Cristina Cattaneo CERTEZZE PROVVISORIE Il vero volto delle scienze investigative forensi MONDADORI
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Cristina Cattaneo CERTEZZE PROVVISORIE Il vero volto delle scienze investigative forensi MONDADORI
Della stessa autrice Morti senza nome Turno di notte
© 2010 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
COPERTINA ART DIRECTOR: GIACOMO CALLO PROGETTO GRAFICO: NADIA MORELLI ELABORAZIONE FOTO © FREDRIK BRODEN/RENEE RHYNER AND THE COMPANY
Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo così come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche. Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo. Ebook ISBN 9788852014482 www.librimondadori.it
Certezze provvisorie
All’imperfezione
Introduzione
I media, la fiction, la cronaca offrono oggi un’immagine idealizzata della scienza, e il suo metodo viene spesso visto dalla gente comune come infallibile. Le scienze forensi non si sottraggono a questo fenomeno e le aspettative di cui sono investite spesso superano le loro reali potenzialità. L’equivoco che attribuisce a queste discipline, che possono fare molto ma non sono prive di limiti e imprecisioni, una sorta di «onnipotenza» può nuocere davvero non solo agli «scienziati forensi» stessi, ma alla giustizia e alle vittime. Credo sia quindi opportuno fare un po’ di chiarezza sulla vera natura di questo mondo, la cui realtà è lontana dalle versioni patinate che ne danno alcune fiction o dall’immagine completamente falsata che emerge dai casi di cronaca e dai salotti televisivi. Troppo frequenti sono le diatribe su processi ancora aperti, dove in poche ore si commentano e si giudicano fatti che andrebbero trattati soltanto in un’aula di tribunale, che ha a disposizione giuristi ed esperti idonei a un tipo di lavoro complesso e delicatissimo. Temo che molti problemi sorti in alcuni dei casi più mediatici siano anche da attribuire, seppur indirettamente, alle false aspettative che ormai l’opinione comune nutre nei confronti del settore forense. A volte, se il metodo e la tecnologia a disposizione hanno le carte in regola, si possono fornire delle certezze, o quasi. Ma attenzione: il solo dato scientifico non costituisce mai la soluzione del caso. Il Dna ci dice di chi è quella macchia di sangue o di sperma, la tossicologia se il soggetto era drogato, l’anatomia patologica se i lividi c’erano già o se sono stati inferti dall’aggressore appena prima della morte, e così via. Se questi dati sono precisi e affidabili, allora costituiranno dei tasselli, più o meno grandi, più o meno significativi, di un puzzle ancora incompleto: molti altri saranno forniti da periti di settori diversi, dalle intercettazioni telefoniche, dalle testimonianze e dai numerosi elementi che le indagini hanno prodotto. Oltre alle attività scientifiche, un ruolo importante riveste poi l’intuizione: nessuna scienza ci può dire con certezza se nel un racconto di un testimone manca qualcosa o è stato omesso un dettaglio importante; eppure ho visto bravi investigatori di Polizia e Carabinieri, con decine di anni d’esperienza, capirlo subito. Provare queste intuizioni è difficile, ma esse sono fondamentali per sistemare correttamente i tasselli del puzzle, per accantonarne alcuni e focalizzarsi su altri. Chi poi valuta il quadro finale fornito da un pubblico ministero è il giudice, il quale può decidere che la ricostruzione non è abbastanza accurata, richiedere altre indagini «scientifiche» e addirittura non tenere conto dei risultati tecnici di un suo perito, se questi non lo convincono. Quindi, la scienza regina delle indagini forensi non esiste, o meglio, non dovrebbe esistere. Alla «corte» della Giustizia la scienza può essere paragonata a un Gran Consigliere (che talvolta può diventare anche un cortigiano, nel senso deteriore del termine). I motivi per cui spesso accusa e difesa, di fronte allo stesso dato tecnico, giungono a conclusioni diametralmente opposte sono in genere due. Il primo è riconducibile al fatto che la prova indiziaria è stata presentata male, senza specificare il suo «range di errore», senza definire le variabili che potrebbero influire sulla sua interpretazione, senza precisare il suo posizionamento all’interno dei nuovi dati scientifici e della ricerca: in questi casi, anche se il risultato è corretto e rispondente alla realtà, è comunque esposto a un gran numero di facili critiche. Il secondo motivo è invece più insidioso ed è da attribuire al fatto che il significato ultimo del singolo tassello dipende dal contesto cui si faceva cenno prima, composto di altre perizie, di testimonianze, di investigazioni tradizionali. Se manca un contesto, al tassello spesso si può far assumere il significato che si preferisce. Evitando di eccedere in dettagli che sarebbero fuori luogo (visto che questo libro non è un manuale tecnico), aiutandomi con un po’ di teoria e attraverso le storie di omicidi – o comunque di crimini – di cui si sono interessati il Labanof (Laboratorio di antropologia e odontologia forense) e l’Istituto di Medicina Legale di Milano, ho cercato di spiegare la realtà di
una disciplina scientifica, razionale, apparentemente protocollare e tecnologica ma anche eclettica, capace di offrire risultati sorprendenti, e tuttavia non priva di limiti e di imprecisioni. Ho tentato di descrivere l’entusiasmo, la passione e la determinazione di chi lavora in questo mondo a volte frustrante, costellato di crimini e morti. È un settore, quello della medicina legale, in continua crescita, che acquisisce nuove discipline e nuove problematiche da risolvere a mano a mano che la giurisprudenza pone quesiti di diversa natura, relativi a leggi recenti appena applicate (da qui l’ulteriore pericolo dei consulenti tecnici self-made); un settore in cui molta ricerca è ancora da fare, ma che, in questo momento, è compromesso da un’immagine pubblica non aderente alla realtà. L’occhiata fugace che viene data attraverso i casi qui raccolti non è sicuramente esaustiva, poiché narra delle materie a me più familiari (la patologia, l’antropologia e l’archeologia forensi), ma spero che possa aiutare a capire la vera natura di questo mondo affascinante.
I Fino all’osso
Il cellulare squillava incessantemente nel silenzio di un luogo che aveva le sembianze di un bosco. Era notte, e non riuscivo a trovarlo. Le mie mani si agitavano nella disperata ricerca di questo oggetto infernale all’interno della sacca che avevo a tracolla; il suono melodico, ripetuto, del telefono strideva con l’angoscia e la paura che provavo nel buio in cui mi trovavo. Sentii una fitta al palmo della mano. La portai di fronte agli occhi per controllare e ancor prima di intuire il rivolo di sangue che scendeva ne avvertii l’odore. Avevo un taglio lungo circa mezzo centimetro alla base del pollice. Il rumore era cessato. Silenzio. Argo, uno spinone dal pelo ispido e nero, non si riusciva a distinguere nel buio circostante; girava intorno alle mie gambe e ansimava; era agitato, come me. Ripresi a camminare verso un punto che mi sembrava il più luminoso di quel bosco, calpestando foglie bagnate e fango; avevo i piedi umidi e un gran freddo. Sentivo un profumo familiare, quasi di incenso, simile a quello della cappella dell’Obitorio. Mi inquietò. Argo annusava per terra e non mi abbandonava. Non sapevo dove andare. Continuavo a camminare, senza voltarmi, malgrado sentissi qualcuno o qualcosa alle spalle. Continuai a frugare nell’enorme tracolla, beige, di juta credo, che non riconoscevo come mia. Tastando con le mani nella borsa, sentii comunque cose che riconoscevo bene: fogli, l’agenda, libri e un coltello. Ecco come mi ero ferita: ma che cosa ci faceva un coltello nella mia borsa? Il trillo melodico riprese e, ormai nel panico, mi rimisi a frugare ancora più affannosamente. Toccai il metallo squadrato del cellulare. Lo tirai fuori. Era il Porta. Mi ero smarrita in un luogo che non conoscevo, sola, di notte... Ma perché non avevo chiamato nessuno? C’era un motivo per cui mi trovavo lì, ne ero certa, ma non riuscivo a razionalizzarlo, né a ricordarlo. Ero confusa e spaventata. «Pronto...» Invece del solito tono squillante sentii singhiozzare: «Cri…». A stento riconobbi la sua voce… mi assalì un tale senso di angoscia che mi misi a urlare: «Cosa è successo… cosa è successo…». Non riusciva a parlare. Finalmente cominciò ad articolare qualche parola: «È saltato in aria il metrò…» e continuava a singhiozzare. Non l’avevo mai sentito piangere, e mi faceva male. Non era una comunicazione di servizio, era la disperazione. Avevo la convinzione che fosse successa una tragedia. Sentivo fisicamente sulla pelle la sensazione di morte, di ineluttabile e di dolore come mai prima: un pugno che mi saliva in gola dallo stomaco. Scoppiai a piangere. Non lo sentivo più. Mi cadde il telefono, mi inginocchiai per cercarlo, tastando nel buio. Sentivo il bagnato del terriccio impregnarmi i jeans e poi le ginocchia mentre cercavo di scostare il muso umido di Argo che annusava le mie mani mentre annaspavo tra le foglie. Nulla. D’un tratto vidi all’altezza della mia testa chinata sul terreno due piedi curati, con le unghie pittate di un colore scuro che non riuscivo a distinguere, sandali tempestati di pietre a mo’ di brillanti, e tacchi che affondavano nelle foglie. Ecco chi mi seguiva. Appoggiandomi su un gomito, alzai la testa e guardai in su. Era bella, piccolina, bionda, con i capelli corti e un lungo ciuffo sulla fronte, gli occhi azzurri; portava orecchini rotondi, di metallo dorato, che luccicavano nel buio. La bocca era pronunciata, protrusa, probabilmente per la presenza di grossi incisivi che facevano capolino malgrado cercasse di tenere le labbra chiuse. Non riuscivo a capire come era vestita. Forse aveva una maglietta a maniche corte bianca e una gonna corta azzurra, o comunque chiara, ma pareva arruffata, con dei pezzi mancanti, come se fosse stata bruciata. Quel volto mi era familiare, ma non lo riconoscevo. Mi guardava e sorrideva, gentile. Non mi faceva paura. Argo nel frattempo si era sdraiato e aveva accavallato elegantemente le zampe anteriori. La donna aprì la bocca come per parlare. Con una voce dolcissima, senza alcuna rabbia né rancore, sussurrò: «Perché mi hai portato via il mio bambino?». Rimasi muta. Non la capivo, ma dentro di me qualcosa riconosceva il significato di quelle parole. Silenzio. «Perché mi hai portato via il mio bambino?» con un tono più alto, ma
non minaccioso, e con un lieve accento straniero, forse dell’est, ripeté le stesse parole, con la stessa cadenza. «Non lo so», farfugliai. «Quale bambino?» «Quello che hai detto che non c’era.» «Scusami, mi sono sbagliata, non potevo, scusami.» Il sorriso si dileguò dal suo viso. Si girò e s’incamminò nella direzione opposta rispetto alla luce, traballando sui tacchi come imprigionati nel terreno del bosco. Per un attimo seguii con gli occhi l’allontanarsi dei suoi polpacci tondi e bianchi. Indugiai qualche istante. Poi mi alzai e la seguii, con Argo sempre al mio fianco. Stava andando incontro a un gruppo di persone: giovani, vecchi, bambini, tutti vestiti in maniera diversa; alcuni erano in mutande, altri in abito da sera, alcuni portavano il cappotto, altri indumenti estivi. Da lontano vedevo che gesticolavano e parlavano tra loro, ma non riuscivo a udire alcun rumore, alcuna voce. La stavano aspettando, ovviamente la conoscevano. Argo si fermò. Io invece mi avvicinai di qualche metro. Nel buio mi sembrava di scorgere delle forme alate cadere dalla cima degli alberi, sfarfallando lievemente, e man mano il gruppo cresceva. Riuscivo a intuire un bisbiglio, un signore distinto mi sembrava dicesse: «No, hanno fatto tutto il possibile…»; una ragazza giovane, dal viso emaciato e senza denti rispondeva in maniera più concitata degli altri: «Sì, ma quando mai sono stata tossicodipendente… io? Magari qualche cicchetto e ogni tanto qualche farmaco, ma droghe mai». Un uomo nerboruto e brizzolato diceva ridendo: «Tutto quel casino e quei calcoli per niente... ma non hanno capito che volevo farla finita?» «No, dai, tutto sommato ci hanno azzeccato, tranne qualche imprecisione qua e là…» «Imprecisione? A me ha portato via il mio bambino.» La donna era intanto rientrata nel gruppo e un uomo di una certa avvenenza la strinse tra le braccia: stava piangendo. Baciò i suoi capelli e poi venne verso di me con aria di rimprovero. Si chinò alla mia altezza e, aprendo la bocca, mi investì con un alito fetido e disse: «A me hanno sparato in testa, qui» e puntò il dito vicino alla tempia. Non è stato un suicidio. Prima di farti tante menate per mesi e mesi con i tuoi esamini di laboratorio per confermare, confermare e confermare… la prossima volta dillo chiaro e tondo, capito?» Si avvicinò un ragazzo, in tuta da ginnastica, una vecchietta cercava di trattenerlo lo tirava per un braccio, sussurrandogli: «Guarda che a me ha fatto solo del bene… i miei adesso sono soddisfatti». Ma l’uomo riuscì a sciogliersi dalla morsa dell’anziana signora e inveì contro di me urlando: «A me era proprio necessario portare via un dito?» e accompagnò la protesta tirando su la manica e mostrandomi un polpastrello mozzato. Aprii gli occhi e mi trovai a fissare il pavimento in legno del soppalco sotto il quale dormo. Argo era al mio fianco. Trenta chili di pelo che russavano. Pensai subito di aver mangiato qualcosa di particolarmente pesante la sera prima, o che era ora di cambiare lavoro. Le sensazioni di quel brutto sogno mi accompagnarono per tutta la domenica. Non feci fatica a riconoscere la donna bionda alla quale avevo sottratto il bambino. Il volto del sogno corrispondeva a quello di una sconosciuta che era stata ritrovata in un campo di grano con l’addome e la regione pelvica bruciati e in decomposizione. Il Porta aveva fatto la ricostruzione facciale dai resti del cranio – per questo mi ricordavo bene quei denti – ed era stata identificata. Il pubblico ministero mi aveva raccontato che era stata uccisa dal suo fidanzato nordafricano quando era venuto a sapere che lei era incinta del loro bambino. La donna non voleva abortire; lui lo esigeva, perché aveva già altri figli dalla moglie in Marocco… e poi non poteva rischiare che si risapesse della cosa, né si poteva permettere di avere un altro figlio a carico. Così la uccise: tagliandole la gola e poi probabilmente sventrandola come estremo gesto di scherno. Mi ricordo ancora la fatica profusa durante quell’autopsia, proprio per capire com’era stata uccisa. L’assassino prima aveva tentato di bruciarla, ma non gli era riuscito. Poi, col passare del tempo, la decomposizione aveva avuto la meglio e, invece di un corpo, una domenica un passante con il suo cane aveva trovato uno scheletro con brandelli di tessuti putrefatti. Durante l’autopsia, con molta pazienza, rovistando con un piccolo specillo e un pennellino tra il marciume che una volta era il collo, trovammo due lunghi cilindri, larghi come un mignolo,
afflosciati ma ben riconoscibili, uno per parte, poco sotto l’orecchio, recisi in maniera inconfondibile: erano le carotidi. E da lì senza ombra di dubbio era passato un coltello, grosso e tagliente. Altro non si poté dire. La decomposizione e le fiamme avevano agito pesantemente sull’utero, tanto che non era stato più possibile valutare se la donna fosse in stato di gravidanza. L’utero, o quel che ne rimaneva, era infatti ridotto a una massa informe, mezza carbonizzata e piena di larve che ancora si muovevano, un po’ intontite dal freddo della cella mortuaria. Venni citata, negli anni successivi, in numerose udienze in Tribunale perché cercassi di chiarire questa evenienza, che del resto avrebbe dovuto essere il movente dell’omicidio. E a tutte le udienze continuai a ribadire che non si era visto l’embrione, che avrebbe potuto benissimo essere impiantato nella regione dell’utero che era scomparsa, ma che non c’erano più tessuti per effettuare un test di gravidanza affidabile. In buona sostanza, dovevo concludere che non c’erano prove certe della presenza di un bambino. Quindi, in qualche modo, la donna aveva ragione. Quel bambino che le era stato sottratto insieme alla sua vita, io glielo avevo negato anche dopo la morte. Gli altri non riuscivo a identificarli, tranne quello del colpo sparato alla tempia, che aveva le sembianze di un cadavere decomposto esaminando il quale avevo nutrito qualche dubbio se si trattasse di suicidio o di omicidio. Ma non potrei giurare che fosse lui. Era palese che quell’assembramento entrato nel mio sogno era costituito da miei morti, sui quali forse avevo lavorato in passato; alcuni erano sereni, altri mi rimproveravano, ma tutti erano molto vivaci. In effetti, se per qualche strana circostanza fossi obbligata a descrivere come mi figuro i miei «pazienti» in un ipotetico aldilà, credo che lo scenario sarebbe simile all’inferno dantesco: umano, irrequieto. Non perché siano «colpevoli» di qualche atto per il quale debbano pentirsi per l’eternità (anche se, in realtà, chi di noi non ha nulla da scontare?), ma proprio perché qualsiasi forma di vita umana non può rimanere tale, anche nell’oltretomba, senza il suo corredo di soddisfazione o compiacenza per tutto ciò che di buono ha fatto in un tempo precedente, e di rimpianti e pentimenti per le cose sbagliate. E anche se la morte cancella dal volto la vita con tutte le sfumature di emozioni più o meno intense (il sorriso stretto e forzato di chi è rimasto deluso ma non vuol farlo capire, le rughe che s’addensano ai margini degli occhi di chi sorride felice, lo sguardo fisso e perso di chi è disperato) non riesco, neppure in un’oltretomba inventato per gioco, a immaginare le figure «viventi» dei corpi martoriati sui quali lavoro, prive di passione, quella passione umana che ci porta, spinti dagli impulsi più innati, a volte a elevarci a vette di amore e benevolenza, altre a sprofondare nel fango dell’invidia e dell’odio così perfettamente e intensamente resa all’inferno. Insomma, se proprio devo immaginarli e sognarli, i miei morti li vedo tutti un po’ come Paolo e Francesca, che narrano la loro storia, che mi raccontano com’è andata veramente, cos’hanno provato prima di morire, se erano colpevoli, di cosa si pentono, o che cosa rimpiangono. E forse per questo, nei miei sogni, gli spiriti arrivavano dagli alberi mezzi alati, un po’ come le colombe con le ali alzate. Dante, ne sono certa, mi perdonerà. Interpretazioni a parte, il sogno, in definitiva, mi metteva di fronte l’angoscia di ogni morte che il mio lavoro si porta dietro, quella delle persone che se ne vanno all’improvviso, senza poter neanche fare un ultimo gesto, quello più importante, per colpa di altri o anche di se stessi, nel terrore, nella desolazione, nella solitudine, nella disperazione. Ogni morte è questo per noi, anche se riusciamo bene a camuffare quel senso di inquietudine come ansia da responsabilità giuridica o difficoltà tecnica o persino curiosità ed entusiasmo. In più, i morti per omicidio scompaiono con tutti i loro segreti, lasciandoci spesso assai poco su cui ricostruire. E questa responsabilità ingenera la paura più naturale che possa esistere: quella di sbagliare. Sbagliare non necessariamente vuol dire fare una diagnosi errata, ma può anche identificarsi con un comportamento di eccessiva cautela, quasi di insicurezza, o di eccessiva fiducia nella «scienza» – nemici insidiosi – che portano a un giudizio errato, a una ricostruzione falsa. La conseguenza
non è certo quella di perdere un paziente, come può succedere ai medici dei vivi. I nostri in genere sono già morti. Ma può essere quella di rovinare la vita a una persona fornendo elementi falsi sui quali condannarla, fuorviare le indagini completamente, a volte non vedere elementi che possono aiutare a dimostrare una colpevolezza; oppure semplicemente lasciare che sopravviva di una vittima un ricordo «sbagliato» a causa di qualche ultimo gesto male interpretato. Quella mattina mi rimase l’amaro in bocca – non solo per tutte le cose che non ho potuto vedere o capire in passato – con o senza colpa, ma addirittura per i «torti» che inevitabilmente avrei continuato a fare. A noi non è quasi mai concessa la soddisfazione di vedere se la nostra ricerca della verità è andata a buon fine (o se comunque non hai fatto danni). Sai come finisce il processo, vedi la strategia e l’ipotesi più accreditata trovare rispondenza, con un’assoluzione o una condanna, ma non sai mai con certezza se è andata esattamente così. È vero, la responsabilità, alla fine, è del giudice. Noi siamo tecnici, forniamo qualche tassello che, tra i tanti altri, servirà a provare un’ipotesi, tutto qua. Ma è anche vero che se la tessera è svirgolata, danneggiata, manca del tutto o non è accompagnata dalle istruzioni per l’uso su come inserirla nel complesso finale, il mosaico può uscirne irrimediabilmente distorto. Sono stanca di vedere strapazzare la nostra disciplina da chi non la conosce; di vederla talvolta data in pasto a giornalisti predoni della parte più gretta e scandalistica della morte violenta e del reato in genere, che hanno un’idea molto sommaria dell’abbinamento dei termini «scienza» e «forense» e che credono che questo sia un lavoro in cui ottenere numeri e risultati da una macchina o da un’equazione o comunque che un ragionamento scientifico significhi ineluttabilmente tirare fuori da un cappello a cilindro la soluzione del caso; e poi è triste vedere alcuni degli stessi «scienziati» contribuire a deturparla, o perché non qualificati, o perché, volontariamente, non vogliono ammettere zone di grigio, ma soltanto risultati bianchi o neri… sempre certi, o quasi. Si fa fatica davvero, soprattutto in questo momento storico, a far capire che nel mondo la scienza non ha un ruolo da regina, ma solo ausiliario, che spesso non ha risposte precise e che non è infallibile. Ed è per questo che ho scelto, tra un po’ di teoria e storie vere – recenti e antiche – di illustrare ancora più a fondo la vera natura della medicina legale e delle scienze forensi e dimostrare quanto si possa talvolta arrivare a risultati credibili e utili, ma anche quanto siamo costretti a lavorare in un ambito con molti limiti e forzatamente influenzato dall’errore tecnico. Insomma, talvolta puoi arrovellarti, adoperarti, cercare ovunque soluzioni, ma, alla fine, devi arrenderti e gettare la spugna, anche se hai scavato fino all’osso. L’idea e anche l’obbligo di scavare fino all’osso mi accompagnano da molto tempo, non soltanto da un punto di vista metaforico ma soprattutto pratico. Prima di laurearmi in medicina e poi specializzarmi in medicina legale, lo stile di vita girovago e un poco inconcludente, nonché la mia natura un po’ pigra e indecisa, mi hanno prima orientato verso la laurea in biologia e poi verso la specializzazione in antropologia all’estero, senza sapere cosa volessi veramente fare. Fra i 18 e i 25 anni non ho fatto altro che studiare cellule e ossa, senza intravedere davvero cosa sarei stata da «grande» e senza neanche sfiorare con la fantasia l’idea di medicina e, ancor meno, di medicina legale. Quando rientrai in Italia, disorientata sul da farsi, accettai i consigli di mio padre e mi iscrissi alla facoltà di Medicina a Milano. Nell’arco di pochi anni avrei conosciuto i professori di medicina legale e scelto ciò che pensavo fosse la migliore fusione di quelli che fino ad allora erano stati i miei interessi e i miei studi. D’altronde, l’antropologia e il lavoro sugli scheletri antichi mi avevano abituato al fascino e alla sfida della ricostruzione del passato; perché non farlo in un ambito che, allora, pensavo ancora più stimolante, cioè la giustizia? E così mi avvicinai con grande ingenuità e con una formazione molto diversa al mondo delle scienze forensi, che dall’interno e nella pratica risultò in parte assai differente da ciò che mi aspettavo. Credo che a questo punto sia opportuno fare un po’ di chiarezza – come ai tempi avevo dovuto
fare io nella mia mente – sulla vera natura di questo mondo, proprio perché non si venga fuorviati dalle versioni patinate che si vedono in alcuni serial televisivi, o nei romanzi, o dall’immagine completamente travisata che ne esce dai casi di cronaca. Il primo passo è quello di spiegare chi sono i medici legali. La nozione comune di medico legale cambia da paese a paese, per ragioni culturali e sociali. In Italia e nei paesi dell’Europa del sud è una figura che lavora su molti fronti: spazia dalla visita per valutare la presenza di un colpo di frusta su un incidentato o se un malato si merita l’assegno di invalidità, a studiare le vittime di violenza sessuale ed eseguire le autopsie sui corpi di persone vittime di omicidi, su cui ci sono i segni di arma da fuoco. In molti altri paesi invece il ruolo del medico che lavora per la giustizia si limita alla patologia forense (fare le autopsie di interesse giudiziario) e alla medicina forense clinica (studiare le vittime che sono sopravvissute a episodi di abuso, violenza, maltrattamento ecc.). Semplificando e sintetizzando, la parte della medicina legale più vicina alle altre scienze forensi è comunque la patologia forense. Allo stesso modo le scienze forensi rappresentano l’applicazione al mondo giudiziario di scienze autonome e di validità generale. Per esempio, la genetica moderna esiste dalla scoperta del Dna negli anni ’50. La genetica forense non è altro che l’applicazione delle metodiche di studio del Dna in un modo che possa servire a un giudice. Lo studio del Dna verrà fatto non tanto per scoprire se una persona è portatrice di una malattia genetica e quindi per trovare una terapia, ma per capire se il sangue di una macchia appartiene a uno specifico aggressore. Lo stesso può valere per tutte le altre «scienze», botanica, geologia, entomologia, antropologia, archeologia, ingegneria e così via. Non esistono, insomma, discipline forensi «nuove», a sé stanti. Ognuna di queste, tuttavia, per meritarsi l’aggettivo «forense», va adattata e calibrata alle esigenze del mondo giudiziario, perché il materiale che si studia è diverso (provate a pensare alla differenza tra un campione di sangue di un vivo e quello di un cadavere in decomposizione da un anno) e perché sono obbligatoriamente diverse le modalità di revisione critica dei risultati che devono essere trasmessi a un giudice che non è un esperto del settore ma che sarà il responsabile della decisione finale riguardo all’ipotesi che più credibilmente diventerà «verità». Il risultato quindi deve essere corredato da una serie di dati e considerazioni che gli diano il giusto ruolo e peso nel rispondere a domande specifiche, che riguardano, per esempio, l’epoca e la causa di morte. Fatte queste premesse, è chiaro che alcuni requisiti del nostro mestiere sono ovvi, o dovrebbero essere scontati e valere per ogni tipo di lavoro. Innanzitutto la precisione e la meticolosità, l’attenzione, per esempio, a non inquinare le prove, a non rovinare i reperti e così via. Poi c’è la preparazione. Il perito o il consulente deve essere preparato e aggiornato. Chi lavora nelle scienze forensi dovrebbe avere le apposite qualifiche accademiche: per esempio, una consulenza di tipo medico-legale in cui si richiede l’interpretazione di lesioni e della causa di morte dovrebbe essere eseguita solo da un medico specializzato in medicina legale (d’altronde credo che nessuno si farebbe operare alla testa da un cardiologo). Ma non sempre questo succede. La questione si complica con le «scienze forensi». Chi si occupa di botanica, antropologia, archeologia, entomologia non può automaticamente diventare botanico o genetista forense poiché gli mancano la formazione e il modus operandi del mondo forense. Deve essere prima qualificato nella sua materia e poi nelle applicazioni forensi (come prima si diventa medici e poi medici legali). Purtroppo, lo scenario accademico è ancora poco sviluppato e molto confuso per dare una formazione riconosciuta e assicurare, almeno sulla carta, una certa preparazione, nelle altre scienze forensi. Ed è proprio in queste discipline che c’è il maggior rischio di self-made men senza alcuna esperienza che contribuiscono al degrado in cui si sta scivolando. Per ora ci si può e ci si deve rivolgere solo a chi è ferrato in quella scienza particolare (per esempio l’entomologo, il biologo, il botanico, l’antropologo), ma che ha anche guadagnato sufficiente formazione ed esperienza in ambito forense, magari grazie alla
collaborazione con centri universitari specializzati, che possano tra l’altro garantire la sua progressiva conoscenza in ambito forense. Ma tutto questo molti giudici non lo sanno. E c’è l’effettivo rischio di lavorare con consulenti non idonei. Dunque, si diceva che in questo mondo, e in particolare nell’ambito della patologia forense, ci sono requisiti che ci si aspetterebbero in qualunque professione: attenzione, meticolosità, preparazione, qualificazione. Fino a qui tutto normale. Ci sono però altri requisiti e connotati fondamentali, forse più importanti, ma meno conosciuti, o perlomeno meno pubblicizzati, più difficili da gestire e da controllare, che sono il fondamento di tutto: la consapevolezza dei limiti, la conoscenza (e l’ammissione) dell’errore di un metodo, la grande ecletticità e la capacità di tenere a bada le emozioni. La prima di queste lezioni che appresi personalmente fu quella che le scienze forensi e la medicina legale sono eclettiche. Malgrado il loro aspetto formale e «protocollare», la fantasia e la multidisciplinarità sono fondamentali. Se devo capire da quanto tempo è morta una persona il cui cadavere è stato trovato decomposto in un bosco, dovrò interpellare un botanico e forse anche un palinologo (un esperto in pollini) che mi sappiano dire da quanto tempo quei resti sono colonizzati da muschi, radici e altre componenti di piante e fiori. Se poi dovrò capire se un certo tipo di piccone può aver provocato una determinata frattura sul cranio di una vittima, molto probabilmente dovrò ricorrere all’ingegneria. In gran parte dei casi complessi nessun patologo forense è indipendente, e nessuno può permettersi di tentare di risolvere un problema senza chiedere il consiglio di altri esperti. Ma chi è che decide che cosa andrebbe fatto e applicato in un caso particolare? Non c’è una risposta precisa e forse molti problemi hanno origine da qui. Facciamo un esempio pratico: una persona viene trovata in casa con la testa fracassata. Il fatto viene comunicato all’autorità giudiziaria, squadre omicidi, magistratura e quanti altri vengono coinvolti. Quindi viene il turno dei «tecnici»: per primi intervengono le Scientifiche, di Polizia o Carabinieri, poi il medico legale. Questi ha il principale compito di occuparsi del cadavere, quindi applicherà tutte quelle pratiche necessarie per capire come sono andate le cose. Nel caso di cadavere fresco, misurerà temperature, osserverà le lesioni, valuterà il rigor mortis, e così via. Poi, in sede di autopsia, deciderà se è conveniente prelevare le unghie (per identificare eventuali residui di materiale appartenente all’aggressore), se effettuare i prelievi per un’eventuale indagine tossicologica, se fare i tamponi vaginali, se raccogliere la pelle intorno alle lesioni per individuare schegge lasciate dall’oggetto contundente non visibili a occhio nudo. Quindi, se tutti questi reperti dovranno poi essere studiati per rispondere alle domande di un giudice, per ogni disciplina ci sarà spesso bisogno di uno specialista diverso – il genetista per le unghie, il tossicologo per le droghe, il chimico per i frammenti di metallo, e così via –, con un aumento dei costi delle indagini. Ma questo diventa un problema del magistrato. Dopo che il morto sarà sepolto o cremato, non ci sarà più via di ritorno; molti dei reperti potrebbero andare perduti. Quindi il medico legale dovrà essere lungimirante e prelevare tutti i campioni che ritiene utili non soltanto per rispondere a domande contingenti, ma anche a quelle che potranno insorgere in futuro. In genere queste cose sono di competenza e vengono affidate al medico legale, che di solito proviene da una struttura universitaria o Asl. Colpe e meriti di non aver o di aver organizzato bene lo studio del cadavere andranno tutti a lui, o lei. Più intricata è la situazione delle altre scienze forensi e del loro ruolo già dall’inizio, cioè al momento del sopralluogo. Le Scientifiche di Polizia e di Carabinieri sono le più qualificate nella fotografia, nello studio delle impronte digitali, delle tracce di sangue ecc. In uno scenario semplice potrebbe essere sufficiente, anche se le domande giudiziarie che seguiranno potranno andare oltre a ciò che si chiede di routine: immaginiamo uno scenario in cui vi è da estrapolare l’andatura dell’assassino in base alle tracce delle scarpe, oppure capire la fonte di uno sparpagliamento di gocce di sangue, oppure ancora la presenza di animali in casa che possono
aver contribuito ad alterare la scena del crimine. Anche qui colpa e merito andranno a chi non avrà o avrà documentato perfettamente tracce, sangue e peli in ogni punto della scena, eventualmente con un’apparecchiatura idonea anche a estrapolare informazioni tridimensionali di ogni oggetto, che saranno fondamentali, per esempio, all’espletamento di una successiva perizia ingegneristica. Ma ci sono scenari ancora più complicati e insidiosi. Pensiamo, per esempio, a un cadavere decomposto in un bosco, ormai quasi ridotto allo scheletro. L’indagine ambientale sarà molto diversa rispetto a quella da effettuare in un ambiente chiuso. Sia sul cadavere che nei dintorni dovranno essere studiati elementi diversi: foglie, radici, insetti, terreni e anche escrementi di topi e per farlo non sono più sufficienti le conoscenze «tradizionali», o accademiche, delle Scientifiche e spesso dei medici legali. Servirebbe un «crime manager scientifico», che fosse in grado di decidere che cosa applicare e quando, ma è questa una figura che non esiste. Non può essere il magistrato perché non è un tecnico. Attualmente la soluzione più agevolmente percorribile per evitare di perdere informazioni al sopralluogo (e anche all’autopsia) è che Scientifiche, medici legali e Università si confrontino e ammettano le loro lacune. A medici legali e operatori di Scientifica spetta l’obbligo di acquisire una cultura eclettica, per lo meno per sapere quale tipo di esperto va interpellato in rapporto al contesto. Il compito delle Università, come di ogni ambito scientifico, è quello di formare alla professione e alla ricerca gli specialisti mancanti. E, quindi, come spesso già succede, se c’è bisogno di un entomologo, di un botanico, di un geologo o di altri esperti ci si rivolge a un Istituto universitario. In questo marasma di competenze e di gestione della parte scientifica (aspetto assai delicato e potenziale fonte di errori anche gravi) di un caso giudiziario, il concetto base consiste nell’apprezzare e conoscere la multidisciplinarità di gran parte dei casi e nell’ammettere che non possiamo più permetterci di ignorare l’apporto e l’esistenza di discipline che potranno essere fondamentali per la soluzione di un caso. Questo non vuol dire diventare tuttologi ma, al contrario, ammettere che il medico avrà bisogno, poniamo, di un buon botanico per fare chiarezza sulle dinamiche di un omicidio. Il portaostie Mi fu chiaro, dopo pochi anni che frequentavo l’Istituto di Medicina Legale, quanto il mondo forense nel quale avevo trovato una mia collocazione professionale fosse caratterizzato da una fantastica multidisciplinarità grazie a un caso che ancora oggi ricordo nei minimi dettagli per quanto mi stupì. Risale a una quindicina d’anni fa, e nasce con l’arrivo in Università di un portaostie. Ero al primo anno di specialità in medicina legale. Il Labanof – Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense – praticamente una new entry. Non c’erano ancora il Porta, Danilo, Pasquy e gli altri, però già si parlava con interlocutori un po’ «particolari», per esempio geologi, zoologi e botanici conosciuti attraverso il Laboratorio di Paletnobotanica del Museo Civico di Como, dove avevo avuto la fortuna di lavorare per diversi anni, seguita da Lanfredo Castelletti, il direttore, persona tra le più intellettualmente vivaci ed eclettiche, appunto, che abbia mai conosciuto. Qui, in un palazzo del ’700, sotto affreschi che decoravano alti soffitti (un ambiente alquanto diverso dalle meno artistiche strutture universitarie) si sviluppavano stanze piene di lavandini, cappe, microscopi di ogni tipo, dedicate allo studio di reperti biologici che provenivano da scavi archeologici. Gli archeologi si occupavano dei cocci e delle fibule, quelli del Laboratorio delle ossa umane e animali, dei semi, dei carboni, di tutto quello che poteva servire da un punto di vista scientifico a ricostruire una civiltà antica. Qui Castelletti mi aveva dato il mio primo ingaggio come antropologa, poi il secondo, il terzo, insomma, continuai a frequentare il Museo per diverso tempo, fino a quando non venni fagocitata dall’Università. Tra ossa, foglie, carboni e terra ritrovati in scavi archeologici, questo laboratorio era una specie di «Scientifica» dell’antichità, ma, mentre lavavo scheletri nei cortili del Museo, mai avrei pensato
che qualche anno dopo avrei catapultato qualcuno di loro nel mondo della «Scientifica» moderna. In quel periodo, all’Istituto di Medicina Legale lavoravano due medici che avevano creato il Laboratorio di Genetica Forense, anche loro entusiasti e più o meno alle prime armi. Un giorno mi cercarono per un caso che dicevano potesse presentare aspetti antropologici. Si trattava di un portaostie, proprio come quelli che il parroco di Pontestura sfilava dalla tasca della tunica quando portava la comunione a casa di mia nonna materna, ormai troppo ammalata per andare a messa. Il contenuto di questo anonimo contenitore di colore argenteo stava creando non pochi problemi alla Procura e, di conseguenza, ai miei colleghi genetisti cooptati perché fornissero un parere esperto. C’era un problema, un vero e proprio rebus: il portaostie non era stato trovato in una sacrestia, bensì nella camera da letto di un ragazzo che, a quanto dicevano gli inquirenti, bazzicava sette sataniche ed era forse coinvolto in attività ben più gravi della pratica del satanismo, quali l’omicidio e l’abuso di pezzi di cadavere. Oggetto sacro, contenente ceneri, ritrovato all’interno della stanza di un presunto satanista. Per il PM l’associazione fu immediata: quelle ceneri erano umane? Il magistrato aveva pensato subito di far effettuare indagini genetiche per verificare se quelle ceneri contenessero Dna umano. I miei colleghi avevano sottoposto una parte di quei reperti a sofisticate indagini genetiche, ma senza alcun risultato. «Non viene fuori niente, neanche la più piccola traccia di materiale umano», disse uno di loro. Questo poteva significare due cose: o quel materiale non era umano; oppure era umano ma talmente degradato dal fuoco che il Dna era divenuto illeggibile, o era stato del tutto distrutto. Per me queste conclusioni non furono particolarmente sorprendenti. L’esperienza maturata in campo archeologico mi aveva resa consapevole che le ceneri derivanti dalla combustione di un corpo spesso non contengono più Dna leggibile. Ogni tanto, se va bene, residua qualche traccia, ma a volte no, o comunque non è più utile alle indagini. Infatti, le ultime ricerche nel campo ancora oggi indicano che può presentarsi come impresa ardua cercare di ricavare informazioni di tipo genetico da materiale sottoposto a lungo a temperature superiori a 300 °C. «Cosa si può fare di altro su questi frammenti d’ossa?» chiese uno di loro, alto, biondo, con un sorriso tra il sornione e il divertito. Davano infatti per scontato che quei frustoli duri e neri fossero ossa combuste. Domandai di poterli vedere, o perlomeno di poter vedere quel che rimaneva del contenuto. Il giorno successivo mi portarono un sacchettino di plastica sterile, con i margini rossi, che conoscevo bene. Erano i sacchetti dei nostri laboratori nei quali venivano sigillati reperti particolarmente delicati, che non dovevano essere contaminati. Valutai a occhio che il sacchetto trasparente poteva contenere circa una decina di grammi di cenere nera. Tastandolo con le dita avvertii la presenza di due o tre pezzi più grossi, non più lunghi di un centimetro, con la forma di un ago di pino o di una scheggia. Dissi subito, con la stessa ottusità e ristrettezza di vedute di chi mi aveva preceduto: «Bene, questo pezzo carbonizzato di osso potrà dirci qualcosa in più, faccio un esame al microscopio». Ero segretamente felice. Con l’entusiasmo di un bambino che non dubita che la propria squadra di calcio sia per forza più forte dell’altra, pensai che per una volta l’antropologia sarebbe riuscita dove la genetica – la regina delle scienze – aveva fallito. Per la verità, avevo un rapporto quasi d’affetto con il mondo delle biomolecole, del Dna, delle proteine. Il mio dottorato era incentrato proprio su tali sostanze presenti in ossa antiche e su queste tematiche avevo sudato per cinque anni della mia giovinezza. Ma la richiesta a priori che i magistrati facevano di condurre indagini genetiche, e la preconcetta convinzione che potessero risolvere tutto, ignorando altre valide alternative, mi aveva sempre irritato. E mi piaceva l’idea di far vedere che molte sono le discipline «importanti» per le scienze forensi. Il Porta, anni dopo, credo con lo stesso spirito, avrebbe ideato una tra le più assurde e ironiche delle sue massime: «Il Dna non si vede quindi non esiste…».
Chiesi che mi lasciassero la scheggia più lunga, e lo fecero con un po’ di riluttanza, quasi fosse una gemma preziosa. Ma, d’altronde, loro non potevano più farci nulla. Nei giorni successivi studiai con grande attenzione e trepidazione quella «gemma». Sapevo esattamente come procedere. Avrei fatto una sezione microscopica su quel pezzo che tutti presumevamo essere osso (d’altronde cos’altro del corpo umano può sopravvivere alle fiamme?), avrei osservato la forma degli osteoni (le componenti microscopiche basi dell’osso) e avrei potuto capire se fosse umano o no. Fine del problema. Mi basavo su una prassi antropologica ben conosciuta nel mondo dell’osteologia: la diagnosi di specie. Spesso gli antropologi si ritrovano con dei frustoli d’osso bruciato, provenienti da antiche cremazioni, ed è necessario stabilire se il materiale è umano – e quindi appartenuto alla persona che era stata cremata – o se si tratta di offerte rituali, per esempio bovini, suini e ovini, che era pratica consueta gettare sulla pira per accompagnare il morto nell’aldilà. Quando i pezzi sono sufficientemente grandi, un occhio esperto riesce a capire, anche soltanto all’osservazione, se si tratta di materiale umano: l’occhio allenato riesce a intuirlo anche da un frammento di dente o di articolazione ossea di pochi millimetri. Se le schegge sono invece troppo piccole, questo non si può fare. E allora bisogna risolvere la questione in altro modo. Chiaramente si pensa subito al Dna. Ma chi studia le cose antiche, e quindi degradate, sa bene quanto sia fallace in questi casi e quanto talvolta convenga trovare vie alternative. E la prima, più logica, è quella della microscopia. L’aspetto microscopico dell’osso, cioè come si presenta quando lo osserviamo a ingrandimenti di cinquanta volte e più, può rivelare molto sulla sua provenienza. Tuttavia, prima di raccontare come si può distinguere microscopicamente una scheggia d’osso di suino da una umana, è opportuno spiegare brevemente com’è fatto questo tessuto meraviglioso che muta costantemente ma che, allo stesso tempo, contiene un’elevata quantità di informazioni di natura, chimica, genetica, morfologica. L’osso è composto da una matrice inorganica, e quindi minerale, che si presenta prevalentemente sotto forma di cristalli di idrossiapatite con un notevole contenuto di calcio, e da una matrice organica, costituita da cellule dalle funzioni diverse, e in gran parte da collagene che dà all’osso una maggiore elasticità. Ogni tessuto del nostro corpo ha la sua struttura particolare, formata da «unità base» sulle quali si crea l’architettura di un organo intero. Il cervello ha i neuroni, il muscolo le fibre muscolari, l’osso «l’osteone». Quando si forma un osso, inizialmente dobbiamo immaginarlo come un miscuglio di cristalli, fibre di collagene e piccolissime cellule: se lo guardassimo al microscopio vedremmo un panorama simile a sabbia, con granuli di dimensioni e colori diversi. Poi le cellule si attivano, alcune come produttrici di osso nuovo (e sono gli osteoblasti), altre come distruttrici di matrice ossea (osteoclasti) e, attraverso meccanismi molto complessi che non esiterei a definire «miracolosi», creano in mezzo alla «sabbia» le strutture architettoniche principali dell’osso: gli osteoni. Ogni osteone ha l’aspetto di una ciambella, con un buco centrale e uno spessore costituito non da un unico strato ma da più strati concentrici, separati l’uno dall’altro da righe sottili composte da piccolissime cellule allineate lungo la circonferenza. Quindi ogni osteone avrà l’aspetto di una girella di liquirizia, con un buco al centro (per il passaggio di arteria, vena e nervo), e 5, 6, addirittura 10 giri intorno, di colore chiaro, concentrici, ben distinguibili tra loro. A questo punto, il quadro al microscopio sarà un po’ diverso. In mezzo alla «sabbia» compariranno le ciambelle-osteoni. L’osso ha molte funzioni: deve sostenere pesi, deve crescere e allungarsi, sostituirsi durante l’invecchiamento, essere in grado di fronteggiare i danni di una frattura. Per questo è in costante attività, una specie di microscopico cantiere il cui lavoro può essere seguito al microscopio. Se potessimo osservare la stessa sezione di osso anno dopo anno, vedremmo osteoni in formazione, osteoni in demolizione, e più osteoni formarsi in mezzo alla «sabbia» man mano che si invecchia.
