Ian McEwan
Bambini nel Tempo 1988
Titolo originale The Child in Time 1987 Traduzione di Susanna Basso ISBN 8806129767...
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Ian McEwan
Bambini nel Tempo 1988
Titolo originale The Child in Time 1987 Traduzione di Susanna Basso ISBN 8806129767
Bambini nel Tempo
a Penny
Ringraziamenti Sono grato agli autori dei seguenti testi: Christina Hardyment, Dream Babies, Jonathan Cape, London 1983; David Bohm, Wholeness and the Implicate Order, Routledge & Kegan, London 1980; Joseph Chilton Pearce, Magical Child, Dutton, New York 1977. HMSO Manuale per l'educazione del bambino Her Majesty's Stationery Office = Istituto Poligrafico dello Stato
Capitolo primo ...e per quei genitori, per troppi anni fuorviati dal pallido relativismo di sedicenti esperti di educazione infantile... Manuale per l'educazione del bambino, HMSO Da tempo ormai, tanto il governo quanto la maggioranza dei cittadini, associavano mentalmente le sovvenzioni ai trasporti pubblici con la negazione della libertà individuale. I vari servizi subivano due regolari collassi giornalieri nelle ore di punta ed era opinione di Stephen che si impiegasse meno tempo a raggiungere Whitehall a piedi che prendendo un taxi. Era fine maggio, da poco passate le nove e mezza e la temperatura sfiorava già i 25°. Stephen si diresse sul Vauxhall Bridge superando doppie e triple file di vibranti automobili intrappolate, ciascuna abitata da un conducente solitario. Data la situazione, il perseguimento della libertà era più rassegnato che entusiastico. Dita inanellate tamburellavano con pazienza su roventi tettucci metallici, gomiti di camicie bianchissime spuntavano dai finestrini abbassati. Qualcuno teneva il giornale aperto sul volante. Stephen attraversava spedito la folla facendosi largo tra le chiacchiere da autoradio: sigle pubblicitarie, energetici disc-jockey da primo mattino, notiziari flash, bollettini sulle condizioni del traffico. I guidatori non impegnati nella lettura prestavano a tutto ciò un ascolto indifferente. L'avanzare regolare e compatto della folla sui marciapiedi doveva comunicare loro un senso di moto relativo, come una lenta deriva all'indietro. Nel suo procedere a saltelli e zig-zag, Stephen era come sempre attento, anche se in modo quasi inconsapevole, a registrare la presenza di bambine, o meglio di una bambina sui cinque anni. Era qualcosa di più di un'abitudine, perché le abitudini si possono anche interrompere. Questa era una disposizione radicata, l'impronta indelebile che l'esperienza aveva lasciato su un'indole. Non si trattava neppure più di una vera e propria ricerca, sebbene un tempo avesse assunto le caratteristiche di una caccia ossessiva; ormai era come una voglia, una fame molesta. Esisteva un cronometro biologico, impassibile nella sua inesorabilità, che consentiva a sua figlia di crescere, ne arricchiva e complicava il vocabolario, la rendeva più forte, la faceva muovere con maggiore scioltezza. Il congegno, potente come un cuore, si manteneva fedele a un'incessante ipoteticità; magari adesso stava
disegnando, magari imparava a leggere, forse cambiava un dente da latte. Probabilmente ormai era presenza nota, un dato di fatto. Gli pareva che a furia di ipotesi avrebbe finito con l'esaurire quell'incertezza, col lacerare la sottile membrana semi-opaca i cui fili fatti di tempo e di casualità lo separavano da lei. E allora avrebbe potuto dire: adesso è a casa da scuola ed è stanca, il suo dente sta sotto il cuscino, lei sta cercando il suo papà. Ogni bambina di cinque anni, ma funzionava persino coi maschi, alimentava il pensiero del suo continuare ad esistere. Nei negozi, nei pressi di un parco giochi, in casa di amici, Stephen non poteva fare a meno di cercare Kate negli altri bambini, non riusciva a ignorarne il lento cambiare, il maturare di abilità. E percepiva il potenziale inutilizzato delle settimane e dei mesi, del tempo che avrebbe dovuto essere suo. Il crescere di Kate era diventato per lui l'essenza stessa del tempo. Quella crescita fantasmatica, prodotto di una sofferenza ossessiva, non era soltanto ineluttabile, poiché nulla poteva arrestare il portentoso cronometro, era necessaria. Se avesse cessato di fantasticare sul suo esistere ancora, sarebbe stato perduto, il tempo si sarebbe fermato. Era il padre di una bambina invisibile. Qui a Millbank, però, si vedevano solo ex bambini che si trascinavano a lavorare. Più in là, poco prima di Parliament Square, c'era un gruppo di accattoni autorizzati. Non potevano sostare nella zona del parlamento, di Whitehall e nelle vicinanze della piazza. Ma alcuni di essi cercavano di sfruttare la confluenza di percorsi dei pendolari. Stephen ne intravide i distintivi sgargianti un centinaio di metri prima. Il clima li favoriva ed essi esibivano con impertinenza la loro scelta di libertà. Toccava agli stipendiati di riuscire a evitarli. Una dozzina di mendicanti si lavoravano il marciapiede su entrambi i lati, avanzando verso di lui e superando le ondate di folla. Ora Stephen stava osservando una ragazzina. Non di cinque anni; questa volta era un'adolescente tutta pelle e ossa. Si era accorta di lui a una certa distanza. Avanzava piano, sonnambulicamente e tenendo protesa la ciotola nera regolamentare. La folla degli impiegati si separava e richiudeva al suo passaggio. Procedeva, puntando lo sguardo su Stephen. Lui provò il solito dissidio interiore. Dare dei soldi significava favorire il successo del programma governativo. Non darne, voleva dire ignorare più o meno risolutamente l'indigenza di un individuo. Non c'era via di scampo. L'arte di un cattivo governo consiste nel rendere netta la linea che separa la condotta pubblica dal sentimento privato, dalla percezione istintiva di ciò che è giusto. Ultimamente lasciava decidere al caso. Se si ritrovava qualche spicciolo in tasca, lo dava. Se no, niente. Non arrivava mai alle banconote. La ragazza era abbronzata per tutti i giorni passati al sole in mezzo a una strada.
Aveva addosso un sudicio vestitino di cotone giallo e portava i capelli cortissimi. Forse l'avevano rasata per i pidocchi. Man mano che si avvicinava, Stephen si accorse che era carina, con un faccino malizioso tutto efelidi e il mento un po' a punta. Non doveva trovarsi a più di sei metri di distanza quando, con un balzo in avanti, afferrò da terra un chewing-gum ancora umido e luccicante. Se lo cacciò in bocca e iniziò a masticare. La piccola testa si piegò indietro con aria di sfida e riprese a guardare nella direzione di Stephen. Infine gli fu davanti, con la classica ciotola tesa. Aveva scelto lui già da qualche minuto, il solito trucco. In preda allo sgomento, Stephen aveva estratto un biglietto da cinque sterline dalla tasca posteriore. La ragazza mantenne un'espressione impassibile mentre lui appoggiava la banconota sul resto delle monete. Appena la mano di Stephen fu vuota, lei afferrò il denaro, se lo accartocciò stretto stretto in un pugno e disse, passando oltre, «Fottiti, mister». Stephen allungò una mano sulla piccola spalla ossuta e la strinse. «Che cosa hai detto?» La ragazza, voltandosi, si liberò dalla stretta. Fece gli occhi sottili e la vocina flebile «Ho detto, grazie, signore». Era già fuori tiro quando aggiunse, «Sporco capitalista!» Stephen le restituì un mite rimprovero mostrando le mani vuote. Sorrise a labbra chiuse per farle intendere la propria immunità a quel genere di insulti. Ma la ragazzina aveva già ripreso il suo uniforme procedere sonnambulico giù per la via. Stephen la osservò per un minuto buono prima di perderla tra la folla. Lei non si voltò indietro. La Commissione governativa sull'educazione dell'infanzia, che come tutti sapevano, rappresentava un impegno privilegiato del primo ministro, aveva formato quattordici sottocomitati in vestiti del preciso compito di rivolgere appelli ai genitori. Loro reale funzione, sostenevano i cinici, era quella di trovare una mediazione soddisfacente per gli ideali di una miriade di categorie coinvolte (gli influenti gestori di catene di fast-food e pasticcerie, i produttori di abiti, giocattoli, alimenti dietetici e fuochi d'artificio, gli istituti di beneficenza, le associazioni femminili, le iniziative dei genitori del gruppo Pelican Crossing) che esercitavano pressioni incrociate. Ben pochi tra gli opinion-makers avevano rifiutato di offrire al progetto i propri servizi. Si era generalmente d'accordo sul fatto che il paese era sovrappopolato di individui indesiderabili. Esistevano tesi convinte su ciò che un buon cittadino dovrebbe essere e su come fosse possibile pianificarne lo sviluppo attraverso una corretta formazione dell'infanzia. Facevano tutti parte di un sottocomitato. Persino Stephen Lewis, autore di libri per ragazzi, che vi era approdato esclusivamente grazie all'appoggio dell'amico Charles Darke, il
quale peraltro aveva rassegnato le proprie dimissioni poco dopo l'inizio dei lavori. Quello di Stephen era il sottocomitato che si occupava di lettura e scrittura, sotto la guida dell'insidioso Lord Parmenter. Ogni settimana, nei mesi riarsi di quella che si sarebbe rivelata come l'ultima estate decente del ventesimo secolo, Stephen partecipava alle riunioni in una tetra sala di Whitehall, la stessa nella quale, secondo le informazioni raccolte, erano stati organizzati i bombardamenti notturni sulla Germania nel '44. Avrebbe avuto parecchio da dire su argomenti come lettura e scrittura in altri periodi della vita, ma nel corso di queste sessioni, Stephen tendeva a sistemare le braccia sul grande tavolo lucido, a reclinare il capo in atteggiamento di rispettoso ascolto e a non dire nulla. Di recente, passava gran parte del tempo da solo. Una stanza piena di gente non solo non riduceva in lui la tendenza all'introspezione, come si era augurato, ma la intensificava e le conferiva migliore articolazione. Per lo più pensava a sua moglie e sua figlia e a che cosa voleva fare di sé. Oppure si interrogava sull'improvviso abbandono della carriera politica da parte di Darke. Di fronte c'era una finestra alta che, anche in piena estate, non lasciava filtrare un solo raggio di sole. Fuori, un rettangolo d'erba tagliata con cura circondava un cortile grande abbastanza per ospitare una mezza dozzina di limousine ministeriali. Autisti fuori servizio vi si intrattenevano fumando e lanciando sguardi privi di interesse ai membri del comitato. Stephen inseguiva sogni a occhi aperti e ricordi, le cose com'erano e come avrebbero potuto essere. O chissà, forse erano loro a inseguire lui. Di quando in quando, pronunciava uno dei suoi discorsi obbligatoriamente creativo, atti d'accusa ora pungenti ora tristi, che sempre subivano meticolose revisioni prima della stesura finale. E intanto prestava un ascolto svagato al procedere dei lavori. Il comitato si divideva in teorici, quelli che avevano organizzato i propri pensieri tanto tempo prima o che se li erano trovati già bell'è pronti, e pragmatisti, quelli che speravano di scoprire l'essenza del proprio pensiero mentre lo andavano formulando. La buona creanza, pur non venendo mai meno, era messa sovente a dura prova. Lord Parmenter presiedeva con dignitosa e studiata assenza di originalità, indicando la scelta del successivo oratore con un tremolio rotatorio di occhi senza ciglia eternamente socchiusi, levando un braccio peloso per dominare passioni, o lanciandosi con lingua asciutta nelle sue rare dichiarazioni frammentarie e impacciate, alle quali soltanto il doppiopetto scuro garantiva una provenienza umanoide. Aveva un modo aristocratico di gestire il luogo comune. Un lungo e stizzito dibattito a proposito delle teorie di sviluppo del bambino era stato portato a una provvidenziale battuta d'arresto dal suo intervento autorevole: «I ragazzi son sempre ragazzi». La diffusa avversione infantile per acqua e sapone, la facilità nell'apprendimento e la tendenza a una crescita troppo rapida,
furono oggetto da parte sua di altrettanti assiomi complessi. La banalità di Lord Parmenter era sprezzante, spavalda nella rivelazione di un uomo troppo importante e inattaccabile per preoccuparsi di quanto poteva sembrare imbecille. Non gli occorreva far buona impressione. E non si sarebbe mai abbassato a tentare di dire anche solo qualcosa di interessante. Stephen non dubitava che si trattasse di un uomo acuto. I membri del comitato non ritenevano necessario approfondire la conoscenza reciproca. Una volta terminate le lunghe riunioni, mentre fogli e manuali tornavano disordinatamente in cartella, avevano inizio conversazioni cortesi che proseguivano lungo i corridoi bicolori e si spegnevano in echi allorché il comitato si avviava giù per lo scalone di graniglia, per poi disperdersi tra i vari piani del parcheggio sotterraneo del ministero. Per tutti i soffocanti mesi di quell'estate, e anche dopo, Stephen compi la sua camminata settimanale fino a Whitehall. Era il suo unico impegno in un'esistenza altrimenti priva di obblighi. La maggior parte di tanta libertà la trascorreva in mutande, allungato su un divano davanti alla televisione, sorseggiando scotch liscio, leggendo riviste dal fondo al principio o guardando le olimpiadi, affidandosi all'umore del momento. Di sera, beveva di più. Pranzava e cenava solo, in un ristorante della zona. Non faceva alcuno sforzo per mantenere i contatti con gli amici. Non richiamava mai chi lasciava messaggi alla sua segreteria telefonica. Per lo più era indifferente allo squallore del suo appartamento, compresi i mosconi neri con i loro pigri voli di perlustrazione. Quando era fuori, detestava l'idea di tornare ad affrontare lo scoraggiante schieramento di oggetti domestici, quel particolare afflosciarsi delle poltrone vuote, circondate da piatti sporchi e giornali vecchi. Era la cospirazione testarda delle cose, lavabo, divano, lenzuolo, o sporco per terra, a restare esattamente come erano state lasciate. Anche a casa non riusciva mai ad allontanarsi granché dai soliti temi: la figlia, la moglie, il da farsi. Qui però gli veniva a mancare la concentrazione necessaria a sostenere nel tempo un pensiero. Fantasticava a frammenti, senza controllo, in modo quasi automatico. I membri del comitato attribuivano grande importanza alla puntualità. Lord Parmenter arrivava sempre per ultimo. Prendendo posto a sedere richiamava all'ordine i presenti con una sorta di leggero gargarismo che introduceva abilmente alle parole di apertura della seduta. Il segretario del comitato, un certo Peter Canham, stava alla sua destra, con la sedia un po' arretrata rispetto al tavolo, per sottolineare il suo distacco. A Stephen veniva soltanto richiesto di assumere un atteggiamento decorosamente sveglio per due ore e mezzo. Tale dignitoso contesto gli era noto dagli anni della scuola, dalle centinaia di migliaia di ore trascorse in classe ma dedicate a divagazioni mentali. Persino la stanza aveva qualche cosa di famigliare. Gli
pareva di riconoscerne gli interruttori delle luci in bachelite marrone, i fili elettrici inelegantemente sistemati alle pareti in grappoli di cavi polverosi. Nella sua scuola, l'aula di storia assomigliava molto a questa: la stessa ampiezza logora e generosa, lo stesso lungo tavolo malconcio che qualcuno si ostinava a incerare, quel pigro mescolarsi di un'antica grandezza a un'assonnata atmosfera impiegatizia. Quando Parmenter, con insidiosa cordialità, diede lettura dell'ordine del giorno, Stephen tornò a sentire la morbida cadenza gallese del suo insegnante che declamava le glorie della corte di Carlomagno o il susseguirsi ciclico di corruzione e riforme nel papato medievale. Dalla finestra non vedeva più i confini del parcheggio e le limousine cotte dal sole ma, come da quell'aula al secondo piano, un roseto, i campi sportivi, una balaustra di pietra grigia e infine terra incolta, che si stendeva fino alle querce e ai faggi e più in là, fino al lungo tratto di sponda del fiume di marea, un miglio d'acqua da una riva all'altra. Erano un tempo e un paesaggio perduti; vi era tornato una volta per scoprire che gli alberi erano stati abbattuti, la terra coltivata, e l'estuario attraversato da un cavalcavia dell'autostrada. E poiché ogni cosa perduta si allacciava al suo tema, gli fu facile di lì riandare a un gelido giorno di sole all'entrata di un supermercato di South London. Teneva per mano la bambina. La piccola indossava una sciarpa di lana rossa fatta a mano da sua madre e si stringeva al petto un asinello tutto consumato. Si stavano dirigendo all'ingresso. Era sabato, c'era tanta gente. Lui la teneva ben salda per mano. Parmenter aveva finito, e ora uno dei ricercatori universitari esponeva con voce malferma i vantaggi di un alfabeto fonetico messo a punto di recente. I bambini avrebbero imparato a leggere e scrivere prima e divertendosi un mondo, senza poi faticare, si garantiva, nel passaggio all'alfabeto convenzionale. Stephen teneva in mano una matita con l'aria di chi ha intenzione di prendere appunti. Aggrottava la fronte e faceva lievi cenni col capo, ma non sarebbe stato facile stabilire se per mostrare approvazione o incredulità. Kate aveva quell'età in cui il germogliare del suo linguaggio e le idee che ne districava le procuravano incubi. Non le riusciva di raccontarli a mamma e papà, ma era chiaro che contenevano elementi tratti dai libri di fiabe, un pesce parlante, un grosso scoglio con dentro un'intera città, un mostro tutto solo con tanto bisogno di affetto. E quella passata era stata una notte di incubi. Julie si era alzata parecchie volte per andare da lei, e alla fine non era riuscita a chiudere occhio che ben oltre l'alba. Ora tentava di recuperare. Stephen preparò la colazione e vestì Kate. Era vivacissima a dispetto della notte di tormenti, impaziente di andare a fare la spesa e di montare sul carrello del supermercato. La stranezza del sole in una giornata tanto fredda la rendeva eccitata. Per una volta, decise di
cooperare alla sua vestizione. Si mise in piedi tra le ginocchia del padre e si lasciò guidare gambe e braccia nella biancheria invernale. Il suo corpo era sodo, perfetto. Stephen la sollevò e le affondò il viso nella pancia fingendo di morderla. Il corpicino odorava di latte e di calore notturno. La piccola squittì contorcendosi e quando fu a terra lo pregò di farlo di nuovo. Le abbottonò la camicia di lana, l'aiutò a infilare il maglioncino pesante e le infilò la tuta. La bimba intonò una vaga melodia astratta che si perdeva in un misto di improvvisazioni, filastrocche e frammenti di cori natalizi. La sedette sulla sedia che fino a quel momento aveva occupato lui, le infilò le calze e le allacciò gli stivali. Mentre le stava inginocchiato di fronte, lei gli accarezzò i capelli. Come tante bambine aveva nei confronti del padre un atteggiamento curiosamente protettivo. Prima di uscire di casa si sarebbe accertata che si fosse abbottonato il cappotto fino al collo. Stephen portò a Julie una tazza di tè. Era mezzo addormentata, con le ginocchia raccolte al petto. Disse qualcosa che andò perduto fra i cuscini. Lui infilò una mano sotto le coperte e le massaggiò le reni. Voltandosi, Julie si portò al seno il viso di lui. Si baciarono ed egli le sentì in bocca il sapore spesso e metallico del sonno. Al di là della penombra della stanza da letto, Kate seguitava a cinguettare il suo miscuglio sonoro. Per un attimo, Stephen fu tentato di abbandonare l'idea della spesa e sistemare Kate davanti alla Tv con qualche libro. Avrebbe potuto scivolare sotto il peso delle coperte accanto alla moglie. Avevano fatto l'amore poco dopo l'alba, ma, assonnati come erano, non avevano concluso granché. Adesso lei lo accarezzava assaporando il dilemma di lui. La baciò un'altra volta. Erano sposati da sei anni, un periodo di adattamenti lunghi e impalpabili alla folla di principi che regolavano il piacere fisico, i doveri domestici e il bisogno di solitudine. Trascurare uno degli elementi significava produrre il caos anche negli altri. Persino ora, stringendo tra il pollice e l'indice il capezzolo di Julie, Stephen non aveva cessato di fare i suoi calcoli. Dopo quella notte insonne e una mattina di spese, Kate poteva aver bisogno di riposare un poco verso mezzogiorno. E allora avrebbero potuto contare sul fatto di non essere interrotti. Quante volte nei desolati mesi e negli anni che vennero poi, Stephen si sarebbe sforzato di rivivere quel momento, di aprirsi a ritroso un cunicolo tra le pieghe degli eventi, infilarsi sotto le coperte e modificare la sua decisione. Il tempo, però, non necessariamente nella sua vera essenza, che tutti ignoriamo, quanto nella rappresentazione che se ne fa il pensiero, nega una seconda chance, con fermezza monomaniacale. Il tempo assoluto non esiste, così gli aveva ripetuto la sua amica Thelma in varie occasioni, non come entità indipendente. Ne esiste solo un nostro discernimento fragile e particolare.
Cedendo al dovere, Stephen decise di rimandare il piacere. Strinse fra le sue la mano di Julie e si alzò. Kate gli venne incontro nell'ingresso, parlando ad alta voce e levando in alto il suo asinello di pezza. Lui si piegò ad annodarle la sciarpa rossa con un doppio giro intorno al collo. Ora lei era in punta di piedi per controllargli i bottoni del cappotto. Si tenevano per mano ancora prima di aver superato la porta d'ingresso. Uscirono con la risolutezza di chi affronta una bufera. La via, una delle arterie meridionali della città, pulsava di traffico rabbioso. Il ricordo di quella pungente giornata anticiclonica sarebbe stato accompagnato da una luce di vivida chiarezza, dalla cinica messa a fuoco dei dettagli. Nel sole, accanto ai gradini, c'era una lattina schiacciata di coca-cola con la cannuccia ancora al suo posto, in tutta la sua tridimensionalità. Kate voleva recuperarla, Stephen si oppose. Proprio lì, presso un albero, come illuminato da una luce interna, un cane stava cacando e faceva fremere le cosce, levando al cielo un'espressione sognante. L'albero, una quercia sfinita, aveva la corteccia intagliata di fresco, contorni schietti, lucenti; solchi nerissimi d'ombra. Il supermercato distava due minuti a piedi, lungo la strada a quattro corsie, nei pressi di un passaggio pedonale. Nel punto in cui si fermarono per attraversare c'era un salone di esposizione e vendita di motociclette, sede di raduni internazionali per motociclisti. Uomini dallo stomaco a forma d'anguria se ne stavano in logori calzoni di pelle appoggiati o seduti cavalcioni sulle loro macchine ferme. Quando Kate si tolse di bocca la nocca che stava succhiando per indicare da quella parte, il sole ancora basso illuminò un dito fumante. Lei, comunque, non trovò parole per esprimere ciò che vedeva. Infine attraversarono davanti a una fila di auto che, raggiunto il salvagente stradale, ringhiavano impazienti di rimettersi in marcia. Kate cercò con lo sguardo la signora dei lecca-lecca, quella che la riconosceva sempre. Stephen le spiegò che oggi era sabato. C'era tanta gente, la tenne ben salda per mano mentre si dirigevano all'ingresso. Tra voci, grida e il fracasso elettromeccanico dei registratori di cassa, trovarono un carrello. Kate sorrideva immensamente soddisfatta, accomodandosi nel suo seggiolino. I clienti del supermercato si dividevano in due categorie, distinte come tribù o nazioni. Alla prima appartenevano i proprietari di case vittoriane rammodernate. Alla seconda, gli inquilini di condomini o di edifici del comune. I primi tendevano a comprare frutta e verdura fresca, pane integrale, caffè in grani, pesce fresco al banco, vino e liquori; gli altri, verdura congelata o in scatola, fagioli precotti, minestre istantanee, zucchero raffinato, dolci confezionati, birra, liquori e sigarette. Sempre al secondo gruppo appartenevano pensionati che acquistavano carne per il gatto e biscotti per sé. O giovani madri, esaurite dalla fatica, con le labbra
contratte intorno a una sigaretta che qualche volta si lasciavano andare durante la coda alla cassa e rifilavano una sberla al bambino. Nel primo gruppo, invece, figuravano giovani coppie senza figli e ben vestite, che alla peggio sembravano avere un po' di fretta. Anche qui c'erano madri che andavano a far spese con la baby-sitter o padri come Stephen, di quelli che comprano il salmone fresco e fanno il proprio dovere. Che altro prese? Dentifricio, fazzoletti di carta, detersivo, la pancetta più cara, un cosciotto di agnello, bistecche, peperoni verdi e rossi, ravanelli, patate, carta per alimenti, una bottiglia di scotch. E chi c'era con lui mentre tendeva la mano verso questi articoli? C'era qualcuno che seguiva il suo procedere tra corridoi di scaffali spingendo Kate sul carrello, qualcuno che restava qualche passo indietro se lui si fermava, che fingeva di interessarsi a un'etichetta per poi riprendere il percorso insieme? Era tornato indietro un migliaio di volte, aveva rivisto la propria mano, uno scaffale, la merce accatastata, aveva sentito il chiacchierio di Kate e aveva tentato di spostare lo sguardo, di sollevarlo contro il peso del tempo, di trovare quella figura nascosta ai margini del suo campo visivo, quell'individuo che era stato sempre al suo fianco o alle sue spalle e che, in preda a un singolare desiderio, andava calcolando le probabilità o più semplicemente, aspettava. Ma il tempo inchiodava la sua vita a quelle commissioni e tutto intorno a lui vaghe forme scure senza contorno scivolavano alla deriva dissolvendosi irrimediabilmente. Un quarto d'ora dopo erano alla cassa. C'erano otto casse parallele. Prese posto dietro una breve coda vicinissima all'uscita perché sapeva che l'impiegata era veloce. Aveva davanti tre persone quando fermò il carrello e non vide nessuno alle sue spalle voltandosi per sollevare Kate dal seggiolino. La piccola si stava divertendo e non le andò a genio che fosse già finito. Si mise a frignare e impigliò un piedino nel carrello. Dovette sollevarla molto in alto per poterla districare. Registrò la sua irritabilità con soddisfazione svagata: era segno evidente di stanchezza. Alla fine di questa breve lotta, c'erano solo due persone in coda e una di queste stava per andarsene. Stephen fece il giro intorno al carrello per scaricarne il contenuto sul nastro rotante. Kate si teneva alla grossa sbarra all'estremità opposta del carrello facendo finta di spingere. Dietro di lei non c'era nessuno. Ora il cliente davanti a Stephen, un uomo con la schiena curva, stava per pagare parecchie scatole di cibo per cani. Stephen depositò i primi articoli sul nastro. Sollevando la testa dal carrello è possibile che avesse registrato la presenza di una figura in soprabito scuro dietro a Kate. Ma non si trattò di una consapevolezza, anzi, di un debolissimo sospetto risuscitato da una memoria disperata. Quel soprabito
poteva essere un vestito o un sacchetto della spesa o il frutto stesso della sua immaginazione. Era impegnato in questioni pratiche, tutto assorto nel loro compimento. La sua soglia di consapevolezza era bassissima. L'uomo del cibo per cani se ne stava andando. La cassiera era già al lavoro, le dita di una mano picchiettanti sulla tastiera mentre con l'altra si avvicinava gli acquisti di Stephen. Mentre prendeva il salmone dal carrello, rivolse lo sguardo a Kate e le fece l'occhiolino. Lei lo imitò goffamente, arricciando il naso e strizzando tutti e due gli occhi. Stephen posò il pesce e chiese alla ragazza un sacchetto. Quella si chinò a prenderne uno sotto il banco. Stephen lo prese e si voltò. Kate non c'era più. Non c'era nessuno in coda dietro di lui. Senza fretta spinse avanti il carrello, pensando che Kate si fosse accucciata dietro l'estremità opposta della cassa. Poi fece qualche passo e diede un'occhiata lungo il solo corridoio che la piccola avrebbe avuto il tempo di raggiungere. Tornò indietro e guardò a destra e a sinistra. Da un lato c'erano file di clienti, dall'altro uno spazio vuoto, poi il dispositivo girevole cromato e le porte automatiche che si affacciavano sul marciapiede. Forse c'era stata una figura in soprabito che si allontanava correndo, ma ora Stephen cercava soltanto una bambina di tre anni e il suo primo pensiero fu il traffico. Si trattava di una forma d'ansia teorica, precauzionale. Superando a spallate i presenti ed emergendo sull'ampio marciapiede, era certo che non l'avrebbe vista. Kate non amava questo genere di avventure. Non era il tipo randagio. Troppo socievole, preferiva la compagnia di chi era con lei al momento. E per di più era terrorizzata dalla strada. Stephen tornò sui suoi passi, più tranquillo. Doveva essere dentro, dove non correva alcun pericolo reale. Si aspettava di vederla saltar fuori dalle file di clienti alla cassa. Non ci voleva granché a mancare con lo sguardo un bambino, nella furia iniziale della preoccupazione, a guardare troppo bruscamente o troppo alla svelta. Ciononostante un certo irrigidimento alla gola, un senso di nausea e una sgradevole leggerezza nel passo lo accompagnavano già. Quando superò le casse, ignorando la ragazza che, piuttosto irritata, cercava di attirare la sua attenzione, una sensazione di gelo gli invase la bocca dello stomaco. A passo di corsa controllato non aveva ancora superato la riluttanza ad apparire stupido agli occhi degli estranei, percorse tutti i vari corridoi, superò montagne di arance, rotoli di carta igienica, minestre. Ma fu solo tornando al punto di partenza che Stephen abbandonò ogni velleità di decoro, si riempì i polmoni oppressi dall'ansia e gridò il nome di Kate. Adesso avanzava a passi lunghi, ripetendo quel nome a gran voce mentre ripercorreva in fretta un corridoio, per dirigersi ancora una volta all'uscita. La gente incominciava a voltarsi. Era impossibile scambiarlo per uno dei soliti ubriaconi che barcollavano nei supermercati e compravano sidro. La paura di Stephen era troppo evidente, troppo violenta; riempiva quello
spazio impersonale e fluorescente di un calore umano non trascurabile. Nel giro di attimi, ogni acquisto intorno a lui si era interrotto. Ceste e carrelli furono dimenticati, la gente accorreva e sussurrava il nome di Kate tanto che, in qualche modo, in un baleno, tutti seppero che lei era lì, che era stata vista per l'ultima volta alla cassa, che indossava una tutina verde e aveva in mano un asinello di pezza. Le facce delle madri erano tese, all'erta. Parecchie persone avevano visto la bambina sul carrello. Qualcuno ricordava anche il colore della sua maglietta. L'atmosfera anonima del magazzino di città si rivelò fragile, una crosta sottile sotto la quale la gente osservava, giudicava, ricordava. Un gruppo di clienti intorno a Stephen si diresse alla porta. Al suo fianco c'era la ragazza della cassa, il volto concentrato nello sforzo di rendersi utile. C'erano anche altri membri del personale, di diverso grado gerarchico, chi in camice marrone, chi bianco, chi in abito blu. Tutto a un tratto anche loro avevano cessato di essere operai o dirigenti o rappresentanti, per trasformarsi in padri, potenziali o autentici. Adesso erano tutti quanti fuori sul marciapiede; alcuni facevano crocchio intorno a Stephen e gli rivolgevano domande o qualche parola di conforto, mentre altri, più pratici, si allontanavano in direzioni diverse per dare un'occhiata all'ingresso dei negozi accanto. La bambina smarrita era proprietà comune. Ma Stephen era solo. Guardava, senza vederle, quelle facce gentili che gli si stringevano attorno. Non avevano senso per lui. Le loro voci non lo raggiungevano, rappresentavano solo un ostacolo al suo campo visivo. Gli impedivano di visualizzare Kate. Era costretto a superarle a bracciate, a spingerle da parte per arrivare a lei. Gli mancava l'aria, non riusciva a pensare. Si sentì pronunciare la parola «rapita», subito accolta da altri e diffusa ai margini del gruppo, a passanti trascinati nella vicenda. La ragazza alta della cassa, quella tanto efficiente e dall'aspetto così forte, era scoppiata a piangere. Stephen ebbe ancora il tempo di provare un lampo di delusione nei suoi confronti. Apparentemente richiamata dalla parola di poc'anzi, un'auto della polizia, piena di schizzi di fango, accostò al marciapiede e si fermò. Tale conferma ufficiale del disastro gli procurò la nausea. Gli salì qualcosa fino in gola e dovette piegarsi. Forse perse i sensi, ma in seguito non riuscì a ricordarlo. Immediatamente dopo si ritrovò di nuovo nel supermercato; questa volta, però, regole di adeguatezza al compito e di ordine sociale avevano selezionato le persone intorno a lui: un direttore, una giovane donna che poteva essere la sua segretaria personale, un sottocapo e due agenti di polizia. Ci fu d'improvviso un gran silenzio. Si diressero rapidi nel retro del vasto locale a piano terra. Stephen impiegò qualche minuto a rendersi conto che ormai era lui a seguire gli altri e non viceversa. Il magazzino era stato sfollato. Attraverso la vetrina alla sua destra, vide un altro agente che prendeva appunti rivolgendo domande ai
clienti. Il direttore parlava spedito nel silenzio, ora ipotizzando, ora rammaricandosi. La bambina, sa come si chiama, pensò Stephen, ma la sua posizione gli impedisce di usufruire dell'informazione, la bambina poteva essersi spinta fino alla zona adibita al carico. Come mai non ci avevano pensato prima? La porta d'accesso alla cella frigorifera qualche volta rimaneva aperta, a dispetto delle sue frequenti rimostranze ai subalterni in questo senso. Affrettarono il passo. Una voce incomprensibile gracchiava a brevi intervalli dall'apparecchio radio dell'agente. Nei pressi del reparto formaggi, superarono una porta che li condusse in una zona senza più pretese, dove il pavimento a piastrelle di plastica cedeva il posto al cemento illuminato qua e là da fredde scaglie di mica, e dove la luce proveniva da lampadine nude impiccate in alto, su un soffitto invisibile. C'era un carrello a forca fermo accanto a un mucchio di scatoloni in cartone appiattiti. Scavalcando una lurida pozza di latte, il direttore si affrettava in direzione della cella frigorifera la cui porta era socchiusa. Lo seguirono in un locale basso e stretto nel quale due corridoi si allungavano nella semioscurità. Su grate metalliche lungo le pareti erano sistemate alla rinfusa scatole e lattine, mentre al centro, dagli appositi ganci, pendevano carcasse gigantesche. Il gruppo si divise in due e percorse separatamente i corridoi. Stephen andò coi poliziotti. L'aria fredda e asciutta penetrava in fondo al naso trasformandosi in un sapore di metallo gelato. Procedevano piano, guardando anche negli spazi vuoti dietro gli scatoloni. Uno dei due agenti volle sapere quanto tempo si potesse resistere là dentro. Attraverso l'ondeggiante tendone di carne che li separava, Stephen scorse il direttore rivolgere un'occhiata al sottocapo. Il giovane si schiarì la gola e rispose con tatto che mantenendosi in movimento non c'era alcun pericolo reale. Il vapore gli usciva a fiotti dalla bocca. Stephen sapeva che se avessero trovato Kate qui, sarebbe stata senza dubbio morta. Ma il sollievo che provò quando i due gruppi tornarono ad unirsi in fondo al corridoio, era di tipo astratto. Ormai aveva assunto un fare distaccato, efficiente e scientifico. Se la si doveva trovare, l'avrebbero trovata, perché lui era pronto a dedicarsi completamente alle ricerche; in caso contrario, beh, anche quella soluzione avrebbe dovuto essere affrontata con buon senso e raziocinio. Ma non ora. Uscirono in un illusorio tepore tropicale e si diressero nell'ufficio del direttore. Gli agenti estrassero il blocchetto dei verbali e Stephen raccontò la sua vicenda; lo fece in tono energico tanto nella voce quanto nell'attenzione al dettaglio. Era abbastanza lucido, separato dai propri sentimenti da riuscire a compiacersi della concisione delle sue parole, dell'abile articolazione verbale dei fatti rilevanti. Osservava se stesso e quel che vide fu un uomo sotto stress, che offriva un ammirevole esempio di autocontrollo. Riusciva a
dimenticare Kate nel riferire dettagliatamente di ogni suo indumento, nel tratteggiare un ritratto preciso dei suoi lineamenti. Ammirò pure la caparbietà pacata delle domande degli agenti e l'odore di olio e cuoio delle loro fondine belle lustre. Erano, loro e lui, uomini uniti nel tentativo di risolvere un problema di gravità inesprimibile. Uno degli agenti ripetè la sua descrizione di Kate alla radio e udirono una risposta incomprensibile proveniente da un'auto di pattuglia nelle vicinanze. Tutto ciò era molto rassicurante. Stephen stava per giungere a una condizione mentale vicina all'euforia. La segretaria personale del direttore gli si rivolgeva con una voce preoccupata che egli giudicò piuttosto fuori luogo. Con una mano gli stringeva l'avambraccio e voleva a tutti i costi che bevesse il tè che gli aveva portato. Il direttore stava sulla soglia dell'ufficio e si lamentava con un subalterno del fatto che i supermercati rappresentassero il territorio prediletto dei rapitori di bambini. La segretaria chiuse la porta con un calcio brusco. Al movimento improvviso le pieghe del suo sobrio completo emanarono un profumo, ricordando a Stephen l'esistenza di Julie. Si trovò di fronte a una macchia nera prodotta dal centro del suo stesso cervello. Afferrò i lati della sedia che occupava e attese che gli si svuotasse la mente. Poi, quando gli parve di aver recuperato il controllo, si alzò. L'interrogatorio era finito. Anche gli agenti stavano riponendo i verbali ed erano sul punto di alzarsi. La segretaria si offrì di accompagnarlo a casa, ma Stephen scosse il capo vigorosamente. Infine, senza intervallo apparente e senza alcun elemento di connessione, si ritrovò fuori dal supermercato, fermo al passaggio pedonale con una mezza dozzina di sconosciuti. In mano aveva un sacchetto pieno di merce varia. Gli venne in mente che non aveva pagato. Quel salmone e la carta stagnola erano da considerarsi un regalo, una specie di risarcimento. Il traffico rallentò a poco a poco, poi si fermò del tutto. Stephen attraversò insieme agli altri e cercò di lasciarsi invadere dall'insulto della normalità del mondo. Visualizzò la rigorosa semplicità dei fatti: era andato a far spese con sua figlia, l'aveva persa e ora stava tornando a casa senza di lei, per dire tutto a sua moglie. I motociclisti non si erano mossi e così pure, poco più in là, la lattina di coca-cola con cannuccia. Persino il cane era ancora sotto lo stesso albero. Salendo le scale di casa, si fermò al gradino rotto. Aveva in testa un frastuono colossale, uno scampanio da grande orchestra, la cui dissonanza si placò alla balaustra, per riprendere invariata nell'attimo in cui decise di procedere. Aprì la porta e rimase in ascolto. Dall'aria e dalla luce dell'appartamento capì che Julie stava ancora dormendo. Si tolse il soprabito. Mentre lo sollevava per appenderlo, lo stomaco gli si contrasse in un grumo di caffè della colazione, lo immaginò nero, che gli salì fino in bocca. Si sputò nelle
mani e andò in cucina a lavarsi. Passando, dovette fare attenzione a non pestare il pigiama di Kate. L'operazione si rivelò relativamente facile. Entrò in camera, senza la minima idea di quel che avrebbe fatto o detto. Si lasciò andare sul bordo del letto. Julie si girò verso di lui ma continuò a tenere gli occhi chiusi. Gli trovò una mano. La sua era calda, troppo calda. Fece un commento assonnato su quanto fosse gelata quella di Stephen. La avvicinò e se la sistemò sotto il mento. Non aveva ancora aperto gli occhi. Si abbandonava alla sicurezza confortante della sua presenza. Stephen abbassò lo sguardo su sua moglie e certi luoghi comuni, tipo madre devota, sincero attaccamento ai bambini, genitore affettuoso, sembrarono assumere un significato nuovo, trasformandosi, pensò, in espressioni utili, adatte, confermate dal tempo. Un bel ricciolo nero attraversava la guancia di Julie, proprio sotto l'occhio. Era una donna tranquilla, premurosa, aveva un bel sorriso, lo amava con passione e le piaceva dirglielo. Stephen aveva organizzato la sua vita intorno al loro privato e aveva finito col dipenderne. Julie era violinista, insegnava a Guildhall. Aveva formato, con tre amiche, un quartetto d'archi. Le loro esecuzioni erano piuttosto apprezzate e avevano ottenuto una breve recensione favorevole su un quotidiano a tiratura nazionale. Il futuro era, era stato, promettente. Le dita della mano sinistra di Julie, con la pelle dei polpastrelli indurita dagli esercizi di violino, gli accarezzavano il polso. Ora la stava guardando da una distanza incommensurabile, centinaia e centinaia di metri. Di lassù vedeva la stanza, il condominio in stile edoardiano, i tetti incatramati degli edifici aggiunti sul retro, con le loro sbilenche cisterne arrugginite, il sudiciume di South London, la curva caliginosa della terra. Julie non era altro che un puntino nel viluppo di lenzuola. E lui intanto seguitava a salire, sempre più in alto, sempre più veloce. Almeno di lassù, pensava, dove l'aria era fine e la città sottostante aveva assunto una pianta geometrica, i suoi sentimenti potevano rimanere invisibili, e lui conservare un po' di dignità. Fu a quel punto che Julie apri gli occhi e incontrò la faccia di Stephen. Impiegò qualche secondo a interpretarne l'espressione prima di mettersi a sedere sul letto con un'esclamazione di incredulità, come un sussulto in una brusca inspirazione. Per un momento ogni spiegazione fu impossibile e comunque inutile. In linea di principio, il comitato non si mostrò ben disposto nei riguardi di un alfabeto fonetico. Il colonnello Jack Tackle, impegnato nella campagna per porre fine alla violenza nazionale, definì l'iniziativa una maledetta stupidaggine. Una giovane donna di nome Rachael Murray si era lanciata in una accesa confutazione nella quale il largo impiego di gergo da linguista
non riusciva a mascherare il suo fremente disprezzo. Ora Tessa Spankey rivolgeva ai presenti un sorriso radioso. Dirigeva una casa editrice di libri per ragazzi; era una donna grassa con fossette alla base di ogni dito. Aveva una faccia simpatica, col doppio mento e un mucchio di efelidi e di zampe di gallina. Aveva cura di includere nel suo sguardo tenero ciascuno dei presenti. Parlava con voce lenta e rassicurante, come se si rivolgesse a un gruppo di bambini irrequieti. Non esisteva lingua al mondo, disse, che non fosse difficile imparare a leggere e scrivere. Se l'apprendimento poteva trasformarsi in uno svago, benissimo. Ma lo svago doveva rimanere un fattore marginale. Insegnanti e genitori dovevano rendersi conto di come, alla base dell'apprendimento di una lingua, ci fosse la difficoltà. Solo la vittoria sulla difficoltà garantiva ai bambini la loro dignità e un senso di disciplina mentale. La lingua inglese, aggiunse, era una specie di campo minato pieno di irregolarità nel quale le eccezioni superavano di gran lunga le regole. Ma quel campo doveva essere attraversato, e per farlo era necessario impegnarsi. Gli insegnanti si preoccupavano troppo di risultare impopolari ed erano troppo propensi a indorare la pillola. Al contrario, avrebbero dovuto accettare il concetto di difficoltà, celebrarne i vantaggi e insegnare ai loro allievi a fare altrettanto. L'ortografia si impara in un modo soltanto, vale a dire affrontando e immergendosi nella parola scritta. Quale altro metodo, e a questo punto si esibì in un elenco di termini studiato a memoria, poteva insegnare a scrivere correttamente parole come: through, tough, plough, cough e though? Lo sguardo materno della signora Spankey scrutò le vigili facce dei presenti. Quel che ci voleva, disse, era impegno, applicazione, disciplina e lavoro sodo. Ci fu un mormorio di approvazione. Il ricercatore universitario da cui era partita la proposta dell'alfabeto fonetico prese a parlare di dislessia, della vendita di scuole statali, del problema della casa. Il suo intervento fu accolto da lamenti incontenibili. Ma quell'individuo mansueto non si diede per vinto. I due terzi degli studenti undicenni di scuole di periferia, disse, erano analfabeti. Intervenne Parmenter, rapido come una lucertola. Le esigenze specifiche di certe minoranze andavano al di là dei termini di riferimento del comitato. Al suo fianco, Canham faceva cenni di assenso col capo. Ciò che riguardava il comitato non erano le patologie, ma semplicemente i mezzi e i fini. La discussione si fece frammentaria. Per qualche motivo, fu proposta una votazione. Stephen alzò il braccio a favore di quell'alfabeto, convinto della sua inutilità. La cosa lo riguardava pochissimo perché stava attraversando l'ampia striscia di asfalto dissestato che separava due alti condomini. Aveva con sé una cartellina di fotografie e un elenco di nomi e indirizzi, battuti a macchina
con cura e in ordine alfabetico. Le fotografie, ingrandimenti di istantanee scattate durante le vacanze, venivano sottoposte a chiunque fosse disposto a dargli retta. L'elenco, compilato in biblioteca servendosi di vecchi numeri di quotidiani, raccoglieva i nominativi dei genitori i cui figli fossero morti nei sei mesi precedenti. La sua teoria, una delle tante, era che Kate fosse stata rapita per sostituire un bambino morto. Andava bussando di porta in porta e parlava con madri prima sconcertate, poi ostili. Faceva visita agli addetti alla sorveglianza dei bambini. Percorreva su e giù la zona dei negozi mostrando le sue foto. Si fermava nei pressi del supermercato e della farmacia adiacente. Si spinse anche oltre, finché l'area delle sue ricerche non venne a coprire un territorio di tre miglia di lato. Si anestetizzava dandosi da fare. Andava dovunque da solo, uscendo ogni mattina poco dopo la tarda alba invernale. La polizia aveva perso interesse al caso nel giro di una settimana. Certi tumulti nei quartieri settentrionali stavano assorbendo, dicevano, tutte le loro risorse. Julie intanto rimaneva a casa. Aveva ottenuto dal college un periodo di congedo straordinario. Quando Stephen usciva di casa al mattino, lei era seduta sulla poltrona della camera da letto, di fronte al camino spento. Ed era lì che la ritrovava quando la sera rientrava e accendeva la luce. In principio si era scatenato il più macabro trambusto intorno alla faccenda: interviste con alti funzionari di polizia, squadre di agenti, cani poliziotto, un certo interesse da parte della stampa, altre spiegazioni, altre sofferenze mescolate al panico. Per tutto quel periodo Stephen e Julie si erano aggrappati l'uno all'altra, scambiandosi confuse domande retoriche, rimanendo svegli a letto notti intere, facendo ipotesi ottimistiche un attimo e disperate l'attimo dopo. Ma tutto ciò accadeva prima che il tempo, lo spietato accumularsi dei giorni, avesse resa evidente l'amara, assoluta verità. Un silenzio sempre più fitto si insinuò fra loro. C'erano ancora abiti e giocattoli di Kate sparsi per l'appartamento, e il suo lettino era rimasto da fare. Infine, un pomeriggio, il disordine spari. Stephen trovò il letto rifatto e tre grossi sacchi di plastica accanto alla porta della sua stanza. Se la prese con Julie, disgustato da ciò che interpretò come autolesionismo femminile, disfattismo volontario. Ma non trovò la forza di parlargliene. Non c'era più spazio per la collera, né apertura al dialogo. Si muovevano entrambi come in un pantano, senza la forza necessaria a confrontarsi. D'un tratto, il loro dolore divenne separato, personale, incomunicabile. Ciascuno prese la propria strada, lui con i suoi elenchi e il quotidiano arrancare, lei su quella poltrona, persa nel suo intenso, privatissimo dolore. Ormai non esisteva più alcun conforto reciproco, alcun contatto, non un
gesto d'amore. L'antica intimità, il consolidato assioma in base al quale loro due stavano dalla stessa parte, non valeva più. Rimanevano avvinghiati al loro smarrimento e taciti rancori cominciarono a crescere. A conclusione di una giornata per le strade, quando si decideva a tornare verso casa, niente avviliva Stephen più del pensiero di sua moglie seduta là nel buio: avrebbe a malapena dato segno d'accorgersi che era rientrato e a lui sarebbe mancata tanto la volontà quanto il candore necessari a spezzare quel silenzio. Sospettava, e in seguito questa ipotesi trovò piena conferma, che Julie interpretasse ogni suo sforzo come una forma di evasione tipicamente maschile, il tentativo di mascherare sentimenti con manifestazioni di efficienza e un grande sforzo fisico. Quella perdita li aveva portati agli estremi opposti delle singole personalità. Avevano scoperto un grado di mutua intolleranza che la tristezza e il crollo nervoso rendevano insormontabile. Non sopportavano più l'idea di sedersi a tavola insieme. Lui mangiava qualche panino in piedi nei bar, per non perdere tempo e per non sedersi ad ascoltare i suoi pensieri. Per quanto ne sapeva, Julie non mangiava affatto. In un primo tempo portava a casa il pane e del formaggio che col passare dei giorni ammuffivano ciascuno a modo suo nella cucina deserta. Un pasto insieme avrebbe significato riconoscere ed accettare il fatto che la famiglia si era ridotta a loro due. Venne il momento in cui Stephen non ebbe più il coraggio di guardare Julie. Non era solo il vedere specchiate nel suo viso le tracce stanche di Kate o di lui stesso, era anche l'inerzia, il venir meno della volontà, quel modo di soffrire quasi estatico che lo disgustava e minacciava di vanificare ogni suo sforzo. Era deciso a trovare sua figlia e a uccidere il rapitore. Bastava agire seguendo l'impulso corretto e mostrare le fotografie alla persona giusta ed era fatta, sarebbe arrivato fino a lei. Se le ore di luce fossero state di più, se avesse resistito alla tentazione sempre più forte giorno dopo giorno di ricacciare la testa sotto le coperte, se fosse riuscito a camminare più svelto, a non perdere mai la concentrazione, a ricordare di guardarsi alle spalle di quando in quando, a sprecare meno tempo per mangiare, a fidarsi del suo intuito, a battere anche strade meno centrali e a muoversi più in fretta, a coprire un territorio più vasto, a correre persino, correre... Parmenter si era alzato, esitando un istante mentre infilava la penna d'argento nella tasca interna della giacca. Dirigendosi verso la porta che Canham teneva aperta per lui, il vecchio salutò i presenti elargendo loro un sorriso. I membri del comitato radunarono le carte e diedero inizio alle solite conversazioni misurate con le quali si accompagnavano fino all'uscita dell'edificio. Stephen percorse il corridoio troppo caldo insieme al ricercatore universitario, la cui proposta era stata bocciata con tanto zelo. Si chiamava Morley. Con quei suoi modi cortesi e insicuri andava spiegando come gli screditati sistemi alfabetici del passato complicassero di molto il
suo lavoro. Stephen sapeva che presto sarebbe rimasto solo un'altra volta. Ma persino adesso non sapeva rinunciare ai suoi vagabondaggi, non poteva impedirsi di pensare che la situazione si era deteriorata al punto che non aveva provato alcuna particolare emozione quando, di ritorno dalle sue ricerche un pomeriggio di febbraio, aveva trovato vuota la poltrona di Julie. Un biglietto lasciato a terra riferiva il nome e il numero di telefono di un ritiro in un ex monastero nei Chilterns. Non c'era altro messaggio. Fece un giro dell'appartamento, accendendo le luci, dando un'occhiata alle stanze deserte, piccoli allestimenti scenici pronti ad essere smantellati. Tornato alla poltrona di Julie, vi si fermò un momento con la mano appena appoggiata allo schienale come se si trattasse di considerare i rischi di un gesto coraggioso. Infine si scosse, fece due passi intorno alla poltrona e si sedette. Attraverso la grata buia rimase a fissare qualche vecchio fiammifero caduto alla rinfusa accanto a un pezzetto di carta stagnola; passarono minuti, il tempo necessario a sentire la fodera della poltrona adattare i contorni fisici di Julie ai suoi, minuti vuoti come tutti gli altri. E a questo punto si lasciò sprofondare, immobile per la prima volta ormai da settimane. Restò così per ore, per l'intera notte, assopendosi brevemente ogni tanto e senza muoversi o allontanare lo sguardo dalla grata, quando si svegliava. In quell'arco di tempo gli parve che qualcosa si stesse raccogliendo nel silenzio circostante, il sollevarsi lento di un'onda di consapevolezza, di una specie di marea strisciante che, senza esplodere o frangersi drammaticamente, lo portò, intorno alle prime ore del mattino, al primo autentico flusso di comprensione della vera natura della sua sofferenza. Tutto ciò che aveva preceduto quell'evento non era che finzione, una banale e frenetica imitazione del dolore. Albeggiava appena quando incominciò a piangere e fu questo momento nella semioscurità che avrebbe in seguito fatto coincidere con l'inizio del suo lutto.
Capitolo secondo Fategli capire che con l'orologio non si discute e che quindi l'ora di andare a scuola per lui, di recarsi al lavoro per il papà e di sbrigare le faccende per la mamma, è indiscutibile come le maree. Manuale per l'educazione del bambino, HMSO Il fatto che Stephen Lewis avesse molto denaro e che fosse una celebrità tra i ragazzini in età scolare, era conseguenza di una svista, di un attimo di distrazione nella consegna della posta all'interno della Gott, in seguito al quale un dattiloscritto era stato depositato sulla scrivania sbagliata. Il fatto poi che Stephen non facesse più parola di tale svista, ormai vecchia d'anni, dipendeva in parte dai diritti d'autore e gli anticipi che da allora non avevano cessato di pervenirgli dalla Gott, come dai vari editori stranieri, e in parte dall'accettazione del destino che accompagna i primi sintomi dell'età matura; a venticinque anni gli era parso arbitrariamente umoristico scoprirsi autore di successo di libri per ragazzi, perché c'erano ancora molte cose che avrebbe potuto diventare. Attualmente, gli era impossibile immaginare d'essere altro. Che altro, del resto? I vecchi amici degli anni universitari, gli esteti e i rivoluzionari, i visionari consumatori di droga, si erano tutti quanti calmati per molto meno. Un paio di conoscenti, un tempo autentici uomini liberi, avevano ceduto di fronte a un posto fisso come insegnanti di inglese per stranieri. Alcuni si affacciavano esausti alla mezza età tra corsi di recupero e «attività pratiche» per studenti refrattari di scuole medie chissà dove. E si trattava dei fortunati che un lavoro erano riusciti a trovarlo. Altri pulivano pavimenti d'ospedale o guidavano taxi. Una, addirittura, si era procurata un'autorizzazione per l'accattonaggio. Stephen era terrorizzato all'idea di incontrarla per strada. Tutti questi spiriti promettenti, nutriti e stimolati alla vita dallo studio della letteratura inglese alla quale avevano strappato i loro motti arguti l'Energia è piacere perpetuo, il Male tonifica, il Bene infiacchisce, erano straripati dalle biblioteche alla fine degli anni sessanta, inizio settanta, pronti a compiere i loro viaggi interiori o a raggiungere l'Oriente a bordo di autobus ridipinti. Erano tornati a casa quando il mondo era diventato più piccolo e serio, per offrire la loro energia all'Istruzione, ormai ridotta a una faccenda tetra e scolorita; le scuole venivano svendute a privati, l'età minima pensionabile sarebbe presto stata abbassata. L'idea che ad un superiore grado di istruzione della gente corrispondesse una più rapida riduzione dei suoi problemi era svanita in silenzio. La sua fine faceva il paio con quella di un principio più generale in base al quale la
vita sarebbe nel complesso migliorata per un numero sempre maggiore di individui e ai governi sarebbe spettato il compito di dirigere questo dramma di potenziali realizzati, ampliando le possibilità dei singoli. Il cast degli addetti al miglioramento era stato immenso, un tempo, e per tipi come Stephen e i suoi amici non mancava certo il lavoro. Insegnanti, guardiani di musei, attori, cantastorie itineranti, una compagnia enorme e interamente finanziata dallo Stato. Ora però le responsabilità del governo erano state ridefinite in termini più semplici e chiari: mantenere l'ordine e difendere lo Stato dai suoi nemici. Per un certo periodo Stephen aveva nutrito la vaga ambizione di fare l'insegnante presso una scuola pubblica. Già si vedeva, alto e severo accanto alla lavagna, di fronte a lui una scolaresca muta e rispettosa, intimidita dalla sua tendenza al sarcasmo improvviso, protesa ad accogliere ogni sua parola. Solo adesso si rendeva conto di quanto fosse stato fortunato. Rimaneva l'autore di libri per ragazzi e quasi non ricordava più che era stato tutto un errore. Un anno dopo aver lasciato il collegio universitario, Stephen era tornato a Londra con la dissenteria amebica contratta nel corso di un viaggio di sballi da hashish in giro per la Turchia, l'Afghanistan e il Pakistan, solo per constatare che quell'etica professionale che lui e la sua generazione si erano dati tanto da fare a distruggere albergava ancora potentemente in lui. Bramava un po' d'ordine e uno scopo. Affittò per pochi soldi un monolocale, trovò impiego come archivista in un'agenzia di stampa e si accinse a scrivere un romanzo. Era impermeabile alla banalità del suo lavoro; disponeva di un segreto che cresceva ogni giorno di mille parole. E accarezzava tutte le solite fantasie. Era Thomas Mann, era James Joyce, forse era William Shakespeare. Per aggiungere un che di emozionante ai propri sforzi, lavorava al lume di due candele. L'intenzione era quella di scrivere dei suoi viaggi in un romanzo intitolato Hashish che doveva trattare di hippy pugnalati nel sacco a pelo, di una ragazza per bene condannata all'ergastolo in un carcere turco, di presunzione mistica, sesso stimolato dal consumo di droga, dissenteria amebica. Prima di tutto era necessario tratteggiare la storia del protagonista, dire qualcosa riguardo alla sua infanzia che servisse a chiarire il cammino fisico e morale che lo attendeva. Ma il capitolo iniziale si rifiutava caparbiamente di giungere ad una conclusione. Esso finì con l'assumere vita propria e fu così che Stephen si ritrovò a scrivere un romanzo sulle vacanze estive trascorse, all'età di undici anni, con due cuginette; un romanzo fatto di calzoni corti e capelli a spazzola per i ragazzi, di fiocchi e vestitoni alla Alice nel Paese delle Meraviglie per le bambine, di desideri inespressi, timide strette di mano in sostituzione di frenetici contatti sessuali, biciclette con ceste di vimini anziché vecchi pulmini Volkswagen, sullo sfondo di uno scenario che non era Jalalabad, ma
solo i dintorni di Reading. Lo portò a termine in tre mesi e lo intitolò Lemonade. Per una settimana sfogliò e rimaneggiò il dattiloscritto, preoccupato della sua eccessiva brevità. Infine, un lunedì mattina, si diede malato, fece una fotocopia e lo consegnò personalmente presso gli uffici di Bloomsbury della Gott, la celebre casa editrice. Come sempre accade, non ne seppe più nulla per un pezzo. Quando arrivò, la lettera non recava la firma di Charles Darke, il giovane caporedattore menzionato sui giornali della domenica come il salvatore della vacillante reputazione della Gott. A scriverla era stata una certa signora Amanda Rien, il cui cognome si pronunciava, ci tenne a precisare con una risatina stridula mentre faceva accomodare Stephen nel suo ufficio, non come il termine francese, ma semplicemente con doppia i. Stephen sedette con le ginocchia premute contro la scrivania della signora Rien, perché la stanza un tempo era stata un ripostiglio. Non c'erano finestre. Alle pareti, anziché fotografie in bianco e nero dei giganti del primo Novecento che avevano reso grande il nome di Gott, era appeso un ritratto, non certo quello di Evelyn Waugh, bensì di un ranocchio in giacca e panciotto, appoggiato ad un bastone da passeggio sulla terrazza di una casa di campagna. Tutto intorno, stipate sui pochi centimetri quadri di muro disponibile, c'erano figure di una buona mezza dozzina di orsetti impegnati nel tentativo di far partire un'autopompa, di una topina in bikini con la pistola puntata alla tempia, e di una cornacchia ghignante che, stetoscopio intorno al collo, prendeva il polso ad un ragazzino emaciato apparentemente appena caduto da un albero. La signora Rien sedeva a poco più di un metro di distanza e osservava Stephen con occhi carichi di padronale meraviglia. Lui le restituiva un sorrisetto imbarazzato e abbassava lo sguardo. Davvero si trattava della sua opera prima? Voleva sapere. Alla Gott ne erano tutti entusiasti, assolutamente entusiasti. Stephen annuì, sospettando un terribile errore. Non ne sapeva abbastanza di editori per parlar chiaro e l'ultima cosa al mondo che voleva in quel momento era fare la figura dell'imbecille. Si sentì rassicurato quando la signora Rien disse che Charles era al corrente della sua visita e moriva dalla voglia di conoscerlo. Qualche minuto dopo, la porta si aprì di scatto e Darke, senza lasciare il corridoio, infilò la testa nell'ufficio e strinse la mano di Stephen. Parlò in fretta, senza preamboli. Il libro era buono e naturalmente intendeva pubblicarlo. Naturalmente. Ora però doveva scappare. Aveva New York e Francoforte in linea. Comunque avrebbero fatto colazione insieme. E presto anche. Ah, e congratulazioni. La porta si richiuse di scatto e Stephen si voltò per trovare la signora Rien nell'atto di scrutargli la faccia in cerca dei primi segni di adulazione.
Quando parlò, lo fece con voce bassa e solenne. Un grand'uomo. Un grand'uomo e un grande editore. Non si poteva far altro che darle ragione. Tornò al suo monolocale emozionato e offeso. Come potenziale Joyce, Mann o Shakespeare, egli si inseriva senza dubbio nella tradizione culturale europea, adulta. Certo, sin dal principio la sua ansia era stata quella di farsi capire. Aveva usato un inglese semplice, chiaro. Aveva cercato di rendersi accessibile, ma non a chiunque. Dopo molte riflessioni, decise di non fare nulla prima di aver rivisto Darke. Nel frattempo, a complicare ulteriormente le sue sensazioni, gli arrivò per posta un contratto e l'offerta di un anticipo di duemila sterline, l'equivalente di due anni di stipendio. Si informò un poco in giro e scopri che si trattava di una somma eccezionale per un'opera prima. L'agenzia di stampa gli era diventata intollerabile, ora che aveva finito di scrivere. Per otto ore al giorno tagliava articoli di giornale, vi apponeva la data e li archiviava. La gente dell'ufficio gli pareva instupidita da quel genere di lavoro. Aveva voglia di licenziarsi. Più di una volta estrasse la penna, deciso a firmare e accettare il denaro, ma con la coda dell'occhio intravedeva una folla sarcastica di topolini, orsacchiotti e cornacchie pronti ad accoglierlo tra le loro file. E quando alla fine venne il momento di indossare la cravatta acquistata per l'occasione, la prima che metteva dai tempi dell'università, e di esprimere il proprio sconcerto a Darke nel silenzio discreto di un ristorante, davanti al pasto più caro che Stephen avesse mai consumato, non ci fu alcun chiarimento. Darke lo ascoltò, annuendo con impazienza ogni volta che Stephen era sul punto di terminare una frase. Prima che avesse concluso, Darke posò il cucchiaio della minestra, appoggiò una mano piccola e curata sul polso del suo giovane ospite e gli spiegò gentilmente, come se stesse parlando ad un bambino, che la divisione tra narrativa per adulti e per ragazzi era di per sé un'invenzione letteraria. Del tutto falsa: una semplice convenzione. Non poteva essere altrimenti quando tutti i più grandi scrittori condividevano una visione infantile del mondo, una ingenuità dell'approccio, per quanto complicata ne fosse l'espressione, che faceva del genio adulto una cosa sola con l'infanzia. E del resto, Stephen stava a questo punto liberando la mano, i più bei libri cosiddetti per ragazzi erano precisamente quelli che parlavano a grandi e piccini, all'adulto già presente nel bimbo, al bimbo dimenticato nell'adulto. Darke si godeva la propria eloquenza. Trovarsi in un famoso ristorante ed elargire magnanimi commenti ad un giovane scrittore, era uno dei più gradevoli requisiti della sua professione. Stephen finì il paté di gamberetti e si rilassò sulla sedia deciso ad osservare ed ascoltare. Darke aveva capelli chiarissimi che si sollevavano in cima alla testa in una peluria ingovernabile.
