URSULA CURTISS CHIEDETELO A GEOFFREY (The Poisoned Orchard, 1980) Personaggi principali: SARAH MALCOLM la cugina bella F...
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URSULA CURTISS CHIEDETELO A GEOFFREY (The Poisoned Orchard, 1980) Personaggi principali: SARAH MALCOLM la cugina bella FRANCES NICHOLS, detta FEN la cugina brutta BLAISE ROLAND marito di Fen JAMES un giovane architetto EDITH LIST ex-governante di casa Malcolm NANCY PIKE compagna di scuola di Fen GEOFFREY NORVAL amico d'infanzia di Fen LA COSTA detective 1 Sarah Malcolm aspettava una sola persona in quel tardo pomeriggio di gennaio, cupo e gelido, ma come in seguito si verificò, se ne presentarono altre tre, due delle quali non invitate, la terza chiamata con insistenza. Il cuore le mancò quando, alle quattro e mezzo, aprì di nuovo la porta a Blaise Roland, dopo un intervallo di pochi giorni. Era in pullover, incurante del vento gelido. Disse: «Salve, Sarah, vecchia mia. Mi sono fermato per...» Non terminò la frase e sedette a un capo del sofà con un gesto vago. Inutile trattarlo severamente: era già un miracolo che fosse riuscito a infilare il vialetto carrozzabile, in quelle condizioni. «Ti porto del caffè, Blaise, devi essere gelato. Però non sdraiarti, ti prego.» «Va bene» promise Blaise, tirando su le gambe. Sarah mise il bollitore sul fuoco. Per un senso di umanità andò al telefono situato nella sua camera e formò un numero. Alla voce che rispose disse seccamente: «Vieni a riprenderti tuo marito, Fen.» Se solo dieci mesi fa qualcuno le avesse detto che, parlando con un'altra donna, e men che mai con Fen, si sarebbe riferita a Blaise come a "tuo marito" non ci avrebbe creduto. Un sospiro profondo echeggiò nella cornetta. «Scommetto che ha bevuto.» «Sì, ha bevuto» replicò Sarah, con una punta d'amarezza nella voce.
«Sbrigati, per favore; aspetto una persona e preferirei che Blaise non si addormentasse da me.» «Già, è difficile farlo passare per una pianta esotica» disse Fen divertita «ma il fatto è che ho portato la macchina a riparare. Però non preoccuparti, tu conosci Blaise.» C'era forse una punta d'ironia nella sua voce? «Lui è come l'araba fenice. Dagli un'ora di tempo e risorgerà fresco come una rosa.» In distanza, si levò il fischio del bollitore. «Allora chiama un tassì» ribatté seccamente Sarah. «Dico sul serio, Fen.» Preparò un caffè molto forte, vi introdusse un cubetto di ghiaccio per accelerare le cose, e trovò Blaise profondamente addormentato sul sofà. Lo occupava quasi tutto, lungo e dinoccolato com'era. Fissò la sua faccia indifesa con un misto di compassione e di insofferenza. Fen aveva torto; quando era fidanzata con lui non aveva mai conosciuto questo Blaise indifeso e disorientato. Lo scosse bruscamente per la spalla. «Blaise! Svegliati, Blaise. C'è il tuo caffè.» Blaise sorrise beatamente senza aprire gli occhi, come uno che ascolta una musica remota e piacevole. Dopo ripetuti richiami: "Fen sta arrivando", si decise infine a sollevarsi su un gomito e trangugiò un sorso di caffè con una smorfia. Quando fu certa che non avrebbe mollato la tazza, Sarah si allontanò per far entrare il suo danese. Be', non proprio danese; doveva esserci sangue di una razza ancor più grande, in lui. Il manto era color miele chiaro, la fronte liscia come quella di un cucciolo, i grandi occhi di una dolcezza ineffabile. Sarah se l'era visto arrivare un anno prima, magro da contargli le costole, la medaglietta appesa al collare che attestava che era un cane da guardia di Albuquerque 249. Un controllo presso il comune aveva rivelato che la sua ex casa, un posto per la rivendita di macchine usate, era stata chiusa e abbandonata. Era affamato, fiducioso, e di dimensioni tali da scoraggiare gli intrusi. Sarah lo aveva chiamato Odino a causa del suo latrato maestoso e profondo, che sembrava venire dalle viscere della terra. Questo era stato prima di scoprire che quando era rimasto solo per tutta la giornata tentava di saltarle nel grembo convinto di essere piccolo come un cucciolo. Parve felice di vedere Blaise, ancora sdraiato sul sofà, e subito iniziò un'affettuosa indagine. La mano di Blaise carezzò goffamente la testa morbida; mormorò con gli occhi chiusi: «Grazie, Sarah» proprio nel momento in cui una macchina infilava il vialetto carrozzabile. Pochi secondi dopo una portiera sbatté.
Fen, di già? No. Sarah aprì la porta e si trovò davanti una perfetta sconosciuta. La tenue luce del crepuscolo si era trasformata in oscurità. Nello sfondo buio si profilava la sagoma di una ragazza dall'aria incerta, con indosso un frusto paltò scozzese verde e bianco, troppo grande per lei. Dal suo sorriso timido, dalla borsa a sacco che portava, Sarah pensò che fosse una venditrice porta a porta, finché la ragazza disse: «Sono stata compagna di scuola di Frances Nichols... fu lei ad attaccarmi il morbillo... e mi sono chiesta: chissà se abita ancora lì?» Ci sono, nella vita di tutti i giorni, dei momenti in cui dovresti essere guidato dall'intuito. Prendere la superstrada col suo traffico caotico o fare un giro vizioso rischiando di arrivare in ritardo a un appuntamento importante? Ascoltare il canto della sirena di un'altra agenzia dove gli stipendi sono più alti e la libertà minore? Quello non era uno di quei momenti. Poiché, a causa del suo aspetto, la ragazza non suscitava in lei né simpatia né diffidenza. Quel riferirsi a Fen col suo vero nome, che lei stessa aveva scartato dal momento in cui era venuta a vivere presso i Malcolm, ribattezzandosi col suo monogramma... Perciò Sarah, la cui unica preoccupazione in quel momento era che Fen venisse a riprendersi Blaise, disse: «No...» e poi, mentre una folata d'aria gelida penetrava nella stanza: «Entrate che vi do l'indirizzo.» Malgrado fosse stata colta di sorpresa prese tempestivamente tempo. Non avrebbe presentato l'uomo mezzo addormentato sul sofà, per quanto strano sarebbe potuto sembrare alla ragazza, e non le avrebbe detto che l'oggetto delle sue ricerche stava per arrivare. Fen avrebbe già avuto il suo daffare a occuparsi di Blaise, e quello non era certo il momento adatto all'incontro con un'amica d'infanzia. Perciò evitò le presentazioni, pur rendendosi conto di essere scrutata con intensa curiosità. Dopo aver dato le indicazioni necessarie a trovare la casa dei Rolands, soggiunse cauta: «Credo che rientreranno tardi, però.» La ragazza annuì. «Chissà...» disse, frugando nella grossa borsa «chissà se posso chiedervi un bicchier d'acqua? Dovrei prendere dell'aspirina. Ho guidato per ore, e ho un mal di testa...» Era un po' imprudente affrontare un lungo viaggio in macchina senza una telefonata preliminare, pensò Sarah andando in cucina, ma c'era gente che si comportava come se i telefoni non esistessero. Forse preferivano arrivare senza preavviso per evitare un rifiuto.
Fece scorrere l'acqua fredda. Nella sua preoccupazione non pensò che poteva essere un pretesto per allontanarla dal soggiorno. Quando tornò col bicchiere, la ragazza inghiottì due compresse dopo aver messo bene in mostra l'etichetta del flaconcino, ringraziò Sarah e se ne andò. Sarah, senza accorgersi della folata d'aria gelida penetrata, pensò che entrambe avevano trattato Blaise, attraente perfino così, abbandonato sul sofà, come se fosse nient'altro che un cuscino supplementare. La ragazza, dopo un'occhiata, aveva mormorato qualcosa come "mi dispiace di avervi disturbato". Anche se, a essere sinceri, Blaise non sembrava affatto disturbato. Sarah lo studiò, rinunciò al tentativo di svegliarlo e andò a vestirsi. Fen lo aveva voluto a tutti i costi per sé, decisa ad andare fino in fondo, dieci mesi prima; le sembrava giusto che ora se ne assumesse tutte le conseguenze. Ma, una volta che si fu tolta la vestaglia color pastello, si fu infilato il maglione blu e si fu messa gli orecchini, pensò che qualcosa bisognava fare. Blaise era uscito dalla sua vita con uno strappo doloroso e non bisognava permettergli di illudersi che poteva rientrarvi, sia pure di straforo. Era vero che sua madre era morta due settimane prima, nel piccolo appartamento che occupava un'ala della bella casa dei Roland, e che Blaise le era molto legato. Aveva avuto ben poco conforto da Fen, che al funerale aveva dichiarato con crudezza: "Non per nulla la polmonite è chiamata la nemica dei vecchi". Ma se a Fen non importava che suo marito avesse ricominciato a ripresentarsi da Sarah in quelle condizioni, tanto da non poter essere rispedito sano e salvo a casa, a Sarah importava, e come. Specialmente ora. Alle cinque e un quarto, con crescente risentimento, fece il numero di Fen. Nessuna risposta. Alle cinque e mezzo, James Choate arrivò per l'aperitivo, prima di condurla fuori a cena. James sapeva vagamente di Blaise; sapeva di Fen e di Sarah quel poco che lei si era limitata a raccontargli da quando si erano conosciuti, vale a dire da breve tempo. Alto come Blaise, era però bruno e con un viso calmo e imperturbabile che solo le mobili sopracciglia scure a volte scomponevano. Vedendo la figura che giaceva distesa sul sofà, si limitò a dire: «Lui sembra trovarsi a suo agio, e tu sei più carina che mai» al che Sarah si affrettò a spiegargli che Fen stava per arrivare. «Credo che Blaise sia sconvolto per la madre» aggiunse a mo' di spiega-
zione e, a quel punto, Blaise buttò le gambe giù dal sofà e drizzandosi a sedere disse: «Ah, puoi ben dirlo. Non sarebbe dovuta uscire, quel giorno; c'era una pioggia dell'accidente.» Concentrò l'attenzione su James. «E voi chi siete?» «James Choate, un tale venuto a prendere Sarah per portarla fuori a cena» rispose James, pacato. «Prima però dobbiamo prendere un drink insieme. Sarah, lascia che ti dia una mano.» In cucina prepararono gli aperitivi a base di vodka e introdussero dell'acqua in una bottiglia in cui c'era ancora un fondo di vino. «È un vinello leggero ma traditore» spiegò James, versandolo a Blaise quando furono di nuovo nel soggiorno. «Ebbene, alla salute dei presenti.» Blaise bevve metà del suo vino annacquato con soddisfazione palese. A quel punto la porta si aprì. Fen era arrivata. 2 Che stesse avvicinandosi pericolosamente alla bruttezza (il piccolo viso dalla mascella prominente era troppo forte e compatto per essere definito comune) era un fatto sul quale chi incontrava per la prima volta Fen Roland difficilmente si soffermava. Chiunque con quel fisico robusto sarebbe ricorso a vestiti dal taglio sapiente, e di tinte sfumate. Fen invece vestiva come un pappagallo distratto. Quando lo voleva, poteva essere se non proprio affascinante, perlomeno originale e spiritosa. Era chiaro che aveva calcolato i tempi in modo da arrivare più o meno contemporaneamente alla macchina che si trovava nel vialetto carrozzabile di Sarah. Lei, che aveva i movimenti coordinati di un'atleta, entrò in un turbinio, tanto che la mantella bianca le s'impigliò nella porta costringendola a una brusca fermata. James accorse a liberarla. Sotto la mantella portava un abito color fragola guarnito di seta dorata al collo. Dava l'impressione dì esplodere da un momento all'altro in un diluvio di scintille. Durante le presentazioni, Blaise si alzò in piedi ma si risedette precipitosamente, sorpreso dalla sua stessa mancanza di equilibrio. Fen lo studiava, le mani sui fianchi e la testa inclinata, e dato che era piccola, poco più d'un metro e cinquanta, il suo non era certo uno sguardo da "moglie col mattarello", ma affettuoso e ironico. «Forza, caro: Sarah e il signor Choate hanno altro da fare e sono certa che nei loro programmi c'è anche una bella cenetta. A proposito, ho l'arro-
sto...» S'interruppe bruscamente, notando divertita ciò che non si era soffermata a guardare al momento in cui era entrata: il bicchiere di vino e la bottiglia vuota sul tavolino a fianco di Blaise. Volse la testa, i neri capelli ondeggianti, a fissare Sarah con offeso stupore. Sarah le restituì lo sguardo in silenzio, un lampo d'ironia negli occhi azzurro cupo. Fu James a dire allegramente: «Un miracolo all'incontrario, signora Roland.» «Grazie al cielo» disse Fen con una smorfia comica, e tese la piccola mano al marito, come per tirarlo su di peso, ma Blaise si alzò in piedi da solo e, stavolta, ci rimase, pur barcollando leggermente. Ispezionò perplesso la stanza oblunga, poi si volse a guardare Sarah, che si dava un contegno assestandosi il maglione. «Dov'è finito... cosa ne è...» «Eri senza paltò, Blaise.» «Ah, già» ammise Blaise, aggrottando la fronte. Fen era andata alla porta d'ingresso; aprì uno spiraglio, poi la richiuse rabbrividendo. Disse: «Ma, Sarah, non c'è niente di suo, qui? Un vecchio impermeabile?» La fissò speranzosa. Come se fosse un fatto più che naturale che Blaise tenesse lì una parte del suo guardaroba. «No, Fen, non c'è proprio niente» rispose Sarah, laconica, assumendo senza volere l'atteggiamento che si era giurata di evitare: si diede da fare con efficienza, vuotando il contenuto dei portacenere in uno più grande e posando quest'ultimo su uno scaffale con un tonfo, dopodiché raccolse i bicchieri. La padrona di casa meticolosa, la guastafeste, il cerbero che "ordina l'alt". Passando, colse di sfuggita la propria immagine riflessa nello specchio, e si accorse con sgomento di avere la classica faccia di pietra. ("A te manca solo la tiara" le aveva detto una volta Fen in una circostanza simile.) Scorse anche l'immagine di James nella cornice ovale; il suo sguardo andava con interesse da lei a Fen, che certo aveva assunto, Sarah lo sapeva bene, un'aria di finta trepidazione. La minuscola scena riflessa nello specchio si dissolse. Era chiaro che Fen aveva bisogno d'aiuto per portare Blaise alla macchina, dato che riusciva a reggersi in piedi solo stando immobile, aggrappato al sofà. Quando, a missione compiuta, James mise dentro la testa e disse che riteneva opportuno seguire i Roland a destinazione, per assicurarsi che Fen pilotasse il marito a casa sano e salvo, a Sarah parve che ciò rientrasse in uno schema
inevitabile. Disse, in tono casuale: «Si farà tardi, James; perciò, cosa ne diresti di rimandare a un'altra...» «Non si farà tardi» replicò James con fermezza. «Inoltre mi hai portato via metà del mio drink, rammenti?» La casa rimase stranamente quieta, una volta svanito il rumore delle due auto, come se Fen ne avesse portato via la vita e il movimento. In cucina, un quarto bicchiere sul tavolo rammentò a Sarah che non aveva detto niente a Fen della sua probabile visitatrice, la ragazza dal paltò scozzese. Come descriverla, a chi glielo avesse richiesto? Venticinque-trent'anni, probabilmente, benché la sua aria incerta e esitante la facesse sembrare più giovane. Occhi tra il verde e il marrone, capelli castani arricciati alle punte. Il resto era rimasto nel vago. Un'amica improbabile per Fen, perfino come compagna di scuola, pensò Sarah, e poi, i sensi aguzzati dalla propria immagine riflessa nello specchio: "No, affatto improbabile..." La dodicenne Fen era stata a suo tempo turbata da una visita avvenuta molti anni prima, di cui Sarah ricordava soltanto una strana donna in lacrime che in seguito aveva scoperto essere sua zia. Poi, l'estate in cui aveva compiuto dieci anni, erano cominciate le telefonate che suscitavano ondate di shock, seguite da colloqui a porte chiuse tra i suoi genitori. Perfino la signora List, la governante che viveva presso i Malcolm da così tanto tempo da venire spesso consultata sulle questioni familiari, era esclusa da quei conciliaboli. Sarah, malgrado la sua ingegnosità, riusciva a cogliere soltanto poche larvate allusioni, che avevano il potere di stuzzicare ancor più la sua curiosità. Proprio quando sembrava essere vicina alla scoperta, la signora List veniva a richiamarla bruscamente, forse perché anche lei si sentiva offesa per essere estromessa da quei colloqui, oppure erano i Malcolm stessi ad accorgersi che dai rami dell' albero vicino alla finestra penzolavano due lunghe gambe. Perciò, a pezzi e bocconi, le giungevano frasi come: "Sai, Richard, non riesco a capacitarmi. Sembrava così... così civile!" "Già, l'unica volta che lo abbiamo incontrato." Suo padre, di solito così amabile e conciliante, era ora molto severo. "Comunque sarà meglio aprire gli occhi, dato che perfino Anne..." E in un'altra occasione, sua madre: "... proprio non vedo cos'altro possiamo fare. Io sono l'unica parente di Anne, se si esclude la povera Phyllis Burdock, che ha settant'anni ed è inferma. Naturalmente, c'è tua sorella Faith..."
Sarah, che quella volta si era nascosta nella sala da pranzo mentre tutti credevano che dormisse, s'era irrigidita alla semplice menzione di zia Faith, impellicciata e profumata, affetta da una duplice mania: l'igiene e una feroce difesa della proprietà. "Rosemary, bada a che Sarah si lavi le mani, ha giocato col gatto... No, niente arance qua dentro, schizzeresti il succo dappertutto..." A quanto pareva zia Faith era stata scartata, poiché, quando l'attenzione di Sarah si era ridestata, sua madre stava dicendo: "... effettivamente potrebbe essere un bene per Sarah, è così selvatica... Richard, ma da dove viene questo spiffero?" Sarah era fuggita scalza perché la finestra della sua camera da letto era rimasta aperta e così pure la porta, che lei aveva chiuso silenziosamente prima di balzare a letto e fingersi profondamente addormentata, nel caso che fossero venuti a controllare. Il termine "selvatica" non faceva parte del suo vocabolario, ma tutto quello che sarebbe stato "un bene" per lei suonava come un cattivo presagio. A quel punto gli eventi erano precipitati, poiché solo un paio di giorni dopo Rosemary Malcolm aveva detto a sua figlia: "Sarah, c'è una bella sorpresa per te. Tua cugina Frances verrà a stare con noi per un periodo. Ti piacerebbe andare a prenderla alla stazione insieme al papà? Sai, la bambina di zia Anne. Ha solamente due anni più di te, perciò vi divertirete, insieme. Alla memoria di Sarah era balenato il vago ricordo di un incidente in bicicletta, subito rimosso. Era contenta ed eccitata per la novità; solo mentre suo padre si destreggiava nel traffico Sarah aveva domandato: "Perché viene a stare con noi, Frances?". Richard Malcolm era stato più schietto della moglie. "Perché il suo patrigno ha commesso qualcosa di molto grave, e sua madre ha un mucchio di problemi, in questo momento. E tu non devi assolutamente..." aveva approfittato della sosta al semaforo per rivolgere a Sarah un'occhiata severa "... fare a Frances nessuna domanda in proposito, intesi? Sei abbastanza grande da capirlo". Sarah sapeva bene che i "grandi" usano questa tattica per convincere i ragazzi; del resto era stata adottata anche quando l'avevano ricoverata all' ospedale per l'operazione delle tonsille. "Lo sai che ci sono dei ragazzi che fanno il diavolo a quattro per simili piccolezze?" le avevano detto. Comunque aveva risposto di sì perché era questo che si voleva da lei, e poi: "Cosa faccio, se lei me lo dice?"
"Non te lo dirà" aveva risposto brevemente suo padre. Faceva caldo sulla banchina della stazione. Una macchia di roselline selvatiche cresceva al di là delle rotaie, e il profumo acuto si era mescolato all'odore del metallo arroventato quando il treno si era fermato. In blue jeans, maglietta polo bianca e blu e ai piedi i sandali che aveva messo per accontentare la mamma, Sarah guardava con ansia i passeggeri che sbarcavano, e aveva capito che la ragazzina dai capelli neri in abito di seta a pois era Frances quando suo padre aveva alzato il braccio e il capotreno aveva risposto al suo segnale. A quell'età si fa presto a fraternizzare, di solito. Ma il contrasto era stridente. I capelli annodati dal nastro e il vestito a pois si erano trovati a confronto con i jeans frusti e una coda dì cavallo bionda. La ragazzina aveva sottratto la mano a quella del capotreno ed era balzata incontro a Richard Malcolm. Il braccio teso dello zio aveva attutito il capitombolo, e lei era finita ai piedi di Richard Malcolm in una vera e propria posa da commediante, le gambe stese, la bocca aperta in un'espressione di stupore. I pochi astanti erano passati dall'interesse alle risa e infine all'ammirazione; vi erano stati perfino degli applausi, un vero e proprio scroscio di applausi. Sarah si rese conto solo molti anni dopo di quanto doveva esserle costato quel gesto. Ma Frances, che nel giro di una settimana era diventata Fen, aveva così sottolineato il suo arrivo. Convinta che i ragazzi si affiatino meglio senza l'intervento degli adulti, la signora Malcolm aveva proposto loro di fare il giro della casa mentre lei e il marito si appartavano nel giardino. Sarah, alla quale era stato insegnato che certe domande si fanno solo nei negozi, era rimasta sorpresa quando Fen le aveva domandato quanto era costato questo o quell'oggetto. Una buona parte della sua riluttanza a rispondere era dovuta al fatto che non ne aveva la più pallida idea. Di una lampada cinese rossa a disegni bianchi aveva detto tutta fiera: "Settemila dollari". Aveva perso subito terreno. "Nessuno fa lampade da settemila dollari" aveva risposto Fen con aria di superiorità, e aveva cominciato a guardar tutto con un'espressione scettica. Formavano un contrasto sorprendente: Sarah biondissima, tutta gambe e un po' troppo ossuta, Fen scura, solida, sicura di sé. Avevano raggiunto un punto d'accordo in piscina, dove Sarah era risultata una buona nuotatrice e una pessima tuffatrice, mentre Fen, che stava appena a galla, si tuffava come una rondine che si libra in volo.
Era una situazione soddisfacente per entrambe. Il giorno dopo, mentre se ne stavano stese al sole sul bordo della piscina, Sarah aveva detto in un improvviso lampo di memoria: "Oh, ma tu sei già stata qui una volta con tua madre. Avevi i capelli corti e la frangetta, e hai fatto un mucchio di giri sulla mia bicicletta intorno alla piscina". "Lo so. Ho pensato che bel tuffo avremmo fatto, cascandoci dentro." Avevano taciuto un minuto, ripensando a quella scena. Faceva un gran caldo. Nell'atmosfera silenziosa e dorata che sembrava isolarle dal mondo dei grandi, Sarah aveva fatto la domanda fatale: "Cos'ha fatto il tuo patrigno?" Pausa. "Non avresti dovuto domandarmelo" aveva risposto Fen compita. "Comunque, ha rubato dei soldi in una banca." Sarah era rimasta assai colpita. Non aveva mai sentito parlare di appropriazione indebita, e si era vista davanti un uomo mascherato, la pistola spianata minacciosamente. Aveva cercato di figurarsi suo padre in una posa simile e aveva pensato che era tutt'altro che piacevole, ma non impossibile. Era quel temerario patrigno in prigione? O, pensiero quanto mai emozionante, era morto in uno scontro a fuoco con la polizia, come talvolta accade ai rapinatori? Aveva atteso, non osando fare altre domande. Fen era un'incognita anche per lei e magari, sottoposta a pressioni da parte dei Malcolm, avrebbe finito per spifferarglielo. Invece si era limitata a dire pigramente: "Perché non prepari un po' di limonata?" ("E tu lasciasti cadere la cosa a quel punto?" aveva chiesto James Choate molto tempo dopo. "Sì, perché in breve tempo Fen entrò talmente a far parte della mia vita che me ne dimenticai. Ma era più che naturale" aveva risposto Sarah, sforzandosi di ricordare dopo tanto tempo. "Era... come se da piccolo tu avessi avuto uno zio un po' inasprito. Se tu avessi scoperto che era così perché sua moglie era fuggita con un altro uomo, ti saresti accontentato di questa spiegazione.") Il giorno dopo quell'incidente era stato superato da uno di dimensioni più grandi. Fen aveva preferito starsene a casa a guardare la televisione mentre Sarah era andata ad assistere a un concorso ippico al quale partecipava un'amica. Quando era tornata a casa entusiasta perché Beth Mundy avrebbe vinto il primo premio se il suo cavallo non avesse tentato di mordere un altro cavallo, aveva trovato un'atmosfera cupa e greve. Fen era di pietra; quanto alla signora List, Sarah non ricordava di averla mai vista così piena di riguardo nei confronti di una ragazzina. "Brutte no-
tizie, Sarah" aveva detto la signora Malcolm. "Il patrigno di Fen è morto improvvisamente. È stato un duro colpo." Lo sguardo di Sarah era corso istintivamente alla cugina, che per la verità le era sembrata più accigliata che colpita o addolorata. Nel tono di sua madre vi era un tacito ammonimento a non parlarne, ma era superfluo; a volte Fen poteva essere più scostante di un adulto, e questo era uno di quei momenti. Solo quando erano state a letto, a luci spente, aveva detto con veemenza: "Io non ci vado, al suo funerale. In fin dei conti era solo un patrigno, e non gli ho mai voluto bene". Sarah non aveva saputo cosa rispondere, anche perché non era mai stata a un funerale. Erano rimaste in silenzio, un silenzio rotto solo dal canto di un grillo. "Tua madre vorrà..." aveva detto infine. Ci aveva pensato per tutta la sera. "Insomma, dovrai tornare a casa subito, vero?" "Non lo so" aveva risposto Fen irritata e, dopo aver respinto le coperte, era andata alla finestra. "Credo di sì. Ammesso che mi voglia." Sarah era rimasta sbalordita. I suoi genitori non erano certo tipi particolarmente teneri, però anche quando erano lontani e lei era affidata alle cure della signora List, non aveva dubitato neppure per un istante di essere indesiderata. Aveva atteso che Fen chiarisse il concetto, ma l'altra era tornata a letto senza una parola, tirandosi le coperte sulla testa. Avrebbe voluto dirle che correva il rischio di soffocare, ma non era il momento. Sarah aveva sperato che non se ne andasse via subito. Proprio quella mattina il suo micino era stato aggredito ferocemente da un gatto selvatico, e mentre lei si era sentita male alla vista del sangue, Fen aveva lavato le ferite senza batter ciglio. "Se tu avessi della penicillina potremmo spargergliela sopra". C'era infatti un antibiotico nell'armadietto dei medicinali; Sarah era andata a prenderlo sentendosi invadere da un'ondata di affetto e di riconoscenza. Fen l'aveva spuntata e non aveva partecipato al funerale. Quando i Malcolm erano tornati, con loro c'era zia Anne, disperata e sconvolta. Stavolta non aveva pianto. Aveva abbracciato la figlia e aveva detto debolmente: "Frances, cara, non devi piangere..." benché Frances non avesse sparso neppure una lacrima. Si era fermata una settimana. Anche stavolta vi erano stati colloqui a porte chiuse; Fen aveva partecipato ad alcuni di essi, ma non si era lasciata sfuggire neppure una parola con Sarah, in seguito. Vi erano state anche aperte discussioni; si era parlato della necessità di trovare un appartamento
adatto, dove Fen sarebbe stata mandata in seguito. E, una volta partita, la vita era tornata come prima, a parte qualche eco sempre più vaga come: "Povera Anne... ma forse è stato meglio così" e "Il rimorso, si sa..." Sarah ne aveva dedotto che il "patrigno rapinatore" si era pentito sul letto di morte. L'estate successiva si perdeva in un confuso ricordo. Sarah era stata colpita da un'infezione ghiandolare, i cui sintomi (febbre alta e gonfiore al collo) avevano fatto temere qualcosa di grave, sulle prime, ed era rimasta a letto per lunghe settimane. Relegata com'era nella sua stanza, non si era accorta che le telefonate di zia Anne erano cessate. La madre di Fen era morta nell'autunno, ed aveva avuto inizio un procedimento d'adozione. Quando la corrente d'aria fredda aveva cominciato a soffiare in qualche punto misterioso? In prima o in seconda media? Fatto sta che le autorità scolastiche avevano cominciato a sorridere con maggior simpatia a Fen, e a guardare Sarah con qualche riserva. Gli amici dei Malcolm le osservavano con occhio critico. Sarah, che non si preoccupava minimamente del proprio aspetto, non si era accorta della metamorfosi che stava verificandosi in lei: la Natura manteneva la sua promessa, mentre tale trasformazione non stava affatto verificandosi in Fen. Era stato un commento colto per caso ad aprirle gli occhi. "Sarah non avrà mai problemi, è chiaro, però Fen ha una personalità assai spiccata. Un'altra al posto suo soffrirebbe di un mucchio di complessi." Il significato era inequivocabile. A Sarah si rimproverava di essere molto più bella di Fen. Adesso che le sue responsabilità erano cresciute in tutti i sensi, la signora Malcolm si era ritirata felicemente in un suo mondo fatto di libri, emergendone una sola volta per commettere l'errore della sua vita. "Sarah, stai diventando una bellezza. Fen è intelligente, ma... non ti sembra che dovresti cercare di farla applicare di più alle cose che fa?" Non era facile, dopo due anni di separazione scolastica, ma Sarah ci aveva provato. Questo, quando la personalità bizzarra e instabile di Fen stava delineandosi, accentuando il contrasto stridente tra le due. Fen era riuscita infine a imporsi all'attenzione generale come "la stramba". E si era applicata a tale scopo con un'abilità sottile e ingegnosa. Era una sorta di continuazione del capitombolo sulla banchina. Gli amici commentavano divertiti: "Fen è una matta!". Quando Sarah si era accorta di essere
stata spinta ad assumere il ruolo della saggia, avrebbe dovuto ribellarsi. Invece non lo aveva fatto. Sulle prime il rifiuto nei confronti della cugina si era manifestato attraverso un atteggiamento di distacco sdegnoso. ("Siamo in collera, eh?" motteggiava Fen. Sarah se ne rendeva conto, ma non poteva farci niente.) La signora Malcolm, lieta che la vita sociale impegnasse entrambe le ragazze, non se n'era accorta nemmeno. Richard Malcolm invece sì. La sera prima di partire con la moglie per recarsi a una prima teatrale a New York, aveva detto: "Sarah, a tutti piace potersi confrontare con una persona in condizioni di inferiorità. È uno degli argomenti più sfruttati delle favole e delle leggende. Sarà bene che ne parliamo a quattr'occhi, al mio ritorno". Ma i Malcolm non erano tornati; non erano neppure arrivati all'aeroporto. Un camionista distratto aveva allungato la mano per prendere un panino, aveva perso il controllo del camion e si era scontrato frontalmente con la loro auto. Sarah ricordava, sentiva ancora il leggero colpo bussato alla porta, foriero di brutte notizie. ... Ma non era un'eco di anni addietro, era una realtà, e lei aprì la porta a James. Lui disse: «Tutto bene. C'era un'amica dei Roland in attesa sul vialetto al nostro arrivo, perciò la mia presenza era superflua.» Sorrise in modo rassicurante a Sarah. «Ebbene, ci beviamo il nostro drink e ricominciamo daccapo?» 3 Quella notte fu la più fredda dell'inverno, e malgrado il conforto del piumino che si era concessa come regalo di Natale, Sarah fu turbata da incubi. Vedeva una minuscola Fen bianca e ricciuta sollevare il coperchio della scatola da scarpe in cui era stata rinchiusa e scaturirne con paurosa agilità. Sarah si svegliò col cuore in gola anche se Fen era così piccola che avrebbe potuto essere schiacciata col tacco. Quando si riaddormentò, altri sogni turbarono il suo sonno, sogni confusi e trasparenti come negative fatte scorrere troppo in fretta; alla fine Blaise, fissando la superficie liscia di un laghetto, diceva tristemente: "Non sarebbe dovuta uscire, quel giorno". A quel punto Sarah si era trovata a fissare la luce del mattino che si rifletteva sul caminetto della sua camera. Blaise aveva detto quella frase ri-
ferendosi alla madre, il giorno prima, con un misto di stupore e di collera. Cosa l'aveva svegliata così, di primo mattino? Si era presa una settimana di vacanza allo scopo di mettere a posto la casa per l'agenzia di compravendita (con la partenza di Fen, la manutenzione era diventata troppo pesante per lei sola) e si sarebbe potuto permettere almeno il lusso di svegliarsi più tardi del solito. Ma in distanza Odino aveva emesso uno dei suoi latrati cavernosi. Sarah balzò giù dal letto. S'infilò una vestaglia, si diede una rapida spazzolata e si affrettò verso la parte anteriore della casa. E fu raggelata dalla paura, poiché nel soggiorno c'era qualcuno, qualcuno con indosso un impermeabile nocciola, di cui scorse solo una spalla e parte di una manica. Fen si voltò di scatto, come se anche lei fosse stata colta dal panico. «Scusami, Sarah! Ti ho svegliata io? Non sapevo che fossi in casa: non ho visto la tua macchina. Ero venuta a riprendermi quel libro sul Messico che ti avevo prestato; l'ho promesso a degli amici che partono per Mazatlàn.» Sarah rispose che si era presa una settimana di permesso e disse di aver riposto l'auto nel garage, contrariamente al solito, a causa del gelo. Dopo averle consegnato la guida Sanburn, tutta postillata a matita, offrì premurosamente il breakfast a Fen, provando un senso di colpa per via del brutto sogno. Fen si appoggiò pigramente alla porta, rifiutando un uovo alla coque, ma senza fretta di andarsene. «Avresti dovuto vedere Blaise quando si è alzato. Lazzaro doveva sembrare Fred Astaire, al confronto.» E a te non importa un accidente, pensò Sarah. Blaise, che un tempo era stato la meta che Fen si era prefissa di raggiungere a ogni costo, era divenuto ora argomento di derisione. Disse con freddezza: «A proposito, ieri sera mi sono scordata di dirti che era venuta una tua compagna di scuola a chiedere il tuo indirizzo. Non mi ha detto il suo nome.» «Nancy Pike. Non solo mi ha cercata, ma mi ha anche trovata circa mezz'ora fa. Pensa, andare in visita a un'ora simile!» protestò Fen, scordandosi di avere a sua volta tirato giù dal letto Sarah. «Eravamo insieme in seconda media. Credo di essere stata la sua unica amica, poveretta; deve passarsela male, a quanto ho capito. Prima ha tergiversato parecchio, poi è venuta al dunque: aveva bisogno di un prestito, ma gli unici contanti che avevo in casa erano trenta dollari.» Che Fen doveva averle dato all'istante, Sarah lo sapeva: era capace di grandi generosità. «Devo dire che non mi è piaciuto l'uomo che era con lei» riprese Fen
con una smorfia. «A te che impressione ha fatto?» «Non sapevo nemmeno che ci fosse un uomo con lei.» «Be', certo, è un tipo da tenere nascosto. Unto e bisunto, con le palpebre flosce, e poi quello sguardo... non mi sono mai sentita così a disagio in vestaglia. Ho avuto l'impressione» soggiunse assorta «che fosse stato lui a spingerla e che quello che avrebbe rimediato sarebbe finito nelle sue tasche. Tanto per cominciare, non me l'ha nemmeno presentato.» «Le presentazioni non devono essere il suo forte» disse Sarah, introducendo l'uovo nel portauovo. «Si è limitata a chiedere il tuo indirizzo, ha bevuto un bicchier d'acqua e se n'è andata.» Fen parve un po' contrariata. «Sei stata un po' avventata. Quella avrebbe potuto essere un'assassina venuta apposta per accopparmi. Credo si siano diretti a ovest, comunque; a Phoenix, mi pare che abbia detto. Senti, ho cambiato idea: mi daresti una tazza di caffè?» Sarah glielo versò, e ne versò una tazza per sé. Era sempre un po' intronata, al mattino, particolarmente dopo una nottataccia simile; solo a quel punto si rese conto di quanto spesso Fen usasse la chiave di cui era ancora in possesso per entrare nella casa in cui era cresciuta. «... mi piace il tuo James» disse vivacemente Fen «e mi rincresce dell'irruzione di ieri sera. Spero di non averti guastato i programmi della serata.» «Niente affatto» fu la risposta laconica. «Cosa fa? Sembra un tipo in gamba.» «Fa l'architetto» rispose Sarah. «Studio Tremayne e Choate.» «Ed è ancora libero? Avrà i piedi piatti» scherzò Fen. Si guardò intorno. «Ma davvero intendi sistemare da sola questa casa? Perché non chiami la signora List? Lei afferrerebbe al volo l'occasione. Non ha mai smesso di considerarla casa sua.» Sarah lo sapeva, e a sue spese. La signora List era venuta a prendere le redini della casa quando sua madre aveva avuto le febbri reumatiche, e si era dimostrata un sostegno così valido (poche erano le cose che non sapeva fare all'occorrenza) da diventare un'"istituzione" stabile. Si era perfino offerta di rimanere, sia pure con uno stipendio simbolico, quando il breve "interregno" di Faith McCulloughs era terminato. Sarah aveva reagito con cortese fermezza ai modi autoritari della governante che era solita impartire ordini bruschi come "non mangiare quella roba, ti guasterai l'appetito" e "no, tu non esci senza golf, figliola". La signora List, che veniva puntualmente a cena una volta al mese, manifestava tuttora la sua disapprovazione così come ostentava gli orecchini di granati.
