DONALD HARSTAD CODICE DI SANGUE (Code Sixty-One, 2002) A Erica Harstad, nostra figlia, che con intelligenza, senso dell'umorismo e onestà si è dimostrata il mio critico più affidabile. Prologo Mi chiamo Carl Houseman e sono il vicesceriffo della Nation County nell'Iowa. Faccio il poliziotto da oltre vent'anni, abbastanza per essere passato dal turno di notte al ruolo di investigatore e poi a quello di ispettore capo. Abbastanza da sentirmi vecchio, in tutti i sensi. Forse perché ho passato i cinquanta e il mio collega è nato più o meno nello stesso anno in cui ho prestato giuramento. Secondo la mia esperienza, i casi di cui si occupa un poliziotto sono un po' diversi da quelli citati nei manuali dell'accademia. In genere, o si hanno prove sufficienti a dimostrare come è stato commesso un reato, ma è molto difficile identificare il colpevole, oppure si sa chi è il responsabile, ma è un problema dimostrare come ha agito. Poche volte un caso si sviluppa in entrambi i sensi contemporaneamente. Questa fu una di quelle volte. 1 Giovedì 5 ottobre 2000 23.33 Tutto ebbe inizio giovedì 5 ottobre 2000. Erano esattamente le 23.33 e stavo tornando a casa, quando ricevetti una chiamata. «Qui centrale. Mi senti, Tre?» gracchiò la radio. Era la voce familiare della mia operatrice preferita, Sally Wells. Tre è il mio numero di riconoscimento. Afferrai il microfono, già sul chi vive. «Tre in ascolto. Parla.» «Abbiamo una segnalazione per violazione di domicilio al 606 Main di Freiberg. Soggetto di sesso femminile, ha bisogno di assistenza immediata. L'agente di Freiberg è già stato inviato sul posto e ha chiesto rinforzi.»
Sospirai. «10-4. Ricevuto centrale.» Verificai la mia posizione. «Mi trovo a circa dieci chilometri sulla County Four Victor Six.» «Bene. Non sono sicura che si tratti di un 10-33, ma la donna ha affermato che un individuo di sesso maschile ha cercato di introdursi nel suo appartamento attraverso una finestra.» Probabile emergenza. Accesi il lampeggiante. «Tre in arrivo. La donna è riuscita a identificare il sospetto?» «Ha interrotto la chiamata. Il telefono squilla, ma non risponde nessuno. Era molto agitata, ha descritto l'intruso come un maschio bianco con...» Fece una pausa e percepii una malcelata nota di umorismo nel tono della sua voce. «Intruso descritto come un "maschio bianco con denti".» «Denti?» «10-4. Esatto, Tre. Denti.» «Okay. Avvisami quando la macchina di Freiberg arriva sul posto.» «Ricevuto, Tre. Ti avviserò.» Denti? Ricordo con precisione di aver pensato che mi sarei ricordato quel particolare per un bel po'. Almeno non era una pistola o un coltello. Odio i coltelli. In quelle settimane la nostra cronica carenza di ausiliari si era aggravata a causa di un'epidemia di influenza, così da un totale di nove persone eravamo scesi a quattro o cinque effettivi. In quanto ispettore capo, dovevo ancora fare turni di dodici ore, ma il mio grado mi dava diritto a scegliere quali. Avevo scelto quello da mezzogiorno a mezzanotte, una combinazione tra il turno più divertente e quello in cui riuscivi a lavorare veramente. Circa due minuti più tardi, udii Byng, l'agente di Freiberg, inviare un 1023. Era arrivato. Avvisai Sally che l'avevo sentito. Passai a velocità sostenuta l'ultima fattoria prima del centro abitato di Freiberg, poi rallentai, fino a ritrovarmi in Marquette Street, dove la zona residenziale lasciava il posto agli edifici della semideserta area commerciale. Spensi i lampeggianti, perché il loro riflesso nelle vetrine dei negozi non mi confondesse mentre scrutavo i marciapiedi. Rallentando ancora percorsi la strada in leggera discesa, interrotta dalla linea nera del Mississippi. Udii la voce distorta di Byng. «Dove sei, Tre?» «In centro.» Mentre schiacciavo il pulsante del microfono, vidi la sua macchina parcheggiata sulla destra. «Vedo la tua auto.» «Sono al secondo piano, sopra Curls & Cuts. Sali le scale sulla destra fi-
no alla porta blu» m'informò. «10-4, ricevuto.» Parcheggiai vicino al marciapiede, a una decina di metri dalla sua macchina. «Centrale, Tre è 10-23» dissi al microfono mentre slacciavo la cintura di sicurezza. Afferrai una torcia, accesi il walkie-talkie e aprii la portiera. Byng e Sally risposero al mio messaggio contemporaneamente, risultando entrambi incomprensibili. Sapevo che Sally voleva semplicemente darmi una conferma, ma non avevo capito le parole di Byng, così dissi nel microfono: «Aspetta un momento, centrale». Poi chiamai: «Byng?». «Eccomi, Tre. Perché non vieni qui passando dall'entrata posteriore? Non so cosa sta succedendo. Una vicina della vittima ha detto di averla sentita uscire e salire sul tetto.» Rientrai in macchina e misi in moto. «Sto arrivando.» «A proposito, Tre... potresti controllare il pianoterra? Non riesco a capire perché sia salita sul tetto.» «10-4.» Neanch'io riuscivo a capirlo, ma la gente si comporta in modo strano quando ha paura. Io sicuramente non l'avrei fatto, anche perché soffro di vertigini. Dovetti procedere per un altro isolato prima di incrociare una strada che mi permettesse di raggiungere Byng. Freiberg è incuneata tra due massicci promontori e le scarse strade laterali devono attraversare con un ponte un canale a cielo aperto, largo e profondo, che corre lungo tutta la cittadina e sfocia nel Mississippi. I suoi argini in pietra, oltre che pericolosi, sono anche un ottimo passaggio per i ladri. Salii sul ponte e svoltai bruscamente a destra, invertendo la marcia dall'altro lato della strada. Mi fermai il più vicino possibile al ponte e aprii la portiera. «Centrale, Tre è fuori dalla macchina» dissi, soprattutto per far sapere a Byng che ero arrivato sul retro dell'edificio. «10-4, Tre» rispose Sally. Stava seguendo la nostra conversazione e la sua voce cominciava a sembrare preoccupata. L'illuminazione era scarsa. C'era una luce giallognola sulla strada del ponte, un'altra a circa un isolato di distanza e sopra a tutto, sulla mia sinistra, incombeva il promontorio. Era alto circa una cinquantina di metri: roccia nuda per i primi quindici e poi arbusti e alberi che crescevano fino in cima. Le imprese edili che si erano occupate delle costruzioni avevano dovuto fare miracoli per ricavare una strada in quello spazio e tutta l'area risultava angusta. Promontorio, strada, condotto, edifici. Non c'era spazio per nient'altro.
Premetti il pulsante di trasmissione del mio walkie-talkie. «In quale edificio sei, Byng?» Era molto difficile distinguere i negozi dal retro. Non feci in tempo a finire la frase che lo vidi affacciato a una delle finestre del secondo piano. «Quassù, Tre» disse con voce flebile. Mi ero dimenticato di aumentare il volume del walkie-talkie. Guardai con attenzione il retro dell'edificio in cui si trovava. Una scala in legno esterna che aveva un gran bisogno di manutenzione portava fino a una stretta piattaforma al secondo piano. Da lì una scala in ferro portava al tetto. Grandioso. Se la vittima era scappata là in cima, l'avrei incrociata quando fosse scesa. Avevo una paura fottuta del vuoto. «Byng, conosci la posizione del sospetto?» «Negativo, Tre. Tutto ciò che so è quello che ti hanno detto dalla centrale. Maschio bianco con denti.» «Okay. Non vedo la vittima qui. Hai qualche idea migliore su come potrei...» Fui interrotto da una voce femminile. «Aiuto!» Sembrava provenire dall'edificio, ma c'era qualcosa di strano nel tono. Feci scorrere la torcia lungo le file di finestre. Byng diresse il raggio della sua verso il basso. Sentii una stretta allo stomaco. Se lui, che era dentro, pensava che il grido provenisse dall'esterno e io da fuori credevo provenisse da dove si trovava lui... Il tetto. La donna doveva essere sul tetto. Il retro dell'edificio aveva quattro finestre al secondo piano. Di solito ce n'era un paio per ogni appartamento, con il corridoio in mezzo. Con ogni probabilità, la porta in cima alla scala portava lì. Guardai la passerella di legno rossastro sopra il condotto. Niente di particolare e nessun tipo di impronta sulla superficie. Le ringhiere erano quasi inesistenti, la vernice scrostata. Diressi il raggio della torcia verso il basso, nell'ampio canale, e controllai i sedimenti di fango umido sin dove riuscivo a vedere. Non c'erano impronte neanche li. Male. In passato le orme lasciate nel fango avevano risolto almeno due casi di furto. Illuminai il retro degli edifici, da sinistra a destra. Dalle finestre vuote e dalle vecchie porte penzolavano pezzi di cartone nero e carta scura. Una in particolare, una porta che si apriva nel vuoto, dal momento che la scala era crollata anni prima, sembrava chiusa da un panno nero. Controllai il tetto in cerca di corde o tubi, tanto per accertarmi che nessuno si fosse calato all'interno. Non ce n'erano. Bene.
«Dove vuoi che mi metta?» dissi nel microfono che avevo sulla spalla. «Non c'è nessuno li sotto?» «No, non vedo nessuno.» «Perché non vieni su passando dal retro? Penso... sembra che la donna sia da qualche parte sopra di me.» «Già.» «Io salgo la prossima rampa e vedo se riesco ad arrivare sul tetto passando dal terzo piano.» Fantastico. Non sono quel che si dice un peso piuma e non avevo alcuna intenzione di trascinare i miei centotrenta chili su per quelle traballanti scale di legno. Maledizione. Feci un profondo respiro. «Arrivo.» Una volta raggiunta la stretta piattaforma, mi fermai e guardai in basso, illuminando con la torcia l'area circostante e il fondo del condotto. Vertigini istantanee. Mi afferrai alla ringhiera cercando di voltarmi verso l'edificio. Cazzo, non sopporto quando mi succede. Riuscii a girarmi e con finta nonchalance raggiunsi la porta con un passo. Non che mi vergogni della mia debolezza, ma certo non è il massimo per l'immagine di un poliziotto. Feci un altro respiro profondo e cercai di concentrarmi su quella stupida porta. Sudavo. Era larga più o meno quanto la maledetta piattaforma e si apriva verso l'esterno. Dovevo per forza fare un mezzo passo indietro per aprirla. Presi coraggio, indietreggiai e la piattaforma scricchiolò. Mi girai di lato e passai a fatica attraverso la porta socchiusa, ritrovandomi in un corridoio buio tra due appartamenti, esattamente come avevo immaginato. Alla mia sinistra c'era una porta aperta su una cucina gradevole e illuminata, mentre quella di destra era chiusa. Dall'altro lato del corridoio, accanto alla scala che portava al terzo piano, c'era una donna anziana. «Il suo collega pensa che sia salita sul tetto» disse a voce alta. «È andato di sopra per vedere se riesce a salire, ma gli ho detto che non può.» «Grazie» le risposi sussurrando. Udii nuovamente la voce, molto attenuata adesso che ero all'interno, ma inconfondibile. Non era in preda al panico, solo spaventata. Anche Byng doveva averla sentita. La sua voce tuonò contemporaneamente dal piano di sopra e dal walkie-talkie: «Il tetto! È sul tetto! Sali!». Giusto, ero io il più vicino a quella maledetta scala. Tornai sulla piattaforma scricchiolante. Mi fermai un istante a guardare i gradini illuminandoli con la torcia. Ferro arrugginito. Erano fissati al mu-
ro, ma riuscivo a vedere lo strato di ruggine intorno ai bulloni e una macchia arancione che circondava il punto in cui sparivano nell'intonaco. Cazzo. Udii i passi di Byng che scendeva di corsa la scala dall'altra parte dell'edificio e proseguiva lungo il corridoio verso di me. Non c'era spazio per tutti e due sulla piattaforma. Inspirai profondamente, infilai la torcia nella cintura, afferrai i corrimano e salii sul primo gradino. «Non male. Non male» mi ripetevo per incoraggiarmi a proseguire. Finalmente espirai. Un gioco da ragazzi. Be', almeno fin lì. Il problema era che la scala saliva di un altro piano e soltanto dopo arrivava fino al tetto. Trattenni di nuovo il fiato e proseguii. Sei o sette gradini più in alto, sentii la scala muoversi. Di nuovo le vertigini. Mi accorsi che le mani cominciavano a farmi male per la forza con cui stringevo il corrimano. «Rimani attaccato alla scala, Carl, e il tuo peso non la sbilancerà staccandola dal muro» sussurrai a me stesso. L'istinto mi diceva di tornare indietro e sinceramente penso proprio che, se non fosse stato per la divisa che indossavo, me la sarei data a gambe. Continuai a salire. Negli anni ho imparato che se riesco a convincermi di schiacciare l'edificio contro il terreno a ogni passo, a volte riesco ad arrivare fino in cima. Lo so che mi prendo in giro da solo, ma non me ne importa niente. Cominciai a farlo. Un gradino alla volta, dovevo spingere quell'enorme edificio a terra. Era ridicolo, ma funzionava. Tutto ciò di cui avevo bisogno era concentrazione. Mi muovevo il più in fretta possibile e non mi scostavo più di due centimetri dal muro. Facevo progressi. I muscoli delle cosce cominciarono a tremare e gli avambracci mi facevano male, ma continuai a salire. A un tratto la scala iniziò a vibrare e sentii la voce di Byng che diceva: «Sono dietro di te, Carl». Quelle parole mandarono al diavolo la mia concentrazione. Cercai di muovermi più in fretta e pensai che stavo andando piuttosto bene, quando Byng domandò: «C'è qualcosa che non va?». Sembrava molto vicino, ma non mi sarei voltato per niente al mondo. «La scala si muove» sibilai a denti stretti. «Ho paura che non sia troppo sicura.» «Si muovono sempre. I bulloni vanno dritti dentro al muro e poi si allentano. Non ti preoccupare.» Non ti preoccupare, un cazzo! Però mi aveva dato una idea: dovevo pensare ai bulloni nel muro. Salii un altro po' e tutto andò liscio fino in cima. La scala si allungava solamente di altri dieci centimetri sopra al bordo del
tetto. Non c'era alcun parapetto. Stavo per bloccarmi, quando... «Sono quassù!» Adesso la voce della donna era molto più chiara. «Polizia! Stiamo salendo!» fu la replica di Byng. «Ce la fa a scendere?» gridai io. Dannazione, perché non ci avevo pensato prima? «No!» Ci fu una pausa. «Fatevi vedere!» Naturale. Strinsi i denti. Pazienza, volevo veramente arrivare in cima. Qualunque posto era meglio di quella scala. Salii altri due gradini, mi piegai in avanti e saltai, ritrovandomi a quattro zampe sul tetto. Strisciai per circa un metro, giusto per superare il bordo, quindi mi alzai in piedi. Scorsi una sagoma colorata accucciata dietro a un lucernario. «Vicesceriffo» dissi. «Dov'è?» domandò per tutta risposta la sagoma. Sentii Byng arrivare sul tetto dietro di me. «Chi?» chiesi, muovendomi verso di lei. «Non lo so» disse in tono piuttosto tranquillo. «Ma chiunque sia, dov'è?» «Non lo sappiamo nemmeno noi» risposi. «Comunque, adesso è al sicuro.» Ricordo benissimo di aver pensato: "Fino a quando non mi dovrete portare via da questo tetto". Molta gente non immagina quanto siano bui i tetti degli edifici di un quartiere commerciale. La luce dei lampioni della strada non arriva oltre il secondo piano. Riuscivo a malapena a scorgere la donna. Ci venne incontro. La illuminai con la torcia. Dimostrava circa vent'anni, aveva i capelli castani, era scalza e indossava dei pantaloni da pigiama in flanella, di un giallo sbiadito con orsetti e palloncini, e una giacchetta nera corta, con i lustrini e grossi bottoni argentati. Forse era soltanto il sollievo di essere riuscito a raggiungere il tetto sano e salvo che mi fece dire: «Un pigiama party?». «Come?» «Niente. Scusi. Resti qui mentre noi diamo un'occhiata in giro.» Ispezionammo il tetto in lungo e in largo. Grazie alle torce riuscivamo a vedere gran parte della strada e alcuni degli alberi più bassi del promontorio. Non c'era niente. «Come si chiama?» chiesi alla ragazza. «Alicia Meyer.» «Io sono Carl Houseman. C'è una ragione particolare per cui è salita
quassù invece di scendere le scale o restare in casa fino al nostro arrivo?» «Credo di sì. Ho pensato che mi avrebbe potuta aspettare di sotto» disse indicando il bordo del tetto. «Mi sembra ragionevole» risposi. «Ha qualche idea su chi possa essere?» «No.» Ci fu una pausa carica di tensione. Naturalmente adesso dovevamo scendere. Mi guardai intorno, ma non notai scale che conducevano all'interno. Saremmo dovuti ripassare da quella esterna. La discesa fu più semplice. Per proteggere Alicia la facemmo stare tra me e Byng. Io scesi per primo sempre per proteggerla. Pensavo che fosse meglio fare la figura dell'idiota strisciando all'indietro lungo la scala, piuttosto che rovinarle addosso. Mi sforzavo di tenere lo sguardo fisso sui piedi nudi della ragazza. I pioli di ferro erano ottagonali e non smettevo di pensare al dolore che doveva provare. Comunque riuscii a distrarmi, tanto che quasi mi spaventai quando il mio piede destro urtò il terreno. Fui il primo a entrare nell'appartamento, seguito da Alicia e da Byng. Lo ispezionammo con cura. C'eravamo solo noi. «Allora,» iniziai «cosa è successo?» «Ho visto quell'uomo» spiegò Alicia. «Alla finestra. Sono sicura di averlo visto. Esattamente là» disse, e puntò un dito tremante verso la finestra della camera da letto. Guardai la finestra, poi Byng. Lui alzò le spalle. La finestra indicata dalla ragazza era a circa tre metri dalla ringhiera della piattaforma esterna. Lo sapevo bene, c'ero appena stato. «Quella finestra, Alicia?» chiesi. «Ne è sicura?» «Sì, quella.» Mi lanciò un'occhiata scostandosi una ciocca di capelli dal volto. «So che non poteva essere là fuori, perché non aveva niente su cui appoggiarsi. Ma l'ho visto.» Era palesemente esasperata. Ovvio. Non riusciva a capire che cosa avesse visto e le risultava difficile fornirci una spiegazione. Pensai a un'immagine riflessa nel vetro e diedi un'occhiata alla stanza. Il televisore era spento. «Non aveva il televisore acceso in quel momento, vero?» Cercai di mantenere un tono amichevole e rassicurante, non accusatorio. «No.»
«Okay. Ora mi racconti tutto con precisione e mi mostri dov'era quando è successo.» Fece un respiro profondo. «D'accordo.» Si alzò e si avvicinò allo specchio. «Ero qui, in piedi» disse. «In questa posizione.» Si mise con la schiena rivolta allo specchio e la testa voltata per vedere la sua immagine riflessa. «Ho girato di nuovo la testa in questo modo» spiegò e si voltò verso Byng, me e la finestra in questione. «A quel punto ho visto la sua faccia là fuori.» Rabbrividì. Qualsiasi cosa avesse visto, ero certo che diceva la verità. Mi avvicinai e le chiesi di spostarsi appena, in modo da mettermi al suo posto. Mi piegai sulle ginocchia, visto che sono alto più di uno e novanta e lei non superava il metro e settanta, e cercai di adeguare il mio piano visivo al suo. Guardai verso la finestra. Una prospettiva chiara. Non c'erano ostacoli né riflessi. «Le luci accese erano queste?» «No, quella sul soffitto era spenta.» Chiesi a Byng di spegnerla, ma non cambiò nulla. Mi raddrizzai. «Lo ha riconosciuto?» «No» disse lei esitando. O stava pensando intensamente o aveva difficoltà a mentire. «Può descriverlo?» «Era bianco» rispose la ragazza. La risposta mi parve quanto meno strana. Anche se la popolazione della Nation County stava cominciando a cambiare, era ancora costituita al novantanove per cento da persone di razza bianca. Difficile trovare un testimone che descrivesse qualcuno come "bianco": era scontato. «Bianco?» «Molto bianco» disse lei e la sua voce tremò appena. «Come i clown. Come se fosse truccato o dipinto.» «Ah.» «Ma non era pittura né trucco. Non credo. Non lo so. Se era trucco, era molto ben fatto. E aveva i capelli neri, o castano molto scuro. Appiccicati alla testa, come se fossero bagnati o unti. Sembravano neri, come la camicia, o quello che era...» «Bene.» Sempre incoraggiare il testimone. «Nient'altro?» Ci pensò un attimo. «I suoi denti.» «I denti?» «Sì» rispose, sedendosi sul bordo del letto. «Dio, quei denti.»
«Com'erano? Grandi? Storti? Marci? Com'erano?» «Lunghi e aguzzi. Molto aguzzi.» Mi guardò con uno sguardo serissimo. «Denti lunghi e appuntiti.» Piegai la testa di lato. «Non sono sicuro di aver capito.» «Come i serpenti. Denti lunghi e appuntiti come quelli di un serpente.» La ragazza rabbrividì. «Sono sicura. Come un serpente.» Mi venne d'istinto: «Come delle zanne?». «Sì, esatto. Zanne. Due.» «Gli incisivi?» Capita di rado, dopo oltre vent'anni di servizio, di fare domande mai fatte prima. Si concentrò. «No, non gli incisivi. Li ho visti solo perché ha fatto una specie di sorriso. Quelli vicini agli incisivi, come si chiamano?» «I canini?» «Sì.» «Molto bene. Perché non mi racconta di nuovo tutto dall'inizio?» Le mie gambe erano ancora un po' instabili, così mi misi seduto. Alicia disse che si era messa davanti allo specchio per esaminare un tatuaggio che si era fatta fare il giorno precedente. Non disse che cosa rappresentava né dove si trovava e noi non lo domandammo. All'inizio era senza reggiseno, poi aveva indossato alcuni top. Cercava di capire quali parti del tatuaggio si vedessero a seconda dei vestiti che indossava. Le era sembrato di captare un movimento con la coda dell'occhio. Aveva girato lo sguardo e lo aveva visto. Era alla finestra e guardava dentro. Sogghignava o sorrideva. E mostrava le zanne. Alicia era rimasta immobile. Non aveva nemmeno urlato. Disse che era sparito dopo pochi secondi e che le ci era voluto ancora qualche attimo per riuscire a voltarsi e chiamare il 911 dal telefono vicino al letto. Aveva risposto alle prime domande di Sally, poi aveva pensato che l'intruso sarebbe potuto tornare passando attraverso la finestra, così aveva riattaccato, era corsa in bagno e si era chiusa a chiave. Qualche minuto più tardi aveva creduto di sentirlo alla porta d'ingresso, allora si era precipitata verso quella della cucina e aveva cercato di capire che cosa stesse facendo l'uomo. Quando le era sembrato che stesse entrando in soggiorno, era scappata in corridoio. Poi, per evitare di passare davanti al soggiorno, era uscita dalla porta sul retro. Aveva cominciato a scendere, ma a un tratto le era parso di sentire qualcosa in fondo alle scale, nel buio, così era risalita, talmente in fretta che non si era accorta che si stava facendo male ai piedi, fin quando
era arrivata sul tetto. Non lo aveva più visto. Mettendo in ordine la sequenza degli avvenimenti, ci parve evidente che la persona alla porta del soggiorno fosse Byng. Si era annunciato e aveva bussato, ma dal momento che la ragazza era chiusa in bagno, la poveretta aveva udito solo dei rumori. Dopo un attimo Byng aveva spinto la porta, trovandola aperta. Era entrato mentre lei si trovava in corridoio. O almeno così pensavamo noi. Ebbi l'impressione che Alicia e Byng fossero leggermente imbarazzati. «L'uomo non ha detto niente quando l'ha visto alla finestra?» le domandò lui. «Sì. Ma non ho capito bene cosa. Non ne sono sicura.» La ragazza ebbe un fremito. «Gesù, mi fa venire la pelle d'oca.» «Ha cercato di leggergli le labbra?» insisté Byng. «Sì, più o meno. Sentite, non ne sono sicura ed è assurdo, ma mi è sembrato dicesse "Posso entrare?", o qualcosa del genere.» Alicia guardò prima me e poi Byng. «Sembra così stupido?» «È davvero convinta che abbia pronunciato queste parole?» domandai. «Be', in quel momento ne ero abbastanza sicura» rispose. «Gli ho detto "No!" un paio di volte. Se gli ho risposto deve aver pur detto qualcosa, le pare?» «Certo. Ascolti, ha avuto l'impressione che fosse appeso a una corda o a qualcosa di simile?» Domanda obbligata, dal momento che non riuscivo a immaginare nessun altro modo per salire fin lassù senza una scala. «No. Non gli vedevo né le mani né le braccia. Solo il volto.» «E non l'ha riconosciuto.» «No.» «Le ricordava qualcuno?» provai a suggerire. Rifletté. «Non lo so. Davvero. È una di quelle cose... Più ci pensi e più ti convinci che sia così. Ma non so se è vero...» Lasciai che fosse Byng a raccogliere il resto della deposizione. In fondo era un caso di Freiberg e io ero li solo in veste di assistente. Uscii di nuovo su quella maledetta piattaforma e controllai la parete, in cerca di possibili appigli. Dal muro spuntavano le estremità di quattro barre metalliche, molto comuni in edifici vecchi come quello. Si trovavano in linea retta a qualche metro l'una dall'altra, a circa due o tre metri da terra. Probabilmente correvano sotto il pavimento del secondo piano e servivano come rinforzo. Non c'erano anelli né ganci, e comunque passavano ben al di sotto del davanzale della finestra. Vidi un paio di buchi dove i mattoni si erano dete-
riorati e sfaldati, alcune fessure dove la malta si era sbriciolata, ma nient'altro. La mia prima valutazione si era rivelata esatta: c'erano più di tre metri di distanza dal bordo della piattaforma alla finestra dove Alicia aveva visto l'uomo. Rientrai nell'appartamento. «Ha qualche posto dove andare a dormire stanotte?» «Sì, Credo di sì.» «La possiamo accompagnare con la nostra macchina o se preferisce possiamo scortarla fin lì. Le suggerirei di andarci, così almeno riuscirà a dormire.» «Mi credete?» «Certamente. L'unica cosa che non mi spiego è come sia potuto arrivare nel punto in cui l'ha visto lei.» «Forse era un free climber» disse la ragazza. «Avete presente quelli che si arrampicano sui muri? Ogni tanto si vedono alla televisione.» «Può darsi. Non è il mio genere di sport, come può immaginare.» Sorrisi. «Conosce qualcuno che lo fa?» Scosse la testa. «Però faccio la cameriera sulla nave. Posso chiedere in giro.» Per "nave" intendeva il General Beauregard, un barcone-casinò ormeggiato lì vicino. «Bene. Se le viene in mente qualcuno, informi l'agente Byng, così possiamo fermarlo e interrogarlo.» La ragazza annuì. «Prima, però, si ricordi di controllargli i denti» le dissi. Andai con Byng ad accompagnare Alicia a casa di una amica. Non tanto perché lei fosse una ragazza attraente e lui avesse bisogno di un sorvegliante adulto, ma perché in quel modo avevo una scusa per uscire dalla scala principale. Poi Byng mi riportò dove avevo lasciato la mia auto. Perlustrammo insieme la zona. Non trovammo niente di sospetto. Alcuni bidoni della spazzatura, bombole del gas. Nient'altro, e nessuna traccia di scale a pioli. «Sembri uno che sta morendo dissanguato» disse Byng. «Cosa?» «Hai ruggine dappertutto.» Mi illuminai le mani con la torcia. Vero, erano di un bel colore rossoarancio. Come la camicia della divisa. «Splendido» commentai, lanciando un'occhiata a Byng, che era salito
dalla stessa scala, ma era perfettamente pulito. Riesco sempre a sporcarmi anche per gli altri. «Devi aver strisciato anche la fronte e il naso.» Dal cofano della macchina presi un rotolo di Scottex e mi pulii faccia e mani. Per la divisa non c'era niente da fare, avrei dovuto lavarla. «Credi che sia necessario aprire un'inchiesta, Carl?» Mi strinsi nelle spalle. «Non per adesso. Ti è chiaro chi ha descritto la ragazza, vero?» «Sì» sbuffò Byng. «Un Bela Lugosi del cazzo.» Mi misi a ridere. Aveva ragione. «La cosa importante è che non l'abbia nominato. L'ha solo descritto.» «E allora?» «Allora non ha dato un nome al sospetto che ha descritto. In un certo senso è più credibile. Sai se fa uso di qualche droga?» «Mai sentito niente su di lei,» disse «ma controllerò. Pensi che soffra di allucinazioni?» «Non lo so. Vedi di non dare troppo nell'occhio con le indagini. Sono convinto che possa aver visto davvero qualcosa, anche se certamente non Dracula.» Byng si mise a ridere. «Sono d'accordo. Magari era un merlo, o un gufo, oppure chissà... in città ci sono dei ragazzi un po' pallidi a cui piace vestirsi di nero.» Ridacchiò di nuovo. «Il problema è che non sanno volare.» «Già.» «La storia dei canini è piuttosto strana, non trovi?» «Probabilmente si tratta di un paio di denti finti che si mettono e si tolgono in un attimo. Se troviamo un sospetto, per prima cosa lo scrolliamo ben bene. Gli troveremo i denti in tasca.» Avevamo camminato lungo il condotto e io ero rimasto a circa un metro dal bordo. «Soffri di vertigini?» mi chiese Byng, amichevole. «A volte.» Puntò il fascio di luce contro i muri posteriori degli edifici, verso la porta che dava sul vuoto. «Scommetto che quella lì non riusciresti mai ad aprirla» mi disse. Alzai lo sguardo, giusto per farlo felice. Mi bloccai sulla vernice bianca scrostata della porta. «Cosa c'è?» «Byng, giuro su Dio che quando sono arrivato quella porta era coperta
da un panno nero.» Controllammo. Nessun pezzo di stoffa vicino alla porta. Niente nel condotto semiasciutto. E non c'era vento. «Probabilmente ti sbagli, Carl.» «Già» risposi, ma non lo pensavo davvero. «Secondo te possiamo entrare lì dentro?» «Credo di sì. Perché?» «Voglio vedere se quella porta si apre.» Andammo in macchina dall'altra parte dell'isolato, parcheggiammo, presi la macchina fotografica e proseguimmo a piedi fino alla porta principale; salimmo le prime due rampe di scale e arrivammo al terzo piano. Le norme di sicurezza nelle cittadine rurali dell'Iowa non sono molto strette. Il terzo piano era sventrato, completamente inutilizzato e pieno di escrementi di topo. C'era polvere ovunque. Ottimo per le impronte, che andavano da e verso la porta. Scattai alcune foto, mentre Byng reggeva il mio piccolo metro a nastro per poter valutare le proporzioni. Quindi ci avvicinammo alla porta. Fissati all'intelaiatura esterna c'erano due bulloni ad anello, nuovi di zecca. Erano stati dipinti di nero e si intravedeva la parte argentata nel punto in cui qualcosa aveva scrostato la vernice. «Una corda?» «Ci puoi scommettere» risposi. Non ne sapevo molto di arrampicate e non ero in grado di dire se la corda fosse una misura di sicurezza o se il nostro sospetto l'avesse utilizzata per attraversare la parete tra la finestra della ragazza e la porta. O entrambe le cose. «Credo che l'uomo abbia raggiunto questa porta quando sono entrato nel vicolo» dissi. «È rimasto immobile e quando sono salito dalle scale posteriori, probabilmente ero a non più di sei metri da lui.» «Io pure» aggiunse Byng. «Quando siamo saliti dalla scala a muro.» «Per fortuna siamo arrivati in fretta» commentai, «Mi domando quanto fosse vicino alla ragazza quando è uscita dalla porta posteriore. Tre metri? Forse anche meno.» «Probabile.» «Scommetto che il rumore che ha sentito la ragazza non veniva dal pianterreno. Era lui» dissi con un fremito. Byng si sporse dalla porta aperta. «Non c'è granché a cui afferrarsi su questo cazzo di muro. È una scalata difficile, anche con una corda. Ma è
vero quel che ha detto la ragazza: quei fuori di testa di free climber riescono a trovare appigli dappertutto.» Diresse il fascio di luce verso l'esterno, puntandolo contro l'appartamento di Alicia. «Carl.» «Cosa c'è?» «Ci sono degli anelli anche nello stipite della finestra sopra l'appartamento di Alicia.» «Dici sul serio?» «Sì.» Ridacchiò. «Dev'essersela fatta sotto quando siamo arrivati.» «Già. Oppure deve essere morto dal ridere mentre mi guardava salire la scala.» Un esame del pavimento rivelò che il sospetto aveva camminato avanti e indietro tra le finestre della parte anteriore e posteriore dell'edificio. Le finestre erano chiuse con delle assi, che erano state forzate con una leva e poi sostituite in modo da poterle rimuovere facilmente. Stava guardando o cercando qualcosa. Forse noi, mentre noi cercavamo lui. Puntai la torcia contro i travicelli. «Cosa stai cercando, Carl?» «Il nostro uomo.» Stavamo scendendo le scale quando a Byng venne in mente una cosa. «Potrà sembrarti stupido, Carl, ma ieri sera qualcuno ha rigato l'auto del ragazzo di Alicia. Era parcheggiata in Main Street, vicino a casa sua. L'hanno rigata dal lato del marciapiede, tutta la fiancata, un solco profondo. Deve farla riverniciare. Non pensi che magari qualcuno stia spiando Alicia? Qualcuno a cui non piace che il suo fidanzato vada a trovarla a casa?» Interessante. Non riuscii a trattenermi: «Forse per rigarla non hanno usato una chiave, ma le zanne». Ridemmo. «Hai qualche sospetto per le mani?» Byng scosse il capo. «Il ragazzo mi ha detto che pensava di sapere chi fosse stato, ma non voleva accusarlo finché non fosse stato sicuro. Questo è quanto. Gliel'ho chiesto due volte, ma non ho cavato un ragno dal buco. Mi ha promesso che sarebbe tornato a trovarmi.» «Okay. Se lo vedi, puoi suggerirgli come possibile colpevole il dentone. Magari dopo che Alicia gli racconterà quello che è successo stasera, gli verrà voglia di parlare.» Mentre ci allontanavamo, Byng ricapitolò la situazione. «Figlio di puttana» commentò. «Non sopporto i casi che non portano da nessuna parte.»
Purtroppo si sbagliava. 2 Venerdì 6 ottobre 2000 12.25 Era una bella giornata. Il sole splendeva nel cielo azzurro e limpido e le foglie autunnali sugli alberi coloravano l'orizzonte. Ero di ottimo umore, nonostante fossi in servizio. Stavo percorrendo la strada panoramica che costeggia il Mississippi ed ero diretto a Freiberg per incontrarmi con Byng. Mi aveva comunicato di essere tornato sul tetto e di non aver trovato niente, il che significava che non avrei dovuto risalire su quella maledetta scala. Ero proprio di ottimo umore. Lo chiamai. «Parla pure, Tre.» «Ci sono quasi. Vuoi un 10-25 da qualche parte?» Pensavo di lasciare l'auto dove ci saremmo incontrati. «Va bene. Perché non ci vediamo al dipartimento dello sceriffo della Conception County?» Ovvero a Jollietville, nel Wisconsin, all'altezza di Freiberg ma dall'altra parte del fiume. Un grande ponte a due campate attraversa il Mississippi e unisce le due città e i due stati. «10-4. Sarò lì tra un paio di minuti.» Bene, un piacevole cambiamento di programma. Era un mese buono che non vedevo Harry e i ragazzi. «Ricevuto. C'è qualcosa qui che dovresti vedere. Ne parliamo quando arrivi.» Per qualche oscuro motivo quello che disse non mi piacque affatto. Un secondo più tardi la voce di Sally gracchiò sul canale Info. «Qui centrale. Mi senti, Tre?» «Parla pure, centrale.» «Tre, ti ricordi il caso che hai seguito quattro anni fa, quando ti si è bloccata la macchina e hanno dovuto rimorchiarla?» Era successo durante un annegamento: si era rovesciata una canoa e stavamo cercando di raggiungere la vittima in una zona priva di strade. «Certo che me lo ricordo.»
«Ieri sera è successa una cosa simile nella Conception County. I casi potrebbero essere collegati.» «10-4, centrale.» E riappesi il microfono. Ero sicuro che, se c'era stato un caso di annegamento la notte precedente e Byng voleva che io fossi presente, significava che si trattava di una persona del posto, o di qualcuno che poteva interessarci. Te lo chiedi tutte le volte, e tutte le volte speri di non conoscerlo personalmente. Otto minuti più tardi accostavo davanti al dipartimento dello sceriffo della Conception County. Presi nota dell'orario di arrivo nel registro di bordo. Avevo il presentimento che mi sarebbe servito nella stesura di un rapporto. Byng mi stava aspettando e mi fece strada fino all'ufficio dell'investigatore Harry Ullman. «Salve Houseman» disse Harry alzandosi dalla scrivania e allungando la mano. «È parecchio che non ci si vede.» «Proprio così, Harry. Come te la passi?» Scosse il capo. «Un altro cazzo di annegamento, ieri sera. E sono sette dall'inizio dell'anno. Mi hanno chiamato nel cuore della notte.» «Avevi il giubbotto salvagente, stavolta?» Harry era caduto in acqua, alcuni anni prima, durante un'operazione di recupero ed era quasi affogato perché non sapeva nuotare. «Come sempre, Carl. Mi conosci.» Prese il rapporto di un incidente dalla scrivania e me lo passò. «Ti dice niente?» Esaminai il foglio e la patente. Il morto era un maschio bianco, di ventiquattro anni. Randy Baumhagen. La patente diceva che era di Freiberg, Iowa, ma non lo conoscevo. La foto mostrava un bel ragazzo, con una camicia bianca con i volant e i bordi neri. La divisa dei dipendenti del General Beauregard. «Lavora sulla nave» dissi io. «Lavorava. Lo conosci?» «No, ma riconosco la camicia.» Feci un sorrisino che significava "ti ho fregato". «Dovresti fare il detective» scherzò Harry. «Ci farò un pensierino» risposi con leggerezza. «C'è un motivo particolare per cui dovrei conoscerlo?» Harry diede un'occhiata a Byng. «Lui pensa di sì.» Lo guardai con aria interrogativa.
«Hai presente la macchina rigata di cui ti ho parlato? Il ragazzo di Alicia?» «Stai scherzando?» domandai senza troppa convinzione. «No. Si tratta dello stesso ragazzo.» Byng sembrava quasi triste. «Be', diavolo» commentai. «È un vero peccato.» «C'è di peggio» aggiunse Harry, in tono allegro. «Ti piacerà.» «Ah sì?» Non so perché, ma era convinto che avessi il suo stesso gusto del macabro. «Non ne sarei così sicuro. Io sono una persona sensibile.» Si girò verso il computer. «Dai un'occhiata a queste.» Mi avvicinai e vidi una serie di fotografie digitali che mostravano il giovane Baumhagen. Nelle prime due galleggiava a faccia in giù in una zona poco profonda, a giudicare dalla vegetazione. «Era vicino alla costa?» «Appena sopra il Frenchman's Landing» rispose Harry. «L'acqua in quel punto è profonda un metro. Sembra che sia caduto da un molo galleggiante.» «È affogato?» chiesi mentre Harry caricava un'altra serie di immagini. «Direi proprio di no. Guarda qua.» Sullo schermo prese forma un primo piano della sezione destra del cranio. Era vistosamente incavato, come se il ragazzo fosse caduto da molto in alto e avesse sbattuto la testa sulle rocce. Non può succedere se si cade da un molo galleggiante. Doveva essere precipitato da un'altezza non inferiore ai due metri. «Non ho visto rocce nelle altre foto. Omicidio?» commentai. «Puoi giurarci» disse Harry. «Te l'ho detto che ti sarebbe piaciuto. Aspetta, c'è di meglio.» Non riuscivo a immaginare come fosse possibile, ma negli anni ho imparato a fidarmi di Harry. Mi indicò la serie successiva di fotografie. Questa volta Baumhagen era a faccia in su. Il collo era maciullato. «Cazzo!» esclamai. «Non è roba da tutti i giorni. È questo che l'ha ucciso?» «Non ne siamo certi,» disse Harry «ma pensiamo di no. Adesso è a Milwaukee, per l'autopsia. È gente in gamba, alcuni sono gli stessi che hanno lavorato al caso Dahmer. Il meglio che c'è sulla piazza, Carl.» «Esageri.» «No, dico sul serio. A ogni modo, secondo loro la causa della morte è il colpo in testa e il collo è stato conciato così dopo il decesso.» Il buco nel collo era davvero enorme. «Qualcuno ha cercato di staccargli
la testa oppure quest'anno le tartarughe sono più affamate del solito.» «Per ora i medici legali hanno soltanto avanzato un'ipotesi, comunque dicono che la ferita è stata inferta con un oggetto affilato, ma non con una lama. Più arrotondato, come una matita appuntita, ma d'acciaio. Uno dei dottori è cresciuto in campagna e dice che gli ricorda un tipo di ferita provocata da qualcosa di simile a una pinza per recinzioni.» Harry distolse lo sguardo dal monitor. «Hai presente?» Certo che avevo presente. Una pinza per recinzioni è una specie di grossa tenaglia, con una punta lunga e arrotondata su un lato della lama, in modo da poterla infilare sotto uno di quei grossi chiodi a "U" utilizzati per sorreggere il cavo sui pali di un recinto di legno. Facendo leva sull'impugnatura, si tira via il chiodo. Harry continuò: «Nessun danno alle vertebre cervicali. La maggior parte dei principali gruppi muscolari è intatta. Solo un grosso buco del cazzo, Carl». «Un po' insolito, non credi?» «Hai detto bene.» «E cosa mi dici della gola?» «Gliene ho parlato ieri sera» si inserì Byng. «Dei denti, intendo.» «Tu cosa ne pensi, Carl?» chiese Harry. «Un uomo può fare una cosa simile con i denti?» «Impossibile» risposi con enfasi. «Un essere umano non può mordere così forte e i denti finti sarebbero saltati via subito.» Li guardai entrambi, nel silenzio improvviso. «Be', è solo un'opinione» aggiunsi. «Sono d'accordo» commentò Harry. «Così come sono d'accordo i ragazzi dell'ufficio di medicina legale a Milwaukee.» Si avvicinò e mi diede un colpetto sulla spalla. «Non male per uno dell'Iowa,» Restammo in silenzio per qualche secondo. «Però,» dissi «se volessi far credere di averlo fatto con i denti...» Harry ghignò. «E di avergli fracassato il cranio perché eri un po' sovraeccitato?» «No. Anche se sono sicuro di non aver visto nelle immagini delle rocce in grado di ridurgli la testa in quel modo. Ma...» «Ho capito dove vuoi arrivare, Carl» disse Harry. «Secondo quello che dice Byng, potrebbe essere.» Sbuffò. «Un vampiro. Un tipo del genere deve venire dalla vostra parte del fiume.» «Scommetto che ci sono cinquanta probabilità su cento che se troviamo l'oggetto che ha rigato la macchina del ragazzo, troviamo anche l'arma che
gli ha tagliato la gola» replicai. «Questo è possibile» disse Harry raddrizzandosi. «Allora, Carl, avevo ragione o no? Te l'avevo detto che sarebbe stato un bell'affare.» «Tu non menti mai, Harry.» «Ottimo.» Sembrava piuttosto soddisfatto di sé. «Andiamocene a mangiare.» Mentre uscivamo, gli feci un'altra domanda: «Chi l'ha trovato?». «Due tizi che andavano a pescare.» Aprì la portiera dell'auto. «Perché?» «Mi chiedo cosa possano aver detto.» «Avevano paura che il morto potesse spaventare i pesci.» «Molto probabile» intervenne Byng. «Ho detto loro di non preoccuparsi» concluse Harry. «Oggi è venerdì. Neanche i pesci possono mangiare la carne il venerdì.» Il tentativo di umorismo mi fu d'aiuto. Un giovane era stato assassinato in modo brutale e gettato in un fiume, senza che gli venisse concessa la possibilità di vivere la propria vita. Tutto quello che potevamo fare era cercare di scoprire il suo assassino. Non che fosse una grossa consolazione per la famiglia e gli amici, e neppure per noi. «Sai una cosa, Harry?» dissi a un tratto. «Sei un bravo poliziotto, uno dei migliori, e sono contento che questo caso sia tuo. Cazzo, sono davvero contento che sia un caso del Wisconsin.» «Certo» borbottò mentre entravamo in macchina. «E se voi poveri stronzi dell'Iowa aveste un po' di talento, dopo la storiella del guardone con i denti aguzzi ora avreste anche un sospetto. Così adesso anch'io avrei un nome!» Esplose in una specie di ululato che doveva essere una risata. «Vi va bene andare da Pedro? Il piatto del venerdì è burrito al formaggio.» «Ottimo» rispose Byng. «Collaboreremo, Harry» dissi io. «Non preoccuparti. Il nostro primo compito è facilitarti la vita. Almeno finché ci darai da mangiare.» «È proprio questo che mi fa paura.» 3 Sabato 7 ottobre 2000 7.40 Mi stavo lavando i denti, quando mi parve di sentire il telefono. Chiusi l'acqua e mi misi in ascolto. Niente. Riaprii il rubinetto, contento di esser-
mi sbagliato, visto che Sue, mia moglie, stava dormendo. Faceva l'insegnante alle medie e il sabato era l'unico giorno in cui non doveva alzarsi alle sei e mezza. Stavo picchiettando lo spazzolino sul bordo del lavandino quando la porta del bagno si aprì di alcuni centimetri e apparve la mano di Sue con il telefono portatile. «Glielo passo» disse con la voce arrochita dal sonno. Sarebbe stato meglio se l'avesse detto nel microfono, ma pensai non fosse saggio farglielo notare. Afferrai il telefono e la mano scomparve. «Houseman.» «Carl?» Era la voce di Norma, una delle nuove operatrici radio. «Sono io.» «Abbiamo ricevuto una chiamata alle... 6.36... e ho mandato Otto sul posto. Pensa che dovresti andare a dare un'occhiata anche tu.» Il tono della voce era di un'ottava più alto del normale. Otto corrispondeva al numero della macchina di Tom Borman, un nostro agente con circa due anni di servizio. Sembrava piuttosto bravo e serio sul lavoro. «Cos'ha trovato?» chiesi mentre mi dirigevo verso la camera da letto per vestirmi. «La prima chiamata, arrivata al 911, parlava di un incidente. Era una donna che chiedeva urgentemente aiuto, ma non è stata molto chiara. Ha detto qualcosa a proposito di un'altra donna in una vasca.» «E Borman cosa vuole? Che lo aiuti a sollevarla?» chiesi senza nascondere l'irritazione. Non era un buon motivo per chiamarmi così presto ed era una pessima ragione per svegliare Sue. «No, no. Abbiamo ricevuto una seconda chiamata dopo che l'ambulanza di Freiberg è arrivata sul posto. Li ho mandati subito. Hanno detto,» e sembrò leggere dal suo registro: "Si tratta di un codice blu e pensiamo che debba venire immediatamente un poliziotto. Sembra un suicidio".» Almeno questo spiegava perché mi avevano chiamato. La politica del dipartimento è quella di trattare i suicidi come se fossero omicidi, finché quest'ultima ipotesi non viene esclusa. Chi chiamare dunque? Ero pur sempre l'ispettore, anche se avrei dovuto lavorare nel turno da mezzogiorno a mezzanotte. Non me la sentivo di biasimare Otto. Era nuovo e lavorava dalle dieci di sera alle dieci di mattina, a mio giudizio il turno peggiore. E poi, anche se fosse stato sicuro che si trattava di suicidio, doveva richiedere l'intervento di un investigatore esperto. «Va bene, mi vesto e...» «Il posto è a cinque chilometri a sud di Freiberg: uscito dalla County Road X8G, prendi la seconda strada non asfaltata a...»
Mentre parlavo al telefono stavo cercando di infilarmi i jeans. Prendere appunti sul tragitto da compiere era fuori discussione. «Me lo dici quando sono in macchina, okay?» «D'accordo» rispose Norma asciutta. «Sto cercando di mettermi i pantaloni» mi giustificai. «Ho solo due mani.» «Oh... be', certo... Solamente un'altra cosa, già che parliamo al telefono. Credo sia meglio non utilizzare la radio. Otto mi ha chiamato e mi ha detto che si tratta di un caso molto brutto, anche se è confermato che si tratta di suicidio.» «Ah, sì?» Odio infilarmi i calzini con una mano sola e non sopporto gli agenti che si lasciano andare a dichiarazioni azzardate. Magari hanno visto giusto, ma l'ultima cosa che ci vuole in un caso di omicidio è un avvocato difensore che mette le mani su una dichiarazione ufficiale del genere. «Non si dice proprio qui che il primo agente arrivato sul luogo ha dichiarato che si trattava di suicidio?» Ma il registro non poteva essere cambiato, restava soltanto la possibilità di aggiungere una specie di rettifica. «Metti a verbale che ho detto che non si può confermare il suicidio finché l'ufficio del medico legale non ci dirà qualcosa» dissi. «C'è altro?» «Un brutto caso. Da gestire con un codice 61. È tutto ciò che ha riferito.» Il codice 61 veniva usato per indicare che tutte le comunicazioni via radio riguardanti il caso dovevano essere concise e trattate con prudenza, il che significava che l'argomento era molto delicato o molto serio, o tutt'e due le cose. Comunque, era meglio evitare che orecchie indiscrete ascoltassero cosa stava combinando la polizia. «Va bene, bambina. Hai già chiamato Lamar?» Lamar era il nostro sceriffo e voleva essere tenuto al corrente di tutti i disastri e gli avvenimenti tragici che accadevano nella contea, soprattutto perché non sopportava di andare a fare colazione al Phil's Café con qualcuno che gli faceva delle domande su un caso di cui non sapeva niente. Non era bello. Infilai i piedi nelle scarpe da ginnastica. «Sì, ha detto di inviarti sul posto immediatamente.» «Be', vediamo di sistemare anche questa» dissi con un sibilo mentre mi piegavo per allacciarmi le stringhe, con il telefono incastrato tra la spalla e l'orecchio. «E mi ha detto di avvertirlo se dovessi avere bisogno di lui.»
«Bene. Ti chiamo dalla radio.» Spensi il telefono e lo misi in carica. «Hai bisogno di aiuto?» La voce di Sue, dall'altra parte del letto. «No, grazie.» «Provo a riaddormentarmi...» Mi alzai, indossai una camicia grigio scuro e infilai la fondina nella cintura, sul fianco destro. Mi avvicinai a Sue e le diedi un bacio. «Buona giornata.» «Anche a te» mi rispose già semiaddormentata. Presi pistola, walkie-talkie e documenti dal comodino e portafoglio e chiavi della macchina dal cassetto in sala da pranzo. Poi salii in auto e registrai la mia entrata in servizio alla centrale operativa: erano le 7.49. «A che ora mi hai chiamato, centrale?» chiesi. «Alle 7.40.» Nove minuti. "Sto invecchiando" pensai. Lasciai Maitland, la sede della contea nonché la città in cui vivevo e dove si trovava l'ufficio dello sceriffo, e mi diressi verso la statale all'incrocio con la X8G. Era un'altra bella mattinata: c'erano circa dieci gradi e si stava magnificamente. Amo il mese di ottobre. La radio di servizio era minacciosamente muta. Era la procedura standard se si adottava il codice 61. Solo gli agenti di polizia conoscono la paura che si prova con quel tipo di silenzio. Sai che è successo qualcosa di tremendo, ti stai dirigendo verso il luogo del delitto e regna il silenzio più assoluto... Procedevo senza lampeggianti né sirena. Non erano necessari, perché non c'era traffico. Udii dei rumori intermittenti, come il picchiettare della pioggia sul parabrezza. Il sole continuava a splendere e non c'erano nuvole. Poi capii. Coccinelle. Quell'anno ce n'erano a sciami. Il primo mistero della giornata era risolto. Ripensai con una certa preoccupazione alla dichiarazione di Borman a proposito del "suicidio". Avrebbe dovuto agire in maniera più prudente, anche se aveva solo un paio d'anni di esperienza. Continuai a costeggiare il Mississippi, superando sulla mia destra una fila di capanni disposti lungo i binari ferroviari che attraversavano la contea. Passai una grande miniera abbandonata, quindi incrociai una piccola insegna vicino ai binari: "Givens' Switch". C'era solo l'insegna, messa di recente dalla società di studi storici della contea per commemorare una delle innumerevoli piccole località scomparse.
Pensai di nuovo a Borman. Frequentava un corso di formazione sul tema "Come rendere la polizia più umana", o qualcosa del genere, tenuto da un sociologo. Stava studiando tutte le tecniche di immedesimazione e avevo il forte sospetto che quella mattina ne avesse subito l'influenza. O forse semplicemente non volevo riconoscere che apparteneva a una generazione successiva alla mia. Risi di me stesso. A cinquantacinque anni non sei poi così vecchio... se adotti il punto di vista di un novantenne. Cinquecento metri dopo svoltai a ovest verso l'interno, in una strada sterrata chiamata Willow. Rallentai e chiamai in centrale per avere indicazioni più precise. «Centrale da Tre. Ho appena svoltato nella strada sterrata. Che direzione devo seguire, adesso?» A volte quella parte si rivelava decisamente interessante: dare indicazioni stradali in modo cauto, secondo le regole del codice 61, è davvero un'impresa. «10-4, Tre. Prendi la prossima a destra e vai verso nord. Imbocca la seconda strada dopo la curva che punta di nuovo verso est, in direzione del fiume.» Restai un attimo in silenzio per memorizzare le indicazioni. Si trattava della grande casa sul promontorio che dava sul Mississippi. Era conosciuta come la "Villa", sebbene alcuni locali la chiamassero il "Dormitorio degli sbandati", per via della gente che ci viveva. «Centrale, parli di V?» Sperai avesse capito, perché non volevo che nessuno intuisse dov'ero diretto. Non sapevo se l'operatore radio, l'equipaggio dell'ambulanza o Borman avessero nominato la Villa, ma io comunque non avrei fatto lo stesso errore. Le ci vollero alcuni secondi per capire. «Oh, certo. 10-4, è quella. Conferma con le ultime tre: tre cinque quattro.» L'indirizzo dato al 911 era 24354, incomprensibile per chiunque non avesse il nome della strada in questione. Norma aveva usato gli ultimi tre numeri per essere sicura che non fossi nel posto sbagliato. Nessuno in ascolto avrebbe saputo risalire alle prime due cifre se non avesse saputo anche dove ero diretto. Quella casa mi aveva sempre affascinato. È enorme, in stile vittoriano. Sorge alla fine di una lunga strada in cima al promontorio e gode, con ogni probabilità, di uno dei migliori panorami sul Mississippi. Non c'ero mai andato prima di allora, anche se una volta ero stato nel terreno circostante. È di gran lunga la casa più grande della Nation County.
«10-4, centrale. Conosco il posto.» Se non fosse per l'indirizzo, 24354, per una cassetta delle lettere parzialmente nascosta e per un cassonetto dell'immondizia di plastica blu appena visibile, non si capirebbe che in quel punto c'è una strada sterrata che, costeggiando una folta area boschiva, giunge, dopo quasi due chilometri alla cresta del promontorio dove sorge la Villa. Proseguii la salita e giunsi in cima alla cresta a forma di dito, percorrendo gli ultimi cinquecento metri quasi completamente in pianura. Anche in quel punto gli alberi sono molto fitti, un misto di aceri di un giallo brillante e di pini alti di un verde scuro. Dirigendomi verso la Villa, intravidi attraverso i rami coperti di foglie il tetto rossastro. Oltrepassai un cancello di ferro segnato dal tempo e l'auto sobbalzò leggermente mentre abbandonavo lo sterrato per immettermi nell'ampia strada asfaltata che circonda l'edificio. Quel giorno ebbi la conferma che la casa è davvero enorme: è costruita su tre piani, con due torrette e un ampio porticato che la cinge completamente, tutta in legno di un grigio-blu scuro con finiture rosso cupo. Sembrava ingrandirsi man mano che mi avvicinavo. È situata su una piccola altura, circa tre metri sopra la strada, e ha un'ampia scala di marmo che conduce a una doppia porta con alti pannelli ovali istoriati. Le porte sono circondate da finestre molto alte e ovali, anch'esse istoriate. È stata costruita alla fine dell'Ottocento per celebrare la grandezza della famiglia Givens, che ha accumulato una fortuna con la coltivazione del grano. L'ambulanza e la macchina di Borman erano parcheggiate davanti al portone principale. I lampeggianti erano spenti, giustamente. Tuttavia, entrambe le vetture erano in moto. C'erano anche una Buick degli anni Novanta a quattro porte e un pick-up Ford del 1987. Sembravano in buono stato, anche se mostravano i segni dell'età. «Centrale da Tre. Sono 10-23. Esco dalla macchina.» Non c'era bisogno di dire dove mi trovavo. Mi arrivò la conferma dalla centrale e Otto cominciò a parlare con il walkie-talkie. «Tre,» disse in tono un po' freddo «sono al secondo piano. Prima stanza sulla sinistra. Vieni dentro, qualcuno del pronto intervento ti mostrerà dove siamo.» Mi avviai verso la casa e appena arrivai all'altezza dell'ambulanza vidi un giovane di circa vent'anni seduto sull'ultimo gradino della scalinata.
Aveva i capelli neri che gli arrivavano alle orecchie e un piercing d'argento all'attaccatura del naso. Indossava una felpa blu scuro, jeans neri e scarpe nere. «Salve.» Non sapevo che altro dire date le circostanze, ma da qualche parte si deve pur iniziare. «Sono il vicesceriffo Houseman.» Mi guardò, ma non rispose nulla. Nella mano destra teneva una sigaretta accesa. «E tu saresti?» Sapevo di averlo già visto, ricordavo quell'affare al naso, ma ero abbastanza sicuro di non averlo mai arrestato. Il database istantaneo della mia mente l'aveva classificato come "ragazzo rispettabile". «Oh» rispose come se l'avessi sorpreso. Difficile stabilire in che modo. «Sono Toby. Toby Gottschalk. Vivo qui.» Ora ricordavo. «Cosa è successo, Toby?» «Ah, è... oh, sa, Edie si è suicidata.» Non sembrava particolarmente colpito dalla cosa. A volte alcune persone reagiscono così a uno shock emotivo. Aspirò un tiro di sigaretta. «L'hai vista mentre lo faceva?» Il nome Edie mi diceva qualcosa, ma di nuovo non riuscivo a collocarlo. «No.» «L'hai trovata tu?» «No. Ho sentito Hanna gridare e poi correre giù per telefonare. L'ho scoperto così.» Non era bello insistere, ma poteva essere importante. «Quindi l'ha trovata Hanna?» «Be', sì» rispose lievemente seccato. «Grazie, Toby. Forse dovrò chiacchierare con te ancora un po', quando avrò finito nella Villa.» «Lo so.» «Okay.» Calmo e sicuro di sé. Bene, almeno dal mio punto di vista. Più facile da interrogare. Mi dava fastidio vederlo fumare, ma non perché mi stesse a cuore la sua salute ma perché avevo smesso di fumare cinque anni prima ma avevo ancora qualche difficoltà quando mi trovavo in presenza di un fumatore. Varcai l'ingresso, attraversai l'atrio e dopo un altro paio di doppie porte, anch'esse con grandi vetrate ovali, mi ritrovai nel salone. Quella casa era davvero immensa e molto bella. C'era il parquet in tutte le stanze. Cominciai a salire la scala in noce, arrivai sul pianerottolo e salii la seconda rampa fino al piano superiore.
Mi ritrovai in un lungo corridoio, con un'altra scala dalla parte opposta. Vidi Eunice Kahrs, una dottoressa del pronto intervento, inginocchiata accanto a una giovane donna, seduta in corridoio su una panca imbottita. Eunice indicò la mia sinistra. «Da quella porta, Carl, poi entra in bagno. È meglio che io rimanga con Hanna.» «Certo, Eunice.» La giovane donna sulla panca era molto pallida e fissava un punto oltre il muro di fronte, qualcosa che vedeva solo lei. Respirava affannosamente, come se avesse pianto. «È stata lei a trovarla?» La domanda era ovvia, ma non si può mai sapere: magari in quella casa c'erano due persone con lo stesso nome. «Sì. Hanna l'ha trovata e ci ha chiamati.» Come aveva detto Toby. Bene. Eunice strinse le spalle della ragazza. «Andrà tutto bene, cara.» Mi chinai su di loro «Mi dispiace, Hanna, ma ti dovrò parlare prima di andare via.» Sembrava stordita, ma annuì. Proseguii ed entrai in una camera da letto che doveva essere almeno sette metri e mezzo per sei. Riuscivo a scorgere la schiena di Borman e gran parte della figura di Herb Balk, un altro medico del pronto intervento, in piedi nel vano di fianco, che sembrava un bagno. «Cos'avete trovato?» domandai. Borman si voltò, cupo in viso, e disse: «Un casino. Un grande casino. Sembra un suicidio, ma non ho mai visto niente di simile». Si fece da parte ed Herb uscì per lasciarmi entrare. Varcai la soglia, guardai all'interno, quindi nella vasca da bagno. Mi girai verso Borman. «Già.» 4 Sabato 7 ottobre 2000 8.19 Quando si arriva sulla scena di un crimine, la cosa migliore è fermarsi e cercare, come dire, di "assorbire" l'ambiente circostante. È importante farlo prima che lo stato delle cose venga modificato: anche se in seguito si potrà disporre di una buona ricostruzione del luogo e le prove verranno conservate con scrupolo, quell'opportunità non si ripresenterà. Bastano pochi minuti. Se ci si riesce in solitudine, tanto meglio perché si possono fare le cose con più calma.
«Dammi qualche minuto» dissi a Borman. «Perché non scendi e vai nella mia auto a prendere le due macchine fotografiche? Quella manuale e quella digitale. Poi chiama l'ufficio e accertati che il medico legale stia arrivando.» Lanciai a Borman le chiavi dell'auto e cominciai ad assorbire il più possibile l'atmosfera della stanza, con ciò che conteneva. Il centro dell'attenzione, evidentemente, era il corpo nella vasca da bagno. La vasca, di quelle con i piedi di porcellana bianca, era appoggiata lungo la parete più lontana dalla porta, con il rubinetto in fondo. All'interno c'era una donna bianca, di un'età compresa fra i venti e i trent'anni. Era nuda, più o meno seduta, con il corpo appena afflosciato in avanti e lievemente inclinato verso destra, la schiena rivolta alla parete opposta alla porta. La testa era ripiegata sul petto e una massa di capelli neri le copriva il viso. Era sporca di sangue su gran parte del corpo, a parte la testa e la schiena, anche se sembrava che ci fossero alcune macchie tra le scapole. Aveva entrambe le mani sul grembo, in una specie di gesto di resa. Sulle braccia e sulla parte inferiore delle gambe aveva dei lividi che sembravano recenti. In particolare, quelli sulle braccia mi ricordavano qualcosa. Erano quasi circolari, con sottili striature di colore più chiaro. Avevo già visto segni simili su donne e bambini un paio di volte. Quando una persona ne afferra un'altra e la stringe, spesso si crea uno spazio tra il dito indice e il medio e due più piccoli tra indice e anulare e tra anulare e mignolo. Se stringe forte, una volta allentata la presa gli spazi risultano quasi bianchi rispetto ai segni rossi lasciati dalle dita. Sembrava esattamente uno di quei casi. I segni sulle gambe non erano altrettanto ben definiti, ma erano più estesi e di un viola rossastro. Pensai che potessero essercene altri, ma c'era troppo sangue sulla pelle per dirlo con certezza. La vasca era stata trasformata in doccia, con un binario circolare per la tenda a un metro e mezzo circa dal bordo, un lungo tubo di ottone e il piatto della doccia sopra ai rubinetti. La tenda color crema era aperta per metà e sul bordo inferiore, dove entrava nella vasca, era macchiata di sangue. Anche all'interno della vasca c'era del sangue, soprattutto a macchie e strisce: forse alcune erano scivolate lungo la vasca prima di cominciare a seccarsi. O almeno era quello che riuscivo a vedere da lì. Una piccola pozza di sangue ormai secco circondava il bordo dello scarico. La quantità di sangue all'interno della vasca era poca, quasi insignificante, e la leva dello
scarico sembrava aperta. Da principio non riuscii a capire dove fossero le ferite. Immaginai che si trovassero sul polso sinistro, che non riuscivo a vedere. Qualcosa però non quadrava, ma non riuscii immediatamente a capire cosa. Poi, all'improvviso, compresi: il sangue non era coagulato. Stava cominciando ad asciugarsi, evaporando. Ma non c'erano coaguli da nessuna parte, neppure sul corpo. Mi parve di scorgere il manico di un coltello infilato tra la parte superiore della coscia destra e la parete della vasca, ma dal mio punto di osservazione era difficile da stabilire. L'ultima cosa che bisogna fare è precipitarsi accanto al corpo. Si rischia di compromettere la validità di alcune prove, oltre a perdere di vista elementi significativi del contesto. E appena si comincia a focalizzare la propria attenzione sul corpo, è difficile concentrarsi su altro. La ragazza ormai era morta. Non c'era bisogno di correre. Osservai il pavimento di piastrelle verdi e bianche, in particolare l'area tra me e il corpo. Sembrava pulita, così come i muri, color giallo opaco, e il lavandino di porcellana sulla parete accanto, almeno per quanto riuscivo a vedere da tre metri di distanza. Anche il water di porcellana di fianco al lavandino e l'armadietto dei medicinali sembravano immacolati. Su un ripiano in ottone con mensole di vetro, un metro circa dietro alla vasca, c'erano degli asciugamani verdini ordinatamente impilati. C'era anche un grande mobiletto bianco: tutti e quattro gli sportelli erano chiusi. Sul pavimento non c'erano tappetini, né pareva che nella stanza ci fossero capi d'abbigliamento. Non c'erano pantofole, né accappatoio, nessun asciugamano aperto. Nel portasapone in ottone sulla destra della doccia c'era una saponetta macchiata di sangue. Non c'erano shampoo, spugne e rasoi. La donna era l'unica cosa degna di nota nella stanza. «Dev'essere stato pulito a fondo» dissi fra me. «Cosa?» chiese Herb, che si trovava vicino alla porta. «Niente. Parlavo da solo.» Guardai in alto, come avevo fatto due notti prima. È una cosa che ho imparato parecchio tempo fa. La maggior parte dei poliziotti non lo fa e poi, a volte, se ne pente. Vidi una mezza finestra sopra la vasca e una finestra intera all'estremità. Entrambe erano aperte e avevano tenda e zanzariera. Cimici e coccinelle si muovevano sulle intelaiature. Un classico stagionale nell'Iowa. Un paio di coccinelle erano entrate nella stanza. Sono animaletti così simpatici che non mi prendo il disturbo di mandarli via. Una
cimice più grande delle altre percorreva tenacemente la tenda della doccia, scomparendo e ricomparendo tra una piega e l'altra. Non c'erano segni di sangue sulle pareti. Il soffitto era alto tre metri, con un lampadario di ottone a quattro luci decorato a motivi floreali. Bello, ma non c'era altro da rilevare. Nessuna macchia di sangue. A volte è sorprendente quanto possano finire in alto gli spruzzi di sangue. Il soffitto doveva essere originale, in rame fuso e dipinto di bianco, oppure una versione più recente, in plastica. In entrambi i casi, non mi diceva niente, se non che era costoso. «Merda.» Non riuscii a trattenermi. «Cosa?» chiese nuovamente Herb. Aveva un udito fine, non c'è che dire. «Ho detto,» e alzai la voce in tono vagamente esasperato «merda.» «Ah.» «Borman è già tornato con quelle macchine fotografiche?» «Eccomi» disse Borman alle mie spalle. «Dall'ufficio dicono che il medico legale è stato avvertito e che sarà qui prima possibile. E... verrà anche Lamar.» «Bene.» Feci un passo indietro e cominciai a estrarre dalla custodia la reflex. «Fin dove siete arrivati nella stanza?» «Quale stanza?» «Il bagno» risposi, inserendo l'obiettivo da 50 mm nel corpo della macchina. Aprii la parte della borsa che conteneva la macchina fotografica digitale, ma la lasciai al suo posto. Avrei fatto alcuni scatti in digitale per poterli esaminare subito, ma per la corte, se necessario, sarebbero servite le stampe. Da uno dei numerosi scomparti della borsa presi un paio di guanti in latice. «Mi sono fermato più o meno sulla porta» disse Borman. «Ci siamo avvicinati alla donna quel tanto da verificare se fosse viva o morta. Ma con quella ferita al collo si capiva che non c'era più nulla da fare ancora prima di avvicinarsi» aggiunse Herb. «Il collo?» Lo sguardo che mi lanciò il medico mi fece aggiungere: «Non mi sono ancora avvicinato al cadavere, ho solo dato un'occhiata alla stanza». «Ha una grande ferita aperta sulla parte destra del collo. Profonda, molto profonda. Almeno fino alla giugulare.» Cercai di non lasciar trasparire la mia sorpresa. Al collo? Due ferite al collo in quarantott'ore, a venti chilometri una dall'altra, in un'area in gran parte rurale?
«Il coltello è accanto alla gamba destra» disse. «Non l'abbiamo toccato.» «L'ho visto» dissi io. «Mi fa piacere che l'abbiate lasciato dov'era.» Almeno non era una pinza per recinzioni. Feci una breve pausa per recuperare la concentrazione. Avrei voluto precipitarmi in bagno e controllare quella ferita, ma dovevo procedere con ordine. Mi guardai intorno. Una camera da letto pulita e ordinata. Su un ripiano c'era una grande scatola blu di plastica trasparente, con sette file da quattro sportelli ciascuna. Le file erano etichettate secondo i giorni della settimana e gli sportelletti secondo la frequenza giornaliera. Era un contenitore per pillole. Dovevo ricordarmi di dirlo al medico legale. Feci uno scatto. Alcune foto, disposte in file ordinate, adornavano lo specchio. Sopra lo specchio era appesa una di quelle cornici con all'interno una serie di riquadri di diverse forme, occupati dalle foto di un bambino. C'era un portagioie rosso porpora di velluto. Un letto a due piazze, con l'intelaiatura in ottone. Il letto era rifatto, il lenzuolo aveva un motivo cachemire. Un comodino, con una lampada d'ottone. Una porta che presumevo desse in un ripostiglio. Chiusa. Tutto molto ordinato. Un paio di animaletti di peluche su una mensola: un orsacchiotto e un vampiro con la pelle blu e un mantello nero e uno di quei piccoli troll con una cresta di capelli rossi. Sulle mensole c'erano anche uno stereo, pile di cd e una dozzina di libri. Un tavolino e una sedia erano appoggiati alla parete verso il corridoio, con sopra un computer. Vecchio, senza stampante, solo la tastiera e il tappetino del mouse. Sul muro, vicino alla testiera del letto, tra le due finestre, c'era un'insegna ricamata, racchiusa in una cornice di legno: "L'assenzio rende il cuor contento". Mi fece sorridere. Una stanza graziosa e normale, la camera da letto di una persona ordinata e pulita. Ma mancava qualcosa: ecco la stranezza. Non c'erano vestiti sul letto, né sulla spalliera della sedia, né sul cassettone, e non c'era traccia di quegli indumenti che ci si aspetterebbe di trovare nella stanza di qualcuno che sta facendo il bagno. Non c'erano mutande, reggiseni, scarpe e calze. Niente. «Vi sarei molto grato,» dissi «se usciste in corridoio e non lasciaste entrare nessuno, a meno che non si tratti di Lamar o del medico legale.» «Lo sai chi è la ragazza che è morta, vero Carl?» mi domandò Herb. «Non sono riuscito a vederla in faccia, quindi la risposta è no. So solo che qualcuno la chiama Edie. Tu sai chi è?» «Edith Younger.» Dovevo avere uno sguardo vuoto, perché aggiunse: «La figlia della sorella di Lamar. La nipote di Lamar».
5 Sabato 7 ottobre 2000 8.36 Pensai "Figlio di puttana" e dissi: «Maledizione». L'avevo sempre conosciuta come Edith. Guardai Borman. «Lamar lo sa?» Il giovane mi guardò con occhi inespressivi. «Come faccio a saperlo?» Sospirai. «Prendi il telefono, chiama la centrale e vedi di scoprirlo. Se è così, bene, ma se non lo sa, quando arriva digli che voglio parlargli prima che entri in questa stanza e poi vieni subito a chiamarmi. Hai capito?» «Certo» disse Borman incamminandosi verso l'entrata. «E nessuna comunicazione via radio, chiaro?» «Sì, signore.» Fece una strana smorfia. «Voi vecchi del mestiere siete così sensibili.» Lo cacciai in modo amichevole. «Non è bello far arrabbiare i colleghi più anziani.» «Ma va'?» replicò ironico mentre usciva dalla stanza. Lo scambio di battute fu banale e forzato, ma qualcosa si doveva pur dire. L'atmosfera si stava facendo opprimente. Avrei voluto spalancare le finestre, ma non dovevano entrare le mosche. Feci tornare Herb nell'atrio. «Ferma chiunque voglia entrare, va bene? Finché non torna Borman.» Una volta rimasto solo, scattai alcune foto all'interno della camera da letto con entrambe le macchine fotografiche, girando in senso orario e accertandomi di scattare la stessa foto due volte. Quindi indietreggiai fin quasi all'entrata e feci altri tre scatti, per definire la scena del crimine. Ricaricai la macchina e mi avventurai nuovamente nel bagno. A causa dei turni da dodici ore, del fatto che avevo dormito poco e iniziato a lavorare prima del tempo e della sensazione di stordimento che di solito accompagna la raccolta di un numero elevato di prove e dati in un tempo ridotto, stavo cominciando ad accusare la stanchezza. Rimasi fermo per circa dieci secondi, respirando profondamente un paio di volte e cercando di liberare la mente, cosa che un tempo facevo fumando una sigaretta. Quindi tornai al lavoro. Feci quattro scatti dalla porta. Poi qualcuno al corpo della ragazza, muovendomi lungo la vasca. Ciascuno da un'angolazione differente, per offrire una visione completa senza dover spostare il cadavere. Cercai di fare il
maggior numero possibile di foto alle differenti tipologie di macchie di sangue. Quando giunsi a metà del lavoro, presi lo zoom dalla sacca che tenevo a tracolla. Stavo dando una prima occhiata approfondita al vasto taglio sul collo e volevo ottenere dei primi piani senza dovermi avvicinare troppo. Continuai a usare entrambe le macchine fotografiche anche se lo zoom della digitale non poteva competere con quello della reflex. Avevo visto molti tagli, ma quello era uno dei peggiori. Era lungo dieci centimetri e dava l'impressione di essere molto profondo, perché dalla ferita sembrava spuntare un fascio di muscoli. A volte succede, specie se si esercita una forte pressione nel momento in cui vengono recisi. Non c'erano dubbi sul fatto che fosse una ferita da coltello. Nella maggior parte dei casi di suicidio le vittime si infliggono la ferita compiendo un movimento tipo sega. Qui non era così, ma non c'era nemmeno una ferita da lacerazione come per il giovane Baumhagen. Anche se forse non voleva dire molto. C'era un punto scuro, visibile attraverso una macchia di sangue, sulla parte superiore del seno destro. Pensai a una ferita da arma da fuoco ravvicinata, ma poi vidi che era un tatuaggio. Mi sentii sollevato. Il taglio al collo era sufficiente. Le macchie all'interno della vasca davano la sensazione che fosse fuoriuscito molto più sangue di quello che si vedeva al momento. Poi mi venne in mente che lo scarico della vasca aperto poteva spiegare tutto, ma... qualcosa non quadrava. Mi inginocchiai e scattai qualche altra foto alla ferita. Per ottenere il maggior numero possibile di inquadrature, presi una penna dalla tasca e, allungandomi, spostai alcune ciocche di capelli della ragazza. Riuscii così a vederne il viso in modo piuttosto chiaro. Gli occhi. Grandi occhi color nocciola, spalancati, che mi fissavano. «Cazzo.» Mi rialzai e la molletta della penna le si impigliò nei capelli. Cercai di liberarla, ma persi l'equilibrio e vidi la penna cadere nella vasca. Ottimo. Quegli occhi sembravano... ancora vivi. Rimasi sorpreso. Non me li aspettavo così vivaci. Respirai profondamente e, con grande sforzo, mi abbassai di nuovo. Feci uno scatto alla penna caduta nella vasca, quindi la spinsi fuori dalla piccola pozza rossastra vicino allo scarico. Naturalmente era rotolata verso il fondo. Feci un secondo scatto, cercando di inquadrare la lieve depressione creata dalla penna nel sangue ormai secco. Solo allora riuscii a tirarla fuori. Spostai nuovamente di lato i capelli della ragazza e scattai ancora. Non la guardai negli occhi, ma pensai una cosa. Visto che la testa ciondolava in avanti, gli occhi avrebbero dovuto
essere rivolti verso l'alto. Poteva non significare nulla, ma ero assolutamente sicuro che fosse un dettaglio che non mi sarei più dimenticato. Scattai alcune foto anche al coltello. Era nuovo, da cucina, con una lama robusta e seghettata. Manico in policarbonato nero. Rivetti in ottone. Scossi la testa. Diavolo, anche il coltello era coerente all'arredamento della stanza. Continuai a fotografare, posizionandomi il più possibile sopra di lei. Notai che la ragazza aveva smalti di colori diversi sulle unghie delle mani e dei piedi. Nero sui pollici, rosso sugli indici, verde scuro sui medi, blu sugli anulari e bianco sui mignoli. Mi domandai se la cosa avesse qualche significato. Continuai a fotografare il resto del bagno fino a che non dovetti ricaricare la macchina. Dopo un po' cominciai a parlare con la ragazza. «Scusa, figliola, ma devo mettere un altro rullino. Ancora pochi scatti soltanto. Fra un secondo avrò finito e potremo lasciarti da sola finché non arriverà il dottore.» A volte capita. A me, per lo meno. Quando rimango solo con le persone appena morte. Credo si tratti di una questione di nervi, paura o qualcosa del genere. Mi sembra sempre di invadere la loro privacy, specie quando sono in una posizione così vulnerabile. Mi sento impacciato e imbarazzato. Sono costretto a osservare parti del loro corpo che se fossero in vita si guarderebbero bene dal mostrarmi. E, come se non bastasse, le fotografo. Così cerco di rassicurarle a parole. «Non ne sono sicuro, ma credo che tu abbia fatto tutto da sola. Non ci sono vestiti da indossare una volta uscita dalla vasca. Non c'è niente di pronto in camera da letto. Come se non avessi nessuna intenzione di uscire di lì.» Possibile. Non c'erano neanche segni di colluttazione. Solo quei lividi, che potevano essere precedenti alla morte. Anche la tenda di plastica sembrava intatta, visto che ricadeva ordinatamente all'interno del bordo della vasca. Era difficile immaginare che qualcuno fosse arrivato da dietro, l'avesse accoltellata al collo e lasciata morire dissanguata. In passato avevo visto un paio di suicidi compiuti in modo risoluto, compresa una donna che si era pugnalata undici volte all'addome con un coltello da caccia. Doveva esserci voluto un bel po' di coraggio. Ci si può fare molto male, se si è nello spirito giusto. E quei lividi? Forse aveva avuto una lite con il suo ragazzo qualche ora prima. Possibile anche questo. Tempo addietro Edith aveva ingerito delle pillole. Almeno una volta, mi
sembrava di ricordare, perché in quel periodo facevo il turno di notte e avevo dovuto occuparmi del caso. Erano passati alcuni anni. Non che questo provasse qualcosa, però un simile precedente significava che la ragazza aveva pensato al suicidio in almeno un'altra occasione. Ma perché questa volta aveva usato un coltello? Riuscivo a immaginare la discussione infinita che quell'argomento avrebbe generato la sera stessa in centrale. L'aveva gettato lei di lato? Sarebbe caduto con la lama in avanti, con la lama indietro, in su, in giù, più a sinistra più a destra... Avrei dovuto fare affidamento sul turno di notte per risolvere il caso in fretta. Udii una voce alle mie spalle, fuori dalla camera da letto. «Carl, sei lì?» Lamar. «Sì. È meglio che resti fuori un attimo...» Troppo tardi. Non feci in tempo a voltarmi che lo sceriffo era già sulla porta del bagno. Zoppicava più del solito, come gli succedeva quando era molto stanco. Non credete a chi dice che le ferite da arma da fuoco guariscono: continuano a farsi sentire anche dopo tanti anni. Si fermò, più per l'abitudine a non interferire sulla scena del delitto che per la sorpresa o lo shock. Avevamo entrambi vissuto molte volte situazioni del genere. Cercare di impedirgli la visuale o di farlo tornare in camera sarebbe stato come insultarlo. Così mi feci semplicemente da parte e lo lasciai guardare. Gli ci volle un minuto buono, poi si schiarì la voce. «Pensi che si tratti di suicidio?» «Non ne sono sicuro, Lamar.» «Però sembra molto probabile, no?» «Sì, hai ragione. Il medico legale non è ancora arrivato. Ho alcune domande da fargli su quei lividi.» Mi guardò dritto in volto per la prima volta. «So che lo sentiamo dire tutte le volte... ma lei non era il tipo, Carl.» «Ci aveva già provato.» «Prima che avesse la bambina» rispose. «Sua figlia era troppo importante per lei. Non l'avrebbe mai lasciata così.» Non dissi nulla. «La bambina è rimasta con mia sorella per la maggior parte del tempo» continuò Lamar. «Edie non sopporta questa situazione, e non sopporta neppure sua madre.» Fece una pausa e si corresse. «Non la sopportava. Comunque stava cercando di rimettersi in piedi, di riavere la bambina.
Non avrebbe mai mollato tutto così.» Alcune cose sono molto difficili da dire, soprattutto a un amico. A volte però devi farlo. «Può darsi, capo. Ma faremmo meglio ad aspettare l'esito del rapporto tossicologico.» «Sì, ma non credo che facesse più uso di droghe.» «Okay.» «Però hai ragione.» Osservammo entrambi Edie per alcuni istanti. «Hanno parlato del collo, vero?» «Sì, e questo preoccupa un po' anche me. Almeno per ora.» Non si avvicinò a guardare la ferita. «Cioè?» «Senza muoverla è difficile vederla bene, ma...» Mi guardò, inarcando le sopracciglia. Non volevo avanzare alcuna ipotesi azzardata, ma in fin dei conti Lamar era anche il mio capo. «Come sai le ferite autoinflitte tendono a essere fatte come se il soggetto stesse segando della legna. Avanti e indietro, con cambiamenti di angolazione e molti piccoli tagli e graffi nei punti in cui escono dalla traiettoria o si interrompono.» Annuì. «Invece questa sembra un'unica ferita, almeno per il momento. Di sicuro non ci sono segni di esitazione.» Mi strinsi nelle spalle. «È meglio cercare di non spingerci troppo in là con le ipotesi, ma a me sembra un ragionamento plausibile.» «Sul serio?» Lamar mi guardò come per invitarmi a proseguire. «Sì. E poi... ci sono quei lividi. D'altro canto, però, non ci sono segni di lotta nei pressi della vasca e neppure in camera da letto. Lo vedi anche tu. Non ci sono vestiti, né qualcosa da indossare... come se sapesse che non sarebbe più uscita dalla vasca.» Respirai profondamente. «Questa storia dei vestiti mi inquieta, Lamar. Devo ammetterlo.» Restammo in silenzio per un po'. «Hai bisogno di aiuto? Almeno per qualche tempo?» «Sì, credo di sì» risposi. Un altro poliziotto non guasta mai. C'è sempre qualcosa da fargli fare. «Borman andrà benissimo.» «Sicuro?» domandò Lamar. «Sta seguendo quel corso per assistenti sociali...» «Sì, va benissimo» dissi. «Ha bisogno di fare esperienza e ha già una certa familiarità con il caso.» «Allora è tuo. Ti ho detto che il dottore che farà le analisi è Zimmer?»
«Okay, molto bene.» Henry Zimmer era un dottore della zona che avrebbe fatto le veci del medico legale della contea, essendo più vicino al luogo del delitto. A quel punto non avevamo bisogno di un patologo legale, ma semplicemente di qualcuno che dichiarasse la morte di Edie. Noi non potevamo farlo e non era bello abbandonare una persona deceduta al pronto soccorso più vicino. «E la DCI?» chiese ancora Lamar. La DCI era la sezione per le indagini criminali dell'Iowa. Dal momento che si trattava di un'agenzia statale, se avessimo avuto bisogno di un patologo legale e avessimo richiesto uno dei loro agenti, sarebbe stato messo in conto a loro. Così come la squadra che si occupa delle indagini sul luogo del delitto. Ma anche lo stato era molto impegnato, così cercavamo sempre di evitare di chiamare la DCI se potevamo farne a meno. «Magari non ancora, Lamar» risposi. Guardandolo, però, mi resi conto che si trattava di un ordine e non di una domanda. «Anche se, in caso di omicidio...» «Non sopportano di essere chiamati in ritardo» terminò Lamar. Ci guardammo. «È sempre meglio essere sicuri» dissi. «Giusto.» Restammo assorti nei nostri pensieri per qualche istante. Poi gli diedi una pacca sulle spalle. Non l'avevo mai fatto, ma mi sembrava la cosa giusta in quel momento. «Chiamiamoli, allora.» Non volevo lasciarlo solo con il corpo della ragazza. Quando arrivammo a metà della camera da letto, mi disse: «Ascolta, Carl». Mi fermai e mi voltai. «Sì?» Pensavo che avesse trovato qualcosa. «Prendi Hester. Chiedi di lei, okay?» Fece una pausa, imbarazzato. «Voglio dire, lo so che Edie è morta... ma vorrei che fosse un'agente di sesso femminile a occuparsi di questo caso.» «Certo.» Dalla tasca posteriore dei pantaloni tirò fuori un giornale arrotolato e me lo diede. «Ti consiglio di leggere l'articolo che c'è qui, quando puoi.» «Okay.» «Sono contento che tu sia d'accordo per Hester.» Lamar si riferiva all'agente speciale Hester Gorse. Hester aveva collaborato spesso con il nostro dipartimento. Non c'era dubbio che fosse una del-
le migliori; inoltre lo sceriffo stava cercando di dirmi che non gli faceva piacere sapere che agenti di sesso maschile avrebbero ispezionato il corpo di Edie, o i suoi effetti personali. C'ero io, naturalmente, ma anche la semplice presenza di Hester bastava a tranquillizzarlo. Il problema era che la DCI non inviava quasi mai un agente su richiesta. Assegnavano gli incarichi a rotazione, in base alla disponibilità, ma cercavano anche di diversificare il tipo di crimini per ogni agente. Questa procedura aveva anche lo scopo di prevenire qualsiasi ipotesi di collusione tra il dipartimento locale che faceva la richiesta e i singoli agenti, dal momento che si sapeva che gli avvocati difensori erano soliti attaccarsi a qualsiasi cavillo. Avremmo dovuto aspettare e sperare che quelli della DCI ci dessero ascolto. Borman mi accompagnò al telefono del piano di sotto. Sottovoce, gli dissi di stare vicino a Lamar. Lui annuì. «A proposito, considerati assegnato al caso fino a ulteriore comunicazione. È un ordine dello sceriffo.» «Oh, grazie, Carl.» «Lascia perdere. Tu hai bisogno di fare esperienza e io ho bisogno d'aiuto.» Il primo agente della DCI con cui parlai all'ufficio distrettuale di Cedar Falls mi disse che forse Hester era a casa. Mi diede il numero di telefono del suo capo, Alan Hummel. Lamar e io conoscevamo Al da quasi vent'anni. Gli spiegai la situazione, fornendogli qualche dettaglio e soprattutto mettendo in evidenza il rapporto di Lamar con la ragazza morta e le condizioni in cui si trovava il corpo. «Santo cielo, Carl. Che disgrazia. E tu hai bisogno di un agente perché nutrite dei sospetti sul caso, vero?» «Sì.» Come se avessi potuto dire un'altra cosa... «Ma non hai detto che si tratta di un suicidio?» Be', era esattamente quello che avevo detto, dal momento che mi trovavo nell'atrio della grande casa e qualcuno avrebbe potuto sentirmi. «Questa linea non è sicura.» «Ho capito.» Si interruppe. «Senti, per quanto mi compete puoi prendere Hester. La faccio chiamare dalla radio statale. Se non è a casa, la chiameranno sul cercapersone. Dirò loro di chiamare il vostro ufficio.» «Grazie, Al.» «Carl, porgi a Lamar le mie condoglianze.» Quando riattaccai, vidi Toby, il giovane che avevo trovato seduto sui gradini fuori casa, in piedi dall'altra parte della stanza. Mi fissava.
