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BLACK KISS (Murder For Love, 1996) a cura di OTTO PENZLER A Carolyn l'amore della mia vita Indice Introduzione di Otto Penzler Tempo per morire di William J. Caunitz Per chi suona il bip di Carol Higgins Clark Senza dubbio un delitto passionale di Mary Higgins Clark Sorgenti calde di James Crumley L'amore che ottieni di John Gardner Il persecutore di Faye Kellerman Cosa non facciamo per amore di Jonathan Kellerman Karen fa colpo di Elmore Leonard Argilla rossa di Michael Malone Nancy Drew ricorda (Una parodia) di Bobbie Ann Mason Fuggendo da Legs di Ed McBain Al Paradise Motel di Sparks, Nevada di Joyce Carol Oates Casa cuore infranto di Sara Paretsky Il ricattatore di Anne Perry Per ciò che lei aveva fatto di Shel Silverstein Un vero crimine di Donna Tartt Introduzione Contrariamente all'accezione comune, l'opposto di amore non è odio. È indifferenza. Amore e odio sono troppo intimamente connessi per essere separati da tempo o circostanze. Fintanto che l'uno vive, vive potenzialmente anche l'altro. Solo quando l'amore, o l'odio, sbiadisce nell'indifferenza questi due forti sentimenti non dividono più lo stesso recesso del cuore. I racconti che seguono sono una celebrazione dell'amore. D'accordo, concediamo pure che, nella maggior parte di questi racconti, almeno una persona muore di morte violenta. È soltanto amore finito male. Non c'è
niente di sbagliato nell'amore, bensì solo nelle persone che ne fanno l'esperienza, talvolta, o in quelle che non la fanno. Affinché si verifichi un delitto passionale, deve esserci, naturalmente (o, di tanto in tanto, innaturalmente), una passione. Potete immaginare quanto una persona debba amare un'altra persona per voler uccidere? Non è una manifestazione di semplice simpatia, per quanto forte. Sentire l'impulso no, il bisogno - di uccidere qualcuno è prova di un sentimento davvero profondo. A meno che non si tratti di un pazzo, naturalmente, e l'intera faccenda abbia senso solo per l'omicida. Mentre alcuni argomenterebbero che chiunque uccida un altro essere umano è malato di mente, si potrebbe agevolmente sostenere che a volte, in determinate circostanze, uccidere qualcuno è il comportamento più appropriato, la cosa giusta. L'infedeltà è la ragione migliore per uccidere una persona amata. Non si può davvero incolpare nessuno per non essere più innamorato; tragicamente, capita. Ma essere amati sinceramente e distrarsi da quella passione, darla per scontata e rischiare di perderla per un momentaneo piacere, significa diventare il bersaglio primario di una rappresaglia passionale. Un atto così estremo vi sembra patologico, o implausibilmente freddo, o tanto anomalo da non toccare le vite comuni o le persone comuni? Pensateci un momento. Storie simili appaiono con regolarità in film, romanzi, programmi televisivi, giornali e, ciò che più conta, sulle pagine che seguono. Ogni racconto di questa raccolta è stato scritto appositamente e non è mai apparso altrove prima che in questo volume. Il tema ha indotto alcuni dei più notevoli scrittori d'America a raccontare storie di amanti che strada facendo hanno imboccato una svolta sbagliata, e le conseguenze della loro follia, motivate che fossero da avidità, lussuria o paura. In questa antologia ci sono racconti per tutti, ma specialmente per innamorati. La diversità degli autori qui rappresentati assicura il divertimento al lettore di narrativa del crimine, d'amore, e narrativa di qualità in genere. Sono inclusi lavori di scrittori prolifici di racconti (come Joyce Carol Oates, Ed McBain e Mary Higgins Clark), quanto di altri che ne scrivono raramente (il primo racconto di Elmore Leonard in trent'anni, o di James Crumley in ventitré anni) e perfino di alcuni che non hanno mai scritto prima un racconto breve sul crimine (William J. Caunitz, Carol Higgins Clark e Shel Silverstein). In questi racconti ci sono persone che vengono ferite e ci sono persone
che muoiono. Certi racconti sono un po' più romantici di altri, alcuni sono più crudi, altri meno tradizionali, ma offrono tutti un grande piacere di lettura. Si spera che la confezione di queste prelibatezze del crimine dall'aroma sensuale risulti tanto gratificante da essere riletta nelle occasioni speciali, come il giorno di San Valentino o l'anniversario del matrimonio. O l'anniversario della volta in cui avete pensato di essere infedeli e avete resistito. O, se non avete resistito, di quando foste così fortunati da non essere scoperti e doverne pagare le conseguenze. Otto Penzler WILLIAM J. CAUNITZ Per quante ricerche un autore faccia, per quanto meticolosamente i fatti vengano controllati, nessuno sa imprimere a un racconto poliziesco la sensazione di verosimiglianza come può farlo un poliziotto. Joseph Wambaugh fu il primo autore importante a dimostrarlo, ma nessuno, durante l'ultimo decennio, ha avuto maggior successo nello scrivere racconti polizieschi di William J. Caunitz. Nella polizia di New York per trent'anni (be', in effetti ventinove anni e qualche mese, dal momento che si ritirò dal corpo dopo l'enorme successo del suo primo romanzo, One Police Plaza), egli si fece strada lavorando da semplice poliziotto a sergente, e durante questo tempo vide tutto quanto c'era da vedere del lato basso della vita umana. A parte la burocrazia, che sembra pervadere tutti i dipartimenti governativi, amava quella vita. Il suo entusiasmo si trasmise a quelli intorno a lui, evidentemente, visto che una delle sue figlie è diventata anch'essa funzionario di polizia. Questo è il primo racconto breve che William J. Caunitz abbia mai scritto. La vita, e spesso la morte, sono troppo complesse per cercare di descriverle in poche pagine soltanto, dice lui. Ma gli elementi passionali di quelle vite sono stati superbamente trasmessi nelle pagine che seguono. Tempo per morire Il detective John Parker entrò nella stanza della squadra al secondo piano del Diciassettesimo distretto, andò direttamente al registro di servizio, e firmò la sua presenza al lavoro alle 8,00. L'intestazione in cima alla pagina diceva: Domenica 23 aprile 1995.
Joe Carney, un tipo grande e grosso con una lucida testa pelata, stava finendo il turno di notte battendo a macchina furiosamente. Aveva tutta l'aria di chi ha fretta. «Niente da segnalare?» chiese Parker. «No. Le solite frescacce del sabato notte.» Carney sfilò il rapporto dalla macchina per scrivere e disse: «Starò fuori di qui per tre giorni.» «Goditi la pausa» lo incoraggiò Parker, e gironzolò per la stanza vuotando cestini stracolmi di cartastraccia in un largo fusto di cartone. Tornando alla scrivania, tirò su la finestra aprendola il più possibile. Una brezza primaverile invase la stanza. Fuori, auto della polizia erano parcheggiate in doppia fila sulla 51a Strada Est e lungo la 3a Avenue. Osservò i fedeli, nei vistosi abiti primaverili della festa, sciamare verso ovest sulla 51a per arrivare in tempo alla messa delle nove alla cattedrale di St. Patrick, a tre isolati di distanza. Sospirò al pensiero di dover lavorare in una giornata così bella e, assaporando il profumo della primavera, tornò alla sua scrivania. Generalmente al Diciassettesimo il lavoro della domenica era tranquillo, giusto l'occasione per un detective di mettersi in pari con il lavoro d'ufficio. Parker infilò nella macchina per scrivere il seguito di un rapporto su un caso. John Calvin Parker aveva le spalle ampie e profondi occhi blu. A quarantasette anni i suoi capelli erano ancora neri e ondulati, senza una traccia di grigio. La sbiadita cicatrice da rasoio che gli orlava la palpebra destra dava al suo viso segnato dalle intemperie un'aria fascinosa. Aveva appena terminato di liquidare un vecchio caso di rapina con "nessun esito" quando squillò il telefono. Lo sollevò di scatto: «Diciassettesimo distretto, detective Parker.» «Ehi, Parker abbiamo appena scoperto un doppio omicidio al 42 di Sutton Place South» riferì il burbero sergente della reception. Parker imprecò e sbatté giù il telefono. La scena del delitto era nell'appartamento dell'attico nord di un condominio di lusso che dava sull'East River. Due uscieri in livrea stazionavano all'ingresso mentre il portiere, in piedi dietro un'alta scrivania di mogano nel centro dell'elegante atrio, attendeva alle necessità degli inquilini e dei loro ospiti. Quando Parker uscì dall'ascensore ed ebbe raggiunto il foyer di marmo a volta dell'attico nord, fu salutato dal sergente Luther Johnston, il capopattuglia del Diciassettesimo. «È un brutto affare, Parker.» «Di solito è così.» Parker guardò i tre poliziotti che cercavano di conso-
lare la donna ben vestita accasciata su una delle poltrone di broccato dorato del foyer. Aveva il viso sepolto tra le mani; stava piangendo. «Chi è la signora?» «Elizabeth Gardner. Questo è l'appartamento di sua figlia.» Parker guardò la striscia di nastro giallo da scena del delitto tesa lungo il passaggio ad arco che immetteva nel soggiorno. «Qual è la storia, sergente?» domandò. Il capopattuglia lesse dai suoi appunti. «Mary Ann Gardner, di ventinove anni, viveva sola, sua madre arriva intorno alle nove e trenta stamattina per fare colazione con lei, entra con la propria chiave, scopre la figlia e un'altra donna stecchite nel soggiorno, comincia a urlare, un vicino la sente e telefona giù al portiere.» «E l'altra donna?» «Adele Harrison, 46 anni, vive nell'appartamento 16AS nell'ala sud di questo edificio. Sposata con J. Franklin Harrison.» «Quello della Harrison Farmaceutica e dell'Aviazione Harrison?» «Proprio lui.» «Il marito è stato informato?» «Non ancora. Secondo il portiere, è partito sabato per un viaggio d'affari e non è ancora ritornato.» Parker mosse qualche passo e si fermò accanto al nastro giallo, gli occhi esperti che squadravano la scena del delitto. La grande stanza aveva una parete di vetro che dominava il fiume e un'ampia terrazza con una quantità di piante. La spessa massa del tappeto era beige, e i divani e le poltroncine erano rivestiti di seta bianca marezzata. Sulle pareti erano appesi cinque dipinti di Muehl del periodo greco. Due donne giacevano morte sul pavimento, i corpi distanti circa sei metri. Il corpo più vicino alla terrazza indossava una vestaglia di seta bianca su una bianca camicia da notte. I piedi nudi erano rivolti verso l'altro corpo. Adele Harrison giaceva sulla schiena a circa un metro dai gradini che scendevano dal foyer. Aveva indosso un abito di Chanel bianco e arancione. Accanto al piede destro c'era un revolver Smith & Wesson calibro 32, vicino a una borsetta di coccodrillo aperta. Parker ne fu distolto dai gemiti di Elizabeth Gardner e delle parole rasserenanti dei poliziotti che cercavano di confortarla. Il sergente Johnston sussurrò a Parker: «Sembra che la Harrison sia entrata, abbia sparato alla Gardner e poi abbia sistemato se stessa.» Parker guardò la giovane faccia del sergente, sorrise e, chinandosi sotto
il nastro, entrò nel soggiorno. Il fetore rancido della morte già inquinava l'aria. È sorprendente come alcuni di noi si abituino a questo tanfo, pensò lui, attraversando la stanza fino al corpo di Mary Ann Gardner. Giaceva sulla schiena con le braccia divaricate lungo i fianchi; l'occhio sinistro era aperto, quello destro chiuso. Al centro della fronte il foro frastagliato di un proiettile; il sangue formava una pozza attorno alla testa, incrostandole di una fanghiglia cremisi i lunghi capelli biondi. Il corpo era rigido per il rigor mortis. Tutto il sangue si era depositato sul fondo del cadavere facendo sì che dalla vestaglia trasparisse un lividore bluastro. Adele Harrison aveva la gonna sollevata sopra le ginocchia, e la gamba sinistra era piegata sgraziatamente sotto quella destra. Entrambi gli occhi erano chiusi e la bocca aperta. Un pesante tatuaggio di polvere da sparo circondava il foro di proiettile sulla tempia destra. Parker si mise giù a quattro zampe e, abbassando la faccia vicino al revolver, scrutò nel tamburo. Erano stati usati due colpi. Si alzò in piedi proprio mentre il sergente Johnston gli gridava: «È arrivata la Scientifica.» Parker si guardò attorno e vide giungere nel foyer due detective che trasportavano delle valigie nere. «Datemi ancora qualche minuto da solo» chiese alle facce familiari. «Nessun problema, John» disse il più anziano. Parker guardò la madre di Mary Ann Gardner. Si stava tamponando gli occhi con un fazzoletto. Lei colse il suo sguardo indagatore e fece un tentativo di rassettarsi i capelli. Lui si allontanò entrando nella camera da letto principale. Il grande letto era tutto in disordine, con le lenzuola avvoltolate che pendevano dai lati. La parte superiore sinistra del lenzuolo disotto si era staccata dal materasso. Due dei quattro cuscini erano sul pavimento. Al centro del lenzuolo c'era una macchia, con un pelo nero arricciato in mezzo. Lui ci accostò il naso e annusò l'inconfondibile odore muschiato del sesso. Guardò in giro per la stanza ammobiliata con gusto in cerca della borsetta di Mary Ann Gardner. Non la vedeva. Non l'aveva notata nemmeno nel foyer o in soggiorno. Entrò nel bagno; non era lì. Tornando nella stanza matrimoniale i suoi occhi si concentrarono sul letto sfatto. Si avvicinò e si inginocchiò, passando la mano sotto le lenzuola. Non sentendo nulla, le sollevò e guardò sotto il letto, individuando la borsetta dritta contro la parete sul lato destro del letto. La tirò fuori, e sedendosi sul pavimento con la schiena contro il letto, la aprì. Svuotò la tasca dei cosmetici. Lo spesso portafogli era imbottito di carte di credito, trecentodieci dollari, la
patente di guida e i documenti dell'auto. C'erano diverse fotografie di Mary Ann con amiche. Una foto di lei e i suoi genitori. Si infilò in tasca le fotografie, e tirò fuori l'agenda del telefono e degli appuntamenti. Girò le pagine fino al giorno prima, sabato 15 aprile. L'appunto per l'una del pomeriggio diceva: "Jean per il pranzo da JD". La nota seguente destò la sua attenzione: "Ore 15: ragazzo d'amore". Sfogliò le pagine scorrendo le annotazioni. C'erano un sacco di note "ragazzo d'amore". Parker disse ai detective della Scientifica che voleva misurazioni esatte e uno schizzo della scena del delitto in aggiunta alle fotografie e alle impronte digitali. «Sul letto c'è del liquido seminale e un pelo pubico nero. Vorrei che faceste il test del Dna su tutti e due.» Improvvisamente si allontanò dai detective e sollevò la camicia da notte di Mary Ann Gardner. I suoi peli pubici erano biondi. Tornando ai detective disse: «Vorrei anche che passaste al setaccio il cuscino e il letto.» I detective aprirono le loro valigie e si misero al lavoro. «Salve, Jack.» Il dottor John Goldman lavorava da oltre dieci anni con l'ufficio di Medicina Legale di Manhattan. Era un tipo basso, con labbra sottili e un sorriso allegro. «Come mai ti sei scomodato, dottore? Generalmente ci dici di etichettarli e insaccarli.» «Siamo tenuti tassativamente a rispondere di tutti gli omicidi dei quartieri alti. E in questa città Sutton Place South è più o meno il più alto che c'è.» Parker ne convenne, e lo osservò inginocchiarsi per esaminare il corpo di Adele Harrison. Dopo che ebbe finito lì, raggiunse ed esaminò l'altra salma. Dopo cinque minuti tornò di nuovo da Parker e disse: «Non posso esserne certo finché non li avrò sul tavolo operatorio, ma penserei a un arco di tempo tra le dieci e mezzanotte.» Una strana espressione alterò il medico legale mentre abbassava gli occhi sul corpo con il foro nella tempia e diceva seccamente: «Sembra che qualcuno ti abbia giocato un bel tiro.» «I casi complicati non sempre sono difficili, dottore. Lo sai questo.» «Perché tutti i detective che conosco sono dei filosofi?» «Perché trattiamo con la merda del mondo.» La stanza da letto degli ospiti aveva un letto a rotelle di ottone contro una parete e una libreria sull'altra. Accanto alla finestra che dominava il fiume c'era una scrivania con sopra un computer, una stampante laser e un fax. L'attenzione di Parker venne attratta dal cursore della posta elettronica
che lampeggiava sullo schermo del computer. Una mascherina posata in cima alla tastiera indicava le varie funzioni che ciascun tasto eseguiva. F10 era il tasto della posta elettronica; lo schiacciò. Sullo schermo apparve: HAI UN MESSAGGIO PERSONALE. Premette di nuovo il tasto e saltò fuori: TI AMO, E NON VEDO L'ORA DI ESSERE DI NUOVO CON TE. SARÒ DI RITORNO DOMENICA POMERIGGIO VERSO LE SEI. VERRÒ DIRETTAMENTE SU DA TE. FRANK. Uscendo nel foyer, Parker fece cenno ai poliziotti di allontanarsi dalla madre della vittima. Trascinò lì una sedia, le si sedette di fronte e disse, sommessamente: «Io sono John Parker, signora Gardner, e sono stato incaricato di investigare su questa tragedia.» Lei lo guardò, il viso adombrato dall'incredulità, «Perché qualcuno avrebbe voluto far del male alla mia Mary Ann? Lei non ha mai fatto male a nessuno in vita sua. Perché? Perché?» «Sua figlia viveva sola?» «Sì. Non era sposata.» «Conosceva bene la signora Harrison?» Lei scosse la testa e disse: «Mary Ann con me non ha menzionato mai una volta il suo nome. Non penso che la conoscesse.» «E cosa mi dice dei suoi ragazzi?» «Mia figlia non mi parlava mai di questa parte della sua vita.» «La sua Mary Ann la stava aspettando oggi?» «Sì. Ieri ci eravamo sentite e avevamo stabilito di fare colazione insieme oggi. Io ho la mia chiave, e lei aveva lasciato detto al portiere di non annunciarmi. Temeva di poter essere sotto la doccia quando sarei arrivata e non voleva che dovessi aspettare nell'atrio.» «Mi racconti cosa è successo quando è arrivata qui stamattina.» La sua faccia si irrigidì mentre cercava di richiamare alla mente ogni cosa. «Sono uscita dall'ascensore e ho camminato lungo il corridoio fino alla porta. Ho tirato fuori la mia chiave e sono entrata. Non appena ho messo piede nel foyer ho capito che qualcosa non andava. Quell'odore terribile e il silenzio. L'appartamento di Mary Ann era sempre rumoroso, musica, televisione, lei al telefono. Ho chiamato il suo nome e non c'è stata risposta. Ho fatto per entrare in soggiorno e le ho viste, morte sul pavimento. Ho perso il controllo e mi sono messa a urlare. La cosa seguente di cui ho memoria è che l'appartamento era pieno di poliziotti.» «Ricorda di aver toccato nulla in soggiorno, o di essersi precipitata ad abbracciare sua figlia?»
«Non ricordo. Non credo di essermi mossa dal foyer. Parker udì il fotografo scattare istantanee della scena del» delitto. «Signora Gardner, può pensare a una ragione qualsiasi per cui qualcuno volesse fare del male a sua figlia?» «No.» «Ha detto a suo marito cosa è successo?» «David è morto quattro anni fa.» «Sua figlia lavorava?» «No davvero. Aveva ereditato diversi titoli dai suoi nonni e da suo padre. Sognava di diventare una sceneggiatrice. Avrà scritto una dozzina di sceneggiature, ma nessuna è stata mai prodotta. Era molto eccitata per l'ultima. Riguardava le "relazioni".» «Quando ieri ha parlato con Mary Ann, come le è sembrata?» «Molto allegra. Aveva trovato un produttore interessato alla sua sceneggiatura.» «Le ha detto il nome del produttore?» «No, non l'ha menzionato.» «Lei non era curiosa?» «Certo che lo ero. Ma se Mary Ann voleva che lo sapessi, me l'avrebbe detto lei.» «Chi è Jean?» «Jean Bailey era la più cara amica di Mary Ann.» Le lacrime avevano fatto sciogliere il trucco di Elizabeth Gardner; il mascara le imbrattava gli occhi. Era una bella donna con lunghe gambe, zigomi alti, e labbra carnose. Aveva profondi occhi marroni che sembravano quasi neri. Parker continuò l'interrogatorio per altri quindici minuti e poi chiese a uno dei poliziotti in divisa di accompagnare a casa in macchina la donna affranta. Gli uscieri avevano chiuso a chiave l'ingresso principale, in modo da tenere fuori la folla arrogante dei media che era calata sul condominio di Sutton Place. Gli uscieri voltavano le spalle all'orda, ignorandola. Camminando verso il portiere, Parker guardò fuori i microfoni incappucciati di nero premuti contro le porte di vetro, e domandò all'uomo dietro la scrivania, «Da quanto tempo sta lì fuori il branco di lupi?» «Sono arrivati poco dopo di lei.» Parker tese la mano: «Io sono John Parker.» «Frank Baffin» disse il portiere, stringendogli la mano.
«Da quanto tempo lavora alla reception?» chiese Parker. «Fanno ventun anni a dicembre.» Era un uomo basso, alacre, con ciuffi di capelli grigi che gli spuntavano ai lati della testa per il resto calva. Piccoli, tondi occhi verdi scrutavano da sotto le sopracciglia sporgenti. «Suppongo che lei potrebbe raccontare un bel po' di storie, eh?» «Ehi, per quando andrò in pensione sto pensando di scrivere un libro sulle monellerie della gente che vive a Sutton Place.» Guardando verso il registro dei visitatori, Parker domandò: «Tutti i visitatori vengono registrati in quel libro?» «Sì, eccetto quando li accompagna un inquilino.» «Tutti i visitatori non accompagnati vengono annunciati?» «Sì, tranne quando un inquilino lascia detto di non farlo. Ma questo succede soltanto per i parenti stretti.» «La signora Harrison era elencata come visitatrice per l'appartamento di Mary Ann Gardner, ieri?» «No. Ho controllato. Ho telefonato ai ragazzi che erano di servizio la sera e la notte scorsa e hanno detto entrambi di non avere mai nemmeno visto la signora Harrison ieri.» «C'era un modo perché lei giungesse lì senza passare attraverso l'atrio?» Baffin spiegò che l'atrio separava l'ala nord dell'edificio da quella sud, ma che al seminterrato un corridoio collegava le due linee degli ascensori. Parker disse: «Così, chiunque, dal seminterrato può raggiungere l'ascensore nord o quello sud e salire a qualsiasi appartamento senza dover essere visto o annunciato.» «Sì. Ma soltanto gli inquilini hanno libero accesso al seminterrato.» «E cosa mi dice dei fattorini?» «Entrano tutti dall'ingresso di servizio e vengono accompagnati dai facchini fino all'appartamento.» «Quando è aperta l'entrata di servizio?» «Dalle otto di mattina fino alle sei di sera, e di sabato fino alle cinque. È chiusa di domenica.» «Cosa mi dice del garage?» «È sul lato dell'edificio sulla Cinquantaquattresima, ed è soltanto per gli inquilini. C'è una fessura in cui infilano una chiave di plastica che apre la porta, oppure possono usare un comando di apertura automatica. Parcheggiano l'auto e passano attraverso una porta sul retro che conduce nel seminterrato.» Parker indicò il registro dei visitatori. «Questi quanto tempo vengono
conservati?» «Due anni, poi vengono buttati via.» «Le dispiace se do un'occhiata?» «Faccia pure.» La prima registrazione era del 10 dicembre dell'anno precedente. Il giorno e la data erano in cima a ogni pagina. La colonna sulla sinistra elencava l'ora, seguita dal nome del visitatore, l'inquilino e il numero dell'appartamento. L'ultima colonna elencava l'ora in cui il visitatore aveva lasciato l'edificio. Mentre sfogliava le pagine vide che Mary Ann Gardner aveva avuto molti ospiti maschili, tutti di sera. Nessuno di loro restava per la notte. «Conosce qualcuno di questi uomini?» «No. Venivano da me, mi davano il nome e io telefonavo, e lei diceva: "Mandali su".» Parker prese il registro e camminò fino al gruppo di divani blu. Tirata fuori l'agendina degli appuntamenti di Mary Ann, la sfogliò fino alla prima nota "ragazzo d'amore" di domenica 15 gennaio 1995, alle sette pomeridiane. Aprì il registro dei visitatori allo stesso giorno e ora e non vide alcuna registrazione corrispondente, né ce n'era una per le altre quindici annotazioni "ragazzo d'amore" nell'agendina degli appuntamenti. La pagina del registro relativa al giorno prima aveva una striscia di carta appuntata in alto. La staccò. Conteneva una lista di nomi. «Cos'è questa?» domandò, tenendola sollevata. «La notte scorsa i Goldman hanno dato una festa nell'appartamento 12CS. Quella è la lista dei loro ospiti. L'hanno lasciata qui alla reception. In questo modo noi li controlliamo quando arrivano e non dobbiamo infastidire i Goldman annunciando ciascuno dei loro ospiti.» Parker ripiegò la striscia di carta e se l'infilò in tasca. Restituì il registro dei visitatori e domandò a Baffin: «La signorina Gardner si portava a casa un sacco di uomini?» «Non so cosa lei definirebbe un sacco, ma sicuramente non si sentiva mai sola. Portava sempre dei tipi a casa con lei. La maggior parte non li ho più rivisti.» Jean Bailey, un'attraente brunetta sulla trentina, era nervosa. Seduta sulla terrazza del suo appartamento della 79a Strada Est, giocherellando con un cucchiaio, guardò al di là del tavolo di vetro e disse a Parker: «Non riuscivo a crederci quando l'ho sentito alla radio.» «Mi hanno detto che lei era una delle sue più care amiche.»
«Sì, eravamo molto intime.» «Mi racconti di lei, com'era?» «Aveva un gran senso dell'umorismo, amava stare con la gente, e voleva più di ogni altra cosa essere una sceneggiatrice.» «Da quanto tempo conosceva Adele Harrison?» «Non penso che Mary Ann la conoscesse. A me non ha mai menzionato il suo nome.» «Cosa mi dice dei suoi ragazzi?» Gli occhi di Jean caddero sulla tazza di caffè vuota; cominciò a mordicchiarsi il labbro inferiore. «Non so niente riguardo a questo.» Le sue parole mancavano di convinzione. «È importante che io scopra tutto quello che c'è da sapere sulla vita di Mary Ann. La prego.» Lei afferrò dal tavolo un pacchetto di sigarette e se ne accese una. Soffiando fuori il fumo disse: «Mary Ann non aveva un ragazzo, ne aveva un sacco. Non voleva mai che qualcuno di loro la portasse fuori a cena o cose del genere. Tutto ciò che voleva era che andassero nel suo appartamento e la portassero a letto.» Tirò un'altra boccata dalla sigaretta. «Lei ha conosciuto nessuno dei suoi amanti?» «No.» «Dove incontrava questi tipi?» «Nel quartiere. Alla New School dove faceva dei corsi. Le piaceva andare al locale di Johnny Diamond; li avrà incontrati lì.» Scrollò la cenere della sigaretta, e chiese sommessamente: «Perché quella donna ha ucciso Mary Ann?» «Non ne siamo ancora sicuri. Mary Ann se la faceva con uomini sposati?» «Non lo so. Era molto riservata sulla sua vita amorosa.» «Da quanto conosceva Adele Harrison?» «Gliel'ho già detto. Per quanto ne so io, Mary Ann non la conosceva.» «Avete pranzato insieme ieri, giusto?» «No. Mary Ann ha disdetto. Disse che stava aspettando compagnia. Il che significava che stava arrivando uno dei suoi amanti. Ci siamo intrattenute al telefono per un po' e abbiamo programmato di andare a pranzo lunedì.» «Le ha detto chi avrebbe visto?» «No, non l'ha fatto. Come le ho già spiegato, Mary Ann non era certo famosa per divulgare i nomi degli uomini con cui dormiva.»
«Ho sempre pensato che le donne confidassero queste cose alle loro amiche intime.» Jean sorrise mentre schiacciava la sigaretta nel posacenere. «Le donne non sono tutte uguali, detective.» «Di che cosa avete parlato voi due?» «Lei era eccitata riguardo alla sua ultima sceneggiatura. Mi raccontò che un produttore era interessato a farne un film.» «Le disse il suo nome?» «No.» «Mary Ann sarà stata felice.» «Era elettrizzata. Non l'ho mai vista tanto eccitata.» «Sono sorpreso che non le abbia detto il nome del produttore. Credevo che l'avrebbe fatto.» «Lo so, è strano. Non da lei. Ho avuto la sensazione...» «Cosa?» «Dal modo in cui non la finiva più di cantare le lodi di questo produttore, ho avuto la sensazione che fosse lui quello che doveva vedere ieri.» L'uomo aprì la porta ed entrò furtivamente nell'appartamento di Mary Ann Gardner. Quando vide Parker seduto nel foyer con l'astuccio del distintivo che gli penzolava dalla mano destra, rimase di stucco. «Chi diavolo è lei?» domandò. «Detective John Parker, Diciassettesimo distretto.» Studiò per pochi secondi l'uomo di bell'aspetto, vestito bene, prima di dire: «Signor Harrison, sua moglie e Mary Ann sono morte entrambe.» Le gambe di Harrison si piegarono. Guardò Parker attonito, digerendo in silenzio le parole che aveva appena udito. «Che cosa ha detto?» Parker glielo ripeté. «Come?» disse Harrison. «Sembra che sua moglie abbia sparato alla signorina Gardner e poi si sia tolta la vita. Il revolver che ha usato era registrato a suo nome.» Harrison barcollò contro la parete. Parker si precipitò da lui, e lo aiutò a sedersi su una sedia. «Non ci credo» disse Harrison. «Temo che sia vero.» «Tenevo quella maledetta pistola in una scatola di scarpe in cima all'armadio nella nostra camera da letto. Non la toccavo da anni. Venerdì avevo
deciso di venderla a uno dei commercianti d'armi vicino alla centrale di polizia, e l'avevo tirata giù. L'ho lasciata sul mio cassettone. Me ne sarei liberato lunedì.» «Sua moglie quando ha scoperto della relazione?» Scuotendo la testa con incredulità, lui disse: «Non pensavo che sapesse.» «Da quanto tempo aveva una storia con la signorina Gardner?» «Ci eravamo conosciuti in gennaio da Johnny Diamond. La relazione è cominciata immediatamente, la prima notte.» «Come riusciva a passare dall'altro lato dell'edificio senza essere visto dagli uscieri o dal portiere?» «Prendevo l'ascensore per il seminterrato e raggiungevo gli ascensori della colonna nord.» «Nessuno l'ha mai visto andare su e giù?» «No. Metà degli inquilini di questo palazzo hanno altre case.» «Quando ha visto Mary Ann l'ultima volta?» «Sabato. Avevo lasciato il mio appartamento all'una. Avevo un appuntamento a Philadelphia la notte scorsa. Ho lasciato l'appartamento di Mary Ann alle tre.» «Come è arrivato a Philadelphia?» «In treno.» «In quale hotel stava?» «Il Winston.» «Qualcuno degli uscieri o il portiere non le hanno raccontato cos'era successo quando è tornato a casa?» «Non mi hanno visto. Sono entrato dal garage e sono venuto direttamente qui.» «Avrebbe prodotto la sceneggiatura di Mary Ann?» «Io non lavoro nel cinema. Ho mostrato la sua sceneggiatura a un produttore amico mio e lui era interessato.» I suoi occhi si restrinsero. «Come ha saputo che vedevo Mary Ann?» «Ho letto la sua posta elettronica.» «Le avevo detto di usare una parola chiave, ma lei non pensava di averne bisogno perché viveva da sola.» «Devo presumere che lei ha una parola chiave per la sua posta elettronica?» «Certo che ce l'ho.» «Sua moglie la conosceva?» «No. Adele e io rispettavamo la reciproca privacy.» I suoi occhi si con-
centrarono sulle macchie di sangue sul tappeto del soggiorno. «Chi le ha trovate?» «La madre di Mary Ann.» «La sua matrigna» sbottò lui. «Loro non si potevano soffrire.» «Ho avuto l'impressione che fossero molto intime.» «Proprio il contrario. Il padre di Mary Ann le aveva lasciato l'intero patrimonio. È stato sposato con Elizabeth solo per tre anni, e lei aveva firmato un accordo prematrimoniale che le assegnava trecentomila dollari nell'eventualità della morte di lui. Non sono certo un sacco di soldi per una donna con il suo tenore di vita.» «Signor Harrison, ho bisogno di andare con lei al suo appartamento.» «Perché?» «Ha una segreteria telefonica?» «Sì.» «Ho bisogno di ascoltarla.» «Mia moglie odiava le pistole. Non credo che ne avesse mai tenuta in mano una. Detective, Adele era una donna religiosa. Non avrebbe mai ucciso un altro essere umano, e sicuramente non si sarebbe mai suicidata.» «Capisco.» «Posso entrare?» chiese Parker quaranta minuti più tardi, gli occhi fissi sulla faccia di Elizabeth Gardner. Lei si fece da parte. Lui entrò nel suo appartamento al quattordicesimo piano di Park Avenue, scrutando il grande soggiorno. Si voltò a fronteggiarla. Una contrazione nervosa le molestava l'occhio destro. Parker disse: «Le donne non commettono mai suicidio facendosi saltare le cervella, semplicemente non lo fanno.» La bocca di lei si spalancò. «Adele Harrison ha registrato la vostra conversazione sulla sua segreteria telefonica. È tutto lì, lei che le racconta della relazione, suggerendo di raggiungerla nel suo appartamento per discuterne. Non era certa di cosa avrebbe fatto, vero? Tutto ciò di cui era certa è che Mary Ann era felice per la sua sceneggiatura e lei la odiava ancora di più per questo, e voleva causarle sofferenza. Raccontò al portiere che stava andando alla festa dei Goldman. Invece andò all'appartamento degli Harrison. A un certo punto Adele Harrison si allontanò. Fu allora che vide la pistola di suo marito sul cassettone. Allora tutto quadrò, non è così? Si introdusse velocemente nella camera da letto, prese la pistola e se la infilò nella borsetta. Poi voi due andaste all'appartamento di Mary Ann. Mentre loro si confrontavano, lei
rimase in piedi accanto ad Adele. A un certo punto tirò fuori la pistola, le sparò alla tempia e poi uccise Mary Ann. Dopo pulì la pistola eliminando le impronte digitali, la premette nella mano di Adele per far rimanere le sue impronte sulla pistola, la lasciò cadere sul pavimento accanto al corpo e infine andò alla festa dei Goldman.» «Non può provare niente di questo.» «Sto ottenendo un mandato per portare i suoi vestiti al laboratorio. I nostri della Scientifica troveranno particelle di polvere da sparo che combaciano con il tatuaggio di polvere sulla tempia di Adele Harrison. Questo e il nastro la faranno condannare.» Il colore defluì dal viso di lei. «Perché, Elizabeth?» «Soldi. Avrei ereditato io se Mary Ann fosse morta.» «Come scoprì della relazione?» «Passai inaspettatamente a trovare Mary Ann. Il portiere era occupato e non mi vide, così salii tranquillamente. Entrai e li trovai a letto.» Cominciò a tremare. «Che cosa mi succederà?» «Probabilmente passerà il resto della sua vita in prigione.» Si alzò in piedi lentamente e si precipitò fuori in terrazzo. Lui le corse dietro. Lei si lanciò oltre la ringhiera. Lui scattò per afferrarla, ma era andata. Osservando il suo tuffo silenzioso verso la strada, pensò alle due donne assassinate e si rese conto che tutti hanno il loro tempo per morire. CAROL HIGGINS CLARK Sarebbe ingenuo, perfino ridicolo, pensare che Carol Higgins Clark non partisse avvantaggiata quando ultimò il suo primo romanzo giallo, Decked. Sua madre, Mary, era saldamente affermata come la scrittrice di gialli di maggior successo al mondo, ed era prevedibile che qualcosa di quella fama e affezione si sarebbe riversata sulla figlia. In effetti, il primo libro ebbe numerose ristampe in edizione cartonata e poi entrò nella classifica dei best seller tascabili. Tutto andò come sperato e pronosticato. Ma l'affezione all'opera di uno scrittore, sebbene possa rendere un lettore abbastanza curioso da comprare il libro di un parente, non può estendersi a un secondo acquisto. Se i lettori comprarono Decked perché amavano Mary Higgins Clark, comprarono poi Snagged perché amavano Carol Higgins Clark. E Snagged, la storia di un omicidio durante un raduno di venditori di collant in un hotel dove si tiene parallelamen-
te un raduno di direttori di pompe funebri, andò ancora meglio del primo libro. Entrò nella classifica nazionale dei best seller sia in edizione cartonata che come tascabile. Il terzo libro, Iced, è stato il successo più grande di tutti. La splendida attrice-neoscrittrice ha goduto del successo in due carriere, essendo stata la sua fama come autrice di best seller preceduta da quella di protagonista di film girati anche per la televisione. Con Per chi suona il bip si lancia in tutt'altra direzione. La creatrice dei divertenti gialli di Regan Reilly ha prodotto il suo primo racconto breve, alcuni elementi del quale sono basati, ci crediate o no, su fatti realmente accaduti. Per chi suona il bip Se soltanto la segreteria telefonica non avesse smesso di funzionare... Ellie Butternut aprì la porta del suo appartamento con un sospiro di sollievo, e se la richiuse dietro sbattendola. La vista del suo piccolo ma confortevole appartamento al pianterreno di un vecchio edificio di due piani a West Hollywood alleviava sempre la tensione accumulatasi durante la giornata. Si lasciò cadere sul divano, si tolse le scarpe, e allungò i piedi doloranti sul tavolino da caffè antico, mentre il suo gatto, Twister, saltava su per raggiungerla. Ellie era stata in giro come una trottola per tutto il caldo pomeriggio, da un'audizione all'altra, pregando malgrado tutto di approdare finalmente a qualche sorta di contratto. Il pensiero di non aver ottenuto da tre mesi un solo ingaggio come attrice era scoraggiante. Aveva fatto audizioni per qualsiasi cosa, dalla madre superiora attenta a spegnere sempre le luci in un filmato industriale della Compagnia Elettrica, al biscotto di pastafrolla a doppio strato che faceva le capriole per uno spot pubblicitario nazionale. Tutto a vuoto. «Grazie per essere venuta» le dicevano con voce monotona. O anche peggio, un risonante: «Avanti il prossimo!» L'ultimo lavoro che aveva avuto era stato recitare in un video sulla sicurezza che il proprietario dell'autolavaggio locale aveva deciso di produrre. Lui immaginava che sarebbe stato un buon articolo da vendere accanto al registratore di cassa, dove era già in mostra un assortimento di ammennicoli da usare dentro l'auto. Mentre i clienti aspettavano che le ruote venissero lustrate, spesso non potevano resistere a un altro contenitore di plasti-
ca per bevande o a un rinfrescante per l'aria da appendere. Perché non un video a un prezzo ragionevole su come proteggere se stessi andando e venendo dalla propria auto in bui parcheggi e garage? Questo è lo show-business, pensò Ellie mentre gettava uno sguardo fuori della finestra, fiancheggiata da cespugli troppo cresciuti. È una vista tropicale, decise. Alzando gli occhi, guardò verso le Hollywood Hills in lontananza, oltre il Sunset Boulevard e il supermercato locale della 7-Eleven. Chiunque, quaggiù, sta inseguendo qualche specie di sogno. O ha una sceneggiatura. Inclusa me, pensò mentre fissava una villa, lassù in alto, che dal suo punto d'osservazione non era più grande di un puntino. Un giorno mi piacerebbe avere quel puntino, pensò. O almeno vivere nei suoi paraggi. Articolando le dita dei piedi gonfi, raccolse il telecomando e accese il televisore. «Oh, Dio» mormorò mentre osservava la faccia della sua più grande rivale, Lucy Farnsworth, recitare la parte di una casalinga oberata che si lamentava dei calzini sporchi del marito in una pubblicità per Force, l'ultimo sensazionale detersivo per il bucato. «Se non fosse per te, sarebbe la mia faccia a scrutare dentro quella lavatrice» disse Ellie ad alta voce. Ellie era stata vincolata a un diritto di opzione, che significava che non poteva accettare un altro lavoro per la pubblicità di un detersivo da bucato senza prima avvisare la gente di Force, ma alla fine era stata liberata dall'impegno. Aveva già progettato come spendere gli assegni residui che sarebbero arrivati nella sua cassetta della posta con piacevole regolarità, ma la parte era andata a Lucy. Adesso era di nuovo a corto di denaro e c'erano così tante cose di cui aveva bisogno. «Oh, be'» si disse Ellie con il suo solito ottimismo «forse vuol dire che si presenterà uno spot migliore.» Issò dal divano il metro e sessanta della sua robusta corporatura e si mise in piedi, lanciando uno sguardo allo specchio di lamina d'oro sottile che sua zia Evelyn le aveva regalato giusto un anno prima. «So che ti piace collezionare roba antica per il tuo appartamento» le aveva detto. «Vorrei che ti godessi questo specchio prima che io muoia.» Ellie si tirò all'indietro i ricciuti capelli castano chiaro. La sua pelle pallida era punteggiata di lentiggini e perline di sudore per la calura californiana. Protendendo le braccia come una cantante in agonia, fece un sorriso storto alla propria immagine riflessa e i suoi occhi verdi scintillarono. «Così sono un'attrice caratterista, che posso dire?» Sapeva che avrebbe in-
terpretato sempre la parte della migliore amica. A trentaquattro anni e leggermente sovrappeso, sapeva anche che se soltanto avesse potuto aggiudicarsi quell'unico ruolo comico importante, la sua vita sarebbe cambiata. Non era necessario che recitasse in coppia con un magnifico protagonista maschile, ma un protagonista maschile nella sua vita non sarebbe stato tanto malvagio. Era così difficile trovare Mister Giusto. Ma lei non riusciva nemmeno a racimolare un Mister Subito. Andò all'ingresso, che aveva le dimensioni di una cabina del telefono, e lanciò un'occhiata alla segreteria telefonica sulla mensola. Se c'erano messaggi, si sarebbe sentito il segnale del bip. Ma adesso la luce rossa stava ammiccando troppo velocemente e un ERR, che significava fottuta, lampeggiava sul minuscolo display. «Per amor di Pietro» imprecò. «Temevo che questa cosa che mi lega al mondo esterno fosse alla sua ultima tappa. La mia ancora di salvezza è andata.» Sospirò. Tutto deve passare attraverso questa macchina, pensò. Informazioni vitali su audizioni, lavori, impegni occasionali, o notizie su quanto è facile cambiare compagnia telefonica per le chiamate a lunga distanza, tutto veniva filtrato attraverso questo estremamente mirabile, a volte estremamente irritante, congegno elettronico. Domattina dovrò andare a comprarne una nuova, pensò. Con la mia carta di credito esaurita. Almeno sarà sabato e non perderò alcuna chiamata dal mio agente quando sono fuori. Con un sospiro, Ellie si diresse in bagno verso la vasca inizio secolo, aprì al massimo i rubinetti e si preparò a un bagno refrigerante, alquanto necessario. Ellie trascorse una notte di beato riposo. Non la svegliarono i soliti rumori degli allarmi d'auto che scattavano, stereo rimbombanti di vecchie auto truccate di passaggio e strambi riciclatori che passavano fuori della finestra della sua stanza da letto con i loro cigolanti carrelli pieni di bottiglie e lattine sbatacchianti. Neppure i consueti rumori della sua vicina piedi-di-piombo al piano disopra, Toni-Anne Loskow, che rientrava dal suo lavoro notturno di sensitiva telefonica, turbarono il sonno profondo di Ellie. I suoi occhi verdi erano serrati. Erano quasi le nove quando udì la voce di Frances che mercanteggiava con qualcuno sul prezzo di una batteria di vecchie pentole e tegami. Frances era l'amministratrice del palazzo, che viveva alla porta accanto a quella di Ellie e aveva una passione per le vendite di oggetti usati. Riprendendo faticosamente conoscenza, Ellie si tirò su a sedere e sbirciò
oltre la leggera tenda comprata a una svendita di un negozio di ferramenta, esaminando la situazione. Effettivamente, Frances aveva ricoperto il prato con ogni genere di cose, da vecchi elettrodomestici a bluse senza maniche col davanti pieghettato che Frances probabilmente aveva indossato come comparsa in un film girato negli anni Sessanta. Come chiunque altro nel palazzo, Frances era inequivocabilmente un membro del Sindacato attori dello schermo. E, anche questo come chiunque altro nel palazzo, Frances aveva avuto negli anni la sua parte di piccoli ruoli ma stava ancora aspettando la grossa occasione che l'avrebbe riscattata dagli anni di economie per tirare avanti. Sulla cinquantina inoltrata, Frances aveva fatto l'intrattenitrice comica nei locali. Recentemente qualcuno le aveva chiesto se non rimpiangeva di non essersene tornata a casa nell'Oregon molto tempo fa per adattarsi a una vita "normale". «Cosa? E abbandonare lo showbusiness?» aveva risposto Frances. «Neanche per sogno, José.» Ellie uscì faticosamente dal letto e si trascinò in cucina. Velocemente mise su un bricco di caffè e poi indossò una tuta. Si lavò la faccia, si spazzolò i denti, afferrò un tazzone di caffè e uscì fuori sul prato, dove i mattinieri si stavano disputando il bottino. Frances non vendeva soltanto i suoi beni ma anche qualsiasi cosa di cui i suoi amici volevano liberarsi. Dietro modico compenso, naturalmente. «Buongiorno, Ellie» gridò Frances dalla sua sedia da giardino abbarbicata all'ombra dell'unico grande albero. Anche lei aveva in mano la sua tazzona di caffè. Era decorata con Snoopy in una posa giuliva. Gli scuri capelli ricci di Frances erano tirati indietro da una fascia e il suo corpo sottile come un giunco era vestito con un vecchio paio di jeans e una maglietta. «Buongiorno.» Ellie si sedette per terra accanto alla sedia di Frances. I suoi occhi si posarono su una segreteria telefonica completa di telefono che era su un asciugamano lì vicino. Ellie appoggiò la sua tazza sul prato spelacchiato e si allungò per prenderla. «Dove hai preso questa? Sembra ancora in buone condizioni.» «Toni-Anne me l'ha data ieri per venderla. Era l'ottantasettesima cliente alla banca e dal momento che avevano aperto nel 1987 ed era il loro anniversario avevano deciso fare qualche regalo. Il cassiere le ha dato una segreteria telefonica nuova di zecca, così lei ha deciso di liberarsi di quella vecchia.» Frances sospirò. «E pensare che ieri stavo per passare in banca...» Ellie sorrise mentre esaminava la segreteria. «Forse lei ha avuto la premonizione che qualcosa stava per accaderle. Ha pronosticato che la banca
sarebbe stato un buon posto dove andare ieri.» Frances agitò la mano. «Lei non crede in quella roba da sensitivi. Dice che se l'inventa man mano che procede.» Ellie aggrottò le sopracciglia. «Lo fa da oltre quaranta anni, non è così?» «In una forma o nell'altra. Cominciò a un carnevale nella sua città natale sulla spiaggia di Jersey, quando aveva circa vent'anni. Non riusciva a credere a quanti soldi poteva fare raccontando alla gente quello che volevano sentire. Quando venne quaggiù a recitare, ha continuato a farlo, il che l'ha portata alla linea telefonica sensitiva.» «Be', forse la sua segreteria mi porterà qualche sorta di buone vibrazioni medianiche. La mia ha reso l'anima ieri. Quanto costa?» «Trenta dollari.» Ellie, sempre pronta a tirare sul prezzo, il che la rendeva una degna antagonista di Frances, la sollevò e sorrise ammiccando. «È il meglio che puoi fare?» Frances rise. Impresse alla sua voce un tono rauco e disse: «Insieme avrai anche una confezione di nastri nuovi che aveva appena comprato. Non vanno bene per il suo nuovo apparecchio. E avrai anche il manuale d'istruzioni.» «Un affare. La prendo.» Ellie si guardò attorno e sussurrò: «Dov'è la nostra vicina preferita, a ogni modo? Non ho proprio sentito rientrare la vecchia piedi-di-piombo stanotte. Forse non portava quei suoi stivali verdi da combattimento.» Scolandosi i resti della sua tazza con Snoopy, Frances scrollò le spalle. «Non l'ho vista stamattina. Forse sta ancora dormendo.» Dall'altro capo della città, Harold Pinsworth, un ragioniere di quarantaquattro anni, si svegliò tra i sudori freddi. Nel poco tempo che era riuscito a dormire aveva avuto sogni agitati. Guardò la moglie venticinquenne addormentata, la splendida Corinne, che stava sull'estrema sponda del materasso a un pelo dal cadere fuori. Non era più innamorata e lui stava facendo davvero l'impossibile per recuperarla. Quando si erano incontrati attraverso gli annunci personali, lui era convinto che alla società finanziaria dove era impiegato da ventidue pacifici anni si sarebbero presto resi conto del suo vero valore. Corinne era appena arrivata a Hollywood da una piccola cittadina perché voleva prendere la tintarella. Aveva risposto all'annuncio scritto dal raffinato scapolo quarantatreenne che anelava conoscere una giovane donna attraente con
solidi valori familiari, ed era rimasta favorevolmente impressionata al loro primo appuntamento. Altre dodici donne avevano rifiutato di rispondere alle telefonate di Harold dopo il primo incontro. Ma Corinne aveva gradito il secondo e il terzo. Quando l'aveva guardato in adorazione, con quei grandi occhi castani, lui aveva capito che nessuna promessa sarebbe stata troppo grande da fare. Ma adesso, dopo undici mesi di matrimonio, la pazienza di Corinne si stava assottigliando. Aveva cominciato a realizzare che i progetti che lui le aveva mostrato per la casa che doveva costruirle come regalo di nozze erano soltanto questo: progetti. «Dov'è il terreno per questa casa?» continuava a domandargli. «Dov'è la macchina nuova? Gli abiti firmati che mi hai promesso? Non ho intenzione di essere avida ma...» Harold era disperato. Non poteva perderla. Così l'amore per la stupenda giovane moglie aveva offuscato il suo giudizio e fu tentato di "prendere in prestito" del denaro dalla sua società. Ne aveva conosciuti tanti che avevano usato denaro interno per fare un colpo grosso in borsa e poi l'avevano rimesso a posto. Lui rimpiangeva di non averlo mai fatto. Ma questa volta, questa settimana, sapeva che doveva provarci. Era sempre stato codardo prima, pensando alla possibilità di perderlo. Non ci sarebbe stato alcun luogo dove fuggire o nascondersi. Sarebbe finito in prigione, disonorato. Ma adesso Corinne lo aveva sposato, in cerca di amore e sicurezza. Per quattro mesi erano stati beatamente felici. Ma poi lei era diventata irrequieta. L'altra notte stavano guardando la televisione a letto e lei si era addormentata. Lui era rimasto a pensare tutta la notte a un progetto per diventare ricco alla svelta che richiedeva un milione di dollari della ditta. Poi era apparsa sullo schermo la pubblicità della linea telefonica sensitiva. Una sfera di cristallo e il suadente suono di una voce femminile che diceva: «Chiamaci. Ti aiuteremo con i tuoi problemi. Ti aiuteremo a prendere le tue decisioni importanti.» In trance, Harold era scivolato fuori dal letto, era sgusciato in cucina e aveva composto il numero. Era stato messo in comunicazione con Esmeralda. Harold ricordava che era riuscito a malapena a parlare con la donna dalla profonda, intensa voce all'altro capo del filo. «Sto considerando un investimento d'affari» aveva farfugliato. «Investi. Investi. Investi» aveva detto lei. «Vedo un'aura meravigliosa intorno a te. Colori brillanti. Sarai fortunato. Cambierà la tua vita, vedrai.» Il giorno dopo Harold aveva comprato azioni per un milione di dollari di
una società che si supponeva stesse per lanciare un brevetto segreto in elettronica. Alle tre le azioni erano crollate. Lui era quasi diventato pazzo. Invece quella sera aveva chiamato la linea telefonica sensitiva per raccontare a Esmeralda quanto fosse stato prezioso il suo consiglio. «Voglio portarti fuori a cena» le aveva detto. «Non possiamo farlo» aveva risposto Esmeralda. «Oh, andiamo. Che male c'è? Sussurrami il tuo nome vero e il tuo numero di casa. Ti chiamerò lì.» Esmeralda si era intenerita. «Mi chiamo Toni-Anne» gli aveva mormorato. Il giorno seguente, venerdì, lui era praticamente apoplettico. L'aveva chiamata un'infinità di volte durante la giornata ma aveva riappeso sentendo la segreteria telefonica. Alla fine aveva deciso di lasciare un messaggio, pensando che lei poteva essere il tipo da filtrare le telefonate. Ma lei non aveva risposto. Lui aveva lasciato detto che l'avrebbe richiamata più tardi, che voleva vederla quella sera. Si sentiva disperato, sapendo che la settimana seguente la società avrebbe scoperto l'ammanco. Doveva sfogare la sua collera in qualche modo. La volta successiva che aveva chiamato, Toni-Anne aveva risposto al telefono e lui si era accordato per incontrarla nel grande parcheggio del supermercato della catena Ralph e passeggiare un po' fino a un vicino locale italiano. Invece, l'aveva persuasa a salire sulla sua auto e a lasciare che la portasse a un ristorante più carino a pochi chilometri di strada. Quando era salita, lei sembrava compiaciuta. Ma il piacere era finito bruscamente quando lui aveva accostato in un parcheggio e l'aveva strangolata, scaricando il cadavere in una zona boscosa. Per lui fu tutto come un'allucinazione, un sogno. Ora, mentre giaceva nel letto, tremava al pensiero del messaggio che aveva lasciato sulla sua segreteria. Doveva avere quel nastro. Lei poteva non averlo cancellato, dato che era stato lasciato soltanto ieri, e lui non poteva correre il rischio che la sua voce fosse identificata. Per come stavano le cose, era in apprensione riguardo la chiamata alla linea telefonica sensitiva che sarebbe risultata dalla sua bolletta del telefono. Fortunatamente aveva il portafogli di lei e le sue chiavi nel portabagagli. Tornando a casa era perfino passato davanti alla sua abitazione. Harold fissò la schiena della moglie addormentata. Ho fatto tutto questo per te e adesso finirò in prigione per appropriazione indebita. Forse allora capirai quanto ti amo. Come ho rischiato tutto per te. Forse allora mi ame-
rai e mi capirai e starai dalla mia parte. Ma prima che ciò possa accadere, pensò, io farò qualsiasi cosa per riprendermi quel nastro stanotte, così da non essere condannato per omicidio. Qualsiasi cosa. Ellie aveva avuto una piacevole, rilassante giornata bighellonando per il suo appartamento e preparandosi per il gruppo di amici che sarebbero passati a trovarla per una spaghettata e vino. Fece un po' di pulizie, parlò al telefono, giocò con il gatto e fece perfino il bucato. Era bello non doversi precipitare di qua e di là in macchina. Aveva seguito un corso di recitazione per diversi anni e di tanto in tanto un certo numero dei suoi compagni di classe, da tre a dieci, si riuniva per farsi qualche risata e spettegolare sul lavoro. Stasera sarebbero stati sei. Ellie tagliò a pezzetti un po' di formaggio, tirò fuori dei cracker e li mise in cima al frigorifero per tenerli lontano da Twister. Preparato tutto questo, andò in camera da letto per cambiarsi, passando accanto alla sua nuova segreteria telefonica che stava ancora sulla mensola con la spina staccata. Più tardi dovrò riuscire a capire come funziona, pensò. O posso sempre farmelo spiegare da Toni-Anne. Però considerò che non aveva visto ToniAnne in tutta la giornata. Oh, be', concluse, probabilmente la sentirò più tardi. Harold lanciò un'occhiata al suo orologio. Erano le dieci. Lo sai dov'è il tuo nastro?, si chiese. «Vado fuori a comprare un pacchetto di sigarette» disse a Corinne mentre i titoli di coda del film via cavo scorrevano sullo schermo. «Fa' pure» replicò lei, senza darsi nemmeno la pena di guardare nella sua direzione. Lui salì in macchina e guidò fino al quartiere di Toni-Anne, cercando un posto per parcheggiare che fosse vicino al suo palazzo ma non troppo. Non doveva preoccuparsi. Non c'erano posti liberi nelle immediate vicinanze. Proseguì lungo l'isolato, svoltò l'angolo e finalmente ne trovò uno. Spense il motore e respirò profondamente. O la va o la spacca, pensò. Un minuto dopo stava salendo gli scricchiolanti gradini esterni verso l'appartamento di lei. Rapidamente si introdusse con le sue chiavi e sospirò di sollievo. Il cuore gli batteva forte. L'appartamento era completamente silenzioso. Improvvisamente qualcosa gli strusciò contro la gamba, facendogli fare un salto in aria.
«Miaooo.» Un gatto stava stendendo le zampe in un tentativo di abbracciargli la gamba. «Gesù!» borbottò mentre si scrollava di dosso il gatto. Li aveva sempre odiati. Il debole bagliore del lampione stradale si rifletteva sul pavimento attraverso la finestra. Il gatto scoraggiato scivolò accanto a una busta contrassegnata "Toni-Anne". Recuperando il suo sangue freddo, Harold si chinò e la raccolse. Con l'aiuto della sua torcia elettrica lesse il contenuto. Cara Toni-Anne, indovina cosa? Ellie del piano disotto ha comprato la tua segreteria telefonica. Non è fantastico? Era così felice di aver avuto anche la nuova confezione di nastri. Quello vecchio era ancora dentro, così, se lo vuoi, faglielo sapere. Inclusi ci sono 25 dollari. Ci vediamo. Frances Harold restò lì in piedi tremante. Oh, Dio. Oh, Dio, pensò. Ficcandosi i soldi in tasca, fece luce con la torcia in giro per l'appartamento, poi si intrufolò nella camera da letto. La scatola di cartone vuota di una nuova segreteria telefonica era sul letto. Sul comodino c'era una segreteria, la lucetta rossa che ammiccava. Schiacciò il bottone per far tornare indietro il nastro, pregando che il suo messaggio fosse su questo apparecchio. Trattenendo il respiro ascoltò il primo messaggio. "Toni-Anne, sono Ruthie. Ho trovato una buona scena che possiamo fare per il laboratorio di recitazione. Fammi un colpo di telefono. Ciao." Una voce elettronica registrava l'ora: "Venerdì, ore venti e trentadue". Non è su questa, pensò convulsamente Harold. Io ho chiamato venerdì pomeriggio. Avrà attivato questa nuova segreteria dopo che ho telefonato io? Oppure avrà cancellato il mio messaggio? Devo scoprirlo! Sgusciò fuori dell'appartamento e scese le scale in punta di piedi. Si udivano delle voci fluttuare dalla finestra dell'appartamento disotto. «Ellie, che fantastica spaghettata!» Harold si fermò di colpo e si acquattò tra i folti cespugli fuori della finestra. L'appartamento dev'essere questo! «Ehi, Ellie, posso usare il telefono? Voglio controllare i miei messaggi»
stava dicendo la voce di un tipo. «Alle dieci e mezza di un sabato sera?» rise Ellie. «Forse ha telefonato il mio agente per una grossa occasione. Un attore potrebbe aver rinunciato a un film che comincia domani...» «Sicuro. Fai pure. Uno di noi deve ottenere presto un grosso lavoro.» «La tua segreteria non è inserita.» «L'ho comprata proprio oggi dalla donna al piano disopra. Devo riuscire a capire come si usa.» «Te la collego io» si offrì lui. La cosa seguente di cui Harold si rese conto fu che stava sentendo i messaggi che venivano riascoltati. "Toni-Anne, ci sei? Ci sei?" L'ospite di Ellie osservò: «Credo che la tipa abbia lasciato nell'apparecchio il nastro con i suoi vecchi messaggi.» Poi arrivò la voce di Toni-Anne. Un turbolento "Ciao. Non riagganciare. Sono qui" seguito da quella voce elettronica: "Venerdì, ore sedici e trenta". «Ehi, ragazzi, non dovremmo ascoltare i suoi messaggi» cominciò Ellie mentre arrivava la voce seguente. "Toni-Anne, devo vederti stasera. Voglio ricompensarti per ciò che hai fatto. Il tuo consiglio è stato fantastico. Ti richiamerò più tardi." A Harold si gelò il sangue mentre ascoltava attentamente quello che un altro degli ospiti di Ellie stava dicendo di lui. «Non sarebbe un buon attore. A me quella voce non sembra affatto felice.» «Avanti il prossimo!» gridò un altro, e l'intero gruppo rise di cuore. Fortunatamente per Harold, gli ospiti non si trattennero molto a lungo. Devo introdurmi da questa finestra prima che lei la chiuda per la notte, pensò. L'aveva sentita tirare fuori il nastro dalla segreteria dopo il suo messaggio. Doveva essere proprio lì. Drizzandosi lentamente, gettò uno sguardo nell'appartamento. Lei era andata in cucina e stava lavando i piatti. Per fortuna aveva acceso la radio. Adesso, pensò lui. Devo entrare lì dentro e nascondermi. Spingendosi su, si arrampicò dentro la finestra. Un altro maledetto gatto stava sul suo cammino! Fece tre rapidi passi attraverso la stanza e si infilò nell'armadio proprio mentre Ellie tornava e chiedeva al suo gatto: «Twister, che cosa c'è? Non grattare la porta, tesoro.»
Pochi minuti dopo, Ellie andò a letto con una sensazione di appagamento. La faceva sempre sentire bene passare del tempo con i suoi amici. Sprofondò nel cuscino e si sintonizzò sulla stazione radio del notiziario. "Una donna non identificata è stata trovata in un'area boscosa poche ore fa da un gruppo di escursionisti" attaccò un comunicato. "Apparentemente è stata abbandonata come morta. Qualcuno deve aver tentato di strangolarla ma la donna è ancora viva. È in coma e i dottori non si pronunciano sulle probabilità che si salvi. Dimostra circa sessant'anni, ha capelli biondo platino e indossa una gonna lunga e una blusa di tipo campagnolo, e un paio di insoliti stivali verdi. Ellie si drizzò di scatto nel letto. Sembra proprio Toni-Anne!, pensò. Quei pazzi stivali. Ellie non l'aveva vista per tutta la giornata. Quello strano messaggio sul nastro. Devo riascoltarlo subito, pensò freneticamente. Saltò fuori dal letto e si precipitò all'ingresso, mise il nastro nella segreteria e ascoltò. «Devo farlo ascoltare a Frances!» disse a voce alta. Tirò fuori la cassetta dalla segreteria e corse alla porta d'ingresso. Improvvisamente sentì una mano circondarle la bocca. «Non devi farlo ascoltare a nessuno.» Era la voce che aveva appena udito sul nastro! Frances si stava rilassando nella sua camera da letto, guardando il notiziario delle undici, quando il gatto di Toni-Anne saltò sul davanzale esterno della sua finestra e grattò la zanzariera. «Cosa c'è, piccolo?» chiese Frances. «Dov'è la tua mamma?» Aprì la tapparella e lasciò che il gatto saltasse dentro sul suo letto. Contemporaneamente arrivò la notizia sulla donna non identificata con gli stivali verdi. «Toni-Anne!» boccheggiò Frances. Raccolse il gatto e l'anello delle sue chiavi da amministratrice e si precipitò fuori dal suo appartamento. Non può essere vero, pensò Ellie mentre cercava di svincolarsi da lui. Le balenò in mente l'audizione per il biscotto di pastafrolla. Le capriole. Se soltanto fosse riuscita a liberare il suo corpo. Ma nel video sulla sicurezza avevano detto di mirare al setto nasale di un aggressore. Con tutta la sua forza sferrò un pugno all'indietro ma lo mancò. Lottarono sul pavimento e il televisore cadde dal piedistallo. Sentiva la voce di Frances di fuori.
«Cosa sta succedendo lì dentro?» Il suo aggressore si distrasse per un momento e Ellie gli assestò un bel colpo sulle narici. Cominciò a zampillare sangue mentre lei riusciva a urlare e Frances apriva la porta. Twister era saltato sulle gambe di Harold e lo stava graffiando quando Frances si precipitò dentro. Il gatto di Toni-Anne le balzò dalle braccia e saltò sulla faccia dell'uomo mentre lui gridava di dolore. «Chiama la polizia!» gridò Ellie a Frances, mentre si rialzava e afferrava la bomboletta di gas lacrimogeno che le avevano regalato quando aveva fatto il video. Stava giusto nel cassetto del tavolo accanto al divano. «Attenti, micini» raccomandò spruzzando abbondantemente sulla faccia dell'uomo. «Mister, tu non vai da nessuna parte!» Tre settimane dopo, Frances e Ellie portarono a casa dall'ospedale una impallidita Toni-Anne. Ellie fece un bricco di tè e si accomodarono nel suo soggiorno, rievocando ogni cosa. «Ve lo dico io» stava dicendo Toni-Anne mentre coccolava il suo gatto, il cui motore per le fusa andava a tutta forza mentre le stava rannicchiato in grembo. «Avrei avuto una premonizione se fossi stata per morire. Tuttavia non sarei dovuta salire in quella macchina con lui. Ehi, non ho mai detto di essere la più grande sensitiva del mondo.» «Be', grazie a Dio stai bene» disse Ellie mentre le versava un'altra tazza di tè e spezzava un pezzetto di biscotto per Twister. Frances stava bevendo dal suo onnipresente tazzone con Snoopy. «Ho sempre saputo che le vendite di oggetti usati erano eccitanti. Solo che non avevo mai saputo quanto eccitanti potessero essere.» Il telefono all'ingresso cominciò a squillare. Si guardarono tutte l'un l'altra e risero. «Oh oh» fece Ellie. «Credo proprio che lascerò che risponda la famosa segreteria.» Era il proprietario dell'autolavaggio. «Ellie, quei video sulla sicurezza sono andati a ruba da quando hai avuto tutta quella pubblicità. Mi piacerebbe avere una foto di te con Toni-Anne e Frances per una nuova copertina. E indovina cosa? Un produttore che ha comprato il video pensa che io abbia un vero talento. Sta considerando un'opzione sulla mia sceneggiatura. Gli ho detto che gliela venderò a condizione che ci siano ruoli per voi tre...»
Quella sera, quando Ellie andò a letto e spense la luce, tutto era tranquillo. Poi sentì Toni-Anne pestare i piedi fino al tonfo dentro il letto, direttamente sopra la sua testa. Ahhh. Questo è il suono più dolce che abbia sentito da tanto tempo, pensò Ellie mentre sì abbandonava al sonno. MARY HIGGINS CLARK Felicemente sposato con cinque bambini piccoli, il marito di Mary Higgins Clark un giorno tornò a casa dal lavoro e, appena dato segno del suo arrivo, ebbe un attacco di cuore e morì. La madre, che viveva con la famiglia, sentì lo scompiglio e corse fuori dalla sua camera al piano disopra, chiedendo cos'era successo. Mary disse: «È Warren. È morto.» Traumatizzata dalla notizia, la madre immediatamente ebbe un attacco di cuore e morì anche lei. È il genere di tragedia inverosimilmente melodrammatica che non potrebbe mai comparire nella narrativa. La giovane vedova dovette comunque tirare avanti con la vita. Ogni mattina si alzava alle cinque, portava la sua macchina da scrivere portatile sul tavolo della cucina e scriveva per due ore prima di svegliare i bambini, vestirli, nutrirli e mandarli a scuola, dopodiché andava al suo lavoro a tempo pieno. Al rientro, si assicurava che i suoi figli fossero nutriti, lavati, avessero fatto i compiti a casa e andassero a letto, prima di crollare a sua volta. La mattina dopo, lo stesso. Confesso che non mi fa la minima impressione quando aspiranti romanzieri parlano della loro passione per la scrittura che non è stata appagata perché sono semplicemente troppo occupati per mettere su carta le parole. Forse la scrittrice di gialli di maggior successo al mondo, Mary Higgins Clark, viene associata più strettamente alla narrativa ricca di suspense in cui una donna o un bambino sono in pericolo. In Senza dubbio un delitto passionale ha scritto una storia piuttosto diversa, un brioso ritorno della coppia sposata nei panni di investigatori. Qui un ex presidente, bello e molto amato, che pilota il proprio aeroplano, e la sua stupenda ed energica giovane moglie (pensate a James Bond che incontra Mr. e Mrs. North) compaiono nella prima avventura della serie di cui saranno certamente protagonisti. Senza dubbio un delitto passionale «Salvati dal furore di un uomo paziente» osservò tristemente Henry Par-
ker Britland IV mentre studiava la fotografia del suo ex Segretario di Stato che era appena stato rinviato a giudizio per l'omicidio della sua amante, Arabella Young. «Allora, pensi che sia stato il povero Tommy?» sospirò Sandra O'Brien Britland mentre spalmava delicatamente su una focaccina deliziosamente calda la marmellata fatta in casa. La coppia era comodamente adagiata nell'enorme letto a Drumdoe, la loro tenuta di campagna di Peapack, nel New Jersey. Di fronte a loro c'erano due vassoi da colazione identici, completi di una rosa in un calice d'argento. Disseminati sull'elegante trapunta a fiori, soffice come ovatta, c'erano il Washington Post, il Wall Street Journal, il New York Times, il London Times e l'Observateur. «Non riesco a crederci» disse Henry, lentamente. «Tom ha sempre avuto un autocontrollo ferreo. È questo che lo rendeva un Segretario di Stato così eccellente. Ma da quando Constance è morta, durante il mio secondo mandato, non è più stato lo stesso, e quando incontrò Arabella non c'è dubbio che s'innamorò pazzamente di lei. Non scorderò mai quando perse la bussola di fronte a Lady Thatcher e la chiamò Poopie.» «Vorrei averti conosciuto quando eri Presidente» disse Sandra mestamente. «Oh be', nove anni fa, quando prestasti giuramento per la prima volta, mi avresti trovato noiosa, ne sono certa. Come poteva essere interessante per il Presidente degli Stati Uniti una matricola universitaria? Almeno, quando mi hai conosciuto come membro del Congresso mi hai considerata con rispetto.» Henry si voltò e guardò benevolmente la sua sposa di otto mesi. I suoi capelli, del colore del grano invernale, erano arruffati. L'espressione dei suoi occhi blu intenso riusciva a comunicare simultaneamente intelligenza, calore, brio e senso dell'umorismo. E talvolta stupore infantile. Al loro primo incontro Henry le aveva chiesto se credeva ancora a Babbo Natale. Questo fu la sera prima dell'inaugurazione del suo successore. Lui aveva dato un cocktail alla Casa Bianca per coloro che si accingevano a prestare giuramento come membri del Congresso. «Io credo in quello che Babbo Natale rappresenta, signore» aveva risposto. «E lei?» Alle sette in punto quando gli ospiti se ne stavano andando, lui l'aveva invitata a restare per una cena tranquilla. «Sono davvero spiacente. Sto per vedermi con i miei genitori. Non posso deluderli.»