«Preferisco cavarmela da sola, quando faccio le pulizie» tagliò corto Sarah, accompagnando Fen alla porta. «Ora ce l'hai la macchina, vedo.» La Mercedes bianca era appartenuta alla signora Roland; Fen se n'era impossessata gradualmente, man mano che la salute della suocera l'aveva costretta a starsene relegata sempre più nel suo appartamento. «Sì, alla mia officina sono sempre puntuali nella consegna» rispose Fen con una nota brusca nella voce; forse pensava che Sarah volesse insinuare che la macchina non fosse stata affatto a riparare. Il sogno riaffiorò. «Ma è vero che la signora Roland era uscita per recarsi in qualche posto poco prima di morire? Ieri Blaise ha detto...» «Sai bene che Blaise aveva bevuto, ieri» rispose seccamente Fen. «Oh, certo, si è messo in testa che, se lei non fosse andata a trovare la sua amica, quella Beatrice di cui parlava così spesso, non si sarebbe buscata la polmonite e oggi sarebbe ancora tra noi, viva e vegeta, a parte naturalmente i disturbi cardiaci, l'enfisema e l'artrite e qualche altra "chicca".» Non devi dimenticare, si disse Sarah chiudendo la porta d'ingresso, che Fen è stata molto buona col gattino ferito. Senza un perché, chiuse a chiave la porta. Richard Malcolm aveva detto che la casa, acquistata per via della piscina e dello splendido scenario delle montagne, sembrava essere stata costruita da una squadra di ragazzi di talento, e al buio. Era in mattoni con qualche tocco di bianco, ricoperta di rampicanti. Nessuna delle sue linee era propriamente diritta, il che era dovuto solo in parte alle due grosse piante di cotone che crescevano ai lati, e le cui radici l'avevano lentamente ma inesorabilmente sollevata dal terreno. Il risultato era che, per quanto mani esperte avessero cercato di sistemare le porte, bastava una giornata di vento a produrre un effetto bizzarro; il lungo banco della cucina aveva un'inclinazione che pur non essendo visibile a occhio nudo creava dei problemi quando si dovevano imbottigliare vini o pomodoro. Il soggiorno era ampio, col camino in fondo e una grande biblioteca situata tra le due finestre. Non c'erano né anticamera né ripostiglio per i cappotti. L'impianto elettrico era stato fatto senza criterio; bastava un semplice guasto alla luce della sala da pranzo per costringere a spaccare la parete, e sostituire una tubatura nel bagno significava demolire l'armadio della biancheria. Tuttavia l'effetto complessivo era di spazio, luce e fascino, e in quella zona non era facile trovare una casa simile. Benché il suo momento mi-
gliore fosse la primavera, quando i visitatori, distratti da altre cose, non avrebbero dato troppo peso al problema del ripostiglio che mancava, bisognava cominciare a pulire, selezionare, scartare. Nella grande stanza da letto che ora era sua, Sarah si accinse a ispezionare gli armadi a muro, scoprendo così abiti che si era dimenticata di possedere e che mai più avrebbe indossato; li ripose in grosse scatole di cartone e li portò nel garage. Ripulire ora il caminetto? O magari poteva servire ancora, nelle serate in cui il vento imperversava? Era una delizia addormentarsi davanti al fuoco acceso, in quei momenti... Stava cercando di convincersi che una certa quantità di cenere non guastava poi tanto, e per di più era la riprova che il camino funzionava, quando qualcuno bussò due volte alla porta d'ingresso. Uffa, che noia! pensò Sarah. Respinse una ciocca di capelli dalla fronte e aprì la porta. Là, solenne anche senza gli orecchini di granati, c'era la signora List, in attesa. Possibile, si domandò Sarah inorridita, possibile che il mese scorso l'avesse invitata a cena per quella sera, e la nipote l'avesse depositata lì in anticipo? No, quelle date, come le idi di marzo, non potevano essere dimenticate. La signora List, con un'occhiata critica ai suoi jeans e alla camicia con le maniche rimboccate, disse: «Fen mi ha detto che avevi bisogno di una mano, perciò eccomi qui.» Come aveva osato Fen, nonostante Sarah avesse respinto con decisione la proposta quella mattina? Sarah frenò a stento uno scatto di rabbia, poiché la macchina della nipote era già sparita dal vialetto carrozzabile. Era costituzionalmente incapace di dire: "Mi spiace, Fen ha capito male" e poi andare a prendere le chiavi della propria auto. Disse perciò: «Veramente non sono ancora pronta; sto eliminando la roba inutile, però entrate pure. Posso prepararvi qualcosa da mangiare, oppure una tazza di tè?» propose per rabbonirla. La governante assunse un'aria severa, che subito cercò di mitigare con un sorrisetto indulgente. Aveva fatto colazione da un pezzo, lei: erano le due passate, e poi Sarah si era dimenticata che il tè le dava il bruciore di stomaco? Parlando, si era tolta il paltò grigio guarnito di scoiattolo, e dopo averlo ripiegato con cura lo appoggiò sulla spalliera di una sedia; poi, dalla grossa borsa da lavoro, estrasse un grembiule da mettere sull'abito di seta stampata. I capelli grigi, raccolti in una reticella invisibile, formavano le onde rigide che Sarah ricordava fin dall'infanzia; gli occhi, dietro gli occhiali cer-
chiati d'oro, avevano colto in un lampo le condizioni del soggiorno. Quella donna sprizzava un'energia che aveva bisogno di essere liberata. Era difficile credere che avesse sessant'anni suonati. «Tu va' a prepararti qualcosa» disse in tono perentorio «e io comincio da qui.» Ma "cominciare" per la signora List non era così semplice. Era come accostare un fiammifero a un fusibile. Dopo avere arrotolato il tappeto, prima di strofinare il pavimento con qualche acre disinfettante, avrebbe tirato giù le tende per mandarle in tintoria e staccato i mobili dalle pareti per pulire dietro. E allora sarebbe iniziato il vero "quarantotto". Come tutte le donne di fatica era fermamente convinta che Dio avesse creato le superfici per lasciarle nude e crude: tutto quello che vi era appoggiato andava spostato altrove. In questo modo i soprammobili rischiavano di rompersi e le carte più importanti di andare perdute. Le cose che si annidavano sotto ai cuscini erano ovviamente destinate al cestino dei rifiuti, altrimenti non sarebbero state dimenticate lì. Poi, quando il pavimento si fosse asciugato a dovere, si sarebbe accinta a dare la cera, il che significava per Sarah un ulteriore prolungamento dell'"esilio" da quello scomodo soggiorno privo di tende. La scarsa propensione di Sarah per le faccende domestiche, unita alla riluttanza a stare fra i piedi di una persona così efficiente, l'aveva portata a sopportare con rassegnazione quelle smanie. Tuttavia in quell'occasione Sarah, ormai adulta, si accorse con sorpresa che in realtà era possibile dire di no alla signora List. Perciò lo fece, sia pure con la massima cautela. «Veramente avrei deciso di lasciare per ultimo il soggiorno. Ci vivo molto, e sarebbe un vero peccato sporcare i vostri pavimenti così perfetti...» «Potresti dargli un ritocco in seguito» la interruppe la signora List. Staccò dalla presa la spina di una lampada da tavolo, la piazzò in un angolo del divano e si guardò intorno per meditare sul prossimo passo. Accidenti a te, Fen. «No, ecco, preferisco lasciar stare questa stanza per il momento» ribatté Sarah con gentile fermezza. Il cuore le batteva a precipizio, come se ci fosse in ballo qualcosa d'importante. Dopo un'occhiata incredula e indignata per essere stata contraddetta da quella che evidentemente per lei era sempre una bambina irresponsabile, la signora List si mise le mani sui fianchi e chiese da che parte doveva cominciare, visto che ormai era lì.
"Grazie al mio buon cuore", suggeriva il suo tono, benché il suo tempo e la sua fatica venissero sempre ben retribuiti. Sarah le propose d'iniziare dalla stanza che un tempo aveva diviso con Fen, adibita ora a camera degli ospiti sebbene fosse in disuso da mesi, e la governante si allontanò con passo pesante, lasciandosi dietro una nuvola di sconforto. Sarah si sentiva lo stomaco in subbuglio, e non certo per la fame. Fremeva di collera pensando a Fen che le aveva messo quella donna tra i piedi: aveva turbato la sua privacy, e per di più lei doveva sottomettersi a una routine. Come la maggior parte delle persone razionali non amava le pulizie di tutti i giorni, ma un occasionale "attacco" a fondo aveva per lei il fascino di una giornata burrascosa. Sempre, nella scoperta di una vecchia rivista, di uno strano guanto o di un misterioso indirizzo scritto di propria mano sul retro di una busta, vi erano interi periodi di tempo in cui il passato affiorava cancellando il presente e, spesso, la portava a continuare il lavoro in un'altra parte della casa. Non si poteva certo definirlo un procedimento metodico, ma a Sarah andava bene così e ora Fen, imponendole la presenza invadente della signora List, aveva rovinato tutto. Perché lo aveva fatto? Un dispetto involontario era fuori questione: Fen era maligna, anche se preferiva autodefinirsi "burlona". Forse, nonostante ostentasse indifferenza, al contrario le faceva rabbia l'idea che Blaise considerasse quella casa il suo rifugio nei momenti di ubriachezza? Sarah scaldò un barattolo di crema al pomodoro e la bevve in piedi da un boccale. Respinse l'impulso di telefonare a Fen per dirgliene quattro. Malgrado il rumore distante di un secchio per la pulizia, la signora List aveva buone orecchie ed era sempre stata attenta alle telefonate come una maestra che vigila a che le alunne non si passino i bigliettini. ("Spero che non fosse quella poco di buono della piccola Powell. Niente party oziosi, questa settimana; lo ha detto la mamma.") La voce imperiosa era echeggiata così chiaramente da sembrare una continuazione quando la signora List, affacciandosi sulla soglia, disse con tono d'accusa: «Guarda questo strofinaccio!» Sarah lo guardò. Lo strofinaccio era un po' logoro, ammise, però poteva ancora andare. La fissò interrogativamente, e la signora List riprese: «Se vai in città a comprarne uno nuovo, potresti approfittarne per prendere anche un po' di cera da mobili; il flacone è vuoto.»
Uscire di casa, sia pure per una commissione così poco interessante, affrontare la giornata ventosa, col cielo terso appena tramato di nuvole bianche, sarebbe stato piacevole dopo il freddo pungente della scorsa notte... ma a un tratto un sospetto si destò in Sarah. La signora List non era tipo da suggerire programmi piacevoli. No; era chiaro che voleva la casa tutta per sé per qualche motivo che Sarah non capiva ma che la rendeva diffidente. «Mi dispiace, ma aspetto una telefonata dall'ufficio» tenne a precisare, sottintendendo che la questione non andava presa sottogamba. «Credo che ci sia dell'altra cera dietro l'essiccatoio.» Sostenne con calma lo sguardo della signora List; l'altra brontolò qualcosa e scomparve di nuovo. Il giorno prima Blaise se n'era stato disteso sul sofà non con la tipica compostezza di un uomo che ha voglia di schiacciare un pisolino, ma in un rilassato abbandono. Forse che Fen, quella mattina, si era spinta in fondo alla stanza nell'intento di cercare qualcosa? Senza un motivo particolare, Sarah sollevò i cuscini e frugò con le dita ai due lati del sofà. Pescò due bustine di fiammiferi, una moneta, una penna a sfera e una graffa per le carte. Si rimise all'opera nella stanza da letto d'angolo. Si era completamente dimenticata della ragazza dal mal di testa, la ragazza con indosso il frusto paltò scozzese. 4 Quel pomeriggio il telefono suonò tre volte. Sarah si aspettava quasi che fosse Fen, impaziente di sapere il risultato del suo gesto arbitrario; e invece una voce di bambina chiese con ansia di Cindy, poi le venne proposta una foto da studio in offerta speciale solo per la settimana in corso. E infine, lo stava guardando, il film sul Quarto Canale? Peccato, aveva perso l'occasione di vincere trecento-quaranta dollari. Alle cinque preparò l'assegno per la signora List e le offrì una bibita; infine la governante, dopo un'ispezione critica alla propria immagine riflessa nello specchio, si ritirò nel bagno per aggiustarsi i capelli e incipriarsi il naso. Cinque minuti dopo, con la strana sensazione di rientrare in uno schema prestabilito, Sarah aprì la porta a Blaise Roland. I fumi dell'alcol erano completamente svaniti: appariva cupo e, a differenza del solito, vestito in maniera inappuntabile. I capelli erano spazzolati con cura; gli occhi, privi di quell'allegria che un tempo l'aveva conquistata,
erano trasparenti come se da giorni interi non avesse bevuto nient'altro che birra allo zenzero. «Sto andando all'aeroporto ma ho pensato di fermarmi per chiederti scusa per ieri.» «Assolto!» rispose allegramente Sarah. Con quella ficcanaso della signora List a tiro d'orecchi non era certo il caso di mettersi a fargli la predica. «Ho fatto la figura del pagliaccio» insisté Blaise «e ti ho rovinato la serata.» Rivolse a Sarah un sorriso tirato. «Lo so da fonte autorevole.» Sarah si sarebbe sentita a disagio anche se un simile discorso non fosse venuto da un uomo del quale era stata innamorata e che un tempo l'alcol lo reggeva bene; una profusione di scuse la metteva in imbarazzo. Si rese conto allora che un'altra macchina si era fermata ne! vialetto. Sarà la ragazza dal paltò scozzese, pensò ricordandosi a un tratto; chissà se vuole un bicchier d'acqua... Ma naturalmente doveva essere la nipote della signora List. Lo sguardo di Blaise si soffermava un po' troppo sulla sua faccia, perciò disse in fretta: «Non parliamone più, Blaise.» Ma la macchina che si era fermata sul vialetto non era quella della nipote della signora List. Sarah riconobbe senz'ombra di dubbio il rumore di quel motore mentre arretrava e ripartiva: avendo seguito la macchina dei Roland la sera prima, James doveva aver riconosciuto l'auto di Blaise. Fen le aveva rovinato la giornata, ma per nulla al mondo glielo avrebbe fatto sapere. Sarah domandò vivacemente a Blaise dove fosse diretto e lui le rispose che andava a Denver; là c'era una vetreria che la Roland Ceramiche avrebbe voluto rilevare se l'affare si fosse prospettato vantaggioso. Blaise guardò alle spalle di Sarah e disse: «Ehi, salve, signora List.» La signora List rispose con un breve cenno. Fissava Sarah con occhi pieni di rimprovero. "Non ce la fai a mollarlo, vero?" diceva quello sguardo. Per principio, Sarah non diede spiegazioni né allora, quando disse a Blaise: «Su, non vorrai perdere l'aereo» né dopo, quando rimase sola con la governante. «Fen deve sentirsi molto sola, a volte, in quella grande casa» osservò la signora List, allusiva. Si era aggiunta un tocco di belletto sulle guance, oppure il colorito si era acceso parlando di Fen? Fen che, opportunista com'era, si fingeva docile come un agnellino tutte le volte che Sarah si ribellava, Fen che arrivava perfino a chiamarla "Tata" per blandirla, mentre invece Sarah non era mai riuscita a spiccicare quelle due sillabe. Se non fosse rimasta di stucco per la partenza affrettata di James, Sarah
avrebbe sorriso per l'allusione piena di rimprovero alla "grande casa" dei Roland. Non era molto più grande della sua, e, lungi dall'esservi stata relegata, Fen l'aveva agognata, quella casa stupenda dal tetto in tegole spagnole, fin dalla prima volta che l'aveva vista! Invitata là per un cocktail il giorno prima che iniziasse la sua strana infatuazione per Blaise, aveva in seguito detto colpita: "Quella casa! Quegli splendidi pavimenti! Lo sai cosa dovresti farne, del cortiletto interno?" In seguito però non si era riferita esclusivamente a Sarah. "Ricoprirlo con una tettoia di vetro, metterci una fontana per creare l'umidità, coltivare ogni sorta di fiori e di piante esotiche. Il prato posteriore poi, così pianeggiante, è l'ideale per il croquet o per il badminton..." Niente di tutto questo era stato effettuato perché in fin dei conti la casa apparteneva alla signora Roland, una donna civile ma irrimediabilmente fredda nei confronti della nuora indesiderata. «Mah, non direi» replicò Sarah alla signora List. «Fen gioca a tennis, va a un mucchio di mostre e di party, ha un sacco di amici e se non sbaglio ha spesso delle riunioni al suo club.» «Può darsi» disse la signora List con un'occhiata diffidente. «Ma se vuoi il mio parere, è...» A quel punto s'interruppe, guardò il bicchiere che aveva appena vuotato come se avesse commesso l'indiscrezione per colpa sua, e lo posò. Si udì allora il clacson della nipote; Sarah la ringraziò, l'aiutò a infilarsi il paltò, le fece un cenno di saluto mentre si allontanava e, con suo sollievo, rimase sola. Be', magari non proprio con sollievo. Era comprensibile che James si fosse allontanato senza scendere dalla macchina vedendo Blaise lì per la seconda volta di fila; poteva avere pensato che Blaise, benché sposato, fosse rimasto una consuetudine inveterata per lei. Forse pensava che la vita con Fen non fosse tutta rose e fiori. Chissà che impressione gli aveva fatto vedere Blaise seduto a suo agio nella tripolina, mentre parlava della sera prima. Tuttavia Sarah provò una punta di risentimento nei confronti di James, e quando il telefono suonò alle otto e mezzo non si precipitò a rispondere. La voce di Fen le sussurrò nell'orecchio «Sono sola, Blaise è andato a Denver, e ho paura.» Sarah la sapeva lunga in proposito. Quando Fen si annoiava era disposta a far qualsiasi cosa per riempire una serata vuota, per poi raccontarlo in seguito con sommo divertimento agli amici.
Disse, ancora stordita per il lungo pomeriggio con la signora List: «Paura di cosa?» «Qualcuno ha telefonato e riappeso quando ho risposto» rispose Fen, sempre con quella strana voce concitata. «Non posso non rispondere perché potrebbe essere Blaise, e non posso chiamarlo perché non saprei dove trovarlo.» Non c'era stato bisogno di frequentarli assiduamente, cosa che del resto Sarah aveva evitato con cura, per capire che da due mesi a quella parte Blaise e Fen non erano precisamente Filemone e Bauci. «Be', tutt'al più Blaise penserà che passi la serata con degli amici e ci riproverà più tardi» rispose Sarah pacata. ("Sarah la saggia, Fen la buffona") «e nel frattempo quei bambini, o chiunque sia, si stuferanno dello scherzo.» «Manca solo che tu mi dica "prendi due aspirine e richiamami domani mattina"» ribatté Fen, pungente. «Pensa però se quell'orribile essere unto e bisunto avesse un compare da queste parti? A questo punto potrebbe aver capito che sono sola, qui.» Sarah ci mise qualche secondo a capire che si riferiva al compagno della ragazza dal paltò scozzese, e che nei futuri racconti di Fen avrebbe avuto il palmo delle mani ricoperto di peli, e gli incisivi appuntiti a mo' di Dracula. Disse esasperata: «Per amor del cielo, Fen, perché dovrebbe...» All'altro capo del filo si udì il rumore di un vetro rotto, poi un grido di Fen e infine: «Oh Dio, chiama la...» seguito dal colpo secco del ricevitore. Dopo un attimo di smarrimento, Sarah formò col dito tremante il numero del soccorso pubblico d'emergenza diede l'indirizzo dei Roland, pregandoli di far presto, e dopo aver chiamato Odino con un fischio, corse a prendere la macchina. «... perciò ho gridato: "Blaise, prendi il fucile"» disse Fen, togliendosi una salvietta umida e arrossata dalla tempia destra e voltandola delicatamente «e poi sono corsa a rinchiudermi nel bagno, e non mi sono mossa finché non ho sentito la sirena.» A Sarah, arrivata subito dopo il vicesceriffo, seduto ora in fondo al sofà e intento a riempire un modulo, la casa sembrava stranamente quieta, a parte il vetro frantumato, un frammento del quale era schizzato in faccia a Fen, ferendola. E Fen, tesa e agitata, dondolava incessantemente il piede calzato nella pantofola rossa. Il vetro in questione apparteneva a un'anta della porta-finestra scorrevo-
le, che si apriva sul giardino retrostante. Fen non aveva accostato le tende, di modo che, mentre era al telefono, aveva visto solo il riflesso luminoso della stanza circostante, e non aveva idea di come fosse avvenuto quel disastro. Il vicesceriffo, facendo un giro di esplorazione, non aveva trovato niente. «Chiunque fosse, è sparito da un pezzo» disse, lanciando un'altra occhiata d'ammirazione a Sarah «e non credo che sarete importunata ulteriormente stanotte, specie con un cane da guardia in casa.» Sarah guardò Odino che se ne stava accovacciato ai suoi piedi. «Ma lui non è un vero...» «Però ne ha l'aspetto e il modo di abbaiare» disse Fen. «Ti fermi qui stanotte, vero, Sarah? Anche il signor Mac è di questo parere.» Si volse a strizzare l'occhio al vicesceriffo. Lui assentì con un sorriso e se ne andò. «Hai fatto un'altra delle tue conquiste» rise Fen. «Be', che ne dici di preparare qualcosa da bere mentre io vado a mettermi una striscia di cerotto sul tampone? A proposito, la chiave è sotto il frullino automatico sul tavolo della cucina.» Avrebbe potuto trattare la cosa con maggiore delicatezza, e invece aveva tenuto a sottolineare che l'armadietto dei liquori era precluso a Blaise, malgrado fosse il padrone di casa. Strano: perché mai il vincitore infieriva sulla vittima? Tanto più che era un gesto gratuito. Blaise era andato all' aeroporto nel tardo pomeriggio, e secondo le abitudini, Fen doveva essersi preparata almeno un drink. Dopodiché, sebbene fosse sola, aveva chiuso a chiave la parte inferiore del buffet di noce della sala da pranzo, che fungeva da armadietto dei liquori? A quasi un anno di distanza, muoversi nell'ala principale di quella che Sarah aveva creduto che un giorno sarebbe stata la sua casa le faceva un certo effetto. Malgrado tutti i progetti arditi di Fen, niente era cambiato, a parte qualche dipinto astratto al posto dei paesaggi di maniera. Per il resto, tinte smorzate, pesanti tendaggi bianchi, parquet tirati a lustro, divano e poltrone foderati di lino a disegni classici. Chissà se era stata la signora Roland a puntare i piedi, oppure Blaise? O forse Fen aveva stabilito che una cometa rifulge di più in un cielo sgombro? Sarah preparò i drink, introdusse un cubetto di ghiaccio nei bicchieri, e rimise la chiave del buffet nel suo nascondiglio semitrasparente. Pensò al
banco un po' sbilenco di casa sua; quello sarebbe stato il primo posto dove un bevitore ribelle avrebbe cercato. Nel soggiorno trovò Fen, con un quadratino di garza sulla tempia, intenta a tappare con del cartone il foro frastagliato della porta a vetri. Più che la sicurezza era il calore a essere minacciato; il meccanismo di chiusura era situato da una parte. «Là!» disse scrutando nel giardino buio. «È sistemato.» Sarah le porse il bicchiere. «Hai detto al vicesceriffo dell'uomo che era con la tua amica?» «Certo, è stata la prima cosa, ma quando ha sentito che erano diretti nell'Arizona, che non sapevo come si chiamava e non avevo neppure guardato il numero di targa, ho avuto l'impressione che scartasse quella possibilità.» Fen trangugiò una sorsata del suo drink. «Lui pensa che siano stati dei discoli, e dato che se ne intende, probabilmente ha ragione.» Cosa ne era del "prendi due aspirine e richiamami domani mattina"? «Conosci quelli che hanno comprato la casa dei Morphew giù sulla strada? Be', no, naturalmente» rifletté Fen «ma sono poco più che dei ragazzi anche loro, vent'anni tutt'al più. Fatto sta che hanno un branco di cani che facevano una gazzarra infernale. Blaise e io ci siamo decisi infine a reclamare in Comune e dev'essergli stato detto di tenere rinchiusi i cani, perché da allora non c'è stato più baccano. Però sono convinta che non ci amano.» «Glielo hai detto, al vicesceriffo?» domandò Sarah. «Naturalmente, con la solita clausola: "Non accuso nessuno, beninteso".» In quel momento il telefono squillò. Fissandola con apprensione, Fen disse: «Vuoi rispondere tu? Sai, una voce diversa...» e Sarah attraversò la stanza evitando la lastra di vetro che giaceva ancora sul tappeto come una lucente minaccia, e disse "pronto" con voce vivace. «Sarah?» Blaise sembrava stupito. «Devo aver fatto il tuo numero per sbaglio.» Un tempo, questo sarebbe stato motivo di profonda amarezza. Ora Sarah disse con distacco: «No, Blaise, non hai sbagliato numero, Fan è qui» e le tese il ricevitore. «Io vado a portare a spasso Odino.» L'animale non era mai stato in quel parco, prima. Avanzò a lunghi passi fino al limite del tratto illuminato e lì si fermò, fiutando come se cercasse le tracce di qualcosa che giaceva oltre il limite, e solo dopo le ripetute esortazioni di Sarah, si decise a spiccare un salto verso la zona buia. Lei lo aspettò rabbrividendo, poiché nella fretta di uscire non aveva pensato a
mettersi né i guanti né la sciarpa, e si sentì a un tratto sola e indifesa, senza di lui. Si disse che non poteva esserci nessuno in agguato là fuori: era escluso che qualcuno avesse aspettato la partenza dell'autopattuglia spiando il momento opportuno. Nonostante le grosse dimensioni, Odino era un cucciolo innocuo, ma pure... Il ringhio sordo proruppe in un latrato. Sarah, in preda al panico, si mise a correre verso la casa e a un tratto fu frenata da un odore acuto e inconfondibile che si diffondeva nella notte. Odino aveva avuto il suo primo incontro con una moffetta. Il cane obbedì al richiamo, e per poco non travolse Sarah nella fretta di mettersi al riparo nella casa. Fen non era stata a lungo al telefono; stava raccogliendo le schegge di vetro in una paletta. Disse in tono casuale: «Blaise ha bisogno di avere i nervi calmi per l'affare che deve trattare a Denver: potrebbe essere importante, perciò gli ho dato una versione edulcorata.» Appoggiata alla scopa, osservava le schegge rimaste ai suoi piedi. «Sai, il vetro non sta poi così male, là. Potrei lasciarlo così per sempre.» Era il tono vittimistico che, nel corso degli anni, l'aveva aiutata a scansare tanti doveri. Sarah, che lo conosceva bene ed era ancora nervosa per il pericolo corso nel buio, disse: «Una buona passata con l'aspirapolvere, direi. A proposito, che non ti venga in mente mai più di mandarmi la signora List.» Fen simulò un'occhiata di stupore ma poi cambiò idea. «L'ho incontrata in paese; mi ha chiesto di te, e sai bene come si eccita appena le si prospetta un programma di pulizie radicali. E poi non è così cattiva.» «No, è peggio» ribatté Sarah. Si sentì a un tratto molto stanca; Fen, con le sue pantofole rosse e la vestaglia a strisce sgargianti, le dava quasi le vertigini. «Lo so che è presto, ma me ne andrò a letto a leggere.» Stavolta Odino non fece storie per essere lasciato nel soggiorno buio; aveva già adocchiato una comoda poltrona. Fen condusse Sarah nella stanza degli ospiti, profondendosi in spiegazioni sull'odore acre della vernice fresca man mano che si avvicinavano alla porta che conduceva all'appartamento che un tempo era stato della signora Roland. «Stiamo facendo rifare l'ala. Blaise adora questa casa e anch'io, devo dire, ma è troppo grande per noi due, ed è uno spreco imperdonabile se si pensa quanta gente è in cerca di alloggio.» Troppo grande in assoluto, poiché, che Blaise fosse d'accordo o meno, non ci sarebbero mai stati bambini. A Fen non piacevano; ne aveva quel ri-
fiuto implacabile che di solito si riserva ai gatti o ai cani, sebbene prendesse l'argomento alla leggera. "Sono carini quando imparano a parlare, però poi non la smettono più, e dopo di questo cosa ti aspetta? Capricci, note di biasimo, cattivi compagni, spinelli e forse anche peggio... Poi, quando hanno fatto tanto di essere cresciuti, ecco che entra in ballo lo psicanalista, che per un'ora intera li ascolta lamentarsi di te." Quanto all'imperdonabile spreco, nessuno di quei "disperati cacciatori d'appartamenti" avrebbe mai varcato la soglia di Fen. Per essere ammessi in casa Roland bisognava appartenere all'alta società locale, ci voleva una coppia da esibire con gli ospiti a un cocktail. "Sai, lui scrive, lei dipinge stoffe favolose..." La camera degli ospiti era una comoda stanza a due letti. Fen tirò fuori uno spazzolino nuovo, e offrendo alla cugina una camicia da notte in prestito, disse: «Sei stata un angelo a venire, Sarah. Spero di non averti guastato i programmi con James.» Perché quella frase ricorrente cominciava a darle sui nervi? Sarah rispose un laconico "no" e si accinse a togliere il copriletto al letto più vicino. Aveva preso un libro nel soggiorno, attratta dalla deliziosa illustrazione della copertina, due uccellini esotici annidati sulle due punte di uno spicchio di luna dietro tre rami brulli; Fen lo prese in mano e diede un'occhiata al dorso. «"Un vero romanzo scandalistico... riporterà la palma di quest'anno per il suo candore"» lesse con un sorrisetto beffardo. «Povera me. Non fa al caso tuo, direi!» «Non provocarmi, Fen» replicò Sarah pacata, e dopo aver tirato giù la lampo, si tolse il vestito. «Ci vediamo domattina.» Venti minuti dopo, mentre ancora le giungevano dal corridoio i suoni attutiti dei preparativi notturni, spense la lampada e si tirò su le coperte per difendersi dall'aria gelida che penetrava dalla finestra socchiusa. Stranamente, dopo lo spavento provato mentre era fuori con Odino, non provava il minimo timore per quello spiraglio di venti centimetri. Era come se una marea si fosse riversata nella casa e poi si fosse ritirata per non tornare, almeno per ora. Una giovane coppia risentita nelle immediate vicinanze che aveva deciso di disturbare la signora Roland per telefono e poi, non contenta, si era messa ad aggirarsi furtivamente per spaventarla con una sassata... e magari procurarle una ferita che probabilmente le avrebbe lasciato una cicatrice? Quando Fen glielo aveva detto, le era sembrato plausibile; adesso non più.
Cos'era successo in realtà quella sera? Una domanda fattale da James la sera prima riaffiorò alla memoria di Sarah e poi svanì. Fen doveva essersi infine coricata, poiché la casa che ospitava due persone e un cane era ora immersa nel silenzio. Silenziosa come l'altra, la casa vuota che si trovava a quattro miglia di distanza nell'oscurità. «... e così sono riuscita a convincere il vetraio a venire oggi» stava dicendo Fen, mentre sistemava la pancetta nei due piatti riscaldati. «Lui ha fatto un mucchio di storie per rimandare a domani, ma io gli ho inventato che c'era una vecchia ottantenne sofferente di polmonite, qui. Che ne diresti di rannicchiarti nella bergère e battere i denti di tanto in tanto? Spero che tu abbia dormito bene.» Fen, che doveva essere in piedi da un po', aveva già portato fuori Odino, riordinato il soggiorno, fatto delle telefonate e preparato il breakfast. Per una persona che si è appena svegliata in una estranea stanza degli ospiti, e che non ha ancora assaggiato un goccio di caffè, era come una sorta di ancora. Sarah rispose di aver dormito bene, ed era vero. Mentre la cugina si lanciava in una descrizione di Odino che giocava con un ramoscello sul prato, la scena cominciò a sembrarle strana come delle foglie immobili nel vento impetuoso. Di solito la gente fa un qualche riferimento a un incidente pauroso dal quale è uscita indenne, ma Fen aveva nominato il vetraio come per caso, come se la porta-finestra del soggiorno si fosse rotta da sola. Nessuna meraviglia se, togliendosi il cerotto, avrebbe mostrato una pelle immacolata là dove la sera prima c'era stato un taglio dal quale il sangue sgorgava copioso... Provò un brivido a quel pensiero. La cucina era più grande e più decorativa della sua, ma Sarah provò un improvviso bisogno imperioso di essere via di lì. Terminò il caffè, portò la tazza e il piattino nell'acquaio, e diede a Odino quel pezzetto di pancetta che lui aveva aspettato fiducioso, accovacciato a rispettosa distanza. «Grazie per il breakfast, Fen. Dobbiamo andarcene, adesso.» Fen scostò immediatamente la sedia. «Potresti fermarti finché mi lavo i capelli? Si tratta di dieci minuti al massimo. Sai, non vorrei che quell'uomo tornasse mentre me ne sto sotto la doccia, come nei film dell'orrore...» Si era allontanata da qualche minuto quando il telefono squillò. Sarah sollevò il ricevitore: era una voce femminile.
«La signora Roland?» «No, non sono la signora Roland. Potreste chiamare tra cinque minuti?» «Veramente sto uscendo e non so quando... Potreste riferirle un messaggio da parte mia? Parla Beatrice Shandy. Eleanor Roland era una mia carissima amica, e non potete immaginare come sia rimasta sconvolta ieri, quando, al ritorno dalla Spagna, ho saputo che è morta. Pensate, avevo ricevuto una sua lettera solo tre settimane fa a Granada. Una lettera in cui diceva di sentirsi molto meglio... È stato un collasso cardiaco, forse?» Possibile che la signora Roland, si domandò Sarah guardando oltre la finestra il giardino spoglio, avesse due amiche intime che si chiamavano entrambe Beatrice, una delle quali era andata a trovare sul posto, mentre con l'altra teneva una corrispondenza in Spagna? «Mah, un insieme di cose, credo.» «Eh, quando suona la nostra ora...» disse con mestizia Beatrice Shandy. «Debbo correre, adesso, ma vi prego di esprimere a Blaise e a sua moglie le mie più sincere condoglianze.» Sarah promise di farlo e riagganciò il ricevitore, sorpresa per il batticuore che l'aveva colta alla vista di Fen ferma sulla soglia, i neri capelli bagnati e sparsi sulla vestaglia color salmone. «Chi era?» Una domanda più che naturale, visto che era casa sua. «Una certa Beatrice Shandy, amica della signora Roland, per farvi le condoglianze» rispose Sarah. La distanza che le separava sembrava essersi accorciata. «È stata in Spagna per alcune settimane, e lo ha saputo solo ieri.» A volte, camminando lungo una strada e guardando le vetrine, ti capita di passare accanto a uno specchio e di cogliere una visione fugace di quella che per un attimo ti pare un'estranea. Quella fu l'impressione che ebbe di Fen. Piccola e tarchiata, al punto che lei stessa soleva scherzare sul proprio fisico: "Chissà dov'è il mio punto vita? L'ho cercato dappertutto". Una faccia da pechinese; due sopracciglia dritte che si abbassavano sugli occhi neri e luminosi. Un'immagine che le era familiare da più di sedici anni, ma che a un tratto le parve del tutto estranea. «Davvero?» replicò Fen con noncuranza. «Vuol dire che mi sono sbagliata. Forse aveva detto Bernice. Be', che ne diresti di un'altra tazza di caffè, prima di andartene?» Anche lei doveva recarsi in qualche posto; si era presa la pena di ritagliare a forma di stella un largo cerotto bianco. «No grazie, ho un mucchio
di lavoro da sbrigare a casa» e uscì mentre il telefono riprendeva a squillare. Si diresse a casa, in preda a un'ansia certo non dovuta al timore di aver dimenticato qualcosa nella fretta; aveva cenato, rassettato la cucina e stava leggendo quando era arrivata la telefonata di Fen. Come tutti quelli che stanno fuori di casa da mattina a sera, Sarah aveva un atteggiamento fatalistico nei confronti dei ladri. Non c'è serratura che tenga per chi è deciso a rubare. Ma allora perché quell'impazienza crescente ogni volta che doveva fermarsi a un semaforo, quella fretta spasmodica, come chi si è svegliato troppo tardi e teme di non arrivare puntuale a un appuntamento d'importanza vitale? Il soggiorno, con tre lampade accese e il suo libro aperto faccia in giù sul tavolino, sembrava lo scenario di una serata interrotta. Vi regnava un silenzio totale. Dopo essere rimasta un attimo in ascolto, Sarah si diresse in fondo alla stanza e si fermò a sinistra del caminetto, là dove aveva sorpreso Fen la mattina prima. Una lunga cassapanca, teoricamente per la legna da ardere, benché contenesse una collezione d'argenteria avvolta nella carta di giornale, un altoparlante stereo, una pila di dischi, una fila di libri fermati da due candelabri di ottone. Era tutto esattamente come era stato il giorno prima, quando Fen se n'era andata con la guida Sanbon? Impossibile dirlo; tanto più che a volte libri e dischi s'inclinano da soli. Sarah si volse a guardare il divano sul quale la sera prima Blaise se n'era stato disteso. Un mucchio di pensieri le si affacciarono alla mente, nessuno dei quali piacevole, e si concentrarono alla fine su una semplice equazione. Fen possedeva una chiave di questa casa. Fen aveva visto la signora List, ieri. La signora List era disposta ad andare nel fuoco per Fen. Un'idea assurda, probabilmente; ma il fatto stesso di averla concepita era insopportabile. Da Fen c'è il vetraio, pensò Sarah. Da me verrà il fabbro. La seconda ditta da lei chiamata rispose che avrebbe mandato un operaio quel pomeriggio. Dopo aver bevuto una tazza di caffè si mise in tenuta da lavoro, e solo quando rispose al telefono e sentì la sua voce, si rese conto che da molte ore, senza una ragione precisa, aveva scartato dalla mente il pensiero di James Choate.