«Spero che fosse una chiamata urbana» disse. «Scusa?» «Ho detto: "Spero che fosse una chiamata urbana"» ripeté. Ho sempre pensato che gli stronzi di quel genere vadano affrontati in modo diretto. «No, era un'interurbana» dissi sorridendo. «Mi spiace deluderti.» Sembrava volesse aggiungere qualcos'altro, ma sollevai una mano e composi il numero dell'ufficio dello sceriffo. «Senti, puoi mandarmi qualcun altro... magari due persone? Anzi, tre o quattro sarebbero l'ideale. C'è un sacco di gente qui intorno e ho di meglio da fare che stare qui a controllare il traffico.» L'operatrice disse che ci avrebbe provato. «Hester dovrebbe arrivare a breve» aggiunsi. Un modo per farle capire che di lì a poco avremmo potuto essere parecchio indaffarati. Riabbassai la cornetta e Toby riprese la nostra conversazione come se non avessi fatto la seconda chiamata. «Chi paga quella telefonata?» Sorrisi di nuovo. Cercava davvero di attirare l'attenzione. «Il telefono è intestato a te, Toby?» «No.» «A chi è intestato, allora? Lo sai?» L'ultima domanda lo sorprese un po'. Una svolta inattesa, proprio quando aveva pensato che si sarebbe arrivati a uno scontro. «Jessica Hunley.» Dal modo in cui lo disse, ebbi l'impressione di essere tenuto a sapere chi fosse la signora Hunley. Non lo sapevo, ma l'avrei scoperto. Avrei anche scoperto perché Toby si trovava lì, se il telefono non era suo. Ospite? Inquilino? Padrone? Comunque potevo aspettare. «Posso contare su di te per informare la signora Hunley che ho usato la carta di credito per telefonare?» «Be', sì. Sì. Lo farò.» «Molto bene» dissi, dirigendomi verso le scale. «Non allontanarti troppo, Toby. Sarò da te fra poco.» Salii un paio di gradini. «Ah, Toby... grazie.» «Per cosa?» «Perché riferirai alla signora Hunley il mio messaggio.» «Prego» rispose titubante, ma non ancora pronto a concedere alcunché. Buon per lui. Sapevo che avrebbe dovuto rilasciare una deposizione su quello che era successo. Sarò cinico, ma non è mai troppo presto per co-
minciare a lavorarmi un testimone. Mi fermai sul pianerottolo e diedi un'occhiata al giornale che Lamar mi aveva passato. Era una copia del «Freiberg Tribune and Dispatch» di quel giorno. Sulla prima pagina, in basso a sinistra, c'era un titolo: Dracula è arrivato a Freiberg? L'articolo parlava dell'episodio di cui ci eravamo occupati un paio di giorni prima. Non c'erano nomi, ma si parlava di una "giovane" che aveva descritto il guardone come "una persona dalle zanne enormi che era sospesa nello spazio fuori dalla mia finestra al secondo piano". L'articolo era essenzialmente ironico, ma il danno era fatto. Proprio quello che ci voleva per complicare un caso. Riuscivo quasi a sentire le parole di Harry. Mi infilai il giornale nella tasca posteriore e continuai a salire le scale. Avevo voglia di una sigaretta. Quando arrivai in cima, feci allontanare Borman. «Vai di sotto e siediti vicino a quel ragazzo di nome Toby. Non voglio che se ne vada in giro. Prendigli nome, cognome, indirizzo e tutto il resto e vedi se ha intenzione di fare una dichiarazione spontanea.» «Va bene.» «Non interrogarlo, però. Non ancora. Non fare domande specifiche su quello che è successo qui oggi. Solo sul passato di Edie e di Hanna» dissi, indicando la ragazza ancora seduta sulla panca in corridoio. Per la prima volta mi resi conto che indossava i pantaloni del pigiama e una felpa, con degli assurdi scarponi da lavoro slacciati. "Si è alzata di corsa" pensai. E non aveva avuto voglia di tornare in camera sua per vestirsi. «Okay» rispose Borman. «Sii risoluto, ma gentile.» «Sì, papà.» «Siamo certi del motivo per cui quel ragazzo si trova in questo posto? Ha detto di vivere qui. È vero?» Borman annuì. «Per quel che ne so è uno degli inquilini. Badano alla casa, a quanto pare. Me l'ha detto la dottoressa del pronto intervento che sta parlando con Hanna. Sono in sei, credo.» Ecco perché i locali chiamano la Villa il "Dormitorio degli sbandati". «Sei?» Più di quello che mi sarei aspettato. «E dove sono gli altri?» «Alcuni sono già andati a lavorare e poi c'è una ragazza che raccoglie foglie in giardino.» Santo cielo. «Puoi chiederle di entrare in casa? Fai attenzione pure a lei.
Quelle dannate foglie possono anche aspettare.» «Okay» disse Borman. «Falle compilare gli stessi moduli che darai a Toby. E scopri chi sono gli altri, d'accordo?» Mi passò accanto e lo fermai. «Un'altra cosa,» aggiunsi, abbassando la voce «sai chi è la signora Hunley?» «La padrona di casa» rispose Borman. «Vive a nord di Chicago, credo. Me l'ha detto la dottoressa.» «A nord di Chicago.» Si trattava di un'area piuttosto vasta. «Vedi un po' se riesci a scoprire il suo indirizzo esatto.» Quella casa sembrava un hotel! Sei inquilini? Be', la Villa era abbastanza grande per ospitarli tutti. Speravo solo che non ci fossimo lasciati sfuggire altri potenziali testimoni solo perché magari erano fuori a curare il giardino. 6 Sabato 7 ottobre 2000 9.24 Il dottor Henry Zimmer arrivò nel momento in cui ricevemmo una chiamata dall'ufficio che ci comunicava che l'agente speciale Hester Gorse era partita da casa e prevedeva di arrivare in quarantacinque minuti circa. Le cose cominciavano a muoversi, finalmente. Il dottor Zimmer era un uomo piuttosto grosso e un ottimo medico. Ai dottori di solito non piace svolgere il ruolo di medico legale, perché devono lasciare il loro studio, o lavorare nel loro giorno libero, oppure uscire nel cuore della notte. Ma il dottor Zimmer non si lamentava mai. Era sempre allegro, cordiale e molto bravo. Gli spiegammo di chi si trattava e dove fosse il corpo. «Lamar, mi dispiace molto» disse per prima cosa. «Grazie, dottore.» «Mi sembra ieri che ho fatto nascere la sua bambina.» «Già» commentò Lamar, poi, rivolgendosi a entrambi, aggiunse: «Non avete bisogno di me, quindi è meglio che vada da mia sorella». «Prima che lo venga a sapere da qualcun altro?» domandai. «No. È stata lei a dirmelo, stamattina. Per questo ho chiesto in centrale di mandare te.»
Detto da lui, era un gran complimento. Non gli piaceva che in giro si parlasse della famiglia di sua sorella. «Come l'ha presa?» chiesi per educazione. «Lei? Vuole denunciare la padrona di casa. È sempre la solita.» Quando entrò in bagno, il dottor Zimmer mormorò solo: «Oddio». Poi si infilò un paio di guanti in latice e cominciò a esaminare il corpo della ragazza, facendo bene attenzione a non spostarlo. Dopo qualche istante le sollevò la testa e si concentrò sulla ferita aperta. «È più una coltellata che un taglio» affermò, e aggiunse: «Il rigor mortis ha già cominciato a svilupparsi nel collo e nella mandibola». Il rigor mortis è una faccenda strana. Comincia quando il corpo raggiunge la temperatura dell'ambiente in cui si trova, da mezz'ora a un'ora dopo la morte. Prima si irrigidiscono i muscoli più piccoli, poi quelli più grandi. Dura circa dodici ore e termina nelle dodici successive. Stando così le cose, il rigor mortis al collo ci diceva che Edie era morta da più di mezz'ora. Dal momento che era passata un'ora da quando avevo osservato il corpo, non poteva dirsi una rivelazione, ma da qualche parte si doveva pur cominciare. Il dottor Zimmer si piegò e sollevò la mano sinistra di Edie. «Non è pronunciato nel gomito sinistro...» Questo era importante. Il fatto che i muscoli più grandi delle braccia non si fossero ancora irrigiditi suggeriva che probabilmente non era morta da più di quattro ore. Dopo qualche frequentazione dei tribunali ho imparato che "suggerire" era il verbo giusto. «Quindi ritiene che sia successo intorno alle cinque?» chiesi. «Diciamo tra le quattro e le sei.» Non alzò lo sguardo. «Le dita sono rigide, ma sembra che le gambe si possano ancora piegare... Ipotizzando che sia morta qui, più o meno con questa temperatura...» Erano tutte ipotesi ragionevoli, allo stato dei fatti. Aiutai il dottore a girare il corpo da una parte e dall'altra, poi lo spostammo leggermente in avanti, in modo che riuscisse a vederlo per intero. La lividezza, quelle chiazze violacee che si formano sulla pelle quando il sangue si deposita nelle parti più basse di un cadavere, era appena riscontrabile nel fondoschiena, sui gomiti e sulla parte posteriore delle gambe. I muscoli dei glutei sono importanti, essendo i più grandi del corpo. Sono gli ultimi a irrigidirsi completamente. «Non dovrebbe esserci una maggiore lividezza?» chiesi.
«Se ha perso una grande quantità di sangue, no» spiegò il dottor Zimmer. «E direi che questo è proprio il suo caso.» «Giusto.» Dunque la ragazza aveva continuato a perdere sangue finché il cuore non aveva cessato di battere. Il dottor Zimmer si alzò. «Sei sicuro che si tratti di suicidio?» chiese sottovoce. «I lividi mi lasciano qualche dubbio.» Mi strinsi nelle spalle. «Anche a me, ma non vedo alcun elemento concreto che mi indichi il contrario. A meno che i lividi non siano stati prodotti più o meno nello stesso momento in cui è morta.» «Sono i tipici lividi che mi aspetterei di trovare in una persona anziana» disse. «Violenza?» «È una possibilità, ma pensavo agli anziani a cui sono stati prescritti dei vasodilatatori. Sai, per ridurre la possibilità di infarto.» «C'è un contenitore per le pillole nella camera. Dacci un'occhiata.» «Bene. Suppongo che tu abbia già notato che la maggior parte del sangue sembra essersi asciugata per evaporazione e non per coagulazione.» «Sì.» «Complimenti» disse con un sorriso. «Anche il taglio al collo mi fa pensare.» Inclinò leggermente la testa, per osservare di nuovo la ferita. «Mi sentirei molto più tranquillo se fosse un esperto a esaminarlo.» «Va bene...» «Non mi convince, Carl. Non ci sono segni di esitazione, non c'è il classico movimento a sega: solo il buco e la trazione. È una ferita profonda. Molto profonda. Non mi sorprenderei se fosse arrivata non solo alla giugulare, ma anche alla carotide.» «Mi sembra ragionevole.» «Ma se così fosse, come mai non ci sono segni di spruzzi di sangue arterioso?» Infatti non ce n'erano. Una giugulare aperta avrebbe prodotto un fiotto a dir poco abbondante. E gli schizzi di sangue da una carotide recisa potevano arrivare a tre metri di distanza. Era necessario l'intervento dei tecnici della scientifica, prima di rimuovere il corpo? Certamente sì. Come si dice in questi casi, meglio eccedere in cautela. «Chiedo chi possono mandarci come patologo. Dovremmo aspettare l'arrivo dell'agente della DCI per chiamare anche quelli della scientifica.» «Ottimo» commentò Zimmer. «Hai fatto molte foto?»
Gli spiegai cosa avevo fotografato. Mi fece fare tanti altri scatti: mentre teneva la testa della vittima all'indietro e mentre muoveva le articolazioni per evidenziare il progresso del rigor mortis. Notai che dovette esercitare una maggiore pressione per muovere la testa all'insù e scoprire il taglio. Dopo che l'ebbe rilasciata, la testa impiegò alcuni secondi prima di tornare al suo posto. Spaventoso. «A meno che la scientifica non decida il contrario,» disse «per me si può portare via anche subito.» «D'accordo.» Avremmo chiamato l'impresa locale di pompe funebri in modo che la portassero alla loro sede, dove sarebbe stata eseguita l'autopsia. «Henry, prima di andare via penso sia meglio che tu senta il medico legale della Conception County.» «Alice? Va bene. Perché?» «Ieri è arrivato da loro un cadavere. Un ragazzo con una brutta ferita al collo. Ma non è stata la ferita a provocare la morte. Forse è stata inferta dopo il decesso. Non era identica a questa... ma era abbastanza simile da farmi sorgere qualche dubbio.» Ritornati in camera da letto, il dottor Zimmer esaminò le pillole. Ne indicò una piccola e verde con il numero 6 stampato sopra. «Coumadin da sei milligrammi» disse. «È un vasodilatatore molto potente. Richiede una terapia specifica; nello scomparto del mezzogiorno sono rimasti i dosaggi di domenica, lunedì e martedì. Il resto della settimana l'ha già consumato.» «A cosa serve? Per gli infarti?» «Si, e anche per alcuni trattamenti post attacco cardiaco. Farò un'ulteriore verifica, però non riesco proprio a immaginare il motivo per cui Edie potesse aver bisogno di queste pillole.» «Ma dal momento che le prendeva, significa che i lividi...» «Non ci vuole molto per causare un livido a chi prende il Coumadin» disse. «E dunque? Aiutami, dottore.» Feci una smorfia. «I lividi ci dicono poco. L'autopsia esaminerà i tessuti muscolari per vedere quanto sono profondi.» Niente può essere tutto bianco o tutto nero. «Di sicuro, però, spiegherebbe l'assenza di coaguli» concluse. Una volta finito, sentii il bisogno di prendermi una pausa. Magari con
una sigaretta. Niente ti fa venire voglia di riprendere a fumare più di un morto. Prima di lasciare la stanza incustodita dovevo apporre i sigilli. Per non compromettere le prove. Un compito semplice, visto che tutto quello che dovevo fare era piazzare del vinile gommato in ogni punto di accesso alle stanze. Lo applicai alle finestre, alla porta del bagno e a quella della camera da letto. Prima di andare via, aprii la porta di quello che pensavo fosse il ripostiglio della camera, giusto per assicurarmi che non fosse una scala. Infatti, era un armadio a muro. Notai parecchi vestiti che classificai come "formali". Di ottimo tessuto. Due, in particolare, attirarono la mia attenzione: uno di velluto verde e l'altro nero, adornato di perline. La prima ipotesi che mi venne in mente fu che Edie facesse la direttrice di sala in un ristorante di classe. Buona idea, se non fosse che non ce n'era uno nel raggio di centocinquanta chilometri. Una volta sigillate le stanze, andai a controllare come se la cavava Borman con i moduli da compilare. Mi tolsi i guanti in latice e li infilai in una busta per le prove, quindi scesi al piano di sotto. Avrei fatto meglio a restare in camera. Come arrivai in fondo alle scale, sentii Borman che diceva: «Completa questo modulo, amico, e vedi di non raccontarmi stronzate». Pareva sul punto di esplodere. Infilai la testa all'interno di un vero e proprio salottino d'epoca, di quelli da film in bianco e nero. «Problemi?» domandai. Parlarono in contemporanea. Toby non riteneva che Borman avesse il diritto di chiedergli di identificarsi. Borman non era d'accordo. Credo che gli animi si fossero accesi quando Toby gli aveva detto: «Hai mai sentito parlare della costituzione, sbirro?». Sospirai ed estrassi dalla tasca dei pantaloni distintivo e tesserino di identificazione. Lo aprii lentamente. «Toby Gottschalk,» dissi «sono Carl Houseman, vicesceriffo della Nation County. Dal momento che mi hai già detto chi sei, non c'è motivo per cui tu non debba fornire le tue generalità anche all'agente.» «Vuole sapere la mia data di nascita, il mio indirizzo e il mio secondo nome» ribatté Toby. «Non sono costretto a darglieli. La conosco anch'io la costituzione.» Il problema era, naturalmente, che avevano più o meno la stessa età. Con
i miei nobili trent'anni in più, pensai di poter avere un po' più di fortuna. Sorrisi. «Non ne dubito.» Rimisi il distintivo in tasca. «Ma devi capire, Toby, che abbiamo l'obbligo di trattare qualsiasi decesso come se fosse un omicidio, almeno fino a quando non saremo in grado di provare che si tratta di un suicidio o di un incidente. Ti è chiaro?» Se non altro ebbe il buon senso di far cenno di sì con la testa. «Bene. Ora, dal momento che la procedura ci costringe a ritenere che si tratti di un omicidio, abbiamo il diritto di chiederti di fornirci alcuni dati personali.» «Sono certo che sia così» disse Toby. «Non è per farvi incazzare, ma io ho il diritto di rifiutarmi.» «Sì» risposi. «È vero. In questo caso, però, per entrare in possesso di quelle informazioni potremmo essere costretti a fare delle cose che potrebbero non piacerti.» «Tipo?» Sembrava pienamente sicuro di sé. Toby cominciava a piacermi come potenziale testimone. Era coraggioso, piuttosto intelligente e tutt'altro che disposto a darti partita vinta. «Tipo,» dissi, avanzando di un passo con il sorriso sulle labbra «determinare la tua età tagliandoti una gamba e contando gli anelli, come si fa con gli alberi.» Sembrò leggermente sorpreso, ma finalmente cominciò a capire. «A dirla tutta, Toby,» continuai sorpassandolo e avvicinandomi alla finestra «dovremmo arrestarti in quanto testimone materiale. Dovremmo portarti in carcere e trattenerti fino a quando non archivieremo il caso escludendo che si tratti di omicidio, oppure finché non ci avrai fornito le poche informazioni che ci servono per poterti identificare.» Lo guardai da sopra le spalle. «Il cibo in prigione fa schifo, Toby. E ci sono solo tre canali televisivi.» «Direi che si può evitare» disse Toby, più per fare un dispetto a Borman che per darmi ragione. «E a proposito,» aggiunsi «sai chi è quella persona in giardino?» Guardai fuori. Venne alla finestra. «La ragazza che rastrella le foglie?» Nel giardino enorme e ben tenuto c'era soltanto una persona. Feci cenno di sì con la testa. Era difficile stabilire se si trattasse di un maschio o di una femmina, dal momento che indossava una tuta da ginnastica con pantaloni azzurri, felpa scura a maniche lunghe con cappuccio blu, guanti da lavoro gialli, scarpe da tennis rosse e cappellino da baseball viola.
Un vero cocktail di colori. «È Melissa Corey» rispose. «Io la chiamo la "Donna della sfortuna".» Fissai il suo sguardo risoluto. «Davvero? Perché?» «È la più depressa di tutti quelli che stanno qui. Una di quelle persone profondamente convinte che la vita faccia schifo. Ha presente il tipo?» Mi misi a ridere. Non riuscii a trattenermi. «Sì, ho capito cosa vuoi dire.» Mi voltai verso Borman. «Non sei riuscito a farla entrare?» Evidentemente non ci aveva neanche provato, distratto dalla piccola lite con Toby. In altre circostanze, la laboriosa Donna della sfortuna avrebbe potuto farla franca con grande facilità. Il tono della mia voce comunicò quel timore e qualcosa di più. «Stavo giusto per...» Lo interruppi prima che potesse dare al ragazzo la soddisfazione di averlo distratto. «Le parlo io. Tu intanto perché non finisci con Toby?» Oltretutto, quel giardino sembrava molto bello. E lo era. Uscii dall'ingresso principale e girai intorno alla facciata sud della casa, alla mia sinistra. La maggior parte delle foglie cadute sul prato erano di un giallo intenso. L'albero più grande si trovava al centro di un prato largo almeno trenta metri che formava un rettangolo verde intorno alla casa. Il rastrello di Melissa emetteva un fruscio regolare mentre la ragazza accumulava le foglie con metodo, formando una serie di pile gialle sparse per tutto il giardino che testimoniavano lo stato di avanzamento del lavoro. La luce del sole filtrava attraverso le foglie, riflettendosi sui mulinelli di polvere che la ragazza sollevava. «Sei tu Melissa?» chiesi mentre mi avvicinavo. Mi guardò, senza smettere di rastrellare. Aveva un viso pallido, grandi occhi scuri, capelli rosso-violacei che le spuntavano dal cappellino da baseball e un piccolo piercing a forma di cubo sul sopracciglio sinistro. «E lei sarebbe?» Una voce mite. «Vicesceriffo Houseman.» Smise di rastrellare ed esaminò distintivo e tesserino. Alzò lo sguardo. Notai che aveva gli occhi cerchiati di rosso, anche se non riuscii a stabilire se fosse a causa del pianto o della polvere. «Allora?» Cercava di sembrare indifferente, ma il suo tono tradiva esitazione. Dimostrava ventitré o ventiquattro anni. Non ricordavo di averla mai vista. «Cosa mi puoi dire a proposito di quello che è accaduto a Edie?» «Ho sentito che è morta.» Riprese a rastrellare.
«Hai sentito bene.» «Be', succede a tutti prima o poi, no?» Parlava quasi sussurrando e il mio udito cominciava a indebolirsi per l'età. Aggiungendo il rumore del rastrello e quello delle foglie... «Scusa? Non ho capito.» «Succede a tutti» ripeté alzando la voce. Aumentando il volume pronunciava le parole in modo più secco. Intravidi una piccola pallina di metallo blu sulla lingua. Riprese a rastrellare più in fretta, sollevando più polvere e facendo volare le foglie. «Be',» dissi «è vero: tutti dobbiamo morire, ma la maggior parte di noi non muore dissanguata.» Sbatté il rastrello sull'erba. «Cazzo!» Respirò profondamente e mi guardò di nuovo. «Proprio così.» «E cosa vuole che le dica?» Sembrava che volesse colpirmi con il rastrello da un momento all'altro. «Potresti dirmi quello che sai.» «Vuole che le dica che era una mia amica? Va bene, era una mia amica. Ma non significa un cazzo.» Il tono della sua voce era pacato, ma cominciò a piangere. «Non significa proprio un cazzo di niente» e si voltò di schiena, con le spalle che le tremavano leggermente. Odiavo quelle situazioni. Le concessi alcuni secondi. Mi sarebbe piaciuto avere un fazzoletto da offrirle, invece le dissi solo: «Ti dispiace venire in casa un momento? Devo farti alcune domande di routine». Respirò ancora profondamente, si asciugò gli occhi e il naso con la manica della felpa e si raddrizzò. Doveva essere alta poco più di un metro e mezzo, visto che non mi arrivava neppure alle spalle. Restammo entrambi in silenzio per qualche istante e pensai che non sapesse cosa dire, come me d'altra parte. Alla fine, sillabò: «Va bene». Camminammo verso la casa insieme e vidi Toby che ci guardava dalla finestra del salotto. «Vivi qui?» le chiesi, più che altro per interrompere quel prolungato silenzio. «Sì. Se si può dire così.» «Gran bella casa» notai. «Quanto si paga di affitto?»
«Niente» rispose con lo stesso tono di voce. «Siamo servi della gleba. Dobbiamo solo prenderci cura del posto.» Servi della gleba? Avevamo raggiunto gli scalini dell'ingresso principale. «È da tanto che non si usa più questa espressione» commentai, cercando di sdrammatizzare un po' la situazione. «Almeno da quando hanno inventato i sindacati.» Melissa non disse una parola. 7 Sabato 7 ottobre 2000 11.18 Quando l'agente speciale Hester Gorse arrivò alla Villa, Borman e io avevamo concluso i colloqui preliminari con Toby e Melissa. Dalle dichiarazioni di entrambi era emerso che i due ragazzi vivevano nella stessa casa e che quando era stato trovato il corpo di Edie stavano dormendo. E che, no, non sembrava più depressa o demoralizzata del solito. Venimmo anche a sapere che Toby lavorava nella filiale locale della Maitland State Bank, mentre Melissa lavorava alla biblioteca pubblica di Freiberg. Ero un po' sorpreso di scoprire che Toby lavorava in banca con quell'enorme piercing al naso, e glielo dissi. «Me lo tolgo» rispose. «Come si fa con gli orecchini.» Anche Hanna Prien, benché non si fosse ancora ripresa del tutto, aveva parlato con noi e in generale ci aveva fornito lo stesso tipo di informazioni di Toby e Melissa. Solo che era stata lei a trovare il corpo di Edie quando era entrata in camera sua per svegliarla, visto che dovevano andare entrambe a lavorare a Freiberg: Hanna nel supermercato locale, Edie presso il Wilson's Antique Mall. La ragazza raccontò di aver infilato la testa in bagno dopo averla chiamata un paio di volte, di aver fissato l'immagine per qualche secondo cercando di capire l'accaduto e di essere rimasta scioccata. Comprensibile. C'erano altri due inquilini nella Villa: Kevin Stemmer e Holly Finn. Holly, secondo Hanna, aveva la sfortuna di essere soprannominata "Huck". Quel nome fece suonare un campanello nella mia mente: non l'avevo mai fermata, ma era in zona quando ne avevo pizzicati altri. Era difficile scordare quel nomignolo. Kevin non lo ricordavo, ma ero sicuro che se l'avessi visto l'avrei riconosciuto.
Secondo Hanna, Kevin e Huck erano usciti di casa prima che lei scoprisse il cadavere. Lavoravano come croupier al General Beauregard e facevano il turno dalle sei del mattino alle quattordici. Toby li aveva avvertiti per telefono prima che io arrivassi. Sarebbero tornati a fine turno. «Sì, li ho chiamati subito.» Toby era uno di quelli che adorano interrompere le conversazioni altrui. «Ho parlato solo con Huck, lei l'avrà detto a Kevin.» Ottimo. «Toby ha detto che erano sconvolti» aggiunse Hanna, come se volesse giustificarli per non essere rientrati immediatamente alla Villa. «Oh, sì. Almeno, Huck lo era» ribadì Toby. «Non ho parlato con Kevin.» Chiesi se la proprietaria fosse in casa e ricevetti uno sguardo piuttosto sorpreso da tutti e tre. Jessica Hunley, mi spiegarono, viveva a Lake Geneva, nel Wisconsin. Era molto ricca, gestiva una scuola di ballo a Chicago e tornava a casa solo tre o quattro volte all'anno. Non sono un esperto, ma credo che le espressioni "molto ricca" e "gestisce una scuola di ballo" non vadano molto d'accordo. Bisognava approfondire. Stavamo lasciando andare i dottori del pronto intervento e Toby chiese perché non stessero portando via il corpo della ragazza. Glielo spiegai senza giri di parole. Melissa voleva sapere quando l'avremmo fatto. Le dissi che dipendeva dal tempo che ci sarebbe voluto per esaminare il luogo del delitto, ma che non avremmo impiegato molto. Essendo sabato e trattandosi di una chiamata urgente, Hester Gorse era vestita in modo più informale del solito: blue jeans, scarpe da tennis, pullover a collo alto grigio e giacca impermeabile blu che nascondeva la pistola. Stando alla finestra, la vidi salire le scale e feci appena in tempo a raggiungere la porta per salutarla. «Ciao Hester. Pensavo che saresti arrivata prima.» «Non è stato facile trovare questo posto. Devo essermi persa il viale la prima volta che ci sono passata davanti.» E, una volta giunti nell'atrio, aggiunse: «Allora, Carl, di cosa si tratta?». Le spiegai tutto in un paio di minuti. Dissi che poteva trattarsi di omicidio, ma che sembrava un suicidio. «Quale pista pensi di seguire?» Mi strinsi nelle spalle. «C'è qualcosa che non va. Mancano i vestiti e la ferita... difficile che se la sia autoinflitta, ma Dio solo lo sa.» Le raccontai
quello che aveva detto il dottor Zimmer a proposito degli spruzzi di sangue arterioso, dei lividi e del Coumadin. «Ma non sappiamo ancora se la ferita ha causato un danno grave all'arteria, giusto?» «Esatto.» Sorrise. Sembrava stanca. Probabilmente sperava di poter approfittare del fine settimana per riposare. «Allora, mi basta firmare per il patologo e la scientifica, oppure oggi mi tocca lavorare?» «Mi hai letto nel pensiero» dissi, restituendole il sorriso. «Mi sa che dovrai lavorare.» Le raccontai del corpo ritrovato nel Wisconsin. Andammo nel salottino e la presentai agli altri. Lasciammo Borman al piano inferiore a controllare la situazione e io accompagnai Hester da Edie. Più tardi confrontammo gli appunti, Hester seduta davanti allo specchio della toilette in camera da letto e io appoggiato alla porta del bagno, da dove potevo dare un'occhiata al corridoio. «Hai un'altra penna nella borsa della macchina fotografica?» «Certo. Nella tasca destra.» «Voglio che venga subito la scientifica» disse Hester, frugando nella borsa. «Non so di cosa si tratti, ma non possiamo aspettare che vengano a esaminare la scena dopo l'autopsia.» La scientifica arrivava da Des Moines, a più di quattro ore da noi. «Sono d'accordo» risposi un po' a fatica. La terza visita alla vasca da bagno era stata difficile. «Cosa ne pensi? Adesso possiamo tirare fuori il corpo? Vorrei portarla via il prima possibile.» «Non c'è problema. Non credo che la vittima abbia più molto da dirci, almeno finché non verrà fatta l'autopsia.» «Bene.» Trovò la penna ed esaminò la borsa distrattamente. «Qui dentro hai praticamente di tutto, Houseman. Guanti, buste, etichette, rullini, pile, penne, forbici, pinzette...» Aprì la tasca esterna. «After Eight? Sono After Eight?» «Beccato. Ne vuoi uno?» Hester mangiò un cioccolatino alla menta in due rapidi morsi, dopodiché cercò un punto del mobile dove appoggiare il blocchetto degli appunti. «Che sciccheria.» «Scusa?» «I trucchi» disse. «I colori di rossetto sono interessanti: catrame, bordeaux, granata, sangue pulsante...»
«Oh.» «Fondotinta porcellana. E glitter per le palpebre. Piccoli ologrammi adesivi. Roba chic.» «Ti credo sulla parola, Hester.» «Davvero. Non sono certo i tipici trucchi da mamma. E neanche i colori più di moda da queste parti.» Mi lanciò uno sguardo compiaciuto. «Una specie di ribelle gentile, questa Edie. Guarda bene. Ordinata. Elegante. Teneva molto al suo aspetto.» «In effetti ho notato l'eleganza quasi subito» commentai. «Mi fa sempre sentire fuori posto. A proposito di trucco, hai visto le unghie? Quella roba multicolore significa qualcosa?» «Forse no. Un capriccio, direi.» «Un capriccio. Come quei vestiti?» «Intendi i broccati, i pizzi, i velluti e le sete appese laggiù?» Indicò la cabina armadio. «Sì.» Hester sorrise. «Penso che le piacesse essere donna.» «Oh.» Mangiò un altro cioccolatino, poi tirò fuori dalla tasca il walkie-talkie e si sintonizzò sul canale del ripetitore mobile. Per fortuna si sentiva benissimo. Si servì di un canale sicuro che sfruttava i ripetitori della radio di stato e quelli della Cedar Falls State Radio e che le consentiva di parlare con la scientifica senza venire intercettata. Dal momento che il mio dipartimento non aveva mai ricevuto i finanziamenti governativi per sfruttare queste tecnologie, tornai al piano di sotto e vidi Borman in piedi, all'entrata del salotto. Gli dissi di utilizzare il telefono di casa per chiamare l'ufficio e far arrivare la macchina delle pompe funebri. Tornai nella stanza di Edie, ma non vidi Hester. Guardai in bagno: stava controllando il contenuto del mobiletto. «Trovato qualcosa?» Si voltò. «No, ed è proprio questo il problema» disse lentamente. «Lo shampoo non è aperto e non c'è un sapone, né un rasoio: solo qualche lametta.» «Già. Strano, vero?» «Proprio così, Carl. Che fine ha fatto la roba che si tiene normalmente in un bagno?» Venne verso la porta e feci un passo indietro per lasciarla passare. «È
difficile ipotizzare che qualcuno le abbia tagliato la gola per impossessarsi di una saponetta usata e di mezza bottiglietta di shampoo...» «Un souvenir?» buttai lì. «Può darsi.» Scosse la testa. «Procediamo con ordine, però. Voglio sapere da dove arriva il coltello.» «Dalla cucina?» «Scommetto di sì. Non saremo così fortunati da scoprire che proviene da qualche altro posto.» «Al momento,» commentai «se dovessi mettere questo caso su una bilancia, solo un quarto del peso sarebbe sul piatto del suicidio.» Hester sospirò, mentre si sfilava i guanti in latice. «Forse qualcosa in meno. Dovremo attendere i risultati dell'autopsia.» Tornammo in camera da letto. «Allora,» disse Hester «cosa mi dici dei ragazzi che vivono qui?» Le spiegai che erano tutti del luogo, o dei dintorni. Un po' più strani della media, ma rispettabili. Quelli che conoscevo erano ragazzi intelligenti. Non avevano mai dato problemi, cosa che per un poliziotto significa molto. «Alcuni, per esempio la tipa che chiamano Huck, mi hanno colpito perché sono di quelli che vorrebbero veramente cambiare le cose. E chissà che prima o poi non ci riescano davvero...» considerai. «Hai presente alle feste, quando alcune persone sanno che se partecipano a una certa conversazione potrebbe nascere una brutta discussione, perciò si siedono su una poltrona, sono gentili, chiacchierano del più e del meno e prendono le cose come vengono?» «Come facevano gli hippy?» «Più o meno,» dissi «ma mi ricordano più i beat.» «Arrabbiati? Intellettualmente ribelli? Cinici? Depressi?» «Esatto. Tutto quello che hai detto. A causa della vita in generale.» Hester sorrise. «Sei sicuro che non si tratti di un gruppo di poliziotti in pensione?» A bordo del carro funebre c'erano due inservienti. Uno aveva circa settant'anni, l'altro era un ometto sui trenta, Ne dedussi che Borman, Hester e io avremmo dovuto rimetterci i guanti per aiutarli a sollevare il corpo di Edie dalla vasca. Un'operazione delicata. Portammo la barella in acciaio su per le scale: l'angolazione della scala al primo pianerottolo ci avrebbe complicato il ritorno.
Una volta in bagno, la sistemammo vicino alla vasca cercando di non ritrovarcela tra i piedi. Impossibile. Dovevamo tenere sollevata Edie all'altezza del petto mentre lasciavamo scivolare la barella sotto al suo corpo. Entrambi gli inservienti fissarono il corpo, ma nessuno dei due parlò. A quel punto il rigor mortis aveva raggiunto l'apice. Borman era schiacciato tra la vasca e il muro più lontano e io e lui incrociammo le mani sotto le ginocchia della ragazza e alla base della schiena. Hester reggeva i piedi, mentre l'inserviente più giovane cercava di far passare le mani sotto le ascelle. Non ci riuscì, il corpo si era irrigidito troppo. Così fu costretto a prenderla per il gomito sinistro e la testa. «Al tre...» disse Hester. «Uno, due e tre.» Cominciammo a tirarla su: Edie era ormai irrigidita nella posizione seduta e, per di più, sembrava incollata al fondo della vasca. La pelle fredda si era appiattita nei punti di contatto con la vasca. Quando finalmente riuscimmo a sollevarla, notai che all'interno del seno aveva un avvallamento nel punto in cui era stato premuto contro il braccio e il bordo della vasca. Stranamente sembrava che si fosse accumulato del sangue sotto le natiche ed era per quel motivo che ci era sembrata incollata alla vasca. Il sangue non avrebbe dovuto essere lì, se fosse stata davvero ferita a morte lì dentro la vasca. Colsi lo sguardo di Hester, che mi restituì un cenno di assenso impercettibile. Particolari di quel tipo non dovevano essere discussi davanti a personale non investigativo. Mentre sistemavamo Edie sulla barella, notammo che il coltello era appiccicato alla gamba destra a causa del sangue rappreso. Rappreso, ma non ancora coagulato. Scattammo delle fotografie, prendemmo altri appunti, quindi Hester lo staccò con cautela e io presi una busta di carta dalla borsa per infilarcelo. Feci tre foto della parete interna della vasca. I segni del sangue nel punto in cui poggiava il fondoschiena erano evidenti. C'era persino la forma di una grinza provocata dalla carne appiattita. Da viva, Edie non poteva pesare più di sessanta chili e avendo perso tutto quel sangue, doveva essere scesa a cinquanta, se non meno. Le zone sbiancate e appiattite del fondoschiena, prodotte dal suo stesso peso che l'aveva schiacciata sul fondo della vasca, erano evidenti. La bocca, che era rimasta aperta mentre Edie si trovava seduta, adesso sembrava pronta a tossire. I suoi occhi avevano perso quell'espressione viva che mi aveva sorpreso in precedenza. Doveva essere stata la luce e comunque era un sollievo che non ci fosse più.
Ora potevo dare un'occhiata più accurata alla ferita sul collo. La parola "profonda" non rendeva appieno l'idea. Ma si trattava certamente di un taglio. I bordi regolari, uniformi. Scattai parecchie altre fotografie prima che venisse coperta. Mentre Borman e i due inservienti manovravano la barella per fare uscire Edie dalla stanza, Hester e io scambiammo alcune battute volanti che sarebbero risultate incomprensibili a chiunque non avesse notato, come noi, la presenza di sangue dove non avrebbe dovuto essercene. «L'hai visto anche tu?» chiesi. «Sì.» «Decisivo?» «Probabile. Molto probabile. Ma forse no.» «Davvero?» A me sembrava di sì. «Potrebbe aver alzato il bacino per un riflesso istintivo.» «Ah.» Be', certo... se non fosse che... «Non ci sono schizzi, però.» Il sangue avrebbe dovuto sgorgare con molta più forza, per raccogliersi sul fondo della vasca quando la vittima si era mossa. Un fiotto del genere avrebbe lasciato tracce non solo nella vasca, ma anche sul pavimento e persino sui muri, tanto più che il coltello era stato estratto dalla ferita. «È vero.» Fece una smorfia. «Inutile, ci mancano dei dati.» «Pensi che il coltello sarebbe potuto scivolare via? Io direi piuttosto che qualcuno avrebbe dovuto tirarlo fuori. Non ti pare?» «Sono d'accordo. Altrimenti sarebbe rimasto all'interno.» In corridoio chiudemmo la sacca mortuaria, la coprimmo con due lenzuola blu e la assicurammo alla barella con tutte e tre le cinture. Fummo costretti a sollevare la barella all'altezza delle spalle per superare il parapetto al primo pianerottolo, ma da lì in poi fu un gioco da ragazzi. Quando ci avvicinammo al salotto i tre inquilini la videro. Ci seguirono fino al carro funebre e ci guardarono mentre la caricavamo. «Ricordatevi,» disse Hester ai due dipendenti delle pompe funebri «che sarà eseguita un'autopsia. Il corpo non potrà essere imbalsamato in nessun caso finché non lo comunicheremo noi. Presto arriverà un anatomopatologo.» Alcuni anni prima era successo che la vittima di un omicidio fosse stata imbalsamata prima. Da allora dovevamo essere sempre molto chiari. «Sì, signora» disse il più anziano degli inservienti. Era fortunato. Hester non sopportava che la si chiamasse in quel modo e, se l'avesse fatto il giovane, molto probabilmente sarebbe sceso dalla collina nel baule posteriore
del carro funebre insieme a Edie. Quando la vettura se ne andò e ci voltammo nuovamente verso la casa, avvertii di nuovo il bisogno di una sigaretta. Alzai lo sguardo verso il porticato. I tre inquilini sembravano realmente abbattuti. Fu Toby a parlare. Cominciavo a pensare che lo ritenesse quasi un obbligo. Fumava di nuovo. «Perché c'è bisogno di un'autopsia? Non è abbastanza chiaro il motivo della morte?» Rispose Hester, mentre io cercavo di fumare la sigaretta di Toby, almeno virtualmente. «C'è differenza tra "abbastanza chiaro" e "certo"» disse. «Perché rientrate in Villa? Non avete finito?» Toby faceva le tipiche domande del ragazzino che a scuola sta sempre con la mano alzata. Domande che servivano solo ad attirare l'attenzione su di sé. «Prova a rifare la domanda tra cinque o dieci ore» ribattei. «Nel frattempo, non possiamo lasciare la scena incustodita.» «Oh. Ma perché...» Hester lo interruppe. «Hai già finito di compilare la dichiarazione scritta?» «Certo.» «Allora saresti così gentile da mostrarmi dove si trovano le camere da letto degli altri?» Toby, essendo una di quelle persone che vogliono in ogni modo rendersi utili, si buttò a capofitto nel nuovo incarico. «E la cucina» aggiunse Hester, mentre si avviavano verso le scale. Io mi sedetti con Melissa e Hanna per iniziare una chiacchierata su Edie che sarebbe durata quasi un'ora, interessante quanto inutile. Sfortunatamente fumavano entrambe. Melissa e Hanna sembravano molto più sicure di sé rispetto a un'ora prima. Un buon segno. Pensai che dipendesse dall'aver visto Edie andare via: è sempre un sollievo quando un cadavere viene rimosso da una casa. Andammo nel salottino. Hanna ci offrì del caffè, che io accettai. Quando mi sedetti sulla poltrona, sentii un impedimento sul fianco: la copia del «Freiberg Tribune and Dispatch». La tirai fuori e la appoggiai sul tavolino di fronte a me. Melissa la prese. «Le dispiace? È di oggi?» «Sì. Fai pure.» Mentre chiacchieravamo, sfogliò il giornale interessata.
Nessuna delle due fu in grado di dare qualche dettaglio ulteriore sul carattere di Edie e alla fine non ne sapevo molto più di quello che mi aveva già detto Lamar. Edie aveva una figlia, di circa tre anni, che viveva con la nonna. Non andava d'accordo con la madre e, secondo Melissa e Hanna, ne aveva tutte le ragioni. Viveva nella casa da più tempo di tutti ed era la persona con cui parlava la proprietaria, in caso di bisogno. Secondo Melissa, Edie non era una persona speciale, ma di sicuro affidabile, si poteva contare su di lei. Nelle ultime settimane Edie non era sembrata particolarmente depressa e il suo umore non era stato diverso dal solito. Entrambe affermarono di non avere idea del perché Edie avrebbe dovuto togliersi la vita, sebbene avesse certamente molte ragioni per sentirsi demoralizzata. Hanna volle condividere con noi il fatto che una volta, in passato, anche lei aveva tentato il suicidio, con una dose di fenobarbiturici della sorella appena insufficiente a raggiungere lo scopo. Le mie domande sullo stato emotivo di Edie avevano dunque dato origine a pensieri orientati al suicidio. Sembravano sincere nel loro tentativo di aiutarmi e quasi dispiaciute per il fatto di non aver notato alcun "stimolo al suicidio", come l'avevano definito. Pensai che fosse quantomeno insolito che entrambe fossero così informate in materia, e lo feci loro notare. «Abbiamo letto qualcosa in proposito,» spiegò Melissa «perché a volte alcuni nostri amici sono stati molto depressi. Eravamo preoccupate per loro.» «Edie non apparteneva a quella categoria?» chiesi. «No. Voglio dire, c'è depressione e depressione» continuò la ragazza. «Qualcosa che non va per il verso giusto può deprimerti, ma il problema si può superare. Essere lasciati da un fidanzato, la morte dei nonni, cose così. Ma i motivi che ti spingono a farla finita, sono più profondi e durano molto più a lungo. Ti opprimono e sono sempre in agguato.» «Capisco.» «Mi spiace, credo di non essermi spiegata molto bene» disse Melissa, guardando Hanna che le venne in aiuto: «Si alimenta da solo. Ti controlla. L'istinto suicida, intendo». «Edie ha mai mostrato alcun segno di questo istinto?» No, anzi, secondo loro Edie sembrava avere il pieno controllo della propria vita. Erano dispiaciute di non aver fatto qualcosa di più per lei. Senza saperlo, in realtà, avevano aggiunto un altro peso sul piatto dell'omicidio.
«Allora,» feci io «diciamo, per pura ipotesi, che non si tratti di suicidio. Conoscete qualcuno che possa essere definito come un suo nemico? Che avrebbe voluto uccidere Edie?» Assolutamente no. Erano entrambe in completo accordo su quel punto. Non mi diedi per vinto. «Qualcuno la minacciava? Le dava fastidio? La tormentava?» «A parte sua madre, intende?» chiese Melissa. «Ma perché? Pensa davvero che non si sia suicidata?» Mi strinsi nelle spalle. «Dobbiamo considerare ogni decesso senza spiegazione come un caso di omicidio, finché non siamo certi che non lo sia.» «Capisco» disse Melissa. «Dunque,» continuai «ora vi prego di non fraintendermi, ma sapete se Edie assumeva qualche droga, beveva, o prendeva qualcosa, anche dietro prescrizione medica, che potesse influire sul suo stato d'animo?» «Sono affari suoi?» chiese Melissa. «Ora non mi fraintenda lei, la prego.» «Domanda lecita» dissi. «La risposta è che forse fino a ieri non lo erano, ma adesso che è morta e che io mi occupo della sua morte lo sono diventati.» «Farete delle analisi del sangue, no? Non lo capirete da quello?» «Certo. Ma i risultati saranno pronti solo tra qualche giorno e ci daranno solo informazioni chimiche, non il nome delle sostanze. Potrebbero dirci che si tratta di acetaminofene, ma non la marca. Per cui ci sarebbe di grande aiuto sapere se prendeva del Tylenol per il mal di testa, per esempio.» Stavo pensando a una sostanza conosciuta. Un esame del sangue completo costa una fortuna e i risultati si hanno dopo un'eternità. È necessario fornire qualche parametro. «Oh, certo» si intromise Hanna. «Be', so che di tanto in tanto beveva una birra, forse anche del vino. Non è droga, vero?» Guardò Melissa. Era difficile non mettersi a ridere. «Fumava i beedies» disse Melissa in fretta. «Tutto qui.» «Ho capito» risposi, prendendo nota. «Sa veramente cosa sono?» Melissa non intendeva offendermi, era soltanto una ventenne sincera che parlava con un cinquantenne. Probabilmente, le uniche altre persone della mia età che conosceva erano i suoi genitori o i suoi zii. Sorrisi. «Uno dei tuoi genitori fa il poliziotto?» «Cosa?»
«Sono convinto che i tuoi parenti e io abbiamo... come si può dire? Esperienze di vita differenti...» «Mio padre è un ministro di culto e mia madre m'insegnante di musica e...» S'interruppe, cominciava a capire. Un sorriso cominciò a prendere forma sulle sue labbra. «Quello che conta,» continuai «è sapere se in questa casa, anche occasionalmente, Edie assumeva della droga. Se nei suoi fluidi ne troviamo una concentrazione abbondante e lei l'ha presa qui è un conto, e ben diverso è se l'ha presa altrove.» Entrambe le ragazze distolsero lo sguardo. Immaginai dipendesse dal fatto che, con ogni probabilità, in casa c'era della droga. Il telefono nel corridoio squillò e Hanna andò a rispondere. Era per me. Mentre lasciavo la stanza, udii le ragazze bisbigliare. Pensai subito che stessero parlando di droga. «Houseman.» Era Sally, dall'ufficio. «Qui c'è un uomo che voleva parlare con Lamar, ma il capo ha detto di farlo parlare con te perché ha alcune cose da sbrigare in famiglia.» «Certo, va bene.» Magnifico. Non è che non lo capissi, ma non avevo bisogno di distrazioni. A Lamar piaceva delegare. «L'uomo si chiama William Chester, di Milwaukee.» Pensai al patologo contattato da Harry per la morte di Randy Baumhagen, il ragazzo di Alicia Meyer. «Cosa fa? Cosa vuole?» «Non saprei. Però sembra una persona per bene. Sui quarant'anni, ben portati. Begli occhi. Asciutto. Ha ancora tutti i capelli...» «Non è esattamente quello che volevo sapere.» Rise. «Non so. Non è un avvocato, questo è certo. L'ho chiesto a Lamar, perché sapevo che ti saresti incazzato, scusa l'espressione, se te ne avessimo mandato uno.» «Perché, l'hai mandato qui?» «A Freiberg. Troverà Byng o qualcun altro e si metterà in contatto con te più tardi. Non alla Villa, però.» «Okay.» Mi sentii sollevato. «Nient'altro?» «No. Lamar ha detto solo di fartelo sapere. È da sua sorella, credo.» «Sì.» «Oh, e... indovina?» Ero troppo stanco per giocare. «Dimmelo tu.»
«Questa sera mi hanno assegnata al turno di notte. Forte, vero?» Risi tra me. «Sì, forte. Ricordati di portare qualche biscotto.» In quell'istante fecero ritorno Hester e Toby. Hester reggeva un blocco di fogli per appunti e stava apportando gli ultimi ritocchi a una piantina del secondo piano. Dal suo disegno, la camera di Edie era la prima in cima alle scale, sulla destra, nell'angolo a nord-est. Poi, sullo stesso lato del corridoio, c'erano quelle di Toby e di Hanna. Di fronte alla camera di Edie c'era quella di Melissa, nell'angolo a sud-est, quindi quella di Holly e infine quella di Kevin. «Sono più o meno tutte grandi uguali» spiegò Hester. «In pratica, dodici metri per sei, con una parete per il bagno privato a circa tre metri dalla fine della stanza.» Come ho già detto, era una casa molto grande. Hester mi porse la copia rosa del modulo delle "Proprietà Requisite", su cui era stato segnato il coltello preso dalla vasca. «Proviene da un set della cucina» disse. «Non ci sono dubbi.» Quando lei e Toby si sedettero, Melissa passò la copia del «Freiberg Tribune and Dispatch» al ragazzo. «Hai visto?» Lui sembrò sorpreso, disse di no e aprì il giornale. Guardò Melissa, quasi sgomento. «È strano» notò. «Che cosa?» intervenni incuriosito. «L'articolo su Dracula» disse. «Sospeso in aria fuori dalla finestra del secondo piano. Accidenti.» «Sono sicuro che si è aiutato con qualcosa per salire fin lassù» intervenni. «In che modo?» domandò Melissa. «Oh, con una fune, per esempio.» Mi sforzai di ridere. «Non stava certo volando.» «Avete trovato una fune?» I suoi grandi occhi erano fissi sui miei. «No, ma abbiamo trovato dei ganci ad anello.» Mi strinsi nelle spalle. «È solo una questione di meccanica.» «Sono sicura che troverete una qualche spiegazione» concluse Melissa. Hanna si scusò, disse che era una pessima padrona di casa e chiese se qualcun altro voleva del caffè. Lo prendemmo tutti. Passammo la mezz'ora successiva a discutere di suicidio, di morte e di come gli amici possono affrontare cose del genere. A me sembrava che Hanna fosse la più colpita dalla morte di Edie. Men-
tre raccontava a Hester di come aveva trovato il corpo, cominciai a riflettere. Mi sembrava che non dovesse essere così difficile stabilire la causa e le modalità del decesso. Cosa avevamo dimenticato? Hester introdusse un nuovo elemento. «Lo sapevi che tutto il terzo piano è chiuso?» «No.» «È l'appartamento privato della padrona di casa e nessuno può accedervi, a parte lei. Almeno secondo Toby. Comunque, le due porte sono chiuse a chiave.» «È vero» disse Melissa. «Noi non ci entriamo mai, a meno che non ci sia Jessica.» Hester alzò lo sguardo verso il soffitto. «Dev'essere un appartamento enorme.» A occhio e croce circa trecentosettanta metri quadrati. Non potevo che concordare. Nelle indagini per omicidio esiste una regola dettata dalla pratica: o risolvi il caso in quarantott'ore oppure l'indagine è destinata a trascinarsi per mesi prima di poter effettuare un arresto, se mai ci si riesce. Cominciavo a pensare che saremmo stati fortunati se entro quarantott'ore fossimo riusciti a stabilire se si trattava di suicidio o meno. Poi entrarono in scena alcune persone che avrebbero fatto definitivamente inclinare il piatto della bilancia. 8 Sabato 7 ottobre 2000 14.50 Attraverso la finestra dell'atrio vidi tre veicoli accostare davanti alla casa. Una delle nostre autopattuglie, seguita da una SUV blu scuro che doveva appartenere al mio anatomopatologo preferito, il dottor Steven Peter, e da una Plymouth Voyager argentata più vecchia, l'unica che non conoscevo. Essendo il responsabile dell'indagine, andai alla porta insieme a Hester, mentre Borman rimase con i tre inquilini in salotto. Non che fossero sospettati, ma era buona norma avere qualcuno che valutasse le loro reazioni e prevenisse le conversazioni troppo lunghe. Precauzioni.
L'autopattuglia fece manovra e l'autista, l'agente Norm Jones, abbassò il finestrino e sporse la testa. «Questi ragazzi abitano qui» disse indicando la Voyager. «Bene. Grazie, Norm» gli risposi mentre mi salutava e si dirigeva nuovamente verso la strada. Ecco la cosa positiva di quel luogo: era facile tenere lontano chi non era stato invitato. «Devono essere gli inquilini che lavorano sulla nave» dissi a Hester. «Ottimo.» Mi voltai verso il dottor Peters, che stava scendendo dalla SUV. Hester e io gli stringemmo la mano. «Due dei miei poliziotti preferiti, che riescono sempre a rifilarmi qualche compito difficile» scherzò lui. «Questo caso,» dissi io «potrebbe ottenere l'Oscar.» Si guardò attorno. «Che posto meraviglioso. Non sapevo neanche che esistesse.» Il dottor Peters era di Iowa City, centocinquanta chilometri a sud. «Non preoccuparti. Sono molti gli abitanti di questa contea che non lo conoscono.» Vidi un ragazzo e una ragazza scendere dalla Voyager e dirigersi verso la casa. «Dammi solo un secondo.» «Scusate» dissi velocemente. Si fermarono ai piedi delle scale. Erano entrambi piuttosto pallidi e indossavano le divise utilizzate sulla navecasinò. «Sono il vicesceriffo Houseman e vorrei dirvi un paio di cose prima che entriate.» Il ragazzo era alto circa un metro e ottantacinque, magro, con i capelli neri. Aveva un buco nell'orecchio e uno nel naso. Evidentemente si toglieva i piercing per lavorare. La ragazza era più o meno un metro e sessanta, esile, con i capelli castano scuro tirati indietro e orecchini lungo tutte le orecchie. Aveva grandi occhi scuri e dei tatuaggi all'henné su entrambi gli zigomi, un motivo intricato ed eccezionalmente delicato. «Ha un documento di identificazione?» mi domandò il ragazzo. Chissà perché, molte persone pensano di metterti in difficoltà chiedendoti un documento. Presi il distintivo e lo aprii in modo che lo vedessero, come se la pistola sul fianco non fosse abbastanza eloquente. «Certo, ecco qui. In questo momento all'interno della casa è in corso un'indagine. Mi spiace, ma per il momento abbiamo dovuto chiudere una stanza.» «Quella di Edie?» ribatté. «Sì.»
«Be', tanto non ci sarei entrato comunque.» «Vi dovremo rivolgere delle domande di routine» aggiunsi prima che potessero muoversi. «A che proposito?» chiese la ragazza in tono secco. «Tu sei Holly Finn, giusto? Quella che chiamano "Huck"?» Era ora di rompere il ghiaccio. Sembrò sorpresa. «Sì, mi chiamo Holly» rispose. «Ma può chiamarmi Huck, come fanno tutti.» «Certo» dissi. Poi guardai il ragazzo. «Stemmer, giusto? Kevin Stemmer?» Come se l'avessi riconosciuto. «Sì.» «Presumo siate al corrente di quanto è successo questa mattina, vero?» Dovevo verificarlo, perché volevo evitare che uno di loro entrasse in casa, magari convinto che Edie fosse malata o qualcosa del genere, per poi scoprire che era morta. «Lo sappiamo» disse la ragazza. «È terribile, ma non troppo sorprendente. Almeno, non per noi che la conoscevamo bene.» Che la conoscevano bene? Non le era venuto in mente di spiegare perché non si erano precipitati a casa, ma ero pronto a scommettere che non sapesse che Toby e Hanna erano stati molto loquaci. «Una brutta cosa,» aggiunse Kevin «ma tutti dobbiamo morire, prima o poi.» Quel giorno era la seconda volta che sentivo lo stesso commento. Più che una questione filosofica sembrava il desiderio di cambiare argomento. La cosa mi diede fastidio. «È quando la morte coglie di sorpresa che mi addolora di più» replicai. «Odio le sorprese.» Hester e il dottor Peters mi passarono davanti per entrare in casa. «Ci raggiungi appena puoi?» Hester aveva preso il computer portatile dall'auto. «Arrivo.» Mi rivolsi di nuovo ai due. «Appena siete pronti, potreste raggiungere l'agente Borman in salotto? Ha bisogno di alcune informazioni...» «Vorrei utilizzare il bagno di sopra, se non avete niente in contrario» disse Huck, in tono sarcastico. Dopo tutto, viveva in quella casa. «Nessun problema» risposi salendo la scala. «Basta che non andiate in camera di Edie finché non abbiamo finito, d'accordo?» «Ribadisco che non è il primo posto dove vado di solito» disse Kevin, sempre con lo stesso tono.
«Allora,» proseguii «andate dall'agente Borman e restate a sua disposizione.» Entrarono in salotto. Guardai la reazione degli altri inquilini. Furono accolti quasi con deferenza. Toby, soprattutto, non sembrava troppo felice di rivederli. Andai al piano superiore, nella camera di Edie. Pensai che avevamo appena compreso la gerarchia sociale all'interno della Villa. Quando arrivai nella camera della vittima, il dottor Peters ed Hester stavano parlando a bassa voce. «Mio Dio!» esclamò il dottore indicando il bagno. «Già» commentai io. Sinceramente non avevo nessuna voglia di fare un altro giro là dentro. «Gli ho detto del sangue sotto le natiche» mi informò Hester. «E dell'incidente nella Conception County.» Il dottor Peters annuì. «Non lo ritengo decisivo di per sé. Credo che avremo bisogno della scientifica per un esame più completo» disse. «E parlerò con il mio collega del Wisconsin, appena finita l'autopsia.» «Sono d'accordo» disse Hester. «Dunque, Carl,» continuò il dottor Peters «hai scattato delle foto, vero?» Hester aprì il computer portatile, lo collegò alla mia macchina digitale e dopo pochi secondi comparvero sullo schermo le foto di Edie nella vasca. Le guardammo per alcuni minuti, tutti e tre, passando dalle panoramiche della stanza ai primi piani delle ferite. Non era la risoluzione che avrei ottenuto a casa o in ufficio, ma era sufficiente per il nostro scopo. Peters si allontanò dal computer. «Avete l'arma?» Hester si infilò un paio di guanti in latice, recuperò il coltello da una busta e glielo mostrò tenendolo per la punta della lama e girandolo lentamente. Dopo che il dottore lo ebbe osservato attentamente, chiese: «Puoi ingrandire le immagini del taglio?». Hester ripose il coltello nella busta, si tolse i guanti e tornò al computer. «Hai altri guanti, Carl? Dev'essermene rimasto soltanto un paio.» Indicai la mia borsa. «Naturale.» Sorrise e cominciò a lavorare al computer. «Posso ingrandirla fino a centocinquanta volte,» disse «ma a un certo punto si cominciano a perdere i dettagli...» Il dottor Peters si piegò a guardare lo schermo. «Così va bene» disse
raddrizzandosi. Trasse un respiro profondo ed espirò lentamente. Poi restò in silenzio. «Mi puoi far vedere le foto della parte posteriore, per favore?» Le guardò e studiò anche quelle del fondo della vasca. Sempre in silenzio. Hester e io ci scambiammo un'occhiata. Stavo per rivolgergli una domanda quando parlò. «Non ne sono sicuro e vorrei che prendeste ciò che sto per dirvi con la dovuta cautela. Mi servono ancora alcune conferme al riguardo.» Diede un'occhiata alla stanza e notò il ricamo sul muro con la scritta: "L'assenzio rende il cuor contento". Accennò un debole sorriso. Restò di nuovo in silenzio. Poi, dopo un momento che parve interminabile, disse: «Dobbiamo far controllare la stanza da cima a fondo». Spostò lo sguardo in direzione del bagno. «Non credo si tratti di suicidio. L'autopsia mi dirà quello di cui ho bisogno, ma non credo che sia morta per una ferita autoinflitta.» Ecco. Ci eravamo arrivati. «Inoltre,» continuò «a giudicare dalle foto della ferita non credo che quello sia il coltello giusto.» «Era attaccato alla gamba» dissi, parlando un secondo prima di capire il significato della sua frase. «Non ne dubito,» ribatté il dottor Peters sorridendo «ma non credo sia quello utilizzato per infliggere la ferita al collo. Il fascio di muscoli che sporge dal taglio mi fa pensare più a un coltello da caccia, con una punta uncinata. Credo che il muscolo del collo sia stato tirato fuori dalla ferita e non spinto da dentro.» «Ho capito» dissi. «Mi aspetterei di trovare qualche danno alle arterie» disse. «Alla carotidea esterna oppure a una delle sue diramazioni. Comunque sia, a un'arteria piuttosto grande.» Sapevo che non si deve mai mettere in dubbio quanto afferma il dottor Peters, neppure involontariamente. Non perché si sia mai risentito: al contrario, sembra che la cosa lo diverta ed è sempre disponibile a fornire spiegazioni. «Ah,» dissi con tono saggio «ho notato che là dentro non ci sono schizzi di sangue arterioso. Da nessuna parte.» Arrivai persino a indicare il bagno. Be', come si dice, c'è sempre uno scemo del villaggio. Sorrise. «L'ho notato anch'io. Come dicevo prima, è necessario aspettare
l'autopsia, ma a questo punto dubito che sia morta in bagno» disse il dottor Peters. «Mi piacerebbe che fosse presente un esperto in macchie di sangue.» Si rivolse a Hester. «Di chi vi servite ultimamente? Ancora di Barnes?» «L'ultima volta che ho controllato sì» rispose lei. «Bene» concluse il dottore. «C'è una classica macchia creata dallo strofinamento dei capelli sulla sponda sinistra della vasca. Non dovrebbe assolutamente esserci, dal momento che la testa della ragazza non è mai scesa fino a quel punto... a meno che non si sia agitata molto e in tal caso ci sarebbero altre macchie...» Era diventata ufficialmente un'indagine per omicidio. Mi assunsi il compito di seguire l'autopsia, perché secondo Hester ero "maledettamente bravo con la macchina fotografica". Lei, che era altrettanto brava ma che non ci voleva andare, interrogò Kevin e Huck e parlò di nuovo con Hanna, Melissa e Toby. Non ero poi così sicuro di aver fatto un cattivo affare. 9 Sabato 7 ottobre 2000 19.35 Cenare immediatamente dopo un'autopsia può rivelarsi un'esperienza interessante. Non per il dottor Peters, per lui è routine, ma per me sì. Decisi di evitare sia il maiale sia il manzo. E anche la pasta. Nel frattempo, la scientifica stava esaminando il luogo del delitto. Lamar aveva deciso di inviare due agenti di supporto, un sollievo per me e Borman, anche se dopo cena sarei ugualmente tornato alla Villa. Borman sarebbe rimasto fino all'arrivo dei due colleghi. Mi augurai che riuscisse a mantenere la calma. Hester, il dottor Peters e io avevamo deciso di cenare da Warren: si mangiava discretamente e non era troppo caro. Era anche tranquillo, e potevamo discutere in libertà. Hester ci comunicò che gli interrogatori non avevano prodotto granché. L'ipotesi che ci si potesse trovare di fronte a un omicidio aveva suscitato decise smentite e nulla più. Osservò anche che Kevin e Huck avevano una forte personalità, come Melissa.
«La differenza,» disse Hester «è che Melissa non fa proseliti, al contrario degli altri due.» Era convinta anche lei che Toby avesse un carattere instabile. «Quel ragazzo,» commentò «farebbe qualsiasi cosa pur di catturare l'attenzione. Parla molto più di chiunque altro là dentro.» Le avevano detto che Edie aveva una sorta di ruolo materno nella casa e che sembrava essere la persona più solida e stabile. «L'unica a parlare con Jessica Hunley, la proprietaria, era lei. Anche perché a quanto pare era quella che la conosceva da più tempo.» Si strinse nelle spalle. «Credo anche che fosse prodiga di consigli per tutti. Almeno questa è l'impressione che mi sono fatta. In particolare dalle parole di Toby, Melissa e Hanna.» Gli esiti dell'autopsia furono molto interessanti. In primo luogo il dottor Peters aveva stabilito che la ferita al collo aveva effettivamente leso l'arteria carotidea esterna, così come la vena giugulare e numerosi fasci muscolari. Aveva tranciato la parete posteriore della trachea e inciso addirittura la quarta vertebra cervicale. Ciò che colpiva di più erano i numerosi tagli all'interno della ferita stessa. Ci spiegò che con ogni probabilità il coltello era stato premuto nel collo e successivamente mosso avanti e indietro finché non era stato tirato fuori, lacerando alcuni muscoli. «E quindi...?» domandai. «Quindi, mi sarei aspettato che una ferita autoinflitta di quell'entità fosse caratterizzata dal movimento a sega che tutti conosciamo, invece ci sono state pressioni brevi e potenti, senza estrarre del tutto la lama. Sarebbe stata necessaria una forza eccessiva, perché l'angolazione è innaturale. Sono pronto a scommettere che il coltello sia stato impugnato da un'altra persona.» «Ma potrebbe comunque trattarsi di suicidio?» «Probabilmente in quel caso la vittima non avrebbe estratto del tutto il coltello. Questa almeno è la mia esperienza per ferite simili.» Mangiò un boccone di arrosto. «Il dolore sarebbe insopportabile, credo. Anche in uno stato mentale alterato.» «Non è la prova definitiva,» dissi «ma ci siamo vicini, giusto?» «Giusto. L'elemento definitivo, Carl, è l'assoluta mancanza di schizzi di sangue arterioso nella zona del bagno. Il solo taglio alla carotide avrebbe fatto schizzare il sangue a parecchi metri di distanza dalla ferita. A più riprese e con traiettorie prevedibili.» «Già.»
«Anche il segno nella trachea mi fa pensare. Avrebbe dovuto esserci del sangue aspirato, invece non ce n'era traccia. Sono portato a credere,» disse il dottor Peters «e alcune prove fisiche lo confermano, che la ferita alla gola sia stata inferta altrove e che la ragazza sia stata trasportata nella vasca solo in un secondo momento.» Molto bene. Bevvi un sorso di caffè, mentre il dottore proseguiva il suo resoconto. «Una volta lavato il sangue esterno,» disse «sono comparsi ematomi piuttosto vasti sui fianchi e sulle spalle, sugli avambracci e sui polpacci.» «Dei colpi?» chiese Hester. «No, non credo. Quando li abbiamo incisi, alcuni si sono rivelati profondi, altri più superficiali, ma il tessuto non risultava particolarmente danneggiato. Se, come credo, verrà confermato che prendeva il Coumadin, si spiegherebbe la facilità con cui si procurava i lividi. Anche se, naturalmente, in presenza di una consistente perdita di sangue avrebbero potuto assumere un aspetto differente.» Rifletté per qualche istante. «I lividi che ci interessano, intendo quelli inflitti subito prima della morte della ragazza, erano larghi, dati con una pressione probabilmente intensa e avevano confini non ben definiti. Direi che erano simili a quelli lasciati da una mano, ma anche da un oggetto insolito. Qualcosa che non lasci striature, come la stoffa o la corda. Bisogna investigare in questa direzione. Oppure la vittima avrebbe anche solo potuto trovarsi a contatto con una superficie irregolare e rigida. In questo caso, il contatto dovrebbe essere avvenuto durante il dissanguamento e ci dovrebbe essere molto sangue nel punto in cui è accaduto.» Bevve un sorso d'acqua. «Ma non ho trovato lividi né sul seno destro né sulla cassa toracica. La pressione esercitata su quell'area è avvenuta dopo la morte.» «Dunque dobbiamo cercare molte tracce di sangue, giusto?» Hester stava prendendo appunti. «Da qualche parte devono pur essercene» disse Peters. «Giunti a questa fase delle indagini, e dal momento che le analisi di laboratorio non sono ancora arrivate, gli indizi suggeriscono che sia stata uccisa altrove, che sia stata trasportata nella vasca da bagno e che a quel punto le sia stata tagliata la gola per inscenare un suicidio.» Annuì. «Hai perfettamente ragione, Hester. Moltissimo sangue. Si è verificata una grossa emorragia, da qualche parte. Ma non voglio confondervi le idee. Devo ancora fare alcune analisi.» «È un omicidio?»
«Non c'è il minimo dubbio.» Bene. Ora dovevamo solo trovare il luogo. O meglio, trovarlo, esaminarlo da cima a fondo e cercare di capire il movente. Ma trovare il luogo sarebbe già stato un buon inizio. «Trattandosi di una quantità enorme di sangue,» concluse Peters «anche dopo aver pulito a fondo resterebbero comunque delle tracce.» «È meglio che chiami Lamar e il procuratore della contea» dissi. «Devono essere messi al corrente delle novità.» Usai il telefono nell'ufficio del direttore del ristorante. Mentre componevo il numero, mi venne in mente che, fino a quel momento, avevamo gestito i rapporti con i media in maniera intelligente. Anche se qualcuno fosse riuscito a intercettare le nostre comunicazioni radio, avrebbe sentito solamente la richiesta dell'ambulanza, l'ordine dato a Borman di recarsi sul posto e il momento in cui era arrivato. Io non avevo mai detto dove mi trovavo. Hester era stata avvisata per telefono e aveva chiamato la radio di stato con il suo cellulare. Il dottor Peters era stato chiamato a casa, così come i componenti della scientifica. Il codice 61 stava funzionando. Senza contare che i media prestano poca attenzione ai suicidi, a meno che non coinvolgano persone famose. Edie era solo una comune mortale, pace all'anima sua. Lei e suo zio Lamar non avevano neppure lo stesso cognome. La parola omicidio non era mai stata neppure pronunciata. Almeno fino a quel momento. Chiamai per primo Lamar: era il mio capo e inoltre ritenevo che dovesse essere informato prima di chiunque altro. Rispose al primo squillo. «Ridgeway.» «Lamar, parla Houseman.» «Non è suicidio, vero?» «Cristo, sei un sensitivo?» All'altro capo del telefono ci fu una specie di silenzio soddisfatto, non saprei come descriverlo in altro modo. «Ci speravo soltanto» disse. «Mi rifiutavo di credere di aver lasciato che giungesse a tanto...» «Il dottor Peters vuole aspettare gli ultimi test di laboratorio, ma dice che dovremmo cominciare a trattare il caso come omicidio.» «D'accordo» rispose Lamar. «Fai quello che devi.» «Bene.» «È troppo presto per dire qualcosa a mia sorella?»
«Aspetta ancora. Lasciamo arrivare i risultati dell'autopsia. Rimani sul vago.» «Farò del mio meglio.» Seguì una breve pausa. «Qualche sospetto?» «Direi di no. Nessuno per ora.» «Vedrò quello che posso fare, ma escludo di essere coinvolto direttamente. Mi capisci, vero?» Certo che lo capivo. Per un avvocato difensore lo zio in lutto a capo delle indagini sarebbe stato una benedizione. Cambiamento della sede processuale assicurato. «Sì. Adesso chiamo il procuratore di contea.» «Bene. Restiamo in contatto, Carl, e grazie. No, aspetta un momento.» «Cosa c'è?» «Stavo per dimenticarlo. C'era un tizio che voleva parlarmi. Ho lasciato detto in centrale di passarlo a te. Mi dispiace. Non so bene cosa voglia. È del Wisconsin.» «Lo so. Me ne ha già parlato Sally. È tutto a posto.» Avrei potuto incontrarlo l'indomani. «Dovrai occuparti delle questioni familiari ancora per molto?» «Un paio di giorni.» «Come vanno le cose?» Si schiarì la voce. «Conosci mia sorella...» Esitò. «Credi che vada bene se le parlo io? Giusto per avere qualche informazione sul passato.» Non conoscevo nessun altro che potesse farlo meglio di lui. «Sì, va benissimo» dissi. Il procuratore della contea era un rispettabile avvocato di nome Mike Dittman. Come la maggior parte dei procuratori di contea dell'Iowa, svolgeva quel lavoro part-time e la maggior parte del reddito gli proveniva dall'attività di libero professionista. Al telefono rispose una gradevole voce di donna, sua moglie. «Salve Karen, sono Houseman.» Quasi non avevo bisogno di dirglielo: chiamavo cosi spesso che mi riconosceva appena aprivo bocca. «Oh, ciao Carl. Aspetta un secondo.» Riuscii a sentire un sommesso "Mike, Mike, è per te" a microfono coperto. Dopo un paio di secondi il marito venne al telefono. «Mike, sono Houseman.» «Oh cazzo!» disse per scherzo, ma non del tutto. «Cosa succede?» «C'è stata una chiamata per un suicidio, stamattina. La nipote di Lamar,
Edie Younger. Ti ricordi di lei?» «Certo. Dio mio, che brutta storia. Si era ripresa bene, vero?» «Credo di sì. C'è una complicazione, però, e probabilmente avremo bisogno di una consulenza legale.» Silenzio. «C'è qui il dottor Peters. Dalle sue prime analisi sembra che si tratti di omicidio.» «Oh, cazzo!» ripeté, questa volta più convinto. «Santo cielo, Carl, oggi è il compleanno di mia cognata e stiamo per andare a Dubuque...» «Tranquillo,» dissi «volevo solo informarti e dirti che dovremo perquisire la casa. Credo che ci siano elementi sufficienti per ottenere un mandato.» «Di quale casa stai parlando, Carl?» Gli raccontai della Villa e dei suoi inquilini. Gli dissi anche che la proprietaria non c'era. «Ascolta, perché, almeno per il momento, non procedi con una perquisizione consensuale, se ti è possibile? Voglio dire, mi fido del tuo lavoro, ma così sarei più tranquillo...» Ero certo di poter ottenere l'autorizzazione per un mandato di perquisizione in grado di fronteggiare qualsiasi attacco, ma sapevo anche che sarebbe toccato a lui difendermi se qualcosa fosse andato storto. «D'accordo, Mike. Però non mi piacciono molto le perquisizioni consensuali. Se mi negano il permesso dovremo bloccare tutto e fare una richiesta in fretta e furia. A quel punto uno qualsiasi dei cinque potrebbe opporsi.» «Non ti preoccupare di questo. Chiunque di loro può consentire che vengano perquisite le aree comuni della casa. I singoli individui possono negare soltanto l'accesso alle proprie stanze.» Lo conoscevo abbastanza bene da sapere quando smettere di discutere, ma ero deluso. Ci sono innumerevoli modi per far sì che i risultati di una perquisizione consensuale e le prove che ne derivano vengano respinte da una corte. In un caso molto serio non esiste nulla che possa sostituire il mandato di perquisizione emesso dalla corte distrettuale. Inoltre la perquisizione consensuale costituiva la via meno impegnativa, quella da seguire se si deve andare alla festa di compleanno della propria cognata a Dubuque. Hester capì che qualcosa non andava non appena mi sedetti. «Cosa succede?» «Mike vuole che si proceda con una stupida perquisizione consensuale»
dissi. «Butta male.» «Non dirlo a me.» Mi strinsi nelle spalle. «Sto pensando di fare comunque domanda.» «Il procuratore della contea si farà vedere?» «No, ha una festicciola a Dubuque.» Ridemmo entrambi. Pensai che avremmo potuto ottenere un mandato in due o tre ore al massimo e tornare alla casa entro quattro. Se... «Ehi, Peters?» «Sì?» Sapeva cosa stavo per chiedergli. «Potremmo aver bisogno di alcune note preliminari, prima che tu te ne vada...» In quel momento uno strano individuo si avvicinò al nostro tavolo. Era vestito in modo semplice, con pantaloni verde oliva e camicia di flanella. Non lo conoscevo e sembrava che non lo conoscessero neppure Hester e Peters. «Scusate» disse educatamente. «Qualcuno di voi è per caso il vicesceriffo Houseman?» «Sono io. E lei è...?» «William Chester. Ho parlato con lo sceriffo questa mattina, per pochi secondi. Posso rubarle un minuto?» Mi porse un biglietto da visita che lo identificava come il dottor William Francis Chester, di Milwaukee, Wisconsin. Insieme al numero di casella postale, di telefono e all'indirizzo email c'era la sua qualifica, antropologo e bioarcheologo. Per lo meno non era un giornalista o un avvocato. Estrassi uno dei miei biglietti e glielo diedi. «Sì. Dalla centrale mi avevano avvertito che sarebbe venuto.» Me ne ero completamente dimenticato. Mentre parlavo, avvicinò una sedia e si accomodò. «Le ruberò solo qualche minuto, almeno per ora» iniziò. «Ho sentito dire che molto probabilmente avete avvistato un vampiro.» Lanciai un'occhiata a Hester, ma lei si sottrasse al mio sguardo godendosi la scena. A volte fa piacere guardare i colleghi alle prese con i matti. «No, non è vero» risposi in tono fermo. «Secondo il giornale locale...» Lo interruppi. «È un guardone. Tutto qui.» «Capisco.» L'uomo lanciò un'occhiata ai miei compagni di tavolo in cerca d'aiuto. Mai viste due espressioni più impenetrabili. «Lo sceriffo ha detto che...»
Accidenti a Lamar. «Può darsi che non si sia espresso in modo chiaro. Oggi lo sceriffo ha perso un familiare.» Non volevo essere scortese, volevo solo sbarazzarmi di lui. «Mi spiace, non posso esserle di maggiore aiuto.» «Io dò la caccia ai vampiri» disse guardandomi dritto negli occhi. «Ne sto cercando uno in particolare, da molto tempo. Penso che si possa trattare di lui.» «Mi ascolti bene» dissi. «Glielo dirò una volta soltanto. Non dia la caccia a niente in questa contea che non richieda una licenza di caccia. Sono stato chiaro? Se interferisce in qualsiasi modo con la mia indagine, farò in modo che si vesta a righe bianche e nere e che mangi robaccia per un bel po' di mesi.» Lo fissai. «Glielo garantisco.» «Le credo» disse accennando un sorriso. «Davvero. Ma tanta suscettibilità la tradisce. Ora sono ancora più incline a pensare che si sia verificato un incidente con un vampiro.» A volte la gente sa rendersi esasperante. Ma mi venne in mente, un po' in ritardo, che forse avrebbe potuto essere utile a Harry per l'indagine sulla morte di Randy Baumhagen. Era un caso legato al nostro e soprattutto era ciò che aveva condotto da noi il cacciatore di vampiri. Direttamente da Milwaukee, accidenti a lui. «Aspetti un secondo» esclamai. «So bene che i vampiri non esistono, ma potrebbe esserci qualcuno che finge di esserlo. Potrebbe essere coinvolto in un caso del Wisconsin. L'uomo a cui sta dando la caccia ha un nome?» «No. Conosco solo i suoi metodi, le sue abitudini. Nessun nome. Non ancora.» «Quali metodi?» «Appare davanti a una porta o a una finestra. Chiede di poter entrare. Se gli si dà il permesso, entra e comincia a sedurre la vittima.» «E se non gli danno il permesso? Resta fuori?» «Certo. I vampiri non possono entrare a meno che non vengano invitati.» Era serio. Hester non riuscì a resistere alla tentazione. «Cosa fa alle vittime?» «Alla fine prende un po' del loro sangue.» «Be', ovvio.» Restai impassibile. Era un vampiro, dopo tutto. Cosa potevo aspettarmi? «Quando lo fa, sente quello che sentono loro. Condivide le loro sensazioni. Ho letto che si tratta di una cosa molto intima.» William Chester ci guardò uno dopo l'altro. «Sono i ferormoni. Ingerisce i loro ferormoni e
sente ciò che sentono loro.» Il dottor Peters sbuffò. «No, è una follia!» «Voi profani dovete capire...» cominciò William Chester. «Sono un anatomopatologo legale» ribatté il dottor Peters. Silenzio. Il cacciatore di vampiri cercò nel taschino della camicia e gli diede il biglietto da visita. «Allora potrebbe averne bisogno anche lei» disse con notevole aplomb. Peters, uomo beneducato, lo accettò di buon grado e lo infilò nel taschino. «Ascolti,» dissi «la polizia dall'altra parte del fiume, nella Conception County, sta seguendo il caso di cui le ho parlato. Potrebbe dar loro una mano. Non si tratta di un vampiro,» mi affrettai a puntualizzare «ma può comunque rivolgersi all'investigatore Harry Ullman. Gli dica che la manda il vicesceriffo Houseman.» Non aggiunsi di farmi chiamare da Harry. L'avrebbe fatto di sicuro. «Bene. In ogni caso vanto una conoscenza piuttosto ampia in materia. So come... rintracciarli. Forse sarebbe meglio dire come seguirli.» «Il pedinamento è un reato» puntualizzai. «Grazie.» Si alzò. «Se scopro qualcosa di nuovo, vi farò sapere.» «Quando vuole.» Lo guardai uscire. Hester mi diede un calcio sotto al tavolo. «Comincia a correre, Houseman.» «Perché?» «Harry ti ucciderà.» «No, se prima posso mandarlo da Lamar» dissi. «Non penserai di chiamarlo.» Risi e scossi il capo. «No. Certi pacchi è meglio spedirli senza preavviso.» Guardai Peters. «L'hai messo a tacere quando gli hai detto che sei un anatomopatologo» commentai. «Fa sempre il suo effetto.» Era buio quando tornammo alla Villa. Prima di salire di nuovo le scale della grande casa presi una manciata di moduli per la richiesta di perquisizione dalla valigetta nel portabagagli. Hester mi aveva preceduto e stava cominciando a parlare con i tre tecnici della scientifica che si trovavano nella stanza di Edie. Trovai il gruppo in cucina, insieme a Sally, la mia operatrice radio favorita, che svolgeva il turno di guardia. Era entrata nel dipartimento come
ausiliaria circa sei mesi prima e indossava la divisa. Pistola e manette incluse. «Ciao, Sally. Stai benissimo.» «Houseman,» disse con la bocca piena «ti sei perso una cena coi fiocchi.» Deglutì. «Non sapevo che voi ragazzi mangiaste così bene.» Il lungo tavolo della cucina era apparecchiato con piatti rustici, i resti di una grande insalata mista, ciò che rimaneva di una pagnotta, un piatto di vetro con una specie di pasticcio di carne e una caraffa di tè. «Impari in fretta, ragazza» esclamai. Sally, essendo alta solamente un metro e sessanta e pesando al massimo cinquanta chili con i capelli bagnati, poteva permettersi di mangiare quello che voleva. «Si sono comportati tutti bene in nostra assenza?» Sally annuì e Holly Finn disse: «Non vorremmo mai litigare con una Rambo...». Lo disse in modo piuttosto garbato, ma c'era una nota di presa in giro nell'affermazione. «Saggia decisione» replicò Sally. Non dovevano piacersi molto. Hanna, in piedi davanti alla credenza, stava prendendo le tazze da caffè, mentre Toby stava portando a tavola una torta. Tutti gli altri erano seduti. Il momento mi sembrava perfetto. «Bene, dal momento che ci siete tutti,» dissi «vorrei chiedervi ufficialmente il permesso di perquisire la casa.» Una raffica di voci. Percepii contemporaneamente un "Niente affatto" di Huck, un "Direi proprio di no" di Kevin, un "Naturale" di Toby e un "Be'?" di Hanna. Melissa, che stava bevendo un sorso di tè, rispose nel momento di pausa che seguì il trambusto iniziale. Deglutì e chiese: «Perché?». L'unica risposta ragionevole. «Te lo spiego subito» dissi. «C'è ancora caffè?» Hanna si affrettò a versarmene un po'. "Spontanea e simpatica" pensai. Oltre che la più colpita dalla morte di Edie. Li lasciai in attesa per alcuni secondi, mentre prendevo la tazza e posavo i moduli d'autorizzazione sul bancone della cucina. Era uno dei momenti cruciali di un'indagine. Toby era in piedi, immobile, a metà strada tra il bancone e il tavolo, la torta in mano, lo sguardo fisso. Avevo conquistato la sua attenzione. «Abbiamo prove che ci permettono di affermare che Edie non si è suicidata» esordii. «Diverse prove.» Feci una pausa e tutti trattennero il fiato.
«Dunque siamo nelle fasi preliminari di un'indagine per omicidio.» Mi attendevo una reazione di sorpresa, almeno dalla maggior parte dei presenti, e magari qualcuno che dicesse che non era possibile, o che era fuori questione. Quello sì. Ma non mi aspettavo che Toby gettasse la torta sul bancone della cucina, dicendo qualcosa tipo: "Devo andare" e scomparisse dalla porta a vetri, nel buio della notte. A dire il vero, credo che nessuno se lo aspettasse. 10 Sabato 7 ottobre 2000 21.19 Dovevamo fermarlo, e dovevamo fare in fretta. Uscendo urlai «Stai qui» a Sally passandole davanti. Quando raggiunsi l'esterno, non vidi nulla, a parte l'oscurità che circondava la piccola area illuminata dalla luce delle finestre della Villa. Terreno nero, erba nera, alberi neri e un cielo nero puntellato di stelle. Mi sembrò di captare un movimento alla mia sinistra, ma dal momento che non avevo una torcia, non riuscii a capire cosa fosse. Poi silenzio. Cazzo. Sentii la voce di Hester, poi quella di Sally, quindi la porta a vetri si aprì dietro di me ed Hester domandò: «Dove sarà andato?». Non mi voltai. «Non lo so. Guarda se uno degli ausiliari riesce a trovare qualche torcia in macchina.» Stavo cercando di abituare gli occhi al buio il più in fretta possibile. Non sarebbe servito a molto, ma almeno sarei riuscito a vedere se stavo per scontrarmi contro qualcosa. Difficile che Toby riuscisse ad andare veloce, ovunque fosse diretto. Almeno non senza rompersi l'osso del collo. Alcuni minuti più tardi arrivò Sally con una torcia accesa dicendo: «Ne ho una anche per te». Altro che vederci nel buio. Era così dannatamente scuro che fummo costretti a spostare due auto di servizio sul prato per cercare di illuminare la zona con i fari. Non fu di grande aiuto, ma almeno riuscimmo ad ampliare la nostra visuale fino al bosco circostante. Nessun segno di Toby. Dal momento che io e Sally eravamo gli unici con le torce, ci muovemmo verso gli alberi più vicini. «Credo di aver sentito un rumore laggiù» dissi puntando il fascio di luce alla mia sinistra.
«Va bene.» Hester e Knockle, che aveva quasi settant'anni ed era ausiliario dal 1966, restarono in casa. Avevamo chiesto aiuto, ma ci sarebbero voluti venti minuti abbondanti prima che uno degli agenti del turno di notte ci raggiungesse. «Non lo troveremo mai, Houseman» commentò Sally. «Neppure tra un milione di anni.» «Possibile. Allora è meglio che ci dividiamo.» «Non ci penso neanche. Non ho nessuna intenzione di muovermi da sola, in giro per questo bosco, di notte.» Alzai la voce. «Toby! Vieni fuori, Toby!» «Così non serve a niente» protestò Sally. «Ehi, Houseman!» Udii la porta a vetri sbattere e vidi Hester correre verso di noi. «Fate attenzione: Knockle dice che ci sono un mucchio di rovine sparse in questa zona.» «Davvero?» «Dice che sono della vecchia Kommune tedesca. Cosa diavolo è?» «Maledizione, è vero. Le vedo.» Puntai nuovamente il raggio di luce verso sinistra. «A circa quattrocento metri, direi. Quassù sulla collina, sopra al fiume, una volta c'era una cittadina chiamata Kommune, del 1820 o giù di lì. È andata in malora tra il 1860 e il 1870, credo. È stata abbandonata.» Anche Sally aveva sentito parlare di Kommune. «Mio nonno ce ne parlava spesso» commentò. «Accidenti, pensavo fosse più lontana.» «Forse lungo il promontorio o la collina esiste un sentiero che va dritto al fiume» notò Hester. «Dev'esserci stato un accesso che di sicuro non era la strada attuale.» Probabile. «Se c'è, lo troveremo. Cominciamo a cercare da quella parte» dissi. «Mi è parso di aver sentito qualcosa appena sono uscito. Cercate di contattare tutte le macchine disponibili: dite loro di prendere la strada più vicina al promontorio e di illuminare la cima della collina. Potrebbe bastare a trattenere Toby lassù.» «Va bene» disse Hester. «Siete sicuri di cavarvela dentro a questa foresta vergine?» Sentivo che stava sorridendo. «Non ti preoccupare» rispose Sally. «Carl andrà per primo.» «Alla sua età? Non vorrei che tu fossi costretta a riportarlo indietro a braccia!» scherzò Hester. «Chiamerò un carro attrezzi.»
Grazie ai fari attraversammo il prato in pochi secondi. Nel bosco, però, sarebbe stato diverso. Le luci delle auto riuscivano a penetrare tra gli alberi solo per pochi metri. C'era una specie di sentiero lungo il quale scorgemmo mucchi di foglie secche e ramoscelli. «Forse è passato di qui» dissi continuando a camminare. Calpestai qualcosa producendo uno schiocco secco e suscitando un energico "Ssst" da parte di Sally. «Non calpestare tutti i rami che incontri» aggiunse. Le promisi che ci avrei provato. Chiamammo Toby tre o quattro volte senza ottenere risposta. Percorremmo una piccola discesa e ci trovammo fuori dalla portata dei fari. Mi voltai e mi accorsi che la casa era scomparsa alla vista. Dissi a Sally di spegnere la torcia. Non c'era motivo di consumare le pile. Dopo qualche metro l'avvisai che avrei spento anche la mia e le chiesi di restare immobile. «Se Toby è vicino e stiamo in silenzio, sarà lui a spaventarsi per primo» sussurrai. «Non esserne troppo sicuro» sussurrò Sally. Restammo sul sentiero per circa un minuto, al buio e in assoluto silenzio. Stavo per riaccendere la torcia e riprendere a camminare quando udimmo un fruscio. Sentii Sally respirare, ma nessun altro rumore. Aspettammo un altro minuto senza muovere nemmeno un muscolo. Accidenti. Era ancora troppo presto perché i miei occhi si fossero adattati all'oscurità. Improvvisamente sentimmo lo schiocco di un ramo spezzato. Sulla nostra sinistra, quasi dietro di me. Pensai subito che fosse Sally che cercava di passarmi davanti, ma la udii bisbigliare esattamente dal punto in cui doveva essere: «Hai sentito?». Quando sei al buio e il tuo compagno ti fa una domanda, devi fargli capire che hai sentito o continuerà a ripeterla. «Sì» bisbigliai a mia volta, senza voltarmi. Sganciai la pistola, lasciando la mano destra sul calcio. «Sono io» disse Sally toccandomi la schiena. «Un cervo?» "Forse" pensai. E lo dissi anche. Attendemmo ancora qualche secondo, quindi udimmo un altro rumore, un po' più avanti, ancora a sinistra del sentiero.