Henry aveva pensato a tutte le donne che a un suo invito cambiavano i loro programmi in una frazione di secondo e si rese conto di aver finalmente trovato la ragazza dei suoi sogni. Sei settimane dopo erano sposati. Il matrimonio dello scapolo più appetibile del paese, il quarantaquattrenne ex Presidente con la bella, giovane donna del Congresso di diciassette anni più giovane di lui aveva scatenato una sensazionale pubblicità sui media che minacciava di essere interminabile. Il fatto che il padre di Sandra fosse un macchinista della compagnia ferroviaria del New Jersey, che lei si fosse fatta strada nel St. Peter College e nella Fordham Law School e avesse passato due anni come difensore d'ufficio e poi, con uno sbalorditivo risultato a sorpresa, avesse vinto il seggio di Jersey City da lungo tempo assegnato alla stessa persona, le avevano guadagnato la simpatia delle donne. Il prestigio di Henry, sia come uno dei più popolari Presidenti degli Stati Uniti del Ventesimo secolo sia come proprietario di una considerevole fortuna privata, e il suo apparire regolarmente ai vertici della classifica degli uomini più sexy d'America portavano gli altri uomini a interrogarsi sul perché gli dei lo avessero favorito tanto. Nel giorno del loro matrimonio un giornale popolare era uscito con il titolo: LORD HENRY BRINTHROP SPOSA LA NOSTRA RAGAZZA DOMENICA, una parodia del popolare sceneggiato radiofonico degli anni Trenta che cinque giorni alla settimana aveva posto la domanda: "Può una ragazza di una cittadina mineraria dell'Ovest trovare la felicità come moglie del più bello e ricco Lord d'Inghilterra, Lord Henry Brinthrop?". Sandra era immediatamente diventata nota a tutti, compreso il suo adorante marito, come "Sunday", domenica. Lei detestava il soprannome, ma si era rassegnata quando Henry le aveva fatto notare che pensava a lei come a Sunday kind of love, la sua canzone preferita, e che le persone che avevano votato per lei lo avevano ormai adottato. «Come Tip O'Neill» le aveva detto. «Gli si addiceva. E Sunday si addice a te.» Adesso, vedendo la sincera ansietà negli occhi di Henry, lei gli prese la mano tra le sue. «Sei preoccupato per Tommy. Cosa possiamo fare per aiutarlo?» «Non molto, temo. Certamente controllerò se l'avvocato che ha assunto è valido, ma chiunque possa lui procurarsi, questo è un delitto particolarmente efferato. Pensaci. Hanno ucciso la donna sparandole tre volte con la pistola di Tommy nella sua biblioteca proprio dopo che lui aveva detto alla gente che lei lo aveva piantato.»
Sunday esaminò la fotografia in prima pagina di un raggiante Thomas Shipman, con il braccio attorno all'appariscente trentenne che l'aveva aiutato ad asciugarsi le lacrime dopo la morte di sua moglie. «Quanti anni ha Tommy?» domandò. «Sessantacinque, anno più, anno meno.» Insieme studiarono con calma la fotografia. Tommy era un uomo azzimato, asciutto, con radi capelli grigi e una faccia da studioso. Le trecce arruffate di Arabella Young le ricadevano sulle spalle. Lei aveva una faccia sfrontatamente carina e il genere di curve che si trovano sulle copertine di Playboy. «Maggio e dicembre» commentò Sunday. «Probabilmente dicono lo stesso di noi.» «Oh, Henry, stai zitto. E non far finta di non essere davvero turbato.» «Lo sono» disse Henry sommessamente. «Non riesco a immaginare cosa avrei fatto quando mi sono ritrovato seduto nell'Ufficio Ovale dopo soltanto una sessione al Senato senza Tommy al mio fianco. Grazie a lui superai quei primi mesi senza sbatterci il muso. Quando ero tutto proteso a farmi valere con Eltsin, Tommy con il suo fare calmo e ponderato mi mostrò quanto avrei avuto torto a forzare un confronto, e poi in qualche modo comunicò l'impressione di essere solo una cassa di risonanza della mia decisione. Tommy è un gentiluomo da cima a fondo. È onesto, è sveglio, è leale.» «Ma doveva anche essersi accorto che la gente si faceva beffe della sua relazione con Arabella e di quanto lui fosse cotto di lei. Poi quando alla fine lei ha voluto rompere, lui ha perso la testa» osservò Sunday. «Più o meno è così che la vedi, non è vero?» «Sì. Temporanea infermità mentale.» Henry raccolse il suo vassoio da colazione e lo posò sul comodino. «Cionondimeno, lui c'è sempre stato per me e io ci sarò per lui. Gli hanno concesso la libertà su cauzione. Vado a trovarlo.» Sunday spinse da parte il proprio vassoio e riuscì ad afferrare la tazza di caffè mezza piena prima che si rovesciasse sulla trapunta. «Vengo anch'io» disse. «Dammi dieci minuti nella Jacuzzi e sarò pronta.» Henry osservò le lunghe gambe di sua moglie mentre lei scivolava fuori del letto. «La Jacuzzi. Che magnifica idea!» Thomas Acker Shipman cercò di ignorare i media accampati fuori del suo vialetto. L'avvocato al suo fianco si era appena fatto strada a forza dal-
la macchina fino in casa. Gli avvenimenti della giornata, alla fine, l'avevano sopraffatto e si era visibilmente accasciato. «Penso che uno scotch sia sacrosanto» disse tranquillamente. L'avvocato difensore, Leonard Hart, lo guardò con comprensione. «Direi che se lo è meritato. Voglio soltanto rassicurarla che se insiste procederemo con una dichiarazione di colpevolezza per il patteggiamento, ma io credo che potremmo mettere insieme una linea di difesa molto valida basata sulla temporanea infermità mentale e vorrei che lei acconsentisse ad andare in giudizio. Lei è passato attraverso lo strazio di perdere una moglie adorata, poi si è invaghito di una giovane donna che da lei ha accettato molti regali e poi l'ha respinto con disprezzo.» La voce di Hart divenne appassionata come se si stesse rivolgendo a una giuria. «Le ha chiesto di venire qui e discuterne e quando lei è arrivata ha perso la testa e l'ha uccisa. La pistola era lì solo perché aveva progettato di suicidarsi.» L'ex Segretario di Stato apparve perplesso. «È così che la vede?» Hart sembrò sorpreso dalla domanda. «Naturalmente. Sarà un po' duro da spiegare come ha potuto lasciare la signorina Young sanguinante sul pavimento, andare disopra e dormire tanto profondamente che il mattino dopo non ha nemmeno sentito la sua domestica urlare quando ha visto il corpo. Ma al processo sosterremo che era in stato di shock.» «Lo farà?» chiese Shipman stancamente. «Io non ero sotto shock. In realtà dopo quel Martini ricordo a stento ciò che Arabella e io ci siamo detti, figuriamoci se mi ricordo di averle sparato.» Leonard Hart sembrò addolorato. «Credo, signore, di doverla pregare di non fare a nessuno dichiarazioni come questa. Lo promette? E posso suggerire che d'ora in avanti ci vada piano con lo scotch?» Da dietro i tendaggi, Thomas Shipman osservò il suo paffuto avvocato che veniva assaltato dai media. Proprio come leoni lasciati liberi contro il cristiano solo, pensò. Solo che non era Hart quello di cui loro volevano il sangue. Aveva fatto sapere a Lillian West, la sua domestica a giornata, di rimanere a casa per quella giornata. La sera precedente, quando era stata formulata l'accusa, aveva capito che le telecamere avrebbero registrato passo per passo la sua uscita di casa in manette, la contestazione dell'accusa, il prelievo delle impronte digitali, la dichiarazione di innocenza e il ritorno, non certo trionfale. Non voleva che lei venisse esposta alla loro attenzione. La casa aveva un'aria silenziosa e solitaria. Per qualche insondabile ra-
gione la sua mente scivolò indietro nel tempo fino al giorno in cui lui e Constance l'avevano comprata, trent'anni prima. Avevano fatto una gita in macchina fermandosi per pranzare al Bird and Bottle, vicino a Bear Mountain, e se l'erano presa comoda sulla via del ritorno a Manhattan. Mentre vagabondavano distrattamente per le strade di Tarrytown si erano imbattuti nel cartello VENDESI di fronte alla residenza dell'inizio del secolo che dominava l'Hudson River e le Palisades. E da allora, per i successivi ventotto anni, due mesi e dieci giorni, abbiamo vissuto qui felicemente, pensò Shipman mentre, resistendo allo scotch, vagava fino in cucina e allungava la mano verso la macchinetta del caffè. Perfino quando era in carica come Segretario di Stato erano riusciti a trascorrere qui sporadici fine settimana, abbastanza per ricrearsi lo spirito. Fino a un mattino di due anni prima, quando Constance aveva detto: «Tom, non mi sento tanto bene.» E un istante dopo se n'era andata. Lavorare ventiquattr'ore al giorno aiutò ad attutire il dolore. Divenni noto come il "Ministro Volante", pensò Shipman con un lieve sorriso. Ma Henry e io abbiamo fatto un sacco di bene. Abbiamo lasciato Washington e il Paese in una forma migliore di quanto non fossero da anni. Dosò il caffè nel filtro, fece scattare l'interruttore e versò abbastanza acqua per quattro tazze. Entra in scena Arabella, pensò. Così pronta a confortare, così seducente. E adesso così morta. Che cosa si erano detti l'un l'altra in biblioteca? Si ricordava vagamente di quanto si fosse adirato. Come era stato spinto a un simile atto di violenza? Come aveva potuto lasciarla sanguinante e trascinarsi disopra fino al letto? Squillò il telefono. Shipman non rispose. Andò comunque all'apparecchio, però girò la suoneria sull'OFF e disinserì la segreteria telefonica. Quando fu pronto il caffè ne versò una tazza e con mani leggermente tremanti se la portò in soggiorno. Normalmente si sarebbe accomodato nella sua grande poltrona di pelle in biblioteca, ma adesso si domandava se sarebbe mai più stato in grado di entrare in quella stanza. Sentì gridare all'esterno. Sapeva che i media erano ancora lì, ma qual era il significato di tutto quel chiasso? Tuttavia, ancora prima di guardare fuori dalla finestra, Thomas Shipman indovinò quale visitatore avesse creato un simile scalpore. L'ex Presidente degli Stati Uniti era sulla scena per offrire aiuto e conforto.
Gli uomini del servizi segreti cercarono di tenere indietro i media. Con il braccio intorno a sua moglie, in modo protettivo, Henry rilasciò spontaneamente una dichiarazione. «Come sempre in questo grande Paese, un uomo è innocente finché non sia stato provato che è colpevole. Thomas Shipman è stato un Segretario di Stato davvero grande e resta un caro amico. Sunday e io siamo qui in amicizia.» Quando l'ex Presidente raggiunse il portico, Shipman tolse il paletto e aprì la porta. Soltanto quando questa fu richiusa dietro i Britland e si sentì abbracciato in una calorosa stretta da orso, Thomas Shipman cominciò a singhiozzare. Sunday insistette per preparare il pranzo per loro tre. «Ti sentirai un sacco meglio quando avrai qualcosa di caldo nello stomaco, Tom» disse mentre affettava pomodori, peperoni, cipolline e prosciutto per un'omelette alla western. Shipman aveva riacquistato la sua compostezza. In qualche modo la presenza di Henry gli dava, almeno per il momento, la sensazione di poter reggere qualunque cosa dovesse affrontare. I movimenti agili e sicuri di Sunday al tagliere riportarono alla memoria un ricordo recente di Palm Beach, e di lui che osservava qualcun'altra preparare un'insalata fabbricando sogni su un futuro che adesso non ci sarebbe più stato. Lanciando un'occhiata fuori della finestra si rese conto che la tendina avvolgibile era alzata e, se qualcuno fosse riuscito a intrufolarsi sul retro della casa, sarebbe stata un'occasione ideale per scattare una fotografia di loro tre. Shipman si alzò in piedi e abbassò la tendina fino al davanzale. «Sapete» disse «nel tirare giù questa tendina mi è venuto in mente di quando l'anno scorso un rappresentante mi persuase a mettere un dispositivo elettrico ai tendaggi in tutte le altre stanze. Fecero qualcosa di sbagliato in biblioteca, e quando l'azionavi per aprire o chiudere le tende avresti giurato che qualcuno avesse sparato con una pistola. Avete sentito parlare di come gli avvenimenti futuri proiettano innanzi la propria ombra? Ah, ecco.» Si mise a sedere dall'altro lato del tavolo rispetto a Henry, pensando alle molte volte in cui erano stati di fronte da una parte all'altra della scrivania nell'Ufficio Ovale. Ora trovò il coraggio di dire con fermezza: «Signor Presidente...» «Tommy, falla finita.»
«D'accordo, Henry. Noi siamo entrambi avvocati.» «E lo è anche Sunday» gli rammentò Henry. «E lavorava come difensore d'ufficio prima di candidarsi per la carica.» Shipman sorrise languido. «Allora suggerisco che lei sia il nostro esperto interno. Sunday, hai mai varato una difesa in cui il tuo cliente fosse ubriaco fradicio e non soltanto avesse sparato alla sua... amica... tre volte, ma l'avesse lasciata a morire dissanguata mentre lui smaltiva la sbornia dormendo?» «Ho difeso una quantità di persone che erano così strafatte di droga da non ricordarsi nemmeno che avevano commesso un crimine.» «Vennero ritenuti colpevoli, naturalmente.» «Furono ritenuti responsabili di tutto» ammise lei. «Esattamente. Il mio avvocato, Len Hart, è un tipo in gamba ma, per come la vedo io, la sola strada che ho è dichiararmi colpevole per il patteggiamento, nella speranza che in cambio di una dichiarazione di colpevolezza la pubblica accusa non chiederà la pena di morte.» Henry e Sunday osservarono il loro amico che fissava davanti a sé con sguardo assente. «Voi capite» proseguì Shipman «che ho tolto la vita a una giovane donna che avrebbe dovuto godersi forse altri cinquant'anni su questo pianeta. Se vado in prigione, probabilmente non durerò più di cinque o dieci anni. La reclusione, per quanto possa durare, mi aiuterà a espiare questa terribile colpa prima che io sia chiamato a incontrare il mio Creatore.» Restarono tutti in silenzio, mentre Sunday finiva di mescolare un'insalata, poi versava le uova sbattute in una padella riscaldata, aggiungeva i pomodori, i peperoni, le cipolline e il prosciutto, ripiegava i bordi e lanciava in aria l'omelette. Il toast saltò su mentre lei faceva scivolare la prima omelette in un piatto riscaldato e lo posava davanti a Shipman. «Mangia» ordinò. Venti minuti dopo, nel raccattare con la crosta del toast l'ultimo boccone di insalata, Shipman guardò i piatti vuoti sul tavolo e osservò: «È una sovrabbondanza di ricchezze, Henry, che con uno chef francese in cucina tu sia anche benedetto da una moglie che è una delizia culinaria.» «Perché facevo la cuoca per ordinazioni espresso quando lavoravo per pagarmi gli studi a Fordham» spiegò Sunday. Poi disse tranquillamente: «Tommy, devono esserci delle circostanze attenuanti che ti aiuteranno. Noi sappiamo che Arabella aveva rotto con te, ma perché era qui quella notte?» Shipman non rispose subito. «È passata a trovarmi» disse evasivamente.
«Tu non la stavi aspettando?» domandò prontamente Sunday. «Ehm, no, non l'aspettavo.» Henry si chinò in avanti. «Tom, come ha detto Will Rogers, "Tutto quello che so l'ho letto sui giornali". Secondo i media, tu avevi telefonato ad Arabella e l'avevi implorata di parlarti. Lei è venuta a trovarti quella sera intorno alle nove.» «Questo è vero. Lei è venuta a trovarmi intorno alle nove.» Henry e Sunday si scambiarono un'occhiata. Chiaramente c'era qualcosa che Tom non gli stava dicendo. «Tom, noi vogliamo aiutarti» disse dolcemente Henry. Shipman sospirò. «Arabella mi aveva fatto qualche telefonata» spiegò. «Ricambiai la sua ultima chiamata e convenimmo che era importante metterci a sedere e parlare a fondo della situazione. Comunque non prendemmo nessun appuntamento preciso. Io non l'aspettavo, la sera della tragedia.» «Dove tieni la pistola?» chiese Henry. «Detto con franchezza, mi sono stupito che ne avessi una registrata a tuo nome. Tu sostenevi il progetto di legge Brady.» «Me l'ero completamente dimenticata» disse Shipman inespressivo. «È rimasta per anni in fondo alla cassaforte. Poi in una conversazione venne fuori che ci sarebbe stata un'altra campagna per consegnare le pistole alla polizia in cambio di giocattoli. Io stavo riordinando la cassaforte, mi imbattei nella pistola e decisi di contribuire con quella alla campagna. La lasciai fuori sul tavolo in biblioteca, con i proiettili accanto, progettando di consegnarla alla stazione di polizia il mattino dopo.» Sunday sapeva che lei e Henry stavano pensando la stessa cosa. Non soltanto Tom aveva ucciso Arabella, ma aveva caricato la pistola dopo l'arrivo di lei. «Tom, che cosa stavi facendo prima che arrivasse Arabella?» domandò Henry. Scrutarono Shipman mentre rifletteva prima di rispondere. «Ero stato al raduno annuale degli azionisti dell'American Micro. Una giornata stancante. Avevo un raffreddore tremendo. La mia domestica preparò la cena alle sette e trenta. Mangiai un po' e immediatamente dopo andai disopra. Ero tormentato dai brividi e feci una lunga doccia calda, poi andai a letto. Da diverse notti non dormivo bene, e presi un sonnifero. Ero in un sonno profondo quando Lillian bussò alla porta e disse che Arabella era disotto. Lillian, potrei aggiungere, stava giusto per andarsene.»
«Tornasti disotto?» «Sì. Lillian se ne andò. Arabella era in biblioteca.» «Fosti felice di vederla?» «No, non lo fui. Ero così intontito dal sonnifero che potevo a malapena tenere gli occhi aperti. Ero arrabbiato che fosse venuta così, senza preavviso. Come ricorderete, c'è un bar in biblioteca. Arabella aveva già preparato un Martini per entrambi.» «Tom, come hai potuto anche soltanto pensare di bere un Martini sopra un sonnifero?» «Perché sono uno sciocco» disse brusco Shipman. «Perché ero così nauseato dalla voce acuta e dalla risata stridula di Arabella da pensare che se non le annegavo sarei diventato matto.» Henry e Sunday fissarono Shipman. «Pensavo che fossi pazzo di lei» disse Henry. «Sono stato io a rompere» disse Shipman. «Come gentiluomo ho ritenuto corretto raccontare alla gente che era stata una sua decisione. Chiunque, guardando alla nostra differenza d'età, avrebbe certamente creduto questo. La verità è che io ero finalmente... temporaneamente, a quanto pare... rinsavito.» «Allora perché le telefonasti?» «Perché lei mi chiamava nel mezzo della notte, continuamente. La avvertii che così non poteva continuare. Lei mi supplicò per un incontro e io acconsentii a vederla nel prossimo futuro, ma non quella sera.» «Tom, perché non hai raccontato questo alla polizia? Tutti pensano che sia stato un delitto passionale.» «Penso che probabilmente alla fine lo sia stato. Quell'ultima sera Arabella mi raccontò che si era messa in contatto con un giornale scandalistico e che gli avrebbe venduto una storia riguardo ai festini sfrenati che presumibilmente tu e io avevamo dato insieme durante la tua amministrazione.» «È ridicolo» bofonchiò Henry. «Ricatto» sussurrò Sunday. «Esattamente. Pensate che raccontare questa storia aiuterebbe la mia causa? Almeno c'è una certa dignità nell'essere punito per aver assassinato una donna perché l'amavo troppo per perderla. Dignità per lei e, forse, perfino un briciolo di dignità per me.» Sunday insistette per rimettere in ordine la cucina. Henry insistette per accompagnare Tommy disopra a riposare. «Tommy, vorrei che ci fosse
qualcuno qui con te» disse. «Detesto lasciarti da solo.» «Dopo la vostra visita non mi sento solo, Henry.» Ciononostante Henry si preoccupava per il suo buon amico. Constance e Tommy non avevano avuto figli. Tanti dei loro amici di Westchester si erano trasferiti in Florida. Altri stavano ancora a Washington. Quando Shipman andò nel bagno della stanza da letto principale, il telefonino di Henry suonò. Era Jack Collins, il capo della sua piccola scorta dei servizi segreti. «Signor Presidente, William Osborne, il vicino della porta accanto, sta insistendo perché venga comunicato un messaggio al signor Shipman. Dice che la contessa Condazzi sta telefonando da Palm Beach ed è sconvolta di non riuscire a raggiungerlo. La contessa insiste che si comunichi al signor Shipman che lei sta aspettando una sua telefonata.» «Grazie, Jack. Lo dirò subito al Segretario Shipman. E Sunday e io andremo via tra pochi minuti.» «Bene, signore.» La contessa Condazzi, pensò Henry. Molto interessante. Chi poteva essere? Il suo interesse venne stimolato ulteriormente quando, nell'essere informato della chiamata, gli occhi di Thomas Acker Shipman si illuminarono e un sorriso gli aleggiò sulle labbra. «Betsy ha telefonato. Quanto è cara!» Ma poi la luminosità scomparve dai suoi occhi e il sorriso svanì, e lui disse: «Gli Osborne giocano a golf con Betsy in Florida. È per questo che lei gli ha telefonato.» «Richiamerai la contessa?» domandò Henry. Shipman scosse la testa. «Assolutamente no. Betsy non dev'essere coinvolta in questo pasticcio.» Pochi minuti dopo, mentre Henry e Sunday erano dirottati in fretta oltre i media, una Lexus accostò nel vialetto accanto a loro. Una donna sulla cinquantina, con i capelli intrecciati a diadema, approfittò della distrazione causata dall'ex Presidente per sgusciare fino alla porta d'ingresso e intrufolarsi dentro. Henry e Sunday la notarono entrambi. «Dev'essere la domestica» decise Sunday. «Aveva una chiave in mano. Be', almeno Tom non sarà solo.» «Deve pagarla bene» disse Henry. «Quella macchina è costosa.» Nel tragitto verso casa lui raccontò a Sunday della misteriosa telefonata da Palm Beach. Dal modo in cui lei inclinò la testa da un lato e aggrottò la
fronte, capiva che era turbata e stava pensando profondamente. Erano a bordo di una Chevy nera vecchia di otto anni, una delle dieci macchine di seconda mano appositamente equipaggiate che Henry si dilettava a usare per evitare di essere riconosciuto. I due agenti dei servizi segreti, uno alla guida, uno che imbracciava una doppietta, erano isolati acusticamente da un divisorio di cristallo. «Henry» disse Sunday «c'è qualcosa che non va in questo caso. Si può intuirlo.» Henry annuì. «Oh questo è ovvio. Pensavo potrebbe essere che i particolari sono così raccapriccianti che Tommy deve negarli a se stesso.» Poi fece una pausa. «Ma niente di tutto cioè da lui» esclamò. «Qualunque sia stata la provocazione, io non posso accettare che, sia pure annebbiato da un sonnifero e da un Martini, Tommy abbia perso il controllo fino a uccidere una donna! Il solo vederlo oggi mi ha fatto realizzare quanto tutto ciò sia pazzesco. Sunday, lui era devoto a Constance. E la sua compostezza quando lei morì fu straordinaria. Tommy, semplicemente, non è il tipo d'uomo che perde la testa, non importa quale sia la provocazione.» «La sua compostezza sarà stata straordinaria quando morì sua moglie, ma innamorarsi cotto fradicio di Arabella Young mentre Connie era a malapena fredda nella tomba la dice lunga, non è così?» «Contraccolpo? Rifiuto?» «Esatto. Talvolta le persone si innamorano immediatamente e funziona, ma più spesso non funziona.» «Probabilmente hai ragione. Il fatto stesso che Tommy non abbia mai sposato Arabella dopo averle regalato un anello di fidanzamento quasi due anni fa, mi dice che lui ha sempre saputo che era uno sbaglio.» «Henry, tutto questo è successo prima che io entrassi in scena. Lessi sui giornali scandalistici di quanto l'austero Segretario di Stato fosse innamorato dell'appariscente P.R. che aveva la metà dei suoi anni, ma poi vidi una fotografia di lui al funerale della moglie accanto a una foto in cui fa le fusa ad Arabella e mi convinsi che emotivamente era schizzato sulle montagne russe. Nessuno, così afflitto dal dolore, può essere tanto felice pochi mesi dopo.» Sunday, più che vederle, percepì le sopracciglia aggrottate di suo marito. «Oh, andiamo. Tu leggi i giornali scandalistici da cima a fondo dopo che ho finito io. Dimmi la verità. Che cosa ne pensavi di Arabella?» «Pensavo a lei il meno possibile.» «Non stai rispondendo alla mia domanda.» «Mai parlare male dei morti, ma la trovavo chiassosa e volgare. Una
mente sveglia, ma parlava incessantemente e quando rideva pensavo che il lampadario sarebbe andato in frantumi.» «Questo concorda con ciò che ho letto di lei» commentò Sunday. «Henry, se Arabella si è degradata fino al ricatto, non è possibile che ci abbia provato in precedenza con qualcun altro? Tra il sonnifero e il Martini, Henry ha perso conoscenza. Supponi che sia sopraggiunto qualcun altro, qualcuno che aveva seguito Arabella, e che ha visto l'opportunità di liberarsi di lei e lasciare che Tommy si prendesse la colpa?» «E poi ha trasportato Tommy disopra e gli ha rimboccato le coperte?» Henry inarcò un sopracciglio. La macchina svoltò all'entrata del Garden State Parkway. Sunday fissò pensosamente gli alberi con le loro foglie color rame, oro e rosso cardinale. «Amo l'autunno» disse. «E duole pensare che, nel tardo autunno della sua vita, Tommy debba passare attraverso questo. Proviamo un altro scenario. Supponi che Tommy sia arrabbiato, addirittura furioso, ma così intontito da non riuscire a pensare correttamente. Tu che cosa avresti fatto se fossi stato al suo posto quella sera?» «Quello che Tommy e io facevamo sempre quando eravamo a un incontro al vertice. Capivamo di essere troppo stanchi o troppo arrabbiati per pensare correttamente e andavamo a letto.» Sunday afferrò la mano di Henry. «È esattamente la mia tesi. Supponi che Tommy si sia trascinato disopra a letto lasciando lì Arabella. Supponi che qualcun altro che lei aveva minacciato l'avesse seguita a casa di Tommy. Le nove è un'ora insolita per farsi vivo di punto in bianco. Dobbiamo scoprire con chi Arabella potrebbe essere stata prima quella sera. E dovremmo parlare con la domestica di Tommy, Lillian West. Lei se ne andò poco dopo l'arrivo di Arabella. Forse c'era una macchina parcheggiata sulla strada e lei l'ha notata. E infine la contessa di Palm Beach che voleva parlare così urgentemente con Tommy. Dobbiamo contattarla.» «D'accordo» concordò Henry pieno d'ammirazione. «Come al solito siamo sulla stessa lunghezza d'onda, ma tu sei molto più avanti di me. Io non avevo pensato di parlare alla contessa.» Mise il braccio attorno a Sunday e la attirò più vicino. «Non ti ho baciata dalle undici di questa mattina» disse. Sunday gli accarezzò le labbra con la punta dell'indice. «Allora c'è qualcos'altro che ti attrae oltre la ferrea morsa della mia mente?» «L'hai notato.» Henry le baciò la punta delle dita, poi premette le labbra insistentemente contro quelle di lei.
Sunday si ritrasse. «Henry, soltanto una cosa. Devi assicurarti che Tommy non acconsenta a dichiararsi colpevole per il patteggiamento prima che possiamo aiutarlo.» «Come dovrei impedirlo?» «Un ordine esecutivo, naturalmente.» «Tesoro io non sono più Presidente.» «Agli occhi di Tommy lo sei.» «D'accordo, ma qui c'è un altro ordine esecutivo. Smettila di parlare.» Sul sedile anteriore, gli agenti del servizio segreto lanciarono un'occhiata nello specchietto retrovisore scambiandosi un sorriso. Il mattino dopo Henry si alzò all'alba per una cavalcata mattutina con l'amministratore della tenuta. Alle otto e mezza, Sunday lo raggiunse nell'incantevole stanza da colazione che dava sul classico giardino all'inglese. Una profusione di motivi floreali sullo sfondo striato della tappezzeria di lino belga che rivestiva la parete faceva sembrare la stanza gioiosamente, lussuriosamente piena di fiori e, come Sunday osservava di frequente, molto diversa dal primo piano della casa bifamiliare di Jersey City dove era stata allevata e dove vivevano ancora i suoi genitori. «Il Congresso entra in sessione la settimana prossima» gli rammentò lei. «Qualunque cosa io possa fare per aiutare Tommy, devo lavorarci sopra immediatamente. La mia proposta è che io scopra tutto il possibile riguardo Arabella. Marvin si è procurato la scheda completa dei suoi precedenti?» Marvin Klein dirigeva l'ufficio di Henry che era situato nella ex rimessa delle carrozze della tenuta di duemila acri. «Ecco qui» disse Henry. «L'ho appena letta. L'Arabella recente era riuscita a seppellire il suo passato alla perfezione. C'è voluta la gente di Marvin per scoprire che ebbe un precedente matrimonio in cui mandò in totale rovina il suo ex marito e che il suo amichetto con cui da lungo tempo ha un tira e molla, Alfred Barker, è stato in prigione per aver corrotto degli atleti.» «Sul serio?! Adesso lui è fuori di prigione?» «Non soltanto questo, cara. È stato a cena con Arabella la sera in cui lei morì.» Sunday spalancò la bocca. «Tesoro, come ha fatto mai Marvin a scoprirlo?» «Come fa Marvin a scoprire sempre tutto? Ha le sue fonti. Alfred Barker
vive a Yonkers che, come probabilmente sai, non è lontana da Tarrytown. L'ex marito di lei si è felicemente risposato e non nei paraggi.» «Marvin ha scoperto tutto questo in una notte?» Gli occhi di Sunday balenarono per l'eccitazione. Henry annuì quando Sims, il maggiordomo, librò la caffettiera sopra la sua tazza. «Grazie, Sims. Sì» continuò «ed è venuto a sapere anche che Alfred Barker era ancora molto invaghito di Arabella, per quanto io lo trovi inverosimile, e si era vantato con i suoi amici che adesso che lei l'aveva fatta finita con il vecchio matusa si sarebbe rimessa insieme a lui.» «Che cosa fa adesso Alfred Barker?» chiese Sunday. «Ufficialmente, possiede un negozio di forniture idrauliche. È una copertura per il suo botteghino di scommesse clandestine. E il bello è che lui è noto per avere un carattere violento quando viene truffato.» «Ed è stato a cena con Arabella la sera che lei si è presentata all'improvviso da Tommy.» «Esattamente.» «Sapevo che questo era un delitto passionale» disse Sunday eccitata. «Il fatto è che la passione non era da parte di Tommy. Vedrò Barker oggi, come anche la domestica di Tommy. Continuo a scordarmi il suo nome.» «Dora. No... quella era la governante che lavorò da loro per anni. Grande vecchia ragazza. Mi pare che Tommy accennò che era andata in pensione poco dopo la morte di Constance. Quella che abbiamo intravisto ieri è Lillian West.» «Giusto. Dunque io mi accollerò Barker e la governante, ma tu hai deciso cosa farai?» «Andrò a Palm Beach per incontrarmi con la contessa Condazzi. Sarò a casa per cena. E ricordati che questo Alfred Barker è ovviamente un soggetto poco raccomandabile. Non voglio che semini i tuoi ragazzi dei servizi segreti.» «D'accordo.» «Dico sul serio, Sunday» disse Henry nel tono tranquillo che faceva tremare le mutande ai membri del suo Gabinetto. «Sei un duro, hombre» sorrise Sunday. «Resterò appiccicata a loro come la colla.» Lo baciò sulla testa e lasciò la stanza da colazione mormorando: «Salute al Capo.» Quattro ore più tardi Henry, dopo aver pilotato il suo jet all'aeroporto di West Palm Beach, si dirigeva in macchina alla dimora in stile spagnolo
dove la contessa Condazzi abitava. Istruì la sua scorta affinché aspettassero fuori. La contessa era una donna tra i sessanta e i settant'anni. Snella e minuta, dai lineamenti fini e con tranquilli occhi grigi, lo accolse con calorosa cordialità. «Sono stata così felice di ricevere la sua telefonata, signor Presidente» disse. «Tommy non voleva parlarmi e io so quanto lui stia soffrendo. Lui non ha commesso questo delitto. Siamo amici da quando eravamo bambini e non c'è mai stato un momento in cui lui abbia perso il controllo di sé. Perfino quando ai balli studenteschi del college gli altri ragazzi bevevano troppo e si prendevano delle libertà, Tommy è sempre stato un gentiluomo, ubriaco o sobrio che fosse.» «È esattamente il modo in cui la vedo io» concordò Henry. «Lei è cresciuta insieme a lui?» «Dall'altro lato della strada a Rye. Siamo usciti insieme per tutto il college, ma poi lui conobbe Constance e io sposai Eduardo Condazzi. Un anno dopo, il fratello maggiore di mio marito morì. Eduardo ereditò il titolo e i vigneti e ci trasferimmo in Spagna. Lui è venuto a mancare tre anni fa. Adesso il conte è mio figlio, e io ho sentito che per me era tempo di tornare a casa. Dopo tutti questi anni mi sono imbattuta in Tommy a casa di amici comuni, gli Osborne, dov'era venuto per un fine settimana al golf.» E un amore di gioventù era rifiorito, pensò Henry. «Contessa...» «Betsy.» «D'accordo, Betsy, devo essere schietto. Lei e Tommy stavate ripartendo da dove avevate interrotto anni fa?» «Sì e no» disse lentamente Betsy. «Vede, Tommy non lasciò a se stesso la possibilità di affliggersi per Constance. Ne abbiamo parlato. È ovvio che il suo coinvolgimento con Arabella Young era stato il suo modo di sfuggire al processo di afflizione. Io gli consigliai di lasciare Arabella, poi di concedersi un periodo di lutto. Ma gli dissi che dopo sei mesi o un anno al massimo doveva chiamarmi di nuovo e portarmi a un ballo studentesco.» Il sorriso di Betsy Condazzi era nostalgico, i suoi occhi pieni di ricordi. «Lui fu d'accordo?» domandò Henry. «Non del tutto. Disse che avrebbe venduto la casa e si sarebbe trasferito quaggiù permanentemente. Disse che sarebbe stato pronto a portarmi a un ballo studentesco molto prima che scadessero i sei mesi.» Henry la studiò, poi chiese lentamente: «Se Arabella Young avesse consegnato una storia a un giornale scandalistico, asserendo che durante la
mia amministrazione e perfino prima della morte di sua moglie Tommy e io avevamo dato dei festini licenziosi alla Casa Bianca, quale sarebbe stata la sua reazione?» «Avrei saputo che non era vero» disse lei, semplicemente. «E Tommy mi conosce abbastanza bene da esserne certo.» Tornando all'aeroporto di Newark Henry lasciò guidare il jet al suo pilota. Passò il tempo profondamente immerso nei suoi pensieri. Tommy era ovviamente consapevole che il futuro gli prometteva una seconda occasione di felicità e che non doveva uccidere per salvaguardare quell'occasione. Si domandò se Sunday stesse avendo miglior fortuna nel trovare un possibile motivo per la morte di Arabella. Alfred Barker non era un uomo che ispirasse simpatia istintiva, pensò Sunday mentre gli sedeva di fronte nell'ufficio del negozio di forniture idrauliche che sapeva essere una copertura per attività nefaste. Sembrava essere fra i quaranta e i cinquant'anni, un uomo grosso dal torace prominente, con occhi dalle palpebre pesanti, la carnagione giallastra e capelli sale e pepe che pettinava di traverso sulla testa nel tentativo di nascondere una chiazza di calvizie. La camicia aperta mostrava un petto villoso e aveva una cicatrice sul dorso della mano destra. Sunday provò un istante di fugace gratitudine mentre pensava al muscoloso corpo snello di Henry, il sorriso vivace che mostrava i solidi denti bianchi, i lineamenti marcati messi in risalto da una mascella risoluta, gli occhi marrone scuro che potevano comunicare o, se necessario, dissimulare l'emozione. Alle volte lei si era irritata per la presenza dei suoi uomini di scorta, facendo notare che, non essendo mai stata la First Lady, non vedeva perché dovesse avere protezione adesso. Ma in quel momento, in quella squallida stanza con quell'uomo ostile, era contenta di sapere che loro erano fuori della porta socchiusa. Si era presentata come Sandra O'Brien, ed era ovvio che Alfred Barker non aveva la minima idea che il resto del suo cognome fosse Britland. «Perché vuole parlarmi di Arabella?» le chiese Barker mentre si accendeva un sigaro. «Voglio cominciare col dire che sono davvero spiacente per la sua morte» rispose cordialmente Sunday. «So che eravate molto intimi. Ma io conosco il signor Shipman.» Fece una pausa, poi spiegò: «Mio marito un tempo lavorava con lui. Sembra ci sia una versione contraddittoria su chi
abbia rotto la sua relazione con la signorina Young.» «Arabella era stufa del vecchio marpione» le disse Barker. «Arabella ha sempre amato me.» «Ma si era fidanzata con Thomas Shipman» protestò Sunday. «Sì. Sapevo che non sarebbe mai durata. Ma lui aveva un grasso portafoglio. Vede, Arabella quando aveva diciott'anni si era sposata con un idiota che ogni mattina aveva bisogno di essere presentato a se stesso. Lei era sveglia. Voglio dire, valeva la pena di restare aggrappata a quel tizio perché nella sua famiglia c'erano i soldi pesanti. Lei restò in attesa per tre o quattro anni, andò al college, si fece sistemare i denti, lasciò che il tizio pagasse per tutto, aspettò finché lo zio ricco morì, lo costrinse a spartire il denaro e poi divorziò da lui.» Alfred Barker accese la punta del suo sigaro ed espirò rumorosamente. «Che testolina scaltra. Un talento naturale.» «E poi cominciò a vedersi con lei» incitò Sunday. «Giusto. Poi io ebbi un piccolo malinteso con il governo e finii in galera. Lei si procurò un lavoro presso una fantastica ditta di pubbliche relazioni. L'occasione di trasferirsi alla filiale di Washington si presentò due anni fa e lei l'afferrò.» Barker inspirò a fondo, poi tossì fragorosamente. «Non avresti potuto trattenere Arabella. Io non volevo farlo. Quando l'anno scorso venni scarcerato, lei mi chiamava continuamente e mi raccontava di quel piccolo idiota, Shipman, ma allo stesso tempo lui le stava regalando gioielli costosi e lei stava conoscendo un mucchio di gente.» Barker si chinò sulla scrivania. «Incluso il Presidente degli Stati Uniti, Henry Parker Britland Quarto.» Guardò Sunday in modo accusatorio. «Quanta gente in questo paese si è mai seduta a tavola a scambiare barzellette con il Presidente degli Stati Uniti? Lei, signora, lo ha fatto?» «Non con il Presidente» disse onestamente Sunday, ricordandosi di quella prima notte alla Casa Bianca quando aveva declinato l'invito di Henry. Invece lei e i suoi genitori l'avevano accompagnato al ritorno nel New Jersey sull'Air Force One il giorno seguente, dopo che il suo successore aveva prestato giuramento. «Capisce cosa intendo?» si vantò Barker trionfante. «Signor Barker, secondo il Segretario Shipman fu lui a rompere la relazione con Arabella.» «Sì. E allora?»
«Allora perché l'avrebbe uccisa?» La faccia di Barker avvampò. La sua mano picchiò sulla scrivania. «Avevo avvertito Arabella di non minacciarlo con la solita storia della stampa scandalistica. Ma in precedenza era riuscita a farla franca e non volle ascoltarmi.» «Era riuscita a farla franca in precedenza!» esclamò Sunday ricordandosi che era esattamente quello che lei aveva suggerito a Henry. «Chi altro aveva cercato di ricattare?» «Un tizio con cui lavorava. Non conosco il suo nome. Ma non è mai una buona idea fare i furbi con uno con il genere di potere che aveva Shipman. Rammenta come scaricò Castro giù nel cesso?» «Parlava spesso di ricattarlo?» «Soltanto con me. Immaginava che le avrebbe fruttato un po' di soldi facili.» Lacrime sgorgarono dall'improbabile pozza degli occhi di Alfred Barker. «Mi piacciono le citazioni» disse. «Le leggo per divertimento e per la loro profondità, se capisce cosa intendo dire.» «Mio marito è molto appassionato di citazioni. Dice che contengono saggezza.» «È questo che intendo. Che cosa fa suo marito?» «Al momento è disoccupato.» «È dura. Ne capisce qualcosa di idraulica?» «Non molto.» «Se la cava con i conti?» Sunday scosse la testa tristemente. «Arabella parlava troppo. Davvero troppo. Mi imbattei in questa citazione e gliela mostrai. Le dicevo sempre che la sua bocca l'avrebbe messa nei guai.» Barker rovistò nel cassetto superiore della scrivania. «Eccola. La legga.» Tese una pagina che ovviamente era stata strappata da un libro di citazioni. Una sezione era evidenziata con un cerchio: Oltre questa pietra, un pugno d'argilla Giace Arabella Young Che il 24 di maggio Cominciò a tenere a freno la lingua. «Era su una vecchia lapide inglese. Tranne che per la data questa è una coincidenza o cosa?» Barker sospirò pesantemente. «Sentirò la mancanza
di Arabella. Lei era divertente.» «Era stato a cena con lei la sera che morì.» «Sì.» «L'aveva accompagnata a casa di Shipman?» «La misi su un taxi. Progettava di farsi prestare la macchina da lui per tornare a casa.» Barker scosse la testa. «Non aveva intenzione di restituirla. Era sicura che lui le avrebbe dato qualunque cosa per impedirle di spargere fango con la stampa scandalistica. Invece guardi cosa le ha fatto.» Barker si alzò in piedi. La sua faccia si fece minacciosa. «Spero che lo mandino sulla sedia elettrica.» Sunday si alzò a sua volta. «La pena di morte nello Stato di New York viene inflitta con un'iniezione letale. Signor Barker, lei cosa fece dopo aver messo su un taxi Arabella?» «Mi aspettavo che me lo chiedessero, ma i poliziotti non si sono nemmeno dati la pena di parlarmi. Sapevano di avere già l'omicida di Arabella. Dopo averla messa sul taxi, andai a casa di mia madre e la portai al cinema. Lo faccio una volta al mese. Ero a casa sua alle nove meno un quarto e alle nove meno due minuti stavo comprando i biglietti. L'uomo dei biglietti mi conosce. Il ragazzo che vende i pop-corn mi conosce. La donna che stava seduta accanto a me è amica di mamma e sa che sono rimasto lì per tutto lo spettacolo.» Barker sbatté il pugno sulla scrivania. «Vuole aiutare Shipman? Arredi la sua cella.» Gli uomini della scorta di Sandra furono improvvisamente accanto a lei. Fissarono Barker in cagnesco. «Io non spaccherei la scrivania in presenza di questa signora» suggerì freddamente uno di loro. Thomas Acker Shipman non era stato contento di ricevere la telefonata dell'assistente di Henry, Marvin Klein, che gli ordinava di ritardare la dichiarazione di colpevolezza per il patteggiamento. A che serviva? Lui voleva togliersi il pensiero. La sua abitazione non gli sembrava più una casa ma era già diventata una prigione. Una volta espletato il patteggiamento, i media avrebbero avuto la loro solita giornata campale e poi avrebbero esaurito l'argomento e sarebbero passati ad altro. Un uomo di sessantacinque anni che va in prigione per dieci o quindici anni non fa notizia più di tanto. È soltanto la speculazione sul quando andrò in giudizio o meno che li ha fatti accampare lì fuori, pensò, mentre sbirciava ancora una volta da una
minuscola fessura nei tendaggi tirati. La sua governante era arrivata baldanzosa alle otto in punto. Lui aveva inserito la catenella di sicurezza, ma quando la chiave non le aveva consentito l'accesso lei aveva premuto con insistenza il campanello della porta e aveva chiamato forte il suo nome finché lui l'aveva fatta entrare. «Lei ha bisogno di essere accudito» aveva detto lei in modo tagliente liquidando la sua obiezione di averle fatto sapere il giorno prima di non volere che la sua vita privata fosse invasa dai media e che perciò avrebbe preferito restare solo. Lillian West era una donna di bell'aspetto, un'eccellente governante e una cuoca provetta, ma aveva tendenze autoritarie che a Shipman ricordavano malinconicamente Dora, la sua governante per oltre vent'anni, che talvolta bruciava la pancetta affumicata ma che era stata un'amabile istituzione in casa. Inoltre Dora era della vecchia scuola, mentre Lillian chiaramente credeva nella parità tra datore di lavoro e dipendente. Ciononostante, per il breve tempo che sarebbe rimasto in questa casa prima di andare in prigione, Shipman valutò che poteva anche sopportare la sua attitudine al controllo e cercare di godersi il conforto materiale di pranzi deliziosi e vino servito correttamente a cena. Rendendosi conto della necessità di ricevere le telefonate del suo avvocato, Shipman aveva attivato la segreteria telefonica, così quando giunse una chiamata di Sunday alzò il ricevitore. «Tommy, sto arrivando in macchina da Yonkers» spiegò Sunday. «Voglio parlare con la tua governante. È in casa oggi? E se non fosse così, dove posso raggiungerla?» «Lillian è qui.» «Splendido. Non lasciarla andare via prima che io abbia l'opportunità di vederla.» «Non riesco a immaginare cosa possa dirti lei che la polizia non sia già venuta a sapere.» «Tommy, ho appena parlato con l'amico di Arabella. Lui sapeva del piano per estorcerti denaro, e da quanto ha detto ho capito che Arabella lo aveva già fatto in precedenza con almeno un'altra persona. Dobbiamo scoprire chi era quella persona. Forse qualcuno l'aveva seguita a casa tua e quando Lillian se ne è andata potrebbe avere visto una macchina senza però pensare che fosse importante. La polizia non ha mai indagato davvero su nessun altro possibile sospetto. Non bisogna mollare finché non sarà fi-
nita.» Shipman riagganciò, e voltandosi scoprì Lillian sulla porta dello studio. Ovviamente aveva ascoltato la conversazione. Nonostante ciò le sorrise affabilmente. «Sta venendo la signora Britland per parlarle» disse. «Apparentemente, lei e il Presidente pensano che, dopotutto, potrei non essere colpevole della morte di Arabella. Lei e il Presidente hanno una tesi che potrebbe essermi molto utile.» «È meraviglioso» disse lei freddamente. «Non vedo l'ora di parlarle.» La successiva telefonata di Sunday fu all'aereo di Henry. Si scambiarono le novità sulla contessa e su Alfred Barker. Dopo la rivelazione sull'abitudine di Arabella a ricattare gli uomini con cui usciva, Sunday aggiunse: «L'unico problema è che, chiunque sia l'altro che avrebbe potuto voler uccidere Arabella, sarà davvero difficile provare che quella persona entrò in casa di Tommy, caricò la sua pistola e premette il grilletto.» «Difficile ma non impossibile» cercò di rassicurarla Henry. «Farò controllare da Marvin gli ultimi posti di lavoro di Arabella, e scoprire con chi potrebbe essere stata coinvolta.» Quando Henry concluse dicendo arrivederci, un'improvvisa apprensione lo sopraffece, senza che ne capisse il perché. A parte la preoccupazione per Tommy, cosa mai poteva provocare quell'agghiacciante premonizione che qualcosa stesse andando davvero storto? Si accomodò all'indietro sulla sedia girevole, che era il suo posto preferito sull'aereo quando non stava in cabina di pilotaggio. Era qualcosa che Sunday aveva detto. Che cosa? Riesaminò la loro conversazione parola per parola. Certamente. Era stata la sua osservazione riguardo alla difficoltà di provare che qualche altra persona era entrata in casa di Tommy, aveva caricato la pistola e premuto il grilletto. Era questo. E c'era una persona che avrebbe potuto farlo, che sapeva che Tommy era sia malato sia stanco morto, che sapeva che Arabella era lì, e che di fatto l'aveva fatta entrare. La governante. Era relativamente nuova. Qualcuno l'aveva controllata? Prontamente Henry telefonò alla contessa Condazzi. Fa che sia ancora a casa, pregò. Quando la voce di lei, ora familiare, rispose, non perse tempo. «Betsy, Tommy le ha mai detto nulla riguardo alla sua nuova governante?» Lei esitò. «Be', scherzosamente.» «Cosa intende dire?» «Oh, sa com'è. Ci sono così tante donne tra i cinquanta e i sessanta, e co-
sì pochi uomini. Quando parlai a Tommy il giorno stesso in cui quella ragazza fu uccisa, dissi che avevo una dozzina di amiche vedove o divorziate che sarebbero state gelose di me. Lui disse che, eccetto me, intendeva tenersi alla larga dalle donne senza vincoli; aveva appena avuto un'esperienza molto spiacevole. Aveva detto alla sua nuova governante che stava mettendo in vendita la casa per trasferirsi a Palm Beach. Lei sembrò scossa quando le disse che non l'avrebbe portata con sé. Lui le aveva confidato che aveva chiuso con Arabella perché qualcun'altra era diventata importante per lui. Lui pensa che la governante abbia avuto la folle idea che lui stesse parlando di lei.» «Buon Dio» disse Henry «Betsy, la richiamerò.» Prontamente compose il numero di Marvin Klein. «Marvin» disse «mi è venuto un sospetto sulla governante del Segretario Shipman, Lillian West. Fai immediatamente un controllo completo su di lei.» A Marvin Klein non piaceva violare la legge infiltrandosi nelle documentazioni dei computer altrui, ma sapeva che quando il suo capo diceva "immediatamente" la questione era urgente. Sette minuti dopo aveva un dossier sulla cinquantaseienne Lillian West, inclusivo dei suoi precedenti lavorativi. Appena cominciò a leggere, Marvin si accigliò. La West era laureata, aveva un diploma di specializzazione, aveva insegnato economia domestica in un certo numero di college, l'ultimo dei quali era il Wren College, nel New Hampshire, e dopo essersene andata sei anni prima, aveva accettato un lavoro come governante. A tutt'oggi aveva cambiato quattro posti di lavoro. Le sue referenze ne elogiavano la puntualità, il lavoro e la cucina. Buone ma non entusiastiche, pensò Marvin. Decise di controllare di persona. Cinque minuti più tardi compose il numero dell'aereo di Henry. «Signore, Lillian West ha avuto una sequela di rapporti problematici con i suoi superiori nei college. Lasciato il suo ultimo impiego, andò a lavorare per un vedovo nel Vermont. Lui morì dieci mesi dopo, presumibilmente per un attacco cardiaco. Allora lei andò a lavorare per un dirigente divorziato che sfortunatamente morì entro l'anno. Il suo terzo datore di lavoro era un milionario ottantenne che la licenziò ma le diede una buona referenza. Ho parlato con lui. Mentre la signorina West era una cuoca e una governante eccellente, era anche piuttosto presuntuosa, e quando lui si rese conto che era intenzionata a sposarlo la mise alla porta.» «Lui ha mai avuto qualche problema di salute?» domandò Henry con
calma mentre assimilava le possibilità che la storia di Lillian West offriva. «Sapevo che avrebbe voluto sapere questo, signore. La sua salute adesso è robusta, ma durante le ultime settimane dell'impiego della signorina West, in particolare dopo che le aveva dato il preavviso, stette molto male per affaticamento e poi per polmonite.» Tommy aveva parlato di un pesante raffreddore e di stanchezza opprimente. La mano di Henry strinse il telefono. «Un buon lavoro, Marvin.» «Signore, c'è di più. Ho parlato con il preside del Wren College. La signorina West venne obbligata a dimettersi. Aveva mostrato sintomi di profondi disturbi mentali, e rifiutava categoricamente di sottoporsi a terapia.» Sunday stava per incontrarsi con Lillian West. Involontariamente avrebbe messo in guardia la West che loro inseguivano l'ipotesi che qualcun altro avesse ucciso Arabella Young. La mano di Henry non aveva mai tremato agli incontri al vertice, ma adesso le sue dita stentavano a comporre il numero di telefono della macchina di Sunday. Rispose l'agente dei servizi segreti Jack Collins. «Siamo a casa del Segretario Shipman, signore. La signora Britland è dentro.» «La chiami» scattò Henry. «Le dica che devo parlarle.» «Subito, signore.» Passarono cinque minuti, poi Collins fu di nuovo al telefono. «Signore, potrebbe esserci un problema. Abbiamo suonato ripetutamente ma nessuno risponde alla porta.» Sunday e Tommy sedevano fianco a fianco sul divano di pelle nello studio, fissando la canna di un revolver. Di fronte a loro, Lillian West sedeva eretta e calma mentre reggeva la pistola. Il continuo trillare del campanello della porta non sembrava turbarla. «La sua guardia del corpo» disse sarcastica. Questa donna è pazza, pensò Sunday mentre fissava le pupille dilatate della governante. È pazza e disperata. Sa che non ha niente da perdere uccidendoci. Gli uomini dei servizi segreti. C'erano Jack Collins e Clint Carr di scorta oggi. Cosa faranno quando nessuno risponderà alla porta? Entreranno con la forza. E quando lo faranno, lei ci sparerà. So che lo farà. «Lei ha tutto, signora Britland» disse improvvisamente Lillian West, con voce bassa e stizzita. «È bella, è giovane, è nel Congresso e ha sposato un uomo ricco e attraente. Spero che si sia goduta il suo tempo insieme a lui.» «Sì, l'ho fatto» disse Sunday tranquillamente. «E voglio altro tempo in-
sieme a lui.» «Ma questo non accadrà, ed è colpa sua. Che differenza se lui...» gli occhi della West lanciarono un'occhiata sprezzante a Tommy «se lui fosse andato in prigione. Lui mi ha ingannato. Mi ha mentito. Aveva promesso di portarmi in Florida. Mi avrebbe sposata. Non era così ricco come gli altri, ma ha abbastanza. Ho esaminato a fondo la sua scrivania, così lo so.» Un sorriso le giocava sulle labbra. «Ed è più simpatico degli altri. Avremmo potuto essere molto felici.» «Lillian, io non le ho mentito» disse Tommy tranquillamente. «Penso che lei abbia bisogno di aiuto. Voglio assicurarmi che lei lo abbia. Le prometto che sia Sunday che io faremo tutto ciò che possiamo per lei.» «Procurarmi un altro lavoro da governante?» scattò la West. «Pulire, cucinare, fare la spesa. Ho barattato l'insegnare a stupide ragazze con questo genere di lavoro perché pensavo che finalmente qualcuno mi avrebbe apprezzato, avrebbe voluto prendersi cura di me. E dopo che li ho serviti tutti quanti, loro mi hanno trattato ancora come spazzatura.» Il continuo trillare del campanello della porta era cessato. Sunday sapeva che i servizi segreti avrebbero trovato un modo per entrare. Poi si sentì raggelare. Quando la West l'aveva fatta entrare, aveva reinserito l'allarme. «Non voglio che qualche cronista cerchi di intrufolarsi dentro» aveva spiegato. Se Jack o Clint provano ad aprire una finestra scatterà la sirena, pensò Sunday. Sentì la mano di Tommy sfiorare le sue. Lui sta pensando la stessa cosa. Mio Dio, cosa possiamo fare? Lei aveva sentito l'espressione "fissare la morte in faccia" e adesso sapeva cosa significava. Henry, pensò, Henry! La mano di Tommy era chiusa sulle sue. Il suo indice le percorreva insistentemente il dorso della mano. Stava cercando di farle un segnale. Cosa voleva che lei facesse? Henry rimase in linea. Collins stava parlando dal suo telefono cellulare. «Signore, tutte le tende sono tirate. Abbiamo contattato la polizia locale. Sono in arrivo. Clint si sta arrampicando su un albero sul retro che ha i rami vicini a qualche finestra. Potremmo essere in grado di entrare da lassù. Il problema è che non abbiamo modo di sapere dove si trovano loro nella casa.» Mio Dio, pensò Henry. Ci sarebbe voluta almeno un'ora per far arrivare lì le telecamere speciali e i rivelatori di movimento. Il viso di Sunday gli
apparve alla mente. Sunday. Sunday. Voleva uscire fuori e spingere l'aereo. Voleva ordinare all'esercito di intervenire. Non si era mai sentito così impotente. Poi udì Jack Collins imprecare furiosamente. «Cosa c'è?» urlò. «Signore, all'interno le tende della stanza sulla destra della facciata si sono appena aperte e dentro hanno sparato.» «Quella stupida donna mi offrì la mia occasione» stava dicendo Lillian West. «Non avevo il tempo di ucciderti lentamente, e in questo modo non soltanto ho punito te ma anche quella donna atroce.» «Tu hai ucciso Arabella» disse Tommy. «Certo che l'ho fatto. È stato così facile. Non me ne andai. La feci entrare in questa stanza, ti svegliai, sbattei la porta e mi nascosi nello studio. Ho sentito tutto. Sapevo che la pistola era lì. Quando andasti di sopra barcollando, sapevo che era questione di minuti prima che tu perdessi conoscenza. I miei sonniferi sono molto migliori di quelli a cui eri abituato. Hanno ingredienti speciali.» La West sorrise. «Perché credi che il tuo raffreddore sia migliorato tanto in questi dieci giorni da quella notte? Perché io non gli sto dando motivo di sfociare in polmonite.» «Lei stava avvelenando Tommy?» esclamò Sunday. «Lo stavo punendo. Tornai in biblioteca. Arabella stava giusto preparandosi ad andarsene. Mi domandò perfino dove fossero le chiavi della tua auto. Disse che tu non ti sentivi bene e che sarebbe tornata la mattina dopo. Le dissi che gliele avrei procurate in un minuto. Poi indicai la tua pistola e dissi che avevo promesso di portarmela via e consegnarla al commissariato. La povera scema mi osservò raccoglierla e caricarla. Le sue ultime parole furono: "Non è pericoloso caricarla? Sono certa che il signor Shipman non intendeva questo".» La West cominciò a ridere, una risata acuta, isterica. Le sgorgavano lacrime dagli occhi ma manteneva la pistola puntata su di loro. Si sta montando per ucciderci, pensò Sunday. Il dito di Tommy le stava premendo il dorso della mano. «Non è pericoloso caricarla?» ripeté la West, imitando una voce sonora, roca... «Sono certa che il signor Shipman non intendeva questo!» Appoggiò la mano con la pistola sul braccio sinistro, stabilizzandola. La risata terminò. «Mi userebbe il riguardo di aprire le tende?» chiese Shipman. «Vorrei vedere la luce del sole ancora una volta.»
Il sorriso della West fu privo di allegria. «Sei in procinto di vedere la luce brillante alla fine del tunnel» gli disse. Le tende, pensò Sunday. Era questo che Tommy stava cercando di dirle. Ieri, quando aveva abbassato le tendine in cucina, aveva accennato che il dispositivo elettronico che azionava i tendaggi in questa stanza produceva il suono di un colpo di pistola. L'interruttore era sul bracciolo del divano. Era la loro unica possibilità. Sunday premette la mano di Tommy per mostrargli che aveva capito. Poi, mormorando una preghiera silenziosa, schiacciò con un movimento fulmineo il bottone che apriva le tende. Il suono esplosivo fece girare di scatto la testa alla West. In quell'istante Tommy e Sunday balzarono su dal divano. Tommy si lanciò verso la West ma fu Sunday che le spinse verso l'alto la mano mentre la governante cominciava a sparare. Un proiettile fischiò vicino all'orecchio di Tommy. Sunday provò una sensazione di bruciore sul braccio sinistro. Non poté strappare la pistola alla West ma si scagliò addosso alla donna facendo capovolgere la sedia con loro due sopra mentre il gradito rumore del vetro che andava in frantumi segnalava l'arrivo della sua scorta. Dieci minuti dopo, con la ferita superficiale sul braccio fasciata da un fazzoletto, Sunday era al telefono con l'ex Presidente degli Stati Uniti, totalmente snervato. «Sto bene» disse per la quindicesima volta. «Tommy sta bene. Lillian West è in una camicia di forza. Finiscila di preoccuparti.» «Avresti potuto restare uccisa.» Henry voleva che la moglie non smettesse più di parlare. Non aveva mai voluto pensare che un giorno avrebbe potuto non essere in grado di ascoltare la sua voce. «E invece no» replicò sbrigativamente Sunday. «E Henry, tesoro, avevamo ragione tutti e due. Era senza dubbio un delitto passionale. Solo che siamo stati un po' lenti a capire la passione di chi aveva originato il problema.» JAMES CRUMLEY Una porzione significativa della nostra vita culturale è riempita da classifiche: i migliori film dell'anno, gli spettacoli televisivi più seguiti, i libri più venduti, e così via. È tutto soggettivo e spesso inutile, ma è anche divertente. Tutti sappiamo che dovremmo leggere tutti i libri così da poter
esprimere un nostro giudizio riguardo al miglior libro dell'anno, e dovremmo vedere tutti i film in modo da poter decidere da noi chi siano gli attori e le attrici migliori, e così via. Ma in una vita indaffarata, questo è semplicemente impossibile, e le classifiche servono a darci qualche indicazione. Nella mia personale classifica della narrativa hard, ho sostenuto per l'ultimo decennio che il migliore romanzo investigativo mai scritto è The Last Good Kiss di James Crumley. Il solo titolo gli dà una partenza di slancio, e la frase d'attacco viene citata dai patiti del giallo più di qualsiasi riga eccetto "La notte scorsa ho sognato che andavo di nuovo a Manderley". Quando finalmente agguantai Abraham Trahearne, stava bevendo birra con un bulldog alcolizzato chiamato Fireball Roberts in una bettola sgangherata appena fuori di Sonoma, in California, scolandosi pure l'anima in uno splendido pomeriggio di primavera. Questo è il primo racconto breve di James Crumley in ventitré anni ed è senza dubbio uno dei più bei racconti del crimine mai scritti, denso di personaggi e intrecci bastanti per qualsiasi romanzo tradizionale. Sorgenti calde Di notte, perfino nella gelida aria di montagna, Mona Sue insisteva per tenere al massimo l'aria condizionata. La sua temperatura abituale era sempre un paio di gradi più alta del normale, e sosteneva che il bambino che portava in grembo peggiorasse ulteriormente la sua costante febbre. Manteneva la baita abbastanza fredda da tenerci appesa la carne. Durante le lunghe notti insonni Benbow amoreggiava con la sua nuda pelle bruciante, cercando di mantenersi caldo. Di mattina, come non bastasse, Mona Sue lo costringeva a esporsi al gelo. La moderna baita era appollaiata su un pianoro nell'ombra fredda del monte Nihart, e loro rompevano il digiuno consumando la colazione servita sulla veranda, una vestaglia mollemente buttata sul corpo nudo di lei mentre Benbow si avvoltolava ben bene in una maglia di lana, oltre alla vestaglia. Lei mangiava sfrenatamente, alimentando una fornace, e raccontava i suoi sogni come se fossero vangelo, consumando senza sforzo la maggior parte dei formaggi esotici e della costosa frutta fuori stagione, una
pagnotta di pane tostato e quattro tipi di carne, intanto che cinguettava a vanvera sugli eventi della sua notte interiore, i sogni di una ragazza adolescente, languidamente simbolici e vagamente terrorizzanti. Sognava di sua madre, giovane e bella, che divorava la sua nidiata di ragazzi scalzi nei bui anfratti di Ozark. E suo padre, tornato a casa da una prigione del Tennessee, con il membro curvo che penzolava contro la guancia liscia di lei. Benbow sospettava che lei lasciasse fuori la parte migliore e faceva del suo meglio per ascoltare le sommesse intonazioni meridionali senza guardarla in faccia. Sapeva cosa succedeva quando la osservava parlare, guardava la soffice curva in movimento delle sue labbra scure, lo sguardo sapiente dei suoi occhi grigi. Così piluccava la colazione e cercava di focalizzare lo sguardo lungo il pendio, sul vapore che si disperdeva lentamente dalla larga piscina d'acqua calda dietro l'albergo costruito in ruvida corteccia. Ma quando lei passava ai sogni a occhi aperti sul loro incerto futuro, che erano mortalmente precisi quanto un proiettile calibro 45 nella scatola cranica: dopo il bambino, sarebbero fuggiti in Canada; nessuno li avrebbe seguiti lassù. Lui ascoltava e osservava con la falsa pazienza di un adolescente impelagato nel suo primo confronto con la pura lussuria e la passione disperata. Mona Sue mangiava con la meticolosa e delicata golosità di un cardiochirurgo, il bianco cuscinetto del suo pollice a forma di spatola sul manico del cucchiaio mentre sezionava una perfetta sfera arricciata dalla tenera polpa arancione del suo melone. Prima di venire frantumato dai suoi minuscoli denti bianchi ogni boccone di polpa doveva essere bilanciato da un eguale peso di toast. Poi lei esaminava ogni fragola sospesa davanti alle sue labbra rosso scuro, come se fosse un gioiello augurale esoterico e lei un qualche antico oracolo, e affondava i denti splendenti nel frutto polposo, come se fosse la mortale verità. Il cuore di Benbow gli rullava nel petto mentre cercava di riempirsi i polmoni con l'aria fredda per respingere il calore del corpo di lei. L'autunno era arrivato tra le montagne, ormai. I pioppi neri e gli ontani accoglievano il cambiamento con sgargianti abiti da lutto, e di mattina una brina di ghiaccio ricopriva il parabrezza della Taurus grigia che lui aveva rubato all'aeroporto di Denver. Neve fresca cadeva ogni notte, scendendo lentamente lungo il crinale dagli alti picchi lontani della catena dello Hard Rock e scivolava ogni mattina più vicina lungo il ripido pendio dietro loro. Sotto il pianoro il vecchio albergo sembrava rintanarsi più profondamente
dentro lo stretto canyon, come acquattandosi per secoli e secoli di neve, e il vapore delle sorgenti calde si mescolava al fumo del bosco e si adagiava stagnante e sinuoso tra i gialli salici d'acqua. Benbow sospettava, per giunta, che per Mona Sue lo scenario fosse sprecato. Gli occhi scuri di lei sembravano rivolti all'interno verso il sognante panorama della sua vita, suo marito, R.L. Dark, l'allevatore di maiali, il figlio dal collo taurino, Little R.L., e le ottuse frattaglie di Ozark della sua grande indegna famiglia. «Allenatore» diceva lei «trovava divertente chiamarlo allenatore» interrompendo la sconnessa e incoerente narrazione dei suoi sogni. Poi si scostava dalla faccia gli spessi capelli neri da indiana, inclinava la piccola testa sulla sottile colonna del collo e rideva. «Allenatore, quel vecchio R.L. è in arrivo. Tu hai rubato qualcosa che gli apparteneva, e puoi scommettere che è già per strada. Anche Little R.L., probabilmente, perché una volta mi ha detto che gli sarebbe piaciuto annodarti le budella sul filo spinato di un recinto» cantilenò lei come una bambina vivace ma non molto intelligente. «Amore, R.L. Dark sa a malapena contare i numeri su una banconota da un dollaro o i punti su una carta da gioco» rispose Benbow, come aveva fatto ogni mattina per i sei mesi che erano stati in fuga «non riesce a leggere una mappa che non abbia disegnato lui stesso, e a mezzogiorno è troppo ubriaco per piazzare il culo sul sedile di un trattore e trovare il recinto dei suoi porci...» «Lo sai, Ciccio, il vecchio ha abbastanza spiccioli, o mucchi di bigliettoni come i nostri» aggiunse lei ridendo «da ingaggiare chi gli legga quella parte dei numeri, e la parte della mappa, anche. Così sta arrivando. Puoi scommetterci quello che vuoi.» Questa era una nuova trovata nel loro rituale mattutino, e Benbow si sorprese a lanciare un'occhiata all'area di parcheggio dietro l'albergo e all'unica strada stretta che risaliva lo Hidden Springs Canyon, ma si riscosse prontamente. Quando aveva preso la decisione fatale di pigliarsi Mona Sue e il denaro, aveva giurato di tenere duro, senza mai guardarsi indietro, vivendo alla giornata. E così fu. Ancora una volta. Lasciando di nuovo la colazione intatta, infilò la mano tra le voluminose pieghe della vestaglia di spugna di Mona Sue per cullare la calda matura abbondanza dei suoi seni e i lunghi, spessi capezzoli, già duri come sassi prima del suo tocco, e le baciò la bocca, dolce di fragola e melone. Ancora una volta si meravigliò al profondo appassionato brontolio della sua gola mentre le premeva le labbra nella cavità,
poi Benbow sollevò il suo corpo minuto, lei annidò il bambino in alto sotto la volta liscia della sua gabbia toracica, perfino al settimo mese il bambino si vedeva a stento, e la portò in camera da letto. Benbow sapeva dall'esperienza recente che, quando sarebbero usciti fuori per finire il caffè, il cow-boy che sbrigava anche il servizio in camera sarebbe stato in attesa di sparecchiare la tavola. Il cow-boy poteva avere pazienza con i cavalli ma non con gli ospiti che passavano le mattinate a letto. Tuttavia avrebbe aspettato per lunghi minuti, silenzioso come un esploratore Sioux, mentre Mona Sue si frugava nella vestaglia in cerca della mancia, esibendo occasionalmente il profilo insorgente di un seno o la netta forbice delle sue lunghe gambe. Benbow gli aveva lanciato diverse occhiatacce, che il cow-boy aveva ignorato come se i bruschi sguardi fissi fossero stati pronunciati in una lingua straniera. Ma non c'era rimedio. Tranne portare dentro la donna ed evitare del tutto il cow-boy. Quel mattino Benbow distese come un dono Mona Sue sul letto di piume, le aprì la vestaglia, le baciò la morbida curva del pancino gonfio, poi soffiò dolcemente sul suo soffice pelo pubico. Mona Sue ruppe subito in gemiti, tossì come se avesse incastrata in gola una spina di pescegatto, il lungo corpo che si inarcava. Anche Benbow gemette, la sua fame di lei era più intensa di quella che gli brontolava nello stomaco vuoto. Mentre Mona Sue si era ingrossata durante la gravidanza, Benbow aveva perso dodici chili della sua massiccia struttura. Talvolta, subito dopo che avevano fatto l'amore, sembrava come se il bruciante corpo di lei avesse carpito il bambino dalla carne muscolosa di lui, qualcosa di rubato durante il viluppo dell'amore, qualcosa che cresceva duro e teso nel liscio corpo snello di lei. Come al solito, fecero l'amore, poi finirono il caffè, ne ordinarono un altro bricco, diedero la mancia al cow-boy, poi fecero l'amore di nuovo prima del sonnellino mattutino di lei. Mentre Mona Sue dormiva, generalmente Benbow beveva il resto del caffè leggendo il giornale di Meriwether del giorno prima, poi si infilava la felpa e le scarpe da ginnastica, e faceva jogging lungo i tornanti fino all'albergo per oziare nelle calde acque delle piscine. Amava stare lì, galleggiare nell'acqua che sembrava più pesante del normale, più densa ma più pulita, più limpida. Si sentiva quasi completo lì, depurato e in salute e caldo, bagnandosi nelle acque termali come un ricco principe straniero, fuggendo la sua vita di fallito. Occasionalmente, Benbow desiderava che Mona Sue interrompesse i
suoi pisolini per raggiungerlo, ma lei diceva sempre che poteva far male al bambino e che era già calda più che a sufficienza con le sue febbri naturali. Con il trascorrere delle settimane, Benbow imparò a far tesoro del suo tempo in solitudine nella piscina calda e smise di chiederglielo. Così le loro giornate si snodavano nella routine, scorrendo come nastri di seta tra le loro dita, placide quanto le acque profondamente calme della piscina. Ma in quel mezzogiorno, esausto per la corsa e l'inquietudine, la mancanza di sonno e di cibo, Benbow scivolò senza sforzo nella calda nicchia del corpo addormentato di Mona Sue e sprofondò nel sonno, solo per svegliarsi all'improvviso, sudando a dispetto del freddo, quando venne spento il condizionatore dell'aria. R.L. Dark stava ai piedi del loro letto. Sogghignando. Il vecchio allungò il collo rugoso, annusando l'aria come un'antica tartaruga azzannatrice che fiuta in cerca di cibo o divertimento, dal momento che non ha nemici naturali tranne i ragazzetti con le calibro 22. R.L. si era vestito per l'occasione. Indossava un nuovo soprabito Carhart stagnato e una tuta da lavoro pulita, con il vecchio revolver Webley calibro 455 appeso a un laccio intorno al collo e insaccato nella tasca della pettorina. Due vecchie conoscenze lo affiancavano, uno calvo e l'altro esageratamente irsuto, entrambi enormi coi giacconi di flanella a quadri. Quello calvo brandiva come un trofeo un piccolo martello a penna tonda. Loro non ridevano. Un uomo magro in un cadente vestito bianco si spostava passo passo dietro loro sorridendo debolmente come un cucciolo di pointer che teme gli spari. «Bene, pisciate sul fuoco, ragazzi, e richiamate i cani» disse R.L. Dark, sballottando i proiettili 455 in più nella tasca come se fossero i suoi genitali avvizziti «questa caccia è finita.» La risata stridula del vecchio pareva il grido di un gallo cannibalesco al sorgere del sole. «Figliolo, dicono che tu saresti stato una specie di allenatore di football, e io so che sei un demonio di giocatore di poker, ma non avrei mai pensato che avresti fatto questa fine pietosa» un ladro sprovveduto e un fottigalline rubamogli. «Poi R.L. ragliò come uno dei vecchi muli da tiro che teneva nelle fangose fondamenta di White.» Ma tu sei proprio bravo a scappare, figliolo. Questo bisogna dirlo. Scaltro come un cinghiale selvatico. Staremmo ancora cercando se la bambola lì non avesse telefonato a sua madre. A carico del ricevente. Per vantarsi del bambino. Gesù, pensò Benbow. Sua madre. Una donna sdentata, ormai, a forma di
gnocco di patata sormontato da capelli unti, stagionata dai nei. Mona Sue si svegliò sfregandosi gli occhi come una bambina, mormorando: «Come sei stato, paparuccio?» E Benbow capì che si trovava faccia a faccia con una morte ancora più dura della sua vita sfortunata, lo capì perfino prima che il mostro sulla destra lo colpisse dietro l'orecchio con il martello a penna tonda e strattonasse fuori del letto il suo corpo tramortito come se fosse un bambino e lo passasse al suo socio, che lo ghermì in una presa nelson. Il calvo vibrò il martello e lo colpì secco sui testicoli, poi lo vibrò di nuovo e cominciò a rompere le ossicine del piede destro di Benbow con la testa tonda del martello. Prima che Benbow svenisse, una risata stridula gli raschiò la gola. Forse questa era l'occasione che aveva aspettato per tutta la vita. A dire il vero, era stata tutta colpa di Little R.L. In un certo senso. Benbow aveva scoperto tre anni prima il corpulento ragazzo dalle gambe arcuate, con le minuscole orecchie e il collo spesso, quando la spirale discendente della sua carriera da allenatore di football lo aveva condotto ad Alabamphilia, una piccola cittadina al limitare degli Ozark, un paese senza speranza o dignità e nemmeno alcun fervore religioso, una cittadina che puzzava di interiora di pollo, letame di maiale e incesto dilagante, che sembravano essere le tre industrie principali. Benbow vide Little R.L. per la prima volta in una partitella di football giocata su un Campetto rimediato e capì dal primo momento che il ragazzo aveva la rapida grazia di un cervo combinata con la forza di un cinghiale selvatico. Quel ragazzo era uno dei migliori running back naturali che avesse mai visto. Benbow scoprì altrettanto alla svelta che Little R.L. era uno dei ragazzi Dark dai capelli rossi, e i ragazzi Dark non giocavano a football. Papà R.L. pensava che il football fosse un gioco stupido, un'opinione su cui Benbow concordava, e troppo simile al lavoro per non cavarne un salario, sul che ancora una volta Benbow era d'accordo, e se i suoi ragazzi dovevano lavorare gratis, era maledettamente meglio che andassero a lavorare per lui e la sua attività coi maiali, e non per qualche lurido pezzente fallito fanatico di football. Benbow dovette essere d'accordo su questo, anche, proprio in presenza di R.L., dovette ingoiare la merda del vecchio per arrivare al ragazzo. Perché questo ragazzo poteva essere il biglietto d'uscita di Benbow dall'inferno di Ozark, e lui intendeva averlo. Questa era l'unica
occasione di cui Benbow aveva bisogno per salvare la sua vita. Ancora una volta. Era sempre stato così per Benbow, avere bisogno di quell'unica occasione che sembrava non arrivare mai. Durante l'ultimo anno al piccolo liceo nel Nebraska occidentale, dopo tre anni e mezzo di lavoro per la maggior parte mediocre come blocking back in un attacco fanatico del passaggio, la madre di Benbow aveva fatto i doppi turni al caffè per camionisti, essendo suo padre morto da tanto di quel tempo che nessuno se lo ricordava davvero, così che poterono permettersi di mettere insieme un video delle sue prestazioni migliori come running back e ricevitore di passaggi per spedirlo agli allenatori dell'università, giù a Lincoln. Una volta che questi acconsentirono a inviare un talent-scout per una partita, Benbow tormentò il suo allenatore del liceo strappandogli la promessa di lasciargli portare la palla almeno venti volte quella sera. Ma il maltempo lo fregò. In quello che avrebbe dovuto essere un mite venerdì sera dell'inizio di ottobre, arrivò rapidamente una tempesta dal Canada, in anticipo di giorni, e il vento gelido mandò a farsi benedire l'occasione di Benbow. Prima della partita piovvero cinque buoni centimetri d'acqua, poi il campo gelò. Durante il primo tempo piovve di nuovo, poi grandinò, e alla fine del secondo quarto arrivò un'accecante bufera di neve. Benbow aveva guadagnato sessanta yard, certo, ma nessuna con classe. E all'intervallo il talent-scout del Nebraska passò a scusarsi, se voleva tornare a casa con quel tempaccio doveva avviarsi subito. L'ottuso vecchio invitò Benbow a provare a farsi vivo. Giusto, pensò Benbow. Senza una borsa di studio, non aveva i soldi per iscriversi al semestre autunnale. Dannazione, pensò Benbow mentre tirava un calcio al raffreddatore d'acqua, e all'inferno, pensò mentre il suo alluce si frantumava e la sua stagione dell'ultimo anno finiva. Così giocò a football per qualche insignificante college del Dakota, dove non si preoccupò di prendere una laurea. Con il suo alluce a pezzi, aveva perso una posizione in campo e i suoi lanci avevano perso di precisione, così frequentò la stanza dei pesi, costrinse il suo corpo da running back a gonfiarsi di spessi muscoli e si modellò in un solido fullback, benché piccolo, abbastanza bravo da disputarsi un invito per una delle partite fuori stagione dei senior. Allora il fullback titolare, che era sicuro di essere scelto dai professionisti, si slogò un ginocchio durante l'allenamento e si rifiutò di giocare. O Dio, pensò Benbow, un'altra occasione.