Era la seconda telefonata personale che James faceva dall'ufficio. Non avendo trovato Sarah la sera prima, ci aveva riprovato alle nove, e alle dieci aveva cercato il numero di Blaise Roland. Si qualificò, spiegando: «Mi sono chiesto se fosse con voi, o se sapeste dirmi...» «Ha passato la notte qui, e ora sta tornando a casa.» Pausa, e poi: «Se amate Sarah, cosa che salta all'occhio anche a un cieco, non fatele domande in proposito!» James non sopportava le frasi buttate lì. Con la matita che aveva in mano, prese a schizzare distrattamente un cespuglio sul blocchetto. «Perché?» domandò seccamente. «Perché... be', Sarah malgrado la sua bellezza è sempre stata un'insicura, e poi c'è un'altra cosa...» La voce all'altro capo del filo era bassa e fonda. S'interruppe e infine disse: «Mah, è troppo complicato, così per telefono. Direi di incontrarci, una volta o l'altra...» «Vi andrebbe bene oggi per colazione?» Il cespuglio di James era di quelli adatti a ornare sia una casa privata che una sede di uffici municipali. «Vorrei proporlo anche a vostro marito, ma...» «Impossibile. È fuori città, oggi.» La pausa significava che la signora Roland stava organizzando mentalmente la giornata. «Vada per la colazione, allora. Andrebbe bene all'una? Dove?» James propose un posto. Riappese il ricevitore, strappò dal blocchetto il suo "capolavoro", lo appallottolò, gettandolo nel cestino della carta straccia. Con una forza che avrebbe frantumato un piatto di porcellana. Il fabbro che arrivò alle tre era un tipo accigliato con una faccia che pareva fatta di gomma, e un raffreddore potente. Come Santa Claus, non disse una parola ma si mise subito all' opera sulla prima delle tre portefinestre segnalategli. Sarah pensò che quello del fabbro doveva essere un mestiere silenzioso, pieno di segreti. Da quando James le aveva telefonato proponendole di uscire a cena con un tono un po' forzato, come se seduta di fronte a lui ci fosse una segretaria che lo stava fissando con sguardo scrutatore, Sarah aveva provato un illogico desiderio di uscire a comprarsi qualcosa di stravagante. Gamberetti, magari, da infilare negli stecchini per consumarli ghiacciati, in salsa piccante. Fiori da mettere nel piccolo vaso di rame che aveva tirato fuori durante le pulizie. Qualcosa di diverso, insomma. Ma, col fabbro in casa, era impossibile. La signora List aveva lasciato la camera e il bagno degli ospiti immacolati. Sarah rivolse con riluttanza l'at-
tenzione a quello che sarebbe dovuto essere il "trofeo" della casa, e che nel lessico familiare era chiamata "la stanza rosa". Fatalmente, nel corso degli anni, si era ridotta a "stanza tuttofare", il deposito per le cose più disparate. Vi era comunque un divano-letto da usare in caso di emergenza ma soffermarsi a guardare il resto, sia pure di sfuggita, era demoralizzante. Doveva esserci qualche circolo cui poteva servire un'enciclopedia edizione 1968; si ripromise d'interessarsene. Quanto agli oggetti di proprietà di Fen, lo avrebbe chiesto a lei. Nel frattempo Sarah disse addio a due grossi ombrelli di seta nera, a due "croste" dalle cornici dorate, a una lampada da lettura e a uno specchio scrostato e andò a disporli in maniera invitante sui coperchi dei bidoni dei rifiuti. Una graziosa lampada in ferro battuto aveva bisogno di essere riparata; Sarah navigava in un mare d'incertezza. Non riusciva a ricordare l'ultima volta in cui aveva esplorato nell'armadio. Stranamente, in tutto quel bailamme, era vuoto a parte una racchetta da tennis nella custodia e una grossa sacca di tela blu che certamente sarebbe stata preziosa al momento del trasloco. La tirò fuori e aprì lo scomparto principale. Qualcuno aveva conservato lo spazio in previsione di arrivi, quando ancora questa era una stanza per gli ospiti. Dentro c'era una piccola valigia per bambini in fibra bianca e viola. La riconobbe all'istante, dopo la bellezza di sedici anni. La stazione in una calda giornata estiva... l'odore di petrolio e di metallo surriscaldato, misto al profumo delle roselline selvatiche che crescevano al di là delle rotaie. Il capotreno divertito per il capitombolo di Fen, che porgeva proprio quella valigia a Richard Malcolm. Era quella l'origine del mal di testa che l'odore della roselline selvatiche dava a Sarah? Chiuse la sacca senza toccare la valigetta. Aveva uno spiccato rispetto per gli oggetti di proprietà altrui, e toccava a Fen disporre della propria roba, anche se priva di valore. Bisognava interpellarla sulla sua vecchia Remington portatile e qualche altro oggetto. Il fabbro aveva dei problemi con la porta-finestra che dalla stanza da letto d'angolo dava sulla piscina, ed erano le quattro e mezzo quando chiamò Sarah a provare la nuova serratura. Ricevuto l'assegno, se ne andò. Non le restava molto tempo per darsi una rinfrescata; era leggermente arrossata quando porse il viso al bacio di James. Peccato, pensò una parte di lei, peccato che le cose non possano rimanere così per sempre, con quella par-
ticolare emozione che è tipica di un rapporto agli inizi. L'altra parte di lei, invece, preferiva un rapporto più concreto. «Non ti ho ancora chiesto di ieri sera» disse James, quando si furono accomodati con gli aperitivi davanti. Le aveva portato un mazzo di violette, che lei aveva posto sul tavolino tra i bicchieri. «Sono sempre bloccato quando telefono dall'ufficio, mi sembra perfino di parlare in codice.» Sarah glielo riferì brevemente. Parlando, sistemò un fiore rimasto in bilico, e non si accorse dello sguardo intento di lui quando concluse: «Un fatto impressionante, anche perche Fen ha solo un vago sospetto di chi possa essere stato.» «Lo so. Ho fatto colazione con lei» buttò lì James. «Ah, davvero?» disse in tono casuale. In fin dei conti Fen era una parente... no, meglio non accendere la sigaretta ora, si disse Sarah, il leggero shock poteva averle provocato un tremito alle dita. «Fortuna che la scheggia di vetro non l'ha colpita all'occhio.» «Ha fatto voltare un mucchio di teste» sorrise James. «Portava un vestito color porpora con un cappuccio troppo grande per lei.» Il trucco del cappuccio troppo grande, pensò Sarah, sforzandosi di apparire divertita. Fen la buffona, l'eterna vittima delle circostanze... tranne che non c'era niente che facesse pensare a una povera diseredata nello splendido solitario regalatole da Blaise. E neppure nella vistosa stella di cerotto bianco, fatta non certo per coprire un difetto imbarazzante; chi la conosceva le avrebbe chiesto divertito: "Cosa ti sei fatta stavolta?" Fortunatamente il bicchiere di James era vuoto. Sarah balzò in piedi. «Vogliamo prendere un altro drink, oppure usciamo subito?» Presero un secondo drink, evitando ulteriori riferimenti a Fen. Certo era una reazione da bambina ferita domandarsi, durante il tragitto verso il ristorante, se fosse stata in quella macchina oggi, decisa a conoscere James, sfruttando le sue male arti. Possibile che gli uomini ci cascassero così? Comunque Sarah sapeva benissimo che reagendo in quel modo alle buffonate di Fen faceva il proprio danno; ma era più forte di lei. Era un nuovo ristorante, situato al primo piano; dava su una strada che in quella serata gelida e nebbiosa, coi neri rami brulli che spiccavano nei tratti illuminati, sarebbe potuta essere una strada di qualunque città. James le aveva promesso che l'aragosta sarebbe stata eccezionale e infatti lo era, dolce e gustosa. Ne mangiò una gran quantità, insieme all'insalata e alle patatine, e disse
che il vino bianco era delizioso. Sperò di non stare male dopo; si sentiva sottoposta a un esame senza essere stata preavvisata. Oppure era tutto frutto della sua immaginazione? No. C'era un'attenzione nuova in James, che le ricordava l'intervista preliminare, svoltasi durante il cocktail e la colazione nell'elegante appartamento del direttore artistico, e in cui ogni sorso, ogni boccone, ogni minimo gesto avrebbe potuto avere un significato negativo. Tutto questo le toglieva ogni spontaneità, rendeva innaturale ogni suo gesto, forzato il sorriso, costringendola a dominarsi mentre James, di solito il più attento e premuroso degli uomini, snocciolava un mucchio di aneddoti come se dovesse intrattenere un ospite venuto da fuori, e studiarne le reazioni. Che voto si sarebbe meritata se rifiutava il liquore offertole? Per conservare una parvenza di allegria lo bevve, e quando James l'ebbe condotta a casa e accompagnata dentro, Sarah ebbe un impeto di ribellione. «Ti spiace se me ne vado subito a letto? Ho lavorato tutto il giorno, e sono...» Non la lasciò finire. La strinse a sé con forza, premendole la testa contro la sua spalla. Forse era il cognac a farle credere che le avesse sussurrato il suo nome tra i capelli, insieme a delle parole di scusa. Infine se ne andò. Sarah fece uscire Odino, e approfittò dell'intervallo per sciacquare i bicchieri e vuotare i portacenere, un riordino generale che quella sera aveva l'aria di una smobilitazione. Giacque infine a letto, sotto il piumino, lo sguardo fisso nell'oscurità. Lo schema stava riemergendo, e lei non poteva farci niente. Le lucenti serrature nuove sembravano ora crudelmente assurde; come ne avrebbe riso Fen, se lo avesse saputo. Ciò che le era sfuggito la notte precedente nella stanza degli ospiti dei Roland era a un tratto lì, chiaro e preciso. Sarah si tirò su a sedere, accese la luce e puntò la sveglia. Si rannicchiò infine sul fianco, e chiuse gli occhi. 5 «... Roger Creed. Vostra zia, che a quel tempo si chiamava Anne Nichols, era vedova da due anni quando si sposarono a Chicago nel 1962.» Roger Creed. Un nome che a Sarah pareva di aver già sentito, ma quella mattina le parve nuovo e singolare, il nome di un uomo segnato dalla sventura. Aveva fatto la sua richiesta telefonicamente, alle nove. Adesso, alle un-
dici, Andrew Casey, l'avvocato che si era occupato del patrimonio dei suoi genitori ed era stato anche amico di famiglia, stava ruotando leggermente sulla sedia girevole, chinando di tanto in tanto la bella testa argentea per dare un'occhiata agli appunti tracciati su un foglio di carta intestata. Sullo scrittoio, oltre al foglio di pergamena, c'erano un telefono e un piccolo albero intagliato nel corallo bianco. Un sigillo dorato pendeva da un ramo, dondolando a ogni minima oscillazione. Sarah cercò di evitare il bagliore dorato; le sembrava un modo per dissipare quell'impulso che l'aveva spinta lì. Ma forse l'impulso era già superato. La luce del giorno ha il potere di attutire quei pensieri che durante la notte prima diventano ossessionanti. Tra questi, in particolare, la necessità di cambiare la serratura della porta. Non poteva lasciar correre, date le circostanze; doveva sapere perché. Aveva anche ricordato a se stessa che Fen non era nata quel giorno alla stazione. Era già vissuta dodici anni in un'altra casa, in un altro posto di cui Sarah ignorava quasi tutto. Presumibilmente Creed avrebbe adottato Fen, col tempo, stava dicendo Andrew Casey. «Ma sapete com'è, in principio, i ragazzi sono quasi sempre ostili nei confronti dei patrigni così come lo sono nei confronti della matrigna. E poi...» si strinse nelle spalle in un gesto espressivo «c'erano le parcelle del dottore: a quel che ne so, vostra zia non è mai stata forte. Creed era direttore di una banca. Non c'erano i calcolatori elettronici a quei tempi; fatto sta che riuscì a impossessarsi dei fondi, e alla fine si suicidò piuttosto che affrontare un processo. Si asfissiò nel suo garage.» Fece una smorfia di disapprovazione. «Questo è il quadro completo, comunque, basato sulle informazioni che vostra madre ci fornì al tempo dell' adozione. Come ricorderete, lei aveva la tendenza a sorvolare sulle cose spiacevoli.» Vibrava una nota d'ammirazione un po' forzata nella sua voce. Era vero; Rosemary Malcolm non aveva voluto ombre che turbassero la sua vita serena. Perfino le discussioni politiche la infastidivano, e un truffatore suicida in famiglia sarebbe stato un fatto intollerabile. «Dov'è successo?» domandò Sarah simulando una blanda curiosità. «Devo averlo saputo, a suo tempo, ma me ne sono scordata.» Casey le lanciò un'occhiata sagace. «Sarebbe meglio lasciare...» cominciò, ma s'interruppe per rispondere al telefono. «Sì?» Stette un attimo in ascolto. «Va bene. Portatela nella sala delle riunioni, vengo subito.» Si alzò. La brusca interruzione suggeriva che anche Sarah si alzasse in
piedi per congedarsi, invece sorrise comprensiva e aprì la borsetta come per cercare qualcosa. Casey le porse cerimoniosamente una copia ripiegata del giornale della mattina e disse: «Me la caverò in pochi minuti» e uscì. "Meglio lasciar perdere", era stato lì lì per consigliarla. Perché? Le banche sono soggette ad assalti dall'interno; da allora altri titoli scandalistici si erano susseguiti sui giornali; infine i protagonisti erano morti. Era escluso che proteggesse la dodicenne di un tempo la quale oggi era una donna sposata... Quella bambina che aveva accolto la notizia della morte di Roger Creed dicendo: "Io non ci vado, al suo funerale... Non gli ho mai voluto bene". A ripensarci, Fen non aveva riferito ai Malcolm nessuno di quei particolari, talvolta immaginari, che i bambini sfruttano nelle loro scaramucce, e fin dall'inizio non aveva mai nominato nessun amico. Di cosa diavolo avevano parlato, durante quella prima lunga estate? Sarah cercò di ricordare, ma non ci riuscì. Spiegò il giornale e diede un'occhiata alla prima pagina. C'erano state delle agitazioni nel Middle East; le "Lumache" avevano vinto un altro round in qualche posto, e il cadavere di una sconosciuta era stato trovato alle pendici delle Sandias. Le montagne che sembravano così innocue viste dal basso, e che oggi si stagliavano argentee nel cielo cupo, ricevevano un sorprendente tributo annuale di campeggiatori inesperti, di scalatori spericolati, di cacciatori avventati. Non c'era un fine settimana in cui qualche principiante, andato là per sparare ai cervi o ai daini, non avesse finito per ammazzarsi, o che qualcuno fosse sparito senza lasciare tracce. Sarah stava voltando a pagina nove, secondo le istruzioni, quando la porta si aprì. Andrew Casey disse con slancio: «Col cielo coperto, si presume che la regata sia finita. Prendereste un po' di sherry con me?» Si avvicinò a una consolle e prese una bottiglia e due calici. «Questo è vin di Cipro. Disprezzato dagli intenditori, pare. Io invece lo trovo eccellente.» Porse il bicchiere a Sarah, la quale non vedeva di meglio che avventurarsi nel campo dei vini per distrarre la mente da quel pensiero ossessionante. Ne prese un sorso. «Delizioso... Stavate dicendomi dove vivevano mia zia e Roger Creed mentre succedeva tutto questo.» Dopo averle lanciato un'occhiata in tralice rispose: «A Erskine, una cittadina situata nella regione sudest di questo stato. Un piccolo centro, sul quale non credo ci sia niente da scoprire più di quanto vi abbia detto. Come voi sapete, vostra zia morì di epatite pochi mesi dopo Creed. Una storia
tutt'altro che allegra.» E quindi da evitarsi, dicevano le sopracciglia inarcate in segno di disapprovazione. Stava dalla parte di Fen, come tutti, del resto. Perfino James, che pure aveva osservato, a proposito delle circostanze che avevano portato Fen nella vita di Sarah: "E tu lasciasti cadere la cosa a quel punto?" Lo sherry era diventato a un tratto disgustoso come il profumo delle roselline selvatiche. Sarah posò il bicchiere. «Mi basta così» disse alzandosi. «Mi lambiccavo il cervello per ricordarmi il nome della città, sapete come succede, e benché sia passato molto tempo, non mi sembrava opportuno domandarlo a Fen.» Si diresse a casa in macchina. Sul vialetto carrozzabile, nell'atto di salire nella famigliare accanto alla nipote dal muso di faina, scorse la signora List. Proprio mentre lei era dall'avvocato. «Avevo dimenticato qui l'orologio» spiegò la governante «ma suppongo che tu non lo abbia trovato, altrimenti mi avresti avvertita. Posso entrare a dare un'occhiata?» Aveva un tono brusco e risentito. Sarah rispose di sì, che poteva entrare, e notando la maniglia rilucente mentre si serviva della nuova chiave, si domandò se era per la serratura cambiata che la List aveva il muso. E c'era qualcos'altro nella piega delle grigie onde rigide. Una nuova pettinatura? No... Odino l'accolse festosamente come se fosse rimasto solo un' intera settimana. Sarah lo accarezzò, lo fece uscire, e quando si volse scoprì che la signora List era scomparsa nei meandri della casa. Evidentemente continuava a considerarla un po' come se fosse casa sua, ma Sarah la seguì in un impeto di ribellione. La governante aveva lavorato il giorno prima nella stanza e nel bagno degli ospiti. Inesplicabilmente era nella stanza rosa, intenta a fissare la chiusura dell' orologio da polso. Sul mignolo destro spiccava un grosso opale incastonato in una fascetta d'argento sbalzata a mano. Sarah lo conosceva bene, quell'anello. La signora List, seguendo la direzione del suo sguardo, disse tronfia: «La signora Roland ha voluto che lo avessi io per ricompensarmi di quello che ho fatto per lei. Era difficile trovare delle infermiere, in quel momento, e io non mi sono certo tirata indietro...» Si guardò intorno. «Devi avere lavorato come un castoro, qua dentro»
osservò rabbonita. «Quella lì non è la vecchia macchina da scrivere di Fen?» Sarah si accorse che la donna cercava di distrarre la sua attenzione. «Sì. Devo chiederle se la vuole, insieme ad alcune altre cose.» Tornò nel soggiorno, seguita dalla signora List che di nuovo le offrì i suoi servizi. «Avrai bisogno di aiuto, con tutto quello che hai fatto. Adesso devo andare a fare delle compere con Bonnie per il compleanno di Ed, ma potrei tornare domani.» "Ed" era il marito della nipote, un tipo malinconico dai capelli a spazzola che nelle ore libere si dava da fare per riempire la casa, già piuttosto ingombra, di scaffali e tavolini che costruiva nel suo laboratorio casalingo. Sarah poteva capirlo, del resto; se fosse vissuta con la signora List, si sarebbe dedicata alla costruzione di un'intera cattedrale in legno. Disse con fermezza: «Grazie, ma aspetto gente e comunque devo ancora esaminare molte cose, libri e così via, per decidere cosa tenere e cosa scartare. Inutile farlo in due.» Incredibile: gli occhietti grigi dietro le lenti cerchiate d'oro conservavano ancora una scintilla dell'antico potere. La governante si strinse nelle spalle e si diresse alla porta. «Vedo che hai cambiato la serratura.» Con quel tono di sfida sperava forse di vendicarsi per lo smacco subito. «Le ho cambiate tutte, se è per questo» rispose Sarah con noncuranza, ben sapendo che la notizia sarebbe arrivata alle orecchie di Fen. «Non avevo altra scelta, dato che ho perso un mazzo di chiavi.» Non c'era da stupirsi, pensò dopo aver chiuso la porta d'ingresso, che la signora List avesse lavorato per i Roland. Era severa e degna di fiducia, aveva un dente avvelenato con le infermiere che pretendevano il pasto servito con tanto di vassoio, e avrebbe fatto volentieri la notte in bianco per risparmiare fatiche a Fen. Né era poi così strano che la signora Roland le avesse regalato l'anello con l'opale, quell'anello che aveva per lei un valore sentimentale, piuttosto di lasciarlo alla nuora con la quale aveva un rapporto civile, ma niente di più. Però che sollievo sarebbe stato, una volta venduta la casa con tutti gli obblighi che comportava, non rivedere mai più il muso della governante. Sarah aveva una mappa stradale dello stato, comprata quando un'amica venuta a trovarla aveva deciso di visitare le Carlsbad Caverns, ma grazie alle zelanti pulizie degli ultimi giorni, riuscì a trovarla solo dopo le due passate, e non certo sulla scrivania in mezzo al guazzabuglio di oggetti di-
sparati, ma in una cartella, sotto la lettera M. Erskine, che si trovava a quattr'ore buone di guida a sudest, doveva essere sì stata una piccola città sedici anni prima; ora però contava più dì ventimila abitanti, il che significava che era cambiata oltre che cresciuta; tuttavia Sarah sospettava che i bancari avessero una memoria assai vivida in materia di casi come quello di Roger Creed. "Sarà bene che ne parliamo a quattr'occhi al mio ritorno", le aveva detto suo padre la sera prima che lui e sua madre morisse. Voleva forse approfondire la teoria del "diseredato", oppure metterla in guardia contro Fen, o infine si trattava di qualcos'altro ancora? In fretta, nel timore di cambiare idea, Sarah si diresse in città dove fece controllare la macchina. Fece anche degli acquisti in drogheria e comprò un giornale della sera per dare un'occhiata al bollettino del tempo e verificare se c'erano bufere di neve tra Albuquerque e Erskine. Non ce n'erano, il che era una buona notizia in quel periodo dell'anno. Fece per ripiegare il giornale, e in quella l'occhio le cadde in fondo alla prima pagina, dove lesse che il cadavere della sconosciuta trovata nella macchina alle pendici delle colline non era ancora stato identificato. Descritta come una ragazza snella e castana, sui venticinque-trent'anni, era stata uccisa con un colpo di pistola alla testa, sparato a distanza ravvicinata. Non c'era l'arma del delitto, in vista. La polizia aveva fondati motivi di credere che sulla Ford ci fosse stato un uomo, con lei. Una circostanza insolita, quindi. Chissà quante persone stavano telefonando alla polizia in quello stesso momento, preoccupate per la sorte di una figlia, una moglie, una sorella scomparsa... Il telefono di Sarah rimase silenzioso; lei se ne servì per avvisare il canile che avrebbe portato Odino l'indomani mattina, all'orario di apertura. La stanza rosa l'aspettava, non certo per essere spolverata o passata con l'aspirapolvere. Sarah entrò e si fermò nel punto in cui aveva trovato la signora List intenta ad agganciarsi ostentatamente l'orologio da polso. A meno che non lo avesse precedentemente nascosto dietro a un cuscino, a Sarah l'orologio non poteva essere sfuggito durante le pulizie di fondo del giorno prima. Così sgomberata, la stanza non era più un luogo pieno di segreti; eppure la governante era venuta per cercare qualcosa. E aveva attirato la sua attenzione sulla macchina da scrivere di Fen, posta accanto a una stamina di terracotta portata dal Messico e di fronte all'armadio a muro. Sarah aprì l'armadio, estrasse la sacca e aprì la sezione centrale della
piccola valigia logora. Come poteva aver sperato, la signora List, di avere il tempo di farlo? Una fede incrollabile nella sua antica autorità, la convinzione che Sarah non avrebbe osato seguirla malgrado fosse in casa sua, né tantomeno interferire? Gli scrupoli sull'altrui "privacy" erano svaniti; la sua era stata violata a dritta e a manca. Di primo acchito, la valigetta sembrava vuota, ma non lo era. Nell'unica tasca c'era un pezzo di carta ripiegato più volte. Una busta, indirizzata a Frances Nichols, con una tondeggiante calligrafia infantile. Il nome scartato, un tempo usato da... Stava imbrunendo, e Sarah accese la luce per verificare il timbro. La data era indecifrabile, ma il luogo di provenienza era Erskine, Nuovo Messico. Nell'angolo sinistro in alto, anziché l'indirizzo del mittente, una frase scritta a matita era stata cancellata con dei ghirigori. E quel battito forte e scandito era il suo polso. Perché mai Fen, perché mai chiunque aveva conservato una busta vuota? Negligenza, era una spiegazione; si crede erroneamente di avere inserito il contenuto nella busta. Sentimentalismo, era un'altra spiegazione. In quarta ginnasio Sarah aveva ricevuto un biglietto amoroso per la festa di San Valentino da un ragazzo di prima liceo, e sebbene sua madre non avesse fatto commenti, il biglietto era sparito in men che non si dica. Ma per due mesi la busta, con l'indirizzo scritto da lui, era stato un vero tesoro in sé. Un trofeo. Ma se Fen aveva improvvisamente mandato la signora List a recuperare questa...? O forse, dopo tanti anni, poteva essere così sicura che la busta dimenticata fosse vuota? Sarah rimise a posto ogni cosa e chiuse l'armadio. Avrebbe voluto chiuderlo a chiave, non per tener lontani i "rapinatori", ma al contrario per attirarli. Dato che all'agenzia avevano promesso solennemente di non disturbarla durante la settimana di permesso, il telefono squillò solo due volte nel tardo pomeriggio e nelle prime ore della sera. La prima volta era una voce femminile che voleva sapere se parlava con la padrona di casa. Spesso il telefono è importuno, ma Sarah, rendendosi conto che con la villania e le comunicazioni interrotte bruscamente ci si complica la vita, aveva trovato una via di mezzo. «No, sono la domestica.» Quando avrebbe trovato la signora?
«Tra due settimane» rispose Sarah, e soggiunse: «Forse. Sono arrivate un mucchio di telefonate dacché è partita, probabilmente tutte da parte di creditori.» Benché in seguito si sarebbe potuta pentire di una simile dichiarazione che poteva essere controproducente, la frase ebbe un effetto magico: non le dissero neppure "buona sera". La volta successiva era ancora la bambina che chiedeva di Cindy. Sarah stava riempiendo una valigetta con la cose da notte quando rispose all'apparecchio nella stanza da letto. «Pronto, Sarah...» «... sì, James.» Il tipico approccio diretto, confidenziale. Subito James disse a bruciapelo: «Scusami per ieri sera. Non sono stato un compagno piacevole.» «Al contrario, è stato un piacere; avevi ragione sull'aragosta: era squisita.» E ora, pensò Sarah ascoltando la propria voce, si può passare al vino, all'insalata, alle patatine. «Domattina devo andare a una riunione a Santa Fé, ma non durerà più di un'ora, e ho pensato che sarebbe bello se tu venissi a passare la giornata con me.» Per i nervi scoperti di Sarah era il colpo di grazia. «Gentile da parte tua, ma ho un mucchio di cose da fare qui.» Ieri gli avrebbe detto di Erskine... indirettamente, l'idea gliel'aveva data lui... ma ieri gli avrebbe anche risposto: "Magnifico" senza esitazioni. James non insisté. Disse: «Va bene...» poi vi fu il silenzio imbarazzato di due persone che non sanno come concludere una conversazione. Lo trovò Sarah, il modo. «Per la verità in questo momento sto dando la cera a un pavimento, ed è quasi asciutta. Buon viaggio!» Sbattendo giù la cornetta com'era sua abitudine dopo una conversazione difficile, si domandò cosa diavolo fosse successo durante quella famosa colazione, e chi dei due l'avesse proposta. James sapeva di Fen, fino a un certo punto, beninteso. Forse lei aveva, con la sua tipica scaltrezza, cercato di imbrogliare le carte? Chiederlo a Fen significava solo ottenere una frottola per risposta, insieme a un altro "il tuo James". E naturalmente James doveva avere bene impresso nella mente l'immagine di Blaise sdraiato familiarmente sul sofà di Sarah. E chissà cos'aveva visto Blaise nel breve intervallo in cui lei si era allontanata dal soggiorno per andare a prendere un bicchiere d'acqua a quella strana ragazza dal paltò scozzese? Nancy Pike. Sarah non dovette fare sforzi per ricordarne il nome; era lì,
fotografato nella sua mente. Ed era inutile domandarsi cos'avesse visto Blaise. Poteva essere addormentato, oppure, avendo bevuto una tazza di caffè forte, poteva giacere là con gli occhi chiusi, per aprirli pigramente quando era cessato il suono delle voci. Nell'eventualità improbabile che la ragazza avesse lasciato di proposito qualcosa lì, perché in seguito non era tornata indietro a riprenderselo? Stare sola nella stanza per altri quarantacinque secondi non era certo un problema insormontabile. Risposta: lei e quell'orribile uomo unto e bisunto erano andati a Phoenix. Senza troppa convinzione, Sarah iniziò una ricerca nel soggiorno, continuando a domandarsi cosa diavolo, in un angolo di quella stanza, avesse attirato l'attenzione di ben tre persone: la signora List, Fen, la ragazza dal paltò scozzese. Assurde visioni di microfoni nascosti turbarono le sue ricerche; forse aveva letto troppi romanzi polizieschi. Spostò ogni cosa sulla lunga cassapanca: i cataloghi di giardinaggio e una rivista, e separò uno a uno i dischi. L'unica scoperta fu che la sua violetta africana aveva bisogno di essere innaffiata. Così stupenda quando l'aveva comprata, coi germogli bianchi e rosa che sembravano di porcellana, era ora diventata di un imperdonabile verde smorto. Tuttavia il pensiero di Fen era così assillante che il telefono sembrava quasi sul punto di suonare. La signora List non poteva aver avuto il tempo di riferirle delle serrature cambiate, se non altro per l'indignazione. Sarah si rese conto per la prima volta che parte della sua determinazione a vendere la casa era dovuta al fatto che là dentro erano racchiusi troppi ricordi di vite altrui. Ma Fen non telefonò. Invece, l'indomani mattina alle nove e cinque, quando Odino fu sistemato sul sedile posteriore dell' auto, Fen arrivò. 6 Fen vestiva sempre in maniere pacchiana. Quella mattina si era messa un impermeabile di seta cangiante chiara e un turbante color verde cedro a disegni gialli e neri. Alle orecchie portava un paio di manine d'avorio che a Sarah fecero il macabro effetto dei resti di un bambino microscopico. Non doveva avere notato la valigia riposta nella macchina. Sarah le si affrettò incontro «Sei mattiniera» osservò. «Senti chi parla!» ribatté Fen, facendo a sua volta un rapido inventario.
Quello di Sarah non era certo l'abbigliamento adatto a comprare guanti di gomma o un nuovo strofinaccio: paltò color carta da zucchero coi bottoni di madreperla, morbide scarpe scollate basse in vitello blu. «Ho dovuto accompagnare un'amica all'aeroporto, perciò ho pensato di passare a prendere la macchina da scrivere, già che c'ero. Ma se hai fretta...» «Be', non fino a questo punto» disse Sarah, e aprì la porta d'ingresso con la nuova chiave senza nessun commento da parte di Fen. Diamole anche la valigia di fibra, ma con la debita cautela. Sarah non voleva che si stabilisse un nesso con la sua assenza quella notte, nel caso venisse scoperta. Fen non ci avrebbe messo molto a fare due più due. Nella stanza rosa Fen prese la macchina da scrivere ma rifiutò i bastoncini da sci. «Mi romperei a pezzi se andassi a sciare ora» e disse che il vaso d'argilla apparteneva alla ragazza con la quale aveva fatto il viaggio in Messico e di cui non riusciva a ricordare il nome da sposata. «Pesa come se fosse di piombo. Perché non lo lasci qui e non lo riempi di terra?» «È tutta roba tua, e a meno che non ci sia qualcosa qua dentro...» Col cuore in tumulto, Sarah aprì l'anta dell'armadio, svelando la sacca blu. Offrì dapprima la racchetta da tennis, e dopo averla esaminata Fen scosse il capo: non era sua. Disse con la massima indifferenza che la sacca doveva essere arrivata un Natale di molti anni addietro, con Faith McCullough. «Non escludo che voglia riaverla indietro.» «Comoda per gli spostamenti, comunque.» Sarah la soppesò come se non ne avesse mai verificato il peso o la capienza prima. «C'è qualcosa, dentro.» Era un tacito invito e Fen, avvicinandosi, tirò la lampo centrale ed emise un grido di comico trionfo. Oppure era solo scherzoso; Sarah non ne era sicura. «Ah! La mia valigia Vuitton.» Posò la macchina da scrivere e s'impadronì della valigetta logora, scuotendola. «Ebbene, qualcuno è già fuggito coi miei preziosi cimeli, perciò vorresti... No» soggiunse recisamente, guardandosi intorno nella stanza spoglia. «Avrai già speso una fortuna per la raccolta d'immondizie. La prenderò, e così pure i bastoncini da sci. Conosco un diciannovenne infrangibile.» Un'impresa portata a termine con allegria. Non faceva certo pensare al ritrovamento di una vecchia portatile, ricoperta da uno strato di polvere. Dato che aveva letto da qualche parte che era una misura di protezione per una casa incustodita, Sarah abbassò la suoneria in entrambi gli appa-
recchi, chiuse la porta d'ingresso, e portò Odino al canile. Non era certo un supplizio per lui: nel suo ultimo soggiorno aveva conosciuto una meravigliosa setter irlandese e, a giudicare dall'impeto con cui strappava il guinzaglio, era chiaro che sperava di ritrovarcela. A sud, ora, verso la città in cui sedici anni fa Roger Creed aveva chiuso la saracinesca del garage e acceso il motore della macchina. Le ci vollero centottanta miglia di guida, più un'altra mezz'ora per essere introdotta alla presenza del signor Thatcher, vicepresidente della "First Saving and Loan", per scoprire che Roger Creed non era mai stato impiegato in quella banca e neppure alla "First National!" Né Thatcher poteva essere di un qualche aiuto: Sarah aveva capito, all'istante in cui aveva parlato, che era arrivato da poco da Boston. Lo ringraziò, uscì e andò a cercare un motel, dato che prima non ne aveva avuto il tempo. Adesso si spiegava l'atteggiamento riluttante di Andrew Casey. Aveva conosciuto Rosemary Malcolm, e aveva sospettato che non avesse detto tutta la verità sul secondo marito della sorella, e i fatti gli davano ragione. Sarah non sapeva niente dei-processo d'adozione, ma la logica voleva che per dimostrare che la bambina in questione era un'orfana fosse stato necessario produrre dei documenti. Perciò Roger Creed era sicuramente morto, e per propria mano... neppure sua madre aveva potuto negarlo... ma il resto era una copertura. A parte l'assenza di altri eventuali candidati, i Malcolm avevano le carte in regola per l'adozione. Alle domande di Sarah il giovane impiegato diede una risposta deludente: l'edizione bisettimanale dell'Erskine Crier esisteva da dieci o undici anni al massimo. E soggiunse con un'espressione furtiva, come se si riferisse alla spia locale: «Se si tratta di un fatto avvenuto molto tempo fa, potreste tentare presso la signora Rutherford, alla biblioteca. È aperta fino alle cinque.» Erano le quattro passate. Sarah chiese e ottenne indicazioni: dieci minuti dopo, con la sensazione che una cortina stava finalmente per alzarsi, parcheggiò di fronte a un basso fabbricato di vetro e mattoni, sovrastato dagli olmi. La bibliotecaria capo, una donna dalla carnagione di porcellana, lungi dall'essere l'anziana signora che Sarah si era aspettata d'incontrare, era invece una cinquantenne ben curata, che aveva un'aria sdegnata nei confronti di ogni genere di indagine. Emergendo da un ufficio interno, al richiamo di una delle ragazze sedute intorno al banco a forma di ferro di cavallo, disse:
«Sono la signora Rutherford. In cosa posso esservi utile?» «Mi è stato consigliato di rivolgermi a voi» rispose Sarah, con un sorriso, presentandosi. «Avevo dei parenti che sono vissuti qui anni fa, il signor Roger Creed e sua moglie. Vorrei saperne di più sul conto loro, anche perché i miei genitori sono morti.» Pausa prolungata, e poi: «Temo di non potervi aiutare» disse la signora Rutherford. Un colorito sanguigno accese le gote di porcellana. «La signora Creed veniva in biblioteca di tanto in tanto, ma non posso dire di averli veramente conosciuti.» Sarah si era spostata tatticamente dal tavolo all'uscita, costringendo la bibliotecaria a seguirla. Disse a mezza voce per non attirare l'attenzione di chi stava nelle vicinanze: «Erskine era una piccola città, a quel tempo. Il marito di mia zia si suicidò, e io speravo foste in grado di dirmi perché.» Per una donna dal contegno così sicuro fino a pochi minuti fa la signora Rutherford era ora visibilmente scossa; era stata intrappolata dalla sua stessa formidabile memoria, di cui andava così fiera: sarebbe stato molto più semplice dire fin dall'inizio che non ricordava quel nome. «Non credo nelle dicerie» disse sostenuta, alzando le mani come per respingere qualcosa. «C'era una bambina, e non così piccola da... lei certamente potrebbe dirvi tutto quello che volete sapere.» «Ma è proprio questo il punto, non so dove rintracciarla.» Quante bugie aveva detto nelle ultime quarantott'ore? Già, ma allora quante ne erano state dette a lei sedici anni prima... «In questo caso...» cominciò la signora Rutherford, ma fu interrotta da una delle ragazze sedute intorno al banco: il signor Davis la chiamava al telefono per darle una risposta a proposito di una macchina Xerox. Doveva chiedergli di attendere, oppure... «Vengo subito.» Il leggero inchino alla sua autorità, quasi a ricordare che era lei la direttrice, aveva restituito la sicurezza alla bibliotecaria. «Posso solo suggerirvi di rivolgervi alla scuola. La Rosevale Academy» precisò alla sconcertata Sarah. «Dove il signor Creed insegnava a quel tempo.» Benché l'ovest fosse ancora un mare di lucente oro, Sarah puntò dritto al motel. Il crepuscolo non era lontano in quel periodo dell'anno, e non sarebbe certo stato piacevole smarrirsi in una città sconosciuta. Rosevale Academy Non certo una scuola per ragazzi, anche col più grosso sforzo di fantasia. La sua visione infantile di Roger Creed con la pistola in pugno e la faccia nascosta da un fazzoletto, e poi quella più sofisti-
cata del malversatore, era stata cancellata in meno di un'ora da un'immagine assai più spiacevole, che andava prendendo forma. "Ha preso il denaro in una banca" aveva risposto Fen alla domanda proibita sul bordo della piscina. Ebbene, nulla diceva che gli insegnanti non possano diventare dei falsari, il che era in pratica la stessa cosa, ma era difficile che fosse stato un simile reato ad aver fatto arrossire in quel modo la bibliotecaria. Andarne a fondo? O mettere una pietra sopra questa losca vicenda? «Pan per focaccia» disse la voce rauca e mascolina nell'orecchio di James. «Parla Fen Roland, e sto cercando Sarah per mare e per terra. È con voi, per caso?» Erano le nove passate, e James avrebbe voluto che fosse lì. Rispose "no" in tono interrogativo. «Niente di allarmante» lo rassicurò Fen. «Il fatto è che l'ho vista ieri mattina e mi è sembrata... un po' strana. Non avrete per caso sollevato questioni a proposito di quanto vi ho detto l'altro giorno?» Il tono era di complicità. James rispose di no anche stavolta, e poi soggiunse preoccupato: «Strana in che senso?» Al suono del telefono aveva abbassato la televisione. Parlando, fissava il video rendendosi oscuramente conto che l'inquilino del piano di sopra doveva avere collegato qualche marchingegno, così che i dimostranti di Chicago sembravano impegnati in una danza del ventre. «Mah... ostile. Sospettosa. So bene di non essere la benvenuta là, ma d'altronde non può pretendere di liberarsi di me. Ho avuto l'impressione che stesse preparandosi per andare in qualche posto; non a Denver, spero» disse Fen con una punta d'apprensione. E poi, come se avesse sentito le dita di lui serrarsi sul ricevitore: «Non badate a me, James; sono nervosa, tutto qui. Sentite, se Sarah si fa viva entro mezz'ora potete darmi un colpo di telefono? A qualunque ora, fino alle indici.» James rispose affermativamente, disse "buona notte" e riagganciò. L'immagine sul video si era trasformata in un autentico sabba. Si alzò e spense il televisore. Rivedeva davanti a sé i profondi occhi azzurri di Sarah, e la lunga figura di Blaise Roland allungata sul sofà. Cos'aveva fatto, in nome del cielo? Come aveva previsto. Sarah ebbe le sue difficoltà alla Rosevale Aca-
demy. La tentazione di desistere a quel punto si dileguò quasi immediatamente. Era venuta a Erskine per scoprire almeno in parte i precedenti che avevano contribuito alla formazione di Fen; tornarsene indietro senza niente di concreto in mano sarebbe stato altrettanto sciocco che esporre strani sintomi a un dottore, e poi rifiutarsi di sottoporsi ad analisi cliniche. Spesso i nomi dei posti non hanno niente a che vedere con la realtà; Erskine era uno di questi. Si trovava in una verde vallata, e il lungo viale carrozzabile della scuola era fiancheggiato da aiuole di rose. I prati circostanti erano screziati d'oro e sovrastati da qualche albero di cotone. Poco dopo le nove, con le alunne già nelle varie classi, l'unica anima in vista davanti all' edificio principale, in stile locale, era un giardiniere intento a rastrellare rami secchi. Tutto lì faceva pensare al denaro, alla cura, alla discrezione. Il fatto che il confine del Texas non fosse lontano contribuiva a spiegare come un posto simile fosse potuto esistere, sia pure su scala ridotta, quando la città era assai più piccola. Sarah ovviamente non era una madre, e quando fu chiaro che non era lì neppure per mettere in lista d'attesa il nome di qualche giovane parente, una segretaria la introdusse in una graziosa saletta di ricevimento. «Proprio non saprei...» disse, e si allontanò. Stranamente, c'erano dei portacenere distribuiti qua e là. Nessun orologio. Sarah sedette in una comoda poltrona e attese, lo sguardo fisso al grigio paesaggio mattutino. Ci fu un falso allarme quando una ragazza con indosso il blazer verde scuro della scuola aprì la porta e disse: «Oh, scusate» e subito si ritirò. Infine un'attraente e vivace giovane donna coi capelli tizianeschi dal taglio scolpito fece il suo ingresso. Un vero modello per le studentesse, pensò Sarah: snella e sicura di sé, mani ben curate e un trucco così sapiente da dare l'impressione della massima naturalezza. «La signorina Malcolm? Sono Elizabeth Chester, la vicedirettrice. Come state?» Il tono era cortese e vagamente inquisitivo. "La ricerca delle radici" non avrebbe retto sotto quest'occhio esperto e critico, perciò Sarah decise di dire la verità, o quasi. «Spero possiate aiutarmi, signorina Chester, perché non saprei a chi altri rivolgermi. Un mio zio acquisito, un certo Roger Creed, si suicidò durante il periodo in cui insegnava qui. Per motivi del tutto personali, ho bisogno di sapere il perché.» «Suicidio?» Il volto imperturbabile della signorina Chester assunse un'espressione di rammarico. «Molto triste. In che anno è successo?»
