre in provincia (dove il prezzo dei fattori è minore) e vendere in Italia (dove i prezzi sono maggiori). Lo stesso effetto di progressiva "decentralizzazione" è prodotto dalla diffusione della tecnologia 18: alcune produzioni vengono ora fatte localmente, e dunque si assiste inevitabilmente al declino delle aree dove più precocemente la nuova tecnologia era stata adoperata. È in questa prospettiva che inquadrerei tanto il famoso provvedimento domizianeo sulla viticoltura, che si voleva ponesse rimedio alla frumenti inopia che sarebbe derivata dall'eccesso di coltivazione della vite 19, quanto un fenomeno sul quale siamo informati dai gromatici, vale a dire l'occupazione nel corso della prima età imperiale dei subseciva,
1989; Lo CASCIO 1991 a, 358 ss.; Lo CASCIO 1994a. 1980; HOPKINS 1995/96; HOPKINS 2000a. 16 Lo CASCIO 1994c; TCHERNIA 1994; aderisce a questo parere, ora, MORLEY 2001, 59. 17 Ann. 3. 54. 18 GUNDERSON 1976; GREENE 1992; GREENE 2000. 19 Suet. Dom. 7. 2; 14. 2; Philostr, Soph. 1. 231; Vita Apoll. 6. 42; nonché Stat. Silv. 4. 3. 11-12; si vd. Lo CASCIO 1991a, 361 sgg. e ivi lett. e disc.; Lo CASCIO 2000a, 255 sgg. 14
VON FREYBERG
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HOPKINS
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rivendicati da Vespasiano e poi concessi agli occupanti da Domiziano-v. Me lo fanno pensare alcune delle espressioni adoperate da Agennio Urbico, con il riferimento ai vacantia loca e l' opportunitas otiosi soli. Mi sembra che il totius Italiae metus, di cui parla il gromatico, testimoni 1'entità e la diffusione del fenomeno (universus Italiae possessor), la cui più profonda ragione dev'essere appunto l'esigenza che si avverte imperiosamente di allargare a tutti i costi l'estensione dell' area coltivata. È in questo quadro che ho anche tentato (in altra sede) di intendere le difficoltà dei coloni in Italia attestate dall'epistolario pliniano come ancora la motivazione che sta alla base del programma alimentare.". Per quel che riguarda le difficoltà dei coloni di Plinio, l'impressione che si ricava dall'epistolario è quella di una forte pressione dell' offerta di lavoro agricolo, rispetto alla terra disponibile, nelle regioni italiche in cui si collocano i fondi pliniani: una conclusione del genere è suggerita in particolare dalla circostanza - chiara al di là di ogni ragionevole dubbio - che i coloni di Plinio o rimangono solo temporaneamente sui fondi, per il periodo del contratto, o quanto meno sono chiamati a rinegoziare alla scadenza il contratto. Ora 1'affitto temporaneo e la frequente rinegoziazione del contratto non sembrano essere fenomeni che occorrano con probabilità, qualora vi sia una condizione di equilibrio nella domanda e nell' offerta dei fattori terra e lavoro: gli ovvi effetti negativi di un frequente turn-over nella conduzione dei fondi rustici, tanto per il proprietario quanto per il conduttore, rappresentano indubbiamente un incentivo alla stabilità. Ma l'affitto temporaneo e la frequente rinegoziazione del contratto, viceversa, si realizzeranno, qualora si determini una situazione di competizione, o tra i proprietari nell' accaparrarsi i coloni, o tra i coloni nell' accaparrarsi i lotti da coltivare. Nel primo caso ci troveremmo di fronte a un indizio di pressione della domanda di lavoro agricolo; nel secondo, di fronte a un indizio di pressione dell' offerta del lavoro agricolo. Ora, dalle lettere pliniane non sembrerebbe in nessun caso potersi dedurre che la frequente rinegoziazione dei contratti e l'affitto temporaneo siano considerati come tali da giovare ai coloni, tutt' altro; né vi è alcuna menzione del tentativo, da parte dei proprietari, di trattenere, con incentivi o con la coazione, il colono sul fondo: ne dedurremo, allora, che la frequente rinegoziazione e l'affitto temporaneo siano in qualche modo indizio di una pressione dell' offerta di lavoro agricolo, destinata, com' è ovvio, a determinare una più debo-
20 Ag. Urb. de controv. agr., p. 41 Th.; Hyg. de limit., p. 111 La.; de gener. controv., pp. 96 sg. Th.; Suet. Dom. 9. 3; cfr. in parto MAZZARINO 1962,181 sgg. 21 Supra, 104 sgg.; 130 sgg.; Lo CASCIO 1992-1993; Lo CASCIO 2000a, 223 sgg.
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le posizione contrattuale per il colono. Detto in altri termini, il colono come emerge dalla testimonianza pliniana non vorrebbe abbandonare il fondo, ma in determinate situazioni perde ogni speranza di potervi rimanere. La stessa «strutturale» funzione delle remissiones, quale sembra doversi dedurre dalla documentazione giuridica relativa, che non è certo quella di alleviare la condizione dei coloni, ma semmai quella di consentire di mantenere il canone a un livello più elevato, compatibile con il livello produttivo del fondo nelle annate buone, come ha messo in rilievo Capogrossi Colognesi", dimostra, a mio avviso, ancora una volta una «strutturale» debolezza contrattuale dell' affittuario, la cui genesi potrà vedersi oltre che nella tradizionale posizione di inferiorità dei ceti contadini, in uno squilibrio, che parrebbe essere anch' esso «strutturale», tra domanda e offerta di lavoro agricolo, per un'eccessiva pressione di quest' ultima. La politica imperiale che si esprime con gli alimenta mi sembra pure indicativa di questa pressione della popolazione sulle risorse ". Il meccanismo è noto: l'imperatore presta denaro ai proprietari italici, non si sa se obbligandoli o meno, e i proprietari pagano un' usura che è impiegata per essere distribuita ai «nati parentibus egestosis»24. Si è messo in rilievo come a suggerire il programma debba essere stato un fenomeno di pauperizzazione della popolazione di alcune aree soprattutto del centro-Italia (c'è una sproporzione nella distribuzione del programma fra le varie aree dell'Italia}", Ci troviamo dinnanzi a una politica di sostegno della natalità, come quelle che hanno seguito alcuni regimi dittatoriali nel ventesimo secolo (per esempio il fascismo in Italia). Anche in questo caso il sostegno della natalità sembra essere piuttosto motivato dalla preoccupazione che si mettano in moto i malthusiani "preventive checks" o "positive checks", che non da uno spopolamento già in atto: non c'è spopolamento, come si è ritenuto da una lunga tradizione di studi, ma tutto il contrario, una pressione della popolazione che porta effettivamente alla sovrappopolazione. L'impoverimento diffuso che consegue alla sovrappopolazione può, a sua volta, portare con sé una tendenza alla riduzione della natalità. Detto altrimenti, il programma alimentare propone, si potrebbe dire anacronisticamente, visto che la posizione di primato dell' Italia nella realtà imperiale è venuta meno, la restitutio Italiae": vuole contribuire a risolvere, con la
COLOGNESI 1986. Lo CASCIO 2000a, 223-83. 24 Epit de Caes. 12. 4. 25 PATTERSON 1987, part. 129 sgg.; Lo CASCIO 2000a, 282 sg. 26 ITALIA REST o REST ITAL sono caratteristiche legende di emissioni traianee: Lo 264 sgg. 22
CAPOGROSSI
23
CASCIO
2000a,
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distribuzione dei sussidi ai pueri e alle puellae, il problema di un declino economico che può dare avvio a un declino demografico. Se davvero l'Italia del II secolo è sovrappopolata, è possibile che vi si registri una crescita della mortalità e conseguentemente un abbassamento della speranza di vita. A risolvere drasticamente il problema interviene, negli anni '60, la pestilenza, verosimilmente una rovinosa epidemia di vaiolo ". È facile il confronto con quanto accade in molte regioni europee nel quattordicesimo secolo: la diffusione della peste è preceduta da un probabile rallentamento dell' incremento forte di popolazione che aveva caratterizzato i secoli precedenti, nel momento in cui ci si avvicina alla carrying capacity?". Gl'indizi di un eccesso di popolazione nell'Italia degli ultimi secoli dell' età repubblicana sembrano apparentemente più evanescenti, salvo quelli che possono ancora una volta individuarsi nella documentazione archeologica. Ma a mostrare come l'entità del popolamento delle campagne dovesse essere, comunque, notevole lo mostra l'indubbia crescita delle città che, come ho mostrato altrove, è solo spiegabile se si è incrementata la popolazione dei produttori di beni primari, la popolazione agricola.". D'altra parte l'ipotesi contraria, quella secondo la quale l'Italia che negli ultimi secoli dell' età repubblicana conquista un impero, avrebbe sperimentato in questo tempo un drastico declino della propria popolazione libera sembra controintuitiva. Va ricordato come la vulgata sulla crisi demografica del secondo secolo a.C. e l'interpretazione del momento graccano come quello che testimonia la preoccupazione dei ceti dirigenti romani di non essere più in grado di mantenere il livello precedente del reclutamento siano state recentemente messe in discussione su più piani 30. Ma anche ad ammettere che la presentazione che leggiamo in Plutarco e soprattutto in Appian031 sia corrispondente alla realtà del II secolo a.C., essa non sembra suggerire con certezza l'esistenza di un spopolamento in atto. Anzitutto va fatta una considerazione di ordine generale: c'è nelle nostre fonti un atteggiamento generalmente favorevole all' abbondanza di popolazione, piuttosto che alla scarsità di popolazione, un atteggiamento "popolazioni sta" e "pro-natalista" ante litteram. Un tale atteg27 Lo CASCIO 1991 b; Lo CASCIO 1997c; Lo CASCIO 2000a, 299 ss.; si vd. in part. DUNCAN-JONES 1996; il quadro di DUNcAN-JoNEs è, in qualche misura, contestato, per l'Egitto, da BAGNALL 2000; ma vd. pure VAN MINNEN 2001. 2X Vd. p. es. Del PANTA 1980, 102 sgg. 29 Lo CASCIO I994b, 37 sgg. 30 Lo CASCIO I999b, 230 sgg. e rif. ivi. 31 Plut. Ti. Gracch. 8; App. B.C I. 30-47.
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giamento è riconoscibile negli autori greci (con l'eccezione, in qualche modo, di Platone e di Aristotele), e anche nei latini 32.La ragione di quest' atteggiamento è fondamentalmente il collegamento, che si considera ovvio, tra abbondanza di popolazione e potenza militare. Un esempio significativo è il luogo di Dionigi di Alicarnasso nel quale si attribuisce a Tullo Ostilio la consapevolezza dell' importanza di una popolazione elevata per la potenza di uno stato 33.Se davvero cominciava ad avvertirsi, nei decenni centrali del secondo secolo, qualche difficoltà nel reclutamento (per la pauperizzazione degli assidui), questa difficoltà potrebbe essere stata considerata da un osservatore contemporaneo come indicativa di una scarsità di popolazione. Va per di più sottolineato che il lessico di Appiano appare in qualche misura ambiguo 34.Certo, si parla di oligandria della stirpe italica cui vuol porre rimedio l'azione di Tiberio: ma si sostiene che l' oligotes della stirpe italica è stata determinata dalla penia, dalle eisphorai e dalla strateia, e, più precisamente, si individuano i mali cui c'è da porre rimedio nell' aporia e nella dysandria. Quest'ultimo termine è un apax. Dysandria si contrappone a euandria, come aporia a euporia: e si è bene indicata anche da parte di Brunt " l'ambiguità del termine di euandria, che in realtà non vuol dire, o non vuol dire solo o prevalentemente, "abbondanza di uomini". Euandria, euandros, euandreo indicano, certo, anche l'abbondanza di popolazione, ma più spesso indicano la "physical fitness" o "manliness" (secondo la definizione del LSJ), e anzi in molte delle occorrenze di questi termini i due significati in qualche modo non sono separabili 36. Sicuramente euandria non vuol dire "abbondanza di uomini" per esempio nei tragici e in generale negli autori più antichi. Vuol dire "abbondanza di uomini" soprattutto in Strabone ". Anche in Appiano vi sono casi nei quali sicuramente il riferimento non è alla quantità degli uomini, ma alla loro "manliness"38. Dobbiamo riconoscere che la situazione è dunque più complicata, e non solo perché il problema del potenziale militare dell'Italia romana nel secondo secolo a.C. è da collegare con il più generale scenario economico-sociale.
32 Si vd. in particolare GALLO 1980. Forse la testimonianza più significativa della diffusione dell'atteggiamento "popolazioni sta" per il mondo romano, ma nello stesso tempo la più ambivalente, è quella del famoso passo di Tert. De anima 30. 4, verosimilmente riferibile all' Africa a lui contemporanea. Sulle teorie della popolazione nel mondo antico p. es. OVERBECK 1974, 23 sgg, 33 Dion. 3. Il.6. 34 Per quel che segue si vd. ora l'attenta analisi di SILVESTRINI 2004. 35 BRUNT 1971,77, cfr. 189. 36 GALLO 1980b, 1240 sgg.
=tu« 3X
App. Mithrid. 37.
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Che vi fosse la preoccupazione di un declinante potenziale umano fra gli "Italici" (come dev' essere inteso gli Italiotai di Appiano) sarebbe stato comprensibile nei primi decenni del secondo secolo. Livio ricorda le lamentele delle colonie latine (o forse di tutti socii ltaliciv, che perdevano i propri cittadini, per via dell' immigrazione a Roma, nel 187; dieci anni dopo si aggiungono anche le lamentele di Sanniti e Peligni, per il trasferimento dei propri cittadini a Fregellae ". Nel 187 a.C. e nel 177 a.C. le autorità rispondono tra l'altro, espellendo e rimandando alle loro comunità 12.000 persone nel primo caso e tutti quelli che si erano fatti censire illegalmente a partire dalla censura del 189 nel secondo caso. L'immigrazione doveva esserci stata già durante la Guerra Annibalica (se si prevede che quelli che sono immigrati in quegli anni non vengano espulsi). La preoccupazione era quella di rispondere alle richieste di soldati da parte di Roma, in base allaformula togatorum o al trattato. Per di più, in Appiano la situazione di difficoltà anche demografica è la diretta conseguenza della strateia, che impedisce alla stirpe italica di essere prolifica (Appiano individua la difficoltà appunto nell' agonia dei liberi), laddove gli schiavi si riproducono per l' astrateia. Il problema non è perciò quello di uno spopolamento in atto, ma l'incapacità o la non volontà da parte dei liberi di formare una famiglia e di avere figli. Naturalmente la strateia dev' essere stato un fattore di un qualche peso anche se non decisivo nel limitare la natalità, come un fattore di peso dev'essere stato la mortalità in guerra 40. Ma questi non devono essere stati gli unici fattori. Va osservato che, nello stesso racconto di Appiano è possibile riconoscere gli indizi della pressione della popolazione sulle risorse: riferendosi all'incremento degli schiavi e alla oligotes e alla dysandria dei liberi, Appiano osserva che «se per caso avevano un po' di respiro dalla milizia, si trovavano disoccupati, poiché la terra era posseduta dai ricchi, che impiegavano a coltivarla lavoratori schiavi, anziché liberi» (trad. Gabba). Ora, come avrebbe potuto esserci questa disponibilità di liberi che rimanevano disoccupati, perché la terra era lavorata dagli schiavi, se ci fosse stato davvero uno spopolamento in atto? Ma soprattutto: se è vero che l'importazione degli schiavi in Italia sarebbe stata al suo massimo livello proprio durante il secondo secolo:", essa non può che avere aggravato la pressione della popolazione sulle risorse: deve avere significato un netto incremento della popolazione dell'Italia.
39 40 41
Liv. 39. 3.4 sgg.; 41. 8. 6 sgg.; cfr. 42. lO. 3: cfr. LAFFI 1995; Lo CASCIO2008a. Si vd. i calcoli elaborati da RATHBONE 1981, per Cosa; e in generale ROSENSTEIN2003. Cfr. Lo CASCIO2002b a proposito dei calcoli di DUMONT 1987, eh. l.
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Era dunque proprio la pressione della popolazione sulle risorse che determinava la possibilità evidentemente paventata da certi settori dell' élite a Roma che si mettessero in moto i malthusiani "freni preventivi", dunque che si verificasse una diminuzione della natalità: la preoccupazione era che i contadini, impoveriti, non volessero avere più figli. A questa situazione si intendeva, da parte di Tiberio Gracco, porre rimedio con una distribuzione meno sperequata dell' accesso alle risorse agricole. Ma ad allentare la pressione della popolazione non poteva solo essere una politica di redistribuzione della terra. L'immigrazione nelle città e soprattutto a Roma può avere provocato una notevole espansione delle stesse attività urbane.". Un peso decisivo deve avere avuto anche il movimento di emigrazione verso le province (soprattutto la Cisalpina e la Spagna), un' emigrazione che dev' essere stata non solo organizzata, ma anche spontanea". Entrambi questi processi sarebbero stati favoriti o permessi dal fatto che Roma aveva acquisito l'impero mediterraneo. È l'impero la risposta alla sovrappopolazione dell'Italia. Né si può dire, come si è visto, che si possano considerare una conferma di uno spopolamento dell' Italia negli ultimi due secoli dell' età repubblicana le cifre dei censimenti. Risulta sempre più evidente, anzi, la natura circolare dell' argomento che sin dal Beloch si è fatto valere a questo proposito. Per un verso si è voluto interpretare il salto nell' ordine di grandezza tra le cifre repubblicane e quelle augustee come quello che si spiegherebbe solo supponendo che in età augustea, diversamente che in età repubblicana, venivano computati i cives Romani nella loro interezza (dunque compresi donne e bambini) e per un altro verso il dato dei censimenti augustei così interpretato viene considerato come quello che rivelerebbe il tracollo della popolazione libera dell'Italia nell'ultimo cinquantennio dell' età repubblicana. Le cifre dei censimenti sembrano attestare, tutt' al contrario, un incremento sostenuto, ma certo non incredibile in un orizzonte preindustriale e pretransizionale, della popolazione dell' Italia negli ultimi due secoli dell' età repubblicana, perfettamente coerente col processo che porta all'acquisizione dell'intero bacino del Mediterraneo. Le cifre dei censimenti augustei, se intese come rappresentative della popolazione dei 42 Si vd. ora l'analisi di MORLEY 1996 (di cui non si accetterà la tesi secondo la quale, dato il forte squilibrio che si ipotizza vi debba essere stato tra natalità e mortalità nella città, l'inurbamento deve avere rappresentato il freno più potente all' incremento della popolazione nella penisola: Lo CASCIO 1999b, 222 sgg.; Lo CASCIO 200 l a, 113 sgg.; Lo CASCIO 200 l b; Lo CASCIO 2006a; lo stesso Morley sembra avere peraltro abbandonato, ora, questa tesi: MORLEY 2001, 53 con nn. 19 e 22). 43 Diversamente da quel che pensa BRUNT 1971, 159 sgg. e passim; Lo CASCIO2003b, per l'emigrazione in Spagna; e vd. ora CRAWFORD2008.
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maschi adulti come quelle repubblicane, invitano a collocare a non meno di dodici milioni la popolazione libera dell'Italia in età augustea". Ma è storicamente plausibile che la popolazione della penisola negli ultimi due secoli dell'età repubblicana abbia conosciuto un incremento tale, da essere in grado di pervenire a un livello che avrebbe raggiunto soltanto nell'avanzata età moderna?" Osserverei, in primo luogo, che in termini di mera carrying capacity del suolo una stima di 12 milioni per l'Italia romana non può affatto essere esclusa: va messo in rilievo che tra l'età romana e il diciottesimo secolo (e forse il diciannovesimo) non ci sono state innovazioni tecniche tali, nell' agricoltura della penisola, da giustificare una diversa resa in termini di prodotto fisico, come mi sembra che abbia dimostrato in modo incontrovertibile il bel libro di St. Spurr". E quanto alla possibilità che la penisola italica abbia a un certo punto cominciato a vivere al di sopra delle sue risorse agricole, semplicemente drenando derrate alimentari (e soprattutto cereali) da altre regioni del Mediterraneo:", si tratta certamente di una possibilità più realistica per l'Italia romana padrona del Mediterraneo (e direi già per l'Italia del II secolo a.C.), di quanto non possa essere stato per l'Italia del settecento. D'altra parte, non abbiamo ragioni per escludere che l'Italia del II secolo fosse in grado, nel suo complesso, di incrementare quanto meno in parte la propria produzione agricola per tener dietro a un aumento della sua popolazione. Non va esclusa, intanto, la possibilità di un'intensificazione delle colture come risposta alla pressione della popolazione, secondo il classico modello di Ester Boserup ". E comunque la trasformazione dell' economia agraria dell'Italia doveva significare una netta efficientizzazione nella gestione delle unità produttive, come portato anche della specializzazione delle colture: la migliore conferma della persistenza, e della vitalità, della piccola unità contadina nell' Italia che vede l'affermarsi di quella che Rostovzev definiva l"'agricoltura metodica e capitalistica" è proprio il fatto che la presenza delle piccole unità fondiarie (di proprietari e di affittuari) era strutturalmente necessaria all'efficienza stessa del sistema della villa":
Questa stima in Lo CASCIO 1994c, III. Per questo livello si vd. ora DEL PANTA, LIVI BACCI, PINTO, SONNINO 1996, 79, tab. 1. Per quel che segue, riprendo le argomentazioni prospettate in Lo CASCIO 1999b, 236 sgg.; Lo CASCIO e MALANIMA 2005. A conclusioni analoghe, anche se attraverso una stima diversa delle variabili in gioco, giunge MORLEY 2001, 55 sgg. 46 SPURR 1986. 47 Cfr. supra, n. 16. 4X BOSERUP 1965; BOSERUP 1981. 49 Ciò che osservava Max Weber già nella Romische Agrargeschichte: si vd. CAPOGROSSI COLOGNESI 1990, 56 sg.; CAPOGROSSI COLOGNESI 2005, 536 sg.; il parere è poi stato ripreso, oltre che dallo stesso 44
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Ma dev'essere stato, soprattutto, l'incremento dell'area coltivata, attestato, come si è detto, dalla documentazione dei survey in varie regioni della penisola, a rappresentare il fattore cruciale. Se la specializzazione produttiva può avere consentito che non solo Roma, ma anche, ad esempio, le città campane (prima fra tutte, ovviamente, Puteoli) potessero approvvigionarsi del grano necessario ai propri consumi in Sicilia, in Sardegna, in Africa e più tardi in Egitto, dev'essere stato l'incremento dell' area coltivata a consentire l'incremento della stessa produzione cerealicola in Italia. La specializzazione produttiva legata alla crescita dei mercati urbani non deve avere in alcun modo significato il declino dell' «arable agriculture». Wim Jongman ha mostrato di recente, e acutamente, come per soddisfare il consumo di vino della complessiva popolazione urbana in Italia nel 28, da lui valutata in 1.900.000, sarebbero bastati appena 950 Kmq. di vigneti, e per soddisfare la domanda complessiva d'olio (a 20 litri per persona per anno) sarebbero bastati 850 kmq. di oliveti S0. Se calcoliamo l'intera popolazione della penisola in 12.000.000, il suo consumo globale di vino e di olio avrebbe richiesto un'estensione dei vigneti e degli oliveti di più o meno 10.000 kmq, un' estensione dunque irrisoria, se è vero che la stima più generalmente accolta della superficie dell' area coltivata nell' Italia della prima età imperiale - quella suggerita dal Nissen 5 I, in base al confronto con il tardo diciannovesimo secolo, e poi accolta da Beloch e ripresa da Brunt, da Hopkins e dallo stesso Jongman'? -la pone a 100.000 Kmq., pari al 40% della superficie complessiva. Ciò vuol dire che l'innegabile espansione della viticoltura e dell' olivicoltura in Italia deve aver comportato una molto contenuta diminuzione dell'area coltivata a cereali e dunque non deve avere diminuito le potenzialità produttive della cerealicoltura in italia che di molto poco. Deve, tuttavia, avere incrementato, attraverso la quota di esportazioni di vino e di olio che poteva pagare le importazioni di cereali, la disponibilità di grano complessiva per la popolazione italica. Altro grano affluiva in Italia come contribuzione fiscale o parafiscale (per esempio le requisizioni a prezzo imposto, come la seconda decima o il frumentum emptum) 53. Se adottiamo, peraltro, stime assai più "ottimistiche" e mi sembra nel loro complesso più plausibili di quelle che vengono correntemente adottate, per ciò che riguarda la rotazione delle Capogrossi Colognesi in molti suoi interventi, in particolare da GARNSEY 1980; da SKYDSGAARD 1980; daRATHBoNE 1981. 50 JONGMAN 2003. 51 NISSEN 1883, I, 227. 52 BELOCH 1886, 439; BRUNT 1971, 126; HOPKINS 1978, 7 n. 13; HOPKINS 1995/6, 48; JONGMAN 1988,67 n. 7. 53 VIRLOUVET 1994.
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colture, la resa media per seme e la quantità seminata 54, concluderemo che la produzione cerealicola deve essere stata maggiore, per unità di superficie, di quanto comunemente non si pensi. Ma soprattutto mi sembra che risulti fortemente sotto stimata, ancora negli studi più recenti, e proprio tenendo presente la testimonianza dei survey, l'estensione globale dell' area coltivata. Hopkins ricorda, a confronto, quale fosse l'area coltivata nel 1881: ebbene, a quella data, essa era i155% della superficie totale dell'Italia. Già solo se si fosse realizzato un incremento, poniamo, dal 40% al 55% dell' area coltivata, si sarebbe potuto rispondere alla sovrappopolazione. Mi sembra di potere concludere che, se accettiamo l'idea che la percentuale del numero degli schiavi sulla popolazione non può nemmeno essersi approssimata al 30% della popolazione totale.", una stima della popolazione libera della penisola di 12 milioni, nei primi tempi dell' età imperiale, dopo un secolare periodo di espansione non abbia nulla di implausibile 56. È una tale stima che giustifica al meglio l'osservazione di Agennio Urbico circa la densitas possesso rum in Italia.
Lo CASCIO 1999b, 238 sgg. SCHIAVONE1996,242, critica il mio tentativo di contrastare l'opinione ortodossa sulla popolazione dell'Italia in età augustea, argomentando che «in mancanza di dati incontrovertibili, la quantità della presenza servile non può essere compressa oltre un certo limite nel suo rapporto con la popolazione libera (diciamo intorno al 30%)>>: ma il fatto è che, se i dati dei censimenti augustei e la loro interpretazione non possono essere considerati incontrovertibili, ancor meno lo può essere una qualsiasi stima numerica della proporzione dell'elemento servile nel complesso della popolazione della penisola (si vedano le osservazioni di SCHEIDEL 1999; cfr. anche SCHEIDEL 2005a). Detto altrimenti: qualsiasi argomento che si basi sulla presunta incomprimibilità della proporzione dell'elemento servile nel complesso della popolazione rischia di essere una petizione di principio; si vd. peraltro quanto osservano GABBA 1996, 332; cfr. GABBA 1997,636, e TARPIN 1998,32. 56 La stima, e la connessa tesi di una crescita della popolazione dell'Italia negli ultimi due secoli dell'età repubblicana vengono accettate da PATERSON 1998, 375 sgg., che anche interpreta l'episodio graccano come quello che meglio si giustifica, se lo si vede come indicativo di una "fame di terre" prodotta dalla pressione della popolazione: Tiberio «was just dealing with the consequences of a measure of economie growth, one of which was to encourage an increase in population». Anche per MORLEY 200 l, 60, il problema di Roma in età graccana «was not a shortage of manpower. .. but an excess of manpower and the consequent struggle for access to land»; si vd. pure DE LIGT 2004; 2006; 2007a; 2007b; Lo CASCIO2008a. 54
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III. MOVIMENTI DEMOGRAFICI E TRASFORMAZIONI TRA PRINCIPATO E TARDOANTICO: A PROPOSITO DEL IV CAPITOLO DI SCHIAVITÙ ANTICA
E IDEOLOGIE
SOCIALI
MODERNE
DI MOSES FINLEY*
Delle tre condizioni che determinano, o permettono, ad avviso di Moses Finley, l'emergere d'una domanda di schiavi, e perciò d'una società schiavistica, è la modificazione, sostanzialmente, di una che giustifica il 'tramonto' della schiavitù antica, nei limiti entro cui tale fenomeno va inteso. Se la concentrazione della proprietà della terra non viene meno, ma semmai si accentua nel corso dell' età imperiale romana, se indubbiamente permane, pur restringendosi, un settore commercializzato dell' economia sufficientemente esteso da determinare, o da consentire, un'utilizzazione di manodopera servile, è in ultima analisi la nuova, o rinnovata, 'disponibilità' di un' offerta 'interna' di lavoro il fattore determinante nella trasformazione delle "autentiche società schiavistiche" del 'cuore' dell'impero in società in cui il lavoro servile, pur presente e magari in grossi numeri, non ha più però un ruolo centrale. Finley nega che un contrarsi dell'offerta di schiavi abbiadeterminato la crisi del sistema schiavistico e di conseguenza che la pressione dei proprietari sui ceti più umili per garantirsene la forza lavoro abbia a che fare con una più limitata disponibilità di schiavi. Gli schiavi sono sì il prodotto, in ogni caso mediato, della conquista, ma non solo di quella: il commercio con le regioni fuori dell' impero può garantire ancora un certo rifornimento e fonti 'interne' di schiavi possono essere la vendita di sé, la vendita dei figli, l'esposizione dei neonati e soprattutto l'allevamento. D'altra parte, non è a dire, per Finlcy, che le trasformazioni strutturali dell' economia delle regioni schiavistiche, e segnatamente dell'Italia, * [Non ho ritenuto opportuno ritoccare il testo di questo saggio, data anche l'occasione per la quale era stato scritto, né aggiungere in modo sistematico riferimenti, sia pur selettivi, alla ricchissima letteratura che si è andata accumulando in questi ultimi decenni, in particolare sul tema delle origini del colonato vincolato al suolo della tarda antichità, per il quale rimando, tra gli interventi più recenti, a Lo CASCIO (a c. di) 1997; SCHEIDEL 2000; ROSAFIO 2002 e ora GREY 2007; GIARDINA 2007, parto 749 sgg. Mi sembra, tuttavia, che il saggio valga ancora a mostrare l'utilità di un approccio che leghi l'analisi delle condizioni nelle quali viene svolto il lavoro agricolo e quella dell'evoluzione demografica].
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abbiano provocato un contrarsi della domanda di schiavi. Il sistema della villa non esaurisce l'intera fenomenologia del sistema schiavistico a Roma: così come le modificazioni sostanziali che subisce l'economia italica conseguenti alle conquiste transmarine, non spiegano l'instaurarsi d'una società schiavistica, ma semmai «il carattere specifico della società schiavistica romana», allo stesso modo il tramonto della villa, quale che sia il periodo al quale va riferito, non significa di per sé il tramonto del sistema schiavistico tout-court. La 'flessibilità' che consente l'uso della manodopera servile la rende adatta a diverse combinazioni possibili e non è detto, per esempio, che l'affitto agrario di per sé escluda l'utilizzazione di manodopera servile, purché sia superata, nell'estensione dell'unità produttiva, la soglia oltre la quale diviene necessario un complemento di lavoro oltre quello familiare. Soprattutto, considerazioni di efficienza e di produttività relativa non hanno in alcun modo influenzato le scelte delle classi proprietarie, ed è dubbio che le abbiano influenzate convincimenti in merito alla maggiore o minore idoneità del lavoro servile per il compimento di determinate operazioni agricole: non è detto che i proprietari fossero d'accordo nel ritenere più adatto per la cerealicoltura il lavoro dei coloni, per la viticoltura il lavoro degli schiavi: sicché la minore utilizzazione della manodopera servile non è certo che possa essere anche funzione, ad esempio, d'una riconversione delle colture (quand' anche fosse possibile, ad esempio sulla base della documentazione archeologica, dimostrarne l'esistenza). La crisi della villa in Italia può essere l'aspetto più appariscente della crisi dell'economia italica (comunque, poi, in concreto, si voglia delineare questo processo), ma non può consistere in questa crisi la crisi del sistema schiavistico. Né, per converso, la concentrazione fondiaria ha portato ad economie di scala e in genere a una maggiore produttività, in assenza di un effettivo progresso tecnico, se è vero che il modello prevalente di sfruttamento agrario nell'àmbito delle grandi concentrazioni fondiarie è stato pur sempre quello della piccola unità produttiva. Se ne deve concludere che la scelta tra lavoro servile e lavoro libero coatto o tendenzialmente coatto non rappresenta un'effettiva opzione economica dei proprietari: la decisione non è loro, ma è piuttosto dei liberi che cedono la propria forza lavoro. Anche questa nuova, o rinnovata, disponibilità dei liberi non è determinata, direttamente, da fattori economici: quel che è cambiato è il ruolo politico-militare e perciò l'atteggiamento psicologico del libero cittadino all'interno della comunità e nei rapporti con lo stato, ed è questa modificazione che erode la «capacità delle classi più umili di resistere alle sollecitazioni a lavorare a beneficio di altri in condizioni di limitata "libertà contrattuale"» l. I
FINLEY
1980, 128-49 [= trad. it. 174-206].
III. MOVIMENTI DEMOGRAFICI E TRASFORMAZIONI
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La tesi era già in The Ancient Economy 2: e la formulazione che il Finley vi aveva lì dato aveva suscitato un' obiezione, che mi sembra di peso, da parte di Perry Anderson: «L'eliminazione politica di ogni autentico sistema popolare di cittadinanza e il declino economico dei contadini liberi, infatti, erano un fatto compiuto assai prima del declino della schiavitù: furono in larga misura opera del periodo tardo-repubblicano. Persino la distinzione tra honestiores e humiliores risale al più tardi all'inizio del II secolo, cento anni prima della crisi dell' economia schiavistica vera e propria - che lo stesso Finley ammette doversi datare al III secolo» 3. In altri termini, la stessa obiezione che Finley muove alla teoria secondo la quale la crisi dell' economia schiavistica sarebbe stata determinata dall'inaridirsi delle fonti di approvvigionamento degli schiavi, una volta chiusasi la stagione delle grandi acquisizioni territoriali, e cioè il fatto che la crisi intervenne in realtà solo molto dopo la fine delle conquiste, si può muovere all'interpretazione politico-psicologica offerta da Finley: è lo stesso Sir Moses a mettere in rilievo, sulla scia di Fustel e di Weber, come una sostanziale debolezza contrattuale di piccoli proprietari e affittuari caratterizzi, per tutto il corso della storia romana, i loro rapporti con i ceti ricchi; e come «il diritto romano si [sia mantenuto] sempre unilaterale nel regolamentare i rapporti tra superiori e inferiori, particolarmente per quanto riguarda le disposizioni relative ai debiti e all'affitto agrario»:'. Se la debolezza contrattuale dei ceti più umili è un dato strutturale della società romana e della sua economia, se essa è potenzialmente sempre in grado di trasformare in forza lavoro coatta i liberi più poveri, il problema che sorge, allora, posto che si accetti il quadro dell' interpretazione finleyana, è quello di spiegare perché sia solo in una certa fase dell' età imperiale che la pressione sui ceti più umili diviene tanto gravosa da trasformarli in lavoratori con «limitata libertà contrattuale». Quale sia questa fase è discusso, quanto duri è parimenti discusso: e in ogni caso sembra probabile che essa inizi più precocemente in talune aree, e più tardi in altre. Che comunque gli aspetti più appariscenti di tale pressione risalgano già al periodo tra la fine del II e il III secolo può difficilmente essere messo in dubbio". Che cos' è che FINLEY 1974, 125-55. ANDERSON 1974, 82 n. 42 [= trad. it. 1978, 73 n. 42J: «[...] the political elimination of any true popular citizenry, and the economie decline of the free peasantry, were consummated long before the diminution of slavery: they were largely the work of the later Republican periodo Even the distinction between honestiores and humiliores dates from the early 2nd century at latest - a hundred years before the crisis of the slave economy proper, which Finley himself conceded be dated from the 3rd century». 4 FINLEY 1980, 142 sgg. [= 195 sgg.]. 5 Cfr., ad es., MAZZA 1979,459 sgg. Finley ricorda (FINLEY 1980, 143 [= 197], con n. 64, 184 [= 244]; cfr. anche FINLEY (ed.) 1976, 116 [= trad. it. 140]) il luogo di Cali istrato D. 39. l. 3. 6, dove è citato un rescritto di Adriano che definisce valde inhumanus mos il trattenere i «conductores vectigalium publicorum et agrorum, si tantidem locari non possint», come prova dell'esistenza del mos di trattenere i 2 3
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CRESCIT A E DECLINO
cambia in quest' età? Finley osserva che l'elemento decisivo nel progressivo deteriorarsi delle condizioni del libero contadino indipendente (affittuario o piccolo proprietario) è rappresentato dall' aggravarsi del peso tributario; e a spiegare quest'ultimo fenomeno fa intervenire due processi: a) la «ferrea legge della burocrazia assolutista, secondo la quale essa cresce nel numero del suo personale e nei suoi costi»; b) le aggressioni esterne, che portano alla necessità di incrementare numericamente l'esercito e perciò aumentano le necessità finanziarie dello stato e in ultima analisi la pressione tributaria", Manca forse un elemento: la depressione demografica a partire dall'età di Marco. Finley non crede né a un 'manpower shortage', né a un'accentuata diminuzione generale della popolazione dell'impero: e certo taluni degli argomenti pseudodemografici addotti dal Boak per dimostrare l'esistenza di questa diminuzione della popolazione prestano facilmente il fianco alle critiche 7• Ma gl' indizi a favore, ad esempio, di un' accentuata contrazione in conseguenza della pestilenza dell' età di Marco (e Commodo) e poi di quella della metà del III secolo, entrambe durate per un numero cospicuo di anni e diffuse in moltissime regioni dell' impero, non possono, mi sembra, tanto facilmente mettersi in discussione", così come non tanto facilmente può mettersi in discussione, in presenza di una così soverchiante documentazione letteraria e giuridica, un incremento consistente degli agri deserti, anche se il processo avrà certo conosciuto quelle importanti eccezioni, in talune regioni dell'impero, sulle quali ha insistito il Whittaker", e anche se il trend sarà stato talvolta temporaneamente ribaltato. La generalizzazione della procedura dell' epibole lO, il più frequente ricorso alla pratica di insediare barbari entro i confini dell'impero, talora con l'esplicito obiettivo di dotare di lavoratori agricoli regioni spopolate Il, talune misure specifiche coloni imperiali sul fondo: tuttavia, per il ROSTOWZEW 1910b, 182 n. [= trad. it. 190 n. 141 ] (come poi, ad es., per CLAUSING 1925, 306 con n. 3), i conductores in questione erano piuttosto i "tenants-in-chief" che non i coloni. Anche se l'ambiguità insita nella parola conductor, in specie nel Digesto (cfr. ad es. HEITLAND 1921,364), non permette forse una soluzione certa del problema, credo che il contesto suggerisca che qui ci troviamo di fronte a una normativa che riguarda, appunto, i "tenants-in-chief", Come il Finley interpreta il passo MAcMuLLEN 1976, 175 e 292, n. 77. 6 FINLEY 1980, 145 sg. [= 200 sg.]. 7 Si veda l'importante e meritamente assai nota recensione che allibro di BOAK 1955, il Finley ha dedicato (FINLEY 1958) e in particolare quanto vi viene osservato a proposito del modo in cui il Boak valuta la speranza di vita della popolazione dell'impero. 8 Per l'epidemia degli anni di Marco e Commodo, cfr. Lo CASCIO 1980b, 272 sgg. [= Lo CASCIO 2000a, 299 sgg.] e ivi letter. e disc.; Lo CASCIO 1993; DUNcAN-JoNEs 1996; SCHEIDEL 2002; per quella del III secolo, ad es., SALMON 1974, 140 sgg. 9 WHITTAKER 1976. IO C.I Il. 59 (58). l: cfr. ad es. CLAUSING 1925,309 sgg.; MAZZARINO 1942,201; MAZZA 1970, 243 sg. Il Cfr. Pan. 4. 9, a proposito della distribuzione di agmina barbarorum, dopo la vittoria di Massimiano e Costanzo su Camavi e Frisoni, ai proprietari della Gallia, proprio con lo scopo di determinare il cultus solitudinum: si veda, in particolare, CRACCORUGGINI 1963, 24; analisi delle fonti relative alla
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dell' autorità imperiale volte a favorire la coltivazione in generale ovvero talune particolari colture 12 non paiono giustificarsi se non supponendo che la popolazione sia non solo nel complesso drasticamente scemata, ma che non si sia potuta avere, nel corso del periodo, una ripresa demografica altro che temporanea o locale. Si potrà forse contestare che le epidemie abbiano giocato un ruolo centrale nel mettere in moto la dinamica dello spopolamento (è vero che non abbiamo la possibilità di identificare con assoluta sicurezza la natura delle due malattie responsabili degli scoppi epidemici del II e del III secolo 13, come è vero pure che non abbiamo informazioni adeguate circa la loro eventuale ricorrenza o, per la seconda, circa la generalità della sua diffusione), ma quel che parrebbe più difficile revocare in dubbio è la realtà di un tale spopolamento soprattutto per il terzo, ma ancora per il quarto e il quinto secolo, o almeno nelle regioni occidentali dell'impero 14.
pratica in questione ibid., 21-4; vd. anche MACMuLLEN 1963,552 sgg.; MACMuLLEN 1976,174 e 290 n. 70; e WHITTAKER 1982. 12 Penso in particolare, oltre che alla proposta di Pertinace, di dare la terra incolta a chi la coltivasse, garantendone l'immunità per dieci anni (Herod. 2. 4. 6: cfr. Lo CASCIO 1980, 280 sgg. [= Lo CASCIO 2000a, 305 sgg.], e ivi letter. e disc.), al tentativo che sarebbe stato compiuto da Aureliano di ridare vigore alla viticoltura in Etruria, per provvedere a progettate distribuzioni di vino alla plebe di Roma, attraverso la distribuzione tra i proprietari della zona di famiglie di barbari prigionieri come forza lavoro (H.A. Aurei. 48. 2, su cui si veda ad es. ROSTOVZEV 1933,554 n. 21 [711 sg., n. 21]; WATSON 1999, 137,257 n. 42; ritiene la notizia del biografo una falsificazione VERA2005), al permesso di coltivare la vite nelle province dato da Probo (H.A. Probo 18.8; Eutr. 9. 17; Aur. Vict. de Caes. 37.3), evidentemente una revoca ufficiale del divieto domizianeo. Ad avviso di Suetonio, la misura di Domiziano sarebbe stata sollecitata dalle ricorrenti crisi di sottoproduzione cerealicola e dalle conseguenti difficoltà annonarie, avvertite in molte città dell'Impero (Suet. Dom. 7. 2; 14.2; cfr. Philostr. Soph. 1.21; Vita Apoll. 6.42 e ancora Stat. Silv. 4.3.11-2: cfr. ad es. Lo CASCIO 1978,343,346 sg. [= Lo CASCIO2000a, 255, 258 sg.]) e in generale si è d'accordo nel riconoscere corretta l'analisi suetoniana (cfr. ad es. FINLEY 1974, 265, n. 51). In altri termini la situazione in cui si sarebbe inquadrato il provvedimento domizianeo sarebbe stata tendenzialmente, e per molte ragioni dell'impero, una situazione 'malthusiana'. Se Aureliano e Probo ritennero, viceversa, di dover favorire la coltura della vite, è ipotesi plausibile che non si avvertisse, all'epoca loro, la necessità di incrementare una produzione cerealicola evidentemente adeguata a sostentare la popolazione dell'Impero, ma che si potesse utilmente destinare la terra a altre, meno essenziali colture. 13 GILLIAM 1961, 227 n. 8; vd. anche McNEILL 1976, 116 sgg., il quale propone, ma su fragili basi, di identificarle rispettivamente nel vaiolo e nel morbillo; si ritiene in genere oggi che non si trattasse di peste bubbonica (e polmonare), la quale parrebbe fare la sua comparsa nel mondo mediterraneo con l'epidemia del VI secolo: BIRABEN e Le GOFF 1969; BIRABEN 1975-76, I, 25 sgg.; ma vd. Lo CASCIO 1991 b; Lo CASCIO 1997 c; e soprattutto, ora, LITTLE (ed.) 2007. 14 Si veda, in particolare, la pure assai discussa analisi di RUSSEL 1958; l'idea che un deciso declino demografico caratterizzi terzo, quarto e quinto secolo corre, com'è ovvio con varia accentuazione, tutta la storia degli studi sul tardo antico (Lo CASCIO 1997c), talché persino un Rostovzev, notoriamente poco incline ad attribuire soverchia rilevanza al fattore demografico nell'evoluzione socioeconomica dell'impero, non può non considerare come «tratto saliente della vita dell'impero» nel III secolo lo spopolamento generalizzato (di cui ritiene testimonianza la politica di insediamenti di barbari, «che non si possono spiegare in modo diverso»: ROSTOVZEV 1933, 553, n. 18) e da esso fa anzi derivare il calo della «produttività generale dell'impero». Il Mazzarino, in pagine illuminanti (MAZZARINO 1951, 238 sgg.), distingue, per il IV secolo, la situazione di Roma e delle altre metropoli, che mantengono su elevati livelli la loro popolazione (per Roma la crisi verrà col sacco alari ciano ), dalla situazione delle città di media grandezza, le quali soffrono di un vistoso spopolamento, sì che Ambrogio potrà parlare, per l'Emilia, di «sernirutarum urbium cadavera» (ep. 39. 3: vd. Cracco Ruggini, in L. CRACCORUGGINI-G.
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Si pone, a questo punto, un delicato problema metodologico. Insistere sulla mancanza di dati quantitativi autorizza a non tener conto dei movimenti della popolazione e dei mutui rapporti che li legano con i processi economici e le trasformazioni sociali? È proposizione pressoché scontata, fra gli storici economici dell' età medievale, che, laddove la maggioranza della popolazione sia impiegata nell' agricoltura e manchi un sostanzioso progresso tecnico, è proprio il fattore demografico a rappresentare uno dei fattori determinanti della produzione, della distribuzione e in definitiva della stessa strutturazione della società. Sorgono controversie sulla direzione causale del rapporto tra oscillazioni demografiche e fluttuazioni economiche di lungo periodo: e in particolare la discussione verte, per ciò che concerne il XIV e il XV secolo in Europa occidentale, sul ruolo che ha avuto la peste nel determinare il trend demografico. Taluni hanno costruito un modello "malthusiano": aumento della popolazione; crisi di sussistenza, che induce una diminuzione della natalità (attraverso varie possibili pratiche riequilibratrici della fecondità 15) e un aumento della mortalità, infine pesantemente accentuato dalla diffusione del contagio in un organismo sociale già debilitato da ricorrenti carestie; drastica riduzione della popolazione, che determina un notevole miglioramento nelle condizioni di vita di una manodopera contadina divenuta più rara e più cara. Altri insistono sull' "indipendenza" di un fattore come la pestilenza e la sua diffusione dai movimenti generali dell' economia, ma interpretano in modo sostanzialmente analogo gli effetti di una diminuzione del potenziale demografico 16; quale che sia l'effetto sul livello assoluto dei prezzi, l'accentuato spopolamento determina una sostanziale modificazione nella struttura dei prezzi e nei rapporti fra prezzi, salari, profitti e rendite. In termini relativi, diminuisce il prezzo dei cereali (come conseguenza della loro diminuita domanda) rispetto ad altri prodotti agricoli e ai manufatti, e ciò induce a conversioni agrarie (e per esempio ad estendere le aree destinate all'allevamento) ovvero a più o meno estese Wustungen, soprattutto, ovviamente, dei terreni margina1977,454 sgg. e ivi letter.), e soprattutto dalla situazione delle campagne. L'incremento della popolazione e la vitalità delle città, ipotizzati e considerati fattori di primo piano della dinamica sociale delle aree orientali a partire dal IV secolo da PATLAGEAN 1977, passim, cfr. part. 426 sgg., non infirmano, mi sembra, il ruolo fondamentale che ebbe, nella crisi del III secolo, la diminuzione della popolazione e semmai contribuiscono a spiegare la differente evoluzione anche sociale delle due partes imperii (Lo CASCIO 1997c; Lo CASCIO 2002c). 15 Cfr. in particolare WRIGLEY 1969, passim, dalla cui analisi, peraltro, emerge come le varie forme di controllo della fecondità possano essere anche indipendenti dall'esistenza in atto di una crisi di sovrappopolazione. 1(> Un sintetico bilancio della controversia per quanto riguarda la situazione inglese, quella studiata in modo più articolato e con tecniche di indagine più sofisticate, in HATCHER 1977, cap. I; vd. in part. CHAMBERS 1972, cap. I (ulteriore letteratura in Lo CASCIO 1991 b, 711 sgg.). CRACCO
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li 17. A provocare, in sostanza, un miglioramento delle condizioni di vita delle masse contadine è, da un lato, l'abbandono delle terre meno fertili, dall'altro, l'apprezzamento dei salari rispetto alle rendite, effetto della diminuita offerta di lavoro 18. Ora, il problema che si pone è se il modo in cui viene ricostruita l'interdipendenza tra vicenda demografica e vicenda economica dal XIV secolo in avanti possa fornire indicazioni anche per il periodo dalla seconda metà del II secolo in poi e particolarmente per intendere il processo attraverso il quale si deteriora la condizione giuridica e sociale (ma non quella economica, o almeno non necessariamente) dei contadini liberi, sino a che non si perviene al colonato vincolato al suolo della tarda antichità. Evsey Domar ha costruito, in chiave marginalistica, sulla scia di idee del Nieboer, peraltro non assenti nella stessa letteratura storica relativa al tardo antico, un semplice modello, nel quale si ipotizza l'esistenza d'un preciso rapporto di causalità tra spopolamento e insorgenza della schiavitù o della servitù della gleba. Il modello è costruito prendendo lo spunto dalla situazione della Russia tra sedicesimo e diciassettesimo secolo, ma, con le dovute differenze, sembra potersi applicare in modo puntuale all'esperienza romana. Ragiona il Domar: «Assume that labor and land are the only factors of production (no capital or management), and that land of uniform quality and location is ubiquitous. No diminishing returns in the application of labor to land appear: both the average and the rnarginal productivities of labor are constant and equal, and if competition among employers raises wages to that level (as would be expected), no rent from land can arise, as Ricardo demonstrated some time past. In the absence of specific governmental action to the contrary [...], the country will consist of family-size farms, because hired labor, in any form, will be either unavailable or unprofitable: the wage of a hired man or the income of a tenant will have to be at least equal to what he can make on his own farm; if he receives that much, no surplus (rent) will be left for his employer. A non-working class of servitors or others could be supported by the government out of the taxes levied [...] on the peasants, but it could not support itself from land rents [...] Suppose now that the government decides to create, or at least to facilitate the creation of, a non-working class of agricultural owners. As a first step, it gives the members of this class the sole right of ownership of land. The peasants will now have to work for the landowners, but so long as the workers are
17 Si vedano i vari contributi di ABEL 1943; ABEL 1953; ABEL 1976, part 79 sgg., 118 sgg., con le osservazioni critiche di TOPOLSKY 1979, XIV sgg., 58. IX Cfr. ad es. LE Rov LADURIE 1970, passim, part. 17 sgg., 59 sgg.; CIPOLLA 1974, 254 sgg.
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free to move competition among the employers will drive the wage up to the value of the marginaI product of labor, and since the latter is stilI fairly dose to the value of the average product (because of the abundance of land) little surplus will remain [...] The next and final step to be taken by the government still pursuing its objective is the abolition of the peasants' right to move. With labor tied to land or to the owner, competition among employers ceases. Now the employer can derive a rent, not from his land, but from his peasants by appropriating alI or most of their incarne above some subsistence levcl» 19. Tutto questo significa, naturalmente, che non è possibile prevedere, o stabilire a priori, quale sarà l'impatto di una modificazione del rapporto terra/lavoro sulla situazione dei contadini: esso dipenderà da fattori di ordine politico: dalla volontà dell'autorità di assicurare il sostentamento di una burocrazia e di un esercito adeguati, attraverso la mediazione di un ceto di grandi proprietari; o dalla misura in cui le scelte politiche saranno determinate dagl'interessi di questo stesso ceto. Un incremento del rapporto terra/lavoro provoca in sostanza un aumento della capacità contrattuale del lavoratore agricolo; sicché, paradossalmente, un ragionamento analogo a quello di Domar è stato impiegato, a partire da Thorold Rogers nel secolo scorso 20, e in tempi più vicini a noi da North e Thomas, per spiegare l'estenuarsi della servitù della gleba in Inghilterra, in conseguenza della diminuzione della popolazione21• 19 DOMAR 1970; cfr. NIEBOER 1910; il modello Nieboer-Domar ha suscitato discussioni sia fra gli studiosi della schiavitù americana che fra quelli dell'economia medievale e moderna: si veda, ad esempio, ENGERMAN 1973, pp. 56 sgg.; PATTERSON 1977,12 sgg.; NORTH e THOMAS 1971,777 sgg.; NORTH e THOMAS 1976, 26 sgg.; KAHAN 1973, 86 sgg.; TOPOLSKY 1979, XIX. L'idea dell'esistenza di una puntuale relazione tra spopolarnento e insorgenza di forme di lavoro dipendente in àmbito agrario si rinviene nella stessa storiografia sul tardo antico: accanto alle osservazioni di OSTROGORSKY1976 ricordate da Domar, si può citare quanto scrive, a proposito delle disposizioni che vincolavano al suolo il colono, JONES 1948, 13 sgg.; JONES 1964, 1050 sgg.; JONES 1974, 87 sgg., 229 sgg., 409 sgg.; cfr. anche DUNcAN-JoNEs 1980, 75, che esprime peraltro delle riserve. 20 THOROLD-RoGERS 1886, 239 sgg. 21 NORTH e THOMAS 1971,798 sg.: «The decline in population left the holdings of many peasants and landlords at least partialIy vacant. The lords initially attempted to force their surviving tenants to take up vacancies on the old customary terms and resisted with such laws as the Statute of Labourers the increase in real wages consistent with the new economie conditions; such attempts quickly carne to nought. The ftight of peasants, the competition between lords anxious to attract tenants, and the stubborn refusal of villeins to obey orders defeated these attempts. Only an effective centraI coercive authority, as developed in Eastern Europe, could have prevented competition for the now very scare [sic] labor. In Western Europe the most effective way to retain tenants was to lower rents and to relax servile obligations». L'elemento essenziale che decide quale possa essere l'esito di una modificazione del rapporto terra/lavoro è perciò appunto il fatto istituzionale-politico: «[ ...] the key to Domar's dilemma is the existence of a centrai coercive authority which keeps lords from competing for labor». Laddove quest'autorità non esiste o è debole, si determinerà un accordo contrattuale tra lavoratore e proprietario: sarebbe qui la radice effettiva del sistema del maniero. In altri termini, pur ponendo anch'essi al centro del proprio ragionamento le variazioni del rapporto terra/lavoro, North e Thomas non ritengono, come Domar, che la servitù altomedievale fosse una forma di sfruttamento determinata dall'accordo, comunque raggiunto, fra i pro-
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Ora mi sembra che la generale situazione dell' impero nel periodo successivo a Marco possa essere in qualche modo illuminata dal modello di Domar. Per un verso, la diminuzione della popolazione rappresentava l'occasione di un miglioramento delle condizioni di vita delle masse contadine, inducendo all' abbandono dei terreni marginali e aumentando il potere contrattuale di queste masse nei confronti delle classi proprietarie: determinando perciò una "concorrenza" fra coloro che avevano necessità di utilizzare lavoro, e per esempio tra l'imperatore, in quanto proprietario, e i proprietari privati; per un altro verso, la diminuzione della popolazione rendeva più pressante il ricorso alla costrizione extraeconomica per risolvere il problema della scarsità di lavoro e in ultima analisi favoriva il progressivo vincolamento al suolo dei coloni": L'iscrizione del saltus Burunitanus, l'iscrizione di Aga Bey sono per questo aspetto esemplari; quanto alla prima, la connessione cronologica della crisi nei rapporti fra coloni, conductor e procurator con gli anni successivi a quelli della peste antonina parrebbe suggerire come la pretesa del conductor di richiedere più operae nascesse da un decremento accentuato della forza lavoro sul saltus e come, perché tale pretesa potesse essere soddisfatta, fosse necessario un aggravarsi della repressione nei confronti dei coloni; quanto alla seconda, la minaccia di lasciare il latifondo imperiale per andare a trovare migliori condizioni di vita nel latifondo privato vicino, in una situazione, dunque, in cui parrebbe garantita una sorta di concorrenza, nell' accaparrarsi il lavoro, tra i proprietari, rivela come la fissazione del colono alla terra dovesse essere l'arma extraeconomica necessaria in una situazione di scarsa offerta di lavoro 23. Naturalmente a determinare in che modo e a favore di chi, in prima istanza, venisse a essere istituito il vincolo al suolo del colonus era anche, o soprattutto, la capacità della struttura statale di mantenersi accentrata e solida: laddove mancavano "servitors" cui fosse demandata la difesa dello stato, mentre l'esercito
prietari per eliminare la concorrenza nell'accaparrarsi il lavoro, ma ritengono viceversa che «serfdom in Western Europe was essentially a contractual arrangement where labor services were exchanged for the public good ofprotection andjustice». Mostrare quanto questi ragionamenti aiutino a inquadrare su nuove basi e a comprendere più in profondità le differenti situazioni di terzo, quarto e quinto secolo e il vario atteggiarsi di autorità centrale, proprietari e coloni, in tali differenti situazioni, richiederebbe un'analisi assai più diffusa e particolareggiata di quella che è possibile qui svolgere. 22 È nel quadro di un generale spopolamento e di una diminuzione del lavoro nelle campagne che si pone quella "concorrenza tra latifondo privato e latifondo imperiale", sulla quale insisteva MAZZARINO 1962, 324 sgg. «Il latifondo privato romano è caratterizzato da una costante solidarietà dei coloni coi loro domini», nella misura in cui il nemico comune di coloni e domini è il fisco imperiale con le sue sempre maggiori pretese. 23 e/L VIII, l 0570: cfr. Lo CASCIO1980b, 278 sg. e n. 3 [= Lo CASCIO2000a, 303 sg. e n. 52]; KEIL-v. PREMERSTEIN,Denkschriften der Wien. Akad. 57, 1914-15,37 sg., n. 55 = ABBOTT-JOHNSON 1926,478 sg., n. 142 = Economie Survey 01 Ancient Rome IV, 656 sgg., Il. 45-7.
