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Mario Giordano: 5 in condotta Prezzo online:€ 15,30-15% Listino = € 18,00 Editore = Mondadori Collana = Frecce Anno = 2009 Pagine = 224 Lingua = Italiano EAN = 9788804590095 Premessa «Ieri sono andata in motorino nel paese di Papa Coso...» «Papa Coso?» «Ma sì, quel Papa lì.» «Che Papa?» «Non me lo ricordo.» «Come si chiama il paese?» «Sotto il Monte.» «Stai parlando di Papa Giovanni XXIII?» «Forse.» «Ma sai chi è?» «No.» «Il Papa Buono...» «Boh.» Mia figlia Alice ha 16 anni compiuti. Frequenta la terza liceo scientifico a Monza, con ottimi risultati. È una delle più brave della classe. E non sa chi è Papa Giovanni XXIII. Ignora completamente l'esistenza di un evento chiamato Concilio Vaticano II. Possibile? Possibile. Me ne accorgo un giorno di primavera, quasi per caso. Decido di approfondire. «Ma tu conosci i nomi degli ultimi Papi?» «No.» «C'è stato Paolo VI.» «Mai sentito nominare.» «Giovanni Paolo I, Giovanni Paolo II... Non ricordi le dirette Tv quand'è morto?» «Sì, qualcosa. C'era del fumo bianco e del fumo nero...» «Oddio santo: sì, le fumate del Conclave. E chi è stato eletto in quell'occasione?» «Un altro Papa.» Esatto: morto un Papa se ne fa un altro. «Ma come si chiama quello che c'è adesso?» «Fammi pensare.» «Concentrati.» «In-nocenzo?» «Alice, per favore, mi stai uccidendo.» «Non è Innocenzo?» «No.» «Mi puoi dire almeno come comincia?» «Con la B. E se mi dici Bartolomeo mi ammazzo.» «Ci sono: Benedetto.» «Ottimo, ma non basta. Benedetto cosa?» «Benedetto XIII?» Benedetta ragazza... Ernesto Galli della Loggia scrive che non c'è più un'idea della scuola perché non c'è più un'idea dell'Italia. La butta in alto, lui. Dice che per avere un insegnamento che funziona bisognerebbe prima mettersi d'accordo su che cosa insegnare. Sostiene che nel periodo della modernizzazio-ne, dagli anni Sessanta agli anni Ottanta, abbiamo distrutto l'identità nazionale. Ora, chiede, come si può pretendere di costruire una scuola se manca il Paese? Domanda legittima. E interessante. Però, nel frattempo, mentre si aspetta di ricostruire il Paese e l'identità nazionale (pratica che, a occhio e croce, richiede tempi lunghetti), ecco, io mi accontenterei di ricostruire una scuola che sforni ragazzi capaci di conoscere il nome del Papa. O, perlomeno, che dia loro la curiosità di impararlo. Impossibile? Forse sì. Ma mi piacerebbe capire come si fa a costruire l'identità nazionale se non si costruisce prima la scuola che la formi. Quando sento dire «il problema della scuola non esiste, il problema è della società», mi viene da ridere. E dove nasce il problema della società? Piove giù dal cie-lo insieme alla grandine? Entra nel camino con Babbo Natale? Suvvia, siamo seri: che cosa viene prima? L'identità o la scuola? Il Paese o l'istruzione? Come minimo, siamo al paradosso dell'uovo e della gallina. Ma qualcuno, intanto, spieghi ai nostri studenti che cosa significa paradosso. E magari dica loro che non ha nulla a che fare con le cunette del manto stradale... Di scuola si parla molto negli ultimi tempi. Dibattiti, talk show, tavole rotonde, riunioni e manifestazioni. Soprattutto, confusioni. Ma, alla fine, diciamoci la verità: a nessuno interessa che la scuola cambi davvero. Gli studenti fanno appena in tempo ad accorgersi dove sono finiti e già sono pronti a preoccuparsi della maturità e dell'università. I loro genitori, ammesso che s'interessino a qualcosa oltre alle più
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inutili domande («E quest'anno dove andate in gita? A Barcellona?» oppure «Ma il laboratorio di chimica prevede anche lo studio dello smalto per le unghie?»), si distraggono facilmente. Restano i professori, che si dividono sostanzialmente in tre categorie: quelli che fanno finta di non capire che questa scuola è un fallimento; quelli che capiscono e vorrebbero anche cambiare, ma ormai sono stanchi e rassegnati; e quelli che capiscono e proprio perciò fanno di tutto per evitare il cambiamento. Questi sono i più numerosi e i più presenti in tutti i dibattiti e i talk show. A loro, in fondo, il fallimento della scuola non dispiace: per quanto grave, è comunque inferiore al fallimento loro. E così, anno dopo anno, lustro dopo lustro, decennio dopo decennio, rimane sempre tutto uguale dentro le nostre aule, a parte il fatto che sono sempre più sozze, sempre più cadenti, sempre più polverose. E sempre meno istruttive. Fino ad arrivare a un passo dal crac. Oggi, in effetti, ci troviamo di fronte a un vero e proprio disastro educativo, a una catastrofe scolastica. È come un'epidemia, come una piaga biblica, l'invasione delle cavallette ignoranti, l'inondazione dell'asineria devastante. Un'emergenza. Ancor più grave delle altre emergenze per il semplice fatto che gli interventi per porvi rimedio sembrano meno urgenti. Rimandabili. Siamo bestie? Pazienza. Gli altri Paesi ci umiliano nei test? Chi se ne importa. Presto ci bagneranno il naso tutti quegli Stati che un tempo definivamo del Terzo Mondo? E vabbè. Due titoli sui giornali, un dibattito, un corteo. Poi si passa ad altro. Subito. Senza modificare nulla. Il paradosso (paradosso, ragazzi, non dosso...) è proprio questo: quando hai l'acqua alta in cantina ti mobiliti subito, chiami i vigili del fuoco, idraulici, muratori, falegnami... Cerchi di porre rimedio in fretta, fai suonare le sirene. E quando hai l'acqua alta dentro i cervelli? Altro che sirene. Non si sentono nemmeno le sirenette. «Tutto quello che non so l'ho imparato a scuola» affermava Longanesi. E Bertolt Brecht: «Durante i miei nove anni alle superiori non sono riuscito a insegnare nulla ai miei professori...». Giovanni Papini nel 1914 scrisse un'invettiva intitolata Chiudiamo le scuole: «La scuola fa molto più male che bene ai cervelli in formazione» diceva. E spiegava: la scuola insegna cose inutili, che bisogna disimparare; la scuola insegna cose false o discutibili, da cui poi bisogna liberarsi; la scuola «abitua gli uomini a ritenere che tutta la sapienza del mondo consista nei libri stampati». Come dargli torto? Ma chiudere davvero le scuole sarebbe pericoloso. Se non altro perché, come sostiene Gilbert K. Che-sterton, «senza istruzione corriamo il rischio di prendere sul serio le persone istruite». E allora anziché abolirla, papinianamente, questa scuola forse sarebbe ora di cominciare a cambiarla. Alla radice, in profondità. Mettendo fine a quarantanni di sfascio, ripristinando un po' dei sani principi di responsabilità e disciplina, ricominciando a parlare di doveri, oltre che di diritti. Magari rinunciando a un po' di shiatzu e tamburello sardo nelle ore complementari per tornare a studiare, durante le lezioni, qualche poesia a memoria. Magari chiedendo ai professori di essere un po' meno psicologi e istruttori di scuola guida e un po' più severi nelle interrogazioni di storia. Ma per fare questo è necessario capire davvero qual è la situazione, raccontandosi tutto, nel modo meno noioso e più impietoso possibile. La scuola, purtroppo, non è quella della Tv. La scuola non è quella con la faccia di Giorgio Tirabassi, le professores-se non sono tutte come Martina Colombari. Provaci ancora profì, I liceali, O' professore, quelle lunghe sequenze dei Cesa-roni spalmano il miele della fiction sulle ferite della nostra (d)istruzione. E invece bisogna guardare in faccia la realtà, anche cruda, i banchi rotti e le zucche vuote, bisogna andare fino in fondo dentro lo sfascio scolastico, bisogna immergersi nelle fondamenta scricchiolanti della nostra educazione per avere qualche speranza di riuscire davvero a evitare il tracollo finale.
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È quello che abbiamo cercato di fare. Un viaggio senza reticenze dentro la scuola italiana. Con la consapevolezza che di qui comincia la strada per cambiare. Prima di partire, però, lasciatemi chiedere scusa a mia figlia Alice: l'ho chiamata in causa in questa premessa, anche se lei mi ha scongiurato di non farlo, e mi sento un po' in colpa. Lo ripeto: è una ragazzina bravissima. Vuole andare a studiare all'estero, s'impegna, si da da fare, traduce dal latino con disinvoltura, ben figura nei certamen scolastici, legge (persino) molti libri. Ma questo, paradossalmente, rende le sue incertezze ancora più preoccupanti: se una come lei inciampa sull'inquilino del Vaticano, mi chiedo, che sarà il resto? Il problema, cara Alice, è tutto qui. Non sono le tue incertezze, ma le nostre mancanze, non i tuoi errori, ma i nostri. Il problema, cara Alice, non è il tuo presunto Innocenzo. Piuttosto siamo noi, presunti innocenti. I La scuola del tai chi chuan Dove si insegna di tutto, meno che a studiare Magari di storia e geografia non sanno molto. Forse zoppicano in matematica e pensano che Dante sia un terzino dell'Avellino. Però, accidenti, quando vogliono applicarsi i ragazzi dell'istituto tecnico commerciale Leonardo da Vinci di Acerenza (Potenza) dimostrano di essere davvero bravi. Veri fenomeni. Interrogazioni? Compiti in classe? Memorabili performance nelle verifiche di fine anno? Macché: hanno studiato molto bene il Sun Umbrella Beach. No, vi sbagliate: non si tratta dell'ultimo testo di inglese. E nemmeno di un nuovo metodo per la ragioneria. Molto meglio: è un ombrellone da spiaggia che garantisce la ricarica di telefo-nini, radio e computer. Tintarella e microchip, olio solare con Nokia incorporato. Chi vuol essere lieto sia, della scuola non v'è certezza. Della vacanza, invece, sì. I ragazzi del Leonardo da Vinci (degni eredi del grande genio) si rassegnino, però: c'è chi li batte. Loro sono potentini, ma altri sono davvero potenti. Gli studenti dell'istituto per geometri Luigi Einaudi di Reggio Emilia, per esempio: hanno dedicato il loro tempo scolastico alla lotta contro l'odore di frittura in cucina. E hanno prodotto Imbuplex Oil, speciale contenitore che dovrebbe mettere al riparo l'olfatto. La cosa puzza? Ma no, Einaudi, cui l'istituto è gloriosamente dedicato, ne sarebbe felice: i giovani brillanti gli sono sempre piaciuti. Certo, ai suoi tempi avevano come modelli Orazio e Virgilio anziché, come accade oggi, la Tupperware. Ma non si può mica avere tutto dalla vita. E nemmeno dalla scuola. A leggere ciò che viene creato fra i banchi, con la scusa di partecipare ora a un concorso di Unioncamere ora a uno della locale associazione industriale, c'è da rimanere basiti. Ma chi l'ha detto che i nostri ragazzi non hanno voglia di far niente? Semplicemente, fanno altre cose. Niente algebra, niente grammatica. Però possono inventare Tech Bag, la valigia con antifurto satellitare (istituto tecnico Scaruffi-LeviCittà del Tricolore di Reggio Emilia) o il tacco a spillo intercambiabile (istituto tecnico Pitagora di Castrovillari, Cosenza) o il dirigibile robotizzato Zeppelin, cinque motori, 7 metri di lunghezza e carico di 19 metri cubi di elio (liceo scientifico Rainerum di Bolzano). Ma ci sono anche il «riadattalo» (giocattolo costruito con materiale di discarica), il carrello portabiancheria che cambia automaticamente la federa al cuscino, il bipiatto antifatica, il bicchiere da taschino, la panchina autopulente e, imperdibile, la «pattumiera parlante», dalla quale, ogni volta che la si apre, esce una voce. Discorsi piuttosto sporchi, si presume. Che ci volete fare? Una volta a scuola si studiava il «gran rifiuto» del III canto dell'Inferno. Adesso ci limitiamo al rifiuto solido urbano. Da Monnalisa alla monnezza, dalla carica dei Savoia alla discarica comunale, si potrebbe dire che il passaggio è stato breve, anche se non proprio lindo. Non vi pare? A proposito di cose linde e chiare: visto che
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potrebbe apparire improbabile, garantisco che tutti gli oggetti appena citati sono stati realmente studiati ed elaborati sui banchi di scuola, compreso il bipiatto antifatica e il bicchiere da taschino. Ora voi vi chiederete: ma perché questi benedetti ragazzi passano il loro tempo a mettere a punto tacchi a spillo intercambiabili e poi non sanno le tabelline? Difficile da spiegare. A meno che la risposta non ce la dia la pattumiera parlante. Shakespeare? No, il provolone. E l'ora di lozione Il fatto è che la scuola è diventata un gran bazar dove si può fare più o meno di tutto. Tranne studiare, naturalmente. Sia chiaro: ognuna di queste attività in sé è legittima, in alcuni casi persino condivisibile. Se poi si trovasse pure il tempo per l'italiano e la matematica, però. Altrimenti queste iniziative diventano un gigantesco paradosso, uno spreco di cervelli, una lezione di dissipazione del tempo: abbiamo le classi piene di ragazzi che s'industriano nella coltivazione biologica della cipolla o sanno tutto del progetto Mister Cheese, educazione alimentare col provolone (non è uno scherzo: è stato attivato davvero), ma poi confondono il congiuntivo con una malattia degli occhi. «A scuola non si studiano più Shakespeare e sant'Agostino» lamenta Giuliano Da Empoli sulla prima pagina del «Riformista». E per forza che non si studiano più Shakespeare e sant'Agostino: bisogna occuparsi di Mister Cheese. E del provolone. Alcuni licei romani (dal Lucrezio Caro all'Ilaria Alpi) fanno di meglio: trovando il formaggio un po' indigesto si dedicano al cinema. Ma, per restare in tema, ci mettono su abbondanti dosi di peperoncino. Il progetto prevede la produzione di un film girato in digitale dal titolo Chi nasce tondo. Protagonista Sandra Milo nell'ambizioso ruolo di entraìneuse. Perfetto, no? Molto educativo. Resta da chiarire solo un ultimo dubbio: ma tutto ciò a che ora di lezione appartiene? Archeologia femminile? Calcolo delle probabilità grottesche? Pornostoria? La soluzione sta nel nome che l'entraìneuse Sandra Milo assume nel film (ricordiamolo, da girare a scuola): Anna Tre Culi. Ma sì: Anna Tre Culi. Dev'essere una lezione di dolce stilnovo, linguaggio poetico, soffusa lirica petrarchiana. O forse, più semplicemente, è una lezione di bon ton. Che ci volete fare? Basta con il secolo dei lumi: adesso, al massimo, a scuola si studiano le luci rosse. A Mantova hanno fatto prima: qualche tempo fa, al liceo scientifico Belfiore, hanno invitato direttamente una pornostar. La sexy insegnante, Antonella Del Lago, è salita in cattedra con un cordone di sicurezza (un prete, un medico e due psicologi) per «parlare di affettività, amore e sesso in modo divertente». Già: perché non divertirsi un po'? A Milano (zona 9) viene organizzato un corso di educazione sessuale che il settimanale «Tempi» battezza: «Penna, quaderno e profilattico». «Per il sesso orale si usano preservativi al gusto di frutta» si sentono dire gli allibiti tredicenni. «Per il rapporto anale serve un preservativo più resistente, per i rapporti vaginali ne basta uno normale.» E poi il corso (teorico, si spera) si chiude evocando Rocco Siffredi, le eiaculazioni del porno-attore, la dura vita del pornoset. «Un tempo c'era chi bigia-va la scuola per frequentare cinema hard, adesso non c'è più bisogno. Vai a scuola ed è quasi la stessa cosa.» Perché è chiaro: non è importante ciò che lo studente impara. È importante la sua felicità. E allora, via: ci sono il corso di affettività (anzi: «aspetto culturale e valoriale della connessione tra affettività-sessualità-moralità»), i corsi di educazione alla salute, i corsi di «ben...essere» (ah, i tre puntini di sospensione: sarà pure una lezione di ironia?). Il benessere è al centro anche del piano educativo triennale chiamato «Vivitibene». E il benessere «dalla colazione allo zaino» s'insegna in tutta Italia con l'aiuto della Federali-mentare. Essere o benessere, allora? Soprattutto il secondo, a quanto pare. Mancano la geografia della sauna, la storia del bagno turco, tecniche di
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cereali nel latte, aritmetica del gel e geometria dell'henne, ma si può sempre rimediare. Tutti in classe ragazzi, e abbiate fiducia: dopo l'intervallo, ci sarà l'ora di lozione... Kant? No, la robiola. E in cattedra sale il mestolo Ma sicuro: archiviato lo studio delle forme, adesso si studia la forma. Nel senso che si studia come rimanere in forma, magari abboffandosi a più non posso. Fateci caso: si arriva alla fine del liceo che si annaspa in anatomia, non si distingue l'atrio dal ventricolo e si resta convinti che l'orecchietta sia solo quella che si mangia con la cima di rapa. Ma il ben.. .essere, perdinci, quello lo si approfondisce con apposito progetto: dalla colazione allo zaino, appunto. Con particolare attenzione alla colazione. Non ci credete? Date un'occhiata ai programmi scolastici e vi accorgerete che ce n'è, culinariamente parlando, per tutti i gusti. Il pranzo è servito: a Reggio Emilia salgono in cattedra i giacimenti gastronomici, dal salame alla pancetta, dall'erbazzone al parmigiano; in Valle d'Aosta si fa lezione di mangiar sano, in Sardegna s'impara a far scorpacciate rispettando la biodiversità, a Ravenna si cucina il pesce dell'Adriatico, a Gros-seto si disserta sulle qualità del latte. Abboffatevi e siate felici. Del resto, si sa, la cultura nutre. Poi dicono che gli studenti non divorano più i libri. Per forza, con tutto quello che gli danno da mangiare durante le ore di lezione: teoria della cotica e della robiola, approfondimenti di toma e peperoncini sott'olio, ricerche su grano saraceno e asparagi di Santena. Per non dire dei salami d'oca, con molti salami e purtroppo anche molte oche. Durante la «Giornata del cucinare sano» entrano in classe addirittura i migliori chef del Paese. L'Ansa trionfante annuncia: «Mestoli e scolapasta si fanno largo tra lavagna e sussidiario». E racconta il grande impegno profuso per l'ora di lezione dedicata alla «pasta alla Norma». Ma si capisce: non sono questi i veri problemi della scuola? E allora risolviamoli subito con trigonometrica precisione: per la pasta alla Norma ci vogliono i pomodori perini o no? E quanto aglio? E fino a che punto la ricotta dev'essere stagionata? In un liceo di Legnago (Verona) hanno organizzato un «percorso di approfondimento». Su Dante? Su Kant? Sulla letteratura inglese? Macché: sul «sapore del sapere». Con l'accento sul sapore, naturalmente. A Modena gli studenti delle elementari vengono portati a lezione nella stalla, nel pollaio o tra i filari di un vigneto. A Castano Primo, fra Milano e Varese, per essere ancora più realisti hanno squartato un coniglio davanti ai bambinetti di quarta: «Non sarà troppo?» ha protestato qualcuno. «No, così insegniamo a trattare bene gli animali» hanno risposto i maestri. Chissà se insegnavano a trattarli male. Anche a Perignano (Pisa) la coltivazione dell'orto è materia regolarmente «inserita nel piano delle ore settimanali». Per cui con assoluta puntualità i ragazzi «lasciano i banchi e i libri per curare cipolle, baccelli, insalate, cavolfiori, ma anche alberi da frutto come peri, meli e ciliegi». Va bene, d'accordo. Poi, però, non ci si stupisca se restano delle zucche (vuote). Dante? No, il «cuoziente» della felicità A Rivalta di Torino il Comune chiama in cattedra una rom. Deve educare i bambini italiani alla cultura gitana. Ce n'è bisogno, no? Magari uno finisce le elementari senza sapere come si scrivono «squola» e «comuncue», ma almeno sa qualcosa degli zingari. È importante, si capisce: le regole della grammatica possono aspettare, quelle dei campi nomadi invece no. Ma, di grazia, è possibile sapere quale sarà il programma di studio? Che cosa insegnerà la docente gitana? Teoria e pratica del borseggio? Filosofia del mendicare? Scienza del furto in appartamento? Si sprecano i corsi di cultura romena. In Toscana si promuovono lezioni di «cittadinanza democratica», a Cosen-za si spiega la «coesistenza delle diversità». Materie fondamentali, non c'è dubbio. A Trieste c'è il
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«progetto di educazione allo sviluppo del Mediterraneo, mare di identità e di intercultura». A Imperia «si declina il valore universale della diversità» con l'iniziativa chiamata «So-stare». In molte classi entrano, di volta in volta, i diritti umani, la cooperazione, la Croce Rossa. E l'Unione europea finanzia l'insegnamento dell'integrazione attraverso la musica dello Stradivari. Che almeno non si dica che non ci sono più violini a scuola. Su tutto, poi, la fanno da padrone i corsi sulla pace. Nel 2007 solo la Regione Liguria ne ha finanziati 14. Il Vis (Volontariato internazionale per lo sviluppo) annuncia che insegnerà pace e mondialità nelle scuole, 30.000 alunni andranno a lezione di solidarietà con l'Amref. «La pace diventa materia di studio» annuncia la Regione Marche. E a Milano inventano la «cattedra itinerante della pace». Per carità: la pace è una cosa bellissima. Ma può diventare una cattedra? E pure itinerante? E l'itinerario che percorso fa? Passa tra l'algebra e la chimica? E qual è la formula della pace? In Umbria devono essere vicini a scoprirlo. Intanto hanno introdotto a scuola lo studio del «quoziente della felicità». Magari qualcuno non sa che cosa sia un quoziente, magari qualcuno scriverà «cuoziente», ma che ci volete fare? Quando si va alla ricerca della felicità, come in un film di Muccino, non si può andare troppo per il sottile. In un liceo di Bologna si insegna la filosofia antidisagio con tanto di «sportello» sperimentale. A Mondovì (Cuneo), invece, è arrivata la peer education, promozione del benessere su temi vari, dal bullismo alla sessualità, con tanto di psicologa impegnata a spiegare che la peer education si sviluppa «in orizzontale». In orizzontale? Davvero? Ma non sarà perché qualcuno si corica e si addormenta? «E pensare» commenta Paola Mastrocola nel suo indimenticabile La scuola raccontata al mio cane «che un tempo, per dire, l'insegnante di lettere insegnava lettere. Ed era contento. Eravamo convinti che non ci servisse altro e che potevamo, solo attraverso la passione (non per il nostro lavoro, per la nostra materia), combattere qualsiasi disagio giovanile, qualsiasi dispersione scolastica, qualsiasi problema, anche di droga. Eravamo convinti che un ragazzo non si sarebbe mai drogato se noi gli facevamo Montale!». Adesso insegna lettere solo «dopo aver fatto: educazione stradale, lettura dei quotidiani, analisi di un film, uscita al museo, educazione all'affettività, compresenza, accoglienza, recupero, stage all'estero, brainstorming, lavoro di gruppo, punto di ascolto, teatro in classe e missione salute. Allora poi sì, dopo tutto questo, se ci avanza tempo, se crediamo, se proprio ci teniamo... sì, possiamo fare una lezione su Dante. Non ce lo vieta mica nessuno». No, non lo vieta nessuno. A patto che non disturbi troppo. Si sa: alle 9 c'è la lezione di «comportamento consapevole». Altro che Divina Commedia. Virgilio e Caronte? Pier Della Vigna e Farinata degli Uberti? Macché: bisogna studiare la «piattaforma di lavoro condivisa contenente animazioni interattive, giochi di verifica e rubriche sui temi trattati». Capito? No? Non importa, non bisogna perdere tempo perché alle 10 c'è «lezione di paura». Proprio così. E come nasce questa paura? Interrogazione di latino? Compito in classe di matematica? Nemmeno per sogno: «Bisogna vincere la paura globale, collettiva» attraverso la promozione della «paura consapevole» affinchè «l'uomo moderno possa costruire progressivamente nel suo cervello le premesse psicobiologiche per affrontare adeguatamente il codice-rosso, quello dell'emergenza». Accipicchia, roba tosta. E pensare che, una volta, per imparare ad affrontare la paura non c'era mica bisogno di tutte queste premesse psicobiologiche. Bastavano certe occhiate del prof di italiano. T'insegno a perdere tempo «In arrivo lezioni di filatelia» recita l'Ansa (30 gennaio 2006) presentando un accordo tra le Poste italiane e il ministero dell'Istruzione. Si impara come annullare il francobollo? O come
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annullare la lezione di trigonometria? A Massa hanno fatto ancora di meglio: i bambini hanno imparato a gestire direttamente un ufficio postale. Almeno così, quando crescono, sapranno come si trattano le raccomandate. A Bari preferiscono le lezioni di massoneria: ecco a cosa serve il compasso. A Bologna sale in cattedra la coop Dulcamara: spiega la «biodiversità». A Genova, invece, entrano in classe numerosi attori. Il loro compito, recita il comunicato ufficiale, sarà quello di «insegnare a perdere tempo». Caso mai ce ne fosse bisogno. In realtà, sembra di no. Di insegnare a perdere tempo proprio non c'è bisogno. La scuola italiana questo lo sa fare benissimo: si va a lezione di legalità con l'Agenzia delle entrate, a lezione di Europa, a lezione di finanza col memorandum Draghi-Fioroni. Libri di testo? No, meglio i videogame per «educare all'uso dei soldi». A Genova si simula l'assemblea Onu per discutere di microcredito; in Sicilia si insegna come aprire uno sportello bancario, con tanto di personale (dal direttore ai cassieri), libretti di risparmio e tassi di interesse. Manca solo qualcuno che insegni come rapinarle, le banche, e poi il progetto sarebbe completo. In compenso ci sono i corsi di educazione agli acquisti, quelli di cultura del lavoro (con la collaborazione di Confindu-stria) e i corsi di economia domestica. A Pisa giocano con le quotazioni, simulando investimenti come se fossero a Piazza Affari. «Fanta Borsa» si chiama il progetto: magari, almeno lì, nella finzione, i risparmiatori riescono finalmente a guadagnare qualcosa. I ragazzi, in compenso, ci perdono di sicuro. «Sono disorientati, hanno vite frammentate, sono distratti, senza punti di riferimento. Dalla scuola avrebbero bisogno di certezze» confida un professore. «Avrebbero bisogno del rigore della matematica, dei meccanismi perfetti della sintassi latina. E invece noi che diamo loro?» Già, che diamo loro? Niente rigore della matematica, niente meccanismi perfetti né sintassi latina: diamo gli stessi coriandoli di vita, spezzoni di divertimento, sprazzi di attività colorate e instabili che già riempiono la loro vita all'esterno. Nel libro La mia scuola, amara raccolta di testimonianze di professori pubblicata da Einaudi, un'insegnante propone la «slow school»: meno corsi, meno frenesia, effetti speciali. «Insegniamo a pensare con lentezza e tranquillità. In fondo se ha funzionato con lo slow food...» T'insegno le scommesse clandestine Ma sì, ci vorrebbe un po' di slow school contro la fast school, ci vorrebbe un po' di titire-tu-patulè, la ritmica latina, i versi mandati a memoria, odietamoquareidfaciamfor-tasserequiris, ci vorrebbe più aoristo per tutti, invece dell'ultimo corso di kung fu o tai chi chuan. E invece... Invece nei programmi delle nostre scuole ormai ci trovi dentro qual-siasi cosa, purché non sia importante: a Torino hanno istituito corsi di faccende domestiche per maschi (cucito e ricamo), in una scuola elementare di Vietri sul Mare (Salerno) hanno fatto lezioni di «sound afroamericano» e gospel, in un liceo di Bergamo preferiscono la musica sacra, a Milano hanno inventato i «Trumors» per andare a caccia di rumori molesti. In classe entrano in rapida successione l'agenzia di stampa multimediale, i corsi di talk show, l'analisi dei testi delle canzoni (d'autore e non). Fast school, sempre più fast. Un istituto di Savona si affida orgogliosamente al cabaret con Beppe Braida. E una circolare nazionale sdogana il cruciverba in classe. Quattro orizzontale, dodici lettere, comincia per d. Documentarsi? Macché: divertimento. Eccome no, divertimento assicurato: che ridere nella scuola dove non si insegna nulla. A Venezia si studiano i giochi antichi: mazza e pindolo, tacco, nascondino e salto della corda. In dieci scuole di diverse città, invece, si fa lezione di «gioco responsabile» con approfondimento sulle scommesse clandestine. Scommesse clandestine? A scuola? E allora si può far niente per imparare pure le corse dei cavalli? A Milano ci sono le lezioni di pet-care «per conoscere gli amici a quattro zampe». A Perugia
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hanno inventato i «vagoni didattici». Se poi arriva la Ducati si fa «fisica in moto»: legge di inerzia? Legge di Newton? Energia cinetica? No: le vittorie di Casey Stoner. Dai libri al Mugello: l'accelerazione dei solidi può attendere, quella dei bolidi no. Del resto, non è mica una novità: a leggere i documenti scolastici le società sportive frequentano le aule assai più che i padri nobili della patria. Più che di Crispi si parla di Crespo. Julio Cesar (portiere dell'Inter) spodesta Giulio Cesare. Le memorie di Adriano? Sono l'intervista al centra-vanti brasiliano. Ronaldinho è meglio di Cavour, si capisce: anche se più o meno hanno la stessa pancetta, è chiaro che non c'è partita. Il ministero bandisce un corso nazionale di «fair play», a Treviso propongono la «scuola di tifo», il Parma porta i suoi calciatori nelle scuole all'insegna del motto: «Un'aula chiamata stadio». Ma certo: l'aula diventa uno stadio, l'ultimo banco è la curva sud. Ma per questo c'è bisogno di iniziative speciali? Non succede già ogni giorno? Niente da fare: il calcio tira da matti in classe. La Volkswagen organizza lezioni di tifo in 16.000 scuole elementari e 6417 scuole secondarie, con il coinvolgimento di circa 200.000 alunni: a Pavia gli scolaretti ultra vincono il concorso per il miglior striscione, a Cuneo quello per l'inno («Noi siamo per un tifo migliore/battiamo le mani al ritmo di un grande cuore/vogliamo dire basta a questa confusione/divertirci ancora col gioco del pallone»). «Quando glielo abbiamo annunciato, nell'aula si è levato un grande urrà» racconta la maestra. E chi ne dubitava? In un liceo della Toscana arriva persino l'arbitro Trefoloni: così può insegnare anche come si fa un fischio. A fare i fiaschi, del resto, gli studenti sono capaci da soli. Gli altoatesini fanno lezione in barca a vela: si trasferiscono all'Elba, però. D'altra parte è noto che in trasferta vengono meglio tutte le cazzate, comprese quelle di randa. «Anche lo yoga tra le attività aggiuntive in classe» proclama felice la federazione yoga. Ma sì: poteva mancare lo yoga? L'istituto Galvani di Milano pubblicizza le lezioni di autodifesa con arti marziali. Ma ci sono anche danza moderna e hip hop. Per la danza del ventre, basta aspettare un po'. A Trieste si affronta la speleologia, in Liguria e Sardegna arrivano 10.000 kit subacquei (del resto si sa, i ragazzi a scuola hanno spesso l'acqua in bocca). E la Valle d'Aosta, infine, opta per la pesca sportiva. E pazienza per chi resta in classe. Che ci volete fare? È noto che chi studia non piglia pesci. «L'altro giorno nell'intervallo delle dieci» racconta la Ma-strocola «mi ferma un collega e mi dice: hai fatto educazione stradale? Aiuto. Mi ero completamente dimenticata che nell'ultimo consiglio di classe avevamo deciso di fare ben otto ore di educazione stradale, vagamente divise tra tutti noi insegnanti della classe. Suona la fine dell'intervallo. Torno in classe. Prima stavo spiegando l'Eneide, il famoso pezzo in cui i greci, perfidi, fingono di partire, mollano l'enorme cavallo di legno sulla spiaggia e si nascondono dietro l'isoletta di Tenedo. Mi pregustavo il momento di leggere del povero Laocoonte e di quando viene stritolato dai serpenti. In genere, quando spiego questo brano, faccio anche il disegnino dei serpenti alla lavagna, perché sia ben visibile l'inquadratura perfettamente filmica con cui Virgilio descrive la scena: un capolavoro. Chissà se anche quest'anno avrei fatto il disegnino? Invece niente, entro in classe e dico: chiudete l'Eneide, facciamo educazione stradale.» Chiudete l'Eneide! È questo che vuole oggi la scuola? T'insegno il carrello del supermercato Ma l'educazione stradale, se non altro, è ancora una materia utile. Non sostituirà l'Eneide ma serve per non andare a sbattere in motorino. O, almeno, ad attraversare sulle strisce. A che serve l'ecolombrico? Eppure a Cernusco sul Naviglio (Milano) si sono impegnati molto per approfondirlo, chissà quante volte hanno dovuto chiudere l'Eneide. E
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l'autospegnimento della Tv? L'hanno studiato in una scuola di Potenza, magari al posto del Manzoni, che tanto, si sa, quello si autospegne senza bisogno di congegni elettronici. Renzo, Lucia e i promessi telecomandi. A Vermezzo (Milano) hanno elaborato una misteriosa centrale elettroatmosferica, a Mozzanica (Bergamo) un duomo di Milano in legno. A Palermo l'area giochi (con baby sitter) da collocare sui treni. A Frosinone il «warm water discovery», che servirebbe (pare) per miscelare acqua fredda e acqua calda nella doccia. E a Treviso un complesso sistema di onde radio che permette di avere il conto totale della spesa aggiornato man mano che si appoggiano dentro il carrello del super-mercato gli oggetti da acquistare. Perfetto, no? Un tempo si usciva dal liceo con una preparazione gigante. Adesso, al massimo, con una preparazione da Gigante. E anche un po' da Esselunga. A Bolzano costruiscono Debobber I, robot a quattro ruote che sembrerebbe capace di uscire da tutti i tunnel. Tranne il tunnel dell'ignoranza, probabilmente. Sempre in campo tecnologico ci sono poi il «Progetto Roberta» (per avvicinarsi alla robotica), «Easy Tour» (per l'uso sicuro di Internet), il «web amico della Sicilia» e la settimana dell'astronomia, con tanto di telescopio virtuale per osservare nebulose e Via Lattea. Del resto si sa che gli studenti hanno la testa fra le nuvole. E spesso fanno vedere le stelle. Da tempo, poi, va fortissimo pure l'ecologia. Una volta una buona scuola era quella dove si imparava a non risparmiare energie, ora una buona scuola è quella dove si impara a risparmiare energia. Ed ecco allora che arriva il «Game Simulation» per affrontare il problema dei cambiamenti climatici, il «Panda Explorer» con il Wwf, la «Rigenergia» che in Valle d'Aosta pratica le «nuove frontiere dell'ecoenergia», utile novità «in materia di eolico e cogenerazione delle biomasse». Accipicchia che progressi: si può uscire da scuola senza sapere cos'è la clorofilla, ma guai a non aver fatto almeno un'ora di cogenerazione delle biomasse. Si capisce. Il ministero dell'Istruzione organizza con il Fai le maxicartoline «Saluti da...» e «Itinerari di bellezza» per educare all'arte e alla natura. In 100 scuole si avviano lezioni sui parchi e sulle aree protette. Al liceo scientifico di Andria (Bari) vanno a scuola di verde «per imparare a rispettare l'ambiente sui sentieri del trekking o attraverso l'orienteering». Trekking anche in Friuli: con «camminascuola» ci si propone di trasformare, recita il comunicato, il «trekking in una vera e propria attività scolastica programmata». E poi dicono che chi va a scuola, non fa strada... Ma sì, dai, la scuola è amica del clima: Legambiente e Edison promuovono in 200 classi di 11 regioni italiane (si parte dalla elementare Sgrignani di Rieti) l'Ecoludobus «Kyoto anch'io». Si studia il protocollo sulle emissioni di gas. Il ministero non vuol essere da meno e promuove sei eco-percorsi per festeggiare l'entrata in vigore dell'accordo internazionale sull'ambiente. E il protocollo di Kyoto viene ufficialmente inserito, a Viterbo e Spoleto, nel programma formativo delle scuole. A Milano va di moda l'educazione allo sviluppo sostenibile, in Valle d'Aosta la lezione di so-stenibilità ambientale, 485 scuole partecipano al concorso «Il sole a scuola» per la realizzazione di impianti fotovoltaici sugli edifici degli istituti. In Emilia Romagna si vantano: abbiamo il primo ecoliceo regionale, è il Ludovico Ariosto di Ferrara che nel febbraio 2007 ha ottenuto la certificazione ambientale UNI EN ISO 14001. Perfetto. Se ottenesse anche la UNI EN iso 8IN LATINO non sarebbe meglio? In 63 istituti di 5 diverse regioni sale in cattedra il «bio e-learning». La Camera di commercio della Valle d'Aosta promuove corsi per la cultura del risparmio energetico. Progetto nazionale del ministero: a scuola si studiano le lampadine a basso consumo e i nuovi bulbi a fluorescenza compatti. Tutto perfetto. Ma noi restiamo al buio. Quando si accenderanno di nuovo i cervelli? 36.000 consulenti. Costo: 58 milioni di euro
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Fra l'altro buona parte di queste attività costano. Nel giugno 2008, quando il ministro Renato Brunetta mette on line i dati relativi alle consulenze della pubblica amministrazione, si scopre che per insegnare massaggi giapponesi, hockey su prato e capoeira brasiliana agli alunni italiani, in un solo anno (il 2006) sono stati spesi 58 milioni di euro. Per l'esattezza: 58.314.498 euro. Mica bruscolini. Tanto per intenderci: un'azienda come la Meliconi (sì, quella del telecomando col guscio) con 280 dipendenti, due stabilimenti ed esportazioni in tutta Europa, fattura di meno. I consulenti della scuola sono un vero e proprio esercito: 36.066, sempre per rifarci ai dati del 2006 resi pubblici nel giugno 2008 da Brunetta. Trentaseimila persone che in un anno sono entrate a scuola per insegnare (a pagamento) la pesca alla trota o il ritmo del tamburello. Avete un'idea di quante sono? Più degli abitanti di Aosta, la somma degli abitanti di Erma e di Urbino, quasi il doppio di quelli di Sondrio. Ma a voi pare possibile che mentre le scuole perdono i pezzi e gli insegnanti hanno stipendi da fame, un'intera città come Aosta giorno dopo giorno entri in classe per insegnare l'antica arte di guardare le nuvole alla moda at-zeca o altre amenità? «A Finale Ligure» racconta Marco Zucchetti sul «Giornale» «l'elenco delle attività scolastiche sembra una raccolta di hobby da dopolavoro: seminario sul massaggio giapponese (500 euro), corso di macramè (975 euro), lezioni di mesh work e celtico e "tecniche di ricerca dell'equilibrio bioenergetico": 300 euro di consulenza o di bolletta? Il fascino dell'Oriente ha stregato gli insegnanti. È tutto un proliferare di discipline come lo shiatzu (2800 euro a Gambolò, Pa-via), la thai boxe (387 euro ad Ancona con buona pace dei genitori che vietano la visione dei film di Van Damme perché troppo violenti), wushu (875 euro per una scuola materna nei pressi di Lodi), thai chi (284 euro a Milano), kendo e aikido (284 e 511 euro a Carmagnola, Torino). L'esotico va forte e gli scolari di oggi saranno i cosmopoliti di domani: balleranno la capoeira brasiliana (310 euro a elusone, Bergamo), suoneranno i bonghi djembe a Milano (625 euro al suonatore africano) e impareranno i ritmi del Senegal a Chivasso, Torino (1875 euro). Per poi dipingere mandala buddisti a Lodi e ascoltare una scrittrice internazionale sul progetto "Curry di pollo" a Mantova per 300 e 135 euro.» Curry di pollo? Bonghi djembe? Lezioni di mesh work e celtico? Ma non vi sembra assurdo? Perché a Gambolò, ridente paesino pavese, devono spendere 2800 euro per lo shiatzu? E a Carmagnola cos'è arrivata? Una delegazione di giapponesi a studiare i peperoni locali? Altrimenti perché dedicare tante energie al kendo e all'aikido? Non sarebbe meglio, per esempio, approfondire la storia di Ca-vour o quella della bella Rosina? Peraltro, basta prendere qualche libro in biblioteca e leggerlo. A differenza dell'ai-kido, è pure gratis. A Milano hanno addirittura introdotto nelle aule il corso di «valorizzazione della propria immagine». Intanto si cominciano a valorizzare 1000 euro in tasca al consulente. Poi ci sono i 2730 euro spesi a Oulx (Torino) per la manipolazione della carta, i 2000 euro di Cremona per l'arte circense e l'ecogiornalismo, che a Varese viene via con appena 350 euro. A Bagnolo Mella (Brescia) impazza il corso «Cucino io», a Cologne (sempre in provincia di Brescia) si insegna a giocare a dama (così non ci si deve annoiare a seguire le lezioni di italiano) e ancora a Varese hanno speso 2000 euro per un esperto che è andato in aula a spiegare ai ragazzi il bridge. Si capisce: gli studenti hanno diritto a variare un po', non si può mica sempre fare la briscola quando il prof spiega... C'è poi il capitolo dello sport. Si va dallo step di Cluso-ne in provincia di Bergamo (540 euro per avere glutei sodi), all'hockey su prato di Airasca (Torino), dall'arrampicata di Roma (570 euro) al baseball di Ceccano in provincia di Fro-sinone (1700 euro). A Pavia
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preferiscono la vela (805 euro) e il rafting (2530 euro): così si affrontano le rapide, pericolosissime, del Ticino. E la musica? Può mancare? Ma no. Quasi 1000 euro se ne vanno al consulente di fisarmonica per tre lezioni a Ci-vitanova Marche, mentre in Salento ci vogliono solo 250 euro per imparare a ballare la «pizzica», a suonare i tamburelli e a intonare «canti di lavoro e di protesta». Di protesta? Preparazione alle okkupazioni? A Milano c'è il corso di cartonaggio: 1200 euro. A Bergamo ne spendono 600 per imparare a costruire bambole di pezza. Tanto si sa che nella scuola, poi, volano gli stracci. Non ci sono computer, i laboratori perdono i pezzi, le aule abbisognano di interventi di ristrutturazione come le palpebre di Valeria Marini. Epperò i soldi per il rafting, per il bridge e per ballare la «pizzica» si trovano sempre. Com'è possibile? E soprattutto: perché? Fra l'altro «c'è il rischio di cadere nell'assistenzialismo a figure esterne all'istruzione pubblica» avverte Zucchetti sul «Giornale». «Come il regista che ha intascato 6267 euro per uno spettacolo teatrale. O la famiglia Amico che a Caltanissetta ha messo insieme consulenze su giardinaggio, panificazione e sul progetto "Le orme di Proserpina" per oltre 6000 euro.» Spese giustificate, queste sulle orme di Proserpina, se non altro dal cognome del consulente: chi, infatti, è più Amico di così? Ore 10: lezione di mucca felice «Oje core 'e chistu core»: il corso di canti natalizi napoletani costa 3600 euro. Per la «pitura par furlan», corso di disegno riservato ai friulani, se ne spendono solo 800. Ma ci sono anche l'Iliade tradotta in veneziano (100 euro), «costruzione di oggetti romagnoli» (220 euro) e i balli sardi «per accogliere ospiti» (600 euro). Si capisce: su ballu seriu, su passu torrau, su ballu tsoppu, su ballu gabillu e su passu 'e trese. È importante che i ragazzi sappiano ballare per accogliere gli ospiti. E se alla fine ballano soprattutto i congiuntivi, pazienza. Ci si può consolare con il fatto che la spesa non è troppo elevata. Alla Calabria, per dire, va molto peggio: studiare la cultura arbereshe (della minoranza albanese) costa ben 10.400 euro. In Toscana, più pragmaticamente, hanno organizzato un corso di frisbee (297 euro). In Sardegna preferiscono scacchi (785 euro) e tiro con l'arco (1309 euro). Ad Avellino c'è la degustazione vini, a Salerno il progetto «Turismo sui generis» (1363 euro), in Friuli si studia la scrittura egizia (688 euro), mentre a Casavatore (Napoli) si dilettano col wushu kung fu (600 euro). E poi «cesteria» (308 euro), «progettazione di accessori fashion» (2100 euro), «pasta mais» (2273 euro), erbe aromatiche (2273), biodanza e yoga (1200 euro). A San Michele all'Adige (Trento) spendono 36.000 euro per il «Quaderno di campagna». Per fortuna costa meno «costruire la mucca felice»: 202 euro, a Montereale Valcellina (Pordenone). E se la mucca è felice, si capisce, sono tutti più contenti. Anche gli asini. Bovino dopo bovino, poteva mancare la «Mucca Mafal-da»? Costa solo 200 euro: chissà se riesce a evitare che le lezioni finiscano in vacca. Un po' più cara la «storia di pio pio» (1870 euro), mentre ne bastano 600 per le «streghe che fanno ridere». Ma c'è proprio bisogno di streghe nelle aule italiane? Chi lo sa. Di sicuro a Riace (Reggio Calabria) non potevano più proseguire l'anno scolastico senza l'esperto orafo (3100 euro), a Rende (Cosenza) è arrivato il filatelico (2304 euro), a Bologna è sceso in campo il numismatico, ma si è accontentato di 100 euro. «Lui ha già le monete, le banconote non gli servono», commenta ironico il «Giornale». Il maestro di graffiti fa lo sconto: soli 156 euro; quello di «frutti antichi» ancora meno: 114. Ma nessuno sa dire che cosa insegni: pere della preistoria? Meloni medioevali? Ananas bizantini? Tutti i frutti, tutti i gusti. In classe non ci facciamo mancare nulla, esclusa, come sempre, la voglia di studiare. In Lazio va forte la breakdance (831 euro), in Basilicata la musica elettronica (568 euro), a
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Finale Emilia la «ginnastica funky» (670 euro). Al liceo Cassinari di Piacenza sono ancora più evoluti: mescolano danza hip hop, conferenze su John Cage e «musica e Soha». Se gli studenti si sentono un po' depressi c'è il corso di autostima in Toscana (2160); se sono troppo calmi c'è il «progetto ansia» di Forlì. Sempre a Forlì c'è anche un progetto che si chiama «Cado bene». Naturalmente per portarlo avanti si richiede la presenza di consulenti pagati. I quali, è ovvio, cadono benissimo. Ore 11: lezione di spinello e reincarnazione «Professore - m'hanno chiesto - oggi in palestra proiettiamo un documentario di chimica insieme con la prof. Ti spiace se utilizziamo le tue ore? Se vuoi puoi assistere.» Il racconto è tratto dal libro Degenerazioni del vicedirettore del «Messaggero», Alessandro Barbano, dedicato alla diffusione delle droghe. Siamo al liceo classico di Francavil-la al Mare (Chieti). L'aula magna è gremita. Tutti a vedere il documentario di chimica. E che sarà mai?, si domanda il professore. «Le prime immagini hanno esaudito la mia curiosità. Lasciandomi di stucco. Era un filmato sugli effetti benefici della cannabis nella terapia del dolore. Presentata come se fosse la scoperta del DNA e proposta ai ragazzi di 14 anni come una sostanza da cui sarebbe derivato il benessere delle generazioni future. Tutto ciò a scuola, durante le ore di lezione. Non volevo crederci. Ma il peggio doveva ancora venire. Poiché, dopo, la mia giovane collega di chimica è salita in cattedra a rincarare la dose. E dietro il paravento di un'informazione scientifica, ammiccava a quello che era il reale movente dell'iniziativa: promuovere la cultura dello spinello. Legittimarlo di fronte allo studente.» Ma sì, ore 11: lezione di spinello. Alla fine i commenti sono perlopiù entusiasti. «Professo', adesso so come si fa una canna.» Complimenti alla scuola. E pensare che una volta nelle aule se si parlava di eroina si pensava al massimo a Giovanna d'Arco, se si sentiva la parola «erba» si pensava alla botanica... Che cos'è successo, perché è cambiato tutto? La colpa, risponde Giorgio Israel, docente di matematica alla Sapienza di Roma e studioso dei problemi dell'istruzione, è il «dirigismo ideologico»: «Si è affacciata la pretesa di sostituire lo Stato alla famiglia occupandosi dell'educazione etica dello studente». Il risultato è sotto gli occhi di tutti: la grammatica e l'ortografia non le conosce più nessuno. In compenso abbiamo scuole dove si insegnano affettività, sessualità ed etica dello spinello. Per sino il paranormale, come è successo a Palermo dove un maestro di scuola elementare ha sostituito la matematica con la reincarnazione, la geografia con l'esoterismo. I genitori hanno ritirato i bambini. Ottimo, no? Ma la babele continua, anche se a chi giovi non si sa. Non certo agli studenti che crescono asineggianti. E nemmeno ai professori che si sentono sempre più smarriti. Come racconta la Mastrocola: «Ci chiedono di insegnare: educazione stradale, la corretta alimentazione, i danni dell'assunzione di droghe, i rischi di concepimento e di contagio nel rapporto sessuale. Ci chiedono di occuparci dell'educazione dei ragazzi in senso lato. Di far loro da genitori, da psicologi, da animatori. Ci chiedono di portarli al cinema, a teatro, alle mostre, in viaggio. Ci chiedono di aiutarli a navigare in Internet, a usare PowerPoint, il masterizzatore. Ci chiedono, in poche parole, un mestiere allargato, che vada a coprire aree un tempo estranee alla nostra competenza. Oggi insegnare la nostra materia è diventato un optional. Se proprio ci tieni, lo puoi fare. Ma è l'ultima cosa che ti viene richiesta». Anna Tre Culi e i «casi di scuola» Appena andata in pensione, la maestra triestina Ilaria Ra-busin ha pubblicato un libro (Ho gettato la spugna. Confessioni tragicomiche di una maestra elementare) per raccontare la sua esperienza pluridecennale in classe. Dice: «La scuola elementare di oggi è un po' così: aggiunge tanti progetti e innovazioni anche quando non servono, perdendo di vista
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gli obiettivi veramente necessari». E ricorda: «Mentre sostituivo un collega assente in quarta ho letto in un quaderno: "Questano o fatto leducazione stradale e linformatica e un'importante corso sullalimentazione". E un po' di ortografia, no?». Antonio Bombini, dirigente scolastico a Molfetta (Bari), cita Flaiano: «Non abbiamo il necessario, ma non ci facciamo mancare il superfluo». E spiega: «I fondi per l'istruzione sono costantemente ridotti, ma poi piovono decine di migliaia di euro nel nome dei Pon, Piani operativi nazionali». Si tratta di iniziative, finanziate con i fondi sociali europei, che non solo non servono a nulla, ma addirittura «diventano antitetiche rispetto alla realizzazione delle finalità primarie della scuola». In altre parole: «Nelle scuole superiori gli studenti frequentano le lezioni dei Pon e contestualmente smettono di studiare». Ma sicuro: si smette di studiare nella scuola del tai chi chuan, del bipiatto antifatica e del bicchiere da taschino. Che bisogno c'è dei libri quando si hanno il provolone e il riciclattolo, la pasta alla Norma e Mister Cheese? «Ogni allievo può svolgere attività di vario tipo» spiega il profes-sor Carlo Pigato (in La mia scuola). «Chi partecipa al gruppo teatrale e chi al coro gospel, chi fa il biennio integrato e chi segue il corso per la patente europea, chi si accontenta di quella del motorino, chi partecipa agli incontri sull'educazione alla salute e chi a quelli sulla legalità. Che importa se poi, nel mese di marzo, i giorni effettivi di lezione sono solo sei? Se un calcolo prudenziale ci dimostra che un intero anno del quinquennio se ne va per decurtazioni di orario, sospensione delle lezioni, assenze medie di docenti e allievi, perdite varie di tempo?» Già: che importa? Benvenuti nella scuola del ballo sardo, del funky, del frisbee, della mucca felice. È la scuola dove tutto è importante, tranne che studiare. E come stupirsi allora se i ragazzi chiedono anche un'ora di lezione sul gossip? Lo rivela un sondaggio, che, a conti fatti, dopo aver esplorato tutto quello che si insegna davvero a scuola, a dir la verità non suona nemmeno strano. Non credete? Ma sì, dai: l'ultima fidanzata di Fabrizio Corona magari non è il massimo della cultura, ma in fondo non è poi tanto più lontana dal Sun Umbrella Beach. Gli amorazzi della Canalis possono apparire indegni di salire in cattedra: ma allora perché ci può salire Sandra Milo nei panni di entraì-neuse? Perché Anna Tre Culi sì e Anna Falchi no? Per non parlare di Totti e Ilary o delle sortite di Valeria Marini. In fondo, quelli sono proprio «casi di scuola»... II La scuola degli asini Dove si impara che Pompei fu distrutta dall'erezione del Vesuvio Ercolano e Pompei? «Due luoghi distrutti dall'erezione del Vesuvio.» Verne? Scrisse Ventimila leghe e i sette nani. Vasco de Gama? Circoncise l'Africa. E la città di Troia? Prese il nome da Elena. È chiaro: gli studenti italiani hanno le idee un po' confuse. Se chiedi loro che cosa circonda l'Australia rispondono: la corriera corallina (un nuovo mezzo di trasporto pubblico? L'Atm dei pesci siluro?). Pensano che in Turchia si parli il turchese, che la moglie di Ulisse sia Enea e l'amore di Cicerone Catilina. Ulisse, naturalmente, non lasciò l'isola di Calipso, ma quella del Calippo (chissà se si portò via l'omonimo gelato). E se è palese che Germania, Italia e Austria formarono la Santissima Trinità, non vi dico che cosa succede quando, in una classe qualunque della scuola italiana, provi a chiedere che cos'è una trojka... Alla fine siamo sempre gli ultimi della classe. Siamo quelli che regalano il diploma a tutti gli studenti, ma proprio a tutti, anche a chi è convinto che il Tiepolo sia il fratello di Mammolo ed Ermione di Sparta l'amica di Harry Potter. Se a un esame chiedi l'Infinito di Leopardi ti
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rispondono: leopardare. Se chiedi che cos'è l'evoluzionismo ti rispondono: la teoria di «Ciao Darwin». Ciao Darwin, sì: e Bono-lis è l'anello mancante... Sentite le interrogazioni degli studenti, andate a leggere i loro scritti: mescolano maya, incas e azzecchi (che c'azzecchi?), trasformano Mago Merlino in Mago Berlino e attribuiscono alle rette parallele proprietà inimmaginabili, a cominciare dalla perpendicolarità. Sono convinti che l'Italia sia bagnata da Mar Tirreno e da Marsala, che il Monviso sia sulle Alpi Cozze (magari in compagnia delle Alpi Vongole) e che Philadelphia sia la capitale del formaggio Kraft. Una professoressa di un istituto tecnico, Alessandra Bello, racconta nel già citato La mia scuola di studenti che «non sanno dov'è il Louvre», convinti che le «falaises della Bre-tagna si levino a picco sull'Oceano Indiano». E Giancarlo Maculotti nel suo Lettera dalla scuola tradita rivela: «Fai un sondaggio e viene fuori che Aldo Moro fu assassinato dalla mafia, che uno dei padri della Costituzione del '48 fu Silvio Berlusconi, che gli anni di piombo sono "un'era zoologica precedente a quella del ferro" e le Fosse Ardeatine un fenomeno carsico». Una ricerca svolta a Milano dalla Bocconi Trovato&Part-ners nel luglio 2008 denuncia: il 38 per cento dei ragazzi non sa usare il congiuntivo. Anche il passato remoto, però, mette in difficoltà il 31 per cento di loro, il condizionale il 27 per cento. Il 63 per cento annaspa di fronte agli accenti, il 22 per cento s'impappina sulle doppie consonanti. Sul significato delle parole, poi, cascano quasi tutti. «Abiurare»? È il verso di un animale. «Dirimere» vuole dire «andare a zonzo». «Zuzzurellone» è un recipiente. «Piccato» è una pianta. E «elidere» è sinonimo di «volare». Ma sicuro, come no. Gli uccelli elidono in cielo, gli aerei elidono da un aeroporto all'altro. E a noi viene una gran voglia di far elidere qualcuno giù dalla finestra. La verità viene sempre a palla Pompeo? Nel 63 avanti Cristo non conquistò la Panno-nia, ma la Patagonia. E certo: aveva scoperto l'America ma non lo disse a nessuno per non rovinare la festa al suo amico Cristoforo Colombo. Il Perù? Dev'essere un biscotto ricoperto di cioccolato. E probabilmente confina con il Togo. Che cos'è «alzati!»? Un imperatore. Il sonetto? È formato da due quartine e da due tazzine. E l'ultimo libro della Bibbia? La pocalisse. Scusi, prof, ho una domanda da farle: il dizionario è in ordine alfabetico? Abbia pazienza: lei lo sa, io ho molte lagune... Ma sicuro, come no: è una scuola piena di lagune. Dove la protesta si estende a macchia d'occhio. Dalla finestra entrano spigoli d'aria. Mi scusi, ho perso le stoffe. Era in preda ai fiumi dell'alcol ed è rimasto morto stecchino. Quel dossier? È tropp secret. Dentro il panettone? C'è l'uva passera. Fu un incendio goloso. In piazza la gente arrivava a frotto-le. Luterò, anziché la tonaca, getta la monaca... E allora lui disse: muoia Sansone con tutti i Piagnistei. Se non avete capito, peggio per voi: a mio parere questo ragionamento non fa una griglia. E la verità, lo sapete, viene sempre a palla. Il positivismo affonda le narici in Inghilterra, scrive uno studente. Una questione d'olfatto? I nazisti, come simbolo, adottarono la spastica. E Siracusa era un'importante città della mangiagrecia. Su Internet c'è un forum del mensile «Focus» dedicato proprio a raccogliere le castronerie degli studenti. Si trova davvero di tutto. E di tutte le materie. Matematica: la retta è curva e l'angolo è eretto. Storia: i cristiani si nascondevano nelle catapulte e poi arrivò la guerra di Recessione. Geografia: perché New York è chiamata la Grande Mela? Perché è piena di vermi. Inglese: If you want to speak, you speak; if you don't want to speak, you tach. Ma il massimo lo si raggiunge con le traduzioni dal latino. Carpe diem? Oggi pesce. Magna cum prudentia? Mangia con prudenza. Silva vasta era? Silvia era grassa. E comunque: verba volant, scripta chi se ne fregant.