Saputolo, scosse recisamente il capo. «Molto prima che io fossi assunta; inoltre le schede personali non vengono conservate oltre il termine di quindici anni.» «Però qualcuno che era qui a quel tempo potrebbe ricordare» disse Sarah, un po' irritata per quel tono perentorio. La signorina Chester non si compose. «Capisco, ma senza un messaggio del suicida, che ovviamente non c'è stato, stabilire un movente sarebbe pura congettura da parte dei colleghi. Perdonatemi, ma non lo trovo giusto sotto nessun punto di vista.» Quanto può essere esasperante una simile imparzialità, pensò Sarah. Disse, sforzandosi di assumere un tono ragionevole: «Non è detto. Sono stata indirizzata qui da qualcuno che sembrava più che certo che questo fosse il luogo adatto alle mie indagini.» «Davvero?» Entrambe erano rimaste in piedi e ora, sollevando le sopracciglia con aria rassegnata, la signorina Chester si diresse alla porta. «Abbiate la cortesia di attendere.» Sarebbe stata assente per un ragionevole lasso di tempo... avrebbe chiamato un'amica, dato alle unghie una limatina supplementare, avrebbe mandato qualcuno a portarle una tazza di caffè... infine sarebbe tornata per dirle che era dolente, che nessun collega era lì dal periodo in cui era in carica il professor Creed; sedici anni... Ma non fu così. In meno di cinque minuti apparve sulla soglia, e disse con un certo rispetto: «La signora Wolfe vi aspetta, signorina Malcolm.» Sapeva? Le era stato detto qualcosa? Da un impercettibile cambiamento di tono, quasi certamente sì. In stato di tensione, Sarah la seguì nel salottino privato della direttrice. Durante l'adolescenza, gli uffici dei superiori erano stati per lei dei posti terrificanti in cui non ci sarebbe stato da stupirsi se le avessero rasato la testa per piazzarvi gli elettrodi mentre se ne stava composta su una poltroncina a schienale rigido. Il "regno" della direttrice era invece un salotto accogliente, anche se un po' logoro, quasi a rassicurare i genitori che le tasse scolastiche dei loro figli non erano destinate ad abbellire l'ambiente. La signora Wolfe formava un netto contrasto con la sua assistente. Sulla sessantina, con indosso un vestito in lana bouclé decisamente fuori moda, grassoccia, portava i capelli grigi arricciolati sulla fronte, aveva lo sguardo penetrante e la bocca pronta al sorriso. Appena la sua assistente si fu ritirata, disse in tono amabile: «Sedetevi, signorina Malcolm, e fumate se vi va di farlo. Io ho dovuto smettere, ma sono ancora solidale coi fumatori.»
Con una reazione esattamente contraria a quella provocata in lei dai sempre più frequenti cartelli nei quali campeggiava la scritta "non fumare", Sarah non provò alcun desiderio di accendere una sigaretta. Sedette e attese, e la signora Wolfe riprese: «Vorrei innanzitutto mettere in chiaro una cosa: spero che il vostro interesse sia di carattere del tutto privato.» «Sì, lo è.» «A quanto capisco, vostra cugina non vi ha mai parlato del patrigno. Nessun altro ve ne ha parlato?» Il cuore le batteva a precipizio. «No. Mi è stato detto qualcosa, ma non la verità.» La signora Wolfe, voltandosi a guardare fuori dalla porta-finestra, emise un lungo sospiro; era chiaro che, in determinate circostanze, avrebbe saputo essere ferma e risoluta come un chirurgo. «Il professor Creed venne qui da una delle migliori scuole di Chicago. Uno dei motivi dei trasferimento era la salute cagionevole della moglie. Le sue credenziali erano ottime. Era uno dei migliori insegnanti d'inglese che abbia conosciuto, e io ho una lunga esperienza, credetemi. È stato per me uno shock tremendo scoprirlo capace di molestare le bambine, se non proprio di violentarle.» Eccola la verità: chiara e lampante, non più quella cosa torbida, senza nome, senza volto. Sarah spinse lo sguardo oltre la direttrice verso il verde prato riposante, le aiuole di rose, gli alberi che d'estate avrebbero proiettato tutt'intorno ampie zone d'ombra riposante. Disse incredula: «Qui?» «Oh, no.» Malgrado la sua aria di donna di mondo, la signora Wolfe parve sinceramente scandalizzata. «Ma infinitamente peggio, da un punto di vista morale. La bambina in questione era la sua figliastra.» 7 In un punto imprecisato squillò un campanello. Pochi secondi dopo si udirono uno scalpiccio e delle risate nel corridoio, infine una ventina di ragazze sciamò oltre la porta-finestra, dirette a un pullmino con la scritta: "Rosevale Academy". Una gita campestre, pensò subito Sarah. Tutte belle, eleganti, sciolte, sicure di sé. Inavvicinabili per un insegnante di sesso maschile con delle tendenze perverse, che perciò aveva... Fece uno sforzo per dominarsi. «Ma una bambina di dodici anni non potrebbe avere frainteso...?»
«Temo proprio di no» rispose la signora Wolfe, dopodiché Sarah dovette ascoltare il resto della storia. Come tipicamente avviene in simili casi, la bambina in questione... Frances?... aveva confidato l'incidente non alla madre ma a una vicina che, conoscendo la posizione di Roger Creed, non aveva perso tempo e aveva avvertito la direttrice. Nel giro di qualche ora la signora Wolfe aveva ascoltato versioni diametralmente opposte circa quanto era accaduto nell'orto, ed era stata costretta a convincersi, sia pure con riluttanza, che Frances aveva detto la verità. Non erano tanto le circostanze esterne: quelle potevano essere state inventate abbastanza facilmente, osservò amaramente la signora Wolfe, anche se una ragazza di dodici anni a quel tempo non era certo precoce come quelle di oggigiorno. Erano invece le reazioni della bambina, insieme ai piccoli particolari del cui significato la bambina non era sembrata rendersi conto. «Benché sua madre non l'abbia detto» disse la signora Wolfe leggendo nel pensiero di Sarah «sono più che certa che neppure lei abbia avuto dubbi.» La questione era stata sottoposta al consiglio di direzione, e il contratto di Roger Creed era stato rescisso immediatamente. Fin lì solo un ristretto gruppo di persone sapeva dell'incidente, incluso il ragazzo che portava i giornali a domicilio, che aveva sentito Frances gridare nell'orto; ma poiché la ragazza in questione era un'alunna di una scuola femminile, vi furono i soliti mormorii e pettegolezzi. Mentre si discuteva ancora se un'accusa formale e la pubblicità che ne sarebbe derivata sarebbero potute essere controproducenti per la scuola, Roger Creed, chiuso nel suo garage, aveva posto fine al dilemma. «Un insegnante così dotato» sospirò la direttrice. «Un vero peccato.» Sarah si alzò. Si sentiva rigida e stordita, come se fosse stata là seduta per ore anziché pochi minuti mentre voci e volti le turbinavano nella mente. Tutte quelle telefonate misteriose... il volto tormentato di zia Anne... la stoica risposta di Fen quando le era stato domandato se sarebbe andata a vivere con la madre: "... ammesso che mi voglia". L'immagine vivente di uno shock, di un dolore senza nome. Disse: «Mia zia non gli è sopravvissuta a lungo, sapete» e la signora Wolfe replicò convinta: «Non stento a crederlo.» Dunque Roger Creed aveva in pratica distrutto due vite. Sulla porta, Sarah si volse impulsivamente. «Forse sarà una domanda sciocca, dopo tanto
tempo, ma avevate qualche Rutherford nella scuola, in quel periodo?» «Mia cara, tutto ciò che si riferisce a quell'anno è rimasto impresso nella mia mente» rispose la direttrice con mestizia. «Ce n'erano due: Denise e... non ricordo l'altro nome. Due graziose gemelle. I loro genitori furono i primi a presentarsi per chiedere da quanto tempo andavano avanti queste cose, e così via.» E in seguito, da parte della bibliotecaria, quel persistente senso di colpa per aver contribuito a spingere al suicidio Roger Creed? La signora Wolfe accompagnò Sarah fino all'ingresso principale della scuola. «Finalmente avremo il sole» disse con un'occhiata circolare al suo "regno" e poi, curiosamente: «Cosa ne è di Frances? La signorina Chester mi ha detto che l'avete persa di vista.» «Credo che si sia sposata.» «Ah, meno male!» esclamò la signora Wolfe. «Vedete, di solito certe ferite non si rimarginano mai.» Sconvolta per la brutale rivelazione, Sarah, il cui senso d'orientamento era già piuttosto scarso, durante il tragitto di ritorno al motel smarrì la strada. Benché, tutto sommato, non fosse poi una storia così straordinaria; quasi non passava settimana che i giornali non dessero notizia di qualche tavola rotonda sul tema di simili abusi entro le pareti domestiche. Per un complesso di ragioni, vergogna o paura di rappresaglie, di solito le vittime di tali esperienze non parlavano se non molto tempo dopo, nel segreto dello studio dello psicanalista. Come tutto quadrava, a ripensarci. Fen istruita a raccontare la storiella del furto in banca, quasi certamente dalla madre di Sarah; Richard Malcolm che trattava Fen come se fosse un maschietto forte e vigoroso... una pacca sulla spalla anziché un bacio... E che, di comune accordo con la moglie, aveva stabilito che Sarah era troppo giovane per sapere la verità. Poi, in seguito... Ma perché in seguito? Ciò che era stato "innominabile" era divenuto solo spiacevole, ciò che era spiacevole sarebbe stato ben presto dimenticato. Inutile, dopo tanti anni, cercare di estrarre una spina là dove la carne si era rimarginata. Giunta al motel, Sarah ci mise dieci minuti a riempire la valigia. Prima delle undici era sullo stradone, impegnata a tener saldo il volante in una bufera di vento sabbioso. Quando infine, dopo essere passata a riprendere
Odino, aprì la porta di casa, si era fatto buio. A velocità elevata la sabbia penetra perfino dai finestrini chiusi. Sarah se la sentiva scricchiolare in bocca e sui capelli. Si sciacquò i denti, fece un bagno caldo e si lavò i capelli sotto la doccia, ed era in vestaglia con un drink davanti quando James telefonò. «Sarah?» «Salve, James» rispose. «Cominciavo a temere che fossi stata inghiottita dall'aspirapolvere.» «Ne avevo fin sopra ai capelli, perciò mi sono concessa una breve vacanza.» Le parole le uscirono senza sforzo; senza un ragione precisa aveva deciso di non parlare a James della gita a Erskine, per il momento. Dopo una breve pausa lui riprese: «Fen ha tentato invano di mettersi in contatto con te, comunque non si trattava di cosa urgente.» «Meglio così, perché ho intenzione di farmi un drink, mangiare un boccone e poi schiaffarmi a letto.» Ma era proprio con James che stava usando quel tono leggero, vivace, distaccato? E chissà se lui avrebbe poi chiamato Fen per dirle: "Sarah è a casa, le ho parlato proprio ora, e mi è parsa piuttosto strana"? Sì, era possibile, sembravano essere diventati così intimi... Sarah si affrettò a soggiungere: «Tutta colpa di questo vento maledetto. Dalla porta d'ingresso penetra un fischio che pare quello della sirena di un battello nella nebbia, e il rumore mi dà sui nervi.» Mosse qualche passo col ricevitore teso. Un altra folata di vento penetrò e la porta gemette. James rise e stette al gioco. «Ci siamo smarriti, il capitano ha gridato mentre scendeva brancolando la scaletta del boccaporto...» Dopodiché si scambiarono la buona notte. Sarah rimase in piedi davanti alla scrivania per un attimo prima di riprendere in mano il suo drink. Lei e Fen non si frequentavano abitualmente; non avevano amici in comune ed era più che normale che lasciassero passare anche quindici giorni senza comunicare. La signora Roland, relegata sempre più a lungo nel suo appartamento, era andata in qualche posto prima della sua morte. ... avvenuta in seguito a una polmonite con complicazioni, a settant'anni suonati, Sarah ricordò a se stessa, sgomenta. Ma, o la signora Roland aveva mentito a Fen sull'oggetto della sua visita, o Fen aveva mentito a Sarah. C'era una parte di verità nel discorsetto che aveva imbastito a James. Quando il vento cambiava, la porta d'ingresso produceva un suono alterna-
to, un fischio acuto e un ululato profondo, ma anche quando aveva cercato di porvi rimedio inserendo un foglio di giornale ripiegato, il rumore del vento contro le finestre era tutt'altro che piacevole. Innervosiva anche Odino. L'animale seguiva Sarah dappertutto, la fronte color miele corrugata, e a un certo punto cercò di saltarle in grembo. Lei piantò lì tutto e andò a letto presto. E a quel punto, sola al buio, non riuscì più a sfuggire un aspetto di sé che non le piaceva affatto. La direttrice aveva osservato che un'esperienza come quella di Fen era destinata a lasciare tracce profonde e, anche senza il suicidio del patrigno e la perdita della madre pochi mesi dopo, Sarah non stentava a crederlo. Sì, Fen doveva averne riportato ferite profonde. Avendo visto crollare a dodici anni ogni punto di riferimento nel suo mondo, a cominciare dalla figura paterna, non era poi così strano che cercasse di conquistare la gente ricorrendo a qualunque mezzo; poteva essere un modo come un altro per affermare se stessa. Che poi tra la gente da conquistare vi fossero anche gli uomini che corteggiavano Sarah, il felice prodotto di un'infanzia serena, poteva essere uno stimolo maggiore. Sarah, avendo raggiunto tali conclusioni, avrebbe dovuto essere travolta da un senso di pietà e di comprensione, rendendosi conto che dopo che Fen aveva nascosto la verità, come le era stato imposto, non si poteva certo pretendere che rivelasse spontaneamente i precedenti che l'avevano resa orfana. Invece, senza la minima emozione, tranne una vaga paura, Sarah aspettava ora con ansia V arrivo del giornale del mattino. Dalla sua ultima occhiata alle notizie locali c'era stato un incendio che si sospettava doloso in un caseggiato, un'aspra controversia su una nuova legge che limitava l'uso delle bevande alcoliche, e una recrudescenza di misteriose mutilazioni ai danni del bestiame nella regione settentrionale dello stato. Erano stati tirati in ballo gli UFO. Sarah aveva quasi terminato la prima parte quando, in fondo alla pagina, trovò la notizia. La morte trovata ai piedi della collina era stata identificata come Dorothy Ritter, ventotto anni, di Grants. Il suo corpo era stato riportato laggiù per la sepoltura. Le indagini di polizia sul delitto proseguivano. Solo questo, ma sufficiente a trasformare il cupo mattino in un risveglio sereno nella sua camera tranquilla e soleggiata, dopo una notte da incubo. Dorothy Ritter. Grants. Una sconosciuta senza volto.
Piena di rinnovata energia, decise di affrontare gli scaffali strapieni del soggiorno. Scartare libri era un compito ingrato, come scalciar via da una scialuppa troppo piena le dita dei naufraghi che cercavano di aggrapparvisi, ma lei non poteva portarli via tutti. Trovò alcuni cartoni abbastanza capaci ed era tutta assorta a rileggere "Martin Eden" quando Odino, che se ne stava sdraiato nella sala da pranzo, irruppe nel soggiorno con uno dei suo latrati. Anche senza l'occhiata al cofano metallizzato, Sarah avrebbe subito riconosciuto il colpo bussato col battaglio, quel colpo che un tempo era così deciso ed ora si era fatto quasi esitante. Odino aveva i suoi metodi di riconoscimento. Era già balzato dentro agitando festosamente la coda, e quando lei aprì la porta a Blaise, il cane si drizzò sulle zampe posteriori con l'agilità di un ballerino, e posò quelle anteriori sulle spalle rivestite di cachemire blu scuro. Blaise aveva aiutato Sarah a insegnarli l'obbedienza. Accarezzò la testa bionda dell'animale e disse con fermezza: «Ora basta» e poi, quando Odino si fu riabbassato, urtando pesantemente il tavolino: «Volevo ringraziarti per essere andata in soccorso di Fen, l'altra sera. Ma si può sapere cos'è successo?» Appariva stanco e stranamente più giovane. Sembrava un bambino assonnato. Sarah, ricordandosi che Fen aveva minimizzato la cosa al telefono con lui, disse con sincerità: «Non so proprio, tranne che un vetro si è rotto e ha ferito Fen. Blaise...» Era per questo che gli aveva permesso di entrare anziché dirgli recisamente che lei doveva vivere la sua vita e che quindi doveva smettere di comparire alla sua porta. «Rammenti quella volta in cui eri qui, quando Fen ti ha raggiunto?» «Molto vagamente» rispose Blaise con una smorfia di disappunto, un po' contrariato all' idea di dover affrontare un'altra predica. «Prima che Fen arrivasse è passata di qui una ragazza con un frusto paltò scozzese verde e bianco. Voleva un bicchier d'acqua.» «Davvero?» Blaise, che aveva aggrottato la fronte nello sforzo di concentrarsi, scoppiò in una risatina. «È un po' strano, come motivo per una visita, ti pare?» «Le serviva per inghiottire l'aspirina. Ebbene, quella ragazza conosceva Fen.» Sarah pensò a un tratto che se qualcuno avesse ascoltato quel dialogo avrebbe pensato che entrambi erano un po' impacciati. Blaise distolse lo sguardo, sempre accigliato. «Sì» disse inaspettatamen-
te. «Ora che ci penso me ne ricordo, però non ho la più pallida idea di come fosse.» «Pensaci bene. Si è aggirata per la stanza mentre andavo a prenderle l'acqua, per guardare i libri o qualcosa di simile?» Blaise rifletté assorto. Infine disse: «Ricordo di averla vista ferma pressappoco lì» e indicò un punto «ma la rivedo anche camminare su e giù per la stanza.» Si strinse nelle spalle in un gesto vago. «Il fatto è che non ero molto in forma, come avrai notato. Ma perché? Ti manca qualcosa?» Gli occhi nocciola erano pieni di curiosità, ora. «Non ne sono sicura» rispose Sarah «perciò preferirei che non dicessi niente a Fen.» Stava cercando di attirarlo verso la porta d'ingresso quando le venne in mente che era meglio chiarire un altro punto oscuro. Domandò in tono casuale: «A tua madre era simpatica la signora List?» «Non molto» rispose Blaise, interdetto per il brusco cambiamento di tema. «È una donna molto efficiente, cosa che apprezzavamo tutti quanti, ma... insomma, tu puoi ben capire.» Sarah capiva. La signora Roland era stata una donna dai modi impeccabili, che odiava il chiasso e i colpi di scena improvvisi, e la governante, con la sua irrequietezza, era l'incarnazione di entrambe le cose. Ciò nonostante, invece di regalarle un gioiello meno prezioso, la signora Roland le aveva dato l'anello con l'opale, con tutto il suo valore affettivo. Su questo non c'erano dubbi: poiché in fatto di beni materiali la signora List era onesta fino all'osso. La si poteva lasciare senza timore in una stanza piena di opali, e perfino di brillanti. Blaise guardò l'orologio e aprì la porta d'ingresso. Disse: «Ancora grazie per la premura dimostrata a Fen» poi di colpo, inaspettatamente, si chinò a baciare Sarah sull'angolo della bocca. Lei rimase immobile. Disse col tono convincente che si usa con un bambino che ha appena fatto qualche bravata per attirare l'attenzione dei grandi: «Non rifarlo mai più, Blaise. Mai più, capito?» Lui arrossì, ferito nell'orgoglio. Uscì senza dire una parola. All'una, Sarah aveva riempito tre scatoloni da portare alla biblioteca locale. Era certo un miglioramento non vedere i volumi accatastati orizzontalmente sopra a quelli allineati negli alti scaffali, ma qualcosa se n'era andato per sempre dalla sua vita. Oppure qualcosa stava cercando di tornarvi. Andò a fare delle compere, non perché lo considerasse la soluzione magica che l'opinione corrente attribuisce alle donne nei momenti cruciali, ma
perché i tenui colori pomeridiani le ricordavano il sobrio guardaroba che si era scelta per reazione al chiassoso abbigliamento di Fen. Con il suo aspetto evanescente, il nero le dava un'aria drammatica, perciò lo portava di rado. Restavano quindi tutte le gamme dell'azzurro e del grigio. Non era certo un tipo indeciso né un'instancabile cacciatrice di modelli. Nel giro di un'ora aveva comperato un abito da cocktail a strisce rosse, un paltò rosa bordato d'azzurro e una camicia bianca a farfalle arancio per tirar su le sorti del suo tailleur Chanel. Scendendo con la scala mobile, Sarah fu letteralmente travolta da una ragazza sgraziata con indosso un paltò scozzese che le parve assai familiare. Vedendola di profilo, vistosa come una zingara, si accorse che non era Nancy Pike... e del resto, come poteva esserlo?... ma l'attenzione di Sarah si era però ridestata. La ragazza, bloccata da una donna che reggeva un'enorme borsa della spesa, stava cercando di farsi sentire da qualcuno che si trovava tre o quattro scalini più in basso. «Dot! Dottie!» Sarah approdò al pianterreno. La ragazza aveva raggiunto la sua amica al banco dei profumi, che si trovava qualche metro più in là, e stava dicendo qualcosa a proposito delle chiavi della macchina e del reparto abbigliamento. La scena svanì, e lei si ritrovò come per incanto nella stanza rosa, ad accendere la luce per esaminare la busta indirizzata a Fen tanto tempo prima da una mano infantile. Con, nell'angolo sinistro in alto, una frase cancellata da un ghirigoro. La lettera poteva essere scritta da una certa ragazza che si chiamava Dorothy. Dorothy Ritter, un tempo di Erskine, in seguito di Grants? Ciò significava che Nancy Pike non era mai esistita. Qualcuno al banco dei profumi stava provando un campioncino di colonia. Profumava di rose in maniera nauseante. Sarah fuggì. 8 Durante il tragitto verso il supermarket per fare una tappa al reparto drogheria, Sarah giunse alla convinzione della polizia che c'era stato un uomo insieme a Dorothy Ritter. Dato il tempo trascorso, era evidente che non si era fatto avanti; il riconoscimento era stato fatto con altri mezzi. (Così come, secondo Fen, c'era stato un uomo insieme a Nancy Pike.
Quella era la naturale equazione, quindi perché avrebbe dovuto, quell'"essere orribile unto e bisunto", suonare improvvisamente alla porta?) Sarah, guidando con prudenza a causa di un leggero nevischio che stava cominciando a gelare sul parabrezza, accese il riscaldamento benché tendesse a offuscare la visibilità e ricordò a se stessa che in giro c'erano esseri orrendi, unti e bisunti e così pure, come si era visto sulla scala mobile dei grandi magazzini, un mucchio di Dorothy dette Dot, nonché parecchi paltò scozzesi a riquadri verdi e bianchi. Tuttavia fu lo stesso uno shock per lei, dopo aver parcheggiato e chiuso la macchina, trovarsi faccia a faccia con Fen nel reparto frutta e verdura. Eppure non era un fatto così insolito; avevano fatto sempre la spesa in quel supermarket e benché Fen, da quando si era sposata, avesse dei negozi nella zona, preferiva continuare a servirsi lì. Assieme a Fen c'era una nota personalità locale. Janie Burroughs, una donna sui trentacinque anni, era la moglie di un ambizioso uomo politico. I maligni dicevano che anche lei aveva la sua parte nel successo del marito. Alta, attraente, col portamento di una modella, sciava, appariva di tanto in tanto nelle recite della filodrammatica locale e si faceva vedere spesso ai vari tagli di nastro che inizialmente l'avevano resa celebre. Faceva parte anche del comitato di un paio di associazioni di beneficenza e aveva fama di essere un asso nella cucina francese. "Non c'è cosa che Janie non sappia fare." Sarah la conosceva superficialmente, avendola incontrata solo in occasioni ufficiali: qualche colazione o qualche cocktail, ma era evidente che Fen teneva a coltivare quell'amicizia. Ci fu uno scambio di saluti. Janie Burroughs disse con un'occhiata significativa a Fen: «Ebbene, buttiamoci alla caccia dei funghi. È una seccatura, ma Florian ne va matto» e a Sarah: «Spero di rivedervi, Molly» fingendo di ignorare il suo nome. L'unico Florian che poteva starle così a cuore era il vicegovernatore dello stato. Fen, introducendo un vassoietto di cipolle nel cestino, si distrasse un attimo. «Ho tentato di telefonarti ma a quanto pare eri uccel di bosco.» «Non bado molto al telefono quando sono impegnata nelle pulizie di fondo.» Così dicendo Sarah introdusse un avocado nel cestino vuoto. «Mi cercavi per qualche motivo particolare?» «Solo per dirti che potremmo utilizzare noi l'ombrellone della piscina, a meno che tu non voglia fare il gran gesto di lasciarlo all'eventuale compratore. Puoi dare un'occhiata al prezzo di questa lattuga? Nemmeno un coni-
glio la vorrebbe gratis.» A chi mai, in gennaio, poteva venire in mente quell'enorme aggeggio di tela rigata con l'orlo sfrangiato, per il quale c'era un portaombrellone sul bordo della piscina? «Prenditi pure l'ombrellone, benché non serva granché: la scorsa estate non l'ho mai usato» rispose Sarah. E soggiunse in tono casuale, dato che Fen era sulle mosse di allontanarsi: «Hai notizie della tua amica, quella che era diretta a Phoenix?» Gli occhi scuri di Fen si alzarono a incontrare quelli di Sarah. Rispose con disinvoltura: «Mi ha telefonato giusto ieri sera. Quel "coso" che era con lei, il marito si presume, ha trovato un impiegato di qualche genere in un motel. Ha parlato e riparlato dei trenta dollari, ma io le ho assicurato che si trattava di un regalo.» Trenta. Non era qualcosa di freudiano, il prezzo del tradimento? Fen guardò nel cestino e si batté una mano sulla fronte. Il cerotto bianco a forma di stella era ora ridotto alle dimensioni di un diamante. «Ma cosa ci faccio io qui a perder tempo quando Blaise e io siamo fuori a cena stasera? Ti serve, questo vassoietto di cipolle o devo rimetterlo a posto?» Sì, Fen, so che c'è un party dal vicegovernatore, pensò. «Lo prenderò» disse Sarah ad alta voce. Comprò gli altri ingredienti per una cenetta alla quale James avrebbe partecipato volentieri se era libero. Non vedeva l'ora di uscire di lì; lo sguardo fisso e scrutatore di Fen le dava un senso di disagio. Non tanto per preparare la cena, quanto per fare in pace una telefonata. Ma non era così semplice. Per prima cosa telefonò a James per invitarlo. Accettò con entusiasmo. «Vino rosso o bianco?» «Bianco, ma ce l'ho già.» «Non ha importanza, potremmo aver voglia di straviziare un po'.» Dopo di ciò Sarah mise a cuocere lentamente il pollo marinato in una miscela di sherry, salsa di soja e limone, e diede da mangiare a Odino, profondamente deluso per il fatto che il pollo non era per lui. Solo allora si decise ad affrontare il telefono per la seconda volta. Era sciocco pensare che facendo il numero della polizia si compia un gesto irrevocabile. Il vicesceriffo incontrato a casa di Fen era stato gentile e premuroso; Sarah non aveva avuto affatto l'impressione di essere entrata in un ingranaggio inarrestabile. Già, ma non era un caso di delitto (meglio dire "omicidio" quando si vi-
ve da soli e fuori è buio), e Sarah non diede il proprio nome quando chiese di parlare con l'agente incaricato del caso Ritter. Fu messa in comunicazione con una brusca voce maschile di cui riuscì a captare solamente un nome: "Feldman". «Sapreste dirmi...» si era preparata un discorsetto, ma in preda al panico se ne dimenticò «... sapreste dirmi cosa aveva indosso quella Dorothy Ritter della quale parlava il giornale, quando è stata ritrovata?» Dalla risposta capì che c'erano già state numerose telefonate al riguardo. «Signorina, l'agente investigativo La Costa, incaricato del caso, è assente per tutta la giornata. Se avete delle informazioni utili, venite qui; ci sarà un agente disposto a prenderne nota.» Ma Sarah, più che informazioni da dare, aveva delle domande da rivolgere. «Non ne ho, ma dipende da quello che la ragazza aveva indosso, il paltò cioè, se posso averla vista o meno poco tempo prima che sia stata uccisa.» Quella mattina Fen aveva parlato della visita di Nancy Pike, venuta allo scopo di chiedere un prestito. Si sentì in dovere di dirlo. Feldman si era fatto attento, ora. «Il nome, prego?» Doveva esserci un motivo per una simile circospezione da parte dell'agente. Non era stato necessariamente il compagno di Nancy Pike a premere il grilletto: poteva anche averlo fatto una donna pazza di gelosia che li seguiva in un'altra macchina. La gelosia era il movente di molti delitti. «Vi ringrazio, ma preferisco aspettare l'agente La Costa» rispose Sarah, e si affrettò a riappendere il ricevitore con mano malsicura. Un conto era avere dei sospetti, e un altro conto era comunicarli alla polizia senza elementi precisi. Se la ragazza morta era stata trovata con indosso un paltò della foggia e del colore che a Sarah erano rimasti così impressi nella mente, Fen sarebbe stata chiamata a dare informazioni sul conto di Nancy Pike, e cosa sarebbe successo se non era in grado di farlo, né se non le era stato detto il nome del motel? La polizia avrebbe fatto due più due, e il vicesceriffo si sarebbe probabilmente ricordato che la sera dell'incidente in casa Roland Fen aveva parlato di una pistola, magari per bluffare, così come aveva sbandierato il nome del marito assente, però gliel'avrebbero lasciata passare? Blaise possedeva veramente una pistola? Ma il suo antico legame con Blaise sarebbe saltato fuori irreparabilmente, e sarebbe stato tirato in ballo il motivo che l'aveva indotta a fare tali rivelazioni.