Ora, la disposizione che assume questa nostra ciambella in mezzo alla sabbia, la sua forma e le sue dimensioni possono essere molto diverse tra una specie e l’altra. E poiché una grossa componente è minerale, la struttura rimane spesso intatta anche dopo l’esposizione a temperature elevatissime. Ma come cambia la struttura dell’osso tra animali? I bovini, per esempio, e i suini spesso presentano tessuto privo di osteoni, ma composto da «pennellate» di osso disposte in strisce parallele. Questa particolare composizione si chiama «plessiforme» e, quando la vedi, sai che puoi dire con certezza che «non è umano». La stessa conclusione vale se trovi osteoni con margini frastagliati, come nel gatto. L’umano ha sempre margini lineari, mai irregolari o frastagliati. Nel caso invece in cui si trovino osteoni apparentemente rotondi o ovalari, iniziano i problemi. Potrebbero essere umani, ma non ne hai la certezza perché altri animali li hanno ovalari e regolari. E allora, come è possibile distinguere con certezza un osso umano? Attraverso le dimensioni, dicono i sacri testi. La diagnosi qui però si complica un po’. Bisogna innanzitutto munirsi di software idonei a misurare linee e aree all’interno del campo visivo del microscopio. In genere si calcolano i diametri massimo e minimo del buco che sta al centro dell’osteone. E poi si misura la stessa cosa sull’osteone intero. Alla fine inserisci tutti i dati in meravigliose formule che ti danno un risultato, un numero: o positivo o negativo. Se è positivo, si tratta di materiale umano, se negativo, appartiene probabilmente a un’altra specie. Probabilmente. Ecco la nota dolente. L’errore del metodo è piuttosto alto, del 25-30%. Quindi un po’ più di due volte su dieci, un osso classificato come non umano invece lo sarà. Questo perché la diversità biologica è talvolta molto significativa. Un umano in genere ha osteoni con dimensioni variabili da un minimo a un massimo standard. A volte, però, il suo range normale sconfina in quello di un’altra specie, più grande o più piccola. È un problema che si presenta regolarmente in biologia. Sapevo quindi che le cose stavano in questo modo: se trovavo un tipo di osso plessiforme, ero sicura che non era umano; se trovavo osteoni con margini irregolari idem; se mi toccava misurare gli osteoni, sapevo che qualunque risposta avessi dato avrebbe portato con sé comunque un errore abbastanza ampio. Beh, sempre meglio di quello che ci offriva al momento il Dna. In questo caso specifico, comunque, non sarei arrivata fino a tanto. Mi apprestai a fare una sezione della scheggia. Questo significava metterla su un vetrino con una goccia di resina che l’avrebbe letteralmente avvolta e incollata al vetro, e poi molarla con una lapping machine. La lapping machine (che non c’entra nulla le contorsioni di ballerine mezze nude attorno a un palo) era stato il primo acquisto di supporti tecnologici (dopo la meno tecnologica batteria di pentole per macerare e pulire le ossa) del Labanof, dove lavoro. È una mola per minerali che riduce una struttura dura a una sezione sottile, abbastanza sottile da essere attraversata dalla luce del microscopio e permettere di osservarla in trasparenza. Soltanto così si possono vedere gli osteoni. Per molare il campione tuttavia bisognava che qualcosa lo tenesse fermo contro la mola rotante al fine di ridurne pian piano lo spessore. Poiché eravamo poveri (e lo siamo tuttora), avevamo acquistato il modello «base» da 3 milioni di lire. Nel modello da 10 milioni era un braccio meccanico a sostenere il pezzo contro la mola. Nel modello da 3 milioni era il mio dito fermamente schiacciato sul vetrino attraverso del biadesivo. Il risultato era lo stesso; ma i tempi un po’ più lunghi e l’effetto finale non era soltanto la molatura del campione ma anche delle mie unghie e dei miei polpastrelli. Ma andava bene così. Ci misi un paio d’ore, dopo di che mi sedetti davanti al microscopio con il vetrino in mano. Liberai il pianale tra me e il microscopio e stesi per bene la carta bibula (tipo carta Scottex) che stava sul tavolo passandoci ripetutamente sopra i palmi delle mani in direzioni opposte, e sistemando matite, carta e tutto ciò che mi poteva servire in maniera ordinata, un po’ come quando uno si mette a tavola con una gran fame, appiana le pieghe della tovaglia e raddrizza coltelli e forchette pregustando già il buon piatto di pasta che sta per essere
servito. Già mi si formava nella mente un qualche profilo osseo che mi avrebbe detto qualcosa. Anche se non erano umani, andava ugualmente bene, perlomeno sarebbe stato un risultato. Infilai il vetrino sotto l’obiettivo. Ruotai la ghiera degli ingrandimenti fermandomi a 10X. Accostai gli occhi sul binoculare. Foschia. Girai le manopole per la messa a fuoco e identificai molto bene i margini della mia sezione. Mi aiutavano le bolle d’aria nella resina che inevitabilmente si formavano quando appoggiavo sulla sezione il coprivetrino. Guardai al centro trattenendo il fiato. Niente. Nessun osteone, nessun osso plessiforme, niente di niente, se non una spalmata illeggibile di materiale nerastro. Bene, anche l’antropologia aveva fallito miseramente. Non solo era crollato il piedistallo sul quale avrei posto queste analisi sotto gli occhi di tutti, ma il caso sarebbe stato chiuso con un «non si può dir niente». Una tragedia per me, ai tempi. Soltanto dopo, negli anni, avrei fatto l’abitudine ai grandi limiti connaturati al mio lavoro. Ero delusa. Non avevo una spiegazione. Possibile che la temperatura fosse stata così elevata da distruggere completamente la struttura minerale dell’osso? Non quadrava. Il materiale era nero, e in genere gli effetti devastanti a livello microscopico si ottengono soltanto quando l’osso raggiunge temperature più elevate e diventa bianco. Non era questo il caso. Che dell’altro materiale – forse sintetico – si fosse sciolto sull’osso, coprendolo con una patina impenetrabile? Qualche giorno dopo andai in laboratorio a Como per controllare alcuni scheletri che stavo finendo di studiare e mi capitò di parlare con il deus ex machina, con colui che avrebbe con grande semplicità risolto il problema: Alfio. Alfio era un mago della botanica che lavorava come tecnico da Castelletti. Avevo subito legato con lui e capito che il suo modo di fare inizialmente un po’ schivo era uno schermo per un animo sensibile e un’intelligenza molto pratica. La sua morte anni dopo sarebbe stato un evento al quale ancora oggi non mi sono abituata: mi manca l’amico che mi diceva che dovevo lavorare meno e godermi la vita; e mi manca il collega geniale, botanico, merceologo (studioso dei tessuti), che riusciva a trovare soluzioni impensate ai problemi più assurdi. «Certo che lavorare nel forense può essere una bella fregatura…» mi lamentai con lui. Sapeva che ero passata a questo settore da poco, conosceva il mio entusiasmo e poteva capire ciò di cui mi stavo lamentando. Gli raccontai il caso. «Sai, se non riesci a capire se si tratta di un osso umano nel caso di un’olla cineraria antica, va be’, alla fine, amen. Ma mi dà più fastidio con un magistrato che aspetta di sapere se fare un arresto o no, è un po’ diverso.» Mentre ascoltava si sbafò un piatto di pasta corta poco condita, una bistecca con contorno e un caffè. Si passò il tovagliolo sulla bocca; sazio, si appoggiò allo schienale della sedia della mensa dell’Associazione Alpini di Como dove mi portava spesso a mangiare e, con le mani in mano su una pancetta per nulla evidente ma di cui si lamentava in quanto sportivo, disse: «Vuoi che gli diamo un’occhiata al SEM?» Aveva appena pronunciato la frase che dentro di me pregavo dicesse. «…Davvero?! Sì, sì, grazie.» E via con i soliti: «per fortuna che ci sei tu», «quando lo facciamo» e avanti di questo passo. Il SEM (microscopio elettronico a scansione) era uno dei miei strumenti preferiti, sofisticato, costoso, che ti permetteva di vedere gli oggetti più piccoli ingranditi migliaia di volte. Mi ricordavo le immagini che avevo visto sul SEM di Alfio riguardanti frammenti di carboni provenienti da scavi archeologici: un insulso pezzo di legno bruciato era stato trasformato da questo strumento in una stupenda struttura ordinatamente composta da antri, fori, tunnel, una specie di castello. Così volevo vedere la mia scheggia. Passò da Milano qualche giorno dopo a prendersi il reperto e la settimana successiva ritornai a Como. Pensavo che Alfio avrebbe osservato quel misterioso pezzo insieme a me. Mi aspettavo quindi di dover attendere qualche ora, di seguire pazientemente tutti i suoi preparativi – nonché i racconti en passant che faceva, di solito, delle cose più strane, nei momenti in cui meno te l’aspettavi e meno opportuni. E Alfio non parlava di cose «importanti» mentre stava
facendo altro. Si fermava. Per questo già anticipavo la mia impazienza di fronte alla sua grande calma e puntualità nei racconti. Ma mi sbagliavo: aveva già fatto tutto. Mi accolse con un sorriso dicendomi: «Meno male che ci sono i botanici, altro che medici…». Camminai fino in fondo al corridoio del palazzo del ’700, dove c’erano il suo ufficio e il SEM, in due stanze che davano su una strada principale di Como e dalle quali si godeva di una vista spettacolare. Sul monitor del computer collegato al SEM c’era un’immagine grigia. «Le riconosci?» Osservai con attenzione una fotografia di strutture tipiche, come banane sbucciate viste dall’alto, allineate l’una vicino all’altra, in file ordinate. Riconoscevo le loro piccole dimensioni dal riferimento metrico nell’angolo dello schermo – 100 micron. «No.» «E queste?» cambiò immagine. La stessa cosa, questa volta a colori; le strutture sembravano gialle e sottili: ma questa era una sua immagine di repertorio, non veniva dal SEM. Si era preparato lo spettacolo per sorprendermi. Fui colpita dal fatto che ci tenesse. «Neanche», risposi sospirando. «Ma è la versione fresca, non bruciata di quella al SEM, non riesci a capire?» insistette. Stava mettendo alla prova la mia pazienza. «Noooooo.» Lo guardai: «Mi dici cosa sono o no?» Era tangibile che gli dispiacesse interrompere sia la lezione sia la tortura. Cedette. Sorridendo sospirò con aria di finta sopportazione: «Gemme di ulivo». Non riuscivo a credere alle mie orecchie. Allora non era materiale animale, umano, non erano ossa. Mi ero fatta fuorviare dalla storia di satanismo, di persone fatte a pezzi e bruciate e delle loro ceneri contenute in un portaostie. «Cosa ci fanno le gemme di ulivo?» «Hai presente le ceneri di Pasqua? Mercoledì delle ceneri? Spesso sono fatte di ulivo bruciato…» Non si trattava di morti, né di assassini. I ragazzi avevano semplicemente rubato in sacrestia un portaostie con il suo contenuto. Certamente per scopi anomali, anche grotteschi e illegali, ma non c’era nessun grande delitto da portare alla luce. Soltanto ceneri e gemme di ulivo. Dopo la prima lezione di ecletticità, qualche tempo dopo ne imparai una seconda, altrettanto velocemente, quella dei grandi limiti – e dell’obbligo di ammetterli. A certe domande, in certe situazioni, non ci sono proprio risposte; oppure se ci sono, sono molto imprecise, troppo per l’ambito forense. E questo per diverse ragioni: perché la degradazione spinta del cadavere ha cancellato ogni traccia di lesioni; oppure perché nello stato dell’arte delle scienze non rientrano ancora nozioni utili; oppure perché le conoscenze ci sono ma non è stata sviluppata una tecnologia che, applicandole, possa aiutarci. Contestualmente imparai, guidata da bravi maestri, che è necessario mettere da parte le sensazioni e le emozioni, anche quelle apparentemente più innocue, che consistono nel cercare ingenuamente di dare una risposta a tutti i costi, di fornire qualcosa di utile al giudice committente, talvolta spinti da convinzioni interiori, che però possono portare a conclusioni ben più tremende che non ammettere che una risposta scientifica affidabile non c’è. Il bambino di ossa Circa un anno dopo l’episodio del portaostie ebbi una nuova avventura con uno dei nostri genetisti. Questa volta si trattava, mi aveva anticipato, di un possibile caso di «responsabilità professionale». E io cosa c’entravo?, mi chiesi, visto che all’epoca mi occupavo prevalentemente di ossa. I casi di responsabilità riguardano in genere malati o morti nei confronti dei quali si presume che i medici curanti non abbiano tenuto un comportamento professionale inappuntabile. Sono casi assai delicati e situazioni per i quali viene invocata quasi esclusivamente la competenza del medico legale e del clinico versato in una particolare specializzazione – cardiologia, neonatologia ecc. Capita sempre più spesso ormai che i medici vengano denunciati perché hanno curato male un paziente, o perché quel paziente è morto. A volte si ha la sfortuna di imbattersi in medici maleducati, strafottenti e, ogni tanto, viene il sospetto, anche non proprio competenti. Ne ho visti alcuni in azione, anche nei più grandi pronto soccorso della mia città; questi personaggi rendono meno spinoso per un paziente o un suo parente superare le remore di coscienza per oltrepassare quel rapporto di fiducia, che
dovrebbe naturalmente stabilirsi col medico, e arrivare a denunciarlo. In effetti, ci sono casi clamorosi in cui l’errore del medico è lampante e incontestabile, ma in genere la gestione delle situazioni che vedono pazienti e medici contrapposti è delicatissima e il giudizio difficile. Quando l’operato negligente o imprudente di un medico può distinguersi nettamente dai rischi e dai naturali effetti collaterali di una terapia, di un intervento? Quando si può tracciare la linea tra quello che il medico doveva sapere fare e il caso, la sfortuna? Può succedere in effetti che una persona muoia ma che non sia «colpa» di nessuno; così come può capitare che la morte sia un’ineluttabile conseguenza dell’imprudenza di un chirurgo. In questo caso la situazione era un po’ diversa. Si trattava di un aborto terapeutico. I miei colleghi mi spiegarono che in un ospedale dei dintorni, circa un anno prima, si era presentata una donna gravida per sottoporsi a un’amniocentesi, esame che serve per verificare se il feto presenta anomalie. Il risultato fu positivo. Il feto, maschio, era portatore di un’anomalia cromosomica: trisomia 21, insomma la sindrome di Down. La donna decise di abortire. Venne quindi indotto il parto e il feto espulso «registrato» e poi sepolto, come d’abitudine. Dopo quasi un anno, qualcuno – non ho mai capito chi – controllando le registrazioni, forse a seguito di un’imbeccata, notò che quel feto era stato registrato come di sesso femminile. La constatazione aveva creato panico nei famigliari: se era errata la diagnosi di sesso, forse lo era anche quella riguardante la malattia. Iniziarono a chiedersi se la diagnosi prenatale non fosse sbagliata, e se una femmina sana non fosse stata scambiata per un maschio Down. Il dubbio ingenerato sfociò in una segnalazione alla Procura della Repubblica che chiese una consulenza tecnica sui resti del feto. Come periti erano stati scelti uno dei nostri genetisti e un anatomopatologo esperto in feti. Tuttavia, quando, all’esumazione, si accorsero che non rimanevano che ossa, decisero di associare anche me. Mi portarono in laboratorio l’intera cassetta di legno che era stata riesumata; le sue dimensioni erano circa doppie di quelle di una scatola per scarpe. Il legno era un po’ marcio ma ancora resistente. Il mio collega genetista e io sollevammo il coperchio, già schiodato dal resto della cassa poco dopo l’esumazione. All’interno c’era un lenzuolino verde, come ripiegato su se stesso dagli angoli, e apparentemente vuoto, tanto scarsa era la materia che avvolgeva. Il genetista aveva parzialmente sollevato un lembo per capire se si trattava di cadavere o di scheletro, senza aprirlo del tutto. Da quelle pieghe triangolari si capiva che qualcuno si era preso la briga di curare, anche dopo la morte, questo essere per deporlo nel suo giaciglio finale. Forse all’espulsione dal grembo della madre lo aveva sentito ancora caldo, muoversi, forse anche gemere. Ed era stato mosso a pietà, malgrado la legge ci induca a non considerarlo persona. Spostando i quattro lembi aprii il grande fazzoletto verde e mi si presentò un mucchio di ossa nella sua parte centrale, come se qualcuno, muovendo o tentando di alzare completamente il fazzolettone, avesse fatto rotolare, grazie all’azione della forza di gravità, ogni osso nel punto più basso. Sfiorai quel mucchietto con un dito della mano rivestita da un guanto di lattice per spianare la montagnetta di piccoli bastoncini biancastri e capire cosa c’era all’interno. Le ossa erano pulite, ricoperte soltanto da un po’ di muschio verde. Non avevo mai visto ossa umane così piccole, neppure fra quelle provenienti da scavi archeologici. E mi sembrò chiaro che dello scheletro del feto probabilmente non era andato perso neppure un ossicino. Lo scheletro era tutto mio. Avevo davanti il compito di classificare con grande pazienza tutte quelle ossa. Portai in laboratorio il mucchietto di bastoncini avvolti nel telo verde e mi misi al lavoro. Soltanto il cranio era rappresentato da una ventina di ossicini giallognoli – e l’osso più grande era largo pochi centimetri. Iniziai a ricomporre con delicatezza e attenzione sul tavolo del laboratorio le parti più sviluppate. L’osso frontale era ancora rappresentato da due specie di conchiglie bombate, distinguibili in destro e sinistro. Poi si potevano identificare senza esitazioni le ossa nasali, parti dello sfenoide (l’osso a forma di farfalla situato nel bel mezzo del nostro cranio) e le ossa temporali con la loro forma a squama, quasi intere. L’osso occipitale era accademicamente suddiviso nelle sue 4 parti, ancora separate, che non si uniscono
completamente fino ai 10 anni; la mandibola era ben formata, divisa anch’essa in due parti, con grandi alveoli vuoti ancora privi degli abbozzi dei denti che sarebbero comparsi solo dopo qualche mese. Le altre ossa erano ancora modelli incompleti, ma alla fine della giornata le avevo identificate quasi tutte, e mi trovavo di fronte a un cranio umano in miniatura, scomposto, ma pressoché completo. Il giorno dopo mi dedicai al resto dello scheletro. Era perfettamente integro. Piccoli tondi di osso accompagnati da un semicerchio rappresentavano le vertebre, dalla prima all’ultima, quella più piccola aveva le dimensioni di una punta di un fiammifero, la più grande della punta dell’indice. Radii, ulne, scapole, omeri, clavicole, femori, tibie e fibule. Tutti rimessi in posizione anatomicamente corretta. Riposi in sacchetti di plastica le piccolissime falangi con metacarpali e metatarsali (le numerosissime ossa di mani e piedi), pensando che non sarebbero state poi particolarmente importanti. (Non sapevo ancora che avrei passato il resto del mese a studiarle.) Mi restavano da sistemare quattro ossicini misteriosi. Consultai il Fazekas, l’unico libro esistente di osteologia dedicato ai feti, e mi resi conto che quelle quattro ossa erano due coppie di pube e ileo (due delle tre ossa del bacino). L’ischio doveva ancora passare dalla sua forma cartilaginea a quella mineralizzata, quindi non si era conservato. Tutto ricostruito, lo scheletro sembrava quello di uno dei tanti bambini che, deceduti migliaia di anni fa, ritroviamo negli scavi archeologici. Non riuscivo a considerarlo diversamente. Forse il feto intero mi avrebbe fatto un altro effetto, non so. Ma quelle forme ossee per me disegnavano una figura ormai perfettamente riconoscibile come una persona. Misurai pazientemente tutte le ossa confrontando poi la loro lunghezza e larghezza con le apposite tabelle. Femore: 49 mm; tibia: 37 mm ecc. Queste dimensioni avrebbero rilevato l’età. Ma che cosa mi avrebbe rivelato il sesso? Su bambini così piccoli è impossibile stabilire se si tratti di un maschio o di una femmina soltanto dall’osservazione delle ossa; e all’epoca avevamo il presentimento che in questo il Dna non ci avrebbe aiutato. E così fu: i genetisti non riuscirono a estrarre dai più grandi di quei minuti ossicini Dna utile per una diagnosi – molto probabilmente perché non ce n’era più, o perlomeno non era più leggibile. Tuttavia, un aiuto ce lo poteva dare ugualmente lo scheletro. In genere, nelle femmine, le ossa del cranio sono a uno stadio di formazione più avanzato rispetto a quelle del resto dello scheletro, mentre nei maschi cranio e resto dello scheletro sono più o meno ugualmente sviluppati. In questo caso le dimensioni del cranio indicavano un’età superiore a quella degli arti. Ma non avrei potuto affermare con certezza che era una femmina. Mi concentrai per l’età sulla lunghezza di tibia e femore. Ambedue indicavano un’età del feto di 21 settimane circa, poco più di cinque mesi. Ciò concordava con l’età del bambino abortito. Ma non ci dava nessuna informazione utile oltre a quelle che già avevamo. La domanda principale tuttavia era la seguente: si trattava di un maschio Down o di una femmina sana? Non c’era modo di essere certi sul sesso, ma sulla malattia forse si poteva dire qualcosa. Da un punto di vista biomolecolare, l’anatomopatologo e il genetista decisero di provare una FISH (Fluorescence In Situ Hybridisation), esame mediante il quale si sarebbero ricercati eventuali cromosomi superstiti che avrebbero potuto segnalare la presenza di un’anomalia. Superfluo dire che di cromosomi e di materiale genetico utile per quest’indagine non rimaneva più niente da studiare. Quindi si passò allo scheletro. «Riesci a capire se a quest’età ci sono segni già indicativi di sindrome di Down?» mi chiesero. Non conoscevo la risposta. Che differenze ci sono tra uno scheletro Down e uno normale e, soprattutto, quali sono i segni già visibili nello scheletro di un feto di poco più di cinque mesi? Non lo sapevo, né mai mi ero posta questa domanda. Iniziai quindi a documentarmi sulla sindrome di Down. Tutti conoscono a livello «sociale» i Down, o, come venivano chiamati una volta, i mongoloidi, per i loro occhi dal taglio un po’ orientaleggiante. Un po’ ritardati, con un aspetto fisico particolare, con qualche difficoltà di pronuncia, così mi ricordavo quelli che avevo conosciuto. Con alcuni era
stato difficile, quasi impossibile interagire, con altri no. Da un punto di vista medico, le mie rimembranze delle nozioni apprese in università mi restituivano l’idea di anomalie dei cromosomi. L’uomo è caratterizzato da 46 cromosomi, o meglio da 23 coppie di due cromosomi. In questo caso una coppia (la 21) è costituita da 3 anziché 2, e da qui nascono i problemi. Mi ricordavo di aver studiato che i portatori di sindrome Down si presentano con una faccia particolare, e soprattutto con occhi dal margine esterno all’in su oltre che con la «plica mongolica»; con le orecchie piccole, la lingua ingrossata, e un’unica piega che attraversava il palmo della mano. Questo da un punto di vista fisionomico. Poi possono essere colpiti da difetti soprattutto cardiaci. Il problema più importante è forse costituito dal ritardo mentale, che può essere da lieve a grave. Ma tutto questo, come si rifletteva sullo scheletro di un feto? Si vedevano anomalie già a 5 mesi che mi avrebbero potuto orientare sulla presenza di questa malattia? Consultai libri, articoli di riviste scientifiche e specialisti in materia. Appresi così che alcune differenze scheletriche soprattutto nella forma del cranio e nella lunghezza delle ossa si potevano intravedere nell’ultimo trimestre. Troppo tardi. Non mi serviva. Forse si intravedeva nel secondo semestre già qualche difetto alle ossa nasali. Ma allora i dati non erano ancora certi. Infine, un giorno, in biblioteca, trovai un articolo che sembrava fare un po’ il punto della situazione: il dato più affidabile, sembrava riguardare la forma delle ossa delle mani nel bambino Down, in particolare le falangi. Queste avrebbero dovuto essere più piccole, soprattutto la falange media del quinto dito della mano. In tutta fretta tornai in laboratorio per tirar fuori dal sacchetto dove le avevo conservate separatamente tutte quelle ossa delle mani che speravo di non dover classificare. Guardando il sacchetto pieno di teste di fiammifero bianche (in trasparenza mi sembravano appunto tutte uguali) mi prefigurai la complessità della situazione. La mano non è mai stata il mio forte, con le sue tante ossa da memorizzare. Proprio per questo, meglio fare un ripasso. La mano di un adulto è fatta di 8 ossicini (disposti in due file da quattro) al polso – le ossa del carpo. Procedendo verso la punta delle dita incontriamo prima le 5 ossa metacarpali, che sono ossa singole e lunghe, racchiuse però all’interno del palmo – le loro estremità sono le «nocche». Poi ci sono le ossa delle dita. Ciascun dito è formato da tre falangi – prossimale (la più vicina al palmo), media e distale (quella con l’unghia). Il pollice ne ha soltanto due, prossimale e distale. Nel feto però la situazione è semplificata dal fatto che le ossa del carpo non sono ancora mineralizzate, ma complicata dal fatto che le dimensioni sono assai ridotte e, di conseguenza, anche le differenze tra le dimensioni sono più difficili da identificare. In questo caso le ossa del carpo non c’erano (come ci si aspettava), ma dovevo distinguere i 5 metacarpali e le 14 falangi di ciascuna mano, e tra queste dovevo trovare assolutamente quelle prossimali (5 per mano) e quelle medie (solo 4, perché il pollice non ce l’ha). Avevo davanti a me quindi 10 metacarpali (o meglio, la porzione mineralizzata di queste ossa ancora incomplete), 10 falangi prossimali distali e 8 medie. Tutte minuscole, tutte molto simili. Non tentai neanche di dividere metacarpali di destra da quelli di sinistra – non era importante, e poi sarebbe stata un’impresa titanica. Così era anche per l’ordine delle falangi, ma in questo caso dovetti insistere. Divisi il set di falangi prossimali (più larghe alla base) da quelle medie (più snelle) e distali. Poi cercai di appaiare le ossa identiche (versione destra e sinistra dello stesso osso); infine misi in serie le falangi per lunghezza, soprattutto quelle medie. La più lunga era la seconda, la più corta la quinta – quella che c’interessava. Misurai la quinta media di destra e di sinistra: 6 mm. La comparazione con i dati pubblicati dai ricercatori americani suggeriva la «normalità». Ma temevo che l’effetto di popolazioni diverse potesse influire in qualche modo sulle misurazioni. Avrei voluto essere confortata dallo studio di qualche feto «fresco», di età nota, proveniente dalla nostra casistica, le cui falangi avrei potuto esaminare di persona. Le settimane successive furono caratterizzate dall’arrivo in laboratorio di due feti di 5-6 mesi,
probabilmente prodotti di aborti clandestini gettati e rinvenuti nelle pattumiere urbane. Chiesi ai periti settori se potevo fare delle lastre alle mani per vedere se si riusciva o no a capire la normale variabilità di questa particolare falange. Fu così che feci l’occhio su normali falangi di feti. Mi confortò il fatto che le falangi decrescevano, anche se di poco, dalla prima all’ultima già in feti così piccoli e che, quindi, potevo identificare correttamente in quella più piccola la falange media del quinto dito. Inoltre, le misurazioni americane non si discostavano da quelle dei miei feti. Le mie quinte falangi rassomigliavano molto di più a quelle dei feti della sala piuttosto che a quelle fotografate e radiografate dell’articolo che riportava le ossa dei bambini Down. Alla fine, avevo il forte sospetto che le ossa di quelle piccole mani fossero normali, e che lo scheletro fosse una femmina. Ma la lunghezza di quelle falangi che facevo fatica persino a vedere posizionate sul bancone, tanto erano piccole, erano prova certa che il bambino era normale? No. E lo decisi con grande fatica. L’entusiasmo di aver «visto» qualcosa venne tramutato in delusione nel momento in cui lessi con maggiore attenzione l’articolo, con la seguente considerazione in mente: va bene che in media i Down hanno questo osso più piccolo, ma nel 65-70% delle volte. Il 35% delle volte potevano avere dimensioni normali. Gli autori degli articoli concludevano che comunque i dati erano ancora da confermare. Non bastava. Troppo alte le probabilità che il bambino Down avesse le falangi normali, e troppo incerti i dati. Negli ultimi quindici anni la letteratura si è arricchita di dati più documentati, ma dubito che anche oggi sarebbero sufficienti per emettere un responso diverso. Quindi mi ero creata la convinzione che lo scheletro fosse di una femmina, e sana, ma non potevo averne né la certezza, né la quasi certezza. Ci trovammo tra periti per decidere quali conclusioni trarre. Illustrai la mia tesi, non pienamente sostenibile da un punto di vista scientifico. I numeri non avrebbero retto a una difesa giustamente attenta. Provai per la prima volta una fortissima sensazione di frustrazione. «Sentivo» una risposta, ma non potevo dimostrarla con certezza. Non si poteva provare che non fosse un maschio e che non fosse Down, ma l’inquietudine insoddisfatta che si trattasse effettivamente di una bambina sana mi accompagnò per lungo tempo. Per un tempo ancora più lungo mi assillò un’altra domanda, non compresa nel quesito peritale. Mi chiedevo che cosa avesse provato la madre quando era rimasta incinta, cosa avesse pensato alla diagnosi di quell’anomalia, durante quel travaglio infausto e poi ancora all’idea dell’errore, che l’aveva fatta decidere ad abortire un bambino che avrebbe potuto essere sano. Sarebbe stata furiosa con i medici, oppure l’avrebbe vissuta come una punizione, come uno strano scherzo del destino? Fronteggiare certe situazioni fa rivalutare l’apparente banalità di ideologie sposate, e tutto sembra meno ovvio e lineare. Mi consideravo una «donna» di ampie vedute, emancipata, che aveva automaticamente sostenuto ideologie e cause fra le più lontane dal conservatorismo. L’aborto «legale» per me era – ed è ancora – una scelta che ritengo giustificabile anche perché evita uno sterminio delle donne (che non possono permettersi di avere un figlio perché impreparate, troppo giovani, stuprate, già con tanti figli a carico), uccise da manovre clandestine. E poi, è impossibile stabilire accademicamente e scientificamente in maniera univoca quali siano i criteri in base ai quali una vita umana possa essere considerata tale a pieno titolo. Ma, in quel preciso momento, mi resi conto che stavo concretamente affrontando come persona umana la problematica per la prima volta. Anche se quel feto era di un’altra, non riuscii a non immedesimarmi. E mi chiesi quali pensieri potevano essere passati nella mente di quella donna, e quali sarebbero stati i miei. Basandomi un po’ sulle mie personali elaborazioni, un po’ sui commenti sporadici di amiche e conoscenti, immaginai i diversi scenari, le diverse riflessioni. Hai in grembo un bambino di 4 o 5 mesi, che ormai senti vivere e muovere, e ti dicono che non è normale, che ha una malattia ben identificabile fisiognomicamente che può portare la società a bollarlo come inadeguato. In più, sei certa che avrà qualche ritardo
mentale, di imprevedibile gravità. Nello stesso tempo ti informi e vedi che potrebbe essere un bambino se non autonomo comunque in grado di condurre una vita forse quasi normale, densa di emozioni, attività, affetti, probabilmente priva di grandi sofferenze fisiche. La vita di questo bambino quindi a chi nuocerà? Ed ecco risuonare le voci e formarsi le immagini: «È un bambino che probabilmente non sarà mai indipendente; quando i genitori non ci saranno più finirà in una triste istituzione, meglio evitargli questo destino»; «Ma molti sono simpatici, in grado di interagire, si divertono, chi ha il diritto di togliere loro tutto ciò?»; «Ne ho visto uno che a 5 anni non parlava, con un sacco di disturbi comportamentali, non riusciva a dormire, un disastro per tutta la famiglia»; «Io ne conosco uno che fa l’attore, parla più lingue». Blah blah blah. Fiumi di parole, che scorrono alcuni a favore della loro vita, altri in senso contrario. Ognuna delle due posizioni ha argomentazioni anche solide. Ma il dubbio più atroce che mi assalì allora e che ancora non ho dissipato è che forse sulla decisione di disfarsi di un feto non pesa tanto il pensiero della qualità della vita del bambino, ma piuttosto della nostra: i problemi economici di assistenza, le preoccupazioni per il futuro, il terrore che un bambino «difficile» rovini una relazione già traballante tra i genitori, ma soprattutto, e più tremenda, la condanna ad avere un figlio diverso dagli altri. In una società in cui la perfezione è un must forse un bambino con difficoltà non è accettabile, è fonte di continuo imbarazzo, della paura che qualcuno ti additi come «anormale». O forse la scelta di porre fine a quella vita è semplicemente dettata da un sentimento ispirato dalla forma di amore più viscerale, la paura di amare qualcuno così tanto che sarebbe insopportabile vederlo non poter fare le stesse cose che fanno gli altri e vederlo soffrire perché di questo si rende conto anche lui? Non ho ancora raggiunto grandi certezze su dove e quando inizia la vita e su cosa esattamente significhi interrompere una gravidanza eliminando il feto di un bambino che potrebbe crescere magari un po’ malato, un po’ ritardato, ma che forse vivrebbe in uno stato che può avvicinarsi alla felicità. Una mia amica, parlando con il fidanzato antiabortista, una volta lo aveva attaccato: «Facile pontificare, devi passarci, soltanto allora puoi dire la tua». Probabilmente aveva ragione. Una cosa è credere di avere delle convinzioni, altra è metterle in pratica quando tocca a te. La legge deve scegliere il minore dei mali, e, al di fuori dei dettami che impone e delle libertà che concede, ognuno gestisce i propri desideri, emozioni, ambizioni o i propri rimorsi come meglio crede o forse come meglio riesce. Non ho ancora maturato un pensiero definitivo a proposito. Ma, a distanza di 15 anni, nella mia mente vedo ancora nei particolari l’immagine di questo bambino, o feto, di pochi mesi, disteso sul tavolo, sotto forma di scheletro, e immediatamente gli si affianca la giovane donna bionda, che continua a chiedere perché le è stato tolto il suo bambino. Forse ci sono anche loro in mezzo all’assembramento dantesco, e chissà cosa si sussurrano. Teste rotte Quella delle teste rotte è un’altra evenienza che mostra i limiti della nostra materia. Si presentano nelle forme più svariate: calotte con enormi buchi le cui sagome dovrebbero adattarsi alla forma dello strumento che ha colpito; crani con rime di frattura così sottili che si fatica a vederle, ma che hanno provocato danni mortali al cervello; altre teste ancora attraversate in tutti i sensi da lesioni che si incrociano e che formano un disegno fitto di tasselli, simile alla tela di un ragno. In teoria tutto dovrebbe essere fin troppo semplice: urto contro una superficie ampia (un muro, per esempio), deformazione del cranio, strappamento del tessuto osseo, rima di frattura lineare. Urto contro una superficie piccola (come un martello), lesione del cranio depressa che riproduce la forma della testa dello strumento. La pratica, invece, è ben diversa. Una delle domande più imbarazzanti che un magistrato può porre a un medico legale, di fronte a un cadavere, magari marcio, con la testa rotta è: «Ma, si tratta di una mazza, un piccone, un martello… oppure un fendente?» Raramente hai la fortuna di trovare lesioni perfettamente a
stampo – a volte sulla pelle sì, ma sull’osso è un po’ più difficile. O meglio, il martello con una testa squadrata può lasciare una lesione sull’osso similmente squadrata. Ma basta che lo strumento sia lievemente inclinato e la lesione sarà completamente diversa, suggerendo addirittura un’altra forma. Non bisogna mai quindi giungere a conclusioni affrettate. Altra cosa è dire se uno strumento è compatibile con un certo tipo di frattura – quello si può fare. Ma dedurre dalla lesione che si tratta certamente di un martello, no. Mi ricordo un caso che ci procurò notevole imbarazzo. Una calda notte d’estate un mio collega venne chiamato per un sopralluogo in una cantina del centro dove i Carabinieri avevano trovato 12 sacchi di plastica neri ben sigillati con nastro adesivo, dai quali esalava un odore fetido. Nulla di particolarmente strano. Almeno fino a quando il mio collega incise con un bisturi un angolo del sacco più vicino alla porta: ne spuntò un alluce. Fece diligentemente portare tutti i sacchi in Obitorio e dopo pochi giorni il magistrato dispose l’autopsia. Iniziammo con l’aprire quelli più leggeri, pieni di riviste, libri e lenzuola macchiate di sangue. Poi ci concentrammo su quelli più pesanti – erano sei. Uno conteneva la testa, uno gambe e braccia così asetticamente allineate e incastrate tra di loro che sembravano gli arti di un manichino di plastica, l’altro le cosce e gli ultimi due l’addome e il torace. Stendemmo quel pietoso puzzle umano sul tavolo anatomico, ricostruendo il corpo già colpito da decomposizione di una donna anziana completamente nuda, se non per una sciarpa blu, a fiorellini più chiari, imbibita di liquami putrefattivi, che avvolgeva con diverse volute il capo. Forse la mente malata di chi l’aveva uccisa non era riuscita a tollerare la vista di quel volto privo di vita mentre la faceva a pezzi. Rimuovemmo la sciarpa con grande delicatezza, anche se questo non fu sufficiente a impedire che buona parte dei capelli venissero asportati, ormai distaccati dal cuoio capelluto decomposto, da quell’indumento che nascondeva quanto di più umano ci sia del cadavere. E il manichino divenne persona. Una persona con la testa pelata, al cui vertice erano presenti 5 o 6 lacerazioni della cute più o meno parallele, con margini molto irregolari. Potevano essere segni lasciati da un coltello mal affilato o seghettato, ma anche lacerazioni causate da uno strumento contundente, con un margine spigoloso. Quando scollammo la cute dal cranio, la voragine nelle ossa parietali formata da piccoli tasselli ossei scomposti ci confermò la seconda ipotesi. Lo strumento che aveva colpito era sicuramente pesante – ma di che cosa si trattava? I Carabinieri ci raccontarono che la donna era probabilmente stata uccisa dal figlio, che poi l’aveva fatta a pezzi con una sega per poter occultare i resti, almeno temporaneamente. Avevano fretta di sapere quale fosse stata l’arma dell’omicidio, anche per capire se vi era stata premeditazione, dimostrabile proprio in base all’accuratezza con la quale l’assassino l’aveva scelta. Commettemmo l’errore di seguirli in questo ragionamento – e per giorni ci fu chi scommetteva su un’ascia, chi su un coltello pesante, altri su un bastone di legno. Poi l’omicida confessò e il PM mi chiamò: «Dottoressa, pare che il figlio abbia confessato, ma devo essere certa che lo strumento che lui dice di aver usato sia compatibile con le lesioni». Tenevo la cornetta un po’ distante dall’orecchio così che anche i miei colleghi (che nel frattempo, avendo capito chi era al telefono e che cosa avrebbe rivelato, si erano raccolti opprimenti intorno alla mia poltrona) avrebbero potuto ascoltare la notizia in anteprima. «Allora…?» mi sfuggì con una voce fastidiosamente acuta. «Beh, si tratterebbe di un ferro da stiro.» «Ma va’», sentii qualcuno commentare dietro di me. Si allontanarono tutti, tornando alle loro postazioni infastiditi, commentando a bassa voce e imprecando; sembravano tifosi delusi da un rigore sbagliato della squadra del cuore. Certo, poteva essere, ma, alla cieca, nessuno avrebbe mai potuto pensare a un banale e apparentemente innocuo elettrodomestico che si era trovato a portata di mano in cucina mentre madre e figlio stavano consumando quella che sarebbe stata la loro ultima discussione. Alla fine, le indagini portarono a una precisa ricostruzione: la testa era stata colpita 4 o 5 volte dal margine più basso e più pesante del ferro da stiro (tra l’altro sporco di sangue), simulando un fendente. Niente premeditazione con scelta di strumenti cruenti e fantasiosi, sui
quali ognuno aveva scommesso, ma un omicidio commesso per impulso. Siamo ormai abituati a frenare la fantasia e a non sbilanciarci troppo in queste situazioni, anche se è difficile. La situazione è ancora più frustrante quando sembra proprio che l’ultima ricerca letta o fatta punti in una direzione particolare, quando sei a pochi passi dal poter dire una parola decisiva con il sostegno della scienza, ma non puoi, perché il dato «non è ancora assodato». Il problema è: quando i risultati di una ricerca diventano «assodati»? Quando puoi usarli in tribunale? La risposta intuitiva sembrerebbe essere «quando è accettata da tutti». Così è nel mondo medico. Una nuova terapia, prima viene testata sugli animali, poi clinicamente e cioè cautamente sugli umani e poi, alla fine, se dà risultati attendibili, la si introduce nella pratica. La medicina legale funziona in maniera un po’ diversa. La comunità scientifica è molto più piccola, più povera, più eterogenea, meno unita e non così ben organizzata. Le consensus conferences (termine apparentemente complicato che etichetta riunioni in cui si cerca di arrivare a degli accordi) sono rare e generano opinioni diverse, talvolta inconciliabili. Il processo di accettazione di dati nuovi può essere lungo. E il lasso di tempo necessario perché il pachiderma si muova e accetti le novità a volte è tanto protratto da impedirti di concludere, ancora una volta, con una causa di morte chiara. La frustrazione di questo limite, della lentezza della ricerca e della comunicazione e, bisogna dirlo, della mancanza di risorse e di fondi che potrebbero agire da catalizzatore per le ricerche, mi colpirono in particolare qualche anno fa. Eravamo tutti immersi nella tranquilla routine di una settimana di turno, quando mi chiamò un maresciallo di un paese vicino ma fuori dalla provincia di Milano che per noi ormai era diventato un punto di riferimento in quella zona. Ci disse che avevano ritrovato uno scheletro non identificabile in un bosco e che le ossa erano al momento all’attenzione di un anatomopatologo di un ospedale della zona. Poiché gli avevano chiesto di svolgere un’indagine antropologica e di ricostruire il volto della persona, aveva suggerito di rivolgersi a noi. Presi gli opportuni accordi, lo scheletro venne trasportato al Labanof, dall’anatomopatologo stesso, un medico simpatico e preparato, incuriosito dal mondo dell’antropologia forense. Arrivò con un paio di scatole: una conteneva lo scheletro, ancora con residui di tessuti marcescenti, l’altra residui di capelli, le scarpe e gli effetti personali. Io e il Porta restammo affascinati da quel signore anziano, vivace e curioso e passammo il pomeriggio a spiegargli cosa avremmo fatto e come. Nel frattempo, il maresciallo ci aveva portato il fascicolo fotografico relativo al sopralluogo su un CD. Lo inserii nel computer e iniziai a scorrere le immagini: la prima decina era dedicata al luogo del rinvenimento, una stradina sterrata in un bosco che portava a una specie di discarica abusiva. Poi trovai le foto che cercavo. In una si notava, tra le grosse segnaletiche dei Carabinieri riportanti enormi lettere (A, B, C ecc.) affiancate ai reperti principali, la sagoma di una persona, o meglio di uno scheletro, sdraiato in mezzo ai rifiuti, sul suo lato sinistro. Brillavano per la loro bianchezza le vertebre della colonna, che delineavano una S e che mi facevano da guida nella ricerca degli altri distretti anatomici. Vidi che gli arti inferiori erano stesi e vestiti di jeans abbassati, insieme alle mutande, fino al ginocchio. La scarpa destra era indossata, quella sinistra si trovava qualche metro più in là; le ossa del torace erano in parte avvolte da una maglietta, forse inizialmente bianca, divenuta brunastra per i liquami putrefattivi. Non riuscivo a seguire bene nel loro naturale decorso anatomico le singole ossa delle braccia, forse erano state un po’ spostate da qualche animale, ma al momento non mi interessava. Cercavo la testa, il cranio. Per un attimo non riuscii a identificarlo nel mucchietto che sembrava formato da cocci bianchi che stava in cima alla colonna vertebrale; le foto successive chiarirono tutto. Il massiccio facciale, cioè la parte dello scheletro che va dalle orbite alla bocca, era sfondato. Non un pezzo era al posto giusto. La mandibola, ormai disarticolata per i fenomeni di scheletrizzazione e spostata un po’ più in là, era rotta sul lato destro. Con un