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si alimentava dei tirones scelti nell' àmbito della popolazione contadina, era comprensibile che a pagare forse le più gravi conseguenze dell'insufficiente potenziale demografico dell'impero fosse la media proprietà e l'aristocrazia municipale, sua espressione; laddove rimaneva, o anzi si evolveva in forme più efficienti, una centralizzata organizzazione fiscale, il vincolo del contadino al suolo appariva essere anzitutto il portato delle necessità dell'imposizione e della riscossione tributaria. La stessa rivoluzione fiscale operata da Diocleziano, con il collegamento tra unità impositiva basata sull'estensione fondiaria e unità impositiva basata sul lavoro è stata acutamente interpretata, proprio alla luce del problema dello spopolamento, come un tentativo di adeguare i criteri impositivi alla «tendenza deficitaria dell' indice demografico nelle campagne» 24. Un deciso spopolamento appare, dunque, una precondizione di decisiva importanza per quel processo per il quale le masse contadine sono costrette, piuttosto che indotte, a lavorare per altri in «condizioni di limitata "libertà contrattuale"». Non parrebbe tanto la modificazione del ruolo politico-militare e perciò dell' atteggiamento psicologico dei liberi a renderli più "disponibili": parrebbe piuttosto la loro "indisponibilità" in grossi numeri a rendere necessario, proprio per continuare a garantire la loro tradizionale debolezza contrattuale nei confronti dei proprietari o del fisco imperiale, il ricorso a forme più dure e più esplicite di costrizione extraeconomica 25. Ma allora si può pensare, con il Finley, che ci sia un rapporto diretto tra questo processo che riguarda i liberi e il "tramonto della schiavitù"? E in che misura la dinamica della popolazione influisce più propriamente
24 MAZZARINO 1951, 260 sgg.: «Il sistema della capitazione ordinato da Diocleziano [... J essenzialmente partiva dalla considerazione demografica delle condizioni dell'impero. Al di la delle antiche e moderne controversie sulla natura della capitazione, il nocciolo della concezione deve sempre trovarsi nell'equivalenza di caput e jugum, come inizialmente fu concepita da Diocleziano, come poi per varie vicende si cercò di continuare per tutto il basso impero; questa identità resta sempre il punto indiscusso della discussa questione [... 1 Mai il regime tardo imperiale fu più vicino a una concezione "socialista" del rendimento umano» (su queste pagine di Mazzarino si vd. Lo CASCIO 2002c). Si potrà forse dire, interpretando queste considerazioni alla luce del modello di Domar, che l'autorità centrale comprendeva bene come, ad assumere maggior valore, era ormai, rispetto a un'astratta o potenziale redditività del suolo, il lavoro umano. 25 Osserva opportunamente E. Gabba, nella sua recensione allibro di Finley (GABBA 1982b [= GABBA 1988,217-25]), che la spiegazione del declino della schiavitù, proposta da Finley, può naturalmente valere comunque soprattutto per l'Italia. Lo stesso Gabba mette in rilievo come, per quel che riguarda Roma, l'insorgenza della schiavitù è difficile che possa farsi risalire alle ragioni politico-psicologiche su cui insiste il Finley: «I drammatici problemi posti dall'asservimento personale per debiti furono risolti fra IV e III sec. dalla politica di grande colonizzazione svolta dalla classe dirigente romana con consapevole riproduzione del modello del piccolo proprietario-soldato. Non tanto, quindi, un rifiuto di prestazione di lavoro da parte del piccolo proprietario per l'orgogliosa coscienza del proprio ruolo di cittadino nello stato è alla base, in Roma, del necessario ricorso al lavoro schiavi le, quanto la stessa politica di conquista e di colonizzazione perseguita dallo stato romano».
III. MOVIMENTI DEMOGRAFICI
E TRASFORMAZIONI
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su questo problema del "tramonto"? In presenza di un aumento demografico, la costrizione extraeconomica, anche quella che si realizza con il lavoro degli schiavi, può cedere il passo alla costrizione economica. Il Finley non crede a una concorrenza tra lavoro libero e lavoro servile e non crede nemmeno che i proprietari abbiano saputo fare quei calcoli economici necessari a stabilire la convenienza relativa dell'uno e dell'altro. In ogni caso ritiene impossibile stabilire trend di lungo periodo, coi dati a nostra disposizione, dei prezzi degli schiavi, e perciò ritiene indimostrato un aumento del costo degli schiavi nel corso della prima età imperiale 26. Tuttavia i dati di Jones, la cui significatività viene negata da Finley, si riferiscono, correttamente, al prezzo relativo degli schiavi, calcolato sulla base del suo rapporto con il costo di mantenimento, e dunque non sembrano così privi di valore.". Se nelle aree di concentrazione del lavoro servile (naturalmente non in tutte, non forse nella Grecia o nell'Italia meridionale) vi fu, con lo stabilimento della pax Augusta, un aumento della popolazione dei liberi, cui non corrispondesse un parallelo aumento della popolazione servile, il passaggio al lavoro dei liberi poteva avere anche una semplice causa economica: se aumentava il prezzo degli schiavi e rimaneva stazionario o diminuiva, per effetto della pressione demografica, il costo per impiegare i liberi (come affittuari o come giornalieri), un progressivo passaggio al lavoro libero rappresentava un' opzione economica, che non implicava calcoli complessi o il possesso di una sofisticata razionalità economica 28 • FINLEY I 980a, risp. 90 e n. 63; 168 sg. [= 118 e n. 63, 228J, 136 sg. l= 187 sg.]; 129 sg. [= 176 sg.]. JONES 1956; cfr. DUNcAN-JoNEs 1978. In quest'ultimo contributo il Duncan -Jones confronta una serie di dati, per la verità assai disparati, relativi al salario giornaliero dei liberi e al prezzo degli schiavi, considerando come equivalente, per evitare le difficoltà che porrebbe basarsi sui prezzi espressi in moneta, il grano. A parte altre perplessità che il tentativo del Duncan-Jones può suscitare (cfr. l'intervento di D. SPERBER 1978: qualità e natura della documentazione, impossibilità, coi pochi dati a disposizione, di distinguere situazioni anomale ed eccezionali e anche semplicemente di tener conto delle possibili variazioni stagionali dei prezzi di alcuni beni, come appunto il grano etc.), c'è da dire che l'analisi intanto può essere istruttiva, in quanto si consideri invariabile la struttura dei prezzi relativi e in particolare il prezzo del grano espresso in termini di altre merci o servizi. Importante mi sembra comunque il fatto che un valore assai basso del salario dei liberi sia documentato per l'Egitto dell'età del principato, mentre un valore assai alto del costo degli schiavi sia attestato per l'Italia del I sec. d.C. Si vd. ora SCHEIDEL 2005b; SCHEIDEL 2007a. 2~ Così come non l'implicava la scelta del lavoro libero in àmbito urbano, soprattutto nell'edilizia: vd. BRUNT 1980, spec. 94-96. In altri termini, non mi sembra necessario ipotizzare che ci sia ovunque una connessione precisa fra i due processi: quello per il quale il lavoro servile viene sempre meno adoperato e quello per il quale si passa alla costrizione extraeconomica nell'utilizzazione del lavoro libero. Il declino della schiavitù non si è prodotto dappertutto negli stessi modi e negli stessi tempi, dando sempre i medesimi esiti, e non può essere considerato un fenomeno indipendente dalla concreta evoluzione economica delle singole aree dell'Impero. Osserva il Gabba, nella recensione citata, che in Italia «l'inizio del declino della schiavitù è certamente anteriore allI sec. d.C. [...] e deve risalire già al I a.C., non soltanto perché allora, decisamente, iniziò il degrado politico del cittadino romano, ma anche perché si era allora verificato il massimo di sconvolgimento nell'assetto dell'agricoltura italica e nella vita delle campagne 26
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Quanto alla diminuzione del 'manpower", a partire dalla seconda metà del II secolo, essa avrà influito tendendo ad aumentare la forza contrattuale dei liberi, tanto da indurre lo stato che ha bisogno dei tributi (e dei canoni, quando si presenti nella veste di proprietario della terra), e, col suo appoggio, i privati detentori di terra ad esercitare la coazione per impedire la mobilità delle masse contadine; ma avrà influito pure sulla consistenza del lavoro servile e sulle sue fonti, e negativamente. Avrà influito anzitutto per l'ovvio motivo che diminuiva lo stock esistente di schiavi; ma avrà determinato anche un inaridimento di qualcuna delle fonti 'interne' della schiavitù. Finley mette in rilievo l'importanza di talune pratiche, come la vendita dei figli o l'esposizione dei neonati, o anche la vendita di sé, come fonti possibili di lavoro servile: ora una diminuzione della popolazione nelle province di provenienza di questi schiavi, nella misura in cui il ricorso alla vendita dei figli o di sé o all' esposizione può essere l'immediata conseguenza di una situazione malthusiana, avrà reso meno pressante il bisogno di sbarazzarsi di persone in più cui non si può garantire la sussistenza. E un medesimo effetto, se una contrazione della popolazione in conseguenza delle epidemie riguardava, per es., anche talune aree orientali fuori i confini dell'impero, si sarà potuto determinare nel commercio con l'estero degli schiavi. Paradossalmente, il rarefarsi dell' offerta di lavoro, in genere, poteva nuocere alle unità basate sul lavoro servile per un altro motivo: il Finley stesso mette in rilievo, sulla scia del Garnsey, come, per un corretto funzionamento delle aziende basate sul lavoro servile, fosse intrinsecamente necessaria la disponibilità saltuaria di lavoro libero stagionale": Ora questa disponibilità era permessa dalla sottoccupazione nascosta delle plebi rurali: ed è indubbio che sul fenomeno della sottoccupazione contadina un decremento della popolazione rurale nel suo complesso aveva un effetto immediato: la faceva diminuire. Nessuno di questi sviluppi è necessario che abbia avuto, di per sé, un'importanza decisiva: ma è d'altra parte ovvio che la stessa nozione di 'tramonto' non può che avere un significato relativo. Più forze economiche possono avere concorso a una sempre minore utilizzazione del lavoro servile nel corso già dei primi due secoli d.C., per lo meno in talune aree, e avere provocato il ricorso a un lavoro libero non coatto; la drastica diminuzione della popolazione, a partire dall'età di Marco, può, d'altra italiche [... ] Il forte, indubbio declino dell'agricoltura italica e più in generale dell'economia italica nel I sec. d.C. [ ... ] è la premessa per quella diminuzione nella produzione e per il declinare delle città che a ragione il Finley connette con le fasi più avanzate del dissolversi del fenomeno schiavile», 29 FINLEY 1980, 77 sg. [= 99 sg.]; cfr. GARNSEY 1980 (ma vd. pure SKYDSGAARD1980, e le considerazioni svolte da CAPOGROSSICOLOGNESI 1981 b, 1982).
III. MOVIMENTI DEMOGRAFICI E TRASFORMAZIONI
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parte, avere favorito, secondo quel meccanismo che si è illustrato, il passaggio alla costrizione extraeconomica nell' impiego della forza lavoro libera. È probabile, in definitiva, che il passaggio dalla società schiavistica alla società del basso impero, o, se si vuole, dalla formazione sociale in cui dominante è il modo di produzione schiavistico a una formazione in cui dominante è un modo che prefigura i rapporti della "seigneurie", abbia rappresentato un' evoluzione assai più articolata e meno lineare di quanto la schematicità di un modello interpretativo fondato su una meccanica successione di stadi (un modello cui lo stesso Finley non crede), indurrebbe a pensare.
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Recenti indagini sulla composizione degli strati della calotta polare artica in Groenlandia e altre ricerche sui sedimenti dei bacini lacustri di Svezia, Svizzera e Spagna hanno rivelato come la polluzione dell' atmosfera nell' emisfero settentrionale a seguito dell' attività di estrazione dell'argento, del piombo e del rame abbia raggiunto in età romana un livello non più toccato sino alla rivoluzione industriale l. In particolare la polluzione da piombo segnala un' assai cospicua produzione di argento e conseguentemente di moneta argentea, mentre l'elevatissima produzione di rame va vista come indicativa di una considerevole e continua attività di coniazione di moneta enea e dunque, come si è recentemente sostenuto, di una diffusione capillare di moneta spicciola, che mostrerebbe come gli scambi commerciali fossero molto più intensi e la divisione del lavoro fosse molto più spinta di quanto comunemente non si ritenga 2• Una testimonianza indipendente del livello della produzione di moneta nell'impero mediterraneo soggetto a Roma è peraltro quella fornita dalla documentazione numismatica stessa, sottoposta, in particolare in questi ultimi anni, a sofisticate indagini quantitative. Duncan-Jones, partendo dalla stima che lui stesso ha proposto della produzione di moneta aurea e argentea nei decenni centrali del II secolo d.C., ha audacemente prospettato una stima dello stock di moneta nell' impero in questa età a poco più di venti miliardi di scsterzi '. Un siffatto livello, se valutato in rapporto alla presumibile popolazione totale, parrebbe indicare, congiuntamente, un' accentuata monetarizzazione dell' economia e il raggiungimento, dopo un processo di crescita secolare, di un reddito pro capite assai superiore a quello della minima sussistenza (e dunque un livello complessivo di surplus decisamente elevato), se è vero che una precedente stima (del
I HONG, CANDELONE, PATTERSON & BOUTRON 1994; HONG, CANDELONE, PATTERSON & BOUTRON 1996; HONG, CANDELONE, SOUTlF & BOUTRON 1996; RENBERG, PERSSON & ENTERYD 1994; SHOTYK, WEISS, ApPLEBY, CHEBURKIN, FREI, GLOOR, KRAMERS, REESE & VAN DER KNAAP 1998; cfr. HOPKINs 2000b; WILSON 2002; DE CALLATAY 2005; ulteriori importanti indicazioni sono ora fornite da DE LA Hoz MONTOY A 2008, 30 sgg. e passim. 2
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Goldsmith) individuava in sette miliardi di sesterzi la moneta aurea e argentea circolante alla fine dell' epoca augustea 4• Certo, sono state avanzate forti e legittime obiezioni sulla possibilità di pervenire a stime quantitative attendibili della produzione di moneta a partire dal calcolo degli esemplari superstiti e ancor più a partire dal numero dei coni individuabili negli esemplari superstiti e da una valutazione, attraverso complessi procedimenti statistici, dei "missing dies", dei coni non più attestati nella documentazione che ci è pervenuta. Ancor più problematico risulta il tentativo di stimare quanti pezzi potesse produrre per i differenti metalli un conio antico", E tuttavia non v'è ragione di ritenere che l'elaborata procedura adottata nei suoi calcoli da DuncanJones lo abbia portato a sopravvalutare l'entità dello stock di moneta, piuttosto che a sottovalutarla. C'è semmai un altro aspetto della generale ricostruzione dello studioso inglese che può suscitare qualche perplessità: l'idea secondo la quale il grado di usura della moneta imperiale romana argentea e soprattutto aurea testimonierebbe che essa circolava assai meno di alcune specie monetarie europee nel diciannovesimo secolo: che insomma la sua velocità di circolazione sarebbe stata assai bassa". A parte l'oggettiva difficoltà di trarre anche in questo caso conclusioni quantitativamente significative, resta il fatto che una valutazione del mero movimento del numerario in realtà non ci dice nulla sulla velocità di circolazione della moneta nel suo complesso, se erano adottati, come in effetti sappiamo che avveniva, meccanismi per la compensazione dei conti fra i vari soggetti economici, tali da consentire di evitare il pur sempre pericoloso e costoso trasferimento delle stesse specie monetarie 7. In definitiva non sembra potersi mettere in discussione che la quantità di moneta in circolazione nell'impero dei primi due secoli sia stata assai cospicua. Non sembra nemmeno potersi mettere in discussione che il ruolo del credito nell'incrementare la velocità di circolazione della moneta sia stato assai più importante di quanto non farebbe pensare la sostanziale assenza di "negotiable instruments" alla maniera dei nostri assegni, un'assenza che equivaleva all'assenza di una specifica forma
4 GOLDSMITH 1987, 41 (= 1990, 51); vd. Lo CASCIO 2003a; Lo CASCIO 2008b, 161 sgg. anche a proposito della stima di TEMIN 2003; vd. ora Lo CASCIO e MALANIMA in c.d.s., a proposito delle stime di MADDISON 2008. 5 Si vd. in particolare BUTTREY 1993; BUTTREY 1994; DE CALLATAY 1995; e in generale i contributi presentati all'Incontro di studio su Metodi statistici e analisi quantitative della produzione di moneta nel mondo antico. Tendenze e prospettive della ricerca, in AIIN 44, 1997, 9-90; vd. pure Lo CASCIO 1997b. 6 DUNcAN-JoNEs 1994, 180 sgg. 7 Sul rilievo di questi meccanismi ha insistito in particolare HARRIS 1993; vd. pure HOWGEGO 1992, 27 sgg. (e vedi molti dei contributi compresi in Lo CASCIO (a c. di) 2003; e soprattutto, ora, HARRIS 2006; HARRIS 2008).
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di creazione di moneta che avrebbe potuto avere un significativo effetto moltiplicatore 8. Il ruolo del credito si esprimeva attraverso forme peculiari: un esempio è il credito fornito ai compratori nelle vendite all'incanto (e che - si è acutamente notato - corrisponde, nella sua funzione economica, allo sconto commerciale) 9; un altro esempio sono quei meccanismi che vediamo adottati in Egitto nel terzo secolo entro una grande tenuta fondiaria e sui quali siamo informati dai documenti del cosiddetto archivio di Heroninos "', In effetti le ricerche più recenti hanno rivelato, per un verso, come il ricorso al credito fosse assai più capillarmente diffuso di quanto non abbiano voluto ammettere i seguaci dell' "ortodossia" finleyana, e per un altro verso come la documentazione, e segnatamente quella giuridica, dimostri del tutto destituita di fondamento la tesi secondo la quale il credito fosse esclusivamente credito al consumo Il. Un diverso rilievo del credito significa anche una diversa valutazione del fenomeno della carenza di moneta, che sarebbe per esempio testimoniata dalla diffusione della cosiddetta "moneta di necessità", e che sarebbe stata tale da impedire, o da frenare, per un verso l'ulteriore monetarizzazione, per un altro verso la stessa crescita economica, o da determinare, in particolari situazioni, delle vere e proprie "crisi". Che l'economia romana soffrisse, in forma strutturale e non solo congiunturalmente, di una tale carenza di moneta e che tale carenza di moneta abbia rappresentato un potente freno alla crescita economica è stato argomentato, per esempio, con forza, da Pekary 12, ma c'è chi ha vigorosamente obiettato a questo quadro, anche in base a significativo materiale comparativo 13: e oggi proprio la documentazione dei ghiacci della calotta polare artica sembra fornire un' argomentazione incontrovertibile contro una tale idea. Ammesso l'elevato livello della produzione di moneta nel mondo romano, il problema che si pone è quello di definire in quale misura si possa parlare di un' economia monetarizzata, nei vari momenti e nelle singole realtà locali. Se sull'assoluta ubiquità dell'uso della moneta non sembrano esservi dubbi, rimane oggetto di controversia l' estensione, nell' ambito di quella che appare, da questo specifico punto di vista, un'economia "duale", del settore monetarizzato e di quello non mo1981; Lo CASCIO 1996, 279 sg. con n. 70; Lo CASCIO 2003a; ma si vd. quanto osserva 2008, 201 con n. 143. 9 ANDREAU 1987. IO RATHBONE 1996. Il PETRUCCI 1991; il rilievo del credito all'investimento risulta, peraltro, confermato dalla documentazione studiata da CAMODECA 2003. 12 PEKARY 1980. 13 CARRIÉ 1980. g
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netarizzato. Nessuno negherà che l'economia imperiale romana, come peraltro quella di tutte le società preindustriali, era un' economia nella quale, al di là di un settore mercantile che ha lasciato ampia traccia di sé nella nostra documentazione, c'era un settore caratterizzato dall'autosufficienza (quello che Braudel definiva lo spazio della "vita materiale", dei valori d'uso, in quanto contrapposti ai valori di scambio, all'ambito del mercato 14; o quello che, in un' altra chiave interpretativa, può definirsi l'ambito della "peasant economy"). Ma tuttavia nessuno parimenti potrà negare che la quota rappresentata dal settore monetarizzato fosse nell' età imperiale romana proporzionalmente assai più ampia che nei periodi precedenti e successivi, anche se non tutti saranno disposti ad ammettere che all' allargamento del settore monetarizzato abbia corrisposto una genuina crescita economica e, più precisamente, l'aumento del reddito pro capite 15. L'uso della moneta non era limitato ai centri urbani (anche se il progresso dell'urbanizzazione deve avere indubbiamente favorito l'ulteriore allargarsi del settore mercantile e monetario): la moneta permeava i rapporti economici anche in ambito rurale 16. Già all'inizio del principato, il baratto o l'uso di pezzi d'argento non coniato per le transazioni commerciali era considerato da Strabone caratteristico di aree barbariche e arretrate, come la Lusitania e la Dalmazia 17. Una quanto mai varia e ricca documentazione letteraria, epigrafica e papiracea 18 mostra in quale misura le transazioni monetarie coinvolgessero tutti gli strati della società. E i frammenti dei giuristi che riguardano i rapporti economici fra i privati non possono intendersi a meno di non considerare del tutto banale l'uso della moneta a qualunque livello di necessità di scambio. Goldsmith ha stimato il grado di monetarizzazione dell' economia romana a poco meno della metà del Prodotto Nazionale Lordo alla fine del periodo augusteo: a un livello paragonabile, cioè, a quello dei paesi meno sviluppati dell' Africa oggi 19. Ancora una volta, quale che possa essere il nostro giudizio sulle basi stesse di una tale stima, non c'è dubbio che essa suggerisce un plausibile ordine di grandezza, che colloca la performance dell' economa romana a livelli non decisamente inferiori a quelli delle economie europee della prima età moderna. Per di più i primi due secoli dell' impero (e forse, sia pure attraverso differenti meccanismi, anBRAUDEL 1982; BRAUDEL 1988. Sulla distinzione tra "extensive growth" and "intensive growth" si vd. ad es. JONES 2000, 29 sgg.; e vedi supra, 7 sg. 16 HOWGEGO 1990; HOWGEGO 1992; DE LIGT 1990-91 e 1993, contro CRAWFORD 1970. 17 Strabo 3.3.7; 7. 5. 5; vedi DUNCAN-JONES 1990,33 sg.; HARRIS 1993,20. IX In buona misura, ma certo non esaustivamente, rassegnata per esempio da Howgego in lavori recenti: vd. in particolare HOWGEGO 1992. IY GOLDSMITH 1984,274 sg. 14 IS
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che più il terzo secolo)20 dovettero assistere a un incremento consistente del grado di monetarizzazione: il che significa a una netta espansione del mercato a spese dellautoconsumo ". A determinare questo effetto devono avere concorso fattori diversi. Il primo ovvio fattore dev'essere stato la stessa conquista dell'impero: l'acquisizione di enormi bottini e lo sfruttamento delle miniere soprattutto spagnole poté consentire un incremento senza precedenti dell' attività di coniazione soprattutto della zecca centrale che produceva il mainstream coinage. L'avvio di una regolare coniazione di oro, con gli anni della dittatura di Cesare, deve avere rappresentato, com' è stato sostenuto, un vero e proprio turning point?', In ultima analisi proprio l'immissione accentuata di oro monetato deve avere contribuito, in misura determinante, a risolvere la crisi del credito degli anni di Cesare: una crisi presumibilmente connessa, o connessa anche, con una temporanea carenza di moneta 23.Come ancora una volta hanno confermato le indagini quantitative di Duncan-Jones, l'oro monetato avrebbe costituito, nei primi due secoli dell'età imperiale, più o meno il 70% dello stock in termini di valore?", anche se, com' è ovvio, la moneta più diffusa, in termini di numero di pezzi, continuava ad essere il denarius argenteo. Che prima dell' età cesariana, e segnatamente negli ultimi decenni dell' età repubblicana, si adoperasse come effettivo mezzo di scambio l'oro in barre è stato sostenuto in base a riferimenti delle fonti letterarie non sempre univocamente interpretabili 25.Ma in ogni caso un' eventuale circolazione dell' oro in barre non può porsi sullo stesso piano della circolazione dell' oro monetato, né può dirsi che l'eventuale immissione di oro in barre nel mercato abbia potuto avere effetti sui prezzi paragonabili a quelli che invece aveva l'immissione in circolazione del metallo monetato. La più significativa testimonianza di questi effetti ce la danno Suetonio, Cassio Dione e il tardo Grosio a proposito degli effetti che avrebbe avuto l'utilizzazione da parte di Augusto, negli anni immediatamente successivi all'acquisizione dell'Egitto, dell' enorme tesoro alessandrino 26.Incidentalmente questi passi, e segnatamente il luogo suetoniano, rappresentano la più significativa attestazione della piena consapevolezza che si aveva da parte Si vd. in particolare CORBIER 1986; RATHBONE 1996, con riferimento all'Egitto. In gen. Lo CASCIO 1991 a. 22 HOWGEGO 1992, IO sgg.; e si vd. già Lo CASCIO 1981, 86. 23 Contro VERBOVEN 1997; VERBOVEN 2003; che lo stock di moneta d'argento sia andato decrescendo dopo il 79 a.C. (HARRIS 2008, 197 con n. 123, sulla scia di LOCKYEAR 1999) è ciò che può rendere ragione dell'aspetto monetario delle crisi del credito; cfr. anche HOLLANDER 2008, 114-17. 24 DUNCAN-JONES 1994, 163 sgg. 25 HOWGEGO 1992, 9 sg. 26Suet.Aug.41. I;Cass. Dio 51. 21. 5; Oros. 6. 19. 19. 20
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degli autori antichi del rapporto tra massa monetaria in circolazione, tasso dell' interesse e prezzi, in particolare prezzo della terra 27. Il controllo dell'intera penisola iberica deve avere significato la possibilità di garantire anche per il futuro, strutturalmente e in modo regolare, l'immissione di nuovi mezzi monetari nel sistema economico. E un pari effetto devono avere avuto più tardi sia l'enorme bottino acquisito con la conquista della Dacia, sia lo sfruttamento delle miniere della Transilvania ". La conquista appare essere, in verità, una precondizione dell'incremento nella monetarizzazione dell' economia: si potrebbe dire una condizione necessaria, ma non sufficiente per il compiuto svilupparsi di un'economia monetaria unitaria e integrata a livello del bacino del Mediterraneo. A determinare questo risultato più e oltre la conquista devono essere stati gli effetti sul piano economico dell' unificazione politica del mondo mediterraneo e dello stabilimento della pace. Soprattutto rilevante, in questa prospettiva, è l'indubbia drastica diminuzione dei "costi di transazione". E questo un aspetto sul quale solo di recente si è attirata l'attenzione da parte degli studiosi della storia economica del mondo romano ". La cosiddetta New Institutional Economics fornisce in effetti strumenti concettuali di cui sarebbe difficile sopravvalutare l'importanza anche per intendere le caratteristiche peculiari delle varie economie preindustriali e del ruolo che in esse gioca lo strumento monetario. E questo non solo per il fatto che questa nuova dimensione teorica modifica alcune delle assunzioni dell' economia neoclassica a proposito della razionalità economica, che sembrano risultare indigeste e in ogni caso troppo astratte allo storico, ma soprattutto perché in essa viene sottolineato il rilievo che hanno i "costi di transazione" e per conseguenza il ruolo delle istituzioni e delle modificazioni istituzionali nel determinare le performances economiche delle società del passato (oltre che di quelle del presente), dal momento che «when it is costly to transact then institutions matter. And it is costly to transact» (<
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1981; cfr. anche DE CECCO 1985. 1978a. 2Y CASCIO 1994a (= 2000); si vd. ora ad es. SCHEIDEL & VON REDEN 2002, 1 sg.; e MORRIS, SALLER (eds.) 2007, passim; Lo CASCIO 2005a; 2006d; 2007a, part. 626 sg. 30 NORTH 1996, 344. 27
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SCHEIDEL,
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il fattore essenziale dei costi di transazione, i quali comprendono i costi relativi alla misurazione delle caratteristiche valutabili di ciò che è oggetto di scambio, i costi per la tutela dei diritti e quelli per la garanzia di esecuzione dei contratti. Questi costi di misurazione e per la garanzia di applicazione (enforcement) sono le fonti delle istituzioni sociali, politiche ed economiche ... I costi dello scambio sono il fattore che distingue la teoria dei costi di transazione dalla dottrina tradizionale che gli economisti hanno ereditato da Adam Smith» 31.I mercati del paradigma neoclassico sono un' astrazione, proprio perché non tengono conto della costosità dello scambio. L'individuo non può fare una scelta perfettamente razionale nel senso della massimizzazione del profitto, dal momento che le informazioni che ha sono imperfette e non gli forniscono la capacità di decifrare la realtà attorno a lui e dal momento che i suoi modelli per interpretare questa realtà sono parimenti imperfetti. Donde il ruolo centrale delle istituzioni, nella misura in cui valgono a ridurre l'incertezza dello scambio e possono perciò diminuire i costi di transazione. «Le istituzioni - dice North - sono le regole del gioco di una società»32: sono i vincoli che gli uomini si sono dati per disciplinare i rapporti fra loro - vincoli di natura informale (sanzioni, tabu, costumanze, tradizioni e codici di comportamento) e regole formali (costituzioni, leggi, diritti di proprietàl ". Mi pare che si possa legittimamente sostenere che la costruzione dell'unità mediterranea sotto Roma deve avere avuto un'importanza cruciale nel determinare i futuri sviluppi dell' economia romana. La soppressione della pirateria già negli ultimi decenni dell' età repubblicana, la diffusione di una "technology of measurement" e di comuni sistemi metrologici, la diffusione di regole comuni nell' àmbito di ciò che possiamo definire il diritto commerciale, nonché la diffusione della nozione romana della proprietà sono tutti fattori che hanno potentemente contribuito alla drastica riduzione dei costi di transazione. Ma è forse la creazione di un' area monetaria unitaria e integrata entro il Mediterraneo il fattore che più ha contribuito a una tale riduzione. La moneta prodotta dalla zecca centrale circolava quasi dappertutto nell' impero: nessuna moneta nella storia dell' occidente può dirsi a miglior titolo del denarius e dell' aureus effettivo predecessore dell' euro. Le monete prodotte e circolanti localmente soprattutto nelle aree orientali dell'impero erano legate alla moneta prodotta centralmente da un sistema di cambi fissi. E quanto alle varie denominazioni del mainstream coinage NORTH 1994,53. NORTH 1994,23. 33 NORTH 1991, 97; vd. pure, ad es., NORTH 1999; sul neo-istituzionalismo LIBECAP 1992; MYRMAN & WEINGAST 1994; DUGGER 1995. 31 32
di North
si vd., ad es.,
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non pare che il cambiarle tra loro abbia mai necessitato l'intervento del cambiavalute: chi riceveva un aureus in pagamento doveva considerarlo sempre pari, e non solo a livello teorico, a venticinque denarii d'argento o a cento sesterzi di oricalco ". A ottenere questo risultato valeva anche l'obbligo, che si dev'essere affermato assai per tempo (verosimilmente già con la lex Cornelia nummaria di Silla), dell' accettazione della moneta legale 35. L'obbligo di accettare la moneta non contraffatta che portasse sul dritto il vultus dell'imperatore (il suo rifiuto si configurava come crimen) può essere visto come un ulteriore strumento per rendere più sicure e dunque meno costose le transazioni commerciali entro l'impero. L'altro elemento che avrà garantito una rapida monetarizzazione delle aree dell'occidente non ancora monetarizzate e l'ulteriore diffusione dell' uso della moneta coniata nelle province orientali dev' essere stata la duttilità del sistema monetario, garantita dall' articolazione in un gran numero di denominazioni in una varietà di metalli che potevano consentire qualunque tipo di transazione commerciale: basti solo pensare che il nominale più grande in uso nel sistema, l'aureus, era pari a 1.600 delle monete più piccole in uso nei primi tempi dell' età imperiale, i quadranti di rame. L'esistenza di un organismo politico unitario, con le sue peculiari esigenze fiscali, può peraltro avere favorito l'instaurarsi di rapporti commerciali a lunga distanza secondo il meccanismo delineato da un fortunato "modello" interpretativo dell' economia romana: il modello "tasse-commercio", elaborato più di venti anni fa da Keith Hopkins e poi sottoposto in epoca a noi più vicina a una drastica revisione da parte dello stesso autore 36. Secondo la formulazione originaria del modello, l'esistenza di un' organizzazione politica unitaria avrebbe favorito l'integrazione economica tra le varie aree e uno sviluppo del commercio interlocale perché l'impiantarsi di un sistema fiscale basato su imposte in larga misura in moneta e dunque su una circolazione monetaria estesa praticamente a tutto l'impero avrebbe comportato l'impiantarsi di uno strutturale squilibrio tra le varie aree, che avrebbe necessitato di un parimenti strutturale riequilibrio. Le aree soggette a imposte in moneta sarebbero state obbligate a vendere le proprie produzioni attraverso una rete differenziata di "converters" (come li definisce Hopkins) alle aree nelle quali il ricavato delle imposte veniva speso - Roma con l'Italia e le aree del limes nelle
34 35 36
P. es. Lo CASCIO 1993, 157 sg.; diversam. DUNCAN-JONES 1994, 70 n. 11. Lo CASCIO 1979; cfr. Lo CASCIO 1982c; diversam. SANTALUCIA 1982. HOPKINS 1980; HOPKINS 1995-96; cfr. HOPKINS 2000a.
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quali stazionavano le forze militari - per potere riavere la moneta con la quale pagare nuovamente le imposte nell' anno successivo. Con la pax Augusta si sarebbe progressivamente determinata, e cristallizzata, una netta distinzione, all'interno dell'impero, tra le cosiddette "tax-producing regions" e le cosiddette "tax-consuming regions". Se non altro per quella quota, sia pure limitata, del "Prodotto Interno Lordo" rappresentata dalle finanze statali, si dev' essere allora determinato un flusso regolare di moneta dalle prime alle seconde e questo flusso ha potuto mantenere il suo carattere "strutturale" solo a patto che si creasse un flusso, nella medesima direzione, di beni. Un movimento analogo di moneta e di beni dev' essere stato provocato, peraltro, dalla rendita fondiaria, nella misura in cui anche i suoi proventi venivano spesi in aree diverse da quelle in cui erano riscossi. In questo modo, l'esistenza stessa dell'organizzazione politica imperiale con le sue esigenze finanziarie avrebbe rappresentato un potente impulso alla crescita del commercio nell'area mediterranea e all'affermarsi di un' integrazione economica fra le varie regioni. Le prove documentarie di un tale incremento e di una tale integrazione sono costituite, per Hopkins, per un verso, dal numero proporzionalmente assai più consistente, per il periodo dal secondo secolo a.C. al secondo secolo d.C., rispetto all' età precedente e alla successiva, di relitti di navi onerarie naufragate, che pare legittimo considerare campione statisticamente significativo del numero di quelle effettivamente utilizzate nei trasporti marittimi.": e, per un altro verso, da quella che all'Hopkins pare la larga similarità nella composizione, per periodo di emissione, dei rinvenimenti monetari delle varie aree dell'impero, ciò che parrebbe indicare, per l'appunto, che la circolazione del mainstream coinage di Roma entro l' impero era, in tale periodo, una circolazione integrata e non frammentata. Si sono avanzate serie obiezioni alla validità di tali prove da parecchi studiosi e anche da chi scrive.". L'operatività del meccanismo tasse-commercio non sembra potersi considerare all'origine dell' incremento del commercio intermediterraneo, se è vero che tale incremento si rileva già a partire da un'epoca nella quale non si è ancora determinata quella netta ripartizione tra "tax-producing" e "tax-consuming regions" e quella generalizzazione di un'imposta in denaro che caratterizzano l'età imperiale. Il commercio intermediterraneo, almeno nel secondo e primo secolo a.C., appare essere in larga misura un commercio di esportazione nelle province soprattutto occidentali di derrate e manufatti prodotti in un' Italia che, almeno a partire
37 3X
PARKER 1992; vd. ora MEI1ER 2002. DUNCAN-JONES 1990,30 sgg. e passim;
Lo CASCIO 1991a, 353 sg.
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dal 90 a.C., gode dell'esenzione dal tributo: e nei confronti del modello tasse-commercio, l'esportazione di beni italici risulta anzi controintuitiva. E quanto alla documentazione offerta dai rinvenimenti monetari, è stato revocato in dubbio, in particolare da Duncan-Jones, che essa davvero valga a mostrare il carattere integrato a livello imperiale della circolazione dei denarii. In verità, la testimonianza numismatica, di per sé, non sembra potersi considerare prova decisiva né del carattere integrato, né del carattere frammentato dell' economia, anche perché, come si è già osservato prima, non siamo in grado di escludere che, nelle relazioni commerciali su lunga distanza, potessero intervenire meccanismi compensativi. Va per di più osservato che gli effetti del meccanismo tasse-commercio appaiono per un verso meno rilevanti, e per un altro verso bisognevoli di una qualificazione, quando si consideri da un lato l'estensione stessa, al di là dell' Italia, delle aree nelle quali, per la diffusione in esse di comunità privilegiate, vigevano importanti esenzioni fiscali, e dall'altro lato la notevolissima estensione della proprietà del princeps, dalla quale l'amministrazione imperiale ricavava ben più di un' imposta fondiaria. Le argomentazioni portate da Hopkins a supporto del suo modello non possono dirsi, dunque, del tutto persuasive e in parte sono state abbandonate dallo stesso Hopkins in quello che lui stesso ha definito il "mode l remodelled" 39. Ciò non toglie, tuttavia, che il modello in quanto tale sembra essere del tutto incontrovertibile, una volta che si accetti la rilevanza quantitativa, nel complesso della tassazione imperiale, delle imposte in moneta nel corso dei primi due secoli dell' impero e il fatto che i proventi della tassazione venivano spesi in aree diverse da quelle dove erano riscossi, ed una volta che si accetti la conclusione secondo la quale i percettori di rendite monetarie (e certo i più ricchi fra loro) alimentavano con esse i propri consumi in aree diverse (e in particolare a Roma e in Italia) rispetto a quelle donde le ricavavano. Più controverso è se la più elevata domanda permessa dalla concentrazione del potere d'acquisto nelle "tax-consuming regions" avrebbe potuto essere anche soddisfatta da produzioni locali e dunque avrebbe potuto avere anche l'effetto di promuovere gli scambi a livello locale. Ancor più controverso è se il meccanismo in sé avrebbe davvero potuto produrre un'integrazione economica talmente spinta entro l'impero, da giustificare la conclusione tratta recentemente dall' economista Peter Temin: quella secondo la quale «ancient Rome had an economie system that was an enormous conglomeration of interdependent markets» 40.
:l'i
HOPKINS
40
TEMIN
1995-96. 200 I, 181; cfr. ora anche
KESSLER
&
TEMIN
(2008).
L
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Andrà in effetti osservato che il meccanismo tasse-commercio sarà stato alla base di una proporzione sostanzialmente minoritaria degli scambi commerciali all'interno dell'impero. Lo stesso Hopkins ha mostrato, plausibilmente, che il livello dell'imposizione doveva essere tutto sommato assai basso, per la stessa modestia della spesa pubblica!': la quota del prodotto interno lordo rappresentata dalla finanza statale era bassa, certamente assai inferiore al 10%, anche se poi, in concreto, il gravame fiscale può essere apparso, in determinate situazioni, difficile da tollerare dato il carattere non progressivo dell' esazione fiscale, data l'ampiezza delle aree che restavano immuni e considerato il peso aggiuntivo rappresentato dalle imposte o tasse locali, le cui attestazioni nella documentazione superstite restano evanescenti, ma di cui si avrebbe torto a sminuire il rilievo anche quantitativo ". Nel complesso, tuttavia, il peso cumulativo di tasse e rendite sui produttori dev' essere stato tollerabile, se davvero poté rappresentare uno stimolo al commercio su lunga distanza e più in generale agli scambi commerciali. Per di più la logica del modello comporta che tasse e rendite «were rivals for a limited surplus»43. Se il potere dei grandi proprietari appartenenti alla classe dirigente fosse stato tanto forte da mettere a repentaglio l'esazione delle imposte (come presumibilmente accadrà in seguito, in età tardoantica), la sopravvivenza stessa dello stato imperiale come entità politica sarebbe stata a rischio. Se le imposte fossero state tanto elevate da mettere a rischio la possibilità, per le élites, di ricavare quelle rendite che ne garantivano la posizione di preminenza sociale, sarebbe venuto meno il consenso delle élites al potere imperiale. Dunque sia le tasse che le rendite dovevano mantenersi contenute. Da questa conclusione sembrerebbero emergere apparentemente due possibilità: o che altri fattori, accanto all'attività dello stato, abbiano promosso gli scambi su lunga distanza - e per esempio una più spinta specializzazione produttiva delle diverse aree, che avrebbe comportato costi di produzione differenziati, tali per cui, pur in presenza di elevati costi di trasporto, convenisse spostare derrate e manufatti da un capo all' altro del Mediterraneo - o che gli scambi su lunga distanza siano stati limitati, siano stati cioè solo quelli messi in moto dal meccanismo tasse-commercio. In passato mi è sembrato di dovere decisamente propendere per questa seconda alternativa: andrebbe ridimensionata l'importanza dell' inte-
41 HOPKINS 1980; 1995/6; ma conclusioni analoghe sembrano potersi trarre dai tentativi di stimare il 'budget' dello stato imperiale compiuti da GOLDSMITH 1987,43-71 e da DUNCAN-JONES 1994, cap. 3; cfr. pure Lo CASCIO 1997b, 658 sgg.; Lo CASCIO 2000a, 196 sgg.; Lo CASCIO 2006e, 32 sg.; Lo CASCIO 2007a, 622 sgg. 42 Si vd. ora MEROLA 200 I, 101 sgg. 43 HOPKINS 1995/6,50 (= 208).
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grazione tra le varie economie regionali e locali, proprio perché decisivo nel promuovere una tale integrazione sarebbe stato il ruolo della finanza statale e, d'altra parte, la quota del PIL rappresentata dal budget dello stato sarebbe stata sostanzialmente troppo esigua per determinare effetti di grossa portata". E tuttavia oggi direi che un'interpretazione "minimalista" del commercio intermediterraneo non è forse interamente accettabile, non solo perché altri meccanismi possono avere contribuito alla sempre maggiore integrazione delle economie entro l'impero, ma anche perché non vale a giustificarla la considerazione del ruolo tutto sommato limitato che in un' economia preindustriale gioca la finanza dello stato, a paragone di quella che gioca la finanza di un welfare state in uno scenario quale quello contemporaneo. Horden e Purcell hanno molto bene messo in rilievo, nel loro libro recente, gli elementi più caratteristici di quel che essi definiscono, con felice espressione, la "connectivity" che lega le varie aree del Mediterraneo ". In questo quadro un ruolo parimenti di rilievo deve essere stato quello giocato dai centri urbani, la cui diffusione e consistenza resta un fatto quasi senza paralleli in tutta la storia dell'occidente preindustriale ". Anche se esigua, peraltro, la finanza statale era in grado di rappresentare il volano che metteva in moto meccanismi più complessi di quelli da essa stessa direttamente avviati. In generale l'esistenza dello stato imperiale, come si è visto, era tale da garantire, con la riduzione dei costi di transazione, uno scenario assai più favorevole agli scambi. Riconoscere il rilievo anche quantitativo degli scambi su lunga distanza e il fatto che non possano essere considerati limitati a quelli messi in movimento dal meccanismo tasse-commercio non rende tuttavia meno vera la proposizione secondo la quale sarebbe stata proprio la finanza statale, per un verso, a dar forma ai trend di medio e lungo periodo dell'economia imperiale nel suo complesso, per un altro verso, a determinare in ultima analisi le differenziate performances produttive delle varie regioni nel corso del tempo. Il ruolo cruciale era giocato dall'unitario sistema monetario dell'impero. Era lo stato che riforniva di mezzi monetari l'economia imperiale. Noi non abbiamo, in verità, una certezza assoluta circa i modi nei quali la zecca immetteva in circolazione la moneta: non si può escludere la possibilità che, almeno in taluni periodi, fosse possibile ottenere moneta "a domanda", vale a dire portando alla zecca, per farselo coniare, il metallo
44
Lo
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HORDEN
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1991 a, 354 sgg. PURCELL 2000. Si vd. ora HARRIS 2000; cfr. anche Lo CASCIO
&
CASCIO
in c.d.s.
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privatamente detenuto ", E certo i sistemi adottati nello sfruttamento delle miniere imperiali sembrano suggerire che i privati coinvolti nell' estrazione come appaltatori abbiano ricevuto la loro quota in nuova moneta 48. Ma che il modo più ovvio di immettere numerario in circolazione da parte dell' autorità emittente fosse attraverso la spesa pubblica sembra incontrovertibile. Ciò aveva un'importante conseguenza: che la maggiore o minore entità della spesa pubblica determinava anche la quantità di mezzi monetari immessi nel sistema e dunque anche, almeno in una certa misura, i movimenti del livello dei prezzi. Così, se la spesa pubblica si manteneva a un livello corrispondente a quello delle entrate, rendendo, perciò, non necessaria una sostanziosa emissione monetaria, salvo quella richiesta per la sostituzione dei pezzi andati perduti (il cosiddetto "coin loss"), e se, nel contempo, si determinava una crescita della produzione commercializzata, tanto per effetto della monetarizzazione di aree geografiche e di settori produttivi non monetarizzati, quanto per effetto di una crescita della popolazione e della produzione in termini fisici, era inevitabile che si determinasse un movimento verso il basso del livello dei prezzi: l'offerta di moneta non riusciva a soddisfare la domanda. E questo squilibrio tra offerta e domanda di moneta avrebbe potuto portare a crisi del credito:". Effetti opposti aveva, com' è ovvio, una politica della spesa pubblica generosa. Si potrebbe sostenere che, dal momento che la moneta vecchia pagata dai contribuenti veniva normalmente riusata e il "coin loss" era abbastanza contenuto, era l'eccedenza della spesa pubblica rispetto alle entrate dello stato che rappresentava il modo attraverso il quale la nuova moneta veniva immessa nella circolazione. Si potrebbe persino sostenere che questo surplus di spesa pubblica possa avere avuto esso stesso effetti espansivi, promuovendo (quasi una sorta di "finanziamento in disavanzo") l'utilizzazione di risorse non occupate e in ultima analisi la stessa crescita 50. Ma non era soltanto perché influiva sul generale trend di medio e di lungo periodo del livello dei prezzi che la finanza statale giocava un ruolo decisivo. Era la stessa discontinuità nello spazio, oltre che nel tempo, della spesa pubblica e della connessa immissione di moneta ad avere rilevanti effetti. Il fatto che lo stato spendesse e dunque immettesse mezzi monetari in circolazione in misura diversificata nelle varie aree e il fatto che in misura diversificata li drenasse attraverso la fiscalità determinava Si vd. ora FORABOSCHI2003. V d. p. es. Lo CASCIO 1982b, 97; HOWGEGO 1992, 8 sg. 49 Come quella del 33 d.C., per la quale cfr. in particolare proposta interpretati va di TCHERNIA 2003. 50 Si vd. quanto osservo in Lo CASCIO 1980a. 47 48
WOLTERS 1987; ma si vd. ora la nuova
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come conseguenza una variabilità regionale non solo nel grado della monetarizzazione, ma anche nel livello dei prezzi delle merci e in particolare di quello del denaro, e cioè del saggio dell' interesse: una variabilità che il commercio su scala imperiale poteva riequilibrare, se lo riequilibrava, solo con un certo lag temporale. Ho altrove insistito sull' importanza capitale che ha un luogo di Gaio, nel quale il giurista osserva: «sappiamo bene quanto siano vari i prezzi delle cose nelle singole città e regioni, soprattutto quelli del vino, dell'olio, del frumento: e anche il denaro, per quanto la sua potestas [e cioè il suo valore nominale] sembri essere dappertutto una sola e la medesima, in alcuni luoghi lo si trova più facilmente e a un moderato tasso d'interesse, in altri più difficilmente e a un tasso elevato»51. Questo luogo è illuminante per diversi motivi: intanto perché dimostra l'assoluta e piena consapevolezza, da parte del giurista, del rapporto che lega saggio dell' interesse e offerta di moneta; poi perché icasticamente in esso si rilevano la natura, ma anche i limiti, dell'integrazione economica fra aree diverse dell'impero: se anche accogliessimo la formulazione estrema di Temin secondo la quale l'impero sarebbe stato un enorme conglomerato di mercati interdipendenti, sarebbe irrealistico supporre che ciò avrebbe potuto comportare un sia pur solo tendenzialmente comune livello dei prezzi, data l'imperfezione di questi mercati 52. Imperfezione dei mercati e difficoltà del riequilibrio monetario tra "tax-producing" e "tax-consuming regions" facevano sÌ che la liquidità monetaria fosse maggiore "strutturalmente" nelle "tax-consuming regions" e che più elevato vi fosse, anche per questo motivo, il livello dei prezzi. Ma una tale variabilità, proprio perché aveva carattere "strutturale", non poteva restare senza effetti sul destino economico delle varie aree dell'impero: in particolare non poteva restare senza effetti sulla rispettiva evoluzione dell'Italia e delle province. Se il livello dei prezzi così dei fattori produttivi, come dei prodotti era in Italia (o almeno in alcune sue aree, quelle centrali) più elevato rispetto a quello delle province occidentali e meridionali dell' impero, che, sia pure in misura differenziata e in tempi diversi, sperimentavano un graduale passaggio dall'autoconsumo al mercato, vuol dire che diveniva più conveniente produrre in provincia per esportare in Italia e, per converso, che diveniva sempre più difficile
51 D. 13.4. 3:«Ideo in arbitrium iudicis refertur haec actio, quia scimus, quam varia sint pretia rerum per singulas civitates regionesque, maxime vini olei frumenti: pecuniarum quoque licet videatur una et eadem potestas ubique esse, tamen aliis locis facilius et levibus usuris inveniuntur, aliis difficilius et gravibus usuris»; cfr. Lo CASCIO 1991a, 356. 52 Né mi sembra convincente la tesi, ancora una volta invero estrema, sostenuta da KESSLER e TEMIN 2008, che il livello del prezzo quanto meno del grano fosse differenziato tra una regione e l'altra sostanzialmente in ragione della sua distanza da Roma, vista la spinta integrazione economica entro l'impero.
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produrre in Italia per esportare nelle province>'. La dinamica di lungo periodo delle relazioni economiche fra le varie aree può essere cioè vista in termini di prezzi relativi e in termini di differenti 'terms of trade' delle differenti aree entro l'impero, con i 'terms of trade' delle province che si andavano sempre di più deteriorando 54. L'esistenza del tributo monetario e la concentrazione dei percettori di rendite monetarie a Roma determinavano un flusso di capitali verso la penisola. Questo squilibrio strutturale veniva sanato da un sempre più forte flusso di beni provinciali importati nella penisola, mentre il flusso di prodotti italici esportati nelle province decresceva drasticamente. Alla fine questo squilibrio avrebbe portato alla stagnazione in Italia e alla crescita economica delle province. La signoria politica dell'Italia, che si esprimeva nella sua immunità, diventava, cioè, un potente fattore che contribuiva al progressivo venir meno della sua posizione di preminenza economica. E presumibilmente nell' innescarsi di questi meccanismi che dev' essere vista la ragione profonda di quella per certi versi opposta evoluzione dell' economia italica e delle economie provinciali che al Rostovtzeff pareva per l'appunto di potere interpretare come quella che dimostrava la "decadenza economica" dell'Italia come conseguenza dell"'emancipazione" delle province occidentali. Peraltro, la diffusione delle innovazioni tecnologiche dal centro, e cioè l'Italia, alla periferia, e cioè le province, avrebbe prodotto un analogo effetto. C'erano, vale a dire, forze che spingevano in direzione di una "decentralizzazione" dell' economia 5S. Nella misura in cui questi processi minavano sul lungo periodo la supremazia economica dell'Italia, si può dire che essi siano perfettamente congruenti con il progressivo ampliarsi della base del reclutamento della classe dirigente dell' impero dapprima alle province occidentali e poi a quelle orientali e con la trasformazione stessa dell'impero, con un centro che diveniva sempre meno centro e una periferia che diveniva sempre meno periferia.
53
Lo
54
VON FREYBERG
1991 a, 357 sg. 1988. 5S Significativo il fatto che il termine fosse già adoperato, and Economie History ofthe Roman Empire. CASCIO
per l'appunto,
da Rostovtzeff
nella Social
II. LA VITA ECONOMICA E SOCIALE A POMPEI
Il 5 febbraio del 62, diciassette anni prima, dunque, del fatidico 24 agosto del 79, Pompei venne sconvolta da un rovinoso terremoto, di cui proprio l'area della città sembra abbia rappresentato l'epicentro. Se il sisma toccò anche Napoli e Nuceria e più gravemente Ercolano, fu soprattutto a Pompei che si ebbero, con un numero ovviamente imprecisabile di vittime, estese distruzioni di edifici: e non è casuale che, nel registrare il rovinoso evento naturale, Tacito ne ricordi solo gli effetti sulla «popolosa» Pompei e che Seneca, al quale dobbiamo i maggiori dettagli sul sisma e sulle sue conseguenze, distingua i danni subiti dalle regioni vicine dall' «abbattimento» della città l. La città venne ricostruita: ma la ricostruzione era stata ancora solo parzialmente effettuata, quando sopraggiunse il nuovo e questa volta definitivo cataclisma. L'entità della prima distruzione e della ricostruzione e la lunga durata di quest'ultima sono rivelate dalla stessa documentazione archeologica: e anzi proprio tale lunga durata, nonché il carattere stesso che avrebbe assunto la ripresa edilizia della città hanno costituito un serio problema dell' archeologia pompeiana. La nuova città di Pompei che faticosamente risorge è sostanzialmente eguale all'antica nell'impianto urbanistico e nel tracciato delle strade: ma gli edifici nuovi che sorgono hanno spesso forme e funzioni diverse rispetto al passato. Al posto di belle case d'abitazione sorgono talvolta dimore più modeste e botteghe o locali destinati ad attività manifatturiere o commerciali, come ad esempio fullonicae, tabernae e pistrina: e la proporzione di questi ultimi, rispetto agli edifici di semplice abitazione, se non lo stesso loro numero assoluto, pare crescere in misura vistosa. Nel contempo gli edifici che hanno questa destinazione utilitaria sembrano essere quelli che più presto, rispetto alle case di abitazione o ancor più agli edifici pubblici, vengono ricostruiti. Quali conclusioni trarre dalla lunga durata della ricostruzione, nonché dalle caratteristiche che essa assume? Quanto al primo punto, è stato molto ragionevolmente messo in rilievo che non si tratta di un fatto sinI
Tac. Ann. 15.22; Seno Q.N. 6. 1. 1-3.
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golare, come rivelano i confronti con analoghe ricostruzioni di centri urbani preindustriali dopo sismi di comparabile gravità (quando non con le ricostruzioni dopo terremoti di cui abbiamo noi stessi esperienza diretta): ad esempio con la ricostruzione di Catania dopo il terremoto del 1693, o con quella di Lisbona dopo il sisma del 1755 (più di vent' anni), o ancora con la ricostruzione di Messina dopo quello del 1908 (venticinque) 2; e va osservato che si tratta di casi nei quali il ruolo o il rilievo che riveste il centro urbano nell' ambito della nazione o dello stato cui esso appartiene sono ben maggiori di quelli che la pur «popolosa» Pompei di epoca neroniana poteva rivestire nell'Italia romana o a maggior ragione nell'impero mediterraneo di Roma: quali che siano le ragioni del mancato interessamento imperiale per una città che si definiva «colonia neroniana» ' (ragioni sulle quali molto si discute), è degno di nota che non sia attestato, per la Pompei colpita dal terremoto, un intervento specifico di aiuto e di supporto finanziario da parte dell' autorità imperiale, analogo a quello che Tiberio, quarant' anni prima, aveva concesso alle numerose città dell' Asia minore parimenti distrutte da un terremoto". Quanto al carattere peculiare della ricostruzione effettuata a Pompei, è presumibile che esso traduca un nuovo assetto economico e sociale della popolazione della città: che risponda, cioè, almeno in parte a una modificazione delle attività che vi vengono svolte, accentuatasi se non avviatasi in conseguenza del terremoto, nonché a un ricambio della popolazione che, definitivamente o temporaneamente, vi risiede. Non c'è dubbio, anzitutto, che il terremoto sia l'evento che in modo più radicale viene a mutare, quantitativamente e qualitativamente, la demografia di Pompei, quale si è stabilizzata dopo 1'altro evento epocale, da questo punto di vista, della storia della città, e cioè la fondazione della colonia. All'iniziale, probabile diminuzione della popolazione urbana, quale effetto diretto del sisma, dobbiamo presumere che seguano, più scaglionati nel tempo, due movimenti migratori di segno opposto. Da una parte, è probabile - e la stessa documentazione comparativa pare suggerirlo - che gli esponenti dell' élite fondiaria abbiano abbandonato, nella misura in cui esse erano state distrutte o gravemente danneggiate, le proprie dimore in città, per andare a risiedere, temporaneamente o definitivamente, nelle proprie ville suburbane o addirittura lontano da Pompei (un' eventualità alla quale allude Seneca, parlando degli effetti del terremoto); la fuga in campagna dei ricchi poteva essere oltretutto favorita
1973, 375 . Si veda ora, a proposito di e/L IV, 3525, BENEFIEL 2004, 360 sgg. e la letteratura ivi discussa. 4 Tac. Ann, 2.47; cfr. anche 4. 13; Seno Q.N. 6. l. 13. 2
.1
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II. LA VITA ECONOMICA
E SOCIALE
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dalla preoccupazione del diffondersi di epidemie - un fatto tutt' altro che infrequente dopo un terremoto e apparentemente determinatosi anche a Pompei, come parrebbe suggerire il luogo di Seneca che descrive gli effetti del sisma 5 - o dal timore dei torbidi sociali che si potevano creare per le difficoltà dell' approvvigionamento, per la disorganizzazione della vita nella città, per il venir meno della possibilità di utilizzare i suoi servizi 6. Dall'altra parte, avviatosi il processo di ricostruzione - ciò che non necessariamente dev' essere subito avvenuto -, è probabile che esso abbia richiesto l'utilizzazione di una cospicua manodopera non reperibile nella sua totalità a Pompei e che dunque abbia comportato una sia pur soltanto temporanea immigrazione di lavoratori dai centri vicini. Quale che possa essere stato l'effetto di questi processi sulle dimensioni della popolazione del centro urbano, non c'è dubbio che essi sono valsi a mutare profondamente la sua composizione sociale 7. Più problematico è capire sino a che punto il terremoto possa essere stato in grado di modificare la composizione della classe dirigente e, con essa, la stessa fondamentale vocazione produttiva della città. E legittimo, seguendo un' affermata tradizione di studi, sostenere che il bouleversement seguito al terremoto abbia determinato, o quanto meno accentuato, l'ascesa di nuovi ceti, la cui fortuna sarebbe stata più legata alle attività «industriali» e commerciali, e meno alla rendita fondiaria e che ciò abbia addirittura portato alla sostituzione di una «plutocrazia» all' aristocrazia fondiaria nel controllo dell' amministrazione cittadina? Si è voluta fare l'ipotesi che le distruzioni prodotte dal sisma siano state tali da rendere in molti casi impossibile, ai proprietari, date le disponibilità liquide limitate sulle quali potevano contare, procedere a un rapido restauro, e che di conseguenza si sarebbe determinata una drastica riduzione del valore degli edifici e dei terreni: tale drastica riduzione, a sua volta, come avrebbe nociuto all' aristocrazia dei rentiers, dei proprietari dei fondi dell' agro pompeiano dimoranti in città, così avrebbe favorito gli affaristi con maggiori disponibilità liquide, impegnati in attività più lucrative del mero sfruttamento della proprietà fondiaria - commercianti e artigiani, spesso di condizione libertina -, che avrebbero avuto modo di approfittare della situazione acquisendo a modico prezzo gl' immobili da riattare o da ricostruire. Questo mutamento nella proprietà degl' immobili urbani sarebbe a sua volta da collegare all'apparente essor delle attività industriali che avrebbe appunto fatto seguito al terremoto e che sarebbe alla base di una
5 6 7
Seno Q.N. 6. I. 10, 28. 1-2. 1973, 375-376. ANDREAU 1973, 378-379. ANDREAU
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CRESCITA E DECLINO
rinnovata e anzi accentuata prosperità della città. La stessa composizione del ceto dirigente pompeiano sarebbe stata influenzata da questi sviluppi: con l'emergere, al posto della vecchia aristocrazia legata alla proprietà della terra, di un ceto autenticamente «borghese» 8. In verità, così com'è formulata, l'ipotesi non regge all'analisi: che vi sia stato il supposto effetto di riduzione di valore degl' immobili urbani non solo non è in alcun modo attestato o attestabile dalla semplice documentazione archeologica, ma sembra escluso, ancora una volta, dall'esame della documentazione comparativa 9• Il terremoto ha effetti economici, per qualche verso, paragonabili a quelli di un' epidemia, nella misura in cui determina uno sconvolgimento complessivo della vita di una città: ma il fatto che il primo distrugge prevalentemente le cose anziché le persone, laddove la seconda elimina le persone lasciando intatte le cose, rende per altro verso diametralmente opposti gli effetti economici dei due eventi. La «fame di case» di un gran numero di senza tetto, non che fare diminuire, incrementa fortemente i prezzi delle abitazioni non toccate o toccate di meno dal sisma, nonché gli affitti, e può semmai alimentare certi fatti speculativi di cui si rendono in primis responsabili gli stessi vecchi proprietari. D'altra parte, il turbamento della vita cittadina, la fuga sia pure solo temporanea di buona parte della popolazione non possono che nuocere, in linea generale, a chi basa la propria fortuna sul commercio e sulla manifattura. Dunque è assai improbabile che il terremoto abbia comparativamente colpito di più i proprietari fondiari e di meno i commercianti e gli artigiani. Peraltro, l' essor di determinate attività «urbane», in quanto contrapponibili a quelle rurali, e per esempio le attività varie connesse alla trasformazione della lana e alla produzione di tessuti, è fenomeno che va sicuramente anticipato a diversi decenni prima del terremoto, come si avrà modo di mostrare: a un momento, quindi, nel quale le stesse produzioni pompeiane del settore primario - soprattutto il vino - sono anch' esse in piena fioritura. In generale, poi, sembra senz' altro da escludere la paradossale idea che il terremoto abbia potuto avere benefici effetti sull'economia della città. Non può davvero sostenersi che il terremoto abbia potuto di per sé stimolare l'attività economica: è solo supponendo che vi sia stato un intervento finanziario consistente dal centro che si potrebbe ipotizzare, in chiave «keynesiana», che un tale intervento abbia potuto rappresentare uno stimolo alla ripresa produttiva. Ma si è visto che non abbiamo alcuna testimonianza di un intervento imperiale: non c'è stato presumibilmente alcun piano generale di ricostruzione, e pare che
8
MAIURI
9
LEPORE
1942,163-164,216-217. 1950, 162 (= LEPORE 1989, 142);
ANDREAU
1973,374.
