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HÅKAN NESSER CARAMBOLE (Carambole, 1999) «In the natural order of things, fathers do not bury their sons.» PAUL AUSTER, The Red Notebook PRIMA PARTE 1 Il ragazzo che presto sarebbe morto rise e si liberò. Spazzolò via dalla camicia le briciole delle patatine e si alzò in piedi. «Devo andare, adesso» disse. «Devo proprio. L'ultimo autobus passa fra cinque minuti.» «Sì» disse la ragazza, «hai ragione. Non è il caso che tu rimanga a dormire da me. Non so cosa direbbe la mamma, fra un paio d'ore sarà qui. Stasera lavora fino a tardi.» «Peccato» commentò il ragazzo e si infilò il maglione dalla testa. «Sarebbe bello se potessi fermarmi da te. Non potremmo...» Esitava ad andare avanti. Lei sorrise e gli prese la mano, trattenendolo. Sapeva che lui non intendeva davvero quello che stava dicendo. Sapeva che stava solo fingendo. Non ne avrebbe mai il coraggio, pensò. Non ce la farebbe a gestire una situazione del genere... e per un attimo fu tentata di dire di sì. Di lasciarlo rimanere. Solo per vedere la sua reazione. Per vedere se se la sarebbe cavata oppure se avrebbe lasciato cadere la maschera. Fargli credere solo per un attimo che era disposta a sdraiarsi nuda con lui in un letto. Sarebbe stato divertente, senza dubbio. Quella situazione avrebbe potuto rivelarle un bel po' di cose su di lui, ma lasciò perdere. Scacciò il pensiero; non sarebbe stato molto onesto e lui le piaceva troppo per comportarsi in modo così egoista e calcolatore nei suoi confronti. A ben pensarci, lui le piaceva davvero moltissimo, perciò prima o poi ci sarebbero arrivati. A infilarsi nudi sotto le stesse coperte... sì, era stata quella la sua sensazione nelle ultime settimane, non c'era motivo di negare la verità.
Il primo. Lui sarebbe stato il primo. Ma non quella sera. «Sarà per un'altra volta» disse, lasciandolo andare. Si passò le dita fra i capelli per scaricare l'elettricità statica trasmessa dal liscio tessuto del divano. «Voi marpioni pensate a una cosa sola!» «Ah» fece lui e abbozzò un'espressione delusa piuttosto credibile. Si spostò nell'ingresso. Lei si sistemò meglio la felpa e lo seguì. «Potremmo starcene zitti zitti e far finta che stai dormendo, poi io potrei andar via senza farmi vedere domani mattina presto prima che lei si svegli...» insistette lui per non alzare troppo presto bandiera bianca. «Sarà per un'altra volta» ripeté lei. «Mamma fa il turno di notte il mese prossimo, e allora...» Lui assentì. Si infilò gli stivali e si mise a cercare sciarpa e guanti. «Porca miseria, ho dimenticato il libro di francese di là. Me lo vai a prendere, per favore?» Lei ci andò. Quando si fu abbottonato il montgomery, si abbracciarono di nuovo. Attraverso tutti gli strati dei vestiti lei sentiva la sua erezione; lui le si premette contro e un senso di turbinosa vertigine le attraversò per un attimo la mente. Era una bella sensazione; come cadere senza preoccuparsi dell'atterraggio, e lei capì che quei famosi legami fra ragione e sentimento, fra cervello e cuore erano proprio deboli come aveva sottolineato sua madre quando ne avevano parlato di recente, sedute al tavolo della cucina. Niente su cui fare affidamento. Il buonsenso è solo un fazzoletto con cui asciugarsi le lacrime dopo, aveva detto sua madre, con l'aria di una che sa di cosa sta parlando. Il che purtroppo era vero. Aveva avuto tre uomini, e nessuno che fosse valsa la pena di tenersi, se aveva capito bene. Men che meno suo padre. Si morse il labbro e allontanò il ragazzo. Lui rise un po' imbarazzato. «Tu mi piaci, Wim» gli disse. «Davvero. Ma adesso devi andare, altrimenti perdi l'autobus.» «Anche tu mi piaci» disse lui. «I tuoi capelli...» «I miei capelli?» «I tuoi capelli sono splendidi. Se fossi un animaletto piccolo piccolo vorrei abitarci in mezzo.» «Ma dai...» disse lei e sorrise. «Stai dicendo che ho i pidocchi?» «Ma ti sembra!» Lui sghignazzò. «Dico soltanto che se dovessi morire prima di te, mi piacerebbe rinascere sotto forma di animaletto e venire a stare fra i tuoi capelli. Così saremmo insieme comunque.» Lei si fece seria. «Non bisogna parlare della morte in questo modo» dis-
se. «Tu mi piaci proprio tanto, però non parlare della morte così alla leggera, per favore.» «Scusami» disse lui. «L'ho fatto senza pensarci...» Lei alzò le spalle. Suo nonno era morto un mese prima, e ne avevano anche parlato un po'. «Non fa niente. Mi piaci lo stesso. Ci vediamo domani a scuola.» «Certo. Però adesso devo proprio scappare.» «Non vuoi che ti accompagni alla fermata?» Lui scosse la testa. Aprì la porta che dava sulle scale. «Non essere ridicola. Sono solo venti metri da qui.» «Ti voglio bene» disse la ragazza. «Ti voglio bene anch'io» disse il ragazzo che presto sarebbe morto. «Tanto tanto.» Lei gli diede un ultimo abbraccio e lui corse giù per le scale. L'uomo che presto avrebbe ucciso aveva voglia di tornare a casa. E di infilarsi nel letto o nella vasca da bagno, non sapeva quale dei due. Entrambi probabilmente, realizzò mentre dava un'occhiata furtiva all'orologio. Prima un bel bagno bollente, poi il letto. Perché scegliere l'uno o l'altro quando si possono avere tutti e due? Santo cielo, ormai aveva già passato più di quattro ore con quei babbei... quattro ore! Fece scorrere lo sguardo intorno al tavolo e si chiese se qualcun altro provasse la stessa sensazione. Se qualcun altro fosse annoiato quanto lui. Non sembrava. Tutte facce allegre e animate; un po' per via dell'alcol, era chiaro, ma si vedeva che godevano anche della situazione e della reciproca compagnia. Sei uomini nel fiore degli anni, pensò. Uomini di successo e ragionevolmente benestanti... Forse Greubner sembrava un tantino stanco e stressato, ma era senz'altro il matrimonio che scricchiolava di nuovo... quello, o la ditta. Oppure perché non entrambi? No, adesso basta davvero, decise, e bevve l'ultimo goccio di cognac. Si asciugò gli angoli della bocca con il tovagliolo e fece per alzarsi da tavola. «Credo di dover proprio...» cominciò. «Di già?» fece Smaage. «Sì. Domani è un altro giorno. Non mi pare che avessimo nient'altro in agenda, vero?» «Eh, eh» sogghignò Smaage. «In questo caso sarebbe un altro cognacchino. Eh, eh.» L'uomo che presto avrebbe ucciso si alzò. «A ogni modo, credo di dover
proprio...» ripeté, lasciando intenzionalmente la frase in sospeso. «Auguro a tutti la buona notte e, mi raccomando, non tirate troppo tardi.» «Alla tua salute» disse Kuijsmaa. «Pace, fratello» disse Lippmann. Quando fu nell'ingresso si rese conto tutto a un tratto che era proprio vero, aveva bevuto fino al limite. Ebbe palesi difficoltà a infilarsi il cappotto, abbastanza, in ogni caso, da indurre l'atletico ragazzo tatuato del guardaroba a prendersi il disturbo di girare intorno al bancone e di dargli una mano. Fu un po' imbarazzante, senza dubbio, e lui si affrettò a scendere i pochi gradini e a uscire nella rinfrescante aria notturna. C'era un sentore di pioggia nell'aria e il luccichio scuro della pavimentazione di pietra della piazza testimoniava il recente passaggio di un acquazzone. Il cielo era cupo, perciò ne sarebbero seguiti quasi certamente degli altri. L'uomo si annodò la sciarpa, cacciò le mani in tasca e scese lungo la Zwille in direzione di Grote Torg, dove aveva parcheggiato. Una passeggiatina è proprio quello che ci vuole, pensò. Bastano poche centinaia di metri per rinfrescarsi un po' le idee. Il che non guasta. L'orologio sulla facciata dei grandi magazzini Boodwick segnava le undici e venti quando passò davanti all'ingresso illuminato, ma Ruyders Plejn si apriva buia e deserta come un cimitero abbandonato. Sopra Langgraacht stava cominciando a calare la nebbia; sul ponte Eleonora inciampò un paio di volte; con ogni probabilità la temperatura era vicina allo zero. Si disse che doveva guidare con prudenza, una volta in macchina; fondo stradale gelato e alcol nel sangue non erano una buona combinazione. Per un attimo valutò la possibilità di fermare un taxi, ma non se ne vedeva in giro neanche uno e scartò l'idea. E poi il mattino dopo aveva assolutamente bisogno dell'auto, e lasciarla posteggiata in Grote Torg tutta la notte non era un pensiero allettante. Anche se aveva appena fatto installare un sistema d'allarme costoso, sapeva bene come andavano le cose. Per un paio di ladri abbastanza abili non sarebbe stato per niente difficile entrare in macchina, sfilare l'impianto stereo e mettersi al sicuro prima che qualcuno potesse intervenire. Questa era la realtà, constatò con serena rassegnazione, e svoltò in Kellnerstraat. Del resto, valeva la pena di sottolineare, aveva già guidato in precedenza con un po' di alcol in corpo. Anche più di una volta, e la cosa non gli aveva mai causato problemi. Mentre tagliava diagonalmente la piazza diretto verso la sua Audi rossa, cercò di calcolare quanto avesse bevuto nel corso della serata, ma c'erano parecchi punti interrogativi e non riuscì a ottenere
nessun risultato certo. Aprì la macchina con il telecomando e si sedette al volante. Si infilò in bocca quattro mentine, avviò il motore e cominciò a pensare al famoso bagnoschiuma. Eucalipto, decise. Guardò l'ora. Erano le undici e trentadue. L'autobus passò nello stesso istante in cui lui usciva sul marciapiede. Di riflesso alzò la mano per cercare di fermarlo. Poi lanciò un'imprecazione e rimase a guardare le luci posteriori che scomparivano su per la lieve salita che portava all'università. Merda! pensò. Perché deve seguire la tabella di marcia spaccando il secondo proprio stasera? Tipico. Dannatamente tipico. Anche se, quando controllò l'ora, si accorse che era in ritardo di quasi cinque minuti, perciò era evidente che doveva rimproverare solo se stesso. Se stesso e Katrina. Non bisognava dimenticarlo. Il pensiero di lei lo mise un po' più di buonumore. Si aggiustò risolutamente lo zaino, alzò il cappuccio e si incamminò. Avrebbe impiegato quarantacinque, cinquanta minuti, e sarebbe stato a casa poco dopo mezzanotte. Non era poi così terribile. Sua madre l'avrebbe aspettato seduta al tavolo di cucina, questo naturalmente poteva darlo per scontato. Avrebbe avuto quell'aria di rassegnato rimprovero che nel corso degli anni aveva elevato a grande e muta tragedia, ma non era poi la fine del mondo. Chiunque poteva perdere l'ultimo autobus, succedeva anche nelle migliori famiglie. All'altezza del cimitero di Keymer rimase un attimo in dubbio se attraversarlo oppure no. Poi decise di passare da fuori; non sembrava molto invitante là dentro, con tutte quelle tombe e cappelle, specialmente in quel buio freddo attraversato da veli di nebbia gelati, che salivano da neri canali insinuandosi nelle strade e nei vicoli. Come per avvolgere la città nel suo ultimo sudario notturno. Per sempre. Rabbrividì e affrettò il passo. Avrei potuto fermarmi, pensò tutto a un tratto. Telefonare alla mamma e fermarmi da Katrina. Lei avrebbe brontolato un po', si capisce, ma che alternative aveva lui? L'ultimo autobus ormai l'aveva perso. Il taxi era troppo caro, e non erano né l'ora né il periodo giusti perché un ragazzino se ne andasse in giro da solo. O perché una madre lo esortasse a farlo. Ma questi erano solo pensieri. Proseguì con ostinazione. Attraversò il parco pubblico - lungo il percorso pedonale e ciclabile scarsamente illuminato - quasi di corsa e sbucò sulla strada principale prima di quanto si a-
spettasse. Fece un respiro profondo e procedette a un ritmo meno sostenuto. Manca solo l'ultimo pezzo, pensava. La lunga, noiosa camminata ai bordi della grande arteria; neppure questo era un tratto particolarmente piacevole, a voler essere pignoli. Per ciclisti e pedoni c'era ben poco spazio. Soltanto una striscia stretta fra il ciglio del fosso e la carreggiata su cui bilanciarsi, mentre le macchine ti sfrecciavano accanto. Non c'erano limiti di velocità, né un'illuminazione degna di questo nome. Venti minuti di cammino lungo una strada buia in novembre. Non aveva percorso neanche cento metri che si alzò un vento freddo a spazzare via la nebbia; e poi cominciò a piovere. Cazzo, pensò. Avrei potuto essere a letto con Katrina adesso. Nudo e stretto a lei, lei con il suo corpo caldo e le mani delicate, le gambe e i seni che aveva quasi toccato... la pioggia doveva essere un segno. Tuttavia continuò a camminare senza indugio. Continuò a camminare nella pioggia, nel vento e nel buio, pensando a lei che sarebbe stata la prima. Sarebbe potuta essere. Aveva parcheggiato un po' di sbieco e fu costretto a uscire in retromarcia: proprio quando era convinto di avercela fatta, urtò una Opel scura con la parte posteriore destra. Merda, pensò. Perché non ho preso un taxi? Aprì la portiera con circospezione e guardò indietro strizzando gli occhi. Constatò che si era trattato solo di una lievissima collisione e che non era nulla di preoccupante. Una sciocchezza. Richiuse la portiera. Era anche colpa, ragionò, era anche colpa del fatto che i vetri erano appannati e la visuale era ridotta al minimo. Non si curò di approfondire di che cosa fosse esattamente colpa. Si allontanò rapido dalla piazza e uscì sulla Zwille senza problemi. Il traffico era scarso, calcolò che sarebbe arrivato a casa in un quarto d'ora, massimo venti minuti, e mentre aspettava che il semaforo diventasse verde in Alexanderlaan, si domandò se veramente ce ne fosse ancora, di quel famoso bagnoschiuma all'eucalipto. Quando il semaforo cambiò colore, non fu molto pronto e gli si spense il motore. Lo riaccese in fretta e lo mandò su di giri... Tutta colpa di quella stramaledetta umidità. Poi all'incrocio fece una svolta un po' troppo stretta e urtò contro il salvagente. Ma solo con la ruota anteriore. Non un gran danno... proprio nessun danno, in effetti. Cercò di convincersi che poteva solo fare buon viso a cattivo gioco e proseguire, ma si rese conto di essere molto più ubriaco di
quanto avesse creduto. Cazzo, pensò. Devo stare attento a rimanere in carreggiata. Non sarebbe granché piacevole se... Abbassò il finestrino di qualche centimetro e accese la ventola al massimo per far sparire almeno la condensa. Poi guidò a velocità da manuale per un bel po', mentre si districava tra Bossingen e Deijkstraa, dove non si vedeva un agente della stradale da almeno trentacinque anni, e quando sbucò sulla strada principale realizzò che i suoi timori per il fondo ghiacciato erano infondati. Invece stava cadendo una pioggia battente; azionò i tergicristalli e si maledisse per l'ennesima volta in quell'autunno per essersi dimenticato di far sostituire le spazzole. Domani, pensò. Domani come prima cosa mi fermo alla stazione di servizio. È pura follia guidare senza vederci come si deve... In seguito non riuscì mai a capire se fosse venuta prima l'impressione visiva oppure quella uditiva. Il morbido tonfo e la scossa leggera nel volante furono ciò che gli rimase più impresso nella memoria. E nei sogni. Non capì subito che quella cosa che per una frazione di secondo era passata di sfuggita al margine destro del suo campo visivo era collegata con l'urto e con la leggera vibrazione avvertita nelle mani. Non consciamente, in ogni caso. E solo dopo che ebbe cominciato a frenare. E dopo quei cinque o sei secondi che erano passati prima che fosse riuscito a fermare la macchina e avesse cominciato a correre indietro lungo la carreggiata bagnata per la pioggia. Mentre formulava questo pensiero gli venne in mente sua madre. Gli venne in mente come una volta, quando lui stava male - doveva essere successo durante uno dei primissimi anni di scuola -, gli avesse tenuto la mano fresca sulla fronte mentre lui non la smetteva più di vomitare: bile giallo verdastra dentro una catinella di plastica rossa. Faceva un male d'inferno e quella mano era così fresca e piacevole; si domandò perché gli fosse venuto in mente proprio in quel momento. Quel ricordo risaliva a più di trent'anni prima, e non riusciva a rammentare di averci mai pensato in precedenza. Sua madre era morta da oltre un decennio, perciò era proprio un mistero come fosse ritornato a galla proprio ora, e chissà perché... Lo vide quando l'aveva già quasi superato, e seppe che era morto ancora prima di essersi fermato. Un ragazzo in montgomery scuro. Giaceva in fondo al fosso, bizzarra-
mente contorto, con la schiena contro un condotto cilindrico di cemento e la faccia girata verso di lui. Come se lo stesse fissando e cercasse di stabilire un contatto. Come se volesse dirgli qualcosa. I lineamenti erano in parte nascosti dal cappuccio, la metà destra del viso - quella che a quanto sembrava era finita proprio contro il cemento - era scoperta come... come un'oscenità anatomica. Rimase immobile a lottare contro i conati di vomito. Lo stesso tipo di reazione che aveva avuto trent'anni prima, senza dubbio. Due macchine passarono sfrecciando, in entrambi i sensi di marcia, ma nessuno sembrò fare caso a lui. Si accorse che stava tremando, fece due respiri profondi e scese nel fosso. Chiuse gli occhi e li riaprì dopo qualche secondo. Si chinò e tastò con cautela il ragazzo alla ricerca del battito, sia sul polso che sul collo insanguinato. Niente. Cazzo, pensò, e sentì montare il panico. Cazzo, cazzo, devo... devo... devo... Non riuscì a farsi venire in mente niente. Facendo attenzione gli infilò le braccia sotto il corpo, piegò le ginocchia e lo sollevò. Avvertì una fitta nella zona delle vertebre lombari; il ragazzo era più pesante di quanto si aspettasse, forse anche per via degli abiti zuppi. Se mai si fosse aspettato qualcosa. Perché avrebbe dovuto? Lo zaino gli causò qualche problema. Lo zaino e la testa, tutt'e due si ostinavano a voler cadere all'indietro in maniera assurda. Notò che il sangue che gli usciva dall'angolo della bocca colava dritto nel cappuccio; non poteva avere più di quindici o sedici anni. Un ragazzo di quindici o sedici anni... come il figlio di Greubner, grossomodo. Lo si capiva dai lineamenti in qualche modo acerbi, nonostante le ferite... un ragazzo piuttosto carino, che sarebbe diventato senza dubbio un uomo attraente. Sarebbe potuto diventare. Rimase in piedi a lungo nel fosso tenendo in braccio il corpo, mentre i pensieri gli turbinavano in testa. La salita che portava sulla carreggiata era lunga non più di un metro, ma era piuttosto ripida e la pioggia l'aveva resa scivolosa e infida; dubitava di riuscire a trovare un punto d'appoggio adeguato. Nessuna macchina passò mentre era lì, ma in lontananza si sentiva una moto che si stava avvicinando. O forse era un motorino, pensò. Quando passò, vide che si trattava di uno scooter e per un attimo fu accecato dal faro. Probabilmente - o almeno così si convinse quando ci ripensò più tardi - fu proprio quel secondo di accecante chiarore che fece funzionare di nuovo il suo cervello.
Funzionare e pensare in termini razionali. Cautamente appoggiò di nuovo il corpo contro il condotto di cemento. Valutò se pulirsi le mani dal sangue nell'erba bagnata, ma lasciò perdere. Si arrampicò fin sulla carreggiata e si affrettò a tornare alla macchina. Notò che per puro riflesso aveva spento il motore, mentre la luce dei fari era ancora accesa. Notò che la pioggia stava scrosciando, una furibonda forza della natura. Notò che stava gelando. Si sedette al volante e chiuse la portiera. Allacciò la cintura di sicurezza e ripartì. La visuale era un po' migliorata adesso, come se la pioggia avesse pulito i vetri anche all'interno. Non è successo niente, pensò. Proprio niente. Avvertì i sintomi di un incipiente mal di testa, ma poi il ricordo delle mani fresche di sua madre ritornò a galla e d'improvviso fu assolutamente sicuro che nel flacone doveva esserci ancora un goccio di quel famoso bagnoschiuma all'eucalipto. 2 Si svegliò e inizialmente provò un sollievo indescrivibile. Durò tre secondi, poi capì che non era stato soltanto un brutto sogno. Era realtà. La pioggia scrosciante, l'improvviso, lieve sobbalzo del volante, il fosso scivoloso; tutto vero. Il peso del ragazzo tra le sue braccia e il sangue che gocciolava nel cappuccio. Per venti minuti rimase a letto come paralizzato. L'unico suo movimento erano i brividi che lo attraversavano ogni tanto. Cominciavano sotto l'arcata plantare, si propagavano risalendo per tutto il corpo e alla fine gli esplodevano in testa come brucianti lampi bianchi; ogni volta era come se una parte vitale del suo cervello e della sua coscienza venisse fatta a pezzi. Come se si ghiacciasse per poi frantumarsi oppure fosse incenerita in modo da non poter più risorgere e riprendere a funzionare. Lobotomia, pensò. Sto per essere lobotomizzato. Quando le cifre rosse e ostinate sulla radiosveglia ebbero formato le 07.45, sollevò la cornetta del telefono e chiamò sul posto di lavoro. Con una voce solida quanto il ghiaccio che, nonostante si sia formato in una notte, si dimostra resistente, spiegò che si era preso l'influenza e che era costretto a rimanere a casa qualche giorno. Influenza, sì.
Sì, proprio non ci voleva, ma era così. Sì, certamente gli potevano telefonare se c'era qualcosa. No, sarebbe rimasto a letto. Avrebbe preso una bustina di qualcosa e avrebbe cercato di bere molto. Sì. Certo. No. Una mezz'ora dopo si alzò. Si mise alla finestra della cucina e lasciò correre lo sguardo sulla squallida strada di periferia, dove la pioggia si era momentaneamente fermata per cedere il posto a una foschia grigia e pesante. Mentre stava lì, gli tornò a galla a poco a poco un pensiero, che ricordava di aver formulato la sera precedente, e anche in seguito; nelle ore di veglia inquieta prima di riuscire finalmente a cedere al sonno. Non è successo niente. Proprio niente. Cercò in cucina. Nella dispensa c'era una bottiglia di whisky ancora piena. Glenalmond, comprato durante un viaggio dell'estate precedente. Svitò il tappo e bevve due lunghe sorsate. Non ricordava di aver mai fatto una cosa del genere in vita sua. Bere whisky direttamente dalla bottiglia; no, proprio mai. Si sedette al tavolo di cucina e aspettò con la testa fra le mani che l'alcol si diffondesse in tutto il corpo. Non è successo niente, pensò. Poi preparò il caffè e cominciò ad analizzare la situazione. Sui giornali del mattino non c'era neanche una riga. Né sul «Telegraaf», cui era abbonato, né sul «Neuwe Blatt», che era uscito a comprare all'edicola. Per qualche secondo riuscì quasi a convincersi che si era trattato di un sogno, ma non appena gli tornarono in mente la pioggia e il fosso e il sangue, capì che era inutile. Era vero. Vero come la bottiglia di whisky sul tavolo. Come le briciole intorno al tostapane. Come le sue mani, che con un gesto impotente e meccanico sfogliavano i giornali, li lasciavano cadere sul pavimento e ritornavano alla bottiglia. Aveva ucciso un ragazzo. Aveva guidato mentre era ubriaco e aveva ucciso un ragazzo di quindici o sedici anni. Nel fosso aveva tenuto il suo cadavere fra le braccia, poi l'aveva abbandonato ed era tornato a casa. Questa era la realtà. Non c'era niente da fare. Era un fatto irrevocabile. Solo qualche minuto prima delle dieci accese la radio e la conferma arrivò con il notiziario. Un ragazzo. Probabilmente diretto verso casa a Boorkhejm. Ancora nes-
sun nome. Ma precise indicazioni del luogo. In un momento non meglio definito della notte. Fra le undici e l'una, presumibilmente. Il corpo era stato rinvenuto soltanto di primo mattino. Con ogni probabilità, la morte era stata istantanea. Nessun testimone. Investito da un'auto pirata; anche questo, con ogni probabilità. Il guidatore non poteva non essersi accorto dell'accaduto. Si faceva appello a tutti coloro che si erano trovati a transitare sul luogo dell'incidente durante la notte e a coloro che pensavano di avere delle informazioni utili. La polizia era pronta a mettersi in contatto con tutti quelli che... Il posto era stato isolato, la pioggia aveva reso difficili le operazioni della polizia, alcune tracce... Ricercato l'automobilista che era fuggito dal luogo dell'incidente... Rinnovato appello a tutti coloro che... Spense la radio. Bevve altre due sorsate di whisky e ritornò a letto. Rimase sdraiato a lungo tormentato da una ridda di pensieri, ma quando si alzò per la seconda volta quel grigio e nebbioso giovedì mattina, tre si erano cristallizzati. Tre pensieri di un certo peso. Conclusioni minuziosamente dettagliate che non aveva intenzione di riconsiderare. E dalle quali non si sarebbe allontanato, qualsiasi cosa fosse successa. Delle quali si era convinto, semplicemente. Primo: il ragazzo nel fosso era morto e lui era il colpevole di quella morte. Secondo: comunque avesse agito, non avrebbe potuto ridare la vita al ragazzo. Terzo: non sarebbe derivato nessun vantaggio se anche si fosse costituito. Nessuno. Al contrario, pensò riguardo a questo terzo punto. Perché compensare una vita distrutta con un'altra? La sua. Quando ragionava in questi termini sapeva di essere finalmente sulla strada giusta. Finalmente si riconosceva. Finalmente. Doveva soltanto mantenere il controllo. Non doveva lasciarsi andare. Soltanto questo. Nel corso del pomeriggio agì in modo pratico e concreto. Lavò la macchina in garage, sia fuori che dentro. Per quanto ispezionasse la parte destra del muso e del retro, non riuscì a trovare traccia di danni
o di segni. Ipotizzò che doveva aver colpito il ragazzo piuttosto in basso; con il paraurti all'altezza delle ginocchia, probabilmente, forse solo un urto lievissimo; gli rimase l'impressione - quando poi cercò di rivedere la scena nel fosso -che l'esito fatale dell'incidente fosse dipeso dalla collisione del ragazzo con il condotto di cemento piuttosto che dall'urto sulla carreggiata. Il che - in qualche strano modo contorto - rendeva il peso della sua colpa un po' più leggero da sopportare. O almeno questa era la sensazione. Lui voleva che fosse così. All'interno dell'auto, sul sedile del guidatore, c'era un'unica ombra: una macchia ovale più scura, più o meno della grandezza di un uovo, sul bordo destro del rivestimento beige. Aveva buoni motivi per supporre che si trattasse di sangue, così dedicò una mezz'ora a cercare di rimuoverlo. Tutto inutile; la macchia rimase dov'era, era penetrata in profondità nel tessuto, evidentemente, così decise che uno dei giorni successivi si sarebbe procurato un nuovo set di fodere. Non proprio subito... di lì a qualche settimana, piuttosto, quando il caso sarebbe stato ormai dimenticato. C'erano anche altre tracce del sangue del ragazzo, sul volante e sul cambio, ma non ebbe alcuna difficoltà a cancellarle. Quanto ai vestiti che aveva addosso la sera precedente, li raccolse con cura e li bruciò nel caminetto del soggiorno, producendo parecchio fumo. Quando ebbe finito, per un attimo fu colto dal panico al pensiero che qualcuno avrebbe potuto chiedergliene conto. Ma si tranquillizzò quasi subito; ovviamente era improbabile, sia che lo scoprissero sia che gli chiedessero conto di una cosa tanto banale. Un paio di comunissimi pantaloni di velluto a coste? Una vecchia giacca e una camicia di cotone grigioazzurro? Poteva essersene disfatto in mille modi legittimi: poteva averli buttati via o donati a qualche raccolta di beneficenza, qualsiasi cosa. Ma soprattutto: non l'avrebbero scoperto. Nel tardo pomeriggio, quando il crepuscolo era già calato ed era cominciata a cadere una pioggia sottile, andò in chiesa. La vecchia basilica di Vroons, che si trovava a venti minuti a piedi da casa sua. Per una mezz'ora rimase seduto a mani giunte in uno dei cori laterali, pronto a cogliere voci che venissero da dentro - o dall'alto -, ma nulla si fece udire e nulla comparve a destare nuove inquietudini. Quando lasciò la basilica deserta, capì quanto fosse stato importante essersi concesso quella visita; essersi preso il tempo di stare in chiesa a quel modo, senza alcun fine o aspettativa. Senza false prospettive e ragioni.
Capì che era stata una specie di prova e che l'aveva superata. Era strano, ma la sensazione che provò quando uscì dalla volta buia era forte e inequivocabile. Qualcosa di simile alla catarsi. Sulla via di casa comprò due giornali della sera; in prima pagina riportavano entrambi una foto del ragazzo. La stessa immagine, anche se di dimensioni differenti; un ragazzo sorridente con le fossette, gli occhi un po' a mandorla e i capelli scuri che gli ricadevano sulla fronte. Niente cappuccio, niente sangue. Non lo riconosceva. Una volta rincasato constatò che si chiamava Wim Felders, che aveva compiuto sedici anni solo da qualche giorno e che era un allievo del liceo Weger. Entrambi i giornali abbondavano di dettagli, notizie e ipotesi, e l'opinione comune sull'accaduto poteva forse essere sintetizzata nel titolo che il «Poost» riportava in terza pagina: AIUTATE LA POLIZIA A TROVARE IL PIRATA DELLA STRADA! Si parlava diffusamente anche delle conseguenze cui sarebbe andato incontro il colpevole, nel caso la polizia fosse riuscita a scovarlo. Due o tre anni di galera non sarebbero stati fuori luogo, probabilmente. Lui aggiunse l'assunzione di alcolici - che di sicuro sarebbe stata confermata dallo zelante personale del ristorante - e arrivò a cinque o sei. Come minimo. Guida in stato di ebbrezza. Guida pericolosa e omicidio colposo. Omissione di soccorso. Cinque o sei anni dietro le sbarre. A che cosa sarebbe servito? pensò. Chi avrebbe tratto giovamento da un simile sviluppo? Gettò i giornali nella spazzatura e prese la bottiglia di whisky. 3 Per tre notti di fila il ragazzo popolò i suoi sogni, poi basta. Lo stesso valeva per i giornali, a grandi linee. Scrissero di Wim Felders il venerdì, il sabato e la domenica, ma con l'inizio della settimana lavorativa le notizie si limitarono a un trafiletto che informava come la polizia non avesse ancora alcun indizio. Non si era presentato nessun testimone e non era stato acquisito nessun elemento oggettivo - qualunque cosa volessero dire queste parole. Il ragazzo era stato investito e ucciso da un ignoto automobilista, che poi, col favore del buio e della pioggia, si era dileguato dal luogo dell'incidente; questo era quanto si sapeva fin dall'inizio e quanto si continuava a sapere dopo quattro giorni.
Il lunedì rientrò al lavoro. Per lui fu un sollievo, ma anche un aiuto per tornare gradualmente alla normalità. La vita marciava di nuovo sui vecchi binari, collaudati e al tempo stesso curiosamente estranei, e più volte nel corso della giornata si sorprese a riflettere con stupore su quanto sottile fosse in effetti quella membrana che separava il quotidiano dall'orrore. Sottile e indicibilmente facile da sfondare. La membrana. Dopo la fine dell'orario di lavoro andò all'ipermercato di Lohr per comprare dei nuovi coprisedili per la macchina. Trovò subito una nuance praticamente identica al colore dei sedili, e dopo che quella sera in garage, con una certa fatica, fu riuscito a infilare le fodere in tessuto elasticizzato, ebbe la sensazione di essere arrivato finalmente in porto. La parentesi adesso non c'era più. La parentesi sul nulla. Aveva dato gli ultimi ritocchi alle misure di sicurezza che aveva messo in opera dopo lunga riflessione. Aveva preso tutte le precauzioni del caso, aveva cancellato tutte le tracce e, con un certo stupore, si rese conto che non era passata neppure una settimana dall'incidente. E non c'era nessun segnale. Non era emerso niente che potesse far supporre che avrebbe dovuto rispondere di quanto accaduto in quei fatali secondi di giovedì sera. Quei secondi spaventosi e sempre più irreali, che vorticando si allontanavano ogni giorno di più nelle tenebre del passato. Se la sarebbe cavata. Fece un sospiro profondo ed ebbe la certezza che se la sarebbe cavata. A dire la verità era stato affermato - da un paio di giornali e dai notiziari televisivi, che aveva seguito apposta - che la polizia aveva indizi precisi da seguire, ma era convinto che si trattasse soltanto di frasi e parole vuote. Un tentativo goffo di far credere che si sapessero più cose e si avessero maggiori competenze di quanto fosse in realtà. Come al solito. Nessuno aveva fatto cenno a un'Audi rossa ferma con i fari accesi al margine della strada in prossimità del luogo dell'incidente. Proprio questa era stata la sua preoccupazione più grande; non che qualcuno avesse notato il colore o il modello dell'auto - e ancor meno il numero di targa -, ma che qualcuno si fosse accorto che lì aveva sostato un veicolo. Erano pur sempre passate due macchine mentre lui si trovava nel fosso... oppure erano transitate mentre era ancora sulla carreggiata? Non lo sapeva più. Due macchine e uno scooter in ogni caso, questo lo ricordava chiaramente. Il guidatore dell'auto proveniente dalla direzione opposta - da Boorkhejm o Linzhuisen - poteva anche aver preso la sua Audi per un veicolo che procedeva in senso inverso, ipotizzò, ma gli altri due, ecco, loro dovevano a-
ver notato la macchina ferma sul ciglio della strada con i fari accesi. Oppure era quel genere di particolari che si dimenticano subito? Quel genere di ricordo fugace che si fissa nella memoria solo per qualche secondo e poi si perde per sempre? Difficile dirlo, difficile saperlo, ma senza dubbio era una domanda che lo teneva sveglio di notte. Quei presunti testimoni. Il giovedì - dopo qualche giorno di silenzio da parte dei media e una settimana dopo l'incidente - fu diffuso un appello della famiglia del ragazzo: madre, padre e una sorella minore. Parlarono alla tivù e alla radio e la loro fotografia comparve su diversi giornali: lo scopo, molto semplicemente, era quello di indurre il pirata della strada ad ascoltare la propria coscienza e a costituirsi. Riconoscere il proprio crimine e accettare la punizione conseguente. Questa mossa, era evidente, rappresentava un ulteriore indizio del fatto che la polizia brancolava nell'incertezza e non aveva nessuna pista da seguire. Niente indizi, niente tracce. Quando vide la madre - una donna bruna sui quarantacinque, inaspettatamente compassata - seduta sul divano, che si rivolgeva direttamente a lui, fu colto da un improvviso attacco d'angoscia, ma non appena la donna scomparve dallo schermo ritrovò il proprio equilibrio. Si rendeva conto che di sicuro sarebbe stato colpito di tanto in tanto da questo genere di attacchi, ma lui avrebbe sempre avuto la forza sufficiente per risollevarsi. Avrebbe trovato una via per uscire dalla debolezza. Se solo fosse riuscito a non perdere la testa. Era bene sapere che lui l'aveva, che era in possesso di questa cosa importante. La forza. Eppure avrebbe voluto parlare con quella donna. Avrebbe voluto domandarle perché. A che gioverebbe mettermi dietro le sbarre per cinque anni? Io ho ucciso tuo figlio, me ne dispiaccio infinitamente e con tutto il cuore, ma è stato un incidente e che vantaggio ne deriverebbe se mi facessi avanti? Si domandò cosa avrebbe risposto. Davvero avrebbe avuto qualcosa da rimproverargli? Era stata una disgrazia e le disgrazie non hanno colpevoli. Nessun protagonista in assoluto, soltanto fattori e oggetti che esulano da ogni controllo. Quella sera valutò anche la possibilità di spedire un messaggio anonimo alla famiglia. O fare solo una telefonata per spiegare il proprio punto di vi-
sta, ma decise che era troppo rischioso e scartò l'idea. Scartò anche l'alternativa di far recapitare una corona di fiori ai funerali di Wim Felders, che furono celebrati a Keymer in una chiesa gremita il sabato successivo, dieci giorni dopo l'incidente. Per lo stesso motivo. I rischi. Oltre ai congiunti e agli amici, alla cerimonia presenziò una buona parte degli allievi e degli insegnanti del liceo Weger, insieme a molti rappresentanti di varie associazioni dei parenti di vittime di incidenti stradali. Lesse il resoconto nei dettagli sul numero domenicale del «Neuwe Blatt», e questa fu l'ultima serie di notizie relativa al caso. Con suo stupore, il lunedì si accorse di sentire un vuoto. Come se avesse perso qualcosa. Come quando persi Marianne, pensò in seguito con lo stesso stupore; era un paragone curioso, ma a qualcosa doveva pur collegarsi. Qualcosa di importante nella sua vita. Per dieci giorni quel fatto spaventoso aveva dominato la sua esistenza. Si era infiltrato in ogni poro e in ogni angolo della sua coscienza. Anche se ben presto era riuscito a tenere sotto controllo il panico, comunque era stato lì tutto il tempo. In agguato, pronto a colpire. I suoi pensieri avevano continuato a girare intorno a quel viaggio infernale quasi ogni secondo, intorno al tonfo leggero e alla scossa nel volante; intorno alla pioggia, al corpo senza vita del ragazzo e al fosso scivoloso... giorno e notte, e adesso che finalmente c'erano dei momenti in cui non ci pensava, in un certo senso aveva la sensazione che gli mancasse qualcosa. Una sorta di vuoto. Come dopo undici anni di matrimonio senza figli... sì, dei punti di contatto c'erano. Sono una persona molto sola, fu il pensiero che lo colpì in quei giorni. Da quando Marianne mi ha lasciato, nessuno ha veramente significato qualcosa per me. Nessuno. Mi capitano delle cose, ma non agisco mai in prima persona. Esisto, ma non vivo. Perché non mi sono trovato una nuova compagna? Perché non mi sono mai posto questa domanda? E adesso improvvisamente sono un altro. Chi? Chi sono io? Che questo genere di pensieri fosse il frutto dell'aver investito e ucciso un ragazzo era a sua volta singolare, ma qualcosa gli proibiva di scavare troppo a fondo nell'intera questione. Decise invece di accettare gli aspetti
positivi e quelli negativi e di agire, di percorrere per una volta nuove strade, e prima ancora di rendersene conto - prima di essersi dato il tempo di riflettere e di pentirsi - aveva invitato a casa una donna per cena. L'aveva incontrata per caso in mensa; lei si era seduta al suo stesso tavolo, molto semplicemente, come al solito c'erano pochi posti liberi. Non ricordava di averla mai vista prima. Probabilmente no. Però lei accettò. Si chiamava Vera Miller. Aveva un carattere allegro e i capelli rossi, e la notte fra sabato e domenica - circa tre settimane dopo che per la prima volta in vita sua aveva ucciso un altro essere umano - lui fece l'amore con una donna per la prima volta dopo quasi quattro anni. Il mattino dopo lo fecero di nuovo; poi lei gli disse che era sposata. Ne parlarono per un po' e lui si accorse che la cosa turbava molto più lei che non lui. Il lunedì arrivò la lettera. È passato un po' di tempo da quando Lei ha ucciso il ragazzo. Ho aspettato che la Sua coscienza si risvegliasse, ma ora capisco che Lei è un debole: non ha il coraggio di assumersi la responsabilità delle Sue azioni. Sono in possesso di informazioni inequivocabili che La faranno finire in galera non appena le dovessi consegnare alla polizia. Il mio silenzio costa 10.000 gulden, una somma irrisoria per una persona nella Sua posizione, ma Le concedo comunque una settimana (sette giorni precisi) per procurarsela. Si tenga pronto. A risentirci. Un amico Il messaggio era scritto a mano. Lettere piccole, nitide, inclinate in maniera ordinata e uniforme. Inchiostro nero. Lesse il messaggio cinque volte di fila. 4 «C'è qualcosa che ti preoccupa?» domandò Vera dopo che ebbero cenato. «Hai l'aria un po' abbacchiata.» «No.»
«Sicuro?» «Non è niente» disse lui. «Mi sento un po' fiacco, ecco tutto, credo di avere qualche linea di febbre.» «Non ha nulla a che vedere con me, spero... Con noi, voglio dire...» Faceva girare il vino nel bicchiere e lo guardava con aria seria. «No, no, per carità...» Cercò di ridere, ma sentì anche lui che suonava falso. Allora preferì bere un po' di vino. «Trovo che questa storia sia cominciata proprio bene» disse lei. «E vorrei che ci fossero un secondo e anche un terzo capitolo.» «Sicuro. Perdonami, sono un po' stanco, ma non ha niente a che fare con noi. La penso esattamente come te... te lo giuro.» Lei sorrise e gli accarezzò il braccio. «Bene. Avevo quasi dimenticato che fare l'amore fosse così bello. Incredibile che tu non l'abbia fatto per quattro anni. Come hai potuto?» «Stavo aspettando te» rispose lui. «Andiamo a letto?» La domenica, quando se ne fu andata, lui cominciò ad avere nostalgia di lei quasi subito. Avevano fatto l'amore fino a tardi ed era proprio come aveva detto lei: era un mistero come potesse essere una sensazione così intensa. Tornò a letto e affondò la testa nel cuscino. Inspirò il suo profumo a fondo e cercò di riaddormentarsi, ma era inutile. Il vuoto era troppo grande. Che strana cosa... La più grande differenza del mondo, pensò. Quella fra una donna che resta e una che se n'è appena andata via. Una donna amata. Una donna nuova? Dopo un momento si arrese. Andò a recuperare il giornale, fece colazione e poi prese di nuovo la lettera. Naturalmente non sarebbe stato necessario. La conosceva a memoria. Ogni singola frase, ogni singola parola, ogni singola lettera. La lesse ancora due volte. La tastò, saggiò la qualità della carta. Era ottima, senza dubbio; busta e carta da lettera coordinate. Carta spessa; suppose che fosse stata acquistata in una libreria del centro, dove la vendevano anche sfusa. Inoltre aveva una sfumatura sofisticata. Azzurro pallido. Il francobollo presentava un soggetto sportivo, una donna che faceva un movimento rotatorio con un disco. Era incollato con precisione millimetrica nell'angolo in alto a destra. Il suo nome e indirizzo erano scritti in stampatello con le stesse lettere appuntite e leggermente inclinate del testo della lettera. Il nome della località era stato sottolineato.
Era tutto. Tutto quello che si poteva dire di quel messaggio. Niente, in altre parole. O quasi niente. Non sembrava possibile definire nemmeno il sesso del mittente. Forse lui propendeva per un uomo, ma era poco più che una supposizione. Poteva essere chiunque. Diecimila? pensò per l'ennesima volta da lunedì sera. Perché solo diecimila? Certamente era una cifra ragguardevole, ma comunque - come sottolineava giustamente l'autore della lettera - non si trattava di una richiesta del tutto assurda. In banca aveva già più del doppio, possedeva una casa e altri beni per un valore dieci volte superiore. Il ricattatore aveva anche usato l'espressione «una persona nella Sua posizione», il che lasciava intendere che fosse bene informato sulla sua situazione e sulle sue condizioni economiche. E allora perché accontentarsi di diecimila? Forse non era proprio «una somma irrisoria», ma certamente era un prezzo ragionevole. Più che ragionevole, considerata la posta in gioco. Doveva anche essere una persona piuttosto istruita, questo ricattatore. La calligrafia era uniforme e curata, non c'erano errori linguistici, usava frasi concise nella sua lettera. Senza dubbio la persona in questione poteva (doveva?) sapere che avrebbe potuto ricavare di più. Che il prezzo del suo silenzio era modesto. Ritornò più volte a questa conclusione. A posteriori si stupì anche della facilità con cui era riuscito a ragionare in termini razionali. La lettera era arrivata come una bomba, ma non appena aveva cominciato ad abituarsi e ad accettare il fatto, erano state le domande logiche e rilevanti a tenerlo occupato. Durante tutta la settimana e adesso, in quella domenica pomeriggio. Perché solo diecimila, dunque? Che cosa significava? Era solo un primo pagamento? E di chi si trattava? Chi era la persona che l'aveva visto e che adesso vedeva una possibilità di guadagno nella sua disgrazia? E in quella del ragazzo. Il guidatore dello scooter o uno dei due automobilisti passati mentre era nel fosso con il corpo senza vita fra le braccia? Oppure mentre si trovava sulla strada. Esisteva qualche altra alternativa? Non credeva. In ogni caso doveva essere stata la macchina, la sua Audi rossa, a tradirlo, questo lo diede subito per scontato. Qualcuno aveva notato la sua strana
posizione sulla strada, aveva memorizzato il numero di targa e scoperto la sua identità tramite il registro automobilistico. Era convinto che fosse andata così. Sempre più convinto; ben presto non tenne nemmeno più in conto altre possibilità, fino a che non lo colpì un pensiero spaventoso. Il ragazzo poteva essere stato in compagnia quella sera. Per esempio, poteva essere insieme a una ragazza, e camminavano entrambi sul ciglio della strada, ma soltanto lui si era schiantato contro il condotto di cemento. Un po' più lontano... a qualche metro di distanza oltre il condotto poteva esserci la sua ragazza, stordita... no, non la sua ragazza, lei era rimasta in città, l'aveva letto sul giornale... un amico oppure un occasionale compagno di strada, piuttosto... svenuto e nascosto dal buio. Oppure sotto shock e terrorizzato alla vista del ragazzo morto e dell'uomo che lo teneva in braccio mentre il sangue gocciolava nel cappuccio... Era uno scenario spaventoso, si capisce, e anche se a poco a poco riuscì a convincersi che non era molto credibile, tuttavia continuava a ritornare con una certa insistenza. Pensando in termini pragmatici cercò anche di scartare questa macabra variante - questa possibilità inverosimile - dal momento che non contava. Era irrilevante. Non aveva importanza chi fosse stato a vederlo la notte dell'incidente, o come la persona in questione fosse venuta a conoscenza dell'accaduto. Altre domande esigevano attenzione e concentrazione. E una decisione. Poteva essere sicuro che si sarebbe fermato lì? A diecimila gulden. Che avrebbe dovuto pagare una volta e poi non avrebbe più avuto bisogno di preoccuparsi? Ecco dove stava il nocciolo della questione. Quale garanzia pensava di dargli l'autore (l'autrice?) della lettera che comunque - dopo aver incassato il denaro e averlo speso - non ne avrebbe preteso dell'altro dopo qualche mese? O qualche anno? Oppure che non andasse lo stesso a denunciarlo alla polizia? Avrebbe ricevuto una garanzia in questo senso? E che forma poteva avere una garanzia del genere? Oppure - e questa era ovviamente la domanda più pesante - non avrebbe dovuto rendersi conto che la situazione era impossibile? Capire che la partita era persa e che era ora che si decidesse a telefonare alla polizia? Non avrebbe dovuto arrendersi? La domenica sera non aveva ancora trovato una risposta definitiva a nes-
suna di queste domande. Il fatto che venerdì fosse passato dalla Spaarkasse e avesse prelevato undicimila gulden dal suo conto non doveva necessariamente essere interpretato come una decisione. Soltanto come un segno che teneva ancora aperte tutte le porte. Nei suoi pensieri ricorreva anche una conversazione che aveva avuto quel sabato. «Tuo marito?» aveva chiesto mentre stavano tornando alla macchina dopo la passeggiata lungo la spiaggia. «Gli hai parlato?» «No» aveva risposto lei, liberando i capelli raccolti sotto il berretto lavorato a maglia. Vi aveva passato le mani attraverso e li aveva scossi in un gesto che lui pensò stesse esagerando per poter riflettere. «Non sapevo quanto sarebbe stata seria la storia con te... all'inizio. Adesso lo so. Ma non ho avuto ancora occasione di parlare con lui. C'è bisogno di tempo e di spazio, non so come dire.» «Ne sei sicura?» «Sì.» «Che vuoi divorziare da lui?» «Sì.» «Perché non avete figli?» «Perché io non ne voglio.» «Con tuo marito o in generale?» Lei aveva fatto un cenno vago con la testa. Lui aveva capito che non voleva parlare di quell'argomento. Erano rimasti un attimo in silenzio, a guardare il mare mosso. «Siamo sposati solo da tre anni. È stato un errore fin dall'inizio. Un'idiozia.» Lui aveva annuito. «Che lavoro fa?» «Attualmente è disoccupato. Prima lavorava alle industrie Zinders. Ma adesso hanno chiuso.» «Suona triste.» «Non ho mai detto che sia una situazione divertente.» Aveva riso. Lui le aveva cinto le spalle con un braccio e l'aveva stretta a sé. «Non sarai titubante?» «No» aveva risposto lei. «Non voglio vivere con lui, l'ho sempre saputo.» «Perché l'hai sposato, allora?»
«Non lo so.» «Sposati con me, invece.» Le parole gli erano uscite di bocca prima che fosse riuscito a fermarle, ma si era subito reso conto che diceva sul serio. «Wow» aveva esclamato lei, scoppiando in una risata. «Siamo stati insieme due volte e mi chiedi già se ci sposiamo. Non andiamo prima a cena a casa tua come avevamo programmato?» Lui aveva riflettuto. «Si potrebbe fare» aveva detto. «Sì, probabilmente hai ragione, ho una fame da lupo.» Durante il resto della serata non aveva più ripetuto la sua proposta di matrimonio, ma non l'aveva nemmeno ritirata. Gli piaceva che rimanesse sospesa nell'aria per un po' senza che ci fosse bisogno di prendere una posizione in merito o di commentarla. Come una corda tesa fra loro, che non occorreva toccare ma che era lì e li legava l'uno all'altra. Gli sembrava anche di capire che Vera non avesse nulla in contrario. Che provasse più o meno la stessa sensazione. Una specie di segreto. Un legame. E quando poi erano andati a letto, era come se avessero bevuto dalla fonte dell'amore. Incomprensibile, in un certo senso era incomprensibile. Come poteva la vita, senza preavviso, imboccare strade del tutto nuove? Strade che sovvertivano tutte le convinzioni radicate, tutto il buonsenso e l'esperienza? Com'era possibile? E nell'arco di poche settimane, per di più. Prima quello spaventoso giovedì sera, poi Vera Miller e l'amore. Non riusciva a capire. Ma si poteva davvero capire? Il resto di quella domenica sera rimase sdraiato sul divano alla luce di una candela, con l'impressione di essere sballottato fra due estremi. Fra la percezione di una realtà vacillante e piena di crepe da una parte, e una riflessione molto pacata e razionale sulla propria situazione dall'altra. Ragione e sentimento, ma senza collegamenti, senza sinapsi. A poco a poco decise che non esisteva nessun vuoto. Esisteva soltanto una realtà ed essa era sempre presente, in ogni momento; le sue sensazioni riguardo a questa realtà e i suoi tentativi di controllarla erano sempre lì, cambiava soltanto il punto di vista. La prospettiva. Il dritto e il rovescio della medaglia, pensò. Come un interruttore. Il quo-
tidiano e l'inconcepibile. La vita e la morte? La membrana sottile che le divideva. Notevole. Dopo il giornale radio delle undici tirò fuori di nuovo la lettera. La lesse ancora una volta prima di andare alla scrivania. Restò lì al buio per un po', lasciando scorrere i pensieri come volevano, e presto, molto presto, cominciò a intravedere un'altra alternativa d'azione, dove prima ne aveva viste solamente due. Una terza via. Che lo affascinava. Rimase seduto a lungo mentre cercava di valutarne i pro e i contro. Era ancora troppo presto per scegliere, però. Troppo presto davvero. Fin quando non avesse ricevuto ulteriori istruzioni da «Un amico», non poteva far altro che aspettare. Aspettare la posta del lunedì. 5 Era in anticipo di venti minuti. Mentre era in macchina ad aspettare, nel parcheggio deserto, lesse le istruzioni per l'ennesima volta. Non perché fosse necessario, era tutto il giorno che le leggeva, ma per far passare il tempo. Soldi: banconote da 100 e 50 gulden, avvolte in sacchetti di plastica doppi, infilati in un sacchetto dei grandi magazzini Boodwick. Luogo: Trattoria Commedia vicino al campo da golf di Dikken. Ora: martedì alle 18 in punto. Modalità: prendere posto al bancone del bar. Ordinare una birra, bere un paio di sorsi, andare alla toilette dopo circa cinque minuti. Portare con sé il sacchetto dei soldi, lasciarlo nel cestino della spazzatura ben nascosto sotto le salviettine di carta. Nel caso fossero presenti altre persone alla toilette, aspettare che non ci sia più nessuno. Uscire dalla toilette, tornare direttamente al parcheggio e allontanarsi dalla zona. Era tutto. Lo stesso tipo di carta della volta precedente. La stessa calligrafia, probabilmente la stessa penna. La stessa firma: Un amico. Nessuna minaccia. Nessun commento sulla sua debolezza. Soltanto le istruzioni strettamente necessarie. Più semplice di così non si poteva.
Alle sei meno due minuti alzò il finestrino e scese dalla macchina. Aveva parcheggiato il più lontano possibile dal ristorante, vicino all'uscita. Percorse a passo spedito, ma senza fretta, i cinquanta metri dello spiazzo battuto dal vento davanti al ristorante. L'edificio era basso e fatto a elle; la facciata era rivestita di pietra scura. Finestre alla Gaudí con stipiti d'acciaio neri. Spinse la porta in finto palissandro ed entrò. Constatò che il locale aveva un'aria deserta, ma comunque molto gradevole. Non ci aveva mai messo piede in precedenza; suppose che fosse de préférence un posto per giocatori di golf, ma non poteva certo essere alta stagione con quel tempaccio da autunno inoltrato. Il bar si apriva sulla sinistra: una donna sulla quarantina era seduta da sola, stava fumando in compagnia di un giornale della sera e di un drink verde. Quando lui entrò, alzò lo sguardo, ma decise che il giornale era più interessante. Prima di accomodarsi, diede un'occhiata al locale. Faceva angolo, e la maggior parte dei tavoli che riusciva a vedere non era occupata. Un uomo solo sedeva chino sopra un piatto di pasta. Il fuoco scoppiettava nel caminetto; l'arredamento era nelle tonalità del marrone scuro, del rosso e del verde, e da alcune casse nascoste si diffondeva, discreta, una musica di pianoforte. Sistemò il sacchetto in mezzo ai piedi e ordinò una birra al barista, un giovanotto con la coda di cavallo e l'orecchino. «Vento?» domandò il ragazzo. «Accidenti» rispose lui. «Non c'è molta gente stasera, eh?» «Ha proprio ragione» disse il barista. La birra gli fu servita in un bicchiere alto, da donna. Pagò, ne bevve metà e poi chiese dove fosse il bagno. Il barista fece cenno dalla parte del camino, lui ringraziò, prese il sacchetto e si avviò in quella direzione. C'era profumo di pino ed era vuoto. E pulito. Il cestino della spazzatura in mezzo ai due lavabi era pieno solo per un terzo di salviettine di carta usate. Lui ci cacciò dentro il suo sacchetto di Boodwick e lo ricoprì con altre salviettine, che prese una a una dal contenitore e stropicciò un po'. Tutto secondo le istruzioni. Svolse l'intera procedura in dieci secondi. Si trattenne per altri dieci e osservò con moderato stupore la propria immagine nello specchio lievemente rigato sopra i lavabi. Quindi uscì. Fece un cenno di saluto al barista passandogli davanti e proseguì in direzione della sua auto. Nell'aria c'era un sentore di gelido metallo. Semplice, pensò quando fu di nuovo dietro il volante. Dannatamente semplice. Poi aprì il vano portaoggetti ed estrasse il tubo.
Ci vollero esattamente sei minuti e mezzo. L'uomo che uscì dal ristorante sembrava sulla trentina. Era alto e allampanato; teneva il sacchetto nella mano destra, mentre con la sinistra faceva dondolare con naturalezza il mazzo di chiavi di una macchina. Era diretto verso una vecchia Peugeot parcheggiata a una ventina di metri dalla sua auto. Uno dei cinque veicoli che si trovavano nel vasto posteggio. Prima che aprisse la portiera, ebbe il tempo di riflettere sul dilettantismo di quell'uomo. Aspettare così poco e poi uscire con il sacchetto in bella vista: non era certo una dimostrazione di grande scaltrezza. Capì che non doveva essere un avversario troppo ostico, quello con cui aveva a che fare; e soprattutto che l'avversario aveva grossolanamente sottovalutato il suo calibro. Gli fu addosso proprio nell'attimo in cui stava per infilare la chiave nella portiera. «Mi scusi» gli disse. «Credo che abbia perso qualcosa.» Allungò il braccio sinistro, la mano chiusa a coppa arrivò a mezzo metro dal viso dell'uomo. «Che cosa?» Lui diede una rapida occhiata al parcheggio e tutt'intorno. Stava diventando sempre più buio. Non si vedeva anima viva. Con tutte le forze, colpì col tubo la testa dell'uomo, appena sopra l'orecchio sinistro. Cadde a terra senza un gemito. Piatto sulla pancia, con le braccia sotto il corpo. Lui mirò alla nuca e colpì ancora una volta con la stessa risolutezza. Si sentì un lieve scricchiolio e allora seppe che era morto. Se già non lo era stato dopo il primo colpo. Dalla testa il sangue sgorgava copioso. Con cautela liberò il cadavere dal sacchetto di plastica e dalle chiavi della macchina, si raddrizzò e si guardò intorno. Non c'era anima viva. Buio e deserto. Dopo aver valutato la situazione per qualche secondo, afferrò l'uomo per i piedi e lo trascinò in mezzo ai cespugli incolti che circondavano il parcheggio. Si formò una larga scia nella ghiaia, ma suppose che la pioggia avrebbe finito per cancellarla. Fece un paio di passi indietro e stabilì che da qualche metro di distanza non si vedeva nulla. Almeno, non lo avrebbe visto l'occhio di chi non sapeva che cosa cercare. O, in generale, che non sapeva ci fosse qualcosa da cercare. Annuì soddisfatto e tornò alla macchina. Certo non sarebbe stato uno svantaggio se fosse trascorso qualche giorno prima che qualcuno inciampasse nel cadavere. Più giorni fossero passati, tanto meglio, probabilmente. Avvolse il tubo in un foglio di giornale e lo infilò nel sacchetto insieme al
denaro. Avviò il motore e si allontanò dal parcheggio. Tenne la parrucca scura e folta, la barba e gli occhiali azzurrati finché ebbe superato quel fatale condotto sulla strada principale verso Boorkhejm, e quando mezz'ora dopo si versò due dita di Glenalmond in un comune bicchiere da acqua nella cucina di casa, rivolse un pensiero di gratitudine alle compresse di Sobron, quei piccoli capolavori di pillole dai riflessi azzurrini che l'avevano mantenuto a un livello di coscienza costante ed eccezionalmente stabile per tutto quel pomeriggio. E anche nei giorni precedenti. Non era affatto uno svantaggio avere una certa cognizione della propria psiche e del suo bisogno di farmaci, pensò. Proprio no. Vuotò il bicchiere. Quindi fece un bagno con molta schiuma, lungo e rilassante. Poi telefonò a Vera. SECONDA PARTE 6 Fu un certo Andreas Fische a rinvenire il corpo. Successe il giovedì pomeriggio. Fische era stato a trovare sua sorella in Windemeerstraat, a Dikken (un rospo di sorella, è vero, ma il sangue non è acqua, e poi era riuscita a sposarsi con un avvocato piuttosto agiato), e quando tagliò per il parcheggio della Trattoria Commedia e si fermò perché aveva bisogno di fare pipì, si accorse che c'era qualcosa in mezzo ai cespugli. Fische terminò di pisciare e si guardò intorno. Poi scostò con circospezione qualche ramo spinoso e sbirciò fra le sterpaglie. Era un uomo. Un corpo. Un cadavere. Fische aveva visto altri cadaveri in precedenza. E anche più d'una volta, nella sua vita sballata, e dopo aver soffocato il primo impulso di scappare a gambe levate, la parte migliore - e più pratica - del suo io prese il sopravvento. Controllò che non ci fosse nessuno in vista nella penombra deserta del parcheggio. Quindi con cautela piegò qualche altro rametto verso terra, stando ben attento a non appoggiare i piedi sul terreno soffice lasciandoci delle impronte - era una situazione che aveva già vissuto - e andò a dare un'occhiata più da vicino al cadavere. Un uomo piuttosto giovane e alto. Era steso bocconi con le braccia tese
sopra la testa. Giacca verde scuro e un paio di comuni blue-jeans. Il lato visibile della faccia era coperto di strisce scure e secche, e Fische ipotizzò che qualcuno avesse posto fine alla sua esistenza colpendolo in testa con qualcosa di duro e pesante. Tutto qui. Aveva già visto qualcosa del genere, anche se un po' di anni addietro. Dopo essersi assicurato ancora una volta che non ci fosse nessuno nelle vicinanze, si chinò e cominciò a vuotargli le tasche. Impiegò soltanto qualche secondo, e il risultato fu piuttosto magro. Se ne accorse dopo aver messo circa duecento metri fra sé e il cadavere. Un portafogli logoro senza carte di credito e con solo quaranta gulden in banconote. Una manciata di spiccioli. Un pacchetto di sigarette mezzo vuoto e un accendino. Un portachiavi con quattro chiavi e una targhetta con la réclame di un'industria farmaceutica. Nient'altro. Gettò tutto - tranne i soldi in un cestino dei rifiuti, valutò rapidamente la propria situazione economica e constatò che nonostante tutto era ben fornito di denaro. Insieme al centone che era riuscito a farsi prestare dalla sorella ne aveva più che a sufficienza per concedersi una serata in trattoria, e con malcelata soddisfazione salì a bordo del tram numero dodici diretto in centro. Senza regolare biglietto, si capisce. Erano trent'anni che Andreas Fische non pagava più il biglietto. Il Klejne Hans sulla riva sinistra della Maar era uno dei suoi locali preferiti. Era qui che Fische il più delle volte veniva le sere in cui si poteva permettere di andare al ristorante, e fu qui che diresse i suoi passi quel piovigginoso giovedì di novembre. Quando entrò, il locale era quasi deserto; l'orologio segnava appena le sei, e lui rimase seduto da solo un momento con una birra e un'acquavite al ginepro a uno dei lunghi tavoli. Centellinando le bevande più che poteva, fumava le sigarette del morto e rifletteva se fosse o meno il caso di informare la polizia. C'è dovere e dovere, come si diceva un tempo. Poi spuntarono tre o quattro vecchi amici e, fedele alle proprie abitudini, Fische rimandò la cosa a più tardi. Sarebbe stupido mettersi in agitazione, pensò. Il Signore non ha creato la fretta, e quel tizio comunque non potrebbe resuscitare. E quando verso l'una di notte crollò nel suo letto semisfondato alla locanda per scapoli di Armastenstraat, Fische aveva certamente in testa parecchie cose, ma nessun cadavere in un parcheggio deserto a Dikken e nessuna voce perentoria proveniva dai rottami della sua coscienza evanescente.