po’ di buona volontà il resto del cranio poteva ritenersi integro, con qualche frattura sparsa. «La testa sembra sia stata spaccata» sussurrai tra me e me, evitando di pronunciarmi ad alta voce. I resti erano decomposti, quindi erano rimasti da mesi, se non addirittura da un anno, in una discarica. Avrei delegato il compito di stabilire l’epoca della morte a un giovane ma esperto entomologo che avevamo conosciuto da poco, ma la cui competenza ed entusiasmo ci avevano subito convinti: sapevamo che sarebbe riuscito a darcene un’idea studiando larve e puparii. Quel che mi preoccupava di più erano quelle fratture: avevo il presentimento che mi avrebbero portato delle rogne. Se da una parte si poteva pensare che la prima causa di tutte quelle lesioni fosse stata un trauma violento che aveva a che fare con la morte, dall’altra avrebbe potuto anche essere qualcosa la cui azione era intervenuta dopo la morte, per esempio una pietra o un oggetto pesante scaricati abusivamente, furtivamente da qualcuno che non era consapevole e non si era accorto che lì sotto c’era un cadavere putrescente. Guardai attentamente le foto cercando una qualsiasi conferma a questa seconda ipotesi. E la individuai, purtroppo. Intorno a quei pezzi di cranio, si vedevano, in tutto il loro biancore, tre frammenti grossi come mattoni di un materiale lucente come la ceramica. Chiesi al maresciallo: «Cos’è ’sta roba qua?» «Ci sembravano residui di un lavandino… comunque li abbiamo repertati e glieli portiamo…» rispose. Sapevo già che avrei avuto grossi problemi a dimostrare ciò che sembrava un’evidente causa di morte. La questione l’avrei però affrontata in un secondo momento, dopo essermi dedicata al primo passo: l’identificazione. Secondo la prassi, dopo aver effettuato i soliti prelievi per l’istologia e per la tossicologia, pulimmo lo scheletro dai residui di tessuti molli che ancora vi erano attaccati, prestando particolare attenzione a non eccedere con i delicati pezzi del cranio; poi stendemmo lo scheletro su uno dei tavoli del laboratorio e iniziammo a osservarlo, tutti, come avviene di solito al Labanof, perché lavoriamo con la convinzione che più occhi osservano e più cervelli elaborano ipotesi, meglio è. Era evidente che lo scheletro apparteneva a una donna, per la peculiare conformazione ampia del bacino. Dal momento che non si trattava di una persona giovanissima, ma oltre la trentina, scegliemmo come miglior metodo per determinare l’età quello di un autore francese, che si basa sulla trasparentizzazione della dentina, il cosiddetto metodo Lamendin. «Quel metodo inutile dei tuoi amichetti francesi…» disse il Porta con la solita avversione simulata verso i nostri colleghi e collaboratori d’oltralpe. Lui stesso era stato a un workshop dove aveva imparato il metodo direttamente dal «signor Lamendin», a suo dire un delizioso ometto francese già avanti con gli anni, che aveva inventato, senza mai aver fatto parte del mondo forense e ormai a fine carriera, il metodo di diagnosi per l’età su resti umani che sarebbe diventato nel ventennio successivo il più utilizzato al mondo. «Sì, e lo fai tu, che sai farlo meglio di me, visto che l’hai imparato direttamente dalla bocca dei francesi» sorrisi. Touché, ma per poco. «Io non sarei andato a quel corso se tu non mi avessi obbligato» rispose, arrancando e cercando rogne perché non ne aveva proprio voglia. Questa per lui era muffa, termine con il quale definiva tutto ciò che non si portava dietro l’ebrezza della novità. «Lo fai, e poi lo faccio anch’io, così ci confrontiamo.» Prese il diafanoscopio (la scatoletta luminosa che serve per guardare le radiografie), mise sopra il dente e con un compasso calcolò la lunghezza della radice, la degradazione intorno alla corona e la trasparenza della dentina, il tessuto che occupa gran parte della radice. (Per qualche strano motivo, non ancora ben noto, questo tessuto diventa sempre più trasparente man mano che la persona invecchia.. Poi inserì i suoi dati in un’equazione piuttosto semplice, sbuffando… il calcolo non era il suo forte: ripeté i conti due o tre volte poi disse: «35,7». Sapevo che a quel risultato dovevo aggiungere e togliere ben 7 anni per avere l’intervallo nel quale con grande probabilità rientrava l’età reale di quella donna, quindi tra i 28 e i 43. I miei risultati erano praticamente sovrapponibili. Questo era il meglio che potevamo fare. Donna, bianca, alta 1,65
circa, di età compresa tra i 28 e 43 anni: dati tutto sommato abbastanza insulsi. Infatti quante persone scomparse potevano corrispondere a quella descrizione? Entrambi però sapevamo che c’era qualcosa in più. Stabilire sesso, età, statura erano i primi passi che dovevamo fare, ma prevedevamo che la vera «chicca» identificativa stava da un’altra parte. Per questo ci stavamo sbrigando a toglierci dai piedi la «muffa». Il Porta arrivò prima di me all’estremo del tavolo sul quale poggiava quel cranio ancora senza faccia. Lo alzò con grande delicatezza e lo ruotò per un po’ tra le dita. Mi stava porgendo la parte destra del cranio quando disse: «L’hai visto, no?» «Ho visto» risposi. Davanti, in corrispondenza del frontale, l’osso non era normale. La naturale curvatura di questa parte del capo era deturpata da un zona di irregolarità. In mezzo all’osso normale c’era un grosso tassello rotondo, del diametro di circa 5 cm, che era unito al restante osso soltanto da sottili ponti anch’essi ossei e da qualche residuo di filo azzurro. Sembrava un’isola che galleggiava in mezzo al cranio. L’aspetto del tessuto era regolare, liscio al tatto, ormai rimodellato. Era stata operata, un bel po’ di tempo fa. Qualcuno aveva rimosso un pezzo di cranio, applicato qualche manovra per sanare un danno che non conoscevamo ancora, e poi l’aveva rimesso al suo posto. L’identikit si faceva sempre più dettagliato e utile. Potevamo dire ora alle autorità di cercare tra le persone scomparse quelle che avevano subito un intervento di neurochirurgia. Rimaneva una sola questione: per quale motivo era stata operata? Era un’epilettica, aveva un tumore al cervello, oppure aveva avuto un incidente? Raggiunsi una mia collega che ero certa avesse il numero di telefono del neurochirurgo che collabora con l’Istituto e che spesso passa di lì per dare il suo parere specialistico su presunti casi di responsabilità professionale. Lo chiamai e il giorno successivo passò da noi. Quel caso aveva profondamente sollecitato il suo interesse; lui che trattava di solito casi di vivi o di morti deceduti durante interventi chirurgici, continuava a rigirare tra le sue grandi mani quel cranio e a toccare quell’isola di osso. Io e il Porta guardavamo affascinati quelle stesse mani che giornalmente ripassavano i lobi di cervelli umani. Forse sarebbe riuscito a illuminarci su quanto era successo. Non ci deluse. Dopo un po’ arrivò il responso. Seppe dirci esattamente come l’avevano operata e che era un intervento attuato a seguito di un trauma, probabilmente, secondo le statistiche, un incidente del traffico. Bene, ora rimaneva da trovare una donna operata dopo un incidente alla testa qualche anno prima. I Carabinieri si misero al lavoro per cercare negli ospedali locali. Quando, dopo qualche giorno, non ci furono riscontri, partimmo con la ricostruzione facciale. Di solito, in questi casi, o identifichi la persona nell’arco di pochi giorni, oppure i tempi si allungano di molto, e addirittura, in diversi casi, non si arriva a dare un’identità alla vittima. Il Porta rimise insieme quei pezzi con la solita meticolosità e destrezza e in pochi giorni il cranio sbriciolato era perfettamente ricostruito; una settimana dopo aveva un volto. È noto che questa tecnica ricostruttiva, sebbene segua regole anatomiche piuttosto precise, serve soltanto a creare un volto possibilmente somigliante che poi si fa circolare su giornali e televisione nella speranza che qualcuno lo riconosca. A volte la metodica dà buoni risultati, altre volte no: la faccia esterna – soliti scherzi della biologia – spesso non riflette esattamente la forma del cranio sottostante. Porta, per massimizzare le possibilità di riconoscimento, le diede un’acconciatura con la fronte scoperta, in modo che fosse visibile la depressione sulla fronte, esito dell’intervento, che avrebbe dovuto vedersi quando la vittima era ancora in vita. Era pronta per essere mandata in onda su Chi l’ha visto?, come spesso succede per i nostri casi irrisolti, il giorno successivo. Sarebbe stato un lunedì, ma quel lunedì accadde qualcosa di strano e insolito. I Carabinieri chiamarono dicendo che erano in possesso della cartella clinica di qualcuno che corrispondeva alla descrizione e che aveva subito un intervento al cranio, ma mancavano le lastre. Senza poter accedere alla forma di questa lesione, ai dati specifici, non era possibile effettuare un’identificazione. La vittima rimaneva sconosciuta, e questo bastò perché ondasse in onda il servizio sullo scheletro. Dopo che Federica Sciarelli, con la sua grande abilità
a gestire casi umanamente difficili, descrisse il caso, elencò età e statura e mostrò la ricostruzione, invitando i telespettatori ai quali questa faccia ricordasse un conoscente a telefonare, arrivò una chiamata della sorella di una ragazza scomparsa da una città vicina a Milano, che era stata operata a seguito di un incidente in un ospedale milanese. La stessa delle lastre mancanti. La Sciarelli le chiese: «Le assomiglia, signora?» La donna rispose, con voce un po’ distante, non so se per l’emozione o per l’effetto del telefono: «Non proprio». In quei pochi secondi in cui ero in onda faticai a concentrarmi, la mente già pervasa dalle parole che sicuramente il Porta mi avrebbe vomitato addosso la mattina successiva: «Vedi? La ricostruzione facciale non serve a niente, è troppo sommaria. Tutti ’sti ricercatori che studiano gli spessori delle guance, del mento, per poi cosa? Bisogna cambiare registro». Ma le parole successive pronunciate dalla telespettatrice acquietarono i miei timori. «C’è qualcosa però di familiare… quella fronte…» disse con il solito distacco. Bene, pensai, seppur non perfettamente calzante, la ricostruzione facciale aveva espletato la sua principale funzione, quella di innescare un ricordo. L’identificazione si sarebbe fatta poi con altri metodi, in un secondo momento. Il giorno dopo avevamo a disposizione le lastre, ritrovate negli archivi dell’ospedale, e le TAC del cranio di quella paziente. Oltre ai dettagli delle riparazioni dentarie messi in evidenza sulle lastre del cranio, le rime di frattura e la sede dell’operazione corrispondevano perfettamente a quelle del nostro scheletro. Era lei. Dal momento in cui lo scheletro ebbe un nome le indagini divennero più pressanti. Venimmo a sapere dai Carabinieri che la ragazza avrebbe potuto essere stata vittima di un gruppo di spacciatori. Restava da affrontare la parte più difficile, la causa di morte. Le uniche lesioni evidenti che avevamo erano quelle fratture al cranio. Era stato ridotto a una decina di pezzi il supporto sul quale una volta c’era un volto di donna con lo sguardo timido, quasi dolce. Se avessi avuto di fronte una testa «fresca», con della pelle attaccata, avrei potuto cercare i segni dell’infiltrazione emorragica, l’arrossamento in corrispondenza delle lesioni che mi avrebbe confermato che erano state prodotte in vita. È molto più facile infatti lavorare sul fresco: intorno a una lesione, che si tratti di un taglio o di una contusione, posso andare alla ricerca di una componente importante che mi indicherà se quella lesione è stata prodotta in vita, oppure no. In genere si ricercano nella cute lesa i segni di «vitalità», cioè del fatto che la vittima fosse viva al momento del trauma. Questi si presentano prevalentemente come una colorazione rossa intorno alla pelle lacerata o tagliata. Cerchiamo di spiegarne la ragione: se fai un taglio nella carne di una persona viva, nella zona lesa si vedranno tessuti infarciti di rosso, di sangue. Anche nel caso in cui la cute sia in decomposizione, i tessuti poco leggibili e i colori inaffidabili, si può sempre condurre un’indagine microscopica, che consente di controllare se nella pelle circostante la lesione ci sono i segni cellulari della reazione iniziale del corpo a un trauma. Quando si provoca una lesione, si ledono le strutture, i vasi (le piccole arterie, vene e capillari) che portano il sangue alla zona interessata,. Quando un vaso, anche piccolo, che può essere immaginato come un tubicino, viene lacerato, ne fuoriescono tutte le componenti del sangue, compresi i globuli rossi che, spinti dalla pressione generata da un cuore vivo che ancora «pompa», si incastrano nei tessuti circostanti, all’esterno del vaso. Al microscopio si vedranno dei globuli rossi nelle sedi dove non dovrebbero essere, cioè fuori dalle arterie, dai capillari e sparsi in mezzo ai tessuti. Se la persona che subisce un trauma è già morta, il processo descritto non si verifica. Inoltre, anche se i tessuti sono marci e le cellule decomposte, e si presume per esempio che non si potranno più vedere cellule intere che li infarciscono, bensì soltanto loro frammenti, esistono metodi immunoistochimici, che permettono, con l’ausilio di reagenti particolari, di rilevare anche un frammento di quella che una volta era la membrana di un globulo rosso. Si tratta dunque di segni che a volte possono essere rintracciati anche su tessuti non più integri. La procedura non è ugualmente applicabile all’osso perché i tessuti sono mineralizzati e il meccanismo rivelatore di vitalità di una frattura non funziona altrettanto bene
che nei tessuti molli; in presenza di una frattura ossea, il sangue che fuoriesce dai vasi lesi non può infarcire il tessuto osseo proprio perché è mineralizzato, duro. Per questo dall’osservazione non è possibile trarre alcuna conclusione utile. In questo caso, non avevo cute da esaminare, solo ossa. E non avevo a disposizione strumenti per sapere se la lesione era vitale o meno. La mia mente arrancò. Forse i pezzi di ceramica avrebbero potuto darmi qualche indicazione. Forse c’erano dei capelli adesi. I frammenti di lavandino erano sì sporchi di terra e di materiale della donna, ma avrebbe potuto trattarsi di liquame putrefattivo inquinante proveniente dal terreno sul quale era poggiato il cadavere. Non c’erano lembi di tessuto proveniente dal cuoio capelluto né capelli attaccati ai margini, ma ciò non poteva escludere che il lavandino fosse il principale responsabile. Si poteva anche considerare l’ipotesi che il manufatto fosse stato utilizzato come arma per ledere. Al di là del numero delle ipotesi, era fondamentale accertare se la lesione era vitale. Me ne mancavano gli strumenti, a meno che non ci imbarcassimo in un’avventura di nuova sperimentazione. E Salvatore Andreola aprì la porta a quella avventura. Andreola era un anatomopatologo, con una specialità anche in medicina legale. Aveva lavorato all’Istituto dei Tumori ma, dopo essere andato in pensione, aveva iniziato a collaborare con noi per tutto ciò che riguarda lo studio microscopico dei tessuti provenienti dai morti. Ma già dai tempi in cui era all’Istituto dei Tumori l’avevamo coinvolto nelle nostre attività. Aveva una passione per il forense, per la ricerca, era curioso, competente e soprattutto paziente. Da un po’ di tempo, in effetti, ancor prima che ci trovassimo impegnati in questo caso, ci assillava la questione dei segni di vitalità nell’osso; e l’antropologia e la patologia forense non avevano mai prima d’ora stabilito rapporti così stretti per riuscire a capire se almeno sulle rime di frattura, andando alla ricerca di quei marcatori presenti in altri tessuti come la pelle (i globuli rossi, o parte di essi, fuori sede) si potessero ancora vedere nell’osso i segni di una frattura vitale. Perché non provarci? Nessuno lo aveva mai fatto e Salvatore per primo ce ne diede la possibilità. La preparazione era però molto lunga. Dovevamo ottenere campioni da persone che erano sopravvissute dopo il trauma e decedute solo a distanza di tempo. Trovammo i campioni che ci servivano da casi giudiziari in cui era stato comunque necessario prelevarli e studiare le fratture per rispondere alle domande del magistrato. I minuscoli frammenti ossei vennero fatti macerare nell’acqua, per simulare il processo di decomposizione, fino a quando a occhio nudo non si stabiliva che fosse rimasto solo osso. E sulla rima di frattura di quell’osso non si osservava nulla – né margini arrossati, né osso nuovo in formazione – proprio nulla. Poteva trattarsi di osso rotto dopo la morte. Passammo i campioni a Salvatore che li tenne per circa un mese. Quando ci presentò i risultati suscitò il nostro entusiasmo. Era riuscito a individuare in quelli sopravvissuti più tempo delle aree microscopiche infarcite di residui di globuli rossi sui lembi fratturati delle ossa – sempre con l’utilizzo di colorazioni particolari – e a volte, quando la frattura era vecchia di qualche giorno, delle formazioni di fibrina e di altre componenti del sangue, insomma indicazioni di una potenziale reazione vitale. Poteva essere una scoperta interessante. Ma bisognava poter operare su vasta scala, comprare tanti reagenti, spendere tanti soldi e, allora, ci fermammo lì. Riuscimmo a pubblicare il lavoro come studio pilota con l’approvazione della comunità scientifica internazionale, ma la ricerca non proseguì più per mancanza di fondi e di personale. Ritornando al nostro caso, valeva la pena, su una di quelle numerose fratture, tentare di ricercare la stessa cosa. E la trovammo. Le rime di frattura che attraversavano le ossa frontali e nasali del nostro scheletro erano ricoperte di croste impregnate di quei globuli rossi che con tanta insistenza avevamo ricercato. Quando però mi sedetti davanti al computer per preparare la consulenza tecnica, fui costretta a un esame di coscienza. All’entusiasmo per quella nostra piccola «scoperta» faceva da contraltare la scarsità dei dati raccolti; la comunità internazionale
l’aveva accettata, ma era uno studio pilota, che doveva essere confermato da altri e da studi su campioni più grandi. Ammisi la sconfitta. Conclusi, come al solito mi succedeva, a tarda notte la consulenza tecnica scrivendo: «non è tuttavia possibile stabilire con certezza che le fratture ossee siano state prodotte in vita». Qualunque avvocato difensore si sarebbe focalizzato su quel «non è possibile stabilire» e su nient’altro, e gli sarebbe bastato. Stampai la consulenza, spensi le luci dell’Istituto e inserii l’allarme. Entrai nella mia Polo fredda e, accendendo il motore, mi chiesi quanti anni avremmo ancora dovuto aspettare per concludere un caso del genere in maniera diversa.
II Hic sunt leones
Il grande problema del medico legale soprattutto oggi, momento in cui c’è fiducia cieca in tutto ciò che viene dal mondo «scientifico», è che le scienze forensi non sono quella disciplina che la gente si figura – impeccabile, protocollare, tecnologica, precisa, accurata, onnipotente e quasi priva di errore. O, meglio, lo sono ma fino a un certo punto. Come tante altre scienze, sono il dominio della fantasia e dell’ecletticità, del limite e dell’imprecisione. Ciò non significa che siano meno utili, ma soltanto che le si devono utilizzare bene e con attenzione. Si commette un errore colossale se non si conoscono, non si ammettono o non si sanno spiegare i limiti e le inaccuratezze dei risultati se questi sono realmente presenti: hic sunt leones, per le ripercussioni che tutto ciò ha sul mondo giudiziario, il quale rischia di non comprenderli e di utilizzarli a sproposito come «prova» (termine a volte bistrattato e frainteso) per arrivare a una verità giuridica, se non a quella assoluta. Qui mi devo fermare, perché con queste considerazioni rischio di entrare in un sistema molto più grande del mio e supera le mie competenze: torniamo quindi ai problemi più piccoli della scienza, ai nostri tasselli forensi e alle loro istruzioni per l’uso. Credo che chi non fa il nostro mestiere immagini che i pericoli di questo mondo, nel quale bisogna essere molto meticolosi e attenti, siano legati a una serie di errori gravi in cui si può incappare. Se uno volesse fare una lista dei caveat, questa certamente includerebbe la distrazione, l’errore umano, la contaminazione, l’inadeguata conservazione e protezione dei reperti e così via fino all’impreparazione dell’operatore: raccomandazioni di buon senso per ogni tipo di attività. Ma ci sono minacce assai più insidiose proprio perché meno attese e meno conosciute. Vere e proprie trappole, che sono dissimulate in modi diversi e che comunque non si identificano con la scienza, ma con un approccio sbagliato a essa. A volte sono tese non tanto in una formula matematica o nell’elaborazione statistica, ma piuttosto s’annidano nel riporvi acriticamente eccessiva fiducia e invece di cercare di comprenderla e poterla presentare oggettivamente con i propri vantaggi e svantaggi. Esistono poi insidie, sempre legate al comportamento umano e all’agire di chi ignora o nasconde l’errore insito nel dato biologico. E ancora la «sirena» della tecnoscienza, che con il suo canto di innovazione induce il consulente ingenuo (e lo sono stata qualche volta anch’io) a utilizzare come metodi interpretativi strumenti che servono solo per studiare meglio il problema e non a trovare una soluzione. Infine anche l’emozione spesso può essere d’ostacolo. In conclusione nelle scienze forensi viene punito per ubris, quel meraviglioso concetto di tracotanza di chi osa superare limiti e barriere sconosciute, non tanto chi si ingegna con metodo e cautela per capire quale sia la migliore strategia per aggirare le colonne di Ercole, ma chi, incautamente e superficialmente, si illude di averne gli strumenti. La fiducia nel numero e nella formula e il dilemma dell’epoca della morte La sensazione che maggiormente si adatta a queste mie impressioni è ben illustrata nel Decalogo di Kiéslowski. In questa raccolta di brevi film, inizialmente prodotti per la televisione polacca, ogni capitolo è ispirato a uno dei dieci comandamenti. Il primo, appunto, è intitolato Non avrai altro Dio all’infuori di me. Narra la storia di un padre e di un figlio di 9 anni che vivono da soli. Il padre, professore universitario di linguistica, insegna al figlio, con l’aiuto di un computer, come utilizzare la matematica e le formule per risolvere problemi di vita quotidiana. A Natale il padre regala al figlio dei pattini e il bambino scalpita all’idea di poter pattinare sul vicino laghetto ghiacciato. Calcolano lo spessore del ghiaccio che dovrebbe essersi creato a seguito di una notte fredda con una temperatura nota, che secondo la teoria si è ispessito a sufficienza per sostenere, senza rompersi, un peso dieci volte superiore a quello del figlio. Il pomeriggio del giorno dopo il padre non trova il figlio a casa ma, tranquillo, si mette a lavorare.
Le immagini, di una tremenda bellezza, mostrano il presentimento del padre. Si forma una crepa nella boccetta di inchiostro che sta utilizzando per scrivere e lentamente inonda e imbratta i fogli sui quali lavora. Proprio come il ghiaccio che ha ceduto e ha inghiottito suo figlio. Il metodo, seppur apparentemente impeccabile nei numeri restituiti in modo asettico dal computer, aveva fallito. Di solito la gente non muore per il nostro incauto uso dei numeri, ma le conseguenze possono comunque essere gravi. L’Italia ha alcune tra le migliori scuole di dottrina medico-legale al mondo, e in ciò ha fatto storia, dall’inizio del secolo scorso. Questa disciplina, che molto ha in comune con la filosofia della scienza, studia come collegare tra loro dei dati, dei fenomeni in un rapporto di causa/effetto; cerca, cioè, di stabilire la dialettica e i presupposti corretti per motivare perché un certo evento è conseguenza di un altro e se abbia senso parlare di compatibilità, possibilità e probabilità. In quest’ambito i numeri trovano il loro giusto posto solo come anelli di una catena che, per collegare una causa a un effetto, ha bisogno di ben altro. Questo «altro» consiste in una rigida logica di connessioni di eventi, nel valutare quali metodi esistano per ottenere un certo risultato, quale sia l’errore di ciascuno, quale sia il più accreditato, se possibile, dalla letteratura scientifica, quali variabili o evenienze possano far sì che il ragionamento sia applicabile al singolo caso che si sta studiando (ogni evento è unico) ecc. È una disciplina contorta, complessa, sempre in evoluzione a causa dei costanti progressi scientifici, che viene purtroppo insegnata soltanto nelle scuole di medicina legale. Ma, per ignoranza o per comodità, è facile allontanarsi da questo tipo di ragionamento critico sul dato tecnico e cadere nella trappola, più sbrigativa, della formuletta che risolve il caso. Ovviamente è d’altra parte consigliabile non eccedere nella dialettica e si deve avere il coraggio, con dati affidabili alla mano e con la coscienza a posto, di assumersi la responsabilità di dire che i risultati stanno a indicare che le cose sono andate in un certo modo, pur con gli errori e le incertezze del metodo utilizzato. Poi si potrà anche aver sbagliato (l’errore è sempre dietro la porta), ma avendo fatto dignitosamente e onestamente il proprio lavoro. Talvolta non si possono dare certezze, o si possono dare solo risposte molto vaghe. Un esempio lampante di questo tipo di problema tipico nel nostro lavoro riguarda l’epoca della morte, forse una delle domande più angoscianti per il medico legale perché diventa sempre più problematico fornire una risposta attendibile man mano che aumenta l’intervallo tra la morte e il rinvenimento del cadavere. Evito di illustrare un esempio reale specifico, perché molti mi si affollano in mente, ma ognuno con le stesse problematiche. Mi limiterò a un esempio astratto, invece di raccontare una storia personale. Supponiamo che in un’abitazione sia stato scoperto il cadavere di una donna morta strozzata. La trovano supina, a pancia in su, sul pavimento di piastrelle della camera da letto, con addosso solo gli indumenti intimi (una maglietta e un paio di mutandine). L’ha trovata alle ore 21.30 circa la vicina che, non avendo notizie, si era preoccupata di controllare se tutto andava bene. Dalle prime indagini eseguite dalle forze dell’ordine emerge che è stata vista viva per l’ultima volta il giorno precedente dal figlio, con cui aveva cenato e che aveva lasciato verso le 21.30. In seguito al rinvenimento del corpo, viene chiamato il medico legale, che arriva intorno alle 22.00 (in genere arriva molto tempo dopo). Pertanto la donna può essere deceduta in un momento qualsiasi nelle 24 ore precedenti. Quanto si potrà essere precisi sull’epoca della morte? Il primo elemento su cui focalizzare l’attenzione è la temperatura corporea che con la cessazione dell’attività cellulare e della produzione di calore inizia a scendere, fino a equilibrarsi con quella ambientale, in maniera simile a qualsiasi oggetto inanimato più caldo rispetto all’ambiente. Generalmente, e secondo gran parte delle bibbie della medicina legale, il ritmo di raffreddamento è di circa 0,5 °C nelle prime tre-quattro ore, alle quali segue un periodo di 6-8 ore in cui è di circa 1 °C; subentra poi una fase di durata più variabile, generalmente dalle 11 alle 30 ore, in cui il ritmo decresce progressivamente fino a che le temperature del corpo e
dell’ambiente si equilibrano. Il ritmo di raffreddamento di un corpo è quindi in parte prevedibile; inoltre, la possibilità di studiare fenomeni quantificati, cioè che si presentano sotto forma di numeri (temperatura iniziale, temperatura finale, gradi persi) ha stimolato numerosi ricercatori, lungo la storia della medicina, a tentare di arrivare a un risultato attraverso l’applicazione di equazioni matematiche. E le più classiche riguardano la temperatura rettale. Nell’esempio teorico era di 25 °C, mentre quella ambientale, nella camera da letto, di 17 °C. Una formula molto semplice per stimare l’epoca della morte, facile da utilizzare nelle convulse manovre di sopralluogo, consiste nel fare la differenza fra 37 (corrispondente alla presunta e standardizzata temperatura del corpo al momento della morte) e la temperatura rettale, sommando a tale risultato 3 (corrispondente alle prime tre ore in cui il corpo raffredda solo di mezzo grado all’ora) per avere il numero di ore totali trascorse dal decesso. Nel nostro caso, la formula dà una stima di 15 ore; apparentemente l’ora della morte può essere collocata la mattina presto dello stesso giorno del rinvenimento. Ma questo primo metodo è grossolano, utile per una stima sommaria, chiamato dagli americani rule of thumb, e cioè regola del pollice, generica. Non ha un errore medio (quel più o meno x da attribuire a ogni dato tecnico), cioè non è possibile attuare un’indicazione di aggiunta o sottrazione di, mettiamo, due ore perché non tutti i morti sono uguali e poi è scientificamente criticabile dal momento che il processo di raffreddamento di un cadavere è influenzato da una serie di variabili non contemplate da questa formula; per esempio, il peso è un fattore importantissimo: i soggetti più grassi, obesi o comunque più pesanti tendono a equilibrarsi tardi con l’ambiente, mentre corpi più leggeri si raffreddano prima. Anche il tipo di ambiente in cui è stato rinvenuto il cadavere (in aria o in acqua) e gli indumenti indossati influiscono sul ritmo di raffreddamento del corpo, per non parlare della superficie sulla quale è appoggiato. Pertanto, nel corso del tempo, sul valore della temperatura rettale sono state messe a punto formule più complesse. Per esempio la scuola tedesca ha approntato uno schema che mette in relazione i valori di temperatura rettale e ambientale con il peso del cadavere. Al valore trovato si possono poi applicare diversi fattori di correzione in base alle condizioni specifiche di ritrovamento del corpo: se è stato rinvenuto all’aria aperta, se è nudo o indossa vestiti, se questi sono asciutti o bagnati, se solo alcune parti o tutto il corpo è coperto. Nel nostro caso la stima ottenuta per un peso del soggetto di circa 70 kg e per il tipo di indumenti indossati è pari a 17+/–4,5 ore. L’epoca della morte è quindi collocabile fra le 12,5 e le 21,5 ore prima del rinvenimento (o meglio, della misurazione della temperatura), cioè fra le 00.30 e le 9.30 del mattino dello stesso giorno. Grazie al metodo «scientifico» tedesco, abbiamo ristretto la stima a un intervallo di 9 ore. Immagino che non sia il risultato che uno si aspetta, soprattutto se guarda i telefilm polizieschi, ma un metodo che tiene conto almeno della variabili del peso e dei vestiti è già più accettabile. Basta infatti pensare alla differenza di raffreddamento e di dispersione di calore nella zona che circonda il retto (il bacino) tra una persona che pesa 50 kg e una che ne pesa 90. Ma anche questo criterio tiene conto di tutto? È affidabile? Valuta le variabili più importanti? Forse non in modo esauriente: ne esistono alcune che, pur possedendo un’influenza sul ritmo di raffreddamento, hanno un effetto non ancora quantificabile sulla stima finale. Per esempio, la causa di morte ha un ruolo importante nell’andamento della perdita di calore: un’emorragia rilevante aumenta la dispersione termica del cadavere, mentre se un soggetto muore in preda alla febbre o durante un’intensa attività fisica si raffredda più lentamente. Anche le condizioni ambientali sono decisive, soprattutto se intervengono fattori che cambiano il clima del luogo. Torniamo sul posto di ritrovamento del corpo: la stanza è in ordine, non ci sono macchie di sangue o segni di colluttazione. La finestra però è aperta. Dalle indagini emerge che è stata aperta dalla vicina di casa al momento della scoperta del corpo, ovvero circa mezz’ora prima del
nostro arrivo e della misurazione delle temperature. Quanto influisce quella mezz’ora in cui la finestra è stata aperta? Può aver contribuito a cambiare il microclima esistente nella stanza, alterando la differenza termica con il cadavere e modificando il ritmo di dispersione del calore. È stata introdotta una variabile che noi non possiamo conoscere. La nostra stima ha dunque un errore derivante dalla variazione climatica e non è quantificabile con certezza. Se vogliamo poi fare un lavoro completo, dobbiamo considerare quali altri metodi, oltre alla temperatura rettale, ci mette a disposizione la scienza. Ce ne sono almeno altri due che godono di particolare considerazione: uno che rileva attraverso una sonda la temperatura epatica, molto usato dagli americani, ma che è estremamente invasivo, e l’altro che con una sonda o con gli infrarossi misura quella dell’orecchio (che riflette a sua volta la temperatura cerebrale), adottata dai francesi. Soffermiamoci sul secondo e escludiamo il primo per non complicarci troppo la vita in questa storia fittizia. I ricercatori che prediligono chiamare in causa il cervello sostengono che è più affidabile del metodo rettale dal momento che il raffreddamento della testa è più diretto e simile tra due persone di peso e costituzione molto diversa. Questa potrebbe essere un’osservazione sensata. Quindi perché non rilevare anche lo stato termico dell’orecchio o quello cerebrale? Anche per questo esistono specifiche formule che forniscono una stima dell’epoca della morte. Misuriamo quindi anche il livello termico auricolare: il valore è pari a 18,5 °C. Applicando le formule, si ottiene una stima di circa 894 minuti, ovvero circa 15 ore prima del rinvenimento (con un errore del 25%). Il che significa che il decesso è avvenuto verso le prime ore del mattino dello stesso giorno del ritrovamento. In definitiva, i valori termici del cadavere mettono in evidenza una stima dell’epoca della morte fra le 00.0 e le 9.30 del mattino, con un generale (ma non meglio definibile) orientamento verso le prime ore. Ma la temperatura non è l’unico dato utile alla ricostruzione del cosiddetto intervallo post mortem. Anche la rigidità cadaverica (rigor mortis) e le macchie ipostatiche (livor mortis), quella colorazione viola che si estende sulla parte più bassa di un corpo, presentano un’evoluzione con il passare del tempo. Tuttavia, questi parametri sono valutabili soggettivamente – per il rigor cerco di estendere o flettere le articolazioni e cerco di notare la difficoltà con cui lo faccio, per il livor schiaccio le zone colorate e valuto, a seconda di quanto si schiariscono, se è passato poco o tanto tempo. Non è possibile dar loro una formulazione oggettiva che consenta di eseguire un calcolo che fornisca un risultato numerico; piuttosto, la descrizione di questi fenomeni può essere messa in relazione con un intervallo di tempo molto generico, che cambia anche in questo caso secondo le condizioni di morte e costituzione corporea, e anche a seconda delle scuole. Il rigor compare generalmente verso la terza-quarta ora dopo il decesso, si estende entro le 12 ore, raggiunge la massima intensità verso le 36-48 ore, e poi sparisce entro le 72 ore. Consideriamo il rigor nel nostro caso fittizio. La rigidità è presente in tutto il corpo. In definitiva, orienta l’epoca per un periodo superiore alle 12 ore ed entro l’ora in cui la donna è stata vista viva per l’ultima volta. È un margine eccessivamente ampio. Le ipostasi invece tendono a formarsi, secondo gran parte dei ricercatori, dopo circa mezz’ora e aumentano di intensità fino alle 12 ore; nelle prime 6 ore sono definite «migrabili»: questo vuol dire che cambiano completamente con la posizione. Se cambi la posizione del cadavere da supino (a pancia in su) a prono (a pancia in giù), dopo qualche ora si saranno spostate davanti. Dopo le 12-16 ore non subiscono mutamenti se si modifica la posizione. Nel nostro caso le ipostasi sono tutte dietro. Non cambiano con la compressione della cute, quindi sembrano fisse. Questo sarà poi confermato cambiando la posizione del cadavere da supino a prono, all’esame autoptico. Dopo il sopralluogo, tocca all’autopsia infatti fornire qualche indicazione in più, a volte più
precisa; il primo dato da rilevare è appunto l’eventuale migrazione delle ipostasi, dopo lo spostamento del corpo: al momento dell’esame autoptico, si nota che accanto alle ipostasi rossastre sulla superficie dorsale, se ne sono formate di nuove, seppur di estensione ridotta, sulla superficie addominale. Questo potrebbe indicare un periodo trascorso di circa 6-12 ore. Di nuovo compare un’indicazione difforme rispetto a quanto indicato dalla temperatura: la stima ottenuta infatti orienta l’epoca della morte fra la tarda mattinata e il primo pomeriggio. Ma sappiamo quanto sia variabile questo parametro. E quindi potrebbe – potrebbe – essere in accordo con le 15 ore del cervello e della rule of thumb. Cos’altro può rivelarci l’autopsia? Un dato fondamentale può provenire dallo studio del contenuto dello stomaco. La letteratura sottolinea che mediamente lo svuotamento gastrico avviene dopo 4-6 ore se il pasto è a base di carne e vegetali, 6-7 ore nel caso di farinacei. In generale, il tempo di svuotamento può protrarsi fino alle 7-8 ore dopo l’ingestione. Quindi, sapendo che cosa ha mangiato a cena il nostro soggetto, si potrebbe stimare l’epoca della morte in base al livello di digestione. Ma qui i fattori di variabilità sono forse ancora più numerosi; per esempio, è noto che lo svuotamento gastrico non dipende unicamente dal tempo trascorso ma dal sesso, dallo stato di stress psicofisico della persona, dal tipo di cibo, da eventuali malattie (basta pensare alle difficoltà di digerire di chi ha la gastrite), persino dall’assetto ormonale al momento del pasto e dalla postura assunta durante la digestione. Ci troviamo perciò di nuovo di fronte a un metodo che, come tanti altri (per esempio quello basato sull’accumulo di certi elementi come il potassio nei liquidi contenuti nell’occhio), dà soltanto stime estremamente generiche. Nel nostro caso, lo stomaco conteneva abbondante materiale, di colore marrone, nel quale erano riconoscibili ancora residui di alimenti indigeriti. Ciò potrebbe indicare che è passato un periodo di tempo inferiore alle 7-8 ore rispetto all’ultimo pasto. Pertanto, sulla base dei dati circostanziali (si ricordi che la donna ha cenato per l’ultima volta alle ore 21.30 del giorno prima) i reperti gastrici orientano la stima dell’epoca della morte prima delle 5.00-6.00 del mattino. Tale indicazione non può tuttavia che essere considerata generica. Dunque, quando è morta la donna trovata cadavere dalla vicina? Sarà meglio fare una sintesi di tutti i dati: la temperatura rettale fornisce una stima compresa fra le 00.30 e le 9.30 del mattino; quella auricolare la orienta anch’essa verso le 9.00 del mattino. Il rigor fornisce un’indicazione molto ampia, ovvero superiore, prima delle 14.00. Le ipostasi forniscono un risultato dissonante, ovvero fra le 10.00 e le 16.00. Lo svuotamento gastrico infine orienta la morte entro le 5.00-6.00 del mattino. Sembra chiaro: i dati concordano quasi tutti su un orario compreso tra la mezzanotte e le 9.00 del mattino. Ma non completamente, perché le ipostasi, come già ricordato, tendono a spostare l’epoca del decesso nella tarda mattinata-primo pomeriggio. È un’ipotesi da scartare? Ragioniamo: il rigor non esclude che la morte sia avvenuta nel pomeriggio; il tempo di svuotamento gastrico tendenzialmente non indirizza in maniera univoca verso la notte o il primo mattino. Infatti, il tempo di svuotamento gastrico va riferito all’ultimo pasto consumato, che può non essere forzatamente la cena della sera precedente. Se la donna avesse pranzato? In tal caso, ipotizzando un orario consueto per il pranzo intorno alle 13.00 (non è scontato il fatto che ci si accorga di un pasto più recente se non si sa di cosa si tratta e se il materiale ingerito è più velocemente digeribile), l’intervallo post mortem potrebbe collocarsi fra tale orario e le 19.00-20.00 di sera. Con l’aiuto dei dati provenienti dalle ipostasi, l’epoca della morte potrebbe in tal caso porsi fra le 13.00 e le 16.00. Tale stima stride radicalmente con l’analisi della temperatura del cadavere: è necessario dunque fornire una spiegazione dei possibili dati discordanti provenienti dai diversi metodi nelle due ipotesi; in definitiva, ci si deve chiedere: è più probabile che abbia sbagliato il metodo della temperatura cadaverica, o sono le ipostasi ad aver fornito un risultato errato? È questo un esempio del ragionamento che un
medico legale deve svolgere o chiarire al giudice. Non è possibile fornire una risposta accurata, cioè vicina o che si discosta poco dal dato reale. La donna è morta durante la notte o nel primo mattino? O nel pomeriggio? Sappiamo che i dati termici sono spesso più affidabili in quanto misurabili. Ma è anche vero che esiste un’ombra sui risultati forniti dalla temperatura cadaverica, ovvero quei 30 minuti in cui la finestra della camera è stata aperta: può il corpo essersi raffreddato più velocemente a causa di quell’unica modificazione? La risposta dipende dalla stagione e dalla differenza tra temperatura esterna e interna. Nel nostro caso, l’estate, tendenzialmente la risposta è no. La temperatura auricolare infatti dovrebbe essere meno influenzata dagli sbalzi termici esterni, e fornisce una stima che si accorda con quanto indicato da quella rettale (ed è questa una situazione favorevole perché talvolta non concordano): ma, di nuovo, tutto questo è una pura ipotesi, e non è possibile escludere con certezza che effettivamente qualche variabile esterna non abbia accelerato il ritmo di raffreddamento. Le macchie ipostatiche sembrano meno attendibili rispetto alla temperatura: se pure è vero che generalmente la fase di migrabilità relativa è compresa fra le 6 e le 12 ore, è anche vero che la letteratura propende a considerare l’intervallo fra le 6 e le 24 ore come estremi limiti cronologici per questa fase. Ciò significa che la stima precedente può essere variata e ampliata a un intervallo compreso fra le 22.00 del giorno precedente alle 18.00 del giorno del ritrovamento; le ipostasi così non costituirebbero più un elemento di esclusione dell’ipotesi che la morte sia avvenuta di notte o nel primo mattino. L’autopsia ha evidenziato a questo proposito reperti molto significativi riguardo alla causa di decesso della donna; impronte che riproducono la forma di polpastrelli sono state trovate sul collo e l’esame degli organi interni ha evidenziato la frattura dell’osso ioide (che si trova sotto il mento) e della cartilagine tiroidea della laringe. Tali segni sono indicativi di una morte asfittica. E le asfissie hanno la caratteristica di determinare un’intensa fluidità del sangue (per motivi non ancora completamente chiari e univoci), che è all’origine di un più precoce e intenso sviluppo di ipostasi e la fase di migrabilità relativa tende ad allungarsi, fino alle 25-30 ore dal decesso. Il dato ipostatico va pertanto corretto, e nella nuova versione non solo non esclude, ma addirittura rafforza l’ipotesi che la donna sia morta nelle prime ore del giorno in cui ne è stato scoperto il cadavere. Ma il margine più difendibile rimane sempre e soltanto di 17 ore +/– 4, cioè di circa 8 ore. Sostenere un margine inferiore sarebbe altamente pericoloso, confutabile, e questo si rifletterebbe negativamente sul tentativo di smentire o confermare l’alibi dell’omicida. Ho volutamente omesso altri metodi che sarebbero serviti solo a complicare maggiormente la situazione, ma credo che sia evidente il disagio di un medico legale di fronte a dati imprecisi e contrastanti. A quale dare ragione? A quello più utilizzato da tempo, oppure a quello nuovo che è sostenuto a spada tratta dalla letteratura scientifica più recente? Il risultato finale, qualunque esso sia, dovrà tenere conto dell’esperienza, dei dati nuovi di ricerca, dell’errore di ciascuna tecnica, delle variabili e di tutta la dialettica del metodo medico-legale. E spesso non potrà essere preciso. Come ho già detto, temo che le aspettative e i falsi idoli che sono stati creati nelle scienze forensi siano alla base di gran parte delle complicazioni o incomprensioni che abbiamo visto, in casi di risonanza mediatici, spuntare con esiti catastrofici nelle aule di tribunale. Esiti nefasti per giudici, magistrati, opinione pubblica, parenti delle vittime e anche per la nostra categoria. Il fatto che si sia consolidata un’immagine di infallibilità e di potenza senza limiti della scienza forense è stato un pessimo servizio per noi. Mi chiedo anche perché, se in ogni campo della medicina si accetta e si conosce bene l’errore diagnostico, questo deve essere negato all’ambito forense? Facciamo un esempio pratico: una persona risulta anemica in base agli esami del sangue. Si eseguono ulteriori accertamenti e si arriva a un’ipotesi diagnostica: l’anemia può essere causata da carenze nutrizionali e si tenta una terapia. Se questa non è