II. LA VITA ECONOMICA E SOCIALE A POMPEI
215
ciascuno abbia dovuto contare sulle sue forze; le stesse manifestazioni di evergetismo da parte dei privati ricchi, nella costruzione e ricostruzione di edifici pubblici, sono assolutamente circoscritte. È stato messo in rilievo che, ancora al momento dell'eruzione, un servizio quale quello dell'approvvigionamento idrico non risultava essere stato del tutto ripristinato; che alcuni degli edifici pubblici con sicura o probabile destinazione a scopi economici, come l'edificio di Eumachia o il Macellum, non erano stati riutilizzati ovvero erano ancora parzialmente fuori uso "', Sembra, peraltro, che l'ipotesi su ricordata proponga una contrapposizione di gruppi - li si voglia considerare «ceti» o «classi», e dunque li si voglia contrapporre sul piano degl' interessi economici, ovvero sul piano dei ruoli sociali - che appare estranea alla particolare struttura della società dell'Italia romana. Sembra sostanzialmente illegittimo prospettare, per l'Italia del primato politico ed economico all'interno del mondo mediterraneo, l'esistenza di una rigida distinzione e meno che mai di una netta contrapposizione di interessi fra coloro che impegnano le proprie fortune nell' agricoltura e coloro che investono nel commercio e nella manifattura: commercio e manifattura appaiono, piuttosto, intimamente connessi con la produzione agricola, in quanto ne sono divenuti una sorta di «continuazione», a partire dal momento in cui si è realizzato il fondamentale passaggio da un'agricoltura di mera sussistenza a un'agricoltura che destina le proprie produzioni a un mercato esterno alle singole unità fondiarie: questo passaggio ha significato non soltanto l'estendersi del settore commercializzato e monetarizzato nell'ambito della produzione dei beni primari, ma anche l'affermarsi di una mentalità dichiaratamente «acquisitiva», volta al profitto, tra i proprietari, che divengono dunque piuttosto imprenditori agricoli, che semplici rentiers. Sicché, come la produzione agricola di un'unità fondiaria può essere integrata da una specifica produzione di manufatti al suo stesso interno - quella, ad esempio, dellefiglinae del fondo -, così lo stesso proprietario di una unità fondiaria che produca vino ed olio da commercializzare può far rientrare nell' ambito stesso dei suoi interessi, oltre che la semilavorazione, anche la commercializzazione delle proprie produzioni; parimenti il proprietario di greggi transumanti e stanziali può essere direttamente coinvolto o cointeressato nella produzione della lana e nella sua ulteriore lavorazione, nell' attività di filatura e tessitura: in una «verticalità» di investimenti, dunque, che garantisce non solo il controllo dell'intero processo produttivo, ma anche quello, in varie forme, della commercializzazione del prodotto.
IO MAIURI 1942,40-43 mento idrico), 217.
(edificio di Eumachia),
54-61 (Macellum),
91-94 (sistema di approvvigiona-
216
CRESCITA
E DECLINO
Voler distinguere o addirittura contrapporre, nell' élite pompeiana, i supposti portatori di interessi agrari e i supposti portatori di interessi commerciali e industriali significa compiere il medesimo errore - anche se in prospettiva rovesciata, magari «modernizzantc» - compiuto da chi, di fronte a prove documentarie difficilmente oppugnabili, ritiene di poter negare o minimizzare il coinvolgimento in interessi commerciali e «industriali», non pur della stessa élite senatorio-equestre a Roma, ma addirittura delle stesse élites municipali. Si tratta del medesimo errore compiuto da chi, ancora recentemente, nel proporre un' immagine «primitivi sta» e «minimalista» dell' economia pompeiana, ha ritenuto di potere utilizzare come chiave interpretativa adeguata a spiegare le caratteristiche strutturali della città campana, il modello della weberiana «città consumatrice»: una città, vale a dire, nella quale commercio e manifattura sono di dimensioni limitate, visto che debbono soddisfare soltanto i ristretti consumi di un ceto di proprietari terrieri, di rentiers, residenti nel centro urbano; una città che ha dunque un carattere sostanzialmente parassitario nei confronti del territorio circostante Il. Una qualche contrapposizione tra interessi eminentemente agrari e interessi eminentemente commerciali e «industriali», nell' àmbito dell' élite, può supporsi solo per un limitato periodo della storia della città: quello successivo alla colonizzazione sillana, evento, come si è detto, epocale, se non altro per il fatto che l'arrivo dei coloni ha significato un incremento improvviso e consistentissimo degli abitanti di Pompei, nonché lo sconvolgimento sia pure parziale dell' assetto della proprietà nel territorio della città 12. Ma, anche se si è recentemente sostenuto, per la verità su abbastanza fragili basi, che gli aristocratici coinvolti in una tipica attività industriale pompeiana, quale quella della lana e dei panni di lana, sarebbero stati in maggioranza gli esponenti dell' élite presillana 13, la contrapposizione ipotizzata non dev'essere stata un fatto duraturo, così come duratura non sarà stata, per lo meno al livello dell' élite, la contrapposizione etnica fra vecchi Pompe iani e coloni: più di tale contrapposizione deve avere giocato l' «alleanza di classe», com' è stata autorevolmente definita, che si crea tra i vecchi e i nuovi esponenti di tale élite, quel «blocco storico» delle classi dominanti che ha modo di estrinsecarsi così sul piano economico e sociale, come su quello della gestione politica della comunità 14. Il
JONGMAN
12
Lo
1.1
MOELLER
14
LEPORE
1988. 1992, 120-124. 1976. 1979, 18 (= LEPORE
CASCIO
1989, 163, 165)
II. LA VITA ECONOMICA
E SOCIALE A POMPEI
217
Come si è avuto occasione di osservare altrove, la colonizzazione sillana, evento pur traumatico nelle sue dimensioni, non mutò la fondamentale vocazione produttiva della zona vesuviana e di Pompei in particolare, legata alla precoce utilizzazione delle colture specializzate dell' olio e soprattutto del vino, né determinò l'integrale sostituzione del ceto dirigente, che basava la propria fortuna su questo tipo di utilizzazione della proprietà fondiaria. Ma dovette, tuttavia, determinare, con il meccanismo stesso delle confische, la necessità di una destinazione ad attività diverse da quelle meramente agricole delle risorse di lavoro e di capitali rimaste nella disponibilità delle vittime stesse delle confische. Se l'arrivo dei coloni corrispose, com' è ovvio, a una dislocazione dei Pompeiani o di una loro parte nella città (Cicerone dice appunto che i Pompeiani sarebbero stati «rimossi» dalle proprie terre 15), questo incremento della popolazione del centro urbano non può certo essere rimasto senza effetti sulla situazione economica e sociale della comunità nel suo complesso; e se è vero che la prosperità della città non venne meno, ma anzi si accentuò, vuol dire che alla non intermessa espansione dell' agricoltura specializzata, in buona misura basata sull'utilizzazione del lavoro servile, corrispose, nello stesso centro urbano, una sia pur progressiva crescita delle attività commerciali e «industriali»: attività commerciali e «industriali» che poterono, almeno in una prima fase e in parte, trovarsi in mani diverse da quelle della nuova élite dei coloni sillani 16. D'altra parte, proprio la non intermessa prosperità di Pompei, pur dopo un afflusso così consistente di popolazione, si può dire che rappresenti un formidabile argomento contro quelle posizioni «minimaliste» e «primitiviste», a proposito dei caratteri dell'economia pompeiana, cui si è fatto riferimento. La «risposta» della comunità all' improvviso incremento demografico, è appunto quella di accentuare la specializzazione produttiva, tanto al livello primario che secondario, incrementando così l'efficienza complessiva della sua economia. Si può dire che Pompei partecipa, in questo modo, sfruttando al meglio la propria situazione di partenza, all'indubbio sviluppo produttivo che caratterizza l'Italia della fine dell'età repubblicana e ancora della prima età imperiale: un'Italia che è in grado di inondare, con le proprie esportazioni, le regioni soprattutto occidentali del Mediterraneo. Si è voluto sostenere, attraverso un' argomentazione interessante, ma sostanzialmente astratta, che l'estensione stessa del territorio pompeiano e la stessa bassa produttività agricola, dati i limiti tecnici dell' agronomia
15 16
Pro Sulla 62. Lo CASCIO 1992.
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CRESCITA
E DECLINO
antica, avrebbero reso impossibile una produzione vinicola superiore a quella richiesta dai meri consumi locali, considerata l'entità della stessa popolazione pompeiana 17. Il ragionamento che si fa è il seguente: poiché sarebbe stato necessario destinare alla produzione dell' alimento base, il grano, un' estensione cospicua del territorio pompeiano, che si ritiene di potere identificare nelle zone pianeggianti della valle del Sarno, la rimanente parte di esso, quella collinare, da destinare alla coltura della vite, sarebbe stata sostanzialmente limitata di estensione e dunque in grado di produrre quantità limitate di vino: quelle appena sufficienti ad alimentare i consumi locali. Si vuol dare forza all' argomentazione rilevando, per un verso, come gli autori antichi lodino la feracità della Campania con riferimento piuttosto alla cerealicoltura che ad altre colture e come insistano sulla stessa non eccelsa qualità del vino pompeiano; per un altro, osservando come le ville nelle quali è attestata una produzione specializzata di vino, sarebbero, appunto, localizzate esclusivamente nel territorio collinare alle falde del Vesuvio e non nella piana IX; per un altro verso ancora, invocando il parallelo della localizzazione dei diversi tipi di coltura in questa stessa zona della Campania nella prima età moderna: una localizzazione che mostra la prevalenza delle terre a grano, caratterizzate da una minore produttività del lavoro agricolo (oltre che da un regime proprietario di tipo latifondistico), nella pianura, laddove le colture della vite e dell' olivo sarebbero situate nelle zone collinari, più produttive; lo stesso regime demografico della pianura, a sua volta dipendente dalle diverse condizioni economiche, mostrerebbe tratti peculiari: sarebbe caratterizzato da una più alta natalità e da una più alta mortalità e da una minore incidenza, nel complesso della popolazione, delle classi di età più anziane, e ciò per effetto di una più precoce età al matrimonio 19. Il tentativo di «leggere» l'economia agraria pompeiana come rivolta soltanto a garantire i consumi di una popolazione locale indubbiamente assai elevata, in base agli standard di densità rilevabili in altre zone del Mediterraneo antico, sembra tuttavia non solo errato, ma semmai in grado di fornire paradossalmente, esso stesso, la migliore conferma di uno sviluppo produttivo intimamente legato alle realizzate possibilità di relazioni commerciali con aree anche lontane del Mediterraneo e che interessano i beni di più largo consumo. Ciò che si dimentica o si minimizza è che, per un verso, un' esportazione di vino dell' area pompeianovesuviana, sostenuta e continua (pur nella diversa incidenza quantitativa JONGMAN 1988,97-154. Ma si vd., contro questa conclusione, quanto osserva SENATORE 1998, in base ai dati relativi alle ville più recentemente indagate della piana del Sarno. 19 JONGMAN 1988 e lett. ivi; ma cfr. Lo CASCIO 1994c, 120 sg. 17
IX
Il. LA VITA ECONOMICA E SOCIALE A POMPEI
219
che assumono, nel tempo, le quote destinate ai vari mercati di sbocco), verso varie zone dell'impero mediterraneo di Roma, soprattutto a occidente e in particolare verso la Gallia meridionale, oltre che, ovviamente, verso l'enorme centro di consumo rappresentato da Roma - una città di forse un milione di abitanti -, risulta incontrovertibilmente dalla documentazione delle anfore vinarie: dalle greco-italiche alle Dressel l, alle DresseI2-420; e si dimentica che conosciamo da questa documentazione alcuni dei nomi delle famiglie dei produttori ed esportatori pompeiani di vino e che esse appaiono appartenere al gruppo, all'interno dell' élite, che sembra avere avuto il controllo «politico» della città": che una di queste famiglie, fiorente in età augustea, ha addirittura dato il suo nome a uno specifico vitigno «di abbondanza» 22; che lo stesso carattere di «vino di abbondanza», di non grande qualità, che ha una parte del vino di queste zone ne suggerisce una quantitativamente cospicua produzione ed esportazione come vino, appunto, di basso costo+'; che una produzione quantitativamente non trascurabile e più naturalmente destinata a una commercializzazione nella stessa città è quella delle vigne di cui si è potuta ingegnosamente individuare la localizzazione all'interno della stessa cinta urbana 24; che l'eruzione del Vesuvio e la distruzione generalizzata della viticoltura della zona sembra essere stata la causa di una temporanea crisi di sottoproduzione vinicola nella penisola, destinata ad avere effetti di rilievo sullo stesso lungo periodo 25 • Di fronte alle prove inoppugnabili di una commercializzazione del vino pompeiano in aree distanti dalla città campana, l'astratta argomentazione che si vuole fare valere contro la tesi di una sua forte esportazione può ben essere oppugnata, supponendo che, se Pompei produce troppo vino per potere produrre grano in misura adeguata ai propri consumi interni, è perché il grano che serve ai propri consumi interni lo fa venire da fuori: lo importa, per esempio, com' è stato assai ragionevolmente supposto, da Pozzuoli, luogo di arrivo, sino all' età di Claudio e ancora successivamente, del grano provinciale, soprattutto africano ed egiziano, destinato all'annona di Roma26• La comparazione con la situazione della Campania nella prima età moderna, d'altra parte, appare proprio per questo aspetto non pienamente legittima, se è vero che l'Italia tra I secolo a. C. e 1986, 45-48, 127, 176-177. 1979,95; 1986,45-47. 22 Si tratta degli Holconii, dal cui gentilizio deriverebbe la vite Holconia o Horconia, Col. de agro 3. 2.27; Plin. N.H. 14.35, cfr. TCHERNIA 1979,88; 1986, 177. 23 TCHERNIA 1979, 88. 24 J ASHEMSKI 1979. 25 TCHERNIA 1986,230-233. 26 ANDREAU 1994. 20
TCHERNIA
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TCHERNIA
220
CRESCITA E DECLINO
I sec. d. C. ha una posizione di preminenza nel mondo mediterraneo, una posizione «imperialistica», che ha il suo ovvio risvolto anche sul piano dei rapporti economici con le province27• Accettare la realtà di una consistente importazione di grano nella città vesuviana, alla quale corrisponde un'esportazione parimenti consistente di vino, equivale, com'è ovvio, appunto, a porre seriamente in discussione l'utilizzabilità del modello della «città consumatrice» nell' interpretazione dell' economia della città campana. Un ragionamento analogo, e sempre nella medesima chiave interpretativa, è stato fatto per minimizzare l'apparentemente consistente produzione della lana e dei panni di lana 28. La presenza di una cospicua «industria» di filati e tessuti viene, anzitutto, contestata con l'argomento che la stessa limitata estensione del territorio pompei ano impedirebbe di congetturare la presenza in esso di un cospicuo allevamento ovino (nonostante che taluni luoghi delle fonti letterarie, tra cui il già citato passo di Seneca a proposito del terremoto, parrebbero fare riferimento all'esistenza di greggi di pecore nella zona) e che, mancando la «materia prima» in loco, sarebbe difficile ipotizzare una produzione cospicua per un mercato esterno alla città. L'argomento è anche in questo caso per certi versi circolare: per sostenere che l'economia pompeiana non ha rapporti intensi con l'esterno, si contesta che le dimensioni dell'allevamento entro i confini del territorio pompei ano o nelle aree contigue sia sufficiente ad alimentare un' «industria» della lana in grado di soddisfare una domanda che superi quella locale; e viene a essere esclusa, con argomentazioni tutt' altro che persuasive, la possibilità che la materia prima in questione, la lana, possa provenire dalle aree interessate dal grande allevamento transumante, quell' allevamento di cui si è messa in rilievo la trasformazione, con la fine dell'età repubblicana, per l'appunto in senso «quasi industrializzato». La localizzazione della città di Pompei allo sbocco della valle del Sarno, peraltro, rende del tutto verosimile che in essa si sia potuta concentrare un' attività di trasformazione della lana. Gli altri argomenti che si fanno valere contro l'idea di una presenza a Pompei di un' attiva e cospicua «industria» della lana e dei panni di lana pertengono all'interpretazione della documentazione archeologica. Documentazione che è stata ancora recentemente intesa come quella che testimonia l'esistenza in Pompei di «stabilimenti» nei quali si svolgono, con criteri organizzativi che parrebbero rivelare un'accentuata razionalità, le varie fasi di un intero processo produttivo: dalla tosatura e la-
27 2X
Cfr. Lo CASCIO 1991,358-365. 1988, 155-186 (contra
JONGMAN
MOELLER
1976).
II. LA VITA ECONOMICA E SOCIALE A POMPEI
221
vaggio e tintura della lana, alla filatura e tessitura, alla tintura e sbianca dei tessuti, alla follatura, alla feltratura 29. Ora, se anche le destinazioni proposte per talune di queste «botteghe» possono suscitare qualche dubbio - come nel caso di quelle che si sono definite officinae lanifricariae, gl'impianti dove sarebbe stato effettuato il lavaggio della lana grezza"-, la rilevanza quantitativa e le dimensioni di quelle che appaiono essere indubitabilmente delle fullonicae sembra escludere una loro utilizzazione volta esclusivamente a rispondere alle esigenze della popolazione locale. Si è voluto stimare in una cifra tra le settecento e le mille unità il numero complessivo degli addetti 31: una proporzione consistente, dunque, della forza lavoro complessiva presente nella città, ben confrontabile con la proporzione degli addetti alle manifatture tessili nelle città fiamminghe o in Firenze nel quattordicesimo secolo. Si è fatta l'ipotesi ragionevole che l'intero processo produttivo stia sotto il controllo di una potente corporazione di «industriali» della lana, ifullones. Sono ifullones che dedicano una statua a Eumachia, sacerdos publica e rappresentante di una delle famiglie più in vista della Pompei di età augusteo-tiberiana 32, fortemente coinvolta così nella produzione del vino come in quella figulina, e legata da vincoli di parentela e/o di interessi con le altre importanti famiglie pompeiane dell'epoca. Eumachia è moglie di M. Numistrio Frontone, forse duoviro nel 2/3 d.C.33 ed esponente di una famiglia, originaria verosimilmente di Numistro (e cioè Muro lucano?), che deve avere avuto notevoli interessi nell'allevamento ovino. E la statua in questione è collocata nell' edificio da lei costruito: un edificio di grande rilievo, se non altro per le sue dimensioni e la sua collocazione.". La specifica funzione dell' edificio resta molto discussa: v' è chi vi ha voluto riconoscere una [ullonica; chi ha visto nel chalcidicum uno spazio destinato alla vendita all'asta della lana e dei panni di lana, nella porticus e nella crypta gli spazi consacrati alla vendita al dettaglio; chi, interpretando la funzione dell' edificio in questo medesimo senso, ne ha proposto un confronto con i bazaar orientali; chi vi ha visto la «guild hall», la sede della corporazione dei fullones, dove essi si incontrano e hanno anche i loro uffici e magazzini, e la borsa per la lana e per i tessuti, dunque per la vendita all'ingrosso: una funzione evidentemente legata all'ipotesi di un grosso
1976. Officinae lanifricariae: MOELLER 1976; contra JONGMAN 1988, 167-169. 31 MOELLER 1976, 81. 32 C/L X, 813 (= /LS 6368). 33 Se non si tratta dell'omonimo figlio che dedica con la madre l'edificio a Concordia Augusta e a Pietas: C/L X, 810 (= /LS 3785); cfr. CASTRÉN 1975,95. 34 Sull'edificio ZANKER 1993, 105-110; LAURENCE 1994,28. 29 30
MOELLER
222
CRESCITA E DECLINO
movimento di import-export di lana e vesti di lana". Quest'ultima interpretazione appare certo eccessivamente modernizzante. Ed è vero pure che gli studi più recenti tendono o a negare addirittura una qualsiasi funzione utilitaria per l'edificio o a negare, comunque, che una tale funzione utilitaria debba essere vista come connessa con le attività deifullones36• Non per questo tuttavia dovremmo considerare tali attività come di scarso rilievo e solo rivolte a soddisfare esigenze locali. È interessante il confronto che si è voluto recentemente istituire tra la documentazione archeologica pompeiana relativa alle fullonicae e agli altri impianti per le manifatture tessili, e quella della città di Fregellae, colonia latina della valle del Liri, collegata attraverso il fiume con il porto di Minturnae, che nel corso del II secolo e prima della sua distruzione avvenuta nel 125 a.C., avrebbe assistito a un'analoga espansione dell'attività tessile, che avrebbe lasciato un'impronta urbanistica evidente."; il confronto è interessante, anche perché il processo sarebbe collegato a Fregellae, come forse a Pompei nei decenni che seguono la colonizzazione sillana, a una modificazione nella struttura demografica della comunità; proprio a questi decenni andrebbe per molti versi anticipata, a Pompei, la «riconversione di gran parte dell'abitato entro le mura in senso produttivo» 38, che risulta, come si è visto, ancor più evidente per l'ultima sua fase di vita. Il caso del vino e il caso della lana sono indicativi, dunque, di quelle che appaiono essere le caratteristiche più singolari, ma nello stesso tempo anche più tipiche, della vita economica di Pompei nel periodo della sua massima fioritura, tra i due eventi epocali della colonizzazione e del terremoto: caratteristiche che dipendono dalla sua localizzazione economicamente «centrale» all'interno dell'impero mediterraneo di Roma, che vuoI dire dal suo essere pienamente inserita in quel processo di crescita dell'Italia romana, che porta la penisola, attraverso la precocità del suo sviluppo in senso mercantile, a una posizione di primato economico, che corrisponde alla posizione di primato politico ". La distruzione di Pompei, si potrebbe dire, impedisce di rilevarvi le tracce del progressivo venir meno di questa posizione di primato, cui corrisponde la crescita delle province, soprattutto occidentali. Si comprende, a questo punto, come Pompei sia stata considerata - e non solo per la qualità e quantità tutt' af-
35 36 37 3X 39
Cfr. MOELLER 1972; JONGMAN 1988, 179. TORELLI 1998; FENTRESS 2005, parto 225-229. COARELLI 1991. COARELLI 1991, 182. Lo CASCIO 1992.
Il. LA VITA ECONOMICA E SOCIALE A POMPEI
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fatto singolari della documentazione che offre - come la città esemplare per studiare la forma, per certi versi, economicamente più evoluta alla quale perviene il fenomeno urbano nel mondo antico, quella nella quale trovano la loro utilizzazione gli strumenti più sofisticati ai quali è stata in grado di ricorrere l'economia romana nelle aree e nei periodi della sua più spinta mercantilizzazione e monetarizzazione. Ai due lati del chalcidicum dell' edificio di Eumachia si ergono due piattaforme, una delle quali ha dei gradini per salirvi; sulla funzione della piattaforma sembra essersi realizzato un più largo consenso che per quanto riguarda il resto dell' edificio: la si intende come il luogo deputato alle vendite allincanto ". Nelle medie città dell'Italia le vendite all'asta rappresentavano uno strumento fondamentale attraverso il quale trasferire le proprietà più varie: dagli immobili agli schiavi. L'utilizzazione di questo strumento era peraltro favorita dalla diffusione dell'uso del credito d'asta. Pompei ha restituito, a questo proposito, una documentazione qualitativamente, e in qualche modo anche quantitativamente, d'eccezione nelle tavolette cerate ritrovate al secondo piano della casa del «banchiere» L. Cecilio Giocondo, una bella casa spaziosa che, danneggiata dal terremoto, è stata restaurata (e tra l'altro ha restituito due rilievi nei quali sono rappresentati alcuni edifici pompeiani nell' atto stesso di crollare in conseguenza del sisma): tavolette, in forma di dittico o di trittico, che contengono 153 documenti, 137 dei quali riproducono le apochae, le «ricevute» rilasciate, davanti a testimoni, a Giocondo, nella sua qualità di coactor argentarius, per pagamenti da lui effettuati a venditori in vendite all'incanto, dunque per somme di denaro che egli ha anticipato ai compratori; i restanti documenti sono le ricevute rilasciate da uno schiavo pubblico della città di Pompei a Giocondo per pagamenti da lui effettuati all'amministrazione della città, per l'appalto di un'imposta o per l'affitto di una proprietà immobiliare appartenente alla città, ad esempio una fullonica. Le ricevute rilasciate dai privati contengono l'indicazione dei nomi dei venditori (e in un caso anche quella del nome del compratore), dell'ammontare della somma versata da Giocondo, talvolta (ma purtroppo non spesso) dell'oggetto della vendita, nonché, elencati in un ordine che non sembra essere casuale, i nomi dei «testimoni» con i loro sigilli. I documenti si scaglionano nell' arco di cinquant' anni, dal primo, del 15 d.C. (nel quale il «banchiere» rappresentato non è Cecilio Giocondo ma L. Cecilio Felice, forse suo padre) all'ultimo, datato al gennaio del 62 d.C., ma la stragrande maggioranza e comunque tutte quelle relative ai prestiti effettuati a privati per le vendite all'incanto si riferiscono a 40
Cfr.
MOELLER
1972,326;
ANDREAU
1974,78-80;
JONGMAN
1988, 181-182.
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CRESCITA E DECLINO
un periodo di tempo assai più breve, tra il 54 e il 58. La ragione per la quale siano state conservate queste ricevute e non altre dell' archivio del banchiere è ignota, come è terreno di mera speculazione la ragione per la quale non si trovino documenti datati successivamente al terremoto!'. Al di là della loro formulazione, che ci informa circa tutta una serie di questioni attinenti alla ricostruzione della natura giuridica delle transazioni, nonché, come si vedrà, attraverso le deduzioni che è possibile trarre dall' ordine nel quale i testimoni sono indicati nelle tavolette, circa la specifica struttura della società pompeiana nei suoi vari segmenti, i documenti in questione ci dànno un'indicazione preziosa a proposito della funzione economica specifica che il credito d'asta assume nella specifica realtà mercantile dell' occidente romano: che è quella stessa alla quale assolve, nelle economie mercantili più sviluppate e sofisticate, lo sconto commerciale. Un «banchiere» come Cecilio Giocondo, dunque, non solo aiuta genericamente con la propria attività lo sviluppo delle transazioni commerciali, offrendo l'ovvia facilitazione che un'attività di intermediazione bancaria in ogni caso fornisce agli scambi (anche in assenza di una vera e propria creazione di «negotiable instruments» )42, per il fatto che fa crescere, comunque, la quantità economica di moneta; ma aiuta questo sviluppo delle transazioni commerciali - e di un certo tipo: quelle che molto spesso direttamente promanano dalla stessa attività produttiva - attraverso uno strumento specifico qual è appunto il credito d'asta. Chi sono i clienti di Giocondo e quali gli ammontari monetari dei crediti che egli fornisce? quali gli oggetti per la vendita dei quali egli presta il denaro? I servizi di intermediazione bancaria forniti da un banchiere come Giocondo, per la stessa sostanziale tenuità delle somme in questione, che è possibile leggere in una minoranza dei documenti - la più elevata è quella di poco più di 38.000 sesterzi, ma la maggior parte si situa tra qualche centinaio e qualche migliaio di sesterzi -, non sono certo quelli di cui si servono i gruppi economicamente e socialmente più elevati dell'impero, l'élite che appartiene ai due ordini privilegiati dei senatori e dei cavalieri; 1'entità dei patrimoni e le corrispondenti necessità finanziarie di senatori e cavalieri escludono ovviamente che essi abbiano bisogno di ricorrere a banchieri della taglia di Giocondo; le linee di credito cui possono attingere sono, peraltro, quelle loro aperte da appartenenti al loro stesso milieu, che possono contare su analoghi mezzi finanziari (come testimonia, ad esempio, 1'epistolario ciceroniano). Sembra viceversa esservi una larga corrispondenza sociale ed economica tra
41
42
Sulle tavolette di Cecilio Giocondo Supra, 196 sg.
vd.
ANDREAU
1974.
II. LA VITA ECONOMICA
E SOCIALE
A POMPEI
225
Giocondo e i suoi clienti: che sono, perciò, gli esponenti dell' élite municipale e i proprietari terrieri di media fortuna, nonché - e nella misura in cui da questi ultimi si distinguono - i commercianti all'ingrosso e al dcttaglio ". Interessante al riguardo la connessione temporale che sembra di poter rilevare a Pompei tra i giorni in cui vengono effettuate le transazioni cui Giocondo fornisce il proprio supporto finanziario e i giorni del mercato periodico nella città: un mercato che si svolgeva un giorno ogni sette, il sabato, come ci informa un graffito (mentre si teneva la domenica a Nuceria, il lunedì ad Atella, il mercoledì a Nola e così via):". Dalla connessione delle vendite all' asta col mercato periodico si deduce anche quale sia il tipo di merci messe all'asta: oltre ai beni più vari occasionalmente venduti direttamente dai proprietari, ad esempio dopo l'acquisizione di un' eredità, e oltre ai prodotti agricoli venduti, questa volta su base di regolarità, da chi aveva la proprietà o la gestione di un fondo, le aste riguardavano le vendite prevalentemente all'ingrosso effettuate dai commercianti. Le informazioni che ci dànno, a questo riguardo, le tavolette sono esigue: i beni oggetto delle transazioni ricordati dalle tavolette sono, ad esempio, un mulo, degli schiavi, degli oggetti di legno, del tessuto di lino ". Ma tuttavia è su questo livello qualitativo e quantitativo di beni nonché di prezzi che di fatto si svolge il grosso della vita economica di una municipalità di medie dimensioni qual è Pompei. Interessanti indicazioni, al riguardo, possono dedursi, per un verso, dalla stessa documentazione offerta dai rinvenimenti monetari nel suo aspetto quantitativo; per un altro verso, da una testimonianza singolare come i graffiti con l'indicazione dei prezzi di beni di prima necessità. I rinvenimenti monetari pompei ani 46 - quelli soprattutto nella forma di piccoli gruzzoli ritrovati in contenitori accanto o sui corpi delle vittime dell'eruzione, non certo un grande tesoro di aurei quale quello scoperto nella villa di Boscoreale." - rappresentano un tipo di documento del tutto peculiare, rispetto ai ripostigli rinvenuti altrove, nella misura in cui rappresentano spesso non già il risultato di una vera e propria tesaurizzazione, ma le piccole somme detenute in forma liquida per le necessità di spesa quotidiane. In questo senso rappresentano certamente un campione assai significativo di quella che doveva essere l'effettiva circolazione. Ciò che si rileva è anzitutto la ANDREAU 1974, 304. Sui cosiddetti indices nundinarii del Lazio e della Campania in part. STORCHI MARINO 2000 e la letteratura ivi citata. 45 ANDREAU 1974, 103-111; cfr. JONGMAN 1988,216-224. 46 Per una sintesi di tali rinvenimenti vd. BREGLIA 1950; POZZI PAOLINI 1975; cfr. DUNCAN-JONES 2003; TALIERCIO MENSITIERI (a c. di) 2005; CANTILENA (a c. di) 2008; vd. pure, ora, ANDREAU 2008. 47 BARATTE 1985. 41 44
226
CRESCITA E DECLINO
netta prevalenza della moneta enea, di più scarso valore unitario e dunque destinata alle piccole transazioni quotidiane, rispetto a quella argentea e ovviamente a quella aurea 48. Ciò che ancora si rileva è la sostanziale modestia degli accumuli di moneta. Entrambe queste caratteristiche della circolazione a Pompei, se dànno un'idea della penetrazione dello strumento monetario nella vita di tutti i giorni, dunque della monetarizzazione accentuata dell' economia, valgono anche a spiegare perché il livello della liquidità dovesse essere sostanzialmente basso, tanto da richiedere l'utilizzazione di forme di credito abbastanza sofisticate quali quelle rivelate dalle tavolette di Cecilio Giocondo. La testimonianza dei graffiti è tutto sommato coerente con quella offerta dalle monete, nella misura in cui rivela un livello dei prezzi dei beni di prima necessità sostanzialmente contenuto, in linea, peraltro, con le retribuzioni della manodopera (ad esempio dei giornalieri): si va dai 4 sesterzi per un modio di frumento (circa 6.5 kg., una quantità pari a un quinto di quella che costituiva la razione mensile distribuita gratuitamente a Roma e che era assai più che sufficiente per il consumo di una persona), a l sesterzio per una libbra d'olio (circa 325 gr.), a l asse (e cioè 1/4 di sesterzio) per una porzione di vino comune (mentre l sesterzi o costava l'assai pregiato Falerno), ai 2 assi-4 sesterzi della tariffa per una prestazione sessuale. Una nota della spesa per nove giorni e per le necessità di tre persone suggerisce un esborso giornaliero medio di circa 6 sesterzi 49. Per fare un confronto, si può osservare che, al tempo dell' eruzione, un soldato legionario romano riceveva uno stipendium annuo di 900 sesterzi, sul quale venivano operate le ritenute che servivano a pagarne il vitto e il vestiario". La modestia delle somme delle transazioni alle quali interviene Cecilio Giocondo, a paragone dei redditi delle grandi fortune dei magnati romani o delle retribuzioni dei grandi burocrati del ceto equestre, non può dunque considerarsi indicativa di un' economia mercantile sostanzialmente asfittica, ma semmai della tenuità delle somme che vengono tenute in forma liquida. Non sarà fuor di luogo rammentare, peraltro, che già in età cesariana era in vigore una norma, non sappiamo quanto efficacemente fatta rispettare, che limitava a 60.000 sesterzi la quota del patrimonio che era lecito appunto detenere in forma di contante.". Il pa4X
Ovviamente
in termini di numero di pezzi, non in termini di valore: si vd. in parto DUNCAN-JONES
2003. BREGLIA 1950, 50-53. Ora Lo CASCIO2007a, 637-8, e letto ivi. 51 Cassio Dione, 41.38. l; la tenuità della somma è tale che HARRIS2008, 177 sg., vorrebbe trovarne la conferma del fatto che la moneta coniata non deve essere stata l'unica forma di moneta a disposizione e che appunto la misura era volta a incentivare i detentori di moneta coniata a utilizzare le proprie riserve liquide nel prestito a interesse. 49
50
II. LA VITA ECONOMICA E SOCIALE A POMPEI
227
ragone tra i grandi patrimoni, e i corrispondenti redditi, dei senatori e dei cavalieri e quello che appare essere il livello del giro di denaro a Pompei è peraltro indicativo di una società nella quale la distribuzione della ricchezza è estremamente squilibrata, e la distanza in termini di individuali fortune tra gli appartenenti agli ordines privilegiati e le stesse élites municipali resta assai forte, anche se alcuni degli esponenti di queste élites accumulano ricchezze tali da potere finanziare importanti operazioni evergetiche, come certo accade anche a Pompei, o da consentire loro, col favore imperiale, l'accesso all'ordine equestre. Ma è lecito individuare in queste élites municipali una sorta di ceto medio, non pur al livello della ricchezza, ma anche - si potrebbe dire - in termini di mentalità? In che misura queste élites municipali possono considerarsi socialmente aperte, pronte a garantire il ricambio al proprio interno, disposte ad accogliere nel proprio seno chi fa una certa fortuna, anche se proviene da umili origini o addirittura ha un' ascendenza servile? Per tentare di ricostruire le caratteristiche, e i limiti, della mobilità sociale in una società fortemente segnata anche sul piano delle strutture mentali dalla mera esistenza della schiavitù, dello schiavo come oggetto di acquisto e di vendita sul mercato (quale che ne sia la rilevanza quantitativa), la documentazione pompeiana, nella sua ricchezza e varietà, e dunque nella sua singolarità, sembra apparentemente offrire un saldo fondamento. E tuttavia proprio queste caratteristiche e questi limiti della mobilità sociale, nonché della sua stessa valutazione etico-politica, o «ideologica», continuano a costituire un terreno di accesa discussione, in un dibattito che trascende ovviamente la filologica interpretazione del dato pompeiano, ma che talvolta di tale dato fa tuttavia il suo punto di partenza. Volendo schematizzare, si può dire che si affrontino sostanzialmente due punti di vista. Uno è quello di coloro che, prendendo alla lettera talune dichiarazioni delle fonti antiche che più e meglio sembrano riflettere l'ideologia dei ceti dominanti, vi ravvisano una netta distinzione, si potrebbe dire, tra una valutazione del tutto positiva del possesso della ricchezza fondiaria come condizione necessaria, anche se non sufficiente, per garantire al singolo un posto elevato nella gerarchia sociale, e una valutazione viceversa negativa dell' arricchimento, se e in quanto ottenuto attraverso strumenti che non si confanno all'etica di ceto dei gruppi dominanti, nonché, e ovviamente, di qualsiasi attività volta al guadagno che si configuri come svolta in condizioni di dipendenza personale.": la 52
Cfr. FINLEY 1974, in part. 63-76.
228
CRESCITA
E DECLINO
differenza fra chi ha e chi guadagna - si è osservato da parte di uno studioso moderno, sulla base di una suggestione letteraria - la fa la terra 53. La conclusione che se ne trae è che, essendo l'ereditarietà dello status un caposaldo dell' ideologia dei gruppi dominanti a Roma, vi è una certa resistenza alla mobilità e che il ricambio sociale, nei limiti in cui e quando si realizza, comporta comunque l'acquisizione, da parte di chi si è elevato socialmente, di un patrimonio fondiario e, assieme e, si potrebbe dire, corrispondentemente, l'acquisizione del medesimo sistema di valori dei ceti proprietari. Un atteggiamento da «imprenditore», quello di chi si dedica in prima persona ad attività lucrative, al commercio e alla manifattura, sarà allora consentito a chi non fa, o non fa ancora, parte, del milieu più elevato, ma, una volta che la promozione sociale è avvenuta attraverso il conseguimento della ricchezza fondiaria, il promosso deve abbandonare la sua mentalità acquisitiva per ripiegare su quella del rentier>. Peraltro, l'acquisto di un patrimonio fondiario non è condizione sufficiente a garantire una compiuta accettazione da parte degli esponenti dell' élite, e si determinano, perciò, problemi di «dissonanza di status», come sono stati definiti 55: la stratificazione di una qualunque società complessa può essere misurata in base a vari criteri e il posto elevato nella gerarchia sociale che si consegue in base a un criterio può non essere parimenti elevato in base a un altro criterio; così, il possesso della ricchezza fondiaria non basta a garantire una posizione sociale di prestigio e viceversa. A ben guardare, il processo stesso della mobilità sociale può essere visto come una manifestazione di una situazione di «dissonanza di status»: ad esempio, laddove la ricchezza ereditata implica l'ereditarietà dello status, non la implica la ricchezza personalmente conseguita. In una società che ha mercificato il lavoratore prima del lavoro, il caso riguarda specificamente la persona che è di nascita non libera, la quale vede, almeno per sé, se non per i propri discendenti, fortemente limitate ovvero in qualche misura «incanalate» in determinate, specifiche direzioni le proprie possibilità di promozione sociale: così, allivello municipale, alliberto pervenuto a una certa prosperità si consente l'accesso non già alle magistrature e all' orda decurionum, al consiglio cittadino, ma a una carica connessa con l'esercizio del culto imperiale, dunque a «una carriera pubblica surrogata», com' è stata definita: quella dell' augustalità. La rappresentazione icastica, e parodistica, di un arricchimento, che, per farsi promozione sociale sia pur «bloccata», si fa acquisizione,
5.1 54 55
Cfr. VEYNE 1990,29. Cfr. Cic. de off. 1. 42. 151; JONGMAN 1988, 261-262. Sulla «dissonanza di status» vd. HOPKINS 1965 (ed anche 1983, capp. II e III)
II. LA VITA ECONOMICA E SOCIALE A POMPEI
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in forma rozza e volgare, del sistema di valori di un' élite fondiaria, è quella del petroniano Trimalcione ". Il punto di vista contrapposto è quello di coloro che, pur riconoscendo la presenza di un atteggiamento, possiamo dire, anticrematistico nelle esplicite dichiarazioni ideologiche dei gruppi dominanti (come ad esempio in un luogo famoso del de officiis ciceroniano sempre citato a questo proposito 57), mettono comunque in rilievo, di tale atteggiamento, gli aspetti di infingimento: e ciò anche sulla base di confronti con altre situazioni premoderne, nelle quali, parimenti, alle esplicite dichiarazioni anticrematistiche non consegue un comportamento coerentemente anticrematistico. Ad avviso di questi studiosi, né il codice di comportamento dei ceti dominanti può considerarsi assolutamente monolitico, né la riluttanza a svolgere personalmente determinate attività è tale da impedire un coinvolgimento dell' élite, col proprio patrimonio, in queste attività, attraverso l'utilizzazione degli strumenti che la presenza della schiavitù personale, con la conseguente possibilità dell'individuale manomissione, è in grado di offrire: attraverso, cioè, l'utilizzazione, in queste attività, come agenti dei propri interessi, dei propri schiavi e liberti (che, pur liberi, comunque mantengono un rapporto di clientela sanzionato legalmente nei confronti dei propri ex-padronij ". Naturalmente questa diversa maniera di concepire il rapporto tra i modi di conseguire la ricchezza e lo status sociale significa anche una maniera diversa di porsi il problema della mobilità sociale, dei canali attraverso i quali si realizza, delle dimensioni in cui viene ad attuarsi nelle diverse realtà: da quella del grande centro dell'impero a quella della media municipalità italica o provinciale. Al di là della giuridica distinzione di status fra ingenui, e cioè nati liberi, e liberti, non sembra, in effetti, che a Pompei sia facilmente rinvenibile, nell' ambito degli abbienti, né una netta differenziazione fra un' élite fondiaria chiusa, che abbia anche il controllo della gestione della comunità, e i gruppi la cui fortuna dipende dall'esercizio di attività diverse da quelle agricole; né un dichiarato disprezzo per queste attività: tutt' altro. Il caso emblematico, a questo proposito, come si è ancora recentemente messo in rilievo, è quello della famiglia degli Umbricii Scauri. Uno dei due atri di una bella e signorile casa pompeiana presenta un pavimento a mosaico nel quale sono rappresentati quattro urcei, corredati ognuno da un'iscrizione che attesta che il contenuto degli urcei è il garum (la salsa 56 VEYNE 1990,23-27; ma si vd. ora quanto mi è sembrato di dovere osservare, a proposito di questa generale interpretazione, in Lo CASCIO 2007b. 57 Cic. de off. 1. 42. 150-151. 5K D'ARMS 1981; DI PORTO 1984.
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CRESCITA E DECLINO
di pesce largamente usata come condimento dai Romani) prodotto, nelle sue varie qualità, nell' officina di Scauro ". Gli Umbricii, proprietarii della casa, «famiglia antica e benemerita a Pompei» 60, come sono stati definiti, sono indubitabilmente esponenti dell' élite: un'iscrizione funeraria commemora un magistrato municipale, un duovir, membro della famiglia, che ha ricevuto la particolare distinzione di essere onorato dall'orda con un funerale a spese pubbliche e con una statua equestre collocata nel foro?'. Ma gli Umbricii sono anche, come testimoniano i contenitori di garum rinvenuti, che recano il loro nome e quello dei loro liberti, i maggiori produttori pompei ani della salsa di pesce: una delle più importanti voci di esportazione dell'economia pompeiana". Si è messo in rilievo che la famiglia ha costantemente avuto interessi nel garum: se il mosaico è di età augusteo-tiberiana, l'iscrizione funeraria citata, posta, al figlio duoviro, dal padre, è databile attorno al 40; le iscrizioni sui contenitori di garum sono in larga misura di età flavia. Ora, è sintomatico che non vi sia, come testimonia appunto il mosaico nell' atrio di casa, alcun tentativo di occultamento dei fondamenti della ricchezza della famiglia, ma anzi una sua franca ostentazione. Non sembra, peraltro, che a Pompei sia rilevabile una netta «dissonanza di status» tra possesso della ricchezza e prestigio sociale. Si è voluta interpretare in questo senso una documentazione particolarissima qual è quella costituita dall'ordine nel quale firmano i testimoni nelle tavolette di Cecilio Giocondo: tale ordine, che sarebbe rispettato rigorosamente e sempre, rifletterebbe il rango sociale, e quest'ultimo dipenderebbe, piuttosto che dalla ricchezza, dalla condizione giuridica personale e dall' appartenenza, o potenziale appartenenza, alla cerchia dei magistrati e decurioni, come mostrerebbe l'ingegnosa utilizzazione, che è stata fatta, di sofisticate tecniche di analisi statistica del materiale in questione'". Ora, se è indubbio che l'ordine con cui i testimoni firmano i documenti di Cecilio Giocondo non è casuale, ma dipende, entro certi limiti, dallo status sociale (e un significativo luogo di Giovenale dimostra, appunto, come l'ordine con cui si firmavano i documenti contava?'), assai più discutibile, in base alla stessa documentazione, è, per un verso, che esso sia sempre e rigorosamente rispettato e, per un altro, che il rango sociale non venga in realtà misurato in base alla ricchezza, ma in base ad altri para-
59
CURTIS 1984.
60
LEPORE 1989, 144.
61
e/L
x
1024.
63
CURTIS 1988; vd. anche ETIENNE, JONGMAN 1988, 249-251.
64
Sat. 3. 81-82.
62
MAYET 1991.
II. LA VITA ECONOMICA
E SOCIALE A POMPEI
231
metri. Quel che si può dire è che c'è una certa corrispondenza tra ordine della firma e prestigio sociale, ma le contraddizioni a questo principio ci sono e sono consistenti. È interessante osservare come dall' analisi onomastica sembra potersi concludere che gl'ingenui rappresentano un'assoluta minoranza dei testimoni, ma che questa minoranza appartiene in larghissima misura all' élite municipale: e sono precisamente questi ingenui appartenenti all'élite a occupare i primi posti negli elenchi di testimoni. Fra tutti gli altri, gli augustales, e cioè l'élite dei liberti, hanno una posizione di preminenza, anche se non sempre rispettata 65. Si è perciò messo in rilievo che, in realtà, è possibile distinguere tra due gruppi di testimoni: gli appartenenti all' élite e tutti gli altri; e che un'interpretazione dell'atto del firmare quale «espressione ritualizzata dell'ineguaglianza sociale» appare francamente eccessiva. Né è possibile davvero ravvisare, in questo, la manifestazione di una «dissonanza di status» e mettere in tal modo in discussione il ruolo della ricchezza nel dare prestigio sociale'". Se, dunque, a parte il caso della nascita non libera, non sembra di rinvenire elementi che davvero frenino una compiuta ascesa sociale, se, potenzialmente almeno, la società pompeiana appare sufficientemente aperta, ci si può chiedere se vi siano strumenti per misurare quale poi sia in concreto il grado della mobilità sociale. Questi strumenti, entro certi limiti, in un caso fortunato come quello di Pompei, ci sono e sono, ovviamente, quelli forniti dall' analisi onomastica e prosopografica dei dati che fornisce una documentazione assolutamente sui generis, qual è quella offerta dell' epigrafia pompeiana. Non c'è bisogno di sottolineare quali e quante siano le informazioni che possiamo derivare da un complesso documentario affatto particolare qual è quello dei vari tipi di iscrizioni: dalle epigrafi lapidarie al numero sterminato delle iscrizioni dipinte che contengono i manifesti elettorali dei candidati alle elezioni municipali, 2600 scritte che rappresentano la maniera scelta per propagandare la candidatura da parte dei candidati alle elezioni municipali e da parte dei loro, differenziati, sostenitori e gruppi di sostenitori, per fare ad essa «pubblicità»: una maniera che, per noi moderni che solo a Pompei abbiamo modo di rinvenire una simile documentazione, appare assai singolare, anche se, per qualche aspetto, anche farniliare'". Al di là dei molti problemi che pone, al fine della valutazione della natura delle campagne elettorali in una media municipalità romana, dei 1974, 170-176,215-217. Cfr. JONGMAN 1988, 264-273. 67 Lo CASCIO 1992, 113-118; la discussione accesa: si veda in particolare MOURITSEN 1988; VIA 2002. 65
ANDREAU
66
sul significato e la funzione dei programmata è assai 1999; BIUNDO 1996; BIUNDO 2003; CHIA-
MOURITSEN
232
CRESCITA E DECLINO
loro contenuti e temi, questa documentazione, riferibile nella quasi totalità agli ultimi se non ultimissimi anni di vita della città, è assai interessante per stimare, in primo luogo, il grado dell' effettiva competizione e, attraverso esso, la misura entro cui è possibile a chi non faccia parte, per tradizione familiare, della classe dirigente, penetrarvi. Va, anzitutto, osservato che, nel caso di queste scritte riferibili agli ultimi anni di Pompei, i cosiddetti programmata recentiora, il numero di quelle per i candidati all'edilità, la magistratura che rappresenta il primo gradino della carriera municipale, è nettamente maggioritario, ammontando a poco più dei due terzi di tutte le scritte nelle quali la magistratura alla quale ci si candida è esplicitato, mentre assai inferiore è il numero delle scritte per le candidature al duovirato, il secondo gradino della carriera municipale, la carica alla quale potevano essere eletti coloro che avessero già ricoperto l'edilità. La stessa diversa distribuzione riguarda il numero dei candidati: nel caso dei programmata recentiora; i candidati all' edilità identificabili sono più del doppio rispetto ai candidati al duovirato?". Che più candidati e più scritte riguardino le elezioni all' edilità è quanto ci dobbiamo aspettare, se è vero che le elezioni al duovirato implicavano una scelta tra un numero inferiore di candidati tutti ex-edili e se le elezioni all' edilità erano il primo gradino per accedere alla magistratura e dunque all' orda: la propaganda elettorale doveva essere più insistente e meglio organizzata. La medesima conclusione, peraltro, sembrerebbe emergere dal confronto fra il rapporto di concentrazione nella distribuzione delle scritte fra i vari candidati all'edilità e il rapporto di concentrazione nella distribuzione delle scritte fra i vari candidati al duovirato. Questo rapporto risulta essere abbastanza più elevato nel caso delle scritte relative all' edilità, rispetto a quello delle scritte relative al duovirato. Detto altrimenti: la distribuzione delle scritte è assai più sperequata fra i vari candidati all' edilità di quanto non sia fra i vari candidati al duovirato: e questo parrebbe suggerire, appunto, ancora una volta, che le campagne per le elezioni all'edilità dovevano comportare un maggiore impegno nella propaganda, essere meglio e più organizzate. Queste peculiarità «statistiche», rilevabili nella documentazione fornita dai programmata, sembrano pertanto suggerire l'esistenza di un' effettiva, e accesa, competizione nel caso dell' elezione alla magistratura che, garantendo l'avvio della carriera politica e l'accesso all' orda, garantiva l'accesso alla stessa classe dirigente, all' élite. Potremo dedurne che la possibilità di un' ascesa sociale era in realtà assicurata, per lo meno a tutti coloro che avevano il censo richiesto per assumere le magistrature muni6X
Lo
CASCIO
1996b.
II. LA VITA ECONOMICA
E SOCIALE
A POMPEI
233
cipali e per divenire decurione? Per rispondere a questa domanda possiamo ricorrere a un altro tipo di analisi statistica, basata, questa volta, sulle iscrizioni, databili con maggiore o minore precisione, che ci conservano i nomi di coloro che sono stati magistrati della comunità. Un'analisi del genere parrebbe rivelare l'esistenza di un accentuato ricambio sociale, di un' ascesa continua di sempre nuove famiglie. Divisi i centosessant' anni di vita della colonia, dall' 80 a.C. al 79 d.C; in quattro periodi (rispettivamente, dall'80 al 30 a.C.; dal 30 a.C. al 14 d.C.; dal 14 al 40 d.C: dal 40 al 79 d.C.), quel che si rileva è che la proporzione delle famiglie che risultano attestate in uno solo di questi periodi risulta pressoché costante: il 70%. Una percentuale inferiore, ma non di molto, si rileva proprio là dove ce l'aspettiamo, e cioè nel caso del periodo 14-40 d.C,, che è più breve rispetto ai precedenti, mentre una assai maggiore si rileva nel caso dell'ultimo periodo, ciò che può bene spiegarsi: l'elevatezza della proporzione delle famiglie rappresentate solo in questo periodo è dovuta al fatto che non ce n'è un altro successivo, che le famiglie che erano salite solo ora al vertice della società pompeiana non avrebbero avuto, come la città, un lungo futuro davanti a sé69• Il fatto che la proporzione delle famiglie rappresentate, fra i magistrati della città, in uno solo dei periodi sia costante parrebbe rendere non del tutto plausibile la tesi, avanzata da qualcuno, secondo la quale, nel corso della storia della Pompei romana, vi sarebbero stati momenti di più accentuato ricambio dell' élite e momenti di maggiore immobilità. Il fatto che questa proporzione sia così elevata, il 70%, suggerirebbe che la mobilità sociale, nonostante i vincoli posti ad essa, doveva comunque essere abbastanza elevata. E tuttavia va osservato che un minimo di famiglie sono attestate in tutti o quasi tutti i periodi. Queste famiglie devono aver rappresentato il livello più elevato dell' élite 70: quello che, attraverso rapporti ad esempio di patronato, controllava, valendosi della propria forza di pressione nelle elezioni, l'accesso alla classe dirigente. Questa forza di pressione parrebbe doversi dedurre da tutta una serie di indicazioni che una testimonianza così significativa e «parlante» come quella dei programmata fornisce. Ma sarebbe immotivato, per questo, non attribuire autenticità a quella che, con colorita espressione, è stata definita «febbre elettorale» 71. Quali che fossero le ragioni per le quali ci si candidava a cariche pubbliche che, oltre al prestigio sociale, davano ben poco, e molto più richiedevano, in
69
Lo
711
MOURITSEN
71
ETIENNE
CASCIO
1996c, a proposito di 1988, 118. 1973,132-145.
MOURITSEN
1988, 112-117.
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CRESCITA E DECLINO
termini di personali impegni finanziari, e quali che fossero le motivazioni degli elettori nel dare il voto a un candidato piuttosto che a un altro, sembra certo che le elezioni a Pompei fossero l'occasione, e lo strumento, di una reale partecipazione popolare: quel che restava di più vitale - e non era poco - di quello spirito cittadino, e localistico, che la costruzione politica imperiale, un impero di città, non che spegnere, continuava ad alimentare come uno dei fondamentali suoi stessi supporti.
III. PREZZI IN ORO E PREZZI IN UNITÀ DI CONTO TRA IL III E IL IV SEC. D.C.
Una caratteristica peculiare della moneta a Roma, dall'introduzione del sistema del denarius verso la fine del III sec. a.C. sino alla dissoluzione di questo sistema cinque secoli dopo (ma per certi aspetti anche nei vari sistemi che si susseguono nel secolo successivo), è il fatto che l'unità di conto abbia sempre corrisposto a una fisica moneta: dunque i prezzi espressi in unità di conto sono contestualmente espressi in una fisica moneta, che è l' «incarnazione» della stessa unità di conto (rappresentata, in linea di massima, dal sesterzio). La corrispondenza dell'unità di conto con una fisica moneta significa, peraltro, che i prezzi sono esprimibili sempre (e spesso sono effettivamente espressi) anche in tutte le fisiche monete presenti nel sistema: e questo perché i rapporti tra le varie monete sono fissi e non oscillanti, e non è mai attestato che il cambio di una denominazione con un' altra di un medesimo metallo o di metalli diversi, all'interno di ciò che si suole definire il mainstream coinage di Roma, preveda alcun aggio o alcun compenso per l'eventuale intervento di un cambiavalute I. Naturalmente diversa è la situazione nel cambio tra le denominazioni del mainstream coinage e le monetazioni provinciali o locali, diffuse sino alla metà del III secolo nelle province orientali 2. Ma anche qui è sintomatico che tra queste varie denominazioni e il denarius, la moneta-cardine del sistema, sia esistito comunque sempre un rapporto fisso di valore, o «statutario», com' è stato autorevolmente definito (a proposito dell' equivalenza tra denario e tetradrammo alessandrino )3: all'unificazione politica dell'impero corrisponde indubbiamente l'unificazione monetaria 4• La persistenza per parecchi secoli di un sistema monetario che comprende denominazioni in più metalli con rapporti di valore fissi fra di loro è stata resa possibile non solo dal fatto che la moneta è prodotta
l 2 3 4
P. es. Lo CASCIO 1993b, 157-58, n.3; diversam. P. es. Lo CASCIO 1981, 77-78. CALLU 1969, 186. Lo CASCIO 1994a.
DUNCAN-JONES
1994,70,
n. Il.
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dallo stato in condizioni di monopolio, ma anche dalla capacità, da parte dello stato, di far rispettare la norma che vieta il rifiuto della moneta statale": l'accettazione sostanziale da parte del pubblico degli utilizzatori della moneta di una tale norma implica che l'autorità emittente può imporre il valore legale della moneta - la sua potestas'' o potentia 7 - anche se lo scarto tra tale valore nominale e il valore intrinseco è consistente. L'autorità emittente si è uniformata al parere espresso da una parte della giurisprudenza circa la natura della moneta 8, ed è anche riuscita a imporre questa nozione al pubblico degli utilizzatori: la moneta, in quanto «forma publica percussa», è pretium e non merx. Ed è peraltro significativo che merx, o accettato «loco mercis», sia per l'appunto il peregrinus nummus, la moneta straniera", che è quella che non può contare, per la sua accettazione, che sulla sua natura di pezzo di metallo dal peso e dal fino determinati. Per quanto riguarda la moneta d'oro e d'argento, questa possibilità che ha l'autorità emittente di variare entro certi limiti il contenuto metallico delle specie monetarie senza determinare problemi sul cambio ha fatto sì che il sistema monetario ha potuto essere, nei vari periodi, autenticamente bimetallico oppure caratterizzato da un bimetallismo zoppo "': non è mai stato un sistema nel quale, per potere continuare ad emettere alloro pieno valore intrinseco sia la moneta aurea che quella argentea pur in presenza di forti oscillazioni nella ratio AV:AR, sia stata necessariamente prevista la contestuale oscillazione nei rapporti di cambio fra la moneta aurea e quella argentea. Queste caratteristiche del sistema monetario romano vigenti per secoli sono quelle che fanno sì che i prezzi in moneta d'oro e i prezzi in unità di conto, sino a un certo momento - sino verosimilmente al momento della dissoluzione del sistema monetario romano, camminino del tutto parallelamente. Naturalmente questo non necessariamente vuol dire che a camminare paralleli ai prezzi in unità di conto siano anche i prezzi in oro: i prezzi espressi, cioè, in termini di peso d'oro. E questo non perché la moneta d'oro sarebbe stata anch' essa, come voleva Bolin Il, una moneta parzialmente sopravvalutata, ma perché la moneta d'oro subisce variazioni, ben individuabili, nel suo standard ponderale, e subisce anche, alla :;Lo CASCIO 1996a e 1ett. ivi. (,Gai. Inst. 1. 122; VoI. Maec. distr. 44. 7 AÉ 1973, 526. x Paul. in 0.18.1. 1 pr.; Lo CASCIO 1986; ') P1in. N.H. 33.46; VoI. Maec. distr: 45. IO Lo CASCIO 1981. Il BOLI N 1958.