Ma Dio ci mise lo zampino. L'allenatore della difesa era un fondamentalista convertito di nome Culpepper, e una volta che sorprese Benbow a non chinare la testa senza nemmeno prendersi il disturbo di chiudere gli occhi durante una prolissa preghiera di squadra, si prefisse di convertire il ragazzo. Benbow si adeguò, soffocando la rabbia verso il bigotto bastardo tanto da farsi venire i crampi allo stomaco, ingoiando bile fino a rigettare tre volte al giorno, due durante l'allenamento e una prima dell'ora in cui si spegnevano le luci. Per il giorno della partita aveva perso cinque chili e temeva che non avrebbe avuto la forza di giocare. Ma giocò. Fece un primo tempo da glorificare gli dei del football, se non quello cristiano: due mete vertiginose, una trascinandosi per tre yard un linebacker e un corner, l'altra trentanove yard di fluida grazia e potenza; e una ricezione di ventidue yard. Ma il quarterback sbagliò il lancio alla fine del primo tempo, schiacciando la palla contro l'anca di Benbow, e un linebacker avversario in un attacco improvviso la ghermì in aria e fece meta. Nello spogliatoio, all'intervallo, Culpepper gli fu addosso come il puzzo sulla merda. «L'orgoglio precede la rovina!» urlò. «Noi non siamo mai così alti come quando siamo in ginocchio davanti a Gesù!» E tutti gli altri cliché dei cervelli molli. Lo stomaco di Benbow si annodò come una corda di cuoio grezzo, poi si rivoltò. Benbow trattenne quel po' di vomito e lo inghiottì. Ma la seconda ondata fu troppo forte. Si voltò e vomitò in un lavandino vicino. Culpepper uscì di senno. Lo accusò di essere fuori forma, di bere, fumare e fornicare. Quando Benbow negò le accuse, Culpepper ne aggiunse un'altra, e urlò: «Prevaricatore!» con la saliva bavosa che schizzava sulla faccia di Benbow. E questo bastò. Culpepper perse un occhio per l'unico pugno e quasi morì durante l'operazione per ricostruirgli lo zigomo. Tutti dissero che Benbow era stato fortunato a non finire in prigione, come suo padre, che aveva ucciso con il suo caccia-copertoni il corrotto gestore di una stazione di pesa giù in Texas, e poi era stato ucciso a sua volta da un malvagio spacciatore di crack giù nella Ellis Unit a Huntsville quando Benbow aveva sei anni. Benbow era stato fortunato, suppose lui stesso, ma venne marchiato "inalienabile" dai talent-scout professionisti e gli vennero negati i provini in tutta la federazione. Benbow giocò tre anni in Canada, poi si distrusse il ginocchio in una rissa con un cinese in un bar di Vancouver. Allora fu fuori gioco. Per sempre. Benbow andò alla deriva verso ovest, spegnendo incendi d'estate e giocando a poker d'inverno, frequentando occasionali classi di college finché
finalmente conseguì un titolo d'insegnamento nel Montana settentrionale e rimediò un lavoro da aiuto allenatore in una piccola cittadina nelle Sweetgrass Hills, dove scoprì di avere un insospettato talento per l'allenamento, come l'aveva per il poker: una mente pronta e nessuna paura. Un talento, una volta scoperto, che diventò una dipendenza da lavoro duro, orari lunghi, amore per il gioco e pagare il prezzo per vincere. Allenatore capo in tre anni, poi due campionati di Stato e un trasferimento a una scuola più grande nello Stato di Washington. Dove sua madre venne a vivere con lui. O a morire con lui, per come andò. I dottori dissero che era stato il cuore, ma Benbow sapeva che era morta di cibo da area di servizio, whisky a buon mercato e camionisti da lunghe tirate le cui anime erano piene di aria viziata quanto i loro pneumatici. Ma l'anno successivo allenò una squadra del campionato di Stato e stava considerando le offerte di un'autorità del football giù nella California settentrionale quando fu messo a terra da uno scandalo legale. Il suo quarterback di riserva si era persuaso che Benbow dormisse con sua madre, il che naturalmente era vero. Quando il ragazzo assalì Benbow all'allenamento con il suo casco, Benbow dovette colpirlo per tenerlo lontano. Seppe che questa parte della sua vita era finita quando vide l'occhio del ragazzo penzolargli fuori dell'orbita sulla fibra rosa grigiastra del nervo ottico. Da allora cominciò il declino. Bevendo e azzuffandosi tanto spesso quanto allenava, scadenti partite di poker e donne sposate, generalmente maritate con membri del consiglio scolastico o ottusi merdosi amministratori. In declino per tutta la strada fino a Alabamphilia. Benbow ritornò a questo nuovo mondo sformato come un fagotto sul divano nel soggiorno del cottage, con un dolore sordo dietro l'orecchio e migliaia di fitte acute nel piede, appoggiato sul tavolino da caffè dentro uno stampo di gesso fresco delle dimensioni di un cocomero. Benbow non dovette chiedere a che scopo servisse. L'uomo magro sedeva accanto a lui, una siringa in mano. Al di là della stanza, la mole di R.L. si ergeva nera contro un tramonto infuocato, Mona Sue era raggomitolata in una poltrona nella sua ombra, limandosi lentamente le unghie. Attraverso la finestra, Benbow poteva vedere i gemelli coi giacconi a scacchi fare lenti giri di guardia avanti e indietro lungo la veranda. «Sta rinvenendo, signor Dark» disse il vecchio, la voce acuta quanto il suo pallido naso. «Be', dagliene un'altra dose, dottore» ordinò R.L. senza voltarsi. «Noi
non vogliamo che quel ragazzo senta alcun dolore. Non ancora.» Benbow non capì cosa R.L. intendesse mentre il dottore si agitava accanto a lui, emanando un sottile, acuto fetore come una caverna calcarea o una tomba aperta. Benbow aveva sentito dire che presumibilmente la morte non faceva più male dell'estrazione di un dente e si domandò chi avesse mai riportato quell'informazione mentre il dottore lo colpiva nella spalla con un ago spuntato, poi scivolò agitato in un sonno forzato come una piccola morte. Quando si svegliò di nuovo, Benbow trovò poco di cambiato, tranne la luce. Mona Sue ancora accoccolata nella sua poltrona, adesso addormentata, sotto la mole di suo marito contro il cielo completamente buio. Anche il dottore dormiva, appoggiando le fragili ossa del suo cranio contro il braccio dolorante di Benbow. E anche la gamba di Benbow era addormentata, bloccata dal gigantesco gesso posato sul tavolino da caffè. Lui rimase immobile più a lungo che poté in attesa che gli si schiarisse la mente, ordinando alla sua gamba morta di risvegliarsi e domandandosi perché non era morto anche lui. «Non farti venire delle idee, figliolo» disse R.L. senza voltarsi. Di tutte le cose che Benbow aveva odiato durante le lunghe domeniche a spalare merda di porco o a dare le carte per R.L. Dark, questo era il baratto che lui e il vecchio avevano fatto per le prestazioni al football di Little R.L., la più odiosa era che il bastardo lo chiamasse "figliolo". «Io non sono tuo figlio, fottuto vecchio bastardo.» R.L. lo ignorò, non si prese nemmeno il fastidio di voltarsi. «Quanto è calda quell'acqua?» chiese tranquillamente mentre il dottore si svegliava. Benbow rispose senza pensare. «Qualcosa fra i 36 e i 38 gradi. Perché?» «Che ne dice di mezza dose, dottore?» domandò R.L., ora voltandosi. «E veda di rendere impermeabile il gesso del ragazzo. Sto pensando che quell'acqua calda potrebbe placare i miei reumatismi, e di certo voglio lì l'allenatore a tenermi compagnia...» Ancora una volta Benbow trovò il caldo, pigro sentiero di ritorno al buio nucleo centrale del suo essere, sentendo frammentariamente il vecchio e Mona Sue che litigavano sul condizionatore d'aria. Dopo che la notizia del suo patto con R.L. Dark per le prestazioni sul campo di football del diletto figlio minore si propagò in ogni anfratto e buco da un capo all'altro della contea, Benbow non poté più nemmeno farsi una birra in pace dopo l'allenamento in una qualsiasi delle bettole di
quart'ordine che circondavano l'arida cittadina senza udire risatine appena se ne andava. Sembrava che quello che aveva potuto guadagnare in simpatia l'aveva sicuramente perso in rispetto. E il vecchio lo trattava peggio dello scemo del villaggio. Durante i sabati di quel primo autunno, quando Benbow cominciava le sue giornate scambiando il suo lavoro manuale per le doti di corsa impetuosa di Little R.L., il vecchio gli andava dietro per tutto l'allevamento di maiali su un piccolo trattore John Deere facendo continuamente notare l'assoluta insipienza di Benbow nel tradurre in denaro la pancetta affumicata e la sua generale incapacità a svolgere un lavoro duro, lamentandosi per tutto, poi sghignazzando selvaggiamente e trastullandosi con l'acceleratore del trattore come se fosse la cosa più divertente che avesse mai fatto. Perfino al pensiero che Little R.L. stava sdraiato sul divano davanti alla televisione a lenirsi con una pinta di birra chiara i muscoli doloranti, Benbow non riusciva nemmeno lontanamente a rimpiangere il suo patto, e non si prendeva mai neppure la briga di guardare il vecchio, sapendo che questa era la sua unica salvezza. La domenica, tuttavia, il vecchio lo lasciava in pace. Domenica era il giorno del poker. Ricchi allevatori del paese, scaltri avvocati di campagna con occhi taglienti e mani molli, e banchieri di piccole cittadine con l'animo da mercanti di schiavi venivano da posti lontani, come West Memphis, St. Louis, e Fort Smith, per radunarsi nello spazioso trailer di R.L. per un tavolo di forti puntate fisse, una specie di teresina conosciuta in almeno quattro Stati, e talvolta nel Messico settentrionale. Nel giorno di riposo stava per conto suo, eccetto per la presenza scontrosa e furtiva di Little R.L., che sembrava incolpare il suo allenatore per ogni dolore e sofferenza, e il nervoso passaggio di un'adolescente magra e petulante che gli schizzava vicino attraverso l'aia fangosa in un informe vestito di tela di sacco e stivali di gomma troppo grandi, strascicando una strana risata gutturale, la stessa risata che faceva quando una delle scrofe decideva di cibarsi della sua prole. Benbow avrebbe dovuto prestare ascolto. Ma queste sembravano difficoltà di poco conto, se paragonate al fatto che Little R.L. aveva guadagnato quasi un centinaio di yard a partita nel suo anno da matricola. L'autunno seguente, la merda da spalare e l'atteggiamento del vecchio sembrarono più facili da sopportare. Poi, quando Benbow si lasciò sfuggire casualmente che una volta aveva dato le carte e giocato a poker professionalmente, gli acquosi occhi blu di R.L. improvvisamente brillarono di avi-
dità e la porzione domenicale del patto di Benbow divenne più semplice e più complicata insieme. Non che il vecchio avesse bisogno che lui barasse. R.L. Dark vinceva sempre. Così le uniche volte che il vecchio gli segnalava di spalleggiarlo era per dare ai suoi avversari delle buone carte per tenerli in gioco in modo da poterli pelare ancora più a fondo. Così la brutale e pericolosa monotonia della vita di Benbow continuò, controllata e speranzosa, fino all'autunno del terzo anno di Little R.L., quando tutto crollò in pezzi. Poi di nuovo si ricompose con un terribile slancio. Un'opportunità, una sbandata e un recupero. Il sabato pomeriggio, dopo che la sera prima Little R.L. aveva battuto il record di corsa dello Stato, la ragazza adolescente smise di ridacchiare quanto bastava per fare una domanda. «Per quanto tempo devi andare al college, allenatore, per riuscire a capire come spazzare via merda di porco dal cemento con una manichetta antincendio?» Quando lei rise, Benbow finalmente domandò: «Chi diavolo sei tu, tesoro?» «La signora R.L. Dark, Senior» replicò lei, con l'arco perfetto del suo naso in aria «ecco chi.» E Benbow la guardò per la prima volta, osservando l'impeto del suo sodo, meraviglioso corpo nudo sotto il tessuto leggero del vestituccio. Poi Benbow cercò di fare conversazione con Mona Sue, e fece lo sbaglio di chiedere a Mona Sue perché portava stivali di gomma. «Ossiuri» disse lei, indicando i suoi piedi senza calze nelle vecchie Nike. Gesù, pensò lui. Poi Gesù pianse quella notte mentre lui osservava i bianchi vermi strisciare attraverso le sue scure feci insanguinate. Adesso sapeva di che cosa se la rideva il vecchio. La domenica un ricco allevatore messicano cercò di coprire uno dei rilanci di R.L. con un Rolex, allora il vecchio insisté per comprare l'orologio da quindicimila dollari con cinque bigliettoni in contanti, e quando aprì la piccola cassaforte sistemata nel pavimento della cucina del trailer, Benbow intravide l'enorme pila di mazzette di banconote da cento dollari che riempivano la cassaforte. Il venerdì sera seguente Little R.L. batté il suo stesso record di corsa con più di un quarto della partita ancora da giocare, il che fu un bene perché nella quarta frazione il tappeto erboso cedette sotto il suo piede destro, che finì sotto il placcaggio di un inseguitore. Benbow udì lo schiocco per tutta la distanza dalla panchina mentre il ginocchio del ragazzo si slogava. Spiegando a R.L. che un patto era un patto, non importava cosa fosse
successo al ginocchio del ragazzo, il giorno dopo Benbow andò come al solito al lavoro giusto il tempo per adescare Mona Sue in un capanno del foraggio e farle togliere il vestito. Ma non gli stivali di gomma. A Benbow non importava. Lui se la scopò semplicemente. La vendetta che progettava su R.L. Dark era un inferno congelato nel suo cuore. Ma il tenero desiderio della bocca di lei e il contatto col suo corpo sbalorditivo, capezzoli duri come diamanti, le veloci contrazioni dei muscoli da gatta che scivolavano sotto la pelle umana, la sua fica come una serica borsa di ricche, luminose perle sospese nel divino fuoco dello scopare, distrussero la sua speranza di vendetta. Adesso, lui voleva solamente lei. Non importava a quale costo. Due mesi dopo, proprio quando la gravidanza cominciava a vedersi, Benbow scassinò la cassaforte con un cucchiaio di nitroglicerina, prese tutto il denaro e fuggirono. Sebbene fosse certo che Mona Sue sognava ancora, aveva perso il suo pubblico. Eccetto per il cow-boy, che ancora la guardava come se fosse un idolo pagano. Ma ogni volta che lei cercava di parlare al bruno cow-boy, il vecchio le pizzicava la coscia così forte con le dita callose da lasciarle un livido. Le loro mattinate adesso erano molto diverse. Andavano tutti alle acque calde. Il dottore dormiva su una panchina accanto alla piscina dietro Mona Sue, che sedeva sul bordo con i piedi che penzolavano nell'acqua, le cosce coi lividi esposte e gli occhi vacui quanto il suo mezzo sorriso. R.L. Dark, Curly e Bald Bill, in pantaloncini e magliette da quattro soldi, stavano nell'acqua fumante fino al collo, circondando vagamente Benbow ancorato dal suo gesso avvolto nella plastica, che appariva come un gigantesco macigno sotto l'acqua pesante. Un vago senso di minaccia, come un'occasionale zaffata di zolfo, emanava dallo strano gruppo e teneva gli altri ospiti a prudente distanza, e il numero degli ospiti diminuiva ogni giorno in quanto il vecchio affittava ogni baita e stanza dell'albergo non appena si liberava. Ai ricchi gemelli tedeschi proprietari del posto non sembrava interessare chi pagasse per la loro cocaina. Durante i primi giorni, nessuno si era preoccupato molto di parlare a Benbow, nemmeno per chiedergli dove aveva nascosto il denaro. Il dolore al piede si era ridotto a una sofferenza sorda, ma il prurito sotto il gesso era diventato insopportabile. Una mattina, il dottore aveva avuto compassione di lui e aveva frugato i cassetti della cucina in cerca di qualcosa che Ben-
bow potesse usare per grattarsi al di sotto del gesso, venendosene fuori alla fine con un volgare spiedino da shish kebab. Curly e Bald Bill avevano esaminato la sottile stecca di metallo come se fosse uno stuzzicadenti dell'Arkansas o un coltellino da boy-scout, poi risero e lasciarono che Benbow lo avesse. Lui lo tenne inguainato nel gesso, in attesa, grattandosi il prurito. E scavando una profonda scanalatura sul retro del gesso. Poi una mattina, mentre stavano silenziosi e al sicuro nella piscina, un nembo di tempesta si addensò lentamente lungo la montagna riempiendo il canyon con vorticosi turbini di pesante neve bagnata; il vecchio alzò il becco nei fiocchi e finalmente parlò: «Ho sempre avuto l'intenzione di ritornare in questo paese.» «Cosa?» Eccetto che per il cow-boy che ammucchiava lentamente asciugamani bagnati e una figura scura in una felpa con cappuccio e occhiali da sole in piedi dentro il bar, la piscina e il pontile si erano svuotati quando era cominciato a nevicare. Benbow aveva osservato la neve depositarsi tra le onde scure dei capelli di Mona Sue, mentre lei cercava di acchiappare con la lingua rosa un fiocco volteggiante. Perfino faccia a faccia con la morte, lei ancora rimescolava le incandescenti braci nascoste tra i pantaloni di Benbow. «Durante la Seconda guerra mondiale» disse piano il vecchio «finii in un pasticcio su a Fort Chaffee, infilai un manico di scopa nel culo di un sottufficiale, così l'esercito mi spedì quassù ad addestrarmi con il Decimo di montagna. Gli stupidi coglioni pensavano che fosse una specie di punizione. Ho sempre avuto l'intenzione di ritornare un giorno...» Ma Benbow osservava il vento freddo increspare l'imperturbabile superficie dell'acqua calda mentre i fiocchi di neve vi si scioglievano dentro. Il vapore ascendente diventò una spessa nebbia. «Mi è sempre piaciuto» disse Benbow, lanciando uno sguardo alla montagna che appariva e scompariva dietro le torbide nubi di neve. «Tempo eccellente per la caccia» aggiunse. «C'è un piccolo branco di alci proprio dietro quel primo costone.» Mentre gli occhi dei suoi guardiani seguivano il pendio, lui si lasciò trasportare lentamente tra la nebbia verso i piedi di Mona Sue che rimestavano svogliatamente l'acqua. «Se ti piace tanto, vecchio bastardo, forse potresti comprarlo.» «Tieni a freno la lingua, ragazzo» disse Curly mentre sfregava Benbow sulla testa. Benbow barcollò più vicino a Mona Sue.
«Potrei proprio farlo, figliolo» disse il vecchio, ridacchiando «solo per farti incazzare. Non che tu ci sarai per poterti incazzare.» «Allora per che diavolo stiamo qui a perdere tempo?» chiese Benbow, voltandosi contro il vecchio, il che lo portò ancora più vicino a Mona Sue. Il vecchio esitò come se stesse pensando. «Be', figliolo, stiamo aspettando quel bambino. Se quel bambino ha i capelli rossi e tu ci racconti dove hai nascosto il denaro, noi ti portiamo tranquillamente a casa, ti uccidiamo comodamente, poi ti diamo in pasto ai porci.» «E se non ha i capelli rossi, visto che non ho intenzione di dirvi dove sta il denaro?» «Troveremo semplicemente una scrofa affamata, figliolo, e ti daremo in pasto a lei» disse il vecchio «cominciando dalle dita dei piedi sane.» Allora tutti risero: R.L. Dark rovesciò indietro la testa e ululò; gli omaccioni si scambiarono sonore pacche e risatine ancora più sonore; e Benbow sprofondò sott'acqua. Perfino nella gola di Mona Sue gorgogliò una profonda risata. Finché Benbow la tirò giù dal bordo della piscina. Allora lei rimase senza fiato. La povera ragazza non aveva mai imparato a nuotare. Prima che il vecchio o le sue guardie del corpo potessero muoversi, tuttavia, la figura scura nella felpa con cappuccio irruppe attraverso la porta del bar con un rapido scatto zoppicante e balzò nella piscina, poi sollevò sul pontile la ragazza che si dibatteva e si inginocchiò accanto a lei mentre enormi quantità d'acqua fumante le uscivano a fiotti dal naso e dalla bocca prima che cominciasse a respirare. Poi la figura si tolse il cappuccio dai fiammanti capelli rossi e si strinse al petto Mona Sue. «Porca miseria, ragazzo» disse inutilmente il vecchio mentre Bald Bill lo aiutava a uscire dalla piscina. «Che cazzo ci fai qui?» «Maledizione, Baby, lasciami andare» urlò Mona Sue «sta per uscire!» Il che risvegliò il dottore dal suo torpore. E il cow-boy dal suo lavoro. Entrambi ricoprirono l'ampia panchina di legno con asciugamani asciutti, sopra i quali Little R.L. adagiò delicatamente il corpo tormentato di Mona Sue. Curly si issò fuori della piscina, intimando a Benbow di restare immobile, e si unì alla folla di uomini intorno alle improvvise e violente contrazioni di lei. Bald Bill aiutò il vecchio a infilarsi la tuta e il laccio della pistola, mentre Little R.L. aiutava il dottore a tenere sulla panchina il corpo di Mona Sue, inarcato per l'improvviso dolore. «Oh, Dio mio!» urlava lei «mi sta squartando!» «Fai qualcosa, disgraziato» disse il vecchio all'alacre dottore, poi lo schiaffeggiò sonoramente.
Benbow scivolò sul lato della piscina, reggendosi al bordo con una mano mentre con l'altra scavava freneticamente nel gesso. Pezzetti di gesso e volute di sangue si levarono su nell'acqua calda. Poi il gesso si staccò e lo spiedino fu nella sua mano. Progettò di rotolare fuori della piscina, conficcare la barretta di metallo nelle reni del vecchio e afferrare la Webley. Dopodiché, avrebbe avuto il comando. Ma la vita avrebbe dovuto insegnarli a non fare progetti. Mentre Bald Bill aiutava il suo capo a infilarsi il soprabito stagnato si accorse di Benbow al bordo della piscina e avanzò verso di lui. Bald Bill vide il gesso insanguinato galleggiare accanto al petto di Benbow. «Che cazzo?» fece, inginocchiandosi per afferrarlo. Con la forza di tutta una vita di delusione e rabbia Benbow conficcò il sottile strale di metallo sotto la mascella di Bald Bill, su attraverso la radice della lingua, poi su attraverso il palato molle, la callosa calotta cranica, la molle materia grigia, e le spesse ossa del cranio. Otto centimetri dello spiedino gli spuntarono dal centro della testa calva come un dito d'acciaio. Bald Bill non emise un suono. Sbatté soltanto le palpebre una volta in modo sognante, sorrise, poi si alzò in piedi. Dopo un istante, ondeggiando, cominciò a camminare in piccoli cerchi calmi sul bordo del pontile, finché Curly notò il suo strano comportamento. «Bubba?» disse mentre raggiungeva il fratello. Benbow balzò fuori dell'acqua; con una mano gli ghermì la caviglia e con l'altra si tuffò su per la gamba dei pantaloncini di Curly per afferrargli la sacca dei testicoli e tirare il gigante verso la piscina. Il grugnito di Curly e il rumore sordo della sua testa contro il bordo di cemento della piscina si persero mentre Mona Sue partoriva il bambino con un profondo sospiro, e il vecchio urlava sguaiatamente: «Maledizione, è una bambina! Una bambina dalla testa nera!» Benbow era strisciato fuori della piscina e si era trascinato a metà strada verso la schiena del vecchio che stava osservando il dottore adagiare la neonata sul petto ansante di Mona Sue. «Tanta fatica per questa merdata» disse il vecchio, ansimando profondamente come se le doglie fossero state le sue. Little R.L. si voltò e strattonò suo padre verso di sé per il davanti del soprabito, sibilando: «Chiudi quel fottuto becco, vecchio.» Poi lo spinse via violentemente, sbatacchiando il fragile corpo del vecchio contro la spalla di Benbow. Qualcosa si ruppe dentro il corpo del vecchio, e lui cadde in ginocchio, mordendo l'aria fredda con il becco insanguinato come una tar-
taruga sventrata. Benbow afferrò il laccio della pistola sfilandogliela dal collo prima che il vecchio ruzzolasse morto nell'acqua. Benbow armò l'enorme pistola con un debole scatto metallico, poi il suo acuto scoppio di risa lacerò l'aria come uno sparo. Tutto rallentò fino a fermarsi. Il dottore finì di tagliare il cordone ombelicale. Le mani del cowboy tenevano un asciugamano ripiegato sotto la testa di Mona Sue. Little R.L. bloccò il suo corpo macilento a mezza strada di una furiosa carica. Bald Bill interruppe i suoi vani giri concentrici quel tanto da cadere nella piscina. Perfino il sospiroso tubare di Mona Sue cessò. Soltanto il vento freddo si muoveva, sferzando la nebbia vaporosa al di là della piscina mentre la nevicata si infittiva. Poi Mona Sue gridò: «No!» e ruppe il momento congelato. Soltanto il ginocchio malandato diede a Benbow il tempo di far partire un colpo. Il pesante proiettile prese Little R.L. sulla sommità della spalla, gli trapassò il petto, e uscì appena sopra il rene in una cascata di sangue, schegge d'ossa e tessuto polmonare, facendolo stramazzare come un quarto di bue sul pontile. Ma il proiettile aveva già proseguito sulla sua allegra strada attraverso lo sterno molle del dottore come se lui neanche ci fosse. Il che in pochi istanti, fu vero. Benbow gettò allegramente la pistola dietro di sé, la udì cadere con un tonfo nella piscina e corse al fianco di Mona Sue. Mentre baciava la sua faccia schizzata di sangue, lei piagnucolava sommessamente. Lui si chinò più vicino, ma scambiò i suoi gemiti per passione soltanto finché comprese ciò che lei stava dicendo. Più e più volte. Nel modo in cui una volta chiamava il suo nome. E quello di Little R.L. Forse perfino quello del vecchio. «Cow-boy, cow-boy, cow-boy» sussurrava. Benbow non provò la minima sorpresa quando si sentì il braccio alla gola e la lama solleticargli le costole. «Ti avevo preso per uno che pugnala alle spalle» disse «la prima volta che ho posato lo sguardo sul tuo miserabile culo.» «Dimmi soltanto dov'è il denaro, vecchio» mormorò il cow-boy «e potrai morire dolcemente.» «Puoi avere i soldi» singhiozzò Benbow, tentando un'ultima occasione «solo, lasciami la donna.» Ma il lampo di disprezzo negli occhi di Mona Sue fu l'unica risposta di cui avesse bisogno. «Vaffanculo» disse Benbow, quasi ridendo «facciamolo nel modo duro.» Allora balzò all'indietro sul coltello da caccia, conficcandosi la lama fino all'elsa al di sopra delle costole prima che il cow-boy potesse mollare l'im-
pugnatura. Lui indietreggiò per l'orrore mentre Benbow barcollava verso le acque calde della piscina. Dapprima la lama era fredda nella carne di Benbow, ma il sangue che fluiva la riscaldò rapidamente. Poi lui entrò cautamente nell'acqua calda e si adagiò all'indietro sul suo peso compassionevole, di colpo vecchio, come l'aveva chiamato il cow-boy. Questi stava in piedi sopra Benbow, gli occhi come carboni ardenti attraverso la nebbia e la neve fitta. Mona Sue mosse un passo accanto al cow-boy, la neonata di Benbow che le piagnucolava al petto, la neve che si squagliava sulle sue spalle. «Vaffanculo» mormorò Benbow, abbandonandosi alla deriva «è nel condizionatore d'aria.» «Grazie, vecchio» disse Mona Sue, sorridendo. «Abbi cura di te» mormorò Benbow, pensando "Questa è la parte più facile", poi si adagiò ancor più all'indietro nell'acqua, navigando sulla superficie della piscina increspata dal vento, punteggiata dalla neve, gli occhi chiusi, felice nella calda, pesante acqua, muovendo lievemente le mani per restare a galla, le dita aggrovigliate in scuri fiotti di sangue, il vento che lo spingeva verso l'acqua fresca all'altro capo della piscina, sbattendo le palpebre contro la soffice neve fredda, finché il suo corpo stanco scivolò, inanimato, sotto l'acqua calda per riposare. JOHN GARDNER Talvolta, il prezzo della fama e della fortuna è alto. John Gardner, uno del manipolo di scrittori di spionaggio il cui lavoro migliore sopravviverà (penso ancora che il suo Garden of Weapons sia il miglior romanzo di spionaggio che ho letto), non ha mai conseguito completamente il riconoscimento di pubblico e di critica toccato ad autori a lui contemporanei come John Le Carré, Len Deighton, Ken Follett e Frederick Forsyth. Poi, diversi anni dopo la morte di Ian Fleming, acconsentì a continuare la serie di James Bond. Naturalmente, quei libri sfrecciarono di colpo nelle classifiche dei best seller, dandogli la ricompensa di una vasta popolarità. In modo egualmente prevedibile, i critici lo stroncarono per aver voltato le spalle al suo lavoro più serio e sostennero che i libri di Bond non avevano la profondità e la forza degli altri suoi romanzi, gli stessi che loro avevano ignorato in passato. Recentemente, John Gardner ha prodotto romanzi che si collocano tra le sue opere migliori, specialmente Maestro, che ha riportato in
scena Herbie Kruger, e Confessor. Gardner ha scritto (non in questo racconto) che "il sesso è la colla che tiene insieme l'amore". Potrebbe ben essere il tema unificante di tutto il suo lavoro migliore, che concerne i rapporti umani quanto i loschi traffici internazionali. L'amore che ottieni Al principio dell'ultimo decennio della Guerra Fredda, Godfrey Benyon tornò inaspettatamente a Londra da Berlino per trovare la moglie, sposata da quindici anni, a letto con un collega più anziano. Per poliziotti e spie può verificarsi spesso un intenso ricambio nei matrimoni. Entrambe le professioni sottopongono a una tremenda tensione il contratto tra uomo e donna. I lavori sono pericolosi e logorano il tempo e la passione di una persona, lasciando poco spazio per qualunque normale rapporto. Alcuni granelli d'amore e rispetto possono svilupparsi in unioni salde e durature. Gli altri, semplicemente, non resistono. Benyon e sua moglie Susan si erano sposati relativamente giovani, e Godfrey non aveva ragione di credere che Susan non fosse felice e ancora innamorata di lui. Certamente lui l'amava ancora e credeva che lei si fosse adattata ai lunghi periodi in cui era lontano da casa, talvolta senza nemmeno potersi mantenere in contatto. Esisteva una credenza erronea, comunemente ritenuta vera, secondo la quale il marito o la moglie di un agente dell'Intelligence o dei servizi segreti non sa nulla del lavoro espletato dal coniuge per il governo. Questo, naturalmente, è un'assurdità. Il coniugi lo sa sempre, proprio come sa di essere controllato con cura di tanto in tanto al fine di assicurarsi che non sia stato corrotto da qualche organizzazione di spionaggio straniera. Questo controllo periodico copre tutti gli addetti dei servizi esteri e coloro in settori delicati al ministero degli Interni, non soltanto i membri dei servizi segreti. Ironicamente, l'uomo con cui Susan Benyon commetteva abitualmente adulterio era il funzionario incaricato di effettuare gli approfonditi esami biennali sul suo stile di vita. Il suo nome era Saunders, comunemente noto ad amici e nemici come "Soapy". Da principio, la seduzione di Susan Benyon era stato uno stratagemma da parte di Soapy per accertarsi se lei si dava da fare, come si diceva in gergo, diventando perciò un pericolo per la sicurezza.
A ogni modo, dopo la prima volta, Saunders aveva così apprezzato le delizie del corpo di Susan Benyon che aveva apportato alcune modifiche al suo rapporto e i due erano diventati amanti regolari e assidui. Nel giro di pochi mesi, Susan sollevò l'argomento di divorziare da Godfrey e sposarsi con Saunders, una cosa che il vecchio Soapy non voleva accadesse. Lui aveva una propria moglie onesta e amorosa e queste botte di sesso extraconiugale avevano ravvivato il suo matrimonio. Susan, inconsapevolmente, aveva aiutato a trasformare in realtà le fantasie più sfrenate di Soapy, e il risultato fu che alla fine lui scoprì meraviglie nascoste nel comportamento sessuale della sua stessa moglie. Il pomeriggio in cui Godfrey rientrò sorprendendo gli amanti, naturalmente era stato tentato di usare la violenza e avrebbe potuto facilmente uccidere Saunders con una mano, poiché lui era un agente da campo addestrato e sapeva tutto ciò che c'era da sapere sull'arte di dare la morte con le dita o con la mano. Fortunatamente, si era ben controllato, lasciando la stanza e aspettando disotto che Soapy se ne andasse. Non ci fu alcun litigio; nessun lancio di accuse. Godfrey Benyon, avendo un carattere incapace di perdonare, disse semplicemente a sua moglie che se ne sarebbe andato quella sera. Lei ammise di amare Saunders, tuttavia si offrì di metterlo da parte e cercare di far funzionare il loro matrimonio. Susan non era una sciocca e aveva realizzato da tempo che, per Saunders, lei era solo uno sfizio in più, per usare un'espressione in voga. Nemmeno le sue lacrime supplichevoli riuscirono a smuovere il marito. Lui era nel ramo dei tradimenti e conosceva il prezzo che uomini e donne pagavano per questo all'interno della sua sfera d'attività. Mise in valigia alcuni vestiti e un paio di ricordi sentimentali, poi lasciò la casa che avevano diviso per un decennio e mezzo. Il suo ultimo atto fu quello di porgerle le chiavi. Il mattino seguente contattò il suo avvocato, mise in moto il divorzio, poi raggiunse il quartier generale dei servizi segreti, a quei tempi nella Century House, e presentò un rapporto che sapeva avrebbe fatto espellere Saunders dall'organizzazione, quasi certamente senza una pensione. Non era felice di questi compiti, ma il suo profondo amore per Susan era finito nell'istante in cui aveva aperto la porta e aveva intravisto il suo corpo avvinghiato a quello di un uomo che, fino a quell'istante, lui aveva rispettato senza discussione. Stranamente, mentre faceva il rapporto di servizio, rimandando le sue ferie di alcuni mesi, si rammentò che suo padre una volta gli aveva detto:
«Per quanto riguarda le donne, ricordati una cosa. L'amore vero e che tutto brucia può uccidere. Talvolta non ne vale la pena.» Il matrimonio dei suoi genitori era stato ben lontano dall'ideale, ma adesso immaginava di sapere di che cosa stesse parlando suo padre. C'era un modo di dire più volgare che aveva sentito dagli agenti più giovani: "L'amore che ottieni non vale l'amore che ottieni". Solo che loro sostituivano amore con un'altra parola. Il che riassumeva esattamente il suo stato d'animo facendo esplodere la rabbia. Si sentiva un idiota a non aver scoperto prima sua moglie. Parte del suo lavoro, i suoi mezzi di sostentamento e di sopravvivenza, era stato percepire i segnali di pericolo, denunciare persone e situazioni che non erano del tutto corrette. In quel momento non se ne rese conto, ma la rabbia generò un desiderio di vendetta. Automaticamente aveva provocato la rovina della vita di Saunders, ma il bisogno di vendetta adesso era puntato sulla sua ex moglie. Mentre questa esigenza suppurava profondamente all'interno del suo subconscio, Benyon tirò avanti con la sua vita professionale, benché i colleghi ultimamente commentassero che Godfrey Benyon sembrava diventato un uomo duro e intransigente, i suoi superiori ogni tanto si congratulavano. Benyon, decisero, avrebbe fatto molta strada nei servizi. Lo rispedirono a Berlino, e nei sei mesi successivi lui passò all'Est in cinque diverse occasioni, smistando messaggi clandestini e prendendo contatto con l'unico agente che dirigeva, generalmente da lontano, ben piazzato nel gruppo di dattilografi della base del Kgb a Karlshorst. Questo agente, conosciuto come "Brutus", era una giovane donna di venticinque anni, figlia di una coppia di dottori che vivevano e lavoravano all'Ovest. Si chiamava Karen Schmidt, "un nome del tutto comune" aveva commentato uno dei superiori quando si era offerta la prima volta per il lavoro attivo e la cooperazione con i servizi segreti. I genitori di Karen erano medici "categoria P4" nei servizi segreti: psichiatri ben informati sui sistemi dei cosiddetti "interrogatori a fondo", un termine che copriva una quantità di cose che spaziavano dalla terapia per agenti che avevano subito traumi sul campo fino al genere di interrogatori che richiedevano l'uso di certe droghe pericolose consentendo agli inquirenti di arrivare in profondità nel subconscio di un sospetto, pescando e depredando segreti. I dottori Schmidt erano esperti e rispettati dai servizi, i loro precedenti erano immacolati e il loro lavoro aveva fornito a Karen il diritto di ammissione nel mondo dei segreti. Era stata educata in una scuola privata molto
prestigiosa e aveva proseguito a Oxford, dove aveva studiato lingue straniere al St. Anthony's College, a cui talvolta ci si riferiva come alla scuola preparatoria per le spie. I suoi genitori informarono tempestivamente il ministero degli Esteri che lei era interessata a lavorare nello spionaggio, così il contatto venne stabilito e lei fece il corso di un anno nel posto che loro gestivano nel Wiltshire per addestrare possibili agenti da campo. Benyon si era occupato di lei quando l'avevano spedita al di là del Muro e l'aveva diretta, normalmente a lunga distanza, sin da allora. Adesso, proprio nel momento in cui la pratica del suo divorzio stava per concludersi, ci fu una ragione per vederla di nuovo faccia a faccia. Un segnale aveva reso evidente che un incontro era essenziale. Così una sera, ai primi di giugno del 1986, Benyon passò oltre cortina e, seguendo l'elaborata coreografia necessaria per questo genere di cose, finirono in una casa sicura non lontano dal Berliner Ensemble Theater. La prima sorpresa arrivò quando stabilirono il contatto iniziale per strada. Da quando lei era passata al di là, tre anni prima, l'aveva vista soltanto una volta. A quel tempo loro le avevano conferito l'aspetto di una piccola cosuccia scialba, consigliandola su tutto, dal taglio di capelli austero al tipo di scarpe coi tacchi bassi che doveva indossare, fino agli abiti anonimi con cui equipaggiare il suo guardaroba. Quando era passata dall'altra parte, Karen era una ragazza a cui nessun uomo avrebbe dato una seconda occhiata. Adesso, la sua intera persona era cambiata. Lei era ancora la stessa ragazza, ma il topolino era sparito lasciando al suo posto una stupenda giovane donna, slanciata. Si era lasciata crescere i capelli, lisci, neri e morbidi, di una tale lucentezza che Benyon voleva allungarsi e passarci attraverso le dita aperte. Nel suo viso, che si era fatto più pieno, gli occhi castani scintillavano d'umorismo, mentre le labbra sembravano essere diventate più piene e più seducenti, gli angoli caratterizzati dalle piccole rughe del riso. Indossava un vestito bianco, pienamente femminile, così che Benyon era consapevole delle sue cosce e del suo corpo che si muovevano sotto il tessuto leggero. In breve, il brutto anatroccolo era diventato il cigno più attraente del circondario. La sua occhiata doveva essere stata eloquente, poiché Karen la raccolse subito. «Hai notato il cambiamento.» Lei sorrise, mostrando che uno dei denti davanti era storto. «È stato inevitabile. Sai delle promozioni dell'ultimo paio d'anni.» «Così il Partito esige che tu diventi più affascinante man mano che sali
di grado?» «Sarai sorpreso, ma sì. Sì, è proprio così. Adesso io sono un Sovrintendente, e loro si aspettano che i Sovrintendenti si prendano cura del proprio aspetto. Questa è una delle cose per le quali dovevo vederti.» Anche la sua voce era mutata. L'inglese era, naturalmente, perfetto, ma la voce era più gutturale di come lui la ricordava. Sedettero uno di fronte all'altra al piccolo tavolo di legno. Benyon aveva portato del cibo: pane, prosciutto, insalata di patate e una bottiglia di vino, giustificandolo al posto di controllo come un picnic che lui e la sua ragazza avrebbero fatto prima dello spettacolo al Berliner Ensemble, che quella sera aveva in programma l'Opera da tre soldi di Brecht. La ragazza era la sua copertura, una giovane donna chiamata Bridget Ransom, sulla quale il commento più sarcastico poteva essere che il riscatto di un re non valeva l'ingresso al giardino segreto di Bridget. Forse, ma era un'agente da campo incredibilmente brava, con un immacolato accento tedesco della Slesia, oltre alla capacità di diventare invisibile quasi a comando. In questa occasione lei guardava le spalle a Benyon durante la seduta con Brutus e, professionalmente, lui non avrebbe potuto chiedere di meglio. Così, in quel piccolo appartamento in disordine, a meno di un tiro di sasso dal teatro dove Bertolt Brecht aveva costruito la sua leggendaria compagnia di attori, Benyon, l'agente di collegamento, ascoltava Brutus, la sua spia. Nel corso degli anni aveva sentito storie simili, ma principalmente da uomini. Di come, nella delicata posizione in cui lavoravano, si fosse offerta spontaneamente un'occasione che, se colta, avrebbe condotto a un filone madre di segreti importanti. L'opportunità veniva sempre sotto forma di un uomo o di una donna, a seconda delle preferenze sessuali dell'agente. Era qualcosa che Benyon aveva imparato a trattare e su cui dare consigli con grande cura. Un agente sul campo è spesso la più sola delle persone, costantemente controllata, messa alla prova e vittima di ogni genere di tentazione. La credenza popolare sugli agenti da campo li paragona a eremiti, monaci o suore che trascorrono l'intera vita in un ambiente ostile e a cui è negata una vita normale. Il problema di Karen Schmidt era un ufficiale superiore del Kgb, uno dei principali collegamenti tra servizi segreti e forze di sicurezza della Germania Est e la Centrale di Mosca. Non c'era dubbio che quest'uomo, il colonnello Viktor Desnikoff, avesse accesso a segreti profondamente occulti. A Londra, Benyon aveva letto molte volte il suo dossier. Era parte del suo
lavoro tenere d'occhio gli ufficiali dei servizi sovietici e della Germania Est: il loro andare e venire, qualsiasi particolare punto di forza o di debolezza, il loro profilo generale e tutti gli altri dettagli della vita usati così spesso dai servizi segreti opposti. Desnikoff era indubbiamente un bersaglio di prim'ordine, ed ecco qui l'agente dello stesso Benyon a raccontargli che il colonnello l'aveva invitata fuori a cena in diverse occasioni e ora le aveva proposto di diventare la sua amante, con l'intento di sposarla in seguito. Karen fornì una profusione di dettagli riguardo l'uomo e, dietro la musica del suo monologo, era compito di Benyon individuare tranelli, trappole o insidie che potevano essere stati tesi alla sua agente. Allo stesso tempo prestava ascolto alle intonazioni, che potevano rivelargli se ci fossero altri fatti situati appena sotto la superficie di ciò che lei gli stava raccontando. Principalmente doveva soppesare quale utilità avrebbero potuto trarre da quell'uomo se Brutus avesse proceduto, contro i possibili problemi che una simile operazione poteva causare. Doveva anche sperimentare la costante paranoia dell'incaricato del caso, ovvero: la sua agente era forse già stata segretamente cooptata? Benyon prese tempo, mantenendo la conversazione su altre faccende e ignorando gli sproni e le blandizie di lei per una risposta al suo problema principale: doveva affidarsi a Desnikoff e alle informazioni che sarebbero indubbiamente seguite? O doveva dare al colonnello un secco rifiuto? Dedicando solo una parte del proprio cervello a quella domanda, passò attraverso la procedura standard. Aveva percepito qualche cambiamento nell'atteggiamento verso di lei? Si sentiva a suo agio nel doppio ruolo che era costretta a interpretare? Era a conoscenza di qualche inattesa rivalità che avrebbe potuto causare il suo futuro caos? Queste questioni fondamentali erano importanti, in quanto gli davano il tempo di pensare al modo giusto per stabilire se Karen fosse totalmente sincera con lui. Alla fine non poté più rinviare oltre l'argomento. «Ti senti attratta dal colonnello?» Osservale gli occhi e le mani. Leggi il linguaggio del corpo. Non ci fu niente da leggere quando lei scrollò le spalle. «È un po' un porco, a dire il vero. Non è privo di fascino, ma i suoi modi sono un po' villani.» «Devo chiederti questo. Anche se è villano, sei innamorata di lui?» Lei fece una risatina. «Niente affatto. È un pensiero assurdo.» «Ma tu sei disposta a dormire con lui, fingere amore per lui?»
«Non fa parte del lavoro? Io so cosa posso ottenere da lui con le chiacchiere da letto. Le informazioni che si porta nella testa sono roba di prim'ordine. Lui è nelle grazie del direttore del Kgb. Scambia informazioni con la Stasi e gli altri capi dei servizi segreti. Io posso attingere a quella roba, ma c'è soltanto un modo, ed è attraverso favori sessuali.» «La concessione di favori non è il tuo lavoro. Noi addestriamo persone nell'arte della seduzione, Karen. Non è parte del tuo incarico. Ora, sei sicura di non essere attratta da lui?» Lei sorrise, lo guardò negli occhi, sostenne lo sguardo per un momento e poi abbassò la testa. Una mano si allungò e sfiorò la mano di lui. Con voce bassa lei disse: «Non come sono attratta da qualcuno.» Il significato era perfettamente chiaro per Benyon. Lei gli stava dicendo che le importava di lui, e la mente e il corpo di lui reagirono in maniera diametralmente opposta. Era ormai passato un certo tempo da quando era stato con una donna, e sentì l'ardente eccitazione nel suo bassoventre. Parte di lui respingeva quell'impulso di lussuria, mentre un'altra parte bramava che una giovane donna così attraente lo abbracciasse e gli dicesse che lo amava. Fu in quel momento, in un lampo improvviso, che si domandò se le sue emozioni fossero motivate da un bisogno di vendetta contro la sua ex moglie. Scartò velocemente questo pensiero come irrilevante. Il sospettoso lato professionale della sua mente sollevava enormi dubbi. Le astuzie delle donne sono innumerevoli e complesse. C'erano una o due ragioni per cui Karen Schmidt, Brutus, poteva uscirsene con lui in questo modo. Una era quella che gli psichiatri parlano di "transfert" quando un paziente comincia a vedere il dottore come un oggetto d'amore. Questo stesso fenomeno non è insolito tra gli agenti sul campo e i loro diretti referenti. L'altra ragione era più inquietante. Per riuscire nel suo scopo, un'agente passata dall'altra parte non si sarebbe fermata davanti a nulla per convincere il suo diretto referente della sua idoneità a un lavoro altamente subdolo; e questo includeva un atto di seduzione. Si chiedeva: lei poteva o non poteva farlo? L'avrebbe o non lo avrebbe fatto? Avrebbe preso parte al ballo? Ad alta voce le domandò se pensava che il colonnello fosse in buonafede: «Secondo il tuo parere, è solo un cacciatore in cerca di trofei o credi che faccia sul serio?» Lei pensò per un istante. «La sua reputazione con le signore non è alta. Posso lasciarmi guidare solo dal mio intuito, e quello mi dice che è sincero. Sì, ha una cotta per me fisicamente, ma ho l'impressione che è qualcosa di più di questo. Mi ha parlato di molte cose. È uno spargimento di segnali,
non soltanto una mira sul mio corpo. Dietro a tutto il comportamento volgare, ai modi rozzi, quest'uomo ha un lato sensibile. Ha cercato di mostrarmelo.» «E tu pensi davvero di potercela fare?» «Non sono una vergine. Posso fingere con i migliori di loro. Il mio obiettivo prioritario è di mettere le mani, in realtà il cervello, sulle informazioni. Se questo è l'unico modo di procurarsi la roba che conta davvero, allora lo farò.» «Lo farai di buon grado?» «Lo farò perché lo vedo come parte del mio lavoro. Posso darti così tanto, Charles. Molto più di quanto sono stata in grado di offrire finora.» Charles era il nome in codice di Benyon. Lei lo conosceva solo con quel nome e, per quanto ne sapeva lui, ignorava completamente quello vero. Il telefono squillò. Solo una persona conosceva il numero. Doveva essere Bridget Ransom che gli diceva che lo spettacolo al Berliner Ensemble stava per finire. Dall'altro capo Bridget disse semplicemente: «Dieci minuti» parlando in tedesco in caso la linea fosse sotto qualche controllo. Lui doveva dare a Karen delle istruzioni. Un sì o un no. Contò fino a dieci, poi annuì col capo. «Fallo» disse, e pensò di aver intravisto paura negli occhi di lei. Paura e una sorta di supplica. Una donna che sperava che l'uomo avrebbe fatto qualche mossa; detto che teneva a lei, che la voleva, o addirittura che l'avrebbe toccata, coccolata come succede fra uomini e donne che hanno un legame intimo. Benyon non fece nessuna di queste cose. «Fallo» disse. Poi aggiunse: «Verrò a trovarti di nuovo tra alcune settimane, un paio di mesi se otteniamo buone informazioni. Penso che dovremmo sentirci dopo che hai dato inizio alle danze, per così dire.» Le disse di dargli almeno dieci minuti di vantaggio prima di lasciare il piccolo appartamento che odorava di legno marcio, umidità crescente e dell'antisettico che loro usavano nelle case sicure all'Est. Ci vollero solo tre settimane perché arrivasse il primo tassello del materiale, spedito come al solito in una criptica raffica di suoni elettronici ad alta velocità, colta a mezz'aria dai ragazzi e le ragazze del GCHQ di Cheltenham. Il GCHQ era il Quartier Generale delle Comunicazioni del Governo, dove facevano di tutto, dalle scansioni su frequenze casuali all'ascolto ventiquattr'ore su ventiquattro, alla registrazione di rapporti a velocità ultraelevata dai più svariati luoghi del mondo. Seguirono altri rapporti e i superiori di Benyon al SIS furono più che
soddisfatti dei risultati. Brutus stava inviando le confidenze da letto del colonnello Viktor Desnikoff e le confidenze da letto erano eccezionali. Cose nascoste da lungo tempo venivano adesso rivelate e, qualche volta, si mettevano le mani su vere e proprie conversazioni tra il colonnello del Kgb e i suoi capi alla sede centrale di Mosca. «Passiamo qualcosa agli americani?» chiese il diretto superiore di Benyon a uno dei capidipartimento che prendevano decisioni politiche. «Assolutamente no.» Loro sapevano quando spartire e quando tenere il segreto. Quello che stavano ricevendo da Brutus, quantunque immediatamente utile, poteva anche essere tenuto in serbo per scambiarlo con i servizi americani per qualche altro segreto. Talvolta i capi delle agenzie di spionaggio diventano come ragazzini, scambiandosi informazioni come i bambini si scambiano figurine. Sei settimane più tardi, Benyon fece un altro viaggio al di là del Muro ed ebbe un secondo incontro faccia a faccia con Karen Schmidt. Questa volta lei era più desiderabile che mai. Addirittura lo abbracciò e lo tenne stretto per un minuto buono quando si incontrarono. Più desiderabile, sì, ma già mostrava i segni della tensione. Quando Benyon lo notò, lei fece un piccolo sorriso mesto e disse qualcosa riguardo al fatto che forse aveva messo in bocca più di quanto poteva masticare. «È insaziabile» disse. «Ma gli fa aprire la bocca.» «Puoi stare al passo?» Lei fece una risata grossolana. «Be', lui può, così suppongo che io dovrò farlo.» In questa occasione, quando si separarono lei lo guardò negli occhi con vivo desiderio e lo attirò a sé, abbracciandolo come se non volesse più lasciarlo andare. Tornato a Londra, Godfrey Benyon scoprì che la donna Karen gli indugiava troppo a lungo nella mente. Si preoccupava per lei ed era angosciato per la sua sicurezza come agente: dopotutto, questo era parte della sua professione. I suoi pensieri tuttavia vagavano su altre cose. Lei gli appariva in sogno, si chinava sopra di lui nuda e gli succhiava dal corpo la sua pulsione sessuale in un modo che non era meramente un atto di lussuria, ma un rituale di profondo amore e sollecitudine. Lei era presente anche nei suoi sogni a occhi aperti. Pensava di averla vista, improvvisamente, in mezzo a una folla. In qualche occasione si precipitò perfino dietro a questa Karen fantasma solo per scoprire, quando si avvicinava, che la donna non le as-
somigliava affatto. C'erano volte in cui reagiva alla sua ossessione per lei, ma alla fine arrivò a patti con il fatto di essersi innamorato della sua agente, che adesso stava dandosi interamente a un colonnello sovietico. Benyon cominciò a sentire gli artigli della gelosia lacerargli l'anima. Automaticamente, sembrava, cominciò anche a prendersi maggior cura del proprio aspetto. Comprò nuovi vestiti, divenne consapevole di cose come il regolare taglio dei capelli e le scarpe non consumate. Occasionalmente rimaneva in piedi di fronte allo specchio nel piccolo appartamento in affitto a Chelsea, domandandosi come era umanamente possibile che una giovane ragazza si interessasse a lui al di fuori del suo lavoro. A quarantatré anni i suoi capelli mostravano segni di grigio alle tempie, tuttavia il viso, come il suo corpo, rimaneva magro e sodo. Era alto un metro e ottanta e aveva una robusta struttura ossea. Sarebbe invecchiato bene, così, forse, una ragazza dell'età di Karen poteva aver interesse per lui semplicemente da un punto di vista fisico. Tuttavia non poteva conoscere nulla di lui come uomo, poiché gli agenti di collegamento non manifestavano mai la loro vera personalità, come attori che interpretano il ruolo che ci si aspetta da loro. Le informazioni di prima qualità continuarono ad arrivare, ma insieme giungeva anche l'eco di una tensione, percepibile non solo da Benyon ma anche da quelli che comandavano sopra di lui. Insieme cominciarono a prendere precauzioni, predisponendo un itinerario veloce, un buco nero attraverso il quale tirare fuori Brutus se fosse diventato necessario. Benyon, come tutti i controllori sul campo, sapeva che, inevitabilmente, sarebbe diventato necessario. Era così quasi sempre, specie in un'operazione ad alto rischio come questa. La incontrò nella primavera seguente ed ebbe l'impressione che fosse stanca morta, esaurita e nervosa, trasalendo per le ombre. Una volta ancora si abbracciarono e ora, la prima volta in assoluto, si baciarono, non nell'aria, o labbra che sfioravano una guancia, ma bocca a bocca, lingua contro lingua, corpo contro corpo, così che ciascuno sentì l'altro attraverso i vestiti. Alla fine lui si ritrasse, scottato dal desiderio, languido per il bisogno e l'amore. «Non c'è tempo.» Sembrava senza fiato. «Mio adorato, dobbiamo procurarci il tempo.» Lei lo attirò di nuovo a sé e lui si tirò indietro. «È davvero troppo pericoloso. Ascolta, ho delle cose da dirti...» e cominciò a delinearle il suo itinerario di fuga, che lei immediatamente rifiu-
tò. «Charles, se devo scappare, io non mi farò trattare come una che debba affrontare l'Inquisizione.» Le sue guance avvamparono. «È stato maledettamente difficile. L'inferno, in realtà. Se devo scappare, allora voglio che tu scappi con me e voglio essere lasciata sola, con te, in qualche bel posto tranquillo per un paio di settimane prima che loro comincino a martellarmi la memoria costringendomi a fornire un resoconto colpo su colpo, scopata su scopata...» Benyon sapeva come lei si sentiva. Lo aveva visto in altri, la paura di un interrogatorio immediato, talvolta ostile, quando erano ancora sotto il trauma della stanchezza della battaglia. «Non sarà così dura, amore mio.» Non lo diceva davvero col cuore e nemmeno lui credeva a se stesso. L'interrogatorio di agenti appena tornati dal freddo, come dicevano adesso sebbene il termine fosse stato sgraffignato a un romanziere, era tutt'altro che divertente. «No. Digli da parte mia che se accade il peggio, io devo trascorrere un paio di settimane con te prima di parlare con chiunque di loro. Se non gli piace, possono scordarsi del tutto che io passi dall'altra parte. Resterò incollata qui e sopporterò le conseguenze.» Si protese intrecciandogli le braccia intorno al collo, lo attirò a sé e lo baciò di nuovo, ardentemente e con una violenza che gli tolse il fiato. «Solo noi due» disse. «Un paio di settimane al sole. Non è chiedere molto dopo tutto quello che ho fatto. È la mia ultima offerta, amato Charles, così ottienilo per me.» A quelli di Londra non piacque. Andava contro tutte le regole di quella giungla che è il mondo dei servizi segreti. Quando tiri fuori qualcuno, gli stai addosso mentre ha ancora tutto fresco e chiaro nella mente. Tuttavia, quando Benyon spiegò la sua alternativa minacciosa, alla fine cedettero, forse soltanto per le informazioni di prima classe, diamanti puri, che continuavano ad arrivare. Quello che lei stava ancora fornendo confermava le loro ipotesi su certi aspetti dell'esercito sovietico, i leader politici e i loro futuri piani operativi. Durante il successivo viaggio al di là del Muro, Benyon fu in grado di dirle che era affare fatto. Passò in rassegna tutte le mosse importanti, che erano rischiose e avevano bisogno di un'accurata sincronizzazione. «Una volta che ti avremo fatto venire all'Ovest» sorrise e la strinse in un lungo abbraccio «una volta che sarai passata, noi due saliamo su un aereo e andiamo alle Bermuda. Ci saranno guardie del corpo, naturalmente, ma tu
non le vedrai nemmeno. Due settimane alle Bermuda non possono essere male.» «In questo momento, due settimane alle Bermuda suonano come il paradiso.» «Te la senti di proseguire, ora come ora?» domandò lui, preoccupato, perché lei aveva perso peso ed era diventata più nervosa, mentre i suoi occhi tradivano che era sotto una tensione più grande che mai. «Lui potrebbe sospettare qualcosa.» Si morse il labbro. «Non lo so. Penso che potrei andare avanti ancora un po'. La roba che mi sta fornendo...» «Sì?» «Viene sempre verificata? È sempre buona?» «La migliore.» Si baciarono ancora prima che lei se ne andasse, e lui sentì il suo corpo che pulsava in modo pressante. Aveva bisogno di lui, lo voleva lì per lì. Il segnale che lei era nei guai giunse solo due settimane dopo. Una scarica di quella che sembrava elettricità statica, trasmessa direttamente al GCHQ. Conteneva un'unica parola: "Nuvoloso". Immediatamente una squadra entrò in azione. Benyon venne lasciato fuori poiché era troppo pericoloso per lui fare il viaggio oltre il Muro. Tutto quello che poté fare fu starsene seduto e aspettare nella casa che avevano preparato per il ritorno all'Ovest di Karen. Perfino a questo stadio inoltrato, le persone che gli davano gli ordini cercarono di ritrattare il loro accordo. Lei non avrebbe potuto farci nulla, argomentarono. Una volta che lei è all'Ovest possiamo trascinarla fuori di vista. Benyon disse che quello non era il momento di cominciare a fare giochetti con lei. «Si chiuderà come un'ostrica e voi non otterrete mai tutta la storia» ammonì, sapendo che le menti burocratiche di quelli al vertice dei servizi segreti dovevano mettere le sbarrette su tutte le loro "T" e i puntini su tutte le loro "I". Fu così che Karen Schmidt venne fatta uscire di nascosto da Berlino Est e depositata all'Ovest. Nel giro di un'ora dal suo arrivo, era su un volo commerciale per Parigi, con Benyon che vegliava su di lei con tutta la tenera e amorosa cura a cui poteva fare appello. Lei non aveva portato niente con sé, ma due giovani donne dell'Ufficio residenti di Berlino Ovest erano state spedite a far spese folli armate delle misure di Karen, che al presente erano quelle dell'ultima volta che Benyon l'aveva vista. Fu uno dei lavori più piacevoli che gli fossero mai stati assegnati: un annodare ogni filo così che lei non entrasse quasi nuda nella sua
nuova vita. Da Parigi volarono direttamente alle Bermuda e lì, in una graziosa villetta nei dintorni di St. George (avevano tutti la sensazione che Hamilton fosse troppo rischiosa), lei vinse la propria stanchezza e fece l'amore con Benyon in un modo che superò ogni sua fantasia. «Amato Charles» sussurrava ancora e poi ancora mentre giaceva tranquillamente tra le sue braccia dopo l'amore. «Non è il mio vero nome, mia diletta ragazza» disse lui. Lei gli offrì un lento e curioso sorriso che mostrava il suo unico dente storto. «Lo so, ma non mi piace il nome Godfrey.» Lui non pensò nulla dell'ultima osservazione e scivolarono in un sonno dorato avvinti uno all'altra come due bambini. Nei giorni seguenti divennero veri amanti. Benyon vide solo saltuariamente di sfuggita le guardie del corpo a loro assegnate. Ricevette anche tre telefonate dall'ufficiale responsabile della squadra che li sorvegliava. A parte questo, fecero occasionali passeggiate giù a St. George, mangiando due volte in un buon ristorante, facendo piccole spese da turisti e acquistando cibo che si cucinavano a vicenda. Per il resto del tempo furono amanti e provarono ogni voluttà. Fecero perfino progetti per il futuro, parlarono seriamente della vita fuori del servizio e cosa potevano fare una volta che fossero stati entrambi liberi dalla schiavitù della segretezza. L'isola di Bermuda era il luogo perfetto per loro, dopotutto. Non era questa l'isola di cui parla Shakespeare nella Tempesta, l'isola piena di rumori ed estasi, con il grande mago Prospero e il groviglio di vite sentimentali di quella commedia? Karen e Benyon sembravano essere rapiti dal posto, in schiavitù come se Prospero ancora imperasse intessendo attorno a loro un delizioso e inebriante incantesimo. Tre sere prima di doversi imbarcare di nuovo per l'Inghilterra per quel lungo e faticoso periodo destinato a ripulirla a fondo, come si sarebbero espressi gli inquisitori, Karen si rese conto che avevano dimenticato il vino per la cena che stava cucinando. Benyon lasciò l'incantevole piccola villa rosa e si incamminò verso King's Square, cogliendo di sfuggita la riproduzione a grandezza naturale della Deliverance, la nave costruita sull'isola da un gruppo di colonizzatori naufragati per arrivare in America, che si ergeva su Ordnance Island come un pezzo di storia vivente con la statua di Sir George Somers, sventurato comandante di quella spedizione, le braccia sollevate come ad abbracciare questo magico luogo. Benyon comprò una bottiglia del vino preferito di
Karen e lentamente tornò indietro. In tutto era stato via meno di mezz'ora, ma non appena vide la villa capì che qualcosa non andava. Una macchina sostava accanto al cancello del piccolo giardino di fronte alla casa, e lui riconobbe una delle guardie del corpo, il cui nome gli saltò immediatamente in mente, Pete Cannon. Non lo vedeva da un decennio, ma lo riconobbe all'istante, così come aveva capito che era successo qualcosa di terribile. All'interno, in piedi nel piccolo soggiorno, "Cheezy" Fowles, capo dell'unità di sorveglianza, stava accanto al tavolo con un altro dei suoi uomini, che Benyon non riconobbe. «Cosa...?» attaccò lui. «L'abbiamo persa.» Fowles stava dritto come un fuso, parecchio arrabbiato. «Persa? Ma...» «Niente ma, signor Benyon. La mia gente ha agganciato un paio di giovanotti promettenti due giorni fa. Avevo un uomo sul retro della casa. Adesso lui è morto e lei era lontana prima che tu fossi a dieci metri giù in strada.» «Ma io non...» «Ho l'isola che brulica di gente mia, più i gendarmi locali, eppure sono convinto che sia stato fatto così rapidamente e professionalmente che ormai lei potrebbe essere molto lontana. Ci sono un mucchio di yacht e piccole imbarcazioni lungo la costa e noi non possiamo coprirle tutte.» «Intendi dire che è stata rapita?» Lentamente Fowles scosse la testa. «Penso di no. Sembrerebbe che sia andata di sua spontanea volontà.» «Ti ha lasciato una letterina amorosa e un pacchetto.» Accennò al tavolo. Il pacchetto era avvolto graziosamente nella carta che si usa per i regali di nozze: tutta bianca con campanelli d'oro e ferri di cavallo. Appoggiata c'era una busta rosa. Benyon esitò un istante, indeciso tra la busta e il pacco. Alla fine aprì il pacco. Dentro c'era una scatola bianca, lunga circa venti centimetri e alta cinque. Alzò il coperchio e sollevò il contenuto da un frusciante strato di carta velina. Era una piccola statua quasi pornografica. Era forgiata in quel metallo così popolare delle costose statuine per turisti: scuro e butterato da una specie di verderame. Le figure, inarcate insieme nell'atto sessuale, erano come steli, allungate e consuntamente sottili
nello stile di Giacometti. C'era un biglietto con il regalo che recitava semplicemente: "Noi siamo sicuramente insieme per l'eternità, ora, mio tesoro. Karen". Con un senso di terribile oppressione, come se qualche ombra di nera fuliggine gli fosse passata sopra, Benyon aprì la busta e spiegò l'unico foglio di carta rosa. Karen aveva scritto: Mi dispiace, mio amato Charles, io ti voglio bene. Almeno questa non era una bugia, ma dall'inizio io ho lavorato per il Kgb. Il povero Viktor lavorava per gli americani da molti anni. Il Kgb mi incaricò di entrare in intimità con lui e, quando ti raccontavo le storie, tu facevi altrettanto. È un'ironia che lui stesse passando agli americani gli stessi bruscolini che io passavo a te. Tutto sembrava e suonava autentico semplicemente perché vi raccontava ciò che volevate sentire. Quello che allora nessuno di noi sapeva è che Viktor era positivo all'Hiv. Adesso ha l'Aids conclamato e io mi sto dirigendo rapidamente verso la stessa sorte. Tu mi seguirai e alla fine saremo insieme. Io sarò ben assistita fino alla fine, poiché il Kgb si prende cura dei suoi. Spero che lo stesso valga per la tua organizzazione. Tanto amore finché la morte ci porterà di nuovo insieme. Karen. Benyon sentì l'urlo silenzioso nel profondo del suo essere, seppe che era un uomo morto, udì alcune parole della Tempesta. "Ma io morirei volentieri di una morte ironica." Udì suo padre dire che il vero amore talvolta uccide, e per finire, mentre la verità lo travolgeva, udì l'antico adagio: "L'amore che ottieni non vale l'amore che ottieni". FAYE KELLERMAN Cuori e fiori. Chiaro di luna e rose. Passione e ossessione. Talvolta il magico elisir dell'amore si trasforma improvvisamente in veleno. Nell'ammaliante racconto di Faye Kellerman di un idillio-con-odio, una giovane donna viene dapprima completamente conquistata, poi costretta a lottare per recuperare il proprio equilibrio mentale, tutto in nome dell'amore. Sebbene ogni amante porti qualche maschera, alcune sono più inganne-
voli di altre. E talvolta l'inganno può prendere una piega sinistra e far sì che la guerra tra i sessi si sposti dalle banali schermaglie a un sanguinario campo di battaglia dove può prevalere un unico vincitore. Faye Kellerman, una donna amabile, affascinante, apparentemente mite, ha descritto in modo molto convincente il lato più oscuro dell'amore finito male. Le vendite dei suoi romanzi non hanno ancora eguagliato quelle da capolista del marito Jonathan (anch'egli rappresentato in questo volume), ma il divario si riduce poco a poco a ogni nuova pubblicazione. Loro sembrano gioire dei reciproci successi e sono fieri l'uno dell'altra quanto delle proprie doti. A quanto pare, non c'è alcun lato oscuro nel loro matrimonio! Il persecutore Era dura per lei capacitarsi di come tutto fosse diventato tanto aspro, perché al principio l'amore era stato dolce. Le rose e i dolciumi inviati senza un'occasione particolare, le telefonate in piena notte solo per dire "Ti amo", i bigliettini amorosi lasciati nella cassetta delle lettere o sulla scrivania al lavoro, la carta da lettere sempre profumata di costosa acqua di colonia. Le molte cose romantiche che lui aveva fatto durante il corteggiamento, adesso erano lontane mille anni. Da qualche parte, sepolti sotto la rabbia e l'odio, giacevano i ricordi smielati. Julian che le diceva quanto era bella e seducente, quanto amava il suo corpo flessuoso, i teneri occhi nocciola e i serici capelli, baciati dal color cioccolato. Vantandosi con gli amici della sua vivacità di spirito o sussurrandole all'orecchio che fare l'amore con lei l'aveva reso smidollato. L'ultimo complimento era sempre stato accolto con risatine o una pacca scherzosa sul petto di lui. Com'era arrossita ogni volta che lui, aggrottando le sopracciglia, le aveva lanciato il suo famoso sguardo da lupo. La sera della domanda di matrimonio era stata il culmine del loro fiabesco idillio, a cominciare dalla Rolls-Royce completa di autista in uniforme. L'autista le aveva offerto il braccio, accompagnandola al sedile posteriore della Corniche bianca. La più fantastica notte della sua vita. E perfino oggi, macerata da una giustificata amarezza e da un'ostilità senza fondo, lei doveva riconoscere la verità di questo sentimento. C'erano stati i biglietti in prima fila a teatro. La commedia, Caduta della casa Usher, segnava il tutto esaurito da mesi. Come lui si fosse procurato i
posti aveva soltanto accresciuto l'aura di mistero e intrigo di Julian. Di seguito al dramma c'era stata la festa esclusiva dietro le quinte, dove aveva conosciuto gli attori e le attrici principali. Erano tutti divi rinomati e lei aveva effettivamente parlato con loro. Be', a dire il vero, perlopiù ne aveva cantato le lodi e loro avevano mormorato educati ringraziamenti. Ma il solo essere lì, fare parte della combriccola... Aveva pensato di vivere in un sogno. E il sogno era continuato. Dopo il teatro c'era stata l'elegante cena a lume di candela nel più costoso ristorante della città. Julian aveva ordinato in anticipo il menù, un indizio di quello che sarebbe accaduto. Ma, quella sera, lei aveva scambiato la sua natura di dominatore per slancio e sicurezza di sé. Lui aveva disposto ogni cosa, a cominciare dagli antipasti, caviale Beluga accompagnato da tartine e vodka ghiacciata tonificante. Dopo arrivò una passata calda di barbabietole rosse servita con un cucchiaio di panna acida e un pizzico di erba cipollina. Poi un'insalata di erbe selvatiche seguita da un sorbetto al limone per pulirsi il palato. Ogni portata valorizzata dal vino appropriato. Lei aveva sempre conservato un ricordo vivido di quel festino. Così autentico. Se avesse indugiato nel pensiero, avrebbe finito per avere l'acquolina in bocca. Il delizioso filetto alla Wellington condito con rafano piccante macinato di fresco, accompagnato da patate rosse bollite e carote alla julienne e sedano. E il dessert. Il più sontuoso carrello di pasticceria. A completare il pasto serale, un intenso, corposo sherry invecchiato oltre cinquant'anni. Avevano mangiato e mangiato, e in seguito il loro stomaco si era gonfiato fino a dimensioni pericolose. Così lui aveva proposto una passeggiata al lago. Avevano camminato sulla riva a piedi nudi, piccole ondine che spandevano argento liquido sulle loro dita e sulla spiaggia. Come le era parso bello quella notte, i suoi fini capelli biondorosso leggermente arruffati da una brezza frusciante, i dolci occhi blu pieni di desiderio e d'amore. Nel momento perfetto le aveva avvolto le braccia intorno alla vita. Forti braccia muscolose, assolutamente proporzionate con il suo solido corpo, magnifico. Durante il bacio, lui le aveva infilato al dito il diamante. Era stata pura magia. Quella notte si era sentita come se fosse morta e andata in paradiso. Guardando indietro tutto ciò che era accaduto da allora, desiderò che fosse stato così.
