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RIVISTA DI ISAAC ASIMOV AVVENTURE SPAZIALI & FANTASY N. 1 - Autunno 1979 Indice: Avventura! di Isaac Asimov Prigioniero della centauriana di Poul Anderson La cometa di Alan Dean Foster Attraverso il tempo e lo spazio con Ferdinand Feghoot di Grendel Briarton La provetta di Ray Russell Dov'è ora tuo fratello, Epimeteo? di Jesse Peel Scambio Sconveniente di Isaac Asimov Quel sorcio farabutto che non arrugginisce mai di Harry Harrison AVVENTURA! Il racconto di avventure ha una storia lunga e onorevole, e anzi più lunga non potrebbe essere davvero: è difficile credere, infatti, che i racconti narrati intorno ai fuochi da campo nell'Età della Pietra fossero altro che storie avventurose, riguardanti meravigliose partite di caccia o teste di nemici fracassate. I miti più antichi che ci sono pervenuti dalle culture primitive della terra parlano di formidabili avventure di dèi e delle battaglie tra di loro, e perfino il Dio della Bibbia è stato forse il protagonista di storie del genere. Ci sono tracce, nelle Sacre Scritture, di narrazioni primitive che raccontano come la creazione di un universo ordinato avvenisse solo dopo uno scontro mortale con le forze del caos. Nel Salmo 74 si ode un'eco di quell'antica battaglia cosmica: «Tu hai separato il mare con la tua forza, e hai sprofondato le teste dei draghi nelle acque. Tu hai fatto a pezzi le teste del leviatano». Né potrebbe la storia del racconto avventuroso essere più nobile: i più antichi lavori di poesia del mondo occidentale che ci siano giunti integri sono l'Iliade e l''Odissea. E che cosa sono, se non racconti d'avventure? Il primo è un 'appassionante storia di guerra, il secondo un emozionante racconto di viaggi. Non fraintendetemi: io non voglio dire che l'Iliade e l''Odissea sono sol-
tanto due storie avventurose; i critici ci hanno trovato molto di più. Tuttavia, è l'aspetto avventuroso quello che ha consentito la loro popolarità e sopravvivenza fino ai giorni nostri. I brani più popolari dell'Iliade restano sempre le scene di battaglia, e specialmente il duello fra Achille ed Ettore, in cui il pubblico stesso è combattuto perché il genio di Omero è riuscito a convogliare le nostre simpatie in misura quasi uguale verso entrambi gli eroi. E d'altra parte i brani più famosi dell'Odissea. restano le macabre avventure che Ulisse racconta alla corte dei Feaci, e in modo particolare l'episodio che si svolge nella grotta di Polifemo, il ciclope mangiatore d'uomini, l'orco. Anche dopo Omero le storie avventurose hanno continuato ad affascinare gli uomini, e quindi si sono assicurate un posto stabile presso le varie culture: con i racconti medievali di Re Artù, le fantasie delle Mille e una Notte, il sangue e le tempeste di Shakespeare... Sangue e tempeste? Sì, certo: Shakespeare è portato a esempio di tutto ciò che è elevato in letteratura, ma in realtà scrisse per il gusto popolare, e per questo fu criticato sia in vita che dopo. C'erano combattimenti e massacri in ogni sua opera: in Re Lear gli occhi di un personaggio venivano estirpati in scena, e in Tito Andronico avvengono stupri, mutilazioni e cannibalismo. Quanto alla fantascienza, neppure lei è estranea all'avventura: i romanzi di Verne per esempio erano soprattutto storie avventurose, nonostante egli badasse a infarcirle di vere e proprie conferenze scientifiche. E, ovviamente, quando le riviste di fantascienza apparvero sul mercato l'avventura regnò sovrana per decenni. Hugo Gernsback sosteneva che la fantascienza era uno strumento educativo: e così è pure nella mia opinione, ma solo secondariamente. Ciò che i lettori volevano era soprattutto l'avventura, e questo fu ciò che ebbero. Sebbene prima «Amazing Stories» e poi «Wonder Stories» cercassero, senza successo, di mantenere una certa elevatezza, facendo uso di note a piè di pagina, quiz scientifici, e così via, non riuscirono a mantenersi in cima al mucchio. Nel 1930 apparve «Astounding Stories», che era spavaldamente orientata all'avventura, e ben presto questa nuova testata assunse la leadership del campo. Nel 1937 John Campbell divenne direttore di «Astounding Stories», modificò il suo nome in «Astounding Science Fiction» e abbandonò il genere avventuroso: ma nel frattempo «Wonder Stories» era diventata «Thrilling
Wonder Stories», e vi si era riavvicinata a sua volta. Nel 1939 ci fu un boom delle riviste di fantascienza, e molte testate di tutti i tipi fecero rapidamente apparizione in edicola. Nel dicembre 1939 apparve «Planet Stories»: fu, in un certo senso, la miglior rivista di fantascienza avventurosa. Ma come ci sono i boom, così ci sono i crolli, e spesso più alto è il periodo propizio più profonda è la depressione che segue. Un boom particolarmente alto nel campo delle riviste di fantascienza si verificò nei primi anni Cinquanta; e nel crollo particolarmente rovinoso che seguì, sia «Thrilling Wonder Stories» che «Planet Stories» cessarono le pubblicazioni, nel 1955. Da questo momento in poi le riviste di fantascienza avventurosa declinarono: i periodici che sopravvissero alle vicissitudini di quell'epoca, come «Analog», «Fantasy & Science Fiction», «Galaxy» non si dedicavano principalmente all'avventura. Né lo fa la nuova, ma già chiaramente affermata «Isaac Asimov's Science Fiction Magazine». Perché? Intanto, perché il pubblico dei lettori di fantascienza è cambiato. Negli anni Venti e Trenta i lettori erano quasi al cento per cento sotto i diciott'anni, e le riviste erano destinate a loro. Molti giovani abbandonarono la fantascienza una volta diventati adulti, ma non tutti lo fecero: così l'età media dei lettori crebbe rapidamente. Aumentando ancora dopo la seconda guerra mondiale, la crescente percentuale di lettori «anziani» ha influenzato il genere, sicché la fantascienza ha dovuto a sua volta maturare. In secondo luogo, mentre aumentavano i lettori vecchi, quelli giovani diminuivano sempre più, dato che prima i fumetti e poi la televisione si mostravano formidabili concorrenti nell'intrattenimento giovanile. E ad aggravare le cose venivano le false definizioni: «avventura» diventava sinonimo di pulp, ed entrambi diventavano sinonimi di «cattiva letteratura». Le vecchie riviste fra le due guerre venivano chiamate pulp a causa del tipo di carta che usavano. Esse avevano bisogno di stampare un mucchio di racconti, e pagavano poco: quindi non potevano permettersi di essere troppo esigenti in ciò che sceglievano. Gli autori dovevano scrivere un'enormità di racconti per soddisfare la domanda e per guadagnarsi da vivere. Scrivere di fretta dà di solito risultati mediocri e scadenti, e queste ca-
ratteristiche «bollarono» la narrativa dei pulp. Probabilmente il 90% di quei racconti era effettivamente spazzatura, ma d'altra parte il 90% di tutto è spazzatura, come ha detto Ted Sturgeon. Questo però lascia pur sempre un 10% di roba buona, avventura ben scritta ed efficace... Successivamente si volle associare il termine «avventura» con l'idea di «infantile», e ciò perché le prime riviste erano rivolte soprattutto ai giovani. Ma non ci vuole davvero una gran perspicacia per capire che l'avventura ben scritta può essere gustata da chiunque, e a qualunque età. È con questa convinzione che abbiamo preparato la rivista che state leggendo. Noi vogliamo riempire il vuoto lasciato dalle testate avventurose di qualità, come ai suoi tempi lo fu «Planet Stories»; vogliamo venire incontro ai bisogni di almeno la metà delle persone che hanno scoperto Guerre stellari e il cinema di fantascienza, che lo hanno amato e che ora cercano qualcosa di analogo, o di migliore, nella carta stampata. Questa rivista è dedicata all'avventura, ma non all'avventura «a ogni costo». Per quanto potremo, cercheremo di pubblicare dell'ottima fantascienza avventurosa scritta da autori che non siano digiuni di scienza; le nostre storie conterranno molta azione, ma non a spese della verosimiglianza scientifica o della bontà dello stile. Ce la faremo? Sarebbe assurdo giurare sul successo. I nostri sono tempi difficili per le riviste: è un po' come passeggiare su una corda. Speriamo che i nostri distributori siano abbastanza efficienti, e di riuscire sempre a trovare gli scrittori capaci di fornire il materiale di cui abbiamo bisogno; speriamo anche che la nostra valutazione dei potenziali lettori sia ragionevolmente accurata. Ciò che di sicuro abbiamo è un editore di cui ci si può fidare pienamente, un'esperta redazione e una gran voglia di sfondare. Cominciamo dunque con questo primo numero, e speriamo che non ci sia nemmeno bisogno di convincervi che «avventuroso» e «buono» sono aggettivi che non contrastano fra loro, che «avventuroso» e «intelligente» si possono applicare alla stessa storia, e che la sete di avventura aumenti sempre più e possa portarci al successo. Isaac Asimov PRIGIONIERO DELLA CENTAURIANA
Poul Anderson L'eroe è figlio del suo tempo, nella misura in cui l'ambiente gli fornisce le sue motivazioni e i suoi valori. E tuttavia egli afferra il mondo e lo riplasma secondo la sua volontà: e rimane un eterno enigma per i suoi contemporanei e per il futuro. Nulla rende più chiaro questo concetto della famosa, ma pur sempre strana storia dei tre individui le cui scoperte e le cui imprese, alla fine del secolo XXIII, indirizzarono verso un nuovo corso intere razze. Il trascinante idealismo e il genio militare di Dyann Korlas; la saggezza potente, profonda e benevola di Urushkidan; ma soprattutto, forse, l'ispirata guida di Tallantyre: ecco ciò che modificò la storia. Eppure noi non li comprenderemo mai appieno. I corpi che li ospitarono sono ormai periti: la natura intima di quel terzetto glorioso resterà per sempre nel mistero. Vallabhai Rasmussen Origini dell'Era galattica I Inondata dai riflettori, la navetta si stagliava contro la notte, come un grande proiettile sopra lo sciame di esseri umani. Ray Tallantyre affrettò il passo. Per San Giorgio e anche per il drago, ce l'aveva fatta! Il volo da San Francisco a Quito, l'attesa snervante dell'airbus, la corsa allo spazioporto, il percorso nel terminal che sembrava infinito... tutto era terminato, e adesso lei era là, la cara navetta pronta a portarlo alla Regina di Giove e alla salvezza. Mandò un bacio allo scafo e si fece avanti a spintoni tra la folla. Aveva già perso il primo collegamento con l'astronave di linea, e il pensiero di dover aspettare il terzo era insopportabile. «Ehi, amico». Come la voce colpì le sue orecchie, così una mano gli afferrò il braccio. Ray avrebbe giurato di sentire il cuore sbattergli contro i denti e la spina dorsale cadergli dai pantaloni. In qualche modo si girò. Un tipo grande e grosso lo fissava, raffrontando i suoi lineamenti sottili con una foto che reggeva nella zampa libera. «Sì, sei tu, perfetto», disse. «Seguimi, Tallantyre». «Me llama Garcia!», berciò il fuggiasco. «No hablo inglés».
«Ho detto seguimi», fece il detective. «Ce l'eravamo immaginato che avresti cercato di lasciare la Terra. Per di qua». Talvolta la disperazione è ispirazione. La mano libera di Ray calcò il cappello del tizio sopra i suoi occhi, e poi, con uno strattone che per poco non si slogava, si liberò l'altra mano, precipitandosi verso la rampa. Mentre correva spintonò una signora corpulenta, e una valanga di maledizioni ispaniche lo seguì fino in cima. Spingendo da parte un altro passeggero salì la scala e balzò davanti a quella vera e propria muraglia che era l'ufficiale gioviano. «Biglietto e passaporto, prego», disse l'enorme. Era alto, biondo e muscoloso, efficiente nell'uniforme bianca, e guardava i nuovi arrivati con la degnanza appena velata di un vero Confederato per le specie inferiori. Ray gli allungò i documenti, e intanto si guardava indietro. Il detective era finito anche lui addosso alla signora, che gliele stava suonando con la borsetta e intanto lo malediceva a tutto spiano. Con lentezza studiata il gioviano fissò le carte dell'ingegnere, verificò su una lista e poi gli fece cenno di passare. Il detective intanto si era liberato, ma solo per imbattersi in quell'inamovibile barriera in uniforme. «Biglietto e passaporto, prego», disse l'ufficiale. «Quell'uomo è in arresto», ansimò il detective. «Mi lasci passare». «Biglietto e passaporto, prego». «Le ripeto che sono un ufficiale di polizia e ho un mandato di cattura per quell'uomo. Mi lasci passare!». «Potrà ottenere l'autorizzazione al centro della sicurezza», rispose l'uomo. E al prossimo passeggero: «Biglietto e passaporto, prego». All'interno della sala stagna Ray Tallantyre si asciugò il sudore dalla fronte e si concesse un sorriso. Nel tempo che il suo inseguitore avrebbe impiegato a ottenere l'autorizzazione lui sarebbe già arrivato all'astronave di linea. Davanti a un agente della polizia segreta del suo paese lo steward se la sarebbe fatta addosso, ma questa era la Terra: e i Confederati godevano a umiliare gli uomini del governo terrestre. E non c'era modo migliore per farlo che offrire una scappatoia alle loro prede. Quando si trattava di questo, la burocrazia dei Satelliti Confederati di Giove era senza pari. Una volta in orbita la navetta sarebbe stata territorio gioviano, e il preteso reato di Ray non era di quelli per cui si concedesse l'estradizione. Lui entrò nella nave, dove gli mostrarono il suo posto, poi allacciò la cintura di sicurezza. Era innocente! Non importa quanto lungo, il braccio
della famiglia Vanbrugh non l'avrebbe raggiunto dove stava per andare. E avrebbe potuto restarci finché la faccenda non si fosse chiarita. Naturalmente gli sarebbe stato difficile ottenere un lavoro, adesso, ma si sarebbe preoccupato di questo a tempo debito. Ho sempre voluto vedere il Sistema Gioviano, si consolò. Poi, con un sospiro, cercò di rilassarsi: era un uomo di altezza normale, robusto, coi capelli a spazzola e lineamenti un po' troppo aguzzi per essere belli. Allo stesso modo la sua cravatta era troppo sgargiante, e la giacca una frivolezza bizzarramente svasata. Finalmente l'ultimo passeggero salì. Le valvole stagne vennero chiuse e un'hostess venne a portare pasticcini che, Ray lo sapeva, contenevano medicinali contro il mal di spazio. Era una ragazza piena e dal sano aspetto caucasico del gioviano-tipo, unito a quell'aria lievemente repellente di super-efficienza. «No, grazie», disse lui. «Sono già stato fuori. L'accelerazione e la caduta libera non mi danno alcuna noia». «È obbligatorio», lei gli disse, e lo osservò mentre li mangiava. Un sussulto scosse la nave e l'apparecchio prese vita, mentre all'esterno si udì una sirena d'avvertimento. Ray si volse al passeggero che gli sedeva accanto, ossessionato dall'assurdo desiderio di conversare tipico di chi si è appena sottratto alla legge o al dentista. «Va a casa, vedo», osservò. L'altro sedeva tronfio nella grigia uniforme dell'esercito gioviano, coi pianeti da colonnello cuciti sulle spalline e tanti nastri in petto da riempire una merceria. Doveva avere quarantacinque anni, tempo terrestre, benché la sua zucca pelata rendesse difficile stabilirlo: Ray lo valutò dalle profonde grinze che gli solcavano la faccia fino alla mascella squadrata. Fissando il terrestre con occhio glaciale, quello rispose: «E lei, vedo, se ne va da casa. Due deduzioni scintillanti». Sebbene l'inglese fosse la sua lingua madre - quella su cui i suoi antenati poliglotti si erano accordati anche prima che la Rivoluzione Simmetrista fornisse loro un'unica ideologia - il militare lo fece suonare quasi come una concessione. «Uhm, be'...», disse Ray, e guardò altrove, con le orecchie in fiamme. Il gioviano si strinse più fortemente al petto la grossa cartella che portava con sé. Nell'aria risuonavano annunci e ordini. La nave tremò, ruggì, e si avventò al cielo. Ray lasciò che la pressione dovuta all'accelerazione lo spingesse indietro nei cuscini: del resto il sedile si appiattiva fin quasi a diventare un lettino. Guardò attraverso un boccaporto e vide lo splendore esterno,
stelle e stelle e stelle, un nero ingemmato di splendore fino ai limiti del visibile. Il suo compagno rifiutò di distendersi. La spinta iniziale non durò troppo a lungo: ormai erano in orbita e la Regina di Giove apparve alla vista. Dapprima l'astronave sembrò solo un ago, lucente di blu alla luce della Terra intorno a cui girava; poi fu molto più vicina, e il sole la colpì quando uscì dal cono d'ombra del pianeta, e allora divenne enorme e splendente. Qualunque cosa pensaste dei gioviani - e c'era chi ne pensava piuttosto male - avevano i migliori trasporti di linea del sistema. Nessuna flotta nazionale della Terra, o compagnia privata, poteva competere. L'hostess guidò i passeggeri attraverso le camere stagne combacianti e poi ai rispettivi alloggi sulla nave di linea. Promise infine che i bagagli sarebbero stati consegnati «a tempo debito». Ciò ricordò a Ray che aveva portato con sé un'unica, piccola valigia che conteneva pochi indispensabili cambi di vestiario. Quanto al biglietto di terza classe, voleva dire che avrebbe dovuto dividere una cabina (che sarebbe stato ridicolo definire privata) con altri due passeggeri. Il declino e caduta del conto in banca di Tallantyre era un argomento così deprimente che, per quanto bassa fosse la pseudogravità, gli si piegarono le spalle; per di più, dimenticando di tenere nel debito conto la forza di Corioli, si ammaccò la punta di un piede mentre girava un angolo nel corridoio. Era stato fortunato a lasciare la Terra libero, pensò, ma sarebbe arrivato su Ganimede quasi al verde, e non aveva fatto ancora nessun piano su come sopravvivere lassù. Ma era l'unico dannato posto nello spazio per cui si era potuto procurare un biglietto con prenotazione quasi istantanea, e così... Un numero contrassegnava la porta che gli avevano assegnato. L'aprì. «Mi... la-sci!». Ray restò a bocca aperta allo spettacolo di un marziano che si dibatteva nella stretta di una donna alta due metri. «Mi... la-sci!», farfugliò di nuovo il marziano. Aveva avviticchiato le sue membra intorno alle braccia e al busto di lei, e i quattro spessi tentacoli motori erano eccezionalmente forti. Ma lei non sembrava darsene pensiero, rideva e lo scuoteva un poco. «Chiedo scusa», balbettò Ray e fece per ritirarsi. «Sei scusato», replicò la donna in tono di vigoroso contralto, come se cantasse una cantilena. Allungò una mano ingombrata dal marziano, lo afferrò per il bavero e lo trascinò dentro. «Lei sarà il giudice, amico mio.