STROBEL
2002,115
sgg. (=
STROBEL
2004, 50 sgg.).
III. PREZZI IN ORO E PREZZI IN UNITÀ DI CONTO TRA IL III E IL IV SEC. D.C.
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fine del periodo, negli anni centrali del III secolo, una diminuzione del suo contenuto di fino 12. Le variazioni dello standard ponderale sono di modesta entità sino agl'inizi del III secolo. In seguito la discesa del peso è assai più accentuata. Restando fisso il valore in termini di unità di conto della moneta aurea, è perciò possibile calcolare, a partire dal suo peso nei differenti momenti, i prezzi in oro che corrispondono a quelli, attestati, in unità di conto: si possono, in teoria, costruire due serie di prezzi, in unità di conto e in oro. La difficoltà che si oppone a questo tentativo è, com' è ovvio, il fatto che non possediamo serie di prezzi in unità di conto, ma solo prezzi isolati, salvo che per un'area, l'Egitto; e la situazione egiziana potrebbe essere ritenuta non generalizzabile, non solo per le peculiarità della regione nella complessa realtà economica dell' impero, ma più specificamente perché l'Egitto è un'area monetaria in una qualche misura autonoma: in Egitto non circolano le monete aurea e argentea del mainstream coinage, ma circola una monetazione locale. La legittimità, tuttavia, del ricorso ai dati egiziani non pare venir meno per questo motivo: come si è detto, le monetazioni locali e provinciali erano legate al mainstream coinage da rapporti fissi di cambio, e, per quanto riguarda specificamente l'Egitto, per lo meno a partire dall'età di Claudio 13, dall'equivalenza, statutaria, di un tetradrammo con un denario, sicché è lecito convertire in sesterzi i prezzi espressi in dracme egiziane 14. Semmai si pone un altro problema, per il periodo che è oggetto del nostro interesse: l'incertezza che ancora regna circa un dato cruciale dell'evoluzione monetaria del III e del IV secolo, quello del valore in termini di unità di conto non solo della denominazione argentea destinata a rimpiazzare il denarius, e cioè la moneta introdotta da Caracalla e definita dai moderni antoninianus, e poi di quella, che è prodotta per sostituirla, creata da Aureliano, ma anche delle denominazioni auree dopo la riforma di Caracalla 15. Spiace che questa incertezza non venga messa, come dovrebbe essere messa, sempre in rilievo nei lavori che ancora di recente sono stati dedicati al problema della crisi monetaria del III secolo e alle sue cause e conseguenze 16, dando in questo modo per sicure conclusioni che rimangono congetturali. Va ribadito che noi non abbiamo alcuna sicura attestazione del valore che l'autorità emittente ha
MORRISSONe altri 1982; 1985, 81 sgg. Lo CASCIO 1984, 145, 190 n. 84. 14 Ciò di cui non sembra tener conto nella sua generale ricostruzione LENDoN 1990. 15 P. es. Lo CASCIO 1993a. 16 P. es. da HOLLARD 1995; sulle varie ipotesi prospettate circa il valore dell' antoninianus ora Lo CASCIO2003d; CORBIER2005, part. 333 sg. 12
13
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inteso attribuire all' antoniniano e all' aurelianiano e, quanto alla moneta d'oro, possiamo dire di avere una sicura attestazione del suo valore in termini di sesterzi solo sino a Severo Alessandro 17. Si può supporre, anzi, che verosimilmente dopo gli anni di Gallieno il governo imperiale abbia tollerato che la moneta d'oro avesse valutazione oscillante in termini di unità di conto nei rapporti dei privati fra di loro, anche se deve avere fissato comunque la sua potentia nel momento in cui procedeva con essa a un atto di spesa o nel momento in cui la incassava. Il fatto di ritrovare, nell' edictum de pretiis, la fissazione di un prezzo dell' oro «in barre o in moneta» significa non solo che la moneta d'oro viene concepita come di pieno valore intrinseco, ma anche che essa appare ormai in certo modo una merx tra le altre merces, e come tale si può stabilire anche per essa una valutazione massima 18. Se dunque conosciamo quali sono, come son fatte, quanto pesano, qual è la composizione metallica delle monete, non sappiamo, salvo che per una fase del periodo dioclezianeo o, al di là di questa data, per la moneta d'oro solamente, il rapporto che lega l'unità di conto con la fisica moneta. E semmai qualche luce circa il valore che queste denominazioni possono avere avuto può venire proprio, come si vedrà, dall'analisi dell' evoluzione dei prezzi in unità di conto. L'analisi congiunta dell' evoluzione dei prezzi in unità di conto e dei prezzi in oro ha per scopo, com' è ovvio, quello di chiarire cause e conseguenze dell'incremento dei prezzi nel corso del III e IV secolo e di permettere di valutare l'impatto che su di esso possono avere avuto i fattori monetari e reali: da un lato, la variabilità nella quantità d'oro (e d'argento) di cui ha potuto disporre, nelle varie fasi, l'autorità emittente e che ha determinato le sue scelte relative a quanta moneta produrre, di che peso e di che fino; o ancora le decisioni dell' autorità emittente in merito a quale potentia, e cioè a quale valore nominale, attribuire alla propria moneta e le reazioni del pubblico degli utilizzatori a tali decisioni; dall' altro lato, la dinamica della produzione, o cioè dell' offerta e della domanda globali di beni, se è vero che una congiuntura autenticamente inftazionistica può legittimamente definirsi appunto quella nella quale si determina uno squilibrio tra domanda e offerta globali. Ho affrontato questo tema in alcuni lavori degli ultimi anni: e sono le conclusioni ivi raggiunte che intendo ancora una volta verificare attraverso l'analisi congiunta dei prezzi in unità di conto e dei prezzi in oro.
17 18
Casso Dio 55.12.3-5, BUTTREY Lo CASCIO 1984, 1986, 1996a.
1961.
III. PREZZI IN ORO E PREZZI IN UNITÀ DI CONTO TRA IL III E IL IV SEC. D.C.
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Ha scritto il Jones concludendo un suo influente saggio su L'inflazione durante l'impero romano 19: «L'inflazione del III secolo fu di tipo normale. Fu la conseguenza dello svilimento e della moltiplicazione del numero dei pezzi in circolazione della moneta standard imperiale, il denario, e il processo inflazionistico fu relativamente lento ... L'inflazione del IV secolo fu più singolare. L'impero aveva ora due circuiti monetari, quello della moneta d'oro e quello della moneta di rame. Quest'ultima fu inflazionata a un ritmo e in una misura che trovano paralleli solo nel mondo moderno, e attraverso un metodo, parrebbe, analogo a quello della stampa della cartamoneta, assegnando arbitrariamente alle monete sempre più elevati valori nominali. Nello stesso tempo, lo standard di peso e di purezza della moneta d'oro venne accuratamente mantenuto e se ne accrebbe gradualmente il numero dei pezzi in circolazione, fin quando il governo non ebbe la possibilità di convertire in pagamenti in oro prelievi e versamenti in natura». La caratterizzazione proposta dal Jones dell'inflazione di quarto secolo sembra essere grosso modo da accogliere e in ogni caso è inevitabile la conclusione secondo la quale l'autorità emittente deve avere imposto un valore in termini di unità di conto sempre più elevato alla moneta che produceva, perché altrimenti non sarebbe in alcun modo giustificabile quell' incremento dei prezzi nominali di parecchie decine di migliaia di volte dall' edictum agli ultimi decenni del quarto secolo, che i documenti egiziani ci testimoniano. Va peraltro osservato che tale incremento dei prezzi nominali non è stato sempre graduale, ma è avvenuto in molti casi per salti, che, come ora si vedrà, sono bene individuabili. Rimane poi da intendere il perché l'autorità emittente sia ricorsa a questo sistema e se vi sia ricorsa sempre per un medesimo motivo. La caratterizzazione dell'inflazione di III secolo proposta dal Jones sembra, viceversa, alla luce delle più recenti indagini su moneta e prezzi nel III secolo, sostanzialmente errata, e per due ragioni di fondo: a) perché si può mostrare che non vi è relazione diretta tra riduzione del valore intrinseco (riduzione del peso o debasement) e incremento dei prezzi, ma anzi si può mostrare che i prezzi in unità di conto si sono mantenuti stabili per tutto il corso, sostanzialmente, del III secolo (durante il quale c'è diminuzione forte dello standard ponderale della moneta d'oro e grosso modo corrispondente diminuzione del valore intrinseco della moneta d'argento o di rame argentato di base), e questa stabilità si è protratta sino, giusto, al momento della riforma aurelianea 20; b) perché il salto
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Trad. il. in JONES 1984,291. Lo CASCIO 1984, 1993a; in questo stesso senso RATHBONE 1996.
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del livello dei prezzi degli anni '70 del III secolo dev'essere anch'esso, per la sua stessa consistenza, imputabile a una modificazione del valore facciale della moneta pseudo-argentea di base, come lo sono, a giudizio di Jones, i salti del IV secolo: dunque a una ritariffazione in termini di unità di conto del tetradrammo alessandrino, che corrisponde a un' analoga ritariffazione del radiat021• Che la posizione di Jones sia da questo punto di vista errata lo mostra appunto, anzitutto, l'analisi dell' evoluzione dei prezzi in unità di conto. Ho costruito alcune tavole nelle quali vengono presentate le serie dei prezzi di alcune merci di base, scelte ovviamente perché si tratta di merci per le quali abbiamo informazioni sui prezzi più numerose, anche se si pongono problemi delicati di definizione della metrologia, e perché si tratta di merci di qualità abbastanza uniforme, anche se bisogna ovviamente tenere conto della possibilità di forti oscillazioni stagionali (che tuttavia, com'è ovvio, non influiscono sul trend di lungo periodo) ovvero del fatto che non tutti sono effettivi prezzi di mercato: le merci in questione sono il grano, l'orzo, il vino. Ho utilizzato i dati rinvenibili nella recente monografia di Drexhage 22 per il periodo sino al 284, alcuni pochi dati derivabili da Callu " per il periodo 284-301, i dati derivabili dall'edictum de pretiis e infine i dati che compaiono nella monografia su monetazione e inflazione nell'Egitto di Bagnall ", per il quarto secolo, con qualche ulteriore integrazione in base a documenti editi dopo la pubblicazione del libro di BagnalI. Come si può osservare dalle tabelle, si possono individuare i momenti nei quali vi è stato un salto nel livello dei prezzi: se si prescinde da quello che appare essere un raddoppio dei prezzi in età cornmodiana, peraltro riassorbito nei decenni successivi, si nota una decuplicazione negli anni '70 del terzo secolo, poi una quadruplicazione tra gli anni '90 del terzo secolo e i primi anni del quarto; ancora un incremento di almeno venti-trenta volte tra i primi anni '20 e il 338-40, che tuttavia sembra essere stato in qualche modo più graduale; infine un incremento di trenta-quaranta volte negli anni' 50 del quarto secolo. Per intendere la natura, e le cause, di ognuno di questi salti, è necessario confrontare l'evoluzione dei prezzi in unità di conto con l'evoluzione dei prezzi in oro: è in effetti questo confronto che sembra consentire di 21 Lo CASCIO 1984, 1993a; collega l'incremento dei prezzi alla riforma - ma facendo intervenire una ritariffazione nei confronti della moneta d'oro - anche RATHBONE 1996; la «spiegazione» fornita da LENDoN 1990, 112 sgg. (e vedi ora anche HARRIS 2006,22 sg.; HARRIS 2008, 204 sgg.) - il «collapse of popular faith» - non riesce a spiegare le dimensioni stesse, oltre che il carattere repentino, del salto. 22 DREXHAGE 1991 (vd. pure DREXHAGE 1987). 2.1 CALLU 1969,395 sgg. 24 BAGNALL 1985.
III. PREZZI IN ORO E PREZZI IN UNITÀ DI CONTO TRA IL III E IL IV SEC. D.C. 241
individuare quale sia la motivazione che spinge, in ognuna delle occasioni citate, l'autorità emittente a imporre una nuova, e assai più elevata, potentia al numerario emesso e quali siano le conseguenze di quest' operazione sulla circolazione monetaria. Già il Mickwitz aveva tentato di costruire una serie dei prezzi in oro nell'Egitto tardoantico e bizantino": ma le informazioni di cui poteva disporre erano minori e soprattutto quel che gli mancava era il dato corretto del prezzo dell' oro e dell' argento nell' edictum. Più di recente, e proprio a seguito della pubblicazione dei nuovi frammenti da Aezani dell' edictum col prezzo dell'oro e dell'argento, Mrozek e sulla sua scia Corbier hanno tentato di stimare l'incremento, dal primo secolo a1301, dei prezzi di molte merci a confronto dell'incremento del prezzo dei metalli nobili 26. La conclusione della Corbier è che non c'è sostanzialmente inflazione dei prezzi in oro tra il primo secolo e il 301. Si possono sollevare tuttavia due obiezioni al procedimento adottato da Mireille Corbier: a) la prima è che, se si paragonano due prezzi, uno rappresentativo del primo secolo del principato e quello del 30 l, l'evoluzione degli stessi prezzi in oro viene a essere occultata: anche nell'ipotesi che i prezzi in oro nel primo secolo siano sul medesimo livello dei prezzi in oro nel 30 l, è possibile che essi non siano comunque rimasti costanti tra i due momenti considerati; b) la seconda è che non si tiene conto del fatto che il prezzo dell'oro nell'editto, come si può dimostrare.", è assai più basso dei prezzi dell'oro precedenti e successivi: che la struttura dei prezzi relativi quale si può dedurre dall' editto non è dunque quella dei rapporti di mercato presumibilmente vigenti nel 301, quanto meno per questo specifico aspetto del rapporto tra prezzo dell' oro (o dell'argento) e prezzi delle merci. In ogni caso poi i dati presentatici dalla Corbier non consentono di spiegare perché si arrivi all'incremento esponenziale dei prezzi: non consentono, vale a dire, di spiegare perché l'autorità emittente sia stata costretta a ritoccare in misura drastica il valore nominale della moneta che emetteva. Il procedimento adottato qui è diverso. Ho costruito più tavole relative ai prezzi di grano, orzo e vino, che consentano di paragonare nel corso del periodo considerato, e cioè il terzo e il quarto secolo, l'evoluzione dei prezzi in oro e l'evoluzione dei prezzi in unità di conto. Avevo effettuato un
25 MICKWITZ 1933; la finalità che lo studioso finlandese si proponeva era quella di definire non perché variassero i prezzi in unità di conto, ma quanto influisse sulla variazione dei prezzi in oro, e sul lunghissimo periodo, l'offerta stessa del metallo giallo; Mickwitz arrivava alla conclusione che il trend in crescita del prezzo dell'oro e la corrispondente diminuzione dei prezzi in oro fossero il risultato dell' «Inanspruchname des Goldes als Tauschmittel» e della diminuzione della sua disponibilità. 26 MROZEK 1980, tab. p. 239; CORBIER 1985; cfr. ora CORBIER 2005, part. 338 sgg. 27 Lo CASCIO 1993b; nello stesso senso BAGNALL 1989, 69 sg., e CARRIÉ 1993, 305 .
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esercizio analogo in un lavoro precedente.", ma non con dati dettagliati per il terzo secolo. In quel lavoro avevo preso in considerazione i dati dell' editto; nonché i dati derivabili da papiri di quarto e quinto secolo che presentassero, congiuntamente, il prezzo dell' oro (o in un caso dell' argento) e poi del solido e i prezzi delle merci. In assenza di dati analoghi per il III secolo, non ci si può basare che sulla valutazione del prezzo dell' oro derivabile dal valore in unità di conto della stessa moneta d'oro. Si è dunque preso il dato ricavabile dal peso della moneta aurea sino ai decenni centrali del III secolo e si è fatta la ragionevole ipotesi che la valutazione dell' aureus a cento sesterzi rimanga costante sino a quella data, pur in presenza di una progressiva e consistente diminuzione del suo peso ": dunque moltiplicando per 100 il numero di pezzi che sarebbero stati battuti con una libbra d'oro nei differenti momenti, si può calcolare il prezzo della libbra d'oro in sesterzi in tali differenti momenti. Con gli anni di Gallieno, la moneta aurea viene battuta, come pare, a molti diversi standard ponderali, perché la stessa discesa di peso ha determinato la proliferazione dei multipli: per questi anni si sono scelti, allora, due valori di prezzo per la libbra d'oro, un massimo e un minimo, che possano considerarsi quali limiti dell' arco dei valori computabili sempre a partire dal peso che ha il nominale aureo di base. La procedura presta certamente il fianco a critiche, ma non è interamente arbitraria, e in ogni caso l'alternativa è porre dei punti interrogativi al posto di cifre non interamente sicure. Per quanto riguarda il periodo successivo, e sino alla testimonianza offerta, per l'anno 300, dal secondo papiro di Panopoli (11.215-21), siamo ancora più al buio: in questo caso la serie dei prezzi in unità di conto egiziani, in quanto può essa stessa servire a scegliere fra interpretazioni rivali, ad esempio, della riforma aurelianea, può essa stessa fornire qualche indicazione di massima sul prezzo che l'oro deve avere raggiunto negli ultimi trent'anni del secolo; ma non ci si può nascondere l'intrinseca circolarità, in questo caso, dell' argomento posto alla base del calcolo. Ho fatto due ipotesi circa il valore dell' aureus, e dunque del prezzo della libbra d'oro, nel 269 (Claudio Gotico) e nel 276 (Tacito): rispettivamente 62.000 e 140.000 sesterzi. Come si vede, la prima delle due valutazioni, ma non la seconda, è troppo alta, e dunque i prezzi in oro risultano troppo bassi; vuol dire che il ritocco del valore della moneta d'oro non dev'essere stato, ancora nel 269, così consistente. Quali sono, dunque, le conclusioni più rilevanti che si possono trarre dall'andamento dei prezzi in oro e dal confronto tra esso e l'andamento
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Lo Lo
CASCIO CASCIO
1993b. 1984, basato su
CALLU
1969.
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dei prezzi in unità di conto? La curva dei prezzi in oro mostra un'impennata negli anni di Marco e di Commodo. Nei decenni successivi i prezzi in oro scendono visibilmente, dal momento che ancora negli anni '60 del III secolo sono ai livelli del II secolo. Il successivo incremento, consistente, è quello rinvenibile nei prezzi in oro dell' edictum. Negli anni successivi si ha un nuovo decremento e poi un' oscillazione nel corso dei decenni centrali del quarto secolo; infine, i prezzi in oro del quinto secolo registrano una nuova diminuzione. Un salto nei livelli dei prezzi nominali che si può associare con assoluta sicurezza anche a un salto nel livello dei prezzi in oro è quello attestato, per il 191/2, da P. Cairo Goodsp. 30. L'ascesa dei prezzi nominali con Aureliano, di pressoché dieci volte, è preceduta da una notevole stabilità dei prezzi in oro nei decenni anteriori, e su un livello decisamente più basso che nel 191/2, o anzi da una tensione verso la discesa. Il forte incremento dei prezzi in oro attestato dall'editto non sembra corrispondere a un incremento dei prezzi nominali parimenti accentuato. Infine, né il salto di almeno venti-trenta volte dei prezzi in unità di conto tra i primi anni '20 del quarto secolo e il 338-40, né quello di trenta-quaranta volte negli anni' 50 del quarto secolo sembrano riflettersi in qualche modo nell' evoluzione dei prezzi in oro. Che cosa dobbiamo dedurre da questo confronto tra evoluzione dei prezzi in unità di conto ed evoluzione dei prezzi in oro, per i momenti più salienti? La corrispondenza tra ascesa dei prezzi nominali e ascesa dei prezzi in oro negli anni di Marco e di Commodo sembra attestare un spinta inflazionistica autentica. Mi è sembrato di dover sostenere altrove '" che né l'evoluzione, quantitativa e qualitativa, del mainstream coinage né quella del tetradrammo alessandrino sembrano giustificare tale ascesa dei prezzi come quella che conseguirebbe, quale reazione del pubblico degli utilizzatori della moneta, a un consistente incremento della sua quantità in circolazione e/o a una consistente riduzione del suo valore intrinseco. Le ragioni dell' ascesa dei prezzi devono rinvenirsi nell'evoluzione dell'economia reale: a partire dalla metà degli anni '60 l'impero entra in crisi per effetto delle guerre e soprattutto della pestilenza ed è questa crisi produttiva, in ultima analisi, a originare la spinta infìazionistica ". Perché la crisi produttiva a sua volta causata da una crisi demografica debba determinare una congiuntura inflazionistica, diversamente da quel che è potuto accadere in situazioni comparabili di crollo della popolazione (come nell'Europa di dopo il 1348), lo si può solo spiegare supponendo che l' incomprimibilità della domanda dello stato,
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Lo CASCIO 1984, 146 sg.; si vd. pure LENDON 1990, 110. Lo CASCIO 1980b; 1991 b; questo parere è ripetuto da RA THBONE 1996.
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e anzi il suo incremento, a fronte di una produzione decisamente calata, abbia causato quel forte squilibrio tra domanda e produzione globali che è ciò che innesca una congiuntura autenticamente inftazionistica 32:si è ora calcolato, da parte di Duncan-Jones, in un 70% l'incremento delle spese dello stato tra il 150 e il 215 d.C.33 L'innalzamento del livello dei prezzi in unità di conto con Aureliano, preceduto da un decremento consistente dei prezzi in oro dal livello raggiunto alla fine del secondo secolo, non può in alcun modo spiegarsi soltanto come il portato di uno squilibrio tra produzione e domanda globali, o di un incremento nella quantità fisica di moneta in circolazione o della sua velocità, o di una reazione, da parte del pubblico dei fruitori, a un drastico peggioramento della sua qualità. Il debasement così accentuato del numerario argenteo nel corso dei decenni centrali del terzo secolo, che avrebbe raggiunto il suo nadir con l'antoniniano di Claudio II Gotico, sarà stato ovviamente determinato da un sempre più consistente deficit finanziario dello stato, coperto attraverso la riconiazione a sempre nuovi e peggiori standard di peso e di fino del poco numerario che tornava nelle casse statali: l'incremento così consistente del numerario emesso in questi anni che pare attestato dai ripostigli non va spiegato come il semplice portato di un pari incremento nel volume di moneta immesso nella circolazione, ma appunto come l'effetto di una sempre più rapida riconiazione del numerario incassato dallo stato: un numerario, peraltro, che tendeva a essere sempre quello peggiore in circolazione, se possiamo supporre (come credo che dobbiamo) che i contribuenti abbiano scelto di pagare le proprie imposte col peggiore numerario di cui disponevano. Il debasement sempre più accentuato della moneta avrà, peraltro, determinato un sempre maggiore apprezzamento dell' oro e dell' argento rispetto alle altre merci: e non può stupire, dunque, che questo apprezzamento si rifletta in una tensione verso l'alto del prezzo dell' oro o cioè verso il basso dei prezzi in oro delle merci. È possibile che vi sia stato anche un generale rallentamento dell' attività mineraria e che ciò abbia provocato la rarefazione dei metalli nobili 34,e dunque la crescita del loro prezzo in rapporto agli altri prezzi, una crescita che valeva almeno in parte a giustificare la diminuzione progressiva del valore intrinseco della moneta che si andava producendo. E tuttavia più importante mi sembra l'effetto che in questa stessa direzione deve avere avuto la tesaurizzazione da parte dei privati: se l'oro appare rarefarsi nel terzo secolo, non è solo
32
Lo
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DUNCAN-JONES
34
DEPEYROT
CASCIO
1980b; 1991 b. 1994,45 tab. 3, 7. e HOLLARD 1987; HOWGEGO
1992.
III. PREZZI IN ORO E PREZZI IN UNITÀ DI CONTO TRA IL III E IL IV SEC. D.C.
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o sostanzialmente perché sia davvero raro, ma perché «il se cache» 35. Se dunque l' innalzamento del livello dei prezzi in unità di conto con Aureliano non è il portato di uno squilibrio tra produzione e domanda globali, o di un incremento nella quantità fisica di moneta in circolazione o della sua velocità, o di una reazione, da parte del pubblico dei fruitori, a un drastico peggioramento della sua qualità, è gioco forza concludere che esso risulti, in àmbito egiziano, da una ritariffazione del numerario alessandrino che ne moltiplica di almeno dieci volte il valore in termini di unità di conto. Ma poiché, come si è detto, l'equivalenza statutaria tra tetradrammo e denario e dunque tra dracma e sesterzio non viene mai meno e il denario-unità di conto continuerà ancora a essere pari a quattro dracme-unità di conto anche dopo la cessazione della coniazione dei tetradrammi, e ancora nei primi decenni del quarto secolo, è gioco forza supporre che la ritariffazione del tetradrammo non sia che il riflesso, in àmbito egiziano, di una corrispondente ritariffazione del numerario pseudo-argenteo di base del mainstream coinage": Questa conclusione vale, naturalmente, a escludere, mi sembra, tutte quelle interpretazioni della riforma monetaria aurelianea che presuppongono che il valore della nuova moneta in termini di unità di conto sia stato o eguale o inferiore o anche solo di poco superiore a quello dell' antoniniano che essa era designata a sostituire in molte, se non in tutte, le regioni dell'impero: una sostituzione che si voleva attuare, da parte di Aureliano, come ci dice Zosimo ", ritirando dalla circolazione il vecchio numerario che era kibdelon. E stupisce come, pur in presenza della prova inoppugnabile rappresentata dall' andamento dei prezzi egiziani, e senza sentire il bisogno di confrontarsi con questa prova, si continuino a prospettare, di tale riforma, interpretazioni che risultano evidentemente contraddette dalla documentazione sui prezzi 38. Più difficile è interpretare il significato del salto del livello dei prezzi successivo, quello che si colloca tra gli anni '90 del terzo secolo e 1'edictum: quello, per l'appunto, che ha determinato il tentativo, senza confronti, di una regolamentazione capillare dei prezzi da parte di un grande stato imperiale. Il prezzo in oro delle merci risulta assai elevato - ma non più di quello degli anni di Commodo: e tuttavia, come si è osservato e come sembra confermato dai prezzi immediatamente precedenti e successivi, tale elevatezza dei prezzi in oro è presumibilmente un fatto artificiale: risulta essa stessa dalla volontà del governo tetrarchico 1979,216 sg. 1984; 1993a; così pure RATHBONE 1996. 1. 61. 3. CUBELLI 1992; HOLLARD 1995; ESTlOT 1995.
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di mantenere basse le valutazioni dei due metalli nobili, per garantire un rapporto di cambio non sfavorevole per le categorie che non detengono oro e argento tra la moneta delle piccole transazioni e la moneta aurea e argentea 39. La finalità che si era proposta Aureliano era quella di risanare il sistema monetario, eliminando dalla circolazione il cattivo numerario emesso nei decenni precedenti e recuperando l'argento in esso contenuto. E tuttavia, poiché per attuare questa misura si era imposto un irrealistico rapporto di cambio tra la vecchia moneta argentea e la nuova, questo risultato era stato solo parzialmente ottenuto. Il risultato più gravido di conseguenze della riforma era stato verosimilmente proprio il drammatico salto nel livello dei prezzi. Noi non sappiamo se la moneta aurea di Aureliano avesse un valore di imperio (e se sì quale fosse) o se essa fosse considerata dalla stessa autorità emittente una sorta di piccolo lingotto: certo è improbabile che, in conseguenza del salto nel livello dei prezzi, il prezzo dell' oro non salisse anch' esso e dunque anche il valore attribuito dai privati alla moneta aurea. Quanto al numerario di biglione, sappiamo che si tentò di migliorarne la qualità, e dunque di incrementarne il valore intrinseco, già prima della prima riforma monetaria di Diocleziano, nel 294 o 296 (tentativi di Tacito e Caro )40; è certo, peraltro, che la nuova moneta laureata di Diocleziano, introdotta in occasione di questa riforma (già verosimilmente con quel valore di dodici denari e mezzo o cinquanta sesterzi che la moneta avrebbe avuto poco prima dello settembre del 301) e destinata ad assumere il ruolo del radiato di Aureliano, rappresentava un deciso miglioramento rispetto a quest' ultima: pesava due volte e mezzo il radiato di Aureliano e non abbiamo ragione di credere che si stabilisse, per essa, un valore nominale superiore o assai superiore a quello della moneta che sostituiva. Sembrerebbe doversi escludere che l'incremento dei prezzi negli anni '90 del terzo secolo sia stato il portato della reazione del pubblico alla cattiva qualità della moneta emessa dallo stato. Quanto al volume della moneta emessa, non pare essere stato tale da determinare di per sé esso soltanto un forte innalzamento dei prezzi, ma è possibile che abbia avuto un certo impatto la riorganizzazione della fiscalità su base annonaria (attuata da Diocleziano precocemente}", che escludeva l'uso della moneta da una serie quantitativamente rilevante di transazioni. E vi può essere stato anche un qualche squilibrio tra domanda e produzione globali in termini monetari (proprio determinato dal fatto che buona parte del prodotto destinato alla commercializzazione e non all'autoconsumo veniva sottratto direttamente ai produttori dallo stato). 39 40 41
Lo CASCIO 1993b; 1995. Lo CASCIO 1984, 174. V d. ora CARRIÉ 1994.
III. PREZZI IN ORO E PREZZI IN UNITÀ DI CONTO TRA IL III E IL IV SEC. D.C.
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Purtroppo il numero dei prezzi che possediamo per questi anni cruciali non è tale da consentire deduzioni certe. Qualche cosa di più sappiamo, tuttavia, della seconda riforma monetaria dei tetrarchi, quella di cui si stabiliva l'entrata in vigore il 1° settembre del 301, appena due mesi e mezzo prima dell' emanazione dell' edictum. La riforma era decisamente «inflazionistica», nel senso che, stabilendo il raddoppio della potentia così della nuova moneta argentea introdotta da Diocleziano con la prima riforma, da cinquanta denarii a cento, come del «laureato», da dodici denari e mezzo a venticinque, provocava il drastico e automatico incremento dei segni monetari in circolazione. Non sappiamo se la riforma toccava anche il valore della moneta d'oro: dal 2° papiro di Panopoli sappiamo però che l'aureus era valutato 1.000 denarii all'inizio del 300 (lI. 215-21), mentre sappiamo che la valutazione dell'editto, nel novembredicembre del 301, sarebbe stata di 1.200 denarii. Mi pare che la più probabile ipotesi sia che l' aureus avesse ancora valutazione di 1.000 denarii prima del l ° settembre del 301 e che si scambiasse, pertanto, con venti argentei e con 80 laureati grandi, laddove sarebbe passato a valere solo 12 argentei e 48 laureati con l'edictum. Il fatto che l' edictum de pretiis sia stato preceduto da un editto monetario tendenzialmente inflazionistico potrebbe valere a spiegare anche l'evoluzione dei prezzi: ciò che era accaduto negli anni precedenti era stato che il prezzo dei metalli monetabili era continuato a salire, e ciò aveva reso sempre più difficile per lo stato emettere la propria moneta senza incorrere in una perdita. Se, come pare, proprio la prima riforma monetaria era stata sollecitata dalla volontà di emettere una nuova moneta di base del sistema, il «laureato grande», assai meno sopravvalutata del radiato aurelianeo, è possibile che, con la crescita di prezzo dei metalli monetabili fosse divenuto progressivamente più difficile emettere lo stesso pezzo da dodici denarii e mezzo (o cioè cinquanta sesterzi) senza incorrere in una perdita. Bisognava, pertanto, ristabilire un certo grado di sopravvalutazione per la moneta di biglione, ed anche per lo stesso argenteus (prodotto inizialmente, al momento della sua introduzione, come pare, come moneta-tipo, non sopravvalutata), ciò che veniva attuato con la seconda riforma monetaria, che valeva a fissare un rapporto nuovo tra aureo e argenteo (non più di uno a venti, ma di uno a dodici) e tra aureo e laureato (non più di uno a ottanta, ma di uno a quarantotto). E tuttavia la spinta all'incremento dei prezzi dei metalli nobili nasceva da un fenomeno reale, di cui il governo tetrarchico non sembrava voler tenere conto: dal fatto, cioè, che in termini relativi, dunque in rapporto alle altre merci, il prezzo dell' oro avrebbe dovuto essere assai più elevato, o cioè i prezzi in oro delle merci avrebbero dovuto essere assai più bassi, data la drastica diminuzione dell' offerta d'oro e
248
CRESCITA E DECLINO
d'argento, che aveva caratterizzato i decenni precedenti. Per ragioni economiche l'oro e l'argento sarebbero dovuti valere di più; ma per ragioni sociali non potevano essere i detentori d'oro e d'argento ad approfittare della situazione. La generale regolamentazione dei prezzi, che prevedeva un'irrealisticamente bassa quotazione del prezzo dell'oro e dell'argento rispetto alle altre merci, era tesa, appunto, a fermare coattivamente un' ascesa dei prezzi che non si poteva frenare in altro modo. E il governo tetrarchico cercava di rastrellare l'oro e l'argento necessari per coniare la propria moneta, attraverso quegli acquisti forzosi che giusto in questi anni, e per due decenni, sono attestati dalla documentazione papiracea. È sintomatico che gli acquisti forzosi di oro e d'argento, che si sono trasformati in una sorta di nuova imposta, cessino, apparentemente, con la riunificazione dell'impero a seguito della definitiva sconfitta di Licinio; è parimenti sintomatico che praticamente tutte le attestazioni che abbiamo del prezzo dell' oro per i decenni successivi al 324 si riferiscano all' oro monetato, al solidus": La dinamica dei prezzi in oro sembra fornire la spiegazione di quel che succede, appunto, dopo il 324, anche se, purtroppo, non possedendo valutazioni dell'oro o del solido per il quindicennio 325-40, non abbiamo l'assoluta sicurezza circa l'esatto momento nel quale collocare la svolta. Rileviamo che, rispetto ai prezzi in oro dell' edictum, i prezzi degli ultimi anni trenta e dei primi anni quaranta del quarto secolo, sono decisamente più bassi: la metà o addirittura meno della metà. Sembra a questo punto necessario ipotizzare che è stata ormai abbandonata la politica seguita dal governo tetrarchico con l'edictum: di una fissazione a un livello assai basso della valutazione dell' oro rispetto alle altre merci. Il prezzo dell' oro è stato «liberalizzato»: si è, cioè, consentito all' oro, monetato e non, di pervenire a quel valore che esso avrebbe dovuto raggiungere se lasciato alla libera contrattazione privata:". La misura aveva le sue ragioni: era l'unica che avrebbe convinto i privati detentori d'oro a immetterlo sul mercato e a cederlo allo stato; era l'unica che avrebbe consentito il reperimento anche di nuove fonti di approvvigionamento d'oro: e non è un caso che i decenni centrali del quarto secolo assistano a un incremento assai consistente dell'emissione aurea, permessa, com'è stato possibile dimostrare attraverso l'analisi della composizione metallica della moneta aurea, dall'utilizzazione, appunto, di nuove fonti di approvvigionamento 44. Mi è sembrato di dovere interpretare alla luce di questi fatti la stessa testi-
43
Lo Lo
44
CALLU
42
CASCIO CASCIO
e
1995. 1995. BARRANDON
1986.
III. PREZZI IN ORO E PREZZI IN UNITÀ DI CONTO TRA IL III E IL IV SEC. D.C.
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monianza dell' anonimo de rebus bellicis, quando censura aspramente la profusa largitio di Costantino, che ha assegnato l'oro al posto del bronzo ai vilia commercia, e che ha reso «in perniciem pauperum clariores» le domus dei potentes; l'anonimo allude ai due fenomeni più caratteristici di questi decenni: la caduta di valore della moneta di rame nei confronti della moneta d'oro, nel momento in cui il rapporto di cambio tra solidus e nummus non viene più imposto coattivamente e difeso dall'autorità imperiale, nonché l'incremento consistente dell' oro in circolazione che ne è derivato: il primo dei due fenomeni è il risultato, immediato, di una specifica misura imperiale e ha dunque modo di dispiegare istantaneamente i suoi effetti, il secondo dispiega i propri effetti assai più lentamente, e non è un caso che l'incremento quantitativo dell' emissione aurea sia un fatto caratteristico più ancora che dell'ultimo periodo costantiniano, degli anni dei suoi successori 45. Entrambi i fenomeni mi pare che chiariscano, nella loro intrinseca connessione, la spirale di incremento dei prezzi nominali che a questo punto si determina e che costringe l'autorità emittente, una volta che ha cominciato a produrre la moneta delle piccole transazioni commerciali dando ad essa un valore in unità di conto assai prossimo al valore intrinseco, a «rincorrere» l'incremento dei prezzi dei metalli monetabili, per non produrre questa moneta in perdita, attraverso l'unico sistema a portata di mano: quello dell'attribuzione di sempre più elevati valori nominali alla moneta stessa". L'ulteriore salto nel livello dei prezzi in unità di conto che si registra negli anni cinquanta del quarto secolo credo che sia il portato, diretto o indiretto, di una riforma da datarsi, presumibilmente, nel 348, con la quale vengono introdotti dei
45 Lo CASCIO 1995; e vedi pure BANAJI 200 l, capp. 2 e 3; mi sembra da escludersi la pure assai ingegnosa interpretazione proposta da CATAUDELLA1992, che, partendo dal presupposto che nel famoso incipit del cap. 2 (<
r 250
CRESCITA E DECLINO
nominali di rame argentato assai migliori rispetto all'ultimo nummus", È del tutto probabile che o ora, o a seguito di tentativi speculativi degli anni immediatamente successivi, di cui alcune disposizioni del Teodosiano ci informano, l'autorità emittente abbia deciso di demonetizzare la moneta più antica, cercando di acquisire un profitto dall' operazione con lo stabilire irrealistici rapporti di conversione tra la moneta vecchia e quella che andava producendo: l'operazione, come con Aureliano, sarebbe stata effettuata attribuendo alla moneta nuova una valutazione, in termini di unità di conto, enormemente più elevata: ciò che avrebbe determinato, a sua volta, un salto dei prezzi nominali di parecchie volte. Nei decenni successivi l'incremento dei prezzi nominali rallenta e poi si ferma; contemporaneamente ricomincia il trend in discesa dei prezzi in oro. La stagione della grande «inflazione» volge al termine. Al conseguimento di questo risultato hanno contribuito certamente le misure di risanamento della monetazione operate dai Valentiniani, quelle che introducono l'assoluta «sincerità» nella produzione della moneta, che vale a impedire i tentativi di speculazione: vengono d'ora in avanti prodotte monete di solo rame, o di solo argento, o di solo oro. Più di queste misure giova a restituire la stabilità quella che appare la graduale riassunzione, da parte della moneta d'oro, della funzione di effettiva misura di valore, così nelle transazioni fra i privati come nelle transazioni fra i privati e lo stato:": una riassunzione favorita dalla «banalizzazione» dell' oro, dalla sua penetrazione in circuiti nei quali prima non era penetrato, dal fatto, in sostanza, che la moneta d'oro va divenendo sempre più effettivo mezzo di scambio. L'evoluzione dei prezzi in oro e dei prezzi in unità di conto, nelle sue grandi linee e sul lungo o lunghissimo periodo, risulta chiara. Chiaro, altresì, risulta quali siano i periodi nei quali i detentori dell' oro sono favoriti e quali i periodi in cui lo sono meno o in cui si cerca di penalizzarli, quali i periodi nei quali l'oro viene reimmesso in circolazione e quali quelli nei quali si tesaurizza. Si pone certo anche il problema dello stesso sfruttamento delle miniere d'oro ed' argento, legato anche a vicende di natura politica e militare: sembra ovvio l'impatto che ha potuto avere il prosciugarsi delle risorse minerarie di taluni distretti spagnoli o l'abbandono della Transilvania. Ma, purché ne risulti sufficientemente profittevole lo sfruttamento, è possibile, come dimostra la stessa ripresa in grande stile di un' emissione di oro monetato nel quarto secolo, trovare
47 4R
Lo Lo
CASCIO CASCIO
1986; 1995. 1995, a proposito di c.I. Il. Il. 2.
III. PREZZI IN ORO E PREZZI IN UNITÀ DI CONTO TRA IL III E IL IV SEC. D.C.
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nuove e alternative fonti di approvvigionamento. Molto meno chiaro risulta l'impatto del movimento dei prezzi in unità di conto e dei prezzi in oro sul medio e breve periodo e in definitiva sulla concreta natura delle relazioni fra i privati e fra i privati e lo stato. E tuttavia una conclusione di ordine generale si può trarre: il venir meno della connessione fissa tra unità di conto e fisica moneta - che non vuol dire necessariamente, come pure si è voluto sostenere"? la rinuncia a fissare la potentia delle monete, il loro valore nominale, da parte dell' autorità emittente - ha per corollario il fatto che la moneta cessa di assolvere, con efficacia, a una delle sue funzioni: quella di stabile misura di valore. E non è solo la moneta d'oro che cessa per un lungo periodo - forse per un secolo, tra gli anni '70 del terzo e gli anni '70 del quarto - di avere questa funzione (quando essa ha un prezzo, quando è scambiata in quanto tale sulforum rerum venalium); cessa in qualche modo di averla anche la piccola moneta enea: questo è vero per i rapporti fra i privati; ma soprattutto è vero per i rapporti fra i privati e lo stato: per la fiscalità e la spesa pubblica. Bisogna tenere presente la grande stabilità dei prezzi e monetaria nel corso dei secoli precedenti: certo non dovevano mancare oscillazioni anche brusche dei prezzi, ma ciò che era assente era un processo di incremento graduale e continuo, una vera inflazione secolare: la progressiva crescita del circolante era riassorbita dalla progressiva crescita della monetarizzazione dell' economia, nonché, presumibilrnente, dalla progressiva crescita della produzione (determinata, a sua volta, almeno in parte, dalla crescita della popolazione) 50. È certo significativo che le crisi, nel corso della prima età imperiale (come già alla fine dell'età repubblicana) fossero crisi «deflazionistiche»: crisi caratterizzate dalla diminuzione dei prezzi dei beni, e soprattutto di quelli immobili, non dal loro incremento. Nei rari casi in cui i prezzi salgono, quest' ascesa è vista come un fatto positivo: illuminante, al riguardo, la testimonianza di Suetonio a proposito dell' incrementata produzione di moneta in età augustea 51. Ora, per quanto riguarda la fiscalità, questo significa che una fiscalità in denaro è una fiscalità sicura per lo stato; e il pagamento in denaro è un pagamento sicuro per i soldati. Con la crisi finanziaria e monetaria degli ultimi decenni del secondo e poi del terzo secolo la situazione certo si modifica. C'è il tentativo di incrementare, attraverso le manipolazioni monetarie, le possibilità di spesa: il che significa che la spesa pubblica si mantiene al di sopra delle entrate, che la domanda globale cresce e si determina (quanto
49 50 51
1988; DEPEYROT 1991a, 197 sgg.; 1992,43 Lo CASCIO 1991 a. Aug. 41. 2, su cui Lo CASCIO 1981. DEPEYROT
sgg.
252
CRESCITA
E DECLINO
meno inizialmente) un'autentica inflazione: ma il sistema si può reggere e non viene meno la possibilità di un riaggiustamento sufficientemente rapido dei tributi (e delle retribuzioni dei soldati) in base al nuovo livello dei prezzi in unità di conto. Ma quando la situazione cambia drasticamente? Evidentemente il momento di discrimine sembra collocarsi con Aureliano e nei decenni successivi. A questo punto né la fiscalità in moneta è più sicura per lo stato, né il pagamento in moneta è più sicuro per i soldati. Ne consegue la regolarizzazione dell' annona e il carattere annonario della fiscalità tetrarchica. La crescita tendenzialmente esponenziale dei prezzi fa sÌ che si passi all' assessment in natura (il che non vuol dire, naturalmente, che cessino i pagamenti allo stato e dello stato in moneta: significa che le valutazioni non possono che essere espresse in beni), perché la moneta ha perso la sua funzione di stabile misura di valore. È significativo che proprio per un periodo che va dal 310 al 359 ci siano pervenuti una serie di documenti peculiari: le dichiarazioni rese mensilmente dai capi dei koind, delle corporazioni di mercanti attivi nelle poleis egiziane, che hanno per contenuto il prezzo corrente, così parrebbe, delle merci «trattate» dalle corporazioni stesse; e ancora i documenti stilati quadrimestralmente e ricapitolativi dei prezzi dichiarati dalle corporazioni, di cui, peraltro, un esempio è successivo (degl'inizi del quinto secolo o forse già della fine del quarto). Quali che fossero natura, funzioni e finalità di questi documenti 52, sembra indubitato che le dichiarazioni in questione e i documenti ricapitolativi siano connessi con il continuo incremento dei prezzi in unità di conto che fa sì che la moneta non possa, di per sé, più assolvere in modo efficace alla sua funzione di stabile misura di valore. È solo quando la riacquisterà, con l'oro, che lo stesso incremento dei prezzi nominali rallenterà e poi si fermerà.
52
Infra, III 5.
III. PREZZI IN ORO E PREZZI IN UNITÀ DI CONTO TRA IL III E IL IV SEC. D.C. 253 TABELLA 1. Prezzo del grano in unità di conto (dracme 78-79 124 160 169170 191-92 248 (258) 250 253 (256) 254 255 255 255 256 ca. 260 260 269 276
12-13,2 10,8 8,4 24 21,6-24 14,4 24 19,2 14,4 28,8 19,2 24 14,4 19,2 14,4 28,8 240
293 294 301 genn.-febbr. 301 nov.-dic.>' 305 312-3 314 327 335 338 338-41 340 ca.
360 264 768 1.309 1.200 2.000 8.000 17.333 84.000 144.000 156.000 240.000-270.000 280.000-300.000 5.076.000 8.202.000
357/8 359
= se sterzi
per artaba ").
(SB 8, 8699) (P. Sarap. 6) (P. Berl. Leihg.2, 39, recto col. 5) (SB 6, 9348 col. I) (P. Cairo Goodsp. 30) (P. Laur. l, 11 l recto) (SB 6, 9408, l, col. 1) (SB 6, 9408, 2, col. 1) (P. Lond. 3, 1226) (SB 6, 9409, l, col. 1) (BGU l, 14, col. 2) (SB 6, 9409, 2, col. 1) (P. FIor. 3, 321, col. 1) (POx~49,3513;3516;3518) (SB 6, 9409, 3, col. 1)
(P. ErI. lO 1) (O. Mich. 1, 157 e Youtie, TAPA, 76,1945,144-6) (P. Oxy. 2142) (P. Rendel-Harris 93) (CPR VI 75) (Edictum de pretiis) (P. Oxy. 36, 2798) (P NYU 18) (CPR 8, 22) (PSI 4, 309: rimb. per acquisto coatto) (P. Lond. 6, 1914) (P.Oxy. l, 85) (SB 14, 11593) (P. Oxy. 54, 3773) (SB 14, 12154) (P. Oxy. 51, 3625).
53 Di 48 chenici: cfr. DUNCAN-JONES I 976a, con le osservazioni alle pp. 257 sgg. (vd. ora DUNCANJONES 1990, 142 sgg.), e nell'ipotesi che i prezzi del principato siano espressi per l'artaba di 40 chenici (cfr. DREXHAGE 1991, IO sg.) e quelli del quarto secolo nell'artaba di 48 chenici e che siano in uso in Egitto più artabe, ma una sola chenice: non ci si può nascondere l'arbitrarietà, entro certi limiti, di questa scelta, ma è vero che, per identificare il genere di fenomeni che si intendono identificare, fare ipotesi diverse non modificherebbe la sostanza generale dell'evoluzione dei prezzi individuata. I prezzi sino all'avvento di Diocleziano sono quelli registrati in DREXHAGE 1991; i prezzi del quarto secolo quelli registrati in BAGNALL 1985, vd. pure BAGNALL 1989 (con qualche ulteriore aggiunta). 54 Edictum de pretiis: prezzo dedotto dell'artaba di 48 chenici, di 327,27 d. (o cioè di 220 artabe per libbra d'oro), in base al rapporto tra modius castrensis e artaba, di 1:3,2727, rivelato da P. Cairo Isid. Il, e all'individuazione dell'artaba in questione come quella pari a 4,5 modii /talici (e di conseguenza del modius castrensis come pari a l 3/8 modii Italiciy; cfr. DUNCAN-JONES I 976c, cfr. DUNCAN-JONES 1976b, 1979: in questo senso JAHN 1980; vd. pure COLES 1987,239, n. 8; in gen. RATHBONE 1983; se si ritenesse che nell'editto viene adottata la misura alternativa, per il modius castrensis, di 1 1/2 modii Italici (come propende a ritenere lo stesso DUNCAN-JONES, ibid., e 1990, 115 n. 32), si avrebbe, per l'artaba di 48 chenici, un prezzo di 66.666 d. x 4.5 = 300 d. (o cioè 240 artabe per libbra d'oro) ovverosia 1,2 scrupoli d'oro.
254
CRESCITA E DECLINO
TABELLA
2. Prezzo dell'orzo
in unità di conto (dracme = sesterzi per artaba ").
138 157 162-3 169 192 260-70 30156 315 316 338 340 ca. 372
6,72 7,152 7,2 7,2 12,12 24 785 1.000 1.000 80.000 90.000-120.000-150.000 3.000.000- 3.600.000
TABELLA
3. Prezzo del vino in unità di conto (dracme
138 164 191/2 246 250 253 0256 253 254 254 255 255 256 ca. 258 260 264 264 292-3 300/301 301 303/4 314 316 321
5 4 16 ca. 10,28 9,14 12 14 16 8 12 10,28 9,7 9,14 12-18 14 12 480-500-540 300 576 300-500-600 1.920 1.248 2.500
(PSI 4, 281) (P. Wisc. 2, 82) (P. Mil Vogl. 1, 28, col. 3) (P. Mil. Vogl. 4, 215) (P. Cairo Goodsp. 30, col. 33) (P. Grenf. 2, 77) (Edictum de pretiis) (P. Cairo Isid. 58) (P. Princ. Roll l 14) (P. Oxy. l, 85) (P. Oxy. 54, 3773) (P. Col. 7, 182, 184)
= sesterzi
per keramion'ì).
(P. Mil. Vogl. 2, 52) (P. Mil. Vogl. 7, 307) (P. Cairo Goodsp. 30) (SB 6, 9406, 12) (SB 6, 9408, l) (SB 6, 9408, 2) (P. FIor. 2, 196) (P. FIor. 2, 123 + 124) (P. Lond. 3, 1226) (SB 6, 9409, 1) (SB 6, 9409, 2) (P. Flor. 3, 321) (P. Flor. 3, 322) (SB 6, 9409, 3) (P. FIor. 2, 143 + 146) (P. FIor. 2, 202) (P. Bad. 26) (CPR 6, 12) (Edictum de pretiis) (CPR 6,23) (CPR 8, 22) (P.Oxy. 17,2114) (CPR 6,38) (segue)
Cfr. n. 53. Cfr. n. 54. 57 I prezzi del Principato sono quelli registrati in DREXHAGE 1991; i prezzi del quarto secolo quelli registrati in BAGNALL 1985, riferiti al keramion o tradotti in prezzi per keramion in base all'equivalenza l keramion = 4,8 sestarii (BAGNALL 1985,4); il prezzo dell'editto è quello di 30 denarii per sestario italico, che è il prezzo della maggior parte delle qualità di vino elencate nell' edictum, parimenti rapportato al keramion in base all'equivalenza suddetta. 55
56
III. PREZZI IN ORO E PREZZI IN UNITÀ DI CONTO TRA IL III E IL IV SEC. D.C. 255
(segue) TABELLA
322 340 340 ca. 385-88 ca.
TABELLA
3.000 86.400 28.800-38.400-48.000 25.600.000
= sesterzi
per keramion).
(P. Oxy. 8, 1139 recto) (BGU 1,21) (P. Oxy. 54, 3773) (PSI 8, 959)
4. Prezzo del grano in oro (scrupoli per artaba58) e numero indice (301=100).
78 160 169170 191-92 248 (258)59 25060 253 (256) 25461 255 255 255 256 ca. 260 260 26962 27663 301 genn.-febbr.
30J64
3. Prezzo del vino in unità di conto (dracme
0,768-0,84 0,538 1,536 1,3824-1,536 0,54564 (0,41472-0,27648) 0,768 0,55296-0,36864 0,41472-0,27648 0,82944-0,55296 0,55296-0,36864 0,6912-0,4608 0,41472-0.27648 0,55296-0,36864 0,41472-0,27648 0,1368 [??] 0,49368 [??] 0,9216 1,309
58,67 - 64,17 41,1 117,34 105,6 - 117,34 41,68 (31,68; 21,12) 58,67 42,24 - 28,16 31,68 - 21,12 63,36 - 42,24 42,24 - 28,16 52,8 - 35,2 31,68 - 21,12 42,24 - 28,16 31,68 - 28,16 10,45 [??] 37,71 [??] 70,4 100 (segue)
58 Di 48 chenici, cfr. n. 53. Andrà osservato che 8 dracme è il prezzo normalmente pagato dal governo nel caso degli acquisti coatti per I'artaba di 48 chenici prima del III secolo (DUNCAN-JONEs 1976a, 254, 258): a questo livello di prezzo, sarebbero occorsi dunque 0,512 scrupoli d'oro per artaba (numero indice 39,11). I prezzi elencati sono stati ricostruiti per l'artaba di 48 chenici a partire da quelli, per l'artaba di 40 chenici, registrati da Drexhage. 59 Nell'ipotesi che l'aureus pari a 100 sesterzi fosse battuto nel 248 a 76 e nel 258 a 100-150 pezzi per libbra. 60 Nell' ipotesi che l' aureus pari a 100 sesterzi fosse battuto nel 250 a 90 pezzi per libbra. 61 Per questo prezzo e per i successivi degli anni di Valeriano e Galliena nell'ipotesi che l'aureus pari a 100 sesterzi fosse battuto a 100-150 pezzi per libbra. 62 Nell' ipotesi che l' aureus di Claudio Gotico, battuto a 62 pezzi per libbra, valga 250 denarii ovvero 1.000 sesterzi. 63 Nell'ipotesi che l'aureus di Tacito, battutto a 70 pezzi per libbra, valga 500 denarii overo 2.000 sesterzi. 64 Edictum de pretiis: cfr. n. 54: prezzo dedotto dell'artaba di 327,27 d. (o cioè di 220 artabe per libbra d'oro), in base al rapporto tra modius castrensis e artaba, di 1:3,2727; se si ritenesse che nell'editto viene adottata la misura alternativa, per il modius castrensis, di 1 1/2 modii ftalici, si avrebbe, per l' artaba di 48 chenici, un prezzo di 66.666 d. x 4.5 = 300 d. (o cioè 240 artabe per libbra d'oro) ovverosia 1,2 scrupoli d'oro.
256
CRESCITA E DECLINO
(segue) TABELLA
325-5065 338-41 340 ca. 359 V sec."
TABELLA
138 157 162-3 169 192 30167 340 ca.68 V sec.
TABELLA
138 164 191/2 246 250 253 253 254 255 256 ca. 258 260 300/301 30170
4. Prezzo del grano in oro (scrupoli per artaba) e numero indice (301=100). 0,8 - 0,308 0,567 0,752 0,603 0,526 - 0,24
61, Il - 23,53 43,32 57,45 46,07 40,18 - 18,33
5. Prezzo dell'orzo in oro (scrupoli per artaba) e numero indice (301=100). 0,43 0,4577 0,4608 0,4608 0,7757 0,785 0,332 0,316 - 0,237
54,77 58,3 58,7 58,7 98,8 100 42,29 40,25 - 30,19.
6. Prezzo del vino in oro (scrupoli per keramion(9) e numero indice (301=100). 0,32 0,256 1,024 0,39 0,292 0,3456-0,23; 0,4032-0,2688 0,4032-0,2688 0,2304-0,1536; 0,4608-0,3072 0,2961-0,1973; 0,3456-0,23 0,2794-0,1862 0,2632-0,1755 0,3456-0,2304; 0,5184-0,3456 0,36 0,576
55,55 44,44 177,77 67,71 50,69 60-40; 70-46,66 70-46,66 40-26,66; 80-53,33 51,41-34,25; 60-40 48,51-32,33 45,69-30,47 60-40; 90-60 62,5 100 (segue)
65 (,6 67 6X
w 70
Patrologia Orientalis IV 5 (Histoire de S. Pacàmei, 33-4: cfr. P. Oxy. 51, 3628-3636. Edictum de pretiis: cfr. supra, n. 54. P. Oxy. 54, 3773, valore medio. In base all'equivalenza I keramion = 4,8 sestarii: cfr. n. 57. Edictum de pretiis.
JONES
1984, 268.
III. PREZZI
(segue)
TABELLA
338-41 340 ca." 385-90 V sec. 72
IN ORO E PREZZI
IN UNITÀ DI CONTO TRA IL III E IL IV SEC. D.C.
257
6. Prezzo del vino in oro (scrupoli per keramion) e numero indice (301=100). 0,3504 0,096 0,6 - 0,4992 0,144 - 0,096
60,83 16,66 104,16 - 86,66 25 - 16,66.
71 P. Oxy. 54, 3773, valore medio. Se si utilizzasse, per il prezzo del sestario di vino, il dato ricavabile da BGU I 21, del 340, combinandolo coi prezzi dell' oro ricavabili da P. Oxy. 3773, si avrebbe un risultato diverso: 0,0514-0,0493 scrupoli d'oro per sestario. 72 P. Oxy. 51, 3628-3636.