Sottili cambiamenti, al principio a malapena percepibili. Il piglio della sua voce quando lei arrivava a casa con qualche minuto di ritardo... le domande che le faceva. «Cosa è successo?» «Con chi eri?» «Perché non hai telefonato, Dana?» Si giustificava, ma lui non sembrava mai soddisfatto. Lei ignorò la sua curiosità e irritazione. Era perché le voleva bene. Poi ci furono altre cose. Il rossetto messo nello scomparto sbagliato della borsetta, i cassetti dei suoi indumenti in disordine anche quando ricordava distintamente di aver ripiegato in bell'ordine i suoi maglioni. Alla fine arrivarono gli strani scatti sulla linea quando parlava al telefono con un'amica o con sua madre. No, non può essere, si raccontava lei. Perché Julian avrebbe dovuto origliare la sua noiosa conversazione? Tuttavia, gli scatti continuarono, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Alla fine fece appello a tutto il suo sangue freddo e lo interrogò in proposito. Sulle prime lui l'aveva liquidata con un cenno, come se stesse vaneggiando. Lei lo prese sulla parola, perché gli scatti sembrarono finire da subito. Ma tornarono, dapprima saltuariamente, poi ancora una volta a intervalli frequenti. Lui stava a origliare: di questo era certa. Rimase perplessa di fronte al suo strano comportamento, poi si arrabbiò. Stava violando la sua privacy e questo era ingiustificabile. Ci fu un'altra discussione. Malgrado inizialmente lui negasse, lei sapeva che stava mentendo. Così lo mise alle strette. Fu il suo primo sbaglio. Lui sbottò, sollevando il telefono, e lo sradicò dalla presa scagliandolo contro la parete. «Maledizione, Dana! Se tu non tenessi il telefono occupato così a lungo, non dovrei alzare il ricevitore per vedere quando hai finito la tua conversazione.» Gli occhi inondati di lacrime, le orecchie scandalizzate per l'incredulità, lei balbettò: «Julian, perché non mi hai chiesto semplicemente di liberare il telefono?» «Non dovrei chiedertelo io; dovresti saperlo da te, accidenti.» Stava respirando molto forte. Improvvisamente abbassò la voce, più calma ma per nulla più morbida. «Una moglie dovrebbe sapere cosa vuole suo marito. E dov'è la tua considerazione, per l'amor di Dio! Che razza di moglie sei, a
ogni modo?» Sbalordita, lei si girò sui talloni per andarsene. Lui le afferrò il braccio, costringendola a voltarsi. Schiuma agli angoli della bocca, rosse chiazze di rabbia sul viso. Le dita strette attorno al suo braccio come una manetta di ferro. E gli occhi! Erano diventati due fosse roventi di violenza. Lei si rimpicciolì sotto il loro penetrante indagare. La voce di lui, così sussurrata, era sepolcrale. «Non provare... mai... a piantarmi in asso, hai sentito?» Paralizzata dalla paura, non era stata in grado di replicare. Quando Julian ripeté la domanda una seconda volta, la minaccia nel tono di voce, addirittura più torva, in qualche modo riuscì a farle accennare un assenso. Fu il primo di molti incidenti. La più lieve offesa, reale o immaginaria, lo precipitava in accessi di incontrollabile furore. Anche se di fatto non la percosse mai, i suoi occhi demoniaci erano sufficienti a terrorizzarla. Non osava raccontare a nessuno la verità. Affondando sempre più velocemente nelle sabbie mobili della disperazione e dello sconforto, sapeva di avere solo due alternative: morire o fuggire. La sua defezione fu veloce e totale. Un giorno mentre lui era al lavoro, Dana impacchettò i suoi scarsi effetti personali e se ne andò. Per sei mesi si nascose sotto molti pseudonimi e false identità. Come previsto, lui la rintracciò. Ma sei mesi erano abbastanza perché lei recuperasse terreno. Si presentò audacemente negli uffici dell'avvocato. Pochi mesi dopo, Julian fu servito con i documenti del divorzio insieme a un'ingiunzione ufficiale. Lei sapeva che l'ingiunzione aveva poco potere costrittivo o protettivo; un debole rimedio come il ragazzo olandese che per tappare la diga metteva il dito nella falla. Così prese delle precauzioni. Ogni volta che saliva o scendeva dalla macchina, Dana scrutava i paraggi, sbirciando da sopra le spalle. Chiavi strette nella mano destra, spray lacrimogeno serrato tra le dita della sinistra, si faceva sempre scrupolo di camminare velocemente dalla macchina alla sua destinazione, con la testa che scattava da una parte all'altra, orecchie e occhi all'erta, sintonizzata sulla minima sfumatura, fiutando il pericolo imminente da fatti apparentemente innocui. Terribile vivere così, mormorava irosamente tra sé Dana, ma qual è l'alternativa? Dana sapeva che Julian era indemoniato, troppo folle per trattarci insieme. Forse perché la ferita era così fresca. Sperava che le cose sarebbero andate meglio dopo il divorzio. Julian non era affatto stupido. Sicuramente
sarebbe rinsavito e si sarebbe reso conto che la sua ossessione non era una soluzione per nessuno dei due. Il giorno in cui il loro matrimonio fu dichiarato legalmente finito, le cose divennero ancora peggiori. Prima arrivarono i colpi notturni contro la porta. Poi le finestre che sbatacchiavano o l'inspiegabile scattare dei pomelli delle porte. Una notte, dopo settimane di tortura mentale per il lunatico gironzolare di lui, lei raccolse abbastanza forza da indagare. In un tumultuoso scatto d'energia, spalancò la porta d'ingresso solo per constatare un lugubre, buio panorama di strade e alberi e case, completamente privo di presenza umana. Un presagio di quanto l'aspettava. Lui sembrava sempre sparire appena stava per toccarlo con mano. I rumori continuarono, così Dana traslocò, e traslocò, e traslocò. Ma lui sembrava trovarla sempre. Non che mostrasse mai direttamente la sua faccia: Julian era troppo vigliacco per questo. Eppure, lei era consapevole della sua presenza dovunque andasse, qualunque cosa facesse. Lui appariva come ombre furtive e spettri lontani. E sempre di notte. Talvolta avrebbe giurato di averlo effettivamente visto, il suo fugace fantasma. In quei momenti lei correva per la strada, maledicendo il suo nome. La gente pensava che fosse pazza. E Dana si sentiva come se stesse diventando pazza. Perché a dispetto di quanto energicamente lei ci provasse, non riusciva ad acchiapparlo. Julian sembrava svanire nella nebbia finché non si lasciava dietro nient'altro che aria. Con i nervi logorati, Dana non riusciva a mangiare e calò di peso pericolosamente. Timorosa per la propria salute mentale, restava confinata a casa tranne per le commissioni essenziali. In preda alla disperazione comprò un cane da guardia, un pastore tedesco che un giorno morì improvvisamente per avvelenamento da cibo. Comprò un altro cane. La seconda cagna, Tiger, venne uccisa da un malvagio pirata della strada, il cui veicolo scagliò la cagna in aria per sette metri fracassandole tutte le ossa del corpo. Il conducente, naturalmente, non fu mai acciuffato. Nel martirio degli animali, Dana trovò finalmente una forza interiore. Qualcosa eruppe nel suo animo quando seppellì la cagna, portando la carcassa di Tiger avvolta amorosamente in una coperta calda dal veterinario. Nessuno sarebbe stato in grado di farla franca per questo. Così si preparò a controbattere. Dapprincipio portava un coltello nella borsetta. Quando venne a sapere che girare con un coltello nascosto era un
reato, lo sostituì con una pistola. Nascondere un revolver era appena un lieve illecito e lei poteva conviverci. Con i suoi ultimi dollari, acquistò al mercato nero una Smith & Wesson calibro 32 non registrata. Poi cominciò a imparare come usarla. Le visite settimanali al poligono di tiro diventarono quotidiane. Sviluppando la sua precisione, i riflessi, la mira. Sei mesi dopo, finalmente si sentì alla pari con il bastardo. Si sentiva piena di potere! Adesso prova pure a fare qualcosa, Julian. Provaci soltanto! Se lui azzardava una mossa, altrettanto avrebbe fatto lei. Era pronta. I frequenti spostamenti durante l'ultimo anno giovarono poco al curriculum lavorativo di Dana. Dopo mesi di rifiuti nel campo qualificato del lavoro sociale (chi voleva una terapista la cui stessa vita era un disastro?), Dana rinunciò alla sua occupazione da assistente psichiatrica. Determinata a rintuzzare l'inondazione della sua cattiva sorte, si procurò un posto di rappresentante per una piccola ditta di forniture mediche a conduzione familiare. Il suo lavoro comportava parecchi viaggi, visite a centinaia di medici e ospedali sparsi nell'area della California meridionale. A sorpresa, quel lavoro le piacque. Decideva lei gli orari e amava lavorare con la gente. Il premio inatteso fu Julian. Il figlio di puttana era stato in grado di braccarla quando i suoi movimenti consistevano nel guidare avanti e indietro dal mercato. Ma con lei per strada la maggior parte del tempo, in viaggio da un ufficio all'altro, il bastardo non avrebbe semplicemente potuto tenere il passo con la sua tabella di marcia. Per lui era troppo difficile inseguirla su grandi distanze. Come commessa viaggiatrice, Dana era meticolosa riguardo alla cura e alla manutenzione della propria auto. Così fu sorpresa quando la sua Volvo, solitamente affidabile come un cavallo da tiro, andò in panne sull'autostrada. Naturalmente, questo doveva capitare di notte. Accostò rapidamente la macchina da un lato, spense il motore, mise il cambio in folle e provò di nuovo. Il motore si accese recalcitrante ma picchiava in testa rumorosamente mentre guidava. Poi cominciò a fumare. Secondo i suoi calcoli, era ancora a circa trenta chilometri da casa. Immediatamente spinse l'auto fuori dell'autostrada, sperando di trovare una stazione di servizio aperta ventiquattr'ore. Ma mentre scrutava le strade deserte tinte d'inchiostro, Dana decise che uscire dall'autostrada era stata una
cattiva idea. Meglio essere in una zona trafficata. Avrebbe potuto telefonare all'Automobile Club da una cabina telefonica dell'autostrada. Sebbene avesse percorso soltanto sei isolati, Dana aveva perso di colpo il senso dell'orientamento. Svoltò un paio di volte, con l'auto che faceva le bizze a ogni colpo di vento. Sperduta e impaurita, si sentì inghiottita dal decadimento urbano. Il motore esalò un ultimo secco colpo di tosse prima di spegnersi. Di nuovo, Dana cercò di infondere un po' di vita nella macchina. Anche se girava e girava, ansando come un asmatico, il motore si rifiutò di mettersi in moto. Improvvisamente, Dana fu consapevole del proprio battito cardiaco. Era stata per strada oltre tre ore, tornando da San Bernardino. Sapeva di essere da qualche parte di Downtown Los Angeles, ma non esattamente dove. Aveva preso l'uscita di Los Angeles Street dall'autostrada di Santa Monica. Durante il giorno Los Angeles Street pullulava di negozietti e bancarelle di indumenti economici. Ma a tarda notte, mentre le lancette dell'orologio di Dana si avvicinavano all'ora delle streghe, le strade erano minacciose e deserte. Tuttavia non si fece prendere dal panico. La sua calibro 32 era nel cassetto del cruscotto. Inserì la chiave nella serratura dello scomparto, la girò a sinistra, e lo sportellino ricadde come un ponte levatoio. Prese il metallo compatto. La luce della luna le colpì gli occhi mentre esaminava il proprio riflesso nell'acciaio blu. Senza pensare, si rese conto che si stava sistemando i capelli. Bene, si disse, è proprio una cosa sensata, Dana. Smorfiosa e agghindata così sembrerai attraente a tutti quegli stupratori. Si lasciò cadere in grembo la pistola e provò l'accensione per un'ultima volta. Il motore sputò fuori dei suoni rapidi e secchi che risuonarono come una raffica di mitra col silenziatore. Strappò via le chiavi dal quadro e le gettò nella borsetta. Col fiato sospeso, frugò nel cassettino finché trovò la scatola dei proiettili. Piccole cose compatte. Per un istante li palpeggiò come grani di un rosario, i cilindri sottili che raccoglievano sudore dalle sue mani. Poi caricò la pistola. Controllò la sicura e sistemò il revolver nella sua giacca. Poi uscì dalla macchina. Sbatté la portiera, chiudendo l'auto con il bip del telecomando. Scordati di aggiustare il dannato motore. Tornatene semplicemente a piedi fino all'autostrada, trova un telefono sul bordo della strada, chiama un taxi e
vattene a casa, accidenti. Si sarebbe preoccupata della Volvo l'indomani. Se fosse ancora stata lì al mattino. La zona era piena di ladri d'auto e altri cattivi soggetti. Non pensarci nemmeno. Il cielo era nebbioso, la luce della luna brillava iridescente attraverso la foschia. Era un bene che ci fosse la luna quella notte, perché i lampioni stradali offrivano scarsa illuminazione. Giusto minuscole chiazze gialle che sembravano macchie di piscio di cane. Prima le cose indispensabili, pensò Dana. Scopri dove hai parcheggiato così domattina potrai indirizzarci l'Automobile Club. Si era fermata nel mezzo di un lungo isolato deserto. Nessun immediato punto di riferimento lungo la via. La strada esibiva vecchi edifici a due piani con sbarre di metallo e grate sulla facciata. Nel percorrerla con lo sguardo, Dana notò alcuni appezzamenti vuoti che interrompevano la fila dei magazzini come un sorriso gigante a cui mancassero un paio di denti. La maggior parte dei caseggiati erano in rovina. Ad alcuni mancavano dei mattoni dalle facciate, altri avevano l'intonaco butterato dai proiettili. Tutte le superfici erano ricoperte pesantemente da graffiti. I negozi rigurgitavano di merci al dettaglio. Vetrine coperte di polvere mettevano in mostra forniture da cucina e cassette di attrezzi collocate accanto a enormi radio portatili, lettori di compact disc e televisori. Vestiti e giubbotti erano appesi su corde da bucato da un lato all'altro del soffitto, come un fantasmagorico armamentario di decapitati. Niente di caratteristico riguardo a un qualsiasi negozio. Nessun nome stampigliato sulle porte o sulle vetrine, e le insegne erano illeggibili nell'oscurità. Tornatene semplicemente a casa e preoccupati di questo più tardi. Scansando il nervosismo, Dana si affrettò verso l'angolo della strada più vicino, con un rumore di passi che riecheggiava dietro lei. Sebbene avvolta in un giubbotto di lana, Dana si rese conto che le sue gambe rivestite di sottile nylon stavano raggelando. I piedi, in scarpe décolleté di pelle dura, erano come pezzi di ghiaccio. Sbirciando da sopra le spalle, gli occhi che dardeggiavano attorno, trottò rigidamente fino all'angolo, con i tacchi che risuonavano secchi contro il marciapiede. Nessuna insegna stradale. Dov'era? E dove diavolo era l'autostrada? Non riusciva a vedere nell'oscurità, non riusciva a distinguere nessuna sopraelevata di cemento. Dana sapeva di non essersi allontanata troppo dall'autostrada guidando. La maledetta cosa doveva essere attorno a lei da qualche parte.
Un grido lontano la fece trasalire. Chi o cosa aveva fatto quel rumore? Il grido d'aiuto di una vittima? Qualcuno che urlava di gioia? Forse era soltanto un gufo. Con il cuore che correva, si rese conto che stava respirando troppo veloce. Non farti prendere dal panico!, si ordinò Dana. Usa il cervello! No, non riusciva a vedere l'autostrada. Ma poteva sentirla. Un sommesso, lontano sfrecciare di macchine che passavano ad alta velocità. Segui il rumore. All'angolo girò a sinistra. Camminava verso il suono, producendo colpetti acuti sul selciato. Le sue mani erano intirizzite, gelide dita ficcate nelle tasche. Un'altra svolta. Ora non poteva essere lontana dalla rampa d'accesso. Il rumore dei suoi passi riecheggiava, tracciando la scia come le briciole di pane di Hansel e Gretel. Clac, clac, clac, clac... Il rombo di una motocicletta squarciò l'aria. Dana si fermò, sussultò, si portò la mano al petto. Prese un profondo respiro e proseguì. Una svolta a destra, poi una svolta a sinistra. Superando un magazzino dietro l'altro, con passo rapido ed efficiente. Clac, clac, clac, clac... Un altro isolato. Altri magazzini. Una inquietante sensazione di monotonia... immobilità. Una città fantasma. Poi il rimbombo sforzato di un camion con rimorchio che saliva una rampa. Rumori d'autostrada. Tuttavia i suoni erano distanti quanto prima. Stava forse camminando in cerchio? Verso i rumori? Lontano dai rumori? Era disorientata, sperduta e impaurita. Un brivido freddo le corse giù per la schiena. Si voltò di scatto, gli occhi che coglievano un'ombra di sfuggita. L'aveva colta davvero? Stava avendo allucinazioni. Una curva a sinistra, qualcosa che sfrecciava fuori di vista. La sua immaginazione le giocava degli scherzi. Piantala!, si ordinò. Cominciò a sudare, fredde dita d'argilla adesso viscidamente madide. Si strofinò le dita umide sulla gonna. Si guardò tutt'intorno.
Torna alla macchina! Dov'era la macchina? L'umidità le gocciolava dalla fronte. Si voltò, i tacchi che facevano clac, clac, clac, clac. Rumori la seguivano. Si fermò di colpo. Silenzio. Proseguì, poi udì di nuovo i rumori estranei. Piccoli rumori tamburellanti. Scarpe dalla suola di gomma, come roditori che sgattaiolano in soffitta. Di nuovo si fermò. E così fecero i rumori. Che fare! Che fare! Julian! Figlio di puttana! Stavolta, lui l'avrebbe presa! O così pensava lui! Si costrinse con la volontà a respirare lentamente, si sfregò le mani. Fece qualche passo in avanti. Clac, clac, clac seguito da pat, pat, pat. Smise di camminare. Così fece lui. Piroettò su se stessa. Niente da vedere. Niente da sentire. Una notte tranquilla tranne per le rapide ispirazioni del suo stesso respiro. Lentamente percepì lontane eco. Qualche altro passo. Si fermò, voltò bruscamente la testa da sopra la spalla. Non vide nient'altro che aria rugiadosa. Continuò a camminare. Rumore di altri passi dietro di lei. Cominciò a correre. Così fece lui. Rumore di passi che tenevano la sua andatura, braccandola. Più sonori, più forti, più vicini. Il panico si impadronì del suo corpo. Non voltarti. Non permettere che il bastardo veda la tua paura. E poi mise a fuoco l'assurdità. La tua paura?! Stai permettendo che il bastardo ti faccia provare paura?!
Lentamente, la mano destra si allungò ad afferrare il revolver, dita dure come ghiaccio che stringevano il calcio della pistola. Con mani tremanti, la estrasse dal giubbotto. Questo è per te, bastardo! Basta! Tremando così forte che quasi cadde in ginocchio. Basta, basta, basta! Falla finita, Dana! Subito! Qui! In quest'istante! Basta fuggire! Basta nascondersi! Basta paura! Slittando nella frenata, si voltò sui tacchi, la pistola nella professionale stretta a due mani. Urlando: «Fermo lì, lurido bastardo!» Ma lui non si fermò! Immediatamente l'aria vomitò quattro incandescenti luci bianche. Come scoppi di fuochi artificiali, solo che non era il quattro di luglio. Spari assordanti che risuonavano nell'aria, esplodendole nella testa! Tuttavia il bastardo continuava a venire verso di lei! Crollando addosso a lei! La bocca aperta, congelata in un raccapricciante urlo muto. Sangue che gli sgorgava dalla gola. Gridando mentre si lanciava impotentemente verso di lei, colpendola al petto, buttandola all'indietro. Un tonfo sordo mentre lui colpiva il terreno a faccia in giù. Dana udì lo scricchiolio delle ossa facciali che si frantumavano contro il duro selciato. Dana urlò, un allarme impotente che non venne udito da nessuno. Barcollando per mantenere l'equilibrio, la testa che vedeva minuscoli puntini di luce. Non svenire, implorò. Non svenire! Respirando forte e profondamente, teneva gli occhi intensamente concentrati sul cadavere che giaceva ai suoi piedi. Le dita ancora strette attorno al grilletto. Una semplice morte non era abbastanza per gli anni di violenza che lui le aveva inflitto.
Puntando la canna verso il corpo accartocciato. Premendo il grilletto sempre più forte. Prendi questo, viscido bastardo! Prendi questo, e questo, e questo! Ma la pistola si rifiutò di sputare fuoco. Inceppata! Ma come poteva essere... Poi il cervello le andò fuori giri mentre i suoi occhi si accorgevano del motivo. La sicura era ancora inserita. La pistola non si era inceppata. La pistola non era mai scattata! Allora come aveva fatto a... come poteva... Occhi che andavano inerti dal cadavere alla figura eretta di fronte a lei. Julian! Una pistola fumante sul fianco. Un diabolico sorriso compiaciuto sulla sua faccia. Nell'immobile foschia notturna, le sue parole pronunciate con voce piana rimbombarono nella testa di lei come un urlo di scherno. «Proprio non puoi sopravvivere senza di me, vero, Dana?» Cominciò a camminare verso di lei. «La pistola non ti serve, se non hai lo stomaco per usarla. E tu non hai lo stomaco, vero?» Il suo sorriso beffardo che si allargava mentre si faceva più vicino. «Fortunatamente per te, ero qui attorno. Altrimenti, saresti stata trasformata in un hamburger dal signor Merda quaggiù.» Julian scansò il corpo con un calcio, si avvicinò a lei di un altro passo. «Parla, amore mio» canticchiò. «Un semplice grazie sarebbe sufficiente.» Lacrime le sgorgavano dagli occhi, scorrendole lungo il viso. Dana mormorò un grazie soffocato dai singhiozzi. L'espressione di Julian si addolcì, ma il suo sorriso compiaciuto rimase. «Io sarò sempre nei paraggi per te, Dana» mormorò. «Sempre. Perché ti amo. Non posso sfuggirti, Dana. E nemmeno tu puoi sfuggire me.» Lei annuì. Julian cadde in ginocchio. «Non è mai troppo tardi, mia splendida amante. Torna da me. Torna a ciò cui appartieni.» Si alzò in piedi, poi aprì le braccia, pronto a ricevere il suo abbraccio.
Lei sollevò le braccia. Sbloccò la sicura e scaricò sei proiettili di piombo infuocato nel corpo di lui. Morì con il sorriso compiaciuto ancora impresso sulla faccia. All'elogio funebre, Dana parlò del suo straordinario valore. Come l'aveva salvata da un uomo malato e sconvolto, con il demonio nella mente. Tra colpi di pistola fusi e aria soffocante per la polvere da sparo, nel lampo di un istante di sconsiderato altruismo lui aveva rischiato la propria vita per salvare quella di lei. Riuscendo a spremere fuori abbastanza proiettili da porre fine alla vita dell'aggressore prima di soccombere alle sue stesse ferite mortali. E per il suo atto di sovrumana abnegazione, la vita di lei era stata risparmiata mentre la sua stessa vita era finita. I suoi anni... recisi bruscamente... nella sua primavera... solo a causa delle azioni malvagie di un uomo. La madre di lui pianse amaramente. Sua sorella versò lacrime e lacrime. Il funerale era affollato. Sembrava che l'intero vicinato fosse venuto a porgere l'ultimo ossequio. Tutti quelli che assistevano alla cerimonia conoscevano la sua storia. Così furono tutti non poco sconcertati dalle parole fiorite di Dana, dai suoi elogi affettuosi e dalle magniloquenti glorificazioni. E così accadde che Eugene Hart, un criminale di ventidue anni con una lunga e illustre storia di brutali violenze e stupri, venne consegnato all'eterno riposo con un funerale da eroe. JONATHAN KELLERMAN L'amore non riguarda sempre cuori e fiori: talvolta riguarda anche carote schiacciate e pannolini sporchi. Un neonato, infatti, spesso scatena le più tenere emozioni perfino più profondamente dell'amante più innamorato, perché la passione provata per un bambino riguarda l'innocenza e la vulnerabilità quanto gli inevitabili legami di sangue. Nel disorientante racconto del maestro della suspense Jonathan Kellerman, l'amore materno sembra sicuramente essere il punto focale, con la giovane mamma Karen che vizia la graziosa piccola Zoe in un ristorante quasi deserto all'ora di pranzo. Gorgogliando nel suo seggiolone mentre lancia abilmente piselli sul pavimento, Zoe è ignara del tavolo di gentiluomini dall'aspetto sinistro nell'angolo. Karen, comunque, non lo è, e in qualche modo, nello spazio di pochi confusi istanti, una rapida uscita è la
mossa che lei è costretta a fare. Jonathan Kellerman è un fenomeno raro, un autore che ha riscosso un enorme successo con il suo primo libro (When the Bough Breaks, vincitore di un premio Edgar Allan Poe dai Mystery Writers of America) e che riesce ad accrescere sia l'alta qualità del lavoro che il suo successo, visto che ogni nuovo romanzo è immediatamente balzato nella classifica dei best seller. Cosa non facciamo per amore Poltiglia di spaghetti. Qualcosa per la quale non potrai mai essere preparato. Non che lei e Doug fossero dei megayuppy, ma a entrambi la pasta piaceva al dente ed entrambi amavano dormire fino a tardi. Poi era arrivata Zoe, Dio la benedica. La scultrice. Karen sorrise mentre Zoe affondava le sue minuscole mani nell'appiccicoso monticello con formaggio. Tre piselli stavano appollaiati sulla cima come minuscoli pezzetti di arte topiaria. Il cubetto di carota era rotolato fuori dal seggiolone atterrando sul pavimento del ristorante. Zoe guardò giù e si sbellicò dalle risa. Poi indicò e cominciò a fare storie. «Eh-eh! Eh-eh!» «Okay, dolcezza.» Karen si chinò, recuperò le palline verdi e le mise di fronte al proprio piatto. «Eh-eh!» «No, sono sporchi, amore.» «Eh-eh!» Da dietro il bar, il grasso cameriere scuro le osservava. Quando erano entrate, non le aveva accolte esattamente a braccia aperte. Ma il locale era vuoto, così chi era lui per fare il difficile? Perfino adesso, quindici minuti dopo, gli unici altri clienti a pranzo erano tre uomini nel separé all'estremità più lontana. Prima avevano trangugiato la zuppa abbastanza rumorosamente perché Karen li udisse. Adesso erano ingobbiti sui vassoi di spaghetti, ciascuno che sorvegliava il suo cibo come se avessero paura che qualcuno volesse rubarlo. I loro probabilmente erano al dente. E dal profumo di mare che fluttuava fin lì, con salsa di vongole. «Eh!» «No, Zoe, la mamma non può lasciarti mangiare piselli sporchi, d'accor-
do.» «Eh!» «Andiamo, Zoe micina, porcellina, no no, tesoro non piangere, ecco, prova un po' di carote, non sono carine, simpatiche carine carote arancioni, l'arancione è un colore così carino, molto più carino di quei piselli schifosi, ecco, guarda, la carota sta ballando. Io sono una carota ballerina, mi chiamo Charlie...» Karen vide il cameriere scuotere la testa e tornare in cucina attraverso la porta a vento. Pensasse pure che lei era un'idiota, lo stratagemma della carota stava funzionando: gli immensi occhi blu di Zoe si erano allargati e una mano paffuta si era tesa. Toccando la carota. Dita grandi come ditali si chiusero sopra essa. Vittoria! Evviva la distrazione. «Mangiala, tesoro è morbida.» Zoe rigirò la carota e la studiò. Poi ridacchiò. La sollevò sopra la testa. Carica e lancio: tiro veloce dritto sul pavimento. «Eh-eh!» «Oh, Zoe.» «Eh!» «Okay, okay.» Tempo per mamma di fare la sua quattromillesima flessione della mattinata. Grazie a Dio la sua schiena era forte, ma lei sperava che Zoe superasse presto il suo stadio da lancia-e-piagnucola. Alcune madri al Gruppo si lamentavano di dolori seri. Finora Karen si era sentita sorprendentemente bene, malgrado la mancanza di sonno. Probabilmente tutti gli anni di cura di sé, aerobica, correre con Doug. Adesso lui correva da solo... «Eh!» «Prova un altro po' di spaghetti, tesoro.» «Eh!» Il cameriere venne fuori come un uomo che ha una missione, recando piatti colmi di carne. Li portò ai tre uomini sul retro, si inchinò e servì. Karen vide uno dei tre, quello al centro magro come una lucertola, annuire e allungargli una banconota. Il cameriere versò il vino e si inchinò di nuovo. Mentre si raddrizzava lanciò un'occhiata a Karen e Zoe all'altro capo della stanza. Karen sorrise ma ricevette in cambio un'occhiataccia. Brutto atteggiamento, specialmente per un piccolo posto insignificante così morto in piena ora di pranzo. Per non menzionare l'odore stantio e
quello che passava per arredo: logore tendine di pizzo tirate sciattamente indietro su finestre piene di escrementi di mosca, scuro, sporco legno verniciato tante di quelle volte che sembrava plastica. I separé che fiancheggiavano le pareti color mostarda erano di pelle nera screpolata, i tavoli ricoperti con la solita tela cerata a scacchi. Fiaschi impagliati di Chianti Ditto che pendevano dal soffitto e quelle piastrelle esagonali da pavimento che non sarebbero mai più state bianche. Chiamatelo Architectural Digest. Quando lei e Zoe erano entrate, il cameriere non si era nemmeno fatto avanti, aveva continuato semplicemente a strofinare il bancone del bar come un qualche rito religioso. Quando finalmente aveva alzato lo sguardo, aveva fissato il seggiolone che Karen si era tirata dietro come se non ne avesse mai visto uno prima. Fissato Zoe, anche, ma senza alcuna amabilità. Il che rivelava com'era ridotto, perché tutti adoravano Zoe, ogni persona che posava gli occhi su di lei diceva che era la più adorabile piccola cosa che avesse mai incontrato. La pelle lattea, contributo di Karen. Le fossette e i riccioli neri da Doug. E non soltanto la famiglia. Gli estranei. La gente fermava continuamente Karen per strada solo per dirle che amore era Zoe. Ma questo accadeva giù a casa. Questa città era molto meno amichevole. Lei sarebbe stata felice di tornare indietro. Evviva i viaggi di lavoro. Dio benedica Doug, lui cercava sul serio di fare l'emancipato. Acconsentiva che loro tre viaggiassero insieme. Lui aveva preso un impegno e lo rispettava; di quanti altri uomini si poteva dire lo stesso? Le cose che fai per amore. Stavano insieme da quattro anni. Si erano conosciuti sul lavoro, tutti e due liberi professionisti, e lei aveva pensato subito che era favoloso. Forse troppo favoloso, perché quei tipi erano spesso insopportabilmente vanitosi. Per scoprire poi che lui era simpatico. E brillante. E anche un buon ascoltatore. Pizzicatemi, sto sognando. Nel giro di una settimana vivevano insieme, sposati un mese dopo. Quando alla fine decisero di metter su famiglia, Doug mostrò i suoi veri colori: autentico azzurro. Convenendo per un rapporto paritetico, dividendo paternità e maternità in parti uguali in modo che potessero entrambi assumersi progetti. Non era andata in quel modo ma questo era colpa di lei, non di lui. Karen credeva fermamente nel valore della ricerca accurata e durante la gravidanza aveva letto tutto ciò che aveva potuto trovare sullo sviluppo dei
bambini. Ma a dispetto di tutti i libri e gli articoli delle riviste, non avrebbe potuto sapere in nessun modo quanto si sarebbe rivelata impegnativa la maternità. E quanto l'avrebbe cambiata. Anche riguardo a questo, Doug aveva fatto più della propria parte, convincendola a cavarsi il latte in modo che potesse alzarsi lui per i pasti nel cuore della notte, cambiare pannolini. Un sacco di pannolini; Zoe aveva un sistema digestivo robusto, Dio la benedica, ma Doug non era uno che si preoccupava di sporcarsi le mani. Lui si era perfino offerto di ridurre i progetti e restare a casa così che Karen potesse uscire di più, ma lei scoprì di voler passare meno tempo al lavoro, e più con Zoe. Che casalinga sono diventata. Lo sa Dio. Toccò i capelli di Zoe, pensò alla sensazione del morbido corpicino di Zoe che si dimenava e scalciava roseo sul tavolo per cambiarla. Poi al corpo di Doug, longilineo e muscoloso... Il ristorante si era fatto silenzioso. Si rese conto che Zoe era tranquilla. Affondata ora negli spaghetti fino ai gomiti, impastando. Piccola Miss Rodin. Forse era un segno di talento. Karen si considerava artistica, sebbene la scultura non fosse il suo mezzo espressivo. Osservando le piccole mani di Zoe lavorare l'impiastro di quelle che una volta erano state linguine con appena un po' di burro e formaggio, rise tra sé. Pasta. Voleva dire impasto e adesso lo era davvero. Zoe raccolse un grumo di bava lo guardò, lo gettò sul pavimento, ridendo. «Eh-eh.» Chinarsi e allungarsi, chinarsi e allungarsi... le mancava davvero correre con Doug. Loro due condividevano così tante cose, avevano un rapporto così speciale. Lavorare nello stesso campo naturalmente aiutava, ma a Karen piaceva pensare che il legame andava più in profondità. Che la loro unione aveva prodotto qualcosa di più grande della somma delle sue parti. E con la bambina fanno tre... la maternità era molto più ardua di qualsiasi cosa avesse mai fatto, ma anche molto gratificante in modi che non si sarebbe mai aspettata. Dita minuscole che le accarezzavano la guancia mentre cullava Zoe finché si addormentava. Le prime grida di "mamma!" dall'interfono per il controllo a distanza ogni mattina. Un bisogno così incredibile. Pensare a questo la faceva quasi piangere. Come poteva tornare a lavorare a tempo pieno con questo piccolo tesoro che aveva così spasmo-
dicamente bisogno di lei? Grazie a Dio il denaro non era un problema. Doug se la passava magnificamente, e quanta altra gente avrebbe potuto dire altrettanto in questi tempi duri? Karen aveva imparato molto tempo fa a non credere nel concetto di meritocrazia, ma se qualcuno meritava il successo quello era Doug. Lui era straordinario in ciò che faceva, una roccia. Una volta che ti facevi una reputazione per l'affidabilità, i clienti venivano da te. «Eh-eh!» «Adesso che c'è, tesoro?» La voce di Karen si alzò e uno dei tre uomini nell'angolo lanciò un'occhiata. Quello smilzo, quello che sembrava essere il capo. Definitivamente saurino. Mister Salamandra. Portava un completo grigio chiaro e una camicia nera aperta sul collo, il colletto a punte lunghe spiegato sul bavero della giacca. I suoi capelli biondo sporco erano lisciati all'indietro e non era brutto, se ti piacevano i rettili. Adesso stava sorridendo. Ma non a Zoe. Zoe gli volgeva la schiena. A Karen, e non con un sorriso da che-graziosa-bambina. Karen distolse lo sguardo, intercettando l'occhiata del cameriere e abbassando gli occhi sul suo piatto. L'uomo smilzo fece un cenno e il cameriere sopraggiunse e sparì di nuovo in cucina. L'uomo smilzo la stava ancora guardando. Divertito. Sicuro di sé. Mister Fico. E lei con una bambina! Locale di classe. Ora di finire e uscire da lì. Ma Zoe era indaffarata con qualcosa di nuovo, il visetto che diventava rosso peperone, le mani serrate, gli occhi sporgenti. «Grande» disse Karen, ignorando l'uomo smilzo ma certa che lui la stava ancora squadrando. Poi raddolcì il tono, non volendo procurare a Zoe alcun complesso. «Va bene, tesoro. Fai tutta la cacca che ti piace, fanne una bella grossa per mamma.» Qualche attimo dopo l'azione era compiuta e Zoe stava nuovamente raccogliendo pasta e lanciandola. «Bene, signorina, è ora di pulirti e andare a incontrare papà.» «Eh-eh.» «Niente più eh-eh, cambio-cambio.» Alzandosi, Karen slacciò le cinghie del seggiolone e tirò fuori Zoe, annusando. «Senza dubbio è ora di cambiarti.» Ma Zoe aveva altre idee e cominciò a scalciare e ad agitarsi. Reggendo
la bambina sotto un braccio, come un pallone fuori misura, Karen sollevò la gigantesca sacca di tela che adesso aveva preso il posto della borsa di vitello regalatale da Doug e andò verso il bar, dove il cameriere dritto in piedi lucidava bicchieri succhiandosi i denti. Lui continuò a ignorarle perfino quando Karen e Zoe furono a un metro di distanza. «Mi scusi, signore.» Un pesante sopracciglio nero si drizzò. «Dov'è la toilette?» Umidi occhi marroni passarono sul corpo di Karen come olio sporco, poi su quello di Zoe. Senz'altro un mascalzone. Lui si leccò le labbra. Un pollice storto indicò il retro del ristorante. Proprio oltre il separé con Ramarro e i suoi amici. Prendendo un profondo respiro e fissando dritto davanti a sé, Karen si mise in marcia, dondolando la grossa borsa. Dio, se era pesante. Tutta la roba che dovevi portarti dietro. I tre uomini smisero di parlare mentre lei passava accanto. Qualcuno ridacchiò. Ramarro si schiarì la gola e disse: «Graziosa piccola» con una voce nasale piena di allegria da spogliatoio. Altre risate. Karen si spinse attraverso la porta. Venne fuori pochi minuti dopo, avendo imposto una decisione a Zoe con una lotta di tre round. In una delle mani di Zoe c'era la mucca a sonagli che Karen impiegava per distrarre la mente di Zoe dal cambio del pannolino. Evviva la distrazione. Costretta a oltrepassare i tre uomini, Karen fissava dritta davanti a sé, ma riuscì a vedere quello che stavano mangiando. Alte braciole di vitello, osso e cartilagine e carne adagiati su enormi piatti. Qualche povero vitello era stato rinchiuso e nutrito a forza e macellato in modo che questi tre mascalzoni potessero imbottirsi le facce. Ramarro disse: «Molto graziosa.» Gli altri due risero e Karen capì che non si riferiva a Zoe. Sentendosi arrossire, continuò a camminare. Gli uomini ricominciarono a parlare. Zoe agitò il sonaglio. Karen disse: «Eh-eh, eh, Zoe?» e la bambina sorrise e tirò indietro la
mano. Carica e lancio. Il sonaglio veleggiò verso il fondo del ristorante. Rotolando sul pavimento di piastrelle verso il separé sul fondo. Karen tornò indietro di corsa, allarmando i tre uomini. Il sonaglio si era fermato accanto a un lucido mocassino nero. Mentre lei lo raccoglieva, la parte finale di una frase svanì nel silenzio. Una parola. Un nome. Un nome dal notiziario della sera. Un uomo, non uno simpatico, che aveva parlato riguardo ai suoi amici ed era stato assassinato in carcere, ieri, malgrado la protezione della polizia. L'uomo che aveva pronunciato il nome la stava fissando. Paura, terrore agghiacciante, si diffuse sulla faccia di Karen, paralizzandola. Ramarro posò il coltello. I suoi occhi si restrinsero in due trattini. Stava ancora sorridendo, ma in modo diverso, molto diverso. Uno degli altri uomini imprecò. Ramarro lo zittì con un battito d'occhi. Il sonaglio era nella mano di Karen, adesso. Tremando, emettendo ridicoli suoni tintinnanti. La sua mano non riusciva a smettere di tremare. Lei indietreggiò, allontanandosi. «Ehi» disse Ramarro. «Bellezza.» Karen continuò a camminare. Ramarro guardò Zoe e il suo sorriso morì. Karen afferrò stretta la sua bambina e fuggì. Oltre il cameriere, dimenticandosi del seggiolone, poi ricordandosene, ma chi se ne importava, era uno economico, lei doveva uscire da questo posto. Udì sedie raschiare il pavimento di piastrelle. «Ehi, bellezza, aspetta.» Lei continuò a camminare. Il cameriere cominciò a muoversi da dietro il bar. Anche Ramarro stava venendo da lei. Muovendosi velocemente. Più alto di quanto era sembrato da seduto, il vestito grigio che ondeggiava intorno alla figura allampanata. «Aspetta!» urlò lui. Karen afferrò la porta, la spalancò e si precipitò fuori sentendo le sue imprecazioni. Quartiere tranquillo, poche persone sul marciapiede che avevano lo stesso aspetto dei manigoldi nel ristorante. Karen girò a destra all'angolo e corse. Tintinnando, con la pesante sacca
di tela che le sbatteva contro la coscia. Zoe stava piangendo. «Va tutto bene, piccola, va tutto bene, mamma ti terrà al sicuro.» Udì un urlo e si guardò indietro per vedere Ramarro che la inseguiva, la gente che si scansava dandogli strada. Paura sui loro volti. Lui indicava Karen, le correva dietro. Lei ritrovò la propria andatura. Evviva il jogging. Ma non era come correre in pantaloncini e maglietta; tra Zoe e la pesante borsa si sentiva come un cavallo da tiro. D'accordo, mantieni un ritmo, il manigoldo era magro ma probabilmente non era in buona forma. Corretta e disinvolta con la respirazione, fai finta che questa sia una dieci chilometri e hai fatto il pieno di carboidrati la notte scorsa, hai dormito otto ore pacifiche, ti sei alzata quando volevi tu... Raggiunse un altro angolo. Semaforo rosso. Un taxi le sfrecciò accanto veloce e dovette aspettare. Ramarro stava guadagnando terreno su di lei, correndo mollemente su lunghe gambe, la faccia aguzza e pallida, non un ramarro, un serpente. Un serpente velenoso. Parole minacciose uscivano fuori dalla bocca di Serpente. Lui la stava additando. Lei scese dal marciapiede. Un camion si stava avvicinando a metà strada lungo l'isolato. Attese finché arrivò più vicino, schizzò via, lo fece fermare bruscamente. Bloccando Serpente. Un altro isolato, più corto, fiancheggiato da squallide facciate di negozi. Ma nessun angolo alla fine di questo. Verde vicolo cieco. Una siepe dietro alte mura di pietra con i graffiti. Un parco. L'ingresso cento metri a sinistra. Karen vi si diresse, correndo ancora più veloce, udendo le grida di Zoe e il suono aspro del proprio respiro. Cavallo da tiro. Ripidi, screpolati gradini la portarono giù nel parco. Una statua di bronzo imbrattata da escrementi di piccione, erba tenuta male, grossi alberi. Piazzò una mano dietro la testa di Zoe, assicurandosi che il collo cedevole non prendesse scossoni; aveva letto che i neonati potevano ricevere colpi di frusta senza che nessuno lo capisse e poi anni dopo mostrare segni di danni cerebrali... Clap clap dietro di lei mentre i passi di Serpente colpivano i gradini. Mister Vipera... smettila di fare pensieri stupidi, lui era soltanto un uomo, un furfante. Continua solo ad andare avanti, troverai un posto dove essere
al sicuro. Il parco era deserto, il sentiero di pietra ombreggiato quasi buio per gli enormi olmi che si protendevano. «Ehi!» urlò Serpente. «Ferma, allora... ma... che... cazzo!» Ansava tra le parole. Il furfante probabilmente non faceva mai niente di aerobico. «Che... fottuto... problema... voglio parlare!» Karen pompò sulle gambe. Il sentiero prese un pendio in salita. Bene, fai lavorare più duramente il furfante, lei poteva farcela, sebbene le grida di Zoe nel suo orecchio cominciassero ad arrivarle, poverina, che genere di madre era per mettere sua figlia in una cosa simile. «Gesù!» Da dietro: «Huff, huff. Stupida... puttana!» Altri alberi, più grandi, il sentiero ancora più buio. Lungo un lato occasionali panchine, anch'esse con graffiti, e nessuno sopra. Nessuno per dare aiuto. Karen corse addirittura più veloce. Il petto cominciava a farle male e Zoe non aveva smesso di piangere. «Tranquilla, tesoro» riuscì a boccheggiare. «Tranquilla, Zoe-batuffolo.» Il pendio si fece più erto. «Fottuta puttana!» Poi qualcosa apparve sul sentiero. Un bidone di rete metallica per la spazzatura. Abbastanza basso perché lei lo saltasse al tempo del jogging, ma non ora con Zoe. Dovette schivarlo di lato e Serpente la vide perdere il punto d'appoggio, inciampare, virare sull'erba, e prendere una storta alla caviglia. Lei urlò per il dolore. Cercò di correre, si fermò. Le guance paffute di Zoe erano inzuppate di lacrime. Serpente sorrise e fece il giro del bidone fermandosi accanto a lei. «Fottuta città» disse scalciando il bidone e tirando fuori un fazzoletto per asciugarsi il sudore dalla faccia. Da vicino odorava di acqua di colonia troppo dolce e carne cruda. «Nessuna manutenzione. Nessuno ha più alcun fottuto amor proprio.» Karen cominciò ad allontanarsi lentamente, si fissò la caviglia e trasalì. «Povera piccola» disse Serpente. «Quella grande, intendo dire. Con quella piccola che fa tutto quel fottuto rumore, chiude mai il becco?» «Senta, io...» «No, senti tu.» Una mano dalle dita lunghe afferrò il braccio di Karen. Quello con cui reggeva Zoe. «Senti, cosa cazzo corri via come un'idiota,
costringendomi a inseguirti inzuppandomi di sudore il vestito?» «Io... la mia bambina.» «La tua bambina dovrebbe chiudere quel cazzo di becco, capito? La tua bambina dovrebbe imparare un po' di disciplina, capisci cosa intendo? Se nessuno impara la disciplina dove andremo a finire?» Karen non rispose. «Tu la conosci?» disse Serpente. «Come potrà imparare la disciplina la cucciola quando la puttana non la conosce? Dimmelo un po', eh?» «Questo è...» Le schiaffeggiò la faccia. Non abbastanza forte da bruciarle, solo un colpetto, in realtà. Peggio del dolore. «Tu e io» disse, strizzandole il braccio. «Abbiamo delle cose di cui parlare.» «Cosa?» Il panico irrigidiva la voce di Karen. «Io sono solo in visita da...» «Sta' zitta. E fai stare zitta la bambina, anche...» «Non posso farci niente se...» Uno schiaffone fece vibrare la testa di Karen. «No, puttana. Non discutere. Hai notato quello che stavamo mangiando laggiù?» Karen scosse il capo. «Certo che sì, ti ho visto guardare. Cos'era?» «Carne.» «Vitello. Lo sai cos'è il vitello, chiappe-dolci?» «Giovane bovino.» «Esattamente. Piccolo di mucca.» Ammiccò. «Qualcosa può essere giovane e grazioso fare bee-bee, muu-muu, ma non importa un cazzo quando ci sono di mezzo i bisogni della gente, capisci cosa sto dicendo?» Si leccò le labbra. La mano si spostò dal suo braccio a quello di Zoe. Tirando. Karen tirò di rimando e riuscì a liberare Zoe. Lui rise. Incespicando all'indietro, Karen disse: «Lasciami in pace» con voce troppo debole. «Sì, certo» disse Serpente. «Tutta sola.» Le mani dalle dita lunghe diventarono pugni e lui avanzò lentamente verso di lei. Lentamente, gustandolo. Il parco così silenzioso. Nessuno intorno, zona pericolosa della città. Karen continuò a indietreggiare, Zoe che piangeva. Serpente avanzava.
Sollevando un pugno. Palpandosi le nocche con l'altra mano. Improvvisamente Karen si stava muovendo più velocemente, come se la sua caviglia non fosse mai stata ferita. Muovendosi con la grazia di un'atleta. Collocando dolcemente Zoe sull'erba, fece un passo verso sinistra mentre allungava la mano dentro la grossa, pesante borsa di tela. Tutte le cose che dovevi portarti. Zoe pianse più forte, urlando, e gli occhi di Serpente scattarono verso la bambina. Evviva la distrazione. Serpente guardò di nuovo Karen. Karen tirò fuori qualcosa dalla borsa, piccola e lucente. Invertendo bruscamente direzione, camminò dritta verso Serpente. Gli occhi di lui erano veramente spalancati. Tre battimani, non così diversi dal suono dei piedi di lui sui gradini. Tre piccoli buchi neri apparvero sulla sua fronte, come stigmate. Lui la guardò a bocca aperta, si fece bianco, cadde. Lei gli ficcò dentro altri cinque colpi mentre giaceva lì. Tre nel petto, due all'inguine. Su richiesta del cliente. Rimettendo la pistola nella borsa, si precipitò verso Zoe. Ma la bambina era già su, tra le braccia di Doug. E tranquilla. Doug aveva sempre quell'effetto su Zoe. I libri dicevano che era comune, spesso i padri lo avevano. «Ehi» disse lui, baciando Zoe, poi Karen. «Gli hai permesso di colpirti, stavo quasi per intromettermi.» «Va bene» disse Karen, toccandosi la guancia. La pelle era calda e i segni cominciavano a spuntare. «Niente che un po' di trucco non possa coprire.» «Tuttavia» disse Doug «lo sai che amo la tua pelle.» «Io sto bene, tesoro.» La baciò di nuovo, strofinò il naso contro Zoe. «Questa è stata un po' pesante, no? Povera piccola bimba» davvero non credo che dovremmo portarcela dietro sul lavoro. Lui raccolse la borsa di tela. Karen si sentì leggera, non soltanto perché le sue mani erano vuote. Quella particolare sensazione di leggerezza che caratterizza la fine di un lavoro. «Hai ragione» disse Karen, mentre tutti e tre si incamminavano per uscire dal parco. «Sta crescendo, noi non vogliamo traumatizzarla. Ma non
credo che questo la spaventerà troppo malamente. Con la roba che i ragazzi vedono alla televisione oggigiorno, giusto? Se mai lo chiederà, le diremo che era per la televisione.» «Suppongo di sì» disse Doug. «Sei tu la madre, ma a me non è mai piaciuto.» Un po' di sole filtrò attraverso i folti alberi, facendo risaltare i suoi riccioli neri. E quelli di Zoe. Una magnifica minuscola testa pigiata su una magnifica più grande. «Ha funzionato» disse Karen. Doug rise. «Questo sì. È andato tutto liscio?» «Come seta.» Karen li baciò entrambi di nuovo. «Bocciolina è stata grande. L'unica ragione per cui piangeva è che si stava divertendo un mondo a lanciare il cibo nel ristorante e non voleva andarsene. E l'"eh-eh" ha funzionato perfettamente. Lei ha lanciato il sonaglio, dandomi un'occasione perfetta per avvicinarmi all'idiota.» Doug annuì e guardò da sopra la spalla il corpo che giaceva lungo il sentiero. «La Vipera» disse, ridendo sommessamente. «Non esattamente caccia grossa.» «Più simile a un verme» disse Karen. Doug rise ancora, poi si fece serio. «Sei sicura che non ti abbia colpito forte? Amo la tua pelle.» «Sto bene, piccolo. Non preoccuparti.» «Io mi preoccupo sempre, piccola. È per questo che sono vivo.» «Anch'io. Lo sai questo.» «Talvolta me lo domando.» «Bella gratitudine.» «Ehi» disse Doug. «È solo che amo la tua pelle, d'accordo?» Passò un istante. «Ti amo.» «Ti amo anch'io.» Dopo qualche passo, lui disse: «Quando l'ho visto colpirti, piccola, la seconda volta, l'ho effettivamente sentito dai cespugli. La tua testa ha ruotato forte e ho pensato "uh-oh". Ero pronto a uscire fuori e finirlo io stesso. Ci sono arrivato a un pelo. Ma sapevo che ti avrebbe fatto inalberare. Tuttavia, è stato un po'... causa di apprensione.» «Hai fatto la cosa giusta.» Lui scrollò le spalle. Karen sentiva così tanto amore per lui che voleva gridarlo al mondo.
«Grazie, piccolo» disse, toccandogli il lobo dell'orecchio. «Per essere stato lì e per non aver fatto nulla.» Lui annuì di nuovo. Poi lo disse: «Cosa non facciamo per amore.» «Oh, sì.» La bella faccia di lui si rilassò. Una roccia. Grazie a Dio l'aveva lasciata andare fino in fondo da sola. Primo progetto da quando la bambina e lei avevano avuto bisogno di rientrare in ballo. Zoe stava dormendo ora, guance paffute posate sulla larga spalla di Doug, occhi chiusi, le nere ciglia lunghe e incurvate. Crescevano così rapidamente. Presto, prima di accorgertene, la pupattolina sarebbe andata all'asilo e Karen avrebbe avuto più tempo a disposizione. Forse un giorno avrebbero avuto un altro bambino. Ma non subito. Lei aveva la sua carriera da tutelare. ELMORE LEONARD Anche con il rispetto finalmente accordato all'arte dei migliori scrittori di gialli in anni recenti, è stato tuttavia raro per autori che scrivono di crimini violenti venire presi sul serio da critici e lettori sofisticati. Probabilmente nessuno scrittore di gialli o di polizieschi ha ricevuto il giusto plauso dei suoi contemporanei concesso a Elmore Leonard. A Hammett e Chandler il riconoscimento della loro potente influenza sulla narrativa americana andò solo dopo morti. Ross Macdonald l'assaggiò soltanto prossimo alla fine della sua carriera. Ma per più di quindici anni, i critici più autorevoli e i più popolari e potenti media culturali hanno riconosciuto le singolari virtù stilistiche conseguite da Elmore Leonard nella sua prosa. Dopo anni come scrittore di western (Hombre, The Tall T, Last Train to Yuma, tra gli altri) Leonard ha trasferito le sue storie nel presente. Non ha cambiato il suo stile, che lui descrive dicendo: "Cerco di lasciar fuori le parti che la gente salta " ma la materia del soggetto, e ha infilato una serie di oltre una dozzina di best seller consecutivi, inclusi Bandits, Glitz, Maximum Bob, Pronto e Riding the Rap. Questo è il primo racconto breve di Elmore Leonard in oltre trent'anni. (Due anni fa, in un numero speciale di narrativa del New Yorker c'era un suo pezzo superbo, ma era un estratto da Riding the Rap.) Vi piaceranno
alcuni dei personaggi che state per conoscere; fortunatamente, essi si faranno vivi di nuovo in lavori successivi. Karen fa colpo Ballarono finché Karen disse che all'indomani doveva alzarsi presto. Nessuna discussione, lui l'accompagnò attraverso la folla fuori del Monaco, poi lungo la Ocean Drive nell'oscurità fino alla sua macchina. Disse: «Lady, mi hai distrutto.» Era sulla quarantina, stagionato ma dal comportamento giovanile, naturale, non se n'era uscito con nessuna battutaccia da bar per scapoli offrendole un drink, né aveva fatto commenti quando lei aveva detto sì, grazie, avrebbe preso un Jim Beam con ghiaccio. Si erano rinfrescati mentre raggiungevano la Honda e lui le prese la mano e le diede un bacetto sulla guancia dicendo che sperava di vederla ancora. Senza alcuna fretta di far succedere qualcosa. Questo a Karen stava bene. Lui disse: «Ciao» e si allontanò. Due notti dopo lasciarono il Monaco, vennero fuori da quel suono martellante per approdare ai tavolini di un caffè e lui divenne Carl Tillman, capitano di una barca da pesca d'altura a noleggio nel porticciolo dell'American Marina, Bahia del Mar. Era un single, sposato per sette anni e divorziato, senza bambini; viveva in un appartamento al pianterreno con due camere da letto a Miami nord, una delle camere da letto piena di equipaggiamento da pesca che non sapeva dove altro stipare. Carl disse che la sua barca era tirata in secco, per la revisione in vista del trasferimento a Haulover Dock, più vicino a dove lui viveva. A Karen piaceva il suo aspetto stagionato, piuttosto incolto, le rughe quando sorrideva. Le piacevano i suoi teneri occhi castani che la guardavano dritto mentre le parlava del suo guadagnarsi la vita sull'oceano, degli uragani, il posto all'ultima moda qui a South Beach, i film. Lui andava al cinema ogni settimana e raccontò a Karen, inarcando le sopracciglia in un modo vago, quasi da drogato, che il suo attore preferito era Jack Nicholson. Karen gli chiese se quella era la sua imitazione di Nicholson o se stesse facendo Christian Slater che imitava Nicholson. Lui le disse che aveva uno sguardo acuto; ma non riusciva a capire perché secondo lei Dennis Quaid era un fusto. Questo andava bene. Lui disse: «Tu sei un'assistente sociale.» Karen ripeté: «Un'assistente sociale...» «Un'insegnante.»
«Che genere d'insegnante?» «Insegni psicologia. Al college.» Lei scosse la testa. «Letteratura inglese.» «Non sono un'insegnante.» «Allora perché mi avresti chiesto che genere di insegnante credevo che tu fossi?» Lei disse: «Vuoi che ti dica cosa faccio?» «Sei un avvocato. Aspetta. La Honda» sei un difensore d'ufficio. «Karen scosse la testa e lui disse:» Non dirmelo, voglio indovinare, anche se ci vorrà un po' di tempo. «E aggiunse:» Se questo ti sta bene. Bene. A qualcuno lei aveva raccontato cosa faceva e loro ne erano rimasti disgustati. Oppure si erano comportati come fossero sorpresi e poi imbarazzati e avevano cominciato a fare domande ottuse. «Ma come può una ragazza fare questo?» Idioti. Quella notte, in bagno, spazzolandosi i denti Karen fissava il suo riflesso. Le piaceva guardarsi negli specchi: toccare i suoi corti capelli biondi, controllarsi il sedere di profilo, gambe lunghe in una gonna dritta sopra il ginocchio, Karen, ancora una taglia quarantaquattro prossima alla trentina. Lei non pensava di somigliare a un'assistente sociale o un'insegnante di scuola, nemmeno a livello del college. Un avvocato forse, ma non un difensore d'ufficio. Karen aveva lo stile sobrio d'alta classe. Poteva indossare il suo abito di Calvin Klein preferito, quello nero comprato in saldo a un grande magazzino, la sua Sig Sauer calibro 38 per l'abito da sera annidata contro le reni, e nessuno avrebbe pensato per un istante che lei portasse un'arma. Il suo nuovo fidanzato passò e si fermò accanto alla sua casa di Coral Gables venerdì sera in una Bmw decappottabile bianca. Andarono a un cinema e a cena, e quando lui la riaccompagnò a casa si baciarono sulla soglia, le braccia che scivolavano intorno ai loro corpi, abbracciandosi, Karen che ringraziava Dio che lui baciasse bene, a proprio agio con lui, ma non del tutto pronta a togliersi i vestiti. Quando lei si voltò verso la porta lui disse: «Posso aspettare. Pensi che ci vorrà molto?» Karen disse: «Che cosa fai domenica?» Si baciarono nel momento in cui lui entrò e fecero l'amore nel pomeriggio, la luce del sole opaca sulle tendine della finestra, il letto scoperto fino a un fresco lenzuolo bianco. Fecero l'amore frettolosamente perché non potevano aspettare, si possederono a vicenda e dopo restarono distesi tra-
spirando. Quando fecero l'amore di nuovo, Karen che tratteneva il suo corpo snello tra le proprie gambe e non voleva lasciarlo andare, durò e durò e li portò a sorridersi a vicenda, dicendo cose come "Uau" e "Oh, mio Dio" fu così bello, una faccenda seria ma davvero divertente. Uscirono per un po', tornarono al suo bungalow di stucco giallo a Coral Gables e fecero l'amore sul pavimento del soggiorno. Carl disse: «Possiamo provarci ancora domattina.» «Devo essere vestita e fuori di qui per le sei.» «Sei un'assistente di volo.» Lei disse: «Continua a indovinare.» Lunedì mattina Karen Sisco era fuori del tribunale federale di Miami con un fucile a pompa sul fianco. La mano destra di Karen afferrava la strozzatura del calcio, con la canna che si estendeva sopra la sua testa. Diversi altri sceriffi aggiunti erano lì fuori con lei; dentro, tre cittadini colombiani venivano incriminati dal tribunale distrettuale per possesso di oltre 500 chili di cocaina. Uno degli sceriffi disse che sperava che ai corrieri piacesse Atlanta, visto che molto presto ci avrebbero scontato dai trent'anni all'ergastolo. Lui disse: «Ehi, Karen, vuoi venire con me a scaricarceli? Conosco un hotel carino dove potremmo stare.» Lei lanciò un'occhiata ai bravi ragazzi sceriffi che sogghignavano, strascicando i piedi, in attesa della sua risposta. Karen disse: «Gary, verrei con te su due piedi se non fosse un peccato mortale.» A loro piacque. Era divertente, lei era rimasta lì in piedi pensando che era andata a letto con quattro differenti fidanzati nella sua vita: un Eric alla Florida Atlantic, un Bill appena dopo essersi diplomata, poi un Greg, tre anni di scopate con Greg, e adesso un Carl. Soltanto quattro in tutta la sua vita, ma due di più della media nazionale per le donne negli Stati Uniti, secondo la rivista Time nel resoconto di una loro recente inchiesta sul sesso. La donna media aveva due partner in tutta la vita, l'uomo medio, sei. Karen aveva creduto che chiunque andasse a letto con molte più persone. Vide il suo capo, Milt Dancey, uno sceriffo vecchio stampo incaricato dell'assistenza al tribunale, uscire dall'edificio e fermarsi a guardarsi intorno, un pacchetto di sigarette in mano. Milt guardò da quella parte e fece un cenno del capo a Karen, ma prima di raggiungerla indugiò ad accendersi una sigaretta. Un tizio dell'ufficio dell'Fbi di Miami era con lui. Milt disse: «Karen, conosci Daniel Burdon?» Non Dan, non Danny, Daniel. Karen lo conosceva, uno dei più giovani
ragazzi neri laggiù, alto e di bell'aspetto, sicuro di sé, noto per vantarsi di quante donne di tutti i generi e colori aveva avuto. Lui una volta aveva dardeggiato a Karen il suo sorriso, provando a farle colpo. Karen gli aveva fatto abbassare la cresta dicendo: «Tu hai due ragioni per cui vuoi uscire con me.» Daniel, sorridendo, aveva ammesso che una ragione la conosceva, ma qual era l'altra? Karen aveva detto: «Così potrai raccontare ai tuoi amici che ti sei fottuto uno sceriffo.» Daniel aveva replicato: «Sì, ma anche tu potresti usarlo, ragazza. Vantarti di aver messo me nel sacco.» Ecco il tipo di ragazzo che era. Milt disse: «Vuole domandarti di un certo Carl Tillman.» Nessun sorriso sfavillante stavolta, Daniel Burdon aveva addosso un'espressione seria, quasi innocente, domandandole: «Conosci il tipo, Karen? Uno sulla quarantina, capelli rossicci, sul metro e settantacinque, settantadue chili?» Karen rispose: «Cos'è questo, un esame? Se lo conosco?» Milt si allungò per prenderle il fucile. «Dai qua, Karen, lascia che lo tenga io mentre stai parlando.» Lei si girò a mezza spalla dicendo: «Va tutto bene, non gli sparerò» il pugno stretto sul manico del calibro 12. Disse a Daniel: «Tieni Carl sotto sorveglianza?» «Fin da lunedì scorso.» «Ci hai visto insieme, e allora cosa significa questa stronzata del se-loconosco? Stai facendo giochetti con me?» «Quello che intendevo chiedere, Karen, era da quanto tempo lo conosci.» «Ci siamo conosciuti la settimana scorsa, martedì.» «E tu lo hai visto giovedì, venerdì, hai passato la domenica con lui, siete andati alla spiaggia, tornati a casa tua... Che ne pensa lui del tuo lavoro di sceriffo di Stato?» «Non gliel'ho detto.» «E com'è?» «Vuole indovinare cosa faccio.» «Ci sta ancora lavorando sopra, eh? Tu cosa pensi, è un tipo simpatico? Ha un'auto sportiva, ha i soldi, eh? È un vero spendaccione?» «Senti» disse Karen «perché non la pianti di fare il detective e mi racconti di cosa si tratta, d'accordo?» «Vedi, Karen, la situazione è così insolita» disse Daniel, ancora con l'espressione innocente. «Non so come metterla, capisci, in modo delicato.