Il giorno dopo, un venerdì, era un'uggiosa giornata di pioggia: rimase quasi tutto il tempo a letto nella sua stanza, in preda a un vago malessere. Perciò soltanto il sabato mattina Andreas Fische - da uno degli apparecchi automatici della stazione Centrale - telefonò alla polizia e chiese se erano interessati a un'informazione. Di per sé certamente, gli fu risposto. Ma non erano disposti a sborsare neanche un centesimo, questo doveva essere subito chiaro. Fische analizzò in fretta le possibilità di trattativa. Poi il suo senso civico prese il sopravvento e raccontò del tutto gratuitamente che poteva esserci da recuperare un cadavere a Dikken. Nel parcheggio vicino al campo da golf davanti a quel ristorante, come diavolo si chiamava. Morto ammazzato, se non si sbagliava. Quando la polizia cominciò a fare domande sulla sua identità, l'indirizzo e un sacco di altre cose, lui aveva già riattaccato. «Da quanto tempo?» chiese il commissario Reinhart. «Difficile dirlo» rispose Meusse. «Non posso ancora pronunciarmi con certezza.» «Almeno un'ipotesi» insistette Reinhart. «Mmm» fece Meusse e gettò un'occhiata al corpo sul grande tavolo di marmo. «Tre, quattro giorni.» Reinhart fece il calcolo. «Martedì o mercoledì, allora?» «Martedì» disse Meusse. «Ma è solo un'ipotesi.» «Ha l'aria piuttosto malconcia» disse Reinhart. «È morto» replicò Meusse. «E ha piovuto.» «Sì, certo» disse Reinhart. «Anche se forse il signor soprintendente sta sempre al chiuso...» «Nei limiti del possibile» disse Reinhart. «E solo due colpi, quindi?» «Ne basta anche uno» rispose Meusse, passandosi la mano sulla testa calva. «Se si sa dove mirare.» «E l'assassino lo sapeva?» «Può darsi» disse Meusse. «È del tutto naturale colpire in quel punto. Di traverso e vicino alla tempia. L'altro... il colpo sulla nuca... è più interessante. Più professionale. Spezza le vertebre cervicali. Si può ammazzare un cavallo, in quel modo.» «Capisco» commentò Reinhart. Meusse andò al lavabo nell'angolo e si lavò le mani. Reinhart rimase accanto al tavolo, a osservare il morto. Un uomo sulla trentina, a giudicare
dall'aspetto. Forse anche più giovane. Piuttosto magro e alto; centoottantasei centimetri, aveva detto Meusse. I suoi vestiti erano su un altro tavolo e sembravano molto ordinari: jeans, giacca a vento di colore verde, un maglione leggero, alquanto consunto, che doveva essere stato grigio chiaro e in certi punti lo era ancora. Semplici mocassini di cuoio marrone. Nessun documento d'identità. Niente portafogli, né chiavi; nessun effetto personale. Qualcuno gli aveva svuotato le tasche, era più che ovvio. Qualcuno l'aveva ucciso colpendolo al capo e alla nuca con un corpo contundente privo di spigoli, anche su questo non c'erano dubbi. Aha, pensò Reinhart. Rieccoci al punto di partenza. Meusse si schiarì la gola e Reinhart capì che era ora di lasciarlo in pace. Prima di andare, guardò ancora una volta il viso del morto. Era lungo e stretto. Piuttosto devastato, con la bocca grande e i lineamenti marcati. Capelli lunghi, tirati dietro le orecchie e legati a coda di cavallo sulla nuca. Barba ispida e scura e una piccola cicatrice appena sotto l'occhio sinistro. C'era qualcosa di familiare, in lui. Io ti ho già visto, pensò Reinhart. Poi lasciò l'Istituto di Medicina legale e tornò alla centrale. L'ispettore Ewa Moreno rimise le fotografie dentro la cartelletta e la spinse verso Reinhart attraverso il tavolo. «Niente» disse. «Nell'elenco non c'è. Abbiamo soltanto tre denunce di persone scomparse nell'ultima settimana. Un'anziana dalla casa di riposo di Lohr e un ragazzo di quindici anni scappato di casa.» Rooth smise di masticare un biscotto. «Tre» interloquì. «Hai detto tre.» «Sì» confermò Moreno. «Anche se il terzo è un serpente. Penso che lui lo possiamo escludere.» «Un serpente?» fece Jung. «Un mamba verde» spiegò Moreno. «Pare sia scomparso da un appartamento di Kellnerstraat la notte fra lunedì e martedì. Molto pericoloso, secondo il proprietario. Ma docile. Può uccidere una persona in due secondi; risponde al nome di Betsy.» «Betsy?» disse Rooth. «Avevo una ragazza, una volta, che si chiamava Betsy. Non era per niente docile, ma anche lei è scomparsa...» «Grazie per i ragguagli» disse Reinhart, battendo la pipa sul tavolo. «Credo che possa bastare. I serpenti esotici non dovrebbero resistere molti giorni con questo tempaccio. Anche se a quest'ora qualcuno dovrebbe aver cominciato a sentire la mancanza del nostro famoso giovanotto. Se Meusse
ha ragione...» «Meusse ha sempre ragione» si intromise Rooth. «Non mi interrompere» disse Reinhart. «Se Meusse ha ragione, si trovava in mezzo a quei cespugli da martedì scorso; la maggior parte della gente non aspetta più di uno o due giorni prima di telefonare... mi riferisco ai parenti.» «Sempre che ci sia qualcuno» commentò Moreno. «Qualcuno che gli era vicino, voglio dire.» «Eh sì, è così che va il mondo oggigiorno» disse Reinhart e sospirò. «E non si tratta solo di vecchietti. Ho letto di una donna di Gösslingen che ha continuato a ricevere la pensione per due anni e mezzo dopo che era morta. Lei era morta stecchita giù in cantina, e i soldi finivano direttamente sul suo conto corrente... Viviamo proprio in un bel mondo. Jung, che cosa dicono quelli del ristorante?» Jung aprì il bloc-notes. «Ho parlato solo con un paio di quelli che ci lavorano» spiegò. «Nessuno l'ha riconosciuto dalla foto, ma domani pomeriggio dovremmo parlare con altri due che erano in servizio martedì scorso. Se davvero è successo allora, è probabile che riescano a identificarlo... o a dire se aveva mangiato lì, almeno.» «Qualcos'altro?» disse Reinhart, accendendo la pipa. «Sì, la macchina» disse Jung. «Sembra che una vecchia Peugeot sia rimasta parcheggiata lì da martedì o mercoledì scorso. Abbiamo controllato: appartiene a un certo Elmer Kodowsky. Purtroppo non siamo riusciti a rintracciarlo. Secondo il portiere della casa dove abita, pare che lavori su una piattaforma petrolifera da qualche parte nel mare del Nord...» «Bene» commentò Reinhart. «Ci dev'essere un gran bel tempo da quelle parti in questa stagione. Abbiamo qualche volontario?» «... anche se ha lasciato intendere che in realtà potrebbe trovarsi un po' più vicino» continuò Jung. «In ogni caso, non è Kodowsky quello che c'era fra i cespugli.» «Che cosa vuoi dire?» chiese Rooth. «Cerca di spiegarti meglio.» «Galera» rispose Jung. «Kodowsky non è un angioletto, a detta del portiere, perciò è probabile che quella storia del petrolio sia solo una copertura e che l'uomo invece sia al fresco da qualche parte. È già successo in passato, evidentemente.» «Mmm» fece Reinhart. «Questo suona già meglio. Dovrai controllare le carceri... oppure può pensarci Krause. Ma se questo Kodowsky è in galera, dovrebbe aver avuto qualche difficoltà a parcheggiare la macchina a Dik-
ken, giusto?» «Potrebbe aver ottenuto un permesso» ipotizzò Jung. «Oppure potrebbero anche avergliela chiesta in prestito... o rubata.» «Non è impossibile» riconobbe Reinhart, soffiando fuori una nuvola di fumo. «Anche se, essendo vecchiotta, non corre un gran rischio di venire rubata. I ladri d'auto sono piuttosto esigenti, al giorno d'oggi. No, temo che non andremo molto lontano per il momento. Oppure qualcuno ha in mente qualcos'altro?» Nessuno l'aveva. Erano le cinque e un quarto di sabato pomeriggio e c'erano momenti migliori per chiacchiere e supposizioni. «Allora ci vediamo un paio d'ore domani mattina» ricordò a tutti Reinhart. «Se non altro, per allora avremo le impronte digitali. Possiamo sperare qualcosina di più da Meusse e dal suo laboratorio. Fra parentesi...» Tirò fuori di nuovo le fotografie dalla cartelletta gialla e le osservò un paio di secondi. «... nessuno di voi ha la sensazione di averlo già visto?» Jung e Rooth guardarono le immagini e scossero la testa. Moreno aggrottò la fronte un attimo, poi sospirò e fece spallucce. «Forse» disse. «Forse c'è qualcosa, ma non riesco a focalizzare.» «Be'» disse Reinhart, «speriamo che ti venga in mente. È un indiscutibile vantaggio riuscire a identificare la vittima. Vale per tutti i tipi di inchiesta. Posso augurare ai colleghi un magnifico sabato sera?» «Grazie, altrettanto.» «Il primo di una lunga serie» disse Rooth. «Posso offrirti una birra?» domandò Rooth un quarto d'ora dopo. «Prometto di non violentarti e di non farti la corte.» Ewa Moreno sorrise. Erano appena usciti dall'ingresso principale della centrale e il vento sembrava una di quelle macchine che producono il ghiaccio. «Suona allettante» rispose lei. «Ma ho un appuntamento con la mia vasca da bagno e con un pessimo romanzo, e temo sia piuttosto vincolante.» «No hard feelings» disse lui. «Anch'io ho un ottimo rapporto con la mia vasca da bagno. Balla il tango male come me, quindi credo che io e lei resteremo insieme alla fine. Bisogna aver cura di quello che si ha.» «Parole sagge» commentò Moreno. «Ecco che arriva il mio autobus.» Lo salutò con la mano e si avviò rapida per il parcheggio dei visitatori. Rooth guardò l'orologio. Tanto valeva tornare dentro e dormire in ufficio, pensò. Perché cazzo uscire in questa stagione? Pura idiozia.
Tuttavia si incamminò verso Grote Torg e il suo tram, mentre cercava di ricordare quando fosse stata l'ultima volta che aveva pulito la vasca da bagno come si deve. Non ieri, comunque, concluse. 7 La telefonata arrivò alle sette e un quarto della domenica mattina e fu l'aspirante agente Krause a riceverla. All'inizio pensò che fosse uno strano orario per telefonare alla polizia - specialmente quando cominciò a capire di che cosa si trattava e che la donna doveva aver aspettato almeno quattro giorni a chiamare -, ma poi sentì dalla sua voce che probabilmente non aveva molte ore di sonno in corpo. Probabilmente neanche una. Perciò forse non era poi così strano. «Mi chiamo Marlene Frey» esordì. «Abito in Ockfener Plejn e vorrei denunciare una scomparsa.» «Prendo nota» disse Krause. «È successo martedì sera» spiegò Marlene Frey. «Lui doveva soltanto andare a fare una commissione. Mi ha detto che sarebbe tornato più tardi, ma non l'ho più visto né sentito e lui davvero non è il tipo... non è da lui...» «Un attimo solo» la interruppe Krause. «Vuol essere così gentile da dirmi esattamente di chi sta parlando? Nome, aspetto... com'era vestito e altri dettagli.» Lei fece una breve pausa come se si stesse concentrando. Poi la sentì fare un respiro profondo, carico d'angoscia. «Certo, mi deve scusare» disse. «Sono un po' stanca, non ho chiuso occhio... per varie notti.» «Capisco» disse l'aspirante Krause e poi ebbe tutte le informazioni che desiderava. Ci vollero al massimo due minuti, ma dopo che ebbero concluso la conversazione Krause rimase seduto alla scrivania almeno cinque volte tanto, mentre fissava i dati che aveva scritto sul foglio e cercava di riprendere il controllo dei propri pensieri. Quando si rese conto che non era possibile, prese di nuovo il telefono e compose il numero del commissario Reinhart. Synn mise un attimo la mano sopra la cornetta prima di passarla a Münster. Gli disegnò un nome con le labbra, ma lui non riuscì a decifrarlo. Si mise a sedere e rispose.
«Qui Reinhart. Come ti va?» «Grazie dell'interessamento» rispose Münster. «Ne è passato del tempo.» «Eri ancora a letto?» domandò Reinhart. «È domenica» gli fece notare Münster. «E non sono ancora le nove. Cos'è che ti frulla per la testa?» «È successo un casino» disse Reinhart. «Mi serve il tuo aiuto.» Münster rifletté per due secondi. «Siete così a corto di personale?» domandò. «Io sono ancora impegnato con quell'inchiesta, te lo sei dimenticato? Sarò di ritorno come minimo in febbraio.» «Lo so» disse Reinhart. «Di cosa si tratta, allora?» Per un attimo ci fu silenzio dall'altra parte del telefono. Poi il commissario Reinhart si schiarì la gola e spiegò la natura del problema. «Cazzo» disse Münster. «Sì, un quarto d'ora e sono pronto. Certo che vengo.» «Facciamo un giro per la città, prima» disse Reinhart. «Ho bisogno di un po' di tempo.» «Pure io» disse Münster. «Com'è andata la faccenda?» «Un colpo violento alla testa» spiegò Reinhart. «Omicidio colposo o di primo grado, probabilmente la seconda ipotesi.» «Quando?» «Martedì scorso, forse.» «Martedì? Ma oggi è domenica.» «È stato trovato solo ieri. Non aveva documenti addosso. A me sembrava di conoscerlo, ma in fondo l'ho visto soltanto una o due volte... sì, e poi stamattina ha telefonato una donna per denunciarne la scomparsa. È già venuta a identificarlo. Non ci sono dubbi, purtroppo.» Münster rimase un momento in silenzio, a fissare il movimento dei tergicristalli sul vetro. Diavolo, pensava. Perché dovevano succedere cose del genere? Che senso aveva? Sapeva che erano domande inutili, ma il fatto che venissero sempre a galla forse indicava qualcosa. Qualcosa che aveva a che fare con la fiducia e una visione positiva delle cose. Una sorta di rifiuto di capitolare di fronte alle potenze del male? Forse era possibile vederla in quel modo, forse così si doveva interpretare quell'eterno perché?
«L'hai visto spesso negli ultimi tempi?» domandò Reinhart quando furono arrivati dall'altra parte del fiume e cominciavano ad avvicinarsi ai condomini di Leimaar. Münster alzò le spalle. «Insomma» rispose. «Una volta al mese, circa. Andiamo a bere una birra insieme ogni tanto.» «Niente badminton?» «Un paio di volte l'anno.» Reinhart sospirò forte. «Come se la passa?» «Non male, credo. Finora. Ha anche una donna, adesso.» Reinhart annuì. «Ti sono grato per esserti reso disponibile.» Münster non rispose. «Davvero grato» continuò Reinhart. «Non so se ce l'avrei fatta da solo.» Münster fece un respiro profondo. «Su, andiamo adesso» disse. «Non serve a nulla rimandare ancora. Hai telefonato per controllare che fosse in casa?» Reinhart scosse la testa. «No. Ma c'è, me lo sento. Non possiamo schivare questa faccenda.» «No» disse Münster. «Né noi, né lui.» Non c'erano molti parcheggi intorno a Klagenburg. Dopo aver girato un paio di volte per il quartiere, Reinhart trovò un buco all'angolo fra Morgenstraat e Ruyder Allé, così furono costretti a camminare per duecento metri sotto la pioggia prima di arrivare a destinazione e suonare il campanello del numero quattro. All'inizio dall'interno non ci fu risposta, ma dopo una nuova, impietosa scampanellata sentirono che qualcuno scendeva le scale. Prima che la porta si aprisse, Münster si accorse che - in mezzo a tutta quell'umidità - aveva la bocca completamente secca e si domandò se sarebbe stato in grado di farsi salire anche una sola parola alle labbra. La porta si socchiuse. «Buongiorno» disse Reinhart. «Possiamo entrare?» Van Veeteren indossava qualcosa di blu scuro e rosso che probabilmente era - o era stata - una vestaglia, e qualcosa di marrone che sicuramente erano un paio di pantofole. Non aveva l'aria di chi si è appena svegliato e teneva un giornale ripiegato sotto il braccio. «Reinhart?» esclamò sorpreso, spalancando la porta. «E Münster? Che dannata...?» «Proprio» riuscì a spiccicare Münster. «Puoi dirlo forte.» «Entrate» disse Van Veeteren, sventolando il giornale. «Accidenti come
sta piovendo. Di che cosa si tratta?» «Andiamo a sederci, prima» disse Reinhart. Salirono insieme le scale. Furono fatti accomodare nell'accogliente soggiorno e si sedettero ognuno in una poltrona. Van Veeteren rimase in piedi. Poi Münster si morse l'interno della guancia e si fece coraggio. «Tuo figlio» disse. «Erich. Mi dispiace, ma Reinhart ritiene che sia stato ucciso.» Più tardi si ricordò che aveva chiuso gli occhi, mentre lo diceva. 8 Quando Jung e Rooth parcheggiarono fuori della Trattoria Commedia intorno alle due di quella domenica, aveva smesso di piovere. Due tecnici stavano ancora esaminando la Peugeot abbandonata sotto la supervisione dell'ispettore le Houde; nastri bianchi e rossi circondavano sia l'automobile sia il luogo del ritrovamento una decina di metri più in là. Come pure uno stretto corridoio fra i due punti. Rooth si fermò e si grattò la testa. «Che cosa credono di trovare, dentro la macchina?» «Non ne ho idea» rispose Jung. «Lui l'aveva avuta in prestito per un paio di mesi da quel suo amico che fa dentro e fuori di galera. E che magari è implicato in qualche modo.» «In ogni caso, non può essere stato Elmer Kodowsky a dargli quella botta in testa» disse Rooth. «Sono otto settimane che non ha un permesso, difficile trovare un alibi migliore.» «Può darsi» convenne Jung. «Andiamo a sentire il barista, allora? Oppure vuoi rimanere qui a cercare chissà che cosa?» «Ho finito» rispose Rooth. «Cazzo, questa storia non mi va giù. Non mi piace quando il crimine ci colpisce direttamente. Uno come VV dovrebbe aver diritto all'immunità o qualcosa del genere.» «Lo so» disse Jung. «Non me ne parlare. Ora entriamo e limitiamoci a fare il nostro lavoro, poi andiamo a prenderci un caffè.» «All right» disse Rooth. «Sono d'accordo.» Il barista si chiamava Alois Kummer e non aveva l'aria contenta. E dire che era giovane, abbronzato e vigoroso, perciò Jung non capiva proprio perché. Si accomodarono di fronte a lui al bancone del bar, che fra parentesi era completamente deserto; finché non comparivano clienti, po-
tevano rimanere lì e scambiare due chiacchiere. O almeno, così pensavano sia Jung che Rooth. E, a quanto pareva, anche il signor Kummer, dato che non ebbe nulla da obiettare. «Era in servizio martedì sera?» attaccò Jung. «Solo fino alle nove» rispose Kummer. «È proprio l'orario che ci interessa» disse Rooth. «C'erano molti avventori?» Kummer scoprì i denti. Avevano un aspetto forte e sano, e probabilmente in quel momento volevano rappresentare un sorriso ironico. «Quanti?» chiese Jung. «Una dozzina, forse» disse Kummer. «A dir tanto. Prendete qualcosa?» Jung scosse la testa. Rooth allineò le foto sul bancone. «Questa persona?» domandò. «È stata qui quella sera? Risponda solo quando è sicuro.» Il barista studiò le immagini per dieci secondi tirandosi l'orecchino. «Credo di sì.» «Crede?» fece Rooth. «È forse religioso?» «Divertente» commentò Kummer. «Sì, è stato qui. Ha mangiato a uno dei tavoli di là, non gli ho prestato molta attenzione.» «A che ora?» domandò Jung. «Fra le cinque e le sei, più o meno... sì, è andato via alle sei e un quarto, subito prima che arrivasse Helene.» «Helene?» disse Jung. «Una delle ragazze della cucina.» «Ha una relazione con lei?» volle sapere Rooth. «Che cavolo c'entra con questa faccenda?» disse Kummer, assumendo un'espressione irritata. «Non si può mai sapere» disse Rooth. «La vita è un groviglio di strani collegamenti.» Jung tossicchiò per cambiare argomento. «Era solo oppure in compagnia?» domandò. «Solo» rispose Kummer senza esitazione. «Tutto il tempo?» chiese Rooth. «Tutto il tempo.» «Quante persone c'erano a mangiare, in totale? Fra le cinque e le sei.» Kummer rifletté. «Non molte» rispose. «Quattro o cinque, forse.» «Non sembra alta stagione» disse Rooth. «Voi avreste voglia di giocare a golf con questo tempo?» ironizzò
Kummer. «Golf?» fece Rooth. «Cioè far rotolare delle uova sopra un tappeto d'erba?» Kummer non rispose, ma il tatuaggio sul suo braccio guizzò. «Non è mai venuto a sedersi qui al bar?» cercò di riprendere Jung. «Per un drink o qualcosa del genere?» Kummer scosse la testa. «Quante persone c'erano al bancone?» «Due o tre, forse... non mi ricordo con precisione. Qualcuno si è fermato solo qualche minuto, credo. Come succede sempre.» «Mmm» fece Jung. «Quando è uscito, allora, questo cliente solitario... non ha notato se qualcuno l'ha seguito? Subito dopo, voglio dire?» «No» rispose Kummer. «Come cazzo faccio a ricordarmelo?» «Non lo devo sapere io» disse Jung. «Ma si dà il caso che quest'uomo sia stato ammazzato nel parcheggio qui fuori, con ogni probabilità solo qualche minuto dopo essere uscito di qui, perciò sarebbe una buona cosa se lei cercasse di ricordare.» «Sto facendo del mio meglio» disse Kummer. «Ottimo» commentò Rooth. «Da lei non pretendiamo l'impossibile. In generale, ha notato qualcosa la sera in questione... qualcosa di insolito? O di particolare?» Kummer rifletté di nuovo. «Non credo» rispose alla fine. «No, era tutto come sempre, solo... molto, molto tranquillo.» «Era già stata qui in precedenza, questa persona?» domandò Jung, picchiettando con la penna sulle fotografie. «No» disse Kummer. «Non quando ero in servizio io, a ogni modo.» «A quanto pare lei ha una buona memoria per le facce.» «Sì, di solito mi ricordo le persone che incontro.» «Da quanto tempo lavora in questo posto?» «Tre mesi» rispose Kummer. Rooth scoprì una ciotola di noccioline un po' più in là sul bancone. Scese dallo sgabello, si avvicinò e ne prese una manciata. Il barista lo guardò corrugando la fronte. Jung si schiarì la gola. «Quella macchina» disse. «La Peugeot che c'è nel parcheggio... è rimasta lì da martedì scorso?» «Così dicono» rispose Kummer. «Non ci avevo fatto caso fino a oggi.» «È più bravo con le facce che con le automobili?» «Esatto» disse Kummer.
«Che tempo c'era, martedì sera?» Kummer alzò le spalle. «Grigio, suppongo. E ventoso. Anche se il bar è al coperto, come forse vi sarete accorti...» «Ma dice davvero?» fece Rooth e prese il resto delle noccioline. «Che mezzo usa per venire qui?» domandò Jung. «Utilizza anche lei il parcheggio? Perché non abita a Dikken, vero?» Kummer scosse la testa e mostrò di nuovo i denti. «Il più delle volte prendo il tram» disse. «Certi giorni vengo con Helene o qualcuno degli altri. Anche se nessuno di noi dipendenti usa il parcheggio. Ci sono dei posti riservati sul retro.» «Quanti dipendenti ci sono?» domandò Rooth. «Una dozzina circa» rispose Kummer. «Ma non siamo mai più di tre o quattro alla volta, a lavorare. Come dicevamo siamo in bassa stagione.» «Come dicevamo, già» ripeté Rooth e si guardò intorno nel locale deserto. «Perciò lei non sa chi possa essere l'assassino?» Kummer trasalì. «Ma che cazzo...?» sbottò. «È chiaro che non lo so. Non sarà mica colpa nostra se a qualcuno è capitato quel che è capitato proprio nel nostro parcheggio?» «Naturalmente no» disse Rooth. «Bene, credo che per questa volta possiamo ringraziare e togliere il disturbo. Forse ci faremo vivi di nuovo.» «E perché?» disse Kummer. «Perché è così che lavoriamo» rispose Jung. «Perché ci piacciono le noccioline» aggiunse Rooth. Moreno e Reinhart andarono insieme a Ockfener Plejn la domenica sera. Era solo a qualche isolato dalla centrale e, nonostante il vento e la pioggia battente, ci andarono a piedi. «Ho bisogno di schiarirmi la mente» spiegò Reinhart. «Può essere positivo se paesaggio esteriore e interiore hanno una certa corrispondenza.» «Come l'ha presa lui?» domandò Moreno. Reinhart continuò a camminare in silenzio per un momento prima di rispondere. «Non lo so» disse. «Che io sia dannato se l'ho capito. Comunque non è diventato più loquace. Münster ha avuto qualche difficoltà a comunicarglielo, in effetti. È davvero troppo.» «Era solo?» «No. Grazie al cielo era con la sua nuova compagna.» «Grazie al cielo» concordò Moreno. «È una tipa in gamba?» «Credo di sì» disse Reinhart.
Raggiunsero la vecchia piazza e individuarono l'edificio. Faceva parte di una fila di case alte e strette; piuttosto malandato, facciata fuligginosa e serramenti maltenuti. Pochi gradini conducevano alla porta d'ingresso e Moreno suonò il campanello accanto alla targhetta con il nome scritto a mano. Dopo mezzo minuto e un'ulteriore scampanellata Marlene Frey venne ad aprire. Aveva il viso un po' gonfio, e gli occhi sembravano molto più arrossati dal pianto di quando Moreno l'aveva interrogata nel suo ufficio alla centrale in mattinata. Eppure in quella gracile donna si percepivano forza di volontà ed energia. Moreno notò che si era anche cambiata i vestiti; solo un altro paio di jeans e una maglia gialla al posto di quella rossa, è vero, ma forse questo testimoniava che aveva cominciato ad accettare il fatto. E capito che la vita deve andare avanti. Non dava nemmeno l'impressione di aver preso un calmante. Anche se una cosa del genere era difficile da valutare, si capisce. «Salve» disse Moreno. «Sei riuscita a riposare un po'?» Marlene Frey scosse la testa. Moreno presentò Reinhart e insieme salirono lungo le scale strette fino al terzo piano. Due piccoli locali e una cucina fredda, era tutto. Pareti color vinaccia e un arredamento ridotto al minimo, composto più che altro da cuscini e cuscinetti variopinti su cui stare seduti o sdraiati. Qualche grande pianta d'appartamento e un paio di poster. Davanti alla stufa a gas nella stanza più grande c'erano due poltroncine di vimini e uno sgabello basso. Marlene si sedette sullo sgabello e fece segno a Reinhart e Moreno di prendere posto sulle poltroncine. «Gradite qualcosa?» Moreno scosse la testa. Reinhart si schiarì la gola. «Sappiamo che per te tutto questo è terribile» disse. «Ma ovviamente dobbiamo farti alcune domande. Comunque non farti problemi: se non te la senti, ne parliamo domani.» «Parliamone adesso» disse Marlene. «Non c'è nessuno con te?» volle sapere Moreno. «Un'amica, per esempio?» «Ne arriva una tra un po'. Me la cavo, non c'è bisogno che vi preoccupiate.» «Abitavate qui insieme?» domandò Reinhart e si spostò più vicino alla stufa. Era l'unica fonte di calore dell'appartamento ed era meglio non si-
stemarsi troppo lontano da essa. «Sì» rispose Marlene. «Abitiamo qui. O abitavamo...» «Da quanto tempo stavate insieme?» chiese Moreno. «All'incirca due anni.» «Sai chi è suo padre?» continuò Reinhart. «Non ha niente a che fare con questa storia, ma la rende ancora più spiacevole, dal nostro punto di vista. Anche se...» «Lo so» lo interruppe Marlene. «Loro due non avevano molti contatti.» «L'abbiamo capito» disse Reinhart e annuì. «In generale ce n'erano? Di contatti, voglio dire?» Marlene ci mise un po' a rispondere. «Io non l'ho mai incontrato» disse, «ma credo... credo che le cose stessero un po' migliorando.» Reinhart annuì. «Si frequentavano?» domandò Moreno. «Erich è andato a trovarlo un paio di volte quest'autunno. Anche se adesso non ha più nessuna importanza, ovviamente.» La sua voce ebbe un tremito e lei si passò rapidamente le palme delle mani sul viso, come per azzerarlo. I suoi capelli rossi erano tinti e un po' trascurati, osservò Moreno, ma non c'erano segni evidenti di abuso. «Se ci concentrassimo su martedì scorso» suggerì Reinhart mentre tirava fuori pipa e tabacco e riceveva un cenno di approvazione da Marlene. «Erich è andato in quel ristorante a Dikken» disse Moreno. «Hai idea del perché?» «No» rispose Marlene. «Non ne ho la minima idea. Come vi ho già detto stamattina.» «Aveva un lavoro?» domandò Reinhart. «Faceva un po' di tutto» disse Marlene. «Falegname, imbianchino, artigiano... nei cantieri e posti del genere. Per lo più in nero, temo, ma è così che va il mondo. Era bravo, nei lavori manuali.» «E tu?» disse Moreno. «Sto seguendo un corso per disoccupati. Economia e informatica e roba così, ma ti danno un sussidio. Lavoro in un paio di negozi quando hanno bisogno di personale. In effetti ce la caviamo... ce la cavavamo. Dal punto di vista economico, intendo. Erich lavorava anche in una tipografia. Da Stemminger.» «Capisco» disse Reinhart. «Aveva qualche trascorso, se si può...» «E chi non ne ha?» ribatté Marlene. «Ma noi eravamo sulla strada giusta, questo voglio che lo abbiate ben chiaro.»
Per un attimo sembrò che stesse per scoppiare a piangere, invece fece un respiro profondo e si soffiò il naso. «Raccontaci di martedì scorso» la incalzò Reinhart. «Non c'è molto da raccontare» disse Marlene. «Io avevo il mio corso in mattinata, poi ho lavorato nel negozio di Kellnerstraat un paio d'ore nel pomeriggio. Ho incontrato Erich qui a casa soltanto fra l'una e le due; lui aveva promesso di occuparsi di una certa barca e poi aveva una faccenda da sbrigare in serata.» «Barca?» disse Reinhart. «Che barca?» «Quella di un suo amico» rispose Marlene. «Doveva occuparsi dei mobili, probabilmente.» Moreno la pregò di scrivere nome e indirizzo di questo amico e lei lo fece dopo aver consultato un'agenda che era andata a prendere in cucina. «E quella cosa che doveva sbrigare la sera?» domandò Reinhart quando ebbe terminato. «Di che si trattava?» Marlene alzò le spalle. «Non lo so.» «Era un lavoro?» «Probabile.» «O dell'altro?» «Che cosa intende?» «Be'... qualcosa che non fosse un lavoro...» Marlene tirò fuori il fazzoletto e si soffiò di nuovo il naso. I suoi occhi erano due fessure. «Ho capito» disse. «Ho capito perfettamente. È solo per via del suo celebre papà se siete così educati, cazzo. Altrimenti c'è da scommettere che lo trattereste come un poveraccio qualsiasi. E me come una sgualdrina tossicodipendente.» «No, ma che...» cominciò Moreno. «Non c'è bisogno che ve la tirate tanto» continuò Marlene. «So bene come gira il mondo. Erich aveva un po' di cose sulla coscienza, ma negli ultimi anni aveva chiuso. Nessuno di noi fa più uso di stupefacenti e non siamo più criminali di chiunque altro. Anche se forse non vale la pena di cercare di far capire queste cose a voi sbirri...» Né Moreno né Reinhart risposero. Lo sfogo di Marlene rimase sospeso nel caldo silenzio sopra la stufa. E si dissolse solo quando un tram passò sferragliando per strada. «Okay» disse Reinhart. «Capisco il tuo punto di vista e forse hai ragione. Ma adesso la situazione è quella che è, e in effetti è davvero strano essere rimproverati perché trattiamo la gente in modo educato, per una vol-
ta... Credo che sia chiaro senza doverne discutere. Vogliamo andare avanti?» Marlene esitò un attimo. Poi annuì. «Dikken...» disse Reinhart. «Che cosa ci andava a fare? Avrai pure una vaga idea...» «Poteva trattarsi di qualsiasi cosa» rispose Marlene. «Capisco che voi possiate pensare allo spaccio di droga, ma posso giurare che non si trattava di quello. Erich aveva smesso con quel genere di cose già prima che ci mettessimo insieme.» Reinhart la osservò a lungo. «All right, allora ci fidiamo» concluse. «Ne avrebbe ricavato qualcosa? Soldi, voglio dire... oppure doveva solo incontrare un amico, per esempio? Fare un favore a qualcuno?» Marlene rifletté. «Credo che si trattasse di un lavoro» disse. «Una specie di lavoro.» «Ti ha detto che sarebbe andato proprio a Dikken?» «No.» «E non ti ha spiegato di cosa si trattava?» «No.» «Nemmeno qualche accenno?» «No.» «E tu non gli hai fatto domande?» Marlene scosse la testa e sospirò. «No» rispose. «Erich poteva avere sette o otto lavori alla settimana, non succedeva di frequente che ne parlassimo.» «Ti ha detto quando sarebbe tornato?» volle sapere Moreno. Marlene rifletté di nuovo. «Ci ho pensato, ma non ne sono sicura. A ogni modo, ero convinta che sarebbe stato a casa verso le otto o le nove di sera, ma non so se lui me l'abbia detto davvero. Accidenti.» Si morse il labbro e Moreno notò che d'improvviso aveva gli occhi pieni di lacrime. «Piangi pure» le disse. «Si riesce a piangere e al tempo stesso a parlare, sai.» Marlene seguì senza indugio il suo consiglio. Moreno si chinò in avanti e le passò un po' goffamente una mano sul braccio, mentre Reinhart si sistemava sulla poltroncina di vimini. Poi prese a trafficare con la pipa e la accese. «Nomi?» disse Moreno quando lo sfogo cominciò a passare. «Non ha fatto nessun nome in relazione a quella cosa che doveva fare martedì se-
ra?» Marlene scosse la testa. «Sai se era stato là in precedenza? O se aveva l'abitudine di andarci?» «A Dikken?» Marlene rise. «No, quello non è certo un posto per noi, cosa ne dite?» Moreno accennò un sorriso. «E non ti è sembrato preoccupato di recente? È successo qualcosa di particolare che puoi mettere in relazione con la disgrazia?» Marlene si tamponò gli occhi con la manica della maglia e rifletté nuovamente. «No» rispose. «Non mi viene in mente nulla.» «Nessuna nuova conoscenza negli ultimi tempi?» «No. Erich conosceva un bel po' di persone... di ogni genere, questo lo posso dire tranquillamente.» «Capisco» disse Reinhart. «Questo Elmer Kodowsky, per esempio... da cui aveva preso in prestito la macchina?» «Per esempio, sì» disse Marlene. «Non avete avuto contatti con lui negli ultimi tempi?» La ragazza scosse la testa. «È in galera. Non so dove, era un vecchio amico di Erich... io non lo conosco. L'ho visto soltanto un paio di volte.» «E tu non ti sei mai sentita minacciata?» domandò Moreno. «Io?» fece Marlene, con un'aria sinceramente sorpresa. «No, no davvero.» Seguì qualche attimo di silenzio. Marlene si avvicinò ancora di più alla stufa, mentre si strofinava le mani nel calore che saliva verso l'alto. «Hai tardato un bel po' a contattare la polizia» disse Reinhart. «Lo so.» «E perché?» Lei alzò le spalle. «Forse è nella natura delle cose. Che ne dite?» Reinhart non rispose. «Avevate qualche contatto con la madre di Erich?» chiese Moreno. «No» rispose Marlene. «Nessuno, in effetti. Ma vorrei parlare con suo padre; diteglielo se vi capita di incontrarlo. Vorrei comunicargli una cosa.» «Ah si?» disse Reinhart. «E che cosa?» «Questo lo dirò a lui» rispose la ragazza. Dopo si sedettero al Caffè Gambrinus e cercarono di riassumere le loro impressioni. «Nessuna pista precisa da seguire finora» osservò Reinhart, «Tu che ne
dici? Merda...» «No, nessuna» concordò Moreno. «Anche se sembra quasi che lui avesse un appuntamento con il suo assassino. Ma probabilmente non aveva ben chiaro come sarebbe andata a finire la faccenda. La cosa strana è che sia rimasto seduto da solo ad aspettare al ristorante. A sentire Jung e Rooth... può voler dire che quella persona non ha mai fatto la sua comparsa com'era stabilito.» «Possibile» disse Reinhart. «Anche se può essere andata in modo molto più semplice, non dobbiamo dimenticarlo.» «A che cosa ti riferisci?» chiese Moreno, bevendo un sorso del suo glühwein. «Una banale rapina» rispose Reinhart. «Un tossico armato di martello che aveva bisogno di un po' di contanti. L'hanno ripulito perfino delle sigarette e delle chiavi: sono dettagli che dovrebbero dirci qualcosa.» Moreno annuì. «Credi che sia andata così?» domandò. «Forse sì, forse no» rispose Reinhart. «Non è nemmeno detto che sia stata la stessa persona... a ucciderlo e a vuotargli le tasche, intendo. Quel tizio che ha telefonato per avvisarci non dà proprio l'idea di aver avuto le mani pulite, ti pare?» «Probabilmente non le aveva» disse Moreno. «In ogni caso sono propensa a credere che non si sia trattato di una semplice aggressione. C'è qualcosa di più, ma se penso così solo perché la vittima è lui, questo non te lo so dire... mi rendo conto che è un modo piuttosto contorto di ragionare.» «Ci sono molti aspetti contorti nel mondo dei pensieri» disse Reinhart. «Intuizioni e pregiudizi hanno un odore molto simile, a conti fatti. Dovremo cominciare da qui, in ogni caso.» Tirò fuori il quadernetto nero di tela cerata che Marlene Frey aveva dato loro in prestito, con la promessa che le sarebbe stato restituito non appena l'avessero copiato. «Dev'essere una prova che adesso erano sulla strada giusta» disse Moreno. «Chi consegna spontaneamente il proprio indirizzario alla polizia se ha qualcosa sulla coscienza?» Reinhart sfogliò il quadernetto e assunse un'aria preoccupata. «Quanta gente, cazzo» disse e sospirò. «Credo che dovremo parlare di nuovo con lei e chiederle di sfoltire un po' l'elenco.» «Ci penso io domani» disse Moreno. «Ma adesso non voglio più stare qui. Non credo che riusciremo a concludere niente per stasera.» Reinhart guardò l'ora. «Probabilmente ha ragione, ispettore» disse. «Una
cosa a ogni modo è sicura.» «E sarebbe?» chiese Moreno. «Dobbiamo risolvere questo caso. Se anche non dovessimo più risolvere un altro fottutissimo caso prima della fine del secolo, dobbiamo almeno sistemare questo. È il minimo che possiamo fare.» Moreno si prese la testa fra le mani e rifletté. «Se si trattasse di qualcun altro, penserei che la tua è una morale esasperata da boy-scout» disse. «Ma devo ammettere che sono d'accordo con te. È già un disastro così e sarebbe ancora peggio se lasciassimo l'assassino in libertà. Lo contatterai di nuovo domani? Forse vuole sapere come procede...» «Ho promesso di tenerlo informato» disse Reinhart. «Ed è quello che farò. Che mi piaccia o no.» Moreno annuì con aria lugubre. Poi vuotarono i loro bicchieri e lasciarono il caffè e la città e il mondo al loro destino. Almeno per qualche ora. 9 Si svegliò e guardò l'ora. Le cinque meno un quarto. Aveva dormito solo venti minuti. Erich è morto, pensò. Non è un sogno. È morto, questa è la realtà. Sentì che gli occhi bruciavano nelle orbite. Come se volessero schizzargli fuori dal cranio. Edipo, gli passò per la mente. Edipo Re... vagare cieco per il resto della vita e cercare misericordia, forse sarebbe qualcosa. Avrebbe un senso. Erich. Erich è morto. Mio figlio. Era incredibile come lo stesso pensiero potesse colmare tutta la sua mente ora dopo ora. Le stesse tre parole, nemmeno un pensiero vero e proprio, in realtà; solo questa costellazione di vocaboli, impenetrabile come un mantra in una lingua sconosciuta: Erich è morto, Erich è morto, Erich è morto. Un minuto dopo l'altro, un secondo dopo l'altro; ogni frazione di ogni attimo di ogni secondo. Erich è morto. O forse non era incredibile. Probabilmente era proprio così che doveva essere. Sarebbe stato così da lì in poi. Questa era la pietra angolare nel resto della sua vita. Erich era morto. Suo figlio aveva definitivamente preso possesso di lui; attraverso la sua morte alla fine aveva conquistato la completa attenzione del padre e tutto il suo amore. Erich. Proprio in quel modo. Molto semplicemente. Finirò per crollare, pensò Van Veeteren. Crollerò e andrò a fondo, ma
non me ne importa. Sarei dovuto morire quando si è presentata l'occasione. La donna al suo fianco si mosse e si svegliò. Ulrike. Ulrike Fremdli. Colei che era diventata la sua compagna nonostante tutte le esitazioni e le lotte interiori. Di lui, non di lei. «Sei riuscito a dormire un po'?» Lui scosse la testa. «Proprio niente?» «Una mezz'ora.» Lei gli passò la mano calda sul petto e sullo stomaco. «Vuoi una tazza di tè? Posso preparartelo io.» «No, grazie.» «Vuoi parlare?» «No.» Lei si girò. Gli si rannicchiò più vicino e dopo un attimo lui sentì dal ritmo del suo respiro che si era riaddormentata. Aspettò ancora qualche minuto, poi si alzò con cautela, le rimboccò le coperte e andò in cucina. Le rosse cifre digitali sulla radio davanti alla finestra segnavano le 04.56. Fuori era ancora buio pesto; soltanto il raggio di luce obliquo di un lampione cadeva su un angolo dell'edificio immerso nel buio dall'altra parte della strada. Guijdermann, il panificio che aveva cessato l'attività. Gli oggetti che riusciva a distinguere in cucina erano avvolti nello stesso sudario immoto. Il tavolo, le sedie. Il fornello, il bancone, la mensola sopra la dispensa, il mucchio di «Allgemejne» nel cesto nell'angolo. Aprì lo sportello del frigorifero e lo richiuse. Prese un bicchiere dal mobiletto sopra il lavello e preferì bere un po' d'acqua del rubinetto. Erich è morto, pensava. Morto. Ritornò in camera e si vestì. Ulrike si mosse inquieta un paio di volte nel letto mentre lui trafficava, ma non si svegliò. Poi scivolò nell'ingresso e si chiuse la porta alle spalle. Si mise le scarpe, la sciarpa e il cappotto. Lasciò l'appartamento e a passi silenziosi scese le scale e uscì in strada. Cadeva una pioggia leggera, o meglio, svolazzava nell'aria, come un soffice sipario di gocce fluttuanti, leggere come piume. La temperatura era di sicuro intorno ai sette, otto gradi sopra lo zero. Il vento non era degno di nota, e le strade erano deserte come alla vigilia di un bombardamento annunciato da tempo. Buie e chiuse in se stesse, immerse nel sonno senza segreti degli edifici circostanti. Erich è morto, pensò, e cominciò a camminare.
Ritornò un'ora e mezzo dopo. Ulrike era seduta nella penombra della cucina e lo stava aspettando con le mani strette intorno a una tazza di tè. Lui percepì la sua aura di inquietudine e compassione miste a rimprovero, ma non lo colpì più della chiamata di qualcuno che avesse sbagliato numero o delle condoglianze formali. Spero che lei sarà in grado di sopportare, pensò. Spero di non trascinarla con me. «Sei bagnato» disse lei. «Hai fatto una camminata molto lunga?» Lui alzò le spalle e le si sedette di fronte. «Sono andato verso Löhr» rispose. «Non piove poi così tanto.» «Mi sono addormentata. Mi spiace.» «Avevo bisogno di uscire un po'.» Lei annuì. Passò mezzo minuto; poi lei tese le mani attraverso il tavolo. Le appoggiò aperte a qualche centimetro da lui e dopo un momento lui le prese. Le chiuse nelle sue e le strinse titubante. Capì che stava aspettando qualcosa. Che doveva dire qualcosa. «C'era un'anziana coppia quand'ero bambino» cominciò. «Si chiamavano Bloeme.» Lei annuì vagamente, assumendo un'aria interrogativa. Lui indugiò un attimo con lo sguardo sul suo viso prima di proseguire. «In realtà non erano poi così anziani, ma davano l'idea di essere le persone più vecchie del mondo. Abitavano nel nostro quartiere, qualche casa più in là della nostra, e non uscivano quasi mai. Solo ogni tanto, la domenica pomeriggio, capitava che comparissero e allora... allora tutti i giochi e la vita sulla strada era come se si fermassero. Camminavano sempre a braccetto sul lato in ombra della via; lui portava il cappello e intorno a loro c'era un alone intenso di dolore. Come una nube. Mia madre mi raccontò la loro storia; io all'epoca non avevo più di sette, otto anni. I Bloeme una volta avevano due figlie: due belle ragazze che un'estate erano andate insieme a Parigi. Lì erano state uccise entrambe sotto un ponte e da allora i genitori avevano smesso di frequentare chiunque. Le ragazze erano tornate a casa ognuna dentro la sua bara francese. Ecco, questa era la loro storia... noi bambini li guardavamo sempre con il massimo rispetto. Un rispetto senza eguali, semplicemente.» Tacque e lasciò andare le mani di Ulrike. «I figli non devono morire prima dei loro genitori.» Lei annuì. «Ti va una tazza di tè?» «Grazie. Se ci metti anche un goccio di rum.»
Lei si alzò. Accese il bollitore elettrico. Cercò un attimo fra le bottiglie nel pensile. Van Veeteren rimase seduto al tavolo. Intrecciò le mani e appoggiò il mento sulle nocche. Chiuse gli occhi e sentì che gli facevano di nuovo male. Un dolore bruciante dietro le palpebre che saliva fino alle tempie. «Questo io l'ho già provato.» Ulrike si voltò e lo guardò. «No, non intendo nel mio lavoro. È solo che mi sono figurato la morte di Erich un sacco di volte... il fatto che sarei stato io a seppellirlo, anziché il contrario. Non negli ultimi tempi, ma prima. Otto, dieci anni fa. Me lo immaginavo abbastanza chiaramente... un padre che seppellisce suo figlio; non so, forse sono pensieri che tutti i genitori fanno.» Lei appoggiò due tazze fumanti sul tavolo e gli si sedette di nuovo di fronte. «Non io» ribatté. «Non così nei dettagli, in ogni caso. Perché ti torturavi con quei pensieri? Doveva esserci per forza qualche ragione.» Van Veeteren annuì e assaggiò con cautela la bevanda forte e dolce. «Sì.» Esitò un istante. «Sì, qualche ragione c'era. Una almeno... quando Erich aveva diciott'anni, cercò di togliersi la vita. Ingurgitò tante di quelle pastiglie che sarebbero bastate per cinque o sei persone adulte. Un'amica lo trovò e riuscì a portarlo in tempo all'ospedale. Senza di lei sarebbe morto. Sono passati più di dieci anni, per un certo periodo è stato l'incubo di tutte le mie notti. Non soltanto il suo sguardo vuoto, disperato, colpevole, nel letto su al Gemejnte... sognavo anche che era riuscito nel suo intento, e che io andavo a cambiare i fiori sulla sua tomba. E così via. È un po' come se... come se mi fossi allenato in vista di questa cosa. Adesso è una realtà, e in tutti questi anni ho sempre saputo che prima o poi lo sarebbe diventata... o creduto. Ero quasi riuscito a dimenticarlo, ma adesso eccoci qui. Erich è morto.» Tacque di nuovo. Il ragazzo dei giornali o forse un vicino passò sulle scale. Ulrike fece per dire qualcosa, ma poi rinunciò. «Ho cercato di entrare nella chiesa di Keymer prima» continuò Van Veeteren, «ma era chiusa. Mi sai dire perché dobbiamo tenere chiusi i nostri luoghi di culto?» Lei gli carezzò piano le mani. Trascorse un minuto. Poi due. Lui capì che stava cercando le parole. «Erich non è morto perché voleva morire» disse lei alla fine. «È una differenza importante.» Lui non rispose. Liberò la mano destra e bevve un sorso. «Può darsi»
disse. «Forse è una differenza importante. Ma in questo momento mi è difficile da capire.» Poi di nuovo silenzio. Una luce grigia aveva cominciato a farsi strada dalla finestra. Erano passate da poco le sette. Fuori, la strada e la città si erano svegliate. Per una nuova giornata novembrina. La vita stava ricominciando. «Non ho più la forza di parlarne» disse Van Veeteren. «Non capisco a che cosa serva sommergerla di parole. Scusa se sono poco loquace, ti sono grato di essere qui. Infinitamente grato.» «Lo so» disse Ulrike. «Ma non è delle parole che si tratta. Non si tratta nemmeno di noi. Andiamo a letto ancora un po'?» «Vorrei fosse toccato a me, invece.» «È inutile.» «Lo so. La vanità è la scacchiera dei desideri.» Vuotò la sua tazza e la seguì in camera da letto. All'ora di pranzo telefonò Renate; la sua ex moglie, la madre di suo figlio morto. Parlò con lei per venti minuti: un po' parlava, un po' piangeva. Quando mise giù la cornetta pensò a quello che aveva detto Ulrike. Non si tratta nemmeno di noi. Decise di far tesoro di quelle parole. Ulrike aveva perso il marito in circostanze analoghe; era successo quasi tre anni prima e si erano conosciuti così. Van Veeteren e Ulrike Fremdli. C'erano parecchie cose che facevano capire che lei sapeva di cosa si trattava. Nella misura in cui era possibile sapere. Alle due si mise in macchina e andò all'aeroporto di Maardam a prendere Jess. Lei era distrutta dal dolore già quando gli andò incontro nella sala degli arrivi; caddero una nelle braccia dell'altro e rimasero lì fermi... per ore, così parve loro. Rimasero semplicemente lì, in mezzo al caos che c'era sempre a Sechshafen, a cullarsi avanti e indietro nel loro comune dolore, muto e senza tempo. Lui e sua figlia Jess. Jess che aveva due gemelli di sette anni e un marito a Rouen. La sorella di Erich. La figlia che gli era rimasta. «Non sono ancora pronta a incontrare la mamma» gli confessò lei quando furono arrivati alla macchina nel parcheggio sotterraneo. «Non possiamo andare a sederci da qualche parte e basta?» Lui la portò da Zeeport, la piccola locanda vicino a Egerstadt. Telefonò a Renate e le disse che sarebbero arrivati con un po' di ritardo, e poi trascorsero il resto del pomeriggio seduti uno di fronte all'altra a un tavolino
con vista sulla pioggia e sulle dune. E sul cielo color piombo che gravava come una pesante cupola sopra quella striscia di costa spoglia e battuta dal vento. Lei si ostinò a tenere una mano in quella di lui, perfino mentre mangiavano, e come Ulrike sembrava aver capito che le parole non erano necessarie. Che non li riguardava in prima persona. Che si trattava di Erich e di tenerlo ancora fra loro. «L'hai visto?» chiese lei dopo un po'. Sì, era stato all'Istituto di Medicina legale la domenica. Pensava che anche Jess avrebbe potuto fargli una visita. Se se la sentiva. Forse già il giorno dopo, lui l'avrebbe accompagnata volentieri. Lei gli domandò anche chi fosse stato, e lui rispose che non lo sapeva. Perché? Neanche questo sapeva. Alle cinque e mezzo ripartirono da Egerstadt e quarantacinque minuti dopo lui lasciò Jess fuori della casa di Renate in Maalerweg, dove avrebbe alloggiato per il momento. Renate uscì sulle scale e accolse singhiozzando la figlia, ma Van Veeteren si accontentò di passarle i bagagli dal sedile posteriore e di prendere accordi per un incontro a tre il giorno successivo. Al mattino, magari per andare a vedere Erich; nemmeno Renate aveva ancora avuto il tempo di farlo. O la forza. Quando arrivò a casa, sul tavolo di cucina c'era un messaggio di Ulrike. C'era scritto che lo amava e che sarebbe stata di ritorno verso le nove. Si preparò un toddy e si sedette al buio in soggiorno. Mise un CD di Penderecki, ma lo spense quasi subito. Niente parole, pensò, e niente musica. Erich è morto. Silenzio. Dopo tre quarti d'ora telefonò Reinhart. «Come va?» gli chiese. «Tu cosa credi?» rispose Van Veeteren. «Sei solo?» «In questo momento sì.» Seguirono un paio di minuti di silenzio mentre Reinhart cercava le parole. «Hai voglia di parlarne? Potremmo incontrarci un momento domani.» «Forse» disse Van Veeteren. «Nel caso ti telefono. Sapete chi è stato?» «Non abbiamo la minima idea» rispose Reinhart. «Voglio che lo troviate» disse Van Veeteren. «Lo troveremo... c'è anche un'altra cosa.»
«Un'altra cosa?» ripeté Van Veeteren. «Marlene Frey. La sua ragazza. L'hai conosciuta?» «Le ho parlato al telefono.» «Vuole che la contatti» disse Reinhart. «Lo farò senz'altro» disse Van Veeteren. «È ovvio. Posso chiederti un favore?» «Prego» disse Reinhart. Van Veeteren esitò un paio di secondi. «Quando l'avrete preso... quando avrete trovato chi è stato, voglio dire... vorrei incontrarlo anch'io.» «E perché?» domandò Reinhart. «Perché è così che funziona. Se cambio idea te lo farò sapere.» «All right» disse Reinhart. «Senz'altro. Potrai sederti faccia a faccia con lui, te lo prometto.» «Prima è, meglio è» disse Van Veeteren. «Farò quello che posso.» «Grazie, mi fido di te.» 10 «Me ne sbatto di quello che state facendo adesso» disse Reinhart. «Me ne sbatto se dovrete fare trecento ore di straordinari la settimana. Me ne frego altamente di che cosa potete dire e credere e pensare, questo caso ha la massima priorità! Il figlio del commissario è stato assassinato, anche se sparano al primo ministro e violentano il papa, li mettiamo in naftalina fino a che non avremo risolto questa faccenda. È chiaro? Avete capito? C'è qualcuno che ha qualcosa da obiettare? Nel caso, può fare richiesta di trasferimento seduta stante! Al diavolo... off the record, allora?» «Sono d'accordo» disse Rooth. Probabilmente anche gli altri lo erano. Comunque nessuno sollevò obiezioni. Intorno alla scrivania l'aria era già soffocante. Reinhart era riuscito a pigiare quattro sedie in più nel suo ufficio; nella centrale c'erano ovviamente altri locali più grandi, ma nessuno dove lui potesse fumare con la stessa libertà, e da quando era nata la figlia aveva stretto un patto con sua moglie di limitare tutto il consumo di tabacco fuori di casa. C'erano sette agenti investigativi. Gli ispettori Moreno, Rooth e Jung. L'aspirante Krause, giovane e promettente come al solito. Il soprintendente deBries e un nuovo assistente di polizia giudiziaria, Bollmert, preso in prestito da Aarlach in attesa che il soprintendente Münster tornasse dal suo
incarico investigativo presso il ministero, causato da una coltellata al rene in servizio che si era beccato dieci mesi prima. E da un po' troppe ore di lavoro. E poi lui; il commissario Reinhart, adesso. Anche se, quando si parlava del commissario, non era mai a lui che ci si riferiva, a meno che non fosse il capo della polizia Hiller che cercava di essere ironico o soltanto divertente. Il commissario significava sempre il commissario Van Veeteren, capo della squadra omicidi di Maardam per quindici anni e suo fulcro per il doppio del tempo; da circa due anni, tuttavia, era sceso dal parnaso della giustizia per mettersi sulla strada che portava alla pensione come comproprietario e commesso della libreria antiquaria Krantze in vicolo Kupinski. A pieno diritto, certamente; tutti gli auguravano di trovare la tranquillità in mezzo ai suoi libri e tutti ne sentivano la mancanza con un misto di fremito, rispetto e stupore. Ma adesso, ancora una volta, era coinvolto in un caso. Il commissario. Nel peggior modo possibile... non come vittima, ma quasi. Un figlio assassinato. Diavolo, pensò il commissario Reinhart. Diavolo dell'inferno! Molte volte nel corso della sua carriera aveva pensato che peggio di così non si poteva proprio. Ma questo era peggio. Più studiatamente diabolico di quanto si sarebbe mai potuto immaginare. Devo cercare di soffocare la mia collera personale, pensò. Devo tenerla a bada, altrimenti finirà per essermi soltanto d'ostacolo. «Dobbiamo cercare di non tenere conto del commissario» disse. «Dobbiamo evitare il coinvolgimento personale. Dobbiamo trattare la faccenda proprio come qualsiasi altro caso... anche se con la massima priorità. Dobbiamo risolverlo. Altrimenti è un casino. La scienza per prima, come di consueto.» Scartabellò fra le pile di carte che aveva sulla scrivania fino a trovare il foglio giusto e si schiarì la gola. «Erich Van Veeteren è stato ucciso con due colpi inferti alla testa con un corpo contundente privo di spigoli» spiegò. «Ognuno dei due colpi era di per sé mortale. O sicuramente lo era il secondo, quello che lo ha raggiunto alla nuca, dice Meusse... che ci vede un tratto di professionalità. L'arma dev'essere stata piuttosto pesante... di metallo e senza spigoli, forse un tubo o qualcosa di simile. Non è stata ancora rinvenuta.» «Peccato» commentò deBries. «Avrebbe facilitato le cose.» Reinhart gli lanciò un'occhiata storta prima di continuare. «Momento: la sera di martedì scorso. Tenuto conto di quanto osservato
alla Trattoria Commedia, probabilmente subito dopo le diciotto e quindici. Si può supporre che l'omicida abbia colpito nel parcheggio e poi abbia trascinato la sua vittima nei cespugli, dove il cadavere è rimasto fino a sabato scorso, quando qualcuno ci ha fatto una soffiata per telefono. Quanto a chi si sia appropriato degli effetti personali che aveva nelle tasche, possiamo soltanto fare delle supposizioni. O è stato l'omicida stesso, oppure qualcun altro. Che potrebbe benissimo essere il nostro anonimo telefonista. Tracce? Indizi? Movente? Nada! Commenti, grazie.» «C'erano tracce di stupefacenti nei vestiti?» domandò l'assistente Bollmert. Probabilmente nel tentativo di fare impressione, pensò Reinhart. L'agente che arrossiva facilmente era in servizio alla centrale da poche settimane, ed era di certo impaziente di mostrare le proprie capacità. Cosa che non necessariamente doveva essere vista a suo sfavore. Anche il fatto che non avesse mai conosciuto il commissario poteva forse essere considerato un vantaggio. Nella situazione contingente. «Nessuna traccia nei vestiti» rispose Reinhart. «E nemmeno nel sangue, nei capelli o nelle unghie. Possiamo dare per certo che la sua ragazza abbia detto la verità su questo punto. Peccato che lui non le abbia raccontato che cosa ci andava a fare, a Dikken, così avremmo potuto avere la sua versione anche su questo.» «Il fatto che non gliene abbia parlato lascia supporre che non fosse una faccenda del tutto pulita» osservò Rooth. «Lui non ne ha parlato con la ragazza né con Otto Meyer, l'amico cui ha dato una mano con la barca nelle prime ore di quel pomeriggio.» «Non ha detto nemmeno che doveva andare a Dikken?» chiese Moreno. «A quel Meyer, intendo.» «No» rispose Jung. «Soltanto che era costretto ad andare via alle quattro e mezzo perché aveva in ballo un lavoretto.» «Un lavoretto?» disse Reinhart. «Ha usato proprio quel termine?» Jung annuì. «Abbiamo spremuto Meyer come si deve su quel punto. Sì, l'ha chiamato proprio 'lavoretto'. Nessun dubbio. In ogni caso, ha lasciato la rimessa delle barche a Greitzengraacht qualche minuto dopo le quattro e mezzo, hanno lavorato all'arredamento nella cabina, e l'idea era di andare avanti anche questa settimana. Una gran bella barca, non c'è che dire... diciotto metri, sei cuccette... pannelli in tek, angolo bar e via dicendo. Meyer è un gran farabutto, si capisce, ma del genere tollerabile, non ci riguarda.» «E non aveva nient'altro da riferire?» domandò Reinhart. «Neanche una virgola» rispose Rooth.
Jung alzò le spalle e assunse un'aria di rincrescimento. Reinhart sospirò. «Ottimo» disse. «Più magro di un vegetariano purgato. Che cos'abbiamo d'altro?» Conosceva già la risposta, ma fece comunque il giro della stanza con lo sguardo cercando di sembrare ottimista. «L'indirizzario» disse deBries alla fine. «Esatto» commentò Reinhart. «In gamba come al solito. Come va?» DeBries allargò le braccia, mancando per un pelo il mento di Rooth. «Sta' un po' attento, semaforo del cavolo» disse Rooth. Bollmert scoppiò in una risata nervosa. «Si procede» spiegò deBries imperturbabile. «Ci sono annotati i nomi di centoquarantasei persone e di circa cinquanta istituzioni o simili. Più una dozzina di cose incomprensibili... cancellature, scarabocchi e roba del genere. Probabilmente erano sei o sette anni che lo utilizzava, o almeno questo è quello che suppone la sua ragazza, anche se lei lo conosceva solo da tre. Finora ha identificato trentacinque persone, cominceremo con i controlli domani.» «C'è qualche conoscente comune che non compare nell'agenda?» domandò Jung. DeBries scosse la testa. «A grandi linee no. Lui è stato piuttosto preciso, parrebbe. Per esempio, c'è un ragazzo che avevano incontrato a una festa solo qualche settimana fa.» «Mmm» fece Reinhart. «Quindi vorresti dire che l'assassino è da qualche parte in mezzo a tutti quei nomi?» «Se è qualcuno che conosceva ci sono buone probabilità che sia così» rispose deBries. «Bene» disse Reinhart. «Hai Moreno, Krause e l'assistente Bollmert; vedete di essere precisi e di non lasciarvi sfuggire niente. Fissate incontri faccia a faccia e registrate ogni conversazione; le chiacchiere per telefono non ci servono, ricordatevelo. Preparate anche un elenco delle domande da fare... e prima voglio dargli un'occhiata io. Che alibi hanno per martedì sera e via dicendo... niente guanti di velluto. Chiaro? È pur sempre l'unico straccio di pista che abbiamo, per il momento.» «Chiarissimo» disse deBries. «Non sono mica un idiota.» «Certe volte può essere un vantaggio» borbottò Reinhart. Accese la pipa e soffiò un paio di dense nuvole di fumo sui presenti. «Questa ragazza?» disse Jung. «Dovremo risentire anche lei. Sugli ultimi giorni, che cos'hanno fatto e così via...»