Decisi che era giunto il momento di illuminare la zona. Accesi la torcia e non vidi niente a parte gli alberi. «Merda» sussurrò Sally, colta di sorpresa. La sua torcia si accese subito dopo. Spostammo i fasci di luce su entrambi i lati del sentiero. Niente. «Che cosa diavolo era?» «Non ne ho idea» risposi, puntando la torcia verso il basso. Non riuscivo a capire quale fosse, sempre che ci fosse, il ramo rotto tra quelli che stavo guardando. Le radici, qualche pietra che spuntava dalla superficie del sentiero e i rami nascondevano ogni possibile impronta. «Andiamo di là» dissi proseguendo lungo il sentiero. D'un tratto, tra le foglie secche a destra, si udì un fruscio come se ci fosse qualcuno o qualcosa che si muoveva in fretta. Poi un grido e un tonfo. Silenzio. Illuminammo il punto da cui proveniva il rumore. «Toby?» urlai. «Sei tu, Toby?» «Aiuto! Aiuto! Mi sono rotto una gamba!» Ci precipitammo fra gli arbusti seguendo la voce di Toby. I nostri piedi, a contatto con le foglie cadute sul terreno, producevano un rumore che copriva tutto il resto. Ci fermammo di nuovo e la sua voce ci giunse così forte e chiara che capimmo di essere vicinissimi. Ma non riuscivamo a vederlo. «Toby, dove sei?» «Qua sotto! Ho la gamba rotta!» Eccolo, a circa dieci metri da noi, sulla sinistra. Guardando attentamente tra due alberi e illuminando la zona con le torce, riuscimmo a scorgere una depressione nel terreno. La raggiungemmo in pochi istanti. Toby era sdraiato su un fianco in fondo a un fosso, probabilmente le fondamenta di un vecchio edificio di Kommune. Si teneva la gamba destra all'altezza del ginocchio con le mani. Ci lasciammo scivolare lungo il declivio e in un attimo fummo di fianco a lui. «Quale gamba?» chiese Sally. In accademia ti insegnano a non dare niente per scontato, ma a volte suona ridicolo. Sono sicuro che stesse pensando la stessa cosa. «Questa. Ahi, cazzo!» imprecò Toby indicando la gamba destra. A me sembrava a posto. «Fammi vedere» disse Sally. Aveva appena finito il corso di pronto intervento e sembrava ansiosa di mettere in pratica ciò che aveva imparato.
Cominciò a tastargli la gamba. «Ahi!» ripeté il ragazzo. «Fa male?» Sally ci sapeva fare. «Oh Cristo, sì, fa male! Merda!» «Toby» cercai di distrarlo. «Perché diavolo stavi correndo?» «Lo scoprirete!» Stava per mettersi a piangere. «Scoprire che cosa?» «Lo scoprirete e basta. Ahi!» «La gamba è a posto» decretò Sally. «Non è rotta.» «Cazzo, quante cose sai!» «Potresti avere una distorsione al ginocchio» disse Sally. «Non fare il bambino.» «Toby!» sbottai. Mi guardò. «Toby,» ripetei lentamente «dimmi che cosa scopriremo.» Abbassai il tono per obbligarlo a prestarmi attenzione. «Parlo sul serio.» «L'ha fatto» balbettò Toby. «L'ha uccisa. Alla fine l'ha uccisa.» «Chi ha ucciso Edie? Kevin?» Non era in cima alla mia lista dei sospetti. «No.» Adesso era tranquillo. «Oh, cazzo, tanto lo scoprirete comunque. E lui verrà a sapere tutto...» «Lui? Chi?» Aspettai. Alla fine disse: «Daniel. È stato Daniel. È stato lui e ora ucciderà anche noi». «No, non lo farà» negai automaticamente. Sempre rassicurare la vittima. «Non ci conti» disse Toby, la voce tremante di dolore e paura. «Non è uno qualsiasi, sapete...» «Be',» commentai «neanch'io.» Sorrisi, continuando a tranquillizzarlo. Allungò la mano, come per afferrarmi il colletto. Ero lontano almeno mezzo metro da lui. «Lei è un tipo simpatico,» disse «ma non sa con chi ha a che fare.» «Dimmelo tu.» «Daniel è... Daniel è...» «Forza» lo incoraggiai cercando di non far trasparire la mia esasperazione. «È un vampiro!» urlò. Aveva lo sguardo sgomento, come del resto dovevamo averlo io e Sally. «Oh cazzo, non posso credere di averlo detto.» «Un vampiro? Chi è Daniel? Cosa significa che è un vampiro?» «Daniel Peel» disse. «E lo chiamo vampiro perché è davvero un vampiro del cazzo. Un vampiro vero e proprio, che beve sangue e non muore mai.»
Si lasciò andare a un lamento. «Cazzo, Toby è morto. Toby non c'è più. Plonk, plonk, plonk.» Cominciò a tremare. «Avanti, smettila di dire stronzate. Chi ha mai sentito parlare di un vampiro che si chiama Daniel?» sbuffai. «Io» rispose Toby, improvvisamente freddo. «E ne sentirà parlare anche lei. Non rida, probabilmente sta già venendo a cercarmi.» Il ricordo dei rumori che avevamo sentito qualche istante prima dalla parte opposta del sentiero mi fece venire i brividi. Sentii Sally che trafficava con la sua pistola. Anche lei era preoccupata. «Sei sicuro che sia qui fuori?» Il ragazzo rimase un attimo in silenzio, poi disse: «No». «Sai dove si trova questo Daniel, adesso?» «No.» «Dove sta di solito?» Mi guardò con la bocca serrata, poi mormorò: «Potrebbe essere ovunque. Ovunque». Be', vampiro o no, Toby era assolutamente certo che questo Daniel avesse ucciso Edie. Avevamo il nostro primo sospetto. E il primo testimone. «Ce la fai a reggerti in piedi?» chiesi. «Perché?» «Perché così non dovremo portarti a braccia per tutto il ritorno» gli spiegai in tono amichevole. «Cerca di non caricare il peso su quel ginocchio.» Gli porsi la mano per aiutarlo. Si rimise in piedi adoperando la gamba buona. «Va bene. Adesso appoggia anche l'altra, Toby.» Mi lanciò un'occhiataccia, ma lo fece. Prima con grande cautela, poi un po' più convinto. «Ahi!» Una specie di lamento obbligato. Ora che si era reso conto che non era rotta, cominciava a rendersi conto di aver gridato solo perché si era spaventato. Ottimo. Era abbastanza in forma per venire con noi in centrale e per essere interrogato in modo approfondito. Molto approfondito. «Sally, sali tu per prima.» Mi avvicinai a lei e le sussurrai: «Metti la sicura alla pistola e infilala nella fondina». Obbedì, anche se controvoglia. Quando si ha paura è meglio non avere la pistola in mano. «Quando arrivi in cima, usa il walkie-talkie e di' a tutti che abbiamo trovato Toby e che sta bene.» «Stai attenta, ragazza» la ammonì Toby. Sally montò su un cumulo di terra soffice, infilò un piede in una fessura
nella parete e uscì con agilità dalle fondamenta. La vidi prendere il walkietalkie dalla cintura e la sentii chiamare «Ottantuno». Era il numero assegnato a Knockle. «Toby, adesso Sally ti afferrerà una mano e io ti aiuterò da sotto. Hai visto come è riuscita ad arrivare in cima salendo su quel mucchio di terra?» «Sì» sospirò. «Come no.» Muoveva la testa come per cercare di vedere qualcosa. Difficile con quel buio. «Non passare esattamente dov'è passata lei, altrimenti sprofonderai ancora di più.» Puntai la torcia sul percorso fatto da Sally. Alzai lo sguardo e lei mi fece segno che era pronta. Allungò una mano e sollevò Toby, mentre io lo spingevo da dietro. Salii seguendo il percorso di Sally, ma sprofondai nel terriccio. «Tutto bene?» chiese Sally quando riuscii finalmente a raggiungerla. «Sì» borbottai. «Hai fatto un gran casino.» Passai in testa al gruppetto, con Toby in mezzo e Sally in fondo. «Dove posso trovare questo Daniel?» domandai. «Non lo so. Cristo, dovunque. Potrebbe essere nel bosco, laggiù» disse Toby, teso. «Non lo so davvero.» Come per incanto, Sally mi superò. «Che cosa fa?» continuai. «Beve il sangue?» «A volte.» Sembrava che gli mancasse il respiro. «Vuoi fermarti?» Anche se Sally aveva detto che Toby stava bene, non volevo che svenisse dal dolore per una possibile slogatura alla caviglia o al ginocchio. Eravamo ancora troppo lontani per poterlo portare a braccia. «No!» rispose con una certa enfasi. Mentre ci avvicinavamo alla casa e gli alberi si facevano meno fitti, i fari delle auto cominciarono ad accecarci. «Di' a Ottantuno di spegnere i fari, le luci di posizione sono sufficienti» dissi. Sally obbedì. Cinque secondi più tardi, si spensero. Andava meglio. Mi resi conto che Toby non si era ancora lamentato da quando eravamo usciti dalle fondamenta. «Stai bene?» gli domandai. «Oh, si. Sto benissimo. Sono un morto che cammina.» Questa volta pensai che il sarcasmo fosse appropriato. Era una strana situazione. Avevo il nome di un probabile sospetto. Ottimo. Non sapevo chi fosse Daniel Peel, ma nell'era dell'informatica era
piuttosto facile trovare le persone. Che fosse davvero colpevole non era cosi importante: solo il fatto di avere il nome di qualcuno ci permetteva di allargare le indagini. Il problema, per farla breve, era l'affermazione di Toby: era davvero convinto che Peel fosse un vampiro. Sempre meglio che il tuo unico testimone non sia matto, qualunque cosa dica. È certo più credibile. Tenemmo Toby fuori dalla Villa, in un'auto di servizio, con Sally in piedi accanto alla portiera, mentre Hester e io parlavamo. «Un vampiro? Stai scherzando, Carl, vero?» «Ho paura di no. Comunque sia, è quello che dice lui.» «E si chiama Daniel?» Mi misi sulla difensiva. «Be', "Nosferatu" sarebbe un po' demodé, non ti pare?» «E per caso,» chiese Hester con sarcasmo «esiste un lupo mannaro di nome Bob? Cristo, Houseman. Dove la trovi questa gente?» «Basta così» sospirai. «In ogni caso, Toby afferma che questo tizio di nome Daniel Peel ha ucciso Edie. E quando ha sentito la parola "omicidio" è scappato...» «Forse non ce la faceva più dal ridere» insisté lei. Poi trasse un profondo respiro e cambiò tono: «Ascolta, è tardi e abbiamo avuti tutti una giornata molto lunga. Potremmo aver trovato un buon punto di partenza, quindi di cosa abbiamo bisogno adesso?». Era bello tornare a parlare di cose serie. «Dobbiamo fare una lunga chiacchierata con Toby. Molto presto.» Riflettei un istante e aggiunsi: «Non credo che dovremmo lasciarlo alla Villa con gli altri, specie adesso che è saltata fuori questa storia del vampiro. Comunque sia, non voglio che sappiano che noi sappiamo». «Possiamo isolarlo?» Hester si diede la risposta da sola. «Certo che possiamo. È scappato.» «Giusto.» Secondo il codice dell'Iowa, si può arrestare una persona considerata testimone chiave di un reato grave nel caso in cui esista il rischio che quella persona si renda irreperibile per un mandato di comparizione. Toby aveva dichiarato di essere a conoscenza di un reato. Era già scappato una volta. E noi eravamo a meno di otto chilometri dal confine con il Wisconsin. Non è possibile notificare il mandato di comparizione da un altro stato e meno che mai a qualcuno che non si riesce a trovare, anche se resta nell'Iowa. Mi avvicinai all'auto.
«Toby.» «Cosa c'è?» «Lo sai che sono un vicesceriffo, vero?» «E allora?» Sembrava sospettoso e ne aveva tutti i diritti. «Toby, dal momento che hai cercato di scappare e visto che sei un testimone chiave di un reato, ti dichiaro in arresto.» «Non può farlo!» Lo dicono sempre. Anche i loro avvocati. «L'ho già fatto, Toby» dissi. «Non devi preoccuparti. Te l'ho già detto oggi, vero? Ci prenderemo cura di te.» Mi rivolsi a Sally con un gesto. «Accompagnalo in centrale e mettilo dentro. Ma prima fermati al Maitland Hospital per fargli controllare la gamba.» Mi avvicinai a lui. «Allora, hai il diritto di restare in silenzio, qualsiasi cosa dirai potrà essere usata contro di te in un processo. Hai il diritto di farti rappresentare da un avvocato, che ti potrà assistere durante l'interrogatorio.» Sorrisi. «Hai capito?» «Non ci posso credere» commentò Toby. «Non ci posso proprio credere.» «Ma hai capito quello che ti ho appena detto? Devi capirlo, Toby.» «Sì, sì, ho capito tutte quelle cazzate. Ma non servirà a niente.» «Non preoccuparti,» lo rassicurai «sarà molto più facile che correre nei boschi al buio.» «Sì, come no.» «Considerala una piccola rivincita per avermi spaventato a morte.» Sorrisi. «Cosa intende dire?» «Quando correvi vicino a noi, al buio, nel bosco. Appena prima di cadere.» Scosse il capo. «Non ho mai corso vicino a voi. Ero sdraiato e mi sono alzato solo quando avete acceso le torce. Poi sono finito nel fosso.» Fece un sorriso soddisfatto. «Gliel'avevo detto, no?» Sally e io ci lanciammo un'occhiata. Poi lei si voltò verso il bosco. «Adesso ce ne andiamo» disse rapidamente. Poi rivolta a Toby: «Ora comportati bene, resta là dietro in silenzio e allacciati la cintura». Salì in macchina a sua volta. «Non dare passaggi a nessuno» dissi. Mi lanciò un'occhiataccia. «E non fategli domande finché non arriva uno di noi.» «Va bene, capo.» Mi avvicinai a Hester. «Possiamo parlargli quando torniamo a Maitland.
Dovrebbe andare bene.» «Sai cos'è che mi preoccupa?» «Parecchie cose, direi, vista la serata.» «L'uomo che ci ha avvicinato al ristorante. Chester.» «Già.» «Salta fuori un tizio che ci dice di essere un cacciatore di vampiri, poi subito dopo un sospetto dichiara che la nostra vittima è stata uccisa da un vampiro. Quante possibilità ci sono che si tratti di una semplice coincidenza?» «Poche.» «È vero» disse Hester. «Mi sa che dovremo parlare di nuovo con Chester.» Spostò una ciocca di capelli dalla fronte. «Sento puzza di bruciato. Sembra una specie di trappola.» «Forse...» «Vuoi che dica a qualcuno del tuo ufficio di mettersi in contatto con il cacciatore di vampiri e fissi un appuntamento?» «Si farà vivo Harry» risposi tra il serio e il faceto. «Finora noi due siamo gli unici a conoscere tutti i collegamenti. Vorrei che le cose restassero così.» «C'è una terza persona, Carl» disse, ridacchiando. «Chi?» «Dan il Vampiro. Giuro su Dio, non metterò più piede nella Nation County.» «Però ci siamo divertiti, ammettilo.» «Oh, certo! Dunque, tanto per cominciare abbiamo bisogno in fretta di un mandato di perquisizione per la casa e le relative proprietà. In un posto così grande ci potrebbe volere anche più di un giorno.» Guardò l'edificio che si profilava nel buio. Sembrava stanca. «Il tuo dipartimento può permettersi di tenere fuori gli inquilini per questa notte?» Di sicuro non potevamo lasciarli là dentro. «Fammi chiamare Lamar,» dissi «anche se penso che prima dovremmo parlare ai ragazzi.» «Sono d'accordo.» Spiegammo ad Hanna, Huck, Kevin e Melissa che avremmo fatto domanda per ottenere un mandato di perquisizione e l'avremmo presentata a un giudice. «E poi?» chiese Huck.
«Il giudice può decidere se emettere il mandato oppure no. Se lo fa, possiamo cominciare la perquisizione.» «E se non lo fa?» «Ce ne andiamo tutti a dormire.» «E noi?» domandò Melissa. «Qui viene la parte meno piacevole» dissi. «Non possiamo lasciarvi qui perché abbiamo il diritto di sigillare i locali in attesa di ottenere il mandato.» «Vuol dire che non possiamo tornare nelle nostre stanze?» Fu Hanna a chiederlo. «Non senza una scorta» risposi. «Non credo che possiate farlo» disse Kevin. «Non penso sia legale.» Sospirai. «Va bene, lasciate che vi spieghi. Se vi dico che è legale e non lo è, in tribunale non potrò utilizzare niente di quello che ho trovato qui. Vi è chiaro?» Kevin mi guardò. «Così come non potrò utilizzare niente di quello a cui sono arrivato tramite una prova trovata in casa, una volta ottenuto il mandato.» Kevin era ancora in silenzio. Erano tutti molto attenti. «I giudici li chiamano "frutti di un albero avvelenato". Significa che sono contaminati e inutilizzabili. Tutto chiaro finora?» «Sì.» «Bene. Allora capite che se affermassi di poterlo fare e non fosse vero sarei un idiota, perché manderei a monte tutta l'indagine. Giusto?» «Sì.» «Quindi non dovreste preoccuparvi, a meno che io non fossi un idiota.» Sorrisi. «E quante sono le possibilità che io lo sia?» Kevin non mi restituì il sorriso, Melissa e Huck sì. «La cattiva notizia,» disse Hester «è che se otteniamo il mandato, stanotte non potrete rimanere qui e non vi potremo far rientrare finché non avremo terminato la perquisizione.» Non sorrise nessuno. Una volta chiarita la situazione, quando il gruppo cominciava a tranquillizzarsi sganciai la bomba. «Ah, già. Prima di procedere, qualcuno di voi sa l'indirizzo di un certo Dan o Daniel Peel?» Riuscii quasi a sentire le loro bocche che si chiudevano. Comunicarono
l'un l'altro senza parlare. Persino io riuscii a leggere gli sguardi che elessero Huck loro portavoce. Niente male. «Certo...» iniziò. La sua mente lavorava alacremente, lo capivo dalle frasi monche e dallo sguardo che guizzava in tutte le direzioni. In un secondo aveva considerato quello che voleva io sapessi, quello che Toby poteva aver detto, la fuga precipitosa del ragazzo e la morte di Edie. Lo dedussi da quello che disse subito dopo. «Dan viene qui ogni tanto, come tanti altri. Non so dove abiti e non so neppure cosa faccia nella vita.» Si diede un'occhiata intorno, aveva dato le istruzioni al gruppo. Continuò: «È un tipo a posto, sembra inoffensivo». Mi fissò dritto negli occhi. «Immagino che Toby le abbia detto che pensa sia un vampiro.» Rise, e sembrava sincera. «Perché mai?» «Se non l'avesse notato,» disse con un falso tono confidenziale «Toby è un po' strano.» «Sai dove si trova adesso questo Dan Peel?» «Non ne ho la più pallida idea.» Huck si era proclamata leader e aveva dato dell'idiota a Toby e, già che c'era, aveva aggirato la domanda su Dan Peel. Registrai mentalmente la sua risposta e continuai con la richiesta del mandato di perquisizione. Chiamai Lamar e ottenni l'autorizzazione a trasferire fuori casa gli inquilini della Villa. Hester e io ci recammo direttamente alla centrale di Maitland. Compilai la richiesta per il mandato di perquisizione, mentre Hester interrogava Toby e vari agenti ausiliari o fuori servizio venivano incaricati di accompagnare gli altri ragazzi in due motel. Un paio di agenti si sarebbero fermati alla Villa per evitare eventuali interferenze alle indagini. Si diressero a nord, in attesa di nostre comunicazioni. Hester e io ci presentammo dal giudice Winterman all'1.44. Era un uomo eccezionalmente scrupoloso ed esigente. Riuscire a ottenere un mandato da lui significava aver preparato una richiesta inappuntabile. Hester e io eravamo stati estremamente precisi e persino il giudice Winterman dovette sorridere quando arrivò alla parte sul "vampiro". Non fece commenti, però. Non scoppiò neppure a ridere. Dio lo benedica. Si limitò a dire: «Buona fortuna». Una volta in macchina, chiamammo gli altri per radio e facemmo scattare le operazioni. Quindi tornammo alla Villa.
Alle 2.28, Hester e io accompagnammo la squadra della scientifica nel soggiorno della Villa ormai deserta. Il loro programma era il seguente: completare le fotografie, risigillare la camera da letto e l'armadio a muro di Edie e infine raggiungere un motel dove concedersi un meritato riposo. Per il verbale, quello sarebbe stato l'inizio ufficiale della perquisizione. Due agenti sarebbero rimasti di guardia e avrebbero controllato la stanza della musica e la sala da pranzo, fotografando tutto ciò che poteva sembrare interessante e registrando tutto ciò che potesse avere un qualsiasi valore ai fini dell'indagine. Ovvero niente, speravamo noi: per questo avevamo scelto quelle due stanze. Il mandato di perquisizione in termini generali consentiva di ricercare "materiale attinente a un'indagine", ma la sezione più specifica indicava "sangue, in qualsiasi forma, e ogni sostanza simile al sangue su qualsivoglia mobile o attrezzo, interno o esterno alla casa, sopra qualsiasi oggetto della casa o su qualsiasi strumento potenzialmente utilizzato per trasportare sangue lontano dalla casa, o per rimuovere, eliminare e nascondere sangue o macchie di sangue, vuoi all'interno della struttura principale, vuoi in un qualsiasi punto dello spazio esterno contiguo", così come "un coltello o qualsiasi altro strumento da taglio potenzialmente utilizzato per infliggere la ferita alla persona deceduta". Difficile che trovassero qualcosa del genere nella stanza della musica o in sala da pranzo. Ci assicurammo inoltre che in centrale venisse fatto ogni possibile sforzo per contattare Jessica Hunley, la padrona di casa, in modo da averla a disposizione il più presto possibile. Non intendevamo forzare i lucchetti delle porte al terzo piano a meno di non esserne costretti. Hester e io scambiammo qualche battuta nel mio ufficio, dove la privacy era assicurata. Toby le aveva raccontato che Dan Peel era andato spesso a trovare Edie e che, a volte, erano saliti fino al terzo piano. Toby era convinto che Edie avesse la chiave di una delle due porte dell'appartamento della padrona di casa. Ero contento di non averlo lasciato alla Villa. Hester aveva anche chiesto a Toby se Edie e Peel fossero stati al terzo piano la notte precedente e lui aveva detto di non saperlo: la Villa era enorme e tranquilla, difficile dire dove si trovasse qualcuno in un preciso momento, a meno di non vederlo. Sia io sia Hester avevamo notato che la Villa era particolarmente silenziosa e immaginavamo che ciò fosse dovuto al fatto che i muri interni ed esterni della maggior parte delle vecchie case della zona erano molto spessi. Specie in quelle costruite prima del 1900. I muri venivano imbottiti di
segatura e in genere venivano lasciati intatti, a meno di una ristrutturazione radicale. Quindi probabilmente Toby stava dicendo la verità. Se non altro a proposito dei rumori. Alla domanda se avesse una chiave per accedere al terzo piano, Toby aveva risposto di no. Alla domanda se fosse mai salito al terzo piano, aveva detto convinto: «Assolutamente no». Hester gli aveva chiesto cosa pensava facessero lassù Edie e Peel. «Cose del tutto private» aveva risposto lui, ma aveva aggiunto che non poteva dire di più. Hester aveva insistito e tutto quello che era riuscita a ottenere era stato: «Insomma, cose intime, sesso, roba del genere». Gli aveva poi chiesto se Edie e Peel facessero quel genere di cose altrove nella Villa e Toby aveva risposto di no. Tutto ciò aveva un senso, almeno per me. Edie era, o meglio era stata, la custode della Villa. Non era irragionevole ipotizzare che avesse la chiave del terzo piapo. E il divieto di accesso per gli altri avrebbe garantito la privacy a lei e al suo amante. Ero sicuro che avremmo trovato li il luogo del delitto. Ma dovevamo attendere la scientifica: avremmo agito l'indomani. Quello che Toby non era riuscito a fare, anzi, che si era rifiutato di fare, era dare informazioni a Hester sulla faccenda dei vampiri. Aveva distolto lo sguardo e non aveva voluto dire niente sull'argomento. «Perché?» chiesi. «In fondo è stato quello stronzetto a tirare fuori il discorso per primo...» «Il fatto che non voglia affrontare l'argomento mi fa pensare che abbia detto qualcosa che non avrebbe dovuto raccontare. Una cosa grossa...» Hester sorrise «perché Toby tende a raccontare quasi tutto, subito.» «Cosa intendi dire?» «Penso che potrebbero aver fatto qualche specie di rituale con il sangue, in camera da letto. È solo una mia impressione. Quindi non ti stupire se troveremo qualcosa del genere, d'accordo?» «Per i miei gusti, non è troppo diverso dall'essere un vampiro» dissi. «Non hanno mai letto niente sulle malattie trasmesse con il sangue?» Hester sorrise. «Quando fumavi, Houseman, leggevi mai libri sul cancro ai polmoni?» Touché. «Perché credi che Toby stesse correndo nel bosco, stasera?» «Dov'è il mistero? Non crederai che volesse avvertire un vampiro che c'erano dei poliziotti sulle sue tracce, vero?» rispose sogghignando. «No. Sarebbe assurdo.» «Però...» disse Hester lentamente. «Non stava solo fuggendo.»
«Hai ragione.» La guardai. «Un diversivo per coprire qualcuno o qualcosa?» Si dondolò sulla sedia e fissò il soffitto. «A tuo giudizio qual è il tratto principale del carattere di Toby?» Ci pensai un secondo. «Sindrome da primo della classe?» Rise. «No, qualcosa di ancora più profondo. Anche se quello che dici è vero, è secondario. Direi che l'espressione "ansioso di piacere" rende l'idea.» «Sono d'accordo. Ora che me lo fai notare, il "so tutto io" dipende dal fatto che vuole farsi bello di fronte agli altri, farsi apprezzare, premiare.» «Esatto. Proprio così. Quindi correva per far piacere a qualcuno. Per fare qualcosa che qualcuno voleva facesse... o almeno così credeva lui.» La sedia ricadde in avanti e Hester si morse le labbra. «Chi potrebbe aver tratto vantaggio dalla sua fuga? Huck? Non credo. Dobbiamo scoprirlo, Houseman.» «In teoria è facile» dissi. «Ma in pratica...» «Me ne occuperò io» sorrise. «Lo scoprirò.» Non avevo dubbi. «Prima di andarcene a dormire un po',» aggiunsi «sai darmi una buona ragione per trattenere Toby? Ha parlato e non c'è nessuna azione legale in sospeso nei suoi confronti.» «No, infatti. Tra l'altro credo che ormai riesca a camminare e probabilmente ha meno paura di prima. Specialmente se questa sera può rimanere fuori dalla Villa.» Chiamammo il magistrato Benson che, con voce assonnata, acconsenti a lasciare libero Toby sotto la sua responsabilità. L'agente del turno di notte poteva farlo uscire e portarlo fino a Freiberg. Tornai alle celle e lo comunicai al ragazzo, che sembrò molto sollevato. Assegnai a Sally l'incarico di scoprire tutto il possibile su Peel e la Hunley. Il suo turno alla radio cominciava alle 4.00. Ci assicurò che la scarica di adrenalina causata dal vampiro le avrebbe permesso di restare sveglia tutta la notte. Tornai a casa alle 3.36. Sue aveva lasciato un biglietto in cui mi diceva che in frigo c'era del chow mein. Lo misi nel microonde e appena lo addentai mi resi conto che avrei dovuto lasciarcelo almeno un altro minuto. I bordi erano freddi e dentro era quasi gelato. Ero troppo stanco per aspettare e decisi di mangiarlo lo stesso, con una fetta di pane.
11 Domenica 8 ottobre 2000 8.12 Arrivai in ufficio con quattro ore di sonno alle spalle e andai subito alla centrale operativa. Borman era già sul posto, riposato e pronto a partire. Beata gioventù. «Buongiorno» disse. «Guardatelo! Fresco come una rosa. Hai dormito abbastanza?» «Più che abbastanza.» Sembrava felice e ne aveva tutti i motivi. Il caso era importante, per lui rappresentava l'occasione perfetta per mettersi in evidenza. Nella maggior parte dei dipartimenti di polizia il criterio con cui si scelgono le persone da assegnare a un caso tiene conto di chi ha più "necessità di imparare". Il nostro non faceva eccezione. «Hai qualcosa per noi?» chiesi a Sally. «Qualcosa, ma non molto» rispose. Si alzò dalla sedia alla consolle principale, che venne immediatamente occupata da Elaine Boyce. Raccolse un fascio di fogli con degli appunti e tutti e tre andammo in cucina. La cucina della prigione è a due passi dalla centrale ed è la nostra seconda casa. Per i pasti dei detenuti abbiamo stipulato un contratto con una casa di cura, così la cucina è tutta per noi: circa otto metri di banconi e pensili, con un fornello, un lavandino, un frigorifero, una caffettiera, un lungo tavolo pieghevole con gambe cromate e una copertura in linoleum che risale agli anni Cinquanta. Intorno al tavolo ci sono sedie pieghevoli metalliche con la sigla del dipartimento sugli schienali. Sally si sedette e cominciò a sparpagliare i fogli sul tavolo. «Mi dai una tazza di caffè?» «Certo.» Diedi un'occhiata a Borman, che annuì. Presi la caffettiera piena e riempii tre tazze. «Posso averne un po' anch'io?» La voce di Hester. «Subito. Lo bevi sempre con il latte?» «No, normale va bene» disse. «Buongiorno, Sally.» «Salve, Hester.» Misi tre tazze sul tavolo e presi una sedia. «Sentiamo...» «Prima di tutto,» iniziò Sally «Carl, non dimenticare di telefonare ad Harry alla Conception County. Ha chiamato alle 7.12 e ha detto che vuole
parlarti con urgenza.» Mi passò l'appunto. «Poi cosa ne dite di un breve excursus sul gruppetto della Villa? Non è stato difficile, visto che li conosciamo tutti.» «Comincia pure» dissi, sollevando la tazza di caffè. «Il primo è Toby Gottschalk. Figlio di Robert e Gwen, cresciuto in una fattoria a una decina di chilometri da Freiberg. Abbiamo una multa per guida in stato di ebbrezza, all'età di sedici anni, e due violazioni al" codice della strada, entrambe per non essersi fermato dopo aver danneggiato altre automobili. Niente di grave.» «Vai avanti» la esortò Hester. «Melissa Corey. La sua situazione è un po' differente. Non sono riuscita ad accedere al suo fascicolo giovanile, ma mi sembra di ricordare che ci fosse una detenzione per possesso di droga, giusto, Carl?» Mi si accese una lampadina. «Oh, merda, è vero, ora ricordo» dissi, un po' imbarazzato. «Lei e sua sorella maggiore avevano un po' d'erba in camera e sua madre ci chiamò, vero?» «Sì» confermò Sally. «Sua madre è divorziata due volte, forse tre e di cognome fa Warrington. La sorella di Melissa di cognome fa Burgess, come il primo marito della madre.» «Nient'altro su di lei?» chiese Hester. «Non molto. Frequentava l'Università dell'Iowa, secondo quanto dice Betty.» Un'altra operatrice radio. «Betty dice anche che Melissa è molto più brillante della madre.» «Okay. Ottimo» dissi. «Su Kevin Stammer abbiamo solo due infrazioni al codice della strada, entrambe per eccesso di velocità, entrambe per aver superato il limite di meno di dieci chilometri orari.» Sally sorrise. «Le multe gli sono state notificate da Mike e Kevin ha cercato di non pagarle. Per una è andato in giudizio, ma ha perso. Non c'è altro. Non ama l'avventura.» «Oppure è troppo furbo per farsi beccare» commentò Hester. «Giusto. Passiamo a Holly Finn, altrimenti detta Huck. L'ho perquisita io quando è stata arrestata. Credo che tu fossi in vacanza, Carl. Era il '97.» «Non saprei» risposi. «Ricordo di aver fatto le ferie quell'anno... forse.» Sally si mise a ridere. «Fidati di me. A ogni modo, l'avevano arrestata per aggressione.» «Dici sul serio?» Ero sinceramente sorpreso. «Sì. Ti ricordi di Quentin Pascoe, il tizio che aveva abusato sessualmente di quella bimba di quattro anni a Maitland?»
«Sì.» Non avrei mai dimenticato Quentin Pascoe. «Be', una sera, lui era fuori su cauzione e deve aver detto qualcosa di non troppo educato al Fast & Easy. Huck era presente, l'ha sentito, gli si è avvicinata e gli ha mollato un calcio nel culo.» «Questa storia non la sapevo» dissi. «Comunque, ha fatto bene. E voi l'avete arrestata?» «Non avevamo scelta» rispose Sally. «Gli ha anche tirato addosso una sedia.» «Meglio ancora» dissi. «Le persone intelligenti usano sempre qualcosa di solido.» La mia stima nei confronti di Huck salì di parecchi punti. «A parte quello, ha frequentato l'Università del Wisconsin, a Madison. Mi hanno detto che ha insegnato musica per un anno. Poi ha mollato tutto ed è andata a lavorare sulla nave.» «Forse guadagna di più» commentò Hester. «Hanna Prien non ha precedenti penali» proseguì Sally. «Nata, cresciuta e sempre vissuta a Freiberg. Betty dice che da piccola era una ragazzina brillante e che non ha avuto alcun problema con la giustizia. Per qualche tempo è andata a scuola con sua figlia.» «Nient'altro?» chiese Hester indicando la pila di carte davanti a Sally. «Sì, certo. Innanzitutto, abbiamo contattato Jessica Hunley a casa sua, a Lake Geneva nel Wisconsin. È partita alle 6.45 circa e dovrebbe arrivare alla Villa intorno alle 10.» Sally ci guardò, ridacchiando. «Era "assolutamente inorridita". Bella espressione, no?» «Sì, però...» Bevvi un sorso di caffè «...Era già al corrente dei fatti?» «Sì. Ma era comunque "assolutamente inorridita".» «Buono a sapersi» disse Hester. «Così, già che c'ero, ho scaricato alcune informazioni su di lei» continuò Sally. Prese un foglio e lesse: «Ha quarantatré anni, è alta un metro e settanta, occhi verdi, sessanta chili circa, risiede a un indirizzo di Lake Geneva, nel Wisconsin, e possiede due auto». Mi allungai e presi il foglio con i dati. «Vuoi sapere che auto sono? Ti prego, dimmi di sì. Ti prego.» Come potevo rifiutarmi? «Che auto sono?» chiesi. «La prima è una Mercedes Benz ML55 AM6 SUV argentata. Costa più di cinquantamila dollari.» «Però.» Quindi poteva davvero esistere un'insegnante di ballo ricca. «La seconda,» continuò Sally, gustandosi il momento «una BMW Z8 2000. Decappottabile.»
«Quanto?» Mi sentii in dovere di chiedere. «Be',» disse «mia sorella ha controllato su Internet e ha detto che costa circa centoventicinquemila dollari.» Alla faccia. «È un'insegnante di ballo?» chiese Hester. «Sì. Così dicono» rispose Borman. «Ho smesso di andare a lezione di ballo quando avevo tredici anni» disse Hester. «Mia madre mi ha sempre detto che ho fatto male.» Allungò una mano e prese i fogli con i dati sulle auto. «Comunque dev'esserci dell'altro.» Ero d'accordo. «Qualsiasi altra cosa faccia,» disse Sally «la sua fedina penale è pulita. Neanche una multa.» «Accipicchia, niente male» commentò Hester. «Nient'altro su di lei?» «No, il che ci porta al nostro Daniel Peel.» Alzai la testa di scatto. «Ieri sera ci hai detto,» disse Sally rivolgendosi a Hester, «che Toby lo ha descritto come un ragazzo bianco, di una trentina d'anni, maschio e ben messo, giusto?» «Sì.» «Be',» continuò Sally «ho fatto una ricerca nell'Iowa. Non ne è uscito nulla e gli archivi vanno di tre anni avanti e indietro rispetto alla data di nascita che si segnala. Allora ho fatto una ricerca alfabetica. C'era... Dunque... vediamo. Ah, ecco! Sotto Peel abbiamo un Dabney, un DaMar, due Darwin, quattro David, un Dawane, un DaVere e un DaBurl.» Si sedette. «Tutto tranne Daniel. Nessuno di loro ha trent'anni. Il più giovane ne ha quarantatré.» Sembrava che ci fosse dell'altro. «Poi,» disse con un sorrisetto furbo «nel caso in cui tu non l'avessi scritto bene, ho fatto una ricerca con nomi che si pronunciano in modo simile e li ho scritti Peel, Pele, Pfeil, Pale... Erano tanti, davvero». Si strinse nelle spalle e scosse la testa. «Allora ho fatto un controllo in tutti i cinquanta stati, inserendo come data di nascita 30 giugno 1970 e non ho trovato nessuno con quel nome.» Aveva l'aria delusa. «Il NCIC, National Crime Informations Center, effettua un controllo anche sull'anno prima e quello dopo rispetto alla data inserita, ma è necessario che mese e giorno siano esatti. Il che significa che dovremmo inserire il nome trecentosessantacinque
volte e, anche se lo facessimo, otterremmo solo una copertura di un paio d'anni.» Grandioso. «Allora ho chiamato Gray Eyes e le ho spiegato parte del problema. Un sospetto omicida.» Alzò la mano, per bloccare sul nascere eventuali lamentele. «Non ho mai pronunciato la parola che comincia per "V". Non vi preoccupate.» Gray Eyes era un'amica di Sally che aveva lavorato per la polizia stradale della California. Si erano conosciute a un convegno e Gray Eyes era, a giudizio di Sally, la migliore operatrice di tutti i tempi. Adesso lavorava per il NCIC di Washington. Erano rimaste in contatto, evidentemente. Sally alzò lo sguardo. «Ha allargata la ricerca, visto che può programmarne una. Gli ha dato dai venticinque ai cinquant'anni. Data di nascita tra il 1950 e il 1975. Abbiamo trovato un tale nel North Dakota che ha quarantaquattro anni e due uomini nel Montana, uno di venticinque e l'altro di cinquant'anni esatti.» «Tutto qui?» «No, non proprio. In California ce n'erano duecentottantasette e quattrocentosessantadue nello stato di New York.» Indicò i fogli. «Per un totale di novecento persone in tutti gli Stati Uniti, finora, tenendo conto che i computer dell'Illinois, del Texas, della Louisiana, della Florida e dell'Arizona non sono in funzione per una manutenzione ordinaria e che quindi attualmente non è possibile accedervi per una ricerca estesa. E non abbiamo ancora controllato tutte le età.» Prese fiato. Magnifico. «Hai trovato qualcuno con precedenti penali?» chiese Hester. Sally non alzò neppure lo sguardo. Si limitò a sollevare un dito. «Poi,» continuò «sono andata un po' oltre la mia autorità: ho usato il nome e i dati del nostro vicesceriffo Houseman e ho cominciato a mettermi a caccia di vampiri.» «Che cosa hai fatto?» Ero senza parole. Non per quello che aveva fatto, ma perché l'aveva detto davanti a Borman ed Hester. «Cioè, non proprio di vampiri. Ma di casi in cui si è verificato un cospicuo spargimento di sangue.» Alzò lo sguardo. «Rilassati. Ne avevo parlato con Hester ieri sera» sorrise. «Dopo che sei andato a fare la nanna. Non è tutto merito mio.» «Abbiamo usato il tuo codice per il LEIN,» disse Hester «il mio avrebbe attirato troppo l'attenzione.»
«E io chi sono, "Carl lo Sconosciuto"?» Nessuna risposta. Una cospirazione. Pazienza. So accettare le sconfitte. A ogni modo, LEIN sta per Law Enforcement Intelligence Network. Alcuni agenti dell'Iowa sono stati abilitati a operare all'interno di quel sistema e tutti, me compreso, abbiamo un numero di identificazione. Il programmatore a Des Moines non avrebbe fatto troppo caso al mio, mentre quello di Hester avrebbe attirato maggiormente l'attenzione. Sally mi passò un modulo di richiesta per la ricerca dati nel LEIN. «Firma qui» mi disse. «Giusto per pararmi il culo.» «Cosa hai scoperto?» Ero curioso. «Sapete,» disse Sally «credo che là fuori ci siano persone che credono davvero di essere dei vampiri e che vengono prese solo quando le vittime muoiono o si lamentano, o quando lo fanno i vicini di casa.» Mi passò una lista. «Ci sono crimini commessi nell'Iowa, nel Wisconsin e nel Minnesota che comprendono "l'ingestione di sangue delle vittime contro la loro volontà".» Trovai particolarmente interessante quel "contro la loro volontà". Nell'elenco comparivano diciotto casi, con il nome del dipartimento che se ne era occupato e la data di archiviazione. Il più vecchio risaliva al 1993. Il più recente al luglio 2000. Passai la lista a Hester. Sally aveva sottolineato in rosso il caso del 1993. Il dipartimento era quello della Walworth County nel Wisconsin. Sally aveva appuntato a margine che si trattava proprio della contea di Lake Geneva.» «Davvero?» domandò Hester. Passò il foglio a Borman. Sally era molto contenta. «Proprio così.» «Allora credo che dovremo parlare con loro.» Sally mi passò un altro foglio con il numero di telefono dello sceriffo della Walworth County e quello della sede del Wisconsin Bureau of Criminal Apprehension. «Poi...» disse senza perdere un colpo «faresti meglio a contattare il procuratore della contea. Ha chiamato una mezz'oretta fa. Voleva sapere com'è andata ieri sera.» Trasalii. Mi ero dimenticato di lui. «E telefona a Lamar prima di andartene.» «Notizie dai ragazzi lassù?» chiese Hester. «Ogni trenta minuti circa, per tutta la notte» rispose Sally. «Hanno terminato la ricerca nelle stanze assegnate in meno di un'ora e poi si sono an-
noiati a morte.» Per prima cosa chiamai Harry. Sapevo quello che stava per accadere. «Houseman, stronzo figlio di puttana» mi apostrofò ridendo. «Dove l'hai trovato quell'idiota di Chester? Grazie per avermelo mandato.» «Non c'è di che. A cosa servono gli amici, se no?» «Giusto. Comunque, hai qualcosa di nuovo per me, a parte una testa di cazzo che va a caccia di vampiri?» Sospirai. «Be', sì, qualcosa abbiamo.» «Davvero?» Era tutto orecchie. Gli parlai di Toby e di ciò che era successo la notte precedente. «Mi stai prendendo per il culo, Carl?» «No.» Ci fu un attimo di silenzio. Quindi domandò: «Ti farebbe piacere incontrarti con me e il signor Chester in giornata?». «Troverò sicuramente il tempo» risposi. «Quando?» «Non lo so ancora. Lasciami controllare i motel in cerca dell'acchiappavampiri, poi ti telefono.» Hester stava chiamando il dipartimento della Walworth County e il BCA del Wisconsin, così mi occupai del procuratore e di Lamar, mentre Sally tornava a casa per riposarsi un po'. Se lo meritava. Borman lavò tazze e caffettiera. Di sicuro si aspettava che lo facesse Sally, ma poi si era reso conto che il lavoro peggiore toccava a chi aveva contribuito meno. Giusto così. Avrebbe contribuito molto presto, ne ero convinto, ma anche allora non avrebbe convinto Sally a fare le pulizie. «Sei serio quando parli di quella faccenda dei vampiri, Carl?» A volte Borman è così sincero da essere pericoloso. «Sì, e le tue labbra sono cucite, vero?» «Oh, certo, certo.» «Un errore in queste circostanze può costare il posto di lavoro. Non scherzo.» Sembrava ascoltare attentamente. Lo speravo. Andai di nuovo al telefono. Mike Dittman, il procuratore della contea, si mostrò lievemente sorpreso nell'apprendere che avevamo disturbato un giudice distrettuale nel cuore della notte, ma quello che lo turbò di più fu sapere che avevamo aperto ufficialmente le indagini e poi ce n'eravamo andati a dormire. Gli dissi che
avevamo lasciato sul posto un buon numero di agenti e si tranquillizzò. «Sicuro che si possa fare?» mi chiese. «Sicurissimo. L'ha confermato il giudice. Ha detto che tu saresti stato in grado di trovare le giuste motivazioni legali prima dell'udienza preliminare.» Il giudice Winterman aveva uno spiccato senso dell'umorismo. Io, almeno, ne ero convinto. Lamar voleva solo farmi sapere di aver detto a sua sorella che non si trattava di suicidio. «Sai come ha reagito?» continuò. «No.» «Ha detto: "Scommetto che è stata quella puttanella di Finn". Precise parole.» «Davvero? La nostra Huck? Difficile da credere.» «È quello che ha detto. Non avete scoperto niente su di lei?» «No, ma controlleremo ulteriormente.» «Ah, Carl... Dovresti pensare a una dichiarazione da rilasciare alla stampa. Non possiamo sperare che restino in silenzio per sempre.» Neanche la domenica. Un'altra gatta da pelare. E non eravamo ancora tornati alla Villa. Hester aveva notizie deludenti. Tutto ciò che riguardava l'incidente avvenuto nella Walworth County era materiale riservato e avremmo potuto esaminarlo solo l'indomani. Neanche l'operatore della radio di stato in servizio al centralino del BCA del Wisconsin vi aveva accesso. Si era offerto di contattare un agente in grado di farlo, ma non era sicuro di trovarne uno con le giuste credenziali. «Alla parola "credenziali" sostituisci "chiavi"» disse Hester. «Non avremmo ottenuto neppure quelle, a meno che non si fosse trattato di qualcosa di estremamente urgente. Gli ho detto di provare lo stesso e di non farlo sapere né al direttore, né a nessun altro.» Nel parcheggio incontrammo la squadra della scientifica. Christopher Barnes, lo specialista delle macchie di sangue, ci avrebbe aspettato alla Villa. Arrivammo alle 9.38, lasciammo andare a casa i due agenti del turno di notte e registrammo il nostro ingresso in servizio. Il compito che ci attendeva era impegnativo, dal momento che c'erano otto stanze al secondo piano, sette al primo e un numero imprecisato al ter-
zo. Per non parlare del seminterrato. Come previsto, Chris Barnes ci stava aspettando. Era il miglior esperto di macchie di sangue in tutto il Midwest. Inoltre, era anche una persona con cui era facile lavorare, molto disponibile a spiegare ogni aspetto del proprio lavoro. Cominciammo dal seminterrato. Era enorme, con soffitti a volta e sette diversi vani. Aveva pilastri di mattoni, pavimento e muri di cemento, soffitti di gesso. Era il seminterrato più pulito che avessi mai visto. L'impianto di riscaldamento era molto grande, ricavato da un vecchio bruciatore a carbone, completo di una caldaia e di un complesso sistema di tubi. Uno dei tecnici cominciò proprio da quello, cercando tracce di materiale bruciato. Borman restò con lui per aiutarlo a registrare gli oggetti rinvenuti e a raccogliere e fotografare le eventuali prove. Un tecnico della scientifica di nome Grothler e io cominciammo a occuparci del primo piano, dal momento che Hester, Chris Barnes e il capo della squadra della scientifica avevano preso in consegna il secondo. Hester aveva cominciato la sua carriera come tecnico della scientifica una decina di anni prima e, visto che a nostro giudizio la zona più probabile in cui ritrovare tracce (come quelle di sangue) era il secondo piano, se ne occuparono i più esperti. Mi sembrava che non fosse passato nemmeno un minuto, quando squillò il telefono. Era Harry. «Puoi correre, Houseman, ma non nasconderti. Cosa ne dici di incontrarci adesso?» «D'accordo. Dove?» «Nel mio ufficio. Staremo più tranquilli.» Lo dissi a Hester, che decise di rimanere con la scientifica. Mentre attraversavo il ponte di un chilometro e mezzo che mi avrebbe portato nel Wisconsin, notai che il cielo si stava coprendo. L'aria era anche più fresca. Di li a poco avrebbe cominciato a piovere. L'ufficio di Harry era davvero tranquillo. «Ho detto a tutti di portare il loro culo in strada» mi spiegò lui. Guardai William Chester. «Harry ha grandi capacità amministrative» dissi. Chester annuì, ma non disse nulla.
«Carl,» brontolò Harry «vuoi ripetere al signor Chester quello che hai detto a me?» «Certo, ma prima, signor Chester, occorre chiarire una cosa. Devo chiederle di firmare un documento in cui garantisce di non rivelare nulla di ciò di cui parleremo qui. In caso contrario subirà una severa sanzione penale.» Detto ciò, aprii la mia cartella di pelle, tirai fuori un modulo e glielo porsi. «La prego di leggerlo attentamente.» Lo prese e l'osservò. «Ne ho già firmati altri in passato» commentò. Estrasse una penna dalla tasca della camicia e firmò il modulo con una sigla. «Potrei averne una copia?» «Nessun problema» disse Harry. «La fotocopiatrice è nella stanza accanto. Torno subito.» Osservai il cacciatore di vampiri. «Okay, le spiego quanto è accaduto dall'ultima volta che abbiamo parlato...» Cinque minuti dopo, avevo finito. «Ho capito» disse Chester. «Adesso ammettete di avere a che fare con un vampiro.» «Assolutamente no.» Volevo essere certo che non ci fossero equivoci. «La persona con cui ho a che fare è, con ogni probabilità, un povero fissato, che crede di essere un vampiro. Nient'altro, perché io so che i vampiri non esistono.» «Se lo dice lei...» Non sopporto quando la gente fa così. «Quello che voglio da lei è quanto segue: voglio sapere come qualcuno che crede di essere un vampiro pensa che si comporti un "vero" vampiro. Il modo in cui agisce. Per convincere se stesso e magari qualcun altro che lo è davvero.» «In cambio di cosa?» chiese Chester. «In cambio del permesso di accedere a tutte le informazioni che possono avere a che fare con il vampiro, ma non ai principali dati del caso.» «A meno che non ne abbia bisogno...» «Mettiamola così: se sarà necessario che lei rilasci una testimonianza in qualità di esperto, le forniremo tutte le informazioni di cui siamo al corrente. Le sembra equo? In questo modo lei darà un contributo significativo alla nostra indagine e potrà ottenere il materiale che vuole, ma non potrà parlare con la stampa, in quanto testimone dell'accusa.» Ci pensò un istante. «D'accordo, ma in futuro potrò pubblicare i miei dati? Per me è importante.» Rivolsi un'occhiata a Harry. «A te sta bene?»
«Sì.» Dal modo in cui lo disse, capii che Harry avrebbe ritrattato tutto alla prima occasione. A ogni modo, se la sarebbero vista tra loro. Diedi a Chester un breve stralcio di ciò che sapevo. Restò colpito, in un certo senso soddisfatto. «Santo cielo, vi rendete conto di quello che avete? Avete una tana. La tana di un vampiro, con una casa piena di Renfield e donatori di sangue. Mio Dio.» Era attonito. «Renfield?» chiese Harry. «Renfield era il servo di Dracula» spiegò Chester. «Ah, certo» disse Harry, con notevole aplomb. «E ce ne sono più di quelli che si aspettava?» Credo che Harry avesse fatto quella domanda per stuzzicarlo, ma Chester non sembrò accorgersene. «Sono anni che indago» disse. «Anni. Ma non mi è mai capitato nulla di simile. Mai.» «Be',» dissi io con l'intenzione di tornare all'argomento principale «mi fa piacere per lei. Ora, però, abbiamo bisogno di alcune informazioni.» Ero stato piuttosto cauto nell'interrogarlo: non volevo che si insospettisse almeno fino a quando non saremmo riusciti a scartare il suo nome dalla lista dei sospetti. E anche se non ce lo eravamo detti esplicitamente, sapevo che Harry la pensava come me. Inoltre ci stavamo rendendo conto che quell'uomo credeva veramente ai vampiri. Quanto potevano essere affidabili le sue informazioni? Molto, se quello che cercavi era soprattutto folclore. Ed era quello che cercavamo. «Cosa sta cercando di comunicarci questo individuo?» chiesi per prima cosa. «Ammettendo che sia stato lui a uccidere...» «Oh, sì che è stato lui» disse Chester. «Giusto» assentì Harry. «Allora, qual è la ragione di quella ferita alla gola e di tutte le altre ferite inflitte dopo il decesso?» «Siete sicuri che siano state inflitte dopo il decesso?» «Nella maniera più assoluta» rispondemmo io e Harry all'unisono. «Capisco.» Il nostro esperto si schiarì la voce. «Allora forse potrebbero essere state inferte per nascondere la vera natura della ferita. Per cancellare, diciamo così, il segno del morso.» «Impossibile» ribattei. «Non ci sono segni di morsi.» «Potrebbe averlo fatto perché si parli delle ferite al collo o alla gola» azzardò Harry. «Cosa ne pensate?» «È possibile, non dico che sia andata veramente così, ma sì, è possibile.»
L'argomento scaldò Chester e ne parlammo per circa un'ora. La conclusione fu che il sangue, sebbene fosse un fattore molto importante per un "aspirante vampiro", non costituiva affatto un nutrimento. «A differenza dei veri vampiri, la maggior parte degli imitatori consumano al massimo tre centilitri di sangue alla volta» spiegò Chester. «Se ne assumessero una maggiore quantità tutti i giorni, finirebbero per soffrire di diarrea e di molti altri disturbi. Come un'ulcera sanguinante. A volte possono esagerare, ma non spesso.» Utile informazione, ma mi rimase il dubbio su che fine avesse fatto tutto il sangue di Edie. Chester disse anche che gli imitatori più sofisticati recitano la parte in tutto e per tutto, indossando gli abiti che hanno visto nei vecchi film. «Per convincere i seguaci, che si aspettano di vedere il conte Dracula in persona.» «Ovvio.» «Inoltre un aspirante vampiro cerca di organizzare la propria vita secondo quei preconcetti. A volte lo fa per se stesso, a volte per i suoi seguaci o per le sue vittime.» A quanto ci era dato di capire esistevano due tipi di Renfield. Il primo era stato asservito da un vampiro. Il secondo aveva un reale interesse per il sangue e partecipava personalmente ai riti. «Quelli sono i Renfield "cronici"» disse Chester. «È una malattia.» «Come reagirebbero queste persone a un'indagine?» Il bioarcheologo rise per la prima volta. «Non sarebbero cooperative, nel modo più assoluto. Proteggerebbero il vampiro. Gli rivelerebbero qualsiasi cosa voi diciate. La maggior parte di loro negherebbe persino la sua esistenza. Cercherebbero di fuorviarvi in ogni maniera.» «Ostili, dunque» sintetizzò Harry. «Esatto.» «Ma cosa vedono di speciale in un tipo simile?» domandai. «Innanzitutto, li protegge. È potente. Li vendica, se necessario. È deliziosamente malvagio. È immortale. Può avere dei rapporti sessuali molto intensi ed è completamente amorale. Deve esserlo. Dopo tutto,» aggiunse in tono confidenziale «non è umano.» «Tutto ciò da cui ci hanno sempre messo in guardia le nostre madri» disse Harry. «Giusto?» «Già. Ma quello che dovete capire è che questi Renfield spesso sono state vittime di una... persona. Le loro esperienze li hanno resi depressi, o
quanto meno infelici. Sono dipendenti, ma non in maniera evidente. Poi incontrano il vampiro, che soddisfa i loro bisogni psicologici.» Esattamente quello che volevo sentire. «E lei, per quale motivo dà loro la caccia?» domandò Harry. William Chester esitò per un secondo o due, poi disse: «Mia sorella. Anni fa, uno di loro la prese. Non sopravvisse». «Sa chi è stato a ucciderla?» chiese ancora Harry. Non era noto per la sua delicatezza, ma la gente non sembrava farci caso. Non capivo come mai. «No, No.» Chester si piegò in avanti. «Questa volta, però, ci sono molto vicino.» Mi parve che avesse negato troppo alla svelta. Prima di riattraversare il Mississippi per tornare nell'Iowa, ribadii a Chester le regole della "non interferenza". Si doveva limitare a contattare Harry o il sottoscritto. Punto. Non doveva avvicinarsi ad alcun testimone o potenziale sospetto, altrimenti fine dei giochi. Mi allontanai, sicuro del fatto che Harry avrebbe controllato ogni singolo capello di William Chester prima che se ne fosse andato. Mi aveva colpito per la sua sincerità, ma i poliziotti imparano presto a non fidarsi dell'apparenza. E bisognava ancora capire quanto sarebbe stato effettivamente utile al caso. Tornai alla Villa e scoprii che alla scientifica erano bastate due ore per esaminare il seminterrato. Avevano trovato due zone sospette in cui il sangue poteva essere stato lavato via, ma non avevano ottenuto risultati positivi con la leucomalacite verde. La leucomalacite verde è una sostanza incredibile. Si mischia con acqua, perborato di sodio e acido acetico glaciale. Una goccia o due sul tampone, quindi un paio di gocce di perossido di idrogeno, e tombola. Se c'è del sangue, viene immediatamente fuori una specie di soluzione colorata. Si usa per vedere se è il caso di procedere con analisi più accurate in una certa zona. Un liquido incredibile. In grado di far risparmiare parecchio tempo se si scopre che non ci sono tracce di sangue sul campione. Quello che stavamo cercando erano essenzialmente segni di strofinamento. Qualcuno doveva aver cancellato le tracce con un panno, una spugna o altro, sia dal luogo in cui Edie era stata uccisa, sia lungo il tragitto fino alla vasca da bagno. Il problema era che il primo piano aveva tre tipi di superfici dove era possibile che il sangue si fosse depositato: c'erano
ampie zone coperte da tappeti, spazi altrettanto grandi, se non di più, con il parquet e infine il pavimento piastrellato della cucina e della dispensa. Per non parlare dei pannelli in finto legno e delle pareti verniciate. E i mobili, naturalmente, tutti di legno o di altro materiale. Trovare segni di strofinaccio su superfici dove ci sono innumerevoli altri segni e tracce prodotte dallo strofinio ripetuto era un compito ingrato. Inoltre qualcuno avrebbe potuto anche usare del detergente per pulire tutto. Si doveva analizzare praticamente ogni centimetro della casa. Dovevamo sperare che la squadra che lavorava al secondo piano trovasse qualcosa. In quel caso avremmo potuto seguire la traccia dalla vasca da bagno al luogo in cui era stato compiuto l'omicidio. Niente di più. 12 Domenica 8 ottobre 2000 12.16 «Buongiorno. C'è nessuno?» Una voce di donna giunse dalla porta d'ingresso. Ero in ginocchio, con una piccola torcia in mano, e cercavo tracce di strofinamento sul pavimento della sala da pranzo. Mi alzai a fatica e mi avviai verso la porta. Borman, che si trovava nella stanza della musica, arrivò appena prima di me. «Sì?» disse in tono deferente. La voce della donna sembrò più vicina quando disse: «Sono la proprietaria di questa casa. Potrebbe indicarmi chi è il responsabile, qui?». «Certo» rispose Borman. In due frasi la sconosciuta gli aveva fatto capire che lei era una persona importante e lui no. Non male. Girai l'angolo e vidi due donne avanzare nell'atrio lasciandosi alle spalle Borman, evidentemente intimidito. Una delle donne dimostrava una ventina d'anni, l'altra non più di trentacinque, ma sapevo dalla sua patente che ne aveva quarantatré. Erano entrambe adetiche e snelle, ma Jessica Hunley era di circa sette centimetri più alta della sua giovane compagna, completamente vestita di pelle. La cosa più sorprendente, però, erano i capelli della ragazza. Sembravano metallici: erano color giallo limone sulla fronte e continuavano con tinte tipo verde lime, blu e rosso per poi terminare con il viola. Lucidi. Iridescenti. Catturavano l'attenzione, tanto per usare un eu-
femismo. Decisi che dovevo essere un po' più difficile da intimidire di Borman. «Buongiorno. Mi chiamo Houseman.» Porsi la mano. La donna non ebbe scelta e me la strinse. Una stretta energica. «Lei dev'essere Jessica Hunley.» «Sì.» Ci fu un momento di silenzio, giocai d'anticipo e porsi la mano anche alla ragazza. «Vicesceriffo Houseman.» «Tatiana Ostransky. Io sono con Jessica.» La sua stretta di mano era asciutta e decisa. Jessica partì all'attacco. «Vice? Speravo di trovare lo sceriffo.» «Le ragioni sono due» dissi. «La prima è che sono l'investigatore del dipartimento. La seconda è che Edie era la nipote dello sceriffo. E lo sceriffo oggi ha altro da fare.» Le mie parole la sorpresero. «Quindi è lei il responsabile?» Un bel sorriso, aperto e assolutamente falso. «Esatto.» Il suo sguardo diceva che sapeva perfettamente a che gioco stavo giocando e che era convinta di potermi battere in qualsiasi momento. Bene. Indicai il salottino. «Se ci accomodiamo di là, vi darò alcune informazioni.» Ero curioso di sapere perché l'arrivo delle donne alla Villa non era stato almeno annunciato, se non ritardato, dai due agenti all'esterno. Mentre ci avviavamo, li vidi in lontananza. Probabilmente avevano deciso di combattere la noia andando a fare un giro. Giunti in salotto, nessuno si sedette. «Che cosa sta facendo in cucina?» chiese la Hunley indicando un tecnico della scientifica che la fissava. Per rispondere almeno in parte alla sua domanda, aprii la mia vecchia cartella di pelle e tirai fuori la copia del mandato di perquisizione che le spettava. Gliela porsi e dissi: «Stiamo compiendo una perquisizione autorizzata di tutti i locali. Quell'uomo è uno dei tecnici della scientifica». Jessica Hunley estrasse un paio di occhiali da lettura da un astuccio che teneva in vita e lesse il mandato con attenzione. Indossava pantaloni verde oliva un po' larghi, in microfibra, un pullover a collo alto con le maniche rimboccate e scarpe di pelle nera con la cerniera che sembravano morbide
come guanti. I capelli castani erano raccolti da una fascetta bianca in una corta coda di cavallo. Era in perfetta armonia con la casa. Raffinata. Gli occhiali la rendevano ancora più interessante, se possibile. Se li tolse di scatto e passò il documento alla compagna. «Non mi avevano detto che si trattava di omicidio» disse. Il tono della voce era del tutto distaccato. «Non se ne abbia a male» risposi. «Non lo sapevamo neanche noi.» «Avete sospetti su qualcuno?» «Sì» dissi. Silenzio. Era chiaro che non le avrei rivelato il nome e, a quanto pareva, lei non mi avrebbe dato la soddisfazione di chiedermelo. «Allora,» disse cambiando discorso «dove sono gli altri?» «La maggior parte di loro ha trascorso la notte in motel della zona, ma dovrebbero rientrare a casa questa sera stessa, credo.» «La maggior parte?» «Be',» dissi «tutti tranne Toby, che è agli arresti.» Amo il mio lavoro. La bocca di Jessica si aprì leggermente, ma prima che ne uscisse qualche suono Borman, guardando fuori dalla finestra, annunciò che gli agenti ausiliari erano rientrati. Non ne aveva colpa, ma avevo perso la possibilità di osservare una reazione spontanea da parte della donna. Mi sarebbe piaciuto ascoltare quello che stava per dire. A giudicare dal modo in cui Borman guardava i capelli lucenti di Tatiana, avrei detto che non aveva sentito neanche una parola. L'effetto dell'annuncio di Borman fu che tutti e quattro guardammo fuori dalla finestra. Controllai la macchina di Jessica. Non riuscivo a vederla distintamente, dal momento che gli agenti mi coprivano la visuale, ma era una BMW Z8. Non ne avevo mai vista una. Mi colpì il fatto che, sebbene fosse un'auto assolutamente moderna, si intonava perfettamente a Jessica Hunley, proprio come la vecchia Villa. «Sono lieto che sia arrivata» le dissi. «Abbiamo bisogno di qualcuno che ci faccia accedere al terzo piano.» «Perché? È aperto solo quando ci sono io. Non può avere niente a che fare con questo... omicidio.» «Be', come si dice, un lucchetto tiene lontano solo l'uomo onesto» dissi. «Ipotizziamo che, in teoria, resti chiuso quando lei non c'è.» «Ipotizziamo che, in teoria, resti chiuso quando dico che è così» disse e dalla tasca dei pantaloni estrasse un cellulare incredibilmente piccolo. Mentre componeva un numero annunciò: «Chiamo il mio avvocato... Pronto, sono Jessica Hunley. È in ufficio?». Ci fu una breve pausa. «Sì, sono io.
Sono nella mia casa sopra al fiume. Ci sono alcuni poliziotti locali con un mandato di perquisizione. Venga subito qui.» Parlava con voce annoiata, quasi la cosa non la riguardasse affatto. Quando ebbe terminato disse: «Sarà qui tra dieci minuti». Un dato di fatto, non una valutazione. L'avvocato doveva essere uno del posto, oppure un nuotatore straordinario. Ero curioso di scoprire chi fosse la persona che veniva comandata così a bacchetta. «Possiamo aspettare» dissi. «Abbiamo molte cose da fare prima di salire al terzo piano.» Fece per restituirmi la copia del mandato, ma la fermai. «No, quella è sua. Per legge dobbiamo lasciarne una al proprietario, oppure in luoghi dove il proprietario possa facilmente trovarla.» Mentre la piegava, chiesi: «L'unica chiave per accedere al terzo piano è la sua?». Con mia sorpresa, rispose: «Credo che prima di rispondere alla sua domanda aspetterò l'arrivo del mio avvocato». «Come preferisce,» dissi in tono colloquiale «ma non credo che ne abbia bisogno. Lei non è sospettata di niente.» «Chiunque può essere denunciato.» Giusto. Assolutamente giusto. Qualcosa mi diceva che Jessica sarebbe stata una bella gatta da pelare. Chiesi cortesemente a lei e Tatiana di trattenersi in salotto e ordinai a Borman di rimanere con loro. Non trovò nulla da ridire. Mi recai in cucina, dissi al tecnico della scientifica di proseguire il lavoro e quindi mi diressi verso il secondo piano per riferire agli altri le novità. Mentre percorrevo il corridoio, notai due cerchi gialli di gesso sul tappeto orientale blu, rosso e dorato. A occhio nudo non riuscivo a cogliere differenze tra la zona interna e quella esterna ai cerchi, ma era chiaro che avevano trovato qualcosa. Erano tutti e tre nella camera da letto di fronte a quella di Edie. Dai vestiti sparsi in giro, immaginai che fosse la camera di uno dei maschi. «Hester, hai un secondo?» «Certo.» Le raccontai ciò che stava accadendo al piano di sotto. «Stronzate.» «Giusto» dissi. «Dovresti vedere Jessica Hunley e la sua amichetta Tatiana.» «Perché?» «È un tipo un po' più... sofisticato del normale. È arrivata con la Z8.» Sorrisi. «Credo che Borman si stia chiedendo se possa portarsi a casa Ta-
tiana come prigioniera di guerra.» «Come se tu non fossi sensibile al fascino femminile, Houseman» disse Hester inarcando un sopracciglio. «Stai attento.» Hester aveva ragione, naturalmente. «Un membro attraente dell'altro sesso può influenzarti senza che tu te ne renda conto» esclamai citando alcune frasi dei miei trascorsi accademici. «Ma su di me non ha mai funzionato.» Si mise a ridere. «Sei incorreggibile.» «Cosa avete trovato da queste parti?» chiesi cambiando discorso. «Probabili macchie in corridoio, un possibile segno di strofinaccio sul pavimento accanto alla vasca di Edie, numerose tracce di latte solare a protezione cinquanta, cosmetici nelle stanze dei ragazzi, cosi come in quelle delle ragazze» disse con una risatina. «Dettagli trascurabili. Alcuni abiti vittoriani molto belli e antichi, gioielli altrettanto belli. Tatuaggi da applicare come una decalcomania. Alcuni ottimi cd musicali. Nient'altro. Nessun'arma. Niente che faccia pensare a qualcosa di strano.» Si diede un'occhiata intorno. «Abbiamo ancora tre stanze. Ci sono decine di angoli e nicchie...» Le parlai della conversazione che avevo avuto con Chester. Mi chiese se mi fosse servita a qualcosa e le risposi che avremmo dovuto aspettare per capirlo. Era stata nella cucina al piano inferiore appena prima del mio arrivo. «Sai quanti coltelli ci sono in una cucina? Coltelli che potrebbero essere un'arma del delitto?» «Molti, vero?» «Ne abbiamo raccolti sedici o diciassette e li abbiamo mandati in laboratorio. Potremmo non sapere mai quale coltello è stato usato.» Quando tornai in salotto, Tatiana era rannicchiata su un divano, il mento quasi a contatto con le ginocchia. Puntava tutta su Borman. La luce che filtrava attraverso la finestra esaltava i colori dei suoi capelli. Stava dicendo: «...e tu hai fatto davvero degli inseguimenti ad alta velocità?». Non sono certo di quello che Borman stesse per rispondere, ma quando mi vide si ricompose e disse: «Un paio di volte, al massimo». La posizione, i capelli lucenti e il finto interesse della ragazza, avevano mandato Borman completamente in bambola. Sono convinto che se gli avesse chiesto di mostrarle la pistola d'ordinanza, l'avrebbe fatto. Magari l'avrebbe scaricata, ma gliel'avrebbe data.
Mi ripromisi di tenere quei due il più lontani possibile. «Noi raccomandiamo di evitare gli inseguimenti» mi intromisi. «Di tutti i tipi. Sono troppo pericolosi.» Credo che Borman avesse colto il significato delle mie parole, ma senza un secchio di acqua ghiacciata non avrei riconquistato la sua piena attenzione. «Il mio avvocato arriverà a momenti» disse Jessica sorridendo con dolcezza. Il walkie-talkie di Borman gracchiò. «Otto, c'è un avvocato qua fuori, dice che deve parlare con la proprietaria del macchinone.» Era Knockle, l'ausiliario più anziano. Feci un cenno a Borman, che rispose: «Fallo passare». Alcuni secondi dopo la porta si aprì e rimasi sorpreso nel vedere Junkel e Koch, titolari dell'omonimo studio legale, fare il loro ingresso in coppia. Nessuno dei due aveva i vestiti che si metteva abitualmente in tribunale. Junkel era in jeans e felpa, Koch in pantaloni corti, sandali e polo. «Signori,» dissi «accomodatevi, prego.» Il loro sguardo mi attraversò. «Quaggiù» disse Jessica Hunley. «Quest'uomo ci ha detto che non possiamo uscire da questa stanza.» Non era esattamente così, ma i due si precipitarono da lei oltrepassandomi e lanciandomi occhiatacce. Guardai Borman. «Sarà una lunga giornata.» Mentre le cose procedevano, all'inizio anche molto in fretta, il potere di Junkel e Koch fu subito evidente. Per vari motivi. Innanzitutto, Junkel era in lizza per un posto alla corte d'appello dell'Iowa e Koch era senatore nonché uno dei possibili candidati alla poltrona di governatore. In secondo luogo, entrambi erano noti per essere estremamente ricchi. Terzo, dopo aver parlato con Jessica per alcuni secondi mi chiesero il numero di telefono del procuratore della contea. Koch si mise al telefono e Junkel iniziò a esaminare la copia del mandato di perquisizione che avevo consegnato a Jessica. Mentre ringraziavo Dio per il fatto che il giudice che aveva emesso il mandato fosse Winterman, riuscii a sentire Koch che cominciava a dare parecchi grattacapi al procuratore. Dopo alcuni istanti, mi passò il cellulare. «Il procuratore vuole parlare con lei.» «Carl?» Il tono era preoccupato.
«Sì?» «Carl, potremmo avere un problema. Voglio dire, se quel terzo piano è chiuso a chiave, la donna ha le chiavi e la porta non è stata forzata, credo che per alleggerire un po' la situazione sarebbe meglio se, per oggi, non saliste lassù.» Tutto d'un fiato. «Non credo che il giudice Winterman sarebbe d'accordo, Mike» dissi. Sospirò. «Lascia che sia io a giudicare. Sai chi sono questi avvocati?» «Sì.» Rispondevo a monosillabi, dal momento che Junkel e Koch stavano ascoltando. «Credo che se li facciamo incazzare si opporranno al mandato. Se ci invalidano il mandato, perderemo il caso.» «Non succederà» dissi. «Ne sei sicuro?» «Sì.» Ci fu una pausa molto significativa. «Spero che tu sappia qualcosa che io non so.» Quali altre possibilità avevo? «È così.» Sapevo che probabilmente Edie aveva una sua chiave. «Carl, mi auguro davvero che tu abbia ragione.» Fu più forte di me. «Anch'io. Ci sentiamo più tardi.» L'avvocato Junkel mi guardò. «È lei il responsabile, qui?» «Vicesceriffo Houseman, al suo servizio» dissi. L'avvocato Koch, che stava parlottando con Jessica Hunley, si girò e mi guardò con attenzione. «Non sarà mica...?» «Sì» risposi. «Sono io» e gli offrii il mio miglior sorriso. Circa dieci anni prima avevo arrestato suo nipote per abuso sessuale di terzo grado dopo che, presumibilmente, aveva fatto ubriacare una ragazza e aveva fatto sesso con lei mentre era priva di sensi. Il procuratore della contea e Koch avevano raggiunto un accordo sul patteggiamento e il ragazzo si era dichiarato colpevole di aggressione. Gli avevano inflitto un'ammenda di duecentocinquanta dollari. Non ero d'accordo e all'epoca mi era stato detto che Koch pensava che io fossi stato "ostruzionista" e "vendicativo", dal momento che mi ero opposto al patteggiamento. Tutto quello che avevo dichiarato era stato: «Se l'è scopata dopo che era svenuta: non l'ha picchiata». Avevo perso, naturalmente, ma avevo avuto la soddisfazione di spaventare quel pezzo di merda e suo nipote.
Non avevo dubbi sul fatto che saremmo dovuti salire al terzo piano e che prima o poi ci saremmo riusciti. Non sapevo ancora come, ma quella era tutta un'altra questione. Mi congedai dicendo che dovevo andare a controllare come procedeva il lavoro della squadra al secondo piano. «La squadra?» disse Junkel. «Sì. Al secondo piano ci sono alcuni agenti e tecnici della scientifica che stanno compiendo la perquisizione.» «Mi piacerebbe molto salire per vedere cosa stanno facendo.» «Non è possibile» risposi. «Borman?» Si costrinse a staccare gli occhi dalle due donne. «Se qualcuno che non fa parte della squadra addetta alla perquisizione cerca di accedere al secondo piano, arrestalo per interferenza allo svolgimento delle indagini e chiamami immediatamente.» «Ricevuto.» Guardai le altre quattro persone in salotto. «È vietato accedere anche alla cucina. Potete andare solo nel bagno di questo piano. Se qualcuno desidera una tazza di caffè o qualcos'altro dalla cucina, glielo porterà Borman.» Poi mi rivolsi sorridendo a Jessica. «Ma vi consiglio, per la vostra incolumità, di non chiedergli di cucinare...» Jessica diede un'occhiata all'orologio. «Non è escluso che debba farlo, se non ci sbrighiamo.» 13 Domenica 8 ottobre 2000 14.26 Tornai al piano di sopra e parlai con Hester. «Ci sarebbe di grande aiuto se scopriste una traccia di sangue che porta al terzo piano» dissi. «Allora, dammi il polso» scherzò Hester. «Per il momento preferirei evitarlo, ma potrebbe non essere una cattiva idea.» Guardai giù dalle scale. «Mi fermerò qui per un paio di minuti. Voglio che pensino che siamo in riunione.» Non sopporto quando gli avvocati vengono messi in mezzo troppo presto. Devono stare in un'aula di tribunale, non sul luogo di un delitto. Dopo un po', mentre Hester e gli altri continuavano a lavorare, tornai in
salotto, facendo attenzione a non calpestare i segni di gesso in corridoio. Riguardandoli, sembravano posizionati esattamente davanti alla camera da letto di Edie. Maledizione. Poteva essere un problema. Non portavano da nessuna parte. L'unica possibilità era che l'avessero trasportata fin lì e l'avessero appoggiata a terra per aprire la porta. Nessuna indicazione circa la direzione seguita. Al piano inferiore, Borman era in piedi sull'ingresso del salotto. «Credo che al secondo piano abbiano quasi finito» gli dissi, certo che gli altri mi avrebbero sentito. «Ne avremo ancora per un paio d'ore.» «Bene, poi saliamo al terzo?» domandò Borman. «Certo,» risposi «non ci sono problemi.» «Allora,» chiese Junkel «ha parlato con il procuratore?» «Lo risentirò tra poco. Stiamo cercando di fare il possibile, ma abbiamo un dovere e un obbligo verso la corte.» Mi strinsi nelle spalle. «Sa come vanno queste cose.» Dal momento che io e Borman non partecipavamo più alla perquisizione, avevamo già perso due o tre ore di lavoro. Lo avevamo fatto soprattutto per venire incontro a Jessica Hunley. Avevo sperato che la signora arrivasse sorridendo e ci consegnasse le chiavi del terzo piano salutando la compagnia. Non era andata così. Avevamo cercato di favorirla, anche se, più semplicemente, avremmo potuto forzare il lucchetto di una delle porte e rimborsarla per il danno. C'è sempre un rovescio della medaglia, però. Avevamo evitato che Jessica Hunley parlasse con gli inquilini della casa. Sapevo che si erano parlati per telefono, ma fino a quel momento non erano ancora riusciti a sedersi a un tavolo tutti insieme per scambiarsi informazioni. 14 Domenica 8 ottobre 2000 17.50 Verso le cinque decidemmo che era giunta l'ora di procedere con il terzo piano. Hester e io ci rivolgemmo di nuovo a Jessica. «Ora che i suoi avvocati sono presenti signora Hunley, le chiedo di nuovo se ha la chiave per accedere al terzo piano.»
Rispose Junkel. «Sì, ce l'ha, ma ciò non implica che vi dia il permesso di utilizzarla, né che, se accettasse di lasciarvela utilizzare, voi possiate perquisire il piano.» Guardò Hester. «Lei chi è?» «Hester Gorse. Agente speciale della Divisione Investigativa Criminale dell'lowa.» Tirò fuori il distintivo e lo mostrò per prima a Jessica. «Fa parte dell'unità mobile della scientifica, quindi» disse Koch. «No. Sono un agente criminale generico.» Infilò il distintivo in tasca. «Quest'uomo,» disse Junkel intendendo me «ci ha detto di essere il responsabile delle indagini.» «Infatti lo è» rispose Hester. «Noi assistiamo i dipartimenti con giurisdizione primaria.» «Allora,» ripresi io «possiamo usare la chiave per entrare al terzo piano? Giusto per limitare i danni.» «Sì» disse Koch. «Un'altra cosa» chiesi rivolgendomi nuovamente a Jessica. «Che cosa troveremo? Vorrei sapere se si tratta di un piano completamente ammobiliato oppure se lo è solo parzialmente, se ci sono stanze vuote.» «Non risponda» esclamò Junkel. «Allora dobbiamo pensare al peggio riguardo al tempo che impiegheremo a effettuare la perquisizione. Come preferite.» Mi rivolsi a Hester. «Forse è meglio che diamo da mangiare alla ciurma, prima di salire.» «Giusto» convenne lei con un lampo negli occhi. «Non c'è altra scelta. Sarà una perquisizione molto lunga.» «Volete che vada a prendere da mangiare?» si offrì Borman. «No. Lo ordiniamo.» Guardai Hester. «Possiamo farlo consegnare agli agenti fuori, visto che nessuno può entrare. E loro lo porteranno dentro.» «Sono già le cinque passate» fece notare Jessica. «Andiamo a cena fuori» disse Junkel, nel modo particolarmente accomodante che usano gli avvocati con i clienti facoltosi. «Saremo di ritorno tra un'ora e mezza circa.» Lui, Jessica, Tatiana e Koch, nell'ordine, si avviarono verso la porta. La resa dei conti. «Fermi» intimai con autorità, come insegnano all'accademia. Funzionava quasi sempre e funzionò anche quella volta. Avevo la loro piena attenzione. «Se scegliete di andarvene, non potrete rientrare. E dovrete lasciare qui la chiave del terzo piano prima di andare via.» «Non credo proprio» ringhiò Junkel.
«Inoltre,» continuai «sarete perquisiti uno per uno prima di allontanarvi, secondo quanto stabilito dalla legge.» Lo fissai. «Dovrebbe saperlo.» Entrambi gli avvocati sapevano che avevo perfettamente ragione. Anche se la norma si applicava principalmente nei casi di droga, quando gli indagati presenti al momento dell'irruzione cercavano di scappare con la merce addosso, si estendeva anche a casi come quello. Stavamo cercando delle tracce, è vero, ma anche oggetti come strofinacci e spugne, che potevano essere stati utilizzati per cancellare le macchie di sangue. Probabilmente non erano nascosti sotto il completo in pelle di Tatiana, ma, qualora se ne fossero andati, quei quattro dovevano essere perquisiti. «Se volete, però, possiamo farvi portare il cibo in casa dai nostri agenti» dissi, recitando il ruolo del poliziotto buono e cattivo nello stesso tempo. Jessica Hunley ne aveva abbastanza. «Grazie. Accettiamo l'offerta. Ora, per favore, possiamo accelerare un pochino i tempi?» Junkel cominciò a parlare, ma lei gli lanciò un'occhiata e l'avvocato si zittì subito. Mangiammo tutti in salotto, insieme alla squadra della scientifica e a Chris Barnes. Dopo che Chris si fu presentato come specialista nella ricostruzione del luogo di un delitto, i due avvocati cominciarono a parlare tra loro. Bene. Fu un pasto strano. Noi ordinammo pizza e Coca-Cola. Loro consumarono una cena completa, insalata e dolce compresi, con acqua minerale. Mi sedetti accanto a Hester e ci dividemmo una pizza. «Ehi, Houseman, non fa male al tuo colesterolo?» «Umpf.» Intendevo "e allora?", ma con la bocca piena. «Mi sembrava» disse Hester. Ingoiai il boccone, bevvi un sorso di Coca, le feci segno di venirsi a sedere più vicino e sussurrai: «C'è qualcosa che mi preoccupa...». «I funghi?» «No. Sento che ci siamo dimenticati qualcosa.» «Hai il foglio dell'inventario?» «Sì.» Addentai un altro pezzo di pizza. «Fai un controllo incrociato del tuo foglio con la richiesta per la perquisizione e guarda cosa non corrisponde. Potrebbe funzionare.» Prese una fetta e se la portò alla bocca. «Mi chiedo dove l'ho messo» dissi soprappensiero.
Si fermò a metà boccone e portò la mano alla bocca. «Che cosa?» Sorrisi. «Stavo scherzando.» Quando salimmo al terzo piano, fuori era completamente buio. Guardai l'orologio e registrai il nostro arrivo davanti alla porta chiusa a chiave alle 18.51. Vista la frequenza con cui Jessica guardava l'orologio, avrei potuto chiederlo a lei. C'erano due modi per arrivarci. Quello più semplice consisteva nel salire le scale dal secondo piano e utilizzare l'entrata principale dell'appartamento al terzo piano. Oppure si poteva passare dal primo piano, sul retro della casa, per quella che era, in origine, la scala di servizio e che adesso era l'entrata privata di Jessica. Stando alle sue parole c'erano lucchetti sia alla porta del primo piano, sia a quella del terzo. Hester, Chris e io ci consultammo per qualche istante. Eravamo tutti concordi nel ritenere che il punto di partenza migliore fosse l'entrata principale, dal momento che, con ogni probabilità, era di lì che era passata Edie. Dopo tutto, come dissi: «Se vuoi svignartela per restare sola, perché scendere fino al primo piano per poi risalire al terzo, quando puoi semplicemente uscire dalla tua stanza e salire una sola rampa di scale?». Fummo d'accordo anche sul fatto che se Edie era stata uccisa al terzo piano, avrebbe avuto molto più senso trasportare il corpo scendendo una rampa, piuttosto che utilizzare la vecchia scala. Sfortunatamente, le tracce di sangue trovate nel corridoio fuori dalla porta di Edie non fornivano alcun indizio utile. «Hester, siete poi riusciti a trovare le chiavi di Edie?» domandai. «Non ancora.» Appena prima di salire, presi una decisione che non avrei mai preso se non fosse stato per i due fastidiosi avvocati che erano ancora in casa. Misi Borman di guardia alla porta di servizio del primo piano. Non sapevo quanto fidarmi di quei due, e non avendo il piacere di conoscerli bene, decisi di non fidarmi affatto. «Non può salire nessuno, giusto?» «Giusto» confermai. «E nessuno tranne noi può aprire la porta. Non devono neppure avere la possibilità di contestare una qualche irregolarità.» Mi guardai attorno, per assicurarmi che non ci fosse qualcuno in ascolto. «E nessuno può avvicinarsi per origliare.» Controllammo la serratura. Chiusa.
«Sei testimone che la porta è chiusa a chiave?» dissi pulendomi le mani dalla polvere per le impronte digitali. Il battente era già stato controllato. Controllò la porta. «Sì.» Sembrava deluso. «Non potrebbe farlo un ausiliario?» Ottima osservazione. «No. È meglio non rischiare di avere qualcuno in tribunale che sollevi obiezioni per una simile quisquilia.» Mi strinsi nelle spalle. «Meglio così, abbiamo una cosa in meno di cui preoccuparci.» «Tutto chiaro.» «Senti,» dissi «quando arriverà il prossimo turno di ausiliari, piazzeremo qui uno di loro e tu potrai salire.» Gli si illuminò lo sguardo. «Va bene.» Ci dirigemmo tutti verso le scale del secondo piano, chiuse da una porta sigillata. La leucomalacite spruzzata sulle macchie sospette davanti alla camera di Edie era stata coperta da due teli di plastica trasparente. Nonostante il corridoio fosse illuminato da lampade appese fuori da una porta delle sei camere, era sufficientemente buio perché la sostanza sotto la plastica emettesse una luce verde piuttosto spettrale. La porta delle scale aveva una serratura simile a quella che avevo ispezionato con Borman. La scientifica aveva cosparso di polvere tutta la porta e lo stipite, in cerca di impronte latenti. Niente. Non mi sorprese. Difficilmente si trovano impronte sulle superfici su cui viene esercitata una pressione della mano, come le maniglie delle porte. E se la si appoggia sull'intelaiatura, è molto probabile che nell'allontanarla si compia un altro movimento. Al massimo rimarrebbero delle macchie. Le impronte latenti, almeno quelle utili, sono molto rare. Inserii la preziosissima chiave di Jessica Hunley nella toppa e aprii la porta. Accesi la luce e arretrai per lasciar entrare Chris Barnes. Se c'erano tracce su quelle scale, non era il caso di rovinarle. Mentre Barnes illuminava con la torcia i gradini di legno, Grothler prese un piccolo aspirapolvere portatile, applicò un sacchetto nuovo e fu pronto a partire. Dopo cinque gradini, Barnes, pur non essendo ancora arrivato in cima alla scala, si ritrasse e Grothler passò l'aspirapolvere con grande attenzione fino all'ultimo gradino che Chris era riuscito a esaminare. Avrebbero proseguito in questo modo fino ad arrivare in cima. Accadde mentre Grothler stava passando l'aspirapolvere sulla seconda rampa di scale. Il ronzio dell'apparecchio copriva quasi tutti i rumori, ma
Hester gli afferrò il braccio e disse ad alta voce: «Spegni!». Mentre lui sollevava lo sguardo senza comprendere ciò che stava accadendo, Hester allungò una mano e spense l'aspirapolvere. «Ho sentito qualcosa...» disse mettendo mano alla pistola. Sentimmo tutti quello che accadde in seguito: una porta che sbatteva e poi lo scalpiccio di qualcuno che si precipita giù per le scale. Seguì un rumore smorzato che udimmo distintamente. Contemporaneamente Borman urlò e sembrò che il suo grido venisse dal piano sopra al nostro. La tromba delle scale di servizio incanalava la sua voce. «Fermo!» intimò Borman. Poi due colpi di pistola. 15 Domenica 8 ottobre 2000 19.08 Hester si precipitò giù per le scale, precedendo Grothler, mentre io mi fiondai verso il piano terra. Quando passai vicino a Jessica Hunley e agli altri, che erano sdraiati sul pavimento del salotto, avevo già estratto la pistola. «State bene?» urlai, mentre mi dirigevo verso la porta posteriore. Mi parve che Jessica rispondesse «Sì», ma non ci giurerei. Non aveva fatto in tempo a pronunciare quella sillaba che avevo già attraversato la cucina e sentito la porta sbattere. Mi precipitai fuori anch'io e rischiai di inciampare su Borman che era inginocchiato all'angolo dell'edificio con la pistola in pugno. «Stai bene?» Sembrava confuso. «Come?» «Sei ferito?» «No.» Scosse il capo, come per schiarirsi le idee. «No, non credo.» «Dov'è Hester?» «Credo che lo stia inseguendo...» Vidi che aveva del sangue sulla guancia destra. «Inseguendo chi? Dove? Dov'è andata?» Indicò la zona buia dietro la casa. «Fate luce quaggiù» urlai, mentre mi lanciavo a tutta velocità nell'oscurità del giardino. «Hester!»
I miei occhi non si erano ancora abituati al buio quando udii la sua voce sulla sinistra. «Sono qui. Se n'è andato.» Rallentai e ci mancò poco che inciampassi su Hester che si era accucciata a terra e scrutava nell'oscurità. «Abbassati un po', le luci della casa riflettono il tuo profilo...» Appoggiai un ginocchio a terra, respirando affannosamente. «Chi è?» «Non ne ho la minima idea» disse. «Stai perdendo colpi, vero?» «Sì.» Respirai di nuovo profondamente. «Però,» un altro respiro «non mi fermo mai.» «L'ho visto venire da questa parte» disse. «L'ho perso nel buio.» «Cosa succede?» Il vecchio Knockle stava sopraggiungendo dal lato più lontano della casa e illuminava il giardino con il fascio di luce della sua torcia. Era puntato dritto su di noi. «Spegni!» Obbedì all'istante. «Rimani qui e accertati che nessuno giri davanti alla casa» gli urlai. «Punta la luce verso gli alberi.» Lo fece. Niente, naturalmente. Nessun movimento. Nessun rumore. «Borman potrebbe essere ferito» disse Hester. Giusto. Borman aveva un walkie-talkie. Avremmo avuto bisogno di rinforzi prima di cominciare un inseguimento nel bosco. Non si trattava sicuramente né di Toby né di nessuno dei suoi amici. Hester e io ci avvicinammo con cautela a Borman, tenendoci il più possibile al riparo. «Siamo noi» dissi. «Non sparare.» La prudenza non è mai troppa. «Va bene» rispose. «Va bene.» Quando gli fummo vicini, vidi che aveva un taglio sullo zigomo, che la sua camicia era strappata all'altezza della spalla destra e che aveva un enorme squarcio in mezzo al petto, causato da qualcosa che aveva scalfito perfino il giubbotto antiproiettile. «Cazzo! Aveva un coltello?» Borman si guardò il petto. «Sì, almeno credo. È successo tutto così in fretta...» «Sei sicuro di star bene?» gli domandai. Annuì. «Ho controllato. Non mi ha beccato.» Si toccò il giubbotto rovinato. «Ci è andato vicino, però.» «Puoi dirlo forte» feci io, impressionato dallo squarcio. «Cosa è successo?» chiese Hester mentre mi avvicinavo piano a Borman e gli prendevo il walkie-talkie dalla cintura.