Gli era divenuto automatico controllarsi il ciuffetto e cercare di appiattirlo, con il palmo della mano, mentre parlava. Non appena lo dimenticava, quello tornava a sollevarsi. A dispetto di tutta la sua sicurezza di uomo di successo, del suo abito scuro e della camicia fatta su misura, Darke aveva appena sei anni più di Stephen. Si trattava però di sei anni cruciali, che avevano conferito a Darke, fin dall'adolescenza, un rispetto eccezionale per la maturità, facendogli sperare di dimostrare il doppio dei suoi anni, e a Stephen, la convinzione che maturità significasse slealtà, impotenza e stanchezza e che la gioventù rappresentasse quindi una condizione beata cui aggrapparsi finché fosse socialmente e biologicamente possibile. Al tempo della loro prima colazione insieme, Darke era sposato con Thelma da sette anni. La loro grande casa di Eaton Square, solidamente sistemata. Battaglie navali e scene di caccia a olio, quasi preziose, avevano già preso posto sulle pareti. E così pure i morbidi asciugamani puliti nella stanza degli ospiti e la signora delle pulizie che veniva quattro ore al giorno e non conosceva una parola di inglese. Mentre Stephen e i suoi amici erano a Goa e Kabul, intenti a lanciarsi il frisbee e a fumare pipe di hashish, Charles e Thelma potevano già contare su un uomo che parcheggiava la loro automobile, su una segreteria telefonica, su ricevimenti serali e su una biblioteca piena di edizioni costose. Erano adulti. Stephen alloggiava in un monolocale e poteva cacciare tutte le sue cose in un paio di valige. Il suo romanzo era adatto a dei ragazzini. E c'era dell'altro, oltre alla residenza di Eaton Square. Darke aveva già posseduto e venduto una casa discografica. Dai tempi in cui aveva lasciato Cambridge, tutti i maestri del business avevano capito come la musica pop fosse ormai un campo riservato ai soli giovani. Quelli che la sapevano lunga ricordavano l'Inghilterra tra le due guerre, i genitori vissuti nel periodo della Depressione e sconvolti dall'esperienza della guerra mondiale. Con questi incubi alle spalle, quella gente aveva bisogno di dolcezza, calore e un tocco di nostalgia qua e là, nella musica. Darke si specializzò in pezzi «di facile ascolto», nei brani più amati tra i classici e in melodie intramontabili, arrangiate per duecento violini. Si rivelò altrettanto fuori moda e vincente nella scelta di una moglie più vecchia di lui di ben dodici anni. Thelma era lettore di fisica a Birkbeck dove aveva di recente completato una prestigiosa tesi, come amavano ripetere gli articoli di cronaca mondana, sulla natura del tempo. Non era l'ovvia moglie di un giovane miliardario nel business della musica kitsch, un ragazzo tanto giovane, a detta dei più spietati, da poter essere suo figlio. Thelma convinse il marito a fondare un club letterario il cui successo lo condusse ai polverosi uffici della Gott e da qui, nel giro di soli due anni, a garantire alla compagnia il primo bilancio attivo da un quarto di secolo. Fu durante il suo quarto
anno alla Gott che Darke invitò Stephen a colazione, ma ne sarebbero trascorsi altri cinque prima che Darke, ormai direttore di una rete televisiva privata e Stephen a sua volta autore di un certo rilievo, stringessero una profonda amicizia e Stephen, abbandonata la sua smania di gioventù, diventasse un abituale frequentatore di Eaton Square. L'arrivo di piatti puliti e l'obbligatorio assaggio di un altro vino non interruppero per un istante il discorso urgente, generoso ed entusiasta di Darke. Parlava alla svelta, con tono risolutamente rassicurante, come se si rivolgesse a un gruppo di azionisti scettici e temesse il silenzio che avrebbe potuto restituirlo ai suoi pensieri di prima. Ci volle un po', a Stephen, per capire da quale profondità di sentimento scaturissero quelle parole. Sul momento gli parvero frutto di una tecnica di vendita consumata, nella quale l'editore sfoggiava un buon uso istintivo del nome di battesimo dell'autore. «Stephen, ascolta. Stephen, prova, a metà dell'estate, a parlare di Natale a un ragazzino di dieci anni. Tanto varrebbe parlare a un adolescente dei suoi progetti pensionistici. Per i bambini, l'infanzia è senza tempo. È un presente continuo. Tutto quanto si coniuga al presente. Certo, hanno ricordi anche loro. Certo, anche per loro il tempo si muove un poco intorno a un Natale che viene sempre alla fine. Ma non ne hanno la percezione. Percepiscono quel che è l'oggi soltanto, e quando dicono "da grande"... lo fanno sempre con una certa dose di incredulità. Come potrebbero mai essere altro da quello che sono? Ora tu dici che Lemonade non lo hai scritto per i bambini, e io ti credo, Stephen. Come ogni buon scrittore lo hai scritto per te. Ed è proprio qui che voglio arrivare: è a un te stesso di dieci anni che ti sei rivolto. Questo non è un libro per bambini, è per un bambino, per te. Lemonade è una lettera che tu hai scritto a un te stesso che non cesserà mai di esistere. Una lettera dal contenuto amaro. È questo a renderlo un libro tanto inquietante. Leggendolo, la figlia di Mandy Rien ha pianto, un pianto sconsolato ma utile, Stephen. E altri ragazzini hanno reagito allo stesso modo. Ti sei rivolto direttamente ai bambini. Che lo volessi o no, hai comunicato con loro attraverso l'abisso che separa il bambino dall'adulto e gli hai fornito la prima spettrale allusione alla loro mortalità. Leggendoti, incominciano a sospettare di non essere eterni, come bambini. Anziché sentirselo solo dire, capiscono che non durerà, che non può durare, che prima o poi saranno finiti, spacciati: che l'infanzia non è per sempre. Li hai messi di fronte a qualcosa di sconcertante e di triste riguardo ai grandi, a chi ha cessato di essere bambino. Un senso di aridità, di impotenza, di noia, di rassegnazione. Con te hanno capito che tutto questo attende anche loro, sicuro come il Natale. È un messaggio triste, ma è vero. Questo è un libro per bambini, attraverso lo sguardo di un adulto». Charles Darke bevve un gran sorso del vino che un paio di minuti prima
aveva assaggiato con tanto distratto discernimento. Drizzò la testa gustando le implicazioni del suo discorso. Infine, levando il bicchiere, ne vuotò il contenuto prima di ripetere: «Un messaggio triste ma vero, verissimo». Stephen fissò il suo editore al quale gli parve fosse mancata per un istante la voce. Eccezion fatta per le due settimane argomento del suo romanzo, l'infanzia di Stephen era stata piacevolmente banale, a dispetto degli scenari esotici. Se avesse dovuto formularne uno ora, il suo messaggio sarebbe stato di caparbio incoraggiamento: le cose migliorano, piano piano. Ma per gli adulti c'era un messaggio? Darke aveva la bocca piena zeppa di animelle. Agitò nell'aria la forchetta facendole compiere piccoli cerchi, nella disperata intenzione di parlare; finalmente, con una fiatata all'aglio che per un istante alterò il sapore del salmone di Stephen, riuscì a riprendersi: «Già. Ma la vita della gente resterà quella di prima. Io venderò tremila copie e tu avrai qualche recensione decente. Per i bambini, invece, è perfetto...» Darke si accasciò sulla sedia e levò ancora il bicchiere. Stephen scosse il capo e disse in tono pacato: «Non posso permetterlo, non lo permetterò mai». Delle illustrazioni si occupò Turner Malbert, che le realizzò in acquarelli limpidi ed eleganti. La settimana della pubblicazione, un celebre psicologo per bambini attaccò il libro con commossa convinzione nel corso di una trasmissione televisiva. C'era più di quanto si potesse pensare di imporre a qualunque bambino, avrebbe scardinato i pensieri di menti già latentemente instabili. Altri esperti lo difesero, uno sparuto gruppo di librai, rifiutandosi di acquistarlo, ne fece salire le vendite. Per un paio di mesi costituì argomento di conversazione da salotto. Di Lemonade si vendettero venticinquemila copie nell'edizione rilegata, per arrivare a parecchi milioni di copie nel mondo. Stephen si licenziò, acquistò una bella automobile e un appartamento dai vertiginosi soffitti in South London; nel giro di due anni la sua dichiarazione dei redditi rese virtualmente indispensabile la pubblicazione di un secondo romanzo, anche questo per bambini. Visti in prospettiva, gli avvenimenti dell'anno di Stephen, l'anno cioè della commissione, dovevano apparire come tesi alla realizzazione di un unico scopo. Al tempo però, quell'anno gli era sembrato vuoto, sterile e privo di senso. La sua abituale diffidenza era prodigiosamente aumentata. Ad esempio, il secondo giorno delle Olimpiadi aveva portato con sé l'improvvisa minaccia della catastrofe mondiale totale; per una dozzina di ore gli eventi erano sfuggiti ad ogni controllo e Stephen, stravaccato nel divano, in mutande per il gran caldo, non riusciva a preoccuparsi di come sarebbe
finita. Due velocisti, un russo e un americano, frementi uomini-levriero, si erano urtati appena ai blocchi di partenza. La cosa li aveva innervositi: l'americano aveva sferrato un pugno al rivale e questi aveva reagito, ferendo in modo piuttosto serio l'occhio del primo. La violenza, il concetto stesso di violenza si era diffuso in senso orizzontale prima e gerarchicamente verticale poi, attraverso complessi meccanismi occulti. Nel tentativo di intervenire, i compagni di squadra prima, gli allenatori poi, avevano perso le staffe ritrovandosi coinvolti nella zuffa. I pochi spettatori russi e americani presenti nelle tribune presero a cercarsi reciprocamente con intenzioni bellicose. Ci fu una brutta scena, causata da una bottiglia rotta e, pochi minuti dopo, un giovane americano, sfortunatamente un militare in licenza, era morto per dissanguamento. Nel generale accendersi degli animi, due alti ufficiali delle potenze nemiche si erano messi le mani addosso e una divisa ne era risultata alquanto malconcia. Una spettatrice russa aveva perso un occhio in seguito a un colpo sparato da una pistola, di quelle usate per dare la partenza alle gare, ma, poco dopo, la legge dell'occhio per occhio, aveva riportato in pareggio le perdite. Nella tribuna dei giornalisti, tra urti e spintoni, erano volate parole grosse. Nel giro di mezz'ora entrambe le squadre si erano ritirate dalle gare e si scambiavano veementi insulti scatologici nel corso di rispettive conferenze stampa. In men che non si dica l'assassino del militare fu arrestato e accusato di avere contatti con il KGB e, quindi, moventi politici. Le ambasciate coinvolte si scambiarono una serie di messaggi infuocati. Il neoeletto Presidente americano, dotato anche lui di un'indole da centometrista, e ansioso di smentire le frequenti accuse dei suoi oppositori che lo definivano uno smidollato in politica estera, cercava in tutti i modi di fare qualcosa. Era ancora immerso nelle sue riflessioni quando i russi sorpresero il mondo chiudendo le frontiere a Helmstedt. Negli Stati Uniti il gesto fu interpretato come una prevaricazione, possibile data la docilità del Presidente, il quale a questo punto mise a tacere i suoi detrattori ordinando a tutte le basi nucleari della nazione di tenersi pronte all'attacco. Lo stesso fecero i russi. I sottomarini atomici scivolarono silenziosamente fino a raggiungere le rispettive posizioni di lancio; le basi sotterranee furono aperte e i missili spuntarono qua e là nei boschetti assolati della campagna intorno ad Oxford, come nelle foreste di betulle dei Carpazi. Le colonne dei quotidiani e gli schermi televisivi furono invasi da esperti di prevenzione atomica che sottolineavano l'importanza di lanciare i missili prima che potessero essere distrutti a terra. Fu questione di ore e i supermercati britannici furono presi d'assalto e svuotati di zucchero, tè, fagioli in scatola e carta igienica. Il confronto durò mezza giornata, finché le
nazioni non allineate diedero inizio ad una controllata riduzione parallela dello stato di all'erta nucleare. La vita sulla terra continuava, dopotutto, e così, tra fanfaronate retoriche sullo spirito olimpico, si tornò alla partenza di quei cento metri caldi la cui vittoria, da parte di un neutralissimo atleta svedese, causò una sensazione di planetario sollievo. Forse era a causa della calura eccessiva e dello scotch che beveva sin dal tardo mattino e che lo faceva sentire più in forma del dovuto, ma in tutta onestà a Stephen non importava niente che la vita sulla terra continuasse. La faccenda assomigliava molto a una finale di coppa fra due squadre straniere. Il dramma lo aveva coinvolto nelle sue varie fasi, ma non lo interessavano i risultati; per lui poteva concludersi in favore dell'uno o dell'altro, era lo stesso. L'universo era enorme, rifletteva stancamente, e se la vita intelligente appariva tanto poco diffusa, i pianeti coinvolti dovevano comunque essere innumerevoli. Tra quelli destinati a verificare la convertibilità della materia e dell'energia, almeno qualcuno doveva per forza ridursi in frantumi, ed era probabile che non fossero proprio i terrestri ad essersi meritati di sopravvivere. Il dilemma non era umano, pensava pigro infilandosi una mano nelle mutande per grattarsi, era nella struttura stessa della materia, e c'era ben poco da fare in proposito. In modo non dissimile, c'erano altri avvenimenti più personali, alcuni anche piuttosto bizzarri o intensi, che lo affascinavano nel loro svolgersi, ma che osservava a distanza, come se riguardassero qualcun altro e non lui, e a cui in seguito pensava ben poco, certamente senza sforzarsi di legarli uno all'altro. Essi non erano che lo sfondo di una realtà fatta di costanti abbandoni al bere, di manovre per evitare gli amici e il lavoro, di venir meno continui dell'attenzione di fronte a qualsiasi discorso, dell'impossibilità di leggere più di una ventina di righe prima di tornare a perdersi, a fantasticare, a ricordare. E quando Darke diede le dimissioni, l'annuncio ufficiale giunse due giorni dopo il varo della commissione Parmenter, Stephen andò a Eaton Square, ma solo perché Thelma lo aveva chiamato al telefono chiedendogli di farlo. Si lasciò coinvolgere dalla storia non per la naturale partecipazione di un vecchio amico, né per riconoscenza nei riguardi di Charles e Thelma. Non prese, o non sembrò prendere, alcuna posizione nella faccenda; ai suoi amici occorreva un testimone, qualcuno al quale spiegare le loro ragioni e che potesse rappresentare il mondo esterno. Benché la scelta fosse caduta su di lui, Stephen cercò in seguito di stabilire il reale livello della propria passività nella storia; dopotutto i Darke avevano molti amici, ma forse lui era l'unico adatto ad assistere a ciò che Charles aveva in mente di fare. Due ore dopo la telefonata di Thelma, Stephen si incamminò verso Eaton Square da Stockwell, passando da Chelsea Bridge.
L'aria tiepida del tardo pomeriggio gli riempiva gradualmente la gola; i marciapiedi intorno all'uscita dei pub erano affollati di bevitori di birra abbronzati e ciarlieri, con un'aria assai spensierata. Il prolungarsi dell'ondata di caldo aveva modificato il carattere nazionale. A metà del ponte Stephen si era fermato a leggere il giornale della sera. La faccenda delle dimissioni compariva in prima pagina, ma non nei titoli di testa. Nel riquadro a piè di pagina si parlava di qualche problema di salute e si accennava, in modo timidamente scandalistico, a una sorta di esaurimento. Si diceva anche che il primo ministro era stato «vagamente irritato» dalla mancanza di preavviso. Sulla pagina di cronaca era uscito invece un trafiletto nel quale Darke veniva accusato di essere poco dotato politicamente, e troppo rilassato nella condotta generale per potersi mai aspettare di conservare un alto incarico. Il primo ministro diffidava del suo passato interesse per il mondo letterario. Solo gli amici intimi, concludeva l'articolo, sarebbero stati particolarmente toccati dal suo uscire di scena. Accortosi di due mendicanti diretti verso di lui, due tizi in ampi pastrani a dispetto del caldo, Stephen ripiegò il giornale e proseguì sull'altro lato del ponte. Molti anni prima, nel corso di una serata in un ristorante greco, Darke aveva inventato un gioco di società. Stava contemplando l'ipotesi di abbandonare la direzione della rete televisiva, attività nella quale aveva raggiunto un meritato successo, per dedicarsi alla politica. Il problema era pertanto il seguente: a quale partito associarsi? Tutto euforico, Darke sedeva al fianco di Julie e mesceva vino, esibendo una grande fermezza nei confronti del cameriere e gestendo le ordinazioni di tutti. Il tono della conversazione era scherzosamente cinico, ma conteneva il germe di una qualche verità. Darke non aveva convinzioni politiche; piuttosto, una notevole capacità manageriale e grosse ambizioni. La scelta del partito non aveva importanza. Un amico newyorchese di Julie stava prendendo la faccenda sul serio e insisteva nel dire che occorreva scegliere tra l'enfasi sulla collettività dell'esperienza o sulla sua unicità. Con gesto ampio delle mani, Darke disse di aver argomenti validi a favore di entrambe. Del sostegno dei deboli, come della promozione dei forti. La questione essenziale, e qui fece una pausa mentre qualcun altro gli completava la frase, era invece: Chi conosciamo che possa farci ottenere una candidatura? Darke rideva più fragorosamente degli altri. Quando arrivò in tavola il caffè turco si era deciso che Charles avrebbe militato nelle file della destra. Le argomentazioni a favore di questa tesi erano ovvie. La destra deteneva il potere ed era probabile che lo conservasse. Grazie al suo passato di uomo d'affari, Darke conosceva un buon numero di persone in contatto con i pezzi grossi del partito. I metodi di selezione della sinistra apparivano tortuosamente democratici e irragionevolmente
prevenuti nei riguardi di chi non era mai stato membro del partito. «La faccenda è semplicissima, Charles, disse Julie all'uscita del ristorante. Non hai altro da temere che l'eterno disprezzo di tutti i tuoi amici». Ancora una volta, Darke rise di cuore. Non mancarono le difficoltà iniziali ma, in breve, a Charles fu offerta la candidatura nell'agreste Contea del Suffolk, dove egli riuscì a dimezzare la maggioranza del suo predecessore con qualche distratta osservazione sull'allevamento dei maiali. Lui e Thelma vendettero il loro cottage del Gloucestershire per acquistarne uno affatto simile ai margini del distretto elettorale, un pensionato cui avevano tagliato i fili della luce vi era morto di ipotermia. Infrangendo una tacita regola, Darke parlò alle telecamere più ancora che ai giornali e fece in modo di fornire rapidi sommari delle recenti vittorie del governo. A parole, era inarrestabile. Due settimane dopo aver abilmente confutato una verità tautologica, eccolo di nuovo sereno in uno studio televisivo. Gli amici che gli avevano offerto aiuto ne furono positivamente impressionati. Il vertice del partito iniziò ad accorgersi di lui. In un momento in cui il governo aveva difficoltà all'interno stesso della formazione, Darke si mostrò accanito sostenitore delle sue scelte. Assumeva un tono serio e pacato ed esponeva un programma il cui obiettivo era di infondere una maggior fiducia in sé nei poveri e di incrementare gli incentivi per i ricchi. Dopo lunghe riflessioni e dopo averne scherzato a tavola con gli amici, stabili di scagliarsi contro la pena di morte nel dibattito sul sistema penale annualmente tenuto al congresso. L'idea era quella di mostrarsi severi ma cauti, severi e cauti. Tenne, sul tema, un bel discorso riguardante una proposta di legge, organizzò una tavola rotonda radiofonica, guadagnandosi tre applausi solenni da parte del pubblico presente in sala, e fu menzionato nell'articolo di fondo del «Times». Per i successivi tre anni, partecipò a pranzi e si fece conoscere in quegli ambienti che gli parevano dotati di una certa mobilità: la scuola, i trasporti, l'agricoltura. Accettò di compiere un lancio con il paracadute per sostenere un'associazione di carità e si ruppe una tibia. Le telecamere erano sul luogo a riprendere l'incidente. Fu membro della giuria di un famoso premio letterario e si lasciò andare a commenti indiscreti sul presidente. Fu scelto per presentare un suo disegno di legge che proibiva il libero accattonaggio. La proposta non passò per mancanza di tempo, ma lo rese popolare sui tabloid. E per tutto quel periodo lui non cessò mai di parlare, agitando in aria un indice minaccioso, esprimendo opinioni che non aveva mai pensato di avere, mettendo a punto l'alto stile oratorio del portavoce. «Sono convinto di parlare a nome di tutti quando dico...» e «Nessuno può certo negare...» e «Il governo ha reso chiara la propria posizione...» Scrisse un articolo per il «Times» nel quale riassumeva i risultati dei primi due anni di
accattonaggio autorizzato e lo lesse ad alta voce a Stephen nello splendido salotto di Eaton Square. «Eliminando gli effetti residui dei giorni che precedettero l'attuale legislatura e puntando all'organizzazione di un settore della pubblica carità più funzionale e più snello, il governo si è fornito, in ambito ridotto, un ideale cui dovrebbe tendere la sua generale linea economica. Decine di milioni di persone hanno potuto evitare il ricorso ai fondi degli istituti di previdenza sociale e uomini, donne e bambini hanno potuto provare l'intensa impagabile soddisfazione dell'autosufficienza, da tempo promossa dalla comunità commerciale della nazione». Stephen non dubitò mai che prima o poi il suo amico si sarebbe stancato della politica per imbarcarsi in un'altra avventura. Mostrava a Charles un atteggiamento ironico e distaccato e lo prendeva in giro per il suo opportunismo. «Se avessi deciso di buttarti dall'altra parte, gli aveva detto, ora saresti qui a sostenere con lo stesso entusiasmo il totale controllo pubblico della City, le riduzioni delle spese per la difesa e l'abolizione delle scuole private». Darke si batté la fronte fingendo di stupirsi dell'ingenuità dell'amico. «Che idiota! Ma io ho deciso di sostenere questo programma. Come li avrei avuti, se no, i voti della maggioranza? Non ha importanza quel che penso. Io ho un mandato: una City più libera, maggiori armamenti e buone scuole private». «Ma tu non ci credi». «Certo che no. Io servo la causa!» E i due amici scoppiarono a ridere, sorseggiando un drink. In realtà il cinismo di Stephen mascherava un interesse affascinato per lo svilupparsi della carriera di Charles. Non conosceva altri deputati. Questo, nel suo piccolo, era già abbastanza famoso e, da addetto ai lavori, poteva riferirgli episodi di ubriachezza e persino di violenza al bar della Casa dei Comuni, fornirgli dettagli sulle piccole assurdità del rituale parlamentare e feroci pettegolezzi sui vari ministri. E quando finalmente, dopo tre anni di duro lavoro tra uno studio televisivo e una sala da pranzo, Darke diventò a sua volta un giovane ministro, Stephen ne fu sinceramente entusiasta. Adesso ogni mattina una limousine, per quanto piccola e un po' ammaccata, passava a Eaton Square per accompagnare al lavoro il ministro, nei cui modi si era andata insinuando una cert'aria di consumata autorevolezza. A volte Stephen si domandava se il suo amico non avesse infine ceduto a quelle convinzioni che aveva assunto con tanta naturalezza. Fu Thelma che accolse Stephen alla porta. «Siamo in cucina», disse, facendogli strada nell'ingresso. Poi cambiò idea e svoltò. Stephen indicò con un gesto le pareti nude dove, al posto dei quadri, restavano delle chiazze grigie rettangolari.
«Sì, quelli dell'agenzia di traslochi hanno incominciato a lavorare oggi pomeriggio». Era entrata in salotto e parlava a bassa voce e in fretta. «Charles è molto provato. Non fargli domande, e non farlo sentire in colpa per averti lasciato con la commissione». Da quando era iniziata l'ascesa politica di Darke, Stephen aveva visto Thelma molto più sovente. Le aveva tenuto compagnia la sera cercando di impratichirsi un po' con la fisica teoretica. A lei piaceva fingere di trovarsi meglio con lui che con il marito, grazie ad una sorta di complicità particolare. Si trattava di una lusinga più che di un tradimento. Era una cosa imbarazzante e irresistibile. Ora lui stava annuendo, come sempre felice di assecondarla. Charles era il suo bambino difficile, e in molte occasioni era ricorsa all'aiuto di Stephen; una volta, la sera di un dibattito parlamentare, avevano collaborato a moderare il ministro nel bere, un'altra, a cena, lo avevano dissuaso dal punzecchiare un giovane fisico socialista, amico di lei. «Dimmi che è successo», domandò Stephen, ma lei era già tornata nell'ingresso echeggiante e aveva messo su una voce risolutamente scherzosa. «Ti sei buttato giù dal letto da poco? Sei uno straccio». Alle proteste di lui rispose con bruschi cenni del capo, facendogli intendere che più tardi avrebbe saputo la verità. Ripercorsero il corridoio, scesero i pochi scalini e superarono una porta foderata di panno verde da biliardo, che Charles aveva fatto sistemare poco dopo la nomina in parlamento. L'ex ministro era seduto al tavolo di cucina, davanti ad un bicchiere di latte. Si alzò e si diresse verso Stephen asciugandosi la bocca con il dorso della mano. La sua voce era leggera, stranamente melodiosa. «Stephen... Stephen, quanti cambiamenti. Mi auguro che ti mostrerai tollerante...» Era passato tanto tempo dall'ultima volta che Stephen aveva visto l'amico senza abito scuro, camicia a righe e cravatta di seta. Ora indossava un paio di calzoni larghi di velluto a coste e una T-shirt bianca. Sembrava più agile, più giovane; senza le imbottiture di una giacca da sartoria rivelava una struttura delicata nelle spalle. Thelma stava versando a Stephen un bicchiere di vino e Charles lo guidò verso una sedia. Sedettero tutti e tre e appoggiarono i gomiti sulla tavola. Aleggiava un eccitamento muto, c'era nell'aria una notizia difficile da formulare in parole. Thelma disse: «Abbiamo deciso che non possiamo dirti tutto in una volta. Anzi, preferiamo che tu veda da te, anziché cercare di spiegarti. Quindi abbi pazienza, prima o poi saprai tutto. Sarai il nostro unico confidente, perciò...» Stephen annuì. Charles disse: «Hai visto il telegiornale?» «No, il giornale della sera». «La storia è che io ho l'esaurimento, vero?» «E invece?» Charles guardò Thelma, che disse: «Abbiamo preso delle
decisioni ben meditate. Charles rinuncerà alla carriera e io mi ritirerò. Vendiamo casa e ci trasferiamo al cottage». Charles andò al frigorifero a riempirsi di nuovo il bicchiere di latte. Non tornò a sedersi; rimase in piedi dietro la sedia di Thelma tenendole una mano appena appoggiata sulla spalla. Da che Stephen la conosceva, Thelma desiderava abbandonare l'insegnamento universitario, trasferirsi in campagna da qualche parte e scrivere il suo libro. Come era riuscita a convincere Charles? Ora guardava Stephen, in attesa di una sua reazione. Era difficile non interpretare quel suo vago sorriso come trionfante, e altrettanto difficile obbedire alle sue istruzioni e non fare domande. Stephen si rivolse a Charles, scavalcandola con lo sguardo: «Che cosa ci vai a fare nel Suffolk? Allevare maiali?» Lui sorrise beffardo. Poi, silenzio. Thelma accarezzò la mano del marito prima di parlare senza voltarsi verso di lui: «Avevi promesso che saresti andato a letto presto...» Charles si stava già alzando. Non erano neppure le otto e mezza. Stephen osservò attentamente l'amico, sorpreso di quanto sembrasse più minuto, più fragile di corporatura. Possibile che fosse stato proprio l'alto incarico a farlo apparire più grosso? «Sì, stava dicendo. Me ne vado di sopra». Baciò la moglie sulla guancia e, dalla soglia, disse a Stephen: «Ci farebbe tanto piacere se tu venissi a trovarci nel Suffolk. Sarà più facile di qualsiasi spiegazione». Sollevò la mano in un ironico saluto militare e uscì. Thelma tornò a riempire il bicchiere di Stephen e atteggiò le labbra ad un sorriso efficiente. Era sul punto di parlare ma cambiò idea e si alzò. «Torno subito», disse attraversando la cucina. Qualche attimo dopo la sentì salire le scale chiamando Charles, aprire una porta e richiuderla. Infine la casa fu quieta, fatta eccezione per il ronzio basso degli elettrodomestici in cucina. Il giorno dopo che Julie se ne era andata nell'ex monastero nei Chilterns, Thelma era arrivata a prendere Stephen, in piena tempesta di neve. Mentre lui vagava per la stanza alla ricerca di qualche cosa da mettersi addosso e di una borsa, lei rassettò la cucina, sistemò l'immondizia in un sacco e scese a depositarla nel contenitore. Raccolse mucchi di bollette ancora da aprire e se le infilò in borsetta. Nella camera da letto, controllò il bagaglio di Stephen. Si dava da fare con l'efficienza brusca di una madre, parlandogli solo quando lo riteneva necessario. Aveva preso abbastanza paia di calze? di mutande? Quella maglia era davvero calda? Lo portò in bagno e gli fece scegliere quello che gli serviva tra gli accessori da toilette. Dov'era lo spazzolino da denti? Aveva intenzione di farsi crescere la barba? E se no, dove era finita la schiuma per radersi? Non esisteva un solo atto per cui Stephen fosse in grado di immaginare una ragione valida. Non capiva cosa volesse significare lo stare
al caldo, l'avere dei calzini o dei denti. Poteva obbedire a ordini semplici, a patto di non dover riflettere sul loro senso. Seguì Thelma all'automobile, aspettò che gli aprisse lo sportello sul lato del passeggero e sprofondò nel sedile odoroso di cuoio, mentre lei tornava all'appartamento per chiudere il gas e l'acqua. Lui guardava fisso davanti a sé i grandi fiocchi che si scioglievano a contatto con il vetro del parabrezza. Gli venivano in mente immagini di un melodramma dickensiano, nel quale la tremante bimbetta di appena tre anni arranca sul sentierino di casa, ma la trova chiusa e deserta. Non era il caso di lasciare un messaggio sulla porta? domandò a Thelma quando tornò. Anziché ribattere che Kate non sapeva leggere e che in ogni caso non sarebbe mai tornata, Thelma rifece le scale e fissò sulla porta d'ingresso un biglietto con il suo indirizzo e il numero di telefono. Settimane ovattate trascorsero nella pace di mogano, marmo e moquette della stanza degli ospiti in casa Darke. Nell'ordine impeccabile di asciugamani cifrati, potpourri, superfici lucide di cera e lenzuola di bucato fragranti di lavanda, Stephen sperimentò un caos di emozioni. Più tardi, quando ebbe recuperato un certo equilibrio, Thelma prese a trascorrere le serate con lui, raccontandogli storie sul gatto di Schroedinger, sul fluire a ritroso del tempo, sul fatto che Iddio non era mancino e altre meraviglie della teoria quantistica. Thelma apparteneva alla prestigiosa schiera delle donne che si erano dedicate alla fisica teoretica, benché andasse ripetendo di non aver mai fatto in quel campo una sola scoperta, neppure insignificante. Il suo lavoro consisteva nel riflettere e nell'insegnare. Le scoperte, a suo parere, non erano lo scopo essenziale della scienza e per di più non si adducevano ai giovani. Questo secolo aveva assistito a una rivoluzione scientifica che nessuno, neppure tra gli stessi addetti ai lavori, considerava conclusa. Durante le fredde sere di una primavera deludente, Thelma sedeva con lui accanto al fuoco e gli raccontava come la meccanica quantistica avrebbe femminilizzato la fisica, la scienza tutta, rendendola più gentile, meno arrogantemente distaccata, più disponibile a partecipare alle cose di quel mondo che pretendeva di descrivere. Aveva i suoi argomenti preferiti, pezzi forti che sviluppava di conversazione in conversazione. Poteva trattarsi della solitudine vista come lusso o sfida, dell'ignoranza dei cosiddetti artisti, di come un atteggiamento di informata meraviglia avrebbe dovuto essere parte integrante del bagaglio intellettuale degli scienziati. La scienza era per lei come un figlio (anche Charles d'altra parte lo era) e Thelma nutriva nei riguardi di essa appassionate speranze e desiderava riuscire a ingentilirla nei modi, a raddolcirla nel carattere. Ormai questa figlia stava crescendo e imparava a limitare le proprie esigenze. Il suo periodo di sfrenato infantile egoismo durato ben quattro secoli!, era ormai alla fine.
Thelma accompagnava Stephen un passo dopo l'altro, usando metafore al posto della matematica attraversando i fondamentali paradossi scientifici, quel genere di nozioni, diceva, che richiedeva ai suoi studenti del primo anno di corso: come dimostrare in sede di laboratorio che qualcosa poteva al tempo stesso essere un'onda e una particella; come le particelle apparissero «consapevoli» l'una dell'altra e sembrassero, almeno in teoria, comunicare tale consapevolezza in modo istantaneo e a distanze immense; come quelle di spazio e tempo non fossero categorie separabili, ma aspetti l'una dell'altra, e come lo stesso accadesse per la materia e l'energia, la materia e lo spazio da essa occupato, il moto e il tempo; come la stessa materia non consistesse di minuscoli frammenti rigidi, ma fosse più simile ad un movimento ritmico; come l'acquisizione di sempre nuovi dettagli su un determinato argomento facesse perdere di vista la questione nei suoi termini generali. Una vita dedicata all'insegnamento aveva prodotto in lei alcune utili abitudini pedagogiche. Si fermava regolarmente per accertarsi che Stephen la stesse seguendo. Parlando, cercava con gli occhi lo sguardo di lui, dal quale esigeva concentrazione totale. E, inevitabilmente, scopriva che non solo non aveva capito nulla, ma che da un buon quarto d'ora stava sognando ad occhi aperti. Il che, a sua volta, poteva scatenare un altro cavallo di battaglia nel discorso di Thelma. Si premeva la fronte con l'indice e il pollice: c'era una sorta di compiacimento teatrale nel gesto. «Sei proprio un maiale ignorante!» gli diceva, mentre Stephen assumeva un'espressione mortificata. Forse erano proprio questi i momenti di maggiore intimità fra loro. «Davanti a noi si dispiega una rivoluzione scientifica, ma che dico, una rivoluzione intellettuale, emotiva, un'esplosione dei sensi, una storia prodigiosa, e tu e tutti quelli come te non le dedicate un solo vero minuto del vostro tempo. Una volta la gente credeva che il mondo fosse sorretto dagli elefanti. E questo è niente! La realtà, qualsiasi cosa significhi questa parola, è mille volte più strana. Chi vuoi che prendiamo? Lutero? Copernico? Darwin? Marx? Freud? nessuno di loro ha saputo reinventare il mondo e il posto che vi occupiamo in modo così radicale e interessante come hanno fatto i fisici di questo secolo. Chi si accinge oggi a calcolare il mondo non può più farlo con distacco. È costretto a comprendere nei propri calcoli anche se stesso. Materia, tempo, spazio, forza: splendide complicate illusioni dalle quali non possiamo più esser tratti in inganno. Quale meraviglioso sconvolgimento, Stephen. Shakespeare avrebbe afferrato subito le funzioni sinusoidali, Donne avrebbe capito il concetto di complementarità e di tempo relativo. Ne sarebbero stati entusiasti. Quanta ricchezza! Avrebbero saccheggiato questa nuova scienza alla ricerca di immagini. E in questo modo, avrebbero anche svolto una funzione educativa
nei confronti del loro pubblico. Voi "artisti", invece, non solo ignorate queste cose magnifiche, ma ne andate anche abbastanza fieri. Per quanto riesco a capirne io, avete la convinzione che una tendenza provinciale ed effimera come quella del modernismo, modernismo! rappresenti il successo intellettuale del nostro tempo. Patetico! Beh, ora piantala con quei sorrisetti e passami da bere». Comparve dieci minuti dopo sulla porta della cucina e gli fece cenno di seguirla in salotto. Due giganteschi Chesterfield si specchiavano da una parte all'altra di un tavolino basso e massiccio con ripiano di marmo. Thelma, o forse la cameriera, vi avevano sistemato un fiasco ancora tappato e delle tazzine da caffè. Anche le battaglie navali avevano lasciato il posto a chiazze grigie rettangolari. Thelma seguì lo sguardo di Stephen e disse: «Quadri e soprammobili se ne vanno separatamente. C'entra in qualche modo l'assicurazione». Si sedettero vicini, come sempre facevano quando Charles era impegnato fino a tardi al ministero o alla Camera dei Comuni. Lei non aveva mai preso sul serio la sua carriera politica. Aveva tollerato con distaccata benevolenza il crescente trambusto intorno alla casa che aveva accompagnato il suo progressivo affermarsi. Con il raggiungimento della carica governativa, erano tornati con maggiore frequenza nelle sue conversazioni argomenti quali il desiderio di ritirarsi dall'insegnamento, di dedicarsi al suo libro e di trasferirsi in campagna una volta per tutte. Ma come convincere Charles, proprio adesso che aveva iniziato a metter radici nel panorama politico nazionale, proprio ora che un articolista del «Times» lo aveva definito en passant come «possibile futuro primo ministro»? Quale femmineo incantesimo quantistico poteva aver messo in atto? Con la disinvoltura di una ragazzina, Thelma si sfilò le scarpe e ripiegò sul divano le gambe snelle. Aveva quasi sessantun anni. Si sfoltiva le sopracciglia. Gli zigomi alti le conferivano un'aria allegra e insolente che ricordava a Stephen quella di uno scoiattolo particolarmente sveglio. L'espressione del viso emanava intelligenza, e la severità dei suoi modi era sempre giocosa, auto-ironica. La chioma sale e pepe era raccolta in una crocchia ribelle, de rìgueur, a suo dire, per una fisica teoretica, e fermata con un pettinino antico. Si passò dietro l'orecchio qualche ciocca sparsa, certamente allo scopo di riordinare i suoi scrupolosi pensieri. Dalle finestre spalancate giungeva il suono vago e remoto del traffico intenso e qualche gemito e fischio delle sirene della polizia. «Mettiamola così, disse infine. Nessuno lo immaginerebbe mai, ma Charles possiede una vita interiore. Anzi, più che di una vita interiore, si tratta di un'ossessione, di un mondo a sé. Dovrai credermi sulla parola. Per lo più lui si rifiuta di riconoscerne l'esistenza, ma quella non lo abbandona mai, lo
consuma, lo fa essere quello che è diventato. Ciò che Charles desidera, ammesso che questa sia la parola adatta, ciò di cui ha bisogno, è tutto l'opposto di quello che ha fatto ultimamente. Sono queste contraddizioni che lo hanno reso tanto irrequieto, tanto impaziente di ottenere il successo. La nostra decisione, almeno per quanto riguarda lui, ha a che fare con la risoluzione di queste contraddizioni». Si fermò per un sorriso affrettato. «E poi ci sono le mie esigenze, ma quella è un'altra questione, e tu la conosci già a memoria». Appoggiò la schiena al divano, come soddisfatta che tutto fosse stato chiarito. Stephen lasciò passare un minuto. «Ebbene, che cosa sarebbe esattamente questa vita interiore?» Lei scosse il capo. «Mi dispiace che suoni così misteriosa. Preferiremmo che tu venissi a trovarci. E vedessi da te. Non mi va di parlartene prima del tempo». Si dilungò invece sulle proprie dimissioni e sul piacere che le procurava la prospettiva di scrivere il libro. Doveva trattarsi di elaborazioni dei suoi pezzi forti. Stephen immaginò Thelma nello studio dal pavimento scricchiolante del piano di sopra, seduta alla scrivania con il sole che illuminava le sue carte sparse; la finestra a vetri piombati era aperta e da lì, di quando in quando, lei osservava Charles che, in maniche di camicia, armeggiava pigro con la carriola. Lontano da quel giardino, i vari ministri attraversavano la città a bordo di limousine, diretti a importanti colazioni d'affari. Charles, in ginocchio, sistemava con pazienza la terra intorno a un arbusto malfermo. Più tardi Thelma arrivò in salotto con un vassoio di piatti freddi. Mentre mangiavano, Stephen raccontò il meeting della commissione cercando di farlo apparire più divertente di quanto non fosse stato. La serata si andava spegnendo e i discorsi vertevano ormai sugli amici comuni. Verso la fine Thelma assunse un atteggiamento di scusa, quasi temesse che Stephen potesse pentirsi di aver sprecato del tempo per niente. Non aveva idea di come trascorresse la maggior parte delle serate. Dato che non sarebbe più andato a trovarli in quella casa prima che fosse venduta, Stephen accettò l'invito a fermarsi per la notte. Ben prima di mezzanotte si trovò faccia a faccia con la familiare tappezzeria a fiordalisi, seduto a sfilarsi le scarpe sul bordo di un letto. Considerava gli oggetti di quella stanza di sua proprietà. Aveva passato così tanto tempo a fissarli: la boccia azzurra piena di fiori secchi sulla cassettiera di quercia e di ottone, il piccolo busto di Dante in peltro, il cofanetto di vetro porta-gemelli. In quello spazio aveva espiato tre o quattro settimane catatoniche. Ora, mentre si toglieva le calze e attraversava la stanza per aprire un po' di più la finestra, si aspettava di essere invaso da ricordi della peggior specie.
Fermarsi era stato un errore. Il costante brusio della città non riusciva a mitigare il silenzio greve che emanava dal fitto pelo della moquette, dai morbidi asciugamani sul cavalletto di legno, dalle pieghe granitiche delle tende di velluto. Senza spogliarsi, si sdraiò supino sul letto. Aspettava che arrivassero le immagini, quelle che riusciva a scacciare solo scuotendo la testa. Ciò che vide non fu sua figlia che gli mostrava la verticale, ma i genitori, in un attimo qualsiasi della sua ultima visita. Sua madre era in piedi accanto all'acquaio, le mani protette da un paio di guanti di gomma. Suo padre le stava a fianco con un bicchiere da birra pulito in una mano e un asciugatoio nell'altra. Si erano voltati a guardare lui sulla soglia della cucina. Lei aveva assunto una posizione goffa, con le mani affondate nel lavandino. Detestava gli schizzi sul pavimento. Non succedeva niente di importante. Suo padre sembrava fosse sul punto di parlare. Dalla sua scomoda posizione, sua madre chinò la testa di lato, come per prepararsi all'ascolto. Un'abitudine ereditata dallo stesso Stephen. Sui loro volti rugosi vedeva un'espressione frammista di ansia e di tenerezza. Era l'età, quel resistere della loro intima essenza a dispetto dell'appassire del corpo. Stephen senti l'urgenza del tempo che viene meno, di una faccenda non conclusa. C'erano fra loro discorsi non fatti, per i quali aveva sempre pensato che ci sarebbe stato tempo. Ad esempio, quel ricordo che non riusciva a collocare, una piccola cosa di cui solo loro però avrebbero potuto fornirgli una spiegazione. Era seduto sul seggiolino di una bicicletta. Davanti a lui, l'imponente schiena del padre e quello spostarsi ritmico delle piegoline della sua camicia bianca ad ogni pedalata. Sulla sinistra, c'era sua madre, anche lei in bicicletta. Percorrevano una strada asfaltata. A intervalli regolari, le strisce di catrame che si congiungevano sul fondo stradale li facevano sobbalzare. Smontarono nei pressi di una riva ghiaiosa. Il mare era dall'altra parte, ne udiva il fragore mentre si inerpicava sul pendio scosceso. Del mare in sé non ricordava nulla, solo una sorta di trepida anticipazione mentre suo padre lo tirava per un braccio verso la cima. Ma quando era successo tutto questo, e dove? Non erano mai vissuti nei pressi del mare, né avevano mai trascorso le vacanze su spiagge come quella. I suoi genitori non avevano mai avuto biciclette. Adesso, quando li andava a trovare, la conversazione assumeva sempre il solito andamento. Sarebbe stato difficile interromperla per farsi chiarire quei dettagli inutili e cruciali. Sua madre aveva dei problemi agli occhi e di notte le venivano i dolori. Il cuore di suo padre protestava e faceva le bizze. Poi c'era tutta la serie dei malanni di poco conto, come attacchi di influenza di cui sentiva parlare solo quando erano superati. Era in atto un'implacabile processo di disfacimento. Da un momento all'altro poteva arrivargli quel
telegramma, quella lugubre telefonata e si sarebbe ritrovato ad affrontare la frustrazione e il senso di colpa di una conversazione mai iniziata. Solo crescendo, forse solo quando si hanno dei figli, ci si rende conto fino in fondo del fatto che i nostri genitori possedevano esistenze piene e complesse già prima della nostra nascita. Stephen ne conosceva appena i contorni e qualche dettaglio attraverso i racconti: sua madre, commessa in un grande magazzino, sempre encomiata per la perfezione dei fiocchi che sapeva annodare; suo padre che attraversa a piedi una città tedesca distrutta o che percorre la pista del campo d'aviazione per dare la notizia ufficiale della vittoria al comandante di squadra. Anche quando le storie cominciavano a riguardarlo, Stephen sapeva poco o niente di come si fossero conosciuti, di che cosa li avesse attratti, di come avessero deciso di sposarsi o di come lui stesso fosse arrivato. È difficile uscire per un attimo dal tempo in un giorno qualsiasi e mettersi a fare domande inutili, oppure rendersi conto che, per quanto vicini, i genitori sono al tempo stesso degli sconosciuti per i propri figli. Stephen sentiva, per l'amore che portava loro, di non poterli lasciar scivolare via con le loro vite dimenticate. Aveva voglia di alzarsi dal letto, uscire in punta di piedi da casa Darke, prendere quella notte stessa un taxi che lo portasse da loro e arrivare finalmente a formulare quelle domande, quel resoconto da opporre alla corrosione vandalica del tempo. Certo, era pronto, stava già cercando una penna; avrebbe lasciato un appunto per Thelma e sarebbe partito subito, il tempo di infilarsi calze e scarpe. L'unica cosa che lo tratteneva era il bisogno di chiudere gli occhi e di prendere tempo per pensare ancora un po'.
Capitolo terzo Esistono tuttavia ipotesi fondate del fatto che quanto più intimamente un padre sia coinvolto nella cura giornaliera di un infante, tanto meno efficace gli apparirà come figura autoritaria. Il bambino che si senta amato da un padre in grado di stabilire il giusto equilibrio tra l'affetto e il distacco, risulterà ben preparato emotivamente alle future separazioni che costituiscono un capitolo inevitabile di qualsiasi crescita. Manuale per l'educazione del bambino, HMSO In seguito a uno scambio di cartoline piene di parole banalmente neutrali con la moglie, Stephen si preparò una mattina di metà giugno ad andarla a trovare. Non la vedeva da parecchi mesi. Era tornata dal suo ritiro, un monastero che affittava camere a forestieri depressi, e, nel giro di qualche settimana, aveva lasciato l'appartamento e si era comprata una casa. Per la prima volta dal mese di aprile il cielo era coperto. Era una specie di novità, il riaffermarsi del buon gusto, quel poter camminare dovunque nell'ombra fresca. Stephen aveva con sé una serie di indicazioni scarabocchiate su un pezzo di carta. Non desiderando riflettere con troppa attenzione sulle ragioni che lo spingevano a intraprenderlo, si concentrò invece sul viaggio stesso, il cui tragitto si rivelò gradevole nel suo progressivo costante procedere dal chiasso del centro di Londra a un cottage in mezzo a una pineta, a meno di trenta miglia di distanza. La gente che incontrava diminuiva ad ogni tappa del percorso. Raggiunse Victoria Station a bordo di una metropolitana affollatissima. Di qui il treno sferragliò uscendo nell'ampio cielo biancastro che sovrastava il fiume. Stephen procedette al controllo di ogni vagone alla ricerca del posto più appartato. Una minoranza di guastafeste considerano i viaggi, anche quelli brevi, come occasioni di incontri piacevoli. Ci sono persone pronte ad infliggere le proprie confidenze a perfetti estranei. Viaggiatori di questo genere devono essere evitati se si appartiene alla maggioranza che considera il viaggio un'occasione di silenzio, di riflessione, di sogni a occhi aperti. Non occorre granché: una visuale non impedita del paesaggio che cambia per quanto monotono e la libertà dal fiato, dal calore dei corpi, dai panini e dalle gambe di altri passeggeri. Trovò uno scompartimento di prima classe vuoto e ne chiuse bene la porta. Il treno viaggiava dal passato verso il presente. Fiancheggiava i giardini posteriori di isolati vittoriani i cui annessi retrostanti offrivano lampi di immagini attraverso le porte aperte delle cucine, superava abitazioni bifamiliari in stile edoardiano o anteguerra in direzione sud prima e poi est,
con tratti di campagna affatto incolta tra l'una e l'altra. Il convoglio rallentò in prossimità di un groviglio di incroci, prima di arrestarsi del tutto con un fremito. Nell'improvviso silenzio carico di attesa emanato dalle rotaie, Stephen si rese conto di quanto fosse impaziente di arrivare a destinazione. Si erano fermati nei pressi di una nuova zona residenziale di rozze e minuscole villette bifamiliari, di quelle che acquista chi per la prima volta si fa una casa di proprietà. I giardini antistanti avevano ancora la terra smossa; fuori, sul retro, fluttuanti pannolini bianchi appesi a geometrici pali di metallo proclamavano il cedimento a una vita recente. Mano nella mano, due bimbetti venivano avanti malfermi sotto i panni stesi e salutavano il treno agitando le braccia. Si mise a piovere appena prima della sua fermata. La stazione, poco più di una sosta per pendolari, si trovava al fondo di un lungo tunnel di ortiche. Incurante della pioggia, Stephen si attardò sul cavalcavia pedonale per osservare il tetto a bulloni neri del treno che si allontanava verso un vago proscenio di segnali ferroviari, per poi sparire di scorcio alla vista, dietro una curva lenta. Quindi calò un silenzio campestre di velluto nel quale altri piccoli suoni assumevano una nitidezza del tutto nuova: il passo affrettato di qualcuno che si allontanava, un complicato coro di uccelli e un più elementare fischiettio di un uomo. Rimase sul cavalcavia gustandosi, come un bimbo, o forse come un ragazzo, la vista delle rotaie lucide che si perdevano nel silenzio in entrambe le direzioni. Da bambino una volta si era fermato, con suo padre, su un ponte più grande e aveva aspettato il passaggio del treno. Fissando due linee sempre più strette, Stephen aveva domandato perché, allontanandosi, tendessero a incontrarsi. Suo padre aveva abbassato lo sguardo verso di lui con un'espressione tra il serio e il faceto prima di volgere gli occhi verso quella lontananza dove domanda e risposta finivano con il convergere. Sembrava sempre in posizione di attenti. Teneva Stephen per mano, intrecciando le dita con le sue. Quelle del padre erano corte e fitte di peli scuri tra una nocca e l'altra. Per gioco ogni tanto pinzava le dita di Stephen tra le sue come tra le lame di una forbice, finché il bimbo non saltava di dolore misto a piacere di fronte a tanta inconsapevole forza. Suo padre distolse lo sguardo dall'orizzonte per spiegargli che i treni spostandosi diventavano sempre più piccoli e che per questo anche le rotaie facevano lo stesso. Altrimenti ci sarebbero stati dei deragliamenti. Poco dopo, un espresso scosse il ponte sfrecciando sotto di loro. Stephen, intanto, fantasticava sui complicati rapporti tra le cose, sulla saggezza del mondo inanimato, la sagace simmetria che portava le rotaie a diminuire in misura precisamente proporzionale al rimpicciolire del treno: per quanto veloce corresse, quelle non si lasciavano mai cogliere di sorpresa. Si fermò fuori dalla stazione per leggere le indicazioni di Julie. La pioggia si
era trasformata in nebbiolina umida e i caratteri sulla carta erano tutti chiazzati, quasi illeggibili. Uscì dal villaggio incamminandosi su quella che Julie aveva definito la vecchia strada dell'autobus. Superò un supermercato con affollatissimo mega-parcheggio, e attraversò l'autostrada su una elegante passerella in cemento. Mezzo miglio dopo svoltò in una stradina lastricata che tagliava dritta nei boschi. Adesso che finalmente era in aperta campagna, si sentì sollevato. Su entrambi i lati si ergevano filari di conifere intervallate da vuoti luminosi che conferivano allo scenario un gradevole effetto di illusoria velocità. Si trattava di una foresta geometrica, senza intrichi di sottobosco o canti di uccelli. La strada luccicava bianchissima sotto la pioggia. Quella sua precisione di linee gli piacque, gli mise addosso la voglia di correre. A un mezzo miglio verso l'interno si apriva una radura nella pineta, e qui un alto recinto di filo spinato non cintava altro che un asino ciondolante: una bestia grigia che sollevava languidamente il capo tozzo e pesante ed emetteva un raglio continuo. Altri recinti erano stati sistemati a intervalli regolari lungo la strada. All'esterno di uno di questi un'autobotte stava facendo rifornimento dalla cisterna. L'autista era a bordo del mezzo, con i piedi appoggiati al cruscotto: beveva birra da una lattina e leggeva il giornale. Sorrise e salutò con la mano il passaggio di Stephen, cosa che lo rallegrò ulteriormente. Aveva scordato quanto la gente di campagna potesse essere cordiale. Rispettando la promessa di Julie, la strada finì dopo una mezz'oretta di marcia. La pineta lasciò spazio improvvisamente a uno sconfinato campo di grano. Stephen si riposò un momento appoggiandosi a un cancelletto metallico a cinque sbarre. Unico indizio del fatto che quella distesa di giallo, simile a un deserto, avrebbe avuto una fine, era una linea all'orizzonte là dove la piantagione di conifere riprendeva. Ma forse era solo un miraggio. La piana era tagliata nettamente in due da un sentiero: la continuazione, altrettanto diritta, della stradina lastricata. Stephen vi si incamminò e nel giro di cinque minuti prese ad apprezzare il nuovo scenario. Era come marciare in un vuoto: scomparso ogni senso del movimento e, quindi, ogni senso del tempo. Gli alberi lontani non davano segno di avvicinarsi. Un paesaggio ossessivo, una paranoia di grano. L'assenza di fretta, il disfarsi di un qualsiasi significato nella meta da raggiungere, si adducevano allo stato d'animo di Stephen. Julie era tornata dal monastero nei Chilterns dopo sei settimane. Stephen aveva lasciato Eaton Square calcolando i tempi in modo che il suo arrivo all'appartamento coincidesse con quello di lei. Si salutarono con circospezione. E con un tocco della tenerezza disinvolta di un tempo. Si fermarono l'uno accanto all'altra in mezzo al soggiorno tenendosi appena
per mano. Come fa in fretta una casa a mostrare i segni dell'abbandono e quanto appaiono irrecuperabili: non era la polvere, o l'aria viziata o i giornali subito ingialliti e neppure le piante appassite. Si dissero tutte queste cose spolverando, aprendo le finestre e ammucchiando la spazzatura. Stephen ebbe la sensazione che parlassero del loro matrimonio. Per un paio di settimane seguitarono a studiarsi, ora gentili, ora autenticamente, dolcemente affettuosi; fecero anche l'amore una volta. Per qualche tempo sembrò quasi che, prima o poi, avrebbero potuto sfiorare quegli argomenti che si davano tanta pena di evitare. Ma poteva anche risolversi in direzione opposta, e così infatti accadde. Per come la vedeva Stephen, il loro era un problema di desiderio. Non avevano alcun bisogno di conforto o consiglio reciproco. Quella perdita li aveva avviati su strade diverse. Non avevano nulla in comune. Julie era dimagrita e si era tagliata i capelli. Leggeva testi mistici o sacri. San Giovanni della Croce, le liriche di Blake, Lao-Tze. Ne stipava i margini di annotazioni a matita. Ogni giorno si esercitava per ore su una partitura di Bach. Lo stridere delle note su doppio registro, la frenesia vorticosa delle semicrome lo allontanavano da lei. Da parte sua, Stephen compì i primi seri passi verso l'abitudine al bere e si abbandonò a libri adolescenziali, leggendo di uomini liberi e solitari, i cui problemi erano quelli del mondo. Hemingway, Chandler, Kerouac. Si trastullava con l'idea di mettere poche cose in una valigia, prendere un taxi per l'aeroporto e scegliersi una destinazione concedendo alla propria malinconia una deriva di qualche mese. Lo stare insieme non faceva che accrescere il loro senso di vuoto. Se si sedevano a tavola, l'assenza di Kate diventava una realtà tanto ineffabile quanto impossibile da ignorare. Non potendo dare né chiedere un po' di conforto, non si desideravano. Quel loro unico tentativo era stato frutto della routine e come tale falso, scoraggiante per tutti e due. Subito dopo, Julie si mise in vestaglia e andò in cucina. La sentì piangere e seppe di non poter andare da lei. Non le avrebbe comunque fatto piacere. Resistettero cinque settimane. Le uniche conversazioni serie che ebbero in quel periodo avvennero verso la fine, quando incominciarono a considerare l'ipotesi di lasciarsi; non si trattava di divorzio, ovviamente, e neppure di separazione, soltanto di «starsene un po' da soli». E così, si presentò un impiegato di un'agenzia immobiliare per valutare l'appartamento. Era un omone dai modi autorevolmente gentili che seppe elargire commenti sensati per tutto il tempo che impiegò a misurare le stanze e ad appuntarsi le caratteristiche originali dell'alloggio. Gli chiesero, lo implorarono di fermarsi per il tè. Alla seconda tazza, gli raccontarono di Kate, del supermercato, della polizia, del monastero, di quanto fosse difficile tornare indietro. Lui appoggiò i gomiti sul tavolo di cucina e si tenne la testa fra le mani; annuì solennemente nel corso di tutto
il racconto. Ciò che sentì confermava quello che aveva sempre temuto. Quando ebbero finito, si asciugò le labbra con un fazzoletto. Poi allungò le braccia sul tavolo e prese loro le mani. La sua stretta era forte, calda e asciutta. Dopo un attimo di silenzio disse che non avevano nulla da rimproverarsi l'un l'altra. E per un momento li fece sentire felici, sollevati. Ma quel momento passò. Un agente immobiliare poteva aiutarli più di quanto essi stessi avevano saputo fare. Che senso aveva una cosa del genere? Seppero poi che quel tizio un tempo era stato sacerdote e aveva perduto la fede. L'appartamento fu valutato e Stephen consegnò a Julie un assegno pari ai due terzi della cifra totale. Lei si trovò la casa in campagna e si trasferì portandosi appresso i violini, il letto matrimoniale e qualche altro oggetto. Rifiutò di farsi installare il telefono. Si tennero in contatto per mezzo di qualche cartolina e si incontrarono un paio di volte in ristoranti del centro di Londra, dove si dissero assai poco. Se tra loro c'era ancora dell'amore, doveva essere sepolto a profondità irraggiungibili. La pioggia si spostava nello spazio aperto, circondando Stephen di sottili colonne di foschia. Da venti minuti ormai il terreno declinava in modo impercettibile finché gli alberi lontani non sprofondarono oltre l'orizzonte e non si vide più altro che grano. Era stata la curiosità e l'imbarazzo a portarlo a inzupparsi di pioggia su questo pianoro, quando avrebbe potuto restarsene a guardare i diecimila metri maschili. Frattanto Julie si dedicava alla trasformazione di se stessa, metteva a punto meticolosamente una diversa visione della vita e del posto che vi occupava. Si sarebbe data a lunghe passeggiate tra pini simmetrici, riassestando il passato, il loro passato, modificando le sue gerarchie di valori, facendo piani per un nuovo futuro; gli scarponcini che le aveva regalato per un compleanno avrebbero calpestato quella stradina asfaltata. Prima che lui fosse riuscito a disseppellire i suoi sentimenti e senza la sua presenza di testimone oculare, sua moglie avrebbe potuto trasformarsi in una perfetta estranea, qualcuno con cui non avrebbe saputo come parlare. Non voleva restare indietro, non voleva perdere il proprio posto nella sua storia. Non che lei fosse immune da confusioni o atteggiamenti irrazionali, ma possedeva l'indistruttibile, utilissima capacità di comprendere e presentare le proprie rovine in modo da farle apparire come stadi di un'educazione sentimentale e spirituale. Nel suo caso, le certezze di un tempo non venivano rifiutate in blocco, ma piuttosto riordinate, un po' come, a detta di Thelma, le rivoluzioni scientifiche ridefinivano, anziché scardinare, tutto il sapere che le aveva precedute. Ciò che a Stephen era spesso sembrato contraddittorio, ma l'anno scorso non la pensavi affatto così!, per lei era semplicemente una forma di crescita intellettuale. Perché l'anno scorso non avevo ancora capito! Non si trattava soltanto di prendere parte alla propria
vita interiore; Julie la gestiva, la dirigeva, ne organizzava gli sviluppi futuri. Non si doveva affidare al cieco caso, all'imprevedibilità il corso della propria indagine esistenziale. E d'altro canto non negava al destino un suo ruolo specifico. Il dovere, la responsabilità che ciascuno era chiamato ad assumersi, era quella di portare quel destino a compimento. Tale fiducia in una eterna mutevolezza, nella ricostruzione di sé man mano che si comprendevano cose nuove o se ne cambiava l'interpretazione, per Stephen era venuta a costituirsi come un aspetto della sua femminilità. Se un tempo aveva creduto, o almeno pensato di dover credere, che al di là delle ovvie differenze fisiche, uomini e donne fossero essenzialmente identici, adesso sospettava che una delle tante caratteristiche che li distinguevano fosse appunto il rispettivo atteggiamento nei riguardi delle trasformazioni. Superata una certa età, gli uomini subivano un processo di congelamento, erano portati a credere che, anche nelle avversità, si sarebbero in qualche modo trovati a ricoprire il ruolo che il destino aveva loro assegnato. Perché loro erano quel che pensavano di essere. A dispetto di tutti i discorsi, gli uomini credevano in ciò che facevano e vi si aggrappavano. Il che era al tempo stesso una forza e una debolezza. Che si buttassero fuori da una trincea per farsi uccidere a migliaia, che a loro volta sparassero, o che si applicassero alle ultime rifiniture di un ciclo di sinfonie, accadeva molto raramente, o accadeva a rari rappresentanti della categoria, che ritenessero casuale la loro attività. Per le donne invece questo era assiomatico. Fonte costante di tormento e conforto, indipendentemente dal livello di successo raggiunto agli occhi propri e a quelli degli altri. Anche questo costituiva al tempo stesso una forza e una debolezza. L'impegno della maternità impediva la piena realizzazione professionale. Tentare di intraprendere entrambe le strade significava rischiare l'annichilimento per eccesso di fatica. Non era così facile insistere quando non si poteva credere fino in fondo di essere ciò che si faceva, quando si pensava di potersi identificare, o almeno di poter identificare una parte di se stessi, nella realizzazione di un'altra impresa. Ecco perché non si lasciavano sedurre altrettanto facilmente da lavoro e gerarchie, uniformi e medaglie. Alla fede che gli uomini rivelavano nei riguardi di quelle istituzioni del resto fondate da loro soltanto, le donne opponevano un diverso principio di individualità in cui l'essere veniva prima dell'agire. Molto tempo fa gli uomini avevano interpretato tutto ciò come sovversivo. Le donne semplicemente racchiudevano quello spazio che l'uomo desiderava penetrare. Fu questo che suscitò l'ostilità maschile. Finalmente raggiunse i pini sull'altro lato del campo. Scavalcò un secondo cancelletto metallico. Come prometteva la cartina, si ritrovò su un sentierino più stretto, fiancheggiato da recinti di filo spinato che si inoltravano nel verde cupo. In seguito, Stephen si sforzò di ricordare che
cosa gli passasse per la mente mentre percorreva i cento metri che separavano il cancello dalla vecchia stradina secondaria. Ma non ci fu niente da fare, quel tempo sarebbe rimasto un inaccessibile spazio di frastornante vuoto mentale. Forse aveva preso coscienza dei suoi abiti zuppi di pioggia. Forse aveva riflettuto su come farli asciugare una volta arrivato. Fu comunque assai più sensibile a ciò che gli accadeva intorno quando emerse dalla pineta e si inoltrò nel nuovo scenario. Si bloccò per un attimo, come trafitto. Emise un sospiro corto e profondo. La strada piegava a destra e si stendeva davanti a lui seguendo vagamente la linea del sentiero. Passò qualche automobile senza emettere apparentemente alcun suono. Conosceva questo posto, lo conosceva benissimo, come se ci fosse stato molto tempo prima. Gli alberi tutto intorno si andavano facendo più verdi, più grandi, più in fiore. Neppure un viaggio nel suo passato remoto gli avrebbe comunicato questo genere di sensazione, quasi un dolore fisico, una confidenza, il ritrovarsi in un luogo che lo riconosceva a sua volta e pareva aspettarlo nel silenzio che inghiottiva il rumore delle auto di passaggio. Ciò che gli tornò in mente fu un giorno speciale, un giorno di cui sentiva persino il sapore. Eccola qua, proprio così doveva essere, quell'aria greve di umidità e di verde in una giornata di inizio estate, la pioggia fine, tranquilla, le gocce pesanti che si formavano per poi crollare dalle foglie perfette degli ippocastani, quell'effetto ottico che faceva apparire gli alberi come più grandi e puliti attraverso una pioggia tanto sottile da prendere il posto dell'aria. Era stato proprio in un giorno come questo, ne era certo, che quel posto aveva assunto tanta importanza. Rimase immobile, temendo che un movimento potesse distruggere la vastità, la quiete suprema che si sentiva aleggiare intorno, quel vago desiderio interiore. Non era mai stato lì prima d'ora, né da bambino né da adulto. Ma quella certezza si confondeva alla sensazione precisa di averlo immaginato esattamente così. Eppure non ricordava affatto di averlo immaginato. Ma sapeva che, superando il margine erboso e guardando a sinistra, avrebbe visto una cabina telefonica e, sul lato opposto della strada, un pub al fondo di un parcheggio ghiaioso. Avanzò con passo spedito. Per riuscire a vedere oltre la curva dovette portarsi al centro della strada. Fu il modo in cui il basso edificio in mattoni rossi confermò le sue aspettative a procurargli la prima fitta di vera paura. Succedeva tutto troppo alla svelta. Come poteva aspettarsi qualcosa di cui non aveva memoria? Si trovava a una trentina di metri di distanza e poteva scorgere la facciata del pub di tre quarti. La costruzione, ben conservata, era come se l'immaginava: una struttura semplice, rettangolare, in tardo stile vittoriano con il tetto spiovente a tegole rosse e un annesso sul retro che conferiva al tutto la forma di una lettera T. Nel cortile posteriore era parcheggiato un vecchio caravan bianco ormai adibito a magazzino per vuoti. Alcuni strofinacci
erano stati messi ad asciugare su una corda poco tesa. Sul davanti, al lato della porta d'ingresso al pub, era sistemata una panca di legno, rotta ma ancora utilizzabile. Tutto quanto coincideva. La familiarità di quel luogo si faceva beffe di lui. Un alto palo bianco, isolato, sosteneva un'insegna che, in caratteri e immagine, annunciava The Bell. Quel nome non significava nulla per lui. Rimase lì a lungo a guardare, diviso tra la tentazione di andarsene e quella di esaminare il luogo più da vicino. Ma non era soltanto questione di posto; ciò che gli veniva offerto era un giorno speciale, quel giorno. Si sentiva in bocca il sapore polveroso della ghiaia bagnata di pioggia. Gli parve che la foschia umida e fine avesse ricreato intorno a lui un altro scenario campestre di alberi un tempo comuni, olmi, castagni, querce, faggi, vecchi giganti ora sostituiti dai vivai, magnifici alberi di cui tornò a sentire l'antica imponenza sul paesaggio, ordinate nuvole di verde che rotolavano libere verso i North Downs. Stephen si era fermato sul ciglio di una strada secondaria del Kent, in una piovosa giornata di metà giugno, e tentava di collegare quel posto e quel giorno a un ricordo, un sogno, un film, una gita dimenticata della sua infanzia. Voleva trovare il legame capace di mettere in moto un processo esplicativo e di lenire i suoi timori. Ma il richiamo del luogo, la sua familiarità, il desiderio che suscitava, quella sua ingiustificata importanza, tutto gli faceva sembrare evidente, anche prima di potersene dare ragione, che la risonanza potente, non trovava altro modo per definirla, di questa località aveva origine al di fuori della sua esistenza. Rimase in attesa per un quarto d'ora prima di incamminarsi lentamente in direzione del pub. Ogni movimento brusco poteva distruggere l'incantesimo di questa ricostruzione di un tempo passato. Cercò di controllare i suoi sentimenti. Non era facile assimilare il caos rutilante di tutti quegli alberi carichi di foglie, e il modo in cui la pioggia ingigantiva le felci brillanti conferendo loro dimensioni equatoriali e facendo apparire come specie rare semplici ortiche e cerfoglio. Se avesse scosso il capo con forza, si sarebbe ritrovato di nuovo in mezzo a quei pini ordinati. Tenne lo sguardo fisso sull'edificio di fronte. Era da poco passato mezzogiorno. The Bell doveva essere aperto, pronto ad accogliere i primi clienti dell'ora di pranzo, ma non c'era nessuna automobile ferma sulla spianata di ghiaia a diminuire la perfezione di quel capolavoro di accuratezza nella ricostruzione. Non c'erano auto ma, appoggiate alla panca di legno accanto alla porta, c'erano due biciclette nere vecchio modello. Una era da donna; su tutte e due era stato montato un cesto di vimini. La paura stava rallentando l'andatura di Stephen e lo faceva ansimare. Avrebbe potuto tornare indietro. Julie lo stava aspettando e doveva anche fare qualcosa per quei vestiti bagnati. Doveva tornare a casa presto e
lavorare alla bibliografia da sottoporre alla commissione. Rallentò, senza peraltro fermarsi. Le auto gli transitavano accanto. Se anche fosse sceso sulla strada, non avrebbero potuto sfiorarlo. Il giorno che adesso abitava non era lo stesso nel quale si era svegliato. Era lucido, deciso ad andare avanti. Si trovava in un altro tempo ma non se ne sentiva sopraffatto. Era come un sonnambulo che, riconoscendo il proprio sogno per quello che è, ne accetta con curiosità il dispiegarsi, per quanto terribile. Si avvicinò all'edificio silenzioso. Si sentiva un intruso. Quel posto lo riguardava e lo escludeva al tempo stesso; era in atto un conflitto sottile che avrebbe potuto risolversi in sensi opposti. Adesso stava attraversando il parcheggio e controllava con cura ogni passo. Da un angolo del pub proveniva il picchiettio della pioggia in un secchio. Alla distanza di una decina di metri le finestre del pub apparivano nere. L'edificio gli parve deserto, finché un cambiamento di posizione non gli permise di scorgere vaghe luci all'interno. Si era fermato di fronte all'ingresso. Le biciclette erano appoggiate al muro, sotto il cornicione, per non prendere pioggia. Le ruote posteriori sfioravano appena il bracciolo della panchina rotta. La bici da uomo poggiava sul muro e quella da donna le si intrecciava in una sorta di comica intimità. Le ruote anteriori divergevano, i pedali formavano un goffo groviglio. La vernice nera dei telai era nuova e vi spiccava il nome del costruttore in perfetti caratteri gotici dorati. I cestini di vimini parevano non essere mai stati usati. Le selle, ampie e ben molleggiate, emanavano il leggero odore di feci del cuoio di buona qualità. Sui due manubri erano state applicate manopole di gomma lucida e sulle cromature brillavano perle nere di pioggia. Stephen non toccò le biciclette. Ci fu un movimento nel locale, una figura passò davanti a una lampada. Stephen si fece di lato, rendendosi conto di poter essere visto da gente che non poteva vedere. Aveva cessato di piovere, ma lo scroscio dell'acqua era più forte, adesso. Proveniva dalle crepe nelle grondaie coperte di muschio, dalla pioggia che gocciolava dentro al barile, dallo scrollarsi delle foglie degli alberi. Stephen era accanto al muro del pub e, dalla finestra, godeva di una visuale obliqua del salone interno. Un uomo stava portando due bicchieri di birra dal banco ad un tavolino al quale sedeva una giovane donna, con l'aria di chi sta aspettando. Il tavolo era sistemato in un angolo e la luce esterna proiettava le due figure in silhouette. L'uomo si stava mettendo comodo; tirò su, con fare pacato, il fondo degli ampi calzoni di flanella grigia e si sedette molto vicino alla donna. Erano su una panca incastrata nella nicchia d'angolo. Fu quell'ombra ancor più della sensazione di riconoscerli, quell'eco fulminea ancor più di un suono familiare, a costringere Stephen a cercare un appoggio contro la parete asciutta. La visione che aveva dinanzi gli pulsava dentro al ritmo del battito cardiaco. Se quei due avessero sollevato lo
sguardo verso sinistra, in direzione della finestra accanto alla porta, avrebbero visto, al di là del vetro picchiettato di pioggia, un fantasma paralizzato nell'atto ineffabile di riconoscere qualcuno o qualcosa. Era un viso carico di tensione e di attesa, come se uno spirito, sospeso tra l'esistere e il nulla, aspettasse una decisione, un cenno di invito o un congedo. Ma la giovane coppia aveva altro cui pensare. Lui tracannava birra, una pinta contro la mezza di lei, e parlava con fare entusiasta mentre il bicchiere della ragazza restava pieno. Lei ascoltava tutta seria, tormentandosi la manica del vestito in cotone stampato e sistemando, con inconsapevole precisione, il bel fermaglio che le teneva la corta chioma liscia lontana dagli occhi. Si sfioravano le mani e si scambiavano sorrisi fragili e fermi; poi ciascuno ritirò la mano e presero a parlare contemporaneamente. La questione, perché di sicuro l'argomento era lo stesso, non era ancora risolta. Per quanto Stephen riusciva a vedere, non c'erano altri clienti. Il barman, un uomo grande e lento nei movimenti, volgeva la schiena al bancone e stava armeggiando con qualcosa sullo scaffale. La cosa più ovvia da fare sarebbe stata entrare, prendere da bere e dare un'occhiata più da vicino. L'idea non gli andava a genio. Stephen teneva la mano sul muro che gli pareva caldo e rassicurante. Poi di colpo, con la rapidità sconvolgente di una catastrofe, tutto cambiò. Gli mancarono le gambe e una sensazione di gelo gli scese fino allo stomaco. Guardava la donna negli occhi e sapeva chi era. Anche lei aveva sollevato lo sguardo nella sua direzione. L'uomo intanto parlava, insisteva su un punto e la donna continuava a fissarlo. Sul suo viso non c'erano tracce di sorpresa o di curiosità, semplicemente ricambiava lo sguardo di Stephen senza smettere di ascoltare il compagno. Annuì vagamente, si volse come se fosse sul punto di replicare e tornò a guardare in direzione di Stephen. Non c'era niente che suggerisse l'idea che si fosse in qualche modo accorta di lui. Non che lo ignorasse, ma guardava oltre, verso gli alberi sul lato opposto della strada. Anzi, non guardava affatto, stava solo ascoltando. Senza ragione, Stephen sollevò la mano in un gesto impacciato, qualcosa che stava a metà tra un ciao e un saluto militare. Nessuna risposta da parte di quella ragazza che, ne era certo, era sua madre. Non lo vedeva. Ascoltava il discorso di suo padre, come era facile riconoscerlo in quel suo modo di rendere più incisivo quanto diceva stendendo una mano!, e non si accorgeva del figlio. Si sentì invadere da un gelido scoraggiamento infantile, l'amara sensazione di desiderio impotente di un bimbo escluso. Forse, allontanandosi dalla finestra, si mise a piangere, forse frignava come un neonato che si svegli nel cuore della notte, o forse a un osservatore esterno poteva apparire soltanto muto e rassegnato. L'aria in cui si muoveva
era umida e cupa e lui, invece, leggero, fatto di niente. Non si vide ripercorrere la strada per tornare indietro. Ricadde, sprofondò senza difese in un vuoto, si sentì trascinare di peso tra curve invisibili e sollevare oltre gli alberi, vide l'orizzonte sotto di sé mentre precipitava in una spirale sinuosa di verde e impetuosi canali stillanti. Gli occhi gli si spalancarono sempre più tondi in un'espressione di disperata ribelle innocenza, le ginocchia gli si sollevarono fino a sfiorargli il mento, le dita si trasformarono in pinne coperte di scaglie e prese a battere il tempo al ritmo furioso e inutile di un paio di branchie in un oceano salato che, salendo dalle radici degli alberi, ne ricopriva le cime. E in tutto quel piangere, quel credere di chiamare a gran voce qualcuno, una sola cosa riusciva a pensare: che non aveva un posto dove andare, non poteva riconoscersi in un momento qualunque, non era atteso, non disponeva di una destinazione nello spazio come nel tempo; mentre avanzava con tanta furia restava fermo, seguitando a schiantarsi intorno allo stesso punto. E da questo pensiero scaturì una tristezza che non era soltanto sua. Era vecchia di secoli, di millenni. Scuoteva lui e innumerevoli altri, come un vento che passi tra l'erba. Non c'era nulla di suo, non un solo gesto, un movimento, il suono di una voce, neppure quella tristezza, niente che appartenesse a qualcuno. Aprendo gli occhi Stephen si ritrovò disteso su un letto, il letto di Julie, sotto un piumino, con una boule tiepida appoggiata sul petto. La piccola camera, quasi interamente occupata dal letto, si apriva su un bagno da cui proveniva una nuvola di vapore giallastro sotto la luce elettrica e lo scroscio di acqua corrente. Richiuse gli occhi. Quel letto era il regalo di nozze di amici che non vedeva da anni. Tentò di ricordarne i nomi: niente da fare. In quel letto, o su quel letto, era incominciato il suo matrimonio, che lì era finito, sei anni dopo. Ne riconobbe il cigolio ritmico, spostando le gambe, senti l'odore di Julie tra le lenzuola ed i cuscini ammassati, senti il suo profumo e la fragranza di saponetta caratteristica della biancheria di bucato. Proprio qui si erano svolte le conversazioni più lunghe e significative, prima di diventare le più desolate, della sua vita. Vi aveva avuto le migliori notti di sesso e le peggiori di veglia. Aveva letto più pagine qui che in qualunque altro luogo: ricordava Anna Karenina e Daniel Deronda, in una settimana di influenza. In nessun altro luogo si era infuriato altrettanto, ma neppure era stato altrettanto tenero, protettivo, incoraggiante; né, dai tempi della sua prima infanzia, altrettanto viziato a sua volta. Qui era stata concepita ed era nata sua figlia. Da questa parte del letto, il materasso recava tracce profonde di pipì per le sue visite di primo mattino. Si arrampicava in mezzo a loro, dormiva un po' e poi li svegliava con le sue chiacchiere, insistendo che il giorno era già incominciato. Mentre loro due si
aggrappavano ai frammenti estremi di sogno, lei pretendeva l'impossibile sotto forma di storie, poesie, canzoncine, di catechismi inventati, di lotte e solletichii. Avevano distrutto o regalato quasi ogni traccia della sua esistenza, tranne le foto. Le cose migliori e peggiori che gli fossero mai accadute si erano svolte lì sopra. Era questo il suo posto. Al di là di qualunque considerazione contingente, come il fatto ad esempio che il suo matrimonio fosse più o meno finito, rimaneva il suo diritto a starsene qui sdraiato sul letto matrimoniale. Quando apri gli occhi di nuovo, Julie sedeva sul bordo del letto e lo guardava. La stanza era silenziosa, fatta eccezione per lo sgocciolare pesantemente ritmico ed echeggiante di un rubinetto del bagno. Nell'espressione di trattenuto sarcasmo che le serrava le labbra, Julie cercava di vincere la tentazione di dirgli qualcosa di poco simpatico. I suoi occhi limpidi e grigi continuavano a muoversi in imprevedibili traiettorie triangolari che andavano dall'occhio sinistro di lui al destro e viceversa, come mettendone a confronto e misurandone la verità nelle differenze minime che vi individuava, per poi scendere sulla bocca e procedere ad ulteriori indagini, considerando anche l'atteggiarsi delle labbra. Stephen si mise a sedere e le prese una mano. Gli parve disponibile, ma fredda al tatto. «Mi dispiace tutto questo», disse. Julie sorrise e replicò pronta: «Non c'è problema». Le sue labbra si richiusero tradendo di nuovo lo sforzo di trattenere un commento ironico. Non era da lei domandargli direttamente come mai fosse arrivato fin lì in stato di shock. Non insisteva per ottenere risposta ad una domanda. Chiedeva magari una volta e se non accadeva nulla si adeguava al silenzio. Il suo era un silenzio gradevole e intenso. Riusciva difficile non dirle qualcosa per tentare di trascinarla fuori dall'intima unione con se stessa, per portarsela più vicino. Stephen disse: «È meraviglioso trovarsi di nuovo su questo letto». «Mi fa impazzire, replicò subito Julie. Sprofonda nel mezzo e cigola al minimo movimento». Senza volere, lui disse con tono allegro: «Allora lo prendo io», e Julie si strinse nelle spalle. «Se lo vuoi, prenditelo». Che squallore. Ritrassero entrambi le mani e ci fu silenzio. Stephen desiderava recuperare l'atmosfera intima in cui si era svegliato e fu tentato di spiegare tutto come meglio poteva. Ma non sapeva se sarebbe stato capace di impegolarsi in un discorso lungo che avrebbe anche potuto allontanarli di più. Si liberò con un calcio delle coperte, si chinò in avanti e le poggiò le mani sulle spalle, stringendo forte come per assicurarsi della sua
presenza. Era fragile al tatto ed il calore del corpo attraverso la camicetta di cotone gli parve tenero e pieno di forza. Julie era all'erta, ma quel sorriso represso sembrava pronto ad uscire. «Ora ti spiego che cosa è successo», disse lui, senza mollare la presa. Poi la lasciò e fece l'atto di alzarsi dal letto, ma lei lo trattenne per un braccio. Gli parlò con fermezza. «Non devi alzarti. Ti ho portato un po' di tè. E ho fatto una torta». Gli risistemò le coperte sulle gambe, fino alla vita, e si accinse a rimboccargliele. Non voleva lasciarlo andar via da quel letto matrimoniale. Sollevò da terra un vassoio e glielo mise davanti. «Per una volta, disse, puoi smettere di far finta che vada tutto bene. Sei il mio paziente». Tagliò la torta e versò il tè nelle tazze. Erano belle, di porcellana finissima. Si era persino preoccupata di tirar fuori i piattini da dolce dello stesso servizio. Non c'era dubbio, doveva essere un'occasione speciale. Fecero un brindisi con le tazzine. Quando le chiese l'ora, Julie rispose: «È ora del bagno», e gli indicò le striscie di fango secco che aveva sul braccio. Nella penombra della stanza, gli occhi di lei mandavano ripetuti bagliori bianchi; il suo sguardo seguitava ad andare dal piatto al viso di Stephen, come se volesse confrontarlo con un ricordo. Non riusciva più a guardarlo negli occhi. E quando lui le sorrise, abbassò le palpebre. Indossava orecchini pendenti in cristallo multicolore. E, stranamente per lei, non riusciva a tenere ferme le mani. Chiacchierare del più e del meno non era facile. Dopo un momento, Stephen disse: «Sei bellissima». La risposta fu pronta e il tono tranquillo: «Anche tu». Gli sorrise e, con un sospiro efficiente, aggiunse: «Allora...» mettendosi a ritirare le cose del tè. Si fermò accanto al letto per accarezzargli i capelli. Lui trattenne il respiro, l'atmosfera stessa stava trattenendo il respiro. Avevano di fronte due possibilità, in equilibrio perfetto su un fulcro sensibilissimo. Nell'attimo in cui avessero fatto il primo passo verso una delle due, quell'altra, pur senza cessare di esistere, sarebbe svanita irrevocabilmente. Poteva alzarsi dal letto ora e, rivolgendole un sorriso affettuoso, passarle accanto diretto in bagno. Si sarebbe chiuso la porta alle spalle mettendo al sicuro la sua indipendenza ed il suo orgoglio. Lei lo avrebbe aspettato di sotto e avrebbero ripreso i loro scambi di caute battute finché non fosse arrivato il momento, per Stephen, di attraversare di nuovo quel campo e andare a prendere un treno. O si poteva rischiare qualcosa, affacciarsi a una vita diversa, in cui la sua infelicità poteva risultare raddoppiata o eliminata del tutto. La loro esitazione fu una breve, squisita incertezza di fronte a un sentiero che si divide. Se quel giorno non gli fosse già capitato di vedere due fantasmi, di sfiorare i labili involucri che circondano i fatti, il tempo e il
luogo in cui essi avvengono, non sarebbe stato capace di quella scelta spontanea, carica di un'immediatezza che gli parve saggia e sfrenata al tempo stesso. Fu uno Stephen spettrale, evanescente quello che si alzò, sorrise, attraversò la stanza e si chiuse la porta del bagno alle spalle facendo scattare una serie di invisibili, innumerevoli eventi. Lo Stephen che prese la mano di Julie percepì la sinuosa condiscendenza del suo corpo per tutta la lunghezza del braccio, la fece sedere in grembo e la baciò, non potè dubitare che ciò che stava accadendo ora e quel che sarebbe venuto di conseguenza, aveva radici nella sua precedente esperienza di quel giorno. Misteriosamente, sentì che il filo di un discorso proseguiva. Ma questa volta non provava altro che piacere tenendo tra le mani la testa, la cara testa di Julie e baciandole gli occhi, mentre prima, davanti a quel pub, aveva provato terrore; i due momenti erano comunque innegabilmente legati, avendo in comune il desiderio innocente che provocavano, quell'ansia di appartenere. Non è facile abbandonare le semplici abitudini erotiche matrimoniali. Si inginocchiarono uno di fronte all'altra al centro del letto e presero a spogliarsi senza fretta. «Sei così magro, disse Julie, un giorno o l'altro sparirai». La sua mano gli percorse il torace, a partire dal collo, e gli accarezzò le ossa sporgenti della cassa toracica, poi, gratificata dal suo eccitamento, Julie lo strinse forte con entrambe le mani e si chinò per reclamarlo con un lungo bacio. Anche lui provò la tenerezza di un possesso antico quando la vide nuda. Notò i cambiamenti, la vita appena ispessita, i grandi seni un poco più piccoli. Frutto della solitudine, pensò, mentre stringeva con le labbra un capezzolo e si premeva l'altro contro la guancia. La novità di sentire e toccare un corpo nudo così familiare fu tanta che per qualche minuto non riuscirono a far altro che tenersi fra le braccia e ripetere: «Beh... Eccoci qui di nuovo». L'atmosfera era carica di un'assurda voglia di ridere, un'ilarità repressa, che rischiava di cancellare il loro reciproco desiderio. Tutta l'indifferenza di prima appariva adesso come un'elaborata mistificazione e si chiesero come avessero potuto tirarla avanti per così tanto tempo. La questione era di una semplicità disarmante: non avevano da fare altro che spogliarsi e guardarsi negli occhi per tornare liberamente ad assumere i facili ruoli nei quali la loro intesa era da sempre innegabile. Poi un'unica parola sembrò ripetersi all'infinito mentre la fenditura dalle lunghe labbra si apriva e chiudeva intorno a lui, e Stephen aderiva ad ogni curva per arrivare a quel luogo profondo, ben noto; una parola tranquilla, echeggiante, generata dalla carne che scivola contro la carne, un suono caldo, sommesso, dolcissimo nelle consonanti, rotondo nelle vocali... casa, era a casa, dentro, al sicuro e quindi capace di ritrovarsi, in quella casa che gli apparteneva e alla quale apparteneva. A casa, perché mai essere in qualche altro posto? Non era uno spreco qualsiasi atto che non fosse
questo? Il tempo recuperava, tornava ad assumere senso perché si metteva a disposizione di un desiderio. Gli alberi, fuori, si strinsero più vicini, i loro aghi sfiorarono i piccoli vetri delle finestre e gettarono nella stanza ritmiche onde di ombra e di luce filtrata. Il suono della pioggia si fece più intenso sul tetto, per poi tornare a diminuire. Julie piangeva. Stephen si domandò, come gli era accaduto altre volte in passato, come una cosa tanto semplice e bella potesse esistere, come avessero fatto loro due a rubarla e a farla franca lo stesso, come il mondo potesse accettare da tanto tempo un'esperienza del genere e rimanere, comunque, quello di sempre. Non solo i governi, le agenzie pubblicitarie e gli istituti di ricerca, ma la biologia, la vita, la materia stessa non avevano sognato che questo per raggiungere il proprio piacere e l'eternità, e questo era esattamente ciò che ciascuno era chiamato a realizzare, qualcosa che reclamava il nostro apprezzamento. Le gambe e le braccia gli andavano alla deriva. In alto, nell'aria purissima, si sentì sospeso al crinale di una montagna; parecchi metri più sotto correva il lungo, liscio pendio. Stephen stava allentando la presa. È proprio così, pensò ricadendo all'indietro nel vuoto inebriante e squisito e precipitando giù per la china vertiginosa, sono certo, quel posto è benigno, ci vuole bene, vuole che noi ne vogliamo a lui, vuol bene a se stesso. Poi fu tutto diverso. Si strinsero nel piccolo bagno tiepido portandosi appresso del vino che bevvero alla bottiglia. Il desiderio soddisfatto portò con sé una leggerezza affrettata, incurante. Parlarono e risero forte senza più fare attenzione. Julie raccontò un lungo aneddoto su un fatto accaduto nel villaggio vicino. Stephen ricambiò con una descrizione paradossale dei membri della commissione. Composero rozzi sommari della vita recente dei loro amici comuni. Ma già nel procedere animato della conversazione si sentirono a disagio perché sapevano che non c'era nulla che sostenesse tanta cordialità, nessuna ragione per fare il bagno insieme. C'era un'esitazione cui nessuno dei due osava dar voce. Parlavano a ruota libera, ma quella disinvoltura era tetra, infondata. Ben presto le loro voci si fecero false, i discorsi, da fitti, stentati. La bambina perduta era di nuovo fra loro. La figlia che non avevano li aspettava fuori dalla porta. Stephen seppe che se ne sarebbe andato via presto. Il disagio crebbe quando si ritrovarono nei loro vestiti. Anche l'abitudine a separarsi non è facile da abbandonare. Si sentivano venire meno la voce, erano desolati. La vecchia cauta cortesia andava prendendo piede di nuovo e non potevano farci nulla. Si erano esposti troppo, troppo alla svelta, rivelando la propria vulnerabilità. Di sotto, Stephen osservò Julie chinata a distendere un panno umido davanti al fuoco per assorbirne un po' il fumo. Doveva esserci qualcosa di affettuoso da dire, qualcosa che non fosse insolente e al tempo stesso non lo esponesse di più. Ma non trovò altro che chiacchiere vuote. Riusciva solo a pensare di
prenderle la mano, ma non lo fece. Avevano già esaurito le possibilità, la tensione del contatto fisico, erano andati a toccare i limiti. E ormai era tornato tutto neutrale. Se fossero stati ancora insieme, avrebbero potuto fare appello ad altre risorse, ignorarsi per un po' o dedicarsi a qualcosa, affrontare in qualche modo la perdita. Ma qui non c'era nulla da fare. Un desolato orgoglio li inchiodò a minimi scambi di battute intorno a un'ultima tazza di tè. A Stephen parve, per un attimo, di poter immaginare la vita di Julie. I pini crescevano fino alla casa e le finestre erano piccole, così le stanze restavano cupe persino nei giorni di sole. Julie teneva il fuoco sempre acceso, anche d'estate, per mitigare l'umidità. In un angolo della camera c'era un tavolo da cucina ben strofinato, su cui erano ammonticchiati in bell'ordine i suoi vari taccuini, accanto a candele per le letture serali e nei giorni grigi e un barattolo da marmellata con qualche erba e i pochi fiori di campo che era riuscita a raccogliere ai margini della pineta. Un altro barattolo conteneva matite ben temperate. I violini erano in un angolo a terra, sistemati nelle custodie, mentre il leggio era nascosto alla vista. Stephen la immaginò passeggiare per le stradine asfaltate di campagna pensando o cercando di non pensare a Kate, per poi tornare a esercitarsi al violino in quel silenzio sonoro. Da un momento all'altro si sarebbe rimesso in marcia su quello scenario efficiente e ordinato, per fare ritorno al suo eremitaggio. Seduto di fronte a lei, la osservò curvarsi sulla sua tazza di tè, scaldarsi le mani intorno alla porcellana e si sentì svuotato di ogni emozione. Adesso avrebbe potuto imparare ad allontanarsi da sua moglie. Aveva le unghie spezzate, i capelli sporchi, un'espressione tormentata. Avrebbe potuto imparare a non amarla più, se solo si fossero visti di quando in quando, così da non potersi scordare che anche lei era una comune mortale, una donna di quasi quarant'anni, concentrata sulla propria solitudine e sullo sforzo di dare senso a un'esistenza difficile. Forse più tardi lo avrebbe eccitato un poco il ricordo delle sue braccia sottili che spuntavano dalla logora maglia teneramente fuori misura che Stephen aveva riconosciuto come sua, e della voce roca che nascondeva le sue emozioni più forti. Quando si alzò era sicuro che il loro sarebbe stato un saluto brevissimo. Lei gli aprì la porta, si strinsero appena le mani e non aveva fatto più di tre passi sul viottolo quando sentì l'uscio chiudersi alle sue spalle. Al cancelletto, si guardò indietro. Pareva una di quelle case che disegnano i bambini. Quadrata, con la sua porticina centrale, quattro finestre disposte sugli angoli e costruita con gli stessi mattoni rossi del pub The Bell. Il sentierino, anche quello di mattoni, congiungeva con una S il cancello alla porta d'ingresso. Il cottage si ergeva in una radura di non più di quindici metri di ampiezza. E la pineta cresceva
incombendo su tutti i lati. Per un attimo considerò l'ipotesi di tornare indietro, ma non aveva la minima idea di che cosa volesse dirle. E così, in un perverso intrecciarsi di infelicità, trascorsero parecchi mesi prima che si rivedessero. Nei momenti migliori Stephen pensava che il loro incontro fosse avvenuto troppo presto, cogliendoli impreparati. Nei peggiori, era furioso con se stesso per aver vanificato quel che gli pareva un cauto progresso nel senso dell'allontanamento. Per anni, dopo, fu sconcertato dalle sue resistenze a tornare a trovarla. Al tempo, invece, se ne dava ragione dicendosi che Julie non lo aveva incoraggiato per niente. Era stato lui a prendere l'iniziativa di quella visita. Lei si era mostrata abbastanza contenta di vederlo, e altrettanto contenta di vederlo andare via e di poter tornare alla sua solitudine. Se ciò che era accaduto avesse significato qualcosa anche per lei, avrebbe rotto il silenzio. E se non l'avesse più sentita, avrebbe capito che voleva essere lasciata in pace. La pioggia era cessata da un pezzo. Stephen attraversò in fretta la strada vicino al pub, deciso a resistere ad ulteriori visioni drammatiche e significative. Si avviò svelto sul sentiero asfaltato che portava al campo. Aveva accettato un invito da una coppia di amici londinesi, noti per le loro cene raffinate e le conoscenze interessanti, e non voleva proprio far tardi.