efficace se ne provano altre, dal momento che l’ipotesi diagnostica non era unica. Oppure ancora, a una giovanissima donna in gravidanza vengono fatti dei test standard per alcune anomalie del feto: i risultati rientrano nella normalità. In questi casi il protocollo non prevede un’amniocentesi per approfondire. Se tuttavia alla nascita il bambino è portatore di qualche anomalia che poteva essere rilevata con questo esame non potranno comunque essere incolpati i medici. Mi ricordo con chiarezza l’impressione che ho avuto di pazienti che comunque sembravano accettare i limiti della medicina e i rischi dell’iter diagnostico del momento. Prima dell’esame di stato avevo in effetti frequentato per un anno i reparti di alcuni ospedali, facendo qualche visita, compilando cartelle cliniche di pazienti, medicando ferite e mettendo (pochi) e togliendo (molti) punti e seguendo qualche parto e qualche intervento. In quei tempi infatti mi era balenata l’idea di diventare medico di pronto soccorso o di specializzarmi in neurologia o neurochirurgia: ero infatti affascinata dallo studio del cervello. (Quando si trattò di scegliere la specializzazione ero indecisa e, all’epoca, attratta dalla ricostruzione del passato, dai resti umani, dal delitto e dalla giustizia, scelsi la specialità che più legava tutti questi tasselli alla medicina.) Ho avuto quindi l’occasione di vedere parecchi medici parlare e ragionare con pazienti – l’imprecisione e l’errore (ovviamente dove è giustificabile) non venivano vissuti come un evento impossibile, anche se oggi le cose sono un po’ cambiate e la gente pretende, appunto, l’impossibile. Forse l’evolversi della tecnologia e delle conoscenze, insieme a una non precisa divulgazione delle potenzialità, spinge a pretendere l’impossibile da tutti i settori della medicina. Nelle scienze forensi confluiscono scienze tra le più conosciute – patologia, genetica, dattiloscopia, balistica, entomologia e anche forse antropologia forensi – e quelle di minore notorietà come botanica, archeologia e geopedologia forensi e altre ancora. Quella che è più aderente all’idea tradizionale di scienza e tecnologia è probabilmente la genetica, che tra camici bianchi e laboratori rigorosamente puliti, si esprime spesso con numeri. Ma neanche il Dna sfugge alle comuni regole della biologia: limiti e imprecisione. Spesso succede che il Dna nelle ossa si presenti talmente degradato che non è possibile studiarlo. Altre volte si trova il Dna di una particolare persona in una traccia sul posto del delitto, ma è possibile che non si riesca a capire se proviene dal sudore, dalla pelle o se si tratti di sangue. E poi ancora, c’è il rischio di contaminazione. Il vantaggio incontestabile dei genetisti è la possibilità di esprimersi in numeri, di quantificare sempre un risultato. E la procedura delle indagini genetiche è stata pensata ad hoc per risolvere i problemi in questo modo «pulito». Facciamo un esempio. Si trova una traccia di sperma sui genitali di una vittima di violenza sessuale e si ha un sospettato. Si chiede che venga confrontato quello che si chiama l’assetto genetico della macchia di sperma con quello dell’indagato per verificare se si tratta della stessa persona. Questa somiglianza viene ricercata dunque nella quantità di geni, o meglio alleli condivisi. L’allele è la forma (il «gusto» o «colore») sotto la quale si presentano diversi geni (chiamiamoli così per semplicità). È più facile capire se si fa un parallelo con i colori. Il gene 1 si può presentare sotto diversi colori, diciamo 8, il gene 2 con 10, il gene 3 con 20, il gene 4 con 4 e così via. L’identità verrà indicata dalla probabilità che tutti i geni studiati si presentino con lo stesso colore in due campioni diversi (in questo caso sperma e sangue della persona sospettata). Tuttavia, alla base, è necessario sapere qual è la frequenza di condivisione dei diversi geni all’interno di una popolazione. Se i due campioni condividono gran parte degli alleli dei geni, ma questi sono molto frequenti nella popolazione di appartenenza del sospettato, allora ciò contribuisce ad abbassare la probabilità che le fonti siano comuni. Quindi è fondamentale conoscere la frequenza dei diversi colori o alleli di geni all’interno di diverse popolazioni. Se si esaminano le popolazioni sulle quali si studiano tali frequenze genetiche, si vedrà che non sono coperti tutti i popoli del mondo, e che i numeri del campione in genere non sono altissimi: si tratta di 200 o 300 persone per ogni gruppo diverso. Volendo fare l’avvocato del diavolo, in questi casi si potrebbe dire che il confronto viene fatto
su frequenze alleliche che possono non essere del ceppo a cui appartiene il sospettato e inficiare le considerazioni statistiche di probabilità di identità. Ma questo rischio oggi è bassissimo perché le frequenze genetiche risultano studiate in tantissime popolazioni. E il genetista può stabilire, indicandola con numeri, con quale probabilità quella macchia di sperma sia di quella data persona. Si è costruito così un mondo di numeri nel quale lavorare, che tuttavia, anche se non è pienamente rappresentativo per ciascuna persona, il più delle volte funziona egregiamente ed è pratico per il sistema giudiziario che dispone di un numero che quantifica anche il rischio al quale si espone cercando di stabilire il peso di quella «prova» nella ricostruzione della verità. Atre discipline non dispongono degli strumenti utili per formare questi tipi di congetture e di alchimie. Prendiamo per esempio il caso della diagnosi dentaria, che è basata sulla forma e le riparazioni dei denti. Per poter affermare che un cadavere che presenta due capsule e tre otturazioni è quello del signor Rossi, di cui l’ortopantomografia (più nota forse come «panoramica») effettuata un anno prima della morte, mostra le stesse caratteristiche, dovrei, seguendo il discorso della genetica, fare un calcolo su quali probabilità ci sono che due persone al mondo condividano queste identiche caratteristiche dentarie. Per farlo dovrei conoscere le statistiche sui restauri dentali di tutti, cosa alquanto difficile se non impossibile. Quindi, il risultato non è propriamente quantificabile («è lui al 97%»). Ma tutti i dentisti del mondo, prendendo visione di quella lastra, saranno in grado di affermare con certezza che si tratta della stessa persona. Certo, si potrebbero inventare nuovi stratagemmi per quantificare, ma con limiti ancora maggiori rispetto al metodo genetico. Ne varrebbe la pena? C’è chi si basa su dati scientifici e riesce a ottenere il risultato esprimendolo con un numero (come la genetica, la tossicologia). Altri che non possono, per la natura stessa delle indagini che svolgono. Se mi chiedono in dibattimento quanto è probabile che una ragazza abbia subito una violenza sessuale anche se ha l’imene ancora intatto, allora posso ancora riferirmi ai dati della letteratura che mi dicono che nel 50% delle ragazze che hanno già avuto rapporti sessuali l’imene è ancora intatto, lasciando al giudice la responsabilità di decidere. Se, peggio ancora, mi chiedono da quale tipo di strumento è stata prodotta una lesione (un martello, un piccone,…) potrò soltanto esprimermi in termini di impressione. La lesione sarà incompatibile con alcuni corpi contundenti, compatibile con altri. E nel caso in cui la sua forma combaci perfettamente con quella di uno strumento sospettato, è impossibile rispondere in termini quantitativi all’ipotetica domanda di un avvocato che chiede se si può escludere che la lesione sia stata prodotta da un altro strumento. La risposta dovrà essere per forza no, ma ribadendo che «l’altro strumento» dovrebbe avere le stesse identiche caratteristiche di quello sospettato. E, di nuovo, qui la palla passa al giudice che dispone di tutti gli elementi per esprimersi. In conclusione, la prima regola è che non tutto è quantificabile, o meglio in molte indagini medico-legali è difficile, se non impossibile, esprimere il margine d’errore con i numeri. È la prima verità da accettare da parte di chi dalla scienza si aspetta sempre numeri precisi. Un’altra verità è che anche con un numero o una percentuale in mano non sempre la situazione è più chiara o più semplice. Imprecisione ed emozioni: il caso dei «quanti anni ha?» Un classico ambito che stupisce per il suo enorme margine di errore è quello della diagnosi di età. Qualche anno fa tenni una lezione al CSM (Consiglio Superiore della Magistratura) sulle innovazioni e sulle problematiche della patologia forense. Mi concentrai appunto sull’errore e sui limiti in questo ambito. Un magistrato di mezza età di Napoli mi disse, sconvolto: «Come, non riuscite a dire con certezza se un ragazzo ha 18 anni oppure no? Io ho un medico consulente che mi dice l’età precisa…». Questo commento mi fece rabbrividire, ma capisco i rischi a cui si espongono i magistrati che finiscono in cattive mani. Capita spesso che i giudici ci chiedano di valutare l’età di soggetti colti in flagrante durante un
reato, che dichiarano di essere minorenni ma che non hanno i documenti per provarlo. La medicina offre gli strumenti clinici, ossei, dentari per cercare di stabilire un’età, ma non è sufficiente. La tecnologia ha messo a disposizione nuove metodiche per effettuare questi studi: risonanze magnetiche, ecografie, ma l’errore è pur sempre inevitabile. È vero che un metodo potrà indicare un’età media («il ragazzo ha in media 17,2 anni») ma se si dovrà fornire un intervallo credibile al PM, sarà probabilmente tra i 16 e i 19 anni. A questo proposito mi ricordo uno dei primi casi che seguii come perito, per il Tribunale di Monza. Mi chiamò direttamente un giudice, al quale qualcuno in Istituto aveva dato il mio numero di telefono, dicendo: «Ora si occupa lei di queste cose…». Ereditai questa categoria di perizie da un eccellente medico legale e insegnante, inizialmente abbastanza schivo, la cui conoscenza del Monferrato però mi aveva fatto sentire un po’ più a casa in un Istituto in cui ero un’estranea. E poi aveva affettuosamente soprannominato Argo «trifola», nome che gli calzava a pennello. Mi fece seguire una sua tesista in giurisprudenza che doveva valutare una serie di perizie andate in giudizio e valutare l’effetto delle nostre diagnosi sui giudici. Mi passò le centinaia di relazioni che aveva fatto, diligentemente scritte a macchina, come si ostinava e si ostina a fare, riempiendo ancora la mattina presto i corridoi dell’Istituto con quel familiare ticchettio. Con lui si discuteva sull’evoluzione di questo tipo di diagnosi. Una volta si effettuavano lastre su tutta la persona, nella speranza di accumulare più elementi di comprensione; ora ci si concentrava con metodi più sofisticati su due distretti più specifici: il polso e la mano, insieme alle arcate dentarie. Ma tutto ciò avrebbe portato a una maggiore precisione, a risultati più affidabili? Il giudice mi disse che il ragazzo era detenuto e bisognava visitarlo presso il carcere di Monza. L’avvocato sosteneva che si trattasse in realtà di un diciassettenne e che dovesse essere spostato in un carcere minorile. Un classico, pensai. Disponiamo di numerosi strumenti per definire l’età di un soggetto non ancora maturo. Occorre considerare peso, altezza, sviluppo sessuale, ma i dati più affidabili vengono dallo sviluppo dentario e scheletrico (e i migliori indicatori sono le ossa della mano e delle dita, oltre alle radici dentarie). Gli stadi di crescita vengono confrontati con alcuni standard con diversi metodi e si valuta l’età in base allo sviluppo – che, si sa, ha un certo margine di variabilità da soggetto a soggetto. E poi c’è il problema della razza (o etnia): continuerò a usare questo termine solo per indicare un gruppo di differenze tra soggetti, senza alcun connotato di altro tipo se non quello fisico. Non intendo nascondermi dietro la negazione un po’ ipocrita che esistano differenze di tipo etnico che possono aiutare a identificare una persona. Se parlo di «un trenta-quarantenne negroide alto un metro e ottanta», questa espressione sarà molto più incisiva della definizione «trenta-quarantenne con capelli lanosi, pelle bruno scura». C’è qualche ragione per negare queste diversità? È vero, potrebbe non essere un discorso riconducibile solamente alla genetica, anche se è notizia abbastanza recente che i progetti che studiano il pangenoma stanno individuando sempre più sequenze tipiche di popolazioni particolari. E poi, perché i nostri genetisti forensi da una traccia di sangue riescono a dirci se probabilmente appartiene a un orientale o a un europeo? Il grillo parlante intona sempre questa diatriba quando siamo al bar o a fare colazione da qualche parte durante le pause e si avvicina al banco un cinese o un senegalese. Mi guarda e dice: «Le razze non esistono, eh?» E anche se i gruppi etnici non possono essere stabiliti dai geni, per ora, l’aspetto fisico me lo può ancora concedere, per alcuni, e in ambito forense, per identificare un morto, è un dato dirimente. Forse è solo questione di intendersi meglio sui termini, ma ciò che mi preoccupa è la violenza che accompagna questi discorsi. A volte, l’unica spiegazione che riesco ad accampare sul perché molti scienziati cerchino di convincerci che queste differenze non esistono è che non si fidano dell’uomo e non credono a un suo miglioramento e a una sua crescita. Si teme forse che riconoscere «differenze» possa mettere un’arma terribile in mano a chi ne vuol fare
un’assurda e insostenibile questione di superiorità o inferiorità. Certo, negarne l’esistenza potrebbe neutralizzare questa minaccia. Mi chiedo però se sia giusto privarci per principio, per mancanza di fiducia, della possibilità di accettare e gestire queste meravigliose diversità. Tornando alla mia perizia, è provato che differenti gruppi etnici crescano secondo modalità diverse, più o meno rapidamente. Possono influirvi diete diverse e lo stile di vita e la malattia, ma è ormai accertato che un africano crescerà in maniera un po’ più rapida rispetto a un danese. I problemi derivano dal fatto che quando si scoprono metodi nuovi, in genere provengono dai paesi europei e dagli Stati Uniti e sono calibrati su soggetti «europoidi». Proprio per questo motivo non si possono applicare acriticamente formule tarate su popolazioni di questo tipo a un soggetto di una popolazione molto diversa, per esempio subsahariana. Per quanto possibile i metodi vanno testati e adattati per le diverse etnie. L’avvocato lo aveva intuito e aveva chiesto al giudice, visto che il cliente era marocchino, di inserire nel quesito: «Dica il perito l’età del soggetto tenuto conto della razza…». Un genio. Avevo 30 giorni per decidere. Mi misi subito al lavoro. Dovevo visitarlo e fargli delle radiografie al polso e alla mano sinistra. Questa era la parte facile. Entrai in carcere con il mio «lasciapassare» che consisteva nell’incarico originale firmato dal giudice. Mi accompagnarono in infermeria attraverso una serie di porte che dovevano essere chiuse a chiave prima di aprire quelle successive. Chiesi di vedere la cartella clinica del ragazzo e di visitarlo. Lessi quei pochi fogli mentre i secondini andavano a prelevarlo. Sano come un pesce. Il ragazzo era snello, alto, con un gran sorriso. Lo misurai, lo pesai, lo visitai per individuare eventuali segni di malattia che avrebbero potuto influire sul suo accrescimento e poi gli parlai: «Capisci l’italiano?». Scosse la testa come per una risposta negativa. Ci arrangiammo col francese. Gli chiesi se aveva avuto malattie particolarmente gravi, allergie, se era destrimane. Gli spiegai cosa mi aveva chiesto di stabilire il giudice, e che nei giorni successivi sarebbe stato sottoposto a radiografia perché si voleva conoscere la sua età vera. «Ma ho 17 anni…». Chissà, forse aveva ragione e ne aveva davvero 17 anziché 19 come riportato sul documento in suo possesso che, con buona probabilità, come sosteneva l’avvocato, era falso. Gli sorrisi. Anche lui sorrideva: forse si prendeva gioco di me, forse era sincero, e non conosceva la sua reale età, come spesso succede in alcuni paesi d’origine degli extracomunitari. A pelle, se lo avessi incontrato per strada, non avrei pensato a un minorenne. Ma era «a pelle», e dovevo basarmi su qualcosa di più concreto. Parlai con il giudice al telefono per richiedere le lastre. Gli anticipai che non potevo garantire che saremmo arrivati a qualche certezza («più si giunge vicino alla maturazione completa, più la stima diventa imprecisa»). Il giudice sospirò e si mise a spiegare nel dettaglio il caso. Sapevo di non voler sentire ciò che stava per dirmi e avrei volentieri riagganciato per evitare di poter essere influenzata. Non volevo che mi informasse sul capo d’imputazione, in base al quale era stato arrestato. Volevo credere che, come nella maggioranza dei casi, si trattasse di qualche questione da poco: spaccio, furto e cose del genere. Dall’altra parte arrivò la mazzata: «Questo qua non è dentro per cosette… ha violentato una ragazza e le ha spaccato la testa. Per fortuna lei è fuori pericolo. È un violento e un recidivo». Nella mia mente prese forma il viso di quel ragazzone che sorrideva sempre. Non riuscivo più considerarlo in maniera obiettiva, anche se non era giusto. Ma, come dicevo, le emozioni, un altro grande pericolo, sono da tenere a bada. Dopo una settimana mi consegnarono le lastre. Le infilai sul diafanoscopio, la scatoletta luminosa per leggere le radiografie. La luce molto forte mi consentiva di osservare 29 ossa, completamente formate. Misi a fuoco meglio la regione che mi interessava: il polso. In genere, qui, a 18 anni, le estremità del radio e dell’ulna non sono ancora completamente fuse e quindi chiuse, e si può notare una piccola linea nera che le attraversa – come un’interruzione – nel punto dove le due parti dell’osso non si sono ancora unite. Qui la linea non c’era. Secondo l’atlante di riferimento che stavo utilizzando aveva già raggiunto i 18 anni. Poi applicai un metodo, sempre su polso e mano, più raffinato, che mi avrebbe aiutato a calcolare il margine
del mio errore. A ogni osso dovevo assegnare uno stadio. Caricai i dati sul computer e l’elaborazione mi restituì: >18 anni. Un altro metodo ancora suggeriva che questo stadio si può presentare dai 17,9 ai 19,1 anni. Il mio range arrivava fino a poco sotto i 18 anni, ma le probabilità che fosse proprio in quella fase erano piuttosto basse. Passai alla dentizione, che pure mi diede un responso di situazione di maturità. Focalizzai l’attenzione soprattutto sui denti del giudizio. I denti crescono dalla parte che si vede in bocca (la corona) verso la radice. Quindi per ciascuno di loro, si completerà prima la porzione più alta, poi man mano quelle più basse, nascoste. La presenza di un dente del giudizio le cui cuspidi sono ben visibili in bocca non indica nulla di utile sul reale livello di formazione. Per valutare il livello di completamento è necessaria una radiografia e questa con chiarezza indicava che anche l’ultimo dente che si completa, quello del giudizio, era quasi a termine sviluppo. Quasi. Una piccola porzione in fondo doveva ancora mineralizzarsi e quindi non si vedeva. La radice era, insomma, un po’ monca. I soliti schemi scientifici però mi dicevano che questo stadio si raggiunge mediamente a 19 anni, ma che può presentarsi dai 18 ai 21 anni. In definitiva tutti i dati sembravano indicare un’età maggiore. Pensavo di aver terminato. Dovevo soltanto affrontare l’ultima parte del quesito: «… tenuto conto della razza». Per scrupolo iniziai a controllare se esistevano pubblicazioni scientifiche sugli stadi di accrescimento dei denti nei marocchini. Non ne trovai se non per altre popolazioni africane. I risultati minavano l’esito decisivo della perizia che già pregustavo. Leggendo i dati degli studi condotti su grandi popolazioni appresi che, senza ombra di dubbio, i soggetti del sud dell’Africa crescono più velocemente. Le tecniche che io avevo così diligentemente applicato alle lastre rischiavano di attribuire al soggetto un’età superiore a quella effettiva. Lessi e rilessi: non c’era via di uscita. I fatti toglievano validità alla convinzione che mi ero formata: maggiorenne. Mi intestardii: «Ma qui non c’è nulla sui marocchini, forse su di loro non ci sono queste differenze». Avevo tre possibilità: potevo ignorare quella parte del quesito; oppure potevo dire che non c’erano studi specifici sui marocchini e che quindi si potevano soltanto accettare le deduzioni utili per le altre popolazioni sulle quali erano stati tarati i metodi; la terza era di aprire il vaso di Pandora e di addentrarmi in elucubrazioni che mi avrebbero portato lontano dalla certezza che il ragazzo fosse maggiorenne. Ero tentata dalla seconda opzione. Sarebbe stato bello: il violentatore quasi omicida con la faccia sorridente e gongolante avrebbe avuto sicuramente una pena più severa, essendo trattato come maggiorenne. Mi lasciai cullare per un po’ da questa tentazione. Ma sapevo che sarebbe stato sbagliato. Nei confronti del giudice e del ragazzo. Dovetti farmi violenza per accantonare i sentimenti di rancore nei confronti del mio periziando e scelsi la terza via, con una riserva. Mauro Binda era il radiologo con cui i primi tempi facevo questi accertamenti. Sicuramente avrebbe accettato la mia richiesta: «Senti, tu hai una serie di lastre di adolescenti certamente marocchini, di età conosciuta?». Dall’altra parte del telefono ci fu un lungo silenzio, ma poi lui rispose come chi sapeva già dove volevo andare a parare: «Potremmo fare uno studio alla cieca. Tu tiri fuori le lastre dal nostro archivio, non ci dici niente, e in due radiologi, indipendentemente l’uno dall’altro, le dividiamo in stadi. E poi vediamo». Dovetti chiedere al giudice una proroga, spiegandogli il problema. Me la concesse, solo di una decina di giorni perché il ragazzo era in prigione e si aspettava unicamente l’esito della perizia per deciderne la sorte. Durante le due settimane successive mi dedicai – e ancora di più i radiologi – a questa faccenda. Avevo scelto anche dall’enorme archivio dell’ospedale un ugual numero di lastre di soggetti italiani. Ci trovammo dopo qualche giorno. I risultati erano chiari. Applicando i metodi e gli standard che funzionavano bene per stabilire l’età di bambini e di ragazzi europei, i marocchini venivano giudicati come più vecchi, di almeno un anno. Accettai la «sconfitta». I rischi di errori erano troppo elevati e, peggio ancora, non conosciuti. Ma come l’avrei spiegato al giudice? È semplice scrivere una perizia quando si dispone di risultati chiari, certi (evenienza molto rara). Spiegare invece i motivi per i quali non puoi dare certezze è più difficile. Lo feci. Mi
consultai con il professor Grandi su come formulare un esito in questo senso. Come potevo concludere in maniera utile per il giudice (se mai utile potevo essere): «Se fosse europeo sarebbe maggiorenne ma così c’è il rischio che non lo sia». Decisi per una formula netta e tranchante, spiegando che era marocchino e che l’età reale non era necessariamente compresa come per le popolazioni più nordiche tra 17,9 e 19,2 anni. Terminai dicendo: «Non ci sono elementi indicativi che il ragazzo abbia sicuramente raggiunto i 18 anni». Pensai che all’avvocato sarebbe piaciuta sicuramente. Un po’ meno al giudice. Ma era la cosa più onesta. E nel dubbio venne considerato minorenne. Il rischio della tecnoscienza Anche quando vengono introdotte tecniche e tecnologie nuove, queste funzionano come un microscopio sempre più potente. Si vedono nuove cose ma, se scompaiono dubbi e limiti legati ai metodi vecchi, ne compaiono certamente di nuovi. Non c’è scampo. Tutto ciò mi ricorda un teorema che all’Università mi aveva affascinato, quello di Schroedinger: appena scopri come mettere a fuoco un metodo per vedere un atomo o una particella nelle sue due «versioni» quantistiche, questa si rende visibile in una soltanto delle due, l’altra sfugge. E quindi, malgrado tu lavori con una nuova tecnologia, non riesci a vedere tutto quello che c’è. È proprio il caso delle scienze forensi. Per esempio, il laser scanner, apparecchio che restituisce un modello virtuale in 3D della scena del crimine, è un eccellente strumento per il sopralluogo. Ma può essere usato con ottimi risultati per fornire un modello 3D ad alta risoluzione di un dente, di una vite o altri piccoli oggetti. Ne abbiamo provato l'efficacia sulle lesioni. Alcuni aspetti sono fantastici: se si scannerizza una lesione, che ha la forma di un particolare strumento, e l’arma che l’ha provocata, si possono effettuare tutte le misurazioni e prove di «complementarità» mediante opportuni software. I risultati sono molto più convincenti di quelli ottenuti attraverso la misurazione di lunghezza, larghezza, profondità da una fotografia. Nell’immagine 3D invece tutti i dati sono disponibili: addirittura troppi. L’enorme risoluzione, che arriva a mostrare particolari delle dimensioni della decina di micron (un centesimo di centimetro) ci mostrava differenze piccolissime che nessuno riusciva a interpretare. Erano rilevanti differenze di così poche unità tra strumento e impronta lasciata? Nuove tecnologie, problemi nuovi. Ma l’esperienza più curiosa che riguardava le nuove tecnologie ha coinvolto me, una barca, Pasquale e Remo, l’ingegnere. Nel mio immaginario, se devo pensare alla figura professionale più «scientifica», tecnica e infallibile, quella è l’ingegnere, che per me si incarna in Remo Sala, docente al Politecnico di Milano, con cui collaboriamo spesso (insieme ad altri suoi colleghi). L’ingegneria è una delle ultime discipline arrivate nel novero di quelle fatte proprie dal mondo delle scienze forensi. L’ingegnere fa ormai parte integrante del team Labanof, e il nostro è l’epitome di genio e sregolatezza. Uomo dall’aspetto molto docile e tranquillo, è in realtà una fucina di idee e di soluzioni tecniche. Quando ho bisogno di sapere con quanta forza è stato colpito un cranio, quanto dovevano essere affilate delle armi per tagliare e così via, è a lui che mi rivolgo. I casi più strani e interessanti che mi ricordi l’hanno visto protagonista: quello in cui bisognava capire con quanta energia era stata tagliata la lingua di un bambino, quali sarebbero state le conseguenze su una donna chiusa per dispetto dal marito all’interno di un macchinario per produrre segatura da legno, se si poteva morire per la chiusura di un divano letto e così via. Ricorrendo a formule e sperimentazioni trova sempre una soluzione, ovviamente nei limiti del possibile e attenendosi alle procedure. O perlomeno mi fornisce un dato affidabile e quindi utilizzabile a seconda delle esigenze. Dicevo che l’aspetto di Remo Sala è tranquillo ma la sua mente un vulcano. E ancor prima che tu abbia finito di spiegargli il problema, ha già capito ed è già mille miglia più avanti. Lo coinvolsi come consulente in uno strano caso di una donna trovata morta in mare. Un amico PM aveva dato il mio nome a un suo giovane collega per un caso abbastanza insolito. Era una storia «nautica», e poiché era nota a tutti la mia avversione ad acqua, barche e cose di
questo tipo, il mio amico trovava divertente che dovessi immergermi in questa avventura. Si trattava di un presunto omicidio. Durante un’uscita in barca una donna era stata trovata in mare la mattina dal suo compagno, legata a una struttura interna (whinch, mi dissero che si chiamava) da una corda che superava di gran lunga i 3 metri di sicurezza – era lunga infatti 15, e quindi non aveva potuto impedire che per una perdita di equilibrio o caduta la donna finisse in mare. L’autopsia era stata fatta in altra sede e la diagnosi di causa di morte era di annegamento. Venne sepolta. Mesi dopo, i famigliari vennero a conoscenza del fatto che l’uomo avrebbe beneficiato di una discreta somma di denaro nel caso in cui lei fosse morta. E per questo fatto, nonché per la stranezza delle circostanze, fecero denuncia per omicidio volontario. Si trattava quindi di esumare la salma e di ripetere tutte le analisi. La bara ancora sporca di terra arrivò in Obitorio un caldo giorno di agosto. In Istituto con me c’erano pochi colleghi e mi aspettava l’ingrato compito di fare un’autopsia sulla tipologia di salma che più odiavo: quella deposta in cassa. Trovo più accettabile il fetore e la visione di organi ridotti a poltiglia quando sono il risultato di un decorso «più naturale» compiutosi all’aperto come nei casi di cadaveri ritrovati nei boschi, in acqua o anche negli appartamenti. Quando seppelliamo i cadaveri, invece, facciamo cose innaturali. Li vestiamo bene, con vestiti sintetici, li chiudiamo in bare a volte zincate, e quei pochi liquidi di decomposizione che sarebbero destinati a defluire nel terreno ristagnano, creando strane e artificiali forme di mummificazione. Se poi la salma viene imbalsamata o trattata con formalina il processo è ancora più anomalo. Mi trovai così sul tavolo una donna ben conservata, vestita con un elegantissimo tailleur nero con tacchi a spillo, dai quali emergeva un volto sfigurato in parte dalle muffe e in parte dalla decomposizione. L’odore di formalina era quasi intollerabile. La svestimmo e notammo la lunga cucitura che andava dal mento al pube, segno del lavoro di un medico legale che mi aveva preceduto. Iniziai con l’esame esterno e subito alcune macchie grigiastre sulla fronte attirarono la mia attenzione. Temevo che nascondessero qualcosa di più importante. Afferrai il coltello dalle mani di Lucio, il tecnico di sala, e cominciai, malgrado la sua disapprovazione, a grattare quelle croste. Sotto erano marroni. Le fotografai e le incisi. La cute sembrava infarcita di materiale marroncino. Poteva essere sangue, e se lo era, queste erano lesioni vitali. L’unica possibilità di conferma era l’esame istologico. Sperando che non fossero troppo marce, feci dei prelievi per le indagini microscopiche: solo Andreola, il nostro anatomopatologo era in grado di dirmi se si poteva capire qualcosa. Esaminai il resto del corpo. Nulla di particolare, se non il segno escoriativo della corda stretta intorno alla vita. Il Porta, che non era ancora partito per le vacanze, eseguì un calco dell’escoriazione. La trama calzava perfettamente con quella della corda con la quale era stata legata. Poi la girammo: mi insospettirono subito due grandi aloni viola sul dorso. Non mi piacevano e secondo me non erano l’effetto della decomposizione. Per provarlo erano necessari altri prelievi. E poi altri prelievi ancora da zone simili di gambe e braccia. Proseguimmo nel togliere i punti di sutura. Lucio incise ogni punto e in breve il torace e l’addome erano aperti. Il quadro era sconcertante. Le cavità erano riempite dagli esiti della prima autopsia misti a formalina e segatura: frammenti di polmone, fegato, cervello, tagliuzzati e sparsi per il corpo. Tutti da rintracciare, riconoscere ed esaminare. Sapevo che la cosa più importante era la diagnosi di annegamento: mi misi quindi alla ricerca dei frammenti di polmone, che dopo qualche decina di minuti, identificai e prelevai. Il resto dell’autopsia fu veloce. Ricomponemmo al meglio la salma. Uscii dalla sala anatomica ancora un po’ nauseata dalla vista di un morto che si era cercato di far sembrare vivo il più a lungo possibile e portai i reperti in laboratorio. Dopo circa un mese, Andreola mi comunicò i primi risultati utili. I polmoni avevano il classico aspetto di organi forzati dall’acqua. Al microscopio gli alveoli (il terminus dell’aria) erano gonfi e ricoperti da materiale che indicava che i tessuti avevano «sofferto»; poi c’erano piccoli
frammenti di diatomee, microscopici organismi presenti nell’acqua utili, se rintracciati negli organi interni, per la diagnosi di annegamento. Era annegata, quindi ancora viva quando cadde in acqua. Ciò smentiva definitivamente l’ipotesi che fosse stata uccisa prima e poi buttata in acqua. Ma… c’era un ma: oltre a mostrarmi i polmoni, Andreola tirò fuori i frammenti di pelle che avevo prelevato dalla fronte, dalle braccia, dalle gambe e dal dorso. «Penso che i risultati di questo ti interesseranno» disse, con un mezzo sorriso, serafico come al solito. Infilò il primo vetrino sotto il microscopio. Io guardavo nell’oculare opposto al suo (il microscopio era uno di quelli che permette l’osservazione a due persone). «Vedi qui…» fece scivolare nell’ottica un indicatore a freccia. Dove puntava l’indicatore potevo osservare le cellule normali della cute, in mezzo alle quali c’era una dispersione di puntini indefiniti. Aumentò l’ingrandimento e apparve più chiaramente la loro forma discoidale; malgrado l’apparente putrefazione, il quadro microscopico della pelle era ben conservato, forse grazie a quella maledetta imbalsamazione. «Li vedi?» Li vedevo. Erano centinaia di globuli rossi sfuggiti dai vasi. Quelle macchie ammuffite e illeggibili sul cadavere erano ecchimosi, lividi. Quindi era annegata, ma poco prima della morte aveva subito delle percosse: alla fronte, al dorso, alle braccia. Che ci fosse stata una colluttazione durante la quale era stata scaraventata in mare? D’altronde, non sapeva nuotare. E un ipotetico omicida avrebbe saputo che pur con il giubbotto, priva di sensi, non sarebbe sopravvissuta molto nell’acqua. Questo ovviamente è stato il primo pensiero, non solo mio ma anche del magistrato. «C’è però un problema» feci presente con un po’ riluttanza. Stavo facendo l’avvocato del diavolo, ma il PM era intelligente e sicuramente avrebbe apprezzato ogni dubbio a proposito. «Bisogna escludere che una caduta accidentale non possa aver provocato quelle lesioni.» Ragionammo tutti e due sul fatto che se qualcuno cade, al massimo riporta delle lesioni sulle zone del corpo interessate dall’impatto, e non in tante altre posizioni (testa, dorso ecc.), a meno che durante la caduta la nostra morta non abbia sbattuto in qualche maniera complessa contro il bordo della barca. Era sicuramente un’ipotesi da esplorare. Si trattava di capire come quel corpo, partendo da una posizione iniziale nota, si sarebbe comportato nella caduta da quella barca. Chiamai Remo. Prima però organizzai un esperimento giudiziario. Un corpo di forma complessa, come il corpo umano, legato a metà, poteva cadere in maniera così irregolare e sbattere in modo così traumatico in tanti punti diversi? Comprai un manichino in gomma della stessa altezza della donna e decidemmo, insieme al magistrato, di fare una prova su una barca molto simile, in mare, insieme al perito nautico. Così ci trovammo una mattina a Savona per effettuare questo primo esperimento. Arrivai per prima io, accompagnata da Pasquy, che avevamo deciso fosse utile aggregare al gruppo: mi avrebbe dato una mano, e poi avrebbe colto l’occasione per fare con la sua stazione totale (strumento che in maniera più limitata rispetto al laser scanner restituisce le coordinate tridimensionali di un oggetto) tutti i rilievi della barca, caso mai fossero serviti più tardi. Dopo poco ci incontrammo con il PM che propose una colazione a base di focaccia prima di uscire. Dopo salimmo tutti sulla barca e uscimmo dal porticciolo a velocità minima, col mare calmo (come la notte in cui aveva perso la vita la nostra donna). Io e il nautico legammo lo stesso tipo di corda, della stessa lunghezza alla vita del manichino. E poi, con la barca in moto, a bassa velocità, facemmo diverse prove lungo il molo, senza mai uscire in mare aperto. Alla fine, tutti un po’ bagnati dopo aver litigato con il manichino fradicio per farlo cadere in diverse posizioni, concludemmo che erano molto variabili i tragitti del corpo durante la caduta, che poteva realizzarsi secondo varie modalità, senza sbattere, oppure sbattendo – in genere una sola volta. Durante una prova la corda si incastrò e il manichino prese a sbattere ripetutamente contro la chiglia della barca. Ma sembrava che i punti di urto fossero concentrati sempre sullo stesso lato: o sul dorso, o davanti, o su un fianco, non da tutti i lati come sulla vittima riesumata. Al termine delle prove non ne sapevamo molto di più, se non che la complessità della situazione era ben superiore a quanto ci saremmo aspettati. Mentre
tornavamo in porto ragionavamo sul fatto che bisognava effettuare una prova più scientifica, in grado di riprodurre più variabili possibili, insomma una simulazione al computer. Mi spiaceva che non avessimo acquisito informazioni utili, ma mi stimolava l’idea della simulazione. Inoltre ero fiera e felice di aver superato indenne la prova dell’uscita in mare con la barca. Ero rimasta calma, niente nausea. Ed era tutto finito; avevo superato la prova. Poi il PM disse: «Visto che ci siamo, proviamo a portarla in mare aperto per una mezz’oretta?» Puro diletto. Tutti d’accordo ed esultanti naturalmente, tranne me. Passai l’ora successiva seduta, a torturarmi le mani con maggiore intensità man mano che il tempo peggiorava, il mare si agitava e la barca mi sembrava ballare sempre più impietosamente. «Vuole provare a tenere il timone?» «No grazie.» Pasquy se la rideva e giurai di fargliela pagare. Quando diventai verde, mosso a pietà, disse, rivolgendosi agli altri: «Forse è meglio rientrare, la dottoressa soffre il mal di mare». Avrei voluto sprofondare. Rientrammo e tornammo al lavoro. Chiamai Remo. In pochi minuti gli avevo spiegato il problema e in ancora meno tempo aveva capito e aveva già stilato un elenco dei collaboratori e dei software dei quali avrebbe avuto bisogno. Nelle settimane successive mi spiegò che dovevamo conoscere tutte le dimensioni precise di ogni parte della barca, del cadavere e la velocità esatta della sua andatura, tutti dati che erano in nostro possesso. Da lì, insieme a Carabinieri e Polizia, ipotizzammo le possibili sedi e modalità di caduta della donna. Poi le posizioni di caduta. Dal davanti, all’indietro e sui lati. E così Remo se ne tornò al Politecnico per elaborare i possibili scenari usando un programma di simulazione dei movimenti del corpo in volo. Ma mi avvertì: «Non aspettarti miracoli. Questo software che viene usato anche per le prove di caduta in America, simula le probabili fluttuazioni e posizioni di un corpo in volo, niente di più. Poi bisogna ragionarci su». Non gli credetti e mi aspettai che il computer mi desse la soluzione e mi facesse vedere esattamente cosa succede in ogni posizione di caduta. Il software restituì diverse ipotesi. Il corpo che cadeva dalla barca non lo faceva secondo la modalità che mi sarei aspettata: un po’ più rigido, sicuramente non «agile», come un corpo o un cadavere vero. E in quel momento pensai che difficilmente quella simulazione avrebbe potuto essere aderente a ciò che era realmente accaduto. Anche qui limiti e imprecisioni non mancavano. Un lampo tremendo. «Ammettiamo che fra tutte le simulazioni fatte non una riesca a giustificare che il corpo ha sbattuto in diverse parti… ma come faccio a dire che sono a prova di ogni dubbio e che certamente se il computer non l’ha previsto, non può essere successo? Era pendente una condanna per omicidio.» Avevo creduto che la tecnologia avrebbe risolto tutti i problemi, ma ne aveva risolti soltanto alcuni, altri rimanevano e se ne aggiungevano di nuovi. Non fu così. In tutte le simulazioni, fino all’ultima, le cadute non sembravano implicare urti col capo, col dorso e con gli arti contro la barca. Tranne l’ultima. Se la donna fosse caduta dal bordo della barca all’indietro, le diverse parti anatomiche avrebbero potuto entrare in contatto, in un’unica caduta, con la barca. Mi sentivo di aver fatto inopinatamente il consulente della difesa e di aver messo in mano a tutti lo strumento che indicava, anche se solo per una posizione su numerose altre, che poteva essersi trattato di un episodio accidentale. Anzi, avevo smosso le acque – non solo metaforicamente – per arrivare a questo risultato. Mi sembrava un boomerang. Ma alla fin dei conti il mio compito era anche quello. Il magistrato però comprese. Per lui comunque era un risultato valido perché gran parte delle posizioni di caduta rappresentavano l’impossibilità che si creassero tutte quelle lesioni, e poi aveva molti altri elementi non medico-legali. Io invece imparai che le innovazioni tecnologiche affinano la vista, ma trascinano con sé una nuova batteria di problematiche e imprecisioni da discutere e da imparare a gestire, sempre considerando che il dato puro non è un risultato e non costituisce una buona tessera del mosaico finale finché non se ne sono compresi tutti i vantaggi e i difetti.
Il problema della preparazione e dei periti «giusti» In tutte le professioni, c’è chi fa bene il proprio mestiere e chi no. L’inferno dantesco di chi lavora male può dividersi in diversi cerchi: quello di chi ha peccato per ignoranza, per superficialità, per mancanza di preparazione. Penso che ciascuno di noi, qualche volta nella sua vita professionale, si sia macchiato di qualcuno di questi difetti, io per prima. Ma per qualcuno diventa un’abitudine. È pericoloso e deontologicamente sbagliato. Innanzitutto è fondamentale la preparazione. Si è già parlato delle difficoltà di garantire una formazione idonea e di accreditare professionisti preparati; inoltre, l’entrata di discipline relativamente nuove nell’ambito forense crea un vuoto che rischia di essere occupato, in veste di periti, da individui che dal giorno alla notte si improvvisano antropologo o botanico forense, senza avere in realtà un’idonea preparazione scientifica nella specifica disciplina né esperienza in ambito giudiziario… ma se sanno vendersi bene a magistrati e giudici, ecco che possono diventare facilmente il perito del caso, finché non vengono smascherati nelle loro manchevolezze da bravi consulenti di parte o dai magistrati stessi, si spera prima che abbiano fatto troppi danni. È un problema in cui ci si imbatte fin troppo volte: persone inesperte di morfologia facciale e di antropologia che identificano soggetti ripresi da sistemi di videosorveglianza senza alcun metodo, clinici che valutano come minorenni – in casi di sospetto di reato di pedopornografia – ragazze perché con «seni troppo piccoli e guanciotte troppo pronunciate», quando si sa che non è ancora possibile giudicare una ragazza postpuberale come maggiorenne o minorenne in base alle caratteristiche somatiche. Sono molti gli esempi di chi si presenta, senza averne autorità e competenza, come esperto a un mondo giudiziario che ha ovvie difficoltà nello scegliere un buon perito in discipline nuove per le quali non vi sono ancora i criteri di garanzia di qualità, come per esempio specializzazioni universitarie, certificazioni e così via. Indubbiamente è un problema grave da risolvere. L’improvvisazione non è l’unica tematica su cui puntare l’attenzione. Ci sono anche quelle dell’aggiornamento e della multidisciplinarità. Come per tutte le altre scienze mediche, anche tutto quello che affluisce al settore forense è, bene o male, forse più lentamente, in continua evoluzione. Non è quindi possibile esercitare onestamente la professione senza aggiornarsi continuamente attraverso la consultazione della letteratura circa casi simili a quelli che si stanno trattando: per esempio come il mondo intero ha deciso di classificare la gravità delle lesioni ai genitali nei casi di violenza sessuale, oppure di stabilire in maniera diversa l’epoca della morte. E poi è necessario prendere coscienza che ormai, con il progresso delle scienze e la loro diversificazione il medico legale va sempre affiancato da uno specialista di altre discipline, che deve ricevere comunque la nomina a perito o consulente tecnico. E questo spesso non piace al committente: significa infatti più burocrazia e più spese, soprattutto per un lavoro, quello delle autopsie e delle consulenze medico-legali, che in questo periodo la giustizia fa fatica a pagare, con la grave conseguenza che giovani bravi ed entusiasti se ne devono andare dagli istituti perché non riescono a sopravvivere. Infine c’è la «compiacenza», che nella maggior parte dei casi è frutto di sentimenti, del desiderio di trovare «la prova», di aiutare il PM, ricercatore della verità, a incastrare l’eventuale reo. Di questo siamo stati tutti vittime all’inizio della professione, e in molti l’abbiamo superato – per lo meno me lo auguro. Ma alcuni persistono a tal punto che, a volte, verrebbe da pensare che lo fanno consapevolmente. Gli americani hanno organizzato una sessione del loro Congresso nazionale di Scienze forensi (AAFS – American Academy of Forensic Science) sulla bad or junk science (cattiva scienza o scienza spazzatura) e sui periti impreparati. L’iniziativa è coraggiosa e ammirevole. Da imitare. Con l’obiettivo però di coinvolgere i giudici, dando loro gli strumenti per poter scegliere come perito il professionista «giusto». In conclusione, a mio avviso, sono proprio queste le insidie più pericolose per la medicina legale e le scienze forensi: la loro presentazione come un mondo perfetto, quasi senza limiti e senza
errore, la fiducia cieca e quasi acritica nelle nuove tecnologie e la bad or junk science.