Non è forse giusto che io prenda la cuccetta inferiore?». «Nient'affatto!», gridò il marziano. Fissò il nuovo venuto con i suoi occhi gialli sporgenti e indignati. «La bia posizione, la bia eminenza, mi danno chiaramente diritto a ogni considerazione. E questo mostro di goffaggine...». Lo sguardo del terrestre percorse in su e in giù le forme della donna prima di pronunciarsi: «Signore, penso che farebbe meglio ad accettare la generosa offerta della signora, qui. Ma, comunque, credo di aver sbagliato cab...». «Il tuo nome è Ray Tallantyre?», chiese lei. Lui si dichiarò colpevole. «Allora sei con noi. Ho guardato la lizta dei passeggeri. Puoi prenderti il zofà, per dormire». «G-grazie». Ray ci si sedette sopra. Le ginocchia non se le sentiva più. Il marziano rinunciò alla lotta e permise alla donna di piazzarlo sul lettuccio superiore. «E pensare», si lamentò, «che io, Urushkidan di Ummunashektaru, debbo essere sballottato da una selbaggia che dod saprebbe riconoscere un logaritmo da un'ellittica integrale!». Stupito, Ray lo guardò come se fosse il primo della sua razza che gli capitasse di vedere. Il corpo a cupola di Urushkidan, ricoperto di pelle grigia, si elevava per un metro e venti sui tentacoli motori; su di essi, due sottili braccia con tre dita e senz'ossa si torcevano ai lati di una bocca larga e senza labbra. «Lei è quell'Urushkidan?», chiese Ray, in un sussurro: il matematico acclamato in tutto il sistema come il moderno Gauss, o Einstein... «C'è solo un Urushkidan», lo informò il marziano. Per un attimo la mente velocissima di Ray si chiese come sarebbe stata diversa la storia se le prime sonde marziane non fossero atterrate nei due Grandi Deserti... se la civiltà del pianeta si fosse dedicata all'agricoltura o a un'architettura non identificabile dagli strumenti in orbita... se, infine, la strana biochimica dei nativi si fosse rivelata incapace di sopportare le condizioni terrestri... Una gigantesca risata lo riportò a quella che supponeva fosse la realtà: l'aveva emessa la donna, incombente su di lui. «Benvenuto, maschio Tallantyre», gridò. «Sei molto cavino, penso che mi piacerai. Io sono Dyann Korlas di Kathantuma». Gli prese la mano in una stretta amichevole. Ray urlò e la ritirò quasi frantumata. «Allora lei è una delle centauriane», disse debolmente.
«Sì, così ci chiamate». Si scoprì a guardarla con piacere, per enorme che fosse. Finora aveva visto quelli della sua specie solo in televisione. Tranne che per le orecchie a punta, che del resto le trecce le nascondevano, esternamente sembrava abbastanza umana, benché diversa da ogni razza che si era evoluta sulla Terra. E le somiglianze includevano le parti più interessanti, scoprì lui. Si ricordò dei dibattiti scientifici di cui aveva letto dove ci si chiedeva se ciò fosse dovuto a semplice coincidenza o se la vita dovesse seguire necessariamente uno stesso modello su ogni mondo di un dato tipo. Naturalmente c'erano le differenze che non si vedevano, tra cui la durezza e la densità delle ossa e della carne, molto più coriacee della sua. Alpha Centauri A III - o Varann, come la più avanzata delle sue nazioni aveva deciso di chiamarlo dopo aver appreso dalla prima spedizione solare che si trattava di un pianeta - aveva, tra le altre peculiarità che lo rendevano diverso dalla Terra, una gravità di superficie pari a una volta e mezzo la nostra. Le proporzioni di lei rammentarono a Ray che l'alienità è qualcosa di più profondo delle apparenze. Gli uomini di Varann, per esempio, erano più piccoli e più deboli delle donne. In tutte le culture note del pianeta stavano a casa e facevano i lavori domestici, mentre le mogli si occupavano degli affari pubblici. E nella bellicosa Kathantuma e dintorni gli «affari pubblici» erano costituiti di solito da incursioni a danno di terzi, con l'obbiettivo di derubare tutto il derubabile. Eppure, questa Dyann Korlas era bella. Somigliava a una tigre statuaria, con la pelle morbida e sfumata d'oro. I capelli color del bronzo cadevano a riccioli intorno a un viso che avrebbe ispirato uno scultore greco, ma un tocco esotico, dato dalla leggera inclinazione dei grandi, grigi occhi tempestosi, la faceva non solo classica, ma sexy. Il suo abbigliamento consisteva di una tunica al ginocchio, sandali, una corazza d'acciaio modellata secondo le sue forme con due volti demoniaci gemelli scolpiti sul busto, un elmo rotondo decorato con ali di pipistrello in bronzo, una cintura che reggeva una borsa e il fodero del coltello, e una spada che Lancillotto avrebbe giudicato appena un po' troppo pesante. Ray ritrovò la voce: «È sicura che questa sia la mia cabina? Non c'è stato mica un errore?». Lei sogghignò: «Oh, sei al zicuro». Ray ricordò che i titoli nobiliari nel paese d'origine della centauriana erano tutti equivalenti di «capo», «dominatore», «guerriero» e simili. Pochi
maschi avevano accompagnato le signore del Centauro nel sistema solare. Presuntuosamente indifferenti ai dettagli etnici, i gioviani dovevano aver desunto dal titolo onorifico di lei, certamente comunicato da qualche Segretariato extraterrestre incaricato di occuparsi dei visitatori, che Dyann fosse appunto un maschio. Be', perché Ray Tallantyre avrebbe dovuto disilluderli? L'affaccendatissimo steward della terza classe non sembrava darsene pensiero, o forse non l'aveva nemmeno notato. Non che il terrestre si aspettasse di combinare qualcosa con la sua compagna di viaggio, specie in presenza di Urushkidan, e anzi l'idea aveva un che di terrificante... Però, però di tanto in tanto il panorama là dentro non sarebbe stato niente male. Non avevano il tabù della nudità, a Kathantuma. Ricordandosi improvvisamente del marziano Ray lanciò un'occhiata alla cuccetta superiore. Urushkidan stava riempiendo, tutto imbronciato, una pipa dal grande fornello. Fumare il tabacco era un vizio che la sua razza praticava avidamente; non aspiravano nel vero senso della parola, ma con l'organo fornito di mantici e membrana che usavano per formare le parole umane potevano alimentare il fuoco. Solitamente descrivevano la sensazione come «titillante». «Ehm, signore, sono lieto di dirle che conosco perfettamente il suo lavoro», tentò l'umano. «Vede, io sono... ero un ingegnere nucleare, e quindi posso apprezzarne il valore». Il marziano si gonfiò, che era il suo modo di sorridere o lisciarsi le penne. «Senza dubbio lei lo ha afferrato abbastanza bene», replicò graziosamente, «per quanto può fare un terrestre: cioè bolto poco, amico mio». «Senta, se posso chiederlo... Che ci fa lei qui?». «Oh, uda serie di conferenze all'Accademia Gioviada delle Scienze. Sono abbastanza sensibili all'importanza del bio lavoro, e sodo lieto di lasciare la Terra. La pressione dell'aria, la grabità... Pfui!». «Ma... ma una persona del suo rango, qui in terza classe...». «Ovviamente bi hanno dato un biglietto di prima. Ma io l'ho cambiato, comprato un terza classe e intascato la differenza». Diede un'occhiataccia a Dyann Korlas. «Per essere trattato qui da questa...». Poi scosse le spalle. Quando i marziani scuotono le spalle è come se sospirassero. «Non molto importante. Noi di Uttu - Marte, come voi insistete a chiabarlo - siabo così incomparabilmente avanzati nelle filosofiche virtù della serenità, generosità e bodestia che sono in grado di sopportare questo trattamento barbarico con lo scorno che berita».
«Oh», disse Ray. E alla centauriana: «Posso chiedere a lei perché va su Giove, miss Korlas?». «Certo che puoi», concesse lei. «Ma chiamiamoci per nome, sì? È così dolce... Bene, desidero vedere love, anche se non zarà divertente come la Terra». Sospirò. «Vivete in un mondo di favola! I vostri carri senza bestie da traino, le macchine volanti, le cu... cucine automatiche, e gli orologi, i vestiti colorati, i bizzarri costumi... Ah, è valso bene un viaggio così lungo pev vedere tutte queste cose». Lungo, certo: per quanto fossero potenti, le astronavi esplorative impiegavano dieci anni ad attraversare l'abisso interstellare, e finora c'erano state solo tre spedizioni. Dyann era arrivata con l'ultima, come parte di una delegazione e gruppo di ricerca voluto dalla sua regina. Ray aveva sentito che l'equipaggio aveva avuto il suo bel daffare con quella massa di scatenate prima che tutti si sottoponessero all'animazione sospesa. Le visitatrici avevano trascorso un anno sulla Terra e la Luna, e si erano mostrate enormemente curiose, specie per ciò che riguardava i passatempi dei loro ospiti ora che l'Unione Mondiale aveva posto fine alla pratica della guerra. Tutto sommato però avevano combinato relativamente pochi pasticci. Un paio di volte i temperamenti più sanguigni si erano infiammati e qualche osso terrestre era finito spaccato, ma dopo le varanniane si erano sempre scusate a profusione. E naturalmente una volta una di loro era stata invitata a tenere un discorso in un club per signore... «Dimmi una cosa che non mi è chiara», chiese Dyann. «I gioviani, hanno avuto origine sul tuo pianeta?». Ray annuì. «Sì. Colonizzarono le lune in parte per ragioni economiche, in parte perché non gli andava l'integrazione che stava prendendo piede in Europa: gli immigranti africani e asiatici erano diventati numerosissimi, e così via. Circa sessant'anni fa proclamarono la loro indipendenza. Dopo un mucchio di discussioni la Terra decise che non valeva la pena scatenare una guerra. Ma forse è stato un errore». «Perché?». «Mmm... be', è vero che hanno avuto dei problemi economici, e che hanno fatto un lavoro eroico da pionieri, e lo fanno tuttora. Ma vivono sotto una dittatura che li ha convinti di essere i padroni predestinati del sistema solare. L'anno scorso hanno occupato e rivendicato le colonie sulle lune di Saturno, con un pretesto ridicolo, ma l'Unione ha avuto troppo poco fegato per far altro che berciare. E poi, non abbiamo una flotta comparabile alla loro».