Anni addietro l'attenzione nazionale si era concentrata su un caso avvenuto nel New Jersey Una donna era stata uccisa a bastonate, e gli indizi si adattavano perfettamente a un uomo membro dello stesso club. Quell'uomo aveva passato tre mesi in prigione, prima che il vero assassino confessasse. In preda a mille dubbi, Sarah andò a occuparsi dei pollo, introdusse la casseruola nel forno e infine andò a vestirsi. Era la prima volta che preparava una cenetta per James. Navigava in un mare d'incertezza; la scelta del profumo, la preparazione della tavola, per la quale finì per scegliere un servizio all'americana pagliettato d'oro. Indossò infine la morbida camicia nuova con una gonna bianca da sera. James, sciogliendosi dall'abbraccio, disse col tono soddisfatto di un medico che legge un referto favorevole: «L'hai superata. Voglio dire, qualunque cruccio ti turbasse ieri sera, è passato» spiegò, fissandola con sguardo indagatore. «A parte il vento.» «Ho guidato per ore.» Sarah staccò i cubetti di ghiaccio; aveva fretta di lasciare la cucina troppo luminosa e di tornare nel soggiorno prima di affrontare l'argomento dell'amica d'infanzia di Fen. Una ragazza morta ai piedi delle colline. James prese il bicchiere che lei gli offriva. «Non c'è che una breve, semplice risposta a questo fatto. Ma si può sapere dove sei andata, tra parentesi?» Non era curiosità oziosa. Sarah, voltandosi per riporre i cubetti nel portaghiaccio, fu colpita dal viso teso e scavato di James. Un tassello dei mosaico che per qualche motivo non aveva considerato andò a posto di colpo, Blaise, che si era fermato lì lungo il tragitto verso l'aeroporto, con un pretesto inopportuno. La signora List che li fissava entrambi con aria di rimprovero, certo sentendosi in dovere di riferirlo a Fen. E subito dopo l'assenza ingiustificata di Sarah, protrattasi per tutta la notte. Un contatto telefonico tra James e Fen? "La mia ragazza è sparita." "Strano, anche mio marito." «Sono andata a Erskine» rispose brevemente Sarah. «È dalla parte opposta, James.» Lui le prese di mano il suo drink e la baciò sulla fronte. «Grazie per non avermelo versato addosso» disse, e dal suo tono Sarah capì che non intendeva chiederle perché fosse andata a Erskine. Un minuto dopo, raggomitolata in un angolo del sofà, Sarah glielo disse. Riferì tutto per filo e per segno. S'interruppe solo per andare a metter su l'acqua per gli asparagi e James la seguì per preparare un altro giro di
drink. Seguì un breve silenzio che lui ruppe per osservare: «Qualunque cosa ci sia nel forno, ha un profumo delizioso.» Poi, di nuovo a Erskine, a Roger Creed e a Fen. Sarah era stranamente riluttante a dire certe cose a James, benché lui l'ascoltasse senza battere ciglio. Quando però gli confidò i suoi dubbi riguardo la defunta Dorothy Ritter, avvertì un cambiamento impercettibile nell'atmosfera. Gli attori devono provare la stessa sensazione, pensò, quando l'attenzione rapita del pubblico viene guastata da inopportuni colpi di tosse. Disse allegramente: «Se ti chiamo tra due minuti, puoi venire a stappare il vino?» James, che era un buongustaio, apprezzò il pollo, gli asparagi e i pomodori al forno. Infine disse, venendo al nocciolo della questione: «Quello che non capisco è quale ricatto quell'amica possa aver fatto a Fen.» Odino, felice per non essere stato lasciato solo nel soggiorno, corse accanto a loro, ma non per chiedere cibo. Sulla soglia della cucina, dove chiunque volesse passare avrebbe dovuto scavalcarlo, piegò una coscia e si accovacciò, allungandosi pigramente. Col suo "schermo" biondo, e se non fosse stato un animale dal temperamento mite, si sarebbe potuto pensare che aveva consumato la sua porzione di cristiani per la giornata. «La direttrice deve saperla lunga sulle ragazze giovani e sui loro genitori» disse James, poiché Sarah non gli aveva risposto. «Può darsi però che Fen abbia esagerato l'incidente per attirarsi l'attenzione. Il che è riprovevole, ma non è un delitto. E Creed si è veramente suicidato.» «La sua carriera era stata distrutta e per sempre.» Il pollo era riuscito esattamente come voleva Sarah, che però aveva ben poco appetito. «Da quanto ha detto la direttrice, aveva un'autentica vocazione per l'insegnamento.» «Ciò nonostante» disse James, pratico «a quel tempo Fen aveva soltanto dodici anni, e non poteva certo prevedere le conseguenze. Inoltre, se ci fosse stato qualcosa di losco riguardo l'intera faccenda, allora ci sarebbe stata la sua parola contro quella dell'amica, e a quel tempo sarà stata svolta una specie d'indagine. Altre due cose. Come poteva quest'amica sapere (è difficile che Fen sia stata sconsiderata al punto da confidarsi con qualcuno) e perché è saltata fuori dopo tutti questi anni?» Lì per lì Sarah non seppe cosa rispondere. Infine osservò: «Evidentemente la poveretta si trovava in cattive acque.» Quel paltò frusto aveva tutta l'aria di provenire dalle Opere Pie. E casa Roland, pur non essendo propriamente un palazzo, era tuttavia bella e ac-
cogliente, e bastava un'occhiata a capire che c'era spazio in quantità. Forse Nancy Pike aveva sperato che le si offrisse ospitalità per qualche giorno? E magari lo aveva proposto? "Vieni a vivere con me, sarai la benvenuta" echeggiò grottescamente la voce di Fen nella fantasia di Sarah. Il passato... quel passato che cercava di penetrare dalla porta che Fen aveva chiuso con tanta fermezza quando era venuta a vivere presso i Malcolm... James domandò a bruciapelo: «Sai se Fen sia felice col marito?» Difficile rispondere a una simile domanda. «Non li vedo molto» disse Sarah «e comunque il mio non può essere un giudizio obiettivo.» Raccolse il piatto di James e il proprio e, badando a non inciampare nella lunga gonna, scavalcò Odino, che pareva essere diventato più ingombrante che mai. In cucina, mentre cospargeva di panna montata le fragole, si domandò di sfuggita perché mai Blaise, che amava tanto i cani, non ne avesse uno. E soprattutto si domandò perché si sentiva così smontata, se non addirittura scoraggiata. Certo, James aveva centrato tutti i punti. La direttrice della Rosevale Academy doveva essere abituata a vagliare bene i racconti delle ragazze dell'età di Fen e, sia pure con riluttanza, ci aveva creduto al punto di esigere le dimissioni di Roger Creed, malgrado fosse un insegnante di valore. La stessa madre di Fen aveva finito per arrendersi, sebbene dovesse essersi aggrappata a ogni possibile pagliuzza. E in fin dei conti, quale genere di minaccia poteva esistere, dopo tanto tempo? Sarah aveva voluto l'opinione di James; perché allora questo senso di frustrazione? Tuttavia, venendo a prendere i piattini da dessert per darle una mano, il giovane disse vivacemente: «Be', cosa ne diresti ora di parlare di noi due, finalmente?» Per un po' vi riuscirono. James aveva acceso un bel fuoco, e quando Sarah portò il caffè nel soggiorno, le pigne ardevano scricchiolando allegramente. Una nuova consapevolezza vibrava nell'aria, delicata come il gioco di luci nel focolare. Chi aveva fatto il primo passo? Era la cosa più naturale del mondo sentire la bocca di James scorrerle sulle tempie, sulle guance, sulle labbra. Sussurrò qualcosa sulla gola di lei, e Sarah mugolò qualcosa interrogativamente. «Ho detto, cosa c'è alla televisione?» Scoppiarono entrambi in una risata. Passò qualche secondo. Il telefono
squillò. Senza una ragione precisa Sarah vide dinanzi a sé gli occhi scuri di Fen brillare nella notte, le sue dita formare freneticamente il numero sul quadrante. "Paranoia" si disse, e fu con enorme sollievo che sentì la voce impersonale all'altro capo del filo. Disse: «Un momento, prego» e a James: «È per te, un'interurbana.» Dal modo in cui lui si alzò in piedi capì che quasi se l'aspettava. «Avevo dato il tuo numero nel caso che...» Sarah tornò al suo caffè che stava raffreddandosi. Era superata la fase in cui si sarebbe ritirata discretamente in cucina col pretesto di sbrigare qualcosa, e dal contesto capì che qualcuno molto vicino a James doveva essere sottoposto a un intervento chirurgico più presto del previsto. Suo padre, le disse lui dopo avere riappeso; un intervento cardiaco per inserirgli un by-pass era stato fissato per la settimana successiva. Parlando, stava prendendo il cappotto. «Mia madre è molto agitata, perciò domattina dovrò prendere il primo volo per New York. Il che significa» soggiunse sorbendo il caffè «che stanotte dovrò star su per terminare un certo lavoro. Non ti dispiace se me ne vado subito?» Sarah lo rassicurò e soggiunse che non era il caso di preoccuparsi per l'operazione; la scienza aveva fatto enormi progressi in quel campo: James ne convenne distrattamente. Giunto davanti alla porta disse a bruciapelo: «Blaise viaggia molto?» Sarah annaspò per trovare la risposta. «Io non... Be', sì, è un irrequieto. Lo fa soprattutto per una questione di esibizionismo, credo.» «Sei pregata di non rispondere a nessun appello di soccorso, e di non dileguarti nella notte.» «Non lo farò. E già che siamo in argomento» disse Sarah «la persona che aspettava i Roland, l'altra sera quando li hai scortati fino a casa, era un uomo o una donna? Hai parlato di una sola persona.» «Ah, sì? Non ci ho badato granché, per la verità, tanto più che tra noi si era inserita un'altra macchina, ragion per cui Fen mi è venuta incontro sul vialetto carrozzabile, e ha detto che aveva già un aiuto sul quale contare, dopodiché mi ha ringraziato e salutato. Poteva trattarsi anche di una coppia, per quel che ne so.» Dunque non Nancy Pike, per nulla scoraggiata dal fatto che i Roland sarebbero rientrati tardi quella sera, ferma in una tenace attesa fuori della casa. E Blaise non era certo in condizioni di ricordare chiaramente. James aprì la porta. Sarah, rabbrividendo per la folata d'aria gelida, dis-
se: «Spero che vada tutto bene per tuo padre» e lui: «È un uomo forte.» Infine la baciò frettolosamente. «Va' dentro, prima di congelarti. Ti telefonerò.» L'ambiente sembrava essersi raggelato in maniera spropositata; Sarah provava un formicolio alla nuca. Fece uscire Odino e cercò di mettersi a suo agio col libro che stava leggendo. Gradualmente si accorse che quel freddo invincibile era dentro di lei e non dipendeva certo dalla temperatura dell'ambiente. Tutta la calma rassicurante di James, la sua logica ineccepibile era crollata a pezzi alla fin fine, anche se lui non se n'era reso conto. Non rispondere a nessun appello di soccorso. Ma, e per il futuro? Come difendersi dalle visite inaspettate di Fen? Non posso andare avanti così, si disse Sarah, risoluta. Devo sapere. Restava un'unica via che finora si era rifiutata di considerare. L'avrebbe tentata. 9 Dorothy Ritter aveva indosso un frusto paltò scozzese verde e bianco quando era morta. Sarah ebbe questa informazione dall'agente investigativo La Costa, al quale aveva telefonato, sempre senza dare il proprio nome, con voce alta e affannata, dicendo che era appena arrivata da Tucamari perché aveva saputo di una giovane donna trovata morta a Albuquerque, e dato che sua nipote mancava da una settimana, e aveva indosso proprio un paltò scozzese verde e bianco... Si chiamava forse Dorothy Ritter, la nipote?... No, però poteva esserci un errore; lei aveva saputo di un caso in cui... Era a questo punto che l'agente La Costa, per tagliar corto, le aveva detto del paltò. C'era una ragione plausibile per questa piccola eccezione alle regole. Il giornale del mattino aveva riportato le notizie che un bambino era stato rapito e un importante uomo d'affari ucciso a pugnalate, dopo aver subito delle percosse. Nel portafogli gli era stata trovata una grossa somma, intatta. Circostanze che facevano pensare a un regolamento di conti di stampo mafioso. Il caso Ritter, verificatosi parecchi giorni prima, e la cui vittima era venuta da un'altra città, era quindi passato in secondo piano. Se ne occupava
la polizia di Grants. Tra un'ora o due, se lo voleva, Sarah poteva tranquillamente chiamare La Costa con voce normale, e qualificarsi. "Qualche giorno fa è venuta a casa mia una ragazza con indosso un frusto paltò scozzese bianco e verde; cercava mia cugina, la signora Roland. Ho l'impressione che fosse Dorothy Ritter, sebbene mia cugina l'abbia chiamata con un altro nome e abbia detto che in seguito la ragazza le ha telefonato da Phoenix." Con ogni probabilità La Costa avrebbe voluto sapere di più, e in particolare per quale ragione Sarah pensava che la cugina avesse qualche motivo per uccidere Dorothy Ritter. La storia di Fen sarebbe stata rispolverata, sarebbe stata tirata in ballo la Rosevale Academy e con essa tutta la rete di menzogne. Esprimendo la convinzione che la sua casa era diventata a un tratto il centro dell'attenzione, Sarah poteva anche passare per una mitomane, anche se poteva dimostrare di essere stata costretta a far cambiare tutte le serrature. Anche se la polizia si fosse insospettita al punto di andare a interrogare Fen, l'avrebbero trovata più dispiaciuta che arrabbiata, in quello sfondo tranquillo e sereno. "So bene che Sarah non mi ha mai perdonata, per averle portato via Blaise ma questa poi...! E pensare che stavo per recarmi da Nancy, quando mi ha telefonato dall'Arizona, per dirle di considerare un regalo il denaro che le avevo prestato. Adesso Dio sa quando sentirò più parlare di lei. Il fatto di essere state insieme in seconda media non crea certo un legame destinato a durare per tutta la vita." E poi: "È un po' strano che, se Sarah crede veramente a una simile assurdità, abbia accettato volentieri di passare una nottata a casa mia durante l'assenza di mio marito. Anzi, più che volentieri: ha addirittura insistito... Ah, un momento; credo di sapere cosa c'è dietro a questa storia. Un uomo del quale è innamorata mi ha invitata fuori a colazione il giorno dopo, perciò lei...". No, decise Sarah. Non era ancora il momento. E ora doveva affrontare lo spiacevole rituale, che poteva essere la soglia di qualcosa di più. Le ci volle un grosso sforzo, quando ebbe fatto il numero, per blandire la signora List, che dopo aver fatto un po' l'offesa per non essere stata presa in considerazione, accettò infine l'invito a cena per quella sera. Nel corso degli anni, quella circostanza mensile si era trasformata in un
rituale monotono. Alle cinque in punto, dato che per sua esplicita dichiarazione la governante preferiva cenare presto, fu depositata da Bonnie, la nipote accigliata e scontrosa. (Ma a chi diavolo era venuto in mente di darle quel nome?) Per l'occasione la signora List s'incipriava sempre un po' più del solito e portava dei vestiti stampati con qualche tocco di civetteria, tra cui gli orecchini di granati. Come sempre, accettò il suo drink preferito, rye con un po' di zucchero, acqua e un cubetto di ghiaccio, con aria esitante, come se stesse per imbarcarsi in un'avventura spericolata. Ma, malgrado le apparenze, reggeva bene i liquori. Mai che le sfuggisse un'indiscrezione, neppure dopo il secondo drink, benché più che sorbirli li trangugiasse a grosse sorsate, e quando insisté per seguire Sarah in cucina all'ultimo momento, come sempre faceva, si mosse con la solita agilità. Stasera, benché di solito disapprovasse la gente che ricorreva a simili trucchi, Sarah mentì dicendo che l'arrosto era sì pronto, ma che le patate erano ancora un po' indietro. «Gradireste un altro drink nell'attesa?» La signora List scrutò il fondo del bicchiere vuoto. Stavolta non aveva l'anello con l'opale. «Non vorrei ubriacarmi. Due dita, magari.» Sarah gliene versò più di metà, annacquando abbondantemente il proprio fondo, perché faceva parte della routine prestabilita riaccompagnare a casa la governante. La neve era cominciata a cadere nello sfondo opaco che si intravedeva dalla finestra della cucina. Per fortuna di là aveva accostato le tende: la signora List, intrepida sotto altri aspetti, aveva un terrore invincibile delle strade innevate. «Stavo pensando alla signora Roland» disse Sarah con candore, tornando nel soggiorno coi bicchieri. «Avevo simpatia per lei, ma non deve certo essere stata la paziente più facile da curare.» «Facile? Aveva ridotto Fen a un cencio. Lascia fare a me, le ho detto, e l'ho trattata come una bambina, la signora Roland. È l'unica cosa da farsi, coi malati anziani.» Sarah poteva immaginarsi l'indignazione della signora Roland per un simile trattamento. Immaginava anche la governante brusca e linguacciuta all'opera. Farsi fare la toilette mattutina dalla signora List doveva essere un'esperienza assai sgradevole. Attese in un silenzio trepidante che la governante si sbilanciasse un po' sul periodo in cui Fen aveva dovuto ricorrere al suo aiuto, e in cui aveva preso le redini della casa. La signora List disse: «Avrebbe dovuto ricoverarla all'ospedale, ma lei fece tali scene che il dottore dovette arrendersi...
Pensate, che traffico con la bombole d'ossigeno e tutto il resto, oltre al fatto di doverla visitare ogni giorno.» Smorfia, e poi: «Trovalo, il dottore che venga da te tutti i giorni!» Era vero; mescolata alla grazia della signora Roland c'era un'aspettativa trepidante che in realtà era una prepotenza mascherata. Ma se il dottore aveva pensato che il pericolo era imminente, come mai non l'aveva fatta ricoverare d'autorità? «Sragionava, gli ultimi due giorni» riprese la signora List, assorta nei ricordi. «Recitava versi, o perlomeno così diceva Fen. A me veramente non sembravano versi. Parlava di certe colline e delle pecore. Non so quante volte l'abbia detto: "Il suo nome è Norval..."» ... Possibile? Sarah ricordava fin dall'infanzia il tono solenne di suo padre, come se avesse fatto sue le parole: "Il mio nome è Norval; sulle colline Grampian mio padre pascola il gregge". Il mio nome, ma una persona in preda al delirio può confondere le cose... Vacci cauta, si disse. «Dev'essere stato un supplizio per voi, dormire nella stessa stanza di una persona che vaneggia.» «Oh no, lei non voleva nessuno.» Vibrava una nota di disapprovazione nella voce della signora List: quando era in servizio voleva esserlo a tempo pieno. «Avevo una branda nel soggiorno. Lei non voleva nemmeno la porta aperta, gelosa com'era della sua intimità, però aveva un campanellino a portata di mano e io ho l'udito di un gatto.» Un'affermazione inadeguata. E anche supponendo che la fatica l'avesse fatta piombare in un sonno profondo, per penetrare nell'appartamento della signora Roland bisognava passare dall'ala principale della casa. A parte la correttezza di non chiudere a chiave quella porta al figlio, non sarebbe stato prudente. Sebbene le avesse offerto insistentemente da bere, Sarah non aveva scoperto niente, tranne che la signora Roland, che non era mai stata un tipo loquace, aveva inconsciamente fatto un gran parlare, alla fine. Quanto tempo sarebbe sopravvissuta, con una polmonite lombare oltre all'enfisema, se l'erogazione di ossigeno fosse stata interrotta? Un incidente che sembrava presentarsi con frequenza crescente. Presumeva una morte non voluta né cercata, e Sarah pensò a questo punto che se aveva oscuramente considerato questa possibilità, doveva esserci un motivo. Non certo il patrimonio della signora Roland. La società di Blaise andava bene, o così Sarah supponeva; l'anno precedente era stato premiato co-
me il designer più geniale, e la vita di rappresentanza che lui e Fen conducevano doveva essere dispendiosa, specialmente se frequentavano tipi come Janie Burroughs. E Fen probabilmente conservava ancora la sua parte dell'eredità Malcolm, benché Blaise fosse molto all'antica sotto questo aspetto. Blaise, che di recente si era dato al bere. Sarah si alzò in piedi. «Le patate saranno pronte, a questo punto. No, restate seduta» disse, vedendo che la signora List accennava ad alzarsi. «O, meglio ancora, perché non vi mettete a tavola?» La finestra della cucina era ormai incorniciata di bianco, e la neve cadeva più fitta. Dentro di sé Sarah pregò affinché, rilassata dal liquore, la governante acconsentisse a farsi accompagnare a casa malgrado il tempaccio. Ma la sua preghiera non fu esaudita. Dopo un acido "avresti potuto rosolarle di più", la signora List lodò il roast-beef e i piselli con salsa di scalogno. Quando veniva a cena faceva sempre così: mangiava in fretta e voracemente, e un quarto d'ora dopo era pronta per essere riaccompagnata a casa. Tuttavia indietreggiò quando Sarah aprì la porta sulla notte bianca di neve. «Non vorrai guidare in simili condizioni!» «Ma è solo un'impressione» replicò Sarah, con uno sforzo per dominarsi. «Sarà uno strato di cinque centimetri al massimo.» «Io non metto piede in macchina con la strada in queste condizioni.» La signora List si sbottonò risolutamente il cappotto. «Mabel Kramer è slittata sulla neve e ora è paralizzata dalla vita in giù.» L'infanzia di Sarah era costellata delle disavventure delle varie Mabel Kramer, bambine che avevano pagato care le conseguenze di essersi coricate coi capelli umidi o di aver mangiato semi di girasole senza sbucciarli: Era inutile cercare di convincere la signora List che, toltasi il cappotto, stava ora dicendo: «Non voglio darti disturbo, dormirò qui, sul sofà.» «Dopo tutto il lavoro che avete fatto nella stanza degli ospiti? Non diciamo sciocchezze» disse Sarah arrendendosi all' inevitabile e, facendo buon viso a cattivo gioco, andò a preparare uno dei letti gemelli. La signora List telefonò alla nipote, indossò una vestaglia e un paio di pantofole prestatele da Sarah, anche se né l'una né le altre erano adatte alle sue misure, e dopo aver chiesto proforma il permesso a Sarah, accese la televisione e si accomodò per assistere a un gioco a premi. Pensa, si disse Sarah, sgomenta, pensa se te la fossi dovuta sciroppare per tutti questi anni.
Del proprio libro disse: «Domani devo riportarlo alla biblioteca, perciò sarà meglio che finisca di leggerlo» e la governante le rivolse un breve cenno di permesso. Rimpiangeva forse di aver parlato troppo prima? "Ora, signore e signori" disse il presentatore dal teleschermo tra gli schiamazzi del pubblico "cosa dice di solito vostra moglie quando decide di coricarsi presto?" Non era certo il clima ideale per leggere, anche per una come lei, per la quale leggere era come respirare. Sarah, dovendo tornare indietro di due pagine per riconcentrarsi, si domandò se la signora Roland, impotente nel suo letto, fosse stata comandata a bacchetta dalla governante. "La trattavo come una bambina". Lavata, nutrita, sistemata per la siesta, dopodiché, accesa la televisione, via col programma pomeridiano. Nessuna meraviglia se nel delirio si fosse rifugiata in un proprio mondo fantastico. "...signore, in quale posizione eravate quando avete fatto la proposta di matrimonio a vostra moglie?" Il pubblico fremeva d'eccitazione. Sarah alzò gli occhi con curiosità, e l'arcigna signora List le balzò davanti ridacchiando insieme al pubblico televisivo. Uno psicologo le avrebbe certamente fornito una spiegazione; intanto però tutto questo le dava la pelle d'oca. Posò il libro e uscendo piano dalla stanza si avvicinò alla nicchia in cui c'era l'elenco telefonico. Accese la luce dello scrittoio e un nome le balenò davanti alla lettera N: Norval, Geoffrey, Margot Road N. 12. La signora Roland aveva vagato sulle Grampian Hills tra gli armenti, ma con la combinazione della febbre e dei farmaci che poteva avere avuto l'effetto di una puntina che scorreva incontrollabile su un disco incrinato. Bastava quell'insistente: "Il mio nome è Norval..." Un messaggio urgente? Certo ignorava fino a che punto la signora List fosse devota a Fen; forse aveva sperato, recitando la commedia, di liberarsi di quella presenza molesta. Sarah si disse che la signora Roland doveva essersi sentita al sicuro in quella casa; altrimenti, anziché opporsi al ricovero in ospedale, lo avrebbe visto come un rifugio. Tuttavia il polso accelerò i battiti mentre mandava a memoria il numero telefonico, e dopo essersi fermata sulla soglia del soggiorno per assicurarsi che la governante fosse ancora concentrata davanti al video, si diresse rapidamente all'apparecchio situato nella propria stanza. Sapeva approssimativamente dove si trovava Margot Road. In una delle sue giornate relativamente buone, la signora Roland avrebbe potuto affrontare senza difficoltà una guida di quattro o cinque miglia.
Lo aveva fatto? Oppure era proprio come aveva detto Fen alla signora List, e cioè una citazione non da una poesia bensì da un lavoro teatrale di un commediografo scozzese, che poteva ossessionare una mente annebbiata così come un motivo musicale rintrona nella testa di una mente lucida? Era un numero semplicissimo, ma nella fretta febbrile Sarah lo sbagliò e dovette rifarlo. La voce che rispose al secondo squillo poteva essere sia maschile che femminile. «Il signor Norval?» «In persona.» Stavolta la voce era decisamente maschile. «Il mio nome è Sarah Malcolm. Voi non mi conoscete ma...» «Parlate più forte, per favore!» Lo disse col tono di chi è parzialmente sordo, come se fosse cioè un consiglio abituale. Sarah ricominciò: «Il mio nome è...» e troncò immediatamente la comunicazione, poiché nel corridoio, a pochi passi dalla soglia della stanza, c'era la signora List, i cui occhiali brillavano al buio. Da quanto tempo se ne stava lì, a origliare? «Il cane vuole uscire» disse con voce piatta. Dato che Odino non le piaceva, come non le piacevano gli animali in genere, che considerava "cose sporche", non si era mai degnata di chiamarlo per nome. «Devo lasciarlo andare? Porterà dentro un mucchio di fango.» «Va bene, ci penso io. Stavo giusto per venire di là» disse Sarah, e in cuor suo si maledisse perché questa era una bugia colossale. Fece uscire Odino dalla porta secondaria poi si sistemò di nuovo nella poltrona col suo libro, mentre la governante, terminato lo spettacolo di varietà, aveva spento la televisione e estratto da sotto il cumulo di riviste una copia di Vogue che era appartenuta a Fen. Non essendo un'amante delle riviste di moda né della stampa in generale, scorse le pagine con rumorosa impazienza. Di solito si coricava presto. Possibile che proprio quella sera non si decidesse mai ad andare a letto, lasciando Sarah libera di fare in pace la sua telefonata? Odino non aveva mai imparato ad abbaiare per rientrare; il suo annuncio era una lunga sosta davanti alla porta d'ingresso. Introdotto da Sarah, si avvicinò di proposito alla signora List per scuotersi il manto ricoperto di neve, ritraendosi solo quando lei disse bruscamente: «Via!» Ecco perché Blaise non aveva un cane, pensò Sarah fingendosi immersa nella lettura perché non voleva allontanarsi dal soggiorno. Malgrado la sua
aria scanzonata e menefreghista, Fen aveva un enorme rispetto per le moquettes, le tappezzerie, i pavimenti tirati a lustro. Quelli di casa sua non sarebbero mai stati imbrattati da quattro piccole orme. Alle dieci la spuntò lei, infine: la signora List annunciò che se ne andava a letto. Il suo tono suggeriva che era ora che ci andasse anche lei, ma Sarah non raccolse e disse con un sorriso: «Buona notte» e voltò ostentatamente la pagina. Quando tutto tacque, chiuse piano la porta della sala da pranzo e formò di nuovo il numero di Geoffrey Norval. Non vi fu risposta. Si versò un bicchierino di Cointreau, camminando in punta di piedi come un ladro, e rimase alzata per un'altra mezz'ora. Era troppo tardi per ritentare: la gente può anche seccarsi. Spense le luci, controllò la porta e passò furtivamente davanti alla camera degli ospiti. Era a letto da dieci minuti quando un pensiero la folgorò: era lì, rinchiusa in casa con il fedele braccio destro di Fen. E a un tratto si accorse che la porta della camera degli ospiti stava aprendosi. Sarah volò giù dal letto. Sapeva che la governante non era venuta per farle del male: difatti aveva dovuto supplicarla, inoltre non aveva potuto prevedere che sarebbe nevicato; doveva quindi essersi alzata per andare a prendere un bicchier d'acqua e con ogni probabilità, non essendosi spinta oltre la cucina, non poteva aver sentito chiedere: "Il signor Norval?". Ma aveva un bel ripeterselo. Le sue dita non obbedivano a una simile logica. Silenziosamente, in un gesto che una settimana fa le sarebbe parso incredibile, diede un giro di chiave alla porta della sua camera. 10 ... Geoffrey Norval non era rimasto sorpreso quando era stata troncata la conversazione. In un modo o nell'altro, le persone (e anche le cose, a quanto pareva) lo avevano piantato in asso quasi sempre, durante i suoi trentadue anni di vita. La barba, tanto per cominciare. Ne aveva ben poca nella zona del mento. Qualche millimetro di pelo ispido spuntava sì, ma poi, dopo un'occhiata al mondo circostante, si fermava lì. Era sconcertante, visto che i capelli castani dai riflessi ramati erano decisamente folti. Molti uomini celebri avevano iniziato la carriera recapitando giornali a domicilio. E Geoffrey ci aveva messo tutto l'impegno di cui era capace.
Mai che scaraventasse sotto il portico delle case o nelle pozzanghere le copie arrotolate del giornale di El Paso, l'unico quotidiano della città. No: lui mirava con cura ai gradini dell'ingresso o, se la casa era situata in arretrato, li lasciava sul vialetto antistante. Sempre compito, perfino con quelli che pagavano in ritardo, e puntuale al punto che, quando il giornale aveva annunciato la gara del mese tra i ragazzi incaricati della consegna, i suoi clienti avevano scritto che avrebbero potuto regolare l'orologio in base all'arrivo di Geoffrey Norval, la scelta era caduta su di lui. Il premio, secondo le lettere entusiastiche della piccola posta, consisteva nella partecipazione a un banchetto, nel corso del quale a Geoffrey erano stati offerti buoni fruttiferi del valore di cinquanta dollari. Aveva ancora davanti agli occhi il tipo gioviale che aveva esclamato "congratulazioni!" quando, il giorno dopo, aveva pedalato col suo sacco lungo Pierpoint Road, e proprio in quel momento aveva udito delle grida provenire da un punto della casa dei Creed. Le finestre erano sistemate in modo tale che era possibile vedere dalla facciata ciò che succedeva nella parte posteriore. Una ragazza che riconobbe come Frances Nichols scaturì dall'orto aggiustandosi la camicetta. Se i Creed fossero stati suoi clienti, Geoffrey sarebbe smontato dalla bicicletta e, con un pensierino a un altro avanzamento avrebbe risalito il vialetto per bussare e chiedere se tutto andava bene. Ma non erano suoi clienti, e il signor Creed stava ora sbucando dal folto degli alberi. Geoffrey si era allontanato pedalando. Tuttavia qualcosa di quell'incidente lo turbava un po', e quando la direttrice della Rosevale Academy gli aveva telefonato per domandargli se avesse visto o sentito qualcosa di strano passando davanti a casa Creed all'ora in questione, lui non aveva esitato a dirglielo, perché era chiaro che la direttrice era già informata, e aveva soggiunto: "Ho perfino pensato che fosse stata punta da una vespa, o qualcosa di simile." La direttrice lo aveva ringraziato gentilmente e questo era stato tutto. Gli eventi successivi, e cioè la partenza di Frances Nichols da Erskine e il suicidio di Roger Creed, non lo avevano toccato minimamente. Partecipando al banchetto col primo vero vestito che avesse mai posseduto, fotografato insieme al vincitore locale di una gara d'ortografia e al finalista di un gioco scientifico nazionale, si sentiva ormai alle stelle. Una vera rivincita per lui che essendo un disastro sia nello studio che in palestra, poteva ora assaporare il suo trionfo. E così aveva fatto, sentendosi seguito dalle occhiate d'ammirazione di
tutta la città per una settimana o due. In seguito aveva conseguito il diploma superiore, aveva trovato il primo di una serie di impieghi e aveva imparato a sue spese che l'estrema puntualità e una cortesia che rasentava il servilismo non bastavano nella vita. Per quanto riguardava la prima parte, aveva colto delle proteste nella toilette maschile: "Cosa sta tentando di farci quel piccolo bastardo di Norval?" e si era accorto che perfino il capufficio lo guardava con un certo disprezzo. Quanto all'ultima parte, e questo era stato il discorso di un'ispettrice: "Sinceramente, se mi aiuta un'altra volta a infilarmi il paltò, temo che mi verrà da vomitare". A ventisette anni, grazie a una piccola eredità lasciatagli dal padre, Geoffrey aveva sposato una ragazza che, avendo frequentato prima d'allora solo operai edili, era convinta che il matrimonio con un impiegato di banca fosse un grosso affare. Lo aveva lasciato dopo cinque mesi. Lui si era comprato un canarino per compagnia, e benché avesse cantato gaiamente nel negozio d'animali al momento dell'acquisto, in seguito si era rinchiuso in un cupo mutismo e alla fine era morto con le zampine irrigidite puntate verso il soffitto. Così era andata la vita. Piantava i fiori, e al loro posto crescevano le erbacce. Una volta aveva spedito un assegno per un corso di corrispondenza che prometteva di fare di lui un perito elettrotecnico in sei settimane; la "scuola" aveva incassato l'assegno e aveva chiuso bottega. Allo scopo di accrescere la sua statura tutt'altro che imponente, aveva comprato un paio di scarpe dagli arditi tacchi interni e puntualmente aveva perso l'equilibrio, fratturandosi gravemente la caviglia. Una cosa era chiara: Erskine non gli portava fortuna. Perciò Geoffrey si era trasferito ad Albuquerque. Adesso era in grado di usare un computer con perizia, e aveva trovato un impiego in un piccolo ufficio commerciale. Dato che se ne stava isolato in un proprio ufficio, era riuscito a conservare il posto; però era sempre senza amici. Per nulla al mondo avrebbe messo piede in un bar frequentato da persone singole. Al parcheggio e nella toilette ascoltava attentamente i pettegolezzi del venerdì pomeriggio e del lunedì mattina che si scambiavano i suoi colleghi più attraenti, e pian piano era riuscito a mettere insieme una lista di quelli che sembravano i posti più adatti a fare incontri interessanti. Per mesi li aveva frequentati assiduamente, riuscendo solo a rimediare un appuntamento con una ragazza alquanto meschina che voleva solo otte-
nere un prestito da lui, e un occasionale "salve!" da un uomo che era certamente ben disposto verso di lui ma era anche facile a risate inconsulte e fastidiose, quando il cuore gli balzò in gola alla vista di una coppia che stava lasciando il tavolo proprio mentre lui entrava. L'uomo era alto e biondo. La ragazza era Frances Nichols, o perlomeno lo era stata; un brillante spettacoloso le balenò al dito mentre si sistemava una cappa sulle spalle. Perfino dopo tanti anni lui non ebbe difficoltà a riconoscere il piccolo viso scuro da indiana, con le sopracciglia basse sugli occhi. Era come una mano tesa, benché quando fu certo di averla riconosciuta, la coppia era ormai svanita nella notte. Si sarebbero scambiati i ricordi dell' infanzia; Geoffrey avrebbe messo Frances al corrente della nuova fattoria modello e delle piante che sorgevano là dove un tempo c'era stato il vecchio mulino Hubbard, e lei e il marito lo avrebbero presentato ad amici distinti come loro. Incoraggiato da quel miraggio, Geoffrey si avvicinò alla coppia rimasta ancora seduta a tavola. «Chiedo scusa» disse «ma vorrei sapere chi è la signora appena uscita. Potreste dirmi il suo nome da sposata?» I due lo squadrarono attentamente, ma non trovarono nulla di sinistro in lui. «La signora Roland, moglie di Blaise Roland» rispose la donna e poi, sebbene Geoffrey avesse sperato in cuor suo che lo invitassero a sedersi a tavola o quanto meno che si presentassero (erano persone distinte) sorrise con garbo e tornò a rivolgere l'attenzione al marito, liquidando così Geoffrey. Il giorno seguente era sabato. Senza telefonate preliminari (Geoffrey voleva evitare il consueto "spiacente, stiamo uscendo" troppo spesso udito, e pensava anche che forse Fen si sarebbe ricordata di lui solo vedendolo) indossò il vestito buono e si recò in macchina all'indirizzo trovato sull'elenco telefonico. Aveva studiato accuratamente l'ora. Molti dormivano fino a tardi, il sabato mattina, e facevano colazione a un'ora così avanzata che diventava un pasto in piena regola. Molto probabilmente erano ancora in vestaglia, e perciò non nelle migliori disposizioni d'animo. Alle quattro, d'altra parte, era facile che la conversazione culminasse in un invito a fermarsi per l'aperitivo. Col ricordo di casa Creed bene impresso nella mente, fu per lui una lieta sorpresa trovarsi davanti alla grande costruzione bianca col tetto rosso e le persiane grigie, semicircondata dagli alberi. Uno dei garage era chiuso, però nell'altro c'era una Mercedes vecchiotta ma tirata a lustro.