III «Happy ending»
Non sempre si è frenati dai limiti della scienza, dai costi e dalle difficoltà organizzative. A volte c’è qualche happy ending e le cose riesci a farle andare nel verso giusto, trovando anche la soluzione. Certo, il termine «lieto fine» è forse poco azzeccato visto che parliamo di morti; sarebbe appropriato solo se si riuscisse a chiudere un caso con una resurrezione – evenienza abbastanza improbabile. Ma per chi ogni giorno si impegna per ricostruire una scheggia di passato senza affidarsi alla sfera di cristallo, il fatto di essere riusciti a ricostruire la più probabile ipotesi di come sia avvenuto un crimine (a volte con dati inconfutabili), vederla confermata con una confessione, o capire che almeno si adatta ad altri dati in possesso degli inquirenti, e accorgerti che aiuta a dare una svolta alle indagini è da considerarsi sicuramente l’unico tipo di happy ending possibile del nostro mestiere. A volte puoi spingerti a cercare un ritorno emotivamente gratificante quando una vittima ti sembra «rivendicata» attraverso una condanna ben strutturata inflitta al suo assassino (all’interno della quale è ancora riconoscibile l’apporto che hai dato come medico legale con l’autopsia o un esame microscopico). Qualche volta ti sembra addirittura di poter parlare di una chiusura «positiva» di un caso quando riesci a identificare un cadavere, magari dopo anni che era in obitorio, che un amico o un parente cercava ancora. Tuttavia, associare qualunque connotato di felicità a queste «conquiste» mi è impossibile. Ai medici dei morti non sono riservate le stesse gratificazioni dei medici dei vivi: la stretta di mano di chi è davvero felice perché sta meglio, il sorriso di un bambino che non ha più male, lo sguardo spaventato ma fiducioso di chi deve iniziare una terapia. Nel nostro caso il più delle volte si parte da una ferita già insanabile, dalla perdita più grande che ci possa essere. La speranza non ha più motivo di esistere. Se, di fronte alla morte e alla violenza, le soddisfazioni possono essere soltanto di natura «tecnica», a insistere su errori, limiti, imprecisioni si potrebbe pensare che quello del medico legale o dello scienziato forense sia un lavoro a dir poco frustrante, talvolta inutile. In realtà è un lavoro come molti altri in ambito scientifico, con qualche grande soddisfazione, una buona dose di gratificazioni, ma anche molte frustrazioni. Qualche volta – troppo poche – il nostro operato è fondamentale (ci piace chiamarlo «dirimente»): per esempio quando apri un cadavere ed è chiara la causa di morte, o nel caso in cui la visita a una ragazza violentata mostri un certo tipo di lacerazione il cui aspetto ci permette di dire quando e come è stata provocata; o quando lo stato di crescita scheletrica e dentaria di un ragazzo prova con quasi certezza che è minorenne, e che quindi non può essere trattato come un delinquente adulto e rinchiuso a San Vittore; oppure ancora quando, togliendo le carni a un morto putrefatto, scopri ciò che nessuna radiografia o TAC poteva rivelare prima, una piccola scheggiatura su una costa che inconfondibilmente indica il passaggio di una lama nel torace e quindi una probabile causa di morte. Altre volte si «dà una mano»: la ricostruzione facciale di un volto effettuata meticolosamente può aiutare a identificare una vittima e quindi dare il via alle indagini; studiare il volto di una persona ripresa da un sistema di videosorveglianza e compararlo con il principale sospettato può farci escludere che si tratti di quella persona o mostrare che ci sono delle somiglianze, ma non siamo più nel mondo delle certezze. Altre volte ancora, le nostre indagini non aggiungono nulla di sbalorditivo o, meglio, si limitano a concludere che «qui, non c’è nulla che ci possa aiutare». Per carità, utile anche quello, ma l’eccitazione di avere in mano la tecnica o il metodo che può davvero fare la differenza è tutt’altra cosa. Uno dei vantaggi di invecchiare e accumulare esperienza – che in parte riscatta la disillusione e la routine – è quello di poter non solo cogliere l’imprecisione di un mestiere che ha il diritto di essere impreciso e quindi trarre soddisfazione con i giudici e con la tua coscienza utilizzando
bene i dati e presentandoli in tutta la loro forza o debolezza, ma anche di vedere svilupparsi la disciplina e osservare che a volte la ricerca e metodi «nuovi» funzionano. Ho dovuto aspettare undici anni per vedere cambiare e realizzarsi non soltanto l’approccio a determinati tipi di morti, ma anche il perfezionamento delle conoscenze e delle tecniche. E trovai motivi per rincuorarmi lavorando a tre casi piuttosto complessi di omicidio, tra il 1997 e il 2008, tutti per colpo d’arma da fuoco, non solo per la loro soluzione, ma anche perché riuscii a vedere con chiarezza come fosse positivamente mutata la mentalità d’approccio ai casi e che l’evoluzione del metodo scientifico, anche nel nostro settore, seppur lentamente, compie passi avanti: sia che si tratti della modalità di ricerca di un cadavere sepolto, sia che si tratti di stimare con quale velocità un proiettile ha impattato su un osso. 1997: «Dottoressa, in obitorio ci sarebbero delle ossa per lei» Il mio primo morto – anzi scheletro di una persona deceduta per colpi di arma da fuoco – aveva a che fare con un caso di criminalità organizzata. Non avevo mai avuto solide conoscenze nel campo delle armi, né me ne ero particolarmente interessata fino ad allora. Della mafia invece qualcosa in più sapevo e mi aveva sempre incuriosita, sin da piccola, forse per ciò che sembrava un controsenso intrigante nella sua incoerenza: un mondo che univa codici di comportamento apparentemente basati sul rispetto a una criminalità e una noncuranza sorprendente per la vita altrui; l’uomo «d’onore», vestito bene, che pareva rispettare donne, anziani, persino timorato di Dio, che con un gesto della mano condannava a morte un’altra persona. Da grande avrei visto i suoi effetti sui miei «pazienti»: cadaveri crivellati da colpi d’arma da fuoco e scheletri nascosti nell’hinterland milanese finché qualcuno non li avesse fatti ritrovare. E qualche scheletro di mafia è passato sui tavoli del Labanof, stimolando le riflessioni del grillo parlante. Eravamo accomunati dalla stessa «curiosità» nei confronti di questa organizzazione, anzi lui aveva avuto un vero e proprio trip per la mafia. Il Porta infatti soffriva spesso di trip socioculturali durante i quali si innamorava di un argomento e per qualche mese tutti, indistintamente, dovevano sorbire letture e citazioni di brani su quel tema durante le attività di laboratorio. Quello della mafia gli era venuto dopo il trip per i funerali dei papi e aveva preceduto quello per i vangeli apocrifi. Così mi raccontava ogni giorno animatamente dei discorsi di Pippo Calò e di Michele Greco durante il maxiprocesso di Palermo e citava frasi come: «signor giudddice, le auguro serenità» oppure «la violenza non fa parte della mia dignità». E, tra un osso e l’altro, si facevano commenti per giornate intere sul bene e sul male, sul nord e il sud. Penso che per lui si trattasse di un autentico interesse antropologico; per quel che mi riguarda avevano sicuramente contribuito i film che con assiduità vedevo da piccola e il fascino che su di me ha sempre avuto il Meridione, Sicilia e Calabria in particolare: questo mondo caldo, profumato, misterioso dove ancora oggi si possono scorgere sguardi scuri e silenziosi e comportamenti mistici e antichi da «vasamu li mani». Il fenomeno del Sud e della mafia li conobbi insieme, all’età di 6 o 7 anni, quando andammo a vivere a Montréal, dove inevitabilmente venni in contatto con il mondo italo-canadese. Il mondo degli italiani in nord America è fantastico, quasi surreale e anacronistico, o perlomeno così era negli anni ’70. Mio padre aveva fatto tutto il possibile per inserirmi in un ambiente anglosassone (e non francese) perché con grande lungimiranza aveva pensato che, per un mio personale vantaggio, l’inglese fosse la seconda lingua che avrebbe dovuto accompagnarmi nella mia crescita – quindi quartiere inglese e scuola cattolica inglese gremita di irlandesi con qualche sporadico italiano. In casa invece non era concessa neanche una parola di inglese («Ricordati che sei italiana» era l’ammonimento giornaliero di mia madre). Un paio di week-end al mese invece ci trovavamo spesso in compagnia di calabresi, siciliani e campani. Mi ricordo i mercati della little Italy, colorati e profumati di olive e parmigiano, con venditori di acciughe che parlavano dialetti calabresi che non riuscivo a comprendere completamente. Adoravo il profumo di quei cibi che mi ricordavano tanto l’Italia, anche se gli accenti erano un po’ diversi. Un po’ più in là c’era la
chiesa più grande del quartiere, che aveva all’interno della cupola un bell’affresco di Mussolini a cavallo, sempre ben conservato, come se nulla fosse successo nei vent’anni dopo la guerra in Italia. In questo ambiente una domenica, mentre ero seduta davanti alla televisione ad ascoltare il telegiornale italiano, mi fece particolare impressione la storia di Franca Mei, una cronista della televisione italiana in Canada, una rossa che ricordava vagamente Orietta Berti, la quale era stata uccisa dalla mafia locale e poi trovata fatta a pezzi in una valigia presso la stazione ferroviaria Queen Elizabeth di Montréal. Non mi ricordo bene in che modo i miei genitori tentarono di spiegare come un giovane e spumeggiante personaggio televisivo avesse potuto fare quella fine brutale per questioni di malavita. Mia madre aveva commentato con il suo solito senso pratico, senza nemmeno alzare gli occhi dalla contabilità cui stava lavorando: «La gente è così, esistono i delinquenti, ci si ammazza, a volte l’uomo è come la bestia». Ma già da piccolina avevo iniziato a intuire che l’uomo non è come la bestia, è molto peggio. È spaventoso constatare come la nostra specie riesca talvolta a utilizzare i suoi più sofisticati meccanismi cerebrali per elaborare stratagemmi finalizzati a rendere ancora più dolorosa la morte, più umiliante il maltrattamento, più bruciante la sopraffazione – questo è solo umano. E me ne feci una ragione, mentre cercavo di immaginare come potesse entrare in una valigia il corpo di una donna robusta, fatta a pezzi. Tuttavia dovettero passare quasi trent’anni per avere il mio primo tête-à-tête con una vittima della mafia. Ero al terzo anno di specialità quando venni chiamata: «Dottoressa, ci sarebbero in obitorio delle ossa per lei». Alzai gli occhi al cielo: solita storia, pensai. Mi immaginavo già un sacco nero pieno di ossa e terra proveniente da chissà quale scavo urbano dell’ AEM e di tornare sul posto dove erano state trovate per vedere se poteva trattarsi di ossa provenienti da cimiteri o da vecchie necropoli. Infatti spesso succede che durante qualche scavo in città si trovino ossa commiste che provengono da terra da riporto presa nei pressi di cimiteri – recenti o antichi – utilizzata per costruire le basi di un edificio o di una strada. Quando questa terra viene scavata, può succedere di trovare frammenti appartenenti a decine o addirittura centinaia di individui – maschi, femmine, adulti, bambini. Questo ovviamente crea del panico nelle autorità, che vogliono sapere se si tratta dell’occultamento o della distruzione di un cadavere. Se trovi nel tuo mucchio di ossa pezzi riconducibili a una ventina di persone diverse tra adulti e bambini, assai probabilmente si tratta di un cimitero. Se, invece, i resti appartengono a un singolo scheletro, allora la cosa si complica: bisogna capire innanzitutto se sono recenti. Un osso secco che risale a venti anni fa può somigliare molto a uno di 200 anni fa, e datarlo per capire se è di rilevanza forense può essere davvero difficile. Iniziai a maledire silenziosamente la situazione. Se si fosse arrivati in questa condizione, avrei dovuto inviare dei campioni nei laboratori specializzati esteri (mandiamo spesso le ossa in America) per espletare indagini chimiche particolari, pagandole a caro prezzo, per sentirmi dire, nella migliore delle ipotesi, se datavano appena prima o appena dopo gli anni ’50. Insomma, una corsa verso la frustrazione. Non si trattava di nulla del genere. Scesi in obitorio e trovai un sacco dall’aspetto innocuo. Lo aprii scostando un po’ il viso, poiché non sapevo se quello che ne sarebbe uscito dopo aver aperto la cerniera sarebbe stata una zaffata dall’odore di terriccio oppure di marcio. L’odore di marcio, seppur più sgradevole, mi avrebbe confermato che il reperto era recente, e quindi avrei dovuto allertare il PM. Ne uscì un odore quasi gradevole, non di terra, ma di foglie secche, forse un po’ di muffa. Infilai le mani nel sacco estraendone un portafogli quasi vuoto, di pelle, poi una chiave arrugginita sulla quale si trovavano adesi frammenti di tessuto. E poi una vertebra: rovistai, e trovai il pezzo da novanta, un frammento di cranio con una lesione circolare. Non avevo mai visto prima di allora un colpo d’arma da fuoco sull’osso, ma lo riconobbi subito. Salii a due a due gli scalini dall’obitorio verso il primo piano dell’Istituto di Medicina Legale e arrivai nella stanzetta situata in una delle ali più isolate dell’Istituto in cui si trovavano le
scrivanie di due miei colleghi più anziani non tanto per età ma per grado ed esperienza – già medici-legali «rodati» e apprezzati in Istituto e in Tribunale, uno toscano, l’altro mezzo veneto. Mi rivolsi al secondo, che stringeva l’immancabile pipa tra i denti e mi guardava. «Sei tu di turno, no?» dissi ansimando. «Sì» e rideva. Anche l’altro rideva. Sicuramente immaginavano che ero salita da loro per qualche stranezza che aveva a che fare con le ossa. «Allora ascolta, mi hanno appena chiamata dall’obitorio. C’è un sacco di ossa, ho dato un’occhiata e in un pezzo di cranio c’è un buco.» Andrea si alzò, lento, raccattando e mettendo in una tasca della giacca tutto ciò che gli sarebbe servito nel tragitto tra un piano e l’altro, e cioè tabacco, il cura pipe e la pipa. Trascorse tre minuti nella stanza fredda di osservazione dell’obitorio, un tempo sufficiente perché gli mettessi sotto il naso il pezzo di osso. Lo guardò e disse: «Sì, è un colpo d’arma da fuoco». Girò i tacchi e borbottò sempre con la pipa tra i denti: «Vieni, telefoniamo al PM». La «piemma» era per fortuna tra le più corrette e intelligenti che abbia mai conosciuto. Ci disse di andare il giorno dopo a prendere l’incarico da lei. Ci raccontò il caso, che era piuttosto chiaro. Un pentito aveva rivelato che dieci anni prima, lui e altri di un clan mafioso avevano ucciso un membro del loro gruppo, in stato di semilibertà. Un giorno era uscito da un grande carcere alle porte di Milano e non vi era mai più rientrato. Mi ritornarono in mente le immagini della povera Franca Mei, dei maxiprocessi alla mafia col lontano sottofondo delle cantilene della little Italy di Montréal. Ero eccitata ma cercavo di concentrarmi. Mentre ascoltavo parlare i due «grandi» esperti mi sorpresi a chiedermi perché non ci avessero chiamato per trovare lo scheletro. E poi, perché era in un pacchettino piccolo piccolo? Mi feci coraggio e domandai: «Ma come lo avete trovato, come lo avete tirato fuori?». Candidamente il PM rispose: «Ho inviato le ruspe e l’hanno trovato». Mi passò le foto del sopralluogo raccolte in uno dei soliti fascicoli blu dei Carabinieri, con quelle immagini perfette e lucide pinzate meticolosamente al supporto cartaceo. Avvicinai la faccia al fascicolo. Andrea mi guardava. Non riuscivo a distinguere i pezzi d’osso misti e sparpagliati tra terra smossa, pale e picconi. L’avevano beccato, certo, ma l’avevano distrutto, rimescolato. Là dove avrebbero dovuto agire con metodo archeologico e meticoloso, erano entrati come bulldozer. L’irritazione doveva leggersi chiaramente in faccia e sicuramente traspariva il mio pensiero. Non avevo ancora aperto la bocca per protestare quando un calcio sotto il tavolo mi colpì uno stinco. Era il 47 destro di Andrea che mi intimava di stare zitta. E così feci. Tanto non c’era più niente da fare, ormai lo scheletro era rovinato. Non potevo immaginare che a distanza di dieci anni la Procura di Milano, credo frastornata dalle nostre insistenze, non avrebbe più scavato per trovare i resti di morti senza l’apporto di archeologi e antropologi. I quesiti che ci poneva la Procura riguardavano l’epoca e la causa della morte, l’identità, le modalità di deposizione, e se l’uomo era stato malmenato, torturato. A molte domande non si poteva più rispondere perché il corpo era andato largamente distrutto; ma ci mettemmo di buona lena a cercare di salvare le informazioni che si potevano desumere da quello scheletro spezzato, non tanto dalla mafia ma dallo scavo. Nelle settimane che seguirono lo ripulii in maniera meticolosa e lo ricomposi in posizione anatomica. Era incompleto e le ruspe e i badili e le modalità grossolane del recupero avevano provocato perdite rilevanti di ossa e di informazioni. Non erano state recuperate radici né elementi botanici o entomologici che avrebbero potuto dirci qualcosa sull’epoca in cui era stata scavata la fossa. L’originale posizione di deposizione (importante per dare peso alla testimonianza del pentito che diceva che la vittima era stata sepolta rannicchiata, in posizione fetale) era ormai irrecuperabile, e lo scheletro era martoriato da lesioni provocate dai badili e dalle ruspe, tanto da essere difficile stabilire con certezza quali fratture e quali tagli ossei fossero dovuti ad azioni violente e quali invece erano state inflitte da chi aveva effettuato il recupero. Ma su due cose si riuscì subito a essere certi: la presenza di un colpo d’arma da fuoco che aveva trapassato la testa e l’identità – anche se a quest’ultima si era arrivati con metodi
sicuramente meno convenzionali. Con questo caso scoprii che lo studio dei colpi d’arma da fuoco (chiamati, in gergo, caf) è tra gli argomenti più affascinanti della medicina legale. L’insieme delle informazioni chimiche, anatomopatologiche, ossee e balistiche da incrociare rendono spesso ogni caso una sfida. I quesiti dei magistrati tendono a voler sapere di tutto e di più: quante entrate, quante uscite, i tramiti del proiettile, la distanza di sparo – e fin qui le cose sono piuttosto normali e fattibili; se siamo fortunati e il cadavere è ben conservato riusciamo a essere sicuri su quanti colpi hanno raggiunto il corpo (quante entrate), quanti lo hanno trapassato (e quindi le uscite) e quanti si sono fermati all’interno (o sono indovati, vale a dire incastrati in qualche organo o tessuto). Poi chiedono l’impossibile, o quasi: la sequenza dei colpi e le posizioni reciproche tra «ferito e feritore». In genere i colpi in un cadavere crivellato da proiettili sono sparati a così breve distanza di tempo l’uno dall’altro da non poterne distinguere la sequenza in base alle loro caratteristiche. E le precise posizioni di ferito e feritore sono a volte veri e propri rebus: sarà possibile dire che al morto si è sparato da dietro, da davanti, dai lati, ma oltre a ciò un perito non si dovrebbe spingere – le innumerevoli posizioni che possono assumere le diverse parti del corpo umano a volte superano la fantasia, e basta una lieve inclinazione del busto, per esempio, a fare pensare a direzioni di sparo completamente diverse da quelle reali. Mi ricordo un caso in cui un colpo in alto, al capo, era stato interpretato come un colpo di grazia sparato da dietro, per scoprire poi, non senza qualche imbarazzo, che il proiettile aveva colpito la testa perché la vittima si era piegata in avanti, come per accucciarsi, mentre l’aggressore stava sparando al torace. Dunque, la domanda principale stampata su quel foglio che riportava il logo della Procura della Repubblica chiedeva il numero dei colpi, da dove erano entrati, la causa di morte e la distanza di sparo. Con il cranio da una parte e diversi libri di testo dall’altra, ragionai su cosa mi aspettavo di trovare. E, essendo il mio primo CAF, iniziai da un ripassino accademico. Quando viene esploso un colpo, dalla bocca della canna esce il proiettile ma escono anche una fiammata, del fumo grigiastro e alcune piccolissime particelle di polvere da sparo incombuste. Immaginiamo allora che il colpo venga esploso vicino, per esempio a 1 cm dalla tempia. Che aspetto avrà il foro di entrata? Di solito è un buco regolare, che si distingue in genere (ma non sempre) dal foro di uscita che invece è irregolare, quasi lacerato, poiché il proiettile non viaggia più con grande energia e velocità. Ed è in genere accompagnato da mille peculiarità che vanno rilevate. La fiammata dell’esplosione provocherà certamente un’ustione della pelle intorno al foro; lì i capelli e i peli saranno strinati; la nuvola di fumo lascerà un alone grigiastro. Infine ci sarà il cosiddetto tatuaggio, cioè il segno lasciato dalla polvere incombusta conficcata nella pelle e ha spesso l’aspetto di piccoli granuli tipo quelli del pepe. Se il proiettile è entrato perpendicolarmente rispetto alla cute, allora il foro sarà rotondo, in genere un po’ più piccolo del diametro del proiettile stesso per l’elasticità della pelle, con i margini arrossati e in genere escoriati, abrasi; questo aspetto dei margini si chiama orletto, e in genere ha la stessa altezza lungo tutta la circonferenza. Se invece il proiettile entra un po’ di sbieco, allora la parte escoriata sarà maggiore dalla parte dove entra il proiettile. Man mano che ci si allontana dalla nostra ipotetica tempia alcuni elementi vengono a perdersi: prima scompare l’ustione, poi l’affumicatura e poi il tatuaggio e rimane solo il foro. La distanza di sparo «a spanne» possiamo determinarla noi, medici legali, in base a ciò che si vede sulla cute, ma quella «più scientifica» spetta ai chimici. Per valutare la distanza devono confrontare la concentrazione di particelle tipiche come piombo, antimonio e bario a diverse distanze, attraverso prove di sparo effettuate con «quell’arma» su teli bianchi. Sparano per esempio a 10, 20, 50 cm, poi fanno le analisi chimiche sul pezzo di telo forato, e comparano le concentrazioni di particelle ottenute dai tamponi fatti intorno al foro sul cadavere (che il medico legale si spera avrà eseguito prima dell’autopsia) con quelle dei teli, e valutano a quale distanza corrisponde.
Questi erano dati accademici che conoscevo dai libri, ma erano anche nozioni che avevo acquisito assistendo, durante i primi anni di specialità, alle autopsie dei morti da colpo d’arma da fuoco dei miei colleghi «grandi». Mi ricordavo quando, tutti raggruppati intorno alla testa di un morto, commentavano sul «bel tatuaggio, chiaro» oppure su un «orletto non perfettamente concentrico» che stava a indicare che il proiettile era entrato di sbieco; ma mi venivano in mente anche le autopsie più sfortunate e le ore trascorse a ricostruire pazientemente entrate, uscite e tramiti quando proprio i conti non quadravano perché c’era qualche maledetta uscita che aveva le caratteristiche di un’entrata o viceversa. Sapevo anche che il tutto ovviamente si complicava di molto quando il cadavere era marcio o carbonizzato. La decomposizione e l’attività delle larve possono creare veri e propri «buchi» nella cute che simulano fori d’entrata, senza esserlo; al contrario, la carbonizzazione fa accartocciare i tessuti molli intorno al foro, quasi nascondendolo. Inoltre, anche quando vedi chiaramente un foro, sia su un «marcio» che su un bruciato, le informazioni chimiche potrebbero essere alterate e non rispecchiare più distanze di sparo corrette. Insomma, più marcio è, meno informazioni si hanno. Guardai il mio cranio con un po’ di sconforto. “Più marcio di così...” pensai. Non avevo che osso, e tutte quelle belle cose – orletti, affumicatura, escoriazioni più o meno rotonde – non le avrei mai trovate. Resettai il cervello nella modalità « CAF sull’osso» pensando a quali informazioni mi rimanevano da desumere da questa massa di minerali. Beh, nel cranio, in genere, i fori d’entrata provocano una svasatura dall’esterno verso l’interno, mentre le uscite presentano un disegno opposto. Questo è dovuto al fatto che il tavolato cranico (un sandwich composto da tre strati – un «impiallicciato» esterno, uno interno e osso spugnoso in mezzo) si spacca con modalità diverse all’interno e all’esterno in conseguenza del modo con cui si propagano le onde d’urto. Dalla parte di entrata del proiettile, la perdita di sostanza sarà minore rispetto alla zona d’uscita, quindi nell’entrata il foro sarà più piccolo sul tavolato esterno e più grande nel tavolato interno; dall’altra parte del cranio, dove ci sarà il foro di uscita, il tavolato interno avrà un foro più piccolo rispetto a quello esterno. Questo spiega la svasatura. Bene. Guardai quel meraviglioso buco, perfettamente tondo, del diametro di 8 mm circa, sul parietale sinistro, o almeno su quello che restava del parietale sinistro, vale a dire un tassello di ossa di 10 x 10 cm. Lo girai in modo da poter vedere il tavolato interno: perfetta svasatura – quella era l’entrata. Sapevo che sarebbe stato inutile ricercare anche con analisi chimiche i residui di sparo per valutare le distanza – troppa poca ricerca, troppe variabili della decomposizione. Mi misi a cercare l’uscita. Ebbi qualche difficoltà. Ero riuscita a ricostruire quasi tutto il cranio, pezzo per pezzo, ma non avevo un chiaro foro di uscita, un bel buco rotondo svasato verso l’esterno che mi guardasse e mi urlasse: «Qui, qui, guarda che il proiettile è uscito di qui!». Niente di tutto ciò. Rigirai delicatamente quel cranio incollato da poco tra le mani. Le orbite in genere sono caverne in mezzo al massiccio facciale del cranio, ben rifinite, con margini rotondi. Osservai quella di destra: qui la parte laterale era frastagliata, non era regolare. Ecco da dove era uscito il proiettile. Non sempre è tutto così «da manuale», anzi, spesso non lo è. Io cercavo un forellino tondo tondo. Invece la mia uscita era un cratere che deformava l’orbita di destra. Sorpresa. L’energia cinetica, il rallentamento del colpo, il deviare del proiettile potevano spaccare l’osso alla sua uscita invece di penetrarlo. Anni e scheletri dopo (ammazzati sempre nel contesto della criminalità organizzata con un colpo alla nuca che doveva per forza uscire da qualche parte anteriormente) divenne un’abitudine cercare una voragine in una parte del volto. Mostrai ad Andrea la mia «scoperta»; era d’accordo. Causa di morte: un unico colpo al capo che entrava poco sopra la nuca a sinistra e usciva dall’orbita destra, formando un tramite che attraversava il cervello da dietro in avanti, dall’alto verso il basso e da sinistra verso destra, lacerando ogni tessuto che incontrava in quei pochi millisecondi: prima il lobo parietale sinistro, con i suoi
centri del linguaggio, poi il corpo calloso, il lobo frontale destro e l’occhio. Tutto quel sangue e quello sfacelo però doveva aver creato un edema tanto importante da fargli subito perdere i sensi e portarlo alla morte velocemente. Stavamo guardando un osso secco, ma sapevamo che doveva essere andata così, non c’erano altre alternative. E scoprimmo che era successo propri così. Uno dei rei, a fine processo, aveva confessato al suo avvocato che il morto in effetti era stato sparato in macchina, mentre era seduto sul sedile anteriore, lato passeggero, da uno che stava dietro. Gli altri avevano visto l’occhio e il sangue e chissà quali altri tessuti schizzare sul vetro. Avevamo capito quindi la causa di morte, ma restava da effettuare l’identificazione. Era lui o stavano cercando di far passare un morto per un altro? Quando si pensa all’identificazione, ormai è dato per scontato che «si fa il Dna». Addirittura, alcuni giudici chiedono che tali indagini si facciano a scatola chiusa, anche in assenza di un riferimeneto con cui confrontare questo Dna. Tutto ciò va benissimo – ammesso che una volta estratto il materiale genetico dal morto si abbia qualcosa della persona «da viva» con cui confrontarlo (un rasoio, uno spazzolino da denti), per provare che, in effetti, si tratti, per esempio, del signor Rossi. In questo caso avevamo un forte sospetto di identità. Nelle tasche dei pantaloni recuperati c’era un codice fiscale, e poi c’erano le testimonianze. Ma non bastava. Quante volte dopo i funerali sono emersi dubbi relativamente all’identità di cadaveri non identificabili a vista? Quante volte abbiamo visto identificare erroneamente persone in base a effetti personali e documenti scambiati ad arte? Bisogna sempre avere una prova biologica dell’identità. Certamente quella più immediata è il Dna, ma ne esistono anche altre, come i dati dentari, le radiografie e così via. In questo caso due problemi impedivano l’indagine genetica. Il primo, forse oggi superabile con le nuove tecniche di trattamento dei tessuti in laboratorio, consisteva nella difficoltà di estrarre un buon Dna da materiale scheletrico vecchio. Oggi, rispetto ad allora, le tecniche di estrazione sono incommensurabilmente migliori e forse il nostro scheletro avrebbe potuto essere tipizzato. C’era però un altro problema: a distanza di dieci anni, non erano più disponibili effetti personali appartenenti allo scomparso che avrebbero potuto fungere da confronto. Non c’erano figli o fratelli a disposizione, né si poteva pensare di esumare i genitori. Quindi, bisognava cercare altre soluzioni. La prima cosa che ci venne in mente furono i dati dentari: sicuramente questo signore era stato da un dentista, magari aveva fatto anche qualche lastra, e in un batter d’occhio avremmo potuto identificarlo. “No”, pensai “con un recupero fatto così male tutti i denti dovevano essere rimasti nel bosco.” Quindi ci eravamo persi la possibilità di una veloce e poco costosa identificazione dentaria. Impronte digitali, nemmeno a parlarne. Rimanevano le ossa, che comunque sono molto diverse in ciascuno di noi. La mia settima vertebra cervicale avrà una forma che, osservata con attenzione, si distingue da quella di chiunque altro. In buona sostanza ogni osso è una specie di impronta digitale. Quindi basta recuperare la versione ante mortem delle ossa delle persone cui si sospetta appartenga il cadavere ed è fatta. E questa si presenta spesso sotto forma di una lastra. In genere, le lastre più utili sono quelle del cranio. I seni frontali (quegli enormi spazi che si trovano nell’osso in mezzo alla fronte), nella loro forma così peculiare, sono diversi anche tra gemelli monovulari e quindi costituiscono un ottimo metodo di identificazione, ma qualsiasi osso in genere può andar bene. Dovevamo sapere se la persona scomparsa dal carcere avesse fatto delle lastre. Era l’unico modo per poterlo identificare con certezza. Fummo in parte fortunati. Non c’erano lastre al cranio, ma mentre era in carcere lo «scomparso» aveva sofferto di due eventi importanti: una frattura all’astragalo di sinistra e una colica renale. La frattura all’osso del piede era soltanto documentata in una cartella clinica, mentre per la colica gli era stata fatta una lastra all’addome in cui si vedevano in tutta la loro chiarezza, molto nitidamente, le vertebre lombari e il sacro. Bingo. Non sarebbe stato facile, ma questi due elementi avrebbero potuto portare a un’identificazione. Mentre ritiravo le lastre dai Carabinieri e firmavo la ricevuta, pregavo che tra le ossa recuperate
ci fossero quell’astragalo e quelle vertebre e che non fossero rimaste chissà dove nel parco, probabilmente insieme ai denti. Le mie preghiere furono esaudite. Aprii lo scatolone dove avevo riposto le ossa dopo averle lavate e dopo aver fatto un iniziale profilo biologico che corrispondeva con quello dello scomparso ma che non era sufficiente ad affermare con certezza che fosse lui. Affannosamente rimescolai tutti i pezzi alla disordinata ricerca di un osso la cui forma conoscevo fin troppo bene. Alla cieca estrassi i due astragali. Il destro era perfetto, neanche una deformazione di tipo artrosico. L’altro un po’ meno. Era schiacciato, allargato, con piccoli becchi ai margini: chiaramente esiti di rimodellamento e quindi di formazione di un callo osseo. Eccolo – un segno di vecchia frattura. Mi chiesi, quanti uomini di circa 50 anni e alti 1,70 metri sono scomparsi, sono stati sparati in testa e si sono rotti un osso del piede sinistro? Penso che i dati che avevamo sarebbero stati sufficienti per identificarlo con buon senso, ma mi immaginavo già giudici e avvocati della difesa che mi chiedevano se sapevo quanta gente al mondo poteva condividere questo status, esigendo calcoli e risposte che non potevo dare. Meglio fare lo studio delle vertebre, che, tra l’altro, erano fortunatamente state recuperate anch’esse, seppur un po’ sbeccate e rovinate dai badili. Quell’anno era venuto a lavorare come tesista di odontoiatria presso di noi Danilo. Dopo qualche tempo sarebbe diventato uno dei primi odontologi forensi in Italia, occupandosi di identificazione dentaria, bitemarks (denominazione inglese delle lesioni da morsicatura) e altre amenità dentarie. Ma, in quel momento, si occupava di sovrapposizioni di immagine. Il suo argomento di tesi consisteva nel mettere a punto un metodo semiquantitativo per stabilire la corrispondenza tra i profili dentari del morto e quelli visibili da una foto della persona in vita mentre sorrideva. Era ed è ancora oggi un mago con i computer, soprattutto con i software di grafica; e con lui, timido ma pieno di idee, già condividevo i casi che giungevano e che riguardavano l’identificazione, anche quando i denti non c’entravano. Credo che sia molto importante poter dare agli studenti seri l’opportunità, nei limiti delle possibilità che le esigenze di indagini e di segretezza concedono, di vedere il lavoro forense teorico applicato a casi reali. D’altronde, se in un caso giudiziario specifico, il nostro compito è quello di servire al meglio la giustizia, chi di noi lavora in università ha il dovere di condividere queste conoscenze, e le problematiche associate, con le future generazioni di esperti, affinché possano capire la differenza tra il libro di testo e il mondo reale. Danilo mostrò subito la sua intraprendenza. Volle applicare gli stessi criteri che usava sui denti per confrontare i profili di queste vertebre. Quindi c’era da rimettere in posizione anatomica le vertebre lombari e l’osso sacro per poterle poi confrontare, con simili orientamenti, a quelle visibili nella lastra. Ci ingegnammo con dischi intervertebrali fittizi a ricostruire la parte della colonna vertebrale rappresentata nella lastra, vale a dire le ultime quattro vertebre lombari e il sacro, ancorandole a fili di ferro. Poi, con grande precisione, Danilo fotografò questo pezzo finale di colonna vertebrale dal dietro in avanti e poi secondo diverse inclinazioni, con scarti di un grado, ruotandolo un po’ a destra e un po’ a sinistra; tutto questo serviva per trovare l’inclinazione di quella porzione anatomica più simile a quella rappresentata nella lastra. Successivamente le fotografie furono passate allo scanner, così come la lastra, e le immagini, magicamente sovrapposte da Danilo con diversi livelli di trasparenza al computer, in modo che si potessero vedere perfettamente le corrispondenze. La stessa colonna non si adattava per nulla ad altre di altre persone. Qui corrispondevano in toto quei piccoli difetti dei processi spinosi (le parti posteriori della vertebra che avvertiamo come uno spuntone sporgente sul dorso): uno a forma di goccia, l’altro più ovale, un altro ancora più squadrato. Non c’erano dubbi: era lui. Il lavoro era finito. Bastava ora confezionare la consulenza tecnica nella maniera più chiara possibile, stamparla e consegnarla. Ci chiamarono in dibattimento un anno dopo. Mi ricordo che era il mio primo processo importante di omicidio e, contrariamente ai soliti jeans un po’ stracciati che mi ostino a vestire
ogni volta, il giorno prima studiai ogni dettaglio, e la mattina stessa indossai una gonna corta nera; mi accorsi soltanto allora che mi stava un po’ stretta, ma era l’unica sobria che avevo. Mi telefonò il segretario del PM per dirmi che dovevano sentire molte altre persone prima di me, e quindi di aspettare ad andare in aula. Mi ricordo che attesi tutto il giorno in casa, vicino al telefono, ripassando la perizia. Il telefono squillò di nuovo alle tre del pomeriggio. Era la voce del cancelliere che mi diceva che l’udienza era stata rimandata al giorno dopo. Ripetei lo stesso rituale la mattina seguente, un po’ più nervosa. Andai in tribunale. Mi fecero aspettare fuori dall’aula un po’ più di un’ora, durante la quale, seduta, ho martoriato assiduamente il margine della mia gonna sobria ma stretta che spesso veniva tirata un po’ troppo sopra il ginocchio dai cuscinetti di grasso che non c’erano quando l’avevo acquistata. Venni finalmente chiamata prima e separatamente dal mio collega. Riuscii a rispondere, spero in maniera esaustiva, alle domande del PM, del giudice e anche di un avvocato bravo e un po’ furbo che cercava, non capivo perché, di gettare fumo su dettagli assolutamente poco importanti, o così sembravano a me, per esempio su come era vestito il morto, in che condizioni erano gli indumenti e così via. Come poche volte succede il PM ci fece poi avere notizia della sentenza: ergastolo. Era passato tutto: l’identità e la causa della morte. Ci era andata bene: con le modalità di recupero che erano state adottate non avremmo potuto dire molto di più qualora fosse stato necessario. Dieci anni dopo ebbi la soddisfazione di vedere quanto l’approccio era cambiato e quanto di più si poteva fare. 2006: «Ho seguito il vostro corso e…» L’università ha il compito di formare e di informare. A volte i corsi e le lezioni che si tengono rimangono dei meri esercizi accademici (o perlomeno questa è l’impressione che ne hai alla fine). Altre volte invece vanno a segno. Un giorno venni contattata da un tenente dei Carabinieri proprio perché aveva partecipato a qualche nostra lezione come uditore: «Ho seguito il vostro corso di perfezionamento» disse «e mi sono ricordato della lezione che ha tenuto sulla ricerca dei morti sepolti». Non riuscivo a credere alle mie orecchie. Per una volta aveva funzionato. Era passato il messaggio che continuavamo a propinare ai corsi a Carabinieri, Polizia e altri esperti di quante informazioni si possano ottenere se un cadavere sepolto viene recuperato attraverso scavi con metodo archeologico – e quante se ne perdono se questo non viene effettuato. Mi stava telefonando per chiedere come procedere per un caso in cui alcuni testimoni avevano indicato una zona dove vent’anni prima era stato nascosto un cadavere. Si trattava di ’Ndrangheta milanese degli anni ’80. Un ragazzo, probabilmente per motivi legati allo spaccio di droga, era stato ucciso, forse anche decapitato e sepolto in un parco dell’hinterland milanese. Bisognava trovarlo e verificare l’accaduto. Spiegai al tenente le procedure standard da seguire: prima una perlustrazione a piedi della zona per notare eventuali anomalie del terreno, poi il passaggio con i cani da cadavere, metal detector, georadar e qualunque altra strumentazione potesse essere utile per pensare alla presenza di cambiamenti del terreno. Tutto questo, naturalmente, sarebbe stato fatto dal nostro archeologo forense, Dominic. Poi proseguimmo ad accordarci con i Carabinieri che stavano seguendo il caso. Sarebbero diventati da lì a breve compagni di lunghe giornate passate nei boschi e da loro avremmo conosciuto molte cose del mondo reale della criminalità organizzata, illustrate attraverso la loro grande esperienza e umanità. Ci diedero appuntamento poco fuori della città e poi ci guidarono in un parco situato dietro una vecchia fornace dismessa, diroccata. Qui dalla strada sterrata principale si staccava una stradina più piccola che fiancheggiava un ruscello. Un posto molto bello. Seguimmo uno dei due per circa una decina di metri all’interno del bosco. Si fermò e disse: «Dovrebbe essere più o meno qui, in base alle nostre informazioni». Io e Dominic ci guardammo. Poteva essere lì, ma ormai l’esperienza ci aveva insegnato che la memoria inganna. E quello che sembra indiscutibilmente il posto esatto