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Ma sì, scripta chi se ne fregant. E infatti i temi sono un altro capitolo esilarante. «Gli eschimesi sono gli abitanti della neve» scrive uno. «Si dividono in due gruppi: quelli che stanno al Polo Nord e quelli che stanno al Polo Sud. Non si incontrano mai.» Un altro sulla Grande Muraglia: «È lunghissima e se per caso sei sulla Luna la vedi perfettamente». Per caso? Sulla Luna? Ma sì, può capitare: sbagli l'uscita della tangenziale per Cinisello Balsamo e ti trovi direttamente nel Mare della Tranquillità. Il problema, però, è quando resti sulla Terra: «Nessuno è mai riuscito a superare la Grande Muraglia. Una volta era difesa dai soldati che poi sono morti e sono stati trasformati in terracotta quindi non sono più molto utili». Un capolavoro dadaista. Ma c'è persino di meglio. Uno studente ha riassunto i Promessi sposi in questo modo: «Ci sono tre preti, don Abbondio, don Cristoforo e don Rodrigo che non devono far sposare la monaca di Monza con un certo Renzo». Ne avesse azzeccata una. L'episodio è riportato da un insegnante scrittore, Alessandro Banda, che ha dedicato al tema un libro: Scusi, prof, ho sbagliato romanzo. Sì, probabilmente quello studente ha sbagliato romanzo. Ammesso che ne abbia mai letto uno. E la guerra d'Indipendenza americana? Sentite come la racconta un ragazzo delle superiori: «Alla fine del Settecento gli inglesi che erano andati in colonia decisero che non volevano più tornare a casa. Ma la regina Elisabetta si arrabbiò molto e mandò dei soldati per prenderli tutti e riportarli a Londra. Fu così che scoppiò la guerra d'Indipendenza americana». Avete capito? Tutto cominciò perché gli inglesi non volevano tornare dalla colonia. Se la regina Elisabetta avesse prenotato un tre stelle a Milano Marittima per prolungare le vacanze, chissà, magari avrebbe risolto il problema. Invece nulla, volle interrompere l'emozione e scoppiò la guerra: «Gli inglesi si portarono via anche la bandiera e gli americani, per non restare senza, ne inventarono una a stelle e strisce». Non è straordinario? Chissà che succede se, a quello studente, danno da commentare la rivolta dei Boxer. Già me lo immagino. Potrebbe cominciare così: i cinesi erano stanchi degli slip... Peggio che in Azerbaigian Uno studente italiano su tre non sa leggere un grafico o convertire una moneta in un'altra. Quattro su dieci si impappinano nella lettura di un testo discontinuo. Sei su dieci non riescono a spiegare da cosa dipenda l'alternarsi del giorno e della notte. L'ultimo rapporto Ocse-Pisa (2006) è impietoso: l'Italia è al 36° posto su 57 per cultura scientifica (era al 27° nel 2003), al 38° per quella matematica, al 33° per competenze di lettura. Non solo andiamo male, ma andiamo sempre peggio. Al Sud, poi, è un vero disastro: se i ragazzi veneti e lombardi sono al di sopra della media internazionale e i quindicenni giuliani e friulani addirittura secondi al mondo in scienze, dopo i finlandesi, e terzi in matematica, dopo finlandesi e canadesi, quelli del Mezzogiorno vagolano nei bassifondi delle classifiche, dietro serbi, turchi e urugua-gi. Quasi nessuno al mondo è ignorante come i quindicenni siciliani, scrive Salvo Intra vaia sulla «Repubblica». Fatta una scala da sei (i più bravi) a uno («uno studente che possiede conoscenze scientifiche tanto limitate da poter essere applicate soltanto in poche situazioni a lui familiari»), i ragazzi isolani che si collocano al gradino più basso, o addirittura al di sotto, sono il 42 per cento. «Il doppio della media Ocse» chiosa Giancarlo Maculotti. «Il quadruplo dei coetanei dell'Azerbaigian.» È sconfortante. Nei test di lettura gli studenti Ocse prendono in media 492 punti. In Italia ne prendono 469. Al Sud 443. Nelle isole 425. Nelle scuole medie meridionali siamo a livelli prossimi all'analfabetismo: 263. Ancora peggio va nei test di scienza: 500 la media Ocse, 475 quella italiana, 448 quella del Sud, 432 quella delle isole. Nelle scuole medie meridionali si raggiunge il livello minimo di 243. E in matematica siamo vicini alla catastrofe: la media Ocse è di 498 punti, quella italiana di 462, quella del Sud di 440 e quella delle isole di 417. Tanto per avere
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un'idea: gli studenti di Taipei totalizzano 549 punti, quelli della Finlandia 548, quelli della vicina Svizzera 530 e quelli di Macao 525. Quando nell'agosto 2008 il ministro Gelmini solleva il problema della scarsa preparazione degli studenti del Sud, viene fuori il solito vespaio di polemiche all'insegna dell'epiteto più di moda della stagione: «razzista». Ma di fatto il problema è reale, e i dati dimostrano che il gap del Mezzogiorno in materia scolastica esiste davvero. Eccome. Gli analfabeti? Al Sud sono il triplo che al Nord: le regioni che ne hanno di più sono (in ordine) Campania, Sicilia e Puglia. Gli studenti che abbandonano gli studi? Soprattutto al Sud: uno su quattro, cioè il 25 per cento contro il 15 per cento del Nordest. I liceali che hanno un livello di preparazione elevato? Al Sud sono appena il 3 per cento contro il 13,4 per cento del Nordest. Altro che Taipei e Finlandia, da Roma in giù siamo noi che ci facciamo la figura del Macao. Anzi, peggio. Questi dati, appena escono, vengono regolarmente pubblicati sui giornali. Ma scompaiono subito. Un paio di titoli, qualche intervista, il servizio al Tg. Poi si dimentica tutto. In fretta. «La stragrande maggioranza degli italiani» ne deduce Angelo Panebianco «è disinteressata alla qualità dell'insegnamento che viene impartito ai loro figli.» Può essere. Ma il risultato è devastante: «Stiamo creando generazioni di giovani ignari della propria storia, ignoranti della propria cultura, senza radici e tradizioni, che galleggiano nel contesto di un tecnicismo privo di valori e contenuti» riassume Giorgio Israel. «Siamo di fronte a uno sfascio senza precedenti. Corea, India e Paesi emergenti presto ci spazzeranno via. Di questo passo diventeremo noi il Terzo Mondo.» O forse un po' Terzo Mondo lo siamo già. Il «Quaderno bianco» del ministero (2007) denuncia: «Tutte le indagini internazionali convergono nel mostrare che gli studenti italiani hanno un significativo ritardo nei livelli, sia di conoscenza sia di competenza. Nel Sud addirittura uno su cinque non è in grado di affrontare i compiti più elementari e di routine in matematica, uno su sette non è in grado di affrontare quelli in italiano». La sorpresa è ancora più grande quando si scopre che, a fronte di questi risultati, la maggiore con-centrazione di 100 e lode all'esame di maturità si registri proprio in Calabria e Puglia. E che le più alte percentuali di punteggi massimi si verificano nelle scuole di Crotone (ben 34 «100 e lode»), di Reggio Calabria (28) e di Cosenza (21), mentre i licei Mamiani e Tasso di Roma, per dire, si devono accontentare insieme di appena tre «100 e lode». «Geni in erba a Crotone e geni incompresi a Friburgo o ad Amsterdam? Andiamo!» s'indigna Ernesto Galli della Loggia. E l'ex ministro Luigi Berlinguer (che non è un leghista, ma un noto esponente della sinistra con tanto di nobile cognome) avverte: «Esiste una questione meridionale nella scuola italiana? Temo proprio di sì. Nel passato un liceo o una scuola elementare di Napoli avevano in genere un livello analogo alle consorelle milanesi. Oggi non è più così». In quinta elementare non sanno leggere Il rapporto Ocse del settembre 2008 ci boccia senza appello: abbiamo meno laureati del Cile, tassi di abbandono record e professori pagati male. Italia maglia nera, sintetizzano tutti i giornali. E una ricerca di Bankitalia (2008) conferma: i ragazzi italiani sono gli ultimi della classe europea. I quindicenni che non raggiungono le competenze necessarie in una società avanzata rappresentano il 32,8 per cento del totale contro la media Ocse del 21,3 per cento. Nel 2007 l'allora ministro della Pubblica istruzione, Giuseppe Fioroni, lancia l'allarme: dal 1996 a oggi, dice, nelle scuole superiori abbiamo promosso 8 milioni e 800.000 studenti con lacune gravissime. Cioè ignoranti. Lo sapete quanti sono 8 milioni e 800.000? La popolazione della Svezia. Ecco: è come se in poco più di dieci anni avessimo promosso una Svezia di asini. Un bel risultato, no? Nei dibattiti pubblici c'è sempre qualcuno che si alza e dice: «Ma la scuola elementare funziona...». Non è vero. È un «mito», come lo
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definisce Luca Ricolfi sulla «Stampa». «Se la scuola elementare fosse ben congegnata come ripetono i suoi paladini, forse non osserveremmo quotidianamente quel che invece osserviamo. E cioè che sia alle scuole medie sia (incredibilmente) all'università tantissimi ragazzi, oltre a fare errori di grammatica e di ortografia con cui un tempo nessuno avrebbe preso la licenza elementare, non sanno organizzare un discorso né a voce né per iscritto, non conoscono il significato esatto delle parole, non sanno spiegare un concetto né costruire un'argomentazione. In breve i ragazzi sono debolissimi proprio nell'organizzazione del pensiero e nella padronanza del linguaggio, ossia precisamente in ciò che avrebbero dovuto acquisire nei cinque anni di scuola elementare. Il sospetto è che la scuola elementare di oggi, pur essendo perfetta come luogo di socializzazione e ricreazione, sia ben poco capace di trasmettere conoscenze e formare capacità.» I test nazionali, d'altra parte, confermano che il declino dei livelli di apprendimento è costante fra i 7 e i 16 anni e comincia già alle elementari (in quarta i bambini vanno molto peggio che in seconda). E forse, dunque, la cattiva fama dei professori delle scuole medie è, in parte, immeritata: è vero che i risultati dei ragazzi delle medie sono pessimi, ma forse lo sono proprio perché la preparazione delle elementari è del tutto insufficiente. Il principale problema resta la matematica. Alla maturità 2008 si scopre che la metà dei candidati zoppica tra numeri ed equazioni. Non vanno meglio le lingue straniere: il 55,9 per cento degli italiani ritiene lo studio delle lingue a scuola scarso o gravemente insufficiente, tanto è vero che i debiti formativi alle superiori si attestano al secondo posto con il 32,7 per cento, subito dopo matematica. E l'italiano? Non è da meno. Una ricerca dell'Irre, l'Istituto regionale di ricerca educativa, accusa: metà dei bambini di quinta elementare (il 52 per cento) ha difficoltà di lettura. L'Unione europea rilancia: i ragazzi non sanno leggere. Uno studente su quattro a 15 anni non è capace di comprendere il significato di un testo scritto. L'allarme è comune a tutto il continente, ma noi ci distinguiamo: siamo sopra la media. Il 26,4 per cento dei quindicenni italiani, infatti, appena apre un libro chiude la mente. Persino l'Estonia fa molto meglio. Si tratta di una vera e propria emergenza: nel nostro Paese siamo al neoanalfabetismo. Gli analfabeti in senso stretto, in effetti, sarebbero circa 800.000, ma ci sono circa 2 milioni di quelli che, secondo i parametri internazionali, si classificano come «analfabeti funzionali». Due italiani su tre faticano a leggere, uno su tre riesce appena a decifrare frasi elementari e a scriverne di altrettanto elementari. Un magistrato di Firenze, Silvia Garibotti, ha raccontato numerosi casi in cui i testimoni in tribunale non sono in grado di recitare la formula di rito. Il responsabile della Cgil scuola riferisce che spesso i bidelli che arrivano in provveditorato per iscriversi nelle graduatorie faticano a capire il modulo dove è scritto: «Sono cittadino italiano e dichiaro di aver assolto gli obblighi di leva». Secondo i dati di Statistic Canada 2005, difficoltà di queste proporzioni emergono solo in Italia e in alcuni Paesi dell'Africa, come la Sierra Leone. Oltre 5 milioni di italiani non hanno la licenza elementare. La metà della popolazione è ferma alla licenza media: siamo in fondo anche alla graduatoria europea per titoli di studio. Ce la giochiamo con Malta. E infine il dato più doloroso da inserire qui: oltre la metà dei nostri connazionali (58 per cento) non legge nemmeno un libro all'anno. Appena uno su dieci ne legge uno al mese. Che dire? Speriamo, se non altro, che quell'uno sia questo. Marx? Una barretta al cioccolato. E Caporetto, un pittore Nell'autunno 2008, quando gli studenti scendono in piazza contro la Gelmini, mandano in giro un volantino su cui è scritto: «L'autunno caldo dei studenti è iniziato». Dei studenti, proprio così. In un altro si parla di «meritrocazia». Giovanni Floris pubblica un libro intitolato La
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fabbrica degli ignoranti in cui racconta di un ragazzo che si presenta a un esame con un curriculum di studi non propriamente brillante. Il commissario, preso a compassione, lo guarda e gli dice: «Comincia pure da un argomento a piacere». E lo sciagurato lo guarda con gli occhi spiritati e si mette a urlare: «Bastardi, proprio quello che non so mi chiedete?». Un altro afferma che il Passero solitario è una poesia a sfondo sessuale. «Perché?» gli chiedono. E lui, impassibile: «Perché tratta il problema dell'uccello». E un altro ancora sostiene a spada tratta che la bibliografia del Manzoni non esiste. Ma come non esiste? «Non esiste.» Ma sei sicuro? «Sicuris-simo, l'ho letto sul libro.» Fammi vedere. «Guardate qui: la bibliografia del Manzoni è sterminata.» Sterminata, capite? Come gli indiani Navajos, come gli indios del Perù. «Se è sterminata vuol dire che non c'è più.» Come no. Un altro libro, Maledetti Promessi sposi, raccoglie gli strafalcioni di alcuni temi. Marco Polo? Vendeva tappeti. E Gabriele d'Annunzio? Un profeta rinascimentale. Assiri e babilonesi «vivono all'interno dell'Eufrate, in un paese pieno di tigri». Ugo Foscolo è nato «tra Zante e Zacinto». Ulisse, tornando a Itaca, trovò la sua isola «invasa dai porci», mentre gli antichi romani utilizzavano gli schiavi e se questi si ribellavano «li impiccavano ai lampioni della via Appia». Ai lampioni, ma sicuro: solo perché le antenne Tim e Om-nitel erano un po' scomode. E chi era Karl Marx? «L'inventore del comunismo e della povertà.» Possibile? Volevo toccare con mano il disastro. E allora, con l'aiuto della bravissima giornalista del «Giornale», Eleo-nora Barbieri, ho deciso di fare una prova sul campo. Nel settembre 2008 abbiamo rivolto un questionario a un centinaio di ragazzi milanesi, scelti a caso, senza nessun criterio statistico, davanti alle scuole. Siamo partiti proprio da lì, da Marx: solo uno studente su due conosce il più famoso filosofo della storia del pensiero occidentale. Per qualcuno Marx è solo un pianeta, per altri una barretta di cioccolato. E Pinochet? Per il 37 per cento degli intervistati è un vino italiano, per il 30 per cento il protagonista di un romanzo. Solo il 27 per cento conosce la risposta esatta. La parola Bramante che cosa ti fa venire in mente? Un elemento chimico (30 per cento), un personaggio dell'Orlando furioso (23 per cento), una pietra preziosa (20 per cento). C'è chi confonde il Guatemala con una salsa, chi scambia Caporet-to con un pittore del Settecento, chi pensa che il manometro misuri la pressione della mano. O, peggio, la sua lunghezza. IL NOSTRO QUESTIONARIO 1. La parola Marx ti fa venire in mente * uno statista * una barretta al cioccolato * un filosofo * un pianeta 2. Moby Dick è * una balena famosa * un romanzo dell'Ottocento * una nave da crociera * un rapper 3. La parola kalashnikov ti ricorda * un cocktail * un famoso scrittore russo del XIX secolo * un'arma da combattimento * un calciatore ucraino 4. Il manometro è uno strumento che misura * la pressione dei fluidi * la pressione del gas * la lunghezza della mano
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* la pressione della mano 5. Il Gattopardo è * un felino della savana * un locale * un romanzo ambientato in Sicilia * un tessuto maculato * non risponde 6. Il Guatemala è * uno Stato * un ballo latinoamericano * una salsa * una spezia 7. Pinochet è * il protagonista di un romanzo * un dittatore * un vino italiano * uno stratega 8. Il prodromo è * un cammello dell'epoca preistorica * un precedente * un maggiordomo * una pista per le corse 9. La parola Bramante ti fa venire in mente * un artista * un elemento chimico * una pietra preziosa * un personaggio dell'Orlando furioso 10. La parola Caporetto ti ricorda * un pittore del Settecento * una battaglia * un traghetto molto usato a Venezia un grado dell'esercito Risposte (%) 20 17 57 6 74 13 0 13 7 11 75 7 36 46 7 11 37 6,5 47 6,5 3 82 6 6 6 30 27 37 6 38 17 24 21 27 30 20 23 17 53 13 17 Ricerca realizzata nel settembre 2008 su un campione di 100 studenti milanesi.
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Kalashnikov? Un calciatore ucraino (7 per cento). O forse no: un famoso scrittore russo del XIX secolo (11 per cento). Moby Dick? Un rapper (13 per cento). E il Gattopardo? Un tessuto maculato. Quasi nessuno (appena il 17 per cento) sa che cos'è un prodromo: per la maggioranza dei nostri studenti si tratta di un cammello dell'epoca preistorica o di un maggiordomo che apre la porta. Al massimo, una pista per le corse. Ma sì: dove corre questa settimana la Formula Uno? Al prodromo di Monza. E vai. Comunque promuovere (se no ci pensa il Tur, Tribunale asini rivoluzionari) «Spiega l'annuario statistico italiano che mezzo secolo fa, nel 19511952, la quota di bocciati alla maturità fu del 28,4 per cento. Nel 2006 è stata del 2,8 per cento. Dieci volte di meno. Il rapporto Ocse-Pisa dice che gli studenti siciliani abissalmente ignoranti sono il quadruplo dei coetanei caucasici dell'Azerbaigian? I loro professori, distrattamente, non se ne sono mai accorti. I bocciati alla maturità 2006 negli istituti classici, scientifici, magistrali e linguistici sono stati nell'isola l'1,3 per cento, con un record nella provincia di Erma e di Messina di 0,9. Vi pare possibile? Nove bocciati ogni mille studenti in un'area liquidata dai parametri Ocse come ricca di alcuni geni e tanti somari?» L'analisi impietosa di Giancarlo Maculotti ci riporta alla domanda centrale: come si è potuto arrivare a tanto? In fondo la risposta c'è già, implicita, nei dati stessi: se si da il via libera, in dieci anni, a una Svezia di ignoranti, 8 milioni e 800.000 asini diplomati con l'approvazione del ministero, la catastrofe educativa è assicurata. Ci sono state alcune leggi finanziarie, come quella del 2006, che addirittura teorizzavano le promozioni in massa per risparmiare sul bilancio dello Stato: se si riduce del 10 per cento il numero dei ripetenti, si riducono le spese di 18,6 milioni nel 2007 e di 56 milioni nel 2008, spiegava il documento. Messaggio chiaro? Cari professori, nel dubbio promuovere. Del resto, non c'era mica bisogno di quella sciagurata legge per stimolare scrutini all'insegna del lassismo: «nel dubbio promuovere» è la regola nella scuola del post-Sessantotto. Quando non diventa ancora peggio, e cioè: «comunque promuovere, promuovere comunque». Era questo, per esempio, il criterio professionale rigorosamente seguito dal preside di un grande liceo del Nord. La sua storia è raccontata da Marco Imarisio in Mal di scuola. L'alunno T.D. è stato latitante tutto l'anno (100 ore di assenza dalle lezioni di italiano, 86 da quelle di latino, 57 da quelle di inglese, 58 da quelle di matematica, unica presenza significativa durante le ore di educazione fisica)? «Comunque promuovere» ordina il preside. Un suo compagno arriva agli scrutini con tutte insufficienze (voti inferiori al 5) e giudizi del tipo: «Non ha mai mostrato il minimo segno di interesse. Ha rifiutato le interrogazioni»? Comunque promuovere. Sempre e comunque promuovere. La strategia da ottimi risultati: certo, avremo qualche asino in più con il diploma in mano, ma in compenso il preside può mostrare a tutti il ritaglio di un quotidiano locale che titola: Maturità, record di ammissioni al liceo M. Quel risultato, parole sue, «testimonia il livello di assoluta eccellenza raggiunto dall'istituto». Eccellenza, eccome no. Ma in fondo è logico: se passa (e in Italia è passata) l'idea che gli studenti non si possono punire, non si possono giudicare, che hanno lo statuto e tanti diritti, ma pochi doveri, poi alla fine diventa impossibile bocciarli. Anche la promozione diventa un diritto acquisito. Ricordate Bruno Dagnini, il preside dello spinello? Figlio del Sessantotto e dei motti di Luigi Pareyson («Sempre meglio il male libero che il bene imposto»), antiproibizionista, libertario, an-tiautoritario, assume la guida del liceo scientifico Majorana di Rho. Lui è uno di quelli che teorizza la scuola «che non boccia e punisce, ma recupera» e
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un'educazione «solidale, non autoritaria e giustizialista». E ricordate com'è finita? Condannato per aver agevolato il consumo di stupefacenti fra gli alunni «con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso». Sospeso dal servizio, trasferito in una scuola media. Era così intento a non reprimere e a non punire nulla, che nella sua scuola l'unica domanda cui gli studenti riuscivano a rispondere senza esitazioni era: «Scusa, hai del fumo?». E se i presidi permissivi, poi, non bastano, c'è sempre il ricorso al Tar, anch'esso figlio di una cultura che ha sostituito l'appello in classe con l'appello in tribunale. Segnatevi l'acronimo: quando vi trovate di fronte a qualche disastro italiano, il Tar c'è. A Venezia uno studente del liceo classico Marco Polo viene beccato a copiare in flagrante agli esami di maturità? I prof lo cacciano, ma il Tar, grazie a un cavillo legale, lo riammette. A Bari una ragazza finisce il liceo scientifico con la votazione di 98 su 100, ottima ma per lei insoddisfacente? Ricorre al Tar e il suo voto viene alzato a 100 su 100. A Verbania un ragazzo viene bocciato con cinque insufficienze in pagella (erano sette, ma due gliele avevano perdonate)? Il Tar lo promuove d'autorità perché la scuola non ha messo in campo «interventi di sostegno allo studio e di prevenzione dell'insuccesso». Capito? È la scuola che deve prevenire l'insuccesso, mica lo studente... E così da Milano a Palermo, dall'Aquila a Pignataro Maggiore (Caserta), ogni somaro dell'ultimo banco si sente legittimamente in diritto di pensare che se va male non è colpa sua. Al massimo è colpa del sistema. E, per questo, ci sarà sempre un giudice che gli darà ragione. C'è stato persino il caso di uno studente del Nord che (senza essere il figlio di Bossi) è stato per due volte bocciato dagli insegnanti e per due volte promosso con le carte bollate. E su Internet è subito partito un euforico tam tam: evviva il Tar, Tribunale degli asini rivoluzionari. Il ritorno del 6 politico La prima e unica volta che presi «2» avevo 15 anni ed ero in quinta ginnasio. Avevo prestato il mio quaderno di francese a un compagno, lui aveva pensato bene di marinare la scuola e così mi ero presentato a lezione senza il compito. Interrogato, dissi la verità. La prof mi fulminò: «Darò 4 al tuo compagno che copia i compiti. Ma intanto do 2 a te che sei rimasto senza quaderno per farteli copiare». Praticamente, un'insufficienza causa stupidità. Lo choc durò pochi minuti. Poi, da studentello tendente alla secchioneria qual ero, mi buttai sul francese come se fosse l'agognata Simona, quella del quarto banco, che invece non mi guardava mai. Studiai i verbi, passai ore sulla grammatica, scoprii la letteratura e produssi una ricerca su Jean-Baptiste Poquelin, detto Molière, di cui vado orgoglioso ancora oggi. Quel 2 magari mi ha un po' danneggiato la media di fine anno. Ma lo ricordo ancora come una delle migliori lezioni ricevute. Da quel giorno fui molto più attento al francese, oltre che, naturalmente, ai compagni cui prestare i quaderni. Il piccolo episodio di carriera liceale mi è venuto in mente perché, ahinoi, si è tornati a parlare di «voto politico» a scuola. In una elementare di Bologna le maestre hanno dato 10 politico in pagella a tutti gli scolari per protestare contro la Gelmini. Un preside di Perugia ha addirittura scritto una circolare per invitare gli insegnanti a dare il «6 politico» a tutti gli studenti. E il presidente della Provincia autonoma di Bolzano, Luis Durnwalder, ha messo il limite del «4 politico», vietando di scendere al di sotto per «non umiliare i ragazzi». Manca il questore di Forlimpopoli che obblighi i prof all'«8 politico» per ragioni di ordine pubblico e poi il quadro sarebbe completo. Un unico dubbio: siamo sicuri che non stiamo sbagliando tutto? «Non sono d'accordo col 6 politico» afferma la scrittrice Paola Mastrocola. «In un 3 non c'è umiliazione» s'affanna a spiegare Giorgio De Rienzo. «Così si umilia il merito» decreta Giorgio Rembado, presidente
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dell'associazione presidi. Ma nulla sembra fermare l'onda del voto regalato, della promozione piovuta dall'alto, della sufficienza per decreto divino. Si va avanti senza merito. E senza fatica. Con il compiacimento dei genitori, peraltro. Che, se una volta prendevi 4 ti tiravano una sberla. Adesso la tirano al professore. Emma Bontempi, 50 anni, insegnante di lettere alla scuola media di Borgosatollo (Brescia), è sconsolata: «L'altro giorno una madre mi ha contestato il risultato di una verifica. "Conti bene gli errori: sono solo 59, non 60 come dice lei"». Maria Grazia Calcagno racconta, nel libro La mia scuola, di una mamma che ha fatto cambiare istituto alla figlia perché «studia troppo, non dev'essere stressata». E chiosa: «Tra un po' basterà dire il proprio nome e si sarà automaticamente promossi». Un'insegnante di Cagliari ricorda di quando aveva dato un tema sulla legalità tra i giovani. Mentre ne correggeva uno gli era venuto qualche dubbio e infatti, digitando una semplice frase su Google, aveva subito trovato conferma ai suoi sospetti: il tema era interamente copiato dal testo di un docente universitario di Firenze, uno dei più illustri luminari italiani di pedagogia. «Dico al ragazzo: la prossima volta vola più basso, scegli qualcuno meno noto. Lui mi manda al colloquio il padre. E quello mi dice: peccato prof, lui ci ha provato. Ha avuto sfortuna, la prossima volta andrà meglio. Poi sorride, tutto compiaciuto.» Giustifico ritardo di mio figlio per allergia alla puntualità Ma sì, sorridiamo. Se volete divertirvi leggete qualcuna delle giustificazioni che scrivono i genitori per i loro figli assenti. Le raccoglie un sito Internet (www.notadisciplina-re.it). C'è quello che dice: «Prego giustificare l'assenza di mio figlio causa lutto per l'uscita dal reality "Pupe e Secchioni" di un certo Rampinelli». E un altro: «Giustifico il ritardo di mia figlia: non me lo ricordo ma un motivo dovrà pur esserci. Saluto». Oppure: «Giustifico l'entrata in ritardo causa attraversamento dei mille». Oppure ancora: «Giustifico l'assenza di mio figlio causa incontro con Padre Pio». O ancora: «Giustifico assenza di mio figlio causa asportazione di rene in Brasile. Nota: gliene resta ancora uno». O ancora: «Si prega di giustificare l'alunno per: rivincita con le mucche». O ancora: «Giustifico l'assenza per stress da casting di "Veline"». O ancora: «Giustifico ritardo di mio figlio per allergia alla puntualità». C'è sempre una giustificazione pronta per lo studente asino. Ci sono sempre una mamma e un papa' pronti a schierarsi in sua difesa. Ha preso 4 in storia? Il prof ce l'ha con lui. Tre in matematica? In quella scuola non sanno insegnare. Non ha fatto i compiti? Poverino, aveva le lezioni di karaté. Ha dimenticato il libro? Con tutto quello che devono mettere nello zaino. I ragazzi non poltriscono fino a mezzogiorno: recuperano energie e magari riflettono. Non perdono tempo al bar: socializzano. E se trascorrono ore alla PlayStation è perché stanno allenando i riflessi. Bisogna capirli. Sicuro: bisogna capirli, e pazienza se poi loro, al contrario, non capiscono una mazza di tamburo. Continuiamo così, facciamoci del male. I compiti a casa? Mamma e papa' protestano. I compiti delle vacanze? Mamma e papa' si ribellano. Per un genitore su tre (indagine del ministero della Pubblica istruzione) i professori caricano di troppe incombenze domestiche i pargoletti. E tanto lavoro (figuriamoci), secondo i premurosi adulti, avrebbe effetti devastanti: «condiziona negativamente interesse e partecipazione degli alunni» in aula. Poveri ragazzi, si capisce: per farli partecipare non bisogna dare loro esercizi di grammatica né problemi da risolvere. Magari portarli a Gardaland, ecco: lì sì che partecipano una meraviglia. Il 61 per cento dei genitori giustifica la distrazione in aula: le lezioni in fondo sono «poco stimolanti». E il 41 per cento attribuisce l'asineria dei propri figli non al loro dichiarato fancazzismo, ma al fatto che gli insegnanti utilizzano «metodologie non efficaci».