,
L
IV. CONSIDERAZIONI SU CIRCOLAZIONE MONETARIA, PREZZI E FISCALITÀ NEL IV SECOLO
Con la pubblicazione del LIV volume dei Papiri di Ossirinco, nel 1987 I, si è enormemente accresciuto il numero dei documenti noti che appartengono a una classe particolare, di grande significato per ricostruire la vita economica dell'Egitto del quarto secolo. Intendo riferirmi alle dichiarazioni rese mensilmente dai capi dei koina, delle corporazioni di artigiani e di mercanti attivi nelle poleis egiziane, che hanno per contenuto il prezzo corrente, così parrebbe, delle merci «trattate» (il verbo greco è appunto xetpiçro o Xtpiçro) dalle corporazioni stesse. Tali dichiarazioni sono rese presso l'ufficio del Àoyta'tllç (il curator civitatisi. Quelle superstiti di cui disponiamo si scaglionano in un arco cronologico che va dal 310 circa al 3592• Proprio da queste dichiarazioni sono venute non solo informazioni assai interessanti circa la composizione merceologica di ciò che è venduto sul mercato di una città come Ossirinco, nonché circa le suddivisioni tra i vari koind (che rivelano una spinta specializzazione: ci sono attestate una trentina di diverse corporazioni a Ossirinco '), ma anche le informazioni forse più importanti di cui disponiamo circa la dinamica dei prezzi in Egitto nel corso del quarto secolo". Le dichiarazioni in questione seguono un formulario standard e anzi spesso è dimostrabile che alcune indicazioni, oltre che la firma di chi ha sottoscritto il documento (per sé o per un altra persona analfabeta), sono state aggiunte in un momento successivo: quasi che si tratti di dichiarazioni effettuate utilizzando un modulo già preparato nell' ufficio del Àoyta'tllç e poi riempito dall'interessato, il J.111VtaPXllç o i J.111Vtapxat della corporazione (il presidente o i presidenti del mese). Il formulario standard, per le dichiarazioni più antiche, è il seguente: «Nel consolato di... e di ..., a x, Àoyta'tllç dell'Ossirinchite, dal koinon dei ... della stessa città per il tramite di ... [nome del J.111VtaPXllç o dei J.111Vtapxat].Con-
The Oxyrhynchus Papyri, voI. uv, ed. R.A. COLES, H. MAEHLER, P.J. PARSONS, London 1987. Se ne veda l'elenco ibid., 92 (intr. a P. Oxy. 3731). 3 Ibid., App. Il. 4 Ibid., App. III, 232-40; cfr. in part. Lo CASCIO 1993b; Lo CASCIO 1995; e supra, 235 sgg. I
2
260
CRESCITA E DECLINO
formemente a quanto è stato ordinato, a mio rischio dichiaro il prezzo che segue delle merci che tratto e giuro di non aver detto il falso»; segue l'indicazione della merce o delle merci in questione e il prezzo o i prezzi e infine c'è l'indicazione della data, che è sempre l'ultimo giorno del mese. Il formulario cambia un poco a partire dalle dichiarazioni della fine degli anni '20 del IV secolo". Ciò che si modifica è precisamente la formula della dichiarazione, che diviene ora: «Dichiaro a mio rischio il prezzo che segue per questo mese (èrcì 'tOUbE'tOU Jlllv6ç) delle merci che tratto e giuro di non aver detto il falso»: vale a dire che non c'è più il riferimento all'obbligo di effettuare la dichiarazione, e c'è ora viceversa il riferimento al fatto che il prezzo in questione è quello del mese (questo, e cioè quello indicato dalla data stessa della dichiarazione, posta in calce al documento, dunque il mese trascorso) 7. Sempre in quest' arco cronologico si collocano documenti di tipo diverso, ricapitolativi dei prezzi (di quelli evidentemente dichiarati dalle corporazioni): uno, il P. Oxy. 3765, da datarsi attorno al 327, elenca i prezzi di una serie numerosa di merci (e verosimilmente per un mese, che però non è indicato); e l'altro, il P. Oxy. 3773, del 340 ca., elenca i prezzi di sette merci, e per una serie di mesi che coprono più d'un anno. Le merci in questione sono il solido, l'argento non coniato ((i<~llJlov),il grano, l'orzo, le lenticchie, il ÀaxaV6a1tEPJlov, il vino. A questo tipo di documenti si apparentano, peraltro, altri documenti, pure pubblicati di recente e datati a un periodo leggermente più tardo, gl'inizi del quinto secolo (o la fine del quarto): i P. Oxy. 3628-33. Si tratta di documenti parimenti ricapitolativi dei prezzi vigenti in ogni vouoç, stilati, però, questa volta, non allivello stesso del vouòç o della polis, ma allivello provinciale: e la provincia in questione è l'Arcadia. Questi documenti ricapitolativi dei prezzi sono redatti non più mensilmente, ma quadrimestralmente; ne abbiamo la definizione: ognuno di essi è un «[ìpèoutov delle merci che si possono acquistare nell' agoni [evidentemente ilforum rerum venalium delle disposizioni dei codici], per ogni città in accordo coi ~pÉo'\)ta presentati dai tabularii di ogni città 5 Per quest' interpretazione di i8iq> tu, T]Jlu'tt si vd. J. Rea, nel suo commento a P. Oxy. XLIII 3105, 4 n.; e, ivi cit., LEWIS 1966, 533. 6 Cambia tra gli anni 326 ~ data alla quale, dubitativamente, il CoIes assegna (per via del prezzo del ÀuXUVOCHtEPJlOV che vi compare) un documento dove la formula ancora non è presente, il P. Oxy. 3760 - e il 329, data di P. Oxy. 3766: il primo documento potrebbe essere tuttavia anche di un poco anteriore (e parimenti anteriore dev'essere P. Oxy. 3768, se si accetta la significatività del cambiamento della formula, nonostante quanto osserva l'editore, che, per parte sua, attribuisce il documento, sulla base di altre considerazioni, al periodo 332-6, pur non escludendo addirittura una datazione più tarda). 7 E non quello successivo, come ritiene PALME 1988.
IV. CIRCOLAZIONE
MONETARIA,
PREZZI E FISCALITÀ NEL IV SECOLO
261
per l'anno x dellindizione». Le merci in questione sono il solido, l'argento, l'argento àpy6ç (non lavorato?), il grano, l'orzo, le lenticchie, la paglia, il vino, la carne, il sale, l'olio di rafano (EÀatOV pE<paVt vov). Questi documenti erano associati in un unico rotolo opistografo a documenti parimenti ricapitolativi di varie tasse, riscosse nella medesima provincia di Arcadia. Non è agevole intendere quale sia la natura e quale la funzione tanto delle dichiarazioni delle corporazioni, quanto dei documenti ricapitolativi. V' è chi ha ritenuto che ci troviamo dinnanzi a un effettivo controllo dei prezzi praticati sul mercato: si tratterebbe di documenti che si collocano dunque sulla scia dell' edictum de pretiis dioclezianeo. Così, il Westermann aveva pensato che tali documenti dimostrassero che la fissazione dei prezzi sarebbe stata demandata dallo stato alle corporazioni in questione". Ma è facile obiettare, ora che abbiamo un'assai più ricca e meno ambigua documentazione di quella che poteva essere nota a Westermann, che il prezzo indicato, quanto meno nei documenti più tardi, non è quello per il mese che viene, ma per il corrente (o trascorso); e stando così le cose, sembrerebbe del tutto escluso che abbiamo a che fare con l'imposizione di un prezzo: abbiamo piuttosto a che fare con la mera sua registrazione. Va per di più osservato che le merci «trattate» di cui viene dichiarato il prezzo sono assai spesso le materie prime che servono a produrre le merci che produce la singola corporazione e dunque in quei casi si tratta non già del prezzo al quale la corporazione vende la merce, ma del prezzo al quale la compra. E quanto agli altri casi non abbiamo sempre la sicurezza che i prezzi in questione siano quelli praticati alla vendita dalla corporazione e non i prezzi d'acquisto delle merci poi rivendute (per esempio non possiamo dire se il prezzo del vino delle varie qualità sia il prezzo di vendita al dettaglio o il prezzo di acquisto da parte dei Ka1tllÀOt, i tabemariii. Si pone dunque il problema di comprendere quale possa mai essere la finalità di questa complicata procedura di registrazione. Due ipotesi sono state fatte recentemente. Secondo la prima, di Isaac Fikhman, le dichiarazioni assolverebbero sostanzialmente alla finalità di un duplice controllo: un controllo sia pure indiretto sui prezzi delle materie prime e di alcune merci comprate da artigiani e mercanti (merci di largo consumo, come grano, orzo, carne, pesce, miele, spezie, tessuti, metalli, vetro etc.) e un controllo che Fikhman definisce parziale sui manufatti e sui prezzi al dettaglio. Le dichiarazioni avrebbero uno scopo conoscitivo per x WESTERMANN
1953, part. 32 sgg.
262
CRESCITA E DECLINO
l'amministrazione, che sarebbe messa in grado di aver un'idea della disponibilità e del prezzo di queste merci essenziali 9. L'ideologia che starebbe dietro a questa procedura sarebbe quella, che si va affermando, del «giusto prezzo». Di «una forma di controllo dirigistico dei prezzi», della volontà dello stato di «controllare burocraticamente i prezzi» ha parlato recentemente anche Daniele Foraboschi "'. La seconda ipotesi è quella avanzata pure recentemente da Roger BagnalI. Lo studioso americano osserva come in effetti non sembri esservi nulla di prescrittivo nei documenti in questione. Non solo: la stessa estrema variabilità dei prezzi in un arco di tempo limitato e per aree geograficamente non distanti, rivelata da alcuni di questi documenti Il, fa ritenere del tutto esclusa la volontà di influenzare i prezzi da parte del governo. BagnalI ritiene plausibile che conoscere il livello dei prezzi avrebbe potuto essere utile all' amministrazione per fissare il livello delle imposte da richiedere ai commercianti (dunque la eollatio lustralis o ehrysa rgyron ), ma ritiene pure che non abbiamo, né abbiamo speranza di avere in futuro, una documentazione che lo confermi. La conclusione di BagnalI è che ci troviamo di fronte a un complesso di documenti che sarebbero stati stilati, in qualche modo, per meri scopi statistici 12. Devo dire che quest'interpretazione sembra essere un po' troppo modernizzante: mi sembra davvero difficile supporre che questa complessa procedura non assolvesse a scopi specifici, e ben individuabili. A mio avviso, bisogna tornare ad alcune osservazioni che aveva fatto il Rea qualche anno fa, pubblicando alcuni di questi testi 13. Rea aveva osservato due cose: a) che le dichiarazioni delle corporazioni dovevano presumibilmente avere a che fare con la congiuntura inflazionistica; b) che le dichiarazioni dovevano essere connesse con il frequente riferimento nei Codici al prezzo di mercato, come quello sulla base del quale doveva essere stabilito tanto il tasso di aderazione dell' annona da prestare ai militari 14 (dunque la Verausgabungsadaeration, come la definiva Persson, nel distinguerla dalla Erhebungsadaeration, praticata nella riscossione delle imposte conteggiate in natura), tanto il tasso di eoemptio 15. I con-
1991-2. 1994/5. Il P. Oxy. 3628-36. 12 BAGNALL 1994. 13 Si vd. l'introduzione alla pubblicazione di P. Oxy. 3624-6 e di 3628-36 di J. Rea, in The Oxyrhynchus Papyri, voI. LI, London 1984,60 sg. e 72 sgg.; l'opinione di Rea è seguita da DEPEYROT 1991b, 585. 14 C.Th. 7. 4. lO. 15 C.Th. Il. 15.2. 9
IO
FIKHMAN
FORABOSCHI
IV. CIRCOLAZIONE
MONETARIA, PREZZI E FISCALITÀ NEL IV SECOLO
263
tinui riferimenti nei codici ai prezzi di mercato 16, e per lo più con riferimento alle procedure di adaeratio e di coemptio, implicano l'esistenza di un meccanismo ufficiale per accertare questi prezzi di mercato. Ora sarebbero precisamente questi documenti egiziani quelli che testimoniano l' operatività di un simile meccanismo. L'interpretazione di Rea, per quanto riguarda la funzione delle registrazioni mensili e delle ricapitolazioni quadrimestrali, sembra sicura, per lo meno a partire, come ora si vedrà, da una certa data. Mi sembra che la conferma venga dal confronto di questi documenti con un altro documento edito di recente, che mostra parimenti l'esistenza di una duplice cadenza, mensile e quadrimestrale, nella registrazione di dati relativi, questa volta direttamente, all' annona. Intendo riferirmi alla Tavola di Trinitapoli 17. La Tavola di Trinitapoli riproduce una costituzione di Valentiniano I, relativa alle procedure da seguire nella riscossione dei tributi in natura: tali riscossioni devono essere registrate attraverso dei menstrui breves, compilati dai praepositi pagorum, nonché da coloro che si assumono, così pare, la cura degli horrea publica. Tali menstrui breves devono raccogliere le informazioni circa il pagamento da parte di ogni contribuente: in quale giorno il pagamento sia avvenuto e in quale forma (<
264
CRESCITA
E DECLINO
servano come la Tavola di Trinitapoli sia l'unico documento che attesti l'esistenza di registri mensili. Anche per la Tavola di Trinitapoli il problema che si è posto è, allora, quello del rapporto tra tali menstrui breves e i quadrimenstrui breves, quelli che valgono a registrare l' inlatio tripertita dell' annona, un nuovo sistema di riscossione introdotto da Valentiniano I all'inizio del regno e destinato a rimanere in vigore a lungo 18. Sostengono gli editori della Tavola di Trinitapoli che «l'attestazione contemporanea di breves menstrui e quadrimenstrui può spiegarsi senza difficoltà se ipotizziamo che al livello più basso, quello dei praepositi pagorum e degli altri addetti alla susceptio (probabilmente i praepositi horreorum) si praticasse una trasmissione mensile di breves che confluivano poi nei quadrimenstrui breves elaborati negli uffici superiori ... la registrazione di registri quadrimestrali appare sempre connessa alle superiori competenze dei duces e dei iudices, che li trasmettevano al prefetto al pretorio o al magister militum i quali a loro volta li inviavano agli uffici centrali, mentre nel nuovo testo i registri mensili sono redatti, come si è detto, al livello molto più basso dell' organizzazione fiscale, quello appunto dei praepositi» 19. Il parallelismo coi documenti egiziani sembra stringente: anche nella procedura di raccolta dei dati relativi ai prezzi delle merci, sembra esservi una coesistenza tra documenti che raccolgono, allivello del singolo vouòç, i dati relativi mese per mese e documenti verosimilmente riassuntivi, redatti quadrimestralmente, e al livello del tabularius provinciale. Il parallelismo sembra trovare la sua più ovvia giustificazione nel fatto che scopo della raccolta dei dati relativi ai prezzi praticati sul mercato libero, nelforum rerum venalium, dev'essere appunto quello di fornire l'informazione necessaria per individuare il rapporto di conversione tra imposta conteggiata in natura e riscossa in moneta o il prezzo che deve valere negli acquisti di merci da parte dell' amministrazione. In questo senso, mi sembra decisivo che, accanto all'indicazione di alcune merci, nei documenti ricapitolativi compaia il riferimento al prezzo del solido e a quello della libbra d'argento: che sono gli strumenti usuali dei pagamenti in denaro allo stato (dunque non la moneta d'argento, che non compare quasi mai nei codici). Anche l'altra osservazione fatta dal Rea, circa la connessione di questi documenti con l'inflazione, è del tutto plausibile. In verità la ragione ultima di questa continua ricognizione e registrazione dei prezzi dev' es-
IX C.Th. 5. 15. 20 (366); Il. 1. 15 (ante 368: cfr. (365); 11. 19.3 (364); 12.6. 15 (369). 19 GIARDINA e GRELLE 1983, 280 sg.
GIARDINA
e
GRELLE
1983, 271, n. 58); Il. 7. Il
IV. CIRCOLAZIONE
MONETARIA,
PREZZI
E FISCALITÀ
NEL IV SECOLO
265
sere riconosciuta proprio nella crescita esponenziale dei prezzi. Si è detto che i documenti che riproducono le dichiarazioni delle corporazioni professionali sono attestati per il periodo tra il 310 e il 359, e cioè proprio nel periodo dell' inflazione galoppante in Egitto, ma, come sembra ormai indiscutibile, nel complesso dell' impero. Non torno sul problema delle ragioni di questa crescita vertiginosa dei prezzi in unità di conto, che salgono di alcune decine di migliaia di volte in pochi decenni, del meccanismo che innesca questa spirale, del come e del perché l' «inflazione», se è lecito definirla così, con gli anni 60-70 del quarto secolo, con le riforme dei Valentiniani sostanzialmente si arresti 20. Quel che mi preme mettere in rilievo è che è solo nel quadro della crescita vertiginosa dei prezzi che può spiegarsi il motivo per il quale, nell' organizzazione della fiscalità, lo stato debba preoccuparsi di garantire il continuo adeguamento dei rapporti di conversione tra merci e moneta. Al di là delle vecchie e nuove controversie circa la riforma fiscale dioclezianea, circa l'esatta natura del sistema della iugatio-capitatio - e mi basti rimandare qui all'ultimo intervento al riguardo, quello di Carrié, in Antiquité tardive?' - mi sembra che si possa considerare sufficientemente accertato che la ragione fondamentale per la quale si attua una generale ristrutturazione della fiscalità dev' essere vista, per l'appunto, non solo nella dissoluzione del sistema monetario del principato, ma anche nel tentativo, evidentemente non riuscito, da parte di Aureliano di ricostituirlo su nuove basi: tentativo che porta a un impennarsi dei prezzi che non si riesce più a fermare.". La riforma consiste prima di tutto nell'introduzione di un' imposta generale di ripartizione, valutata in natura e che ha «carattere annonario». Il rapporto tra imposta generale di ripartizione e annona è logico: il sistema prima si è basato su un'imposta fondiaria proporzionale al valore in termini monetari i dei fondi e riscossa, io direi nella stragrande maggioranza degli àmbiti provinciali, in denaro. All' imposta fondiaria e a quella personale, il tributum capitis, si sono associate le requisizioni (di merci e di servizi, per esempio il trasporto: quelle «novae indictiones» di cui Plinio parla nel Panegirico a Traiano) 23, e queste sono basate ovviamente sulle necessità annonarie e sono evidentemente imposte secondo un criterio di ripartizione, che però non appare né pienamente efficiente, né equo. Credo che l'interpretazione tradizionale che vede nella riforma dioclezianea nient' altro che l'estensione, la raziona20
Lo
21
CARRIÉ
1986; Lo CASCIO 1993b; Lo CASCIO 1995; vd. supra, 238 sgg. 1994. Lo CASCIO 1984,168 sgg.; Lo CASCIO 1986,543; Lo CASCIO 1993a, 268 sgg.; Lo 281 sgg.; cfr. supra, 244 sg. 23 Plin. Pan. 29, su cui cfr. ad es. NEESEN 1980, 106 sg. CASCIO
CASCIO
1996a,
266
CRESCITA E DECLINO
lizzazione e la regolarizzazione delle requisizioni basate su un criterio di ripartizione non possa essere seriamente messa in discussione. Ma per quale motivo si avverte solo ora la necessità di estendere e di regolarizzare le requisizioni per l'annona? Evidentemente non solo perché non è più possibile risolvere lo squilibrio che si è creato tra entrate e uscite dello stato con altri mezzi, e per esempio con la svalutazione del numerario, ma soprattutto perché la crescita dei prezzi è divenuta ora tale che non è più possibile che il riaggiustamento dell'imposta in termini monetari al nuovo livello dei prezzi segua sufficientemente presto, che illag temporale sia sufficientemente breve, tanto da non fare incorrere lo stato in una perdita: e questo perché il ritmo dell' ascesa dei prezzi si è, dopo la riforma aurelianea, enormemente accelerato. La novità più rilevante del nuovo sistema non è, dunque, l'introduzione o la generalizzazione dell'imposta in natura, ma piuttosto la base annonaria dell'imposta, il fatto che le entrate vengano direttamente e automaticamente rapportate alle esigenze di spesa espresse in termini di beni e non di moneta. Il sistema non necessariamente comporta un' esclusione di prelievi e pagamenti in denaro, come testimoniano i papiri di Panopoli 24, ma deve significare che la moneta, non avendo più funzione di stabile misura di valore, non può più costituire la base contabile dell'imposta o delle spese. Per fare un solo altro esempio, su cui aveva attirato l'attenzione Hugo Jones, per dimostrare come la crescita esponenziale dei prezzi in unità di conto non dovesse avere riguardato soltanto l'Egitto", l'editto di Ulpio Marisciano consolare della provincia di Numidia de ordine salutationis sportularumque, che si data negli anni di Giuliano imperatore, prevede che l'ammontare delle sportulae sia definito in un certo numero di modii di triticum, ma possa essere versato in denaro, al prezzo evidentemente corrente: «Ad off[icia]lem intra ciuitatem danldum Italic[os] tritici modios quinque I aut pretium frumenti ... » 26. Ne consegue, mi sembra, che i meccanismi aderativi, come quelli di coemptio, sono ab initio fatti strutturali del nuovo sistema: donde la loro centralità, per esempio, nella normazione, una centralità che non si può in alcun modo negare. Sostenere, come pur s'è fatto ancora recentemente 27, che la natura «annonaria» del sistema fiscale introdotto dalla riforma dioclezianea non andrebbe sopravvalutata, perché vi sarebbe una persistenza sostanziale di tributi monetarii e di pagamenti monetari all' elemento militare (talché gli stessi meccanismi aderativi, che sono il 24 25 26 27
Si vd. in parto DUNCAN-JONES 1990, 105 sgg.; 1984, 242-95, alle pp. 278 sg. FIRA F 64, Il. 15 sg.: si vd. ad es. MAZZARINO CARRIÉ 1994.
CARRIÉ
1993,285
JONES
1956,448
n.
sgg.
IV. CIRCOLAZIONE
MONETARIA,
PREZZI E FISCALITÀ NEL IV SECOLO
267
corollario di tale natura «annonaria» del sistema fiscale, non avrebbero l'importanza che ad essi attribuivano, pur in sensi diversi, il Mickwitz e il Mazzarin028), non mi sembra corretto: il punto non è se continui o meno un'utilizzazione della moneta anche da parte dello stato, e non solo da parte dei privati; il punto è se siano possibili stabili valutazioni monetarie così delle entrate come delle uscite: quelle stabili valutazioni monetarie che sole consentirebbero di rinunciare ai meccanismi aderativi. Detto altrimenti: il sistema non può non continuare a basarsi su valutazioni espresse in termini di beni e non in termini monetari sin quando non si trova il modo di restituire alla moneta la sua funzione di stabile misura di valore: sin quando, cioè, la crescita esponenziale dei prezzi non si arresta. Ma è proprio il fallimento dei tentativi dioclezianei di stabilizzare per un verso la moneta, per un altro verso i prezzi, a rendere necessari quei complessi meccanismi di aggiornamento continuo dei rapporti di conversione tra merci e moneta che vediamo riflessi, ad esempio, nei documenti ossirinchiti: a rendere necessari, dunque, quei meccanismi di rilevazione continua, o quanto meno ad elevata frequenza, dei prezzi. Un'ulteriore manifestazione dell'impatto che ha l'inflazione sulla gestione della finanza dello stato, in questo caso sulla complessa organizzazione annonaria della città di Roma, ma anche una manifestazione di una maniera diversa di risolvere il problema mi sembra quella che rivelano le informazioni che deriviamo dalle consolidazioni circa le prestazioni di caro porcina, di calce e di vino negli anni' 50 e '60 del quarto sccolo ". Apprendiamo dell'esistenza di un complesso sistema di rapporti di conversione tra una merce e l'altra, che vale ad eliminare la moneta di conto come equivalente e nel quale semmai a un certo punto entra il solido, ma non la moneta di rame legata all'unità di conto 30. 28 MICKWITZ 1932; MAZZARINO 1951, part. cap. IV; si vd. quanto mette in rilievo, a proposito della svalutazione dell'importanza dell'aderazione, come meccanismo fondamentale dello stile economico e come fatto centrale della vita sociale tardoantica, compiuto da CÉRATI 1975, GIARDINA 1977; e ora Lo CASCIO2007c. 29 Le costituzioni in questione sono la 4 del titolo 14.4 (De suariis, pecuariis et susceptoribus vini ceterisque corporatis) e la 1 e la 3 del titolo 14.6 (De calcis coctoribus urbis Romae et Constantinopolitanae) del Teodosiano; si vd. ad es. CHASTAGNOL1953, parto 20 sg.; RUGGINI 1961,375 sgg., n. 457. 30 L'arca vinaria è incaricata di pagare queste prestazioni in natura in un momento nel quale l' incremento dei prezzi è ancora assai accentuato: nel 359 (C.Th. 14.6. I) si statuisce che i vecturarii ricevano un'anfora di vino per ogni 2.900 libbre di calce, mentre i calcis coctores una per ogni tre carrettate di calce lavorata. Nel 365 (C.Th. 14.6.3) tre quarti della remunerazione devono venire dai possessores ed essere pagate in solidi, e un quarto dall' arca vinaria: significativo, appunto, il passaggio, negli anni della riforma monetaria valentinianea, a una remunerazione in solidi, e conteggiata in solidi (<<Statum urbis aeternae reformare cupientes ac providere publicorum moenium dignitati iubemus, ut calcis coctoribus vectoribusque per singulas vehes singuli solidi praebeantur, ex quibus tres partes inferant possessores, quarta ex eius vini pretio sumatur, quod consuevit ex arca vinaria ministrari ... »}, Ma ancora nel 367 (C.Th. 14. 4. 4; e già prima, con l'editto di Turcio Aproniano, C/L VI 1771) viene stabilito un risarcimento del «damnum quod inter susceptionem et erogationem necessario evenit», per i suarii, in un certo
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CRESCITA E DECLINO
Ne dedurremo che la moneta è per questo meno utilizzata nellàmbito urbano e fra i privati? Certamente no; ma ne dedurremo che l'unica maniera di garantire la stabilità dei rapporti di conversione individuati fra le varie merci è appunto quella di eliminare ogni valutazione monetaria (o, quanto meno, ogni valutazione in termini di unità di conto e non di oro). Sempre per ciò che concerne l'annona civica, la consapevolezza di prezzi oscillanti (e in linea di massima in ascesa) e la volontà di porre riparo a una tale oscillazione potrebbero essere quel che spiega la particolare forma che assume la statuizione contenuta in C. Th. Il. 2. 2, del 365: si stabilisce il «prezzo politico» del vino a Roma, e tuttavia non si tratta di un prezzo politico fissato in termini assoluti, ma appunto dell'abbattimento di un quarto del prezzo di mercat03'. E gli esempi analoghi potrebbero moltiplicarsi. Quando cambia la situazione? La situazione cambia non già quando la moneta d'oro si diffonde (la moneta d'oro c'è anche prima), ma quando la moneta d'oro diventa essa misura di valore e tutto è rapportato ad essa. Ho già messo in rilievo la cruciale importanza della costituzione valentinianea C.I. 11. 11. 2 del 371-3, con la quale si prevede che «Pro imminutione, quae in aestimatione solidi forte tractatur, omnium quoque specierum preti a decrescere oportet»: essa testimonia, confusamente, la volontà che la moneta d'oro assuma la funzione di stabile misura di valore. E ho già messo in rilievo come non sia casuale che è a questo punto che l'inflazione si arresta 32. E tuttavia questa assunzione da parte della moneta d'oro della funzione di unità di conto non è generalizzata, giacché continua a persistere un'unità di conto legata alla piccola moneta", alla moneta di rame: vale a dire che lo stato non rinuncia mai a fissare la potentia, e cioè il valore nominale, della moneta di rame; e quanto al valore della moneta d'oro in rapporto alla moneta di rame, lo stato non sembra sempre rinunziare a una sua fissazione (magari entro una banda
numero di anfore di vino, che devono pagare i possessores e le curie: su questo provvedimento, e sulla presumibile natura del damnum e sulle ragioni del suo risarcimento si vd. Lo CASCIO I 997a, 63 sgg. 31 Anche se evidentemente c'è da tenere conto della varietà dei prezzi a seconda della qualità, ciò che poteva suggerire di non fornire appunto i prezzi in assoluto. La significatività del fatto che il prezzo "politico" sia definito non già come prezzo in termini assoluti (e in unità di conto), ma come proporzione fissa del prezzo di mercato rimane la medesima, quale che sia l'interpretazione da dare del provvedimento: e cioè messa a disposizione di vino fiscale a prezzo ridotto - distribuzione analoga, anche se non gratuita, a quella di pane e carne - ovvero abbattimento di un quarto di quello che sarebbe il prezzo di mercato per tutto il vino messo in commercio a Roma: si vd. ad es. la disc. in VERA 1973-4, 220 sg., nota). 32 Lo CASCIO 1986,550, con p. 795, n. 94, 554 sgg.; Lo CASCIO 1995,501 sg.; Lo CASCIO I996a, 286 sg. 33 Si vd. in particolare quanto viene osservato, contro quanto è stato sostenuto recentemente da DEPEYROT 1988; DEPEYROT 1991a, 197-202; DEPEYROT 1992,43 sgg., in Lo CASCIO 1996a.
IV. CIRCOLAZIONE
MONETARIA,
PREZZI E FISCALITÀ NEL IV SECOLO
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di oscillazione?"). Vale a dire che se anche le valutazioni delle imposte sono ora sempre più direttamente espresse in oro (e in frazioni di moneta d'oro), e in questo senso la moneta d'oro ha assunto funzione di misura di valore, ciò non significa, tuttavia, che la moneta di rame venga lasciata al suo destino o che lo stato non sia in alcun modo interessato ad essa 35. È anche in questo quadro che va vista la testimonianza di una delle Relationes di Simmaco, prefetto urbano negli anni 384-5, a proposito della vendita dei solidi da parte dei collectarii, i cambiavalute della città di Roma 36. I collectarii si sono rivolti al prefetto urbano, lamentandosi di non essere più in grado di vendere i solidi allo statutum pretium, il prezzo fissato nei loro rapporti con l'arca vinaria, e questo perché vi è stato un incremento consistente del prezzo del solido sul forum rerum venalium. I cambiavalute chiedono, par di capire, perciò, il riaggiustamento dello statutum pretium: un ulteriore riaggiustamento, giacché ve n'è stato già un altro, negli anni di Graziano. È ben noto come la relatio simmachiana abbia dato luogo a molteplici interpretazioni e conseguenti ricostruzioni dei meccanismi che presiedevano all' attività dei collectarii in riferimento al solidus (mi basti rinviare a un ben noto saggio di più di trent' anni fa del Vera, poi ripreso nel suo Commento alle Relationesi 37. Ma mi sembra che l'interpretazione da preferire sia quella che vede i collectarii vendere all' amministrazione, e secondo uno statutum pretium, i solidi che compera presso il pubblico: in cambio dei solidi l'amministrazione, e più precisamente l'arca vinaria, dà la piccola moneta di rame (che raccoglie attraverso la vendita dei vina fiscalia=v. Ora, sembra assai probabile che il sistema debba essere stato posto in essere dopo che si è cominciato a valutare il solido, da parte dell' amministrazione, al suo valore di mercato (e cioè, come ora si vedrà, negli anni di Costantino) e che lo statutum pretium, prima del primo riaggiustamento operato da Graziano, debba essere stato fissato negli anni di Valentiniano, quando si è permesso al solido, credo per la prima volta (come ho tentato di mostrare in altra sede), di scendere di valore, nei termini della piccola moneta di rame.". È plau34 Ciò spiega per esempio il senso di Nov. Val. 16 (445), su cui vd. ad es. VERA 1973-4,243 sgg, (e lett. ivi). 35 Com'è stato sostenuto, in particolare, da JONES 1984,242-95. 36 Si vd. ora, sulla Relatio 29, le osservazioni di MARTIN! 1998 e DE MARTINO 1998. 37 VERA 1973-4; VERA 1981, 220 sgg. 3X Con il numerario eneo, peraltro, l'arca vinaria paga tutta una serie di spese e di servizi (ad es. remunera ifalancarii, che provvedono al trasporto del vino dal porto sul Tevere al Templum Solisi: si vd. ad es. CHASTAGNOL 1950; CHASTAGNOL1960,341 sgg. e passim. L'acquisto dei solidi, da parte dell'arca vinaria, è reso necessario dal fatto che, viceversa, per pagare altri servizi, quali quelli dei calcis coctores e dei vecturarii, è necessario, quanto meno a partire dagli anni '60 del quarto secolo (C.Th. 14.6. 3, su cui supra, 267), utilizzare il numerario aureo e non più solo le anfore di vino. 3~ c.I. Il. Il. 2, su cui supra, 268, con n. 32, e rif. ivi.
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CRESCITA E DECLINO
sibile che lo statutum pretium al quale l'arca compra i solidi rivendendo la moneta di rame dovesse essere fissato a un livello di poco superiore al prezzo al quale i collectarii acquistavano i solidi dal pubblico: è così che i collectarii avrebbero realizzato il loro guadagno. Ma la congiuntura era presto cambiata, e mentre il prezzo di mercato del solido saliva, lo statutum pretium non veniva immediatamente modificato. Di qui le difficoltà, già con Graziano, e poi nel 384-5. Dedurremo dall'episodio che pure la scelta di trasferire sulla moneta d'oro la funzione di stabile misura di valore, se anche sarà stata in grado di contribuire a fermare la crescita dei prezzi espressi in unità di conto, non era tuttavia in grado di eliminare le oscillazioni del rapporto di cambio tra il solido e la moneta piccola di rame e dunque non era in grado di ripristinare quel sistema monetario con rapporti fissi di valore fra le monete dei vari metalli che aveva caratterizzato l'età tardorepubblicana e il principato. La connessione tra i documenti ossirinchiti e la congiuntura inftazionistica sembra, dunque, chiara, come sembra chiara la connessione tra i documenti ossirinchiti e quei meccanismi di conversione dell' imposta e delle spese che proprio la crescita esponenziale dei prezzi rendeva necessari per la stessa sopravvivenza finanziaria dello stato 40. Ci si può chiedere, tuttavia, se la connessione debba essere vista, anche per i documenti più antichi, in questo modo. Si è già visto come, attorno agli anni '20 del quarto secolo, il formulario delle dichiarazioni relative ai prezzi richieste alle corporazioni cambi un poco: scompare la menzione dell' obbligo della dichiarazione, compare la menzione esplicita del fatto che i prezzi dichiarati sono quelli in vigore nel mese corrente (o, di fatto, precedente). Dovremo considerare non significativa questa modificazione della formula? O non dovremo vedervi piuttosto la spia del fatto che la funzione stessa delle dichiarazioni è un poco mutata? La funzione delle dichiarazioni di questo secondo periodo sembra, lo si è visto, chiara: non si tratta di un tentativo da parte dell' amministrazione di controllo dei prezzi, si tratta piuttosto di una raccolta, con elevata frequenza, di dati che devono servire per stabilire i rapporti di conversione dell' annona. Ma prima di questa data la funzione è esattamente la stessa? In verità, il fallimento dell' edictum de pretiis non necessariamente doveva significare la rinunzia a un qualsiasi controllo dei prezzi. Ebbene, 40 Non credo che sia una difficoltà il fatto che non periodica del prezzo ai koind devono essere rientrate di contribuzione in natura: il «paniere» in questione sentativo della situazione nelforum rerum venalium, militare, dei soldati e degli stessi burocrati.
tutte le merci di cui viene richiesta la dichiarazione tra quelle di cui sappiamo che sono state oggetto doveva fornire un quadro sufficientemente rappretale da orientare gli stessi acquisti dell'intendenza
IV. CIRCOLAZIONE MONETARIA, PREZZI E FISCALITÀ NEL IV SECOLO
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io non credo che si possa escludere che è proprio un tale controllo che si è quanto meno tentato, in Egitto, e sino al 324 (che poi ci si sia riusciti è, ovviamente, un altro discorso:"). Ho osservato qualche anno fa come i prezzi dell' oro che sono attestati dalla documentazione papiracea di quarto secolo si distinguano tra prezzi anteriori al 324, che sono prezzi di oro non monetato e di requisizione, e prezzi di dopo il 324, che sono prezzi del solido, e verosimilmente prezzi dell' agoni, del forum rerum venalium": Ho osservato altresÌ che i prezzi in oro delle merci che è possibile calcolare, attraverso i dati dell' edictum de pretiis, per il novembre-dicembre 301 e, attraverso i dati offerti dalla documentazione papiracea, per il periodo successivo, sino, appunto, alla metà degli anni '20 del quarto secolo, sono estremamente alti o, che è lo stesso, che il prezzo dell' oro è comparativamente molto basso, laddove nei decenni successivi i prezzi in oro diminuiscono drasticamente o, che è lo stesso, il prezzo dell' oro sale in misura consistente: segno che nella prima fase l'autorità imperiale tenta di mantenere assai bassa la valutazione dei metalli nobili, laddove non lo fa più nella seconda fase ". Mi è sembrato di poterne dedurre che ciò che è accaduto nel 324 in Egitto è stata la «liberalizzazione» del prezzo dell'oro, di cui poi troviamo l'eco, mi sembra, nelle stesse critiche che a Costantino rivolge l'Anonimus de rebus bellicis: quella che io ho definito la «liberalizzazione» del prezzo dell' oro è ciò che Mommsen chiamava la «demonctizzazionc» dell' oro. Mi sembra oltremodo significativo che è anche a partire da questa data che sentiamo parlare, nelle fonti papiracce, ma anche nelle fonti giuridiche, di un' emptio-venditio dei solidi, di un loro prezzo:". Si obietterà che questo era già vero nell' edictum, che infatti stabiliva un prezzo massimo per l'oro «in regulis sive in solidis», in barre o in moneta:"; ma appunto il fatto importante è che la moneta d'oro avesse un prezzo fissato, e non lasciato al libero gioco del mercato. Alla luce della documentazione offerta dalle dichiarazioni delle corporazioni ossirinchiti relative ai prezzi, mi sembra che si possa sostenere con una qualche verosimiglianza che la misura di liberalizzazione dell' oro rientra in una più ampia politica di liberalizzazione dei prezzi, di tutti i prezzi: che è questa politica quella Si vd. CARRIÉ 1993, part. 305 sg. Lo CASCIO 1995, 495 sg.; cfr. supra, 248 sgg. 43 Lo CASCIO 1993b, part. 158 sgg.; vd. pure CARRIÉ 1993,305. 44 Per le fonti giuridiche si vd. C. Th. 12. 7. 2 = C.I. lO. 73. 2; C. Th. 9. 22. 1; C.I. 12. Il. 1; significativa la testimonianza dell' Anonimo de rebus bellicis, e ancora quella di Agostino (Serm. 389. 3); importante il fatto che, proprio a proposito dell'acquisto e della vendita dei solidi, nella Relatio simmachiana, si faccia riferimento al prezzo definito sulforum rerum venalium. 45 Come risulta dai nuovi frammenti da Aezani dell' edictum: R. e F. NAUMANN 1973,57 (ora a 28,1 dell'ed. dell' edictum di M. GIACCHERO,Genova 1974). 41 42
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che porta, appunto, e per la prima volta a fissare un effettivo prezzo di mercato per il solido. Cambia il formulario delle dichiarazioni richieste alle corporazioni e questa modificazione sembra suggerire che non c'è ora né fissazione del prezzo, né suo controllo preventivo, il che vuol dire effettivo: non c'è più la menzione dell'obbligo cui sono tenute le corporazioni, e comincia a essere introdotto il riferimento al mese corrente (o piuttosto trascorso) come quello nel quale i prezzi in questione hanno avuto validità. Comincia pure a essere compreso, nella ricapitolazione mensile, come poi sarà nella ricapitolazione quadrirnestrale, il prezzo del solido: un prezzo che non sappiamo da chi sia dichiarato, giacché non risulta affatto certo che a dichiararlo sia la corporazione dei xpUO"OX6ot, come sostiene l'editore del volume LIV dei P. Oxy.46, mentre molto più plausibile sembra l'ipotesi (certo non suffragata, sinora, da alcun dato testuale) che a dichiararlo siano i 'tpa1tEçi trn delle KOÀÀ U~tO"'ttKaì 'tpa1tEsat 47 o come si saranno definiti i collectarii o nummularii presenti nelle poleis egiziane. La comparsa del prezzo del solido nelle ricapitolazioni dei prezzi, assieme alla comparsa del prezzo dell' argento non monetato, assieme alla comparsa di un numero limitato di merci, sembra a questo punto ribadire come le dichiarazioni stesse hanno mutato significato e funzione: si tratta, evidentemente, di quelle merci che interessano, a vario titolo, la gestione amministrativo-fiscale dello stato.
46 Cfr. R.A. Coles, in The Oxyrhynchus Papyri, voI. UV, p. 206 (introd. a P. Oxy. 3773). Certo una circostanza del genere non si può dire del tutto esclusa (possediamo infatti due papiri non datati con la dichiarazione di questa corporazione, ma è perduta tanto l'indicazione della merce di cui viene dichiarato il prezzo, tanto il prezzo medesimo), ma io tenderei a credere come assai più probabile che il prezzo dichiarato dalla corporazione dei XpUcrOXOOl non sia quello del solido, ma semmai quello dell'oro non monetato. 47 Si vd. la testimonianza, relativa a un secolo prima, di P. Oxy. 1411, su cui Lo CASCIO 1993a, 275, n.l02.
v. MERCATO LIBERO E "COMMERCIO AMMINISTRATO" IN ETÀ TARDOANTICA
Prenderò le mosse da una considerazione che si ritrova in molte fra le prese di posizione più recenti sulla natura e sui caratteri dell' economia romana: espressa, per esempio, con particolare chiarezza e incisività, da Peter Gamsey e Richard Saller, nel loro libro sull' impero romano I • Gamsey e Saller, a proposito delle modalità con le quali era organizzato l'approvvigionamento di Roma, insistono sul fatto che «not alI commodity movement in antiquity is properly described as trade in the sense of market exchange. In particular, the transport of goods by order of or under the control of the state, 'redistribution', or 'administered trade', was of singular importance under the Roman Empire», e il riferimento è ovviamente a Polanyi e a Finley che ne riprende quanto meno le concettualizzazioni. A me sembra che parlare dell' approvvigionamento di Roma e poi anche delle altre città capitali (soprattutto Costantinopoli) in termini di "redistribuzione" e di meccanismo "redistributivo", di "commercio amministrato" non sia del tutto corretto e legittimo. Mi sembra che, in realtà, non sia legittimo parlare di meccanismo redistributivo e meno che mai di commercio amministrato, perché non è abbandonato mai, per tutto il corso dell' età imperiale e tardoantica, uno scenario di libero mercato. Ci muoviamo, come non c'è bisogno di ribadire, in un orizzonte totalmente diverso rispetto a quello per esempio del Dahomey del XVIII secolo", e dunque totalmente imparagonabile a quest'ultimo; ma imparagonabile anche ad altre realtà del mondo antico. Gli apparenti elementi di somiglianza sono due, ma appunto si tratta di una somiglianza solo apparente: i meccanismi redistributivi che si concretano in frumentazioni e congiaria e le dimensioni della proprietà imperiale, a un certo punto assai cospicue. Ciò che manca, tuttavia, è l' economia di palazzo e il ruolo giocato dal princeps non elimina mai il mercato: non c'è controllo totale delle risorse", e dunque non c'è redistribuzione
GARNSEY & SALLER 1987,48. Il riferimento è a POLANYI 1980, 20 l sgg. 3 Direi che non è nemmeno corretto, nel caso appunto di un' economia palaziale, parlare di controllo monopolistico, perché anche il controllo monopolistico presuppone il mercato. I
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totale. Il princeps è per un verso un evergete (Veyne ha potuto parlare, con riferimento proprio alla fase di trasformazione da cui emerge il principato, di "mecenatismo di stato")", per un altro verso è semplicemente il privato più ricco, che in quanto privato può influenzare la situazione di mercato e in concreto la influenza, ma senza eliminare il mercato. Tutto questo, a mio avviso, dipende strettamente dalla maniera nella quale si è operata la rivoluzione augustea e dalla stessa ambivalenza della figura del princeps: dipende, più in particolare, dal fatto che la relazione del princeps con le province che da lui finanziariamente dipendono e la relazione del princeps col fiscus sono riconducibili, e in qualche misura senza residui, per il pensiero giuridico romano, alla relazione che lega un privato al suo patrimonio". Nessuno ovviamente avrà dubitato del fatto che il fiscus, coi suoi redditi, era nei fatti qualche cosa di molto diverso dal patrimonio di un privato, che i suoi redditi avevano una destinazione in senso moderno pubblica, ma il fatto che non potessero essere definiti 'pubblici' in quanto non appartenevano al populus, il fatto che continuassero a rimanere del princeps a titolo privato non è, come spesso si sostiene, una mera finzione giuridica senza risvolti concreti. Il fatto che il fiscus sia fiscus Caesaris (fiscus principis nostri è la denominazione che ora compare in un luogo del Se. de Pisone patre)6 significa che il princeps di fatto interviene, nella sfera economica, in quanto attore privato tra gli altri attori privati e dunque entra nel mercato e lo influenza anche in modo radicale e in misura decisiva, ma non lo sopprime. Quando, ad esempio, Tiberio, in occasione di difficoltà annonarie, dà ai negotiatores che vendono il grano a Roma due sesterzi in più rispetto al «pretium quod emptor penderet» 7, o quando, nel differente scenario della Roma tardoantica si statuisce che il vino che si vende al templum Solis, che è il vino del canone, dunque il vino fiscale, si venda a un prezzo inferiore di un quarto, per ogni singola qualità, rispetto a quello del forum rerum venaliumi, abbiamo la conferma, per un verso, del fatto che è sul mercato che si determina l'incontro tra compratore e venditore e dunque il prezzo, per un altro verso che l'azione imperiale può mutare non tanto le regole del gioco, quanto la posizione dei singoli giocatori. Sicché è anche fuorviante parlare, come pure si è fatto", di "concorrenza" fra due economie, la statale e la privata: una simile definizione è in sé 4 5 6
1976,469 SS. (= 411 sgg.). Lo CASCIO 2000a, passim. Sco de Cn. Pisone patre, II. 54-55
VEYNE
(ECK-CABALLOS-FERNANDEZ
1996); cfr. Lo
CASCIO
sgg. 7 8 9
Tac. Ann. 2. 87. C.Th. Il. 2. 2 (del 365; o del 364 secondo DE SALVO 1992.
SEECK
1919,218);
cfr. supra, 268 con n. 31.
2000a, 163
V. MERCATO LIBERO E "COMMERCIO AMMINISTRATO" IN ETÀ TARDOANTICA
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contraddittoria. E se così stanno le cose è allora evidente che la posizione particolare che assume l'imperatore in quanto proprietario di un immenso patrimonio non configura di per sé, nemmeno in età tardoantica, un vero e proprio "dirigismo" (e dunque un controllo statale oppressivo e generalizzato): c'è, viceversa, come in altri scenari dominati dal mercato, da una parte, una particolare posizione di alcuni attori economici, in primo luogo l'amministrazione finanziaria imperiale e quei privati di cui essa si serve; da un' altra parte, un sistema di provvidenze che, di per sé, non annulla il mercato, ma può rappresentare l'occasione di incrementare il potere d'acquisto, sul mercato, dei beneficiari di tali provvidenze. Peraltro, l'autorità imperiale può svolgere anche una funzione di regolamentazione del mercato, per esempio per quanto riguarda le concentrazioni urbane e Roma in particolare, ma non solo. L'autorità imperiale può intervenire, come mostra per esempio la difficile e ancora non del tutto chiarita testimonianza degli indices nundinarii del Lazio e della Campania, per razionalizzare la distribuzione territoriale dei mercati periodici e la loro sequenza temporale". Un intervento specifico di questo tipo, ma anche in generale la stessa presenza di un' organizzazione politica unitaria di dimensioni imperiali può determinare degli effetti che, lungi dal comprimere il mercato, ne facilitano il funzionamento: soprattutto l'esistenza dell' organizzazione politica unitaria produce il drastico abbattimento di quelli che i neo-istituzionalisti (penso, in particolare, a Douglass North) definiscono i costi di transazione!'. A realizzare questo risultato valgono non solo lo stabilimento di condizioni più pacifiche e sicure per esempio sul mare, ma anche la diffusione di tecniche comuni di misurazione e di sistemi metrologici comuni, e soprattutto la creazione di un' area monetaria unitaria e la diffusione di norme aventi tendenzialmente validità universale. Alla luce di questa generale impostazione, in alcuni contributi recenti ho cercato di illustrare la maniera nella quale mi sembra che debbano essere concepiti, allora, il senso e i limiti del controllo 'statale' (o cioè imperiale) di alcune attività economiche in particolare tra l'età severiana e il quarto secolo, soprattutto sul versante della distribuzione, nonché le forme entro le quali un tale controllo può esprimersi: forme che prevedono comunque la persistenza e la vitalità del libero mercato e della formazione dei prezzi su di esso". Vorrei ora rapidamente riprendere e integrare l'esame di taluni di questi interventi imperiali che mi pare chi aIO Si vedano ora i contributi di J. Andreau, A. Storchi Marino e A. Ziccardi in Lo CASCIO (a c. di) 2000b. Il Lo CASCIO 1994a; Lo CASCIO 2005a; Lo CASCIO 2006d; Lo CASCIO 2007a; cfr. supra, 200 sg. 12 Lo CASCIO 1999a; Lo CASCIO 2002a; supra, 259-72.
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riscano al meglio il ruolo che l'attività imperiale si ritaglia in questi vari momenti. Prenderò in considerazione tre esempi di interventi 'statali' assai diversi tra loro, per molti aspetti, ma che proprio in ragione della loro diversità, consentono di delineare un quadro sufficientemente comprensivo di tali interventi: 1) le innovazioni apportate in età severiana nelle relazioni tra le province spagnole e Roma, per quanto attiene all' approvvigionamento dell'olio; 2) la normativa relativa alla raccolta del canon suarius e alla sua messa a disposizione dei beneficiari della caro porcina e in generale dei consumatori urbani, che leggiamo in alcune leggi del Teodosiano; e 3) la documentazione costituita dalle dichiarazioni rese dai capi dei koinà, le corporazioni professionali delle poleis egiziane nel corso del quarto secolo e relative ai prezzi ai quali le corporazioni suddette vendono le proprie merci. Mi sembra che si possa ragionevolmente sostenere che l'età severiana assiste a una prima accelerazione di alcuni processi, che si svilupperanno nel corso del terzo e soprattutto del quarto secolo e che rendono più forte ed efficace la presenza imperiale in quella parte dell' attività economica che è direttamente connessa con le esigenze dell'approvvigionamento di Roma e dell'esercito!'. Mi sembra che si debba dare il dovuto rilievo, anzitutto, all'ulteriore, drastico ampliamento della proprietà imperiale, con la conclusione della guerra civile e con le estesissime confische ai danni dei seguaci di Albino. Questo ampliamento comporta, peraltro, una discussa riorganizzazione amministrativa di questa stessa proprietà imperiale, attraverso la nascita (probabilmente solo ora come ressort territorialmente definito) della res privata": Si incrementa in questo modo drasticamente la quantità di beni prodotti nelle proprietà imperiali che concorrono all'approvvigionamento in generale di Roma e alle distribuzioni gratuite: il grano; e, a partire proprio dagli anni di Settimio Severo, anche 1'0IioI5• Il processo è in qualche misura parallelo ad un altro: sempre attraverso le confische o in generale i passaggi di proprietà delle figlinae attorno a Roma si perviene alla creazione di un virtuale monopolio nella produzione dei mattoni, come ci testimoniano i bolli: l'imperatore prende il posto di molti domini che appartengono alle famiglie più in vista dell' élite senatoria. Il processo si è peraltro già avviato con gl'inizi del II secolo, quando buona parte delle figlinae entrano a far parte dei patrimoni di molti esponenti della casa imperiale 13 Ma non parlerei, con CHIC GARCIA 1988, 57, di una fase intermedia nella trasformazione imprenditori privati in funzionari, che si attuerebbe a partire da Aureliano e dall'età tetrarchica. 14 Lo CASCIO 2000a, 139 sgg. e passim. 15 VIRLOUVET 2000, 121 sgg.
degli
V. MERCATO LIBERO E "COMMERCIO
AMMINISTRATO"
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degli Antonini, tra cui in particolare molte delle donne della famiglia imperiale". Ora, che cosa in concreto significa questo allargamento della proprietà imperiale, tanto nei dintorni di Roma, quanto, soprattutto, nelle province da cui dipendono gli approvvigionamenti di derrate alimentari? Come questo allargamento modifica l'organizzazione di tali approvvigionamenti? Il biografo di Settimio Severo ricorda l'assai cospicua riserva di grano e di olio che l'imperatore avrebbe lasciato alla sua morte". La notizia dimostra, quale che ne sia la credibilità, che esigenza primaria veniva considerata quella di creare, dopo un periodo di gravissime difficoltà che aveva caratterizzato gli ultimi anni del principato di Commodo"; una consistentissima riserva di frumento e di olio imperiale o statale. Certo è significativo che, in qualche misura a confermare la sostanza delle notizie trasmesseci dal biografo, venga una documentazione materiale di grande rilievo, anche se di estremamente discussa interpretazione. Sappiamo che proprio a partire dall'età severiana sui tituli picti delle anfore Dressel 20, i contenitori caratteristici dell' olio della Betica importato a Roma, oltre che destinato per esempio agli insediamenti militari romani lungo il Reno, compare, in posizione ~, al posto del nome di un privato al genitivo, il nome degli Augusti in carica (Settimio Severo, Caracalla e Geta), sempre al genitivo. A partire dal 217 questo nome è sostituito, a sua volta, da una scritta: fisci rationis patrimonii provinciae Baeticae (e, poco dopo, anche da quella fisci rationis patrimonii provinciae Tarraconensis) e questa scritta si ritrova nella medesima posizione nelle anfore olearie spagnole sino a quando questa documentazione viene meno (e cioè sino agli anni di Gallieno). Peraltro, già nel corso degli anni di Severo Alessandro, accanto ad anfore che portano la scritta che fa riferimento alla ratio patrimonii provinciale, ricompaiono anfore che recano in posizione p il nome di un privato. Il complesso documentario rappresentato dalle Dressel 20, coi suoi tituli picti in varia posizione e con diversa funzione, nonché coi suoi bolli, arricchitosi ancora in questi ultimi anni con l'avvio dei nuovi scavi spagnoli sul Testaccio, continua a essere oggetto di molte interpretazioni anche assai divaricate del senso specifico che si deve dare alle varie scritte e dei concreti meccanismi attraverso i quali l'olio prodotto in Spagna raggiunge il suo consumatore ultimo. Non posso affrontare in questa sede una discussione puntuale
Lo CASCIO 2005b. H.A. Sev. 23. 2; cfr. 8. 5; Lo CASCIO 1996; vd. pure Lo CASCIO 1999a, 165 sg. 18 Lo CASCIO 2002a. 16
17
1997a, 40 sgg., con la discussione
delle tesi di
DE ROMANIS
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dei vari punti di vista espressi anche di recente". Posso solo dire quale mi sembra, allo stato attuale delle nostre conoscenze, la spiegazione più plausibile del variare della scritta in posizione ~ tra l'età antonina e quella severiana e post -severiana. Mi sembra di poter sostenere che la ragione della sostituzione della scritta fisci rationis patrimonii provinciae ... al nome degli imperatori stia nel fatto che la successione di Macrino non è stata successione dinastica e dunque si è inteso ribadire il fatto che i beni dei Severi rientravano nel patrimonium imperiale, con la sua organizzazione amministrativa e contabile locale (la cassa della ratio patrimonii provinciale). Vale a dire che l'insorgenza della scritta al posto del nome degli Augusti, di per sé, non corrisponde a una modificazione del ruolo che l'amministrazione patrimoni aIe del princeps si è assunto nel processo attraverso il quale l'olio spagnolo giunge alla sua destinazione, al suo consumatore: questo ruolo, prima e dopo il 217, dev'essere rimasto il medesimo. E nemmeno si può pensare, come pure taluno ha fatto, che il passaggio dai nomi degli Augusti alla scritta fisci rationis patrimonii ... attesti il passaggio dall'amministrazione della ratio privata, intesa come patrimonio personale o familiare degli imperatori, all'amministrazione del patrimonium, inteso come patrimonio della corona o della funzione imperiale'", proprio perché la distinzione tra patrimonium e ratio (e res) privata non è affatto interpretabile in questo modo. L'interrogativo che rimane ancora aperto, tuttavia, è quale sia questo ruolo dell'amministrazione imperiale, in rapporto alla situazione precedente agli anni di Severo. Come va spiegata, in altri termini, la sostituzione del nome degli imperatori al nome di un privato? Il nome che compare nel titulus ~ nel corso del II secolo e prima dell' età severiana è stato interpretato come quello del negotiator, o mercator, o diffusor olearius, che potrebbe essere anche il trasportatore della merce e dunque il navicularius, ovvero come il nome del semplice navicularius, che opera, avendo stipulato un contratto che prevede il mero pagamento della vectura, per l'amministrazione annonaria. A me sembra certo che, quale che sia il suo ruolo, egli sia indicato sulle anfore e al genitivo in quanto proprietario della merce trasportata. Si dovrà dunque pensare che l'olio trasportato a Roma, a partire dal momento 19 Sull'intera questione si vd. in parto ÉTIENNE 1949; BALDACCI 1967; MANACORDA1977; RODRIGUEz-ALMEIDA 1980; RODRIGUEZ-ALMEIDA 1989, 35 sgg.; cfr. anche REMESALRODRIGUEZ 1986, 104 sgg.; CHIC GARCIAI988, part. 53 sgg.; DE SALVO 1988, 333-344; Lo CASCIO 1993a, 256 sg.; LIOU e TCHERNIA 1994; TAGLIETTI 1994, parto 178 sgg. Si vd. ora, in generale, sull'olio e la prefettura dell'annona nel II secolo, e sul ruolo dei privati, CHRISTOL 2008 (ivi ulteriore letteratura). 20 CHIC GARCIA 1988, cit., 69, con n. 344, a p. 196. L'apparizione della scritta [fisci r]ationis patrimoni [stationis"] castresis s.f.l. in e/L xv 4141 e 4142 (ma una lettura diversa è data da RODRIGUEZALMEIDA 1994, 114 sgg.), quale che ne sia l'interpretazione, non può certo in alcun modo far propendere per tale tesi.
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nel quale i nomi dei privati vengono sostituiti dai nomi degli Augusti in carica, è di proprietà imperiale, laddove non lo era prima. La circostanza trova in parte la sua naturale spiegazione nell' allargamento consistente della proprietà imperiale: vale a dire che l'origine dell' olio (come in parte suggerisce l'evoluzione delle scritte in posizione Ò, verosimilmente indicative dei proprietari dei fundi dove detto olio si produce) è ora più di prima da riconoscere in tenute imperiali", Ma non credo che questa soltanto possa essere la spiegazione. L'olio spagnolo trasportato nelle Dressel 20 a Roma nel secondo secolo non era di proprietà dell' imperatore, nella fase del suo trasferimento a Roma, non perché non vi fosse ancora, in quella fase, olio spagnolo proveniente da tenute imperiali e dunque perché l'olio spagnolo che arrivava a Roma era tutto olio proveniente da tenute di privati", ma perché anche l'olio delle tenute imperiali veniva presumibilmente venduto a negotiatores, a intermediari commerciali. Vale a dire che Severo con Caracalla e poi con Geta e la loro amministrazione, in connessione con l'incremento della proprietà imperiale in Spagna, in connessione con l'avvio delle distribuzioni gratuite di olio alla plebs frumentaria, si assumono ora in prima persona anche il compito della raccolta nelle località di produzione e del trasporto dell' olio spagnolo a Roma: l'amministrazione imperiale interviene non perché garantisce in prima persona il trasporto a Roma come si è pure voluto sostenere" (non esistono flotte commerciali di proprietà imperiale), ma in quanto elimina l'intermediazione del negotiator nel passaggio dell' olio spagnolo dal produttore al mercato romano. Connetterei, allora, l'insorgenza del nome degli Augusti in carica alla trasformazione in munus del rapporto di natura contrattuale che legava all' amministrazione annonaria i navicularii riuniti nel corpus naviculariorum: un passaggio che avviene, come hanno chiarito a me sembra in modo sicuro le fondamentali indagini del Sirks, proprio tra il 198 e il 21 J24. Prima dell'età severiana, quando i navicularii garantivano il trasporto dell' olio spagnolo in base a contratti stipulati con la praefectura annona e, la proprietà dell' olio trasportato doveva essere dei negotiatores, che in qualche caso saranno stati le stesse persone dei navicularii e verosimilmente anche nel caso di olio proveniente da tenute imperiali, che veniva anch' esso smerciato localmente. Con l'allargamento consiLIOU e TCHERNIA 1994. Ciò che è escluso dalla documentazione citata da LIOU e TCHERNIA 1994, 151. 23 ÉTIENNE 1949. 24 SIRKS 1991, 130 sgg.; Lo CASCIO 1993a, 257; ma si vedano anche le considerazioni di CHIC GARCIA 1988,67. 21 22
in questo senso
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CRESCITA
E DECLINO
stente delle proprietà imperiali e con l'avvio delle distribuzioni gratuite si connette una trasformazione del ruolo degli stessi navicularii: l'olio trasportato non è più di proprietà del navicularius che è anche negotiator e che lo commercerà a Roma, ma è olio di cui si sottolinea che rimane di proprietà dell' amministrazione patrimoniale imperiale. Negli stessi anni della dinastia severiana, peraltro, la documentazione dei bolli sulle DresseI 20 rivela come gl' imperatori abbiano acquisito la proprietà di talune figline spagnole. Insomma: l'allargamento della proprietà imperiale porta direttamente, per un verso, all'ampliamento consistente della quota di olio che giunge a Roma in forma di canone in natura dalle tenute imperiali e per un altro verso alla produzione delle anfore in figline ormai imperiali. Porta anche, indirettamente, all'eliminazione di un' intermediazione nella commercializzazione dell'olio. Tale eliminazione è tutt'altro che definitiva, però, visto che già con Severo Alessandro tornano a essere indicati sulle anfore, come proprietari dell' olio trasportato, dei privati, e si fa un esplicito riferimento alla loro attività di comparatio dell' olio. La vicenda dell' olio spagnolo e del suo trasporto a Roma negli anni dei Severi non può allora in alcun modo interpretarsi come indicativa di un' evoluzione irreversibile verso "meccanismi redistributivi" e verso il "commercio amministrato". Essa è la testimonianza del fatto che il governo imperiale, in conseguenza delle difficoltà finanziarie emerse già a partire dagli anni di Marco per l'acuirsi degli impegni bellici e per il drastico decremento delle entrate fiscali a seguito della crisi produttiva innescata dalla pestilenza, deve cercare di riequilibrare le sue entrate e le sue uscite: una strada potrà essere quella di eliminare la concorrenza che i grandi proprietari fanno al governo imperiale nell' estrazione del surplus dalla popolazione contadina dell' impero attraverso le confische, un' altra strada potrà essere quella di eliminare un'intermediazione commerciale pur sempre costosa per le casse imperiali, in un momento oltretutto nel quale si incrementano le provvidenze per la plebe assistita di Roma. Questa eliminazione è tutt' altro, però, che un fenomeno irreversibile. E i privati negotiatores tornano presto a essere coinvolti nel trasferimento a Roma dai luoghi di produzione dell' olio spagnolo. In conclusione, si può dire che con l'avvio del terzo secolo si registra nella vita economica dell' impero e in particolare nella dinamica delle relazioni annonarie tra le province e Roma una presenza quantitativamente più cospicua e qualitativamente diversa della proprietà imperiale, ma comunque lo scenario che ha caratterizzato i primi secoli dell' età imperiale permane sostanzialmente non mutato.