Scoprire uno sceriffo degli Stati Uniti che si scopa un rapinatore di banche.» Milt Dancey pensò che Karen stesse per sferrare un colpo a Daniel con il fucile. Stavolta glielo tolse e disse all'uomo del Bureau di comportarsi bene, tenere a freno la lingua se voleva collaborazione qui. Attenersi ai fatti. Questo Carl Tillman era un indiziato per una rapina in banca, un possibile sospetto per una mezza dozzina di altre rapine, a giudicare dai video delle banche, commesse dalla stessa persona. L'Fbi, affibbiando soprannomi a tutti i criminali, si riferiva a lui come a "Slick", furbo. Avevano delle impronte dal bancone di un cassiere che potevano appartenere a quell'uomo, ma nessun riscontro nei loro schedari e non abbastanza prove su Carl Edward Tillman, il nome sulla sua patente di guida e sul libretto dell'auto, per portarlo dentro. Lui sembrava essere una ciliegina fresca fresca, appena entrato nella carriera del crimine. Il suo movente: incazzato con le banche perché la Florida Southern gli aveva precluso il riscatto dell'ipoteca e aveva venduto la sua Hatteras di 16 metri per mancato pagamento. Karen si bloccò per un istante. Lui poteva aver mentito riguardo la barca, raccontandole che la stava trasferendo a Haulover; ma questo non lo rendeva un rapinatore di banche. Lei disse: «Che cosa avete, un'immagine video, un cassiere che lo ha identificato?» Daniel rispose: «Dal momento che l'hai menzionato» e prese dalla tasca interna del soprabito un volantino da ricercato del Bureau, un foglio piegato a metà. Lo aprì e Karen si trovò a guardare quattro fotografie di rapine in corso prese dalle videocamere delle banche, i banditi incorniciati nello sportello del cassiere, tre tipi neri, uno bianco. Karen chiese: «Quale?» e Daniel le lanciò un'occhiata prima di indicare il tizio bianco: un uomo coi capelli lisciati all'indietro, un orecchino, baffoni pieni e occhiali da sole scuri. Lei disse: «Quello non è Carl Tillman» e provò un istantaneo sollievo. Non c'era alcuna somiglianza. «Guardalo bene.» «Cosa posso dirti? Non è lui.» «Osserva il naso.» «Dici sul serio?» «Quello è il naso del tuo amico Carl.» Lo era. Il naso sottile, piuttosto elegante di Carl. O uguale al suo. Karen disse: «Stai procedendo con l'identificazione di un naso, questo è tutto ciò che hai?» «Una testimone» aggiunse Daniel «crede di aver visto quest'uomo, pro-
prio dopo quella che sarebbe la prima rapina commessa, precipitarsi dalla banca a un'aiuola spartitraffico lungo la strada e fuggire con una Bmw decappottabile bianca. La testimone ha intravisto una parte del numero di targa e questo ci ha portati al tuo amico Carl.» Karen domandò: «Avete controllato il suo nome e la data di nascita...» «Lo abbiamo cercato nell'NCIC, nell'FCIC e nelle informazioni di garanzia, senza alcun risultato. È per questo che penso che abbia appena cominciato a bagnarsi i piedi. È riuscito a metterne a segno qualcuna, da due o tremila dollari ciascuna, e si è trovato una nuova professione.» «Che cosa vuoi che faccia» disse Karen «procurarmi le sue impronte su una lattina di birra?» Daniel inarcò le sopracciglia. «Questo sarebbe un inizio. Potrebbe essere perfino tutto ciò che ci serve. Quello che vorrei che facessi, Karen, è coccolarti l'uomo e scoprire i suoi segreti. Sai cosa intendo, cose intime, tipo se ha mai usato un altro nome...» «Essere la tua spia» disse Karen, constatando che era stato uno sbaglio non appena le parole le furono uscite di bocca. Le sopracciglia di Daniel si inarcarono di nuovo. «È così che la vedi? Pensavo che tu fossi un'agente federale, Karen. Forse sei intima con lui, è così? Non vuoi che l'uomo pensi male di te?» Milt si intromise: «Basta con queste stronzate» prendendo così le parti di Karen come avrebbe fatto per chiunque dei suoi, non perché lei era una donna; aveva imparato a non aprire le porte per lei. L'unica occasione in cui lei voleva essere la prima a varcare la porta era per il mandato d'arresto di un latitante, questa ragazza che con una pistola, più volte sì che no, riportava un punteggio più alto di qualsiasi sceriffo nel distretto meridionale della Florida. Daniel stava dicendo: «Amico, ho bisogno di usarla. Lei è dalla nostra parte oppure no?» Milt passò a Karen il suo fucile. «Ecco, se vuoi sparargli fai pure.» «Senti» insisteva Daniel «Karen può procurarmi una lettura ravvicinata sull'uomo: dove ha vissuto prima, se ha mai usato altri nomi, se ha qualche segno particolare sul corpo, cicatrici, forse una ferita d'arma da fuoco, tatuaggi, cose che soltanto l'adorabile Karen potrebbe vedere quando il tizio si è tolto i vestiti di dosso.» Karen si prese un istante. Disse: «C'è una cosa che ho notato.» «Sì? Di che si tratta?» «Lui ha le lettere F-U-O-N tatuate sul pene.»
Daniel la guardò arcigno. «F-U-O-N?» «Questo quando è moscio. Quando ha un'erezione dice FANCULO AL FEDERAL BUREAU OF INVESTIGATION.» Daniel Burdon sogghignò verso Karen. «Ragazza, tu e io dobbiamo metterci d'accordo. Dico sul serio.» Karen poteva reggere "ragazza". In un modo o nell'altro andava. Ragazza, guardandosi in uno specchio mentre si applicava il fondotinta. Donna, be', questo è ciò che era. Sebbene, solo fino a pochi anni prima, come "donne" pensava solo a donne vecchie quanto sua madre. Donne che si mettevano insieme per formare organizzazioni di donne, dicendo: "Guardate, siamo diverse dagli uomini". Che si isolavano in questi gruppi invece di socializzare con uomini e batterli ai loro stessi giochi da uomini. Gli uomini, in generale, erano fisicamente più forti delle donne. Alcuni uomini erano più forti di altri e anche Karen era più forte di alcuni; allora questo cosa provava? Se doveva mettere a terra un uomo, non importa quanto grosso o forte fosse, lei l'avrebbe fatto. In un modo o nell'altro. Apertamente, faccia a faccia. Quello che lei non poteva tollerare era vedersi interpretare questo ruolo abietto. Cercare di fottere Carl, un tipo che le piaceva un sacco, mentre ci pensava con sentimenti teneri e ne sentiva la mancanza durante il giorno e voleva stare con lui. Merda... D'accordo, avrebbe giocato la partita, ma non travestita. Prima gli avrebbe fatto sapere che lei era un ufficiale federale e avrebbe visto che cosa ne pensava lui. Carl poteva essere un rapinatore di banche? Lei se ne riservava il giudizio. Assumendo che quasi chiunque sarebbe potuto esserlo una volta o l'altra, e procedendo da lì. Ciò che Karen fece, fu tornare a casa, mettere un arrosto nel forno e lasciare la borsa sul tavolo della cucina, aperta, con il manico di una Beretta calibro 9 che sporgeva in piena vista. Carl arrivò, si baciarono in soggiorno, Karen che lo sentiva ma lo guardava a stento. Quando lui sentì il profumo del brasato che cuoceva, Karen disse: «Vieni, tu prepari i drink mentre io metto su le patate.» In cucina, poi, restò in piedi con la porta del frigorifero aperta, dando le spalle a Carl e lasciandogli il tempo di notare la pistola. Finalmente lui disse: «Gesù, sei un poliziotto.» Lei aveva fatto le prove di questo momento. L'idea era voltarsi dicendo: «Hai indovinato» in tono sorpreso; poi guardare la pistola e dire qualcosa
tipo: «Che scema, mi sono tradita.» Ma non lo fece. Lui aveva detto: «Gesù, sei un poliziotto» e lei si voltò dal frigorifero con una vaschetta del ghiaccio aggiungendo: «Federale. Sono uno sceriffo degli Stati Uniti.» «Non avrei mai indovinato» disse Carl «nemmeno in un milione di anni.» Nel pensarci prima, lei non sapeva se lui si sarebbe seccato o cosa. Guardandolo adesso sembrava che la stesse prendendo bene, sorridendo un poco. Lui chiese: «Ma perché?» «Perché cosa?» «Sei uno sceriffo?» «Be', prima di tutto, mio padre ha una società, la Marshall Sisco Investigations. Non appena imparai a guidare cominciai a fare dei lavori di sorveglianza per lui. Come seguire qualche tipo che cercava di fregare la sua compagnia d'assicurazioni, una richiesta di risarcimento falsa. Mi venne l'idea di entrare nelle forze dell'ordine. Così dopo un paio d'anni a Miami mi trasferii alla Florida Atlantic ed entrai nel loro programma di giustizia criminale.» «Voglio dire, perché non l'Fbi, se dovevi farlo, o la Dea?» «Be', tanto per cominciare, quando ero più giovane mi piaceva fumare l'erba, così la Dea non mi attraeva affatto. I tipi dei servizi segreti che ho conosciuto erano così dannatamente riservati, gli fai una domanda e loro se ne escono con: "Dovrai controllare con Washington su questo". Vedi, diversi agenti federali venivano a scuola per tenere conferenze. Mi capitò di conoscere un paio di sceriffi, andavamo fuori dopo, a prendere qualche birra, e mi piacevano. Sono tipi simpatici, all'inizio un po' altezzosi, naturalmente; ma dopo qualche anno gli passa.» Adesso Carl stava preparando i drink, Early Times per Karen, Dewar's nel suo bicchiere, entrambi con una spruzzata di soda. In piedi al lavandino, lasciando correre l'acqua, lui chiese: «Tu che cosa fai?» «Questa settimana sono nel servizio di sicurezza al tribunale. Il mio incarico normale sono i mandati. Inseguiamo i latitanti, per la maggior parte trasgressori della libertà condizionale.» Carl le passò un drink. «Assassini?» «Se erano coinvolti in un reato federale quando l'hanno fatto. Solitamente droga.» «Rapina in banca, quello è un reato federale, non è così?» «Sì, certi tipi vengono fuori dal carcere e si rimettono direttamente al la-
voro.» «Ne prendete molti?» «Rapinatori di banche?» domandò Karen. «Nove su dieci» guardandolo dritto. Carl alzò il suo bicchiere. «Salute.» Mentre stavano cenando al tavolo della cucina lui disse: «Sei taciturna stasera.» «Sono stanca, sono stata in piedi tutto il giorno, con un fucile.» «Non riesco a immaginarlo» disse Carl. «Non sembri uno sceriffo degli Stati Uniti, o qualsiasi tipo di poliziotto.» «Che cosa sembro?» «Una cannonata. Sei la più bella ragazza con cui sia mai stato tanto intimo. Ho dato un'occhiata molto da vicino a Mary Elizabeth Mastrantonio, quando stavano girando Scarface. Ma tu sei un sacco più bella. Mi piacciono le tue lentiggini.» «Ne ero piena.» «Hai un po' di sugo sul mento. Proprio qui.» Karen se lo toccò con il tovagliolo. Disse: «Mi piacerebbe vedere la tua barca.» Lui stava masticando l'arrosto e dovette aspettare prima di dire: «Ti ho detto che era tirata in secco?» «Sì?» «Non ho più la barca. Mi è stata ripresa quando sono rimasto indietro con i pagamenti.» «La banca l'ha venduta?» «Sì, la Florida Southern. Non volevo dirtelo quando ci siamo conosciuti la prima volta. Partire con un inizio traballante.» «Ma ora che puoi dirmi che ho del sugo sul mento...» «Non volevo che tu credessi che ero una qualche specie di perdente.» «Che cosa hai fatto da allora?» «Lavorato come ufficiale in seconda, su a Haulover.» «Hai ancora la tua casa, il tuo appartamento?» «Sì, vengo pagato, per questo posso cavarmela, nessun problema.» «Tra gli sceriffi ho un amico che vive a Miami nord, tra l'Alamanda e la Centoventicinquesima.» Carl annuì. «Non è lontano da me.» «Vuoi uscire dopo?»
«Pensavo che fossi stanca.» «Lo sono.» «Allora perché non restiamo a casa?» Carl sorrise. «Che ne dici?» «Bene.» Fecero l'amore al buio. Lui voleva accendere la lampada ma Karen disse di no, di lasciarla spenta. Geraldine Regal, la prima cassiera alla Sun Federal sulla Kendall Drive, osservò un uomo con i capelli lisciati all'indietro e gli occhiali da sole frugarsi nella tasca interna del soprabito mentre si avvicinava al suo sportello. Erano le 9,40, martedì mattina. Dapprima pensò che il tipo fosse latino. Piuttosto belloccio, eccetto che da vicino i suoi capelli sembravano laccati, quasi metallici. Voleva domandargli se faceva male. Lui tirò fuori dalla tasca carte, distinte di versamento e un assegno in bianco dicendo: «Lo compilo per quattromila dollari.» Cominciò a riempire l'assegno e aggiunse: «La sa quella della trapezista e del marito che divorzia da lei?» Geraldine disse che pensava di no, sorridendo perché era un po' bizzarro, un cliente che non aveva mai visto prima che le raccontava una barzelletta. «Loro sono in tribunale. L'avvocato del marito le domanda: "Non è vero che lunedì, il cinque di marzo, appesa al trapezio a testa in giù, senza rete, lei ha fatto sesso con il direttore del circo, il domatore di leoni, due clown e un nano?".» Geraldine attese. L'uomo fece una pausa, la testa bassa come se finisse di compilare l'assegno. Quindi alzò gli occhi. «La trapezista pensa per un minuto e dice: "Che giorno ha detto che era?".» Geraldine stava ridendo quando lui le passò l'assegno, sorridendo mentre lei vedeva che era un messaggio su un assegno vuoto, scritto chiaramente in stampatello, che diceva: QUESTO NON È UNO SCHERZO È UNA RAPINA! VOGLIO 4000 DOLLARI. SUBITO! Geraldine smise di sorridere. Il tipo con i capelli metallici le stava dicendo che li voleva in pezzi da cento, da cinquanta e da venti, sfusi, niente fascette o elastici, niente denaro segnato, niente pacchetti coloranti, niente banconote dal fondo del cassetto, e voleva indietro il suo biglietto. Subito.
«La cassiera non aveva quattromila dollari nei suoi cassetti» disse Daniel Burdon «così il tipo si accontentò di duemilaottocento e uscì. Slick che cambia stile, noi sappiamo che è lo stesso tipo, quello con i capelli lucidi. Solo che adesso lui è il Joker. Il guaio è, vedi, che io non sono Batman.» Daniel Burdon e Karen Sisco erano nel corridoio fuori dell'aula centrale del tribunale al secondo piano, Daniel che appoggiava la lunga corporatura contro la ringhiera, da dove si poteva guardare disotto verso l'atrio con la fontana e le palme nei vasi. «Nessun testimone a vederlo saltare nella sua Bmw, stavolta. L'uomo dev'essersi reso conto che era stupido, usare la sua stessa macchina.» Karen disse: «Oppure non è Carl Tillman.» «L'hai visto la notte scorsa?» «È passato da me.» «Sì, com'è andata?» Karen piantò gli occhi sull'espressione impassibile di Daniel. «Gli ho raccontato che ero un'agente federale e non ha strippato.» «Così è a posto, eh?» «È un tipo simpatico.» «Cordiale. Racconta barzellette rapinando banche. Ho parlato con la gente della Florida Southern, dove aveva il mutuo per la barca. Ho scoperto che si vedeva con una delle cassiere. Non alla sede principale, una delle filiali, una ragazza di nome Kathy Lopez. Grandi occhi castani, carina come un cucciolo, appena cominciato a lavorare lì. Lei esce con Tillman, gli racconta del proprio lavoro, quello che fa, come stia a contare soldi tutto il giorno. Le ho chiesto se Tillman era interessato, se voleva sapere niente in particolare. Oh, sì, lui voleva sapere cosa avrebbe dovuto fare lei se mai la banca veniva rapinata. Così lei gli racconta dei pacchetti coloranti, come funzionano, come a lei spetterebbe un premio di duecento dollari se mai venisse rapinata e riuscisse a infilarne uno insieme al bottino. La volta dopo che lui va lì dentro, la graziosa piccola Kathy Lopez gliene mostra uno, spiega come succede quando esci dalla porta con un pacchetto da venti contraffatto. Mezzo minuto più tardi il gas lacrimogeno esplode e ti ritrovi quella merda rossa tutta addosso a te e al denaro che hai rubato. Ho controllato i rapporti sulle altre rapine che ha messo a segno. Tutte le volte ha detto al cassiere che non voleva mazzette coloranti o denaro esca con i numeri di serie segnati.»
«Facendo conversazione» disse Karen, cercando energicamente di mantenere il proprio sangue freddo «alle persone piace parlare di ciò che fanno.» Daniel sorrise. E Karen riprese: «Carl non è il tuo uomo.» «Dimmi perché ne sei tanto sicura.» «Lo conosco. È un bravo ragazzo.» «Karen, ti ascolti? Tu mi stai raccontando quello che provi, non quello che sai. Raccontami di lui, ti piace il modo in cui balla, o cosa?» Karen non raccolse. Voleva che Daniel la lasciasse in pace. Lui disse: «D'accordo, ci vuoi scommettere sopra, tu dici che Tillman è pulito?» Questo la riportò indietro, la prese all'amo e lei disse: «Quanto?» «Se perdi, esci a ballare con me.» «Fantastico. E se ho ragione io, che cosa vinco?» «Il mio imperituro rispetto» disse Daniel. Non appena tornò a casa, Karen telefonò a suo padre alla Marshall Sisco Investigations e gli raccontò di Carl Tillman, il sospettato di rapina nella sua vita, e dell'atteggiamento sicuro di sé, altezzoso, gradasso, irritante di Daniel Burdon. Suo padre chiese: «Questo tipo è di colore?» «Daniel?» «So che lui lo è. I miei amici alla Metro-Dade lo chiamano il Burdon dell'uomo bianco, per quanto gli dà sui nervi col suo avere sempre ragione. Voglio dire, il tuo tipo. C'è un giocatore nell'Nfl di nome Tillman. Ho dimenticato con chi gioca.» Karen disse: «Non sei proprio d'aiuto.» «Il Tillman nel campionato è di colore, questo è il motivo per cui chiedevo. Penso che sia con il Chicago.» «Carl è bianco.» «D'accordo, e dici che sei pazza di lui?» «Mi piace, un sacco.» «Ma non sei sicura che lui non si stia facendo le banche.» «Ho detto che non posso credere che sia lui.» «Perché non glielo chiedi?» «Andiamo, se è lui non me lo racconterà.» «Come lo sai?» Lei non disse nulla, e dopo pochi istanti suo padre le chiese se era ancora
lì. «Passerà a trovarmi stasera» disse Karen. «Vuoi che ci parli io?» «Non dirai sul serio.» «Allora perché mi hai chiamato?» «Non sono sicura su cosa fare.» «Lascia che la risolva l'Fbi.» «Si suppone che io dovrei aiutarli.» «Sì, ma che aiuto puoi dare tu? Tu vuoi credere che il tuo tipo sia pulito. Tesoro, l'unico modo per scoprire se lo è, è presumere che non lo sia. Capisci cosa sto dicendo? Perché una persona rapina banche? Per soldi, sì. Ma devi essere stupido, anche, considerando le probabilità contro di te, le misure di sicurezza, le telecamere che prendono tue immagini... Così un'altra ragione potrebbe essere il rischio che implica, lo eccita. La stessa ragione per cui sta scherzando con te...» «Lui non sta scherzando.» «Sono contento di non avere detto: "Facendo il cascamorto per ottenere informazioni, vedere quello che sai".» «Lui non ha mai nominato le banche.» Karen fece una pausa. «Be', forse una volta.» «Potresti tirare fuori tu l'argomento, vedere come reagisce. Se suda, richiedi una copertura. Senti, che stia scherzando o che ti ami con tutto il cuore, sta sempre rischiando vent'anni. Lui non sa se tu gli stai dietro o no e questo accresce il rischio. È come se pensasse di essere Cary Grant che ruba gioielli in casa della ragazza dove sta cenando, nel suo smoking. Ma il tuo tipo è sempre stupido se rapina banche. Tu sai tutto questo. La tua struttura mentale, semplicemente, non vuoi accettarlo.» «Tu pensi che dovrei cavarglielo fuori. Vedere se posso incastrarlo.» «A dire il vero» disse suo padre «penso che dovresti trovarti un altro fidanzato.» Karen si rammentò di Christopher Walken in The Dogs of War che sistemava la sua pistola sul tavolo nell'ingresso principale, il campanello della porta che suonava, e stendeva un giornale sopra la pistola prima di aprire la porta. Se lo rammentò perché un tempo era stata innamorata di Christopher Walken, non curandosi nemmeno che portasse i pantaloni così alti in vita. Carl le ricordava qualcosa di Christopher Walken, il modo in cui sorri-
deva con gli occhi. Lui arrivò poco dopo le sette. Karen indossava pantaloncini cachi e una maglietta, scarpe da tennis senza calze. «Pensavo che uscissimo.» Si baciarono e lei gli carezzò il viso, passando la mano lievemente sulla sua pelle, odorando il suo dopobarba, sentendo il punto dove il suo lobo destro era forato. «Sto preparando i drink» disse Karen. «Prendiamone uno e poi mi preparerò.» Si avviò verso la cucina. «Posso aiutare?» «Tu hai lavorato tutto il giorno. Siediti, rilassati.» Le ci vollero un paio di minuti. Karen tornò in soggiorno con un drink in ciascuna mano, la sua borsa di pelle che le pendeva dalla spalla. «Questo è il tuo.» Carl lo prese e lei abbassò la spalla lasciando che la borsa scivolasse e cadesse sul tavolo da caffè. Carl rise. «Che cos'hai lì dentro, una pistola?» «Un chiletto di metallo pesante. Com'è stata la tua giornata?» Si accomodarono sul divano e lui le raccontò che gli ci erano volute quasi quattro ore per tirare a bordo un marlin di tre metri, la lenza avvolta attorno al suo rostro. Carl disse che si era fatto in quattro per issare il pesce a bordo e il tipo aveva deciso che non lo voleva. Karen disse: «Dopo che sei tornato da Kendall?» Questo lo fece esitare. «Perché pensi che io fossi a Kendall?» Carl dovette aspettare mentre lei sorseggiava il suo drink. «Non ti sei fermato alla Florida Southern e hai prelevato duemilaottocento dollari?» Questo lo portò a fissarla, ma con nessuna espressione di cui prendere nota. Karen che pensava: "Dimmi che eri da qualche altra parte e che puoi provarlo". Ma lui non lo fece; continuò a fissarla. «Niente mazzette coloranti, niente denaro segnato. Vedi ancora Kathy Lopez?» Carl si curvò per posare il drink sul tavolo da caffè e restò seduto così, appoggiando i gomiti sulle cosce, senza guardare verso di lei adesso che Karen studiava il suo profilo, il suo naso elegante. Lei guardò il suo bicchiere, le sue impronte dappertutto su di esso e si sentì dispiaciuta per lui. «Carl, hai sballato.» Lui voltò la testa per guardarla da sopra la spalla. Disse: «Me ne vado.» Si tirò su dal divano e aggiunse: «Se questo è quello che pensi di me...»
Karen replicò: «Carl, piantala con le stronzate» e posò il suo drink. Adesso, se lui avesse raccolto la sua borsa, questo avrebbe cancellato ogni dubbio rimasto. Lo osservò raccogliere la sua borsa. Lui tirò fuori la Beretta e lasciò cadere la borsa. «Carl, siediti. Vuoi, per favore?» «Me ne sto andando. Sto uscendo e tu non mi vedrai mai più. Ma prima...» Le fece prendere un coltello dalla cucina e tagliare il filo del telefono lì e in camera da letto. Lui era davvero stupido. Di nuovo nel soggiorno, lui disse: «Sai una cosa? Avremmo potuto farcela.» Gesù. Ed era sembrato un tipo così a posto. Karen lo osservò andare alla porta principale e aprirla prima di voltarsi di nuovo verso di lei. «Che ne dici di concedermi cinque minuti di vantaggio? Per amore dei vecchi tempi?» Stava diventando imbarazzante, triste. Lei disse: «Carl, non capisci? Tu sei in arresto.» Lui disse: «Io non voglio farti male, Karen, così non cercare di fermarmi.» Uscì dalla porta. Karen raggiunse il recipiente dove lasciava cadere le chiavi della macchina e la posta entrando in casa: un cesto di vimini accanto alla porta d'ingresso, la porta ancora aperta. Scostò la copia ripiegata dello Herald che aveva piazzato lì, sopra la sua Sig Sauer calibro 38, prese la pistola e uscì sulla veranda, nel giallo riverbero della luce del portico. Vide Carl alla sua macchina, la bianca sagoma pallida contro la strada scura, solo a una dozzina di metri di distanza. «Carl, non renderla difficile, d'accordo?» Lui aveva aperto la portiera della macchina e si voltò a metà a guardare indietro. «Ho detto che non voglio farti male.» Karen disse: «Sì, bene...» sollevò la pistola per mettere un colpo in canna e mise la mano sinistra a coppa sotto l'impugnatura. «Muoviti per entrare in macchina e io sparo.» Carl voltò di nuovo la testa con una triste, malinconica espressione. «No, non lo farai, amore.» Non dire ciao, pensò Karen. Ti prego. Carl disse: «Ciao» si voltò per entrare in macchina e lei gli sparò. Sparò un solo proiettile, alla sua coscia sinistra, e lo colpì dove aveva mirato, nella parte carnosa appena sotto al sedere. Carl urlò e si accasciò dentro tra il sedile e il volante, la gamba tesa fuori, la mano che l'afferrava, gli occhi
sollevati in un cipiglio esterrefatto mentre Karen si avvicinava. Il povero idiota che aveva davanti a sé vent'anni di galera, e forse un'andatura zoppicante. Karen sentì che avrebbe dovuto dire qualcosa. Dopotutto, per pochi giorni lì erano stati intimi quanto due persone lo potevano diventare. Ci pensò per diversi istanti, Carl che la fissava con occhi lacrimosi. Alla fine Karen disse: «Carl, voglio che tu sappia che è stato davvero molto bello, tutto considerato.» Era il meglio che potesse fare. MICHAEL MALONE Ogni piccola città ha le sue leggende. Thermopylae, nel North Carolina, diede al mondo Stella Dora Doyle e poi, con poca scelta in materia, quattro mariti, un processo per omicidio e in seguito un esilio in Europa, se la riprese. Il giovane Buddy Hayes, un ragazzino che si fa adulto mentre la leggendaria bellezza di Stella è appena maturata, si porta radicata nella mente l'opinione di suo padre sull'influente aura di quella donna dalla prima volta che la vide. "Non aver mai desiderato Stella" gli dice solennemente suo padre mentre la osservano salire i gradini del tribunale accusata di aver ucciso Hugh Doyle, suo amore d'infanzia e ultimo marito, "significa aver mancato d'essere vivo." Ossessionato dal ricordo di questo terribile fascino. Buddy è tuttavia all'altezza della situazione quando in seguito la sua strada e quella di Stella si incrociano. L'acclamato romanziere Michael Malone, avvezzo ai misteri del cuore umano, sa che la combinazione di ricordo, mito e morte violenta improvvisa è irresistibile. In aggiunta ai suoi romanzi di successo sulla vita nelle cittadine del Sud, ha scritto due superbi romanzi gialli su Justin Savile e Cuddy Mangum, Uncivil Season e Time's Witness. Recentemente ha vinto un premio Emmy con il dramma One Life to Live. Argilla rossa Sul breve pendio la facciata a colonne del nostro palazzo di giustizia ondeggiava nel sole d'agosto, come un tribunale nell'acqua di un lago. Le foglie pendevano dagli aceri, e la bandiera del North Carolina languiva piatta contro la sua asta di metallo. La calura stagnava abbrutente sopra la contea
di Devereux, spietata, settimana dopo settimana; quel tempo lo chiamavano "giorni da cani" per via della stella, Sirio, ma nessuno di noi lo sapeva. Secondo noi voleva dire che nessun cane avrebbe lasciato l'ombra per la strada in giornate simili, nessun cane tranne uno pazzo. Io avevo dieci anni, quell'agosto inoltrato del 1959; mi ricordavo di quell'estate a causa della lunga ondata di caldo, e a causa di Stella Doyle. Quando spalancarono le porte, i poliziotti e gli avvocati levarono le braccia in aria davanti alle facce per pararsi dal sole e si fermarono lì, sulla soglia, come se la luce rovente li respingesse dentro. Stella Doyle venne fuori per ultima, tra due vicesceriffi, per condurla giù dove la macchina di pattuglia, arancione come le candele di Halloween, attendeva di portarla via finché la giuria avesse fatto il punto riguardo ciò che era accaduto due mesi prima a Red Hills. Era l'unica casa della contea abbastanza grande da avere un nome. Era dove Stella Doyle, forse, aveva sparato a suo marito Hugh Doyle uccidendolo. L'eccitazione sull'omicidio Doyle aveva invaso a sciame la città e ci aveva tenuto in vita pungolandoci. Nessun evento eccitante l'avrebbe rimpiazzata fino all'assassinio di John F. Kennedy. Fuori del tribunale, con la calura del marciapiede che esalava vapore attraverso le nostre scarpe, stavamo in piedi pazientemente in attesa di sentire la signora Doyle dichiarata colpevole. Anche la stampa era in attesa, poiché lei, dopotutto, non era semplicemente l'assassina dell'uomo più ricco che conoscevamo; lei era Stella Doyle. Lei era la stella del cinema. La mano di papà mi strizzò la spalla e c'era una linea severa sulla sua bocca quando mi trascinò nella folla e disse: «Ora ascolta, Buddy, se qualcuno quando sarai cresciuto ti chiederà: "Hai mai visto la donna più bella che Dio creò nell'arco della tua vita?", figliolo, tu risponderai: "Sì, ho avuto questa fortuna, e il suo nome era Stella Dora Doyle".» La sua voce si fece più alta proprio lì nella folla perché tutti la udissero. «Gli racconterai come la sua bellezza era così luminosa da bruciare la vergogna con cui cercarono di seppellirla respingendola all'indietro, la bruciò scaraventandogliela dritta indietro fino a ustionargli le facce.» Papà pronunciò queste strane parole alzando gli occhi ai gradini verso la donna in nero, quasi grassottella, che i vicesceriffi stavano trattenendo. Le sue braccia erano ripiegate sopra il panciotto di lino, le dita strette sulle maniche della camicia. La gente attorno a noi si era voltata a fissare e qualcuno ridacchiava. Imbarazzato per lui, mormorai: «Oh, papà, non è nient'altro che una vec-
chia assassina. Tutti sanno che si è ubriacata e ha ucciso il signor Doyle. Gli ha sparato dritto in testa con una pistola.» Papà si accigliò. «Tu questo non lo sai.» Io continuai. «Tutti dicono che lei era sempre così cattiva e ubriaca, non ha voluto nemmeno che i genitori di lui vivessero in casa con lei. Gli ha fatto buttare fuori la sua stessa mamma e suo papà.» Papà scosse la testa verso di me. «Non mi piace sentire abietti pettegolezzi uscire dalla tua bocca, d'accordo, Buddy?» «Sì, signore.» «Lei non ha ucciso Hugh Doyle.» «Sì, signore.» Il suo cipiglio mi spaventò; era così raro. Mi feci più vicino e gli presi la mano, schierandomi con lui contro gli altri. Io non avevo alcuna devozione per quella donna che papà riteneva tanto bella. Semplicemente, non avrei mai potuto rinunciare alla sicurezza della sua stima. Credo che da quel momento provai per Stella Doyle qualcosa di ciò che provava mio padre, sebbene, alla fine, lei per me significasse meno e rappresentasse di più. Papà non ha mai avuto la mia abitudine di simbolizzare. I gradini del tribunale erano ampi, irregolari lastroni di pietra. Mentre la signora Doyle scendeva, il brusio della folla cessò. Tutte insieme, come ballerine esperte, le persone indietreggiarono creando un semicerchio intorno all'auto di pattuglia arancione. I giornalisti spinsero avanti le loro telecamere. Lei veniva spinta giù così in fretta che la scarpa le rimase impigliata nella pietra sgretolata e cadde contro uno dei vicesceriffi. «È ubriaca!» berciò una donna accanto a me, una campagnola con un vestito a fiori stretto da una striscia di corda dipinta. Lei e il bambino che sbatacchiava contro la spalla erano gonfi del grasso della povertà. «Guardatela» indicò la donna «guardate quel vestito. Pensa di essere ancora laggiù a Hollywood.» La donna accanto a lei annuì, sbirciando da sotto la visiera di un berretto come quello dei pescatori da pontile. «Sono andata e ho fatto fuori mio marito, quale ricco avvocato non vorrebbe precipitarsi e scamparmi la legge.» Schiaffeggiò nell'aria verso il ronzio di una mosca. Poi loro si zittirono e così tutti gli altri, e il cerchio dei nostri occhi tramortiti dal sole si inchiodò sulla donna in nero, fissò la meraviglia di una persona tanto in alto come la signora Doyle in procinto di essere portata tanto in basso. Reggendosi al rigido braccio abbronzato del giovane vicesceriffo, la signora Doyle si chinò a controllare il tacco della scarpa. Scarpe nere, vesti-
to e borsa neri, ampio cappello nero, per noi erano tutti offensivi per la loro eleganza, ricchezza cocente quanto la morte. Lei restò lì, catturata un istante nella rovente immobilità dell'aria, poi si affrettò, trascinando giù con sé i due grossi vicesceriffi fino alla porta aperta della macchina di pattuglia arancione. Papà fece un passo avanti con tanta sveltezza che il varco si riempì di gente prima che potessi seguirlo. Mi intrufolai, a forza di gomiti, e vidi che lui teneva la paglietta in una mano e offriva l'altra tesa all'assassina. «Stella, come stai? Sono Clayton Hayes.» Quando lei si voltò, vidi i capelli d'oro ramato sotto il cappello; poi la sua mano, splendente di un grosso diamante, sfilò gli occhiali scuri. Vidi cosa intendeva dire papà. Lei era stupenda. I suoi occhi erano del colore dei lillà, ma più scuri dei lillà. E la sua pelle tratteneva la luce come l'interno di una conchiglia. Lei non era come altre belle donne, perché la differenza non era una differenza di grado. Non ho mai visto nessun'altra del suo genere. «Diamine, Clayton! Dio Onnipotente, sono secoli!» «Be', sì, è tanto tempo ormai, suppongo» disse lui, e le strinse la mano. Lei prese la mano tra le sue. «Sembri lo stesso di sempre. Questo è il tuo ragazzo?» chiese. Gli occhi viola si voltarono verso di me. «Sì, questo è Buddy. Finora Ada e io ne abbiamo sei, tre e tre.» «Sei? Siamo così vecchi, Clayton?» Lei sorrise. «Mi dissero che avevi sposato Ada Hackney.» Un vicesceriffo si schiarì la gola. «Spiacente, Clayton, noi dobbiamo avviarci.» «Solo un minuto, Lonnie. Senti, Stella, volevo solo che tu sapessi che sono dispiaciuto come più non potrei che tu abbia perduto Hugh.» Gli occhi le si gonfiarono di lacrime. «Lui l'ha fatto da sé, Clayton» disse. «Questo lo so. So che non sei stata tu.» Papà annuì lentamente più e più volte, come faceva quando stava ascoltando. «Questo lo so. Buona fortuna a te.» Lei scacciò via le lacrime. «Grazie.» «Sto dicendo a tutti che sono certo di questo.» «Clayton, grazie.» Papà annuì ancora, poi inclinò all'indietro la testa per offrirle il suo lento, pacifico sorriso. «Chiama Ada e me se mai ci fosse qualcosa che possiamo fare per aiutarti, mi senti?» Lei gli baciò la guancia e lui indietreggiò con me nella folla di ostili, avide facce mentre la donna entrava nell'au-
to della polizia. La macchina si mosse lentamente come il sole attraverso gli astanti. Telecamere schiacciate contro i suoi finestrini. Un uomo olivastro che mordicchiava una pipa saltò giù per i gradini per raggiungere qualche altro cronista accanto a noi. «La giuria ha mandato a prendere uno spuntino» disse. «Non si può dire con questi bifolchi. Potrebbe andare in tutti e due i modi.» Si tolse la giacca e se l'appallottolò sotto il braccio. «Gesù, se fa caldo.» Un cronista più giovane, con sottili capelli bagnati, non era d'accordo. «Sono tutti convinti che Hollywood è Babilonia e lei è la puttana. Hugh Doyle era il principe locale, suo padre tenne aperta l'attività dei mulini nei tempi brutti, come dicono sempre la metà degli agricoltori di questa contea. La manderanno sulla sedia elettrica. Per quel cappello, se non altro.» «Potrebbe andare in tutti e due i modi» ghignò l'uomo con la pipa. «Lei è nata in una baracca a sei miglia da qui. Cappello o non cappello, questo ne fa una di loro. E se anche ha sparato all'uomo, lui stava morendo di cancro comunque, per amor di Cristo. Be', per come recitava lei non valeva il prezzo di un sacchetto di pop-corn, ma, buon Gesù, era qualcosa a cui guardare!» Ora che Stella Doyle era andata via, le persone avvertirono di nuovo il calore e si spostarono all'ombra dove poter sedere immobili fino alla brezza pomeridiana, e aspettare la decisione della giuria. Papà e io tornammo lungo la Main Street al nostro negozio di mobilio. Papà possedeva anche un negozio di macelleria, ma non gli piaceva il commercio della carne e non era molto bravo a farlo, così ci pensava mio fratello maggiore mentre papà sedeva in una grossa sedia a dondolo tra un assortimento di camere da letto in mogano e stanze da pranzo d'acero rosso e leggeva, o chiacchierava con gli amici che passavano a trovarlo. La sedia a dondolo, a dire il vero, era in vendita, ma lui ci stava dentro da tanto di quel tempo ormai che era semplicemente la sedia di papà. Tre ventilatori da soffitto rimestavano l'aria tranquilla, ombrosa, mentre lui rispondeva alle mie domande su Stella Doyle. Disse che era cresciuta come Stella Dora Hibble sulla Statale 19, in una casetta di tre stanze col tetto di lamiera, l'argilla rossa puntellata da blocchi di calcestruzzo, il tipo di casa di legno di pino con la veranda scalcinata e il cortile di terra battuta dove i proprietari lasciano in mostra, come sculture, i residuati delle loro aspirazioni e i rottami delle loro irreparabili vite: il frigorifero senza porta e la macchina arrugginita, la pira di metallo e plastica che ammonisce agli automobilisti in transito sulla statale: "I sogni
non durano". La madre di Stella, Dora Hibble, a ogni modo aveva creduto nei sogni. Dora era stata una ragazza graziosa che aveva sposato un coltivatore e lavorato più sodo di quanto la sua salute le permettesse, perché il lavoro duro era indispensabile se non voleva soccombere. Ma nelle serate la signora Hibble sfogliava le riviste di cinema. Credeva che l'avventura romanzesca fosse lì fuori e lei la voleva, se non per sé, per i suoi figli. A ventisette anni, Dora Hibble morì durante il suo quinto parto. Stella aveva otto anni quando osservò dalla porta della camera da letto mentre coprivano il viso di sua madre con un panno sottile. Quando Stella aveva quattordici anni, suo padre morì ai mulini Doyle per una macchina che si era inceppata. Quando Stella aveva sedici anni Hugh Doyle junior, che aveva la sua età, l'età di mio padre, si innamorò di lei. «Anche tu l'amavi, papà?» «Oh, sì. Tutti noi ragazzi in città fummo pazzi di Stella Dora, prima o poi. Io ebbi il mio attacco, come gli altri. Ci innamorammo in seconda media. Io comprai una gigantesca scatola di cioccolatini a San Valentino. Ricordo che mi costò fino all'ultimo dei miei centesimi.» «Perché eravate tutti pazzi di lei?» «Credo che ti saresti dovuto preoccupare di non essere vivo se non ti capitava di sentirti così riguardo a Stella, una volta o l'altra.» Io stavo provando una terribile emozione che in seguito definii come gelosia. «Ma tu non amavi mamma?» «Dunque, questo fu prima che avessi la fortuna di conoscere tua mamma.» «E la conoscesti venendo in città lungo il binario della ferrovia e dicesti ai tuoi amici: "Quella è la ragazza per me e la sposerò", non è vero?» «Sissignore, e avevo ragione su entrambe le previsioni.» Papà si dondolò nella grossa sedia, le mani tranquille sui braccioli. «Stella Doyle era ancora pazza di te dopo che conoscesti mamma?» Il suo viso si increspò nelle rughe di una pronta risata. «Nossignore, non lo era. Lei amò Hugh Doyle nell'istante in cui posò gli occhi su di lui, e lui provava lo stesso. Ma Stella aveva quella smania di andare via per diventare qualcuno nel cinema. E Hugh non poteva trattenerla, e penso che nemmeno lei sapesse spiegargli perché desiderasse tanto andare via.» «Cos'era che le faceva desiderare di andarsene?» Papà mi sorrise. «Be', non lo so, figliolo. Cosa ti fa desiderare tanto di andare via? Tu dici sempre che andrai qui e là per il mondo, fin sulla luna.
Credo che tu sia più simile a Stella di me.» «Pensi che avesse torto a voler entrare nel cinema?» «No.» «Tu non pensi che lei lo abbia ucciso?» «Nossignore, non lo penso.» «Qualcuno lo ha ucciso.» «Be', Buddy, talvolta le persone perdono la speranza e il coraggio, e sentono che non possono continuare a vivere.» «Sì, lo so. Suicidio.» Le scarpe di papà tamburellavano il pavimento mentre la sedia a dondolo cigolava avanti e indietro. «Proprio così. Adesso dimmi, perché te ne stai seduto qui? Perché non fai un giro sulla tua bicicletta fino al campo di baseball a vedere chi c'è?» «Voglio sentire di Stella Doyle.» «Vuoi sentire. Bene. Allora andiamo a prenderci una Coca-Cola. Non credo che qualcuno stia progettando di farsi vivo con questa calura per comprare una cassettiera da trasportare a casa.» «Dovresti vendere condizionatori d'aria, papà. La gente comprerebbe condizionatori d'aria.» «Suppongo di sì.» Così papà mi raccontò la storia. O almeno, la sua versione di essa. Disse che Hugh e Stella erano destinati l'uno all'altra. Dapprincipio all'intera città sembrò naturale come la mietitura che così tanti soldi e così tanta bellezza si appartenessero a vicenda, e soltanto Hugh Doyle con la sua lunga, libera, disinvolta andatura era abbastanza ricco da pareggiare la bellezza di Stella Dora. Ma nemmeno Hugh Doyle poteva trattenerla. Lui era soltanto a metà dell'università, che suo padre gli aveva imposto di frequentare prima di sposare Stella se voleva una casa in cui portarla, quando lei lasciò il lavoro al salone di bellezza di Cold-steam e prese l'autobus per la California. Rimase laggiù per sei anni prima che Hugh crollasse e le corresse dietro. A quel tempo ogni ragazza della contea ritagliava dalle riviste di cinema le fotografie di Stella e leggeva come lei avesse avuto il suo colpo di fortuna, come avesse sposato un grosso regista, divorziato da lui e sposato un grande divo, e come quel matrimonio si fosse sfasciato anche più rapidamente. Fotografi si incollavano tutta la strada fino a Thermopylae per fotografare il posto dove lei era nata. La gente cercava di dirgli che la sua casa era andata, era crollata ed era stata usata come legna da ardere, ma loro
scattavano semplicemente delle foto alla casa del reverendo Ballister al posto di quella e dicevano che Stella era cresciuta lì. Non era passato molto tempo, e perfino le ragazze locali andavano a fermarsi davanti a casa Ballister come fosse un santuario, talvolta rubavano fiori dal cortile. L'anno in cui Fever, il suo miglior film, arrivò al Grand Theater sulla Main Street, Hugh Doyle volò a Los Angeles e la riconquistò. La portò giù in Messico per divorziare dal giocatore di baseball che aveva sposato dopo il grande divo. Poi Hugh la sposò a sua volta e la mise su una nave da crociera e la portò in giro per il mondo. Per due anni interi non tornarono a casa a Thermopylae. Tutti nella contea parlavano di questa luna di miele di due anni, e il padre di Hugh confessò ad alcuni amici che era disgustato dallo stile di vita di suo figlio. Ma quando la coppia tornò a casa, Hugh entrò dritto nei mulini e ne portò gli utili alle stelle. Suo padre confessò agli stessi amici che era sbalordito dalla riuscita di Hugh. Ma dopo che il padre morì, Hugh cominciò a bere e Stella gli tenne compagnia. Le feste divennero un po' sfrenate. Le litigate divennero sonore. La gente chiacchierava. Dicevano che lui aveva altre donne. Dicevano che Stella era stata rinchiusa in un sanatorio. Dicevano che i Doyle si stavano lasciando. E poi un giorno di giugno una cameriera a Red Hills, andando a lavorare prima che scoppiasse il caldo del mattino, inciampò sopra qualcosa che giaceva sul sentiero delle stalle. Ed era Hugh Doyle in abiti da cavallo con un buco sul lato della testa. Non lontano dalla sua mano inguantata, la polizia trovò la pistola di Stella, già troppo calda dal sole per toccarla. La cuoca testimoniò che il giorno prima i Doyle avevano litigato tutta la notte come cani e gatti, e la madre di Hugh asserì che lui voleva divorziare da Stella ma lei non voleva permetterglielo, e così Stella venne arrestata. Lei disse di essere innocente, ma era la sua pistola, lei era la sua erede, e non aveva un alibi. Il suo processo durò quasi quanto quell'ondata di calore d'agosto. Un vicino bighellonava accanto al portico, dove noi resistevamo al calore della sera aspettando che la brezza si alzasse. «La giuria è ancora riunita» disse. Mamma lo salutò con la mano. Spingeva se stessa e me nel grande dondolo verde di legno appeso a due catene dal tetto del portico, e rispondeva alle mie domande su Stella Doyle. Lei disse: «Oh sì, tutti dicevano che Stella era particolarmente carina. Io non l'ho mai conosciuta per poterlo dire.»
«Ma se a papà piaceva così tanto, perché non eravate invitati a casa loro e tutto il resto?» «Lei e tuo papà andavano solo a scuola insieme, questo è tutto. Fu molto tempo fa. I Doyle non avrebbero invitato a Red Hills gente come noi.» «Perché no? La famiglia di papà un tempo aveva un gran mucchio di soldi. Questo è ciò che hai detto tu. E papà oggi al tribunale è andato dritto dalla signora Doyle, proprio di fronte a tutti. Le ha detto: "Facci sapere se c'è niente che noi possiamo fare".» Mamma ridacchiò nel modo in cui faceva sempre riguardo a papà, un basso gorgoglio come una colomba che cova, un po' esasperata di dover restare seduta immobile così a lungo. «Sai che tuo papà si offrirebbe di aiutare chiunque pensi che si trovi nei guai, bianco o nero. È proprio da lui; questo non c'entra affatto con Stella Dora Doyle. Tuo papà è soltanto un uomo buono. Ricordalo questo, Buddy.» La bontà era il ferro del mestiere di papà; era quello che aveva invece del denaro o dell'ambizione, e mamma ce lo ricordava spesso. In lui lei teneva al sicuro tutta la gentilezza che non aveva mai sentito di potersi permettere per sé. Lei, che non sapeva né leggere né scrivere, che era rimasta in piedi tutto il giorno in una fabbrica di sigarette dall'età di nove anni fino al mattino in cui papà l'aveva sposata, era una combattente. Voleva che i suoi figli arrivassero più lontano di quanto aveva fatto papà. Eppure, per anni dopo che era morto, lei avrebbe portato giù dalla soffitta il registro giallo ammuffito dove il valore di lui era annotato in oltre 75.000 dollari di fatture inevase che non aveva voluto costringere persone nei guai a pagare. Scorrendo il dito macchiato dal sole lungo le righe marroni dei nomi e dei soldi che dovevano, lei sospirava quell'orgoglioso, esasperato gorgoglio, e scuoteva la testa sullo sciocco, generoso papà. Dalla finestra del salotto sentivo le mie sorelle che si esercitavano al pianoforte sul tema di The Apartment. Qualcuno al di là della strada accese una luce. Poi udimmo il rumore delle scarpe di papà che procedeva un po' più veloce del solito lungo il marciapiede. Svoltò alla siepe con in mano il pacchetto di lucida carta da macelleria in cui portava la carne a casa ogni sera. «Il verdetto è appena stato emesso!» gridò festoso. «Non colpevole! La giuria ha risposto circa quaranta minuti fa. L'hanno già portata a casa.» Mamma prese il pacchetto e fece sedere papà nel dondolo accanto a sé. «Bene, bene» disse. «L'hanno rilasciata.» «Non avrebbe mai dovuto arrivare al processo in primo luogo, Ada, come ho sempre detto a tutti. È come hanno dimostrato i suoi avvocati. Hugh
è andato ad Atlanta, ha visto il dottore, ha scoperto che aveva il cancro e si è suicidato. Stella non ha mai nemmeno saputo che lui fosse malato.» Mamma gli accarezzò il ginocchio. «Non colpevole; bene, bene.» Papà fece un rumore di disgusto. «Figurati che certe persone, fuori sulla Main Street, stasera sono tutte imbestialite perché Stella se l'è cavata! Adele Simpson faceva tutta la sdegnata!» Mamma disse: «E tu sei sorpreso?» E scosse la testa verso di me all'ingenuità di papà. Parlando del processo, i miei genitori facevano un'unica ombra lungo il pavimento di legno del portico, mentre dentro le mie sorelle suonavano senza fine variazioni di Chopsticks, le note tramandate da spettrali creatori da tempo trapassati. Alcune settimane dopo papà fu invitato a Red Hills, e mi lasciò andare con lui; portammo un paniere di focaccine con salsicce che mamma aveva fatto per la signora Doyle. Non appena papà oltrepassò il largo cancello bianco, imparai come il denaro poteva cambiare perfino il tempo. Faceva più fresco a Red Hills e l'erba era l'erba più verde della contea. Un uomo nero in un vestito nero ci fece entrare in casa, poi ci condusse lungo un ampio corridoio di legno giallo pallido in una grande stanza con le imposte chiuse contro il caldo. Lei era lì in una poltrona quasi del colore dei suoi occhi. Indossava pantaloni larghi di gambe e stava versando whisky da una bottiglia in un bicchiere. «Clayton, grazie per essere venuto. Ehilà, salve piccolo Buddy. Senti, spero di non averti sottratto ai tuoi affari.» Papà rise. «Stella, potrei restare lontano per una settimana e non perdere nemmeno un cliente.» Mi imbarazzò sentirlo ammettere con lei un simile fallimento. Lei disse che sapeva che mi piacevano i libri, così forse non mi sarebbe importato se mi lasciavano lì a leggere mentre lei prendeva in prestito il mio babbo per un po'. C'erano scaffali bianchi nella stanza, pieni di libri. Dissi che non m'importava ma non era vero; volevo continuare a guardarla. Perfino con la camicia larga macchiata e sgualcita sopra un busto che cercava di nascondere, perfino con la faccia gonfia per il caldo e il bere e l'angoscia, lei era qualcosa che volevi guardare il più a lungo possibile. Mi lasciarono solo. Sul pianoforte bianco c'erano dozzine di fotografie di Stella Doyle in cornici d'argento. Da un grosso ritratto sopra la mensola del caminetto i suoi occhi straordinari mi seguivano per la stanza. Fissai
quel ritratto mentre il sole si abbassava al di là, finché finalmente lei e papà tornarono. Lei aveva un fazzoletto sul naso, un nuovo drink in mano. «Mi dispiace, tesoro» mi disse. «Tuo papà è stato dolce a lasciarmi sfogare. Avevo proprio bisogno di qualcuno con cui parlare un po' di quello che mi è successo.» Mi baciò in cima alla testa e sentii le sue labbra calde sulla scriminatura dei capelli. La seguimmo lungo l'ampio ingresso uscendo sul portico. «Clayton, vorrai perdonare una vecchia grassa ubriacona per averti frastornato di chiacchiere e piagnucolato come una stupida.» «Niente del genere, Stella.» «E tu non hai mai pensato che io l'avessi ucciso, perfino quando l'hai saputo la prima volta. Mio Dio, grazie.» Papà le prese di nuovo la mano. «Abbi cura di te adesso» disse. Poi, improvvisamente, lei si stava abbracciando da sola, dondolandosi da una parte all'altra. Parole proruppero da lei come una porta spalancata dal vento. «Lo prenderei a calci in culo, quel bastardo! Perché non me l'ha detto? Mollare, mollare, e usare la mia pistola, e farmi quasi legare con le cinghie nella camera a gas, quel maledetto bastardo, e senza dire mai una parola!» Le sue imprecazioni devono aver traumatizzato papà quanto me. Lui non le usava mai, ancora meno le aveva mai udite da una donna. Ma annuì e disse «Be', addio, credo, Stella. Probabilmente non ci vedremo più.» «Oh, Signore. Clayton, io tornerò. Il mondo è così maledettamente piccolo.» Lei rimase in piedi in cima al portico, lacrime bagnate in quegli occhi viola di cui le riviste di cinema avevano amato parlare. Sulla sua guancia una puntura di zanzara fiammeggiava come un ceffone. Aggrappata alla grossa colonna bianca, salutò con la mano mentre andavamo via in macchina nella calura polverosa. Dal bicchiere nella sua mano i pezzetti di ghiaccio volarono come diamanti. Papà aveva ragione; non si incontrarono mai più. Papà perse le gambe per il diabete, ma non era mai andato molto in giro neanche prima che gli succedesse questo. E dopo era fisso in uno dei due posti, casa o il negozio. Stava seduto nella sua grossa sedia a rotelle di legno nel negozio di mobili, le mani pacificamente sui braccioli, parlando con chiunque passasse di lì. Io vidi ancora Stella Doyle; la prima volta in Belgio, dodici anni dopo. Sono arrivato più lontano di papà.
A Bruges ci sono piccoli ristoranti che si piegano con eleganza come gomiti sui canali, e guardano giù verso le imbarcazioni da diporto di passaggio. Stella Doyle era seduta, una sera, a un tavolino proprio nell'angolo a gomito di uno di essi, contro una ringhiera di ferro che incurvava il proprio riflesso nell'acqua. Era sola, quando la vidi. Si alzò in piedi, appoggiandosi alla ringhiera, e fece scivolare i cubetti di ghiaccio dal suo bicchiere nel canale. Io ero in una motolancia piena di turisti che passava di sotto. Lei agitò la mano verso di noi con un sorriso e noi salutammo di rimando. Erano passati un sacco di anni dal suo ultimo film, ma probabilmente lei salutava con la mano per abitudine. Per i turisti che passavano, Stella in bianco contro il ristorante scuro era un'altra istantanea di Bruges. Per me, lei era casa e ricordo. Mi sporsi a guardare indietro finché potei, e balzai giù dalla barca alla prima fermata. Quando trovai il ristorante, lei stava urlando a un giovanotto ben vestito che si protendeva attraverso il tavolo, cercando di calmarla in francese. Sembrava che stessero litigando sul ritardo di lui. Tutto a un tratto lei lo colpì, il diamante che balenava sulla faccia di lui. Lui riempì l'aria di gesti collerici, poi si voltò e se ne andò, un tovagliolo bianco sulla guancia. Mi ero molto intimidito per ciò che avevo visto, il giovanotto era a stento più vecchio di me. Restai in piedi, incapace di parlare, finché il suo sguardo che mi fissava mi spinse a farmi avanti. Dissi: «Signora Doyle? Io sono Buddy Hayes. Venni a trovarla a Red Hills con mio padre Clayton Hayes una volta. Lei mi lasciò guardare i suoi libri.» Lei si mise seduta comoda e si versò un bicchiere di vino. «Tu sei quel ragazzino? Dio onnipotente, quanti anni ho? Sono già centenaria?» La sua risata si era liberata grazie al vino. «Bene, un giramondo di Red Clay, come me. Che dire di questo. Siediti. Cosa ci fai tu quaggiù?» Le raccontai, con tutta la disinvoltura di cui fui capace, che viaggiavo con una borsa di studio di giornalismo assegnatami dal college. L'avevo vinta scrivendo un saggio su un processo per omicidio. «Il mio?» chiese lei, e rise. Un cameriere paffuto e accaldato nel suo lindo vestito nero trottò al suo fianco. Scosse la testa verso i piatti di cibo intatti. «Madame, allora il suo amico se n'è andato?» Stella disse: «Mister, l'ho aiutato io. E pare che non fosse affatto un amico.» Il cameriere allora volse lo sguardo, triste e pieno di rimprovero, alla trota sul piatto.
«Che ne dice di un'altra bottiglia di quel vino e di un secchiello di ghiaccio bello grosso?» chiese Stella. Il cameriere continuava a sventolarsi le grasse mani svelte intorno alla testa, supplicandoci di andare dentro. «Les moustiques, madame!» «Lasci che mordano in pace» disse lei. Lui andò via afflitto. Era più magra adesso, ed elegantemente vestita. E mentre le mani e la gola erano più vecchie, gli occhi non erano cambiati, né i capelli rosso oro. Era ancora la donna più bella che Dio avesse creato nell'arco della mia vita, la donna della quale mio padre aveva detto che qualsiasi uomo che non l'avesse desiderata aveva mancato d'essere vivo, quella per il cui onore mio padre aveva voltato le spalle all'intera città di Thermopylae. A causa di papà, io ero entrato nell'adolescenza sognando a occhi aperti di battermi per l'onore di Stella Doyle; noi due insieme eravamo stati i protagonisti di una dozzina dei suoi film: io abbagliavo la sua giuria; curavo Hugh Doyle mentre nascondevo il mio nobile amore per sua moglie. E adesso me ne stavo seduto qui a bere vino con lei su una veranda a Bruges; io, il primo Hayes che avesse mai vinto una borsa di studio al college, che fosse mai andato al college. Eccomi seduto qui con una stella del cinema. Lei finì la sua sigaretta, la lasciò cadere roteando giù nel canale scuro. «Gli assomigli» disse lei. «A tuo papà. Mi è dispiaciuto quel fatto del diabete.» «Gli assomiglio, ma non penso come lui» le dissi. Lei capovolse la bottiglia di vino nel secchiello. «Tu vuoi il mondo» disse. «Vai e prenditelo, tesoro.» «Questo è ciò che mio padre non capisce.» «Lui è un uomo buono» rispose lei. Si alzò in piedi lentamente. «E penso che Clayton vorrebbe che ti portassi al tuo albergo.» Tutti i paraurti della sua Mercedes erano ammaccati. Lei disse: «Quando ho bevuto qualche drink, ho bisogno di una macchina solida tra me e il resto dello stupido mondo.» La grossa auto rimbalzava sulla strada bianco luna. «Sai una cosa, Buddy? Hugh Doyle mi regalò la mia prima Mercedes, una mattina a Parigi. A colazione. Teneva sospese le chiavi nella mano come un dannato asfodelo che avesse raccolto in cortile. Lui mi regalò questa maledetta cosa.» Agitò il dito con l'enorme diamante. «Questa maledetta cosa era attaccata al mio alluce una mattina di Natale!» E sorrise verso le stelle come se Hugh Doyle fosse lassù appiccandovi diamanti. «Lui aveva un gran bel sorriso, Buddy, ma era un figlio di puttana.»
La macchina si fermò urtando contro il marciapiede di fronte al mio alberguccio. «Non perdere il tuo treno domani» disse lei. «E, dammi ascolto, non tornare a casa; prosegui fino a Roma.» «Non sono sicuro di avere tempo.» Lei mi guardò. «Prenditelo il tempo. Prendilo e basta. Non farti spaventare, tesoro. Poi mi infilò la mano nella tasca della giacca e la luna le circondò i capelli, e il mio cuore impazzì di entusiasmo, picchiandomi contro la camicia, al pensiero che potesse baciarmi. Ma la sua mano si allontanò, e tutto ciò che disse fu:» Salutami Clayton quando arrivi a casa, d'accordo? Perfino avendo perso le gambe e tutto, tuo papà è fortunato, lo sai questo? Io dissi: «Non vedo come.» «Oh, neanche io lo vedevo fin quando non divenni un bel po' più vecchia di te. E i miei dannati suoceri cercarono di gettarmi nella camera a gas. Vai a letto. Arrivederci, Red Clay.» La sua macchina argentea ondeggiò via. Nella mia tasca trovai un grosso rotolo di soldi francesi, abbastanza da farmi arrivare a Roma, e una piccola scatola con il nastrino, chiaramente un regalo che lei aveva deciso di non dare al giovanotto arrabbiato nel bel vestito che era arrivato troppo tardi. Sul velluto nero era posato un orologio da polso da uomo, d'oro rossiccio. È un orologio estremamente bello, e mi dice ancora l'ora, molto tempo dopo che la donatrice è morta. Tornai a casa a Thermopylae soltanto per i funerali. Era il peggior giorno da cani d'agosto quando papà morì nel letto d'ospedale che avevano sistemato accanto a quello grande a baldacchino, suo e di mamma, nella loro stanza da letto. Accanto alla sua tomba, i cumuli d'argilla rossa si seccavano subito in un polveroso colore opaco via via che li spalavamo giù sopra di lui, amico dopo amico, prendendo a turno la pala. I petali cadevano dalle rose afflosciate sulla terra rossa, languide come la folla che stava in piedi accanto alla tomba mentre il reverendo Ballister ci raccontava che Clayton Hayes era "un uomo buono". Dietro il grappolo dei parenti di mamma, vidi una donna in nero allontanarsi e camminare lungo il pendio erboso fino a una macchina, una Mercedes. Dopo la cerimonia andai a fare un giro in macchina, ma non avrei potuto lasciarmi dietro papà nella contea di Devereux. L'uomo alla pompa di benzina elencò le virtù di papà mentre puliva il mio parabrezza. La donna che mi vendette la bottiglia di bourbon disse che lei era stata in debito con papà di 215 dollari dal 1944, e quando glieli aveva restituiti nel 1966 lui si
era dimenticato l'intera faccenda. Guidai lungo la statale dove le fondamenta delle baracche dal tetto di lamiera adesso erano ricoperte dalle aree di parcheggio dei centri commerciali; sotto l'asfalto, da qualche parte, c'era il luogo di nascita di Stella Doyle. Stella Dora Hibble, il primo amore di papà. Oltre i cancelli bianchi, il prato rasato di Red Hills era riarso quanto il resto della contea. La vernice sbollava e squamava sulla grossa colonna bianca. Aspettai a lungo prima che l'attempato uomo nero che avevo conosciuto vent'anni prima aprisse la porta con irritazione. Sentii la voce di lei dal salone ombroso urlare: «Jonas! Fallo entrare.» Sui bianchi scaffali i libri erano gli stessi. Le fotografie sul pianoforte giovani come sempre. Quando entrai nella stanza lei si accigliò molto stranamente; pensai che doveva aspettare qualcun altro, e che non mi avesse riconosciuto. «Sono Buddy Hayes, il figlio di...» «So chi sei.» «L'ho vista andare via dal cimitero...» «So che mi hai vista.» Tirai fuori la bottiglia. Insieme finimmo il bourbon in memoria di papà, mentre le imposte respingevano il sole, nascondevano alcuni dei bicchieri sporchi sparsi sul pavimento, nascondevano Stella Doyle sulla sua poltrona lillà. Bruciature di sigaretta butteravano i braccioli, lasciavano i loro segni sul pavimento di quercia. Dietro di lei il grande ritratto mostrava il Tempo per lo spietato bastardo che è. Solo il colore dei suoi occhi era rimasto lo stesso; sembravano straordinari come sempre, nella faccia gonfia. I suoi capelli erano tagliati corti, e grigi. «Sono venuto quaggiù per portarle qualcosa.» «Cosa?» Le diedi la sottile, economica busta gialla che avevo trovato nella scrivania di papà insieme alle lettere e alle carte speciali. Era indirizzata in un lindo corsivo a matita a "Clayton". Dentro c'era una sciocca cartolina di San Valentino. Betty Boop che si ficcava bonbon nelle labbra sporgenti, esclamando: "Ooooh, io sono dolce con te". Era infantile e lascivo allo stesso tempo, ed era firmata con un'impronta di rossetto, adesso marrone per il tempo e con il nome "Stella", circondato da un cuore. Dissi: «Deve averla conservata fin dalla seconda media.» Lei annuì. «Clayton era un uomo buono.» La sua sigaretta cadde dal po-
sacenere sul pavimento. Quando mi avvicinai per raccoglierla, lei disse: «La bontà è fortuna; come il denaro, come la bellezza. Clayton era fortunato in quel modo.» Andò al pianoforte e prese dell'altro ghiaccio dal secchiello; un cubetto se lo strofinò attorno alla nuca, poi lo fece cadere nel suo bicchiere. Si voltò, gli occhi umidi, come stelle lillà. «Lo sai, a Hollywood, loro dissero: "Hibble?! Che razza di nome provinciale è questo, non possiamo usarlo!". Così io dissi: "Allora usate Doyle". Voglio dire, io presi il nome di Hugh anni prima che lui venisse a prendermi. Perché sapevo che lui sarebbe venuto. Il giorno che me ne andai da Thermopylae lui continuava a gridarmi: "Tu non puoi avere tutti e due!". Continuò a gridarlo mentre l'autobus se ne stava andando. "Tu non puoi avere sia me che quello!" Lui voleva strapparmi il cuore perché partivo, perché volevo andare.» Stella si spostò lungo la curva del pianoforte fino a una fotografia di Hugh Doyle in una bianca camicia aperta, che sorrideva dritto al sole. Lei disse: «Ma io potevo avere entrambi. C'erano soltanto due cose che dovevo avere in questo piccolo mondo, e una era il ruolo principale in un film intitolato Fever e l'altra era Hugh Doyle.» Posò con cura la fotografia. «Io non sapevo del cancro finché i miei avvocati scoprirono che era andato da quel dottore ad Atlanta. Poi è stato facile persuadere la giuria del suicidio.» Mi sorrise. «Be', non facile. Ma gli abbiamo fatto cambiare idea. Penso che tuo papà fosse l'unico uomo in città che non ha mai pensato che io fossi colpevole.» Mi ci volle un po' per assorbirla. «Be', sicuramente lui convinse me» dissi. «Suppongo che abbia convinto un sacco di gente. Tutti stimavano così tanto Clayton.» «Lei ha ucciso suo marito.» Ci guardammo a vicenda, io scossi la testa. «Perché?» Lei scrollò le spalle. «Avemmo una lite. Eravamo ubriachi. Lui andava a letto con la mia fottuta cameriera. Avevo perso la testa. Un mucchio di motivi, nessun motivo. Sicuramente non l'avevo progettato.» «Sicuramente non l'ha neanche confessato.» «A cosa sarebbe servito? Hugh era morto. Non ero disposta a lasciare che la sua boriosa, stronza madre mi spingesse nella camera a gas e si intascasse i soldi.» Scossi la testa. «Gesù. E non ha mai provato un giorno di rimorso, non è così?» La sua testa si inclinò all'indietro, rendendo liscia la sua gola. Il sole
schermato dalle imposte era calato lungo la stanza sul pavimento, e la luce della sera creava una dissolvenza da film trasformando Stella Doyle nella diva del ritratto dietro lei. «Ah piccolo, non crederlo» disse. La stanza rimase silenziosa. Mi alzai in piedi e lasciai cadere la bottiglia vuota nel cestino per la cartastraccia. Dissi: «Papà mi ha raccontato di com'era innamorato di lei.» La sua risata giunse calorosa nonostante l'oscurità delle imposte chiuse. «Sì, e suppongo di essere stata anch'io dolce con lui, bi-bob-di-duu.» «Sì, papà diceva che nessun uomo poteva dire di essere stato vivo se non ti aveva visto e non si era sentito in quel modo. Volevo soltanto dirti che so cosa intendesse dire.» Alzai la mano per salutarla con un cenno. «Vieni qui» disse, e io andai alla sua poltrona e lei si protese e attirò a sé la mia testa e mi baciò intensamente e a lungo sulla bocca. «Arrivederci, Buddy.» Lentamente la sua mano si mosse lungo il mio viso, l'enorme brillante che sfavillava. La notizia arrivò dalla stampa. I giornali popolari ci sguazzarono sopra per qualche giorno nelle pagine interne. Avevano qualche fotografia. Riesumarono le foto del processo Hugh Doyle per metterle accanto alle antiche patinate foto d'arte da teatro di posa. La morte drammatica di una vecchia diva del cinema valse la pena di inviare un fotografo del notiziario giù a Thermopylae, nel North Carolina, per scattare un'istantanea della rovina carbonizzata che una volta era stata Red Hills. Un'istantanea della camera ardente e i fiori sulla bara. Mia sorella mi telefonò che c'era perfino una folla all'inchiesta del medico legale al palazzo di giustizia. Dissero che Stella Doyle era morta nel sonno dopo che il materasso aveva preso fuoco per una sigaretta. Ma giravano voci che il corpo era stato trovato ai piedi delle scale, come se lei avesse cercato di sfuggire alle fiamme ma fosse caduta. Dissero che era ubriaca. La seppellirono accanto a Hugh Doyle nel lotto di famiglia, la tomba più vistosa nel cimitero metodista, non lontano da dove erano sepolti i miei genitori. Non molto tempo dopo la sua morte, uno dei canali televisivi via cavo dedicò una notte ai suoi film. Restai alzato a rivedere Fever. Mia moglie disse: «Buddy, scusa ma questo è il più grosso mucchio di romanticume sentimentale che abbia mai visto. La puttana venderà i suoi gioielli e si procurerà la medicina e loro sconfiggeranno l'epidemia, ma lei morirà per pagare per il suo passato e allora la città vedrà che era davvero una santa. Ho ragione?»