«Ovvio» commentò Reinhart. «Me ne incarico io. Rooth e Jung torneranno al ristorante, almeno a Rooth dovrebbe far piacere. Abbiamo una conferenza stampa domani, durante la quale lanceremo un appello a tutti coloro che ci hanno messo piede martedì scorso. Ci si ricava sempre qualcosa... se non si riesce a pescare in profondità, si può almeno provare ad allargare il tiro.» «Parole sagge» disse Rooth. «Anche se i pesci brutti di solito stanno sul fondo, se non mi sbaglio. I merluzzi, per esempio.» «Vero» disse Bollmert, che era quasi nato su un peschereccio, ma che non riteneva fosse il caso di tirarlo in ballo proprio in quel momento. «Che cavolo c'entrano i merluzzi con questa storia?» domandò Reinhart. Seguì qualche secondo di silenzio, mentre il capo della squadra investigativa espirava fumo e gli altri lo stavano a guardare. «Voi che cosa ne pensate?» chiese poi deBries. «Dobbiamo pur avere una qualche teoria. Perché è stato ammazzato?» Reinhart si schiarì la gola. «Te lo dirò quando mi sarò fatto un'idea un po' più chiara dell'ultima settimana» affermò. «Il giovane Van Veeteren doveva incontrare una persona a Dikken, è probabile che ci avrebbe guadagnato qualcosa ed è anche probabile che non si trattava di vendere biglietti di Natale. Questo è quello che abbiamo per il momento.» «E poi è stato fatto fuori» disse Rooth. «Dalla persona che doveva incontrare o da qualcun altro» aggiunse Jung. «Quel tipo da cui ha preso in prestito la macchina...?» chiese Bollmert. «Lo possiamo senz'altro scartare» rispose Reinhart dopo averci pensato su due secondi. «È rinchiuso nel carcere di Holte e per quanto ne sappiamo erano diversi mesi che non avevano contatti. L'uomo non aveva permessi da un bel pezzo.» «Per quale motivo è al fresco?» volle sapere Rooth. «Per un bel po' di cosette» rispose Reinhart. «Rapina e traffico di clandestini, fra l'altro. Possesso illegale di arma da fuoco. Quattro anni. Ancora due e mezzo da scontare, grossomodo.» «Okay» disse deBries. «Lo scartiamo. Qualcos'altro? Io ho fame, è da una settimana che non mangio.» «Lo stesso vale per me» disse Rooth. Reinhart appoggiò la pipa nel posacenere. «Solo un'ultima cosa» disse molto serio. «Ieri sera ho parlato con il commissario e gli ho promesso che risolveremo questo caso. Spero che tutti si rendano conto dell'eccezionalità della situazione. Quello che ho detto
all'inizio lo intendo davvero. Dobbiamo risolvere il caso. Dobbiamo! Intesi?» Si guardò intorno. «Non siamo mica degli idioti» gli fece osservare deBries. «Come s'è già detto.» «Lo risolveremo» disse Rooth. È una buona cosa avere degli uomini che hanno fiducia nelle proprie capacità, pensò Reinhart, ma non disse nulla. Van Veeteren si fermò nell'angolo sudoccidentale della piazza lunga e stretta. Ockfener Plejn. Rabbrividì e affondò le mani nelle tasche del cappotto. Si guardò intorno. Fino al sabato prima non aveva saputo che Erich abitava lì; o forse l'aveva saputo inconsciamente? Si erano incontrati due volte quell'autunno; una volta all'inizio di settembre, e un'altra volta poco più di tre settimane prima. Nonostante tutto, pensò, frugandosi in tasca alla ricerca della macchinetta per fare le sigarette, nonostante tutto aveva frequentato un po' suo figlio. Negli ultimi tempi. L'aveva accolto in casa sua e si erano parlati da persone civili. Proprio così. Qualcosa si stava muovendo; non era chiaro cosa, tutto era ancora piuttosto fumoso, naturalmente, ma era pur sempre qualcosa... Erich gli aveva raccontato di Marlene Frey, anche se aveva parlato solo di una giovane donna senza farne il nome, a quanto si ricordava, ed è probabile che avesse anche menzionato dove vivevano, perché mai non avrebbe dovuto? Solo che lui non se lo ricordava. Allora è qui che abitava... o aveva abitato. Quasi nel cuore della città vecchia; in quell'edificio ottocentesco un po' fatiscente, pensò mentre fissava la facciata fuligginosa. Terzo piano, quasi in cima; filtrava una debole luce dalla finestra che dava su un minuscolo balcone dalla ringhiera di ferro macchiata di ruggine. Sapeva che lei era in casa e che lo stava aspettando; la fidanzata viva del suo figliolo morto, che lui non aveva mai visto, ma sapeva anche - con una forza improvvisa che lo travolse - che non ne sarebbe stato capace. Che non avrebbe avuto il coraggio di suonare a quel portone scrostato, non quel giorno. Invece guardò l'ora. Erano quasi le sei, il buio che stava calando sulla città gli sembrava freddo e ostile. Nell'aria, un odore insolito di zolfo o di fosforo. Non riusciva a riconoscerlo, in qualche modo sembrava fuori posto lì. Al momento le precipitazioni erano cessate, ma la pioggia naturalmente non era mai troppo lontana, in quella stagione. Accese una sigaretta. Abbassò lo sguardo, forse per la vergogna o per qualche altro motivo... e nel farlo scoprì un caffè nell'angolo opposto della piazza, e quando ebbe
terminato di fumare si diresse lì. Prese posto in compagnia di una birra scura vicino a una finestra, attraverso la quale non si poteva vedere né dentro né fuori. Si prese la testa fra le mani e ripensò alla giornata appena trascorsa. Quella giornata. La terza in cui si era svegliato con la consapevolezza che suo figlio era morto. Per prima cosa un'ora alla libreria antiquaria, dove aveva spiegato la situazione a Krantze, con il quale aveva ridistribuito i turni della settimana. Il vecchio Krantze non gli dispiaceva, ma probabilmente non sarebbero mai diventati niente di più che soci d'affari. Era questa la realtà. Poi ancora una visita all'Istituto di Medicina legale, stavolta in compagnia di Renate e di Jess. Lui si era fermato fuori della porta, mentre loro entravano nella cella frigorifera. Un figlio morto è sufficiente guardarlo una volta sola, aveva pensato. E lo pensava ancora, mentre stava seduto lì a sorseggiare la birra... una volta sola, c'erano immagini che il tempo e l'oblio non avrebbero mai appannato. Che non sarebbe mai stato necessario richiamare alla mente dal momento che non sarebbero mai sbiadite. Jess era composta quando erano uscite; con un fazzoletto appallottolato in ogni mano, ma comunque composta. Renate era intontita come quando era entrata; si chiese quali medicine prendesse e in che quantità. Aveva anche parlato un paio di minuti con Meusse. Nessuno dei due se l'era cavata molto brillantemente. Meusse aveva un groppo in gola e non era certo da lui. Un po' più tardi aveva fatto conoscere Jess a Ulrike. Era stato un punto luminoso nel buio; un incontro che era andato incredibilmente bene. Solo una mezz'ora nel soggiorno di Klagenburg con un bicchiere di vino e un'insalata, tutto qui. E non erano state le parole o loro stesse... c'era quel qualcosa fra donne che lui non sarebbe mai stato in grado di capire. Fra certe donne. Quando si erano congedate, si era quasi sentito un estraneo, e per questo era riuscito a sorridere nel bel mezzo dello sconforto. Poi aveva telefonato a Marlene Frey e avevano preso accordi per incontrarsi. Lei era parsa relativamente serena e gli aveva detto che era il benvenuto a qualsiasi ora dopo le cinque. Allora sarebbe stata in casa ed era molto desiderosa di parlargli. C'era una cosa, aveva detto. Molto desiderosa? Una cosa? E adesso lui era seduto lì con i piedi più freddi della birra. Perché? Non lo sapeva. Sapeva soltanto che quel giorno non avrebbe funzionato,
e dopo aver vuotato il bicchiere chiese di fare una telefonata. Poi, in piedi nel vago odore di urina fra la toilette degli uomini e quella delle signore, telefonò alla fidanzata del suo defunto figliolo, per spiegare che aveva avuto un contrattempo. Poteva andar bene il giorno dopo, invece? O quello dopo ancora? Certo, andava bene. Ma la ragazza ebbe difficoltà a nascondere la propria delusione. Così come lui, quando lasciò Ockfener Plejn e si incamminò verso casa sotto la pioggia. Delusione e vergogna. Non mi capisco più, pensò. In fondo non è di me che si tratta. Di cosa ho paura, che diavolo sto combinando? Ma andò dritto a casa. Reinhart fu svegliato da Winnifred che sussurrava il suo nome. E dal fatto che gli aveva messo una mano gelida sullo stomaco. «Devi far addormentare tua figlia» gli disse. «Non te stesso.» Lui sbadigliò e si stiracchiò per due minuti. Poi si tirò su con cautela dal lettino di Joanna e uscì dalla cameretta. Andò a sprofondarsi sul divano in soggiorno, dove sua moglie era già rannicchiata sotto un plaid. «Racconta» gli disse. Lui rifletté. «Un diavolo a tre teste» disse. «Sì, questa storia è proprio così. Vuoi un bicchiere di vino?» «Sì, volentieri» rispose Winnifred. «Com'è noto, Satana ha tre teste già in Dante, perciò da questo punto di vista è tutto regolare.» «Ai tempi di Dante bruciavano sul rogo le donne che la sapevano troppo lunga. Rosso o bianco?» «Rosso. No, era un po' dopo Dante. Allora?» Reinhart si alzò e andò in cucina. Riempì due bicchieri e tornò in soggiorno. Si sedette di nuovo sul divano e raccontò. Gli ci volle un momento e lei non lo interruppe nemmeno una volta. «E il tre cosa c'entra?» gli domandò quando ebbe concluso. Reinhart bevve un sorso e poi rispose. «Come prima cosa» disse, «non abbiamo l'ombra di un sospetto di chi possa essere stato. È già brutto in un caso normale.» «Lo so» disse Winnifred. «Come seconda, la vittima è il figlio del commissario.» «Orrendo» commentò Winnifred. «E come terza?» Reinhart fece una nuova pausa per riflettere. «Come terza, può essere
che fosse coinvolto in qualcosa. Se scopriamo chi è stato, probabilmente scopriremo anche un'azione poco lecita attribuibile a Erich Van Veeteren. Ancora una. Anche se, a sentire la sua ragazza... e non è esattamente una cosa che riscaldi il cuore di un padre, tu che ne pensi?» «Capisco» disse Winnifred e annuì, facendo girare il vino nel bicchiere. «Sì, è davvero una bestia a tre teste. Ma quanto è attendibile, questa ipotesi dell'azione poco lecita? Non deve necessariamente...?» «Attendibile...» la interruppe Reinhart, picchiettandosi con il medio sulla fronte. «Ci sono segnali in questo caso davanti ai quali non bisogna chiudere gli occhi. Inoltre... inoltre lui ha chiesto di potersi occupare di persona dell'assassino, se riusciamo a trovarlo. Il commissario. Diavolo, anche se forse lo posso capire.» Winnifred rifletté un momento. «Non è certo una storia piacevole» disse. «Davvero può diventare peggio di così? Sembra quasi una messinscena.» «È quello che dice sempre lui» commentò Reinhart. 11 L'appello della polizia riguardo al caso di Dikken fu pubblicato su tutti i giornali più importanti di Maardam il martedì, giusto una settimana dopo l'omicidio, ed entro le cinque del pomeriggio dieci persone avevano telefonato per comunicare di essere state alla Trattoria Commedia nel giorno in questione. Jung e Rooth erano stati incaricati di occuparsi delle segnalazioni e ne scartarono immediatamente sei in quanto «di interesse secondario» (definizione di Rooth), dal momento che gli orari non coincidevano. Le quattro persone rimanenti, invece, secondo quanto dichiarato, erano state al ristorante nell'intervallo fra le cinque e le sei e trenta, e tutto il quartetto fu così cortese da presentarsi alla centrale nel corso della serata per essere sentito. Il primo fu Rupert Pilzen, un cinquantottenne direttore di banca che abitava in Weimaar Allé a Dikken, che la sera di martedì aveva fatto un salto alla Commedia e si era fermato un po' al bar. Un bicchierino di whisky e una birra, nient'altro. Fra le cinque e un quarto e le sei meno un quarto, grossomodo. In attesa che la moglie preparasse la cena; aveva l'abitudine di concedersi questo ritaglio di tempo ogni tanto, dopo una dura giornata di lavoro, spiegò. Quando il tempo lo permetteva. Si spinse gli occhiali sulla fronte e studiò le fotografie di Erich Van Veeteren con molta attenzione. Dichiarò di non averlo mai visto prima, né alla
Trattoria Commedia né altrove e diede un'occhiata allusiva al suo scintillante orologio da polso. Probabilmente stava per andare in fumo un'altra meritata sosta al bar che aveva già programmato, pensò Jung. Aveva notato qualcos'altro che pensava potesse essere utile alla polizia? No. Qualche faccia che ricordava? No. C'erano altre persone sedute al bancone? Pilzen aggrottò la fronte cercando di concentrarsi, mentre sul doppio mento comparivano rughe profonde. No, è probabile che fosse stato seduto da solo al bancone per tutto il tempo. Anzi, no, verso la fine era arrivata una donna. Una tipa sui quaranta, capelli corti e un'aria da femminista. Si era seduta al bancone e aveva ordinato un drink. Ma era piuttosto lontana da lui. Con un giornale, gli sembrava di ricordare. Nient'altro. «Se ci fosse stato un altro bancone, si sarebbe sicuramente seduta là» fu il commento di Rooth quando il direttore Pilzen fu uscito caracollando sulle gambe storte. «Squallida botte di lardo.» «Mmm» disse Jung. «Si diventa così quando si hanno molti soldi e nessun nobile interesse. Succederebbe anche a te. Se avessi i soldi, intendo...» «Va' a prendere il prossimo» disse Rooth. Il successivo si rivelò essere una coppia. Il signor e la signora Schwartz non abitavano a Dikken, ma erano andati lì per far visita a un conoscente e discutere di affari. Esattamente quali, non venne specificato. Sulla via del ritorno in città si erano fermati alla Commedia per cenare, un piccolo lusso che si concedevano ogni tanto. Quello di andare al ristorante. Non alla Trattoria Commedia in particolare, ma al ristorante in genere... soprattutto adesso che si erano ritirati dalla vita lavorativa. Ecco. Anche se soltanto una volta alla settimana, più o meno. Entrambi dovevano avere sui sessantacinque anni ed entrambi riconobbero subito Erich Van Veeteren quando Jung mostrò loro la fotografia. Era seduto a mangiare - un semplice piatto di pasta, se la signora Schwartz ricordava bene - a un tavolo distante qualche metro dal loro. Loro invece avevano preso del pesce. Rombo, a voler essere precisi. Sì, il giovanotto era solo. Aveva pagato e lasciato il ristorante più o meno nello stesso momento in cui a loro veniva servito il dessert. Appena dopo le sei. Avevano notato qualche altro cliente mentre erano lì? Soltanto una giovane coppia. Erano arrivati poco prima delle sei e pro-
babilmente avevano ordinato anche loro l'economico piatto di pasta. Tutti e due. Erano ancora seduti al tavolo quando il signor e la signora Schwartz avevano terminato. Alle sei e mezzo o giù di lì. Qualcos'altro degno di nota? No, cos'altro poteva esserci? Avevano notato se c'erano dei clienti seduti al bancone? No, dal loro tavolo il bancone non si vedeva. C'era qualcuno al bancone quando vi erano passati davanti per uscire? Forse sì e forse no. Anzi, sì, un uomo minuto con la giacca, di sicuro. La pelle un po' scura, in effetti... arabo, forse. Oppure indiano o qualcosa del genere... Rooth digrignò i denti. Jung ringraziò e promise - su pressante richiesta della signora Schwartz - che avrebbero messo l'assassino dietro le sbarre al più presto. Perché era proprio spaventoso. A Dikken. Si ricordavano di quella prostituta uccisa e poi trafitta con dei chiodi qualche anno prima? Sì, certo che si ricordavano, ma grazie infinite, adesso toccava a un altro rappresentante del Grande Detective, la Gente. Il suo nome era Liesen Berke. Aveva circa quarant'anni ed era stata seduta al bar della Trattoria Commedia fra le sei meno un quarto e le sei e mezzo, più o meno. Non volle specificare perché fosse andata lì; che diamine, aveva pur diritto di prendersi un drink dove le pareva, se ne aveva voglia. «Senza dubbio» disse Jung. «Anche due» aggiunse Rooth, «se è per quello.» «Riconosce questa persona?» domandò Jung, mostrandole la fotografia. Lei la osservò per tre secondi e scosse la testa per quattro. «Era seduto a uno dei tavoli del ristorante, fra le...» «È quello che hanno ammazzato?» lo interruppe lei. «Esatto» disse Rooth. «Lei l'ha visto?» «No. Leggevo il giornale.» «Aha» fece Rooth. «Aha?» ripeté Liesen Berke, guardando Rooth da sopra il bordo degli occhiali ottagonali. Il bordo superiore. «Mmm» fece Jung. «C'erano altri clienti al bancone del bar?» La donna distolse lo sguardo da Rooth e rifletté. «Due, credo... sì, all'inizio c'era un grassone, ma poi è andato via. Quindi ne è arrivato uno di
tutt'altro genere. Capelli lunghi e barba. Occhiali scuri, anche, mi sembra di ricordare... aveva un po' l'aria del cantante rock. Macho. Depravato.» «Ha parlato con lui?» domandò Jung. Liesen Berke sbuffò con un'espressione di disprezzo. «No» rispose. «Naturalmente no.» «E lui non ha cercato di attaccare bottone?» chiese Rooth. «Io leggevo il giornale.» «E faceva bene» commentò lui. «Non bisogna dare confidenza agli sconosciuti, nei locali pubblici.» Jung gli lanciò un'occhiataccia per farlo star zitto. Cazzo, pensò. Perché non lo spediscono a un bel corso di diplomazia? Liesen Berke serrò le labbra e guardò in cagnesco Rooth, anche lei; come se fosse stato una cacca di cane particolarmente infida appena calpestata e che faceva fatica a staccare dalla suola. Di un cane maschio, senza dubbio. Rooth alzò gli occhi al soffitto. «Quanto tempo si è fermato?» volle sapere Jung. «Questo musicista rock depravato.» «Non ricordo. Non molto a lungo, mi pare.» «Che cosa ha bevuto?» «Non ne ho la più pallida idea.» «È andato via prima di lei, in ogni caso?» «Sì.» Jung rifletté. «Sarebbe in grado di riconoscerlo?» «No. Non aveva una fisionomia precisa. Solo una gran massa di capelli e gli occhiali.» «Capisco» disse Jung. «Grazie, signorina Berke. Probabilmente avremo ancora bisogno di contattarla. Ci è stata di grandissimo aiuto.» «Che cosa intendevi con quell'ultima frase?» chiese Rooth quando ebbero chiuso la porta alle spalle di Liesen Berke. «'Di grandissimo aiuto', che cazzata sarebbe?» Jung sospirò. «Ho soltanto cercato di lisciarle un po' il pelo dopo la tua offensiva piena di charme» spiegò. «E comunque quel cliente potrebbe essere di un certo interesse. Dobbiamo appurare se anche il barista se lo ricorda.» «Una possibilità su dieci» disse Rooth. «Anche se forse non è possibile avere una quota migliore, in una partita come questa.» «Hai qualche altra proposta?» domandò Jung.
Rooth ci pensò su. «Possiamo approfittarne per mangiare un boccone, visto che comunque dobbiamo andarci» disse. «Per trovare una nuova visuale.» «Depravato?» disse Jung. «Ha detto proprio 'depravato'?» Ewa Moreno si sedette nell'ordinaria poltroncina degli ospiti nell'ufficio di Reinhart. «Ancora al lavoro?» Reinhart guardò l'ora. Le sei e mezzo. Avrebbe voluto che fosse un po' più presto. «Devo tirare le somme. Sono riuscito a mettermi in contatto con la signorina Frey molto tardi. E a voi come sta andando?» «Niente di che» rispose Moreno e sospirò. «Detto francamente, non mi pare una gran strategia, la nostra...» «Lo so» disse Reinhart. «Ma se ne avessi avuta una migliore, l'avresti tirata fuori appena arrivata qui. Correggimi se sbaglio.» «È vero» convenne Moreno. «Probabilmente l'avrei fatto. A ogni modo va tutto piuttosto a rilento. Abbiamo parlato con sedici conoscenti di Erich Van Veeteren... seguendo la lista delle priorità della fidanzata. Tutti qui in zona... abbiamo mandato Bollmert fuori città, dovrebbe tornare venerdì. Nessuno che abbia apportato nuovi elementi, finora, e nessuno che sembri nascondere qualcosa. Che abbia a che fare con questa faccenda, intendo.» «Alibi?» chiese Reinhart. «Giusto» disse Moreno. «Non si diventa molto popolari quando si chiede alla gente di fornire un alibi, ma essere popolari non è il nostro compito, come diceva il commissario. Comunque per il momento sembra tutto okay. Ovviamente non siamo ancora riusciti a controllarli tutti, ma non era questo lo scopo, vero?» «No, fino a quando non abbiamo l'impressione che gatta ci covi» rispose Reinhart. «Il tipo giusto di gatta... suppongo ci siano un bel po' di soggetti loschi fra quei nomi...» «C'è un po' di tutto» disse Moreno. «Qualche elemento non è particolarmente felice che Marlene Frey abbia consegnato l'indirizzario al nemico così alla leggera. Ma noi ce ne infischiamo di tutto quello che non riguarda il caso. Secondo gli ordini.» «Secondo gli ordini» confermò Reinhart. Si appoggiò allo schienale della sua poltroncina e rimase un attimo a riflettere con le mani intrecciate dietro la nuca.
«Se invece vuoi andare a trovare un'altra volta la signorina Frey, non ho nulla da obiettare» continuò. «Due cose l'hanno scottata nella vita... i poliziotti e gli uomini. Tu almeno ne rappresenti solo la metà.» Moreno annuì e rimase un momento in silenzio. «Tu che ne pensi?» disse poi. «In che cosa può essere incappato Erich Van Veeteren?» Reinhart mordicchiò il bocchino della pipa e si grattò le tempie. «Non so» rispose. «Non ne ho la più pallida idea, ecco qual è la cosa peggiore. Di solito si ha almeno un vago sospetto di cosa si tratti... si ha una direzione, per così dire.» «E tu adesso non ne hai nessuna?» «No» ammise Reinhart. «Tu ne hai?» Moreno scosse la testa. «Secondo te Marlene Frey sa qualcosa che vuole tenerci nascosto?» domandò. Reinhart rifletté di nuovo. Ripercorse mentalmente la conversazione del pomeriggio. «No» rispose alla fine. «In effetti non credo. Anche se tu potresti farti un'opinione diversa, l'universo femminile è talmente misterioso e complesso...» «E io lo conosco fin nei minimi dettagli» disse Moreno. «Allora, hai parlato con il commissario?» «Oggi no» rispose Reinhart. «Magari gli telefono stasera. Mi mette molto a disagio dover frugare negli affari di suo figlio. Perché non è che siano sempre stati senza macchia, in effetti. Non è un compito gradevole, e non dev'essere divertente neanche per lui starsene a casa a piangere sapendo quello che stiamo facendo. Cavolo, che casino!» «Davvero erano panni così sporchi, ultimamente?» domandò Moreno. «Quelli del figlio, intendo.» «Forse no» ammise Reinhart, alzandosi in piedi. «Lo erano molto di più qualche anno fa. È possibile che sia proprio come dice la signorina Frey... che avevano cominciato a rigare dritto. Peccato solamente che lui non sia arrivato tanto lontano, su quella strada. Anche se gli esseri umani sono sempre da compiangere, ho sentito dire.» Si avvicinò alla finestra. Scostò un paio di stecche della veneziana e sbirciò fuori sulla città e il cielo cupo. «Quanti di quelli che ha incontrato nell'ultima settimana... che sappiamo che ha incontrato nell'ultima settimana... avete contattato?» «Sette» rispose Moreno senza esitazione. «E ne contatteremo altrettanti domani, se tutto procede secondo gli schemi.» «All right» disse Reinhart lasciando andare le stecche della veneziana.
«Quello che stiamo cercando è solo il bandolo di una matassa da dipanare. Prima o poi lo troveremo, bisogna soltanto avere pazienza... niente di insolito, quindi.» «Per niente insolito» confermò Moreno. «Anche se non mi dispiacerebbe se le acque cominciassero a muoversi un po' più in fretta. Almeno avremmo una direzione da seguire.» «Pia illusione» disse Reinhart. «Bene, per oggi ci fermiamo qui. Ho anche una famiglia, non me lo devo dimenticare. O almeno l'avevo stamattina. E tu come sei messa, al momento?» «Sposata con il lavoro» rispose Moreno. Reinhart la guardò con un sopracciglio alzato. «Dovresti chiedere il divorzio» commentò tutto serio. «Non capisci che ti sta solo sfruttando?» La sera del giovedì fecero il primo tentativo ufficiale di riassumere lo stato delle indagini. Erano trascorsi cinque giorni e mezzo da quando il cadavere di Erich Van Veeteren era stato rinvenuto fra i cespugli ai margini del famoso parcheggio a Dikken. Nove da quando era stato nascosto, se non avevano fatto male i conti. Quindi era giunto il momento. Anche se non avevano ancora scoperto molto. Iniziarono con la fidanzata della vittima. Marlene Frey era stata interrogata più volte sia da Reinhart sia da Moreno - usando il massimo riguardo e rispetto, si capisce - e lei, a quanto entrambi avevano potuto giudicare, aveva fatto tutto ciò che era in suo potere per fornire loro informazioni e, più in generale, per essere d'aiuto alla polizia. Non c'era motivo di pensare a una sua mancanza di volontà di collaborare. Soprattutto considerate le circostanze. I contatti con amici e conoscenti del defunto erano saliti al ragguardevole numero di settantadue, una serie di colloqui alquanto disparati, a voler essere onesti, e lo si voleva, ma con due caratteristiche sorprendentemente comuni: nessuno aveva espresso un'idea di chi potesse aver voluto uccidere Erich Van Veeteren e nessuno aveva la più pallida idea di cosa fosse andato a fare a Dikken quel fatale martedì. Quanto alle testimonianze riconducibili alla Trattoria Commedia, riferite dagli ispettori Jung e Rooth, anche queste erano un po' aumentate - ma in percentuale minima - e in quell'ambito si era a poco a poco cristallizzato un - dicasi un - esile filo conduttore, il primo e finora unico di tutta l'inchiesta. La presenza di un uomo con capelli e barba lunghi e scuri, che Liesen Berke aveva notato al bar subito prima delle diciotto del famoso
martedì, era stata confermata da due ulteriori testimoni: il barista Alois Kummer e il cuoco Lars Nielsen, i quali erano entrambi sicuri al cento per cento (nel complesso al duecento per cento, fece notare Rooth con ottimismo) che proprio un tipo del genere era stato seduto al bar con davanti una birra per un breve lasso di tempo e più o meno all'ora in questione. Sicuro come l'amen in chiesa e le battone sulla Zwille, come si diceva in città. Anche la descrizione era abbastanza soddisfacente, almeno per quanto riguardava la concordanza delle testimonianze. Capelli scuri, barba scura, abiti scuri e occhiali. Al cuoco Nielsen sembrava anche di ricordare che l'individuo in questione avesse appoggiato un sacchetto di plastica ai piedi dello sgabello, ma Kummer e Berke commentarono questo punto soltanto con una neutrale alzata di spalle. Nessuna conferma, ma di per sé neanche una smentita. Quando Jung e Rooth ebbero terminato l'esposizione di questi fatti di vitale importanza - di quell'unico barlume, dunque, dopo cinque giorni di indagini faticose -, Rooth si sentì pronto a sbilanciarsi. «L'assassino è quel tipo che era seduto al bar, ci scommetto la testa. Ricordatevi che io lo sapevo fin da adesso!» Nessuno se la sentì di avvallare così su due piedi questa previsione, ma fu deciso di diramare al più presto un identikit e un avviso di ricerca. Per la causa, se non altro. E per dire di aver preso almeno una decisione durante la riunione. 12 Si svegliò a notte fonda. Ogni tanto gli capitava. Ultimamente. Mai quando aveva Vera accanto a sé o quando lei doveva venire a trovarlo. Allora, mai. La situazione si era evoluta e adesso si incontravano una volta la settimana, nel weekend: era proprio nel momento di massima lontananza fra una visita e l'altra, quando sentiva più intensamente la sua mancanza, che gli succedeva di svegliarsi in un bagno di sudore freddo. Nel cuore della notte. Ed era in queste pause di veglia, fra le tre e le quattro, in quei minuti crudeli, eterni, mentre tutto il mondo dormiva, che vedeva attraverso la membrana. Vedeva la cosa orribile di cui si era reso colpevole in una fredda luce retrospettiva e capiva che quella fragile membrana si sarebbe potu-
ta lacerare in qualsiasi momento. In qualsiasi momento. Se sognasse, non lo sapeva. In ogni caso, non riusciva a richiamare alcuna immagine. Nemmeno ci provò, naturalmente, non quella notte e neanche altre notti. Invece si alzò al buio, raggiunse a passi felpati la scrivania e accese la lampada. Si sedette pesantemente sulla poltroncina e cominciò a contare i giorni sul calendario; scoprì che ne erano trascorsi venticinque da quando aveva investito e ucciso il ragazzo. Dieci da quando aveva fatto fuori il ricattatore. Presto sarebbe iniziato un altro mese. Presto tutto sarebbe stato dimenticato. Scordato e cancellato. I giornali avevano smesso di scrivere sull'argomento. Ne avevano parlato i primi giorni della settimana. La polizia aveva scoperto il cadavere il sabato precedente, ma adesso i media avevano già perso interesse. Non un accenno né giovedì né venerdì. Le cose stavano così. L'essere umano nel Ventunesimo secolo sarà soltanto un fenomeno effimero, pensò. Tracciare una riga, tirare una somma se c'è da tirare. Dimenticare, andare avanti. Ecco la parola d'ordine del tempo. In realtà si rese conto che anche lui era così. Sarebbe stato un buon rappresentante del futuro, certo; erano solo quei momenti insonni che lo tenevano legato al passato e alla continuità. Niente era più come prima. Paradossalmente quella famosa sera il tonfo leggero e il ragazzo nel fosso fangoso avevano cambiato tutto. Spostare in maniera così radicale la prospettiva. Aprire delle porte. Levare gli ormeggi. Far entrare Vera Miller, dare inizio alla sua nuova vita. Sì, per assurdo ordine e caos erano vicini di casa di Dio. L'omicidio di Dikken non aveva lo stesso peso. Niente affatto, era soltanto una conseguenza. Una cosa che era stato costretto a eseguire, l'inesorabile risultato del fatto accidentale di essere stato visto quella prima sera. Palle da biliardo che erano state messe in movimento e che adesso seguivano una direzione implacabilmente determinata; aveva letto di queste teorie su una rivista di settore non molto tempo prima. Una specie di concezione del mondo neomeccanicistica, se aveva ben capito... o di psicologia; al tempo stesso era un dovere verso la sua, di vita, si capisce; dopo qualche giorno soltanto, il fatto di Dikken aveva smesso di toccarlo. L'uomo che aveva ucciso aveva cercato di approfittare delle disgrazie altrui, la sua e anche quella del ragazzo... si poteva affermare addirittura che aveva meritato di morire. Pan per focaccia, insomma. Un volgare ricattatore, che nel giro di una settimana era cresciuto come una minaccia spaventosa, ma che lui aveva poi incontrato e liquidato sul suo stesso terreno di gioco. Sempli-
ce e indolore. Potevano esserci altri sviluppi. Sviluppi con Vera. Senza ombra di dubbio la loro storia si sarebbe evoluta per il meglio. Non ne dubitava neanche per una frazione di secondo, nemmeno durante quelle veglie notturne. Lei non aveva ancora detto al marito che aveva un altro e che si sarebbero dovuti separare, ma era solo questione di tempo. Questione di qualche settimana e di qualche riguardo. Andreas Miller non era una persona forte, e lei non voleva distruggerlo. Non ancora. Ma presto. Nell'attesa, evitavano di parlare di progetti futuri. Tuttavia c'erano; erano nell'aria tutto il tempo mentre stavano insieme. Mentre facevano l'amore, mentre lui era dentro di lei, mentre le succhiava i capezzoli fino a farle male. Mentre sedevano uno di fronte all'altra a mangiare e bere vino oppure erano semplicemente sdraiati insieme nel suo grande letto, ad ascoltare musica al buio. Tutto il tempo. Progetti, speranze, per il momento ancora inespresse, di un futuro e di una nuova vita. Da qualche altra parte. Lui e Vera. Lui l'amava. Lei lo amava. Erano persone adulte e nulla poteva essere più semplice. Sarebbero vissuti insieme. Di lì a sei mesi. O un mese. Comunque presto. In segreto cercò di immaginarselo. Erano immagini forti, calde e piene. Immagini di un futuro in cui non avrebbe mai dovuto svegliarsi nel cuore della notte. Mai vedere attraverso la membrana sul punto di lacerarsi. Mai asciugarsi il fetido sudore freddo dal corpo. Vera, pensò. Per amor tuo potrei uccidere ancora. Sul «Neuwe Blatt» di sabato era ricercato. Lo lesse mentre faceva colazione e dopo un attimo di terrore iniziale scoppiò in una risata. Non era affatto una minaccia. Al contrario. In realtà se lo aspettava. Era davvero improbabile che nessuno l'avesse notato durante i minuti in cui era stato al bar, assolutamente improbabile: ben presto si rese conto che le informazioni riportate dal giornale, anziché costituire un qualche pericolo per lui, rappresentavano una sorta di assicurazione. Un'affermazione del fatto che le indagini della polizia si erano impantanate e che lui non aveva motivo di temere nulla. Proprio nulla. Perché altrimenti avrebbero tirato fuori delle informazioni tanto ridicole? Un uomo di età indefinita. Vestito di scuro, probabilmente di nero. Capelli lunghi, scuri, probabilmente neri. Barba e occhiali. Forse un travesti-
mento. Forse! Sorrise. Si aspettavano che si mettesse addosso di nuovo tutto l'armamentario e se ne andasse in giro in mezzo alla gente? Tornando sul luogo del delitto e facendo una capatina alla Trattoria Commedia, magari? O cosa? Non aveva mai avuto un'opinione molto alta della competenza della polizia, e non la migliorò certo quel sabato mattina. Detective? pensò. Poveri cugini di campagna. Nel pomeriggio arrivò Vera. Lui era andato a comprare il vino e qualcosa da mangiare al mercato coperto di Keymer Plejn, ma non si vedevano da sei giorni e cominciarono a baciarsi e a toccarsi già nell'ingresso. Che potesse esserci così tanta passione! Che potesse esistere una donna così. Col tempo si dedicarono anche al cibo e al vino. Lei poteva fermarsi per la notte, fecero l'amore ancora e ancora, in posti diversi, e invece di svegliarsi nel cuore della notte, lui si addormentò proprio a quell'ora. Sfinito e soddisfatto; colmo d'amore e di vino e con Vera al suo fianco. Lei restò con lui fino al pomeriggio della domenica. Parlarono a lungo e seriamente del loro amore; di che cosa avrebbero dovuto farne e del loro futuro. Era la prima volta. «Nessuno sa della tua esistenza» disse lei. «Non Andreas. Né mia sorella. Né le mie colleghe o gli amici. Tu sei il mio segreto, ma non voglio più andare avanti così.» Lui sorrise, ma senza rispondere. «Ti voglio tutto il tempo per me.» «E tuo marito?» domandò lui. «Che cosa pensi di fare?» Lei lo guardò a lungo prima di rispondere. «Me ne occuperò presto» disse. «Forse già questa settimana. Ho pensato abbastanza, non ci sono altre vie d'uscita. Ti amo.» «Ti amo» le fece eco lui. Il lunedì lui andò al lavoro. Tornando a casa in macchina -proprio mentre passava davanti al condotto di cemento nel fosso - si sorprese a canticchiare insieme alla radio e si rese conto che non era passato neanche un mese da quella famosa sera. Era ancora novembre e tutto si era trasformato in un modo che non avrebbe mai giudicato possibile. Era inverosimile. Totalmente inverosimile. Ma così era la vita. Sorrise e stava ancora canticchiando sottovoce quando prese la posta
dalla cassetta, ma smise quando un attimo dopo si sedette al tavolo di cucina a leggere la lettera. A quanto poteva giudicare - se ben ricordava, dal momento che si era disfatto delle precedenti - era stata scritta sullo stesso tipo di carta e infilata nello stesso tipo di busta delle altre due. Era scritta a mano e non era più lunga di mezza pagina. Due vite, Lei ora ha due vite sulla coscienza. Le ho concesso tutto il tempo per costituirsi, ma Lei si è nascosto come un vile codardo. Il prezzo del mio silenzio adesso è cambiato. Le offro una settimana di tempo (sette giorni precisi) per procurarsi 200.000 gulden. Banconote usate. Tagli piccoli. Mi farò vivo più avanti con le istruzioni. Non faccia di nuovo lo stesso errore, non avrà un'altra possibilità di comprare la Sua libertà. Io so chi è Lei, ho prove inoppugnabili contro di Lei e la mia pazienza ha un limite. Un amico Lesse il messaggio due volte. Poi prese a fissare fuori della finestra. Pioveva e, d'improvviso, un odore pungente di sudore freddo gli s'insinuò nelle narici. TERZA PARTE 13 Erich Van Veeteren fu sepolto con una semplice cerimonia lunedì 30 novembre. La mesta funzione ebbe luogo in uno dei cori laterali della chiesa di Keymer e, in conformità con il desiderio dei familiari - in special modo della madre -, vi presenziò soltanto una cerchia ristretta di persone. Renate aveva scelto sia l'officiante sia i salmi; secondo una sorta di oscuro principio che, affermava, era stato importante per Erich, cosa cui Van Veeteren ebbe qualche difficoltà a credere. Del resto, gli era indifferente; se anche Erich avesse avuto un bisogno di spiritualità, difficilmente avrebbe potuto soddisfarlo all'ombra di quelle volte solenni e sotto quelle guglie minacciosamente protese verso il cielo, ne era convinto. Il prete aveva l'aria relativamente giovane e vivace; mentre parlava e procedeva attraverso il rituale nel suo largo dialetto delle isole, Van Veete-
ren rimase seduto con gli occhi chiusi e le mani intrecciate sulle ginocchia. Alla sua destra aveva la sua ex moglie, la cui presenza gli era difficile da sopportare perfino in una situazione come quella; alla sinistra era seduta sua figlia, che amava sopra ogni altra cosa al mondo. E dritto davanti a lui c'era la bara con le spoglie mortali di suo figlio. Guardarla non era facile, forse era per quello che teneva gli occhi chiusi. Teneva gli occhi chiusi e pensava a Erich vivo, invece. Oppure lasciava che i pensieri fluttuassero liberi; la memoria colpiva secondo un sistema totalmente arbitrario, all'apparenza. Ora con immagini e ricordi dell'infanzia: letture di fiabe su una spiaggia battuta dal vento, chissà dove, visite dal dentista, gite alla pista di pattinaggio e allo zoo di Wegelen. Ora del periodo difficile, anni dopo. Il periodo della tossicodipendenza e del carcere. Il tentativo di suicidio, le lunghe notti di veglia all'ospedale. Ora del loro ultimo incontro. Forse soprattutto di quello. Mentre queste immagini recenti gli passavano davanti, diventava anche dolorosamente consapevole della sua personale motivazione egoistica - il suo bisogno di assorbire luce da questo incontro -, ma se è vero che ogni nuovo giorno porta con sé la somma dei precedenti, pensava, allora forse glielo si poteva perdonare. Almeno oggi. Almeno lì di fronte alla bara. L'ultima volta era stato seduto mezz'ora con Erich al tavolo di cucina della sua casa di Klagenburg. Erich era venuto a restituirgli un trapano che aveva preso in prestito, e avevano bevuto un caffè insieme e chiacchierato del più e del meno. Non riusciva a ricordare di preciso gli argomenti; ma non si trattava di abuso di questo o di quest'altro, né della capacità o incapacità di assumersi la responsabilità della propria vita, o della morale sociale contrapposta a quella individuale. Nessuno di questi temi pesanti, affrontati all'infinito e ormai logori. Erano state soltanto due chiacchiere, pensò. Nessun interrogatorio. Una conversazione fra due persone, due persone qualsiasi, ed era proprio questo - questa cosa semplice, banale - a rappresentare la luce. Nelle tenebre. Una fiammella minuscola in un'immensa oscurità; gli tornò di nuovo in mente la camminata nell'acqua di Gortjakov nel film Nostalghia. Gli succedeva spesso. Nostalghia di Tarkovskij... e mentre ora se ne stava seduto lì in quella cattedrale antica di secoli, con gli occhi chiusi di fronte alla bara di suo figlio, con la lenta litania del prete che saliva verso le volte gotiche, era come se... come se provasse una specie di comunione. Un'esagerazione, forse, ma davvero si sentiva affine a molte entità.
Con Erich, con il suo incomprensibile padre che se n'era andato molto prima che gli venisse offerta la possibilità di capirlo e di riconciliarsi con lui, con la sofferenza e con l'arte e con la creazione - ogni genere di creazione concepibile -, gradualmente anche con la fede nell'aldilà e nelle visioni e ambizioni dei costruttori di chiese... con la vita e la morte e il tempo che fugge via. Con sua figlia Jess, che si appoggiava a lui con il suo peso e di tanto in tanto sembrava percorsa da un brivido. Comunione. Funziona, pensò. Il rito funziona. Le forme sconfiggono il dubbio; attraverso i secoli abbiamo imparato a intessere significati intorno al vuoto e al dolore. Significati e disegni. E ci siamo esercitati a lungo. L'incantesimo durò finché ebbe sfilato di fronte alla bara, tenendo Jess sottobraccio; finché ebbe voltato a tutti la schiena e cominciato a uscire dal coro. Allora fu attraversato da un brivido di disperazione; si sentì quasi vacillare e dovette appoggiarsi a sua figlia e sostenersi a lei. Lei a lui, lui a lei. Da Renate, che stava dall'altro lato di Jess, lo separava una lontananza infinita, e lui si domandò perché mai dovesse esistere una simile distanza. Perché? Una volta uscito nella pioggerella, superato il pesante portale della chiesa, il suo unico pensiero fu: Chi l'ha ucciso? Voglio sapere chi è la persona che ha ammazzato mio figlio. Che ha spento la fiamma. «Non ho ancora fatto in tempo a dividerle» disse Marlene Frey. «Le sue cose dalle mie, intendo. Non so come si faccia... Volete prendere qualcosa?» Van Veeteren scosse la testa. «Naturalmente no. Voi due vivevate insieme. Le cose di Erich appartengono solo a te.» Erano seduti a un tavolo di Adenaar. Marlene beveva un tè, lui un bicchiere di vino. La ragazza non fumava. Non sapeva perché ne fosse stupito, ma lo era. Erich aveva cominciato a fumare a quindici anni... forse anche prima, probabilmente, ma l'aveva scoperto il giorno del suo quindicesimo compleanno. «Un giorno o l'altro puoi venire su a vedere» disse lei. «Magari c'è qualcosa che volete tenere come ricordo.» «Magari delle fotografie» gli venne in mente. «Se ne hai... Non credo di avere neanche una foto di Erich degli ultimi dieci anni.» Lei accennò un sorriso. «Certo. Ce ne sono. Qualcuna, almeno.» Lui annuì e la guardò con aria colpevole. «Ti chiedo scusa per non esse-
re ancora venuto a trovarti. Io ho... sono successe così tante cose.» «Non è mai troppo tardi» disse lei. «Vieni quando hai tempo, così ti do le fotografie. Io sono sempre in casa la sera. Il più delle volte, almeno, ma comunque è meglio se mi dai un colpo di telefono prima. Non c'è bisogno di tante cerimonie.» «No» disse lui. «Probabilmente non ce n'è bisogno.» Lei bevve un po' di tè e lui sorseggiò il vino, in un gesto di incerta complicità. La guardò anche di sottecchi e scoprì che era carina. Pallida e stanca, si capisce, ma con i lineamenti puliti e uno sguardo che incontrava il suo senza deviare di un millimetro. Si domandò che cosa poteva esserle capitato, nella vita. Era passata attraverso le stesse esperienze di Erich? Non sembrava; di solito i segni erano più evidenti, nelle donne. Naturalmente doveva averne di cose alle spalle, questo lo si capiva, ma non c'era nulla in lei che denunciasse la minima mancanza di forza. Forza di affrontare la vita. Sì, notò che lei ce l'aveva. È vergognoso, pensò. È vergognoso che la incontri soltanto adesso. In queste circostanze. Ovviamente avrei dovuto... Ma poi la combinazione Erich-è-morto gli si rovesciò addosso con tale potenza che quasi gli si annebbiò la vista. Bevve il vino e tirò fuori la macchinetta per fare le sigarette. «Ti spiace se fumo?» Lei accennò di nuovo un sorriso. «Erich fumava.» Rimasero seduti in silenzio mentre lui arrotolava e accendeva. «Dovrei smettere» commentò. «Anche se con questo marchingegno ne fumo un po' meno.» Perché diavolo sto qui a parlare del fumo? pensò. Che importanza ha se il padre di un ragazzo morto fuma troppo? D'improvviso lei gli mise la mano sul braccio. Lui sentì che il suo cuore saltava un battito e fu sul punto di strozzarsi con il fumo. Lei colse la sua reazione, probabilmente, ma non fece nulla per fingere di non essersene accorta. Nulla per nasconderlo. Lasciò semplicemente la mano dov'era, mentre lo guardava con occhi indagatori, che si muovevano piano. «Credo che mi potresti piacere come persona» disse. «Peccato che sia andata com'è andata.» Che sia andata com'è andata? pensò lui. Peccato? Evviva l'understatement. «Sì» rispose. «Mi dispiace di non aver avuto un rapporto più stretto con Erich. Naturalmente avremmo dovuto...»
«Non è colpa tua» lo interruppe lei. «Lui era un po'... sì, come posso dire?» Alzò le spalle. «Ma io lo amavo. Stavamo bene insieme, era come se fossimo cresciuti dall'averci l'un l'altra... in qualche modo. E poi c'è un'altra cosa...» Gli era uscita del tutto di mente. «Sì, certo» disse. «Di che si tratta?» Lei lasciò andare il suo braccio e per un attimo abbassò lo sguardo sulla tazza. Mescolò piano il tè con il cucchiaino. «Non so come la prenderai, ma aspetto un bambino. Sono al terzo mese... ecco, tutto qui.» «Oh, mio Dio» esclamò lui e poi si strozzò veramente con il fumo. La mattina di martedì, sul presto, accompagnò Jess a Sechshafen. Aveva raccontato a lei e a Renate del suo incontro con Marlene; Jess aveva anche telefonato alla ragazza durante la serata di lunedì e le due si erano accordate per incontrarsi non appena Jess fosse tornata a Maardam. Forse già per Capodanno, sperava. Anche Renate sarebbe dovuta andare all'aeroporto, ma si era svegliata con febbre e mal di gola, a quanto pareva. Van Veeteren benedisse i bacilli e sospettò che anche Jess fosse dello stesso parere. Lei gli tenne la mano nella sua anche quella mattina, mentre procedevano a passo d'uomo attraverso i banchi di nebbia di Landsmoor e Weill; una mano calda che di tanto in tanto gli dava una stretta. Lui capì che erano segnali, di amore filiale e della solita vecchia ansia da separazione. Più forte che mai in un giorno come quello, era naturale. Le radici venivano recise in quel piatto paesaggio nordeuropeo. Le radici che la legavano a Erich. E forse anche a lui. «È dura separarsi» disse Van Veeteren. «Sì» concordò lei. «È dura.» «Non s'impara mai. Ma c'è un senso anche in questo, probabilmente.» Morire un po', stava per aggiungere, ma riuscì a trattenersi in tempo. «Non mi piacciono gli aeroporti» disse lei. «Ho sempre un po' di paura quando devo andare da qualche parte, anche Erich era così.» Lui annuì. Non lo sapeva. Si domandò quante fossero le cose che non sapeva dei suoi figli. Quanto si era perso per strada e a quanto poteva ancora porre rimedio informandosi. «Anche se io lo conoscevo così poco» aggiunse lei dopo un momento. «Spero che Marlene mi piacerà, è come se lui avesse lasciato una traccia di sé. Sì, mi auguro proprio che vada tutto bene. Sarebbe spaventoso se...»
Non completò la frase. Dopo un attimo lui si accorse che aveva cominciato a piangere e le strinse a lungo la mano. «Adesso sto meglio» disse lei quando le fu passata. «Meglio di quando sono arrivata. Non riuscirò mai a farmene una ragione, ma ogni tanto mi sento quasi serena. O forse sono solo intontita dal gran piangere, tu che ne pensi?» Lui rispose borbottando qualcosa. No, pensava. Niente passa e la somma cresce in continuazione. Giorno dopo giorno, con più si diventa vecchi. Quando cominciarono ad avvicinarsi all'aeroporto, lei gli lasciò andare la mano. Pescò un fazzoletto di carta dalla tasca e si tamponò gli occhi. «Qual è stata la vera ragione per cui hai smesso di fare il poliziotto?» La domanda giunse inattesa e per un attimo lui si sentì quasi con le spalle al muro. «Non lo so di preciso» rispose. «Ne avevo abbastanza, ecco tutto... questa probabilmente è la spiegazione più semplice. Era una sensazione molto chiara, non ho mai avuto bisogno di analizzarla più a fondo.» «Capisco» disse lei. «Sì, molte cose in realtà non necessitano di un'analisi.» Tacque, ma lui capì che aveva in mente qualcos'altro. Pensava di sapere anche cosa, e dopo mezzo minuto lei riprese il discorso. «È strano, ma ho cominciato a pensare a una cosa di cui all'inizio non credevo mi sarebbe importato... quando ho saputo che Erich era morto.» «E che cosa?» domandò lui. Lei esitò di nuovo. «L'assassino» rispose. «Quello che l'ha fatto. Voglio sapere chi è e perché è successo. Lo voglio sapere, ogni minuto di più. Credi che sia strano? Voglio dire, Erich comunque non c'è più...» Lui voltò la testa e la guardò. «No» disse. «Non è per niente strano. Credo che sia una delle reazioni più normali che si possano immaginare. C'è una ragione per cui ho smesso di fare il poliziotto, ma ce n'era anche una per cui avevo cominciato.» Lei lo guardò e annuì lentamente. «Credo di capire. E la pensi ancora così?» «La penso ancora così.» Lei esitò un momento prima di fargli un'altra domanda. «E come sta andando? A quelli della polizia, voglio dire. Sai qualcosa... si tengono in contatto con te?» Lui alzò le spalle. «Non tanto. Li ho pregati di farlo, ma non voglio metterci troppo il naso. Quando saranno arrivati a qualcosa, me lo faranno sa-
pere, si capisce. Magari proverò a parlare con Reinhart per sentire un po'.» E poi arrivarono. Lui entrò nell'autosilo, salì la stretta rampa e parcheggiò davanti a una parete di cemento grigia. «Fallo» disse lei. «Cerca di informarti un po'. Voglio sapere chi è stato a uccidere mio fratello.» Lui annuì e poi scesero dalla macchina. Venti minuti dopo la vide scomparire tra due funzionari in uniforme, inghiottita dal controllo di sicurezza. Sì, pensò. Quando tutto il resto sarà finito, rimarrà soltanto quella domanda. Chi? 14 All'inizio era del tutto incomprensibile. Il suo primo pensiero - il primo tentativo di spiegazione - fu che fosse sopravvissuto. Che l'uomo del parcheggio in qualche oscura maniera si fosse risvegliato dopo il colpo. Che fosse riemerso dai cespugli, si fosse trascinato di nuovo dentro il ristorante e lì fosse stato soccorso. Che se la fosse cavata. Con il cranio sfondato e le vertebre cervicali fracassate? Poi gli tornarono in mente i dati di fatto. Era stato scritto su tutti i giornali. Radio e tivù avevano parlato del caso; non poteva esserci alcun dubbio. Quel giovanotto allampanato che aveva colpito dalle parti del campo da golf era morto. In modo definitivo e irrevocabile. Ergo? pensò. Ergo ho ammazzato la persona sbagliata. Dev'essere così. C'era qualche altra alternativa? Non per quanto potesse vedere. Doveva essere successo che... che ancora una volta aveva ammazzato qualcuno per errore. Non era meno incomprensibile. Sarebbe stato chiedere troppo, davvero troppo, addormentarsi quel lunedì sera, e dopo un paio d'ore di inutili tentativi decise di alzarsi. Erano le due; bevve una tazza di tè con un goccio di rum in cucina, poi prese la macchina e si avviò in direzione del mare. Sostò un'ora e mezzo in un parcheggio deserto sulla strada fra Behrensee e Lejnice e cercò di portare avanti un qualche ragionamento con se stesso, mentre ascoltava gli accordi possenti del mare dai finestrini abbassati. Il vento soffiava forte da sudovest e le onde che s'infrangevano sulla riva erano alte parecchi metri.
La persona sbagliata? Aveva ucciso l'uomo sbagliato. Quella famosa sera non era il ricattatore a essere uscito dalla Trattoria Commedia facendo dondolare con noncuranza il sacchetto dei grandi magazzini Boodwick. Era qualcun altro. Qualcuno che era andato alla toilette e per combinazione aveva trovato il sacchetto nel cestino della carta? Poteva essere così semplice? Un caso? Qualcuno che per pura fortuna - o sfortuna, a conti fatti - era arrivato prima del ricattatore? Poteva essere andata così? Lo escluse quasi immediatamente. Era troppo inverosimile. Troppo forzato. La verità doveva essere un'altra, del tutto diversa. Non gli ci volle molto a trovare la soluzione. C'era un collaboratore. C'era stato. Era lui che aveva ucciso. L'anonimo autore della lettera aveva deciso di mandare un altro a incassare il suo denaro sporco, invece di provvedere da sé. Per non esporsi a rischi inutili; era stata una bella pensata, senza dubbio, e per niente strana in quel contesto. Avrebbe dovuto arrivarci. Avrebbe dovuto tenerlo in conto. In realtà era stato un errore madornale e imperdonabile, più ci pensava più gli risultava evidente. Uno sbaglio spaventoso. Mentre lui ironizzava sul dilettantismo del suo avversario di Dikken, lui si era dimostrato una persona di natura straordinariamente circospetta. Una persona che aveva agito con una meticolosità e una precisione ben più grandi di quanto avesse fatto lui. E adesso aveva fatto la sua seconda mossa. Duecentomila gulden. Duecentomila! Cazzo! Imprecò ad alta voce picchiando le mani sul volante. Porca puttana! Sulla scia della collera arrivò la paura. La paura di quello che aveva fatto e del futuro. Il futuro? pensò. Che razza di futuro? Se anche la sua vita non era già stata decisa nel corso di quelle ultime settimane, lo sarebbe stata nelle prossime. Nella prossima. Era chiaro come il sole. Una questione di giorni, molto semplicemente; la situazione non poteva essere diversa. E ancora una volta andava valutata. Aprì la portiera e scese dalla macchina. Si lasciò investire dal vento e si incamminò lungo la strada. Il mare tuonava. Sono ancora io? si domandò d'improvviso. Sono ancora la stessa persona? Sono ancora un essere umano? Una palla da biliardo in lento rollio verso un destino inesorabile... Due collisioni, due cambiamenti di direzione... e dopo?
Le immagini del ragazzo nel fosso e del giovane uomo nell'istante in cui aveva alzato il sopracciglio, sorpreso, appena prima che lui sferrasse il colpo gli ritornarono in mente a intervalli sempre più brevi. Si sovrapponevano, fondendosi una nell'altra, queste immagini, e presto non lasciarono posto quasi a nient'altro. Lui cercò di indirizzare i pensieri su Vera Miller, invece, sulla sorridente e allegra Vera dai capelli rossi, ma non ci riuscì. Mentre camminava, chino in avanti nel buio - e nel cuore della notte! si rese conto con stanca rassegnazione -, rannicchiato contro il gelo e il vento salmastro, gli venne l'impulso di arrendersi, semplicemente. Un impulso potente di abbandonarsi nell'abbraccio del mare o nelle mani della polizia, ponendo così fine a tutto quanto. L'impulso di seguire quel debole sussurro che forse era la voce della coscienza, e che in qualche strano modo sembrava sovrapporsi al fragore delle onde e addirittura sovrastarlo. Curioso, pensava. Si armonizzano come se fosse un film. Stranamente. Il fragore e il sussurro. Alla fine il peso di Vera prevalse. Alla fine furono il suo viso sorridente con gli occhi verdi scintillanti e il suo grembo caldo che racchiudeva il suo pene, a spingere da parte il terrore e la disperazione e a soffocare il sussurro. La forza implacabile del suo amore. La forza implacabile del loro amore. E il futuro. Non posso arrendermi, pensò. Non ora. Devo pensare anche a Vera. Erano le cinque meno cinque del mattino, quando varcò di nuovo la soglia di casa. Durante il viaggio di ritorno aveva ritrovato una certa calma, o forse era soltanto una conseguenza della stanchezza. Quel che era fatto, era fatto, pensava. Non valeva la pena di piangere sul latte versato. Ora bisognava pensare al futuro. Prima di tutto al futuro più prossimo, poi all'altro, alla vita con Vera. Fermo restando che, se non fosse riuscito a venire a capo della questione con «Un amico», non ci sarebbe stato nessun futuro. Allora gli sarebbe rimasta una settimana, non di più, questo andava oltre ogni possibile dubbio. Doveva trovare una strategia. Una difesa, una contromisura. Che cosa doveva fare? Già, che cosa? Se decideva semplicemente di pagare i duecentomila gulden richiesti, non gli sarebbe rimasto più niente. Né i risparmi né la casa, e non sarebbe stato sufficiente. Sarebbe anche stato costretto a chiedere un prestito di almeno cinquantamila gulden. E poi?