«Ero in piedi davanti a quella porta quando ho sentito un rumore che sembrava venire da sopra. Poi la porta si è spalancata e mi ha colpito in piena faccia...» Respirava a fatica. «Poi quello stronzo mi si è parato davanti, ho pensato che mi avesse dato una spinta al petto ma poi...» un altro respiro «...mi sono accorto che aveva un cazzo di coltello mentre lui mi ha superato e si è diretto verso il giardino.» «È stato allora che hai sparato?» chiese Hester. «Sì» disse Borman. «Sì.» Mi assicurai che il walkie-talkie fosse sintonizzato sul canale giusto e chiesi: «Pensi di averlo colpito?». Scosse il capo. Schiacciai il pulsante per la trasmissione. «Centrale da Tre. 10-33.» Se trasmetti un'emergenza di punto in bianco di solito riesci ad attirare l'attenzione. «Tre?» «10-33, centrale. Sul luogo della perquisizione. Sospetto armato, agente ferito, ma non gravemente. Il sospetto è fuggito a piedi. Mandaci più rinforzi che puoi.» «10-4, Tre. Qui centrale, a tutte le macchine della Nation County. Abbiamo...» Abbassai il volume per poter parlare con Borman. «Puoi descriverlo?» chiese Hester. «Una camicia grigio scura» disse. «Pantaloni scuri. Credo. Sì, neri o blu. Piuttosto alto, capelli neri, probabilmente.» «Sei sicuro di non averlo colpito?» intervenni. «Potremmo trovarlo molto più facilmente.» «Sono sicuro» disse Borman. «Ho sparato in aria.» Non poteva dire una cosa peggiore. «In aria? Cioè, tu hai... hai sparato dei colpi di avvertimento?» «Sì.» «Ti ha squarciato il petto con un coltello e tu hai sparato in aria?» Hester mi lanciò un'occhiata che significava "piantala, ha già abbastanza problemi per conto suo". La ignorai e ripetei: «Ha cercato di ammazzarti e tu hai sparato dei colpi di avvertimento?». Borman sembrava voler scomparire, ma si difese. «Non mi ha ucciso...» «Certo che no, idiota» sillabai. «Se ti avesse ucciso, non avresti potuto sparare.» «Carl,» intervenne Hester «calmati.» «Ci provo, Cristo santo, ma...» Guardai Borman. «Quindi stava scap-
pando da te?» «Non lo so» rispose Borman, imbarazzato. «No, credo di no. Non in quel momento. Era più o meno davanti a me o almeno mi pare. Penso che non si aspettasse di trovarmi in fondo alla scala e abbia pensato di avermi steso. Ho... ho tirato fuori la pistola in fretta, ma... be', insomma... non mi piace togliere la vita alle persone senza una buona ragione.» Non riuscivo a capire. «Sicuramente quell'uomo non la pensava come te. Poteva avere in mano lo stesso coltello che ha usato per uccidere la ragazza! Mi stai ascoltando?» «Houseman,» ripeté Hester «calmati.» «Sì.» Con un senso di nausea, ripresi il walkie-talkie e chiamai nuovamente la centrale. «Di' pure, Tre.» «Sì, centrale. Manda un paio di macchine a perlustrare la base del promontorio, vicino all'autostrada. Cerchiamo un maschio bianco, alto, con una camicia grigia, pantaloni neri o blu, capelli neri. Ha un coltello. Procedere con molta cautela.» «10-4, Tre.» «Poi mettiti in contatto con Uno e digli che quassù abbiamo bisogno di almeno altri quattro o cinque agenti per perlustrare i dintorni. Infine, chiama il vicesceriffo di Freiberg, bloccalo prima che arrivi qui e digli di cercare Kevin Stemmer.» Feci una pausa. «Per adesso digli di verificare solo dove si trova e di chiamarci subito se non riesce a trovarlo.» «Ricevuto, Tre. 10-52 è stata inviata.» Un'ambulanza. Buona idea. Era bene che Borman si facesse controllare. Soprattutto, pensai, per una sospetta ferita al buon senso. «10-4.» Abbassai il walkie-talkie e mi rivolsi a Hester: «Voglio che trovino Stemmer, soprattutto per accertarmi che non sia stato lui». «Non credo» disse Borman. Respirai profondamente. «Va bene, ma ci potrà essere utile lo stesso. Senti, più tardi ripasseremo tutte le noiosissime procedure ufficiali. Ti sei comportato bene, comunque.» Non dovevo essere molto convincente. «Fatti controllare, poi, se te la senti, mettiti seduto e inizia a scrivere tutto quello che riesci a ricordare di quell'uomo. Ogni cosa. Non avere fretta. Hai tutta la notte.» «Va bene.» «Torniamo dentro» disse Hester e spinse con gentilezza Borman verso le scale che conducevano alla cucina. «Così potrai sederti.» Quindi si voltò
verso di me. «Pensi che fosse Peel?» Annuii. «Credo sia molto probabile che si trattasse del nostro uomo. Vivo e vegeto, per nostra sfortuna. Ho la sensazione che dovremo lavorare ancora parecchio per scoprire la verità.» Hester sorrise. «Lo vedi? Dopo tutto ti sai adattare.» Lamar si diede molto da fare per fornirmi tutto il supporto di cui avevo bisogno. Aveva contattato la polizia di stato e quella della Conception County. Aveva contattato anche le contee vicine, a giudicare dall'improvviso aumento del traffico radio. Sembrava improbabile che Peel, o chi per lui, potesse allontanarsi. In pochi minuti avevamo già due autopattuglie posizionate alla base del promontorio, alla fine dell'unico sentiero che conduceva alla Villa. Inoltre c'erano degli agenti nel bosco assistiti dall'unità K-9 della Conception County. Il loro labrador nero sembrò fiutare una pista nei pressi dell'entrata posteriore della Villa e trascinò il suo addestratore in un inseguimento ravvicinato: si fermò a una decina di metri dalla porta e cominciò a fiutare il terreno circostante. Mi sembrava stesse facendo un buon lavoro. Attraverso la radio mi informarono che stava arrivando anche Lamar e che con lui sarebbero giunti due ufficiali del Department of Naturai Resources in barca da Freiberg. Sarebbero entrati nella nostra zona via fiume nel giro di pochi minuti. Non c'erano dubbi: chiunque fosse la persona uscita di corsa dal terzo piano sarebbe stata acciuffata molto in fretta. Sfortunatamente, Jessica Hunley e gli altri si erano precipitati fuori dalla casa quando avevano sentito gli spari. Un comportamento comprensibile, pensai, e sicuramente giustificabile in tribunale, ma non potevamo più usare la perquisizione come minaccia per trattenerli. Hester e io decidemmo di lasciarli andare, con la garanzia che la mattina seguente sarebbero stati disponibili per "ulteriori domande". Ci offrimmo di sistemare Jessica e Tatiana in un vicino motel. «Nemmeno per sogno» disse Junkel. «Staranno benissimo con noi.» Ringraziai a nome dei contribuenti. Mentre se ne andavano, incontrarono Lamar alla fine del lungo viale della Villa. Accostò per farli passare e poi ci raggiunse ai piedi delle scale. «Bella macchina» commentò scendendo dal suo pick-up. «Di chi è?» «Di Jessica Hunley, la padrona di casa.» «Come sta Borman?»
Gli dissi che stava bene e, dal momento che aveva sparato dei colpi d'avvertimento e che io ero il suo ufficiale supervisore, gli raccontai quello che era accaduto. «Lo hai strapazzato un po'?» chiese. «Ci puoi scommettere.» «Va bene. Non c'è bisogno che io gli dica niente, allora.» E con quello la questione sembrava chiusa. Lamar decise che il piccolo esercito di agenti nel bosco era in grado di portare avanti la perlustrazione anche da solo, mentre Hester e io potevamo aggregarci al resto della squadra addetta alla perquisizione per concludere il lavoro all'interno della Villa. «Non sarebbe male se riusciste a finire prima del Giudizio Universale» aggiunse. 16 Domenica 8 ottobre 2000 20.12 La più lunga perquisizione della mia carriera riprese al terzo piano della Villa, alle 20.12. Vi partecipavano il sottoscritto, Hester, Grothler e Barnes. Hester salì per prima. Il terzo piano era un vasto spazio aperto, tipo loft, arredato con mobili moderni - in contrasto con lo stile vittoriano della casa - che delimitavano i vari ambienti al posto delle pareti. Solo il bagno era separato. Trovammo Hester in piedi appena oltre la porta d'ingresso. «Bello» commentò. Aveva la pistola in mano, come me. Caso mai ci fosse un secondo intruso che aveva deciso di non scappare con il primo. Fuori un agente stava mettendo in pratica gli insegnamenti dell'accademia. «Peel, sappiamo che sei là! Ti conviene arrenderti.» Guardai Hester. «Chi gli ha detto che si chiama Peel?» «Io no.» «Forse Borman, o Lamar» bofonchiai. Comunque ormai era troppo tardi per rimediare. Speravo per il bene di Borman che non fosse stato lui. Avevamo trovato il pannello elettrico accanto alla porta. Le luci erano tenui ma disposte in modo oculato e tutte, da quelle sul soffitto a quelle all'interno dei mobili della cucina, erano comandate da un interruttore principale. Molto comodo.
Nell'angolo più lontano della stanza c'era un grande letto matrimoniale, un blocco unico con cassetti nella parte inferiore. Decisamente bello. La cosa più interessante, però, era il treppiedi con la telecamera posizionata in modo da riprendere circa tre quarti del letto e i suoi eventuali occupanti. L'area era illuminata da due lampade da terra. C'era una grande fotografia in bianco e nero, incorniciata e illuminata da due plafoniere poste sul muro sopra al letto. Sono un patito della seconda guerra mondiale e pensai subito che la foto ritraesse una postazione antiaerea in Normandia. Guardandola bene, però, mi accorsi che si trattava di una serie di archi, simili ai portali delle chiese e disposti in cerchio, al centro dei quali si aprivano delle porte con nomi incisi sugli architravi. Tutto era immerso nel verde, ecco perché avevo pensato alla Normandia. Nell'angolo in basso a destra c'era una targhetta. "Cerchio del Libano." Interessante. La cucina era di quelle con gli elettrodomestici a incasso, compresi lavastoviglie e un fantastico set forno a microonde più fornelli con una bellissima cappa. Il mio sogno. Guardai Hester. «Da morto vorrei finire in un posto così.» «Già.» Notai anche il computer, naturalmente. Lo faccio sempre. Un ottimo Dell, con lo schermo piatto, di quelli che costano circa duemilacinquecento dollari. Non male. Tastiera ergonomica, naturalmente, il tutto su una postazione con sedia coordinata. La cosa che mi colpì di più della zona ufficio, però, fu l'ordine. Accanto al computer c'erano delle scatole. Osservandole da vicino vidi un foglietto con su scritto "Pezzi di ricambio consigliati per il Server SOHO". Ne capisco abbastanza da sapere che SOHO sta per "Small Office/Home Office". E so cos'è un server. La lista includeva una serie di componenti d'avanguardia utili a potenziare una rete informatica. «Hester, quando hai un minuto...» Diede un'occhiata al foglietto e disse: «Sembra che abbiano intenzione di potenziare il server». Continuavo a stare in allerta, sempre nel caso in cui il nostro signor Peel avesse avuto un ospite. «E potrebbero non aver ancora deciso come, visto che non ci sono nomi di marche. Spero che abbiano Windows ME» concluse, parlando soprattutto a se stessa, mentre non smetteva di guardarsi attorno con circospezione. Emisi un generico mugolio di assenso. Non avevo la più pallida idea del
perché lo sperasse e non volevo sembrare così disinformato da chiederglielo. «Ogni camera da letto che abbiamo perquisito,» disse mentre mi passava davanti dirigendosi verso il centro dell'appartamento «aveva un computer. Nessuno, però, è neppure lontanamente al livello di questo. Credo che gli inquilini avessero ciascuno il proprio portatile e si connettessero a Internet tramite questo mostro. Bel sistema.» Mentre parlava, cercò l'interruttore del bagno e accese la luce. Entrò e io le coprii le spalle. «Niente» annunciò, ricomparendo un momento dopo. Continuammo a guardarci in giro. Una strana struttura divideva il piano esattamente a metà: sembrava una casetta con il tetto spiovente. Era alta circa due metri e mezzo, con finestre a ghigliottina sui quattro lati. All'interno c'era un grande lucernario piatto che dava luce alle sei camere da letto sottostanti. Lo spazio era molto ridotto, appena sufficiente a contenere una scaletta che, probabilmente, serviva a chi si occupava di pulire il vetro. «Che nome daresti a un affare del genere?» chiesi a Hester. Lo guardò per alcuni secondi. «Coso?» «Dentro non c'è nessuno» dissi guardando attraverso la finestra più vicina a me. «Bene.» Dalla parte opposta del "coso" c'era una stanza che proseguiva ininterrotta per tutta la lunghezza della casa, trenta metri per cinque e mezzo circa. Entrammo rapidamente, prima io questa volta, poi Hester che si diresse a sinistra per accendere la luce. Dopo una prima incertezza, la luce fosforescente si accese. Era una palestra per la danza, con pavimento in legno lucido, parete a specchi, sbarra di legno con i supporti in ottone, un grande impianto stereo, alcune sedie pieghevoli nell'angolo più vicino, panca e orologio sulla parete più lontana. Dal soffitto pendevano lampade fluorescenti con schermature grigie. Un ambiente austero. Lo esaminai in pochi secondi. Non c'era nessuno: se ci fosse stato l'avremmo visto subito. «Prende la danza molto seriamente» commentò Hester. Completato il giro d'ispezione, mettemmo via le pistole e cominciammo a cercare qualche indizio. «Dovrà pur pagare quelle auto, in un modo o nell'altro» dissi. Hester scosse il capo. «Non con la danza.» Eseguimmo una perquisizione molto approfondita. Per prima cosa fotografammo entrambi gli ambienti. Poi ci dividemmo il piano, lavorando in
coppia. Io e Grothler prendemmo la zona giorno. Era molto ordinata e decisamente moderna rispetto al resto della casa, senza nicchie né angoli bui, Difficile nascondere qualcosa. Forse proprio per questo mi ritrovai a fotografare la libreria e a guardare dietro ai libri. Ci si poteva sempre nascondere qualcosa. C'erano dei titoli interessanti. Un paio mi erano familiari perché facevano parte anche della mia libreria: Caos. La nascita di una nuova scienza di James Gleick e Dal big bang ai buchi neri di Stephen Hawking. Altri però non li avevo mai sentiti nominare, e tantomeno li possedevo: Trattato sui vampiri e sugli spettri: il mondo dei fantasmi, tradotto da un certo Harry Christmas, Morte, sepoltura e individuo nell'Inghilterra moderna di Clare Gittings che, devo ammetterlo, sembrava interessante. Il vampiro: amici e parenti di Montague Summers poteva essere una buona lettura per una notte di tempesta. Riflessioni su Dracula e Spiriti e ombre della dottoressa Elizabeth Miller erano dei libri che avrei anche potuto comprare per me. Qualcosa mi diceva che avevo trovato la fonte della storia di Toby. C'era uno splendido volume illustrato dal titolo Il cimitero di Highgate, un Valhalla vittoriano, con foto di John Gay e introduzione di Felix Barker. Lo aprii e stavo sfogliandolo quando un foglietto scivolò per terra. C'era scritto: "All'attenzione di David R. Farrant, Società Occultistica Britannica", poi, di traverso, "Egyptian Avenue & il Cerchio del Libano" e sotto un viso sorridente con la parola "Isadora". Era infilato proprio nella pagina che riproduceva la stessa fotografia che era appesa in camera da letto. Controllai nell'indice in fondo al libro e scoprii che il Cerchio del Libano era una serie circolare di cripte all'interno del cimitero di Highgate, a Londra. Copiai l'appunto sul taccuino, insieme al titolo del libro e a Isadora. Chissà, sarebbe potuto tornarmi utile. C'erano altri due libri interessanti: Londra sconosciuta di Geoffrey Fletcher e La Londra sotto Londra, una guida sotterranea di Trench e Hillman. Mi sarebbe piaciuto leggerli. L'Oxford Dictionary occupava da solo un intero scaffale. Era l'edizione più bella, ne avevo sentito parlare ma non ne avevo mai vista una. Mi sembrava fuori posto in una stanza così moderna e pensai che sarebbe stata meglio nella biblioteca al piano di sotto. L'ultima mensola conteneva una serie di almanacchi, guide all'arte della lavorazione del legno, un manuale per falegnami e La gioia del sesso. Be', il criterio con cui erano ordinati i libri era piuttosto bizzarro. Non c'era niente dietro i libri o agli scaffali. Tornai da Hester e mi schia-
rii la voce. «So che cosa è raffigurato in quella foto» annunciai indicando il muro. «Davvero?» «Il cimitero di Highgate, a Londra. Sono cripte. Molto antiche.» «Ah.» La reazione non fu quella che avevo sperato. «Guarda qua» continuò Hester indicando un armadio a muro. C'era una quantità notevole di vestiti, soprattutto da donna: molti in stile vittoriano, broccati e velluti rossi, blu, verdi, con pizzi al collo e ai polsini. Belli. C'erano anche abiti maschili. Sembravano destinati a qualcuno alto due metri e molto magro: camicie con maniche ampie e collo a V, la maggior parte bianche e avorio, pantaloni neri e una serie di giacche da sera, molto belle. Oltre a ciò c'erano blue jeans, maglioni, felpe e tute. Sul ripiano moltissime scarpe, tra cui un paio di stivali Wellington, un paio di scarpe da donna con i lacci in stile vittoriano e scarpe da tennis per uomo e donna. Su una serie di piccoli ganci all'interno dell'anta erano appesi alcuni lacci di velluto nero, fasce, anch'esse di velluto nero, e un frustino in pelle marrone con nappe a un'estremità. «Ce n'è per tutti i gusti» commentò Hester. Trovammo solamente tre gruppi di oggetti interessanti, che fotografammo sul posto e acquisimmo come prove. Il primo gruppo era stato scoperto da Hesfer nel cestino della spazzatura in cucina. Si trattava di un mucchio di involucri, aperti in due e ripiegati, per diversi tipi di batterie al litio, quelle utilizzate nelle macchine fotografiche o nelle torce elettriche. C'erano anche del materiale da imballo, che ovviamente aveva contenuto le batterie, e una decina di pacchetti vuoti di Sudafed, un medicinale contro il raffreddore. «Mi sa che abbiamo a che fare con un tossico» disse Hester. Grothler e Chris Barnes stavano esaminando le batterie aperte come cani da caccia. «Sì» confermò Grothler. «Scommetto che ha estratto il litio.» «La formula nazista» disse Barnes. «Cercate qualcosa di simile all'etere. Ci vuole anche l'ammoniaca anidra, ma è probabile che sia conservata da qualche altra parte.» Quello a cui si riferivano era la formula per ottenere la metamfetamina messa a punto dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale. Utilizzata per tenere i soldati svegli e all'erta per periodi prolungati, prevedeva l'uso
di efedrina, litio e altri elementi, lavorati con etere e ammoniaca anidra. Era veloce, efficace e si potevano produrre piccole quantità pronte all'uso. Esattamente quello che serviva alle truppe tedesche dopo che gli Alleati avevano tagliato le loro linee di rifornimento. Le miscele ottenute erano pericolose e altamente esplosive. Per i soldati sul campo di battaglia non c'erano particolari problemi. In casa, però, si correva il rischio di saltare in aria o incendiare tutto. Hester, che aveva continuato la perquisizione mentre ne parlavamo, trovò una boccetta che conteneva una sostanza cristallina marrone. «Tombola.» La sollevò e la mise controluce. «Metamfetamina, direi. In cristalli.» La domanda a quel punto era: chi era il tossico? Il misterioso Peel? Jessica? O magari Edie, che dopo tutto aveva la chiave del terzo piano? Il secondo gruppo di oggetti degni di nota era costituito da nove videocassette contenute in uno schedario nero in acciaio. Erano senza titolo, ma numerate con etichette adesive sull'angolo sinistro. Dopo un secondo controllo ci accorgemmo che all'interno della telecamera era inserita la cassetta numero dieci. Sequestrammo le cassette e la telecamera, vista l'alta probabilità che rivelassero la vera identità di Daniel Peel, o dell'uomo che era fuggito dalle scale squarciando il corpetto di Borman, o magari di entrambi, che fossero la stessa persona o no. Non era difficile immaginare che avrebbe potuto esserci anche Edie. E la cosa non mi rendeva per niente ansioso di vedere quelle cassette. Infine facemmo il nostro "colpo gobbo". Nel cassetto centrale del letto, quello più basso, trovammo un coltello molto strano, avvolto in un pezzo di stoffa nero con delle macchie rosso scure che sembravano sangue. Il coltello aveva un aspetto decisamente insolito. Credo fosse lungo in tutto quasi quaranta centimetri, con una doppia lama di venti-venticinque che aveva una scanalatura di mezzo centimetro per tutta la lunghezza. I bordi interni ed esterni di entrambe le lame erano affilati: quattro superfici di taglio al posto di due, per così dire. Il manico del coltello era di ebano, leggermente incurvato verso il basso, con un'impugnatura in metallo argentato a forma di testa d'aquila. Il becco dell'uccello era molto aguzzo. Ma la cosa che più mi colpì fu la scanalatura tra le lame. Ricordavo ancora nitidamente il fascio di muscoli che usciva dalla ferita nel collo di Edie. Con quel coltello sarebbe stato facile far impigliare i muscoli nella scanalatura e, con una torsione, tirarli fuori dalla ferita insieme ad altri tessuti.
«Potrebbe essere quello giusto» dissi. «Di sicuro è abbastanza grande» rispose Grothler. «Pensi che la scanalatura tra le lame sia compatibile con la ferita di Edie?» domandò Hester rivolgendosi a me. «Sì. Potrebbe essere.» «Sono d'accordo» disse Hester, prendendo una busta per le prove. Trovammo altri oggetti che potevano avere qualche attinenza con il caso. Uno era un antico porta caramelle di cristallo, con il bordo argentato, contenente delle pillole bianche sulle quali erano stampati personaggi dei cartoni animati. Hester esaminò il contenitore con attenzione e ridacchiò: «Ecstasy. Probabilmente proveniente dall'Olanda». Indicò l'elaborata iniziale impressa sul bordo argentato. Era una "E" molto aggraziata. Insieme al porta caramelle, sequestrammo anche una bottiglia di vetro verde con il tappo in ottone, montata su una base d'ottone con i piedi. Anch'essa era antica. Conteneva delle pillole di colore verde scuro, con una linea orizzontale che le divideva a metà e il numero 6 impresso. Intorno all'estremità superiore, c'era una scritta, che riuscii a leggere solo dopo essermi messo gli occhiali: "Coumadin". Ormai sapevamo che si trattava di un vasodilatatore e di un anticoagulante, ma non molto di più. Hester e io ci scambiammo un'occhiata e lei annuì. Era molto verosimile che la scientifica ne trovasse traccia nei campioni di tessuto di Edie. Un altro contenitore, un vecchio flacone da 250 mi di Erlenmeyer, graduato, conteneva un gran numero di capsule rosa con su scritto "Mellaril 200". Non avevo idea di cosa fosse. L'ultima boccetta di pillole era rossa e sembrava anch'essa antica, con ornamenti e tappo argentati. Conteneva diciotto pillole blu a forma di diamante, con la scritta "VGR50". «Qualcuno sa cos'è?» domandai mostrandone una. «Tienila stretta, Houseman» disse Hester con un ghigno. «Potresti averne bisogno.» Pensai che avesse a che fare con l'Alzheimer, o qualcosa del genere. «Cos'è, uno stimolatore della memoria?» «È Viagra, Houseman» disse ridendo. «Oh.» La rimisi a posto. «Be', allora sono orgoglioso di non sapere cosa sia.» «Sarà colpa della tua scarsa memoria» scherzò. La maggior parte delle pillole poteva essere acquistata solo con ricetta
medica, ma non avevamo trovato nessuna confezione di medicinali. In attesa dei risultati dell'esame tossicologico, fotografammo e sequestrammo tutto. Poi Chris scese dalla scala posteriore ed Hester lo seguì. Gli scalini erano puliti. Prove a parte, sembrava venissero puliti di frequente. Non c'erano ragnatele, né polvere. Solo un parquet brillante e un intonaco verde pastello, almeno fino al secondo gradino partendo dal basso. Arrivato in quel punto, Chris tornò indietro a prendere la sua roba e dopo un paio di minuti spegnemmo le luci. Una luce verde fosforescente illuminava gli ultimi due scalini. Chris sollevò la testa per guardarci. «Mi sembra che sia una reazione chimica dovuta al sangue, non al detergente. Vedremo, non mi sorprenderei se fosse un misto dei due. Per adesso, però, direi che in questo punto qualcuno ha strofinato via del sangue. E non molto tempo fa.» Gli altri scalini erano puliti. Secondo Chris non era normale. «Dovrebbero esserci più macchie di sangue qui intorno. Gocce, zampilli, colate. Qualcosa.» Ma non c'erano. Fotografammo le scale utilizzando un espositore a tempo, oscurando l'intero terzo piano e illuminando lentamente i muri della scala con una torcia, prima da una parte e poi dall'altra. In quel modo si sarebbe vista la luminescenza. Per sicurezza scattammo alcune foto anche in piena luce. Ci sedemmo alcuni minuti per completare l'inventario degli oggetti sequestrati, terminare di tracciare la pianta del terzo piano e controllare di aver preso tutto. «Abbiamo finito?» chiese Hester. Per quanto riguardava noi due si. Gli altri dovevano ancora cominciare. 17 Lunedì 9 ottobre 2000 1.47 Credo di non aver compreso appieno quanto fosse isolato il terzo piano fino a che, mentre scendevamo le scale, ci rendemmo conto che intorno alla Villa ferveva una certa attività. Più ci avvicinavamo al pianoterra, più i miei sospetti si rivelavano fondati. Arrivati in fondo, vedemmo i giornalisti assiepati fuori dalla porta prin-
cipale. L'intera area era illuminata a giorno dai riflettori. Cazzo. Telecamere e tutto il resto. Riconobbi le troupe televisive dell'Iowa, di Cedar Rapids, di Dubuque e di La Crosse, nel Wisconsin. La nostra richiesta di rinforzi aveva attirato l'attenzione più di quanto avessi immaginato. Lamar ci aspettava al varco. «Qualcuno ha detto a questi stronzi che quassù stavamo dando la caccia a un vampiro» disse in tono accusatorio. «Chi è stato?» Stavo per rispondere che non lo sapevo, ma lui proseguì: «Vogliono sapere chi è il vampiro, dove si trova, quanti ne ha uccisi, e magari anche i loro nomi...». Mi guardò dritto negli occhi. «Qualche suggerimento?» «Immagino,» intervenne Hester «che questo significhi che non è stato ancora catturato, giusto?» «No, Cristo, non lo abbiamo ancora preso» rispose Lamar, decisamente contrariato. «Non si riesce a trovare una traccia che sia una e quell'inutile cane è scappato dal suo addestratore.» Scosse il capo. «Si è messo a seguire la pista di Borman. Cazzo! Inutile è dire poco...» "Troppa gente in giro" pensai. «Prima abbiamo cercato fino al fiume con i riflettori dell'elicottero della Conception County. Poi, quando è arrivato l'aereo dal distretto di Cedar Rapids con il FLIR, abbiamo usato quello. Niente, assolutamente niente, a parte poliziotti, cervi e quell'inutile cane del cazzo che se ne andava a spasso.» Lamar indicò il cielo, esasperato. «E ora ci si è messa anche questa maledetta pioggia...» Non pioveva forte, era quella pioggerellina continua che può andare avanti per giorni. Una tipica serata autunnale fredda e umida. «La pioggia ha condizionato il funzionamento del FLIR?» domandai. «Credo di sì. Tende a livellare le temperature, nel caso in cui ci sia qualcuno nascosto nel bosco. Almeno, cosi mi hanno detto.» Si strinse nelle spalle. «Complica le cose, insomma.» FLIR sta per Forward Looking Infra Red. È un dispositivo a raggi infrarossi che riesce a distinguere differenziali di temperatura di meno di mezzo grado Fahrenheit. Permette di individuare qualsiasi mammifero in modo così chiaro che si distinguono le corna di un cervo da un'altezza superiore ai centocinquanta metri. La cosa bella è che la preda non si rende conto di essere osservata. Si può nascondere dove vuole, ma se le rimane scoperto anche solo un piede, viene immediatamente individuata. «Dove può essere andato?» Stavo pensando ad alta voce.
«Spero,» disse Lamar «che tu non abbia fatto tutte quelle scale solo per farmi questa domanda.» Lo sceriffo odia la stampa. Non sempre in modo così palese, ma la odia davvero. Quando ci sono i giornalisti in giro è molto nervoso e farebbe praticamente qualsiasi cosa pur di evitare di parlare con loro. Il fatto che la vittima del cosiddetto vampiro fosse sua nipote rendeva tutto più difficile. «Hai già rilasciato una dichiarazione?» chiese Hester. «No. Ritengo di non avere niente da dire.» «Prepariamone una congiunta a nome di entrambi gli uffici. Ci metteremo un attimo, poi usciremo insieme ad annunciarla.» Lamar annuì e i due si diressero verso la sala da pranzo sedendosi al magnifico e lunghissimo tavolo. L'ambiente faceva a pugni con il trambusto esterno e interno alla Villa. Alla porta si udì una voce familiare. «Ehi, Houseman, possiamo avere una tua foto, oppure ci farai penare tutti quanti come al solito?» Era Harry. Scoprii che era stato a Milwaukee per quasi tutta la giornata per parlare con l'équipe di patologi che aveva fatto l'autopsia a Randy Baumhagen. Era morto in seguito al colpo alla testa infetto con uno degli onnipresenti "oggetti smussati". Largo probabilmente due o tre centimetri e piuttosto pesante. La ferita alla gola era stata causata, com'era stato scritto nel rapporto preliminare, da un oggetto appuntito, ma non da una lama. E fin lì tutto bene. Ma Harry aveva fatto di più. Aveva parlato di William Chester con alcune persone. «Non ha una sorella, Carl, e non ne ha mai avuta una. Né viva né morta.» «Dici sul serio?» «Viveva dalle parti di Walworth con una tizia che poi è morta in un incidente stradale. Tutto qua. Ha mentito.» «Cosa ne pensi? Lo lasciamo perdere?» «Non so. Tutto il resto finora si è rivelato vero.» Harry diede un'occhiata all'interno della Villa. Era la prima volta che la vedeva. «Cazzo. Gran bel posto.» «Sì, non è male.» «Allora? I ragazzi della stampa dicono che avete trovato il nostro uomo.» Gli spiegai come, a dire il vero, fosse stato lui a trovare noi. «Colpi d'avvertimento?» sogghignò quando ebbi finito il racconto.
«Già» sospirai. «I giovani d'oggi» disse Harry. «Il loro problema è che pensano troppo.» Si guardò un po' intorno. «E tu credi che l'assalitore se ne sia stato lassù per tutto quel tempo?» «Sì. Forse era drogato. Con tutte le pillole che c'erano poteva sballarsi per un bel po'.» Lo condussi alla scala, vicino al camino. «Senti niente?» «No.» «Silenzioso, vero? Voglio dire, nonostante tutto il baccano che c'è là fuori.» «In effetti, ora che me lo fai notare...» «Te lo garantisco, Harry, questa è la casa più silenziosa in cui sia mai entrato in tutta la mia vita. Puoi fare un casino bestiale una o due stanze più in là e non farti sentire. Per non parlare di un piano o due.» «Le case vecchie sono così, hanno muri più spessi. E adesso dove credi si sia cacciato?» «Non ne ho idea. In quel bosco ci sono un sacco di posti dove nascondersi.» Alzai un sopracciglio. «Forse, però, siamo stati fortunati.» «Cioè?» «Chissà, magari è un buon nuotatore ed è riuscito ad arrivare in Wisconsin.» Mentre Harry salutava Lamar ed Hester, io chiamai in centrale per verificare se la polizia di Freiberg fosse riuscita a rintracciare Kevin Stemmer. Lo avevano trovato in un bar chiamato The River Bank. Primo sospetto eliminato. La conferenza stampa fu notevole. Hester e Lamar, in piedi uno accanto all'altro sui gradini d'ingresso, illuminati dai riflettori delle televisioni, rilasciarono una dichiarazione congiunta. Anche se, a dire la verità, Lamar si limitò a presentare entrambi e lasciò che fosse Hester a parlare. Tutti noi rimanemmo a guardare con attenzione dall'angolo della veranda. Eravamo al sicuro dalle telecamere e dalla posizione in cui ci trovavamo riuscivamo a vedere i loro volti illuminati. «È in corso un'indagine su un possibile caso di omicidio» annunciò Hester. «Sottolineo la parola "possibile". Per questo motivo non possiamo dirvi molto al momento. La persona deceduta è Edith Younger, di Rural Route, Freiberg. L'ufficio del medico legale ha eseguito un'autopsia e i risultati verranno formalmente presentati al termine di tutti i test di laborato-
rio di routine.» Ottima dichiarazione. Com'era prevedibile, appena Hester ebbe finito di parlare i giornalisti cominciarono a rivolgerle domande sul vampiro, ma lei sollevò una mano. «Circolano voci secondo cui saremmo alla caccia di un vampiro.» Respirò profondamente. «I vampiri sono creature di fantasia. Questo è quanto.» Fece un largo sorriso, aperto e sincero. «Il sospetto, o i sospetti, di questa indagine saranno esseri umani,» disse con voce calma e chiara «e come tali saranno trattati. Potete starne certi.» «Allora chi state cercando con tutta questa gente?» domandò il giornalista della televisione di Dubuque. Ero curioso di conoscere la risposta quanto lui. «Abbiamo un possibile sospetto che potrebbe trovarsi nelle vicinanze. Stiamo verificando se le informazioni in nostro possesso sono corrette.» Grande. Avrei voluto applaudire. «È vero che avete sparato al sospetto?» Guardai in mezzo al gruppo, ma con le luci delle troupe e la pioggerellina non riuscivo a capire chi avesse parlato. «Nessuno è stato colpito» disse Hester. Verissimo. «Ci è stato detto che avete sparato a una persona che poi è fuggita nel bosco.» Mi spostai di un paio di passi sulla destra e guardai con attenzione in mezzo al gruppo di giornalisti. Sembrava che a parlare fosse uno della TV di La Crasse. Mentre il mio sguardo scrutava fra la folla riconobbi lì vicino William Chester. Ebbi il sospetto di aver identificato la loro fonte, anche se ignoravo come avesse potuto reperire quelle informazioni. «Non abbiamo sparato a nessuno che poi sia fuggito nel bosco» rispose Hester. Cercò di prevenire altre domande dicendo: «La legge vieta espressamente di diffondere ulteriori informazioni in questa fase delle indagini. L'unica ragione per cui abbiamo deciso di rispondere alla prima domanda era per mettere a tacere voci sciocche e infondate. Ci è consentito dalle procedure del dipartimento». Sorrise di nuovo. «Anzi, siamo incoraggiati a farlo.» Ci fu una serie ininterrotta di domande, molte delle quali contenevano la parola che comincia per "V". Qualcuno chiese addirittura se il vampiro avesse succhiato il sangue alla vittima. «Mi spiace, ma in questo momento non posso dire di più. Vi terremo informati sugli sviluppi più importanti del caso. Grazie.» Lei e Lamar si voltarono e si avviarono verso la casa. Hester avrebbe dovuto ricevere dei fiori per la sua prestazione.
«La ragazza morta aveva qualcosa a che fare con lei, sceriffo?» Lamar si fermò e rimase immobile per un istante, dando le spalle alle telecamere. Vedevamo bene il suo volto ed era pietrificato. Si voltò. «Edith Younger era mia nipote» disse. «Questo è il motivo per cui non sono personalmente coinvolto nell'indagine.» Si voltò di nuovo e ignorò il brusio dietro di lui. Poi fece qualcosa che non gli avevo mai visto fare prima. Mentre entravano nella Villa, tenne la porta aperta a Hester. Una quindicina di minuti più tardi, prendemmo tutti i provvedimenti necessari per mettere in sicurezza la Villa in attesa del ritorno della proprietaria e decidemmo che la squadra addetta alla perquisizione avrebbe trascorso la notte lì. Le ricerche nel bosco stavano continuando, ma ormai cominciavamo a pensare che la preda ci fosse sfuggita. «Continueremo a cercare per tutta la notte» decise Lamar. «E anche domani. Da qualche parte deve pur essere.» «Ehi Lamar» disse Hester. «Stai facendo fare a tutti gli straordinari, eh?» «No» rispose in tono aspro. «Stanno solo coprendo il loro turno.» «Non dopo mezzanotte» disse Hester. «Buon Columbus Day!» Lamar la guardò. «Oh, cazzo.» Il Columbus Day poteva anche andare al diavolo. Lamar decise di lasciare tre agenti nel bosco con l'ordine di proseguire le ricerche fino alle nove del mattino dopo. I tre che li avrebbero sostituiti avrebbero lavorato fino alle quattro del pomeriggio. «Non credo sia andato lontano» disse. «C'è qualcosa che non mi quadra.» Difficile dargli torto. Per fortuna l'area circostante la Villa era di proprietà dello stato dell'Iowa, essendo parte della riserva naturale del Mississippi: questo significava che non dovevamo chiedere alcun permesso alla Hunley per perlustrare i boschi. Prima di andare via, Hester e io decidemmo che avremmo fatto meglio a interrogare lei e la sua amica l'indomani mattina, per sentire quello che avevano da dirci su Peel, sui vampiri e sulle stranezze trovate al terzo piano. Passammo davanti ai giornalisti che, presi alla sprovvista, non riuscirono a scattare neanche una foto prima che noi imboccassimo il viale. Giunti in fondo, stavamo rallentando per immetterci nella strada principale quando con la coda dell'occhio scorsi una macchia blu. Inchiodai, ri-
schiando di farmi tamponare dal furgone della scientifica. Mi lanciai fuori dall'auto e cominciai a perlustrare la boscaglia alla mia destra. «Lo vedi? L'hai trovato?» domandò Chris. «No, no, però faresti meglio a venire con me. Abbiamo dimenticato qualcosa.» Ciò che avevo dimenticato e che occupava un angolo della mia mente quando ci trovavamo ancora al terzo piano era sul ciglio della strada. La spazzatura. Prendemmo una decisione immediata, notando che tutto il contenuto del cassonetto blu era raccolto in sacchi neri di plastica. Li avremmo raccolti, li avremmo schedati nell'inventario, avremmo portato in casa una copia della lista e infine li avremmo trasportati al dipartimento, chiudendoli nella stanza delle prove per esaminarli il giorno seguente. Tutto quello che non avremmo sequestrato, l'avremmo riportato indietro. Dal momento che la brillante idea era venuta a me, dovetti caricare i sacchi sul sedile posteriore della mia macchina. Il viaggio fu tranquillo, anche se un po' maleodorante. Non ricevetti molti applausi quando, giunto in ufficio, misi i cinque sacchi di spazzatura nella stanza delle prove e chiusi la porta a chiave. «Quella puzza appesterà tutto l'ufficio» disse il vicesceriffo Kline, che lavorava al dipartimento da abbastanza tempo per sapere di cosa stava parlando. «Cristo santo, mi toccherà uscire e farmi un giro in macchina.» «Sai che roba...» Posai gli appunti sulla scrivania e cercai la chiave. «Hai trovato il tizio che stavi cercando?» chiese. Era stato assegnato al turno per la notte ed era l'unico a non essere salito alla Villa perché era dovuto restare in servizio in centrale. «No» dissi aprendo il mio cassetto. Vi infilai gli appunti e il rullino da sviluppare che avevo in tasca. «Comincio a pensare che sia scappato» dissi. «Anche se non dev'essere la cosa più facile del mondo.» «Decisamente» commentò Kline. «Praticamente c'è un esercito, lassù.» «Proprio così.» Ero molto stanco. Proseguii fino alla centrale operativa e lasciai un appunto scritto in fretta per Borman, con cui gli comunicavo che avremmo cominciato l'indomani alle 9.00 circa, magari anche alle 10.00, e che ci saremmo visti in ufficio al mio arrivo. Quando consegnai il messaggio a Winifred Bollman, la vice-operatrice, alzò lo sguardo e disse: «Gesù, Carl, sei uno straccio». Dopo quel commento me ne andai a dormire.
18 Lunedì 9 ottobre 2000 (Columbus Day) 8.39 Alle 8.02 fui svegliato da una telefonata. Risposi, assonnato. «Pronto?» Ci fu una pausa di un secondo, quindi: «Buongiorno, sono il generale Norman Schwartzkopf e la chiamo da parte di...». Riagganciai. Nell'Iowa ci si aspettava una gran bagarre per le imminenti elezioni presidenziali e si ricevevano molte telefonate registrate. Mi voltai dall'altra parte, nel tentativo di dormire un'altra mezz'ora. Dopo averci provato per un po', mi alzai alle 8.15 e bevvi la mia prima tazza di caffè in relativa calma. E sempre un ottimo modo per cominciare la giornata. Mi mancava solamente Sue. La scuola se ne fregava di Colombo e della sua festa. Mentre mi versavo la seconda tazza, chiamai in ufficio. «Houseman? Credevamo che dovessi essere già qui a quest'ora.» Era Sally. «Credevamo?» «Hester e io.» Ridacchiò. «Davvero. Pensavamo che voi vecchietti aveste bisogno di dormire meno.» «Grazie, mocciosa. Allora, è successo qualcosa?» «È meglio che ti risponda Hester.» Mi mise in attesa facendomi sentire una musichetta che avevamo installato circa un anno prima. L'unica stazione radio affidabile in zona era un canale FM che trasmetteva musica country e western tutto il giorno. Sfortunatamente avevano una sezione amatoriale che cominciava alle 8.00 e terminava alle 10.45. «Carl?» La voce di Hester interruppe l'infelice versione di Sixteen Tons cantata da un ragazzino. «Cosa succede?» «Puoi scordarti il nostro colloquio di stamattina.» «Cioè?» «La signora Hunley si è dovuta assentare per questioni urgenti.» «Stai scherzando?» Maledizione. «No. La zietta con cui vive,» disse nell'imitazione abbastanza riuscita di una domestica «si è improvvisamente sentita male.» «Capisco. E la donna dai capelli luminescenti è andata con lei?» «Naturale. Tatiana doveva accompagnarla. Si tratta di un viaggio di al-
meno due o tre ore.» Dalla voce sembrava esasperata. «Almeno, questo è quello che ha detto l'avvocato Junkel quando ho chiamato. Sono partite questa mattina presto.» «Sono tornate a Lake Geneva?» «Esatto. Dall'altra parte della "latteria d'America".» Il Wisconsin orientale le metteva fuori della nostra portata, almeno per un po'. «Be',» dissi cercando di sdrammatizzare «puoi sempre sfogarti su Toby.» Hester si mise a ridere. Mi venne in mente che Jessica Hunley adesso si trovava nel raggio di azione di Harry Ullman, il miglior investigatore della Conception County. Non tutto il male viene per nuocere. Avevo previsto di trascorrere il Columbus Day a lavorare sul caso. Il che, in origine, voleva dire interrogare Jessica Hunley e Tatiana Ostransky, oltre ai cinque inquilini rimasti nella Villa, ed esaminare tutta la spazzatura che avevo chiuso nella stanza delle prove la sera prima. Dal momento che Jessica e Tatiana se n'erano andate, decisi di occuparmi subito della spazzatura, per poi recarmi dai cinque ragazzi nel primo pomeriggio. Sarei arrivato presto, se l'esame della spazzatura non avesse portato a nulla di buono. Il telefono squillò ancora. «Pronto?» La solita pausa e poi: «Sono il senatore Tom Harkin e...». Riattaccai. Ascoltavo sempre finché non capivo a chi appartenesse la registrazione. Ormai in ufficio era diventata un'abitudine scherzare sulle telefonate ricevute dalle persone importanti. Era come giocare a figurine. «Ehi, io ho due Colin Powell ma mi manca Jimmy Carter.» «Davvero? Io ho un Jimmy e ho anche una chiamata da parte di Tipper Gore. Prova a battermi se ce la fai!» Arrivai in ufficio alle 9.09. Borman stava parlando con Sally, in piedi davanti al bancone della centrale operativa. «Pronto a partire?» gli chiesi. «Non esattamente» rispose, senza guardarmi negli occhi e fingendo di gingillarsi con le pagine di un blocco per appunti. «C'è qualche problema?» mi sforzai di domandare. Non disse una parola. Sally ruppe il silenzio impacciato. «È stato sospe-
so per un giorno.» Cazzo. I colpi d'avvertimento della sera prima. «Con o senza paga?» fu la prima cosa che chiesi. Era importante, ma non per i soldi. Senza paga sarebbe stato licenziato al prossimo sbaglio, viceversa poteva cancellare l'onta con tre mesi di buona condotta. «Con.» Era un vero e proprio rompiscatole. Aveva solo venticinque anni e faceva già il muso. «Bene» dissi. «Perché non te ne vai a casa e torni domani? Fai conto di avere un giorno libero.» Se l'era cavata a buon mercato, pensai, perché i colpi d'avvertimento erano proibiti dalle regole del dipartimento. «Prima vuole chiederti qualcosa» disse Sally. La guardai. Dal tono avevo capito che era schierata dalla sua parte. «Avanti, allora.» «Immagino che tu dovessi proprio raccontarlo a Lamar, vero?» Non scherzo. Disse quelle precise parole. «Non dovresti neanche chiederlo» replicai. «Certo che dovevo. Ero presente, ero l'ufficiale più alto in grado ed era mio dovere e responsabilità farlo. Lo sai benissimo.» Silenzio per alcuni secondi. Poi se ne uscì con la seconda domanda idiota. «E immagino che non avresti potuto aspettare che fossi io a dirglielo per primo, vero?» Non solo era una domanda idiota, ma nel tono della voce si percepiva anche un certo risentimento. Se non mi fosse stato simpatico, l'avrei mandato al diavolo. Invece ottenne più di ciò che cercava. Guardai l'orologio. «Va bene. Siediti.» Non capì. «Ti ho detto di sederti.» Obbedì. «L'utilizzo delle armi da fuoco è giustificato solo per proteggere la propria vita o quella di un altro, giusto?» «Certo.» Non poteva dire altro. Era così e basta. «E solo se non c'è altro modo per garantire lo stesso tipo di protezione. Giusto?» «Sì, certo.» Guardai Sally. «Visto che, in quanto ausiliaria, porti la pistola, lo sapevi anche tu, vero?» Annuì. "Ci mancherebbe altro" pensai. «Questo vale anche per te. Una specie di ripasso. Il colpo più pericoloso che puoi sparare è quello d'avvertimento.» Il mio compito cominciava ad appassionarmi. «Vi spiego il perché. Primo: non dovete per nessun motivo
scaricare la vostra arma a meno che non abbiate un motivo valido. E cercare di non colpire qualcuno non lo è. Siete d'accordo?» Borman annuì, ma cominciava ad annoiarsi. «Secondo: non hai idea di dove siano andati a finire quei proiettili, vero?» «Ho sparato in aria.» «Esatto. Ma, a meno che non abbiano sfidato la legge di gravità, sono ricaduti. Sai dove?» «No.» «Giusto, non lo sai. In alcuni dipartimenti, dove hanno più personale e dove potrebbero permettersi di fare a meno di te per qualche tempo, rimarresti sospeso finché non fossi riuscito a ritrovare entrambi i proiettili per l'indagine dipartimentale. Lo sapevi?» No, evidentemente non lo sapeva. «Terzo: i proiettili si fermano. Se ciò accade perché colpiscono qualcuno, ti conviene sperare che quel qualcuno si meriti la pallottola. Avevamo due agenti in giardino, dall'altra parte della Villa. Cosa diavolo avresti fatto se uno dei proiettili avesse colpito il vecchio Knockle in testa?» Aspettai un attimo. «Allora?» «Non credo siano andati in quella direzione.» «Non credi, ma lo sai con certezza?» «No, non lo so. Ma so di non aver colpito Knockle.» «Non regge. Comunque, andiamo avanti. Quarto: il sospetto che ti ha fatto sparare due colpi di avvertimento potrebbe aver ucciso Edie nelle precedenti ventiquattr'ore.» Vidi che stava per dire qualcosa e alzai una mano. «No, non ne siamo sicuri. È una probabilità. Allo stesso tempo, quello stronzo ti ha sferrato un colpo al petto con un oggetto appuntito e ti avrebbe ferito in modo grave se non avessi avuto il giubbotto, giusto?» «Sì, ma è per questo motivo che li indossiamo.» Stava cominciando a farmi arrabbiare. «Hai mai pensato,» dissi molto lentamente e in modo chiaro «che stava cercando di tagliarti la gola, proprio come ha fatto a Edie? E che non c'è riuscito solo perché aveva fretta?» Impallidì. Naturalmente non ci aveva pensato. «Allora, era ancora davanti a te, ti ha colpito e tu hai sparato in aria. Supponi per un istante che tu avessi colpito il vecchio Knockle.» Lasciai che ci pensasse per un secondo. «Riesci a immaginarmi mentre dico a Lamar che hai ucciso Knockle perché il presunto responsabile della morte di sua nipote che, tra parentesi, ha cercato di uccidere anche te...» Mi inter-
ruppi di nuovo. «Ora immagina che mi fossi detto: "Carl, perché non aspetti che sia Borman a raccontarlo a Lamar"? Mi segui?» «Sì.» «E metti che nel frattempo Lamar lo fosse venuto a sapere da qualcun altro prima che glielo dicessi tu. Non avrebbe pensato che stessimo entrambi cercando di nascondere l'accaduto?» «Forse.» Alzò lo sguardo. «Sì. Mi dispiace. Hai ragione, Carl, dovevi farlo.» Mi voltai verso Sally. «Hai capito anche tu?» «Oh, certo. Ci puoi scommettere.» Sorrise. «Okay, allora.» Guardai Borman. «Vai a casa adesso. Torna domani, riposato e pronto a partire.» «Vuoi ancora che faccia parte di questa indagine?» Sembrava realmente sorpreso. «Certo che voglio. Anche Lamar è d'accordo.» Però avevo qualche riserva mentale. Il broncio e le sue domande idiote mi avevano fatto arrabbiare non poco. Sbagliavo? Forse. In ogni caso Borman mi aveva mostrato un lato di sé che non avevo mai visto. Era quasi riuscito a convincere Sally che io e Lamar gli avessimo fatto un torto. Ritenevo che dovesse prendere parte alle indagini perché sapeva molte cose e perché mi aveva sempre fatto una buona impressione. Lo stress poteva avere influito, ma l'avrei controllato da vicino. Dato che per quella mattina avevo portato a termine il mio compito di capo saggio e impavido, andai a prendere Hester. La interruppi mentre scriveva un rapporto al computer e andammo dritti al ripostiglio delle prove. Puzzava, ma meno di quanto temessi. Il mio naso mi diceva che negli ultimi giorni gli inquilini della Villa avevano consumato cipolle, aglio e carne. Avevo ragione solo per due terzi. Avevano buttato via cipolle e aglio, ma la terza cosa non era carne. Era una sacca mortuaria macchiata di sangue. Mi fermai non appena la vidi e andai a chiedere aiuto. Chris Barnes e gli altri ragazzi della scientifica stavano facendo colazione ed erano in procinto di partire per Des Moines. Arrivarono in cinque minuti. Restammo tutti in piedi a guardare la sacca di nylon bianca, con maniglie e cerniera nere. Una piccola etichetta la classificava come una "500 VSA". Una buona sacca, una delle più costose, a doppio spessore, con rin-
forzi alle estremità e nella parte inferiore. C'era un po' di sangue all'interno e una macchia scura all'esterno. Chris la guardò con attenzione e disse che sembrava una macchia lasciata dal legno, forse proveniente dal luogo in cui era stata conservata. «Questa sacca spiega ampiamente l'assenza di tracce di sangue» aggiunse. «A eccezione di quelle vicino alla vasca, sul tappeto fuori dalla camera e in fondo alle scale di servizio» dissi. «Giusto. In quei punti qualcuno ha posato il corpo, che, piegato in avanti o da un lato, ha esercitato una pressione sulla sacca facendo uscire alcune gocce di sangue dalla cerniera.» Chris scosse la testa. «Non credo che il sangue sia fuoriuscito lungo tutto il tragitto» aggiunse. «Tuttavia, non ci giurerei. Prima dobbiamo esaminare il sangue per stabilire innanzitutto se è sangue umano e quindi se appartiene alla ragazza.» Con un dito guantato toccò il sangue che si era accumulato in una delle pieghe della sacca. «A quest'ora avrebbe dovuto coagularsi.» «Vero» annuì Hester. «Fra quanto avremo i risultati?» «Forse sapremo se è sangue umano entro oggi, dipende da quando riuscirò ad arrivare a Des Moines.» Si interruppe quando Hester si schiarì la voce. «Va bene, oggi, sicuramente. Per quanto riguarda l'esame del DNA, è difficile dirlo, ma il più velocemente possibile.» «Ci troviamo di fronte a un assassino in possesso di una sacca mortuaria quindi il caso diventa omicidio premeditato. Difficile programmare un delitto più di così» dissi. Compilammo il foglio delle prove per la sacca. Consisteva in una copia del mio registro su cui avevo inserito l'ora in cui avevamo prelevato le borse dal cassonetto, l'ora in cui le avevo messe nell'armadietto delle prove e quella in cui avevo consegnato la sacca mortuaria a Chris. C'era la mia firma accanto a ogni voce in fondo al modulo, seguita dalla sua. Aggiornare la catena delle prove è fondamentale, anche se estremamente noioso. Come si dice, si rivela importante solo quando ti dimentichi di compilarlo. Ci facemmo coraggio ed esaminammo il contenuto degli altri sacchi. Trovammo diversi oggetti sporchi di sangue: un asciugamano, una salvietta, una bottiglietta di shampoo e una di balsamo, una saponetta col suo portasapone, un flacone di olio da bagno, un attaccapanni e un rasoio rosa per donne. Tutto infilato in un sacchetto di plastica bianco contenuto in un cestino per la spazzatura in ottone intonato con il resto della casa. «Devono aver fatto cadere questa roba nella vasca mentre ci mettevano
dentro la ragazza» disse Hester pensierosa. «Forse è rimasta impigliata alla sacca, poi l'hanno gettata via per timore di aver lasciato delle impronte. E infine hanno ripulito con l'asciugamano parte del casino che avevano fatto.» «Non c'erano segni di strofinamento nella vasca» le feci notare. «Potrebbero aver usato la salvietta per pulirsi le mani» ipotizzò Barnes senza alzare lo sguardo dalla classificazione delle prove che stava eseguendo. «È difficile dire come ci sia arrivato.» «Hanno avuto l'accortezza di mettere il coltello nella vasca per distogliere l'attenzione dalla vera arma del delitto.» Scossi il capo. «Abili.» «Sì» disse Hester nauseata. «Dunque,» decisi «credo che potremmo cominciare cercando le ditte che vendono sacche mortuarie 500 VSA e vedere se non abbiano un'area di vendita circoscritta.» Non era un'idea geniale e nemmeno troppo utile, ma da qualche parte dovevamo pur iniziare. Trovammo anche le stampate di alcune vecchie e-mail. Sembravano appartenere a persone diverse e contenevano i seguenti indirizzi:
[email protected],
[email protected],
[email protected],
[email protected],
[email protected], choreographer@ gottadance.arts. Indirizzate a un gran numero di persone e luoghi, lunghe o molto brevi, all'apparenza erano messaggi innocenti, ma decisi ugualmente di conservarli tutti per leggerne il contenuto e controllare nomi e indirizzi. «Spero,» dissi a Hester «che il mandato di perquisizione includesse i computer e le informazioni in essi contenute.» «Non avevamo prove che portassero ai computer prima e non ne abbiamo adesso» rispose. «Dammi un po' di tempo.» Nei sacchetti rimasti trovammo un'altra mezza dozzina di e-mail e un bel po' di rifiuti generici che sarebbero potuti provenire da qualsiasi posto. Ricontrollammo tutto una seconda volta, ma non c'era nient'altro di utile. Né oggetti con macchie o segni di sangue, né bollette, né fatture, solo alcuni semplici scontrini e numerosi volantini di propaganda politica, da Bush a Gore, da Nader a Buchanan, per non parlare dei candidati di stato e di quelli locali. Notai, tuttavia, che tutta la posta politica era indirizzata a un generico "occupante". «Sembrerebbe che nessun inquilino della Villa sia registrato nelle liste
elettorali» dissi. «Come?» La mia osservazione colse Hester alla sprovvista, ma dopo che le ebbi spiegato il mio ragionamento si ributtò sulla spazzatura mormorando: «Le cose che alcuni considerano importanti...». «Ehi! Sono un osservatore allenato, ecco tutto.» «Concentrati, Houseman.» Finimmo di ispezionare la spazzatura prima di quanto immaginassi. Guardai Hester mentre ci sfilavamo i guanti in latice. «Non c'era molto, vero?» «Buon Dio, Houseman. Hai trovato una sacca mortuaria! Cosa vuoi di più?» Già, cosa volevo di più? «Avrei preferito trovare qualcosa che identificasse il nostro sospetto.» Chris e i ragazzi della scientifica si diressero verso il laboratorio di medicina criminale dell'Iowa, a Des Moines, portando con loro la sacca mortuaria. Hester e io potemmo così dare inizio al nostro programma giornaliero. Lei chiamò la Villa mentre io disponevo le e-mail in un ordine coerente, per nome del destinatario. Ce n'erano due che provenivano da un "gottadance" e andavano a un "gottadance". La prima, spedita da Choreographer a Oncelost, era datata 16 settembre 2000, alle 21.56. Il testo era breve e conciso. Ciao. Dovremmo arrivare il prossimo fine settimana o quello seguente. Volevo accertarmi che ci siano verdure fresche e il vino che piace a noi. Spero che vada tutto bene. Ho ricevuto il tuo rapporto di agosto e ho approvato i pagamenti. Ah, cerca di prendere George Hollis per il forno. È più affidabile di Norman Brecht e costa uguale. Non c'erano dubbi sull'identità di Choreographer. A quanto pareva "gottadance" era un network che includeva anche il terminale di Jessica Hunley a Lake Geneva. A giudicare dal contesto, pensai che Oncelost fosse Edie, ma dovevo controllare per esserne certo. L'altra, sempre di Choreographer, era indirizzata a Clutch. Era datata 2 ottobre 2000 alle 22.40 e diceva:
Ciao. Credo che sia andata bene. Ci ho pensato per tutto il viaggio di ritorno. Sono d'accordo con te. Grazie mille. Non era molto. Sfortunatamente la gente non scriveva le e-mail per farle leggere ai poliziotti. Leggendo gli altri messaggi, decisi che Clutch fosse Huck, dal momento che parlava del suo lavoro sulla nave-casinò, mentre Dealerofdarkness doveva essere Kevin. Rimanevano Magikboy che poteva essere Toby e suonava tanto come una presa in giro, Wailingsoul ed Etherialwaifgurrl per i quali non avevo indizi, ma ero pronto a scommettere che il primo appartenesse ad Hanna e il secondo a Melissa. Hester finì la telefonata e disse che il gruppo ci aspettava dopo pranzo. Sedette dall'altra parte della scrivania e cominciò a studiare le e-mail con me. Le dissi che avevo quasi sicuramente identificato Choreographer come Jessica e Oncelost come Edie. Cominciammo da lì. Nella pila di Oncelost si contavano cinque e-mail. Una ricevuta di Amazon.com per un libro di ricette vegetariane, due messaggi di eBay che indicavano un'offerta iniziale e una notifica di rilancio per una bambola Raggedy Ann - aveva perso l'asta a dodici dollari e cinquanta - e due di
[email protected]. La prima era datata 12 luglio 2000, alle ore 11.15 e, come molte altre, conteneva il messaggio originale a cui DarcyB2 rispondeva. Cara E, Farò di tutto per venire all'evento! È passato tanto tempo dall'ultima volta che abbiamo fatto una bella chiacchierata. Non vedo l'ora di incontrarti. Sì, mi ricordo del D&E. Avevamo grandi progetti, allora! Mi ricordo anche di Lindzy. Un abbraccio, D. ---------------------------Originai Message-----------------------From: «Oncelost»
To: [email protected] Sent: Giovedì, 12 luglio 2000, 4.19 PM Subject: Compleanno e altro >D, > Mi è venuta un'idea. Il 19 agosto è il compleanno della > mia Shanna. Vorrei prenderle una Raggedy Ann come > Lindzy, la nostra prima cliente al Salone D&E. Ti ricordi? > Le piacerebbe vedere la sua madrina, ne sono certa. An> che a me piacerebbe vederti perché ci sono delle cose di > cui vorrei parlarti. Spero proprio che tu riesca a venire. La > mamma non ci sarà, se questo può farti stare meglio. > Scusa se non ti scrivo da tanto. Ci manchi molto. >E&S La seconda era datata 24 luglio 2000, alle 16.44. Cara E, Mi dispiace molto dovertelo dire, ma non posso proprio venire. Devo fare da testimone di nozze al matrimonio di Ellen, la sorella della mia compagna di stanza che si sposerà proprio quel giorno a Santa Fe, in New Mexico. Sarà un matrimonio molto fastoso. Dobbiamo incontrarci al più presto. Ti chiamerò sicuramente quando torno. Tanti baci e abbracci a te e Shanna. D Interessante. Le mostrai a Hester, che commentò: «Anch'io avevo una Raggedy Ann da piccola». «Spero che non contasse su quella di eBay» dissi. «Una e-mail dice che la sua offerta è stata battuta.» «Oh.» Sembrava distratta. «Aveva una figlia? Non lo sapevo.» «Sì. Vive con la nonna. Non so perché, ma Edie e sua madre non andavano d'accordo.» Ci pensai un istante. «Mi sembra di ricordare che fosse a causa di una questione di affidamento. Anche se non ci sono state battaglie legali: è stata una decisione volontaria. Edie non l'aveva contestata, in ogni caso.»
«Sai quanti anni ha?» «Mi sembra tre, forse quattro.» «È proprio un'età critica. Molto critica.» «Giusto perché tu lo sappia, dal momento che era la nipote di Lamar,» le confidai «Edie ha tentato il suicidio più o meno un anno fa, dopo l'affidamento della figlia alla madre. Me ne occupai io e se ricordo bene era la seconda o terza volta che ci provava. Mai troppo seriamente. Pillole, una volta il tipo sbagliato, una volta una quantità insufficiente.» «Potrebbe esserci utile,» disse «ma potrebbe essere importante anche per la giuria.» «Be',» risposi «nel caso di Edie, temo che essere a conoscenza dei suoi tentativi di suicidio abbia offerto all'assassino un ottimo spunto. Ha solamente sbagliato la messinscena. Darebbe moltissimo da pensare alla giuria.» L'esistenza della sacca mortuaria la diceva lunga sulla premeditazione dell'assassino, o degli assassini. «Hester, secondo te quante persone tengono una sacca mortuaria in casa? In garage, per esempio.» «Non molte. Quante ne conosci che saprebbero dove procurarsene una?» Certo non le persone normali. «Dunque, cominciamo dalle imprese di pompe funebri. Poi gli ospedali, gli ambulatori, i volontari del pronto soccorso, i dipartimenti di polizia e anche i vigili del fuoco.» Mi strinsi nelle spalle. «Non è una sacca militare. Rimangono le agenzie civiche, i produttori e i punti vendita. Direi che l'elenco è completo.» «A tuo giudizio, un venditore o un produttore non dovrebbe insospettirsi davanti alla richiesta di una sacca mortuaria?» «Certo che dovrebbe. Ma non si sa mai.» «Verosimilmente,» fece pensierosa «è stata fornita da qualcuno che non fa troppe domande e se ne infischia delle registrazioni contabili.» «Sono d'accordo.» «Qualcuno che ha un parente o un amico che gestisce un'impresa di pompe funebri, per esempio. Gente che fa ordini continui e che non deve dare spiegazioni a nessuno.» Sorrise. Non le risposi, ma presi il telefono e composi il numero della centrale operativa. Rispose Sally. «Centrale, come posso esserle utile?» Le diedi qualche informazione su ciò di cui avevamo discusso e le chiesi di cercare un'impresa di pompe funebri il cui proprietario avesse lo stesso
cognome di uno dei cinque inquilini rimasti nella Villa, della Hunley, della Ostransky, o di Peel. «Mi pento di averti fatto questa domanda» disse. «Dammi un po' di tempo, d'accordo? Fin dove vuoi che cerchi?» Quella era una buona domanda. La tentazione era di rispondere qualcosa tipo "in tutto il mondo". Ma se in futuro volevo ottenere un altro favore simile dovevo essere ragionevole, così risposi: «Nel raggio di trecento chilometri». Prima che potesse obiettare, aggiunsi «anche perché la Hunley vive grosso modo a trecento chilometri di distanza». «Ti costerà parecchio.» «Tutto quello che vuoi» risposi. «Dimmi solo cosa e quando.» «Allora, Houseman,» propose Hester quando riagganciai «cosa ne dici se ce ne andassimo a pranzo e poi a interrogare qualche testimone?» Era tornata la Hester di sempre. Mi era sembrata un po' giù quando aveva saputo della figlia di Edie. Sorrisi. «Buona idea.» Prima che avessimo varcato la soglia, Sally ci chiamò per ricordarci che ci sarebbe stata la veglia funebre per Edie dalle 16.30 alle 18.00 presso la sede dell'impresa di pompe funebri, a Freiberg. Cazzo. Non mi piaceva andare alle veglie quando stavamo seguendo un caso. Si rischia di farsi coinvolgere emotivamente e poi di accelerare le cose per aiutare le persone che rimangono a soffrire. E se si va troppo in fretta, il caso può scivolarti dalle mani. Tuttavia decidemmo di andare. Era un desiderio di Lamar e Freiberg era piuttosto vicina. Passammo da casa mia: dovevo togliermi blue jeans e scarpe da tennis per mettermi qualcosa di più formale. Considerando che dovendo lavorare avrei potuto sporcarmi, decisi di mettermi dei pantaloni verde oliva e un paio di scarpe sportive, una camicia e un cardigan lungo per coprire la pistola che tenevo in vita: non volevo lasciarla in macchina mentre eravamo alla veglia. Non credevo di avere un look molto diverso dal solito, ma evidentemente mi sbagliavo perché, tornato alla macchina, Hester distolse lo sguardo dai suoi appunti ed esclamò: «Ecco a voi il nuovo Houseman. Non riesco quasi a riconoscerti! Santo cielo, speriamo che non ti debba sporcare». Le lanciai un'occhiata mdignata mentre concludeva: «Forse sarebbe stato meglio mangiare, prima...». «Piantala, sono dei normalissimi pantaloni.» «Sei troppo modesto, Houseman. Cominci a tirartela da elegantone.»
Cambiai argomento: «Credo che anche il gruppo della Villa abbia intenzione di andare alla veglia». «Potrebbe essere dura per loro. Difficile sentirsi a proprio agio, intendo.» Sorrisi. «Allora sarò in buona compagnia. Purtroppo, però, non avremo molte possibilità di interrogarli.» «Dammi un po' di tempo,» disse Hester «comunque potremmo avere già elementi sufficienti per fare una selezione.» Eravamo appena entrati in macchina quando il pranzo venne cancellato. «Tre da centrale» gracchiò la radio. «Tre, parla pure.» «10-25 con la squadra della perquisizione diretta a nord. Ottantuno dice di avere qualcosa per voi.» Fantastico. «10-4, centrale. 10-76, siamo già per strada» dissi svoltando a sinistra invece che a destra arrivati al ponte, dirigendomi a nord: «Saremo lì tra quindici minuti circa». «Perfetto. Avviseranno una volta arrivati alla base della collina, alla fine dell'autostrada. Saranno ben visibili.» «10-4.» Ero tentato di chiedere se avessero qualcuno in custodia, ma mi attenni al codice 61 e lasciai perdere. «Pensi che l'abbiano trovato?» chiese Hester. «Chi può dirlo?» «Per quale altro motivo avrebbero dovuto chiamarci?» «Per farmi saltare il pranzo» replicai. «Sarà meglio che abbiano una persona in caldo per noi.» Scoprimmo che era così. «Ottantuno da Tre» dissi al microfono quando arrivai a un chilometro dalla collina. «Avanti, Tre.» «Sono a un chilometro circa da voi.» «10-4, ti vediamo. Accostate qui» disse, e scorsi una persona in blue jeans e giacca verde scura sull'autostrada, dal lato della collina. C'era una macchina del dipartimento parcheggiata in una piazzola in cui le autorità di contea tenevano la riserva di ghiaia da spargere sulle strade. L'uomo fece un cenno e riconobbi il vecchio Knockle. Mi avvicinai ancora e vidi una Chevy blu parcheggiata davanti all'auto di servizio.
Accostandomi, notai che aveva la targa del Wisconsin. Scesi dalla macchina e dissi: «Ehi Knockle, non dormi mai?». «Ho ancora un'ora di servizio. Ciao, Hester.» «Cosa succede?» domandai. «Eravamo per strada, io e Tillman, e stavamo andando a dare il cambio agli altri ragazzi, quando ho notato questa macchina. Ho controllato la targa e ho scoperto che ha l'assicurazione scaduta. Appartiene a una donna di nome Gunderson, di Madison.» «E poi?» Ero ansioso di sapere cos'altro avesse scoperto, ma non volevo darlo troppo a vedere. «Be', mentre Tillman controllava sotto i sedili,» disse causandomi un fremito «ho guardato lassù,» indicò la collina «e c'era un tizio che mi guardava.» «L'hai riconosciuto?» Si toccò gli occhiali. «È già tanto che l'abbia visto, Carl.» «Che aspetto aveva?» «Era un uomo che indossava una felpa grigia con il cappuccio, credo. Non ho visto molto altro. Comunque ho gridato "Chi sei?" e mi ha fatto un cenno come per dirmi di andarmene.» Il battito del mio cuore stava accelerando. «E poi?» «È come se fosse sparito, Carl. Credo che sia tornato verso la cima della collina.» «E dov'è Tillman?» Mi sentii mancare. Tillman aveva venticinque anni circa ed era ausiliario da tre mesi. Un gran bravo ragazzo, ma ero sicuro che non gli piacessero alcuni aspetti di questo lavoro. Come i rischi. «È andato a cercarlo sulla collina» rispose Knockle. «Mi ha detto di rimanere qui e di chiamare aiuto.» Guardai su per il promontorio. C'era una gola piena di rocce molto grandi e alberi caduti, ma sembrava superabile, almeno lungo la linea degli alberi. «Com'è salito?» «Si è arrampicato su per la gola. Non sembra molto semplice. Fai attenzione.» «È tutt'altro che semplice.» Non era il momento di mostrarsi orgogliosi. «Ha un walkie-talkie?» «No, ne abbiamo solo uno e mi ha detto di tenerlo perché avrebbe avuto bisogno di tutt'e due le mani.»
Guardai Hester, che si stava avvicinando. «Vieni anche tu?» I miei bei pantaloni. Le mie scarpe migliori. Cazzo. «Sì.» Entrai in macchina, presi il walkie-talkie e lo infilai nella tasca posteriore. «La squadra a cui stavate per dare il cambio è ancora nel bosco?» chiesi a Knockle. «Li ho chiamati tre o quattro volte, ma non mi hanno risposto.» «Hai usato il walkie-talkie o la radio?» «Accidenti, scusa, il walkie.» «Usa la radio della macchina: di' a qualcun altro di venire qui, tira fuori la pistola e tieni gli occhi aperti. Non voglio che ti succeda qualcosa. Sei troppo vecchio per morire» dissi mentre mi dirigevo verso la gola. Sorrise. «Ci puoi giurare.» Tanto per cominciare, quella dannata gola era un vero pantano. La pioggia aveva inzuppato i tronchi marci che avevano ostruito il fiumiciattolo e c'era un sottile rivolo d'acqua che scorreva giù dalla collina. Tutto era coperto da fogliame fradicio. Feci i primi passi sulle rocce e riuscii a captare il ronzio di una zanzara. Ci mancavano solo quelle. Hester era davanti a me e non riuscivo a starle dietro. Dovevo usare entrambe le mani per mantenere l'equilibrio e gli appigli che trovavo tra i rami caduti erano ingannevoli perché la corteccia fradicia mi si sfaldava tra le dita. Sotto la corteccia, il legno liscio era scivoloso come le rocce sotto i miei piedi. Tuttavia continuai a salire. Ero quasi certo che, dopo aver passato il promontorio di pietra calcarea, nel bosco la salita sarebbe stata meno ripida e il terreno più stabile. Avevo ragione solo a metà. Dopo circa tre o quattro minuti difficili, vidi che Hester stava passando agilmente da un masso alla linea di alberi. Circa un minuto più tardi raggiunsi lo stesso punto. L'appoggio era effettivamente migliore. La salita, perù, era ancora più ripida. Continuavo a perdere di vista Hester, che si muoveva tra i grandi aceri, i noccioli e i pini. Mi fermai per recuperare fiato e la sentii gridare. «Cosa?» domandai ansimando. Impossibile parlare più forte. «Qui» urlò. Bene. Altri due respiri e continuai la salita. Poi sentii un'altra voce e capii che Hester stava parlando con Tillman. Sembravano fermi e tranquilli. Bene. Rallentai e quando li raggiunsi il fiatone era quasi del tutto passato. Si trovavano sopra una roccia che sporgeva dal fianco della collina di quasi sei metri. Era alta più di tre ed era divisa in due da una fenditura larga un metro e mezzo circa.
Dopo tanti anni, so che se un agente è in allerta nei pressi di un'apertura con una pistola in mano, ci sono molte probabilità che dentro l'apertura ci sia qualcuno, qualcuno che sta creando dei problemi. «Cosa succede?» chiesi affiancando Tillman a destra della fenditura. «Penso sia ancora là dentro» disse. «L'ho visto entrare. Nessuno può arrampicarsi lungo quella roccia.» Pensai alla parete fuori dall'appartamento di Alicia. «Non esserne tanto sicuro» risposi. «Hai sentito niente da quando è entrato?» «No.» «Ehi, tu!» gridai. «Vieni subito fuori!» Niente. «Polizia! Vieni fuori e tieni le mani in vista!» Ancora nessuna risposta. Ricordai quando da bambini pensavamo che in un buco ci fosse un mostro o un animale feroce. Prendevamo un bastone e lo infilavamo nel buco per vedere cosa ne sarebbe uscito. Non usciva mai niente. E comunque mi resi conto che in quel luogo e in quel momento infilare un bastone in un'apertura non era la soluzione ideale. Mi guardai intorno e vidi numerose piccole pietre. Ne presi tre con una forma che mi soddisfaceva, le soppesai e decisi che facevano al caso mio. Fischiai piano tra i denti. Quando Hester e Tillman mi guardarono, sollevai le pietre e feci il gesto di lanciarle. Annuirono entrambi e riportarono lo sguardo verso la fenditura. Misi via la pistola e lanciai la prima pietra, ma rimbalzò di lato. Lanciai la seconda un paio di metri più in alto e la vidi infilarsi nella crepa. Sbatté due volte sulle pareti interne, quindi sentii un rumore sordo. «Ehi! Volete smetterla con queste maledette pietre?» udimmo provenire dalla fenditura. Sorridevo. «Vieni fuori lentamente e con le mani bene in vista!» «Va bene. Va bene.» Subito dopo sentimmo un fruscio e un brontolio e venne fuori un uomo con le mani alzate. Indossava una felpa grigia con il cappuccio e un paio di jeans e teneva la testa bassa per timore delle pietre. Mentre Hester e Tillman mi coprivano, mi avvicinai lentamente, la pistola puntata verso il basso. «Fermati lì.» Obbedì, ma non riuscivo ancora a vedere il suo volto. «Chi sei?» Mi guardò. «William Chester. Mi conosce.» Mio Dio. Il nostro intrepido cacciatore di vampiri. «Che diavolo ci fa lei quassù?» «Posso abbassare le mani?»
«Sì, ma ci spieghi, cosa diavolo ci faceva quassù?» «Non si può fare neanche una passeggiata nei boschi?» Tillman prese la parola. «Le ho detto di fermarsi. Ho l'uniforme. Ha visto che avevamo una macchina deDa polizia. Perché è scappato?» Era una bella domanda. «Non credo di essere tenuto a dirvelo.» Mi stavo stancando del signor Chester. «Quella laggiù è la sua macchina?» «No, è di un mio amico.» «Anche il suo amico è qui?» chiesi. «No. Sono da solo.» «È venuto fino a qui soltanto per fare una passeggiata sulla collina?» «Che male c'è? Posso camminare dove voglio. Non vedo nessun cartello con la scritta "Vietato l'accesso".» «Quella macchina ha l'assicurazione scaduta» dissi. «Ha appena ammesso di essere venuto fino a qui in macchina. Dobbiamo farle una multa e sequestrare il veicolo.» «Cosa?» «La fuga da poliziotti in divisa suggerirà alla corte che lei era pienamente consapevole di avere l'assicurazione scaduta e che stava cercando di sfuggire alla cattura.» Era un gran momento. «Queste sono stronzate. Non ho parole!» Sorrisi. Almeno stavo vendicando i miei pantaloni. «Le dispiace dirmi il vero motivo per cui si trova qui?» chiese Hester in tono gentile. «Ho una certa influenza su questi due agenti.» «Potresti farlo cominciare da quello» suggerii indicando uno zaino verde scuro che usciva dalla fenditura. Chester arretrò e si mosse come per prendere lo zaino. Ci guardò per vedere la nostra reazione e si ritrovò a fissare la bocca di tre pistole. «Si fermi,» gli intimò Hester «non muova neppure un muscolo.» Obbedì. «Volevo soltanto passarvelo.» «Lo prendo io» disse Tillman. Superò con cautela Chester, si abbassò e sollevò lo zaino. Avevamo il diritto di fare perquisizioni "inerenti all'arresto", ovvero, in questo caso, di esaminare il contenuto dello zaino prima di riconsegnarlo a Chester nell'eventualità che contenesse un'arma. «Dai un'occhiata dentro» ordinai a Tillman, mentre io e Hester abbassavamo nuovamente le pistole. Mi avvicinai a Chester.
«Le avevo detto di tenersi alla larga da questo caso. Non stavo scherzando.» «Non ho mai interferito. Nemmeno una volta.» Decisi di non menzionare il fatto che lo sospettavo di aver passato le informazioni sul vampiro alla stampa. Invece dissi: «Siamo a meno di un chilometro dalla Villa e su questa collina non c'è nient'altro se non il luogo di un possibile delitto». «É a meno di cinquecento metri dalla Villa» mi corresse Tillman, che, evidentemente, andava a caccia in quei boschi. «Non lo sapevo» rispose Chester, proprio nel momento in cui Tillman estraeva dallo zaino una piccola macchinetta grigia con uno schermo a cristalli liquidi. Assomigliava a una calcolatrice. «È un ricevitore GPS, Carl,» disse Tillman «e funziona.» Tillman era giovane e suo padre gestiva una fattoria grande e moderna, quindi mi fidai. «Questo tizio è un prete?» continuò Tillman, sollevando un crocifisso lungo quasi trenta centimetri. «No» dissi. «È un cacciatore di vampiri.» «Davvero? Forte.» Tornando alle macchine, con Tillman che reggeva lo zaino, chiesi a Chester perché avesse disobbedito al mio ordine di restare lontano da quel luogo. «Per prima cosa mi ero perso» disse senza troppa convinzione. «In secondo luogo, non credo sia giusto che voi utilizziate delle autopattuglie per impedirmi di fare il mio lavoro.» A parte il fatto che solo un egocentrico poteva pensare che le nostre auto fossero lì apposta per lui, era la prima volta che l'avevo sentito parlare della sua attività come di un lavoro. «Quale sarebbe il suo lavoro?» domandai mentre mi avventuravo sulle rocce di pietra calcarea coperte di muschio. «Assicurare i vampiri alla giustizia» rispose. «Quello è il nostro lavoro» lo corresse Hester. «Parlo della giustizia divina» disse. «Non di quella dei tribunali. La giustizia dei giusti.» «Oh,» esclamai «fantastico!» Inciampai e recuperai l'equilibrio con uno scatto atletico. «Innanzitutto, è molto probabile che non sia più in zona.» «Chi? Quello a cui stavate dando la caccia?» «Chiunque sia la persona che sta cercando, Chester» risposi.
Quando arrivammo alle macchine, dissi a Tillman e a Knockle di chiamare un carro attrezzi per quella di Chester e poi di scortarlo in prigione. Compilai la contravvenzione stradale. «Non mi accusa di interferenza al corso delle indagini?» chiese lui. «No. Ma non si illuda. La risparmio soltanto perché non era in contatto con nessun altro eccetto noi. Ma stia attento a non esagerare.» «Certo.» Sorrideva. «Knockle,» dissi «non voglio rivedere mai più questo signore in questa zona. Tieni la sua macchina a Maitland e, appena paga la cauzione, portalo direttamente al motel in cui alloggia, nel Wisconsin.» Feci una pausa. «Poi di' a Harry dove si trova e raccontagli quello che è successo.» «Ci puoi scommettere, Carl. Ehi, mi dispiace per i tuoi pantaloni. Eri elegante prima di salire sulla collina.» 19 Lunedì 9 ottobre 2000 13.21 Quando finalmente riprendemmo la strada per la Villa, Hester e io cercammo di elaborare un piano. Tanto per cominciare, volevamo scoprire se i cinque coinquilini di Edie sapevano qualcosa della persona al terzo piano. Eravamo praticamente certi che si trattasse di Peel, ma avevamo bisogno di conferme. Era chiaro che si trovava lassù da un po' di tempo, forse dall'assassinio di Edie. Ne erano al corrente? Avrei scommesso che almeno qualcuno lo sapeva. Inoltre, eravamo abbastanza sicuri che il fantomatico Peel avesse ucciso Edie, e forse era anche l'assassino di Baumhagen e il guardone che Alicia Mayer aveva visto alla finestra di casa sua, ma avevamo bisogno di sapere qualcosa su di lui dal gruppo degli inquilini, visto che Jessica Hunley se n'era andata troppo presto per essere interrogata. Più dettagli riuscivamo a conoscere su quel Peel e più avremmo avuto la possibilità di scoprire il movente e il luogo degli omicidi. Volevamo anche stabilire due cose relative allo spostamento del corpo di Edie. Innanzitutto, dovevamo dare un senso alle macchie di sangue. Sia quelle sul tappeto, sia quelle sulla scala di servizio sembravano essersi formate dopo che il corpo di Edie, già all'interno della sacca mortuaria, era stato appoggiato per terra. Chi lo stava spostando aveva avuto bisogno di
riposarsi, o di posarlo per aprire la porta. In ogni caso, il problema era capire perché le macchie fossero in fondo alle scale di servizio, che portavano solo al terzo piano, e davanti alla porta di Edie, che si trovava al secondo piano. Se fosse stata uccisa al terzo piano - e noi non avevamo alcuna prova che fosse andata veramente così - si sarebbe potuto spiegare il mistero. Se si escludeva il particolare che per trasportarla al secondo piano la via più logica sarebbe stata la scala principale, da cui eravamo saliti noi. Andare dal terzo piano al primo usando la scala di servizio per poi tornare al secondo lungo la scala principale... era illogico. Non impossibile, ma decisamente privo di logica. Come disse Hester: «Specie perché a quanto pare non è stata uccisa al terzo piano». «Dal momento che non sembra sia stata uccisa nel seminterrato, né al primo, al secondo o al terzo piano...» dissi «a meno che non sia stata uccisa sul tetto, Edie non è stata uccisa in casa.» Non era una deduzione brillante, ma almeno era logica. «Così parrebbe, ma...» rispose Hester «pensi davvero che sia possibile? Non parlo del tetto,» aggiunse in fretta «voglio dire, se la uccidi lontano da casa, perché riportarla dentro? Perché non lasciarla dove si trova?» «Forse perché è preferibile che la polizia indaghi su un suicidio, piuttosto che su una persona scomparsa.» «Non credo. Per far pensare davvero a un suicidio, devi uccidere la persona nello stesso luogo in cui si ritroverà il cadavere. Altrimenti anche il più idiota dei poliziotti capisce che il delitto è stato commesso da un'altra parte e il tuo piano va a farsi friggere.» «Vedrò di non prendere quest'ultima affermazione come un fatto personale.» «Scusa. Non intendevo offenderti.» Si mise a ridere. «Allora, tutto quello che dobbiamo fare è trovare chi l'ha uccisa e perché, poi possiamo spiegare le prove.» La guardai e sorrisi. «Semplice, no?» Restammo in silenzio. Hester aveva il fascicolo aperto e, mentre guidavo, sfogliava tutti i rapporti, sia i nostri sia quelli di chiunque ne avesse compilato uno. Quando ebbe finito disse: «Ho un'altra domanda, e questa potrebbe avere una risposta». «Sarebbe un sollievo.» «Okay, cerca di seguire il filo del discorso.» Si appoggiò allo schienale e chiuse gli occhi. «Abbiamo un totale di due fuggitivi: Toby e lo Scono-
sciuto, che probabilmente è Peel. Ci sei?» «Finora sì.» «Non abbiamo idea di cosa avesse intenzione di fare Toby. Cioè, ha detto che stava correndo per sfuggire a Peel, vale a dire il vampiro, giusto?» «Così ha detto.» Essendo già a metà del viale che portava alla Villa, rallentai per avere il tempo di portare a termine la conversazione. «Ma tu non gli credi, giusto?» «Toby è più bugiardo di Pinocchio.» «Oh, sì» convenne Hester ridacchiando. «Non c'è dubbio che lo sia. Ora, Peel è uscito di corsa dalla stessa porta e si è rifugiato nel bosco, giusto?» «Sì.» «Rifletti: noi pensiamo che Toby stesse cercando di fuggire per qualche motivo, non è così?» «Sì. Lo ritengo possibile.» «E pensiamo anche che Toby sia un gran casinista.» Mi misi a ridere. «Sì, certo, certo.» «E siamo convinti che anche Peel stesse fuggendo e stesse cercando di farla franca, giusto?» «Sì...» «Ma non potrebbe essere che stessero scappando non da qualcosa, ma verso qualcosa?» Restai in silenzio per un attimo, poi dissi: «E Toby è così sfigato che al buio non è riuscito a trovarla?». «Esatto.» «Cazzo!» esclamai. «Sai che potresti aver ragione?» Si raddrizzò sul sedile e disse con orgoglio: «Certo che ho ragione. Lo so che ho ragione». «Quindi adesso dobbiamo solo scoprire dove erano diretti.» «Esatto» concluse lei. «E se scopriamo dove, sono certa che troveremo molto di più.» Mancava poco alla veglia e sapevamo che al momento avevamo tempo per concentrarci soltanto su una persona. Era meglio occuparci di una di quelle che ritenevamo innocue oppure rivolgerci a chi avrebbe potuto fornirci qualche informazione utile, magari in un secondo tempo? Optammo per la seconda possibilità. «Allora, chi è il primo?» Hester ci pensò su un attimo. «Secondo te Holly, meglio nota come
Huck, è quella con la personalità più forte?» «Be', lei o Kevin. Mi sembra che lei sia la più stabile.» «Io opto per Huck» disse Hester. «Tuttavia credo che Kevin possa definirsi il suo seguace più entusiasta, il suo braccio destro. Un alleato molto forte, insomma.» Sembrava possibile. «Allora ci concentreremo subito su Holly/Huck, a meno di non capire che faremmo meglio a occuparci di un altro.» È bello avere un piano. Rilevammo i due agenti ausiliari posizionati appena fuori del cancello. Erano curiosi di sapere perché eravamo stati chiamati in fondo alla collina e dicemmo loro che c'era un pazzo sul pendio. D'altronde era la verità. Ci mostrarono due vampiri di plastica, una piccola lapide anch'essa di plastica e un grosso pipistrello di carta. «Dove diavolo li avete trovati?» chiesi. Erano stati appesi alla cassetta delle lettere e all'inferriata del cancello. Li aveva scoperti una delle ragazze della Villa. Forse era opera degli alunni della scuola locale. Halloween era vicino e quel genere di cose era in vendita dappertutto. Tutto grazie ai media. C'era da essere contenti che si fossero limitati a quello. «Ci sono delle foto di questi oggetti» disse uno degli agenti, Vinton. Non me l'aspettavo. «Ma non le abbiamo scattate noi» spiegò l'agente. «Quando siamo arrivati, c'era una troupe di una delle stazioni televisive di Cedar Rapids. Le hanno messe su videocassette.» Grandioso. Quando uscimmo dalla macchina, erano le 14.00. Alle 14.02 il nostro piano era già in difficoltà. Sulla porta ci venne incontro Huck, tutta vestita di nero: maglione a collo alto, pantaloni e scarpe. Abbigliamento adatto alla giornata. Notai che i tatuaggi sul viso erano spariti. Ci fece entrare nel salotto, con una spiegazione pronta. «Sono desolata, ma Hanna non può unirsi a noi. Non si sente bene, soffre di emicrania ed è di sopra a riposare.» Nessun problema, anche se in realtà pensavo che Hanna fosse l'anello debole del gruppo e venisse tenuta fuori dai giochi deliberatamente. Però questa volta potevo sbagliarmi. Magari aveva davvero una semplice emicrania.