Dyann s'illuminò: «Ha, avrete una bella guerra mentre io zono qui! Delizioso, delizioso!», e batté le mani. Un colpetto sulla porta li interruppe e lo steward portò il bagaglio contrassegnato «Necessario durante il viaggio». Quando se ne fu andato gli occupanti della cabina furono tutti affaccendati a spacchettare e a riporre la loro roba. Dyann indossò un vestito ornato di pelliccia, e nel farlo confermò l'opinione di Ray che il panorama era eccezionale. Urushkidan scivolò sul pavimento, estrasse dal suo baule un sacco di libri, carte, penne, tamponi, e li apparecchiò in cima al mobiletto guardaroba. Ray si sentì a disagio. «Sa, signore», disse, «a prescindere dall'onore di averla incontrata, vorrei non fosse qui a bordo». «Perché no?», chiese stizzito il marziano. «Be', è stata la sua interpretazione della relatività generale che ha dimostrato che è possibile viaggiare più veloce della luce». «Tra le altre cose, sì», disse Urushkidan tra le nubi del suo fumo maleodorante. «Non posso credere che i gioviani siano interessati al suo lavoro in sé e per sé. Sospetto che sperino di ottenere la sua consulenza per costruire quel genere di navi. E se è così, allora faremo meglio a stare all'erta». «Non io. Un marziado non si preoccupa delle dispute tra adimali inferiori. Niente di persodale, lei capisce». Dyann estrasse un'immagine di legno e la piazzò sullo scaffale sopra il suo baule. Era gaiamente dipinta e fieramente zannuta; ognuna delle sue braccia impugnava un'arma, e una era un mitra terrestre. «Zilenzio, prego», disse, alzando un braccio. «Devo pregare Ormun la Terribile». «Una dea appropriata per quelli come lei», ghignò Urushkidan. Lei gii tirò un cuscino in bocca. «Ho detto zilenzio, prego», lo rimproverò con un sorriso gentile, e si prostrò davanti all'idolo. Dopo aver cantato una preghiera inframmezzata da ringhi varii, si alzò. Urushkidan era sempre senza parole dalla rabbia. Dyann si rivolse a Ray: «Sai se su questa nave vendono animali vivi?», chiese. «Vorrei fare un sacrificio». II Quando la Regina di Giove fu partita il capitano annunciò che, data l'attuale configurazione dei pianeti, la nave avrebbe coperto il tragitto in sei giorni standard, quarantatré minuti e 12±10 secondi. Poteva essere una
sbruffonata, ma Ray Tallantyre non si sarebbe stupito che fosse la pura verità. E presto cominciò a desiderare che il tempo fosse stato calcolato in eccesso: i suoi compagni di cabina gli logoravano i nervi. Urushkidan riempiva l'aria di fumo, stava alzato fino a tardi coprendo la carta di simboli matematici e urlava se qualcuno profferiva una parola in tono più alto di un sussurro. Dyann era meglio, ma il suo vocabolario limitato smorzava rapidamente la conversazione. D'altra parte passava la maggior parte del tempo ad allenarsi in palestra. Quando non c'era, la sua forza ricordava spesso a Ray Katrina Vanbrugh, e questo lo faceva rabbrividire. Il secondo giorno di volo lui scivolò tristemente in bar e ordinò un martini che poteva a malapena permettersi. Il cibo dell'astronave era così salutare che non era affatto sicuro di poterne trangugiare all'infinito. Il salone era tranquillo, tranne per il sottofondo di musica di Wagner, e le luci discrete, di modo che perfino i murali raffiguranti pionieri e soldati non davano troppo nell'occhio; non c'era troppa gente. A un tavolo sedeva il colonnello che aveva accompagnato Ray nel volo in navetta, con la borsa sempre stretta a sé, ma impegnato in una conversazione quasi umana con una turista dai capelli rossi che veniva dalla Terra. E date le forme della ragazza, abbigliata in un vestito aderentissimo, c'era poco da equivocare sulle intenzioni di lui. La purezza della razza gioviana, «temprata dal fuoco e dal ghiaccio dello spazio esterno, forgiata dalle avversità per dare origine a un tipo d'uomo nuovo e dominatore», era stata messa da parte in favore delle relazioni internazionali. Ma lei non sembrava troppo affascinata. «Se avessi qualche soldo», sospirò Ray tra sé, «potrei portarla via a quello scocciatore». Mancandogli questa possibilità, si mise a conversare col barman. Quest'ultimo lo informò che chi gli stava davanti era il colonnello Ivan Hosea Domenico Roshevsky-Feldkamp, già addetto militare dell'ambasciata dei Confederati sulla Terra, ufficiale che si era particolarmente distinto nel sostenere le giuste pretese del suo popolo sulle colonie di Saturno. Le cose si vivacizzarono quando entrarono due tizi dalla seconda classe, nordamericani come Ray, che fecero presto amicizia con lui e gli offrirono da bere. Dopo un'ora o due proposero un'amichevole partita di poker. «Oh, no!», pensò l'ingegnere, che era meno ingenuo di quanto sembrasse. «Sicuro», acconsentì. «Subito dopo cena, che ne dite?». Raggiunti da un terzo individuo dello stesso tipo incontrarono Ray in una cabina preparata allo scopo, e il gioco cominciò. Continuarono per
quasi due giorni e due notti, e la fortuna andò e venne in un modo che un osservatore sprovveduto avrebbe trovato normalissimo. Ray stette al gioco, e fece alcune puntate disastrose: ma poi quando era solo si immergeva in analisi statistiche col calcolatore, e così vinse a un ritmo che seguiva una curva da capogiro. Quest'accorgimento geniale lo salvò dal disastro. Quando ebbe raggiunto un attivo di duemila crediti, brillando di febbrile cupidigia disse: «Sentite, ragazzi, sapete che viaggio in terza classe, però ho del denaro a casa, e questo gioco è troppo bello per puntare solo gli spiccioli. Dirò alla mia banca di trasferire un po' di crediti all'ufficio del commissario di bordo, qui, e domani potremo fare delle puntate come si deve». «Certo, Ray, se per te va bene», disse il capo di quei pescecani, deliziato che l'altro avesse fatto lui stesso la proposta. «Sei un tipo sportivo, veramente». All'ora convenuta lui e i suoi compagni s'incontrarono intorno al tavolo, accesero i sigari e aspettarono. E aspettarono. E aspettarono. Ray scoprì che era veramente facile strappare la rossa al colonnello. Lei pensò che sarebbe stato divertente ficcanasare nelle cabine dei pezzenti e accompagnarlo a cena nel ristorante di terza classe. La prima era troppo noiosa, confessò. Lui la scortò giù per il corridoio, pensando amaramente, ma debolmente, che presto il viaggio sarebbe finito e che sarebbe sbarcato a Wotanopolis al verde come prima. Lei gli aveva risparmiato l'ostentazione del lusso e la spaziosità del suo settore, ma dato che Ray evitava il bar - e i relativi incontri imbarazzanti - la rossa diede per scontato che lui avrebbe pagato tutti i rinfreschi ordinati direttamente all'equipaggio. Inoltre le piaceva l'azzardo, e nel casinò della nave non si poteva barare. La vista di Urushkidan distolse Ray dai suoi pensieri. Goffo e maldestro sotto la gravità terrestre, il marziano strisciava verso il salone riservato a quelli della sua specie: la scelta di isolarsi al momento dei pasti era stata fatta molto tempo prima, per mantenere il decoro di ciascuna razza. Urushkidan salutò l'umano con una certa condiscendenza: «Ah, eccola qua. Spero che dod si sia reso troppo bolesto, in giro». I guai seri cominciarono però quando. apparve Dyann Korlas, che sbucò un momento dopo rivestita di stivali di cuoio, gonnellino di pelliccia, bracciali d'oro, collana di pietre grezze e segni policromatici dipinti sul corpo.
Piombando alle spalle di Ray gli batté una mano sulla spalla che per poco non lo accoppava. «Dove sei stato, eh?», gli chiese in tono di rimprovero. «Te ne sei andato, sei sparito pev tutto questo tempo!». La rossa arrossì. «Oh, salve», disse Ray, sentendosi un pochino imbarazzato. «Tu che hai fatto di bello?». Dyann lo squadrò da capo a piedi. «Credo che zia meglio appurare cos'hai fatto tu, di bello!», rise. «Ah, voi focosi, affascinanti terrestri!». Lo guardava da buoni quindici centimetri sopra la sua testa. Si intrufolò tra lui e la rossa, prendendoli entrambi sottobraccio. «Forza, andiamo a cibarci insieme, zi?». Raggiunsero la scaletta che portava alla sala da pranzo, e li trovarono tre figuri fin troppo familiari. Per Ray fu come se un fulmine gli passasse nel cervello: non aveva pensato a questo. «Ehi, Tallantyre!», esclamò il più grosso dei suoi compagni di poker. In qualche modo gli apparivano tutti e tre più grandi di prima. «Che diavolo ti è successo? Dovevamo fare un'altra partita, lo ricordi?». «Mi ero dimenticato», disse Ray, con un groppo in gola. «Oh, no, no, non avresti dovuto», fece un altro uomo. «Uno sportivo come te non dovrebbe abbandonare quando è in vantaggio, vero?». «Ma abbiamo ancora tempo per rifarci», disse il terzo. «No, non ho più soldi», protestò Ray. «Aspetta un minuto, amico», disse il più grosso. «Tu vuoi essere sportivo, è così? Certo. Tu non vuoi guai. Non sarebbe affatto bello per te, credimi». Il terzetto si avvicinò. Spinto contro la paratia, Ray guardò oltre i suoi aggressori, ma la gente ignorava la scena, come fa sempre in questi casi. Unica eccezione fu il colonnello Roshevsky-Feldkamp: il suo tavolo era in prima classe, ma doveva essere andato a prendere qualcosa al bar... O la sua presenza aveva un altro significato? Sta di fatto che era li e guardava, i lineamenti di ferro tinti di boria. «È stato lui a mettermi addosso questi farabutti?», si chiese disperatamente Ray. «Forse mi serba rancore, e... una trappola di questo tipo non sarebbe possibile senza la tacita complicità degli ufficiali della nave». «Adesso tu vieni nella mia cabina e ne parliamo», propose quello grosso. Elargirono tre sorrisi a denti stretti all'ingegnere. La rossa schiamazzò e si fece da parte.
Dyann si accigliò e toccò l'impugnatura della spada. «Questi tipi ti danno noia, Ray?», chiese. «Oh, no, vogliamo solo farci una chiacchierata a quattr'occhi col nostro amico», disse il capo dei giocatori. Posò una mano enorme sul braccio dell'ingegnere e gli diede uno strattone. «Adesso vieni, vero Tallantyre?». Ray mosse la lingua asciutta tra le labbra tremanti. «Dyann», mormorò, «credo che stiano cominciando a darmi noia». «Oh, be', in qvesto caso...». Fece un ghigno di gioia, allungò un braccio e afferrò l'uomo più vicino. Seguì qualcosa come una piccola esplosione. L'uomo volò in aria, batté contro il soffitto, carambolò contro la paratia, colpì il ponte e rimbalzò un paio di volte prima di stramazzare tramortito. I suoi compagni attaccarono l'amazzone quasi per riflesso. «Ormun è grande!», gridò lei con gioia, e diede a uno un pugno dritto in bocca. I denti volarono. Il terzo le andò alle spalle, le sottrasse il pugnale e lo alzò. Ray gli bloccò il polso, ma l'altro, più grande e più grosso, si liberò con un colpo che fece barcollare l'ingegnere e gli fu addosso. Ray scartò verso RoshevskyFeldkamp. Senza pensare ad altro che a un'arma qualsiasi per fronteggiare il coltello dell'altro strappò la borsa dalle mani del colonnello e la sbatté sulla testa dell'avversario. Si udì un tonfo sordo e il giocatore si arrestò. Ray lo colpì di nuovo. La borsa si aprì e alcuni fogli ne uscirono, spargendosi intorno come una nevicata. Intanto Dyann, dopo aver messo K.O. il secondo rivale, finì quest'ultimo con un tocco di arti marziali. Tranne la rossa, che era fuggita urlando, un discreto numero di spettatori si raccoglieva intorno, a distanza di sicurezza. Ora Roshevsky-Feldkamp avanzava tra loro, livido. «Sono molto spiacente, signore», ansimò Ray, che non intendeva affatto inimicarsi un personaggio come quello. «Per favore, mi lasci aiutare...». Si inginocchiò e cominciò a raccogliere le carte sparpagliate e a ficcarle nella borsa. Mezzo stordito, notò che alcune di esse erano documenti militari. Poi un discreto calcio nel sedere lo mandò lungo disteso sulla marea di fogli. «Maledettissimo idiota!», urlò Roshevsky-Feldkamp. «Hai fatto male al mio amico?», s'informò indignata Dyann. «Ti insegnerò modi più cortesi». Il colonnello estrasse il revolver. «Fermi dove siete», sibilò. «Siete in arresto entrambi». Le grandi spalle levigate di Dyann si abbassarono, e lei disse, con voce
mite: «Lasciami solo prendere qvello», e indicò il giocatore svenuto, «per portarlo dal dottore». «Avanti», ordinò il gioviano. «Zissignore», rispose Dyann, scaraventandogli addosso il suo fardello umano. Lui finì lungo disteso, e Dyann gli diede un calcio nella pancia. Poi anche il colonnello perse ogni interesse nella lotta. «Divertente, qvesto», ridacchiò lei. «E ora?». «Lei», disse acido Urushkidan, «è un tipico umano». Attraverso la porta aperta di una cabina che a suo beneficio era stata trasformata in prigione, Ray guardava con aria supplichevole il visitatore, che era venuto dietro sua richiesta. Non c'erano guardie: una catena alla caviglia bastava e avanzava a trattenere il terrestre. «E che altro potevo fare?», si lamentò. «Combattere contro tutto l'equipaggio? Ho già dovuto usare tutta la persuasione di cui sono capace per convincere Dyann ad arrendersi». «Voglio dire che tutto è cominciato a causa di una donna», brontolò Urushkidan. «Ma perché boi specie inferiori non avete una normale stagione degli strusciamenti come noi su Uttu, e non vi comportate da esseri ragionevoli il resto dell'anno?». «Oh, signore, la prego! Lei è la sola speranza che mi resta. Non mi diranno mai che cos'è successo a Dyann». «Oh, l'hanno interrogata, hanno scoperto che non sa leggere e hanno ritirato le accuse di biolenza e ammutinamento. Lo stesso RoshevskyFeldkamp ha ammesso che ha agito "in un momento di collera", sebbene l'abbia detto a denti stretti. Credo che lei stia bene, sì». «Sono felice di questo», disse Ray, leggermente sorpreso di notare la sincerità di quel sollievo. «Naturalmente i gioviani hanno capito che punire una visitatrice interstellare avrebbe fatto loro una pessima pubblicità. Ma non capisco che c'entra il suo analfabetismo, in tutto questo. E lei, come sa che l'hanno scoperto?». «Me l'ha raccontato Dyann. E poi bi sono ricordato con quanta attenzione avevano interrogato anche be per essere certi che dod avessi visto niente di quello che c'era sulle carte del colonnello. Obbiamente si tratta di documenti segreti, e sospetto che si tratti di informazioni sulla situazione militare della Terra, che le sue spie hanno raccolto e che lui stesso riporta in patria. Tengono prigioniero lei perché lei le ha biste». «Come? Ma dannazione, non mi sono mica fermato a leggerle!».
«Potrebbe abere memorie inconsce che l'ipnosi sarebbe in grado di strapparle, amico mio. Se dod altro, questo farebbe capire all'Unione che esiste uda rete di spionaggio gioviana... Dyann non può fare le associazioni verbali giuste, quindi non può trattenere nessuna immagine significativa, ma lei... Be', è la sua malasorte. Suppongo che l'ambasciata terrestre potrà negoziare il suo rilascio, dopo che i giobiani abranno avuto il tempo di coprire i loro imbrogli sulla Terra». «No, no, purtroppo», grugnì Ray. «La Terra non si prenderà tanto disturbo. C'è un mandato di cattura contro di me, laggiù. Inoltre, il vecchio Vanbrugh sarà tutto contento quando mi saprà sulla ruota del boia». «Banbrugh? Il membro nordamericano del Consiglio Mondiale?». «Eh, già». Ray si mise seduto come poteva. «E pensare che ero un tranquillo ingegnere sottopagato finché zio Hosmer non mi lasciò in eredità un milione di crediti. Spero che stia friggendo all'inferno!». Gli occhi di Urushkidan si strabuzzarono finché sembrò quasi che volessero buttare a terra gli occhiali. «Un uomo le lascia tutti quei soldi e lei proba del risentimento? E poi, perché ci ha detto di essere ud poberaccio?». «Perché lo sono. Ho speso tutto». «Shalmuannasar! E cobe?». «Oh, vino, donne, musica... il solito». Urushkidan trasalì, come se provasse un dolore fisico. «Un milione di crediti e dod un centesimo inbestito...». «Mi introdussi nell'alta società», spiegò Ray. «Vivevo al di sopra delle mie possibilità, ma non per ingannare nessuno: solo per spassarmela un po'. Katrina Vanbrugh, la figlia del consigliere, si fece venire l'idea che sarei stato un buon quinto marito (o sesto? Non ricordo). Be', non è affatto brutta, e poi mi si buttò addosso a capofitto, e il risultato fu che ci fidanzammo. Grande evento mondano... Poi un reporter ficcanaso scopri che la mia fortuna si era praticamente dissolta, e Katrina decise che io andavo dietro solo ai suoi soldi, e avevo fatto di lei e della sua famiglia lo zimbello di tutti... Vanbrugh mi accusò di aver dichiarato il falso, il che non è vero. Oh, forse avevo un po' nascosto la verità, ma davvero non credevo che avrebbe fatto alcuna differenza per Katrina, ricca com'era, una volta che l'avessi ammesso. Ma la famiglia voleva vendicarsi. Come potevo oppormi al loro potere? Ebbi paura e scappai. Probabilmente fu una pazzia, ma certo peggiorò le cose. Il risultato è che ora i gioviani possono fare di me ciò che vogliono».