L
V. MERCATO LIBERO E "COMMERCIO AMMINISTRATO"
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Si può dire che questo scenario davvero muti, e radicalmente, con le riforme di età tetrarchica, con la provincializzazione dell'Italia e soprattutto con la nuova organizzazione della fiscalità e della finanza? A dare una qualche indicazione per tentare di rispondere a questa domanda vale, mi sembra, la complessa normativa che regola la raccolta e la messa a disposizione della plebe urbana di Roma del grano e dell' olio che arrivano dalle province trasmarine e della caro porcina che pagano, come contribuzione, le provincie suarie dell'Italia meridionale, con la Sardegna. Mi sono occupato altrove di queste costituzioni del Teodosiano in modo puntuale e rapidamente riassumo alcune delle conclusioni cui mi è parso di dover pervenire". Mi sembra indubitato che, nel diverso scenario del quarto secolo, ormai la maggior parte del grano e della carne di maiale, ma anche dell'olio e del vino che arriva a Roma sia di origine contributiva e serva così per le distribuzioni gratuite, come per le vendite a prezzo 'politico' , come presumibilmente anche per quella quota minoritaria dei consumi romani che è soddisfatta attraverso la libera contrattazione, attraverso il gioco della domanda e dell' offerta. La prevalenza delle derrate di origine contributiva, tuttavia, non vuol dire automaticamente il venir meno di uno scenario basato sul libero mercato, così come non implica il venir meno di uno scenario di libero mercato l'affermarsi di una fiscalità in larga misura fondata sulle prestazioni annonarie per l'esercito. A dimostrarlo vale il continuo riferimento che vien fatto, nelle disposizioni del Teodosiano, al forum rerum venalium e al prezzo che vi si forma". Tra le costituzioni in cui compare questa menzione, mi soffermerò puntualmente su quelle che riguardano la caro porcina, nelle quali è, appunto, allusione a questo prezzo e che valgono a illustrare meglio il meccanismo coinvolto. Dalle leggi del titolo 14. 4 del Teodosiano (De suariis, pecuariis et susceptoribus vini ceterisque corporatis) e dalla Nov. Val. 36, deduciamo che una cospicua quota del canon, quota che nel quinto secolo diviene nettamente maggioritaria, è adoperata per le distribuzioni in forma di razioni individuali per un periodo limitato dell'anno". Deduciamo pure che parte del canon è utilizzata per una vendita a un prezzo controllato. Meno sicura appare una vendita di una quota del canon sul mercato a prezzi di mercato. E quanto alle importazioni di carne al di là del canon esse non sembrano direttamente attestate, anche se sembrerebbe presupporle la stessa attività dei suarii del corpus, che non doveva limitarsi all'assolvimento del munus. È anche chiaro che, nel processo
25 26 27
Lo CASCIO I997a, 63 sgg.; Lo CASCIO I999a. Supra, 263, n. 16. Cinque libbre a testa per cinque mesi è la razione individuata
da C. Th. 14.4. IO, ne1419.
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dell' esazione dei maiali destinati ai consumi romani, erano coinvolte, per lo meno in un certo periodo (gli anni '60 del quarto secolo), le curie. La prestazione poteva essere aderata e il legislatore interviene a stabilire le modalità dell'aderazione e della successiva coemptio e a impedire comportamenti speculativi in queste operazioni da parte dei suarii stessi o degli officiales. Così, una legge costantiniana" dà facoltà ai contribuenti di scegliere se pagare la prestazione in natura o adorandola" e nel contempo toglie ai suarii l'ultima parola sulla valutazione del peso dei maiali della prestazione: ciò che si vuole evitare è che il suarius, stimando a occhio il peso dei maiali che si vogliono dare da parte del possessor, ne dia una valutazione inferiore alla realtà, costringendo dunque il contribuente ad aderare la prestazione, ciò che consentirebbe al suarius di lucrare sull' interpretium tra prezzo di aderazione e prezzo di coemptio. La costituzione stabilisce, altresì, che il prezzo di aderazione sia il medesimo del prezzo di coemptio, ma che sia diversificato, a seconda dei luoghi e dei tempi; per questo motivo i iudices regionum devono fornire annualmente l'indicazione di quale sia il prezzo, evidentemente di mercato, nelle varie aree; in tal modo, dice il legislatore, «queri ...suarii non poterunt, quia nihil interest, carius an vilius comparent, cum, quantum pretium daturi sunt, a possessore accipiant; et possessores erunt moderati in specie distrahenda, cum se sciant, quanto maiora pretia pro carne poposcerint, tanto plus suariis soluturos» (<
2X Cfr. C. Th. 14.4. 2 (per SEECK 1919, 173, cfr. 64, dell' Il aprile 324; la costituzione è indirizzata al prefetto urbano Lucrio Verino): «In arbitrio suo possessor habeat, ne suario pecuniam solvat, quod ideo permissum est, ne in aestimando porcorum pondere licentia suariis praebeatur. Quod si iuste porcos suarius aestimaverit, huic pecuniam possessor, cui pensitationis utriusque copia est indulta, numerabit. Ne autem suario in suscipienda pecunia detrimenti aliquid adferatur, singulis quibusque annis ea pretia porcinae possessor adnurneret, quae usus publicae conversationis adtulerit. Et quoniam non semper nec in omnibus locis una est forma pretiorum, pro diversitate locorum et temporum in specie preti a danda sunt, nisi ipsa porcina praestetur. Iudices autem regionum monendi sunt, ut per singulos annos ad scientiam tuam referant, quae in qui bus locis sunt pretia porcinae, ut instructione hac a tua gravitate perpensa tunc demum suarii per diversa proficiscantur et pretia suscipiant, quae in his regioni bus versari cognoveris. Queri enim suarii non poterunt, quia nihil interest, carius an vilius comparent, cum, quantum pretium daturi sunt, a possessore accipiant; et possessores erunt moderati in specie distrahenda, cum se sciant, quanto maiora preti a pro carne poposcerint, tanto plus suariis soluturos». 29 O anzi, più precisamente, dà la facoltà al contribuente di non pagare in denaro, il che vuoi dire che il suarius in precedenza, non accettando i maiali che il possessor presentava, l'obbligava di fatto ad aderare la prestazione: Costantino, in altri termini, ribadisce la natura non obbligatoria delladerazione, cfr. MAZZARINO 1951,221.
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della coemptio], quando [se] sanno che, quanto maggiori saranno i prezzi che richiederanno ai suarii per la carne [nel momento della coemptio], tanto più dovranno pagare ai suarii [nel momento dell' adaeratio]»). La costituzione successiva del medesimo titolo, la 3 del 362, dà ulteriori disposizioni per evitare gli abusi dei suarii, e con particolare riferimento alla Campania". Si stabilisce ora che la exactio nummaria non deve più essere effettuata dai suarii stessi, e nemmeno dagli officiales del prefetto urbano, ma da quelli del consularis Campaniae (e dalle curie): e se ne dice esplicitamente la ragione: «quia maiorum potestatum officiales solent esse provincialibus perniciosi, per ordinarios iudices adque curias etiam hanc exactionem convenit celebrari» (<
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(e io credo che questa somma di seifolles sia l'entità massima dello scostamento tra tasso di aderazione e prezzo di coemptio in un determinato anno, quello scostamento che serve a risarcire i suariii. Entrambe le costituzioni, al di là delle incertezze che permangono circa i concreti meccanismi messi in opera per garantire la raccolta dei maiali, il loro trasporto a Roma, la loro macellazione e la loro distribuzione, testimoniano, mi sembra senza ombra di dubbio, che l'intero meccanismo di adaeratio e di coemptio è strutturalmente basato sulla presenza di un forum rerum venalium, di un libero mercato, e sul prezzo che si realizza su di esso: un prezzo che varia, ovviamente, da località a località e da momento a momento. Se l'amministrazione imperiale ha modo di basarsi su questo prezzo, vuol dire che è in grado di appurarlo, che c'è un periodico accertamento dei prezzi e una periodica loro registrazione (e le costituzioni ci forniscono qualche indizio in questa direzione). Un quadro esattamente corrispondente è quello fornito, per un' area diversa dell' impero, dai documenti papiracei analizzati nel capitolo precedente, le dichiarazioni rese mensilmente presso l'ufficio del AOyta't"ç (il curator civitatis) dai capi dei koina, delle corporazioni di artigiani e di mercanti attivi nelle poleis egiziane, che hanno per contenuto il prezzo corrente, così parrebbe, delle merci "trattate" dalle corporazioni stesse.", nonché i documenti, ricapitolativi dei prezzi dichiarati dalle corporazioni e quegli altri documenti, datati a un periodo leggermente più tardo, gl'inizi del quinto secolo (o la fine del quarto), stilati, però, non allivello stesso del vouòç o della polis, ma allivello provinciale, e redatti non più mensilmente, ma quadrimestralmente; ognuno di essi è un «~pÉ,\)tOVdelle merci che si possono acquistare nell' agoni, per ogni città in accordo coi ~pÉ,\)toa presentati dai tabularii di ogni città per l'anno x dell'indiziones-". Si è visto come questa serie varia di documenti debba essere connessa con il frequente riferimento nei Codici al prezzo di mercato, come quello sulla base del quale doveva essere stabilito tanto il tasso di aderazione dell' annona da prestare ai militari.", tanto il tasso di coemptio": Sia i testi legislativi che i documenti egiziani implicano, dunque, l'esistenza di un meccanismo ufficiale per accertare questi prezzi di mercato. Si può sostenere, in conclusione, che l'impero tardoantico, lungi dal controllare dirigisticamente il mercato e gli scambi, cerca di servirsi del :l3 34 35 36
Supra, 259-72. Riferimenti supra, 259-61. C.Th. 7. 4. IO. C.Th. Il. 15.2.
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mercato e dei prezzi di mercato per cercare di risolvere al meglio, il che vuol dire con equità, il problema del finanziamento delle sue uscite e dunque della sua sopravvivenza come organizzazione politica unitaria. Che ci riesca è ovviamente un' altra questione.
VI. L'APPROVVIGIONAMENTO DELL'ESERCITO ROMANO: MERCATO LIBERO O 'COMMERCIO AMMINISTRATO'?
La discussione sui meccanismi attraverso i quali l'esercito romano in età imperiale veniva approvvigionato continua a essere assai vivace e ha prodotto in anni recenti un' importante serie di nuovi studi, alcuni dei quali sollecitati dalla pubblicazione o ripubblicazione complessiva e sistematica di documenti di grande interesse: basti solo fare riferimento al dossier da Vindolanda e alle tavolette da Vindonissa, ai documenti dal sito di Bu Njem, in Tripolitania, che si aggiungono ai documenti papiracei da Dura Europos l. Questi nuovi documenti paiono consentire più sicure deduzioni circa i meccanismi concreti adottati nelle varie situazioni, anche se, com' è ovvio, restano incerti molti punti di dettaglio oltre che la possibilità di decidere sino a che punto sia legittimo generalizzare le conclusioni che se ne possono trarre. Non posso affrontare in questa sede nel suo complesso un tema di questa portata 2: mi limiterò a proporre una serie di riflessioni sollecitate proprio da questi studi più recenti. Volendo al massimo schematizzare, si può dire che, essenzialmente, siano state prospettate due contrapposte maniere di vedere il problema dell'approvvigionamento. Secondo la prima.' gli eserciti romani sarebbero stati approvvigionati direttamente attraverso un meccanismo redistributivo con i proventi delle imposte in natura e delle rendite in natura delle proprietà pubbliche e imperiali, alcune delle quali erano localizzate in aree anche assai lontane dalle basi militari 4. I beni alimentari fondaI BOWMAN, THOMAS 1983; BOWMAN, THOMAS 1994; BOWMAN, THOMAS 2003; cfr. BOWMAN 1994; SPEIDEL 1996; MARICHAL 1992; WELLES, FINK, GILLIAM (eds.) 1959. 2 Una presentazione sintetica, ma esaustiva dello status quaestionis, oltre che una disamina di quanto può emergere dalla documentazione epigrafica circa l'approvvigionamento della legio Il Augusta in Britannia, ora in NONNIS e RICCI 2007. 3 REMESAL RODRfGUEZ 1986 [1997)]; REMESAL RODRfGUEZ 2002a; REMESAL RODRIGUEZ 2002b; CARRERAS MONFORT Y FUNARI 1998; CARRERAS MONFORT 2000; CARRERAS MONFORT 2002; ERDKAMP 2002; WHITTAKER 1994; un'opinione più equilibrata è espressa in WHITTAKER 2002 (rist. in WHITTAKER 2004, 88-114). 4 Ricorderò un solo esempio, quello del Papiro di Dura del 221 d.C., che fa riferimento alla fornitura a un distaccamento di militari - equites e muliones, questi ultimi forse schiavi, nella vicina Appadana da parte di un liberto imperiale di orzo proveniente ex praediisfiscalibus: FINK 1971, n". 91 (P. Dura 64); vd. e.g. POLLARD 2000, 177; ERDKAMP 2002,60 n. 32.
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mentali che venivano da regioni lontane sarebbero stati trasportati per lo più dai navicularii, trasportatori marittimi, privati imprenditori che ne curavano su base contrattuale il trasporto per conto dell' amministrazione e che non agivano anche, necessariamente, come commercianti, negotiatores. Acquisti coatti a un prezzo imposto, prefissato (e dunque al di sotto di quello di mercato) o vere e proprie requisizioni (senza compenso) avrebbero fornito la quota supplementare per soddisfare i bisogni delle varie unità. La natura di questi acquisti e il loro carattere coattivo potrebbero in qualche misura dedursi dall' osservazione che Plinio fa nel suo panegirico a Traiano", prendendo lo spunto da quanto era accaduto in occasione della carestia in Egitto, quando paradossalmente a risolvere la situazione di difficoltà era valso il grano inviato in Egitto da Roma. Osserva Plinio che ormai, con l' optimus princeps, "emit fiscus quidquid videtur emere. Inde copiae, inde annona, de qua inter licentem vendentemque conveniat"; se ne deve dedurre che prima così non avveniva e che così l'approvvigionamento degli eserciti come quello di Roma doveva comportare forme di coazione nell' acquisto dei prodotti (osserverei tuttavia incidentalmente che il contesto del brano pliniano non pare rendere così certo che l'allusione alle copiae e all' annona debba intendersi come indicativa anche degli approvvigionamenti militari, oltre che di quelli per la città di Roma)". Sulla base della documentazione fornita dalle anfore che contenevano l'olio della Betica trasportato alle istallazioni militari in Germania e Britannia, José Remesal Rodriguez è arrivato a sostenere che l'ufficio centrale dell' annona, col suo prefetto, deve avere avuto il compito non solo di sovrintendere all'approvvigionamento granario (e più tardi oleario) della città di Roma, ma anche al rifornimento delle unità dell'esercito in tutto l'impero, e questo già dagli inizi del Principato. A suo avviso non vi sarebbe stata inizialmente alcuna specifica organizzazione dell' annona militaris (come quella che poi ci sarà a partire dal terzo secolo) dal momento che l'apparato burocratico dell' annona urbana avrebbe anche controllato la distribuzione centralizzata degli approvvigionamenti militari. Secondo questa teoria, questa particolare maniera di risolvere il problema dell'approvvigionamento delle unità militari avrebbe ridotto fortemente la quantità di moneta richiesta per il finanziamento dell'esercito, considerato anche illimitato uso di moneta che paiono rivelare i superstiti documenti egiziani relativi al pagamento del soldo e alle detrazioni operate dall'intendenza per la corresponsione delle derra-
Plinio, Pan. 29.3-5; cfr. Lo CASCIO 2000a, 259 sg.; cfr. supra, 132 sg. Così, invece, già VAN BERCHEM 1937, 141; REMESAL RODRfGUEZ 1986,88; WIERSCHOWSKI 1984, 153; Le Roux 1995,405. 5
(J
VI. L'APPROVVIGIONAMENTO
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DELL' ESERCITO ROMANO
te alimentari, del vestiario e di altri beni 7. Più in generale questa teoria attribuisce un ruolo specifico e una politica economica "interventista" allo stato: lo scenario economico che ne risulterebbe, sarebbe quello di una "gelenkte Marktwirtschaft", per usare l'espressione di Rernesal". La tesi contrapposta è quella di coloro i quali ritengono, al contrario, che i rifornimenti militari sarebbero stati sostanzialmente basati su meccanismi di mercato", indotti dal potere d'acquisto comparativamente elevato dei militari. Sarebbe, peraltro, poco rilevante se gli acquisti di specifici beni siano stati effettuati dall'intendenza delle singole unità o dai singoli soldati. In alcune aree i beni alimentari di base distribuiti sarebbero innegabilmente consistiti nei proventi delle imposte e delle requisizioni, nonché delle rendite in natura delle proprietà imperiali. Ma anche in questo caso sarebbero stati coinvolti, su una base contrattuale, commercianti e uomini di affari privati. Gli studiosi che aderiscono a questa tesi ritengono che la presenza di distaccamenti militari nelle regioni di frontiera avrebbe prodotto non solo un incremento della produzione e dello scambio a livello locale e la monetarizzazione dell' economia, ma anche che avrebbe favorito lo sviluppo del commercio sulla lunga distanza. Il modello "tasse-commercio" dell' economia imperiale romana, prospettato da Keith Hopkins l0, comporta non soltanto la crescente importanza e anzi la prevalenza delle imposte in denaro per finanziare la spesa pubblica e in particolare la spesa militare, ma anche una netta distinzione tra le cosiddette "tax producing" e le cosiddette "tax consuming regions", tra le quali le regioni vicine alla frontiera avrebbero avuto una fondamentale importanza. Le due tesi contrapposte individuano, in sostanza, due scenari radicalmente contrapposti per l'economia imperiale e propongono due contrastanti maniere di vedere il ruolo dello stato e quello del mercato, che inevitabilmente influenza anche la maniera di interpretare la documentazione disponibile. Ciò rende persino più necessario che in altri casi definire chiaramente e in modo rigoroso le concettualizzazioni e la terminologia da adottare. Farò solo un paio di esempi. Mi sembra piuttosto ambiguo voler distinguere, come si è fatto recentemente (da parte di Breeze), tra gli "official supplies" - quelli che derivano dalle requisizioni - e gli "unofficial supplies", che sarebbero "the goods transported by merchants in the hope of being able to sell them to soldiers". Si è voluto 7 FINK 1971, n° 68 e 69 (P. Gen. Lat. I recto; P. Gen. Lat. 4). x REMESAL RODRIGUEZ 1997,83. 9 WIERSCHOWSKI 1984; cfr. WIERSCHOWSKI 200 I e WIERSCHOWSKI 2002; vedi pure Spunti in questo senso si rilevano, per esempio, in JUNKELMANN 1997, part. 82. IO HOPKINS 1980; HOPKINS 1995/6; HOPKINS 2000.
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argomentare che "market forces did not govem official supplies: here regulation operated. But market forces did govern the transport of unofficial supplies, though these market forces were parasitic on the officially stimulated trade routes" Il. Ciò che si vuole sostenere è in effetti meramente tautologico: le forze di mercato erano quelle che determinavano, che governavano, i rifornimenti che pervenivano attraverso il mercato, mentre non governavano quei rifornimenti che non pervenivano attraverso il mercato - ma non si dice perché certi beni (nel caso in esame la ceramica o il garum) sarebbero stati riforniti attraverso meccanismi di mercato e altri no; in altri termini non viene detto quali siano gli "official supplies" e quali siano gli "unofficial supplies". Per di più, è difficile comprendere che cosa si voglia intendere esattamente con l'espressione "parasitic on the officially stimulated trade routes". Osserva in un altro contributo recente Le Roux: Il est évident que le ravitaillement parler, à une logique économique, gique administrative qui présidait facteurs d' ordre économique 12.
des armées n' obéissait pas, proprement mais il n'est pas moins évident que la 10à son organisation intégrait de nombreux à
Mentre capisco che cosa significa la prima affermazione, mi è più difficile dare un'interpretazione concreta della seconda, perché non comprendo quali siano stati, in quest' ottica, i "nombreux facteurs d' ordre économique". Parimenti non comprendo bene che cosa voglia dire lo stesso Le Roux, quando spiega la sua affermazione - che l'approvvigionamento degli eserciti non rispondeva a una logica economica - nel modo seguente: J'entends simplement par là que, contrairement ce qu'on lit parfois, la « rationalité économique » visant la rentabilité et le profit (les intérèts commerciaux ou agricoles) n'étaient pas le seuls en cause, ni toujours primordiaux, et qu'on ne peut pas confondre les comportements de l'intendance et des ses interlocuteurs avec ceux d'entrepreneurs modernes. Pour le reste, il va de soi que l'approvisionnement des garnisons, par la mobilisation des ressources et des énergies qu' il supposait, ressortait bien ce qu' il est convenu d' appeler l'économie, comme il ne saurait ètre question de nier un souci d'organisation et d'efficacité minimal qu'il faut bien appeler de I'économie ". à
à
12
BREEZE 2000, 63. LE Roux 1995, 420.
13
Ibid., n. 87.
Il
VI. L'APPROVVIGIONAMENTO
DELL'ESERCITO
ROMANO
291
A parte l'ovvia considerazione secondo la quale nessuno ha mai attribuito all'intendenza comportamenti definibili come imprenditoriali (meno, ovviamente, questo è vero per quanto riguarda, per dirla con Le Roux, gli "interlocutori" dell'intendenza), devo dire che mi riesce difficile intendere che cosa sia effettivamente per Le Roux la "razionalità economica", e che cosa queste sue considerazioni abbiano a che fare con il dibattito in corso sulle modalità dell'approvvigionamento degli eserciti romani. Più in generale ho insistito altrove sulla dubbia utilità di ricorrere alle nozioni "polanyiane", a mio avviso potenzialmente fuorvianti, di "redistribuzione" o di "commercio amministrato" per intendere i meccanismi peculiari adottati nel caso della stessa annona urbana, l' approvvigionamento di derrate alimentari per la città di Roma 14. I "transactional modes" diversi dal mercato paiono, al più, spiegare un' assoluta minoranza delle transazioni entro l'economia romana e in ogni caso non possono essere considerati come chiavi per intenderne la specificità e per intendere il ruolo dello stato in quest' economia, a paragone di altre economie premodeme. È certamente vero che il grano di origine contributiva (il grano delle imposte in natura e delle rendite in natura delle proprietà imperiali) costituiva una quota consistente e strutturalmente in crescita del grano che arrivava a Roma 15, ma di per sé questo fatto non può essere considerato decisivo, se il complessivo scenario in cui lo stato operava non mutava. Non si tratta solo del fatto che erano coinvolti commercianti e trasportatori marittimi privati, ma che il loro coinvolgimento non ne modificava la qualità di impresari privati 16. Persino nella Tarda Antichità, il sistema complesso attraverso il quale Roma veniva rifornita di caro porcina, di carne di maiale, che arrivava come imposta in natura dalle regioni dell'Italia centrale e meridionale, non comportò la sparizione di un libero mercato, così a Roma, dove la carne di maiale veniva distribuita gratuitamente e venduta, come nelle regioni di provenienza: la procedura dell' adaeratio, e cioè la conversione in moneta di un'imposta in natura, comportava l'esistenza di unforum rerum venalium, di un mercato, e di una formazione del prezzo in esso 17. Se le nozioni "polanyiane" di "redistribuzione" e di "commercio amministrato" non aiutano a comprendere gli sviluppi dell'annona urbana, a ben più forte ragione non sembrano utili nel caso dell' approvvigionamento dell'esercito. La documentazione egiziana esaminata da Wierschowski e Cfr. supra, 273-75; e Lo CASCIO 2006d. V d. p. es. Lo CASCIO 1990. 16 Lo CASCIO 2002a. 17 Lo CASCIO 1999a; e supra, 281-84. 14 15
292
CRESCITA E DECLINO
da altri dopo di lui I~\ma soprattutto, ora, la testimonianza delle tavolette di Vindolanda mostrano come lo scenario mercantile sia stato sempre prevalente (e andrà sottolineato come l'organizzazione degli approvvigionamenti sia ciò che viene più e meglio attestato da questa documentazione, che comprende un grosso numero di conti con menzione frequente delle varie unità monetarie). È forse banale segnalare la varietà di attori economici civili che seguivano l'esercito e che sono ricordati nelle tavolette (anche se bisogna ammettere, con gli editori, che talvolta resta incerto se l'indicazione di un mestiere o di un' attività configuri la persona in questione come un civile e non un militare). Alcuni documenti testimoniano, peraltro, con sicurezza la presenza di civili. I due documenti che gli editori giudicano più significativi al riguardo sono il conto relativo al grano di Tab. Vindol. 180 e la lettera o bozza di petizione di Tab. Vindol. 344, evidentemente attribuibili alla stessa persona, che si qualifica «hominem transmarinum et innocentern» che tratta «mercem», evidentemente un civile che denuncia i maltrattamenti subiti dai militari 19. È parimenti banale ricordare l'arco estremamente ampio e vario di beni consumati, soprattutto, ovviamente, dagli ufficiali e dalle loro famiglie, ma anche dai soldati semplici. Parecchi conti illustrano l'importanza fondamentale per la vita nei campi militari che aveva l'approvvigionamento e la distribuzione di una varietà di beni alimentari 20 (tra cui ad esempio una varietà di tipi di carne di diversi animali: ciò che mostra, incidentalmente, il rilievo che aveva la carne nella dieta del militare). Tra i beni che erano destinati al consumo degli stessi soldati semplici c'erano persino prodotti che potremmo definire di lusso come il pepe, proveniente dalle regioni oltre i confini dell'Impero". Infine è interessante come non manchi nei documenti da Vindolanda la stessa allusione ai prezzi di mercato: l'autore di una lettera (Tab. Vind. 302) pare che dia istruzioni al suo corrispondente circa l'acquisto di «mala formonsa», di mele di bell'aspetto, e di uova in grosse quantità, «si ibi aequo emantur», se sono in vendita a un buon prezzo". Mi sembra di cruciale importanza distinguere tra l'approvvigionamento di un esercito in marcia, o durante una campagna militare, e l'approvvigionamento di truppe di stanza in campi permanenti sullimes. Nel primo caso, il 'living off the land' e dunque il saccheggio, o il foraggiamento, o
IX
WIERSCHOWSKI 1984; AOAMS 1995; AOAMS 1999; ALSTON
1995, part. 110 sgg.
Tab. Vindol. 180, cfr. BOWMAN & THOMAS 1994,33, 121 sgg.; e Tab. Vindol. 344, BOWMAN THOMAS 1994, 329 sgg. 20 Cfr. la tabella in BOWMAN 1994, 69. 21 Tab. Vindol. 184, cfr. BOWMAN & THOMAS 1994, 135 sgg. 22 BOWMAN & THOMAS 1994, 278 sgg.; cfr. BOWMAN 1994, 70. 19
&
VI. L'APPROVVIGIONAMENTO
DELL' ESERCITO ROMANO
293
le requisizioni erano certamente di fondamentale importanza, come mette in rilievo, tra gli altri, nel suo libro Jonathan Roth ": va sottolineato che la documentazione che possediamo sulle requisizioni si riferisce in larghissima misura ad eserciti in marcia (e si veda in particolare la procedura della prosecutio, studiata in un intervento recente di Paul Erdkamp) 24. Ma nel secondo caso sembra che sia stato preferito un sistema di rifornimenti centrato su meccanismi di mercato, e per comprensibili ragioni. I contingenti militari erano dispersi lungo illimes e perciò il peso che esercitavano i singoli distaccamenti sulle aree vicine non era così forte (basti riferirsi ai calcoli che anche di recente sono stati effettuati, per varie regioni: per esempio da Nigel Pollard per la Siriaj ". Sarebbe stato meno economico redistribuire verso diverse localizzazioni beni che arrivavano da regioni lontane, di quanto non fosse, per esempio, nel caso di Roma, dove una forte domanda era concentrata in un solo posto. Ovviamente venivano riscossi anche tributi in natura e usati nella stessa area, come nel caso famoso riferito da Tacito, della contribuzione di coria imposta da Druso ai Frisii transrenani ". E certamente in Egitto, dove la tassazione in natura sembra abbia conservato la sua importanza, la domanda di cibo e foraggio per gli animali dei contingenti militari ivi stanziati era soddisfatta attraverso delle contribuzioni in natura (si veda, ad esempio, il caso di alcuni papiri della fine del II secolo ristudiati di recente da Colin Adams, che riguardano lo strategos Damarion e il duplicarius Antonius Iustinus inviato a riscuotere l'orzo la cui contribuzione era stata imposta ai vari villaggi del nomo ermopolita; è peraltro da segnalare che questi documenti attestano come le contribuzioni in natura prevedessero comunque il rimborso in denaro ai singoli contribuenti) 27. Certe aree non eccessivamente lontane dallimes potevano certo usare i proventi delle imposte in natura per rifornire i distaccamenti militari più vicini". Per altri beni è per esempio attestata una «combination of purchase and direct production under military supervision», com'è stato osservato a proposito della produzione della braces, un tipo di cereale verosimilmente usato nella produzione della birra, a Vindolanda " (non entro qui nell'assai dibattuto tema dei prata legionis, della loro consistenza e diffusione e delle modalità con le quali venivano sfruttati). Soprattutto ROTH 1998. ERDKAMP 2002, 60 sgg. 2) POLLARD 2000, 171 sgg. 26 Tac., Ann. 4.72 27 ADAMS 1999. 2K MITCHELL 1993,250 sgg. per l'Anatolia che avrebbe rifornito, attraverso un complesso (anche se per molti versi ipotetico) sistema di trasporto via terra (che prevedeva che le comunità lungo le strade fornissero animali e carri), gli eserciti danubiani e quelli dellimes orientale. 29 BOWMAN & THOMAS 1994,33, su Tab.Vindol. 180 e 183. 23 24
294
CRESCITA E DECLINO
Infine, la documentazione archeologica che si è voluto supporre testimoniasse l'esistenza di una gestione centralizzata e diretta del rifornimento ai distaccamenti militari, può essere interpretata, ed è stata interpretata, in vari modi. Ciò che questa documentazione attesta è che talvolta, come nel caso dell' olio betico, c'erano specifici "canali" di approvvigionamento, COInepossiamo definirli, non che vi fosse una sorta di "commercio amministrato". Non è affatto legittimo dedurre dalla presenza nei campi militari in Britannia e lungo il confine renano delle anfore Dressel 20, nelle quali veniva trasportato l'olio betico, che olio fiscale venisse portato direttamente da specifiche aree di produzione nella Betica a specifici siti militari, e per una semplice ragione: perché non c'è alcuna attestazione del fatto che sia mai stato riscosso un tributo in olio nella Betica. In effetti la testimonianza delle Dressel 20, come ha ribadito in termini chiarissimi di recente Tchernia 30, può essere interpretata, e io direi deve essere interpretata, come quella che rivela normali flussi commerciali verso aree nelle quali c'era una forte domanda di olio (e non solo ovviamente limitata all'elemento militare, ma anche ai civili ivi residenti). Ancor meno accettabile è l'idea che l'amministrazione, che si vuole centralizzata, dei rifornimenti militari dipendesse dall'ufficio del praefectus annona e a Roma 31. Anche in questo caso non c'è alcuna testimonianza del fatto che, fra i compiti del prafectus annonae e del suo ufficio, vi fosse anche la supervisione dei rifornimenti per l'esercito. Quel che suggeriscono, nel loro complesso, i documenti di Vindolanda che danno informazioni su questo aspetto della vita del campo (ora riesaminati in dettaglio da Dick Whittakerj " nonché gli stessi documenti egiziani e tripolitani è che la raccolta degli approvvigionamenti era gestita allivello della singola unità e che i soldati e anche i veterani erano di tanto in tanto coinvolti come singoli attori economici. Per un altro verso, l'esistenza di quel che è stato definito (da Jacobsen) un "Nebenhandel" e un "Folgehandel't " non implica che la domanda di beni essenziali, come l'olio di oliva, che veniva dagli stessi distaccamenti militari, venisse soddisfatta attraverso meccanismi redistributivi. A mio avviso l'inaccettabilità del modello costruito da Remesal Rodriguez delle relazioni economiche tra la Betica e illimes renano è rivelata da quanto emerge dalla documentazione epigrafica dei cocci delle 30
TCHERNIA
31
REMESAL
32
WHITTAKER
33
JACOBSEN
2002, e lett. ivi. 1986; 2002. 1995, 183.
RODRIGUEZ
REMESAL
RODRIGUEZ
2002a;
REMESAL
RODRIGUEZ
2002b.
VI. L'APPROVVIGIONAMENTO
DELL'ESERCITO
ROMANO
295
Dressel 20 trovati al Monte Testaccio. I tituli picti in varie posizioni e i bolli, vale a dire le varie scritte che indicano le varie persone coinvolte nella produzione, trasporto e distribuzione dell' olio e nella produzione delle anfore stesse, hanno, com' è ben noto, suscitato un vivacissimo dibattito. Sono state proposte molte diverse interpretazioni dei meccanismi operanti nella raccolta e nel trasporto dell' olio. Una delle questioni che rimane aperta è quale sia il ruolo che l'amministrazione imperiale comincia a giocare nell' età severiana, quando i nomi degli Imperatori prendono il posto, nei tituli picti in posizione ~, dei nomi dei privati, e ancora a partire dal 217-218 d.C. in poi, quando i nomi degli Imperatori sono a loro volta rimpiazzati dalla scrittafisci rationis patrimonii provinciae Baeticae (e poco dopo anche dalla scritta fisci rationis patrimonii provinciae Tarraconensisi", Queste scritte restano sulle anfore spagnole sino all'età di Gallieno, quando le anfore in questione non sono più gettate via nella zona del Testaccio. Tuttavia, già negli anni di Severo Alessandro, assieme alle anfore che portano queste scritte se ne trovano altre nelle quali ricompaiono nomi di privati. Come ho tentato di mostrare altrove ", il modo più economico di interpretare questa evoluzione piuttosto curiosa e in particolare il coinvolgimento degli Imperatori e poi del fiscus rationis patrimonii della provincia nella produzione e nel trasporto dell' olio betico è di supporre che - in età severiana - gli Imperatori e poi l'amministrazione imperiale siano divenuti proprietari dell' olio, nella fase del suo trasporto dalla Betica al luogo di smercio e di consumo. Ma ciò vuol dire pure che prima dell' età severiana l'olio spagnolo trasportato nei contenitori Dressel 20 apparteneva a negotiatores o navicularii privati, verosimilmente anche quando quest' olio proveniva dalle proprietà imperiali! Vale a dire che il modello che dobbiamo costruire della diffusione dell' olio spagnolo non prevede un suo controllo da parte dell' amministrazione dell' annona, ma tutt' al contrario prevede che anche la stessa amministrazione delle tenute imperiali venda l'olio prodotto da queste tenute a negotiatores privati. Desidero attirare l'attenzione su un ultimo punto. Sappiamo che i soldati ricevevano il loro stipendium in tre o quattro rate (quadrimestrali o trimestrali), ma che questo stipendium non veniva loro dato nella sua interezza ". Il costo della loro sussistenza, e prima di tutto del cibo e del vestiario, veniva a gravare direttamente sull'intendenza dell'unità e le
34 35 36
Lett. supra, 278, n. 19. Supra, 277-80. FINK 1971, n° 68 e 69; vedi in generale SPEIDEL 1992; ALSTON 1994, e ulteriore letto ivi.
296
CRESCITA E DECLINO
somme in questione venivano detratte dalla paga che ricevevano i soldati. L'ammontare delle detrazioni quanto meno per il cibo sembra sia stato calcolato in modo convenzionale (e certo non facendo riferimento direttamente al prezzo di mercato). Per di più una proporzione abbastanza consistente dello stipendium veniva depositato nel conto che ciascun soldato aveva nella cassa dell'unità e forse veniva materialmente data solo una piccola somma al singolo soldato, per permettergli di pagare per le sue spese non essenziali o per le spese dei suoi familiari e/o dei suoi dipendenti. Il sistema delle detrazioni e la notevole consistenza dei risparmi dei singoli soldati valeva a ridurre la quantità di moneta coniata richiesta entro i campi militari e attorno ai campi perché potessero svolgersi le transazioni commerciali. Questa considerazione circa la minore necessità di moneta coniata determinata dal modo di pagamento dello stipendium viene spesso fatta; per esempio è stata di recente ripetuta da Nigel Pollard nel suo libro sulla Siria; lo stesso Pollard ritiene, forse a ragione, di poter dedurre da un luogo dioneo che le detrazioni possano essere state abolite a partire dal 21837• A ben guardare, tuttavia, l'esistenza delle detrazioni e l'alto volume del risparmio non avrebbero dovuto necessariamente avere per conseguenza una riduzione degli scambi monetari. Al contrario, il peculiare meccanismo del credito che l'esistenza dei conti attribuiti a ogni singolo soldato implica, potrebbe persino avere reso più agevoli le stesse transazioni monetarie. E in ogni caso, come mette in rilievo Pollard, le somme risparmiate e depositate nei conti dei soldati sarebbero poi state usate al momento del congedo, e con il premio di congedo stesso, dando al veterano maggiori e migliori opportunità di avviare un' attività economica. Il fatto poi che il valore di alcune detrazioni fosse apparentemente fisso o convenzionale non mi pare che mostri che il meccanismo posto in essere con le detrazioni era redistributivo. Va osservato che lo stesso sistema delle detrazioni sarebbe stato del tutto privo di senso, se davvero avesse funzionato un meccanismo redistributivo, come mostrano, a tacer d'altro, i successivi sviluppi dell' annona militaris soprattutto dopo la riorganizzazione dioclezianea.
37
POLLARD
2000, 181 sg. e n. 52 su Cassio Dione 78.34.3.
WEBER E L'ECONOMIA ROMANA
I. WEBER E IL «CAPITALISMO
ANTICO»
In questi che, per forza di cose, non potranno che essere provvisori e sommari accenni a una problematica assai complessa, mi propongo di esaminare, nella sua progressiva costruzione, la nozione di «capitalismo antico» nella riflessione weberiana, dall' Agrargeschichte alla Vorbemerkung ai Gesammelte Aufsiii:« zur Religionssoziologie. Mi propongo, vale a dire, di esaminare i caratteri che Weber volta a volta riconosce in talune esperienze esemplari dell' evoluzione economica antica, nonché di analizzare la genesi presumibile della concettualizzazione weberiana e il rapporto che tale concettualizzazione sul mondo antico ha con il generale quadro della genesi e dell' evoluzione del capitalismo moderno e del processo di razionalizzazione dell'occidente europeo, che hanno costituito, come sempre si riconosce, il centro degl'interessi storico-sociologici weberiani. È noto come a Weber si sia rimproverato, sin dal von Schelting, di non avere esplicitamente prospettato una tipologia dei tipi ideali e in particolare di non avere con chiarezza distinto tra tipi ideali «individualizzanti» e tipi ideali «generalizzanti». Una critica in qualche misura analoga, e in riferimento alla nozione di capitalismo, è stata mossa a Weber da Talcott Parsons I. Parsons ha sostenuto che Weber adopera ambiguamente due diversi tipi ideali: uno, quello di capitalismo «in generale», apparterrebbe alla categoria degli strumenti euristici di analisi, mere costruzioni «fittizie» del ricercatore, e sarebbe volto alla comprensione non dell'intero «individuo storico», ma solo di un suo aspetto; sarebbe dunque concetto transistorico, generale (si parla di capitalismo coloniale, finanziario, politico), che serve all'analisi comparativa di un elemento di differenti realtà storiche; e sarebbe costruito a partire da quella definizione di capitale come «capitale produttivo privato», come «beni che servono a ottenere un "profitto" nella circolazione», che troviamo nell'introduzione agli Agrarverhdltnisse de119092• L'altro, quello di capitalismo specificamente moderno, sarebbe viceversa «diretto verso un particolare individuo
I
PARSONS 1929, particolarmente 1981,16.
2WEBER
48 sg.; cfr., su queste pagine di Parsons, L. CAVALLI1968,39 sg.
r i1
300
CRESCITA E DECLINO
storico» e dunque sarebbe «applicabile solo a questo», sarebbe concetto storico e non generale: esso mirerebbe «a elaborare l'intera "essenza" dell'oggetto», non un solo aspetto e perciò un concetto del genere non rappresenterebbe lo strumento, ma piuttosto il fine dell' analisi. Parsons riconosce un valore tipico-ideale in quest'ultimo senso alla costruzione sombartiana, mentre per Weber la teoria economica neoclassica lo sarebbe nel primo senso. Weber adopererebbe, appunto, il termine di «capitalismo» in entrambe le significazioni e tenterebbe anzi di conciliarle «sovrapponendo» il tratto caratteristico del «capitalismo moderno», l'organizzazione razionale del lavoro, al «capitalismo in generale». Non voglio entrare, ovviamente, in questa sede nel merito del problema epistemologico della funzione dei tipi ideali e, in ultima analisi, del rapporto tra ricerca storica e ricerca sociologica. Né voglio entrare nella questione se sia o meno riconoscibile, per quest'aspetto, un'evoluzione nella produzione weberiana '. Quel che m'interessa osservare è che del tipo ideale di «capitalismo in generale» Parsons ritiene di riconoscere la più esplicita formulazione in un luogo, come s'è detto, dell' introduzione degli Agrarverhiiltnisse, là dove Weber, proponendosi di prospettare un sorta di «okonomische Theorie der antiken Staatenwelt» 4, affronta il problema della legittimità di un uso del termine, e del concetto, di capitalismo per individuare certe realtà antiche, quelle delle epoche «crematistiche» dell' antichità. Ora tutto questo non è certo casuale: quel che mi pare di poter sostenere è che, nel costruire il tipo ideale di capitalismo, Weber tiene conto, in misura non marginale, di quanto la sua esperienza di storico delle società e delle economie antiche gli ha potuto suggerire; che il tipo ideale di capitalismo è costruito, in altri termini, da Weber in una maniera tale non solo da consentire il suo legittimo uso nell'interpretazione di certe realtà antiche, ma anzi dal renderlo obbligato; che cioè del tipo ideale di capitalismo taluni elementi costitutivi risultano in buona sostanza derivati, e derivabili, da un' analisi di certe realtà antiche. È bensì vero Cecredo che è in questa direzione che si può trovare una soluzione alla presunta aporia rilevata da Parsons) che un tale tipo ideale di capitalismo Co di capitalismo in generale), come ha necessariamente ambito di applicazione più ampio del tipo ideale di capitalismo moderno, così ha necessariamente contenuto più ristretto. La costruzione del concetto di «capitalismo moderno» è in altri termini determinata, per differentiam, dal confronto con altri capitalismi, i quali, alla loro volta presenteranno, o potranno presentare, caratteristiche mancanti al capitalismo moderno.
3 4
Cfr. in particolare A. CAVALLI 1981, 27 sgg. È questo, appunto, il titolo che Weber da all'introduzione
agli Agrarverhdltnisse.
I. WEBER E IL «CAPITALISMO ANTICO»
301
E, in quest' ottica, si può sostenere che dunque la stessa nozione di «capitalismo antico» viene precisata nei suoi elementi costitutivi in qualche misura parallelamente e corrispondentemente a quella di capitalismo moderno; che la denominazione di «capitalistiche» per certe esperienze antiche, la stessa definizione di un «capitalismo antico», lungi dal potersi considerare un incidente di percorso, un infortunio di un' analisi peraltro penetrante e in gran parte ancor oggi condivisibile della vita economica antica, com'è apparsa a taluni ', sono parte sostanziale di quell'analisi, ne rappresentano anzi uno dei momenti centrali. E si può sostenere altresì che, come mostrano in maniera assolutamente esplicita talune note aggiunte da Weber alla seconda edizione dell' Etica protestante, in risposta al Sombart de II borghese" la stessa nozione di «spirito del capitalismo» si struttura e si precisa in Weber proprio in rapporto all'analisi di ciò che c'è e di ciò che manca nelle etiche economiche antiche. La prima menzione di un capitalismo antico la si ritrova in un paragrafo d'importanza centrale del capitolo III dell' Agrargeschichte 7: paragrafo intitolato appunto Capitalismo agrario. Weber ha di mira la rappresentazione degli effetti cui ha condotto la libertà di occupazione dell' ager publicus nella tarda repubblica, che a tale capitalismo ha costituito un «inaudito impulso»: la libera concorrenza nell' occupazione rappresenta anzi il più sfrenato capitalismo agrario nella storia, cui non si possono paragonare neppure lontanamente, sia in senso qualitativo che in senso quantitativo, le annessioni e recinzioni illegittime compiute dai proprietari del tardo Medioevo [...]. Gli interessi sociali ed economici di classe, assieme a tutte le loro conseguenze, si mostrano nella storia romana con una tale cruda evidenza da offrire agli uomini politici antichi e agli storici moderni gli stessi vantaggi che l'analoga evidenza del tipo di abbigliamento dell' antichità classica offre per lo studio dell' arte antica.
Il quadro di riferimento è tradizionale; e l'uso, apparso modernizzante", del termine di capitalismo (un uso che parrebbe trovare la sua genesi ancora nell'influenza mommseniana)", non pare in alcun modo basarsi su quell' autonoma e specifica riflessione sulle caratteristiche di fondo di un' economia capitalistica, che troverà la sua espressione nell' introduzione all'edizione del 1909 degli Agrarverhaitnisse. Come a FINLEY 1977 (poi in FINLEY 1981, 17 sg. [trad. it. 22 sg.]). Cfr. WEBER 1977b, 108 sgg., a proposito di SOMBART 1950, 315 sgg.; si veda più oltre, nota 43. 7 WEBER 1967,90 sg. 8 Cfr. LEPORE 1981, 84 sgg. 9 Cfr. ora MARRA 2002, part. 123 sgg. 5
6
302
CRESCITA E DECLINO
Non è un caso, io credo, che il termine di capitalismo o l'aggettivazione di capitalistico in riferimento alle esperienze del mondo grecoromano sia assente, viceversa (se non sbaglio), così nel saggio del '96 su Die sozlalen Grùnde des Untergangs der antiken Kultur IO, come pure nelle due prime edizioni degli Agrarverhiiltnisse, del '97 e del '9811• Ho cercato altrove di individuare la collocazione in cui Weber intende porsi, in questi saggi, nella cosiddetta controversia Bucher-Meyer sulla natura dell'economia antica 12. È un fatto, in ogni caso, che in questi saggi appare perentoriamente l'influenza che, sul piano della concettualizzazione in tema di storia economica e segnatamente antica, esercita il disegno bucheriano delle Stufen (degli «stadi») dello sviluppo economico, come anche appare, pur esso in maniera perentoria, l'influsso di talune concrete analisi meyeriane, nonché, io credo, della sua concezione dell' «evoluzione storica universale» 13. Weber, in altri termini, è disposto ad accettare la validità delle Stufen, quali quadri concettuali teorici e, come più tardi esplicitamente li considererà (si veda ad esempio il continuo riferimento, nei saggi metodologici, alla Stadtwirtschaft, l' «economia urbana») quali tipi ideali. Ciò che non accetta è, per un verso, la considerazione delle Stufen come effettivi momenti del divenire storico, per
IO Di cui esistono due traduzioni italiane: una, di F. Bassani, in WEBER 1977a, 117-144; l'altra, Le cause sociali del tramonto della civiltà antica, di B. Spagnuolo Vigorita, in appendice a WEBER 1981, 371-383 (e da quest'ultima si cita). Il Pubblicate, la prima nel volume II supplementare della prima edizione del Handwdnerbuch der Staatswissenschaften, lena 1897 e la seconda, appena un anno dopo, nel volume Idella seconda edizione del Handworterbuch, Oltre a correzioni di dettaglio (talvolta di un certo interesse) nelle Vorbemerkungen nonché nelle parti relative alla Grecia, l'articolo del '98 presenta, in più rispetto a quello del '97, una trattazione relativa all'Egitto e alle altre regioni orientali. Che le versioni degli Agrarverhdltnisse che precedono quella del 1909 siano due e non una è sfuggito a Lovs 1986a, 105, nota 18; LOVE 1986b,
160, nota 15. 12 Lo CASCIO 1982d; spiega in qualche modo in senso analogo l'assenza di un riferimento al capitalismo nel saggio del '96 il LOVE 1986b, 160 sg. 13 Come Meyer la definisce nel celebre saggio del 1895 su Die wirtschaftliche Entwicklung des Altertums, trad. it. MEYER 1905,3. Sulla controversia Biicher-Meyer si veda l'ampia disamina di MAZZA 1985, nella quale si mette in rilievo come, piuttosto che di una polemica tra «primitivisti» e «modernisti» (secondo la definizione di Hasebroek che poi avrebbe avuto fortuna) sia «più fondato parlare di prospettiva evoluzionistica per i biicheriani e di prospettiva ciclica - di cicli economici puri - nei meyeriani» (p. 514); vedi quanto avevo osservato in Lo CASCIO 1982d, 124 sgg. È proprio per questo motivo che non sarei così pronto ad accettare la conclusione del MAZZA 1985,533, secondo la quale Weber «ribalta», nel saggio del '96, le conclusioni raggiunte da Meyer; già NARDUCCI 1981, 35 sg., aveva messo in rilievo il fatto che, pur essendo evidente la polemica weberiana contro la «modernizzazione» meyeriana, «la scansione parallela, periodicamente ripetitiva, cui Meyer sottoponeva lo sviluppo dell'antichità e del Medio Evo, non sarà stata estranea all' elaborazione che porta Weber a vedere nel mondo moderno la ripresa e il compimento di tendenze evolutive nell'antichità appena abbozzate e poi soffocate dal processo di decadenza». Propone, ora, in qualche misura, a proposito della teoria ciclica di Meyer, di ribaltare il rapporto Meyer-Weber, MARRA 2002, 273, ad avviso del quale «in rapporto a Weber non può non rilevarsi come le argomentazioni principali del saggio di Meyer debbano molto alla Storia agraria romana», nella quale appunto il Marra vorrebbe riconoscere «la tesi della storia che si ripete».
I. WEBER E IL «CAPITALISMO ANTICO»
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un altro verso la rigida consequenzialità di uno stadio rispetto all'altro in quell'ordine che il Biicher aveva inteso prospettare. Weber, in realtà, opera un ribaltamento nella successione degli «stadi», dal momento che considera (sulla scia di un ragionamento già peraltro svolto, in riferimento a Rodbertus, nell' Agrargeschichte 14) la Hauswirtschaft (<<economia domestica»), quale si esprime nella grande azienda a schiavi del periodo romano, come una fase successiva e non precedente a quella della Stadtwirtschaft. che gli par dominare l'intera esperienza del mondo greco-romano, di cui struttura di fondo egli considera, appunto, la città. Diversamente da quanto sosterrà in seguito, egli è dunque pronto ad affermare che «la città antica del periodo greco non è sostanzialmente diversa dalla città medievale» e che «anche sul piano economico è propria dell' antichità, almeno nella sua prima fase storica, quella forma che siamo soliti chiamare oggi "economia urbana"» 15. Non è allora casuale l'interesse per i sozialen Griinde del tramonto della civiltà antica: essi si inquadrano, per Weber, in quella dinamica interna dell' economia romana per la quale quanto più la grande azienda schiavistica si allarga e dunque esaurisce, con la sua produzione interna, i bisogni del proprietario, tanto più si avvicina a un oikos. L'azienda schiavistica di grandi dimensioni e con un'accentuata divisione del lavoro, che appunto rappresenta il tipo più articolato e complesso di Hauswirtschaft, in altri termini, è ciò che impedisce l'ulteriore sviluppo di una compiuta economia urbana. Dove ciò che si coglie è l'implicita adesione, se non all'impostazione in qualche modo ciclica meyeriana, a una concezione non linearmente progressiva dello sviluppo delle economie premodeme: e ciò proprio in rapporto al mondo greco-romano. La terza edizione degli Agrarverhaltnisse, che appare assai più ampia, anche per l'introduzione di una trattazione più approfondita del vicino oriente e dell' ellenismo, presenta, pur all'interno di evidenti continuità, un quadro del tutto nuovo. E torna, e ancor una volta il ritorno non è casuale, l'esplicita definizione di «capitalistiche» per certe esperienze e certe epoche del mondo greco-romano. Nel capitolo introduttivo viene addirittura teorizzata e difesa la stessa nozione di capitalismo antico. Il quadro risulta nuovo e nella stessa interpretazione specifica di taluni fenomeni antichi e nell' elaborazione concettuale, o ormai, esplicitamente' idealtipica che la guida 16. L'azienda schiavistica, la grande Cfr. Lo CASCIO 1982d, 124 sg. con nota Il. WEBER 1981,373. 16 È proprio questa assoluta novità del quadro che presentano gli Agrarverhaltnisse del 1909, rispetto agli scritti del periodo '96-'98, che non mi sembra venga colta da LOVE 1986a, 105 sg.; LOVE 1986b, 162 sgg. Love ha molto bene inteso, a mio avviso, come, nell'analisi dell'economia antica, «Weber 14
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piantagione non appare più a Weber, sulla scia di Rodbertus, quella che ha rappresentato la forma più compiuta di oikos, nella quale la specializzazione dei compiti, la divisione del lavoro realizza necessariamente la vocazione autarchica del proprietario. Tutt' al contrario, l'azienda basata sulla «caserma» di schiavi rappresenta quell'unità economica che, nel mondo antico, meglio e più di ogni altra ha potuto realizzare una produzione per il mercato. La categorizzazione bììcheriana (per esempio la distinzione tra i vari Betriebssysteme, i «sistemi di azienda») viene sussunta da Weber con un' assoluta libertà, tanto da essere scardinata dalle fondamenta la stessa successione degli stadi. Il riconoscimento, nei periodi maggiori deIl'antichità, e segnatamente nella tarda repubblica romana e nella prima età imperiale, di una sviluppata economia di mercato gli fa proiettare l' oikos, per un verso all'indietro «alle soglie della storia, in oriente e spesso anche in Grecia», per un altro verso nell'età imperiale avanzata CI' oikos rappresenta in questo caso «un prodotto tardivo [...] nel senso che segna il trapasso all'economia feudale e alla società dell'alto medioevo» 17). D'altra parte, la stessa collocazione dell'esperienza della polis classica nello stadio dell' «economia urbana» viene a precisarsi e compare, appunto, per la prima volta, quella contrapposizione tipico-ideale tra città antica e città medievale, che sarà poi svolta in Die Stadt. Il mondo antico non solo appare dunque una realtà variegata e discontinua, che riesce difficile costringere nello schema evolutivo bucheriano; ma viene ancor meglio a precisarsi, anche nei suoi limiti, il debito nei confronti della generale concezione meyeriana. L'economia romana assiste nel periodo tardorepubblicano e imperiale a uno sviluppo di tipo francamente «capitalistico», che però risulta, in parte per i caratteri stessi che assume il capitalismo antico, connaturato com' esso è con l'utilizzazione del lavoro degli schiavi, bloccato; e l'affermarsi di quelle forme che prefigurano la società medievale, il contrarsi degli scambi, il prevalere di un' economia naturale significano sostanzialmente un ritorno indietro. Dietro l'insistito confronto tra l'ordine burocratico dello stato liturgico tardoantico, che ha tendenza, come tutte le burocrazie, a sofsotto l'influsso di Mommsen parta da una posizione modernistica piuttosto acritica, per poi muovere, non appena si imbatte nell'opera di Johann Rodbertus e CarI Bììcher, in direzione del primitivismo»; e tuttavia «Weber non fa propria, alla fine, la posizione primitivistica. E questo perché sviluppa un terzo punto di vista alternativo sull'argomento attraverso un confronto critico con i lavori di Eduard Meyer, Julius Beloch, Werner Sombart e altri» (per un'interpretazione analoga del percorso weberiano, si veda Lo CASCIO 1982d). Mi pare tuttavia che Love, per un verso, non metta nel dovuto rilievo come il grosso debito di Weber nei confronti della concettualizzazione bucheriana sia più riconoscibile negli scritti del '96-'98; per un altro verso, che distingua, più di quanto non appaia legittimo, la posizione del Weber del 1909 rispetto agli scritti successivi (e in particolare rispetto ai riferimenti al mondo antico e alla sua economia contenuti in Wirtschafi und Gesellschaft): cfr. Lo CASCIO 1982d, 140, nota 15. 17 WEBER 1981, 13.
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focare l'iniziativa economica privata, e quello, che ormai Weber dichiaratamente paventa, verso cui tende l'evoluzione stessa del mondo occidentale contemporaneo, non è dunque solo il pessimismo weberiano sui destini dell'occidente; è anche, in qualche misura, l'implicita adesione a uno schema di interpretazione che rifiuta la rettilineità dello sviluppo. «Il continuum dello sviluppo culturale mediterraneo-europeo - osserva Weber nella chiusa degli Agrarverhiilinisse - non ha conosciuto finora né "cicli" in sé conclusi, né un andamento "rettilineo" univocamente orientato. A volte è capitato che taluni fenomeni della civiltà antica di cui si erano perse completamente le tracce sono poi riemersi in un ambiente del tutto estraneo» 18: la pacata presa di distanza nei confronti delle contrapposte intuizioni del tempo storico appare essere, nel contesto in cui è collocata, anzitutto presa di distanza dalle opposte concezioni di Biicher e Meyer; ma nel contempo mostra esplicitamente come il discorso weberiano sull' evoluzione economica e sociale del mondo antico sia interamente calato in quella discussione. Ho già messo in rilievo, altrove, quanto, nella genesi dell'interpretazione dell' azienda schiavistica tardorepubblicana e della prima età imperiale come eminentemente capitalistica, giochi l'influenza di Gummerus 19. Ora a me sembra che si possa porre in risalto un'altra influenza, che anche aiuta a spiegare non solo la maggiore elaborazione e articolazione del quadro concettuale che appare nel capitolo introduttivo degli Agrarverhiiltnisse, ma anche il disegno complessivo dell'evoluzione economica antica. Intendo riferirmi al Sombart non tanto di Der moderne Kapitalismus, quanto del saggio del 1899 su Die gewerbliche Arbeit und ihre Organisation, nel quale viene prospettata, per essere subito dopo accantonata nell' opera maggiore, una particolare «teoria degli stadi»20. La distinzione di due «principi» che regolano l'agire economico, il Bedarfsdeckungsprinzip (il «principio della copertura del fabbisogno») e l'Erwerbsprinzip (il «principio acquisitivo»), che tanta parte ha nella costruzione sombartiana, appare già, nella sua funzione di decisivo criterio per la discriminazione dei diversi «sistemi» economici, nell'articolo del '99: ma questa distinzione si accompagna alla proposizione di una particolare «teoria degli stadi», che, come quella di Biicher, e forse in maniera ancora più esplicita, intende proporsi non già come, direttamente, una sorta di ricostruzione abbreviata dell' evoluzione della storia economica nelle sue varie fasi, ma come una costruzione concettuale,
1981, 353. 1982d, 128 sg. SOMBART 1899; cfr. particolarmente
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dove la successione degli stadi ha piuttosto carattere logico che non storico. Sombart intende correggere il quadro di Bucher osservando come non costituisca adeguato principium divisionis quello preso in considerazione dal Bììcher, la minore o maggiore lunghezza del tragitto che compiono i beni dal produttore al consumatore. E intende sostituire a questo criterio, che egli giudica meramente esterno, un criterio diverso: quello della progressiva Vergesellschaftung (<<socializzazione») della vita economica, misurata a sua volta dal grado di specializzazione, e dunque di integrazione, dell' attività produttiva. Peraltro i suoi tre stadi corrispondono in linea di massima a quelli bììcheriani: l'economia individuale, basata sull' autoconsumo, corrisponde alla btìcheriana geschlossene Hauswirtschaft (<<economia domestica chiusa»); l'economia di transizione, caratterizzata dall'introduzione di una «stabile separazione» 21 dell' economia del consumo da quella della produzione, corrisponde a quella fase caratterizzata da una Kundenproduktion (<<produzione per una clientela») in cui risiede, per Btìcher, la caratteristica dell' economia cittadina; l'economia sociale è quella in cui la differenziazione delle varie economie di produzione e la loro connessione determinano il nascere di nuove e artificiali forme di integrazione, accanto e al di là di quelle che si basano sulle tradizionali forme di comunità (e il riferimento alla distinzione di Tonnies è esplicito) 22: essa corrisponde alla Volkswirtschaft (<<economianazionale») di Bucher, Ciò che però dà alla vita economica il suo «colorito» 23 non può essere il grado minore o maggiore di Vergesellschaftung, ma il modo in cui un determinato ordinamento economico si struttura in rapporto al «principio economico» che domina il comportamento dei singoli soggetti: sicché accanto alla sistematica degli stadi è necessario, per Sombart, il ricorso a una sistematica dei sistemi economici. Una tale sistematica può essere ampliata o rimpicciolita, in basa all' analisi delle concrete situazioni storiche: vale a dire che gli ordinamenti possibili sono, dice Sombart, «legione»:". Ciò che è indubbio è tuttavia che due soli sono i Priniipien, i Leitmotive che hanno dominato sinora la vita economica, e che la domineranno in futuro: l'uno è quello che considera la produzione «come mezzo per lo scopo, come mezzo per il soddisfacimento dei bisogni»; nell' altro, viceversa, «la creazione di ricchezza diventa fine a se stessa» 25. Il decisivo discrimine è dunque quello tra i sistemi economici che sono stati (o che potranno essere) do21 22 23 24 25
Ibidem, Ibidem, Ibidem. Ibidem, Ibidem,
392. 393 e 397. 394.
ll.