Geoffrey si diresse alla porta principale, premette un campanello che azionava un carillon e distolse lo sguardo con disinvoltura. Si era preparato due frasi di circostanza, una per Frances e una per il marito, ma non usò né l'una e né l'altra. La casa era avvolta in un silenzio di tomba. Che fossero via per il week-end? Un tentativo all'altra porta poteva risparmiargli una visita infruttuosa l'indomani. Sembrava un ingresso separato benché i due non avessero certo l'aria di gente che ospitava inquilini. Attraversò il vialetto lastricato e trovò un battaglio d'ottone al posto del campanello. Lo usò e fu colto da un accesso di starnuti durante l'attesa; si rèse conto rassegnato di stare covando uno di quei raffreddori che lo rendevano sordo. La porta si aprì parzialmente. Una donna alta, coi capelli bianchi, abbassò inquisitivamente gli occhi a guardare Geoffrey. «Desiderate?» «Cercavo la signora Roland.» Qualcosa, forse l'aria autorevole di quella vestaglia che sembrava un nero saio monacale, lo fece impappinare. «Forse avrei dovuto... vedete, sono stato a scuola con lei per tanti anni e ho pensato che sarebbe stato carino farle una visita.» «Mia nuora non è in casa, al momento. Se volete lasciarmi il vostro nome...» «Il mio nome è Geoffrey Norval, di Erskine. State tranquilla, non le ricorderò certo cose che potrebbero...» cominciò, vedendola inarcare le sopracciglia ancora scure, e interpretandolo come un segno di disapprovazione. «Insomma, adesso che abito qui in città, volevo darle un salutino.» Alle sue spalle si udì uno scricchiolio di ruote. «C'è F... Frances, ora» disse la signora Roland, rivolgendogli un sorriso premuroso che cancellò l'impressione della fredda accoglienza. «Arrivederci, signor Norval.» Geoffrey le fece un piccolo inchino, un gesto che non gli aveva mai portato fortuna quantunque lo avesse imparato alla perfezione, percorse in fretta il lungo vialetto carrozzabile, e raggiunse Frances mentre stava scendendo da una lunga macchina grigia. Anche un estraneo poteva accorgersi che la ragazza non era di buon umore. «Frances» disse in tono deferente, e proprio in quel momento fu colto da uno starnuto che lo fece lacrimare, costringendolo a estrarre il fazzoletto mentre lei lo fissava con freddezza. «Sono Geoffrey Norval di Erskine. Ti ricordi di me?» «No. Perché dovrei?» «La scuola elementare Wallace E. Hunt? Il vecchio Stoneface, il direttore? Io portavo i giornali a domicilio lungo...» A questo punto Geoffrey
s'interruppe; meglio non toccare tasti dolorosi «...nel tuo quartiere. Sono stato "lo strillone del mese", per la precisione.» Come tutta risposta, Fen si girò ostentatamente a chiudere la portiera della macchina. La tarda, gelida luce pomeridiana le brillava sui capelli neri e sul chiassoso abito variopinto che portava sotto uno scialle di lana traforato e sfrangiato. «Se ti ricordi di me» rispose, piantandogli gli occhi addosso «ti renderai conto che Erskine non può avere che tristi ricordi per me e non mi va di riparlarne. E ora devo andare.» Si allontanò rapidamente. Geoffrey tornò alla sua auto, e il bruciore che provava agli occhi forse non dipendeva solo dal raffreddore incipiente. Se ne tornò in Margot Road, alla sua casa d'affitto, situata in una villa bifamiliare verniciata di rosso magenta e verde pisello che vista di colpo sembrava un gigantesco armadio. Tanto, pensò, non sarebbe stato comunque in grado di ricevere i Roland. Ciò che più lo crucciava era di essersi completamente dimenticato che la madre di Frances era morta non molto tempo dopo il patrigno. Più che naturale quindi che la ragazza non volesse più sentir parlare di Erskine. Risalendo il vialetto, fu fermato dalla ragazza della porta accanto, una diciottenne angolosa coi capelli biondo paglia che doveva essersi sforbiciata da sé, e gli occhi di un azzurro così chiaro da sembrare stordita o brilla. «Salve, Geoffrey.» In jeans e giubbotto si avvicinò allo steccato che divideva le due proprietà e lo scrutò con occhio critico alla luce tenue. «Cosa c'è? Sembri stravolto.» «Non sto bene.» Essendo stato appena respinto, Geoffrey pensò bene di rifarsi. «E francamente non vedo lo scopo di starmene qui a prendere freddo.» Se avesse avuto il cappello, se lo sarebbe toccato in un cenno significativo. Così com'era, si diresse alla sua porta d'ingresso con un colpetto di tosse e mentre girava la chiave nella toppa si accorse che la ragazza, il cui nome era Brett, aveva scavalcato lo steccato, lo aveva seguito e ora stava tastandogli la fronte con la mano. «Hai la febbre» decretò «e dato che c'è in giro un mucchio di faringite, come mi ha detto mia zia, farai meglio a prendere un'aspirina e a filare a letto. Io vengo a prepararti qualcosa di caldo.» Subito, intendeva. Avendo cercato a lungo e invano approvazione della gente, Geoffrey provava un certo disprezzo per chi veniva a cercarlo. D'al-
tronde però si sentiva malissimo; forse era tutta suggestione, ma ora faceva una certa fatica a inghiottire, perciò non protestò quando lei lo seguì risolutamente. Il soggiorno era buio e triste, e l'atmosfera non migliorò granché quando Geoffrey accese la luce. Obbedì di buon grado agli ordini: si preparò da notte, avendo cura di chiudere a chiave la porta della sua camera mentre si metteva in pigiama. Si era appena infilato sotto le lenzuola, quando Brett bussò ed entrò trattenendo il respiro. «Non sapevo che tu avessi un termometro, perciò sono andata a prendere il nostro.» Geoffrey non soltanto aveva un termometro ma lo usava di frequente. «Ti ho portato anche del Bovril. Te lo preparo in un batter d'occhio.» Ebbe perfino la pretesa infantile di tastargli il polso, usando due dita quando tutti sapevano che lo si faceva col pollice. Quand'ebbe finito, lui estrasse il termometro dall'astuccio e chiese con falso candore: «Com'è il polso?» E lei: «Un po' frequente» e poi, fissandolo con sguardo strano: «Non so che età credi che abbia, ma sappi che ho seguito un corso d'infermiera per due anni.» Come sempre il mondo, e in particolare quello femminile, era lì a congiurare per distruggerlo. Geoffrey chiuse gli occhi seccato e li riaprì quando Brett gli tolse il termometro e lo informò che aveva trentotto e mezzo di febbre. Sorrise leggermente, benché lui non ci trovasse proprio niente di comico. «Vado a prendere il Bovril.» A questo punto la voce di lei gli giungeva a sussurri; l'udito gli si era affievolito. Il brodo, quando arrivò, era forte, caldo e sorprendentemente buono. Brett stette lì a studiarlo per qualche minuto e poi si accinse a uscire dalla stanza. «Torno verso le sette e ti porto qualcosa per cena.» Geoffrey avrebbe voluto rispondere con dignità "grazie, non è il caso" ma gli venne in mente a un tratto che per via di Frances Roland non aveva neppure fatto le sue solite provviste, e nel frigorifero non c'era che un uovo e del succo di mele. Perciò non disse niente, e dopo avergli detto: «Ci penso io» Brett se ne andò con un cenno amichevole. Per qualcuno che contava, pensò avvilito Geoffrey, avrebbe avuto un certo numero di risposte pronte, anche se era affamato. "Vi siete già disturbata anche troppo. Non vorrei approfittare..." Ma per una ragazza che girava fischiettando in jeans... si consolò pen-
sando che era entrata in casa sua senza essere invitata, e che con ogni probabilità non era neppure un'infermiera. Diamine, lui poteva dichiarare di essere un agente segreto, se gli girava. Era quasi assopito quando il telefono squillò nel soggiorno. Lì per lì sperò che fosse Frances che lo chiamava per scusarsi. Invece, con sua somma sorpresa, era l'anziana signora Roland, benché dovette farselo ripetere ben due volte per capire, nello stato di torpore in cui si trovava. «Vorrei parlarvi, signor Norval. Posso venire a casa vostra?» Geoffrey si fece ripetere anche questo. Si accordarono per l'indomani, salvo complicazioni. Con un'aspirina ogni quattro ore si sarebbe sentito meglio, inoltre aveva una bella vestaglia di foulard che non vedeva l'ora di inaugurare. Ma il giorno seguente la signora Roland non venne, o perlomeno così risultò a Geoffrey. Era talmente imbottito di aspirina che quando si alzò aveva V impressione di muoversi sott'acqua. In più c'era un soporifero ticchettio di pioggia sul tetto e sui vetri che, combinato col suo debole udito e con una siesta intorno alle tre, lo rese insensibile ad ogni richiamo alla sua porta. O forse anche la signora Roland era indisposta. Con quella nera vestaglia da frate aveva l'aria da invalido, pensò. L'interesse di Geoffrey era in un certo senso svanito, poiché si era immaginato che la signora Roland, che apparteneva a una generazione più seria, e che aveva assistito all'umiliazione infertagli dalla nuora, avesse voluto avere una spiegazione con lui, tenendolo beninteso a rispettosa distanza col suo sguardo severo e glaciale. Malgrado queste considerazioni due giorni dopo Geoffrey telefonò, e una voce secca e professionale lo informò che la signora Roland era ammalata e perciò impossibilitata a rispondere. Una delle sue piccole economie era stata di non abbonarsi a un giornale; si limitava a dare un'occhiata ai titoli al supermarket. Ma anche se avesse saputo della morte della signora Roland, la notizia non lo avrebbe sorpreso. Il suo raffreddore si era sviluppato in una vera e propria influenza, e in quella circostanza ebbe modo di scoprire che Brett più che angolosa era snella come un giunco. Guarito, sia pure con una persistente semisordità, si accorse con sorpresa che gli mancavano le sue visite briose e impertinenti. Di tanto in tanto la chiamava dallo steccato, ma lei si limitava a rispondergli a distanza dopodiché se ne andava fischiettando. ... Ora, lui non riusciva a immaginare quale donna misteriosa avesse fat-
to il suo numero, chiesto di lui e deciso infine di non parlargli, ma vide in questo fatto una sorta di destino che lo perseguitava. Attese qualche minuto prima di uscire per recarsi a un nuovo bar, nel caso improbabile che la comunicazione fosse caduta incidentalmente, ma il telefono rimase muto. Non squillò che l'indomani mattina presto. 11 «Io aspetto Ed» ripeté ostinatamente la signora List. Sarah, vestita di tutto punto e pronta a ricondurre a casa la governante, non osò ribattere. Cosa diavolo vuoi dire a una donna che è stata un personaggio autorevole in casa tua fin da quando eri piccola? "No, tu non aspetti un corno, e farai meglio a venire con me"? Quella notte il sonno era stentato ad arrivare ma alla fine Sarah si era addormentata così profondamente che alle nove e mezzo si sentiva ancora in trance. La signora List invece doveva essere in piedi da un pezzo ed era vispa e arzilla. Aveva appeso nel bagno la vestaglia prestatale da Sarah, dopo averla lavata con cura, e aveva tirato a lustro la cucina e foderato di giornali l'area circostante la porta secondaria per le zampe infangate di Odino; aveva tutta l'aria di chi vuole essersi guadagnata la cena. Impossibile dissuaderla dallo sbrigare certi servizi: li faceva allo scopo di sdebitarsi. Ed eccola lì a tenere Sarah prigioniera, benché fosse evidente, dalla velocità con cui sfrecciavano le macchine, che le strade erano ormai sgombre. Zia e nipote si amavano molto poco, e non era difficile immaginare Ed, informato da Bonnie che doveva andare a riprendere zia Edith, rispondere in tono pungente che la cara zietta poteva aspettare per un po'. Il fatto che Sarah al suo posto si sarebbe comportata come lui non rendeva certo la situazione meno esasperante. La signora List, che si era liberata del suo ruolo di ospite come di un vestito troppo stretto, disse in tono sbrigativo: «Tu bada pure ai fatti tuoi senza fare complimenti, Sarah. Io sto qui ad aspettare.» Ma non era possibile, in realtà. Non quando "i fatti tuoi" sono nella fattispecie una telefonata a Geoffrey Norval che forse, a quel punto, dato che i minuti passavano, stava combinando d'andare a trovare i genitori in campagna per qualche giorno (come del resto James, che non si era fatto vivo) o chiudendo le valigie, pronto a partire per una vacanza invernale. Se non era un personaggio immaginario, chi era Geoffrey Norval? «Quanto chiedete per questa casa?» domandò la signora List, evidente-
mente stufa di scrutare il vialetto in attesa di Ed. Sarah rispose che non sapeva e che intendeva farla stimare da un perito. «Ah!» disse la signora List, e tirò fuori dalla manica un'altra Mabel Kramer, stavolta un'anziana vedova, storpiata dall'artrite, che aveva appunto fatto così e poi era saltato fuori che il perito era d'accordo con un'agenzia di compravendita nota per i suoi loschi rigiri, e la poveretta ci aveva rimesso diecimila dollari. Per fortuna, a porre fine all' argomento, il clacson familiare suonò e finalmente la governante se ne andò. Nella nicchia, l'elenco telefonico era ancora aperto alla lettera N. Sarah formò il numero e attese dieci squilli prima di arrendersi al fatto che Geoffrey Norval, così disponibile quando la signora List era a tiro d'orecchi, non rispondeva al telefono. Ma in fin dei conti era sabato, e spesso la gente dedica il weekend ai lavori domestici, al giardinaggio, o a qualche lavoretto meccanico fuori tiro d'orecchi dal telefono. Armata di buona volontà, Sarah infilò il cappotto, svegliò Odino profondamente addormentato nel soggiorno, e, salita in macchina, puntò verso Margot Road. Era una strada senza uscita che doveva aver conosciuto giorni migliori. Nei suoi vaghi ricordi era verde e ombreggiata, ma gran parte degli alberi erano stati spietatamente abbattuti; restavano solo le siepi che separavano le varie proprietà. Il N. 12, non lontano dall'angolo a destra, era uno dei pochi cancelli aperti sul vialetto carrozzabile, con conseguenti tracce delle macchine che ne approfittavano per fare l'inversione di marcia. La casa era piccola, bifamiliare. Il garage annesso era chiuso. Sarah, guardando l'intonaco verde pisello e rosso magenta, pensò che con qualche tocco di blu elettrico e arancio avrebbe formato la delizia di Fen. Ma era un errore l'avere evocato quel nome in un posto simile; un'ondata di gelo parve penetrare nella macchina, sebbene il riscaldamento funzionasse perfettamente. La signora List con le sue orecchie da gatto, che si aggirava per la casa mentre Sarah dormiva ignara... L'elenco telefonico rimasto aperto alla lettera N... Alle orme che si allontanavano sulla neve partendo dalla porta principale si sovrapponevano le tracce delle ruote. Non dovevano appartenere a Geoffrey Norval; forse erano di un altro inquilino benché la casa avesse un'aria deserta. Bussiamo lo stesso, già che ci siamo, si disse Sarah. Stava per scendere dall'auto quando dalla casa accanto uscì una ragazza. Era in jeans e giub-
botto, e si avvicinò con un passo energico e sicuro, malgrado l'aspetto poco più che infantile, che però poteva attribuirsi al berretto rotondo che portava calzato sulle ventitré. Odino, che, stufo di Margot Road, si era accovacciato con un sospiro, si drizzò subito con interesse. Sarah si sporse per aprire il finestrino del posto accanto. La ragazza si abbassò e chiese educatamente: «Cercate qualcuno?» «Sì, il signor Norval.» «Non è in casa.» Gli strani occhi celesti nel visetto appuntito squadrarono Sarah con una curiosità tipicamente femminile e assunsero un'espressione vagamente battagliera. «Chi debbo dire, quando torna?» Era una reazione alla quale Sarah era avvezza, quella sorta di cauta diffidenza... e poi c'era anche la possibilità che Geoffrey Norval appartenesse alla generazione della signora Roland. Rispose in fretta: «Senta signorina, il mio nome non gli direbbe nulla, dato che non ci conosciamo neppure» e avviò il motore con un sorriso. «Grazie, ad ogni modo.» Il bisogno di nascondersi nell'anonimità era istintivo, nel caso che qualcuno venisse a far domande in seguito, però era un po' assurdo. Anche se si fosse nascosta sotto un foulard e dietro a un paio di occhiali scuri, come poteva sperare di restare anonima con Odino in macchina? Poiché la zona di dominio della ragazza sembrava estendersi anche al vialetto carrozzabile di Geoffrey Norval, peraltro già abbondantemente sfruttato, Sarah procedette lungo Margot Road finché non ne trovò un altro per fare manovra. Quando ripassò davanti alla casa verde pisello e rosso magenta, la sua giovane guardiana era sparita. Senza un perché, quella tarda mattinata nevosa, Sarah ebbe un guizzo di maliziosa allegria. Giunta al semaforo, anziché puntare a destra per tornare a casa, Sarah girò a sinistra. Fen la chiamava "la casa delle bambole di Blaise" con toni che variavano dalla tenera comprensione al caustico disprezzo. Era in realtà la nuova costruzione in vetro e pietra rossa che ospitava la sala d'esposizione e gli uffici vendita della Roland Ceramics. Sarah, che ricordava la vecchia sede raffazzonata nei pressi della Old Town, poteva capire perché Blaise passasse lì la maggior parte dei suoi sabati, a sorvegliare i lavori. Oltre a essere una prova tangibile di successo, la nuova sede doveva dargli quell'emozione di tutto ciò che è in fase di
creazione. L'auto di Blaise era sistemata all'estremità del parcheggio, accanto a un furgoncino e a una vecchia ma baldanzosa auto sportiva quattro marce. Sarah vi accostò la sua, abbassò un finestrino per il cane e si avviò alla porta a vetri con passo veloce. Fuori il dente, fuori il dolore, si disse. Dopo qualche secondo di palese stupore, fu introdotta da Millie Crouch, una simpatica grassona, proprietaria della vecchia auto sportiva; Millie era il braccio destro di Blaise in tutto fuorché il design. L'ultima volta che aveva visto Sarah, il fidanzamento con Blaise sembrava ormai cosa sicura, e la sua faccia falsamente bonacciona (aveva in realtà il cervello d'una donna d'affari e sapeva essere spietata con la concorrenza) si colorì di un confuso rossore. Dopo averle domandato cordialmente come stava, Sarah disse: «Potete scoprire se Blaise ha un minuto libero? Intendo veramente sessanta secondi, non uno di più.» I telefoni interni non erano ancora collegati. Millie Crouch si allontanò frettolosamente e Sarah rimase in attesa nella sala d'aspetto, così nuova che le voci rimbombavano, e dappertutto c'era odore di vernice fresca. Da un punto alla sua destra giungeva un rumore ritmico. Tutto lì era bianco e grigio tortora, un richiamo alle vivide rocce del Colorado. Solo qua e là qualche tocco sapiente del blu cobalto che era il marchio di fabbrica di Blaise. «Sarah!» Blaise le stava venendo incontro festosamente, anche se un po' sorpreso. Malgrado i calzoni di velluto a coste ruggine e la larga camicia sbiadita, si vedeva lontano un miglio che era lui il padrone, là dentro. Accennò in giro. «Come ti sembra? Su, vieni avanti.» «È un sogno, ma non posso fermarmi: c'è Odino in macchina.» «Odino adora le macchine» la interruppe Blaise in tono sbrigativo. Millie Crouch era tornata al suo tavolo dove era tutta intenta a inserire dei cartoncini pubblicitari nelle buste, ma era chiaro che non perdeva una sillaba della conversazione, perciò Sarah si lasciò condurre via. Attraverso la sala d'esposizione con le sue nicchie alle pareti e gli scaffali a vetri, dovette stare attenta a non inciampare nei cavi di gomma nera. Blaise stava spiegando qualcosa sul riscaldamento. A questo punto lei notò una sicurezza nuova in lui, una sorridente impenetrabilità. Capì da dove gli veniva e scartò il pensiero. Nell'ufficio di Blaise, dove c'era una parete tutta montagne e cielo, Sarah disse: «Passando, ho visto la tua macchina e ho pensato di chiederti un consiglio. Dopo quello che è successo a casa tua l'altra notte, mi è venuto
in mente che non sarebbe una cattiva idea tenere in casa una pistola, solo che non m'intendo di armi. Tu ne hai una, vero?» Parlando, si rese conto che era una pessima idea, tanto più che era pericoloso tenere un'arma, a meno di essere ben decisi a usarla in caso di bisogno; però sostenne con fermezza lo sguardo perplesso di Blaise. «Ce l'avevo, una calibro 22. Fen non ti ha detto che mi hanno forzato la portiera dell'auto qualche settimana fa?» Era quella la vaga eco che aveva turbato la mente di Sarah, poiché Fen aveva lamentato altre perdite dal cassetto porta-guanti, in particolare gli occhiali da sole acquistati a Parigi durante il viaggio di nozze. "Le altre cose si possono rimpiazzare, ma chissà quando mai tornerò a Parigi!" «... ho denunciato il furto alla polizia, naturalmente, benché sapessi che non c'era la minima possibilità di riaverla» stava dicendo Blaise. «Se fossi in te...» La porta dell'ufficio, che non era chiusa, fu aperta senza cerimonie. «Ciao, Sarah» disse Fen. «Sono venuta a riprendermi il marito per la colazione. Se ha finito con te, naturalmente.» Portava un "poncho" di lana che Sarah non aveva mai visto prima, di un turchese intenso, con una lunga sciarpa a fiorami rosa e scarlatti avvolta intorno al collo, e che le pendeva da una spalla. I capelli erano raccolti in una lucida crocchia. Alle sue spalle, un po' affannata, c'era Millie Crouch; reggeva una piccola borsa "Roland" a strisce bianche e argento, che a giudicare dalla forma doveva contenere una ciotola. «Ecco qua» disse passando di volata davanti a Fen e porgendo il sacchetto a Sarah. «Non l'ho incartata, perché eravate di fretta.» Lo sguardo era supplichevole. Blaise sembrava assistere alla scena con l'interesse di uno spettatore. «Grazie, Millie» disse Sarah, e soggiunse rivolta a Fen e a Blaise: «Buon appetito» e uscì di lì, attenta a non inciampare nelle rovine della propria strategia. Riattraversò la sala d'esposizione e ripose il sacchetto nel cassetto centrale del tavolo insieme alle buste ammucchiate. Si portò dietro l'impressione che malgrado la domanda pungente, Fen anziché essere seccata per averla trovata, fosse invece soddisfatta per qualche ragione sua. Chissà cosa stava succedendo nell'ufficio, adesso? Forse Blaise, a tu per tu con la moglie, le stava dicendo: "Sarah si è fermata per domandarmi quale tipo di pistola avevo"? Oppure aveva lasciato credere, con la tipica vanità maschile, che l'acquisto della ciotola era stato un pretesto per vederlo?
Ma a quel punto un altro pensiero ebbe il sopravvento. Chissà se Geoffrey Norval era tornato a casa per colazione? Sì, o perlomeno c'era una vecchia Volkswagen grigia, nel vialetto di casa sua. Sarah, posteggiando la macchina dietro la Volkswagen e raggiungendo la porta attraverso il sentiero fangoso, si aspettava quasi che la ragazza in jeans e giubbotto la chiamasse per dirle con tono autorevole che l'auto apparteneva a qualcun altro e che Norval non era ancora tornato. Ma non accadde niente del genere. Bussò col cuore sospeso e pochi secondi dopo la porta si aprì e Sarah si trovò a fissare l'uomo sul quale, lei ne era convinta si era concentrata con tanta insistenza l'attenzione della vecchia signora. «Il signor Norval?» «Sì.» Non molto più alto di Sarah, mingherlino, coi capelli castano rame, aveva una faccia in cui campeggiava un naso aquilino, il mento sfuggente, e un'espressione guardinga. Era tutto concentrato a scrutare oltre lei; Sarah si voltò istintivamente e vide che Odino, stufo, era saltato sul sedile anteriore e se ne stava seduto comodamente al volante. «Mi chiamo Sarah Malcolm. Non ci siamo mai conosciuti...» Era imprudente, pensò, fargli sapere che era lei l'autrice della telefonata interrotta la sera prima «...ma credo che abbiate conosciuto una mia amica. Una signora anziana, Eleanor Ronald.» Norval si grattò il naso. «Roland?» ripeté. «No, temo proprio di no.» Però ora la stava studiando attentamente, o forse era dovuto alla sua parziale sordità? «Strano» disse Sarah, imperterrita. «Ha parlato più volte di voi, prima di morire.» Forse era una frase un po' incauta, poiché l'effetto fu immediato. Geoffrey Norval fece per ritrarsi; dagli occhi gli trapelava un guizzo di paura... che però non gli impediva di studiarla con una sorta di avida curiosità. «È impossibile. Dev'esserci un errore di persona» ribatté con voce querula. «E poi per la verità non posso starmene qui al freddo, sono appena guarito dall'influenza, perciò...» «Qualcuno vi ha dato l'imbeccata?» lo interruppe Sarah con foga, ed ebbe la certezza che il giovane le era sfuggito per sempre. «Andate via» disse Geoffrey Norval quasi con ferocia e chiuse di scatto la porta. A testa alta, certa di essere spiata da dietro le tende, Sarah se ne tornò al-
la macchina. Si sentiva a pezzi. Mai in vita sua le era capitato di sostenere un confronto con un essere totalmente estraneo, né di essere messa alla porta in quel modo. D'altra parte però non si era mai trovata nella posizione di chi, una settimana prima, avendo deciso di scavare in un'aiuola per scoprire ciò che minava la salute delle piante, anziché trovare delle radici che si erano ramificate, scopre ossa umane recenti. Il paragone le metteva i brividi al solo pensarci. Malgrado la sua riluttanza a cedere il posto di guida dal quale poteva godere un'ampia visuale, Odino, ingombrante e festoso, era l'unico essere al mondo di cui poteva pienamente fidarsi. James, dopo averle indicato la pista, l'aveva lasciata al suo destino. Era vero che all'ultimo momento l'aveva messa in guardia nei confronti di casa Roland, ma forse lo aveva fatto per cercare di sdrammatizzare la situazione. Quando Sarah arrivò a casa corse immediatamente a lavarsi la faccia. Per la verità era abituata ad essere guardata dagli uomini, ma non con quella fissità quasi maniacale di Geoffrey Norval: era come se quello sguardo le avesse lasciato una macchia sulla pelle. Si versò un bicchiere di vino bianco. Il giornale del mattino era ancora ripiegato sul tavolo dove l'aveva lasciato la signora List; lo aprì per dargli un'occhiata. Se la polizia aveva trovato l'arma che aveva ucciso Dorothy Ritter, e scoperto che apparteneva a un noto criminale... Il bambino rapito era stato restituito ai genitori straziati dalla rapitrice, una donna affetta da turbe mentali con dei precedenti di gravidanze isteriche. Una serie di particolari sorprendenti, parte dei quali destinati a dare una bella scossa alla Camera di commercio, stavano venendo in luce nel corso delle indagini sull'omicidio dell'uomo d'affari. Sarah voltò la pagina e l'occhio le cadde su qualcosa che s'impose alla sua attenzione. Era il primo di una serie di articoli dal titolo: "Detenute: la nuova generazione", e lesse che un numero sempre crescente di donne si trovavano in carcere perché direttamente coinvolte in reati di violenza. Al centro dell'articolo campeggiava l'immagine di una donna aggrappata alle sbarre della cella. Una donna dai capelli scuri e la faccia olivastra. Aveva affrontato l'obbiettivo senza ostilità né sfida ma con un misto di rabbia e disperazione che era come un barlume di luce in un pozzo oscuro e pericoloso. Avvicinati, diceva la sua espressione, e precipita anche tu. Un'ondata di ricordi travolse Sarah. Si era lavata la faccia, pensò con agghiacciante lucidità. Avrei dovuto lavarmi le mani, invece.
Pur essendo stato avvisato che sarebbe potuto succedere qualcosa del genere, Geoffrey Norval era così sconvolto che quando sbirciò Sarah allontanarsi, le dita aggrappate alla tenda dietro la quale se ne stava nascosto tremavano irrefrenabilmente. Era stata la mattinata più sensazionale della sua vita, iniziata con quella telefonata gratificante sia nel tono sia nei contenuto. Geoffrey non era mai stanco di accettare scuse dai sottoposti, nelle rare occasioni in cui ne aveva uno; ma se una "Personalità" gli chiedeva scusa avrebbe perso ai suoi occhi un po' del suo prestigio. "Parla Frances Roland, signor Norval. È troppo presto per invitarvi a prendere un caffè? Dobbiamo andare fuori città e ho pensato che vi devo una spiegazione per l'altro giorno." Geoffrey aveva ascoltato in preda a una tensione spasmodica ogni parola che aveva seguito l'annuncio del nome. Il tono mordace con cui la ragazza si era rivolta a lui sul vialetto carrozzabile pungeva ancora; dovette assicurarsi di avere sentito bene. "Un caffè?" ripeté meditabondo, e Frances disse: "Sì, appunto... Cosa ne direste? Be', ci vediamo tra poco, allora". Cosa mettersi indosso per affrontare quella che poteva essere la grande occasione della sua vita? Geoffrey decise infine per una giacca sportiva grigia a sottili righe rosse e blu, calzoni di finta flanella, e dato che il tono dell'invito non era né confidenziale né impersonale, scelse una sobria cravatta scura. Infine si allontanò in macchina sulla strada nevosa. La Mercedes bianca che aveva visto in fondo alla casa occupava ora metà del doppio garage. Frances ricevette Geoffrey da sola spiegandogli con disinvoltura che il marito aveva avuto degli impegni in ufficio all'ultimo momento. Sebbene indossasse una gonna ampia e vistosa, portava i capelli raccolti sulla nuca. Nell'anticamera c'erano due belle valigie. Geoffrey lanciò un'occhiata che voleva esser casuale a una stanza spaziosa oltre la porta a vetri sulla sinistra, ma fu guidato con fermezza in un'altra direzione. «Spero che non vi spiaccia se ci mettiamo in cucina» disse Frances col massimo candore. «Noi facciamo sempre qui la colazione perché è esposta al sole.» Geoffrey apprezzò quella piccola confidenza domestica. La cucina era di quelle che si vedono nelle riviste di carta patinata; a parte il lato funzionale, avrebbe potuto benissimo essere un patio coperto. Frances versò il caffè nelle tazze fiorite e le portò sul tavolino rotondo. «Non sono stata molto gentile con voi durante il nostro incontro» disse
senza preamboli. «Non vi seccherò coi dettagli di un pomeriggio massacrante, ma il fatto è che avevo un mal di testa feroce e non ci vedevo dal dolore.» «So bene cos'è» replicò Geoffrey, che di mal di testa se ne intendeva, sia pure indirettamente. Sua moglie aveva cominciato a soffrire di emicrania poco tempo dopo il matrimonio, e con frequenza tale che Geoffrey le aveva suggerito di farsi esaminare il fondo dell'occhio, al che lei aveva risposto seccamente: "la testa, vuoi dire". «E poi» riprese Frances fissandolo con gli occhi scuri «è stato per me uno shock sentirmi sventolare in faccia Erskine dopo tutti questi anni. Malgrado gli sforzi, non sono mai riuscita a cancellarne del tutto il ricordo.» Geoffrey arrossì e si agitò a disagio, poiché intuiva che la ragazza non si riferiva alla morte del padre né a quella della madre. La rivide ancora una volta apparire all'improvviso dall'orto dietro casa Creed, mentre le urla si perdevano nell'aria. A un certo punto si rese conto che nel suo racconto alla direttrice a proposito di un'ape o una vespa c'era stato un elemento inconscio. Per la frazione di un secondo, gli era parso che Frances si fosse aperta la camicetta anziché chiudersela. Il che naturalmente era impossibile, alla luce delle voci che in seguito gli erano giunte alle orecchie. «Noi non parliamo mai di Erskine» disse Frances con voce incolore. «Un errore psicologico, naturalmente, ma mio marito preferisce così.» L'importanza di tale dichiarazione era decisiva per Geoffrey. Perché avrebbe dovuto confidargli certe cose se fosse stato il loro ultimo incontro? Disse in fretta: «Sono stato avventato, ma mi ero dimenticato. A parte, sapete, cose come il Geary's Drug Store dove tutti i ragazzi...» «Bene, sono contenta di esserci finalmente spiegati» tagliò corto Frances, dimostrando un disinteresse totale nei confronti del Geary's Drug Store e scoccandogli per la prima volta un sorriso luminoso. «Sarebbe stato meglio farlo prima, ma abbiamo avuto un periodo tristissimo, qui. Mia suocera è morta di recente. Per quanto si possa essere preparati, è sempre un gran brutto colpo.» «Mi dispiace molto» disse Geoffrey compreso, e Frances, dopo avergli offerto dell'altro caffè, prese il bricco e disse: «Capisco. Vi eravate conosciuti, vero?» «Solo per un minuto.» Ricordandosi dell'umiliazione che era seguita, Geoffrey non poté resistere alla tentazione di vantarsi un tantino. «La signora Roland è stata così gentile da propormi di rivederci, ma nel frattem-
po mi sono buscato l'influenza e suppongo che anche lei...» Guardò interrogativamente Frances, che si limitò a dire: «Polmonite» e balzò in piedi. «Be', parliamo d'altro, adesso. A proposito, ho una fame da lupo, che ne direste di mangiare un boccone?» Prese tre uova dal frigorifero, insieme a un piccolo cartone di panna, e versò il contenuto in una ciotola. Geoffrey, che in queste cose era assai pignolo, non poté fare a meno di notare che qualche frammento di guscio era cascato nel composto. Sarebbe fatalmente finito nella sua porzione. Frances, servendosi di un frullino che certo non avrebbe migliorato il risultato, disse in tono invitante, voltandosi a metà: «Parlatemi di voi. Da quanto tempo vivete ad Albuquerque?» Era un'occasione che si era presentata ben di rado a Geoffrey, e lui l'afferrò al volo. Era lì da sei mesi e gli piaceva molto, benché gli riuscisse difficile incontrare gente con cui familiarizzare. "Oh, vedremo cosa si può fare in merito" mormorò Frances comprensiva. Le parlò del suo lavoro; lei ascoltava rapita. No, non era sposato... che scopo aveva parlargli della sua ex moglie, che in un simile contesto sarebbe risultata una stonatura?... e non aveva nessun progetto. Mentre parlava, l'immagine di Brett gli balenò davanti. Ma gli uomini liberi sono molto ambiti ai party, si sa. Inoltre, forse Brett non... A questo punto dovette correggersi. Malgrado la figura ossuta e i capelli biondi sforbiciati a casaccio, Brett si sarebbe mossa con la massima disinvoltura in un ambiente del genere, sorvegliando ogni cosa con gli impenetrabili occhi celesti, e imponendosi all'attenzione di tutti. Frances portò le uova e un piatto di toast sul tavolo, e Geoffrey aveva visto giusto: la sua nemesi personale fece sì che i frammenti di guscio toccassero a lui. In altre circostanze non era un problema inghiottire il corpo estraneo, magari un pezzetto di cartilagine; ma quei frammenti aguzzi e ostili sembravano rifiutarsi di andar giù. Era impossibile toglierseli dalla bocca sotto l'occhio vigile della sua ospite; d'altronde inghiottirli era come mandar giù schegge di vetro. Per risolvere la situazione addentò un toast. Frances disse a bruciapelo: «Forse vi sembrerà una domanda indiscreta, ma avete per caso ricevuto strane telefonate dal giorno che siete venuto qui? È successo qualche fatto curioso?» Sgomento, e nello stesso tempo desideroso di prolungare al massimo quel magico momento di complicità, Geoffrey prese tempo a rispondere. «No. Be', per la verità ieri sera mi ha telefonato una donna, ma poi ha riap-
peso prima di dirmi chi era e cosa voleva.» Un lampo brillò negli occhi scuri di Frances prima che li abbassasse. Geoffrey notò di sfuggita che malgrado tutta la sua fame, la ragazza aveva appena toccato il cibo. Disse sommessa: «Oh, Signore. Sarà meglio che vi metta in guardia. Resti tra noi, mi raccomando. Ho una cugina, Sarah Malcolm, incantevole a vedersi, ma...» Geoffrey si aspettava un "beve come una spugna", data la sua esperienza al riguardo. Ai suoi occhi, le belle ragazze erano un branco di tipi arroganti, tutte sussurri e sciocche risatine complici dopo un appuntamento amoroso. Sembrava quindi non solo naturale ma inevitabile che Sarah Malcolm, essendosi illusa che Blaise Roland fosse innamorato di lei, gli avesse giurato vendetta quando lui aveva sposato Frances, molestandolo in tutti i modi: spiando la casa, chiamando Roland nel suo ufficio per riferirgli anche la presenza più casuale di qualsiasi uomo, estendendo il suo rancore in tutte le direzioni. «Pensate, avevamo un ottimo lattaio» disse Frances con mestizia. «Cinquant'anni, zoppo, pover'anima. Un bel mattino, con una temperatura sotto zero, arrivò qui col suo furgoncino. Cianotico per il gelo. Io l'ho fatto entrare per dargli una scodella di minestra calda, perciò suppongo si sia fermato una ventina di minuti. Proprio non so se ci sia lo zampino di mia cugina: ma fatto sta che il giorno dopo è stato trasferito in una zona orribile, dove la gente tiene un cane feroce per difendersi.» Parlando, stava facendo scorrere la punta del dito sulla V della rossa cicatrice recente che le spiccava vicino all'occhio, e che Geoffrey aveva notato fin dal suo arrivo. Disse, fissandola allibito: «Non... non vi avrà mica aggredita, per caso?» «Oh, no. È stato un incidente» rispose Frances con fermezza, e abbassò la mano così in fretta che Geoffrey ebbe la certezza che era una bugia. «Per la verità, Sarah è più che normale sotto tutti gli altri aspetti. Mi è parso di averla vista passare in macchina l'altro giorno, mentre eravate qui, perciò ho detto a Blaise che vi eravate fermato per chiedere delle indicazioni. Perché, povero figliolo, dovevo lasciarvi cascare nella sua ragnatela? Probabilmente non farà nulla per procurarvi guai, ma ho pensato che fosse meglio mettervi in guardia. Il suo analista sostiene che sta facendo progressi, ma certe cose non si guariscono così, in quattro e quattr'otto.» Per Geoffrey, frequentare l'analista significava essere a un passo dalla camicia di forza. Non sapeva immaginare quali menzogne Sarah Malcom,
avrebbe potuto costruire sul suo conto, anche ammesso che avesse preso il suo numero di targa e scoperto la sua identità (beveva pochissimo, e le sue uniche infrazioni si limitavano a qualche contravvenzione), però aveva perso così tanti posti che voleva tenersi ben stretto quello che aveva ora. Brett aveva frequentato assiduamente la sua casa mentre era ammalato, e agli occhi di un osservatore superficiale poteva sembrare una minorenne. Questo era un punto da chiarire se ci fosse stata una contestazione, ma certe cose sono destinate a lasciare tracce, si sa. Era vero che il suo non era un pubblico impiego, ma pure... Lanciò un'occhiata apprensiva fuori, alla sua auto. Frances disse rassicurante: «Niente paura, stamattina è occupata, però sarà meglio che ve ne andiate. Vi darò un colpo di telefono quando torniamo, va bene? Abbiamo un mucchio di amici simpatici e ve li faremo conoscere.» Geoffrey si aggrappò a quel pensiero mentre guardava la macchina di Sarah Malcolm con quel mostruoso cane seduto al volante... Chissà se aveva pensato di scaraventarglielo addosso...? Non avendo mai avuto una vita sociale, non poteva certo immaginare come si sarebbe configurata, però sapeva con certezza di dover rinunciare all' idea di un macchina nuova, almeno per il momento, accontentandosi di qualche ritocco a quella che aveva. Per ora doveva imparare a bere qualcosa di più di uno sherry dolce. Doveva iscriversi a un circolo sportivo. Doveva... Un colpo bussato alla porta lo fece sobbalzare, ma era soltanto Brett; reggeva una pentola che mise sul fornello senza spiegazioni. Per la prima volta da quando la conosceva indossava una gonna fluttuante. «Chi era?» Geoffrey avrebbe voluto dirglielo, ma Frances gli aveva chiesto di tacere e per nulla al mondo avrebbe voluto contrariarla. «Mah, una tale convinta che avessimo una conoscenza in comune» rispose, toccandosi la tempia con un gesto significativo; fin lì, poteva permetterselo. «A me veramente è sembrata sanissima» ribatté Brett. «Be', invece non lo è» ribatté Geoffrey seccato, e si accorse allarmato di essersi sbilanciato troppo. «È già stata qui prima, vero? Ti ha fatto domande sul mio conto?» Uno strano sorrisetto piegò la labbra di Brett. «Nessuna domanda.» La risposta, accompagnata dal sorriso, provocò Geoffrey anziché rassicurarlo. «Se si fa vedere ancora, sappi che non voglio aver niente a che fare con lei.»
«Non ci saranno altre occasioni. Torno a casa domattina.» Geoffrey la fissò sbigottito. In quel breve periodo, lei era diventata familiare per lui, una sorta di punto fermo nella sua vita benché quella sera, con quella camicetta bianca increspata al collo e ai polsi che metteva in risalto il collo sottile e le lunghe dita, lei gli apparisse diversa. Reagì protestando come un bambino. «Ma non puoi andartene così... cosa faccio, se mi ammalo un'altra volta?» "Casa", lui lo sapeva, era Fort Wayne nell'Indiana, dove divideva un appartamento con un'altra infermiera. E probabilmente se la sarebbe spassata coi medici interni; tutti sapevano che razza di tipi fossero. Si riprese con dignità, benché la faccia delusa e smarrita fosse eloquente. «Be', ci resta ancora qualche ora. Ridi pure se vuoi» disse severamente «ma si dà il caso che io sappia che quella ragazza è un'intrigante della peggior specie. Infatti...» S'interruppe, annaspando per trovare il modo d'impressionare la scettica Brett, e la figura di Sarah Malcolm, schietta e trepidante sulla soglia di casa sua, si fuse con l'immagine maligna che la cugina si era premurata di descrivergli. Le parole che trovò ebbero il potere di spaventarli entrambi. «È pericolosa» disse con un brivido non certo simulato. «È capace di saltarti agli occhi, quella lì.» 12 La comunicazione telefonica da New York era parecchio disturbata, di modo che la voce di James giunse a Sarah tra una serie di interferenze rumorose. Suo padre l'aveva scampata bella, spiegò James; ora il periodo critico era superato, e lui si trovava all'aeroporto in lista d'attesa. «Questo volo pare non sia completo, perciò probabilmente...» Una voce s'inserì. "Ciao. Harv sta salendo di sopra coi suoi uomini. Volevo solo dirti che entro due giorni sarà messo tutto a tacere..." «Come vanno le cose lì, Sarah?» «È stata lei, James» rispose stancamente Sarah. «Ci sono troppi...» "Ma che razza di comunicazione è questa? Sei lì, Grace?" disse una voce ignota. "Akron dovrà assentarsi una giornata, perciò passerò martedì notte con Marge e Howe anche se questo implica un regalo di compleanno per quel loro insopportabile moccioso..."