Allungò le braccia: «Signore, non può mettere una buona parola per me?», lo pregò. «Lei è famoso, ammirato, influente, se vuol darsene la pena. Non può aiutarmi?». Il marziano si gonfiò (era l'equivalente di un sorriso affettato), poi si sgonfiò e disse con moderato rincrescimento: «No, non posso occuparmi di cose così empiriche. Bi distrarrebbe dal bio laboro, che è troppo importante. Il bio campo è la purezza e bellezza della matebatica. Le consiglio di accettare il suo destino con filosofia. Se vuole, posso prestarle una copia del Trattato sull'irrilevanza delle preoccupazioni temporali di Ekbannutil». Ray si abbatté sulla sua cuccetta, nascondendosi il volto tra le mani. «No, grazie». Urushkidan agitò una mano affabilmente e sgattaiolò fuori. Ora l'astronave stava entrando in orbita intorno a Ganimede. Una squadra di soldati arrivò per scortare Ray su quella luna. Lo stesso RoshevskyFeldkamp si occupò di tutto. «Dove mi portate?», chiese il terrestre. «Al campo Muellenhoff, vicino Wotanopolis», gli rispose con soddisfazione il colonnello. «È dove teniamo le spie finché non abbiamo completato gli interrogatori, e poi le fuciliamo». III Ci vollero un paio di giorni terrestri perché Dyann Korlas decidesse che Ganimede non le andava a genio. I gioviani erano stati gentilissimi con lei, presentandole imbarazzate scuse per gli sfortunati incidenti di viaggio, e assegnandole un tenente del Corpo di Sicurezza come guida. Entro certi limiti, lui soddisfece la sua curiosità sugli armamenti locali, e lei trovò quei giri programmati alle installazioni belliche molto più impressionanti di tutto ciò che aveva visto di analogo sulla Terra. Però tutte quelle astronavi a getto di plasma, carri corazzati con cannoni e missili nucleari il cui potere era infinitamente superiore a quello delle spade, delle frecce e della cavalleria toglievano ogni divertimento alla battaglia, e in più non lasciavano niente da saccheggiare. Tra queste interminabili file di truppe in marcia senza espressione, tra le uniformi senza colore e le macchine impersonali sentì la mancanza delle allegre zuffe negli accampamenti di Kathantuma. I civili erano vestiti in modo ancora più deprimente, e i loro modi ordi-
nati, l'obbedienza istantanea davanti agli ufficiali, le interminabili prediche sulle meraviglie del Simmetrismo, i minuscoli appartamenti in cui erano stipati le diedero ben presto sui nervi. La casta degli ufficiali possedeva un certo colore e un fascino che lei avrebbe apprezzato, se non fossero stati tutti maschi. Aveva trovato interessante il concetto terrestre di eguaglianza tra i sessi, perfino un po' perversamente eccitante; ma i gioviani non avevano semplicemente cambiato l'ordine naturale delle cose, l'avevano addirittura rovesciato, e si scoprì a considerarli una razza di pervertiti. Il panorama era spesso affascinante. Sotto il livello del suolo Wotanopolis era un alveare industriale a più livelli; Dyann ammirò soprattutto gli innumerevoli meccanismi che rendevano la vita umana così prodigiosamente sicura e ordinata. In superficie la vista era meravigliosa, nella sua aspra bellezza: Giove come un'immensa luna, dolcemente sospesa nel cielo crepuscolare; il riflesso dell'aurora nell'aria sottile come uno spettro, e in cui i campi di forza creati da enormi generatori respingevano le radiazioni letali; creste, crateri, montagne, ghiacciai; una foresta di cristallo, animali che compivano balzi prodigiosi, la meraviglia che la vita si era manifestata anche qui, anche qui... E tuttavia cresceva in lei l'impressione di essere trascinata in una corsa, da visita a visita, da conversazione a conversazione senza avere mai la possibilità di parlare veramente con qualcuno, di potersi soffermare a scrutare nelle anime di quei corpi eternamente affaccendati. Sicuro, aveva ascoltato fino alla nausea conferenze sulla superiorità della società gioviana e il suo manifesto diritto a dominare il sistema solare; nondimeno si chiese se la gente che aveva incontrata si sarebbe mostrata così monomaniaca, se non ci fosse statala sua guida. E poi, se si sentivano tanto superiori, perché non saltavano nelle loro astronavi e non davano una bella batosta ai terrestri? Ovunque c'erano ritratti del Leader, un ometto basso e dal viso gonfio che si chiamava Martin Wilder. Una volta il tenente Hamand, la sua guida, disse con una punta di timore reverenziale che se il Leader non era troppo occupato con le faccende di stato forse avrebbero potuto presentarglielo. Quando lei, per tutta risposta, sbadigliò, Hamand sembrò piuttosto offeso. Nel frattempo Dyann stava in pena per Ray Tallantyre. Sebbene non avesse avuto modo di approfondire la conoscenza del suo vecchio compagno di camera, lo aveva trovato insolitamente attraente. In parte, dovette ammettere, ciò era dovuto al fatto che, tra una cosa e l'altra, non aveva più fatto un po' di sano su e giù da quando era salita sulla nave, né le era capi-
tato spesso prima. Ma in parte le piaceva la vitalità di Ray, e il suo humor sottile: due qualità che contrastavano violentemente con quelle degli uomini di casa sua. Si era convinta che i maschi terrestri meritavano la reputazione che si erano guadagnata tra le donne Varann, ma sospettava che Ray superasse la media. Non era molto probabile che si sarebbe adattato a vivere in un harem, ma lei, non aveva piani del genere per lui: era impossibile che un uomo di una specie diversa potesse darle un bambino. Tuttavia questo non era affatto un inconveniente. Dyann aveva cercato di approfondire la conoscenza di Ganimede, ma da quando lui era finito nei pasticci non era riuscita a scoprire niente della sua attuale situazione. Spinto da lei, Hamand le aveva fatto conoscere un ufficiale di polizia, che l'aveva assicurata che stavano esaminando il caso, ma le aveva anche raccomandato di non immischiarsi. E comunque, aveva concluso, la sua visita al sistema gioviano sarebbe finita prima che fosse stata presa alcuna decisione. Congedandola le aveva assicurato che Tallantyre avrebbe «ricevuto giustizia», espressione che lei non trovò affatto soddisfacente. Ma la sua preoccupazione non nasceva soltanto dall'attrazione che sentiva per Ray. Lei lo sentiva amico, e a Kathantuma non si abbandonano gli amici. Non si erano scambiati un patto di sangue, è vero: nondimeno il fatto che la sua compagnia le piacesse portò la sua coscienza di guerriera all'illogica conclusione che lei gli doveva il suo aiuto. Questo pensiero non le venne dalla sera alla mattina, né le si presentò mai in chiari termini. Ciò che provò fu un'ansia crescente, che si sommò alla sgradevolezza della società che la circondava. Se Ray aveva fatto del male a questa gente, voleva dire che se lo meritavano. E lei, poteva essere da meno? Ganimede compì un giro completo intorno a Giove, mentre Dyann Korlas si dibatteva sempre più nel suo dilemma emotivo e etico. Infine fece la cosa più saggia secondo le sue credenze: sola nell'appartamento con una bottiglia di whisky considerò il problema in termini espliciti, e decise che non poteva restarsene lì a far niente. Al mattino avrebbe interpellato l'oracolo divino. Presa questa decisione, dormì meglio. Alle 6,00, come sempre, le luci si accesero in tutta Wotanopolis decretando l'inizio di un nuovo giorno. Dyann saltò giù dal letto, cantò una graziosa filastrocca a base di clamor di spade e teschi spaccati a metà mentre si lavava e si vestiva - elmo, corazza, spada e pugnale sopra la tunica e i
sandali - e andò nel cucinotto dell'appartamento, dove si preparò una colazione che sarebbe bastata a due operai terrestri. I gioviani qualunque non potevano permettersi lussi simili, ma lei godeva del trattamento diplomatico. Quando tornò nella stanza principale trovò che Hamand era già arrivato: poiché si riteneva che il crimine fosse stato bandito dalla società simmetrista i chiavistelli sulle porte dei civili non servivano a niente: chi li avesse usati avrebbe certo voluto nascondere attività sediziose. Hamand, un giovane grande e robusto, immacolato nell'uniforme grigia e negli stivali luccicanti, si inchinò piegandosi a metà. «Buon giorno», la salutò. «Ricorderà che dobbiamo andare all'esterno a visitare il Giardino del Diavolo. Alle 11,45 procederemo per Heroville, dove potrà apprezzare il Cenotafio Rivoluzionario e pranzare. Alle 13,00 abbiamo appuntamento per ottenere i documenti necessari alla sua prossima visita a Callisto. Poi...». «Zenti», lo interruppe Dyann. «Prima ho un rito religioso». «Domando scusa...». «Perché? Non hai fatto niente di male». Dyann indicò l'immagine di Ormun, che se ne stava feroce sul tavolo. «Devo chiedere consiglio alla dea». S'interruppe, colpita da un pensiero improvviso. «Farai meglio... com'è la parola? Farai meglio a prostrarti anche tu». «Cosa?», gridò il tenente. «A lei non piacciono gli atei», spiegò Dyann. Hamand arrossì e sbuffò. «Madame», disse, «io sono stato educato ai principi scientifici del Simmetrismo. E le assicuro che essi non contemplano l'umiliarsi davanti a un idolo». Dyann lo prese per il colletto, lo costrinse a inginocchiarsi e gli fece strusciare il naso sul pavimento. «Fallo pev favore», disse amabilmente. «Cozì vogliono le buone maniere». Poi si inginocchiò lei stessa, tenendolo sempre stretto, e recitò una formula magica. Quindi lo lasciò andare, fece un inchino, cercò tre dadi kathantumani nella borsa che teneva attaccata alla cinta e li lanciò. «Ahaa», mormorò dopo averli studiati. «Il presagio dice... be', non zono una marya, una strega patentata, ma credo che voglia dire che devo vedere Uruzhkidan. Guarda, qui il segno di Saggezza giace accanto al segno del Mistero, con le Asce Incrociate qui... Zi, sono certa che Ormun mi consiglia di vedere Uruzhkidan». Si inchinò davanti all'immagine. «Grazie, dolce signora. Laesti laeskul itorum». Poi si alzò: «Andiamo?». Hamand, che aveva mandato giù l'umiliazione per il bene dei rapporti in-
ternazionali, sobbalzò di nuovo a quelle intenzioni. «Vuol dire lo scienziato marziano?», urlò. «Impossibile! Sta facendo un lavoro importantissimo, e...». Dyann si precipitò nel corridoio, senza più dargli retta. Le avevano mostrato in precedenza dov'era l'Accademia delle Scienze, e non le importava quanto estraneo le fosse questo labirinto di passaggi: aveva il senso dell'orientamento di una cacciatrice abituata a ricordare ogni punto di riferimento. Hamand la seguiva a fatica, riuscendo a stento a non perderla di vista. Non c'erano marciapiedi mobili: tranne nei tunnel dove si muovevano i veicoli autorizzati, tutti camminavano a piedi, e questo per la preoccupazione del governo di preservare l'efficienza fisica della popolazione nella bassa gravità di Ganimede. Dyann si sentiva leggera come una piuma, e procedeva a salti di tre o quattro metri. Quando un gruppetto di persone le sbarrava la strada, lei saltava letteralmente sulle loro teste. L'Accademia occupava cinquanta ettari in uno dei livelli superiori della città, un piacevole diversivo in un ambiente dove anche i parchi erano funzionali. Qui invece l'erba, gli alberi e i fiori formavano sentieri pieni di vita e colore tra mura che, per quanto senza tetti, erano perlomeno ricoperte da edera di plastica. In alto una telecupola mostrava l'enorme spettacolo di Giove, le stelle, la Via Lattea e il sole, che sembrava minuscolo al confronto. Nel campus, affrettandosi da edificio a edificio c'era un gran numero di persone, molte delle quali erano ovviamente militari, ma la maggior parte semplici studiosi, non molto diversi dai loro colleghi della Terra. Dyann fermò uno di questi ultimi, e dall'alto della sua mole incombente chiese dove avrebbe potuto trovare il dottor Urushkidan. «Nella Sala di Archimede, lassù», ansimò l'altro atterrito e si affrettò a lasciarla, forse in cerca di una tazza di tè che lo rimettesse in sesto. Avrei dovuto saperlo, si disse Dyann. Davanti alla porta un soldato che montava la guardia contrastava con l'atmosfera generale. Lei immaginò che la sua presenza fosse dovuta all'importanza militare del lavoro di Urushkidan. Sebbene la vista di lei lo impressionasse non poco, il soldato spianò il fucile e gridò: «Alt!». Dyann obbedì. «Devo vedere il marziano», gli disse. «Per favore, lasciami passare». «Nessuno può vederlo senza un lasciapassare», replicò il soldato. Dyann gli diede uno spintone e si buttò sull'apertura della porta. Il soldato gridò e le diede un colpo col calcio del fucile. E questo fu un grave errore.
«Dovresti avere più vispetto per le zignore», lo rimproverò, e gli strappò l'arma di mano. Con la mano libera lo scaraventò attraverso il prato. Il militare andò a finire addosso a Hamand, che stava arrivando tutto ansimante sulla scena, e il cozzo fu così violento che entrambi rimasero K.O. per un bel pezzo. Dyann ammirò il fucile (i terrestri su Varann si erano sempre mostrati avari nel dare quei gingilli alla sua gente) prima di appenderselo alla schiena con una fibbia. Nel frattempo fin troppi passanti si erano fermati a guardare e a far commenti. Meglio affrettarsi. Aprì la porta e entrò. Per un momento restò nell'atrio oltre la porta, tendendo le orecchie da una parte e dall'altra. Aveva l'udito fino, e il rumore di un debole alterco le indicò la strada che doveva seguire. Salì una rampa di scale e si fermò ad ascoltare davanti a un'altra porta. Sì, questa era la voce di Urushkidan, che borbottava come una caffettiera. «Non lo farò, ha capito? Non lo farò. E dobando immediato visto di ritorno da questo ridicolo satellite». «Avanti, dottor Urushkidan, sia ragionevole». Questo era... RoshevskyFeldkamp? «Di che cosa si lamenta? Non ha forse un compenso più che generoso, alloggi di tipo marziano, servitori, e tutti gli onori possibili? Se le serve qualcos'altro ci informi, e cercheremo di procurarglielo». «Sono benuto qui per tenere delle conferenze, e completare le bie ricerche matebatiche. Ora scopro che non avevate organizzato nessuna conferenza e che volete farmi superbisionare un... un progetto astronautico, come se fossi un bolgare empirista!». «Ma il suo contratto asserisce chiaramente...». «Pensa che io sprechi il bio tempo prezioso a leggere i bostri pezzi di carta pieni di cialtronate? Signore, anche la legge umana asserisce che un contratto richiede l'accordo di due parti, di due menti. Ba la mente del suo governo non raggiungerà mai la bia. Non ne sarebbe capace». L'uomo cercò allora di ingraziarselo: «Lei è un grande scienziato. Come tale, deve convenire che la scienza avanza verificando le teorie coi fatti. Se col suo aiuto riusciremo a creare un'astronave più veloce della luce, ciò confermerà pienamente le sue idee». «Le bie idee non hanno nessun bisogno di conferma. Sono lo sbiluppo di certe implicazioni della relatibità generale, è bero, ma questo è puramente accidentale. Ciò che io ho prodotto è soprattutto un pezzo di pura matebatica, elegante e bello. Se esso coincide o non coincide coi fatti non può interessare il bero filosofo. E inoltre...», il tono chiocciante raggiunse vertici ultrasonici, «... non solo volete usarmi a fini sperimentali, ba anche coin-