a volte può essere addirittura a chilometri di distanza. Infatti ci vollero sei mesi per trovarlo. Non sei mesi di scavo continuo, ma sei mesi tra programmazione dello scavo di una parte di bosco, lo scavo effettivo, e, a seguito di un risultato negativo, la ripetizione della stessa procedura in un’altra parte del bosco. Nell’estate effettuammo un piccolo scavo nella zona indicata, non trovando nulla. Nell’autunno ne programmammo uno molto più ampio e poco ecologico orientato più all’interno. Eravamo guidati in questa scelta da uno strano foglio di carta invecchiato, quasi stracciato, che qualcuno aveva ritrovato tra le varie carte del fascicolo, sul quale era stata scarabocchiata una mappa del luogo. Non so perché avessi insistito tanto per vedere un foglio con due schizzi di alberi e poco di più. Forse ero convinta che con quella «mappa del tesoro» in mano le informazioni sul luogo sarebbero giunte non so per quale via esoterica al nostro intuito, o forse perché, a forza di fissarla, avremmo scoperto che c’era scritto qualcosa di importante. Sulla mappa mi colpì uno strano segno, che rappresentava molto bene un pendio. Forse la tomba era appena oltre quel pendio. Forse bisognava scavare lì. Io e Pasquale ci recammo sul posto per decidere quali alberi abbattere, in modo da predisporre la zona allo scavo. Con una bomboletta spray ne contrassegnammo una decina in un punto che era già stato passato al vaglio di cani, metal detector e altri strumenti senza alcun risultato decisivo. Ma, come era risaputo, anche se questi metodi non indicano in particolare la presenza di una fossa, spesso non resta che scavare, con metodo archeologico, per fugare ogni dubbio. E così iniziò la seconda campagna di scavo. Nessun risultato. Giornate sempre più corte passate nel bosco, ma niente. Momenti di eccitazione temporanea, spenta poi dagli approfondimenti stratigrafici che scoprivano fosse, ma contenenti rifiuti o scarti della fornace. Altro stop per pensare. Eravamo abbastanza sconfortati. Non sarebbe certamente stata la prima volta che si sbagliava completamente zona. Ma uno stimolo interiore mi pungolava ad andare avanti. E anche Dominic non era ancora pronto a mollare. «Molla ’sto pezzo di carta, Cattaneo, tanto non ne cavi niente.» Pasquy, che di solito andava avanti con la testardaggine di un mulo, questa volta non ce la faceva più. Era stanco – aveva scavato più di tutti – e la stagione stava diventando davvero fredda. «Ancora un po’ più in là, ancora qualche giorno.» Era la vigilia di Sant’Ambrogio e stavamo scavando un terreno ormai quasi gelato, chi scavava e seguiva la ruspa da una parte, chi scazzuolava da un’altra, un vero e proprio formicaio archeologico, ma sterile. Quella mattina Dominic e Pasquale si erano messi a seguire la benna che delicatamente doveva rimuovere sotto la loro guida i primi strati di terra per velocizzare i tempi. «Non ci posso credere!» sentii imprecare, non saprei più dire se fosse Pasquy o Dominic. Era comunque un’espressione alquanto colorita. «Cattaneo, l’abbiamo trovato…» Dominic era in brodo di giuggiole, Pasquale disperato. L’avevamo trovato, sì. O perlomeno avevamo trovato una calotta cranica che era stata sfiorata non troppo delicatamente dalla ruspa. Poteva succedere. Sapevamo che la sepoltura non era profonda e c’era il rischio calcolato che la benna toccasse quanto sporgeva più in altro di uno scheletro disteso – la fronte e il pube. Nel nostro caso era la fronte. Ma Dominic fermò tutte le attività in tempo grazie al fatto che stava seguendo con occhio attento ogni movimento del macchinista. Da lì in poi si sarebbe proceduto con cazzuola e pennelli e il danno ormai fatto (ma che documentatamente era da ruspa e non da altra lesione che c’entrava con la morte) era ben visibile. Mi alzai non senza fatica dall’angolino del bosco che stavo svogliatamente raschiando in ginocchio con una cazzuola e andai sul posto. Dominic aveva sulla faccia un gran sorriso sornione. «L’abbiamo trovato, Cris.» Era completamente incurante di quella figura in ginocchio ai suoi piedi, con la barba, vestito con uno zuccotto in lana e un giaccone grigio, a bocca aperta davanti a quel cranio che emergeva chiaramente con una crepa fatta dalla benna – Pasquy, che stava per scoppiare in lacrime. Da qui in poi presero in mano la situazione Dominic e Laura, una zelante archeologa, molto in gamba che Dominic aveva sottratto alla SLA, società archeologica per cui lavorava, per «qualche
giorno». In poche ore disseppellirono il capo e gli arti inferiori, ma si faceva buio e il terreno iniziava a gelare. Si decise insieme ai Carabinieri di piantonare la zona e di terminare il giorno successivo. La mattina dopo, quando arrivammo sul posto alle sei e mezza, trovammo già lì i nostri compagni di scavo dell’Arma che ci offrirono della grappa per combattere il freddo. Accettammo – era la prima volta che ne bevevo così presto la mattina e mi sentii molto «vecchietto etilista del bar vicino a casa mia» che inizia con le «ombre» e i grappini di buon’ora. In giornata finimmo lo scavo, disseppellendo quelli che erano ormai i resti completamente scheletrizzati di un ragazzo che vestiva scarpe da tennis blu, una cerata e ciò che rimaneva di un paio di jeans. Fotografarono meticolosamente il tutto, dopo aver tolto ogni granello di terra, o così sembrava, dai resti. E la storia cominciò a narrarsi. I piedi erano piantati con tutta la suola contro la parete inferiore della «tomba» e la testa non era appoggiata sul fondo della fossa, ma sulla parete opposta – la tomba era troppo corta, perché era stata scavata in tutta fretta, in una gelida notte d’inverno. Il cranio era frammentato, ma probabilmente da un colpo d’arma da fuoco; non c’era stata decapitazione. Ed era fondamentale documentare questa situazione. Per questo ci venne in mente di compiere uno sforzo ulteriore, e cioè applicare la tecnologia più moderna per immortalare la scena. Convocammo gli ingegneri per chiedere loro se potevano venire ad applicare quello che era diventato da poco uno dei nostri «giochi» preferiti, lo strumento che, secondo me, ogni Scientifica dovrebbe avere: il laser scanner. Il laser scanner è uno strumento che consiste praticamente in un raggio laser che colpisce un oggetto e ne registra tutte le coordinate 3D, restituendone una versione virtuale. Questo permette di acquisire una replica perfetta di un oggetto, di un morto o di una scena in tutte e tre le sue dimensioni. E, a differenza di fotografie e filmati, si ha poi il reperto completo «virtuale» sul computer e lo si può osservare, girare, misurare anche a distanza di tempo. In questo caso era fondamentale. Sapevo che quella posizione così schiacciata all’interno della fossa andava documentata e le fotografie non riuscivano a descriverla in modo soddisfacente. Inoltre, sapevo che una volta estratto il cranio, per le numerose rime di frattura che presentava, rischiava di ridursi a decine di pezzi piccoli, e io avrei finito per perdere le loro reciproche connessioni. Il laser scanner era il metodo migliore per fissare e studiare successivamente queste fratture, così come erano originariamente. Gli ingeneri, sempre entusiasti, non tardarono. In un’ora l’intera tomba venne scannerizzata. Era quasi sera. Ci affrettammo a prelevare le ossa, a pulire e recuperare la terra dal fondo della fossa e a portare il tutto in laboratorio. Già dopo lo scavo era visibile un foro del diametro di circa 7 mm alla nuca, ma niente più. C’era anche una protesi agli incisivi superiori, che facilitò la sua identificazione poi confermata con il Dna. I frammenti di cranio erano un po’ sporchi, ma a parte qualche crepa qua e là, quelle più in alto con margini bianchissimi erano riconducibili alla benna, le altre ai colpi d’arma da fuoco. In laboratorio avremmo avuto più agio per studiare il reperto. Non mi resi conto però di quanto l’approccio «archeologico» avesse salvato la situazione fino a che il Porta non mise le sue mani anche su questi pezzi. Era un periodo in cui decisamente non era in buona. Parlava poco, insomma era diventato più burbero del solito. Ma non appena arrivò lo scheletro in laboratorio, vedendo che era, come previsto, in frammenti tenuti insieme dalla terra, lo prese, dicendo: «Di questo mi occupo io» e lo portò nella sua nicchia, una specie di dependence del laboratorio, dove si rintana solo quando è di pessimo umore, oppure quando arriva qualche delegato straniero con cui non vuole parlare. Gli urlai mentre sbatteva la porta: «Guarda che abbiamo già visto tutto, è lui perché c’è la protesi, e poi abbiamo trovato il colpo alla nuca. Non c’è niente di nuovo da trovare». O almeno così credevo. Dopo due giorni, mentre ero in laboratorio a parlare con alcuni studenti, si presentò ai miei occhi con aria indisponente chiedendomi cosa ci facesse lì tutta quella gente. «Sono studenti, Davide, il loro posto è qua. Ti ricordi? Siamo un’università: studenti, tesi, insegnamento,
ricerca?» «Va bene, capisco» disse con un ghigno strafottente. Insopportabile, quasi al limite. Fremevo, temevo che se ne uscisse con una delle sue solite frasi del tipo «Non si riesce mai a dire niente, è tutto inutile, non c’è ricerca ecc.» e avevo sempre paura che le parole finissero per guastare l’entusiasmo degli studenti. Mi guardò in silenzio, girò le suole altrettanto silenziose delle sue scarpe da ginnastica e si diresse verso la sua tana. Poi, quasi alla porta, si girò e tornò indietro di qualche passo. Sembrava il tenente Colombo dei telefilm che se ne esce fuori sempre all’ultimo, con una certa teatralità. «Senti, ma il secondo buco l’hai visto, no? Hai visto tutto giusto? Sai già tutto, no?» Abboccai subito. «Quale secondo buco?» Lo rincorsi nella sua tana mentre con finta nonchalance se ne andava. Chiusi la porta di metallo dietro di me e iniziai a urlare, poi scoppiai a ridere. Era difficile litigare con il Porta, anche quando era insopportabile. Ridevo per quello che mi stava indicando. Aveva pulito e ricostruito perfettamente il cranio che se ne stava su un piedistallo. Così era ancora più evidente la lacerazione provocata dalla benna che aveva schivato per poco il foro d’uscita del colpo alla nuca. La stava indicando. «Bel lavoro che avete fatto! Bravi, tutte quelle lezioni su quanto bisogna stare attenti…» rideva sarcasticamente. «La prossima volta vieni tu a tirarlo su e vediamo come te la cavi» controbattei ridendo anch'io. Certo, era un po’ il colmo. Sapeva però che il lavoro fatto da Dominic, per il quale nutriva una stima smisurata, era stato eccellente in quelle condizioni, ma doveva rompere, e ci stava riuscendo. «Certo che so che c’è un secondo buco, è l’uscita relativa all’entrata nella nuca» e puntai a una lesione tonda svasata verso l’esterno, un centimetro più in qua rispetto allo sbrego della benna. Fece cenno di stare zitta. Con la punta dell’indice girò il piano sul quale stava il cranio: «Questo, voglio dire». Poco sotto il meato acustico, all’orecchio di sinistra, c’era un forellino piccolo, che si era mimetizzato tra le rime di frattura dovute probabilmente alle altre lesioni subite. Nella posizione di rinvenimento non si notava, mentre sul cranio pulito e ricostruito si vedeva bene. Anche qui le spicole ossee puntavano verso l’interno. C’erano quindi due colpi d’arma da fuoco. Quello mortale aveva trapassato il cranio, era entrato nella nuca e uscito in cima alla volta cranica. Una vera e propria esecuzione. L’altro raccontava una storia più agghiacciante. Era entrato sotto l’orecchio – ma da dove era uscito? Non era entrato nella cavità cranica, né aveva attraversato qualche altra struttura dello scheletro della faccia. C’era solo una risposta. Aveva attraversato la bocca ed era uscito dalla guancia destra, dove non c’è osso e quindi niente struttura dura da ledere. Certamente avrebbe provocato la lesione di lingua e cute, ma non sarebbe stato immediatamente mortale. Ci guardammo. Non ridevamo più. Pensavamo la stessa cosa e probabilmente la immaginavamo anche. Il primo colpo non era andato a segno – forse perché il ragazzo si dimenava – e gli aveva trapassato la bocca, non uccidendolo. Il secondo era stato letale. Sono pronta a scommettere che pensavamo tutti e due a quanto dovevano essere stati lunghi per il ragazzo quei pochi istanti tra il primo e il secondo colpo. E così, a dieci anni di distanza dal primo caso, avevamo potuto fare enormi progressi: metodi che funzionavano per il recupero e la conseguente lettura dei resti umani, tecnologie che potevano immortalare la scena del crimine e renderla rivisitabile, magistrati, Polizia e Carabinieri che avevano capito e appreso dalle nostre esperienze come agire in certe situazioni, ricostruzione di come erano andate veramente le cose. Beh, certo, nessuna resurrezione. Come dicevo, di happy ending è sempre difficile parlare. 2008: 140 joules per 185 m/s Tra formule, equazioni, scuole di pensiero diverse e le numerose variabili che ogni caso si trascina dietro a volte ti chiedi quand’è che un «numero» può davvero fare la differenza. Capita spesso nell’ambito della medicina legale di applicare leggi di chimica e di fisica, di usare equazioni, per esempio per calcolare l’epoca della morte dalla temperatura e dal peso del cadavere, oppure per stimare la velocità di caduta di un corpo, ma in generale le variabili sono
tante che i termini in cui puoi esprimere i risultati sono molto ampi e poco precisi. Può capitare però che il calcolo sul quale si basa la ricostruzione di un fatto sia talmente accurato che diventa un fulcro importante delle indagini, tale magari da indirizzarle su una strada totalmente diversa da quella fin lì percorsa. E quando succede è esilarante. L’esempio che ricordo ancora oggi con un grande senso di sorpresa e meraviglia riguarda una scheggiatura lasciata da un proiettile su un ischio, una delle tre ossa che contribuiscono a formare il bacino – per intenderci, quello sul quale ci sediamo. L’osso è un tessuto che, al contrario dei tessuti molli, come la pelle, non ha così tante zone d’ombra, soggiace a regole fisiche la cui conoscenza è abbastanza approfondita. La complessità del suo studio deriva più che altro dalle forme che assume – la forma di un cranio umano infatti è tra le più contorte che possano esistere: sopra una tavola piatta che poi si dirama in basso in curve complesse, dossi e concavità dagli spessori più svariati. Soprattutto per questo è difficile dire come si svilupperà una frattura; ma è ben noto come sia fatto un centimetro cubo di ossa e, di conseguenza, come si comporti da un punto di vista fisico. Sappiamo che se lo sottoponiamo a uno stress particolare, prima si piegherà e poi si spezzerà; sappiamo anche che si spezzerà con inclinazioni e svasature diverse a seconda della direzione delle forze. In più si frammenta in maniera molto veloce – pare che una linea di frattura avanzi sull’osso con una velocità superiore a quella di un proiettile, che viaggia a circa 300 m/s e che una linea di frattura si fermerà sempre a quella precedente, dandoci quindi la possibilità di capire quale frattura si sia creata prima tra due o tre crepe visibili. Allo stesso modo, è possibile con le opportune misurazioni stabilire a quale velocità viaggiasse il proiettile che ha colpito un osso. Il caso era uno di quelli che noi chiamiamo «sulle carte» e veniva dalla Svizzera. Il capo della Polizia Scientifica del Canton Ticino, con il quale abbiamo avuto qualche volta la grande fortuna di lavorare, ci aveva chiamato per aiutare a «tirar le somme» di un caso piuttosto complicato. Mi aveva spiegato che il «pepé», come veniva chiamato il «procuratore pubblico» nel Canton Ticino, aveva una richiesta particolare, che già altre volte aveva fatto, quella di rivedere da un punto di vista medico legale tutti i dati, legarli insieme, formulare la più probabile ipotesi di come erano andate le cose e fornire una versione dinamica o «virtuale» di questa più probabile ipotesi. C’era stato un omicidio: un tale aveva sparato, sulla soglia d’ingresso di una palazzina condominiale a un giovane emigrato, che era morto, e al fratello, rimasto ferito al ginocchio e all’addome. Il problema, in soldoni, consisteva nel fatto che il morto era stato raggiunto da un proiettile, il ferito da due, ma si erano trovati soltanto i residui di due proiettili e due bossoli. I colpi erano stati due o tre? E in quale sequenza? I casi «sulle carte» sono indiscutibilmente più «freddi». Come perito acquisisci la documentazione necessaria, magari torni anche sul posto o fai fare qualche indagine in più sui reperti, ma il contatto con il morto, il suo odore e le sue forme, il disorientamento dei famigliari nell’immediatezza dei fatti non la senti. È tutto mediato da fotografie e fiumi di parole su fogli di carta stampata e file di computer. Senti sempre che una vita è stata strappata, avverti il dolore, ma è più lontano, meno viscerale. Sai già che nei mesi a seguire, quando tratterai quel caso, a ogni riga letta sulla storia del morto non ti balzeranno in mente, non richieste, le immagini delle sue mani, dei bigliettini che si era tenuto in tasca, o di come si era allacciato per l’ultima volta le scarpe. E qui la documentazione era completa. Lavorare con la Polizia svizzera è sempre stato fonte di tanta conoscenza e di soddisfazioni. Si lavora insieme in un unico team con scambio di informazioni e di favori. Il loro medico legale, che per primo aveva fatto l’autopsia e visitato il ferito, aveva presentato fotografie e descrizioni di ogni lesione. Le Scientifiche avevano svolto le indagini genetiche, sulle tracce di sangue e balistiche sui frammenti di proiettili rinvenuti e sui fori di proiettile sugli indumenti. Avevo a disposizione numerosi CD e fascicoli di ogni tipo per poter valutare qualunque aspetto della cosa. E così mi addentrai in un’avventura statica, fatta
di contatti prevalentemente con scritti, immagini e altri periti, che come poche altre tuttavia mi ha rivelato l’imprevedibilità del colpo di scena. Inizialmente mi concentrai sul morto. Esaminai le numerose fotografie del verbale autoptico: la dinamica sembrava molto chiara. Proprio nel centro del torace si presentava un forellino regolare su una T-shirt ormai impregnata di sangue; sotto la T-shirt, un simile forellino, dall’aspetto assai insignificante, con un diametro forse di 5 mm, con il classico «orletto ecchimotico-escoriativo». Questo consisteva in un alone rosso alto quasi 2 mm che circondava il buco che dalla cute si affondava verso il cuore. Il proiettile, è chiaro, «buca» la cute ma, nel momento in cui penetra, abrade la pelle circostante formando questo «alone». Notai che l’alone era un po’ più spesso a sinistra che a destra. Questo significava che una parte più grande del proiettile aveva «sfregato» a sinistra: non era un colpo perpendicolare, ma inclinato e veniva da una posizione spostata lievemente alla destra del ragazzo. Prima di continuare a osservare le immagini autoptiche lessi le perizie chimiche e balistiche fatte sui vestiti, in particolare su quel piccolo forellino sul torace della T-shirt. La cute del morto, ricoperta da indumenti, non mi avrebbe potuto rivelare granché sulla distanza di sparo, visto che i residui di affumicatura e gas si sarebbero depositati sulla T-shirt che la copriva. La risposta sulla distanza di sparo quindi sarebbe venuta dai vestiti. Gli esperti avevano meticolosamente espletato ogni indagine balistica, sparando con l’arma del delitto su campioni in bianco a distanze diverse e poi valutando la presenza delle particelle tipiche del colpo d’arma da fuoco (piombo, antimonio e bario) depositate intorno a quel buco sulla maglietta. La distanza di sparo doveva essere di circa 80 centimetri-1 metro. Bene. Tornai alle fotografie dell’autopsia. Il fascicolo mi mostrava quadri molto colorati di rossi e gialli vivaci, di un «Cristo» disteso su un tavolo anatomico di metallo, con le braccia un po’ divaricate e il volto, inclinato a destra, bello, con ampie sopracciglia nere che coprivano grandi occhi ormai chiusi. Avrebbe potuto essere l’immagine di una Pietà se non fosse stato per l’urlo anomalo di quel torace completamente aperto, che metteva in bella mostra il cuore e il polmone di sinistra e uno specillo che il medico legale aveva infilato nel tramite che li attraversava ambedue. Il concetto tecnico che le immagini volevano illustrare era chiaro: entrata al torace, perforazione del cuore e del polmone sinistro, uscita dal dorso, poco più in basso. Gli aveva sparato dal davanti. Avevo letto nei verbali che la vittima era riuscita a fare circa una cinquantina di metri per allontanarsi dall’aggressore. E mentre guardavo quel cuore trafitto dal proiettile pensavo a quanto il corpo lotta fino all’ultimo respiro e mi chiedevo quante volte sarà ancora riuscito disperatamente a contrarsi quell’organo straziato da due fori, a quanto sangue si era ancora ostinato a far circolare nel corpo malgrado tutto. Il caso del ferito era più complesso. Era stato colpito sia al ginocchio che all’addome. Un proiettile era entrato nella gamba, nella sua porzione più interna, aveva attraversato tibia e fibula creando un po’ di sconquasso, ed era uscito sopra la caviglia, scheggiando il pavimento e lasciando tracce per terra. Un altro proiettile, con un simile orientamento molto «dall’alto verso il basso», era entrato nell’addome intorno alla regione dell’ombelico e sarebbe prima rimbalzato sul pube, poi sarebbe andato a finire contro l’ischio per fermarsi vicino al retto. I chirurghi avevano deciso di lasciare il proiettile dove si trovava, pensando che avrebbero fatto più danno cercando di rimuoverlo da una zona così delicata. Anche qui i balistici avevano calcolato dai residui di sparo sui buchi dei vestiti una distanza di circa 80-100 cm. I racconti, sia del ferito che dello sparatore, erano confusi, spesso pieni di contraddizioni, di cambiamenti di versione. Tecnicamente avevamo un proiettile che aveva trapassato il morto; uno era entrato e uscito dalla gamba del ferito; un terzo gli era entrato in pancia e lì lo avevano lasciato, ma perché c’erano soltanto due proiettili? La topografia del luogo poteva aver fatto sì che il proiettile che aveva attraversato il morto fosse finito perduto in un boschetto oltre a una barriera in plexiglas che circondava un piccolo parcheggio antistante il condominio; quindi i proiettili sparati potevano essere stati tre, di cui uno perso nel bosco, i bossoli rimanevano
comunque due. Era possibile che forse il ferito stesse dietro il morto e che un colpo gli fosse entrato nell’addome dopo aver attraversato il morto? D’altronde quel colpo si è fermato lì. Se fosse stato sparato direttamente, non avrebbe attraversato il bacino con più violenza? Forse il proiettile si era fermato lì perché aveva già perso energia. E allora ecco che i vari esperti si schierarono su due fronti: uno sosteneva che il proiettile avesse perso energia perché era passato prima dal corpo del morto; l’altro che forse non necessariamente il colpo doveva essere un colpo con minore efficacia e che tutti quei rimbalzi contro le ossa avrebbero potuto assorbire abbastanza energia e far sì che il proiettile si fermasse nell’addome. A me non quadravano alcune cose. Innanzitutto, sarebbe stato semplice capire se lo stesso proiettile che aveva attraversato il morto avesse colpito il ferito. Immaginiamo che il proiettile penetri prima un corpo: si imbratta di sangue e tessuti della vittima e, mentre entra nel secondo corpo, lascerà tracce di materiale organico, e quindi Dna, del primo corpo, per esempio, sulla maglietta del secondo mentre la sta penetrando. La letteratura scientifica era abbastanza concorde in merito: ci sarebbero dovuti essere residui di Dna del morto sul foro di proiettile della maglietta del ferito. E non c’erano. Le analisi genetiche sul foro nella maglietta erano risultate negative: l’ipotesi era dunque abbastanza improbabile. Ma perché quel proiettile nell’addome aveva fatto un danno così limitato? Era una domanda importante. E la risposta andava ricercata nel comportamento fisico dell’osso e dei proiettili. Non bastavano più le nozioni di medicina legale. I giudici avevano già coinvolto per le questioni più squisitamente «fisiche» degli aspetti balistici uno dei massimi esperti dell’Università di Berna, il professor K, che fece anche un’ipotesi sul comportamento del proiettile all’interno dell’osso. Un viaggio a Berna, sempre ragionando sulle carte, mi avrebbe chiarito la questione. «Ma sei sicura che tutti ’sti conti e ’sta fisica siano affidabili, applicabili al caso: non ci sono troppe variabili?» La voce di Danilo era quella di quando sa che sta per aprire un fastidioso vaso di Pandora e non sa come fare, ma sente che lo deve fare. In quest’avventura eravamo coinvolti tutt’e due. Lui vi era stato imbarcato per le sue pregresse esperienze con i ticinesi in merito alle ricostruzioni virtuali e dinamiche dei delitti, io per la parte medico-legale e avevamo passato già qualche mese a ragionarci su. Dovetti riconoscere che aveva ragione. Ormai la nostra esperienza ci aveva insegnato che la formuletta che risolve il problema più spesso ne crea altri, che non tutto è così facilmente quantificabile. Gli spiegai che io avevo perplessità sul tragitto che si vedeva sulla TAC. Volevo andare a Berna, ragionare con il professor K, acquisire i loro dati. Il prof K, già per email, risultò una persona deliziosa. Non conosco il tedesco e, pensando che lui non conoscesse l’italiano, gli scrissi in inglese. Rispose in un buon italiano raccontando di quanto la lingua fosse così bella, di quanto gli piacesse, da buon svizzero, tenersi allenato. Mi diede appuntamento all’Istituto di Medicina Legale di Berna, dove era stata creata una sezione di fisica e di balistica di cui lui, un fisico, era a capo. Non avevo immaginato che l’Università di Berna potesse permettersi un posto di professore per un fisico che trattasse le questioni medico-legali. Fui ingenua anche solo a pensarlo, vista la struttura all’avanguardia che mi accolse. I bernesi furono molto ospitali e mi mostrarono tutte le loro facilities. Il centro ha un aspetto che, per qualche verso, può essere ritenuto fantascientifico. I soldi non sono un problema e ha la responsabilità di un progetto che si chiama Virtopsy, cioè «autopsia virtuale». Questo progetto fa capo a una scuola di pensiero che intende riuscire a ridurre l’esame autoptico a una versatilissima TAC, che comprenda lo studio tridimensionale e prelievi fatti con braccia robotizzate che, teleguidate, effettuano una biopsia dell’organo interessato. Molto bello, ma troppo tecnologico. Ho sempre trovato utile poter fare una TAC a un cadavere in toto prima di aprirlo, proprio perché a volte l’autopsia non è in grado di mostrare ciò che interessa. Ma la TAC, per quanto futuristica sia, non può sostituire l’autopsia che, alla fin fine, rappresenta l’unica possibilità, di vedere e toccare con mano una lesione o fare un prelievo a «campo aperto». Per me, la parte più affascinante del centro furono gli uffici e il laboratorio del prof K,
una specie di piccolo Politecnico attrezzato con dinamometri e macchine di vario genere per misurare le forze di impatto di oggetti contundenti contro parti del corpo, così come la velocità di progressione di proiettili in tessuti di vario genere. Mi mostrò, sorridendo e con una calma serafica, un armadio pieno di campioni di sapone balistico e gelatine (fatti per simulare i tessuti molli) e soprattutto di forme di osso in poliuretano, materiale sintetico che meglio simula la consistenza dell’osso. Dopo la visita di rito e un buon caffè ci mettemmo a tavolino. Io estrassi tutta la documentazione del morto, la TAC corredata dalle ricostruzioni tridimensionali di tutta la parte addome-pelvi e iniziai a raccontargli le mie perplessità, anche se il caso lo conosceva. Le immagini, create al computer dalle fette ottenute alla TAC, mostravano ciò che sembrava un modello tridimensionale della pancia e del bacino di uno scheletro – in realtà era il nostro ferito. In pratica si vedeva un bel bacino, con il pube anteriormente e l’osso sacro dietro, la colonna lombare e qualche costa, circondato da un alone che rappresentava i tessuti molli. Si notava, nel tessuto molle dell’addome (il grasso della pancia, per intenderci) un canale che partiva da sotto l’ombelico e arrivava al pube; qui si vedeva che sulla sua faccia più interna l’osso aveva un difetto, una piccola intaccatura. Dalla parte opposta, dove c’era l’ischio di sinistra, si notava che l’osso era frammentato, come se qualcosa lo avesse urtato e ne avesse staccato 3 o 4 schegge, più piccole. Dal centro del bacino si notava una grande interferenza nell’immagine, come dei raggi che coprivano la zona del retto, dovuti alla presenza del proiettile in metallo. Finii di riassumere il caso e gli dissi: «Io capisco che c’è la possibilità di risalire a quanta energia ha perso questo proiettile sbattendo contro le due porzioni di bacino, ho letto la sua relazione, ma non capisco come facciate a essere certi dell’errore e della variabilità dell’osso umano. E su questo potrebbe basarsi tutto». Alzai gli occhi, sentendomi un po’ la scolaretta di fronte al grande fisico; mi ascoltava con tranquillità, il volto roseo circondato da capelli grigi, con tanto di frangetta. Rispose con il suo riassunto. «Da un punto di vista fisico si può calcolare la velocità d’entrata nel corpo del proiettile in base al punto d’impatto sull’ischio. Si ricordi che l’osso non è stato perforato, ha subito soltanto una frammentazione. La superficie d’impatto di quel proiettile era di 100 millimetri cubi circa – questo lo abbiamo stabilito in base all’impronta e quindi in questo specifico punto avrebbe dovuto possedere un’energia di 20/25 joules.» Fino all’unità di energia, il joule, ci arrivavo; speravo fortemente che non usasse un gergo tecnicofisico di maggiore complessità, che mi avrebbe creato qualche imbarazzo. Non lo fece. «Vede, fino all’ischio la profondità di penetrazione era di 18 cm – come si può calcolare dalla TAC – e considerando un rilascio medio di energia pari a 6-7 joules si ottiene un’energia di impatto con il corpo di 130-150 joules. L’impatto sull’osso pubico cambia un po’ le cose e, se ne teniamo conto, dobbiamo aggiungere qualche joule in più. In buona sostanza, possiamo essere sicuri che il proiettile ha colpito il corpo a una velocità di 185-200 m/s.» «Quindi» ribadii «nel primo impatto contro il pube perde il 10% dell’energia, e di questo si può tenere conto. E poiché sappiamo che un proiettile penetra in un osso con forza nota, 0,2 J/m 2 (questo lo dissi leggendo dalla sua relazione), si può risalire a questa velocità iniziale di impatto con il corpo, giusto?» Annuì, sempre sorridendo ma tenendo serrate le labbra di una bocca piuttosto larga. «Ma questa sinfisi pubica e questo ischio in particolare sono standardizzabili? Le parti ossee di cui stiamo parlando sono tra quelle a maggior contenuto “spugnoso”, ed è probabile che vi sia una grande variabilità interindividuale, non crede? D’altronde, ci sono soltanto due voci americane in letteratura che parlano di velocità d’impatto e di perdita di energia dei proiettili che colpiscono l’osso.» «Aaaaah», sorrise, «è vero, la preoccupano gli standard.» E gli standard erano fondamentali. Aprì un faldone colmo di ricerche fatte a Berna, non ancora pubblicate; e un libro di testo tedesco, in fase di traduzione in inglese, sui traumi balistici. Mi mostrò file e file di centinaia di
esperimenti fatti con proiettili di vario tipo su modelli di osso in poliuretano, ossa animali di diverse forme e ossa umane. La risposta alle mie domande era in quei faldoni, in quelle prove ripetute fino alla nausea, che non erano ancora del tutto conosciute al mondo scientifico, ma che provavano, in maniera piuttosto monotona e reiterata, che l’energia dissipata da un proiettile all’interno di un osso, in base all’orientamento con cui impatta e alla sua composizione, è desumibile e che pochissimo cambia tra i diversi tipi di osso – e quel poco era stato tenuto in considerazione nei loro calcoli. Quindi quella scheggia di osso ischiatico aveva rivelato che quando il colpo aveva raggiunto la pancia del ferito, il proiettile viaggiava a circa 200 metri al secondo, rispetto ai 300 ai quali da quella pistola avrebbe dovuto uscire normalmente. «Ma non è passato prima dall’altro corpo, ho fatto fare il Dna» gli dissi. «No, no, anch’io non lo credo. Se dovessi scommettere, direi che il colpo è nato difettoso, e dopo quel colpo la pistola si è sicuramente inceppata…» Tornai a casa per apprendere poi che lo sparatore aveva confessato che la pistola si era inceppata – e questo avrebbe spiegato la mancanza del terzo bossolo, rimasto probabilmente in canna. Il calcolo fisico nato da quella scheggia di ischio staccata aveva sbandierato con grande sicurezza ciò che era successo: il colpo era difettoso, la velocità ridotta, e quello quindi era forzatamente stato l’ultimo colpo. Ulteriori indagini balistiche confermarono il difetto dell’arma e questa ipotesi. Il fatto che il colpo all’addome fosse l’ultimo fu fondamentale a ribaltare l’ipotesi delle sequenze degli spari. Tutto ciò si discostava parecchio dalle ipotesi iniziali. E l’ipotesi che il primo colpo a partire fosse quello sparato contro il morto avrebbe messo in difficoltà la difesa. E così le indagini presero in maniera inequivocabile la loro piega definitiva – grazie a una scheggia d’osso, a un proiettile con troppi pochi joules e a un signore con la frangetta grigia che ha usato una solida ricerca scientifica.
IV La ricerca
Come in ogni campo, per poter ridurre l’influenza dei limiti che ci assillano è fondamentale la ricerca. L’università è il luogo in cui viene assicurata l’acquisizione della formazione e viene garantito lo svolgimento della ricerca su queste tematiche, anche se, soprattutto oggi, i fondi a disposizione sono pochi e per le scienze forensi, la cenerentola delle scienze mediche il cui obiettivo è il trattamento di malattie importanti, ancora meno. Le scienze forensi e la medicina legale sono discipline poco conosciute soprattutto perché non godono della luce dei riflettori per grandi innovazioni; non siamo, insomma, particolarmente riconosciuti per la ricerca in nessun paese al mondo, non siamo insomma il MIT, il Massachusetts Institute of Technology, uno dei centri universitari di maggior fama per il suo fermento scientifico. Una collega mi disse che, secondo lei, la medicina legale è una scienza saprofaga: ruba nozioni dalle discipline più pure e le applica a fini di giustizia. Pura verità. Tuttavia un po’ di originalità c’è, e anche importante. Parlando di scienze forensi, gli ambiti di ricerca che subito balzano alla mente, anche perché legati a una tecnologia laboratoristica sempre più raffinata, sono quelli della genetica e della tossicologia. Per esempio, in genetica la ricerca ha come obiettivo quello di valutare i diversi modi di esprimersi dei geni all’interno delle diverse popolazioni e nei singoli individui, o quello di escogitare metodi sempre più efficaci di estrazione del Dna. I tossicologi si adoperano per trovare metodi per isolare nuove sostanze velenose da tessuti umani di diversa natura. Gli entomologi sono impegnati a verificare quanto in base alla presenza di larve sia possibile stabilire sull’epoca della morte a diverse latitudini. Gli antropologi «rubano» i dati da radiologi e auxologi che studiano l’accrescimento scheletrico e ne testano i risultati al fine di capire se siano applicabili per valutare con precisione l’età di soggetti di cui si deve stabilire l’identità. Molto è lavoro di standardizzazione e adattamento di metodi provenienti dalle scienze classiche al nostro campo, alle nostre problematiche. La connotazione forense è acquisita attraverso l’applicazione nel nostro ambiente e dall’impostazione e dal modo con cui viene «condito» il risultato che deve essere presentato in un tribunale. Quindi niente teoria della relatività. Niente (o poca) ricerca pura, ma ricerca applicata, come la chiamano. In sostanza si importano nuove tecniche da altre discipline e si valuta se funzionano per risolvere un quesito giudiziario sull’individuo vivente o sul cadavere. Ma questa attività saprofaga alimenta l’invenzione di ulteriori tecniche di indagine e genera applicazioni prima impensabili e di grande successo. Credo che gli ambiti di ricerca più eclettici si trovino all’interno della patologia e dell’antropologia forense, le discipline alle quali vengono richieste le diagnosi più svariate, dalla causa all’epoca della morte, alla presenza di lesioni e all’individuazione degli strumenti che le hanno prodotte, alle modalità di decomposizione, fino all’identità della persona. La ricerca diventa multiforme. Per quel che riguarda l’epoca della morte, esiste da molti anni ormai, la «Body Farm» del Tennessee, dove l’Università di Knoxville utilizza vasti appezzamenti di terreno per depositarvi cadaveri umani nelle più disparate condizioni (sopra terra, sotto terra, all’interno dei bagagliai di automobili, in sacchi di plastica) per valutare tempi e modalità di decomposizione. Altri, sempre in America, dove la legge permette più facilmente l’uso di cadaveri a scopo sperimentale, bruciano corpi in situazioni diverse (in case, in macchina, all’aperto) per capire come si consuma il cadavere e come si producono le fratture ossee dovute al fuoco, con l’obiettivo di arrivare a distinguerle per sede e forma da quelle provocate invece da un colpo inferto. Negli altri paesi del mondo, dove non è altrettanto facile lavorare su materiale umano, si effettua la sperimentazione su animali con gli stessi obiettivi. Anche noi, al Labanof, nel nostro piccolo abbiamo iniziato da circa 7-8 anni a studiare come procede – e cosa
lascia – la decomposizione in acqua, sotto terra alle nostre temperature, in sacchi di plastica e addirittura nel cemento. Per condurre queste sperimentazioni usiamo maiali rigorosamente deceduti per altre cause, poiché, ai fini scientifici, da questi animali l’estrapolazione all’uomo è più affidabile. I risultati puntano chiaramente al fatto che i modi di decomposizione sono assai vari ed è difficile standardizzare questo normale processo naturale che dipende da una notevole varietà di fattori. Eppure questi esperimenti sono fondamentali per dimostrare la grande variabilità della decomposizione – troppa per poter stabilire regole fisse da cui desumere con precisione l’epoca della morte – e per far conoscere i pochi elementi che possono indicare che la putrefazione è avvenuta in un particolare ambiente, quale il cemento o in un sacco di plastica. Tra i ricercatori c’è chi «testa» tecniche dell’anatomia patologica per studiare le lesioni al microscopio cercando di capire esattamente quanto tempo prima della morte sono state inferte: minuti, un’ora, diverse ore? A oggi non sono molte le tecniche affidabili e a prova di critica in un’aula di tribunale per distinguere tra qualche minuto prima della morte e qualche ora. In genere devono passare tre o quattro ore per poter datare la lesione a un periodo abbastanza distante da quello in cui è avvenuto il decesso, e per i casi di sevizie e di tortura sarebbe fondamentale riuscire a fare questa distinzione; servirebbe anche nei casi in cui la vittima è sopravvissuta al trauma, perché in base a questi dati sarebbe possibile stabilire se c’è stata un’omissione di soccorso che avrebbe invece potuto salvare la vita al ferito. E poi ancora c’è chi si arrovella sul raffreddamento del cadavere in funzione dell’epoca della morte, chi cerca di capire come i proiettili possono creare lesioni tanto diverse tra loro, quante tracce uno strumento contundente può lasciare sulla pelle e sull’osso e come poterle visualizzare per capire di che materiale fosse fatto e mille altre cose ancora. Spesso i progetti di ricerca vengono stimolati dai quesiti giudiziari o da casi complessi. A chi mai sarebbe venuto in mente di investire in un progetto di ricerca per determinare l’età dei bambini da fotografie del volto se non fosse stato inserito nel codice penale il reato della pedopornografia? Da quando i giudici ci chiedono se da una foto «porno» si può dire se una ragazza è maggiorenne o minorenne si è capito che questa diagnosi non è possibile in base ai caratteri sessuali visibili in fotografia, in particolare se la ragazza è nella fase postpuberale. Lo sviluppo del seno e del pube non permetteranno infatti di stabilire con certezza inattaccabile se ha 16 anni o piuttosto 19. Per questo è nata l’esigenza di cercare la risposta in altri distretti anatomici, per esempio considerando le dimensioni e i rapporti del volto. Dunque un mondo saprofago, ma che può dare soluzioni fondamentali a problematiche nuove. Ma chi valuta poi la bontà della ricerca svolta e che dovrà essere applicata a casi reali? I tuoi peers, direbbero gli americani, o meglio i tuoi pari. In genere dovresti confezionare il risultato del tuo studio nella forma più classica per far conoscere al mondo il tuo lavoro: l’articolo su una rivista scientifica. Il meraviglioso e curioso mondo dei journals di settore merita che si spenda qualche parola. Una rivista seria è lo strumento che stabilisce il valore dellattività scientifica. In genere, l’editore riceve il manoscritto da un ricercatore e seleziona due esperti nell’ambito disciplinare in cui si può inquadrare la tematica e manda loro una copia dell’articolo. Gli esperti lo leggono attentamente e decidono se si tratti di un lavoro effettuato con metodo impeccabile, se il contenuto è sufficientemente interessante e innovativo, se i risultati sono affidabili e quindi se merita di essere pubblicato. Possono accettarlo tout court, richiedere qualche modifica, o rifiutarlo del tutto. Il prestigio di una rivista seria viene poi riflesso dal punteggio guadagnato (si chiama impact factor), che dipende da molti fattori, ma soprattutto dal numero di volte che i suoi articoli vengono citati in altre pubblicazioni. Più è alto, meglio è. Esistono inoltre quelle che non hanno punteggio e altre che non sono neanche sottoposte a revisione. Queste ovviamente hanno un minor peso accademico. La lingua che fa da padrone nella scienza è l’inglese, e per far conoscere il tuo lavoro e il contribuito che puoi aver dato alla soluzione di