Poi? Anche se si fosse dissanguato a quel modo, che garanzie aveva? Il ricattatore sapeva quello che sapeva; non lo avrebbe certo cancellato dalla memoria... C'era forse qualche elemento che lasciasse intendere che si sarebbe accontentato di quanto avrebbe ricevuto? No, la risposta alla sua domanda retorica era: nessuno. Neanche il minimo elemento. E come avrebbe spiegato la cosa a Vera, se improvvisamente fosse rimasto al verde? Come? Ergo? Com'è ovvio, l'alternativa era una sola. Ucciderlo. Uccidere la persona giusta, stavolta. Anche se per un attimo, mentre percorreva le ultime stradine di periferia di Boorkhejm, lo colpì il pensiero che forse aveva ammazzato la persona giusta, a conti fatti. Nonostante tutto. Quella giusta, in un certo senso. Perché potevano essere due. Potevano essere state. Non c'era quasi nessun dubbio che le lettere che aveva ricevuto fino a quel momento fossero scritte dalla stessa persona, ma poteva anche trattarsi della mano... della mano di una moglie, per esempio. Non era da escludere, pensò. La moglie di un ricattatore morto che adesso gli era subentrata nella sua attività. E che aveva alzato la posta in gioco. Certamente non doveva trascurare questa possibilità. Decise di informarsi su come si chiamava l'uomo della Trattoria Commedia e di cominciare a seguirne le tracce partendo proprio da lì. In ogni caso doveva esistere un legame - una qualche specie di collegamento - fra lui e quell'altro. Quell'altro? pensò. L'avversario. Darei la mano destra, per conoscere la sua identità. Il tempo lavorava a suo favore, ma anche contro. Gli occorreva tempo per prepararsi e pianificare. Anche se non aveva nessuna intenzione di racimolare il denaro, come «Un amico» si era immaginato. No, un altro genere di tempo. Tempo per agire. Tempo per informarsi su questo e quest'altro, e per prepararsi. Tuttavia, non ci volle molto perché la dilazione accordata («Sette giorni precisi» - una formulazione che compariva in entrambe le ultime lettere, si chiedeva perché) assumesse connotati opposti. Sembrava lunga. Che cosa
avrebbe dovuto fare esattamente? Che cosa? Dare inizio a quali piani? A quali preparativi? L'unica cosa che riuscì a fare fu sapere qual era il nome della sua seconda vittima. Erich Van Veeteren. Cercò di imprimerselo in mente, infilandolo nello stesso scomparto di Wim Felders. Lo scomparto dei morti. Ma affrontare per davvero il seguito - cominciare a investigare e a frugare nella vita privata di quello sconosciuto - gli sembrava troppo. Non se la sentì. Riuscì a risalire al suo indirizzo attraverso un comune elenco del telefono, e la sera di mercoledì si trovò a sostare per un momento in Ockfener Plejn, lo sguardo alzato verso una facciata fuligginosa, a domandarsi a quale piano avesse abitato. Si trovò a sostare e a rabbrividire nel vento gelido, ma non si decise ad attraversare i binari del tram, salire i sei gradini esterni e leggere la lista dei nomi degli inquilini a fianco del campanello. Basta e avanza che lo abbia ucciso, pensò. È già abbastanza brutto così, non c'è bisogno che vada a profanare anche la sua abitazione. Quella sera stessa abbandonò l'idea di giocare al detective. Aveva cominciato a rendersi conto che poteva anche essere pericoloso; la polizia avrebbe potuto notarlo, stavano certamente lavorando sodo per risolvere il caso del giovane assassinato. Meglio prepararsi all'attesa invece. All'attesa di ulteriori istruzioni che, sicuro al cento per cento, sarebbero arrivate con la posta di lunedì. Doveva aspettare quella lettera azzurro pallido e poi concentrarsi sulla soluzione del problema, partendo da come sarebbe dovuta avvenire la consegna quella volta. In qualche modo doveva aver luogo, pensava. In un determinato momento e in un certo posto doveva pur verificarsi un contatto fisico fra lui e il ricattatore. O fra lui, il denaro e il ricattatore: c'erano tre anelli nella catena ed era probabile che l'avversario questa volta tutelasse la propria sicurezza personale ancor più di quanto avesse fatto in precedenza. Altamente probabile; non si trattava di un dilettante, questo era evidente. Ma in qualche modo doveva entrare in possesso del denaro, e in qualche modo lui doveva superarlo in astuzia. Il tempo avrebbe indicato come. Il tempo e la lettera successiva. Dopo la puntata in Ockfener Plejn trascorse tutta la sera davanti alla tivù, in compagnia di una nuova bottiglia di whisky, e quando verso mezzanotte andò a dormire, ruotavano sia il letto sia la stanza. Era anche quello lo scopo. Doveva dormire anche oltre le ore piccole,
almeno quella notte. Giovedì era la sua giornata libera. Giovedì era il giorno in cui Vera Miller gli avrebbe telefonato. Tre giorni senza sentirsi, così avevano deciso. Un breve lasso di tempo che lei avrebbe utilizzato per parlare con il marito. Raccontargli della loro relazione. Liberarsi. Quando la telefonata arrivò, erano le sette di sera, e lui avvertiva ancora i postumi della bevuta esagerata del giorno prima. Vera aveva la voce triste. Di solito non era così. «È troppo difficile» disse. Di solito non lo diceva. Lui non rispose. «Lui la prenderà talmente male! Glielo leggo in faccia.» «Non gliel'hai ancora detto?» Lei rimase in silenzio qualche secondo. «Ho cominciato» rispose. «Ho fatto un accenno... lui sa che cosa lo aspetta. E si nasconde. Stasera è andato via, sento che l'ha fatto solo per questo... sta cercando di fuggire.» «Vieni qui.» «Non posso» disse lei. «Andreas torna fra un paio d'ore. Devo essere corretta con lui a partire da questo momento. Ci vediamo sabato, come eravamo d'accordo.» «Ti amo» disse lui. «E io amo te» disse lei. «Non è che stai cambiando idea?» domandò lui. «Devi darmi tempo» rispose lei. «No, non cambio idea, ma sono cose che non si possono forzare.» Tempo? pensò lui. Tre giorni. Poi sarebbe stato lunedì. Pensa se lei avesse saputo! «Capisco» disse. «L'importante è che le cose vadano come abbiamo detto. E che ci possiamo vedere sabato.» «Sabato vado al mio corso.» «Cosa?» Lei rise. «Il mio corso. Lo sai, no? È il quarto fine settimana di fila che ci vado... adoro quel corso.» Lui pensò a quello che aveva detto sull'agire correttamente, ma non disse nulla. «Anch'io» mormorò invece. «Ho bisogno di te.» «Lo sai che sono tua» disse lei. Terminata la conversazione, lui cominciò a piangere. Rimase seduto in poltrona ancora per un po', mentre aspettava che passasse e mentre cercava
di ricordare quanto tempo fosse passato dall'ultima volta che aveva pianto. Ma non riuscì a darsi una risposta. Allora preferì prendere due pastiglie di Sobran. 15 «Non si può dire che ci siano dei progressi» esordì Reinhart, mentre contava i componenti della squadra investigativa. Su sette ne rimanevano cinque; Krause era alle dipendenze di Hiller, Bollmert stava ancora dando la caccia a oscuri soggetti da interrogare in provincia. «D'altro canto non stiamo nemmeno andando indietro» osservò Rooth. «Quello che sapevamo una settimana fa, lo sappiamo anche oggi.» Reinhart ignorò il commento. «Moreno» continuò. «L'ispettore Moreno vorrebbe essere così gentile da riassumere la situazione? Almeno possiamo rilassarci ascoltando una bella voce...» «Grazie» disse Moreno. «La capacità degli uomini di inventare sempre nuovi complimenti non cessa mai di stupire noi donne. Ma forse sarà meglio venire al dunque.» Reinhart arricciò le labbra, ma non ribatté nulla. Lei sfogliò qualche pagina nel suo bloc-notes e tirò fuori uno schema riassuntivo. Notò che Jung per qualche insondabile motivo portava la cravatta, e che deBries aveva un cerotto sul naso. Per qualche altro insondabile motivo. Fece un respiro profondo e attaccò. «Quello che sappiamo con una certa sicurezza è quanto segue: Erich Van Veeteren è stato ucciso con due violenti colpi alla testa e alla nuca, colpi inferti con un corpo contundente privo di spigoli, appena dopo le diciotto di martedì 10 novembre. Sull'arma non voglio sbilanciarmi, potrebbe trattarsi di un tubo, ma siccome non l'abbiamo trovata, per ora non ha molta importanza. Non ci sono testimoni del delitto; il parcheggio era deserto e semibuio, e l'assassino ha avuto anche il tempo di trascinare la sua vittima nei cespugli vicini. Abbiamo interrogato tutte le persone che si trovavano alla Trattoria Commedia al momento - e prima - del delitto. Tutti tranne due... la vittima e l'assassino, se diamo per scontato che anche lui era lì. Dieci clienti e quattro membri del personale... abbiamo parlato con tutti. Nessuno ci ha fornito informazioni fondamentali, ma tre di loro hanno raccontato di questo tizio che sarebbe stato seduto brevemente al bar. Fra le sei e le sei e un quarto, all'incirca. Abbiamo una descrizione abbastanza precisa, e molti elementi ci portano a ritenere che fosse camuffato
con parrucca, barba e occhiali... e altrettanti che si possa trattare proprio dell'assassino.» «Come qualcuno, voglio ricordarvi, aveva dedotto già una settimana fa» disse Rooth. «Sì» riconobbe Moreno. «Abbiamo diramato un avviso di ricerca da parecchi giorni, ma il soggetto non si è fatto vivo, perciò possiamo assegnare un punto a Rooth. Se andiamo oltre, si può osservare che nessuno dei testimoni ha notato alcun genere di contatto fra questo Mr. X ed Erich Van Veeteren, che era seduto a un tavolo e ha lasciato il locale subito dopo Mr. X. Di per sé potrebbero aver avuto un contatto visivo: dal posto in cui era seduto, Erich aveva una buona visuale sul bar.» «Mmm» fece Reinhart. «Lui aspetta un'ora. Quando il tizio arriva non fa nulla, però lo segue nel parcheggio, dove viene ammazzato. Ecco la storia in sintesi. Mi sapete dire di che cosa diavolo può trattarsi?» «Droga» rispose deBries dopo un momento. «Qualche altra idea?» chiese Reinhart. «Non credo che deBries abbia ragione» disse Jung. «Ma se diamo per scontato che si trattasse di una consegna, allora mi domando due cose. Primo: i due si sono riconosciuti? Sapevano chi era il loro contatto al ristorante? Oppure era soltanto uno dei due a conoscere l'identità dell'altro?» «Erano una o due domande?» volle sapere Rooth. «Una» rispose Jung. «L'altra è chi dei due dovesse consegnare e chi dovesse ritirare.» Per qualche secondo ci fu silenzio. «Un'altra domanda» aggiunse deBries. «Se si trattava davvero di una consegna, dov'è stata effettuata?» «Probabilmente non c'è stata nessuna consegna» disse Rooth. «L'altro l'ha ucciso, invece.» «Dove avrebbe dovuto essere effettuata?» si corresse deBries, tormentandosi con irritazione il cerotto. «Nel parcheggio» disse Moreno. «È evidente che Erich deve aver identificato Mr. X. L'ha riconosciuto quando è andato a sedersi al bar, e poi l'ha seguito fuori secondo gli accordi.» «Possibile» commentò Reinhart e accese la pipa. «Possibilissimo. In questo caso ricorda più un incontro fra agenti che una transazione di droga. Ma in linea di massima sono d'accordo con deBries e do anch'io per scontato che era Mr. X a dover fare la consegna...» «... anche se non aveva nulla da consegnare» intervenne Moreno. «Così
invece di fare la consegna ha ammazzato il suo contatto.» Seguì ancora qualche secondo di silenzio. Reinhart chiuse gli occhi e cominciò a sbuffare fumo sempre più velocemente. «Dove arriviamo con queste ipotesi?» chiese Rooth. «E di che cosa diavolo si trattava, se non era una faccenda di droga? C'è qualcun altro, oltre a me, che vota per un francobollo? Uno di quegli stramaledetti errori di stampa che costano diciotto milioni...» «Un francobollo?» disse deBries. «Tu sei fuori di testa.» Reinhart alzò le spalle. «Qualsiasi cosa» disse. «Poteva trattarsi di merce rubata... qualcosa di pericoloso, ma utilizzabile nelle mani giuste... oppure di soldi, forse, che è anche la soluzione più semplice. Uno dei due doveva pagare l'altro per qualcosa. In maniera discreta, per così dire. Ma nemmeno io credo che possiamo arrivare molto lontano per il momento. Forse dovremmo cambiare prospettiva. Finché non riusciamo a scoprire che cosa ci facesse laggiù, siamo bloccati, su questo sono d'accordo con Rooth.» «Anch'io» disse Rooth. «Allora cercherò di riassumere il brainstorming di oggi» disse Moreno. «Erich sapeva che Mr. X era il contatto quando lui è arrivato ed è andato a sedersi al bar. L'ha seguito fuori per ricevere in consegna qualcosa da lui, e invece si è beccato un colpo in testa e uno alla nuca. Mortali. Ho capito bene?» «Direi di sì» rispose Reinhart. «Qualche obiezione? No? Ma cercate di ricordarvi che queste sono soltanto supposizioni. Bene, ora passiamo al fronte occidentale. Lì di informazioni ne abbiamo a iosa. Marlene Frey e l'indirizzario. Chi vuole cominciare? DeBries si offre volontario.» Ci vollero un'ora e dieci minuti per liquidare il fronte occidentale. Erano stati effettuati centodue colloqui con persone che avevano conosciuto Erich Van Veeteren in virtù di questo o quel motivo, secondo l'elenco fornito dall'indirizzario con la copertina nera. Tutto era debitamente registrato su nastro; deBries e Krause avevano trascorso il pomeriggio di mercoledì e parte della notte a riascoltare tutto il materiale. Era stato anche stilato un elenco delle persone che avevano avuto contatti con Erich Van Veeteren nelle settimane appena precedenti la sua morte, una lista che al momento comprendeva ventisei nomi. Tuttavia restavano da fare ulteriori colloqui, perciò a ragione si poteva presumere che se ne sarebbe aggiunto qualche altro prima della fine. Il risultato complessivo non era male, da un punto di vista quantitativo,
ma siccome lo scopo non era quello di effettuare un'indagine macrosociologica, commentò deBries, era un bottino decisamente magro. A voler essere fiscali, fino a quel momento - sedici giorni dopo l'omicidio e dodici dopo il rinvenimento del cadavere - non era ancora emerso il minimo elemento che si potesse definire una traccia o un sospetto. Nonostante tutta la loro buona volontà, le cose stavano andando alla rovescia. Grazie ai colloqui, e soprattutto grazie a Marlene Frey, avevano comunque cominciato a tracciare una mappa di ciò che aveva fatto Erich negli ultimi giorni di vita; era un puzzle abbastanza faticoso da comporre e per il momento non aveva dato come frutto neanche un chicco d'uva spina, come l'ispettore Rooth scelse di descrivere la situazione. Nessuno sembrava avere la minima idea del perché Erich Van Veeteren fosse andato a Dikken quel fatale martedì. Non la sua fidanzata. Non la polizia. E nemmeno nessun altro. «Come la mettiamo con la credibilità di Marlene Frey?» domandò Jung. «Considerati i suoi precedenti.» «Io le credo» disse Reinhart dopo averci riflettuto un po'. «Può essere un errore di valutazione, si capisce, ma ho l'impressione che lei stia in tutto e per tutto dalla nostra parte.» «Di per sé non è tanto strano se non troviamo subito qualcosa» fece osservare Moreno. «Se ci siamo imbattuti nel colpevole nel corso di uno dei colloqui, sarebbe eccessivo pretendere che la persona in questione crollasse e confessasse soltanto perché noi abbiamo acceso un registratore. Non vi sembra?» «A che cosa serve allora?» chiese Rooth. «Non lo prescrive forse la legge che la gente deve dire la verità alla polizia?» «Mmm» fece Reinhart. «Probabilmente non hai capito il senso di passare una notte seduti davanti a un registratore, alla ricerca del minimo lapsus che possa smascherare l'assassino... ma forse è pretendere troppo... Via, proseguiamo! Voi che cosa pensate? Qualcuno di noi... e per il momento non tengo conto della teoria del francobollo formulata da Rooth... qualcuno di noi deve pur avere un'idea... Ricordatevi che ci danno uno stipendio, per la Madonna. Oppure i vostri cervelli brancolano nel buio come il mio?» Fece il giro del tavolo con lo sguardo. «Buio pesto» disse alla fine deBries. «Ma le registrazioni sono qui a disposizione di tutti. Ci vogliono soltanto diciotto ore per ascoltarle. Da qualche parte c'è sicuramente una traccia, ma Krause e io abbiamo gettato
la spugna.» «Per il momento ne faccio a meno» disse Rooth. «Potremmo parlare un'altra volta con qualcuno della cerchia più intima» suggerì deBries. «Con i migliori amici di Erich... ce ne sono tre o quattro che lo conoscevano piuttosto bene. Potremmo chiedere loro di azzardare un'ipotesi, magari.» «Si potrebbe» disse Reinhart, annuendo cupo. «Perché no? C'è qualcuno che vuole aggiungere qualcosa?» Nessuno. Rooth sospirò e Jung cercò di nascondere uno sbadiglio. «Perché hai la cravatta?» domandò Rooth. «Ti mancano i bottoni alla camicia?» «Opera» rispose Jung. «Maureen ha vinto due biglietti al lavoro. Non faccio in tempo a tornare a casa a cambiarmi, devo andarci direttamente da qui stasera.» «Vedi di non sporcarti, allora» disse Rooth. Jung non commentò. Reinhart accese di nuovo la pipa. «No» disse. «Non stiamo andando da nessuna parte, come dicevamo. Ma noi siamo dei campioni di pazienza, quindi dobbiamo guardare al futuro fiduciosi.» «Col tempo la soluzione arriva sempre» disse Rooth. «Hai parlato di recente con il commissario?» domandò Moreno. «Non negli ultimi due giorni» rispose Reinhart. Van Veeteren prese il tram per andare a Dikken. C'era qualcosa, in quel parcheggio, che gli impediva di andarci in macchina. Forse, molto semplicemente, era il rischio di fermarsi per caso proprio nel punto dove suo figlio era stato ucciso. Il parcheggio era vuoto e deserto, come sempre in quel periodo dell'anno. Quattro veicoli soltanto, oltre al rimorchio di un TIR sganciato e puntellato. Non sapeva esattamente dove fosse stato rinvenuto il corpo; c'erano parecchi metri di cespugli fra cui scegliere. Nemmeno lo voleva sapere. A che cosa sarebbe servito? Attraversò a passo spedito lo spiazzo ed entrò nella Trattoria Commedia. Il bar si trovava subito dentro, e in quel momento al bancone c'erano due uomini anziani in giacca stazzonata, che bevevano birra. Il barista era un giovanotto in camicia gialla e coda di cavallo, che gli fece un cenno di saluto un po' distratto con la testa. Van Veeteren ricambiò il cenno e proseguì verso l'interno del ristorante.
Tre tavoli su diciotto erano occupati; ne scelse uno dal quale potesse vedere il bancone e si accomodò. Forse Erich era seduto proprio qui, pensò. Ordinò il piatto del giorno a una cameriera dalle trecce bionde: costine d'agnello con gratin di patate. E un calice di vino rosso. Gli ci volle mezz'ora per essere servito e mangiare. Il cibo non era male, ammise. Non aveva mai messo piede in quel locale e per ovvi motivi non l'avrebbe fatto mai più, ma la cucina era decente, a quanto pareva. Suppose che i golfisti, in generale, non dovevano essere gente che si accontentava di una cosa qualunque. Saltò il dessert. Prese un caffè e un piccolo cognac al bar, invece. Forse l'omicida era seduto proprio lì, pensò. Forse in questo momento sono seduto sullo sgabello dell'assassino di mio figlio. Quando il barista in giallo venne a riempirgli di nuovo la tazza, ne approfittò per chiedergli se fosse stato in servizio quella famosa sera. Sì, rispose il giovanotto, era in servizio. Perché lo voleva sapere? Van Veeteren valutò un momento fra sé prima di rispondere. «Polizia» disse. «Ancora?» esclamò il barista, con aria vagamente divertita. «Mmm» fece Van Veeteren. «Mi rendo conto che sono stati noiosi come mosche. Io faccio parte di un'altra sezione.» «E quale?» volle sapere il barista. «Reparto speciale» rispose Van Veeteren. «Magari potremmo fare quattro chiacchiere assolutamente amichevoli...» Il barista esitò un attimo. «Non sono poi così occupato, al momento» ammise. «Questa salsiccia è il dono degli dei al genere umano» disse Rooth. «Lo vedo che ti piace» commentò Jung, osservando il collega che masticava a occhi semichiusi e con un'espressione di beatitudine ultraterrena. «È bello sapere che hai anche un lato spirituale.» «Il segreto sta tutto nell'aglio» disse Rooth e aprì gli occhi. «Questa vecchia, splendida pianta medicinale. Io ho una teoria.» «Davvero?» fece Jung. «Di nuovo il francobollo?» «Molto meglio» rispose Rooth e si riempì la bocca di insalata di patate. Jung aspettò. «Ti decidi se mangiare o parlare?» disse. «Faciliterebbe il mio pranzo.» Rooth annuì e terminò di masticare. «All right» disse. «Ecco, mi è venu-
ta in mente una cosa, mentre stavamo ragionando tutti insieme di sopra.» «Allora?» domandò Jung. «Ricatto» rispose Rooth. «Ricatto?» ripeté Jung. «Esatto. Ci starebbe a pennello, in effetti. Sta' a sentire. Erich Van Veeteren è il ricattatore. Sa qualcosa di una certa persona, ha messo un prezzo sul proprio silenzio e va a Dikken per riscuotere. La vittima del ricatto non vuole sganciare e lo ammazza. Chiaro come il sole, correggimi se sbaglio.» Jung rifletté. «Non è impossibile» disse. «È una teoria che regge. Perché non hai detto niente alla riunione?» D'improvviso, Rooth assunse un'espressione imbarazzata. «Mi è venuta in mente proprio alla fine» spiegò. «E voialtri non avevate un'aria molto ricettiva. Non volevo tirarla ancora per le lunghe.» «Avevi fame?» chiese Jung. «Questa è una tua interpretazione personale» rispose Rooth. 16 «Se lo si vede come un cancro» disse Reinhart, «allora diventa tutto abbastanza chiaro.» «Uomo bianco parla con lingua biforcuta» disse Winnifred, che era aborigena per un quarto. «Che cosa vorresti dire?» «Spiegati meglio, grazie.» Erano immersi nella vasca da bagno. Che Winnifred Lynch, nata in Australia e laureata in Inghilterra, fosse andata a vivere con Reinhart facendoci anche una figlia dipendeva in gran parte da quella vasca da bagno. O almeno, così rispondeva di solito quando lui le chiedeva se lo amava davvero. Era grande e profonda. E murata. Rivestita all'esterno con un mosaico irregolare di piccole tessere verdi e blu e dotata di un'imponente rubinetteria di rame al centro. Grande abbastanza perché due persone ci stessero semisdraiate, ognuna dalla propria parte. Come adesso. Con gambe e corpi gradevolmente intrecciati. A Reinhart era costato due stipendi arredare il bagno, dodici anni prima. Ma ne era valsa la pena. «Cancro» ripeté. «Un cancro produce metastasi e se non lo fa, spesso
non lo si scopre. Lo stesso vale per molti casi, è questo che intendevo. La faccenda del figlio del commissario, per esempio... mi segui?» «Ti seguo» confermò Winnifred. «Bene. Abbiamo raccolto informazioni su tutto quello su cui ragionevolmente si potevano raccogliere informazioni. Eppure non riusciamo ad arrivare da nessuna parte, e pare non ci siano grandi probabilità di arrivare a una soluzione... se non si propaga.» «Se non si propaga?» «Se non produce metastasi» spiegò Reinhart. «Deve succedere qualcos'altro. È questo che cerco di spiegarti. Se tu commetti un crimine isolato - ammazzi qualcuno, rapini una banca o qualunque altra cosa - e ti fermi a quello, ecco, allora hai buone possibilità di sfuggire alla giustizia. Specialmente se per il resto sei un cittadino probo e onesto. Anche se di solito il tumore primario non si ferma a questo stadio... il crimine genera metastasi, noi scopriamo le metastasi e da dove provengono, e così risolviamo la faccenda. Mi segui?» Winnifred Lynch sospirò. «Eccellente metafora» commentò e cominciò a fargli il solletico sotto le ascelle con le dita dei piedi. «La criminalità come cancro nel corpo della società... originale, bisogna ammetterlo. Era parecchio che non sentivo niente di così perspicace.» «Mmm» fece Reinhart. «Era soprattutto questa cosa delle metastasi che mi interessava.» «All right» disse Winnifred. «Deve metastatizzare, altrimenti non è possibile trovare chi ha ucciso Erich, è questo il punto?» «Più o meno» rispose Reinhart. «Per il momento stiamo segnando il passo... o facendo solo buchi nell'acqua, se preferisci un altro...» Si interruppe perché Winnifred l'aveva morso sul polpaccio. «Ahi» fece. «C'è qualcosa che faccia pensare a una proliferazione?» Reinhart rifletté. «Come cavolo faccio a saperlo? Il cancro è un mistero, o sbaglio?» «Certamente» disse Winnifred. «Ma se mi massaggi i piedi e mi dai tutti i dati sul caso, vedrò che cosa posso fare.» «Fair deal» disse Reinhart. «Spostali da sotto le mie ascelle.» Ulrike Fremdli aveva cominciato ad assumere un nuovo atteggiamento, che non aveva mai notato prima. Una sorta di cautela. Era qualche giorno che ci pensava, e quando lei venne a prenderlo alla libreria antiquaria all'ora di chiusura il giovedì sera, glielo disse anche.
«Cautela?» ripeté lei. «Cosa vorresti dire?» «Che mi vedi come un paziente» rispose Van Veeteren. «Smettila. Mio figlio è stato ucciso, e se diventerò matto per questo motivo, dei terapeuti finirò per averne abbastanza all'ospedale.» «Che cavolo...?» disse lei. Poi, mentre passavano in silenzio sottobraccio davanti al Caffè Yorrick, si fermò di botto. «All right, forse hai ragione. Basta con i falsi riguardi, però sei pregato di aprire la bocca, ogni tanto.» «Mmm» borbottò Van Veeteren. Ulrike lo guardò e le venne una ruga dritta in mezzo alle sopracciglia. «Sono d'accordo con te che il dolore può benissimo essere senza parole» disse, «ma mi rifiuto di credere che così onoriamo al meglio i nostri morti. Dovremmo celebrarli invece che piangerli... come fanno in Messico, o chissà dove. Il giorno dei morti e via dicendo. Il dolore muto esiste soltanto in chi lo coltiva.» Van Veeteren rifletté un momento. «Forse» disse. «Be', se si deve andare avanti, probabilmente bisogna aprire il becco, ogni tanto.» Tutto a un tratto lei scoppiò a ridere. Lo cinse con le braccia e lo strinse a sé, tanto che lui si chiese se fosse proprio sicuro di riuscire a tenerle testa, in un leale braccio di ferro. Nel caso fosse stato necessario arrivare fino a quel punto. «Mi arrendo» disse. «Credi...» «Che cosa?» chiese lei, mollando la presa. «Credi che potremmo trovare un compromesso... qualcosa a metà strada fra paziente e sparring partner? Penso che il nostro rapporto ne guadagnerebbe.» Lei sorrise. Lo prese di nuovo sottobraccio e ricominciarono a camminare. «Quello che stai cercando di descrivere è l'uomo ideale» disse. «Che non esiste. Probabilmente ti devo tenere come sei. Un po' paziente, un po' sparring partner... Ma non fa niente. Non mi sono mai aspettata nient'altro. Adesso andiamo da Marlene e vediamo se ha qualche foto.» Era la prima volta e fu una visita breve. Marlene Frey aveva avuto qualche problema con la stufa; la temperatura nell'appartamento oscillava fra i dieci e i dodici gradi e lei stava giusto per trasferirsi da un'amica per la notte. Aveva recuperato una dozzina di fotografie di Erich: in un paio comparivano sia Erich che lei. Ce n'erano anche delle altre, spiegò, ma non mol-
te. E ovviamente ne voleva tenere qualcuna per sé, magari potevano incontrarsi un'altra volta e mettersi d'accordo... Quando non avesse fatto così freddo. Si potevano anche fare delle copie, avendo i negativi, e lei li aveva. Della maggior parte, almeno. «Come va con...?» volle sapere lui, lanciando un'occhiata fugace alla sua pancia. «Tutto bene» rispose lei. «È ancora lì.» Si vedeva che era stressata, e a lui sembrò un po' diversa da come l'aveva vista la volta precedente all'Adenaar. Con Ulrike scambiò solo una stretta di mano e un rapido sorriso, e il sapore che gli lasciò in bocca quella breve visita fu un po' insipido. «Non devi dare troppe interpretazioni» disse Ulrike quando ebbero trovato un tavolo al Kraus una mezz'ora dopo. «È facile cascarci, quando il proprio equilibrio personale è un po' scosso.» «Equilibrio?» disse Van Veeteren. «Non ho più avuto un equilibrio da quando ho cominciato la scuola.» In attesa di Reinhart arrotolò quattro sigarette e ne fumò due. Il Vox non era un posto che frequentava di solito; era stato Reinhart a sceglierlo e aveva il timore che ci sarebbe stata musica jazz se si fossero fermati troppo. Aveva letto qualcosa su una locandina all'ingresso, e in fondo al locale scuro e fumoso si intravedeva un piccolo palcoscenico. Non che lui avesse niente contro la musica jazz in sé. Reinhart sosteneva sempre che ad ascoltare - e soprattutto a suonare, si capisce - il jazz moderno, improvvisato, l'intelligenza ne beneficiava parecchio. Come una funzione esponenziale di tempo, concentrazione e alcol... o qualcosa di simile; non gli succedeva spesso di ascoltare Reinhart fino alla fine. Ma non stasera, grazie, pensò. È troppo presto. Non aveva quasi avuto voglia di ascoltare la sua, di musica, dopo la morte di Erich, non riusciva a digerire nemmeno William Byrd e Monteverdi, perciò qualche sassofono spigoloso non sembrava un'alternativa praticabile per il momento. Beveva una birra scura e rifletteva, nell'attesa. Rifletteva su quanto stava succedendo ai suoi pensieri e alla sua coscienza in quei giorni. Sui cambiamenti di direzione. Era sgradevole. Sull'oscillare degli atteggiamenti. Tra la sua fede temprata - non particolarmente ottimistica, ma tuttavia sopportabile - in qualcosa che seguisse una legge anche nel buio. In certi disegni. La rassegnazione positiva, per prendere in prestito un'espressione dal vecchio Borkmann. E dall'altra parte questa cosa nuova: la rassegnazione
assolutamente nera. Che già aveva fiutato varie volte in precedenza, è vero - specialmente nella vita professionale -, ma che prima non aveva mai fatto presa su di lui. Non in quel modo. Per ore. Certe volte per delle mezze giornate. Si sentiva paralizzato nelle azioni. Paralizzato nei pensieri. Paralizzato nel vivere? Devo metterci un punto, pensò. Devo trovare un senso. Erich è morto, ma io continuo a vivere. Tutte le vite finiscono, alcune troppo presto, altre troppo tardi. Niente può cambiare questo fatto... e io non voglio perdere anche Ulrike. Reinhart comparve alle nove e mezzo, con mezz'ora di ritardo. «Chiedo scusa» disse. «Joanna ha l'otite. Un dolore tremendo. Si prendeva anche ai tuoi tempi?» Van Veeteren annuì. Reinhart guardò il suo bicchiere mezzo vuoto e fece cenno che ne portassero altri due. «Come va?» domandò Van Veeteren quando ebbero davanti le loro birre ed entrambi ne ebbero bevuto una sorsata. Reinhart accese la pipa e si grattò i capelli corti e brizzolati. «Così.» «Così?» fece Van Veeteren. «Che cavolo significa? Ti è venuta l'afasia?» «Non ci sono stati molti progressi» spiegò Reinhart. «Cosa vuoi in realtà? Essere informato di ogni maledetto dettaglio?» Van Veeteren picchiettò una sigaretta contro il piano del tavolo e l'accese. «Sì» rispose. «Ogni maledetto dettaglio, grazie.» Ci volle un po' di tempo e quando Reinhart ebbe terminato, sul palcoscenico avevano cominciato a suonare. C'erano solo un pianista e una cantante dalla pelle scura e dalla voce sommessa, perciò non era difficile riuscire a farsi sentire. Van Veeteren osservò che era stato ingiusto nei suoi preconcetti; la donna che stava cantando aveva una voce gradevolmente bassa che gli ricordava il velluto che bolliva (come si poteva pensare che il velluto bollisse, e anche che avesse un suono?), e mentre Reinhart raccontava, questo dava una sorta di piacevole distanza alle sue parole. Avvolgeva la morte di Erich e tutte le circostanze legate a essa in una specie di sudario discreto, quasi sensuale. Tutto a un tratto si rese conto che a Erich sarebbe piaciuto. Dolore e sofferenza, pensò. Non possiamo evitarli. L'unica cosa che pos-
siamo fare è accoglierli di buongrado e affrontarli correttamente. Circoscriverli. Attraverso l'arte o determinati rituali o nelle forme che abbiamo a disposizione al momento... basta non ignorarli come gomitoli di polvere negli angoli. «Nel complesso le cose stanno così» concluse Reinhart. «Abbiamo individuato il colpevole: è quel tizio del bar. Tutto sta a indicare che sia lui, ma non abbiamo ipotesi che reggano su cosa ci facesse Erich là. O che cosa avesse intenzione di fare. Possiamo azzardare delle supposizioni, è ovvio, ma ti prenderei in giro se ti dicessi che abbiamo in mano qualcosa di più.» «Capisco» disse Van Veeteren. Reinhart trafficò un momento con pipa e tabacco e assunse un'espressione esitante. «Sei ancora ansioso di trovarlo, vero?» Van Veeteren guardò la cantante prima di rispondere. Stava giusto ringraziando per gli applausi e spiegando che ci sarebbe stata una breve pausa. «Sì» rispose poi. «Sempre più ansioso ogni giorno che passa. All'inizio non lo capivo, ma sembra radicato nei geni... uno deve trovare l'assassino del proprio figlio.» «O almeno radicato nella cultura» commentò Reinhart. «E nella mitologia.» «Non mi fa né caldo né freddo se è un mito oppure no» disse Van Veeteren. «Voglio che lo prendiate. Lo farete?» «Questo te l'ho già promesso» disse Reinhart. Van Veeteren rifletté un momento. «Ti scoccia che mi intrometta?» domandò. «In questo caso me lo devi dire, per la miseria.» Reinhart sollevò il bicchiere. «Troverei strano se tu non lo facessi. Salute.» «Salute» rispose Van Veeteren e scolò il suo. «Be', adesso va' a casa a occuparti di tua figlia. Credo che starò qui ad ascoltare quella cantante ancora per un altro giro.» «Fai bene» disse Reinhart, alzandosi. 17 Venerdì, dopo il lavoro, andò a trovare suo padre. Erano trascorsi più di due mesi dall'ultima volta ed era un modo come un altro per far passare il tempo. La casa di cura Oesterle si trovava a Bredenbuijk, un po' fuori Lo-
ewingen; lui prese la strada che passava da Borsens per evitare il traffico e arrivò quando la cena era appena terminata. Suo padre era seduto come di consueto a letto e si guardava le mani. Di solito ci voleva un po' per convincerlo ad alzare gli occhi, ma stavolta lo fece quasi subito. Lui non fece in tempo ad avvicinare la sedia al letto e a sedersi, che suo padre lentamente alzò la testa e lo guardò con quei suoi occhi acquosi e perennemente arrossati. Forse per un attimo sembrò riconoscerlo, ma poteva anche esserselo soltanto immaginato. Perché avrebbe dovuto riconoscerlo proprio oggi, quando non lo riconosceva da sei anni? Dopo mezzo minuto la mascella gli si abbassò verso il petto e il vecchio tornò a esaminarsi le mani, appoggiate sulla coperta celeste, che si torceva in lenti movimenti ripetuti. Si fermò dieci minuti. Di più non riusciva a resistere. Non vide nessuna faccia nota tra il personale e non si curò di informarsi sulla situazione. Come sta? Sta bene? Domande senza senso, ormai da parecchi anni. Era un sollievo non essere costretto a porle. Si era chiesto molte volte a che cosa servisse continuare a tenerlo in vita, ma nessuno dell'ospedale aveva accennato neanche lontanamente all'eutanasia e lui non voleva essere il primo. Sua sorella in America sarebbe stata contraria, lo sapeva senza bisogno di chiederglielo. Per quello suo padre stava dove stava. Non parlava con nessuno, non leggeva mai né un libro né un giornale. Non guardava la tivù né ascoltava la radio. Al momento non scendeva dal letto nemmeno per andare in bagno; l'unico segnale di un barlume di coscienza era dato dal fatto che apriva la bocca quando gli si avvicinava un cucchiaio di cibo. Mio padre, pensò. Sarò anch'io come te un giorno. Grazie della visita. E decise di vivere mentre ancora poteva farlo. Quella notte fu difficile. Pensando che sarebbe venuta Vera, lasciò perdere il whisky. Non doveva diventare un'abitudine. E non voleva nemmeno esagerare con il Sobran. Così prese un leggero sonnifero, che però gli diede solo un senso di pesantezza e di vago malessere. La decisione di aspettare la lettera del lunedì prima di stabilire come comportarsi era senz'altro giusta; l'unica possibile, ma non implicava l'essere libero dai pensieri. I pensieri cupi e insistenti e le immagini di come sarebbe andata a finire. Le supposizioni su quale scenario «Un amico» avrebbe trovato questa vol-
ta per la consegna del denaro. E su che cosa lui stesso sarebbe stato costretto a fare. Ancora. Se poi ci sarebbe stato spazio per agire. Uccidere. Uccidere un'ultima volta e finalmente tirare una riga sulla sua vecchia vita. Senza necessità di fare dei bilanci o di guardarsi indietro. Svegliarsi soltanto in un domani che era come un foglio bianco. Desiderò esserci già. Desiderò che tutto fosse già passato. Vivere mentre ancora poteva farlo? Quando guardò l'ora l'ultima volta, erano le sei meno dieci. Pioveva quando si svegliò qualche ora dopo. Una pioggia insistente e un vento forte sferzavano le finestre. Rimase sdraiato un momento ad ascoltarne il rumore. Poi si alzò e fece la doccia. La mattina e le prime ore del pomeriggio passarono occupate dai preparativi per la cena. Riordinò la casa e stappò le bottiglie di vino per farle respirare. Scelse anche i vestiti da lavare. Subito dopo le due telefonò Smaage e gli ricordò che la Confraternita si sarebbe riunita di nuovo il venerdì successivo; chiacchierarono un attimo e in seguito lui si stupì di quanto gli fosse venuto naturale. Non aveva avuto nessuna difficoltà. Era pur sempre dopo la riunione precedente che tutto aveva avuto inizio... Dopo l'ultimo, maledetto incontro della Confraternita la sua vecchia vita tranquilla era stata interrotta e tutto era stato lanciato lungo nuovi, folli binari. Promise a Smaage di andare se non si fossero verificati imprevisti, e quando pronunciò l'ultima parola avvertì una specie di vertigine attraversargli rapida la mente. Smaage gli augurò buona domenica e riattaccò. Per un'ora però non gli rimase altro da fare che stare ad aspettarla. Fra le quattro e le cinque, mentre calava il crepuscolo e il vento sembrava placarsi un po'. Gli scrosci di pioggia tuttavia continuavano; rimase fermo a lungo vicino alla finestra della camera da letto a guardare il cielo basso e tempestoso sopra la rada striscia di bosco che c'era sul retro della fila di villette a schiera. Fermo nel buio a lottare contro un pensiero del tutto nuovo. Voglio raccontarle tutto, pensava. Lei capirà. Potremmo condividere questo peso e darci forza a vicenda. Sarebbe pur sempre qualcosa, no? Alle cinque in punto lei suonò alla porta. Quando andò ad aprire, lui si sentì tutto a un tratto le ginocchia molli. Fu la loro serata più austera. C'era, almeno all'inizio, una certa riserva-
tezza nel comportamento di lei e, anche se non lo diceva apertamente, si notava che era tormentata per via di Andreas. Tormentata dal dover raccontare a suo marito che era in procinto di lasciarlo per un altro. Lui capiva le sue difficoltà. Capiva anche che lei non lo aveva ancora messo con le spalle al muro, nonostante gliel'avesse promesso. Ma non voleva farle pressione. Né lasciar trasparire segni di impazienza o delusione. Eppure aleggiava fra loro l'ombra di un'atmosfera appannata che non c'era mai stata prima, e soltanto dopo aver bevuto quasi tre bottiglie di vino cominciarono a fare l'amore. Fu bello come sempre. Forse ancora più bello; per un attimo gli passò per la mente che era il sentore amaro di un certo senso di rovina a renderlo tale, ma il pensiero sparì altrettanto rapidamente. Lei raggiunse quattro o cinque orgasmi, e dopo rimase stesa con la testa sul petto di lui e pianse. La sua, di testa, era vuota come dopo una guerra atomica. Poi finirono di bere un'altra bottiglia di vino: ebbe l'impressione che il sangue finalmente tornasse di nuovo a scorrergli nelle vene. Più tardi la prese ancora una volta - un po' più brutalmente, come di solito voleva lei sul tavolo di cucina, e per concludere bevvero un bicchiere di Glenlivet ciascuno. Di quel bicchiere di whisky si sarebbe pentito per il resto della sua vita, perché fu proprio quello che gli fece perdere la lucidità e lo trascinò alla rovina. Altre spiegazioni non ne cercò mai. Mentre era in bagno a lavarsi, si rese conto di essere ubriaco perso molto di più di quanto non fosse quella famosa sera, per esempio -, ma anche che era una condizione indispensabile. Ne aveva bisogno; le incerte riflessioni che l'avevano tormentato durante la settimana sembravano come svanite, e quando guardò il proprio volto allo specchio vide soltanto energia. Energia e fermezza. Sorrise alla propria immagine riflessa e tornò in camera. Si sedette sul bordo del letto e si mise a giocherellare con uno dei capezzoli di lei, stringendolo fra pollice e indice. Lei gli sorrise. Adesso glielo racconto, pensò lui. Capì che era stato un terribile errore nell'attimo stesso in cui vide lo sguardo di lei. E Vera capì che era stato un terribile errore rivolgergli quello sguardo nell'attimo stesso in cui lo vide alzarsi per andare nell'ingresso a prendere
qualcosa. QUARTA PARTE 18 Jochen Vlaarmeier guidava l'autobus fra Maardam e Kaustin da più di undici anni. Sei corse avanti e indietro. Tutti i giorni. Tranne quelli liberi, secondo uno schema a rotazione e qualche settimana di ferie, si capisce. La prima e l'ultima corsa erano inutili, in un certo senso. Anche se solo in un certo senso. Non c'era nessun motivo ragionevole di andare a Kaustin alle cinque e mezzo del mattino e nessun motivo ragionevole di lasciare il paesino dodici ore dopo. Ma il deposito notturno degli autobus era il garage di Leimaar Allé e Vlaarmeier non aveva nulla in contrario a guidare il mezzo vuoto ogni tanto. Assolutamente nulla. Con gli anni aveva cominciato a considerare i passeggeri come un elemento di disturbo del proprio lavoro; per questo annoverava la corsa serale di ritorno in città fra i momenti piacevoli della vita. Niente traffico sulle strade. Autobus vuoto e un'altra giornata di lavoro da archiviare. Che cosa si poteva desiderare di più, in effetti? La domenica il numero delle corse era ridotto a quattro. Due in ogni direzione. Lui usciva alle nove del mattino - sempre, garantito, senza passeggeri - e tornava alle dieci con quattro contadine che andavano alla messa solenne nella chiesa di Keymer. Dal momento che la loro chiesa, per qualche ragione, non era adeguata. O forse non c'erano funzioni; Vlaarmeier non dava grande importanza alle cose sacre, da quando, trent'anni prima, aveva perso una figlia andata in sposa a uno studentello di teologia. Alle due riportava le contadine al paese. Per quell'ora avevano anche fatto in tempo a concedersi caffè e pasticcini all'Heimers di Rozenplejn. Sempre le stesse quattro. Due piccole e paffute, due curve e smunte. Molte volte si era domandato perché la ditta non impiegasse un taxi al posto dell'autobus. Sarebbe stato più economico. Quella fredda domenica - il 29 novembre - erano solo in tre, dal momento che la signorina Willmot, una di quelle paffute, aveva l'influenza. La notizia gli fu comunicata brevemente dalla signora Glock quando, sottraendosi alle sferzate del vento, salì alla fermata della scuola. Venne informato che aveva trentotto e due di febbre e le tonsille ingros-
sate. Raffreddore e indolenzimento generale. Solo perché lo sapesse. Fu sempre la signora Glock a lanciare un urlo che quasi lo fece finire nel fosso. Successe subito prima della lunga curva che portava al paese di Korrim, e a Vlaarmeier sembrò che un gabbiano gli fosse volato vicino all'orecchio. Riuscì a tenere l'autobus in carreggiata, poi guardò nello specchietto retrovisore. Vide che l'anziana signora si era alzata per metà e stava picchiando con una mano sul finestrino. «Fermi l'autobus!» gridava. «Santo cielo, si fermi per l'amor di Dio!» Jochen Vlaarmeier frenò e accostò al margine della strada. Dannazione, pensò. Sta' a vedere che una ha avuto un colpo. Anche se, guardando nell'autobus, vide che tutt'e tre sembravano in buona salute. O almeno non parevano stare peggio del solito. Le due sedute più in fondo fissavano a bocca aperta la signora Glock che continuava a picchiare sul finestrino e a dire frasi sconnesse. Sospirò, lasciò la postazione di guida e andò verso di lei. «Calma, calma» disse. «Adesso ci calmiamo un attimo. Si può sapere che cosa cavolo le è preso?» La donna tacque. Deglutì due volte facendo schioccare la dentiera e lo fissò. «Un corpo» disse. «Una donna... morta.» «Cosa?» fece Vlaarmeier. Lei indicò indietro, verso la terra nera del campo. «Là. Sul bordo della strada... un corpo.» Poi si sedette con la testa fra le mani. Le altre due donne avanzarono lungo il corridoio centrale e cominciarono a interessarsi con una certa esitazione. «Un corpo?» domandò Vlaarmeier. Lei picchiettò di nuovo sul vetro e indicò fuori. Vlaarmeier rifletté per due secondi. Poi aprì la portiera pneumatica, scese dall'autobus e cominciò a tornare indietro lungo il ciglio della strada. La scoprì dopo circa venticinque metri. Steso di traverso sopra il fosso poco profondo che separava la strada dal campo arato di fresco c'era un corpo di donna. Era avvolto in un sudario di stoffa che somigliava quasi a un lenzuolo... un lenzuolo molto sporco e un po' svolazzante, che lasciava scoperte una gamba e parte del busto: due grossi seni bianchi e due braccia robuste piegate in un angolo innaturale. Era stesa sulla schiena, e il viso guardava dritto al cielo, ma era nascosto quasi completamente dai capelli rossicci che sembravano in qualche modo incollati lì.
Diavolo, pensò Vlaarmeier. Diavolo e anche sua nonna. Poi vomitò tutta la sostanziosa colazione di quella mattina - il porridge, le salsicce e le uova - prima di ritornare barcollando all'autobus per telefonare. Quando il commissario Reinhart e l'ispettore Moreno arrivarono a Korrim, aveva cominciato a nevicare. Grossi fiocchi bianchi cadevano volteggiando sul paesaggio aperto e si dissolvevano sulla terra nera e lucida di umidità. Un'auto di pattuglia con a bordo due agenti, Joensuu e Kellerman, era già sul posto. Joensuu si era messo sulla strada accanto alla donna morta, con la schiena rivolta al cadavere e le braccia incrociate sul petto. Saldo e incorruttibile. Kellerman era vicino all'autobus munito di bloc-notes e penna e stava parlando con l'autista e i passeggeri. Tre donne di una certa età erano strette l'una all'altra, appoggiate alla fiancata del mezzo, come se cercassero di scaldarsi a vicenda, tutt'e tre in cappotto scuro e cappelli ridicoli; a Reinhart fecero venire in mente delle cornacchie spennacchiate planate sulla strada in cerca di resti di cibo. L'autista, Vlaarmeier, si aggirava nervosamente e fumava. Perché non stanno seduti sull'autobus, invece? pensò Reinhart. Non si sono accorti che nevica? Ordinò a Moreno di affiancare Kellerman. Poi si avvicinò a Joensuu e guardò quello che doveva guardare. Prima per due secondi. Quindi chiuse gli occhi per altri cinque. Poi guardò di nuovo. Era abituato a fare così. Non sapeva se fosse davvero un sollievo, ma con gli anni era diventato una sorta di rituale. Una donna morta. Con ogni probabilità nuda, ma grossolanamente avvolta in qualcosa di simile a un lenzuolo, proprio come aveva riferito Vlaarmeier al telefono. Era stesa sulla schiena, la testa appoggiata su una zolla di terra umida e i piedi che arrivavano esattamente alla sottile striscia d'erba che correva lungo il ciglio della strada. Aveva le unghie dipinte di rosso, notò; un dettaglio quasi surreale o, almeno, che rafforzava l'impressione di irrealtà. Un corpo piuttosto ben fatto, a quanto poteva giudicare. La donna sembrava avere fra i trenta e i quarant'anni, ma era solo un'ipotesi, si capisce. Il viso era nascosto dai capelli, abbastanza lunghi, di un rosso scuro. I fiocchi di neve cadevano anche sopra il corpo, come se il cielo avesse trovato qualcosa per coprire ciò che non voleva vedere, pensò. Un delicato sudario... Erano proprio pensieri del genere che di solito venivano a galla
in situazioni simili. Parole, frasi e immagini, che, quasi come il cielo, tentavano inutilmente di velare la realtà. «Spaventoso» disse Joensuu. «Bella donna. Voglio dire, non adesso...» «Da quanto siete qui?» domandò Reinhart. Joensuu guardò l'orologio. «Quattordici minuti» rispose. «Abbiamo ricevuto la chiamata alle dieci e trentanove. Alle dieci e cinquantotto eravamo qui.» Reinhart annuì. Si mosse dalla carreggiata. Si chinò sopra il cadavere e lo studiò per qualche secondo. «Sangue» disse Joensuu senza voltarsi. «Ci sono tracce di sangue sul lenzuolo. E sulla testa. Qualcuno l'ha colpita lì.» Reinhart si raddrizzò e infilò le mani in tasca, serrandole a pugno. Quadrava sicuramente. Le lenzuola - perché sembravano essere due - non erano sporche solo di terra; su una delle spalle c'erano delle strisce e delle gocce e, proprio come aveva detto Kellerman, i capelli sul lato sinistro della testa erano incollati da una sostanza che difficilmente poteva essere qualcosa di diverso dal sangue. Materia cerebrale, forse. Erano arrivate altre due macchine. Reinhart salutò il soprintendente Schultze, che pesava centoventi chili ed era stato nominato capo del team che doveva occuparsi della scena del crimine. «Nevica» constatò questi in tono lugubre. «Cazzo, dovremo sistemare un baldacchino.» Reinhart si fermò un momento a guardare mentre gli aiutanti di Schultze infilavano delle bacchette metalliche nel terreno morbido e stendevano un telo leggero un metro sopra la vittima. Poi augurò loro buona fortuna e si avviò verso l'autobus. Diede ordine a Kellerman di affiancare Joensuu e di organizzare uno sbarramento in piena regola. E di prestare assistenza a Schultze e ai suoi uomini. Moreno sembrava aver esaurito il breve interrogatorio di passeggeri e autista dell'autobus. Stavano transitando sulla strada e una di loro per caso aveva visto il corpo, altro non c'era da dire. Dopo aver controllato nomi e indirizzi, Reinhart disse che potevano allontanarsi. A quel punto nacque una breve discussione, dal momento che nessuna delle tre donne aveva più voglia di andare in chiesa a Keymer - la messa solenne, del resto, era già iniziata -, e alla fine Vlaarmeier si arrese; acconsentì a fare inversione e a riportarle a Kaustin. L'orario era andato a farsi benedire da un pezzo e certo non ci sarebbero
stati altri passeggeri. Non di domenica. Mezz'ora dopo anche Reinhart e Moreno lasciarono il luogo del ritrovamento. Avevano ascoltato il primo resoconto fatto da Schultze: la vittima era una donna di statura media, con i capelli rossi, dell'apparente età di trentacinque anni. Era stata uccisa con parecchi colpi inferti al capo e alla nuca, probabilmente durante la notte o nelle prime ore del mattino. Non più tardi delle quattro, si poteva desumere dal rigor mortis. Era completamente nuda, avvolta in due lenzuola, e sembrava molto plausibile che il corpo fosse stato scaricato sul ciglio della strada da una vettura. Non era stato rinvenuto niente di importante per una futura indagine, ma la squadra responsabile della scena del crimine stava ancora setacciando la zona e ne avrebbe avuto per qualche ora. Cercavano sotto e intorno al baldacchino che avevano montato. Proprio mentre Reinhart e Moreno stavano salendo in macchina, il bodybag verde con il cadavere della donna veniva caricato su un'altra vettura per essere trasportato a Maardam, all'Istituto di Medicina legale. Nessuno spettatore non autorizzato era comparso sul posto, e i pochi automobilisti transitati durante quelle ore domenicali dimenticate da Dio erano stati fatti allontanare autorevolmente da Joensuu o Kellerman. O da entrambi. La neve continuava a cadere. «Prima domenica d'avvento» disse Reinhart. «Oggi è la prima domenica d'avvento. Bella cornice. Bisognerebbe accendere una candela.» Moreno annuì. Pensò che la domenica del Giudizio sarebbe stata molto più consona, ma era già passata da una settimana. Girò la testa e lasciò correre lo sguardo sul paesaggio piatto, dove i radi e grossi fiocchi di neve scendevano volteggiando sopra la terra scura. Tonalità grigie. Tonalità grigie a perdita d'occhio. E quasi niente luce. Aveva pensato di dormire a oltranza, quella mattina. Di rimanere a letto con il giornale e di fare una prima colazione lunga due ore. E di andare a nuotare nel pomeriggio. Aveva pensato. Ma non era andata così. Invece avrebbe trascorso la giornata al lavoro. Tutta, forse; almeno se fossero riusciti a identificare rapidamente la donna morta... Interrogatori e colloqui con le persone più vicine. Domande e risposte. Lacrime e disperazione; non era difficile immaginarsi tutta la scena. Mentre Reinhart guidava lungo la stretta carreggiata dal fondo bagnato, lei cominciò a sperare che non riuscissero a scoprire chi fosse... che la sconosciuta morta rimanesse tale ancora per qualche ora. O magari per qualche giorno. Forse era un pensiero indulgente nei confronti
delle persone a lei più vicine, quali che fossero, ma non si armonizzava con i suoi compiti di agente della polizia giudiziaria. Non era in sintonia con la vecchia regola che diceva che le prime ore di un'inchiesta sono sempre le più importanti; c'entrava di più, molto di più, riconobbe, con la vaga speranza che forse sarebbe comunque riuscita ad andare in piscina un paio d'ore nel pomeriggio. Non bisogna falsificare i moventi, pensò Ewa Moreno e sospirò. Era una delle frasi ricorrenti del commissario, una di quelle che le si erano fissate in testa. Cosa mi spinge sempre a fare una doccia dopo aver visto un cadavere? pensò poi. In particolare se si trattava del cadavere di una donna. Doveva avere a che fare con l'empatia... «Mi domando perché l'abbia lasciata lì» disse Reinhart interrompendo i suoi pensieri. «In mezzo ai campi, semplicemente. Sarebbe stato più sensato nasconderla nel bosco, invece.» Moreno rifletté. «Forse aveva fretta.» «È possibile. Dovrebbero esserci tracce di sangue nella macchina. E deve averla avuta, una macchina. Se solo imbocchiamo la strada giusta, le prove salteranno fuori. Tu cosa pensi?» «Niente per il momento» rispose Moreno alzando le spalle. «Però si può sempre sperare» continuò Reinhart. «Sperare che il marito, o chiunque sia stato ad ammazzarla, abbia telefonato per costituirsi. Probabilmente è proprio quello che è successo... sì, scommetto che adesso lui è lì ad aspettarci da Krause, me lo sento.» «Tu credi?» chiese Moreno. «Ma certo» rispose Reinhart. «Ci aspetta lì da lui. Con i postumi di una sbronza e mezzo fuori di testa... sabato sera c'era un po' troppa roba da bere... qualche litigio, una presunta infedeltà e si è ritrovato in mano il ferro da stiro. Poveracci. La gente mi fa pena.» «Sì» concordò Moreno. «Hai ragione, forse bisognerebbe accendere una candela.» Non c'era nessun colpevole ad aspettarli, né da Krause né da nessun'altra parte della centrale. E nelle ore immediatamente successive nessuno denunciò la scomparsa di una donna con le unghie dei piedi e i capelli rossi. Verso l'una e mezzo Reinhart e Moreno ricevettero da esaminare una serie di fotografie del luogo del ritrovamento e un po' più tardi arrivò una relazione più circostanziata del medico legale e della scientifica. La donna morta era alta un metro e settantadue e pesava sessantadue chi-
logrammi. Aveva i capelli color rosso scuro, come i peli pubici, non aveva mai avuto figli, ma aveva avuto rapporti sessuali in concomitanza dell'omicidio. Prima dell'omicidio, convennero sia Reinhart sia Moreno senza nemmeno discuterne; c'erano abbondanti tracce di sperma nella vagina, un'altra prova sicura nel momento in cui fossero riusciti a catturare il colpevole. Bisognava soltanto congelarlo e poi effettuare il test del DNA. Anche se non doveva necessariamente essere la stessa persona, si capisce, chi aveva fatto l'amore con lei poche ore prima della sua morte e chi poi gliel'aveva procurata. La morte. Anche se molti elementi portavano a ritenerlo, è ovvio. Sia Reinhart sia Moreno erano di quel parere. Denti sani e nessun segno particolare. Era stata uccisa con tre forti colpi al capo e uno alla nuca. La perdita di sangue relativamente abbondante era stata provocata soprattutto dai colpi al cranio, che avevano centrato l'arteria temporale. Non si conosceva il luogo dov'era stato commesso il delitto, ma non era lo stesso dove la donna era stata trovata. L'ora non era stata ancora stabilita con precisione, ma probabilmente l'omicidio si poteva far risalire a un momento compreso fra le due e le quattro della notte di domenica. Nessun indumento era stato rinvenuto sulla scena del crimine, e nessun oggetto. Il tasso alcolico della donna era di 1,56 per mille. «Era ubriaca» constatò Reinhart. «Si può sperare che questo abbia reso le cose più semplici. Cazzo.» Moreno mise da parte il fascicolo dell'Istituto di Medicina legale. «Ci faranno avere qualcos'altro stasera» disse Reinhart. «Meusse ci sta dando dentro. Possiamo prenderci qualche ora libera adesso?» Quando Moreno si incamminò verso la piscina di Birkenweg, la neve si era trasformata in pioggia. Il crepuscolo aveva già cominciato a calare sulla città, benché non fossero ancora le tre, e le tornò di nuovo in mente quello che aveva detto Reinhart a proposito di accendere una candela. Anche se quando ripensò al corpo senza nome della donna morta a Korrim, si rese conto che le tenebre erano più consone al suo stato d'animo. Era una di quelle giornate, constatò. Un giorno che non riusciva ad aprirsi per davvero, o nel quale lei stessa non voleva aprirsi. Un giorno che era più facile affrontare con i sensi e la coscienza semichiusi nei confronti della realtà. Una di quelle giornate. Una di quelle stagioni, forse? Vita da ostrica, pensò, spingendo la pesante porta d'ingresso della piscina. Mi domando come si chiamasse. Mi domando se avrei potuto essere al
suo posto. 19 «È qui da me» disse Krause. «Siamo appena rientrati.» «Chi?» domandò Reinhart. «E da dove?» «Andreas Wollger» rispose Krause. «Il marito. Identificazione positiva.» Reinhart fissò il telefono. Poi l'orologio. Erano le otto e due minuti di lunedì mattina. «Hai trovato quello che ha commesso il delitto e non me l'hai fatto sapere?» Krause tossì nella cornetta. «Non quello che ha commesso il delitto. Solo il marito della vittima. In questo momento è nel mio ufficio con l'aspirante Dobbermann. Non si sente molto bene, siamo appena stati all'Istituto di Medicina legale per l'identificazione. Nessun dubbio. Si chiamava Vera Miller.» «Vera Miller?» ripeté Reinhart. «Perché mi telefoni solo adesso? E come fai a sapere che non sia stato lui a colpirla con il ferro da stiro?» «Il ferro da stiro?» disse Krause. «O quel cazzo che era... come fai a sapere che non è lui?» Sentì Krause sospirare. «In fondo sono solo le otto» disse. «Wollger è arrivato qui alle sette meno un quarto e siamo andati direttamente a darle un'occhiata. Il signor commissario pensa di venire qui a parlare con lui oppure ha intenzione di andare avanti a interrogarmi al telefono? Fra parentesi, sono quasi sicuro che il ferro da stiro non c'entri niente.» Comincia a diventare sfrontato, pensò Reinhart dopo aver messo giù la cornetta. L'aspirante. Che Andreas Wollger non si sentisse molto bene era un'osservazione del tutto corretta. Quando Reinhart entrò nella stanza, aveva l'aria sconvolta e le mani serrate sulle ginocchia. Fissava davanti a sé con lo sguardo vuoto, mentre l'aspirante Elise Dobbermann gli stava accanto con l'espressione di chi non sa che pesci pigliare. Indossava l'ultimo modello - non particolarmente fantasioso - di divisa per poliziotte. Reinhart fece in tempo a pensare che era contento di non essere una donna. O almeno non una donna poliziotto con l'obbligo di indossare l'uniforme. «Mmm» disse. «Signor Wollger, sono il commissario Reinhart.»
Tese la mano. Dopo un attimo Andreas Wollger si alzò e gliela strinse. Poi tornò a sedersi e continuò a fissare il vuoto. Reinhart rimase a osservarlo come se niente fosse. Un uomo piuttosto alto e tarchiato sui quarant'anni, valutò Reinhart. Jeans, polo blu, giacca grigia stazzonata. La testa era grossa, con un principio di calvizie. Occhi slavati dietro un paio di occhiali con la montatura metallica. Un tratto di debolezza nella bocca e nel mento. Non è stato lui, fu il primo pensiero di Reinhart. Non bisogna trarre conclusioni affrettate, fu il secondo. «Se la sente di rispondere a qualche semplice domanda?» «Domanda?» fece Wollger. «Vuole qualcosa da bere? Caffè? Tè?» Wollger scosse la testa. «Un attimo» disse Reinhart, prendendo da parte l'aspirante Dobbermann. Abbassò la voce e le domandò come fosse la situazione. Lei spiegò bisbigliando che Wollger aveva bevuto un po' di succo di frutta e una mezza tazza di caffè all'Istituto di Medicina legale dopo il riconoscimento della sua defunta consorte. Anche se non erano riusciti a cavargli molte parole di bocca. Né prima né dopo l'identificazione. Né lei né Krause. Reinhart annuì e la pregò di andare a chiamare il dottor Schenck nel suo ufficio al secondo piano. Poi si rivolse di nuovo al signor Wollger. «Purtroppo devo raccogliere alcuni dati. Poi verrà un medico e la farà riposare. Il suo nome è Andreas Wollger?» Wollger annuì. «Le sarei grato se rispondesse a parole.» «Sì, sono Andreas Wollger.» «Sua moglie è stata vittima di una disgrazia terribile. Lei l'ha appena identificata come...» gettò un'occhiata al bloc-notes «... come Vera Miller. È esatto?» «Sì.» «Qual è il vostro indirizzo?» «Milkerweg 18.» «Avete figli?» «No.» «Da quanto tempo siete sposati?» «Tre anni.» «Che lavoro fa lei?» «Sono disoccupato.»
«Da quanto?» «Sei mesi.» «E prima dove lavorava?» «Alla Zinders. Hanno chiuso.» Reinhart annuì e si frugò in tasca alla ricerca di pipa e tabacco. Le industrie Zinders fabbricavano componenti per telefoni cellulari, se lo ricordava bene. Erano state battute dai giapponesi. O forse dai coreani. «E sua moglie?» «Che lavoro faceva lei?» «Sì.» «Era infermiera.» «Che cos'ha fatto sabato sera?» «Ho cenato con un amico.» «Dove?» «Al ristorante Mefisto.» «In Lofters Plejn?» «Sì.» «C'era anche sua moglie?» «No, mia moglie era a un corso.» «Che genere di corso?» «Per infermiere. Lei è infermiera.» «In quale ospedale?» «Gemejnte.» «E il corso si teneva al Gemejnte?» «No. Era ad Aarlach.» «Aarlach?» ripeté Reinhart, prendendo nota. «È piuttosto lontano da qui.» Wollger non replicò. «Un corso per infermiere ad Aarlach. Quando è partita?» «Sabato mattina.» «E quando doveva tornare?» «Domenica pomeriggio. Come al solito.» «Come al solito? Che cosa intende dire?» Wollger fece un respiro profondo. «Andava a quel corso da diversi sabati. È come una specializzazione.» «Sempre ad Aarlach?» «Sempre ad Aarlach» confermò Andreas Wollger. «Ma non è tornata a casa.»
«Capisco» commentò Reinhart. «E non vedendola tornare ha pensato di rivolgersi alla polizia?» «È morta» disse Wollger. «Oh, Dio, Vera è morta!» La voce dell'uomo si alzò di una mezza ottava verso la fine e Reinhart capì che il crollo era prossimo. «Come ci andava?» domandò. «Ad Aarlach, intendo.» «In treno» gemette Andreas Wollger. «Ci andava in treno, naturalmente. Sant'Iddio, lei è morta, perché state qui a chiedermi come andava ad Aarlach?» Reinhart aspettò qualche secondo. «Sua moglie è stata assassinata» disse poi. «Qualcuno l'ha uccisa la notte fra sabato e domenica. Mi sa dire perché sia stata ritrovata vicino a Maardam, quando avrebbe dovuto essere a duecento chilometri da qui?» Andreas Wollger non lo sapeva. Invece si accasciò sulla sedia. Si nascose il viso fra le mani e cominciò a lamentarsi, dondolando il busto avanti e indietro. Si sentì bussare discretamente alla porta e il dottor Schenck mise dentro la testa brizzolata e riccioluta. «Come va?» Reinhart sospirò e si spostò fuori della portata uditiva del novello vedovo. «Puoi immaginarlo. Credo che adesso possa occupartene tu. Non so se abbia dei parenti, ma dobbiamo far venire qui qualcuno. Abbiamo bisogno di parlare ancora con lui, si capisce, e prima è meglio è. Ma in queste condizioni non è possibile.» «All right» disse Schenck e annuì. «Mi sembra evidente. Vedremo che cosa si può fare.» «Grazie» replicò Reinhart e lasciò la stanza. Quando entrò all'Istituto di Medicina legale, era ormai ora di pranzo, perciò propose di andare al Fix. Meusse non aveva nulla da obiettare; si tolse il camice bianco tutto insudiciato e si infilò la giacca che aveva lasciato sopra la scrivania. Il bar Fix si trovava dall'altra parte della strada. Era abbastanza pieno quando arrivarono, ma con una certa diplomazia Reinhart riuscì a ottenere un tavolo discretamente appartato. Domandò a Meusse se gradiva qualcosa da mangiare, ma il medico legale si limitò a scuotere la testa calva. Non era una sorpresa. Secondo quanto si diceva, erano anni che non ingeriva cibi solidi; Reinhart ordinò due birre scure e si sedette di fronte a lui, in at-
tesa. «Allora?» chiese. «Dicevi che c'era qualcosa...» Meusse bevve una lunga sorsata e si asciugò accuratamente la bocca con un tovagliolo. «C'è un fatto.» «Un fatto?» ripeté Reinhart. «Proprio così» disse Meusse. «Noto che mi segui.» Reinhart non rispose. «È una traccia molto labile. Voglio che tu lo abbia ben presente.» «Va bene» disse Reinhart. «Si tratta dei colpi.» «Colpi?» «I colpi alla testa e alla nuca» precisò Meusse. «Ci sono degli elementi di contatto con il figlio del commissario.» Passò un attimo prima che Reinhart capisse che si stava riferendo a Erich Van Veeteren. «Che diavolo...» cominciò. «Lo si può ben dire» fece Meusse e bevve un altro sorso di birra. «Non dimenticare che si tratta soltanto di un'analisi superficiale.» «Naturalmente» disse Reinhart. «Io non dimentico con facilità. Ma stai affermando che si tratterebbe della stessa persona?» «Murai» fece Meusse. «Una sola persona avrebbe ammazzato sia Erich Van Veeteren sia la donna. È questo che stai dicendo?» «Non escludo questa possibilità» disse Meusse dopo una pausa di riflessione. «È quello che sto cercando di dirti. Se il signor commissario ha la pazienza di ascoltarmi, cercherò di spiegarglielo... Quello che abbiamo è un colpo un po' insolito. Potrebbe anche trattarsi della stessa arma in tutti e due i casi. Un tubo di ferro, per esempio. Piuttosto pesante. Dei colpi alla testa non ho nulla da dire, se non che si tratta di una persona che usa la mano destra; è su questo colpo alla nuca che baso la corrispondenza. In entrambi i casi va a spezzare le vertebre cervicali. Colpisce, a grandi linee, il medesimo punto. Un colpo che causa la morte istantanea... può trattarsi di un caso, si capisce, volevo solo che ne foste a conoscenza.» «Grazie» disse Reinhart. Rimase un momento in silenzio mentre cercava di chiarirsi il ragionamento disegnando una serie di vertebre sul bloc-notes che aveva davanti a sé sul tavolo. Non gli riuscì molto bene. «Ma stavolta i colpi alla testa erano più di uno.»
Meusse annuì. «Tre. Piuttosto inutili. Sarebbe bastato il colpo alla nuca, ma bisogna che la vittima sia voltata dalla parte giusta... per così dire.» «Lo giudichi un lavoro professionale?» volle sapere Reinhart. Meusse tardò un attimo a rispondere. «La persona che ha colpito doveva aver chiaro dove voleva mirare e quale sarebbe stato il risultato» disse. «È questo che il commissario intende con il concetto di 'professionale'?» Reinhart alzò le spalle. «Può benissimo trattarsi di due persone diverse» continuò Meusse. «Oppure della stessa. Volevo solo dirvelo. Grazie della birra.» Scolò l'ultimo goccio e si asciugò di nuovo intorno alle labbra. «Aspetta un attimo» disse Reinhart. «Voglio avere anche una valutazione. Nessuno saprebbe farla meglio di te. Abbiamo a che fare con la stessa persona? Cazzo, non ha nessun senso che mi convochi qui e poi non mi dici nulla di preciso.» Meusse fissò il bicchiere vuoto con la fronte corrugata. Reinhart fece cenno a un cameriere e ordinò altre due birre. Quando i bicchieri furono sul tavolo, il piccolo medico legale si passò la mano sulla testa pelata e guardò fuori dalla finestra. Il suo sogno doveva essere quello di fare l'attore, pensò Reinhart. Quand'era giovane... due, trecento anni fa o giù di lì. «Non voglio sbilanciarmi» disse Meusse alla fine. «Ma non starei qui a dirti certe cose, se non avessi dei presentimenti... finché non ci sono elementi che indicano il contrario, si capisce.» «Altamente probabile, dunque?» disse Reinhart. «È questo il tuo giudizio?» «Volevo solo dare il mio piccolo contributo» rispose Meusse. Rimasero un momento seduti in silenzio a bere. Reinhart accese la pipa. «Non ci sono collegamenti fra Vera Miller ed Erich Van Veeteren. Non per quanto ne sappiamo fino adesso, almeno... anche se ovviamente non abbiamo ancora cercato a fondo.» «Ne basta uno solo» disse Meusse. «Ma non è il mio lavoro.» «Esatto» disse Reinhart. «Be', grazie per la chiacchierata, vedremo cosa farne di questa cosa.» «Vedremo» ripeté Meusse, alzandosi. «Grazie della birra.» 20 «Non c'è nessun corso ad Aarlach» disse Moreno, sedendosi di fronte a Reinhart. «Nessun corso per infermiere nel fine settimana. Lui come sta?»