«Mi spiace, ma Toby sta ancora facendo la doccia; si è svegliato tardi» continuò Huck. Due di meno. I due che mi sembravano i più deboli. Interessante. «Pazienza» rispose Hester. Tre, Huck, Kevin e Melissa, erano più che sufficienti per avvicinarci al gruppo. «Vorremmo andare alla veglia il prima possibile,» disse Huck «e ci piacerebbe fermarci fino alla fine.» Sorrise quasi per scusarsi e io pensai che le sue parole fossero sincere. «Edie è stata nostra amica per molto tempo.» Si erano messi d'accordo per limitare il colloquio, controllando il numero di persone presenti e il tempo disponibile. Non male. Ricordai che William Chester ci aveva detto che non avrebbero collaborato e fui costretto a dargli ragione. «Vorremmo andarci anche noi» annunciò Hester. «Edie era la nipote di Lamar.» «Naturale» disse la ragazza. «Allora, come possiamo aiutarvi?» «Be', tanto per cominciare,» iniziai «perché non ci avete detto che Peel era al terzo piano?» Ero ansioso di vedere chi avrebbe risposto. Lo fece Kevin. «Non sapevamo che fosse là, e non credo sia giusto che voi supponiate lo sapessimo.» «Ma sapevate che qualche volta lui ed Edie si incontravano lassù, vero?» chiese Hester. «Forse qualche volta» disse il ragazzo, commettendo il suo primo errore. Per mostrarsi sincero guardava fisso Hester e non si accorse dell'occhiata di Huck, che voleva dirgli di lasciar parlare lei, ma riuscì solo a emettere una specie di mugolio. «A volte in camera di Edie, altre al terzo piano, quindi?» domandai in fretta. «Di solito in camera di Edie» rispose il ragazzo. «Per questo non sospettavamo si trovasse al terzo piano.» Sorrisi a Huck. Giusto per farle capire che avevo capito. «Qualche volta, però, si incontravano anche al terzo piano?» insistetti. «Certo» rispose lui, mentre Huck interveniva dicendo: «Non ne siamo sicuri». «E da qualche altra parte?» Questa volta rispose solo Huck. «Aspetti. Noi non siamo al corrente di queste cose. Stiamo solo facendo delle ipotesi.» E lanciò un'occhiata in tralice a Kevin.
«C'è qualche motivo per cui non lo lasci rispondere?» «Sì che rispondo» disse Kevin troppo in fretta, mentre Huck, sovrapponendosi a lui, protestava. Alzai una mano. «Aspettate un momento. Accidenti. Uno alla volta.» Si scambiarono degli sguardi irritati. «Ricominciamo. Allora ragazzi, ascoltatemi un secondo, così posso aggiornarvi su ciò che sappiamo e posso farvi qualche domanda.» Restarono in silenzio. «Sappiamo che conoscete Peel.» Un colpo di fortuna. Toby avrebbe potuto fornirci un nome sbagliato. «Sappiamo che siete a conoscenza della relazione tra Peel ed Edie.» Guardai tutti e tre. «Adesso abbiamo appurato che sapevate che ogni tanto Peel andava al terzo piano.» Diedi loro un secondo per incassare il colpo. «Desidero ricordarvi che questa è un'indagine per omicidio e se cercate di fare retromarcia ora, potreste dare l'impressione di essere complici.» Kevin continuò placidamente, andando incontro al suo secondo errore. «E io vi ricordo,» disse «che non ci avete ancora letto i nostri diritti.» Guardai Hester. Doveva essere lei a rispondere. Annuì e guardò Kevin freddamente. «La lettura dei diritti,» rispose in tono piatto, senza battere ciglio «precede un interrogatorio detentivo. Sono due cose completamente diverse. Detenzione. Interrogatorio. Questo,» spiegò «è un colloquio non detentivo. Quindi ti consiglierei di mettere da parte l'atteggiamento da saputello e di prestare maggiore attenzione.» Osservai la reazione di Huck e Melissa. Erano loro il motivo per cui Hester aveva dovuto dare una strigliata a Kevin. Sembrò aver funzionato. Kevin, ferito nel suo orgoglio da duro, abboccò. «Non mi tratti così,» disse «non sono stupido.» Hester congiunse le mani appoggiando i gomiti sui braccioli della sedia. «Vuoi che ti lasci un secondo per considerare il fatto che sei stato l'unico nella stanza ad averlo detto?» chiese. Huck si intromise, per aiutarlo. Bene. Il suo comportamento fu notato da tutti. «Aspetti, ricominciamo da capo, come ha detto un secondo fa, va bene?» «Certo» risposi. Mi divertiva osservare Kevin che cercava di far abbassare lo sguardo a Hester. Mi allungai fin oltre il tavolino e gli posai una mano sulla spalla. Lui sobbalzò e mi guardò. «In tutta sincerità, credo che tu non capisca cosa sta succedendo. Qual-
cuno è stato ucciso e noi stiamo cercando di scoprire la verità. Qualcuno che conoscevate bene. Forse è successo mentre voi eravate qui. È una cosa seria.» Mi appoggiai allo schienale della sedia. «Non è un gioco.» «Non sto giocando.» «Quello che mi colpisce, Kevin,» intervenne Hester «è che sembri assolutamente indifferente alla morte di una persona che viveva nella tua stessa casa.» «Mi dispiace avervi fatto arrabbiare» disse lui poco convinto. «Non siamo arrabbiati,» risposi scrivendo qualcosa sul blocchetto degli appunti «siamo solo incuriositi dal tuo comportamento.» «Be', reagisco così perché sono un nichilista.» L'espressione del suo viso non cambiò, ma il tono della voce era derisorio. «NI-CHI-LI-STA, vicesceriffo» ripeté, guardandomi scrivere. «Significa che non credo esista uno scopo nella vita.» «Lo so» dissi senza sollevare lo sguardo. «Un tempo si diceva fosse l'inevitabile evoluzione di un egocentrico che affronta la realtà.» Alzai gli occhi con l'espressione più gioviale che potessi assumere. «Parliamo molto di queste cose quando siamo seduti a berci un caffè.» Prima che potesse reagire, proseguii: «Sentite, voi ragazzi siete gli unici che potete fornirci delle informazioni utili. Non c'è nessun altro. Se ci mettiamo d'impegno, possiamo gestire la cosa in modo amichevole. Ma siete voi ad avere le informazioni che ci servono, anche se non ne siete consapevoli: potrebbero esserci dei particolari che avete notato e di cui non avete compreso l'importanza». Era un discorsetto standard e a dire la verità non ero certo che non fossero consapevoli di ciò che sapevano, ma serviva a offrir loro una via d'uscita, casomai d'un tratto avessero voluto ricordarsi qualcosa o, nel caso specifico di Kevin, ritrattare una menzogna. «Edie,» disse proprio lui «è l'unica tra noi a sapere qualcosa. Peccato che non sia disponibile.» Parlò in modo diretto, ma voleva essere sarcastico. «Edie sta dicendo molte cose al patologo.» In quel momento entrò Toby. Restò a bocca aperta qualche secondo prima di chiedere: «Cosa succede?». «Salve, Toby» lo salutò Hester. «Siediti.» «Oh, sì. Certo, certo.» Aveva un aspetto riposato. Forse i ragazzi avevano detto la verità e quando eravamo arrivati stava davvero facendo la doccia. «Stiamo discutendo di quello che sappiamo a proposito del signor Peel»
lo informò Hester. «Oh» disse Toby. «Non molto,» e si guardò intorno in cerca di conferme «vero?» Difficile dire se fosse una domanda o un suggerimento. «Be',» dissi «sappiamo che aspetto ha. Sappiamo il suo nome.» Pensai che fosse giunta l'ora di affrontare l'argomento una volta per tutte. «Ci hai detto che è un vampiro... Allora, cosa ne possiamo dedurre?» Per alcuni secondi regnò un silenzio tale che si sarebbe potuto sentire il rumore di uno spillo cadere sul pavimento. Infine fu Melissa a rompere il silenzio, parlando per la prima volta. «Lo è» disse. Diretta, concreta, senza esitazioni. «Lo sappiamo tutti.» Aveva parlato senza tentennare. E alle sue parole era seguito un silenzio di consenso e accettazione. «Secondo lei perché,» disse ancora senza emozione «chiamiamo la Villa "Renfield House"?» «Renfield non era lo schiavo del vampiro in Dracula?» chiese Hester. Melissa annuì. «Infatti.» Non mi rendevo ancora conto di ciò con cui avevo a che fare. «Tu stai dicendo che Peel è un vampiro. Ma non ci credi veramente, giusto? Forse vuoi dire che crede di essere un vampiro?» «No. È un vampiro. Punto e basta.» Mi guardai intorno. Non sembrava esserci alcun dissenso. «Andiamo, ragazzi» dissi. «Questa non è la Transilvania. Santo cielo, non è neppure Los Angeles. I vampiri non esistono.» Melissa si strinse nelle spalle. «Lei ha il diritto di credere quello che vuole, noi altrettanto.» Accennò un sorriso. «Okay» dissi con calma. Feci finta di prendere degli appunti, poi sollevai lo sguardo e continuai: «Allora, se è un vampiro, perché non ve ne andate?». Mi aspettavo che fosse Toby a parlare per primo, ma fu Melissa. «Non abbiamo paura di lui» rispose. «Noi impariamo da lui. Provi a immaginare di conoscere un uomo che è qui da tutto questo tempo.» Mentre parlava, diventò paonazza. «La forza. Il potere. La fiducia.» «E i soldi» aggiunse Toby. «Avete un'idea di quale possa essere la ricchezza accumulata in trecento anni? Ma, come ha detto Melissa, è il potere ciò che conta. Nessuno può scherzare con lui, credetemi.» «Però potrebbe aver ucciso Edie» dissi. «Cercate di non scordarlo.» «C'è sempre un lato negativo in tutte le cose» rispose Kevin, cinico. «Naturalmente non siamo d'accordo con lei, ma se dice che l'ha uccisa, non
ci resta che crederle.» «Come pensi sia morta?» chiesi. «Non ho un'opinione in merito.» «Qualcuno di voi ha mai conosciuto Alicia Mayer?» chiesi, scandendo bene il nome. «Io la conosco» disse Huck. «Lavora sulla nave.» «Sì, la conosco anch'io» convenne Melissa. «E da quanto tempo Peel si interessa a lei?» Ero in equilibrio su una corda e rischiavo di cadere. «Cosa?» Evidentemente avevo colto di sorpresa almeno Melissa. «Perché voi lo sappiate,» dissi in tono confidenziale «ha pensato bene di farsi vedere fuori dalla sua finestra al secondo piano, con tanto di denti e tutto il resto, e le ha chiesto se poteva entrare in casa.» «Non ne so niente,» disse Melissa, recuperando alla grande il suo errore. «Sono affari suoi. Come dico sempre: "Tutto ciò che so è quello che leggo sui giornali". Pensate che Dan sia anche un guardone?» «Credo che fosse lui quella sera fuori dall'appartamento di Alicia. Ma se sapete qualcosa vorrei esserne messo al corrente.» «Perché?» chiese Huck. Perfetto. «Perché il ragazzo di Alicia è morto» dissi. «Si chiamava Randy Baumhagen. Immagino che abbiate letto anche questa notizia sui giornali.» «È successo nel Wisconsin, vero?» domandò Melissa. «Comunque, sì. L'ho letto sul "Conception County Sentinel". Ma cosa centra con noi? È affogato.» «Be', diciamo che questo è quello che si è creduto in un primo momento. Qualcuno di voi lo conosceva?» «Io» disse Huck. «L'ho incontrato in un bar, un paio di volte.» «C'era anche Alicia, quando gli hai parlato?» «Sì.» «E Peel ha mai conosciuto Alicia o Randy?» «Lo scorso mese ho chiesto ad Alicia di venire qui. L'ha conosciuta in quell'occasione.» «Perché l'hai portata qui?» chiese Hester. «Per farle vedere il posto» rispose Huck. Ma c'era una nota stonata nella sua voce. Confusione? «Non l'hai fatto appositamente per farle conoscere Peel, allora?» «Non volevo farle conoscere nessuno. Volevo farle vedere la casa.» «Ma sapevi che Peel si trovava qui in quel momento?» Non sembrava
affatto che Hester stesse mettendo alle strette Huck, ma ci stava comunque riuscendo. Per il momento la ragazza aveva esplicitamente ammesso che Peel si trovava li "lo scorso mese" mentre c'era anche Alicia. «Oh, be'... certo. Credo.» Hester riesce sempre a capire quando è il momento di andare giù dura. «Ora, stai attenta,» disse «perché non sei l'unica persona con cui abbiamo parlato.» Lasciò che le sue parole colpissero nel segno. «Sei davvero sicura di non averla portata qui per lui? Magari solo perché era stato lui,» e fece un'altra pausa «a chiederlo?» Huck lanciò a Melissa un'occhiata di rimprovero che valeva più di un intero discorso. L'onore di completare il disastro toccò a Melissa. «Non ho mai detto niente del genere» disse, il tono della voce più alto di un'ottava. «Neppure prima che tu tornassi a casa. Chiedilo a Toby!» Il buon vecchio Toby, l'unico oltre a lei che si era trovato nella posizione di vuotare il sacco. «Ehi, io non ero in giardino con te e il vicesceriffo Houseman! Come faccio a sapere di cosa avete parlato?» Era più furbo di quanto pensassi. «Stronzo» disse Melissa con encomiabile puntualità. «Non è per cambiare discorso,» disse Huck «ma dobbiamo tutti andare alla veglia di Edie e se non ci muoviamo in fretta...» Eravamo riusciti a causare un dissidio all'interno del gruppo. Non era chiaro in che modo, né tra chi, ma ci eravamo riusciti. Era un'ottima cosa per il lavoro di ordinaria amministrazione, come si suol dire. Hester e io ci congedammo dopo aver fissato un appuntamento con Huck dopo la veglia. Non ci aspettavamo di ottenere molto da lei, ma volevamo privare il gruppo della persona che ne costituiva la forza. La tensione era alle stelle e senza gli sforzi moderati della ragazza, le spaccature sarebbero potute diventare molto più ampie. Avevamo buone speranze, anche se c'era la possibilità che il gruppo si ricompattasse durante il tragitto verso la veglia. Ma ero convinto che difficilmente sarebbe tornato tutto come prima. 20 Lunedì 9 ottobre 2000 16.45
Al nostro arrivo alla sede dell'impresa di pompe funebri, non c'era molta gente, a parte un gruppetto di giornalisti che si aggiravano fuori dall'edificio. Almeno avevano avuto il buon gusto di non entrare. Cercai di pulire alla meglio i miei pantaloni sporchi di fango e staccai le foglie rimaste attaccate alle suole delle scarpe. Notai che i vestiti di Hester non avevano sofferto più di tanto durante la scalata. Il fatto, come al solito, mi sorprese non poco. All'interno trovammo Lamar con la moglie, insieme alla madre di Edie e a un paio di parenti che non conoscevo. Con grande imbarazzo mi resi conto di non ricordare il nome della madre di Edie. Per fortuna, sopraggiunse Lamar. Ci ringraziò della nostra partecipazione e ci condusse da sua sorella. «June, questo è Carl Houseman, credo che tu lo conosca. E lei è l'agente Hester Gorse, del DCI.» «Salve, June» dissi. «Salve.» La riconobbi a stento. Era invecchiata parecchio nei cinque o sei anni passati dal nostro primo e unico incontro. «Mi spiace molto per Edie» dissi. «Non deve dispiacersi per lei,» rispose «deve dispiacersi per Shanna, la figlia che ha lasciato nei guai. Grazie, comunque, per essere venuto.» Indicò un tavolino con un centrotavola di pizzo dove qualcuno aveva appoggiato alcune fotografie: Edie il giorno della laurea, Edie a sei anni con la mamma, Edie sorridente, Edie con la figlia Shanna, una bimba molto carina... A essere sincero, il tutto mi parve un po' patetico. Mentre Hester pronunciava alcune parole di circostanza, Lamar e io ci avvicinammo alla bara. Il corpo di Edie sembrava esattamente ciò che era: una donna morta di venticinque anni. Era vestita con un bell'abito beige e una sciarpa bianca nascondeva la ferita al collo. I capelli erano molto più chiari di quello che mi erano sembrati nella vasca da bagno, e per un attimo pensai avesse una parrucca. No. Erano semplicemente stati lavati, asciugati e pettinati. "È troppo giovane per essere qui" pensai. Respirai profondamente e mi rivolsi a Lamar sottovoce: «Hanno fatto un buon lavoro». Dopo aver assistito all'autopsia, faticavo a immaginare come fossero riusciti a rimetterla insieme in quel modo. «Già» fu il suo laconico commento. Mi guardai intorno e vidi che nel frattempo nella stanza era arrivata altra gente. Tre ragazze, tutte vestite di scuro. Tutte in pantaloni e maglione, sedute vicine per darsi sostegno reciproco. Dimostravano più o meno la stes-
sa età di Edie. «Chi sono?» chiesi a Lamar in un sussurro. I poliziotti tendono sempre a controllare chi è presente ai funerali delle vittime. A volte può rivelarsi molto istruttivo. «Compagne di classe, credo. Del liceo.» «Ah.» Avevo volutamente "dimenticato" di firmare il registro delle condoglianze all'entrata, così da poterlo fare alla fine e controllare i nomi dei presenti. Roba da poliziotti. Presi nota mentalmente di cercare le firme delle tre donne. Lamar e io girammo intorno alle sedie disposte davanti a una parete e restammo là, rigidi e cupi, cercando di nascondere la voglia di essere da un'altra parte. Hester ci raggiunse. Alcuni istanti dopo, accompagnato dai flash di qualche intrepido fotografo, fece il suo ingresso il gruppo della Villa. Erano tutti vestiti di nero o di colori scuri: Kevin, Huck e Melissa indossavano dei soprabiti di pelle nera lunghi fino al ginocchio, Toby sopra il maglione a collo alto marrone portava solo un gilet di pelle nero, e Hanna indossava una giacca in pelle scamosciata verde scuro. "Assolutamente presentabili" pensai, e i colori scuri erano sicuramente appropriati. Erano tutti molto pallidi e le donne avevano un rossetto molto scuro. Come da copione. Presumibilmente, però, la madre di Edie la pensava in modo diverso. Persino in quell'atmosfera discreta sentii che diceva qualcosa a proposito di "quei fricchettoni". Molte teste si voltarono verso i cinque che stavano firmando il registro delle condoglianze. Avevano sicuramente sentito il commento, ma decisero di non farci caso. Lamar lasciò me ed Hester e tornò dalla sorella, per assicurarsi che non facesse scenate. Quando i cinque ragazzi li raggiunsero, strinse loro la mano e li ringraziò per la loro presenza. Quel gesto lasciò la sorella senza scelta, anche se evitò di stringere loro la mano. I cinque procedettero verso la bara, si fermarono in gruppo e si tennero per mano per un minuto abbondante. Quando si voltarono, Hanna si portò le mani sugli occhi e barcollò. Huck e Melissa la accompagnarono alla sedia, mentre Kevin e Toby vennero verso Hester e me. «Sta bene?» chiesi mentre passavano. Mi rispose Toby. «Sì, sì, tutto a posto» e aggiunse: «Allora noi saremmo dei "fricchettoni"?». «Non badateci» dissi. Procedettero verso le tre presunte compagne di classe di Edie. Mi sem-
brò che si stessero presentando e avessero intenzione di scambiare quattro chiacchiere. Bene. Huck si avvicinò a Hester e le chiese sottovoce se sapeva dove avrebbero potuto trovare un'aspirina per Hanna. Hester andò con lei a cercare il direttore dell'impresa di pompe funebri. Fino a quel momento non era stata una veglia molto diversa dalle altre. Arrivò il vecchio Knockle, che si distingueva per via dell'uniforme. Rimasi stupito. Aveva accompagnato Chester a Maitland, aveva riscosso la cauzione ed era tornato indietro in brevissimo tempo. Dal momento che ero solo e che lo era anche lui, aspettai che si fermasse da Lamar e sua sorella, che si avvicinasse alla bara e, quando il suo giro lo portò vicino a me, gli suggerii di andare in una delle stanze vicine dove erano stati messi a disposizione dei presenti caffè e biscotti. «Speravo che me lo proponessi, Carl.» Avvicinammo due sedie, ci sedemmo facendo attenzione a essere vicini ai biscotti e cominciammo a fare conversazione, per far passare un po' il tempo. Per prima cosa, gli dissi quanto fossi rimasto colpito dalla Villa. Scoprii che, qualche anno prima, aveva dato una mano a restaurarla e che un suo zio aveva lavorato come custode nel periodo in cui gli ultimi membri della famiglia d'origine vi avevano vissuto. «Quando si sono trasferiti?» chiesi, incuriosito. «Alla fine degli anni Cinquanta.» «Cosa faceva il primo proprietario, lo sai?» «Si occupava di commercio di grano, di miniere, di legname, di tutto quello che da queste parti potesse farli arricchire.» «Ha funzionato.» «Puoi dirlo forte» disse Knockle. «Sai, mi chiedo perché si siano stabiliti proprio qui.» Knockle si sistemò sulla sedia e cominciai a sospettare di essere stato troppo curioso. «Il primo proprietario, un uomo di nome Givens, voleva avere la sua privacy. Nella vecchia Kommune tedesca avevano scavato un pozzo, prima che il paese cadesse in rovina. Così si ritrovò un pozzo bell'e fatto. Era vicino alla miniera di sua proprietà, un po' più a sud di qui. Quell'impianto per l'estrazione della silice.» Annuii. «Non lo utilizzavano nella fusione di ingranaggi o qualcosa del genere?» «In origine per il vetro fine» mi spiegò. «La fusione degli ingranaggi arrivò più tardi.»
«Oh.» «Il vecchio Givens, però, era un vero tormento. Faceva visita alla miniera tutti i giorni, per controllare come andava il lavoro. Poi andava dritto sulla banchina delle navi a vapore, dove caricavano il grano. Ovviamente, adesso non esiste più. Smantellò tutto intorno al 1930. Chiuse la miniera e se ne andò alla fine degli anni Sessanta.» «Ho capito.» Continuò a raccontare. Colpa mia. Sapevo che il vecchio Knockle parlava molto. «Il vecchio Givens si stancò tanto di quei viaggi avanti e indietro dalla valle al fiume che fece costruire una specie di funicolare nel periodo in cui aggiustavano la ferrovia, nel 1890 o giù di lì. Così poteva scendere a valle direttamente. Anche sua moglie la usava per andare a prendere il treno per Chicago. Il treno fermava proprio lì, se la bandiera alla fermata era alzata. Tra l'altro avevano una carrozza tutta loro. Chiamarono la fermata Givens' Switch e la funicolare Givens' Railroad, in loro onore. Erano veramente ricchi.» Si mise a ridere. L'ultima parte del racconto mi fece riflettere e sporgendomi in avanti chiesi: «Che ne è stato della funicolare?». «Non lo so esattamente» disse. «Mi sembra di aver sentito dire che l'hanno sostituita con qualcos'altro, ma non ricordo cosa. Adesso non c'è niente lassù, questo è sicuro. Ieri abbiamo battuto tutto il pendio della collina.» Sorrise e si alzò per prendere un altro biscotto. «Non agitarti troppo, Carl. Ne vuoi uno anche tu?» «Sì grazie» risposi soprappensiero. Anche se la funicolare non c'era più, il sentiero che la costeggiava doveva esserci ancora. Forse gli alberi lo avevano coperto, ma il terreno piatto poteva permettere un passaggio più veloce... Knockle si sedette e mi porse un biscotto. «Hai visto quei grossi giunti nel muro, al secondo piano?» «Cosa? No, non li ho visti.» «Sai,» disse «quella grande casa è stata costruita in due parti. Due metà. La parte a nord è stata costruita per prima. Poi, dieci anni dopo, hanno aggiunto quella a sud. Hanno unito le due parti con grandi giunti e travi della ferrovia. Come il tribunale di Maitland.» Avevo visto i giunti del tribunale. «Oh, sì, quei bulloni enormi.» «Quelli della Villa sono coperti da grosse lucertole.» Ci pensò su un secondo. «No, dragoni.»
«Parli dei doccioni?» «Sì. Esattamente.» Ora avevo capito. «Allora come fai a sapere che sotto ci sono dei bulloni? A quei tempi era una cosa comune?» «Forse. Io comunque, ho visto qualche foglio di progetto della casa, alla società storica.» «Qui a Freiberg?» «Oh, no. A Lake Geneva, nel Wisconsin, dove si è trasferita la famiglia quando avevano troppi soldi per spenderli qui» disse con un ghigno. «Hanno donato tutto alla società storica di laggiù.» «Nel Wisconsin... logico» commentai. Come era logico che si trovasse fuori dalla mia giurisdizione. «Quando li hai visti?» «Dieci, quindici anni fa, credo. Quando io ed Emma siamo andati a Madison per i funerali di sua madre. Per essere più precisi, dodici anni fa...» Annuì con decisione. «Sì, dodici. Poi abbiamo fatto una deviazione per il lago. Già che avevamo fatto tutti quei chilometri...» «Certo.» «Ho visto che c'è il gruppo della Villa» disse poi cambiando discorso. «Non li trovi un po' strani, Carl?» «Non più di chiunque altro.» «Alcuni di loro sembrano simpatici, ma non so perché si vestano così. Forse lo fanno per farsi notare.» «Lo fanno per definire un proprio stile, tutto qui.» «Credo che lo facciano per far irritare la gente.» Fissava un punto dall'altra parte della stanza, dove Kevin e Toby stavano ancora parlando con le compagne di scuola di Edie. «Come il ragazzo con i capelli rossi, con quel coso nel naso, capisci cosa intendo?» «Sono innocui. Davvero. Ti ricordi, non tanto tempo fa, quelli che hanno bruciato il campus universitario? Erano gli anni Sessanta-Settanta.» «Già.» «Chi preferisci? Quei ragazzi o questi?» Mi sforzai di non sorridere. «Oppure, i rivoluzionari che c'erano ai tuoi tempi, quelli che volevano marciare contro il re?» Mi guardò dritto negli occhi. «Guarda che non sei troppo grande per ricevere una bella lezione!» Quasi non sentii quello che disse, perché il mio sguardo si era fissato sulla figura di William Chester, in piedi vicino alla bara. «Cosa ci fa qui?»
Il vecchio Knockle l'osservò per qualche istante prima di bofonchiare: «Be', aveva il denaro della cauzione e dal momento che dovevo riportalo indietro con me, ho pensato che potevo lasciarlo in macchina durante la veglia.» Si schiarì la voce. «Sembra che sia uscito.» «Proprio così.» «Mi dispiace, Carl. Aveva promesso che non l'avrebbe fatto.» «Ne sono convinto.» Non mi alzai per dare un pugno a Chester solo perché non volevo attirare troppo l'attenzione su di lui. Portai a Knockle un altro biscotto, per non farlo sentire troppo in colpa e andai in cerca di Hester. La vidi due stanze più in là, ma prima che potessi raggiungerla mi sentii picchiettare su una spalla. Era Byng, in uniforme. Sembrava preoccupato. «Carl, hai un secondo?» mi chiese sottovoce. «Certo.» Mi condusse verso l'entrata e lo seguii. «Mi ha telefonato Harry» disse. «Hanno ricevuto una chiamata per una persona scomparsa di nome Alicia Meyer. In questo periodo ha molti problemi per via del suo ragazzo e tutto il resto, naturalmente. Ieri sera era a casa di una sua amica nella Conception County. Sono andate fuori a cena al Gourmet Georges. È andata in bagno e non è più tornata. I suoi amici hanno trascorso la maggior parte della notte a cercarla, ma non l'hanno trovata. È sparita.» «A che ora?» «Non ne sono sicuro, ma dev'essere successo prima dell'una di notte. Il Gourmet Georges chiude a quell'ora.» «Pensi che qualcuno l'abbia rapita direttamente dal bagno delle donne?» «Oh, no. Mi sono dimenticato di dirtelo. Anche la sua macchina era sparita. Come se se ne fosse andata.» Ero sollevato. «Forse ha solo voluto andarsene per stare da sola...» «Dicono che non è da lei.» «Lo dicono sempre, no? Se fosse stato da lei, non avrebbero neppure denunciato la sua scomparsa.» Byng ci pensò un attimo. «Be', in effetti...» «Scommetto che Harry la troverà prima di cena» dissi. «Lo spero» rispose lui. Si guardò intorno. «Lamar è qui? Ci terrei a fargli le mie condoglianze prima di andare via.» «Buona idea.» Indicai la fila in attesa. «Non dimenticare di firmare il registro.»
Trovai Hester che parlava con il direttore dell'impresa di pompe funebri e con due signori di una certa età che identificai come due insegnanti del liceo di Freiberg. Mi avvicinai e lei si congedò in fretta. Le raccontai, brevemente e a bassa voce, della funicolare e dei progetti. Le parlai anche di William Chester. Mi disse di averlo già visto. «Spero che non sia qui per la ragione che penso io» bisbigliò. «Cos'hai detto?» «Spero che non sia qui a caccia» ripeté, a voce un po' più alta. «Già.» Mentre le stavo per parlare della scomparsa di Alicia Meyer, fummo interrotti da una delle tre compagne di classe di Edie. «Mi scusi, è lei il vicesceriffo Houseman?» Era alta circa uno e settanta, magra, capelli e occhi castani, sui vent'anni. «Sì.» «Salve, mi dispiace interromperla, ma mi chiamo Darcy Becker, conoscevo Edie e lo sceriffo mi ha appena detto di parlare con lei.» Sembrava fiduciosa, sicura di sé, raffinata. Dal momento che Lamar l'aveva sbolognata a me, ero quasi certo che dovesse dirmi qualcosa di importante sul caso. Qualcosa che pensava dovessimo sentire noi e non lui. «Piacere di conoscerti. Lei è l'agente speciale Gorse del DCI» dissi, presentandole Hester. «Oh, voi lavorate insieme sul caso?» «Suggerirei,» la interruppe Hester «di uscire di qui.» Fuori c'erano i giornalisti. Dopo aver attraversato la cucina, la sala dei preparativi e quella dell'autopsia, finimmo in un garage tra due carri funebri. Era un po' cupo, ma assolutamente riservato. «Allora, Lamar ti ha detto di parlare con me?» «Sì. Ha detto che... insomma, visto che Edie si è, be', tolta la vita... e che penso di conoscerne la ragione. Lo sceriffo mi ha detto di parlarne subito con lei.» «Perché pensi che possa essersi uccisa?» chiese Hester. «Ultimamente era giù di corda. Cioè, a dire il vero, lo era da un po' di tempo. Ma di recente le cose erano peggiorate, credo...» Ci guardò con aria supplichevole. «Non lo so con esattezza, ma credo frequentasse un uomo più vecchio di lei.» Hester e io ci guardammo.
«È possibile,» dissi «ma cosa te lo fa credere?» «Be', ci siamo scritte delle e-mail perché avremmo voluto incontrarci, ma io non ho potuto. Poi mi ha chiamata per il compleanno di sua figlia e sembrava preoccupata. Anzi, no, spaventata. Preoccupata e impaurita, credo.» «Per quale motivo?» la sollecitai. Bisogna stare attenti a non spaventare la gente, ma a volte è necessario cercare di tirar fuori anche le cose più semplici. «A causa dell'uomo più grande di lei?» Fu Hester a porre la domanda. In modo gentile, senza metterle pressione. «Sì. Credo che fosse... coinvolta sentimentalmente. Molto coinvolta. E credo che lui fosse sposato o che almeno ci fosse un'altra donna nella sua vita. Lei aveva paura di lasciarlo, ma anche di restare con lui.» Guardò Hester. «Ha capito?» «Credo di sì.» Fu allora che mi resi conto. «Tu sei DarcyB2, per caso? È il tuo indirizzo e-mail?» «Sì, sono io.» Mi guardò e spinse la testa leggermente in avanti. «Come fa a saperlo?» «Torniamo un po' indietro» dissi. «Ci sono un paio di cose di cui a quanto pare non sei a conoscenza.» Scoprimmo che lei e le due sue amiche avevano ricevuto la notizia del suicidio di Edie domenica, che erano partite precipitosamente da Iowa City e Marengo, dove lavoravano, ed erano arrivate a Freiberg all'ora di pranzo. Le uniche informazioni che aveva avuto Darcy le erano state raccontate dalla madre, che le aveva telefonato la domenica. «Innanzitutto,» dissi «Edie non si è suicidata.» «Vuol dire che è stato un incidente?» Sembrava sorpresa. «No, ho paura di no. Edie è stata assassinata.» Se pensavo che fosse sorpresa prima... Sussultò, le tremò un poco il mento e poi, d'improvviso, le lacrime. Non un pianto vero e proprio. Solo lacrime. «Vuoi sederti?» le dissi. «No, no, sto bene.» Darcy aveva una tasca piena di fazzolettini di carta. Si soffiò il naso. «Oh, Dio. Povera ragazza. Poverina.» Nei minuti successivi, ci venne fatto un sunto della vita di Edith Younger. Davvero interessante, perché era la versione più vicina alla prospettiva di Edie che avessimo ascoltato e, molto probabilmente, non l'avremmo po-
tuta ottenere in altro modo. Fu molto utile. Darcy si era trasferita a Freiberg con i genitori quando era in terza superiore. Aveva incontrato Edie il primo giorno di scuola e alla fine del semestre erano già amiche. Lo rimasero per tutto il liceo, arrivando addirittura a progettare di aprire insieme un salone di bellezza quando frequentavano la quinta e fantasticando di gestire un allevamento di cavalli una volta diplomate. Darcy disse che Edie era molto intelligente e che a scuola era molto brava. Prendeva bellissimi voti ed era pronta ad andare al college con Darcy e le altre amiche, quando rimase incinta, durante l'estate del diploma. «Lui era un vero sfigato e lo dicemmo a Edie» disse Darcy. «Il problema fu che sua madre le diceva la stessa cosa. Sapete come vanno queste cose, no?» Lo sapevamo. Il ragazzo era un po' stupido e ribelle. Solo che non era particolarmente bravo neppure in quello. Edie era in rotta con la madre che era stata «soltanto cattiva con lei, per tutta la vita». Quando le chiesi cosa intendesse con precisione, Darcy ci raccontò un episodio. «Vi faccio un esempio. Una sera io e il mio ragazzo andammo a casa di Edie a prendere lei e il suo ragazzo. Edie fece il suo ingresso in modo trionfale, sapete, scendendo dal piano di sopra. Era molto carina e sua madre le disse "Oh, come sei carina. Però, avrei preferito che ti fossi messa l'altro vestito". Doveva sempre sminuirla.» «Chiarissimo.» A me non avrebbe dato fastidio più di tanto, ma capivo che potesse essere un atteggiamento irritante. Capivo anche che, alla lunga, potesse esasperare. «Così Edie restò incinta. Non lo fece di proposito. Accadde solo perché cominciò a frequentare un ragazzo per fare un dispetto alla madre. Edie aveva principi molto saldi e decise di tenere il bambino e mollare il ragazzo. Sua madre l'aiutò fino alla nascita della bambina, quando Edie si rese conto di non riuscire a mantenerla. Allora la madre cominciò ad accanirsi su di lei, perché guadagnava poco e perché era rimasta incinta.» Edie si trasferì e portò la figlia con sé. Durò tre mesi circa, secondo Darcy. Poi capì che per la figlia non era salutare vivere in quel modo e la madre si offrì di tenere la bambina per un po'. «Nonostante i loro rapporti?» chiese Hester. Darcy scosse il capo. «Era sua madre e le voleva bene nonostante tutto. Non ci andava d'accordo, tutto qua, capite?»
Hester annuì. «Poi ebbe inizio l'azione legale per l'affidamento di Shanna» disse Darcy. «È ancora in ballo, per quanto ne so.» Ci pensò un istante. «Anzi, suppongo che adesso si sia conclusa, vero? Finalmente è finita.» Poi ci disse ciò che sapeva a proposito "dell'uomo più vecchio". «Edie l'aveva incontrato dopo essersi trasferita alla Villa» spiegò. «Pensava che fosse un posto così bello, e in più non pagava l'affitto e avrebbe potuto risparmiare del denaro e riavere Shanna nel giro di un anno.» Disse che Edie aveva incontrato l'uomo a una festa organizzata dalla proprietaria. «Sei sicura che fosse la proprietaria?» chiesi. «Sì, me lo raccontò lei stessa. La signora Hunley, la ballerina, di Chicago. Aveva bisogno di persone che le curassero la casa. Edie mi disse che era un uomo piuttosto strano.» Darcy guardò Hester. «Aveva una personalità molto forte. Era molto sofisticato, ben educato. Edie pensava che fosse di rango elevato. Quell'aspetto di lui l'affascinava molto. Era innamorata, almeno credo, ma allo stesso tempo lo temeva. Era coinvolto in faccende strane. Molto personali, ma un po' sinistre.» «Tipo?» domandai speranzoso. Darcy si morse le labbra, quindi disse: «Be', suppongo che non abbia più molta importanza, ormai. Diceva che qualche volta gli piaceva legarla e gli piaceva, cioè, sì, insomma... bere il suo sangue. Solo un po'». Non appena ebbe pronunciato quelle parole, diventò paonazza. "Figlio di puttana" pensai, ma non riuscii a trattenermi e lo ripetei a voce alta. Le mie parole sorpresero Darcy e fui costretto a scusarmi. Non le fornii spiegazioni, però. «Come si chiamava?» chiese Hester. «Dan.» «Dan e poi?» chiesi. «Peale» disse. «Come si scrive?» Hester fece quella che, in seguito, si rivelò la domanda più azzeccata dell'intera giornata. «D-a-n P-e-a-l-e.» Si interruppe. «A dire il vero credo si chiamasse Daniel.» «Ne sei sicura?» «Sì, me lo aveva scritto Edie in una mail, che devo avere da qualche parte. Aspetti... no, non ce l'ho più. Era sul vecchio computer che ho buttato quando ho comprato il portatile.» Darcy si strinse nelle spalle, come per
chiedere scusa. «Ma me lo aveva scritto ed era proprio così. È inglese, di qualche posto vicino a Londra, credo.» Guardai Hester. «Inghilterra?» chiesi. «Oh, sì. Non ve l'ho detto prima?» «No, assolutamente. Hai detto qualcosa a proposito del "rango elevato".» «Oh, mi dispiace, signor Houseman. Sì, era inglese. Edie pensava che potesse essere un nobile o qualcosa del genere, ma che fosse in incognito.» «Sai perché?» chiese Hester. «Cosa glielo faceva pensare?» «Il modo in cui si comportava.» «Ah» disse Hester. «Edie aveva qualche esperienza in proposito?» «No... Cioè, solo i film, credo.» Poi Darcy disse che si sentiva molto in colpa perché lei ed Edie si erano allontanate. Si era lasciata "conquistare", usò proprio questa parola, dal college e dal lavoro, trascurando la sua vecchia amica. «Sono state le circostanze» la tranquillizzò Hester. «Strade differenti, la bambina e tutto il resto. Capita.» Sembrava così saggia... cominciai a pensare che parlasse per esperienza. Lasciammo alla ragazza i nostri biglietti da visita e le dicemmo di chiamarci nel caso in cui scoprisse o si ricordasse qualcosa che poteva sembrarle utile. Se la mia chiacchierata con Knockle era stata di buon auspicio, quella con Darcy era stata un vero e proprio successo. Hester e io decidemmo di andarcene non appena fossimo riusciti a sgusciare via senza dare nell'occhio. Ero ansioso di tornare in ufficio e cercare Daniel Peale sia negli Stati Uniti sia in Gran Bretagna. Mentre ci dirigevamo verso l'entrata principale, notai che Melissa e Hanna erano ancora occupate nella stanzetta mentre Toby e Kevin stavano continuando a parlare con le due amiche di Darcy. Huck se ne stava in disparte, osservando con attenzione un dipinto a olio di qualche idilliaco paesaggio rurale, con cavalli e uccelli. Credo che si fosse girata di schiena per evitare l'ostilità trasmessa dalla maggior parte degli altri presenti. Mi fermai al suo fianco. «È il dipinto più brutto che abbia mai visto» commentai. Si voltò e sorrise. «Sono d'accordo.» «Vieni direttamente in centrale?»
Si girò a guardare Toby e Kevin. «Siamo tutti sulla stessa macchina. Quando i ragazzi,» e pronunciò la parola con tono sprezzante «avranno finito di fare i propri comodi, porteremo indietro Hanna e poi, forse, riusciremo a venire in centrale.» Ci sarebbe voluto un po' di tempo e volevo continuare il discorso con Huck senza che avesse l'opportunità di riflettere e ritrattare, o di sostenere gli altri. «Perché non vieni con noi, così possiamo cominciare subito?» proposi. «Gli altri ti verranno a prendere più tardi.» «Per me va bene» disse. «Basta che mi lasciate qualche minuto per salutare un po' di gente.» Trovai di nuovo Hester, mentre Toby e Kevin continuavano a chiacchierare con le ragazze. Mi domandai che cosa avrebbero ottenuto in cambio dei loro sforzi, dopo che Darcy avesse raccontato alle compagne le novità di cui era venuta al corrente. A Hester sembrò una buona idea quella di portare Huck con noi. Volevamo vedere la reazione degli altri, così utilizzammo un vecchio trucco: ci mettemmo l'uno di fronte all'altra, fingendo di chiacchierare. In quel modo, ciascuno di noi avrebbe avuto la visuale di circa la metà della stanza. «A ore cinque,» disse Hester «William Chester si è appena avvicinato a Huck.» «Sul serio...?» «Non guardare. Sembra che si parlino.» «Ti pare che si conoscano?» Sarebbe stato interessante. «Non so. È soprattutto lui a parlare, mi pare» Hester si interruppe. «Accidenti, lei ha appena fatto un passo indietro. Lui le si avvicina...» Non ce la feci più. Mi voltai mentre Huck indietreggiava di un altro passo, di scatto, finendo quasi contro il muro alle sue spalle. Aveva gli occhi sgranati e sembrava sorpresa e impaurita. Raggiunsi il cacciatore di vampiri in un baleno. «Signor Chester,» dissi sottovoce «perché la incontro ovunque io vada?» Stava parlando con Huck in modo molto acceso e gli ci volle un secondo per ricomporsi. «Cosa? Oh, vicesceriffo... Heightman?» «Houseman. Si ricorda cosa le ho detto a proposito delle licenze e della caccia?» «Sì, mi ricordo, ma credo debba sapere qualcosa.» «Allora le suggerisco di venire a trovarmi al dipartimento fra circa tre ore.»
«D'accordo» disse, e stava per voltarsi di nuovo verso Huck quando lo bloccai: «Farò in modo che la vengano a prendere. Fino ad allora credo proprio che questa ragazza debba parlare con me». Diedi un'occhiata a Huck. «Sei pronta?» Lo era, senza dubbio. «Perché non vai da Hester?» le suggerii. Poi mi rivolsi a Chester il più gentilmente possibile: «Mi ascolti bene, la ragazza è una potenziale testimone. Non posso permettere che lei la disturbi. Comunque, cosa diavolo le ha detto?». Si strinse nelle spalle. «Non sono affari che la riguardino.» «Non faccia il furbo.» «Va bene. Ascolti lei me, vicesceriffo, non intendo interferire con la sua autorità secolare. Dico sul serio.» Quando qualcuno che non ha il diritto di farlo si permette di trattarmi con aria da saputello, mi innervosisco. «Le suggerisco di non dar fastidio a nessun altro. Ci sono molti poliziotti, anche senza uniforme. Dirò a tutti di tenerla d'occhio.» «Posso parlare con chi voglio.» «Per l'amor del cielo, siamo a una veglia funebre» conclusi da vero ipocrita. Incrociai Knockle mentre ci dirigevamo fuori dalla porta e gli indicai Chester. «Porta quello stronzo in centrale,» gli sussurrai «fra tre ore. Se ha i soldi, fagli noleggiare una macchina, se no accompagnalo tu.» «Certo, Carl» disse sottovoce. «Nel frattempo portalo fuori di qui, prima che combini dei guai. Se oppone resistenza, arrestalo, ma senza dare troppo nell'occhio. Hai capito?» «Certo.» «E rubami un biscotto prima di andare via.» Giunti alla porta, sussurrai a Hester: «Sai una cosa? È la veglia funebre più interessante a cui abbia mai partecipato». «Sono contenta che ti sia divertito, Houseman, demonio.» Naturalmente la stampa era ancora fuori. Mi rivolsi a Huck. «Quando passiamo accanto ai giornalisti, parla con noi. Non ridere, ma comportati come se ci conoscessi.» Ero contento di aver preso la mia vecchia auto senza contrassegni. Non somigliava a un cellulare. Huck annuì. «Pensa che noteranno qualcosa che non va?» Le guardai i capelli neri, le labbra nere e le unghie nere. «Assolutamente no. Passeremo inosservati.» Mi sembrava che fosse terrorizzata. «Come stai?»
«Bene, grazie.» Quando arrivammo all'auto, la prima cosa che disse entrando fu: «Ci tiene sempre tutta questa spazzatura?». Hester si voltò e rispose per me: «Credo che l'abbia fatta pulire un mese fa. Dovresti vederla quando è veramente sporca». Presi il microfono. «Centrale da Tre.» «Avanti, Tre.» Era Sally. «Tre e I-486 10-8, 10-76 U.S., 10-61 un soggetto di sesso femminile.» «10-4, Tre 10-8, 10-76. 17.42.» Per rassicurare Huck, mi voltai e dissi: «Le ho detto che Hester e io siamo saliti in macchina, che ci dirigiamo verso l'ufficio dello sceriffo e che abbiamo un civile a bordo». «Oh.» «Lei ha risposto che andava bene e ha ripetuto che stavamo andando in quella direzione, nel caso in cui qualche altro agente avesse avuto bisogno di saperlo, quindi ha comunicato l'ora, per far sapere agli altri che aveva finito di parlare con me e che il canale era libero.» Spiego sempre i significati dei vari codici quando ho un passeggero. Di solito, fa piacere saperlo. Mentre mi allontanavo dal marciapiede, Hester chiese a Huck di passarle la mia borsa della macchina fotografica che era sul sedile posteriore insieme agli altri rifiuti. Quando la prese, ci rovistò dentro per un minuto e tirò fuori un pacchetto di wafer, «Sono al cioccolato?» chiese Huck. Ne avevo sempre una buona scorta. «Voi ragazzi,» commentò Huck con la bocca piena «non vi negate proprio niente.» Rotto il ghiaccio, Hester si voltò verso il sedile posteriore. «Cosa voleva William Chester?» «Era l'ultimo tizio con cui ho parlato?» «Sì.» «Quell'uomo è strano. Davvero. Parecchio strano. Ha detto che dovrò espiare per tutto il male che ho fatto e che farà in modo che io torni nella mia tomba.» «Davvero?» Hester era infuriata. «Sì.» Fece una pausa. «Sapete per caso che cosa fa nella vita?» «Per quanto ne sappiamo, dà la caccia ai vampiri» dissi. Dallo specchietto retrovisore, vidi Huck stringersi tra le braccia come se avesse freddo. «Sì. È più o meno quello che mi ha detto lui.»
21 Lunedì, 9 ottobre 2000 18.45 Portammo Huck in centrale e la interrogammo a lungo. Sembrava trovarsi in quello stato di semieuforia che viene dopo forti emozioni. Fu sincera e cooperativa. Appena entrati, comunicai a Sally l'esatta grafia del nome del "vampiro". Ottenne i primi risultati dopo pochi secondi. Inforcai gli occhiali da lettura e lessi ad alta voce. «Questa è la descrizione più precisa che riusciamo a ottenere: Daniel Gordon Peale è un maschio bianco, di trentun anni, un metro e ottantacinque, ottanta chili, capelli neri e occhi castani.» Non lessi di proposito le informazioni sull'indirizzo e posai il foglio. «Ti sembra lui?» chiesi a Huck. «Sì.» Rifletté: «Gordon? Non lo sapevo». «Possiede una Lexus nera del '96 e una Dodge a cinque porte dell'81. Hai mai visto una di queste macchine?» «Qui non ha macchine» disse. «Noleggia l'auto da O'Hare, oppure lo andiamo a prendere a Dubuque quando riesce a trovare una coincidenza.» In risposta alla domanda su chi lo andasse a prendere, disse che spesso era Toby e, qualche volta, Kevin. Quell'ultima volta era stato Toby. «Perché prende l'aereo?» chiesi. «Be', a nuoto, da Londra, sarebbe troppo lunga.» «Londra?» chiese Hester. «Sì. È inglese.» Huck sembrava perplessa. «Qui c'è scritto che vive a Moline, Illinois.» «Oh, no» disse Huck. «Non è lui. Dan vive a Londra, in Inghilterra.» «Be', lo verificheremo.» Con aria sicura e competente presi il telefono e chiamai Sally. «Ho bisogno di un controllo molto veloce, nel Regno Unito, Londra. Per lo stesso uomo. Dan Peale.» «Questo ti costerà caro. Molto veloce... quanto?» «Cinque o dieci minuti, anche meno.» «Va bene. Vedo quello che riesco a fare...» La sua voce si abbassò, come se avesse cominciato a concentrarsi. Riattaccai. «Allora,» dissi «mentre controlliamo l'informazione, cosa ci puoi dire di Daniel Peale?»
Huck continuava a essere un po' titubante. Francamente, pensavo che fosse stato soprattutto William Chester a turbarla. Anche se la vista di Edie nella bara e la verità sulla morte di Randy Baumhagen potevano aver contribuito. Chester però era una fonte di paura, sconosciuta e inattesa. Questa volta decisi di spingerla oltre il limite. «Ah» dissi, come se mi fosse venuta in mente una cosa in quel preciso istante. «Prima di cominciare, lo sapevi che ieri notte, nella Conception County, è stata denunciata la scomparsa di Alicia Meyer?» «Cosa?» esclamò Hester. «Quando l'hai saputo?» «Me l'ha detto Byng alla veglia» dissi guardando Huck. «Mi hanno interrotto mentre te lo stavo per dire.» Huck respirò profondamente e sbottò: «Non posso andare avanti cosi. Non più. È troppo. È davvero troppo». La guardammo entrambi, in ansia. «Cosa volete? Tutti i dettagli più sordidi, suppongo. Giusto?» «Sì,» dissi «mi spiace. Comincia da dove vuoi.» A quel punto, Sally bussò alla porta e fece capolino, con in mano una stampata di computer. «Per te.» Accidenti! Ero sinceramente colpito. Lessi ad alta voce. «È il risultato di una ricerca al computer condotta dalla polizia di Londra, su nostra richiesta, sull'archivio informatico della città. Non esiste una persona di nome Daniel Peale, Dan Peale, o D. Peale in tutta Londra.» Passai il foglio a Hester. «Neppure una» sottolineai. Dopo un secondo, Hester passò il foglio a Huck. Lo guardò alcuni istanti, poi me lo restituì e disse: «Ha l'accento inglese. Forse non vive proprio a Londra...». «Stiamo controllando con Scotland Yard» dissi. «Comunque, temo proprio che sia americano.» Appoggiai il foglio sulla scrivania. «A ogni modo, mentre aspettiamo, cos'altro sai di lui?» «Vediamo... viene dall'Inghilterra...» sorrise in modo forzato. «Almeno, questo è quanto mi è stato detto. Viene a trovarci con Jessica tre o quattro volte all'anno. È ospite di Jessica, non nostro.» Abbassò il tono di voce. «Ultimamente si è fatto vivo ogni due mesi circa, anche senza di lei. Credo che lei non lo sappia. Cioè, non lo sapeva.» Piano piano, ogni reticenza scomparve e cominciò a divulgare alcuni dei dettagli più sordidi della Villa. Per esempio, Huck pensava che Daniel Peale avesse avuto rapporti ses-
suali con tutte le ragazze della casa e, forse, anche con Toby. Non mi sorprendeva tanto il fatto in sé quanto che lei lo rivelasse. «Tutti quelli che vivono lassù sono "pluri". Ma lui è l'amante a tempo pieno di Jessica» disse la ragazza. «Si può dire che Daniel appartenga a lei.» Questa sì fu una sorpresa. Dovevo solo capire cosa significasse "pluri". «Pluri? Pluri cosa? Sessuali?» La mia domanda la fece sorridere. «Pluriamanti. Si può amare più di una persona alla volta.» «Ho capito.» Era vero, ma per esserne certo domandai: «Però è soprattutto l'amante a tempo pieno di Jessica, giusto?». «Sì, almeno questo è quello che pensa lei. Questa volta, per esempio, era molto arrabbiata perché lui non avrebbe dovuto essere alla villa.» Si spostò i capelli indietro. «Era già successo una volta. Non avevo mai sentito urlare in quel modo.» «Si è fatto male qualcuno?» chiese Hester. «Be',» disse Huck «dopo erano entrambi sporchi di sangue... ma faceva parte del loro gioco.» «La violenza?» Scelsi la parola per me più facile. «No. Il sangue.» Avevo sentito parlare dei giochi con il sangue, ma, in oltre vent'anni di servizio, non mi era mai capitato di occuparmene. È per questo che mi piace lavorare nelle aree rurali. Scoprimmo che tutti coloro che avevano avuto una relazione con Dan Peale finivano per donargli un po' del proprio sangue. «E Jessica?» chiese Hester. «Anche lei va a letto con tutti?» «Toby non lo so, forse qualche bacio appassionato, ma ha raccontato a Kevin di esserci andato a letto solo una volta, anche se credo che quella volta Jessica fosse un po' più alticcia del solito, capite? Era un po' fuori. Comunque, Toby era più che soddisfatto, ma lei non lo rivolle più. So che Kevin c'è stato insieme qualche volta, un anno fa circa. Poi lei l'ha mollato e non l'ha più cercato.» Huck sorrise maliziosamente. «Mi piace ricordarglielo ogni tanto, quando perde qualche colpo a letto.» Ritrovò il filo del discorso. «Ma per rispondere alla vostra domanda, sì, gli succhiava un po' di sangue.» Si strinse nelle spalle. «Anche io e Jessica abbiamo trascorso insieme un periodo molto piacevole. Capita.» Huck era così franca che mi sconcertava. Non ero sicuro che dicesse la verità e, ammesso che lo stesse facendo, non ero troppo sicuro di voler co-
noscere proprio tutti i dettagli. «Vi scambiavate molto sangue, durante questi incontri?» «Lei non è molto pratico, vero?» mi disse, accennando una risata. «Ho paura di no.» Si mise comoda sulla sedia e mi guardò seria: «Okay, sentite, ecco come funziona». Spiegò che la maggior parte delle volte non veniva versato molto sangue. Di solito veniva fatto uscire pizzicando la pelle del partner con le unghie. Solo alcune gocce. A volte, se c'era molta intimità, il sangue poteva essere fatto uscire praticando un piccolo taglio su un labbro o sul lobo dell'orecchio e scambiato tramite il bacio. A volte, se la situazione si faceva molto calda, venivano fatti dei piccoli tagli sulle natiche oppure vicino ai genitali o al seno. «Dipende» disse Huck. «Da cosa?» Pensai che, visto che dovevo imparare, tanto valeva farlo bene. «Be', innanzitutto se in quel periodo sei innamorato, oppure no. Secondo, da quanto sei sballato in quel momento.» Andò avanti con la spiegazione, descrivendo il modo in cui potevano essere praticati tagli anche piuttosto grandi, a seconda dello stato d'animo del donatore. Poi ridivenne diffidente e capii che stava cercando di essere quanto più vaga possibile, ma le domande la costringevano comunque a entrare nei particolari. Smise di parlare e guardò la porta del mio ufficio. «Potreste chiuderla?» Hester lo fece allungandosi sulla sedia. La ragazza guardò le finestre. Le tende erano tirate. «Be', c'è stato un giorno...» disse, con un sospiro. «Oh cazzo. Sentite, da bambina ho subito degli abusi» sbottò. «Quando avevo circa tredici anni, mia madre aveva un compagno, okay? Lui abusava di me sessualmente e ogni tanto mi picchiava, tanto per farmi stare al mio posto. La mamma lo sapeva, perché io gliel'avevo detto. E se ne fregava, capito? Andò avanti così per tutto il liceo.» Si strinse nelle spalle. «Finché non mi diplomai e lui lasciò mia madre per una ventenne racchia.» Huck guardò Hester. «Così riuscii a cavarmela. Non ci furono più problemi. Era finita, giusto? Però non socializzavo molto, perché lui non mi lasciava uscire molto spesso. Comunque, ricordavo quando casa mia era stato un luogo sicuro e pensavo che potesse esserlo di nuovo.» Si strinse nelle spalle. «Tutti facciamo degli errori, ogni tanto. Ma a me piace molto la musica. La musica mi rendeva
felice ed ero brava a suonare.» Si interruppe e non sembrava voler riprendere. «Che strumento?» le chiesi. «Il flauto.» Un sorriso malinconico. «Ero davvero brava. Andai all'Università del Wisconsin, a Madison, con una borsa di studio.» Fino a quel momento, durante il racconto, era rimasta un po' accasciata sulla sedia, ma quando cominciò a parlare di musica si raddrizzò quasi impercettibilmente. «Una volta ho suonato il Concerto Jolivet per flauto e orchestra, con l'orchestra sinfonica. Era una prova, ma il direttore d'orchestra disse che la mia era stata un'esecuzione "perfetta".» Huck si illuminò. «Ero davvero brava» e la sua voce scemò. Sollevò le mani e le allargò, guardandole per un istante. «Adesso, per vivere, dò le carte. Anche un croupier deve saper usare le mani. E io sono piuttosto brava anche in quello» aggiunse con noncuranza. Poi riprese il racconto della sua vita. «Così, a metà del mio primo anno da insegnante nelle scuole medie in una cittadina nel nord del Wisconsin, scoprii che non riuscivo a lasciarmi il passato alle spalle come avevo creduto.» Un sorriso amaro. «Decisi di trascorrere le vacanze di Natale da sola, nel mio appartamento. Avete mai bevuto dell'assenzio? È roba veramente buona, credetemi. Ma state attenti a non ubriacarvi troppo se siete depressi e completamente soli.» Hester e io rimanemmo in silenzio. «Quindi, tornando al nostro problema,» disse in tono vivace «non ho più potuto fare finta di niente. La gente non vuole che si insegni ai loro figli dopo un "episodio" del genere. Così, quando sono uscita dalla clinica, mi sono licenziata. Era la cosa più giusta da fare, per tutti. Sono andata a casa, ma mia madre era in lutto per l'amore perduto, e non si preoccupava di me. Non sopportavo quella situazione: poi Edie mi ha "trovato", mi ha suggerito di andare a vivere alla Villa e così mi sono trasferita. Non dovevo neppure pagare l'affitto. Pensavo che ci avrei passato solo un po' di tempo e che dopo sarei tornata a insegnare o qualcosa del genere. Credo che non lo farò mai più.» Si strinse nelle spalle. «A ogni modo, sono certa di aver cominciato a partecipare ai giochi con il sangue perché mi sono sentita accettata e perché per la prima volta mi sembrava che a qualcuno importasse davvero di me.» Ci guardò entrambi per un istante. «Jessica, poi, ci fa anche viaggiare. Siamo stati a Chicago parecchie volte e a New York una volta. Andiamo ad assistere a concerti e mostre. A spettacoli. E non ci paga soltanto i
biglietti, conosce qualche artista e li presenta anche a noi, così partecipiamo a eventi mondani con gente molto in gamba.» Annuii. «Così potevo stare a contatto con le persone dell'ambiente musicale.» Per un attimo sembrò distratta. Poi, disse: «Ma mi faceva ancora male dentro. Molto male e non passava mai del tutto. Dan mi ha insegnato il modo di allontanare il dolore per un po'». Si alzò. «Adesso non imbarazzatevi, ma indosso una bellissima e particolarissima biancheria intima» disse, e di colpo si abbassò i pantaloni. Nella parte interna della coscia sinistra aveva diverse lunghe cicatrici, sbiadite ma ancora visibili. Partivano cinque centimetri sotto l'inguine e terminavano un paio di centimetri sopra il ginocchio. Guardò entrambi. «Ho dei tagli su tutte e due le cosce, sotto entrambi i seni e all'interno dell'avambraccio sinistro, ma posso ancora indossare dei bei vestiti, no?» disse tirandosi su i pantaloni. «Me li faccio da sola. Sembra strano, lo so, ma ti fa sentire meglio. Credo che siano le endorfine. Il corpo le rilascia per combattere il dolore causato dal coltello e, per un po', ti fanno sentire meglio dappertutto, dentro e fuori.» Si sedette. «Questi erano per Danny. A volte mi odio per essermeli fatti.» Il suo viso per un istante si deformò. «In quel modo usciva molto più sangue che dai lobi delle orecchie. Ce n'era abbastanza per tutti. Adesso, però, è un anno che non mi taglio più.» Continuavamo a tacere. Io mi sentivo molto a disagio. Huck sorrise per un istante. «Mi dispiace di avervi imbarazzato. Davvero.» Guardò il muro, dietro di me. «Allora, però, ero innamorata di Danny. Facevo qualunque cosa lui volesse perché lui teneva a me. Oh, sì. Diceva che voleva aiutarmi. Che voleva farmi passare il dolore. Che l'avrei superato. Una volta, però, ero meno sconvolta del solito, ho ascoltato bene quel gran figlio di puttana mentre mi parlava. Eravamo al terzo piano, nel letto grande, mi aveva toccato in tutti i posti giusti e avevamo fatto l'amore, poi gli era venuta sete. Quel gran bastardo mi parlava e io stavo a sentire quello che diceva. La sapete una cosa? Riportava in superficie tutte le sofferenze passate, tutte le cose che gli avevo raccontato, e mentre lo faceva, mi diceva che "con un taglio non avrei più sentito nulla. Ancora uno e il dolore, sarebbe scomparso per sempre...". Quello stronzo mi faceva deprimere apposta per convincermi a tagliarmi. Mi incoraggiava a farlo! Riuscite a crederlo?»
Mentre parlava, Huck si sporgeva sempre più in avanti. Se ne accorse e si tirò indietro, ricomponendosi quasi all'istante. «Mi dispiace. Non intendevo lamentarmi.» Si strinse nelle spalle. «Ma tutto quello che voleva era il mio sangue. Cioè, non voleva certo la mia personalità, ma perché non accontentarsi del corpo? Comunque sia, questa è la ragione per cui ho smesso.» Si sforzò di sorridere. «Non mi faceva stare così bene, non più. Avete capito, adesso?» 22 Lunedì 9 ottobre 2000 19.18 Per sdrammatizzare un po' la situazione, dissi: «Ecco perché Toby pensa che questo Peale sia un vampiro. È fissato con il sangue». «Non credo che "pensare" sia la parola giusta» disse Huck. «Toby è davvero convinto che Dan sia un vampiro, che sia immortale, che non sopporti la luce del giorno, che sia straordinariamente forte e che debba bere sangue per sopravvivere.» Guardò prima Hester e poi me. «Ne è sicuro perché Dan stesso crede di esserlo e Toby ha un fortissimo bisogno di credere in Dan.» Sorrise, mesta. «È un po' complicato.» «Ma non esistono dei segni particolari, delle prove, qualcosa che serve a riconoscere un vero vampiro?» chiesi incuriosito. «Tipo?» «Be', come il fatto che non si riflettono negli specchi?» dissi, facendo riferimento alla mia vasta esperienza cinematografica. «Che devono essere invitati per entrare da qualche parte... cose del genere...» Huck sorrise. «Come nei film, giusto?» «Be', sì.» «Sapete cosa diceva Dan quando qualcuno gli chiedeva delle prove che non riusciva a dare? Diceva che quelle sono menzogne, inventate appositamente dai vampiri stessi per ingannare gli umani, affinché vadano in cerca di falsi segni, convinti di poterli individuare. Come il trucco dello specchio. Quando la prova fallisce, allora ci si sente al sicuro.» «Quindi Peale sostiene che tutto ciò che non gli riesce non è indicativo?» «Sì. I vampiri sono molto astuti. Così hanno più possibilità di nascondersi.»
«A me sembra troppo comodo.» Huck ridacchiò. «In effetti. È pazzesco, ma Dan possiede alcuni dei tratti più caratteristici del vampiro, come la resistenza, la forza, il fatto che vive soprattutto di notte e che è convincente in tutto ciò che dice.» «Ti ha mai raccontato come ha fatto a diventare un vampiro?» chiese Hester. «Ha detto che è stato "convertito" molto tempo fa, da un vampiro donna. Dice che non si può nascere vampiri. Si sceglie.» Si strinse nelle spalle. «Forse, se avessi manifestato l'interesse a diventare vampiro, mi avrebbe detto di più. Dovreste parlarne con Toby.» «Toby vuole diventare un vampiro?» domandai. «E della peggior specie» disse Huck, con un sorrisetto furbo. «Capite cosa voglio dire? È molto ambizioso e vuole arrivare ovunque si possa.» «Qualcun altro pensa che Dan Peale sia un vampiro?» chiese Hester. «Hanna di sicuro. Melissa penso che cominci a crederlo. Kevin non si pronuncia troppo, ma sono certa che anche lui sia di quella idea.» Si strinse nelle spalle. «In tutta onestà, ci sono delle volte in cui anch'io non so esattamente cosa pensare.» «Cosa ti fa credere che sia un vampiro?» La mia curiosità non faceva che aumentare. «Avete visto la foto appesa al muro, al terzo piano? Quella scattata al cimitero di Highgate?» «Sì. Il Cerchio del Libano.» «Be',» disse Huck, abbassando la voce «una delle cripte è di Dan.» «Scusa?» intervenne Hester. «In che senso?» «È quello che sostiene lui. La sua. L'ha detto a me.» Guardò nuovamente le tende. «Forse è per questa ragione che non riuscite a trovarlo negli archivi di Londra.» «Ne sei convinta?» chiesi. Huck rise nervosamente. «Cazzo, non lo so. Adesso che sono qui vicino a voi due, be', forse no. Ma non voglio correre rischi.» Mi guardò dritto negli occhi. «E voi?» «A essere sincero,» dissi «avrei bisogno di molte prove. Moltissime prove.» «Anch'io» disse Huck. «Ma lasciate che vi dica una cosa: è molto forte ed è una vera macchina del sesso. Può fare l'amore per sette, otto ore di fila, senza stancarsi. Si rifiuta di esporsi al sole senza una crema ultraprotettiva. Ha una personalità dominante.» Giocherellò con le dita per un secon-
do, riflettendo. «Ma non solo. Le cose che dice. Le cose che fa. È supersofisticato, molto istruito e...» Rise. «Cazzo, non posso credere che ve lo sto dicendo, insomma... lui parla di cose accadute nel Settecento e nell'Ottocento come se ci fosse stato di persona, capite?» «Ti senti bene?» Si stava nuovamente innervosendo e pensai che stesse per esplodere. «Sì, sto bene, ma se lo vedeste bere il sangue, se lo vedeste bere il vostro sangue ed emettere quei suoni avidi mentre beve e poi...» Rabbrividì, poi si interruppe. Restammo tutti in silenzio per qualche secondo. Pensai che fosse giunto il momento di cambiare discorso. «Allora, perché Dan avrebbe ucciso Edie? Hai qualche idea?» Huck scosse il capo. «Siete sicuri che sia stato lui?» «È il nostro sospetto principale» risposi. «A meno che tu sappia qualcosa che noi non sappiamo.» «Se è il vostro sospetto principale, allora forse avete ragione. E se la mia opinione vi può aiutare, credo che possiate avere ragione.» «Ma sai perché l'avrebbe fatto?» «Edie era completamente sotto il suo controllo. Non c'era pericolo che se ne andasse. Avrebbe fatto qualsiasi cosa lui le avesse chiesto. Lo so per certo.» «Cosa le chiedeva esattamente?» domandò Hester. «Sesso, naturalmente. Condividere il sangue, ma non come faceva con me, Edie non si tagliava in quel modo. Solo un po'. Lui poteva al massimo assaggiare il suo sangue. Con me,» disse in tono triste «poteva berlo.» Rabbrividì nuovamente. «Sottomissione. Servizio.» Huck cercò le parole giuste. «Hausfrau? Geisha? Edie provvedeva a tutti i piaceri di Dan, quando lui veniva alla Villa senza Jessica. Soprattutto per ciò che riguardava l'accesso al terzo piano, dove si poteva stare tranquilli. Edie era l'unica ad avere la chiave, a parte Jessica, per quanto ne so.» «Il terzo piano era così importante?» «Sì, soprattutto per la privacy. Voglio dire, se fosse arrivato di colpo qualcuno alla Villa non ti saresti sentito a tuo agio... degradato in quel modo.» Si strinse nelle spalle. «So solo che quando Dan mi portava di sopra, doveva prendere la chiave da Edie, e che a lei non piaceva neanche un po'.» Guardò Hester. «Voglio dire, era anche preoccupata per me, ma, allo stesso tempo, era gelosa. Specie dopo, quando ce lo dividevamo praticamente a metà.» Tirò su col naso. «Non ci sono segreti alla Renfield House.»
«È quello l'unico legame che tutti avete con lui?» chiese Hester. «Nient'altro? Niente di... non so... sociale? Non mi viene un termine migliore.» «Oh, certo» disse Huck, con entusiasmo. «Quella è la parte migliore. Facevamo delle cene grandiose. Cene nel vero senso della parola, con sette portate che preparavamo noi. Proprio come ai tempi della regina Vittoria.» «Davvero?» mi stupii io. «Certo. Abbigliamento da cerimonia. Gli uomini in smoking, le donne con gli abiti da sera.» Sorrise. «Sono sicura che li avete visti. Poi parlavamo, o meglio Dan parlava, perlopiù dei vecchi tempi, dell'Inghilterra vittoriana. Quasi sempre.» «Ne parlava come se ci fosse stato?» chiesi. Huck ci pensò un momento. «Be', ora che ci penso... non proprio come se ci fosse stato, ma dando l'impressione di esserci stato. Non sono stata molto chiara, vero?» «Ho paura di no» risposi. «Insomma, non ha mai affermato, per quanto ricordo, di aver parlato con Emily Brontë o con Lord Byron. Ma,» aggiunse, in tono enfatico «dava l'impressione di averlo fatto. È come se facesse riferimento a loro, capito? Come se fossero stati dei vecchi amici. Ma non ha mai detto di averli incontrati di persona.» La guardai perplesso. «Okay, vi faccio un esempio: poteva uscirsene con una frase tipo "come diceva Byron", ma mai con "come mi ha detto Byron". Chiaro adesso?» «Sì.» «In privato, però, era differente. Almeno con me. Una volta mi ha parlato di una conversazione che aveva avuto con un primo ministro di nome Gladstone e mi ha raccontato di aver conosciuto le sorelle Wyndam.» «E chi erano?» «Delle bellissime donne che hanno vissuto all'inizio del Novecento, credo. Appartenevano all'alta società londinese.» «E lui avrebbe una trentina d'anni?» Avevo pensato che fosse meglio buttarla lì all'improvviso. «Questa è l'età che dimostra» rispose Huck senza scomporsi. «Jessica prendeva parte a quelle cene?» chiese Hester, riportandoci sulla retta via. «Si facevano solo quando c'era lei. Loro due erano i padroni di casa e noi gli amici invitati a cena.» Sospirò. «Era davvero molto bello. Usavamo le porcellane migliori, i candelabri, i calici del servizio buono e bevevamo
i vini pregiati che Jessica conservava nel seminterrato.» Sembrava malinconica. «Le feste di capodanno erano sempre le migliori.» «Jessica parla mai del passato?» domandai. «Oh, certo, ma non come Dan. Gli fa solo delle domande e qualche volta ride alle sue risposte. Non capisco perché, ma ride.» Io pensavo di saperlo, ma non dissi nulla. Era il momento di tornare all'argomento principale. «Cos'hai pensato quando hai sentito per la prima volta che Edie era morta?» «Che l'avesse uccisa lui.» «Intendi Dan?» «Sì.» «Volontariamente?» chiese Hester. «No, credo che abbia combinato qualche casino. Ci faceva prendere dei vasodilatatori, per ritardare la coagulazione del sangue che usciva dai tagli.» Sollevò la mano destra, con il palmo rivolto verso di me. «Non con i miei tagli "speciali", però. Assolutamente no. Nessuno di noi era così fuori da provare una cosa simile, almeno non all'epoca.» Scosse la testa. «Dio mio, avrei potuto morire dissanguata.» Restammo in silenzio per qualche secondo, mentre Hester e io aggiornavamo i nostri appunti. «Un istante fa,» disse Hester «hai detto che adesso Melissa crede che sia un vampiro, cosa intendevi dire?» «Be', ovvio. Innanzitutto sappiamo tutti che uno di voi gli ha sparato e sembra che il suo corpo non ne abbia risentito. Cos'altro potremmo pensare?» «Come?» sbottai. «Sì, il poliziotto giovane. Gli ha sparato, ma Dan non ne ha risentito.» «L'agente non l'ha colpito» dissi, piuttosto imbarazzato. «Oh, certo, certo. Però noi abbiamo cercato i buchi delle pallottole e non c'erano segni né sulla porta, né sul muretto, né da nessun'altra parte. Non siamo stupidi, sapete» concluse stizzita. Era il primo segno di rabbia. Notai anche che parlare di quelle cose aveva avuto un effetto quasi liberatorio per lei, mentre la sua euforia andava scemando. «Non penso che siate stupidi, Huck. Niente affatto.» Era la verità e credo l'avesse capito. «Ha sparato un colpo di avvertimento» dissi. «Anzi, due.» «Stronzate» disse. «Mi dispiace, ma persino io so che non potete farlo.» «È vero» dissi. «È assolutamente vero.» Guardai Hester. «Lo vedi? An-
che i civili lo sanno.» Mi rivolsi di nuovo a Huck. «Il vicesceriffo Borman non se lo è ricordato, infatti oggi, come avrai potuto notare, non è qui tra noi. Quel piccolo errore gli è costato una sospensione di un giorno.» Rimase in silenzio, come riflettendo su quello che avevo appena detto. «Te lo posso provare» dissi. Presi il telefono e composi il numero della centrale operativa. Rispose Gwen, una delle nuove operatrici. «Ehilà! Questo è il negozio delle ciambelle!» Sapevano che ero sulla linea interna. Almeno, così speravo. «Sì, sono Houseman. C'è Sally?» «Un attimo...» disse, dopodiché chiamò la collega a voce abbastanza alta. Evidentemente era in cucina. Aspettammo alcuni secondi, con in sottofondo il rumore costante dei sedici canali radio. Sulla linea interna non premevano quasi mai il pulsante di attesa. «Sì, dimmi, Houseman.» Era la voce di Sally, anche Huck la riconobbe. «Hai bisogno dei precedenti penali di Peale?» chiese, mentre prendeva il telefono. «Sono appena arrivati, dammi un minuto.» «No, verrò a prenderli io» dissi velocemente. «Senti, sei in viva voce e voglio che tu dica cosa è successo a Borman e perché non si trova qui, oggi.» Ci fu una pausa opprimente. «Sei sicuro? Devo proprio?» «Sono sicuro.» «Va bene. Per quanto ne so, Borman ha sparato due colpi di avvertimento, voi vi siete incazzati e lo avete sospeso per un giorno.» «E dove è successo?» «Alla Villa, quando il tipo gli ha squarciato il petto uscendo dalla porta.» Guardai Huck, che annuì e mi fece un cenno di assenso con la mano. «Grazie, Sally.» «A tua disposizione, ogni volta che posso rinfrescare la tua memoria che perde colpi. Se vieni qui in fretta, stiamo preparando il caffè.» «Ottimo. Grazie.» Chiusi la comunicazione. «Ecco qua.» «Grazie. Lo dirò agli altri. Forse non mi crederanno, ma lo riferirò comunque. Grazie ancora.» «Non c'è di che. Di' loro di non andare a dirlo in giro. Sono informazioni riservate.» Era stato un azzardo, ma mi sembrava che i vantaggi potessero superare gli aspetti negativi. «Certo.» «Io vado a prendermi un caffè» dissi. «Ne volete un po' anche voi?» Due
risposte affermative, cosi mi diressi verso la cucina. In cucina riflettei sui giovani che vivevano nella Villa. Su Huck, in particolare. Era un peccato che persone tanto in gamba conducessero una vita così assurda, eppure succedeva. Lo vedevamo tutti i giorni. Forse le loro vite erano diventate un fallimento proprio perché erano abbastanza intelligenti da vedere ciò che li circondava. Sembravano avere tutti delle aspettative assolutamente ragionevoli, che però non si erano potute realizzare, e così trascorrevano la maggior parte della loro vita cercando di adattarsi a quella situazione. Il lato positivo era che di solito ce la facevano, nonostante tutto. Quello negativo era che alla fine ogni cosa era cambiata così profondamente, che non sapevi mai cosa sarebbe potuto succedere. Be', non per tutti. Ma quel poco bastava a rendere tutta la situazione molto deprimente. Mentre ascoltavo il gorgogliare della caffettiera, pensai che il ruolo di Toby non era quello un po' comico che gli avevo inconsciamente assegnato, bensì quello di una spia fedele, con la testa piena di stronzate. Prima o poi avremmo dovuto parlare con lui. E Borman. Il fatto che il suo stupido errore avesse involontariamente contribuito allo sforzo di Peale di farsi passare per un vampiro mi faceva arrabbiare ancora di più. La caffettiera fischiò. Non trovando un vassoio, appoggiai con cautela le tre tazze di caffè fumante sul tagliere. Mi sembrava un po' troppo spoglio, così misi una mezza dozzina di sacchetti rosa di dolcificante e quattro o cinque tovagliolini. Ripensandoci, mi fermai e riempii una tazza anche per Sally. Mentre passavo dalla centrale operativa, vidi una pila di libri in edizione economica parzialmente nascosti da un monitor e da una radio. Diedi un'occhiata ai titoli. Tenebre sul ghiaccio di Lois Tilton, oltre a Intervista con il vampiro e a Scelte dalle tenebre di Anne Rice. «Fai un po' di ricerca?» «Grazie per il caffè, Houseman» disse Sally, mentre mi passava il curriculum criminale di Peale. «Certo, la ricerca è tutto. Dovresti leggerli anche tu.» Mi comunicò anche che erano arrivate due persone a prendere Huck. «Chi sono?» «Melissa e Kevin.» «Okay.» Mi avvicinai ai libri. «Li hai presi in biblioteca?»
«Certo.» Mi fermai per leggere i precedenti penali del nostro vampiro prima di portare il caffè in ufficio. Erano interessanti. Innanzitutto, sembrava che avesse utilizzato due nomi falsi per due diversi reati. C'erano anche il suo vero nome e il numero assegnatogli dall'FBI. Era stato condannato due volte, in due stati differenti, Entrambe le volte era stato schedato come reo non recidivo. Nel secondo caso, evidentemente, qualcuno non aveva fatto bene il proprio dovere. Per sicurezza, riverificai i dati secondari. Sì. Stessa altezza, stesso colore degli occhi, stesso codice di impronte digitali. L'unica cosa che non corrispondeva erano i nomi usati al momento dell'arresto. Astuto, ma non troppo. Un criminale attento poteva mantenere un'identità falsa molto a lungo. Naturalmente, stando attento a non delirare come lui. Il primo caso era avvenuto nel North Dakota. Nel 1989 era stato arrestato con l'accusa di complicità per violenza su minori. Era tutto ciò che c'era scritto sulle informazioni iniziali, ma Sally aveva ottenuto alcuni dettagli. Questo è ciò che mi diede: «Soggetto noto come Daniel Pool imputato di undici capi d'accusa per complicità in un reato contro minori tramite cattiva condotta sessuale. Si è dichiarato colpevole per un capo d'accusa. La prima indagine indica che il soggetto di nome Pool ha indotto alcune giovani donne a infliggersi ferite e ha poi ingerito il loro sangue. Non è possibile condannare il soggetto per le ferite auto inflitte. L'imputazione di cattiva condotta sessuale deriva dall'indagine originaria. Il nome Pool è risultato falso. Il vero nome del sospetto è: Daniel Gordon Peale; data di nascita: 10/04/65». Il secondo caso, nella Wahvorth County, nel Wisconsin, risaliva al 1993 ed era molto simile al primo, con due differenze: aveva usato il nome Daniel Gordon, che non era proprio il massimo dell'originalità, e una data di nascita falsa: 04/10/65. Quella volta aveva ricevuto una sospensione di pena di due anni. C'era un messaggio scritto dalla persona che si era occupata del caso nel quale si accennava solamente al fatto che il reato originale riguardava l'ingerimento volontario di piccole quantità di sangue", e che Dan si era dichiarato colpevole di aggressione a un minore di cui non venivano rivelate le generalità. Più che plausibile. Se è lo stato a portare avanti il processo, è probabile che l'imputato trascorra qualche tempo in
carcere, se non altro per il disturbo arrecato. Se l'imputato si dichiara colpevole, facendo risparmiare i soldi del processo allo stato, di solito, come ricompensa, ottiene una riduzione della pena. Se si tratta del primo reato, la sentenza può venire sospesa. In questo caso, il colpevole esprime al giudice tutto il proprio rammarico. Quelli che riescono a sostenere lo sguardo del giudice sono coloro che hanno più possibilità di farcela. La colpa effettiva, ovviamente, ha poco a che fare con tutto ciò. In quel caso, però, c'era, ancora una volta, la questione del sangue. Guardai Sally. Sapevo che aveva letto i documenti, sebbene, ufficialmente, dovesse limitarsi a leggere le intestazioni. «Allora, cosa ne pensi?» Abbassò la tazza di caffè. «Credo che dovresti chiamare un acchiappavampiri» disse. Mentre passavo dalla sala d'aspetto per tornare al mio ufficio, vidi Kevin e Melissa seduti in silenzio sulle vecchie sedie pieghevoli riservate agli "ospiti". Con i braccioli troppo bassi e gli schienali troppo dritti, erano davvero scomode, ma non ci potevamo permettere di più: erano gli scarti della vecchia sede della contea. Al nostro dipartimento erano costate un dollaro ciascuna. Eravamo riusciti a prenderne dieci. «Salve» dissi. «Se volete del caffè, potete andare a chiederlo alla centrale operativa.» «No, grazie» disse Melissa. «Allora, come sta Hanna?» chiesi per educazione. «Meglio» disse Kevin. «Come mai Huck ci impiega così tanto?» «Oh, sapete com'è,» dissi interrompendomi un momento prima di uscire dalla stanza «una cosa tira l'altra e con tutti i moduli che dobbiamo compilare in questi giorni, è un miracolo riuscire a fare tutto.» La sceneggiata del povero impiegato oberato di lavoro non ha sempre successo, ma qualche volta può tornare utile. Entrai nel mio ufficio, appoggiai le tazze e porsi a Hester i fogli con i dati dei precedenti penali di Peale. «Sono interessanti.» Li prese, ma non li guardò subito. Disse, invece: «Stiamo parlando del luogo in cui può essere andato Dan quando è scappato dalla Villa». «Ah. E allora?» «Se è arrivato alla base della collina,» disse Huck «forse è riuscito a trovare un passaggio. C'è molto traffico in autostrada.» Ora, essendo da oltre vent'anni vicesceriffo della Nation County, sapevo che non poteva essere vero. A parte in autunno, quando cadono le foglie e la gente arriva da tutte le parti del paese per godersi lo spettacolo offerto dalla natura, su quella strada non c'era mai molto traffico, e poi i turisti non
sceglievano certo le ore notturne per guardare il colore degli alberi. Tuttavia, annuii lo stesso. Pensai che forse, Huck voleva farci sapere che Peale era arrivato alla strada e aveva chiesto un passaggio senza ammetterlo direttamente. Era il momento di passare al punto successivo. «Va bene, e cosa mi sai dire di Alicia e del suo ragazzo? Cosa è successo veramente?» «Cosa intende?» «È stato Dan a chiederti di portarla alla Villa? È importante.» Ci pensò un secondo prima di rispondermi. «Non esattamente.» «Huck, se c'è una cosa che può mettere nei guai qualcuno in casi come questi,» disse Hester «è l'equivoco.» La ragazza sospirò. «Sentite, sono sicura che l'abbia vista alla Villa, ma non era la prima volta che la incontrava.» «Davvero?» Hester aggrottò le sopracciglia. «No, l'aveva vista un paio di volte in qualche locale, anche se credo che avessero parlato una sola volta.» Sembrava seria, impossibile capire se stesse o meno arrampicandosi sugli specchi. Le descrissi il sospetto visto fuori dalla finestra di Alicia, i canini e tutto il resto. «Quando le ha parlato avrebbe potuto avere lo stesso aspetto che aveva fuori dalla finestra di Alicia, l'altra notte?» Huck sbuffò. «Certo che no. L'altra notte faceva il pipistrello.» «Cosa?» «Faceva il pipistrello. Quando si traveste, esce e va da un palazzo all'altro. Lui dice che sta facendo il pipistrello. Proprio come nei film.» Ci guardò. «Solo che i veri vampiri non possono trasformarsi in pipistrelli.» Provenendo da una persona che diceva di credere nei vampiri, quell'affermazione mi sorprese non poco. «Allora non credi a tutto quello che si dice sui vampiri?» chiese Hester. «Non alle cose fantastiche.» «Torniamo a noi» dissi. «Dan Peale conosceva Randy Baumhagen?» «Penso che l'abbia incontrato una volta» rispose Huck. «E credi,» intervenne Hester «che volesse... avere una relazione con Alicia?» «Credo che volesse averne una con tutte le donne attraenti che incontrava.» «E tu lo sapevi quando hai chiesto ad Alicia di venire alla Villa?»
«Sì. Ma anche lei lo sapeva.» Hester guardò i precedenti penali di Peale. Il Peale dell'Illinois, dal momento che non riuscivamo a trovare il suo corrispondente inglese. «Huck,» disse poi «sarebbe illegale condividere con te informazioni del genere, ma sappi che questo documento» e indicò il foglio che le avevo dato «stabilisce che il nostro signor Peale è cittadino americano.» Huck scosse il capo. «Non so cosa dire, sembra proprio inglese.» «Questo mi fa venire in mente una cosa» dissi, bevendo un sorso di caffè. «Qualcuno di voi sapeva che Peale era ancora al terzo piano? Quando siamo arrivati noi, intendo.» «Certo. Lo sapevamo tutti.» Avevo l'impressione che avesse dato per scontato che lo sapessimo anche noi. La gente ha un'alta stima di noi nei momenti peggiori. «Davvero? Tutti?» «Oh, sì.» Bevve a sua volta un sorso di caffè per prendere tempo. «Anche Jessica e Tatiana, credo. Fa sempre così. Finite le sue storie con il sesso, il sangue, la metamfetamina e tutto il resto, prende dei tranquillanti. E dorme per almeno ventiquattr'ore. Credo che sia una questione psicologica.» Bevve un altro sorso. «Va avanti per ventiquattr'ore e poi ne dorme altrettante, o anche di più.». «Fa orge per ventiquattr'ore di fila?» chiesi, incredulo. Huck annuì, accennando un sorriso. «Oh, sì.» «E la sua compagna resta con lui per tutto quel tempo?» «Be',» disse in tono falsamente pudico «di solito ne ha più di una. Un antipasto e poi il piatto principale, per così dire.» «Gesù» fu tutto quello che riuscii a dire. «Dando per scontato che Edie fosse il "piatto principale",» disse Hester «allora, chi avrebbe potuto essere "l'antipasto"?» Penso che sia io sia Hester fossimo convinti di parlare con "l'antipasto". Avevamo di nuovo sbagliato. «Melissa e, credo, anche Hanna. Sono sparite, e non mi sono accorta della mancanza di Edie per un po'.» «Oh.» Hester cominciava a sembrare indifferente e disincantata come Huck. «E Melissa aveva un aspetto un po' sbattuto quando è tornata. Troppa "E".» «Ecstasy?» «Sì, oppure metamfetamina, o qualsiasi altra cosa Dan le abbia offerto»
Huck si strinse nelle spalle. «L'ecstasy fa sempre venire il mal di testa ad Hanna. Poi non riesce a dormire per una settimana.» «Poverina» disse Hester. «Già.» Huck chiese se avessimo bisogno di sapere qualcos'altro. «Sono un po' stanca. Come vi ho detto, è stata una giornata molto lunga.» «Sei sicura di voler tornare lassù?» Ero preoccupato. Avevo la sensazione che Peale ormai se ne fosse andato, ma nel caso in cui si fosse trovato alla Villa e avesse saputo che Huck aveva parlato con noi, la ragazza correva dei grossi rischi. «Certo. Non c'è problema.» Sollevò il pollice della mano in gesto di assenso. Strano, pensavo fosse passato di moda da trent'anni. Almeno per me. Come si dice, tutto torna. Chiedemmo a Kevin e a Melissa di tornare l'indomani. Dissero che l'avrebbero fatto, dopo il funerale. Li guardammo uscire dall'ufficio. Quando se ne furono andati, mi voltai verso Hester. «Le credi?» «A proposito di cosa?» «Penso che abbia detto più o meno la verità riguardo alla sua storia personale. Non sono molto convinto del resto.» «Vuoi dire quando ha detto di aver fatto sesso con Dan, Kevin, forse anche con Jessica e che ha fatto da adescatrice per Dan quando ha portato Alicia in casa? Sì, anch'io ci credo.» Hester si sedette sul bordo della scrivania. «Probabilmente tutto ciò che ha detto è vero, anche se forse ha un tantino esagerato.» «Le cicatrici erano vere.» Mi strinsi nelle spalle. «È piuttosto interessante.» «Secondo me faremmo meglio a prendere con beneficio d'inventario tutto ciò che Huck dice a proposito di Dan Peale» disse Hester. «E riservarci di esprimere un giudizio in un secondo tempo. Dicono che la miglior bugia sia vera al novantanove per cento.» «Già» dissi. «Chester, il "terribile cacciatore di vampiri", ha detto a me e Harry che i Renfield tendono a proteggere il vampiro. A mentire per lui.» «Ci sono molte altre cose che non vi ha detto, però.» Hester si alzò. «Di questo sono sicura. Vuoi ancora un po' di caffè?» «Cosa vedono in quel tipo?» chiesi, mentre ci dirigevamo verso la cucina. «È come con gli spacciatori. Lui ha qualcosa di cui loro hanno bisogno. È una sorta di patto, a meno che non vada troppo oltre.»