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Secondo una ricerca coordinata dal pediatra Italo Far-netani, poi, nove genitori su dieci sono contrari al benché minimo impegno scolastico durante le vacanze. Processo ai compiti d'estate, titola «la Repubblica» nell'agosto 2008. Tre pagine per dibattere sul tema all'insegna del «provocano stress e rovinano le ferie familiari». «Salviamo il regno dei ragazzi» implora lo scrittore Marco Lodoli, spiegando che «questo è un tempo destinato ad altre forme di crescita, allo sport, all'amicizia, all'amore». Ma sicuro: flirtate e non leggete. E poi non lamentatevi se vengono su pensando che Pavese sia soltanto l'accrescitivo del pavesino. Gli esami finiscono sempre Perché hanno abolito l'esame di quinta elementare? «Anch'io, come tutti, ero favorevole» scrive al «Giornale» Patrizia Orsini, una maestra che da venticinque anni insegna in una scuola elementare di Milano. «Quest'anno sto conducendo in porto per la prima volta una quinta dopo l'abolizione degli esami. Mi sono accorta di avere cambiato idea. I genitori dei miei alunni non hanno nessuna tensione e nessuna attenzione per un anno che per loro non ha nulla di diverso dagli altri, i ragazzi non sentono nessuno stimolo e mentalmente sono già in vacanza. I vecchi esami erano sicuramente una formalità, ma almeno stimolavano genitori e figli a dare il meglio...» In effetti: adesso non c'è più nulla che stimola gli studenti a dare il meglio. Gli esami? Superati. I cartelloni con i voti? Tolti in nome della privacy. La competizione? Respinta. La scuola ha abolito il confronto, la sfida, il misurarsi con gli altri, che invece sono uno degli elementi centrali della formazione. «Nessun uomo è un'isola» scriveva il poeta John Donne. Per prepararsi alla vita bisogna prepararsi anche al giudizio dell'altro, magari alla delusione. «Vivere con gli altri» scrive Elena Loewenthal sulla «Stampa» «non è sempre un'idillio, come tutti ben sappiamo. Può anche significare òdio, tradimento, nonché il fatto che la secchiona del secondo banco abbia preso più di te alla maturità.» Eliminare gli esami (prima quello di seconda elementare, poi quello di quinta, con quello di terza media ridotto a brandelli) e i cartelloni con i voti, significa spazzar via i momenti cruciali, la prova del nove, le occasioni per rendere conto agli altri di quello che si è fatto. Eppure è successo. Dicono che non si può più perché è discriminante. Ma la scuola ha il dovere di discriminare, deve selezionare. Il voto non è un fatto privato. Come diceva il grande De Filippo? Gli esami non finiscono mai. E invece no: nella scuola italiana sono finiti da un pezzo. Siamo pieni di esperti che giustificano, che coprono, che ammantano di parole pseudoscientifiche il fancazzismo studentesco. Il pediatra Farnetani, sempre lui, iperintervistato dai giornali, spiega che «una bocciatura nell'età dell'adolescenza mette l'alunno in una condizione di inferiorità rispetto ai coetanei»: ma siamo sicuri che «lo mette in una condizione di inferiorità»? O, semplicemente, rivela il fatto che un'inferiorità esiste? E sapere che c'è un deficit (di preparazione, di impegno, ecc.) non è il modo migliore per cominciare a recuperare? Eppure il prof che dice allo studente «ti boccio» rischia addirittura la condanna in Cassazione. E al liceo Einstein di Milano, con apposita circolare, si chiede agli studenti maggiorenni di autorizzare la scuola a comunicare i voti ai genitori. Se lo studente dice no, i genitori non sapranno nulla; niente pagella, niente colloqui, niente telefonate a casa. Si parla di «dati sensibili». Si parla di «tutela dei diritti». Si parla di «stress da scuola». Ma sì, è vero: stare troppo sui libri da insonnia, cefalee e un calo dell'appetito. Non vorrete mica disturbare l'allegra crescita dei nostri bamboccioni? Ormai il solo andare a scuola, non diciamo studiare, ma lo stare lì seduti al banco, occupare pigramente uno spicchio d'aula, spostare le stanche membra fra la lavagna e l'intervallo, è una fatica che molti ritengono insopportabile. Magari tra un po' succederà come in Inghilterra, dove hanno abolito la parola «scuola» perché ha «connotazione negativa». O come in certi licei
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francesi, dove per combattere l'assenteismo scolastico sono arrivati a promettere di pagare il cinema a chi non marina. Un «premio di presenza»: biglietto gratis, per averlo basta rispondere all'appello. Aprire i libri, naturalmente, è un optional. Al posto di Virgilio c'è una mongolfiera «Un tempo» racconta la Mastrocola «iniziavo le mie lezioni al primo anno di liceo leggendo Virgilio con la metrica latina. Adesso faccio la mongolfiera dell'accoglienza. La differenza è tutta qui: Virgilio e la metrica latina rappresentavano un obiettivo, un traguardo, una meta. I ragazzi non capivano nulla di quello che veniva loro letto, ma capivano una cosa più importante: che avevano davanti un obiettivo ambizioso. E che lo studio li avrebbe portati molto più in alto di quanto li possa mai portare una mongolfiera disegnata sulla lavagna.» Oggi, invece, nella scuola le mete ambiziose sono sparite. E tutto facile, prèt-à-porter, già un po' preconfezionato. A volte persino stupido. È mai possibile, per esempio, che durante le ore di musica s'insegni il piffero? No, dico: il piffero. Ci sono nelle nostre classi ragazzi che suonano nella banda del paese, che strimpellano chitarre e batterie. C'è poi chi va al conservatorio. E a scuola, invece, devono soffiare dentro quel tubicino producendo suoni così orrendi che al confronto il rumore di una betoniera sembra una sonata di Chopin. Ma perché? Ha ragione Maculotti: non si può trattare il ragazzo da eterno bambino e poi pretendere pure che si appassioni. Anche la sostituzione del tema con l'analisi del testo e il saggio breve risponde a questa logica. Una volta lo studente si trovava davanti un foglio bianco: doveva creare un mondo, affrontare una sfida nuova. Ora si trova la traccia. Le domandine. Lo schema premasticato, liofilizzato e digerito. Non c'è bisogno di pensare, perché qualcun altro ha pensato al posto suo. Ancora la Mastrocola: «Li trattiamo da stupidi: possibile che non se ne accorgano?». Fateci caso: nelle nostre aule tutto si pialla, tutto si appiattisce. I libri? Solo se divertono. La storia? Deve intrigare. La geografia? Diventa un gioco. «La scuola è diventata un enorme Parco dei Divertimenti, tanto che oggi Lucignolo andrebbe di filato a scuola e non certo al Paese della Cuccagna.» Anche studiare non è più necessario. Anzi è un po' dannoso, come continua ancora la Mastrocola: il ragazzo che studia non ci piace nemmeno visivamente, «è una figura immobile, nel senso che è seduto a una scrivania e quindi non si muove, ergonomicamente parlando è un disastro: gli verrà la scoliosi, la cifosi, l'artrosi cervicale». E «psicologicamente parlando è un alieno: uno che si isola, un elemento asociale, un reietto della società: quindi quando diciamo che i giovani dovrebbero studiare molto, mentiamo». Cerchiamo tutte le scorciatoie possibili. E anche il computer (maledetto, benedetto computer) finisce per essere una scorciatoia. La più facile. E allora via con i siti web, i motori di ricerca, Wikipedia, PowerPoint. I ragazzi svolgono i compiti su Internet, lavorano con le mail, si scambiano informazioni su Messenger. Per loro fare una ricerca significa avviare Google e scaricare un paio di documenti: non è nemmeno più concepibile la fatica di immagazzinare nella testa dati e informazioni. Una professoressa mi racconta di uno studente, cui aveva dato un compito a casa, una ricerca di storia o geografia. Lui si presenta con dieci pagine stampate dal computer. Lei gli chiede di riassumere il contenuto. E lui la guarda come se avesse appena ricevuto un bacio in fronte dal mostro di Loch Ness. Completamente stranito. «Cosa c'è scritto? E cosa ne so io? Io ho stampato...» Anni di lotta contro il nozionismo hanno portato a questo. Più che il nozionismo abbiamo abolito le nozioni. E insieme anche lo studio. Già: alla fine, che bisogno c'è di studiare? Di più: che bisogno c'è di leggere? Basta digitare le parole giuste, trovare
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il link e scaricare nella chiavetta Usb. Lei ha memoria a sufficienza. E pazienza se noi, nel frattempo, la memoria la perdiamo. Il gran tour della promozione facile Nella scuola senza esami e senza competizione, un po' giardino d'infanzia e un po' Club Mediterraneo, in questa scuola non punitiva e non premiante, non meritocratica, non noiosa, non difficile, non esigente, in questa scuola computerizzata e permissiva, come dice la Mastrocola, ebbene in questa scuola anche copiare diventa lecito. Anzi, di più: un merito. E gli studenti si adeguano. Secondo una ricerca del sito www.universinet.it (giugno 2008), il 74 per cento dei candidati alla maturità è convinto di superare l'esame solo grazie all'illecito aiutino. La maggior parte di loro (39 per cento) si affida ai classici bigliettini, ma ci sono anche i più tecnologici che usano il palmare o l'iPod. L'ultima invenzione? La «biropapiro»: pare riesca a contenere la bellezza di 180 foglietti. Oppure la penna a infrarossi che permette di vedere appunti invisibili su vocabolari o sulla pelle. Proprio come i Ris col Luminol. Solo il 10 per cento dei candidati dichiara di puntare sulla propria preparazione, mentre il 30 per cento ammette che fumerà canne, il 24 per cento che prenderà pasticche eccitanti. E poi dicono che i ragazzi non hanno una preparazione stupefacente... Se però non si riesce a copiare non importa: c'è sempre la fuga verso i diplomifici. Nel giugno 2008 due autobus carichi di studenti milanesi partono per le Marche. Cosa cercano? È chiaro: istituti compiacenti. L'anno precedente alcuni ragazzi erano andati a Napoli. Ma pare ci siano occasioni del genere anche in Sicilia e a Roma. Non essendoci più l'obbligo della frequenza, basta sostenere un'interrogazione ogni tanto per risultare «interno» in una scuola di qualsiasi città d'Italia. Proprio così: ogni quindici giorni fate una gita ad Ancona? Potete risultare studenti «interni» di un liceo di là. Preferite Sorrento? Idem. Ma se il meccanismo della gita bimensile vi sembra troppo complicato c'è anche la soluzione alternativa: sostenere l'esame come privatisti anziché come interni. In questo caso non è necessario presentarsi (realmente) in aula ogni tanto, basta far risultare (fintamente) la propria residenza nella città. Come riuscirci? Non c'è problema: ci pensa la scuola a fornirla. Pare che le più organizzate fissino addirittura la residenza degli studenti «forestieri» in alberghi con cui è stata stipulata apposita convenzione. Il business è sicuro, il risultato certo. E così ogni estate si può partecipare al gran tour della promozione facile, la gita scolastica con annessa consegna di diploma. Partono pullman pieni di asini, tornano pullman pieni di asini con baccalaureato. Sono i «furbetti della maturità», come racconta «il Giornale». C'è persino una candidata che guida tutti i giorni il tram nel capoluogo lombardo, ma risulta frequentare il liceo a Lucca. Per possedere il dono dell'ubiquità, in fondo, bastano 10.000 euro. Studiare conviene? «Te lo ricordi il Marco?» C'è sempre un Marco da ricordare, quando si affrontano questi temi a cena o sotto l'ombrellone. Il Marco era l'ultimo della classe che adesso ha la villa con piscina, quello che sembrava un predestinato al fallimento, «e invece s'è fatto una bella carriera e anche una Porsche Carrera». Ma sì, chi l'avrebbe detto. In fondo anche Einstein fu bocciato in matematica. E che dire di Leopardi? È la dimostrazione vivente che studiare fa male. Si diventa gobbi. E infelici. Il rapporto 2008 di Unioncamere denuncia: un laureato guadagna appena 1600 euro l'anno, vale a dire 120 euro al mese più di un non laureato. «La laurea è un foglio inutile, deprezzato e persino disprezzato. Non crea né ceto né censo» scrive Marco Belpoliti. E «La Stampa» titola a tutta pagina: Ma studiare conviene? Qualche dubbio, in effetti, nasce, anche se nel libro Contro igiovani Tito Boeri e Vincenzo Galasso rivelano: «Nei Paesi dove si studia in media dodici anni c'è un livello
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di reddito prò capite otto volte superiore a quello dei Paesi in cui mediamente si studia la metà, vale a dire sei anni». E i dati internazionali dimostrano che il tasso di disoccupazione cala al crescere dell'istruzione. Ma forse, ancor prima di cercare di capire quanto conviene studiare, bisognerebbe fare lo sforzo di ristabilire un principio semplice e dimenticato: studiare si deve. Punto. Basta con i frutti avvelenati dell'eterno Sessantotto italiano, basta con l'egualitarismo, il permissivismo, l'antiauto-ritarismo. Servirebbe una «rivoluzione di portata eguale e contraria rispetto a quella del Sessantotto» spiega Giovanni Belardelli. E ha ragione. Bisogna farlo. Anche se tutto ciò non dovesse portarci un euro in più in tasca. Per quarantanni si è combattuta una battaglia, spiega la Mastrocola, contro la scuola troppo severa e autoritaria, troppo astrattamente nozionistica, troppo separata dal mondo. Diagnosi giusta, la scuola soffriva davvero di quelle malattie. Ma quella battaglia era giusto combatterla allora: che senso ha continuarla oggi, quando il nemico è cambiato, anzi è esattamente l'opposto di quello che avevamo allora. Adesso è venuto il momento di progettare «una scuola alta per tutti, dove tornino la difficoltà, lo studio, la serietà...». Il primo passo è riscoprire la meritocrazia, come dice un manifesto firmato nella primavera 2008 da una serie di intellettuali italiani, da Giorgio Israel a Mario Pirani, da Salvatore Veca a Ernesto Galli della Loggia. Per fortuna, da allora, qualcosa si sta muovendo: il ritorno ai voti al posto dei giudizi, il ritorno al voto in condotta, il ritorno al maestro unico, il ritorno agli esami di riparazione, secondo le proposte del ministro dell'Istruzione Gelmini, ridanno l'idea di un possibile ripristino della indispensabile severità. Certo, se il ministro che lo sostiene non fosse andata da Brescia a Reggio Calabria per passare l'esame da avvocato sarebbe meglio. E allo stesso modo sarebbe meglio se un altro ministro duro e puro come Umberto Bossi non chiedesse l'annullamento e la ripetizione della maturità del figlio non appena questo viene bocciato. Ma tant'è: tutto ciò fa parte delle vecchie disfunzioni di un sistema da modificare. Il vento nel Paese comunque sembra un po' cambiato. Celentano telefona durante la festa di una scuola e invita i professori a «bocciare senza paura». Nel giugno 2008 si registra un incremento di studenti che non superano l'anno. A settembre si conferma: 6 studenti su 100 non passano gli esami di riparazione, la percentuale dei respinti cresce del 2 per cento. Nel marzo 2009 i dati ribadiscono la linea della severità: 34.000 ragazzi con il 5 in condotta, al liceo 3 su 4 con un'insufficienza in pagella. E alcune scuole, come il liceo Visconti di Roma e l'Einstein di Milano, annunciano un bonus (da 90 a 200 euro a testa) per chi ha la media dell'8: essere secchione torna a essere un valore. Evviva. La rivoluzione, però, è appena all'inizio. Che si aspetta, per esempio, ad abbandonare quella follia che è la Carta dei diritti dello studente? Lo studente non è un utente, la scuola non è come le Poste o l'Enel. Non eroga servizi. Forma. Deve insegnare. «Per quanto concerne il recupero dell'alfabetizzazione» suggerisce Paolo Granzotto, c'è solo una strada: «dettati e temi, temi e dettati. Lettura - ad alta voce - in classe. Poesie mandate a memoria. Non s'impara l'italiano con quella baggianata della ricerca "copiaincolla" o con elucubrazioni metodologiche che hanno portato - il vertice della follia didattica - a suddividere il tema d'italiano ... in "saggio breve, intervista, lettera, articolo e relazione". L'autore di questa trovata meriterebbe la condanna a zappar terra.» «Se, come s'auspica il ministro Gelmini» conclude Gran-zotto «si vuole ricostruire l'identità culturale italiana, non c'è altra strada che questa: buttare nel bidone della spazzatura il criterio primario della
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fallimentare "didattica progressista" e cioè che la scuola debba favorire e privilegiare i meno dotati a scapito dei più dotati, cioè di quelli che domani daranno lustro, fame e ricchezza alla patria. Una volta nella pattumiera, la meritocrazia farà finalmente aggio sull'egualitarismo piagnone. E si tornerà a quel tipo di sano "confronto" che chiamasi competizione, molla di tutti i successi e dunque anche di quelli scolastici.» Se il ministero scrive «budges» per «budget» Il percorso, però, è accidentato. In effetti nella scuola gli asini sono così tanti che a volte si ha l'impressione che pullulino persino al ministero della Pubblica istruzione. Lo si vede ogni anno, al momento dell'esame di maturità. Nell'estate 2008, ricordate?, è stata una catastrofe. L'inizio: un tema dedicato alla «figura di una donna», a partire da una poesia di Montale. Peccato che la poesia di Montale parli di un ballerino russo. Succede il finimondo: giornali che denunciano, commentatori che bacchettano, gay che strillano «ecco la prova dell'omofobia». Prova d'omofobia? Macché, solo prova d'ignoranza. Qualche ora dopo si scopre che in un'altra traccia d'esame si parla del Galata morente come di una scultura romana, mentre è la copia di un'opera greca. E poi, avanti: un brano dei Promessi sposi viene datato 1840 mentre è del 1842; il testo di Baudelaire contiene un imperativo sbagliato; la versione dal greco manca di una parola e risulta così incomprensibile; la prova degli informatici è uguale a quella già data nel 2006... Infine il capitombolo migliore di tutti: nel test d'inglese (conversazione tra un giornalista yemenita e una coppia di albergatori tedeschi) saltano fuori a prima vista almeno 30 errori da matita blu (budges per budget, have dove ci vuole has, touring invece di tourist...). Insomma, non ne hanno fatta giusta una. «Non erano refusi: era global english» si è difesa una delle responsabili. Ma sicuro: quelli non erano refusi e la Mole Antonellia-na è la controfigura di Brigitte Bardot da giovane. Suvvia, prof, un po' di contegno. Ammettetelo: una maturità con sette prove sbagliate è un record davvero difficile da eguagliare. Ma purtroppo non si tratta di una novità. Nel 2007 una traccia dei temi citava Dante in modo errato e un'altra scambiava san Tommaso con san Bonaventura; nel 2002 a una lirica di Sbarbaro veniva affibbiato un titolo inesistente; nel 1997 si confondeva Ambrogio Lorenzetti, autore àeW Allegoria del buon governo, con Simone Martini. E nel 2005 si è arrivati al punto di collocare Urbino in Umbria. Ministero sotto traccia. O il ministero che perde le tracce. Fate voi. Ma intanto, mentre per la prima volta nell'estate 2008 i responsabili degli errori hanno pagato perdendo il posto, l'Italia ha continuato a chiedersi come sia possibile affidare l'istruzione nazionale a chi confonde l'amore per una donna con un ballerino russo e che, persino nei decreti, sbaglia il congiuntivo: all'articolo 4, comma 1, del celebre provvedimento del settembre 2008, infatti si dice che «è ulteriormente previsto che le istituzioni scolastiche costituiscono classi». Ma non si dovrebbe dire: costituiscano? E se il ministero nel decreto non sa coniugare il congiuntivo, come potrà coniugare il futuro? E il ricercatore disse: «Ifratelli Rossetti? Producono scarpe» Il futuro, in effetti, non promette nulla di buono. Soprattutto considerando il presente. Agli esami per magistrati, infatti, scopriamo schiere di laureati che riempiono i loro temi di «ogniuno», «comuncue», «l'addove» e «risquotere». Qualcuno scrive «veperata quaestio». Veperata? Ma sì: vexata. Però, si sa: la x si usa solo negli sms... Secondo alcune testimonianze, ci sono stati anche candidati di quel famigerato concorso che hanno confuso la Corte dell'Aia con la Corte dell'Aiax. L'indiscrezione non è mai stata confermata, ma Mastrolindo e Wim liquido hanno espresso comunque il loro dispiacere. Un commissario agli esami di giornalismo ha collezionato le perle degli aspiranti colleghi: «la 'ndrangheta ha un giro d'affari pari ai 6/5 del
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prodotto interno lordo della Calabria» mentre la Fiat ha «dimezzato di 2/3» le sue perdite. La parabola dei prezzi? S'impenna. Il costo della vita? Sale in picchiata. Il Parlamento non ha due rami ma «due lati», spuntano nuove professioni come l'amministratore delegato del condominio e si scopre che l'acqua alla foce costa 8 centesimi. Per arrivare alla fonte ci sarà un sovrapprezzo? Alle matricole di Ca' Foscari, università di Venezia, facoltà di Lettere, sottopongono una domanda semplice: qual è il passato remoto di «cuocere»? Risposta: «cucinai». Un professore famoso, Filippo Andreatta, figlio di Beniamino, corregge i test d'ammissione per Scienze internazionali all'università di Forlì e inorridisce: i partecipanti, tutti aspiranti diplomatici o ricercatori, non hanno la minima conoscenza della storia italiana. Chi ha ucciso Giacomo Matteotti? Le Br. Cos'era il Msi? Un'azienda di Stato. Roberto Ruffil-li? Uno scienziato. Piazza Fontana? Bah. E i fratelli Rossel-li? Chi lo sa. Forse dei produttori di scarpe... Un altro laureato tristemente celebre, Raffaele Sollecito, indagato a Perugia per la morte di Meredith, nel suo memoriale scrive: «Il bagno è sporco ho chiesto che venghino a pulirlo». Mario Pirani sulla «Repubblica» racconta di una laureanda che annaspa con gli apostrofi in una disastrosa lettera: «L'attore allungandosi verso la finestra». Ricevo il curriculum di una laureata in Scienze della comunicazione alla Sapienza, che si candida a lavorare come giornalista, che comincia così: «Denoto un grande interesse per il mondo del giornalismo...». Denoto? Io denoto, tu denoti, egli denota interesse? E vuoi fare la giornalista? Ma sì. È normale: in fondo siamo pieni di presunti istruiti che riempiono le chiacchiere da salotto con frasi del tipo: «Al teatro la sala era granita di gente». Oppure: «Stamattina ho passeggiato fino alle feci del fiume». Un mio amico, professionista affermato, mi scrive: «Il mio trasferimento è stato pro-fiquo». E un addetto stampa di una prestigiosa istituzione del nostro Paese mi manda una mail: «Grazie per l'attenzione con cui la tua testata a seguito la nostra iniziativa». A senz'acca. L'addetto stampa. Fioccano pure gli esempi illustri di errori clamorosi: dal supermanager Telecom convinto che Waterloo sia stata la grande vittoria di Napoleone all'intellettuale Fuksas che sdottoreggia su Giulio Cesare confondendolo con Cicerone, per non dire del filosofo Galimberti e del critico d'arte Sgarbi beccati a copiare libri come scolaretti di terza C. Il dotto e snob Michele Serra scrive sulla prima pagina della «Repubblica» «il più acerrimo», dimenticando che «acerrimo» è già un superlativo. Il vicedirettore della «Repubblica», Massimo Giannini, prima sposta Smirne dalla Turchia alla Grecia, poi dice che Catilina fece diventare senatore il suo cavallo, scambiandolo per Caligola. Il suo collega Filippo Ceccarelli confonde il Vittoriano di Roma col Vittoriale di d'Annunzio. E Michele Placido, davanti a una platea di professori e intellettuali, sostituisce Gesù con Sofocle: non se ne accorge nessuno. Persino gli esperti di scuola mentre parlano di scuola finiscono per sacrificare il congiuntivo: sul «Corriere della Sera» si apre un dibattito ai massimi livelli. «Non so a che cosa questa scuola può servire» viene scritto. A che cosa può? Ó a che cosa possa? Un deputato del Pd, Roberto Mo-rassut, interviene a un talk show per sostenere quanto sia importante l'istruzione. Lo ripete più volte. Poi sbotta: «Per esempio a me la scuola mi ha imparato...». Eh sì, ti ha imparato proprio bene. Del resto le Iene nel 2006 avevano realizzato una loro celebre puntata mettendo in difficoltà i parlamentari. Ricordate? C'era stato persino chi aveva confuso il Darfur con il fast food. Dopo due anni, nell'autunno 2008, sono tornate davanti a Montecitorio. Ma la speranza di trovare i nuovi parlamentari più preparati dei vecchi è andata presto delusa: «Darwin? Ha scoperto il mondo». «Il Dalai Lama? Un indù.» E sull'Ara Pacis? «Ci facevano sacrifici umani...» Intanto l'ex parlamentare Luxuria va all'«Isola dei famosi» e in diretta Tv si
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esibisce in una prova di conoscenza storica, facendo crollare il Muro di Berlino nel 1985 anziché nel 1989. D'altra parte, in Tv se ne sentono di tutti i colori. Anzi, di tutti i calori. La Gioconda? È stata dipinta da Giuseppe Verdi. Massimo D'Alema? Un attore italiano. Adolf Hitler? Un regista tedesco. Il Mahatma Gandhi? Un soldato africano. Cavour è un musicista, Saddam Hussein un direttore che vive a Bari o forse a Bali e Gianni Agnelli un attore che ha fatto lo sciamano nel film sui Doors. I nomi dei sette nani? «Mi ricordo solo Dondolo ed Embolo.» C'è chi pensa che il potere legislativo in Italia lo eserciti il Papa (strafalcione o sottile polemica politica?), che la capitale della Cina sia la Mongolia, confondono Marx e il mago Merlino e se gli chiedi che cosa ha scritto il filosofo tedesco tacciono. Un aiutino? D'accordo: ha scritto il Ca... «Ci sono: il Canzoniere.» A proposito, adesso mi viene il dubbio: quanti errori ci saranno in questo libro? Cara editor, amica mia, provvedi tu, altrimenti ci facciamo una figuraccia da spezzarci il cuore. Anzi, il quore. III La scuola dei professori Dove ci sono classi con 11 insegnanti. E nemmeno un alunno A Ciriè, Torino, un ragazzino di 11 anni è troppo esuberante: l'insegnante gli rasa i capelli a zero. A Vicenza un prof riesce a rimandare in ginnastica un invalido che era esonerato dalla ginnastica. Un suo collega di Rimini, per protestare contro il preside, occupa la biblioteca dell'istituto armato di una borsa piena di banane (la rivolta al sapor di Ciquita?). In una scuola media di Farà d'Adda (Bergamo), l'insegnante interroga gli studenti in inglese: chi non risponde deve fare le flessioni. In una scuola elementare di Torino la maestra organizza un concorso di bellezza tra le bambine di 8 anni, sostituendo la lezione di geografia con una succursale di Miss Italia, e la bella calligrafia con la bella fisionomia. Un suo collega, sempre a Torino, tiene una lezione antisemita nel giorno della memoria. Un altro a Firenze si rolla uno spinello in classe. E del resto, che c'è di strano? Un preside di Barletta istruisce i suoi ragazzi: coltivare marijuana sul balcone di casa è un'ottima iniziativa. Chissà cos'aveva fumato prima di entrare in aula. Benvenuti nella scuola dei professori. Meravigliosi, eroici, appassionati, generosi, straordinari professori. Voi dite che sono un po' strani? Ma no: la maggior parte di loro sacrifica davvero la vita nel silenzio, soltanto per amor della materia e degli studenti. Che possono farci, poi, se su Internet tanto onesto e laborioso impegno non appare mai? Che possono farci se nei filmati rubati in classe si vedono solo un prof di italiano che dorme, uno di tedesco che balla sulla cattedra, uno di filosofia che fa la verticale e uno di religione che entra in aula vestito da beduino, con tanto di turbante e tunica? Che possono farci? Impazzano i video dei prof pazzi. E così, vista di qui, dalla cattedra cibernetica che rimbalza su tutti i media e domina l'opinione pubblica, la scuola sembra soltanto un concentrato di magistrale follia. Hai un bel ripetere che la maggior parte degli insegnanti farebbe follie solo per Dante e Ariosto. Hai un bel dire che fa più rumore un docente che balla sregolato di mille che regolarmente recitano Leopardi. Basta il prof Sciabolino, mascherato come uno zorro della Tiburtina, a distruggere tutto. Pochi secondi di YouTube travolgono un'intera categoria. Il prof Sciabolino, del resto, è in buona compagnia: c'è il prof Sergente dei Marine che trova uno studente chiuso in un armadio, lo tira fuori e lo prende a calci. C'è il prof Portiere Pazzo che d'improvviso scardina la porta e corre verso la presidenza. C'è il prof Foca che si mette a palleggiare di testa contro il muro. E c'è il prof Galante che, dopo aver fatto il gesto dell'ombrello alla classe, da
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disposizione su come prendere posto in laboratorio. E ordina a un'alunna: «Tu mettiti davanti a Paoletto, così lui ti guarda il culo». Il problema è che le lezioni di chimica sono pallose. Quelle di algebra figuriamoci. Su YouTube non funzionano, in Internet non vengono cliccate. Le lezioni di sciabolino e quelle di galanteria, invece, sai che successo... E l'effetto è devastante: sciabolino dopo sciabolino, galanteria dopo galanteria, si rischia di rovinare per sempre l'immagine di una categoria che meriterebbe ben altro apprezzamento. Ma come si fa? Uno si sforza di ripensare ai migliori insegnanti della sua vita, alle loro lezioni appassionanti e profonde, alle loro vite magari grigie ma sempre severe. Niente da fare: l'immagine trema, vacilla, s'interrompe. E sul piccolo schermo della memoria, come in una paradossale interferenza, anziché il vecchio prof di matematica o quello di latino, continua ad apparire lui, sempre lui, soltanto lui: il prof Tacchi a spillo... Il professor Tacchi a spillo e altre stranezze Ricordate? Istituto alberghiero di Cervia (Ravenna), primavera 2006. Per cinque giorni di fila l'insegnante di italiano Vincenzo Di Grazia si presenta in aula vestito da donna: stivaletti, cerchietto, top e jeans attillati. I ragazzi lo filmano, naturalmente, e mettono il video su Internet. Scoppia il caso. Dapprima il prof Tacchi a spillo si giustifica: «Era solo una provocazione». Poi decide di cavalcare il personaggio e rilascia interviste, queste sì, da vera primadonna: dice di meritare le copertine di «Vogue uomo» e di «Vogue donna» (insieme), dal momento che la sua «androginia» è «segreto della bellezza e della vita», «essenza di figura tradizionale», «doppia e volutamente ambigua». Parla di sé in terza persona e si definisce «un androgino che sale e scende le scale, inimitabile, unico e irripetibile, nel grande vetro dell'alberghiero»... In una lettera al «Resto del Carlino», il prof Tacchi a spillo spiega la sua impresa, dicendo che in fondo non c'è niente di male a «esibire degli esercizi grammaticali e sintattici visivi e gestuali duchampiani nello stile Rose Selavy». A vederlo, dal video, sembra una trans dei viali di periferia, ma non è così, assicura lui. Anzi, «potevo sembrare Tiresia l'indovino, o Odisseo, o Pallade Athena o Cibele». Cibele, eccome no: proprio uguale. «Il prof Tacchi a spillo non si è fatto ipnotizzare da Koroviev che ha coniato l'espressione allarme sociale, ora si trova dentro una nuova recita, il Maestro e Margherita, ed è giunto allo smascheramento della magia nera, dopo il Gran Ballo di Satana, attendiamo la deliberazione del Maestro sui Monti dei Passeri al ritmo del nero mantello di Woland.» Ecco, sì: attendiamo la deliberazione del Maestro. Prima, però, attendiamo che qualcuno chiami un'ambulanza. Ma vi pare possibile? Questo insegna. Insegna italiano. Con «i valori alchemici duchampiani ermetici de La Jocon-de L.H.O.O.Q.». Aspettando la «deliberazione del Maestro sui Monti dei Passeri». E smascherando il «Gran Ballo di Satana al ritmo del nero mantello di Woland». Ma ve li immaginate quei poveri aspiranti cuochi? Poi ci stupiamo che vengano fuori piatti assurdi: la digestione si fa difficile. Coi tacchi a spillo, poi, è da ulcera. Del resto, purtroppo, non è l'unico caso clinico assurto a dignità di cattedra. Marco Imarisio nel suo libro Mal di scuola, per esempio, racconta del professor Vietnam. È l'insegnante di italiano di un liceo del Sud che, dopo anni di onesta carriera, all'improvviso comincia a sentirsi circondato dal Male: lui si ritiene, come recitano i rapporti ufficiali del ministero, unico paladino della verità e della giustizia in un mondo «popolato solo da persone in malafede». Gli mandano gli ispettori. E quelli raccontano che il prof Vietnam si è armato di un registratore e di un computer portatile, che non abbandona mai, e sul quale riporta ogni parola pronunciata dalle persone che incontra. Ci sono colleghi che non osano nemmeno dirgli buongiorno o buonasera perché lui registra la conversazione e la trascrive su volantini, che poi lascia nei
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corridoi. Spesso sono volantini polemici. La scuola chiede un contributo facoltativo di 70 euro? L'insegnante accusa: «È la catena di Sant'Antonio». Si riunisce la Commissione fondi? Lui denuncia: «Un branco di corrotti avidi di denaro» (dimenticando però che ne fa parte pure lui). L'ispettore annota sconsolato: «Il professor C. ha tentato di trasformare l'istituto in una sorta di Vietnam personale». Il fatto è che ci è riuscito benissimo. E, come il prof Vietnam, tanti altri. A Roma fa parlare di sé il prof Roberto Valva, del liceo Ripetta, che nega l'esistenza dell'Olocausto. A Milano una maestra insulta un bambino di colore: «Torna nella giungla». Un'altra prof, sempre raccontata da Imarisio, è invece solita esibire sulla lavagna gentili parole dedicate ai suoi studenti. Per esempio: «Siete degli animali schifosi». Le scrive, poi si avvicina alla finestra, sta zitta e guarda fuori. Qualche volta legge un romanzo, ogni tanto piange sommessamente. Il ministro fa una verifica: alla fine di gennaio sul registro di quinta ha segnato un solo argomento affrontato. I ragazzi, però, sostengono che non abbia parlato nemmeno di quello. Sempre zitta, sempre vicina alla finestra. «Siete degli animali schifosi.» A chi chiede spiegazioni risponde con insulti e minacce di querela. Di ispezioni ne ha già subite quattro. Ne è sempre uscita indenne, però. Dice di avere «mal di schiena». La prof sale in cattedra. Alle Bahamas Benvenuti nella scuola del prof Vietnam, dei tacchi a spillo e del mal di schiena. Non vi piace? Pazienza. Gli insegnanti bislacchi saranno pure una minoranza, ma lo capite: sono talmente bislacchi che finiscono per travolgere la maggioranza silenziosa delle persone normali. È inevitabile. O forse no, un modo per evitarlo ci sarebbe. Si potrebbe cominciare a distinguere nella scuola fra chi fa bene il suo mestiere e chi no. Si vuol giustamente tornare a dare i voti agli studenti. Perfetto: perché non darli pure ai docenti? Bene, bravo, sette più. O, altrimenti, bocciato. Invece no, nella scuola italiana non si boccia più nessuno. Soprattutto, non si bocciano i professori. Mai, per nessun motivo. Nella primavera 2008 un insegnante di matematica e fisica di un liceo di Genova viene beccato da una ragazza a masturbarsi in classe. Non è nuovo a imprese memorabili: i suoi studenti raccontano di compagni costretti a camminare a quattro zampe mentre lui, per deriderli, fa il verso del maiale. Altri sono stati obbligati a mettere la testa nel cestino dell'immondizia. Quasi tutti, in aula, devono fare il saluto fascista. Solite lamentele? Macché: «È incompatibile» stabiliscono nell'aprile 2008 al Provveditorato di Genova, dove conoscono bene la situazione. E il preside: «Vogliamo mandarlo via, ma non ci riusciamo...». In effetti a giugno diventa presidente di una commissione per l'esame di maturità. Maturità? Ma sì: il prof che si masturba in classe è perfetto per giudicare la maturità altrui. Se poi riuscisse a giudicare anche la sua non sarebbe male, certo. Ma non si può mica avere tutto dalla vita... Del resto a Milano continua a far regolarmente lezioni anche il professor Pinta, noto perché entra in classe completamente ubriaco e sommerge i ragazzi di insulti, gestacci e oscenità. Arriva perfino a mimare scene a luci rosse davanti ai dodicenni. Il Provveditorato dice che per intervenire bisogna aspettare l'inchiesta della Procura. E la Procura, si sa, non è velocissima. Così si allungano i tempi. E, nel frattempo, si allungano anche le mani del prof. Ma non temete, prima o poi la sentenza arriverà. E così il prof Pinta sarà definitivamente assolto, magari da una sentenza che stabilisce che ubriacarsi, in fondo, non è poi così male e anzi aiuta a insegnare meglio. Ma sì, dai, fidatevi: come potranno i giudici accanirsi contro il prof Pinta dopo che, nel corso degli anni, hanno assolto tutti, ma proprio tutti, compresa (persino) la prof Bahamas? La storia di
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quest'ultima, forse la ricorderete, rimbalza sui giornali qualche tempo fa: la sciura, insegnante di Viterbo, è molto stanca e un po' stressata. Il medico le prescrive cinque giorni di riposo e alcuni esami. Lei marca visita, sta a casa da scuola e va alle Bahamas. Il preside la scopre e la denuncia per truffa. Citazione, causa, sentenza. Risultato: insegnante assolta. È vero, dice il giudice, si è data malata da scuola ed è andata alle Bahamas, ma non era alle Bahamas per svagarsi. Macché: era là per fare accertamenti cli-nici. Non stiamo scherzando: la docente ha presentato regolare certificato di un ospedale di Nassau. E il giudice le ha dato ragione: sole, mare e radiografie caraibiche. Così si guarisce da tutti i mali. E si può tornare in cattedra a insegnare. Prima lezione: tecniche di assenteismo. «Cari ragazzi, fare i furbi conviene: guardate me...» D'altra parte l'impunità è assicurata, anche nell'improbabile e malaugurata ipotesi in cui si venga (per sbaglio?) condannati. Secondo i dati della Corte dei Conti, infatti, solo il 16,9 per cento degli insegnanti che hanno avuto una sentenza confermata definitivamente in Cassazione è stato espulso dalla scuola. Il 6 per cento è stato adibito a compiti diversi da quelli che svolgeva. E ben il 45,4 per cento, cioè quasi la metà, non ha avuto nemmeno una sanzione disciplinare. Niente di niente. Professor non porta pena, come scrive Stefano Livadiotti. Nel suo pamphlet sui sindacati, dopo aver fatto le pulci ai vari settori, sentenzia: «Il massimo dell'impunità si ha nella scuola». Ma sicuro: a scuola non si può cacciare nessuno, nemmeno chi ruba o molesta i bambini. La maestra di Torino sottrae i buoni pasto agli studenti? Non cacciatela: sono «il giusto compenso per il servizio a favore della comunità scolastica». Il prof sottrae i soldi delle gite (57 milioni di lire)? Non cacciatelo: i magistrati gli hanno concesso la sospensione condizionale e dunque si deduce (chissà perché) che «si asterrà nel futuro dal compimento di atti illeciti analoghi». L'insegnante di Aosta viene condannato a due anni di carcere per pedofilia? Non cacciatelo. Per carità: che torni subito in classe a far lezioni del suo amato solfeggio. Do, re, mi, fa, sol. Sempre la solita musica, cioè. Per completare gli Usa ci manca il Canada Solo il 35 per cento degli' insegnanti di scienze sa rispondere a domande elementari sul telescopio. Solo il 36 per cento sa perché la fermentazione fa lievitare la pasta. E solo il 37 per cento sa che lasciando tre oggetti diversi (chiodi, acqua e un asse di legno) nel bagagliaio dell'auto sotto il sole tutti raggiungono la stessa temperatura. Fra di loro c'è, per esempio, chi pensa che le lenti più grandi del telescopio servono a cogliere i colori scuri nelle stelle, che l'acqua comincia a bollire a 40 gradi e che la pasta lievita perché la fermentazione forma il vapore. Va un po' meglio con le domande su carie dentali e sui polmoni. Ma resta un 15 per cento di insegnanti di scienze convinti che i batteri nei denti producono zucchero (sì: producono zucchero, e magari anche caramelle al miele). E un 25 per cento che non sa che i polmoni trasferiscono ossigeno nel sangue. Molti di loro, cioè l'11 per cento, sono convinti che servano a pompare il sangue nel corpo: evidentemente confondono i polmoni con il cuore. Come stupirsi se, poi, anziché la testa usano i piedi? «Panorama» sottopone 100 professori (54 delle medie inferiori, 46 delle superiori) a cinque domande del test Ocse-Pisa 2006, quello in cui gli studenti italiani hanno fatto la figura dei somari. Risultato: i professori non se la cavano molto meglio. D'altra parte, se nella scuola sono tutti uguali, se nessun insegnante viene mai cacciato, se nessuno viene premiato, se nessuno valuta chi merita e chi no, l'esito finale non può essere che questo. La scuola è diventata un'immensa piallatrice: i migliori ne pagano le conseguenze, i peggiori invece ci sguazzano. Anche fra i professori. E fin dall'inizio. Agli esami per le scuole di
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specializzazione i candidati (candidati a insegnare, si badi bene) scrivono «cristianizzazzione» con quattro zeta (meglio abbondare) e «all'ora» con l'apostrofo. E quando trovano l'errore segnato si stupiscono. «All'ora non è sbagliato, si può dire.» Lei crede? «Sì, per esempio: cento chilometri all'ora è corretto.» D'accordo. «E all'ora perché è sbagliato dire "all'ora ho fatto" o "all'ora ho detto"?» Già, perché? Marco Imarisio racconta di aver sentito una docente di filosofia che al bar di un liceo romano annunciava trionfante a un suo collega di aver letto per la prima volta il Simposio di Platone. «La scoperta tardiva non le aveva impedito di cogliere il senso più profondo dell'opera: "Certo che questi greci erano davvero dei maiali" ha esclamato con vocalizzo trillante. Non stava scherzando. E non era un debuttante, ma una signora di mezza età avviata verso la pensione.» «Da che cosa dipende il buco nell'ozono?» chiede la rivista «Terra» a 420 professori. E 1 su 5 risponde: dall'eclisse; 1 su 6: è un'invenzione delle aziende per vendere creme solari. Solo il 17 per cento l'azzecca. E su Internet i ragazzi infieriscono facendosi delatori dei clamorosi strafalcioni dei loro insegnanti. «I barbari sono chiamati così per le loro lunghe barbe» spiega una professoressa di storia a Borgo Trevi (Perugia). E Andrea, 12 anni, di Roma, racconta: «Ho chiesto alla prof qual è la capitale del Canada, e lei: Vancouver? No, quella è de' l'Australia». È nato addirittura un sito, sputtanailprof.it. C'è un docente di italiano che sgrida i ragazzi: «Smettetela se no non ce la facete a passare l'anno». E uno di geografia che annuncia: «Per completare gli Usa ci manca il Canada». «Il libro? Escilo dallo zaino.» «Gli alunni? Pascolano per la classe.» Secondo «TuttoscuolaNews» (2006), solo il 54 per cento degli insegnanti di ruolo è laureato. I dati del ministero (relativi al 2005) sono più ottimisti: i laureati sarebbero il 59,4 per cento. Il 40,1 per cento avrebbe il diploma, lo 0,6 per cento solo la licenza media. Comunque resta il fatto che, nella migliore delle ipotesi, 4 insegnanti su 10 non hanno la laurea. Fra l'altro, anche abbassando l'età, cioè scendendo fra i professori più giovani, la percentuale di non laureati resta alta. Ancor più grave la situazione per quanto riguarda la matematica: solo il 17 per cento di chi la insegna ha la laurea corrispondente. E i risultati si vedono. Infatti, quando l'Università di Bergamo fa un'indagine fra docenti lombardi di tutte le scuole, scopre che il 70 percento dei maestri non sa a quanto equivalgono 254 decimi (bisognava scegliere tra le seguenti risposte: 25 unità e 4 decimi, 2 unità e 54 decimi, 2 decimi e 54 centesimi, 2 centinaia e 54 decimi). I prof delle superiori rispondono meno bene dei loro studenti a una domanda sulle probabilità, tutti gli insegnanti annaspano di fronte a una divisione con i decimali. Il 10 per cento addirittura non riesce a calcolare quant'è 1/6 di 48 caramelle. La stessa percentuale non riesce a risolvere il seguente problema: un salame pesa 1 chilo e costa 12 euro, quanto si spende per comperarne 250 grammi? Roba da prima media. Alcuni docenti dimostrano di non sapere con precisione il significato di «patogeno» o «cure palliative», 1 su 2 non sarebbe stato ammesso all'università, 2 su 10 non sarebbero in grado di svolgere i compiti assegnati ai loro alunni. «In quale città è avvenuta la firma della Costituzione europea?» Solo il 12 per cento risponde giusto: Roma. Molti sono in difficoltà a dire che cosa è successo il 25 luglio 1943; non tutti sanno che le donne in Italia votarono per la prima volta nel 1946. Un nonno mi scrive raccontando del nipote in quarta ginnasio: «La professoressa di latino e greco (ergo: laurea in lettere antiche) gli ha dato 5 e poi ha aggiunto una nota sul diario: il ragazzo non ha portato il quaderno degli esercizi, cuindi non ho potuto controllare i compiti a casa». Cuindi, verrebbe da dire, era meglio se faceva la quoca. Sorprendente? Macché, in fondo c'è da aspettarselo: uno studio di Dora De Maio sui professori universitari, infatti, rivela che persino i
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cosiddetti «supercolti», cioè appunto i docenti degli atenei, hanno qualche problema con l'italiano: scrivono «un'altro» con l'apostrofo, «qual'è», «un'habitat», «la partita è aperta e va giocata», sbagliano le virgole, i nomi stranieri, mandano in archivio il congiuntivo e si affidano a formule burocratiche. Se questi sono i supercolti, che aspettarsi dai maestri elementari? Rassegniamoci. Come mi racconta un'insegnante un po' delusa: «Ormai i miei giovani colleghi confondono la "Sacra Rota" con la sacra ruota (benedette gomme Michelin?), la musica metallara con la musica metallurgica, e sono convinti che i bambini poveri brasiliani non vivano nelle favelas ma nelle paellas». Sì, nelle paellas. Fra riso e frutti di mare, ma che bontà. Il sottoscritto professor M. si mette una nota sul registro... E di insegnanti delusi come la maestra della paellas, purtroppo, se ne trovano sempre di più. «Sono un manipolo di frustrati» accusa Gianfranco Fini durante un dibattito a Bologna. Il rapporto Bankitalia del luglio 2008 conferma: «I docenti sono frustrati, logorati, senza entusiasmo». E Paola Mastrocola lo confessa, come sempre, senza giri di parole: «Fino a sette o otto anni fa riuscivo a fare l'insegnante, adesso non più. Peccato perché era un bel mestiere». Oreste Pacelli, professore di un istituto tecnico di Milano, racconta al «Giornale»: «Sono obbligato a dare il 6 politico a tutti i miei studenti. Motivo? Non conosco la materia che insegno». Proprio così: gli hanno dato la cattedra di sistemi elettronici, di cui lui non sa assolutamente nulla. Una trentacinquenne docente di italiano, storia e geografia, scrive a «Libero»: «Mi sembra che il messaggio sia chiaro: a scuola mi è concesso di fare tutto (animatore, ballerino, artista, vigile del fuoco, agente della sicurezza, crocerossina, occultatore dell'ignoranza degli alunni), tutto tranne l'insegnante». Come si fa a non scoraggiarsi? Secondo un rapporto pubblicato nel maggio 2008 dall'Associazione dirigenti della scuola e dallo Iard, 6 professori su 10 manifestano segnali di disagio mentale. In Brianza una ricerca della Cisl rivela: 1 prof su 10 scoppia, sono sempre più tesi, soffrono del burnout, cioè del crollo psicofisico con depressione, ipertensione e disturbi cardiocircolatori. Il dato trova riscontro all'Asl di Milano: calcolata su un periodo di dieci anni, l'incidenza delle patologie psichiatriche è pari al 49,8 per cento fra gli insegnanti contro il 37,6 per cento degli impiegati e il 16,9 per cento degli operai. «Oggi il mestiere di maestro» spiegano gli esperti «è il più usurante dal punto di vista psichiatrico.» L'ultimo episodio a Bra, provincia di Cuneo, nel febbraio 2009. Carlo Zonin, 50 anni, insegnante di religione dell'istituto tecnico Guala, trentadue anni di onorata carriera alle spalle, impegnato nel sociale e con un posto in prima fila in un coro alpino, mentre è in auto vede un gruppo di suoi ex studenti, riconosce due bulli, accelera, li investe e li manda all'ospedale. «Mi avevano reso la vita impossibile» confessa. «Ho perso la testa...» Già, ha perso la testa. E non è un caso isolato. Marco Ima-risio racconta di un professore che fa lezione sempre con le spalle rivolte agli studenti: fissa il muro o la lavagna, evita di incrociare gli occhi dei ragazzi, tiene le mani lungo i fianchi e parla con voce sommessa. Gli ispettori parlano di «scarsa autostima» e «bassissima immagine di sé». Da Mantova giunge voce di due maestre che si picchiano a sangue in classe, davanti ai bambini. In una scuola elementare di Milano un'insegnante taglia la lingua a un bimbo con le forbici. In una scuola elementare di Pescara una maestra lega i suoi alunni con lo scotch («Solo per tenerli fermi un attimo» si giustifica). A Lecce, in classe si usano i sedativi. A Marsala (Trapani) una supplente d'inglese viene condannata per aver legato al banco e imbavagliato un alunno di 7 anni perché era troppo vivace. Sulla lavagna aveva scritto: «A mali estremi, estremi rimedi». La classe era stata costretta a ricopiare.