Capitolo quarto Non ci pare poi troppo lontana dal vero la vecchia tesi in base alla quale il più profondo sentimento di lealtà nei riguardi della nazione ci deriva prima di tutto dall'amore e dal rispetto per la nostra casa. Manuale per l'educazione del bambino, HMSO Nella tarda mattinata la commissione riunita non potè più ignorare l'incontestabile straordinarietà del caldo. Il giorno prima la temperatura era salita oltre i trentacinque gradi, suscitando l'esultante patriottismo della stampa popolare. Era opinione seriamente diffusa che il tempo stesse favorendo i progetti del governo e ci si aspettava temperature anche superiori nel corso della giornata. A dieci minuti dall'inizio della sessione mattutina, su richiesta di Canham, un impiegato aveva portato un ventilatore elettrico e lo aveva sistemato accanto al presidente, verso la cui faccia ebbe poi cura di orientarlo rispettosamente. Nel corso del fine settimana gli operai avevano forzato le finestre a ghigliottina degli uffici, che ora si spalancavano sul brusio del traffico indolente di Whitehall. Un moscone, intrappolato tra due pannelli di vetro infuocato, emetteva ronzii intermittenti. Col passare delle ore, le pause tra un ronzio e l'altro si fecero più lunghe. Sulla superficie dell'enorme tavolo, che pareva umidiccio al tatto, carte sparse si sollevavano pigramente in una debole corrente di aria tiepida. Da più di un'ora Stephen si contemplava le mani abbandonate in grembo. Di recente, l'odore e la sensazione della sua pelle in quel caldo gli avevano riportato alla mente il sapore di un'infanzia solitaria in paesi torridi, del sudore e della fragranza intensa e dolciastra di mango, di verdure inglesi messe a bollire in cucina e di spezie in lattine dipinte a draghi e palmizi e conservate nella dispensa dalla domestica indiana. Una volta aveva sollevato un coperchio e inalato il profumo di una scura sostanza a scaglie. Rientrato in casa e fermatosi nel soggiorno deserto, sotto il lento ventilatore applicato al soffitto, quel sapore putrido e amaro gli parve un segreto da non rivelare neppure ai mobili odorosi di cera alla lavanda, in dotazione agli ufficiali della Raf. Era questo il suo Oriente: l'afrore virile di sigarette e insetticida; ingombranti poltrone in fodere a fiori, quella di suo padre con il posacenere d'ottone assicurato al bracciolo con cinghie di cuoio; su quella di sua madre, circonfusa dal profumo di saponetta rosa, il lavoro a maglia cui lei lavorava in fretta nel caldo appiccicoso e un numero di «Women's Realm»; alle pareti le belle silhouette di palme nere contro tramonti dipinti su fogli di
stagno; la graziosa domestica che si diceva dormisse la notte ai piedi del suo lettino, sebbene lui non l'avesse mai vista; i serpenti d'acqua che abitavano le sue lenzuola e solo le preghiere potevano tenere lontani; la sua prima aula a scuola che il caldo riempiva della fragranza del legno di cedro di cui era fatta la matita che stringeva fra le dita, e la tigre sotto la palma, simbolo della scuola e della birra di suo padre. Un pomeriggio umido e caldo Stephen aveva seguito la madre al piano di sopra e si era sdraiato accanto a lei sulla distesa rigata del copriletto imbottito, dalla parte del posacenere, vicino al tic-tac della sveglia. La pazza proposta di lei era stata quella di addormentarsi in piena luce del giorno, molto prima che fosse ora di andare a letto. Stephen giaceva supino, fissando il ventilatore. «Chiudi gli occhi, tesoro, gli disse. Chiudi gli occhi». Lui obbedì e quando si svegliò era passato tanto tempo. Lei non c'era più, la sentiva di sotto parlare e prendere il tè con le amiche. Qualcosa lo aveva turbato; non necessariamente il sonno veniva da sé, lo si poteva anche controllare chiudendo gli occhi. Che altro si poteva controllare, allora? Gli piaceva ascoltare la mamma con le sue amiche. Parlavano di cose che non andavano, di gente che diceva e faceva cose sbagliate e di malattie e dei consigli sbagliati dei medici. Nessuno parlava mai ai bambini di cose che non andavano. Poi mettevano via il servizio da tè, e le donne salutavano una dopo l'altra prima che rincasasse suo padre. Indossava vecchi calzoni corti e una camicia kaki chiazzata di sudore. Appena arrivava in casa si metteva in cerca di Stephen e, fingendo di essere un orco, gli dava la caccia. «Ucci, ucci, sento odor di cristianucci», e gli faceva il solletico e lo lanciava in aria ad altezze vertiginose. Quando il sergente pilota Lewis aveva fatto la doccia e bevuto una birra fatta con sangue di tigre che Stephen aveva il permesso di versargli, si sedevano tutti a prendere il tè e a chiacchierare ancora di cose interessanti che non andavano; un giovane ufficiale che aveva troppo poca esperienza; quello che aveva fatto di sbagliato un altro sergente pilota; come i politici impartissero ordini sbagliati agli ufficiali della Raf. Allora la mamma raccontava le cose che aveva sentito quel pomeriggio. Alla fine era compito di Stephen aiutare a sparecchiare mentre sua madre lavava i piatti e suo padre li asciugava. Stephen rifletteva che se avesse saputo dominare gli eventi come la mamma faceva col sonno, avrebbe incoronato i suoi genitori Re e Regina del mondo intero, così loro avrebbero risistemato tutte le cose sbagliate di cui parlavano con tanta saggezza. Del resto suo padre non era forse il più forte di tutti? Alle gare tra squadriglie aveva pedalato tanto in fretta che quasi non gli si distinguevano più le gambe e per poco non si era levato in volo nel salto triplo; si portava Stephen in spalle alla spiaggia, faceva il bagno nel
punto dove seppero in seguito che c'erano gli squali, e usciva a tratti dalle onde con il capo e la schiena coperta di alghe, come un tremendo mostro marino; i giovani ufficiali gli chiedevano che cosa fare anche se toccava a lui chiamarli signore e gli uomini ai suoi comandi ne temevano la disapprovazione esattamente come Stephen e sua madre. E lei, non era forse più splendida della Regina d'Inghilterra, con in più la capacità di compiere ventun anni a ogni compleanno, di centrare il toro in mezzo agli occhi con la carabina nelle gare di tiro, e di sapere quando lui stava facendo un brutto sogno, visto che c'era sempre quando lui si svegliava nel buio. Partecipavano spesso a uno speciale trattenimento alla mensa sottufficiali. La mamma indossava abiti lunghi di raso che si cuciva da sé. Suo padre metteva l'uniforme e si beveva sempre una birra prima di uscire. A volte ballavano nel soggiorno alla musica offerta dalla stazione radiofonica per le forze armate, un valzer, un fox-trot o un passo doppio, muovendosi disinvolti tra i mobili con le schiene ben dritte e i piedi lanciati in giravolte perfette. E allora avevano l'eleganza della coppia di ballerini che piroettavano nel cofanetto portagioielli della mamma, al ritmo di Für Elise, figurine di sogno i cui tratti si dissolvevano in macchie di rosa se solo ti avvicinavi troppo a guardarli. I sogni erano pericolosi; era stato soltanto un brutto sogno, ad esempio, quel piatto di purea di patate che aveva mancato di poco la testa di papà e si era schiantato contro il muro, e sua madre che dopo piangeva raccogliendo i cocci nel grembiule e pulendo la parete con uno straccio bagnato? Aveva sognato quelle grida al piano di sotto la notte; era stato un incubo quella volta che, dalla porta aperta della cucina, aveva visto suo padre brandire un coltello da cucina o quella volta che gli aveva messo la faccia rossa di rabbia davanti agli occhi e gli aveva detto che lui era solo un cocco di mamma o, peggio ancora, quando lo aveva preso in braccio di fronte a degli ospiti e si era messo a cullarlo e ninnarlo come un infante? Forse era proprio un cocco di mamma. Qualche anno dopo ancora dormiva nel letto con lei ogni volta che il padre, ormai sergente maggiore, era via da casa per qualche corso di addestramento. In quel periodo era stato trasferito in Nord Africa. Quando Stephen divenne un lupetto dei boy-scout e dovette guadagnarsi il distintivo di merito in attività manuali e pratiche, la mamma lo aiutò a fabbricare dei mobiletti giocattolo. Finì col fare tutto lei. Lui si limitò a trasportare nell'apposita scatola da scarpe il prodotto finito, un salottino azzurro in tre pezzi, con lampada a stelo e una credenza di scatole di fiammiferi, alla riunione settimanale, sicuro che il lavoro di lei gli appartenesse per diritto naturale. La mamma era una donna bellissima, esile e insonne, che si preoccupava silenziosamente di tutti tranne che di sé e le cui ansie costituivano una
forma sottile di possessività, inseparabile, a quanto pare, dall'amore almeno quando riguardava lui. Gli prospettava un minacciosissimo mondo di germi invisibili e di certe stanze pervase da correnti d'aria portatrici di polmonite sicura. Lo metteva in guardia dal pericolo di indossare abiti non messi fuori a prendere aria, da quello di saltare un pasto o di non mettersi addosso un golfino, la sera. Obbligato da un sentimento di lealtà a sottostare alle sue piccole limitazioni, Stephen imparò a riderne come faceva suo padre. Perché in fondo era anche il cocco del babbo. Durante la crisi di Suez tutte le famiglie vennero sistemate in campi militari per motivi di sicurezza in caso di rappresaglie degli arabi. La signora Lewis si trovava in Inghilterra per fare visita a certi parenti e ne conseguirono alcune settimane di esaltante trasgressione dalla routine di scuola e di spiaggia. C'era la novità di non essere il centro costante dell'attenzione dei genitori, di vivere in grosse tende da campo con i compagni che nel ricordo gli sembravano tutti ragazzi lentigginosi, dai capelli corti e le orecchie a sventola come le sue. C'era l'odore d'olio bruciato degli autocarri sulla sabbia calda, i veicoli militari, fedeli riproduzioni delle sue jeep giocattolo, le belle pietre bianche che segnavano con precisione le piste, il filo spinato e le postazioni per le mitragliatrici protette da sacchi di sabbia. Soprattutto c'era l'ufficiale responsabile diretto di tutte le famiglie, suo padre, un personaggio remoto che andava da una riunione all'altra con la pistola d'ordinanza assicurata in vita. E quando fu tutto finito, ci furono altre escursioni. Lasciavano a casa la mamma e con la nera Morris Oxford scorrazzavano su quel territorio semidesertico, tra le strade vuote dell'entroterra verso il campo base, solo per vedere che velocità poteva raggiungere la nuova automobile. Se ne uscivano armati di un barattolo da marmellata per andare a caccia di scorpioni. Suo padre scostava una pietra ed eccolo là, giallo e ben grasso, con quelle pinze levate in aria a mo' di preghiera. Suo padre lo indirizzava col piede verso il barattolo e Stephen si preparava ad accoglierlo e a sigillare il coperchio bucherellato. Ridevano, Stephen non troppo convinto, quando la mamma diceva di non riuscire a chiudere occhio la notte per paura che scappasse fuori e si mettesse a girare per casa nel buio. In seguito fu portato in laboratorio e messo sotto formalina. Ogni mattina, prima della scuola, suo padre lo portava in bagno, intingeva abbondantemente due dita nel vasetto della brillantina e ne massaggiava con vigore fanatico la zazzera corta di Stephen. Quindi, brandendo il suo pettine d'acciaio e tenendo fermo il ragazzo per la mascella, gli pettinava i capelli obbedienti all'indietro, con una grigia, diritta scriminatura di precisione militaresca. Nel giro di un'ora l'intero impacco era bell'è sciolto dal sole. Quasi ogni pomeriggio, in quell'estate di nove mesi che trascorsero
sulla spiaggia divisa in due sezioni, una per gli ufficiali e le loro famiglie, l'altra per avieri, sergenti piloti e sottufficiali, suo padre si immergeva nell'acqua fino al torace e contava lentamente, mentre Stephen cercava di mantenersi in equilibrio sulle sue spalle, finché una risata o la brillantina viscida sotto i piedi, non lo faceva crollare. La conta era anche interrotta, ma solo temporaneamente, ogni qualvolta un'onda veniva a sommergere la testa del padre. Il record finale fu di quarantatré, raggiunto poco prima che Stephen partisse per il collegio. Quelli in Nord Africa furono cinque anni di idillio. Nessuna voce collerica gli fece più irruzione nei sogni. Il suo tempo si divideva tra la scuola, fino all'ora di colazione, e la spiaggia, dove incontrava gli amici, tutti figli dei colleghi del padre, uomini venuti su dalla gavetta. Anche la mamma incontrava lì le sue amiche, mogli degli stessi uomini. La sua ridottissima cerchia familiare lo circondava di un amore intenso e possessivo e lo stesso faceva la Raf con le varie famiglie, occupandosi della selezione e distribuzione di amicizie, intrattenimenti, dottori e dentisti, scuole e insegnanti, alloggi, mobili e persino coltelleria e biancheria per la casa. Se Stephen andava a trascorrere la notte da un amico, le lenzuola fra cui riposava gli erano familiari. Era un mondo sicuro e ordinato, gerarchico e premuroso. I bambini dovevano saper riconoscere il proprio posto e sottostare, come gli adulti del resto, alle esigenze e alle limitazioni della vita militare. Stephen e i suoi amici, non le bambine, venivano incoraggiati a rivolgersi ai colleghi del padre usando l'appellativo di signore come facevano i ragazzi americani della base aerea. Imparavano a dare la precedenza alle donne, ma sapevano di poter contare su una generosa indulgenza, un incoraggiamento, quando non addirittura su un tacito imperativo, a spassarsela. Dopotutto, i loro genitori erano cresciuti negli anni della depressione e perciò adesso non dovevano più mancare limonate e gelati, patatine e crèpes al formaggio. Sulla terrazza del Beach Club padri e madri sedevano intorno a tavolini metallici carichi di bicchieri di birra e si stupivano delle differenze tra la loro vita di un tempo e quella dei figli, la propria infanzia e la loro. Per Stephen, il primo semestre in collegio fu tutto un fermento di riti complessi, di brutalità e chiasso continuo, ma non esageratamente deprimente. Era troppo cauto e tranquillo per essere preso di mira. Si può dire che di lui quasi non si accorgevano. In cuor suo rimase un membro del suo esiguo gruppo di famiglia, uno che contava alla rovescia i novantanove giorni che lo separavano dalle vacanze di Natale, deciso a sopravvivere. E finalmente, tornato a casa nella luce brillante, la vista dalla finestra della sua stanza di palme da datteri appoggiate a un pallido cielo azzurro invernale, non gli ci volle un granché a recuperare il suo posto nel vecchio triangolo.
Fu solo quando venne il momento di tornare in Inghilterra, il giorno dopo il suo dodicesimo compleanno, e si trattò di affrontare un'altra montagna di giorni, che lo prese una violenta nostalgia per ciò che era sul punto di abbandonare. Un rapido calcolo dimostrò che da quel momento in avanti avrebbe trascorso lontano i tre quarti della sua vita. Come dire, in effetti, che aveva già lasciato casa. I suoi genitori dovevano essersi fatti gli stessi conti, perché lungo il tragitto desertico che conduceva all'aeroporto, i loro discorsi si riempirono di progetti forzatamente allegri per le vacanze future e ci furono lunghi silenzi che nessuno riusciva a rompere se non ripetendosi. Sull'aereo, una gentile signora anziana gli cedette il posto accanto al finestrino perché potesse salutare con la mano i genitori. Li vedeva meglio di quanto loro vedessero lui. A pochi metri dalla punta di un'ala, se ne stavano sottobraccio dove finiva la pista e iniziava la sabbia. Sorridevano e facevano ciao con tanta energia da doversi ogni tanto riposare il braccio. I motori sul suo lato del velivolo si accesero. Vide la mamma voltarsi e asciugarsi gli occhi. Suo padre infilò le mani in tasca e le tirò fuori di nuovo. Stephen era abbastanza grande da rendersi conto che stava per chiudersi un ciclo della sua vita, il periodo dei legami innocenti. Premette il viso contro il finestrino e si mise a piangere. C'era brillantina sparsa su tutto il vetro. Quando cercò di pulire, i genitori fraintesero il movimento della mano e lo salutarono un'altra volta. L'aereo ormai decollava e in un baleno scomparvero dalla sua vista. Voltandosi verso la cabina le sue più cupe fantasticherie trovarono piena conferma nel pianto della vecchia signora che lo aveva osservato per tutto il tempo. La presenza di un estraneo nella stanza, un giovanotto macilento che aveva apparentemente declinato l'offerta di una sedia, era venuta a interrompere gli inquieti sogni a occhi aperti di Stephen. L'uomo parlava da una buona mezz'ora. Se ne stava in piedi tutto curvo con l'aria contrita e le pallide dita azzurrine intrecciate davanti. A dispetto della recente rasatura, una barbetta ispida gli ombreggiava le guance e il labbro superiore, conferendogli l'aspetto desolato e onesto di uno scimpanzé, un'impressione ulteriormente avvalorata da grandi occhi castani e dal nero groviglio di peli, fitti come di norma nella zona del pube e non solo visibili attraverso la fine camicia di nylon bianco ma addirittura germoglianti senza pudore tra un bottone e l'altro. Pareva a Stephen che tenesse ferme le mani, parlando, per evitare di esporre l'innaturale lunghezza delle braccia su cui i gomiti sembravano sistemati qualche centimetro prima del necessario. Aveva una sgradevole voce tenorile e pronunciava ogni parola con precisione e cautela come se il linguaggio rappresentasse per lui un'arma pericolosa di recente acquisizione
e pronta a esplodere tra le mani di chi ne abusasse. Confuso dalle proprie riflessioni, Stephen fu tanto colpito dall'aspetto fisico di quell'uomo da non avere ancora messo a fuoco ciò che andava dicendo. Gli altri membri della commissione, seduti in silenzio, parevano attenti e ostentavano facce cortesemente prive di qualsivoglia espressione. Rachael Murray e un ricercatore universitario prendevano appunti. Per favorire la propria concentrazione, Lord Parmenter aveva chiuso gli occhi e respirava con lenta ritmicità dal naso. Dopo aver contemplato l'aspetto del giovane, Stephen si accorse di una certa irrequietezza tra i membri del comitato, un'inquietudine che non si sarebbe potuta far risalire a semplici motivi di noia e di caldo. Le teste presero a voltarsi dalla sua parte. Incrociando il suo sguardo, gli occhi dei colleghi si facevano sfuggenti e qua e là, su Rachael Murray o Tessa Spankey, Stephen notò dei sorrisi trattenuti. Persino Lord Parmenter aveva cambiato posizione e stava volgendo il corpo coriaceo in direzione di Stephen. Ci si aspettava da lui che parlasse? Qualcuno l'aveva forse già invitato a farlo? Costrinse la propria attenzione svagata e indocile a concentrarsi sulla fastidiosa supplichevole monotonia di tutti quei... «Sono certo, certissimo che concordiate con me». Si ritrovò a fissare gli onesti occhi castani dell'oratore. Ci si aspettava un suo intervento? Adesso? Annuì debolmente e accennò un breve sorriso teso a indicare da un lato la sua comprensione totale e dall'altro una sua consapevole, pacata reticenza. «È stato dimostrato in modo inconfutabile, e vi prego, parevano dire quegli occhi, non contradditemi ora, che usiamo una frazione appena delle nostre sconfinate risorse intellettuali, emotive e intuitive. Proprio di recente si è parlato del caso di un giovane che aveva ottenuto brillanti risultati nel proprio corso di studi universitari e che, a quanto pare, non possedeva al posto del cervello altro che un'ostia di corteccia cerebrale intorno alla scatola cranica. È evidente che ce la caviamo con molto poco e la conseguenza di tale sotto-sfruttamento è che ci ritroviamo divisi, profondamente divisi da noi stessi, dalla natura e dai suoi innumerevoli processi, dal nostro stesso universo. Membri della commissione, noi abbiamo sottoalimentato la nostra capacità di una partecipazione empatica e magica al processo creativo, siamo come alienati e paralizzati dall'abitudine all'astrazione, trascinati lontano dalle emozioni profonde e immediate che costituiscono il marchio stesso di un individuo, di quell'interpenetrazione oscillante del fisico nello psichico, della loro essenziale inscindibilità». L'uomo che assomigliava a una scimmia fece una pausa per rivolgere agli ascoltatori uno sguardo pieno d'intelligenza. Prese a tormentarsi il lobo dell'orecchio. «Se queste sono le conseguenze negative, quale sarà dunque la causa, che
cosa impedisce a una mente in crescita di raggiungere la sua interezza? Come abbiamo visto, il cervello, in quanto organo fisico, possiede un proprio modello di sviluppo abbastanza preciso. Esattamente come i denti molari e gli attributi sessuali secondari fanno la loro comparsa in un'età pressoché definita dell'individuo, allo stesso modo il cervello ha i suoi passaggi di crescita e non può esistere dubbio sul fatto che questi siano a loro volta legati a ben definibili impulsi nello sviluppo delle capacità mentali. Forzando il processo di alfabetismo su bambini tra i cinque e i sette anni, ad esempio, introduciamo un livello di astrazione che fa saltare nel piccolo la sua visione unitaria del mondo, causando una crisi fatale tra la parola e l'oggetto da essa nominato. Infatti, come abbiamo visto, il cervello umano a quell'età non ha semplicemente ancora sviluppato le abilità logiche superiori, necessarie ad affrontare con serena disinvoltura il sistema chiuso del linguaggio scritto. L'alfabetismo non dovrebbe essere introdotto finché il bambino, in armonia con il proprio sviluppo cerebrale geneticamente programmato, non abbia operato la vitale separazione di sé dal mondo. Per questa ragione, signor presidente, sostengo che i bambini non dovrebbero imparare a leggere prima degli undici, dodici anni, quando cioè nelle loro menti avviene un importante passaggio di crescita che rende possibile tale separazione». Stephen rizzò la schiena, un'antica tattica da mammifero, forse per apparire più imponente. Ci si aspettava da lui che si giustificasse come autore di libri per ragazzi, come distruttore di piccoli mondi. L'oratore era tornato a serrarsi le dita intrecciandole fino a farsi sbiancare le nocche. «La danza e il movimento di qualsiasi tipo, proseguì, l'esplorazione sensuale del mondo, la musica, per quanto strano infatti, i simboli musicali non costituiscono delle astrazioni come non lo sono i comandi per la precisa attuazione di un gesto, la pittura, scoprire come gli oggetti funzionino attraverso la loro manipolazione, la matematica, che è più logica di quanto sia astratta, e tutte le forme di gioco intelligente; ecco le attività adatte ed essenziali per il bambino, quelle che gli consentono di mantenersi in armonia o di seguire il fluire costante delle forze della creazione. Imporgli l'alfabetismo a questo stadio, dissolvere l'incantata identificazione di parole e cose e di conseguenza, di sé e del mondo, significa promuovere un'autoconsapevolezza prematura, un isolamento solamente crudele che, per ragioni di comodo, amiamo definire individualità». «Si tratta in realtà, signor presidente, di una vera e propria cacciata dal Paradiso Terrestre, con conseguenze che possono durare anche tutta una vita. L'alfabetismo prematuro può soffocare in certi adulti un'empatia spontanea e intelligente con il mondo della natura, con gli altri esseri umani e con i processi sociali; per tali individui il concetto di unità della creazione resterà complesso e sfuggente, afferrato, nella migliore delle ipotesi, soltanto
in parte e attraverso lo studio di testi mistici. Eppure, e qui lo sconosciuto abbassò la voce e tornò a fissare lo sguardo su Stephen, eppure si tratta di un concetto che nell'infanzia afferriamo senza un'ombra di sforzo. Non è giusto che ne priviamo i nostri figli con un'educazione ansiosa e competitiva, con i nostri libri invadenti e inopportuni». Quando arrivò a questi ultimi commenti, furono parecchi i sorrisi intorno al tavolo. La commissione si stava godendo la presenza di quello che ormai era stato accettato come un fanatico originale. Canham, responsabile della selezione dei relatori esterni attraverso un esame delle loro credenziali, appariva a disagio e continuava a scarabocchiare su un notes. Uno dei ricercatori universitari, non Morley, finse di soffiarsi il naso per nascondere una risata. Il colonnello Jack Tackle aveva incrociato le braccia sul petto e chinato il capo. Stava vibrando leggermente. Tali furtive manifestazioni suscitavano in Stephen una certa dose di simpatia per l'oratore. Ora che aveva concluso il suo discorsetto, sembrava gli rincrescesse di non aver accettato l'invito a sedersi. Se ne stava, impacciato, a un'estremità del tavolo, con le braccia abbandonate lungo i fianchi, in attesa di una domanda o di un cenno di commiato. Probabilmente ignorava che commissione governativa non era sinonimo di magica intesa tra persone civili. Nel suo sguardo era venuta meno l'aria di sfida e gli occhi fissavano un punto almeno un metro al di sopra della testa del presidente. Stephen provò l'impulso di stringergli la mano. Il suo spirito di contraddizione lo spingeva ad offrirgli il proprio sostegno. Ma adesso gli sarebbe toccato difendere la sua posizione. Lord Parmenter aveva già farfugliato il suo nome in tono interrogativo. «Soltanto un cinico, disse Stephen avvolgendo la stanza con lo sguardo, potrebbe non concordare con la desiderabilità di una completezza come quella che ci è stata descritta, o della realizzazione del nostro intero potenziale umano. Si tratta pertanto solo di una questione di mezzi». Si fermò, nella speranza di riuscire a formulare un altro pensiero, quindi tornò a parlare senza sapere bene che cosa avrebbe detto. «Non sono un filosofo, ma mi sembra... che ci siano alcune problematiche da considerare». Si interruppe di nuovo per poi riprendersi rapidamente con un sospiro di sollievo. «La scrittura potrebbe essere descritta in termini assai simili a quelli che lei ha usato per definire i simboli musicali, nel caso specifico come una serie di istruzioni su come coordinare labbra, lingua, gola e voce. È solo più tardi che i bambini apprendono a leggere mentalmente. Ma non sono così sicuro che tali definizioni, tanto dei simboli musicali quanto della scrittura, siano corrette. Entrambe le attività mi pare richiedano un alto livello di astrazione
e forse è proprio questo, un certo tipo di astrazione, ciò che possediamo sin dalla più tenera infanzia. I problemi saltano fuori quando tentiamo di riflettere sul processo e di definirlo. Ogni melodia ha un suo significato. Sarebbe complicato stabilire quale, ma un bimbo non ha alcuna difficoltà a comprenderlo. Leggere e scrivere sono attività astratte, ma non più del linguaggio parlato. Quando a due anni un bambino incomincia a formulare frasi intere, è costretto a far uso di un sistema prodigiosamente complesso di regole grammaticali. Ricordo Kate, mia figlia,... anzi... la parola scritta può essere proprio il tramite attraverso cui il sé entra in contatto col mondo esterno. È per questo che la migliore letteratura per l'infanzia reca in sé una caratteristica di invisibilità, la capacità di penetrare direttamente le cose che nomina e, attraverso metafore e immagini fantasiose, di evocare sensazioni, odori, impressioni assolutamente ineffabili. Un bambino di nove anni può sperimentare questo fatto con grande intensità. La parola scritta non è meno legata a ciò che nomina di quella orale, pensate alle parole magiche scritte intorno alla sfera di cristallo di un negromante, alle preghiere incise sulle tombe, all'impulso che certa gente prova di scrivere oscenità in locali pubblici e che spinge altri a censurare libri che a loro volta contengono oscenità, pensate al bisogno che sentiamo di usare la lettera maiuscola per il nome di Dio, o dell'importanza particolare che attribuiamo a una firma. Perché negare tutto questo a un bambino?» Stephen non aveva mai smesso di fissare l'uomo ancora in piedi. Lord Parmenter aveva chiuso gli occhi di nuovo. Canham stava bisbigliando qualcosa a qualcuno attraverso una porta aperta che si affacciava sul corridoio. «La parola scritta è una parte del mondo in cui si desidera dissolvere il proprio sé infantile. E sebbene descriva quel mondo, non ne è separata. Pensate con quanto piacere un bimbo di cinque anni riconosce i segnali stradali, o come uno di dieci si abbandoni completamente al fascino di un romanzo di avventure. Quel che vede non sono parole, segni di interpunzione o regole grammaticali, ma la barca, l'isola, il losco figuro che si nasconde dietro la palma». Batté le palpebre per allontanare da sé l'immagine di sua figlia, più vecchia di quanto potesse ricordarla, seduta su un letto e assorta nella lettura di un romanzo. Voltava pagina, aggrottava le sopracciglia, tornava indietro. Avrebbe potuto essere un libro che lui aveva scritto dedicandolo a lei. Prese fra sé una risoluzione, che svanì permettendogli di proseguire. «Una bambina, leggendo, si sente dentro una voce. È una cosa immediata, intima, che alimenta la sua fantasia, la libera dai capricci e dalla volontà degli adulti, che non sempre hanno tempo di leggerle una storia». Adesso era seduto sul bordo del letto di Kate e le stava leggendo un libro. Non
sapeva decidere quale delle due immagini preferisse. Non sapeva neppure con certezza... magari poteva essere proprio una bella cosa trascorrere i primi undici anni di vita suonando la fisarmonica, ballando, smontando orologi, ascoltando fiabe. Tutto sommato era probabile che non facesse alcuna differenza in un modo o nell'altro e comunque non c'era verso di stabilirlo. Era la solita vecchia abitudine a teorizzare, a prendere posizione, a piantare la bandierina dell'identità e del riconoscimento di sé, per poi combattere strenuamente ogni oppositore senza pietà. E quando non esistevano argomentazioni di ordine scientifico, tutto si risolveva in termini di agilità mentale e di perseveranza. Nessun campo speculativo poi offriva più ricche opportunità di apparire pratico, quanto quello che si riferiva all'educazione dei figli. Stephen si era letto tutto il materiale al riguardo, gli estratti compilati dal dipartimento di Canham. Da tre secoli generazioni di esperti, preti, filosofi etici, sociologi e medici, per lo più uomini profondevano suggerimenti e realtà sempre nuove a beneficio delle madri. Non ce n'era uno che dubitasse dell'assoluta verità del proprio giudizio; ciascuna generazione era certa di aver toccato il culmine del buon senso e dell'introspezione scientifica, autentiche chimere per la generazione precedente. Aveva letto dichiarazioni solenni sulla necessità di fasciare gli arti dei neonati per impedirne il movimento e i possibili danni; sui pericoli dell'allattamento materno e, altrove, sulla sua fondamentale importanza sul piano fisico e superiorità su quello morale; su come l'affettuosità e l'incoraggiamento possono nuocere al bambino; sugli effetti benefici di purghe e clisteri, severi castighi fisici, bagni freddi e, all'inizio del secolo, di costante aria pura per quanto rigido fosse il clima; c'era chi sosteneva che è bene controllare scientificamente gli intervalli fra un pasto e l'altro e chi, al contrario, invitava a nutrire il bambino ogni qualvolta ne manifestasse il desiderio; chi denunciava i rischi di prendere in braccio il piccolo ogni volta che piange, facendolo sentire pericolosamente potente, e chi sottolineava i rischi dell'atteggiamento opposto, che causa un senso di pericolosa impotenza; l'importanza di una buona disciplina delle funzioni intestinali, con allenamento all'uso del vasino a partire dal terzo mese; la costante presenza della madre giorno e notte, per tutto il primo anno di vita e, altrove, la necessità di ricorrere a balie, governanti, asili nido statali a tempo pieno; le conseguenze fatali di una non corretta respirazione, il vizio di mettersi le dita nel naso e di succhiare il dito connessi all'assenza della figura materna; i vantaggi di un parto tecnicamente sicuro in sala chirurgica e quelli di partorire coraggiosamente in casa nella vasca da bagno; l'importanza della circoncisione e di una tonsillectomia tempestiva; e, più tardi, lo sprezzante abbandono di tutte queste tendenze di moda; la teoria che i bambini debbano essere lasciati liberi di fare tutto ciò che desiderano
di modo che possano esprimere appieno la loro natura divina, e quella secondo la quale non è mai troppo presto per forgiare la volontà di un infante; i disturbi mentali e la cecità causati dalla masturbazione, e il piacere e il conforto che essa regala all'adolescente; come l'educazione sessuale passi attraverso riferimenti a girini, cicogne, fatine dei fiori e impollinazione o si acquisisca tacitamente o ancora si apprenda grazie a una schiettezza di termini meticolosa e brutale; il trauma subito dal bambino che vede i genitori nudi, e i cronici turbamenti alimentati da strani sospetti se li vede sempre e solo vestiti; gli enormi vantaggi connessi all'insegnamento della matematica a un bimbo di nove mesi. Ed ecco anche lui ora, Stephen, militante di questa armata di esperti, pronto a sostenere come meglio poteva che l'età migliore per imparare a leggere e scrivere andava dai cinque ai sette anni. Che cosa glielo faceva credere? Il fatto che fosse una pratica accreditata dal tempo e il fatto che i suoi mezzi di sostentamento dipendessero dalle letture di ragazzini intorno ai dieci anni. Argomentava la propria tesi come un politico, come un ministro di Stato, con quella passione che pare scevra da ogni interesse privato. Il relatore esterno ascoltava, col capo cortesemente chino da un lato, facendo scorrere le dita della mano destra sulla superficie del tavolo. «Un bambino che sappia leggere, disse Stephen, detiene un potere che gli conferisce fiducia in se stesso». Mentre lui seguitava a parlare così, e mentre una voce interiore lo confondeva dicendogli che il suo agnosticismo non era che un aspetto del suo generale inaridimento emotivo, Canham percorse in fretta la stanza e bisbigliò qualche cosa all'orecchio del presidente. Il mormorio interruppe Stephen a metà di una frase e lo fece voltare in direzione di Lord Parmenter che sollevava stancamente un dito. «Il primo ministro passerà di qui fra meno di un minuto e ha espresso il desiderio di entrare per incontrare la commissione. Ci sono obiezioni?» Canham appariva irrequieto e si stringeva il nodo della cravatta con la mano sinistra. Mosse qualche passo nella sala quasi volesse risistemare la disposizione dei mobili, poi cambiò idea e tornò alla porta. Infine ci fu un levarsi confuso di «no» intorno alla tavola. Naturalmente non c'era alcuna obiezione. I membri del comitato si andavano ricomponendo, chi sistemandosi la camicia nei pantaloni, chi pettinandosi, chi armeggiando col trucco. Il colonnello Tackle tornò a infilarsi la giacca di tweed. Due uomini in giacca blu entrarono insieme nella stanza scrutando con sguardo neutrale le facce dei presenti mentre si dirigevano alle finestre. Qui presero posizione voltando la schiena alla sala e rivolgendo un muto rimprovero a un paio di autisti non in servizio che, senza dar mostra di prendersela, si allontanarono continuando tranquillamente a fumare. Passarono trenta secondi prima che altri tre uomini dall'aria stanca e l'abito
sgualcito facessero il loro ingresso rivolgendo ai membri del comitato un cenno di saluto con la testa. Subito dopo entrò il primo ministro seguito da altri uomini della scorta, alcuni dei quali non trovarono spazio sufficiente e dovettero fermarsi sulla porta. Intorno al tavolo si creò un tramestio mentre tutti si alzavano in piedi. Lord Parmenter vi pose fine con un gesto della mano. Canham, silenzioso e zelante, stava offrendo una sedia all'ospite, ma venne ignorato. Il primo ministro preferiva restare in piedi e si sistemò accanto al presidente usurpandone abilmente la carica. All'altro capo del tavolo, proprio di fronte a lui, c'era l'uomo che assomigliava a una scimmia, il cui sguardo esprimeva una cordiale curiosità. Il suo atteggiamento rappresentava per Canham una violazione del protocollo. Si sbracciava e faceva smorfie per far capire all'estraneo di farsi da parte o sedersi, ma anche questa volta nessuno gli badò e intanto Lord Parmenter dava inizio alle presentazioni. Stephen aveva sentito parlare della convenzione consolidatasi nei più alti ranghi dell'amministrazione statale che invitava a non fare riferimento alcuno, attraverso l'uso di pronomi personali o altro, all'identità sessuale del primo ministro. Tale convenzione doveva sicuramente avere in origine un senso dispregiativo ma nel corso degli anni era venuta a costituire un segno di rispetto oltre che un'esibizione di destrezza oratoria e di buon gusto. Stephen ebbe l'impressione che Lord Parmenter stesse ora rispettando in pieno la forma con quell'impeccabile benvenuto nel quale ebbe cura di sottolineare che l'attuale analisi delle pratiche di educazione infantile da parte di un'ampia commissione di esperti aveva potuto essere condotta solo grazie al personale interessamento che l'illustrissimo ospite aveva mostrato in proposito, un interessamento che non avrebbe mancato di suscitare la gratitudine di generazioni di genitori e figli. Passò quindi alla presentazione dei vari membri, senza esitare un istante di fronte a un nome o a un cognome, un titolo accademico o una qualifica professionale. Ad ogni nome il capo del primo ministro si piegava in maniera appena percettibile. Stephen fu presentato per ultimo ed ebbe modo di notare il rossore di Rachael Murray quando venne il suo turno. Il colonnello Jack Tackle scattò sull'attenti dal suo posto a sedere. Stephen scoprì che lo sconosciuto si chiamava professor Brody, dell'Istituto per lo sviluppo, e che uno dei membri, la signora Hermione Sleep, era stata presentata due volte per sbaglio. Le corde nervose sul collo di Emma Carew, una vivace preside anoressica, si tesero come la raggiera di un ombrello quando il suo nome fu pronunciato a voce alta. Ogni membro del comitato, per quanto uomo di mondo, si mostrò un tantino intimidito. Per anni Stephen aveva avuto solo parole mordaci e sprezzanti, si era attribuito le più ciniche fra le intenzioni e aveva dato
sfogo, in parecchie circostanze, a sentimenti di autentico odio. Ma la figura che gli stava di fronte adesso, lontana dai riflettori di una telecamera e libera dalla cornice di un apparecchio televisivo, non aveva niente di istituzionale né di leggendario, e ricordava pochissimo le caricature degli umoristi politici. Persino il naso aveva un aspetto estremamente comune. Questo era un banale sessantacinquenne, un po' curvo, con la faccia cascante e lo sguardo velato, un portamento gentile più che autoritario e un'aria di disarmante vulnerabilità. Stephen avrebbe voluto nascondersi. Provava il desiderio di essere cortese, di rendersi amabile, di proteggere il primo ministro dalle sue stesse critiche. Dopotutto, questo era un padre della nazione, il depositario di una fantasia collettiva. E così, quando arrivò il momento in cui Parmenter annunciò il suo nome, si ritrovò a chinare la testa e a sorridere pieno di zelo, come un membro della scorta in un dramma shakespiriano. Essendo l'ultimo nell'ordine delle presentazioni, gli toccò l'onore di una domanda. «È lei l'autore di libri per ragazzi?» Senza parole, si limitò ad annuire. «I nipoti del ministro degli Esteri sono lettori accaniti». Ringraziò, senza darsi il tempo di realizzare che nessuno gli aveva rivolto un complimento. Il primo ministro espresse al comitato alcuni commenti ben poco significativi, ricordando l'importanza di assumersi quell'incarico e di portarlo avanti con serietà. I tizi in giacca blu si stavano ritirando dalle finestre mentre la scorta e due degli uomini in abiti sgualciti si dirigevano alla porta che veniva tenuta spalancata. La commissione udì qualche colpo di tosse e un tramestio proveniente dai corridoi dove altri erano rimasti in attesa. Il terzo individuo si stava facendo strada tra le sedie con un messaggio per Stephen. L'alito dell'inviato odorava di cioccolata. «Il primo ministro amerebbe scambiare due parole con lei in corridoio, se non le dispiace». Sotto lo sguardo dei colleghi, Stephen segui l'uomo fuori della stanza. La maggior parte del seguito si stava allontanando per raggiungere una scala in fondo al corridoio. I pochi rimasti avevano fatto crocchio parecchi metri più in là, in attesa. Un anziano impiegato dell'Amministrazione che stava porgendo un documento per una firma, ricevette una serie di istruzioni a ciascuna delle quali replicò con una smorfia. Infine il documento venne firmato e potè ritirarsi. Il consumatore di cioccolata mandò avanti Stephen. Non ci fu alcuna stretta di mano né altri preamboli. «Ho sentito dire che lei è un amico intimo di Charles Darke». «Esatto», rispose Stephen. E siccome le sue parole gli parvero troppo dirette, aggiunse: «Lo conosco dai tempi in cui si occupava di editoria». Si erano voltati e percorrevano il corridoio a passo meditabondo. Le guardie
del corpo li seguivano da presso. La domanda successiva stentava a formularsi. «E che notizie ha di lui?» «Si è trasferito in campagna con la moglie. Hanno venduto la casa». «Sì, sì, ma questo esaurimento nervoso? È davvero malato?» Stephen dovette resistere alla tentazione di darsi qualche importanza rivelando quel poco che sapeva. «Sua moglie mi ha mandato una cartolina invitandomi a raggiungerli. Dice che sono molto felici». «È stata sua moglie a convincerlo a dare le dimissioni?» Arrivati al fondo del corridoio si fermarono, fiancheggiati dalle due guardie del corpo e fissarono giù nella vasta scalinata di marmo. Per un istante, Stephen guardò il primo ministro dritto negli occhi. Non capiva se questa conversazione era importante o di nessun conto. Scosse la testa. «Charles ha fatto vita pubblica per tanto tempo». «Precisamente. Nessuno ci rinuncia se non ha un'ottima ragione per farlo». Tornando indietro verso la sala della commissione il tono del discorso cambiò. «Mi piaceva Charles Darke. Più di quanto molta gente immaginasse. È un uomo di talento e nutrivo delle speranze per lui». Erano quasi a portata d'orecchi degli uomini della scorta e rallentarono il passo. «Le informazioni di carattere personale diventano piuttosto generiche prima di giungere fino a me, lei intende che cosa voglio dire?» «Lei vorrebbe persuaderlo a cambiare idea?» Ma non toccava a Stephen fare domande. Il primo ministro sollevò una piccola mano e mostrò un dito ornato da un semplice anello d'oro. Un membro della scorta si staccò dal resto del gruppo. «Forse, dopo la sua visita, lei potrebbe farmi sapere come lo ha trovato?» L'uomo aveva infilato la mano in un portadocumenti in cuoio e stava passando a Stephen un bigliettino da visita. Era sul punto di dire che non si sentiva di promettere molto, ma era già partito un segnale che indicava il termine del loro abboccamento. Un altro membro della scorta si fece accanto al primo ministro e aprì un'agenda per appuntamenti mentre, insieme a tutti gli altri, i due tornavano spediti verso lo scalone. Stephen trovò il proprio posto a sedere in assoluto silenzio. Solo Lord Parmenter sembrava sinceramente indifferente, per non dire un tantino irritato dell'interruzione. Attese che Stephen si accomodasse e suggerì che il professor Brody volesse forse riprendere la parola. Il giovane macilento annuì e, con un abile gesto distratto delle dita, ritirò qualche ciuffo di peli neri tra i bottoni della camicia prima di intrecciare daccapo le mani e annunciare che se la commissione non aveva nulla in contrario, egli avrebbe ripreso i vari punti nell'ordine in cui erano stati
sollevati. Il razionamento dell'acqua aveva ridotto in polvere i giardini suburbani delle abitazioni del West London. Le interminabili siepi di ligustro si andavano accartocciando e ingiallendo. Gli unici fiori che Stephen vide nel lungo tragitto dalla stazione della metropolitana, l'ultima fermata della linea, erano gerani clandestini sui davanzali delle finestre. I piccoli prati antistanti le case erano solo più terra spaccata dall'arsura da cui si sfaldavano anche i cespugli di erba secca. Un burlone aveva piantato una fila di cactus. Conservavano un aspetto più agreste i giardini asfaltati e dipinti di verde. I nanetti in giacca rossa e maniche arrotolate che mettevano in moto gli irrigatori a girandola rimanevano immobili sotto il sole. La strada in cui abitavano i suoi genitori, dritta e senza negozi per un miglio e mezzo, si era sviluppata nel corso degli anni trenta; un tempo disdegnata da tutti coloro che prediligevano i quartieri vittoriani, adesso era meta ambita di chi desiderava allontanarsi dal centro. Erano case basse, intonacate alla meglio, che sotto torridi tetti avevano l'aria di sognare il mare aperto; su ogni porta d'ingresso era ritagliato un oblò e le finestre del piano superiore, incassate in strutture metalliche, si sforzavano di suggerire il ponte di un transatlantico. Nel silenzio velato di caldo, Stephen raggiunse adagio il numero settecento e sessantatré. Una merda secca di cane gli si sbriciolò sotto le scarpe. Si domandò, come faceva ogni volta, come una strada con tante abitazioni, una di fila all'altra, potesse essere così tranquilla: nessuna banda di ragazzini che prendono a calci un pallone o giocano alla settimana sul marciapiede, nessuno intento a smontare una scatola del cambio, neppure qualcuno che entrasse o uscisse di casa. Venti minuti dopo era seduto con suo padre all'ombra in cortile; beveva una birra gelata e si sentiva a suo agio. L'ordine meticoloso degli attrezzi da giardino puliti e ben tenuti, ritirati ogni volta al loro posto, il sentierino di pietra rosa appena spazzato e la scopa dura appoggiata come sempre tra i due pioli sul muro, il tubo di gomma da giardino arrotolato con cura intorno al suo rubinetto di ottone un po' lucido, tutti questi dettagli che lo avevano infastidito da adolescente ora gli sbarazzavano la mente consentendogli di concentrarsi su cose ben più essenziali. In casa e fuori, c'era una cura attenta per gli oggetti, per la loro pulizia e disponibilità, e Stephen non la vedeva più come l'antitesi pura di tutto ciò che è umano, fertile, creativo, parole chiave dei suoi furiosi quaderni di appunti di teenager. Dal punto in cui sedevano sorseggiando birra, la vista dava su altri giardini altrettanto ordinati, con siepi ingiallite, steccati incatramati, tetti arancioni e su in alto, contro un cielo azzurro cupo, l'estremità di un palo per il resto invisibile e sistemato a metà tra la loro e la mesta casa vicina.