«A pezzi» rispose Reinhart. «Ci scommetto la testa che quella storia di Aarlach era un bluff. Non vuole tornare a casa, Wollger. È giù da Schenck, un suo amico è stato qui, ma a quel punto Schenck l'aveva già messo sotto sedativi. Povero diavolo. I genitori arrivano stasera... due settantacinquenni che vengono in macchina da Frigge. I suoi di lui, intendo, quelli di lei non siamo ancora riusciti a rintracciarli. Stiamo a vedere come va, ma dobbiamo rimetterlo in piedi e parlare con lui. Dopato o non dopato.» «Lei lo tradiva?» chiese Moreno. «Dobbiamo darlo per scontato?» «Penso di sì» rispose Reinhart. «Perché altrimenti avrebbe dovuto allontanarsi da casa con una bugia ogni sabato?» «Possono esserci altre spiegazioni.» «Ah sì? Dimmene una.» Moreno rifletté un istante, poi rimandò la risposta al futuro. «Come ti sembra lui?» domandò invece. «Un po' ingenuo?» Reinhart si passò la mano sotto il mento e assunse un'aria pensierosa. «Sì» disse. «Ingenuo è forse la parola giusta. Van Berle, quel suo amico, non aveva molto da dire della moglie. Era entrata piuttosto tardi nella sua vita. Prima abitava a Groenstadt. Van Berle e Wollger sono amici d'infanzia, a quanto dice lui. Era con lui che usciva di solito mentre la moglie era in giro a mettergli le corna. Se poi era questo che faceva.» «Mmm» fece Moreno. «Forse c'è un'altra faccia della medaglia. Anche se proprio non capisco cos'abbia a che fare questa storia con Erich Van Veeteren.» «Nemmeno io» disse Reinhart. «Ma tu lo sai quanto vale di solito un'ipotesi di Meusse, vero?» Moreno annuì. «Come ci muoviamo adesso?» Reinhart si alzò. «Secondo questo schema» rispose. «Jung e Rooth parlano con colleghi e amici. E parenti, se ne troviamo. Tu e io possiamo ritentare con Wollger. Penso che adesso sia meglio andare giù, non ha molto senso stare ad aspettare mamma e papà, cosa ne pensi?» «Al momento non penso niente» rispose Moreno e seguì Reinhart verso l'ascensore. «Gliela racconti tu questa storia del corso o devo pensarci io?» «Fallo tu» disse Reinhart. «Io mi faccio da parte davanti alla tua malizia ed empatia femminile. Forse non ha questa grande importanza dal momento che è stata assassinata. Forse la prenderà da uomo.» «Sicuro come l'oro» disse Moreno. «Non vedo l'ora di incontrarlo.»
Jung aveva fissato un incontro con Liljana Milovic in un caffè del Gemejnte Hospitaal. La donna non aveva la minima idea del perché volesse parlare con lei, e lui ebbe l'ingrato compito di comunicarle che la sua collega e amica disgraziatamente era stata uccisa, per quello non era venuta al lavoro quel tetro lunedì. Liljana Milovic era senza dubbio una bella donna, e in circostanze diverse lui non avrebbe avuto nulla in contrario ad abbracciarla per farle passare l'attacco di pianto. Riflettendoci, non aveva nulla in contrario neppure in quel momento e fu proprio a quello che dovette dedicare parte del loro incontro. Lei lo abbracciò e pianse, semplicemente. Spostò la sedia accanto alla sua e gli si appese al collo. Lui la accarezzò un po' goffamente sulla schiena e sui folti capelli scuri che profumavano di caprifoglio e acqua di rose e di chissà cos'altro. «Mi perdoni» ripeteva ogni tanto fra i singhiozzi. «Mi perdoni, ma non posso farci niente.» Nemmeno io, pensava Jung e si accorse di avere anche lui un groppo in gola. Gradualmente il suo pianto si calmò e lei cominciò a ricomporsi, ma non interruppe il contatto fisico con lui. Non del tutto. «Mi dispiace» disse Jung. «Credevo che gliel'avessero detto.» Lei scosse la testa e si soffiò il naso. Lui si accorse che gli avventori del caffè seduti ai tavoli vicini li osservavano con sguardi furtivi. Si domandò che cosa si fossero messi in testa, e le chiese se preferiva andare da un'altra parte. «No, no, qui va bene.» Aveva solo un leggero accento, e lui suppose che si fosse trasferita dai Balcani quando era solo una ragazzina e quando la regione si chiamava ancora Iugoslavia. «Conosceva bene Vera?» «Era la collega cui ero più legata.» «Vi frequentavate anche in privato?» Lei fece un respiro profondo e assunse un'espressione addolorata, che la rendeva ancora più bella. Sotto gli zigomi alti c'era proprio quel vago accenno d'ombra che a Jung, per qualche ragione, faceva sempre venire le gambe molli. Lui si morse la lingua e cercò di calarsi di nuovo nel ruolo del poliziotto. «Non tanto» rispose lei. «Lavoriamo nello stesso reparto solo da qualche mese. Da agosto. Cosa le è successo di preciso?» In attesa della risposta, gli stringeva forte le mani. Jung esitò. «Qualcuno l'ha ammazzata» rispose poi. «Non sappiamo chi.»
«Omicidio?» «Sì, omicidio.» «Non capisco.» «Nemmeno noi. Ma è così, in ogni caso.» Lei lo guardò dritto negli occhi da pochi centimetri di distanza. «Perché?» chiese. «Perché qualcuno dovrebbe aver voluto uccidere Vera? Era una persona meravigliosa. Com'è successo?» Jung distolse lo sguardo e decise di risparmiarle i dettagli. «Non è molto chiaro» rispose. «Ma vorremmo parlare con tutti quelli che la conoscevano. Ha notato se era inquieta negli ultimi tempi?» Liljana Milovic rifletté. «Non so, ma negli ultimi giorni, forse... venerdì era un po'... sì, non so come potrei dire. Un po' triste.» «Le è capitato di parlare con lei, venerdì?» «Non molto. Allora non ci ho pensato, ma ora che me lo chiede ricordo che non era allegra come al solito.» «Ma non ne avete parlato.» «No. C'era molto lavoro, non abbiamo fatto in tempo, Ah, se avessi saputo...» Le lacrime cominciarono di nuovo a scorrere e lei si soffiò il naso. Jung la guardava e pensava che se non avesse avuto Maureen avrebbe chiesto a Liljana Milovic il permesso di invitarla a cena. O al cinema. O qualsiasi altra cosa. «Dov'è adesso?» volle sapere lei. «Adesso?» disse Jung. «Ah sì, intende... è all'Istituto di Medicina legale. Stanno esaminando...» «E suo marito?» «Suo marito, già» fece Jung. «Conosce anche lui?» Lei abbassò lo sguardo sul tavolo. «No. Per niente. Non l'ho mai incontrato.» «E lei è sposata?» domandò lui e pensò a quello che aveva letto giorni prima sui lapsus freudiani in una delle riviste di Maureen. «No.» Liljana accennò un sorriso. «Però ho un ragazzo.» Che di sicuro non ti merita, pensò Jung. «Parlava spesso di suo marito? Di come andavano le cose fra loro e via dicendo?» Lei ebbe un attimo di esitazione. «No» rispose. «Non molto spesso. Ho l'impressione che non andassero molto d'accordo.» Era la prima volta che lui notava che si teneva sul vago e si chiese se questo fosse un segnale.
«Davvero?» disse e aspettò. «Però lei non mi diceva niente. Diceva solo che non sempre funzionava. Se capisce cosa intendo...» Jung annuì e pensò di aver capito. «Ma non parlavate di... faccende private?» «Certe volte.» «Non crede che fosse interessata a qualcun altro? Che potesse avere una relazione con un altro uomo?» Liljana Milovic rifletté a lungo prima di rispondere. «Forse» disse. «Sì, forse è possibile. Negli ultimi tempi c'era qualcosa.» «Però lei non le ha detto nulla?» «No.» «E non sa di chi potrebbe trattarsi?» Liljana Milovic scosse la testa e ricominciò a piangere. «Il funerale» disse. «Quando sarà il funerale?» «Non lo so» rispose Jung. «È probabile che non abbiano ancora fissato la data. Ma le prometto di informarla non appena lo saprò.» «Grazie» disse lei e sorrise fra le lacrime. «Lei è un poliziotto tanto buono e gentile.» Jung deglutì due volte e non trovò nient'altro da dire. 21 Dormì fino alle otto di domenica sera. Quando si svegliò, la sua prima impressione fu che qualcosa si fosse rotto dentro la sua testa, nella percezione del mondo. Aveva sognato palle da biliardo in perpetuo movimento su un gigantesco tavolo privo di buche. Disegni imperscrutabili; collisioni e cambiamenti di direzione, un gioco dove tutto sembrava incerto e tuttavia prestabilito come l'esistenza stessa. La velocità e la direzione che ogni palla aveva nel suo viaggio sul panno verde erano il codice segreto, che includeva tutti gli eventi e gli incontri futuri. Insieme con i percorsi e i codici di tutte le altre palle, naturalmente, anche se in qualche modo oscuro ognuna portava con sé anche i destini delle altre nella sua personale carambola, per lo meno la palla che rappresentava proprio lui... un futuro programmato e senza fine, pensò mentre era ancora a letto e cercava di trovare un punto da fissare... quella chiusa infinità. Qualche tempo prima, in una delle riviste a cui era abbonato, aveva letto degli articoli sull'indagine scientifica del caos e sapeva che quanto
è regolato da leggi e l'imprevedibile potevano benissimo rientrare nell'ambito della stessa teoria. Opposti compatibili. La vita stessa. La stessa marionetta che dondola sospesa a milioni di fili. Lo stesso piano inclinato. Questa vita maledetta. Le immagini erano innumerevoli. La rottura, perché era questa cosa a stabilire la nuova direzione, si era verificata quando aveva colpito Vera Miller con il tubo. Proprio nell'attimo in cui lo faceva aveva intuito con estrema chiarezza che era stato inevitabile fin dall'inizio, ma anche che gli sarebbe stato impossibile saperlo prima. Impossibile saperlo prima di essere stato lì e di averlo fatto. Allora era stato ovvio. Una conseguenza, molto semplicemente, uno sviluppo che, a posteriori, appariva prevedibile e del tutto logico... naturale come la notte dopo il giorno, come il tedio dopo l'allegria, e inconsapevole come l'alba dev'esserlo del tramonto; l'effetto di cause che tutto il tempo erano state al di fuori del suo controllo, ma che nondimeno erano state lì. Una necessità. Un'altra di quelle infernali necessità; quando aveva sferrato quei colpi disperati contro la nuca e la testa di lei, quella disperazione non era stata nient'altro che un vano regolamento di conti con la necessità stessa. Nient'altro. Erano entrambi due vittime di quella stramaledetta, predeterminata danza macabra chiamata vita, lui e Vera, ma lui in più era stato costretto a fare la parte del carnefice. In più; una sorta di aggiunta, grazie tante... diretta, ordinata ed eseguita secondo tutti quegli irrevocabili codici e traiettorie. Il grande piano. Risultati alla mano, era toccato a lui e adesso era fatto. Subito prima di svegliarsi aveva sognato la mano di sua madre sulla sua fronte, quella volta che aveva vomitato bile gialla... e le immagini delle traiettorie delle palle dai diversi colori... e il secchio con un goccio d'acqua sul fondo... e l'infinita dolcezza di sua madre... e le collisioni... ancora e ancora, fino all'attimo in cui tutto veniva definitivamente sciacquato con un fiume di sangue che sgorgava dall'arteria temporale di Vera, dove il primo colpo si era abbattuto con forza spaventosa, tutto secondo quanto aveva stabilito il destino, ancora e ancora, quel macabro melodramma, quel vorticoso turbine di follia... e quando tutto questo si fu ripetuto fino alla noia, lui si svegliò e seppe che qualcosa si era lacerato. Qualcos'altro. La membrana. Definitivamente lacerata. Quando si alzò vide che c'era un bel po' di sangue anche nella realtà. Nel letto. Sul tappeto, sul pavimento, sui vestiti sparsi un po' dappertutto. Sulle
sue mani e sul tubo che era rotolato sotto il letto e che all'inizio non riusciva a trovare. Anche nella macchina in garage. Il sedile posteriore era coperto del sangue di Vera. Prese due pastiglie. Le buttò giù con un bicchiere d'acqua e un dito di whisky. Si stese supino sul divano e aspettò finché avvertì i primi effetti benefici dell'alcol. Poi agì. Il lavoro che rimaneva da fare. Con calma e metodo, per quanto ne fosse capace. Lavare quello che si riusciva a lavare. Strofinare e raschiare, provando modi e prodotti diversi. Non avvertiva più nessuna eccitazione, nessun pentimento o paura... soltanto una calma fredda e lucida: si rese conto che il gioco continuava ancora secondo leggi e disegni dei quali non era padrone. Dei quali nessuno poteva essere padrone e che bisognava guardarsi bene dal contrastare. La direzione del movimento. Il codice. Quando ebbe fatto ciò che poteva essere fatto, prese la macchina e andò in città. Rimase seduto due ore al ristorante Lon Pejs sulla Zwille, mangiò cibo thailandese e cercò di pensare a quale sarebbe stata la mossa successiva di quel gioco inevitabile. A quanto spazio d'azione gli sarebbe stato concesso in seguito. Non arrivò a nessuna conclusione. Tornò a casa per la stessa strada da cui era venuto. Notò con sorpresa che si sentiva tranquillo. Prese una pillola per la notte e crollò a letto. Lunedì il sole non voleva mai sorgere. Di prima mattina telefonò al lavoro e si diede malato. Lesse sul «Neuwe Blatt» della donna trovata assassinata nei pressi di Korrim ed ebbe difficoltà a capire che si trattava di lei. E di lui. I ricordi del viaggio in macchina di sabato notte attraverso l'estesa campagna erano fumosi; non sapeva quali strade avesse percorso né dove si fosse fermato alla fine e dove l'avesse tirata fuori dall'auto. Il nome di Korrim non l'aveva mai sentito prima. Non c'erano testimoni. Nonostante il paesaggio aperto aveva potuto scaricare il corpo col favore delle tenebre e dell'ora tarda. La polizia non aveva fornito molte notizie. Probabilmente non aveva nessun indizio degno del nome, lasciava intendere l'autore dell'articolo. Questa è la realtà, pensò. Non c'è motivo di preoccuparsi. Il gioco va avanti e le palle continuano a rotolare.
Il postino arrivò appena prima delle undici. Lo lasciò sparire oltre l'asilo infantile prima di uscire a controllare la cassetta delle lettere. Eccola lì. La stessa busta azzurro pallido di sempre. La stessa calligrafia ordinata. Si sedette e la soppesò un attimo in mano sopra il tavolo in cucina prima di aprirla. Questa volta la lettera era un po' più lunga, ma non di molto. Mezza pagina in tutto. La lesse lentamente e metodicamente. Come se non fosse stato del tutto padrone della lettura, o avesse avuto paura di trascurare qualcosa di nascosto o solo accennato. È ora di concludere la nostra piccola transazione. Se questa volta non seguirà le istruzioni punto per punto, non esiterò a informare la polizia. Credo che Lei capisca che sta mettendo a dura prova la mia pazienza. Faccia come segue: 1) Metta 200.000 gulden in un sacchetto di plastica bianco e lo chiuda con un nodo stretto. 2) Alle quattro in punto della notte di martedì 1 ° dicembre lasci il sacchetto nel cestino dei rifiuti accanto alla statua di Hugo Maertens in Randers Park. 3) Torni a casa e aspetti la telefonata. Quando arriverà, risponda con il Suo nome e segua le istruzioni che Le verranno date. Non le sarà offerta un'altra possibilità di sfuggire alla giustizia. Questa è l'ultima. Ho lasciato un resoconto di tutte le sue malefatte in un luogo sicuro. Se dovesse succedermi qualcosa, il resoconto finirà nelle mani della polizia. Cerchiamo di concludere questa faccenda senza ulteriori passi falsi. Un amico Ben studiato. Doveva riconoscerlo. In un certo senso era una soddisfazione avere un degno avversario. In qualche modo sentiva che comunque, alla fine, sarebbe riuscito a raggirarlo e a eliminarlo, e a uscirne vincitore. Ma senza dubbio ci sarebbe voluto parecchio impegno. Per il momento - mentre era ancora seduto al tavolo in cucina con la lettera in mano - non era possibile immaginarsi una soluzione del genere.
Una partita a scacchi, pensò, una partita a scacchi dove la situazione aveva un profilo chiaro, ma al tempo stesso era difficile da analizzare. Non sapeva perché gli fosse venuta in mente questa metafora. Era sempre stato uno scacchista mediocre; aveva giocato parecchio, ma non era mai riuscito ad acquisire la pazienza necessaria. Il suo abile avversario aveva messo in atto un attacco sulle cui conseguenze non era in grado di farsi un'idea. Non ancora. In attesa dell'intuizione non gli rimaneva altro che fare una mossa per volta e cercare uno spiraglio. Un punto debole. Una specie di difesa di mantenimento. C'erano forse altre soluzioni? No, non per il momento. Ma la dilazione era breve. Guardò l'ora e si rese conto che meno di diciassette ore lo separavano dal momento in cui avrebbe dovuto infilare duecentomila gulden in un cestino dei rifiuti in Randers Park. Il ricattatore sembrava avere una predilezione per i cestini dei rifiuti. E per i sacchetti di plastica. Non dimostrava forse mancanza di fantasia? Una semplicità e una prevedibilità nel condurre il gioco delle quali avrebbe potuto avvantaggiarsi. Diciassette ore? Meno di un giorno. Chi? pensò. Chi? Per un attimo la questione dell'identità dell'avversario prese il sopravvento su come avrebbe dovuto agire. Quando ci pensò, si rese conto con stupore che fino a quel momento aveva dedicato ben poco tempo a quell'aspetto del problema. Chi? Chi diavolo l'aveva visto quella famosa sera? Era possibile trarre qualche conclusione dal suo modo d'agire? Dalle lettere? Non riusciva ad avvicinarsi un po' di più a lui semplicemente esaminando i dati in suo possesso? E d'improvviso un lampo. Qualcuno che conosceva. Trattenne questa intuizione nella mente come se fosse di vetro. Timoroso di romperla, timoroso di darvi anche troppo peso. Qualcuno che conosceva. Qualcuno che lo conosceva. La seconda ipotesi, soprattutto. L'avversario conosceva la sua identità già quando l'aveva visto con il cadavere del ragazzo quella famosa sera. Mentre lo reggeva fra le braccia sotto la pioggia. Forse era così... Certo, si convinse. Doveva essere andata proprio così. Non aveva registrato e memorizzato un numero di targa. Il ricattatore l'aveva saputo da subito. Era passato di lì senza fermarsi e quando aveva letto dell'accaduto sui giornali, aveva tirato le sue conclusioni e aveva col-
pito. Lui oppure lei. Lui, con ogni probabilità, decise senza capire bene perché. Sì, le cose stavano proprio così. Quando ci rifletté, si rese subito conto di quanto fosse stata assurda la precedente spiegazione. Assurda e forzata. Chi diavolo riesce a registrare e a memorizzare un numero di targa solo passando accanto a un veicolo? Al buio e con la pioggia? Impossibile. Era da escludersi. Quindi qualcuno l'aveva riconosciuto. Qualcuno che sapeva chi era. Si accorse che stava sorridendo. Era lì con una lettera azzurro pallido che poteva mandare in rovina la sua vita in meno di un giorno. Aveva ucciso tre persone nell'arco di un mese. Eppure sorrideva. Ma chi? Non gli ci volle molto tempo per passare in rassegna la sua ridotta cerchia di amici e per escluderla. O per escluderli: tutti quelli che eventualmente, con un po' di buona volontà, avrebbe potuto pensare di invitare al suo matrimonio o alla sua festa dei cinquant'anni. O al suo funerale. No, nessuno di loro, non ci poteva proprio credere. È vero che c'erano un paio di nomi che non aveva escluso di getto come gli altri, ma non si era fermato di fronte a nessuno. Non si sentiva di sospettare nessuno. La questione era anche un'altra. Certo lui non era una persona particolarmente nota a Maardam, non era un'autorità, però un bel po' di gente sapeva chi era e lo conosceva di vista. E questo bastava, si capisce. Ogni giorno veniva in contatto con persone che poi non riusciva più a riconoscere quando le incontrava in città, ma che naturalmente avevano ben chiara la sua, di identità. E che certe volte lo salutavano addirittura... spesso un po' imbarazzate quando si accorgevano che lui non le riconosceva. Uno così. Doveva essere uno così, uno di quelli, il suo avversario. Si accorse che stava sorridendo di nuovo. Poi imprecò ad alta voce, essendosi reso conto che la selezione e le conclusioni difficilmente potevano essergli di qualche aiuto, considerato il poco tempo che aveva. Assolutamente di nessun aiuto. Supponendo che il ricattatore vivesse da qualche parte a Maardam, aveva forse ridotto il numero dei candidati da trecentomila a trecento. Esclusi i vecchi e i bambini: da duecentomila a duecento.
Una riduzione considerevole, è vero, ma comunque inutile. Ne rimanevano troppi, semplicemente. Duecento possibili ricattatori? Diciassette ore. Sedici e mezzo, a voler essere precisi. Sospirò e si alzò. Andò a controllare la scorta di medicinali e calcolò che sarebbe riuscito a rimanere a galla per almeno altri dieci, dodici giorni. Di lì a dieci, dodici giorni la situazione sarebbe stata un'altra. Comunque. Partita chiusa. Pareggio escluso. Poi telefonò alla banca. Il prestito che aveva richiesto giovedì non era stato ancora concesso. Ci sarebbero voluti altri due giorni, ma non era il caso che si preoccupasse. Era solo una formalità. Lui era un buon cliente e loro avevano cura dei buoni clienti. Anche se non erano più gli anni Ottanta. Ringraziò e riattaccò. Rimase in piedi a guardare fuori della finestra la squallida strada di periferia e la pioggia. Prima di sera non avrebbe avuto duecentomila gulden in contanti. A nessuna condizione. Quindi aveva bisogno di qualcos'altro. Aveva bisogno di una strategia. Lesse la lettera ancora una volta e cercò di trovarne una. 22 L'immagine della defunta Vera Elizabeth Miller assunse contorni più definiti durante la giornata di lunedì. Era nata a Gellenkirk nel 1963, ma era cresciuta a Groenstadt. Aveva tre fratelli, due maschi e una femmina, che abitavano ancora nella provincia meridionale. Il padre era morto nel 1982, la madre si era risposata e lavorava come insegnante di economia domestica a Karpatz; era stata informata della morte della figlia mentre era a scuola ed era attesa a Maardam nella giornata di martedì insieme con il suo attuale consorte. Vera Miller aveva preso il diploma di infermiera a Groenstadt e lì aveva lavorato fino al 1991, quando, in concomitanza con il divorzio da un certo Henric Veramten, si era trasferita a Maardam. Il matrimonio con Veramten non era stato benedetto dall'arrivo di un figlio, ma nel 1989 la coppia aveva adottato una piccola coreana, che però era deceduta in un tragico incidente automobilistico l'anno successivo. Secondo la madre e due dei fratelli, il divorzio da Veramten era una conseguenza diretta della morte della
bambina. Non lo si diceva apertamente, ma fra le righe emergeva che poteva essere stato proprio il marito a causare l'incidente. Direttamente o indirettamente. Un'indagine vera e propria non era mai stata fatta. A Maardam Vera Miller aveva cominciato a lavorare al Gemejnte Hospitaal nella primavera del 1992, e due anni e mezzo dopo aveva sposato Andreas Wollger. Di questo secondo matrimonio né la madre né i fratelli sapevano granché. Non avevano partecipato a nessuna cerimonia di nozze - se mai ce ne fosse stata una - e negli ultimi anni avevano avuto contatti molto sporadici con Vera. Per quanto riguardava Andreas Wollger, la situazione era immutata. Alle sette di sera del lunedì non era ancora stato possibile interrogarlo più a fondo circa il suo rapporto con la moglie, dal momento che era troppo traumatizzato dall'accaduto. Sia Moreno sia Reinhart espressero il parere che la convivenza fra i due non doveva essere stata delle migliori. Con ogni probabilità, nemmeno di quelle discrete. Bisognava però trovare la conferma a questa supposizione attraverso interrogatori e colloqui con persone che avevano conosciuto la coppia. E attraverso il signor Wollger stesso. Quanto al carattere di Vera Miller, emerse ben presto che era stata una donna apprezzata e benvoluta, sia dagli amici sia dai colleghi. Soprattutto una certa Irene Vargas - che conosceva Vera fin dai tempi di Groenstadt e che attualmente abitava a Maardam - aveva espresso il suo profondo dolore e il suo infinito dispiacere per la perdita di quella che, con parole sue, era stata «una delle persone più affabili e oneste che io abbia mai conosciuto, accidenti, è davvero terribile». La signora Vargas e Vera Miller erano state amiche intime per molti anni, e Reinhart si convinse che se c'era una persona che poteva essere al corrente dei lati oscuri della vita di Vera eventuali relazioni extraconiugali, per esempio -, ebbene doveva essere lei. Non era emerso niente del genere durante il primo colloquio con la donna, ma naturalmente sarebbero potuti tornare sull'argomento. A quanto sembrava di capire, Vera Miller aveva cominciato a tradire il marito verso fine ottobre, inizio novembre. Secondo quanto gli aveva detto, per un certo numero di fine settimana, almeno otto, avrebbe frequentato un corso di perfezionamento per infermiere ad Aarlach. Dove effettivamente avesse trascorso tutti quei sabati e domeniche - e con chi - era ancora una questione insoluta.
«Che imbecille» commentò Reinhart. «Lasciarla andare ogni fine settimana senza controllare che cosa combinava. Ma come si fa a essere così ingenui?» «Vuoi dire che tu controlleresti Winnifred se dovesse andare a qualche corso?» chiese Moreno. «Naturalmente no» rispose Reinhart. «È una cosa del tutto diversa.» «Io non vedo la logica» disse Moreno. «Intuito» disse Reinhart. «Sano intuito maschile. Comunque siamo d'accordo che non è stato lui a commettere il delitto? Sto parlando di Wollger.» «Credo di sì» disse Moreno. «Non dobbiamo escludere a priori questa possibilità, ma sembra piuttosto inverosimile. Cosa c'è da dire invece di questo collegamento con Erich Van Veeteren? Ecco, Il non so proprio cosa pensare.» Mentre deBries e Rooth avevano parlato con i conoscenti della coppia Miller-Wollger, Ewa Moreno si era occupata di Marlene Frey e di alcuni amici di Erich Van Veeteren, ma nessuno aveva avuto il minimo contributo da offrire. Nessuno aveva riconosciuto Vera Miller dalla fotografia che avevano preso in prestito da Irene Vargas e nessuno riusciva a ricordare di avere mai sentito il suo nome in precedenza. «Nemmeno io so più cosa pensare» disse Reinhart, soffiando fuori una nuvola di fumo. «Devo ammetterlo. Domani vedrò il commissario e credo che gli accennerò di questo collegamento... di questo eventuale collegamento. Così almeno avremo qualcosa di concreto di cui parlare. È così triste stare lì seduti a filosofeggiare sulla morte.» Moreno rifletté un momento. «A te le teorie piacciono, se non sbaglio» disse. «Si può... voglio dire, è possibile trovare un unico movente per l'uccisione di Erich Van Veeteren e di Vera Miller partendo dal presupposto che non si conoscessero? Sapresti ricostruire una storia che regga?» «Una storia...?» fece Reinhart e si grattò la fronte con il bocchino della pipa. «Senza che si conoscessero? Be', può essere una forzatura, eppure chiaro come il sole, se si riesce a vedere il filo conduttore... se diamo per scontato che non abbiamo a che fare con un pazzo, perché allora è tutt'altra musica. Sì, certo che posso trovare una catena di eventi che regge, posso tirarne fuori anche dieci se vuoi. Ma dove ci porterebbe questo ragionamento?» Moreno accennò un sorriso. «Fallo» disse. «Dedica la notte a trovare
dieci fili che colleghino la morte di Erich Van Veeteren a quella di Vera Miller. Poi domani mi racconti tutto e io ti prometto di pescare quello giusto.» «Santo cielo!» esclamò Reinhart. «Io ho una bella moglie cui dedicare le notti. E una figlia con l'otite da accudire quando lei non ce la fa più. Tu invece sei ancora sposata con il lavoro?» «A quanto pare» rispose Moreno. «A quanto pare? Che espressione del cavolo sarebbe?» Si chinò sopra il tavolo e la guardò con una ruga verticale fra le sopracciglia. «C'entra con Münster. Vero?» L'ispettore Moreno lo fissò per tre secondi. «Va' all'inferno» disse poi e uscì dall'ufficio. «Lo sai cosa sono?» disse Rooth. «Sono il peggior cacciatore d'Europa.» «Non ho nessun motivo per dubitarne» disse Jung. «Anche se non sapevo che tu andassi a caccia.» «Donne» sospirò Rooth. «È di donne che sto parlando. Sono vent'anni che do loro la caccia... venticinque, forse... e neanche un centro. Come cavolo si fa?» Jung si guardò intorno nel bar affollato di uomini. Erano appena entrati all'Oldener Maas per mettere una cornice dorata alla giornata (espressione di Rooth), e non aveva l'aria di essere un terreno di caccia molto produttivo. «Tu sei a posto» continuò Rooth. «Maureen è una bravissima donna. Se ti butta fuori, sono disposto a subentrare.» «Glielo riferirò» disse Jung. «Così è garantito che mi tiene.» «Va' a farti fottere» disse Rooth e bevve una bella sorsata. «Anche se forse dipende dalle munizioni.» «Munizioni?» ripeté Jung. Rooth annuì con aria critica. «Comincio a credere di aver usato pallettoni un po' troppo grossi in tutti questi anni. Sto pensando di cominciare a leggere poesie, tu che ne dici?» «Bene» commentò Jung. «Ti gioverà. Adesso possiamo parlare di qualcos'altro che non siano le donne?» Rooth assunse un'espressione di grande meraviglia. «E di che cosa, santi numi?» Jung alzò le spalle. «Non so. Lavoro, forse?» «Preferisco le donne» disse Rooth e sospirò. «Ma dal momento che me
lo chiedi con tanta grazia...» «Possiamo anche starcene qui col becco chiuso» propose Jung. «Forse è l'alternativa migliore.» Rooth restò veramente zitto a lungo, mentre pescava nella ciotola delle noccioline e masticava soprappensiero. «Ho un'ipotesi» disse poi. «Un'ipotesi?» fece Jung. «Non una teoria?» «Non so esattamente quale sia la differenza» ammise Rooth. «Ma chi se ne frega, stammi a sentire...» «Sono tutt'orecchi.» «Bene» disse Rooth. «Ma non interrompermi in continuazione. Ecco, quella Vera Miller... se davvero se la faceva con un altro, allora non sarebbe una cattiva idea se trovassimo quel tale.» «Geniale» commentò Jung. «Da dove le vengono tutte queste idee, agente?» «Non ho ancora finito. Certo sarebbe più facile se sapessimo dove dobbiamo cercarlo.» Jung sbadigliò. «È qui che la mia ipotesi sboccia come un fiore» continuò Rooth. «Naturalmente abbiamo a che fare con un medico.» «Un medico? E perché mai?» «Chiaro come il sole in un giorno d'estate. Lei lavorava in un ospedale. Tutte le infermiere prima o poi si prendono una cotta per qualche camice bianco con l'affare al collo. Sindrome dello stetoscopio... colpisce tutte le donne del settore. Dobbiamo cercare il dottor X, tutto qui. Al Gemejnte. Forse avremmo dovuto studiare medicina...» Jung riuscì a impadronirsi dell'ultima nocciolina. «Quanti ce ne sono? Di medici al Gemejnte, voglio dire.» «E che diavolo ne so io» rispose Rooth. «Duecento, probabilmente. Ma dovrebbe trattarsi di qualcuno con cui lei sia venuta in contatto... per ragioni professionali, come si usa dire. Nello stesso reparto o qualcosa del genere. Che ne dici?» Jung rifletté un momento. «Se dobbiamo dar credito a Meusse» disse, «come si collega questo con la teoria del francobollo e quella del ricattatore?» Rooth ruttò discretamente nella piega del braccio. «Mio giovane amico» disse con un sorriso paterno. «Non si possono mescolare teorie e ipotesi così come capita, credevo che questo ti fosse chiaro. Hai fatto la scuola di
polizia o solo quella di addestramento dei cani?» «Va' a prendere altre due birre» disse Jung. «Ma non le confondere.» «Farò del mio meglio» disse Rooth e si alzò. Non è mica stupido come sembra, pensò Jung quando rimase da solo al tavolo. Ma cazzo, lo stesso... Perché mi comporto così? si chiese Moreno una volta tornata a casa. Si sbarazzò delle scarpe con uno scatto irritato e gettò la giacca sulla poltroncina di vimini. Perché dico a Reinhart di andare all'inferno e me ne vado sbattendo la porta? Sto diventando una che odia gli uomini? Lui in fondo aveva ragione. Ragione al cento per cento. C'era stato qualcosa con Münster, anche se non era in grado di definirlo meglio di quanto avesse fatto Reinhart. Solo qualcosa. Che era finito nel momento in cui Münster era stato accoltellato a Frigge in gennaio e aveva quasi rischiato la vita. Da allora era rimasto all'ospedale un paio di mesi, poi un altro paio in convalescenza e adesso era impegnato al ministero in una qualche inchiesta poco chiara, in attesa di essere pronto di nuovo a combattere. Fra due mesi o giù di lì, a quanto si diceva. Cazzo, pensò. E quando tornerà, allora? In febbraio, probabilmente; che cosa succederà, allora? Niente di niente, è chiaro. Il soprintendente Münster era tornato da moglie e figli, che del resto non aveva lasciato neanche per un secondo. Che cosa si immaginava? Che cosa continuava ad aspettare? E si aspettava veramente qualcosa? L'aveva incontrato soltanto due o tre volte da quando era successo e non aveva sentito la minima vibrazione. Nemmeno un fremito nell'aria... sì, forse la prima volta, quando sia lei sia Synn si erano ritrovate al suo capezzale... allora c'era stato qualcosa. Ma non più di quello. Un fremito. Una volta. E chi diavolo era mai lei per intromettersi fra Münster e la sua meravigliosa Synn? E i bambini? Sono fuori di testa, pensò. Sto per diventare tocca come tutte le donne sole. Davvero ci voleva così poco per rimanere zitella? Era davvero così semplice? Quando aveva lasciato quel bastardo di Claus, era infuriata come una iena per lui e per quei cinque anni buttati via, ma non per questo aveva fatto di ogni erba un fascio, riguardo agli uomini. Almeno, non con
Münster. Soprattutto non con lui. Ma adesso aveva mandato Reinhart a quel paese. Solo perché incidentalmente aveva messo il dito nella piaga. Reinhart non era il suo tipo, è vero - ma poi esisteva davvero il suo tipo? -, ma l'aveva sempre considerato una brava persona e un bravo poliziotto. E un uomo a posto. Devo trovare un rimedio, pensò, infilandosi nella doccia per lavare via tutta quella tristezza. Forse non subito, ma in prospettiva. Trentun anni e sono già una donna amareggiata che odia gli uomini? O una cacciatrice disperata? Ancora peggio, certo. No, grazie, c'erano dovevano esserci - strategie migliori per il futuro. Anche se al momento non le vedeva. Quella sera poi non aveva né tempo né voglia né idee. Meglio dedicarsi a qualcos'altro. A quello su cui l'aveva sfidato, forse? Dieci possibili collegamenti fra Erich Van Veeteren e Vera Miller. Dieci? pensò. Che presunzione. Vediamo se riesco a trovarne tre. O due. Uno, almeno? Winnifred aveva il ciclo e Joanna aveva finalmente cominciato a trarre beneficio dalla penicillina, perciò Reinhart si ritrovò disoccupato. Così si sedette sul divano davanti a un vecchio film di Truffaut, mentre Winnifred preparava il seminario del giorno seguente nello studio. Fu lei a svegliarlo al termine del film; passarono un quarto d'ora a mettere a confronto Lero e Zacinto in vista di un eventuale viaggio pasquale e quando poi furono a letto, lui scoprì che non riusciva a addormentarsi. Due pensieri gli ronzavano per la testa. Il primo riguardava Van Veeteren. L'avrebbe incontrato il giorno dopo e sarebbe stato costretto a spiegargli che erano ancora al punto di partenza. Che - dopo tre settimane di lavoro - non avevano ancora un solo, stramaledetto, misero filo conduttore nella caccia all'assassino di suo figlio. Naturalmente gli avrebbe riferito la strana circostanza del colpo alla nuca e di Vera Miller, ma non era certo una notizia sensazionale. Non sappiamo di che cosa si tratta, avrebbe dovuto riconoscere. Era proprio un bel casino, pensava il commissario Reinhart. L'altro pensiero era Ewa Moreno.
Sono uno stupido pallone gonfiato, pensò. Non sempre, ma ogni tanto sì. Le aveva promesso dieci scenari plausibili su un collegamento di cui non aveva la minima idea e poi l'aveva offesa. L'aveva offesa ed era andato a ficcare il naso in cose che non lo riguardavano minimamente. Era un bel casino anche quello. Quando erano ormai le due, si alzò e le telefonò. «Stai dormendo?» le chiese. «Sono Reinhart.» «Lo sento» disse Ewa Moreno. «No, in effetti ero sveglia.» «Ti chiedo scusa» disse Reinhart. «Ho chiamato per chiederti scusa... sono un villano.» Lei rimase un momento in silenzio. «Grazie» disse. «Per le scuse, intendo. Anche se non credo che tu sia poi così villano. Non ero serena, è stata colpa mia.» «Mmm» fece Reinhart. «Grandioso. Due adulti che si scambiano scuse al telefono nel cuore della notte. Sarà colpa delle macchie solari, scusami per averti chiamata... no, cavolo, l'ho fatto di nuovo.» Moreno rise, «Perché non dormi?» domandò Reinhart. «Sto pensando a dieci possibili collegamenti.» «Ohi, ohi. Quanti ne hai trovati?» «Neanche uno» rispose Moreno. «Ottimo» commentò Reinhart. «Vedrò cosa posso fare. Buonanotte, ci vediamo domani sotto un'altra stella.» «Buonanotte, commissario» disse Moreno. «E tu perché non dormi, fra parentesi?» Ma Reinhart aveva già riattaccato. 23 Van Veeteren fissava il lento avanzare della lancetta fosforescente dei secondi sul quadrante dell'orologio. Lo stava facendo da un po', ma ogni nuovo giro era comunque nuovo. Tutto a un tratto si ricordò che nei lontani anni della preadolescenza - se poi ne aveva avuto davvero una - durante le notti insonni aveva l'abitudine di misurarsi il battito del polso per far passare il tempo. Decise di controllare anche adesso. Cinquantadue il primo minuto. Quarantanove il secondo.
Cinquantaquattro il terzo. Sant'Iddio, pensò. Anche il mio cuore sta per avere un collasso. Rimase steso ancora qualche minuto senza misurarsi il polso. Desiderò che Ulrike fosse stata al suo fianco, ma lei quella notte faceva compagnia ai figli a Loewingen. O almeno a uno dei figli. Jürg, l'ultimo, che ancora non aveva lasciato il nido. Doveva dedicare un po' di tempo anche a lui, si capisce, di questo si rendeva conto. Anche se sembrava essere un giovanotto insolitamente giudizioso. Per quanto aveva potuto giudicare, almeno; si erano incontrati soltanto in tre occasioni, ma tutto indicava che fosse così. Tutto, tranne il fatto che voleva entrare in Polizia. Van Veeteren sospirò e si girò dall'altra parte per evitare di vedere la sveglia. Si cacciò uno dei cuscini sulla testa. Le due e un quarto, pensò. Sono l'unico essere umano sveglio in tutto il mondo. Un'ora dopo si alzò. Pensare di dormire era un'illusione, le ultime notti non era arrivato a più di due, tre ore in media, e non c'erano medicine che lo aiutassero. Né birra. Né vino. Né Händel. Questo valeva per tutti i compositori, perciò non era certo colpa di Händel. Non ci riesco, pensò mentre era in bagno e si spruzzava acqua fredda in faccia. Non riesco a dormire e so bene da che cosa dipende. Perché non voglio ammetterlo? Perché non salgo in cima a una montagna e non lo grido ai quattro venti, così che mi sentano tutti? Vendetta! Quale padre può starsene a letto mentre nel bosco è in corso la battuta per trovare l'assassino di suo figlio? Era tutto lì. Profondamente radicato nelle dinamiche ataviche della biologia. Se n'era reso conto quando l'aveva scritto nel suo diario qualche ora prima e ne era consapevole anche adesso. L'azione era l'unico rimedio efficace. Homo agens. In tutte le situazioni. In teoria o nella realtà. Fare qualcosa, accidenti! Si vestì. Dalla finestra della cucina controllò com'era il tempo e uscì. C'era un freddo umido, ma niente precipitazioni e quasi niente vento. Iniziò a camminare. Verso sud, per cominciare. Oltre Zuijderslaan e Primmerstraat fino a Megsje Plejn. Quando arrivò all'altezza del cimitero cattolico, esitò un i-
stante. Decise di fare il giro esterno, ma arrivato all'angolo sudorientale si accorse che si era stancato dell'asfalto e piegò verso l'ingresso di Randers Park, una sorta di naturale prolungamento del camposanto. Oppure era il camposanto a essere un naturale prolungamento del parco, questo non era chiaro. Di sicuro c'era dietro una storia, ma lui non la conosceva. Il buio in mezzo agli alberi e ai cespugli sembrava quasi abbracciarlo, e il silenzio era profondo. Il parco ascolta, pensò mentre avanzava piano... verso il cuore delle tenebre, un'immagine insolitamente azzeccata. Di notte i sensi della natura si schiudono, diceva Mahler. Di giorno la natura dorme e si lascia osservare, ma nell'oscurità prende vita, basta uscire e mettersi in ascolto. Verissimo, senza dubbio. Van Veeteren scosse la testa per interrompere il flusso dei pensieri e liberarsi delle ampollosità. A una biforcazione svoltò a caso verso destra e dopo circa mezzo minuto arrivò davanti alla statua di Hugo Maertens. Era debolmente illuminata da un unico riflettore posto in basso, nell'aiuola fiorita che circondava il pesante basamento, e lui si chiese perché. Turisti nel parco di notte? Difficile. Guardò l'ora. Le quattro meno dieci. L'unico rimedio efficace era agire? Dammi un po' di spazio d'azione allora, madre natura! Liberami da questa prigionia! Alzò le spalle a quell'immaginaria invocazione e si accese una sigaretta. Vado in giro di notte per non diventare pazzo, pensò. Nient'altro. Poi sentì un ramoscello spezzarsi da qualche parte nell'oscurità. Si rese conto di non essere solo. Animali e pazzoidi vagano nel buio della notte. Alle tre non ce la faceva più ad aspettare. Andò in garage, buttò il sacchetto di plastica sul sedile del passeggero e si infilò in macchina. Avviò il motore e si diresse versò il centro. Lungo la strada non illuminata che portava al parco municipale non incontrò un solo veicolo, e quando passò davanti al condotto di cemento, non ci badò, non più di quanto avrebbe fatto di fronte a qualsiasi altro ben noto segnale stradale. Quella era la realtà. Ciò che era successo in quel luogo sembrava così lontano nel tempo che lui non riusciva più ad afferrarlo. A ricordarlo vividamente. Sempre che lo volesse davvero. Dopo il ponte Alexander svoltò a sinistra, seguì la Zwille fino alla birreria Pixner e sbucò dietro Randers Park, sul lato meridionale. Parcheggiò fuori dall'entrata, di fianco alle piste di minigolf, che naturalmente non erano aperte a quell'ora. O in quel periodo dell'anno. Restò un momento in
macchina. Mancavano un paio di minuti alle tre e mezzo. Il parco aveva un'aria cupa, immerso com'era in un profondo sonno invernale. La natura chiude i suoi sensi di notte, pensò, e si domandò perché mai l'avversario avesse scelto proprio un posto del genere. Abitava lì vicino oppure era solo l'inaccessibilità stessa il fattore determinante? In tal caso, era un segnale di cautela esagerata; a quell'ora di notte dovevano esserci centinaia di cestini dei rifiuti incustoditi più accessibili. La volta precedente aveva scelto di effettuare la transazione in un ristorante, con una marea di possibili testimoni, perciò questa notte i presupposti dovevano essere diversi. Questa notte non sarebbe venuto nessun delegato. Questa notte il ricattatore in persona avrebbe ritirato il suo sacchetto e l'avrebbe fatto nella consapevolezza che la vittima era di un calibro diverso da quello che aveva immaginato all'inizio. Un calibro del tutto diverso. Il pensiero lo fece quasi sorridere; era un chiaro indice di stabilità e controllo il fatto che riuscisse a rimanere seduto ad aspettare sulla sua macchina, in piena notte, senza sentirsi inquieto. Se il ricattatore non accettava le sue condizioni, il risultato poteva essere quello di avere la polizia fuori della porta già il mattino seguente. Di lì a qualche ora soltanto. Non era impossibile, per niente. Toccò il pacchetto. Cercò d'immaginare se l'avversario avrebbe capito subito che non conteneva i duecentomila gulden in contanti, oppure se l'avrebbe scoperto soltanto una volta arrivato a casa. I due vecchi giornali che aveva fatto a pezzettini e infilato nel sacchetto non dovevano creare alcuna illusione di denaro. Solo fare volume. Due vecchi giornali e una busta. Cinquemila gulden e la richiesta di tre giorni di proroga, ecco quello che avrebbe ottenuto l'avversario come ricompensa per il lavoro di quella notte. La somma era stata ben calcolata. Era la metà precisa di quanto gli aveva chiesto la volta precedente, di più non avrebbe ottenuto. Doveva credere invece che i duecentomila gulden lo aspettassero giovedì notte e senz'altro avrebbe abboccato. Tre giorni d'attesa in più, oltre a un bonus di cinquemila gulden: che altra scelta aveva? Andare alla polizia e non guadagnarci niente? Poco plausibile. Guardò l'ora. Le quattro meno un quarto. Prese il sacchetto, scese dalla macchina e si inoltrò nel parco. Aveva fatto una ricognizione in precedenza per verificare dove fosse u-
bicata esattamente la statua di Hugo Maertens, ed era stata una buona idea. Il buio nel parco incolto dava l'impressione di essere in un buco nero, e solo quando intravide la pallida luce del faretto che illuminava la statua fu certo di non essersi perso. Si fermò un attimo prima di uscire nella piccola radura, dove convergevano sentieri da quattro o cinque direzioni. Ascoltò il silenzio. Pensò che l'avversario probabilmente si trovava lì vicino da qualche parte; forse anche lui era lì, nell'oscurità della notte, teso, in attesa con un cellulare in mano. Oppure era vicino a una cabina telefonica. Palle da biliardo, pensò nuovamente. Palle che rotolano una verso l'altra, ma evitano la collisione per pochi millimetri. Le loro traiettorie si intersecano, ma lo scontro viene evitato per pochi minuti. O secondi. Misere frazioni di tempo. Si avvicinò al cestino dei rifiuti e ci infilò il sacchetto. Mentre tornava a Boorkhejm pensò a che cosa sarebbe potuto succedere se avesse avuto un guasto al motore. Non era un pensiero particolarmente piacevole. Stare sul margine della strada cercando di fermare un automobilista mattiniero per chiedere aiuto. Eventualmente sarebbe stato difficile spiegare che cosa ci facesse in giro anche a un poliziotto, per esempio, se avesse deciso di indagare un po' più a fondo. In malattia, ma fuori casa alle quattro e mezzo del mattino. Il sedile posteriore era coperto di tracce di sangue che difficilmente sarebbero sfuggite a un occhio allenato. Per non parlare delle conseguenze se non fosse riuscito a rispondere al telefono. No, non era affatto un pensiero piacevole. Il motore non si fermò. Naturalmente. La sua Audi di quattro anni funzionò in modo impeccabile quel giorno come tutti gli altri giorni. Si era solo gingillato con il pensiero. Gli venivano parecchie idee in quei giorni... pensieri bizzarri che non aveva mai avuto prima: alle volte si domandava perché d'improvviso si intrufolassero proprio nella sua testa. Proprio ora. Parcheggiò nel garage, prese una compressa e mezzo, si infilò a letto e aspettò la chiamata. Si chiese vagamente se il ricattatore avrebbe detto qualcosa o se invece avrebbe riattaccato. L'ultima ipotesi sembrava la più probabile, è ovvio. Non c'era nessun motivo di rischiare di essere scoperto. La voce mette a nudo. Più probabile allora che avrebbe telefonato in seguito, dopo aver controllato il contenuto del sacchetto e aver letto il messaggio. Molto più probabile. Quando avrebbe realizzato che non aveva ancora ottenuto la somma che si era immaginato per tutti i suoi sforzi. Per il suo
sporco gioco. Se la sua radiosveglia funzionava a dovere, la chiamata arrivò esattamente cinque secondi dopo le cinque. Lasciò squillare tre volte prima di rispondere, non foss'altro per dimostrare che non era seduto teso e nervoso accanto al telefono. Poteva essere importante sottolineare queste cose. Sollevò la cornetta e rispose dicendo il proprio nome. Per un paio di secondi avvertì la presenza dell'altro, poi la comunicazione s'interruppe. Bene, pensò. Vediamo cos'hai in serbo per la prossima volta. Si girò dall'altra parte, sistemò meglio i cuscini e cercò di dormire. Dormì davvero. Quando fu svegliato dal successivo squillo del telefono, erano le undici e un quarto. Nei brevi istanti che passarono prima che riuscisse a sollevare la cornetta, fece in tempo a rendersi conto che qualcosa non andava. Che non doveva essere andata come si era figurato lui. Cos'era successo? Perché l'avversario aveva aspettato così tante ore? Perché aveva...? Era Smaage. «Come stai, amico mio?» «Sono malato» riuscì a rispondere. «Sì, l'ho sentito dire. Il prete bestemmia e il dottore è ammalato. In che razza di tempi viviamo?» Rise facendo gracchiare il telefono. «Un attacco di influenza, tutto qui. Ma probabilmente resterò a casa tutta la settimana, visto come sono messo.» «Ohilà. Pensavamo di fare una piccola riunione venerdì sera, come ti avevo accennato. Credi che per te sarebbe troppo? Al Canaille.» Lui tossì e simulò un paio di respiri pesanti. Probabilmente suonò piuttosto convincente. «Temo di sì» disse. «Ma lunedì tornerò in servizio.» Appena l'ebbe detto, e quando Smaage gli ebbe augurato una pronta guarigione ed ebbe riattaccato, gli venne da pensare che era una prognosi errata al cento per cento. Qualsiasi cosa fosse successa - qualunque direzione avessero preso le palle nei prossimi giorni - una cosa comunque era certa. Una sola. Lunedì non sarebbe tornato all'ospedale. Non ci avrebbe messo piede mai più. C'era qualcosa di straordinariamente attraente, in quel pensiero. 24
«Allora diamo inizio al brainstorming» disse Reinhart sistemando pipa, sacchetto del tabacco e accendino ordinatamente in fila sulla scrivania. «Stasera incontrerò il commissario; come potete ben immaginare è molto interessato agli sviluppi dell'indagine. Ho intenzione di dargli un nastro di questa riunione, almeno non arriverò a mani vuote. Pensate bene a quello che direte.» Accese il registratore. D'improvviso la presenza di Van Veeteren si avvertì nella stanza come qualcosa di tangibile, e si diffuse un rispettoso silenzio. «Mmm... sì» attaccò Reinhart. «Martedì 8 dicembre, ore quindici. Briefing dei casi Erich Van Veeteren e Vera Miller. Li prendiamo in esame tutti e due insieme, anche se il collegamento è lungi dall'essere stato provato. Prego, a voi la parola.» «Abbiamo qualcosa di più, oltre la supposizione di Meusse, che ci dica che sono collegati?» chiese deBries. «Niente» rispose Reinhart. «A parte il fatto che le supposizioni del nostro caro medico legale di solito sono a prova di bomba. Ma un bel giorno dovrà sbagliare anche lui, presumo.» «Non credo» ribatté Moreno. Reinhart aprì il sacchetto del tabacco e annusò il contenuto prima di proseguire. «Se ci limitiamo a Vera Miller, tanto per cominciare» propose, «dobbiamo ammettere che non abbiamo nessun elemento oggettivo sul delitto. Purtroppo. Possiamo soltanto collocarlo più precisamente a livello temporale. La donna è morta fra le due e un quarto e le tre e mezzo di sabato notte. A che ora sia stata scaricata a Korrim è difficile dirlo. Se fosse stata lì da tanto, avrebbero forse dovuto scoprirla prima, ma dobbiamo tener presente che era abbastanza nascosta e che il traffico scarseggia su quelle strade. Almeno nei giorni festivi e in questa stagione. Fra l'altro, abbiamo parlato ancora con Andreas Wollger... vale a dire, io e l'ispettore Moreno. Lo sa il cielo se ci ha detto qualcosa di più, ma almeno ha cominciato ad ammettere che il suo matrimonio non era del tutto privo di crepe. In effetti sono convinto che cominci a rendersene conto solo adesso... sembra un po' in difficoltà nel districarsi nei labirinti dell'amore, anche questo lo sa il cielo.» «Si è sposato a trentasei anni» aggiunse Moreno. «Non deve aver avuto molti legami in precedenza. Se ne ha avuti.» «Strano tipo» commentò Rooth.
«Sì, dà l'impressione di essere un debole» disse Reinhart, «e non credo che sia uno che potrebbe uccidere per gelosia. Probabilmente preferirebbe tagliarsi le palle e offrirle come dono di riconciliazione, in un momento di crisi. Ha un alibi fino all'una di sabato notte, quando ha lasciato il ristorante dove aveva cenato con un buon amico... e chi mai ha un alibi per le ore piccole?» «Io» disse Rooth. «I miei pesci sono i miei testimoni.» «Lo depenniamo dalla lista dei sospettati, per il momento» affermò Reinhart. «Quanti ce ne rimangono?» domandò deBries. «Se cancelliamo anche Rooth?» Reinhart aveva la risposta sulla punta della lingua, ma lanciò un'occhiata al registratore e la tenne per sé. «Rooth forse ci vuole riferire cos'ha detto di nuovo la madre di Vera Miller» disse invece. Rooth sospirò. «Neanche l'ombra di una mosca» disse. «Insegna economia domestica ed è una maniaca delle calorie, non ho neppure potuto mangiare la mia brioche in santa pace. Non è il mio tipo.» «Soffriamo tutti insieme a te» commentò deBries. «Mi sembra che stiamo trascurando una cosa, in questa storia.» «E sarebbe?» disse Moreno. «Ecco, state a sentire» continuò deBries chinandosi in avanti sul tavolo. «Noi sappiamo che Vera Miller ingannava il suo scialbo marito. Sappiamo che dev'esserci stato un altro uomo coinvolto. Perché non lo comunichiamo tramite i media? Cerchiamo il bastardo con annunci sui giornali e alla tivù, qualcuno deve pur averli visti insieme almeno una volta, in ogni caso... se si sono visti quattro o cinque weekend di fila.» «Non è detto» replicò Reinhart. «Non mi sembra molto probabile che andassero da un ristorante all'altro. O che si mettessero a pomiciare in pubblico. Inoltre... inoltre ci sono anche dei risvolti etici.» «Davvero?» fece deBries. «E quali?» «Lo so che questo non è il tuo forte» disse Reinhart, «ma in effetti non abbiamo ancora nessuna prova. Del tradimento, voglio dire. La storiella del corso può essersela inventata per nascondere una cosa completamente diversa, anche se faccio fatica a immaginare cosa. Comunque lei è stata assassinata, e credo che dovremmo andare cauti nel citare l'adulterio nel necrologio. Pubblicamente... sia pensando al marito sia agli altri parenti. Non vorrei trovarmi a doverne rispondere, se saltasse fuori che l'abbiamo messa alla gogna sulla stampa e ci eravamo sbagliati.»
«All right» disse deBries, alzando le spalle. «Mi arrendo. Parlavi di etica?» «Esatto» rispose Reinhart e premette il tasto della pausa. «Credo che sia ora di prenderci un caffè.» «Non abbiamo molto di nuovo nemmeno su Erich Van Veeteren, temo» riprese Reinhart quando la signorina Katz ebbe lasciato la stanza. «Un bel po' di interrogatori, quello sì, soprattutto grazie all'assistente Bollmert che ha viaggiato in lungo e in largo. Ne hai ricavato qualcosa?» «Per quanto ne capisco io, no» rispose Bollmert, facendo girare nervosamente una matita. «Ho parlato con assistenti sociali, tutori e vecchi conoscenti di Erich, tutta gente che però non ha avuto molto a che fare con lui negli ultimi anni. Si era messo sulla retta via, come sappiamo. Ho anche tirato in ballo Vera Miller, quando mi si è presentata l'occasione, ma non ho fatto centro.» «Be', le cose stanno andando così» commentò Reinhart. «Nessun biglietto vincente. Verrebbe da pensare che qualcuno - almeno una persona - conoscesse entrambe le nostre vittime... se non altro da un punto di vista squisitamente statistico. Abbiamo parlato con centinaia di persone, cazzo. Ma non è andata così.» «Se davvero l'assassino conosceva tutti e due» fece osservare Rooth, «forse è abbastanza furbo da tenerlo per sé.» «Non è impossibile» disse Reinhart imperturbabile. «Ho passato un po' di tempo a cercare un legame plausibile fra Erich Van Veeteren e la signora Miller, per vedere come avrebbero potuto essere collegati da un punto di vista puramente teorico, ma devo dire che non è stato semplice. Sono per lo più ipotesi campate in aria... vere e proprie storie inverosimili, accidenti.» Scambiò un'occhiata con Moreno; lei accennò un sorriso e scosse la testa, e lui capì che era della stessa opinione. Alzò la mano per spegnere il registratore, ma si bloccò. Jung stava sventolando una biro e aveva un'aria pensierosa. «A proposito di ipotesi» disse. «Ho analizzato quella di Rooth.» «Rooth?» disse Reinhart, aggrottando le sopracciglia. «Ipotesi?» «A quale ti riferisci?» chiese Rooth. «La banda dei francobolli» rispose deBries. «No, la sindrome da stetoscopio» disse Jung. A quel punto Reinhart spense davvero il registratore.