«Hai ragione.» Si mise seduta a guardare per un po'. «Sai, non riesco a decidere se sia un'attrice veramente pessima o veramente brava. È strano.» Io dissi: «In effetti, penso che fosse un'attrice molto migliore di quanto le sia stato riconosciuto.» Mia moglie andò a letto, ma io guardai per tutta la notte. Sedevo nella vecchia sedia a dondolo di papà che avevo portato al Nord con me dopo la sua morte. All'alba finalmente spensi l'apparecchio, e il viso di Stella si dissolse in una stella, e sparì. La ricezione era orribile e lo schermo troppo piccolo. Inoltre, l'ultimo film era in bianco e nero; non potevo vedere i suoi occhi così come li ricordavo, lo shock del loro colore quando si voltò verso di me la prima volta ai piedi delle scale del tribunale, quella calda giornata d'agosto quando avevo dieci anni, quando mio padre fece un passo avanti uscendo dalla folla per prenderle la mano, quando gli occhi di lei erano lillà spuntati sulla sua faccia, e il cappello di paglia di lui nel sole estivo splendeva come l'elmo di un cavaliere. BOBBIE ANN MASON Le ragazze detective si suppone che scoprano segreti, non che li covino. Nessuno dovrebbe saperlo meglio di Nancy Drew, le cui argute avventure in soffitta e gli enigmi di castelli fatiscenti sono stati un banco di prova più che degno per ogni incallito furfante. Ma cosa accade quando il suo universo, la River Heights che vive oltre le accurate pagine della serie così amata da generazioni di donne, comincia a sfilacciarsi un po' ai bordi? Chiaramente, i metodi ben collaudati di Nancy per sconfiggere le forze del male non sono di molta utilità quando si tratta di proteggerla contro il cambiamento e la decadenza e, addirittura peggio, il revisionismo. Chi è Draco S. Wren? E perché sembra così misteriosamente familiare? Come immaginato dall'acclamata scrittrice di romanzi e racconti brevi Bobbie Ann Mason, il cui primo libro fu una storia di ragazze detective d'America intitolato The Girls Sleuths, Nancy Drew è una prigioniera volontaria del suo stesso mito. Ma perfino Nancy alla fine deve riconoscere che i delitti del cuore non consentono casi di rapida soluzione. Citata una volta da Elmore Leonard come la sua scrittrice preferita, Bobbie Ann Mason ha vinto numerosi premi letterari per la sua penetrante narrativa incentrata sulla vita del Sud, incluso il best seller In Country.
Nancy Drew ricorda (Una parodia) «Scriverò le mie memorie» dichiarò Nancy Drew. «Questo dovrebbe far cessare tutti quegli odiosi pettegolezzi.» Per quanto la riguardava, Nancy Drew era ancora la stessa attraente ragazza detective dai capelli dorati che era sempre stata, ma non tutti erano d'accordo. Occasionali commenti a River Heights l'avevano infastidita, e la sua popolarità era in ribasso da quando Draco S. Wren era venuto a vivere con lei. Nancy adesso sapeva di dovere al mondo una spiegazione. Inoltre, i suoi capelli non erano più così dorati. «Comincerò dal punto di svolta della mia carriera» pensò. «Fu molti anni fa, ma lo ricordo bene come quel picnic in cui Bess Marvin rimase intossicata dalla torta di pere.» Si mise seduta al suo scrittoio di quercia intagliata, con il cassetto segreto degli indizi, e cominciò a scrivere la storia di ciò che era successo molti anni prima, quando lei aveva più o meno trentanove anni e la sua pelle era ancora perfetta. UN PIACEVOLE TÈ POMERIDIANO Nancy Drew si sentiva afflitta e frustrata per la prima volta nella sua carriera (decise di scrivere in terza persona perché non era sicura di voler firmare una confessione), sebbene nei libri trionfasse sempre sul male con facilità. I criminali portavano cappelli abbassati sugli occhi e avevano sempre maniere disgustosamente volgari che li rendevano facili da individuare. Ma, ultimamente, sembrava che la sua autrice stesse deviando dalle trame giuste. Quando Nancy leggeva di se stessa impegnata in questa o quella avventura, provava nostalgia per alcuni dei suoi vecchi gialli. «Il mistero dell'amuleto d'avorio, per esempio» si disse. «Quella sì che è stata un'avventura soddisfacente.» Nancy aveva visto la sua spider mutarsi in una decappottabile, e leggeva di suoi improbabili viaggi in aereo. «Ero molto più a mio agio ai vecchi tempi» disse con un sospiro. «La maggior parte dei miei gialli migliori si svolgeva a portata d'auto da River Heights.» Le mancava la sua spider blu. Avrebbe voluto avere un giallo come La parola d'ordine per Larkspur Lane da risolvere, invece del suo attuale problema. Nancy era seduta accanto a un allegro fuoco nel raffinato salotto. Era un
pomeriggio piovoso, e lei era tutta sola. Hannah Gruen era stata chiamata ad assistere la sorella, che era malata. Questo accadeva spesso anche nei libri. Nancy stava lavorando a un ricamo a mezzo punto di un anfibio dell'Artico, ma impulsivamente lo gettò nel suo cestino da lavoro firmato Jane Austen. «È inutile» pensò. «Non avrò pace finché non risolverò il giallo! Anche se nelle mie storie non ci sono omicidi, prima o poi dovrò affrontare il fatto: mio padre è stato assassinato!» Decise di telefonare a Bess Marvin, adesso moglie di Ned Nickerson, paffuta madre di quattro figli. «Oh, ciao, Nancy!» la salutò Bess. «È bello sentirti. River Heights non è più la piccola cittadina di un tempo. Sembra che non ci incontriamo mai.» «Bess, ho bisogno del tuo aiuto» disse Nancy, subito e con fermezza. «Oh, Nancy, sembri di nuovo la vecchia te stessa. Intuisco forse un altro mistero?» «Ho qualcosa da discutere con te. Potrebbe essere il mistero più impegnativo della mia carriera!» Nancy, con il suo consueto fare persuasivo e amichevole, documentato così bene in dozzine dei suoi racconti da investigatrice, ottenne presto da Bess la promessa che avrebbe ingaggiato una baby-sitter e l'avrebbe raggiunta in macchina dal quartiere di Seascape Tower di River Heights. Nancy prese dallo scaffale la copia consumata di L'indizio nel vecchio album. Si ricordava che in quel libro faceva un picnic con Ned Nickerson. Ned le era stato così devoto, ma per come erano andate le cose, preferiva la cucina di Bess. Bess l'aveva sposato quando finalmente lui si era laureato all'Emerson College. Adesso era un allenatore di football e Nancy era ancora in buoni rapporti d'amicizia con lui e Bess. Nancy non nutriva mai rancore. Nancy era stata la ragazza più attraente e popolare che River Heights avesse mai visto, come anche la più indipendente e ingegnosa. Questo perché aveva perso sua madre in tenera età e aveva dovuto mandare avanti da sola la casa, come i libri riportavano sempre fedelmente. E Nancy era abile in tutto ciò che si metteva a fare: scavare buchi per i pali dello steccato, fare l'analisi grammaticale, scuoiare conigli, aggiustare radio, fare merletti. Aveva ottimi voti e le unghie più graziose della sua classe. Sarebbe stata un'abile ragazza pompon se avesse potuto sottrarre del tempo alla sua attività investigativa. «Ma dal momento in cui rimasi coinvolta con quella banda della confraternita universitaria, niente è più stato lo stesso» ricordò Nancy. Preparò
una tazza di tè e poi cominciò a esaminare un piccolo igloo d'avorio sul tavolo accanto a lei. Quando schiacciò casualmente una molla nascosta, una figura dalla faccia sbozzata in un minuscolo giaccone guarnito di pelliccia saltò fuori dall'igloo, molto simile al cucù di un orologio. Nella mano destra stringeva un arpione in miniatura attaccato a una cordicella. Nancy era così nervosa, un fatto che la sorprendeva, che quasi rovesciò il tè, e mentre si destreggiava con la tazza e il piattino, il minuscolo arpione cadde dalla figurina e le punse il dorso della mano sinistra. «Qui qualsiasi lettore abituale si aspetterebbe che sia stata avvelenata» rise tra sé Nancy mentre risistemava arpione e cacciatore. A ogni modo, lei cadde addormentata all'istante e venne svegliata due ore dopo da Bess Nickerson che suonava il campanello della porta. «Cosa è successo, Nancy? Sembri come se ti avessero drogata.» Bess indossava un giaccone con l'orlo di pelliccia, l'ultima moda di River Heights di quell'anno. «Ti ho svegliata?» «Sì, probabilmente sono stata drogata.» Nancy era così abituata a quel trucco usuale, che appena ci badò. «Ecco qui il colpevole.» Esibì il cacciatore nel suo igloo. «Mi rammenta quel soldatino Confederato la cui spada mi punse nel vecchio maniero della signora Struthers.» «Oh, Nancy, ci eravamo così spaventati quando non volevi svegliarti! E io pensai che tuo padre sarebbe morto!» squittì Bess, che ancora squittiva abitualmente. «Be', lo fece» disse Nancy, tetra. «Oh, mi dispiace. Non intendevo dire letteralmente.» Nancy era stata l'assistente di Carson Drew, la sua confidente, la sua figlia prediletta. Lei si era presa cura delle sue cravatte e dei suoi fazzoletti e aveva predisposto i suoi appuntamenti. Lui le aveva affidato i suoi casi misteriosi più importanti. Per alleviare il dolore della sua morte, Nancy si era gettata in svariati passatempi caritatevoli. Aveva vinto la gara di cucina di River Heights e conquistato una coppa dell'amicizia d'argento in un torneo di bowling. In una sola settimana si era assunta un ruolo drammatico quando la prima attrice si era ammalata. Nancy imparò le sue battute in un pomeriggio. Analogamente aveva fatto da sostituta in un numero al trapezio quando un circo si era fermato in città. Ma nessuno di questi diversivi la appagava. Recentemente aveva tirato fuori il suo distintivo d'argento, decisa a riprendere il suo lavoro di detective con rinnovata energia. «Non potremmo sederci e parlare?» chiese Bess. «Devo togliermi questo giaccone bagnato.»
Nancy sistemò il giaccone sull'attaccapanni dell'ingresso e si rifugiarono in salotto, dove i souvenir dei casi di Nancy erano allineati sulla mensola del caminetto: il vecchio orologio, l'urna di Turnbull, la campana di Paul Revere, il cammeo di famiglia e diverse vistose pelli di visone al naturale. La stanza era stata lo scenario di molte confidenze tra Carson Drew e i suoi clienti, e tra padre e figlia. In quella stanza Hannah Gruen aveva servito una quantità di cioccolato e biscotti fatti in casa. Nancy venne direttamente al punto. «Bess, ho ragione di credere che mio padre fu assassinato.» «Nancy!» Bess sembrava sotto shock. «Pensavo che tu avessi abbandonato i gialli.» «I gialli sono il mio destino. E questo qui mi conduce in un territorio nuovo e pericoloso.» «Nancy» fece Bess calorosamente. «Sento che sei davvero troppo assorbita dalla perdita di tuo padre. Non è bene per te. E inoltre, come dici tu, potrebbe essere troppo pericoloso.» «Credo che tu sappia, Bess, che mio padre era tutto per me. Lui era responsabile di quella mia precoce carriera, la gloria, la brillante ragazza detective che seguiva le sue orme. Lui stabilì dei modelli di cui dovevo essere all'altezza, e il conseguente consenso unanime che ricevevo mi spronò a continuare. Non posso smettere ora, Bess. Non posso deludere i miei ammiratori, o me stessa, o la memoria del mio caro padre.» «Capisco cosa intendi» mormorò Bess. «E il giallo più importante della mia carriera adesso si sta schiudendo davanti a me. Ha a che fare con le mie origini.» «Le tue origini!» esclamò Bess, con gli occhi spalancati. «Tu sai che non ho mai conosciuto mia madre» disse Nancy. «Lei morì quando avevi tre anni. Tutti i libri lo dicono.» «Non riesco lo stesso a ricordarla. Papà mi parlava molto poco di lei. Era sempre evasivo. E se fosse ancora viva? E se qualche terribile segreto si celasse nel mio passato? Potrebbe essere stata assassinata o rapita. Potrebbe essere accaduta qualunque cosa. E papà potrebbe avermela tenuta nascosta. Potrebbe esserci una relazione con l'attuale giallo della morte di mio padre.» «E tu credi che lui sia stato assassinato.» Bess rabbrividì. «Oh, Nancy!» «Esattamente. E qui c'è il mio primo indizio.» Con grande aspettativa, Bess esaminò l'igloo d'avorio. «Dove l'hai preso?»
«È arrivato in un pacco il giorno della morte di papà. Nessun mittente. Soltanto un'etichetta sull'igloo: NOME, ALASKA.» Nancy tirò fuori l'involucro d'imballaggio dal suo cassetto segreto degli indizi. Era indirizzato con grosse lettere in stampatello a Carson Drew. Nancy aveva esaminato l'involucro dentro e fuori con la sua lente d'ingrandimento e non aveva trovato alcun indizio. «Che connessione fai, Nancy, tra questo e la morte di tuo padre?» «Non so. Vedi, stava accanto a lui quando lo trovai accasciato, morto, proprio lì dove sei seduta tu, in quel preciso posto, Bess. Non prestai attenzione alla figurina fino a molto tempo dopo, e al principio ero troppo angustiata per immaginare un collegamento.» Nancy mostrò a Bess come il cacciatore di balene si inseriva nell'igloo e saltava fuori come un cucù. Bess indicò la goccia di fluido sulla punta dell'arpione. «È soltanto una droga leggera» disse Nancy sbrigativa. «Ma mio padre potrebbe non essere stato in grado di sopravvivere a una droga leggera. O forse morì per lo shock, per qualche terrore sconosciuto! L'igloo potrebbe avergli rammentato qualcosa. I dottori dichiararono semplicemente un arresto cardiaco. Un verdetto vago.» «Lo notificherai alla polizia?» «No, al momento preferisco di no.» Danny Crew, il capo della polizia che era subentrato al suo vecchio amico McGinnis, non era disposto a dare ascolto a ragazze detective di qualunque età o reputazione, non importa quante copie vendessero. «Dovevo immaginarlo» brontolò Bess. «È più complicato di un mero caso da polizia. È un mistero personale. Ha una dimensione filosofica, si potrebbe dire.» Bess tirò fuori il suo lavoro a maglia e si preparò ad ascoltare. Non aveva mai sentito Nancy inseguire un mistero da un'angolazione così strana. «Bess, tu sei informata che da qualche anno ormai le mie storie non sono state speculari alle avventure della mia vita reale. Sai da te che la tua partecipazione alle mie avventure recenti è andata scemando.» «Be', con i bambini, non ho più tanto tempo per esplorare caverne e inseguire criminali.» «Certamente. Ma anche nelle prime storie ti sei sempre preoccupata più dei rinfreschi che del mistero, così non mi ero aspettata che tu stessi al passo con le avventure. In effetti, con te devo ammettere che ormai vengo a malapena consultata sulle mie avventure. Le storie sono finzioni, scritte
alla maniera delle mie prime imprese. I diritti d'autore sono stati considerevoli, non si può negarlo, ma io me li sono meritati a stento.» Dapprincipio, con l'aiuto di ritagli di giornale e svariati oggetti memorabili del suo repertorio di vecchi indizi, Nancy aveva narrato le sue imprese da adolescente alla sua paziente autrice che raramente interferiva con il racconto. In seguito, le avventure di Nancy furono piene di finali approssimativi. Tanto per cominciare i criminali non confessavano mai subito e le ereditiere raramente la invitavano per il tè nelle loro ville. Secondo Nancy, agli Hardy Boys erano toccate alcune delle avventure migliori. «Che cos'è un mistero, Bess?» chiese Nancy dopo una lunga pausa durante la quale Bess aveva infilato novantanove punti a maglia. «Diamine, tu hai sempre detto che era le coincidenze non rivelate della vita.» In un caso, Nancy aveva incontrato una signora Owen, e quando era arrivata a casa e aveva trovato suo padre che parlava con un signor Owen, Nancy aveva immaginato subito che loro potevano essere un marito e una moglie tragicamente separati. Il signor Owen aveva una faccia triste, come se avesse perso una moglie. E come risultò alla fine, il signore e la signora Owen furono felicemente riuniti da Nancy Drew, che utilizzò la coincidenza a suo insperato vantaggio convincendosi, per giunta, che la vita si combinasse da sé in una serie di coincidenze interconnesse. Queste coincidenze erano le attrattive del giallo che Nancy preferiva. Le facevano correre brividi freddi su e giù per la spina dorsale. «Giustissimo, Bess» disse Nancy mentre rievocava il signore e la signora Owen. «Ma tutte le coincidenze sono dei misteri?» «Non credo, Nancy. Stai forse suggerendo che sarebbe meglio lasciar stare questo mistero?» «Un suggerimento.» «Naturalmente, Nancy, io penso che sarebbe proprio meglio lasciarlo stare. In genere io la penso così.» «Oh, Bess, tu non capisci! Il vero mistero è perché la mia fortuna da investigatrice sia venuta meno. È per questo che ripongo le mie speranze su questo nuovo mistero, a dispetto della sua natura traumatizzante.» Si coprì la faccia con le mani un istante. «Dev'essere l'età» disse. «Io l'ho sempre negato ma entro nella mia decappottabile blu, con il mio vestito blu in tinta, e seguo tracce, incurante del pericolo. Però niente funziona veramente. Tutto è così disordinato. Oh, Bess, i miei gialli sono triti, privi di fascino. Di questi tempi i banditi raramente danno la caccia alla mia decappottabi-
le. Era diverso con la spider.» «Non prendertela, Nancy.» «Ultimamente ho studiato i miei libri, cercando di riuscire a spiegarmelo. I libri mostrano alcune cose in modo molto palese. Tanto per cominciare, alla fine di ogni giallo io mi sentivo sempre vuota e triste perché non avevo ancora iniziato il giallo seguente. Senza un giallo io non ero nulla. È così che mi sono sentita per anni ormai: senza la sfida di un giallo vecchio stile. Ho scorso i libri per vedere se ci sono degli indizi per la morte di mio padre. Potrebbe esserci stata una cospirazione dall'inizio, un tortuoso complotto per distogliermi dal caso con una parvenza di soluzione.» Bess, a disagio per i profondi interrogativi di Nancy, preferì attenersi al giallo originario. «Cos'altro sei venuta a sapere riguardo alla prematura scomparsa di tuo padre?» domandò piena di tatto. «C'è questo igloo d'avorio e il misterioso nome di Draco S. Wren.» «Che strano nome, come un nome in codice. O un vampiro. Chi è?» «Un cliente di mio padre. Papà stava lavorando sul caso quando morì.» «Che cosa sai di lui?» «Vive in Alaska!» «Oh, pensi che abbia qualcosa a che fare con questo cacciatore d'avorio?» Bess palpò pericolosamente la figurina, e si sarebbe punta il dito se Nancy non l'avesse salvata in tempo. «Il suo nome è nell'archivio dei clienti attuali, così lo definisco un cliente» disse Nancy. «Potrebbe essere il contrario, comunque, perché nell'estratto conto di papà ci sono diversi cospicui assegni in favore di Draco S. Wren, una somma di oltre quattromila dollari pagata soltanto quest'anno!» «Nancy, suona come un ricatto!» «Se questa fosse una tipica storia dell'adolescente detective Nancy Drew, adesso saremmo circa al capitolo cinque. Sono stati introdotti due misteri distinti e separati: il mistero della morte di mio padre e il mistero di Draco S. Wren. C'è stato un messaggio misterioso, mezza dozzina di enigmatici indizi sparsi sulla mia strada dal destino, un evento disastroso, un folle inseguimento in macchina (ho avuto dei problemi a trovare un posto per parcheggiare ieri), un'avventura con Bess (salvarti dall'arpione avvelenato) e uno scroscio di temporale.» Nessuno si era mai spiegato perché c'erano così tanti temporali nei libri di Nancy Drew, e così poche scene invernali. «Questo Draco S. Wren sembra un soggetto pericoloso» disse Bess. «Il suo indirizzo è nello schedario, ma non ho deciso che cosa dovrei
farci. Se gli scrivessi, potrei spaventarlo e farlo fuggire. La cosa migliore sarebbe fare un viaggio a Nome, in Alaska, e investigare un po'. Tu e George potreste fare la valigia per domani?» «Veramente, Nancy, non puoi aspettarti ancora che io lasci perdere tutto e ti venga dietro con un così breve preavviso.» «Oh, dimenticavo la prole.» Nancy era mortificata. Si ravvivò. «Possiamo prendere il tè? Hannah ha sfornato un ciambellone con la glassatura all'arancia.» Bess riuscì a stento a dissimulare il lampo famelico del suo sguardo. Durante il rinfresco, servito raffinatamente su una tovaglia ricamata e un vassoio da tè d'argento, Nancy fu pensierosa. Bess si concentrò su diverse fette di ciambellone. Nancy fissava la pioggia incessante fuori della finestra. Era seccante che Bess non potesse lasciare tutto e saltare sulla decappottabile per inseguire un giallo. Distolse lo sguardo dalla finestra. «Bess, questo nuovo giallo dev'essere tenuto segreto al mio club di ammiratori.» «Certamente, Nancy» disse Bess ridestandosi dall'estasi del ciambellone. Mise via il lavoro a maglia e si diresse verso l'attaccapanni. «Adesso devo andare a casa, ma se posso darti un piccolo consiglio fraterno prima di andarmene, in precedenza questo non l'ho mai detto sul serio ma, be', credo proprio che tu non dovresti essere sola.» «Cosa stai cercando di dire, Bess?» chiese Nancy sarcastica. «Lo sai cosa intendo, Nancy» disse Bess confusa. «Sono passati secoli da quando sei stata a un ballo studentesco o a un barbecue con un bel giovanotto. Tu hai bisogno di un ammiratore.» Nancy non era più uscita con qualcuno da quando Ned Nickerson aveva sposato Bess. Essendo fin troppo generosa, Nancy non permise che l'unione avvelenasse la sua amicizia con Bess. Ned era stato utile nei casi in cui Nancy aveva avuto bisogno di qualcuno che si spenzolasse per raccattare un indizio da un'alta fenditura, ma Ned voleva troppo poco dalla vita. Nancy non rispose a Bess. Continuò a fissare fuori della finestra. Bess disse che doveva correre a casa perché la giornata era al termine. I bambini sarebbero stati scalmanati e Ned sarebbe ritornato dal football pronto a divorare un cavallo o due. Bess abbracciò Nancy salutandola e mormorò un messaggio d'incoraggiamento. NANCY ESAMINA GLI SCHEDARI
Il giorno seguente Nancy esaminò gli schedari di suo padre e non trovò nulla di significativo. Frustrata, cominciò a cercare scomparti nascosti nella camera da letto del padre. Era un'esperta in simili ricerche, avendo esplorato molte dimore in cerca di pannelli scorrevoli segreti e nascondigli. I suoi preferiti erano stati in Il segno delle candele ritorte. Nancy rammentò con bramosia la sensazione estatica nello strattonare il piccolo pomello che apriva la nicchia nascosta in una vecchia soffitta che aveva perquisito. La sorprendeva che potesse cercare simili segreti nella sua stessa casa. Quel lavoro le occupò la giornata, tranne un breve intervallo in cui condivise con Hannah Gruen un allettante pranzo con zuppa di granchio, piselli freschi e mousse di limone. Hannah aveva ottant'anni ma cucinava ancora e passava l'aspirapolvere. «Dunque, Nancy» disse lei. «Promettimi che non ti getterai di nuovo nel pericolo.» Nancy non le aveva raccontato i particolari, ma a Hannah non sfuggiva mai nulla. «Non lo farò» promise Nancy. «Quasi desidererei poterlo fare. Non sembra che accada più nulla di eccitante.» Sfogliando la posta, Nancy trovò una copia del certificato di morte di suo padre. Decise di riporlo insieme alle carte importanti in un vecchio album nella cassaforte di suo padre. Aprì l'album, un consumato, lussuoso tomo rosso con le lettere d'oro stampigliate. L'album le rammentava una cassa da morto. All'interno trovò diversi elenchi di nascite, matrimoni e morti. Vi si immerse avidamente. Osservò le nascite e i matrimoni di zie e zii scomparsi da tempo, meravigliandosi che le loro morti ricorressero nella pagina seguente. Non trovò nessuna annotazione della morte di sua madre. Mentre cercava indizi nel vecchio album, squillò il telefono. Nancy si ritrovò a parlare con Draco S. Wren. UNA CHIAMATA URGENTE Erano le nove di mattina quando Nancy telefonò a George Fayne. Il telefono squillò diverse volte, con un suono frenetico. Finalmente George rispose. «George!» strillò Nancy con esuberanza. «Oh, George. Pensavo che tu avessi già impacchettato la tua sacca da ginnastica per la giornata e fossi uscito.» «Stavo saltando giù per le scale quando ho sentito il telefono.»
«Ascolta, George, credo di essere pazza di gioia!» «Urrà, Nancy, questa è una grande notizia. Hai risolto il mistero?» «Te ne ha parlato Bess?» «Bess non sa tenere un segreto, o fare la gnorri» disse George. «Stiamo andando in Alaska?» «No, George. Ascolta... sono innamorata.» «Nancy, tu devi star sognando. Chi è il ragazzo del sogno?» «Draco S. Wren.» «Il tuo uomo del mistero?» «Esattamente.» «Bess non si fida di lui.» «So badare a me stessa» disse Nancy allegramente. «Sono riuscita a tirarmi fuori da impicci pericolosi in precedenza. Ma non c'è alcun pericolo.» «Come l'hai conosciuto?» «È venuto a trovarmi ieri per parlare di qualcosa in relazione a uno dei casi di papà, e mi sono innamorata di lui. È stato del tutto naturale e inevitabile. Lui è assolutamente bello, bello quanto papà, e anche nelle maniere in qualche modo è simile a lui, deciso e taciturno ma caldo e ammiccante al di sotto. Ha un abbigliamento modesto e sorride in modo incantevole. Adora i gialli. Segue con devozione tutti i miei casi.» «È meraviglioso, Nancy. Che aspetto ha?» «Draco S. Wren è di media statura, con i capelli castani. Cammina a passi brevi, frettolosi.» «Una volta hai descritto un borsaiolo alla polizia esattamente in questi termini» disse George. «E la mia vivida descrizione permise alla polizia di pizzicare all'istante il borsaiolo» fece notare Nancy. «Ma Draco S. Wren ha modi squisiti e un sorriso accattivante, difficilmente i connotati di un borsaiolo.» «Grandioso.» «Siamo rimasti in salotto fin quasi alle undici» confessò Nancy. «Hannah ha servito cioccolata fumante e biscotti di melassa fatti in casa che abbiamo mangiato accanto al fuoco. È stato da brividi.» «Hai risolto il giallo?» «Sono venuta a sapere alcune cose. Lui vive davvero in Alaska, e apparentemente riceveva del denaro da papà. Non ha voluto dirmi perché, ma dice che non ha alcuna intenzione di spillare soldi a me.» «Suona ancora misterioso.»
«Ha detto che oggi mi avrebbe raccontato di più. Questo pomeriggio andremo a fare un giro. Non è eccitante?» «È bello che tu non abbia alcun sospetto su di lui.» «Oh, no. Tu sai che con i miei occhi acuti e la mia capacità d'osservazione so giudicare immediatamente le persone.» Improvvisamente Nancy si ricordò qualcosa. «Oh, George, penso di aver già visto questo bell'uomo in precedenza! Lui era al funerale di papà!» «Non dirmelo!» George emise un fischio sommesso. «Credo di averlo intravisto una volta dietro i gigli. Indossava un giubbotto di pelle nero, un cappello a larga tesa e un fazzoletto viola, sì, era proprio lui. Ricordo i suoi luminosi capelli castani. Curioso che non abbia menzionato che era lì. Comunque, mi ha raccontato che lui e papà avevano avuto qualche affare privato in comune e che voleva spiegarmelo, ma gli sarebbe piaciuto conoscermi meglio in modo che potessi fidarmi di lui. Ha degli occhi così fiduciosi, non occhi scuri, penetranti, come li hanno i criminali. Era davvero molto interessato al mio lavoro. Diamine, l'ho intrattenuto con le storie di Nancy Drew fino alle dieci e mezza!» «Hai domandato dell'igloo d'avorio?» «No. Non ancora. Sono sicura che se lo ha spedito lui, non è stato con intenzioni cattive. Gli ho chiesto se sapeva di qualche nemico che mio padre potrebbe aver avuto, e lui non sapeva di nessuno.» «Be', Nancy, visto che non è un vampiro, sarei interessato a conoscere il tuo nuovo amico, ma lui sembra schivo. E sono deluso che non andiamo più in Alaska.» «Lui è misterioso, lo ammetto» disse Nancy. «Sono impaziente di saperne di più, ma sono stata la solita me stessa accorta, preferendo osservare piuttosto che avere fretta. Devo confessare, comunque, che mi sento eccitata come di solito mi capita per i primi cinque indizi di un nuovo giallo!» Nancy rimise a posto il ricevitore del telefono e si abbandonò di nuovo al suo sogno a occhi aperti. George era sempre stato scettico sull'amore. Anche Nancy aveva sprecato pochi pensieri sulle avventure sentimentali. Tutto ciò che aveva interessato Ned era ballare e - Nancy arrossì - rubare un bacio al chiaro di luna. Bess era stata la benvenuta per lui. Ned non si compenetrava minimamente della sua vocazione. Adesso, mentre Hannah e Nancy facevano colazione insieme, Hannah notò l'aria assorta di Nancy. «Hai a malapena toccato cibo, cara» ammonì mentre Nancy piluccava svogliatamente la sua omelette Omaha con le focaccine di mirtilli e marmellata di fragole fatta in casa e burro fresco.
«Non ti lascerai trasportare dall'entusiasmo per quell'uomo del mistero, vero? Se il tuo caro padre fosse vivo...» «Oh, Hannah, adorabile Hannah, io non sono in pericolo. Devo confessare che sono innamorata.» Più Nancy si soffermava sull'argomento, più diventava estatica. Spiegò tutto a Hannah, che comprese, e con le lacrime agli occhi si augurò che la sua figlia adottiva trovasse la felicità che meritava, dal momento che aveva perso i suoi cari genitori. «Hannah» disse Nancy sobriamente. «Tu mi hai raccontato di mia madre quando era viva. Puoi dirmi di più riguardo alla sua morte?» Hannah sembrò allarmata, ma presto si ricompose. «Penso di averti raccontato tutto ciò che ricordo, riguardo alla notte in cui accadde, riguardo al funerale. Tu eri soltanto una cosuccia in un pagliaccetto.» «Ricordo solo che lei mi regalò la mia prima lente d'ingrandimento. Rammento che guardavo la sua faccia attraverso la lente. Il suo sorriso era spaventevole ed enorme, e mi fece ridere.» «Sì. Te la regalò proprio prima di morire. Ricordo che disse: "Prendi questa, Nancy, e usala per assicurare alla giustizia i malfattori. Non lasciarti sfuggire nemmeno un'impronta!". Che glorioso discorso da letto di morte!» «Hannah!» singhiozzò Nancy. «Io sono un'orfana!» «Non prendertela, Nancy» disse Hannah. «Sono un'orfana anch'io.» «Ma tu hai ottant'anni.» «Penso di sì, Nancy, ma c'è sempre un certo vuoto che provi. Io l'ho sentito per lungo tempo.» «Davvero, Hannah?» «Oh, per molti anni.» RIVELAZIONE Draco S. Wren arrivò quel pomeriggio, con il suo fazzoletto viola e i capelli lucenti. Era una figura sensazionale, vestito come un avventuriero uscito dal vecchio West. Portò Nancy a fare un giro su una grossa macchina da turismo, un modello che Nancy riconosceva da uno dei suoi vecchi libri. Lei stava seduta accanto a lui con aria sognante. Per una volta non era al volante, guidando con destrezza la sua macchina veloce mentre famigerati gangster la inseguivano sparandole dietro. La berlina scivolava attraverso la campagna sonnolenta. Lo scenario sembrava antico e bello, come
inviolato dai camion o dal tempo. Nancy pensò di riconoscere la vecchia residenza di Turnbull con la scala nascosta molto, molto tempo fa. Galleggiava su una nuvola, retrocedendo nel proprio passato. L'amabile chiacchierio di Draco S. Wren rammentò a Nancy che era innamorata di questo sconosciuto dagli occhi gentili. Si spinse più vicino allo sconosciuto, sentendo come se un giallo particolarmente enigmatico stesse per risolversi con un eclatante colpo di scena. Alla fine l'auto si fermò accostando davanti a una locanda campestre. «Questa è una sorpresa per te» sorrise Draco S. Wren sistemandosi il fazzoletto. «Forse non sapevi che ci fosse ancora un Lilac Inn» Nancy era emozionata. «È proprio come il vecchio Lilac Inn nel mio giallo! Fu distrutto dal fuoco.» «Questo è un restauro del Lilac Inn originale» disse Draco S. Wren. «Mi è capitato di sentirne parlare questa mattina.» «E i lillà sono in fiore, anche!» C'era un boschetto di lillà, con fiori che variavano dal bianco al viola intenso. Nancy raccontò a Draco S. Wren alcuni fatti e credenze sui lillà, che aveva imparato quando risolveva il giallo dei lillà. «Non vanno confusi con i glicini, che figurano in un altro dei miei gialli.» «I lillà ti si addicono» disse lui mentre inquadrava il suo viso contro lo sfondo dei fiori, bagnati per una recente pioggerella. «Oh, Draco S. Wren!» disse Nancy con le lacrime agli occhi, poi si sentì imbarazzata. Lei era Nancy Drew, l'audace ragazza detective. Doveva essere calma e padrona di sé. Dentro la locanda, Draco S. Wren appuntò un rametto di lillà del centrotavola ai luminosi capelli dorati di Nancy. Arrivò il tè con un carrello di biscotti alla marmellata, lingue di gatto, sfogliatelle di crema charlotte, torta di mandorle, meringhe di noce, dolce di lamponi e altre delizie assortite, in aggiunta a squisiti tramezzini di crema di cetriolo e salmone. «È proprio come nei miei libri!» esclamò Nancy incantata, con un fuggevole pensiero per Bess. «Non è un mistero incantevole e confortante quando la vita va come dovrebbe?» Mentre consumavano allegramente le ghiottonerie, Draco S. Wren cominciò a parlare della seria questione personale che fin qui aveva tenuto nascosta a Nancy. «Sono venuto a consultare la grande Nancy Drew riguardo a un mistero» disse. Il suo anello di zircone gli fece balenare un riflesso sui denti splendenti.
«Tu sei un uomo del mistero» disse Nancy dolcemente. Era lusingata e frastornata. «Nancy, ricordi nulla di tua madre?» Nancy fu allarmata dalla domanda e stimolata dalla coincidenza. «Lei morì quando avevo tre anni. Tutti i libri lo dicono.» «Ne sei sicura?» Il cuore di Nancy ebbe un tuffo. «Non ho mai visto un certificato di morte con i miei occhi. Ma mi hanno raccontato il suo magnifico discorso dal letto di morte. Papà non mi consentì di assistere al funerale.» «Ti sei mai fatta domande su di lei?» «Sì! Proprio questa settimana. Porti notizie di mia madre? Lei è viva dopo tutto?» Nancy batté le mani di gioia. Il gesto era sorprendentemente lontano dal suo carattere. «No, non credo che lo sia, sono spiacente di riferire. Ma c'è qualcosa di enigmatico riguardo alla sua identità. Tu devi applicare le tue capacità investigative a diversi indizi che ho.» L'accenno agli indizi era appetitoso quanto il pan di cannella da tè che Nancy imburrava. Prestò ascolto avidamente. L'atmosfera del Lilac Inn era quasi inebriante. «Cosa diresti, Nancy, se ti raccontassi che tua madre non morì quando avevi tre anni, ma che scappò via nel territorio dell'Alaska?» «Ma non è verosimile. Perché avrebbe dovuto scappare? Aveva una figlia piccola, me, di cui prendersi cura. Noi eravamo una famiglia felice. Perfino allora Hannah Gruen era una domestica fedelissima.» «Tua madre era innamorata di un altro uomo, mi hanno raccontato.» «Ma come poteva essere? Lei era sposata con Carson Drew, mio padre.» Nancy era sinceramente sconcertata. «Ho le prove, da varie registrazioni d'albergo, che lei andò in Alaska per un periodo. E c'è un certo biglietto, scritto sulla sua carta da lettere profumata e col monogramma.» Draco S. Wren esibì una lettera consunta. Il biglietto diceva: "Caro Carson, ti lascio per un altro uomo. Il suo nome è Andy C. Wren. Andiamo in Alaska. Non cercare di raggiungermi. Addio per sempre. Bon-Bon". Nancy riconobbe il soprannome di sua madre. Era senza parole per lo stupore, una rarità. Passò in rassegna le sue imprese. Sua madre aveva potuto incontrare il delitto per mano di Felix Raybolt travestito? Lui era un freddo, scaltro sequestratore. O Alonzo Rugby e Red Busby? Una coppia di codardi. O Tom Stripe. Esaminò il suo repertorio di malfattori. Il bi-
glietto era stato falsificato, senza dubbio. Scassinatori erano entrati spesso in casa Drew cercando di mettere le mani sugli indizi di Nancy. Potevano facilmente aver rubato la carta da lettere col monogramma. «Nancy, vedo che hai indossato il tuo grazioso cappello da riflessione. Sapevo che ti sarebbe piaciuto questo mistero.» La mente di Nancy stava turbinando, mentre metteva rapidamente insieme i fatti. Riuscì a malapena a finire il suo Alaska al forno. «Mangia a sazietà, Nancy. Ce n'è ancora.» Draco S. Wren prese un Alaska al forno e dell'altro tè. «Lascia che ti racconti di una donna chiamata Candy Wren. Tu conosci il nome naturalmente.» Nancy annuì. Chi poteva non conoscere quella famosa personalità? La faccia di Candy Wren un tempo era stata quotidianamente sui giornali. Veniva fotografata con ricchi playboy e nobiluomini. E Candy Wren era una famosa autrice di libri per bambini, come tutti sapevano. «Allora tu sei imparentato con la famosa fu Candy Wren? O fu famosa?» «Era mia madre» disse Draco S. Wren. «Lei frequentava di rado la nostra casa di frontiera in Alaska. Era sempre via a esibirsi in giro con le sue pellicce, e mi lasciava con le bambinaie. Lei anelava alle luci brillanti delle città, ma mi spediva saponette ricordo dagli alberghi. Anche mio padre mi trascurava. C'era di rado, per motivi che presto indovinerai. Io sono cresciuto come un prigioniero virtuale dell'asilo nido, perché faceva troppo freddo per uscire fuori a giocare. L'Alaska era una tundra di cristallo. Desideravo così ardentemente una vera famiglia che decisi di intraprendere la ricerca di una sorella scomparsa da tempo, di cui avevo sentito parlare. Quando ero molto giovane mi avevano raccontato di lei, di quanto fosse bella e intelligente. I suoi capelli dorati mi erano stati descritti così spesso dalle mie balie Inuit che cominciai a confonderla con le principesse delle fiabe. La mia infanzia era così solitaria che promisi a me stesso che se mai avessi trovato questa bella sorella mi sarei preso cura di lei e le avrei dato tutto ciò che possedevo.» «Qual è la tua teoria riguardo alla scomparsa della sorella? È stata forse rapita dalla culla?» Nancy rammentava un caso simile che riguardava dei gemelli. «No. È più complicato. E sono sorpreso che tu non abbia indovinato la soluzione.» «Ricordo che Candy Wren morì in uno strano incidente alcuni anni fa. La tua sorella scomparsa era nell'incidente?» sondò Nancy in cerca di indizi e collegamenti.
«No, sua figlia non era con lei. Candy Wren scomparve al largo della costa del Mediterraneo in seguito alla misteriosa esplosione di una barca. Ahimè, la maggior parte della sua fortuna, e della mia, era con lei. Un piccolo scrigno di gioielli intarsiato.» Nancy rammentò le molte scatole di gioielli perdute che lei aveva recuperato. «Sospetti che tua madre sia ancora viva e che i gioielli siano caduti nelle mani di gente senza scrupoli?» Nancy pensò fugacemente a pirati e isole deserte. «No, Nancy. Io so che lei è morta e che i gioielli sono perduti negli abissi salati. Frammenti della scatola ritrovati alla deriva lungo la costa di Corfù lo hanno provato molto tempo fa.» «Certamente, un diamante incastrato dentro un indocile barracuda non è una coincidenza insondabile» si avventurò Nancy, pensando a una splendida crociera in yacht. «Io non sto cercando di risolvere il giallo dell'esplosione della barca. E i gioielli sono perduti. La mia ricerca è per la sorella scomparsa da tempo. Tu cosa deduci da questi indizi?» Nancy cercò di fare appello a tutte le sue facoltà mentali, tuttavia la sua mente era offuscata. Una volta un pericoloso ricattatore l'aveva messa con le spalle al muro in questo modo, ma lei si era ridestata proprio al momento opportuno. «Pensa al nome Wren, Nancy» disse Draco S. Wren con uno sguardo eloquente. Per un istante, sembrò guardare con malignità. «Candy Wren era tua madre, e deve essere stata imparentata con Andy C. Wren, che prima hai menzionato per un'improbabile unione affettiva.» Nancy parlò lentamente, una piega sulla sua fronte. «Questo è parzialmente esatto. Pensa a questo indizio, Nancy. Tua madre scappò via in Alaska con Andy C. Wren. Andy C. Wren, rivelo adesso, era sposato con mia madre, Candy Wren.» Draco S. Wren fece una pausa, osservando intensamente Nancy. Quando non vide alcun barlume di comprensione nei suoi occhi blu aggiunse: «Wren era il suo nome da sposata. Lei non emigrò in Alaska come una Wren.» Fece di nuovo una pausa, apparentemente per studiare Nancy. Sembrava seccato con lei. Con esasperazione disse: «Ti darò un altro indizio. Il suo soprannome era Bon-Bon.» Sembrò scagliarsi leggermente verso Nancy mentre lo diceva. «Ma sicuramente ti riferisci a una mera coincidenza?» disse Nancy scrollando elegantemente le spalle. «Di certo la mamma non avrebbe... dev'essere stato Bushy Trott!» esclamò all'improvviso, ricordandosi di un
malvivente particolarmente malvagio. «Quel criminale è stato uno spostato per tutta la vita. Quando mi imprigionò in soffitta con quella tarantola dev'essere stato per vendicarsi di ciò che gli avrà fatto mio padre per quello che lui deve aver fatto a mia madre. Potrebbe averla rapita e lasciato il biglietto. Il discorso sul letto di morte era uno stratagemma e un indizio! Mia madre sapeva che io avrei risolto il mistero del suo tragico destino!» Draco S. Wren scagliò le mani per aria. «Ma, Nancy, io ho le prove che lei andò in Alaska perché amava un altro uomo! Ho perfino il conto del minibar di Ivory timbrato dall'Ice Palace Hotel per provarlo!» Nancy sentiva girare le rotelle nella propria mente. «Deve esserci stato un passaggio segreto!» Draco S. Wren sembrò sbalordito dall'osservazione di Nancy. «Be', Nancy, questo scuoterà la tua immaginazione. Ho qui un medaglione contenente una ciocca dei tuoi capelli. Mia madre me lo regalò in uno dei suoi rari passaggi a casa. Avevo tredici anni.» L'importanza del numero tredici non sfuggì a Nancy. La ciocca di capelli era inequivocabilmente bionda. «Allora?» interrogò con noncuranza. Draco S. Wren fissò silenziosamente Nancy negli occhi per diversi lunghi istanti. Tamburellò le dita sul tavolo. «Bon-Bon. Candy. Bon-Bon. Nancy, non capisci che sei tu la mia sorella scomparsa da tempo? Candy Wren era tua madre, anche.» La rivelazione era inconcepibile, per non dire assurda. «Ma mia madre era sposata con Carson Drew» disse Nancy. «E Candy è un nome comune.» «Loro sono la stessa identica persona!» dichiarò trionfante Draco S. Wren, facendo rimbalzare sul tavolo un bonbon al limone. «Candy scappò in Alaska con Andy C. Wren ed ebbe un secondo figlio, me. Non hai indovinato il significato del mio nome?» Nancy distolse lo sguardo. Quando guardò in giro per la stanza, il Lilac Inn sembrò improvvisamente antiquato. I lillà erano scomparsi. «Come può Candy Wren essere mia madre e anche la tua?» domandò distrattamente. «Lei era un'autrice per bambini.» «C'è addirittura di più. Carson Drew, e non Andy C. Wren, era il mio vero padre.» Nancy scosse la sua testa dorata. «Ma tu ti stai riferendo a nient'altro che coincidenze, un'intera serie di coincidenze che, ovviamente, non hanno alcun significato.» Piovose lacrime minacciavano di scoppiare attraverso la nuvola sognante del suo pomeriggio. Il bello sconosciuto davanti a lei era
ancora uno sconosciuto, sebbene forse c'era una somiglianza con suo padre nell'atteggiamento risoluto della sua mascella. Si rammentò che la sua prima impressione l'aveva collegato a suo padre. «Papà mi ha spedito soldi per tutta la vita per la mia educazione» proseguì Draco S. Wren, coccolandosi il suo tè. «Penso che sentisse che alla fine tu avresti scoperto di me, con le tue fantastiche capacità investigative.» «Non ne ho mai avuto neanche il sospetto» piagnucolò Nancy a testa bassa. Le sue doti investigative erano venute meno. Aveva perfino trascurato di portare con sé la sua lente d'ingrandimento. Ma, riprendendosi, si rammentò che le restava un indizio per confutare la bizzarra teoria di questo sconosciuto. «Recentemente hai spedito un pacchetto a mio padre?» domandò in tono accusatorio. «Un pacchetto?» indagò cautamente Draco S. Wren. «Sì, se intendi un piccolo igloo d'avorio.» «Perché lo hai spedito?» «Perché lui era mio padre, e sapevo che lo avrebbe apprezzato. Era un vecchio pezzo da museo, un mirabile oggetto intagliato. Spero che tu l'abbia conservato.» Draco S. Wren si rimpinzò la bocca di biscotti alla marmellata di fragola. Nancy allora informò Draco S. Wren, nel suo tono più controllato, delle sue scoperte sull'igloo d'avorio. Fu il turno di Draco S. Wren a essere mortificato. Insistette che non aveva mai saputo del veleno nell'arpione, ma non ne era sorpreso dal momento che era un pezzo antico e poteva essere stato usato un tempo a scopi malvagi. «Sì» disse Nancy. «Ti rendi conto, naturalmente, che in qualche modo potresti essere ritenuto responsabile della morte di papà, se fossero resi noti i fatti riguardo a quel cacciatore di balene d'avorio nel suo igloo.» Per alcuni istanti sentì di essere tornata vittoriosamente al suo ruolo appropriato: Nancy Drew, ragazza detective. Nancy guardò intensamente Draco S. Wren. «Tu vedi la somiglianza, vero?» disse lui con un ghigno. «Ecco, guarda questo.» Tirò fuori dal suo giubbotto di pelle un album in miniatura e ne estrasse due fotografie sbiadite. «Questa è una mia foto a tre anni. E qui c'è una foto tua a tre anni. Potrebbero essere lo stesso bambino tranne per i tuoi riccioli e merletti.» Nancy fissò incredula le due fotografie. Una mostrava un ragazzino basso e grasso dai capelli scuri, l'altra una ragazzina magra dai capelli dorati.
La somiglianza le sfuggiva, ma non poteva negare la convinzione delle parole di Draco S. Wren. E non c'era alcun dubbio sul fatto che entrambi i giovani nasi erano dei graziosi bottoncini. «Qual è il tuo colore preferito?» disse Nancy timidamente. «Qual è il tuo?» controbatté sfuggente Draco S. Wren. «Il blu.» «Il blu? Diamine, quello è il mio colore preferito!» Nancy fissò a lungo e duramente Draco S. Wren, questo abile sconosciuto che le aveva rubato il cuore. Le sue storie erano assurde ma irrefutabili. L'intuito non le era mai venuto meno, e il suo intuito le diceva ancora che qui c'era un uomo buono e sincero. Draco S. Wren guardò Nancy di rimando. I suoi occhi non erano sicuramente piccoli e lucenti, né scuri e penetranti. Con tono sincero lui disse: «Devo confessare, Nancy, che quando ti ho conosciuta ho desiderato disperatamente che tu non fossi mia sorella, perché mi sarei innamorato di te in un istante.» «E io mi sono innamorata di te» disse Nancy contro ogni sua norma. SOLUZIONE Alla fine, Nancy Drew si piegò al proprio dovere. Promise solennemente di essere fedele e leale verso suo fratello, di avere cura di lui come aveva fatto con suo padre (scegliendo accuratamente i suoi fazzoletti, e regalandogli nuove agende per appuntamenti a Natale) e di rifarsi per la loro infanzia perduta. Nancy promise anche di proteggerlo da qualsiasi eventuale domanda riguardo a un certo ninnolo d'avorio. Raccontò a Bess che il fluido era stato analizzato e si era scoperto che era olio di balena. Nancy lasciò che si sapesse che Draco S. Wren era un fratello scomparso da tempo ma si rifiutò di divulgare i particolari, così la faccenda incoraggiò grossi titoli sui giornali e occasionali pettegolezzi. Qualcuno diceva che Draco S. Wren era un impostore, che falsamente pretendeva una parte dell'eredità di Carson Drew, come il principe impostore in un altro racconto riguardo una scatola di gioielli. Altri sostenevano una storia completamente diversa. Draco S. Wren si trasferì nell'elegante residenza in mattoni a tre piani dei Drew e aprì uno studio legale a River Heights. Nancy continuò a risolvere gialli, aiutando Draco S. Wren nei suoi casi come un tempo aveva assistito suo padre. Nancy continuò a essere la campionessa del suo club di ammiratori, dedicando il suo Occhi aperti ai loro incontri mensili. I suoi
ammiratori più giovani erano fedeli, e lei vendeva un sacco di copie, ma quelli adulti sparlavano alle sue spalle. Ciononostante, i glicini di Nancy continuarono a vincere il primo premio alla mostra floreale anno dopo anno, e lei sfilava ancora nella parata di talenti di River Heights. «Non credo che servirà» disse Nancy con un sospiro quando finì di scrivere. «Ho cercato di raccontare la vera storia della mia vita. Ma la mia vita non è risultata come avrebbe dovuto essere.» Si domandò se avrebbe dovuto menzionare la ragazza di servizio. E il fatto che Draco S. Wren adesso era scomparso prendendosi tutti gli inestimabili souvenir dei suoi gialli. Nancy si sentiva defraudata. Un vero fratello non si sarebbe comportato in quel modo. Adesso pensava che alcuni dei suoi baci fraterni le rammentavano alquanto i baci di Ned Nickerson. E di recente gli occhi di Draco S. Wren avevano cominciato a essere oscuramente penetranti. «Suppongo che con qualche correzione...» si soffermò a meditare. Il vuoto che provava non era lo stesso vuoto che Nancy Drew, ragazza detective, sentiva di solito quando la sua storia giungeva al termine e si domandava quale successivo mistero fosse in serbo per lei. ED McBAIN La storia che segue è vera. Be', non esattamente, ma gli avvenimenti descritti ebbero luogo, e i personaggi sono basati su persone della vita reale. Anche il tempo e i luoghi descritti sono veri, e li riconoscerete dai film di gangster e dai programmi televisivi che avete visto negli anni. Un pezzo su un periodo storico non è il racconto che ci si sarebbe aspettati da Ed McBain, che è meglio noto per le sue serie sull'87° Distretto, e in anni più recenti per i romanzi di successo di Matthew Hope. Ma, sotto il suo vero nome Evan Hunter, l'autore ha al suo credito una vasta gamma di libri, inclusi The Blackboard Jungle, scritto quando aveva solo ventott'anni, Love, Dad, un assortimento di romanzi di fantascienza, libri per bambini, Lizzie, un superbo resoconto narrativo del caso di omicidio di Lizzie Borden, e la sceneggiatura per The Birds di Alfred Hitchcock. Quello che voi non sapevate è che questo scrittore enormemente versatile e popolare iniziò la sua vita professionale come un musicista jazz che sognava una carriera diversa, voleva essere un pittore. Quando uno è nato
con il talento, questo trova semplicemente una maniera di manifestarsi da sé. Evan Hunter è nato con maggior talento di quanto una singola persona meriti! Fuggendo da Legs Mogano e ottone. Brunito e lustro e scintillante sotto le luci verdi sfumate del bar dove uomini e donne sedevano su sgabelli imbottiti e bevevano allo stesso modo. Donne, sì. In un saloon, sì. Sedute al bar, e sedute nei separé di pelle nera che fiancheggiavano la stanza debolmente illuminata. Donne. Che bevevano alcol. Con discrezione, d'accordo, poiché alcolici e bar clandestini erano contro la legge. Prima del proibizionismo, raramente vedevi una donna bere in un saloon. Adesso le vedevi nei bar clandestini per tutta la città. Dove una volta c'erano stati quindicimila bar, adesso c'erano trentaduemila bar clandestini. I fautori del proibizionismo non avevano previsto questi effetti collaterali del 18° Emendamento. Il bar clandestino si chiamava The Brothers Three, da Bruno Tataglia e i suoi fratelli Angelo e Mickey. Era situato appena fuori della 3a Avenue sull'87a Strada, in una zona della città chiamata Yorkville dal Duca di York. Noi eravamo qui a festeggiare. Mia nonna possedeva una catena di negozi di lingerie che lei chiamava "Slipperie" e quel giorno c'era stata la grande inaugurazione del terzo negozio. Con noi c'era il suo fidanzato Vinnie, e anche Dominique Lefèvre, che lavorava per lei nel secondo negozio, quello sulla Lexington Avenue. Ci sarebbero stati anche i miei genitori, ma erano rimasti uccisi in un incidente d'auto mentre io ero all'estero. Nell'altra stanza, la band suonava Ja-Da, un motivo degli anni della guerra. Stavamo bevendo tutti da tazze da caffè. Nelle tazze c'era qualcosa di molto marrone e dal sapore pessimo, ma non era caffè. Dominique sorrideva. Mi venne in mente che forse stava sorridendo a me. Dominique aveva ventotto anni, una splendida donna dagli occhi e dai capelli scuri, alta e snella e profondamente desiderabile. Nativa della Francia, era venuta in America da vedova poco dopo la fine della guerra; suo marito era stato ucciso tre giorni prima che tacessero i cannoni. Un giorno, solo con lei nel negozio di mia nonna, Dominique stava ripiegando mutandine di seta, io ero seduto su uno sgabello di fronte al banco, guardandola, e lei mi raccontò che disperava di poter mai trovare un altro uomo meravi-
glioso come suo marito. «Sono stata depredata, n'est ce-pas?» disse. Adoravo il suo accento francese. Le raccontai che anch'io avevo subito delle perdite nella mia vita. E così, come cauti estranei timorosi perfino che i nostri sguardi si incontrassero, avevamo schivato le possibilità inerenti la nostra occasionale vicinanza. Ma adesso... il suo sorriso. The Brothers Three era molto affollato quella sera. Un sacco di fumo e di risate e il suono di un'orchestra di quattro elementi che veniva dall'altra stanza. Piano, batteria, sax alto e tromba. C'era una pista da ballo nell'altra stanza. Mi domandavo se avrei dovuto chiedere a Dominique di ballare. Non avevo mai ballato con lei. Cercai di rammentare quando avevo ballato con qualcuno l'ultima volta. Ero zoppicante, sì. E una ragazza francese mi sussurrava all'orecchio, questo dopo che ero uscito dall'ospedale poco dopo che venne firmato l'armistizio, a Parigi una ragazza francese mi sussurrava che trovava molto sexy un uomo leggermente claudicante. «Je trouve très séduisante» disse lei «une claudication légère.» Aveva delle belle poitrines, ma non sono sicuro che le credetti. Penso che facesse solo la gentile con un pivello che era stato colpito al piede durante il combattimento intorno al Bois des Loges in una brutta giornata di novembre. Io lo trovavo in qualche modo umiliante, che mi avessero sparato al piede. Non sembrava molto eroico essere stato colpito al piede. Non zoppicavo più, ma avevo ancora la sensazione che certi pensassero che mi fossi sparato da me nel maledetto piede. Per squagliarmela dalla 78a Divisione o cose del genere. Come se un simile pensiero mi fosse mai passato per la mente. Dominique continuava a sorridermi. Da alticcia. Immaginai che avesse preso troppo caffè. Quella sera era vestita rigorosamente di nero. Un semplice satin nero, aderente in controluce, a schiena nuda, la scollatura quadrata e adorna di perle, la vita bassa, l'orlo che cadeva a mezza coscia dove otto centimetri di carne bianca separavano il vestito dall'estremità delle calze chiare di seta. Stava fumando. Come facevano Vinnie e mia nonna. Fumare aveva qualcosa a che fare col bere. Se bevevi, fumavi. Sembrava funzionasse così. Dominique continuava a bere e a fumare e a sorridermi. Io sorridevo di rimando. Mia nonna ordinò un altro giro.
Lei stava bevendo Manhattan. Dominique beveva Martini. Vinnie qualcosa chiamato "Between the Sheets", che era un terzo di brandy, un terzo di Cointreau, un terzo di rhum e una spruzzata di succo di limone. Io stavo bevendo un "Tocca Seno". Erano tutti cocktail, una nuova parola americana inventata quando bere diventò illegale. Cocktail. Nell'altra stanza, una doppia rullata e un solido colpo di grancassa conclusero la canzone. Ci fu uno scroscio di applausi, una lieve pausa sospesa, e poi il sax alto si librò nel motivo d'apertura di una lenta, triste e blueseggiante esecuzione di Who's Sorry Now? «Richard?» disse Dominique, e inarcò un sopracciglio. «Non vorresti invitarmi a ballare?» Lei era senz'altro la donna più bella nella sala. Occhi truccati con il mascara nero, labbra e guance dipinte del colore di tutti quei papaveri che avevo visto crescere nei campi in lungo e largo per tutta la Francia. I capelli neri tagliati alla garçonne, il profumo di mimosa che aleggiava attraverso il tavolo. «Richard?» La sua voce una carezza. Sax alto che chiamava melanconicamente dalla stanza accanto. Fumo che turbinava come la nebbia levatasi dalle banchine il giorno in cui sbarcammo laggiù. Eravamo tornati adesso perché laggiù era finita. E io non zoppicavo più. E Dominique mi stava chiedendo di ballare. «Vai a ballare con lei» disse mia nonna. «Sì, vieni» disse Dominique, e spense la sigaretta. Alzandosi, sgusciò dal sedile accanto a mia nonna, che salvò il suo Manhattan accostandoselo al seno protettivo, e poi mi fece l'occhiolino come per dire: "Questi sono tempi nuovi, Richie, noi abbiamo il voto ora, possiamo bere e possiamo fumare, va tutto bene oggigiorno, Richie. Vai a ballare con Dominique". Questo sembrava dire la strizzatina d'occhi di mia nonna. Presi la mano di Dominique. Insieme, mano nella mano, ci muovemmo verso l'altra stanza. «Adoro questa canzone» disse Dominique, e mi serrò la mano. Nell'altra stanza c'erano tavolini tondi con tovaglie bianche che abbracciavano una pista da ballo di parquet a mezzaluna, lucidissima. Le luci erano più soffuse in questa parte del club, forse perché il fox-trot era un ballo nuovo che incoraggiava guancia a guancia e mani sul sedere. Un terzetto, un bell'uomo in smoking e due donne in lungo, sedeva a un tavolo con Bruno Tataglia. Bruno era chino sul tavolo, in conversazione chiaramente
ossequiosa con l'uomo di bell'aspetto i cui occhi continuavano a vagliare donne sulla pista da ballo anche se c'erano una splendida donna seduta alla sua sinistra e un'altra alla sua destra. Entrambe indossavano abiti lunghi di raso bianco e avevano capelli violacei. Avevo sentito di donne che portavano parrucche arancioni, o rosse, o verdi o addirittura viola quando uscivano in città, ma questa era la prima volta che ne vedevo effettivamente una. Due, per la verità. Mi domandai come sarebbe stata Dominique con una parrucca viola. «Dominique?» La voce di Bruno. Lui si alzò quando arrivammo accanto al tavolo, le prese il gomito e disse all'uomo in smoking: «Signor Noland, vorrei presentarle la bella Dominique.» «Piacere» disse il signor Noland. Dominique fece cenno col capo, educatamente. «E Richie» aggiunse Bruno come ripensandoci. «Felice di conoscerla» dissi io. Gli occhi del signor Noland erano su Dominique. «Non volete unirvi a noi?» domandò. «Grazie, ma stiamo per ballare» disse Dominique, e mi prese di nuovo la mano per guidarmi fuori sulla pista. La tenni stretta. Cominciammo a ondeggiare a tempo con la musica. La tromba stava inserendo una sordina. Il piano si addolcì accompagnandola nel suo assolo. Ottone liquido. La mano sinistra di Dominique risalì fino al dorso del mio collo. «Balli bene» disse. «Grazie.» «Ti duole mai? Il tuo piede?» «Quando piove» dissi. «È stata terribile, la guerra?» domandò. «Sì» risposi. Non mi andava molto di parlarne. Con dolcezza la pilotai lontano dal cerchio dei tavoli verso il palco dell'orchestra, volteggiando leggiadramente oltre il tavolino dove Bruno sorrideva untuoso al signor Noland e alle sue due bambole bionde. Gli occhi del signor Noland incontrarono i miei. Un brivido mi corse su per la spina dorsale.
Non avevo mai visto occhi come quelli in vita mia. Nemmeno sul campo di battaglia. Nemmeno in uomini ansiosi di uccidermi. Dominique e io scivolammo sul pavimento di parquet. Lasciandoci trasportare, sospinti dal suono attutito della tromba. Ci fu un colpetto leggero sulla mia spalla. Mi voltai. Il signor Noland era in piedi poco dietro di me, leggermente alla mia destra, con la mano posata sulla mia spalla. «Subentro io» disse. E la mano si strinse sulla mia spalla, lui mi allontanò da Dominique, la mia mano sinistra che ancora tratteneva la destra di lei, e poi avanzò nel cerchio che la sua intrusione aveva aperto, cingendo la vita di Dominique con il braccio destro e spingendomi completamente fuori con la spalla. Goffamente mi allontanai dalla pista da ballo e restai in piedi nel mezzo dell'arcata che divideva le due stanze, sentendomi in qualche modo imbarazzato e inadeguato, osservando impotente mentre il signor Noland attirava Dominique più vicino a sé. Al tavolo che aveva appena lasciato libero le due donne se la stavano ridendo con Bruno. Attraversai l'arco e tornai nella sala con i separé di pelle nera e gli sgabelli da bar di pelle nera. Mia nonna alzò il suo Manhattan verso di me per un brindisi. Le feci un cenno col capo e sorrisi, poi mi mossi verso il bar dove Mickey Tataglia sedeva in affabile conversazione con una rossa, con la capigliatura a zazzera scompigliata dal vento e un liquido vestito verde del colore dei suoi occhi. Lui le teneva la mano sul ginocchio inguainato di seta. Lei aveva in mano, lo giuro su Dio, un lungo bocchino che la rendeva identica a una delle maschiette di Held sulle copertine di Life. Era la serata dei primati. Non avevo mai visto due donne con parrucche viola, e non avevo mai visto una donna con un bocchino come questo. Non avevo nemmeno mai danzato con Dominique; cose che capitano. Quando presi lo sgabello alla sua sinistra, Mickey stava raccontando alla rossa la totalità delle sue esperienze di guerra. Suo fratello Angelo era dietro il bancone, a riempire tazze da caffè con alcolici. Gli dissi che volevo un Tocca Seno. «Che roba è un Tocca Seno?» chiese lui. «Non ne ho la minima idea» dissi. «Il nostro cameriere mi ha chiesto se ne volevo uno, io ho detto di sì e lui me l'ha portato.» «Cosa c'è dentro?»