volgere il bio genio in volgari applicazioni militari! No, no e ancora no! Ha capito? Boglio Un biglietto per la prossima nave per Marte!». «Temo», disse l'umano lentamente, «che ciò non sarà possibile». Dyann aprì la porta e si precipitò dentro. «Ti stanno molestando?», chiese. Urushkidan strabuzzò gli occhi a vederla apparire, immobile sulla sedia dov'era assiso. La stanza era così satura del fumo della sua pipa che uno dei due gioviani presentì, un tipo ben piantato con la tunica nera della polizia politica, doveva premersi un fazzoletto sul naso. L'altro era, naturalmente, Roshevsky-Feldkamp, che balzò immediatamente in piedi ed estrasse il revolver. Dyann aveva già sfilato il fucile espropriato al milite; glielo puntò al diaframma e lo avverti: «Meglio di no». L'uomo rabbrividì. «Cosa... cosa ci fa lei qui?», chiese l'ufficiale della politica. «Cerco Ray Tallantyre», gli rispose. «Puoi dire dov'è?». «Guardie!», ruggì senza paura Roshevsky-Feldkamp. «Aiuto!». Dyann fece un balzo attraverso la stanza, lo afferrò per il collo e gli fece picchiare la fronte sul tavolo. Poi, con la mano destra, acchiappò il secondo gioviano. «Ti ho chiesto dov'è Ray Tallantyre», gli ricordò. «Sono lieto che sia venuta», le disse Urushkidan. «Potremo lasciare questo luogo indicibile?». Due soldati apparvero sulla soglia. «No, forse no». Dyann brandì il fucile, ma fu un attimo troppo lenta. I due nuovi arrivati avevano già estratto le armi e aperto il fuoco. Lei si buttò dietro il tavolo, mentre due pallottole gemelle lo attraversavano, cercandola. Dyann afferrò il tavolo tra le gambe e lo sollevò. Quello descrisse una curva nell'aria e atterrò sui due soldati in un parapiglia di cassetti, carte, penne e libri vari. Gli uomini restarono sotto, tramortiti. Intanto l'ufficiale della politica aveva approfittato della distrazione di Dyann per estrarre la sua arma, e puntarla su di lei. Ma Urushkidan allungò un tentacolo e lo tirò per i piedi. Dyann si accertò che RoshevskyFeldkamp fosse svenuto, poi serrò le dita intorno al pomo d'Adamo dell'altro uomo. «Non mi hai zentito?», urlò. «Dove è Ray Tallantyre?». «Presto, non indugi, la prudenza esige che usciamo subito di qui», disse il marziano. Suo malgrado Dyann fu costretta a acconsentire. Non era stata sua intenzione scatenare una zuffa, ma le cose le erano sfuggite di mano. «Qval è la via più sicura?», chiese. «Per di qua. Bi hanno bostrato tutto. Mi segua». Urushkidan si soffermò
a sottrarre le pistole di entrambi i militari. Ne teneva una per mano, con attenzione, come se temesse che potessero esplodere. Dyann veniva dietro con l'ufficiale della polizia politica. Si udirono sirene di allarme, sempre più vicine, e il rimbombo di stivali militari. «Corra», ansimò Urushkidan. «Shalmuannasar, avremo l'intera Confederazione Giobiana alle costole!». E dato che lo scienziato non poteva muoversi velocemente quanto un umano o un centauriano, Dyann tagliò la testa al toro prendendolo di peso e schiaffandolo sulla testa del suo prigioniero. Girarono un angolo e discesero molte rampe di scale, fino a una porta con su scritto: HANGAR. SOLO PERSONALE AUTORIZZATO. Non era chiuso. Entrando, si trovarono in un ambiente cavernoso dove molti piccoli veicoli spaziali riposavano su invasature mobili. Alcuni meccanici li fissarono. «Sono bascelli per uso scientifico usati nei voli di superficie. Ce ne serve uno», spiegò Urushkidan. Un sovrintendente si fece avanti, ovviamente stupito ma troppo impaurito per replicare. «Hai sentito qvello che vogliamo», sussurrò Dyann, e strizzò la spalla del suo prigioniero, non troppo forte, ma abbastanza da far scricchiolare le ossa. «Sì», ansimò l'ufficiale attraverso i tentacoli del marziano che gli coprivano la faccia, «manovre pratiche... abbiamo bisogno immediato di un vascello perfettamente equipaggiato. Missione confidenziale, e... aaahh!... urgente». «Bene, signore», rispose l'altro, allenato da tutta una vita alla cieca obbedienza. Comunque i tecnici si rivelarono un po' meno efficienti del solito, e continuarono a lanciare sguardi furtivi. Quando una nave a forma di lacrima fu finalmente pronta, Dyann spostò la sua attenzione alla porta attraverso cui era entrata. Gli inseguitori potevano aprirla da un momento all'altro. Sicuramente a quest'ora RoshevskyFeldkamp e i soldati erano stati ritrovati, e non ci voleva molto a immaginare dove poteva recarsi un gruppo di fuggiaschi. «Comincio a riscaldare i motori, signore», disse il capomeccanico. «No, non preoccupatevi, la prendiamo cozì», replicò Dyann. Stupito, l'altro protestò: «Madame, lei non capisce. Si formerà un deposito di carbonio nei tubi, e rischierete un guasto nei motori, una caduta...». «Trovi che il rischio sia accettabile, vero?», chiese l'amazzone all'uomo della politica. «Certo, naturalmente, io...», si strozzò quello. «Il... il Leader ci insegna
che nessun azzardo è troppo grande se serve alla causa». Dyann lo spinse davanti a lei nella camera stagna. Nella cabina di controllo lo fece accomodare alla poltrona di pilotaggio, che riconobbe dai viaggi fatti intorno alla Terra. «Spero che saprai farla volare», disse. «Lo spero anch'io», aggiunse Urushkidan. Scivolò via dalla testa del gioviano, bloccò il portello stagno e si accomodò su una poltrona passeggeri. «Ora andiamo a trovare Ray Tallantyre», ordinò Dyann. Una parte di lei pensava che cominciasse a diventare un'idea ossessiva, ma dato il pandemonio in cui era riuscita a cacciarsi questo ormai era un piano ragionevole come un altro. La sagacia e l'humor di Ray le avrebbero dato il surplus di energia vitale, ora che Ormun era rimasta a casa. Questa infatti sembrava la volontà della dea. «Che vuol dire?», chiese l'ufficiale, alquanto sconcertato e confuso. «Ray Tallantyre, il terrestre arrestato sulla Regina di Giove», disse Dyann con quella che - si congratulò con se stessa - le parve un'esemplare pazienza. «Tu dovresti zapere dove lo tengono. Forse qualche ceffone ti fa tornare la memoria?». «Camp Muellenhoff, razza di selvaggia!», esplose lui. «A nord della città. Ma non ci riuscirete mai. Ci ammazzeremo tutti». Dyann sorrise. «In qvesto caso faremo baldoria con gli dèi nella Sala dei Teschi per l'eternità», lo consolò. «Non è carino?». L'invasatura cominciò a muoversi, rombando verso la porta stagna dell'hangar. Su per la rampa, nella camera stagna, e poi il buio esterno, quando le aperture si richiusero... Un rumore cavernoso di pompe che aspiravano l'aria... Urushkidan riaccese la pipa con tentacoli tremanti. Dyann fischiava sordamente tra i denti. «Non sono sicuro che ci comportiamo saggiamente», disse il marziano. «Questo bascello non può portarci fuori del Sistema Giobiano, o anche su un altro satellite». «No, non siete affatto saggi», concordò l'uomo della polizia politica. «La vedremo poi», rispose Dyann. «Intanto, tu sarai veramente sciocco se non piloterai come ti dico io». Uscito dall'hangar il vascello si diresse all'esterno, oltre il campo di forza. Sotto quella piatta distesa la cupola che copriva Wotanopolis brillava contro le montagne a dente di sega, ergendosi contro il vicino orizzonte e il cielo inondato di stelle. Il sole, ridotto alle proporzioni di un nano, lanciava il suo splendore da ovest. Solo un'altra nave era in vista, un vascello ne-
ro che Dyann identificò come appartenente alla polizia. «Verranno dietro di noi in forze», disse. «Che ne facciamo di qvella bagnarola là, eh?». Poi raggiunse una decisione. «Ah, sì». Il suo involontario pilota ricevette gli ordini, e quando tentò di rifiutare gli ricordò, brevemente ma dolorosamente, che non era un volontario, ma un prigioniero. I motori ronzarono e il piccolo vascello scientifico si sollevò. Dopo aver preso quota scese di nuovo, abbastanza per scaricare i suoi getti sulla nave della polizia. E non fu un bene, per i poliziotti. Dyann non si preoccupava di ricevere i messaggi che le mandavano dalla torre di controllo. «Ora», disse mentre la piccola nave si sollevava di nuovo, «tu, amico poliziotto, ci porti a questa pvigione e fai in modo che ci consegnino Tallantyre. Se va tutto bene, ti lasceremo libero da qualche parte. Se no...». Gli passò la lama del coltello sul dorso della mano, tagliando via un po' di peli. «... zarai ancora un poliziotto, ma non più un uomo». «Maledetto mostro», le disse lui. «È meglio forse lanciare missili nucleari sulle città inermi?», ribatté lei, piccata. «Sì», ridacchiò Urushkidan, «ne ho piene le sacche digestive di voi giobiani! Non parlate altro che delle glorie della guerra e del destino e della Razza e la necessità storica e roba simile. Spero che in futuro borrete fare maggior uso del rigore della logica». Il volo verso il campo Muellenhoff fu breve. Si trovava in superficie, un ammasso di baracche pressurizzate intorno a una torre di guardia. Non c'era bisogno di filo spinato: l'ambiente ganimediano era più che sufficiente. Se un prigioniero in tuta spaziale fuggiva da una squadra di lavoro, l'unica incertezza era se un mostro planetario l'avrebbe scovato prima che si esaurisse la scorta d'ossigeno o fa batteria termica. Quando la nave atterrò, una figura in tuta fu spinta verso la porta stagna da una coppia di altri uomini. L'ufficiale di polizia aveva trasmesso per radio la richiesta che gli era stato ordinato di fare, e in modo abbastanza convincente. Una voce balbettò nel ricevitore: «Signore, ho l'ordine di chiederle se intende riportare veramente il prigioniero in città. Ci hanno avvertiti di stare in guardia, perché c'è un gruppo di fuorilegge che...». «Sì», disse tra i denti l'ufficiale. «Devo riportarlo in città. Oh, se voglio riportarlo in città!». Il prigioniero fu fatto entrare nella cabina. Subito si formò del ghiaccio sulla sua tuta, Dyann diede un ordine, la nave s'impennò sulla coda e ruggì
verso destinazione ignota, mentre il prigioniero appena liberato si abbatteva contro la paratia. Quando ripresero a volare normalmente in orizzontale lui aprì la visiera del casco. Appena un po' abbacchiata emerse la faccia di Ray Tallantyre. «Aaah, dolcezza!», gridò Dyann, buttandoglisi al collo; quando toccò la tuta ritirò la mano con un gridolino. «Come stai?», chiese, non molto chiaramente perché si stava succhiando le dita congelate. «Bene, io... be', non troppo male», rispose lui vincendo il suo stupore. «Non è stato piacevole, ma... era soprattutto siero della verità, che mi facevano. E dicevano che mi avrebbero fucilato per misura di precauzione». «Povero piccolo Ray! Povero piccolo terrestve! Mettiti comodo. Mi prenderò cura di te». «Già, temo che lo farai». «Il problema immediato», disse Urushkidan, «è: Tallantyre, può pilotare un beicolo come questo?». «Be', sì, suppongo di sì», rispose Ray. «Sembra un Astrid-Luscombe modificato. Sì, posso». «Ottimo. Allora possiamo lasciare questa creatura qui. Io non bi fido di lui. Odora tanto di fenilalanina... Ehi, Dyann, cosa fa? Vuol dire che non ci libitiamo a scaricarlo?». «Ho fatto una promessa», disse la donna. Scesero su un altopiano roccioso, diedero una tuta all'ufficiale della polizia segreta e lo abbandonarono. Con un po' di fortuna sarebbe riuscito a raggiungere il campo, anche se continuava a lamentarsi dei maltrattamenti subiti. «E adesso, che facciamo?», chiese Dyann. «Dio lo sa», sospirò Ray. «Immagino che dobbiamo trovare un posto dove non ci scovino per un po', e fare dei piani. Magari in qualche modo riusciamo a contattare l'ambasciata dell'Unione. Tu e Urushkidan dovrete richiedere l'intervento diplomatico, e io cercherò di cavarmela sulla vostra scia. Vedremo. Per prima cosa adesso dobbiamo trovare un buco dove nasconderci, ed essere pronti a svignarcela se vediamo un apparecchio gioviano». Si sistemò nella poltrona principale e azionò i controlli. La nave si levò prontamente, ma dopo un momento cominciò a tremare, mentre un rumore minaccioso proveniva attraverso la paratia anti-radiazioni dalla sala motori. «Sodo forse gli effetti del deposito di carbonio nei tubi di cui parlava
quel tizio?», si chiese Urushkidan. Ray fece una smorfia. «Volete dire che siete partiti senza prima riscaldare i motori? Sì, allora temo che sia proprio quello». Le sue dita danzarono sul pannello comandi. La risposta che ottenne fu preoccupante. «Dobbiamo atterrare subito, altrimenti ci schianteremo al suolo. E ci vorrà una settimana prima che la radioattività si abbassi tanto da permetterci di andar fuori e pulire i getti». «E intanto tutto il satellite ci dà la caccia». Dyann aggrottò la fronte. «Forse Ormun è offesa perché non l'ho portata dietvo? Pare che la fortuna ci giri le spalle». «E come!», disse Ray. IV Ray adoperò gli ultimi ioni per scendere in una valle che sembrava selvaggia e remota come serviva a loro. Tuttavia, quando diede un'occhiata dal boccaporto si chiese se non avessero addirittura esagerato. Intorno allo scafo c'era un'estensione di pietra scavata e coperta di solchi, che declinava verso alcune colline dalla cresta aguzza come zanne. Il bagliore di Giove risplendeva, fantasticamente colorato, su un ghiacciaio lontano e una più vicina pozza di metano liquido. Quest'ultima aveva cominciato a bollire: i vapori oscurarono il pallido sole e si sparsero su una distesa di piante magre, vetrose. Evidentemente soffiava il vento, ma era troppo debole per udirlo dall'interno dello scafo. A quest'ora del giorno, quando l'emisfero si era riscaldato, l'aria - che non era molto più che vuoto contaminato - consisteva principalmente di biossido di carbonio, con un po' di metano, ammoniaca e azoto: non era una miscela particolarmente respirabile. Nemmeno Urushkidan poteva sopravvivere a condizioni simili senza l'equipaggiamento adatto. L'impianto di riscaldamento e rigenerazione dell'aria della nave avrebbero fatto meglio a funzionare come si doveva. Un animale passò sotto i loro occhi facendo salti da canguro. Sebbene piccolo, pensò Ray, era un altro buon motivo per non andare all'esterno. La biochimica ganimediana dipendeva dai materiali termoassorbenti; le radiazioni caloriche di un uomo che indossava una tuta spaziale attiravano gli animali, e i carnivori sarebbero stati molto soddisfatti di tutta quella materia prima. Ray si girò verso i compagni. «Bene», disse, «cosa facciamo adesso?».