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Un medico di Milano, Vittorio Lodolo D'Oria, ha raccolto nel libro Scuola di follia le storie di prof che hanno perso la lucidità. Tante vicende diverse, spiega, che hanno un comune denominatore: «L'insegnamento logora». «Abbiamo bisogno degli psicologi» chiedono i docenti di dieci istituti superiori milanesi. Si sentono gli ultimi della classe: poco considerati, emarginati, scaricati all'ultimo posto della considerazione sociale. Praticamente dei falliti. E, invece, non è così. In tutti i sondaggi i professori risultano godere, nell'opinione pubblica, ancora di un notevole prestigio. Un maestro è considerato alla pari del dirigente e dell'imprenditore, e comunque più dell'avvocato. Il prof delle scuole medie è considerato più del giornalista, del commercialista, del commerciante, del dirigente della pubblica amministrazione, per non dire del politico, che come sempre è in fondo alla graduatoria (e ben gli sta). Anche negli ultimi anni gli insegnanti hanno dimostrato di saper sorridere del disastro scolastico e del loro disagio. Sono usciti libri divertenti, come La classe fa la olà mentre spiego, che è uno spaccato perfetto dell'ironia con cui i professori affrontano ogni giorno l'ardua impresa di entrare in aula: «Nonostante i ripetuti tentativi la classe III non è riuscita a demolire l'istituto, ma ha disturbato l'intera scuola». «L'alunno A. dopo aver chiuso accuratamente la porta della classe minaccia di non fare uscire nessuno senza nomination e televoto.» «L'alunno M. incita la classe a una crociata contro gli infedeli della classe accanto e si offre di fare l'ariete per sfondare la porta. Alle mie richieste di smetterla risponde: Dio lo vuole.» «Lo studente S. chiama la presidenza con il citofono del corridoio e ordina due pizze margherita e un calzone.» «Il sottoscritto professor M. si mette una nota sul registro da solo perché non è in grado di tenere con ordine e serietà la classe.» «Ignoti continuano a mettere fette di prosciutto nel registro, la classe sembra una macelleria.» «L'alunno C. giustifica la mancanza del suo tema dicendo che gliel'ha mangiato l'iguanodonte.» «L'alunno B. si giustifica per lutto familiare ma risulta che la nonna sia morta e risorta almeno otto volte.» Fino all'imperdibile: «Dubito che C. sia stato assente per peste bubbonica come sembra sostenere la madre nella giustificazione per i giorni 4,5 e 6. Infatti di tale morbo non sì guarisce in tre giorni». Nessuno mi può giudicare E allora perché? Perché, se gli insegnanti sono dotati di ironia, intelligenza, di spirito di sacrificio, perché si arriva alla clinica psichiatrica? Perché si arriva al ricorso all'Asl? Allo sbeffeggiamento su YouTube? Alla rinuncia? Alla bandiera bianca sulla cattedra? Ai ragazzi che spadroneggiano fra i banchi? Perché si arriva alla frustrazione? La risposta è semplice: perché la scuola non sa più distinguere i buoni dai cattivi, i preparati dagli impreparati, gli sgobboni dagli assenteisti, gli onesti dai furbetti. E sapete perché non sa distinguere? Perché non ha un criterio di valu-tazione. Sembra assurdo, ma è così: la scuola, che dovrebbe essere la madre di ogni valutazione, non sa valutar se stessa. Ci ha rinunciato. Una volta c'era la valutazione obbligatoria degli insegnanti da parte del direttore didattico. Il giudizio permetteva di accedere al concorso per merito che dava scatti di carriera e di stipendio. «Era poco ma andava nel senso giusto» dice Maculotti. «Ora invece il dirigente è l'ultimo a sapere che cosa succede nelle sue classi.» Nessuno accetta valutazioni. L'hanno fatto a Crema, nel 2004, all'istituto tecnico Pacioli: valutazione e autovaluta-zione per 90 insegnanti. È stata un'esperienza più unica che rara, segnalata da tutti i libri cult di riferimento come esemplare. E forse proprio per questo mai ripetuta. In effetti quando, durante il primo governo Prodi, l'allora ministro dell'Istruzione Luigi Berlinguer propose un test per la
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valutazione degli insegnanti, si trovò 320.000 docenti in sciopero, 1 su 3. Nel 2004-05 ci provò la Moratti, ma i risultati di quei test (realizzati a tappeto nelle scuole elementari e medie e in buona parte delle superiori) sono rimasti sepolti in un cassetto. Inutilizzati. «Pubblichiamoli» propose qualcuno. Invece niente. Anzi, il successore della Moratti, Fioroni, si guardò bene dal ripetere l'esperimento. E così la valutazione è scomparsa. Piero Bernocchi, leader storico del Cobas scuola, lo teorizza: «Siamo contrari a ogni gerarchizzazione della categoria». Tutti uguali: bravi e somari, sgobboni e lavativi. Nessuno da premiare, nessuno da punire. Nessuno mi può giudicare. Eppure sono almeno quindici anni che la legge prevede una valutazione dei «parametri qualitativi dell'istruzione». Stava scritto nel testo di legge del 1993 in cui si parlava di autonomia scolastica. Ma, rileva il «Quaderno bianco» del ministero (settembre 2007), «mentre il rafforzamento dell'autonomia scolastica si tradurrà rapidamente in profonde modifiche istituzionali, questo obiettivo [la valutazione] risulta a oggi ancora non istituito». Nel 1997 nasce il Servizio nazionale per la qualità dell'istruzione, che fa parte del Cede (Centro europeo dell'educazione). Poi vengono avviati vari progetti pilota (PPl, PP2, PP3), il modello Sivadis (Sistema di valutazione dei dirigenti scolastici), iniziative con l'Ieo e l'Ocse. Un baluginare di sigle, un trionfo di acronimi, una pioggia di burocrazia. Ma dell'agognata valutazione, richiesta dalla legge e dal buon senso, non c'è traccia. Nel 1999 il Cede si trasforma in Invalsi, che dovrebbe servire proprio per la valutazione (Istituto nazionale per la valutazione del sistema dell'istruzione). Evidentemente PPl, PP2, PP3, Sivadis, Ieo e Ocse non bastavano. Ci voleva un'altra sigla. Ma l'Invalsi si rivela rapidamente uno dei grandi misteri italiani: ha 48 dipendenti, 6 milioni annuali di budget, una sede bellissima nella cinquecentesca villa Falconieri di Frascati, stucchi, affreschi, saloni di lusso. Ma a che cosa serve? Nessuno l'ha mai capito bene. È un carrozzone di inefficienze, un ufficio fantasma, un uovo di Pasqua senza cioccolato e senza sorprese, un piccolo deserto dei tartari dove il gotha della burocrazia attende soltanto di produrre altra burocrazia. E infatti, dopo anni di vita incèrta, nel 2007 l'Invalsi viene commissariato. «Occorre procedere a un riassetto» dice il «Quaderno bianco» del ministero dell'Istruzione nel settembre di quell'anno. Riassetto? Ma di che? Non si sa che cosa deve fare e già bisogna riassettarlo? La spiegazione è ancor peggio dell'enunciato: «È necessario rimettere mano al disegno istituzionale dell'Invalsi per accentuarne il carattere di terzietà e rendere visibile il suo ruolo di autorità preposta alla misurazione al supporto all'azione delle singole istituzioni scolastiche». Ci avete capito qualcosa? L'unica cosa certa il «Quaderno bianco» la spiega qualche riga dopo: «Le risorse (dell'Invalsi) sono inadeguate...». E ancora: «Sono necessarie risorse aggiuntive...». E poi: «Sarebbe appropriato dotare l'istituto di un patrimonio proprio...». Chiaro? Non s'è mai capito che ci stanno a fare quelle 48 persone in quella meravigliosa villa cinquecentesca, ma una cosa l'abbiamo capita di sicuro: hanno bisogno di risorse aggiuntive. Altrimenti battono la fiacca. In effetti all'Invalsi ci hanno messo sei anni («la metà di quelli impiegati da Alessandro Magno a conquistare il mondo» notano nel loro libro Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo) per elaborare finalmente un questionario. Ma tanto impegno è praticamente inutile: il questionario non è mai stato utilizzato. E la valutazione dell'istruzione, ragione sociale dell'istituto, continua a essere più sfuggente di una diva di Hollywood inseguita dai Brutos. La sexy profchefa sesso con gli studenti Nessuna valutazione. Nessun premio. E nessuna punizione. Egualitarismo spinto, livellamento estremo. È questa la linea che la scuola ha difeso a denti stretti negli ultimi anni. Fino al punto di sfiorare il paradosso. Prendiamo per esempio la porno prof: tutte le brave e le oneste
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insegnanti possono essere messe sul suo stesso piano? Lo accettano? Lo gradiscono? Non hanno nulla da dire? Il caso è noto. Anna Cirani, da Pordenone, sui siti Internet è nota come Madameweb: diffonde foto e video hard, ma molto hard. Il filmato più famoso è quello in cui si fa riprendere nuda a Berlino, mentre entra alla fiera dell'eros e si esibisce direttamente in un pornoshow. Sono i ragazzi a scoprire la sua doppia vita e a tappezzare i bagni dell'istituto con le foto contestate. Professoresse tutte uguali? Davvero? Ma quante colleghe avrebbero ancora osato entrare in aula dopo una performance così? Anna Cirani, invece, nulla. Ne va orgogliosa. Viene sospesa per sei mesi, poi riprende a insegnare. A Fivizzano, in Lunigiana, un professore viene sorpreso mentre fa lezione di sesso in aula collegandosi via Internet a un sito porno. A Nova Milanese una supplente di matematica passa dalla teoria alla pratica: fa esercitazioni di kamasutra con cinque studenti fra i 13 e i 15 anni, sesso orale con uno mentre gli altri attorno si masturbano. «Non mi sembra nulla di male» si difende. «Questi ragazzi sono molto più grandi della loro età e uno di loro è molto attraente.» Come no: non c'è niente di male. Sicuro. La vorrete mica punire... A Lecce un'altra supplente, pure lei di matematica, si faceva palpeggiare in classe dai suoi alunni. Nel video messo in rete compare la professoressa seduta alla cattedra con i pantaloni leggermente calati sui fianchi a lasciar intravedere il perizoma: gli studenti, tutti minorenni, si avvicinano e la tastano oppure miniano volgarmente l'atto sessuale. «Un gioco» s'è difesa. Che ci volete fare? C'è chi si inventa giochi con le tabelline e chi giochi erotici. Ma, per carità, fra di loro non c'è nessuna differenza. Anzi. Quando una prof di economia aziendale di Mon-torio Superiore (Avellino) si mette in posa per dodici scatti sexy, c'è chi approva entusiasticamente: finalmente gli studenti del suo istituto alberghiero hanno qualcosa da compulsare avidamente. Non è un testo di ragioneria: è un calendario osé. Ma è tutto uguale a scuola, no? È così uguale che a Cavarzere (Venezia) i genitori sono costretti a tenere i figli a casa: un insegnante di sostegno, già noto alle forze dell'ordine, rivolge attenzioni morbose alle ragazze. A Milano un prof di ginnastica viene indagato e sospeso dall'incarico perché tocca nelle parti intime le studentesse. A Treviso un suo collega viene denunciato perché tenta di baciare un'allieva. Un maestro di Castagnole delle Lanze, in Piemonte, si fa dare le chiavi e trascorre lunghe ore nell'ufficio della segretaria. Motivo? Telefonare alle linee erotiche a spese dello Stato. Alla scuola media Giovanni XXIII di Sant'Antimo, vicino a Napoli, la prof tollera allegre gare fra gli studenti più dotati. Più dotati in matematica? Capacità di calcolo? Capacità mnemonica? Macché: i più dotati nella virtù meno apparente, di tutte le virtù la più indecente. Ore 11, lezione di esibizionismo. «Non me ne sono accorta» dice lei. Non se n'è accorta? E allora i casi sono due: o gli studenti non erano particolarmente dotati o (più probabile) non è particolarmente dotata lei. All'istituto tecnico commerciale di Belluno più di dieci studentesse vengono costrette ad avere rapporti sessuali con l'insegnante di francese, 59 anni, prossimo alla pensione. I rapporti si consumano all'interno della scuola. In una media di Vicenza l'insegnante di ginnastica viene condannato perché palpeggia le alunne. Un professore di chimica di un istituto tecnico milanese usa i laboratori della scuola per analizzare cocaina, l'insegnante di musica di Tricase (Lecce) nasconde eroina sotto la gonna. Il professore di violino del conservatorio di Palermo per otto anni (dal 1998 al 2006) ha costretto i suoi allievi a pagare tangenti (sotto forma di lezioni private) per passare l'esame. «Lo fan tutti» si difende lo sciagurato. E a Saluzzo (Cuneo) un professore di scuola media viene indagato per pedofilia: aveva video che lo ritraevano in atteggiamenti intimi con bambini. Ma anche lui, vedrete, finirà per
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farla franca come il suo collega musicista di Aosta. I prof non si possono premiare, non si possono punire, non si possono giudicare. Sono tutti uguali, no? Pedofili compresi. Il proffannullone che si da malato e lavora in profumeria Tutti uguali, si capisce. Onesti e delinquenti, pudiche maestre e sexy prof, severi studiosi della battaglia di Canne e allegri studiosi delle rollate di canne. Insegnanti di chimica che maneggiano coca e i loro inflessibili colleghi che già considerano una deviazione la Coca-Cola. Avanti, tutti sullo stesso carro, la piallatrice scolastica sotterra le differenze, impedisce le premiazioni, blocca le punizioni. Tutti insieme, appassionatamente, verso i meravigliosi lidi pieni d'istruzione. Anzi, distruzione. Non c'è differenza nemmeno tra chi lavora e chi no. E così la scuola tratta allo stesso modo la scrupolosa professores-sa che da trent'anni non salta una lezione nemmeno quando ha la febbre a 40 e il professor Smalto&rossetto. Chi è il professor Smalto&rossetto? Ve lo presento: un insegnante di filosofia di un liceo tarantino. Ogni anno, a settembre marca visita, e non lo si trova più in classe nemmeno con il lanternino di Diogene. Malattia grave? Ricoveri in ospedale? Operazioni? Trattamenti chemioterapici? Macché: il professor Smalto&rossetto semplicemente dirige cinque negozi, profumerie e pelletterie intestate ai suoi familiari. Critica dello Chanel pratico, fenomenologia del gelsomino. In fondo, fra Kant, Hegel o L'Oréal, che differenza c'è? Si tratta pur sempre di studiare l'essenza, no? Non è mica un caso isolato, sapete. Una prof di Brindisi si assentava spesso dall'istituto professionale dove insegnava diritto. Diceva di essere malata. Invece l'hanno scovata in tribunale dove esercitava regolarmente, ogni mattina, la professione di avvocato. E sono numerosissimi i prof di educazione tecnica che hanno studi da geometri o i prof di educazione fisica che al mattino preferiscono le palestre private a quelle della scuola. Per non dire di quel direttore didattico denunciato per assenteismo: aveva un'impresa di assicurazioni. E per foraggiarla aveva organizzato una «minibanca» fra un'aula e un'altra... Ma almeno questi professori hanno voglia di lavorare. Non che l'assenteismo con annessa doppia occupazione sia meno grave, ma almeno dimostra un po' di spirito imprenditoriale, capacità d'iniziativa, ingegno. Tanti altri, invece, bigiano la scuola soltanto per pigrizia. Per indolenza. Magari per farsi una vacanza. Come le celebri tre docenti della scuola statale Michele Massa di Piano di Sorrento che, per ben sette anni di fila, ogni gennaio si erano fatte stilare dal medico un «congedo straordinario per malattia», per poter trascorrere tranquillamente una settimana bianca sulle Dolomiti. Come il prof del liceo d'Azeglio di Torino che ha collezionato così tante assenze in serie (tutte brevi, per evitare la nomina del supplente) da scatenare la rivolta degli studenti. O come la maestra di Genova che, fra malattia, permessi e aspettative, è riuscita a tenere cinque anni una cattedra senza presentarsi mai in aula. Nell'ottobre 2008, finalmente, hanno avviato le procedure per licenziarla, ma lei, fedele fino in fondo al suo ruolo di latitante, non si è presentata nemmeno a ritirare la lettera di contestazione. Una professoressa scrive a Pietro Ichino (autore del libro I nullafacenti): «Nella scuola è molto radicata l'idea che sia normale che ogni insegnante faccia 30 giorni di malattia ogni anno. Una collega che a fine anno ne aveva fatti solo 10 mi dice che è incerta su come usare gli altri 20 che le avanzano. Mi vede perplessa. E in effetti un po' perplessa lo sono perché la vedo sana come un pesce. E allora mi dice: ma gli altri 20 che dovrei fare? Regalarglieli?». A Milano i presidi lanciano l'allarme: troppe maestre assenti al rientro dalle vacanze di Pasqua. Soprattutto i supplenti, secondo i dirigenti scolastici, prolungano abusivamente le ferie. In particolare quelli che arrivano dal
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Sud. «È un malcostume che non si sconfigge nemmeno con le visite fiscali» denunciano. In effetti, a cosa servono le visite fiscali? Prendiamo il celebre caso del prof M. di Milano, raccontato da «Report» (Raitre) e dal libro di Ichino. Nel 2002-03 il prof M. realizza un tasso del 72 per cento di assenze; negli anni successivi evita tout court di presentarsi in classe. Semplicemente, si da alla macchia. Così fa prima. «Ho l'artrosi» si giustifica lui. Ma l'artrosi non gli impedisce di chiedere di poter svolgere un altro lavoro. Beccato, denunciato. Gli ispettori stendono una relazione impietosa e concludono: «Sarebbe opportuno assegnare il professore a un incarico diverso da quello dell'insegnamento e che lo veda impegnato (sempre che di impegno sia capace) in attività che non comportino l'assunzione delle importanti responsabilità connesse con l'esercizio della funzione di docente». Giudizio pesante, non vi pare? Ma sapete qual è stata la sanzione? Quindici giorni di sospensione. Ma come? Stabilisci con apposita ispezione che un prof non è in grado di insegnare e dopo quindici giorni di castigo lo rimetti in cattedra (si fa per dire, visto che lui comunque non si presenta)? E che bisogna fare per farsi cacciare? Mettere le dita negli occhi agli ispettori? Prenderli a ciabattate sui denti? Insultare i loro avi fino alla terza generazione? O forse neanche quello? Del resto si sa: gli insegnanti sono tutti uguali a scuola. Anche quelli che non insegnano mai. A Como c'è una classe con 9 maestre E qui arriviamo al punto chiave, sempre dibattuto, mai risolto: gli insegnanti sono troppi. Semplicemente: troppi. Lo rivelano tutti i dati, prendeteli come volete. Le cifre assolute parlano di 890.000 docenti cui si aggiungono 10.000 dirigenti e, solo nella scuola pubblica, 250.000 tra bidelli, tecnici e personale amministrativo. Quasi trenta volte più dei dipendenti del Pentagono. Ogni maestro delle elementari ha in carico 10,7 alunni contro la media Ocse che è di 16,9; ogni professore delle medie ha in carico 10,3 alunni contro la media Ocse che è di 13,7, e ogni professore delle superiori ha in carico 11,5 studenti contro la media Ocse che è di 12,7. La vogliamo dire in altro modo? Ecco qui: per ogni 100 studenti in Italia ci sono 11,48 insegnanti. Se togliamo quelli di religione e i tecnici di laboratorio si arriva a 9,1: un dato sempre di gran lunga superiore alla media Ocse che è di 7,5 insegnanti ogni 100 studenti. In Gran Bretagna si scende a 6,9, in Germania a 6,6 e negli Stati Uniti addirittura a 6,5. Solo Spagna (9,3) e Grecia (12) fanno peggio di noi. Tra il 1960 e il 1995, mentre gli scolari delle elementari scendevano da 4 a 2 milioni e mezzo, i maestri sono aumentati del 40 per cento schizzando a 255.000. Merito soprattutto del colpo di genio: la sostituzione del maestro unico con i tre maestri, «una delle scelte più balzane nell'orgia di sperimentazioni riformatrici imposte alla scuola italiana» come spiega Giorgio Israel su «Libero». E sapete perché è stata fatta? Perché ci si è dimenticati la vera finalità per cui ogni mattina suona la campanella: una volta si pensava a preparare un futuro (certo) ai ragazzi, poi ci si è accontentati di dare un presente (incerto) agli insegnanti. Dal 2009, almeno su questo ultimo punto, si cambia: il modulo a tre maestri viene abolito. Il ministro Gelmini ha reintrodotto il maestro unico (anche se lei, dopo le polemiche, preferisce chiamarlo «maestro prevalente»). Ma perché? I maestri unici non hanno forse cresciuto benissimo generazioni di studenti? E la scuola, da quando non c'è più il maestro unico è migliorata o peggiorata? «Per me» racconta Ila-ria Rabusin, maestra triestina autrice del libro Ho gettato la spugna, «il modulo che garantisce una pluralità di docenti garantisce solo una pluralità di difficoltà che aumentano in modo esponenziale: attività interrotte, assenze improvvise, uscite ostacolate, recuperi di ore
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prestate, ore che non combaciano. Tutte cose che non garantiscono la tranquillità necessaria per l'apprendimento dei bambini.» A Salerno c'è una scuola dove le riforme della Gelmi-ni (maestro unico e grembiulini) sono state introdotte con quattro anni di anticipo: «Qui tutto funziona», registra stupito il giornalista del «Messaggero» mandato in avanscoperta. E la preside spiega che il maestro unico: «È un'importante figura di riferimento. Ed evita quell'andare e venire di insegnanti che disorientano e basta». Del resto, fa notare qualcuno, non fu un maestro unico anche Aristotele? E il suo allievo Alessandro non fu forse Magno? Eppure la scelta (giusta, sacrosanta, doverosa: i bambini hanno bisogno di un punto di riferimento certo) è stata contestata. Per forza: questa non è più la scuola che fa gli interessi dei ragazzi. Non è la scuola degli studenti. E la scuola dei sindacati, del posto fisso, degli stipendi da distribuire. È la scuola trasformata in sinecura, in ammortizzatore sociale, lavoro socialmente utile, Lpu-Lsu, roba da forestali in Calabria. È la scuola che mette le cattedre davanti ai banchi, gli adulti davanti ai giovani, i garantiti contro i non garantiti, i sicuri di oggi contro gli insicuri di domani. Fino a spingersi a situazioni assurde, paradossali, come nella scuola elementare di Albate (Como) dove c'è una classe con ben 9 (dicasi nove) maestre. O come all'istituto tecnico Pacinotti di Mestre, dove è stato battuto il record dei record: 11 professori, nemmeno un alunno. E siccome degli 11 professori una era entrata in maternità, la preside ha prontamente provveduto a sostituirla con apposita supplente. Le lezioni non hanno studenti? Pazienza. L'importante è che non rimangano senza prof. Si capisce: è quello il vero (forse unico) problema. I dati fanno impressione: 10.000 scuole, un quarto del totale, hanno meno di 50 alunni. Tutte in montagna? O sulle isole? Macché: a Breme, in provincia di Pavia, a due passi dai grandi centri della pianura padana, c'è una elementare che ha 11 (dicasi undici) scolari. Hanno a disposizione 4 insegnanti e un bidello. Ciò significa che ogni scolaro di Breme costa 8000 euro l'anno alle casse pubbliche, più del doppio di una scuola standard. A Torino, racconta «La Stampa», 78 comuni su 300 hanno meno di 50 alunni. A Inverso Pinasca (Torino) la scuola elementare ha 13 iscritti e 5 insegnanti. E pensare che «nel raggio di cinque chilometri ci sarebbero ben 5 comuni che potrebbero ospitarli. Il più vicino è a 4 chilometri. Basterebbe un pulmino». Il profgourmet che si occupa del radicchio di Treviso Troppi insegnanti nelle classi, troppi insegnanti anche fuori. In base a una legge del 1998 (la 448, per la precisione) ci sono almeno 100 professori distaccati per occuparsi di Slow Food, Wwf, Italia Nostra, Pia Opera di Maria, ArciMovie, Arciragazzi, Società chimica italiana, Fondazione Donat Cat-tin, Fondazione cardinale Carlo Opizzoni, e altre lodevoli iniziative. Per carità, va bene lo Slow Food: avremo docenti specializzati nel radicchio di Treviso e nel cardo gobbo di Nizza Monferrato. Ma non sarebbe meglio preoccuparsi della qualità della scuola anziché della qualità dei cibi? Magari nell'interesse degli studenti e non dei ghiottoni? Se ai 100 aspiranti gourmet, naturalisti e altro, si aggiungono poi i 1099 distaccati per attività sindacale, i 100 che operano presso istituzioni che svolgono formazione e ricerca educativa e i 500 che studiano l'autonomia scolastica (una legge, si badi bene, approvata dieci anni fa: possibile che dopo dieci anni ci vogliano ancora 500 professori per studiarla?), si arriva alla ragguardevole cifra di 1799. Cioè quasi duemila insegnanti che ogni giorno non insegnano. E va be', direte voi, nelle aule ce ne sono fin troppi. Ecco appunto: se ce ne sono troppi, non sarebbe bene cominciare a tagliare? Non è interesse di tutti, e pure degli stessi docenti, che più risorse siano destinate all'insegnamento e un po' meno a mantenere i fannulloni, più o meno autorizzati dal distacco
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sindacale? Quando si dice che la scuola non ha più risorse forse si dimentica il particolare più interessante: il 97 per cento del bilancio dell'istruzione se ne va per mantenere il personale. Avete capito bene: 97 per cento in stipendi. Per tutto il resto, solo le briciole. Che gli insegnanti in Italia siano troppi è una verità ac-clarata, dichiarata, scritta e confermata. Il già citato «Quaderno bianco» del ministero sviscera il problema sotto tutti i punti di vista. Settimane di lezione? In Italia ogni docente ne fa 33 contro una media europea di 37. Tempi di insegnamento? In Italia sono 726 ore alle elementari e 594 alle medie e superiori contro le 804, 704 e 663 ore della media Ocse. Dimensioni delle classi? In Italia la media è di 21 alunni contro i 23 dell'Europa e i 24 della media Ocse. Carichi di lavoro? Alle medie inferiori in Italia sono 594 ore contro una media Ocse di 794 ore. «È come se i nostri prof lavorassero un giorno in meno alla settimana» spiega Maculo tti nel suo libro. In alcune province, come quella di Trapani, c'è un insegnante di sostegno ogni 42 studenti: più del triplo della media. Ci sono sindacati che arrivano ad auspicare un considerevole aumento del numero di disabili. Più disabili ci sono meglio è, sostengono in questo corto circuito della logica cui ci porta la difesa della cattedra a tutti i costi. Il «Quaderno TreeLLLe», rivista specializzata e assai documentata, sostiene che «se il nostro sistema educativo dovesse avere una media per insegnante pari a quella europea, ci si troverebbe di fronte a oltre 250.000 insegnanti in soprannumero». Eppure quando, nell'estate 2008, con il piano Gel-mini si parla di circa 100.000 insegnanti in soprannumero, scoppia la rivolta. E ancora una volta ci si oppone, si resiste, si combatte. Per avere una scuola migliore? Macché: per lasciare la scuola così com'è, gonfia di stipendi (bassi) e povera di contenuti, con un presente obeso e un futuro da collasso. E alla fine c'è il rischio che ancora una volta le tentazioni di riforma s'infrangano contro scioperi e malumori. Lo sapete perché? Per un motivo molto semplice. Lo spiega ancora Maculotti: «I ragazzi, tranne un po' di diciottenni, non votano. Gli impiegati, i bidelli e i professori sì». Chiaro, no? Dai professori si pretende il voto. Mica che sappiano pure insegnare. La selezione che premia i peggiori Che gli insegnanti sappiano insegnare, in realtà, sembra non interessare a nessuno. Fin dall'inizio della loro carriera. Cioè la selezione. Che è una «non selezione», come spiega l'economista Carlo Dell'Aringa: «Nella scuola italiana esiste una forma di selezione che si basa sulla pazienza, la costanza, lo spirito remissivo che caratterizza tutti coloro che aspettano mediamente fino a 40 anni per entrare nella scuola in modo definitivo. È un caso di selezione avversa, cioè una situazione in cui la selezione porta effetti opposti a quelli desiderati: i migliori si stancano, perché hanno trovato alternative migliori, mentre i peggiori, senza alternative, rimangono». Siamo il Paese dei 200.000 precari (in realtà sono 300.000, ma 100.000 sono precari fuori servizio). Ma vi pare? Nessun Paese d'Europa ha mai creato un mostro simile. E sapete come funziona? «Fai un concorso per mille cattedre, partecipano in diecimila, sono dichiarati idonei in tremila. I mille vincitori piano piano entrano, gli altri duemila si mettono in coda» come spiegano Stella e Rizzo. E duemila dopo duemila, mille dopo mille, la coda si allunga, sempre aspettando una ricorso al Tar, una maxisanatoria o una deroga. C'è sempre una deroga per i precari. Figuriamoci: la prima risale addirittura al 1859. C'è sempre una maxisanatoria o una sentenza o una qualche porta che si apre: non preoccupatevi, cari precari, alla fine si entra. Bisogna solo aver pazienza. Ma chi è che ha pazienza di aspettare di più? È ovvio: chi ha meno alternative. Chi ha meno possibilità. Chi ha meno capacità. Secondo il «Quaderno TreeLLLe» (elaborazione su dati ministeriali del 2003), il 57 per cento degli insegnanti attualmente in ruolo non ha mai
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superato un esame di concorso. Mai superato. Poi vi stupite che non sappiano a che cosa servono i polmoni e qual è la capitale del Canada? È un miracolo che ci sia qualcuno che lo sappia, considerato come avvengono le selezioni. «Il primo passo per una riforma della scuola» scrive giustamente Francesco Giavazzi sul «Corriere della Sera» «è l'abbandono dei concorsi pubblici e la loro sostituzione con un sistema per cui le assunzioni vengono decise da chi poi sopporta le conseguenze di una eventuale decisione sbagliata, in primo luogo i presidi.» Invece niente. Anzi, al contrario. Una professoressa mi manda il documento con i criteri per stabilire le graduatorie all'interno degli istituti scolastici. «In tutto il mondo civilizzato» scrive «ai primi posti delle graduatorie si trovano i docenti più meritevoli, quelli che possono vantare un curriculum di tutto rispetto, spesso caratterizzato da titoli accademici, certificazioni, pubblicazioni. In Italia naturalmente non è così: le due caratteristiche fondamentali del docente italiano, quelle che gli permettono di scalare la hit parade della scuola, sono l'anzianità e il tenere famiglia.» Al contrario, il dottorato di ricerca o una seconda laurea danno pochissimo punteggio, e la conoscenza di una seconda lingua straniera non vale praticamente nulla. Ma sì, avanti: premiamo solo gli anziani e chi tiene famiglia. E allora come faremo a valorizzare gli insegnanti «giovani, meritevoli e poliglotti», come dice il ministro Gelmini? Boh. Di sicuro bisognerebbe cominciare ad abolire quei criteri, sarebbe già un buon primo passo. Ma c'è poco da illudersi: in Italia, anche quando si decide di intervenire sulle selezioni, si prendono strade diverse e pericolose. E spesso si combinano disastri. Come è accaduto con l'invenzione delle Ssis, le Scuole di specializzazione all'insegnamento secondario, corsi biennali, che ben presto si sono rivelate un clamoroso fallimento. Istituite nel 1990 e attivate nel 1999, infatti, vengono chiuse nel 2008, dopo che erano diventate, per stessa ammissione del ministro, un'altra fabbrica di precari. Cioè una specie di parcheggio, un'isola incantata di promesse non mantenute. Dietro di sé, le Ssis lasciano una scia dolorosa: oltre 80.000 disoccupati, di cui 12.000 (quelli dell'ultimo corso) nemmeno inseriti nelle graduatorie. Tutta gente che ha superato un esame d'ammissione, si è sottoposta a 1200 ore di formazione, di cui 400 di tirocinio, e a 35 esami, sborsando di tasca sua 5000 euro. Cinquemila euro per rimanere disoccupati: secondo le ricerche dell'Associazione nazionale presidi, infatti, meno del 3 per cento degli insegnanti entrati in ruolo negli ultimi dieci anni proveniva dalle scuole di specializzazione. Dispiace naturalmente per quegli 80.000, che si saranno sentiti truffati. Ma davvero è stato un male? Evidentemente no. E per rendersene conto basta guardare alle materie di insegnamento delle Ssis. Sapete che c'era nei programmi? Metodologia, metodologia e ancora metodologia. Nient'altro. Tutti corsi del genere: processi cognitivi, verificare e valutare, orientare e progettare, valorizzare le diversità... Valorizzare le diversità? Ma non ce ne sono già abbastanza di «diversità» nella scuola? Non varrebbe la pena, finalmente, di valorizzare un po' di normalità? Nelle Ssis non si insegnava Dante, ma come insegnare Dante. Non si approfondiva il Leopardi: ci si dedicava a itinerari paralleli, verifica sommativa, contestualizzazione e lettura intertestuale, progetto multimediale, apparato, pianificazione dell'offerta, prove d'ingresso, prerequisiti e processi consapevoli. Non è meraviglioso? Alla fine la confusione è inevitabile: sempre caro mi fu quest'ermo testo regolativo, la donzelletta vien dalla campagna in sul calar del percorso formativo, passata è la tempesta, odo le finalità coordinate far festa... «Addio alle scuole di specializzazione» decreta perciò il ministro Gelmini nell'estate 2008. «Finalmente» commenta Giorgio Israel. «Finalmente» ribattono tutte le persone di buon senso. «Finalmente» ribattono soprattutto gli aspiranti professori. Basta con la docimologia
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e i processi cognitivi. Potremo ricominciare a selezionare insegnanti che, innanzitutto, conoscano e amino la loro materia? Sarebbe bello, certo. Ma selezionare è una parola che non si usa più nella nostra scuola. Da troppo tempo, ormai. Troppe donne in cattedra Siccome non si seleziona, il carrozzone degli insegnanti non è soltanto pletorico e sovraffollato. È anche squilibrato. È come quando sull'aereo passa la hostess a controllare la distribuzione del peso: quel signore grasso è meglio se si sposta in coda, quell'allegra famigliola di obesi dovrebbe dividersi, un po' da una parte e un po' dall'altra del corridoio. Non possono stare tutti a destra, non possono esserci troppi vuoti in coda. Ecco, la scuola avrebbe bisogno di una riaggiustata così: una sforbiciata, certo, una riduzione di numero. Ma anche una risistemazione di genere. Per esempio, ci sono troppe insegnanti donne. Alle elementari le maestre rappresentano il 95,4 per cento del totale (nel 1973 erano l'83 per cento). In nessun altro Paese la percentuale è così alta: in Spagna le maestre sono il 69 per cento, in Francia l'81, in Germania l'82,9 e in Gran Bre-tagna l'81,5. La situazione non migliora alle medie (dove le professoresse sono passate dal 63 per cento del 1973 al 75,6 di oggi contro una media Ocse del 64,8) e nemmeno alle superiori, dove sono il 59,4 per cento contro il 55,7 degli Usa, il 48,5 della Spagna, il 46,1 della Germania e il 51,9 della media Ocse. Un eccesso di femminilizzazione non va bene, perché i ragazzi hanno bisogno di entrambi i riferimenti. Il modello maschile (spesso già assente in famiglia) non può mancare totalmente a scuola. Alle medie, poi, il fenomeno diventa devastante: ragazzini in pieno sviluppo preadolescenziale si trovano in cattedra donne che sono troppo simili alle loro madri, hanno gli stessi toni, gli stessi nervosismi, e fanno le stesse raccomandazioni. Così il conflitto, già esploso fra le mura domestiche, si trasferisce in aula, creando classi che a volte sono più ingestibili di una ciurma di pirati. All'eccesso di femminilizzazione si aggiungono poi altri due problemi. Il primo è l'età: 1 insegnante su 2 ha oltre 50 anni (nove anni fa erano solo il 27 per cento), solo lo 0,8 per cento dei maestri elementari ha meno di 30 anni contro il 15,9 per cento della media Ocse. E alle scuole medie le cose vanno ancora peggio: i professori con meno di 30 anni sono praticamente inesistenti, quelli ultracinquantenni sono quasi il 70 per cento. E nelle superiori? Il 94 per cento ha più di 40 anni. Del resto non può sorprendere: secondo una ricerca su oltre 10.000 insegnanti condotta dalla Fondazione Agnelli e pubblicata nel settembre 2008, l'età media di un neoassunto nella scuola è 41 anni (negli anni Sessanta era 23). Il secondo problema è la distribuzione geografica: nel Nordovest c'è il 26 per cento degli abitanti e il 22 degli insegnanti, nel Nordest c'è il 18 per cento degli abitanti e il 14 degli insegnanti. Al Sud, invece, c'è il 24,5 per cento degli abitanti e il 30 degli insegnanti. Una sproporzione notevole. Lo fa notare la Lega nell'agosto 2008: «Vengono qui e dopo sei mesi se ne vanno» denuncia Bossi. Quattro prof su 10 cambiano classe ogni anno, 200.000 in tutto. Il record si è registrato a Paularo, un paesino vicino a Udine, dove da un anno all'altro è stato cambiato il 100 per cento del corpo docente della scuola media. C'erano 13 insegnanti, se ne sono andati tutti. Secondo la citata ricerca della Fondazione Agnelli, 1 insegnante su 5 vuol cambiare città, possibilmente per tornare al Sud. «Il problema dell'eccessiva mobilità dei prof» è reale, ammette il ministro Gelmini. E annuncia: darò incentivi a chi resta in una stessa sede per cinque anni. Basterà? A Milano si registra un dato preoccupante: su 118 nuovi presidi nominati nell'estate 2008 ben 117 arrivano dalle regioni meridionali. Per forza: il numero dei docenti al Sud resta alto mentre il numero degli
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studenti diminuisce. In dieci anni il Sud ha perso 278.000 alunni, mentre al Nord la popolazione scolastica è cresciuta di 338.000 unità. Il fenomeno è noto. E un altro dato per misurarlo sono le graduatorie dei precari della scuola: sugli oltre 200.000 presenti in lista nel 2007, poco più della metà (il 51 per cento) va a caccia di un posto al Sud. Ma se si guarda la carta d'identità si scopre che quelli nati e residenti al Sud sono molti di più: il 67 per cento. Molti di loro, è chiaro, appena ottenuta la cattedra chiederanno, legittimamente, di avvicinarsi a casa. E nelle scuole si creeranno altri buchi, altri vuoti, altri terremoti. Lo stipendio del prof Sciabolino In troppi, con troppe donne, troppi anziani, troppo depressi e mal distribuiti. Basta? No, poi c'è il problema dei problemi: lo stipendio. Lo lasciamo per ultimo, perché è l'inevitabile conseguenza di quello che abbiamo scritto in questo capitolo: se gli insegnanti sono più numerosi che nel resto del mondo, se non c'è nessuna selezione e nessuna valutazione, se non si distingue chi lavora e chi no, se per anni si è privilegiato l'appiattimento egualitaristico a ogni principio meritocratico, se si è costruita una scuola che sembra un ammortizzatore sociale, un surrogato del sussidio di disoccupazione, un'alternativa ai lavori socialmente utili, il risultato quale poteva essere? È ovvio: gli insegnanti italiani lavorano meno ma guadagnano anche meno dei loro colleghi stranieri. Secondo il rapporto Education at a Glance 2006, lo stipendio di un docente di scuola media con quindici anni di servizio supera di poco i 30.000 euro: 31.292 alle medie, 32.169 alle superiori. La media Ocse è più alta: 37.489 per le medie, 40.296 per le superiori. In Germania addirittura 48.168 alle medie e 51.884 alle superiori. Non va meglio per i maestri: da noi, dopo quindici anni guadagnano in media 28.732 euro. La media Ocse è di 35.100, ma ci sono Paesi come Germania e Scozia dove i maestri in media superano i 45.000. Ma ancor più allarmante è la scarsa progressione di questi stipendi durante la carriera: una curva di crescita che tende all'encefalogramma piatto. Dopo quindici anni di insegnamento, per esempio, la retribuzione di un maestro elementare cresce del 21 per cento, mentre quella di un professore cresce del 26 per cento. La media Ocse vede progressioni rispettivamente del 36 e del 39 per cento. Al massimo della carriera un maestro guadagna il 47 per cento in più di quello che guadagnava all'inizio, un professore guadagna dal 50 al 57 per cento in più. Poco, rispetto alla media Ocse, dove l'aumento dello stipendio durante la carriera è pari al 69 per cento per i maestri e al 70-71 per i professori. Soprattutto, per raggiungere la massima retribuzione nei Paesi Ocse ci vogliono in media ventiquattro anni, in Inghilterra addirittura solo cinque. In Italia, trentacinque anni: cioè undici in più della media, trenta più dell'Inghilterra. Da noi al massimo della retribuzione ci si arriva solo a fine carriera. Per scoprire, poi, che il massimo della retribuzione è assai più basso che altrove. Nel settembre 2008 il settimanale «Io Donna» va a intervistare un po' di insegnanti in giro per l'Europa. Saltano fuori delle informazioni interessanti. Per esempio, il prof spagnolo racconta che da loro lo stipendio non aumenta per anzianità: bisogna seguire corsi professionali di aggiornamento e superare il relativo esame. In Germania viene intervistato un docente che insegna insieme educazione fisica e matematica. Non sono due materie un po' lontane? «Da noi succede di frequente» risponde lui. E lo stipendio dipende dal numero di ore lavorate. In Francia è il preside a stabilirlo. «Quando ho cominciato prendevo 1300 euro al mese, ora sono arrivata a 2000» racconta Jennifer Deret, 29 anni. «Ho fatto carriera: sono la prof principale, cioè la referente per famiglie e studenti. È il preside a stabilire gli incarichi, e i salari cambiano di conseguenza: l'anno prossimo potrei
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guadagnare di meno, dipende dalle responsabilità che mi verranno assegnate.» Ve lo immaginate in Italia? Il preside che da gli incarichi (e relativi stipendi)? Il prof di ginnastica che insegna matematica? Qui da noi è stato scelto un modello di percorso professionale opposto: un modello piatto e collettivista, che prevede moderati aumenti di stipendio e solo per anzianità di servizio, che non ammette diversificazioni di funzioni e non sottopone a giudizio di nessuno la qualità del lavoro. Quando un insegnante entra nella scuola sa già che, qual-siasi cosa faccia, per anni la sua retribuzione crescerà al passo della lumaca, e lui non può fare nulla per accelerare, per cambiare, per avere subito in busta paga qualche soldo in più. Come dice Floris: un insegnante non fa carriera, nasce e muore insegnante. Non può nemmeno fare straordinari (la detassazione per loro non vale). Voi capite: è un disincentivo all'impegno, una mortificazione del talento, un'offesa alla buona volontà. Spendiamo il 97 per cento del bilancio dell'istruzione per pagare gli stipendi (su 41.986.147.022 euro totali al personale ne vanno 40.845.529.257): si tratta di una somma enorme, che però noi distribuiamo senza poter dare premi, senza incentivi, senza riconoscimenti a chi merita di più. Senza differenze tra chi, per esempio, ha classi di 30 ragazzi e chi ne ha meno della metà. Tra chi insegna materie che finiscono al suono della campanella (educazione fisica) e chi, invece, tornando a casa, passa la sera a correggere compiti e prove scritte. Tutti alla pari. È l'egualitarismo folle, un'isola infelice di simikomunismo, che ha inevitabilmente effetti devastanti. E infatti, non a caso, la scuola è arrivata allo sfascio. Ma se la scuola è arrivata allo sfascio, se gli insegnanti in Italia sono pagati così poco e sono così insoddisfatti, come mai migliaia di precari premono per salire in cattedra anziché essere assunti altrove? Come ha scritto Francesco Gia-vazzi sul «Corriere», la verità è che oggi la scuola offre agli insegnanti un contratto perverso, un compromesso indecente, un patto diabolico: da un salario modesto in cambio di nessun controllo. Pochi soldi, ma nessuna verifica. Neppure se l'insegnante è evidentemente incapace, neppure se è folle, neppure se non ha voglia di far nulla e passa da un'assenza per malattia all'altra. Ma da questa assurda situazione chi è che ci rimette di più? Il prof Tacchi a spillo? Il prof Sciabolino? Il prof assenteista che lascia la cattedra per andare a gestire i negozi di profumeria? O i tanti insegnanti onesti che fanno bene il loro lavoro? E perché allora anche questi ultimi si oppongono all'unica idea (stipendi più alti a chi merita di più) che può salvare loro e la scuola? INSEGNANTI OGNI 100 STUDENTI PrimariaSecondariaSecondariaTotaleinferioresuperioreItalia9,39,78,79,1Fra ncia5,27,19,78,3Germania5,36,4726,6Gran Bretagna4,75,88,16,9Stati Uniti6,76,66,36,5Media Ocse5,97,37,97,5Fonte: Ocse Educatìon at a Glance 2006. ORE NETTE DI INSEGNAMENTO Secondaria inferiore Primaria Secondaria superiore Italia726594594Francia918639614Germania793751705Scozia950893893Stati Uniti108010801080Media Ocse804704663Fonte: Ocse Educatìon at a Glance 2006. Dato Inghilterra non disponibile. RETRIBUZIONE ANNUA PRO CAPITE DOPO QUINDICI ANNI DI INSEGNAMENTO PrimariaSecondaria inferioreSecondaria superioreItalia Media Ocse28.732 35.10031.292 3748932.169 40.296Fonte: Ocse Education at a Glance 2006. IV
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La scuola della burocrazia Dove anche la vita viene seppellita da una circolare «Nota informativa circa le iniziative del 7 giugno 2008.» È l'avviso mandato alle famiglie dal preside, pardon dirigente scolastico, di una scuola media della Brianza. Il 7 giugno si dovrebbe tenere la festa di fine anno, ma il giorno prima è morta, in un incidente stradale, la figlia della segretaria dell'istituto e dunque, giustamente, il programma viene modificato per lutto. Il preside, pardon dirigente scolastico, lo comunica così: «Valutata la situazione determinatasi alla luce delle recenti informazioni pervenute dalla famiglia colpita dal lutto, consultati i soggetti di competenza, si stabilisce di apportare le seguenti modifiche al programma stabilito: ore 7.55, entrata degli alunni; ore 8.20 circa, trasferimento di tutte le classi in palestra; ore 8.25 circa, intervento del dirigente scolastico; ore 8.35, saluto alle terze, premiazioni, estrazioni della sottoscrizione a premi organizzata dai genitori; ore 10, commiato ed uscita dalla scuola. Data e firma». Nient'altro. Neanche un saluto, neanche una parola di dispiacere, un ricordo. Niente. Nemmeno il nome della giovane morta. Un sospiro di dolore, un filo di umanità, un soffio di partecipazione, un briciolo di calore: niente di niente. Solo il freddo rotolare della burocrazia. Un italiano brutto, polveroso, contorto, lontano anni luce dal mondo, dai ragazzi, dalle loro famiglie. Parole (vuote) su parole (vuote). Commiato e uscita dalla scuola. E allora viene da chiedersi se, nonostante tutti gli sforzi, può ancora salvarsi un'istituzione che ha venduto la sua anima alle circolari, che riduce la morte di una giovane a una «nota informativa circa le iniziative...» e definisce i suoi familiari «soggetti di competenza». Soggetti di competenza? Voi capite: quando coloro che dovrebbero insegnare i valori del mondo chiamano «soggetti di competenza» i genitori che hanno perso una figlia, e non sanno trovare un nome di battesimo dentro i confini infiniti della tragedia, ebbene, allora vuol dire che il vento del Sahara burocratico ha veramente desertificato tutto. Dentro quelle aule non c'è più vita: ci sono solo moduli e scartoffie, Pof, Pei, Pep, carte dei servizi, documenti più o meno meta ed extradisciplinari. È morta una ragazza? E vabbè, non conta sapere come si chiama: conta «apportare le modifiche al programma». Qualcuno soffre? E vabbè, non conta asciugargli le lacrime: conta l'estrazione della sottoscrizione e l'intervento del preside, pardon dirigente scolastico. Intervento che, peraltro, si tiene come da programma alle «8.25 circa». E in quell'«8.25 circa» c'è tutta la piccineria burocratica, la meschinità da segreteria, l'inutile pignoleria scolastica che risalta ancora di più, drammaticamente, di fronte alla tragedia di una giovane ragazza. Come se per la morte e per la vita, per tutto ciò che conta, non ci fosse posto alle 8.25 circa, nelle classi troppo zeppe di moduli metadi-sciplinari, Pei, Pof e Pep. Due circolari per ogni giorno di scuola A proposito di orari e pignoleria. A Vicenza, il preside di una delle più prestigiose scuole della città, l'istituto magistrale Fogazzaro, nell'ottobre 2008 stabilisce un orario da cronometrista: la prima ora comincia alle 7.45, la seconda alle 8.37 e 30 secondi, la quarta alle 10.37 e 30 secondi e la sesta alle 12.22 e 30 secondi. Il primo intervallo è previsto alle 10.22 e 30 secondi. «Speriamo che studenti e genitori siano dotati di orologi precisi» scherzano nella città veneta. Speriamo. Ma il preside (pardon dirigente scolastico) non sembra dotato di ironia: «Così rispettiamo la legge» spiega. E distribuisce formale e ineccepibile circolare. Eh, le circolari. Qualche tempo fa la Uil scuola si era presa la briga di contare quelle emanate dal ministero della Pubblica istruzione. Risultato: una media di 486 l'anno. Quat-trocentottantasei, cioè più di una al giorno, considerando domeniche e feste comandate. Due per ogni
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giorno di scuola. La prima domanda è: come fa un insegnante a leggere tutta questa roba? Certo, se ha un po' di buona volontà ci potrebbe anche riuscire. Ma poi non gli resta il tempo di andare in aula, però. Inoltre si tratta nella maggior parte dei casi di documenti esoterici per iniziati, incomprensibili ai più. Volete una prova? Grazie alla collaborazione di preziosi e spericolati infiltrati sono riuscito a mettere le mani su un piccolo malloppo di esplosivo burocratese: ho provato a leggerlo e ancora non mi è passato il mal di testa. Se mi avessero consegnato l'ultimo trattato di astrofisica nucleare, forse ci avrei capito di più. Ecco, comunque, il materiale (da maneggiare con cura). «A inizio anno il docente deve predisporre per ogni classe: mono e pluridisciplinari limitatamente ai seguenti punti: obiettivo formativo, Pecup, Ofg.» Oppure: «Mod Acq 03 per Vi e Vg sett. e ott. 2007». Oppure: «Si ricorda che per la pratica laboratori sono disponibili i modelli sotto elencati: Tee Au 01, Tee Au 01 ottobre e giugno, Mod Ne 02 (se necessari)». Naturalmente bisogna sempre «rilanciare la ricerca in campo educativo e la ricerca valutativa, in particolare docimologica». Mentre ai provveditori viene raccomandata «una capillare diffusione di un logotipo di coordinamento sotto la cui egida si dettano norme sul certame di lirica Haiku». Il certame di lirica Haiku è sicuramente importante, si capisce. Ma il logotipo è proprio necessario? E il Pecup e l'Ofg che cosa sono? Quali inconfessabili segreti nascondono quegli acronimi? E soprattutto: perché usare questo linguaggio? Qualche tempo fa la pubblica amministrazione si era impegnata a semplificare l'italiano, a renderlo più vicino al parlare comune, più comprensibile. Ma la ventata di rinnovamento non ha mai toccato la scuola. Possibile? Proprio la scuola? Possibile: basta leggere i testi sacri del ministero per venire travolti da Avimes, Map, progetto Vives, progetto Stresa e modello Rasch. Ci manca la supercazzola con scappellamento a destra, e anche un po' dell'umorismo di Ugo Tognazzi. Poi ci potremmo ridere su. Il compendio della legislazione sull'istruzione, il celebre Giannarelli, è andato crescendo anno dopo anno come i grattacieli a Shanghai. Ora conta 1488 pagine. Per avere un'idea: il dizionario latinoitaliano-latino della Hoepli ne ha 608, meno della metà. Solo la normativa che regola il cambiamento di sede, per esempio, è distribuita in 80 (dicasi ottanta) diverse norme. Nessuna delle quali, peraltro, brilla per chiarezza: si sprecano i «visto» e i «considerato», le subordinate, gli incisi, le scuole «verticalizzate» ed «enucleate». E alle volte ci si imbatte in persone sfortunate come «i direttori perdenti posto che non hanno prodotto domanda di trasferimento o che, pur avendola prodotta, non sono stati soddisfatti per le preferenze espresse e non hanno trovato posto nel corso delle operazioni di cui al precedente punto 7». C'è anche la traduzione? La qualità delle scartoffie L'impressione è che, nel corso degli anni, si sia tutto complicato. «C'è qualcosa di più grave, purtroppo, delle fredde e incomprensibili circolari che quotidianamente ci assillano» mi confessa una professoressa. «C'è il sistema qualità.» Il sistema qualità? «Si tratta di una costosissima certificazione che dovrebbe attestare il livello qualitativo di ogni istituto.» Non mi sembra male... «Ma lei sa su che cosa si basa questa certificazione?» Per la verità non sapevo nemmeno della sua esistenza... «Si basa su un controllo eseguito periodicamente nelle scuole che garantisce l'avvenuto rispetto, da parte di docenti e personale scolastico, di una serie di procedure burocratiche, quali la stesura di un verbale secondo un modello prestabilito, ecc.» Qualità delle scartoffie... «Sì. Magari si tratta anche di procedure importanti per mandare avanti la scuola. Ma perché certificare la nostra qualità in base a questi criteri e non in base alla qualità dell'insegnamento?»