«Mickey» dissi «cosa c'è in un Tocca Seno?» «A proposito di allupati!» si intromise la rossa, e roteò gli occhi. «Stai chiedendo cosa ci metterei io in un Tocca Seno?» precisò Mickey. «Se dovessi fare un simile drink?» «Chi è questa persona con cui stai parlando?» domandò la rossa. «Un mio amico» disse Mickey. «Questa è Maxie» e le strizzò il ginocchio. «Come va?» dissi io. «Questo è Richie» disse lui. «Intimo per Richard» dissi. «Il mio sta per Maxine» disse Maxie. Nell'altra stanza, l'orchestra cominciò a suonare Mexicali Rose. «Se vuoi un Dolce Seno, devi dirmi cosa c'è dentro» disse Angelo. «Tocca Seno» dissi io. «Quello che sia» disse Angelo. «Devo sapere gli ingredienti.» «Latte di mamma, per cominciare» disse Mickey. «Tu sei allupato quanto lui» rimproverò Maxie, roteando gli occhi verso di me e schiaffeggiando scherzosamente la mano di Mickey, che stava lavorando più addentro nel suo ginocchio. «Corretto con gin e chiara d'uovo» dissi io. «Schifo» disse Maxie. «E guarnito con una ciliegina» disse Mickey. «Doppio schifo» disse Maxie. «Non abbiamo latte di mamma» disse Angelo. «Allora prenderò un Rock V Rye» dissi io. «Io prenderò un altro di questi, qualunque cosa sia» disse Mickey. «Idem» disse Maxie. «Tenete la postazione» disse Mickey, scendendo dallo sgabello. «Devo far visita al bagno.» Lo osservai mentre si dirigeva verso la toilette. Si fermò al tavolo di mia nonna, le piantò un rumoroso bacio sulla guancia e poi proseguì. «È stato davvero un eroe di guerra?» mi chiese Maxie. «Oh, certo» dissi. «Ha fatto la battaglia di...» «Tieni le tue dannate mani lontano da me!» gridò Dominique dalla pista da ballo. Schizzai da quello sgabello come se avessi sentito il fischio di una granata d'artiglieria in arrivo sulla mia testa. Giù da quello sgabello e di corsa verso l'arco argentato oltre il quale c'erano i tavolini con le loro tovaglie
bianche e la lucida pista da ballo di parquet, e Dominique nel suo corto vestito nero, che cercava di liberare la mano destra da... «Lasciami andare!» «No.» Un sorriso sulla faccia del signor Noland. La sua mano serrata attorno al sottile polso di lei. Forse lui non vedeva i suoi occhi. Forse era troppo occupato a ricavare una grossa carica da questa snella, splendida donna che cercava di districarsi dalla sua possente presa. «Maledetto!» disse lei. «Lascia andare o io...» «Sì, piccola, cos'è che farai?» Lei non gli disse cosa avrebbe fatto. Semplicemente, lo fece. Torse il corpo sulla sinistra, mentre il braccio ruotava completamente all'indietro e poi di nuovo in avanti con tutta la forza della spalla dietro. La massa del suo pugno sinistro cozzò contro la guancia destra del signor Noland, appena sotto l'occhio, e lui si toccò l'occhio, e si guardò la punta delle dita come se si aspettasse il sangue, e poi molto sommessamente e minacciosamente disse: «Adesso ti farai male, piccola.» Certa gente non impara mai. Lui l'aveva chiamata "piccola" una volta, ed era stato un brutto sbaglio, così quello che aveva appena fatto, chiamarla "piccola" di nuovo, fu uno sbaglio ancora più grande. Dominique annuì seccamente, il cenno del capo che diceva "D'accordo, benissimo" e poi lo assalì con entrambe le mani, le unghie che gli solcavano la faccia di tracce sanguinanti da appena sotto gli occhi, che ritengo avesse preso di mira, giù fino alla mandibola. Il signor Noland la colpì con un pugno. Forte. Io urlai come avevo urlato attraversando la Marna. Gli fui addosso in dieci secondi netti, il tempo che ci volle a correre attraverso quell'arco e catapultarsi oltre la pista da ballo, il tempo che ci volle per stringere i pugni e colpirlo prima con il sinistro e poi con il destro, bam-bam, un uno-due vigoroso allo stomaco e alla mascella che lo spedì barcollante lontano da me. Lui si sfregò la mascella con stupore. Le mani si portarono via il sangue dei graffi di Dominique. Lui guardò il sangue con stupore, anche. E poi guardò con stupore me, quasi cercasse di capire come aveva fatto un pazzo a introdursi in questo civilizzato bar clandestino. Non disse una parola. Guardava semplicemente, sorpreso e triste e sanguinante, scuotendo la testa come se si domandasse perché mai il mon-
do si fosse fatto così marcio tutto in una volta. E dopo, bruscamente, smise di scuotere la testa e tirò fuori una pistola dalla fondina sotto lo smoking. Di punto in bianco. Zàcchete. Un istante niente pistola. L'istante dopo, una pistola. Dominique si sfilò una delle scarpe coi tacchi alti. Quando lei sollevò la gamba, il signor Noland lanciò un'occhiata sotto la gonna alle sue mutandine, mutandine nere di seta della linea "Scirocco" di mia nonna, quattro dollari e novantotto centesimi alla cassa di uno qualunque dei suoi negozi. Il signor Noland doveva aver realizzato cosa Dominique stava per fare con la scarpa. Quello che stava per fare era colpirlo sul lato della testa. E fu probabilmente per questo che lui puntò la pistola dritta al cuore di lei. Io feci la sola cosa che potessi fare. In reazione, il signor Noland mugghiò di rabbia e si piegò in due dal dolore, le mani afferrate convulsamente all'inguine, le ginocchia strette come se dovesse pisciare con molta urgenza, e poi cadde sul pavimento e giacque lì contorcendosi e gemendo mentre tutt'intorno a lui c'erano ballerini completamente stupefatti. Bruno si precipitò subito da lui e gli si inginocchiò accanto, le mani svolazzanti. «Oh Dio, signor Noland» diceva «mi dispiace tanto, signor Noland» e il signor Noland cercò di dire qualcosa, ma era tutto rosso in faccia e con gli occhi di fuori e tutto ciò che emise fu una sorta di mugolio soffocato, e a quel punto una delle donne con i capelli viola arrivò di corsa e chiese: «Legs? Devo chiamare un dottore?» Allora afferrai la mano di Dominique e cominciai a correre. «Un contrabbandiere, un trafficante di droga, un rapinatore e un amico fidato di un gangster ancora più grosso chiamato Little Augie Orgen, ecco chi è Legs Diamond.» Tutto ciò da Mickey Tataglia, che ci spronava attraverso gallerie sotto il club, schiacciando bottoni che aprivano porte verso altri tunnel pieni zeppi di alcol fatto entrare di contrabbando dal Canada. «Possiede anche un bar clandestino a un secondo piano a Broadway, chiamato "Hotsy Totsy Club", tra la 54a e la 55a Strada, ecco chi è Legs Diamond. Avete fatto una cosa stupida, tutti e due. Sapete chi ha organizzato l'assassinio di Jack il Corriere?» «Chi è Jack il Corriere?» chiese Dominique. Tacchi alti ticchettanti, lunghe gambe che sfrecciavano attraverso polve-
rosi tunnel sotterranei imbottiti di casse e casse di alcol illegale. Mickey camminava svelto davanti a noi, facendo strada, spazzando via ragnatele che pendevano da travetti lungo i quali zampettavano topi. «Jack il Corriere» disse lui con impazienza. «Alias Kid Corriere, il cui vero nome è Nathan Kaplan che, tutti e tre quanti era, è stato ammazzato da Louis Kushner in una trappola preparata dai Diamonds.» «I Diamonds» dissi io. «Legs Diamond» disse Mickey. «Alias Jack Diamond, alias John Higgins, alias John Hart, il cui vero nome è John Thomas Noland, che, tutti e cinque insieme, non sarà contento di essere preso a calci nelle palle da un fottuto idiota che si è sparato al piede.» «Richard non si è sparato al piede» disse Dominique con veemenza. «Sono sicuro che i Diamonds ne terranno conto quando vi ucciderà entrambi. O se non lui, uno dei suoi scimmioni. Diamonds ha un sacco di gente simile sul suo libro paga, auguro a tutti e due un sacco di fortuna» disse lui, e schiacciò un altro bottone. Una parete si aprì ruotando. Al di là c'era un vicolo. «Siete sull'88a Strada» disse Mickey. Uscimmo in un buio crepuscolo. Mickey schiacciò di nuovo il bottone. La porta si chiuse dietro noi. Cominciammo a correre. Arrivammo alla Penn Station alle 20,33, e scoprimmo che un treno partiva per Chattanooga, nel Tennessee, esattamente sette minuti dopo. Ci costò ulteriori dodici dollari a testa per un vagone letto, ma pensammo che ne valesse la pena. Non volevamo restare seduti allo scoperto se uno dei gorilla di Diamond decideva di controllare i treni che lasciavano la città. Un vagone letto aveva finestre con tendine e tapparelle. Un vagone letto aveva una porta con un lucchetto. Il treno era della Crescent Limited, e fermava a Philadelphia, Baltimora, Washington D.C., Charlottesville, Spartansburg, Greenville e Atlanta, prima dell'arrivo previsto a Chattanooga alle 20,10 della sera dopo. Ritenemmo che Chattanooga fosse abbastanza lontano. La tariffa complessiva di sola andata fu di 41,29 dollari a testa. La partenza del treno era prevista per le 20,40. Un facchino nero portò le nostre valigie nello scompartimento, ci disse che avrebbe rifatto le cuccette quando noi avessimo voluto, e poi domandò
se fossimo interessati a qualche tipo di bevanda prima di ritirarci. Il "qualche tipo di bevanda" suonava come un codice, ma io volli assicurarmene. «Che genere di bevanda ha in mente?» domandai. «Qualsiasi genere di bevanda possa soddisfare il suo gusto» disse lui. «E che genere di bevanda potrebbe essere?» «Be', ehm» fece lui «abbiamo caffè, tè e latte...» «Oh-oh.» «E un ampio assortimento di bevande analcoliche» disse lui, e strizzò l'occhio così smaccatamente che qualunque agente del Proibizionismo che gironzolasse nei paraggi l'avrebbe arrestato in forza della sua sola strizzatina d'occhi. Dominique immediatamente tirò su la gonna, prese una fiaschetta d'argento infilata nella giarrettiera e chiese al facchino di riempirla con qualunque genere di bevanda analcolica incolore, per favore. Io sfilai la mia fiaschetta dalla tasca posteriore e gli dissi che avrei preso lo stesso. Lui sapeva che volevamo entrambi del gin. O il suo vago equivalente. «Verrà venti dollari a testa per riempire queste fiaschette qui» disse lui. «Avremo bisogno di un po' di occorrente per la preparazione, anche» dissi, e tirai fuori il portafogli e gli passai tre banconote da venti dollari. Lui uscì dallo scompartimento e tornò circa dieci minuti dopo, portando un vassoio sul quale c'era un sifone del seltz, due bicchieri alti, una ciotola di ghiaccio tritato, un limone su un piattino, un coltello per sbucciare, e dieci dollari di resto dei sessanta che gli avevo dato. Posò il vassoio sul tavolino tra i due sedili uno di fronte a l'altro, si tolse le due fiaschette piene dalle tasche laterali della giacca bianca, mise anche quelle sul tavolino, chiese se ci fosse nient'altro di cui avessimo bisogno e poi ci disse di nuovo che avrebbe preparato le cuccette in qualunque momento fossimo dell'idea di ritirarci. Dominique disse che forse avrebbe dovuto rifarle adesso. Io la guardai. «No?» disse lei. «No, va bene» feci io. «Posso rifarle adesso, allora?» chiese il facchino. «Prego» accennò Dominique. Il facchino sorrise largamente; sospettai che volesse togliersi il pensiero dei letti da rifare, così da assicurarsi una bella notte di sonno anche lui. Uscimmo in corridoio, lasciandolo al suo lavoro. Dominique guardò il suo orologio. Io guardai il mio.
Erano già le nove meno dieci. «Sono davvero terrorizzata» disse lei. «Io pure.» «Tu?» Respinse l'idea con un cenno della mano. «Tu sei stato in guerra.» «Eppure» dissi io, e scrollai le spalle. Lei non ne sapeva di guerre. Dentro lo scompartimento, il facchino lavorava in silenzio. «Perché ancora non partiamo?» chiese Dominique. Guardai di nuovo il mio orologio. «Ecco fatto, ehm» borbottò il facchino, uscendo nel corridoio. «Grazie» dissi io e gli diedi due dollari di mancia. «'Notte, ehm» fece lui, toccandosi la punta del cappello «signora, dormite bene, tutti e due.» Tornammo nello scompartimento. Lui aveva lasciato aperto il tavolino pieghevole perché sapeva che avremmo bevuto, ma i sedili sui due lati dello scompartimento adesso erano sistemati come due lettucci con cuscini e lenzuola e coperte. Io chiusi e misi il paletto alla porta dietro noi. «Hai messo il paletto?» chiese Dominique. Stava già mettendo ghiaccio col cucchiaio nei bicchieri, dandomi la schiena. «L'ho messo» dissi. «Dimmi quanto» domandò lei e cominciò a versare da una fiaschetta. «Basta così.» «Io ne voglio uno bello forte» disse lei, versando pesantemente nell'altro bicchiere. «Devo affettare questo limone?» «Per favore» fece lei e si sedette sul letto sul lato anteriore dello scompartimento. Io mi accomodai su quello di fronte. Lei prese il sifone, spruzzò un po' di soda in ciascuno dei bicchieri. Le sue gambe erano lievemente dischiuse. La gonna le stava salendo sulle cosce. Calze di seta arrotolate. Giarrettiera sulla gamba destra dov'era stata la fiaschetta. Aprii il limone, lo divisi in quattro, spremetti un po' di succo nel suo bicchiere, lasciandoci cadere dentro lo spicchio di limone spremuto. Sollevai il mio bicchiere. «Pas de citron pour toi?» chiese lei. «Non mi piace il limone.» «Avrà un sapore pessimo senza limone» disse lei. «Non voglio sciupare l'aroma del premium gin» precisai. Dominique rise.
«À votre santé» dissi io, e feci tintinnare il mio bicchiere contro il suo. Bevemmo entrambi. Andò giù come fuoco liquido. «Gesù!» esclamai. «Uaauuh!» fece lei. «Penso che diventerò cieco!» «Non è una cosa con cui scherzare.» Il treno cominciò ad ansare e sbuffare. «Stiamo partendo?» chiese lei. «Enfin» dissi io. «Enfin, d'accord» ripeté lei ed emise un sospiro di sollievo. Il treno si mosse. Pensai al treno che ci aveva portato da Calais al fronte. «Ora possiamo rilassarci» disse lei. Annuii. «Pensi che ci spedirà dietro qualcuno?» «Dipende da quanto è pazzo.» «Io penso che sia molto pazzo.» «Io pure.» «Allora manderà qualcuno.» «Forse.» Dominique tirò indietro le tende del finestrino e sollevò la tapparella. Adesso eravamo fuori della galleria, già nella notte. C'erano stelle in cielo. Niente luna. «Meglio semplicemente sorseggiare questa roba» dissi. «Altrimenti...» «Ah, oui, bien sûr» disse lei. Sorseggiammo il gin. Ora il treno procedeva velocemente, sfrecciando verso sud nella notte. «Così hai imparato un po' di francese laggiù» disse lei. «Un poco.» «Be'... à votre santé... enfin... un bel po' di francese, no?» «Solo abbastanza per cavarsela.» Stavo pensando al tedesco che ci aveva scambiato per truppe francesi e ci aveva implorato in un francese stentato di risparmiargli la vita. Pensavo al suo cranio che esplodeva quando il nostro sergente di pattuglia aprì il fuoco. «Questo si apprezza sempre di più, vero?» domandai. «In effetti, penso che sia davvero buono» rispose lei. «Penso che potrebbe perfino essere vero gin.»
«Forse» feci io, dubbioso. Lei mi guardò da sopra il bicchiere. «Forse la prossima volta che c'è una guerra, non dovrai andarci» disse. «Perché sono stato ferito, intendi?» «Sì.» «Forse.» Il treno correva attraverso la notte. La campagna del New Jersey balenava nell'oscurità. Fili del telefono si tuffavano in picchiata tra i pali. «Dicono che ci sono trenta pali del telefono per ogni miglio» dissi. «Vraiment?» «Be', questo è ciò che dicono.» «Spegni le luci» disse lei. «Sembrerà più bello fuori.» Spensi le luci. «E apri la finestra, per favore. Sarà più fresco.» Cercai di tirare su un finestrino, ma non voleva smuoversi. Alla fine riuscii a tirar su l'altro. Aria fresca affluì nello scompartimento. C'era l'odore di fumo del motore, su in testa, lapilli e fuliggine sulla notte. «Ahhh, sì» fece lei, e sospirò profondamente. Fuori, il mondo sfrecciava oltre. Sedevamo sorseggiando il gin, osservando le luci lontane. «Pensi che i Diamonds ci faranno uccidere?» «Il signor Diamond» sottolineai io. «Singolare. Legs Diamond.» «Mi domando perché lo chiamino Legs.» «Non lo so.» Lei tacque. Fissando attraverso il finestrino. Viso di profilo. Toccato soltanto dal brillio delle stelle. «Adoro il suono delle ruote» disse lei, e sospirò ancora. «I treni sono così tristi.» Io stavo pensando la stessa identica cosa. «Mi sta venendo sonno, e a te?» chiese lei. «Un po'.» «Penso che mi preparerò per andare a letto.» «Vado fuori» dissi, e feci per alzarmi in piedi. «No, stai. È buio.» Si alzò, si protese verso la reticella sopra la testa e tirò giù la sua valigia. Fece scattare le serrature e sollevò il coperchio. Allungò le braccia dietro di sé, poi, e aprì i bottoni del suo vestito e se lo sfilò da sopra la testa. Girai gli occhi, verso il finestrino.
Stavamo attraversando una distesa di terreno agricolo, luci soltanto a grande distanza, niente vicino ai binari. Il finestrino chiuso rifletteva Dominique nella biancheria intima serie "Maschietta civettuola" di mia nonna, calze di seta arrotolate con la cucitura nera, reggiseno nero orlato di pizzo disegnato per appiattire i seni, mutandine nere orlate di pizzo. L'oscurità della notte la rifletteva. «Versami un altro po' di gin, per favore» disse. Dolcemente. Misi un cucchiaio di ghiaccio nel suo bicchiere, svitai il tappo della fiaschetta, versai il gin sopra il ghiaccio. Argento si versò dall'argento sull'argento. Dietro di me, il fruscio della seta. «Un po' di limone, per favore.» Nello specchio del finestrino, lei adesso era nuda. Pallida come luce stellare. Tirò fuori dalla valigia una camicia da notte. Spremetti un altro spicchio di limone, lo lasciai cadere nel bicchiere. Spruzzai seltz nel bicchiere. Lei si lasciò cadere la camicia da notte dalla testa. Scivolò oltre i seni e i fianchi e le cosce. Mi voltai verso di lei, lei si voltò verso di me. Nella camicia da notte, sembrava quasi medievale. Era di seta o di rayon, bianca come la neve, lo sprone ornato di pizzo bianco. La linea "Sogni d'oro" di mia nonna. Passai a Dominique il suo drink. «Grazie» disse lei, e guardò il mio bicchiere vuoto sul tavolino. «Niente per te?» chiese. «Penso di aver bevuto abbastanza.» «Solo un sorso» disse lei. «Per fare un brindisi. Non posso fare un brindisi tutta sola.» Feci cadere un po' di ghiaccio nel mio bicchiere, ci versai sopra un po' di gin. Lei alzò il suo bicchiere. «A adesso» fece lei. «Non c'è una cosa simile» dissi io. «A stanotte, allora. Sicuramente c'è stanotte.» «Sì. Presumo.» «Berrai a stanotte dunque?» «A stanotte» dissi. «E a noi.» La guardai.
«A noi, Richard.» «A noi» dissi. Bevemmo. «Questo tavolino non si toglie di mezzo?» chiese lei. «Penso che si tiri giù» dissi. «Puoi ripiegarlo?» «Se vuoi.» «Be', penso che stia un po' in mezzo, tu no?» «Suppongo che lo sia.» «Be', allora, per favore ripiegalo, Richard.» Spostai ogni cosa dal tavolino all'ampio davanzale interno del finestrino. Poi mi inginocchiai, guardai sotto il tavolo, riuscii a capire come funzionava il meccanismo di cardini e ganci e abbassai il piano. «Voilà!» disse Dominique trionfante. Raccolsi il mio drink dal davanzale. Sedemmo entrambi, Dominique su un letto, io sull'altro, uno di fronte all'altra, le ginocchia che quasi si toccavano. Fuori, il paesaggio rotolava via, una luce sporadica che frantumava l'oscurità. «Vorrei che ci fosse della musica» disse lei. «Potremmo ballare di nuovo. C'è abbastanza posto per ballare ora, non credi? Con il tavolo giù?» La guardai scettico; lo spazio tra i letti forse era largo un metro e lungo due. «Senza essere interrotti stavolta» disse lei, e scosse la testa e cominciò a ondeggiare da una parte all'altra. «Non avrei dovuto permettergli di intromettersi» dissi io. «Be', come potevi saperlo?» «Ho visto i suoi occhi.» «Dietro di te? Quando lui si stava intromettendo?» «Prima. Avrei dovuto saperlo. Vedendo quegli occhi.» «Balla con me adesso» disse lei, e protese le braccia. «Non c'è musica» obiettai io. Lei avanzò contro di me. La morbida setosa sensazione di lei. «Ja-Da» cantò. Lentamente. Molto lentamente. «Ja-Da...» Niente affatto al ritmo giusto.
«Ja-Da, Ja-Da...» «Jing...jing... jing.» Dapprima pensai... «Ja-Da...» Ciò che pensai... «Ja-Da...» Fu che... «Ja-Da, Ja-Da...» Fu che una selvaggia spinta del suo inguine aveva accompagnato ogni... «Jing... jing... jing.» Ebbi un'incandescente erezione nel giro di un istante. «Oh, mon Dieu» sussurrò Dominique. Sussurrò quelle parole in quel rimbombante vagone letto, su quel treno che sfrecciava nella notte, spingendoci veloce verso sud lontano da ogni possibile male, rollando attraverso l'oscurità, così da farci perdere l'equilibrio e cadere ancora avvinghiati sul letto di Dominique, io che la serravo tra le braccia, baciandole la fronte e le guance e il naso e le labbra e il collo e le spalle e i seni mentre lei sussurrava più e più volte ancora: «Oh, mon Dieu, oh, mon Dieu, oh, mon Dieu.» Condimmo l'atto dell'amore di una sensuale goffaggine composta di gambe e braccia e fianchi e nasi e menti in costante collisione. Il treno, il binario, sembrava maliziosamente intento a sbalzarci fuori dal letto e fuori dall'abbraccio. Noi sgomitammo e sobbalzammo sul quel materasso sottile, acrobati della passione, sudando l'uno nelle braccia dell'altra mentre lottavamo per mantenere la presa. «Ahi!» disse lei quando le conficcai il gomito nelle costole. «Scusa» biascicai io, e poi: «Ooops!» perché stavo scivolando fuori da lei. Lei aggiustò i fianchi, sollevandoli, chiudendomi di nuovo profondamente ma quasi espellendomi nella manovra perché il treno in quel preciso istante decise di ruzzolare sopra a un'imperfezione del binario che insieme al movimento ascendente dei suoi fianchi mi spedì in aria verso il soffitto. L'unica cosa che mi trattenne dentro di lei e su di lei fu lo scaltro disegno a intreccio delle nostre parti distinte. Imparammo abbastanza rapidamente. Sebbene, ripensandoci, il treno fece tutto il lavoro e noi fummo meramente complici consenzienti. Su e giù andava il treno, sfrecciando nella notte, dentro e fuori dalle gallerie andava il treno, sferragliando nella notte, da un lato all'altro oscillava il treno, sbatacchiando nella notte, su e giù, dentro e fuori, da un lato all'al-
tro, il treno si lanciava contro la notte, lacerando l'oscurità con un unico occhio incandescente mettendo tutto in fuga davanti alla sua furia. Impotenti nella morsa di questa inesorabile macchina per fottere, noi urlammo finalmente forte e insieme, svegliando l'inserviente nel corridoio, che gridò anche lui come se avesse udito le urla di un sanguinoso omicidio. E poi giacemmo avvolti l'uno nelle braccia dell'altra e parlammo. Ci conoscevamo a stento a vicenda, tranne che intimamente, e non avevamo mai parlato davvero sul serio. Così ora parlammo di cose che erano enormemente importanti per noi. Come i nostri colori preferiti. Le nostre stagioni dell'anno preferite. I nostri gusti di gelato preferiti. Le nostre canzoni e i nostri film preferiti. I nostri sogni. Le nostre ambizioni. Io le dissi che l'amavo. Le dissi che avrei fatto qualsiasi cosa al mondo per lei. «Uccideresti qualcuno per me?» chiese lei. «Sì» risposi subito. Lei annuì. «Sapevo che mi guardavi spogliarmi» disse lei. «Sapevo che stavi guardando il mio riflesso nel finestrino. L'ho trovato molto eccitante.» «Anch'io.» «E rimbalzare dappertutto mentre tu eri dentro di me, anche questo era molto eccitante.» «Sì.» «Vorrei che tu fossi dentro di me adesso» disse lei. «Sì.» «Rimbalzando attorno dentro di me.» «Sì.» «Quel grosso coso dentro di me di nuovo» disse lei, e si chinò sopra di me e mi baciò sulla bocca. Vinnie aveva brutte notizie quando chiamai casa quel sabato. Venerdì pomeriggio, mentre Dominique e io eravamo sul treno diretti a sud, due uomini avevano abbordato mia nonna all'uscita del suo negozio sulla Quattordicesima. «Nella macchina, nonna» disse quello magro. Era quello con gli occhi da pazzo. Questo è il modo in cui più tardi mia nonna l'aveva descritto a Vinnie. «Aveva occhi da pazzo» disse. «E un coltello.» Quello grasso stava al volante della macchina. Mia nonna descrisse l'au-
to come una Jewett blu due-porte. Sedettero tutti e tre davanti. Quello grasso alla guida, mia nonna in mezzo, e quello magro alla sua destra. Quello magro si occupò di metterle il coltello sotto il mento e dirle che se tu-sai-chi non tornava a regolare i conti, la prossima volta lui le avrebbe guardato dentro le tonsille, aveva afferrato il succo? Mia nonna afferrò il succo del discorso, paro paro. La scaricarono dalla macchina all'incrocio della Avenue B con la 4a Strada Est, proprio accanto alla Chiesa Cattolica del Santo Redentore. Lei corse nel terrore per tutta la strada fino a casa. Vinnie afferrò una mazza da baseball e andò in cerca di Grasso e Magro per le strade. Non riuscì a trovarli, né vide una sola Jewett nell'intero 9° Distretto. «Allora cosa ne pensi?» mi domandò al telefono. «Penso che dovrò ucciderlo» dissi io. «Chi?» «Legs Diamond.» Ci fu un lungo silenzio. «Vinnie» dissi «mi hai sentito?» «Ti ho sentito» fece lui. «Non credo che sia un'idea tanto buona, Richie.» I cavi tra noi crepitavano; eravamo a grande distanza l'uno dall'altro. «Vinnie» dissi «io non posso nascondermi da quest'uomo per sempre.» «Si stancherà di darti la caccia» obiettò lui. «No, non credo. Ha un mucchio di gente che può fare la caccia per lui. Non è affatto un problema per lui, davvero.» «Richie, ascoltami.» «Sì, Vinnie, sto ascoltando.» «Che cosa vuoi dalla vita, Richie?» «Voglio sposare Dominique» dissi io. «E voglio avere dei bambini con lei.» «Ah» fece lui. «E voglio vivere in una casa con una palizzata bianca intorno.» «Sì» disse. «Ed è per questo che non devi uccidere quell'uomo.» «No» replicai io «è per questo che devo uccidere quell'uomo. Perché altrimenti...» «Richie, non è facile uccidere qualcuno.» «Ho visto un sacco di persone uccidere un sacco di persone, Vinnie. A me sembrava facile.» «In una guerra, sì. Ma a meno di non essere in guerra, non è così facile
uccidere qualcuno. Hai mai ucciso nessuno, Richie?» «No.» «In guerra, è facile» disse lui. «Chiunque spara a chiunque altro, così se non capita che il tuo proiettile uccida qualcuno, non ha importanza. Lo farà il proiettile di qualcun altro. Ma uccidere qualcuno in guerra non è omicidio, Richie. Questa è la prima cosa che un soldato impara: uccidere qualcuno in guerra non è omicidio. Perché tutti stanno uccidendo qualcuno, quindi nessuno sta uccidendo nessuno.» «Be'...» «Non dirmi "be'", ascoltami e basta. Uccidere Legs Diamond sarà omicidio. Sei pronto a commettere un omicidio, Richie?» «Sì» risposi io. «Perché?» «Perché amo Dominique. E se io non lo uccido, lui le farà del male.» «Ascolta... lasciami chiedere in giro d'accordo?» disse Vinnie. «Chiedere in giro?» «Qua e là. Nel frattempo, non fare niente di stupido.» «Vinnie?» insistetti io. «Io so dov'è lui. È su tutti i giornali.» Udii un sospiro dall'altro capo della linea. «È a Troy, New York. Lo stanno mettendo sotto processo per il rapimento di qualche ragazzino lassù.» «Richie...» «Penso che farò meglio ad andare a Troy, Vinnie.» «No, Richie» disse lui. «Non farlo.» Ci fu un altro lungo silenzio sulla linea. «Non pensavo che sarebbe finita in questo modo, Vinnie» dissi io. «Non deve finire in questo modo.» «Pensavo...» «Cosa pensavi, Richie?» «Non avevo mai pensato di arrivare fino a ucciderlo. Scappare da lui era una cosa, ma ucciderlo...» «Non deve arrivare fino a questo» disse Vinnie. «Lo deve» ribadii io. «Lo deve.» Cinque ore e trentun minuti dopo che la giuria aveva cominciato a deliberare sul caso, Legs Diamond venne dichiarato innocente di tutte le accuse contro di lui. Quando lui e il suo entourage uscirono dal tribunale quella sera, Domi-
nique e io stavamo aspettando in una macchina parcheggiata al di là della strada. Eravamo vestiti in modo identico. Lunghi soprabiti da uomo neri, guanti neri, cappelli flosci di feltro grigio perla. Faceva un freddo pungente. Diamond e la sua famiglia entrarono in un taxi che lui aveva noleggiato per scorrazzarlo avanti e indietro dal tribunale durante il processo. Il resto della brigata entrò nelle macchine dietro lui. Con la nostra auto, una berlina marrone rossiccio, Dominique e io li seguimmo dentro Albany e poi fino a un bar clandestino al 518 di Broadway. Non entrammo nel club. Restammo in macchina e aspettammo. Non parlammo affatto. Adesso faceva ancora più freddo. I finestrini si ricoprirono di brina. Io continuavo a sfregare il parabrezza con la mano inguantata. Poco dopo l'una del mattino, Diamond e sua moglie Alice uscirono dal club. Diamond indossava un cappotto marrone di cincillà e un cappello floscio di feltro marrone. Alice indossava un vestito, scarpe coi tacchi alti, niente cappotto. L'autista uscì dal club un istante dopo. Da dove eravamo parcheggiati non potevamo udire la conversazione tra Alice e Diamond, ma mentre camminava con l'autista verso il parcheggio del taxi, lui le urlò da sopra la spalla: «Non ti muovere finché non torno!» L'autista entrò al posto di guida. Diamond salì sul sedile posteriore. Alice rimase in piedi sul marciapiede un momento ancora, pennacchi di vapore che le uscivano dalla bocca, poi tornò nel club. Noi lasciammo al taxi un ragionevole vantaggio, infine ci buttammo dietro di loro. Il taxi portò Diamond a una pensione sull'angolo tra la Clinton Avenue e Tenbroeck Street. Diamond scese, disse qualcosa all'autista, chiuse la portiera ed entrò nell'edificio. Noi passammo oltre, svoltammo l'angolo, facemmo il giro completo dell'isolato e parcheggiammo a metà strada lungo la via. Il taxi era ancora fermo di fronte all'edificio. Non avremmo potuto passare vicino all'autista senza essere visti. Diamond venne fuori alle 4,30 del mattino. Svegliai Dominique con un colpetto. Cominciammo di nuovo a seguire il taxi. Dieci giorni prima, un uomo e una donna chiamati "signori Kelly" avevano affittato tre stanze in una pensione su Dove Street, per loro stessi e i loro parenti, una cognata e suo figlio di dieci anni. Ero venuto a saperlo dalla proprietaria della pensione, una donna di nome Laura Wood, che mi diede l'informazione dopo aver riconosciuto certe fotografie sul giornale che le mostrai. Sembrò sorpresa che il signor. Kelly fosse in realtà il gros-
so gangster Legs Diamond che stavano torchiando "su a Troy". Mi raccontò che lui era un rispettabile gentiluomo, tranquillo e beneducato, e lei non aveva nessun vero motivo di lamentarsi. Le diedi cinquanta dollari e le chiesi di non fare parola che era venuto un cronista. Il taxi adesso portò Diamond lì. 67 Dove Street. Diamond uscì dal taxi. Erano le cinque meno un quarto del mattino. Il taxi andò via. La strada era silenziosa. Nella pensione non si vedeva una luce. Lui aprì il portone con una chiave ed entrò. La porta si chiuse dietro di lui. La strada fu di nuovo silenziosa. Noi aspettammo. Al secondo piano della pensione, una luce si accese. «Pensi che la moglie sia già qui?» chiese Dominique. «Lui le ha detto di restare al club.» «Che cosa farai se lei è lì con lui?» «Non lo so» dissi io. «Dovrai uccidere anche lei, no?» «Prima lasciami entrare, d'accordo?» «No, voglio sapere.» «Cos'è che vuoi sapere?» «Cosa farai se lei è lì con lui.» «Vedrò.» «Be', penso che dovrai ucciderla, no?» «Dominique, c'è omicidio e omicidio.» «Sì, questo lo so. Ma se tu vai lì dentro, devi essere pronto a fare ciò che deve essere fatto. Altrimenti, la sua gente ci inseguirà all'infinito. Lo sai questo.» «Sì. Lo so questo.» «Noi dovremo continuare a scappare.» «Lo so.» «Così se la donna è lì con lui, dovrai uccidere anche lei. È soltanto questione di logica, Richard. Non puoi lasciarla viva perché ti identifichi.» Annuii. «Se lei è lì, devi ucciderli entrambi, è tanto semplice. Se mi ami.» «Io ti amo.» «E io amo te» disse lei. La luce al secondo piano si spense. «Bonne chance» fece lei, e mi baciò sulla bocca. La lasciai seduta dietro il volante della macchina, il motore acceso.
Provai la porta d'ingresso della pensione. Chiusa a chiave. Scrollai con forza la porta. La serratura sembrava quasi pronta a cedere. Mi feci indietro, alzai la gamba sinistra e sferrai un calcio di piatto alla porta, appena sopra il pomello. La serratura scattò e la porta si spalancò verso l'interno. Silenziosamente, salii i gradini verso il secondo piano. Signora Wood mi aveva raccontato innocentemente che Diamond e sua moglie stavano nella camera a destra della scala. «Una coppia così tranquilla» aveva detto. I gradini scricchiolarono sotto di me mentre salivo. Una luce notturna era accesa al secondo piano. Quasi troppo fioca per vederci. Un tappeto logoro sotto i piedi. Voltai a destra. La porta della camera di Diamond era alla fine del corridoio. Tirai fuori una pistola da ciascuna tasca del mio soprabito. Le avevo caricate entrambe con proiettili a punta morbida. I dum-dum. Se l'avessi fatto, doveva essere fatto bene. Provai il pomello della porta. La porta non era chiusa a chiave. La aprii con cautela. La stanza era buia, eccetto il fioco bagliore dell'alba al di là della tapparella tirata della finestra. Sentivo il respiro leggero di Diamond in fondo alla stanza. Sul pavimento c'era una borsa da viaggio di pelle. Il suo cappotto di cincillà giaceva accanto a essa. Così pure il suo cappello. I suoi pantaloni erano piegati sullo schienale di una sedia. Arrivai al letto. Guardai giù verso di lui. Stava dormendo con la bocca aperta. Puzzava d'alcol. Le mie mani stavano tremando. Il primo proiettile finì nel muro. Quello dopo nel pavimento. Alla fine sparai a Diamond nella testa tre volte. Venni giù all'impazzata per le scale. La porta d'ingresso era ancora socchiusa. Corsi fuori in una fredda alba grigia. Un uomo che usciva dal palazzo accanto mi vide attraversare a precipizio la strada verso Dominique che stava in piedi fuori della macchina dalla parte del passeggero, il motore acceso, lo scappamento che vomitava nuvole grigie nell'alba grigia. «Lei era lì?» chiese. «No» risposi io. «Lo hai ucciso?» «Sì.» «Bene.»
Al di là della strada l'uomo ci stava fissando. Entrammo in macchina e partimmo in direzione nord. Adesso ero io al volante. Dominique stava pulendo le pistole. Giusto per ogni evenienza. Pulendo, pulendo con un fazzoletto bianco di seta, lustrando le impugnature e i tamburi di quelle pistole nell'eventualità che in qualche modo, a dispetto dei guanti, vi avessi lasciato sopra qualche impronta digitale. Quando ci avvicinammo alla chiesa di St. Paul, a un paio di chilometri da Dove Street, rallentai. Dominique tirò giù il finestrino dalla sua parte e gettò fuori una delle pistole, avvolta nel fazzoletto di seta. Cinque minuti dopo, scagliò fuori la seconda pistola, avvolta in un altro fazzoletto. Ci affrettammo nell'alba. A Saugerties, un poliziotto in uniforme alzò lo sguardo per la sorpresa quando sfrecciammo per il corso deserto della città. Eravamo di nuovo liberi. Ma non perché avevo ucciso Legs Diamond. «Che cosa intendi dire?» chiesi a Vinnie al telefono. «Va tutto bene» disse lui. «Qualcuno ha parlato ai gorilla che hanno spaventato tua nonna.» «Cosa intendi? Chi? Gli ha parlato riguardo a cosa?» «Riguardo a te e Dom.» «Chi è stato?» «Mickey Tataglia. È andato a trovarli e li ha convinti che non vale la pena di disturbarsi per voi.» «Ma Diamond è morto. Perché mai loro dovrebbero...» «Sì, qualcuno l'ha ucciso, che peccato.» «Allora perché loro dovrebbero voler dimenticare?» «Be', penso che un po' di denaro abbia cambiato di mano.» «Quanto denaro?» «Non so quanto.» «Tu lo sai, Vinnie.» «Penso forse cinquemila.» «Da dove è venuto il denaro?» «Non so.» «Di chi era il denaro, Vinnie?» La linea si fece muta. «Vinnie?» Ancora silenzio. «Vinnie, era denaro della nonna? Il denaro che aveva risparmiato per un
altro negozio?» «Io non penso che fosse il suo denaro. Diciamo solo che qualcuno ha dato il denaro a Mickey e lui l'ha dato ai gorilla e voi non dovete più preoccuparvi di nulla. Venite a casa.» «Chi ha dato il denaro a Mickey?» «Non ne ho la minima idea. Vieni a casa.» «Di chiunque fosse il denaro, Vinnie... digli che un giorno glielo restituirò.» «Glielo dirò. Adesso venite a casa, tu e Dom.» «Vinnie?» dissi io. «Grazie mille.» «Andiamo, e per cosa?» chiese lui, e riappese. Quando raccontai a Dominique della conversazione al telefono, lei osservò: «Così tu lo hai ucciso per niente.» Avrei dovuto risentirmi per la parola tu. Ma, dopotutto, lei non aveva ucciso nessuno, non è così? «L'ho ucciso perché ti amo» dissi. «Alors, merci beaucoup» fece lei. «Ma i soldi avrebbero funzionato altrettanto bene, eh?» Una settimana dopo che fummo tornati in città, Dominique mi disse che quello che avevamo assaporato insieme sulla strada per Chattanooga era stato molto carino, bien sur, ma lei non avrebbe mai potuto vivere con un uomo che aveva commesso un omicidio, già? Per quanto nobile fosse il motivo. En tout cas, era tempo che lei tornasse a Parigi per farsi di nuovo una casa nella terra che amava. «Tu comprends, mon chéri?» domandò. No, volevo dire, io non comprendo. Pensavo che ci amassimo a vicenda, volevo dire. Quella notte sul treno... Pensavo che sarebbe durata per sempre, sai? Pensavo che Legs Diamond sarebbe stato il nostro coprotagonista per sempre. Saremmo fuggiti da lui per tutta l'eternità, incatenati nell'abbraccio mentre lui ci inseguiva implacabilmente e invano. Ci saremmo sposati e avremmo avuto dei figli e io sarei diventato ricco e famoso e Dominique sarebbe stata giovane e bella per sempre e il nostro amore sarebbe rimasto costante e fedele, ma soltanto perché saremmo fuggiti per sempre da Legs. Questa sarebbe stata la forza saldamente unificante delle nostre vite. Fuggire da Legs. Ci demmo l'addio con un bacio.
Promettemmo di restare in contatto. Non ho mai più avuto sue notizie. JOYCE CAROL OATES Di solito, gli scrittori famosi di un'epoca raggiungono la celebrità, se volete, con uno di questi due mezzi. Il primo è essere fecondo e popolare presso i lettori, l'altro è creare uno stile di prosa caratteristico che sia applaudito dai critici. È in effetti molto raro essere in grado di soddisfare le esigenze dei recensori e degli esteti della letteratura, che sembrano volere soprattutto che gli autori falliscano, e insieme quelle di un gran numero di lettori, che vogliono soprattutto essere intrattenuti. Joyce Carol Oates, naturalmente, è uno di quei rari ibridi il cui lavoro viene ricercato avidamente da lettori perspicaci e che tuttavia riceve recensioni entusiastiche dai critici più agguerriti. La cosa sorprendente è che lei scriva così tanto in modo così brillante, con centinaia di racconti brevi vincitori di premi infilati tra dozzine di romanzi, e qualche libro non di narrativa per arricchire la collezione. Spaziando dalla chiara bellezza di Belle-Fleur alla gotica intensità di The Mysteries of Winterthorn ai thriller psicologici che scrive sotto lo pseudonimo di Rosamunde Smith, Joyce Carol Oates profonde nella straordinaria gamma delle sue opere sia originalità che professionalità. Quando avrete finito di leggere Al Paradise Motel di Sparks, Nevada, per esempio, provate a dimenticarlo. Non ci riuscirete. Al Paradise Motel di Sparks, Nevada Quanti di voi porci. Emissari di Satana. Adulteri nei vostri cuori e fornicatori. Quanti stupratori e saccheggiatori dell'innocente, quante creature striscianti nella lussuria. Quanti di voi, meritevoli della collera di Dio, Starr Bright potrebbe aver ucciso se io non fossi stata braccata senza scampo prima del mio tempo, io non posso saperlo, poiché tale conoscenza non è concessa a noi nella saggezza del Signore Iddio. Amen. Nel deserto, attraverso pianure di luce tremolante, le confuse montagne color malva della Sierra Nevada in lontananza, la luce cadeva verticale, tagliente come una lama di rasoio. Il cielo era una dura ceramica blu che sembrava dipinta e senza profondità. Starr Bright si svegliò dal suo drogato sogno a occhi aperti delle ultime ore e si domandò per un momento do-
ve fosse, e con chi. Una conosciuta-sconosciuta successione di motel, ristoranti, stazioni di servizio, enormi cartelloni pubblicitari che reclamizzavano casinò di Reno e Las Vegas. Si stavano avvicinando alla città di Sparks, Billy Ray Cobb al volante della sua lussuosa Infiniti grigio metallizzato con l'interno di pelle rossa presa a nolo. Starr Bright si tolse gli occhiali scuri con la montatura bianca per vedere meglio, ma il riverbero era accecante. Lei non era una ragazza da aspre ore sovraesposte del mattino o del pomeriggio, il suo animo si ridestava meglio al crepuscolo, quando le luci al neon lampeggiavano alla vita. Ma perché sono qui, perché dunque? E con chi? Non sapendolo stava aspettando un segno divino. Accanto a lei, compiaciuto e disinvolto al volante dell'Infiniti, c'era il signor Cobb di Elton, California, un rappresentante industriale, come si era presentato la sera prima. Il signor Cobb era un uomo di quarantasei anni dal collo sottile, che sudava facilmente, con occhi da rana sotto le pesanti palpebre e un molle, famelico sorriso. Indossava vestiti sportivi da vacanza, questa era la sua vacanza, dopotutto: una camicia di cotone spiegazzato blu elettrico con il monogramma B.R.C. sul taschino, pantaloni di poliestere a quadri con la piega alle cosce, una cintura di pelle "Navajo" con un'appariscente fibbia d'ottone. Un anello di onice nera alla mano destra e una fede d'oro alla sinistra, entrambi gli anelli conficcati nella carne adiposa. Con la coda dell'occhio Starr Bright vide il signor Cobb che la scrutava e si rimise in fretta gli occhiali scuri. Era pesantemente truccata, il viso un'impeccabile maschera di cosmetici. Sapeva di avere un bell'aspetto, ma in questo dannato sole del deserto bianco abbagliante avrebbe potuto dimostrare, se non esattamente la sua età, perché Starr Bright non dimostrava mai la sua età, forse trentuno o trentadue anni, e non ventotto come aveva lasciato intendere al credulo signor Cobb di Elton, California. Lei era Starr Bright, una "danzatrice esotica" al Kings Club di Lake Tahoe, in California. Una donna indipendente che cercava di guadagnarsi da vivere decentemente in mezzo alla confusione morale dei tempi attuali. Prima di Lake Tahoe aveva vissuto a San Diego, in California, o era Miami, in Florida? E c'era stata Houston, nel Texas. Prima di ciò, la memoria svaniva. Come un sogno, perfino il più vivido e conturbante dei sogni, che svanisce rapidamente al risveglio. Non erano ancora le sei del pomeriggio. E c'era luce come a mezzogiorno. Eppure Billy Ray Cobb era impaziente di registrarsi in un motel. Palpeggiando e strizzando Starr Bright sul sedile anteriore dell'Infiniti, ansi-
mante e con le guance floride. L'interno di pelle rossa odorava di nuovo, l'aria condizionata ronzava come una terza presenza. Starr Bright era lusingata dall'attrazione sessuale verso di lei del suo nuovo amico, o avrebbe dovuto esserlo. «Sono pazzo di te, piccola» disse il signor Cobb, con una sfumatura nel tono di voce come se sospettasse che Starr Bright potesse non credergli. «Come la notte scorsa, vedrai.» Così non proseguirono fino a Reno, come Starr Bright era stata portata a credere. Avrebbe fatto qualche differenza se avessero continuato fino a Reno? Apparentemente d'impulso, Billy Ray Cobb svoltò entrando al Paradise Motel sulla Statale 80, uno degli innumerevoli motel a "prezzi stracciati" lungo la strada appena dentro i confini della città di Sparks. Starr Bright non avrebbe potuto dire, socchiudendo gli occhi doloranti, se fosse già stata qui in precedenza. Un motel color salmone di un solo piano, a imitazione dello stile spagnolo, stava oltre il cartellone pubblicitario essenziale CAMERE D'OCCASIONE E SUITE PER LUNE DI MIELE! e ORE FELICI 16-20! Se Starr Bright era amaramente delusa, presentendo l'odore di insetticida della squallida stanza, non ne diede alcun segno; lei non era quel genere di ragazza. Con i suoi capelli biondo cenere e la faccia appariscente dalla forte ossatura, e le sue lunghe gambe da ballerina, Starr Bright era abituata agli sguardi indagatori ravvicinati degli uomini, e sapeva tenere per sé i pensieri più ribelli. Mai mettere a nudo i denti in un rapido lampo incandescente di rabbia, e neppure aggrottare le ciglia, o far smorfie, mettendo in luce le sottili rughe bianche della fronte. Mai portarsi ai denti l'unghia del pollice come un'adolescente disperatamente infelice e rosicchiare la cuticola fino a sentire il sapore del sangue. Mentre il signor Cobb li registrava al Paradise Motel, Starr Bright girovagò irrequieta intorno all'area della piscina, un cortile interno fiancheggiato da sottili alberi di palma flosci che sembravano fragili come cartapesta. La piscina a forma di fagiolo, nella quale sguazzavano diversi nuotatori seminudi, odorava acremente di cloro. E c'era l'odore d'insetticida che permeava tutto. Starr Bright controllò rapidamente per vedere se riconosceva qualcuno, o se qualcuno riconosceva lei, perché, con tutti gli uomini che aveva conosciuto in tanti anni, era sempre vigile. Questa sera, alla piscina del Paradise Motel, Statale 80, presso Sparks, nel Nevada, non sembrava esserci nessuno che Starr Bright avesse motivo di conoscere, o da cui essere conosciuta.
Grazie a Dio. Della dozzina circa di ospiti nel cortile, tranne uno tutte giovani donne in carne, parecchi si erano sistemati incautamente al sole, villeggianti nel Sudovest, ovviamente. Oleosi corpi scintillanti in succinti costumi da bagno, chiusi occhi sognanti. Unghie di mani e piedi smaltate come quelle della stessa Starr Bright. Luminosi drink pastello con cubetti di ghiaccio che si scioglievano, bottiglie vuote di birra e Perrier accumulate sui tavoli di ferro battuto. Da altoparlanti sopra la testa, musica rock di sottofondo faceva vibrare l'aria; il ritmo accelerò. Starr Bright provò un impulso sfrenato di ballare. Quel battito erotico, il ritmo percussivo, guardatemi, eccomi qui, perché nessuno di voi mi sta guardando? Qui c'è Starr Bright! Lei indossava un'attillata gonna corta di seta nera che le arrivava a stento a metà coscia, e un top di lamé dorato che le aderiva ai seni, e le sue lunghe gambe bionde rasate lisce erano nude, i piedi nudi in zatteroni di sughero dal tacco alto. Una sottile catenina d'oro attorno alla caviglia sinistra, con un minuscolo cuore d'oro ciondolante. Orecchini traforati le ricadevano in cascate scintillanti fin quasi alle spalle, una mezza dozzina di braccialetti con i colori dell'arcobaleno le tintinnavano a ciascun braccio. Labbra cremisi umide come se fosse affannata, febbricitante. E gli affascinanti occhiali scuri che nascondevano i lividi, o l'ombra dei lividi, sotto gli occhi. Perché non volete guardarmi? Io sono più bella di chiunque di voi. La prima notorietà Starr Bright l'aveva conosciuta a tredici anni, quando aveva vinto il primo premio in una competizione di giovani talenti a Buffalo, New York. Quanti anni fa: non chiedetelo. Quando loro smettono di guardare, e i loro occhi ti passano attraverso, aveva raccontato a Starr Bright una delle ballerine più vecchie al club di Tahoe, sei carne morta. Così sii grata per gli sguardi villani. Quei porci sono denaro in banca. Ma alla piscina nessuno sembrava notare Starr Bright. Il che era un segno di Dio, anch'esso, a suo modo. Benché Starr Bright in quel momento non potesse sapere, come di fatto non sapeva ma avrebbe appreso in seguito dai giornali e dalla TV del Nevada, che Billy Ray Cobb li stava registrando al Paradise Motel come il "signor Elton Flynn e consorte" di Los Angeles, California. L'attenzione, in effetti, era attratta dalla rumorosa attività sguazzante nella piscina. Una giovane donna voluttuosa in un minuscolo bikini giallo strillava e scalciava, stringendo al seno un gonfio materassino a strisce come una bandiera americana, mentre un abbronzato giovanotto muscolo-
so le faceva il solletico; le loro grida e le loro risate trafiggevano l'aria. Che esibizionisti! Starr Bright li fissava, un tantino invidiosa. Ma lei disapprovava. Così vicini alla nudità, così volgari, la giovane donna e il giovane uomo virtualmente sembravano fare l'amore nella piscina. L'acqua luminosa si sollevava e si increspava intorno a loro. Gli altri li osservavano apertamente, sogghignando; gli amanti si comportavano come se fossero ignari, benché ovviamente si deliziavano di essere osservati. Guardateci, quanto siamo felici noi, quale piacere i nostri corpi provano l'uno per l'altro, non siete tutti gelosi? Le braccia della giovane donna si agitavano convulsamente, i suoi seni quasi saltavano fuori dal reggipetto del bikini, le forti gambe si dimenavano e il giovane uomo si spingeva sfacciatamente tra di esse, indirizzando un morso scherzoso alla gola di lei, finché il materassino scivolò via e loro cominciarono, strillando selvaggiamente, ad affondare. Starr Bright contrasse le labbra e distolse rapidamente lo sguardo. Fu a questo punto che Billy Ray Cobb la raggiunse. Un piccolo cipiglio contrariato, le labbra incurvate in un broncio, gli occhi venati di rosso sotto le pesanti palpebre mentre, ansando appena leggermente, chiudeva le dita attorno al polso di Starr Bright. Le disse due cose ma in seguito lei non sarebbe stata in grado di ricordare quale disse prima. Una fu: «Mi chiedevo dove fossi, piccola!» e l'altra: «Sembra che il divertimento sia già cominciato, eh?» Non nella ventiquattrore di Gucci di pelle graffiata color sangue di bue ma nella sua borsetta di paillette blu notte con il portafogli, articoli per il trucco, profilattici di marca e pillole di anfetamina e Valium, Starr Bright teneva la sua protezione. Un coltello d'acciaio inossidabile prodotto in Germania, con il manico di madreperla e dalla lama sottile lunga una dozzina di centimetri. Avvolto in un fazzoletto sul fondo della borsetta, aveva la lama, mai usata prima, affilata come un rasoio. Il coltello era protezione, non un'arma. Ancor meno, un'arma nascosta. Per quanto ne sapeva lei, il coltello non era illegale in nessuno dei diversi Stati in cui era stata residente da quando l'aveva acquistato, parecchi anni prima. Protezione dopo che era stata proditoriamente arrestata nella sala da cocktail di uno Hyatt Regency Hotel a Houston, nel Texas, da due detective in borghese della buoncostume che l'avevano trattenuta per cinque ore durante le quali l'avevano costretta a commettere sulle loro persone atti sessuali di natura particolarmente repellente. Mai più Starr Bright verrà umiliata, mai più costretta a far servizi a porci a nessuna condizione che non sia la mia.
Quella notte Starr Bright sognò così stranamente e ossessivamente, con molta angoscia, del materassino nella piscina del motel. L'aveva visto a malapena, virtualmente non ne aveva alcuna impressione tranne che era fatto di plastica, a strisce dei colori della bandiera americana rosso bianco e blu, lungo circa un metro e mezzo, non un galleggiante da bambini ma per adulti, un oggetto di salvataggio se si stava nell'acqua alta, in pericolo di annegare. Starr Bright non era una nuotatrice esperta, l'acqua la terrorizzava, la misteriosa galleggiabilità su cui non si poteva fare affidamento, l'instabilità, la perdita di controllo. Nei suoi sogni lei era nuda nell'acqua, si aggrappava convulsamente al materassino affannandosi per respirare, il cuore che le batteva forte mentre qualcuno, un uomo, senza volto, dal corpo pesante, cercava di tirarla nell'acqua per annegarla. Talvolta l'uomo era Billy Ray Cobb, talvolta uno sconosciuto, o c'erano due uomini, o di più?, e ridevano del suo terrore, che era un ridicolo, spregevole terrore femminile, le loro dita dure e spietate come l'acciaio le strattonavano le caviglie, le gambe nude, le braccia, afferrandole la nuca. Starr Bright era nuda e indifesa nell'acqua, che era un'acqua scura increspata e non l'artificiale turchese luminoso della piscina del motel. Se solo avesse potuto mantenere la presa sul materassino e salirci sopra avrebbe potuto salvarsi, ma i muscoli delle sue braccia e delle spalle erano deboli, flaccidi, la sua flebile forza stava venendo meno rapidamente, la bocca le si riempiva di acqua velenosa che ingoiare sarebbe stato la morte. E le risate di scherno, e le dura dita maschili che ferivano. Aiuto! Per favore aiutatemi! Oh Dio! Starr Bright si dimenava selvaggiamente, agitando convulsamente le braccia, scalciando, lottando per la propria vita... e si svegliò improvvisamente per ritrovarsi in un letto sconosciuto, un umido letto sfatto in una stanza che ronzava sonoramente per l'aria condizionata che ancora non aveva disperso l'odore di whisky e fumo di sigarette e sudore umano e il sottostante puzzo di insetticida. Non era sola ma accanto a uno sconosciuto, nudo, un uomo grassoccio che giaceva scomposto sulla schiena al centro del letto, con la testa gettata all'indietro e la bocca socchiusa, che russava colando bava. Era il signor Cobb. Che con lei era stato inaspettatamente rude, impaziente. Occhi da porco venati di rossastro che si contraevano e strabuzzavano oh! oh! uh! mentre aveva grugnito sfregandosi ostinatamente e poi disperatamente dentro lei. Ventidue minuti buoni, aveva cronometrato lei,
come la notte prima aveva cronometrato i loro episodi precedenti otto minuti, dodici minuti, sedici, una parte del cervello di Starr Bright distaccato e perfino cinico malgrado le generose linee di coca che aveva sniffato con il suo amico dagli occhi di rana il cui nome, o nomi di battesimo, momentaneamente le sfuggivano. Si erano registrati al Paradise Motel la sera presto e avevano avuto un rapporto sessuale, poi erano usciti di nuovo frettolosamente non prendendosi nemmeno il tempo di fare una doccia e purificarsi come Starr Bright tanto intensamente desiderava, sì, e farsi anche lo shampoo ai capelli appiccicosi, strofinarsi accuratamente tra le gambe irritate e far correre l'acqua calda quanto poteva sopportala, ma il signor Cobb aveva insistito per uscire immediatamente a comprare una bottiglia di whisky Jack Daniels e diversi grammi di cocaina innocentemente bianca e polverosamente granulosa come zucchero a velo e così la notte si era chiusa intorno a lei come pareti che si spingevano verso l'interno, minacciando il soffocamento. Andiamo piccola! Rilassati piccola! Benché il signor Cobb in effetti fosse uno sconosciuto per lei, Starr Bright sembrava sapere quanto avrebbe potuto essere necessario anestetizzarsi, lei aveva soltanto finto di inalare una linea di coca offerta alle sue narici su un traballante specchietto, in realtà nella segretezza del bagno maleodorante aveva trangugiato frettolosamente non una, e nemmeno due, ma tre pillole di Valium, il massimo che si consentiva in simili situazioni d'emergenza, o quando c'era di mezzo anche l'alcol. Così era stata gradevolmente intontita contro lo sfregarsi, grugnire, ansimare del signor Cobb e le sue mani che afferravano violentemente, i suoi occhi da rana cerchiati di rosso, l'intensificarsi delle sue richieste. Da quanti minuti, quante ore, dove fossero esattamente, e perché lei, Starr Bright, una "danzatrice esotica" top ammirata dalle altre ragazze per il suo fascino da Principessa di Ghiaccio e la sua ovvia intelligenza, fosse qui non lo sapeva, non riusciva a comprenderlo. E sprofondando di nuovo nel sonno, fradicia di sudore, rabbrividendo, cercando di tenersi il più lontana possibile dall'uomo che russava al centro del letto, Starr Bright questa volta si ritrovò in una piscina di una lontana città, lei aveva otto o nove anni ed era stata portata all'Atwater Park da una cugina più grande che viveva in città, piccola Shirley Lott di Shaheen in visita per la giornata, timida ed eccitata come sempre quando andava a Yewville che a lei sembrava una grande città, gravida di mistero e avventura. Ma qualcosa era andato storto, sua cugina non le stava badando come aveva raccomandato sua madre, ma si era allontanata con i suoi amici ed era fuori portata d'orecchio e così Shirley, nel suo costume da bagno rosa pieghetta-
to e cuffietta di gomma bianca con la cinghia allacciata un po' troppo stretta sotto il mento, si ritrovò nella piscina circondata da bambini che non conosceva. Diversi maschietti più grandi, più grossi, la fissavano, magri sconosciuti dai capelli appiccicosi come topi, occhi vigili chiedendole chi era, di dov'era? e Shirley glielo disse e loro le sorrisero come se lei gli piacesse e la invitarono a fare un giro nella loro camera d'aria dall'altra parte della piscina. Shirley dapprima fu prudente cercando di vedere dove fosse andata sua cugina Tildy, ma non riuscì a vedere Tildy, i bambini sembravano così simpatici, facendole larghi sorrisi in modo che si fidasse di loro, sì lei era anche lusingata. Shirley Lott era una ragazzina carina molto più carina di sua sorella minore Gwendolyn e suo papà l'amava di più, poteva leggerglielo negli occhi che lui l'amava di più, e lei aveva dei cugini maschi della sua età e più grandi, tutti membri della Prima Chiesa Metodista di Shaheen dove Ephraim Lott era il ministro di culto, e così Shirley si fidò di questi maschi di Yewville sebbene per lei fossero degli sconosciuti e lei era stata messa in guardia da sua madre di non fare comunella con bambini che non conosceva a meno che Tildy non li conoscesse, era stata messa in guardia molte volte ma nell'eccitazione della piscina di Atwater lo dimenticò. Vieni con noi! Non aver paura! dicevano i maschietti, ed ecco lì Shirley che si lasciava spingere dentro l'apertura della camera d'aria dei ragazzi che era così scivolosa e sobbalzante sull'acqua, lei aveva strillato d'eccitazione infantile sguazzando e scalciando quando immediatamente i ragazzi la trascinarono verso l'estremità più lontana della piscina dove l'acqua era profonda due metri e Shirley cominciò a essere spaventata ma i ragazzi che nuotavano accanto a lei dissero che era O.K., che lei era O.K., che non le sarebbe successo nulla, lei era al sicuro dentro la camera d'aria. Ma i ragazzi più sfacciati si stavano tuffando sotto di lei e le strattonavano i piedi, le pizzicavano le cosce, le ficcavano le dita tra le gambe e lei si dibatteva impotentemente, in preda al panico, singhiozzando, No! No! Lasciatemi stare! inghiottendo acqua, soffocando. Ma i ragazzini non volevano lasciar andare la loro piccola vittima, l'avevano catturata nella camera d'aria e la stavano trascinando in rumoroso trionfo attraverso la piscina nell'acqua profonda dove solo ai bambini più grandi e agli adolescenti era consentito nuotare, e alla fine qualcuno intervenne, una ragazza più grande che conosceva i ragazzini e gli gridò di lasciar stare Shirley, che diavolo pensavano di fare?, mentre i ragazzini spinsero Shirley fuori della camera d'aria e nell'acqua e lei cominciava ad affondare e sarebbe annegata se la ragazza non l'avesse afferrata e issata fuori della piscina sul cemento impermeabi-
lizzato dove giacque singhiozzando e sputando fuori acqua, impietrita come un animale ferito. I ragazzini erano fuggiti dalla piscina sghignazzando in modo stridulo, portando con sé la camera d'aria, e Tildy la cugina di Shirley finalmente si accorse di lei, il cerchio di spettatori raccolti intorno a lei, e venne di corsa da lei, e l'incubo era finito. Eccetto che gli incubi dell'infanzia non finiscono mai ma continuano per sempre sotto la superficie della memoria fintanto che la memoria dura. Questa volta Starr Bright si svegliò singhiozzando e soffocando dal suo sonno drogato. Erano le 4,46 del mattino. Non ci sarebbe stato altro sonno per quella notte. Attraverso la veneziana rotta un'insegna al neon rosa fluorescente lampeggiava ritmicamente. PARADISE MOTEL, PARADISE MOTEL. Starr Bright scivolò da quella porcilaia di letto umido e spiegazzato rabbrividendo al freddo dell'aria condizionata nonostante il suo corpo nudo fosse ricoperto di sudore appiccicoso. Non osò svegliare Cobb, doveva scappare da lui, un uomo pericoloso. Lui le aveva fatto male, coperto di lividi i seni, l'interno delle cosce, sfregandosi contro di lei oh! oh! uh! come se avesse voluto ucciderla, occhi sporgenti e faccia paonazza, gonfiandosi come un pallone in procinto di scoppiare. Ubriaco, e strafatto di cocaina, si era trasformato in una bestia, le aveva mentito, anche, promettendole che avrebbe potuto farsi un bagno indisturbata, lavarsi i capelli, le aveva mentito come tutti loro; non aveva alcuna compassione. Devo cambiare la mia vita. Dio m'aiuti. Sono stata braccata senza scampo. Perché Dio le aveva mandato, sebbene lei fosse una peccatrice, un sogno miracoloso, un sogno dell'infanzia perduta. Non aveva fatto un sogno simile da un decennio, o più. Era un segno del Suo terribile amore. Rapidamente e maldestramente Starr Bright si vestì al buio. Infilandosi nelle mutandine nere di raso con i pizzi che Cobb le aveva strappato, contorcendosi per entrare nella gonna attillata, nel top di lamé finto oro. E dov'erano le sue scarpe? e la sua ventiquattrore? e la borsa di paillette? Un giorno le avrebbero chiesto perché non fosse fuggita e basta da Billy Ray Cobb e dal Paradise Motel? Perché in effetti Starr Bright avrebbe potuto fare così, cercando rifugio a piedi in qualche posto a Sparks, nel Nevada, nelle prime ore del mattino di quale che fosse il giorno, mese e anno non troppo presenti alla sua mente in preda al panico. Perché in effetti non sarebbe stata la prima volta, in oltre vent'anni da quando aveva lasciato la
sua casa a Shaheen, New York, che lei scappava, a piedi, con la stessa fretta e disperazione. Non sarebbe stata la prima volta che lei si vedeva, in una furia di autodisprezzo e disgusto, braccata senza scampo. Ma invece ecco lì Starr Bright che esamina furtivamente i vestiti di Cobb gettati su una sedia. La cintura di pelle "Navajo" con la fibbia d'ottone. La camicia con il monogramma, i pantaloni di poliestere. Al pallido bagliore rosa intermittente della finestra, ci vedeva abbastanza bene da esaminare rapidamente le tasche dei pantaloni, estrarre un portafogli, chiavi della macchina. La sua mano tremava ma era sicura. E lì accanto, sul tavolo, la bottiglia di Jack Daniels quasi vuota, e in qualche modo se la trovò in mano e bevve impulsivamente, pentendosi subito quando cominciò a tossire e il russare di Billy Ray Cobb si interruppe e lui si svegliò bofonchiando: «Eh? Cosa? Chi è là?» Poi seguì uno spazio di tempo dilatato come in un sogno che Starr Bright non avrebbe mai rammentato con precisione, tranne in improvvisi fulminei flash, immagini. Disse al sospettoso uomo arrabbiato che era soltanto lei, Starr Bright, ma lui era già completamente sveglio, sebbene stordito, dondolando le gambe fuori del letto, pretendendo di sapere: «Perché sei in piedi? È fottutamente notte.» E lei cercò di nascondersi il portafogli e le chiavi dell'auto sotto i vestiti, si allontanò da Cobb dicendo che aveva bisogno di usare il bagno. E ormai Cobb era in piedi. Ondeggiante ma bellicoso. Era alto solo qualche centimetro più del metro e settantacinque di Starr Bright ma pesava quasi cinquanta chili di più. «Sì?» disse avanzando su di lei «il bagno è in questa direzione, bimba. O stavi per fare la pipì sul pavimento?» E balbettando Starr Bright disse che aveva bisogno di fare una doccia calda, bisogno di lavarsi i capelli, che non poteva dormire puzzolente e sporca com'era, e Cobb disse: «Acqua calda nel mezzo della fottuta notte? Cosa sta succedendo qui?» e lei stava per correre verso la porta ma lui aveva visto il portafogli e le chiavi nella sua mano, e l'afferrò, cominciò a schiaffeggiarla. «Che cazzo, puttana? Ti ho beccata, eh?» scuotendo e schiaffeggiando e afferrandole la testa in una morsa di ferro trascinandola in direzione del bagno. «Vuoi una doccia, eh? Lavare i tuoi capelli sporchi? Che ne dici della tazza del cesso? Pensare di poter rifilare un bidone a me! Fottere me! Billy Ray Cobb!» Starr Bright cadde in ginocchio. Cobb la maledisse e mollò la morsa sulla testa ma la prese a schiaffi e pugni, furioso, offeso. «Raccontarmi tutte
quelle stronzate la notte scorsa, e io che ci sono cascato. Che babbeo! Avrei dovuto saperlo che voi puttane siete tutte uguali, non meritate di vivere! Frugare nel mio portafogli! Non puoi aspettare fino al mattino per essere pagata?» e con un grugnito raccolse il portafogli dal pavimento dove giaceva, ne estrasse una manciata di banconote lanciandole in aria e spingendo giù Starr Bright carponi dove ricadevano, dicendole di strisciare verso di esse, raccoglierle, raccoglierle con la fica, e quando Starr Bright non lo fece, lui le montò a cavalcioni, il pesante corpo nudo sudato sulla sua schiena. «Ehi, ti piace, bambola! Lo sai che ti piace! Starr Bright! nome fasullo! puttana fasulla! tutte voi puttane fasulle! troie! Non meritate di vivere, voi infettate il mondo per le donne oneste.» Raccolse la sua cintura con la fibbia d'ottone e cominciò a sferzarle le natiche, ridendo. «Trotta cavallino! Trotta cavallino! Ti piace, eh? Fica? Certo che ti piace!» e quando Starr Bright crollò sul pavimento Cobb si schiacciò dentro di lei, il pene come una verga d'acciaio, finché finalmente gridò, fischiando e sghignazzando, e crollò su di lei, e giacque immobile, ansimando pesantemente, per un poco. Quando si staccò da lei, Starr Bright giaceva esanime come uno straccio. «Adesso vattene fuori di qui, tu. Presto. Prima che mi arrabbi sul serio e compia qualcosa di irreparabile.» Pungolandola con il piede, afferrandola per i capelli. «Non fare più giochetti con me, fica. Sono io che pago per questa stanza, vattene fuori.» Cobb costrinse Starr Bright a strisciare sulle mani e sulle ginocchia tra le banconote sparse, in direzione della porta, le dita che le stringevano il dorso del collo. Com'era tronfio, quale gioia di collera appagata si irradiava dal suo corpo, ondate di calore animale! Dicendo che era davvero fortunata che non le avesse rotto la mascella, lui era noto per fracassare le mascelle alle puttane, cose sudice che non meritavano di vivere in mezzo alle donne oneste, e quando Starr Bright cercò a tastoni la sua borsetta di paillette buttata sul pavimento lui disse: «Sì! Prendi con te la tua robaccia! Impuzzolentisce tutto il posto!» Marciò fino alla porta, tolse il catenaccio e l'aprì, e mentre Starr Bright si rimetteva in piedi, traballante, i vestiti stracciati, il naso sanguinante, Cobb avvistò i suoi zatteroni di sughero sul pavimento e li raccolse in fretta scagliandoli fuori della porta. «Robaccia! Puzzolente! Vattene fuori!» e quando Starr Bright non si mosse abbastanza veloce da soddisfarlo lui l'afferrò di nuovo per la nuca pronto a scaraventarla attraverso la soglia dietro alle sue scarpe, ma in quell'istante improvvisamente non più inebetita e goffa come se Dio mi desse la forza, guidasse la mia
mano Starr Bright aveva tirato fuori il coltello dalla borsetta, lo afferrava stretto e con la lama affilata come un rasoio recise la gola di Cobb e lui gridò per lo stupore e l'orrore cominciando subito a sanguinare copiosamente, afferrandosi la gola come per tamponare il flusso, e Starr Bright si liberò di lui con un balzo, ansimando, mentre lui cadeva in ginocchio. «Cosa? Mio Dio... Aiutami...» Starr Bright osservò Billy Ray Cobb morire. In mezzo a una pozza di sangue scuro come olio che macchiava il tappeto nel pallido bagliore rosa fluorescente che tremolava dalla finestra. «Adesso l'avete capita! Attenti a voi! Tutti!» Nella luce del primo mattino, non ancora l'alba, regnava una calma sinistra. Era il silenzio del deserto occidentale, il vasto cielo dell'Ovest. Di sotto, nel cortile del Paradise Motel, la piscina a forma di fagiolo era naturalmente deserta, più piccola di come era apparsa la sera prima. Ed ecco lì il materassino che galleggiava sul lato più profondo, non a strisce come la bandiera americana, come aveva creduto Starr Bright, ma soltanto rosso e blu, plastica gonfiata, un po' consunta. Un giocattolo per adulti, con qualcosa di triste. Quasi impercettibilmente andava alla deriva sulla superficie liscia dell'acqua turchese, che era come una pelle stesa sopra qualcosa di vivo, invisibile, inviolabile, inconoscibile. Non erano ancora le sei. Senza fretta, Starr Bright lasciò la stanza 22 del motel, attraversò tranquillamente il cortile deserto fino all'area del parcheggio sul retro; aprì la berlina Infiniti grigio metallizzato con le targhette dell'autonoleggio; posò la sua valigetta screziata di Gucci sul sedile del passeggero, e la borsetta di paillette blu notte sopra la valigetta. Un osservatore, se ce ne fosse stato uno, avrebbe notato un'alta, composta donna bionda, piacevolmente attraente, in pantaloni di lino bianchi, camicetta di seta blu pallido, scarpe senza tacco. I capelli biondo cenere, ancora bagnati dalla doccia, erano spazzolati ordinatamente all'indietro. Gli occhi erano nascosti dietro occhiali così scuri da sembrare neri. L'impeccabile maschera del suo trucco non tradiva alcun segno d'allarme, e nemmeno di particolare preoccupazione. Come se fossi già stata qui prima. Nel Suo segno. E tutto ancora da venire, nella Sua terribile misericordia. Nel cielo orientale, dietro la facciata stile spagnolo di un vicino Holiday Inn, il sole del mattino stava emergendo dall'iridescente oscurità perlacea delle nuvole ammassate. Un occhio di fuoco onniveggente. Sotto il suo sguardo Starr Bright guidò l'auto poco familiare fuori dal parcheggio del
Paradise Motel e svoltò a sinistra sulla Statale 80, quasi deserta come se questo fosse sempre stato il piano, un destino tracciato per lei chiaro e infallibile come una mappa stradale. Avrebbe guidato verso sud e verso est sulla Statale 95 fino a Las Vegas dove, in mezzo alla marea di macchine del Caesar Palace, avrebbe abbandonato la Infiniti. Intendeva davvero, per quanto a lungo poteva, mantenere quell'occhio di fuoco di fronte a sé. SARA PARETSKY Che sia voluto o meno, che sia giusto, o appropriato, o piacevole per gli interessati, alcuni autori non possono essere menzionati senza che ne vengano in mente altri. Hammett e Chandler. Sayers e Christie. Paretsky e Grafton. Una di quelle singolari coincidenze di sincronia e circostanze portò al mondo due libri nello stesso anno, il 1982: Indemnity Only e "A" is for Alibi. Soltanto pochi anni fa, adesso sembra quasi un'altra vita, e la forte, intraprendente donna detective risvegliò nella metà dei lettori d'America la voglia di leggere libri su V.I. Warshawski e Kinsey Milhone e la loro progenie letteraria (e nell'altra metà quella di scriverli, sembra). Sì, Marcia Muller creò Sharon McCone quasi un decennio prima, e P.D. James dimostrò che Cordelia Gray era pari (se non superiore) a qualsiasi agente investigativo maschio, ma fu la combinazione di Grafton e Paretsky a proiettare il detective femmina nel personaggio più popolare e avidamente letto degli anni Ottanta, un appetito che a tutt'oggi non è scemato. Questo non è un racconto di V.I. Warshawski, ma un racconto che rivela un talento finora sconosciuto della prestigiosa scrittrice di gialli: se avesse indirizzato i propri sforzi in una direzione diversa, sarebbe stata una grande scrittrice di successo di romanzi sentimentali Harlequin. (Questa, nel caso non l'abbiate capito, è una battuta.) Casa cuore infranto I capelli di Natasha, neri e lucenti come l'ala di un corvo, incorniciavano il delicato ovale del suo viso. Raoul pensò che non era mai apparsa più desiderabile di adesso, con i suoi scuri occhi da cerbiatta pieni di lacrime, e di desiderio oltre le lacrime. «Non va affatto bene, tesoro» sussurrò lei, facendo appello a un valoroso sorriso. «Papà ha perso tutto il suo denaro. Io devo andare in India con
i Crawford per badare ai loro bambini.» «Tesoro, tu che fai la balia, è del tutto assurdo. E in quel clima. Non devi!» La sua faccia squadrata, virile, soffusa di colore, tradiva l'intensità dei suoi sentimenti. «Tu non hai nemmeno nominato il matrimonio» sussurrò Natasha, guardandosi i braccialetti ai polsi sottili, domandandosi se quelli, anche, dovevano essere venduti insieme ai diamanti di mamma. Raoul arrossì più intensamente. «Noi siamo fidanzati. Anche se le nostre famiglie non lo sanno. Ma come posso sposarti adesso, quando non ho alcuna prospettiva e tuo papà non può darti una dote...» Amy alzò lo sguardo. «Magnifico, Roxanne. Il tuo lavoro più valido, perdipiù. Raoul e Natasha si sposano alla fine?» «No, no.» Roxanne riprese il manoscritto. «Loro sono soltanto la prima generazione. Natasha sposa un proprietario terriero, non che possa mai innamorarsi di lui, e Raoul muore di febbre malarica nella giungla durante la guerra boera, con il nome di Natasha sulle labbra frementi. Sono i loro nipoti che alla fine si mettono insieme. Questo è il significato dell'ultima pagina.» Lei sfogliò il manoscritto e lesse a voce alta a Amy. Natalie non aveva mai conosciuto nonna Natasha, ma riconobbe il volto sorridente in capo al letto mentre abbracciava Ralph. Sembrava dicesse: "Buona fortuna e Dio vi benedica" e perfino, nella breve apparizione che colse di sfuggita prima di abbandonarsi all'amore, che facesse l'occhiolino. «Sì, sì, capisco» convenne Amy, domandandosi se ci fosse un'altra persona a New York, al mondo, che poteva usare "frementi" con la sincera intensità di Roxanne. «Molto nello spirito di Isabella Mende o Laura Esquivel.» Roxanne guardò altezzosamente la sua editrice. Lei non conosceva i nomi e non le importava impararli. Se Amy pensava che la stella della Gaudy Press aveva bisogno di copiare qualcuno, era tempo di avere una conversazione con Lila Trumbull, l'agente di Roxanne. Amy, un'esperta delle occhiate da cerbiatta della stessa Roxanne Craybourne, si chinò in avanti. «Tutti gli scrittori sudamericani premi Nobel ultimamente hanno fantasmi che ossessionano il loro lavoro. Pensavo che fosse una bella mossa mostrare al New York Times e a qualche altro snob, nel modo più delicato immaginabile, che tu sei pienamente consapevole
delle convenzioni letterarie contemporanee, ma scegli di farne uso soltanto quando puoi valorizzarle.» Roxanne sorrise. Amy era davvero molto carina. L'aveva dimostrato nel fine settimana in cui era rimasta a casa Taos, dopotutto. Era terribile essere così sospettosa di tutti da diffidare dei loro commenti più innocui. Ma se è per questo, quando pensava a quanto malamente l'aveva tradita Kenny... Amy, osservando il trapasso dal compiacimento alla tragedia sul viso della sua stella, si domandò quale tempesta nervosa dovesse sviare adesso. «Va tutto bene, Roxanne?» chiese con una voce gentile, altruista, che avrebbe sbalordito i suoi stessi figli e nipoti. Roxanne tirò su col naso, asciugandosi un accenno di lacrima dall'occhio sinistro. «Stavo solo pensando a Kenny, e a quanto mi ha trattata male. E poi vederlo scritto sullo Star e sul Sun. È già troppo sopportare la tragedia, senza trovarsela incollata in giro per i supermercati dove tutti i tuoi amici la vedono, e ti tormentano in continuazione. Per non menzionare l'insopportabile Mah Jongg club della mamma.» «Kenny? Come... le sue attitudini prevaricatorie non sono morte al termine della libertà condizionale?» Amy era slittata dalla premurosità materna al suo normale tono sardonico. Si maledisse non appena le uscirono fuori le parole, ma Roxanne, in pieno volo drammatico come una delle sue eroine, non l'aveva notato. «Pensavo che ci stesse provando.» Volteggiò affusolate dita ben curate, muscolose per il peso degli anelli che sostenevano. «Mamma continuava a dirmi che lui se ne stava solo approfittando, ma è il genere di cosa che dice sempre riguardo ai miei ragazzi, fin dal liceo, gelosa perché lei non ne ha avuti nemmeno la metà quando era giovane. E quando lui mi picchiò la prima volta e disse che era davvero dispiaciuto, naturalmente io gli ho creduto. Chiunque l'avrebbe fatto. Ma quando si portò via un milione in titoli al portatore fu semplicemente troppo. Cos'altro potevo fare? E poi, be', lo sai che ho dovuto passare mesi in ospedale.» Amy lo sapeva. C'erano state terribili riunioni a tarda notte alla Gaudy Press sulla notizia che Roxanne Craybourne poteva aver subito un danno cerebrale permanente l'ultima volta che Kenny Coleman l'aveva picchiata selvaggiamente. Perfino Roxanne, lasciando la clinica di riabilitazione dove aveva trascorso due mesi una volta uscita dall'ospedale, aveva deciso che non poteva perdonare questo a Kenny. Divorziò da lui, cambiò il suo sistema di sicurezza e trasferì il giardiniere ventiquattrenne che le portava fiori ogni giorno nell'appartamento padronale.