Gli occhi di Dyann brillarono: «Cacciare i mostvi?». «Bah!». Urushkidan strisciò verso il reparto laboratorio, dove c'era uno scrittoio. «Fate quello che bolete, ma non disturbate me. C'è un interessante aspetto della teoria del campo unificato che debbo sbiluppare». «Senta», disse Ray, «qui bisogna agire. Se ce ne stiamo passivi aspettando di poter pulire quei tubi è maledettamente probabile che ci scovino». «E cosa pensa che potremmo fare?». «Ah, non lo so. Mimetizzarci, magari. Dannazione, io devo fare qualcosa!». «Io no, tradde i biei calcoli. Mi lasci fuori da ogni stupido piano che potrà concepire». «Ma se ci prendono ci ammazzeranno!». «Meno», disse Urushkidan tronfio. «Balgo troppo per loro». «Lei è nostro complice». «Bero, sono stato coinbolto nei tafferugli. Speravo di poter evitare di dover sprecare il mio genio lavorando a un bolgare progetto astronautico. Ma sembra che questa speranza andrà delusa. Quindi, la cosa più logica da fare quando arriberanno i giobiani sarà seguirli e fare quell'orribile cosa che vogliono, così poi mi lasceranno andare a casa... con una congrua ricompensa per i biei servigi, confido». Il marziano fece una pausa. «Per quanto riguarda boi due, cercherò di porre come condizione che le vostre bite vengano risparmiate. Dopotutto sono un essere nobile. Dubito che sarete mai rimessi in libertà, ma pensate a quanti anni avrete, non distratti da niente, per coltibare la rassegnazione filosofica». Dyann tirò la manica di Ray. «Avanti», lo incitò, «andiamo a caccia di mostri!». «Aaahh!». Non potendone più il terrestre fece un salto: e, data la gravità di Ganimede, andò a sbattere la testa contro il soffitto. «Oh, povero caro!», esclamò Dyann, avviluppandolo in un abbraccio degno di un orso. «Lasciami!», urlò lui. «Farete meglio a lasciarmi quieto per un poco». «Deve ritrovare la serenità», gli consigliò Urushkidan. «Consideri le cose dal punto di vista dell'eternità: lei è solo un anibale inferiore. Il suo destino non ha importanza». «Zitto, brutto polipo presuntuoso!». «Calma, calma». Urushkidan agitò un dito flessibile verso l'uomo. «Mi permetta di ricordarle perché deve darmi retta. Se le sue facoltà intellettive sono così libitate che non è capace di dimostrare a priori che i marziani
hanno sempre ragione, almeno consideri i fatti. I marziani sono belli. Hanno una benerabile civiltà. Anche fisicamente, noi siamo superiori: io posso bibere in condizioni terrestri, ma la sfido a rimanere in vita in condizioni marziane. Anzi, la sfido due bolte». «I marziani», disse Ray a denti stretti, «non sono venuti sulla Terra. Siamo stati noi a venire su Marte». «Naturalmente. Noi non avevamo nessun bisogno di farvi bisita, mentre voi avevate tutto l'interesse a venire in pellegrinaggio da noi, sperando che un poco della nostra sapienza e bellezza si trasmettesse a boi. Ne ho abbastanza. Ora debbo occuparmi delle bie ricerche, e non boglio essere disturbato, tranne quando sarà pronto in cucina. Posso mangiare il vostro cibo, lei lo sa. Tuttavia la informo che non posso sopportare, nella maniera più assoluta, il gusto degli asparagi e dei tartufi. Prego, non preparatemi nessun piatto con asparagi o tartufi». Urushkidan si avviò allo studio. «Zai, Ray», disse Dyann, «ci ho pensato, e hai vagione. Non è il momento di andare a caccia dei mostvi. Facciamo l'amore». «Oh, Dio!», si lamentò l'umano. «Se solo potessi fuggire da voi due lunatici, supererei la velocità della luce, dalla fretta». Rimase rigido dov'era. «Allora zi?», chiese Dyann. «Signore, Signore, Signore», mormorò lui. «Questa è la risposta». «Sì, così ba bene, non parlate più forte di così mentre io penso», approvò il marziano che aveva appena oltrepassato la porta. «Un momento... la propulsione ultraluce, l'iperdrive, ecco la risposta!». Ray si abbandonò improvvisamente a una danza di guerra nello stretto scompartimento, saltando dalle sedie al soffitto e indietro. «Abbiamo ogni tipo di strumenti scientifici, abbiamo la maggior autorità del sistema solare in materia, io sono un ingegnere, e tutti sanno che la teoria base è già stata dimostrata in laboratorio, e che fabbricare un propulsore è solo un corollario... Lo possiamo fare!». «Non così forte, ho detto», protestò Urushkidan. Si sbatté la porta dietro. «Dyann, Dyann», esultò Ray, «ce ne torniamo a casa!». Gli occhi di lei si riempirono di lacrime. «Vuoi già lasciarmi?», gli chiese. «Non ti piaccio?». «No, no, no, io voglio solo salvarci la vita, riconquistare la libertà. Vieni, facciamo un rapido inventario. Avrò bisogno di te per smuovere le macchine pesanti». Dyann scosse la testa. «No», s'impuntò. «Ze non t'impovta di me, perché
debbo aiutarti?». «Giuda prete», muggì Ray. «Senti, io ti amo, ti adoro, potrei prostrarmi ai tuoi piedi. Adesso, mi darai una mano?». Dyann s'illuminò ma insistette: «Provamelo». Ray la baciò. Allora lei l'afferrò e rispose entusiasticamente con un altro bacio. «Ahi!», urlò lui. «Per poco non mi spezzavi le costole! Molla!». Quando l'ebbe fatto, le disse: «Be', ne riparleremo in qualche altro momento, quando avremo affari meno urgenti da sistemare». «Fare l'amore», sentenziò Dyann, «è diventato un affare molto urgente per me. Vieni qui». Dopo un po' Urushkidan aprì la porta: «Se bolete smetterla con tutti questi rumori...», cominciò indignato. Poi il suo sguardo si posò sulla cuccetta. «Oh», disse. «Oh». E chiuse di nuovo la porta. Più tardi un aroma di caffè lo portò verso la cabina anteriore. Uno scarmigliato Ray Tallantyre si dava da fare alla piccola unità di cucina, mentre Dyann era impegnata a pulirsi la spada e a canticchiare tra sé. «Bene, finalmente», disse l'uomo con evidente sollievo. «Suppongo che possiamo incominciare. Innanzitutto le farò alcune domande, per rinfrescarmi la memoria e aumentare le mie cognizioni sulla sua propulsione e su come funziona». «Non è una propulsione e non funziona in nessun modo», precisò Urushkidan. «Ciò che ho creato è un puro modello matebatico, e comunque è al di là della piena comprensione per chiunque tranne me stesso. Bi dia un po' di caffè». «Lei ha seguito gli esperimenti, però, e ha sentito le idee dei gioviani, che hanno cercato di costruire il propulsore». «Oh, certo, non c'è dubbio che potrei progettare un motore, se bolessi. Ma non voglio. I biei attuali interessi sono troppo elevati». Urushkidan prese la tazza e bevve. «Ascolti», osservò Ray, «se i gioviani ci prendono la costringeranno a farlo per loro. E dopo si impadroniranno di Marte e di tutti gli altri pianeti. Non avranno virtualmente più limiti, e non ci sarà modo di difendersi dai loro missili». «Ciò sarebbe sgradevole, lo abbetto. Tuttabia, sarebbe ancora più tragico se la mia attuale linea di pensiero venisse interrotta, come abberrebbe se dovessi dedicare tutta l'attenzione al suo progetto, cosa necessaria per ave-
re qualche possibilità di successo: i giobiani possono permettersi invece di usarmi part-time. Lasci pure che conquistino il sistema solare. Nel giro di un bigliaio d'anni saranno solo una nota a piè di pagina nei libri di storia. Al contrario, i biei risultati verranno ricordati finché dura l'uniberso». Dyann brandì la spada. «Favai ciò che lui dice», ruggì. «Non oserà farbi del male», si schermì Urushkidan. «Restereste alla completa mercé dei giobiani, che si vendicherebbero sicuramente su di boi». Finì il suo caffè. «Dov'è il tabacco?», chiese. «Ho finito il bio». «I gioviani non fumano», lo informò Ray con selvaggia soddisfazione. «La considerano un'abitudine da degenerati». «Come?». L'urlo del marziano fece tremare la caffettiera sul fornello. «Non c'è tabacco a bordo?». «No. E suppongo che la sua riserva a Wotanopolis sia stata confiscata e distrutta. Questo vuol dire che il tabaccaio più vicino si trova da qualche parte nella fascia degli asteroidi». «Oh, no! Come posso pensare senza la bia pipa? Una nuova cosmologia robinata dalla penuria di tabacco...». Ci vollero pochi secondi perché Urushkidan prendesse la sua decisione. «Molto bene. Non c'è alternatiba: se il più vicino tabaccaio è milioni di chilometri lontano, allora dobbiamo costruire il propulsore ultraluce. Inoltre», aggiunse pensieroso, «se i giobiani conquistano il sistema solare potrebbero proibire il tabacco in tutti i bondi. Sì, bi ha convinto, la sua è una causa vitale». Ray non fece nessun tentativo di usare le equazioni del marziano in tutte le loro implicazioni, né di trovarne le soluzioni più eleganti. Voleva solamente calcolare i parametri di qualcosa che funzionasse, e procedette per approssimazioni che strappavano urla di sofferenza quasi materiale all'altro essere. Riuscì, tuttavia, a interpretare i fondamenti della scoperta di Urushkidan, che consisteva in una correlazione finale della relatività generale e della meccanica delle onde la cui formulazione portava a conseguenze sorprendenti. La relatività si occupa della massa e dell'energia, compresi i potenziali, che si muovono a velocità definite che non possono superare quella della luce. Al contrario, la meccanica delle onde tratta le particelle come se fossero funzioni psi, che si trovano solo probabilmente nel punto in cui sono. In quest'ultima teoria la transizione da un punto a un altro non si esprime con la velocità ma con passaggi tra le intersezioni di onde complesse. Uru-
shkidan aveva abolito la contraddizione introducendo il concetto immensamente generalizzato e raffinato di informazione come condizione del plenum piuttosto che come quantità fisica soggetta a limitazioni fisiche. Si vide quindi che la velocità di fase delle onde di materia - che, a differenza della velocità di gruppo, praticamente non ha limiti - poteva trasmettere informazioni, sicché la più probabile posizione di una particella seguiva un itinerario da regione a regione libero dalle restrizioni delle derivate temporali. Tutto stava a trasferire nella realtà queste condizioni, che in teoria erano già possibili. «Da come l'ho capita io», aveva detto Ray cominciando il lavoro, «l'opportuna configurazione degli interscambi di quark produrrà un campo di tensione spaziale. L'astronave reagirà contro l'intera massa dell'universo, e non avrà nemmeno bisogno di razzi. In effetti abbiamo qui la chiave di una quantità di altri problemi, come ad esempio il controllo della gravità. Giusto?». «Sbagliato», aveva risposto Urushkidan. «Be', comunque lo costruiremo». Lo scopo che Ray si prefiggeva non era folle come poteva sembrare. La teoria c'era ed era stato fatto un sacco di lavoro nei laboratori per tradurla in atto. Nonostante il suo disprezzo per le applicazioni empiriche della scienza Urushkidan aveva accumulato nella mente i dati di questi esperimenti, ed era perfettamente in grado di vedere quale doveva essere il prossimo passo della ricerca. Inoltre, era la sola persona che avesse piena comprensione dei suoi concetti: finora nessun fisico aveva afferrato completamente tutti gli aspetti della teoria. Una volta avuta la motivazione necessaria, il marziano profuse tutto il potere del suo intelletto sui problemi dell'applicazione pratica. Ray Tallantyre, dal canto suo, era un ottimo ingegnere, specie se si trattava di realizzare una macchina. Il congegno che si erano prefissi di fabbricare non era molto più complesso, infine, di un transistor o un diodo a tunnel: la sottigliezza stava nei principi fisici sfruttati. Nel caso loro ciò che serviva era essenzialmente energia, che la nave possedeva, e determinati circuiti, che si potevano costruire col materiale a disposizione. Il risultato non sarebbe stato forse elegante, ma comunque avrebbe dovuto funzionare. D'altra parte non sempre filò tutto liscio, come c'era da aspettarsi date le difficoltà. Un tipico esempio: «Bisogna che assicuriamo il generatore secondario qui, a questa tavola»,
disse Ray. «Portamelo, vuoi, Dyann?». «Dobbiamo sempre lavorare, lavorare e lavorare!», lei si lagnò. «Voglio ammazzare i mostri!». «Muoviti, avanti, peso massimo!». Dyann gli diede un'occhiataccia, ma poi si chinò sulla grande macchina e, a forza di muscoli varanniani e bassa gravità ganimediana, la trasportò attraverso il ponte. Intanto Ray stava verificando le proprietà elettriche sull'oscilloscopio. Urushkidan stava risolvendo un'equazione differenziale borbottando per il caldo e l'umidità e facendosi vento con le orecchie. «Dannazione!», esclamò l'uomo. «Avevo sperato... Ma no, questo pezzo di tubo di rame non va bene. Mi ci vuole una resistenza di tot ohm e tot capacità, e niente qui intorno sembra adattarsi allo scopo». «Specifichi i suoi valori», disse Urushkidan. Ray passeggiava nel disordine intorno a lui; scelse un altro oggetto e lo inserì nel circuito di prova. «No, non funzionerà». Lo lanciò attraverso la stanza, e quello andò a sbattere contro una paratia. «Senta, se non troviamo qualcosa il progetto può fermarsi qui». Dopo aver posato il generatore Dyann andò fuori un attimo. Tornò con la sola e unica padella per friggere della nave. «Andrà bene, questa?», chiese innocentemente. «Eh? Levati dai piedi!», urlò Ray. «Okay», rispose lei, offesa. «Vado a caccia di mostvi». Senti, si disse l'uomo, che hai da perdere? Mise la padella nel circuito. Le sue proprietà sembravano proprio quelle giuste. Se taglio il manico... Eccitato, cominciò a darsi da fare. «È pazzo?», s'informò Urushkidan. «Be', non piace neanche a me l'idea di tirare avanti a base di fagioli freddi», confessò Ray, «ma consideri l'alternativa». Rimisurò la padella così castrata, e esplose: «Sììì! Con qualche accorgimento qua e là andrà alla perfezione!». Poi aggiunse, maliziosamente: «È aperta la via all'impero dell'uomo». «All'impero di Marte», corresse Urushkidan, «a beno che noi non lo consideriamo incompatibile con la nostra dignità». «Sarà l'impero dei gioviani, se non scappiamo in fretta. Okay, grande cervello, e adesso che facciamo?». «Cobe posso saperlo? Non ho finito, qui. Cobe si aspetta che io possa pensare, in quest'aria spessa, ammorbata, senza tabacco?».
Dyann venne avanti dalla cabina anteriore, con indosso una tuta spaziale la cui elasticità lei sfruttava all'osso. Il visore del casco era ancora aperto. Nella mano destra teneva il fucile di cui si era impossessata, nella sinistra la spada. «Ho visto i mostvi là fuori», annunciò felice. «Sto andando ad ammazzarli». «Sicuro, sicuro», borbottò Ray, senza veramente udirla. Tutta la sua attenzione era assorbita dal calcolatore. «Urushkidan, può spicciarsi un po' con quelle equazioni? Devo sapere esattamente qual è la forma dell'onda risonante prima di procedere». Gli lanciò un'occhiata. Il marziano stava cercando di riempirsi la pipa coi pezzetti che trovava in un portacenere. «Ehi! Al lavoro!». «Non posso», disse Urushkidan. «Per dio, razza di cornamusa ambulante, se non mi aiuti come si deve io... io...». «Accenda il suo boderatore di termini, prego». Il suono della porta della camera stagna che si chiudeva distrasse Ray dalle sue preoccupazioni. «Dyann?», chiamò. «Dyann... ehi, è andata veramente fuori!». «Sembra che ci siano bostri davvero», disse Urushkidan. Ray si precipitò nella cabina anteriore e guardò attraverso il più vicino boccaporto. Il suo cuore sobbalzò. «Maledizione, un paio di ganimedraghi!», esclamò. «Devono aver percepito le nostre emanazioni di calore, e... potrebbero fare a pezzi lo scafo come un uovo». «Continuerò coi calcoli», disse Urushkidan a disagio. Dyann balzò dal portello a terra. Nella luce irreale e nel sottile sibilo del vento le bestie sembravano del tutto fantastiche. Un terrestre le avrebbe paragonate a coccodrilli dalle lunghe gambe, lunghi dieci metri dalla punta della coda appuntita alle fauci che sembravano pale. «Grazie, Ormun», disse lei nel suo linguaggio d'origine, poi puntò il fucile e fece fuoco. Un drago muggì. In quell'atmosfera il suono la raggiunse come uno starnazzare. La belva caricò, mentre lei ferma nella sua posizione continuava a sparare. Un colpo la mandò a gambe all'aria e le strappò il fucile di mano. Si era dimenticata del secondo drago, la cui coda colpì di nuovo stendendo Dyann. Quando colpì le rocce entrambi i mostri le si precipitarono addosso. «Ahh-ah!», gridò lei, balzò in piedi, poi corse. Aveva ancora la spada, assicurata alla vita da un cappio di cuoio. La alzò sulla testa più vicina del
mostro, e colpì verso il basso. Un icore verde sprizzò dappertutto, gelandosi immediatamente. Dyann si fermò vicino a un gran meteorite, per riprendere forza. Il mostro incolume arrivò con la bocca spalancata: lei lo colpì con una forza che le scosse tutto il corpo. La terribile testa volò via dal collo, un attimo prima di affondare i denti famelici in Dyann. La carcassa decapitata vacillò, inciampò nel suo compagno e cominciò a lottare contro di lui. Dyann passò loro cautamente intorno. Dopo un po' il drago senza testa si abbatté al suolo. L'altro si girò, notò una volta ancora la nave che irradiava calore e si mosse in quella direzione. Bisognava distrarlo. Dyann balzò sulla sommità del meteorite, si bilanciò e saltò. Atterrò con disinvoltura sul collo del mostro. Quello ululò e sgroppò; lei tentò di tagliargli la testa, ma non poteva colpire nella maniera giusta, dalla sua posizione. Le ferite che gli aveva inflitto, comunque, dovevano aver danneggiato quello che passava per un sistema nervoso, perché la bestia cominciò a trottare intorno descrivendo un ampio cerchio. La violenza dei movimenti del drago era tale che Dyann non poteva fare nessun tentativo di saltar giù, ma poteva solo limitarsi a stargli attaccata addosso. Passò quasi un'ora prima che la creatura, esausta, si fermasse. Dyann scivolò a terra, roteò in alto la spada e liquidò anche il secondo mostro. «Ho-ah!», urlò piena di gioia, ricuperò il fucile e si avviò verso la nave. «Oh, Dyann, Dyann...», fece Ray quasi singhiozzando una volta che fu dentro e si fu tolta la tuta. «Pensavo che ti avrebbero uccisa...». «È stato gvan divertimento», rise lei. «Ma adesso facciamo l'amore». «Huh?». Si massaggiò la schiena e fece una smorfia di dolore: «Sopra io, però». Ray arretrò nervosamente. Urushkidan, fermo sulla soglia del laboratorio, ridacchiò e chiuse la porta. V Il giorno ganimediano si avvicinava alla fine. Le stelle splendevano nel cielo oscuro, salvo dove Giove campeggiava come una mezzaluna basso verso il sud, possente nel suo manto di fasce e zone variegate. Affaticato, imbronciato ma trionfante Ray rimirò il suo ultimo ritocco, affascinato dalla massa di fili che riempiva la maggior parte della cabina anteriore, tutta
quella successiva, e, via condotti elettrici che attraversavano le paratie, quasi tutta la sala motori. «È fatta, spero», canticchiò. «Amici, abbiamo aperto la porta dell'universo». Dyann lo lusingò: «Zei veramente troppo intelligente, mio caro». Questo per poco non gli rovinò il gran momento: lei gli piaceva - se non altro era una magnifica compagna, una volta che si era resa conto ché c'erano dei limiti alla potenza di Ray e al suo tempo libero - ma non era proprio capace di affettare contentezza. «Tebo», disse Urushkidan, «che questo binor risultato del bio ingegno oscurerà la bia vera importanza nell'immaginazione popolare. Oh, be'». Scrollò le spalle, e quindi l'intera panoplia di tentacoli. «Mi resterà almeno il denaro». «Hmm, già, non ho avuto il tempo di considerare questo aspetto», disse Ray. «Adesso non debbo più temere Vanbrugh - non si porta in tribunale l'uomo che ha evitato una guerra e ha messo la galassia nelle mani della Terra - ma perdio, questo marchingegno vale anche una fortuna». «Sì, le pagherò una percentuale ragionebole se bi aiuta a brevettarlo», disse Urushkidan. Ray fece: «Huh?». «Ascolterò anche la sua opinione in berito alla convenienza di pretendere percentuali esorbitanti sugli utili da un unico concessionario, oppure di puntare su un grandissimo bolume di vendite a un prezzo più basso. Lei è il più adatto a occuparsi di questi crassi dettagli». «Ehi, aspetti un minuto», si fece sentire l'umano. «Io ho fatto metà del lavoro, lo sa». Urushkidan si fece una grossa risata. «Ah, ba saprebbe descrivere l'esatta natura del suo contributo?». «I... io...». Ray guardò la selva di fili e congegni e deglutì: non aveva avuto tempo di prendere appunti, e gli mancava la memoria fotografica del marziano. Per Einstein, aveva costruito quel fottuto affare e non aveva la minima idea di come! «Lei non avrebbe potuto farlo senza di me», replicò. «Nebbeno gli antichi contadini della Terra potevano fare niente senza i loro muli, ma non per questo si sognavano di pagargli un salario». «Ma... ma lei ha già tanto denaro che non sa cosa farsene, dannato capitalista. So che è sua abitudine investire i Premi Nobel in ipoteche, di cui poi preclude il riscatto».