La mente era libera di parlare del tempo. «Sai figliolo, disse suo padre, allungandosi con un certo sforzo per raggiungere con la mano la sedia a sdraio di Stephen e mettere il tappo alla birra. Non ricordo un'estate più calda di questa in settantaquattro anni. Fa caldo. Direi quasi che fa troppo caldo». Stephen disse che era sempre meglio così, meglio di quando pioveva troppo, e suo padre si trovò d'accordo. «Meglio questo mille volte, qualsiasi cosa dicano sulle riserve d'acqua e nonostante lo stato in cui si è ridotto il mio prato. Almeno si può stare fuori. D'accordo, anche all'ombra se è il caso, ma sei comunque seduto fuori e non dentro. In tutte quelle estati di pioggia che abbiamo avuto, quando si arriva all'età di tua madre e alla mia, si passa da un dolorino alle ossa all'altro. Meglio il caldo, comunque». Stephen era sul punto di parlare, ma suo padre proseguì un po' seccato. «Il fatto è, che la gente non è mai contenta. Fa troppo caldo, fa troppo freddo, piove sempre, non piove mai. Santa miseria, non sono mai soddisfatti. Non sanno che cosa vogliono. No, no, a me sta bene così. Ai nostri tempi non ci lamentavamo di certo di un clima di questo genere. Via, sulla spiaggia ogni giorno, l'acqua era bella, si facevano i bagni». E recuperato il suo solito buonumore levò il bicchiere e tracannò una bella sorsata battendo a terra trionfante con i piedi calzati nelle pantofole. Rimasero seduti qualche minuto in un silenzio domestico, disinvolto. Dalla cucina, dove la madre di Stephen stava preparando un arrosto, proveniva il suono rassicurante dell'aprire e chiudersi dello sportello del forno e di un pesante cucchiaio che armeggiava in un tegame. Poco dopo, su insistenza del marito, la madre si unì a loro per bere il suo sherry. Prima di sedersi, si tolse il grembiule e se lo ripiegò con cura in grembo. Le svariate piccole ansie connesse alla preparazione di un pranzo da tre portate le animavano il viso. Teneva la testa protesa verso la finestra di cucina, per sentire che succedeva alla sua verdura. La conversazione sul tempo riprese, questa volta in relazione agli effetti sul giardino, la sua passione. «È così un peccato, disse. Avevamo messo giù tante cose, vero? Doveva venire bellissimo». Il padre di Stephen scuoteva il capo. «Stavo proprio dicendo a Stephen. È sempre meglio che starsene seduti in casa tutto il santo giorno a guardare piovere e continuare a dirsi che forse domani farà bel tempo. Quando poi l'indomani fa brutto di nuovo». «Lo so, disse lei. Ma a me piace vedere le piante che crescono. E non mi piace vederle morire». Finì lo sherry e aggiunse: «Tra quanto vi va di
mangiare?» Il padre guardò l'orologio. «Il tempo di berci un'altra birra». «Che ne dite di un'altra mezz'ora?» Lui annuì. Aggrottando la fronte per una fitta, la madre si tirò su dalla sedia e disse: «Benissimo. L'importante è che possa organizzarmi». Accarezzò il ginocchio del figlio e torno dentro in fretta. Suo padre la seguì e fu di ritorno con due lattine di birra fresca. Il poderoso lamento che emise sedendosi era più scherzoso che frutto di autentico dolore fisico. Appoggiando le lattine ai braccioli, si abbandonò sulla sedia a sdraio e sorrise, fingendo per un istante di essere esausto per lo sforzo sostenuto. Quando ebbero di nuovo i bicchieri pieni, domandò a Stephen della commissione e ascoltò con pazienza il resoconto delle riunioni. Non parve stupito del colloquio di Stephen con il primo ministro. «È tutta gente che arraffa quello che può, figlio mio. Te l'ho già detto, tu stai sprecando il tuo tempo con loro. Questo rapporto è già stato scritto ufficiosamente e comunque l'intera faccenda è una gran porcheria. Il professor Tale e il Lord Vattelapesca. È solo perché la gente crede a quello che leggerà sul rapporto. Se Lord Vattelapesca ha firmato, allora deve essere vero! E chi è questo Lord? Un tizio che ha passato la vita a sputare sentenze, non ha dato fastidio a nessuno e si è fatto un po' di soldi. La parolina giusta all'orecchio giusto ed eccotelo là sulla lista d'onore, e di colpo diventa un dio e quel che dice diventa legge. Lui tanto è dio. Lord Vattelapesca ha detto questo, Lord Vattelapesca la pensa così. Il problema di questo paese è tutto qui, troppi inchini, troppe sviolinature, tutti che vanno a traino di Lord e di Baronetti, nessuno che pensa con la sua testa. No, guarda figliolo, se fossi in te pianterei tutti in asso. Ci stai solo a perdere tempo. Mettiti a scrivere un libro. E ora che tu lo faccia. Kate non tornerà più e Julie se ne è andata. Tanto vale che tu ti rassegni». Il discorso non era preparato e lasciò entrambi sorpresi. Stephen scuoteva il capo, ma non riusciva a trovare qualcosa da dire. Il signor Lewis si accomodò sulla sedia. I due uomini levarono i bicchieri e bevvero a grandi sorsi. Per un paio di minuti, prima di pranzo, Stephen si ritrovò solo. Suo padre era andato in cucina a dare una mano. La stanza occupava tutta la lunghezza del piano terra, con un tavolo da pranzo a un'estremità e il salotto a tre pezzi sul lato opposto. Quella era l'ultima casa dei suoi genitori, e la prima che avessero potuto arredare secondo il loro gusto. Dovunque c'erano oggetti raccolti nel corso dei vari trasferimenti qua e là, cose ritirate in scatole e messe via per anni «finché non avremo una casa nostra», una frase che ricordava da quando era piccolo. Il posacenere con le cinghie di cuoio era al suo posto, e così pure le palme dipinte e i vasi
d'ottone nordafricani. Sulla credenza c'era la collezione di oggetti in cristallo e animaletti di vetro di sua madre, ben fatti, spigolosi e pesanti da tenere in mano. Soppesò sul palmo un topino con occhi di perline e baffi di nylon. Sulla tavola c'erano i bicchieri da vino, quelli con lo stelo lungo di vetro verde. Da bambino, gli sembravano delle signore con i guanti lunghi. Le tovagliette recavano l'emblema della Raf, i cucchiaini da caffè il simbolo delle città visitate da Stephen Vancouver, Ankara, Varsavia. Strano come un intero passato potesse essere contenuto in un'unica stanza, sospeso fuori dal tempo e amalgamato da un miscuglio di odori familiari immutabili, cera per mobili alla lavanda, sigarette, saponette fragranti, carne arrostita. Questi oggetti, questo particolare profumo, ma già le sue decisioni, l'assoluta importanza delle domande da porre stava iniziando a sfuggirgli. Aveva delle richieste, degli argomenti da sollevare, ma tre lattine di birra lo avevano reso piacevolmente stordito e aveva anche fame e adesso sua madre stava facendo passare le terrine coperte con le verdure nello sportello della cucina per poi sistemarle sulla piastra scaldavivande; suo padre aveva portato una bottiglia del suo vino, fatto in casa in quattro settimane con un metodo tutto speciale, e si accingeva a riempire i bicchieri fino all'orlo come era sua abitudine; la prima portata era già servita nei piatti, una fetta di melone con tanto di oscena ciliegina. Stephen sedette pieno di gratitudine e quando anche i suoi genitori ebbero preso posto, i tre levarono in alto i bicchieri e sua madre disse: «Bentornato a casa, figliolo». Quando Stephen osservava le facce di suo padre e di sua madre non erano tanto gli effetti dell'età che vedeva quanto piuttosto la rovina lasciata dalla scomparsa di Kate. La si nominava poco ormai, e per questo si era alquanto stupito venti minuti prima. La perdita dell'unica nipotina aveva sbiancato i capelli di suo padre nel giro di due mesi e affondato gli occhi della madre in fosse rugose. Avevano costruito la loro vita di pensionati intorno a quella nipote e in questa stanza lei aveva trovato un paradiso di oggetti proibiti. Era capace di stare mezz'ora col mento appoggiato alla credenza, persa in oscuri dialoghi nei quali squittiva le voci dei vari animaletti di vetro. Al di là di quei segni fisici, Stephen non aveva mai assistito a una manifestazione di dolore da parte dei genitori. Non avevano voluto appesantirgli il fardello. Era tipica del sentimento che li univa quell'incapacità di piangere Kate tutti insieme. Pronunciare il suo nome, come aveva fatto suo padre poc'anzi, significava infrangere una tacita regola. Non fu che alla fine del pasto che Stephen fece uno sforzo e sollevò la questione delle biciclette. Aveva questo ricordo, disse, che non gli riusciva di sistemare. Descrisse il seggiolino da bambino, la strada verso la spiaggia, la riva
ghiaiosa e quel tuono d'acqua là dietro. Suo padre scuoteva la testa con aria insolente, come faceva spesso se messo di fronte a un passato irrecuperabile. Ma la signora Lewis lo batté sul tempo. «Ma sì, era Old Romney, nel Kent. Ci siamo stati una settimana, una volta. Sfiorò l'avambraccio di suo marito. Ti ricordi, avevamo preso le bici in prestito da Stan. Erano vecchie! Ci fermammo una settimana e piovve tutti i santi giorni». «Mai stato a Old Romney in vita mia», disse il padre di Stephen, ma era già incerto, in attesa di essere convinto. «C'era di mezzo un tuo corso di addestramento e una settimana di licenza. Alloggiavamo in un bed&breakfast, non ricordo il nome della padrona di casa ma era carino, molto pulito». «Vi eravate fatti ridare le bici», disse Stephen. «Esatto. Le avevamo tenute per anni, comprate nuove e poi date a tuo zio Stan quando ci trasferimmo oltreoceano». Questa volta suo padre fu perentorio. «Abbiamo avuto biciclette di ogni tipo, ma nuove mai. Non avremmo potuto permettercele. Non a quei tempi». «Ma se ti dico di sì, comprate a rate e date a Stan e poi richieste in prestito per andare a Old Romney». La sicurezza riguardo alle biciclette aveva aumentato la sua riluttanza al ricordo di Old Romney. «Mai stato da quelle parti. Neanche nei dintorni». Per mascherare la propria irritazione, la madre di Stephen si era alzata a raccogliere i piatti. La sua voce si fece più bassa per la collera. «Tu dimentichi quello che ti fa comodo dimenticare». Il signor Lewis stava riempiendo i bicchieri e rivolgendo a Stephen uno sguardo scherzoso che intendeva dire: guarda in che guaio mi sono andato a cacciare. Il buon umore fu recuperato senza troppe difficoltà davanti al caffè, quando la conversazione scivolò sul funerale di un anziano parente che era stato sepolto nel cimitero di Wimbledon una settimana prima. Fu la madre di Stephen a raccontare l'aneddoto, interrompendosi ogni tanto per asciugarsi le lacrime dal gran ridere. Un bimbetto, pronipote del defunto, aveva gettato l'orsacchiotto di pezza nella fossa durante la cerimonia e quello era finito di schiena sulla bara e rivolgeva ai parenti in lutto il suo sguardo guercio. Il bambino aveva fatto su un chiasso tremendo superando abbondantemente il ronzio mesto dell'officiante. C'erano state risate mal trattenute e occhiate furiose da parte dei familiari. Nessuno aveva voluto calarsi nella fossa a recuperare l'oggetto che era quindi finito sepolto col morto. «E ben più compianto», aggiunse il padre di Stephen, che aveva riascoltato la storiella fino in fondo con un ampio sorriso sulle labbra. Quando i tre si prepararono a lavare i piatti, seguirono d'impulso la vecchia
routine. Sua madre si avviò al lavello, mentre Stephen e il padre finivano di sparecchiare. Quando ci furono abbastanza piatti e fondine da asciugare, Stephen andò in cucina per primo. Dopo aver finito di sbarazzare la tavola, suo padre passò lo straccio. Infine si unì agli altri asciugando e riponendo le stoviglie. La signora Lewis allontanava sempre gli uomini dalla cucina per occuparsi da sola di lavare e asciugare le pentole e i piatti da forno. Quest'ultima operazione era un misto di balletto, cerimonia e manovra militare. Ora che le sue abitudini si erano fatte tanto caotiche, Stephen trovò rasserenante lo stesso procedimento che un tempo soleva gettarlo nella disperazione. Nel corso della seconda parte del rituale, mentre suo padre puliva energicamente la tavola e lui era solo in cucina con la madre, tornò a domandare delle biciclette. Dove le avevano comprate? Lei non parve curiosa di scoprire perché lo volesse sapere. Tenendo le mani guantate sotto la schiuma dell'acqua saponata, chinò la testa di lato a riflettere. «Prima che nascessi tu. Prima di sposarci, perché ci andavamo insieme a fare l'amore in giro. Erano due bellezze, nere con le scritte in oro. Pesavano una tonnellata». «Conosci un pub che si chiama The Bell, vicino a Otford nel Kent?» Lei scosse il capo. «È vicino a Old Romney?», domandò, mentre il signor Lewis entrava in cucina. Proprio sull'onda dell'impulso al quale aveva deciso di non cedere l'impulso a non turbare la giornata, a non provocare il benché minimo dissapore Stephen evitò di fare altre domande. Quando fu tutto lavato e messo in ordine, sedettero a chiacchierare finché non venne il momento per lui di andarsene a prendere l'ultimo treno. Si raccolsero sulla soglia di casa nell'aria tiepida, per i saluti. Una tristezza ben nota si impadronì dei genitori, le loro voci si spensero, benché le parole fossero abbastanza allegre. Supponeva che in parte fosse dovuto al fatto che se ne andava di nuovo di casa, come aveva fatto tante altre volte in trent'anni, ripetendo in ogni occasione, pur senza ammetterlo, lo stesso rituale d'abbandono, e in parte perché se ne andava da solo, senza moglie né figlia, nuora e nipote. Ma qualunque ne fosse la causa, sarebbe rimasta inespressa. Come sempre, rimasero nel sentiero antistante la casa a fare ciao con la mano al figlio che si allontanava nell'aria limpida del crepuscolo. Agitavano le braccia, si riposavano e tornavano a salutarlo come quella volta sulla pista aerea nel deserto, finché una leggera svolta della strada lo sottrasse alla vista. Era come se volessero constatare di persona che non avrebbe cambiato idea, che non si sarebbe voltato per tornare a casa.
Capitolo quinto Non si è sempre verificato che una vasta minoranza composta dagli individui più deboli di una società, indossasse abiti suoi propri, fosse libera da obblighi di lavoro e da molte limitazioni nella condotta generale e potesse dedicare la maggior parte del tempo allo svago. C'è stato un tempo in cui i bambini venivano trattati come piccoli adulti. L'infanzia è un'invenzione, una trovata sociale resa possibile dal progresso e dal maggiore benessere del sistema. Soprattutto, l'infanzia è un privilegio. A nessun bambino, crescendo, si dovrebbe permettere di scordare che sono stati i suoi genitori, in veste di rappresentanti della società, a garantirgli tale privilegio, totalmente a loro spese. Manuale per l'educazione del bambino, HMSO Stephen, alla guida di un'auto a noleggio, si dirigeva a est verso il Suffolk centrale, percorrendo una tranquillissima strada secondaria. Il tettuccio della vettura era spalancato. Aveva cercato un programma di musica decente alla radio, per poi accontentarsi delle folate di aria tiepida e della novità di guidare un'automobile dopo più di un anno. Nella sua tasca posteriore c'era una cartolina che aveva scritto a Julie. Avendo avuto l'impressione che volesse essere lasciata in pace, era indeciso se spedirla o meno. Il sole, alto dietro di lui, offriva una visibilità di luminosa chiarezza. La strada, fiancheggiata da fossati in cemento per l'irrigazione, si stendeva in ampie curve, attraversando per miglia una pineta che cresceva al di là di una vasta distesa di ceppi d'albero e di felci rinsecchite. La notte prima aveva riposato bene, ricordò in seguito. Era rilassato, ma anche abbastanza sveglio. Si manteneva ad una velocità oscillante tra le settanta e le settantacinque miglia all'ora, e rallentò appena solo quando si ritrovò davanti un grosso autocarro rosa. In ciò che capitò dopo, la rapidità degli eventi fu equilibrata dal rallentamento dello scorrere del tempo. Si preparava a superare quando accadde qualcosa, non vide esattamente che cosa, tra le ruote dell'autocarro, come un vuoto improvviso, una nuvola di polvere; poi una cosa lunga e nera gli venne incontro da una distanza di una trentina di metri. Colpì il parabrezza, vi rimase per un istante attaccata e fu spazzata via prima che avesse tempo di capire di che cosa si trattava. Poi, o fu tutto simultaneo?, la parte posteriore dell'autocarro compì una complicata serie di movimenti, sobbalzi e ondeggiamenti, e si contorse in una pioggia di scintille luminosissime nonostante la luce solare. Qualcosa di curvo e metallico gli sfrecciò accanto di lato. A questo punto Stephen aveva
trovato modo di spostare il piede sul freno e di notare un lucchetto sfilarsi da una flangia allentata e la scritta «Lavami» scarabocchiata nel sudiciume. Ci fu un gemito da sfregamento metallico e altre scintille abbastanza fitte da formare una fiammata bianca che parve espandersi in aria dal retro dell'autocarro. Stephen stava già premendo il pedale del freno quando si vide venire incontro i pneumatici polverosi, la massa sporca d'olio del differenziale, l'albero a camme e infine, ad altezza degli occhi, la scatola del cambio. Rovesciandosi, l'autocarro sobbalzò sul muso una, o forse due volte, poi vacillò stancamente fino a completare la capriola e offrire a Stephen la visione della griglia del radiatore capovolta e del parabrezza luccicante a testa sotto, oltre allo schianto del tetto contro il selciato che precedette un salto in alto di qualche metro, una ricaduta e un ondeggiamento in avanti, in un letto di fiammate. Poi si piazzò in tutta la sua lunghezza di traverso bloccando la strada, precipitò sul fianco e di colpo fu fermo, mentre Stephen vi si dirigeva contro da meno di trenta metri e a una velocità che, con mente abbastanza fredda, giudicò di circa quarantacinque miglia all'ora. Adesso, in quel preciso rallentamento del tempo, ci fu il senso di una fresca rinascita. Era entrato in un remoto futuro, nel quale mutavano i termini e le condizioni. Queste erano dunque le nuove regole e Stephen provò qualcosa di simile al timore reverenziale, come se stesse camminando da solo nella grande città di un pianeta scoperto recentemente. C'era persino spazio per un po' di rimpianto, sincera nostalgia per gli spettacolari giorni andati quando un autocarro poteva ancora catapultarsi in modo tanto suggestivo di fronte a un testimone impassibile. Adesso lo attendevano tempi più duri, di fatiche e concentrazione. Stava dirigendo la vettura verso un varco aperto di circa due metri tra il segnale stradale e il parafango anteriore dell'autocarro immobile. Aveva tolto i piedi dai freni, ragionando, quasi che avesse appena compiuto uno studio monografico sul caso, che avrebbero deviato l'auto di lato, vanificando il suo tentativo di inserirsi nel varco. Al contrario, scalava le marce e manovrava il volante tenendolo saldamente con tutte e due le mani, pur senza stringere troppo, e si preparava a proteggersi il capo con le braccia qualora avesse fallito nel suo intento. Folgorò dei messaggi, o meglio, gli scattarono in mente certi messaggi per Julie e per Kate, niente di più di semplici palpiti d'amore e paura. Avrebbe dovuto inviarne degli altri, lo sapeva, ma il tempo stringeva, aveva meno di mezzo secondo e per fortuna non gli si affollarono in testa creandogli solo confusione. Mentre inseriva la seconda e la piccola auto esprimeva rombando il proprio lamento, gli apparve evidente che non doveva sforzarsi troppo di concentrarsi, che doveva invece affidarsi ad una sorta di dissociazione rilassata del pensiero e immaginare se stesso già dentro al varco. Al suono di questa parola, che dovette pronunciare a voce alta, segui un acuto fragore di metallo e vetri; poi Stephen si ritrovò
dall'altra parte con l'auto ferma, mentre la maniglia dello sportello e lo specchietto esterno sfrecciavano sulla strada a una ventina di metri dietro di lui. Prima ancora del sollievo, prima dello shock, venne l'acuta speranza che il guidatore dell'autocarro avesse assistito a questa impresa da asso del volante. Stephen sedeva immobile, con le mani ancora aggrappate allo sterzo, e si osservava con gli occhi dell'uomo nel veicolo alle sue spalle. Se non lui, almeno un passante, magari un contadino, qualcuno che capisse qualcosa di guida e potesse valutare fino in fondo il suo talento. Desiderava un applauso, avrebbe voluto un passeggero seduto davanti con lui che si voltasse guardandolo con gli occhi lucidi di ammirazione. Anzi, avrebbe voluto Julie. Si mise a ridere e a urlare, «Che te ne pare? Eh? Che ne dici?» e poi «Ce l'hai fatta! Ce l'hai fatta!» L'intera faccenda non era durata più di cinque secondi. A Julie sarebbe piaciuto quel che era accaduto al tempo, come la sua durata si era plasmata intorno all'intensità dell'evento. Adesso ne avrebbero parlato, emozionati all'idea di essere vivi, curiosi di scoprire che cosa volesse dire, quale significato avesse per il loro futuro. Rise ancora, più forte, e gridò. Si sarebbero baciati, prendendo una delle bottiglie di champagne dal sedile posteriore, incominciando a spogliarsi reciprocamente per celebrare la salvezza mentre la polvere si posava tutto intorno. Che momento! Si portò le mani sul viso e diede in gridolini confusi. Si soffiò vigorosamente il naso nello straccio giallo fornito dall'autonoleggio e uscì dalla vettura. Per poter osservare Stephen, l'autista avrebbe dovuto tagliarsi un foro nel tettuccio della cabina. Stephen non se ne rese conto subito mentre percorreva il tratto che lo separava dall'autocarro. La parte anteriore era tanto pesta e malconcia che, a una prima occhiata, non era facile stabilire come fosse orientata prima dell'incidente. Educatamente, Stephen spostò con il piede la maniglia distrutta e lo specchietto sul margine della strada. L'aria era densa di vapori del diesel. I vetri rotti stridevano in modo sgradevole sotto le suole. Gli venne in mente che il guidatore poteva essere morto. Si avvicinò alla cabina con cautela, cercando di individuarne lo sportello o un qualsiasi altro accesso. Ma la struttura si era come ripiegata su se stessa; sembrava un pugno chiuso o una bocca senza denti, tenuta serrata. Puntò un piede sul rottame e si issò fino ad avere la faccia a livello del parabrezza. Quest'ultimo era ormai una superficie opaca e lattiginosa. Arrampicandosi ancora Stephen trovò un finestrino ma riuscì solo a vedere l'imbottitura del soffitto della cabina schiacciata contro il vetro. La strada era talmente in ordine che per trovare una pietra dovette scavalcare il fossato e mettersi a cercare tra le felci. Di ritorno, prese a colpire il rottame col sasso.
Si schiarì la gola e chiamò nel silenzio sentendosi assurdo. «Ehilà? Mi sente?, Poi più forte:, Ehilà!» Si udì un gran trambusto provenire dalla cabina, un breve silenzio e infine una voce vicina pronunciò due parole, brevi e confuse. L'acustica era smorzata, come un mormorio in una stanza affollata di mobili. Stephen chiamò di nuovo per interrompersi subito. Le sue grida infatti avevano sovrastato la voce che ripeteva le due parole. Attese parecchi secondi, questa volta, e sbirciò in quel mucchio di lamiera contorta nella speranza di scorgere una fessura. Quando tornò a chiamare, la voce rispose, due parole di uguale lunghezza. «Quaggiù! Aiuto!» Fece un giro intorno alla cabina, cercando di non lasciar trasparire l'agitazione nel tono della voce. «Non sento quello che dice. Ora vedo di trovarla». Era tornato nella posizione di prima. Ci fu una pausa, nella quale Stephen immaginò che l'uomo stesse raccogliendo le forze. Udì un'inspirazione profonda, seguita dalle parole precise: «Guardi giù». Ai piedi di Stephen c'era una testa. Spuntava da uno squarcio verticale nella lamiera d'acciaio. C'era anche un braccio nudo che, incastrato sotto la testa, premeva forte contro il viso dell'uomo e ne ostruiva la bocca. Stephen si inginocchiò. Non gli faceva impressione l'idea di toccare il capo dell'estraneo. Aveva fitti capelli scuri, interrotti, sulla cima, da una zona calva della misura di una grossa moneta. L'uomo era a faccia in giù, ma Stephen riuscì a vedere che teneva almeno un occhio chiuso. Lo squarcio era in realtà una fessura tra due sezioni di lamiera accartocciata. Nell'ombra, Stephen individuò la parte superiore della spalla e lembi di camicia a quadri rossi e neri. Diede un lieve colpetto sul viso dell'uomo e gli occhi si aprirono. «Ha male?, domandò Stephen. Può aspettare mentre vado a cercare aiuto?» L'uomo tentava di parlare, ma l'avambraccio intrappolato sotto la mascella gli copriva la voce. Stephen gli sollevò il capo con entrambe le mani e usò il piede per liberargli il braccio. L'uomo si lamentò e chiuse gli occhi. Riaprendoli, disse: «Ha carta e matita con sé, amico? Voglio dettarle una cosa». L'accento era londinese, rauco e cordiale. Stephen aveva in tasca un notes e una matita, ma non li prese. «Dobbiamo pensare a tirarla fuori di là. Può darsi che stia perdendo sangue. C'è carburante dappertutto». L'uomo parlò con tono pacato. «Non credo che me la caverò. Mi faccia un favore, si prenda un paio di messaggi. Se poi riesce a salvarmi non ci avrà perso niente, le sembra?» Stephen si sottomise senza discutere a quella necessità; lo avrebbe fatto chiunque. «Il primo è per Jane Field, Tebbit House, numero 2316, Anzio Road, South West Nove».
«Non è lontano da dove sto io». «Jane, tesoro, ti amo... Chiuse gli occhi e prese a riflettere. Ti ho sognata la notte scorsa. Sarei comunque tornato da te. Lo sai, vero? Sapevo che sarebbe successa una cosa così. Tuo, Joey. Ah, già, abbraccia i bambini. Il prossimo è per Pete Tapp, Brixton Road 309, South West Due. Caro Pete, beh, vecchio mio, è toccato prima a me. Non ce la farò per questo sabato. Ci metta un paio, sa, di punti esclamativi. Ti devo sempre quelle cento sterline. Fattele dare da Jane. Voglio che tu ti prenda Bessie. Mangia una scatoletta di cibo al giorno intorno alle sei di sera, con qualche fetta di pane secco e una scodella di latte. E niente cioccolata. Ti saluto, Joe. Aspetti, sul primo aggiunga, Post Scriptum: Devo cento sterline a Pete». Stephen voltò la pagina del notes e rimase in attesa. L'uomo fissava il selciato. Alla fine disse con voce sognante: «Questo qui è per il signor Corner, presso la Stockwell Manor School, South West Nove. Egregio signor Corner, non credo che lei si ricordi di me. Ho lasciato la scuola quattordici anni fa. Lei mi buttò fuori dal suo corso dicendo che non avrei mai combinato nulla. Beh, attualmente ho un'attività, un camion mio quasi tutto pagato, un Fahrschnell rosa da venti tonnellate. Mi viene spesso in mente quello che lei diceva e ci tenevo che lo sapesse. Cordiali saluti, Joseph Fergusson, età anni ventotto. Il prossimo è per Wendy McGuire, Fax's Road 13, Ipswich. Amore...» Stephen chiuse il taccuino e si alzò. «Basta così», disse e si diresse spedito all'auto. Aprì il portabagagli e rovistò nervosamente finché non riuscì a trovare il cric che era tenuto fermo in un angolo scuro da un dispositivo magnetico. «Senta, disse l'uomo quando Stephen tornò e cercò di infilare il cric lateralmente nella fessura. Non sento niente dal collo in giù. Non mi va di vedere che è successo». Sembrava che non ci fosse modo di fare leva lungo i margini contorti dello squarcio. Ma il pensiero di continuare a scrivere sotto dettatura incoraggiò Stephen a non mollare e, finalmente, il cric trovò una sistemazione e Stephen potè azionare la manovella del martinetto. Era accucciato a terra con la testa fra le ginocchia. L'uomo intanto aveva appoggiato la guancia sull'asfalto. Il cric era a mezzo metro circa dal suo collo, infilato di traverso. Quando riuscì a fare presa, l'estremità inferiore prese a allentare di lato la morsa della lamiera divaricando il varco un po' di più ad ogni giro di manovella. L'estremità superiore premeva contro qualcosa di troppo duro per cedere, il che garantiva un'ottima leva. Quando il varco si fu allargato di una decina di centimetri, Stephen potè risistemare il cric, questa volta verticalmente, con la base accanto alla gola dell'uomo. Con un terribile suono stridente, come quello di un'unghia passata su una lavagna, un lato
dell'autocarro iniziò a sollevarsi. Si mosse di qualche centimetro prima di andare a incastrarsi contro qualcosa di pesante. Stephen sbirciò in una fessura buia nella quale si vedeva il corpo dell'uomo raccolto su se stesso. Non c'era sangue, né traccia di altre lesioni. Avendo cura di non spostare il cric, afferrò la spalla dell'uomo con una mano, gli sistemò l'altra a coppa sotto il viso ed esercitò una trazione. L'uomo emise un lamento. «Dovrà collaborare, disse Stephen. Sollevi la testa in modo che riesca a passarle la mano sotto il mento». Questa volta il movimento ci fu, di un buon paio di centimetri. Dopo aver ripetuto l'operazione parecchie volte, l'uomo fu in grado di usare il braccio libero per spingere e Stephen potè afferrarlo sotto le ascelle e tirarlo fuori del tutto. Mentre raggiungevano l'auto, l'uomo si teneva il polso. «Credo sia rotto, disse con aria mesta. Dovevo partecipare a un torneo di biliardo sabato». Stephen, che adesso tremava a sua volta e si sentiva mancare le gambe, decise che l'uomo doveva essere in stato di shock. Lo aiutò a prendere posto sul sedile del passeggero e lo avvolse in una coperta. Ma la portiera del guidatore non voleva saperne di aprirsi senza maniglia e Stephen si vide costretto a fare uscire l'uomo un'altra volta per infilarsi carponi dietro al volante. Quando finalmente furono sistemati rimasero seduti immobili per un paio di minuti. Il rituale di inserimento della chiave, di controllo della leva del cambio per assicurarsi che fosse in folle e l'afferrare lo sterzo, ebbero su Stephen un effetto calmante. Guardò l'uomo che fissava, tremando, il parabrezza. «Senta, Joe, è un miracolo che lei sia vivo». Joe si passò la lingua sulle labbra e disse: «Ho sete». Stephen prese la bottiglia dal sedile posteriore. «Ho solo dello champagne». Il tappo esplose rimbalzando contro il cruscotto e colpendo forte l'orecchio di Joe. Quando ebbe la bottiglia in mano, sorrise. Serrò la bocca sul collo straripante di schiuma e succhiò chiudendo gli occhi. Si passarono la bottiglia e bevvero senza parlare finché non fu vuota. A quel punto, Joe ruttò e chiese a Stephen come si chiamava. «Sei stato in gamba Stephen. Puttana miseria, davvero. Io non ci sarei arrivato a pensare al cric. Si guardò il polso e disse in tono sorpreso:, Sono vivo. E non mi sono neanche azzoppato». Risero, e Stephen raccontò emozionatissimo la storia di come aveva allargato lo squarcio di dieci centimetri, di come il tempo avesse rallentato, e di quel segnale stradale che gli aveva tranciato di netto lo specchio e la maniglia della portiera. «Proprio in gamba», ripeteva Joe a bassa voce e, «Cazzo, che tipo», quando Stephen estrasse la seconda bottiglia di champagne. Si misero a ricostruire
l'incidente dai due diversi punti di vista. Joe disse che gli era sembrato che un gigante prendesse su il camion e lo lanciasse in aria. Ricordava la strada che gli veniva incontro, il lampo dell'auto capovolta alle sue spalle e poi tutto quanto che gli si accartocciava intorno. Era un miracolo, continuavano a dire, un maledetto miracolo. Verso la fine della seconda bottiglia, fecero un brindisi alla faccia di tutto e di tutti e, non disponendo di meglio, intonarono Perché è un bravo ragazzo, indicandosi reciprocamente ogni volta che arrivavano al «bravo ragazzo». Mentre si allontanavano, Stephen ricordò il cric e pensò che l'avrebbe lasciato dov'era. Si diressero verso il più vicino centro abitato e discussero se Joe doveva essere portato prima in ospedale o alla stazione di polizia. Lui insistette per la polizia. «Voglio mettere tutto in chiaro con quelli dell'assicurazione». Viaggiavano a più di novanta miglia all'ora, quando Stephen si rese conto di essere quasi ubriaco, e rallentò. Joe tacque per un poco e solo quando arrivarono nei pressi di una cittadina, mormorò: «Una volta conoscevo una bella ragazza di queste parti». Quando furono in centro e presero a cercare la stazione di polizia, disse: «Quanto sono rimasto là sotto? Due ore? Tre?» «Dieci minuti, forse meno». Joe stava ancora commentando quanto la cosa gli sembrasse in credibile quando Stephen trovò la centrale e si fermò. «Che ne pensi di quella faccenda del tempo?» gli chiese. Joe guardò fuori dal finestrino tre poliziotti armati che entravano in auto. «Non saprei. Una volta, sono stato dentro due anni. Non c'era niente da fare, non succedeva un cazzo, ogni giorno uguale a quello prima. E vuoi sapere una cosa? Il tempo mi correva via in un baleno. Prima ancora di rendermene conto, era già tutto finito. Quindi, non è poi tanto assurdo. Quando succedono tante cose in fretta, il tempo può sembrare lungo». Uscirono dall'auto e si fermarono sul marciapiede. La cerimonia stava per concludersi. «Sei vivo, disse Stephen forse per la decima volta in un'ora. Che cosa pensi che voglia dire? Che differenza fa?» Joe ci aveva pensato, aveva la risposta bell'è pronta. «Vuol dire che me ne torno da Jane e i bambini e da quella canaglia di Wendy McGuire. Vuol dire che con i soldi dell'assicurazione mi comprerò due camion di seconda mano». E ricordandosi a questo punto della grossa occasione che gli si prospettava, si diresse verso la stazione di polizia ancora troppo sconvolto, immaginò Stephen, per fare mente locale sulle formalità dei ringraziamenti e dei saluti. Mentre Joe si faceva da parte per lasciar passare due donne poliziotto, prima di sparire oltre una serie di porte a vento, Stephen pensò ai messaggi sul suo
block-notes e ne provò un certo disagio. Strappò via le pagine e tirando fuori la cartolina dalla tasca, si chinò su un tombino e imbucò il tutto nelle tubature della fogna. Forse era stata la presenza influente del giovane ministro a tenere lontano dalle immediate vicinanze di Ogbourne St Felix le abetaie e gli antiestetici macchinari dei cantieri forestali. I cinquecento acri di bosco ceduo, cresciuto in quelle zone dai tempi dei normanni e menzionato nel Libro del Catasto, occupavano un fazzoletto di terra che era meta di fotografi pubblicitari e cineasti perché rispecchiavano quello che si era abituati a considerare autentica campagna inglese. Il bosco apparteneva nominalmente a una vecchissima opera pia, ma ne godeva il padrone dell'unica abitazione della proprietà che si impegnava a pagarne le spese di manutenzione. Tre cottage dei taglialegna erano stati abbattuti per costruire la casa che si ergeva in una piccola radura sul lato meridionale del bosco a ceppaia. Vi si accedeva percorrendo una strada secondaria e poi un viottolo in terra battuta fiancheggiato da piante di sorbo e di tiglio. Solo al visitatore abituale era dato di sapere che l'infittirsi del sottobosco costituiva la siepe selvatica intorno alla dimora dei Darke e che d'estate occorreva cercare nel groviglio compatto di arbusti il cancelletto che immetteva in un tunnel di verde e, attraverso un roseto potato ad arco, finalmente al giardino di Thelma. Stephen si era fermato nel piccolo centro commerciale poco lontano per ricomprare lo champagne. Si era sentito le gambe pesanti mentre attraversava la piazzetta diretto al principale albergo della cittadina. Voleva lavarsi e bere un bel bicchiere di scotch. Ma non si aspettava il gruppetto di straccioni raccolti all'ingresso. Avevano l'aria meno miserabile dei soliti tipi londinesi, sembravano più in salute, più sicuri di sé. Qualcuno rise al suo avvicinarsi e un vecchio forzuto con un gilet di corda sputò sul marciapiede e si fregò le mani. A quanto pare da queste parti nessuno rispettava il regolamento. Secondo la legge, gli accattoni non potevano neppure lavorare in coppia. Dovevano essere sempre in movimento e percorrere solo certe strade di transito autorizzato. Di sicuro non avrebbero dovuto fare crocchio a un ingresso, in attesa di qualcuno da molestare. Qui, neppure le fascette di riconoscimento erano al loro posto. Stringevano muscolosissime braccia abbronzate o, nel caso di un paio di ragazze, erano state cucite su sgargianti fermacapelli. C'era poi un gigante che si era messo la sua su un occhio, come un pirata. E un ragazzo, col capo rasato e tatuato, se l'era attaccata a un orecchino. Man mano che si avvicinava, Stephen prendeva atto del suo sacchetto di bottiglie tintinnanti e dello spuntare provocatorio della carta dorata dei tappi sotto lo sfavillio del sole. Ormai lo stavano guardando tutti ed era impensabile fare dietrofront. Tutta colpa del governo e della sua ignobile
legislazione, pensò Stephen. Comunque, una simile situazione non sarebbe stata tollerata un momento a Londra, e gli venne istintivo cercare con lo sguardo un poliziotto. Aveva rallentato il passo, poi si ritrovò in mezzo a loro. Guardava fisso davanti a sé, senza vedere nessuno. Udì una voce che diceva: «Che ne diresti di sganciarne uno da dieci?» ma proseguì impassibile. Con la coda dell'occhio scorse un'edizione tascabile di Shelley fra le mani di una ragazza. Qualcuno gli infilò la mano nel sacchetto e Stephen se lo strinse addosso con uno strattone. Un'altra voce fece il verso a un accento raffinato: «Hmm, Bollinger. Che idea squisita!» Scroscio di risa mentre Stephen si apriva la strada tra l'odore denso di sudore e la fragranza del patchouli. Fu questo breve incontro più ancora dell'incidente a turbarlo, mentre con l'auto percorreva il vialetto dissestato di casa Darke. Si sentiva colpevole di un tradimento. Eccolo qui, un pallido signore in camicia di seta bianca con le sue bottiglie di champagne e là, davanti all'ingresso, i vagabondi. Per anni era stato convinto di appartenere per natura alla stirpe degli sradicati, che possedere del denaro fosse solo un fortunato incidente, che da un giorno all'altro avrebbe potuto tornare a mettersi sulla strada con tutto il bagaglio in un'unica sacca. Eppure il tempo gli aveva trovato un posto. Era diventato il tipo che si guarda intorno per cercare un poliziotto alla vista di qualche povero diavolo. Era passato dall'altra parte della barricata. Altrimenti, perché avrebbe dovuto fingere che non ci fossero? Perché non accettare l'idea di essere in netta minoranza e non guardarli dritto negli occhi come avrebbe fatto una volta, magari allungando qualche spicciolo, frutto di un fortunato incidente? Aveva fermato l'auto e percorreva il sentiero erboso verso il cancello. Quel patchouli gli aveva dato una scossa. Era il profumo di una ragazza sognante e senza futuro che aveva incontrato a Kandahar, di caotici appartamenticomune del West London, di un concerto all'aperto nel Montana. Era stato folgorato dal luogo comune dell'irrecuperabilità del passato. Un tempo il suo passo sulla terra gli era sembrato leggero. Pensava alla propria vita come a un'avventura aperta, regalava le cose, lo divertiva l'imprevisto, si lasciava trasportare dalle coincidenze favorevoli. Ad esempio, quando aveva incominciato a pensare che gli oggetti che possedeva fossero davvero suoi, in modo inalienabile? E chi lo sapeva più. Si fermò nel tunnel ombroso di arbusti estivi, poggiò a terra la valigetta con il necessario per la notte e lo champagne e si preparò a incontrare gli amici. Le sue mani sembravano bianchissime in quell'oscurità. Se le portò sugli occhi. Si sentiva così congestionato dal passato recente, come uno che abbia un raffreddore. Se solo fosse riuscito a vivere di presente avrebbe potuto tirare il fiato. Ma il presente non mi piace, pensò, e raccolse le sue cose da terra. Rizzandosi vide il profilo di una figura stagliarsi contro il cielo in una
cornice di rose pendule. Thelma lo stava guardando. «Da quanto tempo te ne stai nascosto qui?» gli chiese mentre si baciavano. Non gli riuscì di sfoggiare un tono di voce allegro quando rispose: «Da anni». Per farsi perdonare le mostrò le bottiglie già belle fredde e suggerì di stapparne una subito: l'ultima cosa che aveva voglia di fare. Thelma lo condusse verso la casa. Porta e finestre erano spalancate ad accogliere il sole del tardo pomeriggio. Entrarono in una piccola sala da pranzo il cui pavimento di pietra emanava una freschezza acquosa. Stephen attese qui, mentre Thelma andava a cercare i bicchieri adatti. Sugli scaffali erano sistemate cupole di vetro ospitanti uccelli impagliati e immortalati nel loro habitat. Un gufo bruno affondava gli artigli in un topo impagliato a sua volta. Nella teca quadrata un'otaria stringeva fra i denti un pesce in decomposizione. Stephen appoggiò i gomiti su un vacillante tavolo tondo e si sentì sollevato. Accanto al suo braccio c'era una bottiglia di bourgogne appena stappato. L'odore di carne arrostita e di aglio si mescolava alla fragranza di caprifoglio che gli proveniva dal davanzale della finestra alle sue spalle. In cucina, Thelma stava riempiendo il secchiello del ghiaccio e dal giardino arrivava una bella cacofonia di canti di uccelli. Sedettero sotto un pero a un tavolino di ferro battuto mezzo arrugginito, piazzato su erba non tagliata e circondato da papaveri giganti, bocche di leone e da quelli che Stephen pensava fossero lupini, finché non sentì Thelma chiamarli delphinium. Posò due bicchieri accanto al secchiello del ghiaccio e li riempì. «Charles è nel bosco, da qualche parte. Più tardi dovresti andare a cercarlo». Stephen rabbrividì per l'acidità del vino e pensò a quello rosso che era rimasto in casa. Avrebbe preferito un altro scotch. Essendo troppe le cose di cui discutere, finirono col parlare del giardino. O meglio, Thelma forniva spiegazioni e Stephen annuiva fingendo di capire. Solo quando indicò un mucchio di fiordalisi e le chiese che cosa fossero, le fu chiaro fino in fondo il livello della sua ignoranza. Gli disse che i margini esterni del giardino erano fatti in modo da confondersi, con l'andare del tempo, con le piante selvatiche del bosco perché non esistesse stacco evidente tra i due, e gli spiegò di aver intenzione di conservare i semi dei fiori selvatici per quello che definiva il suo deposito botanico. «Anche le primule sono quasi tutte sparite. Poi sarà la volta dei ranuncoli». «Sta peggiorando tutto, disse Stephen. Non c'è qualcosa che migliori?» «Sei tu quello che vive nel gran mondo là fuori. Dillo tu a me». Ci pensò a lungo. «C'è un progetto di rimboschimento a conifere nel Sussex. Nel giro di vent'anni sarà autosufficiente per quel che riguarda il legname». Ci bevvero su, poi Stephen le chiese del libro. Stavano evitando l'argomento Charles. Il lavoro procedeva bene, disse Thelma; ne aveva scritto un quarto e un altro quarto le era già stato commissionato. Si informò sugli ultimi
sviluppi dei lavori della commissione, il che portò Stephen a riferirle la conversazione avuta con il primo ministro. Thelma non si mostrò affatto sorpresa. «Certo, Charles aveva ottimi appoggi. La cosa era tenuta segreta, anche se non ho mai ben capito perché. Forse per evitare invidie. Anche lì c'era di mezzo un pizzico di infatuazione e di desiderio». «Desiderio?» Si diceva che il primo ministro ne fosse del tutto privo. «Succedono le cose più strane. In politica, Charles poteva passare per un giovanotto, un ragazzo». «È per questo che te lo sei voluto portare via?» Thelma scosse il capo. «Non voglio dirti niente prima che tu lo veda». «Ma è felice?» «Va a vedere tu stesso. Segui il sentiero dall'ingresso della cucina. E quando arrivi alla strada, gira a sinistra. Prima o poi dovresti incontrarlo». Venti minuti dopo si mise in cammino. Un ampio viottolo erboso correva lungo il perimetro del bosco disegnando un ovale impreciso per percorrere il quale, secondo Thelma, si impiegava un'ora. C'erano tratti in cui era possibile scorgere su un lato campi aperti attraverso gli alberi. Altrove, invece, la strada si inoltrava di più nel fitto del bosco, restringendosi fino ad assumere quasi le dimensioni di un sentiero. Qui la luce era poca e l'erba lasciava posto a una qualità di edera che a Stephen non piaceva calpestare perché le foglie affondavano sotto le scarpe con uno sgradevole scoppiettio. L'ultima volta che aveva passeggiato in questi boschi, quando Charles era ancora ministro in carica, era tutto quanto così scheletrico e spoglio. I mutamenti stagionali avvenivano alla lentezza giusta per mantenere l'effetto sorpresa nelle trasformazioni. E in effetti questo posto non sembrava più lo stesso. La siccità non ce l'aveva fatta a raggiungerlo. L'ignoranza di Stephen in materia di alberi e piante accresceva l'impressione della loro abbondanza. Il bosco era esploso, era come congestionato da un tale caos di vegetazione che c'era da temere il soffocamento per l'eccessivo rigoglio. Nel punto in cui il sentiero attraversava un ruscello, un lastrone di pietra, avanzo di un vecchio muro, ospitava una foresta amazzonica in miniatura, una giungla di muschi, licheni fluorescenti e alberi microscopici. Il tutto, sovrastato da piantine rampicanti, fitte come corde, che facevano da filtro alla luce. Sul terreno crescevano cavoli giganti e piante di rabarbaro, fronde di felci e steli ripiegati sotto il peso delle loro corolle. Su un fazzoletto di terra a cielo aperto c'era un mucchio di stravaganti fiori viola e da un altro angolo più ombreggiato provenivano sbuffi di aria odorosa d'aglio che facevano pensare alla cena. Mancava solo un bambino, pensò Stephen, cedendo all'inevitabile. Kate avrebbe scordato l'automobile parcheggiata mezzo miglio prima, i confini del bosco e tutto ciò che ne era al di là; strade, opinioni, governi. Il bosco,
questo ragno piroettante sulla sua tela, il coleottero fermo sul filo d'erba, l'attimo presente, sarebbero stati tutto quel che c'era da sapere. Sentì il bisogno della sua influenza benefica, delle sue lezioni in celebrazioni del dettaglio; come colmare il presente ed esserne colmati fino al punto in cui il concetto di identità svaniva nel nulla. Lui era sempre, in parte, anche altrove, mai completamente concentrato, mai impegnato fino in fondo. Non era quella l'idea nietzschiana di autentica maturità, il raggiungimento della serietà che un bambino ha nel gioco? Una volta lui e Julie avevano portato Kate in Cornovaglia. Si era trattato di una breve vacanza, in occasione del primo concerto pubblico del quartetto d'archi. La spiaggia si raggiungeva percorrendo a piedi due miglia di sentiero. Verso il tardo pomeriggio si erano messi a costruire un castello di sabbia vicino alla battigia. Kate era emozionata. Aveva quell'età in cui tutto deve essere esattamente in un certo modo. Le mura dovevano essere squadrate, ci volevano le finestre, bisognava sistemare delle conchiglie a intervalli regolari tutto intorno e l'area interna doveva essere ricoperta di morbide alghe secche. Stephen e Julie avevano deciso di giocare con la piccola finché non fosse arrivato il momento di andarsene. Avevano fatto il bagno e consumato la colazione al sacco. Ben presto però, e senza che si rendessero conto di ciò che stava accadendo, si erano lasciati coinvolgere, prendere dall'urgenza della bambina e il tempo era diventato per loro nient'altro che la minaccia dell'avvicinarsi della marea. Il trio lavorava in chiassosa armonia, dividendo l'uso di un secchiello e due palette, scambiandosi ordini perentori, dichiarando il proprio favore o la disapprovazione per l'altrui scelta delle conchiglie o la forma delle finestre, e correndo, mai camminando, avanti e indietro per la spiaggia in cerca di materiale nuovo. Quando tutto fu a posto ed ebbero fatto svariati giri di ricognizione intorno al capolavoro, si strinsero dentro le mura e sedettero in attesa della marea. Kate era convinta che il loro castello fosse stato costruito tanto bene da poter resistere al mare. Stephen e Julie l'assecondarono, facendosi beffe dell'acqua quando prese a lambire appena i contorni e scacciandola a fischi quando iniziò a risucchiare i primi pezzi del muro. Mentre aspettavano la rovina finale, Kate, che si era infilata tra loro due, li supplicò di rimanere dentro al castello. Voleva che ne facessero la loro casa. Basta con Londra, sarebbero rimasti per sempre a vivere sulla spiaggia e a giocare questo gioco. Ed era stato più o meno a quel punto che gli adulti avevano rotto l'incantesimo e si erano messi a guardare l'orologio e a parlare di cena e di molti altri impegni. Fecero notare a Kate che tutti e tre dovevano passare da casa a prendere il pigiama e lo spazzolino da denti. Questa le parve un'idea carina e sensata e si lasciò persuadere a riprendere il sentiero e tornare all'automobile. Per
giorni poi, finché la faccenda non fu del tutto dimenticata, continuò a chiedere quando sarebbero andati a vivere nel loro castello di sabbia. Lei aveva detto sul serio. Stephen pensò che se fosse riuscito a far tutto con l'intensità e l'abbandono con cui quella volta aveva aiutato Kate a costruire il castello, sarebbe stato un uomo felice e straordinariamente potente. Raggiunse un punto in cui il viottolo svoltava a gomito verso il centro del bosco e iniziava un lieve avvallamento del terreno. I rami degli alberi, intrecciandosi sul sentiero, formavano un baldacchino attraverso il quale la luce del tardo pomeriggio gettava ombre arancioni sull'erba buia. Dove il viottolo tornava pianeggiante c'era una quercia morta, nient'altro ormai che una colonna di legno marcio. Stephen si trovava a una decina di metri dalla pianta quando un ragazzo ne sbucò da dietro e lo fissò a occhi sgranati. Si fermò anche Stephen. La luce a chiazze si muoveva a ogni soffio di vento. Era difficile mettere bene a fuoco, ma seppe che si trattava proprio del tipo di ragazzo che ai tempi della scuola lo affascinava e terrorizzava insieme. La faccia era pallida e incorniciata da una frangetta biondissima. Lo sguardo, decisamente troppo sicuro, carico di un'impertinenza ben nota. Era un tipo fuori moda, indossava una camicia di flanella grigia con le maniche arrotolate, informi calzoni grigi tenuti su da una cintura elastica a righe con fibbia a forma di serpe d'argento, e aveva ginocchia tutte graffiate. A Stephen vennero in mente certe fotografie di sfollati della seconda guerra mondiale, tutti in fila con i loro maestri su una banchina ferroviaria londinese. «Salve, disse Stephen cordiale, avvicinandosi. Che fai da queste parti?» Il ragazzo si appoggiò all'albero e sollevò una gamba per grattarsi lo stinco con la punta della scarpa consumata. «Non saprei. Aspetto». «Che cosa?» «Te, idiota». «Charles!» Mentre Stephen colmava la distanza che li divideva e stendeva la mano, non era certo che l'altro l'avrebbe accolta. Lo fece; Charles strinse in un abbraccio il collo di Stephen. C'era odore di liquirizia e di terra bagnata. Charles scattò via e attraversò il viottolo. «Vuoi vedere il mio rifugio?» domandò semplicemente mentre gli faceva strada lungo un sentiero costeggiato da felci altissime. Stephen lo seguiva a pochi passi, con lo sguardo fisso sulla fionda che spuntava dalla tasca dell'amico. La pezza di cuoio ondeggiava minacciosa dalle due stringhe di gomma. Superarono una radura dove l'avena selvatica cresceva tra i ceppi e rientrarono in un bosco di maturi alberi giganteschi. Camminavano spediti e a tratti Stephen doveva fare due o tre passi di corsa per recuperare. Charles si esprimeva a frasi affannose e sconnesse, senza voltarsi indietro. Stephen non riusciva ad afferrarle tutte. Pareva che Charles parlasse da solo. «È proprio bello... ci ho
lavorato un'estate intera... ho fatto tutto da me... il mio rifugio...» Stephen ebbe modo di notare che l'amico, in realtà, non era ringiovanito come aveva creduto in un primo tempo. Era solo più agile e più leggero nei movimenti. Si era fatto crescere la frangia e s'era tagliato i capelli corti dietro le orecchie. Erano solo i suoi gesti, ampi e sicuri, la parlata veloce e lo sguardo assorto, quel suo ondeggiare disinvolto, lo svolazzare di gomiti e piedi mentre svoltava in un secondo sentiero, ancora più stretto, oltre all'assenza di ogni rituale formalità di saluto tra adulti, a suggerire l'immagine di un ragazzino di dieci anni. Erano arrivati a un'altra radura, più piccola, nel centro della quale cresceva un albero di dimensioni enormi. Charles cercò fra l'erba e raccolse un sasso. «Lo vedi questo? Lo vedi?» Non avrebbe proseguito finché Stephen non gli avesse risposto che sì, lo vedeva. «È con questo qui che li ho ficcati dentro». Indicò un chiodo lungo una dozzina di centimetri piantato nel tronco a circa mezzo metro da terra, e poi ne indicò un altro sistemato alla stessa distanza più in alto. Ce ne saranno stati dodici in tutto e formavano sull'albero una linea curva che si spingeva su fino al primo ramo, a circa sei metri dal suolo. Trascinò Stephen per un gomito verso una chiazza di erba calpestata ai piedi della pianta. «Lassù, gridò. Guarda, guarda!» Stephen rovesciò il capo all'indietro ma non vide altro che un intrico fitto di rami sempre più sottili. La cima dell'albero non era visibile. «No, no», disse Charles. Prese la testa di Stephen con tutte e due le mani e la piegò ancora più indietro. Tra i rami più alti c'era un puntino nero. «Che cos'è?, domandò Stephen. Un nido?» Aveva detto la cosa giusta. Charles fece un salto. «Non è un nido, scemo. È lui. Il mio rifugio». «Ma no!» Charles si spinse la fionda in tasca. «Pronto?» Piazzò il piede sinistro sul primo chiodo, portò il destro sul secondo e rimase un attimo in posa, tenendosi al terzo piolo con la mano sinistra mentre con la destra rivolgeva ampi gesti all'amico. «È facile. Fai come me». Stephen passò una mano sulla corteccia dell'albero. Si fermò. «Ehi,... che tipo di pianta credi che sia?» «Un faggio, ovviamente. Non lo sapevi? È un gigante, di circa centosessant'anni, direi». Si arrampicò fino a dieci metri d'altezza, poi guardò giù. «Volevo tanto mostrartelo». Dopo essere stato un uomo d'affari e un politico, eccolo ora trasformato in un adolescente di successo. Stephen verificò che il chiodo reggesse il suo peso. Voleva domandare all'amico che gli era successo, ma Charles era troppo preso dal nuovo se stesso, ben lungi dall'aver l'aria di chi è consapevole dell'assurdità della propria metamorfosi, e Stephen non sapeva come affrontare l'argomento. Magari Charles era a uno stadio di psicosi avanzata e doveva essere trattato con molto tatto. D'altra parte, Stephen non potè non lasciarsi influenzare dalla sua eccitazione, dalla sfida che gli lanciava e dall'importanza che il
vecchio amico parve attribuire a questo momento. Non gli andava di sembrare ottuso. Arrampicarsi sugli alberi non era mai stato il suo forte, ma non ci aveva mai messo troppo impegno. Si spinse in su e si ritrovò con entrambi i piedi schiacciati sul secondo piolo. Non era stato granché difficile, ma guardando in basso si spaventò accorgendosi di essere già salito piuttosto in alto. «Non sono certo che questo faccia per me», prese a dire, ma Charles, che ormai era in piedi sul primo ramo con le mani in tasca, gli stava dando istruzioni. «Afferrati con la mano al chiodo sopra di te e solleva il piede, poi prendi l'altro chiodo con la mano libera...» Stephen portò in alto la mano fino a trovare l'appiglio. Un volo di un metro e mezzo poteva anche non essere gran cosa, ma c'era gente che si rompeva l'osso del collo semplicemente cadendo da una sedia. Qualche attimo dopo era sdraiato a faccia in giù sul primo ramo. Era solido quasi quanto il terreno e Stephen vi aderì con tutto il corpo. Poco più in là un tarlo andava incurante per la sua strada. Era nel suo mondo. Charles stava cercando di indicare a Stephen il percorso successivo, ma Stephen non osava guardare in su, né tantomeno in basso. Teneva lo sguardo fisso sul tarlo. «Credo che la prenderò con calma», fu tutto quel che riuscì a dire. Charles gli offri una caramella, ne lanciò una in aria per sé e la raccolse con la bocca, prima di ripartire. L'impresa difficile ora consisteva nel mettersi in piedi, mollando la presa del ramo. Premette il corpo contro il tronco e si tirò su. Il passo successivo era quello di sollevare una gamba quanto bastava a sistemare il piede nella biforcazione formata dal ramo più alto. Dopo di che, fu tutto più semplice. Erano talmente tanti i rami che uscivano dal tronco che gli parve di montare su una scala a chiocciola. Bastava procedere con cautela e senza guardare giù. Trascorse un quarto d'ora piacevolissimo. Questo poteva farlo anche lui, era una cosa che da piccolo non aveva mai fatto, e ora capiva fino in fondo perché gli altri ragazzi ne fossero tanto presi. Si fermò a prendere fiato e guardò verso l'orizzonte. Si trovava ben oltre le cime degli alberi del bosco ceduo. In lontananza si scorgeva la guglia di un campanile e più vicino, a circa un miglio di distanza, parte del tetto a tegole rosse di casa Darke. Si afferrò meglio al tronco dell'albero e guardò dritto ai suoi piedi. Senti una stretta allo stomaco, ma niente di grave. Aveva visto la terra attraverso uno spicchio di spazio aperto e non era neppure terrorizzato. Imbaldanzito, ispirò profondamente, strinse la presa sul tronco e rovesciò il capo indietro. Sperava che avrebbe visto il fondo della capanna ormai vicino. Il suo campo visivo prese a ruotare intorno a un punto centrale mentre qualcosa di caldo e di gelido gli precipitò dallo stomaco
all'intestino. Appoggiò al tronco la guancia e chiuse gli occhi. Macché, neanche così funzionava. Li riaprì e fissò la corteccia. Aveva visto, non osava neppure far mente locale su quella visione, la stessa vertigine interminabile di rami che gli era apparsa da terra, e su su, in alto, appena un lampo delle ginocchia nude di Charles oltre le quali c'erano ancora rami, ancora foglie nel buio e nemmeno l'ombra della piattaforma da raggiungere. Ci mise un minuto a calmarsi. Decise che sarebbe stato meglio tornare a terra. Desiderava assecondare l'amico, ma dopo tutto non aveva senso rischiare la vita. Ed ecco un altro problema. Per trovare l'appoggio sottostante per il piede, doveva guardare giù, cosa che ormai gli pareva impossibile. «Oh, Dio, sussurrò all'albero. E ora che faccio?» Non fece niente. Si mise in ascolto di un suono rassicurante che proveniva da terra. Gli andava bene persino il cinguettio di un uccello. Ma lassù non c'era più niente, neppure il vento. Gli balenò in mente l'idea che era completamente assorbito dall'attimo presente. Del resto, se avesse permesso a un pensiero qualsiasi di distrarlo, sarebbe caduto dall'albero. Poi pensò: basta, non mi va più, voglio fare altro. Tirami fuori, facciamola finita. Udì un suono sopra di lui, ma non guardò in alto. Charles era ridisceso a cercarlo. «Coraggio, Stephen, gli disse, dalla cima la vista è anche meglio». Stephen rispose a stento, per paura che la forza delle parole potesse allontanarlo dall'albero. «Sono bloccato», disse a denti stretti e con la faccia contro la corteccia. «Oh, Cristo, disse Charles comparendogli di fianco. Sei tutto sudato». «Non muoverti così alla svelta», sussurrò Stephen. «È assolutamente sicuro, quest'albero. Sono andato su e giù dozzine di volte, portando assi e altre cose, persino un paio di seggiole». Stephen traballò e Charles lo afferrò per un braccio. L'odore di liquirizia non gli parve rassicurante. «Guarda, lo vedi questo ramo? Metti una mano qui e tirati su finché non riesci a spostare il piede, poi appoggi il peso del corpo al ginocchio e arrivi a questo piolo...» Le istruzioni continuarono. Stephen sapeva di non poter fare altro che obbedire alla lettera. Inutile dire che desiderava scendere, perché qualunque tipo di discussione per lui avrebbe rappresentato la fine. Aveva bisogno di affidarsi a qualcuno. Così si fece strada verso l'alto, sistemando mani e piedi esattamente dove gli si diceva e concentrandosi al massimo per non lasciarsi sfuggire pericolose ambiguità. Un paio di volte lo interruppe anche, «Charles, stai parlando della mia mano destra o della sinistra?» «Della destra, cretino!» Limitava il proprio campo visivo a una mano o un piede. Non sapeva mai con esattezza dove fosse Charles, ma non voleva
guardare. Da qualche parte sulla sua testa, una voce senza corpo continuava a inviargli ordini carichi di disprezzo. «Oh, Dio. Ma non con la mano, imbecille, col piede!» Ci furono attimi durante la salita in cui Stephen penso fra sé: non farò questo per sempre. Un giorno potrò fare qualcos'altro. Ma non ne era sicuro al cento per cento. Sapeva che per adesso non c'era che continuare a salire abbandonandosi alle circostanze. Chissà, un giorno, magari, sarebbe tornato alla sua vecchia vita. Nel frattempo la faccenda era talmente enorme e terrorizzante che non gli riusciva di afferrarne il senso. Infine, venne il momento di issarsi attraverso un foro circolare, su una piattaforma in legno tutta sgangherata. Era un quadrato di circa tre metri di lato e non aveva ringhiere. A tutta prima, riuscì soltanto a stare sdraiato a faccia in giù cercando di ricacciare indietro il singhiozzo che gli saliva dalla gola. «Beh, che ne dici?, continuava a chiedere Charles, insieme a, Vuoi un po' di limonata?» Quando si riprese, Stephen sollevò piano la testa per non scardinare la piattaforma dall'albero, e si guardò attorno. Teneva le palme delle mani premute contro le assi. L'intero bosco si stendeva ai loro piedi e più in là, a cinque miglia di aperta campagna, ecco la cittadina in cui si era fermato arrivando. A ovest, il sole tramontava splendidamente in un turbinio di colore reso anche più bello dalla foschia della Valle del Tamigi, a settanta miglia di distanza. Charles era stravaccato su una sedia da cucina e contemplava con orgoglio il panorama che Stephen stava osservando. La bottiglia di limonata che gli oscillava tra pollice e indice era ormai quasi vuota. Accanto a lui c'era una cassetta arancione con sopra un binocolo, una candela con bugia e una scatola di fiammiferi. Dentro alla cassa, una pila di libri, due terzi dei quali erano manuali di ornitologia, poi varie avventure per ragazzi, qualche Shakespeare e, Stephen notò senza particolare piacere, il suo primo romanzo. Charles indicò un'altra sedia, ma Stephen non desiderava aggiungerci il proprio peso. Si mise invece più comodo allontanandosi un poco dal foro attraverso il quale erano passati. Dal momento che l'amico aveva l'aria di aspettarsi qualcosa da lui, disse finalmente: «È molto bello. Un bel lavoro». Charles passò la bottiglia a Stephen che, per dimostrare la propria disponibilità di ospite, ne bevve un gran sorso. La bocca gli si riempì di un liquido salato e un sapore simile a quello del sangue, solo più freddo e più denso. Il buon senso gli disse che non doveva sputare. Ingoiò a forza facendo attenzione a non lasciarsi prendere dai conati di vomito, perché aveva notato un'asse smossa ai suoi piedi. Charles si scolò il resto della bottiglia. «L'ho fatta io, disse ficcando la bottiglia tra i libri. Vuoi sapere che ci ho messo?» Il pensiero che aveva terrorizzato Stephen salendo tornò a ossessionarlo.
Bisognava scendere. «Dimmi, rispose in fretta, con voce resa più acuta dalla nausea e dalla paura, perché ti comporti come un ragazzino. Che stiamo facendo quassù?» Per un istante Charles rimase chinato sulla cassetta arancione, forse a riordinare i suoi libri. Stephen non lo vedeva bene. Aveva detto proprio la cosa sbagliata? Dipendeva dall'aiuto di Charles in questo momento ed era essenziale non dire nulla che potesse offenderlo, almeno finché non fossero stati a terra di nuovo. Charles venne a inginocchiarsi vicino a lui. Sorrideva. «Vuoi vedere che cos'ho nelle tasche?» Ne uscì per prima la fionda. La cacciò in mano a Stephen. «È di legno di noce. Il migliore». Seguì una lente d'ingrandimento, una vertebra di pecora e un coltello a serramanico con una dozzina di accessori. Mentre Charles li faceva scattare a uno a uno spiegandone la funzione, Stephen osservava attentamente l'amico cercando nella sua espressione segni di ironia, di consapevolezza, tracce della persona adulta. Ma la voce era pacata e il viso concentrato su ogni dettaglio. Dal fondo di un sacchetto di carta uscirono vecchi scherzi di carnevale, un guscio di lumaca più grande del solito, una conchiglia vuota e delle biglie. Quella che Charles mise in mano a Stephen era grande e color latte. Per mostrare interesse, Stephen domandò: «E questa, dove l'hai presa?» La risposta fu pronta e insolente. «L'ho vinta», e a Stephen passò la voglia di chiedere dove. C'era un cuscinetto a sfere, una bussola giocattolo, un pezzo di corda e due bossoli vuoti, un amo da pesca infilato in un sughero, una piuma e due ciottoli ovali. Osservando tutti questi articoli sparpagliati davanti a lui sulle assi di legno e non sapendo che altro dire, Stephen fu colpito dalla ricerca meticolosa di cui gli parvero frutto. Era come se il suo amico avesse perlustrato biblioteche e consultato con metodo le massime autorità per scoprire che cosa esattamente un certo tipo di ragazzo poteva tenere in tasca. Il risultato era troppo preciso per essere convincente, mancava di un pizzico di contraddizione, puzzava di inganno. Per un attimo, l'imbarazzo ebbe la meglio sulle vertigini. E poi, dove si era mai visto un ragazzino disposto a mostrare il contenuto delle proprie tasche? Stephen guardò lontano, verso occidente. La luminosità si andava velando in una luce più densa. Le foglie di alcuni rami sopra le loro teste ebbero un fremito. Era paralizzato nella ricerca di qualcosa da dire. Non poteva più tollerare di assecondare questo scolaretto quarantanovenne e, d'altra parte, non osava contraddirlo. Alla fine disse: «Sei felice, Charles?» Charles si stava rimettendo in tasca il suo tesoro più o meno nell'ordine in cui lo aveva tirato fuori. Terminò l'operazione, si alzò in piedi e fece un gesto ampio con il braccio. Stephen si accucciò sulle assi, tentando di rinsaldarle con le mani. «Guarda!
È fantastico! Tu non capisci! È fantastico!» «Vuoi dire il panorama?» «No, stupido. Guarda...» Aveva estratto la fionda dalla tasca e stava sistemando un ciottolo nella pezza di gomma. «Stai a vedere». Si mise di faccia al tramonto e tirò indietro la fionda oltre la testa, finché le cinghie non gli si fecero lunghe come le braccia tese. Tenne questa posizione per parecchi secondi, forse con l'intento di impressionare l'amico. L'aria tutto intorno si tese, e Stephen provò una certa fatica a respirare. Poi, con una sferzata di gomma contro il legno e un breve sibilo acuto, il sasso sfrecciò dalla piattaforma e salì in alto lontano da loro, assumendo per un istante una precisa forma nera contro il cielo rosso. Era scomparso alla vista ancor prima di incominciare a cadere. Stephen immaginò che avesse sorvolato il bosco e fosse atterrato nel primo campo, un quarto di miglio più in là. «Bel colpo», esclamò entusiasta. Si domandò se era il caso di ricordargli che si stava facendo buio. Charles aveva le mani sui fianchi e stava ancora guardando in direzione della traiettoria del sasso quando tra gli alberi salì fino a loro il suono debole di una scampanellata. «È la cena», disse, dirigendosi verso il foro da cui si calò. Quando riprese a parlare solo la testa spuntava ancora fuori dalle assi. Era difficile stabilire se quelle frasi stentate fossero estremamente artefatte o non invece un'abitudine ormai acquisita. «Devi soltanto... beh, il problema è mollare, tutto lì...» Stephen era talmente assorto, tanto nauseato dalla paura quando si diresse carponi verso il foro, che pensò che l'amico stesse parlando di tecnica di lancio con la fionda. Raggiunse l'orlo del buco e vi si accucciò disperato. Gli tremavano le mani e la limonata gli andava su e giù per la gola. Charles scese di un altro metro e si fermò. Rideva così tanto che per poco non mollò la presa. Alla fine si raddrizzò, si asciugò gli occhi, diede una sbirciatina a Stephen e rise di nuovo. «Ora fai esattamente come ti dico io, se non vuoi rimetterci la pelle». Giunto alla sera di un giorno in cui poco mancava che distruggesse un'auto, aveva visto un uomo a un passo dalla morte, era stato aggredito da un gruppo di vagabondi e quasi quasi precipitava da un albero, Stephen sentiva il bisogno di un bagno calcio. Thelma disse che aveva delle cose da leggere e non le dispiaceva rimandare un poco la cena. Stephen si allungò in una grande vasca vittoriana incassata sotto il soffitto spiovente del bagno degli ospiti. Aveva la testa vuota di riflessioni e ricordi. Pensava soltanto alle crestine concentriche sull'acqua, minuscole onde d'urto prodotte dal suo battito cardiaco. Le rotule gli
stavano dinanzi come promontori affioranti in un mare di vapore. La pelle delle dita gli si andava raggrinzendo. Chiuse gli occhi e sonnecchiò, sollevandosi di quando in quando per aprire col piede il rubinetto dell'acqua calda. Quando finalmente comparve al piano di sotto, Thelma stava leggendo una rivista di fisica. Aveva i gomiti appoggiati sul tavolo da pranzo, apparecchiato solo per due. Porta e finestre erano ancora aperte, ormai su un'oscurità fitta e sul chiasso dei grilli. Mentre andava in cucina a prendere i piatti Thelma spiegò che Charles aveva già mangiato ed era andato a letto e che di solito si addormentava entro le nove. «È rimasto alzato fino a tardi per te». Quest'ultima frase avrebbe dovuto dare l'avvio a una serie di domande da parte di Stephen e a un discorso sulla regressione di Charles. E invece Stephen fu lieto che Thelma gli passasse il coltello chiedendogli di affettare l'arrosto. Parlarono del modo migliore per cucinare l'agnello. Thelma era di buon umore. Settimane d'aria pura, lunghi pomeriggi passati a occuparsi del giardino e la possibilità di dedicarsi a ciò che voleva, l'avevano resa euforica. I suoi piedi nudi producevano sul pavimento di pietra un suono gradevole mentre lei andava avanti e indietro dalla cucina alla sala da pranzo con l'insalata, le patate e le bottiglie dell'olio e dell'aceto. Indossava una camicia da uomo senza collo infilata dentro la gonna. Aveva un filo di grani di legno dipinto che avrebbero potuto arrivare da un negozio di giocattoli. Portava ancora la crocchia da scienziata bassa sulla nuca. C'era fra loro qualcosa dell'antico spirito di complicità. Era bello vivere in aperta campagna e ricevere la visita di un amico. E soprattutto, il comportamento di Charles li faceva sentire vicini, più liberi. Thelma non doveva più tirare avanti tenendo il segreto tutto per sé. Versò del bourgogne nei bicchieri. C'era nell'aria una generosità sfrenata e, mentre beveva un gran sorso di vino ormai tiepido per essere rimasto fuori a lungo, Stephen si pentì dei propri sospetti iniziali. Se solo avesse saputo che cosa desiderava per sé, che cosa voleva essere, sarebbe stato libero di realizzarlo. Erano a tavola da un quarto d'ora quando Stephen si accinse a tener fede a una decisione presa alcune settimane prima e riferì la sua esperienza nel Kent. Verso la fine del racconto aggiunse un'immagine di sé su una poltrona accanto al fuoco, nel cottage di Julie. Thelma era stata irritata dalla loro separazione; diceva sempre che avrebbe avuto voglia di farli ragionare a zuccate. E Stephen non se la sentì di incoraggiarla con la descrizione della loro irresponsabile e momentanea intimità. Per tutto il resto, rimase fedele ai dettagli, al senso di intrusione di un giorno già vissuto, alla familiarità del posto, le biciclette appoggiate insieme fuori del pub, e si dilungò nella spiegazione di quanto gli fossero sembrate di foggia antica, il suo
riconoscere la giovane coppia seduta al tavolo, i gesti noti di suo padre, il modo in cui sua madre aveva guardato nella sua direzione ignorandolo, come se lui non ci fosse, e la sensazione di mancamento quando si era rimesso sulla strada, quel precipitare in una specie di gorgo. Thelma ascoltava senza smettere di mangiare, e quando lui ebbe finito seguitò a pulire il piatto prima di chiedergli che cosa fosse accaduto prima e dopo quell'esperienza, che cosa avesse pensato. Stephen descrisse il viaggio in treno, che ricordava male, e disse di aver pensato probabilmente ai lavori della commissione. E dopo? Ma quello che era successo dopo non riguardava più Thelma. Disse che lui e Julie avevano parlato del più e del meno, bevuto un mucchio di tè e mangiato la torta di Julie. Poi era tornato a piedi alla stazione, aveva preso il suo treno e cenato a casa di amici. «E a quale conclusione sei giunto in proposito?» disse Thelma versando altro vino. Stephen scosse il capo e rispose che in quel modo era venuto a sapere che i suoi genitori avevano posseduto due biciclette nuove, una volta. «Se lo ricordano il pub?» «Mia madre no. E mio padre non ricorda neppure le biciclette». «Ma non gliel'hai raccontata per bene la cosa?» «No. Non volevo. Mi pareva di spiare una loro conversazione importante». «Magari stavano parlando di te». «Può darsi». «E ancora non mi hai detto che conclusione ne hai tratto», disse Thelma. «Non lo so. Di sicuro ha a che fare col tempo, con la possibilità di vedere qualcosa fuori del tempo. E dal momento che tu hai tutte queste teorie...» Thelma applaudi. «Te ne vai in campagna e hai una visione, un'allucinazione o quel che diavolo è stato, e che fai? Consulti un esperto, ovviamente! Niente meno che uno scienziato. Eccoti qui a capo chino di fronte all'oracolo che in cuor tuo disprezzi. Allora perché non vai a chiedere a un modernista?» Ma Stephen era abituato a questo genere di reazione. «Piantala, Thelma. Ammetti che muori dalla voglia di tenermi una bella lezione. Ti mancano i tuoi studenti, anche quelli più idioti. Sentiamo. Qual è la condizione dell'arte nel tempo?» A dispetto del buon umore, Thelma non sembrava nella disposizione d'animo adatta a offrire i soliti consigli. Forse sospettava in lui una certa pigrizia mentale o forse voleva conservare le idee per il suo libro. Almeno all'inizio, ebbe un tono sbrigativo e un po' brusco. Fu solo in seguito che si infervorò. «Al giorno d'oggi le teorie te le trovi al supermercato. Puoi scegliere quella che vuoi. Sono già bell'è scritte per l'uomo della strada su una quantità di manuali del tipo "Strano ma vero". C'è chi dice che il mondo divide ogni minima frazione di secondo in un infinito numero di versioni possibili in
costante ramificazione e proliferazione e che la coscienza ha il compito di farsi strada e creare l'illusione di una realtà stabile». «Questa me l'hai già detta una volta, commentò Stephen. Ci rifletto sovente». «Per come la vedo io, tanto vale affidarsi a un vecchio con la barba bianca che sta nei cieli. Poi ci sono i fisici che trovano comodo definire il tempo come una specie di materia, un'efflorescenza di particelle invisibili. E ci sono dozzine di altre teorie, altrettanto assurde, che tentano di eliminare qualche piegolina negli angoli della teoria quantistica. I matematici risultano abbastanza ragionevoli finché non escono dal loro campo, ma per il resto, quando si arriva alla teorizzazione alla grande, è un vero disastro. Ne vengono fuori cose goffe e perverse. In ogni caso, qualunque cosa sia il tempo, la versione che ne fornisce il buon senso, e cioè di qualcosa di lineare, regolare, assoluto, che procede da sinistra a destra, dal passato al presente al futuro, o è una stupidaggine o una minuscola frazione di verità. Lo sappiamo per esperienza. Un'ora può sembrarci un minuto o una settimana. Il tempo cambia. Lo sappiamo da Einstein, che in questo ambito resta il nostro punto di riferimento. Nella teoria della relatività, il tempo dipende dalla velocità dell'osservatore. Avvenimenti simultanei per qualcuno, possono apparire conseguenti per qualcun altro. Non esiste un «adesso» assoluto, universalmente accettato; ma tutto questo lo sai». «Mi diventa più chiaro ogni volta». «Esistono corpi opachi dotati di enormi campi gravitazionali, o buchi neri, in cui il tempo può fermarsi di colpo. Il balenare di certe particelle nella camera di Wilson può essere spiegato solo con il movimento a ritroso del tempo. Nella teoria del Big Bang, si pensa che il tempo sia stato creato insieme alla materia e ne sia inseparabile. E anche questo fa parte del problema; per considerare il tempo come entità, siamo costretti a separarlo dallo spazio e dalla materia, dobbiamo distorcerlo, per osservarlo. Ho sentito dire che la struttura stessa del cervello limita la nostra comprensione del tempo esattamente come ci permette di percepire soltanto tre dimensioni nello spazio. Ma questo mi pare frutto di un materialismo piuttosto vago, oltre che pessimistico. È vero però che dobbiamo restare legati a dei modelli, il tempo come massa fluida, il tempo come complicata sacca con punti di contatto tra i vari momenti». Stephen ebbe un ricordo che risaliva ai tempi della prima media: Il tempo presente e il tempo passato Son forse presenti entrambi nel tempo futuro. E il tempo futuro è contenuto nel tempo passato.