«Che cavolo state dicendo?» esclamò. «Pagliacci che non siete altro. Aspettate che riavvolgo il nastro.» «Sorry» disse deBries. «Io dicevo sul serio» fece Jung. «Dunque...» Aspettò che Reinhart avesse premuto di nuovo il tasto della registrazione. «L'ipotesi di Rooth è che quest'uomo... se davvero Vera Miller aveva un altro uomo... molto probabilmente sia un medico. Sapete, questa cosa delle infermiere e dei camici bianchi e via dicendo...» Fece una pausa e si guardò intorno per vedere le reazioni. «Continua» disse Reinhart. «Ecco, sarebbe almeno il caso di controllare se è possibile che lei avesse una relazione con un medico del Gemejnte. Ho letto che quasi tutti quelli che tradiscono lo fanno con un collega di lavoro... perciò mi sono un po' informato da Liljana stamattina.» «Liljana?» domandò Reinhart. «E chi cavolo è Liljana?» Avrebbe potuto giurare che Jung era arrossito. «Una delle colleghe di Vera Miller» spiegò Jung. «Ho parlato con lei ieri per la prima volta.» «Io l'ho vista» si intromise Rooth. «Un'autentica bomba... anche lei dai Balcani, ma non in quel senso.» Reinhart lo guardò in cagnesco e poi lanciò un'occhiata al registratore, ma lasciò correre. «Continua» disse. «Cos'aveva da dire?» «Effettivamente non molto» riconobbe Jung. «Ma ritiene sia possibile che Vera Miller avesse una tresca con un medico. Le sembrava di ricordare che un'altra collega avesse fatto un accenno in proposito, ma non era molto sicura.» «Un'altra collega?» chiese Moreno. «E cos'ha da dire quest'altra collega, allora? Suppongo che sia un'infermiera...» «Sì» disse Jung. «Una generica. Anche se non sono riuscito a contattarla. Oggi e domani non è in servizio.» «Cazzo» esclamò Reinhart. «Bene, cercheremo di sentirla, ovviamente. Tanto vale andare a fondo con questa cosa... devo dire che sembra abbastanza plausibile, in effetti. Infermiera e medico, non è una novità.» «Sembra che ci siano giusto un paio di medici al Gemejnte» fece osservare deBries. Reinhart succhiava la pipa e aveva un'aria truce. «Facciamo così» disse dopo aver valutato la faccenda qualche secondo. «Io telefono al primario...
o al direttore dell'ospedale o come cavolo si chiama. Lui ci potrà fornire l'elenco completo, c'è soltanto da sperare che abbiano anche le foto. Sarebbe il colmo se non ottenessimo un minimo risultato almeno qui... non è che l'ispettore Rooth avrebbe una teoria anche sul collegamento con Erich Van Veeteren?» Rooth scosse la testa. «Mi era sembrato di averne trovata una» disse. «Ma l'ho dimenticata.» DeBries sospirò rumorosamente. Reinhart premette il pulsante di stop e il briefing si concluse. Aveva scelto di nuovo il Vox - di cui Van Veeteren conservava un buon ricordo -, ma quella sera non c'era da aspettarsi nessuna cantante dalla voce vellutata. Ma neanche musica di altro genere, perché era martedì. Le serate di lunedì e martedì erano fiacche e oltre a Reinhart e Van Veeteren non c'era più di una manciata di indolenti avventori ai tavolini di metallo lucido. Il commissario era già lì quando arrivò l'altro commissario. Per la prima volta - la prima volta in assoluto, a quanto ricordava - Reinhart pensò che sembrava vecchio. O forse non vecchio, solo rassegnato, alla maniera di molti anziani. Come se qualche muscolo fondamentale tra l'osso sacro e la nuca alla fine ne avesse avuto abbastanza e si fosse contratto per l'ultima volta. O si fosse stirato. Supponeva che Van Veeteren avesse già compiuto sessant'anni, ma non ne era sicuro. C'erano molte cose poco chiare quando si trattava del commissario, fra cui la questione della sua vera età. «Buonasera» disse Reinhart e si sedette. «Hai l'aria stanca.» «Grazie» disse Van Veeteren. «È che non dormo più di notte.» «Ahi, ahi» fece Reinhart. «Sì, quando Nostro Signore ci priva del sonno, non ci fa proprio un favore.» Van Veeteren tolse il coperchio della sua macchinetta per fare le sigarette. «Ha smesso di farci favori centinaia di anni fa. Sa il diavolo se poi ce ne abbia mai fatti.» «Può essere» concordò Reinhart. «Abbiamo letto tutti del silenzio di Dio secondo Bach. Due scure, per favore.» Aveva rivolto le ultime parole al cameriere, emerso dall'ombra. Van Veeteren accese una sigaretta. Reinhart cominciò a caricare la pipa. Pesante, pensò. Stasera sarà pesante. Prese il nastro dalla tasca della giacca. «Non vengo ad annunciarti il
vangelo» disse. «Ma se vuoi farti un'idea di come siamo messi, puoi sempre ascoltare questo. Contiene il briefing di oggi. Non è un peak experience, si capisce, ma sai bene come vanno queste cose. Quello di cui non riconoscerai la voce si chiama Bollmert.» «È pur sempre qualcosa» commentò Van Veeteren. «Sì, mi accorgo che non è facile starne fuori.» «Più che comprensibile» disse Reinhart. «Come ti ho già detto.» Gli mostrò la fotografia di Vera Miller. «Conosci questa donna?» Van Veeteren osservò l'immagine qualche secondo. «Sì» rispose. «In effetti la conosco.» «Cosa?» esclamò Reinhart. «Che cavolo vuoi dire?» «Se non mi sbaglio» continuò Van Veeteren restituendo la foto, «fa l'infermiera al Gemejnte. Mi assistette quando mi operarono all'intestino un paio d'anni fa. È un tipo simpatico: cos'hai a che fare con lei?» «Si chiama Vera Miller. È la donna trovata morta dalle parti di Korrim domenica.» «La donna che in qualche modo è collegata con Erich?» Reinhart annuì. «È soltanto un'ipotesi. Estremamente vaga per ora, anche se tu forse la puoi confermare...» Il cameriere arrivò con le birre. Entrambi ne bevvero un sorso. Van Veeteren guardò di nuovo la fotografia, scosse piano la testa e assunse un'aria cupa. «No» disse. «È un caso che mi ricordi di lei. Se ho capito bene, è stato Meusse a indicare il collegamento, giusto?» «Meusse, sì. Secondo lui è il colpo alla nuca l'elemento chiave. È un po' particolare, a suo dire. In entrambi i casi... sì, conosci Meusse...» Van Veeteren sprofondò nel silenzio. Reinhart accese la pipa e lo lasciò riflettere in pace. D'un tratto si sentì crescere dentro una gran rabbia. Una rabbia verso colui che aveva ammazzato il figlio del commissario. E che aveva ammazzato Vera Miller. Chissà poi se si trattava della stessa persona o di due persone diverse. Che importa? Provava rabbia verso questo assassino o questi assassini, ma anche verso i delinquenti in generale... E così il più gelido e cupo dei suoi ricordi si risvegliò. L'uccisione di Seika. La sua ragazza. Seika, con la quale doveva sposarsi e mettere su famiglia. Seika, che aveva amato come nessun'altra. Seika, con gli zigomi alti, gli occhi vagamente asiatici e la più bella risata del mondo. Erano passati quasi trent'anni; da tre decenni lei era dentro quella dannata tomba a Linden... la diciannovenne Seika che avreb-
be dovuto diventare sua moglie. Se non fosse stato per uno di quei delinquenti; un uomo armato di coltello, quella volta, un pazzo drogato che l'aveva ammazzata una sera nel parco di Wollerim senza l'ombra di un motivo. A parte i dodici gulden che lei aveva nel borsellino. E adesso il figlio del commissario. Cazzo, pensò Reinhart. Ha perfettamente ragione, è da un pezzo che Nostro Signore ha smesso di farci favori. «Sono andato a fare un giro a Dikken» disse Van Veeteren interrompendo le sue riflessioni. «Cosa?» domandò Reinhart. «Tu?» «Io, sì» rispose Van Veeteren. «Mi sono preso questa libertà, spero che mi perdonerai.» «Naturalmente» disse Reinhart. «Ho parlato con due o tre persone alla Trattoria. È una specie di terapia, in realtà. Non mi aspetto di trovare qualcosa che voi non siete riusciti a trovare, ma è così difficile starsene seduti a far niente. Mi capisci?» Reinhart aspettò qualche secondo prima di rispondere. «Ti ricordi perché sono diventato poliziotto?» disse. «La mia fidanzata, nel parco di Wollerim?» Van Veeteren annuì. «Certo che me lo ricordo. Sì, allora mi capisci. Comunque, mi domando una cosa.» «E sarebbe?» domandò Reinhart. «Il sacchetto di plastica» disse Van Veeteren. «Quel sacchetto di plastica che ha cambiato proprietario. O che doveva cambiarlo.» «Che cavolo di sacchetto?» chiese Reinhart. Van Veeteren rimase un attimo in silenzio. «Quindi voi non ne sapete niente?» Merda, pensò Reinhart. Ecco che ci ha messo di nuovo in castigo. «Qualcuno ci ha parlato di un sacchetto» disse, cercando di sembrare indifferente. «Quadra.» «Sembra che questo Mr. X, che dovrebbe poi essere la stessa persona che ha commesso il delitto...» continuò il commissario in un tono di voce e con una lentezza che fecero risuonare all'orecchio di Reinhart un'eco di imbarazzante pedagogia, «... avesse un sacchetto di plastica appoggiato per terra vicino ai piedi, mentre era seduto al bar. E sembra che Erich lo avesse con sé quando è uscito dal locale.» Alzò un sopracciglio e aspettò la reazione di Reinhart. «Porca puttana» esclamò Reinhart. «A essere onesti... sì, a essere onesti
temo che questo dettaglio ci sia sfuggito. La seconda parte, almeno. Un paio di testimoni sostengono che Mr. X avesse un sacchetto di plastica, ma nessuno ci ha detto che poi l'ha preso Erich. Come hai fatto a saperlo?» «Mi è solo capitato di incontrare le persone giuste» rispose Van Veeteren con modestia, guardando la sigaretta appena arrotolata. «A una delle cameriere sembrava di ricordare di averlo visto uscire con un sacchetto in mano, e appena ha menzionato la cosa, anche al barista è tornato in mente.» Gli è anche capitato per caso di fare le domande giuste, pensò Reinhart, e sentì che un soffio della vecchia, radicata ammirazione gli attraversava la mente e cancellava rabbia e imbarazzo. Ammirazione di fronte all'acume psicologico di cui il commissario era sempre stato dotato, e che... che era capace di attraversare come uno scalpello una tonnellata di burro più velocemente di quanto cento celerini con i giubbotti antiproiettile avrebbero impiegato a calcolarne il peso. Intuizione, la chiamavano così. «Che conclusioni ne trai?» domandò. «Erich era là per ritirare qualcosa.» «Evidente.» «È andato alla Trattoria Commedia e ha recuperato il sacchetto di plastica in un posto prestabilito... alla toilette, magari.» Reinhart annuì. «Non sapeva chi fosse Mr. X e non era nemmeno nei piani che lo sapesse.» «Come fai a dirlo?» «Se avessero avuto la possibilità di agire rivelando la propria identità, avrebbero potuto incontrarsi da qualsiasi altra parte. Nel parcheggio, per esempio. Perché mettere in scena quella mascherata se non c'era necessità?» Reinhart rifletté. «Mr. X era camuffato» disse. «Doveva uccidere mio figlio» gli fece osservare Van Veeteren. «E l'ha fatto. Ovvio che fosse camuffato.» «Allora perché consegnare il sacchetto se comunque pensava di ucciderlo?» chiese Reinhart. «Risponditi da solo a questa domanda» disse Van Veeteren. Reinhart succhiò due volte la pipa che si era spenta. «Ahi, cazzo» disse. «Ho capito. Non lo conosceva. Era la stessa cosa per entrambi. Prima di vederlo uscire con il sacchetto non sapeva chi fosse...
era fuori ad aspettare nel parcheggio, è ovvio.» «Probabile» commentò Van Veeteren. «È la conclusione cui sono arrivato anch'io. Altro? Tu di cosa credi che si tratti? Chi è quello che ordina e chi quello che obbedisce?» Ottima domanda, pensò Reinhart. Chi ordina e chi obbedisce? «Erich ordina e Mr. X obbedisce» rispose. «Almeno all'inizio. Poi Mr. X inverte i ruoli... è per questo, sì, è per questo che lo fa, è ovvio. È per questo che lo uccide.» Van Veeteren si appoggiò indietro e accese la sigaretta. Suo figlio, pensò Reinhart. Cazzo, siamo qui a parlare di suo figlio morto ammazzato. «E tu di cosa credi che si trattasse?» L'ombra della droga incombeva e offuscò i pensieri di Reinhart per cinque secondi, poi arrivò la risposta. «Ricatto» disse. «È chiaro come il sole, accidenti.» «Lui sostiene che Erich non ha mai fatto questo genere di cose» spiegò a Winnifred un'ora dopo. «E io gli credo. E poi sembra poco plausibile che sia stato così idiota da andare al ristorante ad aspettare il denaro... se sapeva di che cosa si trattava. Erich era un emissario. Qualcun altro... il vero ricattatore... ce l'ha mandato, se ci si pensa, è più che evidente. Tutto quadra.» «E quella Vera Miller, allora?» domandò Winnifred. «Sarebbe coinvolta in questa faccenda, in qualche modo?» «Possibilissimo» rispose Reinhart. «L'assassino credeva che il ricattatore fosse Erich e l'ha ucciso per niente. Forse invece con Vera Miller ha fatto centro.» «Erich e Vera Miller si conoscevano?» Reinhart sospirò. «Purtroppo sembra di no» disse. «Qui ci blocchiamo, per ora. Non abbiamo trovato un solo stramaledetto filo che li colleghi. Ma forse esiste. Se supponiamo che lui... l'assassino, intendo... sia un medico del Gemejnte, si può benissimo immaginare che Vera Miller lo controllasse, per qualcosa che solo lei sapeva. Un'operazione sbagliata o chissà cos'altro. Non è facile essere medico e commettere un errore... lui può aver mandato all'altro mondo un paziente per negligenza, per esempio. Lei ha intravisto la possibilità di guadagnare un po' di soldi e l'ha colta... che poi sia andata com'è andata è un'altra faccenda, si capisce. Be', rimane comunque una teoria.» Winnifred aveva l'aria scettica. «E perché doveva proprio andare a letto
con lui? Perché era questo che faceva, no?» «Mmm» fece Reinhart. «Sei nata ieri, bella? È proprio lì che l'uomo si svela. È a letto che la donna scopre tutte le qualità e i difetti dell'uomo.» Winnifred rise divertita e gli si rannicchiò contro sotto le coperte. «Mio principe» disse. «Hai proprio ragione! Temo però che dovrai aspettare ancora un paio di giorni prima di potermi mostrare le tue, di qualità.» «Così va il mondo» disse Reinhart, spegnendo la luce. «E di difetti sono alquanto carente.» Un quarto d'ora dopo si alzò. «Che fai?» chiese Winnifred. «Joanna» disse Reinhart. «Mi è sembrato di sentire qualcosa.» «Non credo proprio» replicò Winnifred. «Però va' a prenderla lo stesso, così stiamo tutti e tre insieme. Era questo che avevi in mente, vero?» «Più o meno» ammise Reinhart e si avviò a passi felpati verso la camera della bambina. Mia moglie sa quello che penso prima ancora che lo sappia io, constatò fra sé, sollevando con cautela la figlioletta addormentata. Come diavolo fa? 25 Mercoledì 9 dicembre c'erano dieci, undici gradi e un cielo limpido e luminoso. E un sole sorprendente che pareva quasi imbarazzato di doversi esibire in tutta la sua pallida nudità. Van Veeteren chiamò Ulrike al lavoro, venne informato che avrebbe staccato all'ora di pranzo e propose un giro in macchina al mare. Era un po' che non ci andavano. Lei accettò senza indugi; lui sentì dalla sua voce che era al tempo stesso sorpresa e felice, e si ricordò che l'amava. Poi lo ricordò anche a lei. I vivi devono curarsi gli uni degli altri, pensò. La cosa peggiore è morire senza avere vissuto. Mentre aspettava in macchina, fuori del complesso di uffici color terra della Remington, si domandò se Erich avesse vissuto. Se avesse fatto in tempo a vivere gli aspetti essenziali della vita, quali che fossero. Da qualche parte aveva letto che un uomo deve fare tre cose nel corso della sua esistenza. Crescere un figlio, scrivere un libro e piantare un albero. Si chiese da dove venisse questa massima. Erich non aveva fatto in tem-
po a fare nessuna delle prime due cose. Se mai una volta avesse piantato un albero, era scritto solo nelle stelle, ma non gli sembrava molto probabile. Prima di essere riuscito a valutare come stessero le cose nel proprio caso, fu interrotto da Ulrike che si sedette con un tonfo sul sedile vicino al suo. «Splendido» disse lei. «Che magnifica giornata.» Lo baciò sulla guancia e lui si ritrovò, stupito, con un'erezione. La vita continua, pensò disorientato. Nonostante tutto. «Dove vuoi andare?» le chiese. «Emsbaden oppure Behrensee» rispose lei senza esitare. Si capiva che ci aveva pensato fin da quando lui le aveva telefonato. «Emsbaden» decise lui. «Con Behrensee ho qualche problema.» «E perché?» «Mmm» fece lui. «È stato teatro di un fattaccio qualche anno fa. Non mi va di ricordarlo di nuovo.» Lei aspettò il seguito, ma lui non disse più nulla. Invece avviò la macchina e uscì dal parcheggio. «Ah, il mio amante pieno di misteri» commentò lei. Passeggiarono un'ora fra le dune e sul tardi pranzarono alla locanda de Dirken vicino al faro di Emsbaden. Code di scampi in salsa d'aneto, caffè e torta di carote. Parlarono di Jess e dei tre figli di Ulrike e delle loro prospettive future. Alla fine anche di Erich. «Mi ricordo una cosa che hai detto» disse Ulrike. «Allora, quando trovaste la donna che aveva ucciso Karel.» Karel Innings era il marito di Ulrike, ma non il padre dei suoi figli. Questi erano nati dal suo primo matrimonio con un agente immobiliare, che era stato un buon padre di famiglia e una persona affidabile fino a quando il suo alcolismo ereditario non aveva preso il sopravvento. «In realtà non la trovammo mai» fece osservare Van Veeteren. «Però scopriste il movente» disse Ulrike. «A ogni modo, tu sostenesti che, vista dalla sua prospettiva... e in un certo senso... era giustificato uccidere mio marito. Te lo ricordi?» «Certo» rispose Van Veeteren. «Anche se vale solo in un certo senso. E da una prospettiva individuale, molto ristretta. Altrimenti diventa una formulazione grossolana.» «Ma non è sempre così?»
«Cosa vuoi dire?» «Non è sempre vero che l'assassino - o il colpevole in generale - pensi che il proprio crimine sia giustificato? Non deve ragionare così per forza, almeno di fronte a se stesso?» «È una vecchia questione» disse Van Veeteren. «Ma in linea di massima hai colto nel segno. L'assassino coltiva sempre i propri moventi; li fa suoi, si capisce, ma è un'altra questione se lo fa qualcun altro. Naturalmente esistono delle cause precise dietro tutto quello che facciamo, ma il dogma del peccato originale non convince più nessuna giuria al giorno d'oggi... i giurati hanno la pelle piuttosto dura.» «Ma tu ci credi?» Lui aspettò un momento e lasciò scorrere lo sguardo sul mare. «Ovviamente» rispose poi, «non difendo le azioni malvagie, ma se non si è capaci di comprendere la natura del crimine... i motivi del criminale... be', allora non si arriva molto lontano come poliziotti. Esiste una logica perversa che spesso è più facile da scoprire di quella che sottende alle nostre azioni normali. Il caos, si sa, è vicino di casa di Dio, ma all'inferno regna un ordine perfetto...» Lei scoppiò a ridere e mise in bocca un pezzetto di torta di carote. «Continua.» «Dal momento che me lo chiedi con tanta grazia» disse Van Veeteren. «Sì, questa logica perversa può colpirci tutti, quando ci troviamo stretti in un angolo. Non è per nulla difficile capire che un islamico uccida la sorella perché è andata in discoteca e vuole comportarsi da occidentale... per niente difficile, se si conosce il contesto. Che poi l'azione in sé sia così nefanda che vorresti vomitare al solo pensiero... e che tu voglia prendere il colpevole e schiacciarlo, ecco, questa è una cosa diversa. Del tutto diversa.» Tacque. Lei lo guardò seria, poi gli prese la mano attraverso il tavolo. «È nella crepa fra la morale della società e quella dell'individuo che nasce il crimine» aggiunse Van Veeteren, e nello stesso istante si domandò quanto fosse universale quell'affermazione. «E se adesso troveranno chi ha ucciso Erich» disse Ulrike, «riuscirai a capire anche lui?» Van Veeteren tardò un momento a rispondere. Guardò di nuovo la spiaggia. Il sole era calato, e il tempo probabilmente era come doveva essere prima che a qualche dio venisse l'idea di inventarlo. Otto gradi sopra lo zero, brezza, cielo bianco. «Non lo so» ammise. «È per questo che spero di potermi sedere faccia a
faccia con lui.» Lei lasciò andare la sua mano e corrugò la fronte. «Non capisco perché ti voglia sottoporre a una cosa del genere» disse. «Volersi sedere di fronte all'assassino del proprio figlio. A volte non ti capisco.» «Non ho mai sostenuto di esserne capace io stesso» ribatté Van Veeteren. E non ho mai detto che non vorrei ficcare una pallottola in mezzo a quegli occhi, pensò, ma non lo disse. Sulla via del ritorno Ulrike gli fece una proposta. «Vorrei invitare a cena la sua fidanzata.» «Chi?» disse Van Veeteren. «Marlene Frey. Invitiamola a cena domani sera. A casa tua. Le telefono io.» Il pensiero di una cosa del genere non gli era mai passato per la mente. Si domandò perché. Poi si vergognò per due secondi e dopo disse di sì. «A condizione che ti fermi anche per la notte» aggiunse. Ulrike rise e gli mollò un pugno leggero sulla spalla. «Questo te l'ho già promesso» disse. «Giovedì, venerdì e sabato. Jürg è al campo con la scuola.» «Magnifico» commentò Van Veeteren. «Dormo così male senza di te...» «Ma io non vengo da te per dormire» disse Ulrike. «Magnifico» ripeté Van Veeteren in mancanza di meglio. Hiller, il capo della polizia, intrecciò le mani sul sottomano di pelle e cercò di stabilire un contatto con gli occhi di Reinhart, il quale sbadigliò e guardò invece una cosa che assomigliava a una palma, di cui credeva di aver saputo il nome una volta. «Mmm... sì» disse Hiller. «Ho incontrato per caso il commissario stamattina... intendo dire il commissario.» Reinhart spostò lo sguardo su un ficus benjamina. «Questa storia del figlio l'ha molto scosso, è bene che tu lo sappia. Niente di strano. Dopo tutti questi anni e tutto... sì, sento che è una questione d'onore. Dobbiamo risolvere il caso. Non deve sfuggirci di mano. Che progressi abbiamo fatto?» «Pochi» rispose Reinhart. «Ma stiamo facendo tutto il possibile.» «Certo» disse Hiller. «Sì, ovviamente non ne dubito. Tutti... e intendo tutti... devono sentire la stessa cosa che sento io. Che è una questione d'o-
nore. Se proprio dovete lasciare in circolazione un assassino, ecco, fate in modo che non sia proprio questo. A nessun costo. Hai bisogno di più risorse? Sono pronto a spingermi lontano... molto lontano. Devi soltanto chiedere.» Reinhart non rispose. «Come sai, non mi intrometto mai nel lavoro operativo, ma se vuoi discutere l'organizzazione con me, sei il benvenuto. E per le risorse, come ti dicevo... nessun limite. Questione d'onore. Hai capito?» Reinhart si alzò dalla morbida poltroncina. «Chiaro come il sole» rispose. «Ma non si risolvono le equazioni con le truppe corazzate.» «Cosa?» esclamò il capo della polizia. «Che cavolo vorresti dire?» «Te lo spiego un'altra volta» disse Reinhart e aprì la porta. «Ho un po' di fretta, se vuoi scusarmi.» Jung e Moreno lo stavano aspettando nel suo ufficio. «Saluti dal 'Fifth floor'» disse Reinhart. «Il giardiniere ha un altro vestito nuovo.» «È apparso in televisione?» domandò Jung. «Non che io sappia» rispose Moreno. «Magari ci deve andare...» Reinhart si sedette alla scrivania e accese la pipa. «Allora?» disse. «Com'è la situazione?» «Non sono riuscito a contattarla» disse Jung. «È via con il suo fidanzato. Non torna in servizio prima di domani pomeriggio. Mi spiace.» «All'inferno» esclamò Reinhart. «Di chi state parlando?» chiese Moreno. «Edita Fischer, ovvio» rispose Reinhart. «L'infermiera che ha accennato a una collega che Vera Miller aveva detto qualcosa a proposito di... cazzo, che brodo annacquato! Com'è andata con l'inventario dei medici?» «Magnificamente» disse Moreno, passandogli la cartelletta che aveva sulle ginocchia. «Eccoti qui nome e fotografia di tutti i centoventisei medici che lavorano al Gemejnte. Più qualcuno che ha smesso nel corso dell'anno, ma sono segnati. Data di nascita, da quanto lavorano lì, meriti scientifici, specializzazioni e tutto quello che puoi desiderare. Perfino stato civile e membri della famiglia. Vigono ordine e precisione, al Gemejnte Hospitaal.» «Niente male» commentò Reinhart e aprì la cartelletta. «Davvero niente male. Sono anche suddivisi per reparti?» «Naturalmente» rispose Moreno. «Ho già segnato con una crocetta quel-
li che lavorano al 46, il reparto di Vera Miller. Ce ne sono sei fissi e sette, otto che ci passano ogni tanto. Succede spesso, soprattutto fra gli specialisti... anestesia e cose del genere.» Reinhart annuì mentre continuava a sfogliare e a studiare le file di gioviali uomini e donne in camice bianco. Doveva far parte delle loro mansioni essere fotografati così. Lo sfondo era lo stesso nella maggior parte dei casi e tutti, a grandi linee, tenevano la testa inclinata allo stesso modo e gli angoli della bocca magnanimamente piegati all'insù. Lo stesso fotografo, era chiaro; si domandò quale storiella raccontasse per far aprire a tutti la bocca così. «Niente male» ripeté per la terza volta. «Qui abbiamo di certo l'assassino con foto e dati personali, fino al numero di scarpe. Peccato che non sappiamo chi sia. Uno su centoventisei...» «Se continuiamo a lavorare secondo l'ipotesi di Rooth» disse Moreno, «potremmo già eliminarne una quarantina.» «Davvero?» disse Reinhart. «E perché?» «Perché sono donne. Anche se non so come dovremmo procedere poi. L'idea di mettersi a interrogare tutti senza fare prima una selezione non sembra molto praticabile. Anche se in foto hanno tutti un'aria pacifica, potrebbero rivelarsi degli ossi un po' più duri, nella realtà. Specialmente se capiscono di cosa li sospettiamo... e poi aggiungici lo spirito di corpo...» Reinhart annuì. «Cominciamo con i più vicini» disse. «Solo loro, per il momento. Che cos'hai detto? Sei fissi nel reparto più qualche altro? Dovremmo fare in tempo a sentirli prima che la testimone di Jung si decida a farsi viva. Chi se ne può occupare?» «Non Rooth» rispose Jung. «Okay, non Rooth» disse Reinhart. «Ma vedo due colleghi affidabili davanti a me proprio adesso. Prego e buona caccia.» Chiuse la cartelletta con un colpo secco e la passò a loro. Siccome Jung lasciò la stanza per primo, fece in tempo a fare una domanda all'ispettore Moreno. «Dormito bene ultimamente?» «Sempre meglio» rispose Moreno e addirittura sorrise. «E tu?» «Come mi merito» fu la criptica risposta di Reinhart. 26 La posta di giovedì conteneva, oltre a qualche bolletta, due lettere.
Una veniva dalla Spaarkasse e gli comunicava che la sua richiesta di prestito era stata accolta. La somma di duecentoventimila gulden era già a disposizione sul suo conto. L'altra era dell'avversario. Stavolta la busta era diversa. Più semplice, più a buon mercato. La carta da lettere era un banale foglio piegato in due, a quanto pareva strappato da un blocco a spirale. Prima di cominciare a leggere rifletté se questo abbassamento qualitativo poteva essere un indizio, se conteneva una qualche indicazione. Non trovò una risposta certa. Le istruzioni erano semplici e chiare come sempre. Questa è la Sua ultima possibilità. La mia pazienza è al limite. Stesso schema dell'altra volta. Luogo: il bidone dell'immondizia dietro il chiosco del grill all'angolo fra Armastenstraat e Bremers Steeg. Ora: le 3.00 in punto della notte di venerdì. Si faccia trovare vicino al telefono di casa Sua alle 4.00 precise. Non cerchi di collegare il Suo numero a un cellulare, ho preso le dovute misure per prevenire simili trucchetti. Se non avrò i miei soldi venerdì, Lei è perduto. Un amico Questa cosa del cellulare gli era balenata davvero per la testa. Si era informato, ma aveva scoperto che chi telefonava poteva sempre controllare se era in corso un trasferimento di chiamata da un numero a un altro. Altrimenti sarebbe stato un pensiero allettante quello di starsene nascosto in Bremers Steeg, che sapeva essere un vicolo stretto e buio... stare lì e aspettare l'avversario con il tubo sotto il cappotto. Straordinariamente allettante. Un altro pensiero che lo colpì leggendo le istruzioni fu quello della smisurata sicurezza di sé del ricattatore. Come poteva, per esempio, escludere che la sua vittima non si sarebbe avvalsa di un aiutante, proprio come lui a Dikken? Come faceva a esserne sicuro? Era pur sempre plausibile farsi aiutare da un buon amico senza però svelargli di che cosa si trattasse. Sarebbe bastato anche solo far rispondere qualcun altro al telefono. Oppure l'avversario conosceva così bene la sua voce da riuscire a smascherare subito questa mossa? Lo conosceva davvero così a fondo?
Oppure questa volta aveva migliorato la tattica? Affinandola in qualche modo? Così pareva. Con la telefonata potevano forse venire ulteriori istruzioni che gli avrebbero garantito di ritirare i soldi dietro il grill in tutta tranquillità. Come, in tal caso? E che diavolo di istruzioni? Sarebbe stato armato? L'ultima domanda gli si affacciò alla mente senza che l'avesse pensata, ma si rivelò ben presto la più importante di tutte. Era possibile che l'avversario fosse in possesso di un'arma e che - nel peggiore dei casi - fosse pronto a usarla per riuscire a portare a casa il denaro? Una pistola nella tasca della giacca in un angolo buio di Bremers Steeg? Infilò di nuovo la lettera nella busta e guardò l'ora. Le undici e trentacinque. Mancavano meno di sedici ore. Poco tempo. Spaventosamente poco e questo era di sicuro l'ultimo round. Ulteriori proroghe erano impensabili. È tempo di fuggire? pensò. 27 Il giovedì mattina Moreno e Jung parlarono con circa una dozzina di medici. Fra cui tre donne, se non altro per non destare sospetti. Sospetti che la polizia pensasse a qualcuno dei loro colleghi maschi, o almeno uno di loro. Invece il pretesto dei colloqui era che stavano raccogliendo informazioni sull'infermiera assassinata, Vera Miller. Volevano sapere le loro impressioni generali su di lei. Relazioni con i pazienti e i colleghi; tutto quello che in qualche modo poteva contribuire a completare l'immagine d'insieme della donna. In particolare del suo ruolo professionale. Tutti i medici, per quanto poterono giudicare Moreno e Jung, raccontarono senza riserve ciò che sapevano sull'infermiera Miller. Alcuni avevano parecchie cose da dire; altri, è naturale, meno, per via del fatto che non avevano avuto molto a che fare con lei. I giudizi e i pareri erano sorprendentemente concordi. Vera Miller era un'ottima infermiera. Competente, positiva, laboriosa... e dotata di quella particolare sensibilità per i pazienti che era così importante e che sarebbe stata auspicabile in tutti quelli che lavoravano nella sanità. De mortuis..., pensò Moreno, ma era solo un pensiero incondizionato, poco appropriato in questo caso specifico. L'infermiera Miller era stata benvoluta e apprezzata, né più né meno. Nessuno aveva idea di chi potesse
avere avuto motivo di ammazzarla in quel modo, o in qualsiasi altro. Nessuno aveva la più pallida idea. Nemmeno Moreno e Jung ne avevano, quando terminarono i colloqui e si sedettero al ristorante del blocco A per pranzare. Neanche l'ombra. Finirono il piatto di pasta insolitamente sostanzioso qualche minuto dopo l'una e decisero che tanto valeva aspettare Edita Fischer al reparto 46. Sarebbe entrata in servizio alle due, dopo due giorni e mezzo di vacanza; una vacanza che aveva trascorso in un posto sconosciuto insieme al suo ragazzo. Che si chiamava Arnold; di più non sapevano di lui. Quando finalmente Jung, dopo aver sudato sette camicie, era riuscito a mettersi in contatto con la signorina Fischer quella mattina, lei non aveva voluto svelare dove fossero stati e che cos'avessero fatto. Non che lui fosse particolarmente interessato... «Probabilmente avranno fatto una rapina in banca» disse a Moreno, «ma noi ce ne infischiamo, ne abbiamo già abbastanza. In ogni caso non ha a che fare con Vera Miller.» Moreno rifletté un attimo, poi concordò. Ne avevano già abbastanza. Edita Fischer era giovane e bionda e aveva l'aspetto che ci si poteva immaginare avesse l'infermiera di un telefilm americano. A parte, forse, che era leggermente strabica, ma Jung trovava che quel lieve difetto fosse solo affascinante. Era evidente che la ragazza era imbarazzata per il trambusto che aveva causato. Arrossì e chiese scusa varie volte, prima ancora di essersi accomodata nella stanza verde pallido dei colloqui messa loro a disposizione dalla caposala. Normalmente era utilizzata per parlare con i congiunti dei pazienti deceduti, si diceva che il verde avesse un effetto calmante. «Santo cielo» esclamò Edita Fischer, «ma non era niente. Assolutamente niente. È stata Liljana a parlarvene, giusto?» Jung ammise che la cosa era emersa durante una delle sue conversazioni con Liljana Milovic. «Non ha avuto nemmeno il buonsenso di stare zitta» commentò Edita Fischer. «Era solo una sciocchezza detta mentre stavamo chiacchierando.» «Se tutti stessero zitti, non troveremmo molti colpevoli» disse Jung. «Di che sciocchezza si trattava?» chiese Moreno. «Dal momento che siamo già qui.» Edita Fischer esitò ancora, ma le si leggeva in faccia che avrebbe parla-
to. Jung scambiò un'occhiata con Moreno e tutti e due evitarono di fare domande. Bastava aspettare. Aspettare e guardare il verde calmante. «È stato più di un mese fa... un mese e mezzo, quasi.» «Agli inizi di novembre?» disse Moreno. «All'incirca. Credo di non aver mai pianto così tanto come quando ho saputo che Vera era stata uccisa. È una cosa spaventosa, lei era una persona talmente allegra e vivace... non riesco a capacitarmi che sia potuto succedere a una persona che conoscevo così bene. Chi è stato? Deve trattarsi di un pazzo...» «Ancora non lo sappiamo» disse Jung. «Ma è quello che vogliamo scoprire.» «Vi frequentavate anche al di fuori del lavoro?» domandò Moreno. Edita Fischer scosse i riccioli. «No, ma lei era una collega meravigliosa, chiedete anche a tutti gli altri.» «L'abbiamo fatto» disse Jung. «Agli inizi di novembre?» le ricordò Moreno. «Certo, sì» disse Edita Fischer e sospirò. «Ma dovete capire che in realtà non era niente. A Liljana piace ingigantire le cose... non ha niente che non vada, ma è fatta così.» «Racconti, adesso» la incalzò Jung. «Di solito sappiamo stabilire da soli quello che è importante e quello che non lo è. Ma vogliamo raccogliere più informazioni possibile, prima di farlo.» «Naturalmente» disse Edita Fischer. «Scusatemi. Ecco, era solo successo che Vera aveva fatto una visita al Rumford.» «L'ospedale Nuovo Rumford?» volle sapere Moreno. «Sì, una paziente doveva essere trasferita lì. Alle volte succede. Una donna con enfisema polmonare, al Rumford sono attrezzati meglio. A volte mandiamo noi dei pazienti a loro e a volte sono loro che ne mandano a noi...» «Sembra una cosa sensata» commentò Jung. «Sì» confermò Edita Fischer. «Lo è. Vera ha accompagnato questa donna e si è fermata mezza giornata al Rumford. Per controllare che la paziente si trovasse bene... fosse accudita e così via. Vera era molto scrupolosa nel suo lavoro, per questo era una così brava infermiera. Quando è tornata nel pomeriggio, abbiamo fatto la pausa caffè insieme e io ho scherzato un po' con lei. Le ho chiesto perché ci avesse messo tanto, se era perché hanno dei medici così carini al Rumford... perché ce li hanno, eccome.» Assunse di nuovo un'aria imbarazzata e si mosse sulla sedia. «Molto più gio-
vani dei nostri» aggiunse. «Sì, ed è stato lì che Vera ha risposto con quelle parole. 'Hai proprio fatto centro.'» «Fatto centro?» ripeté Moreno. «Sì, lei ha riso e ha detto: 'Hai proprio fatto centro, Edita'. Solo questo, non so se scherzasse oppure se c'era qualcosa di più. Santo cielo, siete stati ad aspettare così tanto solo per questo?» «Mmm» fece Jung. «Siamo abituati ad aspettare, non si preoccupi.» Moreno rifletteva mentre prendeva appunti sul suo bloc-notes. «Qual è la sua opinione?» chiese poi. «Come ha giudicato la cosa, quando Vera Miller le ha detto quelle parole? Non abbia paura di confonderci, è bene che ci dica quale impressione immediata le ha fatto.» Edita Fischer si morse il labbro e abbassò lo sguardo sulle mani, che si stava torcendo sulle ginocchia. «Ho immaginato che ci fosse sotto qualcosa» rispose alla fine. «Sì, a ripensarci è stata proprio questa la mia prima impressione.» «Lei sa che era sposata?» chiese Jung. «Certo.» «Però non ritiene impossibile che... che avesse conosciuto un medico al Rumford di cui si fosse invaghita?» Invaghita? pensò. Sto parlando come un attore di serie B. Ma chi se ne importa. Edita Fischer alzò le spalle. «Non so» disse. «Come cavolo faccio a saperlo, è stata solo quella cosa che mi ha detto... e il modo in cui l'ha detta.» «E l'argomento non è più tornato a galla?» domandò Moreno. «Qualche altro accenno del genere, per esempio?» «No» rispose Edita Fischer. «Neanche l'ombra. Proprio per questo ho detto che si trattava di una sciocchezza.» Jung rifletté un momento. «All right» disse. «La ringraziamo per la sua collaborazione. Può tornare al suo lavoro, adesso.» Edita Fischer ringraziò a sua volta e li lasciò. Jung si alzò e fece due volte il giro della stanza. Poi tornò a sedersi. «Allora?» disse Moreno. «Ecco di cosa si trattava. Tu che ne pensi?» «Pensare?» fece Jung. «So quale sarà la nostra prossima mossa. Cento nuovi dottori. Dovremo lavorare fino a Natale... anche se bisogna essere grati di non dover stare a girarci i pollici, si capisce.» «Così parla un vero poliziotto» disse Moreno. 28
L'orologio segnava le tre meno venti quando lasciò la Spaarkasse in Keymer Plejn con in tasca duecentoventimila gulden. L'avevano guardato con aria interrogativa quando aveva detto che desiderava l'intera somma in contanti. Si trattava di un affare, aveva spiegato, una barca... venditore eccentrico, voleva essere pagato in quel modo. Altrimenti, niente affare. Si domandò se l'avessero bevuta. Forse sì, forse no. Comunque non aveva importanza. La cosa importante era che gli avessero dato i soldi. Quando fosse stata ora di restituire il prestito, non sarebbe più stato nei paraggi. Neanche nelle vicinanze dei paraggi. Esattamente in quale parte del mondo si sarebbe trovato non lo sapeva ancora. Mancavano soltanto dodici ore allo scambio e non aveva ancora una strategia. Sono troppo tranquillo, pensò salendo in macchina. Ho preso troppi farmaci, mi annebbiano la mente. Percorse la consueta strada per Boorkhejm. Il clima mite del giorno prima perdurava, e lui mantenne un'andatura lenta, siccome gli era venuto in mente che forse era l'ultima volta che faceva quel tragitto. Che aveva fatto migliaia di volte... sì, dovevano essere migliaia. Si era trasferito nella villetta a schiera con Marianne quasi quindici anni prima e adesso l'avrebbe lasciata. Era veramente ora, pensò. Veramente. Forse furono proprio la velocità ridotta e quella sensazione di star facendo il tragitto per l'ultima volta che gli fecero scoprire lo scooter. Un comunissimo scooter rosso parcheggiato fuori da uno dei portoni del condominio subito prima della fila di case fra cui c'era la sua. Non più di venticinque metri da casa sua, in realtà. Uno scooter rosso. La consapevolezza lo colpì come un fulmine. Lo scooter. Lo scooter. Parcheggiò sullo scivolo del garage come al solito. Scese dalla macchina e cominciò lentamente a tornare indietro lungo la strada. I pensieri gli esplodevano in testa come fuochi d'artificio, e fu costretto a fare appello a tutte le sue forze per non fermarsi a fissare il mezzo, che luccicava nella pallida luce del sole. Gli passò davanti e proseguì. Raggiunse l'edicola e comprò un giornale. Transitò ancora una volta davanti al magico motociclo e tornò a casa. Diede un'occhiata da sopra la spalla e scoprì che effettivamente riusciva a vederlo dalla posizione in cui si trovava. Sullo scivolo del garage accanto al-
la macchina. Rifletté rapidamente e poi provò se gli riusciva altrettanto bene dall'interno dell'auto. Purtroppo no; non subito, ma dopo che fu uscito in retromarcia ed ebbe fatto inversione, si rese conto che poteva stare seduto senza problemi al posto di guida e avere una buona visuale. Si ricordò di avere un binocolo e andò in casa a recuperarlo. Salì di nuovo in macchina, ma prima di cominciare l'appostamento vero e proprio decise di fare un'altra passeggiata fino al chiosco. Comprò due birre che sapeva non avrebbe mai bevuto; sulla via del ritorno si fermò un istante fuori del condominio e memorizzò il numero di targa. Poi si sedette in macchina con il binocolo. Per tre quarti d'ora rimase lì a osservare e a cercare di farsi venire dei dubbi. Di analizzare le conclusioni che gli erano balenate in testa nel giro di pochi secondi e che parevano sicure come assiomi. Tutto quadrava. Era passato uno scooter, quella sera. Diretto a Boorkhejm. Aveva già pensato che il ricattatore dovesse essere qualcuno che lo conosceva già, che sapeva chi era... la risposta era che, molto semplicemente, si trattava di un vicino. Non uno che salutasse tutti i giorni, cosa che del resto faceva solo con quelli che vivevano nelle due case contigue alla sua. Il signor Lantberg e la famiglia Kluume. Ma qualcuno che abitava nel condominio. L'edificio aveva solo tre piani. Probabilmente non c'erano più di dieci o dodici appartamenti. Tre ingressi. E uno scooter rosso fuori da quello più vicino a casa sua. Era chiaro come il sole. Boorkhejm non era una zona residenziale particolarmente vasta, e la gente si conosceva. Almeno di vista. Dubitava che ci fossero altri scooter in quella zona. Che non avesse mai visto quello in precedenza - o in ogni caso, che non l'avesse mai notato - dipendeva forse dal fatto che il proprietario di solito parcheggiava sul retro dell'edificio. Comprese che l'avversario non si rendeva conto che il veicolo avrebbe potuto smascherarlo; altrimenti era assurdo che fosse stato così negligente proprio quel giorno... e gliel'avesse messo sotto il naso. Proprio quel giorno. Quando mancavano soltanto poche ore. Guardò l'orologio. Le quattro, circa. Ancora undici ore. Sentì che aveva la pelle d'oca sulle braccia. E che una nuova strategia cominciava a prendere forma. Tre quarti d'ora. Tanto restò in macchina ad aspettare e a pianificare. Poi
uscì il proprietario. Il proprietario dello scooter rosso. Attraverso le lenti del binocolo ebbe l'impressione che il viso dell'uomo si trovasse a pochi metri dal suo. Un viso cupo e piuttosto ordinario. Grossomodo della sua età. Lo riconobbe. Era uno che lavorava nel laboratorio delle protesi all'ospedale. Forse aveva parlato con lui una volta, ma non si salutavano mai. Non ricordava nemmeno il suo nome. Non importava. La strategia si stava sviluppando a tempo di record. La pelle d'oca era sempre lì. All'inizio la cena con Marlene Frey fu piuttosto imbarazzante. Van Veeteren notò l'inquietudine della ragazza già quando le aprì la porta, e i suoi goffi tentativi di farla sentire a suo agio non migliorarono certo le cose. Forse Ulrike riuscì un po' meglio sotto questo aspetto, ma fu solo quando Marlene scoppiò a piangere nel bel mezzo della prima portata che il ghiaccio si ruppe davvero. «Accidenti» disse Marlene fra i singhiozzi. «Credevo che ce l'avrei fatta stasera, ma non riesco. Perdonatemi.» Mentre era in bagno, Van Veeteren bevve due bicchieri di vino e Ulrike lo guardò preoccupata. «Mi manca così tanto» disse Marlene quando tornò a tavola. «Capisco che è lo stesso per lei, ma questo non migliora le cose. Mi manca talmente che mi sembra d'impazzire.» Fissò Van Veeteren con gli occhi che si era sciacquata appena. Non sapendo cos'altro fare, lui ricambiò lo sguardo, poi girò intorno al tavolo e l'abbracciò. Non fu semplice, dal momento che lei era seduta, ma lui sentì che un nodo gli si scioglieva dentro, mentre lo faceva. Una mano chiusa che mollava la presa. Che strano, pensò. «Gesù» esclamò Ulrike. «E pensare che i cuori della gente sono così lontani certe volte.» Marlene scoppiò di nuovo in lacrime, ma questa volta le bastò soffiarsi il naso nel tovagliolo. «Mi sono sentita così sola» disse. «E di lei avevo quasi paura.» «Non è tanto pericoloso» la rassicurò Ulrike. «Io lo scopro ogni giorno di più.» «Mmm» fece Van Veeteren, che aveva ripreso il suo posto a tavola. «Salute.» «Metterò al mondo suo figlio» disse Marlene. «Mi sembra una cosa irreale e non so come andrà a finire. Naturalmente non avevamo pensato che
sarebbe stato uno solo di noi a crescerlo.» Fece un respiro profondo e cercò di sorridere. «Scusatemi. È solo che è così difficile. La ringrazio di avermi abbracciato.» «Sant'Iddio» disse Van Veeteren. «Lascia stare. E dammi del tu. Salute. Ti prometto che mi prenderò cura di te. Di te e del bambino.» «Ci mancherebbe altro» disse Ulrike. «Finite la zuppa adesso, poi c'è anche la carne.» «I tuoi genitori?» domandò con circospezione un'ora dopo. «Hai qualche aiuto da parte loro?» Marlene scosse la testa. «Sono figlia di tossicodipendenti. Mia madre ci prova, ma è difficile definirlo un aiuto. Spero che mi crediate quando dico che io sono uscita da quel pantano... perché è assolutamente vero. L'abbiamo fatto insieme, Erich e io. Anche se certe volte si ha come l'impressione di beccarsi una nuova batosta ogni volta che si riesce a salire un gradino.» «La vita è una faccenda molto sopravvalutata» disse Van Veeteren. «Anche se è meglio non scoprirlo troppo presto.» Marlene lo guardò con le sopracciglia leggermente alzate. «Sì» disse. «Forse è proprio così. Erich diceva che non sei mai stato un grande ottimista, ma mi piaci. Spero che continueremo a essere amici.» «Naturalmente» si intromise Ulrike. «Lui ha un fascino un po' burbero, su questo hai perfettamente ragione. Ancora caffè?» Marlene scosse la testa. «No, grazie. Adesso devo andare. Mi piacerebbe molto ricambiare l'invito, ma sapete come sono messa... anche se il riscaldamento è molto migliorato dall'ultima volta.» «Verrai qui a Natale» disse Van Veeteren. «E a Capodanno. A ognuno secondo le proprie possibilità... è giusto così.» Ulrike scoppiò a ridere e Marlene sorrise. Lui si domandò per un attimo quanto tempo era che non faceva sentire così di buonumore due donne in un colpo solo. Concluse che probabilmente non gli era mai successo prima. Quando erano già nell'ingresso, a Marlene tornò in mente una cosa. «Ah sì, certo» disse. «C'era quella storia del foglietto...» «Di che foglietto stai parlando?» chiese Ulrike, aiutandola con il montgomery. «Ho trovato un foglietto» continuò Marlene, «quando ho fatto le pulizie l'altro giorno. Erich lasciava sempre in giro un sacco di foglietti... appunti con orari e nomi e numeri di telefono...»
«Sì?» disse Van Veeteren e si accorse che nel giro di un secondo era tornato a essere un investigatore. «La polizia naturalmente ha esaminato tutti i fogli su cui Erich aveva scarabocchiato qualcosa nelle ultime settimane, ma questo non l'hanno trovato. Era coperto da un sottopentola in cucina. So che deve averlo scritto di recente, perché c'è anche l'appunto di un lavoro che ha fatto uno degli ultimi giorni...» «Che cosa c'è scritto?» volle sapere Van Veeteren. «Solo un nome» rispose Marlene. «Keller.» «Keller?» «Sì, Keller. Non è un nome particolare, ma non conosco nessuno che si chiami così... e non c'è nessun Keller nell'indirizzario. Ecco, era solo questo. Dovrei telefonare alla polizia e riferire questa cosa?» Van Veeteren rifletté un momento. «Fallo» disse. «Keller? Keller? No, nemmeno io lo conosco. Ma telefona... chiama Reinhart, hanno bisogno di tutto l'aiuto possibile. Ce l'hai il numero?» Marlene annuì. Poi li abbracciò entrambi; dopo che se ne fu andata, fu come se avesse lasciato un vuoto dietro di sé. Era strano. Un grande vuoto. «Diventerai ancora nonno» disse Ulrike e gli si sedette in braccio sul divano. «Ahi» fece Van Veeteren. «Lo so. Hai detto che sarebbero stati tre giorni?» «Notti» precisò Ulrike. «Io di giorno lavoro. Per lo meno domani.» Aron Keller vide l'Audi rossa passare per la strada. Poi la vide fermarsi sullo scivolo del garage del numero civico diciassette. Riuscì a osservare la scena perché il suo soggiorno aveva un bovindo che dava sulla facciata della casa. Si trovava lì adesso. Era lì che si fermava spesso. Al terzo piano, seminascosto da due floridi ibischi, aveva una magnifica vista su tutto quanto accadeva all'esterno. Il che normalmente non era molto. Eppure trascorreva parecchio tempo in quell'angolo, con gli anni era diventata un'abitudine. Fermarsi nel bovindo un momento ogni tanto. Più tardi ringraziò la sua buona stella di averlo fatto. Di essersi attardato un minuto dopo aver visto passare il dottore assassino sulla sua macchina scintillante. Stava tornando indietro. Il dottore stava tornando indietro a piedi. Arrivò
fino al chiosco e comprò un giornale. Di solito non lo faceva. Non in casi normali, almeno. Aron Keller rimase in piedi ad aspettare. Immobile come gli ibischi. Vide l'Audi uscire sulla strada in retromarcia e poi tornare sullo scivolo. Quindi il dottore scese dalla macchina, entrò in casa e andò a prendere qualcosa che Keller non riusciva a distinguere. Tornò e si sedette di nuovo al volante. Rimase lì, in macchina davanti a casa sua. Keller sentì che gli sudavano le mani. Dopo qualche minuto il dottore scese dalla macchina e s'incamminò un'altra volta verso il chiosco. Proprio davanti al suo portone, il portone di Keller, rallentò il passo e diede un'occhiata allo scooter. Poi proseguì verso il chiosco. Comprò qualcosa che gli fu consegnato in un sacchetto marrone e tornò indietro. Keller arretrò due passi dentro la stanza mentre l'altro si portava all'esterno. Quindi riprese la sua posizione nel bovindo e vide il dottore tornare a sedersi in macchina. E rimanervi. Un minuto dopo l'altro. Seduto al volante senza far nulla. Merda, pensò Keller. Lui sa. Quel bastardo sa. Quando parecchio più tardi passò davanti al numero diciassette, il dottore era ancora in macchina. Era la conferma definitiva. Keller fece il giro delle villette a schiera e ritornò al suo appartamento dal retro. Quando fu di nuovo in casa, prese una birra dal frigorifero e la bevve in tre sorsate. Si piazzò nel bovindo. L'Audi davanti al numero diciassette era vuota. Il sole era tramontato. Ma non sa una cosa, pensò. Il dottore assassino non sa che io so che lui sa. Sono ancora in vantaggio. Ho ancora il controllo. QUINTA PARTE 29 Se consideriamo il lavoro fatto finora da un punto di vista puramente quantitativo, pensò il commissario Reinhart durante una breve pausa sigaretta verso le undici di sabato mattina, non abbiamo niente di cui vergognarci. Innegabilmente quel pensiero aveva una sua ragion d'essere. Dopo la testimonianza di Edita Fischer, il numero di medici da interrogare era aumentato al punto tale che Rooth, deBries e l'assistente Bollmert avevano dovuto mettersi subito all'opera. È vero che Reinhart, in tutta onestà, con-
siderava l'intera procedura solo una debole traccia, ma in mancanza di altre deboli tracce (e ricordando le generose promesse di Hiller sulle risorse illimitate) poteva anche andare. Nessuno però chiamava più l'operazione «l'ipotesi di Rooth», soprattutto non Rooth stesso, da quando era stato chiaro che sarebbe stato costretto a lavorare anche il sabato e la domenica. Il Nuovo Rumford era un po' più piccolo del Gemejnte, ma aveva comunque alle sue dipendenze centodue medici, sessantanove dei quali di sesso maschile. Con questo nuovo gruppo ovviamente non si poteva usare la vecchia copertura delle semplici informazioni sull'impressione generale che i colleghi avevano della defunta infermiera Vera Miller. Se non altro perché nessuno poteva avere un'impressione su di lei. A parte forse l'assassino, come fece osservare molto giustamente deBries, ma era probabile che lui non sarebbe stato disposto a scaricarsi la coscienza solo perché gli veniva posta qualche cortese domanda. Su questo, alla direzione delle indagini concordavano tutti. Invece Reinhart decise che avrebbero agito a carte scoperte. Secondo le informazioni in loro possesso Vera Miller aveva una relazione con un medico in uno dei due ospedali. Ne sapevano qualcosa? Giravano voci in proposito? Era possibile avanzare delle ipotesi? Quest'ultima domanda era al limite della decenza, ma che cazzo? pensava Reinhart. Se lasciavano che un paio di centinaia di persone facessero le loro ipotesi, qualcuno avrebbe colpito nel segno. Per non parlare di che cosa poteva significare se diverse persone formulavano la stessa ipotesi. Da parte sua l'ispettore Jung non annoverava questi interrogatori di massa tra i suoi lavori preferiti (mentre i colloqui informali come quello che aveva avuto con la signorina Milovic rientravano naturalmente in tutt'altra categoria), e quando incontrò Rooth durante una meritata pausa caffè nel pomeriggio, ne approfittò per ringraziarlo per la stimolante occupazione festiva. «Peccato che ti sia fissato proprio sui dottori» gli disse. «Che cazzo stai dicendo?» ribatté Rooth, mentre divorava una brioscina. «Ecco, se per esempio avessi formulato l'ipotesi del commesso di negozio, avremmo avuto il decuplo di questi piacevoli colloqui da fare. Oppure un'ipotesi dello studente.» «Ti ho già detto che non so cos'è un'ipotesi» disse Rooth. «È possibile bere un caffè in santa pace?» In linea con i precedenti interrogatori degli amici e conoscenti di Erich
Van Veeteren, anche questa volta tutti i colloqui venivano registrati; quando Reinhart la domenica sera guardò tutte le cassette accumulate sulla sua scrivania, si rese conto che il materiale - in special modo se si riunivano le due inchieste - cominciava ad assumere una consistenza degna dell'omicidio di un primo ministro. Il punto di Borkmann? pensò. Una volta il commissario ne aveva parlato. La quantità non si era forse trasformata da tempo in qualità? Senza che lui se ne fosse accorto. Sapeva già quello che avrebbe dovuto sapere? La risposta... le risposte?... non era già insita (e nascosta) nel vasto materiale dell'inchiesta? Da qualche parte. Forse, pensò. O forse no. Come lo si poteva stabilire? Intuizione, come al solito? Al diavolo. Durante la serata di domenica ci fu anche una riunione. Reinhart aveva tenuto ben presenti le promesse di mezzi illimitati di Hiller e aveva comprato per l'occasione quattro bottiglie di vino e due torte salate. Siccome, nonostante tutto, erano solo in sei, pensava di aver interpretato con insolito zelo l'idea di piena mobilitazione del capo della polizia. Nemmeno Rooth ebbe la forza di buttarsi sull'ultimo pezzo di torta. Sulla quantità si poteva sempre contare. Nell'arco di due giorni e mezzo, sei investigatori avevano interrogato centoottantanove medici. Centoventi uomini, sessantanove donne. Nessuno degli interrogati aveva confessato di aver ucciso l'infermiera Vera Miller, né di aver avuto rapporti sessuali con lei. Nessuno aveva indicato qualcun altro come possibile sospettato (se in forza del leggendario spirito di corpo oppure no, non era chiaro). Nemmeno una vaga ipotesi, perciò Reinhart non fu costretto a preoccuparsi dell'aspetto etico della faccenda. Cosa di cui era grato. A nessuno dei sei investigatori era sorto un sospetto estemporaneo durante i colloqui, almeno non riguardo a quello che stavano cercando. Se il commissario Reinhart aveva voglia di controllare i giudizi dei suoi subordinati a questo proposito, doveva solo ascoltare tutti i nastri. Ammesso che si accontentasse di un semplice ascolto per ogni persona, avrebbe dovuto farcela in circa cinquantadue ore. Senza contare le pause per il cambio dei nastri, visite alla toilette e dormite. Nell'ombra proiettata dalla veneziana, riteneva di poter risparmiare sulle pause pranzo. «Non è granché» commentò Rooth. «Il risultato, intendo.»
«Mai così pochi hanno avuto così tanti da ringraziare per così poco» riassunse Reinhart. «Merda. Quanti ce ne mancano?» «Ventotto» rispose Jung, guardando un foglio. «Cinque sono in trasferta, sei in ferie, nove a riposo e fuori città, sette in malattia e una deve partorire fra mezz'ora.» «Non dovrebbe essere considerata in malattia anche lei?» domandò Rooth. «In ogni caso non si tratta di ferie» precisò Moreno. C'era anche un esercizio matematico con un po' meno incognite, la cosiddetta «pista Edita Fischer». Moreno e Jung, che insieme si erano occupati del Nuovo Rumford, avevano raccolto informazioni su quale fosse il giorno esatto in cui Vera Miller era andata lì con la paziente affetta da enfisema polmonare. E su quali medici maschi fossero stati in servizio quel giorno e in quali reparti... Purtroppo Vera Miller aveva anche approfittato per pranzare nella grande mensa del personale, dove teoricamente avrebbe potuto incontrare chiunque; il risultato di questi sforzi era stato un numero di dottori relativamente limitato. Trentadue in tutto, per la precisione. Jung era propenso a depennare tutti quelli che avevano superato i cinquantacinque anni, ma Moreno non era d'accordo con un modo di pensare così pieno di pregiudizi. Le tempie brizzolate non erano da disprezzare. Soprattutto se si trattava di un medico. Avevano incontrato venticinque rappresentanti di questo «supergruppo» (espressione di Jung), nessuno dei quali tuttavia si era comportato in maniera sospetta o aveva raccontato qualcosa di interessante. Ne mancavano sette. Uno era in ferie. Quattro avevano il turno di riposo e si trovavano fuori città. Due erano in malattia. «È uno di loro» disse Jung. «Uno di questi sette. Sembra un film, scommettiamo?» «Se vuoi trovati qualcun altro» rispose Moreno. «Io la penso come te.» Dopo che gli altri furono andati a casa, Reinhart condivise l'ultima bottiglia di vino con Moreno. Nell'ufficio era rimasto anche Rooth, ma si era addormentato in un angolo. «È un gran casino» disse Reinhart. «E non so quante volte l'ho già detto nel corso di questa inchiesta... queste inchieste1! Non arriviamo da nessuna parte. Ho come l'impressione di stare lavorando per qualche stramaledetto istituto di statistica. Se solo ci fossimo ricordati di domandare anche le loro preferenze politiche e abitudini con l'alcol, avremmo potuto sicuramente
vendere tutti i dati al supplemento domenicale della 'Gazzetta'... o a qualche società che fa indagini di mercato.» «Mmm» fece Moreno. «Il commissario diceva sempre che bisogna saper aspettare. Avere pazienza. Forse dovremmo cercare di pensare in questi termini.» «Diceva sempre anche un'altra cosa, però.» «Davvero?» disse Moreno. «E cosa?» «Che bisogna risolvere un caso il più in fretta possibile. Preferibilmente il primo giorno, così non si è costretti a stare svegli e a pensarci su durante la notte. Sono già passate più di cinque settimane da quando abbiamo trovato suo figlio, cazzo. Non mi piace ammetterlo, ma l'ultima volta che ho incontrato Van Veeteren mi sono vergognato. Vergognato! Mi ha spiegato che tutto quanto affonda le radici in una storia di ricatti... senza dubbio ha ragione, eppure non riusciamo ad andare avanti. È un gran... no, d'ora in poi devo accontentarmi di pensarlo e basta.» «Credi che fosse lei la ricattatrice?» domandò Moreno. «Vera Miller?» Reinhart scosse la testa. «No, non credo. Nonostante la storia con il medico stia in piedi. Ma perché una donna su cui nessuno è riuscito a dare un giudizio negativo dovrebbe abbassarsi a tanto?» «Il ricatto è un crimine caratteriale» disse Moreno. «Esatto» concordò Reinhart. «In galera perfino quelli che ammazzano a colpi di scure e quelli che torturano la moglie godono di maggiore considerazione. Il ricatto è probabilmente uno dei crimini più... immorali che esistano. Non il peggiore, ma il più basso. Meschino, se il termine si usa ancora.» «Sì» disse Moreno. «Credo che sia vero. Quindi possiamo escludere Vera Miller. Possiamo escludere anche Erich Van Veeteren. Lo sai che cosa ci rimane?» Reinhart versò le ultime gocce di vino. «Sì» rispose. «Anch'io ci ho pensato. Ci rimane ancora un ricattatore. E la sua vittima. La vittima corrisponde all'omicida. La questione è se il ricattatore sia già stato pagato oppure no.» Moreno rimase in silenzio un momento mentre faceva oscillare il vino nel bicchiere. «Non capisco come Vera Miller sia finita dentro questa storia» disse poi. «Ma se diamo per certo che sia collegata con Erich, allora... ecco, allora abbiamo una persona che ha ucciso due volte per evitare di pagare. Se il ricattatore non è completamente sprovveduto, è probabile che abbia anche alzato un po' il prezzo... direi che sta correndo un grosso peri-
colo.» «Lo penso anch'io» concordò Reinhart. Finì di bere il vino e accese la pipa per la decima volta in un'ora. «È questa la nostra maledizione» disse, «non sappiamo che cosa ci sia dietro. Il motivo del ricatto. Abbiamo una catena di avvenimenti, ma ci manca il primo anello...» «E l'ultimo» fece osservare Moreno. «Probabilmente non abbiamo ancora assistito all'ultimo round fra il ricattatore e la sua vittima, non dimenticarlo.» Reinhart la guardò con la testa poggiata pesantemente fra le mani. «Sono stanco» disse. «E un po' sbronzo. Solo per questo dico che sono impressionato. Dal tuo modo di ragionare. Ma solo un po'.» «In vino Veritas» disse Moreno. «Anche se può essere tutto sbagliato. Non deve necessariamente trattarsi di ricatto e non deve necessariamente essere coinvolto un medico... e fra Vera Miller ed Erich Van Veeteren forse non c'è proprio nessun collegamento.» «Non dirlo neanche» gemette Reinhart. «Stavo giusto pensando che cominciamo ad arrivare da qualche parte.» Moreno sorrise. «È mezzanotte» disse. Reinhart si raddrizzò sulla sedia. «Chiama un taxi» disse. «Io sveglio Rooth.» Quando tornò a casa, trovò Winnifred e Joanna tranquillamente addormentate nel lettone. Si fermò sulla porta della camera a guardarle un attimo, mentre si domandava che cosa avesse fatto per meritarsele. E quale sarebbe stato il prezzo. Pensò al figlio del commissario. A Seika. A Vera Miller. A come sarebbe stato per Joanna quando di lì a quindici o vent'anni i ragazzi avrebbero cominciato a interessarsi a lei... ragazzi di ogni genere. Notò che gli si drizzavano i peli sugli avambracci quando cercava di immaginarselo, e richiuse piano la porta. Prese una birra scura dal frigorifero e si sdraiò sul divano a riflettere. Riflettere su cosa c'era in definitiva di assolutamente sicuro nei casi Van Veeteren e Miller. E su cosa poteva essere abbastanza sicuro. E su cosa credeva personalmente. Non fece in tempo ad arrivare molto lontano che si era già addormentato. Joanna lo trovò sul divano alle sei del mattino dopo. Gli tirò il naso e disse che puzzava. Era proprio sua figlia.