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minati dal principio della Bedarfsdeckung (<
26 27 28
Ibidem, 397 sg. Ibidem, 398 sgg. Ibidem, 399 sg.
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schiavistica delle colonie moderne, nonché il sistema capitalistico basato sul lavoro libero:". Nell'opera maggiore, dove ha un peso assolutamente fondamentale la distinzione tra i due principi dell' agire economico, viene peraltro meno completamente una teorica degli stadi; e, con essa, un qualunque riferimento all'evoluzione del mondo antico 30. Si può legittimamente sostenere che una tale rinuncia a confrontarsi con le esperienze economiche del mondo antico si spieghi con il fatto che Sombart, come Weber, è sostanzialmente interessato all'origine del capitalismo moderno e alla delineazione delle sue caratteristiche di fondo. Ciò vuoI dire che viene meno l'idea di uno sviluppo verso lo stadio dell'economia sociale già nell' antichità in qualche modo parallelo rispetto a quello del mondo moderno? Quel che in ogni caso par certo è che, per il Sombart del 1899, una teorica degli stadi non necessariamente va legata a una concezione di sviluppo linearmente progressivo. Sombart, in altri termini, non si pone né il problema delle ragioni e delle modalità del passaggio dai sistemi economici orientati sulla base del principio della copertura del fabbisogno a quelli orientati sulla base del principio dell' Erwerb; né si pone, ovviamente, il problema delle ragioni per le quali lo stadio dell' economia sociale, già raggiunto nell' antichità, non è poi stato quello nel quale si sono inquadrati i sistemi che si sono affermati in epoca medievale. La sistematica degli stadi intende fornire uno strumento di analisi, un principium divisionis, che consenta di comprendere le caratteristiche specifiche di ogni evoluzione storica. È a mio avviso in questa direzione che potrebbero rivelarsi le influenze di una tale costruzione concettuale su Weber. La sistematica degli stadi sombartiana ha, più ancora di quella di Btìcher, valore di successione logica, non storica, di tipi di organizzazione economica: e ciò consente di riconoscere realizzata nel mondo antico un tipo di «economia sociale» in cui è pienamente sviluppato il mercato e che si presenta nettamente acquisitiva. L'azienda schiavistica si sgancia, anche in Sombart decisamente, dall' Oikoswirtschaft. Ma c'è di più: è la stessa distinzione dei due Prinzipien dell' agire economico, è lo stesso considerare l'economia schiavistica del mondo romano come orientata dall' Erwerb, che ritroviamo in qualche misura nell'accettazione weberiana della qualifica di «capitalistiche» per le epoche «crematistiche» del mondo antico. Alla Ibidem, 40 l sgg. Ha osservato il SIGWART 1919, col. 1909, riferendosi alla sua seconda edizione (1916), che Der moderne Kapitalismus «sfiora l'antichità solo occasionalmente» e ne ricorda un esempio: quando, nel volume II, dal fatto che non esista, nella lingua latina, alcuna parola per Geschiift, alcuna parola per Firme si trae la conclusione «che nell'antichità non vi è stato capitalismo in senso moderno». 29
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domanda, appunto, se per queste epoche, «che ricorrono a tratti nell' antichità seguendo un andamento ascendente e discendente, si possa parlare o no di struttura "capitalistica"», Weber risponde: Tutto dipende dall' ambito che si vuole assegnare al concetto di «capitalismo», e che, naturalmente, può essere più o meno ristretto. Intanto si può senz'altro fissare un primo punto: per «capitale» si intende sempre un «capitale produttivo» privato; questo, posto che la terminologia voglia conservare un certo valore di classificazione. Si tratta cioè di beni che servono a ottenere un «profitto» nella circolazione. Per essere capitalistica un'attività deve dunque fondarsi in ogni caso sull' «economia di scambio», e in un duplice senso: se i prodotti, almeno in parte, devono diventare oggetti di circolazione, tali devono essere stati, a loro volta, anche i mezzi di produzione. Quindi, nel campo dei rapporti agrari, non ricade nel concetto di capitalismo lo sfruttamento da parte di un signore fondiario di coloro che gli sono personalmente soggetti, e che rappresentano per lui una fonte di rendite, di tributi e di tasse:".
Nella qual definizione, ciò che è importante è, da un lato, il fatto che «capitalistica» venga considerata un' attività che si fonda sull' «economia di scambio», dall' altro che si ritenga decisivo 1'orientamento acquisitivo. E in effetti nell' analisi che subito segue delle varie «aziende» agrarie che hanno caratterizzato l'esperienza del mondo antico, la distinzione di base appare proprio essere quella tra «profitto» e «rendita», tra profitto e copertura del fabbisogno ". Ancora in Economia e società, là dove ribadirà e preciserà le caratteristiche del tipo ideale dell' oikos, attraverso un' esemplificazione che è tratta in larga misura dal mondo antico+', Weber seguirà un' identica linea di pensiero. Ma c'è un altro aspetto che è anch'esso in ultima analisi riconducibile alla sistematica sombartiana: il fatto di non considerare decisiva, per la definizione di un'impresa come capitalistica, la presenza del lavoro libero. Dopo aver messo in rilievo, appunto, come non sia fatto caratteristico e comune del mondo antico la grande impresa fondata sul lavoro libero, Weber osserva: Oggi si è soliti riferire il concetto di «impresa capitalistica» solo a quest'ultima forma di azienda, in quanto è da qui che nascono i problemi sociali caratteristici del «capitalismo» moderno. In questa prospettiva si è cercato di contestare l'importanza determinante che ha avuto l' «economia capitalistica» nell' antichità, arrivando a dubitare della sua stessa esistenza. A noi non sembra
1981,15 sgg. tra «capitale» e «patrimonio». 1980, III, 82 sgg.
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tuttavia che ci sia motivo di limitare il concetto di «economia capitalistica» ad una determinata forma di impiego del capitale, in particolare l'utilizzazione del lavoro altrui in virtù di un contratto concluso col lavoratore «libero», includendo così nel concetto stesso anche caratteristiche sociali. E bene invece dare a questa categoria un contenuto puramente economico, facendola valere ovunque oggetti di possesso, che siano anche oggetti di circolazione, vengano usati dal privato per ottenere un utile nell' ambito della circolazione stessa. Intere epoche dell'antichità - per giunta le «maggiori» - riveleranno allora, in modo inequivocabile, una fisionomia spiccatamente «capitalistica»>'.
Il problema centrale che si pone Weber (e che Sombart non si era posto) è perché, date simili premesse, uno sviluppo in senso capitalistico sia stato bloccato, «strangolato», nell' antichità. E la ragione essenziale di questo sviluppo bloccato viene vista proprio nell'utilizzazione di un lavoro non libero. Per un verso l'azienda schiavistica può risultare economicamente profittevole solo là dove il prezzo degli schiavi non è elevato: e, dal momento che la caserma di schiavi - il solo sistema di utilizzazione del lavoro servile in cui si possa effettivamente parlare di «profitto» - non è in grado di riprodursi, solo dunque là dove il rifornimento degli schiavi è continuo e regolare. Cessata la stagione delle grandi conquiste, l'inaridirsi della principale fonte di approvvigionamento degli schiavi non può non influire sul costo del capitale umano su cui si basa l'impresa capitalistica antica. Per un altro verso, l'utilizzazione del lavoro servile implica - e qui compare un elemento nuovo - una minore calcolabilità: la tendenza a un calcolo «razionale» nella gestione dell' impresa è presente (Weber poi accennerà a una tale tendenza, esplicitamente riferendosi a Catone, in Economia e società+), ma il calcolo che è possibile operare utilizzando il lavoro servile è un calcolo imperfetto e limitato. La considerazione dello schiavo come capitale, la riduzione del lavoro a capitale avrebbe potuto permettere e, in una certa misura, ha permesso il calcolo razionale, ma troppi fattori si opponevano a che l'azienda schiavistica potesse diventare l'espressione di un' efficace e rigorosa raziona1ità economica: il rischio di perdita, dato l'altissimo tasso di mortalità; le variazioni notevolissime dei prezzi degli schiavi. In più, lo schiavo non è incentivato da un interesse personale e dunque, salvo che in situazioni di rigida coazione, rende poco. Nel caso in cui «si rinunziava a priori ad ottenere il massimo possibile di profitto», vale a dire se si cercava di incentivare lo schiavo dandogli una famiglia propria e un'attività economica in qualche misura autonoma - ad esempio, in ambito agrario, un podere - o 34
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proponendogli l'obiettivo del riscatto o di una finale manomissione, ipso facto il capitalista si trasformava in rentier, ma con ciò era impedito uno sviluppo ulteriore del capitalismo ". Ancora per un altro decisivo aspetto l'economia schiavistica e capitalistica romana è condizionata dalle vicende politico-istituzionali che ad essa danno le sue peculiari caratteristiche, determinandone nel contempo i limiti di sviluppo: per il modo in cui è organizzato lo sfruttamento della conquista da parte dello stato, per il modo, appunto, in cui è organizzata la gestione delle finanze pubbliche. L'apparato finanziario dello stato può rappresentare il «sostituto» dell' accumulazione privata di capitale (come nell'Egitto faraonico «burocraticamente organizzato, a cui in origine è estranea la figura dell"'imprenditore"»), ovvero il suo «battistrada», ovvero ancora ciò che strangola il capitalismo. Entrambe queste due ultime evenienze si sono verificate, in successione, nel corso della storia di Roma, contribuendone a determinare la peculiare evoluzione. A Roma, in una prima fase, il meccanismo adottato per la gestione delle risorse imperiali non ha potuto essere, in assenza di una burocrazia (perfettamente comprensibile nell'orizzonte di una città-stato), che il ricorso ai privati tramite l'appalto delle imposte: e sono appunto le due condizioni dell'acquisizione imperiale e dell'assenza di un apparato burocratico che hanno permesso all'appalto delle imposte di assumere la funzione di «battistrada» del capitale: occorreva [...] che la città stato, priva in quanto tale di un meccanismo burocratico e costretta a ricorrere all' appaltatore, possedesse vasti domini, e potesse disporre da sovrana delle terre e dei tributi di immensi territori conquistati e sottomessi. È il caso della Roma repubblicana, in cui prendendo le mosse essenzialmente dal settore dell' appalto pubblico, si sviluppò una potente classe di capitalisti privati [...] le loro lotte con la nobiltà degli uffici, che questi capitalisti, in quanto fornitori di denaro, tenevano economicamente in pugno, occupano tutto l'ultimo secolo della repubblica. L'acme del capitalismo antico è dovuta insieme a questa costellazione e alla peculiare struttura politica dello Stato romano.
Quando, viceversa, con la pax Romana, l'appalto delle imposte viene «per lo più avviato direttamente [...] verso una combinazione di amministrazione burocratica e amministrazione monopolistica finanziata mediante imprese piuttosto piccole» (e qui è evidente il riflesso delle ricostruzioni rostovzeviane), si determina un nuovo ordine economico, più
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1981, 22 sgg.; cfr.
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favorevole ai sudditi, ma tale, nello stesso tempo, da rappresentare «la morte dello sviluppo capitalistico e di tutto ciò che su di esso si fonda» 37. Riassumendo: il capitalismo antico si caratterizza per essere un tipo di organizzazione economica nel quale sono rilevabili una mentalità acquisitiva in forme, tendenzialmente almeno, razionali, nonché una sviluppata economia di scambio. Il tipo prevalente di capitale, in ultima analisi condizionante le forme specifiche di un tale ordinamento economico, è costituito dagli schiavi. Ciò ha per effetto che non viene mai meno, nell' antichità, il carattere essenzialmente «politico» del capitalismo: questo carattere permea anche, o anzi soprattutto, quella fase della storia antica nella quale le forme capitalistiche si sono imposte con maggiore vitalità; come poi dirà nella Wirtschaftsgeschichte «nell'intera antichità vi è solo una classe di capitalisti, il cui razionalismo si potrebbe paragonare con quello del capitalismo moderno, quella dei cavalieri romani», una «classe razionale di capitalisti», che ha sfruttato le chances che le forniva la politica di conquista e di annessione territoriale, con l'affitto della terra pubblica, con l'appalto delle imposte, con il finanziamento delle guerre, e che ha influito in misura sostanziale sugli stessi orientamenti della politica romana 38. Quale che possa essere, oggi, la nostra distanza da Weber nella valutazione del ruolo e degl' interessi economici del ceto equestre nella tarda repubblica 39 (ma è interessante osservare WEBER 1981,31 sgg. WEBER 1923, 286 sg.; cfr. pure WEBER 1981, 300 sgg. Le espressioni tradotte nel testo sono quelle che si leggono nella prima edizione della Wirtschafisgeschichte: «Diesen Kapitalismus zum System zu erheben, ist der moderne n okzidentalen Entwicklung sei t dem ausgehenden Mittelalter vorbehalten geblieben, wahrend es in der ganzen Antike nur eine einige Kapitalistenklasse gibt, deren Rationalismus man mit dem des modernen Kapitalismus vergleichen konnte, die der romischen Ritter»; va tuttavia osservato che la subordinata (<<wahrend ... die der romischen Ritter») risulta cassata, senza che ne sia data una motivazione, nella terza edizione, "riveduta e integrata", della Wirtschaftsgeschichte, a c. di Johannes Winckelmann, pubblicata nel 1958 (con ristampe successive), a p. 286 (e naturalmente in entrambe le traduzioni italiane, che a quest'edizione si rifanno, risp. a p. 292 e a p. 264). Di più: poco oltre, sempre nella terza edizione, la frase «Rom dagegen ist im Besitz einer rationalen Kapitalistenklasse gewesen ... » è divenuta «Rom dagegen ist im Besitz einer nationalen Kapitalistenklasse gewesen ... »! Mi sembra che gli interventi di Winckelmann, che, come afferma lui stesso nella Prefazione, non sono segnalati, dal momento che si tratterebbe di «correzioni isolate che riguardano piccole sviste occasionali o semplici errori di stampa» (p. XVI sg.; cfr. l'avvertenza nella trad. it. a c. di A. CAVALLI,p. XXVII), siano in questo caso assai pesanti e modifichino radicalmente il senso delle affermazioni weberiane. Va peraltro segnalato che il volume con l'Ahriss der universalen Sorial- und Wirtschqfisgeschichte (che contiene Mit- und Nachschriften 1919-20) a c. di Bertram Schefold con la collaborazione di Joachim Schroder, previsto come volume 6 della terza Ahteilung (Vorlesungen und vorlesungsnachschrifteni della Max weber-Gesamtausgabe, non è ancora uscito. :19 Si veda quanto osserva, a proposito di queste notazioni weberiane, e ricordando le analisi di un Brunt e di un Nicolet, BREUER 1982, 183 sg. Il senso del ragionamento di Weber mi pare del tutto frainteso da LaVE 1986a, 110, quando sostiene che «Weber sembra confondere l'idea dei cavalieri come classe di affaristi con la nozione di classe senatoria, abitualmente descritta come un'aristocrazia terriera piuttosto tradizionale» e che «la sua caratterizzazione dei cavalieri è spesso usata anche per l'aristocrazia terriera». Il fatto è che proprio la ricerca recente tende a mettere in discussione (non meno perché ricono17
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come Weber sapesse bene, come dice già in Die sozialen Grùnde, che «anche il grande speculatore romano è normalmente un grande proprietario terriero, se non altro per il fatto che per il genere più lucroso di speculazione, ossia le aste e gli appalti pubblici, è richiesta una cauzione in terreni») 40, non c'è dubbio che è ancora proprio in questa direzione, di un riconoscimento del nesso inscindibile tra guerra, conquista e espansione economica orientata verso il mercato, che va riconosciuta la nostra consonanza con Weber. C'è, infine, un elemento che caratterizza in negativo il capitalismo antico e che deve avere, nel pensiero di Weber, un peso determinante, se non altro per la collocazione che assume il riferimento ad esso nell'introduzione agli Agrarverhiiltnisse, subito dopo che Weber ha riassunto «i principali ostacoli che nell' antichità si frapposero al dispiegarsi del capitalismo», che «vanno ricercati nelle stesse peculiarità politiche ed economiche del mondo antico». E questo elemento è la persistente efficacia di un atteggiamento anticrematistico, che ha un' origine essenzialmente politica, giacché «secondo l'ideale antico colui che gode dei pieni diritti politici è sempre un cittadino che non partecipa ad alcuna attività economica, ossia uno che vive di rendita o che comunque si avvicina al tipo del rentier»: talché l'atteggiamento anticrematistico non può ritenersi «eticamente condizionato» 41 (dove si potrebbe rilevare un'implicita polemica nei confronti del parallelismo che il Sombart del saggio del '99 istituiva tra l'anticrematista Aristotele e l'anticrematista Lutero, vissuti entrambi in un periodo di transizione, in cui il nuovo principio dell' Erwerb va affermandosi 42). Quest'ideologia anticrematistica è quella che spiega, in ultima analisi, perché l'imprenditore capitalistico abbia «una posizione sociale alquanto precaria». Manca peraltro, nel mondo antico, qualsiasi trasfigurazione etica del lavoro produttivo: qualche vago accenno in questo senso si può trovare solo nel cinismo e nella piccola borghesia ellenistico-orientale. Il supporto che la razionalizzazione ed economizzazione della vita trovava nell' «etica professionale» di stampo essenzialmente religioso, caratteristica della nascente età moderna, mancava all' «uomo economico» antico. Tanto per il suo ambiente, quanto ai suoi stessi occhi, egli restava sempre un «bottegaio» e un «cafone»43.
sce interessi agrari nel ceto equestre, che perché riconosce interessi commerciali nella stessa aristocrazia terriera) la possibilità di una rigida distinzione e anzi contrapposizione, in termini di interessi economici, tra cavalieri e senatori. 40 WEBER 1981, 378; cfr. pure 302. 41 WEBER 1981, 37 sg. 42 SOMBART 1899, 396 sg., n. l. 43 WEBER 1981, 302.
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È in questa stessa direzione che si muoveranno le osservazioni critiche di Weber alla proposta sombartiana, avanzata ne Il borghese", di riconoscere un' anticipazione dell' etica di Franklin nell' etica dell' Alberti e dunque, in ultima analisi, nell' atteggiamento di quegli scrittori antichi sulla cui lettura l'atteggiamento dell' Alberti si è formato: Certamente come nell' Alberti e nei nomico. Ma come luppare una forza sa, che attribuisce metodico-razionale)
nell'antichità in Catone, Varrone e Columella, così qui suoi contemporanei viene svolto [... ] un razionalismo ecosi può credere che una tale dottrina di letterati potesse svicapace di rivolgere il mondo al pari di una credenza religioricompensa di salvezza ad una determinata (in questo caso condotta di vita."?
Quando, nella Vorbemerkung ai Gesammelte Aufsdtze zur ReligionsWeber torna sul problema dei caratteri specifici del capitalismo moderno, all'interno del più generale discorso sullo sviluppo del razionalismo occidentale, il «capitalismo antico», com'egli lo ha delineato nelle sue caratteristiche di base, appare come un necessario termine di confronto. E ciò non tanto nella considerazione che la tendenza acquisitiva non basta a definire il capitalismo e lo «spirito» del capitalismo, che è razionale temperamento di un irrazionale auri sacra fames, sì che «il capitalismo è identico colla tendenza al guadagno in una razionale e continua impresa capitalistica, al guadagno sempre rinnovato, cioè alla rendibilità» 46: tracce di un calcolo del capitale, nel commercio e nella banca, sono rilevabili in altre esperienze storiche e anche nell' antichità' come è vero che «ci sono stati in tutto il mondo» gli «avventurieri capitalistici»: «le loro possibilità erano - ad eccezione del commercio e degli affari di credito e di banca - o di carattere puramente irrazionale, speculativo od erano orientate vero l'acquisto mercé la violenza, verso la preda, sia che fosse bottino occasionale di guerra o bottino cronico e fiscale, cioè la spogliazione dei sudditi»: dove, ancor una volta, l'allusione al «bottino cronico e fiscale» rimanda all' esperienza romana. Il capitalismo antico appare come termine di confronto del capitalismo specificamente occidentale soprattutto in questo: è solo l'Occidente che conosce «l'organizzazione razionale del lavoro formalmente libero. La stessa organizzazione del lavoro non libero raggiunse solo nelle piantagioni e, in una misura molto limitata, negli ergasteri dell' antichità un certo grado di razionalità». Il problema è però che «un calcolo esatto - che è alla base
soziologie,
1950, 315 sgg. 1977b, 108 sgg.; cfr. pure quanto osservo in Lo 1977b, 67.
44
SOMBART
45
WEBER
46
WEBER
CASCIO
1982d, 137 sg.
L
I. WEBER E IL «CAPITALISMO
ANTICO»
315
di tutto il resto - è possibile soltanto sul terreno del lavoro libero». La conclusione è dunque che in una storia universale della civiltà, da un punto di vista puramente economico, il problema centrale non è lo svolgimento dell' attività capitalistica come tale, che muta nei vari paesi solo nelle forme; il tipo del capitalismo d'avventura, o del capitalismo mercantile, o del capitalismo orientato verso la guerra, la politica, l'amministrazione, e i loro rischi; ma bensì il sorgere del capitalismo industriale borghese colla sua organizzazione razionale del lavoro libero ".
Al processo di razionalizzazione dell' occidente, l'antichità romana ha contribuito in misura fondamentale con il suo diritto; anche del capitalismo antico, nelle forme peculiari della tarda repubblica romana e del primo impero, si può dire che sia caratterizzato da un certo grado di razionalità: ciò che ad esso manca è la possibilità di operare efficacemente su questo piano, per la presenza di un lavoro non libero. Anche il capitalismo antico può farsi dunque rientrare nell' evoluzione del «razionalismo occidentale». Ma all'interno di questo, vanno spiegati ancora il «particolare carattere» del «razionalismo moderno» e le sue «origini»: e qui non può non intervenire, nella sua funzione esplicativa essenziale, un' etica religiosa determinata.
47
Ibidem, 69 sgg.
II. L'IMPERO PATRIMONIALE E LA "MORTE LENTA DEL CAPITALISMO ANTICO": L'INTERPRETAZIONE WEBERIANA DEL PASSAGGIO DALLA REPUBBLICA AL PRINCIPATO
Nel suo recente volume su Economie antiche e capitalismo moderno, Luigi Capogrossi Colognesi ferma la sua analisi - una sorta, come lui stesso la definisce, di lectura medievale - alla terza versione degli Agrarverhiiltnisse, l'articolo sui rapporti agrari destinato alla terza edizione del Handworterbuch. der Staatswissenschaften del 1909: presumibilmente il maggior contributo, in termini di ampiezza di impostazione e di problematiche affrontate, della produzione weberiana più direttamente attinente al mondo antico - una vera e propria storia economica e sociale dell' antichità I • Perché fermarsi al saggio del 1909 e non proseguire la lectura affrontando i pur numerosi spunti presenti in Wirtschaft und Gesellschaft e in particolare nel saggio sulla città, nonché nella stessa postuma Wirtschaftsgeschichte2? Perché, dice Capogrossi, se la relazione, ad esempio, fra le pagine del saggio sulla città e la precedente riflessione «soprattutto quella contenuta nella voce del 1909 appare evidentissima,
I CAPOGROSSICOLOGNESI 1990 (cfr. CAPOGROSSICOLOGNESI 2000); degli Agrarverhdltnisse del 1909, una traduzione italiana (di B. Spagnuolo Vigorita), con prefazione di A. Momigliano è stata pubblicata col titolo J rapporti agrari nel mondo antico, assieme alla traduzione italiana (sempre di B. Spagnuolo Vigorita) del saggio del 1896 su Die sozialen Griinde des Untergangs der antiken Kultur, comparso in «Die Wahrheit» (Le cause sociali del tramonto della civiltà antica), in WEBER 1981. Delle due edizioni precedenti, del 1897 e del 1898, pubblicate la prima nel volume II supplementare della prima edizione del Handworterbuch der Staatswissenschaften; lena 1897, e la seconda nel volume I della seconda edizione del Handworterbuch, una traduzione italiana di B. Spagnuolo Vigorita (integrale per la prima e parziale per la seconda) è comparsa in CAPOGROSSICOLOGNESI 1988b. 2 Secondo quella che appare, in qualche misura, la maniera più consueta di presentare, nel suo complesso, il contributo weberiano alla storia del mondo antico, a partire dal saggio di HEUSS 1966; si veda DEININGER 1989 e LOVE 1991, cap. I. Andrà osservato, tra parentesi, che l'interesse suscitato dagli scritti weberiani sul mondo antico, almeno tra gli antichisti, è assai più cospicuo di quanto non pensi il Love: si vd. LOVE 1991, 2, dove si sostiene che vi sarebbe una «Iack of familiarity with [Weber's] contribution to ancient studies»; ovvero 9 (= LOVE 1986b, 152) in cui si dice: «it is surprising how few commentators have addressed his writings on antiquity»; a fare simili affermazioni il Love è condotto dalla sua scarsa dimestichezza con quanto sia scritto in una lingua diversa da quella inglese: si veda quanto osserva, a proposito di un precedente saggio del Love poi rifuso nel libro, CAPOGROSSICOLOGNESI 1990, 58 n. 34.
318
CRESCITA E DECLINO
profondamente diverso [...] appare ora il metodo di lavoro di Weber e portato ad un livello di astrazione estremamente elevato [...] Ancora nel 1909 (benché per l'appunto i fenomeni cittadini, il loro carattere strutturale, la diversa fenomenologia e natura dei vari tipi delle città antiche e la distanza fra queste e le città medievali siano bene al centro dei suoi interessi) la problematica affrontata investe essenzialmente, sia pure al livello di analisi strutturale piuttosto che della mera fenomenologia storica, processi e situazioni concrete»3. Il giudizio di Capogrossi va senz' altro condiviso: aggiungerei forse che così l'analisi e l'apprezzamento dei fenomeni antichi, come lo stesso quadro di riferimento interpretativo, ormai già decisamente idealtipico nel saggio del 1909, e utilizzato ai fini di una corretta "individuazione" delle realtà antiche, non paiono mutare in nulla di essenziale nei lavori successivi". Ciò che è diversa, in questi lavori, è ovviamente la funzione, ormai meramente strumentale, che i materiali tratti dal mondo antico e l'interpretazione che ne viene offerta vanno assumendo, in una prospettiva ben più ampia di ricerca orientata a ben altri fini. Il valore di esito definitivo che hanno gli Agrarverhdltnisse nel processo di "individuazione" delle realtà antiche avviato da Weber era stato affermato con forza da Ettore Lepore, quando, in polemica con la lettura di Weber fatta da Pearson e dalla scuola di Polanyi, aveva sottolineato l' «equilibrio» e le «capacità di mediare» il dibattito tra primitivisti e modemisti, rivelati dall'introduzione e poi dallo stesso svolgimento degli Agrarverhiiltnisse, «in risposta alla domanda "conosce l'antichità un' economia capitalistica in misura significativa per la storia della civiltà?"» 5. Non solo, dunque, la ricerca storica concreta di Weber sull'occidente antico non sembra essersi proseguita al di là, per l'appunto, del 1909, ma la stessa sua riflessione, in particolare, sulle forme peculiari del "capitalismo antico" non sembra approdare a esiti sostanzialmente diversi sia in Wirtschaft und Gesellschaft, sia nella Wirtschaftsgeschichte, sia, aggiungerei, in quello che è presumibilmente l'ultimo scritto weberiano, la Vorbemerkung ai Gesammelte Aufstitre zur Religionssoziologie. Suscita, per questo motivo, fortissime perplessità la ricostruzione del percorso weberiano che il Love ha recentemente prospettato in un saggio significativamente intitolato Max Weber and the Theory of Ancient Capitalism". Per il Love, proprio la definizione di capitalismo data da
COLOGNESI 1990, IX sg. 1982d, 140, n. 15; il DEININGER 1989, 275 sg., individua una novità di Die Stadt, rispetto al quadro degli Agrarverhalmisse, nel fatto che ora Weber pare contrapporre alla città orientale fatta di sudditi la città occidentale, tanto antica, quanto medievale. 5 LEPORE 1981,95. 6 Supra, n. 2. Il saggio è poi stato rifuso nel primo capitolo di LOVE 1991. 3
CAPOGROSSI
4
Lo CASCIO
II. L'IMPERO PATRIMONIALE E LA "MORTE LENTA DEL CAPITALISMO ANTICO"
319
Weber nell'introduzione agli Agrarverhdltnisse e in risposta al citato interrogativo se 1'antichità abbia conosciuto o meno un' economia capitalistica dimostrerebbe, in Weber, un ancor insufficiente impianto teorico e la sua trattazione del ruolo e del carattere del capitalismo antico sarebbe in quest'opera «decidedly ambiguous» 7: l'uso del termine capitalismo non sarebbe coerente, mentre la «proper classification» delle varie attività acquisitive da Weber individuate - dall' appalto delle imposte al commercio marittimo all'agricoltura di piantagione - sarebbe «a more involved task than Weber at this stage is awarc»". La contraddizione, o l'incoerenza, più patente sarebbe quella dimostrata nella caratterizzazione dell'appalto delle imposte come investimento di capitale e del suo esercizio come attività capitalistica. Come potrebbe mai definirsi come capitalistica, si chiede Love, un' attività quale quella dell' appalto delle imposte, alla luce della definizione di capitalismo data nell' introduzione degli Agrarverhaltnisse"t In base a questa definizione capitalismo deve intendersi «the use of wealth to gain profit in commerce, and [...] therefore a "capitalist economy" must entail the production of goods, in part at least, for purposes of trade. In addition, for capitalism to exist, the means of production as well must be objects of exchange» IO. Osserva Love: «The difficulty with this approach, however, is that it is not at alI clear how the specific character of some of the activities just listed can be reconciled with Weber's initial definition of capitalism as meaning the production of goods for market exchange. The issue can be easily illustrated by taking the example of tax farming: is this capitalistic in the sense formally outlined? Surely the answer is no, and there are similar difficulties with several of the other forms of enterprise listed. Thus, we must conclude that Weber's use of the term capitalism is not consistent» Il. La mancanza di coerenza dipenderebbe dal fatto che, per un verso, Weber intende contrastare la posizione di chi, come Marx, facendo intervenire nella caratterizzazione del capitalismo fattori sociali, limita illegittimamente «il concetto di "economia capitalistica" ad una determinata forma di impiego del capitale, in particolare l'utilizzazione del lavoro altrui in virtù di un contratto concluso col lavoratore "libero"» 12, di chi vuol considerare, cioè, il capitalismo come fenomeno esclusivo del mondo moderno; per un altro verso, dal fatto che Weber
LOVE 1986b, 163 (<
x
LOVE 1986b, 164 (cfr. LOVE 1991,38). l2WEBER 1981, 19. 11
and in need ofsubstantial
clarification»:
LOVE 1991,37).
Ii
320
CRESCITA E DECLINO
sarebbe «also concerned to show how different the ancient economy taken as a whole is from modern capitalism; though not quite on the same basis as in the Marxist schernatization» 13. Il superamento delle contraddizioni e delle incoerenze verrebbe dal più rigoroso impianto teorico delle più tarde opere sociologiche, dove comparirebbe, per la prima volta, la caratterizzazione del capitalismo antico come orientato politicamente, come capitalismo "politico", legato nella sua genesi alla guerra e alla conquista, dunque alla violenza, e perciò, in grado eminente, irrazionale. Come verrebbe in primo piano, in queste opere, la caratterizzazione del capitalismo moderno come basato su un elevato grado di razionalità formale, così l'attività volta al profitto e lo stesso capitalismo, in quanto presenti in tutte le società e in tutte le epoche, sarebbero considerati non necessariamente razionali. Laddove l'agire economico sarebbe definito, in Wirtschaft und Gesellschaft, «in essentially pacific terms» 14, la stessa distinzione tra quei modi di acquisizione del profitto che impiegano la forza e quelli che impiegano metodi pacifici aprirebbe la strada ad una corretta distinzione, nell' àmbi to dell' attività capitalistica (una distinzione in precedenza non esplicitata), tra attività quali il finanziamento capitalistico delle guerre, la vendita degli uffici o l'appalto delle imposte e quelle che rientrano nella definizione di "agire economico": a indicare complessivamente le prime Weber conierebbe, per l'appunto, l'espressione di "capitalismo orientato politicamente" o di "capitalismo politico". In tal modo, mentre negli Agrarverhiiltrusse, l'appalto delle imposte risulterebbe una delle varie forme di investimento di capitale caratteristiche del mondo antico e l'economia antica sarebbe descritta in base al grado in cui si è affermato un «undiffcrcntiated capitalism» 15, nelle opere successive, e in particolare in Wirtschaft und Gesellschaft e nella Wirtschaftsgeschichte, sarebbe individuata una sorta di opposizione e di mutua esclusione tra il «market capitalism» e il «political capitalism». Scrive Love: «Weber seems to argue that political capitalism (tax farming, etc.) and market capitalism are notjust separate and distinct phenomena that may combine or coalesce in different ways depending on the historical situation; rather, they are in essence mutually antagonistic and even contradictory forces. For political capitalism has a powerful retarding effect on the potenti al development of market capitalism [...] With specific regard to the situation in antiquity, Weber says that here was one instance where political capitalism generally, and
1.1
LOVE
14
LOVE
15
LOVE
1986b, 167 (cfr. LOVE 1991,43). 1986b, 169 (cfr. LOVE 1991,47). 1986b, 170 sg. (= LOVE 1991, 50).
II. L'IMPERO
PATRIMONIALE
E LA "MORTE LENTA DEL CAPITALISMO ANTICO"
321
tax farming in particular, carne to have enormous significance», cioè nel caso dello sviluppo degli equites, in quanto appaltatori dei tributi. Se ne dovrebbe concludere, per Love, che il capitalismo antico «did not develop into an economie system of the market type with high formal (calculatory) rationality, owing in large part to the predominance of acquisitive activities like private tax-farming» 16. Mi sembra di potere affermare che queste conclusioni di Love (che è sembrato opportuno citare per lo più verbatim) siano errate su due piani. Anzitutto, come si è detto, sul piano del rapporto che va istituito tra Agrarverhiiltnisse e più tardi lavori sociologici: in particolare per quanto concerne la precisa individuazione di una nozione di capitalismo orientato politicamente, di capitalismo politico o di capitalismo imperialistico, come anche lo definirà in Wirtschaft und Gesellschaft. Da questo punto di vista non si può dire che ci sia un progresso o uno sviluppo della riflessione weberiana. La nozione, infatti, è indubbiamente presente, checché ne dica Love, già nel saggio del 1909, e in tutta la forza esplicativa che a tale nozione viene da Weber attribuita. Basti pensare ad affermazioni quali le seguenti: (nel contesto del confronto tra sviluppo della città nell'antichità e nel medioevo) «Certo non si può dire che nel medioevo e nell'età moderna il nuovo capitalismo [...] non abbia avuto nella guerra la sua principale fonte di introiti. Ma il fatto veramente nuovo è che adesso l'organizzazione capitalistica della produzione industriale dei beni si fonda sulla "pace": questa è infatti la sola condizione che possa garantire, al di là di tutte le vicissitudini politiche, una certa continuità dello sviluppo economico [...] Nell'antichità la fondazione della polis era già di per sé un atto politico-militare, e a vicende di carattere militare era legato anche il suo sviluppo. Il capitalismo pertanto finiva con l' alimentarsi unicamente del politico; esso era, per così dire, solo indirettamente economico: la vita politica della polis, coi suoi alti e bassi, con le chances sempre diverse che essa offriva - dagli appalti pubblici alle razzie di schiavi all'appropriazione violenta di nuove terre (vedi Roma) -, era il suo elemento» 17. O ancora (a proposito del fatto che il mondo antico non riesce più a riaversi dalla crisi del III secolo): «La ragione è che il capitalismo antico era ancorato alle vicende politiche: esso dipendeva dai rapporti di dominio che l'espansionismo della città stato riusciva ad instaurare e che il privato sfruttava ai suoi scopi» 18.
[6
1986b, 171 (cfr. 1981,345 sg. /hid., 351. LOVE
17WEBER IX
LOVE
1991,50 sg.).
322
CRESCITA E DECLINO
In secondo luogo, e ciò, naturalmente, ha una ben maggiore importanza, ai fini della corretta individuazione del pensiero weberiano su una questione di cruciale rilievo, l'osservazione del Love secondo la quale le due forme di capitalismo, quello orientato politicamente e quello orientato in base al mercato, sarebbero mutuamente esclusive e antagonistiche, e la prima avrebbe anzi effetto ritardante per l'avvio della seconda, deriva da un vero e proprio fraintendimento della lettera dei testi weberiani, citati, a supporto della propria interpretazione, dal Love 19. Proprio in base a questi testi, si deve senz' altro concludere che il carattere antagonistico e mutuamente esclusivo rilevato da Weber non è quello dei due tipi di capitalismo, bensì, nell' àmbito di un ragionamento circa la «reazione sulle economie private» che hanno i diversi modi di finanziamento dei gruppi politici, quello di due casi ben individuati di tali diversi modi di finanziamento: da un lato, il caso dello «stato con tributi puramente monetari, riscossi da esso soltanto, con propria regia, e con imposizione di servizi naturali di carattere personale solamente a scopi politici e a scopi di amministrazione della giustizia», che è quello che «offre le maggiori possibilità ad un capitalismo razionale, orientato in base al mercato»; dall' altro lato, il caso in cui si ha «la concessione e il conferimento in beneficio dei tributi», che «impedisce di norma il sorgere del capitalismo, creando degli interessi legati al mantenimento delle fonti di rendite e di tributi esistenti, cioè agendo nel senso di una stereotipizzazione e di una tradizionalizzazione dell' economia». Gli esempi storici ai quali Weber pensa, nel delineare quest'ultima situazione, non includono affatto, com' è ovvio, l'occidente antico, ma sono quelli della Cina e del Medio Oriente dopo il Califfato: «Il caso storicamente più importante di impedimento al sorgere di un capitalismo di mercato da parte della prebendalizzazione dei tributi è la Cina, mentre il caso più importante di impedimento da parte di una concessione dei tributi, in larga misura identico, è il Medio Oriente dopo il Califfato». Del tutto diversa è la situazione dello «stato con tributi monetari dati in appalto»: questa situazione «favorisce invece il capitalismo orientato politicamente, anziché l'economia acquisitiva di mercato». Weber ne rinviene la presenza «in India, nel Medio Oriente, nell' Occidente durante l'antichità e il periodo medievale: nell' antichità esso è stato in larga misura decisivo per la specie di orientamento dell' acquisizione capitalistica (come nel caso dei cavalieri romani), mentre in India e nel Medio Oriente esso ha determinato piuttosto la formazione di patrimoni, cioè di signorie fondiarie». Weber, vale a dire, riconosce che il sistema dell' appalto delle imposte di per sé 19
WEBER
1980, I, 199 sgg.;
LOVE
1986b, 171, nn. 36 e 37 (cfr.
LOVE
1991,282,
nn. 57 sg.).
II. L'IMPERO PATRIMONIALE E LA "MORTE LENTA DEL CAPITALISMO ANTICO"
323
favorisce il sorgere e l'affermarsi del capitalismo politico, e può essere addirittura decisivo in questo senso; ma non dice, e la cosa non è casuale, che di per sé l'appalto delle imposte rappresenterebbe un ostacolo all' affermarsi di un capitalismo di mercato o anche soltanto che determinerebbe il ritardo nel suo affermarsi. Vale, naturalmente, a dimostrarlo proprio il fatto che il sistema dell' appalto lo si ritrovi non solo nell' Occidente antico, ma anche in quello medievale. Semmai, per quanto riguarda specificamente Roma, nella misura in cui il sistema dell' appalto viene a essere sostituito, con 1'età imperiale, da una riscossione diretta da parte di una burocrazia statale, si dovrebbe ammettere che, con l'abolizione degli appaltatori, si determinino le migliori condizioni, da questo punto di vista, per l'affermarsi di un capitalismo razionale orientato in base al mercato, anche se Weber sa bene che «anche il tipo di organizzazione degli oneri pubblici [...] non determina una direzione univoca di sviluppo a proposito dell' orientamento dell' agire economico». Casi ancora diversi sono quelli in cui «il gruppo [politico è] organizzato in base a forniture puramente naturali» il che «non è di aiuto al capitalismo, anzi lo viene ad ostacolare in quanto dà luogo a vincoli di fatto - irrazionali dal punto di vista di un'economia acquisitiva - all'indirizzo produttivo delle varie economie» o «il gruppo [politico è organizzato] in base a servizi puramente naturali» il che «è di ostacolo al capitalismo orientato in base al mercato, in quanto viene a sequestrare le forze di lavoro e impedisce il mercato libero del lavoro; ma è anche di ostacolo al capitalismo orientato politicamente, in quanto viene a troncare le possibilità tipiche che ne consentono la formazione»: è agevole riconoscere la delineazione di situazioni che sono quelle caratteristiche, per Weber, dell'impero tardoantico. Il punto è decisivo: prima di tutto perché il rapporto tra il modo del finanziamento dei gruppi politici, per usare la terminologia weberiana, e le caratteristiche generali dell' economia consente di individuare i nessi causali ai quali pensa Weber nella sua teorizzazione del sorgere e del tramontare del capitalismo antico e la funzione dell' appalto delle imposte come suo «battistradas "; in secondo luogo perché la considerazione del modo di finanziamento dei gruppi politici e con essi dello stato vale a riaffermare la decisività del ruolo che ha, nell' evoluzione del capitalismo antico, il tipo di potere e la forma dell' organizzazione politica entro cui tale capitalismo nasce, perviene alla sua acme, per poi inesorabilmente e lentamente declinare e morire: e in particolare consente di apprezzare la decisività, da questo punto di vista, del passaggio, a Roma, dalla 20
WEBER
1981, 32; cfr. 352.
324
CRESCITA
E DECLINO
repubblica al regime imperiale; in terzo luogo, perché tale individuato rapporto tra le finanze statali e le caratteristiche di fondo dell' economia mette in rilievo le difficoltà di fronte alle quali si trova Weber, nel tentare di definire queste caratteristiche di fondo dell' economia nella prima età imperiale: in un' epoca, vale a dire, che è fatta oggetto di una quanto mai rapida trattazione, come ha osservato Capogrossi, negli Agrarverhiiltnisse e che riceve una solo episodica attenzione così nelle opere precedenti come nelle successive, a confronto, per un verso, del momento alto del "capitalismo antico" - la tarda repubblica della conquista imperiale e dell' ascesa degli equites - e per un altro verso dello stato liturgico e burocratico post-dioclezianeo ". L'analisi della connessione tra l'avvento del nuovo regime imperiale, una monarchia caratterizzata nei termini di un potere patrimoniale, e l'evoluzione dei rapporti economici all'interno dell'impero fa intendere il motivo per il quale, ed è questa la conclusione che mi sembra di dover trarre, Weber tenda ad "appiattire" sull' esito dello stato tardoantico la sua generale caratterizzazione del principato: fa intendere, cioè, il motivo per il quale, a ben vedere, il suo "tramonto del mondo antico" cominci in realtà, non già solo nel celebre saggio del '96, ma anche nelle opere successive, con l'avvento stesso della pax Augusta 22. Ne è una significativa spia il fatto che Weber, negli Agrarverhdltnisse, possa qualificare come "lenta" la "morte" del "capitalismo antico"23, proprio in riferimento agli sviluppi della finanza statale nell' età del principato, una morte che è, in una qualche misura, la morte stessa della civiltà antica. Quest' appiattimento della caratterizzazione weberiana della Roma imperiale sul soffocante esito burocratico cui essa perviene ha la sua significativa genesi, come risulta evidente dalla conclusione degli Agrarverhdltnisse, nell'appassionata esaltazione dell' «anarchia della produzione» in quanto contrapposta all' «ordine» 24. Infine, l'analisi della connessione fra l'evoluzione del potere al centro dell' impero e i caratteri generali dell' economia imperiale consente di illustrare in che rapporto la riflessione weberiana si ponga, per 21 CAPOGROSSICOLOGNESI 1990, part. 259; e si veda quanto osserva, a proposito della mancata «Herausbildung des kaiserzeitlichen rornischen Reiches und ihre Folge fur die Stadte» in Die Stadt, il DEiNINGER 1989, I. cit. Si vd. la celebre dichiarazione in WEBER 1981,380 sg.: «Se ci si chiede qual è il momento a cui va fatto risalire il declino dapprima latente, ma tosto manifesto, della potenza e della civiltà romana, nessun tedesco potrà togliersi dalla mente un'immagine che gli viene spontanea: la battaglia di Teutoburgo. E in effetti un nocciolo di verità si nasconde in questa idea così diffusa [... ] È chiaro che qui l'elemento decisivo non fu la battaglia in sé [...], ma ciò che essa comportò: l'arresto delle guerre di conquista sul confine del Reno sotto Tiberio, che avrebbe trovato il suo parallelo sul Danubio con l'abbandono della Dacia sotto Aureliano». 21 WEBER 1981, 351. 24 Ibid., 353; cfr. WEBER 1923,287 sg. [292 sg.; 264 sg.] (cit. da Deininger).
II. L'IMPERO PATRIMONIALE E LA "MORTE LENTA DEL CAPITALISMO ANTICO"
325
quest' aspetto, con più recenti tentativi di individuare lo "stile" dell' economia del principato, di definirne un "modello", proprio a partire da una considerazione della struttura politica come volano dell' economia antica (un senso più profondo del concetto di capitalismo politico o orientato verso la politica, per il quale abbia rilievo non solo la mera acquisizione violenta, la preda, ma quel che Weber definisce una volta «il bottino cronico e fiscale»25): penso, in particolare, all'immagine che di tale economia emerge dal "modello", per l'appunto, "tasse-commercio" delineato in anni a noi vicini da Keith Hopkins 26;o a quella che emerge dal recente tentativo di Willi Pleket di istituire un sistematico e programmatico confronto, al di là dell'opposizione anche weberiana tra la città consumatrice dell'antichità e la città produttrice del medioevo e della prima età moderna, tra gli sviluppi dell' economia romana in età imperiale e l' evoluzione delle economie preindustriali europee27. In che senso e in quale misura la gestione delle finanze statali e in particolare la presenza o l'assenza dell' appalto delle imposte determinano il corso dell'economia a Roma? Nella ricostruzione weberiana, l'appalto delle imposte, che consente la nascita dell' unica «classe di capitalisti, il cui razionalismo [e si noti il termine] si potrebbe paragonare con quello del capitalismo moderno, quella dei cavalieri romani» 28,ha la funzione di "battistrada" del capitalismo antico e il suo rapporto con la forma più caratteristica che tale capitalismo ha assunto nell' esperienza romana, quella della grande azienda schiavistica, orientata a un profitto mercantile, è definito per l'appunto da questa sua funzione. Non solo: è il suo venir meno, con la pax imperiale, quello che "soffoca" il capitalismo antico ". Scrive Weber nell'introduzione agli Agrarverhaltnisse: «Le vicende e le caratteristiche politiche dei singoli paesi influivano fortemente sia sulla proporzione fra lavoro libero e non libero, sia sull'uso "capitalistico" di quest'ultimo, condizionandone lo sviluppo quantitativo e qualitativo»: per esempio, aveva rilievo se l'obbligo di servire nell' esercito lo si facesse o meno ricadere sulla popolazione libera; al di là, tuttavia, di quest'ultimo aspetto, «ciò che ebbe in questo campo un peso decisivo fu piuttosto l'organizzazione politica complessiva di questi Stati antichi,
25 Nella
Vorhemerkung ai Gesammelte Aufsiitze zur Religionssoriologie, trad. it. in WEBER 1977\ 67. 1980 (cfr. HOPKINS 1995/6). 27 PLEKET 1990, part. 25-31. 2X WEBER 1923, 286 sg., e vd. supra, 312, n. 38, sulla sorte subita da questa notazione weberiana nell' ed. del 1958 della Wirtschaftsgeschichte; cfr. pure WEBER 1981, 30 sgg.; 300 sgg. 29WEBER 1981,351 sg. 26
HOPKINS
326
CRESCITA E DECLINO
soprattutto l'amministrazione pubblica in generale, e la gestione delle finanze in particolare, settori il cui funzionamento dipende in ultima analisi dall' ordinamento politico». In base a come viene a essere organizzato l'apparato finanziario dello stato, esso può rappresentare il "sostituto" dell'accumulazione privata di capitale, come accade nell'Egitto faraonico «burocraticamente organizzato, a cui in origine è estranea la figura dell'imprenditore». Anche nelle città greche, dove pure, mancando una burocrazia, è necessario ricorrere ai privati, ad esempio, per l'esecuzione dei lavori pubblici, manca «un'accumulazione privata tale da consentire al capitalista l'esborso di somme così ingenti», tant' è che si ha il «regolare anticipo del capitale d'esercizio da parte del pubblico erario» e le somme necessarie vengono raccolte «sotto forma di contributi imposti ai cittadini in forza di un'autorità pubblica o sacrale»?". Quanto all'appalto delle imposte è significativo che, in molti casi nel mondo antico, esso non preveda in generale l'anticipazione allo stato da parte degli appaltatori e dunque non richieda l'esistenza preventiva di un' accumulazione privata di capitali di grosse proporzioni: «Risulta evidente che in un simile sistema lo scopo dell "'appalto" è semplicemente quello di assicurarsi una base fissa di danaro liquido per il budget pubblico, stabilendo in precedenza quale debba essere l'introito minimo in contanti», per cui «l'ammontare, frequentemente assai ragguardevole, degli appalti non può far pensare a un'accumulazione privata di capitale di pari entità. È però innegabile che il sistema dell'appalto pubblico in generale, e in particolare quello delle imposte, costituisce un importante strumento - sicuramente uno dei più importanti nella stessa Grecia - per la formazione di un capitale privato». Tuttavia, questa funzione peculiare, di consentire l'avvio di un'accumulazione di capitale privato, «questa semplice funzione di "battistrada" del capitale la finanza pubblica poteva assolverla in determinate condizioni: occorreva cioè che la città-stato, priva in quanto tale di un proprio meccanismo burocratico e costretta a ricorrere all'appaltatore, possedesse vasti domini, e potesse disporre da sovrana delle terre e dei tributi di immensi territori conquistati e sottomessi. È il caso della Roma repubblicana, in cui prendendo le mosse essenzialmente dal settore dell' appalto pubblico, si sviluppò una potente classe di capitalisti privati [...] le loro lotte con la nobiltà degli uffici, che questi capitalisti, in quanto fornitori di denaro, tenevano economicamente in pugno, occupano tutto l'ultimo secolo della repubblica. L'acme del capitalismo antico è dovuta insieme a questa costellazione e alla peculiare struttura politica dello Stato romano» 31 •
30 31
Ibid., 30 sg. Ibid., 32 sg.
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Ma la gestione finanziaria dello stato può anche condurre a un soffocamento dello sviluppo dei capitali privati: e ciò accade particolarmente nel caso delle monarchie. «Quello che interessa è il margine che la prassi amministrativa riusciva a garantire stabilmente alle possibilità di profitto del capitale privato e quindi alla formazione del capitale. Questo margine era, a seconda dei casi, molto diverso. Nelle monarchie esso doveva essere, in linea di massima più esiguo che non nelle repubbliche. L'antico monarca e il suo Stato non erano altro che dei signori fondiari in grande stile. Questa loro posizione si esprimeva sia nelle forme del diritto privato, sia nel dominio arbitrario a cui sottostavano le popolazioni straniere tributarie, alle quali non era data alcuna garanzia giuridica circa il possesso della loro terra». È vero, continua Weber, che «lo stesso si può dire per la polis, e specialmente per la repubblica romana, che applicò questo sistema su vastissima scala» 32 (ed è qui evidente l'eco dei ragionamenti svolti nell' Agrargeschichte=v: tuttavia, in particolare nel caso di Roma, «questi terreni di proprietà pubblica diventarono più che altro un oggetto di sfruttamento meramente economico [...] si trasformarono [...] in veri e propri vivai di iniziativa privata, in cui lo sfruttamento capitalistico prosperava in tutte le sue forme, dall'usura sull' appalto dei tributi e sull'affitto dei suoli all'impresa a schiavi e così via a seconda dei casi. Il monarca invece - prosegue Weber - procedeva necessariamente in altro modo. Da un lato egli considerava i manenti delle sue terre demaniali essenzialmente sotto il profilo politico, cioè come pilastri del suo potere dinastico. Dall' altro egli, nel proprio personale interesse, era portato a dare a una rendita sicura un valore molto maggiore di quello che potesse attribuirvi un' amministrazione repubblicana, dato che questa era affidata a funzionari eletti per brevi periodi, il cui pensiero fisso era quello di trovare, per sé e per il loro entourage, il modo di arricchirsi il più rapidamente possibile. Soprattutto, la politica finanziaria del monarca doveva avere un carattere pubblico, con un indirizzo politico preciso, e mirare ad una utilizzazione costante, e quindi prudente e avveduta, delle capacità produttive dei sudditi: il contrario dunque della politica di sfruttamento della città-stato, fatta su misura per soddisfare gli interessi capitalistici privati». In questo contesto, «il punto decisivo è vedere come si presenta, nei diversi regimi, quella che è la forma "principe" dello sfruttamento capitalistico: 1'appalto delle imposte. La città-stato repubblicana è sempre sul punto di trasformarsi in una gigantesca impresa gestita dai creditori dello Stato e dai titolari dei pubblici appalti [...].
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lbid., 33 sg. 1967, cap. III.
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Negli Stati monarchici invece questa attività è tenuta costantemente sotto controllo, spesso del tutto, o quasi del tutto, nazionalizzata, e comunque sempre limitata nelle sue chances di profitto. Spogliato così della sua capacità di generare nuovi capitali privati, l'appalto delle imposte è per lo più avviato direttamente in un'altra direzione, ossia verso una combinazione di amministrazione burocratica e amministrazione monopolistica finanziata mediante imprese relativamente piccole. Questo processo di controllo, monopolizzazione e burocratizzazione, che spesso implica una diretta esclusione del capitale privato, è un processo inarrestabile di tutte le grandi monarchie antiche»: dopo avere investito l'appalto delle imposte e lo sfruttamento dei demani, esso va riguardando tutte le altre intraprese: dalle miniere, al commercio e alla navigazione, alla banca. In conclusione, mentre «la città-stato riusciva a mantenere viva la brama di profitto del capitale, dando sempre nuova esca alla sua capacità di accumulazione [...] l'''ordine'' burocratico del regime monarchico, bloccando le principali fonti di profitto, prosciugava lentamente proprio i maggiori capitali privati [...] L'ordine instaurato dalla monarchia, così vantaggioso per la massa dei sudditi, rappresenta la morte dello sviluppo capitalistico e di tutto ciò che su di esso si fonda»34. Il medesimo quadro emerge dalle considerazioni conclusive degli Agrarverhdltnisse. Weber si è soffermato a lungo, nel capitolo finale della voce, intitolato Linee di sviluppo in età imperiale, piuttosto che sui tratti caratteristici dei rapporti agrari e dell' economia in quest' età, su una generale analisi delle differenze tra la città antica e la città medievale, che anticipa in tutto l'essenziale le considerazioni di Die Stadt: la contrapposizione tra città consumatrice e città produttrice, nonché la connessione tra il processo di continentalizzazione e il tramonto della forma antica di città e le origini, in questo processo di continentalizzazione, così dell'abbandono della schiavitù come, in prospettiva, della nascita della nuova città medievale.". Dopo avere riaffermato, ancora una volta il carattere politico del capitalismo antico, Weber scrive: «Quando l' ellenismo e l'impero romano portano la pace nell'ecumene, sul terreno della città antica, che è ormai depositaria di interessi esclusivamente economici, cominciano a fiorire quelle associazioni professionali dei mercanti e 1981, 34 sgg. Su queste pagine weberiane vd. CAPOGROSSI COLOGNESI 1990, 150 sgg. Ma andrà osservato che, come sottolinea BRUHNS 1988, la stessa espressione di «città consumatrice» non è propriamente espressione weberiana; per gli ulteriori sviluppi del dibattito sulla caratterizzazione tipologica della città antica, e sulla validità e utilità di un simile esercizio, si vd. i contributi raccolti in «Opus» VI- VIII, 1987-89, e in particolare quello di J. ANDREAU, La cité antique et la vie économique, pp. 175-85; nonché ancora il saggio già citato di DEININGER 1989, l'introduzione di A. WALLACE-HADRILL a RICH e WALLACE-HADRILL (eds.) 1991, e i due saggi di WHITTAKER 1990 e WHITTAKER 1993a, ristampati in WHITTAKER 1993b. 34
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degli artigiani che vi erano presenti solo in embrione. Esse percorrono un arco di tempo che va dal periodo tardoantico, in cui lo Stato le sfrutta ai suoi scopi, fino al primo apparire delle corporazioni medioevali. Ma l'ora, per il capitalismo antico è già suonata: l'avvento della pace e dello Stato monarchico da un lato, il passaggio dalla civiltà costiera a quella continentale dall' altro, anziché, come si sarebbe portati a credere, infondergli nuovo vigore, date le sue condizioni lo soffocano. Questi due passi decisivi sono compiuti per l'appunto dall'impero romano»36. E ancora: «Il primo grosso risultato raggiunto dall'impero si era avuto con la regolamentazione del sistema tributario e il contenimento del prepotere degli appaltatori. In una prima fase, come già era accaduto alla amministrazione tolemaica, gli imperatori non avevano potuto fare a meno dei capitali e dell' esperienza di costoro; tuttavia, man mano che la burocrazia imperiale prendeva in mano la situazione, essi cominciarono a chiedersi per quale motivo un privato dovesse lucrare sulle entrate dello Stato. Nell'esazione delle imposte ci si spinse quindi sempre più avanti sulla strada della "nazionalizzazione". Il risultato è, come mostrano Domaszewki e Rostovzev, che il pubblico appaltatore si trasforma in pubblico funzionario. Da un lato tutelando i sudditi, dall'altro imponendo al mondo la pace, l'impero aveva condannato il capitalismo a una morte lenta. Si era contratto il mercato degli schiavi, erano svanite tutte le chances economiche legate alle guerre fra polis e polis, la città aveva perso il monopolio delle grandi vie commerciali, lo sfruttamento privato dei domini e dei sudditi era definitivamente precluso: tutto ciò significava togliere al capitalismo il terreno da cui aveva sempre tratto il suo nutrimento» 37. Ancora nella Sociologia del potere, nel contesto di un ragionamento sui presupposti e i fenomeni concomitanti della burocratizzazione e in particolare sul processo di «livellamento dei dominati di fronte al gruppo dominante, organizzato burocraticamente, che da parte sua può possedere di fatto, e spesso anche formalmente, una posizione assolutamente autocratica», Weber scrive: «La sostituzione dell' esercito di notabili fondato sull' autoequipaggiamento con un esercito burocratico rappresenta ovunque un processo di democratizzazione "passiva", nel senso in cui lo è ogni istituzione di una monarchia militare assoluta al posto dello stato feudale o della repubblica di notabili. Ciò vale anche, in linea di principio, nonostante tutti gli aspetti particolari, già per lo sviluppo statale in Egitto. La burocratizzazione dell' amministrazione delle province nel principato romano, ad esempio nel campo dell' amministra-
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WEBER 1981, 346. Ibid., 351.