T. S. Eliot, Quattro quartetti, trad. it. di F. Donini, Garzanti, Milano 1982 «Ecco, vedi, anche i tuoi modernisti tornano utili qualche volta. Non posso aiutarti con le tue allucinazioni, Stephen. Di sicuro non può aiutarti la fisica. È ancora una materia controversa. I due grandi pilastri gemelli sono la teoria della relatività e quella dei quanti. Per una, l'universo è qualcosa di casuale e continuo, per l'altra è discontinuo e non casuale. È possibile riconciliarle? Einstein non ce l'ha fatta. Io sto dalla parte degli ottimisti, come il mio collega David Bohm che ipotizza un ordine teorico superiore». Fu a questo punto che Thelma si accalorò e Stephen riuscì a seguire sempre meno. La prospettiva era così invitante: un lucido resoconto di ciò che alcune tra le migliori menti contemporanee pensavano riguardo alla sfuggente, eterna questione del tempo, di ciò che stavano dimostrando in laboratorio e negli acceleratori giganti. Era la promessa di una sfida lanciata al paradosso e di una conferma, un «rendere ufficiali» le proprie personali intuizioni. A frustrare la speranza erano autentiche difficoltà, la sensazione vergognosa di scontrarsi con i limiti del proprio intelletto. Da principio Thelma si mostrò paziente e lui ce la mise tutta. Poi, piano piano, iniziò a lasciarlo indietro e a parlare della funzione di Green, di algebra fermionica e di Clifford, di matrici e numeri ipercomplessi. E presto abbandonò ogni pretesa di comunicazione. Si rivolgeva a un collega, un inesistente compagno spirituale. I suoi occhi si allontanarono dallo sguardo di Stephen e fissarono un punto a qualche passo da lui mentre le sue parole si trasformavano in un torrente incontenibile. Parlava a beneficio di se stessa, da invasata. Citò le funzioni di Eigen e gli operatori Hermitiani, il moto di Brown e il potenziale quantistico, la parentesi di Poisson e la disuguaglianza di Schwartz. Aveva seguito anche lei le orme di Charles? Stephen la osservava allarmato, incerto se allungare una mano e toccarla, cercando di riportarla coi piedi per terra. Ma pensò che dovesse sfogarsi, raccontare la sua storia di fermioni, disordini e flussi. E in effetti Thelma si riprese, e nel giro di un quarto d'ora sembrò tornare ad accorgersi di lui. La sua voce perse quell'intensità monocorde e gli argomenti furono ancora una volta concetti generali che anche Stephen riusciva a capire. Desiderava fargli condividere il suo entusiasmo e gli anticipò che nell'arco di cento o cinquantanni, se non meno, avrebbe potuto prendere forma una teoria o una serie di principi tali da trasformare la teoria della relatività e quella quantistica in mere eccezioni. Il nuovo sistema teorico avrebbe fatto riferimento a un ordine superiore di realtà, a un campo più vasto, sconfinato, un tutto unico in cui la materia, lo spazio, il tempo e la coscienza stessa avrebbero stabilito complicati rapporti, reciproche invasioni che costituiscono la realtà come noi la intendiamo. Non era del tutto
assurdo supporre che un giorno un'analisi fisica e matematica sarebbe riuscita a descrivere il genere di esperienza riferito da Stephen. Partendo da un più vasto campo di conoscenza si sarebbero potuti ipotizzare tipi di tempo diverso, non solo quello lineare, conseguenziale del senso comune; la coscienza stessa allora sarebbe divenuta funzione, caso particolare inseparabile dalla materia o dallo spazio in cui si manifesta. Thelma stava versando il poco vino rimasto nel bicchiere di Stephen. Quando la scienza fosse riuscita ad abbandonare l'illusione di oggettività per prendere sul serio l'indivisibilità dell'universo e trovare un adeguato linguaggio matematico per esprimerla, quando avesse iniziato a prendere in considerazione l'esperienza soggettiva, allora, da ragazzino promettente avrebbe potuto avviarsi a diventare una donna piena di saggezza. «Pensa quanto più umani e avvicinabili sarebbero gli scienziati se potessero partecipare ai discorsi davvero importanti sul tempo, senza pensare di dover avere l'ultima parola al riguardo: l'esperienza di eternità del mistico, l'attimo di adempimento e di redenzione del cristiano, l'annientamento del tempo del sonno profondo, i complicati schemi temporali di romanzieri, poeti, sognatori; il tempo immutevole, infinito dell'infanzia». Stephen sapeva che ciò che stava ascoltando era una parte del libro di Thelma... «Il tempo lentissimo della paura», aggiunse all'elenco, e raccontò la storia del suo recente incidente e come avesse liberato il guidatore dell'autocarro. Da quel momento la conversazione divagò stancamente e non fu che verso la fine della serata che Thelma tornò sull'allucinazione di Stephen, come avevano stabilito di chiamarla. «Devi scusare le mie declamazioni. È quel che succede a vivere da soli in campagna con i propri pensieri come unica compagnia. Non ti occorre la fisica per spiegare quello che ti è successo. Forse aveva proprio ragione Niels Bohr, quando affermava che gli scienziati non dovrebbero mai occuparsi di realtà. Il loro compito è quello di inventare modelli che giustifichino le loro osservazioni». Faceva il giro della stanza spegnendo lampade e chiudendo finestre. Stephen la osservava con attenzione. Quell'accenno alla solitudine gli echeggiò a lungo nelle orecchie. Fu accesa una luce centrale, più cruda. Thelma appariva stanca, un po' curva. «Ma non è quello che facciamo tutti?, disse Stephen mentre salivano le scale. Non è questo, in fondo, la realtà?» Lo sfiorò con un braccio. Sentì le sue labbra asciutte contro la guancia, e il calore emanato dal viso di lei. Poi gli volse la schiena e proseguì lungo il corridoio, diretta alla stanza da letto che, come Stephen notò soffermandosi sulla porta della sua, non era quella del marito. Il mattino dopo dormì fino a tardi e fu svegliato dall'inconsueto chiasso
degli uccelli. Rimase disteso una mezz'ora, durante la quale prese la decisione di tornare a Londra. A due anni e mezzo di distanza, ancora si sentiva inquieto al pensiero di essere lontano mentre Kate, o qualcuno che sapeva dove fosse, poteva andarlo a cercare all'appartamento. Del resto, non gli andava di trascorrere una giornata nei boschi con Charles. Ne aveva avuto abbastanza del giorno prima. Adesso, aveva voglia di un divano davanti alla Tv e del suo caos rassicurante tutto intorno. Andò da basso e uscì nella luce accecante del giardino. Thelma era seduta all'ombra e leggeva un libro. Charles era partito presto per il bosco e lo aspettava là, vicino all'albero-rifugio. Quando espose i propri progetti, Thelma non cercò di convincerlo a rimanere. Bevvero insieme una tazza di caffè, poi lei gli fece strada nel tunnel di verde fermandosi un momento a contemplare l'assenza della maniglia divelta e dello specchietto esterno. Stephen aprì la portiera sul lato del passeggero, ma non entrò. Attorno a loro, fra le ortiche, c'era un ronzio irrequieto di insetti. Thelma aveva fatto il giro dell'auto e si trovava accanto alla portiera del guidatore. Sorrise al di sopra del tettuccio luccicante. «Ma sì, dillo pure. È completamente impazzito». «Beh, sei tu che lo dici». «Sai, se fossimo rimasti, sarebbe stato peggio. Non si tratta precisamente di una cosa improvvisa. Sono anni che andiamo avanti. Perché credi sia stato tanto entusiasta del tuo primo libro?» Stephen scosse la testa. Indossava un abito di lino fresco di tintoria e una camicia bianca pulita. Aveva in mano le chiavi dell'auto e, nella tasca interna, il portafogli: gli emblemi dell'età matura. La prospettiva di un viaggio solitario lo allettava. Ciò che la sera prima gli era parso sfrenato e liberatorio nelle fantasie di Charles, ora appariva soltanto sciocco, qualcosa da cui riprendersi quanto prima. Il cinghietto metallico dell'orologio gli stava tirando i peli del polso. Se lo riaggiustò e si decise a infilarsi in macchina. Thelma sollevò un dito con aria di ammonimento. «Ora non fare la persona educata con me». Stephen scivolò al posto di guida e inserì la chiave. Gli si rivolse attraverso il finestrino abbassato. «È felice». «Lo vedo. E tu?» «Io lavoro». «E sei sola». Thelma sporse le labbra in avanti e distolse lo sguardo. Stephen era irritato con i suoi amici. Erano sempre riusciti ad essere interessanti e affidabili insieme. E, adesso, guarda il pasticcio che andavano combinando. Thelma infilò una mano nell'auto e gli carezzò il braccio. «Cerca di essere dolce, Stephen. ..» Lui annuì velocemente e mise in moto.
Capitolo sesto Coloro che trovano particolarmente arduo l'esercizio dell'autorità sui figli dovrebbero prendere in seria considerazione l'uso sistematico di piccole ricompense. Una sollecita obbedienza all'ora di andare a letto, ad esempio, val bene la promessa di un pezzetto di cioccolata e il danno marginale arrecato a una dentatura che presto sarà comunque sostituita. In passato, si è preteso troppo dai genitori, incoraggiandoli ad inculcare l'altruismo nei loro figli a tutti i costi. Dopotutto, gli incentivi sono alla base della nostra struttura economica e naturalmente plasmano il nostro concetto di etica; non c'è ragione al mondo per cui un bambino bene educato non dovrebbe usufruire di uno stimolo in più. Manuale per l'educazione del bambino, HMSO Infine, a settembre avanzato, la pioggia arrivò sotto forma di burrasche che in meno di una settimana spogliarono gli alberi quasi del tutto. Le foglie si ammassarono nei tombini otturandoli; certe strade si trasformarono in fiumi navigabili, coppie di anziani dovettero essere estratte da appartamenti nei sottoscala da vigili del fuoco in stivaloni impermeabili, e, almeno in Tv, aleggiò la generale sensazione di un'emozionante piccola catastrofe. Esperti del servizio meteorologico tentarono di spiegare come mai non ci fosse stato l'autunno, e si fosse passati dall'estate della settimana precedente, all'inverno di questa. Non mancavano certo le teorie confortanti in proposito: l'incombente glaciazione, lo scioglimento delle calotte polari, l'impoverimento dello strato di ozono causato dai fluoro-carburi, l'agonia del sistema solare. Da baracche urbane di cui nessuno conosceva l'esistenza comparvero militari armati di pompe per servizi pesanti. Un elicottero dell'esercito fu ripreso nell'atto di mettere in salvo un ragazzino rimasto bloccato su un albero e, nel corso dei notiziari televisivi, capi di polizia e comandanti dell'esercito indicavano con una bacchetta dei punti sulle carte geografiche. Si vide il segretario degli Interni, l'ex capo di Charles, andare a visitare le aree maggiormente colpite. L'ufficio stampa del gabinetto dichiarò che il primo ministro si stava occupando della faccenda personalmente. Era opinione diffusa e ragionevole che il tempo stesse rendendo un buon servizio al governo, perché se era vero che nessuno sapeva come fermare la pioggia, era anche innegabile che ci si stesse dando da fare. Piovve per cinquanta giorni di seguito. Poi smise, la vita riprese il suo corso normale e mancava ormai poco a Natale. Il clima ebbe scarsi effetti sul torpore di Stephen. Le Olimpiadi gli avevano lasciato in eredità il gusto per la televisione di mattina e pomeriggio. Era
iniziato un nuovo programma quotidiano sponsorizzato dal governo e specializzato in giochi e dibattiti, pubblicità e telefonate in studio. Stephen, stravaccato in pigiama e cardigan pesante sul divano, e con la bottiglia dello scotch, si guardava con la pazienza appannata del videodipendente tutti i giochi a premi. In un angolo della stanza un secchiello da ghiaccio raccoglieva le gocce che colavano dal soffitto. I presentatori dei vari programmi si assomigliavano al punto che Stephen aveva finito con l'appassionarsi. Erano seri professionisti, impegnati a svolgere il loro lavoro al servizio dell'ordine, all'interno di una convenzione le cui formali censure venivano di quando in quando smascherate in cinici commenti ad alta voce. E gli piacevano anche quelle fragili coppie tenerissime che ricevevano caldi benvenuti in palcoscenico e si tenevano sempre per mano, le bizzarre fanfare e gli squilli di tromba che annunciavano il disgelamento di un congelatore famigliare, le vallette seminude con i loro coraggiosi sorrisi immutabili. Gli spettatori, al contrario, gli procuravano attacchi di misantropia delirante. Sarà stato lo zelo mansueto con cui si sforzavano di compiacere il presentatore e di mostrarsi a loro volta appagati, la prontezza nell'applaudire, fare il tifo a comando o sventolare bandierine di plastica con lo slogan della trasmissione; sarà stata la facilità con cui era possibile pilotarne gli umori, un attimo divertiti fino all'entusiasmo e l'attimo dopo seri e pacati, ora impertinenti ora un po' sentimentali e nostalgici, imbarazzati, mortificati da un'arringa del loro ospite e poi di nuovo allegrissimi. Le facce accecate dalle luci dei riflettori erano quelle di adulti, padri e madri di famiglia, lavoratori, ma le ampie espressioni ingenue parevano quelle di bimbi che osservino l'esibizione di un prestigiatore a una festa privata. Quando il presentatore scendeva in mezzo a loro e li chiamava per nome, scherzava, li lusingava, venivano invasi da una sorta di sacro timore reverenziale. Te ne dà abbastanza Henry? Da mangiare, si intende. Eh? Eh? Avanti, coraggio, diccelo. Te ne dà abbastanza? Ed eccolo lì, Henry: un uomo canuto con tanto di lenti bifocali, uno che, con un abito di taglio migliore, avrebbe potuto passare per un capo di stato; eccolo lì a sghignazzare guardando significativamente la moglie per poi affondare la faccia fra le mani mentre intorno a lui tutti scoppiavano a ridere e applaudivano. Come poteva sorprendere che il mondo fosse in mano a degli imbecilli quando queste anime invertebrate potevano accostarsi alle urne? La «gente comune», espressione usatissima dai presentatori era questa: infanti che non desideravano altro che sapere quando dovevano ridere. Stephen rovesciò la bottiglia e bevve: era pronto a negare il diritto di voto a tutti quanti. Anzi, di più, li voleva puniti, bastonati a dovere, ma no, torturati. Come osavano essere dei bambini! Era anche disposto, da quell'individuo ragionevole e tollerante che era, ad ascoltare qualcuno che
gli spiegasse esattamente a che cosa serviva tutta quella gente, per quale motivo si dovesse permettere loro di seguitare a vivere. Per Stephen questi attacchi, osceni sfoghi di un uomo per altro democratico rappresentavano la più gradevole degradazione di cui avesse memoria. Raggiungevano il loro livello più alto poco prima che decidesse di farsi tornare alla mente quella volta in cui i suoi genitori, insieme con la sorella di sua madre Phyllida, suo marito Frank e la figlia già cresciuta, Tracy, avevano fatto parte del pubblico in uno studio televisivo traendone la massima soddisfazione. Se ne erano tornati tutti a casa con tanto di medaglione con su inciso il profilo del conduttore della trasmissione, incoronato d'alloro come un imperatore e, sull'altro lato, due mani che si stringevano in segno di amicizia. Intanto, poteva essere venuto il momento di alzarsi per andare a svuotare il secchiello dell'acqua, di prepararsi un panino o qualcosa da bere in cucina o di starsene un po' alla finestra aperta a osservare lo spettacolo della via allagata. Aveva una rosa di pensieri fissi che lo inchiodavano lì, ma c'era sempre la televisione cui fare ritorno quando si stancava di analizzarli. La lunga interruzione dei lavori alla commissione Parmenter sarebbe durata quasi un mese ancora e Stephen era seccato di scoprire quanto gli mancassero quegli incontri settimanali che garantivano una struttura ordinata alle sue riflessioni. Lo infastidiva il fatto di non avere notizie di Julie e di non riuscire a scriverle senza lasciar trapelare il proprio risentimento. Benché ne avesse la più ferma intenzione, non era mai più andato a trovare i suoi genitori. Se pensava a Charles lo faceva solo con irritazione. Ma ad assorbirlo più di tutto ciò era il pensiero del compleanno di Kate. La prossima settimana, dovunque si trovasse, Kate avrebbe compiuto sei anni. Da giorni ormai sentiva il desiderio di fare un salto al negozio di giocattoli, a una decina di minuti a piedi dall'appartamento. Un'idea ridicola. Una sorta di parodia del lutto. La sofferenza volontaria che ne derivava lo faceva gemere ad alta voce. Si sarebbe trattato di una recita, la messa in scena di una follia non autentica. Intanto però il pensiero si faceva più insistente. Si trovava magari a passeggiare in quella direzione e immaginava il genere di cose che avrebbe comprato. Era pazzia, debolezza, gli avrebbe procurato un inutile dolore. Ma il pensiero continuava a crescere e una mattina, all'edicola, prese un rotolo di carta colorata da pacchi e la porse al commesso prima di avere il tempo di cambiare idea. L'acquisto di un giocattolo avrebbe distrutto due anni di adattamenti, sarebbe stato irrazionale, malato, autolesionistico e debole, soprattutto debole. Di quella debolezza che impedisce di conservare la linea di confine tra il mondo com'è e come si desidera che sia. Non essere debole, si ripeteva, cerca di sopravvivere. Butta via quella carta, non franare nelle
fantasticherie, non prendere quella china. Potresti non tornare più indietro. E resisteva, ma non poteva impedirsi di desiderarlo. La solitudine aveva aumentato in lui la tendenza alla superstizione, alle interpretazioni magiche della realtà. Le pratiche superstiziose avevano finito con l'aderire ai cerimoniali quotidiani e, nel costante silenzio della compagnia di se stesso, si erano fatte sempre più rigorose. Si sbarbava sempre prima la guancia sinistra, non incominciava mai a lavarsi i denti se non aveva rimesso il tappo al tubetto del dentifricio, azionava lo sciacquone del water con la mano sinistra benché gli fosse scomodo e, ultimamente, faceva attenzione a poggiare entrambi i piedi a terra scendendo dal letto. Tale struttura magica del pensiero trovò modo di razionalizzare una visita al negozio di giocattoli. Prima di tutto, avrebbe rappresentato un atto di fede nella sopravvivenza della sua bambina. Dal momento che di sicuro lei non avrebbe celebrato quel giorno, sarebbe stato come riconfermare la sua precedente esistenza e reale discendenza, ribadire la verità circa la sua nascita: chissà quante bugie le avevano raccontato a questo proposito. L'osservanza di un mistero avrebbe scatenato ignote combinazioni del tempo e del caso, i numeri magici delle date di nascita si sarebbero messi in funzione producendo una serie di avvenimenti che, altrimenti, non si sarebbero mai realizzati. Comprando un regalo avrebbe dimostrato di non essersi ancora dato per vinto, di potere ancora mettere in atto qualcosa di sorprendente e di vivo. Lo avrebbe fatto con gioia anziché con dolore, nello spirito di un'affettuosa stravaganza e, portandolo a casa per impacchettarlo, avrebbe celebrato un'offerta al fato, o lanciato una sfida al destino: ecco qui, io ho portato il regalo, ora voi riportatemi la bambina. Se l'acquisto gli avesse procurato della sofferenza, sarebbe stata quella necessaria alla realizzazione di un sacrificio. Dopo aver esaurito tutte le possibilità sul piano materiale, battendo a tappeto le strade, pubblicando sui giornali locali inserzioni nelle quali offriva generose ricompense in cambio di informazioni, incollando ingrandimenti fotografici alle fermate degli autobus e sui muri, ormai aveva solo più senso agire a livello simbolico e oracolare, unirsi a quelle forze sconosciute che regolano le leggi delle probabilità, che distribuiscono gli atomi rendendo solidi i corpi solidi, che mettono in atto gli avvenimenti fisici e compiono i personali destini di tutti gli individui. Del resto, che cosa aveva da perdere? Il negozio di giocattoli occupava i locali di un ex magazzino ed era stato allestito nello stile di un supermercato. Lo percorrevano tre ampi corridoi illuminati da lampade al neon e all'ingresso c'era una fila di casse con carrelli metallici e cestini di plastica accatastati accanto. Il pavimento era in gomma elastica nera dalla quale emanava l'odore della tipica efficienza da palestra. Sulla parete era stato affisso un cartello sul quale, in pennarello
fluorescente e imitando una grafia infantile, si ricordava ai clienti che eventuali danni agli articoli esposti dovevano essere rimborsati alla direzione. Dagli altoparlanti sospesi al soffitto oltre le lampade proveniva il suono di musiche da bambini, gli alti e bassi di un clarinetto, qualche scampanellio, un rullare di tamburini. Era il compleanno di Kate. Quando Stephen arrivò, era lunedì mattina presto e fuori pioveva a dirotto; il negozio era deserto. Vicino all'unica cassa aperta sedeva un giovanotto coi capelli tagliati cortissimi e una borchia nera all'orecchio. Prima di superare il cancellerò girevole foderato di gomma, Stephen si fermò per sfilarsi il cappotto e scuotere bene l'ombrello. La disposizione degli articoli era semplice. Un'ala del negozio era dominata dal color kaki di equipaggiamenti militari e veicoli mimetici e dal luccichio argentato e bullonato di pesanti navicelle spaziali; l'altra, invece, dai teneri colori pastello di abitini per bambole e dal bianco abbagliante di stoviglie per case in miniatura. Con il soprabito umido ripiegato sul braccio, Stephen attraversò il negozio in tutta la sua lunghezza, dalla sezione massacri alle faccende domestiche, e scoprì che i giocattoli più interessanti stavano in mezzo, dove all'imitazione del mondo adulto si sostituiva lo svago più autentico, un gorilla meccanico che si arrampicava su un grattacielo e distribuiva monetine, un congegno per spruzzare vernici colorate, un cuscinetto tirascorregge, uno stucco speciale che, modellato, emetteva luce e rumore, una pallina che rimbalzava secondo imprevedibili traiettorie. Stephen consegnò esitante ognuno di questi oggetti nelle mani di una piccola di sei anni che conosceva come se stesso. Aveva bisogno di verificare le sue reazioni. Era una bambina schiva, almeno tra la gente, teneva la schiena ben dritta e portava una frangetta scura. Era piena di fantasia, una sognatrice a occhi aperti; amava le parole dai suoni strani, teneva diari segreti, collezionava oggetti misteriosi. Le prime scelte di Stephen caddero su cose di sicuro successo: una scatola di matite colorate e una cassetta di legno piena di animaletti della fattoria. Alle bambole preferiva i pupazzi morbidi e Stephen lasciò cadere nel cesto metallico un gatto grigio a grandezza naturale. Era una burlona, con la passione per gli scherzi. Prese il cuscino tirascorregge e un fiore che schizzava acqua. Li avrebbe usati per tormentare sua madre. Si fermò davanti a un'esposizione di puzzle. Non era pazzo, sapeva bene quale fosse la realtà. Sapeva che cosa stava facendo e sapeva che lei non c'era più. Ci aveva riflettuto con una certa attenzione e ora non si ingannava. Stava facendo tutto questo per sé, senza illusioni. Poi continuò. Kate non amava granché il mondo astratto e fine a se stesso dei puzzle. La sua intelligenza si nutriva di contatti umani, delle più calde complessità di fantasia e di finzione. Le piaceva travestirsi. Stephen
allungò un braccio verso un cappello da strega, poi tornò indietro e cambiò il gatto grigio con uno nero. Ormai gli pareva di aver centrato il tema. Prendeva oggetti dai vari scaffali a grande velocità. Tra questi, certe palline magiche che si trasformavano in fiori a contatto con l'acqua, un libro di incantesimi in rima e di ricette da strega, una boccetta di inchiostro invisibile, una tazza in cui l'acqua versata spariva, un chiodo che pareva essere stato conficcato in testa a qualcuno. Stava sconfinando nella sezione ragazzi. Kate era senza ombra di dubbio una bimba graziosa, ma nei giochi con la palla era un vero disastro ed era venuto il momento di insegnarle qualcosa. Prese dagli scaffali una calzetta di plastica piena di palle da tennis. Maneggiò una mazza da cricket ben fatta, in misura da bambino, di autentico legno di salice. Si stava allontanando troppo dai ruoli convenzionali? La prese comunque, sarebbe tornata utile sulla spiaggia. Era ormai in pieno territorio maschile, tra pistole, pugnali, lanciafiamme, raggi mortali e manette giocattolo, quando finalmente ci arrivò; fu questione di un attimo, aveva trovato il regalo per Kate. Era un walkie-talkie a batteria con modulatore di frequenza a onde corte, due apparecchi ricetrasmittenti. Sulla confezione, un bambino e una bambina comunicavano allegramente da una parte all'altra di una minicatena montuosa su un'imitazione di superficie lunare. Dalle antenne dei singoli apparecchi si sprigionavano bianchi archi luminosi, rappresentazione delle onde radio e di un divertimento garantito. Stephen prese la sua da una pila di circa cinquanta scatole identiche. Non c'era più spazio nel cestino. Mentre superava la cassa, si sentì d'improvviso impaziente di essere a casa con i suoi acquisti, di tirarli fuori dal pacco e di riandare mentalmente alle ragioni di ciascuna scelta. Sarebbe stato ancora meglio se ci fosse stata anche Julie; lei avrebbe avuto altre idee e, in due, avrebbero realizzato una gamma più vasta di possibilità, un'offerta più generosa al destino... Ma lui era consapevole della realtà, pensò, mentre consegnava al cassiere una somma di denaro di sorprendente entità. Lo sapeva bene: Julie era in quell'umido cottage in compagnia delle sue partiture, dei suoi taccuini e delle matite ben temperate con le quali redigeva una meticolosa obliterazione della presenza di lui dalla sua vita. Nella fretta scordò l'ombrello all'ingresso, ma il suo audace entusiasmo fu ricompensato dal cessare della pioggia non appena ebbe superato il parcheggio deserto fuori dal negozio. A casa, disfece per ultimo il pacco del walkie-talkie. Mentre vi inseriva le batterie, gli capitò fra le mani un foglietto di carta. La portata massima di questo apparecchio, vi si annunciava, rientrava nelle norme imposte dalla legge dello Stato. Stephen sistemò una delle due trasmittenti a terra, al fondo del lungo ingresso, si portò l'altra accanto alla bocca e premette il pulsante di trasmissione. Aveva in mente di dire uno, due, tre, ma siccome
non c'era nessuno presente a giudicarlo e siccome sapeva esattamente quel che faceva e sapeva di non essere pazzo, intonò Tanti auguri a te in un gracchiante tono baritonale allontanandosi sempre di più nel corridoio. Quella che sentiva provenire dall'altro apparecchio era la rozza rappresentazione di una voce umana, metallica, crepitante, un fruscio di consonanti confuse e di vocali attutite. Avrebbe davvero potuto trattarsi di un messaggio radiofonico proveniente dalla luna. Comunque funzionava, sarebbe stato divertente. Quando si trovò a poco più di una dozzina di passi di distanza e al penultimo verso della canzone, la comunicazione si interruppe. Tornò indietro di un passo e quella riprese, così restò lì, agli estremi confini del campo di onde radio, per poter concludere l'ultima strofa. Questo congegno incoraggiava a rimanere vicini. Si adattava bene al progetto. Fu nel primo pomeriggio, mentre incartava i regali, che l'allegria prese a scemare, e Stephen sentì la prima fitta di insensatezza. Stava fischiettando, e di colpo si bloccò con in mano un lungo chiodo macchiato di sangue finto. Il senso di tutto andava svaporando in fretta. Non gli andava l'idea di lasciare metà dei regali fuori dai pacchi. Si affrettò a proseguire con minor convinzione. La coda del gatto nero spuntava dalla carta tradendo il contenuto dell'involucro. Stephen andò in cucina a prendere un'altra bottiglia di scotch e tornò in soggiorno. C'erano più di quindici pacchi rossi informi, sparsi sul pavimento. A gettarlo nello sconforto fu la quantità. La sua intenzione era stata quella di un solo regalo, qualcosa di puramente simbolico con cui ribellarsi all'assenza di lei, riaffermare la propria giocosità, ricattare il destino. Ora, questo mucchio di roba lo scherniva rammentandogli la sua imbecillità. Quell'abbondanza era patetica. Ammonticchiò i pacchi sulla tavola, uno vicino all'altro perché sembrassero di meno. Si ritrovò al suo solito posto accanto alla finestra aperta. La cosa più logica da fare il giorno del compleanno di Kate era andare a trovare Julie. Avrebbe potuto fermarsi al pub The Bell alla stessa ora, vedere se succedeva qualcosa di nuovo. Per tenersi occupato passò un quarto d'ora al telefono informandosi sugli orari dei treni, si cambiò le scarpe, sprangò la porta sul lato della scala antincendio. Infilò un notes e una penna nella tasca del soprabito. Poi tornò alla finestra. Traffico, pioggerella fitta, passanti in attesa paziente nei pressi delle strisce pedonali: era miracoloso che potesse esserci così tanto movimento, tanta determinazione, a qualsiasi ora. Per lui non era affatto così. Sapeva che non sarebbe andato. Sentì il respiro venirgli meno lentamente, in silenzio, mentre petto e colonna vertebrale gli si rattrappivano. Erano passati quasi tre anni ed eccolo là, ancora bloccato, intrappolato nel buio, avviluppato dal suo stesso lutto che lo dominava,
lontanissimo dalla corrente ordinaria dei sentimenti che gli scorreva sul capo ed era appannaggio esclusivo degli altri. Si riportò alla mente la piccola quando aveva tre anni, le sue manine flessuose, il modo in cui si sistemava comodamente intorno al corpo di lui, la purezza solenne della sua voce, quell'umidità rossa e bianca di lingua, labbra e denti, quella fiducia senza riserve. Ricordarla diventava sempre più difficile. Kate stava sbiadendo, mentre il suo inutile amore per lei gonfiava strozzandolo e sfigurandolo come un gozzo. Pensò: ti rivoglio. Ti rivoglio indietro. Voglio che ti riportino adesso. Non voglio nient'altro. L'unica cosa che voglio fare è volere che ti riportino. Divenne una specie di incantesimo il cui ritmo andò prosciugandosi in un singhiozzo, un dolore fisico finché tutto quanto non si ridusse, in termini verbali, a due sole parole: Sto male. Curvo presso la finestra con in mano il bicchiere vuoto, Stephen lasciò che i suoi pensieri appassissero intorno a quelle parole. Rimase immobile, dimentico del passare del tempo. Smise di piovere per un poco, poi riprese, più forte di prima. Infine udì da un altro appartamento lo scampanellio remoto di un orologio che batteva le due e gli ricordava qualcosa che non voleva perdersi. Si allontanò dalla finestra, evitando con lo sguardo il mucchio di pacchi sulla tavola, e accese il televisore. Una frazione di secondo prima dell'immagine, gli giunse il ronzio energico e familiare della voce di un presentatore. Si lasciò andare e allungò una mano verso la bottiglia. Durante questo tempo inerte gli amici, di ritorno a casa dai loro viaggi estivi all'estero, telefonavano a Stephen per sapere come stava e se avrebbe avuto piacere di fare colazione o di pranzare con loro. Lui se ne stava accanto all'apparecchio in pigiama, assumendo il tono di voce di chi è ben sveglio e allegro, ma irremovibile nel declinare gli inviti. Aveva iniziato un libro, qualcosa di leggermente diverso dal solito, lavorava giorno e notte e non aveva intenzione di rallentare i ritmi di marcia. Raccontò questa storia una mezza dozzina di volte nel giro di quindici giorni e la strutturò in modo tanto convincente che prese a desiderare che fosse vera. Perdersi in un tot giornaliero di parole dattiloscritte, trascorrere le serate sotto una lampada scarabocchiando sui fogli con l'inchiostro nero, ribattere a macchina e, il giorno dopo, affrettarsi a riprendere il filo di qualcosa che si conosce solo a metà: quasi quasi riusciva a credere a se stesso quando ripeteva le proprie scuse al telefono. Ma sapeva di non avere l'energia, l'ottimismo di base che rendeva possibile la fatica di scrivere. Quanto alle idee poi, la sola parola lo rendeva esausto. Gli amici si mostravano comprensivi, commoventi nell'entusiasmo per il suo progetto, ed era a questo punto che Stephen, non potendo fare a meno di vergognarsi un poco della sua messa in scena, si aspettava di concludere la
conversazione il più velocemente possibile. Il che era interpretato come conferma del suo desiderio di rimettersi al lavoro. Di ritorno al divano, allo scotch e alla televisione, per un'oretta restava distratto, incapace di concentrarsi. Una telefonata, però, fu diversa dalle altre. Annunciandosi con tono cauto, una voce domandò se stava parlando con Stephen Lewis, quindi si presentò sciorinando una serie di titoli di cui Stephen riuscì ad afferrare soltanto le parole chiave. Vicesegretario, gabinetto, dipartimento, protocollo. Ogni tre mesi, spiegò il vicesegretario, il primo ministro offriva una colazione a Downing Street: gli ospiti, pochi, venivano selezionati al di fuori del mondo politico, tra individui che si fossero distinti nel proprio campo. Si trattava di incontri intimi e informali, cui veniva data scarsa pubblicità. I discorsi affrontati in simili occasioni erano considerati privati. Raramente tra gli invitati figuravano dei giornalisti. Agli uomini era consigliato completo da giorno e cravatta, nessuna stravaganza. Non erano ammesse scarpe con punte d'acciaio. Era concesso fumare dopo colazione, non prima. Gli ospiti, non più di quattro per volta, erano tenuti a presentarsi presso l'ufficio di presidenza di Whitehall un'ora buona prima di colazione e dovevano farsi riconoscere all'ingresso. Avrebbero dovuto mostrarsi comprensivi e pazienti e permettere a due addetti del loro sesso di perquisirli a fondo. Registratori e macchine fotografiche sarebbero state confiscate e distrutte. Oggetti personali, tipo forbicine da unghie, lime, pettini metallici, penne, custodie per occhiali e moneta spicciola, sarebbero stati ritirati e riconsegnati all'uscita. Gli ospiti dovevano inoltre produrre due recenti fotografie a colori formato passaporto, firmate sul retro. Una di esse sarebbe stata inserita nel cartellino plastificato di riconoscimento che doveva essere indossato sul bavero sinistro della giacca per tutto il tempo dell'incontro. La seconda fotografia veniva trattenuta per ragioni d'ufficio e non sarebbe stata restituita. Le colazioni si svolgevano in un'atmosfera rilassata che non richiedeva il rispetto di una scaletta prestabilita per gli argomenti di conversazione. Quest'ultima era di norma libera e toccava temi di mutuo interesse. Tuttavia, alcune questioni non avrebbero dovuto essere sollevate in quanto già adeguatamente trattate dal primo ministro sia in parlamento sia nel corso di interventi pubblici e trasmissioni radiofoniche e televisive. Esse comprendevano: la difesa, la disoccupazione, il problema religioso, la condotta privata di qualunque ministro in carica e la data delle prossime elezioni politiche. La colazione aveva inizio alle tredici e si concludeva dieci minuti dopo che era stato servito il caffè. Il vicesegretario tacque. Stephen si era andato preparando la propria giustificazione, il lavoro appena cominciato, il terreno nuovo su cui gli
pareva di muoversi, eccetera. Eppure, man mano che aumentavano in forma tanto ossessiva le misure restrittive per la partecipazione all'evento, il suo interesse cresceva. «Devo dedurre che lei mi sta invitando». «Beh, non esattamente. Le telefono per scoprire quale sarebbe la sua disponibilità, qualora, e sottolineo l'ipoteticità della cosa, lei dovesse ricevere un invito». Stephen sospirò. Dal soggiorno giunse uno scroscio di risa e un vigoroso applauso. Una coppia particolarmente disorientata occupava due cabine insonorizzate dalle quali ciascuno esponeva separatamente i capricci sessuali dell'altro. Stephen allungò il filo del telefono fino alla stanza, ma soltanto il giorno prima aveva spostato il televisore, che si trovava quindi in una posizione in cui non si riusciva a vedere lo schermo. Il vicesegretario non sembrò affatto colpito dalla diffidenza di Stephen. Come se stesse parlando a un bambino, spiegò: «Il primo ministro non gradisce i rifiuti ed è parte del mio lavoro assicurarmi che non accada mai. Gli inviti vengono rivolti solo a persone che si presume accetteranno. L'attuale conversazione, pertanto, non deve essere interpretata come un invito. Desidererei semplicemente conoscere il suo atteggiamento nell'eventualità che ne ricevesse uno». «Verrò», disse Stephen sbirciando dallo stipite della porta allo spicchio di schermo visibile. I due concorrenti erano usciti dalle cabine. L'uomo singhiozzava con la faccia tra le mani e stava cercando di andarsene dal palcoscenico. Ma il presentatore lo teneva saldamente per un gomito. «Vuol dire che verrebbe se fosse invitato». «Esatto». «In questo caso può darsi che lei riceva un invito», disse il vicesegretario prima di riattaccare. Stephen si precipitò in soggiorno. Fu un sollievo quando arrivò finalmente la metà di ottobre e fu di nuovo ora di percorrere il rumoroso tragitto verso Whitehall, con il bavero rialzato e l'ombrello tenuto ben alto. L'aria era pungente e pulita, la folla dell'ora di punta procedeva con passo frettoloso, determinato; l'anno si avviava alla fine più rapido che mai, avendo saltato un'intera stagione e c'era in giro una sensazione anticipata di rinnovamento. Laddove si rendeva necessario, Stephen scendeva dal marciapiede sul margine della via per superare i passanti. Avere una destinazione, un posto dove qualcuno ti aspetta, uno straccio di identità, era un tale sollievo dopo un mese di giochi a premio e di scotch. Esibire il lasciapassare alla solita guardia taciturna, vagare per la hall di marmo tra gente elegante e presuntuosa, penetrare i meandri dell'edificio sapendo senza un attimo di riflessione quale scala e quale corridoio percorrere, arrivare alla stanza
giusta e scambiare due chiacchiere con i colleghi, sorseggiare da bicchierini di plastica con il marchio del ministero un caffè prodotto dalla macchinetta del corridoio che dispensava zuppa di cipolle dal medesimo beccuccio: era per insignificanti ripetizioni di questo genere che la gente conservava il proprio impiego, per noioso che fosse, ed era per tutto ciò che Stephen si tratteneva a mala pena dal cantare a squarciagola. In alternativa, giocherellava con le chiavi di casa che aveva in tasca. Ecco qui Emma Carew che rideva di qualsiasi cosa lui dicesse e le cui corde del collo erano pronte a tendersi per l'allegria, e il colonnello Tackle, che offriva a Stephen una stretta di mano virile e gli parlava della crescita dei pomodori in un'estate senza pioggia. Ed ecco Hermione Sleep con la sua sciarpa di seta annodata in testa; ricordava ancora l'incontro di Stephen con il primo ministro e sondava il terreno per un invito a cena. Lo sguardo di Stephen incrociò quello interrogativo di Rachael Murray che se ne stava in fondo alla stanza, ben lontana dai pettegolezzi. Si erano scambiati i numeri di telefono al termine dell'ultima sessione prima delle vacanze e nessuno dei due aveva chiamato l'altro. In preda alla gioia, Stephen rimpianse di non averlo fatto e si ripromise di vederla. Accanto alle grandi finestre i tre ricercatori universitari e parecchi altri stavano dando inizio a un seminario privato ad alta voce. Poi arrivò Lord Parmenter in completo grigio rigato sul cui bavero era appuntata una minuscola rosa rossa. Come immerso in un istante di religioso raccoglimento, si fermò sulla porta e abbassò il capo di un bel colorito bronzeo e luccicante. Quindi, si schiarì la voce per richiamare i presenti all'ordine. Ci furono le solite formalità di apertura. Infine Canham si schiarì a sua volta rumorosamente la gola, si alzò in piedi e prese a leggere la bozza di un progetto per il loro rapporto finale. Seguirono venti minuti di discorsi vaghi e dissensi a mezza voce, finché Parmenter non intervenne. Questi problemi potevano essere affrontati in seguito, adesso era il caso di produrre ulteriori argomenti e comunque non si poteva fare attendere i visitatori. La commissione ascoltò quindi i nuovi argomenti, tediose dichiarazioni di un paio di esperti, e Stephen tornò a concedersi il lusso di sogni a occhi aperti ben strutturati. Il fallimento di un matrimonio era stato il tema di dozzine di romanzi letti negli ultimi vent'anni, di film che neppure ricordava più, di disinvolte malignità e di seri dibattiti tra amici sinceramente preoccupati; Stephen era stato a berci qualcosa sopra con i protagonisti, ne aveva tenuto la mano ascoltando i loro racconti o gli aveva offerto un posto per dormire. Una volta, a vent'anni appena compiuti, si era lasciato coinvolgere al punto di fare irruzione in casa del marito della sua amante allo scopo di rubare, o di recuperare, la lavatrice: un gesto di stupida devozione. Aveva leggiucchiato
al riguardo lunghi articoli su giornali e riviste; il matrimonio era un'istituzione superata perché non si erano mai verificati tanti divorzi, oppure stava morendo perché la gente si sposava più spesso di un tempo; perché le aspettative erano maggiori, perché si cercava di farlo funzionare. Ora che anche Stephen si era unito alla folla, si aspettava, con tanti discorsi e tante letture alle spalle, di essere un esperto come tutti gli altri. Ma era come cercare di scrivere da capo un libro che fosse già stato scritto. Il terreno era così ben preparato, con tanto di miti e cliché, e la tradizione ormai così salda che non gli riusciva di pensare a mente chiara alla sua situazione più di quanto un pittore medievale sarebbe riuscito, solo grazie alla riflessione, a inventare il concetto di prospettiva. Per esempio, rivolgeva mentalmente a Julie lunghi discorsi eloquenti che ritoccava e dilatava nel corso dei mesi. Si fondavano tutti sull'idea oziosa di una verità ultima, una visione generale e inconfutabile da cui scaturiva un verdetto talmente palese e incisivo che, se solo Julie avesse voluto ascoltarlo, non avrebbe potuto fare a meno di convincersi di come il suo modo di interpretare la situazione e di reagirvi fosse profondamente sbagliato. Quell'abitudine mentale Stephen doveva averla acquisita in seguito alle lunghe ore passate ad ascoltare le dichiarazioni solenni di parti lese. Per tutto il resto, accettava con rassegnazione il fatto che il modo in cui la gente interpretava le cose dipendesse in gran parte dall'indole della gente stessa, dalla loro formazione e da quello che ognuno desiderava; i giochetti della retorica non bastavano di certo a modificare le prese di posizione. Contemporaneamente c'erano ruoli fissi che gli riusciva di attribuire a entrambi, molti anche contraddittori, tali da escludersi a vicenda. C'erano volte, ad esempio, in cui gli sembrava che il problema di Julie fosse la debolezza: le mancava semplicemente la forza di carattere necessaria a superare un periodo difficile con lui. Nel qual caso, tanto meglio che se ne fosse andata. Aveva avuto il suo banco di prova e aveva fallito. Ma questo non gli bastava; voleva dirglielo che era debole; anzi, voleva che lo sapesse anche Julie, come lui. Altrimenti avrebbe continuato ad agire sentendosi forte. E c'erano altre volte, quando era giù di corda, che pensava a se stesso come alla vittima innocente, qui non gli andava di usare il termine «debole». Allora si sentiva scoraggiato dal modo in cui la sua vita si era ridotta a niente, mentre quella di lei procedeva in tanta appagante autosufficienza. Il che accadeva perché Julie lo aveva sfruttato, gli aveva succhiato via tutto. Mentre lui era fuori a cercare la loro bambina, lei rimaneva seduta a casa. E dato che non era riuscito a trovarla, lei aveva scaricato su di lui la colpa e se ne era andata, con la testa piena di frescacce sul modo giusto di dimostrare il dolore. Il modo giusto! Chi era lei per dettare legge al riguardo? Se fosse riuscito a trovare Kate, allora nessuno avrebbe mai messo in discussione i
suoi metodi, anche se Julie avrebbe senz'altro scovato la maniera di accreditarsene il merito. Con la mia inerzia, gli pareva di sentirla sentenziare, ti ho spinto a tentare il tutto per tutto. Quest'ultima versione conduceva a un'altra interpretazione già bell'è pronta, quella dell'intenzionalità. Julie aveva solo cercato una scusa per andarsene, non avendo abbastanza coraggio morale per farlo unicamente sulla base delle sue rimostranze. Aveva usato la scomparsa di Kate per mettere in atto la propria. Oppure, in un disegno anche più elaborato, aveva voluto liberarsi di lui; ora lei e Kate vivevano insieme in segreto, il rapimento al supermercato era stato frutto di un piano cinico e ben congegnato, probabilmente con la complicità di un vecchio amante. O di uno attuale. Benché non credesse a una sola parola di tutto ciò, pensarlo gli procurava una sorta di patetico piacere masochistico, lo aiutava, metteva in moto la collera, lo spingeva a produrre uno dei suoi discorsi preparati, uno di quei verdetti finali che, si rendeva conto d'improvviso, dovevano essere riformulati, con parole più dure, verità più impietose. Inutile cercare soccorso nelle varie leggende e letterature simboliche, nella grande, avvolgente tradizione del crollo matrimoniale, perché come molti prima di lui, anche Stephen pensava al suo come a un caso unico. Le sue difficoltà non si alimentavano dall'interno come quelle degli altri, non erano la risultanza di cose tanto banali quanto la noia in campo sessuale o le difficoltà economiche. Era sopraggiunto un incidente increscioso, su questo punto tornava sempre, e Julie lo aveva lasciato. Lui era ancora lì, nel loro vecchio appartamento, e Julie se ne era andata. Solo molto più tardi si sarebbe reso conto di non aver mai pensato davvero alla sua situazione, dal momento che il pensiero implicava qualcosa di attivo e di controllato mentre per lui tutto si era ridotto a una parata di immagini e argomentazioni, un corteo derisorio, malevolo, paranoico, contraddittorio e vittimistico. Non aveva chiarezza, non sapeva prendere le distanze, non aveva mai cercato di uscirne. Le sue riflessioni non avevano scopo. Era la vittima e non l'autore dei propri pensieri. Ed essi lo travolgevano con più vigore quando offriva loro qualcosa da bere, o quando era stanco, o si svegliava da un sonno profondo. Certe volte lo lasciavano in pace per giorni di seguito e, al loro riproporsi, Stephen ne era troppo assorbito per avere modo di porsi l'elementare interrogativo: che cosa significa tutto ciò? Qualunque ubriaco in un bar avrebbe potuto dirgli che era ancora innamorato di sua moglie, ma Stephen era un po' troppo intelligente per cose del genere, un po' troppo amante del pensiero speculativo. Mentre un signore con baffetti neri a spazzolino andava spiegando perché i libri per bambini non dovevano contenere illustrazioni, Stephen fissava lo sguardo sulle ginocchia e si lasciava andare via con la mente. A tratti il
desiderio aveva la meglio sui suoi pensieri, ma solo di rado si costituiva come elemento conscio. Quando ricordava l'ultima visita a Julie, ciò che gli tornava alla memoria era la rigida goffaggine verso la fine, e quella sensazione di completo esaurimento. Non si soffermava sul piacere e sull'intimità per non lacerare la rete protettiva delle sue meditazioni. Oggi però, essendo più allegro, benché in modo superficiale, grazie all'attimo fuggevolissimo, al tocco di tensione prodotto dallo sguardo che aveva scambiato con Rachael Murray, era propenso a correnti più gentili di vago desiderio e rimpianto. Sentiva la voce di Julie, non sotto forma di parole o di frasi, ma la sua voce in astratto, il suo tono basso, i ritmi, la melodia del suo periodare. Quando insisteva o si emozionava, cambiava registro in un modo così dolce. Cercò di farsi dire qualcosa da questa voce, ma non trovava parole che sembrassero appartenerle. E l'assenza di articolazione rendeva tutto ancora più confidenziale, mera espressione della sua natura. Era un mormorio, gli pareva di udirlo attraverso una spessa parete. Il tono non era affettuoso e neppure aggressivo. Era Julie di umore pensoso, che gli parlava di qualcosa che avrebbero potuto fare, di qualcosa da realizzare insieme. Una vacanza, la scelta di colori nuovi per una camera, o magari qualcosa di più? Stephen si sforzava di sentirla. La vedeva nella sua solita posizione, in poltrona, con un piede a terra e un ginocchio sollevato ad accogliere le braccia incrociate che a loro volta sostenevano il mento. Stava proponendo un'iniziativa ambiziosa. Appariva infervorata mentre esponeva le sue intenzioni, ma lo faceva con voce ferma e sicura. Ora la immaginò con le gambe ripiegate e le mani appoggiate sul ventre. Lo guardava fisso, in silenzio, con un'aria di compiaciuto mistero. Aveva addosso un paio di vecchi jeans di velluto rappezzati, una camicia ampia, con maniche immense e tante piegoline. Era rotonda e sembrava a suo agio. La stava ricordando incinta. Pensò alle sue natiche, alla levigatezza delle sue curve. Immaginò di poggiarvi una mano; poi, inspiegabilmente, il pensiero gli andò ai due fratelli di lei, entrambi dottori, ossessionati dal lavoro e dalle famiglie numerose. E gli venne in mente il piccolo esercito di nipoti, i regali che lui e Julie compravano ogni anno per Natale; poi vide la madre di lei, una donna brizzolata, dai modi bruschi, che lavorava per un istituto di beneficenza e teneva il piccolo appartamento stipato di fotografie e souvenir, vecchi giocattoli, bambole rotte, collezioni di sassi, francobolli, uova di pietre dure e piume d'uccello, e conservava in spessi album numerati per anni una foto di Julie con un gran fiocco tipo Alice, che stringeva con passione un coniglietto, e un'altra con Julie che tiene i piedi sulle spalle dei suoi due fratelli. E il padre di Julie, morto quando i figli erano adolescenti, e mantenuto in vita nella mitologia famigliare con pianti occasionali da parte di Julie e di sua madre.
L'inventario proliferò all'esterno, verso estensioni più remote della famiglia di Julie: uno zio architetto che era stato in prigione, le varie amiche di lei, i suoi ex amanti, la famiglia francese che l'aveva ospitata da ragazza e ancora la invitava nel suo tetro château; e all'interno, verso la boccia di legno aromatico che Julie teneva nel cassetto delle maglie, la sua passione per la biancheria stravagante e i calzettoni di lana a colori vivaci, la pelle callosa che aveva sui talloni e la pietra pomice che usava per raschiarla, la cicatrice rotonda e grinzosa sulla mano per un vecchio morso di cane, il suo caffè senza zucchero, il miele nel tè, l'avversione per le barbabietole, le uova di pesce, le sigarette, le commedie alla radio... Quello che lo feriva era l'inutilità di tanto sapere. Aveva fatto di sé un esperto in una materia che non esisteva più, la sua specializzazione era superata. Guardò Rachael Murray all'altro capo del tavolo. Con una mano si pizzicava la fronte tra pollice e indice e con l'altra prendeva appunti. Di quando in quando si allontanava i capelli dagli occhi con gesto brusco e irritato. Si sentì rivolgere la parola nello stile altisonante adottato dai capiredattori dei giornali quando si pronunciavano sul declino della nazione: il tono declamatorio e spocchioso che lo aveva accompagnato per tutta la sua vita di adulto. Il ruolo dell'uomo nel mondo moderno doveva ancora essere trovato, la sfida del futuro avrebbe implicato la padronanza di forme nuove di competenza, le vecchie qualifiche dovevano essere rinnovate: l'alternativa era l'eterna ridondanza numerica. E lui, sarebbe stato all'altezza del compito? Automaticamente scosse il capo in cenno di diniego. Vide la propria mano sulla coscia di Julie un attimo prima che lei si alzasse dal letto e attraversasse, nuda, la stanza. Le tavole di legno del pavimento scricchiolavano. Faceva freddo, il fiato le usciva in forma di vapore mentre apriva un cassetto e tirava fuori una camicia. Era in piedi al fondo del letto e lo guardava, armeggiando con la calzamaglia. Si lasciò scivolare una pesante sottana invernale sulla testa e se la allacciò a vita. Poi, sorridendogli appena, parlò: sembrava gli stesse dicendo una cosa importante. In una mattina mite, poco prima di Natale, Stephen se ne stava in mutande davanti al guardaroba a esaminare una serie di abiti tra i quali, in atteggiamento di infantile polemica sociale, scelse il più consumato e meno pulito. Sulla giacca pendevano dei fili neri dove un tempo c'era stato un bottone, e una piccola bruciatura, un bel buchetto sfrangiato e marrone stava pochi centimetri sopra il ginocchio. Il soprabito, costoso e relativamente nuovo, rovinava un tantino l'effetto, ma lo si poteva sempre togliere appena arrivati. Sedette in cucina a bere il caffè e a leggere il giornale finché non suonarono alla porta. Scese e si trovò di fronte un autista in divisa, pallido e obeso, che lo guardava con un certo disgusto. «È qui che sta, lei?» chiese l'uomo con fare incredulo.
Stephen non rispose e, tra fango e pozzanghere luride, si diressero insieme all'automobile parcheggiata con tutte e quattro le ruote sul marciapiede e con le luci di posizione accese. Era lo stesso modello decrepito che andava a prendere Charles a Eaton Square. Per rappresaglia, parlando da un lato all'altro della vettura, Stephen si rivolse all'autista impegnato ad aprire la portiera con la chiave. «Non sarà mica questa, per caso?» Salì davanti. Dato il suo soprabito pesante e la stazza dell'uomo, i due stavano stretti, spalla contro spalla. L'autista respirava affannosamente armeggiando per mettere in moto. Questa volta il suo tono fu quasi di scusa: «È tutto già stabilito, sa? Io non c'entro per niente. Un giorno è una Rolls e il giorno dopo un catorcio come questa». Il motore si avviò e lui aggiunse, «Tutto dipende da chi si va a prendere, mi spiego?» Raggiunsero a scossoni la corrente del traffico che procedeva poco più che a passo d'uomo. Un getto di aria caldissima soffiava contro la gamba del pantalone di Stephen, emanando un miscuglio di odori. Allungando una mano nell'angolo, Stephen tirò e premette la leva del riscaldamento che non fece che sbandare avanti e indietro, evidentemente sconnessa dal resto dell'impianto. «Macché», disse l'autista, scuotendo la testa. Abbassò il finestrino dalla sua parte. A questo punto però il traffico si era bloccato e la temperatura nell'auto seguitava a salire. Mentre Stephen sbuffava nello sforzo di togliersi il soprabito, l'autista si diede a spiegare un complicato sistema di spinotti, dadi ad alette e doppie bielle; e quando, nervoso e accaldato, Stephen si fu gettato il soprabito alle spalle, sul sedile posteriore, il discorso si era già fatto più ampio, fino ad abbracciare le deficienze nella direzione del parco automobili, gli straordinari obbligatori, lo sfruttamento di certi autisti che, come lui, non falsificavano le fatture della benzina, non avanzavano pretese dichiarando lavori non svolti e non vendevano ai giornalisti tutte le chiacchiere che gli capitava di sentire. Stephen abbassò il finestrino dalla sua parte e si sporse fuori dall'auto appoggiandosi su tutti e due i gomiti. L'autista si andava rilassando nel proprio monologo. «Prenda il caso di certo Symes», disse tamburellando con le dita tese sul volante. Il traffico si era rimesso in movimento. Superarono lentamente il semaforo per poi fermarsi di nuovo, all'incrociarsi di due file di automezzi. Stavano seguendo il tragitto che Stephen percorreva al mattino andando a Whitehall. Avrebbe dovuto farlo a piedi. Accostarono al marciapiede poco più in su e si trovarono a costeggiare l'edificio della scuola elementare e media della zona. «Sa quando è stata l'ultima volta che quello ha guidato una macchina? Provi a dire». Avendo la testa mezzo fuori dal finestrino, il diniego di Stephen si perse, ma il grasso autista non ci badò. Era l'ora dell'intervallo prima di colazione, il cortile per la ricreazione era affollatissimo. Era in corso un partita di calcio: a occhio e
croce, venticinque giocatori per squadra. Ragazzini di sette, otto anni si davano da fare con competenza aggressiva. Rapidi passaggi sfrecciavano sull'asfalto; tra nomi di battesimo e oscenità urlate in un concitato falsetto, si combattevano in aria vere battaglie per accaparrarsi il pallone; i centrocampisti passavano agli attaccanti per poi tornare alle loro posizioni. «Nell'ottantacinque. Pensi un po'. Non ha più fatto niente da allora. Dall'ottantacinque. E lo sa lei chi portava a quei tempi, di chi era l'autista? perché è questo il punto della faccenda». «No», disse Stephen rivolto all'aria fresca. All'ingresso presso il quale si erano fermati c'era un gruppo di bambine con una lunga corda per saltare che, al ritmo di una cantilena, ondeggiava in cerchi ampi sul capo di due ragazzine. Costoro dovevano danzarvi attraverso con veloci movimenti laterali, sollevando i piedi il meno possibile e all'ultimo momento, solo per consentire il passaggio della corda tra loro due. Al gioco si unì una terza bambina, poi una quarta; la cantilena si fece più insistente, infine qualcuno inciampò e ci fu un gemito di benevolo disappunto. Tra questi due gruppi chiassosi, i calciatori e le saltatrici, si muovevano figure solitarie, una bambina che tracciava una linea in terra con la punta della scarpa e, un po' più in là, un ragazzino dai capelli rossi che osservava qualcosa agitarsi dentro un sacchetto di carta marrone. «Il segretario degli Esteri, disse l'autista. Si figuri. Neppure del nostro dipartimento. Questo Symes veniva prestato. E dire che al ministero degli Esteri hanno quasi lo stesso numero di autisti». Si erano fermati proprio davanti all'ingresso della scuola. Tra le bambine era nata una discussione. Doveva avere a che fare con la coppia a cui toccava far girare la corda, perché a una bimba venne strappata di mano. Alla fine, la compagna all'estremità opposta abbandonò la propria postazione per andare a consolarla. Furono sostituite da due ragazzine più grandi. «E sa dove lo accompagnava? Questa è la verità sacrosanta». Stephen scosse il capo. «A un bordello dalle parti dell'aeroporto di Northolt. L'hanno messo su apposta per i diplomatici». «Ma no!» La corda girava di nuovo, era anche ripresa la cantilena. Si era formata una coda impaziente e in quel momento la prima bambina della fila fu spinta in avanti. Si sistemò a mezzo metro dal punto in cui la corda batteva il terreno, facendo ondeggiare la testa a tempo con la filastrocca e battendo i piedi con il medesimo ritmo. Le bambine cantavano tutte insieme, ma qualcuna, fuori registro, produceva intense disarmonie acustiche. Gli accenti, brutalmente enfatici, cadevano sempre sull'ultima sillaba. Ambarabacci-cci-cco-coò tre civette sul comò! «Può capire. È successo qualcosa. In cambio di qualche favore, magari una cosa non riferita; lì basta una parola al sovrintendente del parco macchine e Symes non si fa più un solo giorno di lavoro. A stipendio pieno. Per tutta la vita».