30 Lunedì Winnifred aveva solo un seminario in mattinata e sarebbe stata a casa per mezzogiorno. Dopo una breve riflessione, Reinhart telefonò alla baby-sitter e le diede la giornata libera. Poi dedicò tutto il suo tempo a Joanna. La aiutò a lavarsi i denti e i capelli, disegnò e sfogliò libri e fece un pisolino fra le nove e le dieci. Mangiò yogurt e banana, ballò e sfogliò altri libri fra le dieci e le undici. Alle undici e mezzo la legò al seggiolino in macchina e venti minuti dopo passavano a prendere la loro mamma e moglie fuori dell'università. «Facciamo un giro» le disse lui. «Ne abbiamo proprio bisogno.» «Splendido» commentò Winnifred. Non fu una decisione difficile lasciare la centrale al suo destino per qualche ora dopo il lavoro degli ultimi giorni. Quel lunedì di dicembre il tempo era ventoso e incerto. Eppure scelsero lo stesso la costa. Il mare. Camminarono sul lungomare di Kaarhuis avanti e indietro - Reinhart tenendo sulle spalle Joanna che cantava e strillava - e mangiarono zuppa di pesce al ristorante Guivert, l'unico aperto di tutta la cittadina. La stagione turistica sembrava più lontana di Giove. «Dieci giorni a Natale» constatò Winnifred. «Sarai davvero in ferie per una settimana, come stai cercando di farmi credere?» «Dipende» rispose Reinhart. «Se riusciamo a risolvere i casi di cui ci stiamo occupando, posso promettertene due.» «Il professor Gentz-Hillier ci cede volentieri la sua casa a Limbuijs. Vorrei accettare... dieci, dodici giorni fra Natale e Capodanno... Sarebbe bello starsene per un po' fuori dal mondo, lei che ne pensa, commissario?» «Fuori dal mondo?» ripeté Reinhart. «Intendi un caminetto acceso, glühwein e mezzo metro di libri, voglio sperare?» «Esattamente» disse Winnifred. «Niente telefono e un chilometro fra noi e l'indigeno più vicino. Se ho capito bene. Allora posso accettare?» «Fallo» disse Reinhart. «Stasera mi metto d'impegno e risolvo questi casi. Ormai è ora.» Quando entrò nel suo ufficio alla centrale erano le cinque e mezzo. La pila di cassette sulla sua scrivania era cresciuta ancora, dal momento che Jung, Rooth e Bollmert nel corso della giornata avevano contattato un'altra decina di medici. C'erano anche un paio di messaggi che gli comunicavano
che nel corso di questi colloqui non era emerso nulla di particolarmente interessante. Krause aveva lasciato un rapporto dopo aver parlato con il laboratorio di chimica dell'Istituto di Medicina legale; avevano analizzato il contenuto dello stomaco di Vera Miller e scoperto che nelle ore precedenti il decesso aveva consumato astice, salmone e caviale. Oltre a una considerevole quantità di vino bianco. L'ha trattata alla grande prima di ammazzarla, pensò Reinhart, e accese la pipa. Pur sempre qualcosa. C'era da augurarsi che fosse anche un po' intontita dal vino, ma questo lo sapevano già da prima. Si sedette sulla poltroncina e cercò di ritornare con la mente alla conversazione avuta con Moreno il giorno prima. Fece un po' di spazio sulla scrivania, si sedette con davanti carta e penna e cominciò ad annotare e ricapitolare sistematicamente, con logica ferrea. O almeno questo era ciò che aveva intenzione di fare, e ci stava ancora provando una mezz'ora dopo, quando suonò il telefono. Era Moreno. «Credo di averlo trovato» disse. «Se sei ancora lì, posso venire da te fra un momento?» «Un momento?» disse Reinhart. «Ispettore, le do tre minuti, non un secondo di più.» Appallottolò le sue ferree annotazioni e le gettò nel cestino della carta straccia. A Van Veeteren non sembrava che la temperatura nell'appartamento fosse migliorata rispetto all'ultima volta che era stato lì, ma Marlene sosteneva che c'era una differenza sostanziale. Gli offrì del tè e divisero fraternamente lo strudel di mele che lui aveva comprato nella panetteria della piazza. La conversazione fluiva lentamente, e lui si rese conto ben presto che non si sarebbe creata nessuna occasione spontanea di parlare di ciò che aveva in mente. «Come te la cavi?» chiese alla fine. «Intendo dal punto di vista economico...» Era un approccio un po' goffo e lei si chiuse subito in se stessa. Andò in cucina senza rispondere, ma dopo mezzo minuto ritornò. «Perché me lo domandi?» Lui allargò le braccia e cercò di fare un'espressione mite, disarmante. Non era una cosa che gli veniva molto naturale, e si sentì come un ladruncolo sorpreso con in tasca sei pacchetti di sigarette. O di preservativi. «Perché ti voglio aiutare, naturalmente» rispose. «Non prendiamoci in
giro, non sono capace di fingere.» Chiaramente queste parole furono più disarmanti della sua espressione, perché dopo un attimo di esitazione lei gli rivolse un sorriso. «Mi arrangio» disse. «Almeno per ora... e non voglio essere di peso a nessuno. Ma mi fa piacere sapere che ci sei. Non per i soldi, ma per Erich e per lui.» Si passò una mano sulla pancia e per la prima volta a Van Veeteren sembrò di notare una piccola curvatura. Una sporgenza che era qualcosa di più di un ventre femminile dalle forme morbide e arrotondate, e si sentì attraversare da un oscuro tremito. «Bene» commentò. «Anch'io sono contento che tu ci sia. Adesso sappiamo quali sono i nostri sentimenti, giusto?» «Credo di sì» disse Marlene. Appena prima di andarsene, si ricordò di un'altra cosa. «Quel famoso foglietto... con l'annotazione di un nome... Hai poi telefonato alla polizia?» Lei si batté una mano sulla fronte. «Me ne sono scordata» disse. «Non ci ho più pensato... ma ce l'ho ancora, se vuoi dargli un'occhiata.» Andò di nuovo in cucina. Tornò con un foglietto a righe, strappato da un bloc-notes. «Me ne occupo io» disse Van Veeteren, infilandolo nella tasca interna. «Non preoccuparti, chiamerò Reinhart domattina presto.» Quando tornò a casa, controllò la guida del telefono. C'era una mezza colonna di abbonati di nome Keller sull'elenco di Maardam. Ventisei, a essere esatti. Valutò se telefonare a Reinhart già quella sera, ma ormai erano le nove e un quarto e decise di lasciar perdere. Di sicuro ne hanno già fin sopra i capelli, pensò. Non devo infastidirli in continuazione. Passarono quarantacinque minuti prima che Moreno facesse la sua comparsa. Nel frattempo, Reinhart riuscì a bere tre tazze di caffè, a caricare altrettante volte la pipa e a sviluppare un vago malessere. «Mi devi scusare» esordì lei. «Prima ho proprio dovuto mangiare un panino e fare una doccia.» «Sembri una Venere appena sorta dalle acque» disse Reinhart. «Allora, cosa diavolo mi hai portato?» Moreno si tolse la giacca e l'appese, andò ad aprire la finestra e si sedette di fronte a lui. «Un medico» disse. «Può essere lui... anche se ho cominciato ad avere dei dubbi, dopo che ti ho chiamato. Potrebbe anche rivelarsi un
vicolo cieco.» «Non dire sciocchezze» la riprese Reinhart. «Chi è e come fai a sapere che è lui?» «Si chiama Clausen. Pieter Clausen. Però non ho parlato con lui... sembra che sia sparito.» «Sparito?» ripeté Reinhart. «Sparito forse è troppo» continuò Moreno. «Ma nessuno riesce a contattarlo, e oggi non si è presentato in ospedale, anche se avrebbe dovuto.» «Rumford?» «Nuovo Rumford, sì. È stato in malattia tutta la settimana scorsa, ma doveva tornare in servizio oggi... stamattina, e non l'ha fatto.» «Come fai a saperlo? Con chi hai parlato?» «Con il dottor Leissne. Primario di medicina generale. È il suo capo. Naturalmente non ho accennato ai nostri sospetti... a cosa stiamo effettivamente cercando, ma mi sembrava... sì, mi sembrava comunque che qualcosa non andasse. Leissne era imbarazzato, senza dubbio, la segretaria ha telefonato tutta la mattina a questo Clausen senza ottenere risposta. E nessuno nel suo reparto sa dove diavolo si trovi. Forse c'è qualcosa di poco chiaro anche in quest'assenza per malattia, ma è soltanto una mia supposizione.» «Famiglia?» chiese Reinhart. «È sposato?» Moreno scosse la testa. «Vive da solo. A Boorkhejm. È separato da qualche anno. Lavora al Rumford da dieci e nessuno ha mai avuto niente da ridire su di lui.» «Finora» precisò Reinhart. «Finora...» ripeté Moreno, riflettendo. «Anche se non dobbiamo correre troppo. Ho fatto in tempo a parlare solo con Leissne e un'infermiera del reparto... soltanto verso le quattro e mezzo è saltato fuori il nome.» «Com'è successo?» «La segretaria è venuta a dirmi che il primario voleva parlare con me. Avevo appena terminato una di queste.» Frugò nella borsa e mise sul tavolo tre cassette. «Aha, ecco» disse Reinhart. «Hai altre informazioni su di lui?» Moreno gli tese un foglio e Reinhart lo studiò un momento. Dati personali. Mansioni e meriti professionali. La fotografia in bianco e nero di un uomo sui trentacinque anni... capelli corti e scuri. Labbra sottili, viso allungato. Una piccola voglia su una guancia. «Ha un aspetto molto comune» commentò. «È una vecchia foto?»
«Risale a cinque, sei anni fa, probabilmente» rispose Moreno. «Adesso ha passato da poco la quarantina.» «Ha figli? Dal primo matrimonio, per esempio?» «Non a quanto ne sapeva Leissne.» «Donne? Fidanzate?» «Non si sa.» «E nessuna pecca?» «Non ce n'è traccia.» «La prima moglie, allora?» Moreno andò a chiudere la finestra. «Non so. Non sapevano nemmeno come si chiama. Ma ho avuto il nome di un collega che secondo Leissne potrebbe darci qualche informazione... uno che chiaramente frequenta Clausen anche in privato.» «Che cosa dice questo famoso collega, allora?» «Niente. Ho solo parlato con la sua segreteria telefonica.» «Merda» disse Reinhart. Moreno guardò l'ora. «Le sette e mezzo» disse. «Forse potremmo andare a dare un'occhiata... A Boorkhejm, intendo. L'indirizzo ce l'abbiamo.» Reinhart vuotò la pipa e si alzò. «Che cosa aspetti?» disse. Lungo il tragitto per Boorkhejm furono sorpresi da una pioggia mista a neve che accrebbe ulteriormente la tristezza dei sobborghi. Ci misero un po' a trovare Malgerstraat, e quando frenò davanti al numero diciassette, Reinhart sentì di provare per gli esseri umani una pena maggiore del solito. Da quelle parti doveva essere difficile trovare un senso alla vita, uno qualunque, pensava. In quelle scatole grigie e in quel clima sconfortante. La Strada dimenticata da Dio. Grigia, bagnata e stretta. Eppure era un quartiere borghese. Fuori delle case c'era una lunga fila di utilitarie giapponesi più o meno identiche, e in una finestra su tre balenava la luce azzurrina dei televisori. Al numero diciassette, tuttavia, il buio era completo. Al pianterreno e al primo piano. La casa faceva parte di una serie di cubi a due piani di mattoni grigi o forse brunastri, con un giardino di nove metri quadrati e lo scivolo del garage asfaltato. C'erano anche un'aiuola invasa dalle erbacce e una cassetta delle lettere con i bordi di ferro. Reinhart spense il motore; rimasero un attimo a osservare la casa. Poi lui scese e alzò il coperchio della cassetta delle lettere. Era dotato di lucchetto, ma attraverso la fessura vide un paio di quotidiani e una certa quantità di
posta. A voler essere precisi, gli sembrava veramente piena, e dubitava che sarebbe stato possibile infilarci un altro giornale. Tornò alla macchina. «Vuoi andare a suonare il campanello?» chiese a Moreno. «Non ne ho tanta voglia» rispose lei. «Mi sembra che non abbia molto senso.» Comunque scese e salì fino alla porta d'ingresso. Suonò il campanello e aspettò mezzo minuto. Suonò di nuovo. Non successe nulla. Ritornò da Reinhart, che aspettava vicino alla macchina e fumava con la pipa girata all'ingiù sotto la pioggia. «Che cosa facciamo?» disse. «Perquisiamo la casa domani mattina» decise Reinhart. «Ha dodici ore per farsi vivo.» Salirono in macchina e cercarono di districarsi nel sobborgo. 31 «Chi?» chiese il brigadiere Klempje, facendo cadere il giornale per terra. «Ohibò... voglio dire, buongiorno, commissario!» Si alzò e fece un inchino. «No, non c'è, ma ho visto Krause qui fuori non più di due minuti fa. Glielo devo chiamare?» Sporse la testa in corridoio e riuscì ad attirare l'attenzione dell'aspirante Krause. «Il commissario» sibilò quando Krause fu più vicino. «Al telefono... il commissario!» Krause entrò nella guardiola e prese la cornetta. «Qui Krause. Buongiorno, commissario... sì, di che cosa si tratta?» Ascoltò e prese appunti per un minuto. Poi gli augurò buona giornata e riattaccò. «Che cosa voleva?» domandò Klempje, grattandosi l'orecchio con l'indice. «Niente che ti possa interessare» rispose Krause e se ne andò. Borioso d'un borioso, pensò Klempje. Ecco la ricompensa per essere stato d'aiuto. Ci vollero un paio d'ore perché l'autorizzazione per la perquisizione fosse pronta, ma alle dieci erano davanti al diciassette di Malgerstraat. Reinhart, Moreno e Jung, oltre a una macchina con quattro tecnici e attrezzature per un quarto di milione di gulden. Tanto valeva fare le cose per bene, se dovevano essere fatte, era il parere di Reinhart. Aveva telefonato a Clausen due volte ogni ora a partire dalle sei e mezzo; Rooth, deBries e
Bollmert erano stati spediti al Nuovo Rumford per raccogliere ulteriori informazioni e la pioggia era cessata dieci minuti prima. Tutto era pronto per la grande operazione. «Alla luce del giorno ha un aspetto leggermente migliore» commentò Reinhart. «Su, andiamo adesso.» La serratura della porta d'entrata fu aperta da uno dei tecnici nel giro di trenta secondi e Reinhart entrò per primo. Si guardò intorno. Ingresso, cucina e grande soggiorno al pianterreno. Tutto aveva un aspetto piuttosto ordinario; non particolarmente in ordine, qualche tazza sporca, bicchieri e posate nel lavello in cucina. Soggiorno con divano e poltrone, libreria in tek, impianto stereo e un mobile massiccio fatto, gli sembrava, di quercia rossa. Televisore senza videoregistratore, ma con un notevole strato di polvere. Sul tavolino di cristallo fumé c'era un portafrutta con tre mele e qualche grappolo d'uva in condizioni pietose. Un «Neuwe Blatt» del giovedì precedente era aperto sul pavimento accanto a una delle poltrone. Giovedì? pensò Reinhart. Già quattro giorni. Si fa in tempo ad andare e venire dalla Luna un po' di volte. Salì le scale che portavano al piano di sopra. Jung e Moreno lo seguivano da vicino, mentre i tecnici erano occupati a portare dentro le loro attrezzature e a tenersi pronti nell'ingresso. Al primo piano c'erano tre stanze, delle quali una fungeva da studio con scrivania, computer e un paio di mensole un po' sbilenche, e una da ripostiglio per ogni genere di cianfrusaglie. La terza era la camera da letto; entrò e si guardò intorno. Grande letto matrimoniale con testata di pino. Il letto era stato rifatto con la tipica approssimazione maschile... un copriletto a grossi quadri multicolori era stato buttato sopra cuscini e coperte disposti in maniera irregolare. La riproduzione di un Van Gogh era appesa alla parete e non testimoniava certo un interesse artistico sviluppato. A Reinhart sembrava di avere visto quel motivo perfino sui barattoli del caffè. Indumenti di vario genere riempivano un cesto della biancheria sporca in plastica marrone ed erano sparsi tutt'intorno. Su entrambe le sedie laccate di bianco erano appesi camicie e maglioni. Su uno dei comodini c'erano due libri, un telefono e una radiosveglia... un cactus rinsecchito sul davanzale della finestra troneggiava fra due tende tirate per metà... la moquette beige era costellata da una fila di macchie scure. Reinhart richiamò l'attenzione di Jung e indicò il pavimento. «Lì» disse. «Di' che comincino da qui.» Mentre i tecnici portavano su i loro strumenti, Reinhart e Moreno anda-
rono in garage passando dalla cucina. C'era un'Audi rossa, vecchia a occhio e croce d'un paio d'anni e ordinaria come il resto della casa. Reinhart provò ad aprire la portiera. Non era chiusa a chiave. Si chinò e sbirciò all'interno, prima i sedili anteriori, poi quelli posteriori. Si raddrizzò e fece un cenno d'assenso a Moreno. «Quando hanno finito di sopra, penso che dovrebbero venire a dare un'occhiata a questo qui.» Aveva lasciato aperta la portiera posteriore e Moreno guardò dentro. «Può essere qualsiasi cosa» disse. «Non deve necessariamente trattarsi di sangue... qui come in camera da letto.» «Stronzate» ribatté Reinhart. «Chiaro che è sangue, lo capisco dall'odore. Cazzo, l'abbiamo beccato!» «Davvero?» disse Moreno. «Non è che ti sta sfuggendo qualcosa?» «E cosa?» «Sembra che il dottore manchi da casa. Da giovedì scorso, a quanto mi pare di capire.» «Grazie di avermelo ricordato» disse Reinhart. «Vieni, andiamo dai vicini, adesso.» Reinhart e Moreno rimasero a Boorkhejm fino alle dodici e mezzo, ora in cui il soprintendente Puijders, capo della scientifica, stabilì finalmente con una sicurezza del cento per cento - che si trattava di macchie di sangue sia in camera da letto sia in macchina, l'Audi rossa registrata a nome di Pieter Clausen. Stabilire se si trattasse di sangue umano e se appartenesse alla stessa persona avrebbe richiesto qualche ulteriore analisi. E per capire se fosse il sangue di Vera Miller ci sarebbero voluti sia il pomeriggio sia la sera. «Vieni» disse Reinhart a Moreno. «Qui non abbiamo più niente da fare. Ci penserà Jung a parlare con i vicini, spero che non siano tutti ciechi e sordi. Voglio sentire come vanno le cose all'ospedale, se c'è qualcuno che ci possa illuminare su dove sia andato a cacciarsi quel bastardo. Se l'analisi del sangue quadra, è sicuramente collegato al delitto, cazzo!» «Non intendevi ai delitti?» domandò Moreno, salendo in macchina. «Petitesse» disse Reinhart e sbuffò. «Dov'è? Dov'è stato da giovedì scorso? È per rispondere a queste domande che devi usare la tua vispa materia grigia, invece.» «All right» disse Moreno e sprofondò in riflessioni per tutto il tragitto fino alla centrale di polizia.
«Parto podalico» disse il dottor Brandt. «Primipara. C'è voluto un po', mi spiace che abbia dovuto aspettare.» «I parti podalici sono così» commentò Rooth. «Lo so perché anch'io sono nato così.» «Veramente?» disse Brandt. «Sì, certo a quei tempi ce n'erano meno. Di cosa mi voleva parlare?» «Forse potremmo scendere al bar» propose Rooth. «Così le posso offrire un caffè.» Il dottor Brandt aveva l'aria di essere sulla quarantina, ma era piccolo e mingherlino e si muoveva con un'impazienza giovanile che a Rooth fece venire in mente quella di un cucciolo. Era stato Jung a parlare con il dottore la volta precedente; Rooth non aveva avuto tempo di ascoltare la registrazione su nastro, ma sapeva che non aveva detto nulla sul dottor Clausen. Sempre che Jung non si fosse assopito durante il colloquio. Adesso comunque si trattava specificamente di Clausen, solo di Clausen, e Rooth arrivò subito al dunque non appena si furono seduti al traballante tavolino di vimini. «Il suo buon amico» disse. «Il dottor Clausen. È lui che ci interessa.» «Clausen?» fece Brandt, aggiustandosi gli occhiali. «E come mai?» «Lo conosce bene?» «Mah...» Brandt allargò le braccia. «Ci frequentiamo. Lo conosco fin da quando eravamo ragazzi, siamo andati a scuola insieme.» «Fantastico» commentò Rooth. «Mi racconti un po' di lui.» Il dottor Brandt lo guardò scettico. «Sono già stato interrogato una volta dalla polizia.» «Non riguardo a Clausen, mi sembra...» «No, e ho qualche difficoltà a capire perché state raccogliendo informazioni su di lui. Perché non gli parlate direttamente?» «Questo non la deve interessare» rispose Rooth. «È più semplice se io faccio le domande e lei risponde, mi creda. Cominci pure!» Brandt mantenne per un momento un silenzio dimostrativo, mentre mescolava il caffè. Piccolo borioso d'un ginecologo, pensò Rooth, e diede un morso al suo tramezzino al prosciutto. «Non lo conosco particolarmente bene» disse Brandt alla fine. «Facciamo parte di un piccolo gruppo che si incontra ogni tanto, tutto qui... un gruppo che è rimasto in contatto fin dai tempi della scuola. Ci chiamiamo Gli Angeli di Verhouten.»
«I cosa di Verhouten...?» «Angeli. Verhouten era un insegnante di matematica che avevamo alla Elementaar. Charles Verhouten, un autentico squinternato, ma a noi piaceva. Ottimo pedagogo, anche.» «Ah sì?» disse Rooth e cominciò a domandarsi vagamente se il medico che aveva di fronte avesse tutte le rotelle a posto. E comunque non vorrei proprio che mi aiutasse a venire al mondo, pensò. «Anche se il più delle volte ci chiamiamo solo I Fratelli. Siamo in sei e di solito usciamo a cena per fare quattro chiacchiere. Però abbiamo anche una specie di cerimoniale.» «Cerimoniale?» «Niente di serio, è soltanto uno scherzo.» «Ma davvero» disse Rooth. «Qualche esponente del gentil sesso?» «No, siamo soltanto uomini» rispose Brandt. «Si va un po' più a briglia sciolta, così.» Lanciò uno sguardo significativo a Rooth da sopra gli occhiali. Rooth ricambiò l'occhiata senza muovere un muscolo. «Capisco. Ma adesso ce ne infischiamo degli altri fratelli angeli e ci concentriamo su Clausen. Quando l'ha visto l'ultima volta, per esempio?» Brandt assunse un'aria un po' risentita, poi si grattò la testa e parve riflettere. «È passato un po' di tempo» constatò. «Abbiamo fatto una riunione venerdì scorso... al Canaille di Weivers Plejn... ma Clausen era ammalato e non è potuto venire. In effetti non lo vedo da un mese, direi. Dal penultimo incontro, sì...» «Non vi incontrate mai qui in ospedale?» «Molto raramente» rispose Brandt. «Lavoriamo parecchio lontano l'uno dall'altro. Clausen sta al blocco C e io... io sono in ostetricia, come sa.» Rooth rifletté un momento. «Come sta Clausen a donne?» domandò. «E lei, fra parentesi, è sposato?» Il dottor Brandt scosse energicamente la testa. «Sono single» disse. «Clausen è stato sposato qualche anno, ma non ha funzionato. Hanno divorziato. È successo cinque o sei anni fa, se ben ricordo.» «Sa se ha avuto qualche storia negli ultimi tempi? Se ha incontrato qualcuno di nuovo?» D'improvviso Brandt parve intuire dove voleva andare a parare. Si levò gli occhiali. Li ripiegò con cura e li infilò nel taschino del camice. Si chinò sopra il tavolo e cercò di puntare i suoi occhi miopi in quelli di Rooth. Avresti dovuto tenere gli occhiali, omuncolo, pensò Rooth finendo di
bere il caffè. Sarebbe stato più facile. «Ispettore... come ha detto che si chiama?» «Poirot» rispose Rooth. «No, sto scherzando. Mi chiamo Rooth.» «Caro ispettore Rooth» continuò Brandt imperturbabile. «Non mi piace dover stare qui ad ascoltare le sue insinuazioni su un collega e buon amico. Proprio per nulla. Le posso assicurare che il dottor Clausen non ha niente a che vedere con questa faccenda.» «A che cosa si riferisce?» chiese Rooth. «A... sì, alla storia dell'infermiera. Quella che è stata uccisa; non prendiamoci in giro, ho capito molto bene dove vuole andare a parare. Ma è completamente fuori strada. Lei non lavorava nemmeno nel nostro ospedale e Clausen non è proprio il tipo che corre dietro alle donne.» Rooth sospirò e cambiò argomento. «Sa se ha qualche parente stretto?» domandò. Brandt si lasciò andare contro lo schienale e sembrò valutare se rispondere oppure no. Le sue narici sottili fremevano, come se cercasse di fiutare quale decisione prendere. «Ha solo una sorella» disse. «Di un paio d'anni più vecchia, credo. Vive da qualche parte all'estero.» «Figli?» «No.» «E questa donna con cui era sposato? Come si chiama?» Brandt alzò le spalle. «Non mi ricordo. Marianne, forse... o qualcosa del genere.» «Cognome?» «Non ne ho idea. Clausen, si capisce, se poi aveva preso il suo cognome... anche se al giorno d'oggi non sempre lo fanno. E comunque adesso avrà senz'altro ripreso il suo cognome da nubile. Io non l'ho mai incontrata.» Rooth rifletté mentre lottava con un pezzetto di prosciutto che gli si era infilato fra due molari inferiori. «E perché non è venuto al lavoro oggi?» «Chi?» chiese Brandt. «Clausen, ovvio.» «Davvero?» disse Brandt. «Be', come cavolo faccio a saperlo io? Sarà il suo giorno libero. Oppure è ancora in malattia. Aveva l'influenza, ed è uno sbaglio credere che solo perché uno è medico debba essere immune da...» «Quell'uomo è scomparso» lo interruppe Rooth. «Lei non ha nessuna spiegazione migliore da proporre?»
«Scomparso?» ripeté Brandt. «Sciocchezze. Non ci credo neanche un po'. Lui non può di certo essere sparito così...» Rooth lo guardò storto e si mise in bocca l'ultimo angolo di tramezzino, benché il pezzetto di prosciutto fosse sempre lì. «Questi altri angeli... del vostro piccolo club... c'è qualcuno di loro che conosce Clausen un po' meglio?» Il dottor Brandt ripescò gli occhiali e se li mise di nuovo sul naso. «Smaage, forse.» «Smaage? Può essere così gentile da darmi il suo indirizzo e numero di telefono?» Brandt tirò fuori un piccolo bloc-notes e dopo un attimo Rooth aveva tutti i dati. Prese una zolletta di zucchero dalla ciotola che c'era sul tavolo e pensò a come poteva ringraziare per l'aiuto. «A posto, finito» disse. «Credo che sia ora che lei vada a far nascere altri bambini adesso... non voglio trattenerla oltre.» Gli Angeli di Verhouten? pensò. All'inferno. «Grazie» disse Reinhart. «Grazie per l'aiuto, direttore Haas.» Riattaccò e guardò Moreno accennando quello che sembrava un sorriso. «Sentiamo» disse Moreno. «Mi sembra di cogliere una certa soddisfazione nell'espressione del nostro segugio.» «Non senza motivo» ribatté Reinhart. «Indovina chi è andato alla Spaarkasse a prelevare duecentoventimila gulden giovedì scorso?» «Clausen?» «Esatto. È andato a ritirare il denaro alla filiale di Keymer Plejn subito dopo pranzo. In contanti! Mi hai sentito? Duecentoventimila addirittura... ogni stramaledetto pezzo del puzzle sta andando al suo posto.» Moreno rifletté. «Giovedì» disse. «Oggi è martedì.» «Lo so» disse Reinhart. «Lo sa Dio cos'è successo, e lo sa Dio dove si è cacciato. Ma ormai la segnalazione è stata diramata, perciò prima o poi lo becchiamo.» Moreno si mordicchiò il labbro con aria dubbiosa. «Non ne sarei così sicura» disse. «A che cosa dovevano servirgli tutti quei soldi?» Reinhart esitò qualche secondo mentre fissava la sua pipa. «Alla banca ha tirato fuori una storia su una certa barca. È piuttosto chiaro... be', pensava di pagare il ricattatore, è ovvio.» «E tu dai per scontato che l'abbia fatto?» domandò Moreno. «Perché sarebbe sparito, allora?»
Reinhart fissò di malumore le pile di nastri che c'erano ancora sulla scrivania. «Spiegamelo tu!» disse. Moreno restò un momento in silenzio mentre succhiava una biro. «Se aveva deciso di pagare» disse alla fine, «e l'ha fatto veramente... ecco, allora non aveva nessun motivo di correre a nascondersi. Dev'essere successo qualcos'altro. Non so cosa, ma questa storia sembra illogica. Non può essere così semplice, non può aver pagato e basta. Sant'Iddio, duecentomila non sono una somma qualsiasi.» «Duecentoventi» borbottò Reinhart. «No, hai ragione, ovviamente, ma se riusciamo a beccarlo, è probabile che otterremo anche una spiegazione.» Bussarono e Rooth entrò a lunghe falcate con in mano una tavoletta di cioccolata. «Pace» esordì. «Volete sentire dell'ostetrico e degli angeli?» «Perché no?» disse Reinhart e sospirò. Rooth impiegò un quarto d'ora a riferire la conversazione con il dottor Brandt. Reinhart prese appunti mentre ascoltava e poi diede ordine a Rooth di andare a cercare gli altri «fratelli» per procurarsi ulteriori informazioni sulla personalità di Pieter Clausen. Oltre che su quanto aveva fatto nell'ultimo mese. «Cerca di contattare anche Jung e deBries» aggiunse Reinhart. «Così prima di sera avrete finito. Inizia con questo Smaage, naturalmente.» Rooth annuì e lasciò la stanza. Sulla porta incrociò Krause. «Avete tempo?» chiese quest'ultimo. «Ho controllato una certa informazione nel pomeriggio.» «Davvero?» disse Reinhart. «E di che informazione si tratta?» Krause si sedette di fianco a Moreno e aprì un bloc-notes con una certa solennità. «Van Veeteren» disse. «Ha telefonato stamattina per lasciare un suggerimento.» «Un suggerimento?» chiese Reinhart scettico. «Il commissario ha telefonato per dare a te un suggerimento?» «Esatto» rispose Krause e non poté fare a meno di stiracchiarsi. «Ci ha tenuto a sottolineare che forse non era molto importante, ma ho fatto comunque un po' di ricerche.» «Vieni al dunque o prima gradisci un gelato?» chiese Reinhart. Krause si schiarì la gola. «Si tratta di un nome» disse. «La fidanzata di Erich Van Veeteren... Marlene Frey... ha trovato un foglietto con su scritto
un nome di cui si è dimenticata di parlarci. Un paio di giorni fa, a quanto pare.» «Che nome?» domandò Moreno in tono neutro prima che Reinhart facesse in tempo a interromperlo di nuovo. «Keller» rispose Krause. «Si scrive con la 'k'. Era solo un cognome segnato su un pezzetto di carta. Erich l'ha scritto di fretta qualche giorno prima di morire, probabilmente, e non era uno di quelli segnati nel suo indirizzario. In ogni caso, esistono solo ventisei persone che si chiamano Keller nell'elenco telefonico di Maardam, e sono loro che ho controllato... se non altro, perché il commissario voleva che lo facessi.» «E...?» fece Reinhart. «Credo che uno potrebbe essere interessante.» Reinhart si chinò in avanti sulla scrivania e digrignò i denti. «Chi?» chiese. «E perché sarebbe interessante?» «Si chiama Aron Keller. Lavora in ortopedia al Nuovo Rumford... al laboratorio delle protesi, se ho capito bene. E abita a Boorkhejm.» Reinhart aprì la bocca per dire qualcosa, ma Moreno lo precedette. «Hai parlato con questo tizio?» Avrebbe potuto giurare che Krause fece una pausa a effetto prima di rispondere. «No. Nessuno sa dove sia. Manca dal lavoro da venerdì scorso.» «Porca puttana!» esclamò Reinhart, facendo cadere le diciotto cassette sul pavimento. «L'indirizzo è Malgerstraat 13» aggiunse Krause. Strappò una pagina dal suo blocco, la passò all'ispettore Moreno e lasciò la stanza. 32 La perquisizione dell'appartamento di Aron Keller al tredici di Malgerstraat iniziò quasi ventiquattr'ore dopo quella del numero diciassette. Come previsto fu una faccenda piuttosto rapida. I tecnici terminarono il lavoro alle dodici e mezzo, e dopo non c'era più nulla che giustificasse ancora la presenza di Reinhart e Moreno. Ma si fermarono un altro paio d'ore, per trovare, se possibile (si intestardì Reinhart - e senza altra attrezzatura che i nostri stramaledetti sensi, ispettore!) qualche segno che potesse dare un'indicazione di cosa fosse successo al solitario inquilino. E di dove fosse andato a finire. Non era un compito facile. A quanto pareva, Keller non era più stato in casa dal venerdì della settimana precedente; poteva addirittura essersi al-
lontanato, o essere scomparso, già durante la notte di giovedì; non era abbonato a nessun quotidiano, ma una certa quantità di posta riempiva intatta la cassetta di metallo all'interno della porta, e le piante in vaso in camera da letto e in cucina erano secche e mezzo morte. I due grandi ibischi nel bovindo del soggiorno sembravano essersela cavata meglio, ma erano anche collegati a un sistema di irrigazione che necessitava di essere riempito una sola volta alla settimana. Questo in ogni caso era quanto affermava Moreno, che aveva un congegno simile nel suo bilocale di Falckstraat. Per il resto, nell'appartamento regnava un ordine quasi meticoloso. Niente piatti sporchi in cucina. Niente vestiti sparsi per terra, né in camera da letto, né da nessun'altra parte. Niente giornali, niente posacenere da vuotare, niente oggetti fuori posto. I pochi libri nella libreria, cassette e CD (per tre quarti country, constatò Reinhart con disgusto, il resto era musica leggera in edizione economica) accuratamente disposti in file ordinate. Due paia di scarpe lustre nella scarpiera all'ingresso, una giacca e un soprabito sull'attaccapanni... e la scrivania ordinata come la vetrina di un negozio di forniture per ufficio. Lo stesso valeva per armadi, cassetti e comò; l'unica cosa di cui Reinhart sentiva la mancanza erano delle piccole etichette che indicavano il posto destinato a ogni cosa... anche se, dopo vent'anni di abitudine, probabilmente non c'era bisogno di nessuna etichetta, si rese conto a una più attenta riflessione. Di Aron Keller come persona - oltre al fatto che era un fanatico dell'ordine - si poteva dedurre che nutriva un certo interesse per lo sport. In particolare per il calcio e l'atletica leggera. C'erano vari libri sul calcio (annali con dorsi rossi e verdi a partire dal 1973) bene in vista nella libreria, e parecchie annate del mensile «Sportfront» erano impilate in una cassetta della birra dentro uno degli armadi. L'ultimo numero era sul tavolo della cucina e con ogni probabilità normalmente accompagnava la prima colazione del signor Keller. O almeno questa fu la conclusione cui giunse Reinhart con uno sbuffo d'irritazione. Accanto al telefono sulla scrivania in camera da letto c'era un indirizzario che conteneva un totale di ventidue nomi. Tre di questi erano Keller, nessuno di loro abitava a Maardam (due a Linzhuisen, uno a Haaldam), e Reinhart decise di rimandare la questione dell'esatto rapporto di parentela a più tardi. «Quest'uomo deve avere la testa quadrata» disse. «Trovarlo non sarà un problema.»
Moreno non fece commenti. Nonostante la palese mancanza di indizi, si trattennero fin dopo le tre. Frugarono in tutti i cassetti, gli armadi e gli angoli senza sapere davvero cosa stessero cercando. Reinhart trovò anche una chiave, contrassegnata dall'etichetta RIPOSTIGLIO, e passò un'ora in soffitta fra vecchi indumenti, scarpe e stivali, racchette da tennis, mobili assortiti e una fila di scatoloni contenenti fumetti degli anni Sessanta. Moreno faceva fatica a capire perché perquisissero l'appartamento in quella maniera arbitraria, ma fece buon viso a cattivo gioco. Non aveva idea di dove li avrebbe condotti, ma sapeva che probabilmente avrebbe preso la stessa decisione... se fosse stata lei a comandare. «Uno non sa cosa sta cercando prima di averlo trovato» aveva detto Reinhart, soffiandole in faccia una nuvola di fumo. «E questo vale in molti contesti, cara signorina ispettore, non solo qui e adesso!» «Lei è davvero saggio, signor commissario» aveva ribattuto Moreno. Alle tre meno un quarto arrivò la ricompensa. Lei aveva rovesciato il cestino della carta straccia (che era sotto la scrivania; solo carta, è ovvio, niente che potesse marcire come torsoli di mela, filtri del tè o bucce di banana) sul pavimento del soggiorno e aveva cominciato a esaminare senza troppo entusiasmo il contenuto, quando lo trovò. Un foglio formato A4 appallottolato, strappato da un blocco a spirale. Probabilmente quello che c'era sulla mensola a destra della scrivania. Spiegò il foglio, lo lisciò e lesse: CINQUE SETTIMANE DA QUANDO HA UCCISO IL RA. Tutto qui. Solo sette parole. Sette e mezzo. Scritte in stampatello in una grafia ordinata, anonima e con l'inchiostro blu. Fissò il breve messaggio incompleto e rimase due minuti a riflettere. Ra? pensò. Che cosa significa ra? Poteva essere qualcosa di diverso da «ragazzo»? Chiamò Reinhart che nel frattempo era sceso dalla soffitta e stava imprecando con la testa infilata dentro uno degli armadi della camera da letto. «Allora?» disse Reinhart. «Cos'hai trovato?» «Questo qui» rispose Moreno, allungandogli il foglio. Lui lesse il testo e poi la guardò confuso. «Ra?» disse. «Che cazzo significa ra? Ragazzo?» «Probabile» disse Moreno. «Dicevi che ci mancava il primo anello. Credo che l'abbiamo trovato.»
Reinhart guardò il foglio spiegazzato e si grattò la testa. «Hai ragione» disse. «Ragione da vendere, cazzo. Vieni adesso, direi che è ora di fare un piccolo consiglio di guerra.» La riunione fu breve e senza vino né torte salate. Non c'era più nessun bisogno di divagazioni... dal momento che la nebbia aveva finalmente cominciato a diradarsi, spiegò Reinhart. La nebbia intorno ai casi Erich Van Veeteren-Vera Miller. Era ora di cominciare a vederci chiaro e di agire. Non c'era più bisogno di congetture che facevano solo perdere tempo. Niente teorie e niente ipotesi, adesso sapevano di cosa si trattava e cosa dovevano cercare. Era ora di... ora di chiudere il laccio intorno alle persone implicate. Intorno a Pieter Clausen e ad Aron Keller. L'assassino e il suo ricattatore. L'unico problema era che il laccio con ogni probabilità sarebbe andato a vuoto, una volta che l'avessero tirato, fece notare Rooth mentre scartava con cura un cioccolatino. «Sì, è una maledettissima storia» ammise Reinhart. «E siamo ben lontani dall'essere arrivati in porto, questo dobbiamo averlo ben chiaro, ma la nostra ipotesi non era poi tanto assurda, a ben vedere. Keller controllava Clausen in qualche modo e voleva essere pagato per non smascherarlo. La prima volta ha mandato il giovane Van Veeteren a ritirare il denaro... con il risultato che sappiamo. In che modo fosse implicata Vera Miller lo sa il cielo, ma in casa di Clausen abbiamo trovato capelli e altro che è possibile far risalire a lei... e tracce di sangue, sia in camera da letto sia sulla macchina. È chiaro come il sole. Lui l'ha ammazzata nello stesso modo in cui ha ammazzato Erich Van Veeteren.» «Che collegamento abbiamo fra Keller ed Erich?» chiese deBries. «Deve pur essercene uno.» «Ancora non lo sappiamo» rispose Reinhart. «Quell'aspetto è ancora in sospeso. E, come si diceva, non è l'unico. Clausen e Keller sono scomparsi. Nessuno dei due sembra essere stato visto da giovedì della settimana scorsa... e proprio giovedì Clausen ha prelevato duecentoventimila gulden dalla banca. Quel giorno dev'essere successo qualcosa, forse in tarda serata, ma dobbiamo scoprire cosa... e dobbiamo trovarli, si capisce.» «Dead or alive» disse Rooth. «Dead or alive» concordò Reinhart dopo aver riflettuto un attimo. «Due tipi piuttosto simili in effetti, questi signori, a guardarli un po' più attenta-
mente. Uomini soli che si avvicinano alla mezz'età, senza molte amicizie. Keller è un autentico lupo della steppa. Bollmert e deBries si occuperanno di scoprire se aveva conoscenze. I suoi colleghi di lavoro non avevano molto da dire di lui... o sbaglio?» «Vero» confermò Rooth. «Non sono più di otto che lavorano al laboratorio gambe di legno, ma tutti affermano che Keller è una testa dura.» «Dicono veramente così?» domandò Jung. «Loro non si esprimono così educatamente come me» rispose Rooth. «Ma il senso è quello.» Reinhart fece girare una copia del messaggio che Moreno aveva trovato nel cestino di Keller. «Che cosa riuscite a cavare da questo?» domandò. «L'abbiamo trovato in casa di Keller.» Seguì un momento di silenzio. «Che cosa significa ra, secondo voi?» chiese Reinhart. «Ragazzo» rispose deBries. «Non credo che ci siano molte alternative.» «Ci sono invece» protestò Rooth. «Un sacco... rabbino, radiocronista, rabdomante...» «Rabdomante?» disse Jung. «E chi cazzo sarebbe?» «Uno che scopre le sorgenti d'acqua con la bacchetta» disse Rooth. «Ma ci sei andato a scuola o no?» «Ingegnoso, signor detective» commentò Reinhart. «Ma non mi sembra di ricordare che un rabdomante sia stato ammazzato di recente. O un rabbino o un radiocronista, del resto, come nessun rappresentante o nessun rapsodista... sì, ci sono parecchie altre possibilità, bisogna riconoscerlo, ma stabiliamo in maniera preliminare che significa ragazzo, è senza dubbio la soluzione più credibile. E allora possiamo dare per certo che Clausen abbia ucciso un ragazzo intorno ai primi di novembre, e che questa sia la radice di tutto. Non sappiamo di preciso quando Keller abbia scritto questa minuta, ma se ci indirizziamo su un fatto avvenuto a cavallo fra ottobre e novembre... una settimana prima e dopo... possiamo vedere cosa emerge.» «Non può riferirsi a Erich Van Veeteren?» domandò deBries. Reinhart rifletté un secondo. «Difficile» rispose. «Lui aveva quasi trent'anni. E il periodo non quadra... diverse settimane da quando ha ucciso il ra... no, è escluso.» «All right» disse deBries. «... radioamatore, raccattapalle, rampollo...» sciorinò Rooth, senza riuscire ad attirare l'attenzione di nessuno. «Ha ucciso il ragazzo...» disse Jung. «Dobbiamo pur sapere se qualcuno
è stato ammazzato intorno a quel periodo. Difficilmente può esserci sfuggito... almeno se è successo qui nel distretto.» «Non necessariamente dev'essere successo a Maardam» commentò Moreno. «E non necessariamente dev'esserci stato un crimine. Può essersi trattato di qualcos'altro. Qualcosa accaduto all'ospedale che lui ha cercato di nascondere sotto il tappeto. Clausen, intendo. Riuscendoci, quasi.» «No, l'ospedale no!» esclamò Rooth. «Mi fa star male.» Ci fu qualche secondo di silenzio. «Non sarà mica un chirurgo, quel Clausen?» chiese deBries. «Uno che opera?» Reinhart controllò i dati su un foglio. «Medicina interna» rispose. «È senz'altro possibile far fuori la gente anche in quella branca. Per negligenza, per esempio... dobbiamo scoprire quali decessi si sono verificati nel suo reparto nel periodo in questione. Rooth e Jung torneranno al Rumford; dovrebbe essere sufficiente parlare con il primario. Date un'occhiata a qualche cartella clinica, magari.» «Ragazzo che sia morto all'improvviso?» domandò Jung. «Giovane paziente di sesso maschile che sia morto durante la notte» lo corresse Rooth. «Nonostante massicci interventi. Quelli hanno un dannato spirito di corpo, non dimentichiamolo... E comunque è meglio che sia tu a parlare con Leissne. Noi due abbiamo un po' cozzato.» «Ma cosa mi dici?» fece Jung. «Non ci posso credere.» «E che cosa dovremmo fare noi adesso?» volle sapere Moreno quando i colleghi se ne furono andati. Reinhart puntò le mani contro la scrivania e raddrizzò la schiena. «Io ho un appuntamento con un certo Oscar Smaage» rispose. «Segretario permanente degli Angeli di Verhouten. Tu rimani qui e controlli se abbiamo qualche decesso poco chiaro. Scomparse, anche... in effetti non è per nulla sicuro che abbia a che vedere con l'ospedale, anche se molti elementi lo portano a credere.» «All right» disse Moreno. «Spero che Smaage abbia qualche informazione da darci, anche se non so quale potrebbe essere. Ho l'impressione che tutto ruoti intorno a un'unica cosa, in realtà.» «Giovedì?» disse Reinhart. «Sì. Che cavolo è successo giovedì sera? Sembra evidente che lui avrebbe dovuto consegnare il denaro. Tu cosa ne pensi?» «Sono d'accordo» rispose Reinhart. «Sarebbe strano se non saltasse fuori
qualcuno che ha avuto loro notizie - almeno da uno di loro - dopo quel momento. Probabilmente dobbiamo soltanto aspettare. Avere pazienza... Non ce l'ha raccomandato qualcuno un po' di tempo fa?» «Credo che ti sbagli» rispose Moreno. Impiegò meno di un'ora per fare centro. Sentì istintivamente di averlo trovato, quando il nome comparve sullo schermo del computer. Il cuore fece un battito extra e i peli degli avambracci le si rizzarono, e questi di solito erano segnali sicuri. I segni esteriori dell'intuizione femminile. O almeno della sua. Wim Felders, lesse. Nato il 17.10.1982. Deceduto il 5.11.1998. O forse il 6. Scoperto da un ciclista che transitava sulla strada 211 fra Maardam e il sobborgo di Boorkhejm intorno alle sei del mattino. L'indagine, condotta dalla polizia stradale (responsabile il commissario Lintonen), aveva dimostrato che il ragazzo era stato investito da un veicolo e che era morto in seguito all'urto contro un condotto di cemento sul margine della carreggiata. Era stato diramato un avviso di ricerca su tutti i media, ma senza risultato. Nessun testimone della disgrazia. Nessun sospetto. Nessuna indicazione. Il pirata della strada era fuggito e non si era fatto avanti. Si ricordava il fatto. Rammentava di averlo letto sui giornali e di aver visto dei servizi ai notiziari della tivù. Il sedicenne stava tornando a casa, a Boorkhejm. Era andato a trovare la sua ragazza che abitava in centro e probabilmente aveva perso l'ultimo autobus. Camminava sul ciglio della strada, il tempo era brutto, pioveva e c'era anche la nebbia, ed era stato investito da un automobilista che poi era fuggito dal luogo dell'incidente. Poteva essere stato chiunque. Poteva essere stato Clausen. Keller poteva essere arrivato subito dopo e aver visto tutto. Oppure essere stato seduto accanto a Clausen sul sedile del passeggero, se magari si conoscevano... anche se finora non era emersa nessuna indicazione in tal senso. Un incidente stradale? Era una possibilità, certamente. Quando cominciò a valutare quanto potesse essere verosimile, si accorse che le era difficile formulare un giudizio. Forse era soltanto una vaga idea, ma non aveva nessuna importanza. Il filo andava seguito finché si spezzava. A intuito sapeva che era andata proprio così. Aveva scoperto il primo
anello della catena. Senza dubbio. Vide che ormai erano le cinque e mezzo e si domandò che cos'avrebbe dovuto fare. Decise di andare a casa e di chiamare Reinhart più tardi. Se fossero riusciti a stabilire che Clausen si era spostato in macchina dal centro città in quella data e a quell'ora... con l'aiuto della ragazza di Wim Felders sapevano che l'incidente era avvenuto subito prima di mezzanotte... sì, allora ogni dubbio sarebbe stato fugato. Come fosse possibile collegare Clausen con quel tragitto in macchina era ancora un enigma, ma se già era stato collegato ad altri due omicidi, la cosa forse non aveva troppa importanza. D'altro canto, se era stato in centro a Maardam quella sera, doveva pur avere incontrato qualcuno... Qualcuno che potesse testimoniare. Purché non Vera Miller, pensò. Oppure quegli Angeli, come cavolo si chiamavano? Di Verhouten...? Più importante di tutto però era riuscire a trovare Clausen. Naturalmente. E Keller. Tirate queste conclusioni, Ewa Moreno spense il computer e se ne andò a casa. Da qualsiasi prospettiva lo si guardasse, quel giorno le sembrava di aver fatto un buon lavoro. 33 Aveva appena finito di parlare con Reinhart quando suonarono alla porta. Le otto e mezzo, pensò. Che cavolo...? Era Mikael Bau, il vicino del piano di sotto. «Ti andrebbe un boccone?» le chiese con un'aria un po' triste. Bau era sulla trentina e aveva traslocato in Falckstraat solo un paio di mesi prima. Non poteva dire di conoscerlo. Si era presentata una volta che si erano incrociati sulle scale, ma da allora si erano soltanto scambiati un saluto quando si erano visti per caso. Tre o quattro volte in tutto. Lui aveva decisamente un bell'aspetto, l'aveva notato subito. Alto, biondo, con gli occhi azzurri. E con un sorriso che sembrava avere qualche difficoltà a stare lontano dalle labbra. Adesso però era molto serio. «Ho preparato uno stufato» continuò. «Tipo boeuf bourguignon, è già pronto, quindi se non ti dispiace...» «È un invito un po' inaspettato» disse Moreno.
«Suppongo di sì» disse Bau. «Non era esattamente mia intenzione invitarti, ma la mia fidanzata mi ha mollato prima che ci mettessimo a tavola. Adesso non pensare che...» Non trovò un seguito adeguato. E nemmeno Moreno. «Allora grazie, accetto volentieri» disse invece. «In effetti oggi non ho ancora mangiato, se non ricordo male... Mi dai un quarto d'ora per fare una doccia, prima? Gli stufati non sono difficili da tenere in caldo.» Adesso lui sorrideva. «Bene» disse. «Ti aspetto da me fra un quarto d'ora.» Si avviò per le scale e Moreno richiuse la porta. È così che succede? si domandò, ma cancellò subito il pensiero. Oltre alle sue qualità esteriori, Mikael Bau dimostrò anche di possedere ottime doti di cuoco. Moreno mangiò lo stufato di gusto, e il sorbetto al limone che seguì aveva la giusta leggerezza acidula che si trova nelle ricette, ma raramente nella realtà. Un uomo che sa cucinare? pensò. Non mi era mai capitato prima. Deve avere qualche scheletro nell'armadio. Aveva una gran voglia di chiedergli perché la fidanzata avesse voluto chiudere, ma non si presentò mai l'occasione giusta per una domanda così personale, e lui non riprese più l'argomento. Invece parlarono del tempo, della casa e dei vicini. Oltre che delle rispettive professioni. Bau lavorava come segretario all'assistenza sociale, quindi avevano qualche punto di contatto. «Sa il cielo perché abbia scelto il lato in ombra» disse. «Non sto dicendo che mi trovo male, ma credo che oggi non punterei su questo genere di lavoro. E tu perché sei entrata in Polizia?» Ewa Moreno si era posta questa domanda così tante volte che non sapeva più se ci fosse una risposta. O se ci fosse stata. Era andata com'era andata, semplicemente, e sospettava che fosse così per un sacco di gente. La vita andava come andava. «Credo che buona parte delle cose che ci capitano siano guidate dal caso» disse. «O da decisioni valutate non molto attentamente. Noi abbiamo meno controllo di quanto ci immaginiamo... il fatto che fingiamo di averlo è un'altra cosa.» Bau annuì e assunse un'aria pensierosa. «Anche se forse finiamo comunque nel posto più adatto a noi» disse. «Ho letto di questa teoria delle palle da biliardo un po' di tempo fa... la conosci? Tu rotoli sopra un tappeto
verde e uniforme, in mezzo a molte altre palle. La velocità e la direzione sono date, ma non si riesce a calcolare in anticipo quello che succederà quando ci scontriamo e cambiamo direzione. Tutto è prestabilito, ma noi non possiamo prevederlo, ci sono troppe variabili... sì, insomma, qualcosa del genere.» A lei tornò in mente quello che diceva sempre il commissario e non poté fare a meno di sorridere. «Certi disegni» disse. «Si dice che esistano certi disegni che noi non scopriamo... se non dopo. Allora diventano chiarissimi. Ricorda un'indagine di polizia, in effetti. Tutto diventa più chiaro quando si può procedere all'inverso.» Bau annuì di nuovo. «Anche se non si può andare all'indietro» disse. «Nella vita, voglio dire. È quello il problema. Un altro goccio di vino?» «Mezzo bicchiere» rispose Moreno. Quando guardò l'ora per la prima volta, era mezzanotte meno un quarto. «Santo cielo» esclamò. «Non devi andare al lavoro domani?» «Certo» rispose Bau. «Noi sul lato in ombra non riposiamo mai.» «Grazie per la bella serata» disse Moreno, alzandosi. «Prometto di ricambiare, ma credo che dovrò esercitarmi un po', prima.» Bau l'accompagnò all'ingresso e la abbracciò in modo discreto nel congedarsi. Un quarto d'ora dopo, a letto, lei pensò a quanto poteva essere piacevole avere un buon rapporto di vicinato. Poi pensò a Erich Van Veeteren. Doveva essere stato più o meno coetaneo di Bau, e anche suo. Forse di qualche anno più giovane, finora non ci aveva mai pensato. E gli altri? Vera Miller aveva compiuto trentun anni e Wim Felders era arrivato solo a sedici. Quando si usciva dal ristretto orizzonte del buon vicinato, era tutta un'altra storia. Reinhart fu svegliato da Joanna che gli stava tirando il labbro inferiore. Era seduta sul suo stomaco con un sorriso beato sulle labbra. «Papà dorme» diceva. «Papà sveglio.» La sollevò sulle braccia tese. La piccola rise deliziata, facendogli colare un filo di saliva sulla faccia. Buon Dio, pensò. È meraviglioso! Sono le sei del mattino e la vita è già in moto!
Si domandò perché la stanza fosse così luminosa, ma poi gli venne in mente che sua figlia aveva giusto imparato a premere gli interruttori e si esercitava volentieri in questa nuova abilità. La depose accanto a Winnifred e si alzò. Vide che tutte le luci dell'appartamento erano accese e fece il giro per spegnerle. Ben presto Joanna lo seguì trotterellando, mentre balbettava qualcosa a proposito degli orsi. O forse degli ossi: aveva il ciuccio in bocca ed era difficile capire che cosa stesse dicendo. Lui la portò con sé in cucina e cominciò a preparare la colazione. Arrivato a metà si ricordò quello che aveva sognato. O piuttosto quello che gli era passato per la mente a un certo punto della notte, nel dormiveglia. Si erano dimenticati di cercare Keller. Merda, pensò. Sollevò Joanna e la sistemò nel seggiolone. Le mise davanti un piatto con banana schiacciata e yogurt e andò nello studio a telefonare alla centrale. Impiegò qualche minuto per sistemare tutti i dettagli, ma un po' alla volta Klempje, che era di guardia, sembrò capire. L'avviso di ricerca sarebbe stato diramato senza indugi, lo giurava sul proprio onore. Non sono sicuro che tu ce l'abbia, pensò Reinhart, ma ringraziò comunque e riattaccò. Negligenza, pensò poi. Come cazzo si fa a dimenticarsi di una cosa del genere? Due ore dopo era pronto per andare al lavoro. Winnifred si era appena alzata: a lui sembrò una dea riposata e per un attimo valutò l'idea di rimanere a casa ancora un momento per fare l'amore. In linea di principio non era impossibile. Joanna avrebbe fatto presto un sonnellino e la baby-sitter sarebbe arrivata soltanto dopo pranzo. Poi si ricordò di come stavano le cose. Aprì la vestaglia della moglie e l'abbracciò. Lei lo morsicò piano sul collo. Lui le restituì il morso. Doveva bastare. Si infilò il cappotto. «Sarai libero come pensavi?» gli domandò lei quando fu sulla porta. «Nie ma problemu» disse Reinhart. «È polacco e significa che avremo concluso tutto fra tre giorni. Tre giorni al massimo.» Su questo il commissario Reinhart s'illudeva un po', ma gli era già successo in passato. L'importante era che non lo facesse Winnifred. Dopo che Moreno gli ebbe riferito nei dettagli il resoconto dell'incidente di cui era stato vittima Wim Felders, Reinhart telefonò a Oscar Smaage,
con il quale aveva parlato il pomeriggio precedente. Smaage lavorava come redattore di cronaca al «Telegraaf» e rintracciarlo non era molto difficile. «Ieri mi sono dimenticato una cosa» esordì Reinhart. «Riguardo a Clausen. Mi chiedevo se per caso non abbiate fatto una delle vostre riunioni il...» Fece un cenno a Moreno che gli allungò un foglio con la data precisa. «... 5 novembre? Voi Angeli. Era un giovedì. È in grado di aiutarmi?» «Un istante» rispose prontamente il redattore Smaage, e Reinhart sentì che sfogliava qualcosa. Una possibilità su dieci, valutò rapido mentre aspettava. Al massimo. Eppure sapeva che non avrebbe esitato a puntare su quella. «Quadra» disse Smaage. «Giovedì 5 novembre. Siamo stati al Ten Bosch. Erano presenti tutti i Fratelli, una serata piacevole...» «So che è chiedere molto» continuò Reinhart. «Ma vorremmo sapere a che ora Clausen è andato a casa. All'incirca...» Smaage scoppiò a ridere nella cornetta. «Come?» disse. «No, non ne ho la più pallida idea. Verso le undici e mezzo, mezzanotte, probabilmente, di solito non facciamo molto tardi. Suppongo che non valga la pena domandare perché vogliate...?» «Esatto» tagliò corto Reinhart. «Grazie per l'informazione.» Riattaccò e tirò fuori la pipa. «Per una volta la fortuna è dalla nostra parte» disse. «Quadra. Mi venga un colpo se non quadra! Clausen può benissimo avere investito quel ragazzo, l'orario coincide... per cui questo sarebbe il fatto che sta alla radice di tutto. Cazzo, è proprio triste, a pensarci.» «Cosa è triste?» chiese Moreno. «Non lo capisci? C'è una semplice disgrazia alla base di tutto questo casino. La morte di Erich Van Veeteren. Quella di Vera Miller... e, sì, quello che può essere successo dopo giovedì scorso. Soltanto una comune disgrazia, e poi l'ingranaggio si muove...» Moreno pensò a quello di cui aveva parlato con il suo vicino di casa la sera precedente. Del caso e dei disegni, sfere che si scontrano o non si scontrano. Cambi di direzione improvvisi... l'effetto farfalla? «Sì» disse. «È sorprendente. Anche se dobbiamo investigare su questa cosa un po' più da vicino. Per ora è soltanto una possibilità, in fondo... ma anch'io sono convinta che tutto torni. Abbiamo ancora qualcuno al Rumford? Sarebbe il caso di ridurre le risorse. Almeno per quel che riguarda Clausen.» Reinhart annuì. Accese la pipa e cominciò a cercare in mezzo a dei fogli.
«Si tratta di questi due bastardi» borbottò. «Clausen e Keller. Tre morti, finora... e sono scomparsi tutti e due. Dannatissima storia.» Continuò a scartabellare e infine trovò il foglio che stava cercando. «Su Keller nessuno ha avuto niente da dire» constatò. «Un autentico eremita. Abbastanza adatto come ricattatore, a ben pensarci... il tipo giusto, direi.» Moreno aveva qualche riserva su questa grossolana semplificazione, ma non fece in tempo a esprimerla, perché in quel momento l'aspirante Krause mise dentro la testa. «Scusate» disse, «ma abbiamo appena ricevuto un fax importante.» «Ma davvero» fece Reinhart. «E di che cosa si tratta?» «Viene dall'aeroporto» rispose Krause. «Sembra che Aron Keller abbia preso un aereo sabato scorso, nel pomeriggio.» «Un aereo?» ripeté Reinhart. «E per dove?» «New York» disse Krause. «È partito da Sechshafen alle 14.05. British Airways.» «New York?» esclamò Reinhart. «Ci mancava anche questa.» 34 Durante il resto della giornata non successe niente, tranne che cominciò a nevicare. O almeno così sembrò a Reinhart. Nevicava, e qualcosa gli era sfuggito di mano. Rimase per ore nel suo ufficio e ogni volta che guardava fuori della finestra vedeva solo quei fiocchi turbinanti scendere sulla città. Per un po' rimase anche in piedi accanto ai vetri a osservare lo spettacolo. Stava lì a fumare con le mani nelle tasche dei calzoni e pensava al commissario. A quello che gli aveva promesso all'inizio dell'inchiesta e al fatto che era stato molto vicino a mantenere quella promessa. O forse no? Forse non era mai stato vicino? E com'era la situazione adesso? Cos'era successo fra Clausen e Keller? Credeva di conoscere la risposta, ma si rifiutava di tirarla fuori e di guardarla. Non ancora, non ancora. Forse soprattutto pensando al commissario e alla promessa che gli aveva fatto... sì, a una più attenta riflessione era proprio per quello. Subito dopo pranzo ritornò Moreno, stavolta con Bollmert e deBries al seguito. Si sedettero e cominciarono a riferire com'era andato l'inventario della cerchia delle frequentazioni di Keller. Proprio come temevano non c'era nessuno. Nessuno fra le persone elencate nell'indirizzario - quella
dozzina che era stato possibile contattare - aveva dichiarato di essere intimo amico del suo proprietario. Alcuni non sapevano nemmeno chi fosse Aron Keller e non riuscivano a capire come fossero finiti nella sua agenda. Alla fine soltanto due persone riconobbero di avere una qualche relazione con lui: le sue due sorelle di Linzhuisen. Con tutta franchezza, spiegarono - ognuna per proprio conto - che il fratello era un individuo inguaribilmente noioso e solitario, ma che comunque di solito facevano a turno nell'invitarlo a casa propria. Ogni tanto. Una volta l'anno, più o meno. Per Natale, sì. Alle volte veniva, altre no. Riguardo alla vita di Keller, non avevano molto da raccontare. Era stato un po' strano fin da quando, all'età di dieci anni, era caduto da un trattore e aveva battuto la testa. Forse anche da prima. Un tempo era stato sposato con una donna cocciuta quanto lui, ma era finita dopo neanche sei mesi. Si chiamava Liz Vrongel e probabilmente si chiamava ancora così. Il resto era silenzio. E calcio. «Mmm» fece Reinhart. «Bene, direi che quest'anno non avranno bisogno di mandargli l'invito per Natale. Non credo che ci andrà.» «E tu come lo sai?» domandò deBries, che non sapeva della comunicazione giunta da Sechshafen. «Perché festeggerà il Natale a New York» rispose Reinhart e sospirò. «Quel bastardo. Ne parliamo dopo. Che mi dite dell'ultimo Keller dell'indirizzario, allora? Mi sembrava di ricordare che ce ne fossero tre.» «È suo padre» rispose deBries e fece una smorfia. «Un etilista settantacinquenne di Haaldam. Vive in un istituto, almeno a periodi. Sono vent'anni che non ha nessun rapporto con i figli.» «Bella famiglia» commentò Moreno. «Un vero e proprio idillio» concordò deBries. «Il vecchio è una piaga, evidentemente. Forse il figlio ha preso da lui...» «Mi sa di sì» disse Reinhart. «Abbiamo qualcos'altro?» «Sì, in effetti» intervenne Bollmert. «Crediamo di sapere come facesse Erich Van Veeteren a conoscerlo. Aron Keller ha lavorato qualche anno come sorvegliante.» Reinhart fece un verso che ricordava un ringhio. «Ci avrei scommesso la testa» disse. «Che individui del genere possano diventare sorveglianti è un autentico scandalo. Chi potrebbe essere aiutato a reinserirsi nella società da un coglione come Keller? Che può avere una relazione sensata soltanto con il suo aspirapolvere...»