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zione tributaria, procede di pari passo con l'eliminazione della plutocrazia di una classe di capitalisti che era preponderante nella repubblica, e in conclusione dello stesso capitalismo antico» 38. Lo schema dell'evoluzione che riguarda la finanza statale a Roma risulta chiaro, come chiaro risulta il rapporto tra il processo di formazione dei capitali privati e la loro utilizzazione nelle intraprese produttive, in particolare nella grande azienda a schiavi 39. Quel che meno risulta esplicitato è, al di là della concatenazione causale dei fenomeni che Weber passa al vaglio, la loro più precisa collocazione temporale. Che l'avviarsi del progressivo "soffocamento" del capitalismo sia contestuale con l'avviarsi stesso del regime monarchico pare indubitato, e per due ragioni: per un verso, Weber colloca il progressivo venir meno dell'appalto nella gestione della finanza pubblica, secondo quella che era già nel momento in cui scriveva l'opinione generale degli studiosi (e significativo è il riferimento a Rostovzev), nella prima età imperiale "; per un altro verso, egli pare considerare, almeno negli Agrarverhiiltnisse, non solo già avvenuto, sin dalla prima fase del principato, il mutamento radicale del regime, ma anche il suo assumere i connotati tipici di una gestione burocratico-patrimoniale. Questa particolare forma di amministrazione burocratico-patrimoniale il principato la deriva, come pare di dovere concludere, oltre che dagli Agrarverhdlinisse, da una serie di osservazioni sparse della Sociologia del potere, dall'assunzione di una duplice eredità: da una parte, quella della «struttura patrimoniale» del «ceto dominante» in età tardorepubblicana, sicché, ad esempio, il coinvolgimento degli schiavi e dei liberti imperiali nell' amministrazione viene considerato in un rapporto di continuità con quello dei propri clienti e liberti da parte dei comandanti militari e dei funzionari repubblicani; da un' altra parte, l'eredità degli stati ellenistici e in particolare dell'Egitto tolemaico: il «modello egizio-ellenistico» è quello sul quale viene a esemplarsi, per Weber, la sostituzione dell' «amministrazione cittadina, ormai del tutto impari a risolvere i problemi di un impero» da parte di un esercito e di una burocrazia «entrambi a carattere dinastico» 41. Tuttavia, se già il principato di Augusto o ancor più quello di Claudio risulta avviato verso il destino di una progressiva burocratizzazione, con tutto quel che ne WEBER 1980, IV, 86. Che è quanto il Love non intende, confondendo il processo di accumulazione del capitale, che è quello consentito dall'appalto, e l'utilizzazione del capitale nello scambio e attribuendo a Weber un'incoerenza di cui Weber non si può dire responsabile. 40 Oggi si tende, viceversa, a riconoscere più a lungo persistente l'utilizzazione dell'appalto, per lo meno per ciò che concerne l'esazione delle imposte indirette: si vd. Lo CASCIO 2000a, 41 sg., e gli autori ivi citati; Lo CASCIO 2003c. 41 WEBER 1981,349. 3X
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viene di conseguenza sul piano dei rapporti economici, non è che Weber non riconosca che a un tale traguardo è ben lungi dall' essere pervenuto. E però egli rinuncia a definire, con maggiore precisione, e soprattutto a collocare nel tempo le varie tappe di questo processo di burocratizzazione, né ne vede gli elementi di razionalizzazione che potrebbero favorire un diverso orientamento del capitalismo, ma si limita ad osservare che la trasformazione della monarchia romana in uno «Stato liturgico sul tipo dell'Egitto ellenistico [...] affonda le sue radici nella società del II secolo» e che ha il suo presupposto nell' «opera di stratificazione intrapresa in età imperiale»; o ancora che il quadro della società romana, stratificata, dell'età imperiale, «in cui assume forma compiuta un'organizzazione dei sudditi iniziata già sotto la repubblica, ha un'impronta nettamente ellenistica», anche se «non sappiamo quanto di tutto ciò sia dovuto a un prestito diretto» 42. Ma c'è un'altra considerazione da tenere presente. La "morte lenta del capitalismo" è lenta anche per un altro motivo. Nel pensiero weberiano, l'unità produttiva orientata verso l'acquisizione, verso 1"'Erwerb", che, meglio e più di ogni altra, ha potuto realizzare una produzione basata sul calcolo del capitale e destinata al mercato, l'azienda agricola catoniana, trova il suo limite nel fatto stesso dell' utilizzazione di manodopera servile come capitale. Non che, in tale azienda, manchi una tendenza al calcolo razionale: non c'è insufficienza, diremmo, «teorica» nell' agire economico - lo stesso Weber accennerà poi, in Wirtschaft und Gesellschaft, al fatto che «si trovano già dei precedenti [...] in Catone» di un «calcolo del capitale, sia pure di forma primitiva»:". Ma il calcolo che è possibile operare utilizzando il lavoro servile è un calcolo imperfetto e limitato: il rischio di perdita, dato l'altissimo tasso di mortalità; le variazioni notevolissime del prezzo degli schiavi; la stessa mancanza di un interesse personale dello schiavo nel proprio lavoro, che lo fa rendere poco, se non in una situazione di rigida coazione, sono tutti fattori che si oppongono a che l'azienda schiavistica possa diventare espressione di un' efficace e rigorosa razionalità economica. Dunque, l'utilizzazione del lavoro servile come capitale può risultare economicamente profittevole solo quando il prezzo degli schiavi non è elevato: e, dal momento che la caserma di schiavi - il solo sistema di utilizzazione del lavoro servile in cui si possa parlare di «profitto» - non è in grado di riprodursi, solo là dove il rifornimento degli schiavi è continuo e regolare. Cessata la stagione delle grandi conquiste, l'inaridirsi della principale fonte di
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1981, 350. 1980, I, 153.
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approvvigionamento degli schiavi non può non influire negativamente sul loro costo, e non può non provocare il passaggio a una forma di utilizzazione del lavoro servile - attraverso la concessione ad essi di una famiglia propria e di un'attività economica in qualche modo autonoma, ad esempio, in ambito agrario, un podere - che trasforma radicalmente l'orientamento stesso del proprietario, facendolo divenire, da capitalista che era, rentier: la polarità di "profitto" e di "rendita" (o di "copertura del fabbisogno"), o, che è la stessa cosa, di "capitale" e di "patrimonio" domina anche per questo aspetto la visione weberiana delle strutture e delle forme economiche antiche:". Ora questo processo di progressiva trasformazione del capitalista agrario in rentier è anch' esso, com' è ovvio, legato alle vicende della politica, se la pace imperiale significa per l'appunto la cessazione delle conquiste: ma è anch' esso un processo di cui più facile risulta cogliere, nelle pagine weberiane, l'esito finale -la costituzione delle signorie fondiarie tardo antiche basate sull' economia naturale e autarchiche - che non le tappe intermedie 45 • Quel che voglio dire è che, se Weber ha fornito un modello interpretativo del nascere del capitalismo antico legato alla posizione di predominio di Roma e dell'Italia nel mondo mediterraneo, se ha dato una valutazione dei fattori che concorrono a dare al mondo tardoantico la sua particolare forma, non ha dato, ossessionato dalla connessione tra pace imperiale e morte del capitalismo antico, un modello parimenti elaborato dei caratteri della vita economica dell' impero, delle varie regioni dell'impero, nel momento del gibboni ano suo apogeo. Le osservazioni weberiane nella pagine conclusive degli Agrarverhiiltnisse parrebbero mostrare, per un verso, una continua oscillazione tra una valutazione "positiva" e una "negativa" della vita economica nell' età del principato, per un altro verso, parrebbero sottolineare, attraverso il continuo riferimento, per i fenomeni caratteristici di questa età, alla loro "lentezza", alla loro "progressività" che è per l'appunto alla luce dell' esito finale così com' è da lui stesso individuato che egli li valuta. La pace portata dall'impero «transitoriamente sotto Tiberio e in via definitiva a partire da Adriano» prosciuga lentamente le fonti di approvvigionamento dei capitali e degli schiavi, un fattore al quale egli ha dato in precedenza, Si vd. Lo CASCIO 1982d; e supra, part. 308 sgg. Soprattutto quando si consideri il fatto che lo stesso Weber non esclude da uno scenario tipicamente «capitalistico» uno sfruttamento fondiario attuato mediante la colonia parziaria, che sarebbe uno dei due possibili sistemi «per ottenere prodotti commerciali che avessero un valore relativamente elevato e che quindi valesse la pena trasportare», l'altro essendo, ovviamente, la piantagione: quest'ultima sarebbe stata più adatta in territori poco popolati «almeno finché fu economicamente possibile lo sfruttamento illimitato della terra e, ancor più, della forza-lavoro»: WEBER 1981,304 (e si vd. CAPOGROSSICOLOGNESI 1990,256). 44
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come riconosce, un' eccessiva importanza; e parimenti «lentamente» la villa romana si propaga verso il nord e il suo processo di crescita interna «va di pari passo col progressivo sganciamento dal mercato»; «la fuga dalle città è inarrestabile» e «la funzione economica e sociale della città declina». Tuttavia, Weber deve riconoscere che «in tutto l' orbis terrarum compreso entro i confini dell' impero, nei tre secoli e mezzo che vanno dai Gracchi a Caracalla non si può dire che la circolazione dei beni non abbia registrato in assoluto un forte incremento», ma risponde che un tale incremento è stato meno che proporzionale all'incremento nella «massa di territori e di popoli nel frattempo guadagnati alla civiltà antica» e che «da una civiltà tipicamente costiera ci si stava avviando verso una civiltà continentale», con tutto ciò che ne veniva di conseguenza sulle caratteristiche che andava assumendo questa circolazione di beni 46;Weber deve riconoscere che si ha «un incremento in assoluto nella colonizzazione e nella coltivazione delle nuove regioni continentali annesse all'impero» 47, ma tale fenomeno non fa per l'appunto che rafforzare la progressiva continentalizzazione della civiltà antica. Deve infine riconoscere, pur dopo avere riaffermato che con la rete di liturgie che lo va caratterizzando «lo Stato antico soffoca, lentamente ma sicuramente lo stesso capitalismo», che «l'espansione dell' economia monetaria dura, questo è certo, fino a Marco Aurelio, se non di più», ma subito mettendo in rilievo, ancora una volta, in consonanza con Marx, che «il fatto è che "economia monetaria", lo sappiamo bene, non equivale a "capitalismo"»48, senza, peraltro, riuscire, come sembra, a conciliare del tutto quest'idea di un'espansione dell' economia monetaria con il processo, al quale continua a credere, di un progressivo passaggio all'economia naturale parallelo alla costituzione delle signorie fondiarie tendenzialmente autarchiche. La strutturale genesi della crisi della grande azienda schiavistica, come in generale di tutte le altre forme più caratteristiche del capitalismo antico, è posta dunque da Weber all'inizio dell'età imperiale e in connessione con le modificazioni che accompagnano, sul terreno dell'amministrazione dell' impero, il passaggio al nuovo regime, nella misura in cui in connessione con esse è il venir meno della forma principe dell' accumulazione capitalistica antica, l'appalto delle imposte: la visione weberiana, collegando il venir meno delle forme più estreme di "Raubkapitalismus" con l'instaurarsi di un rapporto meno sbilanciato tra Roma con l'Italia e le province, risulta in qualche modo coerente con il processo
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1981, 346 sg. Ibid., 348. WEBER 1981, 350.
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di progressiva anticipazione della crisi della villa che si rileva nelle più recenti prese di posizione su questo tema". Nel contempo, l'immagine di Weber risulta essere la medesima, ma rovesciata rispetto a quella di tentativi recenti di individuare, nel suo complesso e al di là delle singole storie regionali delle varie aree, i caratteri di fondo dell' economia del principato, come ad esempio quello di Hopkins: la medesima perché attribuisce, come si è visto, un ruolo decisivo, nel dar forma all' evoluzione economica dell'impero, all'apparato finanziario dello stato e al modo in cui questo è organizzato; rovesciata, perché interpreta il ruolo economico del tributo, considerato, come in Hopkins, non dissimile da quello della rendita, come in grado, forse, di provocare un ampliarsi dell' economia monetaria e delle relazioni commerciali, ma non in grado di determinare un'accumulazione capitalistica, proprio per l'inevitabile volgersi dell' orientamento dei ceti proprietari verso una considerazione dei propri beni come patrimonio, e non come capitale. Naturalmente questo giudizio sottende una valutazione opposta dello "stile" economico nell' età del principato, tutta, vale a dire, in negativo e a tinte fosche, che deve basarsi su un' opposta valutazione del ruolo delle città e delle produzioni cittadine almeno in talune aree (le "tax-producing regions" del modello di Hopkinsj". Questa negativa valutazione che si rinviene in Weber viene ora segnalata come fuorviante, nel quadro di un saggio sull' economia dell' impero romano importante non meno che per i suoi concreti conseguimenti, per il suo valore metodologico, da alcune considerazioni di Pleket, con le quali vorrei concludere>'. Contro, per un verso, l'immagine - prospettata da 'macrosociologi' e teorici dell' economia - di un mondo preindustriale tradizionale, dunque sostanzialmente statico o anzi "immobile" 52 e contro l'analoga immagine del mondo antico che emerge dall' ortodossia primitivista, Pleket osserva come «i primitivisti hanno sempre contrapposto la società dell'impero romano a quelle del medioevo e dell' Ancien Régime e messo in rilievo ciò che alla prima mancava e le seconde possedevano. Paradossalmente si sono rifatti per le loro concezioni della società di epoca più tarda e della sua economia non ai menzionati macrosociologi Si vd. in particolare CARANDINI 1989, 114 sgg.; vd. pure Lo CASCIO 1991a. Si veda il confronto, istituito in Lo CASCIO 1991 a, 313 sgg., tra le opposte valutazioni di un Rostovzev e di un Weber. 51 PLEKET 1990, 25-31. 52 Pleket cita in particolare le critiche rivolte a questa maniera di concepire il mondo preindustriale da MENDELS 1984, con le citazioni a p. 980; sul dibattito avviatosi a seguito dell'introduzione, da parte dello stesso Mendels, della nozione (e del termine) di «protoindustrializzazione» e sulle caratteristiche specifiche di quest'ultima si vd. p. es. DE VRIES 1984,220 sg., 238 sgg.; e il fascicolo 8, 2 di «Continuity and Change», 1993 (e in particolare la presentazione del problema da parte di S.c. OGILVIE, pp. 159-79). 49 50
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"immobilisti", ma a Max Weber, che ha spiegato determinati aspetti del mondo preindustriale europeo con la concezione di un capitalismo nascente, che sarebbe più tardi nei secoli successivi pervenuto a una più piena fioritura. Rimane tuttavia da chiarire [...] se Weber, con le sue opinioni circa le linee fondamentali di sviluppo della prima età moderna e _ in contrapposizione a questa - del mondo antico sia ancora una guida sicura ovvero - in altri termini - se egli, possibilmente, non abbia troppo "modernizzato" il suo nascente mondo capitalistico e "primitivizzato" più del lecito l'impero romano» 53. Naturalmente non è questa la sede per valutare se sia davvero legittima, nel modo in cui è formulata, questa netta presa di distanza da Weber e dall'uso che di Weber è stato fatto dagli studiosi del mondo antico. Quel mi sembra che si possa, in ogni caso, affermare è che la nozione di "capitalismo antico" come "capitalismo politico" e quella, ad essa congiunta, di una radicale contrapposizione tra la "città consumatrice" dell' antichità e la "città produttrice" del Medioevo e dell' età moderna rendono problematico, per Weber, far rientrare, nel suo "modello", una valutazione positiva della prima età imperiale. Tra l' "ordine" della pace imperiale, ancor prima che esso assuma, nella sua stessa visione, i contorni sinistri dell'irreggimentazione della società, e l"'anarchia della produzione" Weber preferisce sempre quest'ultima.
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PLEKET
1990, 27 sg.
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6, 272e: 152 n. 22 IO, 443be: 83 n. 46 Augustinus Sermones 389.3: 271 ll.44 Aurelius Vietor De Caesaribus 37.3: 183 n. 12 [Pseudo Aurelius Vietor] De viris illustribus vd. De viris illustribus Caesar Bellum Gallicum 1.4: 78 nn. 25 e 27 1.4.2: 77 n. 21 6.13: 78 sg., 81 Cassius Dio 41.38.1: 226 n. 51 51.21.5: 199 n. 26 55.12.3-5: 238 n. 17 78.34.3: 296 n. 37 Cato De agri cultura praef.: 29 e n. 24, 42, 88 1.1-3: 27en.13 1.5-6: 28 e n. 17 1.7: 28 e n. 19 2.7: 26
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371
INDICE DELLE FONTI
18.1.1 pr.: 236 n. 8 19.2.15.4 : 106 n. 51 19.2.25.6: 45 n. 61, 99 e n. 25, 130 n.41 35.2.68 pr.: 140 e n. 5, 145 39.1.3.6: 181 n. 5 Diodorus Siculus 5.26: 48 n. 67 18.18: 153 e n. 25 Dionysius Halicarnasensis 3.11.6: 173 n. 33 16.5: 23 n. 8 Epitome de Caesaribus 12.4: 171 n. 24 13.13: 142 n. 9 Eusebius Chronicon Arm. sub 01. 206, 2: 158 n. 35 Eutropius 9.17: 183n.12 Gaius Institutiones 1.9: 41 1.42 sgg.: 131 n.45 1.122: 236 n. 6 2.7: 167 n. 7 2.21: 167 n. 7 Gellius 4.12.1: 87 n. 55 6.3.37 (= ORF fr. 168 Male.): 37 n. 43 Herodianus 2.4.6: 183 n. 12 Hieronymus Chronicon sub 01. 206, 2: 158 n. 35 In Amos 7.14-171. 406: 121 n. 19
Historia Augusta vd. Scriptores Historiae Augustae Hyginus De generibus controversiarum pp. 96 sg. Th.: 170 n. 20 De limitibus et de condicionibus agrorum p. 111 La.: 170 n. 20 Iuvenalis Satirae 3.81-82: 230 e nt. 64 Lex Duodecim Tabularum III, 1-7: 22 n. 5 Livius 3.26.8: 23 n. 7 4.59.10-11: 19 n. l 4.60: 19 n. l 5.30.8-9: 20 n. 2 6.27.6: 77 n. 20 8.28: 23 n. 8 26.40.17: 77 n. 20 39.3.4 sgg.: 174 n. 39 39.29.8-9: 36 n. 40 39.41.6-7: 36 n. 40 41.8.6 sgg.: 174 n. 39 42.10.3: 174 n. 39 Periochae 58: 37 n. 44 98: 154 n. 28 Novellae Valentiniani III 16: 269 n. 34 36: 151 n. 19,281 Orosius 6.19.19: 199 n. 26 Panegyrici Latini 4.9: 182 n. Il Patrologia Orientalis IV 5 (Histoire de S. Pacàmei, 256 n. 65
33-4:
372
CRESCITA
E DECLINO
Philostratus
10.8: 127 e n. 35
Vita Apollonii
Panegyricus
6.42: 169 n. 19, 183 n. 12
29: 132, 133, 265 n. 23 29.3-5: 288 e n. 5
Vitae Sophistarum
Traiani
1.21: 169ll.19, 183ll.12 Plutarchus Phlegon Tralliallus FGrHist 257 F 12.6: 154 n. 28 FGrHist 257 F 37: 139 n. 1
8.6: 151 n. 18 15: 55 n. 79
Plinius Maior
21.6: 30 n. 25
Caesar
Cato Maior Naturalis Historia
7.157: 139 n. 1 7.159: 139 n. 1 7.162-4: 139 n. 1 14.35: 219 n. 22 14.49.;.51:60 n. 88 18.38: 57 n. 83, 161 e n. 39 33.46: 236 n. 9 34.1: 77 n. 20 Plinius Minor Epistulae
1.14.4: 123 n. 22 1.22.5: 123 n. 22 2.4.3: 123 n. 22 3.19: 118, 119 e n. 13, 122, 123 3.19.7: 104 e n. 39,106,132 4.6: 117 e n. 8 4.19.2: 123 n. 22 5.6: 115 5.19.9: 123 n. 22 6.6: 123 n. 22 6.8.6: 123 n. 22 6.19: 61 e ll. 91, 62, 118 e n. lO 7.30: 129 n. 40 7.30.3: 104 e n. 42, 120 8.2: 121 sg. e n. 20, 125 ll. 27 8.16: 131 9.10.1: 121 n. 18 9.16: 125ll.27 9.20: 124,125 e nn. 27 e 30, 126 ll. 34 9.28: 125 n. 27 9.37: 124, 125, 128, 129 e n. 39 9.37.2: 104 n. 45 9.37.3: 100 e n. 29, 105 n. 46
Cato Minor
26.1: 151 n. 18 Ti. Gracchus
8: 172ll.31 8.4: 40 n. 51 9.4-6: 40 n. 51 Phocion
28: 152 n. 24 Polybius 2.14 sgg.: 26 n. lO 2.23-24: 38 n. 46, 157 n. 32 Scriptores Historiae Augustae Vita Marci Antonini
11.8: 118 n. 11 Vita Severi
8.5: 277 n. 17 23.2: 277 n. 17 Vita Aureliani
48.2: 183 n. 12 Vita Probi
18.8: 183 n. 12 Selleca De beneficiis
6.41.2: 77 ll. 19 Epistulae morales
87.7: 168 n. 13 Naturales
Quaestiones
6.1.1-3: 211 e n. 1 6.1.10: 213 n. 5 6.1.13: 212 n. 4 6.28.1-2: 213 n. 5
INDICE DELLE FONTI
Siculus Flaccus
De condicionibus agrorum 152.22-25 La.: 25 n. 9 Statius
Silvae 4.3.11-12:
169 n. 19, 183 n. 12
Strabo 3.3.7: 198 n. 17 5.3.7: 142 n. 9 7.5.5: 198 n. 17 Suetonius
De vita Caesarum Divus Iulius
3.60.1: 77 n. 19 4.6.7: 69 n. 107 4.13: 212 n. 4 4.72: 293 n. 26 6.17.3: 77 n. 19 6.38.4: 116 n. 4 11.25: 158 n. 35 15.22: 211 e n. 1 Tertullianus
De anima 30.4: 173 n. 32 Theopompus ap. Athen. IO, 60 p. 443bc = 6, 101 p. 271e = FGrHist 115 F 40: 83 n.46
27.2: 77n.19 41.3: 151 n. 18 46: 77n.19
Varro
Divus Augustus
De lingua Latina
41.1: 199 n. 26 41.2: 251 e n. 51
Rerum rustica rum libri
Divus Vespasianus 1.4: 45 n. 63, 102 n. 32
Domitianus 7.2: 169 n. 19, 183 n. 12 9.3: 170 n. 20 14.2: 169 n. 19, 183 n. 12
7.105: 72 1.16.6: 27 e n. 14 1.17: 33,40,71 sgg., 97 e n. 21,126 1.17.1: 41 n. 53 1.17.2: 41 n. 54 1.17.3: 42 n. 56 1.18.1-5: 29 e n. 22 2.10.7-9: 82 e n. 40
Symmachus
Relationes
Volusius Maecianus
29: 263 n. 16, 269 e n. 36, 271 n. 44
Distributio
Tacitus
44: 236 n. 6 45: 236 n. 9
Annales 1.74: 115 n. 3 2.47: 212 n. 4 2.87: 274 n. 7 3.42.2: 77 n. 21, 78 n. 26 3.54: 16gen.17
373
Vita Pachomii vd. Patrologia Orientalis Zosimus 1.61.3: 245 n. 37
374
CRESCITA E DECLINO
EPIGRAFI
Année Épigraphique 1973, 526: 236 n. 7 Corpus Inscriptionum
Fontes Iuris Romani Antejustiniani Il, 64, 11. 15 sg.: 266 e n. 26 F, 100: 45 n. 60 Latinarum
F, 585: 43 n. 58 IV, 3525: 212 n. 3 VI, 1771: 267 n. 30 VIII, 10570: 187 n. 23 VIII, 11824: 46 n. 64,102 VIIL25902: 45 n. 60 IX, 1455: 65 n. 98 X, 810: 221 n. 33 X, 813: 221 n. 32 X, 1024: 230 n. 61 XI, 1147: 65 n. 98 XI, 5264: 115 n. 3 XV, 4141: 278 n. 20 XV, 4142: 278 n. 20
n. 32
Edictum Diocletiani de pretiis rerum venalium 253,254,255,256,271 n.45 (vd. anche indice analitico)
Inscriptiones 2927: 115 n. 3785: 221 n. 6368: 221 n. 7457: 102 n.
Latinae Selectae 1 32 32 32
Res Gestae divi Augusti 8: 38 n. 47, 111, 153 e n. 27 15: 151 n. 18 Roman Statutes (CRAWFORD ed. 1996) I nr. 2 (lex agraria epigraphica): 43 n. 58
Se. de Cn. Pisone patre (ECK-CABALLOS-FERNANDEZ
1996)
11.54-55: 274 n. 6 Tavola di Trinitapoli (GIARDINA e GRELLE 1983): 263 e n. 17 (vd. anche indice analitico)
375
INDICE DELLE FONTI
PAPIRI,
OSTRAKA,
BGU
Aegyptische Urkunden aus den Kiiniglichen (staatlichen) Museen zu Berlin, Griechische Urkunden
1,14, col. 2: 253 1,21: 255,257 n. 71
TAVOLETTE
2, 143 + 146: 254 2,196: 254 2,202:254 3,32 I,col. I:253, 254 3,322: 254
CPR
P. Gen. Lat. 1 recto: 289 n.
Corpus Papyrorum Raineri
4: 289
6, 12:254 6,23:254 6,38: 254 6,75:253 8,22: 253,254
o. Mich.
n.
7
7
P. Grenf.
2,77: 254 P. Laur.
I,II l recto: 253
l,157: 253
P. Lond.
P. Bad.
3,1226: 253,254 6, 1914: 253
26:254 P. Mil. Vogl. P. Berl. Leihg.
2,39, recto col. 5: 253 P. Cairo Goodsp.
1,28, col. 3: 254 2,52: 254 4,215: 254 7,307:254
30:243,253,254 P.NYU
P. Cairo Isid.
18:253
Il:253 n. 54 58:254
P.Oxy.
P. Col.
7, 182: 254 7,184:254 inv. 480: 82 e n. 42 P. Dura
64: 287 n. 4 P. Erl.
101:253 P. FIor.
2, 123 + 124: 254
1,85:253,254 8, 1139 recto: 255 12,1411: 272 n. 47 17,2114:254 17,2142:253 36,2798: 253 49,3513: 253 49,3516:253 49,3518: 253 5 I,3624-3626: 262 n. 13 51,3625:253 51,3628-3633: 260 51, 3628-3636: 256 n. 66, 257 n. 72, 262 nn. 11 e 13
376
CRESCITA E DECLINO
53,3105: 260 n. 4 54, 3731: 259 n. 2 54, 3760: 260 n. 6 54,3765: 260 54, 3766: 260 n. 6 54, 3768: 260 n. 6 54, 3773: 253, 254, 255, 256 257 n. 71, 260, 272 n. 46 P.Panop.Beatty 2:242,247 P. Princ. Roll 114: 254 P. Rendel-Harris 93:253 PSI 4,281:254 4,309:253 8,959:255 P. Sarap. 6:253
P. Wisc. 2,82: 254 SB Sammelbuch griechischer Urkunden aus Aegypten (PREISIGKE et aliii n.
68,
6, 9348 col. I: 253 6,9406,12: 254 6,9408, l,col. 1: 253,254 6,9408, 2, col. 1: 253,254 6,9409,1:253,254 6,9409,2: 253,254 6,9409,3: 253,254 8,8699:253 14,11593: 253 14, 12154: 253 Tabulae Vindolandenses (BOWMAN & THOMAS 1994)
180: 292 183: 293 184: 292 302: 292 344: 292
e n. 19,293 n. 29 n. 29 n. 21 e n. 19
INDICE ANALITICO
I
A cura di Giovanna D. Merola
aetor: 36, 122, 124, 126 adaeratio: 262, 263, 265, 266, 267 e n. 28, 270, 282 e n. 29, 283 e nn. 31-32,284 Adams C.E. P.: 293 addictio/addictus: 23, 73 n. 8, 80 aerarius: 87 aes alienum: 79 affitto agrario/affittuarii: 25, 40, 42, 43-48, 52, 56, 63, 64, 66, 67, 68, 69, 70, 72, 85, 86, 89, 91-113, 117,120,123,124,126,127,128, 129,130,132,163,170,171,176, 180, 181, 182, 189,312,327 - affitto di immobili: 214, 223 - affitto di operae: 41, 84 - schiavi in affitto: 39 Aga Bey: 187 Agennio Urbico: 166 sg. - datazione: 166 - fonte: 166, 167 ager compascuus: 23 ager gentilicius: 21 ager privatus: 22 ager publicus: 21, 22, 24, 35, 37 e n. 42,301,312 ager quaestorius: 25 ager Romanus: 19,20 agri deserti: 182 alimenta: 65, 66,106,118,131,132, 170, 171 ambaeti: 78 e nn. 23 e 25, 79 nn. 2830
I
Anderson P.: 181 annona: 133, 183 n. 12, 246, 252, 262,263,264,265,266,268,270, 274,278,279,280,281,284,288, 295 - annona di Roma: 132,219,267, 291, vd. anche approvvigionamento antoninianus: 237 e n. 16, 238, 244, 245, vd. anche moneta antropometria storica o auxologia: 6 apochae:223 aporia: 40 appalto/appaltatore: 34, 45, 207, 313, 321,326,327,330, vd. anche imposte approvvigionamento: 213, 277 - approvvigionamento di grano: 52, 133, 177 - approvvigionamento di Roma: 51, 101, 132, 273, 276, 288, 291, vd. anche annona - approvvigionamento d'oro: 248, 251 - approvvigionamento idrico: 215 e n. lO - vd. anche esercito Aproniano: 267 n. 30, 283 n. 30 d'Arbois de Joubainville M.H.: 77 area vinaria: 267 n. 30, 269 e n. 38, 270 argenteus (di età tetrarchica): 247 assidui: 173
I nomi degli autori moderni sono citati solo se presenti nel testo.
378
CRESCITA E DECLINO
Atene: 39, 150, 152, 153 Augustales: 228, 231 aurelianianus: vd. moneta aureus: 201, 202, 225, 242, 247, 255 nn. 60 sgg., vd. anche moneta Bagnall R.: 240, 262 balie: 150 basilikoi georgoi: 83 e n. 45 Beloch K.J.: 107, 153 n. 26, 154 e n. 29, 155, 166, 168, 175, 177 Boak A.E.R.: 182 Bolin S.: 236 Boserup E.: 108,111,159,176 bottino: 199, 200, 314, 315 bracciantato agricolo/braccianti: 25, 33,46,67 Braudel F.: 94, 198 Breeze J.: 289 Briant P.: 73, 83 Broughton T.R.S.: 74, 83 Brugi B.: 165, 166 Brugnoli G.: 88 Brunt P.A.: 73, 107, 127, 168, 173, 177 Bucher K.: 13, 302, 303, 304, 305, 306,308 Bu Njem: 287 burocrazia: 182, 186, 226, 288, 304, 311,323,324,326,328,329,330, 331 Callu J.-P.: 240 Calvisio Rufo: 119, 121 n. 20, 122, 123, 132 Campbell J.B.: 166 canone: 45,47, 52,63, 70, 72,85,91, 96,97,98,99,100,101,103,104, 106,117,125,127,128,129,132, 171,190,274,280 - canon suarius: 276, 281 capitatio-iugatio: vd. iugatio-capitatio Capogrossi Colognesi L.: 171, 317, 318,324 Carandini A.: Il
Carcopino J.: 131 carne di maiale/caro porcina: 6, 151, 267,276,281,291, vd. anche canon suarius Carrié J.-M.: 265 «carrying capacity»: 135, 142, 169, 172,176 casa: 32 L. Cecilio Felice: 223 L. Cecilio Giocondo: 223, 224 e n. 41,225,226,230 cenaculum: 141 censimento: 20, 38, 39, 140, 143, 148, 149, 150, 152, 153, 154, 156, 157, 168, 175 - censimenti augustei: 38, 107, 110,111,153, 154 e n. 29,156, 158, 168, 175, 178 n. 55 - censimento di Claudio: 158 - censimento di Vespasiano: 139 - civium capita: 38, 153, 154, 155, 159 centurie: 20 Chayanov A.: 94 chrysargyron: 262 Cincinnato: 23 «città consumatrice» - «città produttrice»: 9,216, 220, 325, 328 e n. 35,335 civitas/cittadinanza: 24, 77 n. 22, 154, 155, 158, 159, 181 civium capita: vd. censimento clientes/clientela: 21, 22, 78 e n. 25, 79 e n. 30, 98 n. 22, 229, 330 coactor argentarius: 223 coemptio: 262, 263, 266, 282, 283 e n.31,284 collatio lustralis: 262 colonia/colonizzazione: 24, 43, 44, 77 n. 22,154,157,158,188 n. 25, 216,217,222,333 - colonie latine: 24, 30, 174 colonia parziaria: 40, 45, 47, 64, 89, 91,92, 99 e nn. 26 e 28, 105, 112, 124, 125, 129, 130,332 n. 45 colono: 29,42,44,47,49,54,56,63,
379
INDICE ANALITICO
67, 68, 72, 74, 85, 88, 91, 93, 94, 96, 97, 98, 101, 102, 103, 105, 106,123,170,180 - colonato tardoantico: 44, 67 e n. 104, 68, 70, 72, 91, 92, 98, 112, 163, 179, 185, 186 n. 19, 187, 188 - coloni africani: 69, 74, 100, 104,105,110,112,187 - coloni in Plinio: 63, 64, 72, 93, 104, 105,116,120,121 e n. 18, 123, 124 e nn. 24-25, 125, 126, 128,129,130,170,171 - penuria colonorum: 104, 106, 120, 121, 128, 132 conductor: 33, 68, 69, 70, 98, 100, 101,102,103,104,112,120,126, 127,128,182 n. 5,187 confisca: 19,34,35,44,69,104,217, 276,280,283 congiaria: 151, 273 consulares
Campaniae:
282
Corbier M.: 74, 85,241 corporazioni: 221, 252, 259, 260, 261, 262, 265, 270, 271, 272 e n. 46,276,284,328,329 costi di transazione: 15, 200, 201, 202,206,275 credito: Il, 196, 197 e n. Il, 223, 224,226,296,314 - crisi del credito: 199 e n. 23, 207 e n. 49 creditore: 22, 23, 77, 79, 327 curator civitatis: 259, 284 curie: 20, 282, 283 Manio Curio: 24, 25 debiti/debitori: 23, 77, 79, 87, 104, 181, vd. anche servitù per debiti deflazione: 251 De Martino F.: 73 Demetrio Falereo: 152 De Nardis M.: 166, 167 denarius: 195, 199, 201, 202, 204, 235, 237, 239, 245, 246, 247, vd. anche moneta deversorium:
141
distribuzioni di beni alimentari: 101, 151, 152, 183n. 12,279,280,281, 284, 292, 295, vd. anche frumentationes
distribuzioni di terre: 22, 24, 35, 38, 44,175 Dodici Tavole: 22 Domar E.: 185, 186 e n. 19, 187 Domaszewski A.: 329 dominium:
21
Domiziano - limitazione della coltura della vite: 107, 169, 183 n. 12 domus: 62,119,141,151,249 dracma: 237,245,253,254,255 Dressel 20 (anfore): 34, 219, 277, 277,279,280,294 sg. Drexhage H.-l.: 240 druidi: 78 Dumnorige: 78 Dumont I.C.: 34 Duncan-Jones R.: 127, 131, 195, 196, 199,204,244 Dura Europos: 287 dysandria: 40, 173, 174 Eck w.: 115, 131 edictum de pretiis: 46, 238, 239, 240,
241,242,243,245,247,248,253 e n. 54, 254 e n. 57, 255 n. 64, 256 nn. 67 e 70,261,267,270,271 e n. 45. eisphorai:
173
emigrazione: 39,40,58, 157, 159, 175 epibole: 83 n. 45, 182 epidemie: 67, 69, 157, 160, 162, 163, 168 n. 11, 183, 190,213,214, vd. anche pestilenza Ercolano: 211 Erdkamp P.: 293 ergastula: 33, 54, 55, 72, 133, vd. anche schiavi-caserma esercito: 19, 20, 37, 39,40,68, 152, 155,169,182,186,187,325,330 - approvvigionamento: 276, 281, 287-296 - vd. anche soldo
380
CRESCITA E DECLINO
esportazioni: 34, 48 e n. 69, 50, 55, 57, 58, 95, 110, 112, 133, 134, 177,203,204,209,217,218,219, 220,230 esposizione degli infanti: 61, 130, 150,179,190
euandria: 173 Eumachia (edificio di): 215, 221, 223
Gracchi: 37,38,39,40,43,172,175, 178 n. 56, 333 M. Granius Marcellus: 115 Granius Marcianus: 116 n. 4 grano di origine contributiva: vd. tributo Grigg D.: 108 Gummerus H.: 73, 85, 86, 305 Gìmther R.: 80
fenerator/feneratio: 29, 30 vd. anche usura e prestito figlinae: 215, 276, 277, 280 Fikhman LP.: 261 Finley M.L: 8-13,72,74, 80, 82, 83, 179-191,273 - ortodossia finleyana: lO, 197 - paradigma finleyano: 8, Il, 16 Fisco/amministrazione fiscale/fiscalità: 69, 70, 100, 102, 103, 187 n. 22, 188, 202, 205, 207, 246, 251, 252,259-272,274,280,281 fiscus rationis patrimonii: 277, 278, 295 Florus: 78 Foraboschi D.: 262 formula togatorum: 174 forum rerum venalium: 126,251,260, 263 n. 16,264,269,270 n. 40, 271 e n. 44, 274, 281, 284, 291 Fraccaro P.: 87 Frank T.: 74, 83 Frontino: 166 sg frumentationes: 101,151 e n. 18, 152, 273,276
- plebs frumentaria: 279 frumentum emptum: 177 fullonica/fullones: 211, 221, 222, 223 Fustel de Coulanges N.D.: 72, 73, 74, 77,112,181 Gabba E.: 89 Garnsey P.: 89, 190,273 garum: 229, 230, 290 gens/gentes: 21, 22 Giardina A.: 16 Goetz G.: 76 Goldsmith R.W.: 196, 198
Heisterbergk B.: 73 Heitland W.E.: 73 Holconii: 219 n. 22
heredia: 20 Heroninos, archivio: 46 n. 65, 197 honestiores: 181 Hopkins K.: lO, 11, 111, 169, 177, 178,202,203,204,205,289,325, 334 Hume D.: 144 humiliores: 181 immigrazione: 174, 175,213 importazioni: 50, 51, 52, 58, 153, 161,169,174,177,209,220,281 imposte: 51, 68, 204, 205, 244, 248, 262,265,269,270,289 - appalto: 73,223,311,312,319, 320, 321, 322, 323, 325, 326, 327, 328, 330 n. 40, 333 - imposte in moneta: 202, 203, 204,209,264,266,289 - imposte in natura: 51, 262, 263, 264,266,270,287,291,293 - riscos~one: 164,205,323,329, 330 n. 40 - vd. anche tributo
incensi: 40 infanticidio: 150 inflazione: 238, 239, 240, 241, 243, 244,247,250,251,252,262,264, 265,267,268,270 ingenui: 229, 231
instrumentum (vocale, semivocale, mutum) 28, 31,40,41,42,84,88 e n.59,89,
121, 123
INDICE ANALITICO
insula: 141, 142, 151 Italici isocii): 37,174 iugatio-capitatio: 68, 265, vd. anche tributo Iulius Naso: 117 n. 8 ius Latii (diritto latino): 159
Jacobsen G.: 294 Jones A.H.M.: lO, 189, 239, 240 Jones E.: 12 Jongman w.: 6, 108, 177, 239 kat'oikian apographai: 140 koina: 252, 259, 270 n. 40, 276, 284
Kehoe D.P.: 63, 120, 128 Keil H.: 76 Kula W.: 59,110 Lachmann K.: 166 laoi: 73, 83 latifondo: 56, 70, 97, 100, 166, 187 e n.22,218 Latini: 22, 24 laureato: 246, 247 lavoro schiavile/lavoro servile, vd. schiavitù leges Liciniae Sextiae: 37
Lepore E.: 318 Le Roux P.: 290, 291 Lewald H.: 73 lex Cornelia nummaria: 202 lex Fufia Caninia: 131 lex Hadriana de rudibus agris: 100 e n.
30, 103 lex Manciana: 100, 103 lex Poetelia Papiria: 23, 80
liberto: 60, 131, 213, 228, 229, 230, 231,287 n. 4, 330 Ligures Baebiani: 65, 68, 118 limes: 203, 292, 293, 294 locatio-conductio: 33, 40, 45, 91, 92, 96,99,126,127,128 logistes: 259, 284 Love J.: 318,319,320,321,322 Lucrio Verino: 282 n. 28
381
Malthus T.R.: 108, 159, 160, 161, 162, 183 n. 12, 184, 190 - freni preventivi e repressivi: 40, 66, 106, 132, 159, 168 n. Il, 171,175 mancipia: 117, 123, 124 e nn. 24-25 manomissione: 61, 130, 131, 158, 159,229,311 Marx K.: 9, 56, 319, 333 - materialismo storico marxiano: 8 - storici marxisti: Il, 55, 94 Matthias B.: 165 Mazzarino S.: 267 Mecilio (Metilio) Nepote: 118 n. lO mercennarii: 41 e n. 55, 42, 47, 71, 75,84,85,86,102 merces: 45, 88 n. 58, 98, 102, 132 meritorium: 141 merx: 236, 238
"métayage": 45, 99, 100 meteci: 150, 152 Meyer Ed.: 13,302,303,304,305 mezzadria: 99 nn. 26 e 28, Mickwitz G.: 241,267 Mihaescu H.: 85 miniera: 5, 199, 200, 207, 244, 250, 328 "modo di produzione asiatico": 81 e n.37 "modo di produzione schiavistico", vd. schiavitù Mommsen Th.: 44, 271, 301 moneta: 5, Il, 15,57,58,59,94,96, 97, 98, 99, 100, 100, 117, 134, 189 n. 27, 195, 197-204, 206209, 215, 224, 225, 226, 235252, 264-268, 271, 275, 288, 292,296,322 - circolazione: 196, 199,200,202, 203, 204, 206, 207, 225, 239, 241, 243, 244, 245, 246, 247, 249, 259-272 - moneta argentea: 5, 195, 196, 199 n. 23, 226, 236, 237, 239, 240, 244, 245, 246, 247, 250, 264
382
CRESCITA E DECLINO
- moneta aurea: 195, 196, 199, 226, 236, 237, 238, 239, 242, 246, 247, 248, 249, 250, 251, 268,269,270 - moneta enea: 5, 195, 202, 226, 239, 249, 250, 251, 267, 268, 269,270 - monetarizzazione: 5, 195, 197, 198, 199, 200, 202, 207, 208, 223,226,251,289 - obbligo di accettazione: 202, 236 - peso, fino: 236, 237, 238, 239, 242,244 - produzione: 5, 195, 196, 197,239, 251 - riforma di Aureliano: 237,238, 239, 242, 243, 244, 245, 246, 247,250,252,265,266 - riforma di Diocleziano (prima e seconda): 246,247 mortalità: vd. popolazione mulini ad acqua: 15 natalità: vd. popolazione navicularius: 278, 279, 280, 288, 291, 295 de Neeve P.W.:91, 92, 95, 99, 125, 127, 128 negotiatores: 121, 122, 124, 125, 126, 274,278,279,280,288,295 nexus: 72, 78, 80 e n. 33, 81, 87 n. 56 Nieboer H.J.: 185, 186 n. 19 Niebuhr B.G.: 166 Nissen H.: 177 nomos: 260,264,284,293
North D.: 186,200,201,275 M. Numistrio Frontone: 221 nundinae: 225 e n. 44, 275 obaerariuslobaeratus: 41, 71-89 oligandria: 173 oligotes: 173, 174 operae: 33,41,45, 74, 81, 83 e n. 44,
84,100,101,112,187 operarius: 28, 75, 76 ordo decurionum: 228, 230, 232, 233
Orgetorige: 78 pagus:263 - praepositi pagorum: 263,264
Papiri di Panopoli: 242,247,266 Parsons T.: 299, 300 pater familias: 21 patrimonium imperiale: 116 n. 4, 274,
277,278,280 patrizi e plebei (lotta): 22, 23 pauperculi: 41,42,44, 71,84,85 e n. 50, 86, 89,97 e n. 21, 126 pax Augusta: 55, 56, 133, 134, 158, 169,189,203,324,325 Pearson H.W.: 318 "peasant econorny": 46, 57, 94, 161, 198 Pekari T.: 197 penia: 173
Persson M.V.: 262 peste: 184 - peste antonina: 15,65,66,162 e n.40, 163, 172, 182, 187,280 - peste della metà del III sec.: 182 phoros: 73
pirateria: 201 pistrina: 211
Pleket H.W.: 325, 334 Plinio, proprietario fondiario: 63 sg., 115-135 Polanyi K.: 8, lO, Il,273,291,318 Pollard N.: 293, 296 polluzione: 5, 195 Pomeranz K.: 13 Pompei: 32, 108, 111, 141, 142,211234 - classe dirigente/élite: 213, 214, 216, 217, 219, 221, 224, 227, 231,232,233 - colonia: 44, 212, 216, 217, 222, 233 - economia cittadina: 214 sgg. - eruzione del Vesuvio del 79 d.C.: 141,211,219,225,226 - popolazione: 212, 213, 217, 218,221
INDICE ANALITICO
elettorali: 231 e n.67,232,233 - terremoto del 62 d.C.: 141,211, 212,213,214,222,223,224 popolazione/popolamento: 5, 6, 40, 51, 63, 85, 108, 109, 112, 117, 139,141,142,143,149,150,151, 156,158,165,195,280,325 - crisi demografica: 104, 106, 172,182,243 - decremento/declino/diminuzione: 7, 38, 39,40,65, 67, 68, 110, 111, 120, 155, 156, 157, 162,163,173,182,183,184 e n. 14, 185, 186, 187, 188, 190 - incremento/crescita/aumento: 6,7,15,34,40,52,53,57,66, 103, 107, 108, 109, 110, 111, 132, 144, 145, 146, 154, 157, 158,160,161,172,174,175 n. 42,184 n. 14, 189,207,251 - dell'Italia: 6, 38,40, 107, 110, 111, 112, 120, 135, 154 n. 29, 155, 157, 158, 159, 165, 166, 167, 168, 169, 172, 174, 175, 176, 177, 178 e nn. 55-56 - di Roma: 25,101,111,147 - fecondità: 145, 149, 150, 157, 159,160,163, 184en. 15 - mortalità-tasso/tavola: 66, 69, 140 e nn. 3 e 6, 143, 144, 145, 146, 147, 148, 149, 155, 157, 159, 160, 163, 168 n. 11, 172, 174, 175 n. 42, 184,218,310, 331 - natalità-tasso: 38, 40, 106, 144, 145, 146, 157, 163, 171, 174, 175en.42,184,218 - popolazione e risorse: l, 15, 20, 22, 23, 40, 56, 58, 61, 65, 106, 107, 135, 139-164, 167, 168, 169, 171,174,175,176,178 n. 56 - popolazione «stabile»: 145, 146, 148, 155, 159 - sovrappopolazione: 24, 40, 58, 65,106,107,132,157,161, 168 - programmata
383
e n. Il,171,172,175,178,184 n.15 - speranza di vita: 140, 145, 146, 147, 148, 149, 155, 163, 168 n. Il, 172, 182 n. 7 - struttura per sesso e per età: 33 n. 32,140,144-149,155 possessio: 22, 37 possessor/possessores: 121,123,165, 166, 167, 178,267 n. 30, 282 e n. 29,283 n. 31 praedia: 129 praedia stipendiaria, praedia tributaria: 167 praedia suburbana: 51 praefectura/praefectus annonae: 279,
288,294 praetorium: 70 prata legionis: 293 precarium: 98 n. 22
prestito: 22, 30, 58, 61, 65, 66, 119, 223, 226 n. 51 prezzo/prezzi: 1, 46, 53, 57, 67, 98, 109,117,121,126,134,169,177, 184,199,200,207,208,209,213, 214,225,226,235-257,259-272, 281,282,284,288,291,292,296 - del grano: 52,67,109,184, 189 n. 27,208 n. 52, 241, 253, 255, 256 - della terra: 60,61,62, 117, 118, 119, 120, 200 - dell'oro: 238, 241 e n. 25, 242, 244, 246, 247, 248, 249 n. 45, 251,271 - dell'orzo: 254, 256 - del vino: 126, 254, 255, 256, 257,261,274 - in oro: 235-257, 271 - vd. anche schiavi primitivisti-modemisti (controversia): 13, 302 n. 13, 318, 334, vd. anche Biìcher e Meyer procurator: 36,47, 122, 124 procuratores imperiali: 104, 112, 187 prodotto interno lordo: 7, 15, 198, 203,205,206
384
CRESCITA E DECLINO
prodotto pro capite: 6, 7, 12, 15 proletarii: 37
proprietà imperiale: 52, 69, 204, 273, 276,277,279,280,287,289,291, 295 proscritti: 44 prospelatai:
83
Puteoli/Pozzuoli: 177, 219 "radiato": 240, 246, 247, vd. anche moneta ratio/res privata: 276, 278 Rea J.: 262, 263, 264 reclutamento militare: 6, 172, 173 reddito pro capite: lO, 195, 198 redemptor: 125 reditus: 117, 118, 119, 120, 125 n. 27
Remesal Rodriguez J.: 288,289,294 remissio/remissiones: 63, 104, 106, 127,128,129,171 Q. Remmio Pa1emone: 60 requisizioni: 133, 177, 265, 266, 271, 288,289,293 restitutio Italiae: 171 Ricardo D.: 50, 185 riforma fiscale: vd. tributo rivoluzione industriale: 5, 9, 12, 13 Rodbertus J.: 303,304,307 Rostovtzeff/Rostovzev/Rostowzew M.: 14,36,55,74,82,83,98,117, 133,176,209,311,329,330 Roth J.: 293 Rudorff A.: 76 salario/lavoro salariato: 10, 33, 41, 42,43,45,46,66, 88 e n. 58, 109, 184, 185, 189 n. 27, 226, 307 Saller R.: 273 saltus: 69, 74, 98, 100, 104 saltus Burunitanus: 112, 187 von Schelting A.: 299 schiavi/schiavitù: 9, lO, 11, 14, 22, 23,25,33,36,39,41,47,48 n. 67, 49, 50, 52, 53, 55, 56, 61, 63, 84, 94, 95, 97, 98, 111, 124 e n. 24, 125,126,130,131,133,150,151,
152,174,178,180,181,185,186, 191,223,225,227,229,307,311, 312,328,329 - caserma: 31, 47, 49, 50, 55, 133, 304, 310, 331, vd. anche ergastula
- fonti di approvvigionamento: 48, 55, 61, 94, 130 e n. 43, 133, 181,190,248,251,310,332 - lavoro servile: 26, 31, 33 e n. 32, 34, 37, 42, 43, 44, 45, 47, 48, 49, 54, 56, 61, 64, 84, 88, 89, 93, 94, 95, 96, 101, 102, 116, 123, 124, 125, 130, 134, 156, 180, 189, 190,217, 304, 310,331,332 - "modo di produzione schiavistico", 9, Il,31,44,49,54,77 n. 22,95,96,110,111,191,307 - prezzo: 61, 98, 117, 130, 131, 189 e n. 27, 310, 331 - schiavi liberati: 155, vd. anche manomissione e liberto - schiavi pastori: 36 - servi vincti: 123, 124 - tramonto/declino: 178, 180, 188 e n. 24, 189 e n. 28, 190 e n.28 - vd. anche villa schiavistica Schiavone A.: 14 Scriptores de re rustica: 26 sgg., 34, 38,40,45,47,50,59,91,95 scuola storica dell'economia: 8, 13 Servio Tullio: 19 servi/servitù per debiti: 22, 23 e n. 6, 24,25,41,72, 73 e n. 8,77,79,80, 81, 82, 87, 188 n. 25 - vd. anche nexus servitù della gleba: 185, 186 servus quasi colonus: 55, 124 sesterzio: 196, 202, 226, 235, 237, 238,242,245,246,253,254,255 Sherwin-White A.N.: 127 Simplicius: 166 Sirks B.J.: 279 Skydsgaard E.: 71, 82, 89
INDICE ANALITICO
Smith A.: 201 soldo/stipendio: 19, 226, 252, 266, 288,295,296 solido: 242, 248, 249 e n. 45, 260, 261,264,267 e n. 30, 269 e n. 38, 270, 271 e n. 44, 272 e n. 46 solitudo Italiae: 168 solum Italicum: 166, 167 solum provinciale: 166, 167 Sombart w.: 9, 300, 301, 305, 306, 307,308,309,310,313,314 Spurr St.: 176 stabilizzazione augustea: vd. pax Augusta strateia: 173, 174 subseciva: 105, 169 taberna/tabernarii: 211, 261 tabularius: 260, 263, 264, 284 Tchernia A.: 294 tetradrammo: 235, 237, 240, 243, 245 Thomas J.D.: 186 Thorold Rogers E.: 186 tasse/tassazione: 164, 169, 202, 203, 204,205,206,261,289,293,309, 325, vd. anche imposte e tributo tasso di natalità: vd. popolazione tasso di mortalità, tavola di mortalità: vd. popolazione Temin P.: 204,208 teorie degli stadi: 8, 13, 191, 302, 303,304,305,306,307,308 terremoto: 212,220, vd. anche Pompei Thulin C.: 166 Tonnies F.: 306 Traiano - misura traianea sui candidati alle magistrature e al senato: 61 sg., 118 - vd. anche alimenta transizione energetica: 9, 12 transumanza/tratturi: 35 e n. 38, 36, 123,215,220 Tremellio Scrofa: 29,42, 71, 86 tribù: 19
385
tributo: 19,57,79, 81, 87, 134, 167, 182,188,190,209,252,263,266, 293,294,309,311,321,322,326, 327,329,330,334 - grano di origine contributiva: 51, 177,219,281,291 - immunità dell'Italia: 56, 66, 67, 134,204,209 - riforma dioclezianea: 67, 188 e n. 24,246,265,266,281,296 - tributum capitis: 265 - vd. anche imposte Trimalcione: 229 Trinitapoli (Tavola di): 263,264 tugurium: 32 turmae messorum: 45, 102 n. 32 Umbricii Scauri: 229, 230 urbanizzazione: 15,52,53,94,95,99, 107,109,111,157,158,198 usura: 30,66,171,327 Valerio Paulino: 128 Veio: 23 - guerra contro: 19, 20 Veleia: 65, 69, 118 Venatore: 125 n. 30 Vera D.: 70 veterani: 36, 294, 296 Veyne P.: 274 vilicus/vilica: 29, 33, 34, 36, 44, 47, 124, 180 villa: 31, 32, 36, 46, 49, 55, 62, 70, 93,95,110,111,118,176,218 - azienda schiavistica: 26, 31, 34, 40, 47, 48, 52, 53, 54, 59, 81 e n 37, 95, 96, 97, 303, 304, 305, 308,310,325,327,330,331,333 - villa catoniana: 29, 31, 32, 33, 331 - villa columelliana: 31, 32, 59 - villa dell' Auditorium: 22 e n. 4, 31 - villa di Boscoreale: 225 - villa di Settefinestre: 30, 31 n. 28,54,55,58
386
CRESCIT A E DECLINO
-
villa di Termitito: 35, 36 n. 39 villa periferica: 53 e n. 78, 54 villa perfecta: 54,55, 95, 133 villa varroniana: 31, 32 crisi della villa: 44, 55, 56 n. 81, 94,133,180,333,334 - pars fructuaria: 31, 115 - pars rustica: 31 - pars urbana: 31,62,118 Vindo1anda (tavolette): 287, 292, 293, 294 Vindonissa (tavolette): 287 Von Thtinen J .H.: 50 e n. 71
de Vries J.: 52,108,109,110,111,
112
Wallace R.: 144 Weber M.: 8, 9, 12, 14, 55, 73, 94, 102,181,216,299-315,316-335 Westermann W.L.: 73, 261 White K.D.: 73 Whittaker D.: 182,294 Wierschowski L.: 291 Wrigley T.: 9 zecca: 199,201,206 Zumpt A.W.: 73
Finito di stampare in Roma nel mese di aprile 2009 per conto de «L'ERMA» di BRETSCHNEIDER dalla Tipograf S.r.l. via Costantino Morin, 26/ A
Centro Ricerche e Documentazione
sull'Antichità Classica
Monografie 32 1. Piana Agostinetti P., Documenti per la protostoria della Val d'assola S. Bernardo di Ornavasso e le altre necropoli preromane. 2. Ianovitz O., Il culto solare nella «XRegio Augustea». 3. Letta c., I Marsi e il Fucino nell'antichità. 4. Cebeillac M., Les -quaestores principis et candidati» aux Ier et IIeme siècle de l'empire. 5. Poggio T., Ceramica e vernice nera di Spina: le oinochoi trilobate. 6. Gambetti c., I coperchi di urne con figurazioni femminili nel Museo Archeologico di Volterra. 7. Letta C.-D'Amato S., Epigrafia della regione dei Marsi. 8. Zecchini G., Aezio: l'ultima difesa dell'Occidente Romano. 9. Gillis D., Eros and Death in the Aeneid. lO. Gallotta B., Germanico. Il. Traina G., Paludi e Bonifiche nel mondo antico. Saggio di archeologia geografica. 12. Rocchi G. D., Frontiera e confini nella Grecia Antica. 13. Levi M. A., I Nomadi alla frontiera. 14. Zecchini G., Ricerche di storiografia latina tardoantica. 15. Agostinetti A. S., Flavio Arriano. Gli eventi dopo Alessandro. 16. Levi M. A., Adriano Augusto. 17. Levi M. A., Ercole e Roma. 18. Landucci Gattinoni F., Duride di Samo.
19. AA.VV., L'Ecumenismo politico nella coscienza dell'Occidente. Alle radici della casa comune europea. 20. AA.VV., L'ultimo Cesare. Scritti riforme progetti poteri congiure. 21. AA.VV., Identità e valori. Fattori di aggregazione e fattori di crisi nel! 'esperienza politica antica. 22. AA.VV., Integrazione mescolanza rifiuto. Incontri di popoli, lingue e culture in Europa dall'Antichità all'Umanesimo. 23. AA.VV., Modelli eroici dall'antichità alla cultura europea. 24. AA.VV., La cultura storica nei primi due secoli dell'Impero Romano. 25. Prandi L., Memorie storiche dei Greci in Claudio Eliano. 26. Chausson F., Stemmata aurea: Constantin, [ustine, 1béodose. 27. Colonnese c., Le scelte di Plutarco. Le vite non scritte di greci illustri. 28. Galimberti A., Adriano e l'ideologia del principato. 29. Bearzot c., Vivere da democratici. Studi su Lisia e la democrazia ateniese. 30. Carsana C.-Schettino M.T. (a cura di), Utopia e Utopie nel pensiero storico antico. 31. Rohr Vio F., Publio Ventidio Basso. Fautor Caesaris, tra storia e memoria. 32. Lo Cascio E., Crescita e declino. Studi di storia dell'economia romana. E. LO CASCIO
CRESCITA
E DECLINO
ISBN 978-88-8265-562-4
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