Stephen osservava la bambina in attesa. Si tormentava l'orlo della gonna con le dita. Fece un accenno di finta, ed eccola dentro a saltare come una ballerina scozzese, mentre si stava già preparando la prossima. Che facevano l'amore, con la figlia del dottore, il dottore si arrabbiò, ambarabàcci-cci-ccoccò... Le due compagne saltavano una di fronte all'altra. Battevano le mani, sinistra con destra, destra contro destra, tutte e due insieme, poi di nuovo, sinistra contro destra... La prima bambina gli dava le spalle. Stephen seguiva con gli occhi la linea confusa delle sue spalle in movimento, l'inclinazione del capo, la curva pallida delle ginocchia. Nell'attimo in cui la cantilena si concluse, fecero entrambe un salto più alto, una piroetta nell'aria e atterrarono schiena contro schiena. Il viso della prima bimba rimase nascosto dalla folla cantilenante che si andava stringendo intorno alla coppia. Stephen si teneva sollevato dal sedile sforzandosi di vedere. Davanti, il traffico si stava muovendo. L'auto scivolò di un paio di metri o poco più, prima di fermarsi e offrirgli finalmente una visione più chiara. Dentro la corda c'erano cinque bambine, una fila compatta che andava su e giù scandendo il ritmo della filastrocca. La prima bambina era vicinissima a lui. La frangia fitta le saltellava sulla fronte bianca; teneva il mento all'insù e aveva un'aria sognante. Stava guardando sua figlia. Scosse la testa, spalancò la bocca senza emettere un suono. Era lontana solo una dozzina di metri, non c'erano dubbi. L'autista si risvegliò da una fantasticheria di ingiustizie sociali e spinse avanti la leva del cambio. Procedevano di nuovo e stavano anche prendendo velocità. Stephen si contorse sul sedile per guardare fuori dal vetro posteriore. Qualcuno aveva inciampato un'altra volta, c'era una gran confusione; era difficile distinguere le facce. Aveva perso di vista Kate, ma tornò a individuarla brevemente mentre si chinava per raccogliere qualcosa da terra. «Si fermi, sussurrò, si schiarì la voce e lo ripeté a voce più alta. Si fermi». Marciavano a una trentina di miglia orarie. Il semaforo successivo era verde e le ventate d'aria nel caldo asciutto stavano rinfrescando l'autista e restituendogli un certo frizzante ottimismo. «Ma non va poi tutto storto. Lì da noi, non ci sono capi. Ognuno bada a se stesso e fa un po' come gli pare o come può». La scuola era ormai a un mezzo miglio di distanza. «Si fermi!» «Che c'è?» «Faccia come le dico». «E tutti questi qua dietro?» Stephen diede uno strattone al volante, l'auto sterzò bruscamente sulla sinistra e l'autista non ebbe altra scelta che quella di inchiodare. A una velocità di meno di cinque miglia, raschiarono per tutta la sua lunghezza, la fiancata di un furgoncino parcheggiato. Alle loro spalle,
si levò un'orchestra di clacson. «Ma guardi cos'ha combinato!» gemette l'autista, ma Stephen ormai era sul marciapiede e stava per mettersi a correre. Quando raggiunse il posto, il cortile era deserto. Quello svuotamento di corpi e di chiasso recente rendeva più completa l'attuale desolazione, più lontani l'uno dall'altro i muretti di confine. Sull'asfalto restava come un avanzo di caldo. Gli edifici scolastici erano in stile tardo vittoriano, con finestre alte e tetti spioventi e angolosi. Da dentro veniva non tanto un suono quanto la sensazione percepibile di bambini confinati in classe. Stephen rimase immobile accanto all'ingresso, concentratissimo. Anche il tempo assumeva un che di proibito, di illecito; gli faceva rivivere il piacere della trasgressione, quell'esaltazione carica di significato che accompagna il trovarsi fuori da scuola al momento sbagliato. Dal lato opposto del cortile un uomo con un secchio di zinco gli veniva incontro, perciò Stephen si diresse deciso verso una porta rossa e l'apri. Non aveva alcun piano specifico, ma era chiaro che, qualora sua figlia si fosse trovata qui dentro, sarebbe stato abbastanza facile rintracciarla. Non provava alcuna emozione particolare adesso, solo un senso di pacata determinazione. Era accanto a una pompa antincendio montata sul muro, intorno a un cilindro rosso, al principio di un corridoio che terminava una ventina di metri più in là, con una porta a va e vieni. Il posto gli ricordava i suoi giorni di scuola: il pavimento a piastrelle rosse, le pareti smaltate color panna, facili da tenere pulite. Si incamminò lentamente per il corridoio. Avrebbe perlustrato l'intero edificio con metodo, considerandolo più come un agglomerato di nascondigli che come una scuola. La prima porta che si affacciava sul corridoio risultò chiusa a chiave, la seconda si aprì su uno sgabuzzino pieno di scope, la terza su una stanzetta di servizio dove l'occorrente per preparare il tè era sistemato su una cassetta capovolta. Seguivano altre due porte chiuse e subito dopo si raggiungeva quella a va e vieni. Mentre la superava, Stephen diede un'occhiata alle proprie spalle e vide l'uomo col secchio che entrava nel corridoio e si voltava per chiudere a chiave la porta rossa. Lui si affrettò a proseguire. Aveva raggiunto un atrio ben illuminato su cui convergevano altri due corridoi, più ampi e senza porte di separazione. C'erano vasi di fiori sui davanzali e disegni dei bambini appesi alle pareti. Su una porta socchiusa era affisso un cartello che diceva: «Informazioni e tasse scolastiche». Nella stanza, qualcuno batteva a macchina lentamente. Passando oltre, perché preferiva non essere visto, Stephen senti odore di fumo e di caffè. Una voce maschile esclamò: «Ma le salamandre non sono mica estinte!» e una donna replicò in un mormorio rassicurante: «Beh, quasi». Proseguì lungo uno dei corridoi più ampi, attratto da un poderoso frastuono
ritmico. Ai suoi piedi, le piastrelle di linoleum erano consumate fino al cemento sottostante lungo una fessura che si allungava davanti a lui. Si fermò di fronte a una porta sovrastata da un vetro semicircolare montato su un telaio metallico. Dal momento che, sbirciando dentro, non si vedeva altro che una distesa di palchetto, Stephen aprì la porta ed entrò in una palestra in fondo alla quale trenta bambini se ne stavano zitti in coda aspettando il proprio turno per saltare su una pedana e lanciarsi oltre un cavalletto di legno. A fermarli all'atterraggio su un tappetino di gomma piuma c'era un uomo maturo con gli occhiali appesi a una catena d'argento. Ogni volta che un bimbo rimbalzava sulla pedana quello emetteva un nitido «Oplà!» Rivolse uno sguardo distratto a Stephen, che intanto si era piazzato al lato opposto del tappeto per poter osservare i bambini quando si avvicinavano. Ci volle poco prima che le facce salterellanti assumessero l'aspetto astratto di piccole lune, forme circolari con un intero repertorio di espressioni da fumetto: quella terrorizzata, l'indifferente, la risoluta. Dovette osservare una metà della classe per rendersi conto di quale fosse l'esecuzione ideale dell'esercizio. I bambini dovevano, in teoria, atterrare sul tappetino a piè pari e restare un attimo immobili sull'attenti prima di correre via e riprendere posto in coda. Dato che nessuno riusciva a farlo, il maestro sembrava essersi adeguato a ciò che di meglio riusciva a ottenere: i bambini scattavano sull'attenti, in stile militaresco, dopo aver superato il tappeto barcollando. Da quella specie di direttore di circo che era, al maestro non scappò mai una sola parola di incoraggiamento o di istruzione. I suoi oplà non subivano alcuna variazione di tono. Non sembrava che avesse in mente di fare eseguire anche altri esercizi, perché non si vedevano in giro altri attrezzi. I bambini correvano direttamente dal tappetino alla fine della coda senza fiatare o toccarsi. Riusciva difficile immaginare che a un certo punto avrebbero smesso. Stephen se ne andò quando le facce cominciarono a presentarglisi per la seconda volta. Nel ricordo, tutto il tempo di quella ricerca condotta a scuola era scandito dai colpi sordi della pedana elastica e dal ritmico grido strozzato del maestro di ginnastica. Qualche minuto dopo se ne stava al fondo di un'aula affollata e osservava un'imponente maestra intenta a dare gli ultimi tocchi al disegno del villaggio medievale che aveva eseguito sulla lavagna. Le strade vi convergevano su un giardino triangolare colorato in verde intorno al quale si raggruppavano alcune capanne primitive. C'era la fonte del villaggio di dimensioni sproporzionate e, in lontananza, lo schizzo piuttosto curato del castello feudale. In un ronzio sommesso, i bambini presero le matite colorate e diedero inizio alla loro versione del soggetto. La maestra indicò al nuovo arrivato un posto vuoto a metà circa della classe e fu da qui, ben schiacciato contro il banco, che Stephen controllò i visi dei bambini mentre
a uno a uno si chinavano sul loro lavoro. La maestra gli comparve a un tratto di fianco e prese a sussurrare esageratamente sottovoce: «Sono tanto contenta che lei possa partecipare al programma. Se avesse dei dubbi su quello che deve fare non ha che da alzare la mano e chiedere». Con fare zelante, gli allargò di fronte un foglio di carta e gli porse una manciata di matite colorate. Stephen iniziò a disegnare il villaggio. Ricordava la sistemazione dei vari elementi come trent'anni prima. Doveva essere almeno la quarta volta in vita sua che raffigurava un villaggio medievale. Fu in grado di procedere speditamente, conferendo alla sua fila di capanne un grado di prospettiva mai raggiunto nel corso dei tentativi precedenti, e riuscendo a realizzare una realistica fontana che non superava in dimensioni la metà della capanna più vicina. Il maniero, che immaginò ad almeno mezzo miglio di distanza, gli diede qualche problema in più, costringendolo a rallentare e a levare gli occhi verso la lavagna sulla quale scopri alcuni utili dettagli architettonici. Mantenerli, tuttavia, significava infrangere le regole della proporzione, e il suo disegno prese così ad assumere il carattere primitivo dei tentativi precedenti. Mentre disegnava si guardò intorno. Per fortuna, tutte le bambine erano su un lato dell'aula, ma riusciva a vedere in faccia soltanto quelle immediatamente dietro di lui o alla sua sinistra. Spostandosi per migliorare il suo punto di osservazione fece scricchiolare rumorosamente il piccolo sedile di legno che occupava. Senza alzare gli occhi dal libro, la maestra esclamò con tono di minaccia: «Chi è l'agitato di turno?» Stephen abbassò il capo e tornò a disegnare. La porta si aprì e l'uomo del secchio infilò dentro la testa, rivolse un sorriso di scusa alla maestra, diede un'occhiata alla classe e sparì. C'erano tre bimbe brune alla sinistra di Stephen. Era difficile vederle bene perché tenevano il viso a pochi centimetri dal foglio da disegno. La più vicina si accorse di lui, chinò la testa di lato e gli sorrise, con aria graziosa e timida, senza smettere di mordicchiare la matita. Ci fu un movimento tra i primi banchi, seguito dal raschiare sonoro di una sedia sul pavimento. La maestra si rivolse all'intera classe. «Non c'è bisogno di copiare dal vostro vicino. C'è già tutto sulla lavagna». Passeggiò tra le file di banchi con pigro autoritarismo, fermandosi qua e là per sussurrare un appunto o un incoraggiamento. Era ancora a un buon cinque metri alle spalle di Stephen e già l'intera sua nuca ne aveva registrato l'avvicinamento. Raddrizzò il foglio di carta sul banco e si sforzò di vedere il proprio disegno attraverso gli occhi di lei. Avrebbe apprezzato i dettagli della sua fontana, la spaziatura volutamente irregolare tra una capanna e l'altra, l'invenzione del cavallo sistemato di fronte al maniero? Alcuni istanti prima di averla al suo fianco ne sentì il profumo. Le unghie laccate di una mano si fermarono per un attimo sullo spiazzo erboso del villaggio e subito dopo lei proseguì senza
un commento. La breve delusione che provò gli riuscì famigliare. Approfittò del fatto che la maestra gli desse le spalle per alzarsi dal banco e controllare i visi delle bambine. In effetti si stava verificando un generale rilassamento, un agitarsi di giovani membra costrette, un mormorio che aumentava via via di volume. La maestra si trovava sul lato opposto dell'aula, assorta sul disegno di uno dei maschi. Stephen prese coraggio e guadagnò rapido i primi banchi. Le bambine non facevano caso a quello sguardo che le scrutava. Il chiacchierio, ormai quasi un chiasso, stava sfiorando livelli da cocktail party, ma nessun altro si alzò. Fino a questo momento la maestra aveva finto di non sentire. Infine, raddrizzando la schiena, pronunciò severa l'antica formula, «Ho dato a qualcuno il permesso di parlare?» seguì un silenzio immediato, risentito. Nessuno aveva la risposta a quella domanda. Stephen rimase là fermo, accanto alla cattedra, e controllò i visi per l'ultima volta. La maestra incontrò il suo sguardo e gli disse senza il minimo accenno di ironia, «E chi ti ha detto che potevi alzarti dal posto?» Ci fu qualche risatina soffocata al fondo dell'aula. Il tempo che gli ci volle a raggiungere la porta si caricò di un intenso piacere; si trattava di uscire da quella fantasticheria, interrompere quel gioco che lo vedeva complice dell'autorità dell'insegnante, voltarle semplicemente le spalle e andarsene con tutta calma: era stato il suo sogno di scolaro, alimentato da ore e ore di noia e finalmente realizzato, anche se con trent'anni di ritardo. Ormai sulla soglia, si voltò e disse con tono educato, «Sono spiacente del disturbo». Quindi uscì in corridoio. In un tonante pestare di scarpe sulla superficie dura del pavimento e con l'energia trattenuta di un'onda di marea, gli si avvicinava una classe, forse due, di bambini che non osavano correre ma neppure riuscivano a tenere il passo di marcia. Tra uno scatto e un saltino, tiravano e spingevano, incalzandosi l'uno con l'altro. Le loro facce erano tese nell'anticipazione di un piacere imminente. La voce di un uomo ancora invisibile urlò furiosamente, «Camminare, ho detto di camminare!» Avanzarono a fiotto, inciampando, ruzzolando e dandosi gran gomitate, e quando raggiunsero Stephen che, per ragioni sue, non volle abbandonare la posizione al centro del corridoio, si separarono per poi riconvergere dopo di lui come se fosse stato un mero ostacolo fisico, un masso, una pianta, un adulto. Lo scenario che si offrì a Stephen fu quello di una distesa di teste saltellanti, per lo più scure o castano spento, ciocche di capelli arruffati, il balenare di un viso e qualche coppia che distrattamente scioglieva le mani intrecciate appena il tempo necessario per superarlo. Emanavano un odore non sgradevole e caldo, prodotto dallo sforzo fisico. Ogni bambino pareva eseguire un suo assolo di flauto, dal momento che nessuno aveva l'aria di ascoltare. Per quanto vicino gli passassero, Stephen non riuscì a cogliere in quel balbettio
il senso di una sola frase. Quelli che guardavano in su come uno che passi sotto un arco di scarso interesse architettonico, lanciavano bagliori improvvisi e ancora più vivi in quell'atmosfera spenta, di un verde brillante, di un nocciola dorato, di azzurri lattiginosi. Gli stessi colori delle biglie con cui giocavano, pensò. Le aveva prese, le biglie, comprando i regali? E fu a conferma evidente dei suoi impulsi folli e sinceri che, nel formulare a se stesso quella domanda, Stephen si ritrovò a fissare lo sguardo in ben noti occhi scuri ombreggiati da una frangia fitta, e a inginocchiarsi al livello della bambina appoggiandole gentilmente le mani sulle spalle e ripetendo il suo nome mentre i compagni si allargavano loro intorno, formando un muro indiscreto che non riusciva a star fermo e zitto. All'interno del cerchio l'aria era calda, umida e un po' buia. Gli parve di aver scoperto una nuova specie animale intelligente e curiosa. Non erano ostili; qualcuno gli teneva una mano sulla spalla e qualcun altro gli stava toccando i capelli. Li sentiva ansimare e sussurrare; si sentiva addosso il loro fiato, quando domandò: «Sai chi sono? Credi di avere mai visto la mia faccia prima d'ora?» Lo sguardo della bambina era assorto, si spostava sul volto di Stephen con attenzione. La voce, al contrario, suonò sbarazzina, ma niente affatto scortese. «No. Comunque, io non mi chiamo Kate, ma Ruth». Tentò di afferrarle le mani, ma si sbagliava. La piccola le nascose intrecciandole dietro la schiena. «Una volta mi conoscevi benissimo, le disse con calma, desiderando di poter stare solo con lei. Ma sono passati tre anni. Hai dimenticato, ma ti tornerà in mente». Lei si sforzava di ricordare, o almeno faceva finta, ansiosa di collaborare. «Sei venuto a mangiare a casa mia una volta, con un cagnone rosso?» Stephen scosse il capo. Stava scrutando il viso di Kate e tentava di dedurre il tipo di vita che aveva condotto. Non c'erano segni di maltrattamenti. La novità più sorprendente era un neo scuro sulla guancia destra. Aveva i denti un po' storti: ci voleva l'apparecchio; avrebbe fissato un appuntamento con il dentista prima che fosse troppo tardi. C'erano molte cose da sistemare. Per esempio questa decrepita scuola ex statale, era poi proprio il posto adatto a lei? Le stavano facendo prendere le lezioni di chitarra che le avevano sempre promesso? Kate rifletteva mordicchiandosi l'unghia del pollice. A ben guardare, aveva tutte le unghie morsicate fino alla carne viva. «Non sei lo zio Pete, vero?, disse alla fine. Quello che si era rotto la schiena?» Stephen aveva voglia di urlare in quel corridoio in modo che tutti i bambini sentissero, sono tuo padre, il tuo vero padre. Tu sei mia figlia, sei mia, sono venuto a prenderti per portarti a casa. Ma la situazione era delicata; doveva cercare di mantenere il controllo. Così, si limitò a mormorare, «Ti sei dimenticata chi sono. Ma non fa niente». E meno male. Alle estremità esterne della folla, ci fu un certo tramestio, poi
la testa rotonda e arruffata di un uomo adulto sovrastò il muro di bambini, sbirciando nel buio. «Posso esserle utile?» il tono sospettoso quasi soffocava le parole. «Non andare via», sussurrò Stephen con aria di complicità. Kate annuì. Le erano sempre piaciuti i segreti. Si fece largo gentilmente tra i bambini verso il maestro che era indietreggiato di qualche passo. Ancora compreso nel suo stato mentale sicuro e pieno di buone intenzioni, Stephen voleva afferrare l'uomo per un gomito e allontanarsi con lui dalla scolaresca, ma quello si mise le mani sui fianchi e rifiutò di seguirlo. «Lei è un genitore, un tutore?» domandò. Era un ometto tozzo, brevilineo e si teneva ben dritto per sfruttare al massimo l'altezza non eccessiva. «Ecco, vede, è proprio questo il punto», prese a dire Stephen, ma lo bloccò il vigore malfermo della sua stessa voce. Tentò di nuovo, deciso a tagliar corto sulla faccenda. «La nostra bambina ci è stata sottratta, rapita, quasi tre anni fa. E credo di averla trovata. Quella bimba che dice di chiamarsi Ruth è mia figlia. Naturalmente non mi ha riconosciuto». La voce annoiata dell'uomo copri le ultime parole di Stephen. «Stavamo per partire per una gita scolastica. Ma l'accompagno dal direttore. Lui può darle una mano. Queste cose non mi competono davvero». Mentre il resto dei piccoli veniva spedito ad aspettare nel cortile di ricreazione, il maestro, Stephen e Kate ripercorsero il corridoio fino al tratto con i vasi di fiori e i disegni appesi alla parete. La bambina si teneva a una certa distanza da Stephen. Forse temeva che avrebbe cercato di prenderle ancora la mano. Ma appariva interessata, persino un po' emozionata e, mentre camminavano in silenzio, d'improvviso esegui un doppio saltello per poi subito guardare in su e controllare se lui aveva notato. Al suo sorriso, rispose voltando la testa. Si fermarono davanti alla porta con il cartello un po' storto e il maestro fece loro cenno di attendere fuori un momento. Prima di entrare, espirò, riducendo la propria statura di un paio di centimetri. Stephen pensò che poteva toccargli un minuto o due con sua figlia, da soli, e si voltò nella sua direzione, ma quasi immediatamente il maestro cacciò fuori la testa invitandoli a entrare, per poi affrettarsi a tornare in fondo al corridoio senza far caso ai ringraziamenti di Stephen. Un'intera parete dell'ufficio del direttore era costituita da un vetro, schizzato di fango e di pioggia, dal quale si poteva godere la vista di un angolo del cortile e di una striscia di cielo grigio e perturbato. Ne risultava una luce piatta e cruda che negava agli oggetti colore e volume e faceva apparire il direttore, un tipo snello dall'aria militaresca, come ritagliato su un cartoncino. A contribuire all'effetto, quando Stephen e la bambina entrarono quello non si mosse, non batté ciglio né disse una parola, ma continuò a fissare il lato opposto della stanza. Stephen stava per presentarsi,
ma Kate lo fermò mettendogli una mano sul braccio. Passò una ventina di secondi prima che il direttore rilassasse i muscoli della faccia e dicesse con tono brusco, «Mi perdoni. Stavo controllando certe questioni, qui. Dunque...» Stephen si presentò e domandò scusa per aver rubato al signor direttore un po' del suo tempo prezioso. Era circa a metà del suo discorsetto quando si rese conto di non aver piacere di proseguire nella spiegazione del caso in presenza di Kate. Quando le avesse rivelato la sua identità, desiderava poter parlare liberamente e confortarla senza estranei intorno. Di sicuro sarebbe stato un momento delicato. Si interruppe e le chiese se non le spiaceva di aspettare fuori un minuto. Le tenne aperta la porta e la seguì con lo sguardo, finché non ebbe preso posto su una sedia dall'altra parte del corridoio. Il direttore aveva la voce querula. «Non capisco perché prima abbia voluto farla venire qui». Stephen spiegò che non aveva avuto tempo di riflettere. «In ogni caso, così avrebbe saputo di quale bambina stavo parlando», disse, prima di ripetere il breve rapporto semplificato che aveva offerto poc'anzi. Il direttore si alzò dalla sedia e rimase in piedi davanti alla finestra, a braccia conserte. Era un tipo serio, lento nei gesti e pareva da poco guarito da una malattia grave. Il suo sguardo critico si era fissato sull'abito di Stephen, sui bottoni mancanti, la bruciatura, le scarpe non lucidate, le macchie sulla camicia. Personalmente, credeva nelle apparenze. «In un supermercato, dice. Conferì alla parola supermercato una sorta di borghese disonestà. Immagino che al tempo si sia rivolto alla polizia». Stephen controllò la propria collera mentre spiegava come si erano svolte le indagini, e come il caso fosse anche finito sui giornali e alla televisione. Il direttore tornò dietro la scrivania e si protese in avanti appoggiandosi sulle nocche delle dita. «Signor Lewis, disse, sottolineando il "signor" per rilevare l'assenza di titoli. Conosco Ruth Lyle da quando era piccola. Sono in rapporti con suo padre, Jason Lyle, da parecchi anni e per un certo periodo siamo stati anche soci. Jason fa parte di un gruppo di illustri uomini d'affari che ha acquistato questa scuola dalle autorità competenti dello Stato. Lui e sua moglie hanno in tutto cinque figli e le posso assicurare che non ne hanno rapito nessuno». Stephen aveva una gran voglia di sedersi, ma questo era invece proprio il momento di stare in piedi. «Io conosco mia figlia. E quella bambina là fuori è lei, è mia figlia». Di fronte al pacato tono monocorde di Stephen, la voce del direttore si raddolcì. «Due anni e mezzo sono tanti. I bambini cambiano, lei lo sa. E per di più, lei vuole assolutamente che si tratti di lei. Il cervello può fare dei brutti scherzi, dopotutto».
Stephen scuoteva il capo. «La riconoscerei ovunque. È Kate». Il direttore era tornato ai suoi modi di prima. Stava ritto sull'attenti accanto alla scrivania con una mano appoggiata allo schienale della sedia come se posasse per un ritratto da appendere alla Mensa del personale dirigente. Stephen notò con sollievo le macchie di grasso sulla cravatta dell'uniforme scolastica. «Senta, signor Lewis. Si possono trarre due conclusioni. O lei sta commettendo uno spiacevole errore, oppure è un altro di quei giornalisti decisi a dare alla scuola qualche altra seccatura». Stephen si guardò intorno cercando qualcosa a cui appoggiarsi. Se fosse stato solo probabilmente si sarebbe allungato sul pavimento un paio di minuti. Parlò con una lucidità che non si riconosceva. «Non credo che sarà complicato risolvere questa faccenda. La polizia ha le sue impronte digitali, sono stati fatti esami del sangue, del patrimonio cromosomico e così via...» «Ha detto due anni e mezzo. D'accordo. Fece schioccare le dita in direzione della porta. La faccia entrare, per amor del cielo. Ho altro da sbrigare io, questa mattina». Stephen andò alla porta e l'aprì. Era seduta dove l'aveva lasciata e si scriveva sul dorso della mano con una penna a inchiostro verde. Avrebbe voluto parlarle e stabilire un contatto con lei, prima di rientrare. Gli occorreva qualcosa da opporre alla caustica sicurezza del direttore. La bimba si alzò e gli venne incontro. Quella dimostrazione di debolezza di fronte a tanta certezza nell'altro, l'enormità di ciò che andava rivendicando e l'assenza di prove immediate, il rimpianto per essersi vestito male, tutti questi fattori si risolvevano in un effetto fisico, un tremolio delle gambe, un disturbo diffuso alla superficie della retina, tanto che adesso la bambina che attraversava il corridoio gli parve più alta, più spigolosa, specialmente nelle spalle e nei tratti del viso. Lei gli rivolse uno sguardo indifferente. Erano quegli stessi occhi però, sotto la frangia, lo stesso pallore. Stephen si aggrappò a quei dettagli, concentrandosi al punto da non riuscire a proferire parola. Erano di nuovo nell'ufficio del direttore e l'indagine riprendeva da dove era stata interrotta. «Ruth, disse il direttore. Dimmi il tuo nome per intero e la tua età». «Ruth Elspeth Lyle, e ho nove anni e mezzo». «Signore». «Signore». «E da quanto tempo frequenti questa scuola?» «Contando anche l'asilo, da quando avevo quattro anni, signore». «E quanto fa in tutto?» «Cinque anni». «Signore». «Signore». Stephen scrollava il capo. La bambina lo stava tradendo. Quel suo fare
sicuro, troppo solerte, desideroso di compiacere, incominciava a irritarlo. Non sapeva tenere nulla per sé, non aveva segreti. Da dove si trovava poteva vederle il naso di profilo, come in lontananza, in una linea imprecisa. Se ne stava andando lontano, lo aveva abbandonato. Il direttore rivolse lo sguardo oltre Stephen, verso il fondo della stanza, «Signora Briggs, le dispiace cercarmi i registri degli ultimi cinque anni e portarmi quelli che si riferiscono alla scuola materna?» Solo ora Stephen si rese conto che alle sue spalle, in un angolo, era sistemata una piccola scrivania alla quale sedeva una donna con un abito a fiori, indumento bizzarro in una giornata fredda. La donna si alzò e fece scivolare il cassetto di uno schedario metallico. Il direttore prese il fascicolo e lo aprì di fronte a Stephen. Mentre l'altro allargava sulla scrivania una distesa di fogli pieni di nomi battuti a macchina e ne seguiva col dito l'elenco leggendoli a mezza voce, Stephen non lo guardava e non lo stava neppure a sentire. «Lyle, Ruth Elspeth, iscritta al semestre estivo, poco dopo aver compiuto i quattro anni...» Stephen stava pensando allo spirito di Kate, lo immaginava volteggiare alto su Londra, simile a quello di una libellula dai colori sgargianti, capace di assumere in volo velocità impensabili o di restare perfettamente immobile, in attesa di calarsi su un parco giochi o all'angolo di una via e di incarnarsi nel corpo di una bambina al quale infondeva la propria essenza speciale per dimostrare a lui di esistere ancora, prima di andarsene via di nuovo lasciandosi alle spalle solo un guscio vuoto, un ospite passeggero. Il direttore seguitava a sfogliare pagine di documenti in cerca di nuove prove. La bimba guardava avanti, immensamente soddisfatta di se stessa. I pensieri di Stephen tornarono a rivolgersi a questioni pratiche: tra quanto avrebbe potuto uscire da quella scuola? il cappotto: lo aveva lasciato sull'auto, e poi c'era la colazione mancata col primo ministro. Qualche minuto dopo, allontanandosi dall'ufficio, udì il direttore che con voce squillante diceva alla bambina, senz'altro allo scopo di farsi sentire da lui, che se quell'uomo le avesse parlato di nuovo avrebbe dovuto farglielo sapere al più presto. La bambina gli diede il proprio assenso entusiastico. Fu l'uomo col secchio di zinco a scortarlo fuori dal fabbricato. Mentre attraversavano il cortile, Stephen gettò un'occhiata nel secchio. Era vuoto. «Mi spiega perché si porta quel coso appresso?» Accompagnando Stephen oltre l'ingresso, l'uomo scosse la testa e gli rivolse un sorriso tirato, come a dire che quella era proprio una domanda imbecille e che di sicuro non si sarebbe scomodato a rispondergli. Avendo vissuto fino in fondo l'incontro folle che abitava costantemente ogni suo pensiero, Stephen finì col sentire che, se non era riuscito a esorcizzare la
propria ossessione, l'aveva almeno attutita. Incominciava a considerare l'insostenibile realtà che Kate non fosse più una presenza viva, una bambina invisibile sempre al suo fianco e che lui conosceva benissimo. Ricordando quanto Ruth Lyle avesse potuto assomigliare e non assomigliare a sua figlia, capì come Kate potesse essersi persa chissà dove, in due anni e mezzo di innumerevoli cambiamenti di cui lui non sapeva nulla. Era stato un pazzo e ora si sentiva purificato. Tornato a casa, aveva dormito fino al tardo pomeriggio, di un sonno profondo e senza sogni. Poi si era messo a risistemare l'appartamento. Aveva spostato di nuovo il divano contro la parete e rimesso il televisore in un angolo buio. Si era fatto un lunghissimo bagno. Poi non aveva resistito alla tentazione di versarsi abbondantemente da bere. Ma questa volta aveva portato il bicchiere alla scrivania, l'aveva messa un po' in ordine e si era seduto per rispondere a qualche lettera. Scrisse a Julie una cartolina affettuosa e tenera, nella quale le diceva di averla pensata in occasione del compleanno di Kate e le suggeriva di farsi viva se e quando lo ritenesse opportuno. Prese un taccuino e buttò giù alcune idee. Quindi, sentendosi incoraggiato, tolse la fodera impolverata alla macchina da scrivere e scrisse per un paio d'ore. A notte tarda si ritrovò sdraiato a letto nel buio, intento a fare elaborati progetti, prima di abbandonarsi a un secondo sonno tranquillo. Quando il mattino dopo squillò il telefono e la voce del vicesegretario prese a parlare all'altro capo del filo, Stephen ascoltò con pazienza, ma aveva già preso la sua decisione. Per prima cosa l'uomo espresse il proprio rammarico per il fatto che Stephen fosse saltato fuori dall'auto mandata a prenderlo. Stephen spiegò che aveva dovuto seguire le tracce di quella che gli era sembrata la figlia perduta molto tempo prima. «A proposito, l'autista vi ha fatto avere il mio soprabito?» «No. Se lo avesse lasciato lì, lo avrebbe fatto senz'altro». A quanto pare nessuno era mai mancato a una di quelle colazioni senza addurre scuse più che valide. Si era trattato di un'imperdonabile scortesia, ma per qualche ragione straordinaria, che il vicesegretario non nascose di disapprovare, a Stephen sarebbe toccata una seconda occasione; l'offerta di un altro invito. «Beh, disse Stephen, è un vero peccato. Non so che farmene di un altro invito». Il vicesegretario mostrò un cordiale disprezzo. «Che sciocchezze. E perché?» «Prima di tutto, ho da fare. Ho incominciato un lavoro, qualcosa di assolutamente nuovo per me...» «Ma non smetterà di pranzare per questo». «In secondo luogo, e mi creda, in questo non c'è nulla di personale, non mi va come il primo ministro ha ridotto il paese in questi anni. È un disastro, una rovina».
«Ma allora, perché accettare la prima volta?» «Ero un disastro anch'io. Depresso. Ora non più». Ci fu una pausa durante la quale il vicesegretario parve aggiustare il tiro. La sua voce si fece sofferente, quasi esprimesse una irresistibile legge fisica cui non poteva sottrarsi. «Temo, signor Lewis, di non poterle venire incontro. Il primo ministro desidera assolutamente incontrarla». «In tal caso, disse Stephen, sapete dove abito», e riattaccò. Andò in cucina a farsi il caffè e dieci minuti dopo, mentre attraversava l'ingresso con la tazza in mano, il telefono squillò di nuovo. Era il vicesegretario, molto mansueto, questa volta. «A quanto pare, sembra che abbiamo smarrito il suo indirizzo». Stephen glielo dettò, poi riappese e si affrettò a raggiungere la scrivania con il caffè.
Capitolo settimo Durante il periodo postbellico, per ragioni sentimentali, gli autori di testi per l'educazione dell'infanzia hanno misconosciuto il fatto che i bambini sono per natura egoisti. Ciò invece non deve sorprendere, in quanto essi sono programmati per garantire la sopravvivenza della specie. Introduzione al Manuale per l'educazione del bambino, HMSO Nel corso dei primi mesi dell'anno successivo, la commissione Parmenter si avviò al raggiungimento di un accordo sulla stesura definitiva del rapporto. A spianare la strada in questo senso contribuirono il logorio, la stanchezza e la scelta di formulazioni vaghe in caso di differenze d'opinione insormontabili. Tempestive retromarce ideologiche o l'improvviso abbandono di punti di vista eccentrici senza una totale perdita della dignità personale furono resi possibili dal suggerimento di Canham di limitare gli incontri a due sole volte al mese e dalle gradevoli colazioni offerte da Lord Parmenter ai singoli membri. Fu altresì suggerito al comitato che, per quanto potesse risultare impossibile essere il primo dei sottocomitati a consegnare la relazione finale dei lavori, sarebbe parso per lo meno inopportuno essere gli ultimi a farlo. Stephen contribuì per la sua parte. Sostenne quella che gli sembrò essere una tesi equilibrata, facendosi promotore da un lato di un certo grado di disciplina e dell'indicazione di alcune regole di base, la scrittura costituiva un atto sociale, un mezzo di comunicazione pubblico, e dall'altro dello spazio all'immaginazione, la scrittura arricchiva di fatto la vita privata e non doveva pertanto pagare lo scotto di occasionali idiosincrasie. Tale innocua argomentazione si rivelò facilmente assimilabile, almeno nella sua prima parte e Stephen non ricevette alcun invito a colazione con il presidente. La mattina in cui toccava a lui relazionare, il comitato si mostrò più impegnato a cancellare tutti i riferimenti all'A-B-C dell'apprendimento e a impedire ad uno dei ricercatori universitari di leggere un recente saggio dal titolo Egemonia di classe e grammatica prescrittiva. Entro la metà di marzo, il rapporto del sottocomitato Parmenter su Lettura e Scrittura, fu sottoposto alla Commissione per l'educazione infantile. Quasi tutti i partecipanti sentirono di aver assolto il proprio mandato realizzando un documento che era pacato nel tono e al tempo stesso autorevole nelle posizioni assunte. Gli organi di stampa espressero le proprie congratulazioni al presidente per l'assenza di una relazione di minoranza. Si tenne un ricevimento di commiato in un'ala remota e poco frequentata dell'edificio ministeriale la cui moquette a fiorami, nonostante fossero passati trent'anni dalla posa,
appariva tuttora sgradevolmente vivace e in grado di procurare tonificanti scosse elettriche a chi sfiorasse le maniglie di porte e finestre. A questa cerimonia Stephen arrivò tardi e andò via presto. Dopo Natale, gli incontri del comitato avevano cessato di rappresentare un rifugio di tempo organizzato nel caos dei suoi giorni sprecati. Le riunioni, ormai, lo annoiavano e minacciavano la sua precaria routine di lavoro, studio ed esercizio fisico. Stava imparando l'arabo classico dal signor Cromarty, un professore in pensione che abitava da solo al piano di sotto. Quattro mattine alla settimana scendeva da basso per la lezione, in uno studio freddo e spoglio, riscaldato soltanto da un calorifero a gas le cui deboli fiammelle gialle parevano esalare i fumi narcotizzanti di cui parlavano le liriche che il vecchio gli andava traducendo. A Stephen non interessava la lingua in sé, né la letteratura. Se il signor Cromarty gli avesse offerto di imparare il greco o il tagalog, sarebbe stato ugualmente soddisfatto. L'idea era quella di rianimarsi attraverso l'apprendimento di una cosa difficile; gli ci volevano regole, eccezioni e la spietata concentrazione necessaria a mandare a memoria i concetti. In effetti, rimase subito affascinato dall'alfabeto. Comprò una boccetta d'inchiostro e una penna speciale per fare esercizi di calligrafia. Nel giro di un mese si dedicò con passione alla grammatica, alle sue fiere dissomiglianze da quella inglese, la strana predominanza dei verbi le cui voci conferivano a cambiamenti appena percettibili drastiche gradazioni di significato; rammaricarsi (nadam) poteva trasformarsi in compagno di sbronza (nadim); un melograno in una granata; la vecchiaia, in libertà. Il suo maestro era calmo e severo nei modi; dava l'impressione che si sarebbe irritato parecchio qualora l'allievo avesse fatto tardi o non avesse eseguito le esercitazioni quotidiane. Per le lezioni il signor Cromarty indossava un abito scuro; dal gilet estraeva un orologio a catena in argento al cui quadrante rivolgeva le parole di commiato di ogni seduta. Nel suo appartamento aleggiava una miseria solenne, d'altri tempi, mobili nudi, pareti ingiallite con chiazze oleose di umido, porte e battiscopa la cui vernice marrone veniva via a scaglie, una fumosa stufa a kerosene piazzata nell'ingresso sotto la luce di una lampadina senza paralume. Non c'erano soprammobili, né quadri, né sedie imbottite, nessuna traccia del passato. I suoi lussi si riducevano ai versi preziosi e sensuali che il signor Cromarty amava e che generosamente citava, dapprima in arabo, poi in inglese antico, chiudendo gli occhi e sollevando il capo con l'aria di chi stia ricordando una vita trascorsa. «Ella era snella di vita, morbidamente tornite le sue caviglie, il ventre era sodo e ben fatto, senz'ombra del passar del tempo». Il signor Cromarty evitava Stephen per strada e scoraggiava ogni tipo di chiacchiera prima e dopo l'ora di lezione. Stephen non seppe mai come si chiamava di nome.
L'altro nuovo impegno di Stephen era il tennis, tre volte alla settimana in un campo coperto. Da più di vent'anni giocava in modo mediocre avendo subito un lento declino dai tempi in cui, adolescente, rappresentava la scuola ai tornei, senza peraltro distinguersi. Delle due ore, una era di lezione e l'altra di partita con l'istruttore, un americano nerboruto e quasi calvo che, sin dal primo incontro, gli aveva fornito un franco prospetto del compito che li attendeva. Occorreva distruggere e ricostruire da capo tanto il diritto quanto il rovescio. Anche il lavoro sulle gambe aveva bisogno di una bella risistematina. Per il momento non valeva neppure la pena di occuparsi del servizio. Ma nessuna di queste cose esigeva l'urgente trasformazione richiesta invece dall'atteggiamento mentale di Stephen. Nel corso di quel colloquio si trovarono vicini, ciascuno dalla sua parte della rete. Stephen non sapeva quale espressione assumere ascoltando il brusco rimprovero di quest'uomo al quale sborsava ingenti somme di denaro. «Lei è passivo. È fiacco di testa. Aspetta che le cose succedano, se ne sta lì sperando che vadano come vuole lei. Non si assume nessuna responsabilità nei confronti della palla, non fa nessun calcolo attivo per il colpo successivo. È inerte, senza midollo, mezzo addormentato, lei non si piace. La racchetta deve spostarsi indietro prima, lei deve andare a prenderlo, il colpo, piegarsi, gustare ogni movimento. È come se fosse da un'altra parte con la testa. Anche adesso, mentre le sto parlando. Crede di essere troppo in gamba per questo gioco? Si svegli!» Oltre all'arabo e al tennis, Stephen aveva il suo lavoro, e quando non vi si dedicava, leggeva indiscriminatamente: volumi formato guida telefonica, best-seller internazionali, quel genere di libri il cui vero scopo è raccontare ciò che accade in un sottomarino, un'orchestra, un hotel. Era di nuovo disposto a una controllata attività sociale di sera, ma risoluto a limitarne i confini entro l'ambito di consolidate e poco coinvolgenti amicizie maschili. Prima di Natale sua madre aveva contratto una malattia rivelatasi piuttosto lunga. Andò a trovarla sovente, prima in ospedale, poi a casa. Non era niente di grave, ma lei era troppo debole per offrirgli qualcosa di più di brevissimi frammenti di conversazione. Pur non potendosi considerare propriamente felice in quei mesi, almeno non era più catatonico. A volte gli pareva di prepararsi a un evento misterioso; si aspettava un cambiamento, non sapeva con chiarezza di che tipo, o forse addirittura uno sconvolgimento, e stava all'erta per cogliere i primi segnali, i primi piccoli indizi del fatto che la sua vita era sul punto di trasformarsi. I lunghi libri che leggeva lo facevano ragionare in termini di utili formule, di ricambio delle maree, variazioni di venti, sollevarsi delle tenebre. Ma non aveva dubbio di non averle ancora superate, le tenebre: dopotutto, si pagava ancora i più regolari contatti umani della settimana. I cambiamenti ci furono; ne mancarono invece gli annunci, nessun dettaglio di spicco che desse l'idea di uno schema più vasto. Al contrario, ci fu una
serie di improvvisi sviluppi privi di connessione apparente, il primo dei quali si verificò brutalmente una sera con due brevi scampanellate alla porta. Aveva finito di cenare e si accingeva a copiare in inchiostro parte di una poesia che avrebbe letto al signor Cromarty il mattino dopo. Per tutto il giorno non aveva smesso di nevischiare e, di ritorno dal tennis, Stephen aveva acceso nel camino un fuoco che ormai pareva ben avviato. Tirate le spesse tende in velluto, si era versato un po' di armagnac, aveva ridotto gli alcolici a un solo bicchiere al giorno, e la radio trasmetteva a basso volume un brano di solenne musica classica. Aveva già schizzato a matita i caratteri e pregustava il piacere di ripassare il primo, una linea curva sotto un triangolo di puntini, asciugando il pennino dorato con un straccerò di cotone. Quando squillò il campanello fece schioccare la lingua in segno di irritazione e, alzandosi, si attardò per rimettere il tappo alla boccetta dell'inchiostro. Compiendo quel gesto si chiese se, nei movimenti pacati e nel fastidio di fronte all'imprevisto, non stesse per caso incominciando ad assomigliare allo stesso signor Cromarty. La prima cosa che vide fu sangue, quasi nero nella luce fioca della scala: ne era completamente coperto il viso di un uomo che si teneva un sacchetto di carta marrone premuto al petto. L'origine di questo sangue non era evidente. Sembrava che gli colasse dai pori, cancellando i tratti somatici al punto che l'unica cosa ancora bianca erano le orecchie. In cima al mento si andavano formando delle gocce, quasi pronte a precipitare sul pacco. Nel breve silenzio sconvolto di Stephen, l'uomo si affrettò a dire con timidezza educata, «Mi dispiace moltissimo di disturbarla così tardi. Avrei... avrei dovuto telefonare prima...» La voce, che a Stephen suonò famigliare, non recava traccia di dolore fisico. L'uomo gli stava tendendo una mano sporca di sangue. «Harold Morley, mi conosce, faccio parte del comitato». «Ah, sì, disse Stephen, aprendo la porta di più e facendosi da parte. È meglio che venga dentro». Fu solo dopo aver chiuso la porta che riuscì a collegare Morley con il tizio dell'alfabeto fonetico, il cui brevissimo intervento era stato tagliato dalla relazione finale. Morley si stava fissando la mano e, dopo essersi accarezzato il mento, si controllò la punta delle dita. «Ho inciampato sulle scale». Stephen gli stava facendo strada verso il bagno. «Non è il primo». Morley dovette appoggiarsi allo stipite della porta, mentre Stephen riempiva d'acqua il lavandino e si rimboccava le maniche. «Sa, credo di essere svenuto per un paio di minuti». «Certo è mal ridotto, disse Stephen. È meglio che si lasci dare un'occhiata». Morley proseguì come parlando a se stesso. «Ricordo di essere caduto e ricordo di essermi tirato su, ma deve esserci stato qualcosa in mezzo. Ne sono certo». Stephen stava versando del liquido disinfettante nell'acqua. L'odore accrebbe
in lui la consapevolezza della propria efficienza. Morley si tolse la camicia. Il taglio era in alto, sulla fronte, lungo poco più di un paio di centimetri e stava già incominciando a coagulare. Mentre Stephen gli passava la spugna sul viso e sulla testa Morley, rivolto all'acqua che si andava arrossando, ripeteva confusamente il racconto della caduta. Quando Stephen ebbe finito, la schiena sottile e chiazzata dell'uomo prese a tremare. Appena tentò di mettersi eretto, perse l'equilibrio. Stephen lo fece sedere sul bordo della vasca, gli diede un asciugamano e preparò una fasciatura di fortuna. A questo punto Morley tremava violentemente. Stephen gli diede un maglione pesante, lo avvolse in una coperta, lo condusse in studio e lo sistemò su una poltrona accanto al fuoco. Versò del caffè forte in una tazza e ci buttò dentro una mezza dozzina di cucchiaini di zucchero. Morley però non ce la faceva a reggere la tazza da solo. Mentre gliela prendeva, Stephen senti i suoi denti battere contro il bordo. Dieci minuti dopo Morley si era calmato e si stava profondendo in scuse elaborate. Ancora cinque minuti e l'ospite si addormentò. Stephen tracannò d'un colpo l'armagnac, se ne versò un altro e fu sorpreso di scoprire che poteva benissimo tornare alla preparazione della sua lezione per il giorno dopo. Di quando in quando, dava un'occhiata a Morley. La fasciatura tutta sbrindellata produceva un effetto comico ed era tenuta a posto solo dal sangue rappreso. «Ella mi mostra una vita sottile e sinuosa come la briglia di un cammello e stinchi levigati come steli flessuosi di papiri d'acqua...» Poco dopo contemplava il proprio lavoro finito e gli sarebbe piaciuto sapere se qualcun altro, oltre a Cromarty, sarebbe mai stato capace di dare un senso a quei minuscoli cerchi, ghirigori e lineette che galleggiavano liberi sopra il rigo per chiudersi poi in improvvisi tratti uncinati. E se si fosse trattato di un codice personale, di un complicatissimo gioco ideato da un vecchio per passare il tempo? Dopo un sonno di un quarto d'ora, Harold Morley iniziò ad agitarsi. Di colpo scattò sull'attenti sulla poltrona, il viso teso e il tono minaccioso. «Dov'è?» domandò. Quindi, mutando drasticamente espressione, socchiuse gli occhi e si batté la faccia con il palmo della mano. «Oh, Dio. Il taxi. L'ho lasciato sul sedile». Stephen andò nel bagno e raccolse da terra il sacchetto di carta marrone. Poi passò in cucina a prendere la caffettiera. Quando tornò in studio, Morley aveva recuperato la memoria. Era in piedi accanto al camino, intento a controllare l'impiastro di garza che si era tolto dalla ferita. «Ho preso una bella botta». «Può darsi che debbano darle qualche punto, disse Stephen. Credo proprio che le converrebbe occuparsene questa sera stessa». Consegnò a Morley il pacco. L'ospite stava guardando le bottiglie di alcolici.
«Lo apra e ci dia un'occhiata. Prenderei uno scotch, se non le dispiace». Stephen versò da bere per tutti e due. Sotto lo sguardo interessato di Morley sedette a esaminare il libro che aveva estratto dal sacchetto di carta inzaccherato di sangue. Sulla povera copertina in tinta unita si leggeva la parola «Bozza»; poco sotto era stata applicata alla meglio un'etichetta bianca con su scritto «Lettura riservata Codice E-8. Copia n. 5». Le prime pagine erano bianche. Stephen arrivò all'introduzione e lesse, «Durante il periodo postbellico, per ragioni sentimentali, gli autori di testi per l'educazione dell'infanzia hanno misconosciuto il fatto che i bambini sono per natura egoisti. Ciò invece non deve sorprendere, in quanto essi sono programmati per garantire la sopravvivenza della specie». Fece scorrere le pagine procedendo dal fondo e si fermò sull'intestazione di alcuni capitoli. «Disciplina mentale», «Il superamento della pubertà», «Sicurezza nell'obbedienza», «Maschi e femmine, vive la différence», «L'utilità della sculacciata». In quest'ultimo capitolo lesse, «Coloro che si scagliano dogmaticamente contro ogni forma di castigo fisico, si ritrovano poi a utilizzare nei riguardi dei bambini tutta una serie di punizioni psicologiche: la sottrazione di privilegi o incoraggiamenti, l'umiliazione di orari anticipati per il sonno e così via. Non esiste alcuna prova sicura che tali forme di castighi a lunga scadenza, i quali per altro possono far perdere al genitore molto tempo prezioso, causino minor danno di uno scappellotto sulle orecchie o di un paio di sculacciate sonore sul fondo schiena. Il buon senso suggerisce anzi il contrario. Dategliele una volta di santa ragione! È probabile che non dovrete farlo mai più». Morley attese, alzandosi a un certo punto per tornare a servirsi di scotch. Stephen seguitava a sfogliare. Una vignetta mostrava due bambine impegnate nel gioco. Sotto, la didascalia diceva, «Non c'è nulla di male in questo asse o ferro da stiro in miniatura. Permettete alle vostre bambine di esprimere la loro femminilità!» Infine Stephen rimise il libro nel sacchetto e lo gettò sulla tavola. La commissione stava ancora raccogliendo i rapporti dei quattordici sottocomitati e la fine dei lavori non era prevista che fra quattro mesi. Il suo unico desiderio fu quello di chiamare il padre al telefono e congratularsi con lui per la sua lucidità di giudizio. Ma avrebbe potuto farlo di persona quando lo avesse visto nel corso della settimana. Morley disse, «Forse dovrei dirle come mi è capitato fra le mani». Un membro non troppo influente dell'Amministrazione, il cui nome era rimasto ignoto a Morley, gli aveva telefonato in ufficio chiedendogli di incontrarlo in un vicino caffè frequentato da operai. A quanto pare, l'uomo si occupava di pubblicazioni dello Stato. Apparteneva alla vasta schiera dei funzionari amministrativi insoddisfatti; ogni anno ne finivano in tribunale due o tre, accusati di tradimento o roba
del genere. Ma non era quello il motivo essenziale che lo spingeva a fargli avere il testo, quanto piuttosto il caso, che gli garantiva, nel farlo, totale immunità. La notte prima, qualcuno aveva fatto irruzione nell'ufficio in cui lavorava. I ladri avevano rivolto il proprio interesse essenzialmente a sofisticati macchinari per ufficio: si erano insomma portati via la macchina per il caffè e quella per il brodo in tazza. L'uomo di Morley era stato il primo a trovarsi sul luogo del furto il mattino successivo. Aveva infilato il libro nella sua valigetta e lo aveva registrato come uno degli articoli contenuti in una piccola cassaforte di cui i ladri si erano in qualche modo impossessati. Il libro era arrivato alla tipografia dello Stato tre mesi prima e ce n'erano ormai dieci copie rilegate in circolazione negli alti uffici dell'Amministrazione e tre o quattro presso i gabinetti dei vari ministeri. Ciascuna copia era difesa dalla massima sicurezza come un qualsiasi documento coperto dal segreto militare. Si doveva infatti solo a una trascuratezza del personale operativo il fatto che quella copia in particolare non si trovasse nella cassaforte rubata. Il funzionario di Morley riteneva che l'intenzione fosse quella di pubblicare il testo un paio di mesi dopo che la commissione avesse completato la sua relazione, dichiarando ovviamente che il manuale era il risultato di quei lavori. Restava poco chiara la ragione per cui le bozze avessero incominciato a circolare con tanto anticipo. «Forse, disse Morley, a Downing Street occorre il consenso di qualche ministro per ragioni politiche». Stephen disse, «Non vedo perché dubitare del fatto che la commissione potesse mettere insieme il testo che volevano. Sono stati loro a designare il presidente e tutti i presidenti dei sottocomitati». «Non potevano rischiare, disse Morley. Anche se ci hanno provato. Ma non potevano essere certi che i grandi, buoni, illustri esperti radunati per il bene pubblico arrivassero a concepire proprio il manuale giusto. Gli adulti la sanno lunga». Morley si passò le dita sul taglio e strizzò gli occhi. «Comunque, questa è la serietà con cui lavorano. L'ha sentita di sicuro la storia di come la nazione si appresta a trovare nuovo vigore nella riforma dell'educazione per l'infanzia». Disse che il capo cominciava a pulsargli e che voleva tornarsene a casa. Spiegò di essere venuto per discutere il da farsi. Non poteva parlarne con sua moglie perché anche lei lavorava nell'Amministrazione, come ufficiale medico, e non voleva coinvolgerla. «Mi medicherà lei, una volta a casa». Non potendo sperare di scatenare molto di più di un certo grado di imbarazzo, la faccenda fu presto sistemata. L'accordo fu che Stephen avrebbe fatto una copia del testo per un giornale e avrebbe quindi conservato l'originale nel suo appartamento; il numero di identificazione sarebbe stato cancellato dalla copertina al fine di proteggere il funzionario dell'Amministrazione. Stephen chiamò per telefono un taxi e, mentre
aspettavano che arrivasse, Morley parlò dei suoi figli. Aveva tre maschi. L'amore che provava per loro non costituiva solo una gioia, ma anche un modo per non scordarsi la propria vulnerabilità. Nei momenti di massima crisi ai giochi olimpici, lui e la moglie erano rimasti svegli tutta la notte, ammutoliti dalla paura per i loro ragazzi, terrorizzati dalla propria impotenza a difenderli dal pericolo. Sdraiati vicini, non erano neppure più in grado di dar voce ai pensieri, quasi cercavano di non ammettere con se stessi di non poter chiudere occhio. All'alba, il più piccolo si era arrampicato come al solito nel loro letto e solo allora sua moglie era scoppiata a piangere con tale strazio che alla fine Morley si era visto costretto a riportare il bambino nella sua stanza e a rimanere a dormire con lui. Più tardi lei gli aveva confessato che a farla cedere era stata la fiducia assoluta del piccolo: quel bimbo pensava che per essere al sicuro bastasse raggomitolarsi sotto le coperte accanto alla mamma, ma siccome non era così, siccome poteva essere distrutto nel giro di pochi minuti, le era sembrato di averlo tradito. Ricordando la propria incivile noncuranza di quel periodo, Stephen scosse il capo senza dire nulla. Dopo che Morley se ne fu andato, entrò nella stanza vuota della figlia e accese la luce. C'era ancora un cestino per la carta straccia pieno di cose sue sul materasso del lettino di legno. La stanza odorava di umido. Si inginocchiò e aprì la valvola del calorifero. Rimase per un momento accucciato a terra, verificando le proprie emozioni; non c'era più smarrimento in quello che provava, ormai era un fatto, come un muro altissimo. Ma immobile, indifferente. Un fatto. Pronunciò quella parola a voce alta, come una maledizione. Tornato in studio, avvicinò al fuoco la poltrona di Morley e ripensò alla sua storia. Li vedeva, marito e moglie, distesi supini uno accanto all'altra come statue di pietra su una tomba medievale. La guerra atomica. Di colpo, come un bambino, ebbe paura di spogliarsi e di andare a letto. Il mondo fuori da quella stanza, persino fuori dai suoi vestiti, gli sembrava cattivo, spietato oltre i limiti della ragione. La fragile sanità mentale acquisita era in pericolo. Non si muoveva da venti minuti e gli pareva di sprofondare. Il silenzio aumentava di volume. Fece un enorme sforzo e si piegò in avanti per riattizzare il fuoco. Si schiarì rumorosamente la gola per sentire la propria voce. Quando le fiamme raggiunsero il carbone appena aggiunto, si abbandonò sulla poltrona e, prima di addormentarsi, promise a se stesso di non mollare. Aveva lezione il mattino dopo alle dieci e, alle tre, era atteso al campo da tennis. La convalescenza della madre di Stephen era incominciata in febbraio. Le fu dato il permesso di lasciare il letto dopo pranzo, fino al tardo pomeriggio. Non appena avesse fatto più caldo, avrebbe potuto fare passeggiate di poche centinaia di metri e recarsi fino all'ufficio postale. Nel corso della malattia
aveva perso sette chili e, quasi del tutto, la vista da un occhio. Lavorare a maglia, leggere o guardare la televisione le affaticavano l'occhio sano, quindi i suoi svaghi attuali si riducevano essenzialmente alla radio e alla conversazione. Come tante donne della sua generazione non le andava di parlare dei propri disagi fisici. Un giorno suo padre dovette assentarsi mezza giornata da casa per andare a far visita alla sorella, pure lei malata, e chiese a Stephen il favore di venire a far compagnia alla madre. Lui fu ben lieto di accontentarlo: gli piaceva incontrare i suoi genitori separatamente; era più semplice rompere con gli schemi abituali, il che lo faceva sentire meno confinato al suo ruolo di figlio. E c'era la possibilità di riprendere quella conversazione incominciata in cucina sei mesi prima. Fu sorpreso di essere accolto da lei sulla porta e di vederla di nuovo in abiti da tutti i giorni anziché con la solita vestaglietta rosa shocking. Il dimagrimento le aveva tirato un poco la pelle del viso, conferendole un aspetto illusoriamente più giovanile, il cui effetto era accresciuto da quella benda sbarazzina sull'occhio. Dopo essersi brevemente abbracciati, lei gli fece strada verso il soggiorno mentre Stephen si congratulava dei suoi progressi e le rivolgeva una scontatissima battuta sulla sua somiglianza con un pirata. Sua madre si scusò di un caos percettibile solo a lei stessa. Una delle ragioni per cui non vedeva l'ora di recuperare le forze, disse, era che voleva incominciare a mettere a posto la casa. Benché non un solo oggetto apparisse in disordine, Stephen commentò che era buon segno che si sentisse così. Mentre un indizio di quanto fosse tuttora debole fu che, dopo appena qualche protesta di rito, gli permise di preparare il tè in cucina. Non smise tuttavia di gridargli istruzioni attraverso il portello aperto del passavivande e, mentre lui non guardava, tirò fuori il servizio di tovagliette da tè e le sistemò sulla tavola, pronte a ricevere tazze e vassoio. In cucina, Stephen attese che il bollitore fischiasse e controllò il contenuto di innumerevoli scatole di pillole medicinali. L'intensità iridescente di quei rossi e quei gialli suggeriva l'idea del potere tecnologico, di un incisivo intervento all'interno del sistema. Poco più in là, un'innovazione era rappresentata da un grosso cartello, scritto dal padre, su cui erano elencati i numeri del dottore in caso di emergenza e quelli di alcune compagnie private di ambulanze. La signora Lewis si incaricò di versare il tè, sebbene la mano le tremasse per il peso della teiera. Finsero entrambi di non vedere gli schizzi sul vassoio. Parlarono del tempo; secondo le previsioni, i primi annunci della primavera sarebbero stati preceduti da forti nevicate. La signora Lewis eluse abilmente le domande del figlio circa l'ultima visita del dottore. Discussero invece della malattia della zia di Stephen, domandandosi se il signor Lewis avesse fatto bene ad avventurarsi attraverso il West London a bordo di un mezzo
pubblico. Accennarono all'opportunità di stampare libri a caratteri cubitali. Dopo venti minuti, Stephen incominciò a temere che sua madre potesse stancarsi prima che gli riuscisse di condurre la conversazione dove voleva. Così, alla prima breve pausa tra una chiacchiera e l'altra, le disse: «Ti ricordi quelle biciclette nuove di cui mi avevi parlato?» Sembrava che se lo aspettasse. Sorrise immediatamente, «Tuo padre ha le sue ragioni per volerle dimenticare». «Vuoi dire che finge di non ricordarsi?» «Fa parte dell'addestramento di un aviatore dell'esercito. Se una cosa fa disordine o ingombra, sbarazzatevene». Parlava con tono affettuoso. Prosegui, «Il giorno in cui comprammo quelle biciclette fu un giorno difficile per tutti e due. A lui va di pensare che tutto quel che è successo da allora doveva venire per forza, che non c'è mai stata possibilità di scelta. Dice che non si ricorda, così non ne parliamo mai». Benché la sua voce fosse ancora pensosa e priva di ogni malanimo, una certa fermezza nelle ultime parole pareva annunciarsi come pretesto di qualche rivelazione indiscreta. Vi si percepiva anche la volontà di un po' di mistero e un pizzico di autocompiacimento drammatico. Si abbandonò sulla sedia tenendo la tazza sollevata di qualche centimetro dal piattino, in attesa di un incoraggiamento a continuare. Stephen ebbe cura di non mostrarsi troppo interessato; sapeva quanto fosse facile scatenare in lei i sensi di colpa per la fiducia tradita. Lasciò passare alcuni secondi prima di dire, «Immagino che quarant'anni siano comunque tanti». Sua madre scuoteva la testa con enfasi. «La memoria non ha niente a che fare con gli anni. Certe cose si ricordano e basta. L'attimo in cui per la prima volta ho visto tuo padre è vivo in me adesso, come lo è sempre stato». Stephen conosceva in parte la storia del primo incontro dei suoi genitori. Ma capiva che si trattava soltanto di una prova offerta per riconfermare l'indifferenza del tempo nei processi della memoria, di un suo modo per arrivare a quel che voleva dirgli. Nei primi tre anni dopo la guerra, la madre di Stephen, Claire Temperley, aveva lavorato nel grande magazzino di una cittadina commerciale del Kent. Ancora non si era registrato appieno l'impatto sociale della guerra; in particolare, la scomparsa di un'intera categoria di domestici e, con essa, di un certo modus vivendi della borghesia meno abbiente, cosicché il magazzino, una specie di Harrods di provincia disposto su due piani, seguitava a vantare qualche pretesa di decoro prebellico. «Non era il genere di negozio dove mia madre sarebbe andata volentieri a fare le sue spese. L'avrebbero fatta sentire fuori posto». Giovanotti in divisa blu, galloni d'argento e berretti con l'emblema della ditta, attendevano
vicino alle porte girevoli, pronti a scortare le clienti al reparto desiderato attraverso le sale di moquette color prugna. Se le commesse erano già impegnate, la signora veniva invitata ad accomodarsi su una comoda sedia. I ragazzi non facevano che dire «signora» e fare il gesto di levarsi il berretto ma non prendevano un soldo di mancia. Anche le commesse, tutte ragazze, portavano la divisa e ne erano responsabili in prima persona. Ogni mattina prima dell'apertura, si mettevano tutte in fila per l'ispezione della signorina Bart, l'anziana capo del personale. Costei aveva il vezzo di controllare con attenzione particolare i fiocchi bianchi inamidati che le «sue ragazze» si annodavano a vita. Le più semplici e meno raffinate dovevano concentrarsi su una buona dizione priva di accento e parlare senza mai allentare i muscoli delle labbra. Se non c'erano clienti da servire, dovevano restare dietro i banconi di mogano e non ciondolare o chiacchierare fra loro del più e del meno; si esigeva invece che apparissero pronte e cordiali, ma non invadenti, il che significava che non dovevano mai essere le prime a osservare la cliente, ma aspettare che succedesse il contrario. Occorreva un paio di mesi per imparare il trucco». Claire aveva venticinque anni e abitava ancora coi suoi, quando iniziò a lavorare. Era uno strano miscuglio di timidezza e di indipendenza. «Ce l'avevo fatta a sgusciare fuori da due matrimoni, ma era stata mia madre a fare i discorsi di commiato al posto mio». In ogni caso, famiglia e amici incominciavano a preoccuparsi della sua età e a farle presente che le restavano ancora un anno o due, non di più. Era graziosa in modo vivace, garrulo. Non era l'ambizione ma l'energia nervosa e il timore della critica a farla lavorare tanto scrupolosamente. Persino la signorina Bart, universalmente temuta, finì con l'apprezzare la sua puntualità e col riconoscere che i suoi fiocchi erano sempre più puliti e annodati meglio degli altri. Imparò la lingua elegante delle commesse, se la signora volesse seguirmi da questa parte, prego... e fu una delle poche dipendenti ad essere trasferita in un nuovo reparto ogni sei mesi, «probabilmente perché i pezzi grossi pensavano in quel modo di favorirmi e promuovermi». Fu per questa ragione che si trovò a iniziare da capo nel reparto orologi, dopo essere stata in quello di articoli da merceria, la responsabile del quale era stata per lei come una seconda madre, facendole sentire di meno l'ansia di non essere ancora sposata. Il suo principale, adesso, era il signor Middlebrook, un uomo alto e magro, capace di mettere in soggezione tanto i subalterni quanto i clienti con i suoi modi asciutti e sarcastici. Aveva in fronte un'ampia voglia di fragola, e tra le ragazze correva voce che «a posarci lo sguardo sopra per più di un secondo, si rischiava il licenziamento in tronco». Il signor Middlebrook non era cattivo, ma manteneva con le
ragazze un atteggiamento distaccato e aveva un vero talento per farle sentire cretine. Era piuttosto infrequente vedere un uomo tra i clienti del magazzino. Si trattava di un luogo tranquillo, profumato, da donne. Ogni tanto, si presentava un signore non più giovane, che appariva ampiamente a disagio nell'acquisto di un regalo d'anniversario per la moglie e che si abbandonava felice alla commessa disposta a guidarlo per mano e a offrirgli rispettosi suggerimenti. Poi c'erano le giovani coppie di sposi o fidanzati, che «arredavano il loro nido» e fornivano materiale di pettegolezzo alle commesse durante la mezz'ora di intervallo per il pranzo. Ma un uomo giovane da solo nel negozio, un bell'uomo con i baffi scuri, tutto distinto nel grigio-azzurro di una divisa della Raf, non poteva non suscitare scalpore. La notizia del suo arrivo venne telegrafata dal piano terra. Le ragazze levavano dai banconi sguardi carichi di disponibile cordialità. Seguito, non preceduto, da uno dei paggi all'ingresso, l'uomo attraversò la silenziosa distesa di moquette color prugna diretto al reparto di Claire; teneva il berretto sotto un braccio e un orologio sotto quell'altro e chiese di vedere il signor Middlebrook. Mentre qualcuno andava a chiamarlo in ufficio, l'uomo appoggiò orologio e berretto sul banco di vetro, si mise a suo agio, con le mani dietro la schiena, e prese a fissare un punto davanti a sé. Era un uomo di aspetto robusto e con un portamento particolarmente eretto. Possedeva l'avvenenza ossuta e superficiale in voga a quei tempi. Sui neri capelli ondulati pesava un generoso strato di brillantina e i minuscoli baffi erano impomatati con cura fino alle punte sottili. L'oggetto in questione era un orologio da caminetto in una struttura di legno di rosa. Claire si trovava a una distanza di qualche metro, intenta a spolverare, l'attività più vicina all'ozio che il signor Middlebrook consentisse alle sue dipendenti. Istruita a considerare fuori luogo lo stabilire un contatto di sguardi poco rispettoso, Claire si concentrava sui quadranti di grossi orologi di foggia antica, su ciascuno dei quali si specchiava l'ufficiale in attesa. «Però, sai, anche senza voltarmi, sentivo una specie di calore provenire da lui. Come una luce». A rendere le cose più difficili, fu il fatto che il signor Middlebrook ci mise un bel po' ad arrivare. Anche quando finalmente comparve dietro il bancone, con ogni probabilità registrando la presenza del cliente con un reclamo, prima di dedicarglisi prese una busta marrone e ne estrasse un foglio di carta, vi annotò una serie di numeri, ripiegò il foglio, lo infilò nella busta e ripose quest'ultima dove l'aveva presa. Solo a quel punto e in modo poco credibile inscenò il fare di chi si è appena reso conto che un cliente attende di essere servito. Ergendosi in tutta la sua statura, si protese in avanti sul vetro del banco, appoggiando il peso sulle dita divaricate, e disse, «Dunque, di che si tratta?» Per tutto questo tempo
l'uomo in divisa non si era mosso, né si era guardato intorno prima di sentirsi rivolgere la parola. Ora fece un mezzo passo avanti, prese in mano il berretto e usandolo per indicare l'orologio, disse semplicemente: «È rotto. Di nuovo». Man mano che spolverava, Claire si avvicinava alla scena. Il signor Middlebrook si mostrò piuttosto spiccio. «Non esiste alcun problema, signore. La garanzia ha ancora una validità di sette mesi». Teneva una mano sull'orologio ed era pronto a ritirarlo per la riparazione. Ma l'uomo piazzò con fermezza la propria mano su quella del signor Middlebrook e la tenne ferma anche mentre parlava. Claire notò le sue dita robuste e i fitti peli scuri che ne ombreggiavano le nocche. Il contatto fisico violava ogni tacita regola alla base dei rapporti personale/clienti. Il signor Middlebrook si era irrigidito. Tentare di sottrarsi alla stretta avrebbe reso più intenso il contatto, quindi non ebbe altra scelta che prestare ascolto al breve discorso dell'uomo. «Mi piacque il suo modo di parlare. Diretto. Non brusco o scortese, ma neppure smanceroso». Disse: «Lei mi aveva detto che era un orologio di buona qualità. Che valeva il suo prezzo più alto. I casi sono due: o lei mentiva o si sbagliava. Non sta a me giudicare. Adesso, però, rivoglio indietro i miei soldi». Almeno su questo punto, il signor Middlebrook sapeva di trovarsi su un terreno famigliare. «Non credo ci sia possibile autorizzare un rimborso per merce acquistata cinque mesi fa». Rincuorato dalla propria dichiarazione di principio circa la politica della ditta, il signor Middlebrook tentò di liberare la mano. L'altra però, più possente, gli afferrò il polso aumentando la stretta. Tornò a dire, come se fosse la prima volta «Ora rivoglio indietro i miei soldi». E a questo punto arrivò la sorpresa. L'uomo si rivolse a Claire «Il suo parere qual è? È la terza volta che si rompe». «Prima che me lo chiedesse, io non ce l'avevo un parere. Guardavo solo per vedere che cosa sarebbe successo. Ma senza riuscire a fermarmi, mi sentii dire con grande sfacciataggine: Credo che dovrebbero darle indietro i suoi soldi, signore». L'uomo assenti con il capo rivolto alla cassa e, senza mollare la mano del signor Middlebrook, disse: «Allora avanti, figliola. Sono sette sterline, tredici scellini e sei pence». Claire aprì la cassa, inaugurando in quel momento l'atteggiamento ubbidiente di una vita intera. Il signor Middlebrook non fece nulla per fermarla. Dopotutto, qualcuno lo stava salvando da una situazione sgradevole senza costringerlo a fare marcia indietro. Douglas Lewis prese il denaro, girò sui tacchi e se ne andò con passo spedito, lasciandosi alle spalle, sul banco, l'orologio rotto.
«Non lo dimenticherò mai: le lancette segnavano le tre meno un quarto». Claire fu licenziata all'ora di pranzo, non dal signor Middlebrook che si trovava dal medico per farsi fasciare il polso, ma da una delusissima signorina Bart. La ragazza fu sorpresa di trovare l'uomo che l'aspettava fuori sul marciapiede. Le offrì un pranzo coi fiocchi al George Hotel. «Non c'era dubbio, disse la signora Lewis porgendo tazza e piattino per avere dell'altro tè. Era un buon partito. Quando venne da noi per il tè, fece tutto come si deve. Se ne arrivò in alta uniforme e con un mazzo di fiori, fece i complimenti per il giardino a mio padre e mandò in visibilio la mamma servendosi tre volte di torta. Dopo quella volta, si misero tutti a trattarmi con rispetto». Tre mesi dopo, quando arrivò la notizia che Douglas era stato destinato in Germania settentrionale, i due si fidanzarono. Claire aveva avuto una leggera delusione scoprendo, nel corso del pranzo al George Hotel, che Lewis non era un pilota. Non era mai neppure salito su un aereo. Faceva parte del settore amministrativo, era archivista e responsabile di tutti gli altri archivisti. Ora però provò un grande sollievo all'idea che in Germania non avrebbe fatto nulla di più pericoloso che ritirare ogni settimana dalla banca il denaro per le paghe dei militari. Andò fino ad Harwich per vedere partire la nave e singhiozzò sul treno che la riportava a casa. Si scrissero regolarmente, persino ogni giorno, per settimane di seguito. Benché Douglas trovasse più semplice parlare di bombardamenti, città distrutte e code per la minestra anziché dei suoi più teneri sentimenti, riuscì comunque a mantenersi in vantaggio numerico di lettere sulla sua fidanzata e insieme poterono stabilire una crescente intimità epistolare. Quando lui tornò a casa in licenza per Natale, si ritrovarono un po' imbarazzati, intimiditi anche solo a tenersi per mano, dal momento che le stravaganti dichiarazioni del loro rapporto postale si erano spinte più in là, precedendoli. Ma entro Santo Stefano si erano già messi in pari e, nel corso del viaggio che li portava a Worthing dai genitori di lui, Douglas formulò un sussurrato discorso che quasi si perse nello sferragliare del treno, nel quale fece comunque sapere a Claire quanto fosse innamorato di lei. In Germania la situazione era ancora lontana dal consentire alle spose di accompagnare i mariti impegnati nell'esercito, così stabilirono di rimandare il matrimonio a quando Douglas fosse stato di stanza nel Regno Unito. Non tornò a casa in licenza fino alla primavera, e anche in quell'occasione soltanto per un lungo week-end. Faceva caldo e, non avendo un posto dove poter stare soli, trascorsero le giornate a fare progetti passeggiando sui North Downs. Percorsero senza badarci lo stesso sentiero battuto dai pellegrini di Chaucer. Dinanzi a loro si stendeva la campagna tranquilla del Weald; c'erano fiori di campo, allodole, e tanta pace. La loro felicità sfiorava
il delirio, l'intero week-end fu un delirio di gioia e sentendo sua madre ripetere quella parola, Stephen ritenne che in qualche modo volesse giustificare almeno in parte la loro spensieratezza. Manco a dirlo, quando Douglas tornò per un'altra licenza più lunga, nel mese di luglio, Claire aveva da dargli una grande notizia. Decise di scegliere lei il momento, di aspettare di essere ancora insieme sulle colline, tra i fiori di campo e quella gioiosa intimità naturale. Nelle sue previsioni di quel momento, le era quasi sembrato di sentire le battute di un copione da film e di vedere il sole caldo d'estate illuminare la scena: Douglas ammutolito per l'orgoglio, i suoi tratti addolciti dal rispetto, dall'ammirazione e da una tenerezza nuova. «Non avevo mai pensato che potesse far freddo e tirare vento». Come se non bastasse, Douglas sembrava diverso. Era intrattabile, freddo, lontano. A tratti pareva annoiato. Quando lei gli chiedeva quale fosse il problema, lui la prendeva per mano e la stringeva fino a farle male. Se le richieste si facevano troppo insistenti, si innervosiva. Prima che se ne andasse, la volta precedente, avevano deciso di comprarsi delle biciclette per non dover dipendere dagli strampalati servizi pubblici locali, e siccome quello doveva essere il loro primo acquisto di coppia, il primo mattone del piccolo impero che si apprestavano a costruire, sembrò loro giusto che fossero nuove. Operata la scelta e pagato il deposito, il terzo giorno della licenza di Douglas, in luglio, erano partiti con tanto di pic-nic per andare a ritirare le biciclette, pronti a sfidare il maltempo. Claire aveva deciso di dargli la notizia quel giorno, nonostante la pioggia e il mutismo di Douglas. Il quale parve peraltro più allegro una volta in sella e si mise a cantare, cosa che non aveva mai fatto prima in sua presenza. Claire colse subito l'occasione per cacciar fuori il suo segreto mentre pedalavano nel traffico dello stradone centrale. Parlare non le fu facile. Finché non svoltarono in un viottolo di campagna e non scesero a spingere le pesanti biciclette oltre un passaggio a livello e su per un colle scosceso, non ebbero modo di entrare in argomento. Ormai pioveva fitto e dovevano anche lottare contro il vento. Era tutto così diverso dalla scena che Claire si era immaginata, e così ingiusto anche, perché allora non le era sembrato tanto improbabile che lo spirito delirante di quel weekend potesse durare tutta l'estate. Douglas sembrava turbato. Da quanto tempo lo sapeva lei? E come lo sapeva? Come poteva esserne così certa? «Tutto qui il tuo entusiasmo?, disse Claire, le cui lacrime si persero nella pioggia. «Non sei felice?» «Ma certo che lo sono, rispose Douglas di furia. Stavo solo cercando di mettere insieme le idee. Tutto qui».