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Bella domanda. In effetti, dopo tutto il resto, ci mancava solo il «sistema di qualità burocratica». Si ha l'impressione che la scuola, man mano che ha perso l'anima, abbia acquistato nuove parole. L'unica riforma che davvero ha funzionato è stata quella terminologica: una volta c'era il preside, adesso c'è il dirigente scolastico. (E la complicazione è evidente: si diceva ai ragazzi «alzatevi, entra il preside», come si fa a dire «alzatevi, entra il dirigente scolastico»?) I provveditori? Meglio chiamarli dirigenti regionali. Le superiori? Diventano secondarie di secondo grado. Le medie? Sono le secondarie di primo grado e con le scuole primarie formano il primo ciclo. Ci sono le unità di apprendimento, la carta dei servizi e il team teaching, l'Avimes e il Map. Come se fosse possibile coprire le brutture sostanziali con il lifting verbale. E così, nel «Quaderno bianco» del ministero (2007), in mezzo alle valutazioni più crude sul disastro della nostra istruzione, saltano fuori frasi come questa: «La definizione di standard di qualità della formazione, oggi assenti, costituisce la condizione per effettuare quel monitoraggio degli esiti della formazione che l'intesa auspica e che non viene oggi garantito dalla semplice verifica documentale del possesso dei requisiti per l'esercizio dell'attività formativa previsti dalla direttiva ministeriale 202/2000. Su tali basi diventerebbe anche possibile ridefinire le modalità di accreditamento degli enti e delle iniziative che erogano formazione e superare la frammentazione degli interventi, come ancora auspica l'intesa». Ci avete capito qualcosa? Io no. Anzi sì, in realtà una cosa l'ho capita. Per cambiare davvero, forse, bisognerebbe cominciare da qui. Da una scuola che chieda agli studenti di sapere I promessi sposi, se possibile. E non di «padroneggiare gli strumenti espressivi e argomentativi indispensabili per gestire l'interazione comunicativa verbale in vari contesti». Che chieda ai professori di spiegare Leopardi. E non di «concorrere per le preferenze espresse nel modulo domanda e senza alcun diritto di precedenza rispetto agli aspiranti soprannumerari». In fondo, basterebbe parlare italiano. Non dovrebbe essere nemmeno particolarmente difficile, dovendolo, fra l'altro, insegnare... Fatta una riforma, se ne fa un'altra Ma sì, diciamolo: se la burocrazia fosse musica, le scuole sarebbero discoteche. Con il ministero nella parte del dj. Non è solo una questione di linguaggio, però. Anzi, il linguaggio è semplicemente l'effetto più evidente, la distorsione lampante di un sistema malato nel profondo. Un sistema fatto di riforme che nascono morte, decreti che diventano legge e non vengono mai applicati, riordini senza ordini, due più tre, tre per uno, quattro più tre, quattro più quattro (no, quello era Nora Orlandi...), modulo a «scavalco». E poi Pof che fanno puff, Pep che fanno splash, autonomie che vanno e vengono, assetti congelati e subito scongelati, norme fresche da mettere nel freezer. Vi ricordate per esempio il portfolio? Fu introdotto nel 2005 e abolito nel 2006. I genitori avevano appena fatto conoscenza con il nuovo strumento, gliel'avevano presentato come fondamentale, centrale, importantissimo. E poi zac, è subito sparito. Portfolio che? Chi doveva gestirlo, peraltro, era il tutor. Ma questa figura essenziale non è mai esistita: è stata istituita, sicuro, ma solo sulla carta. Perché? Semplice: erano lì che discutevano su fondi da stanziare e corsi da organizzare per preparare e formare i tutor e nel frattempo si sono accorti che, essendo sparito il portfolio, il tutor poteva anche non essere preparato né formato. L'abolizione della riforma è stata così veloce che non si è fatto in tempo nemmeno a provare ad attuarla. E a me resta un dubbio: come avranno fatto a capire che non andava bene? Mistero. Ma per la scuola italiana è la regola: fatta una riforma, se ne fa subito un'altra. Prendiamo, per esempio, l'esame di maturità. Prima c'era un modello provvisorio, che essendo «provvisorio» è durato quasi vent'anni. Poi, hanno fatto la riforma e hanno annunciato: questo è il
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modello definitivo per la maturità. E da allora quasi ogni anno quel modello definitivo cambia: dalla commissione esterna alla commissione paritetica (Berlinguer), dalla commissione paritetica alla commissione interna (Moratti), dalla commissione interna alla commissione ridotta (Fioroni), con solo sei membri e nuove funzioni per il presidente. E ora la Gelmini che farà? Aspettiamo il prossimo intervento con la certezza che, nel nostro Paese, non c'è niente di più precario di una riforma definitiva della scuola. Scuola, cantiere infinito, sintetizza bene il «Sole-24 Ore». Solo per restare ai principali interventi degli ultimi vent'anni, si possono ricordare: l'introduzione dei moduli e dei tre maestri nel 1990; l'abolizione degli esami di riparazione nel 1994; la riforma Berlinguer, che cambia i cicli scolastici, la maturità (basta commissari esterni), introduce i debiti e i crediti formativi; la riforma dell'autonomia (nel 1999); la riforma Moratti (2004), che cambia di nuovo i cicli scolastici e introduce il tutor; il «cacciavite di Fioroni», che ritocca debiti e obbligo scolastico. E quindi gli interventi della Gelmini che riportano il maestro unico e gli esami di riparazione, il voto in condotta e l'obbligo del grembiule alle scuole elementari, in attesa di nuovi interventi già annunciati sulle medie e sulle superiori (riduzione degli indirizzi per i licei da 510 a 9 e per gli istituti tecnici da 204 a 11, ritorno dell'ora di lezione a 60 minuti, inglese obbligatorio per cinque anni dappertutto, più matematica e scienze, introduzione del liceo musicale e coreutica). Sarà la volta buona? Sperèm. Ma bisogna tenere le dita incrociate. Anche i cambiamenti migliori, infatti, quelli che sulla carta sembrano ineccepibili, a volte nella scuola portano soltanto caos. Come nella primavera 2008 per i debiti formativi, vicenda esemplare per capire come, salendo in cattedra, persino le misure positive rischiano di creare situazioni negative. La misura positiva, nella circostanza, è l'abolizione dello scandalo per cui, per anni, gli studenti con debiti (cioè con insufficienze anche gravi) venivano promossi all'anno successivo. La circolare del ministro Fioroni dell'autunno 2007 dice: basta. Perfetto. Il ministro Gelmi-ni che subentra nella primavera conferma. Ancora meglio. Ma come fare a recuperare i debiti? Ci vogliono i corsi? Li devono organizzare le scuole? E per verificare se il debito è stato davvero colmato si devono fare esami? Come? Quando? Comincia il caotico balletto fra professori che mugugnano, famiglie che protestano, presidi che fanno le barricate. Ogni scuola sceglie una strada diversa: più che autonomia, è l'anarchia. C'è chi fa i corsi, chi non li fa, chi li accorpa, chi non li accorpa, chi si attiene al decreto, chi lo interpreta liberamente. C'è persino un istituto di Mestre che dichiara di non organizzare i corsi di recupero perché «gli studenti non vogliono». Allegria. Alla fine, fra sanatorie respinte e Tar già sul piede di guerra, il risultato è quello che si poteva prevedere: i professori chiudono un occhio, gli studenti con i debiti, perlopiù, vanno avanti lo stesso. La riforma ha partorito il topolino. Per fortuna ora si fa un passo in avanti: si torna indietro all'esame di riparazione. Ma sì, dai: facciamo un passo in avanti, torniamo indietro. Nella scuola, in effetti, l'unica innovazione che funziona sembra quella che cancella la precedente. Abolire gli esami di riparazione? È stato un errore, facciamo dietrofront. Abolire il maestro unico? È stato un errore, facciamo dietrofront. Abolire il voto di condotta? È stato un errore, facciamo dietrofront. L'ora di 50 minuti? È stato un errore, facciamo dietrofront. Ma non sarebbe meglio pensarci prima? Nel giugno 2008 entra in vigore anche la nuova «prova ministeriale» all'esame di terza media. Un test aggiuntivo, uguale in tutta Italia, come da apposita circolare (n. 32 del 14 marzo 2007). I professori contestano, i computer vanno in tilt, i ragazzini annaspano. «Il rebus: tenere conto o no della prova nella valutazione finale?» si chiede il «Corriere della Sera». E in
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quella domanda c'è tutto il paradosso delle riforme all'italiana della nostra scuola, per cui si cambia un esame già sapendo che sarà un pasticcio e comunque, per ben che vada, non se ne terrà conto o, come confessa un preside, «se ne terrà conto solo se il risultato sarà positivo». Ma allora a che serve? Perché introdurlo? Perché spendere energie, risorse, ore, carta, esperti, database, se non è necessario? Anzi, se è inutile o forse, peggio, dannoso? Ci sarebbe di che rimanere basiti. Ma non se ne fa nemmeno a tempo. Infatti, nel settembre 2008 i giornali scrivono che anche la riforma dell'esame di terza media, come tutte le altre, la stanno già riformando. 574 telefonate per trovare un supplente Il caso più celebre è quello di una segretaria di Latina. L'ha raccontato «Tuttoscuola». Questa poveretta, alla fine del 2006, è stata costretta a fare 574 telefonate per trovare un supplente. Cinquecentosettantaquattro, proprio così. Significa che in 573 non si sono fatti trovare oppure hanno rifiutato: «No, grazie», «Non posso», «Ho da fare». Magari aspettavano la chiamata da un'altra scuola, magari per una supplenza più lunga. Magari erano solo colti da pigri-zia fulminante. Chi lo sa. Poi c'è un altro caso, che arriva ancora da Latina. Un'insegnante va in maternità, bisogna trovare una supplente. La segreteria della scuola, poveretta pure lei, si attiva e manda in giro 103 telegrammi. Nessuno risponde. Alla fine, al 104° tentativo, ecco che un'aspirante supplente si manifesta: «Accetto». «Benissimo, si presenti domani mattina.» «Non posso, sono incinta.» Incinta? E perché ha accettato? Semplice: secondo la legge, nel momento in cui viene chiamata l'aspirante supplente ha diritto al posto. Da quell'istante riceve stipendio e relative tutele, come se facesse scuola da anni. Solo che lei, essendo incinta, a scuola non ci mette piede nemmeno per un istante. E l'istituto deve cercarsi un terzo insegnante. Una cattedra, tre stipendi. Un dirigente di Roncadelle (Brescia) ha raccontato che, per trovare una supplente per due giorni di scuola, ha effettuato 123 telefonate: 77 persone non hanno risposto, 42 hanno risposto e rifiutato e ben 3 hanno accettato, ma, essendo in maternità, non hanno potuto prendere servizio. Tre: avete capito? Sapete che cosa significa? Che per quel posto, per quei due giorni, abbiamo pagato 5 insegnanti: quella di ruolo assente, la supplente che ha preso il suo posto e le tre supplenti partorienti. A queste ultime, fra l'altro, dal primo giorno dopo la scadenza del contratto, spetta per legge anche l'indennità maternità. Il costo complessivo di questa mala-organizzazione scolastica è enorme. Secondo un calcolo della «Repubblica», si spendono ogni anno più di 50 milioni soltanto per cercare e trovare supplenti: telegrammi, telefonate, impiegati delle segreterie mobilitati per ore, spesso senza alcun risultato concreto. Uno studio di «Tuttoscuola», però, sostiene che i costi della ricerca sono ancora maggiori, più del doppio. Circa 110 milioni l'anno. Solo a Roma, la spesa per trovare i sostituti ammonterebbe a 2 milioni di euro l'anno. E sapete come si è arrivati a questo disastro? Ma è semplice: regalando ai supplenti la possibilità di fare domanda per 30 diversi istituti, anche lontani dalla loro città di residenza, e togliendo ogni penalizzazione a chi rifiuta l'incarico. Idea fantastica, no? Una scuola di Brescia viene obbligata a offrire la nomina per la supplenza, anche di un solo giorno, pure al docente che risiede in Sicilia. E quest'ultimo può riservarsi il tempo di decidere, può accettare e rifiutare all'ultimo momento se arriva una proposta più conveniente, o può anche scegliere di rispondere «no, grazie» e rimanere a casa, a girare i pollici. Tanto non è prevista nessuna punizione: non si perdono punti, non si retrocede in graduatoria. «Perversa impunità», la definisce la preside Maria Domenica Gregorini, che scrive un'accorata lettera aperta al ministero.
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Nel 2007 il ministro Fioroni ha cercato di metterci una pezza. E così, ancora una volta parte la riforma che riforma ciò che non ha riformato nulla. Si torna indietro, ma a piccoli passi: il numero degli istituti che ogni aspirante supplente può indicare viene ridotto (ma da 30 a 20, che non cambia nulla); vengono introdotte sanzioni per chi rinuncia all'incarico, ma solo per supplenze superiori ai dieci giorni; e per quanto riguarda le telefonate e i telegrammi, si cerca di ridurne il numero, aumentando allo stesso tempo l'uso dei computer. Considerato come sono messe le scuole, quella dell'informatica più che una soluzione sembra un sogno. Ma si vedrà. L'autonomia dell'uovo Kinder Intanto un dato è certo: complessivamente in Italia per sostituire i docenti assenti si spendono ogni anno 3 miliardi e 607 milioni. Una bella cifra, no? Ma ancora una volta siamo di fronte a una spesa ingente per un servizio mediocre. E ancora una volta siamo di fronte a scelte (come quella dell'impunità o dei 20-30 istituti indicati da ogni supplente) che vengono effettuate più nell'interesse dei precari medesimi che della scuola, dell'insegnamento o dei ragazzi. La già citata preside Gregorini accusa un «contesto di garantismo esagerato, sempre e soltanto a favore dei lavoratori della scuola e mai degli utenti della stessa». Ma sarà poi vero, si chiede nel suo libro Maculotti, che i precari «sono avvantaggiati da un sistema così penoso che riduce drasticamente la qualità dell'insegnamento?». Non si direbbe dalle file che si allungano, dai tempi di attesa che si dilatano all'infinito. Dallo scoraggiamento che prende i migliori e dai metodi che inventano i peggiori: a Napoli, nell'autunno 2008, è stato scoperto un giro di tangenti pagate per scalare le graduatorie. Sessanta professori denunciati. Quanto è diffuso il metodo? Non si sa. Quello che è certo è che questo è un sistema di reclutamento assurdo, costoso e farraginoso. Fra l'altro con un paradosso aggiuntivo: per assumere prò tempore un bidello proveniente dai centri per l'impiego occorre sottoporre il candidato a «prove pratiche», mentre per assumere un docente, per brevi periodi o per l'intero anno scolastico, ci si deve fidare esclusivamente delle graduatorie costruite in base a dati, spesso autocertificati, forniti dagli interessati. I bidelli vengono esaminati, i professori invece no. Ma vi pare possibile? E poi, se un preside non può scegliersi nemmeno i suoi insegnanti, dov'è l'autonomia? Ne abbiamo parlato tanto: convegni, dibattiti, saggi, articoli. Ma, a conti fatti, bisogna ammettere che si tratta di un'altra riforma abortita, una bella idea nata morta, un principio enunciato e mai davvero realizzato. «La realtà è che dell'autonomia nella scuola italiana non c'è neanche l'ombra» scrive Maculotti. «La scuola italiana è ancora totalmente centralizzata. Non si muove foglia che ministro non voglia.» Prendiamo la gestione del personale. Il preside può forse scegliere? Ha margini di discrezionalità? Può rifiutare un professore perché lo ritiene incapace o inadatto alla sua scuola? No. E allora di che autonomia parliamo? Ci siamo riempiti la bocca per anni con il preside manager: ma quale manager accetterebbe di non scegliere nessuno dei suoi collaboratori? Quale manager accetterebbe un organico a scatola chiusa? Altro che autonomia, altro che managerialità. Qui siamo all'uovo Kinder: salta fuori la sorpresa e te la tieni. Anche se vale poche lire. E di insegnanti che valgono poche lire, purtroppo, come abbiamo visto, le scuole sono piene. Basta chiacchierare con un po' di presidi in giro per l'Italia per incrociare racconti sbigottiti e allucinanti: supplenti d'inglese che conoscono al massimo l'inglese di Trastevere, sedicenti professori di matematica in lite perenne con le tabelline, docenti di italiano convinti che l'unico romanzo che valga la pena di essere letto l'abbia scritto Lìala. E che può fare il preside di fronte a scempi di questo genere? Nulla di nulla. Allarga le braccia, scuote il capo, si rassegna. E si tiene l'uovo Kinder, con annessa sorpresa.
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Ma vi pare che questa possa essere considerata autonomia? Ma va là. E ha ragione Maculotti quando conclude: «Ciò che succede oggi però non è ammissibile. Il preside parafulmine dovrebbe assumersi tutte le responsabilità. Allora decidiamo che l'autonomia esiste davvero. Che il preside si sceglie i suoi insegnanti, che imposta (entro i limiti imposti dall'alto) il bilancio del suo istituto, che fissa gli obiettivi, pochi e non generici, che la sua scuola deve raggiungere entro un anno, due, tre e poi massacriamolo se non è capace di mantenere gli impegni. Licenziamolo, mandiamolo a zappare, condanniamolo all'ergastolo». Ma sì, siamo d'accordo: diamo vere responsabilità ai presidi, e se sbagliano, che paghino. Pure con l'ergastolo, perché no? In fondo non sarebbe poi molto peggio della prigione in cui si trovano ora... Ma perché i presidi non si ribellano? Perché non protestano? Perché non scendono in piazza? Semplice: a molti di loro, in fondo, va bene così. Il ruolo, lo stipendio, il paravento del ministero: tranquillità in cambio di sgravio dalle responsabilità. Altro che manager: perlopiù sono burocrati. E infatti quasi sempre vengono scelti per via di militanza sindacale. È il modo in cui Cgil, Cisl, Uil e affini controllano l'istruzione. «A un mio carissimo amico che aveva deciso di iscriversi al concorso per dirigenti scolastici» mi racconta un'insegnante «è stato caldamente consigliato di prendere prima una tessera di un sindacato. E poi di mettersi in coda...» Ecco, mettiamoci in coda. Purché poi nessuno parli seriamente di autonomia della scuola. Qui non si riesce nemmeno ad avere l'autonomia da Epifani... Precario entra in ruolo. Va subito in pensione «Com'è umano lei... » A questo punto ci vorrebbe proprio l'urlo strozzato di Fantozzi, simbolo dell'umanità schiacciata dall'ordinaria burocrazia lavorativa. Com'è umano lei, com'è disumana la scuola. Ci avete fatto caso? La montagna di scartoffie che schiaccia le nostre classi non fa perdere soltanto tempo, soldi e risorse. C'è qualcosa di peggio: fa perdere la dimensione umana. Ci si dimentica che là sotto, oltre l'ultima circolare, dietro l'ennesima riforma riformata, si nascondono persone. Ed è grave che ciò accada nella scuola, perché nessuna formazione è possibile se non si parte dalle persone. O pensate che i nostri ragazzi possano essere educati davvero a suon di «visto», «considerato», mod ne 02, Pecup e Ofg? Da Genova arriva la notizia di un'insegnante precaria, abilitata per la prima volta nel 1974: ha passato una vita ad aspettare di entrare in ruolo e quando finalmente ce l'ha fatta, nel giugno 2008, cioè dopo trentaquattro anni, sapete che le è successo? È andata subito in pensione. Proprio così: dal precariato al pensionato senza passare dal via. Vi sembra assurdo? Macché: è normale. «Presidente Napolitano, andrò in pensione da precario...» scrive in una lettera al Capo dello Stato Antonio Bucciarelli, insegnante di educazione fisica con alle spalle un discreto curriculum: venticinque anni di supplenze e 80 città diverse, da Roma a Bergamo, come sede di lavoro. E Maria Teresa Cossolini, 54 anni, dopo diciotto anni di cattedra a stipendio saltellante («Mia figlia guadagna più di me») è rassegnata: «Andrò in pensione senza entrare mai in ruolo». È andata meglio a Maria Pia Lavezzar, docente di storia e italiano: dopo vent'anni a peregrinare fra le scuole di Milano e provincia, il 24 luglio 2007 ha avuto la sua prima cattedra fissa. A 54 anni. Pochi mesi dopo è diventata nonna. Il professor Giancarlo Montemarani, invece, ha addirittura festeggiato il 67° compleanno da precario. Ha scovato una norma che consente al personale non di ruolo di restare in carica oltre i 65 anni, fino al compimento dei 70. Vorrà battere il record? Evviva. Di sicuro non riuscirà a batterlo Matteo Mitton, 58 anni, una vita divisa fra i campi da ba-sket e l'insegnamento dell'educazione fisica. Mitton fece la sua prima supplenza nel 1970, l'anno in cui i Beatles incidevano Let it Be e in Italia esordiva un nuovo programma Tv chiamato «Rischiatutto». Per
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trentotto anni ha aspettato di avere una cattedra fissa, finalmente la chiamata è arrivata nel settembre 2008. Ma lui era già andato in pensione. Da precario, naturalmente. Il vero simbolo, però, della categoria «com'è umano lei» si chiama Lia Pacchioni e risiede a Modena. Ha avuto il primo contratto da professoressa precaria nel 1973, l'anno in cui finiva la guerra in Vietnam e Maria Callas andava in tournée con Di Stefano. E ancora precaria oggi, come hanno raccontato nel loro libro Stella e Rizzo. È stata licenziata 115 volte, assunta 116, ha insegnato in 33 diversi istituti e qualsiasi materia, dalla chimica alla geografia, dalla matematica all'igiene, dalla tecnologia alla dietetica, passando senza problemi dal teorema di Pitagora al deserto dei Gobi, dai logaritmi teoricamente complessi all'importanza pratica del bidet. La goccia che ha fatto traboccare il vaso e ha scatenato la sua protesta? Un assegno non trasferibile da 0,43 euro come pagamento di arretrati. «Lo tengo come ricordo» dice. Ma lo vedete? La scuola malata finisce per dimenticare le persone. Per calpestarle. Per ridurle a 0,43, un numeretto da estrarre a sorte sulla roulette della cattedra. C'è l'insegnante torinese che cambia venticinque scuole in ventiquattro anni, arrivando ad avere un posto contemporaneamente in quattro istituti di quattro città diverse. C'è l'aspirante prof milanese che calcola che per entrare in ruolo deve aspettare il 2204, duecento anni appena. E poi c'è la storia di chi, invece, un posto lo trova. E insegna con passione, conquista i suoi ragazzini, li prepara bene, come la maestra Gisella Donati dell'istituto Piaget di Roma. La sua classe è una quarta elementare, lei vorrebbe portare i suoi scolari fino in quinta. Ma la burocrazia si oppone: la docente ha 70 anni, deve andare in pensione, ordina. Eccolo qui, ancora una volta, lo scontro fra la norma arida e l'umanità della cattedra, fra la freddezza del cavillo e il calore dell'insegnamento. Con uno spiraglio di speranza, però: anche questa volta, infatti, come sempre, stava vincendo la norma fredda e arida. Stava vincendo la burocrazia. Poi gli alunni hanno scritto al ministro: «Vogliamo che la maestra Gisella resti con noi anche il prossimo anno». Hanno vinto loro. Per una volta. È già qualcosa. Ci sono 2,2 bidelli per ogni classe Una volta si chiamavano bidelli (nome nobile: deriva da bidal, che in tedesco antico significa sacrestano, e fu ufficializzato nel 1599 dai gesuiti nella Ratio studiorum). Ma nonostante tale austera discendenza, il termine a un certo punto è apparso politicamente scorretto. Così si sono fatti chiamare «assistenti tecnici». Poi «collaboratori scolastici». Per un certo periodo, nelle circolari venivano anche indicati come «operatori orizzontali». Un invito alla pennica? Un riconoscimento del diritto alla siesta? Macché: erano «operatori orizzontali» per specificare che il loro servizio doveva svolgersi tutto sullo stesso piano. Guai a fare le scale. Dal primo al secondo? Vietato salire. Può essere pericoloso. E, soprattutto, non previsto dal contratto. Quando si dice: al servizio della burocrazia. In Italia ci sono più bidelli che carabinieri: 167.000 contro 118.000. Sono 2,2 ogni classe e ogni anno costano alla pubblica istruzione 4 miliardi di euro. Cioè, in media, 367.000 euro all'anno per ogni istituto. Ma siccome i bidelli che non sono più bidelli non hanno più fra le loro incombenze principali gli strofinacci, tocca pagare appalti esterni a cooperative di servizio: altre 12.000 persone. Ma non sarebbe meglio riconvertire i bidelli alla ramazza? Chissà, magari si riuscirebbero a ottenere risparmi. E magari pure una pulizia migliore... Ce ne sarebbe bisogno, no? Le scuole italiane, si sa, spesso sono luride, qualche volta impresentabili, quasi sempre piuttosto sporche. Danno l'idea di abbandono e di trascuratezza. Con 2,2 bidelli per ogni classe, 12.000 dipendenti delle cooperative e 367.000 euro l'anno di
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spesa per ogni istituto? Com'è possibile? Come può accadere? All'estero, tale follia non esiste. In Germania al massimo c'è un custode per ogni scuola, con alloggio nel complesso scolastico. In Inghilterra i bidelli rappresentano meno del 5 per cento del totale del personale scolastico. In molti Paesi, dal Giappone alla Finlandia (ma anche in Spagna), l'obbligo di pulire l'aula, i corridoi e i banchi viene affidato ai medesimi ragazzi, che così imparano il rispetto del bene collettivo. Da noi no. Da noi, come se i 167.000 bidelli non bastassero, s'arriva a introdurre al loro fianco figure nuove. E innovative. Come la scodellatrice scolastica. Di che si tratta? Lo raccontano Stella e Rizzo: che cosa fanno le scodellatoci? Scodellano. E basta? E basta. «Il moderno mestiere, perlopiù ancora precario, è nato per riempire un vuoto. Quello lasciato dalle bidelle che, ai sensi del comma 4 dell'art. 8 della legge 3 maggio 1999 n. 124, assolutamente non possono dare da mangiare ai bambini. Detto alla romana: nun je spetta» scrivono. E in effetti il protocollo sindacale è chiaro. I bidelli possono riordinare, controllare, custodire, osservare, accudire. Ma scodellare no. Proprio no. Per quello ci vuole la scodellatrice. La nuova figura professionale, spesso fornita in appalto da una ditta esterna, ha il compito di alzare il coperchio della pentola, mescolare la pasta col ragù e metterla nel piatto del bambino, magari sotto gli occhi della bidella che osserva e non muove un dito. Non è meraviglioso? Ma sì: una meraviglia che costa un euro e mezzo a ogni spaghetto scodellato. «Mille bambini 1500 euro» concludono Stella e Rizzo. «Costo annuale del servizio in un Comune di media grandezza: 300.000 euro. Una botta micidiale ai bilanci per i Municipi: ci compreresti, per fare un esempio, 300 computer.» Tale sfoggio di scodellatori non pare, peraltro, dare risultati confortanti: una ricerca di Altroconsumo condotta nel settembre 2008 nelle mense di cinque città italiane (Genova, Verona, Roma, Bari e Palermo) ha rivelato che in quattro settimane sono stati buttati 95 chili di carote (su 185 serviti) e 98 di fagiolini (su 209 serviti). A Milano il Comune denuncia: ogni giorno nelle mense si sprecano 7 tonnellate di cibo, è immorale. In un solo giorno finiscono in pattumiera 18.000 euro di mele cotte a Roma, 2600 euro di uova a Verona, 2500 euro di merluzzo a Bari. Ma sì: continuiamo a buttare via il merluzzo. E noi facciamo la figura dei tonni. Fateci caso: l'esercito della bidel-leria è immenso, continua a crescere, eppure a volte vogliono farci credere non sia sufficiente. A Napoli, per esempio, una scuola materna è rimasta chiusa sei mesi, da settembre 2007 a febbraio 2008, per la mancanza di bidelli. Ne servivano sei. Non si trovavano. Possibile? Con 167.000 bidelli in Italia? Con 13.000 dipendenti pubblici sotto il Vesuvio? Nessuno disposto a occupare quei posti? Possibile. «Non riesco a impastarli e a soffiarci sopra» ha commentato un po' biblico e molto sconsolato l'assessore. E dopo sei mesi ha ceduto, dando via libera al concorso. Servono sei bidelli? Bando urgente, bisogna assumerli. Costo: 62.000 euro. Nel maggio 2008 un giornalista della «Stampa» scopre che il piccolo paese di Dasà, 1269 abitanti, vicino a Vibo Valentia, in Calabria, fornisce centinaia di bidelli alle scuole del Nord. Fra l'altro, tutti senza i titoli richiesti. «La cittadina è spopolata: negozi chiusi, niente cinema» racconta. Per forza: sono tutti a custodire le scuole di Torino. Ma che cos'è successo? La Procura indaga per violazione del sistema informatico del ministero. In pratica, qualcuno avrebbe rubato una password e ne avrebbe approfittato per inserire nomi in lista. Nomi di parenti, perlopiù. Scoppia «Bidellopoli». E si scopre che lo stesso sistema era usato anche in altre parti d'Italia: in provincia di Napoli, denuncia sempre «La Stampa», ci sono 400 abusivi in lista, a Marcianise (Caserta) la Procura indaga 32 persone, a Roma viene chiesto il processo per altre
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111. Pare che ogni falso bidello, per ottenere il posto, pagasse fra i 5000 e i 10.000 euro. Ma molti degli intervistati si dicono disposti a spenderne anche 20.000. «Per me 900 euro al mese sono il paradiso» dicono. I falsi bidelli vengono espulsi dalle graduatorie. Almeno con loro si può. I veri bidelli, invece, peggio che gli insegnanti, non si cacciano mai. A Lecce, nel 2007, ne hanno beccato uno pedofilo: l'hanno accusato di violenza sessuale su minorenne, detersione e divulgazione di materiale pornografico, e hanno scoperto che aveva già condanne precedenti per atti osceni e atti di libidine nei confronti di minori. Risultato? Due mesi di interdizione. Due mesi. Un po' debole come punizione, no? Sempre più severa, comunque, di quella comminata al bidello assenteista del liceo di Milano: l'avevano assunto in prova, dopo tre anni aveva lavorato 60 giorni in tutto, ma non l'hanno potuto licenziare. E sapete perché? Perché, a causa delle assenze, non aveva finito il periodo di prova. Non spendiamo meno, spendiamo peggio Bidellopoli, caos delle riforme, caos dei supplenti, circolari che si affastellano una sull'altra fino a raggiungere l'Eve-rest dell'inefficienza. La burocrazia non produce solo pessimi risultati, asini al cubo e professori scontenti: produce anche costi elevati. Tanto per dire: nel 1999 il bilancio della Pubblica istruzione era di 32 miliardi di euro, oggi è di 42 miliardi. In dieci anni sono stati realizzati investimenti significativi? Migliorie? Interventi decisivi? No? E allora perché oggi spendiamo 10 miliardi in più rispetto a dieci anni fa? Non è vero, come si usa dire, che l'Italia spende meno degli altri Paesi del mondo. Semplicemente, spende peggio. E vero, infatti, che in termini assoluti destiniamo all'istruzione una percentuale inferiore del Pil: il 4,7 per cento contro una media Ocse del 5,8. In Francia sono al 6 per cento, in Germania al 5,1, in Inghilterra al 6,2 e negli Stati Uniti addirittura al 7,1 per cento. È vero che negli ultimi anni la spesa, pur aumentando in termini assoluti, è diminuita in percentuale (nel 2000 era il 4,8 per cento del Pil, 0,1 in più di oggi). Così come è vero che, avendo noi una spesa pubblica più elevata, la componente di spesa pubblica dedicata alla scuola è decisamente inferiore rispetto a quella della media Ocse (9,3 contro 11,9) ed è in discesa (dal 10,3 per cento del 1990 al 9,3 di oggi). Ma, come spiega il «Quaderno bianco» del ministero (2007), «queste misure sono ingannevoli». L'Italia, infatti, ha una popolazione più anziana, il numero di ragazzi in età scolare è percentualmente inferiore rispetto agli altri Paesi. Se si guarda un dato che per gli economisti è assai più attendibile, cioè la spesa per ogni studente, si scopre che in Italia è sopra la media Ocse, 5710 euro contro 4623, e comunque sopra Francia (5288), Germania (4856), Inghilterra (4964). Solo gli Stati Uniti ci superano (6580). «La lezione di questi dati è semplice» conclude il «Quaderno bianco». «I peggiori risultati italiani in termini di competenze non si associano a una minore spesa, anzi questa è maggiore che altrove, sia per studenti sia per ora di lezione. Esiste dunque un evidente problema di allocazione delle risorse finanziarie.» Allocazione delle risorse finanziarie? Vogliamo dirlo in un altro modo? Benissimo. Allora facciamo due esempi. Il primo lo prendiamo da «Tuttoscuola». Il periodico specializzato ha messo a confronto gli esami di maturità in Francia e in Italia. In Francia ogni maturando costa 62,6-euro, in Italia 368 euro. Sei volte di più. Con altre parole, anzi con altri numeri: noi per 497.000 candidati spendiamo 183 milioni di euro, loro per 615.000 candidati (100.000 in più) spendono 38 milioni di euro (150 milioni in meno). Come mai? Una spiegazione può essere l'esagerazione degli indirizzi scolastici. Noi ne abbiamo molti di più rispetto ai francesi e così, pur avendo meno candidati, siamo costretti a mobilitare per l'esame più professori. «A
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forza di aggiungere sperimentazioni su sperimentazioni» commenta Gian Antonio Stella «talvolta del tutto eccentriche e magari limitate a un solo istituto in tutta la Penisola, siamo arrivati ad avere la bellezza di 912 indirizzi. Che, sulla carta, richiederebbero 912 diverse prove d'esame. Onestamente: che senso ha una sproporzione del genere?» In effetti: che senso ha? Secondo esempio: i corsi per migliorare la qualità della scuola. Solo al Sud ne sono stati finanziati 32.000, coinvolgendo oltre 668.000 studenti. Esperimento non gratificante, come dimostrano i risultati ottenuti. E come sottolinea il «Quaderno bianco» del ministro, che li definisce «non sempre mirati», «frammentari» e «senza seguito a medio e lungo termine». Ma anche nel resto d'Italia gli esiti non sono stati migliori: a Torino, nel maggio 2008, viene scoperto un corso di formazione per insegnanti che costa 30.000 euro ed è frequentato appena da 4 docenti. Il seminario dei quattro gatti, lo ribattezzano i giornali. Non si potevano utilizzare meglio quei soldi? Ci sarebbe poi un terzo esempio. Ma per affrontarlo come si deve bisogna prendere un attimo di fiato. Punto e a capo: le scuole italiane all'estero. SPESA PUBBLICA PER STUDENTE (EURO) Italia 5710 Francia 5288 Germania 4856 Inghilterra 4964 Stati Uniti 6580 Media Ocse 4623 Fonte: «Quaderno bianco sulla scuola», ministero della Pubblica istruzione, settembre 2007. Lo scandalo delle scuole italiane all'estero Pochi sanno della loro esistenza. «Meno male, altrimenti inorridirebbero» racconta Giancarlo Maculotti, che è stato direttore didattico in Belgio per tre anni. «Quando arrivai» ricorda «capii subito che qualcosa non funzionava. Due direzioni piene di computer inscatolati che nessuno si era mai preso la briga di sistemare in un'aula di informatica. Corsi fasulli, corsi svuotati, corsi che perdevano più di metà degli iscritti dopo il primo mese di attività. Presi carta e penna e scrissi a Fassino, allora sottosegretario agli Esteri con delega per le scuole. Nessuna risposta.» La situazione non è diversa negli altri Paesi. Anche in quelli dove questi istituti funzionano meglio. Le scuole italiane all'estero sono 294:183 sono vere e proprie scuole, 111 sono sezioni presso istituti stranieri. Fra le altre c'è la scuola italiana di Gedda, in Arabia Saudita, la Enrico Damiani di Sofia, in Bulgaria, il Vittorio Montiglio di Santiago del Cile, l'Alessandro Volta e il Leonardo da Vinci di Bogotà, in Colombia, il Galileo Galilei di Barranquilla e un altro Leonardo da Vinci a Medellin (quattro scuole italiane in Colombia! E che ce ne faremo mai?), c'è il collegio Michelangelo di Quito, in Ecuador, il Pietro della Valle di Teheran, in Iran, la scuola di Kàrahnjùkar in Islanda, l'Enrico Mattei di Pointe-Noire, in Congo, e il Giovanni Falcone di Ma-puto, in Mozambico. Alcune, a volte, sono sommerse dalle polemiche, come quella di Asmara: un'interrogazione parlamentare del 2000 rivelò che costava 6 miliardi di lire, con 60 insegnanti di ruolo provenienti dall'Italia, ognuno dei quali retribuito con uno stipendio d'oro (7000 dollari al mese più maggiorazione in presenza di coniuge). È cambiato qualcosa da allora? Mah. Nel 2008 per le scuole italiane all'estero abbiamo speso 170 milioni di euro. Trenta milioni se ne sono andati per pagare 500 insegnanti in missione. Ognuno di loro, infatti, percepisce uno stipendio di circa 6000 euro, cui vanno aggiunti alcuni benefit (maggiorazione per moglie e
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figli, ferie più lunghe, viaggi pagati, agevolazioni per il trasloco e «indennità destinazione»). Per una leggina voluta da An-dreotti, anche le mogli dei dirigenti d'azienda che vanno all'estero per seguire la famiglia e poi cercano là un impiego come insegnanti, vengono pagate come se fossero partite apposta dall'Italia. Maxi gettone per compensare un disagio inesistente. «Così» mi confida un amico «molte di loro finiscono per guadagnare più del marito...» Gli stipendi sono alti, ma sono meno di un quarto della spesa complessiva. E il resto? Sprechi, sperperi, regalie. Agli studenti all'estero, per esempio, a differenza di quel che accade in Italia, vengono regalati i libri di testo. E poi ci sono gli affitti: solo per un edificio di Barcellona si spendono 126.000 euro, per quello di Atene 194.000. A La Louvière, in Belgio, lo Stato italiano è arrivato al punto di donare una casupola a un istituto privato, per poi riaffittarla: paghiamo il canone di ciò che era nostro e poi offriamo lezioni gratis. Ma vi pare? È un'assurdità. E un'assurdità dopo l'altra, il conto finale è salato: nel 1999, quando per la prima volta si parlò della loro chiusura, le scuole italiane all'estero costavano 170 miliardi di lire. Dieci anni dopo non solo le scuole sono rimaste aperte, ma costano il doppio. In realtà l'origine della scuola all'estero è nobile, la motivazione è sacrosanta: dare un punto di riferimento e magari anche di aggregazione agli immigrati sparsi per il mondo e bisognosi di ritrovare le loro radici culturali. Ma la realtà è diversa: oggi gli italiani all'estero snobbano le scuole made in Rome. Preferiscono i corsi locali. E così, nelle scuole italiane all'estero, otto studenti su dieci sono stranieri. Con alcuni casi limite, come a Zurigo, dove la scuola italiana, per sopravvivere, è ormai costretta a insegnare il tedesco... Anche in Belgio, racconta ancora Maculotti, 1'«insegnante pagato dall'imbecille popolo italiano spesso insegnava in francese una specie di materia interculturale». Oppure, ancora peggio, veniva utilizzato per supplire i colleghi belgi assenti o per progetti previsti dalle leggi locali. «Un indice di sudditanza, di schiavitù, di mancanza di dignità difficilmente eguagliabile.» E allora resta il dubbio: perché non tirare giù la serranda? Perché non chiudere tutto, seppur con dieci anni di ritardo? Perché le scuole italiane all'estero continuano a esistere? Perché il contribuente italiano deve spendere i suoi soldi per consentire ai ragazzi francesi o svizzeri o belgi di frequentare corsi gratis? A chi giova? A chi, dico, a parte quei 500 professori da 6000 euro al mese? Ifurbetti del manualino La scuola della burocrazia, la scuola degli sprechi, la scuola delle carte bollate e delle circolari, degli acronimi incomprensibili e del retrobottega zeppo di interessi inconfessabili e scartoffie ammuffite, dunque, costa. Costa cara. E non solo perché le spese aumentano alle spalle del contribuente, ma anche perché le spese aumentano, direttamente, sulle spalle delle famiglie. Uno degli esempi più clamorosi, in questo senso, sono i libri di testo: il sistema asfittico e malato fa sì che da anni le famiglie siano costrette a subire un salasso assolutamente evitabile. I manuali per una prima in un istituto magistrale costano in media 310 euro, in un istituto tecnico industriale 305, in un liceo scientifico 305, in un liceo classico 320. Se però ci si aggiungono i dizionari di latino e greco, al classico si arriva in media a 600 euro con punte di 750 euro. Settecentocinquanta euro per comprare i libri di scuola? Non è troppo? Il ministero ha provato a mettere dei tetti (dai 370 euro per gli studenti della terza liceo classico ai 120 per la quinta degli istituti professionali): i tetti, però, vengono regolarmente sfondati. Secondo le associazioni dei consumatori, il 47 per cento delle scuole non li rispetta; secondo «Il Messaggero», a Roma sarebbero addirittura 7 classi su 10 a non rispettarli. Nel settembre 2008 l'associazione Chiamamila-no
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prova a fare una verifica su 54 superiori del capoluogo lombardo: 24, cioè la metà, sono fuori norma. Spesso le liste dei libri di testo sono interminabili. «A Palermo» scrive Salvo Intravaia su Repubblica.it, «per entrare in possesso dei 23 volumi (23!) inseriti nella lista della prima C del liceo classico Vittorio Emanuele II occorre spendere 497 euro» (dizionari esclusi). Solo per il latino i ragazzi devono acquistare 5 libri. Alla prima M del liceo classico Umberto I di Napoli fanno ancora meglio: si arriva a 25 libri, dizionari esclusi. In totale vengono richiesti 4 testi di latino, 4 di greco e 6 di inglese. Al liceo classico Tasso di Roma gli studenti della prima E devono adottare ben due libri di religione, mentre quelli della prima G hanno l'onore di studiare sulla grammatica greca più cara d'Italia: 57,80 euro. Gli editori dicono che gli aumenti dei libri negli ultimi anni sono stati inferiori all'1 per cento, molto meno dell'inflazione che è al 4 per cento. Sarà. Ma intanto si muovono l'Antitrust e la guardia di finanza. Qualcuno propone di introdurre l'e-book, ma l'innovazione si scontra con problemi tecnici e culturali. E poi è davvero giusto che i ragazzi rinuncino alla carta? Al piacere di sfogliare un libro? Al gusto di sottolinearlo, scrivendoci accanto appunti seri e svolazzi di pensiero? Michele D'Elia, preside al Vittorio Veneto di Milano, accusa i ragazzi: «Vogliono risparmiare sulla cultura? Imparino a rinunciare alle scarpe griffate». D'accordo: rinunciare alle scarpe griffate va sempre bene. Ma siamo sicuri che comprare i testi scolastici sia investire sulla cultura e non un modo per arricchire i furbetti del manualino? Uno dei primi a scuotere l'allegro mondo dei compendi e delle antologie è stato il ministro Tremonti. «Nella scuola italiana» accusa «da troppo tempo i manuali cambiano con una frequenza forsennata e parossistica. Su questa pratica si possono dire due cose essenziali: primo, è ingiustificata. Secondo, è contraria agli interessi della famiglia.» Ma come si è arrivati a questo punto? Colpa, dice, di «quel kombinat ministerial editorial culturale che basa il suo potere su una rete di scambi, un sistema permanente che fa il potere e la fortuna di chi c'è dentro ma nuoce gravemente alla salute del bilancio delle famiglie». Basta andare a prendere qualche esempio, come ha fatto «il Giornale» nell'agosto 2008, per accorgersene. Le nuove edizioni dei libri di testo sono una vera e propria presa in giro. C'è la grammatica latina (Nuovo comprendere e tradurre della Bompiani) che da un anno all'altro, senza cambiare i contenuti, muta la grafica e cresce di cinquanta pagine; c'è il libro degli esercizi (Lineamenti di matematica) che modifica alcune parole («rappresentare» diventa «determinare») e inverte gli esercizi di pagina 24 con quelli di pagina 46; c'è la versione di greco sul buongoverno di Atene che era la numero 2 e diventa la numero 1; c'è L'ora della storia che s'inventa l'edizione gialla (per studiare «fino ai nostri giorni») e l'edizione rossa (per studiare «fino al mondo attuale»). Che differenza ci sarà tra i «nostri giorni» e il «mondo attuale»? Mistero dell'editoria. Ma che ci volete fare? Tutto vale per ingannare lo studente, truffare la famiglia, rendere inservibile il vecchio testo del fratello, del cugino o dell'amico. Tutto fa brodo pur di bloccare il mercato dell'usato. «I libri devono aggiornarsi» dicono gli editori e gli autori. Si capisce. Ma che aggiornamento è scambiare due esercizi nel libro di matematica? Che contributo pedagogico da? E che bisogno c'è di aggiornare tutti gli anni i libri di letteratura greca e latina? Forse che Sofocle ha chiesto una rettifica? Cicerone ha modificato le sue orazioni? Giulio Cesare, in realtà, ci voleva confessare che la guerra in Gallia fu una catastrofe? Suvvia, siamo seri. Il vero problema è che a scuola si fanno gli interessi di tutti, meno che delle famiglie. Persino gli editori sono tutelati più degli studenti. «È un fenomeno di banditismo» denuncia Mario Rusconi, dirigente scolastico del liceo scientifico Newton di Roma e
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vicepresidente dell'Associazione dirigenti scolastici italiani. E il ministro Gelmini introduce per decreto uno stop alle nuove edizioni: i manuali devono durare almeno cinque anni. Chissà se si riusciranno a evitare fenomeni paranormali come quelli dell'Argan: il mitico libro di storia dell'arte, che generazioni di studenti hanno conosciuto (e odiato), continua a cambiare, a crescere e a trasformarsi, settembre dopo settembre, anche se il suo autore è morto ormai da diciassette anni. Che mandi gli aggiornamenti via medium? In seduta spiritica? «Scusatemi, modificate pagina 44: ho visto Raffaello e Leonardo in paradiso: ora so davvero che cosa volevano rappresentare»? È il primo caso di manuale ispirato dall'Aldilà? La prima esperienza di spiegazione trascendentale? O sono solo le solite e un po' banali cose dell'altro mondo? V La scuola dei bulli Dove le cartine geografiche sono state sostituite dalle cartine per l'hashish Lui è un professore democratico. Anzi, si definisce «il più fedele seguace della nuova pedagogia, l'umile servitore della docimologia del futuro». Con gli studenti cerca il dialogo, il rapporto amichevole, lo spirito fraterno. Non perde mai la pazienza. O meglio, cerca di non perdere mai la pazienza. Una volta, però, è capitato pure a lui. Ha fatto una sfuriata. Anzi: «la più classica, ruggente e aggressiva sfuriata», come la definisce. Risultato? Dall'ultimo banco si è alzato uno studente, occhiali scuri e bandana in testa, ai piedi stivali da cow boy. Si è avvicinato alla cattedra con fare tranquillo, lo ha guardato dall'alto in basso e lo ha liquidato così: «Prof, lei deve scopare di più». Attimo di silenzio. Commento del professore democratico: «Nessuno rise per quel consiglio a dimostrazione che era una convinzione abbastanza diffusa. E che, in fondo, mi volevano bene». Contento lui. Non ho idea di quale sia stata l'attività erotica del professore democratico prima e dopo la gag, non so se abbia tenuto in considerazione i suggerimenti sessuali del ragazzo con gli stivali da cow boy, ma quello che so per certo è che oggi la scuola assomiglia sempre più, per restare in tema, a un casino. O meglio: a un'arena, una sfida, una corrida, con gli insegnanti spesso ridotti a recitare la parte della bestia da matar. Colpa loro? Colpa delle famiglie? Colpa della congiuntura astrale o dei marziani del pianeta Bullismo che si sono impossessati della Terra? Il dibattito è aperto. Ma nel frattempo, mentre si dibatte, provate a gettare uno sguardo dentro le aule. C'è da rimanere di stucco. Potete incontrare uno studente che si mette in mutande davanti alla lavagna, o un altro che punta la pistola al prof, o un altro ancora che lo fa piangere e poi lo filma in lacrime, vantandosene. O quelli che gli rovesciano la cattedra addosso, quelli che lo fanno cascare da una sedia rotta, manco fosse «oggi le comiche», e quelli che infilano nel registro un tanga rosso. Un altro suggerimento a sfondo erotico? Ci mancano solo il vibratore al posto dei gessetti (sai che ridere, quando la prof scriverà la formula di chimica...), una guèpière sulla lavagna e il kamasutra al posto del libro di religione e poi le avremmo viste davvero tutte. Peraltro, non è escluso che da qualche parte sia già successo. Su Internet, del resto, si vedono scene inimmaginabili fino a qualche tempo fa. Anche perché appena un insegnante si mostra un po' debole i ragazzi sono impietosi. Uno dei video più impressionanti della rete mostra un prof che esce di scuola tra i cori da stadio («Sei un buffone», «Sei un coniglio», «Dove scappi?») mentre lui, un uomo di 50 anni, abbassa lo sguardo e affretta il passo. Nemmeno la forza di reagire. A un professore di ginnastica tirano giù i pantaloni della tuta. Ma c'è anche la prof di fisica che piange davanti alla classe che la spernacchia, quella che rimane immobile sulla sedia, durante la lezione, mentre un
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ragazzo balla sulla cattedra, quella che viene palpeggiata, quella che viene strattonata, quella che viene circondata da ragazzi mascherati come in un eterno Carnevale fuori stagione. E quella che spiega timidamente la Shoah fino a quando uno studente, con l'accendino in mano, non la interrompe: «Guarda, prof, come si bruciano gli ebrei». Lei, tapina, osserva e tace. Un'insegnante racconta: «Durante un'interrogazione di italiano ho chiesto a uno studente di farmi una frase con il congiuntivo. E lui mi ha risposto: che tu sia maledetta». (Prof, si consoli: almeno il congiuntivo l'ha imparato...) Un altro insegnante si confida con il preside: «L'altro giorno sono entrato in classe, la classe era vuota. E sulla lavagna c'era una scritta: trovaci». Simpatico, no? «Bisognerebbe prendere provvedimenti» chiosa il prof. Sì, in effetti, bisognerebbe. Non sarebbe una cattiva idea. Ma perché non l'ha fatto lei, caro professore? A sbirciare sui registri di classe, come fa Giovanni Floris nel suo La fabbrica degli ignoranti, c'è di che rimanere basiti: «La classe si ubriaca con il fragolino»; «In classe si odono versi provenienti da scimmie della foresta pluviale. Sembra di esserci trasferiti in Brasile»; «S.E. e G.D. rispondono alla sollecitazione di andare al posto facendo il trenino in classe»; «L'alunno C.D. spesso si denuda»; «M.S. afferma che sono Lady Oscar»; «E.P. chiede 10 euro per sospendere la sua attività di disturbo alla lezione»; «L'alunno C.B. entra in classe sbattendo la porta, vestito da Superman. Mettendosi in una posa pomposa recita bestemmie contro Dio. La classe lo acclama»; «G.A. dopo aver espletato le sue funzioni di rappresentante in difesa del Tibet decide di prendere il sole in giardino fino al termine della terza ora»; «M.P. durante la lezione di storia esce dalla finestra»; «A.E. durante l'ora di lezione si diverte a smontare la porta della classe»; «In segno di protesta contro la sottoscritta la classe segue la lezione seduta sotto il banco»; «P.O. telefona mentre è alla lavagna interrogata in matematica»; «L'alunno P.T. continua a non presentarsi in classe il mercoledì sostenendo che è il suo giorno libero»; «L'alunno P.P. si mette in piedi sul banco, mi punta una riga contro e urla: è un eretico, catturiamolo!, istigando così la classe al caos e alla violenza». Il problema è che i professori non riescono più a farsi rispettare. A Brescia una di loro racconta a Jenner Meletti della «Repubblica»: «Ogni volta che entro in classe faccio un confronto con il passato, quando sul banco c'ero io. La pro-fessoressa entrava, noi ci alzavamo in piedi e se c'era un minimo di confusione l'insegnante batteva appena la mano sulla cattedra, subito c'era un silenzio assoluto. Adesso io, che non sono una novizia e ho un'esperienza di trent'anni, per ottenere il silenzio impiego fra i 5 e i 10 minuti. Immagini i docenti alle prime armi...». A un altro professore chiedono: ma quando entra lei in classe, gli studenti si alzano in piedi? «No, che non si alzano in piedi. Sono già in piedi» risponde. «È una fortuna se sono all'interno dell'aula.» Capito? È una fortuna se sono all'interno dell'aula: il problema non è più farli alzare in piedi, piuttosto farli sedere. Magari anche fare in modo che, se non li disturba troppo, aprano i libri. Prima o poi, s'intende. Con comodo. Se il prof viene pestato a sangue Nell'estate 2008 viene presentata una ricerca di Cittadi-nanzattiva realizzata su oltre 5000 studenti. Risulta che il 33 per cento di loro è stato almeno una volta perseguitato dai bulli e il 45 per cento ha assistito ai loro atti di violenza. Stranieri e disabili sono i più colpiti. A Milano nasce il primo ambulatorio per curare le vittime del bullismo. L'ex ministro Fioroni parla di «emergenza del vivere civile», il ministro Gelmini dice che bisogna intervenire per porre rimedio. Gianpaolo Pansa commenta i fatti di cronaca. E, come sempre, dimostra di aver capito tutto: «L'Italia è un Paese che non conosce più la severità». Proprio così. L'Italia è un Paese che non conosce più la severità. E infatti, se un professore si fa dire «devi scopare di più» e poi
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ringrazia pure lo studente che gliel'ha detto, c'è qualcosa che non quadra, c'è qualcosa che non funziona. E quel che non funziona non è l'ars amandi dell'insegnante. È che si è perso il concetto della severità, della responsabilità, dell'autorità. Così finisce che allo studente è permesso tutto. E all'insegnante, invece, nulla. Ricordate quella maestra di Palermo che ha fatto scrivere al bullo di turno «sono deficiente» cento volte sul quaderno? È andata sotto processo. Certo: far scrivere «sono deficiente» a un bambino non è quel che si dice uno strumento pedagogico perfetto. Ma possibile che fra il bullo che infrange le regole e l'insegnante che lo punisce, nei guai finisca sempre e solo l'insegnante? Il processo di Palermo alla fine, per fortuna, si è chiuso con un'assoluzione per la maestra. Ma il messaggio che è passato è stato comunque sbagliato: guai a punire, guai a intervenire. Per i bulli ci sono reti di protezione, per gli insegnanti no. A Lecco, qualche tempo fa, un professore ha provato a sequestrare un cellulare a una studentessa, che lo usava impropriamente durante le lezioni: ebbene, è stato condannato per tentata violenza privata. Motivazione della Cassazione: «Siccome prese l'alunna Natascia per un braccio, le provocò un lieve dolorino al piercing». Un «lieve dolorino al piercing»? Ma vi pare? Quella si rifiuta di spegnere il telefonino, non lo molla, risponde male e il prof viene condannato perché le sfiora un braccio? Notare: tutte le testimonianze dei ragazzi erano per l'insegnante. Ma il difensore di Natascia ha chiesto il risarcimento dei danni per la «sensazione dolorifica» patita dalla ragazza. Il solo pensiero di doversi staccare dal cellulare, evidentemente, l'ha fatta star male... Quella dei cellulari a scuola, d'altra parte, è una questione seria. «Sono i genitori a darli al figlio per poi chiamarlo, sempre mentre è in classe, magari solo per chiedergli: sei stato interrogato?» denuncia a «Panorama» Valeria Poggi, vicepreside di Carate Brianza (Milano). Il preside dell'Iris Volterra di San Dona di Piave (Venezia) voleva ritirarli tutti e ha provato a consultare i genitori dei ragazzi, cercando il loro appoggio. Dopo l'esperienza dichiara alla «Repubblica» (17 marzo 2007): «Sono amareggiato. È il crollo del patto educativo. Mi hanno diffidato: guai se tocca il cellulare di mio figlio. Mi hanno prospettato denunce per abuso di potere e per appropriazione indebita». È andata peggio al suo collega Ugo Castorina, preside a Bari. Aveva fatto sequestrare undici cellulari ad altrettanti studenti di una terza classe. E aveva scritto una circolare per proibirli, almeno durante le ore di lezione. Si è trovato di fronte i genitori dei ragazzi, inferociti: gli hanno bloccato la macchina, l'hanno insultato e spintonato, poi se ne sono andati con una minaccia: «Te la faremo pagare». Infatti. Qualche settimana dopo un padre e un nonno di uno studente non propriamente brillante si sono presentati a ritirare la pagella. Hanno visto i voti. E l'hanno pestato a sangue. Fosse un caso isolato. Invece no: dieci giorni di prognosi qui, cinque punti di sutura là. La scena del prof menato si ripete in giro per la Penisola. Basta spulciare le agenzie di stampa. Un professore di ginnastica viene picchiato a Poggio Renatico (Ferrara), un altro (sempre di ginnastica: ma non erano i più muscolosi?) finisce all'ospedale a Palermo. A Siracusa un docente viene aggredito da un'alunna aiutata dalla mamma, a Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), invece, è la volta di un alunno aiutato dal papa'. Il momento critico è quasi sempre la consegna delle pagelle. Ma non bisogna trascurare la normale routine. A Milano, un'insegnante d'inglese è stata presa a pugni dalla mamma e dalla nonna di un'alunna che aveva rimproverato in mensa. E a Cicagna (Genova) un prof di educazione tecnica è stato addirittura gambizzato da un ragazzino di 14 anni con una pistola ad aria compressa. Il caso più famoso, in tempi recenti, è quello di Chioggia (Venezia). Nel febbraio 2009 alla scuola media Silvio Pel-lico un ragazzino di 13
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anni, infatti, pugnala il suo insegnante di violino. Il tutto avviene in aula, durante la lezione individuale di musica. «Professore, si giri che le pulisco il maglione» dice lo studente. Il prof pensa a una cortesia o al massimo a un gioco, uno scherzo di Carnevale. Invece quello gli affonda la lama nella schiena. Fin su, a sfiorare il polmone. Quando gli chiedono: «Perché l'hai fatto?», il tredicenne alza le spalle. E poi risponde, come se la tragedia fosse stata inevitabile: «Io volevo suonare la chitarra, non il violino...». Normale, no? Vuoi cambiare strumento? Accoltelli il professore.. . Se ne deduce che se vuoi cambiare scuola accoltelli la preside. E se vuoi cambiare città come minimo accoltelli il sindaco. È matematico. Dunque non ci resta che aspettare l'escalation. Nel frattempo, però, registriamo un altro episodio clamoroso. Succede, pochi mesi prima dell'accoltellamento di Chioggia, a Novara, nel convitto Carlo Alberto, una scuola media storica, una delle più «in» della città. Un ragazzo, di origine sudamericana, chiede di uscire. Il prof dice: «No». E finisce k o. Lo studente gli sferra un pugno in faccia. Luigi Sergi, 57 anni, trentasette di insegnamento alle spalle, confida ai giornalisti: «Mi è crollato il mondo addosso. La ferita allo zigomo mi fa male, la ferita dentro molto di più». Dopo qualche settimana ha lasciato la scuola. Eppure, nonostante il livello raggiunto dalla violenza e dalla sfacciataggine, la metà degli adolescenti, come rivela la Uè, considera il bullismo solo una «ragazzata». Per il 45 per cento allagare le scuole è «solo moderatamente scorretto». Appena il 26 per cento ritiene che rubare in classe sia violento. Sottovalutazione? Il 39 per cento afferma di non aver mai visto nessuno difendere il suo compagno. Solo uno su dieci racconta tutto ai genitori. Il 5 per cento fa addirittura il tifo per i bulli. Del resto, come dar loro torto? A Palermo, nel novembre 2008, salta fuori questa notizia incredibile: un bullo palpeggia una compagna, nei guai ci finisce il prof. Ma come? Quei ragazzacci molestano un'adolescente e l'unico rinviato a giudizio è il loro insegnante per «non aver vigilato»? Che a fare il tifo per i bulli siano i ragazzi un po' stupisce, ma in fondo si può anche capire. Se ci si mettono anche i giudici, però... Se la mucca mangia l'erba, ci fumiamo pure la mucca A Guidonia un ragazzo si presenta a scuola con sei dosi di marijuana. Lo beccano, lo denunciano, lo processano. Ma il tribunale lo assolve perché, dice il giudice, «le portava in classe per evitare che a casa le scoprissero». Ma certo, si capisce: che doveva fare? Farsi beccare dalla mamma? E allora perché punirlo? Bisognerebbe aiutarlo, invece. Magari gli diamo qualche consiglio: il cassetto della cattedra sembra un buon nascondiglio? La cocaina la mettiamo in presidenza? L'ecstasy la custodiscono i bidelli? Non fate gli schizzinosi: non vorrete mica che a casa lo scoprano, poverino... Poverino, ecco. Poverino. È il poverinismo che produce effetti devastanti a scuola. Il poverinismo della tolleranza, il poverinismo del lassismo. Tutto passa, tutto è lecito, tutto si può fare. Così poi ci si trova davanti a sorprese amare, ma così amare da finire direttamente nelle pagine di cronaca. All'istituto superiore Gadda di Paderno Dugnano (Milano) un quin-dicenne si accascia sul banco dopo aver fumato uno spinello nell'intervallo. A Rho (Milano) il preside del liceo scientifico Majorana viene indagato dalla procura perché nella sua scuola ci si droga con troppa facilità. Il preside del Copernico di Torino chiede invece l'aiuto della polizia: gli agenti fanno irruzione e trovano abbondanti confezioni di hashish nel sottoscala dell'istituto. E poi avanti: perquisizioni al Caterina da Siena di Milano, arresti nelle scuola di Rossano (Cosenza). C'è chi manda i Nas, chi chiede i test obbligatori. Ogni tanto si accende il dibattito. C'è sempre un buon motivo per fare un dibattito in Italia. Tanto non serve a nulla.