«Sarah, sei sulla pista sbagliata» tagliò corto James. «Io ho un cognato che... be', lasciamo perdere. C'è stato un altro incidente con una ragazza, a Chicago.» L'assoluta certezza della direttrice dell'accademia... ma Roger Creed non era certo il primo a presentare false credenziali. Era facile procurarsi qualunque genere di documento se sapevi a chi rivolgerti. Un nuovo rumore disturbò la comunicazione. «Stanno chiamando le persone in lista d'attesa» disse frettolosamente James, e: «Ho una copia del ritaglio di giornale, te la porto stasera. Ti amo, Sarah» e riagganciò. Quando ebbe riappeso il ricevitore, Sarah si aggirò stordita per la stanza. Separò mentalmente l'ultima frase di James dal contesto della conversazione, così come avrebbe difeso un neonato dal contagio. Tutto un equivoco, dunque? Il patrigno di Sarah un uomo corrotto e vizioso che viveva in costante fuga da sé stesso? Nancy Pike sana e salva in qualche posto, Dorothy Ritter e il suo frusto paltò scozzese solo una macabra coincidenza? Geoffrey Norval un uomo timido e nevrotico, un misogino, i cui contatti con la defunta signora Roland erano inesistenti? Quanto alla scomparsa della 22 di Blaise, poteva essersi trattato di un furto da parte di ladri qualsiasi. Era vero che la signora Roland non aveva mai voluto bene a quella nuora indesiderata, e certo doveva essersi accorta che quel matrimonio era tutt'altro che idilliaco, ma questo non significava necessariamente che avesse cercato un modo di interferire, e quindi che Fen, ben decisa a conservare ciò che si era conquistata con tanta fatica, avesse deciso di armarsi. Perché il sangue di Sarah si ribellava? Aggirandosi distrattamente era arrivata in fondo al soggiorno. Si era trovata in quel punto già due volte prima d'allora, la prima volta senza uno scopo, la seconda volta curva in una ricerca meccanica con un'impressione d'inutilità. Anche se quella strana ragazza in un impulso improvviso avesse deciso di nascondere qualcosa lì per metterlo al sicuro, qualcosa di piccolo, tutt'altro che ingombrante, le probabilità di ritrovarlo trascorso un certo lasso di tempo sembravano assai remote. Non aveva pensato alla violetta africana, ora la portò in cucina. Con ancora nelle orecchie l'eco della voce di James che diceva con fermezza che era sulla pista sbagliata, si sarebbe dovuta sentire assurda mentre introduceva il coltello intorno al margine del vaso estraendone la pianta per esplorare il terriccio, e invece non si sentì affatto ridicola. Affrontò poi la fila di volumi sorretta dai due candelabri le cui cavità a-
veva già esplorato. Precedentemente si era accontentata di sfogliarne di volata le pagine; questa volta, malgrado la cura minuziosa, fece ugualmente fiasco. Fen però era rimasta disorientata per essere stata interrotta nelle sue ricerche l'altra mattina. Sarah prese la copia di Vogue che la signora List aveva sfogliato la sera prima e si mise, a esaminarla; si accorse che era stato un gesto casuale per ingannare l'attesa. C'era un elemento che forse a Fen era sfuggito: a parte i titoli della rivista la governante aveva per la lettura la stessa avversione che i profani nutrono per la matematica a livello superiore. Nel vialetto carrozzabile si era fermata una macchina. La portiera sbatté. Una voce, quella di Fen, salutò Odino. Sarah si sentì afferrare dal panico anche se era giorno inoltrato e, per quel che Fen ne sapeva, James poteva girare l'angolo da un momento all'altro. Cercare di nascondersi significava dare ancor più nell'occhio; sarebbe stato più pericoloso che aprire la porta. Raccolse quindi la pila di riviste, corse nel bagno più vicino, le gettò nella vasca, aprì la doccia e prima che fosse battuto il secondo colpo, era alla porta. «Ciao» disse Fen, vispa e pimpante nello sfondo ancora innevato. «Passavo di qui e ho pensato di fermarmi a chiederti scusa per essermi comportata da vera carogna. Ho avuto una mattinata d'inferno... Strano, avevo quasi la sensazione che tu m'invitassi a sedermi.» «Siediti» disse Sarah confusa. Un pensiero la colpì, un pensiero sul quale fin lì non si era mai soffermata: Blaise doveva essersi accorto dello strano comportamento della moglie e si era dato all'alcol per non pensarci. «Mi ero preparata per una sfilata di mode di beneficenza seguita dal breakfast» spiegò Fen, accarezzandosi lo chignon «e poi è saltato fuori che durante la notte il nostro telefono era rimasto isolato, perciò invece mi è toccato starmene seduta ad aspettare che il tecnico venisse a ripararlo. Non c'era una vecchia filastrocca su un guardasigilli di Wichita? Forse il nostro è venuto di laggiù, a piedi, per giunta. Be', come hai superato la bufera di neve?» Questa, pensò Sarah, era la riprova che non c'erano stati contatti tra lei e la governante e di conseguenza nessuna possibilità che avesse potuto influenzare Geoffrey Norval. Lei non lo credeva, pur avendo la certezza che un'indagine presso la società dei telefoni avrebbe rivelato una telefonata a casa Roland, partita dall'ufficio di Blaise.
Sperò che il suo scetticismo non trapelasse. Disse: «A proposito di vecchie filastrocche, ho avuto qui la signora List a rallegrarmi con la sua compagnia...» Fen l'ascoltava con divertito stupore. «Dev'essere stata una serata interminabile» osservò. «Sei andata in giro a far compere oggi?» Era allegra, comprensiva, eppure così vigile benché la sua espressione fosse rimasta inalterata, al punto che Sarah azzardò: «No, Odino era stufo di farsi scarrozzare. Mi sono fermata a cercare un certo Norval in Margot Road. Credevo fosse quel tale che la signora Roland mi aveva nominato un mucchio di volte, un anziano pensionato, ma invece deve avere poco più di trent'anni e» soggiunse Sarah, assorta «mi è parso piuttosto strano, a dir poco.» Fen la fissò attentamente ma non fece commenti. «Che libro stavi cercando? C'è un'enorme biblioteca, a casa.» «Le campagne di Napoleone» rispose Sarah senza esitazioni. Era il titolo che un collega dell'agenzia aveva cercato di rintracciare e che si trovava solamente nelle edizioni tascabili. «Per James.» «Ci darò un'occhiata, sembra quel genere di roba che la signora Roland leggeva prima della colazione» disse Fen, alzandosi in piedi. «A proposito, quando torna James? Devi sentirti sola e abbandonata.» Un brivido scorse lungo la schiena di Sarah; era come se il suo occhio sempre vigile l'avesse messa in guardia tutto il tempo. Senza darle il tempo di rispondere, Fen disse col tono di chi dà una caramella a una bambina per consolarla: «Non sto ficcanasando, è solo che dei nostri amici hanno comprato un terreno e hanno in mente progetti ambiziosi: cinque stanze, piscina coperta, un mucchio di lavori insomma, e io ho pensato che potrebbe occuparsene James. Era fuori città quando ho telefonato, e non sapevano quando sarebbe rientrato.» «Sta arrivando, per l'appunto.» Un'occhiata all'orologio l'avrebbe informata che l'arrivo era imminente, ma Sarah non lo portava quasi mai né c'erano orologi nel soggiorno. Fen aveva aperto la porta d'ingresso e stava guardando Odino, tutto intento a sgranocchiare un gigantesco osso sul prato. «Ti seguirei con una gamba sola» rise, e se ne andò. Era una citazione che risaliva ad anni addietro, un consiglio confidenziale sul modo di comportarsi con un corteggiatore assiduo a un party, e per lungo tempo l'avevano adottata a proposito e a sproposito; una specie di lessico famigliare.
Lasciare che Fen la facesse franca? Roger Creed era ormai polvere, Dorothy Ritter un'estranea. Se la morte della signora Roland era stata anticipata, non doveva esserlo stata di molto e. doveva essere stata indolore, a parte lo sforzo disperato di respirare e forse una breve, terrificante consapevolezza che la sua fonte di vita era stata soppressa. Geoffrey Norval era vivo e vegeto, e probabilmente non gli sarebbe successo nulla, ora che era stato nominato tra loro. L'incidente nell'orto chiuso per sempre. Ma allora un'altra frase, letta di recente in un annuncio pubblicitario di una compagnia d'assicurazioni, le balenò davanti. "Perdita accidentale della vita"... che razza di termine orripilante era, a esaminarlo bene. Ho perso il portafogli. Ho perso l'orecchino. Ho perso la vita. La luce proveniente dalla porta faceva spiccare la rossa cicatrice sulla tempia di Fen mentre se ne stava là a citare una frase che le accomunava nei ricordo dell'adolescenza. Doveva essere stato ben doloroso, dopo aver scagliato un altro pezzo dalla porta precedentemente mandata in frantumi, tracciare con una scheggia acuminata un solco profondo nella carne, e poi tirar fuori di casa Sarah nella notte, denunciare alla polizia l'atto di violenza di uno sconosciuto. Chi si sarebbe meravigliato se in preda al panico lei avesse sparato per difendersi da quello che sembrava essere un secondo attentato? Doloroso sì, ma non così pericoloso come la calcolata caduta che aveva lasciato gli astanti col cuore sospeso, quella caduta con cui Fen era entrata nella vita dei Malcolm, nel bene e nel male? Nel bene? Dopo avere cercato d'ingannare la propria madre e una donna matura che pure aveva esperienza in fatto di ragazzine in qualche maniera incomprensibile che era il perno di tutta la faccenda. Andando a togliere dalla vasca le riviste e i cataloghi, Sarah fu folgorata dal pensiero che sebbene si fosse detta e ripetuta che Fen non poteva sapere con certezza di essere sospettata, non era vero. I rivali, e loro lo erano state per un certo tempo, avevano una sensibilità particolare l'uno nei confronti dell'altro, più di quanta ne avessero gli amici. Se lei era sicura sul conto di Fen, Fen doveva essere altrettanto sicura di lei. New York era fredda e piovosa. Dati i suoi commenti scherzosi sull'indebolimento della stirpe, l'uomo di mezza età seduto accanto al finestrino del volo 221 evidentemente si aspettava che gli fosse chiesto dove si era
procurato quella splendida abbronzatura, ma James era troppo teso per attaccare discorso. Fosse almeno riuscito a convincere Sarah... Avrebbe almeno aspettato la copia del ritaglio che conservava nella tasca interna? A mille miglia di distanza non era stato possibile influenzarla. Non si può dare a un bambino che sta affrontando il traffico una lezione teorica sul numero dei pericoli in agguato. Se Sarah si fosse lasciata sfuggire con la cugina la minima allusione a quella nuova, meditata certezza... Fen Roland, seduta di fronte a lui a colazione, nell'atto di gettare indietro il cappuccio color porpora che lui aveva descritto a Sarah in un tono tra il divertito e l'ammirato, perché bisognava fare qualcosa per stimolarla a uscire dalla sua passiva accettazione di quello che Fen era capace di farle, senz'ombra di dubbio. Gli sembrava che una maggiore consapevolezza di quella forza l'avrebbe aiutata a esorcizzarla e che, legata com'era all'antica lealtà, avrebbe dovuto aprire gli occhi da sola. Allora non c'era stato nessun elemento a parte un suicidio che sconfinava nel delitto, o la probabile eliminazione di una persona emersa da quello stesso passato. Né Fen si era comportata come una "testamatta", quel giorno; era tutta seria e compresa. "Mi domando se è stata una buona idea, tutto sommato." Sventolargli davanti un enigma e poi fare come se nulla fosse? "Come avrete notato" aveva detto James "io sono molto innamorato di Sarah." "Ebbene, allora" un sospiro e un leggero tocco al cerotto a forma di stella che le spiccava vicino all'occhio "questo non è stato un incidente, e io non intendo dire una parola di più in proposito. Tranne che stavolta mi sono spaventata veramente; ho chiamato la polizia e ho raccontato loro una storiella perché non volevo... vedete, Sarah è mia cugina, e i suoi genitori mi hanno dato una casa. Quando torna in sé dopo aver perso l'autocontrollo è tutta lacrime e rimorso; quella sera poi ha voluto prepararmi una bibita, era piena di premure e ha insistito per fermarsi a dormire a casa mia". "Dopo aver perso l'autocontrollo" aveva ripetuto James, cauto. Provava una strana repulsione per l'ondata di magnetismo che emanava dall'altro capo del tavolo. "Ma perché Sarah si comporta così?" "È chiaro. Non mi ha mai perdonato di averle portato via Blaise. Oh, non fraintendetemi, sono certa che la continua presenza di lui a casa sua è colpa di Blaise quanto di Sarah. Forse più di Blaise che di Sarah." Maggiore era la sua magnanimità, più profonda la pugnalata. "Perciò naturalmente io
sono diventata un mostro. E sono convinta che non si tratti tanto di Blaise in sé, quanto del fatto che Sarah non aveva mai avuto smacchi nella sua vita e perciò non riesce a superarlo." Gli aperitivi erano arrivati. A James piaceva lo scotch ma di rado ne sentiva il bisogno fisico; in quel momento, era stato addirittura terapeutico. Nel breve intervallo prima di posare il bicchiere aveva cercato di trovare una risposta al motivo che aveva spinto un uomo a lasciare Sarah per questa ragazza. Forse il contrasto tra la bruttezza dell'una e la bellezza luminosa dell'altra aveva risvegliato in Blaise un istinto di protezione? L'atteggiamento malizioso e scanzonato di Fen non era forse una difesa nei confronti della superiorità di Sarah? Quel rievocare piccoli episodi che sembravano scaturire da una scatola senza fondo? Fen era stata a osservarlo con una punta d'impazienza. "I ragazzi" aveva ripreso "e in seguito i professori, tutti ai suoi piedi, bastava che muovesse un dito. Il mondo era suo. Comprensibile, ma guai a infrangere certe regole!" Un cameriere si era avvicinato col blocchetto. James, dopo avere interpellato Fen, aveva ordinato la colazione. Provava un vago malessere. Non credeva alla violenza di Sarah; doveva trattarsi di un'invenzione da parte di Fen. Ma Blaise, l'altro componente? «Chet Merwin» si presentò il grassone seduto accanto a lui, porgendogli improvvisamente la mano, poi, quando James gli tese la propria e si presentò con una certa riluttanza: «Ragazzo mio, questo tempaccio è sempre uno shock per chi proviene dal sole di Miami Beach!» James osservò con garbo che il tempo era buono, tenuto conto che era inverno. «Io viaggio in costume da bagno con le signore, e di solito cerco di concludere qualche affaruccio laggiù quando nevica» disse Merwin compiaciuto. «Intrattenere clienti e così via... Bisogna farlo, no?» Ammiccò. «Ne ho intrattenuta una, ad ogni modo, ed è una cliente.» Era il genere di viaggiatore loquace che si trova in attesa di ogni volo. Vagava in giro per i night club e le discoteche, e accompagnava le descrizioni con ampi gesti finché James, infastidito, chiuse il libro al quale aveva dato solo qualche occhiata sporadica. «Vogliate scusarmi» disse con fermezza «ma ho del lavoro da sbrigare.» A causa della partenza affrettata per New York si era veramente portato dietro delle carte. Le tirò fuori e le esaminò. Ma l'immagine di Sarah si sovrappose. Le lancette dell'orologio sembravano sempre ferme nello stesso
punto, e così pure il jet. Merwin si sporse incuriosito. «Preferisco il cinema» squittì. Qual è il vostro campo? James lo fulminò con un'occhiata. «Faccio l'agente del fisco» rispose. «Volete ripetermi il vostro nome, signore?» Esitando, poiché era ancora sotto l'impressione delle proprie scorribande in Florida, Merwin impallidì sotto l'abbronzatura. Balbettò qualcosa a proposito di una birra, poi scavalcò James e si dileguò nel corridoio. James non era mai stato capace di dormire a bordo di un aereo. Adesso, forse per reazione alla nottata in bianco passata all'ospedale, alle riunioni di parenti ansiosi e preoccupati nell'appartamento della Sessantatreesima Strada, ci riuscì. Nel sonno rivide il chirurgo; aveva operato Fen Roland e a parte un occhio scuro rimasto scoperto, la sua faccia era ridotta a una maschera bendata. Blaise Roland se ne stava lì nei paraggi, infervorato in una discussione con l'insegnante di terza liceo, la signora Kemp. Domandò loro se avessero visto Sarah, ma nessuno parve badargli. Si svegliò con una sensazione di malessere. Gli era stato portato il vassoio e su di esso figuravano un rotolo di prosciutto, una fetta di formaggio avvolta nel cellophane, una busta di mostarda, insalata, e un budino di crema venato sinistramente di rosso. «Mentre dormivate, ho pensato di ordinarvi uno spuntino» spiegò il grassone, trepidante. «Mille grazie.» Vergognandosi un po', James tenne d'occhio il corridoio e non appena se ne presentò l'occasione ordinò due birre. Adesso era completamente sveglio, ma non riusciva a liberarsi dell'impressione che nel sogno Sarah era scomparsa e nessuno se ne preoccupava. Una piccola complicazione. Allacciare le cinture. Merwin, preoccupato, protestava per le pressanti richieste di lavoro. Alla fine James disse: «Agente del fisco, ho detto? Avrei dovuto dire architetto, in realtà.» Era un grande sollievo avere un cognato che a sua volta aveva un amico intimo, un ex poliziotto che dirigeva un'agenzia d'investigazioni private. James non aveva indagato sui metodi usati o sulle ore impiegate, ma rispetto al miracolo compiuto, una notizia sul conto di Roger Creed su un giornale di Chicago, il conto era stato modico. La comunicazione era stata breve e disturbata, perciò non aveva potuto comunicare a Sarah l'ora dell'arrivo; la voce sottile di lei era stata sopraffatta dal vocione sonoro che si era inserito per parlare di Akron, Marge e Howie. Se non era a casa, lui l'avrebbe aspettata nel vialetto carrozzabile; o
meglio: sarebbe andato a casa Roland per assicurarsi... Infastidito dalla voce molesta di Merwin che ora lo stava fissando con palese ostilità, si sporse a guardar fuori nell'oscurità. Ma quanto ci mettevano ad apparire le luci dell'aeroporto di Albuquerque, insomma? 13 Scorrendo le ultime pagine della rivista che aveva sfogliato attentamente, pagina dopo pagina, sobbalzò come se all'improvviso le fosse apparso un serpente. Era così semplice, pensò Sarah colpita dieci minuti dopo. Così spaventosamente semplice. E così ovvio. Perché a suo tempo nessuno...? C'erano due semplici risposte. In base a un tacito accordo l'incidente tra Frances Nichols e il patrigno era stato messo a te-cere; i pettegolezzi non avevano importanza. Nell'incontestato suicidio di Roger Creed la polizia si era limitata a prendere atto dei fatti anziché svolgere delle vere e proprie indagini. Erskine era una piccola città, e tutti si conoscevano almeno di nome. Un ministro battista, se ce ne fosse stato uno nel caso, sarebbe stato accettato per quello che era. Del sindaco, un tipo virile, ex campione di calcio, a nessuno sarebbe mai venuto in mento di sospettare che di tanto in tanto si divertisse a indossare i vestiti della moglie. Bastava salvare la facciata. Non c'era stato, tutto sommato, quello spietato frugare e scavare che segue ogni delitto. L'altra risposta era che le persone interrogate non sempre dicono la verità. Cosa fare ora della bomba che Sarah aveva in mano? Non si potevano chiamare prove nel vero senso della parola, benché, unite alla memoria formidabile della direttrice, potessero rappresentare un pericolo. E, a ripensarci, quando la ragazza dal paltò scozzese aveva estratto dal flacone le due compresse d'aspirina, era escluso che lo avesse fatto con indosso i guanti. Come prima mossa per l'identificazione la polizia doveva aver preso le impronte digitali di Dorothy Ritter. Pericoloso avere in casa la rivista, sia pure per quelle due ore che mancavano all'arrivo di James, anche se Fen era già venuta e andata via. Sarah la portò nella stanza delle pompe e la nascose dietro alla caldaia. Tornata in casa, richiuse la porta a chiave. Quel gesto, che di solito si compie solo la sera, era la riprova della sua
fredda consapevolezza circa quello che Fen era capace di fare. "Hai comprato la pistola?" Teoricamente, per quel che ne sapevano Blaise e forse anche Millie Crouch, Sarah poteva essere in possesso anche lei di una pistola. Cosa sarebbe successo se ci fosse stata una colluttazione a causa di quest'arma fantomatica, e una vera pallottola le avesse fracassato il cranio come a Dorothy Ritter? Se Fen si era liberata definitivamente della pistola di Blaise, non era certo un problema per lei procurarsene un'altra. ... Dorothy Ritter, alias Nancy Pike, come un corpo astrale che rientra nel suo involucro di carne e ossa. Cosa le aveva detto Fen, nella macchina ferma nel buio del vialetto carrozzabile, quella sera? "Aspettami qui, ti prego. Voglio sapere tutto di te, ma prima devo mandare a letto mio marito; potremo parlare meglio senza che nessuno ci disturbi..." Quanto a Blaise, date le condizioni in cui si trovava, qualunque spiegazione lo avrebbe convinto. La donna in attesa nella macchina era quella noiosa Tal dei Tali, Fen avrebbe voluto sbarazzarsi di lei ma "Non voglio che nessuno ti veda in questo stato. Qua, prendi una di queste compresse, altrimenti domattina ti sveglierai con un mal di testa potente". Un sonnifero? Fen ne faceva uso, e una compressa di barbiturico dopo l'alcol le avrebbe dato ore di tempo per manovrare... ma prima, avendo saputo che Dorothy Ritter aveva ottenuto da Sarah il suo nome da sposata e l'indirizzo, avrebbe cercato di scoprire esattamente da Blaise cosa era successo lì. Poi l'incontro promesso, nel corso del quale Dorothy Ritter aveva chiesto denaro, in cambio del silenzio su quanto era successo a Erskine sedici anni prima. Non esplicitamente, magari, ma buttandola lì attraverso una maligna allusione ai vecchi tempi. Una rivelazione che, se resa nota, avrebbe fatto crollare per sempre il mondo dorato di Fen. Poteva negare, ma certe cose ti restano fatalmente appiccicate addosso. Blaise, scoprendo quello che aveva fatto a dodici anni, avrebbe ricominciato a interrogarsi sulla morte della madre. Sul modo in cui Fen l'aveva blandita quella sera, si potevano soltanto fare delle congetture. L'offerta di una baita in montagna dove avrebbe potuto passare la notte e parte del giorno successivo mentre il denaro veniva racimolato all'insaputa di Blaise? "È un'operazione complicata, sarà meglio che tu mi segua." Tutto questo implicava una grande ingenuità da parte di Dorothy Ritter, ma il bisogno di quattrini era evidente, e poi i ricattatori, si sa, non sono tipi lungimiranti, giocano d'azzardo. E, dato che non era pratica della regio-
ne, non poteva avere immaginato che era stata portata in un posto assai isolato. Sarah si domandò se, in un'estrema supplica per la propria vita, la ragazza avesse confessato affannosamente di avere nascosto le prove in un posto dove Fen non le avrebbe mai trovate. "Torniamo. Le troverò e te le consegnerò, e ti giuro che non ti molesterò mai più." Ma quelle parole dovevano averla spinta semmai a premere il grilletto. Fen, che era in possesso della chiave di casa Malcolm, aveva già scoperto per mezzo di Blaise molto più di quanto aveva bisogno di sapere. Sì, doveva essere successo qualcosa di simile. La polizia però era convinta che Dorothy Ritter fosse in compagnia di un uomo, e doveva avere le sue buone ragioni. Nel giardino, Odino abbaiò per annunciare l'arrivo di una macchina. A volte abbaiava per annunciare l'arrivo di Bonnie che accompagnava la signora List, ma quando Sarah guardò terrorizzata fuori dalla finestra, scorse solo una Continental color crema, targata Texas, far manovra nel vialetto con stridio di pneumatici. Tuttavia, quella scintilla di panico era come un avvertimento: Non stare qui, dove sarebbe logico trovarti. Con la sensazione angosciosa del tempo che passava inesorabile, ora che la conclusione era raggiunta, Sarah chiamò Odino e gli diede il suo pasto. Dal gusto con cui lo divorò, era chiaro che il suo osso rubato aveva solo il valore di una conquista. Sarah aveva indosso il paltò e le chiavi della macchina in mano quando il telefono squillò. Ignorarlo? Sarebbe stato pericoloso come permettere che un nemico vagasse in giro inosservato. Sollevò il ricevitore, aspettandosi una chiamata d' emergenza da parte di Fen, ma era solo la nipote della signora List. «Potrei parlare con zia Edith?» Il "braccio destro". Sarah trasalì. «Non è qui, Bonnie, e per quel che ne so io non aveva in programma di venire.» «Ah! Mi sembrava che Ed avesse detto...» Non terminò la frase, lasciando Sarah in un mare d'incertezza. «Avete provato da Fen?» «Il telefono dei Roland non risponde. Be', aspetterò che torni a casa» disse Bonnie con tono da martire, e riappese. Entrambe libere, pensò Sarah con un brivido, e dopo aver lasciato Odino a guardia della casa si precipitò fuori nel freddo pomeriggio.
«Cosa fate con quella?» Era la prima volta che Fen usava quel tono con la signora List. Si voltò, interdetta, tendendo la borsetta in vitello nero, aperta, e indicando il lungo armadio con l'anta scorrevole. «Dev'essere caduta dietro a quello scaffale ed essersi impigliata in un gancio. Ho pensato che poteva appartenere a una delle infermiere.» Le loro voci echeggiavano nella stanza da letto semivuota della signora Roland, come nel resto dell'appartamento riverniciato in un pallido avorio, privato del suo confortevole bric-à-brac. Restava solo il letto dalla testata di mogano, insieme al grazioso comodino, al cassettone, e a una poltrona imbottita, che, privata della fodera, si era rivelata di un bel color giada. Il pavimento in piastrelle spagnole, lavato a lustrato dalla signora List una settimana prima, brillava alla luce delle due porte-finestre; i tappeti erano ancora in tintoria. I tendaggi si trovavano ancora nelle borse di cellophane in cui erano stati consegnati, ed era stato in uno di quei ganci che si era impigliata la cinghia della borsetta in vitello nero quando la signora List le aveva estratte dallo scaffale in basso, dove erano state riposte. Ora se ne stava impietrita come se una mano amica le avesse allungato all'improvviso uno schiaffo che ancora bruciava. Fen, apparentemente dimentica, frugò nella borsetta e ne estrasse uno degli inalatori senza i quali la signora Roland non si azzardava mai a uscire. «Una delle infermiere più asmatiche, senza dubbio.» Sempre quella strana voce, fredda e mordace. «E questo?» Lasciò ricadere l'inalatore e tolse dalla borsetta un foglietto strappato da un'agenda. Fin dal principio, da quando cioè era venuta a dare una mano nell'assistenza della signora Roland, la List ne aveva visto molti di quei foglietti nei posti più impensati: pro-memoria, pensò, per una mente che andava facendosi sempre più labile. Su questo era stato scarabocchiato un indirizzo e, circondato da un cerchiolino: "schw F". «Povera donna» sospirò Fen, appallottolando il foglietto, e poi: «E qui, cosa c'è?» Aveva aperto una lampo, e stringeva in pugno due banconote nuove. Erano quel genere di biglietti che i Malcolm solevano infilare in una busta a Natale per il postino, il lavandaio, gli spazzini, tranne che questi erano biglietti da cinquanta dollari. «Bene, bene.» Nulla nel tono di Fen tradiva la consapevolezza che, durante i lunghi mesi che avevano preceduto la sua morte, la signora Roland
si era messa in viaggio come un capo di stato, portando con sé il libretto d'assegni ma nessun contante. «Dividiamoci il tesoro, eh, Tata? Vi meritate la mancia per averlo trovato.» Di colpo aveva ritrovato il suo tipico tono scanzonato; ma la signora List era ancora offesa, ferita. Rispose freddamente: «Non dovresti trattarmi così, Fen. Sai bene che di me ti puoi fidare ciecamente.» Poi si voltò e riprese a togliere i tendaggi dalle borse di cellophane. Alle sue spalle, Fen era chiusa in un assorto silenzio. Infine disse allegramente: «Che bellezza, essere ricchi. Dovrei aiutarvi a tirar fuori quella roba ma devo incontrarmi con Blaise nella Old Town; c'è un party perciò sarà meglio che mi prepari.» Agli occhi di un'altra persona, la garbata chiusura della porta che conduceva all'ala principale della casa avrebbe potuto suggerire l'idea di qualcosa tenuto sotto il più rigido controllo. La signora List, per la prima volta nella sua vita accusata bruscamente da un membro della famiglia Malcolm, non era in vena di distinguere le sfumature. I ganci e le bacchette erano sul cassettone; lei sedette sul letto e prese a infilarli nella pesante seta a disegni verde salvia e crema. Non ci voleva molto a capire che la borsetta nera era stata nascosta lì di proposito e non da Fen; era bastata un'occhiata alla sua faccia sorpresa per escludere che l'avesse fatto lei. Così come la governante era sicura che la borsetta di coccodrillo marrone era l'unico posto in cui la signora Roland teneva il denaro liquido. La signora List aveva accettato la borsetta senza esitazioni: non era certo di foggia adatta a una donna giovane e così pure l'anello con l'opale che, secondo quanto aveva assicurato Fen, era stato destinato a lei dalla signora Roland. E del quale aveva detto quella mattina, quando la signora List l'aveva chiamata per riferirle la telefonata di Sarah al signor Norval: "Spero che non aveste l'opale al dito". "No, non ce l'avevo." Era vero, e non c'era bisogno di dire che Sarah l'aveva visto in un'altra occasione. A cosa servivano i gioielli se non si potevano esibire? "Meglio così, perché chissà, forse Sarah se lo aspettava come ricordo." Il ricordo del mattino dopo... Dopo la morte della signora Roland, in un qualche momento nel cuore della notte, terminò dentro di sé la signora List. Quella era l'ora tipica in cui gli anziani malati spiravano. Ciò non aveva necessariamente a che fare con quell'interludio fatto di rumori attutiti pochi minuti dopo le tre, un interludio che lei aveva definitivamente seppellito la sera prima a casa di Sa-
rah, e che tuttavia continuava a riaffiorare di tanto in tanto. Il suo risveglio sul divano letto del soggiorno della signora Roland, non certo dovuto al tintinnio penetrante del campanello che l'ammalata era abituata a usare prima di addormentarsi, qualcosa di indefinibile... Adagio, nel timore di svegliare la paziente, era andata a piedi nudi fino alla porta della stanza da letto, e l'aveva aperta furtivamente. Al tenue bagliore della lampada da notte che consentiva alla signora Roland di trovare il campanello, Fen, in vestaglia, sottopose alla sua attenzione la spina della bombola a ossigeno sul suo supporto. "Tata!" Un sospiro di sollievo. "Andate a prendere il nastro adesivo nel cassetto della scrivania, per favore. Questo aggeggio stava andando a vuoto: fortuna che l'ho sentita tossire e mi sono alzata subito." La signora List non aveva sentito niente prima, però c'era da dire che non era abituata al brandy prima di cena; era forte, e le aveva dato un calore diffuso. "Sta bene, ora?" I polmoni della signora Roland dovevano aver suscitato una reazione in lei, pur essendo immersa nel sonno procurato dai sedativi; nelle sue narici c'erano ancora le cannule dell'ossigeno ma i capelli candidi erano appiccicati alle guance come se avesse girato disperatamente la testa di qua e di là sul guanciale. Fen, dicendo: "Sì, il polso è forte", glieli aveva spazzolati delicatamente all'indietro. "Presto, Tata. Se resto alzata ancora un po' non torno più a letto." Quando la signora List era tornata col nastro adesivo e ne aveva applicato delle strisce sulla spina della bombola a ossigeno, la paziente si era spostata leggermente sul fianco, via dalla tenue luce. Fen, il dito accostato alle labbra, l'aveva chiamata con un cenno avviandosi in punta di piedi verso la porta di comunicazione. "Le ho dato un bicchier d'acqua, perciò dovrebbe essere a posto per qualche ora" aveva sussurrato. "Approfittatene per tornare a letto, Tata. Io me ne vado." Aveva atteso con la mano sulla maniglia della porta, e la signora List era tornata al suo divano-letto, lasciando prudentemente la porta socchiusa. Era rimasta sveglia per un po', V orecchio teso nel silenzio dell' appartamento, e benché non si fosse accorta di prendere sonno erano le cinque passate quando aveva riaperto gli occhi e guardato l'orologio. Per qualche misteriosa ragione dovette farsi forza per andare dalla sua paziente. La signora Roland era morta; giaceva esattamente nella posizione
di prima, leggermente spostata su un fianco. Da quanto tempo era morta? Dopo una breve lotta con se stessa, e prima d'informare qualcuno, la signora List aveva tolto il nastro adesivo dalla spina dell'ossigeno. Non aveva simpatia per il dottore, che avrebbe voluto ricoverare all' ospedale la signora Roland e certo avrebbe avuto da ridire per l'incuria nei confronti della sua paziente, e aveva pensato che era meglio non farlo sapere a Blaise. I rapporti tra gli sposi erano già abbastanza tesi. Inoltre la spina era saldamente conficcata nella presa, perciò non era il caso di parlarne. Adesso, nella luce fosca del pomeriggio, era solamente colpita dal fatto che lei aveva pochi anni meno della madre di Blaise. Aveva inserito i ganci in tutte le tende. La piccola scala a pioli usata per pulire i vetri era ancora nel soggiorno, e se la portò nella stanza da letto. La stoffa era pesante, ma nella sua vita lei aveva appeso innumerevoli paia di tende, perciò vi era abituata. Salì con cautela; stava per inserire l'ultimo gancio quando la porta di comunicazione sì aprì, seguita da un ticchettio di tacchi alti. «Non intendevo rimproverarti, Fen" disse senza voltarsi, perché voltarsi era pericoloso, in cima a una scala a pioli.» «Lo so, lo so, Tata. Bene, io esco: devo chiudere a chiave la porta affinché nessuno dei vostri focosi ammiratori irrompa qua dentro?» La solita impagabile Fen maliziosa e scanzonata, oscurata per tutta la sua vita dalla bella Sarah, anche se venti minuti prima alla mente della signora List era balenato il pensiero che Sarah non si sarebbe mai permessa di trattarla in quel modo. Tutta intenta a sistemare un occhiello, scoppiò in una risatina conciliante. Alle sue spalle, sul pavimento lustro, i passi si allontanarono in sordina. Nel suo attuale stato d'animo era impossibile attardarsi nel porto sicuro del supermarket, tra i pettegolezzi e le lamentele delle comari sui prezzi saliti alle stelle. Nell'atto di vagare per i corridoi senza nemmeno il cestino, Sarah si sentiva quasi una taccheggiatrice, anche perché di tanto in tanto una guardia si aggirava nei dintorni facendo finta di niente. Strana cosa essere senza casa, sia pure per un breve lasso di tempo. Piombare in casa d'amici senza preavviso era fuori discussione. La biblioteca, il posto ideale dove rifugiarsi in una simile circostanza, un posto in cui nessuno si sarebbe meravigliato di una sosta prolungata, era chiusa. Sarah comprò un guantone da forno di cui non aveva affatto bisogno, affinché non si pensasse che sgusciava fuori col bottino nascosto, e cinque
minuti dopo, con una decisione improvvisa, si diresse verso Margot Road nella tenue luce del crepuscolo. Era stata quella telefonata interrotta, con la signora List che origliava, ad attirare l'attenzione di Fen su Geoffrey Norval. Ripensandoci, aveva capito chi era Sarah e per qualche misterioso motivo aveva paura di lei. Non era tanto per la signora List che Sarah temeva, quanto per Norval, nei confronti del quale da mezz'ora a quella parte sentiva una certa responsabilità, malgrado avesse cercato di rassicurare se stessa al riguardo. ... Il quale Norval quadrava nell'intera faccenda in qualche modo comprensibile; apparentemente sembrava il tassello di un mosaico che mal combaciava con l'insieme. La signora Roland non era certo il tipo di donna anziana che attacca discorso con uno sconosciuto giusto perché è giovane, e Fen gravitava intorno a persone in vista, ricche o potenti, e preferibilmente tutte e tre le cose. Dunque, qualcosa era emerso dal passato, qualcuno come Dorothy Ritter, che avrebbe potuto smascherare Fen? La signora Roland, fingendo tatticamente di recarsi a far visita a un'amica, doveva averlo sperato. Dopo l'incontro di quella mattina Sarah aveva la certezza che Norval avrebbe spiato furtivamente fuori dalla finestra e non le avrebbe aperto la porta. La ragazza dal piglio autoritario in jeans e giubbotto, d'altra parte, era sembrata calma e sicura malgrado la diffidenza tipicamente femminile nei confronti di un'altra donna. A giudicare dalla sua aria di sfida doveva saperla lunga, quella lì, e si poteva convincerla a rivelare dove era vissuto Geoffrey Norval prima di trasferirsi in Margot Road. Relativamente pochi, e gli uomini meno delle donne, potevano essere rintracciati nel luogo di nascita. Inutile lambiccarsi per sapere se Norval avrebbe acconsentito a ricevere Sarah; la casa era completamente buia, la saracinesca del garage chiusa. Infilò il vialetto accanto. Era un'ora scomoda per andare a trovare degli sconosciuti, l'ora dell'aperitivo o degli ultimi preparativi della cena. Suonò il campanello senza esitazioni. 14 Era un'assurdità, dopo essersi presentata, chiedere di parlare con una ragazza di cui non conosceva neppure il nome, avanzando la richiesta a una donna con indosso un caffettano, e di cui pure ignorava il nome. Sarah si sentì trasformare da taccheggiatrice a rappresentante di qualche prodotto.