«Dà loro protezione?» «Esatto. E anche senso di appartenenza. Non credo che li voglia abbandonare.» «Ma può ucciderli?» «Questa è la domanda critica» disse Hester. «Se riesce a convincerli che aveva una ragione per farlo, o che si è trattato di un errore...» 23 Lunedì 9 ottobre 2000 20.38 Hester e io cominciammo a mettere in atto il nostro piano. Per prima cosa, avevamo bisogno di un mandato di arresto per Daniel Peale. Ora avevamo il suo indirizzo di casa e potevamo trasmetterlo alla contea in cui risiedeva. «Non dimenticare di aggiungere al mandato un "nota bene"» disse Hester. «Ha cercato di uccidere Borman.» «Tranquilla.» A quel punto delle indagini potevamo arrestarlo soltanto per l'aggressione a Borman, ma non avevamo abbastanza prove per accusarlo di omicidio. Non ancora. L'aggressione a un agente di polizia, comunque, avrebbe destato un certo interesse. Quindi pensammo che fosse necessario andare a esaminare i progetti catastali della casa a Lake Geneva. L'indomani, in modo da poter interrogare anche Jessica. «Se prendono Peale in Illinois, ci vorrà del tempo per portarlo nell'Iowa, anche se dovesse rinunciare ai diritti sull'estradizione.» «Assolutamente» disse Hester. «E farlo sarebbe da stupidi.» Si interruppe. «Pensi che dovremmo andare al funerale?» «No. È bastato andare alla veglia.» «Bene. Non ho niente di adatto da indossare. Non credo che tornerò a casa per altri tre giorni, a meno che non debba prendere qualcosa di particolare. E finché lo stato continua a pagarmi il conto del motel...» «In questo posto non è mai necessario vestirsi bene» dissi. «Mai.» Ottenni il mandato da un giudice di Manchester, sede della vicina Delaware County, magistrato del turno di notte della nostra zona. Quasi due-
cento chilometri tra andata e ritorno. Quando arrivai a casa era mezzanotte. Sue aveva lasciato una pentola in frigo, come indicava un biglietto sullo sportello. Sul forno a microonde c'era un altro biglietto che mi avvisava di coprire il piatto per evitare che il contenuto schizzasse da tutte le parti. Dopo aver mangiato, andai di sopra e trovai un biglietto sullo specchio del bagno: «Non dimenticarti che il quattordici c'è la festa di compleanno di Betsy». Una cugina. In effetti me n'ero dimenticato e probabilmente, ora del quattordici, me lo sarei scordato ancora. Avremmo ospitato la famiglia per il pomeriggio e la sera, visto che era il mio giorno libero. Per l'occasione sarebbero arrivati dal Michigan quattordici invitati e nostra figlia, Jane. Non mi piaceva comunicare tramite biglietti. Se due sono costretti a lasciarsi messaggi, vuol dire che non vivono insieme. In fondo al biglietto scrissi che ci sarei statg, a qualunque costo. Me lo auguravo. Entrai in punta di piedi in camera da letto e sollevai il lenzuolo. «Non ti preoccupare» mi disse Sue mezzo addormentata. «Non riesco a dormire. Com'è andata la giornata?» «Bene» dissi. «Tutto a posto.» E crollai addormentato. Il telefono suonò, ma smise al secondo squillo. Mi girai e guardai l'orologio. 7,48. Ero solo nel letto, visto che Sue entrava a scuola alle otto. Probabilmente aveva risposto lei dal telefono al piano di sotto. Mi girai di nuovo. Sue mi chiamò dalla porta della camera da letto. «Carl?» «Sì» dissi. «È per te. L'ufficio.» «Va bene» mormorai. «Grazie.» Mi girai per la terza volta e sollevai il telefono vicino al letto. «Sì?» «È meglio che tu venga subito qui» disse Gwen, che avrebbe già dovuto aver finito il suo turno. «Perché sei ancora al lavoro?» chiesi. «C'è stato un bruttissimo incidente vicino al Freeman's Grove» disse. «Mi sto preparando per andare, ma tu devi venire qui immediatamente e poi andare all'impresa di pompe funebri di Freiberg.» «Cosa è successo?» Misi le gambe giù dal letto. «Non lo so. Ma l'agente di Freiberg, Byng, dice che hanno bisogno subito dell'ispettore.» «Puoi anticiparmi qualcosa?» «Tutto quello che so è che una decina di minuti fa abbiamo ricevuto una
chiamata dall'impresa di pompe funebri, che ha richiesto la presenza di un agente. L'abbiamo mandato, pensando si trattasse di qualche problema che aveva a che fare con il traffico, sai, per il funerale di oggi. Poi Byng ha telefonato dicendo di non parlare alla radio e di non dire niente a Lamar.» Parlò in fretta, tanto che feci fatica a seguirla. «Ho capito» dissi. «Ma non sai perché?» «No, e ha detto anche che sarebbe stato molto occupato e di non chiamarlo fino a quando non arriverai sul posto.» Strano. Molto strano. Alle 7.59 ero in macchina, in viaggio verso Freiberg. Non male. Nella caffettiera c'era del caffè avanzato dalla mattina precedente. Era gelato, ma era pur sempre caffè. Guidai a velocità sostenuta per tutto il tragitto, accendendo i lampeggianti. Non incontrai neppure uno scuolabus. Incredibile. Quando arrivai davanti all'impresa di pompe funebri erano le 8.18. La prima persona che incontrai fu la signora Marteen, la moglie del direttore, pallida e agitatissima. Fu in grado di dire soltanto: «Da questa parte, da questa parte» mentre mi faceva strada verso l'entrata posteriore. Il direttore e Byng erano in piedi vicino alla porta del sotterraneo in cui venivano sistemati i corpi dopo la veglia. La porta era ampia, per permettere alle bare di passare facilmente. «Cos'è successo?» «È terribile» commentò il direttore. «Assolutamente terribile.» «Qualcuno potrebbe essere entrato da una finestra lasciata aperta. Non ci sono segni di effrazione» disse Byng. «Ho capito. Cosa manca?» Avevo una tremenda paura che qualcuno potesse aver trafugato il cadavere di Edie. «Niente, a quanto pare» disse. «Ma faresti meglio a dare un'occhiata.» Entrammo nel sotterraneo fresco e ben illuminato e vidi che la bara di Edie era aperta. Mi avvicinai e la guardai. «Oh, cazzo» dissi. Un paletto di legno le usciva dal petto. 24 Martedì 10 ottobre 2000 8.35
«Dov'è il telefono?» chiesi al direttore. Mentre mi conduceva nel corpo principale dell'edificio mi domandò: «Cosa sta succedendo al mondo di oggi?». «Un sacco di brutte cose» risposi. Avevo raccomandato a Byng di non far toccare niente a nessuno e di non allontanarsi. Mentre componevo il numero, mi resi conto che mancavano tre o quattro ore al funerale. Rispose Sally: «Dipartimento dello sceriffo». «Ciao, sono Houseman. Manda qui Hester e non dire a Lamar dove mi trovo finché non gli avrò parlato personalmente. Chiama il dottor Zimmer e digli che abbiamo qualche domanda per lui. Poi chiama, il dottor Peters, l'anatomopatologo e chiedigli se può ritelefonarmi. Digli che è molto urgente.» «Va bene. Cosa sta succedendo?» «Non per telefono» dissi. Poi mi venne in mente che forse la madre di Edie, avrebbe voluto dare un ultimo saluto alla propria figlia, prima del funerale. «Aspetta un momento.» Appoggiai la mano sul ricevitore e alzai la voce per farmi sentire dal direttore. «Signor Marteen, potrebbe venire un secondo qui?» Apparve quasi all'istante. Evidentemente non era molto lontano. «Sa dirmi se verranno dei parenti prima dell'inizio del funerale?» «Spesso lo fanno. Questa volta non so.» «A che ora è il funerale?» «Alle undici, così come il ricevimento, che si terrà al St. Elmer. È un'usanza.» «Grazie.» Parlai di nuovo al telefono. «Senti, è meglio che tu dica a Lamar di chiamarmi immediatamente.» «Okay.» «Dobbiamo muoverci con grande rapidità» dissi. «A più tardi.» Riagganciai. «Potrebbe rendersi necessario posticipare un po' il funerale» annunciai al signor Marteen. «O forse no. Può controllare se si riesce a chiudere la bara anche con dentro quel maledetto affare?» «E come potrò spiegare la cosa?» Domanda pertinente. «Dica che è stata la famiglia a chiederlo» dissi. «D'altronde, tutti hanno avuto la possibilità di vedere la salma ieri alla veglia.» «Veramente stavo parlando proprio della famiglia» replicò asciutto. «Intende sua madre?» «Come faccio a vietarle di vedere la figlia per l'ultima volta?»
Non credevo fosse un problema, ma non si può mai sapere come può reagire un parente. «Ha un lenzuolo? Un bel lenzuolo?» «Sì.» «Non può raccontarle che coprirla fa parte della procedura ed esporre solo il volto per l'estremo saluto?» Pensai che potesse funzionare. La punta del pezzo di legno spuntava di circa sei centimetri e se fosse riuscito a drappeggiare bene il lenzuolo... Ci pensò su. «Dobbiamo dirglielo. Non possiamo nasconderle la verità» disse infine. Aveva ragione. Dovevo parlare a Lamar, aggiungendo un peso sulle sue spalle. Guardai Marteen. «Lo sceriffo Ridgeway parlerà alla madre di Edie.» Avrei preferito non fare quella telefonata. Lamar, Dio lo benedica, disse che sarebbe andato immediatamente a casa della sorella. «Cosa le hanno fatto, Carl?» La voce era tesa dalla rabbia. «Hanno infilato qualcosa nella bara» dissi. «Non c'è ragione di entrare nei particolari. Però è meglio chiuderla. Se tua sorella vuole vedere Edie, il signor Marteen qui presente le spiegherà che coprono sempre le salme con un lenzuolo, lasciando scoperto solo il volto.» Era più o meno tutto vero. Il signor Marteen e io ci avvicinammo alla cassa e chiudemmo il coperchio appoggiandolo con grande attenzione e delicatezza. «Dobbiamo chiuderla adagio» dissi. «Non possiamo esercitare nessun tipo di pressione, rischieremmo di complicare il compito ai tecnici della scientifica.» Mi interrogò con gli occhi. «Il tribunale, signor Marteen. Dovrà testimoniare l'accaduto in tribunale. Dovrà dire che non abbiamo esercitato alcuna pressione per chiudere la bara.» I successivi quindici minuti furono frenetici. Innanzitutto dovetti fotografare ogni cosa. Ero sollevato dal fatto che il coperchio si chiudeva facilmente e si poteva organizzare la cerimonia con la bara chiusa. Meglio di niente, pensai. Feci assistere il signor Marteen a tutta l'operazione, come testimone non di parte. Meglio non correre rischi. Mentre mi dirigevo verso la porta posteriore, Hester entrò da quella anteriore. «Cosa c'è di così urgente?» Le feci strada e la avvertii: «Hanno infierito sul corpo di Edie» dissi. «Oh, no.»
«Sì. Un palo nel petto» spiegai il più realisticamente possibile. «Stai scherzando? Santo cielo...» sussurrò. «Cosa diavolo sta succedendo?» Sollevai il coperchio della bara e lei guardò dentro. Fissammo la scena per alcuni secondi. Nessuno dei due sapeva cosa dire. «Hai chiamato il dottor Zimmer?» chiese in tono neutro. «Sì. Ho chiesto di avvertirlo che era molto urgente.» «Chi credi sia stato? Chester? Peale?» «Non lo so. Chester sarebbe l'indiziato più probabile. È lui l'implacabile cacciatore, e questo dovrebbe essere il suo genere di cose, no?» «Forse» disse Hester. «Ma qual è il motivo per fare una cosa simile, Carl?» Mi guardò per la prima volta da quando avevo sollevato il coperchio. «I vampiri non esistono e comunque non esistono indizi che ci facciano pensare che Edie abbia mai finto di esserlo.» «Non lo so, ma lo scoprirò.» Ne ero certo. Un'indagine per omicidio era una cosa rara nella Nation County, e io non avevo molta esperienza in quel settore. Ma le indagini per scasso erano il mio pane. Dopo aver analizzato l'esterno dell'edificio per non di più di cinque minuti, avevo già annotato le seguenti informazioni sul blocco degli appunti: A. Qualcuno si è introdotto dalla finestra aperta, come mi ha mostrato l'agente Byng. B. Byng, che ha fatto un controllo preliminare all'esterno, non si è accorto che la zanzariera è stata rimossa dalla parte superiore della finestra, che invece non era aperta. La zanzariera è stata rinvenuta sul lato nord dell'edificio, in mezzo a un cespuglio. Il telaio in alluminio è stato forzato e piegato mentre la rete è stata strappata. Tutto ciò poteva essere evitato se il/i sospetto/i avesse/ro semplicemente forzato la parte adiacente alla chiusura metallica. C. Ci sono tracce di sangue sull'intelaiatura della zanzariera e su alcuni pezzi di filo strappato. D. Il sospetto si è avvicinato alla porta posteriore che era stata chiusa a chiave e ha lasciato alcuni segni vicino alla serratura, appena sopra il meccanismo di chiusura. Ha scelto il punto sbagliato e non è riuscito a entrare. E. Ci sono tre impronte piuttosto evidenti sul terreno sotto la finestra da cui è entrato. Due sono state lasciate da un piede sinistro e una da un piede destro, di forma identica.
F. Sul terreno sotto la finestra ci sono dei solchi, larghi un paio di centimetri circa e profondi altrettanto, Indicano che è stata appoggiata una scatola o una cassa per permettere al sospetto di arrampicarsi quanto bastava per entrare nell'edificio. G. Dall'altra parte del vialetto asfaltato c'è una cassa in plastica blu, di quelle utilizzate per trasportare le bottiglie del latte, che presenta segni di terra sui bordi superiori. Come se fosse stata girata per essere usata come scalino. Tutto ciò era molto razionale e ne ero lieto. La ciliegina sulla torta, tuttavia, la mise una signora di circa sessant'anni di nome Rosalind O'Banion che viveva di fronte all'impresa di pompe funebri e che era uscita per assistere alle operazioni. Indossava un accappatoio a scacchi bianco e blu e in testa aveva una cuffia da doccia grigia. «Cosa succede, Bingo?» chiese, rivolgendosi a Byng. «Non ti preoccupare, Rosy.» Byng fu sin troppo sbrigativo. Dubitavo che quella donna avesse attraversato la strada vestita in quel modo solo per stare a guardare. La sua casa offriva un'ottima visuale e poteva aver osservato tutta la scena mentre se ne stava seduta a bere il caffè. «C'è stato un piccolo incidente, signora» dissi. Ripeto, i furti sono il mio pane e so per esperienza che i testimoni valgono tanto oro quanto pesano. Rosy poteva essere uno di quelli. «Può dirmi qualcosa in proposito?» «No» rispose la donna. Non c'era molto da aggiungere. «Se si dovesse ricordare qualcosa, sarebbe così gentile da farcelo sapere?» Non l'avevo allontanata in malo modo perché volevo lasciarmi una porta aperta. Rosy mi guardò con attenzione e visto che non indossavo l'uniforme pensai non avesse capito che ero un agente. Invece mi chiese: «Lei non è il poliziotto che ha arrestato Quentin Pascoe, un po' di tempo fa?». Il peggior caso di violenza carnale che mi fosse mai capitato. «Sì, sono io.» «Quel figlio di puttana,» disse la donna «è mio cognato.» Rifletté un istante, poi disse: «Magari non significa niente, ma...» Musica per le mie orecchie. Rosy faceva le pulizie in un bar della zona e la notte prima era appena uscita di casa per andare al lavoro, quando aveva visto qualcuno nel vialet-
to che portava all'impresa di pompe funebri. Le si era avvicinato e, quando l'aveva vista, si era bloccato. Era rimasto immobile, senza proferire parola. Rosy si era allontanata per proseguire il solito tragitto e lui non si era mosso, né aveva detto una parola. «Non ho detto niente neanch'io» disse la donna. «Gli sono passata davanti come se non ci fosse.» «L'ha riconosciuto?» «Credo di sì. Non mi ricordo il suo nome, ma lo conosce anche lei. Il piccoletto.» Avevo bisogno di qualche elemento in più. «Mi aiuti...» «Il piccoletto, quello della Villa. Capito?» «Maschio o femmina, Rosy?» Sbuffò. «È un maschio, credo» disse in tono sprezzante. «Viene al bar, una volta ogni tanto. È un buono a nulla. Lo sa di chi sto parlando, via, quello con quell'affare nel naso» disse indicandosi le narici. Guardai Hester, che sorrideva apertamente. «Si chiama Toby?» chiesi. «Sì, ecco. Toby... Toby Chalk o qualcosa del genere, oh, mi verrà in mente.» «Gottschalk?» «No. O forse sì» disse. «Si riferisce al ragazzo che vive nella grande casa sulla collina, a sud di qui, vero?» Dovevo esserne sicuro, anche se non c'erano dubbi su di chi stesse parlando. «Va in giro con quella ragazza di nome Huck e con l'altra, quella più bassa.» «Ha visto qualcos'altro?» si intromise Byng, cercando di essere d'aiuto. «Sei tu quello con il distintivo che luccica, Bingo» disse la donna. «Di quanto altro aiuto avete bisogno?» «Grazie, Rosy. Grazie mille» intervenni io. «Ci ha aiutato molto, ma adesso non dica a nessuno che ha parlato con noi, va bene?» «Sarò muta come un pesce» disse. «Promesso?» Sorrisi. «Lo giuro su cento Bibbie.» Pensai che avrebbe resistito al massimo per dieci minuti, ma ero contento così. Toby, santo cielo. Avrei scommesso su William Chester. Be', forse Toby era stato mandato da qualcun'altro. Doveva senz'altro essere andata così.
Hester e io andammo alla Villa insieme, allontanandoci dall'impresa di pompe funebri proprio mentre arrivava uno dei camioncini della TV per preparare le riprese del funerale. Mancati per un soffio. In macchina usai il cellulare per chiamare Lamar. Gli raccontai, a grandi linee, quello che avevamo scoperto. Sembrava arrabbiato e triste, ma quando gli dissi che stavamo per incastrare un sospetto, parve sollevato. «Chiamatemi quando lo avrete preso» disse. «Va bene.» Restituii il telefono a Hester. «Vuole che lo avvertiamo quando prendiamo Toby.» «Sarà un piacere» disse lei. «Ehi, va' piano in questo punto. Voglio vedere se si vede qualche segnale del vecchio sentiero che unisce la cima della collina alla valle.» Rallentai mentre passavamo davanti alla miniera di silice e guardammo il più attentamente possibile la collina e le gole che la attraversavano. Non c'era molto da vedere, a parte un ipotetico tratto di sentiero su un versante del promontorio, appena distinguibile tra gli alberi. Si eclissava tra alcuni massi e vecchi alberi caduti dopo circa quindici metri. «Dovremmo aspettare l'inverno» dissi. Quando cadono le foglie e scende la prima neve, le piste sulle colline risaltano come linee bianche su un campo scuro. «Se non troviamo quello che stiamo cercando prima della prima neve, Houseman,» commentò Hester «saremo davvero nei guai.» «Già.» Guardai dietro di me, in direzione del possibile sentiero. «Non ci tengo ad arrampicarmi lassù con il buio.» «Neanch'io. Si può fare un volo di quindici metri su quei massi. Specie se si va di fretta.» Eppure secondo il vecchio Knockle in quel punto un tempo c'era stato un sentiero molto battuto. Hester chiamò Harry, gli raccontò del palo e chiese se il corpo di Randy Baumhagen fosse stato conservato. Dovette ricevere una risposta affermativa, visto che gli disse di tenere d'occhio la sede di un'impresa di pompe tunebri. Mi ero completamente dimenticato di chiamare Harry. Un genere di cose che mi dava molto fastidio: significava che tra un avvenimento e l'altro non avevo abbastanza tempo per elaborare le informazioni in modo corretto. «Sono sicuro al novantanove per cento che troveremo Toby in casa» dis-
si, mentre imboccavamo lo sterrato che conduceva alla Villa. «È un tipo piuttosto prevedibile.» «È vero» disse Hester. «Dove altro potrebbe andare? Ricordatene la prossima volta che ci scappa nel bosco.» «Uno a zero per te.» Imboccai il viale che si arrampicava sulla collina. Rallentai, in modo che gli inquilini della Villa non avvertissero il rombo del motore. «Spero solo che la suola delle scarpe di Toby abbia la forma giusta. E non sarebbe male se avesse anche un taglio da qualche parte» dissi, ricordando il sangue sulla zanzariera. Mi ha sempre sorpreso constatare che rapinatori e ladri tendono a tornare a casa. Non ne ho mai incontrato uno che sia partito per una destinazione sconosciuta. I professionisti naturalmente non contano: quelli viaggiano. Perciò ero quasi certo che avremmo trovato Toby alla Villa. Quando accostammo, Huck e Melissa erano in piedi vicino a un falò di foglie, a poca distanza dalla casa. A giudicare dall'assenza dei mucchi che Melissa aveva rastrellato la prima volta che l'avevo vista, il lavoro in giardino stava per finire. Uscimmo dall'auto e le salutai. Non risposero al saluto, ma Huck ci venne incontro, togliendosi i guanti e infilandoli nelle tasche della felpa grigia con il cappuccio. «Non mi aspettavo di vedervi» disse. «Neppure noi» risposi. «Dov'è Toby?» «Toby? Dentro, credo. Un minuto fa era in cucina che mangiava.» «Grazie» disse Hester. Poi rivolta a me: «Vuoi che ti lasci qualche secondo di vantaggio?». «Sì. Conta fino a cinque, poi procedi pure.» Mi diressi a passo svelto sul lato destro della casa, verso la porta posteriore della cucina, da dove Toby era scappato. Huck sembrava confusa e cominciò a seguirmi. Hester puntò dritta verso l'ingresso principale. Mentre le passavo davanti, Melissa mi chiese: «Cosa state facendo?». Una domanda pertinente. Mi portai un dito alle labbra. «Sssst, lo vedrai tra un secondo» dissi. «Rimanete tutt'e due indietro.» Mi piegai in modo da non farmi vedere dall'interno mentre passavo davanti alle finestre del lato sud della casa, quindi estrassi la pistola. Quel gesto fece bloccare Huck e Melissa le si avvicinò. Raggiunsi la porta posteriore proprio nel momento in cui sentii la voce di Hester che diceva: «Toby, sei in arresto!».
La porta sul retro si aprì di colpo, sollevai la pistola all'altezza delle spalle e urlai: «Fermo dove sei, Toby!». Si bloccò di colpo, ma perse l'equilibrio sul terzo gradino e cadde all'indietro, cercò di afferrare la ringhiera, ma non ci riuscì e scivolò verso di me. Accadde tutto in un batter d'occhio. Toby pareva sotto shock. Mi guardò con la bocca aperta e cercò di parlare, ma riuscì solo a emettere un sibilo, mentre i suoi occhi fissavano la canna della pistola. Hester apparve in cima alle scale, anche lei con la pistola in pugno. «Avevi ragione» disse. «Prevedibile.» Indicò Toby con un cenno del capo. «Perquisiscilo, credo che abbia un coltello alla vita, e poi controllagli le mani.» Mi abbassai, lo perquisii velocemente e, dal fodero che teneva sul fianco sinistro, estrassi un coltello pieghevole. Lo infilai in tasca e gli guardai le mani. Aveva dei cerotti sulle tre dita della destra. Bene, bene. Erano multicolori, con i disegnini. «Belli. Come ti sei procurato questi tagli, Toby?» Silenzio. Gli guardai le scarpe, da tennis, come mi aspettavo. «Tira su il piede» dissi. Mi guardò in modo strano, ma obbedì. Lo stesso disegno che avevo trovato nel vialetto. «Inginocchiati,» dissi «poi girati con la faccia rivolta verso le scale e metti le mani sopra la testa.» Lo fece, sempre senza parlare. Infilai la pistola nella fondina ed estrassi le manette dalla tasca posteriore. Dopo avergliele messe, lo afferrai per un braccio e lo feci alzare. «Come ha detto la mia collega, ti dichiaro in arresto» gli annunciai. Parlò per la prima volta. «Per cosa?» «Per furto con scasso». A quel punto, Toby fece una gaffe. «Ma non ho rubato niente» disse. Lo feci voltare. «Hai il diritto di rimanere in silenzio.» «Dev'essere stata quella vecchia strega» disse, continuando a darsi la zappa sui piedi. Il suo avvocato, con tutta probabilità, l'avrebbe definita una "dichiarazione contro il suo interesse". Ma il vecchio Toby, evidentemente, si sentiva obbligato a parlare. Una caratteristica molto apprezzata in un sospettato. Lo portammo direttamente alla mia auto, passando davanti a Huck e a Melissa, attonite, e facendogli prendere posto sul sedile posteriore. «Attento alla testa, Toby» lo avvertii e chiusi la portiera. Hester si avviò verso la veranda, dove si trovavano gli altri quattro inquilini che ci guar-
davano immobili. «E alla fine,» disse Hester sottovoce «ne rimasero quattro.» Mi fece segno di andare verso la parte anteriore della macchina, lontano dalla portata dell'orecchio di Toby. «Non so come dirlo,» fece «quindi è meglio che vada dritta al punto. Sei sicuro che si tratti di furto? Ci stavo pensando un minuto fa, quando ero davanti a Toby in cucina. Il codice non dice che, per commettere un furto, bisogna entrare illegalmente in una proprietà, con "l'intento di commettere un reato, una rapina o un'aggressione"?» Hester aveva ragione, naturalmente. La domanda era: infierire su un cadavere rientrava nel furto con scasso? «Esatto, quindi potremmo aver fatto un arresto illegale» dissi. «Immagino che, comunque, infilare un palo in un cadavere debba essere considerato un reato, ma non so se sia veramente così» commentò lei. «Potrebbe non essere neppure illegale. È possibile persino che nell'Iowa non sia mai successa una cosa simile.» Non mi dispiaceva essere all'avanguardia, ma mi dava molto fastidio dover essere io a esplorare nuovi terreni. A voler essere realisti, però, quante volte poteva essere capitato nell'Iowa un caso simile, prima di allora? Sapevo che era illegale dissotterrare i cadaveri, ma la povera Edie non era stata ancora sepolta. «Sarà un'altra giornata molto lunga» commentai. «Dove lo state portando?» La domanda, fatta ad alta voce, proveniva dalla veranda. Avrebbe potuto essere Melissa, ma quando mi voltai a guardare, non riuscii a distinguerla con esattezza. «In prigione» risposi a voce altrettanto alta. «Ditegli,» disse Kevin «che avvertiremo il suo avvocato.» Non era necessario, a quel punto. Era forse una velata minaccia? «Lo faremo» dissi io; poi entrai in macchina e ce ne andammo. Presi il microfono. «Centrale da Tre.» «Avanti, Tre.» «Avvisa Uno che abbiamo un sospetto in custodia e saremo 10-76 in carcere.» L'avevo promesso a Lamar. «Ricevuto, Tre. Uno ha già chiamato due volte e abbiamo inviato sul posto il tuo assistente con il Settantanove.» Okay, un coroner o un medico legale stava dirigendosi all'impresa di pompe funebri e il capo aveva chiamato due volte, ma... io non avevo un assistente! «Centrale, chi è il mio assistente questa settimana?» Nel momento in cui formulavo la domanda, capii che si riferiva a Borman.
«Otto.» Borman, appunto. Forse l'esame di un cadavere con un palo nel petto l'avrebbe fatto tornare in carreggiata. «10-4, centrale.» Toby restò in silenzio per circa cinquecento metri, tanto che cominciai a preoccuparmi. Scrupolo inutile: la sua voglia di parlare era più forte di qualsiasi cautela. «Doveva essere fatto» disse. «Toby,» lo ammonì Hester «lascia perdere. Ti sono stati letti i tuoi diritti ed è meglio se prima di parlare aspetti il tuo avvocato.» Era vero solo in parte. Certo, ci sarebbe piaciuto che Toby avesse continuato a chiacchierare, ma, se anche avesse detto all'avvocato che aveva rinunciato ai suoi diritti qualsiasi cosa avesse dichiarato e qualsiasi cosa avessimo riscontrato sulla base della sua testimonianza, poteva essere considerata inammissibile e noi avremmo perso il processo. Accadeva così di frequente che evitavamo di porre domande senza la presenza di un avvocato. Inoltre, più scavavo nella memoria, più mi convincevo che le leggi dell'Iowa non contemplavano la mutilazione di cadavere. Toby, bloccato nel suo primo tentativo di illuminarci con i suoi ragionamenti la buttò sul piano filosofico. «Comunque, non fa alcuna differenza» disse dimenandosi. Diedi un'occhiata a Hester, girata a metà per tenerlo d'occhio dal momento che sulle macchine senza contrassegni non c'erano grate divisorie. Lei scrollò la testa quasi impercettibilmente, come a dire "Stai zitto, Carl". Obbedii. Quel silenzio infastidì Toby, che cominciò a battere i piedi contro la parte posteriore del sedile. «Non fa differenza, no? Io non posso fare alcuna differenza. Voi neppure.» Non riusciva a fermarsi. Hester e io, in procinto di apportare una sensibile differenza nella vita di Toby, non dicemmo niente. «Oh, vaffanculo a tutti e due.» Non riuscii a trattenermi. Sorrisi. Lo scalpiccio dei suoi piedi si fece più intenso. «Che cazzo c'è di tanto divertente, sbirro?» Ci provava. Credo che in un certo senso fosse obbligato a farlo. Hester si rivolse a me con ostentazione: «Hai visto? Ormai la maggior parte delle foglie sono cadute». «Proprio così» risposi. «Il flusso turistico rallenterà un po'.»
«Il flusso turistico rallenterà un po'» mi scimmiottò Toby. «Specie,» continuò Hester «se pioverà di nuovo domani, come dicono.» «Siete stupidi o cosa?» Toby si stava arrabbiando e non era quello che volevamo. Senza grata divisoria, se avesse cominciato ad agitarsi, avremmo dovuto fermarci e bloccarlo e avremmo potuto fargli male. Anche lui poteva farne a noi, anche se questa eventualità era decisamente meno probabile. «No» dissi. «Non siamo stupidi, ci interessa poco quello che dici. Tutto qui.» «Ci interessa poco quello che dici» ripeté, facendomi nuovamente il verso. «Ho infilzato quella puttana con un palo e tu mi dici che non ti interessa? Col cazzo che non ti interessa!» Guardai Hester. «Che gentleman, eh?» Cominciavo anche a pensare che fosse drogato. Hester sorrise. Tirò fuori un piccolo registratore e lo tenne in modo che Toby non potesse vederlo. «Abbiamo detto che preferiremmo non ascoltarti, Toby,» disse «finché non sarà presente il tuo avvocato.» «Gli avvocati,» proclamò Toby «non sanno un cazzo.» Il tono della sua voce si stava abbassando. Voleva parlare e non gli importava a chi. Smise di battere i piedi. «Vero,» acconsentii, sorridendo alla prospettiva che molto probabilmente il suo avvocato avrebbe ascoltato il nastro «ma potresti essere fortunato e trovarne uno intelligente.» Ci rifletté per parecchi secondi. «Ne dubito.» Sembrava un po' accigliato. «Ehi, non sono arrabbiato con voi» disse poi. «Davvero.» «Lo sappiamo, Toby» lo tranquillizzai. «Non abbiamo mai pensato che lo fossi.» Cambiò rapidamente umore e atteggiamento. Stava architettando qualcosa. Ne ero sicuro. «È stato un periodo molto duro» continuò. «A volte sembra che gli eventi si accaniscano contro di noi» commentò Hester. «Hai maledettamente ragione. Cosa fai se qualcuno a cui devi obbedire ti ordina di fare qualcosa? Cosa fai?» Si stava di nuovo alterando. «Ve lo dico io» disse. Ci fu una pausa, quindi aggiunse in tono più moderato: «Obbedisci perché è meglio per te, avete capito?». «Dipende da chi è quella persona,» dissi «ma tutti dobbiamo obbedire,
una volta ogni tanto.» «Quando si tratta di Dan Peale, obbedisci.» Meno male che sulla strada non c'erano curve, altrimenti sarei finito nel fosso. Non capita tutti i giorni di ricevere regali del genere. 25 Martedì, 10 ottobre 2000 11.55 La prima cosa che feci quando arrivammo alla prigione fu chiamare il procuratore di contea. Dal momento che Toby aveva voglia di parlare, volevo trattenerlo il più a lungo possibile. La prima conversazione con l'ufficio del procuratore fu molto breve. «Mi dispiace, ma è impegnato con un cliente» disse la sua segretaria. «Darlene, per favore, gli dica che è molto importante. Davvero. Devo parlargli entro cinque minuti, se non prima. È successo qualcosa che deve assolutamente sapere.» Dieci minuti dopo, il procuratore richiamò. «Cosa c'è di tanto importante, Carl?» «Abbiamo bisogno di una ricerca molto rapida» dissi. «Devo sapere di quale reato posso accusare una persona che si è introdotta in un'impresa di pompe funebri e ha infilato un palo nel petto di un cadavere.» Ci fu una pausa. «Stai scherzando?» «No. Ho in custodia il colpevole, ma devo avere un buon capo d'accusa, e molto in fretta.» «Cosa ne dici di furto con scasso?» Mi voltai mentre prendevo uno dei volumi del 1999 e gli chiesi: «Hai il codice sotto mano?». Non avevamo molto tempo. «Certo.» «Bene, aprilo all'articolo 713.1, la norma sul furto con scasso... Ci sei?» «Sì.» Lessi a voce alta la parte che ci interessava: «Chiunque abbia l'intenzione di commettere un reato, un'aggressione o un furto...» «Allora?» «Be', non ha rubato niente e dal momento che non si può aggredire un morto, non fa al caso nostro.» «Diavolo, è vero.» «Insomma, infierire su un cadavere è considerato reato? Dobbiamo sa-
perlo, Mike.» «Sono sicuro di sì.» Lo sentii sfogliare le pagine. «Ecco qua. Articolo 709.18. Abuso su cadavere.» Sfogliai le pagine del mio codice. Diceva: "Una persona commette abuso su un cadavere se compie intenzionalmente un atto sessuale, come definito nella sezione 702.17, con il cadavere di un essere umano. L'abuso su un cadavere di un essere umano è un reato di tipo D". Restammo entrambi in silenzio per un momento. «Non è stato esattamente un reato sessuale, Mike.» Naturalmente andammo entrambi all'articolo 702.17, che dava la definizione di atto sessuale. Tutte le definizioni comprendevano la parola "genitali". Non c'era via d'uscita. Capii che stava cominciando a preoccuparsi anche lui. Tutti gli altri articoli legati a cadaveri di esseri umani avevano a che fare con le autorizzazioni dei direttori delle pompe funebri e dei patologi o con i documenti richiesti quando qualcuno entrava in possesso di un cadavere. Peccato che Edie non fosse stata sepolta, perché se fosse stata riesumata sarebbe stato un reato grave. «Aspetta, Carl... Un attimo...» «Mike, temo sia inutile.» «Aspetta, controlliamo il 716, l'atto criminale...» Lo facemmo. L'atto criminale prevedeva un danno ai "beni materiali". «Non credo che un cadavere sia un "bene materiale", Carl. Comunque, darò un'occhiata.» «Già.» Voltai pagina. «Trovato. Vai al 716, violazione di proprietà. Mi sembra adatto.» L'articolo 716 era molto specifico: "Introdursi in una proprietà senza avere ottenuto il permesso da parte del proprietario, del locatario o della persona che ne detiene il possesso legale, con l'intenzione di commettere un reato, di utilizzare o di rimuovere, alterare, danneggiare, aggredire o collocare all'interno o al di sopra una qualsiasi cosa animata o inanimata". Edie era senza dubbio "inanimata". Ed era stata sia "alterata" sia "danneggiata". Da qualcosa che era stato "collocato", visto che le era stato piantato nel petto. Sfortunatamente, però, la violazione di proprietà era un reato minore. Ciò significava una multa da cento dollari, al massimo. Mentre il furto con scasso è un reato grave. Fu proprio in quel momento che Mike ebbe un'illuminazione. «Aspetta ancora un attimo, Carl... guarda sotto l'articolo che definisce il
"reato passionale", il 716.8. Vedi? Dice che se c'è l'intenzione di commettere un reato passionale, il crimine diventa automaticamente un illecito grave.» Accidenti. Una multa di cinquecento dollari. Non eravamo arrivati dove avrei voluto, ma almeno avevamo fatto dei progressi. «Per il momento puoi trattenerlo con questo capo d'accusa» concluse. Per il momento. Cosa credeva? Che Toby avrebbe commesso qualche altro reato grave mentre era in cella? Un illecito grave l'avrebbe trattenuto giusto il tempo di compilare i documenti, se eravamo fortunati. Inoltre, se la cauzione fosse stata ridotta, come avveniva di solito, al dieci per cento dell'ammenda, Toby sarebbe uscito con un deposito di cinquanta dollari. Perfetto. Tornai da Hester, che stava facendo da baby-sitter a Toby nel mio ufficio. «A che punto siamo con l'avvocato?» chiesi. «Ha chiamato Junkel, che sta arrivando. Voleva sapere di cosa è stato accusato.» «E poi?» «Gli ho detto che le accuse dovevano ancora essere stabilite.» Guardò Toby, che stava ascoltando attentamente. «Ha detto a Toby di non parlare con noi del caso fino al suo arrivo.» L'avrebbe detto qualsiasi buon avvocato. Ma Toby, sfortunatamente, voleva soltanto parlare, di tutto quello che gli veniva in mente. Parlare, parlare e parlare. E sbattere i piedi. Aveva un aspetto piuttosto scarmigliato: i capelli gli ricadevano su un occhio e lui, dato che aveva le manette ai polsi, continuava ad agitare la testa per buttarseli indietro. Pensavo alla metamfetamina e all'ecstasy, ma evitai l'argomento: se l'avessi accusato di essere drogato il suo avvocato avrebbe potuto utilizzare la cosa per sminuire l'importanza delle sue affermazioni. «Comunque non si può fare nulla» disse Toby. Quando hai a che fare con qualcuno sotto effetto di droga, gli devi prestare attenzione, altrimenti si arrabbia e qualche volta diventa violento. Non è difficile, perché parlerebbero di tutto. «Non ne sono sicuro, però spesso...» dissi cercando di cambiare discorso, ma lui mi interruppe. «Molto spesso. C'è questa legge della fisica, chiamata "il Principio d'incertezza", secondo cui nessuno può sapere niente per certo. Mai. Nossignore, non si può, ed è stato anche provato scientificamente.»
Dio mio, era davvero fatto. «Vuoi dire il Principio d'incertezza di Heisenberg?» buttai li, mentre mi domandavo come mi sarei comportato all'arrivo dell'avvocato Junkel. «Ooooh, allora sai leggere» disse. «Credo che lo zio Werner facesse riferimento alle particelle subatomiche che possono essere influenzate dall'impatto di un fotone» dissi. «Zio? Era tuo zio?» A giudicare dal tono della sua voce, sembrava sorpreso. Evidentemente gli era più facile credere che io fossi imparentato con il famoso fisico piuttosto che avessi letto qualcosa al riguardo. «È un modo di dire, Toby» dissi. «Solo un modo di dire.» Restai serio, ma non fu facile. Mentre il nostro detenuto parlottava da solo, raccontai a Hester della conversazione con il procuratore della contea. «Lo immaginavo» disse. «Cazzo.» «Oooh, signorina» disse Toby. «Che parolaccia.» «Non mi scocciare, ragazzo» replicò Hester. Lui continuò a ridacchiare tra sé e ci lasciò in pace per qualche secondo. «Credi sia meglio far venire il procuratore di contea per Junkel, nell'eventualità che ci lasci interrogare Toby in sua presenza?» Hester scosse il capo. «A questo punto non serve.» Toby cominciò a cantare a bassa voce, in quello che evidentemente riteneva essere un accento inglese. «Conoscete Dan Peale dalla bianca dentatura? Dorme di giorno ed esce di notte, I suoi poteri ultraterreni ai mortali fan paura, Finché nella sua bara torna al mattino.» Hester e io ci guardammo. La cantò di nuovo, con voce trillante, battendo il tempo con il piede. Poi si interruppe e ci guardò. «Mi ucciderà perché ho già fallito due volte. Non esiste una terza possibilità, non con il vecchio Dan Peale.» Il suo sguardo guizzava da una parte all'altra della stanza. «Nella cripta mi ha detto di ucciderla e io non ci sono riuscito. Mi ha detto di assicurarmi che restasse morta e non ci sono riuscito. Adesso mi ucciderà, perché ho fallito due volte.» Parlava con calma. «Plonk, plonk, plonk» si mise a dire come quando era fuggito nel bosco. «È nato nel 1604 a Londra, nella maledetta Inghilterra, e non morirà mai.»
Era spaventoso. Guardai Hester e mormorai: «Cripta?». Lei annuì mentre diceva: «Va tutto bene, Toby. Non ti preoccupare. Aspetta l'arrivo del tuo avvocato. In silenzio». Evidentemente stava continuando a registrare. «Non è il mio avvocato, ma il loro» disse, d'un tratto furioso. «Mi salverà, va bene, ma mi salverà solo per loro.» Guardò Hester, con aria implorante. «Non gli permetta di uccidermi, signora, la prego.» «Ora stai esagerando» dissi. «Aspetta l'avvocato Junkel.» «Vorrei non esistere.» «Già. Senti, perché l'altra sera hai provato a fuggire? Sono solo curioso, non voglio accusarti di niente.» Ero davvero interessato a scoprire il motivo della sua fuga e non c'era niente che un avvocato potesse obiettare per una domanda del genere. Ridacchiò. «Be', ho dimenticato di chiudere a chiave quella porta del cazzo, no?» «Sì, non sei stato abbastanza veloce» dissi. «Ma perché scappavi?» Rise di nuovo. «Ha vinto Toby» disse. «Sì!» Provai un'altra strada. «E chi sono questi "loro" di cui parli?» Anche se cercai di apparire indifferente, nel tono della mia voce c'era una punta di aspettativa. Ma in fondo era una domanda plausibile. Scoprire chi avrebbe potuto uccidere Toby era anche nel suo interesse. Mi guardò per un istante, improvvisamente calmo. Lucido. «Ci sono vampiri in tutto il mondo» disse. «Ecco chi sono "loro".» Stava mentendo di nuovo. «Mi riferivo ai "loro" rappresentati da Junkel.» Tutti noi conoscevamo almeno uno di quei famosi clienti. Mi aspettavo pronunciasse il nome di Jessica Hunley. «L'azienda America» disse invece, guardandomi dritto negli occhi. «Non posso aiutarti se non mi dici la verità» dissi nella pur lieve speranza che lo facesse. A un tratto tirò indietro la testa, socchiuse gli occhi e cominciò a respirare più in fretta. Di nuovo la droga. «Sei tu» disse, rivolgendosi a me. «Sei tu la ragione. Ti ho sentito dire che Edie parlava di noi. Così mi sono dovuto assicurare che restasse morta per sempre.» Fui preso in contropiede: non mi ricordavo di aver detto nulla di simile. Poi mi venne in mente che, quando avevo parlato dell'autopsia, mi ero e-
spresso in quei termini. Prima che riuscissi a replicare, Toby disse: «Anch'io ho fatto un casino. Avrei dovuto infilzarla nel cuore, quindi tagliarle la testa e bruciarla. Questo è quello che si dovrebbe fare e io...» cominciò a piangere «...non sono riuscito a farlo. Io amavo Edie!» Hester mi lanciò uno sguardo interrogativo. «Dove pensi possa essere la "cripta"? Nel seminterrato?» le domandai sottovoce. «Credo di sì» sussurrò lei a sua volta. «Ma laggiù non abbiamo trovato tracce di sangue...» «Ha detto che non poteva ucciderla in quel posto» disse Hester fissando Toby. «Forse...» Certo, Carl. Stai attento. «Ah» dissi, picchiettandomi la tempia con un dito. «Grazie.» «Mi ha chiamato e mi ha detto che sarei stato forte» disse Toby. Lo guardammo entrambi. «Mi ha detto che sarei stato forte come lui. Ed è stato così, cazzo. Ho dato un colpo con il palo una volta sola e si è infilato dritto nel petto.» Aveva smesso di piangere, ma gli colava il naso. Sorrideva, un sorriso maligno. «Liscio come l'olio. Un colpo ben dato ed è fatta. Aveva ragione.» Poi un velo di preoccupazione gli attraversò il viso. «Ma non sono riuscito a staccarle la testa. Sono stato... debole.» Fece una smorfia, ricominciò a piangere e parlò di nuovo di sé in terza persona. «Toby è un fallimento. Però almeno ci prova!» Hester spinse verso di me un pezzo di carta, su cui aveva scritto alcune parole. «Meglio ricoverarlo?» Annuii. «La prima volta che l'abbiamo uccisa, lei sapeva cosa stavamo per fare e mi ha chiesto aiuto» disse, e questa volta il pianto si fece quasi isterico. Si alzò e andò dritto verso Hester, che si fece da parte. Mentre mi avvicinavo a lui, inciampò sulla gamba della sedia e cadde a faccia in giù sulla moquette emettendo un rumore sordo. «Aiutatemi!» piagnucolò rimanendo a faccia in giù sul tappeto grigioverde. «La prima volta che l'hanno uccisa?» mormorai a Hester, che aveva gli occhi spalancati e annuì. «Dov'eravate la prima volta?» Non avrei voluto essere così diretto, ma dovevamo scoprire il luogo del delitto. Smise di piangere all'istante e girò la testa per guardarmi. «Non te lo dirò mai, amico. Mai. Deve rimanere tra me, lei e Dan.» Ne era valsa la pena, pensai. Anche se forse era una testimonianza che
non avremmo potuto usare, almeno non contro di lui. Presi il telefono e composi il numero della centrale operativa, mentre Hester si inginocchiava accanto al ragazzo. «Sono Houseman. Abbiamo bisogno di un'ambulanza per trasferire un soggetto al Maitland Hospital.» «È un 10-33?» «No, ma prima arriva meglio è.» Stronzate. Una volta ricoverato in ospedale, probabilmente gli avrebbero diagnosticato un episodio di psicosi, o qualcosa del genere. L'udienza per il frasferimento al Mental Health Institute di Indipendence sarebbe durata un paio d'ore. Poi uno di noi avrebbe dovuto portarlo per ottanta chilometri al reparto psichiatrico, oppure viaggiare con lui in ambulanza. Il consiglio direttivo avrebbe imprecato, poiché, dal momento che era in custodia, il pagamento delle spese sarebbe stato a carico della Nation County e avremmo dovuto impiegare un poliziotto che lo tenesse d'occhio laggiù, o mandare uno dei nostri. Erano quei maledetti particolari a complicare le cose. Ma dovevamo farlo. Non che fossi particolarmente altruista. Il fatto era che avevamo bisogno di un referto medico che attestasse che Toby era sotto l'effetto della metamfetamina, dell'ecstasy o di entrambe le sostanze, ma che non era pazzo. Non doveva in nessun modo saltar fuori che era pazzo. Lo aiutammo a sedersi. Fisicamente sembrava a posto. Hester prese un fazzolettino bagnato e gli asciugò la faccia, pulendo le lacrime, il muco e la saliva. Sembrava che andasse un po' meglio. Immaginai che l'ambulanza avrebbe impiegato una quindicina di minuti ad arrivare. E, naturalmente, l'avvocato Junkel scelse quel momento per entrare. «Cosa sta succedendo qui?» chiese con una voce acuta, da aula di tribunale. Non dovetti neppure voltarmi per sapere che si trattava di lui. «Buongiorno.» «Cosa avete fatto al mio cliente?» «A dire il vero, pochissimo.» Mi strinsi nelle spalle. «Lo abbiamo semplicemente arrestato» gli spiegai. «Come stai, figliolo?» chiese l'avvocato. «Toby sta di merda» rispose lui. «E la ringrazia per averglielo chiesto.» Junkel mi guardò. «Ditemi cosa sta succedendo.» «Abbiamo arrestato Toby per essersi introdotto illegalmente nell'impresa di pompe funebri di Freiberg e per aver infilato un palo di legno nel petto del cadavere di Edie Younger.» Non capita tutti i giorni di vedere un avvocato stupefatto. Spalancò gli occhi e rimase a bocca aperta. Vedendo il suo sguardo allibito, mi venne
un'ispirazione. «Si tratta di un reato minore, ma se si considera l'aggravante passionale la cauzione ammonta a cinquanta dollari. In contanti.» «Può essere trasferito?» chiese Junkel. Giocai l'asso. «No. Sembra sia un caso di nostra competenza.» Funzionò. Per sfidarmi, Junkel mise mano al portafoglio e tirò fuori una banconota da cinquanta dollari. Perché no? Probabilmente aveva ricevuto una telefonata da Jessica Hunley, che gli aveva versato l'onorario in anticipo. Inoltre la cauzione sarebbe rientrata nelle spese. «Niente affatto» disse. «Ora è sotto la custodia del suo avvocato.» Guardai il denaro, poi di nuovo Junkel. «Suppongo che voglia una ricevuta.» Mi sforzai di sembrare contrariato. Mi guardò di traverso. «È chiaro.» Pensai per circa due secondi di accusare Toby anche per complicità e favoreggiamento di omicidio. Ma attaccarci alle sue dichiarazioni, nelle condizioni in cui si trovava, ci avrebbe portato solo guai. Non avevamo nessuna prova contro di lui e se ci fossimo mossi troppo in fretta avremmo rischiato di rovinare tutto. «Può anche aiutarlo per ciò che riguarda il suo ricovero presso il Mental Health Institute. Abbiamo avviato la pratica. Forse non l'ha notato, ma il suo assistito è sotto l'effetto di droga» dissi. Alla fine arrivò il perito dell'ospedale, diede un'occhiata a Toby e disse a Junkel: «Il suo assistito si è fatto un bel "viaggetto"». Quindi consigliò a Toby un programma di disintossicazione e una consulenza. Tradotto, significava un ricovero coatto di circa tre giorni. Ero molto soddisfatto. «A meno che, naturalmente, il suo assistito non voglia assumersi le proprie responsabilità» disse il perito. Junkel colse al volo l'offerta e Toby fu costretto ad accettare il ricovero. Non era uno sforzo molto grande, dal momento che poteva uscire quando voleva, che gli avrebbero garantito che sarebbe tornato libero dopo tre giorni e che il suo avvocato si sarebbe dovuto occupare di portarlo all'ospedale di Independence, ma per lo meno non avrebbe intaccato le nostre già esigue risorse. Oltre tutto, con quello che avevamo realmente in mano sarebbe stato comunque dentro solo tre giorni. Due ore dopo essere entrato in centrale, Toby se ne stava già andando.
Mentre lo aiutavamo a salire sulla macchina di Junkel, ridacchiava e cominciò a ripetere: «Plonk, plonk» sempre più veloce. «Ma che dice?» chiese Junkel. «Cosa significa?» «Non lo so» dissi. «Forse ha bisogno di qualcosa.» A dire la verità "plonk" è il suono che fa un computer quando viene cancellato un file. Il termine onomatopeico viene utilizzato in Internet per fare riferimento a una persona che si vuole "cancellare". Significa che i suoi corrispondenti hanno comunicato ai propri computer di ignorare automaticamente qualsiasi cosa provenga da quella persona. Il significato, in questo caso, era che Toby si considerava già morto. Non sentii l'urgenza di spiegarlo a Junkel. Toby non era uscito neanche da cinque minuti, quando la centrale operativa mi disse che c'era Lamar al telefono. Chiamava dal salone in cui il ricevimento che seguiva il funerale stava volgendo al termine. «Salve, capo.» «Marteen mi ha fornito tutti i dettagli» disse con pacata lentezza. «Cazzo, Lamar, proprio non volevo che succedesse.» Avrei volentieri ucciso il direttore delle pompe funebri. «Voglio prendere chiunque abbia commesso questa barbarie, Carl. Lo voglio assolutamente.» Era un ottimo momento. «Oh, se è per questo l'abbiamo già catturato. L'abbiamo incriminato e sta andando al Mental Health Institute.» Riflettei un istante e decisi che era meglio dirglielo. «Riteniamo che lo stesso sospetto si trovasse nel luogo dove Edie è stata uccisa. Potrebbe essere un complice. Abbiamo solo la sua testimonianza verbale e quando l'abbiamo registrata era sotto l'effetto di qualche droga. Dice la verità, ma non abbiamo alcuna prova decisiva. Credo che non ci vorrà molto.» «Chi è?» domandò Lamar, dopo un attimo di silenzio. «Toby Gottschalck. C'è dell'altro, ma è meglio aspettare.» «Bene, finché riesci a trattenerlo.» «Quello che devo scoprire, adesso, è dove è stata uccisa. Ci stiamo lavorando.» 26 Martedì, 10 ottobre 2000 12.09
«Se ho capito bene Toby ha ammesso un suo coinvolgimento nell'omicidio» disse Hester. «Esatto. Non abbiamo prove, ma abbiamo la sua dichiarazione.» Non sarebbe stato sufficiente, neppure se fosse stato nel pieno delle proprie facoltà e se l'avesse messo per iscritto. «È vero, ed è sempre meglio di niente.» «Hester, dobbiamo scoprire dov'è stata uccisa Edie. Lì sì che avremmo tracce e prove ovunque.» «Dobbiamo anche trovare Peale. Hai qualche idea in proposito?» «Vorrei parlarne con Jessica Hunley.» «Anch'io. Credi che Toby fosse sotto l'effetto della metamfetamina o dell'ecstasy?» «Direi di entrambe, oltre a un pizzico di psicosi tutta sua. È un peccato. È un ragazzo in gamba, a suo modo.» «Da quello che ci ha detto ho la sensazione che abbia parlato con Peale per telefono, e il sedicente vampiro dev'essere stato molto convincente. Toby era persino convinto di essere diventato più forte» disse Hester. «Già.» Ovviamente, a Toby non era venuto in mente che, dopo l'autopsia, gli organi interni di Edie fossero stati rimossi per essere esaminati. Ecco perché il palo era penetrato facilmente: con ogni probabilità gli era bastato appoggiarlo e premere leggermente. «Ti ricordi,» dissi «che ha detto di aver dato un colpo al palo? Non abbiamo trovato niente. Ma chissà se ha usato qualcosa e dove l'ha messo.» Sarebbe stata una prova. «Se era fatto come poco fa,» disse Hester «potrebbe aver usato la fronte.» Controllai i messaggi in arrivo alla centrale operativa. Ce n'erano tre, tutti dell'operatore che aveva finito il turno alle 9.00. Il primo era da parte della scientifica della DCI: il sangue nella sacca mortuaria rinvenuta nella spazzatura era umano, come ci eravamo immaginati, e dello stesso gruppo di Edie, B negativo. L'informazione era controfirmata dal nostro patologo, il dottor Peters. Non era molto, ma avevamo messo a posto un altro tassello del puzzle. Ora dovevamo aspettare i risultati del test del DNA. Il secondo messaggio era scritto a mano su un foglio di telescrivente: la polizia di Londra confermava che nel loro archivio informatico non c'era alcun Daniel Peale. Il terzo messaggio diceva che aveva telefonato il dottor Peters e che vo-
leva parlarmi non appena fossi rientrato in ufficio. Gli telefonai, ma la sua segretaria mi disse che era in viaggio verso Davenport per eseguire un'autopsia e mi deviò la chiamata sul cellulare. «Dottore, sono il vicesceriffo Houseman, della Nation County.» «Carl! Ti ho chiamato ieri.» «Scusa, siamo molto occupati con questo caso. Hai saputo che qualcuno è entrato di nascosto nell'impresa di pompe funebri e ha infilato un palo di legno nel petto di Edie?» Ci fu un lungo silenzio, tanto che pensai che fosse caduta la comunicazione. «Stai scherzando, vero?» disse alla fine. «Ho paura di no. Il nostro medico legale le ha dato un'occhiata stamattina. E anch'io.» «Mio Dio. Chi è stato?» «Toby. Ti ricordi? Quello un po' pazzo. Siamo quasi certi che fosse presente anche al momento dell'omicidio.» Ancora silenzio. Poi: «Ho capito. Allora quello che ho scoperto potrebbe esservi utile la prossima volta che gli parlate». Cominciò a spiegarmi ciò che aveva fatto. Come normale precauzione, aveva esaminato al microscopio ogni sezione, pezzo e frammento di tessuto della ferita al collo di Edie, soprattutto per accertarsi che le estremità dei frammenti fossero compatibili con l'utilizzo di un oggetto affilato e che la ferita non fosse stata inflitta nella direzione contraria. Ma mentre esaminava i tre segmenti principali della vena giugulare, aveva riscontrato il segno di un ago. Era piccolo, con un taglio sulla parte superiore, ma era sicuramente il segno di una puntura. «Come quello di una siringa o di una flebo.» «Davvero?» «Poi, nei campioni di sangue, ho trovato un certo quantitativo di una sostanza chiamata warfarina. È un anticoagulante e si può trovare nel Coumadin. Non viene prodotta dall'organismo, naturalmente. Deve essere somministrata.» «Davvero?» riuscii solo a ripetere. «Sai quanto odi fare delle ipotesi,» continuò lui «non voglio che seguiate una pista sbagliata per causa mia.» «Hai ragione...» «Ma sono quasi certo che la ferita al collo sia stata inflitta dopo il decesso.»
Restai in silenzio. «E che sia stata inflitta per coprire il buco dell'ago. Non sembra esserci un segno corrispondente sulla pelle. Non abbiamo ancora completato gli esami, ma sono pronto a scommettere che il taglio sia stato fatto direttamente sull'iniezione esterna, per coprirla.» Cazzo. «Con la warfarina, la puntura... insomma, la ragazza sarebbe potuta morire dissanguata molto facilmente. Non troppo rapidamente, ma abbastanza in fretta.» Si interruppe nuovamente e lo sentii mormorare "idioti". Doveva avercela con il traffico. «Ti ricordi quando ti ho detto che durante l'autopsia mi preoccupava il taglio alla trachea? E che non c'era una quantità sufficiente di sangue aspirato? Se la trachea fosse stata tagliata mentre la ragazza era viva, avrebbe aspirato il sangue.» «Ho capito.» «È solo un elemento in più, ma tutto ci dice che le hanno tagliato la gola dopo che era morta e che è stata trasportata nella vasca da bagno sempre dopo la morte, come indicano le piccole macchie di sangue sul pavimento.» Udii dei rumori stradali, quindi disse: «È morta dissanguata. Non ci sono altri segni di ferite o traumi, fatta eccezione per la puntura nella giugulare. La composizione del sangue, per esempio, non indica alcuna asfissia. Nei campioni di tessuti abbiamo riscontrato una quantità molto elevata di epinefrina e norepinefrina. Tutto compatibile con una diminuzione del volume del sangue. Deve aver perso almeno il quaranta per cento del suo sangue, forse addirittura il cinquanta, anche se una parte è stata persa dopo il decesso. Non ho dubbi in proposito.» «Tutto chiaro.» «Carl?» «Sì?» «Carl, utilizzando una flebo, quello sarebbe l'unico punto in cui è stato interrotto il sistema circolatorio. Quindi, molto probabilmente, le ci è voluto un po' prima di morire ed è stata cosciente quasi fino alla fine.» «Ho capito...» «Quando una persona muore dissanguata, dopo un po' diventa irritabile, agitata. Poi tende a diventare aggressiva nei confronti di chi le sta vicino. Forse non si verificano grossi spruzzi di sangue ma, in un secondo momento sono sicuro che deve essersi agitata molto.» «Dopo quanto?»
«Credo che abbia attraversato quella fase almeno quarantacinque minuti prima di morire. Dopodiché, potrebbe essere passata a una fase di sonnolenza. Uno stato inconscio, quasi di shock, capito?» Avevo capito. Succede anche alle vittime degli incidenti. Ma era davvero rimasta cosciente per così tanto tempo? «Dottore, hai detto proprio quarantacinque minuti?» «Proprio così. Ci è voluto un po', credo.» «Allora, non dovrebbero esserci segni provocati da lacci, per esempio?» «Giusto. Oh, e... Carl?» «Sì?» «Avrebbe anche potuto lamentarsi, biascicare. Come certi ubriachi che si mangiano le parole. Potrebbe servirti per la testimonianza di un sospetto.» «Grazie mille.» «Trovalo, Carl.» «Sì. Lo troveremo.» Riferii a Hester la conversazione con il dottore. «Almeno adesso conosciamo qualche altro particolare» disse. «Ti rendi conto? Quarantacinque minuti. Quella ragazza capiva cosa le stava accadendo. Capiva che quella notte sarebbe morta.» Sospirai. «Mi chiedo quanto ci abbia messo a morire.» «Credo un'ora, come minimo.» Mi strinsi nelle spalle. «Tutto questo ci fa ritornare al "dove", giusto? Dove si potrebbe avere a disposizione un'ora di totale isolamento e riservatezza?» Stavamo bevendo un caffè in piedi in cucina. «Dobbiamo parlare con Jessica Hunley» disse Hester, aggiungendo un po' d'acqua fredda nella tazza. Il caffè era troppo caldo e troppo vecchio. «Assolutamente.» Ne bevve un sorso e versò il resto nel lavandino. «Pensi di poter venire anche tu?» Bella domanda. Primo, il nostro budget era limitato. Secondo, eravamo a corto di personale a causa di quella maledetta influenza. Terzo, c'era una stupida complicazione: io ed Hester non potevamo dormire nella stessa stanza. «Lo chiederò a Lamar» risposi. «Non voglio che paghi di tasca tua, però. Dico sul serio.» «Non ti preoccupare.» Mi sedetti al tavolo. «Non lo farò.» «La frase di Toby "Quando l'abbiamo uccisa la prima volta" mi ha fatto venire i brividi, Carl, e non in senso metaforico.»
«Anche a me. E perdipiù lei ha chiesto aiuto.» Scossi la testa. «Quello stronzo era lì ed Edie chiedeva aiuto. Doveva aver capito che stava per morire, no?» Hester annuì. «Chi altri poteva esserci?» «Di quelli che conosciamo, mi vengono in mente Hanna, Melissa e Kevin.» Hester prese distrattamente un tovagliolo di carta e asciugò una piccola macchia di caffè caduta sul tavolo. Non mi piaceva chiederlo ma... «E cosa mi dici di Huck? Pensi che ci fosse anche lei?» Hester scosse la testa. «No. Ma sa chi è stato, sono pronta a scommetterci.» Chiamai Lamar e gli parlai della mia idea di un viaggio a Lake Geneva. Dalla voce mi sembrava d'accordo, ma gli ci sarebbe voluto un po' di tempo per darmi una risposta ufficiale. Chiamai anche Harry. Volevo che mi mettesse in contatto con la polizia di Lake Geneva, ma mi disse che sarebbe venuto con noi, dal momento che pensava stessimo dando la caccia allo stesso sospetto. Era una notizia magnifica. Hester e io decidemmo di non chiamare Jessica Hunley per prendere un appuntamento. Fummo entrambi d'accordo che l'elemento sorpresa, o almeno imprevisto, potesse essere fondamentale. Dovevamo solo far chiamare i poliziotti locali da Harry per assicurarci che la donna fosse in città. Al contrario, volevamo che alla Villa fossero informati del nostro arrivo. Lasciammo istruzioni alla centrale: avremmo inviato un 10-21 via radio e a quel punto avrebbero chiamato la Villa. «Comportatevi come se fosse un codice 61» dissi. «Limitate le comunicazioni.» Circa trenta minuti più tardi avevamo già percorso l'intero viale che conduceva alla Villa e riuscivamo a vedere la porta d'ingresso, sopra la cresta della collina. Ci fermammo. Eravamo distanti un centinaio di metri e dalla casa le uniche cose visibili di noi erano l'estremità del tetto della nostra auto e circa i due terzi del parabrezza. Presi il microfono. «Centrale da Tre...» «Tre?» «10-21.» Sapeva cosa intendevo. «Ricevuto. Stai in linea Tre...» Alcuni secondi più tardi, dopo aver comunicato alla Villa che Hester e io saremmo arrivati entro qualche minuto, l'operatrice tornò al microfono.
«Tre, 10-69, hanno detto che vi aspettano.» «10-4.» Era stato semplice. Non ci restava che aspettare, per vedere se qualcuno avrebbe fatto qualcosa di strano o sospetto, come cercare di andarsene. Non riuscivamo a vedere l'entrata posteriore, ma i tentativi relativamente sfortunati delle persone che avevano provato a scappare da quella parte avrebbero dovuto costituire un buon deterrente. Almeno per i comuni mortali. Aspettammo un paio di minuti. «Sono ancora molto fiduciosi, eh?» disse Hester abbandonandosi sul sedile. «Sembra proprio di sì.» «Allora andiamo a vedere se possiamo far loro cambiare idea.» 27 Martedì 10 ottobre 2000 15.17 Mentre ci accingevamo a scendere dall'auto, Kevin uscì sulla porta. Ottimo. «Cosa volete?» Diretto al punto. Incoraggiante. «Vogliamo parlarvi di Toby, spiegarvi dove si trova e che cosa gli sta succedendo.» «Non poteva chiamarci lui?» «Non ancora» dissi. A quel punto, Hester e io eravamo già arrivati davanti al portone. «Possiamo entrare?» Esitò. Meglio ancora. Poi disse: «Certo. Perché no?». Si tirò indietro e tenne la porta aperta. Ci raggiunse Huck, che stava scendendo le scale. «Buongiorno» disse. Vidi Melissa in cucina, di schiena, impegnata in qualche faccenda domestica. Si voltò quando ci sentì entrare nel salotto, si asciugò le mani con uno strofinaccio e ci venne incontro. Non sembrava particolarmente felice di vederci. «Possiamo offrirvi qualcosa? Un caffè?» chiese Huck. «Certo.» Non lo rifiuto quasi mai.
Le due ragazze si incrociarono. «Ciao, Melissa. Come ti senti?» dissi. Mi guardò nel modo in cui di solito le ragazze guardano i genitori, quando sanno di averli fatti arrabbiare e si mettono sulla difensiva. «Bene.» Eravamo tutti in piedi: ci avevano lasciato entrare in casa, ma non eravamo i benvenuti. Comprensibile, ma anche imbarazzante. «Possiamo sederci?» Dal momento che ci avevano offerto il caffè... «Certo» rispose Melissa. Dalla stanza della musica si udiva una voce di donna che cantava una vecchia canzone in una lingua straniera. Era vagamente familiare, ma non la riconobbi. «Sta cantando in francese?» chiesi per prendere tempo, in attesa che arrivasse Huck con il caffè. Melissa alzò gli occhi al cielo. «È Edith Piaf.» «Oh, certo. Accidenti, ragazzi, da quanto non la sento.» Silenzio. «Iowa City, dormitorio. Intorno al '64.» Sorrisi. «Tanto tempo fa.» Huck tornò con il caffè, in tempo per cogliere la maggior parte della conversazione. Mi fece un sorriso genuino, seppur appena accennato. «Allora, siete qui per parlarci di Toby?» chiese Kevin, sarcastico come sempre. «Tutti voi sapete che questa mattina lo abbiamo arrestato» cominciai. Silenzio, interrotto dal rumore di passi sulla scala principale. Sbucò Hanna da dietro l'angolo. «Oh!» Melissa le spiegò il motivo della nostra visita e lei rimase immobile sulla porta. «Sapete perché l'abbiamo arrestato?» proseguii. «Avete detto che ha commesso una violazione di domicilio» disse Melissa. «È tutto quello che sappiamo, a parte il fatto che gli avete puntato addosso la pistola e l'avete spaventato a morte. Credo che non fosse necessario.» «Be',» dissi «ieri sera Toby è entrato nell'impresa di pompe funebri e ha infilato un palo di legno nel petto di Edie.» La notizia colpì la maggior parte di loro. Era ciò che volevo. Hanna disse qualcosa tipo: «Oh, mio Dio, perché l'ha fatto?» e si accasciò su una piccola panca all'ingresso della stanza. Huck sembrava attonita, Melissa si sedette sulla poltrona e disse che quel gesto spiegava come mai
la bara fosse chiusa durante il funerale. Kevin non ebbe alcuna reazione visibile. «Perché accusate Toby?» chiese Melissa. «Non avrebbe mai potuto fare una cosa del genere.» Sollevai una mano. «Abbiamo dei testimoni. È stato visto. Aveva dei tagli sulle dita, causati da una zanzariera rotta. Il disegno della suola delle sue scarpe corrisponde alle impronte trovate fuori dalla finestra. E,» terminai «è stato lui a dircelo. Spontaneamente.» «Non ci posso credere» disse Melissa, con il tono di chi non voleva farlo. «È così, così... disgustoso.» «Perché non la lasciano in pace?» esclamò Hanna, un commento molto più appropriato. «Lo sapevate già ieri sera?» chiese Huck. «Quando ci siamo parlati?» Scossi la testa; ma fu Hester a rispondere: «Non era ancora successo». «Comunque,» dissi «vorremmo parlare alcuni minuti con ognuno di voi, se siete d'accordo.» «Di cosa?» chiese Kevin. «Del caso, in generale.» «Credo che adesso me ne andrò, se non vi dispiace» disse Kevin, con calma. «È meglio che tu stia qui» lo ammonii. «Abbiamo delle cose interessanti di cui parlare.» «Davvero?» Lo disse con quel suo solito tono cinico, ma restò. Il nostro pesce stava esaminando l'esca. «Credo proprio di sì. Come vi dicevo, abbiamo arrestato Toby e adesso sapete tutti perché. Quando lo abbiamo preso, era anche pesantemente drogato e in questo momento è diretto verso il Mental Health Institute di Independence, per la disintossicazione.» Restarono tutti di sasso. «Mi dispiace per lui» commentò Huck. «Credetemi, più si diventa vecchi, più è difficile.» Melissa e Hanna annuirono. Kevin restò immobile, cercando di estraniarsi il più possibile. «Io non ci sono andata per disintossicarmi,» disse Hanna «ma perché ero troppo "ribelle" e "incontrollabile". Almeno secondo i miei genitori.» «Eravamo ricoverate nello stesso periodo» spiegò Melissa. «Al quarto piano, quello in cui mandano i ragazzi matti.» Era interessante scoprire che tutti erano legati da un'altra esperienza co-
mune. Melissa parlò, scimmiottando una voce suadente. «Prendi la tua Torazina, cara, fai la brava bambina e la mamma ti vorrà più bene.» «Ma nella depressione io ho trovato la felicità» intervenne Hanna. Le altre due annuirono. Huck scoppiò a ridere: «Da maniaco-depressa a depressa e basta il passo è notevole». «Be', almeno,» disse Melissa «Toby tornerà fra tre giorni. Sarà fuori dopo settantadue ore, il solito giochino della disintossicazione.» Stava cominciando una conversazione tra i differenti componenti del gruppo, ma ci stavano allontanando dall'argomento principale ed ebbi il sospetto che fosse Melissa a orchestrare la cosa. «Mi dispiace interrompervi,» dissi «ma potremmo tornare al punto?» «Se ci dice qual è,» rispose Melissa «lo faremo con piacere.» Era il momento più importante. «Va bene. Cosa ne dite di questo? Toby era con Dan quando Edie è stata uccisa.» Bevvi un sorso di caffè per dar loro l'impressione di avere il controllo della situazione e il rumore che feci quando posai la tazza sembrò risuonare in tutta la casa. Melissa ruppe il silenzio, «Non può essere vero.» «Perché no?» intervenne Hester. «Toby non ce l'avrebbe mai fatta. Andava dietro a Edie come un cucciolo.» «È vero» aggiunse Hanna. «Non stavano insieme, ma credo che lui ne fosse perdutamente innamorato.» «Comunque è stato un incidente» disse Kevin, come se non volesse dare peso alla cosa. «Nessuno voleva ucciderla.» Tutti gli sguardi erano puntati su di lui. «Sapete,» disse rivolgendosi a Melissa e Huck più che a noi «parlo di Dan e di quella storia dei ferormoni. Ha fatto un casino, tutto qui.» Kevin si guardò intorno e allargò le braccia, i palmi verso l'alto. «Non capisco tutta questa agitazione, è stato solo un incidente.» Stava funzionando. «Come fai a saperlo?» Lo guardai dritto negli occhi. «Come lo sai?» ripetei. Tranquillo. Sempre molto tranquillo. «Me l'ha detto Toby.» «Davvero? Quando?» Si strinse nelle spalle. «Quella mattina.»
«Cosa ti ha detto?» domandò Hester. «Mi ha detto che era stato un errore. Ecco cosa mi ha detto.» «Vorresti spiegarti un po' meglio?» insisté Hester. «Senta, signora poliziotto, è tutto quello che so. Erano le tre e mezza del mattino, Toby è entrato in camera e mi ha detto che Edie aveva un problema. Voleva che l'aiutassi a portarla nella sua stanza.» «E poi?» «Gli ho detto di andare a farsi fottere, che il giorno dopo avrei dovuto lavorare e che potevo dormire solo un'altra ora. Così se n'è andato.» «Ti ha spiegato cosa le era successo?» chiesi. «No. Ha detto solo: "È successo un incidente. Questa volta Dan ha fatto un gran casino". Questo è quanto ricordo. Ripeto, ero mezzo addormentato.» «Ti ha detto dove si trovava Edie?» «No. Come ho già spiegato, lui era di fretta e io ero molto incazzato. Non abbiamo discusso dell'argomento, mi ha solamente svegliato.» «Come ti sembrava quando è entrato nella tua stanza?» chiese Hester. «Si comportava in maniera insolita?» «Come potevo saperlo? Era buio e lui aveva solo una torcia elettrica.» «Quindi se n'è andato via e basta?» «Sentite, mi ricordo che piagnucolava, come un bambino scemo. Ma sì, se n'è andato e io mi sono riaddormentato.» «Quando hai scoperto che Edie era morta?» domandai. «Quando hanno chiamato me e Huck al lavoro.» «Allora,» chiese Hester «quand'è che Toby ti avrebbe detto che era stato commesso un "errore"?» «Quando siamo tornati.» «Non al telefono?» «Toby ha parlato con me» intervenne Huck. «Sono stata io a dire a Kevin che Edie era morta.» Lo guardò dritto negli occhi. «Non mi hai mai detto che Toby era venuto da te quella notte.» «Perché tu non c'entri» rispose lui con semplicità. Huck restò senza parole. «E chi altro dovrebbe entrarci?» intervenne Hester. Kevin sorrise in modo enigmatico. «Dipende.» «Va bene, torniamo a noi.» Quell'atteggiamento cominciava a farmi innervosire. «Allora, raccontami cosa ti ha detto Toby.» Funzionò meglio di quanto avessi sperato.
«Mi ha detto solo che Dan, lui ed Edie erano insieme e che Dan voleva provare un'esperienza di cui parlava sempre, che Toby ed Edie avevano accettato e che poi Edie si era infuriata con loro e da quel momento in avanti le cose erano degenerate.» Almeno era stato conciso. «E dove ha detto che stava accadendo tutto ciò?» Kevin sospirò, esasperato: «Gliel'ho detto, Toby non me ne ha parlato». Naturalmente mentiva. Era persino troppo evidente. Dopodiché tutti si adoperarono per spiegarci cosa facesse Dan per divertirsi. Dal momento che, a quanto diceva, Dan Peale credeva di essere in grado di provare le medesime emozioni di un'altra persona mentre ne ingeriva il sangue, aveva messo in pratica la sua teoria, stabilendo come primo obiettivo il piacere. Diceva che era in grado di sperimentare insieme a Edie, l'euforia dell'orgasmo femminile. Visto che, con ogni probabilità, sia lui sia Edie si facevano di metamfetamina o di ecstasy, è facile immaginare il resto. Come succede sempre, le cose erano degenerate in sperimentazioni sempre più estreme. A un certo punto, Dan era giunto a credere che il sangue che giungeva direttamente dal cervello contenesse ferormoni più puri, non diluiti oltre a endorfine e quant'altro. Si era procurato degli aghi e per quanto ne sapevano i ragazzi, aveva fatto la sua prima puntura giugulare nel giugno del 2000. «Con me» disse Hanna. «Ero un po' fuori di testa, e la puntura mi fa ancora un male cane. È stata l'esperienza più spaventosa che abbia mai provato. Non gli ho più lasciato fare una cosa simile. Mai più.» «E perché gliel'hai lasciato fare la prima volta?» chiese Hester. Hanna ci pensò un attimo. «Perché Dan mi spaventa a morte» rispose, non senza una nota di ironia. Ma, a quanto pareva, a Dan non era bastato sperimentare solo piacere. «Il passo successivo,» mormorò Melissa «è stata la paura, o meglio il terrore allo stato puro.» Sollevò lo sguardo. «È successo a me, nel mese di agosto.» Scosse la testa. «Rimani completamente paralizzata. Intendo quando hai quella cosa infilata nel collo. Mi ha legato le mani, anche se non ne avrebbe avuto bisogno. Mi ha detto: "Se ti muovi, puoi ucciderti". Non scherzava.» Fremette e si passò due dita sulla parte destra del collo. «Prima mi ha detto di aver fatto un buco molto piccolo e che non ci sarebbero stati problemi. Poi, dopo che aveva infilato l'ago, mi ha detto che mi
aveva mentito. Avevo un ago piantato nel collo e quello stronzo mi diceva che avrei potuto morire dissanguata e che il buco era più grande. Poi, ha cominciato a fare gesti improvvisi. Batteva le mani. Urlava. Per spaventarmi. Cazzo.» Melissa sembrò riacquistare fiducia in sé. «Ma ce l'ho fatta, no? Dopo tutto, non ha usato un ago troppo grande. Più tardi mi ha detto che gli dispiaceva moltissimo. Non sapevo se odiarlo di più per quello che aveva fatto o per avermi mentito. Però, non mi ha fatto molto male» aggiunse in fretta. Non riuscivo a capire come Dan riuscisse a convincere tutti a fare quelle cose. Ma non era il momento per affrontare l'argomento. «Visto?» disse Kevin. «Dev'essere quello che è successo a Edie. Un incidente.» Ma doveva esserci qualcos'altro. E infatti, mettendo Kevin un po' sotto pressione scoprimmo che Toby aveva raccontato a Kevin che lui, Edie e Dan Peale stavano avendo un rapporto sessuale a tre e che sia lui sia Edie erano rimasti sorpresi quando era saltato fuori il discorso del sangue. Non si aspettavano molto più di un po' di sesso pesante. «Allora,» chiesi «non giocava sempre con il sangue?» «No» rispose Huck. «Non così» aggiunse Melissa. «Alcune volte soltanto. E in genere si capiva fin dall'inizio dove voleva arrivare.» «Edie non voleva farlo,» disse Kevin «così Dan la fece tener ferma da Toby.» «Aspetta un secondo» dissi. «Se Toby era innamorato di Edie, perché avrebbe dovuto obbedire?» Ci fu una pausa abbastanza lunga da farmi pensare di essermi perso qualcosa di ovvio. Alla fine fu Huck a parlare. «Aiutava Dan,» disse «perché Edie gli permetteva di fare sesso con lei solo quando era presente anche Dan.» Mi ci volle un secondo per digerire l'informazione. «Ho capito.» «Visto?» ribadì Kevin. «Toby non l'avrebbe mai aiutato a ucciderla. Come le ho già detto, è stato un incidente.» Fu sempre Huck a giocare l'ultima carta. «No, non è stato un incidente.» Huck appoggiò il mento sulle mani e si rivolse a me. «So per certo che le volte con Hanna e Melissa erano "voli di prova", come li chiamava lui.» Bloccò sul nascere la mia domanda, dicendo: «Dan mi ha raccontato quali erano i suoi progetti e mi ha detto che sa-
rei morta se l'avessi spifferato agli altri». Incrociò le braccia sul petto, in un gesto di sfida. Respirò profondamente e poi disse tutto d'un fiato: «Voleva sperimentare la morte per interposta persona. Ma per farlo nel modo giusto, il donatore doveva sapere che sarebbe morto, perciò avrebbe dovuto ucciderlo». 28 Martedì 10 ottobre 2000 17.40 «Assolutamente splendido, Huck» commentò Kevin. «Hai proprio voglia di morire?» «Hai un posto sicuro dove andare?» chiesi a Huck. Si strinse nelle spalle. «Forse. Però starò qui. Non credo che Dan tornerà.» Inarcai le sopracciglia con fare perplesso. «Ne sei sicura?» «Vi farò sapere. Comunque, grazie per avermelo chiesto.» «Prego.» Huck si limitò ad annuire. A quel punto avremmo dovuto esaminare un mare di informazioni, ma eravamo ansiosi di andare a Lake Geneva per interrogare Jessica Hunley. Hester e io ci consultammo, quindi telefonai in centrale per farmi mandare Borman e Sally. Entrambi conoscevano i testimoni ed erano in grado di proseguire il nostro lavoro. Quando riattaccai, Hester chiamò il suo capo per farsi assegnare un altro agente, che fosse in grado di partire subito per incontrarsi con noi. Avremmo cominciato tardi, ma parlare con Jessica Hunley era importante e non potevamo aspettare. Continuammo i colloqui, per proseguire la raccolta di informazioni. Cominciai a sospettare che, per quanto i ragazzi volessero coprire Dan, la sua assenza stava cominciando a rendere labile il legame che aveva instaurato con loro. A un certo punto Melissa chiese: «Perché non andate a parlare con Jessica?». Sembrava soddisfatta della sua domanda e ciò mi mise in allarme. «Al momento,» dissi «Jessica è fuori dalla nostra giurisdizione.» Tecnicamente corretto. Lo dissi con noncuranza, per rendere la mia affermazio-
ne più credibile. «Oh... davvero?» «Proprio così. Ora, come vi stavo dicendo...» Presi nota mentalmente di non svelare i nostri piani agli agenti che ci avrebbero sostituito. Così non avrebbero rischiato di rovinare tutto. Sally e Borman arrivarono poco dopo la mia chiamata. Li aggiornai sulle novità. Sally era un po' agitata. «Parli sul serio? L'ha uccisa lentamente, così ha potuto bere il suo sangue e vivere la sua morte? Mio Dio, sembra una puntata di Dark Shadows.» A Sally piacevano le soap opera. «Sì. È esattamente quello che ha fatto.» «Cristo santo» disse Borman. «Quel tipo è un demonio.» «Già, molto cattivo davvero. Comunque, voi dovrete farvi rilasciare delle dichiarazioni e prendere appunti. Sta per arrivare un altro agente della DCI e chiunque altro si unirà a voi vi aiuterà nel lavoro di controllo.» «E voi cosa farete nel frattempo?» domandò. «Dobbiamo seguire una pista e dobbiamo agire subito.» Era la verità. «Siete in cerca di qualcosa in particolare?» Era un bene che Borman ponesse domande così vaghe: avremmo potuto fornire risposte altrettanto vaghe, senza sembrare elusivi. «Cerchiamo delle informazioni. Punto e basta.» Cambiai argomento. «Voglio che voi due enfatizziate il fatto che Peale possa ritornare. Non voglio in nessun modo che questa gente corra dei pericoli. È una loro scelta,» spiegai «ma se pensate di poterli convincere ad andare in un posto più sicuro, fatelo. Soprattutto Huck.» «Dove?» «Se lo sapessi, Sally, te lo direi.» Le diedi qualche mio appunto. «Dai loro genitori, da parenti, amici, ovunque ci sia qualcuno di fidato in grado di avvertirci, nel caso in cui Peale dovesse farsi vivo.» «Ci proverò» promise Sally. «Riesco a incutere paura» disse sorridendo. «Fidati.» Uscimmo dalla Villa alle 20.20. «Bene» disse Hester. «Riaccompagnami al motel, prendo la macchina e ci vediamo a casa tua alle... nove e un quarto, va bene?» «Ci proverò, ma sarebbe meglio alle nove e mezza. Quanto pensi che staremo via?»
«Due notti al massimo.» «Va bene» risposi. «Poi andiamo a prendere Harry e partiamo.» Dovevamo andare con una macchina ciascuno: i nostri capi avrebbero potuto richiedere la nostra presenza all'improvviso e non si poteva rischiare che gli altri rimanessero a piedi a Lake Geneva. Si stava facendo tardi e i distributori di benzina avrebbero chiuso di lì a poco. Le indicai dove fare benzina, la lasciai al motel e mi diressi verso casa. Quando mi vide, Sue disse: «Benvenuto a casa! Addirittura prima delle dieci!». La baciai e le diedi la cattiva notizia. «Lake Geneva?» «Sì, ma tu non ne sai niente. Harry, Hester e io andiamo a interrogare una persona e nessuno lo deve sapere.» «Va bene.» «Solo Lamar è informato. Sarà soltanto per un giorno o due al massimo.» Mi sedetti al computer e cercai una camera a Lake Geneva, possibilmente in un hotel economico; impresa non facile, visto i prezzi degli alberghi con vista sul lago... «Paghiamo con la nostra carta di credito, vero?» «Ho paura di si.» Sollevai lo sguardo dallo schermo. «Sai come funziona.» «Ti rimborseranno?» «Oh, certo. Nei prossimi sei mesi.» Sue sospirò. «Vuoi che ti aiuti a preparare i bagagli?» «Sto cercando di ricordare dove ho messo la valigia piccola...» Alla fine prenotai un motel a Fontana. Controllai sulla cartina. Era sulla sponda occidentale del lago, a quattro o cinque chilometri dalla città, piuttosto comodo. Aveva un unico problema: era di categoria infima e non aveva l'accesso a Internet. Dovevo telefonare e dare le coordinate della mia carta di credito. L'impiegato sembrava piuttosto indifferente. D'altronde, per trentaquattro dollari a notte non potevo pretendere la massima attenzione. Andai al piano di sopra, Sue aveva già tirato fuori la valigia e preparato biancheria intima, calze e pantaloni della tuta. «Se ti presenti così a Hester, starò più tranquilla, perché spero che si faccia quattro risate» disse. Si vedeva che era un po' preoccupata. «Ehi, non hai motivo di essere gelosa, lo sai.» «Sì, ma... vedi, sono un po' a disagio. Mi capisci?»
L'abbracciai. «Sì, ma non devi. È un rapporto strettamente professionale.» Sollevò lo sguardo e la baciai. «Inoltre,» dissi «dormirò con Harry.» «Ora sì che sono veramente preoccupata» disse. «Vai a prendere il rasoio mentre ti preparo un paio di camicie.» Feci una breve telefonata a Lamar e gli comunicai che stavamo per partire. «Va bene, Carl. Ho già avvertito la centrale. Non ti chiamerà nessuno, né al telefono, né via radio. Sei ufficialmente in missione top secret.» «Grazie.» «Non comunicare neppure con la centrale operativa via radio e conserva le ricevute della benzina e dei pasti.» «Va bene, papà. Ti chiamo quando torno, se non prima, nel caso in cui trovassimo qualcosa di interessante. Sue ha il numero del motel e il dipartimento della Walworth County sa dove rintracciarci in qualsiasi momento. Hai una matita a portata di mano?» «Sì.» «Allora scrivi: il loro ORI è WI0650000, nel caso volessi trasmetterci un messaggio per telescrivente.» ORI è l'abbreviazione di "origine" e indica l'indirizzo telegrafico di ciascun dipartimento di polizia. «Okay. Fammi sapere subito... tutto quello che devo sapere.» «Non preoccuparti, Lamar. Come la sta prendendo tua sorella?» «Come immaginavo» disse, in tono abbattuto. «Ora vuole denunciare l'impresa di pompe funebri.» Quindici minuti dopo, Hester bussò alla porta di servizio. «Hester, che piacere rivederti» disse Sue. «Entra pure.» «Mi dispiace rubarti il marito per un paio di giorni, ma credo proprio che sia assolutamente necessario.» «Stai attenta a quello che mangia, per quanto possibile. Non ti invidio, da sola con Carl e Harry...» «C'è da aver paura, vero?» ridacchiò Hester. «Presenterò un rapporto scritto sulla dieta di Carl.» «Anche tu stai attenta» si raccomandò Sue. «Fate attenzione tutti quanti.» L'abbracciai sussurrandole: «Saremo di ritorno prima che te ne accorga». La macchina di Hester era nel viale davanti a casa, con il motore acceso. «Harry ci aspetta dall'altra parte del fiume» spiegò. «Ottimo. Ho prenotato una camera per noi due in un motel di Fontana.»