«E perché no? Il genio non è mai ripagato se non provvede a ripagarsi in primo luogo da sé. A proposito, sono giorni e giorni che non ho più tabacco fresco. Ci porti dal tabaccaio più vicino!». «Zì», disse Dyann con insolita timidezza, «potrebbe essere una buona idea vedere ze il marchingegno funziona, no?». «E va bene!», urlò Ray furibondo. «Sedetevi e assicuratevi alle cinture». Lui fece lo stesso accomodandosi nella poltrona del pilota. Le sue dita corsero sull'aggrovigliato quadro comandi del propulsore stellare. «Non succede niente». «Niente», ripeté Dyann dopo un momento di silenzio. «Hai ragione». «Giuda impalato», ruggì l'uomo, «che cavolo succede, adesso?». Si slacciò la cintura e andò davanti al marchingegno. I misuratori erano in funzione, gli indicatori brillavano, gli elettrorotori ronzavano, esattamente come avrebbero dovuto; ma la nave restava stupidamente ferma dov'era. «Le avevo detto di non fare troppe approssibazioni», disse Urushkidan. Ray cominciò a gingillarsi con gli strumenti. «Avrei dovuto saperlo», mormorò amaramente. «Scommetto che la prima pietra focaia del primo uomo-scimmia non funzionò nemmeno lei». Urushkidan sminuzzò un pezzo di carta nella pipa per vedere se gli riusciva di fumarlo. «Iukh-ia-uah, urlò Dyann. «Qvella, non è la fiamma di un razzo?». «Oh, no!». Ray si precipitò accanto a lei e guardò. Contro il cielo notturno si vedeva una lunga scia fiammeggiante ad arco. E un'altra, e un altra... «Ci hanno trovati», biascicò. «Be'», disse Dyann, non del tutto amareggiata, «abbiamo provato tutto, e adesso dobbiamo combattere, e poi saremo ammessi nella Sala dei Teschi». Afferrò le armi. «Abbiamo prima il tempo di fare l'amore?». Urushkidan si lisciò il naso meditabondo. «Tallantyre», disse, «ho idea che il guaio sia successo nel generatore di onde quadre. Se raddoppiamo il boltaggio...». Su nel cielo oscuro le astronavi gioviane frenarono in un'esplosione di getti rabbiosi, oscillarono e cominciarono la discesa. Sotto di loro la vegetazione diventò cenere e il ghiaccio esplose in vapore. Si udiva in crescendo un tremore da terremoto. Il comunicatore della piccola nave risuonò: li stavano chiamando. Cupamente Ray accese il transricevitore: i lineamenti duri del colonnello Roshevsky-Feldkamp si imposero sullo schermo.
«Ehm... salve», disse Ray. «Arrendetevi immediatamente», disse il gioviano. «E se lo facciamo, ci darete dei salvacondotti per la Terra?». «Certo che no. Ma forse vi permetteremo di vivere». «Circa quel generatore di onde quadre...». Urushkidan vide che Ray non lo ascoltava, sospirò, si liberò dalle corregge e strisciò agli strumenti. Il primo scafo gioviano atterrò sfrigolando. Era lungo e scuro, e i cannoni sporgevano dalle torrette come teste di serpenti. Sullo schermo l'immagine di Roshevsky-Feldkamp si fece avanti finché Ray non provò l'assurdo desiderio di dargli un pugno. «Arrendetevi senza far resistenza», disse il colonnello. «In caso contrario sarete torturati, dopo la cattura. Torturati a lungo». «Urushkidan movirà prima di rinunciare», promise Dyann. «Non farò niente del genere», disse il marziano. Era arrivato davanti al congegno che lo interessava. Tanto per prova, girò una manopola. La piccola nave si sollevò. «Bene, bene», disse Urushkidan. «La bia intuizione era corretta». «Fermi!», urlò Roshevsky-Feldkamp. «Non potete farlo!». La piccola nave sali sempre più in alto. Le labbra del colonnello si serrarono. «Mandategli contro un missile!», ordinò. Ray riguadagnò il sedile di pilotaggio, si sistemò e accelerò al massimo. In realtà non sentì gli effetti dell'accelerazione: andò piuttosto alla deriva senza peso, mentre Giove sfrecciava davanti ai finestrini. Il motore ebbe un sobbalzo, lo scafo tremò: uno spreco di energia, ma che vi aspettavate da un modello sperimentale? Le stelle scintillarono davanti a lui. Colpito da un pensiero improvviso, Ray gettò un'occhiata ai misuratori, atterrito. Il sollievo lo svuotò completamente. Anche le piccole navi per i voli di superficie, nel Sistema Gioviano, erano fornite di schermi anti-radiazioni perfettamente efficienti. E quelli di questa nave stavano facendo egregiamente il loro dovere. Qualunque cosa accadesse, perlomeno non sarebbero andati arrosto. Le stelle cominciarono a cambiare colore, diventando blu e rosse. Stavano già viaggiando così veloci? «Che pianeta è qvello?», chiese Dyann indicando un pallido globo grigio. «Credo...», Ray si guardò alle spalle, «... credo che fosse Nettuno». Sembrava che le stelle stessero cambiando posizione. Brulicavano da prua a poppa, finché formarono una specie di arcobaleno intorno ai fianchi
della nave. Altrove il buio era assoluto. Illusioni ottiche, si rese conto Ray. Riesco a vedere, nonostante l'effetto Doppler sulle radioonde e i raggi X. Che succederà quando supereremo la velocità della luce? No, dev'essere già successo. È così che ci si sente, allora? Il mare di stelle dei racconti e delle ballate di fantascienza si ritirò nell'invisibilità, e volarono nell'oscurità totale. Se solo avessimo preparato un qualche tipo di contachilometri... «Grande, grande!», si entusiasmò Urushkidan, fregandosi i tentacoli come se stesse firmando un'altra ipoteca. «La bia teoria è confermata. Non che ce ne fosse bisogno, ba ora anche i terrestri debbono ammettere che io ho sempre ragione. E quanto dovranno pagare!». Dyann esplose in una gigantesca risata che rintronò nello scafo. «Ha, liberi siamo!», urlò. «Faremo incurzioni in tutti i mondi! Che bello è scorrazzar in una nave ultraluce e ammazzar...». Ray raccolse le idee: avrebbero fatto meglio a rallentare e a girare finché potevano ancora identificare il sole. Si assicurò alla poltrona, studiò i dati a disposizione, calcolò ciò che era necessario, dispose i controlli e premette l'interruttore principale. Ma non successe niente. Il vascello continuò a correre. «Ehi!», gemette l'uomo, «chi...? Urushkidan, cosa c'è che non va? Non riesco a fermare l'accelerazione!». «Certo che no», gli disse il marziano. «Deve invertire completamente il processo. Usi il generatore di onde obega». «Onde omega? E che diavolo sono?». «Oh, ma gliel'avevo detto...». «Non è vero». Ray e Urushkidan si guardarono. «Sembra», disse il marziano dopo un po', «che ci sia stata una certa incomprensione, fra noi». La mancanza di peso complicava ogni cosa. E mentre veniva improvvisato un sistema di frenaggio, nessuno sapeva dove fosse andata la nave. Era passata intanto una settimana piuttosto tetra. I viaggiatori fluttuavano nella cabina e contemplavano cieli che, per quanto splendidi, erano però totalmente stranieri. Il silenzio regnava con una forza che sarebbe stata ancora più impressionante se non avesse dovuto contendersi il primato con l'odore stagnante di cucina e di corpi non lavati. «È tutta colpa mia», si flagellò Dyann. «Ze avessi portato Ormun, lei avrebbe vegliato sopra di noi». «Speriamo almeno che si prenda cura del sistema solare», disse Ray. «I
gioviani non sono stupidi. Quando hanno visto che lasciavamo Ganimede senza razzi devono aver capito che avevamo fabbricato il propulsore, e si metteranno in azione prima che noi possiamo darlo alla Terra». «Innanzi tutto», rilevò Urushkidan, «dobbiamo ritrobare la Terra». «Dovrebbe essere possibile», disse Ray, ma il suo tono mancava di convinzione. «Non possiamo essere andati completamente fuori dal nostro settore di galassia. Quelle macchie nebulose laggiù, non potrebbero essere la Nube di Magellano? Se è così, e se riusciamo a mettere in relazione con essa alcune delle stelle più brillanti - Rigel, per esempio - dovremmo riuscire a valutare approssimativamente dove siamo finiti». «Bolto bene», disse Urushkidan, «ba che cos'è Rigel?». Ray si trattenne a stento. «Forze possiamo trovare qualcuno che lo za», suggerì Dyann. Ray s'immaginò la scena di loro che atterravano su un pianeta e chiedevano a un alieno a tre teste: «Scusi, può indicarmi la strada per il sole?». Al che l'altro rispondeva: «Spiacente, anch'io qui sono uno straniero». Non essendo progettata per veri e propri viaggi spaziali, la nave non conteneva tavole astronomiche o di navigazione. Poiché era passata vicino a Nettuno, o qualunque cosa fosse quel globo, presumibilmente doveva essersi trovata sul piano dell'eclittica. Dunque alcune costellazioni zodiacali, quelle da cui si era allontanata, dovevano essere riconoscibili, benché distorte. Un occhio non allenato in circostanze ordinarie sarebbe stato incapace di identificarne qualcuna, tanto numerose sono le stelle nello spazio, ma dopo una settimana senza pulizie i portelli erano abbastanza sporchi e ingrassati da offuscare la luce di tutti quei soli, proprio come fa l'atmosfera terrestre. E nondimeno Ray si sentiva sconcertato. «Se avessi fatto il Boy Scout», si lagnò, «adesso conoscerei i cieli. Invece tutto quello che posso fare è riconoscere Orione e l'Orsa Maggiore, e non ho nessuna idea della loro posizione rispetto allo Zodiaco o qualunque altra cosa». Diede un'occhiata accusatrice a Urushkidan. «Lei è il grande astrofisico. Non sa distinguere una stella dall'altra?». «Certo che no», rispose il marziano. «Nessun astrofisico guarda le stelle se può ebitare di farlo». «Oh, tu vuoi trovare le... le... immagini delle stelle?», chiese Dyann. «Sì, di quelle familiari», spiegò Ray. «È necessario, per ritrovare la rotta. Sei una cara ragazza, a modo tuo, tesoro, ma vorrei che fossi un po' più intellettuale».