«Sono tre anni che non ha più adepti» continuò deBries. «Se ti può consolare. Come stavo dicendo, non siamo ancora sicuri che si sia occupato di Erich Van Veeteren, ma non ci vorrà molto per controllare.» «Perché non l'avete fatto subito, allora?» domandò Reinhart. «Perché ci volevi qui all'una» rispose deBries. «Mmm» fece Reinhart. «Sorry.» Si alzò e rimase per un attimo a fissare la neve che cadeva. «Mi chiedo...» cominciò, «... sì, dev'essere così, è ovvio.» «Che cosa?» chiese Moreno. «Di sicuro esercitava un certo potere su Erich. È quasi inevitabile che ce l'abbiano, in quel settore... e, be', poi deve averlo sfruttato per mandare il ragazzo a ritirare i soldi. Accidenti. Due volte accidenti.» «L'abbiamo detto, no, che i ricattatori di solito non sono dei tipi piacevoli» gli ricordò Moreno. «Keller a quanto pare non faceva eccezione.» Reinhart ritornò alla sua sedia. «Adesso chiamo per controllare questa cosa della sorveglianza» disse. «Se quadra, e probabilmente quadra, si può dire che ormai quasi tutto ci sia chiaro. Potete prendervi il pomeriggio libero.» «Bene» disse deBries. «Avevo quasi pensato di suggerirtelo io. È da Pasqua che non ho un giorno libero.» Uscì insieme a Bollmert. Reinhart rimase seduto in silenzio a fissare i nastri registrati, che stavano dove stavano e non sarebbero mai stati ascoltati. Né da lui né da nessun altro. «Quanto lavoro» borbottò e lanciò un'occhiata a Moreno. «Così tanto lavoro e così tanto tempo buttato via. Se mi sai rispondere a una domanda ancora, metterò una buona parola per te presso Hiller per una bella vacanza invernale.» «Spara» disse Moreno. «Che cos'ha combinato Keller con Clausen giovedì sera? Che cavolo può essere successo?» «Voglio un po' di tempo per riflettere» disse Moreno. «Ti do tutto il pomeriggio» disse Reinhart. «Va' a sederti nel tuo ufficio e guarda la neve. Facilita l'attività cerebrale.» Van Veeteren tirò fuori una sigaretta appena arrotolata e l'accese. «Quindi tu sai chi è stato?» disse. Reinhart annuì. «Sì, credo che abbiamo trovato l'uomo giusto. Non è una bella storia, ma non lo è mai, si sa. Comincia con una disgrazia. Questo
Pieter Clausen investe un ragazzino e lo uccide. Fugge dal luogo dell'incidente, ma non sa che qualcuno l'ha visto. Forse si è fermato a controllare quello che era successo, sembrerebbe plausibile. Sta tornando a casa a Boorkhejm quella sera, cosa che sta facendo anche un certo Aron Keller... sul suo scooter, probabilmente. C'è un tempo da lupi, pioggia e vento, ma Keller riconosce Clausen. Sono vicini di casa. Keller decide di guadagnare un po' di quattrini su quanto ha visto... è un vero farabutto, credo di poterlo affermare senza mezzi termini.» «Raramente i ricattatori sono gente simpatica» commentò Van Veeteren. «È vero» disse Reinhart. «In ogni caso, questo tizio manda tuo figlio a Dikken a ritirare il denaro quel famoso martedì. Non so se conoscevi Keller, ma si era occupato di Erich in veste di sorvegliante per un paio d'anni... non è nemmeno sicuro che Erich sarebbe stato pagato. Forse Keller aveva un certo potere su di lui. Clausen non sa chi sia il ricattatore, ha già una vita sulla coscienza e non vuole essere succube di nessuno. Ammazza Erich convinto di eliminare il ricattatore.» Tacque. Passarono cinque secondi che a Reinhart sembrarono lunghi come cinque anni. Poi Van Veeteren gli fece cenno di continuare. «Quindi abbiamo l'omicidio di Vera Miller. Vuoi sentire anche questa storia?» «Naturalmente.» «Non so perché Clausen uccida anche lei, ma ci dev'essere un collegamento con Keller ed Erich. Clausen e Vera Miller avevano una relazione piuttosto recente. Sì, poco alla volta abbiamo cominciato a capire di che cosa si trattava. Tramite te abbiamo sia il motivo del ricatto sia Aron Keller, il guaio è che entriamo in scena troppo tardi. Dev'essere successo qualcosa giovedì o venerdì della scorsa settimana, probabilmente per Clausen era arrivato il momento di pagare sul serio. Aveva ottenuto un prestito dalla Spaarkasse. Ha prelevato duecentoventimila gulden in contanti e da allora è sparito.» «Sparito?» ripeté Van Veeteren. «Sappiamo cosa può significare, è ovvio» disse Reinhart asciutto. «Non è difficile immaginare quello che può essere successo. Aron Keller è volato a New York sabato. Non è più nell'albergo in cui aveva preso alloggio, abbiamo scambiato qualche fax con i colleghi di là. Non sappiamo dove si sia cacciato Clausen. Di lui non c'è traccia, ma non sembra che si sia allontanato. Il suo passaporto e perfino il suo portafogli sono a casa sua. In realtà io una teoria ce l'ho, ed è che... sì, che Keller si sia liberato di lui. Che
l'abbia ucciso e sotterrato da qualche parte. Purtroppo. Ho paura che... ho paura che non potrai mai sederti faccia a faccia con l'assassino di tuo figlio.» Van Veeteren bevve un sorso di birra e guardò fuori della finestra. Passò mezzo minuto. «Quello che possiamo sperare è di trovare il suo corpo, fra un po'» continuò Reinhart, e al tempo stesso si chiese perché avesse detto proprio quelle parole. Come se contenessero una qualche consolazione. Fare la conoscenza del cadavere dell'uomo che ha ucciso tuo figlio? Assurdo. Macabro. Van Veeteren non rispose. Reinhart prese a guardarsi le mani, scervellandosi alla disperata ricerca di qualche parola. «Ho una sua foto» disse alla fine. «Quindi puoi vedere che faccia ha, se vuoi. Anche quella di Keller, tra l'altro.» Prese due fotocopie dal portafogli e gliele allungò. Il commissario li osservò un attimo con la fronte corrugata e gliele restituì. «Perché Keller l'avrebbe ucciso?» domandò. Reinhart alzò le spalle. «Non so. I soldi dovrebbe averli ottenuti, altrimenti difficilmente avrebbe potuto filarsela a New York... almeno così la penso io. Ovvio che si possono fare un sacco di congetture su questa cosa. Forse Clausen è riuscito a scoprire la sua identità. Keller è un tipo piuttosto strano... e sapeva che Clausen non si faceva scrupolo a uccidere. Avrà scelto di andare sul sicuro, ecco tutto. Se Clausen sapeva veramente chi era il ricattatore, Keller deve aver capito di essere in pericolo.» Van Veeteren chiuse gli occhi e annuì vagamente. Passò un altro mezzo minuto di silenzio. Reinhart abbandonò la sua spasmodica ricerca di punti luminosi e tentò invece di immaginare che cosa stesse provando il commissario. Naturalmente l'aveva già fatto tutto il tempo, e non gli fu più facile quando si concentrò sulla cosa. Vedere il proprio figlio ammazzato, già questo sarebbe bastato... e poi l'assassino tolto di mezzo da un altro criminale, che per certi versi era colpevole della morte di Erich come colui che aveva inferto il colpo. Oppure non era possibile vederla così? Aveva qualche importanza? Cose del genere avevano davvero un senso quando si trattava del proprio figlio? Ma non riuscì ad arrivare a nessuna risposta. Non ci arrivò nemmeno vicino. In qualsiasi modo la si vedesse, Erich Van Veeteren non era stato più che una pedina in un gioco con cui non aveva nulla a che fare. Che modo
stupido di morire, pensò Reinhart. Un sacrificio inutile... l'unico che poteva averci guadagnato qualcosa dalla sua morte era Keller, che probabilmente aveva alzato il prezzo delle sue informazioni quando Clausen si era trovato un'altra vita sulla coscienza. Che casino, pensò Reinhart per la cinquantesima volta in quella cupa giornata. Il regista infernale aveva colpito ancora. «Che cos'avete in mente di fare?» chiese Van Veeteren. «Abbiamo diramato un avviso di ricerca di Keller anche là» rispose Reinhart. «Naturalmente. Forse ci manderemo qualcuno... anche se è un paese grande. E lui ha denaro a sufficienza per un bel po'.» Van Veeteren si raddrizzò e guardò di nuovo fuori della finestra. «Nevica bene» disse. «A ogni modo ti ringrazio, avete fatto del vostro meglio. Forse possiamo tenerci in contatto, voglio almeno sapere come procede.» «Senz'altro» assicurò Reinhart. Quando se ne andò lasciando il commissario da solo al tavolo, per la prima volta in vent'anni ebbe voglia di piangere. 35 Trascorse la sera del mercoledì e buona parte del giovedì in una vecchia villa stile Liberty nel quartiere di Deijkstraa. Krantze aveva acquistato un'intera biblioteca privata che era stata lasciata in eredità; si trattava di circa quattromilacinquecento volumi da esaminare, valutare e imballare negli scatoloni. Come al solito erano tre le categorie da considerare: i libri difficili da vendere e di dubbio valore (da eliminare vendendoli a peso), quelli che potevano ben figurare nella libreria antiquaria ed eventualmente trovare un acquirente in futuro (non più di due, trecento, tenuto conto dei problemi di spazio), e quelli che lui avrebbe visto volentieri nella propria libreria (cinque al massimo; col tempo aveva imparato a trasformare le questioni morali in cifre chiare e tonde). Non era un'occupazione spiacevole girare per quell'antica dimora borghese (la famiglia discendeva da una stirpe di giuristi e consiglieri di Corte d'appello, se aveva letto correttamente l'albero genealogico) e sfogliare vecchi libri. Si sarebbe preso tutto il tempo necessario: la gotta ereditaria impediva a Krantze, il suo socio, di svolgere qualsiasi lavoro che non potesse essere eseguito da seduti o sdraiati. Naturalmente prima Krantze si era voluto assicurare che la biblioteca non comprendesse nessuno scritto scientifico del Seicento o del primo Settecento, quel ristretto campo che
nell'autunno dell'esistenza era diventato il suo autentico ossigeno vitale (e l'unico, aveva dovuto constatare Van Veeteren). Quando il lavoro di mercoledì fu concluso, consumò una lugubre cena solitaria, guardò un vecchio film di De Sica su Canale 4 e lesse per qualche ora. Per la prima volta dalla morte di Erich sentiva di potersi concentrare di nuovo su questo genere di cose; non sapeva se avesse a che fare con la sua ultima conversazione con Reinhart. Forse sì, forse no. E se sì, perché? Prima di addormentarsi ricapitolò la triste sequenza di eventi che aveva portato all'uccisione di suo figlio. E quella famosa infermiera a seguire lo stesso destino. Cercò di immaginarsi l'assassino. Pensò che non era stato lui il motore di tutto. Piuttosto, sembrava essere stato trascinato in quella situazione, trasformatasi in un dilemma sempre più vorticoso e infernale che aveva cercato di risolvere con tutti i mezzi a sua disposizione. Che aveva ucciso e ucciso e ucciso seguendo una logica disperata e perversa. E che tuttavia alla fine era diventato vittima a sua volta. No, era proprio come aveva detto Reinhart. Una bruttissima storia. La notte sognò due cose. Prima una visita a Erich mentre era in prigione. Non era un sogno molto ricco di particolari; lui era seduto su una sedia nella cella di Erich ed Erich era steso sul letto. Entrava una guardia con un vassoio. Loro prendevano un caffè con una fetta di un dolce soffice senza dirsi nulla; in realtà era più un ricordo che un sogno. Un'immagine che forse non aveva nulla da raccontare oltre quello che rappresentava. Un padre che fa visita al figlio in carcere. Un archetipo. Sognò anche di G. Del caso G, l'unico a essere rimasto insoluto in tutti quegli anni. Nemmeno lì succedeva davvero qualcosa. G era seduto al banco degli imputati nel suo completo nero e lo scrutava con profondi occhi scuri. Sulle sue labbra aleggiava un sorriso sardonico. Il Pubblico ministero andava avanti e indietro e faceva domande, ma G non rispondeva, si limitava a guardare Van Veeteren, che si trovava fra il pubblico, con la sua caratteristica espressione di disprezzo misto a scherno. Si trovò molto a disagio di fronte a questa breve sequenza onirica, ma quando si svegliò non fu in grado di stabilire in quale ordine avesse sognato i due fatti. Quale fosse venuto per primo. Mentre faceva colazione si chiese se non potessero essere uniti, in qualche modo, come in un montaggio cinematografico - Erich in galera e G nell'aula del tribunale - e quale
messaggio potesse nascondersi in quel sogno parallelo. Ma non arrivò a nessuna risposta, forse perché in realtà non ne desiderava affatto. O forse perché non ce n'erano. Quando giovedì pomeriggio le operazioni di imballaggio furono terminate e tutti gli scatoloni etichettati, Van Veeteren prese il suo sacchetto di libri, andò in piscina per un paio d'ore e rincasò verso le sei. C'erano due messaggi sulla segreteria telefonica che gli aveva regalato Ulrike. Uno era della stessa Ulrike; pensava di passare da lui venerdì con una bottiglia di vino e un po' di pâté di spugnole e si chiedeva se lui potesse procurarsi dei cetriolini e altri contorni di suo gradimento. L'altro messaggio era di Mahler: diceva che avrebbe preparato la scacchiera al Circolo intorno alle nove. In quel preciso momento il commissario era disposto a concedere all'inventore della segreteria telefonica - chiunque fosse - un bel riconoscimento. Pioveva quando uscì, ma l'aria era mite, così prese la strada che attraversava il cimitero come aveva pensato. La prima settimana dopo il funerale di Erich aveva fatto visita alla sua tomba tutti i giorni, preferibilmente di sera, quando l'oscurità aveva deposto il suo delicato sudario sopra le lapidi. Erano passati tre giorni dall'ultima volta che c'era stato. A mano a mano che si avvicinava al posto giusto, rallentava il passo come per rispetto; lo faceva senza pensarci, era una reazione automatica, istintiva del corpo, tutto lì. A quell'ora il cimitero era deserto, lapidi e cippi commemorativi spuntavano come sagome ancora più nere rispetto al buio circostante. Si sentivano soltanto i suoi passi sulla ghiaia, i piccioni che tubavano, le macchine che acceleravano lontano, in un altro mondo. Arrivò davanti alla tomba. Rimase fermo ad ascoltare, le mani sprofondate nelle tasche del cappotto. Se a quell'ora della sera c'erano fragili messaggi o segni da interpretare, si potevano cogliere solo con l'udito, questo lo sapeva. I morti sono più vecchi dei vivi, pensò. Indipendentemente dall'età che avevano quando erano passati nell'aldilà, avevano fatto un'esperienza che li rendeva più vecchi di qualsiasi essere vivente. Perfino i bambini. Perfino un figlio. Nel buio non riusciva a leggere niente sulla piccola lapide provvisoria collocata in attesa di quella che aveva ordinato Renate. Tutto a un tratto desiderò che non fosse stato così; avrebbe voluto vedere il nome e le date, e decise che la prossima volta sarebbe andato lì con la luce del giorno.
Mentre era fermo davanti alla tomba, smise di piovere e dopo dieci minuti s'incamminò nuovamente. Quella volta lasciò suo figlio con un «Buonanotte, Erich. Se sarà possibile, tornerò da te molto presto». C'era un bel po' di gente nei locali del Circolo in Vicolo dello Squartatore. Mahler però era arrivato per tempo e aveva occupato uno dei soliti tavoli vicino alla parete con il Dürer e i candelabri di ferro battuto. Quando Van Veeteren entrò, si stava tirando la barba e intanto scriveva in un blocnotes nero. «Nuove poesie» spiegò, chiudendo il taccuino. «O meglio, vecchi pensieri con una veste nuova. Il mio linguaggio ha smesso di trascendere il mio cervello trent'anni fa... fra parentesi, non so più nemmeno che cosa significhi esattamente trascendere... tu come stai?» «Sto come merito» rispose Van Veeteren, infilandosi a fatica al suo posto. «Certe volte mi convinco che finirò per sopravvivere anche a questo.» Mahler annuì e tirò fuori un sigaro dal taschino del panciotto. «Questo è il nostro destino» disse. «Quelli che gli dei aborriscono devono faticare più a lungo. Partita?» Van Veeteren annuì e Mahler cominciò a sistemare i pezzi. La prima partita durò cinquantaquattro mosse, sessantacinque minuti e tre birre. Van Veeteren accettò la parità benché avesse un pedone in più, dato che era un pedone laterale. «Tuo figlio?» chiese Mahler dopo essersi pizzicato la barba per un po'. «Hanno beccato il bastardo?» Van Veeteren vuotò il bicchiere prima di rispondere. «Probabilmente» disse. «Anche se a quanto pare la Nemesi ha già fatto il suo lavoro.» «Che cosa vuoi dire?» «Che dev'essere sepolto da qualche parte, per quello che ho potuto capire. Una storia di ricatti. Erich era soltanto una pedina... aveva le mani pulite, questa volta. Strano, ma mi consola un po'. Anche se avrei voluto guardare quel medico negli occhi.» «Medico?» disse Mahler. «Sì. Il loro compito è di preservare la vita, ma questo seguiva altre strade. La spegneva, invece. Ti racconterò tutta la storia, ma un'altra volta, se non ti spiace. Ho bisogno di metterci un po' più di distanza, prima.» Mahler si fermò un momento a riflettere, poi si scusò e andò alla toilette.
Mentre era via, Van Veeteren ne approfittò per arrotolare cinque sigarette. Di solito corrispondeva al suo consumo giornaliero, è vero, ma nell'ultimo mese era aumentato parecchio. Che differenza faceva, del resto? Cinque sigarette oppure dieci? Mahler ritornò con altre due birre. «Ho una proposta» disse. «Facciamo un Fischer.» «Fischer?» ripeté Van Veeteren. «E cosa significa?» «Sì, lo sai, l'ultimo contributo del grande genio al gioco degli scacchi: si sistema l'ultima fila a casaccio... pezzo contro pezzo ovviamente. Per evitare di analizzare il gioco fino alla ventesima mossa. Il re fra le torri, questa è l'unica condizione.» «Sì, lo conosco» disse Van Veeteren. «L'ho letto una volta. Ho perfino studiato una partita, una cosa pazzesca. Solo che non credevo che l'avrei mai provato di persona... ma tu analizzi davvero fino alla ventesima mossa?» «Sempre» rispose Mahler. «Allora?» «Se proprio insisti» disse Van Veeteren. «Insisto» disse Mahler. «Alla tua salute.» Chiuse gli occhi e frugò nella scatola. «Fila?» «C» rispose Van Veeteren. Mahler piazzò la sua torre bianca in C1. «Sant'Iddio» esclamò Van Veeteren, guardando. Continuarono con tutta la fila. Solo uno degli alfieri finì nella sua posizione originaria; i re sulla riga E, le regine sulla G. «Bello il cavallo nell'angolo» commentò Mahler. «Forza, andiamo!» Lasciò perdere la sua solita concentrazione e giocò E2-E3. Van Veeteren si prese la testa fra le mani e fissò la scacchiera. Restò fermo in quella posizione per due minuti, senza muovere un muscolo. Poi picchiò il pugno sul tavolo e si alzò. «Diavolo! Scommetto la testa che... scusami un momento.» Si alzò a fatica. «Che ti prende?» chiese Mahler, ma non ottenne risposta. Il commissario si era già fatto largo fino al telefono che c'era all'ingresso. La conversazione con Reinhart durò quasi venti minuti, e quando tornò al tavolo, Mahler aveva tirato fuori di nuovo il taccuino. «Sonetti» disse e guardò il suo sigaro che si era spento. «Ordine e forma! A quattordici anni, forse anche prima, vediamo il mondo con chiarez-
za perfetta. Poi devono passare altri cinquant'anni prima che riusciamo a trovare un linguaggio con cui fissare queste impressioni. Nel frattempo ovviamente queste impressioni sono sbiadite... che cavolo ti è preso?» «Mi devi scusare» ripeté Van Veeteren. «Alle volte le folgorazioni arrivano anche nell'autunno della vita. Dev'essere stato quel cavolo di schieramento...» Fece un gesto verso la scacchiera. Mahler lo guardò socchiudendo gli occhi da sopra le sue vecchie mezze lenti. «Ti esprimi per enigmi» disse. Il momento delle spiegazioni però non era ancora arrivato. Van Veeteren bevve un sorso di birra, spostò l'alfiere dall'angolo e accese una sigaretta. «La mossa del poeta» commentò. SESTA PARTE 36 Il commissario Reinhart atterrò all'aeroporto John F. Kennedy alle 14.30 di venerdì 18 dicembre. Ad accoglierlo c'era il tenente capo Bloomguard, con cui aveva parlato al telefono e scambiato una mezza dozzina di fax il giorno precedente. Bloomguard era un tipo sui trentacinque anni, tarchiato, energico, capelli a spazzola, che già attraverso la stretta di mano sembrava trasmettere tutta la generosità, l'apertura e il calore della cultura americana. Con un certo successo. Reinhart aveva già declinato l'invito a essere ospitato a casa sua nel Queens durante il suo soggiorno newyorkese, ma dovette ripeterlo ancora in macchina durante il tragitto verso e lungo una sempre più trafficata Manhattan. Aveva deciso invece di alloggiare al Trump Tower di Columbus Circle. Bloomguard gli diede una pacca sulla schiena e tre ore per togliersi di dosso la polvere del viaggio. Poi doveva farsi trovare all'ingresso pronto per andare nel Queens per una perfetta cena in famiglia. Ci mancherebbe altro. Quando Reinhart rimase solo, andò alla finestra e guardò fuori. Ventiquattresimo piano con vista verso nord e verso est su Manhattan. In particolare su Central Park, che si stendeva come un paesaggio gelato in miniatura appena sotto di lui. Il crepuscolo stava per calare, ma il profilo della città era ancora grigio e immobile. In attesa della notte i grattacieli sembravano riposare in un anonimato che difficilmente poteva imputare al fat-
to che ignorava i loro nomi e le loro funzioni. E comunque non del tutto, cercò di convincersi. Riusciva a identificare il Metropolitan e il Guggenheim sulla Quinta Avenue, dall'altro lato del parco, ma per il resto era tutto un po' confuso. Gli sembrava una città poco ospitale. Ostile, piuttosto. La temperatura era di qualche grado inferiore allo zero, aveva detto Bloomguard, e sarebbe scesa ulteriormente nella notte. Ancora niente neve per quell'anno, ma forse si poteva ancora sperare. Erano passati quindici anni da quando Reinhart era stato a New York l'ultima volta. La prima e l'ultima, del resto. Allora era stato per una vacanza nel mese di agosto. Faceva caldo come in un forno; si ricordava che aveva bevuto quattro litri d'acqua al giorno e che gli facevano male i piedi. Ricordava anche che la cosa che gli era piaciuta di più erano stati il lungomare e l'aria un po' decadente di Coney Island. E Barnes & Noble, ovviamente, in particolare quello sull'Ottava. La migliore libreria del mondo, aperta a tutte le ore, dove era consentito, al bar interno, leggere per tutto il tempo che si voleva. Allora era in vacanza. Sospirò e si allontanò dalla finestra. Adesso si trattava di lavoro. Fece una doccia, poi dormì un'ora e quindi fece un'altra doccia. Il tenente Bloomguard era sposato con una donna di nome Veronique, che faceva del proprio meglio per assomigliare a Jacqueline Kennedy. Riuscendoci anche. Avevano una figlia più grande di due settimane di Joanna e vivevano in una casa bassa in stile hacienda nella parte nordoccidentale del Queens, che aveva esattamente l'aspetto che si era immaginato dovesse avere un'abitazione della classe media americana. Durante la cena il padrone di casa raccontò gli episodi salienti della storia famigliare, interrotto da qualche intervento della padrona di casa. Suo padre, che aveva combattuto in Africa e in Corea, e aveva ottenuto diverse medaglie e una protesi a una gamba per i suoi meriti, era stato operato da poco (gli avevano impiantato un triplo bypass) ed era in via di guarigione. Veronique aveva appena compiuto trenta primavere ed era originaria del Montana, dove si potevano ancora fare le vacanze godendo della limpida aria di montagna. La sorella minore di Bloomguard era stata violentata a Far Rockaway poco più di due anni prima, ma aveva finalmente trovato uno psicologo che sembrava in grado di rimetterla in sesto e loro erano passati al caffè decaffeinato, ma stavano meditando di tornare a quello normale. Eccetera. Reinhart raccontò il corrispondente di un decimo delle sue vicissitudini e,
una volta arrivati al gelato, si rese conto di sapere molte più cose del tenente Bloomguard e della sua famiglia di quante ne sapesse di alcuni suoi colleghi della omicidi di Maardam. Quando Veronique, dopo aver assolto felicemente i suoi compiti, si ritirò con Quincey (che Reinhart aveva sempre pensato fosse un nome da maschio), i due detective si accomodarono davanti al camino con i loro cognac e si misero a discutere di argomenti seri. Alle dieci e mezzo Reinhart cominciò a risentire del fuso orario. Bloomguard rise e gli diede un'altra pacca amichevole sulla schiena. Poi lo infilò su un taxi e lo rispedì a Manhattan. A parte il fatto che era stato costretto a fumare sul terrazzo, Reinhart trovava che fosse stata una serata abbastanza sopportabile. Probabilmente si sarebbe addormentato già sul taxi, se l'autista non fosse stato un enorme portoricano canterino (Reinhart aveva sempre pensato che i portoricani fossero piccoli), che si ostinava a portare gli occhiali da sole nonostante fosse notte fonda. A Reinhart venne in mente la battuta da un film - «Are you blind or just stupid?» -, ma benché fosse stato lì lì per farlo per tutto il viaggio, non osò dirla ad alta voce. Una volta in camera telefonò a Winnifred e scoprì che in Europa erano le sei meno un quarto del mattino. Si spogliò, si infilò sotto le lenzuola e si addormentò. Mancavano cinque giorni alla vigilia di Natale. Sabato mattina il tenente Bloomguard in persona lo portò a Brooklyn. Lasciarono la Quinta Avenue dopo Sunset Park e parcheggiarono sulla Quarantaquattresima. Un paio di case prima di quella a cui erano interessati, che si trovava all'angolo con la Sesta Avenue. Un edificio fatiscente a tre piani color marrone sporco, con le finestre buie, che non si distingueva affatto dagli altri edifici della zona. Pochi gradini conducevano alla porta, e un paio di sacchi della spazzatura erano afflosciati sul marciapiede. Bloomguard gli aveva spiegato che ci vivevano ispanici ed ebrei ortodossi. E polacchi. «Ce ne sono tanti in questa zona, gli ebrei stanno un po' più su e per conto loro. Dalle parti della Decima e Undicesima.» Rimasero in macchina ancora un momento e Reinhart spiegò di nuovo quanto fosse delicato il primo contatto. Estremamente delicato. Bloomguard colse l'avvertimento. «Io rimango qui» disse. «Entra tu, io faccio fatica a tenere la bocca chiusa.»
Reinhart annuì e scese. Diede un'occhiata al parco; il grande prato in pendenza, con in mezzo gli edifici bassi del centro ricreativo. C'era anche una cosa che somigliava a una piscina. Non era certo una località turistica, aveva detto Bloomguard. E neanche un posto per gente per bene. Non di notte, almeno. Col buio Sunset Park cambiava nome e diventava Gunshot Park. Almeno nel linguaggio corrente. In quel momento però sembrava tutto tranquillo. Un amante del jogging correva a fatica lungo un sentiero asfaltato in salita, alcuni uomini con il berretto di lana, probabilmente disoccupati, erano seduti su una panchina e si passavano una bottiglia dentro un sacchetto di carta. Due donne corpulente spingevano un passeggino e chiacchieravano gesticolando. Su uno degli alberi spogli lungo la via erano appese moltissime scarpe, un'immagine che Reinhart ricordava di aver visto su una cartolina che aveva ricevuto una volta. Chissà da chi. L'aria era fredda. Un vento gelido soffiava dall'Hudson, e si sentiva che la neve non era lontana. La vista era magnifica. Verso nord il profilo di Manhattan si stagliava contro un cielo color acciaio; un po' più a ovest si vedevano l'ingresso del porto con la Statua della Libertà e Staten Island. Era lì che arrivavano, pensò Reinhart. Lì iniziava il Nuovo Mondo. Passò davanti a tre case e quattro automobili, grandi carrozzoni qua e là intaccati dalla ruggine, e raggiunse il numero civico 602. Le cifre indicavano la posizione. La seconda casa fra la Sesta e la Settima Avenue, aveva letto. Salì otto gradini e suonò alla porta. Un cane cominciò ad abbaiare. Delicato, pensò di nuovo. Estremamente delicato. La porta fu aperta da un ragazzino di tredici, quattordici anni, che portava gli occhiali e aveva i denti sporgenti. Aveva in mano una fetta di pane spalmata di crema al cioccolato. «Cerco la signora Ponczak» disse Reinhart. Il ragazzo chiamò qualcuno all'interno della casa e dopo un momento una donna robusta scese sbuffando le scale e salutò. «Sono io» disse. «Elizabeth Ponczak. Di cos'ha bisogno?» Reinhart si presentò e fu invitato a entrare in cucina. Il soggiorno era occupato dal ragazzo e da un televisore. Si sedettero a un piccolo tavolo di laminato marmorizzato e Reinhart cominciò a illustrare il motivo della sua presenza, così come aveva deciso di esporlo. In inglese, non sapeva perché. Ci volle qualche minuto e per tutto il tempo la donna rimase seduta di fronte a lui accarezzando un gatto grigio giallastro che le era saltato in
grembo. Il cane che aveva abbaiato evidentemente stava nella casa accanto, ogni tanto lo sentiva ululare o mugolare. «Non capisco di cosa stia parlando» disse la donna quando Reinhart ebbe finito. «Perché dovrebbe venire a cercarmi? Non ci siamo visti né sentiti per quindici anni. Mi spiace, ma non la posso aiutare.» L'inglese della signora Ponczak era peggiore del suo, notò Reinhart. Forse parlava polacco con il signor Ponczak, sempre che fosse ancora in circolazione. Comunque al momento non sembrava essere in casa. Aha, pensò Reinhart. Ecco. Lui non aveva detto la verità. Chissà se la donna l'aveva fatto... Non era in grado di stabilirlo. Mentre le raccontava la sua storiella aveva osservato attentamente le sue reazioni, ma non aveva notato nessun segno che lasciasse intendere che la donna nascondesse o sospettasse qualcosa. Se solo non fosse stata così flemmatica, si disse irritato. Le persone come lei, grasse e tranquille, non avevano nessun problema quando volevano nascondere qualcosa. Ci aveva già pensato in precedenza. A loro bastava stare sedute a fissare il nulla con sguardo vacuo, come facevano sempre. Quando uscì in strada si rese conto che era una generalizzazione ingiusta. Ingiusta e inopportuna. Ma che cazzo, si era portato soltanto una carta buona da oltre l'Atlantico. Un'unica misera carta, l'aveva giocata e non aveva ottenuto un bel niente. Tornò lentamente verso Bloomguard e la macchina. «Com'è andata?» chiese Bloomguard. «Nada» rispose Reinhart. «Purtroppo.» Si sedette sul sedile del passeggero. «Possiamo andare da qualche parte a prendere un caffè? Con caffeina.» «Certo» disse Bloomguard, avviando il motore. «Piano B?» «Piano B» ripeté Reinhart e sospirò. «Quattro giorni, come abbiamo detto, poi mandiamo tutto all'inferno. Io farò tutte le ore che riesco. Sei sicuro di potermi mettere a disposizione un po' di uomini?» «Ovvio» rispose Bloomguard con entusiasmo. «Non hai bisogno di stare qui tu di persona a sorvegliare. Abbiamo parecchie risorse in questo paese, soffiano venti molto diversi rispetto a quindici anni fa. Tolleranza zero, all'inizio ero un po' scettico, lo riconosco, ma il fatto è che funziona.» «L'ho sentito dire» commentò Reinhart. «In ogni caso non voglio fare il turista. E poi la sorveglianza dev'essere ventiquattr'ore su ventiquattro, altrimenti non ha senso.» Bloomguard annuì. «Hai a disposizione una macchina» disse. «Adesso
andiamo a preparare uno schema, così puoi segnare i turni che vuoi fare. Poi al resto ci penso io. Okay, amico?» «No problem» rispose Reinhart. In realtà rimandò il suo primo turno di sorveglianza alla domenica. Bloomguard fece in modo che ci fosse un'auto con due poliziotti in borghese all'angolo fra la Quarantaquattresima e la Sesta Avenue a Brooklyn a partire dalle quattro di sabato. Reinhart trascorse il pomeriggio e la serata a girovagare per Lower Manhattan. Soho. Little Italy. Greenwich Village e Chinatown. Alla fine si ritrovò da Barnes & Noble. Era inevitabile. Si sedette e cominciò a leggere. Bevve caffè, mangiò qualche brownies e ascoltò un reading di poesia. Comprò cinque libri. Se ne andò alle nove e mezzo e riuscì a prendere il treno giusto per Columbus Circle. Quando risalì dal sottosuolo era cominciato a nevicare. Che cosa ci faccio qui? pensò. Ci sono oltre sette milioni di persone in questa città. Come posso illudermi di trovare quella giusta? Ci sono più possibilità che mi perda e scompaia piuttosto che scopra qualcosa. Mentre saliva in ascensore si ricordò che in effetti era stato il commissario a convincerlo che sarebbe riuscito in quell'impresa, ma gli sembrava una magra consolazione. Almeno per il momento e nella solitudine del sabato sera. Quando telefonò svegliando Winnifred per la seconda notte di fila, lei gli disse che stava nevicando anche a Maardam. 37 Moreno incontrò Marianne Kodesca per un pranzo veloce al Rote Moor. Secondo l'ispettore Rooth, il Rote Moor era il tipico posto per donne fra i trentaquattro anni e mezzo e i quarantasei, che vivevano di carote e germogli, leggevano «Athena» e avevano già buttato uno o due uomini nella spazzatura. Moreno non ci aveva mai messo piede ed era quasi sicura che nemmeno Rooth ci fosse mai andato. La signora Kodesca (risposata da un anno con un architetto) le poteva concedere solo quarantacinque minuti. Aveva una riunione importante. Sul suo ex marito non aveva nulla da dire. Gliel'aveva già spiegato al telefono. Mangiarono un'insalata, bevvero acqua minerale con un pizzico di lime e si godettero il panorama sulla Piazza del Mercato, imbiancata di neve per
la prima volta da chissà quando. «Pieter Clausen» esordì Moreno quando ritenne conclusi i preliminari. «Mi può raccontare qualcosa di lui? Abbiamo bisogno di un ritratto psicologico un po' più chiaro.» «Ha fatto qualcosa?» domandò Marianne Kodesca alzando le sopracciglia fin quasi all'attaccatura dei capelli. «Perché è ricercato? Credo proprio che me lo debba spiegare.» Aggiustò lo scialle color ruggine in modo che l'etichetta fosse meglio visibile. «Non è ancora stato chiarito fino in fondo» disse Moreno. «No? Ma immagino sappiate perché lo state cercando...» «È scomparso.» «Gli è successo qualcosa?» Moreno appoggiò le posate e si pulì la bocca con il tovagliolo. «Abbiamo dei sospetti su di lui.» «Sospetti?» «Sì.» «Su cosa?» «Non posso addentrarmi nei particolari. Mi deve scusare.» «Lui non ha mai mostrato tendenze del genere.» «Di che genere?» «Criminali. È questo che sta dicendo, no?» «Vi frequentate ancora?» domandò Moreno. Marianne Kodesca si appoggiò allo schienale e osservò Moreno con un sorriso che pareva inciso con il compasso sullo sportello di un frigorifero. Deve avere mal di denti, pensò Moreno. Questa donna non mi piace. Devo stare in guardia per non farmi scappare qualche stupidata. «No. Non ci frequentiamo più.» «Quando l'ha visto l'ultima volta?» «Visto?» «Incontrato, allora. Scambiato due parole... quello che preferisce.» La signora Kodesca aspirò un metro cubo d'aria attraverso le narici e rifletté. «Agosto» rispose, soffiando fuori l'aria. «Non lo vedo da agosto.» Moreno prese nota. Non perché ce ne fosse bisogno, solo per mascherare il suo atteggiamento aggressivo. «Come lo descriverebbe?» «Io non lo descriverei affatto. Che cosa sta cercando?» «Soltanto un'immagine un po' più completa» rispose Moreno. «Qualche caratteristica generale e così via.»
«Come cosa, per esempio?» «Per esempio, se è possibile che lui diventi violento.» «Violento?» La donna sembrò pescare la parola con la lenza di fondo da un'altra classe sociale. «Sì. L'ha mai picchiata?» «Picchiata?» Stessa lenza di fondo. «Se preferisce venire alla centrale a concludere questa conversazione, per me va benissimo» disse Moreno in tono cortese. «Forse questo non è l'ambiente adatto?» «Nnn...» fece Marianne Kodesca. «Mi scusi, ma sono rimasta allibita. Per chi ci avete preso? Posso anche immaginare che Pieter sia stato vittima di qualcosa, ma che lui stesso possa... no, è escluso. Totalmente escluso, questo lo può scrivere chiaro e tondo sul suo taccuino. C'è dell'altro?» «Sa se abbia avuto una nuova relazione dopo la vostra separazione?» «No» rispose Marianne Kodesca, guardando fuori della finestra. «Quel settore non è più un problema mio.» «Capisco» disse Moreno. «E quindi non ha la minima idea di dove possa essere finito? È scomparso da dieci giorni... non si è fatto vivo con lei, per caso?» Una ruga di disapprovazione comparve fra la narice destra e l'angolo della bocca della signora Kodesca, invecchiandola di colpo di cinque anni. «Le ho già spiegato che non abbiamo nessun contatto. È forse dura di comprendonio?» Sì, pensò Moreno. Ho difficoltà a capire come tu sia riuscita a sposarti un'altra volta. Anche se forse non aveva visto il lato migliore di Marianne Kodesca. Una mezz'ora dopo incontrò Jung nel suo ufficio alla centrale. «Liz Vrongel» disse Jung. «Putz Weg.» «Pure lei?» commentò Moreno. Jung annuì. «Anche se vent'anni fa. È stata sposata con Keller un anno... dieci mesi, a voler essere pignoli... poi si sono separati e lei si è trasferita a Stamberg. Una povera creatura confusa, a quanto pare. Partecipava a tutti i movimenti di protesta; è stata buttata fuori da Greenpeace per aver morsicato un poliziotto in faccia. È stata affiliata ad alcune sette e dev'essersi trasferita in California nei primi anni Ottanta. Dopo di che le tracce si per-
dono. Non so se valga la pena di continuare a cercarla.» Moreno sospirò. «Probabilmente no» disse. «Credo che possiamo dedicarci ai preparativi per il Natale piuttosto, e sperare che Reinhart torni da New York con qualcosa.» «Lo ritieni probabile?» chiese Jung. «Non molto» rispose Moreno. «Se devo essere onesta.» «Allora, com'era l'ex signora Clausen?» Moreno rifletté rapidamente su come doveva esprimersi. «Altro tipo rispetto all'ex signora Keller» rispose. «Il fascismo discreto della classe borghese, più o meno. Be', nemmeno tanto discreto. Ma non ci può aiutare in nessun modo e non credo di avere voglia di parlare con lei un'altra volta.» «Rich bitch?» chiese Jung. «All'incirca» rispose Moreno. Jung guardò l'ora. «Bene» disse. «Possiamo anche permetterci di andare a casa, adesso... Maureen ha cominciato a dire che dovrei cambiare lavoro. E quasi quasi sono d'accordo con lei.» «Che cosa vorresti fare in alternativa?» domandò Moreno. «Non lo so di preciso» disse Jung, pizzicandosi pensieroso il labbro inferiore. «Maschera nei cinema suona bene.» «Maschera?» «Sì. Sai, quelli che accompagnano la gente al loro posto con una piccola torcia tascabile e vendono le caramelle negli intervalli.» «Non esistono più» disse Moreno. «Peccato» commentò Jung. Il commissario Reinhart guidò personalmente la macchina fino alla Quarantaquattresima di Brooklyn la domenica mattina. Arrivò con quasi mezz'ora di ritardo; l'agente del turno di notte se n'era già andato, ma il numero 602 non era senza sorveglianza. Bloomguard aveva deciso di mettere una macchina extra oltre quella di Reinhart e, considerata la conoscenza che il collega europeo aveva della città, forse non era stata una cattiva idea. Parcheggiò fra il 554 e il 556, dove c'era un buco libero, salì sulla macchina dall'altra parte della strada - una Oldsmobile lunga parecchi metri - e salutò. Il sergente Pavarotti era piccolo e magro e aveva un'aria infelice. Reinhart non sapeva se dipendesse dal nome o se dietro ci fossero altri motivi. Essere costretti a passare tutta la domenica in una vecchia automobile a
Brooklyn, per esempio. «Più di una volta ho pensato di cambiarlo» spiegò Pavarotti. «Mi capita di trovarmi in situazioni in cui preferirei mille volte chiamarmi Mussolini. Canto peggio di un somaro. Come vanno le cose in Europa, allora?» Reinhart spiegò che andava come andava e chiese a Pavarotti se aveva qualche interesse. Baseball e film d'azione, fu la risposta. Reinhart si fermò altri cinque minuti, poi tornò nella sua auto. Aveva domandato a Bloomguard se non sarebbe sembrato sospetto rimanere seduti dietro il volante per ore, ma lui, essendo navigato, gli aveva fatto un sorriso e aveva scosso la testa. «Non guardano fuori dalle loro baracche in quel quartiere» aveva risposto. «E poi ci sono sempre uomini soli seduti in macchina, prova a fare un giro e lo vedrai da te.» Un po' più tardi Reinhart fece una passeggiata per il vasto quartiere e constatò che era proprio vero. Automobili enormi erano parcheggiate su entrambi i lati della strada e ogni cinque o sei macchine c'era un uomo seduto dietro il volante che masticava gomma americana o fumava. O frugava in un sacchetto di patatine. La maggior parte portava occhiali scuri, benché il sole sembrasse più lontano del Medioevo. Cosa ci faranno lì? pensava Reinhart. Per di più faceva freddo, sicuramente la temperatura era parecchi gradi sotto lo zero, e dal fiume saliva un vento poco gradevole. Reinhart si rese conto che non capiva quella società. Che cosa diavolo fa la gente? Che illusioni hanno che noi non abbiamo ancora? Disse a Pavarotti di andare a prendersi un caffè e fare un'ora di pausa; Pavarotti sembrò in dubbio se quello strano commissario avesse il diritto di dargli un simile ordine, ma alla fine si arrese. Reinhart superò il muricciolo che circondava Sunset Park e si sedette su una panchina. Da quella posizione il numero 602 si vedeva bene come dalla macchina, e non credeva che sussistesse il rischio che la signora Ponczak lo riconoscesse. Con berretto di lana, sciarpa e vecchio parka militare s'illudeva di sembrare un vagabondo qualsiasi; una di quelle esistenze alla deriva che non potevano nemmeno permettersi di avere una macchina nella quale stare seduti ad aspettare la morte. Erano le undici meno dieci quando la signora Ponczak uscì di casa. Pavarotti non era ancora tornato, benché fosse passata più di un'ora. Reinhart valutò rapidamente la situazione e poi decise di seguire la donna. Questa scese lungo la Quinta Avenue e svoltò a sinistra, con la sua anda-
tura dondolante come se zoppicasse. Per un attimo credette che avrebbe preso la metropolitana sulla Quarantacinquesima... però non fu mai costretto a decidere cosa fare in un'eventualità del genere, perché la donna entrò al minimarket all'angolo. Reinhart vi passò davanti e si piazzò dall'altra parte della strada. Cominciò a caricare la pipa con dita flessibili come ghiaccioli. Dopo cinque minuti lei uscì portando due sacchetti di plastica. Ripercorse la Quinta Avenue facendo lo stesso tragitto dell'andata. Svoltò di nuovo nella Quarantaquattresima e un minuto dopo entrò in casa sua al 602. Reinhart si sedette in macchina. Aha, pensò. Il punto culminante della giornata, probabilmente. Mrs. Ponczak goes shopping. Sembra il titolo di un film inglese. A ogni modo quella previsione doveva dimostrarsi esatta. Né la signora Ponczak né il suo indolente figliolo si presero la briga di uscire un'altra volta di casa quella gelida e ventosa domenica di dicembre. E perché mai avrebbero dovuto? C'era la televisione, per esempio. Di un eventuale signor Ponczak non si vedeva traccia, e Reinhart scommise che, se anche esisteva, doveva essere seduto in un angolo riparato del giardino a leggere il giornale o a smaltire la sbronza. Quello che avrebbe fatto lui, se fosse stato il signor Ponczak. Da parte sua, continuò alternativamente a girare per Sunset Park, a stare semidisteso a bordo della propria auto o seduto di fianco al tetro Pavarotti. I due affrontarono anche la questione di come comportarsi nel caso in cui l'oggetto della loro sorveglianza lasciasse di nuovo la propria abitazione. Pavarotti sosteneva che l'oggetto in questione fosse la casa, e non l'inquilina, quelli erano gli ordini di Bloomguard. Gli ordini espliciti. Per evitare inutili screzi, Reinhart telefonò a casa di Bloomguard nel Queens e si fece dare nuove istruzioni. Nel caso in cui l'oggetto Ponczak (signora) si allontanasse di nuovo dall'altro oggetto Ponczak (casa), Pavarotti doveva pedinare la prima. Reinhart sarebbe dovuto rimanere dov'era, dal momento che non lo si giudicava adatto al cento per cento al compito di pedinare qualcuno in una città con sette milioni di abitanti dove conosceva soltanto il nome di sei persone, due parchi e cinque edifici. Verso le due Pavarotti andò a comprare un'abbondante razione di junk food a testa, alle quattro Reinhart aveva terminato di leggere il primo dei libri acquistati da Barnes & Noble - Sun Dogs di Robert Olen Butler -, e alle diciotto in punto furono rilevati dagli agenti del turno di notte. Per il resto non successe nulla, né al numero 602 né nelle vicinanze.
Se non vengo investito o rapinato mentre torno in albergo, pensò Reinhart, posso dire a ragione che è stata una domenica tranquilla. Non gli capitò né l'una né l'altra cosa. Quando la sua temperatura corporea fu tornata a un livello più o meno normale, grazie a un bel bagno caldo, telefonò Bloomguard e lo invitò a mangiare un boccone, ma lui declinò l'offerta. Invece fece una lunga passeggiata al buio in Central Park (di nuovo senza essere né assalito né investito), cenò in un ristorante italiano sulla Quarantanovesima e verso le undici tornò in albergo e al libro successivo. Probabilmente non ho mai seguito un filo più sottile di questo, pensò. Ancora tre giorni. Buttati via, come perle ai porci. Non fosse per il commissario e la sua cazzo di intuizione, allora... Puntò la sveglia alle due e un quarto e quando suonò aveva dormito un'ora e mezzo. Gli ci volle un momento prima di ricordarsi come si chiamava, dove si trovava e perché. E perché si fosse svegliato. Poi telefonò al di là dell'Atlantico e sentì la vocina sveglia e pimpante di sua figlia. 38 Il lunedì fu un po' più movimentato della domenica. Ma solo un po'. Reinhart non aveva quasi fatto in tempo ad arrivare a Sunset Park, che i Ponczak - madre e figlio - uscirono. Per quel giorno Pavarotti era stato sostituito da un assai più ottimista sergente Baxter, che somigliava a un incrocio ben riuscito fra un bulldog e un giovane Robert Redford; dopo una breve valutazione Baxter scese dalla macchina e cominciò a seguire la signora Ponczak lungo la Quinta Avenue. Il figlio prese esattamente la direzione opposta, dirigendosi a est verso la Settima, ma Reinhart ritenne che non fosse molto interessante (andranno pure a scuola anche in questo paese, pensò) e rimase sull'auto di Baxter. Dopo un'ora e dieci minuti successe qualcosa. Era Baxter che telefonava da un centro commerciale sulla Pacific (sempre a Brooklyn) e spiegava che era seduto a bere un caffè (con caffeina) in un bar di fronte al Bodyshop dove, a quanto pareva, la signora Ponczak lavorava. Quanto meno quel giorno. Siccome il numero 602 sembrava deserto (l'esistenza del signor Ponczak pareva sempre più inverosimile), Reinhart decise che Baxter poteva restar-
sene a bere il suo caffè e a sorvegliare l'oggetto mobile, mentre lui si sarebbe occupato della meno mobile abitazione di Sunset Park. Santo cielo, pensò dopo aver chiuso la conversazione con il sergente. Anch'io facevo queste cose venticinque anni fa? Alle dodici e mezzo aveva letto settanta pagine dei Miei luoghi oscuri di James Ellroy e continuava a domandarsi in che razza di posto fosse capitato. All'una abbandonò la macchina qualche minuto per andare a fare provviste al minimarket all'angolo fra la Sesta e la Quarantacinquesima. Comprò banane, una bottiglia di minerale, una tavoletta di cioccolata e qualche ciambella; c'era un minimarket ogni due isolati, c'era solo l'imbarazzo della scelta. Mentre tornava alla macchina, si accorse che l'aria era diventata un po' più mite, e un quarto d'ora dopo cominciò a piovere. Si immerse di nuovo nel mondo morboso di Ellroy e parlò un paio di volte al telefono con Baxter e con Bloomguard. Alle tre e mezzo Ponczak jr. tornò a casa con un compagno dai capelli rossi, e mezz'ora dopo a Reinhart fu dato il cambio. Lunedì, pensò tornando verso Manhattan. Ancora due giorni. Che cavolo ci faccio qui? Benché nell'aria ci fosse già il sentore di un crepuscolo sporco, decise di salire sul traghetto per Staten Island. Prese l'autobus giusto fino a Snugg's Harbor, dove poi vagabondò per un'ora fra le foglie marcescenti; era lo stesso posto dove aveva passeggiato quindici anni prima in compagnia di una giovane donna; per questo era voluto tornarci, ma la sensazione non era la stessa. Allora c'erano trenta gradi e le foglie erano ancora sui rami. Lei si chiamava Rachel, e lui ricordava di averla amata appassionatamente per quattro giorni. Con tutto se stesso, cervello, cuore e sesso. Il quinto giorno il cervello (anche il cuore, forse) aveva posto il veto, e dopo il sesto erano andati ognuno per la propria strada. Passò la serata con Bloomguard in un ristorante asiatico in Canal Street. Bloomguard l'avrebbe portato volentieri in Police Plaza 1, per mostrargli gli ultimi ritrovati tecnologici della lotta contro il crimine (congegni elettronici per le intercettazioni, laser-sweepers e altro ancora), ma Reinhart declinò l'invito nella maniera più cortese che conosceva. A mezzanotte era di ritorno in albergo. Winnifred aveva mandato un fax con le impronte delle manine di Joanna e la notizia che la casa del professor Gentz-Hillier a Limbuijs sarebbe stata a loro disposizione per due settimane a partire dal giorno 27.
Infilò il fax sotto il cuscino e si addormentò senza aver telefonato a casa. Quando arrivò in Sunset Park il martedì mattina, all'inizio non capi quello che gli stava dicendo il sergente Pavarotti. «Il bastardo è là dentro.» «Cosa?» fece Reinhart. «Là. Quel fottuto bastardo. È in casa.» Fece un cenno sopra la spalla. «Chi?» «Il tizio che stai cercando, ovvio. Che cazzo credi che siamo qui a fare, eh?» «Che cavolo stai dicendo?» chiese Reinhart. «Cosa... voglio dire, cos'hai fatto? Come fai a sapere che è là dentro?» «Perché l'ho visto entrare. Un quarto d'ora fa. È sceso dalla Quinta... probabilmente è arrivato col treno rapido sulla Quarantacinquesima. Mi è passato di fianco, ha salito le scale e ha suonato e... sì, poi è arrivata lei e l'ha fatto entrare. Il ragazzo è uscito per andare a scuola solo cinque minuti prima. Sono dentro tutti e due.» «Jesusfuckinchrist» disse Reinhart, per far vedere che aveva capito come andavano le cose in quel paese. «Come ti sei mosso?» «Ho seguito gli ordini, si capisce» rispose Pavarotti e sbuffò. «Ho telefonato a Bloomguard. Sta venendo qui con i rinforzi. Dovrebbe arrivare da un momento all'altro.» Reinhart si sentì come se tutto a un tratto si fosse svegliato da tre giorni di letargo. «Bene» disse. «Bene.» «Sarà un'operazione semplice» commentò Bloomguard, «ma non dobbiamo correre rischi. Voglio due uomini sul retro. Due coprono la strada e le finestre davanti. Due vanno a suonare alla porta... io e il commissario Reinhart. Riteniamo che l'uomo non sia armato, ma ci comportiamo come al solito.» Come al solito? pensò Reinhart. Due minuti dopo gli uomini erano schierati ai loro posti. Pavarotti rimase in macchina con il telefono in una mano e la pistola nell'altra. A un segnale di Bloomguard, Reinhart salì gli otto gradini e suonò il campanello. Bloomguard lo seguiva poco distante. La signora Ponczak venne ad aprire la porta.
«Sì?» disse sorpresa. Nel giro di tre secondi, quattro uomini erano dentro casa. I sergenti Stiffle e Johnson si precipitarono al piano di sopra, Bloomguard e Reinhart irruppero nel soggiorno e poi nella cucina al pianterreno. L'uomo era seduto in cucina. Quando Reinhart lo vide, si era appena girato per metà e aveva scoperto i due robusti agenti che stavano fuori sulla terrazza e gli puntavano contro le loro Walther 7.6. Bloomguard stava spalla a spalla con Reinhart e anche lui lo teneva sotto tiro. Reinhart infilò la pistola nella fondina e si schiarì la gola. «Dottor Clausen» disse. «Ho il dubbio piacere di arrestarla per l'omicidio di Erich Van Veeteren e di Vera Miller. Ha il diritto di tacere, ma tutto quello che dirà potrà essere usato contro di lei.» L'uomo sembrò afflosciarsi. Appoggiò la tazza di caffè che aveva in mano. Puntò gli occhi addosso a Reinhart rimanendo impassibile. Il viso scuro appariva devastato; barba di un paio di giorni e occhi cerchiati. Difficoltà a dormire, probabilmente, pensò Reinhart. Sfido io! Ma c'era anche un altro tratto, completamente nuovo, notò. Come se fosse comparso sul viso lì per lì. Un tratto di sollievo. Doveva essere proprio così. Forse era davvero quello che provava, finalmente. «Keller» disse con un filo di voce, non più forte di un sussurro. «Sta dimenticando Keller. Ho ucciso anche lui.» «Lo sospettavamo» disse Reinhart. «Mi dispiace.» Reinhart non ribatté. «Mi dispiace di tutto, ma sono contento di avere ammazzato Keller.» Reinhart annuì. «Del resto parleremo alla centrale. Portatelo via.» La signora Ponczak non aveva pronunciato una sola parola da quando avevano fatto irruzione, e non disse nulla nemmeno quando portarono via suo fratello. Reinhart le passò accanto nell'ingresso chiudendo la fila; si fermò un istante e cercò qualcosa da dire. «Ci scusi per l'intrusione» furono le uniche parole che gli vennero in mente. «Ci faremo vivi.» Lei annuì e chiuse la porta alle sue spalle. Per tre ore interrogò Pieter Clausen in una stanza celeste alla stazione di polizia del Ventiduesimo distretto. Registrò tutto su nastro, ma la trascri-
zione e la firma dovettero essere rimandate per via della questione della lingua. Quando tutto fu a posto, lasciò Clausen sotto una rassicurante sorveglianza in cella, andò nell'ufficio di Bloomguard e telefonò a Maardam. Dopo un attimo ebbe in linea Moreno. «Arrivo con lui domani sera» disse. «Ha confessato tutto, credo che sia contento che sia tutto finito.» «Com'è andata con Keller?» chiese Moreno. Reinhart fece un respiro profondo e cominciò a spiegare. «L'ha ucciso. Era riuscito a scoprire la sua identità... gli ha teso un'imboscata e l'ha ammazzato. Stessa tecnica usata con Erich e Vera Miller, grossomodo. L'ha aspettato fuori casa a Boorkhejm, in mezzo all'abitato, ma era notte fonda e nessuno ha visto niente... proprio quando Keller stava andando a ritirare i soldi. Sì, se c'è qualcosa di cui non si pente, è di aver mandato all'altro mondo Keller. Sostiene che lui molto probabilmente sapeva che era riuscito a rintracciarlo, perché quella sera era armato di un grosso coltello. Ma Clausen è stato più veloce. Be', poi l'ha caricato in macchina, è andato a Linzhuisen e l'ha sotterrato in un bosco. Mi ha descritto il posto, ma forse Keller può rimanere dov'è ancora per un paio di giorni.» «Sicuro» commentò Moreno. «La terra gelata lo conserva bene. Comincia a essere inverno da queste parti. Come ha fatto a cambiare identità?» «È stato molto semplice, in effetti. Prima di seppellirlo ha preso le sue chiavi di casa e il portafogli. È tornato a Boorkhejm, è entrato nell'appartamento di Keller... sì, ha rubato la sua identità, si potrebbe dire. Erano piuttosto simili, è stato proprio questo che ha scoperto il commissario... e chi mai somiglia alla foto del passaporto? Il venerdì ha telefonato prenotando un biglietto per New York, all'ora di pranzo ha preso lo scooter e ha raggiunto Sechshafen. Ha passato la notte in uno degli alberghi intorno all'aeroporto e poi è venuto qui. Nessun problema con i controlli di frontiera... due mesi di visto turistico automatico e la pelle bianca risolvono tutti i problemi. Ha alloggiato in un albergo del Lower East, questo lo sai; ma dopo la prima notte ha cambiato. Ha preso in affitto un appartamentino in mezzo ai russi a Coney Island. Dopo aver visto un cartello in vetrina, semplicemente. Non capisco perché non si sia trovato qualcosa di meglio, i soldi non gli mancavano. Forse non era divertente come credeva...» «Solo con la sua coscienza?» disse Moreno. «Probabile» disse Reinhart. «Ha contattato la sorella spiegando che aveva dei problemi, questo prima che io andassi a casa sua. Lei gli ha telefonato mettendolo in guardia, ma probabilmente non ha capito chi ero e lui
non sopportava più la solitudine. Non le ha raccontato quello che ha fatto, solo che aveva delle preoccupazioni. Ed è andato a trovarla quando credeva che la piazza fosse sgombra... ma non lo era. Dev'essersi sentito tremendamente isolato. Più gente c'è in una città, più spazio c'è per essere soli. Credo che si sia anche imbottito di medicine, probabilmente è per questo che è riuscito a portare a termine tutto... sembra che stia cominciando soltanto adesso a rendersi conto di aver ucciso quattro persone.» «Sta per crollare?» chiese Moreno. «Penso di sì» rispose Reinhart. «Ne parleremo quando sarò tornato. Puoi avvisare tu il commissario, per favore? Arriverò con Clausen domani sera... è giusto che abbia la possibilità di scegliere cosa vuole fare. Tu che ne pensi?» «All right» rispose Moreno. «Ci sarà un ultimo round come voleva lui.» «Così sembra» disse Reinhart. «Be', over and out, allora.» «Ci vediamo» lo salutò Moreno. Mercoledì mattina nevicava ancora. Erano in quattro sulla macchina diretta al JFK; Bloomguard e Reinhart davanti, Clausen e un gigantesco agente di polizia di colore di nome Whitefoot sul sedile posteriore, gli ultimi due legati da manette delle quali Whitefoot aveva una chiave nella tasca dei calzoni, e Reinhart un'altra di riserva nel portafogli. Si notava che il Natale ormai era vicino; impiegarono solo mezz'ora per raggiungere l'aeroporto, ma fecero in tempo a sentire White Christmas due volte e Jingle Bells tre volte alla radio. Reinhart si accorse di avere nostalgia di casa. «È stato un piacere conoscerti» disse Bloomguard quando furono davanti ai metal detector. «Contiamo di venire a fare un giro in Europa fra tre o quattro anni, Veronique e io. E Quincey, naturalmente. Forse potremo vederci per un caffè? A Parigi o Copenaghen o da qualche altra parte?» «Sure» rispose Reinhart. «Per quello e anche per qualcos'altro. Hai il mio biglietto da visita.» Si strinsero la mano e Bloomguard tornò nella sala partenze. Da quando l'avevano arrestato Clausen sembrava aver perso vitalità di ora in ora, e Whitefoot dovette quasi trascinarlo di peso a bordo dell'aereo. Reinhart era profondamente grato che non toccasse a lui dover stare ammanettato con l'assassino per le sette ore del volo. Ovviamente si era offerto di riportare a casa il dottore da solo, ma la sua proposta non era mai stata nemmeno presa in considerazione. Whitefoot aveva già fatto altri viaggi di quel genere e sapeva come muoversi. Senza discussioni cacciò Clausen nel sedile vicino
al finestrino, lui si sedette al centro e lasciò il posto del corridoio a Reinhart. Disse a Clausen che gli consentiva una visita alla toilette, non di più, e che poteva far conto che il proprio braccio destro fosse amputato. Qualunque attività -mangiare, sfogliare libri e giornali, mettersi le dita nel naso - doveva essere svolta con la sinistra. Non era difficile, disse Whitefoot, e poi aveva a disposizione più tempo che all'inferno. Reinhart, come già detto, gli era grato. Continuò a leggere il romanzo di Ellroy, dormì, mangiò e ascoltò musica, e alle ventidue e trenta ora locale atterrarono a Sechshafen in un'Europa nebbiosa. Whitefoot si congedò. Per quella notte prese una camera in un albergo interno all'aeroporto, consegnò Clausen alle cure di Reinhart, Rooth, Moreno e Jung e augurò loro buon Natale. «Tre?» disse Reinhart. «Non c'era bisogno che veniste tutti quanti.» «DeBries e Bollmert aspettano in macchina» disse Moreno. Mancava un giorno alla vigilia di Natale. 39 Reinhart non aveva dato ordine di riunirsi e nemmeno nessun altro l'aveva fatto. Eppure alle dieci del giorno seguente, giovedì 24 dicembre, nel suo ufficio era presente un quartetto. La mattina della vigilia. Moreno e Jung erano seduti su un davanzale interno e cercavano di evitare di guardare la pioggia, che aveva iniziato a cadere nelle prime ore del mattino fugando rapidamente tutti i futili sogni di un bianco Natale. Grigio, bagnato e ventoso; la città aveva ritrovato il suo accordo di fondo. Un po' più lontano dalla pioggia, Reinhart se ne stava semisdraiato dietro la scrivania; deBries e Rooth occupavano le sedie dei visitatori ai due lati della rigogliosa stella di Natale che qualcuno (probabilmente la signorina Katz per ordine del capo della polizia in persona) aveva portato per decorare la stanza. «Allora è andata in porto, alla fine» commentò deBries. «Ottimo timing, bisogna proprio dirlo.» Reinhart accese la pipa e avvolse sia la pianta sia deBries in una nuvola di fumo. «Sì» disse. «In effetti.» «Quando arriva?» domandò Jung. Moreno guardò l'ora. «In mattinata» rispose. «Non ha voluto essere più preciso. Forse bisogna concedergli un certo spazio di movimento, conside-
rato... sì, considerato tutto quanto.» Reinhart annuì e si raddrizzò sulla sedia. «Cosa insolita, abbiamo ben pochi motivi di essere orgogliosi questa volta» fece notare lasciando correre lo sguardo sui colleghi. «Siccome comunque siamo qui, tanto vale che tiriamo le somme... prima che sia ora.» «Prima che sia ora» ripeté Rooth. «Uff.» «È stato l'assassinio del figlio del commissario il punto di partenza di questo caso» spiegò Reinhart, «ed è stato il commissario a portare la maggior parte dei contributi, per quanto riguarda la sua risoluzione. Questo non lo si può negare. Lui ha scoperto il motivo del ricatto, lui ci ha fornito il nome di Keller e lui sospettava che fosse stato Clausen a rifugiarsi a New York. Non chiedetemi come diavolo ha fatto, l'ultima intuizione gli è balenata mentre stava giocando a scacchi, così sostiene...» «Hanno trovato Keller?» chiese deBries. Reinhart annuì. «Le Houde è andato sul posto con il suo team e l'ha disseppellito stamattina. Non è stata necessaria la presenza di Clausen, sono bastate la cartina e la descrizione. Ci sarà ben poca gente quando lo tumuleranno per bene. Nessuno sembra rimpiangere Aron Keller, quant'è vero Iddio!» «La cosa non mi stupisce» commentò Moreno. «Il dottore, allora? Come sta il nostro assassino?» volle sapere Rooth. «Contento come una pasqua?» Reinhart fumò un attimo in silenzio. «Non so esattamente» rispose. «Non credo che riuscirà a reggere ancora per molto. Né cosa succederà quando incontrerà... no, non ne ho idea. Ho promesso di lasciarli soli. Spero che non succeda qualche casino.» Squillò il telefono. Era Joensuu dalla guardiola. «È arrivato» disse in tono solenne. «Il commissario è qui.» Si sentiva che stava sull'attenti mentre parlava. «All right» disse Reinhart. «Di' a Krause di accompagnarlo in cella. Arrivo fra un minuto.» Riattaccò e si guardò intorno. «Bene» disse, alzandosi. «Il commissario Van Veeteren è appena arrivato per interrogare l'assassino di suo figlio. Perché cazzo ve ne state qui a ciondolare?» La stanza era verde pallido e quadrata. L'arredamento molto semplice; un tavolo con due sedie d'acciaio, e altre due lungo una delle pareti. Niente
finestre; sul soffitto, tubi al neon che diffondevano una luce clinica e democratica sopra ogni centimetro quadrato. Nessun portacenere sul tavolo. Solo una caraffa d'acqua e una pila di bicchieri di plastica. Clausen era già al suo posto quando Van Veeteren entrò. Seduto al tavolo con le mani intrecciate davanti a sé e gli occhi bassi. Semplice camicia bianca, pantaloni scuri. Era rimasto seduto immobile per vari minuti; il commissario l'aveva osservato attraverso lo spioncino, prima di far segno a Krause e Reinhart di farlo entrare. Scostò la sedia e si sedette al tavolo. Clausen non alzò lo sguardo, ma Van Veeteren vide che i muscoli del collo e delle mascelle si tendevano. Aspettò. Intrecciò le mani allo stesso modo dell'assassino di suo figlio e si chinò leggermente in avanti sul tavolo. Passò mezzo minuto. «Sai chi sono?» domandò. Il dottor Clausen deglutì, ma non rispose. Van Veeteren vide che le sue nocche cominciavano a sbiancare e che la testa tremava. Piccole scosse oscillanti, come quelle che attraversano le chiome degli alberi prima della tempesta. Ancora non alzava lo sguardo. «Hai qualcosa da dirmi?» Nessuna risposta. Notò che Clausen tratteneva il respiro. «Ho un appuntamento con Elizabeth Felders fra un'ora» continuò Van Veeteren. «La madre di Wim, uno di quelli che hai ucciso. Devo riferirle qualcosa da parte tua?» Attese. Sono contento di non avere un'arma, pensò. Alla fine Clausen fece un respiro profondo e alzò lo sguardo. Incontrò quello del commissario con occhi che sembravano volergli scomparire dentro la testa. «Devi sapere...» cominciò, ma la voce non resse. Tossì un paio di volte e si guardò attorno inquieto. Fece un nuovo tentativo. «Devi sapere che solo due mesi fa ero una persona normale... del tutto normale, volevo solo dirtelo. Mi toglierò la vita non appena ne avrò l'occasione. Non appena ne avrò... l'occasione.» Tacque. Van Veeteren fissò quegli occhi spenti per cinque secondi. Avvertì che improvvisamente dentro gli succedeva qualcosa. Che la sua percezione della stanza cominciava ad affievolirsi, e che piano, ma in maniera inesorabile, veniva trascinato in un abisso scuro e vorticoso, che lo risucchiava... senza potergli resistere. Chiuse forte gli occhi e si appoggiò all'indietro.
«Buona fortuna» disse. «Non aspettare troppo, altrimenti tornerò a ricordartelo.» Rimase seduto ancora qualche minuto. Clausen prese a fissarsi di nuovo le mani, scosso dai tremiti. Il sistema di ventilazione ronzava. I tubi al neon emisero qualche ticchettio. Per il resto non accadde nulla. Poi Van Veeteren si alzò. Fece segno che voleva uscire e lasciò la stanza. Non scambiò una parola, né con Reinhart né con nessun altro. Andò dritto all'ingresso, aprì l'ombrello e uscì nella città. FINE