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In una scuola superiore modenese un prof si è preso la briga di realizzare una ricerca su 101 allievi di terza, quarta e quinta di entrambi i sessi. Risultato: il 40 per cento fuma spinelli, il 24 per cento fa uso combinato di spinelli e droghe sintetiche. Secondo gli ultimi dati dell'Unione europea, l'Italia è il Paese che fa registrare il più alto consumo di cocaina: la assume regolarmente il 3,2 per cento dei giovani tra i 15 e i 34 anni. Ma l'Italia resta al primo posto insieme alla Spagna anche per consumo di hashish. Perfetto, no? A preparare gli esami non siamo bravissimi, ma quando c'è da preparare uno spinello siamo davvero stupefacenti. E infatti nei video di Scuolazoo, uno dei siti più criccati dagli studenti, le lezioni in aula per rollare una canna sono un must. Ad alcune partecipano anche i prof, silenti o, peggio, accondiscendenti. E quando su studenti.it, uno dei forum più controllati e moderati della rete, si lancia il tema degli spinelli a scuola, si ottengono risposte con tante k, licenze letterarie e punti esclamativi. «Certo ke fumo a scuola... io fumo dv e quando voglioooo!!! All'anno muoiono Miliaia di persone in Italia x il tabacco... All'anno muoiono Miliaia di persone in Italia x 1 alcool... Ricordate x la maria nn è mai mortoo nessunooo.» Oppure: «Anke noi abbiamo l'aula autogestita e ke pensi ke ci facciano?!? Lasciate stare noi poveri fumatori visto che nn facciamo male a nessuno». «Se la mucca mangia l'erba, noi ci fumiamo pure la mucca» c'è scritto sui muri di una scuola dell'hinterland milanese. Ormai che ci volete fare? Nelle aule non ci sono più le cartine geografiche. Al massimo, le cartine per la marijuana. Dalle altre parti uno entra in classe e vede cervelli in fumo: da noi fumo e basta. E del resto se un provveditore (a Como), dopo aver scoperto lo spaccio nelle scuole della città, anziché condannare il gesto chiama i giornalisti per spiegare che lui è a favore della droga libera, che ci resta da dire? Persino i tribunali assolvono lo studente che porta la droga a scuola per non farsi scoprire a casa. Vi imbarazza? Ma no. Con tutti quelli che «tagliano» le lezioni, se ce n'è uno che al massimo taglia un po' di roba, c'è quasi da ritenersi fortunati... Se in aula ci sono i vermi A Genova bambini di terza elementare imbrattano i muri. Le bidelle, giustamente, li costringono a pulire. Ma le mamme non ci stanno: protestano, insorgono, creano il caso. Le bidelle vengono denunciate per maltrattamento. Maltrattamento? Se si obbliga uno a ripulire ciò che ha sporcato, lo si maltratta? Ma quei bambini che penseranno? Come cresceranno? Convinti che imbrattare i muri sia una cosa giusta, naturalmente. E che tenerli in ordine, invece, sia un perfido abuso. Un maltrattamento. Avanti così, facciamoci del male. Poi non stupiamoci, però, se dilaga il vandalismo. Il caso più clamoroso fu quello del Parini di Milano. Liceo bene, grande tradizione, frequentazione vip e chic. La città da bere. Solo che, evidentemente, bevi di qui bevi di là, alla fine hanno bevuto tutti un po' troppo. Durante un weekend la scuola è stata allagata. Completamente. Roba da scienziati del potere liquido, piccoli Nettuno del mar delle fogne, tracimatori del Vajont scolastico. Una devastazione completa, insomma. Ricordate tutti quello che è successo: grandi titoli sui giornali, servizi ai telegiornali, segue dibattito. C'è stato, in effetti, molto dibattito. Ma è servito a qualcosa? A dirla tutta, anzi, pare che quel gran chiacchierare intorno al fenomeno sia stato addirittura controproducente. È come se aprendo i rubinetti del Parini si fossero, improvvisamente, aperti anche i rubinetti della scemenza vandalica in tutta Italia. Da quel momento, infatti, è stato un fuoco d'artificio, anzi di più, un'avanzata oceanica. Un'inondazione di scelleratezza. Allagamenti dappertutto, persino nelle scuole medie più sperdute (come la Martino Longhi di Saltrio, Varese), persino nelle scuole elementari (come
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la Aurora di Torino: due volte in quattro mesi). Persino con tocchi geniali, come al liceo scientifico Copernico di Fuorigrotta, a Napoli, dove dopo aver inondato l'intero primo piano hanno scritto a caratteri cubitali sui muri: «Benvenuti in piscina». Poi, evidentemente, l'acqua non è bastata più. A scuola non si insegnano forse gli elementi base dei filosofi presofisti? Come sono? Acqua, fuoco... Ecco, appunto: avanti con il fuoco. A Milano vengono incendiati i documenti di una scuola media, a Roma si fa un rogo all'Alessandro Magno di Casal Palocco (firma degli autori sui muri bruciacchiati: «Spaccamo tutto»). Fiamme si segnalano all'istituto tecnico Pertini di Taranto e alle medie don Sturzo di Grotta-glie (Taranto), alle medie Archimede di Palermo, alla don Gnocchi di Arese (Milano) e alla Petroselli di Roma. AUTtis Bernocchi, ancora a Milano, viene lanciata addirittura una molotov. (Poi dicono che lo studio non accende gli animi.) A Rovigo, invece, hanno preso a bastonate un crocifisso, filmando tutto con i telefonini. A Rho (Milano), il crocifisso hanno preferito incendiarlo. Mentre a Roma gli studenti del Giulio Cesare si dedicano a una devastazione più terra terra, oserei dire strisciante: la scuola viene riempita di vermi. Che, riportano le cronache, pare si siano trovati perfettamente a loro agio con tali compagni... Poi c'è il capitolo furti. Delinquentelli che irrompono, casseforti che spariscono, computer che si dissolvono. Una scuola di Cinisello Balsamo (Milano) in un anno scolastico, da settembre a maggio, ha subito 20 azioni dei ladruncoli. In media una ogni quindici giorni. All'istituto Fermi di Barzanò, in provincia di Lecco, i taccheggi sono così frequenti che devono intervenire i carabinieri. Ma gli arsenio lupin del banchetto, la banda dei soliti gessetti ignoti, colpisce un po' dappertutto, da Senigallia a Maddaloni, da Mestre a Catanzaro. Ovunque spariscono soldi e cellulari, in qualche posto persino i libri, a Varese i computer. Al liceo Manzoni di Milano dopo la sparizione di iPod e telefonini, il preside decide la serrata delle aule. A Napoli, alla scuola media Castaidi, addirittura vengono trafugate porte e finestre. Come avranno fatto? L'hanno studiata bene. E in fondo, si sa, a scuola si va per imparare... Picchiatori, allagatori, a volte ladri. Ormai la delinquenza scolastica è così diffusa che nemmeno la classica gioia dell'ultimo giorno di scuola riesce a essere vissuta serenamente. Infatti a giugno, appena suona la campanella finale, scatta regolarmente il coprifuoco. Attorno alle scuole si vive in una specie di stato d'assedio, con chiusure anticipate e presidi che assoldano vigilantes manco ci fosse da proteggere una missione a Baghdad. Nel giugno 2008 si segnalano due feriti a Milano, una ragazza rimane addirittura infilzata in un cancello. A Roma picchiata una studentessa, a Bologna alcuni studenti denunciati. Dappertutto si scatena la guerra a base di uova e farina, con grano tenero tipo 00 sparso per le vie e tuorli spiaccicati sui muri. Ma non sarebbe meglio usarli per fare le tagliatelle? Macché: la dispersione alimentare non si ferma, la festa impastata neppure. Strade imbrattate, gavettoni colorati e altri spruzzi di goliardia più o meno violenta con contorno di risse, pestaggi e aggressioni. «In questa allegria senza limiti vedo tanta pochezza di idee» dice il preside del liceo Berchet di Milano. È vero: una volta ci si accontentava della «pizzata», adesso non si può fare a meno della «piazzata». Ma non è detto che si sia più felici... Dopo la celebrazione dell'ultimo giorno di scuola, però, arriva l'estate. E uno pensa: va be', almeno i vandali andranno in ferie. Macché. I teppistelli della III C, i bullet-ti del ginnasio, a scuola ci vanno mal volentieri quando ci sono le lezioni. Ma quando le lezioni finiscono, eh, allora a scuola cominciano ad andarci che è un piacere. Scavalcano i muri, abbattono le porte, entrano nelle aule vuote e spaccano tutto. Una goduria. Roma, 28 luglio 2008: quattro ragaz-zini
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devastano la loro scuola. Sorbolo, Parma, 9 agosto 2008: sei ragazzini devastano la loro scuola. Alla media di Rivoli (Torino) compaiono le svastiche, la media Trombini di Tirano (Sondrio) viene ridotta a un campo di battaglia. A Ostia peggio: l'istituto viene fatto a pezzi. I colpevoli presi subito dopo. Si scopre che fra i vandali ci sono anche bambini di 9 anni. Nove anni e già vandali! Il 9 giugno 2008 a Giaveno, in provincia di Torino, dodici minorenni si fanno notare per un'altra impresa memorabile: devastano uno stabile che sta per essere trasformato in una scuola. Avete capito? Non è ancora la loro scuola, ma l'hanno già devastata. Perfetto: sono degli alunni modello, no? In fondo i professori non insegnano che è bene portarsi avanti con i compiti? Se il compagno di banco finisce con la testa nel water Succede in un istituto professionale, gestito a Roma dalle suore. Lui è un ragazzino molto in gamba, sensibile, con ottimi voti in pagella. Per tre anni è costretto a subire le angherie dei compagni. È tutto documentato dai video. Lo umiliano, lo offendono, lo sottopongono a ogni tipo di sopruso. Lo trasformano nello zimbello della classe. Per tre anni. Lui denuncia, piange, si dispera. Racconta tutto. Nessuno gli crede. Il fatto è che questa bestialità avviene sotto gli occhi della professoressa. In alcuni video la si vede benissimo. Sta sullo sfondo, osserva e non interviene. Forse è complice, più probabilmente le sembra normale... La notizia finisce in un trafiletto sui giornali. Poche righe in cronaca. La prof denunciata, la mamma che chiede giustizia. Gli psicologi che certificano il danno permanente subito dal ragazzino. Ma quanti episodi del genere si ripetono ogni giorno nel silenzio delle scuole d'Italia? Quanti adolescenti sensibili vengono umiliati e offesi? Quanti di loro si trasformano in zimbelli? Quanti devono subire i soprusi dei prepotenti? E, soprattutto, quanti professori osservano senza rendersi conto di quel che succede? Quando ce ne accorgiamo, quando il caso esplode, in genere è sempre troppo tardi. Come per Andrea, 13 anni. Il ballerino. Ricordate? Andrea vive in un paese della provincia di Torino. Suona la chitarra e il piano, studia, va bene a scuola. Non gioca a calcio: preferisce la danza. Tanto basta per essere preso di mira. Due compagni lo tormentano per mesi. Poi, un giorno, lo picchiano con calci e pugni fino a spaccargli le ossa. E quando, uscito dall'ospedale, ricompare camminando sulle stampelle, azzoppato forse per sempre, ridono: «Ora prova a ballare se ci riesci»... Ballare? Verrebbe voglia di cominciare il flamenco del buon senso, la samba della ribellione. Invece tocca registrare altri casi, nuove violenze. Il valzer delle umiliazioni. A Roma un ragazzino dell'Alessandro Magno di Casal Palocco torna a casa un pomeriggio pieno di lividi e sanguinante. I genitori lo portano all'ospedale. E lui finalmente racconta: da mesi i compagni lo pestano, lo umiliano, lo chiamano criceto, sporco ebreo, femminuccia. Lo costringono a cambiarsi, nell'ora di ginnastica, nello spogliatoio delle ragazze. Drammatico? Sì. Eppure a volte l'aggressione ha esiti ancor più drammatici. A Torino nell'aprile 2007, infatti, un sedicenne vittima dei bulli scolastici si è ucciso. Lo prendevano in giro dicendogli: «Sei gay». Si chiamava Matteo, lo avevano ribattezzato Jonathan, come un personaggio effeminato del «Grande Fratello». La madre si dispera: «Perché me l'hanno trattato così?». Già: perché i ragazzi più deboli vengono trattati così? A Ragusa, nel 2005, nel giro di pochi mesi si tolgono la vita due ragazzi: uno, Marco, figlio di un italiano e di una orientale, non sopportava più di essere chiamato «il cinese»; un altro, Damiano, era preso di mira per la sua statura. Infatti a 13 anni era già alto un metro e 91. A nulla gli è servito essere un campioncino della squadra di basket: gli hanno fatto «taglia fuori»...
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L'umiliazione in classe è sempre esistita, direte voi. Sì, è vero. Ma oggi è diventata più cattiva, senza regole, senza barriere. È sparita l'autorità, non c'è il timore della punizione. C'è invece la possibilità di moltiplicare l'effetto devastante delle offese. Grazie ai telefonini, infatti, tutto viene filmato, tutto finisce sul web: il ragazzo di Milano (zona Baggio) accusato di essere gay e costretto a fare lo spogliarello in classe, la studentessa di Terni denudata durante la gita, la disabile di Bologna violentata a scuola, la quindicenne di Gubbio addirittura stuprata... Fra l'altro, ormai s'è fatto un passo avanti anche nell'uso di Internet: non è più YouTube che serve per mostrare le bravate, sono le bravate che servono per finire su YouTube. Prima si faceva una violenza e la si filmava, ora si fa una violenza per poterla filmare e partecipare al gran concorso on line. Ecco perché le scene di sesso hanno tanto successo: se sono hard, sono le più cliccate su Internet. Il primo video scolastico a creare scandalo fu quello del novembre 2006: quattro ragazzi, tutti di buona famiglia, ben vestiti e apparentemente «perbene», picchiano un disabile, mentre uno di loro filma tutto. Fu uno choc. Interviste, interventi, dibattiti, talk show. Ma appena la compagnia di giro dell'arena Tv comincia a sdegnarsi su altri temi, il fenomeno riprende e dilaga senza che nessuno ne parli più. A Milano un quattordicenne disabile viene pestato davanti alla scuola media Rinaldi, a Lanciano (Chieti) un quindi-cenne viene costretto pubblicamente a imitare atti sessuali: ne avete mai sentito parlare? A Lodi viene catturata una banda di adolescenti che se la prendeva con i compagni disabili: il capo ha 15 anni. «Era solo uno scherzo» si giustifica. A Monza, per maltrattamenti su un handicappato viene sospesa mezza classe: nessuno di loro chiede scusa o si pente. A Porto Èrcole (Grosseto) tre studenti afferrano un ragazzino di 12 anni, il primo della classe, colpevole di aver detto no a chi voleva copiargli il compito: gli infilano la testa nel water, lo prendono a sputi e tirano la catena. Molti compagni assistono alla scena, nessuno interviene. I bulli se la cavano con tre giorni di sospensione. A Besana in Brianza (Milano) una tredicenne, prima della classe, viene presa di mira sul blog dai compagni a tal punto che lei, vergognandosi, scappa di casa. A Novara una quindicenne denuncia quattro coetanee iscritte al liceo artistico: per quattro mesi l'hanno perseguitata, sottraendole oggetti, minacciandola, bruciandole i vestiti. «Colpa mia, sono troppo timida» dice lei, quasi chiedendo scusa per le violenze subite. Altri casi, racconta «la Repubblica» in un reportage sulle «teppiste», sono stati registrati a Pesaro, Roma, Lecco, Como, Salerno, Prato, Nuoro, Venezia, Trento e Ca-steggio, in provincia di Pavia. E a Bari, dove un branco di ragazzine ha circondato altre coetanee colpendole con calci e pugni per sottrarre loro i cellulari. Il bullismo ormai si declina anche al femminile: una ricerca su 672 adolescenti realizzata dalle università di Roma e di Firenze rivela infatti che il 22 per cento di loro manifesta atteggiamenti di aggressività fisica. «La mia ragazza mena», come cantavano gli Articolo 31. E non solo lei, purtroppo. Se il 71 per cento degli stranieri è in ritardo con gli studi Quattro studenti picchiano il loro compagno ucraino sfottendolo: «Così ti fa male, Chernobyl?». A un ragazzino bulgaro che frequenta il Rizzoli di Milano vengono bruciati i capelli davanti a tutti. Un tredicenne romeno di Civitavecchia (Roma) viene pestato a sangue: lui non dice nulla. Tornato a casa, perde i sensi. Lo portano in ospedale e lo operano d'urgenza. A Pescara, istituto industriale Volta, un ragazzo di origine venezuelana viene sprangato. Lo menano e lo chiamano «filippino di merda». Poveri bulli: oltre che in condotta, sono pure da bocciare in geografia. L'elenco dei casi potrebbe continuare a lungo: gli stranieri, in effetti, sono fra le prime vittime del bullismo. Ma spesso ne sono anche gli artefici. E allora possiamo dire, al di là di ogni ipocrisia
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politicamente corretta, che l'integrazione scolastica non funziona? Una delle scuole multietni-che per eccellenza è la media Giovanni Verga, nel quartiere Ballare» di Palermo. La frequentano 200 studenti, tutti di etnie diverse. Tunisini, marocchini, indiani, senegalesi, cinesi, ecc. Ebbene è proprio questa la scuola che, nell'aprile 2008, si guadagna il titolo di più violenta d'Italia: tre professori all'ospedale nel giro di poche ore. E il vicepreside con la testa rotta dalla sediata di un alunno. Oggi gli stranieri nelle nostre scuole sono 614.000, il 7 per cento del totale. Al primo posto i romeni (oltre 92.000), seguono gli albanesi (85.000), quindi i marocchini (76.000). Ultimi i mongoli (20). L'anno scorso gli stranieri in classe erano 574.000. Nel 1982 erano 6000, dieci anni fa erano poco più di 50.000. Nel 2011 supereranno il milione. La crescita è esponenziale. Già oggi, però, la percentuale di presenze straniere è molto alta in alcune aree del Nord, dove si tocca il 14 per cento. A Roma, la scuola Di Donato (presenti 56 nazionalità diverse) assurge al 52 per cento, a Milano molti istituti raggiungono l'8Ò per cento, e alla elementare di via Paravia si arriva addirittura al 90 per cento. Il record, però, spetta a Torino. Alla scuola Fiocchetto c'è una prima elementare che totalizza il 100 per cento: sono tutti stranieri. Quindici iscritti: uno da Egitto, Nigeria, Congo e Albania, tre dalla Cina, tre dalla Romania, tre dal Marocco, due dalla Tunisia. Nessun italiano. Il problema stranieri esiste, è impossibile negarlo. E si collega direttamente al bullismo. La commissione del ministero dell'Istruzione che combatte il fenomeno conferma che «il ruolo di vittima o di carnefice è quasi sempre assunto da ragazzini stranieri, ovvero quelli maggiormente esposti al senso di emarginazione che genera questi comportamenti». Anche perché, secondo una ricerca del ministero, il 42 per cento degli stranieri è in ritardo con gli studi. E alle superiori la percentuale sale al 71 per cento. Come porre rimedio? Quando nell'autunno 2008 la Lega propone le «classi ponte» per permettere agli studenti stranieri di mettersi al passo con gli italiani, scoppia la polemica. «Si creano ghetti, si impedisce l'integrazione» scrivono i giornali. In realtà è esattamente il contrario. Le classi ponte, infatti, esistono in tutto il mondo e sono uno strumento non per ostacolare ma per aiutare l'integrazione. Se uno straniero non impara l'italiano come fa a inserirsi? E se una classe si riempie di stranieri che non sanno l'italiano, come fanno gli insegnanti a svolgere il programma? Si sa come finisce in questi casi: i genitori italiani ritirano i figli dalla scuola. Appena possono li iscrivono da un'altra parte. E così nelle classi senza ponte restano solo gli stranieri, al massimo insieme agli italiani più sfortunati: allora sì, che si crea davvero un ghetto. Si sta già creando. Si tratta di un fenomeno carsico, costante, quotidiano. Che a volte emerge e finisce sui giornali. A Mestre, per esempio, i genitori della Giulio Cesare hanno inscenato una protesta pubblica, poi hanno ritirato i loro bambini. Alla Pisacane di Roma (febbraio 2009) si iscrivono 39 bambini: solo 8 sono italiani, e i loro genitori preferiscono cambiare scuola. All'istituto Gabelli di Torino, per lo stesso motivo, una classe è stata cancellata. Nel capoluogo piemontese c'è chi propone un tetto alla presenza di stranieri in classe: non più del 10 per cento. A Como ci hanno provato: hanno stabilito un tetto del 20 per cento. È durato poche settimane. A Bolzano (dicembre 2008) hanno insistito: tetto del 30 per cento. Ed è subito scoppiata la polemica. Dicono: anziché le classi ponte, bisognerebbe dare più soldi per integrare gli stranieri. Ma a voi sembra che le risorse in questi anni siano state lesinate? L'ultimo libro inchiesta di Bruno Vespa, per esempio, ha rivelato che il Comune di Roma spende 9000 euro per ogni ragazzino rom da mandare a scuola. In pratica ognuno di loro ci costa
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come se gli pagassimo una retta in un prestigiosissimo collegio. Con un dettaglio: i rom nel prestigiosissimo collegio non ci vanno. E, per dirla tutta, non vanno nemmeno a scuola. Non si presentano, semplicemente. Casse piene, aule vuote. E non solo nella capitale. A Bergamo, tanto per dire, sono stati stanziati fondi per l'istruzione degli zingari: 500 euro per ogni ora di formazione. Risultati? Praticamente nessuno. Il progetto si chiama: «Dall'esclusione all'inclusione». Esclusa la possibilità di imparare, s'intende. Nel 1997 è stata approvata una legge, la Turco (n. 285), che prevedeva 429 miliardi di lire da spendere per progetti a tutela degli adolescenti, contro la dispersione scolastica e il coinvolgimento nelle attività criminose. Sono passati dodici anni. Che fine hanno fatto quei soldi? Chi ha moni-torato i risultati? Chi ha controllato? In Gran Bretagna, nel frattempo, è stato introdotto il pupil mentoring: figure di riferimento tra gli alunni più grandi, che possono offrire alle vittime del bullismo opportunità di confronto e di protezione. Dove è stato attivato questo sistema, il bullismo si è ridotto dell'85 per cento. Perché da noi non si fa qualcosa del genere? Ma certo: meglio pagare schiere di consulenti, l'esercito degli epigoni di don Milani, frotte di pedagogisti con la ricetta in tasca... E se fai pipì nel cestino, dovrai pulire i bagni della scuola Non che la violenza parli solo straniero. Anzi, a volte si respira proprio con l'aria di famiglia. A Ponticelli (Napoli), per esempio, alcuni temi dei bimbi delle elementari sono uno choc: «Giusto bruciare le case dei rom», c'è scritto. A Miano (sempre Napoli) non sono da meno: «La camorra ci protegge» è il loro titolo. Svolgimento: «Quando esco vedo di tutto: droga, spacciatori. Ma non mi spavento, ci sono abituato». E poi: «Se qualcuno avesse l'intenzione di farci del male, i clan ci aiutano». A volte, inoltre, la violenza si respira con la stessa aria di scuola. I compagni più grandi, i compagni di classe, magari qualche professore. A volte persino i libri. A Padova, per esempio, viene data in classe la seguente traccia di tema (tratta dal libro di testo Libri di bordo 2 della Sei): «Come eliminare un compagno di classe antipatico o un professore insopportabile senza destare sospetti». Suggerimento per il delitto perfetto, insomma. L'unica precauzione: non si danno indicazioni sull'arma da usare. C'è un modo per invertire la rotta? Quando il ministro Gelmini ha reintrodotto il grembiule e il 5 in condotta, le si sono rivoltati tutti contro. «Ci vuole ben altro.» È vero: ci vuole ben altro. Ci vuole sempre «ben altro». Il benal-trismo è il nostro sport preferito. Ma mentre aspettiamo il ben altro non conviene iniziare da qualche parte? A me non pare così male. La divisa non è tutto? Sì, però ti da il senso dell'obbligo. Il 5 in pagella non basta? Forse, però ti ricorda che esiste anche la disciplina. Non sarà «ben altro», ma è un buon inizio ricordare che la scuola non è una sfilata di ombelichi in mostra, bensì un impegno. Che a scuola non ci sono solo diritti ma doveri. E che, se si sbaglia, bisogna pagare in prima persona. Fra l'altro molte scuole, per iniziativa dei presidi e degli insegnanti, hanno già messo in pratica il sano principio della responsabilità. Racconta il professor Maculotti: «La sera di Halloween ci fu un assalto con passamontagna e tirasassi che provocò la demolizione di alcune vetrate. Cercai di individuare i colpevoli. Diedi ordine alle bidelle di non svuotare i cestini delle aule. Li passai uno a uno per vedere se c'era qualche biglietto traditore. Lo trovai. Era sulla carta intestata di un ferramenta. Trovammo il proprietario. Un ragazzo di terza che aveva scritto la consegna: alle ore 20 ritrovo in piazza, Luigi porta il passamontagna, Davide il tirasassi, Giacomino le bombolette spray. Caddero uno a uno, accusandosi a vicenda come avviene di solito. La punizione fu immediata e inesorabile: ripagare centesimo per centesimo tutti i danni».
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Ma pagare tutti i danni basta? È un castigo sufficiente? Non finirà soltanto per gravare sulla paghetta, o peggio sul portafoglio di papa'? Si può fare di più, come cantavano Mo-randi e Ramazzotti. A Monselice, in provincia di Padova, per esempio, alcuni ragazzi dell'istituto agrario Kennedy avevano messo on line una serie di angherie ai danni del professore (la più affettuosa? Gli impacchettavano la testa con i fogli di giornale): sono stati condannati a sistemare le serre, pulire i giardini, potare le piante e dipingere la recinzione esterna della scuola. Il preside dell'istituto professionale Luigi Cremona di Pavia ha deciso che i più indisciplinati vanno a fare assistenza negli ospizi. Uno dei ragazzi dell'istituto grafico Steiner di Torino, quello che filmò e mise in rete i soprusi su un compagno autistico, è stato obbligato a lavorare al Sermig (Servizio missionario giovani) e a preparare una campagna pubblicitaria sulla disabilità. Ad Albenga (Savona), bulli che insozzavano la scuola sono stati condannati a pulire i muri. A Motta di Livenza (Treviso), dopo una notte brava in gita scolastica, gli alunni responsabili dovranno assistere gli anziani. A Frosino-ne alcuni monelli che hanno fatto la pipì nel cestino sono stati obbligati a pulire i bagni della scuola. E farà le pulizie anche la diciassettenne che ad Avellino ha liberato i topi in aula durante l'intervallo. A Bari alcuni bulli, colpevoli di aver picchiato un ragazzino all'uscita della scuola, avranno il coprifuoco obbligatorio: in casa dalle 20 alle 7, e di giorno volontariato con i più deboli. All'istituto professionale Amatucci di Avellino trovavano sempre i bagni distrutti. Il preside ha applicato il principio della guerra preventiva: chi vuole andare a fare pipì paga 2 euro, così contribuisce alle spese. Nella scuola media Villa Verrocchio di Montesilvano (Pescara), per risolvere lo stesso problema, una preside ha stabilito che si può fare pipì solo mezz'ora per classe (la terza E dalle 12.15 alle 12.45, la prima F dalle 11.20 alle 11.50, ecc.) e apponendo firma su apposito registro della toilette. Anche al Bodoni di Lecco si firma il registro per andare in bagno. La preside di una scuola media di Milano, la Cipro, invece, dopo aver scoperto alcuni suoi studenti protagonisti di una web-rissa su YouTube, li ha obbligati a lavorare per il web della scuola. Gli stessi studenti del Parini, del resto, i famosi allagatori del liceo, sono stati condannati a riordinare la biblioteca. E chissà che a forza di mettere a posto i libri della biblioteca il bullo non possa trasformarsi. Noi ne siamo convinti. A Biella invece no. Lì, infatti, sostengono che le punizioni sono inutili. E così, di fronte alle ennesime provocazioni dei teppisti, violenze, prepotenze, bruciature, vandalismi e angherie, il preside dell'istituto alberghiero ha avuto un'idea: eleggere direttamente il bullo capoclasse. Ma anche capo-bus, controllore, caporale, guardiano dei suoi coetanei. Una soluzione innovativa: anziché spiegare che chi commette violenze sbaglia, lo si premia. Perfetto, no? Niente 5 in condotta, niente grembiulino, ma tutti i bulli capoclasse. E magari anche insegnanti. O anche di più. Così il problema è risolto davvero. Una volta si diceva: se ti comporti male, ti mando in presidenza. Adesso invece se ci si comporta male si può diventare direttamente presidi... VI La scuola delle ideologie Dove si studia che i gulag sono stati un «errore di valutazione» Chi era Lenin? Un sincero democratico. I gulag? Un errore di valutazione. E le foibe? Mai esistite. Gino Strada è un santo, Pio XII, invece, un complice di Hitler. Berlusconi? Non ne parliamo: ha messo a rischio la democrazia. Le Br? Compagni che sbagliano: volevano la giustizia sociale, purtroppo hanno ecceduto un po'. Bisogna capirli, naturalmente. Delle stragi degli anni Settanta non si sa nulla, ma comunque è stata colpa dello Stato. L'America è cattiva, Bush un idiota, Israele
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un'«entità sionista conficcata nel cuore del popolo arabo». Gli ebrei bravi sono morti tutti nei campi di sterminio, quelli che vivono oggi sono feroci. I palestinesi, invece, tutti buoni. Ogni tanto si fanno saltare in aria sull'autobus e uccidono persone innocenti, ma è solo perché sono stati trattati male. Eccesso di difesa? Ecco, sì. La colpa, comunque, è sempre degli ebrei. Ed è una colpa così grande che fa dimenticare persino che gli ebrei subirono l'Olocausto. A Mauthausen, per esempio, chi fu ucciso? Operai e rom. Nessun altro. Davvero una storia strana quella che imparano i nostri studenti a scuola. Quando si arriva a parlare di Resistenza, poi, è un trionfo: i partigiani sono degli eroi come quelli dei fumetti, volano sulle pagine dei manuali e non vengono nemmeno sfiorati dai drammi della realtà. Nessuno lo spiega bene, ma probabilmente avevano anche i superpoteri. Forse mangiavano le arachidi, come Superpippo. Vendette? Stragi? Eccidi? Macché. Quelli li hanno fatti solo i tedeschi. Insieme con i repubblichini, naturalmente. A proposito: qualcuno li definisce «ragazzi di Salò», ma sicuramente sbaglia: a Salò non c'erano ragazzi. Al massimo aguzzini. Cefalonia? Mai esistita. Il generale Cadorna? E chi era? I soldati italiani? Tutti vigliacchi. E quelli che combatterono al fianco degli Alleati? Dimenticati. Ne morirono 35.000 in battaglia (più che i partigiani...), in 600.000 finirono nei campi di concentramento perché dissero no ai tedeschi, ma, non portando il fazzoletto rosso al collo, non hanno diritto di essere ricordati. Provate a trovarne traccia nei programmi di storia o nella testa degli scolari. E poi se fosse solo la storia... Su un testo di psicologia in uso al liceo (I motivi del comportamento umano di Anna Oliverio Ferraris e Alberto Oliverio) si legge che la marijuana «ha un effetto eccitante, da un senso di benessere» e «non da dipendenza». Ragazzi, avanti, che aspettate: fatevi subito una canna e siate felici. Non da dipendenza e fa bene. E l'economia? Ci avete fatto caso? L'industriale è sempre cattivo, l'operaio buono, soprattutto quando fa sciopero. Prima lezione: mettere su un'impresa è male, fare un corteo in piazza è bene. E se un'impresa paga lo stipendio e mantiene decine di famiglie? Chi se ne importa. Pazienza. Lotta dura, senza paura. I progressi tecnologici? Solo sfruttamento. Il mercato? Solo egoismo. La disoccupazione? Un'arma contro il popolo. E la meritocrazia? Una bieca scusa per mascherare la disuguaglianza sociale. Non ci credete? Ho avuto diverse prove in diretta. Anzi, in casa. Qualche tempo fa, per esempio, mia figlia doveva fare un riassunto. «Mi dai una mano, papa'?» Mi sono messo a leggere. Si trattava di una decina di testi sull'urbanistica, stralciati probabilmente da qualche tazebao della rivoluzione. Il più moderato diceva che lo sviluppo delle città era un'operazione capitalistica di sterminio delle masse. Mia figlia non aveva capito molto di quello che c'era scritto, ma mi ha mostrato un riassunto corretto e ordinato. Io ho strabuzzato gli occhi. «C'è qualcosa di sbagliato?» mi ha chiesto. Eccome se c'è, piccola mia. Ma stavolta non stai sbagliando tu, però. Compiti per le vacanze? Studiare Gino Strada Del resto, a mio figlio Lorenzo non è andata meglio. Nell'estate 2007, alla fine della seconda media, gli insegnanti gli hanno dato la lista dei libri da leggere durante le vacanze. Quattro testi. Solo quattro: già un po' pochini, a dirla tutta. Ma la sorpresa è stato scoprire che fra i quattro libri, ritenuti evidentemente fondamentali per la formazione di un preadolescente, c'erano L'Agnese va a morire (storia di una staffetta partigiana scritta a caldo, subito dopo la fine della guerra) e Pappagalli verdi di Gino Strada. «Non pensate che quella lista andrebbe perlomeno integrata?» ho chiesto pubblicamente alle prof. Loro si sono offese. Come se avessi infranto un tabù.
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Coi tabù non si combatte, per carità. Avrei, però, voluto spiegare loro che non ho nulla contro quei due libri. Semplicemente mi sembra piuttosto bislacco che siano considerati testi fondamentali per la preparazione di un ragazzino di seconda media, costretto così a passare direttamente da Harry Potter ai miti acritici della Resistenza, da Dragon Bali all'odio per Bush, senza nemmeno avere gli strumenti per capire la violenza che si sta operando sul suo cervello. In seconda media non hanno ancora studiato la seconda guerra mondiale, il fascismo, il nazismo e se gli chiedi cos'è l'8 settembre ti rispondono (se va bene): il giorno in cui si torna a scuola. Come possono capire la storia di un'eroina di nome Agnese che gloriosamente va in giro a spaccare la testa altrui (giusta azione: la testa era quella di un soldato tedesco, per di più nemico dei gatti), in un mondo diviso in due, con tutti i buoni da una parte (quella dei partigiani) e tutti i cattivi dall'altra? Sia chiaro: avrei molte perplessità anche se mio figlio fosse obbligato a leggere, senza preparazione alcuna, uno degli ultimi libri di Pansa. Ma, chissà perché, i libri di Pansa nelle scuole non sono molto amati. Quelli della Resistenza sì, invece. E quelli di Gino Strada pure. Ho chiesto a mio figlio se sapesse qualcosa di Gino Strada. «È un nuovo difensore della Lazio?» mi ha chiesto. Non proprio. A scuola non gli avevano spiegato nulla. Ho provato a interrogarlo su Emergency, le mine, la guerra, l'Onu. Nebbia totale. A malapena sa collocare l'Afghanistan sulla cartina geografica e ha qualche idea sui taleba-ni, anche se pochi giorni prima, in un compito, me li aveva piazzati in Turchia. E dire che, rispetto ai suoi compagni, è piuttosto avanti. Mi chiedo: non è una violenza far calare nelle zucche dei nostri figli un libro di Gino Strada come se fosse vangelo, senza che loro sappiano nulla di lui, della sua vita, delle sue idee, dei suoi proclami, dei suoi meriti ma anche delle polemiche che suscita? E poi mi faccio un'altra domanda: davvero fra i quattro libri fondamentali da leggere fra la seconda e la terza media, in una stagione irripetibile della vita, ci sono Pappagalli e Agnese? Nient'altro? Emilio Salgari, Mark Twain, Kipling, Defoe, Melville, Alexandre Dumas: tutto da dimenticare? I viaggi di Gulliver o i ragazzi della via Pal, Zanna Bianca e Moby Dick: tutto da sacrificare per i miti crudi della Resistenza e dell'antiamericanismo? Ma a che cosa pensava quell'insegnante quando sceglieva i libri? Davvero aveva in testa il bene dei ragazzi? O si è fatta accecare dalla sua ideologia? Sia chiaro: non tutti i prof sono così. Ma ce ne sono tanti, oserei dire troppi, che confondono l'ideologia con l'insegnamento. I docenti possono (anzi devono) avere le loro idee. E, personalmente, sono del parere che sia persino giusto che le manifestino a scuola. Però non in modo surrettizio e vigliacco. E, soprattutto, mettendo i ragazzi nelle condizioni di capire, documentarsi, farsi un'idea. Magari di discutere. Così li si aiuta a crescere. Altrimenti è un plagio, una violenza senza pari nei confronti di adolescenti che non potranno mai scegliere liberamente e che cresceranno convinti che la verità sia da raccogliere tutta su un'unica Strada, anche quando quella strada porta a sfasciare le teste altrui con un fazzoletto calato sul viso. In fondo che male c'è? Sfasciare la testa a chi si ritiene un nemico è da eroi, no? Ce l'ha insegnato Agnese. Lei va a morire. E la nostra scuola, di questo passo, pure. E in quinta elementare si legge Cossutta Ho provato a sollevare il tema con un po' di genitori. Ne sono venute fuori di tutti i colori. Uno mi ha raccontato che suo figlio (prima media) è tornato a casa ripetendo: «Bush è un assassino, ce lo ha detto la prof». Un altro mi ha raccontato che l'insegnante della figlia, spiegando i peggiori tiranni di Atene, ha chiosato: «Erano dittatori e
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demagoghi. Insomma, come Berlusconi». Le battute in cattedra si sprecano, le risatine di scherno pure. Un'insegnante della scuola media Niccolo Tommaseo di Torino ha deciso sua sponte di inserire Bella ciao nel programma didattico: un ragazzino è stato chiamato alla lavagna a scrivere il testo, tutti gli altri hanno dovuto copiarlo e studiarlo a memoria. Qualche famiglia s'è lamentata: «Quella prof non è nuova a iniziative del genere». In effetti è la stessa che, all'inizio della lezione, anziché fare l'appello proclama: «Avanti, popolo!». Avanti di questo passo, dove arriverà? A sostituire Leopardi con l'Internazionale? Abbattuto l'ermo colle, impallinato il passero solitario, abbandonata la donzelletta che vien dalla campagna in sul calar del sole, c'è il rischio che i suoi studenti debbano imparare a memoria immortali versi come: «Fischia il vento, infuria la bufera, scarpe rotte eppur bisogna andar...»? «Il 25 aprile ho trovato mio figlio che leggeva un'intervista ad Armando Cossutta. Nessun problema se non fosse che mio figlio ha 10 anni e frequenta la quinta elementare e quell'intervista è contenuta in un giornale dell'Anpi intitolato "Patria indipendente".» Così scrive Antonio Socci su «Libero». E chiosa: «Con tutto il rispetto per l'onorevole Cossutta, che ha il diritto di restare orgogliosamente comunista, mi riesce difficile considerarlo il simbolo della libertà e della democrazia (ricorda semmai l'Urss di Breznev). È come chiamare un vegetariano a fare il testimonial della bistecca alla fiorentina ... Trovo assurdo leggere una tale pubblicazione nella scuola elementare. Sono bambini. Per l'indottrinamento progressista c'è tutto il tempo. Fra scuole medie, licei, università la sinistra ha dodici anni scolastici, un esercito di insegnanti e una quantità di libri di testo per martellare nella testa dei giovani sulla propaganda. C'è bisogno di andare alle elementari sostituendo Pinocchio con Cossutta?». Domanda legittima, non vi pare? Cossutta simbolo della libertà, il comunismo simbolo della democrazia: vi immaginate che cosa succederebbe se qualche prof parlasse così del fascismo? A Cuveglio, nell'Alto Varesotto, nella primavera 2008 un'insegnante apostrofa un ragazzo della scuola media statale: «Non metterò mai più piede nella gelateria di tuo papa'. Il gelato è ottimo, ma lui si è candidato per la destra...». Denuncia, polemica, piccola querelle locale. Il preside giustifica l'insegnante: «Ha solo espresso un suo pensiero». Un pensiero? Mettere alla berlina un ragazzino per le idee politiche del padre? E se il papa' fosse di Rifondazione avrebbe ricevuto lo stesso trattamento? Evidentemente no. Comunque l'insegnante, già candidata per un partito dell'estrema sinistra, l'ha fatta franca. Per la sua infelice frase, nemmeno un richiamo. Del resto a Cremona l'assessore di Rifondazione comunista era riuscito addirittura a imporre un questionario per tutti gli studenti, chiedendo loro l'opinione politica: una schedatura preventiva? Un esame del sangue ideologico? Per entrare in classe bisognerà esibire il passaporto dell'Anpi? «In sala professori» scrive un insegnante di ruolo di un liceo di Modena a Paolo Granzotto sul «Giornale» «non c'è tavolo sul quale non sia dispiegata "la Repubblica" o "l'Unità", giornali cui i comizianti fanno riferimento.» Che molti abbiano scelto di salire in cattedra non per amore della professione ma per ragioni politiche, d'altra parte, è evidente. Qualcuno lo confessa pure candidamente, come Claudio Camera (nel già citato La mia scuola): «Erano gli anni in cui si risentiva degli aneliti del '68; mi sembrava, calandomi nel ruolo dell'insegnante, di poter riparare, dal mio piccolo angolo, a certi errori della storia, perché avrei potuto mettere in risalto il ruolo misconosciuto eppure decisivo svolto dal popolo, il tributo di sangue versato dai lavoratori e poi le industrie belliche che accrescono in quantità colossale i profitti.