«Ho parlato con vostra figlia per qualche minuto, stamattina» terminò con fermezza, e la donna puntualizzò: «Mia nipote, volete dire. Venite pure avanti; vado a chiamarla.» L'anticamera in cui Sarah attese era vecchiotta e accogliente, e odorava di arrosto di maiale alla salvia. Dalla parte di soggiorno visibile alla sua sinistra scorse due gambe che sporgevano da una poltrona al cui proprietario la donna disse: «Qualcuno che cerca Brett» prima di scomparire. Brett. Un nome breve e semplice che si addiceva alla ragazza. La donna tornò indietro sola, profondendosi in esagerate scuse, come solito fa chi mente. «Mi dispiace, ma mia nipote sta lavandosi i capelli. Volete lasciarmi il vostro numero di telefono? Vi farò chiamare.» Era così facile fare la gnorri all'altro capo del filo... «Vi rincresce se aspetto fuori nella mia macchina? Non voglio disturbarvi» disse Sarah, impugnando la maniglia con fare deciso. «È molto importante.» Sapeva che questa era una forma di insistenza modesta, ma il rifiuto di vederla da parte della ragazza, che trapelava così palesemente dai modi della donna, l'aveva innervosita. E la casa di Geoffrey Norval era ancora buia. Pausa di riflessione, e poi: «Oh, ma fa troppo freddo per aspettare fuori. Cercherò di farle fretta...» L'ho conquistata, pensò Sarah stupita, e affrontò la seconda attesa. Le gambe che s'intravedevano nel soggiorno si riaccavallarono; si udì il fruscio del giornale. Il tempo non passava mai. Brett non arrivava più... Ma eccola finalmente, accompagnata da una zaffata più acuta di arrosto di maiale; sua zia si era ritirata con discrezione in cucina. Era una ragazza beneducata; si era presa la pena di passarsi il pettine umido nei capelli biondi. Sarah notò con un lampo d'apprensione che gli strani occhi chiari della ragazza erano cerchiati di rosso, benché dicesse compita: «Salve. Cosa volete da me?» L'uomo seduto nel soggiorno si alzò in piedi, rivelandosi un bel tipo rubicondo dai capelli grigi, e accese la televisione. Si udì subito il notiziario, cosa che rassicurò Sarah, che non voleva altri ascoltatori. Disse: «Si tratta ancora del signor Norval. Non è in casa, e siccome mi pare che siate una sua arnica, vorrei...» «È andato a fare delle compere» spiegò Brett. «Vuole rinnovare il suo guardaroba.» Curvò le labbra in un sorriso ironico. «Credo che voglia migliorare la sua immagine. Chissà, magari finirà per diventare un vero dandy!»
Il tono, volutamente scanzonato, celava in realtà una ferita cocente. Pur sentendosi profondamente sollevata (Geoffrey Norval non giaceva morto all' obitorio) Brett fece venire in mente a Sarah una bambina il cui migliore amico sta per partire allegramente per il campeggio senza nemmeno voltarsi indietro. Disse: «La domanda vi parrà strana, ma è sempre vissuto qui ad Albuquerque?» «Perché?» domandò l'altra insospettita. Che sguardo perspicace aveva per essere così giovane. «Perché non credo si renda conto che potrebbe correre dei rischi a causa di una persona pericolosa venuta da altrove» rispose Sarah, assumendo di proposito un tono melodrammatico. «Potrebbe essere in pericolo in questo stesso momento, difatti.» L'effetto fu immediato. Brett, le pupille dilatate, arretrò d'un passo e volse il capo come per assicurarsi che l'uomo che stava nel soggiorno fosse raggiungibile. «Oh, credetemi, ve ne prego» disse Sarah con foga. «Non sto cercando di creare guai, ma di prevenirli. Però devo sapere se il signor Norval è vissuto in un'altra parte dello stato prima di stabilirsi qui.» La zia in caffettano si profilò nello sfondo, reggendo in mano un martini mezzo vuoto. «Si va a cena tra dieci minuti» disse in tono gentile ma sbrigativo, che ebbe il potere di far prendere una decisione alla ragazza. «Giurate» disse solennemente «che non intendete fare del male a Geoffrey!» Sarah rispose di sì con altrettanta solennità. «Ecco, ha passato la maggior parte della sua vita nella regione sud-est dello stato. Sapevo il nome del posto, ma ora non me lo ricordo.» Sarah, pur avendo letto che nei processi la corte proibiva di influenzare il teste, spiegò la mappa stradale che teneva ancora nella borsetta e la accostò alla parete. «Qua» disse. «Erskine.» L'oscurità era totale, ora, il freddo così tagliente che l'aria sembrava fatta di taffetà. Sarah guidò fino al più vicino centro degli acquisti, un quartiere piccolo e deserto, e posteggiò la macchina accanto alla cabina telefonica. La prima cosa, malgrado la sensazione di una corsa disperata contro il tempo, era cercare di scoprire l'ora d'arrivo di James. L'unico volo diretto da New York era della TWA. Per ben due volte trovò occupato l'ufficio informazioni; la terza volta dovette attendere così a lungo che fu costretta a rinunciare.
Coi tre punti del triangolo uniti tra loro... Fen, la signora Roland e Geoffrey Norval... era obbligatorio fare ulteriori indagini. Sarah formò il numero della signora List; rispose Bonnie che immediatamente la travolse in un'ondata di malumore e di apprensione. «Sarah! È mezz'ora che vi cerco invano. Non so dove sia Ed, ma sarebbe dovuto andare a riprendere zia Edith dovunque sia andata: da Fen, credo, sebbene neppure lì risponda nessuno... insomma, comincio a stare in pena, non per lui che a volte il sabato sera...» Mai Sarah avrebbe sospettato che Ed andasse più in là di qualche allegra bevuta, il sabato sera. A un tratto fu colta da un brivido: aveva sostato troppo allungo nella cabina gelida. «Ma se siete così preoccupata, Bonnie, perché non chiamate la polizia?» «L'ho fatto» rispose con voce irritata «ma ho subito capito che non mi hanno presa sul serio. Voglio dire, una persona che tarda un'ora... Il fatto è... badate bene, avevo promesso di non dirlo né a voi né a Fen... insomma, zia Edith ha avuto un piccolo colpo, sei mesi fa. È rimasta all'ospedale una settimana e da allora è sempre stata benissimo; tuttavia sarebbe meglio se faceste un salto laggiù per controllare.» Era questo l'appello che Sarah aveva atteso, la chiamata urgente nel campo minato? No. Sarebbe stato troppo rischioso coinvolgere Bonnie in quello schema pericoloso: aveva quella scaltrezza che spesso si accompagna ai brutti caratteri. «Probabilmente sono già per strada a quest'ora, ma farò un salto con la macchina per vedere se la casa è illuminata» disse Sarah con riluttanza, e soggiunse con curiosità: «Vostra zia ha mai guidato la macchina, Bonnie?» «Sì, anni fa, finché la sua amica Mabel Kramer non ha avuto l'incidente in seguito al quale è rimasta paralizzata dalla vita in giù. Sentite, potete chiamarmi quando tornate a casa?» Era la serata delle sorprese, pensò Sarah stordita, promettendo di farlo e riappendendo. Sì, esisteva veramente una Mabel Kramer. E la signora List, se Fen glielo avesse chiesto, e con la chiave di Fen, avrebbe potuto guidare tranquillamente fino a casa Roland mentre Sarah dormiva nella stanza degli ospiti. Il fatto che la governante avesse avuto un leggero colpo coperto da uno stoico silenzio non la rendeva automaticamente più simpatica, ma la ragione di tanta segretezza era da cercarsi non tanto nell'eroismo quanto nel fatto che preferiva pulire e cucinare per i Malcolm alla vita di casa con Bonnie, Ed e la sua eterna mania dei lavori d'intaglio, ed era ben decisa a man-
tenere i contatti. Il piacere con cui si era goduta il programma televisivo non era una conferma di questo? Durante le due miglia per raggiungere casa Roland, Sarah incrociò un'unica macchina: in quella serata rigida la gente preferiva starsene a casa, accanto al caminetto. Cominciava a desiderare di essere a casa anche lei, avvolta nella sua vestaglia più calda. Con James in arrivo. Infilò il vialetto carrozzabile dei Roland, un po' contrariata per lo scricchiolio delle ruote sulla ghiaia, benché nel garage aperto non ci fosse nessuna auto. L'oscurità era rotta solo dal riflesso dei fari sui vetri delle finestre. Ma non era un'oscurità totale. All'estremità della casa, da quello che doveva essere il retro dell'appartamento della signora Roland, spiccava una pallida chiazza di luce. Sarah frenò davanti alla porta, e conscia del buio pesto alle sue spalle, suonò due leggeri colpi di clacson. Dato che non accadde nulla ripeté il gesto più forte nel caso che la signora List, che pure aveva l'udito di un gatto, avesse deciso d'ingannare l'attesa di Ed davanti alla televisione. Era forse in casa Fen, nell'attesa paziente che lei entrasse a indagare? Un numero di elementi, compresa l'assenza delle due macchine, lo escludeva. E se in seguito fosse saltato fuori che la governante aveva avuto un altro colpo apoplettico, e le restavano pochi minuti di vita, come avrebbe potuto Sarah vivere col rimorso di essersene andata via? Scese dall'auto. Dopo una breve e confusa riflessione nascose le chiavi dietro alla ruota anteriore sinistra, uh posto in cui una persona che aveva fretta non le avrebbe mai trovate. La ghiaia terminava lì, e dopo un inutile tentativo di aprire la porta principale girò cauta verso V estremità dell'appartamento ed entrò nella zona tenuemente illuminata. Si sentiva la schiena esposta come un bersaglio malgrado il vuoto e il silenzio della sera. La prima porta-finestra era schermata. Nella seconda, tra i pesanti drappeggi di lino, spiccava una fessura: Sarah accostò la guancia al vetro gelido e scrutò dentro. Scorse un tratto della stanza, là dove la parete color crema combaciava col pavimento piastrellato di rosso cupo, e parte di una scala a pioli. E dalla scala a pioli emergeva... La sua mente si rifiutava di cogliere un quadro preciso. Scorse confusamente una mano stesa col palmo verso l'alto, un vestito stampato a disegni grigio e lavanda, tutto spiegazzato, una francesina nera dal tacco alto che giaceva lateralmente accanto alla testa nascosta dagli scalini di legno. Non il minimo movimento: ogni cosa era ghiacciata come in una fotografia.
Sarah emise un gemito di ribellione. Cercò di aprire la finestra con mano tremante, ma era chiusa saldamente... Grazie a Dio, perché sarebbe stato terrificante entrare lì. La pallida luce pioveva ora su di lei con la luminosità di un riflettore; le parve che la inseguisse mentre correva alla macchina, afferrava le chiavi e introduceva quella giusta nell'accensione. Anche se non aveva mai visto un morto fuori della camera ardente, aveva l'intima certezza che la signora List non avrebbe mai più respirato. Ma poteva lei rischiare di abbandonarla così, nella sia pur remota possibilità che fosse ancora viva? Sarah trattenne il fiato e puntò verso le luci della casa più vicina. Il vialetto carrozzabile, fiancheggiato da pioppi, sembrava interminabile. Quando infine raggiunse la porta d'ingresso i suoi disperati colpi di battaglio richiamarono alla porta un tipo furibondo con indosso un variopinto pigiama da spiaggia. Alle sue spalle (grazie al cielo stavolta lo sfondo era nitido in ogni suo dettaglio) un altro uomo dalla folta barba nera stava divorando una fetta di pizza. «Ehi, dico, cosa diavolo vi salta in mente? Venire a bussare in quel modo alla porta...» «C'è stato un incidente dai Roland, alla porta accanto. Vi prego, chiamate il pronto soccorso!» L'uomo barbuto si precipitò fuori con la sua pizza. Quello in pigiama le gridò dietro imperiosamente: «Non muovetevi, voi! Quando si denuncia un incidente si deve restare dove...» Correre a casa, chiamare Bonnie. Sarah aveva lasciato la portiera aperta e il motore acceso e guizzò via prima che l'uomo avesse terminato il suo rabbuffo. Il parabrezza era appannato: forse colpa anche delle lacrime che le sgorgavano in un pianto irrefrenabile? Non era vero dolore, lei lo sapeva, ma una reazione, l'orrore primordiale della morte, della fine di un essere umano che, malgrado vi si fosse sempre ribellata, era stato parte della sua vita fin dall'infanzia. La governante, colta dalle vertigini sulla scala a pioli, doveva essersi sporta imprudentemente per aggrapparsi alla finestra o alla parete, e perdendo l'equilibrio era precipitata all'indietro? La scarpa volata via (una stringa slacciata?) scopriva spietatamente il piede nodoso di cui si era sempre vergognata. Nelle rare occasioni in cui i Malcolm erano riusciti a convincerla a fare un bagno in piscina, la signora List, dimentica del fatto che di notte, nel corso delle varie malattie infanti-
li, tutti avevano visto i suoi piedi scalzi, usava nasconderli nelle ciabatte di gomma. Per nulla al mondo si. Sarebbe voluta far trovare… Il parabrezza era sempre più appannato. Il riscaldamento non migliorava la situazione. Sarah asciugava alternativamente il vetro e le proprie guance mentre guidava, e infine spense il riscaldamento e abbassò leggermente il finestrino. Lo spiffero d'aria gelida peggiorò la situazione: fu costretta a sporgersi in avanti per infilare il vialetto carrozzabile. Quel pomeriggio, nella sua fuga da casa, non aveva pensato a lasciare la luce accesa per Odino. Ora doveva aspettarla ansiosamente al buio al quale non era avvezzo, con tutta l'insicurezza del cucciolo che lo coglieva in simili casi. Ed era veramente all'erta: sentì le sue unghie graffiare contro una finestra mentre lei raggiungeva la porta. Gli carezzò la testa con una mano rassicurante mentre con l'altra cercava l'interruttore nel buio, o meglio nel nero cupo che la circondava. Paventava la telefonata che bisognava fare immediatamente. Si sarebbe limitata a dire: "Temo che vostra zia abbia avuto un incidente" poiché, in fin dei conti, lei non sapeva che la signora List era morta. E invece lo sapeva. Accese la luce. E là, come se in un incubo terrificante si fosse rimpicciolita al punto da infilarsi nel buco di una delle serrature nuove di zecca, c'era Fen. 15 James preferiva aspettare il bagaglio piuttosto che perderlo, ma stavolta aveva viaggiato con un'unica valigia da aereo. Se ci fosse stata una cabina telefonica libera a portata di mano avrebbe chiamato Sarah; ma non c'era, e si diresse alla macchina mentre gli altri viaggiatori erano ancora raggruppati in attesa che venissero distribuite le valigie. Durante la manovra d'atterraggio, riposto il libro, aveva estratto dalla tasca interna il ritaglio di giornale e cercato di leggerlo con gli occhi della zia di Sarah o della direttrice dell'accademia. Il breve resoconto, scritto a Chicago, recava la data, secondo l'informazione di Sarah, dell' anno precedente il matrimonio di Creed con la signora Nichols. Sotto il titolo "Soccorritore pugnalato" riportava la notizia che un tale di Bellwood era stato medicato in seguito alle coltellate infertegli quando aveva scacciato l'aggressore di una ragazzina di tredici anni, in un parcheggio. Roger Creed, età quarantadue anni, era membro della facoltà
di Basil Hall. Prova forse che un uomo accorso in difesa di una ragazzina a lui sconosciuta, incurante del rischio rappresentato dal coltello, era psicologicamente incapace di tentata violenza ai danni della figliastra? James ne era convinto, ed era certo che molti altri sarebbero stati di quel parere. Peccato che Creed non avesse conservato quel ritaglio in previsione del futuro... Oppure sapeva della sua esistenza? La mancanza di particolari faceva pensare a un servizio di routine al pronto soccorso dell'ospedale da parte di un cronista troppo frettoloso per perdere tempo con un'intervista. Eppure Creed doveva aver descritto l'incidente con ampiezza di particolari alle persone interessate, ma non gli era stato dato alcun credito a causa di un'intemerata dodicenne. La via più breve dall'aeroporto a casa di Sarah era una strada che lo avrebbe portato oltre la casa dei Roland. Era a qualche metro da essa quando fu colto da un terrore improvviso. La serata aveva la limpidezza del freddo intenso. C'erano quattro o cinque autoveicoli davanti alla casa, due dei quali con le luci rosse sul tettuccio. Mormorò: «Oh, Cristo» nel silenzio della sua macchina e percorse a tutta velocità il resto della strada, frenando di colpo per non cozzare contro il paraurti dell'auto che lo precedeva di pochi centimetri. Quasi tutta la lunga costruzione era buia; solo un'ala brillava con tale lucentezza da far pensare a un'illuminazione speciale. Due infermieri, che agli occhi preoccupati di James parvero troppo giovani per quel compito, se ne stavano addossati al paraurti dell'ambulanza fumando nell'evidente attesa. Domandò, annaspando per trovare le parole: «Sono un amico delle persone che abitano qui. Che cosa è successo?» Lo scrutarono senza curiosità. Uno dei due, un giovane capellone biondo, disse: «Pare che una signora anziana sia caduta dalla scala a pioli.» Si strinse nelle spalle. «Altro non so.» Dunque non era per Sarah, la barella. Il sollievo era una sensazione fisica che rasentava il dolore, come quando la circolazione del sangue riprende dopo l'intorpidimento. Adesso poteva perfino permettersi il lusso di domandarsi cosa diavolo ci facesse un'anziana signora in quella casa, con o senza scala a pioli. «Non c'è nessun altro in casa?» L'altro inserviente si tolse di bocca la sigaretta e si voltò a esaminare minuziosamente le finestre buie. «No, a meno che non stiano coltivando funghi.» A un grido di richiamo dalla casa i due si avviarono pigramente verso la
parte posteriore dell'autoambulanza. Loro non avevano fretta ma James sì; il solo fatto di essere di nuovo seduto al volante della sua macchina gli ricordava i terribili istanti in cui aveva pensato che sarebbe potuta essere Sarah che stavano esaminando. Per ben due volte dovette frenare bruscamente prima di affrontare le curve e una volta ignorò un segnale di stop. Era solo la seconda volta che raggiungeva la casa di Sarah da quella parte. Lei era in casa: i fari della sua auto rivelarono la sagoma della macchina di lei, nel bagliore schermato dalle tende del soggiorno. A casa, ma non sola. Dal punto in cui era colse nell'oscurità ciò che gli sarebbe sfuggito se fosse venuto da sud. Contro il muro di cinta, seminascosta dall'albero di cotone, c'era la macchina di Blaise Roland, per la terza volta in... quanto? Una settimana? James la fissò con un misto di stanchezza e di apprensione, mentre una frase gli echeggiava nella mente: "Non mi ha mai perdonato di averle portato via Blaise". Con un vento di coda per tutto il volo da New York, nessun bagaglio da aspettare e una corsa diretta dall'aeroporto, era in anticipo per chi si era preso la pena di controllare l'orario d'arrivo. Se ci fosse stata una cabina telefonica libera, quale voce rapita avrebbe mormorato: "Non rispondere"? Quel ritaglio che riteneva d'importanza fondamentale, e che era così impaziente di mostrare a Sarah per farle sapere che le credeva incondizionatamente, gli bruciava ora nella tasca, sembrava penetrargli attraverso la stoffa come acido corrosivo. Il marito di Fen. Provò la tentazione di premere il clacson fino a fare esplodere in brandelli la notte, o di urtare la macchina di Blaise in uno schianto fragoroso. Invece arrestò con cautela sulla strada e puntò verso casa. «Come sei entrata?» Inutile tentare di girare i tacchi e correre alla macchina; Sarah aveva chiuso a chiave la porta dietro di sé prima di accendere la luce e Odino, felice di averla di nuovo con sé, si era sdraiato protettivamente sulla soglia, in tutta la sua lunghezza. Inoltre, lei lo capiva malgrado lo shock, la sopravvivenza dipendeva dallo stupore misto a contrarietà. Non cambiasi serratura senza un motivo. «Dalla finestra della stanza rosa» rispose pigramente Fen dalla sua poltrona. Aveva accostato tutte le tende, ecco perché la stanza era così buia. Lei stessa sembrava stranamente calma, quasi serena. «Te le sei forse scordate, le nostre entrate e uscite furtive? L'altro giorno, mentre ero qui, ho smosso il saliscendi. Mi sembrava così innaturale, così ingiusto non po-
ter entrare nella vecchia casa!» Il tono era disteso, ma l'occhiata che lanciò a Sarah brusca e penetrante. «Si può sapere cos'hai?» «La signora List è morta» disse Sarah. A un tratto si trovò immersa da capo a piedi in un sudore gelido, e s'incamminò cauta verso la nicchia del telefono. «Devo avvisare Bonnie.» «Sciocchezze, è a casa nostra ad appendere le tende.» Fen si era alzata in piedi e non certo perché era allarmata, Sarah lo sapeva bene. «Io l'ho vista, Fen.» Continuare a fingere d'ignorare il proprio rischio mortale. «Deve avere avuto un capogiro, oppure è scivolata dalla scala. La squadra di soccorso sarà lì, a quest'ora, ma è troppo...» «Che cosa orribile!» la interruppe Fen, senza però curarsi di simulare orrore o incredulità, e neppure di informarsi di come Sarah lo avesse scoperto. «In questo caso, penso io a fare la telefonata. Bonnie ha più confidenza con me che con te.» Passò oltre Sarah, e sedette accanto al telefono; dal polso sinistro le pendeva in maniera casuale una grande borsetta. «Se è vero quanto dici, un minuto o due non fa differenza... Questo pomeriggio ho avuto notizie di Nancy Pike.» Quel calmo, insistente uso del nome inventato, quel modo di prendere tempo era agghiacciante come se la terra avesse tremato sopra una nuova tomba. Sarah si costrinse a incontrare lo scuro sguardo scrutatore. «Ha lasciato qualcosa per me, in una rivista... non voleva che capitasse nelle mani dell'uomo che era con lei, e francamente l'idea che altri possano leggerlo non va neppure a me» rispose Fen. «Dov'è, Sarah?» Stava tirando a indovinare; una rivista era l'unico nascondiglio logico. «Mi dispiace, ma avresti dovuto dirmelo prima: ho fatto un "repulisti" su quello scaffale e ho gettato via tutto» rispose Sarah, ma subito sentì di aver messo il piede nella trappola. «Hai ammucchiato tutto in una vasca, però hai tenuto qualcosa e io lo voglio assolutamente, Sarah» disse Fen, e nella sua voce vibrava ora una nota di livore. «E adesso ti dirò il perché...» (Una macchina?... Ma se lo era, si riallontanò quasi subito.) Dov'era James? «Mi è successa una cosa orribile, a dodici anni. Il mio patrigno... avevo sempre avuto paura di restare sola con lui sebbene non sapessi il perché. Forse ero troppo ingenua...» Ingenua. Come un piccolo squalo che fiuta il sangue nell'acqua, pensò
Sarah, simulando un grande interesse. In qualche modo, disse Fen, le voci dell'incidente nell'orto erano giunte alle orecchie di una giornalista del posto, la quale aveva pensato che, con qualche aggiunta, con qualche particolare alterato, poteva farne una storia sensazionale, adatta a una rivista femminile, dato che l'argomento riguardava un uomo irreprensibile, ma eccitato dal contatto quotidiano con uno sciame di ragazze giovani. La giornalista lo avrebbe trasformato in un funzionario ozioso. Naturalmente, Fen e sua madre sarebbero state ricompensate. Questo era successo subito dopo la morte di Roger Creed, quando si trovavano in un bisogno urgente di denaro. Un accordo fu redatto e firmato. «Ce l'ho ancora, e intendo usarlo» disse Fen, torva; in seguito però era stato comunicato loro che il progetto era andato in fumo. La questione era rimasta a un punto morto finché Nancy Pike, un'assidua frequentatrice di quelle bottegucce in cui si trovano le vecchie riviste, pescò proprio quella storia che, secondo lei, si basava sull'esperienza di Fen, e aveva ritagliato quindi le pagine. Riteneva che Fen avrebbe dovuto far causa alla giornalista, non tanto per una questione di soldi, ma per impedire che altri venissero truffati nello stesso modo. Si era lasciata sfuggire incautamente qualche accenno col suo compagno di viaggio e poi, essendosene pentita, aveva nascosto quelle pagine "incriminate" a casa di Sarah affinché non si mettesse in mente di sfruttare la cosa ai suoi fini. «Non te l'avevo detto, che aveva un'aria losca?» Il tempo passava, pensò Sarah. Fen si trovava presso i Malcolm quando era giunta la notizia della morte di Roger Creed, ma spesso la gente preferisce parlare di fatti recenti anziché di quelli di sedici anni prima. La zia di Sarah avrebbe preferito rivolgersi alla sorella e al cognato per evitare che la figlia raccontasse a uno sconosciuto, con ampiezza di particolari scabrosi, la storia della tentata violenza da parte di suo marito. Anche se non era dimostrabile, per coloro che non erano al corrente dei fatti essenziali poteva essere accaduto. La storia era apparsa sulla rivista femminile, inserita fra le pagine recenti con una differenza di carattere quasi impercettibile, un lavoro fatto da mano esperta in simili trucchi. Le reazioni di inorridito stupore erano così attendibili che Sarah non poté meravigliarsi che sia la madre di Fen sia la direttrice avessero creduto al racconto della ragazza. Una rivista come SpyGlass non faceva parte delle loro letture, figuriamoci se avrebbero mai sospettato che Fen avesse la possibilità di leggerla.
Dove l'aveva trovata? Dai Ritter, quasi sicuramente, quando Dorothy era costretta a letto dal morbillo e impossibilitata a leggere, e i suoi genitori, se interrogati, avrebbero dichiarato di non saperne nulla. Vi erano delle circostanze nella vita in cui è così importante salvare la facciata, che ammettere di aver letto materiale scabroso poteva costituire un danno irreparabile. Spesso i ragazzi venivano a sapere le cose che avrebbero dovuto rimanere segrete. Sarah poteva immaginare Dorothy Ritter, consapevole dell'animosità che l'amica nutriva verso il patrigno, godere segretamente per essere al corrente di un segreto che le dava un senso di superiorità. Vi aveva forse alluso nella lettera che dopo tutti quegli anni Fen non ricordava con certezza se era ancora nella sua busta, infilata in fretta e furia nella valigia? Quando Dorothy si era trasferita a Grants, sei pagine non le sarebbero certo state di peso. Ciò che Fen aveva dimenticato, nel dare alla propria versione un ritmo da processo, era che la fonte dalla quale aveva attinto e adattato il materiale portava la data in cima a ogni pagina. Febbraio. Mesi prima della simulata aggressione nell'orto. In qualche modo, pure senza muovere un muscolo della faccia, Sarah aveva tradito il suo totale scetticismo. «Va' a prendere quell'inserto» disse Fen con voce sorda. «Non dirmi che l'hai distrutto, perché non ci credo, e non dirmi nemmeno che l'hai portato in una cassetta di sicurezza, per favore. Ho tenuto d'occhio la casa fino alle tre.» La situazione tra loro due era chiara, finalmente. Sarah disse: «James sta per arrivare, lo sai.» «Alla testa della Cavalleria degli Stati Uniti» rise Fen; era chiaro che aveva creduto che Sarah bluffasse. «Santo cielo, speriamo che non resti scoraggiato alla vista della macchina di Blaise!» Stava perdendo dei minuti importantissimi a quel punto, ma il divertimento era tale che ne valeva la pena. «Dubito che Blaise venga mai a sapere che ho preso la sua macchina al posto della mia. È in pieno pranzo d'addio alla vecchia sede. Sono passata di lì, infatti, e gli ho detto che questa era la mia serata con la vecchia signora Salazar y Pinos.» Una vecchia cariatide locale, l'ultima discendente di una famiglia aristocratica, mezza cieca, alla quale, malgrado l'antipatia per le vecchie signore, Fen trovava "chic" rendere omaggio. Se si poteva confonderla facendole credere che Fen era stata con lei durante un'ora strategica, sarebbe stato un alibi di ferro. «Ma, e la signora List? La polizia cercherà di individuare...»
«Basta con le ciancie» scatto rabbiosamente Fen. Aveva mosso leggermente la testa, poiché i suoi occhi, di solito così lucenti, erano stranamente opachi. O forse erano sempre così quando aveva preso una decisione: stava macinando qualcosa nella sua mente? L'adorante signora List, involontariamente, poteva diventare pericolosa per lei. Sarah non rispose; era incapace di parlare. «Ti concedo un minuto» disse Fen «dopodiché mi convincerò che probabilmente hai nascosto così bene quell'inserto che non ho motivo di preoccuparmi.» Un minuto, e poi? Tranne che alle funzioni pubbliche, le donne di solito non tengono la borsetta appesa al polso. «È fuori» disse Sarah cercando di dominare il batticuore. «Qualunque cosa tu faccia, James lo saprà.» «Al diavolo James. Lui sa solo quello che gli hai detto, e potrebbero essere tutte fandonie. Cosa può dimostrare? Su, sbrigati!» Sorprendentemente, Sarah si accorse di essere in grado di camminare. Un'ultima occhiata a quella stanza in cui era cresciuta? Odino non si accorse di nulla; era profondamente addormentato nel punto in cui era disteso. Le violette di James stavano appassendo sui tavolino; reciderne i gambi non era servito granché. Anche il suo libro era lì, faccia in giù. In cucina, seguita inesorabilmente da Fen. Quanti pasti aveva preparato lì? Di qualcosa, una volta, Richard Malcolm aveva detto allegramente: "Delizioso, spero proprio di riassaggiarlo l'anno venturo". Sarah aveva lasciato un cucchiaino sul banco, e quella piccola cavità d'argento sembrava contenere il suo futuro. Aveva perso il senso del tempo, come se un orologio interno si fosse fermato per sempre alla vista di Fen in quella casa che aveva creduto un porto sicuro. Accese la luce esterna, prevenendo il gesto di Fen, aggrappandosi a una fragile illusione di libero arbitrio, e aprì infine la porta di servizio. Fuggire? Non ancora, non senza un barlume di speranza di potercela fare; Fen era veloce e armata, Sarah se n'era accorta dal rumore che aveva prodotto annaspando per afferrare la borsetta. E infine c'era James. Malgrado la comunicazione disturbata, le era sembrato impaziente di raggiungerla quella sera, e poi le aveva detto di amarla. Escluso quindi che fosse prima passato da casa sua a leggere l'articolo di fondo del giornale della sera. E se invece io avesse fatto? Fu come un pugno allo stomaco ricordarsi della macchina di Blaise. Forse Fen l'aveva presa proprio per quel motivo, oppure perché un'auto grigia metallizzata all'ombra dell'albero sarebbe passata più inosservata di una
bianca? Con le tende accostate, James avrebbe pensato... Sarah spalancò di colpo la porta della stanza delle pompe con mano tremante, e indicò il sacco da cinquanta chili del materiale chimico che serviva per il filtro della piscina, appoggiato contro la parete. «È là dentro» disse. «Avanti, prendilo.» L'udito di Sarah era sopraffatto dal pulsare del sangue. Entrò nella stanza delle pompe, frugò nel materiale leggero e vischioso e si voltò di colpo gettandone una manciata in faccia a Fen, poi fuggì in cerca di scampo. Via nell'oscurità, un'oscurità però ben più familiare per lei che per Fen. Anche se non fosse stata momentaneamente accecata, mesi vissuti in un ambiente diverso le avrebbero impedito di schivare gli ostacoli del posto. Un cespuglio di ginestre. Un paio di seggiole in ferro battuto. Un lungo rotolo di fil di ferro che Sarah, quest'anno, non aveva fatto stendere sulla piscina, preferendo acquistare una nuova copertura di plastica. Girò intorno al filo, scalciandolo dietro di sé, domandandosi se era possibile passarlo intorno alla casa sbarrando la porta principale. Nell'oscurità si udì un'esplosione, seguita da una serie di suoni che si sovrapponevano l'uno all'altro... un grido soffocato, un rumore sordo, un tonfo nell'acqua. Sarah, sentendo un bruciore nei polmoni, si volse a guardare indietro. Fen era inciampata, probabilmente nel fil di ferro, ed era precipitata in fondo alla piscina attraverso la superficie ghiacciata. Il freddo l'aveva paralizzata momentaneamente; passarono dei secondi prima che la testa riaffiorasse, i neri capelli fluttuanti nell'oscurità intermittente. Non era mai stata una grande nuotatrice, e anche se fosse riuscita a liberarsi delle scarpe, era impedita nei movimenti dal vestiario. Aveva inghiottito acqua, poiché il suo grido "Sarah!" era quasi un rantolo. Quella pallottola esplosa era per me... ma poteva starsene lì a guardare sua cugina annegare, e magari anche respingerla con la pertica che stava appoggiata sul retro della casa inverno e estate? Sarah corse a prendere la pertica. I suoi occhi abituati ormai all'oscurità distinsero la sagoma della pistola che giaceva nel punto in cui era volata via dalla mano di Fen, e la spinse via col piede nel fitto delle piante tornando di corsa con la lunga pertica di metallo. Per nulla al mondo si sarebbe inginocchiata a tenderle la mano; sapeva bene cosa le sarebbe successo. Un'eco amara le risuonava nelle orecchie mentre Fen si avvicinava tos-
sendo violentemente. "Ti amo, Sarah"... L'eco si avvicinò. Ripeteva: «Sarah! Sarah! Sarah!» Volse il capo incredula, e si accorse solo della mano che afferrava disperatamente la pertica quando la piscina con la sua superficie di ghiaccio infranto e la sua "ospite" la afferrarono. Perse l'equilibrio e cadde a capofitto. L'impatto con la nera acqua gelata le procurò un dolore acuto alle ossa frontali. Mentre lottava disperatamente, impedita dai vestiti, Fen, che nel frattempo era riuscita a guadagnare la scaletta, si voltò scalciandola selvaggiamente alla gola. Avendo sentito il grido soffocato e il rumore di una porta, era ora animata da un cieco impulso di distruzione totale. Sarah affondò di nuovo, stavolta sul dorso. Respirando affannosamente si era riempita d'acqua il naso e la bocca, e per qualche secondo le parve di soffocare. Sentì annaspare nell'acqua accanto a lei. La mano intorpidita di Fen aveva mollato la presa sulla scaletta. Sarah annaspò disperatamente per sfuggire a quella vicinanza mortale e in quel momento, proprio al disopra di lei, la voce di James disse forte: «Sarah, dammi la mano.» Era curvo su di lei, apparentemente calmo. Sarah si afferrò al bordo della piscina con una mano e tese l'altra, e infine, bloccata dal terrore, gelata fino alle ossa, fu tratta in salvo. James le disse con voce concitata: «Svelta, amore mio, corri a casa... chiama la polizia... di' loro...» Stava togliendosi il cappotto. Sarah, tutta scossa da un tremito convulso, guardò in basso. Vide Fen, la faccia volta verso l'alto, l'espressione indecifrabile; vide il suo tuffo, perfetto come quello di un delfino. Disse: «James, lei vuole...» e James, con voce cupa: «Sì, lo so, ma dobbiamo pensare a noi stessi, al nostro futuro.» Però si tuffò lo stesso. Della presenza e dell'attività della polizia, Sarah quasi non si accorse, ma, nel torpore in cui era immersa, avvertì solo l'esclamazione dell'unico agente investigativo rimasto, intento a rileggere gli appunti. James, che nel frattempo aveva preso dalla macchina dei vestiti asciutti, se ne stava ora davanti al fuoco; avrebbe voluto accanto a sé Sarah che, con i capelli ancora bagnati, era ancora troppo tremante per reggersi in piedi. Si abbandonò sul sofà, scossa da brividi, sentendosi ancora braccata. A un certo punto, per brevi istanti che però le parvero un'eternità, vide Fen: l'aveva raggiunta alle spalle e stava per estrarre la pistola; l'aveva rincorsa per ucciderla, poi aveva aperto la bocca per un attimo prima di puntare la pistola verso di sé. La pistola era stata portata via insieme alla rivista col suo inserto scot-
tante e le impronte di Dorothy Ritter sulle pagine. Quell'inserto a causa del quale era morta, e dopo di lei un'altra persona era morta in casa Roland... il "braccio destro", pensò Sarah, lo sguardo fisso sul tappeto, la fedele seguace... Il nome dell'agente investigativo era La Costa; Sarah ricordava vagamente che era stato lui a rivelarle per telefono la notizia della ragazza trovata morta con indosso il paltò scozzese. Lui non aveva affatto riconosciuto Sarah. Voltò una pagina del blocchetto, fermò la penna su qualche cosa, poi, convinto, riprese a scrivere. Sarah e James sembravano due scolaretti in attesa del verdetto su un tema. La Costa alzò la testa per la seconda volta. «Siete convinti che la signora Roland si sia suicidata?» Perché questo avrebbe avuto un'attinenza con la morte della signora List. James rispose: «Ho tentato due volte di salvarla. Non l'ho trovata nel punto in cui era affondata.» Sarah affermò in un desiderio di chiarezza: «Non è annegata, si è tuffata deliberatamente.» Non aggiunse che quando James era riaffiorato alla superficie la prima volta lei avrebbe voluto gridargli: "Lasciala perdere!" né che l'aveva terrorizzata il pensiero di Fen tratta in salvo e trascinata in giudizio. Spogliata per sempre del guscio protettivo che si era costruita, sarebbe rimasta come un pavone spennato, riconoscibile solo dalla voce sgradevole. Blaise non era stato ancora rintracciato; lui non faceva mai le cose a metà, e il pranzo ufficiale sarebbe stato un lungo pranzo luculliano. Un agente lo stava aspettando davanti a casa Roland. La Costa chiuse il blocchetto, si alzò in piedi e disse che bastava così, per il momento. «Signor La Costa...» Sarah si alzò anche lei serrandosi le braccia intorno al busto «cosa vi ha fatto pensare che ci fosse un uomo insieme a Dorothy Ritter?» Lui si aggiustò l'ala del cappello con una punta d'imbarazzo. «Un particolare che mi è parso significativo, a suo tempo. Era una donna piccola, e il sedile del posto di guida era sistemato in posizione per qualcuno che aveva le gambe lunghe.» Un particolare che sarebbe parso più che naturale a Fen, una donna piccola sposata a un uomo alto: nelle occasioni in cui guidava l'auto di Blaise era costretta a spostare il sedile in avanti. Il fatto si collegava per una strana ironia della sorte alla visione che, lui glielo aveva detto in tono contrito, aveva costretto James a una brusca inversione di marcia mentre si trovava
a metà strada, diretto verso casa: una macchina ferma sul bordo della strada, un uomo e una donna che si scambiavano di posto. Alla porta, La Costa evitò con discrezione di fare le condoglianze a Sarah. Si limitò a dire con sguardo penetrante: «Ne sentirete il contraccolpo, signorina Malcolm. Se restate sola in casa stanotte, c'è qualcuno che potreste chiamare...?» James si era avvicinato per stringergli la mano. «Giusto» disse. «Provvederemo affinché non resti sola.» Quattro giorni dopo, due nomi balzarono agli occhi di Sarah nella lista delle pubblicazioni matrimoniali. Brett Hersey, di Fort Wayne, Indiana, e Geoffrey Norval, di Albuquerque. Uno di loro era stato fortunato. FINE