un problema, devi esporlo in inglese; solo queste riviste e poche altre nazionali con un punteggio sono rintracciabili da tutto il resto del mondo, usando parole chiave specifiche, da banche dati in internet. Per esempio, se cerco cosa è stato pubblicato di nuovo sulla diagnosi dell’epoca della morte in una banca dati specifica, troverò soltanto articoli pubblicati su riviste considerate valide. È anche importante pubblicare articoli in italiano, che in genere verranno letti solo in Italia, soprattutto per quel che riguarda particolari problematiche medico-legali e giuridiche tipiche del nostro paese. Il suo valore accademico tuttavia sarà automaticamente minore in base alle regole sempre più rigide imposte dalle università anche ai fini concorsuali – publish or perish (pubblica o muori). Vale a dire che la vita di un universitario in termini di posti e di finanziamenti è strettamente legata (o dovrebbe esserlo) a quanto scrive e a quanto è letto. Dobbiamo però constatare che nella valutazione della bontà di un articolo o anche di un progetto di ricerca da finanziare interviene un certo grado di soggettività: un lavoro che ritieni innovativo può essere rifiutato senza batter ciglio da un editore, mentre un altro può giudicarlo un buon lavoro. Il mondo scientifico e forse ancor di più quello forense non possono fare a meno della ricerca; è pertanto obbligatorio per chi fa questo mestiere in università – luogo che, malgrado tutti i problemi, i cambiamenti, le scelte sbagliate e la burocrazia invasiva che la affliggono, voglio continuare a considerare una fonte insostituibile di conoscenza – stimolarla e sostenerla. Non sono soltanto i progetti da Nobel che contano, ma tutti quei piccoli frammenti di conoscenza che, messi insieme, uno alla volta, anno dopo anno, permettono di comprendere più chiaramente un problema e eventualmente avvicinarti a una soluzione. Solo così le scienze forensi potranno mettersi nella prospettiva di ridurre i limiti più gravosi e di scoprire nuove soluzioni. Come tutte le sfide, può essere fonte di grandi frustrazioni ma anche di soddisfazioni, addirittura di emozioni. L’ELISA e il sangue dell’età del bronzo Ho fatto la mia prima esperienza di ricercatrice su ossa antiche, in un centro di trasfusione del sangue convenzionato con l’università per effettuare studi in campo biomolecolare. Stavo iniziando il mio dottorato all’Università di Sheffield, in Inghilterra, città situata tra lo Yorkshire e il Derbyshire che non offriva granché da un punto di vista estetico, a parte i più bei paesaggi bucolici che abbia mai visto, con i loro muretti a secco, le pecore al pascolo e i pub costruiti in pietra e con i nomi più impensabili. Avevo appena finito il master in antropologia e mi avevano dato la possibilità di fare un dottorato; la colsi al volo, rimandando di altri tre anni il rientro definitivo in Italia. Il mio progetto doveva riguardare le ossa. Lo studio degli scheletri mi piaceva, ma mi affascinava ciò che le piccole molecole che vi si annidavano potevano raccontare. Mi affidarono quindi un progetto a metà tra l’archeologia e la medicina legale: studiare con metodi immunologici la sopravvivenza di alcune proteine in ossa e reperti (armi, strumenti), sia recenti (quindi anche di interesse forense), sia antichi. Oggi si parla soltanto di Dna, ma una ventina di anni fa era molto di moda lo studio delle proteine per dedurre da resti scheletrici informazioni sulla specie, su alcune malattie, sul sesso ecc. Ma che differenza c’è tra questi due tipi di molecola? Il Dna è la doppia elica nella quale è scritto l’intero patrimonio genetico. Le proteine sono sostanze che il Dna «ordina» di sintetizzare e che quindi riflettono un po’ questa diversità. Sono forse meno informative, ma molto più resistenti al tempo, alle alte temperature e ad altri fattori ambientali. Purtroppo anche nella scienza a volte prevalgono le mode. Da quando si è iniziato a parlare di Dna la ricerca e la pratica si sono sbilanciate in quella direzione, trascurando altri settori. Per esempio, se oggi si utilizzassero ancora le indagini combinate sul Dna e sulle proteine, forse si riuscirebbe a capire meglio se il Dna rinvenuto su un effetto personale di un presunto aggressore provenga
da sangue, da altri liquidi o tessuti biologici della vittima. Ma, nel mondo scientifico, a volte si è obbligati a scegliere, per motivi di finanziamenti, di convenienza e di formazione. Tutto non si può avere. Il mio progetto di dottorato si collocava tra l’archeologia e la medicina e avevo due supervisori: uno, Patricia Phillips, famosa archeologa della preistoria sarda, e Bob Sokol, illustre ematologo. Quest’ultimo mi insegnò a fare ricerca, a scrivere articoli e a muovermi con una certa tranquillità nel mondo scientifico, oltre che a conoscere le cose più belle e più semplici della vita inglese di venti anni fa, che forse oggi, come succede anche da noi, stanno scomparendo. Il mio compito iniziale era quello di verificare la presenza di alcune proteine all’interno di ossa, sempre più vecchie, per valutarne il tempo di sopravvivenza, e se quindi si potesse fare affidamento su di esse per ottenere informazioni da scheletri antichi. Allora bastava questo per esaltarmi. Forse sarei riuscita a isolare piccolissimi frammenti di molecole e scoprire cose che dalla sola osservazione dello scheletro non si potevano conoscere. La tecnica selezionata con la quale avrei dovuto rendere visibili proteine invisibili era quella più nuova per l’epoca, etichettata con il fascinoso acronimo ELISA (Enzyme-Linked ImmunoSorbent Assay – test immunoadsorbente legato a un enzima). Era una della più potenti metodiche per identificare nel sangue albumina e immunoglobuline, in uno nei più grandi laboratori ematologici della zona. Decidemmo di lavorare sull’albumina, poiché è la proteina più abbondante del sangue e quindi quella con maggior probabilità di sopravvivere. Queste molecole proteiche possono essere assimilate a un filo di lana. Con il tempo e le intemperie e altre cause (acqua, umidità, stress meccanici) il filo si indebolisce e si sfibra, fino a spezzarsi. Per «leggere» il messaggio scritto su quel filamento è necessario recuperarlo integralmente. Più è resistente, ma soprattutto più è abbondante in natura, maggiore è la probabilità di trovare fili ancora interi e «leggibili». Scegliemmo l’albumina, che fu la mia compagna di giochi per tre anni, perché, per la sua resistenza e abbondanza, sarebbe stato più probabile rintracciarla non solo in resti recenti ma anche in resti di decine di migliaia di anni fa. Prima di iniziare però era necessario sapere tutto ciò che al riguardo era stato fatto in passato e come estrarla dalle ossa per poterla studiare. Per un ricercatore è importante conoscere esattamente la storia del proprio progetto di ricerca e io dovevo, prima di architettare un piano di ricerca, conoscere quante più informazioni possibile per non ritrovarmi su strade già battute e commettere gli stessi errori dei miei predecessori. Ma come scoprire che cosa hanno studiato i poveri dottorandi e studenti che prima di me hanno esplorato questa tematica? Oggi il lavoro è semplificato. Come si è detto, grazie a internet le riviste più autorevoli sono contenute in enormi banche dati online. È sufficiente digitare l’argomento o il nome di un autore che svolge la sua attività nel tuo campo di interesse e la banca dati ti mette a disposizione tutti gli articoli pertinenti. Alla fine degli anni ’80 non c’erano ancora queste possibilità. Le banche dati allora erano giganteschi tomi cartacei custoditi nelle biblioteche che, in ordine alfabetico, trattavano materie e autori. Per un paio di mesi, ogni giorno, fino a sera tarda, consumavo le mie giornate nei sotterranei di una biblioteca a cercare gli articoli che parlavano di albumina e delle tecniche di isolamento dal sangue e dalle ossa. Ma non era sufficiente: alcuni autori avrebbero potuto aver svolto ricerche simili su altre molecole di struttura confrontabile con quella dell’albumina. Questa considerazione mi spinse a ripetere la stessa ricerca per immunoglobuline, emoglobina e altre proteine del sangue. Il secondo passo fu quello di capire come i vari autori avevano estratto queste delicate sostanze dall’osso: forse qualcuno aveva già messo a punto un metodo migliore di altri. Trovai di tutto. Da un centinaio di articoli scritti dal ’60 all’87 avevo recuperato diverse informazioni: chi aveva studiato l’albumina nel sangue umano, chi nel sangue del cervo, chi nelle ossa recenti di coniglio, chi in quelle preistoriche di bisonte. Poi c’era chi estraeva queste proteine in soluzione fisiologica dall’osso polverizzato, chi lo faceva incubare con dei detergenti, chi con delle specie
di pulitori del calcio. Nelle settimane di clausura in biblioteca, tra pranzi e cene a base di pizzette, chip butties (panini di patatine fritte e piselli) e qualche birra nei pub con gli amici dottorandi, vittime di un simile destino, riusci a districarmi, e con l’aiuto di Sokol misi a punto la mia linea di ricerca. Nessuno aveva estratto finora questa molecola, presente in ogni specie, da cui si poteva dedurre con certezza la natura umana di ossa vecchie o antiche; e nessuno aveva utilizzato l’ELISA che mi avrebbe permesso di identificare quantità veramente piccole, picogrammi (10–12 g), della sostanza. Ai tempi, ideare un metodo per determinare con sicurezza la natura umana di un frammento osseo proveniente da un sito archeologico o da un’antica lancia preistorica avrebbe aiutato a ricostruire scientificamente un pezzo di storia. E la cosa mi emozionava. Tornai finalmente al BTS (Blood Transfusion Centre) dove lavoravo con un mio piano d’attacco, che venne subito vagliato e corretto da Sokol, il quale mi affidò poi a Gelsthorpe, il tecnico del maggior laboratorio dell’intero complesso, quello di istocompatibilità, un uomo geniale. Gelsthorpe inventava metodi nuovi per identificare molecole sconosciute, ed era un mago dell’ELISA. Passò a lui il compito di insegnarmi tutta la tecnologia. Uomo molto alto, distinto, inguaribile amante di Mozart, mi istruì su come portare alla luce molecole invisibili. Sarei stata la sua tortura per tre anni. Inizialmente dovevo dargli molto fastidio: una figura goffa e disordinata in un camice non proprio pulito (sempre macchiato d’inchiostro, di caffè o altro) che costantemente, mentre lui correva per i laboratori cercando di tipizzare più velocemente possibile organi da trapiantare, doveva rispondere a una pivellina che voleva estrarre sangue umano da resti antichi e lo inseguiva chiedendo: «Adesso cosa faccio?». Nulla di più indisponente. Ma fu paziente e mi insegnò molte cose. La teoria, e anche la pratica, non erano difficili… ma erano ingegnosi. Prima si prendeva il frammento di osso – o il pezzo di selce con una di macchia che avrebbe potuto essere di sangue. Una vertebra era l’oggetto iniziale del mio studio. Dopo averla frammentata se ne polverizzava circa una decina di grammi. Poi si immergeva in una soluzione di detergenti e di «pulitori» per qualche giorno, facendola ruotare giorno e notte, in modo che la soluzione lavasse il più a fondo possibile la polvere estraendo le particelle di sangue residuo. La soluzione veniva filtrata con un particolare filtro che lasciava passare solo le molecole più piccole del sangue e tratteneva quelle più grosse. Da diversi millilitri di soluzione alla fine ottenevo un cucchiaino di brodo di osso, molto concentrato, il materiale sul quale condurre il test ELISA. Gelsthorpe estrasse da un pacco una piastra di plastica trasparente con un coperchio anch’esso trasparente. Nella piastra erano stati scavati pozzetti grossi quanto la punta di un mignolo. Disposti in file ordinate. «Con questa riempi tutti i pozzetti con il tuo brodo.» Mi mise in mano una pipetta con 5 aghi, quante erano le file di pozzetti sulla piastra. Poi se ne andò urlandomi che dovevo lasciare la pozione in incubazione per due ore. Fui molto attenta, cercando di evitare disastri. Dopo due ore e mezzo («La mezz’ora in più faceva solo bene all’esperimento» disse al suo ritorno) mi insegnò a risciacquare le piastre con acqua distillata, buttando via il contenuto. Lo guardai come se fosse pazzo. «Non ti preoccupare» mi rispose ridendo, «le proteine, tra cui l’albumina, se ci sono, si sono già attaccate tenacemente alla plastica della piastra, dove le ritroveremo anche dopo il risciacquo.» Mi fidai ciecamente. Mi spiegò che dovevo aggiungere ora una goccia in ciascun pozzetto che conteneva l’anticorpo contro l’albumina umana, che avrebbe riconosciuto soltanto questa molecola e si sarebbe attaccato altrettanto tenacemente a questa. Passò un’altra ora. Nel pozzetto non si vedeva che una insipida soluzione acquosa e cercavo di immaginarmi migliaia di piccole proteine che si cercavano e che si aggrappavano l’una all’altra. Altro risciacquo dopo un’ora. Giunse il momento clou, «l’ora della verità», mi disse. Rideva per la mia eccitazione e un po’ mi prendeva in giro. Preparai il colorante, contenuto in provette e costituito da acido salicilico (il principio attivo dell’aspirina) e un’altra sostanza, da scongelare, mischiare, e mettere nei
pozzetti. Alla presenza dell’anticorpo, il colorante diventava marroncino. Lo guardai «spipettare», invidiandone la maestria. Nel frattempo ribadiva: «Il concetto di questi test immunologici è molto semplice. Fai in modo che la sostanza che cerchi, per noi l’albumina, si appiccichi sul fondo della piastra. Se c’è, non la stacca più nessuno. E se c’è, l’anticorpo che introduci si incastra tenacemente con la sua struttura e al passaggio finale il pozzetto si colorerà; se, invece non c’è, lo butti via al secondo risciacquo. Niente albumina, niente colore». In pochi secondi le prime tre file di pozzetti divennero scure. «Vedi? Nella prima fila ho messo sangue umano, nella seconda siero umano e nella terza estratto di osso umano fresco. Nelle altre tre sangue bovino e acqua: qui niente reazione.» Sembrava facile. Nei due mesi successivi mi cimentai con centinaia di ELISA per imparare, su materiale certamente positivo (che sapevo contenere albumina umana, la molecola che il mio sistema cercava, come il sangue umano fresco) e certamente negativo (che ero certa non la contenesse, come il sangue bovino o l’acqua distillata). Dopo centinaia di piastre sciacquate e buttate via, reputarono che avessi imparato a fare il test in modo affidabile. A questo punto potevo iniziare la ricerca. Erano passati già 6 mesi e avevo soltanto letto articoli e imparato il metodo. Allora ignoravo di essere stata fortunata; ad altri miei colleghi erano serviti anche anni per riuscire a padroneggiare un particolare metodo sul quale si basava la loro ricerca. Ma a me era sembrata un’eternità quel periodo trascorso prima di incominciare a testare il materiale antico. Dovevo procurarmi materiale osseo di epoche diverse, umano e non, per sottoporlo al test. Tornai in Italia e grazie ai miei contatti archeologici ottenni campioni di vertebre di scheletri medievali e romani. Li trasportai in Inghilterra in treno, elegantemente nascosti in un contenitore di champagne Veuve Clicquot, che mi aveva regalato mio padre per il mio venticinquesimo compleanno. E mentre sul traghetto vedevo avvicinarsi la costa di Dover, fremevo anticipando l’emozione di vedere diventare marroni i pozzetti contenenti il brodo di osso dei miei romani. Ma non ci fu nessuna emozione. Più polverizzavo freneticamente e testavo piastre, più mi ritrovavo, a fine esperimento, pozzetti di un insulso color acqua, mentre le file di quelli che contenevano sangue umano sembravano ridere prendendosi gioco di me. «Qui c’è colore perché è sangue fresco…lì non troverai mai niente.» Ero demoralizzata; avevo provato polvere di decine di scheletri di siti diversi senza nessun risultato. Una sera, mentre mi preparavo per prendere l’autobus e tornare nel mio monolocale, Sokol entrò per salutarmi e per tirarmi su il morale. «Non ti preoccupare troppo, non possiamo pensare che tutto sia molto ben conservato in queste ossa; d’altronde se mai nessuno ha trovato niente un motivo ci dev’essere. Le tecniche che stiamo usando ora sono più sensibili, ma forse la molecola non c’è più. Proviamo scheletri da altri siti, magari terreni diversi possono favorire una migliore conservazione delle molecole.» Seguii il consiglio e dopo qualche mese rientrai nuovamente in Italia e raccolsi altri campioni, questa volta da scheletri in buono stato di conservazione, provenienti dalla necropoli romana di Casteggio, in provincia di Pavia. Svogliatamente preparai il brodo, e feci gli ELISA. Avevo ormai i tempi del test cronometrati. Nei tempi morti andavo a prendere il caffè o a pranzare nella caffetteria, preparavo altre cose, scrivevo, leggevo, e a fine giornata controllavo e aggiungevo alla pozione quel maledetto colorante che non mi aveva mai dato soddisfazioni. Da una delle finestre del laboratorio potevo scorgere cavalli al pascolo sulle colline e il sopraggiungere del tramonto. Era tardi e non c’era più nessuno in laboratorio. Presi la pipetta dai 5 aghi e spruzzai il colorante. Compii il rito scaramantico del giro del laboratorio e controllai che fossero spente le centrifughe, prima di guardare i pozzetti. Tornai alla mia postazione dove mi aspettava quell’insulsa piastra di plastica. La guardai. Quattro file colorate di marrone. Due bianche. Appunto. Il campione archeologico è negativo. Ma mi soffermai e ricordai che avevo testato due campioni archeologici umani. Quindi le prime due righe erano di sangue umano, le ultime due di controlli negativi (sangue bovino e acqua), ma la terza e la quarta erano scheletri. Erano
tre le file colorate. «Oddio, le prime tre… uno scheletro è positivo.» Agitatissima, con mani tremanti fotografai la piastra e corsi giù per il corridoio con questo gioiello in mano nell’ufficio di Sokol. Trovai lui e Gelsthorpe. «Ha funzionato!» Sokol scoprì degli enormi incisivi superiori che rendevano simpatico un volto molto regolare e quasi severo. «Te lo dicevo…» E Gelsthorpe subito a fare da guastafeste. «Hmm…domani lo riproviamo, non si sa mai…» e se ne andò via sghignazzando. Seguirono settimane di controlli su controlli: i risultati erano autentici. Dei 10 scheletri che avevo testato, 3 erano positivi, due tenuemente positivi… negli altri niente. Ma questo bastava: c’era la possibilità di recuperare con questo test informazioni molecolari da materiale di almeno duemila anni prima. Qualche mattina dopo arrivai in laboratorio, tra i soliti cinguettii delle segretarie e le battute dei tecnici, pronunciate rigorosamente con l’accento dello Yorkshire, sempre gentili, sempre pronti a dare una mano, che immancabilmente incontravi alle 8.00, poi alle 10.00 alle 12.00 e ancora alle 15.00 per il tè in caffetteria. Sokol aveva una sorpresa. «Ho preso appuntamento con il direttore del Museo di Hull: è disposto a farci testare degli scheletri dell’Età del Bronzo.» «Non è un po’ presto per usare del materiale così prezioso?» «Non vedo perché, il metodo funziona, se riusciamo a trovare tracce di sangue umano in scheletri di più di cinquemila anni, direi che abbiamo un bel risultato e possiamo passare ad altre cose.» E così facemmo. Andammo a Hull, cittadina sul mare a est di Sheffield e prelevammo da ognuno di quegli scheletri appartenenti a un’epoca lontana, ritrovati vicino al mare, due vertebre. I due scheletri erano positivi. Con questo il metodo si era confermato perfetto. E queste proteine si conservavano molto bene. Da allora in avanti avremmo usato il test su lance, ossa cremate e substrati forensi (macchie di sangue su garze interrate e simili), e non ci avrebbe mai deluso. Però mai nessun esperimento mi diede più la stessa soddisfazione di quel pomeriggio quando, da sola, unici compagni le centrifughe rumorose e cavalli al pascolo, immersa nella nuvola di aroma del caffè di Gelsthorpe, vidi per la prima volta sangue romano. «Dobbiamo pubblicarlo.» Sokol parlava con la Phillips al telefono. Anche per chi faceva ricerca in medicina, all’epoca questa era una notizia da diffondere. Ci ritrovammo tutti davanti a una tazza di tè e loro discutevano su dove sarebbe stato meglio far apparire la notizia preliminare. Non c’era ancora materia per un articolo completo, ma bisognava far conoscere questa «primizia». La Phillips propose il «New Scientist», un giornale scientifico divulgativo senza grande rilevanza accademica. Sokol controbatté: «Perché non una lettera a “Nature”?». La Phillips, e in seguito suo marito, che faceva l’insegnante di fisica all’università, sgranò gli occhi. «Nature» era la più quotata rivista scientifica… Era il caso? «Io credo di sì. Se lo rifiutano possiamo sempre cercare di pubblicarlo altrove.» Sokol si girò verso di me. «È deciso allora, devi scrivere una lettera a “Nature”.» Mi spiegò che si trattava di un brevissimo articolo di circa cinquecento parole che illustrava i risultati preliminari di una ricerca con due fotografie. Non penso di aver scritto mai più attentamente 500 parole in vita mia. Il giorno dopo stavo già scrivendo. Bozza 1: Introduzione – «L’importanza di trovare proteine in ossa antiche… bla bla». Materiali e metodi, risultati, discussione. Stampa. Passaggio a Sokol. Sokol la rivoluzionò, suggerendo soltanto cosa cambiare. Bozza 2: idem. E così via per una dozzina di bozze. Se ben ricordo, impiegai, una settimana intera per produrre delle parole che soddisfacessero i miei due supervisori. Scegliemmo due foto: una del cranio dell’uomo dell’Età del Bronzo, l’altra della piastra con il magico pozzetto colorato che conteneva il brodo delle sue ossa. Spedimmo la bozza. La mattina Sokol mi portò la busta e disse: «Vuoi darle un bacio di buona fortuna?». «Forse non è il caso» risposi. Le tre settimane successive furono di pura attesa. Facevo altro, andavo avanti, ma non riuscivo a a non pensare a cosa avrebbero risposto da «Nature». Con una certa frequenza mi risuonava negli orecchi una serie di insulti: «Perché ci importunate con queste cose?». Poi arrivò la risposta. L’avevano accettata, con qualche richiesta di aggiustamento, ma l’avevano accettata. Corsi a una di quelle tipiche cabine telefoniche rosse
che si trovava all’angolo della strada, di fronte a un venditore di giornali e dolciumi. Con due sterline, e cercando di dire quanto più mi era possibile, telefonai a mio padre, che mi gratificò con un «molto bene» scandito con i toni dell’entusiasmo. Il mese successivo l’articolo fu pubblicato. E dal «Times» telefonarono a Sokol per un’intervista. Lui compì un gesto che è impossibile dimenticare e che rimarrà impresso nella mia mente quale insegnamento dello stile con cui un professore, un mentore, deve trattare i suoi studenti. Commentò brevemente con il giornalista e poi fece chiamare me per l’intervista telefonica. Mi dilungai a spiegare tutto per filo e per segno a un gentile signore dall’accento londinese che probabilmente sarebbe stato pago di un quarto della telefonata. Dall’intervista fu ricavato un bellissimo articolo. TAC, maialini e bambini maltrattati Entrai poi nel mondo della medicina legale e mi ci volle qualche tempo per ambientarmi un po’, riadattarmi, specializzarmi, prima di capire quali fossero le problematiche da risolvere e gli argomenti che valeva la pena approfondire e per i quali pianificare progetti di ricerca. Passai molto tempo a occuparmi di resti scheletrici e di identificazione, a standardizzare i metodi su materiale italiano, a creare collezioni di confronto, ma l’argomento che per primo qualificò lo spirito di ricerca del Labanof non fu strettamente legato agli scheletri, o meglio alla loro identificazione, bensì ai maltrattamenti sui bambini. È conosciuta la triste realtà dei bambini, indifesi, come gli animali, che vengono abusati e maltrattati. Ma mentre negli anni ’90 l’attenzione dei medici e dei magistrati era particolarmente allertata sull’abuso sessuale dei bambini, ben diversa fu, ed è ancora, l’attenzione riservata ai maltrattamenti fisici. Come istituto di medicina legale non vedevamo tanti casi, anzi relativamente pochi, sia vivi che morti. I due anni che passai in Francia presso l’Istituto di Medicina Legale di Montpellier furono sufficienti ad aprirmi gli occhi su questo fenomeno: in una città piccola come Montpellier si verificano almeno due casi di bambini maltrattati alla settimana, con lividi, fratture e lesioni cerebrali. In un anno si contano poi tre o quattro casi mortali, che finiscono sul tavolo anatomico. Da noi era ed è un’eccezione. Mi sono sempre chiesta come mai un paese così simile al nostro avesse una casistica tanto diversa. Spinta da queste sensazioni, ne parlai con i miei colleghi che mi risposero: «E pensare che comunque tutte le morti infantili in genere passano da qui, come le morti in culla». E così iniziammo a riflettere sul fatto che forse le tecniche autoptiche e i protocolli non sono del tutto idonei a scoprire, in una morte sospetta, ogni possibile segno di maltrattamento. L’autopsia consente di verificare la presenza di grossi sanguinamenti, ma se un bambino è vissuto e forse morto in un contesto di maltrattamento, tutto ciò che noi facciamo è sufficiente per smascherarlo? D’altronde le più recenti indagini americane ci rivelano che il 10% di bambini sottoposti ad autopsia perché presumibilmente casi di «morte in culla» risultano essere stati maltrattati. Ed è estremamente difficile scoprire le fratture, almeno quelle appena prodotte. I protocolli autoptici per i bambini maltrattati prevedevano sia le radiografie che le TAC, ma in realtà riuscivano a individuare anche la più piccola frattura sull’osso, che sarebbe sicuramente sfuggita all’autopsia? La letteratura scientifica non era esauriente in proposito e allora ritenemmo opportuno formulare un progetto di ricerca. Qual era l’effettiva sensibilità delle radiografie e della TAC nel valutare le fratture che i bambini subivano poco prima della morte? Non essendoci risposta a questo quesito, si rendeva necessario colmare questa piccola lacuna. Ed è questo il motore che spinge la ricerca. Piccole lacune che vanno colmate un po’ alla volta, con tanta pazienza e senza grossi clamori. Ovviamente non sarebbe stato possibile percuotere un campione di bambini per condurre questo studio, quindi pensammo di creare un modello sperimentale animale. E l’animale più simile all’uomo, che spesso viene utilizzato per sperimentazione biomedica, come abbiamo già avuto modo di dire, è il maiale. Tutti furono sorpresi quando manifestai questo proposito. «Non mangi neanche il salame…» mi sentii dire. Allora spiegai che si potevano utilizzare quei
lattonzoli che già avevamo usato una volta per i progetti con i cani da cadavere. I grossi allevamenti di maiali spesso perdono molti neonati, o lattonzoli, per le cause più varie: perché già malati e deboli alla nascita, oppure perché schiacciati sotto il peso della madre. Questi poveri maialini vengono poi smaltititi e gettati via. Non mi avrebbe mai sfiorato l’idea della sperimentazione animale con il sacrificio di animali per studi forensi (niente, a dire il vero, giustifica il sacrificio della vita di un altro animale, se non forse la vita di un piccolo della nostra specie o la nostra stessa sopravvivenza). E, in tutta franchezza, per quel che riguarda la «scienza» forense, non credo sia il caso, né che ne valga la pena. Ma questi lattonzoli erano già morti e non potevano essere usati come cibo, quindi tanto valeva utilizzarli per la ricerca «medico-legale». Pensavamo di prendere una serie di maiali morti, cinque o sei, e produrre delle fratture ossee, in tutte la parti del corpo – testa, torace, arti – e di sottoporre il loro corpi allo stesso iter diagnostico del bambino maltrattato – lastre, TAC, autopsia – per stabilire quante di queste lesioni fossero visibili e la sensibilità di ogni metodo. Alla fine però, per sapere esattamente quante fratture ossee eravamo riusciti a provocare sarebbe stato necessario scheletrizzare – e lo facemmo – i maialini e verificare sulle ossa pulite. E così facemmo. Sulla carta l’impianto del progetto era impostato scientificamente. Avevamo a disposizione validissimi radiologi veterinari, medici legali ed esperti di statistica per garantire la massima professionalità. Ahimè, il primo passo consisteva però nel «menare il maiale», come diceva Pasquale. Ci procurammo una decina di lattonzoli, dallo stesso allevamento da cui Pasquy li aveva ottenuti due anni prima per seppellirli e studiarne il processo di decomposizione e la loro reperibilità da parte dei cani da cadavere. Avevamo infatti passato un intero inverno in un parco a Novegro a seppellire e disseppellire maiali per vedere come si decomponevano nel nostro terreno e con le nostre temperature, quanto puzzavano e quanto i cani erano abili a trovare la sede di sepoltura. In quel caso li si prendeva e li si seppelliva. Ora si trattava di maneggiarli. Andammo a prelevare il primo dalle sale di refrigerazione. Il Porta, imprecando, lo tirò fuori dal freezer dove li conservavamo, e lo lasciò una notte in laboratorio a scongelare. Il giorno dopo ci trovammo di fronte a questo cucciolo di maiale morto già da un mese, che suscitava una grande tenerezza, con il muso vellutato, quei pelucchi appena accennati che spuntavano dalle orecchie e il codino arricciato. Io, il Porta, Pasquale e la tesista che doveva dare una mano nello studio ci fermammo a guardarlo. Il Porta era quello che dormiva con i suoi cani, che aveva allevato anche boa e iguane e che si preoccupava se i cani non facevano la pipì ogni 4 ore. Pasquy condivideva le melanzane alla parmigiana preparate con tanto amore da sua madre con il Red (altro mio cane) e che si strusciava per delle mezz’ore con Argo sul mio divano; io non mangiavo carne. Fissammo per un po’ il maialino, non sapendo come e non avendo il coraggio di malmenarlo. «Cosa facciamo, gli diamo dei colpi con il martello?» disse Pasquy. In risposta un: «Ma sei pazzo?». In tutti c’era un sentimento quasi di rispetto per quella povera bestia che ormai non poteva sentire più alcun male. Preso coraggio, iniziai io, con il compito più semplice. Dovevamo produrre fratture in tutti i distretti anatomici: torace, arti, cranio. Scelsi il torace. Mi accovacciai vicino al maiale, presi tra le mani il costato e strinsi le dita. Sentii cedere sotto i miei polpastrelli le coste… crac, crac, senza resistenza. E pensai quanto era facile fare del male a un bambino. Continuai quella specie di massaggio per qualche minuto con la certezza, alla fine, di aver prodotto decine di fratture. «Io la mia parte l’ho fatta, pensate voi ad arti e cranio.» Pasquale, nel desiderio di simulare le cadute dall’alto per le fratture alla testa, salì al secondo piano e, con il Porta che vigilava che al piano terra non passasse nessuno e che gli dava il via libera, gettò a testa in giù il lattonzolo, che schivò per un pelo la macchina del professor Lodi, allora direttore dell’Istituto. Passammo subito ad altre strategie, meno teatrali, ripetendo l’operazione con altri 5 maiali. Gli animali erano quindi pronti per essere studiati effettuando lastre e TAC. Affidammo il compito ai colleghi veterinari e,
in particolare, a Mauro Di Giancamillo, professore di Radiologia alla facoltà di Veterinaria. Con Mauro ci conoscevamo già. Lui e il suo team avevano «lastrato» e «taccato» numerosi cadaveri bruciati, scheletrizzati e freschi. Quando volevamo un’indagine radiologica fatta ad arte chiedevamo a loro, che si dimostrarono sempre assai disponibili, interessati, sicuramente meno schizzinosi di molti radiologi «di umani» che avevo conosciuto. Si arrivava la mattina presto o la sera, in modo da dare meno nell’occhio. Gli amici dell’obitorio ci accompagnavano con la camionetta fino al cortile di Veterinaria perché, per quanto si trattasse di pochi metri, non sarebbe stato opportuno caricare la carcassa martoriata sul carrello da far passare per via Ponzio. Mauro si sedeva dietro la console con il suo stuolo di studenti e tecnici, tra i più preparati che abbia conosciuto, e azionava decine di pulsanti. Sullo schermo comparivano ogni tanto fratture, ai processi spinosi, alle coste, alle tibie, qualcuna al cranio, che sulla lastra normale non si erano viste. Decidemmo che le autopsie venissero effettuate da due medici legali differenti, che avrebbero adottato il protocollo classico per i bambini piccoli. Apertura sia dietro, per vedere meglio le parti ossee della schiena, sia davanti, con la solita procedura. Qui contammo, con ovvie difficoltà, le fratture visibili, perché erano talmente sottili che a occhio nudo non si vedevano. Alla fine, per riuscire a contarle esattamente, la tesista, con molta pazienza, fece macerare i lattonzoli, fino all'osso. I veterinari fecero i loro calcoli, noi i nostri, e Alessia, anche lei ricercatrice a Veterinaria, moglie del Porta, elaborò i dati con metodi statistici che ci avrebbero rivelato la significatività del risultato finale. I numeri parlavano chiaro: né l’autopsia, né le TAC, né le radiografie avevano «beccato» tutte le fratture. Anzi. La sottostima era decisamente elevata. Questo protocollo non sarebbe bastato per studiare le fratture nei bambini sospettati di essere stati maltrattati. Era necessario prelevare le coste, pulirle, osservarle e poi reinserirle nel cadavere. Senza questa procedura si rischiava di perdere elementi importanti. Confezionammo l’articolo e lo pubblicammo su una rivista internazionale. Oggi, ogni tanto, viene citato da chi ha continuato il nostro lavoro. Come ho già detto, niente da Nobel, ma piccoli passi che, speriamo, possano dare un contributo, seppur minuto, a risolvere un problema. Gli esempi di esperimenti strani in cui ci imbattiamo ogni giorno potrebbero costituire un lungo elenco: prove di sparo su maiali poi lasciati marcire per valutare se residuano ancora segni di colpi d’arma da fuoco; lo studio della variazione della temperatura mentre il corpo brucia (che ha coinvolto un Pasquale e un Porta accaldati e irritatissimi, che dovevano infilare una termocoppia nel retto di maiali e osservarne le variazioni mentre bruciavano in una calda giornata di luglio); la sperimentazione di ricostruzioni dinamiche virtuali da parte di Danilo di un determinato delitto e valutare il loro effetto sulle giurie… e tanti altri ancora. Tutti in lavori di gruppo, sempre con giovani tesisti o specializzandi, alcuni molto entusiasti, come Gibi, che ormai, pur specialista di medicina legale, è diventato parte integrante del Labanof e non si decide ad abbandonare la partecipazione agli sperimenti più astrusi e impegnativi. D’altronde, per i giovani, è fondamentale l’entusiasmo – per questo vengono inviati ai congressi (mai senza la presenza di una chioccia che vigila da lontano) a presentare i risultati delle loro ricerche e ad abituarsi all’arena tipica di questi ambienti, dove si trova chi ti complimenta e chi ti contesta. Solo così puoi confrontarti con il resto del mondo. Anche noi – io, il Porta, Danilo – agli inizi ci siamo passati. Addirittura a un congresso di Scienze forensi in Francia ci era stato chiesto di preparare uno stage (workshop) sulle ricostruzioni virtuali (roba di competenza di Danilo) e uno sull’effettuazione di calchi di lesioni prodotte sull’osso da armi diverse, per esempio seghe o coltelli (competenza specifica del Porta). Per ambedue avevamo a disposizione circa una ventina di iscritti. Per il suo Danilo preparò telecamere e piedistalli su cui erano montate delle camere (in maniera un po’ casereccia, ma funzionale, che lui presentò
come «Labanof-style»), un pupazzo di carta raffigurante il corpo del Porta (ipotetica vittima) e macchie di sangue in lattice per allestire una scena del crimine che avremmo poi usato per illustrare come effettuare le ricostruzioni virtuali. Il Porta invece preparò, per ogni studente del secondo stage, un kit contenente un frammento lungo di diafisi femorale (la parte cilindrica) fatta in gesso con 8 lesioni di armi diverse, barattoli di siliconi da mischiare tra di loro per fare il calco e spatole per spalmare. I maggiori esperti americani, che avevo invitato, avevano parlato delle lesioni che si trovano sulle ossa; poi abbiamo consegnato ai venti studenti, tra cui giovani neospecialisti ma anche anziani in giacca e cravatta e signore in tailleur, il kit per fare il calco. Con grande divertimento mischiarono siliconi, spalmarono ossa ed estrassero dopo mezz’ora un calco perfetto – in negativo – delle lesioni, che avrebbero rivelato molto sulle caratteristiche dell’arma. Un successo. E sono, queste, piccole impagabili soddisfazioni per chi ha cercato di trasmettere ad altri un frammento di conoscenza o di esperienza in più. Mi piace pensare però che sia ricerca anche quella che osserva i fenomeni sociali, che non rivela dati «tecnici» tradizionalmente riconosciuti come scientifici, ma che è fondamentale nello scoprire problematiche della società che ci riguardano e che vanno risolte. È una considerazione che si riallaccia al caso dei cadaveri sconosciuti, che costituì l’iniziale attività, e vocazione, del Labanof, proseguita tuttora. Ci siamo resi conto che nell’arco di quindici anni sono arrivati nel nostro obitorio circa 500 morti dei quali dovevamo stabilire l’identità. Di questi, 80 restano ancora senza nome e altri sono stati identificati in tempi molto lunghi, anche per la mancanza di una banca dati attraverso la quale poter confrontare le informazioni sulle persone scomparse con quelle sui corpi senza identità. Negli anni, i governi che si sono succeduti hanno promesso una soluzione a questo problema, e forse oggi ci stiamo quasi arrivando; nonostante il cammino burocratico sia lungo e tortuoso, non possiamo che sperare bene. Ma se non fosse stato per i dati raccolti da associazioni di volontariato come «Penelope» sulle storie e sul numero degli scomparsi e per quelli dei medici legali relativamente ai cadaveri senza identità, tutto questo non sarebbe successo. A volte però la lunghezza dei tempi per arrivare a un risultato, in questo caso 15 anni, e la necessità di continuare a studiare e a lottare per far sì che si trovi insieme una soluzione, è snervante, tanto che arrivi a pensare che sia tutto inutile. Ma dura poco. Mi è capitato ultimamente un caso – quello di E.U. – che, in un momento di sconforto, ha rinfocolato la determinazione a tenere duro. Un giorno venne fatta l’autopsia a un’anziana signora che era stata investita mentre percorreva a piedi la tangenziale est di Milano. Quel corpo minuto, gracile, con i lunghi capelli grigi raccolti ordinatamente indietro in una coda di cavallo, era pieno di fratture, ma senza segni identificativi. Rimase un anno sotto terra finché un parente non vide il suo identikit sul sito internet sul quale pubblichiamo i casi di sconosciuti per facilitarne l’identificazione. Vennero in istituto, marito e moglie, cugini di E.U., videro gli effetti personali e più da vicino la foto pubblicata su internet e non ebbero dubbi: era lei. Ci raccontarono che era scomparsa da Sesto San Giovanni dove viveva (non raro il paradosso, che si ripeteva anche in questo caso, di chi muore a 12 chilometri dalla propria casa senza documenti e non può essere identificato). Una donna buona, umile, che aveva lavorato come donna di servizio tutta la vita presso l’abitazione di una ricca famiglia milanese. Era andata in pensione e si era ritirata in un piccolo appartamento, ed era stata colpita da una lieve forma di demenza senile. Era solita recarsi ogni mattina presto, ci raccontarono, in un bar in piazza del Duomo, dove era conosciuta e amata da baristi e Carabinieri (lì anche loro a far colazione dopo il cambio di turno) che incontrava e con i quali parlava. Avevano raccontato che ordinava sempre due cappuccini, uno per lei e uno per la sua bambina, che diceva essere lì con lei, ma che nessuno vedeva. E in casa, in una stanza, teneva una bambola, gelosamente custodita all’interno di una culla. Un giorno si era allontanata troppo oltre piazza del Duomo, forse con la sua «bambina» oppure no, ed era finita in tangenziale dove era stata investita, morendo poco dopo.
E sono proprio lei e quelli come lei che per me danno il significato più importante allo studio e alla ricerca. Non basta la soddisfazione di aver risolto un problema tecnico, o di aver dato un apporto alla scienza. Alla fine tutto ha un senso profondo soltanto quando riguarda qualcosa di molto più grande e coinvolgente della curiosità intellettuale. E questo qualcosa riesco a definirlo soltanto come la compassione e dalla condivisione della condizione umana.