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Insomma, pensavo di presentare una storia più completa anche dalla parte degli umili». E in effetti in questi quarant'anni ai ragazzi è stata presentata proprio una storia che «ripara certi errori»: il silenzio sui gulag, l'esaltazione di Lenin e di Mao, la celebrazione di Fidel Castro, il velo steso sugli orrori di Pol Pot, la tolleranza nei confronti di Tito, un po' di Togliatti, il socialismo rivoluzionario e tanto Ho Chi Minh. Siamo dalla parte degli umili, no? A patto che gli umili non abbiano una gelateria a Cuveglio, nell'Alto Varesotto. E soprattutto, a patto che non votino diversamente da Rifondazione comunista... Don Milani? Creò i soviet dell'ignoranza Accidenti al Sessantotto. E accidenti a don Milani. «Quel parroco sfasciò l'istruzione» denuncia Marcello Veneziani su «Libero». E come dargli torto? Il disastro è cominciato proprio da lì, dal mito di Barbiana. «Quanto male hanno fatto alla scuola le tirate contro la cultura, la filosofia, la pedagogia, la letteratura, i classici e Dante, la sua idea di ridurre i libri a uno solo da leggere collettivamente come in un soviet dell'ignoranza. Quanto male ha fatto il suo disprezzo verso i professori ante '68, verso la cattedra, i voti e i registri, il suo auspicio di un sindacato dei genitori, la sua scuola assembleare fondata sul presente e sull'utile, la demagogica convinzione che "nel programma d'italiano ci stava meglio il contratto dei metalmeccanici".» Già, quanto male. In effetti la nostra scuola non è così lontana da quella che sognava don Milani, quella con il contratto dei metalmeccanici al posto della Divina Commedia e l'esortazione ai partigiani a riprendere la lotta armata pure in tempo di democrazia. È la scuola che butta via i libri, nell'attesa di buttare via anche il resto, che divide i buoni tutti da una parte e i cattivi dall'altra, quella in cui gli apolitici sono «fascisti» e il linciaggio morale dei professori non progressisti è legittimo e consentito. La scuola che abolisce la selezione, perché è «classista», lasciando i ragazzi, soprattutto i più capaci, in balia della fortuna. Questo è don Milani. Lo conoscevate? Oddio, nel testo del prete di Barbiana, a dir la verità, c'era un po' di tutto, persi-no l'elogio della frusta, lo scapaccione come strumento didattico e l'invito a ricorrere a qualche «salutare cinghiata». Ma su quelle parti dei suoi scritti è stato steso il velo del silenzio, perché non si confaceva all'abbisogna, perché rovinava il contorno luminoso del santino, il sapore dolciastro del fantoccio un po' veltroniano, cattocomunista e buoni-sta, tanto «I care» e Martin Luther King. Un fantoccio da costruire e da spendere sulle barricate di chi dice che vuole una scuola perfetta per non dover fare la fatica di costruire una scuola migliore. Non è un caso se don Milani è diventato il simbolo dei professori così progressisti che vogliono mantenere l'istruzione italiana sempre uguale a se stessa. Anche se non funziona. Così progressisti da sobillare, periodicamente, i ragazzi alla rivolta contro ogni progresso. Ci avete fatto caso? Non c'è ministro, negli ultimi quarant'anni, che non sia stato dileggiato, non c'è riforma che non sia stata presa di mira. «Ucci ucci ci mangiamo la Falcucci», «Con simpatia la Moratti a Nassiriya», «Via Fioroni, siamo noi i padroni». La Jervolino fu fischiata, a Luigi Berlinguer furono mostrate le chiappe dalle finestre delle scuole, l'austero linguista Tullio De Mauro venne sbertucciato come Pinocchio. Ora: è possibile che nessun ministro vada bene? È possibile che nessuna riforma contenga qualcosa di buono? E qual è il risultato che vogliono i professori? Mantenere la scuola così? Cioè un disastro? Nell'interesse di chi? Guido Viale, ex militante del Sessantotto, si compiace sulla «Stampa» che oggi le «occupazioni delle scuole si fanno insieme a mamma e papa'» e che i ragazzi «lottano accanto ai genitori e ai presidi». Ernesto Galli della Loggia: «Accanto ai genitori e ai presidi? Che lotte devono
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essere...». Che rivoluzione. Infatti, più che una rivolta, ormai è diventato un must, un appuntamento fisso del calendario scolastico, come le vacanze di Natale e il ponte del 25 aprile. Un professore racconta di genitori che si sono presentati dal preside all'inizio dell'anno: «Scusi, quest'anno quand'è programmata l'occupazione? Sa, così ci organizziamo il weekend...». Perfetto, no? Organizziamo il weekend e insieme l'occupazione. Divertitevi e protestate, così siamo sicuri che nulla cambierà... Contro la Gelmini il funerale in classe Naturalmente è toccato anche a Mariastella Gelmini. Il primo giorno di scuola, settembre 2008, gli insegnanti si sono presentati in classe vestiti a lutto trasformando la festa dell'apprendere in un funerale. Poi ci sono stati i cortei con i grembiuli bruciati e i bambini che sfilavano con i cartelli appesi al collo. Alla scuola Iqbal Masih di Roma, quartiere Casilino, hanno organizzato il primo presidio permanente con occupazione a oltranza, giorno e notte: a guidare la rivolta una dirigente scolastica, già candidata per la Sinistra Arcobaleno. Poi è seguito il solito rito: okkupazioni, manifestazioni, cortei, scioperi. In alcuni casi anche picchetti. Slo-gan: «La Gelmini mangia i bambini». Professori che minacciano gli studenti: «O scioperate o vi bocciamo». Atenei che si sollevano per protestare contro una riforma che riguarda le elementari (che c'entra? Perché? Mah... Tutto fa brodo). Esagerazioni assortite. A Firenze hanno pensato bene di far scrivere un dettato «antiGelmini». A Milano una maestra, dopo aver fatto preparare striscioni anti-Gelmini, in classe ha annunciato il tema: «Che cosa pensi del ministro». A Bari hanno messo volantini antiriforma dentro la merenda dei bimbi. A Roma hanno trasformato un concerto di inizio anno in un'invettiva contro il governo. E pensare che il titolo dell'iniziativa era: «Partiamo con la nota giusta». La nota giusta? È stato calcolato che da settembre a dicembre 2008 gli studenti milanesi hanno fatto un corteo ogni tre giorni: oltre cento ore di lezioni perse, senza tener conto di quelle impegnate in autogestioni & C. Ecco la nota giusta. Tutto, inoltre, basato sulla diffusione di informazioni ter-roristiche. E sbagliate. «Sparirà il tempo pieno e i bambini torneranno a casa alle 12.30»: invece l'introduzione del maestro unico non prevede la riduzione delle ore di tempo pieno. Oppure: «Spariranno le lezioni di inglese, le famiglie dovranno pagarsi i corsi privati». Ma nel decreto non c'è nulla di tutto questo. Oppure ancora: «Saranno licenziati 87.000 insegnanti». In realtà il provvedimento non prevede il licenziamento di nessuno, solo un blocco del turn over fra il 2009 e il 2012 (peraltro, secondo quanto già previsto dal «Quaderno bianco» del 2007). In alcuni licei i professori hanno sottoscritto e distribuito ai loro studenti lettere di fuoco contro la «riforma Gelmini», senza nemmeno precisare che il contestato decreto non è una riforma complessiva della scuola, è solo una misura mirata che introduce il grembiule, il maestro unico e il voto in condotta. E non riguarda minimamente i licei. E allora verrebbe da chiedere: cari prof, ma è questo che vi ha insegnato il vostro amato don Milani? A usare i bambini per difendere i vostri interessi? A farli sfilare con i cartelli al collo per difendere una causa che non sanno? Di più: per difendere una causa che non è la loro, ma la vostra? Diciamoci la verità, quarant'anni di immobilismo, di riforme mancate e di ministri contestati, quarant'anni di cortei e scioperi con la santa alleanza tra prof e studenti, di slogan, grembiuli bruciati e chiappe mostrate, questo hanno prodotto: una scuola che non funziona. Uno sfascio. E a pagarne le conseguenze sono proprio quei bambini e quei ragazzi che, da un vero cambiamento, sarebbero i primi a trarre vantaggi. Se solo lo sapessero. Se solo qualcuno glielo dicesse. Nell'ottobre 2008, alla vigilia dello sciopero della scuola, «il Giornale» fa un'inchiesta fra 400 studenti delle scuole superiori pronti a scendere in piazza contro la riforma della Gelmini. Risultato? Uno su
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due nemmeno sa chi sia la Gelmini. Protestano, ma non sanno contro chi. E per che cosa. Infatti, delle leggi che contestano non conoscono nulla. Il 70 per cento ignora l'introduzione dell'educazione civica nelle scuole, alcuni pensano che l'educazione civica sia uguale all'esame per il motorino. Uno su tre è convinto che la riforma faccia diminuire lo stipendio degli insegnanti, nessuno sa che agli stipendi degli insegnanti va il 97 per cento del bilancio dell'istruzione. C'è chi pensa che il maestro unico significhi un solo maestro per tutta la scuola. E poi sono convinti che dopo il maestro unico arrivi il professore unico, anche per il liceo. Allegria. Alcuni temono, non si sa per quale motivo, l'aumento delle ore di lezione, altri l'abolizione dell'inglese. La confusione regna sovrana. C'è chi arriva persino a dire che il voto in condotta si prende per come si conduce l'auto. C'è chi sostiene che la riforma è autoritaria per il fatto che la propone un ministro, cioè un'autorità. Molti infine ammettono: non ne so nulla, ma venerdì faccio sciopero così il weekend diventa più lungo. È vero: scendendo in piazza per sostenere tesi di cui non si sa nulla, il weekend diventa più lungo. E il naso pure, però... I manuali di storia che «perdonano» le Br «Riscriviamo i manuali scolastici» annuncia il presidente francese Sarkozy nel gennaio 2008. E nomina una commissione incaricata di revisionare i libri troppo à gauche. E in Italia? Bisognerebbe istituirla anche da noi una bella commissione così. Ci vorrebbe, eccome. Invece niente: se ne parla da anni e non si fa nulla. E, di conseguenza, i nostri srudenti continuano a imparare a scuola che il comunismo «esprime l'esigenza di uguaglianza come premessa di libertà», che i gulag sono «un errore di valutazione» e Berlusconi è un «delinquente che porta l'Italia al caos». Le foibe? Colpa di chi ci è finito dentro. Tito? Non pervenuto. I partigiani? Colpivano solo nazisti e fascisti. E i cattolici della Brigata Osoppo massacrati dai Gap del Pci? Vietato anche solo nominarli. Il più celebre dei manuali, quel Camera-Fabietti su cui si sono formate generazioni di ignari studenti, in questo è sempre stato esemplare. I brigatisti rossi? Erano fascisti inconsapevoli («Il terrorismo si dichiara rosso e proletario, ma in realtà matura in ambienti universitari e piccolo borghesi e consegue oggettivamente gli stessi risultati del terrorismo nero»). I gulag? Non dipendono dal «sacrosanto ideale» del comunismo, ma da un «tentativo utopico» andato a male. Il Pci? Non aveva relazioni con Mosca né fondi dal Kgb, ma si batteva per «eliminare ingiustizie e privilegi». Invece la Nato, quella sì, assai pericolosa, finanziava Gladio e diffondeva «paranoie anticomuniste». Ma non di solo Camera-Fabietti si avvelena la scuola. Per esempio nella Storia dell'età contemporanea di Ortole-va-Revelli gli studenti possono leggere che Stalin «appariva rassicurante nella sua immensa autorità e nella sua salda permanenza al potere. Il timore da essa ispirato poteva quasi essere sentito positivamente, come il rispetto dovuto a un'autorità dura ma giusta». Rispetto dovuto? Autorità dura ma giusta? Rassicurante? Positivamente? Nello stesso manuale si assiste alla minimizzazione delle Brigate Rosse, cui vengono dedicate poche righe, comprensive e molto tenere. L'accusa più forte che si fa ai terroristi è di aver scelto «la via dell'intransigenza totale». E vaglielo a spiegare agli studenti che dietro l'«intransigenza totale» ci sono centinaia di morti ammazzati... Del resto, sul tema, c'è chi riesce a far anche di meglio. Antonio Desideri e Mario Themelly (Storia e storiografia) scrivono che «per i terroristi di sinistra la scelta dell'azione armata e della militanza clandestina rappresentò una misura preventiva nei confronti delle minacce di involuzione reazionaria». Capito? Una misura preventiva. Come l'antitetanica. Non come i terroristi di destra che invece volevano «creare le condizioni per una svolta autoritaria»... C'è da stupirsi? Macché: Desideri e Themelly, in fondo, sono gli stessi che celebrano i successi di Stalin dicendo che la sua feroce dittatura rappresenta
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semplicemente il prezzo (verrebbe da dire: il giusto prezzo) «pagato dalla Russia in cambio della distruzione del sistema feudale, dell'abolizione dello sfruttamento capitalistico e della creazione, nel giro di pochi anni, di un apparato di produzione industriale pari a quello che i Paesi dell'Occidente avevano costruito nel corso di lunghi decenni, se non di secoli». Per liberarsi dallo sfruttamento capitalistico non vale la pena di sterminare qualche milione di persone? Suvvia, non andiamo troppo per il sottile, non facciamo gli schizzinosi. D'altra parte anche quando si condanna Stalin, lo si fa per riabilitare Lenin, come nel testo per le quinte elementari La voglia di conoscere: «Nel 1924 morì Lenin: gli successe Stalin che instaurò una spietata dittatura». La instaurò lui, capite? Perché con Lenin c'era forse la democrazia? Si sa che nei testi di storia la rivoluzione socialista non viene contemplata (al suo posto ci sono la «rivoluzione russa» o la «società sovietica»). E si sa anche che, quando si parla dei piani quinquennali di Stalin, i «sacrifici» vengono definiti «proporzionali ai risultati raggiunti». Ma almeno si tratta di manuali per i licei. La voglia di conoscere è un testo per i ragazzini delle elementari, al massimo dei primi anni delle medie: perché cominciare l'indottrinamento così presto? Niente da fare: l'ideologia si infila dappertutto, scappa da ogni parte, s'intrufola nelle pagine più impensate. Persi-no nel Dizionario giuridico italiano-inglese, come rivela Gian Antonio Stella sul «Corriere». L'autore, Francesco De Fran-chis, scrive infatti che dopo il trionfo elettorale nel 2001, «il nuovo governo Berlusconi si presenta come una compagine all'altezza dei propositi, dal decreto salvaladri al condono edilizio, dal vecchio regime dei lavori pubblici alla virtuale abolizione del Secit: un free for ali degno di Somo-za». Somoza? Addirittura? Alberto De Bernardi e Scipione Guarracino, d'altra parte, nel loro manuale di storia descrivono Reagan e la Thatcher come due affamatori di popoli, che non solo smantellarono lo Stato sociale, ma costrinsero pure le aziende al fallimento (nemmeno un accenno, naturalmente, alle aziende che in seguito a quella rivoluzione nacquero e prosperarono). È lo stesso libro che sostiene che nel 1948 Einaudi e De Gasperi tradirono la Repubblica, rompendo il fronte antifascista: «Da quel momento l'attuazione della Costituzione sarebbe diventata uno degli obiettivi dell'azione politica delle forze di sinistra e democrati-che». Capito? Einaudi e De Gasperi traditori, e le forze di sinistra assurte di conseguenza a paladine della Costituzione. Non come le altre, non di sinistra, che invece... Perché gli studenti non conoscono Cefalonia Vi pare strano? Ma no: basta guardare a chi è stata affidata la storia del Novecento. Basta conoscere qual è il principale strumento di formazione dei nostri docenti. Chi è che «detta la linea», insomma. Non lo sapete? Insmli, segnatevi questo nome. Istituto nazionale per la storia del movimento di Liberazione in Italia. Creato nel 1949 per iniziativa dell'Anpi e del Pci, salvato da Veltroni quando nel 1996-97 era a un passo dal fallimento, presieduto da Oscar Luigi Scalfaro, l'istituto ha avuto il «monopolio della definizione della democrazia», come scrive «Il Domenicale». Detta legge, sale in cattedra, fa lezione. A spese nostre. E della storia, pure. Per avere un'idea di quella che è la manipolazione della storia attuata da questo istituto (peraltro pagato a caro prezzo dai contribuenti) è sufficiente leggere il saggio introduttivo dell'ultimo volume della collana Storia d'Italia nel secolo ventesimo, dove si attacca, guarda un po', Berlu-sconi definendolo una «minaccia per la democrazia» e si sostiene che l'espressione «ragazzi di Salò» rispecchia una «campagna senza precedenti contro la storiografia dell'antifascismo e della Resistenza», conseguenza della partecipazione della Lega e di Alleanza nazionale ai governi del centrodestra. (Peccato che il furore ideologico
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faccia dimenticare un piccolo particolare: l'espressione «ragazzi di Salò» fu pronunciata da Luciano Violante, esponente storico del Pci, quando venne eletto alla presidenza della Camera nel 1996, proprio dopo la sconfitta di Berlusconi...) L'Insmli attacca De Felice, usa la Resistenza per alimentare l'antiamericanismo, non considera i soldati italiani che combatterono al fianco degli Alleati contro Hitler e Mussolini, confonde la lotta di liberazione nazionale con la «resistenza parallela» del Pci, e soprattutto copre di silenzio le foibe, le stragi come quella di Porzus e i massacri di antifascisti compiuti da parte comunista durante e dopo la guerra partigiana. «L'istituto» scrive Ugo Finetti su «Libero» «usa la categoria dell'antifascismo per continuare a mitizzare o demonizzare fatti, movimenti e personalità in riferimento all'attualità a fini politici ed elettorali immediati evocando il fantasma di Salò contro tutto ciò che negli ultimi sessant'anni ha avversato il comunismo.» Risultato? «Gli studenti non sanno che la Resistenza è nata nel settembre '43 dagli scontri armati tra i militari italiani e i tedeschi, ma credono che sia stata fatta quasi esclusivamente dai comunisti; non conoscono i nomi di Alfredo Pizzoni e del generale Raffaele Cadorna, che sono stati alla guida del Cln dell'Alta Italia e del Comando unificato delle brigate partigiane, ma sono convinti che i militari italiani siano stati tanti Alberto Sordi del film Tutti a casa.» Cioè in fuga. E se gli parli del Triangolo Rosso, al massimo pensano che sia un nuovo modello di perizoma esibito da Paris Hilton o da Madonna in concerto... Così è se vi pare. Anzi, se pare all'Insilili. Cefalonia viene addirittura espulsa dalla «moralità» della Resistenza: in fondo, si sa, a combattere erano soldati, mica comunisti... Un tratto di penna e via, l'eroico sacrificio della divisione Acqui sparisce dalla memoria. In compenso fa capolino una lettura particolare di tutta la storia italiana che il saggio dell'istituto Giorgio Rochat definisce «la sottolineatura della continuità della società e della politica italiana da Giolitti a De Gasperi attraverso Mussolini». Il fascismo, dunque, è figlio dell'Italia liberale e padre della scelta di democrazia occidentale compiuta dagli italiani nel dopoguerra: tout se tient. Il filo nero non si spezza. E quindi è giusto ribellarsi? Anche con le armi? Se la democrazia occidentale è l'erede del fascismo non va anch'essa in qualche modo abbattuta? È stata proprio questa lettura faziosa della Resistenza, spiega ancora Ugo Finetti su «Libero», a legittimare il terrorismo degli anni Settanta. Per questo a travisare la storia si sbaglia due volte: non è solo un atteggiamento fazioso. È pure, e soprattutto, un atteggiamento irresponsabile. Ma a Mauthausen c'erano gli ebrei? Nel giugno 2008 «Il Foglio» riporta il lungo resoconto di un «pellegrinaggio a Mauthausen» di alcuni studenti delle superiori di Sesto San Giovanni (Milano), ripreso da un quindicinale locale, «Nuova Sesto». Un documento impressionante. In un'intera pagina, sette calate di piombo fitto, migliaia di parole messe in fila, non c'è nemmeno un accenno al martirio degli ebrei nei lager nazisti. «La considerazione contro il razzismo riguarda i rom» fa notare Sergio Soave. «L'esigenza di non dimenticare è collegata soprattutto alla deportazione degli operai antifascisti della Breda. Ci sono considerazioni interessanti sull'abominevole uso della scienza per la selezione genetica e l'eutanasia. Ma l'unico ebreo citato è Gesù.» Ma come si fa ad attraversare Mauthausen senza avvertire l'orrore della Shoah? A tal punto arriva il nuovo conformismo, l'inconsapevole autocensura, il buonismo manipolato sotto la spessa coltre di sentimenti perbene? I ragazzi depongono una corona al monumento dei rom, ed è perfetto, politicamente corretto. Si commuovono pensando ai sacrifici «dei nostri operai sestesi, che si opposero al nazismo», e anche questo è perfetto, politicamente supercorretto. Ma gli ebrei? Cancellati?
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Dimenticati? Il loro sterminio, spiega Soave, è stato «tacitamente, forse inconsapevolmente, oscurato, annullato, espunto dalla memoria proprio mentre della memoria si celebra l'importanza decisiva...». Un caso? Macché. Due insegnanti venete (Mariarosa Davi e Patrizia Guantieri) hanno sottoposto a esame una decina di manuali di storia delle superiori, analizzandone proprio la parte dedicata alla Shoah. Risultato? Solo uno dei testi riserva al tema un intero capitolo, con trattazione ampia e complessiva. Tutti gli altri vi dedicano al massimo un paragrafo o una sezione, magari qualche box e qualche scheda. «La trattazione sulla persecuzione risulta così frammentaria e spezzata» sottolineano le due professoresse. Non sempre è presente una periodizzazione che vada oltre la generica indicazione dell'autunno-inverno 1941 come inizio delle deportazioni, in tre manuali non si usa nemmeno il termine Shoah, e in altri tre non si fa distinzione tra campi di sterminio e campi di concentramento. Né va meglio al resto della storia degli ebrei. Sei testi non accennano nemmeno all'esistenza delle comunità ebraiche in Europa agli inizi del Novecento, uno parla di un generico antisemitismo diffuso in Austria, Germania e Russia. Anche il caso Dreyfus non sempre viene ricordato: un manuale non ne fa cenno, altri sì, ma rapidamente e solo nel contesto di un conflitto di potere tutto francese fra democratici e reazionari. «Se si considera che anche per i secoli precedenti la presenza ebraica nella narrazione dei fatti è rara» concludono le due professoresse «si ricava l'impressione che gli ebrei siano, nella storia narrata dai manuali scolastici, una comparsa alquanto intermittente.» La confusione regna anche per quanto riguarda i rapporti con i cattolici, e in particolare sul ruolo di Pio XII, al centro negli ultimi anni di un ampio dibattito storiografico. Accusato, in base a una leggenda nera, di essere quasi un complice di Hitler nella deportazione, a causa dei suoi silenzi, il Papa è stato poi ampiamente riabilitato dalle ricerche più recenti, e proposto dalla Chiesa per la beatificazione. Di tutte queste discussioni, però, è difficile scovare traccia sui manuali scolastici. Anzi, spesso trovano spazio solo gli elementi più negativi, per quanto acritici. In La Shoah di Giovanni Angelo Brindisi, adottato nelle scuole medie, per esempio si scrive: «C'è da chiedersi quale fosse la posizione della Chiesa cattolica e del papa in particolare dinanzi al fenomeno della deportazione e dello sterminio ... papa Pio XII si chiuse in un silenzio ostinato e fece ben poco per evitare lo sterminio degli Ebrei ... Molti preti, suore e parroci rischiarono la vita per salvare gli Ebrei ma con scarso appoggio da parte del papa...». E allora resta il dubbio: è giusto che i ra-gazzini imparino pedissequamente questa versione, senza nemmeno sapere degli studi che la sconfessano? E qualcuno spiegherà loro il motivo per cui, invece, la Chiesa vuole beatificare Pio XII? A Natale nasce Cappuccetto Rosso A Como, per non dispiacere ai bambini stranieri, hanno cambiato la canzoncina di Natale: hanno cancellato Gesù e l'hanno sostituito con la parola «virtù». A Magenta (Milano) invece Gesù ha lasciato il posto a «è festa, lo sai tu». Un po' più lunga, ma che importa? Fa sempre rima. A Tre-viso dentro la capanna, sotto la stella cometa, nella notte santa hanno fatto nascere Cappuccetto Rosso: fa fine e non impegna. Soprattutto, non disturba i bambini musulmani. I presepi sono stati vietati a intermittenza un po' in tutte le scuole della Penisola, da Genova a Roma, da Bari a Bolza-no. A Castelfranco Emilia (Modena) hanno proibito le reci-te, a Vicenza hanno contestato il concorso per il presepe più bello, a Roma ne hanno allestito uno con capanna, pecore, lavandaie e pastorelli ma senza la Sacra Famiglia. Evidentemente disturbava. A Cagliari hanno cancellato dal Natale Gesù Bambino: l'hanno sostituito con un personaggio di fantasia. Cappuccetto Rosso? No, quello era già impegnato a Treviso. Si sono inventati Mago Natale.
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Mago Natale? E perché non il Mago Otelma? O il Mago do Nascimento? O la Vispa Teresa? Ò Tiraemolla? Ma sì, è lo stesso: in principio fu il Verbo, poi venne il fumetto. Purché non siano i Tre Porcellini che, pure quelli, offendono i musulmani. Ma vi pare possibile? Va bene l'ideologica-mente corretto. Ma per quale motivo dobbiamo rinunciare a insegnare le nostre tradizioni, le nostre radici, la fede dei nostri padri? Per non turbare i bimbi islamici? Per non disturbare la quiete musulmana? Ma quando mai c'è stato da parte loro il medesimo rispetto? Fateci caso: se durante la Quaresima alla mensa scolastica provate a servire pesce il venerdì, c'è subito qualche mamma che scatena la polemica contro il «bigottismo». Magari la stessa mamma che insorge per rivendicare il diritto del musulmano di non aver nel piatto una porzione di prosciutto. Le tradizioni vanno seguite solo sulla strada del Corano? E perché? Da qualche tempo a scuola è tutto un fiorire di mielosa integrazione. Ci sono i menu etnici, i percorsi intercul-turali, kebab, cous cous e melting pot gastronomico, più o meno digeribile, approfondimenti tematici e studi comparati. Motivazione: bisogna conoscere le radici altrui. Perfetto. Ma quando la Provincia di Bolzano nella primavera 2008 approva una legge che da, come indirizzo educativo alle scuole, «la diffusione e il rafforzamento del pensiero e della cultura europea, fondata su radici cristiane», scoppia una mezza insurrezione. Qualcuno accusa il presidente Durnwalder di attentare alla Costituzione, lo scrittore Sebastiano Vassalli tira in ballo la «cultura della Controriforma». E quando a Milano, quartiere Giambellino, un mediatore culturale, di origine marocchina, si permette di parlare di principi cristiani viene attaccato violentemente dai genitori islamici: «Fa proselitismo». Dunque, se capiamo bene: a scuola si possono studiare tradizioni e radici culturali. Ma solo se non sono le nostre. Vi stupisce? Macché. A Torino in una scuola trasformano il Natale nella «Festa della Luce». A Viareggio (Lucca) avevano pensato di sostituire Tu scendi dalle stelle con Stella di An-tonello Venditti. A Ravenna (dicembre 2008) il presepe viene praticamente bandito da tutte le scuole comunali. I primi a stupirsene sono gli stessi musulmani: «Perché lo fate?» chiedono. Infatti a Desio (Milano), dove per partecipare al concorso di presepi organizzato dal Comune la scuola si sente in dovere di chiedere il permesso agli islamici, questi ultimi lo rilasciano senza problemi. Eppure l'equivoco persiste. A Firenze, scuola elementare Villani, la maestra chiede ai bambini un disegno sul Natale. «Posso fare Gesù Bambino?» chiede un alunno. E lei, inorridita: «No, altrimenti offendi i tuoi compagni musulmani». Non è vero, i musulmani non si sentono offesi. Siamo noi che ci sentiamo indifesi. A tale punto che, vedrete, fra un poco finirà che il 25 dicembre faremo i disegni di Maometto Bambino... Ormai è stata certificata la cancellazione del presepe da almeno quattro scuole milanesi su dieci. «I bambini imparano tutto sul Ramadam, ma le nostre tradizioni scompaiono» si lamenta qualche leghista. A Drezzo, in provincia di Como, avevano addirittura messo sotto accusa il sindaco che si era presentato nelle classi vestito da Babbo Natale: «Ha tradito lo spirito laico». Spirito laico? A Natale? Ma sì, dev'essere quello che si respira a Roma, alla scuola Carlo Pisacane, dove il presepe è stato sostituito da una specie di «villaggio globale»: dentro c'è un po' di tutto, dal minareto alle donne col burqa. Manca solo Gesù. Per non essere da meno a Verona hanno fatto sparire santa Lucia. Una volta portava i doni ai bimbi, adesso non si può più dire. Anche gli zampognari vengono considerati con sospetto. Per non dire dell'ingresso a scuola, in occasione delle festività, di un prelato. Per carità, cacciatelo via, disperazione dell'anima mia: a Colle Val d'Elsa (Siena) il vescovo non è riuscito nemmeno a salutare rapidamente gli scolari, a San Gimignano (sempre Siena) neppure. Tra un po' anche solo dirsi «Buon Natale» sarà pericoloso. Meglio «Buone feste», è più neutro. Nel
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frattempo i cristiani diventeranno carbonari, come profetizza Marcello D'Or-ta, il maestro di Io speriamo che me la cavo. Nella sua Napoli, del resto, una scuola ha già annunciato: macché Natale, noi festeggeremo il Capodanno cinese... Dev'essere questo il nostro destino, se si arriva al paradosso di un testo scolastico per elementari che dedica sei pagine al Natale relegando in una noticina, in ultima pagina, il fatto che ci si riferisca «al giorno della nascita di Gesù», senza peraltro dire nulla a proposito di questo misterioso personaggio. Cristo, chi era costui? Il manuale riserva molto spazio alla festa: si parla degli usi e costumi con cui si fanno bagordi in Australia e Norvegia, dei biscotti di pan pepato e zenzero, le tradizioni gastronomiche e i biglietti d'auguri, la poesia di Umberto Saba sulla neve che imbianca i campi e la leggenda dei bambini che soffiando fanno tornare i fiocchi in cielo. Ma perché milioni di persone festeggiano? Chi legge Tutti insieme a scuola allegra di Laura Valdiserra non lo saprà mai. Pazienza, però. Potrà consolarsi con la torta natalizia britannica che, nelle pagine dedicate al Natale, finisce per occupare molto più spazio della nascita di Gesù. Si chiama Christmas pudding. È molto dolce, eppure così amaro... VII La scuola a pezzi Dove bisogna mettere il cartello: pericolo, caduta classi «Se dovessi cambiare la scuola italiana comincerei dalla luce: via i neon... lampade pendenti... una luce più calda e più familiare... Le luci al neon a me ricordano gli ospedali; e gli ospedali non sono luoghi in cui ci si possa sentire a proprio agio, soprattutto se degli adolescenti ci devono passare buona parte del loro tempo per gli anni più belli della loro vita.» Cambiare la scuola cominciando dalle luci al neon? Forse il professor Giannino Marzola esagera. Ma che nelle aule italiane sia necessario ricominciare dalle fondamenta, e non solo in senso figurato, è un dato di fatto. «Avete mai visto il Parini di Milano?» si chiede Giancarlo Maculotti in Lettera dalla scuola tradita. «Non dico che hanno fatto bene ad allagarlo, ma un ambiente così squallido non l'avevo mai visitato. Pareti sporche. Non un quadro, non un dipinto, un prodotto della creatività giovanile. Stanze e corridoi ospedalieri che comunicano subito, anche ai più duri di comprendonio, il concetto base: lasciate ogni speranza voi ch'entrate.» Lasciate ogni speranza? Ma la scuola non dovrebbe essere la culla della speranza? Dovrebbe. Ma è difficile trovare spazio per la speranza fra topi e scarafaggi, banchi sfasciati e porte sfondate, muri scrostati e pareti disadorne, soffitti che crollano e bagni che s'allagano regolarmente con o senza il contributo dei vandali. Quando i giornali chiedono ai ragazzi di descrivere le loro classi on line ne viene fuori un quadro spaventoso: «Nel nostro bagno, quando qualcuno del bagno di sopra tira l'acqua, ci cadono delle misteriose gocce in testa» denunciano a Parma. «Sotto di noi c'è un deposito di bombole a gas che rischia di esplodere» si lamentano da Polistena (Reggio Calabria). E un palermitano racconta: «Da noi ci sono così tanti studenti che quasi cadono giù dalle finestre». «Le scale di sicurezza, dopo anni di attesa, finalmente sono pronte. Ma manca il certificato di agibilità» accusano da Siracusa. Poi ci sono, fra l'altro: il topicida nell'armadio, le finestre chiuse con carta da imballaggio, i piccioni morti sulle scale e i bagni che non vengono puliti da due mesi, per una protesta dei bidelli. «I muri divisori? Fatti di car-tongesso. Un mio compagno è inciampato e per poco non si ritrova nell'aula accanto» dice uno. E un altro: «Abbiamo un campetto da calcio. Ma è inagibile. Poi abbiamo un campetto da tennis. Ma è inagibile. Poi
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abbiamo una palestra, pure quella inagibile. E un'area della scuola dove si dice che, se tutto va bene, ci si prende la malaria». «La mia scuola fa schifo», «La mia scuola cade a pezzi», «La mia scuola è superaffollata». «Nella mia scuola ogni volta che piove entra acqua: siamo fortunati, solo in corridoio, però.» «Facciamo uno sciopero nazionale» propone Maximo da Bolzano. «Noi stiamo già protestando» gli ribattono da Milano. «D'inverno qui fa freddo» si lagna uno di Torino. E dall'altra parte d'Italia risponde un palermitano: «Figurati, qui da noi in inverno ci sono le pozzanghere». Per strada? «No, in aula.» Fra un incrocio e l'altro? «No, tra un banco e l'altro.» Esagerazioni di ragazzi? Sfoghi studenteschi? Purtroppo no: la cronaca (drammatica) conferma l'impressione. E poi, comunque, anche l'impressione ha una certa importanza. Come si può pretendere che i ragazzi amino la scuola, se la percepiscono come brutta, sporca, poco accogliente, cadente, anzi di più: devastata? Come è possibile che entrino in classe volentieri se quella classe ai loro occhi appare lurida e spoglia, un piccolo concentrato di tutte le brutture del mondo? Fra gli sfoghi web, fra uno «skifo» con la kappa (e tanti punti esclamativi) e l'altro, spunta anche un messaggio di poche righe che la dice lunga, se non sullo stato della scuola, almeno sui sentimenti dei ragazzi nei suoi confronti: «La mia aula è così brutta che l'anno scorso un mio amico ha tentato di darle fuoco. L'accendino non ha funzionato e lui ci ha rinunciato. Che peccato». Ogni giorno si fanno male 240 studenti Quarantaduemila edifici, 9 milioni di cittadini. A pensarci bene la scuola è la più grande metropoli del Paese: ha quasi nove volte gli abitanti di Milano, trenta quelli di Firenze. Ma noi la teniamo in considerazione meno di un garage. Ci preoccupiamo, giustamente, dell'arredo cittadino, c'indigniamo (giustamente) se colorano d'azzurro la Fontana di Trevi, siamo pronti alla rivolta contro i graffiti che chiazzano di colori spregiudicati i muri delle stazioni. Ci sono cortei per la pulizia del parco, comitati per la pulizia del quartiere, manifestazioni per la pulizia delle strade. E le scuole? Niente, nisba, rien. Ogni mattina 9 milioni di studenti varcano la porta di un mondo che cade a pezzi come Alba Parietti prima del lifting. Ma il fatto sembra non interessare nessuno. Salvo poi sorprendersi e cascare dalle nuvole di fronte alla tragedia. Il 31 ottobre 2002 a San Giuliano di Puglia (Campobas-so), in seguito al terremoto, crolla la scuola Francesco Jo-vine. Era stata ampliata e ristrutturata da poco. Ventisette bambini e una maestra rimangono schiacciati sotto le macerie. La tragedia colpisce tutto il Paese: seguono giorni di discussioni, dibattiti, inchieste e controinchieste. Ma, alla fine, quello che resta è una verità semplice e clamorosa: di tutti gli edifici della zona, l'unico che non è stato in grado di reggere la scossa sismica è la scuola. Vi sembra logico? Vi sembra possibile? La costruzione che dovrebbe essere la più sicura, la più seguita, la più curata, quella cui si affidano i nostri bambini, è la prima ad accartocciarsi come un tortino di marzapane... Il 22 novembre 2008 al liceo scientifico Darwin di Rivoli (Torino) crolla un soffitto. Colpa di un tubo di ghisa dimenticato da chissà quale ristrutturazione. Un diciassettenne, Vito Scafidi, resta ucciso, altri suoi compagni rimangono feriti. Uno di loro in modo grave. «Mai avuto problemi, quando ci sono stati allarmi siamo sempre intervenuti» dice la preside. «Non è vero» ribattono gli studenti. Intanto gli esperti dei vigili del fuoco scoprono che in quell'edificio altre dieci aule erano a rischio. Seguono giorni di discussione, dibattiti, inchieste e controinchieste. Ma, alla fine, resta una verità semplice e clamorosa: Vito che aveva 17 anni e amava la Juve, Vito che giocava a calcio e scherzava con le ragazze, ebbene, Vito adesso non c'è più. I suoi compagni l'hanno salutato al funerale con uno striscione che, ricordando
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le vittime della Thyssen, diceva: «Come facciamo a crepa-re in fabbrica, se ci ammazzate prima?». Lo sfascio scolastico, in effetti, non fa male solo agli occhi e al cuore. Lo sfascio scolastico uccide. Colpisce. Ferisce. Fa male anche, fisicamente, alle gambe, alla testa e alle spalle di chi ci capita in mezzo. O, meglio, sotto. Macerie su macerie: ogni giorno, secondo i dati Inaii, nelle scuole italiane si fanno male 240 studenti. Sono circa 90.000 in tutto l'anno. Se a questi si aggiungono i circa 12.000 fra insegnanti e bidelli si arriva a quota 103.000. Nel 1999 erano 83.000: 20.000 in meno. Poi dicono che nella scuola italiana non c'è nulla che va avanti bene. Non è vero: forse sarà difficile far crescere la preparazione degli studenti, ma il numero degli infortunati, come dimostrano le statistiche, cresce che è un piacere. Secondo il capo della Protezione civile Guido Bertola-so, è a rischio quasi la metà delle scuole, cioè oltre 20.000 su 42.000. Secondo il rapporto di Legambiente «Ecosistema scuola 2008» quelle che hanno bisogno di interventi urgenti (e si sottolinea: urgenti) di manutenzione sono 9920. Quasi una su quattro. Il 95 per cento ha più di quarant'anni, solo il 47 per cento ha avuto una manutenzione straordinaria negli ultimi cinque anni. Il 60 per cento non ha il certificato di idoneità statica, il 57 per cento non possiede quello di agibilità igienico-sanitaria, il 36 per cento non ha impianti elettrici a norma, il 90 per cento è senza ingressi adeguati. Solo una su due ha la scala di sicurezza. E quasi il 75 per cento è privo di certificato di prevenzione incendi. Con differenze abissali, naturalmente, fra le varie regioni d'Italia. Tanto per dire: hanno il certificato di conformità dei vigili del fuoco 70 edifici a Forlì e soltanto 7, invece, a Isernia. Sarà un caso? Eppure, nonostante le tragedie di San Giuliano e di Rivoli, con le conseguenti ondate di dolore e sdegno, nonostante la pubblicazione dei dati, le angosciose domande e il refrain delle polemiche, nonostante tutto, dicevamo, gli stanziamenti per l'edilizia scolastica in Italia continuano a essere pochi. Troppo pochi. Nel 2002 era stato valutato un fabbisogno di 3 miliardi di euro: ne sono stati stanziati 250 milioni, diventati disponibili solo nel 2007 (50 milioni per il 2007,100 milioni rispettivamente per il 2008 e per il 2009). Nel settembre 2008, prima della tragedia di Rivoli, il ministro Gelmini aveva stanziato in via straordinaria altri 480 milioni, dirottando alle scuole il 5 per cento dei fondi infrastrutturali del Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica). Molto, ma non ancora abbastanza. Nel dicembre 2008 sono stati trovati altri soldi, nel marzo 2009 altri ancora. Ma finché si continua a spendere il 97 per cento del bilancio dell'istruzione per mantenere l'enorme stipendificio di bidelli e professori, come si fa a riparare davvero tetti cadenti e pavimenti groviera? Al massimo si spendono parole. Di quelle ce n'è sempre in abbondanza anche, e soprattutto, in tempo di crisi. In effetti fa impressione andare a scavare nell'archivio delle dichiarazioni e delle buone intenzioni. Fa impressione e anche un po' rabbia. Per esempio nel 1996 veniva approvata una norma (legge Masini) che poneva l'edilizia scolastica come una delle questioni «più urgenti da affrontare» per il Paese. Nel 1996, capite? L'anno in cui Prodi aveva vinto per la prima volta le elezioni e Mario Balotelli, oggi campione dell'Inter, aveva appena dismesso il biberon. Be', tredici anni dopo verrebbe da chiedersi: se così vengono trattate le questioni urgenti, quelle meno urgenti, quelle che possono aspettare un attimo, quando le affrontiamo? Nel prossimo millennio? Tredici anni per (non) fare l'elenco degli edifici Fra l'altro nella legge del 1996 era anche prevista l'ana-grafe degli edifici scolastici. Mai realizzata. Colpa di chi? Degli enti locali che non mandano i dati, della burocrazia che non si muove, della solita pigrizia... Ma è possibile metterci tredici anni per (non) fare un
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elenco? E se non si sanno quali sono le scuole più a rischio come si fa a intervenire? Dopo la tragedia di Rivoli, il ministro Gelmini e Guido Bertolaso annunciano: stileremo la lista dei cento istituti più a rischio, quelli dove intervenire con la massima urgenza. Ottimo. Speriamo che la massima urgenza non significhi altri tredici anni di attesa... La tragedia, altrimenti, è sempre in agguato. Non ci credete? 2 aprile 2008, Milano, zona Monte Stella. Alle undici del mattino, nella seconda C della scuola elementare Martin Luther King, si sente uno scricchiolio. I bambini guardano verso l'alto, il soffitto crolla. Mattoni e calcinacci sui banchi, uno degli scolari si salva per miracolo. Il preside si sfoga con i giornalisti: «Poteva scapparci il morto. Non si può aspettare sempre la strage per intervenire». In effetti: non si può. E invece... E invece s'è aspettato il Darwin di Rivoli, e ora forse s'aspetta la prossima... Quando sarà? 16 dicembre 2008. Naro (Agrigento): viene giù il soffitto della scuola elementare Don Bosco. Non ci sono feriti, anche se gli alunni erano in classe. Un miracolo. Si ripeterà? 19 dicembre 2008. Biella: cade il soffitto del liceo tecnologico Quintino Sella. Quattro ragazzi lievemente feriti. Un altro miracolo. Si ripeterà? D'altra parte se crolla una scuola che si chiama Martin Luther King, con un nome così moderno e progressista, in un quartiere bene di Milano, nella metropoli europea, nella città che ospiterà l'Expo 2015, nel centro che si candida a diventare il faro delle nuove infrastrutture, ebbene: che cosa può capitare, allora, nel resto d'Italia? Se va a pezzi la Quintino Sella di Biella, con quel nome sabaudo e austero, che cosa può succedere, per dire, nella elementare Puccia-niello di un paesino della Campania o nella Nino Savarese della sperduta provincia siciliana? Basta sfogliare le pagine dei giornali per averne un'idea. Sono notiziole piccole, brevi in cronaca, pallini sui quotidiani locali. Ma messe insieme danno l'idea di una scuola che avrebbe bisogno di un segnale d'avvertimento all'entrata. Un cartello che dicesse così: attenzione, caduta classi. A Sassari crollano plafoniera e intonaco di un'elementare: feriti quattro scolari. La scuola era stata messa in sicurezza da un anno. A Falconara Marittima (Ancona) si sfonda il solaio della Leonardo da Vinci: nessun ferito, per fortuna il cedimento è avvenuto di notte, 260 bambini restano senz'aula. Evacuata l'elementare Deledda-Nosego di Napoli: i vigili del fuoco segnalano il rischio crollo. Cede il solaio all'istituto Giovanni Verga di Centocelle (Roma), si scoperchia il lucernario al liceo Dante Alighieri di Prati (ancora Roma). A Badalucco (Imperia) le elementari vengono chiuse perché inagibili, a Dego (Savona) si corre ai ripari perché la media rischia di venire giù. Crolla il soffitto di una materna di Iglesias, in Sardegna, a Trieste viene evacuata una struttura che ospita una media, una materna e una elementare: sospetto cedimento strutturale. I docenti dell'istituto Can-nizzaro di Palermo denunciano: «Siamo costretti a studiare e a lavorare in una condizione di costante timore per la nostra incolumità». In una elementare di Serra Pedace (Cosenza), in compenso, i bambini hanno un'idea originale: siccome la loro classe viene dichiarata inagibile, si presentano con zaini, astucci e cartelle negli uffici del Comune. «Caro sindaco, oggi facciamo lezione qui da lei...» È il giro d'Italia dello sfascio, il tour tricolore del degrado, l'unità del Paese cementata dai calcinacci cadenti. Quasi un paradosso: nelle differenze della Penisola, l'unica cosa che tiene insieme le scuole è il fatto che cadono a pezzi. A Bergamo gli studenti degli istituti pubblici organizzano una singolare protesta: di notte mettono i lucchetti agli istituti privati con un messaggio per i loro colleghi studenti. «Venite a vedere» chiedono «in che condizioni studiamo noi.» Rivalità o invidia? Alla scuola elementare Manzoni di Vittorio Veneto (Treviso) è bastato il piccolo urto di un cassonetto per far crollare dieci metri del muro di cinta, evidentemente in condizioni piuttosto fatiscenti. Nella scuola Antonello da Messina di Palermo quando piove raccolgono l'acqua a
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secchi. Alla Pascoli di Milano cade una lastra di cemento (un metro per cinquanta centimetri) dalla facciata della scuola. E sempre a Milano la pioggia fa crollare il soffitto della Guarneri: lezioni sospese per cento bambini. E l'anagrafe degli edifici pericolanti? Ripassate fra tredici anni, chissà... Le nostre scuole? Grazia Delenda e Alessandro c'era una Volta Dopo l'incidente di Rivoli, per la verità, si accende grande interesse per la materia. E insieme si scatena anche il panico. Il 60 per cento degli studenti dichiara di aver paura di entrare in aula. In Basilicata si scopre una scuola elementare (quella di Scanzano Jonico) costruita praticamente sulla sabbia. Si segnalano crolli a Lamezia, Ischia, Pompei, al liceo classico Vivona di Roma-Eur, alla mensa della scuola elementare Dante Alighieri di Lucca, a Ospitaletto (Brescia) e a Bagheria (Palermo). A Catanzaro si stacca un termosifone. Al liceo di Terlizzi (Bari) scoppia una caldaia, a Bari una ragazza rimane ferita da un pannello. Evacuata l'elementare di Cercola (Napoli). Allarme: la metà degli edifici scolastici di Bologna (la civile e progressista Bologna!) non è a norma. A Monza si scopre che l'istituto d'arte è crollato come cartapesta: i ragazzi vanno a scuola nell'ala ancora in piedi, passando ogni mattina accanto a calcinacci e transenne. Ciò accade da dieci anni. Io speriamo che la scuola se la cava commenta il maestro Marcello D'Orta sul «Giornale», facendo il verso al suo celebre libro. Qualcuno suggerisce: anziché dare il grembiule ai nostri figli, non sarebbe meglio dar loro una corazza? «La nostra scuola è dedicata a Grazia Delenda» scherzano gli studenti su Internet. «La nostra ad Alessandro c'era una Volta.» Più che maestri, in realtà, sembra ci sia bisogno di muri maestri. E considerato il miracolo che si ripete ogni giorno in cui non si registra un incidente mortale verrebbe voglia di rivoluzionare, se non altro, la scelta dei nomi: basta con le scuole dedicate a Darwin, Pavese e a Sandro Pertini. Come minimo, bisogna cominciare a dedicarle a Padre Pio. Tanto per dire: mentre in tutte le aziende e gli uffici bisogna applicare rigorosamente le norme sulla sicurezza previste dalla famosa legge 626, le scuole ne sono magicamente esentate. Perché? «È uno scandalo» dice Bertolaso. Ma se si dovessero applicare i parametri di sicurezza che si usano per il resto del mondo, ebbene le aule dove studiano i nostri ragazzi sarebbero perlopiù già chiuse. Secondo una ricerca svolta nel 2006 da Cittadinanzattiva, che ha preso in esame 271 scuole in 12 regioni, nel 18 per cento di esse si verificano abitualmente crolli di intonaco, nel 20 per cento ci sono cavi elettrici scoperti, prese e interruttori rotti o divelti. Il 20 per cento dei cortili, dove gli studenti fanno ginnastica o ricreazione, sono ingombri di mobilio. Nel 19 per cento dei casi sono usati come discarica. Il motivo? Spesso i lavori di ristrutturazione durano anni, come al liceo scientifico Luca da Penne di Pescara, dove la costruzione della palestra è in corso dal 2000. Che ci volete fare? Gli studenti passano, le betoniere restano. «Se si studiassero i calcinacci, anziché i libri» scherzano gli studenti «saremmo i più bravi d'Italia...» Sempre meglio di quello che è successo a Colonnella, provincia di Teramo. Qui hanno costruito un nuovo polo didattico per il modico costo di un milione di euro. Dovevano inaugurarlo nel 2006, poi nel 2007, poi nel gennaio 2008. Niente di fatto. Lunghezze, ritardi, temporeggiamenti. La solita storia da incompiuta all'italiana, gioia del Gabibbo e disperazione dei contribuenti. Nel maggio 2008, però, oltre al danno arriva anche la beffa. Un giornale locale pubblica le foto della struttura e denuncia: muffa, sporcizia, acqua sui pavimenti e vetri rotti. La scuola costata un milione di euro non è mai stata inaugurata. In compenso è già in stato di degrado. Un record.