In cima al colle la pioggia si fece meno insistente e il vento cessò di colpo. Douglas si passò un fazzoletto sul viso. «Sai com'è, mi pare un po' presto». Claire assentì col capo. Le sembrò di dovergli una giustificazione, ma il groppo in gola glielo impedì. «E significherà dover cambiare tutti i nostri piani». Quella parte, lei l'aveva data per scontata. E anche il piccolo scandalo causato da un figlio che nasce, diciamo, a sei mesi dal matrimonio, non era nulla a confronto con la loro felicità. Assenti di nuovo col capo, risolutamente. La strada precipitava invitante nei boschi, ma non parve opportuno rimontare in sella e lasciarsi andare all'inerzia in un momento tanto grave, così seguitarono a camminare in silenzio, tenendo le mani sui freni. Durante il tragitto in discesa, Claire ebbe la sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa di indefinibile, qualcosa che non le era mai balenato di dover mettere in conto. «Era quel suo silenzio. Mi pareva di sentirne il sapore, di avere in bocca il sapore delle cose che lui non diceva. Mi venne la nausea. Sai che i cattivi odori possono fare di questi scherzi in gravidanza». In effetti dovettero fermarsi e Claire diede qualche conato di vomito rivolta alla siepe sul margine della strada, mentre Douglas le reggeva la bicicletta. Quando proseguirono, Claire sentì di aver già ascoltato tutti i possibili ragionamenti e di aver subito una tremenda sconfitta; Douglas si era stancato, rimpiangeva l'impegno preso, aveva un'altra donna in Germania. Qualsiasi fosse il motivo, il bambino non lo voleva. Aveva in mente una cosa soltanto. L'aborto, «e allora quella parola suonava molto diversa da adesso, molto più atroce», l'aborto: era la difficoltà a portare il discorso in quella direzione ad aumentare la sua reticenza. La rabbia le andava schiarendo le idee. Era lucida adesso. Se non lo voleva lui, non lo voleva neppure lei. Il bambino che aveva dentro non era ancora una creatura, qualcuno da difendere a tutti i costi. Si trattava, per ora, di un'astrazione, solo di un aspetto del loro amore; ma se quello non c'era più, allora non ci sarebbe stato neppure il bambino. Non si sarebbe rovinata la vita con la vergogna di una maternità senza matrimonio. Se Douglas non era stato altro che un episodio passeggero, perché ricordarsi per sempre di lui? Doveva essere libera invece, sbarazzarsi di questo idiota che le faceva perdere tempo. Doveva ricominciare tutto da capo. Si inoltrarono nel bosco dove la luce era di un verde acquoso e immensi faggi gocciolavano silenziosamente sulle foglie distese di grandi felci. Claire era furente. Nella collera, stringeva i freni e doveva faticare il doppio a spingere. Voleva farla finita adesso, qui, sulla strada, per terra, nel fango, sotto questo albero, ora e alla svelta. Il dolore non avrebbe avuto alcuna importanza, anzi l'avrebbe purificata, redenta. Poi, sarebbe saltata sulla sua bicicletta per
correre via. Vento e pioggia le avrebbero rinfrescato la faccia, facendola sentire meglio. Non sarebbe smontata di sella neppure nei tratti in salita. Voleva andarsene via, mettere spazio tra sé e quel poco di buono il cui silenzio puzzava e le dava la nausea. Sì, la sua decisione era presa, era cosa fatta. Quasi quasi apparteneva al passato. Ma proprio come a Natale la confidenza tra loro aveva dovuto mettersi al passo con quella delle lettere, anche adesso bisognava rompere il ghiaccio, affrontare l'argomento spinoso, discuterne tortuosamente a furia di bugie, false sensibilità e pretese di appelli alla logica, prima di poter giungere alla conclusione che lei aveva in cuor suo già accettato. Prima di potersi sentire libera, le sarebbe toccato tollerare tutto questo. Era tale la sua impazienza da metterle addosso la voglia di urlare, di sollevare quella stupida bicicletta e sbatterla a terra. Invece, si portò una mano alla bocca e si morsicò le nocche con tutta la forza. Proseguirono. L'intensificarsi del silenzio di Claire diede a Douglas una misura del suo. Le passò un braccio intorno alla spalla e le chiese se si sentiva meglio. Non ebbe risposta. Si fece premuroso, in particolare quando, pieno di sensi di colpa, si accorse che aveva pianto. Le domandò scusa per la sua diffidenza. Era magnifico che lei fosse incinta, bisognava festeggiare. Ricordava che poco più avanti c'era un pub. Un bicchiere di birra era quello che ci voleva, avrebbero evitato di infradiciarsi sotto quella pioggia così fastidiosa e soprattutto avrebbero potuto sedersi a un tavolo e ragionare con calma sulla faccenda. Claire sentì che proprio allora aveva avuto inizio il processo, perché se il bambino doveva nascere, allora i calmi ragionamenti sarebbero stati assai meno utili dei teneri sentimenti. Annuì coraggiosamente e montò in bicicletta per fare strada. Dopo una svolta a destra che li immise su una strada appena più ampia, raggiunsero il pub. Abbandonarono le biciclette all'ingresso, sotto la pioggia. Era solo mezzogiorno ed erano i primi clienti della giornata. Il bar era umido e buio e Claire ebbe un brivido andando a sedersi, in attesa che Douglas portasse le birre. Si massaggiò le gambe per farle smettere di tremare, le pareva di essere su un letto di ospedale, poco prima di un intervento chirurgico. La conversazione allegra e banale che il suo ex fidanzato stava intrecciando con il padrone, la offese. Tutta lì la sua preoccupazione? Tornò a montarle dentro la collera e con essa la decisione. Il tremito cessò. Non doveva far altro che sorseggiare la birra mentre Douglas portava il discorso sull'unica risoluzione sensata. Gli avrebbe fatto pagare in contanti quel voltafaccia, dopodiché non lo avrebbe visto mai più. Douglas si lasciò andare sul divanetto accanto a lei con un sospiro del tipo «Beh, eccoci qua». Sollevarono i bicchieri e si dissero «alla salute». Seguì un silenzio durante il quale Claire batteva il piede a terra ritmicamente e
Douglas si passava la mano fra i capelli lucidi di brillantina. Lui si schiarì la gola e le raccontò dell'ultima volta che era stato in quel pub, meno di una settimana prima della dichiarazione di guerra. Ancora un teso interludio e poi, finalmente, si decise a parlare. Era magnifico che lei fosse incinta, anche perché questo dava loro la certezza assoluta di poter mettere su famiglia in qualunque momento. Abbiamo già messo su famiglia, pensò Claire, ma non disse nulla. Sedeva rigida, cercando di non ascoltare con troppa attenzione. Se solo fosse riuscita a resistere, sarebbe stato tutto finito non appena gli avesse estorto l'impegno colpevole a pagare e a occuparsi dell'aspetto organizzativo della faccenda. Sapeva di coppie, stava intanto dicendo Douglas, che provavano mesi, anni, e a volte senza riuscirci. Il fatto che loro potessero avere un bambino con tanta facilità era una prova evidente di quanto fosse sacrosanto il loro amore. Tutto ciò non faceva che accrescere il suo affetto per lei e rendere illimitata la sua fiducia nel loro futuro insieme. Non gli aveva mai sentito dire tanto in una sola seduta. Douglas le strinse una mano e lei gli restituì la stretta con fare incoraggiante. «Pensavo fra me. E sbrigati lazzarone, che voglio tornarmene a casa». Finalmente prese a parlare della difficoltà della loro posizione. Ancora non si era sentito nulla riguardo un possibile trasferimento in patria, e in Germania erano appena iniziati i lavori di costruzione degli alloggi per le coppie sposate. Il suo impaccio diminuì un poco quando, abbandonato il terreno personale, si lanciò su argomentazioni di più vasto raggio. Parlò del problema della casa in Inghilterra, della situazione politica internazionale, del ponte aereo di Berlino, della guerra fredda, della bomba atomica. Da un pezzo ormai aveva finito la birra, mentre quella di lei era rimasta pressoché intatta. L'impazienza di Claire aumentava, le pareva di dover contribuire ad accelerare il discorso. Lo interruppe «Se stai cercando di dire che non dovremmo averlo, incominciamo...» In preda all'orrore, Douglas sollevò entrambe le mani per impedirle di proseguire. «Non era questo che intendevo, tesoro. Non era affatto questo. Sto solo dicendo che dovremmo tenere conto di tutto, considerare tutti gli aspetti del problema e chiederci se questo è davvero il momento migliore, e se...» Si pentì di averlo interrotto. In preda allo spavento, Douglas aveva perso di vista il punto del suo discorso e le stava tornando a dire quanto la trovasse graziosa, quanto l'amasse. Se solo avessero potuto chiarire tutto adesso, qualsiasi cosa avessero deciso non avrebbe che rinsaldato la loro unione per il futuro. Prosegui su questo tono, ampliando timidamente il senso del suo «qualsiasi cosa» e cercando di recuperare il terreno perduto. Fu durante questo discorso che Claire, tuttora nella fase di semplice resistenza, tuttora distratta, diede un'occhiata nel bar e rivolse lo sguardo alla finestra vicina all'ingresso. «Lo vedo ancora, proprio come vedo te
adesso. C'era una faccia alla finestra, la faccia di un bambino che sembrava galleggiare là fuori. Guardava fisso dentro il bar. Aveva l'aria supplichevole ed era pallidissimo, bianco come una compressa di aspirina. Mi guardava dritto negli occhi. Ripensandoci col passare degli anni, ho immaginato che dovesse essere il figlio del padrone o un ragazzino di qualche fattoria dei dintorni. Ma, in quel preciso momento fui certa, assolutamente convinta di aver davanti la faccia del mio bambino. Potrei dire, se ti va, che stavo guardando te». Mentre Douglas seguitava a parlare e il bambino alla finestra a guardare dentro, in Claire si stava verificando un cambiamento radicale. Che cosa strana l'aver pensato di eliminare questo bambino solo perché si sentiva offesa con il fidanzato. Il bambino, il suo bambino, si era di colpo fatto di carne. La tratteneva nel suo sguardo, la reclamava a sé. Aveva acquisito totale indipendenza da tutto ciò che poteva accadere tra lei e quell'uomo. Per la prima volta Claire riuscì a concepirlo come individuo separato, come vita da difendere a costo della propria. Non era più un'astrazione, un elemento nel loro gioco di forza. Era alla finestra in quel momento, un essere completo, che le chiedeva di esistere, ed era dentro di lei, in un viluppo intricato che viveva secondo il pulsare del suo stesso sangue. Non era di una gravidanza che avrebbe dovuto discutere, ma di una persona. E chiunque fosse questa persona, lei se ne sentì innamorata. Era iniziata una storia d'amore. Poi il bambino sparì. Non lo vide allontanarsi. Semplicemente, svanì nel nulla. A questo punto tornò a rivolgersi a Douglas, che intanto incalzava con il suo subdolo discorsetto, e le parve di doverlo proteggere. Con indulgenza, ricordò il loro amore e l'avventura che si apprestavano a vivere insieme. Quello a cui stava assistendo non era un voltafaccia, una vigliaccheria. Era un uomo in preda al panico più profondo, che faceva appello a tutte le proprie risorse di logica e raziocinio, a tutta la sua ragguardevole conoscenza del mondo. Che ne poteva sapere lui di che cosa significasse avere un bambino? Non era dentro di lui, non era in alcun modo una parte di lui, eppure Douglas sentiva, a ragione, che avrebbe potuto cambiargli la vita per sempre. Era ovvio che avesse paura. Come poteva sapere fin d'ora che avrebbe amato il bambino vedendolo, scoprendo chi era? Douglas stava enumerando chissà quali esempi sulle dita della mano sinistra, e non sapeva neppure di avere il destino segnato. Claire ricordò come era stato magnifico, forte, quel giorno nel grande magazzino. Era un errore suo l'aver creduto che lui o qualunque altro uomo potesse essere forte in tutte le circostanze. Aveva affidato la grande notizia a uno spirito passivo aspettandosi una reazione simile alla sua, sperando che prendesse in mano l'intera faccenda al posto suo. Per poi dimostrarsi offesa, autolesionista, incline al vittimismo. Se Douglas era stato debole, lei lo era stata ancora di più. Ma la verità era che il
vantaggio l'aveva lei, che quel bambino lo amava già, e sapeva qualcosa che Douglas non poteva ancora sapere. Perciò la responsabilità ora era sua, quel momento le apparteneva. Toccava a lei prendere le decisioni. Avrebbe avuto il bambino, su questo non c'erano dubbi, e avrebbe avuto anche questo marito. Gli appoggiò una mano sul braccio e lo interruppe una seconda volta. La signora Lewis chiuse gli occhi e piegò il capo all'indietro contro un cuscino. Rimasero seduti in silenzio nella stanza che si andava facendo buia. Il respiro regolare di lei faceva supporre che avesse sonno, ma alla fine, senza aprire gli occhi né spostare la testa, disse in un sussurro, «Ora dì tu a me». Senza la minima esitazione, Stephen raccontò la sua versione della storia, omettendo ogni riferimento a Julie. Disse che stava passeggiando in campagna e in conclusione, dopo quella sensazione di precipitare nell'erba, finse di essersi riavuto lungo la strada, a una cinquantina di metri dal pub. Mentre descriveva le biciclette, cosa che fece con cura estrema, osservò attentamente sua madre. Non pareva sorpresa e neppure lo fu al suo ricordo dei gesti, degli abiti, del fermaglio per i capelli. Parlò soltanto quando lui ebbe finito e, anche allora, il commento non fu che un breve sospiro, «Eh, già...» Non era necessario discutere. Dopo un attimo di riflessione, disse di essere stanca. Stephen l'aiutò ad alzarsi e l'accompagnò su per le scale dove si diedero la buonanotte. «Coincide quasi del tutto, gli disse. Quasi». Gli volse le spalle, si avviò in camera da letto, appoggiando la mano sulla parete, per sostenersi. Un'ora dopo suo padre tornò, tanto esausto da riuscire appena a sostenere il peso del cappotto e a piegare le braccia per sbottonarlo. Stephen lo aiutò e lo fece sedere sulla sedia che fino a poco fa aveva occupato sua madre. Ci volle una birra, che sorseggiò in silenzio per un quarto d'ora, prima che il signor Lewis trovasse la forza di raccontare la propria ordalia. Una giornata di attese estenuanti, mancate coincidenze di autobus, spintoni e dipendenza coatta da estranei avevano consumato tutte le sue energie. Lo squallore straordinario dei luoghi pubblici e l'aggressività degli accattoni lo avevano sconvolto. «Il lerciume nelle strade, le scritte volgari sui muri, la miseria, figlio mio, come è tutto cambiato in dieci anni. È stata quella l'ultima volta che sono andato a trovare Pauline, dieci anni fa. Non lo riconosco più questo paese. Mi sembra l'Estremo Oriente nei suoi aspetti peggiori. Mi manca la forza per tollerarlo, o forse lo stomaco». Bevve un po' di birra. Stephen notò che il bicchiere tremava. Pensando di tirar su il morale a suo padre, gli disse che aveva sempre avuto ragione: il manuale per l'educazione dell'infanzia era stato scritto mesi prima del termine dei lavori della commissione. Ma il signor Lewis si limitò ad alzare le spalle. Chissà poi perché avrebbe dovuto
fargli piacere. Si sollevò dalla sedia con difficoltà, rifiutò l'aiuto di Stephen e annunciò che andava a dormire. Non era mai successo che il signor Lewis rinunciasse a una serata di birra e di chiacchiere con suo figlio, ma questa volta salutò Stephen battendogli debolmente una spalla e si avviò per le scale con brevi sospiri impazienti. Erano appena le nove e mezza quando Stephen, dopo aver ritirato le tazze da tè e i bicchieri, spense le luci e scivolò senza far rumore dalla casa in cui i suoi genitori dormivano già.
Capitolo ottavo In simili occasioni, il genitore esageratamente ansioso può trovare un po' di sollievo nella consolidata analogia tra l'infanzia e la malattia: una condizione invalidante tanto sul piano fisico quanto su quello mentale, che altera emozioni, sensi e ragione, e la cui lenta, difficile guarigione è rappresentata dal processo di crescita. Manuale per l'educazione del bambino, HMSO La notizia di un manuale per l'educazione del bambino commissionato in segreto dal primo ministro comparve in seconda pagina su una colonna del solo quotidiano che non sostenesse attivamente la linea politica del governo. L'articolo si manteneva nei termini di una scaltra reticenza, facendo riferimento soltanto a voci di corridoio e a fonti genericamente attendibili e incoraggiando, forse, il primo ministro a negare con fermezza l'esistenza di un libro simile nel corso di un'interpellanza parlamentare, due giorni dopo. A quel punto l'articolo passò al fondo della prima pagina e riportò citazioni intriganti, senza peraltro vantare ancora il possesso reale del testo in questione. Durante il fine settimana la copia di una fotocopia raggiunse il leader dell'opposizione e il lunedì dopo il giornale pubblicò un titolo che preannunciava future burrasche, nonché un articolo pieno di accuse, da parte dei vertici dell'opposizione, in cui si parlava di «volgare e scandaloso cinismo», di «disgustose sciarade» e di «questo abbietto imbroglio ai danni di genitori, parlamento e principi democratici». Entro la metà della settimana anche altri giornali si occuparono della faccenda. I deputati della maggioranza si dichiararono «offesi» se non «indignati». Venne richiesta e concessa una seduta straordinaria ma questa fu poi rimandata di una settimana. Dai tempi dell'incarico ministeriale di Charles Darke, a Stephen piaceva pensare di godere di una conoscenza da iniziato del funzionamento di queste cose, e fino a quel momento era andata proprio così. Un'opposizione indebolita stava giocando le sue carte; era poco probabile che altre storie potessero eclissare l'impatto di questa; dopotutto, in questi anni pareva sopravvivere la richiesta di una certa qual misura di giustizia nelle alte sfere. Quel ritardo di una settimana era significativo. Il mercoledì, nell'interesse di una politica di governo trasparente e di un dibattito informato, il primo ministro ordinò la pubblicazione di duemila copie del testo infamante da distribuire ai quotidiani e agli altri enti coinvolti. Le tipografie dello Stato lavorarono tutta la notte e, all'alba, le copie furono consegnate a mezzo corriere. I giornalisti lessero tutto il giorno e scrissero fino a sera per
rispettare le loro scadenze notturne. Le recensioni, il mattino seguente, furono per lo meno favorevoli, in alcuni casi entusiastiche. Un tabloid dedicò al testo la prima pagina con il titolo: Zitti, seduti e attenti! Un altro diceva: In fila, bambini! La stampa più raffinata lo definiva «autoritario e autorevole». Esso «segnava la fine di confusioni e sconcezze nell'ambito della letteratura per l'infanzia». Sul quotidiano che aveva pubblicato il primo articolo al riguardo, il testo «nella sua onesta ricerca di sicurezze», incarnava lo spirito dei tempi. Comunque fosse nato, «Il Libro» era un testo esemplare e doveva esserne diffusa ampiamente l'adozione. Un pugno di ignoti impiegati dell'Amministrazione, lavorando di buona lena, era riuscito a fondare modelli culturali di cui la Commissione governativa avrebbe fatto bene a tenere conto. Nella sua saggezza o nella sua negligenza, il governo aveva saputo dare alla cosa un orientamento che gli guadagnava il rispetto dei genitori. Risolta la questione del «Libro» in sé, restava una semplice domanda da porsi. Aveva o non aveva mentito il primo ministro nel corso dell'interpellanza parlamentare? Tanta semplicità fu presto oscurata dalla diceria, di cui non fu facile individuare la fonte, che il libro non fosse partito da Downing Street direttamente, ma da un livello intermedio, sempre nell'ambito del ministero degli Interni. Due giorni prima della seduta parlamentare straordinaria nessuno discuteva più tanto del «Libro» quanto dell'eventuale menzogna. Adesso si trattava di vedere come il primo ministro avrebbe presentato la cosa, se cioè si sarebbe dimostrato all'altezza della situazione inscenando in parlamento una performance tale da entusiasmare i deputati e recuperare la fiducia del governo. Curvo sulla radio con una lattina di birra, Stephen ascoltò il risolversi della questione su un sottofondo incessante di applausi e mormorii di disapprovazione. La voce ben nota, dal timbro a metà strada tra il tenore e il contralto, non esitò su una sola sillaba del suo discorso persuasivo. A Downing Street nessuno era stato messo al corrente dell'esistenza del libro fino alla settimana prima. Il primo ministro non si sentiva peraltro di condannare il committente del testo, nonostante la presenza della Commissione governativa. Si trattava di un documento interno, prodotto allo scopo di indicare i punti essenziali al dipartimento coinvolto. A quanto pare ne esistevano solo tre copie e non erano state messe in circolazione. A essere rigidi, si poteva affermare che il segretario degli Interni avesse agito poco correttamente non informando della faccenda il Consiglio dei ministri, una manchevolezza anche incresciosa, volendo, ma che non aveva violato alcun principio democratico di base. Quanto poi a insinuare che il governo avesse avuto intenzione di pubblicare il testo in sostituzione di quello della Commissione governativa, l'accusa
appariva assurda e infantile. Quale sarebbe stato il vantaggio di un'azione simile? Ci si rammaricava anzi molto che il lavoro della Commissione fosse stato reso superfluo dalla necessità di pubblicare il libro, ma la colpa ricadeva sull'atteggiamento irresponsabile di qualche funzionario dell'Amministrazione il quale aveva passato un documento segreto agli organi di stampa. Il criminale sarebbe comunque stato individuato e punito. Data la scarsa rilevanza del caso, non ci sarebbe stata alcuna inchiesta ufficiale. I nomi degli autori del libro non sarebbero stati resi pubblici e ai funzionari dell'Amministrazione non sarebbe stato concesso di rispondere agli interrogativi di qualsiasi commissione d'inchiesta interessata alla storia. Si era dimostrata la preoccupazione crescente, tra genitori e operatori didattici, riguardo all'abbassamento dei livelli comportamentali di base e all'assenza di responsabilità civile in molti ambiti sociali, in particolare fra i giovani. L'educazione svolgeva evidentemente un ruolo essenziale in tutto questo, e non c'era dubbio sul fatto che in passato i genitori fossero stati fuorviati dall'insensatezza di certe teorie alla moda a proposito della formazione dell'infanzia. Si sentiva il bisogno di un ritorno al buon senso e si chiedeva allo Stato di affrontare il problema. Proprio questo si stava facendo e si sarebbe continuato a fare, senza permettere a patetiche accuse e alle irresponsabili calunnie degli oppositori di intralciare in alcun modo il lavoro intrapreso. La tremula voce del leader dell'opposizione faticava a inserirsi tra applausi devoti e manifestazioni di insoddisfazione, quando Stephen spense la radio. Il segretario degli Interni, che non aveva mai goduto della simpatia del primo ministro, probabilmente stava già redigendo la lettera di dimissioni. La Commissione governativa sull'educazione dell'infanzia aveva ricevuto la propria condanna a morte in codice. Un lavoro pulito, efficace. Stephen fissò la griglia metallica dell'apparecchio radio e si meravigliò del proprio candore. Era una di quelle occasioni in cui gli pareva di non essere mai cresciuto del tutto; ne sapeva così poco dell'effettivo funzionamento di cose simili; tra vero e falso scorrevano canali intricatissimi; nella vita pubblica i veterani della sopravvivenza navigavano affidandosi a un istinto infallibile in grado di garantire la conservazione di un buon livello di dignità. Solo di rado, in conseguenza di un errore tattico, si rendeva necessaria una poderosa menzogna, o un'importante verità. Per lo più era questione di un accorto dribblaggio che si mantenesse tra i due estremi. E non era in fondo così che funzionava anche il privato? Più tardi Stephen si preparò qualcosa da mangiare e si apprestò a consumare il pasto seduto alla scrivania. Nell'aria grigia che separava la sua finestra dai due vicini palazzi, un vento pungente faceva turbinare radi fiocchi di neve. Eccole qui le nevicate promesse per marzo. Il suo era stato un intervento da principiante. Non bastava spedire un libro a un giornale,
varare la cosa e poi starsene seduti e aspettare. La cultura politica aveva qualcosa di teatrale, richiedeva costanti e attive indicazioni di scena che, ne era certo, superavano le sue capacità. Sperò che Morley non lo chiamasse. Mentre si andava costruendo una versione del dialogo che avrebbe potuto svolgersi fra loro, il telefono che aveva vicino al gomito in effetti suonò, facendolo trasalire. Era Thelma. Dalla sua visita l'estate scorsa, avevano mantenuto contatti poco frequenti. Lei gli mandava ironiche cartoline dal tono recriminatorio. La divertiva, o per lo meno così sosteneva, il fatto che Stephen trovasse tanto allarmante il comportamento di Charles e interpretava la cosa come un segno di incipiente mezza età. Un tempo anche tu eri un sostenitore delle avanguardie, scriveva. Ti infervoravi parlando dei dadaisti, a cena a casa nostra. E adesso l'artista dada si scalda le pantofole accanto al camino. Fingeva di credere che Stephen fosse responsabile in prima persona delle condizioni di Charles, che fosse tutta colpa del suo primo romanzo. Caro gerontofilo, ti prego, dedica a Charles un romanzo che tratti delle virtù e dei piaceri della senilità. Oppure, accorciati un paio di pantaloni e vieni a trovarci. Le era piaciuto il racconto della sua scalata al rifugio nell'albero. Charles ha intenzione di sistemarci un frigorifero. Per favore, vieni a dargli una mano a portarlo lassù. Tanta giocosità, che a volte appariva davvero un tantino forzata, nascondeva l'accusa di averli abbandonati. Che Charles avesse intrapreso un coraggioso viaggio nel proprio passato o che fosse semplicemente impazzito in quel modo dolce e innocuo, Stephen, comunque, avrebbe dovuto rendersi disponibile e sostenere il suo vecchio benefattore. E invece si era dimostrato un po' troppo delicato di stomaco. Durante il periodo di depressione, i sentimenti di Stephen al riguardo erano stati banali. Charles e Thelma gli erano sembrati, in passato, l'incarnazione di una maturità intelligente. Casa loro emanava un senso di solidità e di curiosità per la vita. Sullo sfondo di una quiete lussuosa e ordinata, la gente intrecciava discussioni animate, scienziati e politici esponevano teorie stravaganti e impossibili tra abbondanti drink e risate; poi se ne andavano a casa e il mattino dopo tornavano ai loro importanti lavori. Nei primi tempi Stephen aveva talvolta pensato che quello era il tipo di casa in cui gli sarebbe piaciuto crescere. Non sapendo dove altro andare, aveva portato il suo esaurimento nervoso nell'elegante stanza degli ospiti di Thelma, si era seduto ai suoi piedi e l'aveva ascoltata o aveva finto di farlo, mentre da Charles aveva preso lezioni di mondanità. Ma quando avevano deciso di buttare all'aria le loro vite trasferendosi nel Suffolk e Stephen aveva constatato a quali livelli Charles potesse arrivare, era stato proprio lui a sentirsi tradito. Lui, l'unico ad andarci di mezzo. E allora aveva cercato di farsi coraggio con il buon senso: l'infantilismo fasullo di Charles e l'appoggio offerto da Thelma erano una faccenda privata, tra
moglie e marito. Di lui avevano bisogno come a certe coppie occorre un osservatore per stimolare la loro attrazione sessuale o per trovare conferma e verifica alle proprie liti. Si stavano insomma servendo di lui. Nessuno dei due aveva voluto spiegargli che cosa avessero in mente, dandogli modo di scegliere una linea di condotta. E per di più, quando Charles fosse tornato alla sua vita di prima, cosa che un giorno o l'altro avrebbe fatto di sicuro, il non aver avuto Stephen d'attorno gli avrebbe risparmiato un bel po' di imbarazzo. E la loro amicizia avrebbe potuto tornare quella di un tempo. Ora però, che aveva il suo lavoro, l'arabo e il tennis, si sentiva meno sicuro. Aveva ancora qualche riserva al pensiero di vedere Charles in calzoni corti che gli parlava in quel suo studiato gergo adolescenziale, ma la curiosità e il senso del dovere andavano aumentando dentro di lui. Prima, quando si trattava di tener duro, di brancolare da un giorno all'altro, aveva sentito il bisogno di proteggersi dalla follia altrui. Adesso pensava di poter rischiare qualcosa di più, di poter essere più magnanimo. Eppure non aveva fatto un bel niente. Aggrappato alla propria routine quotidiana, non era riuscito a turbarla neppure per un paio di giorni. Aspettava un cambiamento, uno sviluppo della storia come questo, la telefonata di Thelma. La sua voce era tesa e affannata. L'acustica dell'apparecchio esagerava lo schiocco secco della sua lingua contro il palato. «Stephen. Puoi venire qui subito? Puoi farcela in giornata?» «Che succede?» «Non posso dirtelo adesso. Cercherai di venire il più presto possibile? Ti prego». Stephen schiacciò con la mano la lattina di birra vuota. Il forte rumore prodotto fece subito esclamare a Thelma, «Mio Dio! Che cosa è stato? Stephen, sei sempre lì?» «Senti, le disse. Vado in stazione e prendo il primo treno che trovo. Non so quando potrò arrivare». Gli parve che Thelma avesse allontanato il ricevitore dalla bocca. «Non posso venire a prenderti. Dovrai cercare un taxi». E riappese. Stephen portò in cucina gli avanzi del pranzo, lavò il piatto e incominciò a chiudere casa. Sprangando le finestre notò che la neve si andava infittendo e diventava più bianca su un cielo sempre più nero. Andò in camera da letto e si mise in una valigia l'occorrente per una settimana. In studio, scrisse un appunto per il signor Cromarty con l'intenzione di consegnarglielo uscendo e, per l'istruttore di tennis, un biglietto che avrebbe imbucato in stazione. Aveva già infilato il cappotto e stava armeggiando con i tasti della segreteria telefonica, quando il telefono squillò di nuovo. Una voce di donna disse con precisione militaresca, «Pronto, desidererei
parlare con il signor Lewis». «Sì?» «È solo in casa? Bene. La prego di non andarsene nei prossimi dieci minuti. E di tenere libero il telefono. Sta per ricevere visite». La linea fu interrotta mentre Stephen domandava spiegazioni. Andò a una finestra e guardò nella via sottostante, intasata dal traffico dell'ora di punta. Visibile solo nel suo turbinio tra fasci di luce gialla e arancione, la neve si dissolveva al primo contatto con la temperatura eccessiva di asfalto e metalli surriscaldati. Stephen fu tentato di partire immediatamente per la stazione, ma la curiosità lo trattenne a passeggiare nell'ingresso. Passarono più di dieci minuti. La valigia era già accanto alla porta e proprio quando aveva deciso di prenderla e uscire, vide un'ombra disegnarsi oltre il vetro gelato, un attimo prima che il campanello suonasse. Gli individui là fuori avevano l'aria di quattro testimoni di Geova. Con rapidi sorrisi di circostanza si fecero strada nell'appartamento, fissando lo sguardo su ogni dettaglio: il lucernario nell'ingresso, la cassetta del contatore elettrico, i battiscopa, le porte, gli infissi. Ignorando le sue proteste, si sguinzagliarono per l'appartamento. Era sul punto di seguirli, quando il rumore di altri passi lo fece uscire sul pianerottolo per dare un'occhiata alle scale. Un giovane occhialuto, con una serie di telefoni, stava correndo di sopra, seguito da due donne di cui una aveva una macchina da scrivere e l'altra un centralino portatile. Di sotto c'era ancora altra gente. Sentì qualcuno cadere di peso sul gradino rotto e sussurrare la più civile delle bestemmie. I primi tre gli passarono accanto di fretta senza degnarlo di uno sguardo e sparirono nel suo appartamento, a sbrigare il loro lavoro. Aspettò che arrivassero gli altri, ma per il momento tutto taceva. Si sporse dal corrimano e vide la punta lucida di una scarpa nera, una mezza dozzina di metri più sotto. Anche loro aspettavano. La piccola sala da pranzo attigua alla cucina si stava trasformando in un ufficio. Un telefono rosso, uno nero e due bianchi furono inseriti sul pannello del centralino, pulsante di minuscole lucine. L'uomo con gli occhiali stava sciorinando al telefono rosso un numero interminabile. Una delle donne già batteva a macchina senza guardare i tasti e usando tutte e dieci le dita, un trucco che Stephen aveva sempre ammirato. Una segretaria sistemava sul tavolo due dossier per la posta in partenza e in arrivo, una spessa risma di carta da lettere e una scatola bassa contenente clips, puntine da disegno, elastici e un temperamatite a forma di pomodoro. Qualcuno stava portando in casa una sedia e chiese a Stephen di lasciare libero il passaggio. Resosi conto di quello che stava accadendo, Stephen adottò un'espressione di dignitoso stupore. Incrociò le braccia e si appoggiò
alla porta per osservare l'andirivieni, quando qualcuno si mosse alle sue spalle e una voce gli disse all'orecchio: «Stavamo uscendo di città con un insolito intervallo tra un appuntamento e l'altro e il primo ministro ha insistito per approfittarne. Rimetteranno tutto a posto, glielo prometto». Si era sentito prendere per un gomito e ora un signore calvo con gli occhialini a mezzaluna lo stava scortando nel corridoio a passi lentissimi. Dal salotto provenne il sibilo di un'interferenza radio sulle frequenze corte. «Abbiamo pensato che per lei sarebbe stato più comodo il suo studio». Si fermarono sulla soglia e l'uomo estrasse dalla tasca interna un modulo prestampato e una penna stilografica che consegnò a Stephen. «Segreto di Stato. Voglia essere tanto cortese da firmare tra le due croci a matita». «E se non lo facessi?» «Toglieremmo il disturbo e la lasceremmo in pace». Stephen firmò e riconsegnò documento e penna. L'uomo bussò educatamente alla porta dello studio e, al suono di una voce, tenne l'uscio aperto per Stephen per poi richiuderlo piano dietro di lui. Il primo ministro, che si era già accomodato sulla poltrona vicino al camino, annuì col capo mentre Stephen, ancora in cappotto, si andò a sedere su una sedia qualsiasi. Sullo scaffale a mezzo metro dalla poltrona, giusto dentro la linea d'ombra disegnata da un paralume, spiccava il libro di Morley. Stephen si sforzò di non guardarlo. Gli si stava dicendo qualcosa. «Spero che vorrà perdonare tutto questo. Come vede, non viaggio mai con poco bagaglio». Per un istante i loro sguardi si incrociarono, ma entrambi si volsero altrove. Stephen non aveva risposto, e la domanda successiva fu pronunciata con freddo tono di circostanza. «Abbiamo scelto un momento poco opportuno?» «Stavo per andare alla stazione». Il primo ministro, il cui disprezzo per le ferrovie era risaputo, si mostrò sollevato. «Ah, bene. Sono certo che il mio autista potrà darle un passaggio». Passò un tempo sufficiente a superare l'inconsistenza delle formalità. Si schiarirono a turno la voce. Stephen chinò in avanti la schiena curva, prese a fissare il fuoco e si preparò ad ascoltare stringendosi addosso il cappotto come se cercasse protezione. La voce attaccò impersonale un discorso premeditato. «Signor Lewis, Stephen se mi consente, è mio desiderio discutere con lei una questione molto delicata, una questione privata. Di lei so abbastanza poco, ma due considerazioni diverse mi fanno sperare che potremmo andare d'accordo, che potremmo avere del mondo un'idea analoga». Stephen non fece obiezioni. Voleva sentire altro. «Lei ha lavorato in uno dei nostri sottocomitati e, per quanto ne so, non ha
avuto ragione di dissentire dalle sue conclusioni finali. Inoltre, è amico intimo di Charles Darke. Sono venuto qui a rischio di un certo imbarazzo, di rendermi insomma ridicolo, per parlare di Charles. Devo fidarmi di lei. In un certo senso mi metto nelle sue mani. E tuttavia, sento il dovere di avvisarla che qualora decidesse di riferire la nostra conversazione o anche solo di rendere nota la mia presenza in casa sua, le sarebbe estremamente difficile trovare qualcuno disposto a crederle. Di questo ci si sta già occupando». «Questa si chiama fiducia», commentò Stephen, ma venne ignorato. «Ho riflettuto molto a lungo su ciò che dovevo fare. Non è stato un impulso a spingermi qui. Ho pensato che avremmo potuto incontrarci naturalmente, in modo formale e che avrei potuto almeno accennarle a quel che avevo in mente. Mi è dispiaciuto che altri impegni le abbiamo impedito di venire a colazione». Il telefono stava squillando in cucina. Spinto dall'abitudine, Stephen fece il gesto di alzarsi, poi tornò a sprofondare nel suo cappotto. «Prima di dirle altro, credo farei meglio a spiegarle, nel caso lei non ci avesse mai pensato, quali siano i limiti particolari che la mia posizione mi impone. Io desidero mettermi in contatto con Charles, voglio dire, personalmente. I clichés sono veri. Il potere costringe all'isolamento. Dal momento in cui ricevo la sveglia fino a tarda sera, sono circondato da funzionari dell'Amministrazione, consiglieri e colleghi. Nella mia professione, coltivare e manifestare sentimenti è considerato irrilevante e con nessuna di queste persone posso parlare confidenzialmente. In passato la cosa non mi procurava alcun problema. Soltanto adesso che avrei qualcosa da dire mi ritrovo bloccato, curiosamente impedito a farlo. Disinformato. Mi mancano i mezzi. Gli altri possono mettere i propri pensieri per iscritto su una lettera e affidarla alla posta. Per ovvie ragioni, a me questo è impossibile. Il mio telefono è soggetto a una tale serie di complicati controlli, di filtri e di sorveglianze, che una conversazione privata è del tutto impensabile. Ho cercato di comunicare con Charles a livello ufficiale, ovviamente, ma lui semplicemente ignora questo genere di approccio. Penso che sua moglie abbia gioco migliore a raggiungerlo. Negli ultimi tempi ho sfiorato la soglia della disperazione». «Il suo discorso di poco fa in parlamento non ne ha risentito per niente», disse Stephen. Il primo ministro riprese a parlare più sottovoce. «Conobbi Charles a una colazione che avevo offerto in onore di un gruppo di nuovi deputati, nell'ottobre di parecchi anni fa. Era energico, spiritoso, affabile sembrava deciso a strapparmi una risata; il suo entusiasmo per qualsiasi iniziativa del partito sembrava poco plausibile. Pensai che mi prendesse in giro, che avesse inscenato una farsa a me poco chiara, il che
me lo fece giudicare un uomo intelligente, ma non troppo affidabile. Nel corso dei nostri successivi incontri quell'impressione svanì e mi affezionai molto a lui. Era così giovanile, allegro, divertente, e aveva alle spalle esperienze utili in molti campi. Vederlo, e naturalmente non lo vedevo mai solo, mi dava sempre coraggio. Incominciai a fantasticare un futuro per lui. Qualcosa nel settore delle pubbliche relazioni. Pensavo che un giorno o l'altro avrebbe potuto diventare un presidente di partito, di grande carisma». «Gli procurai delle occasioni, gli consigliai di far sentire il suo nome in giro, in modo che non fosse difficile ottenere delle proposte. Gli occorreva accumulare esperienze, pensai. Poi non lo avrebbe fermato nessuno. Quando feci partire il Progetto per l'educazione dell'infanzia mi assicurai che a Charles toccasse la responsabilità di uno dei sottocomitati. In questo modo avremmo avuto occasione di incontrarci da soli di quando in quando. Era pieno di idee e io aspettavo sempre con ansia quei nostri incontri. Incominciai a convocarlo un po' più sovente del necessario. Lei potrà forse giudicare inconsueto e perverso un simile attaccamento da parte mia nei confronti di un giovane...» «Oh, no, disse Stephen, niente affatto. Ma si tratta del marito di qualcuno. Non è proprio lei il sostenitore dei valori della famiglia?» «Già, la moglie, disse il primo ministro. Ma non hanno figli e non so se definirei quella che ha messo su con la moglie una vera famiglia. C'è tanta infelicità in quella casa, lo sa?» «Sul serio?» «Comunque, anche con Charles al ministero degli Interni, il Progetto avviato e le regolari riunioni del ministero, continuavo a vederlo pochissimo. Così, dopo averci riflettuto un bel po', chiamai l'M15 e lo feci, come dire, pedinare ventiquattr'ore su ventiquattro. Non che avessi dei sospetti sul suo conto, si intende. Era fedele alla patria e al governo almeno quanto me. Ho fatto di tutto per accertarmi che non aprissero alcun dossier sul suo conto. Vede, farlo pedinare per me era un modo per stargli vicino. Riesce a capire?» Stephen annuì. «Ogni sera alle sette ricevevo dettagliati rapporti battuti a macchina circa i suoi movimenti e i contatti nelle precedenti ventiquattr'ore. Me li leggevo la sera tardi, a letto, dopo aver passato in rassegna la mia valigia diplomatica e i telegrammi del ministero degli Esteri. Immaginavo di essere insieme a lui. Presi a conoscere le sue abitudini, i posti che prediligeva, gli amici. Lei ad esempio figurava sovente. Era un po' come essere il suo angelo custode». «Col passare dei mesi i rapporti si accumulavano e io tornavo a leggere certe pagine come uno farebbe con un romanzo d'amore preferito, non che io legga roba del genere. Notai che sua moglie non lo accompagnava quasi mai, che tendeva molto a mantenersi distante dalla sua carriera politica, se non altro fuori di casa».
«Aveva un lavoro», disse Stephen. «Se vuol vederla così. Ma altri modelli di comportamento preoccupanti emergevano intanto nella vita di Charles. Come le visite a improbabili indirizzi privati a Streatham, Shepherd's Bush, Northolt. Fu ansia, mi creda, e non gelosia a spingermi a chiedere all'M15 un'indagine più approfondita. Può immaginare la mia sorpresa quando venni a sapere che andava in case d'appuntamento. Poi venne fuori che quelli erano posti in grado di soddisfare clienti dai gusti molto particolari». «Che genere di gusti particolari?» «Pare che si travestissero parecchio. Più di quello non volli sapere. Ce n'era già abbastanza per confermare in me l'idea che il suo fosse un matrimonio profondamente infelice. Quel comportamento parlava chiaro riguardo alla sua pena. Dopotutto, non era neppure fedele a un'amante. Pensai di doverlo aiutare, parlargli, rassicurarlo. Stavo cercando il pretesto per un incontro quando ricevetti la sua lettera di dimissioni. Ne fui sconvolto, di più, provai rabbia. Volevo farlo pedinare anche nel Suffolk, ma l'M15 incominciava a sollevare questioni circa la giustificabilità del trasferimento del personale. Mandare della gente fino là senza fornire spiegazioni convincenti avrebbe suscitato dei sospetti. E così, da allora, non ho più saputo niente di Charles. Non mi restano altro che i vecchi rapporti e, naturalmente, le minute delle nostre riunioni per il Progetto». Stephen ebbe cura di mantenere un tono di voce impassibile. «Perché non si prende un giorno di vacanza e non va a trovarlo di persona?» «Non posso andare in nessun posto da solo. A parte le guardie del corpo, sono costretto a non abbandonare la linea diretta nucleare, il che significa viaggiare con tre ingegneri, un autista di riserva e qualche membro del personale aggiunto». «Scegliete il disarmo, sentenziò Stephen, per ragioni di cuore». Il primo ministro aveva un vero talento per ignorare i commenti irrilevanti. «Vorrei sapere come sta, che sta facendo. Lei aveva detto che mi avrebbe telefonato, ricorda?» «Mi sono trattenuto una sera soltanto e ho visto di più sua moglie. Credo che stia abbastanza bene, che se la stia prendendo tranquilla e che abbia in mente di scrivere un libro». «Le ha parlato della sua carriera politica? Le ha fatto almeno il mio nome?» «No. Temo proprio di no». «Di sicuro giudicherà tutto questo ridicolo dal momento che sono abbastanza vecchio da potermi considerare un padre per lui». «Niente affatto». Il telefono stava squillando di nuovo. Il primo ministro lanciò un'occhiata all'orologio sulla scrivania di Stephen.
«Il favore che vorrei chiederle, signor Lewis, è quello di riferire a Charles un messaggio molto semplice. Io desidero parlargli, di persona, non al telefono. Se preferisce essere lasciato in pace, rispetterò la sua volontà, ma deve concedermi un ultimo incontro. È più facile per lui mettersi in contatto con me; sa già quale procedura adottare. Crede che lo vedrà presto?» Stephen annuì. «Allora le sarò grato se vorrà accontentarmi». Benché nessuno dei due si fosse alzato, il colloquio era giunto alla fine. Trovarsi a tu per tu con il capo del governo rappresentava l'opportunità di dar voce a un annoso monologo interiore e domandare al diretto responsabile il perché, ad esempio, delle continue prese di posizione a favore dei potenti, dell'esaltazione dell'interesse privato, della vendita delle scuole, del problema dell'accattonaggio e così via, ma tutto questo appariva marginale rispetto all'argomento della loro discussione, poco più che sbiaditi temi di un dibattito per il quale senza dubbio esistevano risposte già ben preparate. Stephen pensò a Thelma. «Sarò lietissimo di riferire il suo messaggio». Il primo ministro si alzò, emanando profumo di acqua di colonia; sorrise mentre si stringevano la mano. «Ha firmato il modulo?» «Sì». «Bene. Allora so di potermi fidare del tutto». L'uomo degli occhialini a mezzaluna udì il cigolio delle sedie; la porta si aprì l'attimo prima che il ministro la raggiungesse. Stephen lo osservò allontanarsi, poi, non appena fu solo, si dedicò agli ultimi preparativi per la partenza. Spense il fuoco e sbarrò la finestra dello studio. La neve stava iniziando ad accumularsi sul davanzale di pietra. Aprì un cassetto della scrivania e dalle pagine di un notes nuovo estrasse sei banconote da cinquanta sterline che teneva lì per i casi di emergenza. In entrata ebbe il tempo di scorgere l'uomo carico di telefoni che usciva dall'ingresso centrale, seguito a ruota da tutti gli altri. L'ultimo a uscire fu uno degli agenti di sicurezza che, con gesto teatrale, domandò a Stephen di controllare la sala da pranzo. Era tornato tutto a posto, persino le tazze sporche e le vecchie riviste. Appoggiata sul tavolo c'era una fotografia polaroid della stanza come appariva prima della requisizione. Stephen voleva congratularsi con l'agente per la meticolosità dei colleghi, ma era sparito anche lui. Spense le luci, prese la borsa e chiuse a chiave le tre serrature dell'ingresso. Al piano di sotto, l'appartamento del signor Cromarty era al buio. Stephen dovette fermarsi a cercare l'appunto che aveva scritto e fu mentre lo stava infilando sotto la porta che udì il suo telefono squillare di sopra. Ebbe un attimo di esitazione nel quale calcolò le probabilità di farcela in tempo. Forse sì, se si sbrigava e non confondeva le chiavi. Ma aveva già tardato
anche troppo. Riprese la borsa e scese i gradini a tre alla volta. Corse sul marciapiede nel chiasso del traffico, con il braccio già teso a fermare il taxi che ancora non si vedeva. Aveva mezz'ora scarsa di attesa prima della partenza del treno. Era troppo irrequieto, troppo concentrato a difendere l'andirivieni casuale dei suoi pensieri per andare a cacciarsi nel chiasso umido e denso del caffè della stazione. Nel pub attiguo alcuni bevitori di professione si davano un gran da fare al bancone e qualcuno stava gridando. Comprò una mela, imbucò la lettera e prese a vagare lungo le banchine battendo a terra i piedi contro il cemento lucido e freddo. Si avvicinò a una motrice che era appena arrivata in stazione. In cabina, il macchinista stava azionando degli interruttori per spegnere il mostro. Stephen nutriva ancora la speranza di essere invitato a salire. Da ragazzo non aveva mai osato rivolgere la parola a un ferroviere. E adesso sarebbe stato anche più impensabile. Rimase lì a respirare fumo e a mangiare la mela, cercando di non tradire la sua speranza ridicola, eppure incapace di andarsene in caso al macchinista fosse saltato in mente di invitarlo dentro. L'uomo però si era infilato un giornale sotto il braccio e si accingeva a scendere. Passò accanto a Stephen senza degnarlo di uno sguardo. In fondo ai binari, vicino alle porte d'ingresso della biglietteria, una folla di accattoni si ammassava intorno a una macchinetta per foto-tessera, semidistrutta. Saranno stati più di cento, portati lì dal freddo. Parecchi indossavano cappotti grigi dell'esercito. Dato che aveva ancora dieci minuti d'attesa, Stephen si diresse verso di loro. Non stavano lavorando. L'accattonaggio era proibito in stazione e nessuno si sarebbe azzardato a tirar fuori dei soldi quando ce n'erano così tanti in giro. Ma alcuni ottimisti ai margini della folla si rivolgevano ai passanti con impercettibili movimenti delle labbra. Gli altri se ne restavano zitti. Solo l'attesa di qualcosa poteva tenerli così tranquilli in un angolo della stazione. Forse ci sarebbe stata una distribuzione gratuita di minestra calda, o magari avrebbero consegnato dei buoni-pasto. Il fetore dolciastro di abiti sporchi e di alcool denaturato era pungente persino in quest'aria gelida. I sei metri di grata di un ventilatore si erano trasformati in un dormitorio affollato. Stephen li percorse in tutta la loro lunghezza. Si trattava di resistere ancora un mese, fino alla stagione più tiepida; poi c'erano buone speranze di farcela sino all'autunno seguente, quando la selezione naturale sarebbe ripresa. Nella notte, la minoranza sfornita di cappotti avrebbe avuto i suoi guai. Era giunto in fondo alla fila di corpi quando il suo sguardo incontrò un viso noto. Era duro, sottile, per un
attimo gli parve senza un'età definibile. Apparteneva a un tizio rannicchiato sulle sbarre metalliche della grata, con le ginocchia al petto per fare posto a un vecchio ingombrante. Aveva gli occhi aperti: lo sguardo vuoto, fisso davanti a sé. Doveva essere un vecchio amico, qualcuno dei tempi della scuola, pensò Stephen, o magari il personaggio di un sogno. Lo aveva sempre saputo che, prima o poi, avrebbe visto qualcuno che conosceva tra gli accattoni. Poi vide lei: la ragazza alla quale aveva dato dei soldi l'anno precedente, dieci mesi prima. Sotto la giaccavento di nylon riconobbe il vestito giallo, ormai grigio. La faccia, benché inconfondibile, aveva subito una trasformazione. Sparita del tutto quella vivacità impertinente. La pelle, indurita e piena di cicatrici, si radunava in fiacchi gonfiori intorno a lineamenti che parevano essersi fatti più vicini, come per difendersi. Teneva le braccia incrociate sul petto. Aveva deciso di darle il cappotto. Tanto era vecchio e lui tra poco sarebbe stato su un treno riscaldato. Se lo tolse, appoggiò a terra la borsa e, chinandosi, incrociò il campo visivo della ragazza, troppo stanca o indifferente per modificarlo. Cercò di ricordare come avesse potuto scorgere Kate in quel viso. Le mise una mano sulla spalla sottile. L'uomo che le stava vicino si era intanto appoggiato a un gomito. Da un corpo tanto imponente, la sua voce suonò stridula e tristemente garrula. «Ehi, ehi. Ti piace la piccola, vero? Ma non le interessi». E scoppiò a ridere. Stephen distese il cappotto sulla ragazza e le sfiorò la mano. Era ghiacciata, come l'aria tutto intorno. Le toccò la faccia e gli occhi di lei continuarono a guardare avanti, confermando in termini assoluti la sua indifferenza. Stephen riprese la borsa e si raddrizzò. Riavere il cappotto ora sarebbe stato impossibile: non riusciva a ricordare se avesse vuotato le tasche. Senti alle sue spalle il sibilo e lo sferragliare di un treno in partenza. Secondo l'orologio della stazione potè constatare che gli restava meno di un minuto e mezzo. L'uomo stava guardando lui e il cappotto. «Sbrigati, gli disse con aria furba, se no lo perdi». Stephen sapeva che se si fosse rivolto alla polizia non sarebbe riuscito a lasciare Londra quella sera. Esitò un istante, indietreggiò, si volse e prese a camminare spedito; infine si mise a correre vedendo un controllore percorrere la banchina del suo treno, sbattendo le porte. Non si guardò indietro finché non ebbe una mano sulla maniglia gelata dello sportello. Una cinquantina di metri più in là, coperto per un attimo dal passaggio di un carrello postale, l'uomo si era inginocchiato e, tenendo alto il cappotto, controllava il contenuto delle tasche. Il treno ebbe un sussulto. Stephen si afferrò alla maniglia e salì, per poi dedicarsi all'abituale ricerca dello scompartimento più vuoto.
Solo quattro persone scesero alla stazione disabitata del Suffolk, due ore dopo. Mentre Stephen cercava una cabina telefonica lungo la pensilina male illuminata e all'uscita della stazione, i suoi compagni di viaggio si allontanarono dal parcheggio a bordo di tre auto diverse. Lo strato di neve aveva raggiunto i dieci centimetri e diffondeva la luce fumosa di una luna avvolta da strisce di nuvole. La stazione era ai margini della città, praticamente in aperta campagna, su una strada costeggiata da lunghi pali cui erano appese semplici lampadine di apparente uso domestico. Stephen si fermò un attimo, sorpreso dalla novità di quel silenzio assoluto. Poi sollevò il bavero della giacca e si diresse all'hotel in centro città. Dal bar deserto chiamò per telefono un taxi e sedette a bere vicino a una stufa elettrica. L'autista era una donna cordiale e materna che volle a ogni costo allacciargli la cintura di sicurezza. Aveva rilevato il lavoro da suo marito dopo che gli era stata ritirata la licenza il Natale di due anni prima. Adesso lui si occupava della casa e, a sentire la moglie, lo faceva con grande entusiasmo. Lei, d'altra parte, aveva scoperto una nuova vita. Parlava a raffica e guidava con tale esagerata cautela che impiegarono la bellezza di tre quarti d'ora per coprire la distanza di quindici miglia. Stephen si godeva le folate di aria calda che gli arrivavano in faccia e sulle gambe. Aderì un po' di più alla pelliccia sintetica della fodera del sedile, ipnotizzato dal generoso fiume di chiacchiere e dall'ondeggiamento del dado di peluche appeso allo specchietto retrovisore. La donna si dichiarò disposta ad accompagnarlo fino alla strada dissestata che portava dai Darkes. Erano le otto e mezza quando lo scaricò ai margini del bosco. Stephen si fermò di nuovo ad ascoltare il silenzio. Osservò i fanalini posteriori sobbalzare allontanandosi e si avviò nel fitto di alberi immobili e insolitamente spogli. Thelma e Charles dovevano aver sentito l'auto e si aspettava perciò una luce fra gli alberi, o magari una voce. Attese, ma non accadde nulla. Sollevò la borsa da viaggio e si diresse al cancello d'ingresso, non più nascosto dal fogliame. La neve antistante era intatta e non c'erano orme lungo il sentiero tracciato tra le due file di alti cespugli brulli: il tunnel di verde cupo, in estate. Il cottage era al buio, fatta eccezione per un bagliore giallastro a una finestra del piano di sotto. Bussò piano piano e, non ricevendo risposta, provò ad aprire la porta. Thelma sedeva al tavolo da pranzo, alla luce di due candele. Il suo viso non registrò alcun mutamento di espressione. «Mi spiace di averci messo così tanto». La stanza era fredda. Si sedette vicino a lei. «Qual è il problema? Dov'è Charles?» Thelma si succhiò il labbro
inferiore, producendo uno schiocco umido che risuonò nel silenzio campestre. Passò un minuto, il tempo sufficiente a far rimpiangere a Stephen di aver regalato il cappotto. Stava incominciando a tremare, aveva bisogno che succedesse qualcosa, anche solo per non sentire più il freddo. Coprì con la sua una mano di lei. Fu come azionare un interruttore. Thelma scosse la testa di qua e di là, senza senso, poi si fermò e scoppiò a piangere. Il lato infantile di Stephen fu turbato dalle lacrime di questa donna più vecchia di lui. Non gli stava chiedendo conforto. Aveva liberato la mano per portarsela sulla faccia e fece l'atto di allontanarlo quando lui la sfiorò su una spalla. Stephen raccolse un plaid da una poltrona e glielo avvolse intorno alle spalle. In salotto trovò un calorifero e lo trasferì nella stanza. Mentre Thelma continuava a singhiozzare, lui si diede da fare per accendere la stufa che aveva la cenere ancora calda. Tirò fuori una bottiglia di scotch, due bicchieri e una caraffa d'acqua presa in cucina. La stanza si riscaldò, mentre Thelma si andava calmando. Ma seguitava a tenersi le mani sul viso. Infine si alzò di scatto e mormorando «scusami» si diresse in fretta al piano di sopra. La sentì entrare in bagno. Si versò da bere e sedette accanto alla stufa per prepararsi alla brutta notizia. Ricomparve venti minuti dopo con un cardigan pesante sul braccio e una torcia elettrica in mano. Poggiò entrambi sul tavolo e andò a sedersi vicino a Stephen; gli prese una mano e la tenne stretta fra le sue. Sembrava abbastanza calma, adesso, ma stanca, sfinita. «Sono tanto contenta che tu sia qui», disse. Stephen attese. Per dire quello che aveva da dire, Thelma si alzò e si fermò presso il tavolo, voltandosi per non guardarlo in faccia. Prese tra indice e pollice i lembi di lana del cardigan. Le parole le uscirono in fretta, monotone, meccanicamente staccate l'una dall'altra. «Charles è morto. È morto. È là fuori, nei boschi. Devo portarlo in casa. Non posso lasciarlo là fuori tutta la notte. Voglio che tu mi aiuti a portarlo». Stephen si era alzato. «Dov'è?» «Vicino al suo albero». «È caduto?» Thelma scosse il capo. La tensione dei suoi movimenti lasciava supporre che per mantenere il controllo di sé dovesse smettere di parlare. «Mi servirà una giacca pesante, disse Stephen, e un paio di stivali». Nei pochi minuti che seguirono rimasero zitti e si dedicarono a questioni pratiche. Lei lo condusse nel retrocucina dove trovarono, appesi a un chiodo, una vecchia giacca da lavoro e un maglione. C'era anche un paio di gambali di gomma incrostati di fango. Stephen raccolse da terra una corda e, pur non avendo ben chiaro a che cosa potesse servirgli, se la cacciò in tasca. Prima di
andarsene, alimentò il fuoco nella stufa. La luna era uscita dalle nuvole e la torcia elettrica si rendeva necessaria solo quando il sentiero piegava nelle zone in ombra. Stephen si trattenne dal fare domande. L'unico suono era lo scricchiolio prodotto dai loro passi sulla neve e il fruscio dei vestiti. Poi Thelma disse: «È uscito questa mattina e a pranzo non è tornato, il che mi è sembrato strano. Alla fine sono andata a cercarlo e l'ho trovato quando ormai era quasi buio. Non ricordo come sono arrivata a casa. Devo aver corso. E poi ti ho telefonato». Proseguirono. Quando fu chiaro che Thelma non avrebbe detto altro di sua volontà, Stephen le chiese cauto «Come è morto?» Le tremava la voce. «Credo che si sia semplicemente lasciato andare». Nei pressi di un ruscello gelato, superarono il lastrone di pietra sotto la cui coltre di neve, in fessure profonde, si intravedeva una foresta tropicale in miniatura. Persino alla luce lunare era possibile scorgere grassi germogli vischiosi e piantine umili che perforavano la neve di lance minuscole. La nuova stagione già penetrava la precedente. Negli spazi incontaminati tra un albero e l'altro, il rigoglio aspettava il suo turno. Il sentiero entrava nel fitto del bosco. Discesero all'avvallamento che conduceva alla quercia morta, uno dei pochi elementi invariati rispetto all'estate scorsa. Svoltarono a destra al congiungersi di due sentieri. Quando arrivarono nei pressi della radura, Thelma rallentò il passo. In lontananza, si ergevano vecchi alberi le cui linee, rese indistinte dal buio, parevano disegnare il colonnato di una gran villa. Thelma si era infilata in tasca la torcia; si scaldò col fiato le mani senza guanti, poi incrociò le braccia sotto il giaccone. Stephen non riusciva a pensare a qualcosa da dire che non fosse un'altra domanda. Nella tasca della giacca, aveva trovato una biglia che ora si rotolava fra le dita, cercando assurdamente di indovinarne il colore. Lo rassicurava il pensiero di non trovarsi in una autentica foresta; la città vicina gettava una luce giallastra su tutta una parte di cielo; sulla strada a un miglio da lì transitarono due automobili; i terreni che attraversarono erano evidentemente coltivati e cintati. La temperatura soltanto sarebbe stata la stessa anche se non fosse mai esistito nessuno. L'alto muro di alberi che si piegava sulla radura sembrava consapevole di ciò che ospitava e della ragione che aveva portato quei due fino là. Quando arrivarono nella sua ombra, Thelma passò a Stephen la torcia; lei si trattenne un poco, fermandosi infine del tutto al primo dei faggi, parecchi metri dietro di lui. Sollevò una mano per indicargli che avrebbe dovuto proseguire da solo. Come tanti della sua generazione, Stephen aveva avuto pochi contatti diretti con la morte. Mentre si avvicinava al secondo cadavere della giornata,
immaginò un fetore, ne sentì il gusto in bocca, un sapore di squallide agenzie di pompe funebri, panni neri, di gas trattenuti dagli organi e restituiti dai pori di pelli grasse. L'impressione non si fondava su alcun ricordo né fatto, ma era ugualmente difficile da cancellare. Riuscì a respirare quell'odore anche nell'aria pulita là fuori. Per convincersi di essere semplicemente venuto a svolgere un compito, vale a dire aiutare un'amica a sollevare un peso eccessivo, estrasse di tasca la corda e cercò di arrotolarla per bene senza smettere di camminare. Arrivò alla piccola radura prima di quanto volesse. Il raggio giallastro della torcia si imbatté in qualcosa di azzurro. Stephen si fermò e fece tornare indietro la luce. Il suo alito si condensava in vapore denso. Vide una camicia, un busto, la cintura di un paio di calzoni di velluto rigato, fortunatamente lunghi. Non era ancora pronto a puntare la torcia verso il viso, così indugiò sulle gambe e sui piedi scalzi dalle dita rigide e divaricate. Poco lontano, di lato, c'era un mucchietto di abiti, un maglione sopra una giacca, da cui spuntavano scarpe e calze. Dipendere così da uno stretto cono di luce lo metteva a disagio. Spense la torcia e percorse lo spazio della radura mantenendosene al margine con le spalle rivolte agli alberi e la coda dell'occhio alla forma vaga sul lato opposto. Quell'immobilità gli metteva paura, ma non più del pensiero che potesse muoversi. Charles sedeva con la schiena appoggiata all'albero sul quale aveva costruito il proprio rifugio. Una trentina di centimetri sopra il suo capo si intravedeva la forma confusa del primo piolo. Quando arrivò a meno di un metro da lui, Stephen accese la torcia. Una mezza dozzina di centimetri di neve compatta si era fermata sulle spalle di Charles e tra le pieghe della camicia. Sul grembo se ne era accumulata di più e sulla testa ne aveva un mucchietto vagamente piramidale. Ce n'era sul naso e sulla linea superiore del labbro. L'effetto era comico, crudelmente comico. Stephen spazzò via con la mano a coppa lo strato sulla testa e le spalle, ma usò il dito per quello sul naso e sul labbro. Fu il breve contatto con quest'ultimo, con il labbro, a farlo indietreggiare. Il tessuto era troppo cedevole, scivolava sulle gengive e gli aveva procurato una sensazione di calore. Rimase lì, a un paio di metri dall'amico e gli gettò in faccia il fascio di luce. Gli occhi erano chiusi. Un bel sollievo. La testa appoggiava sul tronco e l'espressione, ammesso di volerne trovare una, era di grande stanchezza. Charles teneva le gambe distese e le braccia abbandonate lungo i fianchi con le mani piatte sulla neve che ne copriva il dorso. La camicia era aperta fino al terzo bottone. Stephen frugò con la torcia il mucchio degli abiti. Se ci fosse stato un biglietto, Thelma lo avrebbe trovato. Seguitò a non muoversi, ritardando il momento in cui avrebbe dovuto sollevare il corpo. Estrasse di nuovo la corda, ma non riuscì a escogitare un modo per usarla. Infine si inginocchiò
davanti all'amico, gli circondò la vita con le mani e prese a tirare. Rizzandosi in piedi sollevò il corpo di Charles e lo afferrò per le cosce deciso a caricarsi il cadavere sulle spalle. Si era appena sistemato in posizione eretta e rivolto con fatica in direzione del sentiero, quando sentì alle sue spalle, nel punto in cui Charles gli sfiorava col capo la schiena, un lento sospiro di disapprovazione, sussurrato attraverso la vocale «o». Stephen ebbe un sussulto e attraversò la radura in un lampo, lasciando ricadere Charles sulla neve. Ora gli toccava trascinare il corpo dov'era prima, appoggiarlo contro il tronco dell'albero e ripetere la fase più difficile dell'operazione, quella in cui si trovava con la faccia vicina a quella dell'amico. Quando per la seconda volta si sollevò con il peso, non ci fu più nessun suono. Se cambiava direzione troppo bruscamente, perdeva l'equilibrio. Per il resto, il carico non gli dava problemi essendo ben distribuito. L'allenamento col tennis stava dando i suoi frutti. Si incamminò lungo il sentiero e solo quando lasciò il relativo chiarore della radura si rese conto di essersi messo in tasca la torcia e di non poterla raggiungere. Ma la luna, quasi perpendicolare, aveva ridotto l'effetto dell'ombra. Dapprima, non fu tanto il peso di quel corpo a opprimerlo quanto la sensazione di freddo che gli comunicava alle ossa delle spalle e giù, lungo la schiena. Pareva che gli succhiasse via avidamente il calore, come se da un momento all'altro potessero scambiarsi i ruoli e quel cadavere tornato in vita potesse trascinare al cottage il corpo freddo di Stephen. Nonostante il sudore della fatica, era tutto un brivido. Dinanzi a sé, tra gli alberi, scorgeva il biancore di una radura più ampia. Thelma era ancora dove l'aveva lasciata. Avvicinandosi, Stephen pensò che avrebbe depositato Charles ai suoi piedi. Lei avrebbe potuto aiutarlo a riprenderlo dopo un attimo di sosta. Ma Thelma si volse non appena lo vide arrivare e si diresse lungo il percorso fatto all'andata. Camminava spedita senza voltarsi indietro. Non c'era altro da fare che tenerle dietro. Quando raggiunsero il boschetto ceduo e si trattò di affrontare il lieve pendio della fossa, il carico si rivelò intollerabile: Stephen accusava un dolore acuto alle gambe, intorno al collo e nel punto in cui le braccia stringevano le ginocchia di Charles. Thelma si era fermata una volta sola per estrarre la torcia dalla tasca di Stephen. Fin qui non avevano detto una parola. Benché il dolore aumentasse, Stephen decise che non avrebbe messo giù Charles fino al cottage. Era il suo modo per riparare alla scarsa presenza come amico. Lo aveva già abbandonato una volta, ora basta. Furono questi pensieri eroici a fargli tollerare il tormento fisico. Quando Thelma però gli fece strada fino al
retrocucina e gli indicò con un cenno che quello era il luogo dove desiderava depositare il cadavere, Stephen non fu più in grado di mettere in moto i muscoli giusti: si erano irrigiditi oltre il limite. Rimase a oscillare in quello spazio ristretto e pieno di luce, incapace di liberarsi del carico. «Tira, gridò. Per amor di Dio, levamelo di dosso». Fu meno per ragioni igieniche e più per ristabilire la linea di confine tra i vivi e i morti, che Stephen andò immediatamente al lavandino a lavarsi le mani. Adesso la cucina era fin troppo calda e opprimente. Di lì passò in soggiorno. Anni prima era stato abbattuto un muro per formare un ampio salone. I mobili erano pochi, l'atmosfera fredda e poco accogliente. Trovò Thelma appoggiata al davanzale di una finestra con la giacca ancora addosso. Si diresse verso una sedia, ma scopri di non riuscire a rilassarsi. Benché non gli tremassero le mani, il suo intero corpo pareva vibrare ad alta frequenza. Sentiva un fischio all'orecchio, o forse era proprio nella stanza, un suono al limite della percettibilità. Si spostò dalla sedia, percorrendo le assi di legno incerato fino alla parete opposta e si voltò. Aveva voglia di mettersi a correre. Pensò che avrebbe fatto faville su un campo da tennis. Thelma attraversò la camera, raggiunse l'alta finestra e tornò sui suoi passi. Lui ripercorse il parquet con gran rumore di tacchi. Thelma si piazzò accanto al camino spento. Stephen la guardò essendogli parso che avesse sussurrato qualcosa, ma era soltanto il fruscio di pelle contro pelle, prodotto dal suo sfregarsi le mani. Andò in cucina a prendere scotch e bicchieri. Non gli fu facile versare il liquore. Lo scotch gli parve salato. «Ci mettono dentro del sale?», chiese. Lei lo guardò stupita e la domanda non fu ripetuta. Comunque, dopo una pausa, Thelma annuì. Tenendo il bicchiere con entrambe le mani compì nella stanza lo stesso percorso di Stephen voltandogli le spalle mentre beveva. «Forse è meglio che tu sappia, disse alla fine, senza girarsi, che non è stata una sorpresa per me. Ci aveva già provato a Londra, più di una volta. Credevo che venire qui gli avrebbe dato sollievo, ma è stato solo un rinvio». «Pensavo di conoscerlo bene, disse Stephen. È evidente che mi sbagliavo». «È sempre così. Il lato attivo, energico e di successo era per il pubblico, e il resto, le depressioni tremende, le riservava tutte a me...» Era tornata vicino a Stephen. «Solo che qui, disse lui, tutto il suo pubblico sono stato io». Thelma lo stava osservando ma non pareva accusarlo. «È vero, c'è rimasto male quel giorno quando sei andato via senza dire nulla e mentre lui ti aspettava. Non contava sulla tua approvazione, anche se gli avrebbe fatto piacere. Voleva solo che non ti dispiacesse». Stephen si sentì stordito, aveva le braccia pesanti. Si guardò alle spalle e
sedette. «Credo proprio che mi dispiacesse, invece», disse con voce triste. Thelma sedette sul bracciolo della poltrona. «Non fraintendermi. Alla fine non avrebbe fatto nessuna differenza. Di sicuro la cosa non è dipesa dalla tua reazione. Non volevo insinuare questo. Avrei potuto dirti di più, prepararti a quello che avresti trovato. Ma Charles non voleva. Non voleva che parlassimo di lui in quei termini, non gli andava di essere un caso. Poi aggiunse. Al tempo pensai che avesse ragione». L'orologio in fondo alla stanza prese a battere le undici. Prima di poter riprendere la conversazione, dovette spegnersi l'eco dell'ultimo tocco. Sembrava che Thelma si trovasse in uno stato di neutralità emotiva. «Non riusciva a far quadrare tutto, disse con tono pratico. Voleva essere famoso, sentirsi dire dalla gente che un giorno sarebbe diventato primo ministro, ma voleva anche essere il ragazzino spensierato, senza nessuna responsabilità, nessuna consapevolezza del mondo esterno. Non era un capriccio occasionale. Era una fantasia devastante che dominava ogni suo momento privato. Ci pensava, lo desiderava come certa gente desidera il sesso. E in effetti, aveva anche un risvolto sessuale. Si metteva i calzoni corti e si faceva sculacciare da una prostituta che doveva fingere di essere la sua governante. Tanto vale che tu lo sappia, è una delle cose di cui avrebbe voluto parlarti. È una fantasia abbastanza comune tra i ragazzini in età scolare». «Ma il lato importante della faccenda era emotivo, e con quello gli riusciva più difficile confrontarsi, o parlarne. Desiderava la sicurezza dell'infanzia, la mancanza di potere, l'obbligo all'obbedienza e la libertà che ne consegue: libertà da denaro, decisioni, progetti, esigenze. Diceva sempre di voler fuggire dal tempo, dagli appuntamenti, dagli orari, dalle scadenze. L'infanzia per lui era assenza di tempo, ne parlava come di uno stato mistico. Anelava a tutto questo, non faceva che parlarmene e deprimersi e intanto continuava a far soldi, diventava famoso, si prendeva centinaia di impegni nel mondo adulto, scappava dai suoi pensieri. Il tuo libro, Lemonade, ha significato molto per lui. Diceva che era come se una parte di lui si rivolgesse all'altra. Diceva che aveva capito, leggendolo, di aver delle responsabilità precise nei riguardi dei propri desideri, e di dover fare qualcosa in proposito, prima che il tempo rendesse tutto impossibile. Quel libro metteva in guardia contro la mortalità. Doveva fare qualcosa in fretta o rimpiangere di non averlo fatto, per sempre». Si soffiò il naso. Conservò il tono distaccato, analitico. «Ma non faceva niente. Le ambizioni convenzionali non sono facili da distruggere. Ci fu un tentativo di suicidio, non molto convinto, devo dire. Cambiò lavoro
e, come sai, ebbe ancora più successo. Gli anni correvano via, proprio come aveva temuto. E la tensione aumentava. Si diede alla politica, ottenne l'impiego al ministero. Rilesse il tuo libro. Lo spunto fu il Progetto per l'educazione dell'infanzia. Il primo ministro gli chiese, il che nell'ambiente significa che gli ordinò, di redigere un manuale-ombra sull'educazione, questo di cui si è tanto parlato. Charles e il primo ministro ci hanno lavorato insieme. Se lo stava coltivando, voglio dire, sessualmente. E lui fingeva di non accorgersi che era tutto un gioco di seduzione. Ne era disgustato, ma non riusciva a fare a meno di flirtare. Voleva andare avanti, non poteva impedirsi di desiderarlo. Compilò il manuale affidandosi alla supervisione del suo leader e intanto rilesse il tuo libro. A quel punto tornò tutto a galla; voleva dedicarsi al suo progetto privato. Era disperato, mi disse. Si sentiva mancare il tempo. Doveva realizzare il piano; mi implorò di renderglielo possibile, di lasciarlo essere un ragazzino. Alla fine acconsentii, pensai che altrimenti sarebbe crollato. Naturalmente stava bene anche a me, per fortuna, perché la faccenda non avrebbe potuto funzionare se da parte mia ci fossero stati dei rancori. Volevo andarmene da Londra, ero stanca di insegnare, avevo il mio libro da scrivere, adoravo questa casa e la terra tutto intorno». «Parlando, abbiamo spesso cercato di capire da dove venisse quell'ossessione: qualcosa del suo passato che desiderava rivivere, completare, o il tentativo di compensare una mancanza successiva? Charles non volle mai scavare troppo a fondo. Penso che avesse paura di quel che poteva scoprire. O forse era la sua stessa follia che si auto-proteggeva. Sai, sua madre è morta quando lui aveva dodici anni, quindi si può dire che associasse la preadolescenza al ricordo di lei. Poi c'era quella fotografia, una cosuccia orrenda scattata quando aveva otto anni. Si vede lui vicino al padre, un uomo piuttosto noto negli ambienti della city, un tipo banale, per come lo ricordo io, ma tirannico. Nella foto, Charles sembra una versione del padre in scala ridotta stesso completo e cravatta, stessa posa superba ed espressione da adulto. Può darsi che gli sia stata negata un'infanzia. Ma tanta gente perde la madre prestissimo, e ha padri orribilmente ambiziosi, eppure viene su senza i disturbi emotivi e sessuali di Charles. In tutti i nostri discorsi, credo che non ci siamo mai neppure avvicinati alla radice del problema». «In ogni caso lasciammo tutto e ci trasferimmo qui. Per un po', nella bella stagione, andò tutto bene, anzi, direi che fu proprio un idillio. Ciò che a un estraneo può sembrare ridicolo o impensabile, tra noi divenne del tutto normale. Io facevo da madre a un ragazzino che giocava nei boschi tutto il giorno e tornava a casa solo a mangiare e dormire. Non ricordavo di averlo mai visto tanto felice, tanto facile da accontentare. Scoprì di amare la solitudine. Imparava i nomi delle piante, eppure non lo vedevo mai con un
libro. E quando tornava qui era semplicemente allegro e affettuoso. La notte dormiva dieci ore di seguito, mentre prima doveva accontentarsi di quattro o cinque. Quando sei venuto tu è stata una delusione, ma niente di grave». «Poi è cambiato il tempo, piuttosto di colpo in effetti, e Charles ha incominciato a preoccuparsi di quel che succedeva a Londra. Voleva che ci procurassimo dei giornali, ma io non cedevo. Cercò di riparare una vecchia radio e, non riuscendoci, andò su tutte le furie. Allora è iniziata la storia di come ci saremmo ritrovati senza soldi, a meno che lui non tornasse a lavorare. Sciocchezze! Ma la cosa peggiore è che intanto riceveva lettere dal primo ministro: lo invitata a Downing Street e gli lasciava intendere che avrebbe potuto trovargli un posto alla Camera dei Lord e un lavoro al governo, con prospettive ancora più allettanti per il futuro». «Se ne stava seduto a tormentarsi tutta la notte e di giorno continuava ad andare nei boschi, cercando di conservare la sua innocenza. Ma gli riusciva sempre più difficile. Nel rifugio sull'albero e con addosso i calzoni corti, si domandava se fosse il caso di entrare nei panni di Lord Eaton, o se qualcun altro gli avesse già soffiato il posto. Scusami, Stephen, non voglio metterla sul ridere. Era tragico, ma era anche del tutto assurdo. No, che non piango. Non ho intenzione di piangere. Ne discutemmo a lungo, ovviamente. Gli suggerii di entrare in analisi, tra le altre cose, ma per quella lui aveva la classica avversione inglese. Quando gli dissi che mi sembrava stranissimo che un uomo con dei conflitti laceranti come i suoi rifiutasse di sottoporsi a un processo di autoanalisi, si infuriò tremendamente, di una collera da adulto. Arrivò al punto di gettarsi a terra e battere i pugni sul pavimento». «Dopodiché divenne sempre più depresso. Si sentiva in trappola. Se tornava a Londra, alla sua vecchia vita, sapeva per esperienza che i turbamenti e gli impulsi di sempre lo avrebbero trascinato a fondo e che sarebbe tornato a desiderare l'esistenza sana e sicura che si era costruito quaggiù. E se restava qui non avrebbe fatto che torturarsi al pensiero del suo crescente declino in quello che ormai definiva il mondo reale. Io intanto perdevo la pazienza. Il mio lavoro ne risentiva. Non ne potevo più. Dopo interminabili riflessioni decisi che doveva tornare in politica. In fondo era sopravvissuto per anni là fuori e, se infelice doveva essere, non sarebbe stato niente di più della normale infelicità di un bambino che non può avere tutto». «Quando gli esposi la mia tesi e ne discutemmo, si fece ancora più cupo e poi litigammo. Questo è successo questa mattina. Mi ha accusata di abbandonarlo, di tagliarlo fuori da tutto ciò che desiderava. Temo di aver perso la calma. Gli ho detto che avevo tentato di aiutarlo in tutti i modi. Ma ora toccava a lui prendere in mano la sua vita. Ed è esattamente quello che ha fatto. Ha voluto farmi del male facendone a se stesso; tipico
ragionamento da persona depressa. È andato nei boschi e si è messo a sedere. Si è lasciato andare abbandonandosi al freddo. Come forma di suicidio, è piuttosto petulante e infantile. Mi mancherà per tutta la vita, ma non credo che potrò mai perdonarlo fino in fondo per questo». La rabbia aveva costretto Thelma ad alzarsi. Stephen la osservò camminare avanti e indietro. L'agitazione era tornata a impadronirsi della stanza. «Se è stato Charles a scrivere quel libro sull'educazione dell'infanzia, dissi alla fine, come mai è così severo? Da quel che ho visto, non mi pare il genere di testo che potrebbe scrivere qualcuno che si sente bambino». «L'ho letto da cima a fondo, disse Thelma. È un quadro perfetto del problema di Charles. La sua vita immaginaria l'ha convinto a scriverlo e il desiderio di compiacere il suo capo glielo ha fatto scrivere in quel modo. È proprio quello che non riusciva a far quadrare, e proprio per quello alla fine è crollato. Non riusciva a trasferire le sue qualità di bambino, e, Stephen, davvero avresti dovuto vederlo, era così divertente, sincero e gentile, non riusciva a trasferire nulla di tutto ciò nella sua vita pubblica. Anzi, cercava freneticamente di compensare quello che gli pareva un eccesso di vulnerabilità. Tutto quel battersi e gridare, accaparrarsi mercati, avere la meglio nei vari dibattiti, era solo un modo di tenere a bada la sua debolezza. E, onestamente, quando penso ai miei colleghi, all'ambiente della ricerca scientifica e agli uomini che lo dirigono, e quando penso alla scienza in genere, al modo in cui è stata trattata nel corso dei secoli, devo dire che il caso di Charles era solo una forma estrema di un problema molto comune». «Sono certo che è vero», disse Stephen. Ora Thelma rivolse la propria collera contro di lui. «Già, adesso parli così. Ma prova a ripensare all'anno scorso e alla tua infelicità, a tutta quell'angoscia, alla depressione, quando avevi a portata di mano... Beh, se lo fai capirai la differenza che c'è tra dire che una cosa è vera e sapere che lo è». Stephen si era alzato. «Di che stai parlando?, le chiese, Che cosa avevo a portata di mano?» Thelma esitò, ed era sul punto di dire qualcosa quando il breve silenzio fu rotto dallo squillo violento del telefono. Prima che lei si avviasse a rispondere, Stephen si rese conto che per tutta la sera aveva sentito squillare telefoni. Senti, «Pronto?... Ma è qui, con me... Certo... Sicuro,... Senz'altro...» Gli tese il ricevitore coprendo con una mano il microfono. Ci teneva a chiarire di non essere stata distratta dal telefono a fornire una risposta alla sua domanda. «Julie, gli disse. Avevi Julie a portata di mano. È lei, ti vuole parlare». Afferrò la cornetta e si mise in ascolto. Ora Thelma gli rivolgeva un ampio sorriso e per tutto il tempo continuò a fissarlo con gli occhi socchiusi e pieni di lacrime.