E poi, in undici settimane, si buttò a scrivere l'emozionante racconto di Natasha, l'eroina vittimizzata dal fidato seguace di suo papà, che si appropriò indebitamente di tutto il suo denaro. "Colato incandescente dalla penna liquefatta" fu lo slogan che la Gaudy avrebbe lanciato nella campagna pubblicitaria nazionale. «E sono terrorizzata che la prossima volta sposerà quel maledetto giardiniere» disse Amy al suo capo il mattino seguente. «Prima il terribile chirurgo che dormiva con le sue pazienti, poi Kenny e adesso un giardiniere che ha bisogno di un permesso di soggiorno.» Clay Rossiter ridacchiò. «Spediscile un regalo di nozze. Lei prospera su quel genere di situazioni.» «Sono io quella che deve tenerle la mano attraverso tutti questi esperimenti» disse brusca Amy. «Lei non prospera: lei vibra sull'orlo di un esaurimento nervoso.» «Ma Amy, dolcezza, non capisci? È questo che la rende un successo tanto fenomenale. Lei è la trovatella indifesa che salta fuori in Una ferita pulita, Sovrabbondanza di ricchezza e il resto. Lei crede nelle agonie di tutte quelle ebeti Glende e Corinne e, chi hai detto che era l'ultima, Natasha? L'hai convinta che non poteva intitolarlo Passaggio in India?» «È stata dura» disse Amy. «Naturalmente lei non aveva mai sentito parlare di E.M. Forster, e alla fine ho dovuto farle vedere la cassetta di Passaggio in India prima che mi desse ascolto. E perfino allora ha acconsentito a cambiare titolo soltanto quando l'ho persuasa che il patrimonio di Forster si sarebbe arricchito a sue spese perché i suoi ammiratori avrebbero comprato la cassetta pensando che la storia fosse di lei. E no, non ho la minima idea se lui ha un patrimonio o se questo procurerebbe diritti d'autore, e non andare nemmeno a parlarne con Lila Trumbull, per amor del cielo. Intitoleremo il tormento di Natasha Patto infranto. Oh, a proposito, Una ferita pulita si è piazzato al secondo posto nella lista dei tascabili. Ne stamperemo altre cinquecentomila copie.» Rossiter sorrise. «Continua semplicemente a darle la sua tisana. Mandale rose. Falle sapere che siamo i suoi migliori amici. Vedi se puoi inoculare qualche specie di vena viziosa nel giardiniere, ammesso che non ne abbia già una.» «Fallo tu» disse Amy, alzandosi in piedi. «Io ho un appuntamento con uno dei nostri pochi scrittori veri. Gary Blanchard ha fatto un libro stupendo, un'inchiesta d'attualità ambientata nel Dakota. Venderà attorno alle ottomila copie, diecimila se siamo fortunati. Patto infranto potrebbe consen-
tirci di dargli un anticipo.» Quando Amy se ne andò, Clay tornò al fax che aveva ricevuto da Jambon et Cie PLC, i proprietari dell'azienda a Bruxelles. Erano molto scontenti del rendimento della Gaudy nel terzo trimestre. È vero che avevano guadagnato, grazie all'efficace presentazione di Sovrabbondanza di ricchezza in edizione cartonata, ma la Gaudy aveva bisogno di altri autori di successo. Erano troppo dipendenti da Roxanne Craybourne, se avessero perso lei sarebbero rimasti a barcamenarsi con quattro gatti, i cosiddetti scrittori letterari che alla Jambon stavano facendo di tutto per scaricare. Se Clay Rossiter non voleva cercarsi un nuovo lavoro fra sei mesi, la Jambon si aspettava un progetto di marketing e cifre di vendite che mostrassero la flessibilità di mercato acquisita dal listino. Clay storse la bocca. Seguivano diciotto pagine di numeri, uno sfogo demente del tabulatore di chissà chi. Titolo per titolo, Bruxelles aveva esaminato il listino della Gaudy, con proiezioni di vendita basate sulla variazione del numero di copie sul mercato, l'ammontare dei cartelloni pubblicitari sulle fiancate degli autobus, il peso della carta usata nelle copertine, il numero di viaggi che ogni rappresentante faceva al reparto commerciale per aggiornare la contabilità. E da Clay ci si attendeva, in realtà gli si ordinava, che per la fine del mese desse una risposta scritta a tutte queste proiezioni. «La maledizione degli affari moderni non è la scarsità di capitale, la cattiva amministrazione, la bassa produttività, o la preparazione insufficiente, ma il personal computer» grugnì lui. La sua segretaria fece capolino attraverso la porta. «Hai detto qualcosa, Clay?» «Sì. Ragazzi idioti, e ragazze, che non hanno mai tenuto un libro in mano pensano di poter dirigere l'industria libraria da cinquemila chilometri di distanza perché hanno un microchip che gli permette di evocare scenari. Se avessero mai guidato un camion da un magazzino al mercato saprebbero che non puoi nemmeno dire quante copie ha ricevuto il negozio, figuriamoci... oh, be'. A che serve? Manda un messaggio giù a Amy che non può dare al suo nuovo beniamino letterario, come si chiama... Gary Blanchard?, più di ventimila dollari. Se vuole andarsene, che lo lasci andare. Se vedrò Farrar o Knopf sul dorso del libro quando uscirà non piangerò per la frustrazione.» Isabella tremava nelle sue braccia. «Non devo. Lo sai che non devo. Tua
mamma, se mi vedesse...» I capelli corvini, valorizzando la purezza lattea della sua pelle, le ricaddero a cascata sulle spalle quando Albion la tirò a sé più strettamente. «Lei imparerà ad amarti come ti amo io, mio splendido fiore messicano. Ah, come ho mai potuto pensare di essere innamorato prima?» Albion Whittley pensò pieno di disgusto a tutte le debuttanti viziate che aveva accompagnato in giro per New York City. Lui non era semplicemente Albion Whittley, c'era quel maledetto "IV" dopo il suo nome, a significare che i suoi genitori contavano che sposasse qualcuna del loro ambiente. Come poteva convincerli che la figlia del giardiniere fosse nettamente superiore a tutte le ragazze di Bennington che aveva dovuto frequentare? La purezza del suo cuore, la nobiltà dei suoi istinti, ogni centesimo che guadagnava ritornava a Guadalupe alla sua nonna invalida. «Albion, tesoro, ti stai gustando la tua piccola vacanza? Isabella, ho lasciato i guanti sulla mia toletta. Vammeli a prendere mentre mio figlio e io facciamo una chiacchierata.» La signora Albion Whittley Terza era apparsa sulla terrazza. La sua risata tintinnante e l'aria leggermente sarcastica fecero arrossire i due giovani. Albion lasciò cadere la mano di Isabella come se fosse stata lava fusa. La ragazza sparì dentro la villa... «Magnifico» si entusiasmò Amy, meravigliandosi della propria capacità di recitare. «Alla fine loro trionfano su ogni ostacolo? O è come per Natasha, capace di sperimentare la felicità solo attraverso la nipote?» Roxanne sembrava risentita. «Non racconto mai due volte la stessa storia. I miei lettori non lo tollererebbero. Albion entra nella Cia per dimostrare la sua virilità alla madre. Viene inviato in missione segreta in America Centrale, dove deve catturare un signore della droga. Quando viene ferito, Isabella lo trova nella giungla e lo fa guarire con le sue cure, ma il signore della droga è colpito dalla sua bellezza. Sapendo che la madre di Albion è implacabile, lei acconsente a diventare l'amante del signore della droga. Questo le apre una carriera nel jet-set in Brasile e in Spagna, e a Maiorca incontra la signora Whittley come una sua pari. Alla fine la Cia uccide il signore della droga e Albion, che non l'hai mai dimenticata, la libera dalla fortezza dove è stata incarcerata.» «Meraviglioso» disse Amy. «Solo non penso che possiamo intitolarlo La pista delle lacrime.» Cercò di spiegare quanto poco rispettoso questo poteva sembrare alla
comunità amerindia, ma rinunciò quando gli occhi della sua stella dardeggiarono d'ira. «Tutti sanno quanto sono buona con gli indiani che vivono nella mia proprietà a Taos. Non lascerò che mi rovinino il libro a causa di qualche battaglia di cent'anni fa che loro non possono dimenticare. E dopo il modo in cui mi ha trattata Gerardo, lui era mezzo indiano e se ne vantava sempre, penso che loro mi debbano un po' di considerazione, tanto per cambiare.» «Sono le librerie» disse Amy prontamente. «Così ignoranti. Ma noi non vogliamo che il tuo libro sia relegato tra la letteratura indiana, vero? I tuoi fedeli ammiratori lo vorranno vedere in bella mostra con la nuova fiction.» Alla fine si accordarono per L'oro del buffone, con una piramide centramericana che doveva apparire tutta frastagliata intorno a un'unica rosa. Roxanne si sistemò la giacchetta sulle spalle e porse la tazza per dell'altro tè. Non era nemmeno certa di volere una piramide centramericana. Non le avrebbe rammentato sempre l'infelicità che aveva provato quando Gerardo l'aveva tradita? Sua madre l'aveva avvertita, ma se era per questo, mamma era decisamente sempre in attesa di vederla soffrire. Amy, attenta al tremito del mento di Roxanne, chiese se la decisione sulla copertina la preoccupasse. «Faremo fare una serie di bozzetti a Peter. Lo sai che non siamo legate a quello che decidiamo oggi.» Roxanne protese una mano. Amy provava e riprovava, ma lei non era sensibile, dopotutto non era un'artista, lei viveva nel mondo delle vendite e dei rendiconti. «Tutta questa discussione mi sommerge di ricordi di Gerardo. La gente dice che lui mi voleva soltanto per il mio denaro. E per ottenere un permesso di soggiorno. Ma per l'amore non è impossibile fiorire tra un uomo di ventiquattro anni e una donna della mia età. Pensa soltanto a Cher. E malgrado tutte quelle ridicole prove video lei non ha affatto un aspetto migliore del mio.» Almeno questo era vero. La passione adolescenziale manteneva giovane Roxanne. La sua pelle in effetti poteva essere definita lattea, i suoi luminosi occhi scuri, infantili, fiduciosi. I suoi capelli castano chiari con riflessi ramati erano forse tinti a mano per conservare la loro giovanile sfumatura di colore, ma se non aveste saputo che aveva quarantasei anni avreste supposto che quegli intensi marroni e rossi fossero naturali. «Quando lo trovai a letto con la mia cameriera credetti a Gerardo, che lei aveva nostalgia di casa e lui la stava confortando. Mia madre mi schernì,
ma come è possibile vivere così cinicamente ed essere mai felice?» Roxanne protese le mani in un muto appello, due toccanti colombe, pensò Amy mormorando: «Sì, effettivamente.» «Ma poi, la notte che tornai da Cannes, li trovai insieme in piscina. Lui non era voluto venire a Cannes con me, dicendo che non doveva lasciare il paese finché il suo status di immigrato non fosse in regola, così io corsi a casa con un giorno d'anticipo solo per stare con lui, ma allora perfino io dovetti prendere atto, e lui avrebbe pagato per il suo aborto con il denaro che gli avrei dato io.» «Povera bambina» disse Amy, accarezzandole la mano. «Tu sei davvero troppo fiduciosa.» Roxanne alzò i suoi occhi da cerbiatta con muta gratitudine. Amy era così affettuosa, una vera amica, a differenza dei parassiti che volevano soltanto scroccare dal suo successo. «Qualcuno a Santa Fe mi ha suggerito di parlare con uno psichiatra. Come se fossi malata!» «Che cosa atroce» fece Amy scandalizzata. «E tuttavia, il giusto psichiatra, una donna comprensiva, forse, potrebbe ascoltarti in modo imparziale. Diversamente da tua madre o dai tuoi amici, che stanno sempre a giudicarti e rimproverarti.» «È questo che fanno gli psichiatri?» Roxanne spalancò gli occhi. «Ascoltare?» «Quelli bravi lo fanno» disse Amy. «Che cosa hai fatto?» urlò Clay Rossiter. «Sei tu quella che ha bisogno di uno psichiatra. Non possiamo permetterci che lei superi le sue nevrosi. Sono loro che fanno funzionare i suoi libri. Guarda, quindici settimane dopo aver trovato Raoul a letto con la sua cameriera lei tira fuori un best seller per noi. Possiamo fare una tiratura iniziale di un milione e mezzo di copie. Quella è la nostra busta paga per l'intero anno, Amy.» «Raoul era l'eroe di Patto infranto. Gerardo era il suo giardiniere. Non sei tu quello che deve darle da bere il tè e tirarle su il morale dopo che il mascalzone è stato scoperto. Per non parlare del portarla da Lutèce e prestare ascolto alla tempesta di passione mentre ha la forza di un uragano.» Clay sfoderò i denti. «È per fare questo che ti paghiamo, Amy. Tu sei la dannata curatrice della dannata stella. A lei piaci tu. Abbiamo perfino dovuto scriverlo nel suo ultimo contratto che lei avrebbe lavorato soltanto con te.»
«Non perderci sopra il sonno. Le probabilità sono contro il fatto che Roxanne inizi una terapia. È più probabile che rimedi qualche guru della New Age e viva una profonda esperienza mistica con lui.» Amy si alzò in piedi. «Sai che Gary Blanchard ha firmato con Ticknor & Fields? Sono davvero seccata, Clay. Avremmo potuto tenerlo per venticinquemila dollari: lui è molto modesto nelle sue esigenze e mi fa stare male perdere uno scrittore di talento.» «È modesto perché sa che nessuno vuole leggere opere artistiche. Lascia che lo abbiano Ticknor & Fields. Loro non hanno la Jambon et Cie che gli alita sul collo.» Clay raccolse il suo ultimo fax da Bruxelles e glielo sventolò davanti. Amy lo scorse. Jambon era deluso che Clay avesse respinto tutte le loro proposte di marketing, ma soddisfatto che avesse mollato Gary Blanchard. Tutte le proiezioni sul programma "Quattro" mostravano che ogni dollaro speso in pubblicità gli avrebbe fatto perdere trenta centesimi sulle corrispettive entrate per il lavoro di Blanchard. Decisamente, non volevano nessuno sul listino della Gaudy che vendesse meno di ventisettemila copie in edizione cartonata. «Questa non è editoria» disse lei, gettandoglielo indietro. «Dovrebbero mettersi nei cereali da colazione. È più adatto alla loro mentalità.» «Sì, Amy, ma sono i nostri padroni. Così, a meno che tu non voglia cercarti un lavoro sotto Natale, non metterti a ingaggiare nessun altro faro letterario. Non possiamo permetterceli.» «Ho sognato che andavo all'aeroporto per prendere il mio volo per Parigi, ma loro non mi lasciavano imbarcare in prima classe. Dicevano che ero sporca, e malvestita, e dovevo volare in seconda. Ma tutti i posti di seconda erano occupati, così dovetti andare con l'autobus, e il pullman si perdeva e finiva in questa tetra fattoria nel cuore del Kansas.» L'eminente psichiatra, coi miti occhi grigi commossi fino alle lacrime dalla bella ragazza sul divano di fronte a lui, sospirò e si agitò nella sua poltrona. Come poteva mai persuaderla che lei era abbastanza pulita, abbastanza bella, per la prima classe? Amy restò senza fiato. «Roxanne. Cara. Dov'è la storia?» «È qui. Di fronte a te. Hai dimenticato come si legge?» «Ma i tuoi lettori si aspettano passione, idillio. Non succede nulla. Il dottore non si innamora nemmeno di Clarissa.»
«Be', certo che lo fa, ma lo tiene per sé.» Roxanne raccolse il manoscritto e lo sfogliò. Cominciò a leggere a voce alta, facendo tintinnare enfaticamente gli anelli contro la sedia. Clarissa mise fiduciosamente la mano in quelle dell'uomo maturo. «Non sa quanto questo significhi per me, dottore. Trovare finalmente qualcuno che capisce che cosa ho passato.» Il dottor Friedrich si sentì rimescolare la carne. La sua calma professionale non era mai stata intaccata da nessuna paziente in precedenza, ma questa maschietta randagia, violentata dal padre, abbandonata dalla madre, così bisognosa di fiducia e di guida, era diversa. Desiderava ardentemente poterle dire: «Mia cara, vorrei che tu non pensassi a me come al tuo dottore, ma anche come al tuo più caro amico. Non ho altro desiderio che proteggerti dalle bufere del mondo tempestoso al di là di queste pareti.» Ma se parlava avrebbe perso per sempre la sua preziosa fiducia. Roxanne lasciò cadere le pagine con un tonfo, come se questo liquidasse l'argomento. «Be', perché lui non può sposarla?» domandò Amy. «Amy, tu non l'hai letto, vero? Lui ha già una moglie, solo che lei è in un istituto per malati di mente pericolosi. Ma la sua compassione è così grande che non può convincersi a divorziare da lei. Poi i cacciatori di nazisti lo scambiano per un uomo che gli assomiglia che era stato una guardia in un campo di prigionia, e lui viene arrestato. Si scopre che la moglie lo ha consegnato alla polizia, che la sua pericolosa infermità di mente le ha procurato un complesso di persecuzione e lei incolpa il marito per tutti i suoi guai. Così Clarissa deve trovarlo dietro la Cortina di Ferro, questo avviene nel 1983, dove lui è stato messo in un gulag, e lo libera. E la moglie ha un raptus quando scopre che lui è stato liberato. Questo la uccide. Ma Clarissa è già diventata una suora. Talvolta loro sognano l'uno dell'altro ma muoiono senza rivedersi.» Amy sbatté le palpebre. «Sembra un po' deprimente per i tuoi lettori, Roxanne. Mi domando se...» «Non stupirti con me, Amy» scattò Roxanne, gli occhi luminosi che dardeggiavano splendidamente. «Il dottor Reindorf dice che i finali lieti sono difficili da trovare. I miei lettori hanno bisogno di impararlo quanto me. Se continuano ad aspettarsi che ogni libro sia una panacea, resteranno a terra malamente come me, che mi aspetto che ogni uomo di cui mi innamoro risolva tutti i miei problemi.»
«Ti avevo avvertita» sibilò Clay. «La mandi dal fottuto strizzacervelli e cosa succede? Non possiamo far circolare tra i suoi lettori psicologia di bassa lega e un libro che nessuno comprerà. La donna non può scrivere, per amore di Cristo. Se perde la sua fantasia adolescenziale del vero amore, lei perde il suo pubblico.» «Forse il dottor Reindorf la tradirà malamente quanto Gerardo e Kenny, e quel chirurgo, il suo primo marito, che ci ha regalato Una ferita pulita.» «Non possiamo correre questo rischio» disse Clay. «Tu devi fare qualcosa.» «Io ho sessant'anni» disse Amy. «Posso accettare un pensionamento anticipato. Sei tu quello che è preoccupato al riguardo. Fai tu qualcosa. Fai mettere in giro dal settore pubblicitario una storia per il National Enquirer che Roxanne sta in terapia da un pedofilo.» Lei l'aveva detto per scherzo ma Clay pensò che valeva la pena fare un tentativo. Il personale pubblicitario lo cestinò. «Non possiamo alimentare storie riguardo i nostri stessi scrittori. L'editoria è una comunità di pettegolezzi. Qualcuno lo saprà, lo faranno trapelare a qualcun altro che ti odia e la prossima cosa che saprai è che Roxanne è passata alla Putnam e tu stai mangiando zuppa d'acqua viennese.» Clay cominciò a perdere il sonno. Analisi finale, pubblicato in argento con un suggestivo divano in copertina, uscì molto bene, ma il passaparola cominciò ad affossarlo prima che fosse pronta la seconda edizione. Balzò al terzo posto nella classifica del Times ma ci restò soltanto una settimana prima di precipitare al nono. Dopo cinque brevi settimane Analisi finale precipitò dalla classifica nel buco nero delle rese e delle svendite. I fax da Bruxelles furono abbastanza caldi da bruciacchiare il piano impiallicciato della scrivania di Clay Rossiter, mentre l'agente di Roxanne, Lila Trumbull, telefonava tutti i giorni incolpando Clay di non pubblicizzare il libro in modo appropriato. «Ma non puoi commercializzare lunghi sogni ottusi e la loro interpretazione» urlò Clay alla sua segretaria. «Come ho detto a Amy.» Clay licenziò Amy, per sfogarsi, poi dovette riassumerla il mattino seguente: nel suo contratto Roxanne aveva una clausola sul curatore editoriale. Avrebbe potuto lasciare la Gaudy se lo faceva Amy. «Solo che se continua a tirar fuori psicologia di bassa lega non avrà importanza. Molto presto perfino la Harlequin non vorrà averci a che fare. E, fra parentesi, noi non saremo in grado di permetterci te. Da quanto tempo è
che vede questo dannato strizzacervelli?» «Circa nove mesi. E l'ultima volta che è stata a New York è rimasta soltanto una notte in modo da non perdere una seduta. Così sembra che non stia seguendo il corso delle sue abituali infatuazioni.» «Lui non è a New York? E dov'è?» «A Santa Fe. Questa non è l'unica città munita di psichiatri, Clay.» «Sì, sono come i topi: dovunque trovi una popolazione umana, lì ci saranno loro, a mangiare i rifiuti» brontolò Clay. «Forse lui può precipitare da un altopiano.» Quando Amy se ne andò, lui fissò l'orologio. Erano le undici a New York. Le nove di mattina in New Mexico. Si alzò in piedi bruscamente e prese il suo soprabito da dietro la porta. «Ho l'influenza» disse alla sua segretaria. «Se qualche deficiente chiama da Bruxelles digli che ho la febbre alta e non posso parlare.» «A me sembri in salute» ribatté lei. «È il colorito caratteristico della febbre.» Fu fuori dell'ufficio prima che lei potesse rimproverarlo oltre. Richiamò con un cenno un taxi, poi cambiò idea. I poliziotti stavano sempre a interrogare gli autisti dei taxi. Optò per il lungo lento tragitto in metropolitana fino a Queens. Sul volo per Albuquerque si domandò come poteva fare per noleggiare una macchina. Aveva pagato il suo biglietto in contanti in modo da poter usare un nome falso, ma aveva bisogno di una patente di guida e di una carta di credito per noleggiare un'auto. Quando l'uomo accanto a lui si alzò per usare il bagno Clay frugò il taschino della sua giacca. Loro non si somigliavano affatto, ma nessuno controlla mai quelle fotografie. E fortunatamente quell'uomo abitava nel New Mexico. Non avrebbe sentito la mancanza della sua patente fin quando Clay gliela avesse rispedita per posta, con i contanti per il prezzo del noleggio, naturalmente. Risultò facile. Pateticamente facile. Telefonò al dottor Reindorf e gli disse la verità, che lui era l'editore di Roxanne, che loro erano tutti preoccupati per lei, e se poteva scambiare due parole in confidenza. Qualche posto tranquillo, remoto, dove non avrebbero corso il rischio che Roxanne vedesse Clay e si sentisse spiata. Reindorf suggerì un altopiano con la vista di Santa Fe, quando avrebbe terminato di vedere i pazienti della giornata. Clay prese il volo di ritorno a New York con un'ora d'anticipo. Il mattino dopo Amy si affacciò alla sua porta. Cominciò a chiedergli qualcosa, ma risolse che lui aveva sul serio l'influenza, i suoi occhi erano così gonfi. Fu
solo più tardi nella giornata che Roxanne le telefonò, sconvolta per la morte di Reindorf. «In qualche modo ha finito per andare all'obitorio per vedere la salma, non chiedermi perché» raccontò Amy alla segretaria di Clay, dal momento che Clay era andato di nuovo a casa, malato. «Gli sono passati sopra diverse volte con una macchina prima di buttarlo giù dall'altopiano. I poliziotti hanno portato dentro l'ex giardiniere di lei per interrogarlo, ma non sembra che sospettino di qualcuno.» «La notizia dovrebbe rianimare Clay» disse la sua segretaria. Le mani di Ancilla fluttuarono sui suoi fianchi come uccelli prigionieri. «Tu non capisci, Karl. Papà è morto. Il suo lavoro, non l'ho mai valutato adeguatamente, ma devo cercare di portarlo avanti.» «Ma, tesoro, è un fardello troppo pesante per te. Non è proprio un lavoro adatto per una donna.» «Ah, se sapessi cosa ho provato, quando l'ho visto; ho dovuto identificare il suo corpo dopo che gli sciacalli se ne erano pasciuti, nessun fardello potrebbe essere troppo grande per me ora.» Karl sentì l'orgoglio rimestargli dentro. Aveva amato Ancilla quando era stata una bella, volitiva ragazza, la più festeggiata di Vienna. Ma adesso, pronta ad assumere un ruolo di donna nella vita, ad addossarsi un carico che la maggior parte degli uomini avrebbero abbandonato, i tratti da bambina viziata erano caduti dalle sue labbra di ciliegia, donandole la bocca di una donna, soda, matura e desiderabile. «Lo adoro» disse Clay. «Sono in estasi. E lo intitolerete Il lavoro della vita? Sei riuscita a farglielo cambiare da Un lavoro inadatto per una donna? Ben fatto. Sono solo diciassette settimane che quello strizzacervelli è morto e lei è già guarita. Dovremmo essere in grado di stampare un milione, un milione e duecentomila copie facilmente. Spedirò un fax a Bruxelles. Andremo fuori a festeggiare.» «Io preferirei festeggiare qui.» Amy sbatté la porta dell'ufficio. «Abbiamo l'occasione di ingaggiare una nuova scrittrice davvero brillante. Il suo nome è Lisa Ferguson e ha scritto un romanzo straordinario sulla vita nel Kansas occidentale durante gli anni Sessanta. Diventerà la prossima Eudora Welty.» «No, Amy. L'esperienza ispanica è buona. Quella africana è possibile. Ma il Kansas rurale non è di alcun interesse per nessuno al giorno d'oggi,
tranne te. Io certamente non la proporrò a Bruxelles.» Amy si chinò sopra la scrivania. «Clay, Lila Trumbull mi ha telefonato diciassette settimane fa. Il giorno dopo che tu andasti a casa con l'influenza.» «Lei telefona in continuazione. Come fai a sapere che giorno era?» «Perché era quello in cui fu trovato il corpo dello strizzacervelli di Roxanne.» Amy sorrideva e parlava gentilmente, come a Roxanne in persona. «Lila pensava di averti visto all'aeroporto di Albuquerque il giorno prima. Si stava fermando per incontrare Roxanne sulla via di ritorno a New York da Los Angeles ed era convinta che mentre lei raccoglieva i suoi bagagli tu stessi noleggiando un'auto. Ti ha chiamato, ma tu eri così frettoloso che non l'hai sentita.» Clay si spostò sulla sedia. Quando aprì bocca venne fuori una specie di gracidio. «Io... lei... lei avrebbe dovuto chiedere al bancone del noleggio. Loro avrebbero potuto dirle che quel giorno nessuno noleggiò un'auto a mio nome. Comunque, io non avrei potuto essere lì. Ero a casa con l'influenza.» «Questo è ciò che le ho detto io, Clay. Tu eri a casa ammalato, e lei doveva essersi sbagliata. E questo è ciò che racconterò a chiunque altro faccia domande... Telefonerò all'agente di Lisa Ferguson e le offrirò trentamila dollari, d'accordo?» Clay la fissava vitreo, come un gufo impagliato. «Sicuro, Amy. Fallo.» Amy si alzò in piedi. «Oh, e... Clay, nel caso tu stia pensando quanto sarei bella sul fondo di un altopiano, o sotto un treno, spero ti ricordi che Roxanne ha una clausola per il curatore nel suo contratto. E l'ha chiarito in una dozzina di modi diversi che lei non vorrà lavorare con te.» La segretaria di Clay scese nell'ufficio di Amy pochi minuti dopo. «Può parlare lei con il vecchio signor Jambon a Bruxelles? Clay è di nuovo andato a casa malato. Spero che non abbia niente di serio che non va.» Amy sorrise. «Sta bene. Si è solo un po' sovreccitato questa mattina per il nuovo libro di Roxanne.» ANNE PERRY È l'ultimo decennio del ventesimo secolo, e le sensazioni associate con l'amore sono cambiate poco attraverso le epoche. A ogni modo, le convenzioni dell'amore, le consuetudini e le usanze, sono cambiate e mutate drammaticamente da un'era a quella seguente. Ed è per questo che quan-
do la regina del romanzo giallo vittoriano, Anne Perry, partorisce un delizioso piccolo rompicapo che ha origine nelle sfumature del rispettabile corteggiamento del XIX secolo, tutta l'attenzione va rivolta al passato dell'amore e non al suo presente. Ciò che oggi potrebbe sembrare semplicemente pittoresco, quando la parola di un uomo o l'onore di una donna non hanno più che un valore casuale, una volta era una questione di estrema importanza. In un mondo di maggiordomi discreti, lustri vassoi d'argento e cravatte annodate alla perfezione, Anne Perry è una impareggiabile guida, un'osservatrice tanto consumata di questa affascinante società scomparsa, quanto il ricattatore del suo titolo. Già una delle più popolari scrittrici di gialli dell'ultimo paio di decenni, l'autrice ha ricevuto enorme, seppure non desiderata, attenzione per il suo passato scoperto e rivelato di recente. Da adolescente in Nuova Zelanda, lei e la sua migliore amica assassinarono l'amico di sua madre mentre erano sotto l'influenza di un farmaco successivamente proibito. Da allora la sua vita esemplare non ha prodotto niente di più notorio della violenza romanzesca che le ha portato un vasto numero di lettori. Il ricattatore Il maggiordomo chiuse dietro di sé la porta dello studio. «Mi scusi, signore. C'è un giovane gentiluomo venuto a farle visita.» Protese il vassoio d'argento, offrendo a Henry Rathbone il biglietto da visita. Henry lo raccolse e lesse. Il nome James Darcy era solo vagamente familiare. Erano le nove e mezza di una serata di gennaio, e faceva un freddo pungente. I lampioni a gas in strada erano avvolti nella nebbia e le ruote delle carrozze stridevano nell'umidità, gli zoccoli dei cavalli attutiti dall'avvolgente oscurità. «Sembra molto agitato, signore» disse il maggiordomo osservando la faccia di Henry. «Mi ha implorato di chiederle se voleva riceverlo, dal momento che è in qualche genere di difficoltà, sebbene naturalmente non mi abbia messo a parte della sua natura.» «Allora penso che faresti meglio a farlo entrare» concesse Henry. «Non capisco come faccia a credere che potrei essergli d'aiuto.» E infatti non lo capiva. Lui era un matematico e un inventore occasionale, un amante di raffinati acquerelli che collezionava quando poteva permetterselo, e un inveterato cultore di negozi che trattavano qualsiasi cosa di vecchio. Gli pia-
cevano i segni della vita ordinaria, piuttosto che le antichità di valore. L'uomo che seguì il maggiordomo nella stanza era di statura media, colorito gradevole e lineamenti regolari. Era molto ben vestito. La sua cravatta era annodata alla perfezione, gli stivali brillavano e, a dispetto della sua evidente ansietà, si comportava con sicurezza. «È molto gentile da parte sua ricevermi, signore» disse, tendendo la mano. «Ancora di più dal momento che sono passato a un'ora così incivile. Per dirle la verità, mi sono dibattuto tutto il pomeriggio su cosa dovessi fare, e se dovessi o no avvicinarla.» Incrociò gli occhi di Henry con disarmante candore, e Henry vide in essi paura netta e intensa. «La prego si sieda, signor Darcy» lo invitò. «Un bicchiere di brandy? Dovrà avere freddo.» «In effetti ho freddo. Questo è davvero molto gentile da parte sua.» Darcy si spostò più vicino al fuoco e restò in piedi per un momento. Poi, come se le sue gambe avessero ceduto, crollò sulla poltrona, lasciando uscire il fiato in un tremante sospiro. «Sono in una situazione davvero terribile, signor Rathbone, e non posso tirarmene fuori senza l'aiuto di qualcuno come lei, un uomo di indiscussa reputazione. Mi stanno ricattando.» Sedeva completamente immobile, gli occhi blu fissi sul volto di Henry, come temendo la sua risposta, tuttavia incapace di spostare lo sguardo finché non l'avesse avuta. Henry versò il brandy e glielo porse. «Capisco. Lei sa da chi?» «Oh, sì» disse Darcy rapidamente. «Un uomo chiamato James Albury. Per mia disgrazia, lo conosco superficialmente.» Henry esitò. Non aveva mai incontrato il ricatto in precedenza, ma era disposto a fare ciò che poteva per aiutare questo giovane così palesemente in pena. Quale che fosse la sua debolezza o difetto, il tentativo di un altro uomo di approfittarne in questo modo era ingiustificabile. Era indelicato chiederlo, tuttavia al fine di prevedere le conseguenze della mancanza, lui doveva conoscere l'offesa originaria. Come se leggesse il suo dilemma, Darcy parlò, chinandosi un po' in avanti, la luce del fuoco che gli stemperava il pallore del viso. «Non ho commesso alcun crimine, signor Rathbone, o non la metterei nell'imbarazzo di rendersene complice. Se le racconto la mia storia, lei comprenderà.» Henry si accomodò all'indietro e, istintivamente, posò i piedi sul parafuoco. Le sue pantofole erano già ben bruciacchiate da quell'abitudine.
«Per favore, lo faccia» disse incoraggiante. Darcy sorseggiò il suo brandy, cullando il bicchiere tra le mani. «Stavo passando il fine settimana nella casa di campagna di Lord Wilbraham. C'erano diversi altri ospiti, tra loro la signorina Elizabeth Carlton, con la quale sono fidanzato.» Respirò profondamente e abbassò lo sguardo. Il rossore sulle sue guance era più forte del riflesso delle fiamme. Henry non interruppe. «Sarà necessario che lei conosca la geografia della casa» proseguì Darcy. «La serra è situata al di là di un soggiorno molto gradevole che contiene dei quadri piuttosto preziosi, in particolare alcune miniature persiane dipinte su osso. Sono piuttosto piccole, non più di pochi centimetri di larghezza, lavorate molto delicatamente con un pennello a una sola setola, così ho sentito dire. Il soggiorno non ha altre porte eccetto quella del salone d'ingresso.» Henry si domandò dove Darcy lo stesse portando. Presumibilmente aveva qualcosa a che fare con le miniature. Di nuovo Darcy sembrò a disagio. I suoi occhi lasciarono quelli di Henry e abbassò lo sguardo sul tappeto tra loro. «La prego di credermi, signor Rathbone, io sono devoto alla signorina Carlton. Lei è tutto ciò che un uomo possa desiderare: onesta, gentile, pudica, della natura più dolce...» A Henry venne in mente che questi erano eufemismi per dire che la ragazza era carente di spirito o umorismo, e più che un po' noiosa, ma sorrise e non disse nulla. Darcy si morse il labbro. «Ma io sono stato abbastanza sconsiderato da passare una parte della serata, molto più lunga di quanto avrei dovuto, in compagnia di un'altra giovane signora, soli nella serra. Ero andato lì, più per caso che di proposito, e quando udii Lizzie... la signorina Carlton attraverso le porte aperte del soggiorno non volli che mi vedesse venir fuori con la signorina Bartlett. Lei era... ehm... allegramente brilla, e... un tantino in disordine nel suo abbigliamento. Le si era impigliata la veste sulla fronda di una palma... e...» Spalancò gli occhi e fissò Henry con aria infelice. «Capisco» disse Henry con notevole compassione. La verità della faccenda poteva essere come diceva Darcy, o poteva non esserlo. Non stava a lui giudicare. «Dov'è che entrano in ballo le miniature?» «Due di esse furono rubate» disse Darcy con voce rauca. «L'allarme fu dato non appena se ne accorsero, e dalle circostanze era ovvio che furono
sottratte prima che Lizzie entrasse nel soggiorno, anche se lei disse di non aver notato la loro assenza.» «E il ricatto?» chiese Henry. «È l'ipotesi che le abbia prese lei quando passò per entrare nella serra?» «Sì. Furono viste poco prima di questo!» La voce di Darcy si alzò per l'angoscia. «Si rende conto del mio dilemma? Io sono stato tutto il tempo con la signorina Bartlett. Lei giurerebbe per me che non l'ho fatto, e che non potrei averle prese! Ma se lei facesse così, allora Lizzie saprebbe che io ero nella serra con la signorina Bartlett... e confesso, signor Rathbone, che sarebbe più doloroso per lei, e di considerevole imbarazzo per me. La reputazione della signorina Bartlett è... meno che...» «Non ha bisogno di spiegarmelo nei dettagli.» Henry si chinò in avanti e attizzò il fuoco, aggiungendo altri due o tre pezzi di carbone. «In aggiunta a ciò» continuò Darcy «se io dovessi dimostrarmi innocente, la povera Lizzie si troverebbe costretta a dover dimostrare di essere innocente anche lei. Naturalmente lo è! Lei è onesta come di più non si può, ed è erede di una somma considerevole. Non sarebbe più che spiacevole per lei. Nessuno potrebbe immaginare... Ciononostante, io non posso...» «Comprendo la sua situazione» disse Henry con simpatia. In effetti, era molto evidente, come lo era il suo conflitto di emozioni sulla ricca signorina Carlton, che non avrebbe avuto una piacevole opinione del suo amoreggiamento, vero o presunto, con la signorina Bartlett. «Ma non so come posso essere d'aiuto. Che cosa pretende da lei il signor Albury? Non lo ha detto.» «Oh, denaro!» rispose Darcy con disprezzo. «E naturalmente se dovessi pagarlo una volta, allora non ci sarebbe nulla sulla Terra che possa impedirgli di tornare alla carica tutte le volte che gli pare.» La sua voce salì vicina al panico, e c'era disperazione nei suoi occhi. «Se gli cedo una volta, potrebbe dissanguarmi finché non mi resterà nulla!» Aveva le mani serrate davanti a sé. «Ma se non lo faccio, non mi lascia altra alternativa che farmi rovinare da lui o difendermi a spese di Lizzie, e della fine del mio fidanzamento e della mia felicità futura.» Si piegò in avanti e si coprì la faccia con le mani. «Dio, sono stato un pazzo a restare in quella maledetta serra, ma non c'era alcuna cattiva intenzione in questo, lo giuro!» Henry provò un'intensa pietà per lui. Era un atto di stupidità davvero leggero, come qualsiasi uomo giovane poteva commettere. Probabilmente la maggior parte degli uomini giovani l'aveva fatto, sentendo i vincoli del matrimonio e i legami domestici accerchiarli, e cogliendo un'ultima oppor-
tunità per un lieve amoreggiamento. Darcy era stato scoperto per una straordinaria sfortuna. Ma Henry non aveva la minima idea di come poterlo aiutare. Tentò di dirgli qualcosa che potesse almeno essergli di conforto, e non trovò nulla. Darcy alzò lo sguardo. «Signor Rathbone, io riesco a pensare soltanto a un modo per sventare i piani di questo mascalzone...» «Davvero?» Henry si sentì molto sollevato. «Di grazia, mi dica come, e io farò tutto ciò che posso per aiutarla, e con il più grande piacere.» Lo intendeva veramente. Darcy si tirò su e raddrizzò le spalle. Bevve un altro salutare sorso del suo brandy e posò il bicchiere. «Signor Rathbone, se lei, e qualche gentiluomo altamente rispettabile e stimato di sua conoscenza, so che ce ne sono molti, poteste venire nel mio appartamento e nascondervi nella camera attigua al salotto, con la porta socchiusa, io potrei affrontare Albury e indurlo ad ammettere a viva voce esattamente quello che sta facendo. Allora si sarebbe rovinato con la sua stessa bocca. Con testimoni come voi contro di lui, una parte disinteressata la cui reputazione nessun uomo metterebbe in dubbio, penso che non oserebbe insistere oltre nel suo piano. Avrebbe da perdere quanto me, o forse perfino di più. Nessun uomo d'onore può tollerare un ricattatore.» «Precisamente!» disse Henry quasi con entusiasmo. «Credo proprio che lei abbia la risposta, signor Darcy. E io ho almeno una dozzina di conoscenze che sarebbero felici di dare il colpo di grazia a un soggetto simile, considerandolo un servizio all'umanità. Lord Jesmond è il primo che mi salta in mente. Se a lei sta bene, lo sentirò domani.» «Più che bene, signore» disse rapidamente Darcy. «Un ammirevole gentiluomo, e il suo biasimo potrebbe rovinare Albury, o qualsiasi uomo abbastanza sciocco da meritarselo. Non so da dove cominciare per esprimerle quanto le sono grato. Sarò per sempre in debito con lei, come lo sarà la mia cara Lizzie, anche se lei non lo saprà mai.» Si alzò in piedi e tese la mano impulsivamente. «Grazie, signor Rathbone, con tutto il cuore!» Due giorni più tardi, in un pungente, gelido pomeriggio, con il ghiaccio che crepitava nelle pozzanghere e un incolore cielo invernale che prometteva una notte rigida, Henry Rathbone e Lord Jesmond scendevano dalla carrozza e si presentavano all'alloggio di Darcy a Mayfair. Non avevano usato il tiro di Lord Jesmond nell'eventualità che la sua presenza in quei paraggi facesse nascere nel ricattatore il sospetto di avere un testimone ai
suoi traffici. Furono accolti sulla porta da Darcy, che piuttosto comprensibilmente era in uno stato di considerevole ansietà. Aveva gli occhi lucidi e il colorito febbricitante. Si muoveva a scatti, quasi trascinandoli dentro, con una mano sul braccio di Henry che ritirò balbettando delle scuse non appena si rese conto della sua familiarità ingiustificata. Henry lo presentò a Lord Jesmond. «Le sono immensamente grato, signore» disse Darcy con calore. «È una gentilezza inestimabile da parte sua essersi interessato in questo modo alla mia causa. Non potrò mai ripagarla.» «Non c'è bisogno, mio caro ragazzo» lo rassicurò Jesmond, stringendo caldamente la mano tesa. «Una cosa ignobile, il ricatto. Il tipo merita di essere frustato, ma suppongo che uno spavento maledettamente giusto servirà allo scopo, e senza mettere a repentaglio il suo buon nome o la sua felicità futura. Ebbene, dove possiamo aspettare in modo da osservare questo sciagurato senza essere visti?» «Da questa parte, signore.» Darcy si girò e li condusse in una stanza molto gradevole, ammobiliata con poltrone e un piccolo tavolo intagliato di stile orientale. Il caminetto era in stile Adam, e sopra la mensola c'era una collezione quanto mai caratteristica di dipinti del paesaggio del Capo di Buona Speranza. Candelabri d'ottone di una certa eleganza agli angoli, e un fuoco vivace che rendeva la stanza molto accogliente. Darcy li guidò a una porta sulla parete di fondo, nella gelida stanza da letto visibilmente inutilizzata, nella quale non c'era mobilio eccetto un largo paravento di seta cinese. «Sono spiacente» si scusò. «So che qui dentro fa un freddo cane ma, se accendessi il fuoco, Albury potrebbe chiedersi perché, e io ho il disperato bisogno di farla finita con questa faccenda. Ho paura che se non riesco questa volta, potrei non avere un'altra opportunità. Lui è un mascalzone, ma non è uno sciocco.» «Proprio così, mio caro ragazzo» disse immediatamente Lord Jesmond. «La prossima volta potrebbe scegliere di incontrarla in un luogo all'aperto, e allora? Al diavolo il freddo e la pioggia! Va benissimo, le assicuro. Ingegnoso quel paravento, in caso dovesse guardare dentro. Oserei dire che non è casuale, vero?» Sorrise, forse tentando di rasserenare Darcy. Darcy rispose con un sorriso. Ma la sofferenza e lo spettro della paura nella sua espressione erano troppo evidenti perché almeno Henry non li cogliesse.
«Non si preoccupi» disse gentilmente. «Lui non solleverà di nuovo il problema, una volta che l'avremo colto sul fatto. Ma il suo atteggiamento angosciato sarà tutto a nostro vantaggio. Adesso accosti la porta, e noi aspetteremo qui, dietro il paravento.» «Grazie ancora, signori» disse Darcy con fervore, poi fece come richiesto. Un attimo dopo la porta era quasi chiusa, e Henry e Jesmond si ritrovarono soli non vedendo nient'altro che la seta delicatamente ricamata del paravento. Il silenzio era così completo che quasi crepitava. Non c'era alcun rumore di passi o voci di domestici. Probabilmente, chiunque accudisse ai bisogni di Darcy era stato mandato fuori di casa per commissioni di una specie o l'altra. Non c'era nemmeno il sibilo della fiamma o l'assestarsi dei pezzi di carbone al di là della porta. L'intera casa sembrava aver trattenuto il respiro. Alla fine arrivò una voce che non era quella di Darcy, la sommessa, insinuante voce beneducata di un uomo avvezzo al fascino e alla scioltezza delle buone maniere. Ma Henry vi percepì il timbro più acuto del nervosismo, quel più di asprezza, il piccolo spazio per il respiro di un uomo che sa di essere intento a un affare pericoloso, e di avere qualcosa da vincere o perdere. «Dunque, Darcy, non perdiamo tempo in convenevoli che nessuno di noi due prende sul serio. Spero che tu stia bene. Tu ti auguri che io incorra in una disgrazia letale che ti libererebbe da ogni rischio da parte mia. Facciamo conto che questo sia stato detto. Ma io sono vivo e in eccellente salute, e sembro deciso a restare tale, a meno che tu non sia abbastanza sconsiderato da cercare di assassinarmi! Ma ho preso alcune precauzioni contro questo.» Rise bruscamente. «E sembrerebbe una reazione eccessiva a quella che è, dopotutto, una richiesta abbastanza modesta per un uomo con i mezzi economici che avrai tu quando avrai sposato la signorina Elizabeth Carlton.» Ci fu un momento di silenzio. «Maledetto!» disse Darcy con voce strozzata. «E non mi risulta che esistano ostacoli» continuò Albury «tranne la tua incapacità a farmi un favore.» La voce di Darcy arrivò tagliente. «In che maniera "farti un favore"?» «Oh, andiamo!» disse Albury disgustato. «Non fare il timido con me. Tu mi comprendi benissimo. Abbiamo già messo bene in chiaro le nostre posizioni.» Non c'era impazienza nella sua voce. Per Henry, in piedi al freddo dietro il paravento cinese, in essa c'era una nota di piacere, come se lui assaporasse il suo potere e non avesse alcuna fretta di far finire quel mo-
mento. Lo stesso pensiero doveva essere venuto a Darcy, poiché l'istante successivo la sua voce arrivò del tutto chiaramente, un po' più alta. «Stai godendo, miserabile! Ti consideravo, se non un amico, almeno una persona degna di rispetto. Mio Dio, quanto avevo torto! Non sei idoneo ad attraversare la soglia di qualsiasi casa onesta!» «Tu non sei affatto in condizione di criticare, mio caro Darcy, figuriamoci lanciare insulti» replicò Albury divertito. «Quante soglie pensi che ti sarebbe concesso varcare se fosse risaputo che ti sei appropriato di due squisite e preziose miniature persiane del tuo ospite?» «Io non l'ho fatto!» disse disperatamente Darcy. «Io...» «Davvero?» fece Albury incredulo. «Allora senza dubbio lo proverai e mi coglierai in fallo per false accuse, quando racconterò a tutti quello che so.» «Io...» Darcy quasi singhiozzava. Henry lanciò un'occhiata a Jesmond. Darcy stava recitando la sua parte fin troppo bene. Forse aveva meno fiducia nel suo piano di quanto era sembrato averne prima. Albury apparentemente lo aveva privato della sua sicurezza. La collera di Henry contro di lui quasi traboccò. Il ricatto era uno dei crimini più spregevoli, una lenta e deliberata tortura. «Potrai sempre pagarmi, come convenuto» disse distintamente Albury. «Venti sterline al mese, ritengo, mi manterrebbero nel lusso al quale mi piacerebbe abituarmi, senza proprio ridurti sul lastrico. Dovrai rinunciare ad alcune delle piacevolezze della vita di cui godi adesso. Il tuo buon chiaretto dovrà andarsene, le visite all'opera, le camicie nuove piuttosto regolari. Dovrai indossare i tuoi stivali un tantino più a lungo di quanto fai ora. E suppongo, almeno fino al tuo matrimonio, non sarai in grado di essere proprio così generoso con la signorina Carlton.» «Maledetto!» disse Darcy ferocemente. «Questo è ricatto!» «Certo che lo è!» replicò Albury, con tono molto divertito. «Intendi dire che te ne sei reso conto soltanto adesso?» «No.» La sicurezza era tornata, Darcy sembrava un uomo diverso. «No, ho sempre saputo che lo era; volevo semplicemente sentirtelo dire. Perché il ricatto è un crimine, e piuttosto grave, e io ho dei testimoni della nostra conversazione. E questo, credo, mi dà un eguale vantaggio su di te.» «Cosa?» Albury era allibito. «Dove?» Henry si spostò da dietro il paravento proprio mentre la porta veniva spalancata e uno scuro, magro giovanotto se li trovò di fronte, la bocca a-
perta, gli occhi pieni di orrore. «Il signor Darcy ha proprio ragione» disse Henry avanzando per far vedere anche Lord Jesmond. «Noi abbiamo sentito per intero il vostro scambio di opinioni, signor Albury, e le consiglierei vivamente di andarsene da qui e non menzionare mai con nessuno la faccenda finché avrà vita. Si consideri fortunato a essere scampato alla rovina e al processo. Lei non otterrà un centesimo da Darcy. In cambio, né Lord Jesmond né io stesso parleremo del suo spregevole comportamento. Rimarrà segreto quanto lo è adesso.» Albury indietreggiò lentamente, voltandosi a fissare Darcy con odio. «Niente» ribadì Darcy, indicando la porta opposta e l'uscita. «Lascia la mia casa e non mettere mai più piede qui dentro. Se dovessi incontrarti in società, ti tratterò civilmente, per onorare il nostro patto.» Henry e Jesmond entrarono nel salotto, felici del calore. Il fuoco scoppiettava nel focolare. Darcy vi aveva sistemato altri pezzi di carbone. C'era sollievo nell'aria, un senso di vittoria. «Patto?» Albury girò gli occhi dall'uno all'altro in preda alla collera e alla frustrazione. «Io non ottengo nulla, e tu la fai franca con il furto! Quanto valgono quelle miniature? Un centinaio, duecento? Di più? Le venderai e te la passerai magnificamente.» «Io non le ho prese» disse Darcy con fervore. «Non ho mai rubato nulla in vita mia.» «No?» gli occhi di Albury si spalancarono con esagerata incredulità. «No» disse fermamente Darcy. «Allora perché non hai detto così al momento, e non mi hai mandato all'inferno?» C'era un sorriso ammiccante sul viso di Albury e i suoi occhi erano lucidi e intensi. «Perché per fare questo avrei dovuto ammettere che ero in compagnia di una giovane donna diversa dalla mia fidanzata, e per un tempo più lungo di quanto lei potrebbe capire. Inoltre, ciò avrebbe provocato la congettura che...» Darcy si interruppe improvvisamente, forse rendendosi conto di avere detto molto più di quanto dovesse, e sollevato proprio i dubbi che voleva evitare. Albury sorrise, mostrando denti molto belli, che trasformavano il suo viso. «Intendi dire che poteva suggerire che le avesse prese la stessa signorina Carlton? Certo che potrebbe essere! In effetti sarà stato così! E ci sarebbe una certa giustizia in questo.»
«Sarebbe mostruoso!» disse Darcy furiosamente. Fece un passo avanti, i pugni stretti sui fianchi. «Non ti azzardare mai più a dire una cosa simile. Mi senti? O mi prenderò il grande piacere di frustarti finché sarai costretto a mangiare i tuoi pasti in piedi dalla mensola del caminetto, signore.» «Potrebbe anche essere vero» replicò Albury senza muovere un passo. «Lei si spinge troppo oltre, signore» Jesmond alla fine fece un passo avanti. «Diffamare il nome di una signora quando lei non è qui a difendersi è imperdonabile. Lei ritirerà immediatamente la sua calunnia, e poi se ne andrà finché è ancora tutt'intero e può uscirne con nient'altro di leso che il suo onore.» Henry stava fissando i due giovanotti e le emozioni scolpite così profondamente nei loro tratti. Uno strano pensiero gli si agitava nella mente. «È un'assurdità» protestò Darcy. «Lizzie non farebbe mai una cosa simile. Chiunque la conosca lo sa! Lei ha tutti i mezzi che può desiderare, ed è onesta come la luce del giorno.» «Ma è una donna» disse Albury, ignorando Lord Jesmond e guardando soltanto Darcy. «E capace di provare gelosia quanto il suo prossimo.» Darcy deglutì. «Gelosia?» disse rauco. «Certo! Credevi che lei non sapesse che eri nella serra con Belle Bartlett, o non si raffigurasse fin troppo bene cosa ci facevate in mezzo alle orchidee invernali e le palme nei vasi? Allora sei uno stupido!» Darcy inghiottì. Sembrava scosso da un leggero tremito, come se nonostante il calore nella stanza avesse freddo dentro. «Le ha prese lei» continuò Albury. «Allo scopo di comprometterti. Lei sa di sicuro, meglio di chiunque altro, che non le hai prese tu. Ma vedrà te, o la signorina Bartlett, accusati del furto, nel pensiero se non a parole oppure, in mancanza di questo, lo terrà sospeso sulla tua testa per il resto della vostra vita in comune.» «Non lo dire mai più!» disse Darcy tra le labbra asciutte, la voce soffocata in gola. «Mai più, mi senti?» Albury protese la mano. «Cinquanta sterline, una tantum.» Darcy si voltò e andò a un piccolo scrittoio in fondo alla stanza. Aprì il piano superiore, e da uno scompartimento tirò fuori diverse banconote. Senza una parola le offrì a Albury. «Un momento!» Henry lo raggiunse e chiuse la mano sopra quella di Darcy, impedendo ad Albury di prendere il denaro. «Lei non ha bisogno di pagarlo.» «Sì che devo!» disse Darcy disperatamente. «Dio solo lo sa, io non pos-
so sposare Lizzie adesso. Sarebbe un tormento ogni giorno, ogni notte. Dovrei vedere la gelosia nei suoi occhi ogni volta che la guardassi. La nostra vita sarebbe insopportabile. Ogni volta che parlassi cortesemente a un'altra donna dovrei temere ciò che lei potrebbe fare. Ma non si può uccidere così facilmente l'abitudine all'amore, non in un colpo solo, per quanto duro. Io proteggerò il suo onore di fronte agli altri. Non c'è bisogno che nessuno sappia, tranne lei stessa e suo padre.» Si morse il labbro. «Dovrò parlare con lui. Il nostro patto non può sussistere. Ma farò questo per lei almeno. Mi lasci la mano, signore.» Henry mantenne la presa. «Ciò che desidera dare al signor Albury, o perché, è affar suo, signor Darcy, ma non ha bisogno di pagarlo allo scopo di proteggere la signorina Carlton. Lei non è colpevole di nient'altro che di aver sbagliato forse a giudicare un individuo.» «Non so cosa intenda dire» protestò Darcy. «Si è comportata in modo spregevole. Ha tentato per gelosia di bollare come ladra la signorina Bartlett!» «Perché sapeva che voi eravate insieme nella serra?» domandò Henry. «Evidentemente.» «Allora sapeva che come la signorina Bartlett poteva giurare sulla sua innocenza riguardo al furto, anche lei, Darcy, poteva e avrebbe giurato su quella di lei! Questo avrebbe lasciato la stessa signorina Carlton sospetta di colpevolezza, proprio nel modo in cui ha detto il signor Albury.» Darcy impallidì, lanciò un'occhiata a Albury, poi di nuovo a Henry Rathbone. Fece come per parlare, ma non venne fuori neppure una parola. «Ma mio caro amico, non ha alcun senso» disse Jesmond in estrema confusione. «Devi esserti sbagliato.» «Ha perfettamente senso» spiegò Henry. «Se consideri la storia dall'inizio, non come il signor Darcy voleva farci credere. Prendi tutti i fatti come lui li ha descritti. Un giovanotto, fidanzato a una giovane donna, si scopre molto attratto verso un'altra, forse più vivace. Lui non può mancare alla parola data alla prima. Legalmente questo è rottura di promessa, e socialmente è un suicidio per uno che abbia ambizioni considerevoli. Sarebbe anche improbabile che questo gli faccia guadagnare la mano della donna che desidera. Il padre di lei, anch'esso ricco e di posizione eminente, non la concederebbe.» Darcy adesso era color cenere. «Lui deve trovare un'altra via d'uscita» proseguì Henry. «La giovane
donna non lo lascerà. Lui deve creare una causa onorevole per lasciarla, una in cui lui resti senza macchia, libero di perseguire le proprie ambizioni. A una festa in una casa di campagna l'opportunità si presenta da sé e l'idea nasce. Ha bisogno soltanto dell'aiuto di un bravo attore.» Lanciò un'occhiata a Albury, che adesso era al colmo dell'imbarazzo. «E di due testimoni di indubbia reputazione, e per natura irreprensibili, desiderosi di fare giustizia, e forse un tantino sprovveduti sui comportamenti dei giovanotti con troppo pochi scrupoli e troppa avidità di successo.» «Santo cielo!» Jesmond era inorridito. Henry guardò di nuovo Darcy. «Non senta di aver interamente fallito, signor Darcy. Non appena informerò dell'accaduto la signorina Carlton, lei la lascerà libero di seguire la signorina Bartlett, o chiunque altra desideri. Sebbene io dubiti che Sir George Bartlett vorrà accettarla nella sua famiglia, più di quanto non farei io. Non le sono stato utile per quello che lei aveva in mente, ma sono in effetti servito a uno scopo. Vieni, Jesmond.» Fece strada fino alla porta poi, con Jesmond alle calcagna, si voltò indietro. «Non dimentichi che è in debito con il signor Albury per un eccellente pezzo di recitazione! Buona giornata, signori!» SHEL SILVERSTEIN Per chiunque abbia mai sognato di creare racconti o poesie, di disegnare, o scrivere canzoni e commedie, ma non sia riuscito del tutto a trovare l'originalità di espressione che lo salvi dal pedestre, Shel Silverstein è l'incubo peggiore. Quando gli si chiede di scrivere i versi per una canzone, lui non ha bisogno di più di quindici minuti. Una commedia potrebbe richiedergli un intero fine settimana. Quando gli chiesi di scrivere un racconto per questo libro, lui disse: «Be', io non ho mai scritto un racconto sul crimine in vita mia. Aspetta, ho un'idea.» Non ha fatto neppure una pausa per prendere fiato tra queste due frasi. La favola che segue, non è un racconto nella forma tradizionale, è quell'idea. Nelle sue varie case, lui ha cassetti pieni di canzoni e racconti e favole e disegni e commedie e poesie che non ha mai avuto il tempo di spedire al suo agente o ai suoi editori. Quando si è concentrato abbastanza a lungo da raccogliere i suoi pezzi brevi in un libro, è entrato subito nella classifica dei best seller del New York Times. Non per due settimane. Non per due mesi. The Light in the Attic è rimasto
in classifica per più di due anni! Shel Silverstein si è offerto di scrivere un altro pezzo se un giorno compilerò un'altra antologia. Io ho detto: «E se tu non riuscissi a tirare fuori un'idea?» Lui è apparso assolutamente sconcertato dall'ipotesi. Per ciò che lei aveva fatto Lei doveva morire. Questo Omoo lo sapeva. Sapeva anche che lui non poteva ucciderla. Nemmeno cercare di ucciderla. Quegli occhi. Lo avrebbero guardato. Nemmeno provarci. Allora, cosa fare? C'era un certo Ung. Che viveva in una caverna. Oltre la dura montagna. Una fetida caverna. Lontano dal villaggio. Ung, che cacciava con le pietre. Che uccideva con le mani. Che aveva ucciso due tigri coi denti a sciabola. E un grande orso la cui pelliccia adesso pendeva dalle sue spalle pelose. E Ung aveva ucciso uomini. Molti uomini. E, si diceva, una donna. Ung, che prendeva la carne fresca lasciata sopra la roccia piatta per lo Spirito del Cielo. E lo Spirito del Cielo avrebbe sofferto la fame. E portato dolore e tenebra al villaggio. Ma nessuno osa dire una parola a Ung. Che aveva ucciso due tigri coi denti a sciabola. E un grande orso. E uomini, molti uomini. E, si diceva, una donna. Lui andò da Ung. Sì, disse Ung, io la ucciderò. Per quello che lei ha fatto, disse Omoo. Per un egual peso, disse Ung, in carne d'orso o pelli di lucertola. Lei è una donna grossa, disse Omoo. Egual peso, disse Ung. Ora tu devi venire e mostrarmela, così che io possa ucciderla. Questo non posso farlo, disse Omoo.
Allora come la riconoscerò? I suoi capelli sono lunghi, disse Omoo. I suoi occhi bruciano come le pozze della notte. Molte hanno i capelli lunghi, disse Ung. Molte hanno occhi come le pozze della notte. Lei si starà bagnando, disse Omoo. Domani, mentre muore il sole. Lei si starà bagnando. Lavando i suoi lunghi capelli alla cascata. Molte donne si staranno bagnando, disse Ung. Molte donne dai capelli lunghi, dagli occhi di notte. Come saprò che è lei? Omoo pensò. Ah, disse, lei porterà fiori. Vividi fiori di collina, che io raccoglierò e metterò nelle sue mani, prima che lei vada a bagnarsi alla cascata. Allora tu la riconoscerai. E tu la ucciderai. Per egual peso, disse Ung. Sì, disse Omoo, per egual peso. E così ebbe inizio l'usanza di donare bouquet e fiori a ornamento del corpetto. DONNA TARTT Un problema comune a molti lodati romanzi della nuova generazione di scrittori è la mancanza di storia. Sebbene non sempre i personaggi principali possano piacerci, essi sono ben disegnati e pienamente costruiti. Il dialogo potrà essere fragile e frequentemente prevedibile, ma è vivo e vero. Luoghi e atmosfera entrano in piena vista, anche se non sono necessariamente quali noi preferiremmo. Ma niente accade. I racconti si muovono su un lungo tratto di strada e poi si fermano. L'intera esperienza è soddisfacente quanto una di quelle barrette di cibo consumate dagli astronauti. Una sapeva di bistecca e forniva le stesse sostanze nutritive, ma non era la cosa autentica. E non lo era nemmeno la barretta che sapeva di gelato al cioccolato. Il primo romanzo di Donna Tartt, The Secret History, viceversa, è la cosa autentica. Tutta la grandiosa scrittura dei più dotati narratori di lingua
inglese, certo, ma anche una storia vera: una trama, quella grande rarità tra gli scrittori "seri" della narrativa contemporanea. E, non meno importante, una buona trama. L'autrice non è una scrittrice veloce, così non c'è stato alcun libro che seguisse quell'immenso successo iniziale. Perfino i racconti brevi le richiedono secoli per essere prodotti. Come ammiratore del suo lavoro, volevo che Donna Tartt fosse in questo libro. La regola inflessibile era che tutti i racconti dovevano essere originali, scritti appositamente per questo libro. Abbiamo strizzato l'occhio alla regola, visto che questa è una poesia. Era stata letta precedentemente da circa undici abbonati alla Oxford Review. Un vero crimine Le cose si stavano facendo scottanti nell'Idaho. Sorridendo, Strangolato, nel suo inconfondibile fuoristrada rosso e argento, Smaniava al nome dell'attrice Elke Sommer. La luna piena sembrava tirare fuori il peggio da lui. Proprio come la vicina ventottenne Debra Earl. Lake Charles, Louisiana. Prognosi: povero. Dopo un ballo a notte tarda alla sala VFW, Le autorità ritrovarono un diario, un fucile prediletto, lo scontrino Di un antigelo. «Ho un problema. Sono Un cannibale.» Parlava di progetti Per una laurea, un commercio in dolciumi part time. Silhouette del suo primo amore delle elementari, Erano graffiate sulla canna del suo fucile. FINE