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Il liceo? È una stalla Versioni di Terenzio accanto alla camera iperbarica, Cicerone a un passo dalla mammografia. E se qualcuno si sente male, assistenza medica rapida e assicurata. Siamo al liceo scientifico e classico D'Ovidio di Larino (Campobasso). Una scuola come le altre? Sì, peccato però che sia ospitata dalla Asl, come racconta Klaus Davi su «Panorama». Problemi? No, basta non confondersi fra l'interrogazione di matematica e il pagamento del ticket. Lo scientifico Mario Pagano di Riccia (Campobasso), invece, è in un ex penitenziario: le aule sono allestite nelle ex cucine e negli ex bagni del carcere. Va tutto bene, solo che gli studenti si sentono un po' in gabbia: al posto dell'intervallo, chiedono l'ora d'aria. E il liceo artistico Manzù, sempre a Campobasso? È disperso su tre piani di condominio: uno di questi è nel seminterrato, con evidenti problemi di illuminazione, oltre che di pulizia. Niente di che, s'intende, a parte il fatto che per mettere i banchi pare abbiano dovuto chiedere ospitalità ai topi. Esagerazioni? Eccezioni? Macché. Secondo il «Quaderno bianco» del ministero le scuole non scuole, cioè gli edifici «precariamente adattati a uso scolastico», sono il 20 per cento (1 su 5) al Sud, il 15 per cento al Centro e il 9 per cento nel Nord. Anche il liceo scientifico di Rivoli, quello dell'ultima tragedia, era un seminario riconvertito in scuola negli anni Settanta. E a Limosano, in Molise, dal giorno del terremoto i ragazzi delle medie vanno a scuola in chiesa. La lezione è finita, andate in pace, titola «La Stampa», mentre il parroco don Moreno spiega pacifico come si risolvono i problemi di convivenza didattico-liturgica: «Nei giorni di tempo pieno non celebro i funerali... ». Il 70 per cento delle scuole (7 su 10) ha ancora barriere architettoniche, in barba alla legge che ne prevede l'eliminazione, che risale al 1968, cioè all'anno in cui Sergio En-drigo vinceva Sanremo e Eddy Merckx il Giro d'Italia. Oltre quarant'anni fa. Quarant'anni non bastano per abbattere le barriere architettoniche? Evidentemente no. E nemmeno per fare in modo che gli edifici «precariamente adattati a uso scolastico» lo siano un po'meno «precariamente». Non ci credete? Il sito Internet studenti.it ha raccolto on line le segnalazioni degli studenti. E passare dalle fredde cifre statistiche alle testimonianze vive rende il quadro, se possibile, ancor più desolante: ad Agropoli (Salerno) si fa lezione all'interno di un condominio indebolito dai terremoti, vecchio di quarant'anni e mai ristrutturato; il liceo D'Alessandro di Bagheria (Palermo) «è in un garage», la succursale dello scientifico Einaudi di Siracusa pure, l'Ein-stein di Palermo «in un condominio di sette piani». Sette piani? Sì, ma, sempre a Palermo, l'istituto d'arte riesce a far meglio: è in un condominio di otto piani. La maggior parte degli istituti è ricavata da edifici che avevano ben diversa funzione: vecchie fabbriche, stabilimenti, ex conventi. Altri sono prefabbricati con muri di cartongesso e finestre formato groviera. «Il nostro non sembra un liceo, ma una cella frigorifera» scrive Natale del liceo classico di San Demetrio Corone (Cosenza). «Non abbiamo muri, solo lamiere» denuncia Guya dell'Ipsar Buontalenti di Firenze. E uno studente del liceo Talete di Roma scherza: «I bidelli ci hanno detto che il nostro soffitto respira. Speriamo almeno che non gli venga il raffreddore». Presentando il «Quaderno bianco» si arriva a parlare di «scuole stalle». Cittadinanzattiva denuncia che in 1 su 10 manca l'acqua potabile: ne sono privi 9 edifici in Sicilia, 8 in Calabria, 2 in Emilia Romagna, 1 nelle Marche e 1 in Lombardia. La scuola meno sicura, secondo il rapporto 2008, sarebbe la Giacomo Leopardi di Lamezia Terme (Catanza-ro). Ma 2 scuole su 3 non raggiungono la piena sufficienza. Secondo Legambiente se la cavano bene Prato, Asti, Forlì, Livorno, Parma, Macerata, persino Biella, nonostante ogni tanto crolli qualche liceo. Mentre in fondo alla classifica ci sono Catania, Sassari, Genova, Crotone e Salerno. Fra le
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zone più a rischio sicuramente la Campania, dove il 95 per cento degli edifici avrebbe bisogno di interventi urgenti. Secondo l'Unione degli studenti sono almeno 5 gli istituti pericolanti nella sola Napoli: eppure negli ultimi cinque anni il capoluogo partenopeo ha ricevuto, tra fondi regionali e nazionali, 5,5 milioni di euro per l'edilizia scolastica. Non sono bastati? O sono stati spesi in altro modo? ASecondigliano (Napoli) c'è un istituto, il De Rosa, che è stato in costruzione per oltre trent'anni. I primi lavori erano stati avviati nel 1970, nel 2002 il presidente della Provincia, dopo l'ennesimo passaggio burocratico, dichiarava: «Auspico che presto la scuola possa aprire...». Auspico? Dopo trent'anni? Ma sì. In fondo che cosa sono trent'anni? A Giar-re (Catania), per esempio, c'è voluto mezzo secolo: il primo progetto per l'edificio scolastico (che doveva costituire con il teatro nuovo, l'ospedale, le piscine, lo stadio di atletica e altri impianti la spina dorsale di una rinascita siciliana) era degli anni Cinquanta, l'opera è stata completata alle soglie del nuovo millennio. E il liceo classico di Sant'Agata di Militello (Messina) è in costruzione da più di vent'anni: per ora ne hanno inaugurato solo una parte. Del resto, quando nel 2001 il ministero del Tesoro ha provato a fare il bilancio dell'intervento straordinario al Sud ha calcolato, per 600.000 miliardi spesi, ben 232 opere incompiute. Fra queste anche diverse scuole. Come quella di Sassari. «Noi siamo in un vecchio motel, senza palestre e senza bagni attrezzati per persone disabili» scrivono su studenti.it i ragazzi sardi. «Il colmo è che qui vicino c'è una scuola considerata tra le migliori d'Europa. L'hanno ristrutturata due volte e l'hanno lasciata cadere a pezzi.» Ma vi pare possibile? Studenti costretti in una «topaia», come dicono loro, e lì vicino una scuola, tra le migliori d'Europa, ristrutturata due volte e lasciata cadere a pezzi? Un'assurdità. Una delle tante, purtroppo. Ma per fortuna, in mezzo a tante scuole fatiscenti e a tanti casi scandalosi, c'è anche qualche esempio positivo. Come l'istituto tecnico Rendina dell'Aquila. Una struttura unica nel suo genere: progettata e realizzata senza barriere architettoniche, idonea a ospitare attività didattiche, con laboratori e aule completamente cablate, palestra con gli spalti, aule multimediali, biblioteca con sala di lettura, sala convegno, sala video. Una meraviglia. Tutto funzionante, con tanto di certificazione iso 9001-200. Perfetto, no? Sì, peccato che questa scuola stia per essere smantellata. Presto, dicono, ne faranno uffici per la Provincia. E gli studenti? Avanti, tutti a studiare nelle stalle. La scuola avvelena la vita. Con arsenico e amianto Arsenico, zinco, piombo, indio, germanio e mercurio. Tutte sostanze altamente tossiche, tutti materiali a elevata potenzialità cancerogena. Sapete dove si trovavano? Nei muri delle scuole. Proprio così. Dietro la lavagna, sotto la cartina smandrappata dell'Europa, accanto alla finestra dell'ultimo banco. Lo ha scoperto la polizia, nel settembre 2008, in Calabria. Operazione lampo, nome in codice Black Mountains. E un dato choc, su tutti gli altri: 350.000 tonnellate di veleni, anziché essere smaltiti come previsto dalla legge, venivano utilizzati nell'edilizia. Ci costruivano case, negozi, parcheggi. E anche scuole. Almeno tre: l'elementare San Francesco di Crotone, un istituto tecnico, sempre a Crotone, e un'altra elementare a Cutro (ancora in provincia di Crotone). Poi dicono che studiare fa bene. Fa bene? Con l'arsenico e il mercurio? Ma no, la verità è che la scuola a volte avvelena la vita. I ragazzi lo sostengono da sempre, forse hanno davvero ragione loro. L'algebra è tossica, la geometria pure e la grammatica può provocare allergie. In fondo si è sempre detto, no? La prof di inglese non è forse «più velenosa di un cobra»? Certe lezioni di fisica non sono «peggio della cicuta»? Per sopportare la trigonometria non ci vorrebbe l'antidoto? E per sopravvivere a due ore di latino non sarebbe necessaria la lavanda
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gastrica? In genere si accusa la scuola di essere troppo teorica: «Certe materie si studiano solo sui libri» si dice. Ecco, non è vero. La chimica, per esempio, gli studenti la sperimentano direttamente sulla loro pelle. Maneggiando sostanze in laboratorio? Macché. Respirandole in aula. Ad Avellino, nella elementare Oscar D'Agostino, decine di scolari sono stati intossicati dalle vernici usate per ridipingere le pareti. Ad Andria (Bari), una perizia medica conferma la presenza nei pavimenti di sostanze tossiche, pericolose per i bambini. A Messina, nel villaggio Fondo Fucile, c'è una struttura chiamata «la scuola dell'amianto»: è la Albino Luciani, 610 studenti fra elementari e medie, costruita vicino a una baraccopoli, in mezzo a ondine di eternit ormai sbriciolato e dimenticato. Secondo le relazioni dell'Ar-pa e delle Asl dovrebbe essere immediatamente evacuata. Invece rimane in funzione. Il rischio amianto, del resto, è alto in tutta Italia. Si segnalano ancora pezzi di tetti in eternit alla elementare di Fognano (Parma) e a quella di Garbatola (Milano). «Ma è in buono stato» rispondono i responsabili. Ah be', se è in buono stato... Secondo la Cgil (ricerca del 2005) si trovano tracce di amianto in 6769 edifici scolastici (il 16 per cento del totale). A questi va aggiunta una novantina di strutture in cui è stato individuato il radon, un gas nocivo che provoca il cancro ai polmoni. Legambiente conferma: il rischio amianto a scuola è altissimo. I casi certificati sono passati dal 7 per cento del 2006 al 13 per cento del 2007, quelli sospetti dal 6 al 7 per cento. Per i casi di radon si passa addirittura dallo 0,02 per cento al 2,37. In Liguria si registra la presenza di amianto addirittura nel 77 per cento delle scuole. Nel maggio 2008 il Comune di Genova è stato condannato a risarcire la famiglia di una bidella, che si era ammalata per colpa delle polveri velenose ed è morta di tumore ai polmoni. È stato il primo caso in Italia, ha fatto impressione: con il timbro di un tribunale si è ufficialmente riconosciuto che le sostanze tossiche non solo sono davvero presenti in aula, ma possono anche uccidere. Ora quel liceo, assicurano nel capoluogo ligure, è stato bonificato. Ma gli altri? Gli altri soffocano, zoppicano, s'arrangiano tra amianto, radon, arsenico e vernici tossiche. E se tutto questo non vi bastasse, non preoccupatevi: attorno alla cattedra prosperano anche le altre, e più moderne, forme di inquinamento. Si sa, l'avvelenamento è uno dei pochi settori in cui la scuola non conosce arretratezza. Il 20 per cento degli edifici si trova vicino a trasmettitori Tv o cellulari, l'8 per cento vicino ad aree industriali. Si tratta di strutture evidentemente esposte a onde elettromagnetiche, fumi, gas di scarico. E anche al rumore. L'11,5 per cento delle aule italiane soffre di inquinamento acustico. Colpa dei professori che strillano? Della classe vicina che fa festa durante l'ora di religione? Macché: colpa della vicinanza ad autostrade, aeroporti, fabbriche. E colpa dell'assenza di strutture fonoassorbenti. Lo denuncia anche una ricerca del Politecnico di Torino (2004): l'acustica delle nostre scuole è pessima, le corde vocali dei professori sono stressate ed è a rischio la concentrazione. Già, la concentrazione. Ci mancava solo il fracasso. Come se gli studenti non fossero già in grado di distrarsi benissimo da soli. Un solo bagno, 380 infila «Mi scappa la pipì, papa'.» Speriamo che a scuola, però, non scappi troppo: infatti all'elementare Manzoni di Pre-gnana Milanese ci sono 380 studenti e un solo bagno. La coda si allunga, il rischio esondazione cresce. Ci si affida alle vesciche dei piccoli, sperando siano così pazienti da reggere l'attesa. «Com'è possibile?» si chiede «il Giornale» nel settembre 2008. Semplice: nell'edificio ci sarebbero altri tredici bagni, ma i lavori non sono completati. E dunque sono inutilizzabili. Dopo quello del liceo Parini, avremo altre forme di allagamento? O bisognerà ricorrere ai pannolini didattici?
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La carenza di bagni e il loro cattivo funzionamento, del resto, è un must per le scuole italiane. Non parliamo poi di quelli per disabili. Una scuola su tre non è attrezzata, denuncia Cittadinanzattiva. I lavandini sono devastati, gli ac-cessori divelti, le finestre sfasciate e le porte cadono a pezzi. La pulizia? Un disastro. «Da noi le docce sono così sporche che persino le verruche camminano con le ciabatte» mi dice un ragazzo. Il 42 per cento dei bagni non ha scopini, in metà non c'è carta igienica, nel 70 per cento non c'è sapone. Tutti seguaci dell'ecologista Fulco Pratesi, il teorico dell'antila-vaggio? Tutti campioni delle mani sozze? Tutti nemici giurati del Dove? Fieri avversari del Camay? «Ci vorrebbero più ragazzi come una volta, quelli acqua e sapone» mi ha confidato un insegnante. «Ma come si fa? Ormai a scuola non abbiamo nemmeno più il sapone... » E la pulizia non migliora se si passa dalle toilette alle cucine. Anzi. Secondo il rapporto di Cittadinanzattiva una mensa su tre è sporca. Fra pacchi di pasta e casse di frutta si può trovare un po' di tutto: dai topi ai vermi, dai parassiti ai polli, dagli insetti ai gatti morti. La trafila è sempre la stessa: denuncia, scandalo, proteste, polemiche e chiusura. Poi si riapre e ricomincia tutto da capo. Come al Righi di Milano, dove nel settembre 2008 hanno visto e fotografato addirittura un cinghiale che passeggiava tra i banchi. «Tutto normale» hanno spiegato i più anziani fra gli studenti. «Succede spesso. È la nostra mascotte.» Evidentemente le bestie abbondano nelle aule scolastiche. E non si tratta solo di asini. Quello che invece scarseggia sono gli arredi. A Roma, nel settembre 2007, per esempio, si sono accorti all'improvviso che la scuola media Giovanni e Francesca Falcone, scelta dal ministro per inaugurare l'anno scolastico, non aveva i banchi. Cerimonia rinviata, tante scuse e figuraccia nazionale. Un caso particolare? Macché. A Palermo, denuncia «la Repubblica», la media Cesareo è a corto di suppellettili, al punto che gli scolari si sistemano in due su una sedia. A Sesto San Giovanni (Milano), invece, scuola elementare Martiri della Libertà, una bimba di 7 anni con la gamba ingessata e la sedia a rotelle è stata costretta a comprarsi il banco all'Ikea. L'istituto non ne aveva uno adeguato da metterle a disposizione. «Siamo noi genitori a finanziare al scuola» denuncia Elena Beltramo, una lettrice della «Stampa». Il suo sfogo è pubblicato nella pagina delle lettere. «I miei figli frequentano un istituto comprensivo statale (elementare e media) di Torino. Ogni anno ci viene chiesto di fornire ai bambini, oltre al materiale didattico, carta igienica, sapone per le mani, risme di carta per le fotocopie. Ogni classe istituisce un fondo a disposizione degli insegnanti per comprare materiale didattico. Cosa dovremo fare ancora noi genitori?» In effetti i dati sono impressionanti: ogni anno le famiglie spendono 500 milioni di euro a titolo di contributo alle scuole. Soldi non dovuti, non previsti da nessuna disposizione che vanno a colmare le lacune degli istituti: spese di laboratorio, assicurazioni, carta igienica, carta per scrivere, penne, materiali, persino acquisto delle pagelle. Acquisto di pagelle? Proprio così. E considerati i voti portati a casa da molti studenti, quest'ultimo esborso è quasi una beffa. Come se al papa' di un impiccato chiedessero i soldi per comprare la corda... Il laboratorio non c'è (e la palestra fa schifo) In una scuola così, senza sapone e senza carta igienica, come si può sperare di trovare impianti efficienti, palestre o laboratori funzionanti? Infatti, la situazione è quasi drammatica. Una scuola su tre non ha strutture per lo sport. Il dato è confermato da tutte le ricerche, a cominciare da quelle di Legambiente e di Cittadinanzattiva. In Sicilia le scuole senza palestre sono addirittura più della metà, cioè il 53 per cento del totale. E dove ci sono, invece? Cadono a pezzi. Sono sporche, inadeguate, con impianti elettrici non a norma e senza misure di sicurezza. Il 30 per cento presenta segni di fatiscenza o crolli di
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intonaco, una su due non ha cassetta di pronto soccorso, moltissime (il 19 per cento) sono prigioniere di insormontabili barriere architettoniche. Il 29 per cento ha attrezzature danneggiate, in 9 casi su 100 le attrezzature non sono danneggiate perché non esistono ASavona, qualche tempo fa, i professori conclusero l'anno senza dare voto in ginnastica sulla pagella ai loro studenti. Motivo? «Non c'è la palestra.» A Folignano (Ascoli Piceno), sindaco e assessori si sono trasformati in muratori per cercare di dare la possibilità agli alunni della elementare di fare la ginnastica. «La nostra palestra è fatta di amianto, senza termosifoni e quando piove si allaga» scrive su studenti.it un ragazzo del liceo Marconi di San Gavino Monreale (Cagliari). E quelli del liceo classico Gualtiero di Orvieto (Terni) rispondono: «Da noi la palestra è una sottospecie di cantina con il soffitto basso basso». Basket? Pallavolo? «Macché. Al massimo riusciamo a giocare a ping pong...» Non va meglio con i laboratori. Una ricerca conclusa nel 2008 dal Gruppo di lavoro interministeriale per lo sviluppo della cultura scientìfica e tecnologica, che ha coinvolto tutte le scuole italiane, scatta una fotografia impietosa: meno della metà dei docenti italiani (il 42 per cento) ha a disposizione un laboratorio. La percentuale è più alta alle superiori (80 per cento), ma scende alle medie (63) e alle elementari (addirittura 27). Il personale specializzato è quasi inesistente, gli insegnanti spesso non sono all'altezza. Risultato? «I nostri ragazzi» spiega «Il Messaggero» «rimangono spettatori passivi di una moltitudine di nozioni teo-riche. Nessuno stimolo, nessuna possibilità di sporcarsi le mani sul campo.» A parte l'arsenico e lo zinco dei laterizi, come si diceva prima. La situazione, naturalmente, peggiora man mano che ci si sposta da Nord a Sud. «Panorama» ha fatto il confronto fra due istituti tecnici, il Buonarroti di Trento e il Marie Curie di Napoli. Il primo ha a disposizione almeno il triplo di attrezzature: 35 banchi di lavorazione contro 6, 6500 provette contro 429, 4 frigoriferi contro 0,15 bilance contro 5, 30 agitatori per miscelare le sostanze contro 2,140 bruciatori contro 3... «Si rileva uno svantaggio del Mezzogiorno in termini di dotazione di laboratori e aule attrezzate allo svolgimento di attività pratiche» denuncia il «Quaderno bianco» del ministero (2007). L'unica cosa che è aumentata nel Sud negli ultimi anni è la dotazione di computer: il numero di pc si è infatti triplicato, raggiungendo la media nazionale. Il 47 per cento degli strumenti elettronici sono stati acquistati grazie ai fondi comunitari attraverso il Programma operativo nazionale. Un esborso enorme. Ma, sottolinea il «Quaderno bianco», «non va trascurato il fatto che la dotazione fisica di pc non è sufficiente a garantirne l'accessibilità adeguata per gli studenti e per il personale docente, nonché il suo effettivo uso a fini didattici». Non lo usano a fini didattici? E per che cosa lo useranno, allora? Per giocare alla PlayStation? Fra l'altro sull'informatica applicata alla pedagogia vale la pena condividere la riflessione di Giorgio Israel sul «Foglio» (20 maggio 2008): Il computer non è un idolo, s'intitola l'articolo. E nel testo si sostiene l'errore di un'educazione che insegue la tecnologia a tutti i costi, anziché puntare sulle conoscenze. Internet e il pc sono «meri strumenti» con cui si possono fare eccellenti ricerche o scaricare informazioni improbabili. «Non a caso negli Stati Uniti si tende ormai a limitare l'uso dei computer nelle scuole» c'informa Israel. In Massachusetts, per esempio, grazie a un «approccio tradizionale» si sono ottenuti ottimi risultati, anzi uno «spettacolare miracolo educativo», che ha portato quello Stato in testa in tutte le valutazioni federali. E chissà, forse nell'«approccio tradizionale» sono compresi anche muri che stanno in piedi, piastrelle senza veleni, aule conforte-voli, banchi sufficienti per tutti gli alunni e finestre grandi abbastanza per far
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filtrare un raggio di sole. Perché è vero che dei computer si può fare a meno. Anche delle luci al neon, però... VIII La scuola che funziona Dove si parla di quelli che preferiscono le declinazioni al declino A Palermo, per esempio, ci sono lo sfascio, la desolazione, l'ignoranza, i bulli, i professori picchiati. C'è la difficoltà di una scuola che ogni giorno rischia di annegare. Ci sono i fondi scarsi, gli insegnanti fannulloni, gli studenti senza disciplina. C'è la mancanza di meritocrazia, il lassismo, ci sono tante cose che non funzionano, come in tutta la scuola italiana, e lo abbiamo raccontato fin qui. Poi, però, c'è anche Valentina. Non sapete chi è? Vale la pena conoscerla. Valentina sognava di fare l'archeologa, si ritrova invece in cattedra nei quartieri a rischio della sua città. Eppure ogni giorno entra in classe con una grinta che non ha pari, con un entusiasmo che non si può capire. È come se portasse avanti, dentro quelle mura logore, una missione, quasi una vocazione. Chissà, forse l'ha ereditata durante i suoi amati ritiri spirituali. Per conquistare i ragazzi ha persino imparato tutto del Palermo Calcio. E così, lei che di football non capiva nulla, ogni giorno sta lì a discettare di Petrar-ca e bomber, dolce stilnovo e gol di rapina, Manzoni, stop-per, Ugo Foscolo e trappola del fuorigioco, sciogliendo nel centrocampo della letteratura i dubbi e le ostilità. Fino a quando un alunno, particolarmente studioso, le chiederà: scusi, prof, ma che posto avrebbe avuto Giacomo Leopardi nel 4-4-2 di Guidolin? E a Torino? Anche a Torino ci sono lo sfascio e la desolazione, c'è l'ignoranza e tanto altro. Ma poi c'è anche maestra Flavia: da pensionata ha chiesto di continuare ad andare a scuola, in un quartiere difficile, quello delle Vallette. «Magari mi rendo utile: posso fare con i ragazzi il ripasso di storia e geografia...» dice. C'è maestra Flavia, dunque. E poi c'è la prof di Trieste che eredita sette case e le regala agli studenti più bravi perché usino i soldi per laurearsi. E c'è la prof del liceo Beccaria di Milano che, dopo il suicidio di un sedicenne che era stato bocciato, ha riaperto la scuola, in pieno luglio, e ha chiamato tutti i colleghi dalle vacanze: «Oggi andiamo in classe e parliamo con i ragazzi». Ci sono loro, e ce ne sono tanti altri. Come l'educatore eroe di San Giovanni a Teduccio (Napoli), che nasce da una famiglia disagiata, si riscatta, si laurea in filosofia e anziché andarsene in giro per il mondo, felice di essersi tirato fuori dall'inferno di Gomorra, torna a dare una mano ai ragazzi che sono prigionieri dei clan. Avanti, ce la possiamo fare. Mettete un Kant nei vostri cannoni. Un film uscito in poche sale qualche tempo fa (L'amore che non scordo) ha provato a raccontare le storie di quattro maestre. Quattro come tante. Straordinariamente ordinarie. Maestra Chiara di Casalecchio di Reno (Bologna) che insegna alle elementari la scrittura creativa. Maestra Alice di Milano che sa far amare l'Inferno di Dante anche ai bambini. Maestra Adriana di Campoleone (Roma) che racconta la storia partendo dalle esperienze di vita degli alunni. E maestra Cristina di Settimo Milanese che vive un rapporto così intenso con i suoi, che ogni separazione, alla fine di un ciclo, è come un lutto. «Sono maestre come queste che salvano la scuola» spiegano i registi. È vero: sono loro che salvano la scuola. È un miracolo quotidiano, che non si trova sui libri di pedagogia e nei programmi ministeriali. E neanche sui giornali, per la verità. Nei giornali, in genere si parla d'altro. Insegnanti fannulloni? Ce ne sono, certo. Troppi. Ma poi c'è anche la prof Maria Teresa di Milano che per salvare la vita a uno studente, durante un crollo in aula, mette in pericolo la sua e ottiene la medaglia al valor civile. Insegnanti impreparati? Ce ne sono, certo. Troppi. Ma poi c'è anche il prof
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Francesco di Alessan-dria che conosce il latino come le sue tasche, e compone poesie e vince concorsi e diventa cittadino onorario della sua città. Insegnanti lazzaroni? Ce ne sono, certo. Troppi. Ma poi ci sono anche prof come Francesco Saraceno, di Archi, in Calabria. Tanti anni fa scrisse al «Giornale» di Montanelli. Suo padre era stato appena ucciso dalla 'ndrangheta: «Resto qui a lottare contro il nemico dai mille volti o emigro?» aveva chiesto. Il grande Indro, per una volta, non aveva risposto. «Non me la sento di darti un consiglio.» Il ragazzo si è laureato a Pisa, è diventato ingegnere, ha ricevuto un mare di offerte dalle multinazionali. Le ha rifiutate. È tornato in Calabria. E oggi insegna al liceo tecnico industriale di Archi dopo aver peregrinato per Locri, Siderno, Bagnara Calabra e Vibo Valentia. «La patria è come una madre» dice. «Bisogna amarla anche quando è puttana.» I miei tre maestri speciali Dico la verità: avevo iniziato a scrivere questo capitolo quasi per dovere. Una specie di pagina preventiva, una linea Maginot contro le inevitabili polemiche che il libro susciterà. Ma come? Parli solo male della scuola? E noi che lavoriamo per tre soldi come eroi dimenticati? Di noi non dici nulla? Già me la vedo la scena durante le presentazioni del libro, in giro per l'Italia. Si alza una mano. «Scusi Giordano, le faccio una domanda da insegnante...» E io comincio a incrociare le dita. Alcuni minuti di concione, i ricordi, le teorie, la passione. E poi la conclusione, inevitabile come l'Irpef, scontata come il tre per due all'Esselun-ga: «Ma perché non parla mai di noi che facciamo fino in fondo il nostro lavoro?». Ecco, avevo iniziato questo capitolo con quello spirito lì. Per rispondere a quella domanda. Per avere qualche pagina da gettare in pasto ai delusi e tranquillizzare gli amici in Mondadori che hanno fra gli insegnanti i loro migliori clienti. «Ehi Giordano, se quelli si arrabbiano e cominciano a comprare solo Rizzoli?» Avevo iniziato questo capitolo con lo spirito un po' buonista e un po' rassegnato, con la convinzione che «si deve fare». E, invece, alla fine credo che non avrei potuto trovare una conclusione migliore al nostro viaggio nel mondo della scuola. Diciamoci la verità: nella scuola le cose vanno maluccio. Anzi, peggio. Molto male. Insufficienza grave. E se le cose vanno male, a chi fa il mio mestiere tocca dirlo, perché vale sempre la regola del vecchio Zucconi: «Ogni giorno nel mondo migliaia di aerei decollano e atterrano regolarmente. Noi dobbiamo dare notizia solo di quello che si schianta». Dobbiamo dare notizia degli aerei che si schiantano, delle scuole che crollano, dei disastri che si moltiplica-no. Ma poi dobbiamo anche spiegare perché la scuola resta in piedi, nonostante tutto, contro tutto. Ostinatamente. Nonostante quello che abbiamo raccontato fin qui. E non possiamo farlo se non capiamo che dietro le strutture fatiscenti, la burocrazia folle, gli strumenti inadeguati, la legislazione zoppicante, c'è un miracolo che si ripete ogni giorno. Ci sono tanti piccoli eroi del registro quotidiano. Abnegazione all'ultimo scrutinio, dedizione, questa sì, davvero fuori ruolo. Tutto attorno crolla, ma loro, gli insegnanti, resistono, azzoppati ma indomiti, come enrichitoti con la stampella esibiscono i simboli delle loro ferite, ma stanno lì in trincea. Non mollano. Ci salvano. Di insegnanti così io ne ho conosciuti molti. A tre di loro, in particolare, vorrei dedicare questo libro. Una è la maestra Carla, maestra unica, anche un po' mamma. Le devo tutto. Ci ha presi in prima elementare, ci ha portati in quinta. Le sue assenze sono state così poche che me le ricordo ancora adesso. «C'è la supplente», per noi equivaleva a «C'è la guerra nucleare». Ci ha insegnato a leggere e a far di conto, la storia e la geografia, soprattutto ci ha insegnato ad amare la scuola. Ad aiutare chi era in difficoltà. E ad assumerci delle responsabilità. Se penso alla sezione A della scuola Carducci di Alessandria, oggi, penso in
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particolare a questo: ognuno di noi, alla fine, aveva un incarico. Dal temuto capoclasse all'invidiato messaggero, che andava in giro per le altre classi, nessuno si è mai sentito escluso. Forse, chissà, c'era anche chi aveva soltanto l'incarico di aprire la finestra in primavera: la maestra Carla sarebbe riuscita a far sembrare importantissimo pure quello. La sento ancora, di tanto in tanto. Mi racconta che non riesce a leggere i miei articoli, perché ha problemi agli occhi. Proprio lei, che ha sempre saputo vedere così lontano... Alle medie incontrai la professoressa Piccardi. Amava i monti della Lunigiana e la letteratura. Di lei non ho mai più avuto notizia. Non so, ripensando a quegli anni, se mi abbia insegnato qualcosa di Leopardi e di Manzoni, non so quanto debbo a lei la conoscenza della grammatica o alcune incertezze che non sono riuscito a guarire. Ma so quanto sia stata importante per farmi amare la scrittura. Dalla prima alla terza media mi invitò a tenere un quadernetto. Lo chiamavamo «Le cronache». «Scrivi tutto quello che ti succede» mi suggeriva. «Descrivi i personaggi che incontri, le situazioni in cui ti trovi, i sentimenti che provi.» Io l'ho presa in parola. Ho riempito quaderni e quaderni che ancora oggi sono lì, chiusi in un armadio a casa di mia mamma, dolce e malinconica testimonianza della mia adolescenza. «Le cronache.» Ogni tanto li rileggo. Alla fine di ogni capitolo c'è la nota della professoressa Piccardi. Lei leggeva tutto, correggeva, senza darmi mai giudizi. Mi rispondeva, però. Poche righe, una battuta. Mi voleva spiegare che era importante quello che avevo scritto, non il voto che prendevo. A me non sembrava vero che i miei racconti potessero interessare qualcun altro: forse fu allora che decisi definitivamente di fare questo mestiere. Al liceo ho incontrato tanti prof importanti: «la Bruno» di greco e latino, «la Ratti» di matematica, «la Scotti» di italiano. E poi il professor Francesco Molinari. Lui insegnava filosofia. Ho saputo della sua morte pochi anni dopo la maturità. Ricordo che, quando venne l'ora dell'esame, ci portò (noi, piccolo gruppo di adepti della setta filosofica) in una casa di campagna. Parlavamo di Schopenhauer e hegelismo di sinistra, Marx e Fichte (anzi no, Fichte pochissimo: non gli piaceva per nulla). Ci faceva leggere e studiare Jacques Monod, Il caso e la necessità. Era una sera di primavera avanzata, quasi estate, calda e dolce. All'improvviso lui sparì. Dissero alcuni compagni che l'avevano visto più tardi, in piena notte, girare per la città, con gli occhi spersi, e non ho mai capito se era una notizia o solo la vendetta perché ci eravamo sentiti abbandonati. Però riflettendoci dopo ho capito che forse anche quella sera aveva voluto darci un messaggio, per noi l'ultimo: ragazzi siete grandi, dovete cavarvela da soli. Ecco: con lui siamo diventati grandi. Raccontava la filosofia con una passione che ce la faceva amare. Ma non erano i contenuti che insegnava: ci insegnava ad affrontare i problemi della vita, a modo nostro, a muso duro, a trovare dentro di noi le forze per venire fuori dalle difficoltà. Ci dava del lei (per noi una novità assoluta, un caso più unico che raro). Uno dei primi giorni ricordo che mi interrogò sulle origini della filosofia. Avevo studiato benissimo la lezione, ma come la si studiava al ginnasio, un po' mnemonica, senza passione, senza elaborazione. «Ha saputo tutto, Giordano, perciò non va bene» mi disse con evidente paradosso. Capii. Un'altra volta avevamo organizzato non so che protesta per solidarietà con un compagno che aveva combinato qualcosa. Lui ci guardò con un sorriso, si lisciò i baffi e ci fulminò: «Ragazzi, la solidarietà con chi sbaglia smette di essere solidarietà. Diventa associazione per delinquere». Ci penso spesso, di questi tempi. E lo ringrazio per avermi aiutato a diventare un po' più grande. E c'è chi va a scuola fra stucchi, marmi e ori Provate ad andare a vedere l'istituto Tosi di Busto Arsizio (Varese), una delle migliori scuole della Lombardia: collaborazione con Cambridge e con le imprese, dotazione di strutture, formazione continua, possibilità
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di contatti internazionali. Ci sono studenti che escono di lì parlando il cinese, tutti con una buona possibilità di inserimento nel mondo del lavoro. A vederlo sembra un campus, la cerimonia della maturità si svolge sul modello inglese: tutti in divisa, si chiama Graduate Day. Nel luglio 2008 il ministro Germini ha scelto di celebrare proprio al Tosi la fine dell'anno scolastico. La incontro subito dopo la visita, ne è entusiasta. «Sono bravissimi» mi dice. Ma a me scappa una domanda destinata a rimanere senza risposta: «Perché lì funziona e altrove no?». Nel suo ultimo libro Antonello Caporale racconta di un liceo che «dovrebbe divenire meta di pellegrinaggio». È il Bertrand Russell di Cles (Trento). «La lezione di biologia? Si fa in inglese, con un professore madrelingua. Il programma di storia? Lo si studia in tedesco con l'insegnante bilingue. Il docente insegna con due lavagne: quella classica con il gesso e quella interattiva, che al solo tocco delle dita permette di richiamare immagini, lucidi e cartine utili a facilitare l'apprendimento.» Novecentottanta iscritti, 48 classi, 5 indirizzi (classico, scientifico, linguistico, psicopedagogico e sociale), 90 insegnanti. Cinque laboratori di informatica, due linguistici, uno per la chimica e la fisica, un altro per la biologia. Secondo il rapporto Ocse 2006, il Bertrand Russell di Cles distacca di 100 punti la media nazionale in matematica, scienza e lettura. L'Italia prende 475? Loro arrivano a 571. Certo hanno più soldi: ma non basta a spiegare. Il liceo Galileo di Trento, per esempio, ha lo stesso numero di alunni e il doppio dei trasferimenti, eppure non ha la stessa produttività. E allora quali sono i segreti di Cles? Ce ne sono tanti. Ma se dovessi puntare su uno, ebbene, sicuramente punterei sul duplice sistema di valuta-zione che consente di tenere sempre sotto controllo i professori e la qualità dell'insegnamento... Ma sì, il controllo. E la qualità. Se si guardano i rapporti internazionali si scopre che in Trentino la scuola funziona meglio che nel resto d'Italia. Merito dell'autonomia? Balle. Se fosse merito solo dell'autonomia, allora anche in Sicilia e Sardegna la scuola dovrebbe eccellere. Invece non è così. Il fatto è che in Trentino gli insegnanti sono pagati meglio, ma anche costantemente monitorati e controllati. E stimolati. Per esempio: ogni anno 1 su 3 viene portato a visitare le scuole in altre nazioni, a studiare modelli stranieri che funzionano. Non vengono abbandonati. Al contrario vengono seguiti, aiutati, supportati. E alla fine, allora, accettano di buon grado anche la valutazione che a livello nazionale viene sempre respinta con disprezzo. La valutazione è diversa, se non cala dall'alto. Ma gli esempi positivi non sono confinati solo ai piedi delle Dolomiti. Macché. «Tuttoscuola» ha elaborato un «rapporto qualità», mettendo insieme diversi elementi, dalla valutazione degli insegnanti alle strutture, e si hanno alcune sorprese: per esempio salta fuori una grande dotazione informatica nelle scuole della Puglia. E poi, non sembra vero, ma Trapani eccelle in fatto di sicurezza, classificandosi prima di Trieste. Gli studenti di Crotone? Hanno un'ottima preparazione. E la scuola a Macerata ha un'elevata qualità complessiva: nella graduatoria generale la città arriva sesta, prima di Milano, Roma, Bologna e Torino. Stupore? Fino a un certo punto. Napoli sarà pure devastata, ma è stata la prima città in cui una bimba di 8 anni, bloccata a casa da una grave malattia, ha potuto seguire le lezioni via webcam. Molti istituti di Roma perdono i pezzi, ma Ugo, 9 anni, pure lui malato, potrà finire la quinta elementare grazie a un nuovo sistema di videoconferenza. «Voglio continuare a studiare» dice, ritrovando il sorriso. «Farò l'inventore, il pediatra o il cantautore.» A Rivoli, vicino al liceo che è crollato nel novembre 2008, c'è una scuola elementare all'avanguardia tecnologica: tutti i bambini hanno il computer al posto del quaderno. Sempre a Torino c'è l'istituto Bodoni Paravia dove hanno inventato un sistema
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modernissimo (l'hanno chiamato Didanext-Chan-nel) che: consente di scaricare le lezioni in podcasting. A Bologna hanno sperimentato in 109 scuole la lavagnetta multimediale: permette di disegnare e navigare su Internet stando al proprio posto. Invece del gesso si usa la penna elettronica, per rispondere alle interrogazioni una sorta di telecomando. Resta solo un dubbio: se non si sa rispondere, arrivano i consigli per gli acquisti? Scherzi a parte, di esempi positivi se ne trovano molti in giro per l'Italia. Non solo di professori eroi. Ma anche di dotazioni tecnologiche all'avanguardia. Si trovano persi-no strutture efficienti. Lo so, l'abbiamo raccontato: la gran parte degli edifici scolastici italiani cade a pezzi. Ma possiamo finire il libro senza prenderci un respiro di sollievo? Allora date uno sguardo all'istituto Setti Carraro di Milano. Sta nel centro, a pochi passi da piazza Duomo, in un palazzo dell'Ottocento. E dopo aver visto e raccontato decine di classi cadenti, di cornicioni traballanti, di soffitti che fanno passare più acqua di un colabrodo, di zecche e ragni, bagni sozzi e corridoi da ufficio d'igiene, fa bene al cuore pensare che c'è una scuola pubblica in Italia in cui tutti i giorni i ragazzini si trovano a far lezione tra affreschi neorinascimentali, stucchi e ori, porte in legno massiccio, grandi specchi e pavimenti in marmo pregiato. Sembra che da un momento all'altro, più che le lezioni, in quelle grandi stanze possa iniziare il gran ballo di corte... La classe dove tutti hanno 10 in condotta I professori, le strutture. E, infine, i ragazzi. Anche loro, se proprio dobbiamo dircela tutta, non sono come viene fuori dai giornali, dalle statistiche e forse anche un po' da questo libro. Certo, ci sono gli asini, ma ci sono anche quelli che vincono le Olimpiadi di matematica. C'è chi pensa che il Canale di Suez e il Canale di Panama siano la nuova offerta televisiva di Sky, ma ci sono anche quelli che traducono Virgilio a occhi chiusi. Ci sono i bulli, ma ci sono anche quelli del Berchet di Milano, che quando esplode l'emergenza rifiuti a Napoli si dichiarano disposti a partire per andare a fare gli spazzini. «I nostri genitori andarono a ripulire Firenze dopo l'alluvione, ora tocca a noi» dicono. Forse c'è un eccesso di slancio, e tanta retorica. Ma si sente l'animo buono. Abbiamo parlato a lungo di Internet, dei filmini on line che non smettono di stupirci. Ma poi c'è anche la ID, liceo scientifico Grazio Cossali, di Orzinuovi in provincia di Brescia, dove tutti hanno 10 in condotta. Tutti, ma proprio tutti. «Mai successo a memoria d'uomo, è il paradiso terrestre di questa negletta scuola italiana» scrive Cristiano Gatti sul «Giornale» nel febbraio 2008. Ventun alunni, tredici femmine, otto maschi. Sono ragazzi normali: vanno in discoteca, si trovano sui muretti, girano con lo scooter. Non è una consorteria di amebe. Anzi, i loro prof li giudicano «vivaci e frizzanti». Eppure, se entra un estraneo si levano in piedi, prima di parlare alzano la mano, non lanciano cancellini, non infilano bisce nel cassetto della supplente d'inglese, non fanno volare dalla finestra cartelle e neppure compagni. Un fenomeno paranormale? Ma no. Il liceo Parini di Milano, per esempio, ha adottato una scuola indiana: 150 ragazzi paria andranno a lezione grazie agli inventori della «Zanzara». Gli studenti di La Spezia scambiano colorati container della pace con i loro colleghi di Misurata (Libia) e Alessandria d'Egitto. I ragaz-zini della terza media di Chieri (Torino) sono riusciti a dare una memoria a 25 austriaci del '15-18, che erano stati sepolti e dimenticati per novant'anni nel cimitero del loro paese. E la seconda media di Quartu Sant'Elena (Cagliari) è arrivata a farsi eleggere classe più buona d'Italia per come ha aiutato a inserirsi i compagni disabili. Alla faccia dei loro coetanei bulli che i disabili li maltrattano.
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Di loro, però, su Internet non si parla. Che ci volete fare? La bontà non paga sul web. E il profitto neppure. Gli strafalcioni fanno ridere, le risposte esatte no. I violini steccano sulla rete, i primi della classe vanno bene solo se finiscono chiusi nell'armadio fra le risate di scherno generale. Eppure, quando nel 2007 viene introdotta una legge per la valorizzazione delle eccellenze, si scopre che ci sono ben 3026 studenti che hanno preso 100 e lode alla maturità e altri 1370 meritevoli della menzione d'onore per aver brillato in vari concorsi, olimpiadi, certamen. C'è Pietro Vertechi, per esempio, che nel 2007 ha vinto le Olimpiadi internazionali di matematica, battendo 500 ragazzi provenienti da 93 nazioni: ha 17 anni, fa la seconda al liceo classico Dante di Roma, parla l'inglese e il francese, e se gli chiedi che cosa sono i numeri per lui risponde: «Arte». C'è Vincenzo Grande, 18 anni, di Monopoli (Bari), che ama Pirandello e Oscar Wilde, ascolta musica classica, gioca a pallavolo e ha vinto la medaglia d'argento alle Olimpiadi della chimica. C'è Sabina Grassi, di Pozzuolo del Friuli, che ha trionfato in una gara europea con un progetto per la bonifica dei terreni inquinati. E c'è Ester Messina di Mazara del Vallo (Trapani), che nella disastrata Sicilia, dove gli studenti hanno in media una preparazione quattro volte inferiore a quella dei coetanei dell'Azerbaigian, spicca a tal punto per dedizione e risultati che il presidente Napolitano la nomina «alfiere del lavoro». Dal 1992 al 2005 nessun italiano aveva ottenuto risultati nelle gare internazionali. A interrompere il digiuno è stata nel 2006 una ragazza di Cadegliano, in provincia di Varese. Maria Colombo, 18 anni, ha battuto 500 concorrenti di 70 diverse nazionalità alle Olimpiadi di matematica. Nonostante tutto, nonostante i nostri guai, ci siamo fatti valere perché in Italia c'è sempre un'eccellenza che emerge dal disastro, un fiore all'occhiello che si fa largo in mezzo alla colata di macerie. Nel 2006 la squadra italiana ha vinto due medaglie d'oro e due d'argento per la matematica. Non male, no? Il liceo classico Vittorio Emanuele di Palermo ha portato a casa il premio nazionale Label per le lingue straniere, mentre una scuola di Segrate (Milano) è arrivata prima al mondo in una gara di video sulla comunicazione. Senza contare le innumerevoli competizioni di lingue antiche, dal Certamen Ovidianum di Sulmona all'Agon Eschileo di Gela, dal Certamen Sallustianum dell'Aquila al Certamen Varronianum di Rieti al Certamen Ciceronianum di Arpino (Fresinone) : decine di ragazzi che si preparano, che studiano, che brillano, che magari parlano anche in latino fra loro, come al Beccaria di Milano, che oppongono impavidi le declinazioni al declino, l'accusativo singolare alle accuse generali, la consecutio temporum alla perdita di tempo. Il liceo Einstein di Milano ha proposto di dare un bonus di 200 euro agli studenti eccellenti e qualcuno si è subito scandalizzato: «Lo studio non si monetizza». Forse è vero: chi studia non ha bisogno di essere premiato con la mancia. Sempre meglio che dimenticarlo, però. Ricordo con nostalgia... E così siamo arrivati alla fine di questo viaggio dentro il nostro Paese dei balocchi che qualcuno chiama scuola. Ora che abbiamo assolto al dovere contrattuale e anche morale di elencare rapidamente le eccellenze che ci sono (eccome se ci sono), ci rimane dentro un po' di amarezza. Perché in Italia c'è sempre bisogno di eroi? Perché ci affidiamo sempre all'estro dei singoli? Perché riusciamo ad andare avanti solo a forza di miracoli? Se ci guardiamo alle spalle, scopriamo un'istituzione centrale per il suo Paese che in quarant'anni ha perso il senso della sua esistenza, il valore della sua missione. Continua a presentare situazioni eccezionali e protagonisti formidabili. Ma, nel suo complesso, non funziona. Semplicemente: è inadeguata. La fabbrica degli ignoranti, l'ha chiamata Giovanni Floris. Temo, purtroppo, che sia molto di più. È la fabbrica del nostro disastro, è la fucina del nostro collasso. È il luogo
santa pace», spiega dil
dove si è preparato il declino di questi anni e dove si sta preparando il crac del futuro. Bisogna intervenire. Come e quando, anche questa volta, non sta a me dire. Quindi mi fermo. E saluto chi ha avuto la pazienza e il coraggio di seguirmi fin qui con una testimonianza, che mi è arrivata per lettera al giornale, di un ispettore scolastico della Lombardia, Francesco Provinciali. Trovo che, nella sua semplicità, dica tutto. O, almeno, molto. «Ricordo con nostalgia quella scuola dov'ero entrato per la prima volta come recalcitrante scolaro: mi ero poi affezionato alla maestra e alla fine non ne sarei mai venuto via ... Crescendo ho poi incontrato molti illustri sapientoni, ma di tutto ciò che ho sentito nella mia vita mi sono rimasti impressi quei tre o quattro valori di allora ... Non mi parlavano di intercultura, ma mi invogliavano a leggere tanti libri, non si usavano computer ma si sapeva scrìvere una lettera a un amico. E se tornando a casa dicevo di essere stato sgridato dall'insegnante, mio padre non correva subito alla redazione di un giornale e neanche mandava un esposto in Procura. Se mai rincarava la dose: mi mandava a letto senza cena e non mi faceva vedere il Carosello. Per i richiami subiti e le rampogne ricevute giuro di non essermi mai rivolto a Telefono Azzurro. Il direttore era un mito: se ne sentiva parlare, ma si vedeva poco, quasi una leggenda. Se entrava in aula ci alzavamo in piedi per rispetto, ma nessuno si sognava di andare nel suo ufficio a fare rimostranze. Le bidelle si chiamavano proprio bidelle, non au-siliarie e collaboratrici, ma nonostante questo la scuola era davvero pulita. Ricordo che una volta il direttore, trovando la scala sporca, le aveva chiamate tutte e si era inginocchiato a pulire i gradini, proprio lui, con lo straccio e il detersivo e alla fine a loro - che lo guardavano a bocca aperta - aveva detto: si fa così. Nessuno, allora, si era rivolto al sindacato. Indossavamo i grembiulini, perché cambiare vestiti tutti i giorni era un lusso, si apprendeva Tabe e si studiavano le poesie a memoria. Poi gli psicologi hanno stabilito che si trattava di insostenibili vessazioni. "Troppa fatica." Da quando nella scuola è entrato di tutto, senza filtri, senza controlli, mi pare che le cose si siano a poco a poco rovesciate. Il direttore suo malgrado non dirige più: coordina, gli insegnanti sono sempre in riunione, e i bidelli (che non si chiamano più bidelli) si appellano sempre ai sindacati. Anche per gli studenti dev'essere cambiato qualcosa. Più che aprire bocca, basta che aprano le loro cartelle: merende, giornalini, telefonini, videogiochi. Libri no, sono troppo pesanti. L'altra sera a un Tg ho sentito quel che diceva un apostolo della pedagogia del nuovo: basta insegnare a leggere, scrivere e far di conto. Ora la scuola deve aprirsi alle nuove realtà. Può darsi che abbia ragione lui. Personalmente ho dei dubbi. E trovo che una parola continui a circolare con troppa insistenza nelle scuole con crescente interesse, una parola di cui tutti si impossessano per scelta e convinta adesione: diritti. Molti diritti che portano spesso a troppi rovesci.»