Capitolo nono I figli sono la nostra più grande risorsa, più ancora del petrolio, persino più dell'energia nucleare. Manuale per l'educazione del bambino, HMSO Si dà il caso che un treno notturno proveniente dalla Scozia e diretto a Londra deviasse a est verso il Norfolk e il Suffolk e facesse una breve fermata alla stazione locale, all'una e venti del mattino. Stephen prese in prestito l'auto di Thelma, lasciò le chiavi sotto il sedile come d'accordo e giunse al binario un minuto prima dell'ora prevista per l'arrivo. Pagò al controllore uno scompartimento-letto e chiese di essere svegliato a destinazione. Si sdraiò con i piedi dalla parte del cuscino e rimase a guardare dal vetro gelato l'ombra fuggente e confusa che il vagone gettava sulla massicciata di pietrisco. Dallo scompartimento vicino giungevano i colpi attutiti di un amplesso amoroso. Per più di venti minuti Stephen rifletté su quell'insistenza monotona, sulla solenne risolutezza di ogni passione. Poteva succedere ancora anche a lui di essere trascinato in quella direzione? Quando il treno iniziò a rallentare nei pressi della stazione successiva, anche il ritmo dei colpi calò; quello che aveva sentito era solo lo sbattere di qualche cosa contro la parete divisoria. Si addormentò all'estrema periferia della città e qualcuno lo svegliò brutalmente bussando con forza alla porta. Nella confusione fraintese l'urgenza della situazione e, afferrando la borsa, si precipitò con esagerata prontezza sulla banchina, la stessa da cui era partito la sera prima. Barcollò per un attimo, cercando di ricordare chi fosse. La stazione era deserta, fatta eccezione per qualche operaio occupato a caricare posta e giornali sul convoglio accanto. Il pavimento era stato bagnato. Ancora ubriaco di sonno, si diresse a cercare un taxi. Il posteggio era vuoto e sulla strada all'uscita della stazione non c'era l'ombra di un'auto. Si incamminò verso St Paul, tirando su il bavero del giaccone di Charles per difendersi da un vento freddo e pungente. Camminò per una buona mezz'ora prima di salire a bordo di un taxi che viaggiava a luci spente. L'autista stava andando a casa: abitava oltre il fiume e accettò di accompagnarlo a Victoria Station. Qualche minuto dopo, Stephen fece scivolare il pannello di vetro e offri al conducente duecentocinquanta sterline per farsi portare nel Kent. L'autista scosse subito la testa. «No, niente roba del genere. Senza offesa sa, ma ho bisogno di un sonnellino».
«Trecento, allora». «Niente da fare, mi spiace». «Duemila e cinquecento?» L'autista fermò la vettura e si voltò sul sedile. «Prima le voglio vedere». Stephen gli mostrò le mani vuote. «Volevo solo sapere se aveva un prezzo». L'uomo si mise a ridere allontanandosi dal marciapiede. Stava ancora sorridendo tra sé e sé quando prese il denaro alla fine della corsa. Anche a causa delle mense gratuite per poveri nelle vicinanze, questa stazione sembrava più attiva dell'altra. Accanto alla biglietteria ancora chiusa era in corso una festicciola a base di sidro e di sherry, una cosa tranquilla, in considerazione del numero elevato di partecipanti: figure malferme, infagottate in cappotti militari. Tre donne di colore, ciascuna alle prese con una gigantesca macchina aspirante, puntavano dritte sul gruppo da direzioni diverse. Lungo i binari, dozzine di uomini erano impegnati in disordinate operazioni di carico dei convogli. Ogni tanto un grido echeggiava languido dalla volta lontana del tetto. Dal cartellone delle partenze, Stephen scoprì che il prossimo treno sulla linea di Dover sarebbe partito tre ore dopo, alle sei e quarantacinque. Si incamminò dietro un carrello sferragliante, carico di mucchi di riviste semi-pornografiche. Quando si fermò, Stephen gli girò intorno per chiedere al conducente se c'era per caso un treno postale in partenza per Dover. L'uomo scrollò il capo e riformulò la domanda ai facchini già pronti a scaricare il carrello. Due e venti, borbottarono quelli uno dopo l'altro, mezz'ora fa. Stephen stava per andarsene quando uno degli operai, un ragazzo sotto i vent'anni, gli si rivolse con la precisione di un fanatico per gli orari ferroviari. «C'è solo un'officina mobile che va da quelle parti a quest'ora». «Dove la trovo?» «Non ti ci fanno mica salire su quella». Ma indicò ugualmente con la mano il punto in cui la banchina si perdeva nel buio. Stephen lo ringraziò e si mise in marcia nella direzione indicata, ignorando un acuto grido alle sue spalle, seguito da una sonora risata incoraggiante. La banchina proseguiva fuori dalla tettoia della stazione, oltre un cartello di avviso per i signori viaggiatori a non spingersi più in là, e si allontanava in un groviglio di rotaie lungo una stretta massicciata di pietrisco. Centocinquanta metri più avanti, su un binario di raccordo illuminato da alte lampade ad arco, era ferma una locomotiva diesel di un bel giallo vivo con un unico vagone a traino, dello stesso colore. Stephen si avvicinò senza un progetto specifico in mente. Giunto sotto la cabina si ritrovò a guardare un tizio più o meno della sua età con in testa un berretto di lana sistemato alla meglio su fitti riccioli neri. Stephen interpretò il copricapo come un segno di buon auspicio, la prova di un certo senso dell'umorismo.
Dovette urlare per sovrastare il fragore pulsante della locomotiva. «È lei il macchinista?» L'uomo annuì. «Vorrei parlarle». «Monti su, allora». Stephen si issò barcollando in cabina portandosi appresso la borsa. Nel piccolo spazio caldo, si sorprese di trovare un minor numero di dispositivi di comando di quanto si aspettasse. Il pavimento vibrava piacevolmente. Notò un paio di libri gialli, un thermos, una scatola di tabacco, un binocolo e un paio di calze di lana pesante ripiegate l'una dentro l'altra. Era un posto lercio e accogliente, una specie di monolocale. Il macchinista si era spostato verso l'altra porta per fargli posto. Stephen resistette alla tentazione di accomodarsi su uno dei due sedili a disposizione. Poteva sembrare presuntuoso. Vi appoggiò invece una mano e disse, «Chissà se potrebbe farmi scendere a un certo punto prima di Dover». Parlando, si infilò una mano in tasca e ne estrasse la banconota da cinquanta sterline. «È severamente vietato dal regolamento, perciò...» Gli aveva teso la mano con il denaro. Il macchinista sedette, appoggiò il gomito al pannello di comando e si premette una guancia contro le nocche. Superò con lo sguardo il denaro e puntò gli occhi in faccia a Stephen. «Cos'è, sta scappando o qualcosa del genere?» Non avendo previsto di doversi giustificare, Stephen riuscì solo a farsi venire in mente la verità. «Sono stato chiamato d'urgenza da mia moglie, dalla mia ex moglie». Sedette anche lui, sentendo di essersi guadagnato il diritto a farlo. «E quando è stata l'ultima volta che l'ha vista?» Il macchinista assunse un tono enfatico come se conoscesse la donna in questione. «A giugno». L'uomo storse la bocca e disse, «I conti tornano, allora». Stephen attendeva una spiegazione, o una decisione, ma il macchinista, sempre appoggiato al gomito, continuava con la mano libera ad armeggiare sul pannello di comando senza dire nulla. Stephen trasferì il denaro nell'altra mano. Non voleva rimetterlo in tasca; poteva sembrare che stesse ritirando l'offerta. Stava per modificare l'approccio al problema quando, dal vetro, vide delle luci scivolare lentissime di lato. Il treno avanzava a passo d'uomo. Circa trecento metri più in là, fu azionata una serie di segnali luminosi su una torre di servizio, anche se non gli fu possibile ricordare che cosa si fosse acceso o quale nuovo colore fosse apparso. Il macchinista si era sistemato a sedere al proprio posto. La velocità del convoglio aumentò dopo che ebbero superato rumorosamente un complicato snodo di binari che li trasferì ondeggiando sulle rotaie più esterne. Stephen attese il diminuire del frastuono, poi disse, «Grazie». Il macchinista non si voltò dalla sua parte, ma diede segno di aver inteso aggiustandosi con
la mano il berretto. Era infinitamente meglio guardare avanti che di lato, osservare non massicciate e cortili retrostanti case, ma miglia di rotaie e congegni ferroviari che parevano sul punto di entrare in collisione con la locomotiva ma sempre sfrecciavano via con calcolata precisione. Mentre acquistavano velocità, nei pressi di South London, prese a nevicare, il che non fece che aumentare in Stephen il piacere del movimento; sembrava di schiantarsi in un vortice di fiocchi che li avvolgeva avvitandosi sempre più rapido man mano che si avvicinava. Il macchinista fece schioccare la lingua contro i denti e guardò l'ora. «Dov'è che vuole andare?» Stephen disse il nome della fermata. «Immagino che ci abiti lei da quelle parti». «Circa tre miglia più a sud». Per la prima volta da che erano partiti, l'uomo si rivolse a Stephen guardandolo. «Non siamo mica obbligati a fermarci in stazione, sa?» Stephen tentò di descrivere la pineta, la curva della strada e finalmente ricordò il pub The Bell. «Lo conosco, disse il conducente. Posso farla scendere lì vicino». Uscirono dal bagliore rossastro della periferia inoltrandosi nei rari tratti bui di campagna tra un centro abitato e l'altro. La neve diminuì, poi cessò del tutto. Viaggiavano sempre più spediti. Stephen aveva ancora in mano il denaro. Tornò a offrirlo ma l'uomo, senza distogliere lo sguardo dalle rotaie, tenne una mano su una leva di ottone a forma di mezzaluna e l'altra in tasca. «Lo dia alla sua ex. Ne avrà senz'altro bisogno». Stephen ritirò i soldi ma gli parve doveroso a questo punto almeno presentarsi. «Edward», replicò l'altro, e spiegò che stava trasportando un'officina mobile e un servizio mensa sul luogo in cui il mattino seguente una squadra di operai avrebbe iniziato dei lavori. Si trattava di rimettere in sesto le rotaie di una galleria danneggiate dall'acqua. Era una bella galleria, vecchia, una delle migliori del sud. La settimana prima, con dei fari orientabili, avevano ammirato la volta in mattoni e i contrafforti all'imboccatura del tunnel. «Là dentro sembra di essere in una cattedrale. In alto c'è una specie di volta a spicchi che nessuno vede mai». Nel giro di due anni avrebbero poi chiuso quel tratto di linea. «Non lo riattiveranno mai più, disse Edward, dopo una pausa. Venderanno il terreno e chi s'è visto s'è visto». «Non ha senso», disse Stephen. Edward scosse il capo. «Ne ha anche troppo, amico. Questo è il problema. Qui nel buio c'è una cattedrale. A che serve? E allora chiudiamola. Costruiamo una bella autostrada. Solo che le autostrade non dicono niente.
L'ha mai visto lei un bambino su un cavalcavia che prende i numeri di targa delle macchine? No, beh, neanch'io». Ci volle un'ora per arrivare alla piccola stazione. Appena l'ebbero superata, Edward iniziò la manovra di arresto. «La faccio scendere a un passaggio a livello. Di lì è impossibile perdersi. Va su per la collina, scende dall'altra parte, attraversa un bosco e arriva a un incrocio. Poi gira a destra e ancora a destra vedrà il pub». Si fermarono sul binario esterno di un passaggio a livello automatico. Stephen strinse la mano di Edward, «Lei è davvero gentile». «Avanti, scenda giù. Io non voglio rimetterci il posto e lei ha da fare». Stephen si calò sulle rotaie mentre Edward gli gettava la borsa. Poi venne il chiassoso rituale della partenza. L'immensa locomotiva ruggì spostandosi con estrema lentezza, e alle sue spalle Stephen senti il tintinnio della campana e vide le luci rosse lampeggiare per restituire al convoglio il diritto di procedere. Un minuto più tardi, era tutto silenzio. Superato il passaggio a livello iniziava una salita ripida. Dall'ultima nevicata non era passata neppure un'auto e la carreggiata era quindi una striscia intatta di bianco tra le due siepi d'arbusti. La luna gli stava di fronte, finalmente al tramonto. Quella strada era infestata da spettri. Stephen prese a costeggiarla senza fare rumore, certo della presenza al suo fianco della giovane coppia che pedalava in salita sotto la pioggia e il vento, ognuno perso nei propri pensieri incompatibili e muti. Dov'erano adesso quei due ragazzi? Che cosa li separava da lui oltre ai quarantatré anni trascorsi? La loro presenza ormai si riduceva a un'eco sempre più tenue. Riusciva a sentire il ronzio delle ruote, le dissonanze sonore di pedalate più o meno lunghe. Raggiunse con loro la cima e, come loro, si fermò. La strada brillava precipitando in un bosco un miglio più in là. Posò a terra la borsa e se ne sistemò i manici a tracolla, quindi si riallacciò una scarpa con la competenza nervosa di un atleta ai blocchi di partenza. Sollevandosi, inspirò profondamente. Percepì l'urgenza dell'invito ricevuto sotto forma di tensione allo stomaco, una sorta di brivido. Assaporò ancora un istante l'energia trattenuta dell'altitudine prima di procedere adeguando il passo alla forza trainante della discesa, in uno scatto quasi privo di sforzo attraverso la neve. Cento metri dopo, il ritmo respiratorio corrispondeva al tonfo attutito di ogni suo passo. Pareva sul punto di decollare, se avesse potuto gettare il bagaglio. Pestava la terra come per assecondarne il moto rotatorio, stabilendo così con gli oggetti una traiettoria di avvicinamento veloce. Aveva raggiunto i primi alberi e si era inoltrato nel bosco, dove la strada si apriva un varco in mezzo alla neve. Scelse l'albero accanto al quale sua madre aveva progettato di liberarsi di lui. Affrettò il passo benché ormai il tragitto fosse pianeggiante e quindi più faticoso. A poche centinaia di metri c'era l'incrocio, e Stephen decise di tagliare la curva, inciampando su
cumuli di terra nascosti. L'altra strada era più ampia, la ricordava bene e ricordava anche gli alberi alti che ne costeggiavano fitti il margine. Davanti a lui ecco la cabina telefonica, l'altura e la curva stretta della strada dove il sentiero piegava nei campi e più vicino, qui sulla destra, ecco il pub che in questa luce pareva disegnato con tratti nitidi di matita. Fu allora che Stephen capì come la propria esperienza in quel luogo non fosse soltanto comune a quella dei suoi genitori, ma ne costituisse il proseguimento, quasi il ripetersi. Ebbe una premonizione, subito seguita da una certezza, che trovò conferma nel sorriso di Thelma e nell'immediata comprensione del fatto da parte di Edward: tutto il dolore, tutta la sua attesa vuota veniva a racchiudersi in un tempo carico di significato e si risolveva nella più preziosa delle conclusioni pensabili. Ansante com'era, emise un grido di entusiastica consapevolezza e corse su per l'altura e lungo il sentiero che conduceva al cottage di Julie. L'ingresso principale non era chiuso a chiave. La porta si apriva direttamente sul soggiorno dove la temperatura tiepida e il delicato aroma di pane tostato e caffè facevano pensare che qualcuno si fosse già alzato. Richiudendo la porta senti il profumo di Julie provenire da una giacca e una sciarpa appese alle sue spalle. La luce di una stufetta a carbone si rovesciava sul pavimento, mentre il resto della stanza era nella semioscurità. Sul pulitissimo tavolo da lavoro, accanto ai taccuini, c'era un vaso di terracotta con dei rami di agrifoglio e un violino appoggiato su un panno giallo. Su una sedia invece, una pila ben fatta di biancheria stirata. Non lontano, sul pavimento, c'era un manuale di astronomia e una tazza da tè. Stephen era a metà della stanza quando senti il familiare cigolio del letto al piano rialzato e poi il rumore di passi sulla sua testa. Si avviò ai piedi della scala e annunciò, «Sono io». Le ombre del mancorrente si proiettavano fitte sul muro. Julie era in cima alla scala. Gli parve di scorgere il bianco di una camicia da notte, ma quello che vide distintamente fu il viso di lei, illuminato da una candela. Si domandò se era appena tornata da un viaggio. Sembrava abbronzata. «Hai fatto in fretta, sussurrò. Sali». Quando entrò nella stanza, era già tornata a letto. Stephen aveva ancora il respiro affannoso e cercò di nasconderlo. Non voleva farle capire che era arrivato di corsa. Oltre alla candela c'era la luce di una lampada e quella del fuoco nel caminetto. Tutto intorno a Julie, sparsi sul piumino, c'erano libri, giornali, una rivista e qualche spartito. C'erano anche dei fiori vicino al letto e un cartone di succo di frutta. Julie era appoggiata a una mezza dozzina di cuscini sprimacciati da poco. Stephen si fermò ai piedi del letto e posò la borsa. Per il momento non se la sentiva di avvicinarsi.
Lei si tirò su il piumino. Qualcosa scivolò a terra nell'ombra. «Credo di aver avuto un accenno di contrazione subito dopo averti parlato al telefono. Non ti spaventare, comunque, possono andare avanti per giorni. Non dovrebbe nascere prima di una settimana». Stephen disse stupidamente: «Non lo sapevo». Lei scosse il capo e sorrise. I suoi occhi lampeggiavano mobili e luminosissimi nella luce fioca. Aveva un golf sulle spalle e una camicia da notte sbottonata fino al solco tra i seni pesanti. La pelle era scura e sembrava calda. Teneva le mani pudicamente appoggiate nel punto dove iniziava il gonfiore del ventre. Persino le dita, pensò, avevano un'aria più tonda. Sciogliendo le mani intrecciate, gli fece segno battendo sul letto, «Vieni a sederti». Lui però si sentiva ancora affannato per la corsa recente. La camicia gli aderiva madida di sudore alla spina dorsale. Aveva bisogno di un po' di tempo per adeguarsi ai confini tiepidi della stanza e sedersi vicino a lei, vicino a questa meraviglia. Per addolcire il rifiuto, disse la prima cosa che gli passò per la mente. «Sono arrivato su una locomotiva di servizio, ho viaggiato con il macchinista». «Il tuo sogno da quando eri piccolo». «Mi ha fatto scendere qui al passaggio a livello. Sembrava che conoscesse bene la zona». Era sul punto di fornirle una descrizione di Edward, di spiegarle quanto le sarebbe piaciuto, ma decise che era un discorso troppo complicato oltre che irrilevante. Disse, «Julie, perché non me l'hai detto?» «Vieni a sederti». Ebbe un attimo di esitazione, poi appoggiò giacca e maglione su una sedia e mise calze e scarpe ad asciugare vicino al fuoco. Facendo il giro del letto, la sensazione di caldo che gli proveniva dalle assi di legno sotto i piedi gli fece di nuovo tornare in mente l'idea di casa, di piaceri appena immaginabili. Sedette sul bordo del letto, non proprio nel punto che lei gli aveva indicato. Julie comunque era decisa a farlo venire più vicino. Gli prese entrambe le mani fra le sue. Stephen non riusciva a parlare, sopraffatto da una carica d'amore superiore alle sue forze. Gli pareva di irradiare luce e calore da dentro. Si sentiva privo di peso e folle. Lei gli sorrideva, stava anzi quasi per ridere. Era il trionfante buon umore di chi trova conferma alle proprie migliori speranze. Non l'aveva mai vista così bella. Aveva la pelle più fine, come quella di un neonato. Quel che era andato crescendo dentro di lei non si era limitato a gonfiarle l'utero, ma si era diffuso in ogni sua cellula. La voce di Julie era bassa e armoniosa, quando rispose alla sua domanda. «Dovevo aspettare, dovevo prendere tempo. Appena l'ho saputo, a luglio, ero furente con me e con te. Sentivo di essere stata imbrogliata. Mi pareva talmente ingiusto. Ero venuta qui per restare sola, volevo fare di me una persona più forte.
Perciò mi sembrava proprio il momento sbagliato e ho pensato seriamente all'aborto. Ma il tutto è durato solo il tempo necessario ad adeguarmi al pensiero, due o tre settimane. Essere soli per scelta può schiarire parecchio le idee. Sapevo di non poter affrontare un'altra perdita. E più ci pensavo, più mi sembrava straordinaria la facilità con cui era successo. Ti ricordi quanto ci era voluto per Kate? Mi sono resa conto che per momento "sbagliato" in realtà intendevo soltanto inopportuno. E ho incominciato a guardare alla cosa come a un dono. Doveva esistere un disegno più profondo nel tempo, i momenti giusti e sbagliati non potevano essere giudicati tanto superficialmente». «Avrei potuto scriverti allora. Sapevo che saresti venuto. Sarebbe andato tutto bene, avremmo sistemato le cose pensando che il peggio era passato. Ma sapevo anche che quella per me era una soluzione pericolosa. Se ti avessi chiamato allora, tante questioni importanti sarebbero state sepolte. Ero venuta qui per accettare l'idea di aver perso Kate. Era quello il mio compito, il mio lavoro se vuoi, più importante per me del nostro matrimonio o della mia musica. Più importante persino del nostro bambino. Se non riuscivo ad accettarlo, pensavo che avrei potuto annegare. Ho avuto giorni tremendi nei quali volevo morire. Ogni volta la tentazione sembrava più forte. Sapevo bene che cosa dovevo fare. Dovevo smettere di correre dietro a Kate con il pensiero. Smettere di soffrire per lei, sperando di vedermela comparire alla porta, o nei boschi, o di sentire la sua voce ogni volta che mettevo un po' d'acqua a bollire sul fuoco. Dovevo continuare ad amarla, ma smettere di desiderarla. Per questo avevo bisogno di tempo, e se ne fosse occorso di più dei nove mesi di gravidanza, pazienza. Non posso dire di esserne uscita del tutto...» Il suo sguardo si diresse in un angolo della stanza. Il vecchio dolore le stava strozzando la voce. Anche Stephen lo senti arrivare, gli parve di averlo nelle narici. Attesero entrambi che fosse passato. Le tendine erano aperte e nel punto più alto dei vetri il bagliore bianco della luna annunciava il suo prossimo calare da quella parte del cottage. Su un tavolino sotto la finestra, un mucchio di articoli sanitari attendeva l'arrivo dell'ostetrica. Accanto, seminascosto dall'ombra del guardaroba, c'era un vaso di narcisi. «Ma ho già fatto qualche progresso. Per esempio ho cercato di non impedirmi di pensarla. Ho tentato di meditare su di lei e sulla sua perdita, anziché rimuginare. Dopo sei mesi ho incominciato a provare conforto al pensiero del nuovo bambino. Ed è andato aumentando, ma con lentezza, sai Stephen. Continuavo ad avere giornate in cui mi pareva di non sapere dove stavo andando. Un pomeriggio sono venute a trovarmi le compagne del quartetto. Hanno portato anche una vecchia amica del college, una violoncellista, e ci
siamo messe a suonare, o meglio abbiamo cercato di suonare il Quintetto in Do maggiore di Schubert. Arrivati all'Adagio, sai com'è bello l'Adagio, non mi è venuto da piangere. Anzi, ero felice. Quello è stato un grosso passo avanti. Ho ripreso a suonare come si deve. Avevo smesso perché sentivo che era diventato un modo di evadere. Mi ero messa a scegliere brani difficilissimi e ci lavoravo furiosamente, solo per non pensare. E invece adesso suonavo per il piacere di farlo, non vedevo l'ora che nascesse il bambino e incominciavo a pensare a te e a ricordare e a sentire davvero quanto ci fossimo amati. Mi sembrava che stesse ricominciando tutto da capo. Mi spiace che abbia dovuto essere così. Ma so che è stata la cosa giusta. Ora sono pronta ad andare avanti. E dovevo convincermi che anche tu nel frattempo ti fossi fatto più forte, andando per la tua strada. Alla fine, ieri ti ho chiamato, per tutto il pomeriggio. Mi pareva di impazzire: non riuscivo a trovarti...» Stephen avrebbe voluto dimostrarle di quanto fosse più forte. Nella sua gioia incontenibile era pronto a scattar su dal letto e mostrarle i progressi del suo rovescio, o prendere una penna ed esibire la sua calligrafia, comporre per lei un poema in arabo classico. Ma non riusciva a lasciarle le mani. I grigi occhi chiari di Julie si spostavano dall'occhio destro al sinistro di lui, più giù, sulla bocca e poi su di nuovo. Sulle sue labbra maturava un sorriso trattenuto. Spinse via la coperta e gli guidò una mano. La testa del bambino era già impegnata, la pelle sopra il groviglio dei peli era calda e tesissima, dura come un osso. Più in alto, sotto il suo seno destro, Stephen sentì un tremito contro il palmo della mano, lo scalciare di un piede. Era sul punto di parlare e la guardò. Julie disse in un sussurro, «Era una bella bambina, proprio una bella bambina». Stephen annuì. Fu allora, con tre anni di ritardo, che riuscirono finalmente a piangere insieme per quella bambina insostituibile e perduta che non sarebbe mai cresciuta per loro, il cui aspetto e i cui gesti non avrebbero mai subito i cambiamenti del tempo. Si tennero stretti, e mentre diminuivano tensione e amarezza presero entrambi a parlare come potevano tra le lacrime, promettendo di amarsi, di amare il bambino, i genitori e Thelma. Nella generosità folle del loro dolore decisero di contribuire a sanare tutto e tutti, il governo, il paese, il pianeta, ma incominciando da loro due; anche se non sarebbero mai riusciti a compensare la perdita della bambina, avrebbero continuato ad amarla attraverso il bambino nuovo, senza escludere mai la possibilità che Kate ritornasse. In tutto questo, si erano sdraiati faccia a faccia sul letto. Ora Julie si liberò con un calcio delle coperte. Sollevò la camicia da notte e, voltandosi, si mise carponi. Allargò i gomiti finché non ebbe la faccia schiacciata contro i cuscini. Stephen sussurrò il nome di lei alla vista, in un corpo così dignitoso e possente, della dolcissima debolezza delle sue natiche sollevate e
incorniciate qua e là dall'orlo a ricami della camicia da notte. Il silenzio risuonò dopo tutte le loro promesse e si mescolò al fruscio di un miliardo di aghi di pino. Stephen la penetrò piano piano. Qualcosa si andava raccogliendo tutto intorno, un rumore più forte, un sapore più dolce, un tepore più caldo, più luminoso, una sintesi di tutti i sensi, il condensarsi dell'idea di qualcosa che cresce. Julie emetteva continui suoni sommessi, lente «oh» trascinate, nel saliscendi vocale, come di una richiesta confusa. Poi, diede in un grido di gioia del quale Stephen, assorto com'era, non riuscì a intendere il senso. Infine si staccò da lui e volle tornare a sdraiarsi sulla schiena. Si sistemò con le ginocchia sollevate e tirò un lungo respiro. Appoggiò la punta delle dita di una mano sulla parte bassa del ventre e si massaggiò con delicatezza. A lui venne in mente il nome gentile di quel massaggio: effleurage. L'altra mano di Julie afferrò quella di lui, stringendo sempre più forte con l'aumentare d'intensità della contrazione, comunicandone in questo modo anche a Stephen il progredire. Era preparata, stava già controllando il respiro, compiva lunghe espirazioni ritmate che accelerava in un breve ansare con l'avvicinarsi delle spinte. Era partita per questo suo secondo viaggio solitario e tutto ciò che a lui restava da fare era correre lungo la riva e lanciarle grida di incoraggiamento. Se ne stava andando lontano da lui, persa nel progredire del parto. Le sue dita affondavano sempre di più nella mano di lui. Stephen sentiva il cuore pulsargli alle tempie e aveva la vista annebbiata. Cercò di non tradire lo spavento attraverso la voce. Doveva ricordare la sua parte: «Assecondala, fatti portare dall'onda, non ti ci opporre, galleggia, galleggia...» Poi si unì al suo ansimare, enfatizzando molto l'espirazione e rallentando il ritmo man mano che diminuiva la stretta della mano. Gli venne il sospetto che questa forma di partecipazione fosse stata ideata dalle autorità sanitarie per aiutare i padri a superare il panico da inutilità. Al termine della contrazione, diedero insieme un profondo sospiro. Julie si portò le mani alla bocca per ricacciare la sensazione di nausea provocata dall'iperventilazione. Disse qualcosa, ma le parole risultarono soffocate. Stephen attese. Lei abbandonò le mani sul letto e sorrise appena. Allora tornarono nella stanza, furono di nuovo presenti a se stessi, come se uscissero da un riparo dopo un temporale. Stephen non ricordava di che cosa stessero parlando prima, né se stessero effettivamente parlando. Non aveva alcuna importanza. «Ti ricordi tutto per bene?», disse Julie. Non gli stava chiedendo di abbandonarsi ai ricordi. Voleva assicurarsi che sapesse che cosa fare. Stephen annuì. Ma avrebbe voluto dare un'occhiata a uno dei libri di Julie. C'erano fasi precise nel travaglio, gli pareva di ricordare, e diverse tecniche
di respirazione legate a ciascuna di esse; c'erano momenti in cui occorreva trattenere e altri in cui era importante spingere. Aveva comunque una buona giornata di tempo. Poteva pensarci con calma. E i ricordi dell'esperienza passata erano ancora piuttosto chiari. La volta scorsa aveva assolto le funzioni di tamponatore di tempie, telefonista, fioraio, mescitore di champagne, aiuto-levatrice, il tutto senza mai smettere di parlarle. A cose fatte, Julie gli aveva detto che si era reso molto utile. La sua impressione era quella di aver avuto un valore più che altro simbolico. Si vestì, attraversò la stanza e trovò un paio di calze di Julie da infilarsi. «Dov'è il numero dell'ostetrica?» «Nella tasca della mia giacca, quella appesa dietro la porta. Metti l'acqua sul fuoco, uscendo. Prepara due borse dell'acqua calda. E un po' di tè al gelsomino. E bisogna aggiungere legna in tutti e due i caminetti». Stephen ricordò anche questi ordini secchi, l'assoluto diritto materno al comando nel proprio dominio. Fuori, l'alba era ancora confinata alla parte orientale del cielo. Le nuvole erano scomparse del tutto e per la prima volta Stephen vide le stelle. La luna restava comunque la maggior fonte di luce. Si affrettò lungo il sentiero di mattoni con le scarpe ancora bagnate e notò che Julie aveva prudentemente spalato la neve. Nella cabina del telefono non funzionava l'impianto elettrico e Stephen dovette comporre il numero al tatto. Quando ebbe finito, scopri di essere in linea con la centralinista del centro medico della città vicina. Non doveva preoccuparsi. Si sarebbero occupati loro di contattare l'ostetrica e l'avrebbero mandata nel giro di un'ora. Tornando indietro, mentre percorreva il breve tratto di strada su cui si era affannato meno di un'ora prima, cercò di calmarsi e di considerare la portata delle trasformazioni avvenute; ma non gli riuscì di riflettere, poteva pensare soltanto ai dettagli, al tè, alla legna e alle borse dell'acqua calda. Nel cottage c'era un gran silenzio al suo ritorno. Preparò il vassoio del tè, uscì a prendere qualche ciocco nella legnaia, si occupò del camino al piano di sotto e riempi un cesto di legna da portare di sopra. Passò invano in rassegna i libri di Julie cercando qualche pubblicazione sul parto. Per farsi coraggio con una dimostrazione di competenza, si fermò al lavandino di cucina e si strofinò vigorosamente le mani per qualche minuto. Sistemò il vassoio sul cesto della legna, si infilò sotto un braccio le borse dell'acqua calda e raggiunse vacillando il piano superiore. Julie era distesa supina. I capelli madidi di sudore le aderivano al collo e alla fronte. Era agitata, si lamentava. «Hai detto che non ci avresti messo molto. Dove sei stato tutto questo tempo?» Stephen stava per ribattere quando gli venne in mente che una certa irascibilità poteva far parte del processo, essere semplicemente una tappa lungo il cammino. Di sicuro però avrebbe dovuto manifestarsi più
tardi. Stavano forse saltando qualche passaggio? Le servi il tè, offrendosi di farle un massaggio. Ma Julie non sopportava più di essere toccata. Le sistemò le coperte. Ricordando la furia di lei l'altra volta quando l'ostetrica si era messa a parlarle come a una bambina, assunse un tono pacato, da allenatore sportivo. «Sposta la gamba, così. Benissimo. Sta andando tutto bene, sai?» E così via. Julie non si mostrava precisamente tranquilla ma più arrendevole. Bevve anche il tè. Stava soffiando sulla brace per alimentare una fiamma tra una manciata di ramoscelli, quando la udì chiamare il suo nome. Si precipitò da lei. Stava scuotendo la testa. Fece l'atto di appoggiarsi le dita sul ventre, ma ci rinunciò. «Sono stata sveglia tutta la notte. Sono troppo stanca, non sono pronta». Le parole di incoraggiamento di Stephen furono interrotte da un lungo grido. Julie faticava a inspirare e ci fu subito un altro urlo, prolungato e stupito. «Assecondala, fatti portare dall'onda...» incominciò a dire. Ancora una volta lei lo interruppe. Aveva perso il proprio posto. Ogni esortazione a respirare ritmicamente ormai era inutile. Una tempesta gli aveva strappato di mano il libretto delle istruzioni. Julie gli afferrò l'avambraccio con tutte le forze. Digrignava i denti, muscoli e tendini del collo parevano sul punto di spezzarsi per l'eccessiva tensione. Si sentì perduto. Non aveva da offrirle altro che un braccio. Le gridò, «Julie, Julie, sono qui, con te». Ma lei era sola. Di nuovo inspirava e gridava, questa volta senza controllo, come se stesse ridendo; e anche quando ebbe finito il fiato, non ci fu niente da fare: l'urlo doveva proseguire, non si poteva fermare. La contrazione le fece sollevare la schiena e torcersi su un fianco. Il lenzuolo, ancora raccolto intorno al suo ventre, si era tutto attorcigliato. Stephen sentì la struttura del letto fremere sotto gli sforzi di lei. Emise un ultimo schiocco gutturale e tornò a prendere fiato, mentre scrollava la testa. Quando tornò a guardare verso di lui, oltre lui, nel suo sguardo aperto era tornata una vivida determinazione. Aveva recuperato il controllo. Stephen credette che fosse sul punto di dire qualcosa, ma la stretta al braccio riprese e lei se ne andò via di nuovo. Le sue labbra, tesissime, tremavano, e dal fondo del petto emetteva lamenti strozzati, il rantolo soffocato e gorgogliante di uno sforzo immane. Infine, il grido si affievolì e Julie lasciò ricadere la testa all'indietro sui cuscini. Tra respiri profondi gli si rivolse con voce sorprendentemente normale. «Devo bere qualcosa di fresco, un bicchiere d'acqua». Stava già per alzarsi, quando lei lo trattenne. «Ma non voglio che tu te ne vada. Forse ci siamo».
«No, no. L'ostetrica non è ancora arrivata». Julie sorrise, come se lui avesse fatto quella battuta di spirito per incoraggiarla. «Dimmi che cosa vedi». Dovette passarle una mano sotto il corpo per liberare il lenzuolo. Quel che seguì fu uno shock, uno sconvolgimento, un rallentare del tempo che accompagnò Stephen nella dimensione del sogno. Si sentì avvolgere da una sorta di quiete. Si trovava al cospetto di una presenza, di una rivelazione. Il suo sguardo fissava la parte posteriore di una testa sporgente. Non si vedeva nient'altro. La faccia era rivolta in basso, verso il lenzuolo bagnato. In quel silenzio e in quell'assoluta immobilità, passò un'accusa. Come hai potuto dimenticarmi? Non ti sei reso conto che si è sempre trattato di me? Sono qui. Non sono vivo. Stephen contemplava la spirale di peli bagnati intorno alla corona. Non si vedeva muovere niente, non un battito, non un respiro. Non era vivo, era solo una testa incastrata, eppure il messaggio era chiaro. Io, la mia mossa l'ho fatta. Ora tocca a te. Doveva essere trascorso un secondo dacché aveva sollevato il lenzuolo. Protese una mano. Quella che stava toccando era una scultura di marmo bianco venato d'azzurro, inerte e carica di volontà al tempo stesso. Era fredda, bagnata e fredda; più in là c'era un calore, è vero, ma troppo debole: un avanzo di tepore preso a prestito dal corpo di Julie. Il fatto che di colpo, ovviamente, si trovasse lì una persona non di un'altra città, o di un altro paese, ma che arrivava dalla vita stessa, la semplicità di questo fatto stava producendo in lui una chiarezza e una precisione di intenti. Si udì rivolgere a Julie qualche parola rassicurante mentre a confortare lui venne un ricordo rapido e nitido come un fuoco d'artificio, come una strada di campagna illuminata dal sole, come un colpo improvviso sul capo. I suoi pensieri andavano assumendo strutture semplici, elementari. Questo è davvero tutto ciò che abbiamo, questo crescere, questa vita che ama se stessa; tutto ciò che ci è dato ha origine qui. Julie non era ancora pronta a spingere. Stava recuperando le forze. Stephen passò una mano intorno alla testa e, trovata la bocca, usò il mignolo per liberarla dal muco. Ancora niente, nessun respiro. Spinse avanti le dita, sotto la pelle tesa del labbro vaginale di Julie, per andare a cercare la spalla nascosta. Sentì il cordone là dentro, spesso e robusto, un essere pulsante che si avvolgeva in un doppio cappio intorno al collo. Lavorando con il dito indice circolarmente Stephen tirò piano piano. Il cordone uscì senza difficoltà, abbondantemente, e non appena ebbe liberato la testa, Julie potè partorire (in quell'istante preciso Stephen si rese conto di tutta l'attiva generosità di quel verbo). Julie raccolse le proprie forze e la volontà e partorì. Il bimbo gli scivolò fra le mani con uno squittio impastato. Lui vide solo la lunga
schiena, forte, viscida e muscolosa, percorsa dal solco della spina dorsale. Il cordone, ancora pulsante pendeva lungo la spalla e rimaneva attorcigliato ad un piede. Ma lui era lì solo per afferrare la palla, non era certo la meta, e il suo primo pensiero fu quello di restituire il bambino alla madre. Mentre lo sollevava udirono un suono nasale seguito da un bel pianto limpido. Il bimbo restò a faccia in giù con un orecchio proteso verso il cuore di sua madre. Lo coprirono con le coperte. Dal momento che le borse dell'acqua calda erano troppo pesanti e scottavano, Stephen si mise a letto, e tennero il bambino in mezzo per non fargli prendere freddo. Il respiro si stava facendo più regolare e sulla sua pelle fioriva un colore più caldo, un rosa carico. Fu solo a quel punto che Stephen e Julie iniziarono a esultare, a parlare, a baciare e strofinarsi contro la testina molle che odorava di pane appena sfornato. Per qualche minuto non riuscirono a formulare frasi complete e poterono emettere solo qualche suono di meraviglia e di trionfo o ripetersi ad alta voce i nomi l'uno dell'altra. Ancorato al cordone ombelicale, il piccolo se ne stava disteso con la testa appoggiata tra i pugni chiusi. Era un bambino bellissimo. Aveva gli occhi aperti e contemplava la vetta del seno di Julie. Accanto al letto, dalla finestra, si vedeva la luna che sprofondava in un vuoto lasciato dai pini. Proprio sopra la luna brillava un pianeta. Quello era Marte, sentenziò Julie. Era lassù per ricordare l'aspetto crudele del mondo. Ma loro due per adesso ne erano immuni, il tempo doveva ancora iniziare. E rimasero fermi a osservare pianeta e luna in un cielo che andava facendosi azzurro. Non avrebbero saputo dire quanto tempo dopo udirono l'auto dell'ostetrica fermarsi fuori dal cottage. Sentirono sbattere la portiera, poi il ticchettio di scarpe rigide sul sentiero in mattoni. «Beh, disse Julie. È maschio o femmina?» E fu in un atto di riconoscimento del mondo al quale stavano per ricongiungersi e dentro il quale speravano di portare il loro amore, che Julie infilò una mano sotto le coperte per toccare.
FINE
McEwan e la critica Paura di crescere Del suo nuovo libro, Bambini nel tempo, Ian McEwan dice semplicemente e icasticamente che gli è venuto «dalla pancia». E guardandoti dritto negli occhi dietro le lenti da miope che regalano un po' di anni alla sua faccia di ragazzino appena ingrigito, aggiunge che si tratta di un libro molto più «appassionato» del solito. Un'affermazione così impudica non può non stupire, visto da chi proviene. Ian McEwan, quarantanni, un grande e precoce successo, una fama consolidata di autore conosciuto e amato persino dalle generazioni «non leggenti», non è, come si dice, un cordialone, né uno che voglia piacere. E nei suoi libri eversivi e antiautoritari, i racconti di Primo amore, ultimi riti (suo libro di esordio nel 1975), o quelli di Fra le lenzuola; i romanzi come Il giardino di cemento, dove racconta di quattro ragazzini che, morti i genitori, li seppelliscono in giardino e creano una sorta di incestuosa, sadica, sovversiva repubblica dei ragazzi, o come Cortesie per gli ospiti, dove a Venezia una coppia in lento recupero sentimentale si trova all'improvviso a contatto con un mondo di violenza rituale e di sangue, Ian McEwan ha nutrito il suo distacco di ironia, di paradosso e di ferocia. Questa volta no. Questa volta, con Bambini nel tempo (che in inglese è un solo bambino, Child in Time), Ian McEwan si lascia andare. A dire la verità non in tutto il libro. Ma siccome gli capita di abbandonarsi soprattutto nel primo capitolo, questo capitolo, come lui stesso riconosce, proietta la sua ombra di passione, di sentimento e di dramma su un libro che è spesso divertente, spesso grottesco, e generalmente «freddo». Cosa succede dunque nel primo capitolo? Succede che il protagonista del libro, Stephen Lewis, autore di fortunati libri per ragazzi, mentre un giorno è al supermercato con la figlioletta di tre anni, Kate, la perde. Un minuto prima la bambina era lì, a giocare con il carrello, un minuto dopo non c'è più. Rapita. Kate non ricompare, Stephen conosce tutti gli stadi del dolore e di un lutto sospeso nella mancanza di certezze. Il suo matrimonio felice si sfalda nel senso di colpa... Anche se poi Bambini nel tempo continua con la satira di una fantasiosa, ma non troppo Inghilterra post-thatcheriana velenosamente dipinta, in cui il governo istituisce commissioni per rifondare una sana educazione repressiva, in cui l'accattonaggio è regolamentato, in cui il perbenismo è spinto agli estremi. Anche se poi il libro diventa un ricamo sul rapporto genitori-figli, sui figli che diventano a loro volta genitori, sul tempo, il suo valore, il modo di viverlo. Anche se il tono del libro si fa spesso amaramente
grottesco e qualche volta umoristico, poco importa. Nel lettore resta quel fantasma, l'incubo della bambina scomparsa che, anche lei, sta vivendo la sua esperienza del tempo crescendo da qualche parte, lontano da chi la ama. «Quando ami qualcuno è inevitabile vivere la paura di perderlo. E quella paura, le fantasie che la nutrono, sono parte e misura dell'amore. Credo che nessun genitore, attraversando una volta o l'altra una strada affollata, non abbia sperimentato la paura di essere separato dal suo bambino, o l'angoscia che venga travolto da una macchina. Gran parte della possessività e dell'amore si traduce nella paura. Perciò quello che racconto a proposito di Kate tocca tutti. E mi sono reso conto solo a cose fatte che l'aver messo il rapimento di Kate all'inizio del libro è stato un elemento decisivo nell'orientare la reazione del lettore». Invece «il libro è molte altre cose», tiene a precisare McEwan. Ed elenca: «Una satira della letteratura per l'infanzia, una storia d'amore, una presa in giro delle mode culturali che investono, con i loro flussi e riflussi, l'educazione dei ragazzi: prima solo Spock, poi basta Spock e un po' di sano autoritarismo, il tutto deciso in comitati e comitatini secondo le esigende dell'establishment; e persino un discorso sul tempo», che nel libro è portato avanti da una docente di fisica pronta a lasciare il proprio lavoro di scienziata per seguire nel suo ritiro il marito, primo ministro in pectore, stufo della vita politica e ben deciso (e qui McEwan si lascia andare a una descrizione grottesca) a ritornare ragazzo. È in questo discorso sul tempo che McEwan rischia di scivolare in un misticismo romantico. Basti dire come nel romanzo racconti un incontro tra se stesso, ancora da nascere, e i genitori che, a metà tra ricordo e fantasia, vede giovani e fragili durante un loro incontro d'amore. Non le sembra di aver rischiato un po' troppo? «Il tema del tempo mi affascina. Ho cercato di costruire il libro, di organizzarlo, attorno alle teorie dei fisici moderni sul tempo, sulla sua struttura, sul suo significato "morale". È evidente che la nostra visione del tempo come movimento lineare è un'illusione, e anche un po' rozza; non abbiamo certo bisogno di rivolgerci ai fisici per saperlo. Lo sanno bene i poeti, lo sa la tradizione del misticismo. Quello che ho cercato di fare in Bambini nel tempo è stato di farlo sentire, senza alcuna forma di teorizzazione, attraverso la favola, il sentimento. Ho cercato anche di giocarci narrativamente: l'incidente automobilistico che racconto è un tentativo di ralenti, la scommessa di riprodurre cinque secondi, quanto dura la cosa nella realtà, nello spazio dilatato che occupa una descrizione». Accanto al tempo, l'altro tema ossessivamente percorso da questo libro è l'infanzia. Nella grande casa luminosa e sapientemente disordinata di Oxford, tra bei vecchi mobili e montagne di libri, Ian McEwan vive con la moglie Penny, che fa l'astrologa-guaritrice, con le due figlie adolescenti di lei, con i piccoli
William e Gregory nati dal loro matrimonio, con una baby-sitter dai capelli rossi e con molti gatti. «Vivere con i bambini aiuta a restare in contatto con l'infanzia. Con la propria infanzia. Il loro modo di crescere ti costringe a ricordare la fatica che ci hai messo tu. Ti aiuta a riconoscere quella parte dell'infanzia che vive dentro gli adulti e che continua ad agire in loro. Perché anch'io sono convinto che il bambino che ognuno di noi è stato ha un influsso molto forte sul nostro comportamento, condiziona anche il nostro modo di essere genitori». Ian McEwan è stato un bambino molto amato. «Non so se nel modo giusto. Puoi anche avere amore e troppa protezione, avere amore ed essere oggetto di troppa possessività. Io avevo due fratelli più grandi di me, figli del primo marito di mia madre. Sono stato molto protetto. Poi, a undici anni, sono andato via, in collegio. Ed è stata la lacerazione più dolorosa della mia vita». Sono queste esperienze che lo hanno convinto a parlare d'amore; tema che, in generale, «è roba da romanzoni, difficile da trattare seriamente perché è come un campo su cui sono passate centinaia di vacche». Dopo tre romanzi, ora McEwan sente la tentazione di ritornare alla formaracconto. Continua comunque a lavorare per il cinema; e per il cinema, sull'onda del successo di L'ambizione di James Penfield, ha scritto per Mike Newell Soursweet, film agrodolce come il titolo, sui cinesi di Londra, con cui riconferma la sua vena «neorealista» appena abbandonata per Bambini nel tempo. «Tempo fa dicevo che scrivevo film per pagare le bollette. Ora, lo ammetto, i conti e le bollette sono pagati, e bene, anche dai miei libri. Adesso scrivo per il cinema, per prendermi delle pause. Perché dopo un libro come Bambini nel tempo ti senti divorato, spossessato, solo. Uno scrittore è sempre solo. Quando lavoro per il cinema imparo, per un po', a stare con gli altri. Quanto mi basta». IRENE BIGNARDI «la Repubblica», 22-6-1988 McEwan: l'importanza (e l'ironia) di essere bambini A venticinque anni Stephen Lewis conobbe la fortuna di imbroccare, quasi per caso, un libro per bambini che lo rese molto noto, e i cui diritti d'autore, uniti a quelli dei libri più o meno analoghi che lo seguirono, gli consentirono di adagiarsi placidamente nella società del benessere. Si sposò con Julie, una musicista, ebbe con lei una figlioletta, sembrava destinato a vivere la vita del tipico intellettuale inglese che assiste agli avvenimenti con un distacco ironico. Senonché un giorno, e la descrizione di questa scena contiene alcune fra le pagine memorabili di Ian McEwan, grande descrittore dell'odierno malessere
britannico, la piccola Kate viene rapita in un supermarket, né la polizia riuscirà più a ritrovarla. Dopo, niente sarà più lo stesso. Julie lascia il marito e va a cercare la pace con soggiorni in centri di meditazione spirituale. Stephen vive una vita solitaria, limitando i suoi contatti col mondo all'impegno in una commissione governativa che esamina varie proposte sull'educazione dell'infanzia finendo sempre col respingerle in base a indolenza, pregiudizi o cavilli. La cronaca della progressiva nevrotizzazione di Stephen è affiancata in quest'ultimo romanzo di McEwan alla satira, acre ma un po' prevedibile, dell'Inghilterra thatcheriana (o forse, post-thatcheriana), in cui i mendicanti sono provvisti di licenza ufficiale e devono circolare in coppia, mentre i burocrati sono immersi nella contemplazione del proprio ombelico. Frattanto Charles Darke, il dinamico editore che a suo tempo scopri e lanciò Stephen, e che in un secondo momento aveva intrapreso con grande successo una carriera governativa, si è improvvisamente ritirato in campagna con la moglie studiosa di matematica, e qui subisce una sorta di ritorno all'infanzia; si costruisce una casetta in cima a un albero, gioca a palline e tira sassi con la fionda. Il Primo ministro, il cui sesso l'originale inglese evita accuratamente di specificare, tenta invano di convincere Stephen a fornirgli informazioni sulla vera natura della strana metamorfosi di costui. Giustamente famoso per i suoi racconti sgradevoli, questa volta McEwan ha affrontato un tema per lui nuovo in quello che si potrebbe definire una sorta di apologo sulla natura e sull'importanza dell'infanzia nel mondo moderno, o meglio nell'Inghilterra dominata dal partito conservatore. Mentre dei piccoli mendicanti esperti e cinici girano per le strade, mentre la commissione ufficiale si gingilla senza compiere il suo dovere (che sarebbe quello di riformare l'educazione infantile), mentre un brillante talento di organizzatore e come dire di uomo-guida si rivolta improvvisamente su se stesso, alla ricerca della propria infanzia perduta, il protagonista appare completamente alla deriva, privato com'è stato di quell'unico appiglio con la realtà che a quanto pare solo un bambino, un bambino da amare e da allevare, fornisce. Un atipico (per questo interessantissimo e ancor giovane scrittore contemporaneo) lieto fine non indora affatto la visione di un Paese dove fra chi governa e chi subisce c'è un abisso profondo, che nessuno sembra sapere come colmare. MASOLINO D'AMICO «Tuttolibri», 6-8-1988 Dentro i fantasmi dell'infanzia
«Il tempo presente e il tempo passato | sono forse presenti entrambi nel tempo futuro. | E il tempo futuro è contenuto nel tempo passato», dicono tre versi di T. S. Eliot citati nel nuovo romanzo di Ian McEwan, le cui vicende si ispirano in parte a quell'idea. Non solo siamo in una sorta di futuro prossimo, in una società inglese post-thatcheriana, ingrigita e standardizzata, dove si aggirano accattoni «patentati», ma i personaggi stessi vivono esperienze e situazioni in cui presente, passato e futuro si confondono e si sovrappongono secondo i principi che l'astrofisica contemporanea sta rendendo familiari. Un'altra idea informatrice è quella del modo atemporale con cui l'infanzia percepisce eventi e fenomeni, vivendo in una sorta di dimensione magica, di sogno. Il protagonista, Stephen Lewis (nella scelta del nome c'entrano forse Joyce e il ricordo di C. S. Lewis), autore quasi suo malgrado di popolari libri per bambini, membro piuttosto scettico e rassegnato di una Commissione governativa per l'educazione dell'infanzia, perde improvvisamente al supermercato la figlia Kate: rapita, o sparita in un impercettibile vortice o vuoto del tempo, risucchiata in un futuro virtuale? La ricerca angosciosa della bambina mette in moto un processo di ripensamento sul matrimonio, sul rapporto con i figli, i colleghi e gli amici, sul tempo in cui viviamo o in cui sogniamo, sulla natura e le origini del nostro essere e del nostro agitarci. In questo processo, inoltre, Stephen rivive il proprio rapporto con i genitori e scopre il senso di un'esperienza allucinata in cui, fuori delle finestre di un pub, ha assistito a un loro acceso dialogo, il momento drammatico in cui hanno deciso della sua nascita. Contemporaneamente, il suo amico Charles Darke, deputato di successo e pronosticato futuro Primo ministro, decide di rinunciare alla carriera e si lascia stancamente regredire a uno stadio infantile. Ritorna boy-scout, va a vivere sugli alberi: di contro alla progressione lineare che porta inesorabilmente al futuro, accoglie il richiamo dell'infanzia come presente continuo, in cui appunto le distinzioni temporali si annullano; e lentamente un giorno si spegne, sfuggendo definitivamente al tempo. Al naufragio del proprio matrimonio, dopo aver più volte creduto di rivedere o ritrovare la figlia perduta, sfuggendo per questi «miraggi» a ogni altra possibilità, Stephen reagisce del pari con un tuffo nel proprio passato. Nel suo caso, però, un dolcissimo momento di ritrovata intimità con la moglie permette l'evento risolutore la nascita di un nuovo bambino che lo riconcilia alla fine con il mondo passato. Ian McEwan, uno fra i più dotati scrittori inglesi dell'ultima generazione, ci aveva abituato a taglienti rappresentazioni di adolescenti perversi, di fredde crudeltà perpetrate nella quiete degli interni domestici, di abbandoni a un
mondo senza più valori o speranze, in cui si vegeta come portati da onde di esistenza a noi estranee. In questo suo romanzo raggiunge la maturità, non tanto capovolgendo quel «messaggio», quanto presentando un mondo di complessa articolazione emotiva e intellettuale, personaggi di notevole spessore e ricchi di risonanze interiori. Forse i suoi libri precedenti erano di effetto più immediato. Fra tanti discorsi, spesso salottieri, sulla natura del tempo che si sono recentemente sentiti sull'onda dei libri di Stephen Hawking e di Prigogine, il romanzo di McEwan ha il merito di presentare e di farci sentire emotivamente il senso di quelle dislocazioni o «allucinazioni» temporali, gli improvvisi scompensi, le sensazioni di precarietà e di vuoto che ne derivano, assieme alla percezione che essi sono comunque parte del nostro essere uomini, contribuiscono alla pienezza della nostra esperienza, aggiungono quel che di fantasia e di sogno a occhi aperti (o sbarrati), senza il quale la nostra vita si inaridisce. SERGIO PEROSA «Corriere della Sera», 11-9-1988 Il tempo perduto di McEwan Verso la fine, un suicidio per assideramento squarcia il velame di questo romanzo di Ian McEwan, Bambini nel tempo: Charles Darke, il suicida, amico del protagonista Stephen Lewis (come ci dice la moglie Thelma, studiosa di fisica), voleva essere famoso, adulato, voleva sentirsi dire che sarebbe diventato Primo ministro, ma, nello stesso tempo, voleva essere un ragazzo, ignorare il mondo di fuori, vivere in una beata irresponsabilità, mantenere la sicurezza dell'infanzia. Voleva fuggire nel tempo, verso l'infanzia che è assenza di tempo, felice condizione mistica. Ian McEwan pare, in questo libro, molto lontano da quella crudeltà che avevamo trovato nel fondo di libri come Il giardino di cemento e Cortesie per gli ospiti (1978 e 1981 in traduzione italiana) e altrettanto lontano da quell'asciuttezza di stile che lo distingueva tra tanta finta intelligenza letteraria e tra tanta letteratura fintamente crudele. Invece no, eccolo qui, in questo bel romanzo, con tutte le sue cattive carte in regola. L'impianto romanzesco e la pietà che lo ispira (pietà per i bambini, per noi tutti, per Stephen che attraversa il libro, pietà per il mondo in cui viviamo, per una Inghilterra povera e becera, pietà per quanti ancora sentono un po' di pietà, pietà per i barboni e per i mendicanti che affollano le stazioni di Londra, pietà per quanti alimentano certezze politiche o scientifiche e per quanti osano ancora stilare manuali per l'educazione dell'infanzia) si risolvono in una crudele rassegna delle nostre miserie. E la crudeltà si rifà viva quando
meno te l'aspetti. Per essere brevi. Stephen, marito di Julie e padre di Kate, va al supermercato con la sua bambina, Kate, appunto, e a un tratto si volta e Kate non c'è più, non ci sarà mai più. Rapita? Forse. La sua sorte è diversa: è precipitata nel tempo. Si è sottratta al tempo. Inutile cercarla. La sua assenza si trasformerà in una invadente presenza. Stephen e Julie si separano, Julie va a vivere in un cottage lontano dalla città, l'ambizioso e ambiguo Darke comincerà ad avviarsi verso il suicidio (si traveste da ragazzo, si costruisce una capanna sugli alberi di un bosco) e Stephen subirà la sua strana sorte di scrittore. Ha scritto un romanzo, Lemonade, con serie, adulte, intenzioni. L'editore lo accetta, ma come libro per i bambini. Sarà un successo. Stephen dovrà persino far parte di un comitato ministeriale incaricato di ricercare sulle letture e sulla scrittura dei bambini. La crudeltà dov'è? Nella sorte di Stephen, in quella di Darke, in quella dei genitori di Stephen, vecchi e un po' malandati, in particolare in quella di Kate, scomparsa chissà come e chissà perché: ma soprattutto nella sorte della coppia Stephen-Julie. Durante un loro breve incontro Julie concepirà un altro figlio, che nasce nelle ultime pagine del libro. Gioia per Stephen e Julie. Ma il bambino? Lo aspetta la sorte a cui si è sottratta Kate, la sorte di Darke, la sorte di Stephen: la sorte della ragazzina barbona a cui Stephen regala il cappotto in uno slancio di pietà, durante un allucinato, ingannevole riconoscimento in lei della figlia Kate. È un libro del tempo perduto, e come si sa il tempo perduto è il presente. Solo Kate lo ritrova. In questa chiave così poco storicistica dev'essere letta la citazione eliottiana dai Quattro quartetti: «Il tempo presente e il tempo passato | Son forse presenti entrambi nel tempo futuro. | E il tempo futuro è contenuto nel tempo passato». Così accadrà che il figlio Stephen si materializzi, ancor prima di nascere, agli occhi della madre. La ricerca di un tempo immobile, eterno, come si presume sia il tempo dell'infanzia, il tempo dunque di Kate, induce Stephen a cercare Kate dappertutto e, alla fine, a cercarla nel cottage di Julie dove (ma Stephen non lo sa) sta per nascere il nuovo bambino. Non c'è vera allegria in questa nascita, ma inganno per Stephen e Julie. L'eco leopardiana sul di natale insiste nel lettore. Rimangono quelle «risonanze potenti» che vengono da molto lontano, dal tempo immobile dell'infanzia, messaggi improvvisi e inafferrabili: una strada secondaria del Kent o di qualunque altro luogo del mondo in una piovosa giornata di metà giugno suggerisce immagini, odori, sapori, stati d'animo che come nascono muoiono; provengono da un ricordo, da un sogno, da un film, dalla memoria di una gita. Sono le proustiane intermittenze del cuore? Sono le epifanie joyciane? La luce, la consistenza dell'aria, il colore e il «sapore» di un luogo per un attimo restaurano il tempo passato, e allora si può credere di avere ritrovato Kate. È, dice McEwan, come di colpo abitare
un giorno diverso da quello in cui ci si è svegliati. Se per ipotesi ci venisse chiesto su quale figura retorica è costruito questo romanzo risponderemmo che è costruito sull'ossimoro. C'è dentro un'amarissima dolcezza, un disperato buonumore. McEwan scrivendo produce ossimoro. Come quando, subito dopo un disastroso incidente d'auto, Stephen e il camionista che ha causato il disastro, vivi per miracolo e felici di esserlo, si mettono a cantare Perché è un bravo ragazzo e si ubriacano di champagne. OTTAVIO CECCHI «l'Unità», 10-8-1988