v Rifugiarsi nel passato
A volte è stremante misurarsi giorno per giorno per lavoro con la ricostruzione di un passato recente di cui bisogna sempre rendere conto in maniera inappuntabile, per il quale bisogna fornire prove, essere sempre rigorosamente vigili e tenere a bada emozioni e fantasia. Per questo, volgere lo sguardo su resti umani di epoche storiche passate, che non hanno più rilevanza forense, la cui storia non va difesa con determinazione accanita in tribunale, diventa un rifugio, a volte una boccata d’aria fresca. Tutto ciò non deve essere frainteso: la serietà scientifica non si allenta studiando uno scheletro romano piuttosto che uno di interesse medico-legale appartenente a una persona morta pochi anni prima del suo ritrovamento. Infatti, i metodi che vengono applicati ai due mondi, passato e recente, sono gli stessi, le conclusioni simili. Ma con reperti storici si può dare più respiro alle ipotesi, anche se ipotesi rimangono, perché tutte hanno importanza, dal momento che difficilmente si potrà stabilire quale sia la verità assoluta. Quando si lavora sugli scheletri di una necropoli antica, si potranno emettere diverse ipotesi sullo stato di salute e sul perché, per esempio in epoca medievale, in Lombardia, sono presenti gotta e malattie reumatiche mentre in quella romana no. Dal successivo confronto con storici, archeologi, zoologi, botanici e altri ricercatori si trarranno gli elementi per distinguere le ipotesi più probabili da quelle meno probabili. Ma ognuna viene illustrata e discussa ampiamente; inoltre, i morti sono sì persone, ma vissute in tempi talmente lontani dai nostri che sono diventati quasi un frammento di storia, una storia peraltro spesso più emozionante di quanto si possa immaginare. Quando si studia uno scheletro antico non lo si fa per acquisire oggettivi riscontri che consentano di condannare al carcere o di assolvere una persona, ma non per questo si può essere superficiali, barando sull’attendibilità delle conclusioni. Capita talvolta che qualcuno approfitti di tanta libertà e del fatto che il committente non è esperto e non è perciò in grado di valutare la veridicità di una dichiarazione. Per esempio non è particolarmente difficile che, osservando una ricostruzione facciale di un cranio che si presume sia quello di un personaggio storico, il millantato esperto affermi «è lui» se quel volto ricostruito assomiglia anche solo vagamente a quello del «personaggio», ma si tratta di un giudizio sbrigativo e superficiale, deontologicamente scorretto, disonesto. Nessuno in un’aula di tribunale userebbe questo metodo per identificare una persona; parimenti non lo si deve fare neppure in campo storico. Ma nel ricostruire la vita, e a volte la morte, di una persona vissuta secoli fa, alcune affermazioni sono lecite, in quanto si configurano come ipotesi difficili da provare perché caratterizzate dalla mancanza di riscontri, come, per esempio, ritenere che una morte sia stata provocata dalla tubercolosi o che il personaggio in questione abbia sofferto di gotta. Così si connota come un’esperienza emozionante e quasi dolce quella di trovare i resti di adulti e bambini attraverso i quali si può leggere, se pure in maniera un po’ sfocata, la quotidianità – non più di crimini atroci (o perlomeno non il più delle volte) – di un’epoca in cui alcuni aspetti della vita erano per certi versi simili e per altri totalmente e profondamente diversi dai nostri. Quei crani ormai secchi sono stati il contenitore di cervelli che certamente non conoscevano una quantità o una qualità di informazioni confrontabili con quelle dei nostri, che forse avevano una visione del tempo, dei valori, della morale infinitamente diversa dalla nostra, ma che provavano affetti, paure e aspirazioni molto simili – ne sono quasi sicura – alla concezione che oggi ne abbiamo noi. Dai ricchi romani ai poveri appestati Il Labanof ha una piccola sezione che si occupa anche dello studio di scheletri antichi. Serve non solo per allenare l’occhio e per il tirocinio degli studenti, ma soprattutto per esercitare con continuità l’osservazione e lo studio dell’animale uomo e ricostruirne, per quanto possibile, la
storia. La possibilità di farlo con maggiore serenità e tranquillità rispetto allo studio di scheletri recenti ancora impregnati dei loro odori e dei torti subiti permette a volte di percorrere sentieri che nelle altre situazioni sembrerebbero una divagazione, una distrazione che rubano il tempo all’assillo della verità, del processo. Iniziammo studiando scheletri di necropoli locali: dalla Milano romana, alle genti longobarde della bergamasca, fino ai ricchi gottosi della Cremona medievale. Tutto ciò ci permise addirittura di collaborare in alcuni allestimenti museali – e questo, per chi ama la storia, è un po’ l’acme dell’attività antropologica – riportando in vita il passato con le sue persone. Indubbiamente l’archeologia è anche ricostruire l’aspetto dei nostri avi, come vivevano, di quali malattie soffrivano. Esiste un piccolo Antiquarium in un paese vicino a Crema, Palazzo Pignano, dove il Porta e Danilo hanno lasciato qualche indizio che testimonia quanto, attraverso la scienza, il passato possa avere quasi tangibile continuità con il presente. Nei pressi di una villa romana erano stati trovati alcuni scheletri, ma uno in particolare aveva attratto l’attenzione degli archeologi per l’importanza della tomba in cui era sepolto e per questo lo avevano consegnato al Labanof perché lo si potesse studiare. Lo accompagnavano le solite richieste: se fosse maschio o femmina, quale fosse l’età e di quali malattie avesse sofferto. Quando venne il momento di allestire il museo del sito, l’archeologa ebbe un’idea piuttosto originale, quella di esporre insieme agli oggetti che uno si aspetta di trovare in un museo anche «l’uomo». Così, di fianco ai mosaici, ai vasi, alle monete e ai manufatti, testimonianza della vita quotidiana e della ricchezza di questi antichi signori di Palazzo Pignano, si pensò di riportare in vita l’anziano signore ritrovato nella tomba e di fargli raccontare la sua storia. Lo scheletro era relativamente ben conservato e portava su di sé i segni non solo di una frattura nasale che in vita gli avrebbe sicuramente dato un aspetto da pugile, ma anche di una malattia che raramente si riesce a scoprire su materiale scheletrico: un aneurisma aortico. L’aneurisma è una sacca che si forma lungo la sagoma cilindrica delle arterie, una sorta di allargamento dovuto allo sfiancamento del vaso. Con il continuo pulsare dell’aorta, che anatomicamente si trova a ridosso della colonna vertebrale, può succedere che, col tempo, si crei progressivamente una concavità sul corpo della vertebra, una vera e propria impronta. Ed era esattamente ciò che era successo al nostro scheletro. Quindi, il vecchio che quello scheletro aveva sostenuto ne aveva di cose da raccontare, da come si fosse rotto il naso alla probabile causa della sua morte. Il Porta questa volta non solo aveva ricostruito dal cranio un volto di un uomo anziano amabile, reso ancora più simpatico da un profilo degno di Rocky Marciano, ma aveva ricostruito l’intero corpo, che, nell’allestimento finale del museo, avrebbe dovuto essere seduto su una copia della sua tomba «a cappuccina» (di quelle con le lastre di pietre disposte a mo’ di tetto), sorridente, ad accogliere i visitatori. Mi ricordo ancora il sapore della frenesia e dell’eccitazione di quel periodo, di come, visti i pochi soldi a disposizione, ci dovevamo ingegnare per creare l’erba sotto la tomba, il vestito del vecchio e di come passavamo le notti in laboratorio a rifinire pannelli espositivi o le mani del signore romano. Poiché doveva vestire una tunica corta, le gambe e le braccia dovevano sembrare vere, e il modo più semplice per farle sembrare tali era quello di fare un calco di qualcuno. C’era quindi da scegliere il modello. Riflettemmo per un po’: il vecchio non era molto alto ed era di costituzione gracile… guardammo tutti il Porta, il candidato perfetto. «Veramente sarei io quello che sa fare i calchi quindi non posso essere il modello.» Lo convincemmo che li avremmo preparati sotto la sua guida. Il grillo parlante passò i giorni successivi immerso in bagni di silicone. Mi ricordo ancora le espressioni di chi gravitava in quel periodo in laboratorio e s’imbatteva nella tesista di turno che spalmava di silicone i polpacci del Porta disteso per terra o in Danilo che con le frese dell’arte odontoiatrica era intento a limare e rifinire le dita dei piedi del manichino. Poi, per aggiungere un tocco ancor più realistico, in modo da far sembrare «viva» quella ricostruzione, pensammo di produrre un video, da mettere vicino al manichino del vecchio nel
museo, che lo vedeva cicerone della sua stessa storia. E qui Danilo sfoggiò tutta la sua maestria nella computer grafica 3D, che, tra l’altro, per lui era puramente un hobby. Creò l’animazione di uno scheletro che usciva dalla sua tomba e raccontava la sua storia. Il video iniziava con lo scheletro, mani sui fianchi, che dice: «Sono morto 1200 anni fa, ma ho vissuto una bella vita nella mia villa romana e ora ve la racconterò…». E via a staccarsi vari pezzi anatomici mentre narra la sua storia: prima si stacca il cranio e mostra le sue fratture nasali, poi si stacca un femore e dice quanto era alto e così via, fino a raccontare del suo aneurisma che Danilo aveva reso di un giallo e rosso pulsante. Il tutto finiva poi con un fantastico morphing della faccia, dove l’animazione prevedeva che progressivamente sopra il cranio si apponessero i vari strati di tessuti molli muscoli, naso, labbra – fino ad arrivare al volto finale. Ci eravamo divertiti, come mai avremmo potuto farlo con ossa più recenti. E ancora oggi ricordo con tanta nostalgia quel Labanof giovane e giocherellone, i cui primi risultati si possono ancora osservare in un piccolo museo vicino a Crema dove i visitatori sono accolti da un signore anziano dall’aspetto simpatico che sorride, seduto sulla sua tomba, con i piedi identici a quelli del Porta. Questo è il «bello» del lavoro archeologico. E così tra casse di ossa, calibri, tavoli e il chiacchiericcio allegro degli studenti, ogni scheletro ci ha intrattenuto e ci intrattiene ancora oggi raccontando uno spezzone della sua e della nostra storia, suggerendo malattie, stili di vita e abitudini, con grande calma e tranquillità, senza più il clamore della tragedia e della sofferenza. Per la verità non sempre i sentimenti che ci accompagnano nello studio dei reperti antichi sono quelli di un certo distacco. C’è stata un’eccezione a questa regola della «distanza»: il caso di una fossa comune ritrovata in viale Sabotino, in pieno centro di Milano, qualche anno fa. Avevo ricevuto una telefonata da un’amica giornalista che mi raccontava di aver saputo che nelle vicinanze di Porta Romana, durante gli scavi per costruire un parcheggio, proprio sotto le mura spagnole, era stata riportata alla luce una fossa comune che gli archeologi avevano datato al ’600. Molto probabilmente si trattava di vittime della «peste del Manzoni». Era agosto, nessuno se ne stava occupando – lamentava la giornalista– e, come spesso succede nelle città italiane, la scoperta non era stata considerata degna di nota, non trattandosi di epoche considerate «salienti» per gli archeologi classici, come quella romana e quella medievale. Un fondo di verità in quello che lamentava c’era, dovevo dargliene atto; non ho mai capito perché, ma appena si varca la soglia del Medioevo scheletri e tombe perdono di interesse. E come era certo che il contenuto umano di una tomba longobarda sarebbe stato studiato, con altrettanta certezza in questo caso c’era il rischio reale che questi morti non venissero neppure degnati di uno sguardo. Mi sembrò un’ingiustizia. La peste del ’600 è stata un flagello che ha reso in qualche modo famosa Milano, e non soltanto grazie al Manzoni, e noi non volevamo studiare le sue vittime, vedere chi erano o degnarle di uno sguardo umano oltre che scientifico? Colta da uno dei miei non sporadici slanci di cui a volte mi pento, telefonai in Soprintendenza e proposi di studiarli, tutti e 157, subito. Sapevo che questo avrebbe significato litigare con Pasquale («ma ti rendi conto? tutti in un colpo? dove li mettiamo?»), con il Porta («come facciamo a gestire quattro o cinque studenti che possono lavarli e dare una mano a studiarli il più velocemente possibile?») e probabilmente urtare persino la serafica calma di Sandra, che aveva appena finito di seguire una torma di studenti impegnati su 400 scheletri della necropoli longobarda Bolgare. Ma non mi pentii, soprattutto quando vidi le fotografie dello scavo che accompagnavano la consegna di cento scatole di ossa, diligentemente archiviate dagli archeologi su un CD. Le immagini erano toccanti nella loro tragicità. Nelle prime riconoscevo i giardinetti a sud delle mura spagnole, attraversate da una trincea nella quale ci si accorgeva appena di circa una trentina di mucchietti chiari allineati, distanziati di una decina di metri l’uno dall’altro. Le foto successive zoomavano sul contenuto di quei piccoli dossi. Ognuno era un groviglio di sagome umane scheletrizzate, ammucchiate l’una
sull’altra, ben riconoscibili. Seguendo le forme di crani, omeri, colonne vertebrali e femori riuscivo a distinguere adulti e bambini, incastrati alla rinfusa, qualche volta appoggiati l’uno sull’altro. Mi parve di intuire il piccolo scheletro di un bambino disteso sul corpo di un adulto, e mi venne in mente quel bambino biondo che sembrava dormire in grembo alla madre nel ventre dell’aereo del disastro di Linate. Me li immaginai, senza corteo che li accompagnasse, essere scaricati nella fossa dal carro di monatti: madri, bambini, adolescenti, con il corpo deturpato dai segni della peste. Anche loro avevano qualcosa da dire, ed ero convinta che fosse giusto portarli da noi. I mesi che seguirono, in linea con le previsioni del Porta, videro il laboratorio e i suoi corridoi colmi di studenti esuberanti che lavavano e stendevano scheletri, e noi, a turno, valutare le loro diagnosi e redigere i risultati finali. Ci raccontarono molto di una Milano seicentesca ancora poco conosciuta – una Milano, questa, dei poveri, con bambini che facevano fatica a crescere, adulti pieni di infezioni e anemici e anziani con le ossa rotte – la Milano di chi non ha potuto difendersi dalla peste. Tra le attività più curiose che fanno parte dello studio di scheletri «più vecchi» devono essere annoverate, senza possibilità di smentita, quelle che riguardano i santi. Già quando avevo iniziato la mia attività di antropologa, ancor prima che quella di medico legale, mi era successo che qualche diocesi mi chiedesse di fare la ricognizione di un santo e questo si riduceva spesso a stilare un elenco di ossa di solito conservate in un reliquiario, descriverle e redigere un verbale. Nulla di più: non veniva mai chiesto di dire qualcosa per esempio sul sesso, sull’età o altri connotati potenzialmente interessanti. Finché un giorno non ci venne, per la prima volta, richiesta «l’identificazione» dei resti di san Nazaro, a Milano. Da qui iniziò una serie di domande di studio di scheletri di santi, qualcuna di successo, altre un po’ meno, che ci introdussero in un mondo sconosciuto e a nuove e interessanti versioni dell’accostamento «scienza e fede». Il collage di san Nazaro Non ricordo più cosa stavo facendo quando una mattina arrivò in laboratorio il professor Grandi a dirmi che il professor Basile mi cercava. Leopoldo Basile era ormai uno dei più anziani docenti dell’Istituto di Medicina Legale della nostra Università quando io arrivai, ed era il direttore della scuola di specialità. Siciliano, con un ottimo sense of humour, sempre pronto a scambiare quattro chiacchiere su qualunque argomento – dalle sue vecchie e storiche perizie (in particolare quella sull’omicidio Feltrinelli) alla storia di Palermo oppure all’ultimo spettacolo teatrale a cui era stato. Garbato, una di quelle persone che parlano sempre sottovoce, quasi sussurrando, che ti fanno sentire un po’ sorda. Mi disse, quasi bisbigliando, mentre arrotolava e srotolava tra le dita un vecchio biglietto del tram com’era solito fare, che un suo amico dentista era stato coinvolto nelle analisi delle ossa di un certo santo e che c’era bisogno di una «mano antropologica». Tendendo le orecchie allo spasimo dovetti chiedergli un paio di volte qual era il santo in questione. I miei meati acustici cercarono, alla terza volta, di cogliere ogni minima vibrazione che usciva da quelle labbra sottili… san Azzaro, Lazzaro, o qualcosa del genere. Ci rinunciai, vergognandomi di chiedere per la quarta volta il nome, ma capii che si trattava di santi e di ossa. “Ci risiamo” pensai, “la solita storia, ci saranno da vedere due ossa in croce e fare la solita ricognizione.” Mi passò, togliendolo dalla tasca, un biglietto con un numero di telefono e andai in laboratorio, dove c’era il Porta. «Senti, tu hai idea di chi sia san Azzaro o Lazzaro o qualcosa del genere? Basile mi ha chiesto se possiamo metterci in contatto con questo dentista per dargli una mano con le ossa: devono studiare i resti che si trovano nella parrocchia dell’Università.» Il Porta, che diceva di non essere milanese ma che conosceva ogni parte storica di Milano come le sue tasche, rispose: «Non c’entra mica la chiesa che c’è in corso di Porta Romana? Quella è la chiesa di San Nazaro». La mia espressione doveva tradire il fatto che facessi fatica a focalizzare. «Quella vicina alla pasticceria Panarello» aggiunse con il tono di voce deluso dal fatto che già immaginava che
conoscessi molto meglio i bar pasticceria più storici e buoni di Milano che non le chiese più antiche. Non sbagliava. Mi illuminai. «Ah, quella bella, dietro l’Università» risposi mentre nella mia mente da una parte compariva l’immagine del sagrato di fronte al portone della chiesa gotica di San Nazaro, dall’altra si sprigionava il profumo delle brioche appena sfornate di Panarello. Telefonai al dottor Poggio. Mi rispose una segretaria che mi assicurò che l’avrebbe chiamato subito. «Pronto dottoressa, grazie di aver chiamato. Il mio amico Basile mi ha detto che forse lei avrebbe potuto aiutarci.» E, con una bellissima voce non più giovanissima, pacata, rassicurante, continuò a raccontarmi la storia e a spiegare. La parrocchia di San Nazaro voleva fare qualcosa di speciale sulle spoglie del santo che venivano prelevate da una cripta, nella quale rimangono sempre nascoste, una volta l’anno. Avevano contattato lui perché aveva lo studio vicino alla chiesa, era conoscente del parroco e poi aveva un apparecchio radiologico portatile, che a qualcuno era sembrato un buon inizio per un’indagine «scientifica», le cui finalità erano peraltro ancora un po’ confuse. Quando io e il Porta andammo a trovarlo nel suo studio rimanemmo sbalorditi. Il «gentile dottor Poggio» aveva come studio dentistico un intero piano della Torre Velasca. Ci guidò nel suo ufficio, per raggiungere il quale attraversammo una stanza dietro l’altra, dalle quali provenivano rumori di turbine, e si scorgevano infermiere dal volto gentile vestite di bianco e di blu, sullo sfondo vetrate immense nelle quali si specchiava un cielo di Milano insolitamente limpido. Ci raccontò delle sue varie attività – molte di beneficenza, l’ultima delle quali l’acquisto di una camera iperbarica per una paese dell’Africa. Poi arrivò al punto: «Il mio amico don Tarcisio mi ha chiesto cosa si può fare sullo scheletro del santo, io ho chiesto a Basile ed eccovi qua… Vi metto a disposizione l’apparecchiatura radiologica, ma per il resto, a parte guardargli i denti, siete voi gli esperti». La tappa successiva era quindi da don Tarcisio Bove. Presi appuntamento con lui e andai da sola, non sapendo che cosa aspettarmi. Non riuscivo a immaginare quali potessero essere l’aspetto e lo stile di un prete animato da una richiesta così specifica come quella di studiare tutto lo scheletro in maniera «scientifica». Temevo di dover parlare con una persona severa, magari saccente, che volesse creare, o peggio ancora sfruttare, lo spinoso binomio scienzafede. L’ultima volta che avevo letto di scienza a «supporto» della fede era stato a riguardo della Sindone, e le certezze della fede e le ipotesi della scienza erano lontane da un pieno accordo. Mi sbagliavo. Suonai ai citofoni della parrocchia e una voce giovanile mi invitò a salire. Mi trovai di fronte un uomo di una quarantina d’anni, con occhi vispi e sorridenti, il sorriso di chi è sereno e non ha nulla da temere né da provare. Ci fermammo a parlare in una stanza, con una piccola finestra e un davanzale, bianca, chiara, linda, luminosissima. Parlammo a lungo, di molte cose, non soltanto del santo, ma di università, di storia e di storia dell’arte. Ripensandoci ora non saprei dire se quella sensazione di luminosità fosse dovuta più all’ambiente candido o alla radiosità del volto e alla limpidità delle parole di don Tarcisio. Mi spiegò che intendeva contribuire a dissipare lo scetticismo e tanti altri pregiudizi che separavano la fede dalla scienza. Voleva cercare di «identificare» quelle reliquie, capire se potevano raccontare la storia di san Nazaro, e voleva dargli un volto. Temetti che volesse «provare» la fede con dati scientifici. Gli ricordai quindi che avremmo dovuto procedere per fare ciò che voleva lui con il classico profilo biologico, il cui primo passo è la datazione. «Se viene sbagliata...» iniziai. «No» mi disse sorridendo «non voglio usare la scienza come strumento di prova della fede; la fede è fede e, se c’è, nessun dato scientifico può rafforzarla o confutarla. Vorrei soltanto far vedere come la scienza può aiutare a portare più vicina la chiesa alla gente e come non vada temuta.» Tirai un sospiro di sollievo. Non credo di aver mai compreso tutte le sue motivazioni fino in fondo, ma penso di aver capito cosa volesse dire. Rendere umane quelle ossa, quella figura, quella persona, avvicinare a un passato, un po’ come per Palazzo Pignano. Poco importava che questo
passato fosse di natura religiosa. Il mio atteggiamento nei confronti della fede e della Chiesa è sempre stato poco chiaro, anche a me stessa. Ho spesso osservato con occhio critico il fanatismo cattolico e l’ipocrisia di molti «pii». Ma il diritto alla fede e alla religione è altra cosa. Trovo infatti altrettanto ottuse le critiche mosse da intellettuali ai dogmi e alle credenze della religione, qualunque essa sia. L’uomo ha bisogno di rituali e di spiritualità, e ognuno la trova in luoghi, personaggi o storie diversi, nelle forme più svariate, dal profeta al politico al regno animale o vegetale. Ritengo quindi stupide le domande che non possono avere risposta su come faceva Gesù a camminare sull’acqua, Lazzaro a risorgere e così via. Non solo perché da un punto di vista antropologico tutto si può leggere in chiave di metafora, o avere interpretazione mitologica o, perché no, miracolosa. Ma proprio perché la fede, per definizione, richiede la fiducia, senza prova, e sarebbe come contestare i gusti musicali, le opinioni politiche o la convinzione di una persona di essere amata da un’altra. Prospettai a don Tarcisio il da farsi. Sarebbe stato necessario poter accedere allo scheletro. L’esame antropologico potevamo farlo in situ, cioè sul posto: l’inventario delle ossa, le misurazioni, le fotografie, i microscopici prelievi e addirittura, grazie al dottor Poggio, le lastre. Così avremmo avuto tutte le informazioni per datarlo, stabilire il sesso, l’età, l’etnia, le malattie che eventualmente avessero lasciato segni sulle ossa, ma… c’era un ma. Non sapevo come dirglielo. Per eseguire la ricostruzione facciale bisognava fare un calco del cranio su cui lavorare. Immaginavo che la decisione di portare in laboratorio la testa di san Nazaro non sarebbe stata accolta di buon grado. «Dovete proprio portarla via?» «Non si può fare altrimenti se non possiamo lavorare in chiesa.» Allora va bene, posso farvela tenere per 24 ore. Ventiquatt’ore. Già mi rimbombava nella testa l’urlo del Porta: «Come faccio in 24 ore? E se il calco viene con le bolle e devo rifarlo? E se non si asciuga in tempo il gesso? E comunque, come posso finire tutto in 24 ore?». «Va bene, le faremo bastare» mi sentii dire. Il giorno dopo tornammo muniti di macchina fotografica, calibri, metri e seghetti elettrici per fare tutti i rilievi necessari. Entrammo dalla navata laterale dov’era l’urna, che poteva ricordare una specie di cassa da morto in vetro, con bordi in metallo dorato, già scoperchiata, dentro la quale si trovava una figura completamente rivestita con i fastosi paramenti da vescovo. Il cranio, a malapena visibile, era coperto da un copricapo a punta color rubino; il «corpo» da una tunica bianca e rossa; le scarpe erano composte da una suola in legno rivestita di raso rosso con lacci che, incrociandosi, salivano fino all’altezza del ginocchio… simili a quelli delle scarpette di una ballerina. Mi faceva una certa impressione. Mi ricordava i morti vestiti nella bara. Una visione che non riesco a sopportare. Ancora oggi, in obitorio, le sfilate di cadaveri sui carrelli sono la mia normalità: la vita che se ne è andata e il corpo vuoto, fatto solo di memorie – ma con nessuna pretesa di sembrare vivo – da studiare. Evito invece i corridoi la mattina quando sono arredati, in attesa dei funerali, da bare imbottite di pizzi e cuscini in finta seta sui quali sono distese le spoglie vestite. È una forzatura goffa, macabra. Tutto sommato preferisco il drappo musulmano. Con l’aiuto di una suora, piccola, delicata e deliziosa, svestimmo quelle ossa, per scoprire che molte di esse erano mancanti. E quelle che rimanevano erano state delicatamente cucite agli indumenti. La suora con le sue mani corte ma veloci liberò quei resti dai fili che erano stati cuciti con altrettanto ardore da sue colleghe decenni prima. L’operazione richiese un’oretta. Quel che restava dello scheletro era montato su un supporto di stecche di legno e di fil di ferro. Del santo rimanevano il cranio, il bacino, le vertebre toraciche e lombari, le tibie, parti degli omeri, radii e ulne e le ossa di mani e piedi. Le ossa erano tutte lucide, troppo lucide, di colore bruno scuro. Il cranio sembrava normale, la colonna vertebrale era un blocco pressoché fuso, il bacino frammentato. E ciò che rimaneva delle gambe era curiosamente fissato ad aste in legno. «Come mai mancano delle ossa?» chiesi. Mi sorprendeva il fatto che uno scheletro così
importante fosse privo di tante parti. Don Tarcisio mi spiegò che proprio l’importanza dello scheletro era la causa dell’assenza di alcune ossa. E mi raccontò del «mercato» delle reliquie. Imparammo che esistono reliquie primarie, secondarie, terziarie e così via. Quella primaria era una parte dello scheletro o di un suo tessuto molle. Quella secondaria un oggetto che era venuto a contatto con il corpo o le ossa, e così via. Lavorammo sodo tutto il giorno a inventariare, fotografare, e fare un piccolissimo prelievo di femore per la datazione al radiocarbonio. Il prelievo fu fatto con grande cautela dal Porta con una piccolissima sega circolare da bricolage su un panno bianco. Tagliato il pezzo, ripiegò il panno bianco e lo rimise nelle enormi borse da sopralluogo che aveva ereditato da Luciano, nostro tecnico di sala anatomica. Alla fine scattammo delle fotografie di gruppo, il Porta tenacemente abbracciato dalla suora dalle mani piccole. Salutammo e uscimmo dal portone della chiesa con il «malloppo» (il prelievo e il cranio in prestito per 24 ore) per avviarci al parcheggio dell’auto. Sapevo già cosa stava per dire: «Ti rendi conto che qui dentro ho delle reliquie? Tengo in pugno mia madre…». Si stava riferendo ai minuscoli prelievi di osso e alla madre credente che probabilmente avrebbe fatto carte false per averne un po’. «… E i calchi che farò? Quelli valgono credo come reliquie secondarie… potrei fare un numero infinito di copie di reliquie di san Nazaro.» «Per non parlare della polverina d’osso che la sega ti ha lasciato nel telo: pensavi non l’avessi notato, eh?» «Sì, lo so, ma quella l’ho già promesso alla suora.» Ci avviammo in laboratorio dove consumammo qualche pizza e focaccia. Non aveva bisogno di me per fare il calco, ma non mi andava a genio di lasciarlo in istituto da solo tutta la notte per un lavoro che avremmo fatto insieme. Mi fermai anch’io e ne approfittai per studiare da vicino il cranio. «È strano ’sto cranio» mugugnai un po’ stanca. Dapprima avevamo commentato quanto poco definiti fossero i dettagli. Poi, osservandolo più da vicino, sotto una luce più forte, c’era sicuramente qualcosa che non andava. «Guarda, ha l’apertura nasale divisa da un setto di osso: pazzesco, ce l’ha messo di certo qualcuno.» Più guardavamo con attenzione e più ci rendevamo conto di trovarci di fronte a un cranio ritoccato. Era marrone perché ricoperto da una patina di ciò che Alfio avrebbe identificato come gesso molto sottile (contenente ogni tanto qualche setola di cotone). Anche le vertebre cervicali erano state ricoperte da una massa simile. Man mano che approfondivamo l’osservazione notavamo sempre più pezzi fuori luogo, ed era diventata quasi una gara a chi ne trovava di più. Anche i denti erano stati ricollocati negli alveoli sbagliati, alcuni soltanto storti, altri addirittura al contrario. Il cranio era con evidenza un collage di frammenti rimessi un po’ alla rinfusa in posti anatomici sbagliati da chi certamente non conosceva l’osteologia ma aveva soltanto un’idea sommaria dell’aspetto di un cranio. Frammenti di mascellare erano stati inseriti verticalmente nell’apertura nasale a mo’ di setto, che non esiste in natura. La parte più laterale dell’arcata zigomatica era stata posizionata nella porzione centrale del palato; il margine superiore dell’orbita era al posto delle ossa nasali, ma una cosa soprattutto balzava all’occhio. In corrispondenza degli zigomi c’era un osso che certamente aveva in parte la forma ovale dell’osso zigomatico, ma che non poteva esserlo poiché era spugnoso. Era una parte ossea delle dimensioni di una mandorla, che era stata tagliata a metà nel senso della lunghezza, esponendo l’interno dell’osso che ha quel classico aspetto bucherellato. «Dev’essere per forza il condilo occipitale…» dissi. Mi stavo riferendo a una di quelle due semilune di osso che abbracciano i lati del forame occipitale (il buco da cui esce il midollo spinale) e sulle quali si articola il primo osso del collo, l’atlante. «Hai ragione.» Il Porta girò il cranio per guardare la sua base e, appunto, lo stato dei condili. Se questo era sullo zigomo, cosa c’era al suo posto? Non c’era nulla, o meglio, si vedeva il corrispettivo spugnoso della porzione rimasta. Da ambedue le parti i condili non c’erano più, sostituiti da due semilune spugnose, lisce, con i margini netti. Chiaramente da queste parti era passato uno strumento tagliente che le aveva recise. Stavamo osservando un cranio fatto di tanti pezzi al posto
sbagliato… ma i pezzi erano tutti della stessa persona. Era come se il cranio fosse stato rotto in molti frammenti e qualcuno li avesse rimessi insieme come meglio aveva potuto senza seguire le naturali regole anatomiche. Don Tarcisio ci avrebbe spiegato poi che esistevano i fossores che, in epoca paleocristiana, nelle catacombe, si prendevano la briga di riassemblare i corpi deturpati. E così forse avevano fatto in questo caso. Ma perché tutto quello sconquasso? Perché era così frammentato? Il Porta iniziò ad agitarsi e a gesticolare, come spesso faceva, quando si raffigurava il modo in cui era avvenuto un trauma o un evento particolarmente truculento. «Immaginati uno che muore con la testa fracassata. Lo seppelliscono o lo mettono nelle catacombe come cadavere, con una testa rotta ma complessivamente integra. Una volta però che i tessuti molli si sono decomposti, i frammenti rotti del cranio rimangono sparsi. Ed ecco che si spiega perché qualcuno ha dovuto fare il collage.» Riflettemmo che per ridurre un cranio in quello stato è necessario vibrare colpi violenti con uno strumento pesante, come un’ascia. Il fendente di un’ascia avrebbe spiegato anche i tagli sui condili, alla base del cranio. «Qualcuno gli ha staccato la testa» dissi quasi senza pensarci. Alzai gli occhi con uno sguardo sicuramente inconsapevole. Il Porta mi stava guardando e sorrideva. Non avevo colto qualcosa… poi andò tutto in automatico nella mia mente. «Come hai detto che sarebbe morto san Nazaro?» «De-capi-ta-to» gli sentii scandire. Con questo pensiero fisso nella mente passammo la notte tra silicone, gesso e caffè. Mentre il Porta armeggiava tra poltiglie e polveri di vario genere, io svolsi una piccola ricerca su San Nazaro. Era vissuto nel primo secolo dopo Cristo. Cittadino romano e legionario, evangelizzò la Gallia e poi venne perseguitato, decapitato e sepolto in un campo fuori Milano. Nel quarto secolo, si racconta che Sant’Ambrogio avesse ritrovato il suo corpo, ancora intonso, con la testa staccata. Possibile che fosse proprio quella testa lì, ora, in laboratorio da noi, che vedevo ricoperta di uno strato biancastro di lattice? L’alba arrivò e il calco era finito, perfetto, anche se il Porta si malediceva sottovoce per qualche bolla rimasta. Restituimmo il cranio a don Tarcisio. L’idea di fare una replica del cranio non era garbata alle persone che frequentavano la parrocchia. Mi ricordo di essere stata fermata da un signore piuttosto corpulento che mi chiese cosa avrebbe implicato la ricostruzione facciale, insistendo su cosa ne sarebbe rimasto a noi e se era possibile farne delle copie – temendo, credo, il replicarsi e divulgarsi delle teste del santo. Gli garantii che nulla di tutto ciò sarebbe avvenuto. Inviammo subito il frammento di femore negli Stati Uniti per la datazione con il carbonio-14; tenemmo un altro piccolo frammento per stabilire l’età. Del resto non avevamo altro perché la sinfisi pubica probabilmente era passata nel mercato delle reliquie, i denti erano troppo rovinati… non rimaneva che affidarci all’osteone. Questi mattoni microscopici della struttura ossea ci aiutano tanto a determinare la specie da cui provengono, come nel caso del portaostie, quanto a capire l’età di una persona. Il tessuto osseo, si è già detto, è in continuo rimodellamento. Per questo, in qualunque momento della sua vita prelevassimo a una persona un pezzetto di osso e lo osservassimo al microscopio, troveremmo osteoni belli e rotondi, alcuni osteoni con pezzetti mancanti e altri addirittura dei quali rimane soltanto un crescente, uno spicchio; questi ultimi vengono chiamati frammenti. Più una persona è vecchia tanto maggiore è il numero di osteoni interi ma soprattutto di frammenti, a testimonianza di tutti quegli anni in più che l’osso ha passato a rimodellarsi. Preparai il vetrino e lo guardai con grande attenzione: non poteva trattarsi di un giovane, troppi frammenti. Calcolai il numero di osteoni interi per ogni campo e quello di frammenti: rispettivamente 32 e 70. Feci le apposite calibrazioni e inserii i dati nelle equazioni note ormai da decenni ottenendo un risultato di 58. Quindi, il nostro uomo, perché di uomo, avevamo già stabilito, si trattava, aveva tra i 50 e i 64 anni. Toccò poi allo Steffenini eseguire le sue numerose misurazioni craniche sul calco per stabilire
l’etnia. Ebbe un bel daffare per misurare soltanto quei pezzi che erano al posto giusto, escludendo quelli che non avevano un senso anatomico. Lo raggiunsi in laboratorio e gli chiesi: «Allora?». Poi mi sedetti comodamente sapendo che mi sarebbero toccati il prologo, il primo atto, forse il secondo, e un finale – tutti molto interessanti, documentati, affidabili e realistici, ma molto lunghi. Premette un dito sulla parte degli occhiali che poggiava sul naso per avvicinarli ancora di più ai bulbi oculari, tirò un bel respiro e, schiarendosi la voce, attaccò: «Dunque…». Per qualche secondo non lo ascoltai e pensavo a lui, a come nel corso dei suoi studi avesse approfondito una parte di antropologia classica, che parlava ancora di razze e di etnie. Per lui Frassetto e Facchini, i grandi padri dell’antropologia, non avevano segreti, con i loro minuziosi dettagli sulle forme umane più diverse, dagli ottentotti ai pigmei. Sapeva tutto sulle migrazioni storiche e soltanto lui era in grado di dire se un cranio fosse «paleosardo» o «dinarico», termini che per me sono sempre stati sfuggenti. Anche perché, per le popolazioni di oggi, a differenza di quelle antiche, è un tipo di terminologia che non avrebbe gran senso. Quando non risposi a una domanda che mi aveva fatto si fermò. «Mi stai ascoltando, vero?» «Sì, sì, stavo solo pensando a ciò che mi stavi dicendo.» Frase che tengo sempre pronta dal momento che ho la brutta abitudine di distrarmi, indirizzando la mente verso elucubrazioni che a volte sono innescate dall’incipit della frase del mio interlocutore. «Sì, va bene» acconsentì rivolgendomi un’occhiata ammonitrice da sopra gli occhiali – avendo perfettamente capito che stavo mentendo. Cambiai posizione sulla sedia e mi disposi ad ascoltarlo seriamente. Riversò su di me una marea di informazioni ma, in sostanza, quella principale indicava che la tipologia era mediterranea, soprattutto per gli indici riguardanti la larghezza e la lunghezza del cranio che erano i dati più affidabili. Dunque: uomo, mediterraneo, piuttosto anziano, con segni di decapitazione. San Nazaro era morto in età avanzata e veniva dal centro-sud. Ma la prova definitiva sarebbe stata la datazione e se, in base alla datazione, fosse risultato, per esempio, medievale ci sarebbe stata qualche difficoltà ad accettare, da un punto di vista squisitamente scientifico, che quello scheletro fosse di un uomo vissuto nel primo secolo dopo Cristo. Dopo circa tre settimane mi chiamò Nicola, non solo custode ma vero e proprio gestore del traffico di persone e materiali che entrano ed escono dall’Istituto. «Scinnimu?» Non perdeva occasione di farsi scappare qualche espressione calabrese. «È arrivata una lettera dall’America.» La recuperai. La busta recava il logo della Geochron Laboratories, il laboratorio americano che ci avrebbe rilasciato il verdetto. Lacerai con impazienza la busta, lì nell’atrio. Tra molte parole scritte, intervallate da simboli matematici, cercai ciò che mi interessava, la datazione in BP, che significa Before Period. Il periodo da cui partono questi esperti è in genere il 1950, quindi la datazione la esprimevano in anni prima del 1950 (BP), con un errore di più o meno 50 anni. La tabellina al fondo della relazione parlava chiaro: il secolo era quello giusto. Non riuscivo a crederci. Tutto quadrava. E anche se sapevo che non poteva esserci nessuna indagine in grado di darci certezze e che, se fosse stato un caso forense, questi dati, da soli, non mi avrebbero consentito di identificarlo, rimasi colpita. Quando comunicai i dati in nostro possesso a don Tarcisio, lui non fece una piega. Sorrise. Era contento, ma credo più del mio entusiasmo che di altro. Forse se lo aspettava, o forse, come aveva già detto, questa cosa non era così importante per chi ci credeva veramente. «Allora, ora gli manca solo la faccia.» «Ti rendi conto che adesso devo ricostruire il volto di un santo?» sussurrò il Porta. Forse se ne sentiva lusingato; infatti aveva l’espressione di quello che sta pensando “La cosa più importante però spetta a me…” e gongolava fingendo di essere preoccupato della responsabilità che gli era toccata. Durò poco. Commentai che avrebbe dovuto darsi un bel da fare per cercare i tratti originali in quel cranio scomposto. Ovviamente ci riuscì, in parte. D’altronde il cranio fino alle orbite e la mandibola erano intonse. Delle parti del massiccio facciale scelse come guide le arcate zigomatiche, ancora originali, la radice delle ossa nasali e il palato, ovviando agli zigomi,
sostituiti dai condili tagliati e ai margini del naso che potevano essere stati riprodotti malamente. Ne uscì un volto dai tratti irregolari e decisi, ma credibile, anche se il Porta ci tenne comunque a ribadire che il naso era molto azzardato e che avrebbe potuto essere più lungo o più corto: insomma gli mancavano gli elementi per dirlo. Guardavo quella testa, con un naso piuttosto pronunciato, un mento sfuggente e due occhi allungati. Ma, non so perché, non mi faceva più un effetto particolare. Tutta l’emozione si era scatenata quella notte, quando ci rendemmo conto dei segni della decapitazione: sentii per la prima volta che forse tenevo tra le mani la testa del martire; non so bene dire esattamente quale fosse la sensazione, non c’entrava il potenziale «peso» di duemila anni di storia cristiana, né la possibile suggestione di tipo spiritualistico del «santo». Era forse una combinazione di incredulità e tenerezza nel rendersi conto che diversi aspetti della religione che noi «realisti del mondo della scienza» etichettiamo con il marchio dello scetticismo sono in realtà molto più semplici e veri di quanto non possiamo immaginare. La Passio di sant’Evasio Qualche anno dopo fummo chiamati a svolgere analoghe indagini sul patrono di Casale Monferrato, sant’Evasio. Questa commissione mi arrivò indirettamente attraverso una telefonata di mia madre. Aveva incontrato all’Ospedale di Casale, mentre andava a trovare non ricordo più quale parente ammalato, don Claudio, un ex parroco di Pontestura, mio paese originario, che le aveva detto di volermi parlare di alcuni resti ossei di santi. Le dissi di dargli pure il mio numero di telefono e che gli avrei parlato volentieri. Questa volta ero incuriosita perché conoscevo la passione di don Claudio per le reliquie più strane, di cui vantava anche una vasta collezione. E poi era «di casa». Non ho mai avuto contatti con i parroci del paese, ma li ricordo tutti, quelli della mia infanzia, con affetto, non potendo fare a meno di considerarli brave persone, «cristiane», connotato che ho sempre pensato essere requisito necessario per essere religiosi. Se devo dire da quale parte della mia famiglia ho scelto di trarre qualche insegnamento «cristiano», già da bambina, avevo scelto quella di mia madre. Potrebbe suonare strano dal momento che la famiglia contadina di mio padre annoverava una discendenza democristiana con ben tre zii domenicani, ma in questo ramo il cristianesimo era lontano, mediato da rito e cultura, dalla forma, dalle parole complesse e da bianchi e silenziosi abiti talari. Sentivo più vicino lo spirito che pervadeva genitori e parenti di mia madre, prevalentemente operai comunisti e socialisti, il cui pensiero e il cui modo di agire, seppur in maniera un po’ contorta, associavo a un qualche cosa di simile al «voler bene cristiano»: il barba Tinin (lo zio Antonio), grande frequentatore di osterie e di «doppilitri» che aveva rinunciato alla tessera del partito comunista perché mia madre potesse emigrare in Canada; la nonna Teresa, madre di otto figli, da un lato vezzosa al punto da farsi rimpiazzare un dente sano con uno d’oro quando andava di moda, dall’altro così generosa da aggiungere un piatto caldo a tavola per chiunque passasse di lì o da regalare cuscini e coperte ai senza tetto in tempi di guerra, togliendole a se stessa e alle figlie; la granda Taviin (la bisnonna Ottavia), donna mite, il cui marito non brillò certo per fedeltà, che si emozionò sul letto di morte quando questi la baciò. Contribuirono poi a definire la mia idea sul clero, la chiesa, la religione e il cristianesimo i comportamenti di parroci, vescovi, perpetue, laici e «devoti» che ho conosciuto nel tempo, talvolta encomiabili, altre volte deplorevoli, altre ancora boccacceschi. Insomma, tra mangiapreti cristiani e preti meno cristiani crebbi con una considerazione molto realistica della differenza che esiste tra il senso religioso e la religione praticata, e che, come in tutte le cose, anche tra i «religiosi» c’è il buono e il cattivo. Don Claudio mi spiegò che bisognava studiare lo scheletro nell’urna del Duomo di Casale attribuito a sant’Evasio, un santo dalla storia un po’ confusa, ma che sarebbe vissuto nel terzoquarto secolo dopo Cristo, anch’esso morto martire sotto la spada dei romani. E così io e il Porta ci recammo un giorno di primavera nella parrocchia del bellissimo Duomo di
Casale. Avevamo portato con noi tutto il necessaire perché il vescovo era stato intransigente: non si porta via nulla; lavorate in parrocchia, vi mettiamo a disposizione degli spazi. Dopo aver parcheggiato vicino a piazza Castello, ci trascinammo lungo la via che porta al Duomo, carichi di borsine e borsette che contenevano calibri, metri, macchina fotografica, insieme ai quintali di plastilina e di gesso di cui aveva bisogno il Porta. Oltrepassammo il fianco del Duomo ed entrammo in parrocchia. Lì, oltre a una piccola folla di laici e non, c’erano il vescovo, alcuni studiosi della vita di sant’Evasio e ovviamente don Claudio. Salimmo al primo piano dove trovammo una bellissima teca contenente i resti. Tutti e due ci aspettavamo di vedere resti parziali, o perlomeno malconci, rattoppati, come ci era capitato con san Nazaro. Ma, aperta la teca, constatammo che conteneva ossa perfette, che non erano mai state laccate o trattate. Tirate fuori le ossa e stese in posizione anatomica, potemmo ammirare uno degli scheletri antichi più belli e meglio conservati tra tutti quelli che ci era capitato di studiare. «È stupendo» mi disse il Porta nel primo momento in cui riuscimmo ad appartarci da orecchie indiscrete. «Hai visto che cranio? È perfetto… assomiglia alla romana della Cattolica.» Ed ecco riaffiorare il personaggio preferito del Porta, di tutta la sua carriera di ricostruzioni facciali: la romana trovata in un lussuoso sarcofago proveniente dalla necropoli dietro la Cattolica di Milano, alla quale aveva dato un volto. Un commento squisitamente estetico, e aveva ragione. Lo scheletro era con sicurezza quello di un maschio: il bacino ne dava conferma con il suo strettissimo arco sottopubico. Inoltre, per stabilire l’età, non ci sarebbe stato bisogno di analizzare gli osteoni. La sinfisi pubica era lì, bella da vedere: usurata, addirittura con piccole depressioni e inizi di artrosi; una sinfisi che aveva supportato tutto il peso e i movimenti di un corpo per lungo tempo, almeno 50 anni. Ma il cranio era davvero uno spettacolo, maschile nei dettagli, ma proporzionato, perfetto. Fatta una prima spunta delle ossa presenti, pianificammo la giornata. Ci sarebbe servito tutto il pomeriggio e forse una parte della serata. Ma, per l’espletamento di tutte le formalità, si era già fatto mezzogiorno e bisognava andare a pranzo. «Io aspetto qua» mugugnò ovviamente il grillo parlante. «Non ci pensare neanche.» Doveva essere così secco e disperato il tono della mia voce che mi seguì e mangiammo in sacrestia. Ci aspettava una tavola imbandita con una tovaglia e tovaglioli bianchi, piatti di porcellana, calici, bottiglie di vino locale dall’aspetto e dall’etichetta elegante e un risotto agli asparagi che il Porta ingurgitò fino all’ultimo chicco. Si parlò poco, con toni pacati. A pranzo finito, salimmo nella stanza della parrocchia dal soffitto affrescato certamente da qualche pittore monferrino del ’700 che sarebbe stata il nostro laboratorio. Aprimmo le persiane che chiudevano le ampie finestre attraverso le quali giungeva il chiacchiericcio in dialetto casalese di due anziane che si lamentavano dell’odore di orina di gatto che ammorbava il vicolo. Coprimmo il pavimento con un enorme telo di plastica trasparente. Io mi misi a studiare, misurare e fotografare meticolosamente e in silenzio lo scheletro, mentre il Porta si cimentava, seduto per terra a gambe aperte, a fare il calco del cranio. A parte la datazione (sempre delegata agli americani) e qualche dato risultante dalle lastre che avrebbero fatto la settimana successiva all’Ospedale Santo Spirito di Casale, tutto ciò che dovevamo studiare e che ci avrebbe consentito di emettere il nostro verdetto era lì, in bella mostra. Uomo anziano, alto circa 1,70 metri, anche lui dai tratti mediterranei, con uno scheletro gracile ma che aveva dovuto sopportare parecchie fatiche fisiche, come indicavano chiaramente le lesioni che si notavano nel punto di inserimento in vita dei legamenti sulle ossa di braccia, scapole e clavicole e in particolare dei piedi. Nessuna indicazione di malattie infettive, né di deficit nutrizionali. Se li aveva sperimentati, non avevano lasciato segni sulle ossa. Purtroppo le vertebre cervicali erano tra le poche mancanti, e pertanto non eravamo in grado di dire se fosse stato decapitato. Sullo scheletro di san Nazaro si vedevano i segni della decapitazione sul cranio, perché la sua esecuzione era stata «alta». I paleopatologi inglesi ci insegnano che esistono due modi più comuni di decapitare la gente, che lasciano segni diversi. Il primo è quello classico con la testa
sul ceppo e taglio sul collo dove restano segni sulle vertebre cervicali. Il secondo modo è quello detto «alla Anna Bolena», in cui il condannato sta in ginocchio ma in posizione eretta e l’ascia del boia passa trasversalmente da un lato all’altro del collo. In questo caso la lesione è molto più alta e spesso coinvolge anche la base del cranio. Per quel che riguarda lo scheletro di sant’Evasio, l’assenza di segni sul cranio non contrastava con l’ipotesi di decapitazione, ma la mancanza delle vertebre cervicali non ci permetteva di confermarla. Convinta di aver racimolato tutte le informazioni possibili, passai in rassegna le ossa che ritenevo meno interessanti: le coste. Ma mi sbagliavo. Le classificai abbastanza svogliatamente, destre, sinistre, alte e basse: molte erano frammentate e quindi non potevo seriarle esattamente. Le misi in modo approssimativo dove pensavo si adattassero meglio da un punto di vista anatomico, in base al loro spessore. Quando le guardai più da vicino alla ricerca dei segni delle malattie che più frequentemente si vedono sulle coste quali la tubercolosi o le metastasi di qualche tumore, la mia attenzione fu attratta da una deformazione strana, che si ripeteva in forma più lieve su una costa più bassa, sempre a sinistra. C’era come uno scalino tra la parte più posteriore e quella più anteriore, un dislivello, ma non era fratturata. O non lo era più. Il dislivello, per circa un centimetro da una parte e dall’altra, era ricoperto da una crosta ossea fatta di un osso nuovo, più sottile, quasi simile a un pizzo. Era periostite, il segno dell’infiammazione e della prima reazione ossea che si vede quando si è verificata una frattura. Di fronte a me troneggiavano due calli ossei nella loro forma precoce, quando appena si iniziano a vedere. «C’è periostite qui» dissi. La mia voce rimbombò in quella stanza enorme in cui nessuno aveva detto nulla per almeno un’ora. «Le tue solite fisime: per te tutto è periostite» mi rispose il Porta. «Questa volta c’è davvero, è un callo osseo, vieni a vedere.» Si alzò e guardò da lontano, solo per darmi soddisfazione, con l’intenzione di tornare subito a sedersi sul pavimento. Ma dovette avvicinarsi. «Hai trovato la frattura, contenta?» Rideva. Avevo quindi conferma dal più scettico. E sapevo anche che quelle due fratture erano recentissime. Quando un osso si rompe, e la persona sopravvive all’evento, inizia a formarsi subito il callo molle, che, però, non avendo nulla di minerale, una volta che si scheletrizzano i resti, non si vede più. La parte mineralizzata inizia a vedersi soltanto dopo i primi 7-10 giorni, in questa precisa forma. Tutto ciò significava che quest’uomo una decina di giorni prima di morire aveva subito due fratture costali. Queste potevano essere la conseguenza di un colpo, di calci, di pugni, di una caduta. Non avendo la sfera di cristallo non avrei saputo essere più precisa, ma c’era stato un trauma, e di una certa entità. Archiviai il dato nella mia mente (e su foto), attribuendolo a un’infausta coincidenza – la settimana prima di morire aveva avuto la sfortuna di cadere o di avere qualche incidente. Finimmo verso le 6 del pomeriggio. Il Porta ora aveva la sua conchiglia di gesso da portare in laboratorio per fare il calco e io avevo fatto tutti i prelievi. Don Claudio ci venne a salutare, dicendo che non avremmo potuto andar via senza prima aver visitato la lipsoteca. Prevenendo la domanda da ignoranti o forse leggendo sul nostro volto l’imbarazzo di chi non sa, proseguì spiegando: «La raccolta di reliquie». Ci fece da guida attraverso quattro o cinque stanze i cui muri erano tappezzati di ogni possibile parte anatomica messa sotto vetro dopo essere stata inclusa in frammenti di stoffa rossa e dorata ricamata da suore devote: pezzi di cranio, di femore, di denti, falangi. E poi c’erano persino dei tessuti molli – frammenti di cuore e di muscolo – che ricordavano i nostri pezzi anatomici fissati in formalina. «Cosa usa per conservarli?» chiese il Porta. «Spesso vengono messi nel vinavil, e li teniamo così, anche se a volte un po’ di odore lo lasciano.» Il risotto agli asparagi fece in piccolo sussulto nel mio stomaco all’idea di questa carne marcia che era stata inglobata in un quadretto con tanti bei fiorellini d’argento. Sulla via del ritorno a Milano commentammo a lungo gli aspetti di questo mondo religioso che mantiene abitudini e rituali che conservano un che di pagano per il loro attaccamento alla «carne».
Fu soltanto qualche settimana dopo, quando il Porta aveva quasi ricostruito il volto e io ricevuto i risultati degli americani che dichiaravano un’epoca di morte del III secolo d.C. (risultato gradito ai committenti) che andai a una riunione di storici a Casale, per discutere dei risultati. Mi trovai a parlare soprattutto con un giovane ricercatore universitario, studioso di sant’Evasio, che mi raccontò la diatriba storica che circondava questo santo. «Alcuni lo collocano in epoca romana, altri molto più tardi.» La datazione si accordava meglio con la prima ipotesi. Anche l’età quadrava. «Avete trovato i segni della decapitazione?» «No, non ci sono più le cervicali, quindi non si può più dire niente» risposi, pensando a una lipsoteca simile a quella di don Claudio, da qualche altra parte del mondo, con dentro una vertebra cervicale sezionata di sant’Evasio. Feci un elenco un po’ freddo e accademico di cosa avevo trovato sullo scheletro: sesso, età, segni di usura. «… e poi c’erano due fratture costali sofferte qualche giorno prima della morte. Curioso, no?» E finii il mio discorsetto tirando un lungo sospiro e osservando i miei appunti. Alzai gli occhi e fui congelata dal silenzio. Mi stavano fissando tutti, e il giovane studioso di sant’Evasio era quasi a bocca aperta. «Ma è la Passio» disse in uno stato quasi di estasi. «Che Passio?» mi sentii subito di essere ignorante in una cosa fondamentale che tutti sapevano tranne io. «Che Passio?» ripetei. E mi spiegarono. Sant’Evasio era stato, prima della decapitazione, preso prigioniero, martoriato, torturato e poi gettato in un pozzo profondo e lasciato lì per qualche giorno. Beh, in effetti, questo era un quadro sovrapponibile con i calli ossei che avevo trovato. Avremmo poi commentato, qualche anno dopo, che questi primi due casi di reliquie erano quelli che avevano dato i migliori risultati, per quel che riguardava la coerenza tra i dati ante mortem del santo e quelli post mortem dello scheletro. In seguito ci saremmo imbattuti in storie di santi un po’ più complesse, con qualche difficoltà, ma sempre interessanti, coinvolgenti. A chi attribuire questi scheletri realmente non è compito nostro, soprattutto per quel che riguarda l’aspetto religioso. E mi piace pensare che l’aspetto più «cristiano», ovvero umano, di tutta questa storia sia rappresentato dalla loro sistemazione in laboratorio. Le teste ricostruite di san Nazaro e di sant’Evasio troneggiano in una stanza del Labanof, insieme a tante altre, tra cui quelle di nobili signori romani, vecchietti scomparsi e deceduti lontano da casa, escursioniste disperse durante una scalata, barboni morti per il freddo e prostitute barbaramente ammazzate – senza distinzione di sorta. E il chiacchiericcio che non ci è permesso di ascoltare di tutte queste persone, antiche e recenti, racconta di cose che la scienza non potrà mai svelarci, o potrà rivelare solo in parte. Ma se il mistero e il limite risultano ingombranti nelle scienze forensi, non lo sono per niente nella vita, quella vera – anzi sono l’impulso che dà la spinta a studiare, conoscere e, perché no, anche vivere.