«Bene. Io starò in un hotel che si chiama Geneva Inn. A Lake Geneva, dall'altra parte del lago.» Mi augurai per lei che fosse un bel posto. Entrai in macchina, allacciai la cintura e uscii in retromarcia dal garage. Sue mi salutava dalla porta sul retro. Le risposi con un colpo di clacson. Prendemmo la Highway 18, verso Madison, poi la I 90 verso Janesville, dove ci fermammo per mangiare un boccone alle 23.40. Avevamo ancora circa un'ora di viaggio. Arrivammo a un McDonald's, che sembrava l'unico posto aperto della zona. Quando entrammo stavano già pulendo il pavimento, così mangiammo sulla mia macchina, Harry di fianco a me, Hester dietro. Approfittammo di quel momento insieme per mettere a punto un piano. «Cos'hai scoperto a proposito della ragazza scomparsa dalle vostre parti, Harry?» chiese Hester. «Non ho scoperto proprio niente» rispose, masticando un Big Mac. Inghiottì il boccone. «È strano. È andata nel bagno delle donne ed è sparita. Per quanto ne sappiamo, ha preso l'auto e se ne è andata.» «Rapimento?» chiesi. «Non ci giurerei,» disse Harry «ma è un'opzione che abbiamo inserito nella segnalazione della scomparsa; non si sa mai. Anche se non c'era neanche un fottuto segnale di lotta, solo un gruppo di amici preoccupati.» Si pulì la bocca con un tovagliolo. «Almeno da noi nessuno ha infilato dei pali di legno in un cadavere.» «Già» commentai, cercando nel sacchetto i miei due Big Mac. «È stata una delle cose più pazzesche che abbia mai visto.» «Anch'io» disse Hester mentre apriva un sacchetto a caccia delle patatine fritte. «Comunque, concentriamoci sul futuro! Va bene se andiamo dritti ai nostri motel e cominciamo domattina belli riposati?» Continuava a rovistare in cerca delle patatine. «Mmmph.» Mi piacciono i Big Mac, ma non è facile mangiarli e parlare allo stesso tempo. «Eccole!» Hester tirò fuori una manciata di patatine insieme a qualche tovagliolino. «Okay, allora, da dove vogliamo cominciare?» Inghiottii un boccone e mi tolsi la salsa dal mento. «Credo che potremmo cominciare dal dipartimento della Walworth County, che ne dite?» «Mmmm.» Questa volta era lei ad avere la bocca piena. «Ci copriranno» disse Harry. «Ho già parlato con loro. Abbiamo l'appoggio della contea, almeno finché qualche poliziotto non farà una stupi-
data.» «Va bene, allora,» dissi «non appena troviamo Jessica, ovunque sia, le saltiamo addosso, d'accordo?» «Certo.» Hester aspirò un lungo sorso di Diet Coke con la cannuccia. «A che ora ci troviamo?» Ci pensai un attimo. «Nove e mezza? Dieci?» Guardò l'orologio. «Facciamo alle nove e mezza. Questa sera non riusciremo a sistemarci prima dell'una.» Stava già rimettendo in ordine, per prepararsi alla partenza. Diedi un morso al mio secondo Big Mac. «Sai come arrivare a Fontana?» domandò Harry. Deglutii nuovamente. «Nessun problema.» Circa mezz'ora dopo ci separammo e sei minuti più tardi eravamo a Fontana. La stanza non era poi così male. Due letti a una piazza e mezza. Doccia. Lavabo. Gabinetto. Sedia. Televisore. Mi misi ad armeggiare con la piccola sveglia digitale in dotazione alla camera. Alla fine, Harry disse: «Se ti mettessi gli occhiali, Houseman, riusciresti a leggere il quadrante e potremmo dormire mezz'ora in più». L'avevo sistemata, ma poi prenotai anche la sveglia telefonica per le 8.30. «Questo è il motivo per cui ho divorziato dalla mia ex moglie» disse Harry. Gli mandai un bacio. «Buona notte.» 29 Mercoledì 11 ottobre 2000 9.12 Mi svegliò il telefono. Guardai l'orologio. 9.12. Perché la sveglia era così in ritardo? «Ragazzi, non è che volete raggiungermi per il brunch?» «Gesù, Hester. Non ci hanno chiamato e la sveglia non è suonata, scusaci.» «Vuoi dire che vi ho svegliato io?» Poco dopo avremmo scoperto che lei aveva già fatto otto chilometri di corsa, si era lavata e preparata e ci aspettava da un bel po'.
«Brunch?» le domandai. «Brunch cosa?» bofonchiò Harry dal letto di fianco. «Venite a mangiare qui,» disse Hester «dovete vedere quanta roba c'è!» L'idea mi piaceva. «Dacci venti minuti» dissi. Feci la doccia per primo, mentre Harry chiamava Jim Hawkins, un detective della Waiworth County, per dirgli che avremmo mangiato un boccone al Geneva Inn. Lui ci avrebbe raggiunti entro un'ora. Mi misi alla guida, con Harry che mi faceva da navigatore. Passammo da Linton, una località sulla strada di contea, e poi imboccammo la Highway 120, direzione nord. Gli edifici si facevano sempre più belli, chilometro dopo chilometro. Svoltammo a sinistra, in una specie di grande viale ed entrammo nel parcheggio di un magnifico hotel. A quanto sembrava, Hester aveva fatto centro. Incontrammo il mio agente investigativo preferito nell'atrio splendidamente rifinito in legno chiaro, con inservienti in divisa che trasudavano fiducia e professionalità. Hester ci guidò nella sala da pranzo, a due piani, con enormi finestre su tre lati e una fantastica vista sul lago. Il tavolo a cui sedemmo aveva una tovaglia di vero lino. Argenteria. Atmosfera tranquilla. Elegante. Raffinato. «Dormito bene?» chiesi a Hester. Aveva un aspetto del tutto riposato. «Una stanza splendida. Minibar, vasca idromassaggio, terrazzo sul lago...» «Noi,» disse Harry «siamo nel motel di Psycho.» «Poveretti» rise Hester. Una graziosa cameriera, vivace ed efficiente, ci portò la colazione. Ne approfittammo, come avrebbe detto il vecchio Knockle. Sarei rimasto là per sempre. Con una tazza gigante di caffè davanti, osservavamo dalla finestra le grandi case in riva al lago. Mi sembrò di distinguere, in lontananza, sulla riva opposta e in mezzo agli alberi, uno spicchio di cupola. Quando la cameriera si avvicinò per offrirci altro caffè, gliela indicai. «Sa se quello è l'osservatorio Yerkes?» «Esatto.» «Caspita! Dovremmo cercare di andarci.» «Perché? Cosa c'è?» chiese Harry. «Il più grande telescopio a rifrazione del mondo» gli spiegai. «Mi piacerebbe vederlo,»
«Fanno delle visite guidate» ci informò la cameriera con un sorriso. «Ottimo.» Spostai lo sguardo a sinistra. «E quel grande edificio laggiù? Non sarà il tribunale, vero?» La ragazza rise mentre indicava l'enorme costruzione grigio-rosa. «Quella?» «Sì?» «Quella è casa Hunley.» Accidenti. In confronto, la Villa sembrava una catapecchia. Era un edificio a quattro piani, anche se non sembravano esserci finestre al quarto, composto da un grande corpo centrale con vetrate ad arco e fiancheggiato da due sezioni altrettanto grandi. Difficile credere che non fosse una sede governativa o una biblioteca. «Accidenti! Per cui quello non è un parco pubblico?» «No, è il giardino della casa. Circa trecento metri sul lago e quasi altrettanti dall'altra parte, in direzione dell'autostrada. Con un grande muro di pietra e un enorme cancello in ferro. Non si vede finché non ci si passa davanti.» «Fa davvero impressione» osservò Hester. «Cosa fa il signor Hunley per potersi permettere una casa simile?» «La signora Bridgett Hunley,» disse la nostra cameriera «è vedova. Credo proprio che non faccia niente. Mio fratello lavora per il loro architetto del paesaggio. Un lavoro a tempo pieno: rasa il prato e si occupa dei terreni. Estate e autunno. Tutti i giorni, domenica esclusa. Otto ore al giorno. Ci lavorano in tre.» Quando la cameriera si allontanò, ci scambiammo delle occhiate. «Merda,» commentò Harry sottovoce «mantenere quel mostro deve costare almeno centomila dollari l'anno.» «Che Dio benedica le cameriere» disse Hester. «Carl, perché non le lasci una bella mancia?» A metà del secondo caffè, un uomo magro e stempiato, con un paio di pantaloni sportivi e un maglione, si avvicinò al nostro tavolo. Harry si alzò e lo salutò. «Ragazzi, questo è Jimmy Hawkins, il miglior detective da questa parte dello stato.» Dopo che ci fummo presentati e che la cameriera ebbe portato una tazza di caffè al nostro ospite, Harry lo informò dei fatti principali, compresi l'incidente del guardone alla finestra e la scomparsa di Alicia, mettendolo al corrente anche di alcuni particolari.
Hawkins ascoltò con grande attenzione. «Sono contento che non siano casi di mia competenza» disse alla fine. «Spero solo che non abbiano collegamenti con la mia città. Allora, cosa posso fare per voi?» «Ci serve qualche informazione "locale"» disse Hester. «Riguardo a Jessica Hunley, per esempio» aggiunsi io. Hawkins non si risparmiò. Jessica era una specie di istituzione per la comunità, molto popolare. Faceva beneficenza, si occupava di arte, si interessava a progetti sociali che coinvolgevano musica e danza. Era conosciuta da tutti e godeva di un'ottima reputazione. Non c'era niente, a suo dire, che avesse mai suggerito un suo coinvolgimento in una qualsiasi attività criminale. «Inoltre,» egli disse «a sua zia Bridgett verrebbe un infarto solo all'idea che qualcosa possa danneggiare la reputazione della famiglia.» Bridgett Hunley era una mega-milionaria, secondo Hawkins. «E quando dico mega intendo mega. È una delle donne più ricche d'America.» Jessica viveva con zia Bridgett. Una notizia che sapevamo già. «Mi risulta che di recente non sia stata bene» dissi. «Non ho sentito nulla in proposito, ma mi informerò» rispose. «La sua grande energia mi ha sempre sorpreso.» «E quella,» dissi, indicando l'edificio a quattro piani dall'altra parte del lago «è la sua casa?» «Sì. Bella grande, vero? Qui nei dintorni ci sono almeno un centinaio di case con altrettanto terreno» spiegò Hawkins. «Ma quella è la più grande. Tra quelle in pietra, almeno. Un po' di anni fa, molti rappresentanti delle classi alte di Chicago hanno scoperto Lake Geneva. Persone con un mucchio di soldi, che si sono fatte costruire qui le loro residenze estive.» «Quella non è una residenza estiva.» «Oggi no, ma lo era negli anni Venti.» Sorseggiò il caffè. «In realtà credo che Bridgett e Jessica possiedano altri quattro o cinque edifici simili, ma questo è il più importante.» «Sai come hanno fatto a fare tutti quei soldi?» chiese Hester. «Imballaggio di carni e ferrovie, direi. E uno dei loro antenati si occupava di legname.» Sollevò la tazza come per un brindisi. «Alla diversificazione.» «Potrebbe essere imbarazzante presentarsi a casa Hunley per un interrogatorio» osservai. «Durante il giorno dovreste trovare Jessica nel suo studio» disse Hawkins. «È proprio qui, a Lake Geneva, all'estremità del lago. Avete una
cartina?» Ero deluso, devo ammetterlo. Speravo di poter entrare nella proprietà. Hawkins sorrise. «A meno che non vogliate aspettare fino a questa sera.» Doveva aver notato il mio disappunto. «No, va bene così. È meglio lasciare alcune cose all'immaginazione.» Ero quasi certo che gli inquilini della Villa nella Nation County fossero stati ospiti di Jessica in casa Hunley. Chissà come ne erano rimasti colpiti. Solo il fatto di essere ammessi in un posto simile per loro doveva essere stato un vero evento. Hawkins ci accompagnò allo studio di danza di Jessica, in centro. Parcheggiammo e uscimmo dall'auto: tutti tranne lui, che ci indicò una porta tra due negozi prima di ripartire. «Quella rossa, laggiù. Lo studio è al piano di sopra.» «Grazie.» «Volete che venga con voi? Trovo il modo di organizzarmi.» Scossi la testa. «No, grazie. Riusciremo a farla imbufalire anche da soli.» «Chiamatemi se avete bisogno di qualcosa.» Ci demmo tutti e tre una sistemata e attraversammo la strada. «Pronti?» chiesi. «Certo» disse Harry. «Iniziate voi due, io per un po' starò a sentire, okay?» «Per me va bene» disse Hester. «Bene, allora.» C'era una piccola targa in ottone sulla porta su cui era incisa la scritta, "Studio Hunley". L'edificio sembrava molto vecchio e mi aspettavo delle scale squallide e strette. Non era così. Erano in legno chiaro, quasi nuove e tirate a lucido, e la tromba delle scale, in giallo paglierino, era più ampia e vivace di quanto mi aspettassi. I gradini non scricchiolavano neppure. Le rampe erano fiancheggiate da poster di danza, la maggior parte dei quali aveva come soggetto Jessica Hunley e l'"Hunley Dance Repertoire Company". In cima, trovammo una grande porta di quercia e di nuovo l'insegna "Studio Hunley". Quando entrammo presi nota dell'ora, 11.39. La musica era alta, ma gradevole. La riconobbi immediatamente: era un pezzo intitolato Poinciana, di Ahmed Jamal. Ci trovavamo in una specie di
piccola sala d'attesa, con tre sedie di legno nuove e una bacheca, su cui erano affissi diversi messaggi e un "programma di prove" che per quel giorno, 11 ottobre, prevedeva una "prova rep., J & T, 9-17". Lo indicai a Hester. «Provano per otto ore?» «Certo» disse. «Repertorio. È una sequenza dei balli principali, che ripeti in continuazione finché non ti rimangono in testa.» Una ragione in più per essere felici di avere Hester con noi. Sala d'attesa e studio erano divisi da un tramezzo alto fino alla vita e la porta poggiava su un perno girevole. Dall'altra parte, riuscivo a scorgere un pavimento in legno, affiancato, sulla destra, da una serie di finestre che andavano dal soffitto al pavimento e sulla sinistra da un lungo specchio. Con mio grande disappunto, notai che non c'era la sbarra che avevo sempre visto nei film, l'esperienza più ravvicinata che avessi mai avuto con la danza. In fondo c'erano una serie di armadietti e un tavolo con uno stereo. Due ballerine in calzamaglia nera, scaldamuscoli e felpa stavano facendo degli esercizi. Erano a piedi nudi e ci davano la schiena, ma quella con i capelli luminescenti non poteva essere che Tatiana. Pensai che l'altra fosse Jessica e quando entrambe si voltarono in contemporanea, mi accorsi che avevo ragione. Non so cosa pensarono vedendoci tutti schierati in quel modo, ma non persero un colpo. Ora che erano rivolte verso di noi, riuscivo a sentire Jessica dare la cadenza. «Su e giù, su e giù» diceva mentre si abbassavano e si sollevavano. Si muovevano con grande grazia e fluidità. «E gira due tre, dieci due tre e punta e gira e punta e gira...» e così dicendo, si voltarono di nuovo dall'altra parte. Guardai Hester. «Caspita.» Mi sembrava un esercizio veramente difficile. Hester sorrise e le guardò allontanarsi. Harry mi piantò un gomito nelle costole. «E tu devi indagare su queste due? Voglio venire a lavorare nell'Iowa.» La musica si interruppe e così le ballerine. Rimasero ferme, in piedi, a parlare per un secondo, dopodiché Tatiana si incamminò verso lo stereo e aprì il mangiacassette, mentre Jessica ci veniva incontro. «I miei due agenti preferiti» disse. «Anche lei è un poliziotto?» chiese a Harry con voce suadente. «Detective Harry Ullman» si presentò lui. «Vicesceriffo del Wisconsin.» «Cosa vi porta a Lake Geneva?» Assunse una posa molto rilassata e no-
tai che il suo respiro era perfettamente regolare. Se avessi fatto io quegli esercizi, avrei avuto un fiatone terribile. «Lavoro, purtroppo» dissi. Sullo sfondo, Tatiana spense lo stereo e cominciò ad avvicinarsi. «Oh, mi spiace» replicò Jessica. «Dobbiamo alzare le mani?» «Solo se lo fate a tempo di musica.» «In effetti,» disse Hester «avremmo bisogno di fare una breve chiacchierata con voi due.» Tatiana ci aveva ormai raggiunto e io le porsi la mano. «Felice di rivederti.» «Viaggio di piacere?» chiese lei stringendomela. «Lavoro» rispose Hester. Jessica diede un'occhiata all'orologio. «Purtroppo stiamo lavorando anche noi. Siamo parecchio impegnate, ma faremo una pausa per mangiare qualcosa tra una mezz'oretta.» «Bene» disse Hester. «Vi aspetteremo.» Jessica e Tatiana si voltarono, tornarono in fondo alla stanza e riaccesero lo stereo. Riconobbi Body Language dei Queen. «Bella musica» commentai. «Hanno guadagnato mezz'ora per pensare» disse Hester. «Prepariamoci.» Osservai le due ballerine che, rivolte in direzioni opposte, eseguivano esattamente gli stessi movimenti. Con le mani e i piedi in posizione leggermente diversa, soprattutto a causa della differenza di altezza, battevano il tempo all'unisono, muovendosi a ritmo. «Potrei restare a guardarle per ore» dissi. «Anch'io» ammise Harry. «Ore e ore.» «Ottimo» disse Hester. «Perché molto probabilmente dovrete farlo.» «Sarà un piacere.» «Sai, Houseman,» disse lei, impassibile «probabilmente è positivo il fatto che tu stia entrando in andropausa. Perché potresti farti influenzare da queste due.» «L'età è la mia consolazione.» Mi appoggiai al muro, rapito. «Di nuovo» ordinò Jessica. Tatiana si diresse in fretta verso lo stereo e rimise la musica daccapo. Esattamente gli stessi movimenti, ripetuti in modo impeccabile. Almeno, a me sembrava così. Spensero la musica. «Cosa ne dici di cominciare con il primo sexy body
e poi due, tre?» intonò Jessica, ancheggiando da una parte all'altra, le mani sui fianchi. Lo ripeterono quattro o cinque volte, con Jessica che dava il tempo. Soddisfatte, riaccesero la musica e, come prima, si mossero in assoluta sincronia tra loro e con il cantante. Ero allibito. Non sarei mai riuscito a fare neppure un decimo di quello che facevano loro con tanta naturalezza. Hester notò la mia ammirazione. «È tutta questione di tempo, Houseman.» «Balle,» sussurrai «è un fatto soprannaturale.» «Non riesco a smettere di pensare,» disse Harry «che loro... Oh, non importa.» «Voi due non siete concentrati sul caso» ci schernì Hester. Provarono Body Language cinque volte. Quindi Jessica tirò fuori un tappetino e ci fece un cenno. «Dobbiamo provare ancora questo, poi mangiamo.» «Bene, continuate pure» disse Hester. Con la musica spenta, Jessica batteva le mani e Tatiana con una piroetta, finì proprio sul tappetino, la guancia appoggiata alla superficie di plastica, il peso sul braccio destro teso e sul polso sinistro, appoggiato sotto al fianco. Allo stesso tempo, sollevò la gamba sinistra con il piede puntato al soffitto, mentre la gamba destra si piegava fino a toccare con il piede il ginocchio sinistro, formando un triangolo. Tenne quella posizione per cinque secondi abbondanti, dopodiché crollò con un gemito. «Mio Dio!» «Di nuovo» disse Jessica. Tatiana si rimise in piedi e, mentre la sua compagna batteva le mani, roteò a terra, assumendo la stessa posizione e tenendola per cinque secondi. «Ragazzi, che male» disse rilassandosi. «Adesso dall'altra parte» ordinò Jessica. «Oh no!» gemette Tatiana, ma senza astio. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per eccellere, e per piacere a Jessica. «Lo sai che non è la mia parte migliore.» Ripeté l'esercizio sul lato opposto. Perfetto, almeno secondo me. Ancora una volta, quindi entrambe si diressero verso di noi. Io pensavo al pranzo. Jessica invece ci fece strada verso il divisorio, dove c'erano tre sedie. Noi poliziotti ci sedemmo, mentre lei e Tatiana si accoccolarono per terra, accanto a una borsa da ginnastica nera. Jessica aprì
uno sportello sotto al bancone e tirò fuori due bottiglie d'acqua, dei cracker, un piccolo pezzo di formaggio e un po' d'uva. «Volete favorire?» «No, grazie» disse Hester. «Abbiamo finito da poco un ottimo brunch.» «Davvero?» chiese Jessica passando a Tatiana una bottiglia d'acqua. «Dove?» «Al Geneva Inn» rispose Hester. «Oh, molto carino. È lì che alloggiate?» «Io, sì» disse Hester in tono cordiale. Le rivelò il nome del nostro motel. «Sapete dov'è? Loro due sono alloggiati lì.» «Però» commentò Tatiana. «Chi avete fatto arrabbiare?» «È una storia lunga» dissi. «Ma ne è valsa la pena. Credo che fossero quindici anni che non sentivo la Poinciana di Jamal.» «Complimenti» disse Jessica amichevole. «Allora, cosa possiamo fare per voi?» «Dunque,» iniziò Hester «abbiamo alcune domande da farvi. Sono emersi nuovi elementi e vorremmo sapere il vostro parere in proposito. Ci serve qualche chiarimento.» «C'è bisogno del mio avvocato?» chiese Jessica. «Lei non è fra i sospetti» dissi. «Perché non mi dite ciò che vi interessa e lasciate che sia io a decidere se ho bisogno dell'avvocato oppure no?» Richiesta ragionevole. Non era ciò che avevo sperato, ma almeno avevamo l'opportunità di farla ragionare nella direzione che ci interessava. «Mi sembra giusto» acconsentii. «E Tatiana? Cosa ne pensa?» La mia domanda la sorprese e la lusingò. «Starò ad ascoltare, per vedere se la domanda è rivolta a entrambe.» «Penso che possa andare bene» disse Hester. Jessica tirò fuori dalla borsa da ginnastica un coltellino svizzero, che aprì e utilizzò per tagliare il formaggio mentre diceva: «Continuate pure». Mi appoggiai alla sedia e distesi le gambe, cercando di sembrare rilassato. Estrassi dalla tasca un blocchetto per appunti. È un oggetto molto comodo. Per guadagnare un po' di tempo, si può sempre far finta di scrivere. Inforcai anche gli occhiali da lettura. Molto utili anche quelli, visto che quando guardi i tuoi testimoni da sopra la montatura è come se enfatizzassi le domande. «Bene, per cominciare sappiamo che il nome della persona che ci è sfuggita dopo averci aggredito era Dan Peale e che si trovava al terzo piano.»
«Ah» fu tutto quello che disse Jessica. «E sappiamo che ha ucciso Edie.» «Ne siete sicuri?» chiese lei con voce molto calma. «Pare di sì. Le prove sono schiaccianti.» Volevo essere molto chiaro su quel punto. «Posso chiederle a quali prove si riferisce?» «Soprattutto testimonianze, supportate da prove materiali e da alcune osservazioni.» «Davvero? Di chi?» «Che cosa, le osservazioni?» Mi piaceva giocare. «No. Le testimonianze, se posso chiederlo.» «Di Toby.» Uno a zero per me. Spalancò gli occhi. «Davvero? E da chi avrebbe saputo una cosa simile?» «Non l'ha saputa» dissi. «Era presente quando Dan ha ucciso Edie.» Tatiana reagì, mentre Jessica si limitò a fissarmi. Mi strinsi nelle spalle. «Anch'io sono rimasto sorpreso, a essere sincero.» «Quando gliel'ha detto?» «Al momento dell'arresto» dissi. Calò il silenzio per alcuni secondi. «È meglio che proceda con ordine» dissi. Cominciai con l'inseguimento di Peale, la notte in cui Borman era stato aggredito, quando Jessica e il resto del gruppo si trovavano ancora alla Villa. Durante la ricostruzione Jessica mi interruppe per dirmi che i loro muscoli si stavano irrigidendo: potevano eseguire qualche esercizio di stretching mentre parlavo? Acconsentii e fu un errore. Durante un interrogatorio, analizzo le sensazioni che mi trasmettono gli interrogati, cerco di capire se dicono la verità, se si stanno innervosendo o si arrampicano sugli specchi. Ascolto le voci. Osservo gli occhi, controllo il linguaggio del corpo. Riesco a ricavare molti elementi a prescindere da quello che dicono. Ma con quelle due che si stiravano e contorcevano era molto difficile cogliere qualcosa. A volte, quando rispondevano, non riuscivo a guardarle negli occhi. Il respiro forzava e distorceva le voci ed era praticamente impossibile giudicare le loro espressioni. Potevo basarmi soltanto sul contenuto della frase. Quando giunsi alla parte in cui Toby aveva piantato un palo nel petto di Edie, però, entrambe le ballerine parvero colpite.
«È orribile!» esclamò Jessica. «È una cosa da malati» commentò Tatiana. Proseguii con il mio racconto e quando spiegai che Toby aveva ammesso di aver tenuto ferma Edie, nonostante sapesse che Dan stava per ucciderla, Tatiana interruppe lo stretching e ci fissò con uno sguardo atterrito. «Ma non era stato un incidente?» chiese Jessica. «No. Niente affatto.» Sfogliai il blocchetto di appunti, fingendo di cercare ciò che stavo per dire. Non avrei rivelato il nome di Huck per nessun motivo. «Dan Peale voleva sperimentare la morte...» dissi come se stessi leggendo «...per interposta persona.» Guardai Jessica. «Per farlo, sembra che non soltanto dovesse far morire Edie dissanguata, ma dovesse anche renderla consapevole di quello che le stava succedendo.» «No. Non ci credo. Nemmeno per un secondo.» Notai che Tatiana era rimasta in silenzio. Hester smise i panni dell'osservatrice. «Tutte le prove materiali e tutte le testimonianze convergono su questo punto» disse. «Si fidi.» «Sono certa che pensiate di aver ragione» commentò Jessica. «Ma se vi fidate della testimonianza di quel Toby, dopo che ha infierito sul corpo di Edie...» «Oh, no. Non ci fidiamo affatto di lui» dissi. «Cosa?» «Non è stato Toby a decidere di correre dietro al cadavere con un palo» dissi. L'avevo in pugno. «Ma ha appena detto che...» Facevo molta attenzione a Tatiana, che pendeva dalle nostre labbra. «Dan ha ordinato a Toby di farlo.» «È impossibile!» La reazione di Jessica fu piuttosto convincente. Era l'emozione maggiore che aveva manifestato dall'inizio del colloquio. «Non nell'era dei telefoni cellulari» disse Hester, con un sorriso. Lasciammo che la frase colpisse nel segno. «Posso fare una domanda?» intervenne a quel punto Harry. Conoscevo Harry Ullman piuttosto bene e mi fidavo di lui incondizionatamente. «Certo» dissi. «Quand'è stata l'ultima volta che Dan è andato in montagna ad arrampicarsi?» chiese. «L'ultima volta di cui lei è a conoscenza, naturalmente.» Jessica parve sorpresa. Male, perché lasciò a Tatiana uno spiraglio. «Lo scorso agosto, no?» le chiese, infatti. Riuscivo quasi a vedere il pensiero di Jessica. Non capiva il perché della
domanda di Harry e l'improvviso cambio di direzione l'aveva spiazzata. «Forse» ammise. Era l'unica risposta possibile, date le circostanze. Era veloce. E anche molto fredda. Guardò Harry negli occhi. «Perché me lo chiede?» «Aspetti un attimo» disse. «Prima ho un'altra domanda. Così capirete dove voglio arrivare.» Sorrise, come se volesse scusarsi. Quando Harry si imbarazzava, significava che aveva qualcosa in testa. «Non saprei come dirvelo diversamente.» «Va bene.» «Qualcuna di voi conosce una ragazza di nome Alicia? Lavora sulla nave-casinò a Freiberg.» Jessica e Tatiana si scambiarono un'occhiata. Tatiana si strinse nelle spalle. «No» rispose Jessica. Possibile che fosse vero, in effetti. «Be', questo tizio di nome Dan la conosceva e si è esibito in una scalata con corde e tutto il necessario fuori dalla sua finestra. Mi è stato detto che lui le ha chiesto il permesso di entrare in casa, ma lei glielo ha negato.» «È molto strano» commentò Jessica. «C'è di peggio» disse Harry. «Questa Alicia aveva un ragazzo di nome Randy Baumhagen. Mai sentito nominare?» Le ballerine scossero la testa. «Be', Randy Baumhagen era stato invitato da Alicia a casa sua, ma Dan no» disse Harry. «Sembra che per questo Dan ci sia rimasto molto male. Così, una sera, gli è spuntato alle spalle e l'ha colpito alla testa con un corpo contundente.» Vidi lo sgomento dipingersi sui volti delle due donne. «È la verità, signore, questo è ciò che ha fatto. E sapete cos'altro ha fatto quella notte?» Ottenne in risposta due sguardi vuoti. «Dopo averlo ucciso, ha preso delle pinze e gli ha fatto un buco nel collo. Una specie di firma, riteniamo.» «È assurdo» disse Jessica. «È assolutamente...» Harry fece ricorso a un vecchio trucco. Guardò Hester. «Sei d'accordo con me?» «Sì» rispose lei. «E tu, Carl?» «Certo. Tutte le prove portano in quella direzione.» Con ciò, Harry aveva stabilito che tre delle cinque persone presenti in quella stanza erano d'accordo. È sorprendente come possa funzionare. «Perché ci state dicendo tutto ciò?» Jessica ci guardò uno per uno.
Fui io a rispondere. «Perché riteniamo che possiate dirci dove si trova Dan Peale.» Nella stanza scese il silenzio. Nessuno di noi tre avrebbe aggiunto qualcosa. Volevamo che Jessica tirasse fuori alcune informazioni e volevamo vedere come sarebbe andata. «Se voi non riuscite a trovarlo,» e ci fissò con uno sguardo enigmatico «cosa vi fa pensare che possa dirvelo io?» «Tanto per cominciare, le nostre informazioni indicano che lei sa più cose su di lui di chiunque altro abbia un collegamento con la Villa. Ci hanno raccontato della sua... relazione con Dan Peale.» «Una lunga relazione» aggiunse Hester. «Come sapete, siamo saliti al terzo piano. Mi creda, non ci è sfuggito nemmeno un dettaglio.» «Va bene» ammise Jessica. Nient'altro. Tatiana trasse un respiro profondo. Evidentemente stava trattenendo il fiato. Jessica bevve un piccolo sorso d'acqua. «Siamo stati amanti per anni. Non ho difficoltà ad ammetterlo, anche se non lo faccio in pubblico. Credo mi possiate capire. Lui ha un'altra relazione e io non vorrei mai metterlo in imbarazzo.» «Certo.» Sempre cercare di essere incoraggiante. «Dovete sapere che a lui piace assaggiare il sangue. Non lo fa spesso, ma lo consideriamo entrambi un atto che stimola l'intimità. Vorrei che questa mia ultima affermazione rimanesse tra di noi. Molta gente non capisce questo genere di cose.» Detto questo, ci concesse un sorriso. «Specie mia zia Bridgett.» Si strinse nelle spalle. «Comunque, io lo contatto solo in ufficio. Immagino che adesso non sia lì, giusto?» «Immagina bene» dissi. In ufficio? «Non mi sorprende.» «Perché no?» domandò Hester. «Be', la sera in cui è scappato,» disse «sapevate chi era non appena sono stati sparati i colpi di pistola. Abbiamo sentito i vostri agenti che lo chiamavano per nome, con i megafoni.» «Ora che mi ci fa pensare, è vero» ammisi. «Lo chiamavamo per nome. Ma all'epoca lo scrivevamo P-E-E-L anziché P-E-A-L-E. Non avevamo idea di chi fosse né dove vivesse.» «Davvero?» «Sì» intervenne Hester. «Ma se era in grado di sentirci, deve aver pensato che gli fossimo addosso e che non poteva tornare a casa.» «Già» concluse Jessica. «È stato molto ingenuo da parte vostra.»
Cazzo. Avevamo fatto in modo che non si rifugiasse nell'unico posto in cui avremmo potuto cercarlo. Casa sua. Ingenuo non era la parola giusta. «Allora,» riprese Hester «sapete dove si trova?» «No» disse Jessica. Con quella risposta mi giunsero segnali confusi. La sua testa era rivolta più verso Hester, quindi non riuscivo a guardarla bene negli occhi. Ma il tono della voce era un po' troppo alto. A causa delle bugie o dello sforzo fisico dovuto all'esercizio che stava facendo? Optai per la prima ipotesi. Tatiana era seduta con le gambe dritte davanti a lei che andavano a formare, con il busto, una "L" perfetta. La guardai negli occhi. «E lei cosa ne dice?» «Io?» Sembrava sorpresa. «Sì. Sa dove si trova?» «No. Perché dovrei saperlo?» rispose piegandosi in avanti e premendo la cassa toracica contro la parte superiore delle cosce. Allungava e distendeva il collo, in modo da non perdere il contatto visivo con me. Ma aveva risposto alla mia domanda con un'altra domanda, il che, mi suggeriva che stesse mentendo, anche se non sembrava brava come Jessica. Era lei l'anello debole. Le sorrisi. Volevo ingraziarmela. «Ora, suppongo che un bravo poliziotto direbbe qualcosa del tipo» e abbassai il timbro. «"Già, perché dovrebbe?" Giusto?» «Forse.» Accennò un sorriso. «Dal momento che sono uno dei poliziotti che in modo del tutto involontario hanno indotto il nostro sospetto a fuggire, penso sia meglio che vi faccia un'altra domanda.» «Buona idea» disse Tatiana riportandosi in posizione seduta. «Vediamo... se voleste scoprire dove si trova Peale, a chi lo chiedereste?» Funzionò. I suoi occhi si mossero verso Jessica per un istante e poi tornarono verso di me. Non penso fosse consapevole di averlo fatto. Jessica mi guardava negli occhi ed ero sicuro che non l'avesse notato neanche lei. «Non mi viene in mente nessuno.» «Va bene.» Feci uno scarabocchio sul mio blocchetto. Jessica fece il gesto molto plateale di tirare fuori dalla sua borsa un orologio e di controllare l'ora. «Dobbiamo assolutamente tornare al lavoro» annunciò. «Non mi viene in mente nient'altro da dirvi.» «Ancora una domanda» disse Hester. «Perché Dan Peale finge di essere
di Londra?» Jessica rispose al volo. «È una posa. Un segno di snobismo, se vuole. Fingiamo che lo sia.» «Ma molta gente alla Villa è convinta che venga davvero dall'Inghilterra» insistette Hester. «Be', se vogliono crederci, cosa c'è di male? Ci sono persone più credulone di altre.» Jessica posò ciò che rimaneva del pranzo sul mobiletto vicino al bancone. «Volevo solo essere sicura,» disse Hester «che non si tratti di un piano architettato da voi due per nascondere la sua vera identità.» Jessica sembrò tornare indifferente. «Naturale che lo è. Non voglio che qualcuno di loro cerchi di mettersi in contatto con lui.» Davvero brava. Si raddrizzò. «Tutto quello di cui parliamo è strettamente confidenziale, vero?» «Nel modo più assoluto» le assicurai. «Non ne farei mai parola con nessuno che non abbia il diritto di saperlo» aggiunse Harry. «Ne ero certa» replicò Jessica. «Come sono certa capirete anche questo piccolo inganno a cui ricorriamo per evitare complicazioni. Un piccolo trucco e nulla più.» «Certo» dissi io. Immaginai come dovesse essere dura questa donna davanti a una giuria. Decisi di darle qualcosa su cui riflettere. «Prima di andare via, potrebbe dirci come raggiungere la sede della Società storica?» «Sì.» Ce lo spiegò. «Grazie» dissi io. Era talmente sicura di sé da non dover chiedere nulla. Di conseguenza fui costretto a dirle perché volevamo andarci. «So che hanno le piante della vecchia proprietà Givens. Ci piacerebbe vederle.» L'effetto non fu quello desiderato. «Sono affascinanti» disse. «Spero vi piacciano.» «Credo che avremo bisogno di incontravi ancora una volta» disse Hester. «Questa sera può andare bene?» «Per quale motivo?» «Detesto fare la melodrammatica,» rispose Hester «ma non posso ancora dirvelo.» «Vi va bene dopo cena? Aspettiamo ospiti nel tardo pomeriggio. Preferirei non disturbarli. Sarà una cosa breve?» «Spero di sì. Dove possiamo chiamarla?»
Jessica diede a Hester il numero della linea privata di Bridgett Hunley. «Dopo le sette» disse. «Risponderò io.» Tornati per strada, chiesi a Hester: «Perché diavolo le hai dato un altro appuntamento?» «Non lo so.» Aumentò l'andatura. «Ma non voglio mollarla così facilmente. Sta mentendo e lo sappiamo tutti. Sa dove si trova quello stronzo, Houseman, e me lo dirà, a costo di strangolarla.» «Che donna» disse Harry. «Sarebbe un bello spettacolo» dissi. «Credo che il nostro strumento di persuasione potrebbe essere zia Bridgett. Mi sorprende che Jessica faccia carte false per nasconderle le cose in cui è coinvolta.» Avevamo ancora un asso nella manica. Non avevamo menzionato i vampiri. Ci recammo a piedi alla sede della Società storica e annotai il nostro arrivo alle 12.39. Dopo cinque minuti stavamo osservando la piantina e la storia della Villa. Nel 1903 era stato completato un pozzo verticale tra la miniera di silice e la vetta della collina dove era situata la casa. Givens era il proprietario della miniera e, con mia sorpresa, nel 1900 il sistema di gallerie si estendeva già per due chilometri lungo il Mississippi. A quanto pareva, bastava che entrassero nel pozzo e attraversassero una decina di metri di pietra calcarea per arrivare alla sabbia di silice. Un gioco da ragazzi. Esaminammo sia il progetto sia lo schema del sistema di elevazione. Il pozzo era in verticale, con un montacarichi molto semplice e un macchinario sul fondo. Secondo l'illustrazione, la funicolare e i binari descritti da Knockle erano stati abbandonati e sostituiti dal pozzo. Completo di un piccolo edificio che assomigliava a una baracca e che, sulla piantina, veniva indicato con il termine "estremità superiore". L'"estremità inferiore" era all'interno della miniera stessa. «Accidenti a me» dissi. «La parte superiore dev'essere una delle vecchie fondamenta che la gente della Kommune tedesca aveva costruito prima della guerra civile.» «Vale a dire, queste» disse Hester indicando una serie di linee punteggiate che formavano dei rettangoli. «Già. L'altra sera abbiamo ritrovato Toby intorno a quest'area» dissi, evidenziando con la penna una zona a nordest della Villa. «Se il pozzo fosse ancora in funzione...»
«Esatto. Ecco dove è andato Peale dopo essere sfuggito a Borman. Dannazione.» Indicai il punto in cui avevamo ritrovato Toby. «Quando io e Sally ci siamo avvicinati a quella zona, in cerca di Toby, ci è passato vicino qualcosa, che proveniva dall'"estremità superiore", in direzione della casa. Scommetto che era proprio Toby.» «Perché?» «Non lo so, ma giurerei che quello stronzetto era vicino al pozzo o che andava in quella direzione.» Guardai le piantine sul tavolo. «Mi domando fin dove arrivasse la miniera prima che la chiudessero. So che negli anni Sessanta era ancora in funzione.» «Peale avrebbe potuto facilmente arrivare al montacarichi, se avesse saputo dove si trovava. Sarebbe potuto arrivare all'autostrada in mezz'ora. Poi avrebbe potuto fare l'autostop, o camminare lungo i binari della ferrovia oppure avrebbe potuto raggiungere l'imbarcadero che dista quanto? Un chilometro?» Hester spinse indietro la sedia. «Oppure avrebbe potuto restare nella miniera» disse Harry. «Non pensi che possa ancora trovarsi li, vero?» Ci scambiammo un'occhiata. «Penso che il nostro budget ci possa consentire una fotocopia di questa cartina» dissi. «Aspettate, me la faccio fare da quella signora laggiù.» «Ci penso io» disse Hester. «A voi toccano i costi iniziali. E il mio dipartimento mi rimborsa più velocemente del vostro.» «Okay, mi hai convinto. Intanto fammi usare il tuo cellulare. Voglio chiamare in centrale per vedere se possono mandare qualcuno alla Villa per controllare come stanno andando le cose. E trovare qualcuno che ci possa accompagnare alla miniera.» «Anch'io devo fare una telefonata» disse Harry. La prima parte fu facile. Borman sarebbe stato inviato immediatamente a controllare le attività degli inquilini della Villa. La seconda fu un po' più complicata. La miniera era ufficialmente chiusa, come mi era già stato detto, e la proprietà faceva capo a una società con sede nel New Mexico. Conoscevamo il nome dell'uomo nella Nation County che sovrintendeva alla zona, ma non poteva, di sua iniziativa, darci il permesso di entrare nella miniera. Per ottenerlo avremmo dovuto far chiamare la sede della società dal nostro procuratore. Dissi alla centrale di telefonare a Lamar perché si occupasse della cosa.
Quando finii, Harry ci comunicò di avere alcune informazioni da darci. «Hai presente Tatiana Ostransky, quella bomba di ragazza? La compagna di ballo di Jessica Hunley?» «No,» dissi «di chi parli?» «Spiritoso. A ogni modo, ho fatto un controllo con Hawkins su di lei. È venuto fuori che il suo vero nome è Hutha Mann, è di Milwaukee e bazzica da queste parti dal 1993.» Ci guardò, sulle spine. «E poi?» chiesi. «Peale è stato arrestato qui nel '93» disse. «Oh, sì! Certo. Ingerimento di sangue consensuale, giusto? E un qualche coinvolgimento con una minorenne.» «Esatto. Indovina chi era la minorenne?» «Hutha Mann» disse Hester. «Hutha Mann, in arte Tatiana Ostransky.» «Esatto.» Harry si mise a ridere. «La trama si infittisce» dissi io. «Allora, cosa le ha fatto?» «Probabilmente, si è trattato di un rapporto sessuale legale. L'agente che ha compilato il verbale sostiene che la ragazza non si era costituita parte civile. All'epoca aveva diciassette anni e quindi, legalmente, poteva essere consenziente, ma Peale le ha fatto bere degli alcolici e, dato che lei non aveva l'età per bere e che era ubriaca quando è stata scoperta, è finito nei guai. Poi però, con il patteggiamento per la riduzione della pena e tutto il resto, se l'è cavata a buon mercato.» Harry si strinse nelle spalle. «La ragazza aveva un taglio sul labbro, ma ha dichiarato che si era trattato di un incidente.» «Già, proprio da crederci» commentò Hester. «Ora viene la parte interessante» continuò Harry. «Il tizio che aveva effettuato l'arresto andrà in pensione la prossima settimana, ma quel giorno era presente, e ha detto che Jessica Hunley era coinvolta solo marginalmente. Non c'era quando è stato compiuto l'arresto, ma l'avvocato degli Hunley è andato in centrale e ha pagato la cauzione per tutti, e questa Hutha Mann, in arte Tatiana, ha fornito come indirizzo lo studio di Jessica.» «Allora, si conoscono da parecchio tempo» dissi. «Sembra di sì.» Harry aveva l'aria soddisfatta. Per pranzo, andammo in un magnifico ristorante chiamato Popeye. Disposto su più piani, con un arredo in stile marinaro e un menu pazzesco. Almeno dal punto di vista di un poliziotto. «Dev'essere bellissimo lavorare in una città che ha ristoranti come questo» commentai.
Udii un debole suono multitonale ed Hester tirò fuori il cellulare dalla tasca. Rispose e mi passò il telefono. «È per te. Il tuo ufficio.» «Sì?» «Ciao Carl, sono Lamar. Niente di troppo importante, ma l'avvocato con cui dobbiamo parlare per entrare nella miniera non sarà qui prima di domani a un'ora imprecisata. È un problema?» «No, non direi.» Non saremmo comunque riusciti a tornare indietro prima. «Ti sarei grato se facessi perlustrare la zona all'altezza dell'autostrada alla ricerca di un segno, un punto dove qualcuno potrebbe aver scavalcato la recinzione, o qualcosa del genere. Non so, una pila di casse, delle rocce. Crediamo che il nostro amico possa essere riuscito a scendere fin laggiù, quella sera.» «Borman e Knockle sono già sul posto e sembra che vada tutto bene. Credo che la maggior parte dei ragazzi sia già al lavoro.» Si interruppe. «Dirò loro di controllare la zona intorno alla miniera. Vuoi che vadano in cima alla collina in cerca di un'entrata?» No, non lo volevo. Non aveva senso scoprire le carte prima di essere pronti. «Lo sai che è lunga quasi cinque chilometri?» chiese Lamar. «Entra nella collina, si estende da nord a sud e scende all'interno del promontorio per centocinquanta metri.» «Ho capito.» «Lo dico nel caso intendessi fare una ricerca. Ci si potrebbe impiegare molto tempo. I vani sotterranei sono abbastanza ampi da rendere facili le ricerche, ma si addentrano lungo un territorio vastissimo.» «Spero di non doverci andare» risposi. «Odio le grotte.» Lamar rise. «La truppa si sta incuriosendo. Non riescono a capire il perché di tutte queste stranezze. Non ho detto dove siete e pensano sia io a occuparmi del caso.» «Ehi, ma noi siamo meglio.» «Ascolta, Carl, già che siamo al telefono, hai avuto una discussione con Borman a proposito dei colpi d'avvertimento?» «Non proprio» dissi. «Perché?» «Sostiene che lo hai aggredito di fronte a testimoni. Che lo hai messo in imbarazzo o qualcosa del genere. Che gli hai fatto una paternale... sì, mi sembra che fossero queste le parole esatte... Qui in ufficio. Ne sai niente?» «Certo. Mi ha fermato, voleva sapere perché lo avevo sgridato. Come un
bambino piccolo.» «Capisco. Be', Carl, ha presentato un esposto sindacale. Presunta aggressione da parte tua. Vuole che tu venga punito.» «Balle.» «Lo so, ma è quello che sostiene lui.» «Parla con Sally» dissi. «Era presente. È stata presente per tutta la discussione.» «Lo farò» mi assicurò Lamar. «Ma tu non dirle niente. È una testimone ed è meglio lasciare che il processo faccia il suo corso.» «Voglio quel pezzo di idiota fuori dal caso» dissi. «Non posso farlo, Carl. Conosci le regole. Stai attento a quello che fai.» «Sto attento un cavolo» risposi. «Voglio strangolarlo, quello stronzetto.» «Ah, prima che me ne dimentichi, qualche minuto fa ha chiamato quella ragazza di nome Huck. Vi cercava. La centrale non me l'ha detto perché la comunicazione è finita tra i tuoi messaggi, ma ho letto il registro.» Per essere uno che non voleva essere coinvolto nell'indagine... «Quando ha chiamato?» «Un'ora fa circa. Non ha lasciato messaggi. Ha detto solamente che aveva bisogno di parlarvi prima del vostro rientro.» Si interruppe, sorpreso. «Aspetta, che controllo l'appunto...» «Rientro? Come faceva a sapere che eravamo partiti?» «Già, non ci avevo pensato. Ecco qua. Il messaggio dice "...prima che tornino..." Non le hai detto tu che ve ne sareste andati?» «No. Non... aspetta un secondo.» Coprii il telefono. «Hai parlato tu a Huck della nostra partenza?» «No» disse Hester. «Neanch'io» disse Harry, per farmi contento. «Ci ha cercato e ha lasciato un messaggio in cui dice che ci vuole parlare prima del nostro rientro.» Stavo cominciando a preoccuparmi. «Lamar? No, neanche Hester ha detto niente.» Tirai fuori una penna dalla tasca. «Mi dai il numero di telefono segnato sul messaggio, per favore?» Non era il numero della Villa, ma mi sembrava familiare. «Sai a cosa corrisponde?» Molto probabilmente non era nuovo neppure per Lamar. «Sì, è il numero del reparto amministrativo della nave-casinò.» «Le farò una telefonata» promisi. Restituii il telefono a Hester. «Devo convincermi a comprare uno di questi cosi.»
«L'intero stato te ne sarebbe grato» disse. «Huck deve aver parlato con Jessica o Tatiana subito dopo che ce ne siamo andati dallo studio» dissi. «Ha chiamato in ufficio qualche minuto fa. Credo che faccia il turno dalle 6.00 alle 14.00, il che significa che quando ha chiamato in centrale era al lavoro e lo era anche quando abbiamo lasciato lo studio.» «Quindi sono state loro a chiamarla?» Io ed Hester immaginavamo che Huck non potesse fare delle telefonate interurbane. «Forse. È meglio che le telefoni.» Hester mi ripassò il telefono. La nave-casinò, a buon diritto, non amava interrompere i giocatori e mi dissero di richiamare dopo un quarto d'ora. Ebbi il tempo di raccontare a Hester e Harry di Borman e della sua vertenza sindacale. Hester scosse la testa. Harry raccontò di una storia simile tra lui e una matricola, finita con la matricola stessa a fare il commesso in un supermercato. «Sembra che oggigiorno i giovani non sopportino le critiche costruttive.» «Già» commentai tristemente. «Quello che il mio giovanotto non sa è che mi sono contenuto.» Il cibo arrivò mentre il telefono di Hester suonava di nuovo. Lei rispose, sorrise e me lo passò dicendo: «Lamar». «Pronto?» «La tua amica Huck ha appena richiamato. Mi ha dato questo numero di telefono e mi ha detto di chiamarla subito.» Tirai di nuovo fuori la penna e scrissi il numero. Per la fretta dimenticai che dovevo comporre il prefisso. Mi rispose una strana musichetta. «Il prefisso» disse Hester, con il cucchiaio a metà strada tra la bocca e il piatto di zuppa. Ricomposi il numero. «Pronto?» Rispose una voce smorzata. Era Huck. «Sono Houseman. Volevi parlarmi?» «Sì. Ha fatto presto. Allora, le è piaciuta Lake Geneva?» domandò, ancora sottovoce. «Bellissima, almeno finora.» «Fatevi un bel giro. Ascolti, mi ha chiamato Tat perché aveva alcune cose da dirmi e io le ho assicurato che si può fidare di lei. Può, vero?» «Certo.» Tat? Evidentemente conosceva Tatiana meglio di quanto avessi immaginato.
«Okay, senta, vuole incontrarla. Tra mezz'ora. Jessica è impegnata e Tat vuole parlare con qualcuno. Ha paura» disse Huck. «Okay. Dove?» Ci fu una pausa. «Prima deve sapere che Tat è innamorata di Jessica, capito? Molto innamorata, intendo.» Non si può dire che la notizia mi lasciasse senza fiato, ma un po' mi sorprese comunque. «Ah sì?» Huck sospirò. «È importante che lo sappia perché capisca ciò che le dirà.» «Va bene.» «Vuole incontrarla all'osservatorio. Sa dov'è?» «L'osservatorio Yerkes?» Oh, sì. «Esatto. La troverà sulle scale sul retro. L'avverto subito, adesso devo andare, grazie, sia buono con lei.» Riattaccò. «Allora?» chiese Hester. «Jessica e Tatiana l'hanno chiamata» dissi. «Innanzitutto voleva assicurarsi che le avessero detto la verità.» «Dubita anche di quello?» chiese Harry. «Huck dice che Tatiana vuole incontrarci all'osservatorio Yerkes.» Hester appoggiò il cucchiaio, tirò fuori una cartina dalla borsa, l'osservò per un momento e quindi disse: «Un gioco da ragazzi». 30 Mercoledì 11 ottobre 2000 15.12 L'osservatorio Yerkes è gestito dall'Università di Chicago. È una struttura composta da due distinte aree di osservazione, e da un lungo corridoio che le unisce. L'edificio in sé è una perla architettonica. Costruito nel 1895, in arenaria dorata, elegantemente decorato, è completo di gargolle, grifoni e altre creature mitologiche, così come di segni astrologici, cupidi e in pratica qualsiasi altro elemento che possa conferire al luogo un'atmosfera gotico-vittoriana. Le cupole stesse sono molto ornate, con archi sorretti da colonne che corrono lungo tutti i piani inferiori, simili a quelli della torre di Pisa. In tutto l'ambiente si respira un'atmosfera alla Jules Verne e quasi ci si aspetta di veder comparire i famosi astronomi Hale, Barnard e Bumham.
Quando svoltammo nel viale di accesso, Hester esclamò: «Caspita che posto!». «Bello, vero?» Le fornii i dettagli di base che avevo appreso anni addietro quando avevo fatto la visita guidata. «Qui sono successe cose importanti» conclusi. Parcheggiammo davanti all'entrata principale. C'erano solo tre o quattro auto e spazio per circa il doppio. Dall'altra parte dell'edificio c'era l'immagine speculare dell'entrata principale, così attraversammo il prato, girando intorno alla cupola centrale, e ci avvicinammo al retro, in quel momento deserto. Tatiana era seduta sui gradini di granito, a un cinquantina di metri da noi. Sopra ai fuseau da ballo aveva messo un paio di larghi calzoni neri e un paio di scarponcini con i lacci, alti fino alla caviglia. Era illuminata dal sole pomeridiano e i suoi capelli brillavano come una lampadina al neon. Mise la mano sulla fronte per proteggere gli occhi dal sole e mentre ci avvicinavamo si alzò in piedi. «Ciao» la salutai. «Cosa possiamo fare per te?» chiese Hester. Non sembrava nervosa, solo di fretta. «Sentite, non ho molto tempo e ci sono un paio di cose che dovreste sapere.» «Siamo tutt'orecchi» dissi. «Facciamo una passeggiata» suggerì Tatiana. La seguimmo e io e lei ci ritrovammo a camminare vicini lungo un tortuoso percorso attraverso il prato, mentre Harry ed Hester ci seguivano a pochi passi di distanza. «Okay, primo: dovreste sapere che abbiamo raccolto Dan Peale mentre tornavamo a casa e gli abbiamo dato un passaggio.» «Tu e Jessica? Quando ve ne siete andate da Freiberg?» Meglio chiarire anche l'ovvio. «Sì.» «Dove ha trascorso la notte?» domandò Hester. «Qui,» disse Tatiana «a Lake Geneva.» Seguimmo il marciapiede e ci addentrammo in un boschetto. «Aspetta un secondo» dissi. «Il vostro avvocato ci ha detto che siete partite la mattina presto. Come ha fatto a trascorrere la notte qui e a farsi dare un passaggio da voi?» Tatiana rise. «La mattina presto? Volendo, non è una bugia. Siamo partite dieci minuti dopo mezzanotte.»
Gli avvocati. Mentono anche quando dicono la verità. «E dove avete incontrato, Dan?» «All'entrata della miniera, sapevamo che era lì» disse. «Abbiamo accostato e Jessica ha suonato il clacson. Lui ha scavalcato la recinzione in pochi attimi e siamo ripartiti.» «Come facevate a sapere dove si trovava?» chiesi. «Con i cellulari» disse Tatiana, con un'alzata di sopracciglia e un implicito "scemo" sulla punta della lingua. Di nuovo. Dovevo comprarmi uno di quei maledetti aggeggi, così non mi sarei dimenticato della loro esistenza. «Adesso dov'è?» continuai. «Non lo so. Credo che Jessica lo sappia, ma io no.» «Quando è stata l'ultima volta che l'hai visto?» chiese Hester. «Stamattina, alle sette e mezza. Per questo vi volevo parlare. Ha preso una delle macchine di Jessica e ho paura che voglia coinvolgerla nei suoi piani.» Se non stava per crollare, era al limite. «Perché hai deciso di dircelo?» «Vuole che lei stia con lui per sempre» disse Tatiana. «Adesso Jessica è furiosa con lui, e questo mi fa piacere, ma ha lasciato che prendesse l'auto perché hanno trascorso l'ultima notte insieme e perché lui sta giocando con i suoi sentimenti.» Fece un profondo respiro. «Jessica è una persona magnifica e Dan la metterà nei guai.» «Come fai a sapere che Jessica è arrabbiata?» chiesi. Il fatto che avessero trascorso la notte insieme non mi sembrava un sintomo di rabbia. Mi era difficile anche immaginare una Jessica Hunley piena di attenzioni. «Oh,» disse Tatiana «avrebbe dovuto vederla quando lui è salito in macchina alla miniera. L'ha preso a schiaffi. Davvero. Tre volte, e gli ha dato dell'idiota e del pazzo.» Mentre parlava, sgranò gli occhi. «Non l'ho mai vista così. Era furibonda.» «E lui non l'ha fermata?» domandò Hester. «Si è seduto e basta. Dico sul serio. Io stavo guidando, lui è entrato in macchina e Jessica ha cominciato a prenderlo a sberle e lui è rimasto immobile e l'ha lasciata fare.» «Stai dicendo la verità, Tatiana?» Hester non sembrava molto convinta. «Dovevate vederla. Non sto scherzando. Lui aveva lo sguardo pietrificato e non ha detto una parola.» Interessante. Tatiana ci stava comunicando, senza ombra di dubbio, che
era Jessica la personalità dominante. «Be', dal momento che sta già offrendo protezione a un criminale,» disse Hester «quale altro danno può causarle?» «Vuole andare a Londra» disse Tatiana. «Capite?» «No,» dissi «credo di non capire. Perché Londra?» «Sostiene di essere originario di lì. E comunque, per andare così lontano ha bisogno di più energia» disse la ballerina. «Molta di più.» «Ah, sì?» Mi stavo perdendo. «Temiamo che debba uccidere di nuovo, per acquistare energia prima di poter affrontare un viaggio simile.» «E per avere più energia, deve uccidere qualcuno?» domandai, pensando: "Mio Dio, questa gente è completamente fuori di testa". «Voi sapete cos'è. Huck mi ha raccontato di avervelo detto.» «Vuoi dire un vampiro?» «Sì.» «Già,» dissi «lei e Toby e penso anche tutti gli altri credono che lo sia, con delle differenze, però.» Mi strinsi nelle spalle. «Non sono convinto che Huck ci creda fino in fondo. E tu?» «Lo è.» Lo disse in modo semplice e convinto. «È un vampiro. Acquista energia bevendo sangue. Lo so.» Non era il momento di spiegare la lieve differenza che esiste tra essere un vampiro e delirare. Lei ci credeva e questo era quanto. La cosa importante era che, se anche lui credeva veramente di esserlo, c'erano buone possibilità che si comportasse come tale. Se invece si faceva passare per vampiro solo per impressionare o spaventare certe persone, quando non si trovava a contatto con loro si comportava normalmente. A mio parere quest'ultima ipotesi era la più probabile. «Allora,» disse Harry «dove pensi che sia diretto?» Tatiana rimase in silenzio per qualche istante, pensando alla risposta da dare. Era davvero preoccupata, su quello non c'erano dubbi. Guardò l'orologio. «Okay, ascoltatemi: Toby ci ha contattato tramite e-mail e ci ha detto che doveva dire alcune cose a Dan. Gli abbiamo risposto di inviarle a noi e le abbiamo comunicate a Dan.» Aveva un'espressione molto seria. «Toby non è molto affidabile, sapete?» «Sì,» dissi io «lo sappiamo.» Mi riproposi di ottenere un mandato di perquisizione per il computer di Toby, ed ero certo che Harry stesse pensando la stessa cosa riguardo a quello di Jessica. «Dunque, Toby ci ha scritto che Edie stava parlando con la polizia. Che
sareste voi, suppongo» aggiunse, come per un ripensamento. «Allora Dan l'ha chiamato e gli ha detto di fermare Edie infilando... infilandole un palo nel cuore e altre cose del genere.» Un altro respiro profondo. «Oggi ci avete confermato che l'ha fatto veramente.» «Giusto. O almeno, in parte. Ha infilato il palo,» dissi «ma non è riuscito a fare il resto.» Tatiana aprì la bocca per parlare, ma sollevai una mano. «A scanso di equivoci, io non ho detto che Edie ci stava parlando. Intendevo dire che il suo corpo poteva fornire degli indizi al patologo. Toby ci ha aggiunto un pizzico di fantasia.» «Oh.» Ebbi l'impressione che non mi credesse. «Be', comunque Toby ci ha scritto anche che Huck aveva parlato con voi e pensava che Melissa stesse per cedere.» «Non è andata così» puntualizzai io. «Dan pensa di sì,» disse Tatiana «questo ve lo posso assicurare. E adesso è infuriato.» «E allora?» «Ho paura che possa tornare alla Villa e fare del male a qualcuno.» «Perché dovrebbe farlo? I poliziotti sanno tutto della Villa» disse Hester. «Perché lui se li è coltivati solo per quello» disse Tatiana. «Loro sono i suoi seguaci, capite? E anche il suo gregge, la sua scorta di sangue.» «Senti,» proposi «perché non vieni con noi in qualche posto dove possiamo scrivere tutto e tu puoi...» «Mio Dio, ragazzi! Devo tornare indietro» disse. «Se Jessica scopre che me ne sono andata...» I suoi occhi si fiondarono nuovamente sull'orologio. «Più tardi, forse. Magari questa sera. Voi mi credete, vero? Dio, Huck ha detto che eravate persone di cui ci si può fidare.» «Credo che tu sia al corrente di cose molto importanti, questo è sicuro» risposi. «Credo che Dan sia infuriato e che Toby sia un idiota. Credo anche che sia meglio mandare qualcuno alla Villa.» Tatiana si allontanò in fretta. Sembrava quasi saltasse quando si voltò verso di noi. «Vi chiamo più tardi» disse, e sparì. Decidemmo che era meglio avvisare le persone presenti alla Villa, nel caso in cui Dan fosse veramente diretto lassù. Anche se avevo qualche dubbio in proposito. Delirio non sempre è sinonimo di stupidità. Chiamai il dipartimento con il telefono di Hester e chiesi a Sally di trasmettere un messaggio a Borman. «Aspetta un secondo, ti ci faccio parlare.»
«Cosa?» Volevo evitarlo, almeno finché non ci fossimo trovati faccia a faccia, ma non ebbi scelta. «È nella stanza interna che compila i rapporti.» Borman prese il telefono un secondo dopo. «Salve.» «Non dovresti essere alla Villa?» «Ci siamo andati e va tutto bene. Ho creduto fosse meglio tornare e stendere rapporto.» Perché avesse preso questa decisione mi era chiaro, ma comunque non mi piaceva neanche un po'. Qualcosa mi diceva che stava cercando di evitare di dover fare degli straordinari più di quanto desiderava mostrarsi efficiente. «Ascolta, torna lassù e parla di nuovo con i ragazzi, d'accordo? Riteniamo che Peale si trovasse a Lake Geneva questa mattina, ma adesso se n'è andato. È al volante di una delle macchine di Jessica, ma non sappiamo quale. Ci sono buone possibilità che stia tornando alla Villa. Dillo ai ragazzi, a tutti.» Cercai di mantenere un tono cordiale, o quantomeno normale. Borman non sapeva che ero al corrente della sua vertenza sindacale e se gliel'avessi fatto capire, avrebbe immaginato che a dirmelo fosse stato Lamar. «Capisco. Certo. Allora, tu ti trovi a Lake Geneva?» Un'ottima intuizione e del resto non c'era ragione di tenerlo ancora nascosto, visto che avevamo già parlato con Jessica. «Sì, siamo a Lake Geneva. Dobbiamo fare ancora qualche colloquio. Dovremmo tornare entro domani.» «Il grado ha i suoi privilegi, eh?» Non riuscii a capire se stesse scherzando o se facesse del sarcasmo. «Infatti. E faresti bene a ricordartelo.» Feci un respiro profondo e cercai di calmarmi. «Tientelo per te, però. Dovete saperlo solo tu e Lamar. Non c'è motivo perché lo venga a sapere anche altra gente. Non ancora.» «Va bene. Comunque quaggiù non succede molto.» Sembrava serio e sincero. «Ho capito. Potresti fare qualche straordinario e restare da quelle parti, per stasera. Forse sarebbe meglio chiamare un paio di ausiliari perché vengano a farti compagnia.» «Giusto.» «Mi ripassi Sally, per favore?» «Eccomi!» Quella ragazza sembrava sempre allegra. «Tienimi aggiornato su tutte le novità, d'accordo?»
«Sempre, Houseman. Ehi,» disse «ho sentito dire che sono una testimone.» «Ah, sì, penso di sì. Ma non posso parlarne con te.» «Certo. Però penso che Borman sia un vero pezzo di merda. Si comporta proprio come un coglione.» «Non ho un parere ufficiale in merito» dissi sorridendo, mio malgrado. «Posso solo dire che sono completamente d'accordo con te.» «Mi fa piacere.» «A ogni modo, oggi mi potete trovare sul cellulare di Hester e, per questa sera, Lamar ha il numero del motel in cui alloggio. A Lake Geneva.» «Lo immaginavo» disse. «Non mi sembri sorpresa. Quanto tempo ti ci è voluto a scoprirlo?» «L'ho saputo quando Lamar ti ha chiamato dalla centrale.» Captavo il sorriso dalla sua voce. «Non ci sono segreti nella Nation County» dissi. «L'hai detto. Ah, senti...» «Sì?» Stavo quasi per riattaccare. «Lamar ti ha detto che ha l'influenza?» «No, non mi ha detto niente.» «Credo stia parecchio male. Preparati a essere richiamato alla base, Houseman. Abbiamo fuori sia Norris sia Willy.» «D'accordo.» Questa volta interruppi la comunicazione prima che potesse darmi altre brutte notizie. Il dipartimento aveva ormai solo quattro effettivi, me compreso. Informai Hester e Harry i quali mi dissero che pensavano di poter completare il lavoro anche senza di me, se fosse stato necessario. Lo fecero con delicatezza, però. Come sottolineò Harry: «Ci mancherai a tavola». Poi dissi a Hester di chiamare Hawkins. Ogni tanto doveva ben usare il suo telefono. Gli spiegò le ultime novità e Hawkins le disse di trasmettere immediatamente un comunicato, in modo che i dati per cercare Peale venissero inviati in tutti gli stati del Midwest, inclusi Iowa, Wisconsin, Michigan, Minnesota e Illinois. Con l'annotazione che il sospetto era armato, pericoloso e ricercato nell'Iowa. Era auspicabile che la cosa portasse a qualche risultato. «Visto che abbiamo a disposizione tre ore prima di chiamare Jessica,» propose Hester «che ne dite di dare un'occhiata ai negozi di antiquariato?» Entro l'ora di chiusura, Hester aveva comprato tre candelabri in ottone e
io avevo un piccolo vaso di cinabro per la collezione di Sue. Harry aveva girato molto, ma non aveva preso niente. «Non riesco a trovare delle buone porcellane Royal Daulton da nessuna parte» si lamentò. Per rifarsi della delusione, impegnò la proprietaria di uno dei negozi in una conversazione sul "grande edificio grigio". La casa di Jessica Hunley, naturalmente. Sembrava che tutti fossero d'accordo con noi quando dicevamo che assomigliava a una sede governativa. La donna raccontò a Harry alcuni dei pettegolezzi locali sugli Hunley, iniziando con l'affermazione velata che parte dei loro soldi proveniva da fonti non del tutto legittime e terminando con un giudizio su Jessica. «Sarà lei a ereditare tutto quanto» disse. «Sembra simpatica, ma c'è qualcosa che...» «A dire il vero,» disse Harry «per quasi tutti quelli che hanno tanti soldi potremmo dire la stessa cosa, non le pare?» «Oh, sì. La conosco da quando andava al liceo. È sempre stata in grado di cavarsela da sola.» «Sembra che i ragazzi ricchi finiscano sempre in mezzo a qualche guaio, no?» continuò Harry, fingendo stupore. Era molto bravo. «È vero. Volete sapere qualcos'altro?» «No. La Royal Daulton è quello che mi interessa.» «Bene» disse. «Quella Jessica, ha sempre dei problemi con i suoi protetti, per una ragione o per l'altra.» «Davvero?» disse Harry, con un fascino che non gli vedevo mettere in mostra dal suo ultimo processo per omicidio. «I giovani di oggi sono un po' diversi.» «Non durano a lungo insieme» commentò la donna. «Adesso ne ha una con dei capelli così brutti... eppure è quella che sta con lei da più tempo. Devono essere tre anni. Non penso che passerà molto prima che Jessica trovi qualcun altro.» «Ne sono sicuro» disse Harry. «Non ha molta fortuna. Credo che alcuni se ne siano andati, ma uno è annegato nel lago e un altro è morto in un incidente automobilistico, all'incirca quattro anni fa.» «Sul serio?» chiese Harry. «Oh, sì. Una è scappata con un assicuratore del posto, rovinandogli la famiglia. Comincio a credere,» disse seria «che sia un difetto dei ballerini.»
«Oh, sono assolutamente d'accordo con lei.» Quando tornammo in macchina, Harry sorrideva tra sé. «Ci riesco ancora, vero? Non mi trovate affascinante?» «Sì, hai un fascino irresistibile» lo schernii, mentre Hester scuoteva la testa. «Non m'importa di quello che dicono gli altri, Harry, riesci a sembrare quasi umano quando ti impegni.» «Lo credi davvero? Non me lo dici solo per essere gentile? È stato fantastico, no?» Poi, rivolto a entrambi: «Avete sentito? Due morti collegati a Dan il vampiro. Per me è sufficiente». In quel mentre il telefono di Hester squillò. Era Hawkins. Avevano controllato la casa e la scuola di ballo della Hunley. Non c'era più traccia della Mercedes Benz 2000 SUV argentata. Non significava molto, naturalmente, ma visto che Peale aveva preso una delle due auto, se fossero riusciti a rintracciare la BMW? Hester lo ringraziò e gli raccontò della chiacchierata di Harry con la negoziante. Non riuscivo a sentire quello che diceva lui, ma dopo alcuni secondi chiuse la telefonata dicendo: «Ho capito. Va bene. Grazie». Poi fece un respiro profondo e buttò fuori l'aria molto lentamente. «Questo maledetto caso si complica sempre di più, vero?» «Sembra di sì.» «Be', spero che Hawkins non abbia grossi impegni per il prossimo mese.» «Dobbiamo stare attenti» dissi. «La situazione attribuisce a Jessica un'immagine molto sinistra. Forse più di quello che non meriti.» Hester sfoderò un sorrisetto diabolico. «Davvero?» Finito lo shopping, andammo direttamente a Lake Geneva, parcheggiammo e facemmo un giro a piedi, mentre cercavamo un posto per cenare. Nel tragitto passeggiammo lungo il pontile di una costruzione in mattoni chiamata "Rivera". Il Rivera aveva una sala da ballo al secondo piano e chissà che cosa al terzo. Aveva anche delle torrette. Era un posto veramente affascinante. Da lì si poteva vedere molto bene l'enorme casa di Bridgett Hunley. C'erano numerosi motoscafi e un paio di barche a vela in movimento. Un bello scenario, che ci permetteva di intuire qualcosa sulla giovane Jessica e su come fosse facile "annegare" in quel lago enorme. Ci fermammo e guardammo oltre la ringhiera. C'erano dei pesci che nuotavano sul fondo sabbioso, a una profondità di circa tre metri. A pensa-
re che laggiù ci poteva essere un cadavere, quella visione risultava un po' meno rilassante. Il cielo era chiaro, il rumore dell'acqua lieve e gli alberi avevano conservato ancora un po' di colore. Era uno spettacolo bellissimo. Mi gustai il pensiero che quella fosse la prima vera gratifica in oltre vent'anni di servizio. Cenammo in un piccolo locale chiamato Speedos Harbor Side Café, di fronte al Rivera, seduti a un tavolo con un'ottima vista sul lago. Mentre ci guardavamo intorno, una barca di salvataggio scivolò lentamente accanto al molo da cui eravamo appena venuti via. Mi fece tornare in mente l'annegamento. Era difficile credere a una coincidenza ripensando ai due compagni di Jessica morti. Uno poteva anche essere stato un incidente, ma due? Evidentemente Hester stava pensando la stessa cosa. «Un incidente stradale, specie se mortale, è più difficile da simulare di un annegamento» disse. «Già.» «Non sei di grande aiuto. Mi stai prendendo in giro?» «Già.» Harry rise. «Hester però ha ragione...» Negli ultimi cinquant'anni, anche grazie al coinvolgimento e agli interessi delle compagnie di assicurazioni, sono stati fatti veri e propri studi sugli incidenti stradali. Ogni caso viene misurato, fotografato e analizzato in maniera completa e minuziosa, mentre le tecniche di ricostruzione fanno sì che venga smascherato ogni tentativo di imbroglio. Uccidere qualcuno simulando un incidente stradale è facile, ma è praticamente impossibile farlo sembrare un fatto accidentale. «Però, se volessi uccidere qualcuno, sarebbe più facile simulare un annegamento.» «Già.» Fu Hester a parlare. La guardai. «Hai ragione. Non aiuta granché.» Guardò fuori dalla finestra, verso il lago. «Bevi un po' troppo e cadi in acqua. Niente di strano, affoghi e basta.» «Già. Magari non sai nuotare bene... Anzi, meglio se non sai nuotare affatto. E la maggior parte delle volte la gente viene uccisa per fatti stupidi come la rabbia, o la gelosia. Da persone conosciute.» Guardai Hester, in cerca di approvazione. «La gelosia è un buon motivo,» disse lei «perché può condurre a una reazione più fredda rispetto a un accesso di rabbia.» Si morse le labbra. «Jes-
sica non è più tanto giovane, uomo» disse nella sua migliore imitazione di John Wayne. «Già.» Mi fulminò con un'occhiata. «Quando ti imbatti in una persona che sembra essere circondata da determinati eventi,» evitò di pronunciare la parola "omicidi" perché stava passando una cameriera «viene naturale pensare che possa essere la causa di tali eventi. Per esempio, se la vittima che è affogata aveva a che fare con il nostro vampiro,» fece un mezzo sorrisetto «il risultato è scontato.» Questa volta fu Harry a dire «Già...». Hester picchiettò le dita sul tavolo. «È meglio smetterla di fare troppe ipotesi, Houseman. Si rischia di convincersi che esistano delle vere prove.» «Però serve a far passare il tempo» dissi io. Hester prese il cellulare e compose un numero. «Puoi farci avere delle copie dei rapporti relativi alle indagini di cui abbiamo parlato? Sia dell'incidente stradale sia dell'annegamento? Ottimo. Ah, e quando è avvenuto l'annegamento? Davvero? Interessante. Grazie.» Chiuse la comunicazione, con aria soddisfatta. «L'annegamento è avvenuto nell'estate del '97» disse. «Secondo Hawkins, verso la fine di luglio o all'inizio di agosto.» Gli hamburger erano eccellenti. Era stata un giornata produttiva e la visita di casa Hunley sarebbe avvenuta entro un'ora e mezza. Ero già impressionato ancor prima di entrarvi. Hester ricevette un'altra telefonata e me la passò. «Mi pare di essere la tua segreteria telefonica.» Mi chiamavano dalla centrale. Erano rimasti in due a causa di quella maledetta influenza. Lamar aveva detto di chiedermi di tornare non appena possibile. Aveva detto che Hester e Harry se la sarebbero cavata anche da soli. Aveva ragione, naturalmente. Salutai Hester, Harry e Lake Geneva alle 18.14. Mi dispiaceva andarmene, ma i miei due compagni mi assicurarono che mi avrebbero aggiornato su qualsiasi sviluppo. Maledizione. Credo che mi seccasse perdere la visita a casa Hunley nonché il colloquio con Jessica. Guidai sotto la pioggia, ma fu un viaggio senza imprevisti finché non venni contattato via radio all'altezza di Dodgeville. Mi dissero di andare al
dipartimento locale. Mi stava aspettando un vicesceriffo. «Ci hanno lasciato un numero che devi chiamare» disse. «Credo sia piuttosto urgente.» Mi condusse in un ufficio privato. Il mio primo pensiero andò a Sue e a nostra figlia Jane. Ma era il numero di cellulare di Hester. «Sono Houseman. Com'era la villa?» «Bellissima, ma ne parliamo dopo, adesso è meglio che tu sappia che hanno localizzato la Mercedes argentata di Jessica. È stata abbandonata in un luogo chiamato Capron, nell'Illinois.» «Quanto dista dalla Nation County?» chiesi. Non avevo mai sentito nominare Capron. «Aspetta un secondo» disse Hester, e sentii un fruscio di fogli. La cartina. «È a sud-ovest di Lake Geneva e a nord-est di Rockford. A circa cinquanta chilometri da qui.» «Allora non è diretto verso la Nation County?» «Non ci giurerei» disse. «La macchina è stata abbandonata da un concessionario di macchine usate e il proprietario sta controllando se gliene manca un'altra. C'è la possibilità che stia tornando a casa, a Moline. Sembra che Jessica l'abbia avvisato che siamo qui e che stiamo facendo un sacco di domande.» «Ah.» «Non ci sono dubbi sul fatto che l'auto l'abbia presa lui. Jessica ci ha detto che aveva lasciato le chiavi nel cruscotto.» «Molto intelligente da parte sua» commentai. «Un'ottima scusa.» «Cazzo, Houseman, c'era anche il suo avvocato di qui. È un diavolo con i tacchi alti che ha una spiegazione per qualsiasi cosa. Jessica ha negato di sapere come ha fatto Peale ad arrivare a Lake Geneva. Non le abbiamo parlato di Tatiana, le abbiamo solo chiesto come ha fatto il nostro uomo a prendere la sua auto e come ci è potuto entrare.» Hester sembrava nauseata. «Comunque, l'abbiamo interrogata due volte e alla fine aveva l'aria veramente preoccupata. Sua zia sembrava un po' arrabbiata con lei.» «Bene.» «Ti dico quello che faremo» continuò. «Tu prosegui il tuo viaggio e se scopriremo che da quel concessionario di Capron manca una macchina, ti faremo chiamare via radio, così lo verrai a sapere subito.» «Va bene. Ah, Hester?» «Sì?» «Se domani fate di nuovo il brunch, mi potreste portare gli avanzi?»
Ero a circa quaranta chilometri a est del Mississippi e della Nation County quando la radio di stato del Wisconsin mi contattò nuovamente. Mi trasmisero un messaggio molto semplice. Dovevo cercare una Honda blu a cinque porte del '96. Naturalmente era senza targa, visto che era stata rubata dal concessionario. Non mi fu data alcuna indicazione sulla direzione seguita dall'auto, visto che nessuno la conosceva. Mi dissero semplicemente che, con ogni probabilità, era diretta verso di noi. Arrivai nella Nation County alle 22.44 e lo comunicai alla centrale. La nuova operatrice, Norma, disse che avrei dovuto mettermi subito in contatto con Borman via radio. Lo feci e lui mi chiese di incontrarci all'inizio del viale che conduceva alla Villa. Quando uscii dall'auto, cadeva una pioggerellina fitta e uniforme. C'erano circa cinque gradi, ma sembravano molti di meno. Attraversai di corsa la strada sterrata completamente allagata, tenendo in mano l'impermeabile di plastica verde. È impossibile vestirsi in macchina e avrei fatto prima a raggiungere l'autopattuglia di Borman. Sally aprì di scatto la portiera anteriore e ci mancò poco che mi colpisse. «Sali davanti» disse, e mi scivolò accanto per aprire la portiera posteriore e rientrare in macchina. Lasciò la portiera socchiusa, in modo da poter uscire senza farsi aprire dall'esterno. Nel retro delle autopattuglie non ci sono leve, per evitare tentativi di fuga. Mi lasciai cadere sul sedile, sbattendo il ginocchio sinistro contro la consolle della radio. «Che tempo di merda» dissi. «Cosa c'è?» «Cosa ci facciamo qui?» chiese Borman. «Non si vede niente, nessuno è entrato o uscito dalla Villa nelle ultime quattro ore e sono in piedi da questa mattina alle sei.» Cominciavo a pensare che quel giovanotto stesse frequentando un corso su come irritare i propri superiori. «Be', innanzitutto il tuo amico Peale "lo squartatore" ha lasciato Lake Geneva poco prima di me. Ci sono buone probabilità che sia diretto qui.» Silenzio. «Poi, secondo alcune informazioni che abbiamo ricevuto sembra che sia molto, molto arrabbiato con alcuni dei ragazzi della casa.» Mi venne un brivido. «Hai del caffè?» Tirò fuori un thermos. «Ecco qui.» «Grazie. Anch'io sono in piedi dalle sette.» Svitai il tappo e Sally mi
passò una tazza di plastica. Versai il caffè fumante, appoggiai la tazza sul cruscotto e riavvitai il tappo del thermos. «Chi altri sono disponibili, stasera?» «Dieci è l'ultima macchina. Monta a mezzanotte. Questo è quanto. Oltre a lui, ci siamo io e Sally.» «Merda» commentai. «Questo significa che dovremo stare qui tutta la notte.» «Cosa?» «Sì. Tutta la notte.» Mi voltai sul sedile. «E tu, ragazza, cosa mi dici? Quando torni a lavorare?» «Domani è il mio giorno libero.» «Va bene» dissi, bevendo un sorso di caffè. «Questo caffè è vecchio. Cos'è questo odore?» «Quale odore?» chiese Sally. «Sì, c'è un odore strano.» «Io non sento niente» disse lei. «Faresti meglio a dirglielo» le disse Borman con un sorriso. Sally inspirò profondamente. «È aglio.» «Cosa?» «Sì, aglio.» Dalla cintura estrasse un piccolo sacchetto di nylon in cui di solito teniamo i guanti in latice, con una testa d'aglio all'interno. «È uno scherzo?» «Senti, non si è mai troppo sicuri» rispose, mettendo a posto il sacchetto. «Dammi retta.» Sospirai. «Va bene, mammina. Tienilo chiuso, però, d'accordo?» «Non ti preoccupare. Vuoi vedere anche il crocifisso?» Risi. «No. Accidenti...» «Non è molto diverso dal mettere il giubbotto antiproiettile» disse. «È solo questione di sicurezza.» Quella frase mi riportò alle questioni pratiche. «Posso farvi una domanda?» Li guardai entrambi. «Certo» rispose Borman. «Si può sapere perché siete qua?» «Controlliamo la zona. Come ci ha detto Lamar.» Sospirai, più per fare effetto che altro. «No. Da quaggiù l'unica cosa che riuscite a vedere è la strada. Non dovete controllare la strada. Dovete controllare la casa.» «Abbiamo cercato di farlo» si giustificò. «Ma Kevin è uscito e ci ha det-
to di allontanarci dal viale. Ha ragione, è proprietà privata.» «Il bosco non è proprietà privata, appartiene allo stato.» «Ma nel bosco non c'è una strada.» Sembrava esasperato. «Cosa avete per proteggervi dalla pioggia?» chiesi. «Impermeabili con il cappuccio, come il tuo. Tute in Goretex. Stivali. Ma non ho nessuna intenzione di arrampicarmi fin lassù sotto la pioggia.» Mi sforzai di apparire il più indignato possibile. Funzionò. «Ma no, certo. Molto probabilmente, il nostro sospetto è su una Honda a cinque porte del '96, senza targa. Non so se sia armato ma facciamo conto che lo sia. Chiaro?» «Sì.» «Perfetto. Allora io mi metto l'impermeabile e vado nel bosco, da dove potrò vedere la casa. Voi state quaggiù e prestate la massima attenzione. Vi chiamerò con il walkie-talkie se vedo qualcosa, e voi farete lo stesso.» Aprii la portiera. «Aspetta» disse Sally. «Abbiamo anche il visore notturno.» Il dipartimento l'aveva acquistato due anni prima da un'eccedenza dell'esercito russo, direttamente da un catalogo commerciale. Era economico e funzionava abbastanza bene, ma aveva un difetto: la batteria aveva un'autonomia di sole quattro ore. Ne avevamo soltanto una e ci volevano altre quattro ore per ricaricarla. Il caricabatteria, naturalmente, era alla centrale. «Lo prendo» dissi. «Quanto è rimasto di carica?» «Tre ore abbondanti» rispose Sally, aggiungendo come per scusarsi: «L'abbiamo usato per alcuni minuti, quando siamo arrivati». Avrei fatto la stessa cosa, ma mi guardai bene dal dirlo. Invece, dissi: «Lo utilizzerò solo in caso di effettivo bisogno». «Secondo me sono necessarie due persone nel bosco e una qui sotto» disse Sally. «Credo che qui sia molto più sicuro. Posso venire con te?» «Hai l'attrezzatura da pioggia?» Quella ragazza aveva fegato. «Troverò qualcosa» disse. «Vai a infilarti la tua roba.» Nel portabagagli della macchina avevo un paio di stivali impermeabili, una cerata e una tenda canadese. Dal momento che non riuscivo a vestirmi in macchina, quando ebbi terminato di infilarmi gli indumenti ero già bagnato fradicio. Tornai alla macchina di Borman. Sally, che era alta poco più di un metro e mezzo, era riuscita a mettersi gran parte dell'attrezzatura da pioggia nell'auto, quindi era relativamente asciutta. Aveva rimboccato le maniche e gli orli della cerata, mentre l'impermeabile con il cappuccio le stava largo
di parecchie taglie. «Come faccio a estrarre la pistola?» chiese. «Tienila sotto la giacca e, una volta che ci saremo sistemati, slaccia la parte finale in modo da arrivare alla fondina.» «Giusto.» «Tu ti fermi qui?» chiesi a Borman. «Sì.» Adesso era lui a essere irritato. «Non so per quanto tempo dovremo stare lassù,» dissi «ma sarà almeno fino alle tre del mattino. Non addormentarti e chiudi la sicura. Meglio evitare che quello stronzo entri in macchina.» Le probabilità che la cosa si verificasse erano molto scarse, ma pensai potesse servire a farlo rimanere sveglio. Sally e io ci sedemmo sulla parte destra del cofano della macchina, mentre lui procedeva lungo il viale, con le sole luci di posizione accese. In quel modo potevamo scendere senza far rumore con le portiere. Un minuto dopo, eravamo in piedi sotto la pioggia gelida a osservare le luci rosse degli stop mentre Borman faceva retromarcia. «Spero che nessuno ci abbia visti» disse Sally. «Non credo» la tranquillizzai. C'erano molte luci accese all'interno della casa. Nessuno che guardasse nella nostra direzione da una stanza illuminata sarebbe riuscito a vedere niente. «Andiamo da questa parte.» Mi diressi a sinistra del cancello principale, seguendo il muro che mi arrivava alle spalle. Finché la casa rimaneva illuminata, era facile trovarlo. Era il nostro punto di riferimento. Proseguimmo per una ventina di metri, verso il punto in cui il muro lasciava il posto al pendio e gli alberi diventavano la linea di demarcazione tra la proprietà degli Hunley e lo stato dell'Iowa. Si vedeva molto meglio di quanto mi aspettassi, grazie all'illuminazione della casa. Mi accucciai e feci segno a Sally di seguirmi sotto un paio di abeti, dove il terreno era abbastanza asciutto e dove saremmo stati al riparo dal vento. Mi inginocchiai e aprii il grande contenitore di plastica con il visore notturno. «Non è male» sussurrò Sally. «Già, meglio di come immaginavo.» Lo impugnai, cercando l'interruttore. Quando guardai nell'oculare mi ritrovai in un mondo fatto di tinte verdi e illuminato a giorno. Passai immediatamente al setaccio tutta la zona. Eravamo a circa cinquanta metri dalla Villa, all'altezza dell'angolo sudoccidentale. Riuscivo a vedere piuttosto chiaramente la linea degli alberi dietro
la casa, sebbene le luci del piano inferiore dessero fastidio. Guardai a destra, verso il punto da cui eravamo arrivati. Molto nitido. A sinistra, vedevo per almeno cinque metri prima che comparissero gli alberi, anche se i cespugli interrompevano la visuale. Dietro di noi, erano anche più fitti. Una buona copertura. Schiacciai il pulsante dello zoom e tutto divenne grande il doppio. Ottimo. Era decisamente comodo, anche se il campo visivo si restringeva moltissimo. Bisognava utilizzarlo solo quando era veramente necessario. Spensi il visore notturno e lo rimisi nella sua scatola con la massima cautela. «Comoda?» domandai poi a Sally. «Sì.» «Bene. Ora, ti devo dire una cosa...» E le raccontai dell'elevatore della miniera. «Vuoi dire che Peale potrebbe saltar fuori da un momento all'altro?» disse dopo che ebbi finito la spiegazione. «Sì, più o meno.» «Santo cielo, Houseman.» «Non preoccuparti troppo. Devi solo fare attenzione, tutto qui.» «Dov'è questo montacarichi?» «Bella domanda.» Sorrisi nell'oscurità. «Da qualche parte sulla tua destra, credo, molto vicino alla collina.» «Credi?» sibilò. «È all'interno di una di quelle vecchie fondamenta della Kommune. Non so dove, di preciso.» «Mio Dio.» «Non capisco perché ti preoccupi tanto» dissi. «Hai l'aglio, no?» Per tutta risposta ricevetti un calcio. Durante i successivi venticinque minuti non successe niente, a parte qualche inquilino che si spostava da una stanza all'altra della casa. A volte riuscivamo addirittura a riconoscerli, se sostavano di fronte a una finestra. Riconobbi con certezza Huck e Melissa. Per il resto, era tutto molto freddo e umido, con un costante gocciolio causato dalla pioggia che filtrava attraverso le fronde degli alberi. Sally controllava essenzialmente a destra. Poi le luci della casa cominciarono a spegnersi. Prima quelle del salotto e della sala da pranzo, poi quasi tutte quelle della cucina. A un certo punto scorsi Kevin molto distintamente, in piedi dietro alla porta a vetri dell'en-
trata. Guardò fuori per un po', quindi sparì. «Sally?» «Cosa c'è?» «Prendi il visore notturno e controlla tutta la zona per un minuto. Specie verso destra. Assicurati che non ci siamo persi qualcosa.» «Okay.» «Niente» annunciò dopo circa un minuto. Aspettammo ancora un po'. Alla fine disse: «Pensi davvero che Peal possa venire qui?». «Non voglio correre rischi.» Venti minuti più tardi, Sally sussurrò: «Mi sembra di aver visto qualcosa». «Dove?» «Laggiù.» Udii Sally prendere il visore notturno. «Aspetta un secondo...» «Dove?» ripetei. «Guarda verso la porta posteriore, poi a destra. A metà strada dalla linea degli alberi. Mi sembra di aver visto qualcosa muoversi.» Guardai, ma non vidi niente. Poi udii il rumore del visore che si accendeva. «Mio Dio!» Non avevo mai sentito nessuno urlare sussurrando. «Cosa?» «C'è qualcuno là fuori!» «Dammi il visore.» «Aspetta un minuto...» «Dammi quel maledetto visore!» sibilai. «Cavolo» disse Sally passandomelo. Stavo per chiederle ulteriori informazioni quando lo vidi. Avanzava accucciato e si stava spostando dalla parte posteriore a quella anteriore della casa, tenendosi al di sotto delle finestre del primo piano. «Sembra che sia diretto verso la porta principale» dissi. Guardai ancora per qualche istante. La pioggia era diminuita, ma non si riusciva ancora a distinguere bene la sagoma. C'era qualcosa nel modo in cui camminava che mi pareva familiare. «Chiama Borman,» bisbigliai «e mettilo in allerta.» Provenendo dal retro della casa, l'intruso doveva essere passato da est, dalla parte della collina, e non da quella dove si trovava lui. Sally premette il pulsante del walkie-talkie e disse: «Otto? Otto?»
O aveva alzato il volume del ricevitore in precedenza, oppure si era alzato da solo tirandolo fuori dalla custodia, fatto sta che la sua radio emise un rumore stridulo molto forte e si udì Borman rispondere «Otto...». Feci un salto di almeno un metro. Sally fu velocissima. Abbassò il volume ancor prima che Borman dicesse «...avanti.» L'uomo che stavo guardando si girò e piegò la testa da un lato. Restò in ascolto per qualche secondo, quindi si voltò nuovamente verso la casa. In quei pochi secondi, però, premetti il pulsante dello zoom e lo riconobbi. «Figlio di puttana» dissi. «Cosa, cosa?» chiese Sally. Riuscivo a sentire la voce di Borman, appena udibile, che ci chiamava. «Rispondigli, digli di restare un secondo in stand by.» Fece come le avevo detto. «Ho riconosciuto il nostro uomo» dissi. «È Peale?» «È William Chester.» 31 Mercoledì 11 ottobre 2000 23.30 «Il cacciatore di vampiri?» domandò Sally. «Sì.» Era immobile. Sulla schiena e su un lato del corpo si intravedevano delle sporgenze, che probabilmente erano lo zaino che gli avevo già visto e qualcos'altro che non riuscivo a identificare. Ma era lui. Ne ero certo. Lo vidi muoversi verso il portico, salire le scale e poi accucciarsi dietro a una colonna e guardare all'interno della casa attraverso una delle porte a vetri. Restò immobile in quella posizione. Dopo un minuto, passai il visore a Sally. «Guarda il portico, dietro la colonna a destra.» «Oh, certo. Lo vedo.» Dopo un secondo, aggiunse: «Carl, credi che... insomma, dal momento che dà la caccia ai vampiri...» «Temi che ne abbia individuato uno?» «Esatto.» «Secondo me, no. Credo che lo stia ancora cercando.» Tentai di sembrare convincente, ma stavo già pensando a un'altra pista. Stavo ripassando
mentalmente tutte le prove che ci portavano a Dan Peale. Che lui e Chester fossero la stessa persona? Erano più o meno della stessa altezza, se i dati sul sedicente vampiro erano esatti. Potevano anche avere circa la stessa età. Inoltre Chester era apparso ogni volta che stavamo cercando Peale e anche quella non era male come coincidenza. «Cosa fa?» bisbigliai a Sally. «Se ne sta lì accucciato.» Presi il walkie-talkie e chiamai Borman sottovoce. «Abbiamo un uomo sul campo,» dissi «ma mi sembra di riconoscerlo. Whisky Charlie.» «10-9?» gracchiò la radio. «Le iniziali sono Whisky Charlie» mi spiegai meglio. Ci fu una pausa, poi: «Ah, 10-4. L'esperto?». «Esatto. Proprio lui. Attenzione, perché potrebbe sapere molte più cose di noi. D'ora in avanti procederemo con un codice 61...» «10-4.» Misi a posto il walkie-talkie. «Adesso cosa fa?» «Non si è mosso.» La mia mente stava viaggiando, cercando di valutare la situazione. Pensai che se Chester non era Peale, poteva averlo seguito fin lì. Avvicinandoci avremmo potuto fare rumore, specie se l'avessimo affrontato sotto al porticato, e se Peale fosse stato in casa, avrebbe potuto scappare. I movimenti delle persone alla Villa, però, in base a quello che eravamo riusciti a vedere sembravano del tutto normali, il che mi faceva scartare quell'ipotesi. Restava quella secondo cui Chester era Peale: in tal caso, magari stava aspettando che gli inquilini andassero a dormire prima di entrare. A dire il vero, neanche quell'opzione mi convinceva molto. Completai il mio piccolo cerchio di ragionamenti. «Stronzate,» dissi ad alta voce «è solamente Chester.» «Lo so che è solamente Chester, e ora si sta muovendo» rispose Sally, ponendo fine al suo diritto di tenere il visore notturno. L'uomo stava attraversando il portico e si dirigeva a sinistra, verso il lato più lontano della casa. Esitò all'angolo, quindi scomparve dall'altra parte. «Cazzo, ha svoltato l'angolo.» Che fare? Muoversi, rischiando di rivelare la nostra posizione? Stare fermi senza sapere dove era diretto? Un solo visore notturno non bastava e in ogni caso non ero più disposto a condividerlo.
«Va bene, Sally. Dobbiamo andare a destra. Proseguiamo per una trentina di metri, poi ci dirigiamo verso la casa. Andiamo avanti quindici metri, fino a quel grosso albero laggiù. Ci muoveremo allo scoperto, quindi abbassati il più possibile. Hai capito?» «Si.» «Okay. Ci fermiamo spiaccicati a terra e controlliamo la situazione.» Cominciai a muovermi. «Non fare rumore,» dissi «e attaccati alla mia giacca.» Col visore, facevo io da guida. Senza, era buio pesto. Impiegammo quasi un minuto. Diedi un'occhiata alla casa attraverso il visore e mi accorsi che riuscivamo a vedere il lato posteriore, quello più vicino e anche l'estremità del porticato. Come immaginavo. «Siamo arrivati all'albero. È sulla tua destra.» «Così vicino lo vedo anch'io» sussurrò. Alzai lo sguardo, senza utilizzare il visore. L'albero incombeva grande e distinto. «Okay. Allora...» Ci sdraiammo entrambi sull'erba umida, sotto la pioggia, in attesa. Passai il visore a Sally. «Controlla se ci sono novità, mentre io cerco di contattare la centrale.» Lo prese con una certa soddisfazione. Poco dopo disse: «Niente». Non si era ancora scaricato, meno male. Cercai di contattare la centrale tre volte, invano. Allora provai a chiamare Borman. Merda. Eravamo troppo lontani dal suo segnale e tra noi c'erano anche parecchi alberi. Probabilmente per riuscire a comunicare avrei dovuto alzarmi in piedi. Restammo immobili per una quindicina di minuti, quindi cominciai a pensare che Chester, ammesso che si chiamasse realmente così, fosse entrato in casa, o se ne fosse andato. «Pensi che Chester possa essere Dan Peale?» sussurrò Sally, «È possibile» sussurrai a mia volta. In realtà avevo avuto troppo poco tempo per rifletterci. «Non credo, però. C'è qualcosa nella sequenza temporale degli avvenimenti che non corrisponde.» Ma ero troppo stanco per giurare che non avesse avuto il tempo di passare dalla Nation County a Lake Geneva e viceversa. «Come facciamo a scoprirlo?» Non mi piacciono le conversazioni sottovoce. Se dovevamo stare in silenzio, allora dovevamo tacere e basta. In quel caso, però, ci fu un vantaggio. Smisi di pensare a come ritrovare Chester e mi resi conto che Borman
era l'unico tra noi ad aver visto Dan Peale, mentre non credevo che avesse mai incontrato William Chester. «Gli facciamo dare un'occhiata da Borman» dissi. «Ora, però, chiudi il becco.» Ricevetti un pugno, leggero ma secco, nelle costole. Restammo sdraiati per altri cinque minuti sotto la pioggia, mentre cercavo di convincere me stesso che la pazienza era davvero una virtù. Ci eravamo già spostati una volta. Farlo ancora voleva dire sfidare troppo la fortuna. Ero un po' preoccupato, però, perché ora l'area in cui pensavo si trovasse l'elevatore della miniera era più alle nostre spalle che sulla nostra destra. Ci mancava solo che Peale spuntasse da dietro. «Sally, potresti usare il visore,» proposi «e controllare dietro di noi, di tanto in tanto?» Riuscii quasi a sentire il suo cervello che si metteva in moto. «Cazzo» mormorò. «Cazzo, cazzo, cazzo...» ripeté mentre rotolava sulla schiena e sollevava la testa per guardare alle nostre spalle. Dopo un secondo, la sentii dire: «Non c'è niente». Poi udii un fruscio, mentre rotolava nuovamente a pancia in giù per guardare avanti. Non accadde nulla per quasi un minuto, durante il quale sentimmo solamente l'acqua che gocciolava dagli alberi. Poi, Sally, emise un soffio leggero, simile a quello di un pallone che perde aria lentamente. Nel frattempo colsi con la coda dell'occhio un leggero movimento nella parte più lontana della Villa. Doveva essere Chester che arrivava dal retro. «Dammi il visore» sibilai, e lei me lo passò controvoglia. Lo appoggiai all'occhio ed ecco materializzarsi William Chester in tutto il suo verde splendore. Si infilò in casa dalla finestra posteriore della cucina e le luci si accesero all'improvviso, inquadrandolo in un rettangolo luminoso. Indietreggiò e io chiusi gli occhi a causa del bagliore prodotto dal visore, che impiegava un po' di tempo ad adattarsi al cambio di luce. Lo persi di vista. All'inizio pensai che fosse fuggito girando di nuovo l'angolo, ma mentre scorrevo con lo sguardo tutta la zona, lo vidi muoversi sulla nostra destra, diretto verso il promontorio e gli alberi dove lo aveva visto il vecchio Knockle il giorno della veglia funebre di Edie. Ma certo. Doveva aver parcheggiato l'auto nello stesso punto e adesso stava tornando verso la strada. Mi alzai in piedi per vederlo meglio mentre scompariva in mezzo agli alberi bagnati e dissi a Sally: «Chiama Borman. Digli di raggiungere la base della collina, dalla parte dell'autostrada. Sta andando li!». Mi dispiaceva
far spostare Borman, ma era necessario che vedesse Chester per essere sicuri che non fosse Peale. E perché Chester non scappasse. Mi avviai verso il promontorio, ero piuttosto distante dal cacciatore di vampiri, ma sapevo dov'era diretto. Sentivo Sally dietro di me che diceva a Borman di muoversi. Correre guardando attraverso un visore notturno è praticamente impossibile. A ogni sobbalzo o movimento brusco tutto risulta sfocato. Allacciai il visore in vita e proseguii più lentamente, per non finire contro un albero. Avendo usato quel dannato apparecchio per alcuni minuti la mia capacità di vedere al buio risultò peggiorata. «Dove stiamo andando?» chiese Sally. «Si è infilato nel bosco, davanti a noi. Gli ci vorranno alcuni minuti prima di riuscire a entrare nella gola che si trova da qualche parte qui di fronte.» Guardai di nuovo attraverso il visore e diedi un'occhiata in giro. Mi sembrava che l'estremità superiore della gola fosse sulla nostra destra. «Di' a Borman di spegnere gli anabbaglianti prima di arrivare sull'autostrada. Non voglio che Chester lo veda arrivare.» Sally era un'ottima operatrice radio. Ripeté al microfono esattamente le mie parole. Nel frattempo mi venne in mente di utilizzare la piccola torcia a infrarossi che faceva parte del visore. Non andava oltre i venticinque metri, ma permetteva di vedere molto bene, anche se consumava le batterie quattro volte più velocemente. La cosa positiva della torcia a raggi infrarossi è che gli altri non ti possono vedere se non hanno a loro volta un visore. Furbi, questi russi. Sally si teneva con una mano al mio impermeabile mentre procedevo con cautela all'interno della gola. Le rocce, che qualche giorno prima erano solo un po' scivolose, questa volta sembravano marmo unto. Avanzavamo molto lentamente. «Non vedo un accidenti» disse Sally. «Meglio così. Fermati qui.» «Perché?» «Dev'essere sceso lungo la gola» dissi. «Lasciami guardare per qualche secondo.» Studiai la zona per poco più di quindici secondi, anche se mi sembrò un'eternità. Niente. Nessun rumore, nessun segno di Chester. «Lo vedi?» «No.» «Posso dare un'occhiata? Sarebbe di grande aiuto.» Buona idea. Mentre le passavo il visore, sentimmo un rumore tra le roc-
ce sotto di noi, ci distraemmo e il visore cadde, urtando quello che mi sembrava un ramo bagnato. Quindi udimmo un rumore secco, come se avesse colpito una roccia. «Cazzo.» «Mi dispiace» si scusò Sally. «Hai una torcia?» chiesi, furioso con me stesso. «Sì, una Mini-Mag, qui da qualche parte...» E udii il rumore della cerniera del suo impermeabile che si apriva mentre cercava di arrivare alla cintura. «Non è colpa tua» dissi mentre aspettavo la torcia. Non dovevo muovermi, perché sapevo che il visore si trovava proprio sotto di me. Vidi la luce della piccola torcia mentre era ancora all'interno dell'impermeabile. Sally doveva aver toccato inavvertitamente l'interruttore. Se l'avesse tirata fuori, avrebbe illuminato tutta la zona circostante. «No! Spegnila!» Ci riuscì subito. Credo avesse infilato anche l'altra mano all'interno dell'impermeabile per spegnere la torcia senza che le scivolasse. Nel farlo, perse l'equilibrio e scomparve con un tonfo e un fruscio causato dall'impermeabile che strisciava contro i rami. Poi, di colpo, calò il silenzio. «Cazzo, Houseman» udii una voce debole. «Sono caduta.» «Stai bene?» «No.» Mi piegai lentamente sulle ginocchia, tenendomi a un ramo. Non sapevo se mi trovavo su una roccia grande o piccola e di sicuro non avrei aiutato Sally se le fossi rovinato addosso. «Cosa c'è che non va?» «Mi fa male il sedere.» «Hai ancora la torcia?» «Sì.» «Accendila» dissi. «Dobbiamo tirarti fuori di lì.» La luce si accese sotto di me. Era caduta in una buca di circa un metro. «Ti fa male qualcos'altro?» «No, solo il sedere» disse alzandosi in piedi lentamente e giungendo con la testa all'altezza delle mie ginocchia. «Il resto sembra a posto.» Constatai che la roccia su cui mi trovavo era piuttosto grande, ma ero a circa cinque centimetri dal bordo. Feci un mezzo passo indietro e dissi: «Visto che sei lì sotto, vedi se riesci a trovare il visore».
Puntò la luce verso il basso e disse: «Eccolo». Lo prese e me lo passò. Lo appoggiai per terra e porsi a Sally la mano sinistra. «Afferrati a me, ma spegni la luce prima di saltar su, hai capito?» Fece come le avevo ordinato. Contai fino a tre, tirai e issai Sally fuori dalla buca. Non appena fu al sicuro sulla roccia, guardai attraverso il visore. Funzionava ancora. L'attrezzatura dell'Armata Rossa era famosa per la sua resistenza. Puntai il visore giù per la gola. «Vedi niente?» «No. Anche se non ci ha visti, se ne è andato da parecchio.» Decisi che un po' più di rumore non avrebbe cambiato la situazione. «Cerca di contattare Borman» dissi. «Scopri cos'ha trovato.» Borman raccontò che tutto ciò che riusciva a vedere era qualcosa che gli sembrava una macchina. Pensai che avesse ancora le luci spente. Almeno adesso eseguiva gli ordini. «Digli che stiamo scendendo e pensiamo che il sospetto sia davanti a noi.» Impiegammo cinque o sei minuti, ma riuscimmo ad arrivare in fondo alla gola. Con il visore notturno, vidi la macchina di cui aveva parlato Borman e l'autopattuglia a una cinquantina di metri sulla destra. Non c'era segno del nostro intrepido signor Chester. Guardai su per la gola e sulle parti del promontorio sotto agli alberi. Niente. «Di' a Borman di venire qui» dissi. Ero arrabbiato con me stesso per il modo in cui si erano evolute le cose. Controllammo la macchina. Apparteneva a un autonoleggio di Jollietville, nel Wisconsin. Non c'erano segnalazioni di nessun tipo che la riguardassero. Una normalissima macchina. Guardammo all'interno dal finestrino, ma vedemmo solo una ricevuta sul sedile del passeggero, con l'intestazione dell'autonoleggio sulla carta rosa. Nessun nome. Le portiere erano chiuse. Non ci aspettavamo di trovare molti indizi in una macchina presa a noleggio. Cercammo di leggere le informazioni scritte sul foglio attraverso il finestrino bagnato, ma non riuscimmo a ottenere nessun risultato perché le gocce riflettevano la luce della torcia. In un attimo d'ispirazione, mi portai il visore agli occhi e schiacciai il pulsante dello zoom. Non c'erano riflessi e vidi il foglio di carta grande il doppio. «William Chester» lessi. «Affittata ieri, all'una e un quarto del pomeriggio.»
Quando cose molto semplici come l'uso di un visore ti fanno sentire meglio, significa che la tua serata non è un granché. Però il fatto che l'auto fosse stata presa in affitto e non rubata confermava per lo meno che Chester non era il vampiro che cercavamo. «Ma dove diavolo è andato?» esclamò Sally. Buona domanda. La mia prima ipotesi era che si fosse arrampicato su per la gola quando mi era caduto il visore e si fosse infilato in mezzo agli alberi. Oppure che fosse a conoscenza del percorso della funicolare. Per esperienza, la spiegazione più strana è quasi sempre quella sbagliata. «Forse è tornato nel bosco» dissi. Persino con un visore notturno, non c'era modo di rintracciarlo tra gli alberi, per di più con tutta quella pioggia. Mi rivolsi a Borman. «Non è una delle nostre serate migliori» dissi. «Cosa ne dici di dare un passaggio a me e a Sally fino alla Villa? Forse è tornato là.» «Certo. Pensi che Chester e Peale siano la stessa persona?» In qualche modo era rassicurante che fosse venuto in mente anche a Borman. «A questo punto no. La macchina non è rubata.» «Oh.» «Ma stai molto attento. Ci potrebbe essere qualcun altro a caccia, stanotte.» «Ho capito.» Sembrava solamente un po' incerto. Almeno avrebbe tenuto le portiere chiuse. «Dopo averci accompagnati, torna qui e mettiti in modo da poter controllare la macchina. Se vede che ce ne andiamo, potrebbe cercare di andarsene anche lui.» «Pensi possa cercare di tornare alla Villa, nonostante la nostra presenza?» Mi piaceva. Era la prima volta che Borman utilizzava la parola "noi" e pensai che forse stava tornando in sé. «Non lo so» dissi. «È uno stronzo testardo, ma dovrà mollare prima o poi.» Ci infilammo nella macchina di Borman e ci allontanammo. L'avremmo scoperto. Quando arrivammo in cima al viale, mentre stavamo scendendo dall'auto accesi il visore notturno per controllare la parte anteriore della casa. L'apparecchio ebbe un guizzo e morì. «Cazzo» dissi. Gli diedi qualche colpetto. Niente. Lo colpii un po' più forte con il palmo della mano. Ancora niente. Rimossi la batteria, la asciugai con la mano e la reinserii, nel caso in cui l'avesse danneggiata la piog-
gia. Non ebbi fortuna. «Cosa succede?» chiese Sally. «La batteria è morta.» «Oh, fantastico!» «Be', significa che staremo qui. Non voglio fare rumore passando in mezzo ai cespugli.» Borman ridiscese lentamente la collina, mentre Sally e io percorremmo a fatica gli ultimi metri che ci separavano dal cancello e dal muro. Trovammo un punto relativamente asciutto protetto dal ramo di un pino e ci accovacciammo. «Hai portato la custodia del visore?» Accidenti. Certo che no. L'avevo lasciata nel primo punto in cui ci eravamo fermati. «La ritroveremo all'alba» dissi. «Quassù credo che sia intorno alle sei e mezza.» Diedi un'occhiata all'orologio. Era l'1.19. «Ancora cinque ore circa.» A partire dall'1.45 controllammo a turno la parte anteriore della casa, mentre l'altro riposava con la schiena appoggiata al tronco di un albero. Ci accordammo per turni di trenta minuti. Fu Sally a cominciare. E fu sempre Sally a udire un rumore. Erano le 4.40. In quel momento non stavo dormendo e la raggiunsi ancora prima che avesse il tempo di chiamarmi. Restammo entrambi in ascolto. Niente. Solo il rumore delle gocce di pioggia e quello più forte dell'acqua che colava dalla grondaia della casa, finendo sul tetto della veranda. «Cosa è stato?» «Mi sembrava un colpo contro qualcosa di duro» disse Sally. «Due, forse tre volte.» «Io l'ho sentito solo una volta» dissi. «Forte, ma attutito: mi spiego?» «Sì.» «Credi che fossero passi?» «Non so» disse Sally. «Sembrava più come qualcuno che lancia una palla di neve su una parete della casa.» Ovviamente non c'era neve, ma dava l'idea del rumore alla perfezione. Aspettammo. Riposare era fuori questione. Rimpiangevo molto l'ausilio del visore notturno. Circa dieci minuti più tardi, mi parve di sentire una voce maschile attuti-
ta. Era arrabbiata e sembrava provenire dall'interno della Villa. «L'hai sentita?» domandò Sally. «Sì. Sssst.» Ci fu di nuovo silenzio, ma non per molto. Anche al buio vedemmo la porta principale spalancarsi e una persona scendere di corsa i gradini della veranda, scivolare e cadere nel viale, rotolare, alzarsi e correre nella nostra direzione il più velocemente possibile. Anche a quella distanza, riuscivamo a sentire il rumore dei piedi nudi che battevano sul terreno del viale, che aumentava a mano a mano che la figura si avvicinava. Sally e io non dicemmo una parola. Ci spostammo entrambi a sinistra per intercettarlo, chiunque fosse. Giungemmo davanti al cancello appena due secondi prima di lui. «Fermati!» dissi abbastanza forte da farmi sentire. La figura non rallentò neppure. Non ebbi il tempo di pensare, mi piazzai di fronte al cancello, abbassai il braccio destro e fui travolto dall'impatto. Tuttavia resistetti e mi trovai sopra al fuggiasco. Sally puntò la torcia su di noi, giusto in tempo perché io vedessi la bocca aperta di Toby che respirava con affanno e mi urlarva in faccia. Ero sorpreso, ma riuscii a mettergli una mano sulla bocca e a dire a voce alta: «Siamo poliziotti!». Si azzittì, ma nel dubbio non spostai la mano. I suoi occhi balenavano da una parte all'altra e lo sentivo ansimare sotto di me. Mi sollevai per lasciarlo respirare e fece per alzarsi. «Stai fermo!» Mi guardò dritto negli occhi, ma credo che non si rendesse minimamente conto di chi fossi. «Chiama un 10-78» dissi a Sally. Se avevamo bisogno di aiuto, quello era il momento giusto. Qualunque cosa avesse fatto scappare Toby fuori da quella casa... Le sue prime parole, per lo meno quelle comprensibili, furono: «Oh, cazzo, oh, merda». «Toby, cosa stai facendo qui?» Mi fissò con uno sguardo spaventato e vacuo. Sally smise di parlare al cellulare giusto per dire: «Ha firmato ed è uscito dalla clinica di disintossicazione». Certo. L'impegno volontario significava che poteva andarsene in qual-
siasi momento. «Ascolta!» Lo scossi. «Calmati.» «È qui!» «Chi?» «Dan, stupido stronzo! È qui, devo andarmene...» Cominciò a divincolarsi. «Stai calmo, dannazione!» Dovevo cercare di tenerlo fermo. Fu allora che alzò il pugno e mi colpì sulla parte sinistra della testa. Per reazione, niente di più, risposi colpendolo in pieno viso. Sentii la sua testa sbattere contro il suolo e vidi che gli si incrociarono gli occhi. Ma smise di dimenarsi. «Oh» disse intontito. Improvvisamente eli cominciò a uscire sangue dal naso. «Mi hai fatto male.» Non c'era tempo per le scuse, sebbene sentissi su di me lo sguardo sorpreso di Sally. Ero contento di non averlo colpito in mezzo agli occhi. «Dimmi cosa sta succedendo.» «Non picchiarmi più» mi implorò. «Parla!» «Dan è tornato, amico. È laggiù ed è veramente molto incazzato. Ve l'avevo detto, brutti stronzi, che tutta questa merda non gli sarebbe piaciuta. Ve l'avevo detto!» «Chi c'è con lui?» «Cosa?» Lo afferrai per il colletto, rendendomi conto per la prima volta che indossava un pigiama di flanella. «Torna in te» dissi. «Dimmi chi altro c'è in quella casa con Dan.» Parlai lentamente, con un tono abbastanza moderato. Toby tirò su un po' di sangue dal naso, fece una smorfia e rispose: «Io, Kevin, Huck e Melissa». «E Hanna?» «Non lo so.» Ci pensò un po' su poi starnutì, riempiendo sia me sia Sally di goccioline di sangue. «Scusate.» Si pulì con il dorso della mano. Eravamo a un punto cruciale. Dovevamo entrare in quella casa, e in fretta. Non volevo rischiare lasciando Sally là fuori con Toby, nel caso Dan fosse venuto nella nostra direzione. Non volevo neppure trascinare Toby in casa con noi, così come non intendevo lasciarlo libero, perché non era in condizione di essere lasciato solo. Lo tirai su. «Andiamo in casa. Forza.» Cominciai a guidarlo verso la Villa e fece due o tre passi prima di rendersene conto.
«Non ci penso neanche!» Cominciò a contorcersi e temevo che avrebbe strappato il pigiama e si sarebbe liberato. Lo afferrai per entrambe le braccia e lo guardai dritto negli occhi. «Credo che Dan sia qui fuori.» Spalancò gli occhi. Mentivo, ma che cazzo, stavolta toccava a lui essere ingannato. Dovevo essere stato convincente, perché Sally afferrò la pistola e cominciò a guardarsi le spalle. Così attraversammo il viale e salimmo i gradini della veranda. Toby guardava sempre dietro di noi. Bene. Sally teneva in mano l'arma di ordinanza e anch'io tirai fuori la mia. «Cos'ha detto la centrale?» «Borman sta venendo su» disse. Nella sua voce non si notava neppure un accenno di esitazione. «Altro?» «Stanno radunando tutti quelli che riescono a trovare.» Non appena raggiungemmo la porta, udii il rumore di un motore provenire dal viale. Era Borman. Ci fermammo nella veranda mentre lui percorreva il viale a tutta velocità, passava il cancello e si fermava con una brusca frenata a pochi metri dai gradini. Saltò fuori e si precipitò su per le scale. «Cosa succede?» chiese, il respiro affannato. Glielo spiegammo in cinque secondi. «Adesso,» conclusi «fai entrare Toby in macchina, chiudilo dentro e assicurati che la rete della gabbia resista. Poi seguici in casa.» Non fece neppure una domanda. Era così che si lavorava. Sally e io entrammo nella Villa. Come oltrepassammo la porta, il rumore della pioggia si attutì e il silenzio calò all'improvviso. Non mi ero reso conto di quanto forte fosse lo scroscio dell'acqua fuori. Restammo in piedi, immobili, mentre l'unico rumore che si percepiva in tutta la grande casa era quello dell'acqua che gocciolava dai nostri impermeabili. Era completamente buio e faceva molto caldo, in confronto alla temperatura esterna. «Usa la Mini-Mag per trovare l'interruttore della luce» suggerii a Sally. Un secondo più tardi, la luce dell'entrata si accese. Ci guardammo intorno. Non notammo nulla di strano. Infilai la pistola
nella fondina per togliermi l'impermeabile, che lasciai subito cadere a terra. Poi invitai Sally a fare altrettanto. «Levati la giacca,» le dissi sottovoce «così faremo meno rumore.» La sentii obbedire, poi di nuovo silenzio. Infine, si udì un leggero fruscio provenire dal camino sotto le scale. Guardai Sally. Annuì per confermarmi che l'aveva sentito anche lei. Ci muovemmo molto lentamente verso la base delle scale, addentrandoci nuovamente nell'oscurità. Sally puntò il fascio di luce verso il camino. Accucciata sotto la panca di legno c'era una persona con una vestaglia di flanella. Hanna. «Hanna» dissi. «Stai bene?» Si limitò a fissarmi. «Hanna?» ripeté Sally. «Andatevene» sibilò la ragazza. «Dove sono gli altri? Avanti, Hanna, dimmelo» la incoraggiai con tono calmo. A quel punto si aprì la porta principale. Era Borman. Hanna si raggomitolò ancora di più e si coprì gli occhi con un braccio. «Lasciatemi stare. Andatevene.» «Hanna, guardami. Dimmi dove sono gli altri.» Mi fissò, ma non proferì parola. Poi il suo sguardo si diresse verso la scala. Non capivo se stesse cercando una via di fuga o sperasse di vedere qualcuno. «Dimmi dove sono gli altri» ripetei sottovoce. «Non devi fare altro.» «Non lo so» rispose con voce flebile e spaventata. «Forse è meglio che andiate a vedere di sopra.» «Perché di sopra?» Cominciai a sperare. «Io non salgo» disse. «Ma credo sia meglio che voi andiate di sopra.» «Di sopra? Chi c'è di sopra?» «Melissa e Huck, credo. Per favore, non parlatemi. Lo farete arrabbiare anche con me.» «Cosa sta succedendo, lassù?» «È arrabbiato con loro» disse calma, con semplicità. «L'ho sentito.» «Dov'è Kevin?» chiese Sally. «Se n'è andato. Vi prego, non parlatemi più.» «Stanno arrivando degli altri poliziotti» le spiegai. «Non avere paura di loro. L'agente Borman ti accompagnerà alla sua auto. Là sarai al sicuro.» Prima che Borman potesse protestare, Sally e io ci stavamo già avviando verso le scale. Per quanto la giovane ausiliaria fosse in gamba, ritenevo
che Borman se la potesse cavare meglio contro Dan Peale, nel caso si fosse fatto vivo. E a dire la verità io non avevo troppa voglia di andare al piano di sopra da solo. Trovai l'interruttore in fondo alla scala e il lampadario sul pianerottolo si accese. Salimmo. Arrivati in cima, guardai lungo il corridoio. Sembrava tutto in ordine, a parte alcune schegge di legno sul tappeto vicino alla porta di fronte a quella di Edie. «Di chi è quella stanza?» sussurrò Sally. «Quella di Edie è a destra, quella a sinistra credo sia di Melissa.» Vidi un interruttore e accesi anche le luci del corridoio. «Che paura» confessò Sally. «Vado prima io» dissi. «Okay.» «Occhi aperti.» «Certo.» A parte il rumore attutito dei nostri passi sul tappeto, regnava il silenzio più assoluto. Gran brutto segno. Diedi un'occhiata all'interno della camera da letto di Edie attraverso la porta aperta. Sembrava vuota. Infilai dentro la testa. Tutto sembrava esattamente come l'avevamo lasciato quando ci eravamo stati l'ultima volta, fatto salvo per dei fiori viola sopra al letto. «È vuota» annunciai tornando in corridoio. Ci spostammo davanti alla porta della camera di Melissa. Era distrutta. «Tu stai qui. Peale potrebbe essere ovunque. Non entrare a meno che non te lo dica io.» «D'accordo.» Entrando nella stanza, guardai la porta con maggiore attenzione. Era stata colpita ripetutamente, con notevole forza, forse era stata presa a calci. In due punti qualcosa, probabilmente un piede, era penetrato del tutto nel legno e nel movimento di ritorno dei frammenti si erano sparsi nel corridoio. Cercai l'interruttore all'interno della stanza e accesi la luce. In basso la porta era uscita dai cardini, così la spinsi con la spalla mentre varcavo la soglia. La prima cosa che vidi fu una sedia rovesciata. Anche la mensola più bassa sotto la finestra era stata capovolta e i libri erano sparsi sul tappeto. Le tende erano state staccate, l'asta penzolava ma era ancora nella staffa. La finestra era aperta di cinque centimetri. Spostai lo sguardo verso destra e vidi che il materasso era per metà fuori dalla rete, mentre le
lenzuola erano per terra. Vicino alla testiera del letto c'era un'abat-jour rotta e una foto incorniciata che pendeva di traverso accanto a essa. Nella parete c'era una specie di ammaccatura molto grande, più o meno al livello dei miei occhi. Un'altra un po' più in basso, con quella che sembrava una macchia di sangue nel mezzo. Spostai lo sguardo verso il pavimento e vidi una pozza di sangue all'angolo del letto e un piede in un calzino di cotone bianco insanguinato, appena visibile, che spuntava tra il letto e il muro. Fui lì in due passi. Guardai nello spazio angusto e vidi un corpo rannicchiato con indosso un paio di pantaloni da pigiama rosa a pois e una maglietta blu. Era steso sul lato sinistro con la faccia rivolta verso il muro, le ginocchia al petto, il braccio destro piegato sopra la testa, come per proteggersi. Il braccio sinistro non era visibile. C'era un po' di sangue, in gran parte secco. Riconobbi Melissa dai capelli rosso-violacei. Infilai la pistola nella fondina, mi appoggiai cautamente al letto e controllai il battito carotideo. La ragazza si mosse e mi fissò, riempiendomi di sollievo. «Melissa,» dissi «sono io, Houseman. Siamo qui. Andrà tutto bene.» Ci fu un leggero movimento e la sua mano sinistra si spostò appena in cenno di assenso. «Sally!» Sganciai il mio walkie-talkie dalla cintura e chiamai la centrale, mentre Sally entrava nella stanza e accorreva nel punto in cui mi trovavo. «Centrale da Tre, 10-33.» Visto che avevamo già chiesto aiuto, la centrale era in stato di allerta. «Avanti, Tre» giunse immediata la risposta. «Centrale, siamo alla Villa, c'è un civile a terra, ferite multiple. Abbiamo bisogno di un 10-52. È un 10-33.» Repetita iuvant, come si dice. «10-4, Tre.» Infilai il walkie-talkie nella tasca posteriore e guardai Sally che provava a misurare il battito cardiaco di Melissa. Non dovevamo muoverla almeno fino a quando non fossero arrivati gli aiuti e l'attrezzatura adatta, perché poteva esserci qualche ferita grave alla spina dorsale o agli organi interni. «Non riesco a vedere l'orologio» disse Sally, che era stata costretta a infilare entrambe le mani nello spazio ristretto in cui si trovava la vittima. «Dammi il via e dimmi "stop" dopo quindici secondi.» Guardai il mio orologio. Quando la lancetta dei secondi raggiunse il nu-
mero sei, dissi «Via!» La guardai muoversi per quindici secondi. «Stop!» «Okay, di' alla centrale di comunicare all'ambulanza che abbiamo un respiro rapido e corto e novantacinque di battito cardiaco.» Lo feci subito. Non volevo allontanarmi da Melissa, ma non sapevamo cos'altro stesse succedendo. Controllai il bagno, non trovai nessuno e tornai nella stanza da letto. Restai qualche altro attimo a studiare la stanza e diedi un colpetto sulla spalla a Sally. «Sì?» «La porta dev'essere stata aperta a calci mentre Melissa dormiva. Sembra che abbia cercato di scappare dalla finestra, ma lui è riuscito a entrare velocemente. Vedi?» Sally si guardò intorno. «Già.» «Poi l'ha sbattuta contro il muro. Almeno due volte» continuai indicando le ammaccature. «Come sta?» «Non mi pare di vedere grosse perdite di sangue» disse Sally. «Potresti dare un'occhiata in corridoio. Appena passata la porta, mentre ti aspettavo ho notato che c'è una grande ammaccatura sul muro di fronte.» Si rivolse nuovamente verso Melissa. Andai alla porta e guardai. Il segno sul muro era molto simile a quelli lasciati dalla testa di Melissa nella sua stanza. Tornai in camera da letto. «C'è qualcosa che non mi quadra» annunciai. «Come stai?» chiese Sally a Melissa. Udii una risposta, ma non riuscii a decifrare le parole. Sally sollevò lo sguardo e con le labbra formò la parola "shock". Annuii. «Chiedile dov'è Huck, se puoi» e tirai nuovamente fuori il walkie-talkie. «Centrale da Tre?» «Tre?» «A che punto siamo con il 10-52?» «Sta arrivando. Meno di cinque minuti.» «10-4.» Stavo per chiedere se avessero qualcuno che potesse scortarli, quando sentii uno stridio di gomme provenire dall'esterno. Guardai fuori dalla finestra e vidi la macchina del dipartimento di polizia di Freiberg sul viale. Byng. Avrebbe potuto aiutarli lui. Trascorsero solo altri tre minuti prima che l'ambulanza arrivasse, ma mi sembrò un'ora. Contattai i paramedici con il walkie-talkie e dissi loro che ci trovavamo all'interno della casa e di non entrare senza scorta. Mentre guardavo dalla finestra, vidi arrivare anche due macchine bianche del dipartimento e un'autopattuglia nera.
Diedi nuovamente un colpetto sulla spalla di Sally. «Sì?» «Vado a cercare gli altri ragazzi. Il nostro uomo dev'essere qui, da qualche parte. Probabilmente è completamente drogato. Tira fuori la pistola. Se Peale entra nella stanza e pensi di avere tempo a sufficienza, digli di fermarsi.» Sally annuì. «Ma se pensi di non avere tempo, sparagli. Spara a quello stronzo fino a quando la pistola non è completamente scarica. Hai capito?» «Sì, ma...» «Fallo e basta. Devi proteggere anche lei» dissi avvicinandomi a Melissa. La mia passeggiata lungo il corridoio fu a dir poco inquieta. Entrai in ogni stanza, ma non trovai anima viva. Nessun segno di lotta. Niente. Non restava che il terzo piano. Ripercorsi velocemente il corridoio all'indietro. «Sally? Sono io!» dissi prima di infilare la testa dentro alla stanza di Melissa. «Okay.» Quando guardai dentro, vidi che aveva entrambe le mani sulla pistola. Bene. «Vado di sopra. Non c'è nessuno su questo piano, a parte noi.» Sally annuì. «Melissa dice che Huck ha cercato di aiutarla. Non sa dove sia.» L'idea di dover salire una scala sapendo che in cima c'era qualcuno che mi voleva uccidere non mi piaceva neanche un po'. Ma se Huck era ancora viva, era molto probabile che fosse di sopra anche lei. Tenendo la pistola nella mano destra, afferrai la maniglia con la sinistra. La porta si aprì facilmente. Brutto segno. Avrebbe dovuto essere chiusa, pensai, a meno che Dan Peale non fosse salito con la chiave. Feci due respiri profondi e corsi su per quella maledetta scala. Il piano di sopra si rivelò vuoto esattamente come il giorno in cui l'avevamo perquisito. Controllai con cura, persino sotto il letto e nel piccolo interstizio tra il frigorifero e il muro. Lo stesso valeva anche per la scala di servizio che portava alla cucina. E quella porta era chiusa. Tornai a controllare le condizioni di Sally e Melissa e trovai i tre paramedici dell'ambulanza che si preparavano a entrare in azione. Allontanammo il letto da Melissa, per permettere alla più piccola delle donne del
pronto intervento di incunearsi nello spazio e cominciare a controllarle le funzioni vitali. L'unico rumore nella stanza era quello prodotto dal misuratore di pressione. «Non c'è nessuno al terzo piano» dissi a Sally. «E la porta sul retro è chiusa.» «Dove sono finiti?» «Non lo so.» «Okay,» disse uno dei paramedici «collare cervicale.» Ne ricevette uno e allontanò il letto dal muro di un altro mezzo metro. Dopo alcuni secondi, sollevò lo sguardo e disse: «Barella spinale». I lettighieri del pronto intervento appoggiarono una barella spinale alla schiena di Melissa, strinsero le chiusure a strappo e la girarono delicatamente sulla schiena. Aveva un aspetto terribile, con l'occhio sinistro tumefatto e un taglio verticale che le divideva a metà la parte superiore dell'orecchio sinistro. Doveva esserselo fatto quando aveva sbattuto la testa contro il muro. Come minimo doveva essersi procurata anche una commozione cerebrale. Sul viso aveva del sangue coagulato, il naso sembrava rotto e aveva un taglio sul labbro inferiore. Aprì l'occhio destro e disse qualcosa. Sally si chinò su di lei, cercando di captare le sue parole. «Cosa?» Melissa parlò di nuovo e Sally le rispose: «Ce la faremo, non ti preoccupare, ce la faremo». Melissa disse qualcos'altro e questa volta riuscii a carpire le parole "Huck" e "fermatelo". Sally si raddrizzò e si rivolse a me. «Dice che dobbiamo aiutare Huck. Dice che l'ha portata via con lui.» «Ha nominato Dan?» «Aspetta un secondo.» Sally si chinò di nuovo verso Melissa. Le stavano mettendo una maschera per l'ossigeno e la sola vista del suo labbro tagliato che si muoveva mentre cercava di parlare mi fece fremere. Avevano delle difficoltà nel toglierle i capelli incrostati di sangue dalle guance e dalla parte sinistra della bocca e alla fine decisero di usare l'alcol per riuscire a metterle la maschera. Sally si raddrizzò. «Sì. Dan. È lui, senza alcun dubbio.» «Scommetto che pensa di averla uccisa» dissi. «E che ha riservato lo stesso trattamento anche a Huck.» «Lo temo anch'io» disse Sally. Mentre parlavamo, ci eravamo incamminati lungo il corridoio, dove in-
contrammo Borman, Byng e un agente della polizia di stato, appena giunti in cima alle scale. «Ha ferito una delle ragazze in modo piuttosto serio,» annunciai «e se n'è portato via un'altra. Crediamo che questo,» e indicai l'ammaccatura nel muro «sia stato provocato dalla sua testa. Ha sfondato questa porta a calci. Ho già ispezionato il terzo piano. È vuoto.» «Avete bisogno di aiuto?» si udì gracchiare dalle scale. Lamar!? Quella sì che era raucedine. «Cosa ci fai qui? Non sei malato?» «Sì» rispose con voce roca. «Ma non preoccuparti per me. Devi vedere questo. Mi hanno detto di passare dall'ufficio per prenderlo.» Mi diede un foglio. Hester aveva telefonato in ufficio verso le 12.20. Le avevano detto che ero occupato, così aveva lasciato un messaggio molto breve: «Hester dice che il soggetto Tat le ha detto che il soggetto DP è matto+++. Pensa che i soggetti alla Villa vi stiano raccondando un sacco di bugie. Dice anche che il soggetto Tat afferma che il soggetto Huck è stato scoperto. Dovresti chiamarla prima che puoi, in mattinata». In fondo c'èra il numero di cellulare di Hester. Infilai il foglio in tasca. «Okay, adesso ascoltatemi bene. Dovete fare molta attenzione a quell'uomo» dissi. «Non so se sia armato, ma è sicuramente molto violento. Hester dice che è arrabbiato con la gente di questa casa e sappiamo che sniffa, o addirittura si inietta metamfetamina ed ecstasy, e che pensa di essere immortale. Dico sul serio» aggiunsi, notando i loro sguardi. «C'è solo una vittima?» chiese Lamar con voce roca, ma forte, dal fondo delle scale alle nostre spalle. «Per adesso sì, ma è meglio controllare di nuovo, per essere sicuri» risposi. Dove diavolo era Huck? Nel seminterrato? No. Il seminterrato era stato controllato prima che noi tornassimo al piano terra. «Mio Dio, Houseman,» disse Sally «Huck potrebbe essere già morta.» «Non è detto. Avrebbe potuto ucciderla qui, ma non l'ha fatto. Perché portarla da un'altra parte? Forse vuole tenerla in vita ancora un po'.» Non volevo pensare al motivo. Per quanto ne sapevo, l'unico modo per uscire dal promontorio, a parte il bosco e la gola, era utilizzare il vecchio montacarichi di cui avevamo sco-
perto l'esistenza. Ne parlai a Lamar e agli altri, spiegando anche che non sapevamo esattamente dove si trovasse. Mentre parlavo, però, mi ricordai di una conversazione. «C'è qualcuno che può aiutarci» dissi sorridendo. «Il nostro buon vecchio Toby.» Uscendo dalla Villa, restai sorpreso nel notare che c'era molta più luce. L'alba, in una giornata di pioggia, può sorprenderti da un momento all'altro. Toby e Hanna erano ancora sul sedile posteriore della macchina di Borman, controllati a vista da un agente della polizia di stato. Ottimo. Appena aprii la portiera dell'autopattuglia Toby disse: «Mi vuoi picchiare di nuovo?». Detto da qualcuno con del sangue rappreso in faccia, non era bello. «Forse no» dissi. Mi rivolsi all'agente e mi strinsi nelle spalle. «Mi ha colpito lui per primo.» Inutile. Lo sapevo anche mentre lo dicevo. L'agente non fece commenti. Aiutai Toby a uscire dalla macchina e lo feci rimanere in piedi. «Due cose. Quando sei uscito, Peale era dentro casa o se n'era già andato? Secondo, devo assolutamente sapere dove si trova quel maledetto montacarichi e devo saperlo adesso.» «Quale montac...» Avvicinai la mia faccia alla sua. «Non appena avrà finito con Huck,» dissi «Dan Peale ti ucciderà. Lo capisci, vero?» Sbatté le palpebre, ma non disse nulla. «Credo che l'unico modo per evitare che ti uccida è trovarlo per primi. Tu cosa ne pensi?» «Sì, penso che lei abbia ragione.» «Perfetto. Allora, era in casa oppure ti sei nascosto e hai avuto il coraggio di scappare solo dopo che se n'era andato?» Fece una specie di cenno con la testa. «Come mi immaginavo. Per quanto tempo sei rimasto nascosto prima di renderti conto che se n'era andato?» «Dieci minuti, più o meno.» «Non prendermi per il culo, Toby!» «Mezz'ora!» disse immediatamente. «Mezz'ora. Ne sono sicuro.»
«Si è portato via anche Huck?» «Mi è sembrato di sì» disse in tono sommesso. «Cosa intendi?» «Ho sentito dei tonfi sulle scale. Credo stesse trascinando qualcosa.» Respirai profondamente. Forse non avrebbe comunque potuto fermare Peale, ma Huck aveva cercato di aiutare Melissa: perciò ora doveva rendersi utile anche lui. Mi ero stancato di quel ragazzo, ma ne avevo bisogno. «Andiamo al montacarichi. Subito.» Così facemmo. A dire la verità, eravamo un bel gruppo di persone. Toby, Sally, Lamar, Byng, due poliziotti di stato e io. Superammo l'albero dove Sally e io ci eravamo fermati quando ci eravamo avvicinati a Chester, ci addentrammo nel bosco e finimmo a meno di cento metri dall'estremità della gola che avevamo superato solo un paio di ore prima. Ci fermammo e Toby indicò delle vecchie fondamenta piene di foglie morte e rami marci. «Eccoci. È qui.» «Qui?» «Sì. La porta è sulla parete dalla nostra parte.» Girai intorno alle fondamenta. Restando sul lato a monte dello scavo, fiancheggiato dalle rocce, riuscivo a vedere una vecchia porta di legno, formata da una mezza dozzina di assi e da una traversa ad angolo. Il legno era diventato grigio e i bordi erano marci, ma la porta reggeva. Guardai Sally. La sera prima nessuno dei due l'aveva notata. «Come si fa a entrare?» chiesi scendendo cautamente sulle foglie bagnate. «Bisogna rimuovere la pietra che c'è ai piedi della porta» disse Toby, guardandomi dall'alto. Esaminai le foglie e notai per terra una specie di pista che sembrava creata da un grosso blocco di pietra calcarea, che però era lontano diversi centimetri dalla porta. «Vuoi dire questa?» Toby fece due o tre passi in avanti verso il margine delle fondamenta, così da poter vedere me e il punto che stavo indicando. Fissò quella zona per un momento. «Oooh, cazzo...» disse, sorpreso. «Qualcuno l'ha aperta... Dan è sicuramente giù nella cripta.» Fece dietro front come per andarsene, ma uno degli agenti lo afferrò per un braccio e lo fermò. Estrassi la pistola dal fodero e con l'altra mano aprii lentamente la porta. Quello che scoprii fu davvero poco interessante, almeno a prima vista.
Un luogo buio che entrava un paio di metri nella collina, sufficientemente alto per starci in piedi, magari piegandosi un po'. C'era un vecchio pavimento in legno, con un buco in mezzo, largo all'incirca due metri quadrati. Deludente. «Non c'è niente qua dentro» dissi. «È in fondo» spiegò Toby. «Cosa c'è? In fondo a cosa?» «Il montacarichi è in fondo al pozzo. Deve solo guardare giù e...» «Qualcuno di voi ha una torcia?» chiesi ai presenti. Il secondo agente mi passò la sua. Mi piegai un po', mi allungai sopra il buco nero e puntai il fascio di luce verso il basso. Vertigini immediate. Il pozzo scendeva per venticinque, trenta metri. Ritraendomi, notai due cose. Un binario verticale, arrugginito ma con i bordi lucenti, e una grande ruota altrettanto arrugginita con quella che sembrava una grande catena di bicicletta che correva attraverso una scanalatura. «Cos'hai trovato?» gracchiò Lamar. «Aspetta un secondo. Soffro di vertigini.» «A guardare in un buco?» si stupì Sally. «È un buco maledettamente profondo» replicai irritato. «Datemi un minuto.» Respirai profondamente, mi sdraiai a pancia in giù e strisciai in avanti, verso l'estremità del pozzo. Intanto sentii Sally chiedersi come fosse possibile che esistesse un buco simile. Con un sostegno solido, potevo guardare in basso. La ruota, la catena e i binari facevano parte di un meccanismo di elevazione. In fondo al pozzo mi sembrò di vedere qualcosa. Notai anche che la catena doveva essere stata oliata di recente. Mi tirai indietro. «Scende molto in profondità, ci sono dei binari e una catena e mi sembra che in fondo ci sia una specie di vagoncino o una cassa.» «È quella» disse Toby. «Si può scendere laggiù?» chiese Lamar. «No» risposi con enfasi. «Nel modo più assoluto.» Non avevo nessuna intenzione di provarci. A nessun prezzo. «Usate il quadro» suggerì Toby. «Quale quadro?» «Quello all'interno della porta, a sinistra.» Guardai di nuovo all'interno. Vero, nell'angolo c'era un quadro elettrico, grigio scuro, con la scritta "Quadrato D" e una leva sulla destra. «Come funziona?»
«Bisogna solo alzare e abbassare la leva; dipende da com'è adesso» spiegò Toby. «E il montacarichi salirà da voi.» Il problema delle soluzioni semplici è che talvolta sotto la superficie nascondono delle questioni complesse. Questa situazione non faceva eccezione. Innanzitutto, non volevo avvertire Dan Peale del nostro arrivo. Se avesse sentito l'elevatore e se Huck fosse stata ancora viva, avrebbe potuto ucciderla. In secondo luogo, non avevo idea di cosa avremmo trovato laggiù, quindi non sapevo quanti di noi sarebbero potuti scendere a dare un'occhiata. Piazzammo Borman e Byng in cima al pozzo, mentre gli altri continuavano a interrogare Toby. Avevamo fretta, ma anche bisogno di conoscere la struttura di quella che aveva chiamato "la cripta". Disse che il pozzo elevatore arrivava a una parte della miniera di sabbia che era stata chiusa molti anni prima. C'erano quattro grandi camere sotterranee e Dan ne aveva occupate due. «Sono entrambe sulla destra, appena si scende.» «Dan ha delle pistole, laggiù?» chiese Lamar. «Pistole? Assolutamente no. Le pistole non gli servono. Lo vedrete voi stessi.» «Coltelli?» «Sì. Ha dei coltelli.» Avrei voluto chiedergli perché aveva dei coltelli visto che non aveva bisogno di pistole, ma lasciai perdere. Avevamo poco tempo. «Come si fa a vedere, laggiù?» chiesi. «Basta accendere le luci» rispose Toby. «Cosa?» «Sì. Nessuno usa più la miniera, ma l'energia elettrica c'è ancora. Credo che serva per le ispezioni. Abbiamo solo rinforzato i cavi principali.» Ovvio. «Ed è così che funziona il montacarichi?» «Sì.» «Fa molto rumore?» domandò Lamar. Toby sembrò sbigottito. «Non so...» «Dan lo può sentire, Toby?» chiesi cercando di mantenere la calma. «Sì, credo di sì. A meno che non si trovi nella camera più lontana e abbia acceso la musica...» «Musica?» «Sì. Dan mette la musica molto alta quando è dell'umore giusto. Ehi,»
aggiunse «ha tutte le comodità di una casa. Resterete sorpresi da quello che troverete laggiù.» «Mi immagino» borbottai. Poi alzai la voce per chiedergli: «È laggiù che è stata uccisa Edie? Nella cripta?». Toby diventò paonazzo. Credo che fosse ormai preso dall'inseguimento e avesse perso il senso della realtà. «Allora?» lo incalzò Lamar. Toby annuì, ma non disse una parola. Probabilmente era andata proprio così. «Bene,» dissi «andiamo.» Lamar inviò un agente alla Villa e gli fece raccogliere tutte le torce dalle auto in sosta davanti all'edificio. Erano tutte ricaricabili e ciascuna di esse aveva un'autonomia di almeno tre ore. Poi mi prese da parte. «Sei sicuro che sia laggiù?» «No. Ma Huck è sparita e non sarebbe successo se Peale avesse avuto l'intenzione di ucciderla in casa. Non l'abbiamo trovata da nessuna parte, quindi o sono qui, oppure è riuscito a trovare un mezzo di trasporto con cui è fuggito, portando con sé la ragazza. La notte scorsa eravamo vicino al cancello e non ci sarebbero potuti sfuggire. Ciò significa che il punto di uscita della casa è qui. Il montacarichi è giù, ma non significa molto. Sembra che possano accedere al loro rifugio anche dall'entrata principale.» «Ho capito.» Lamar aveva davvero una voce orribile. «Secondo me è entrato nella miniera ieri sera, o nel tardo pomeriggio. Cercavamo di ricostruire i suoi movimenti con la macchina rubata, ma potrebbe anche aver guadagnato un paio di ore rispetto ai nostri calcoli.» Lamar annuì. «Due ore. Probabile.» Era quasi buffo vedere come cercasse di non parlare, senza riuscirci. «Ieri sera ha fatto la sua comparsa il signor William Chester. Proprio quassù. Ha parcheggiato la sua auto ed è salito per la gola dove l'avevamo visto ieri. L'abbiamo seguito; io e Sally siamo andati giù per la gola e abbiamo mandato Borman a ispezionare la base della collina. Ma l'abbiamo perso.» Lamar sembrò sorpreso. «Già. Be', in ogni caso mentre davamo la caccia a quel dannato cacciatore di vampiri, il vampiro stesso ha fatto visita alla casa. Penso sia andata così.» Lamar scosse la testa. «Molto male» riuscì a dire.
«Già. Però, non ne sono sicuro. Di positivo c'è che non credo che Dan Peale sappia che siamo venuti qui la scorsa notte. Credo pensi di essere riuscito a fuggire e di avere del tempo a disposizione.» Lo guardai dritto negli occhi. «Comunque, no. Non sono del tutto sicuro che si trovi laggiù. Ma è molto probabile.» Decidemmo che Byng, Borman, Sally e io saremmo scesi, due alla volta, lungo il pozzo. Un altro gruppo, guidato da Lamar, avrebbe cercato di entrare dall'ingresso principale della miniera, circa a un chilometro e mezzo a sud del pozzo, proprio alla base del promontorio. Avremmo lasciato due agenti della polizia di stato di guardia alla Villa e due all'estremità superiore del pozzo. «Lamar?» «Sì?» disse con estrema fatica. Avrebbe dovuto essere a casa a letto. «Se ti dovesse capitare di incontrare quell'idiota di William Chester, il grande cacciatore di vampiri, vedi se puoi arrestarlo per qualcosa, okay?» Ero serio. «Per qualsiasi cosa. Basta che tu me lo tolga dai piedi.» «D'accordo, Carl.» «E se qualcuno dovesse sentire Hester o Harry, fateli venire subito qui. Se riusciamo a prendere il nostro uomo, vorranno sicuramente parlargli il prima possibile.» Mentre aspettavamo il visore notturno, ripensai a quello che ci era stato detto su Dan e sul fatto che volesse sperimentare con Edie la morte per interposta persona. Più ci pensavo, più comprendevo il motivo per cui aveva portato con sé Huck. Aveva bisogno di tempo per "sentire" il terrore della ragazza, ingerendo il suo sangue mentre lei... Mio Dio. Soltanto l'idea mi fece accapponare la pelle. Lo scambio di idee in cima al pozzo fu rapido e tranquillo. «Allora, sentite» dissi. «Là in fondo non ci sarà alcun contatto radio. Non provateci neppure. È probabile che all'interno della miniera ci siano delle cariche esplosive. Le onde radio potrebbero innescarle. Chiaro?» Sally, Byng e Borman annuirono. «Non abbiamo molto tempo. Penso che la terrà in vita per un po', ma non ne sono sicuro. Se la doveste trovare, non muovetela, a meno che non sia assolutamente necessario. Potrebbe avere un ago nel collo o qualcosa del genere e se lo tiriamo via, corriamo il rischio di farla morire dissanguata. Mi sono spiegato?»
Annuirono di nuovo. «Il figlio di puttana è mentalmente disturbato e può darsi che creda di essere un vero vampiro, e quindi immortale. È probabile che sia sotto l'effetto della metamfetamina, di ecstasy o di una combinazione delle due sostanze. Non pensate di poterlo fermare puntandogli semplicemente una pistola in faccia. Tenetevi pronti a sparare.» Feci un respiro profondo. «Siete pronti?» Byng e io scendemmo per primi. 32 Giovedì, 12 ottobre 2000 5.28 Tirammo la leva del quadro elettrico e il meccanismo entrò in funzione con un brontolio non troppo assordante, per fortuna. Il montacarichi impiegò un minuto per arrivare fino in cima e, quando lo vidi, cominciai a dubitare dell'idea di entrare in quell'aggeggio traballante. Era vecchio, arrugginito, con fasce di ferro fissate da chiodi che tenevano insieme la struttura in legno marcio. Era una specie di cubo senza porta. Lo spazio era talmente esiguo che Byng riuscì a malapena ad abbassare la leva del quadro elettrico, quindi partimmo lungo il pozzo con un rumore sordo. All'interno del montacarichi non c'era neppure una luce. Non che fosse molto importante, visto che ci dovevamo abituare all'oscurità il prima possibile. Riuscivo ad avvertire l'umidità della pietra calcarea che mi passava a una decina di centimetri dal viso. Penso che si impari ad apprezzare le porte dell'ascensore solo quando non ci sono. In fondo al pozzo faceva freddo, ma non era umido quanto temevo. In compenso il buio era totale. A un certo punto, però, vedemmo in lontananza, sulla destra, il debole sfavillio di una luce giallognola. Uno a zero per Toby. Byng mise una mano sopra la torcia elettrica e schiuse leggermente le dita, così da far filtrare un sottile fascio di luce sul muro più vicino. In quel modo la sua mano sembrava di un rosso piuttosto inquietante. Poi trovò un altro quadro elettrico e tirò la leva verso il basso. Mentre il montacarichi cominciava la sua lenta risalita, ci incamminammo in direzione della debole luce giallognola. La superficie sotto i nostri piedi era sabbia di silice, appiattita dal continuo passaggio. Fine quasi quanto il sale da tavola, si
schiaccia bene e non impedisce i movimenti come la sabbia marina. E camminandoci sopra non si produce alcun rumore. Avevamo percorso una decina di metri quando di colpo il motore si fermò, probabilmente perché il montacarichi aveva raggiunto la superficie. Finalmente potevamo ascoltare i rumori all'interno della miniera e fummo immediatamente raggiunti da alcune lontane note musicali. Non riuscivamo a capire da dove provenissero. «Chiudi un occhio» dissi a Byng. «Sto per accendere una torcia.» Feci lo stesso. In quel modo un occhio avrebbe cominciato ad abituarsi al buio, mentre con l'altro avremmo seguito il fascio di luce. Ci avrebbe aiutato a orientarci e a renderci conto della grandezza del posto. Eravamo in un ambiente alto circa dieci metri e ampio una ventina di metri quadrati. Sulla nostra sinistra c'era un enorme pilone, che sembrava grande quanto la stanza, oltre il quale la mia torcia illuminava il muro più lontano di un altro vano e un altro pilone. Saranno stati almeno una cinquantina di metri e sembrava proseguire ancora, ma la luce era troppo fioca per vedere molto lontano. Davanti a noi c'era qualcosa di molto simile e sulla nostra destra la sequenza vano-pilone sembrava continuare almeno fino alla portata massima della luce. «È molto grande» dissi sottovoce. «Prosegue per parecchi chilometri,» sussurrò Byng «a nord e a sud. Però è profondo solo tre vani. Forse quattro, in alcuni punti.» Eravamo sicuramente nella parte più antica. I muri e il soffitto erano coperti di avvallamenti e scanalature, risultato dell'azione dei picconi. Appoggiai la mano sopra la luce, lasciando che filtrasse un raggio sottile. Riuscivo a vedere piuttosto bene con l'occhio che avevo tenuto chiuso, mentre il residuo bagliore rossastro nell'altro mi infastidiva parecchio. Non era stata una grande idea, dopo tutto. L'oscurità era pressoché assoluta. C'era ancora silenzio e mi venne il dubbio che si fosse rotto il montacarichi, bloccando Borman e Sally in cima. Proprio mentre mi ponevo quella domanda, il motore elettrico entrò di nuovo in funzione. Quando ci trovammo tutti e quattro riuniti, illustrai il mio piano. Ci saremmo incamminati verso la luce, per vedere quello che avremmo trovato. «Un piano magnifico» sussurrò Byng ironico. «Non è proprio il D-Day» replicai. «Cos'è questa puzza?» sussurrò di nuovo Byng. «Quale puzza?»
«Mi ricorda un ristorante italiano.» «Ah» dissi candidamente. «Allora è Sally.» «Cosa?» «Ho un po' di aglio» sibilò l'operatrice. «E allora?» Byng si schiarì la voce. «Ah. Niente, niente.» Ci incamminammo verso la luce e più avanzavamo più la musica, che era sinfonica, aumentava di volume. Scoprimmo che la stanza illuminata si trovava sulla destra, perpendicolare a quella di fronte a noi. Forse non avevo capito ciò che aveva detto Toby. Ci avvicinammo a uno degli enormi piloni, cercando di rimanere il più possibile al buio e fermandoci, accucciati o inginocchiati, all'entrata della stanza illuminata da due lampade fluorescenti sospese a circa sei metri da terra. La luce era sufficiente a farci vedere l'arredamento. Lungo le pareti c'erano dei grandi tappeti, prevalentemente rossi, di stile orientale, appesi a tubi di ferro a forma di anello, sospesi a circa quattro metri e mezzo dal pavimento. Gli arazzi decoravano le tre pareti che riuscivamo a vedere e sembrava che fossero appesi anche sopra a ciascuno degli accessi alle altre stanze. Si intravedeva il pavimento di assi di legno, anch'esso coperto da altri tappeti. Il soffitto era formato da teli in plastica trasparente, attaccati agli stessi tubi di ferro a cui erano appesi gli arazzi. «Parecchi tappeti, eh?» disse Sally. Non c'era dubbio. E parecchie assi di legno. C'erano anche numerose poltroncine, divise in due gruppi, e in mezzo un lungo tavolo completo di sedie e uno stipo appoggiato al muro. La stanza era divisa in due da un enorme mobile, lungo oltre dieci metri e alto due metri e mezzo circa. I tappeti appesi a ciascuna estremità lo rendevano simile a un muro. «Ecco dov'è finito» mormorò Byng. «Cosa?» «Il mobile lungo. Era in quell'hotel, il Larabee, che è stato demolito una decina di anni fa.» Vero! Era dietro il bancone del bar, pieno di bottiglie e bicchieri. L'avevo visto più di una volta, durante i miei interventi per sedare le risse. «Quello non ce l'hanno portato con il montacarichi» commentò Borman. Ottima osservazione. Il che confermava che si poteva accedere con agio dall'entrata principale. «Mi sembrava che Toby avesse detto che era stupendo» disse Byng.
«Be',» sussurrai «probabilmente era buio e lui doveva essere drogato.» La cosa più importante, tuttavia, era che lì dentro non c'era nessuno. Almeno, non in quella prima metà della stanza. Però la musica si era fatta più forte. Sin troppo. «Ma dov'è?» chiese Sally dando voce a quello che ci stavamo chiedendo tutti. «Secondo me,» bisbigliai «dall'altra parte della stanza.» Ma per arrivarci bisognava prima oltrepassare quell'enorme e minaccioso mobile. «Due a sinistra e due a destra» dissi. «Siate rapidi e silenziosi.» «Fate molta, molta attenzione» ci ammonì Sally. «Siamo a caccia di vampiri.» Ridemmo tutti. Servì ad alleggerire la tensione. Byng e io andammo a destra, Sally e Borman a sinistra. Attraversammo la stanza, stando il più possibile vicini ai muri. Byng e io raggiungemmo il mobile per primi. Con la pistola in mano, trassi un respiro profondo, spostai di lato l'estremità inferiore del tappeto sopra la nostra testa e mi feci avanti. 33 Giovedì 12 ottobre 2000 5.46 All'interno c'erano tre vani separati da pareti alte circa due metri, con aperture nel mezzo. Sembravano box da ufficio, di un rosso cupo e non uniforme. Mi avvicinai a quello più vicino e sentii Byng alle mie spalle. I vani erano delimitati da vecchi bancali di legno. In quella zona la musica era meno forte, probabilmente anche a causa dei tappeti. Udii un rumore metallico provenire da sinistra e mi voltai. Borman e Sally avevano appena oltrepassato il mobile. L'avevano sentito anche gli altri, visto che tutti e quattro ci bloccammo per un istante. «Ti prego, non farlo» diceva una voce tremante. «Non l'ho detto a nessuno, ti prego, non lo fare.» Non era un grido o una richiesta di aiuto. Era una donna che parlava a qualcuno con tono stranamente normale, quasi colloquiale. Era Huck. Udii una voce maschile, più profonda, che sembrava rispondere, ma non
riuscii a distinguere le parole. Rise. Non una risata diabolica, ma una risata tranquilla, quasi educata. Si stava divertendo. Ci muovemmo tutti insieme. Era difficile stabilire da quale dei tre vani fosse giunta la risata, quindi ogni coppia presidiò quello che le era più vicino. Era in trappola. Lo beccammo io e Byng. Entrai nel vano sulla mia destra e vidi un banco da lavoro su cui era sdraiata Huck, immobilizzata da cinghie. Di fianco a lei, in piedi, un uomo con indosso solamente un paio di pantaloncini corti. Puntai la pistola contro la schiena dell'uomo e dissi: «Non ti muovere». A quel punto il tempo sembrò fermarsi. In quel preciso istante, mi resi conto che c'era un tubicino trasparente che andava dalla parte destra del collo di Huck a una bacinella in acciaio sul pavimento, che una pinza teneva stretto il tubo, che la mano dell'uomo era appoggiata sulla pinza e che il tubo era fissato al collo di Huck con un nastro adesivo. L'uomo si immobilizzò, esattamente come gli avevo detto di fare. Vidi i muscoli della sua schiena contrarsi. Ricordo di aver pensato che fossero molto ben disegnati. Mi spostai a sinistra, verso la testa di Huck, tenendo la pistola puntata contro di lui. Sentii Byng alle mie spalle. «Tienilo sotto tiro da lì» dissi. «Se si muove, sparagli.» «D'accordo» rispose Byng convinto. «I vostri proiettili non possono farmi niente» ribatté Dan Peale, con un accento inglese d'alto rango. C'era qualcosa di sconcertante nel modo in cui pronunciò quelle parole. Calmo, sicuro di sé. Non si voltò neppure. «Vieni indietro lentamente e allontanati da lei» gli ordinai. «Non fare mosse improvvise. Non è il caso che verifichiamo quello che hai detto, non ti pare?» Cominciò ad arretrare ma, a un tratto, schiacciò la pinza e la rilasciò. Immediatamente dal collo di Huck cominciò a sgorgare del sangue che, passando attraverso il tubo, finiva nella bacinella. Prima che lo potessi fermare, sollevò la mano sinistra e lanciò la pinza oltre il muro divisorio del box. Poi, si allontanò dalla ragazza. Huck cominciò a boccheggiare e tirò con forza le cinghie. Dan Peale emise una serie di sibili, inspirando ed espirando con foga. Stava ventilando. Girò la testa, più del normale, mi parve, e per la prima volta lo vidi in faccia.
Aveva un viso allungato, le mandibole pronunciate, i capelli neri e gli occhi castano scuri. Non aveva barba né baffi. E i canini, lunghi quasi due centimetri, erano resi più prominenti da un ampio ghigno da predatore. Anche sapendo che erano finti, facevano impressione. Aveva le labbra e il mento macchiati di sangue. Non l'avevo mai visto prima, ma sentivo di conoscerlo. «Metti le mani dietro alla schiena» dissi. «Subito!» Dovevo impossessarmi di quel tubo? «Sanguino?» chiese Huck. Dan Peale fece una smorfia ed emise un sibilo. Mi piegai sulle ginocchia senza staccargli gli occhi di dosso e misi la mano sinistra sopra il tubo. Feci un movimento sbagliato e sentii del sangue caldo scorrermi sulla mano. Adesso il tubo era viscido e fui costretto a distogliere lo sguardo per un istante, finché trovai un punto d'appoggio e schiacciai il tubo più forte che potevo tra il pollice e l'indice. Riuscii a ridurre il flusso in modo considerevole, arrivando quasi a interromperlo. «Ammanettalo» dissi a Byng. Ma Dan Peale aveva un tempismo straordinario. Approfittando del fatto che Byng aveva abbassato lo sguardo verso la fondina per mettere via la pistola, in modo da avere entrambe le mani libere per le manette, e che io, essendo quasi riuscito a fermare il flusso di sangue, mi ero rilassato un po', si piegò sulle ginocchia e, raddrizzandosi di colpo, spiccò un primo balzo sul tavolo di Huck e un secondo oltre il muro divisorio del box. Un solo movimento secco e se n'era andato. Sparai una volta e pensai di essere riuscito a colpirlo. Mi sembrò di sentire un «Ehi!» provenire dall'esterno. Era Borman. Lo sparo mi aveva quasi assordato. Byng tornò indietro il più in fretta possibile e raggiunse il retro del vano. Vidi passare gli altri due e gridai: «Sally!». Guardai Huck. «Adesso ti tiriamo fuori di qui» la tranquillizzai. Respirava a fatica, nel tentativo di mantenere la calma. Aveva gli occhi sgranati e penso non capisse quello che le dicevo. Sally giunse alle mie spalle. «Oh cazzo!» commentò. Mi sentivo come se fossi sott'acqua con in più un costante fischio nelle orecchie. Lo sparo era stato molto potente. «Annoda questo tubo e tienilo stretto. Non mollarlo e non cercare di togliere l'ago dal collo» le ordinai. «Okay, ma...» esitò «...i guanti?»
«Più tardi. Vado a cercare la pinza o qualcosa del genere, così possiamo cominciare a liberare la ragazza.» «D'accordo.» Mentre Sally prendeva il mio posto, liberai i polsi e le caviglie di Huck dalle cinghie. Indossava un paio di pantaloni della tuta verde pallido e una maglietta blu scura molto leggera. I piedi, nudi, erano bianchi e gelidi. Tremava, per il freddo e la perdita di sangue. L'unica cosa che trovai fu un grande rotolo di panno-carta. Gliene appoggiai sopra diversi strati. «Ce la fai a camminare?» le chiesi. «N... no.» Be', chi ce l'avrebbe fatta, in quelle condizioni? Non avevo idea di quanto sangue avesse perso, ma doveva essere molto. La bacinella ai miei piedi era mezza piena. «Lo prenderemo» le promisi. «E tu ti rimetterai in sesto.» «Sì» disse debolmente. Borman infilò la testa nel box. «Dov'è andato?» «Non lo so. Hai visto la pinza, da qualche parte?» Guardò per terra. «Laggiù» suggerii, indicando la direzione da cui era ap pena arrivato. «No.» Stava cominciando a dirigersi verso gli altri vani. Lasciai Huck e Sally e cominciai a perlustrare la zona dove Dan Peale aveva lanciato la pinza. Puntai la torcia per terra e la trovai subito. Mi sentii sollevato. Infilai la pistola nella fondina e mi accucciai per raccoglierla. In quell'istante mi accorsi che un sottile filo di sabbia cadeva sul pavimento a circa due metri da me, lungo la parete nuda della stanza. Raccolsi la pinza, certo di ricevere da un momento all'altro un colpo alla schiena. Ma non successe. Mi raddrizzai e passai la pinza a Sally oltre la parete del box. La missione più importante era compiuta. Ripresi la pistola e mi allontanai di un passo dalla sabbia che cadeva. Quindi mi voltai di colpo e puntai il fascio di luce della torcia verso il soffitto, sopra le luci fluorescenti. Il vampiro era lì. A circa sei metri d'altezza, nello spazio vuoto tra il pilone e il telo di plastica, appeso con mani e piedi a Dio solo sa che cosa. «Ehi, Dan!» urlai. Guardò in basso. Quei dannati canini luccicavano e premevano contro il labbro inferiore. Si reggeva forte con entrambe le mani, un piede aggrappato a una piccola protuberanza del pilastro, l'altro quasi perpendicolare,
con la punta infilata in una fessura. Vidi che aveva una macchia scura sulla schiena, in basso a sinistra. Da quel punto sgorgava un filo di sangue che gli finiva dritto dentro ai pantaloni. L'avevo colpito. «Hai bisogno di una mano per scendere?» gridai, non riuscendo a trattenermi. A quel punto accaddero due cose contemporaneamente. Byng e Borman arrivarono di corsa dall'estremità opposta dei box e alzarono lo sguardo proprio mentre Dan Peale si staccava dal muro. Giuro che per un attimo mi sembrò rimanesse sospeso per aria. Poi precipitò per sei metri, il corpo dritto e le braccia aperte, finendo sul terreno sabbioso. Evidentemente però, lui era convinto di poter volare, perché non fece niente per interrompere o attutire la caduta. Si sfracellò a terra con uno schianto terribile. Mandai Borman con il montacarichi in cerca di aiuto. Byng e io restammo accanto a Dan Peale. Oltre alla ferita alla schiena, aveva una frattura alla tibia destra, la caviglia sinistra rotta o con un grave distorsione e forse anche qualche lesione interna. Non diceva nulla, né gemeva di dolore. Probabilmente grazie al cocktail di droghe che aveva ingurgitato. Incontrai il suo sguardo un paio di volte mentre gli prestavamo soccorso. Non batté ciglio. Credo che avrebbe cercato di scappare strisciando, se avesse potuto. Gli sfilammo i denti. Borman ritornò con un paramedico, a cui se ne aggiunsero poco dopo altri due. Mi disse che Lamar e i rinforzi erano finalmente riusciti a raggiungere l'ingresso principale della miniera e sarebbero arrivati a momenti. Avrebbero potuto far arrivare un'ambulanza direttamente fino al punto in cui ci trovavamo, appena fossero riusciti a capire dove fosse. Li lasciai e tornai da Huck. Si era addormentata e Sally era in piedi che la fissava e sistemava una coperta nel tentativo di tenerla al caldo. «È stravolta» disse. «Già. Chi non lo sarebbe? Gli ultimi dieci o quindici anni sono stati molto lunghi per lei.» «Peale è vivo?» «Sì, ma piuttosto malconcio.» «L'hai preso?» «Certo.» «Bravo ragazzo» disse.
Si udì un rumore provenire dalla stanza esterna. Lamar e gli altri. C'era anche l'ambulanza. «Scusate il ritardo» disse lo sceriffo, dopo aver ascoltato il mio resoconto. Diede un'occhiata alla zona intorno al punto in cui giaceva Huck, vide il tubo e la bacinella, le ringhiere tutto il resto. «È qui che Edie...?» Non riuscì a terminare la frase. «Sì. Credo di sì.» «Maledizione» imprecò, la voce ancora molto rauca. «Fa freddo, qui dentro. Edie odiava il freddo.» Si girò dall'altra parte, scansando il tappeto appeso. «Non l'ho mai visto così» disse Sally. «Già.» Si guardò intorno. «Questo è davvero un luogo solitario.» Harry ed Hester spuntarono mentre stavamo portando fuori Dan Peale con l'ambulanza. Harry, in particolare, era molto deluso per essersi perso lo spettacolo. Hester mi disse che ritenevano fosse stata Tatiana a tradire Huck. «Credo volesse essere certa che Dan compisse qualcosa di terribile, così sarebbe uscito per sempre dalla vita di Jessica.» Considerando il fatto che era stata Jessica a inventare Dan Peale e che, con ogni probabilità, sparito lui ne avrebbe creato un altro, era stata una perdita di tempo. Dopo innumerevoli esami e tre udienze, Dan Peale fu giudicato mentalmente instabile e internato in un istituto psichiatrico di massima sicurezza. Dio solo sa cosa combinerà lì dentro. Verrà processato nel Wisconsin per l'assassinio di Randy Baumhagen, ma sta cercando con tutte le sue forze di ottenere l'estradizione. Ciò che mi dà più fastidio è che, non essendo stato processato, non siamo riusciti a stabilire con esattezza cosa sia successo a Edie. Io ed Hester crediamo che Dan e Toby l'abbiano portata nella "cripta". Probabilmente Dan voleva solo farla sanguinare un po' e, sebbene intendesse portarla vicino alla morte, non si può essere certi che volesse ucciderla. Con un'accusa di omicidio preterintenzionale sarebbe stato quasi certamente condannato. I dubbi su ciò che era successo dopo che Edie era stata uccisa vennero sciolti al processo di Toby. Toby disse che Dan non voleva ficcanaso, gente che andasse in giro a
cercare una donna scomparsa. Aveva paura che potessero scoprire casualmente il montacarichi e andassero a cercarla nella miniera. Così aveva deciso di inscenare un suicidio. Fu Dan a tagliare la gola a Edie, per coprire il foro d'entrata dell'ago. Toby continuò a sostenere che la ferita era stata inflitta dopo il decesso. Poi avevano dovuto riportarla alla Villa e metterla nella vasca. Avevano usato il montacarichi, il che spiegava le tracce di legno rinvenute sulla sacca mortuaria. L'avevano portata in casa, e poiché non volevano essere visti, Dan aveva aperto la porta della scala di servizio che conduceva al terzo piano e avevano posato la sacca sulla scala. Il racconto collimava perfettamente con il rilevamento delle chiazze di sangue. Poi Dan aveva mandato Toby a chiamare Kevin. Nel frattempo, Huck si era svegliata e Toby aveva pensato che stesse facendo la doccia. Così era corso da Dan e avevano trasportato Edie su per la scala principale, per non passare davanti alla porta di Huck. La macchia sul tappeto si era formata quando la sacca era stata appoggiata per terra, proprio come avevamo immaginato. Il nostro solo errore, riguardo alla direzione, era stato pensare che la macchia di sangue in fondo alle scale significasse che avevano portato Edie giù dal terzo piano. La cosa incredibile è che Toby fu l'unico a finire in prigione. Fu condannato a cinque anni per complicità in omicidio. Quando ci aveva detto che non era stato in grado di uccidere Edie, aveva detto la verità. Ma aveva tenuto ferma la ragazza mentre Dan faceva i suoi comodi. In ogni caso mi sembra il colmo: l'unica persona tanto fuori di testa da credere che l'ufficialmente malato di mente Dan Peale fosse un vampiro fu anche l'unica a essere ritenuta abbastanza in sé da essere processata. Hanna e Melissa continuarono a vivere insieme nella stessa zona. Huck, dopo una breve permanenza in ospedale, si trasferì a Dubuque e ottenne un lavoro come croupier bella nave-casinò del posto. Testimoniò alle udienze di Dan, ma ci sembrò molto distaccata. Kevin riapparve a Freiberg. Se n'era andato non appena si era reso conto che Dan era tornato a casa. Il procuratore della contea disse che non avevamo molti elementi su di lui e spiccò un mandato di comparizione nei suoi confronti come testimone dell'accusa in una delle udienze a carico di Dan. Jessica e Tatiana testimoniarono entrambe che Dan le aveva sorprese per
strada e le aveva prese in ostaggio sotto la minaccia di una pistola, obbligandole a riportarlo a Lake Geneva. Riuscirono a cavarsela. Hester, Harry e il sottoscritto presentammo alla procura la richiesta di procedere nei confronti di Jessica, in quanto principale organizzatrice di tutta la vicenda. Ci venne risposto che con le prove in nostro possesso sarebbe stato impossibile convincere una giuria, anche per la difesa che le eventuali imputate avrebbero potuto schierare. Non dimenticherò mai quello che disse il procuratore capo. «Ragazzi, dovete imparare a trattare queste cose in modo più realistico.» Come no. Lavorando a un caso di vampiri? Per quanto ne sappiamo, Jessica continua a fare quello che faceva prima. Trovammo lo zaino di Chester nel bosco, molto a nord rispetto al pozzo. Conteneva un palo, dell'aglio, un crocifisso e una mazza. Non avemmo più sue notizie per diverse settimane, tanto che cominciammo a temere che Dan Peale l'avesse ucciso e nascosto in qualche anfratto della miniera. Poi Harry ricevette una telefonata di alcuni poliziotti di Lake Geneva, che volevano sapere se avesse mai sentito parlare di lui. Era coinvolto in un caso di pedinamento. Apparentemente, sembrava nutrisse un certo interesse nei confronti di Jessica Hunley. Quando venne interrogato, fece il nome di Harry. Sembrava una presa in giro. Personalmente, credo che quella sera di pioggia sul promontorio avesse visto di sfuggita Dan Peale, si fosse reso conto di chi era in realtà e, non riuscendo a farsene una ragione, fosse semplicemente fuggito. La Villa è sempre là, ma Jessica l'ha venduta subito dopo l'internamento di Dan. Ho sentito dire che verrà trasformata in un albergo di lusso, data la sua vicinanza con la nave-casinò sul Mississippi. Non credo che io e Sue ci andremo mai. Non sono mai riuscito neanche a entrare nella proprietà della Hunley a Lake Geneva. Ah, dimenticavo! Borman perse l'azione legale contro di me. Cercò di sostenere che anch'io mi ero comportato come lui: avevo sparato un colpo di avvertimento a Peale colpendolo solo per caso. Come no. Lasciò il dipartimento e trovò lavoro presso una società di sorveglianza sulla costa occidentale. Non fui contento della sua scelta. Continuavo a pensare che avesse ottime potenzialità. Glossario
AS: Agente Speciale, della DCI o dell'FBI. ASC: Agente Speciale incaricato di un Caso, della DCI o dell'FBI. BCA: Bureau of Criminal Apprehension (Wisconsin). COMM: segnale di chiamata radio della polizia della Nation County. DCI: Division of Criminal Investigation, sezione investigativa del dipartimento di pubblica sicurezza dello stato dell'Iowa. DEA: Drug Enforcement Administration, agenzia governativa che si occupa di questioni attinenti al traffico di stupefacenti. DNE: Division of Narcotics Enforcement, agenzia dello stato dell'Iowa e ramo della DCI. DNR: Department of Naturai Resources, agenzia dello stato dell'Iowa. FBI: Federal Bureau of Investigation, agenzia del dipartimento di giustizia degli Stati Uniti. ISP: Iowa State Patrol, sezione degli agenti in divisa del dipartimento di pubblica sicurezza. LEIN: Law Enforcement Intelligence Network. ML: Medico Legale. NICC: National Crime Information Center, banca dati nazionale sul crimine. PC: Procuratore Capo, di stato o federale. US: Ufficio dello Sceriffo. Note generali sui codici Nelle comunicazioni via radio delle forze di polizia, i codici vengono utilizzati sia per velocizzare la comunicazione, sia per impedire che orecchie indiscrete capiscano ciò che viene detto. I cosiddetti "Codici Dieci" sono i più importanti, mentre gli altri vengono utilizzati per colmare le lacune o segnalare situazioni particolari emerse dopo l'entrata in vigore dei Codici Dieci. Un esempio è il "codice blu", utilizzato per indicare che il soggetto di cui si sta parlando è deceduto. Il codice è diventato così popolare che non è più considerato molto utile e spesso viene sostituito con altri. Molti dipartimenti avevano messo a punto un sistema di codici che utilizzava un numero qualsiasi assegnandogli un significato noto solo agli agenti e agli addetti alle trasmissioni. Il codice 61 ne è un esempio: il vecchio "10-61" significava "Persone sulla linea". Essendo inutile, a poco a
poco il suo significato è cambiato in «Persone non autorizzate sulla linea» e alla fine è stato utilizzato per dire «Attenzione: questa conversazione non è sicura perché una persona non autorizzata è in ascolto». Tale definizione si rivelò molto utile e viene utilizzata tutt'oggi. In seguito ebbe un'ulteriore evoluzione e il numero "10" venne sostituito con la parola "codice". Stranamente, l'utilizzo del codice 61 si diffuse nel periodo in cui i civili cominciarono ad aver accesso agli scanner della polizia. Alcuni utili Codici Dieci I cosiddetti Codici Dieci nacquero agli albori della comunicazione radio della polizia. Il campo era molto ridotto e la maggior parte dei veicoli che possedevano la costosa attrezzatura per la comunicazione a due vie era di proprietà statale o delle grandi amministrazioni civiche. I codici, come quelli utilizzati nell'Iowa, avevano l'obiettivo di riferirsi alle situazioni comunemente incontrate dalla polizia stradale, che con ogni probabilità a quei tempi era l'unico corpo a potersi permettere le radio. Le attrezzature erano così poco affidabili che spesso la prima parte della trasmissione andava perduta, mentre le comunicazioni lunghe potevano risultare alterate. I Codici Dieci consentivano di ridurre la lunghezza delle trasmissioni aumentandone la chiarezza e la segretezza. Il "10" avvertiva l'ascoltatore che sarebbe seguito un numero corrispondente a un messaggio. Tale sistema è ancora in uso e sembra che possa continuare a essere utilizzato anche nel prossimo futuro, 10-2 Segnale buono, oggi utilizzato semplicemente per dire "bene". 10-4 Ricevuto, spesso utilizzato per indicare accordo. 10-5 Riferire. 10-6 Impegnato, spesso utilizzato per "non disturbare". 10-7 Temporaneamente non in servizio (per esempio, in pausa pranzo). 10-8 Nuovamente in servizio. 10-9 Ripetere. 10-10 Rissa. 10-13 Situazione meteorologica e condizioni stradali. 10-16 Caso interno. 10-20 Luogo. 10-21 Telefonare (per esempio "10-21 in ufficio"). 10-22 Lasciar perdere.
10-23 Arrivati sul posto. 10-24 Missione compiuta. 10-25 Incontrare, appuntamento. 10-27 Informazioni sull'autorizzazione dell'operatore. 10-28 Informazioni sulla registrazione del veicolo. 10-29 Controllare i precedenti per furto; nell'accezione attuale significa anche "mandato" o "ricercato". 10-32 Sospetto armato, utilizzato anche in riferimento a coltelli e altre armi. 10-33 Emergenza. 10-46 Veicolo fuori uso. 10-50 Incidente automobilistico. 10-51 Carro attrezzi. 10-52 Ambulanza. 10-55 Guida in stato di ebbrezza. 10-56 Pedone ubriaco. 10-61 Persone in linea, utilizzato spesso per indicare che un civile può essere in ascolto della trasmissione radio. 10-70 Incendio. 10-76 In arrivo. 10-78 Richiesta di assistenza. 10-79 Richiesta di intervento del medico legale, utilizzato per indicare un soggetto deceduto. 10-80 Inseguimento ad alta velocità. 10-96 Soggetto con turbe psichiche. Così, se un agente incontrasse una persona armata e, udendo degli spari ipotizzasse la presenza di feriti, potrebbe mandare un messaggio del genere. «10-33, 10-32, ho bisogno di 10-78, inviatemi un 10-52; questo è un 10-33!». Un esperto operatore radio si farebbe un'idea generale e si limiterebbe a chiedere la posizione dell'agente: «10-4. 10-20?». Come per ogni altro sistema, la chiarezza e l'efficacia dipendono esclusivamente dalle capacità del personale. Un agente con poco sangue freddo potrebbe confondersi ed essere costretto a una richiesta di "10-9". Un operatore radio poco attento potrebbe sintonizzarsi in ritardo e ricevere dati incompleti, aumentando le probabilità di rischi e pericoli. Ringraziamenti
Desidero ringraziare quanti hanno generosamente condiviso con me tempo e pensieri durante la lavorazione di questo libro. Innanzitutto, Larry e Maria Brummel di McGregor: il cordiale invito a visitare la loro splendida villa nell'Iowa mi ha permesso di definire l'ambientazione di gran parte delle pagine del libro. Gli amici londinesi: Rachel Coldbreath, che mi ha raccontato numerose teorie su leggende e storie di vampiri e mi ha offerto il suo incoraggiamento; Julian Richards, che mi ha regalato la sua amicizia e la sua conoscenza delle leggende e delle persone che ci credono; Grebbsy McLaren, che mi ha messo a disposizione il suo sottile senso dell'umorismo e mi ha dato il permesso di utilizzare alcuni suoi versi; Zu, il cui intuito e il cui modo di vedere le cose non hanno eguali. Ho apprezzato molto la loro affettuosa accoglienza durante una splendida serata in un pub di Londra. Voglio ringraziare anche un notevole numero di persone presenti in rete. Citarne solo alcune è difficile, ma B.J. Llewellyn, Catherine B. Krusberg, Julian, Grebbsy, Klattau, Emrys, Jet Girl, Chiller, Tiernan, William R. Thompson ed Elizabeth Miller sono fra esse. Sono state la fonte di un'affascinante discussione sui vampiri nelle tradizioni popolari e nella letteratura. Tutti loro, ovviamente, non hanno alcuna responsabilità per le mie imprecisioni. Desidero esprimere la mia gratitudine a un folto gruppo di ragazze di Elkader nell'Iowa, che ho intervistato per ottenere una documentazione affidabile circa alcune possibili reazioni a una serie di circostanze presenti nel libro. Courtney Zaph Bently, Rachel Kuehl Jaster, Carrie Persoon, Barbie Gnagy, Nicole Reimer, Hillary Klingman e Courtney Burns hanno fornito lo sfondo per alcuni avvenimenti nella vita dei personaggi di Hester Gorse e Darcy Becker. Sono state impagabili. Vorrei esprimere la mia più sincera gratitudine al Valerie Williams Co'Motion Dance Theater e alle ballerine Valerie Williams e Annie Church che mi hanno consentito di assistere alle loro lezioni e alle loro prove. La loro capacità di esprimere stati d'animo e comportamenti attraverso il linguaggio del corpo è stata una rivelazione e ha conferito maggiore profondità ai personaggi di Jessica e Tatiana. Shannon Bryant ha risposto alle mie domande relative ai potenziali testimoni, dando il via alla costruzione dei personaggi che abitano la Villa. Kate Bryant mi ha spiegato nel dettaglio come si suona il flauto e un brano musicale in particolare. Lo zio Don desidera ringraziarvi entrambe.
Per l'approfondita discussione su vampiri e temi affini, desidero ringraziare Julieann Thilmany Theis, che mi ha anche permesso di leggere la sua tesi di dottorato. Ringrazio tutto il personale di polizia che opera nel Midwest. La loro professionalità e dedizione e la volontà di condividere con me le loro esperienze lavorative hanno consentito la realizzazione di questo libro. FINE