«Oh, ma io conosco i cieli», lei gli assicurò. «Come ritroverei la strada, altrimenti, qvando vado a caccia o a fare razzia? E le mie stelle non sono molto diverse dalle tue. Ho studiato le vostre mappe per divertimento, mentre ero zulla Terra». Fluttuò nella stanza da finestrino a finestrino, scrutando e mormorando. «Aaah, ecco là Kunatha la Regina e Skalk il Consorte... non troppo cambiati, tranne...», fece un risolino complice, «... che qui è più evidente che stanno generando l'Erede. Voi terrestri tracciate una linea tra qvesti due e formate una figvra che chiamate... ah sì, Vergine». «E puoi dirci qual è la posizione delle altre, e guidarci finché non troviamo la configurazione giusta?», gridò Ray. «Dyann, ti amo!». «Allora andiamo a casa in fretta», s'illuminò lei. «Voglio farlo su un pianeta». Durante il volo aveva scoperto con disappunto quanto è importante la gravità, nel sesso. «Controlli il suo ottibismo, Tallantyre», disse Urushkidan cocciuto. «Nabigando a lume di naso, con solo le informazioni di una barbara per procedere, riuscirebo forse a trovare il settore galattico da cui siamo venuti, ma poi dovremo procedere probabilmente a caso, finché il cibo non sarà esaurito e non boriremo di fabe». «Oh, conosco bene le costellazioni», disse Dyann, «e zo come effettuare misurazioni stellari. Non sarà difficile costruire pochi semplici strumenti per misurare gli angoli accuratamente». «Lei?», trasecolò il marziano. «Nel nobe di Nebukadashtabu, cobe ha fatto a imparare queste cose?». «Tutti i nobili a Kathantuma lo fanno, per poter praticare... come la chiamate?... astrologia. Serve a prevedere le battaglie e per sapere qvando seminare il grano, per le date degli sposalizi e tutto». «Vuoi dire che sei un... un'astrologa?». «Naturale. Pensavo che lo eravate anche voi, ma mi accorgo che voi solari siete molto più indietro di qvanto pensassi. Volete che vi faccia l'oroscopo?». «Okay», disse Ray sconsolato. «Suppongo che tocchi a te portarci indietro, Dyann». «Sicuro», rise lei. «Si levano le ancore!». Urushkidan stava per vomitare. «Riportati a casa da un'astrologa. L'ignomidia suprema». In qualche modo Ray condusse i suoi compagni di viaggio alle rispettive
poltrone; il vascello fu orientato secondo le indicazioni di Dyann, e il propulsore partì. Con le modifiche che avevano fatto potevano percorrere a velocità massima l'intera distanza, e frenare quasi istantaneamente. Il viaggio non avrebbe richiesto molto tempo. Tranne, si capisce, per le noiose fermate durante il cammino per orizzontarsi, che facevano perdere un mucchio di tempo. Ray ci pensò nei due giorni successivi, mentre costruiva gli apparecchi richiesti da Dyann: un compito abbastanza facile, che richiedeva precisione nell'esecuzione manuale, ma non era impegnativo intellettualmente. Il suo talento meccanico aveva buon gioco, e se non altro il problema lo distraeva. La luce delle stelle era ancora intorno a loro benché l'effetto Doppler la facesse slittare, verso le lunghezze d'onda invisibili, e benché apparisse distorta rispetto alla direzione giusta. Entrambi questi fenomeni si dovevano alla velocità della nave (se «velocità» era un termine appropriato in questo caso, cosa che Urushkidan avrebbe senz'altro negato), e ciò a sua volta dipendeva in modo matematicamente elementare dalla frequenza e dal tempo di pulsazione del propulsore. Il computer principale di bordo, che controllava la maggior parte delle funzioni, poteva benissimo aggiungere ai suoi compiti anche un programma per invertire le alterazioni ottiche. C'erano apparecchi di ripresa televisiva e ricevitori, nella stiva: di norma gli esploratori di una luna di Giove li avrebbero usati per osservazioni a distanza, ma si potevano adattare... Dopo un altro paio di giorni Ray aveva installato nella cabina anteriore un aggeggio per l'osservazione altrettanto sgraziato che il propulsore, ma che mostrava, su grande schermo, lo spazio senza distorsioni. Si poteva puntarlo in ogni direzione, e trastullandosi con esso Dyann scoprì un gruppo di stelle che la fecero sorridere. «Gvarda», disse, «ora Avalla sta prendendo forma. È la Guerriera Vittoriosa che ritorna col Prigioniero legato alla Sella». «No», disse Ray, «è l'Orsa Maggiore. Voi di Kathantuma avete troppa immaginazione». Seduta nella poltrona di pilotaggio - perché aveva subito imparato a maneggiare i comandi del propulsore stellare, per ingarbugliati che fossero Dyann continuava a puntare il visore ovunque nei cieli. E di colpo lo schermo fiammeggiò: se non avessero abbassato di colpo la luminosità gli osservatori sarebbero rimasti accecati. Così, videro un vasto globo incandescente da cui eruttavano fiamme per milioni di chilometri intorno: «Un sole gigante blu», come sussurrò Urushkidan. Per una volta sembrò davve-
ro terrorizzato. Gli occhi di Dyann scintillarono: «Giochiamo a rincorrerci con lui», gridò, e accese un vettore laterale. «Yu-huuu!». «Ehi!», gridò il terrestre. «Fermati!». Sfrecciarono tra le fiamme, scartando bruscamente all'ultimo momento, mentre Dyann intonava un canto di battaglia. Urushkidan si raggomitolò sulla sua sedia, chiuse gli occhi e prese a borbottare: «Sodo calmo. Sodo calmo». Ray cercò di ricordarsi le preghiere di quand'era bambino. Le stelle tornarono al loro posto. «Okay, continuiamo», concesse Dyann. «Non è stato bello? Ray, caro, qvando qvesta faccenda sarà finita faremo una crociera in tutta la galassia, solo noi due». Il tempo passò, e il cielo mutò maestosamente il suo aspetto. I conquistatori degli anni luce volavano, contemplavano quelle meraviglie e mangiavano fagioli freddi. «Siamo nel nostro settore, adesso», annunciò Dyann. «Ci ho pensato, e per prima cosa andremo a Varann». «Il suo pianeta natibo?», chiese Urushkidan. «Ridicolo! Dobbiamo andare dritti a Uttu». «Potrebbe servirci aiuto, nel sistema solare», osservò lei. «Siamo stati fuori pev due o tre settimane, e molte cose possono essere successe, anche non buone». «Ma... ma che razza di aiuto ti aspetti da un branco di centauriani?», esplose Ray. «Non è pratico». Dyann sogghignò: «Come mi fermerai, tezoro?». Lui considerò i muscoli che fremevano sotto la sua pelle di bronzo. «Oh, be', ho sempre desiderato vedere Varann, comunque». Per alcune ore l'amazzone fu occupata con gli strumenti e il pannello di comando. Poi, in un modo che a Ray sembrò stupefacente, trovò la sua mèta. Sullo schermo si vedevano due stelle giallastre molto simili al sole. Sullo sfondo stellare il visore individuò una nana rossa, fosca, a maggior distanza. In nessun'altra parte dello spazio esisteva un simile trio. «Casa, casa mia», sussurrò Dyann quasi alle lacrime. «Non ancora», le ricordò Ray con un'ombra di malizia. «Come farai a trovare il tuo pianeta?». «Uh... be', uh...». Si grattò la grande testa. Le fece compassione, e allora Ray cominciò a pensare furiosamente per aiutarla. «I pianeti si trovano sul piano delle due stelle principali. Dev'esse-
re così. Se ci mettiamo anche noi su quel piano, in un punto dove il sole di Varann, Alpha A, ci appare delle giuste dimensioni, e se percorriamo un circolo intorno a quel raggio ci avvicineremo senz'altro abbastanza. Ha una luna di proporzioni rispettabili, vero? E il suo colore è blu-verdastro... Sì, non dovrebbero esserci problemi». «Sei così intelligente», sospirò Dyann. «È sexy... aspetta solo che siamo atterrati». A una modesta frazione della velocità della luce, appena poche migliaia di chilometri al secondo, la nave imboccò il suo sentiero. Ci volle poco perché Dyann andasse in estasi. «Eccoci! Gvarda! Casa! Dopo tutti qvesti anni, casa!». «Bi piacerebbe ancora sapere cosa faremo noi una volta arrivati lì», sbuffò Urushkidan. «Io l'ho detto a Ray, cosa», gli rispose Dyann. «Tu fai come ti pare». L'umano non diceva niente, preoccupato. Le manovre finali richiedevano il suo diretto controllo, e gli ci volle tutta la sua abilità per eseguirle. Doveva usare il propulsore stellare per ridurre una velocità che poteva provocare l'esplosione dello scafo all'impatto con l'atmosfera. D'altra parte, non poteva usare i getti convenzionali, poiché non erano stati studiati per un'atmosfera spessa e una forte gravità. Quindi non restava che affidarsi al nuovo sistema, che era incredibilmente precario a meno di non avere un margine di errore grande quanto tutto lo spazio a disposizione. Doveva fare una discesa aerodinamica, con una nave rubata su una luna dove l'aerodinamica era una farsa. Probabilmente non ce l'avrebbe mai fatta se non fosse stato per l'esperienza che si era guadagnata spendendo parte dell'eredità sui pericolosi velivoli sportivi. Il vento fuori rimbombava. Il cielo si trasformò da nero e stellato a blu e percorso da nubi. Il peso piombò di colpo sui loro corpi. Lo scafo tremò, e sembrò quasi che volesse sgropparseli di dosso. Molto più giù apparve finalmente il panorama. Ray aveva orientato la nave in base a ciò che lui e Dyann ricordavano delle mappe... «Kathantuma!», lei urlò. «Mia terra nativa! Ah, conosco quelle montagne laggiù, e la vecchia Hastan. Sì, qvella città è Mayta. Ci siamo!». VI Quando Ray ebbe posato la nave al suolo e i suoi denti ebbero smesso di battere, dovette ammettere che era proprio un bel posto. Intorno a lui on-
deggiavano file di spighe punteggiate di bianco, e i fiori selvatici erano disseminati in modo da formare piccole ma sgargianti chiazze di colore. Oltre il campo adocchiò una rustica fattoria dal tetto di paglia con gli edifici annessi, circondata da alberi il cui fogliame risplendeva di un verde dorato. Nella direzione opposta luccicava un fiume, attraversato da un ponte di pietra che conduceva a Mayta. La città sembrava un villaggio troppo cresciuto, e le case di legno si rannicchiavano contro le mura di granito del castello, dalle cui torri sventolavano gli stendardi. Nei dintorni la terra era sfruttata a pascolo e a foresta, e il verde degli alberi sfumava nel blu per la distanza, finché scompariva verso le vette dei monti che guardavano la valle. «Casa», esultò Dyann; si liberò dalla. cintura, poi si stiracchiò come se volesse sciogliere ogni singolo tendine, come un grosso gatto. «E preparati, caro... possiamo fare di nuovo un decente su e giù» «Uh... certo». Ray sembrava meno soddisfatto: il cinquanta per cento d'attrazione più che sulla Terra... Urushkidan intanto grugnì qualcosa e si abbatté sulla poltrona come un mucchio di melassa. «Usciamo a pvendere un po' d'aria fresca», disse Dyann, «e troviamoci un bel prato». Cominciò a manovrare la porta stagna. Lui la prevenne appena in tempo, e aprì solo una fessura. La pressione atmosferica esterna era molto maggiore di quella interna: non aveva senso farsi scoppiare la testa. Meglio abituarsi gradatamente alle nuove condizioni. «Adesso continuate a masticare e a inghiottire», li avvertì quando l'aria della nave cominciò a uscire sibilando all'esterno. «Come? Be', se lo dici tu...». Dyann prese un pezzo di formaggio. Quando finalmente poterono uscire, si ritrovarono nella frescura di una brezza deliziosa e tra i molteplici aromi della vita che cresceva, fra i fremiti e i trilli di creature alate che volteggiavano sotto le nuvole splendenti di luce, in un'atmosfera la cui ricchezza rendeva ogni respiro inebriante come una sorsata di vino, così che in breve il mal di testa e lo sfinimento svanirono. «Aah», respirò Ray, «avevi ragione a insistere che ci fermassimo, tesoro. Ciò che ci occorre dopo tutto quello che abbiamo passato è un po' di natura vergine, pace, quiete e...». Una freccia sibilò accanto al suo orecchio e risuonò come un gong contro la nave. «Ulp!». Ray si buttò nel grano. Un'altra freccia passò ronzando proprio dove lui era un attimo prima. Dyann stava in piedi immobile. Dopo un
momento lui provò a rialzarsi, protetto dalla schiena dell'amazzone, per vedere che stava succedendo. Dalla fattoria una mezza dozzina di donne corse in avanti: una tozza e sfregiata, più vecchia delle altre, e cinque giovani che dovevano essere sue figlie. Non si erano preoccupate di indossare altro che scudi ed elmi, ma in compenso brandivano spade e asce. La ragazza-arciere si mise l'arco a tracolla mentre le compagne le si avvicinavano, e estrasse un pugnale. Numerosi uomini guardavano nervosamente dall'aia. «Ho-hai, saa, saah, ululò Dyann. Anche lei indossava la tenuta da battaglia, il solo indumento che si fosse portato dietro. Estrasse la spada dal fodero, mentre la matriarca caricava. Il colpo di Dyann fu parato dallo scudo dell'altra, e l'ascia risuonò terribile sull'elmo della nostra eroina. Dyann barcollò, mentre l'arma le cadeva di mano. Le altre donne si precipitarono a circondarla. Ma Dyann si riprese: un calcio al gomito disarmò la madre; poi Dyann l'afferrò alla vita, la sollevò in alto e la scagliò lontano. Due ragazze crollarono sotto quella massa. Mentre le tre donne cercavano di rialzarsi, Dyann affrontò la prossima e le si avvinghiò. Ospitalità centauriana!, non poté fare a meno di osservare Ray, in un lampo. E poi un colpo alle spalle lo mandò a terra. Stupito, si ritrovò a guardare una figlia che incombeva su di lui. Lei fece schioccare le labbra, lo raccolse, e se lo mise in spalla. Un'altra ragazza lo afferrò per i capelli e disse qualcosa che doveva significare: «Non fare l'ingorda, sorella; ce lo dividiamo, d'accordo?». Non sembravano preoccuparsi delle altre, che erano occupate con Dyann e che l'avrebbero presto sopraffatta. Uno squillo di tromba e un tuonare di zoccoli interruppe la scena: dal castello era giunto al galoppo uno squadrone di donne in armatura. Le cavalcature avevano le dimensioni e l'aspetto generale dei cavalli di Percheron, ma erano cornute, senza pelo e di colore verde. Le donne a cavallo si arrestarono davanti alle contendenti e puntarono le lance sull'una e sulle altre con assoluta imparzialità. Il combattimento si interruppe in modo brusco: dalla sua scomoda posizione a testa in giù Ray vide che nessuna delle contendenti, per quanto malconcia, aveva subito gravi ferite. Ma non era stato certo perché non ci avessero provato. Il linguaggio gutturale e berciante di Kathantuma risuonò tutt'intorno. Una delle guerriere a cavallo, forse il capo, puntò un braccio ricoperto di ferro verso la catturatrice di Ray e gridò un ordine. La ragazza protestò, fu
ammonita nuovamente e lo scaraventò dispettosamente al suolo. Quando ebbe acquistato piena coscienza Ray scopri che la sua testa poggiava sulle ginocchia di Dyann e che lei lo stava accarezzando. «Povero piccolino», mormorava. «Noi giochiamo troppo pesante per te, ah?». «Ma... ma che diavolo è successo?». «Oh, qvesta famiglia si è arrabbiata da bestia perché ziamo atterrati nel loro campo di grano. Ma è una bugia: avrebbero potuto chiedere marcimento. Sono sicura che in realtà speravano di impossessarsi della nave e di pretenderla come bottino. Per fortuna la cavalleria reale è arrivata in tempo a fermarle. Poiché siamo ancora vivi possiamo accusarle di aggressione, poiché qvesto non è un posto autorizzato per duelli. Penso che lo farò, per dargli una lezione. La prima cosa è la legge e l'ordine, lo sai». «Sì», mormorò Ray, «lo so». Due giorni più tardi - giorni di Varann, un po' più corti di quelli terrestri - Dyann tenne un discorso. Lei e i suoi compagni stavano su una piattaforma vicina alla porta principale del castello, al limitare della piazza del mercato. L'amazzone stava in piedi, mentre gli altri due giacevano su sedie di cuoio insieme alla Regina Hiltagar, alla Maestra delle Armi, la Custode delle Scuderie e altre simili dignitarie. Le picche dei soldati e le lance delle nobildonne a cavallo contornavano la piazza affollata, per mantenere un minimo d'ordine e decoro fra le due o trecento persone che la riempivano. Si trattava soprattutto delle piccole proprietarie del distretto intorno al castello, la cui approvazione per ogni decisione importante era necessaria perché poi al momento opportuno esse rappresentavano il nerbo dell'esercito. Nelle tuniche grossolane e a vivaci colori, coi corpi dipinti e addobbate di gioielli massicci, brandivano le armi e battevano sugli scudi. A giudicare dall'espressione soddisfatta di Dyann questo equivaleva a un applauso. Qua e là circolavano pubblici intrattenitori, uomini scarsamente vestiti con fiori intrecciati nei capelli e nelle barbe, che strimpellavano con le arpe, cantavano dolcemente, e guardavano quel che succedeva con occhi timidi e liquidi. Ray non era molto sicuro di quel che stava succedendo, ma non se ne preoccupava troppo: la combinazione di gravità accentuata, pasti più pesanti ancora, la reazione alle privazioni del viaggio e alla necessità di soddisfare le richieste di Dyann lo mantenevano in uno stato di torpore perenne. Quel pomeriggio poi ci si era messa anche una buona quantità del forte vino locale. Poteva a stento vedere la folla. Accanto a lui Urushkidan russava al modo marziano, che sembra lo scoppio di tanti mortaretti in una sa-
la con l'eco. Finalmente Dyann finì la sua arringa: urla d'approvazione e di scherno si levarono ugualmente assordanti, e interminabili discussioni seguirono, quasi prossime a degenerare in altrettante scazzottate, finché anche Ray si addormentò. Lo scossero che il tramonto già tingeva il cielo del color dello zolfo, e lui fece un enorme sbadiglio. L'assemblea si stava disperdendo, e molte persone si dirigevano alle taverne che occupavano una gran parte di Mayta. Affaticato e indolenzito si tirò in piedi: Dyann era più fresca e in forma di quanto lui sentì che avrebbe potuto tollerare. «È deciso», lo informò. «Abbiamo l'approvazione. Adesso dobbiamo organizzare altre assemblee in tutto il regno, ma non c'è dubbio che ci seguiranno. E possiamo già mandare inviati a Almarro e Kurin per negoziare un'alleanza. Tra qvanto tempo potrà partire una flotta, Ray?». «Partire?», belò lui. «Per dove?». «Oh, ma per Jove, pev attaccare i joviani. Non hai ascoltato?». «Huh?». «No, dimenticavo, tu non conosci la nostra lingua. Be', non stare a tormentarti qvella bella testolina con qvesti problemi. Torna nel castello, e faremo l'amore prima di cena». «Ma...», balbettò Ray. «Ma... ma...». Come fare a equipaggiare un mucchio di barbare, ferme ancora all'età del ferro, in modo da permettergli di attraversare uno spazio di quattro anni-luce e rotti per fare la guerra a una nazione armata fino ai denti di testate nucleari? Ma forse la domanda preliminare è: chi sarebbe disposto a farlo? Ray non lo era, ma scoprì di avere ben poca scelta. Affettuosamente ma fermamente Dyann gli fece capire che gli uomini dovevano stare al loro posto e comportarsi come era loro richiesto. Poi gli spiegò il suo ragionamento. Le centauriane non erano stupide, e tantomeno pazze. Esse erano - su questo continente di Varann, perlomeno - bellicose. Mentre era ospite nel sistema solare lei aveva osservato automaticamente, ma sagacemente, la situazione politico-militare. Poi nel quadro che così si era fatta aveva inserito le possibilità offerte dal propulsore stellare. La maggior parte della forza navale gioviana era spiegata nello spazio. Se la loro fuga da Ganimede aveva indotto la Confederazione a decidere di colpire l'Unione Mondiale finché l'equilibrio di forza era ancora in suo favore, questo avrebbe fatto sì che il Sistema Gioviano rimanesse
pressoché sguarnito, con solo poche navi a disposizione per intercettare gli attaccanti convenzionali, ma non certo capaci di affrontare un nemico più veloce della luce. Un'incursione in forze sarebbe riuscita se non altro a espugnare Wotanopolis. E benché agli occhi di un terrestre potesse sembrare una città quantomeno austera, a quelli delle varanniane sarebbe apparsa favolosamente ricca. Le razziatori avrebbero fatto il loro lavoro e sarebbero tornate a casa libere, cariche di bottino e di gloria, e con un bel po' di prigionieri. (Questi ultimi potevano poi essere ceduti dietro riscatto, o trattenuti per sempre come amanti negli harem. La poliandria vigente nel paese rendeva difficile a molte donne procurarsene in numero sufficiente). E anche se la Terra avesse giudicato la loro azione piratesca, certo non avrebbe adottato misure punitive: i terrestri sarebbero stati fin troppo sollevati quando i gioviani, preoccupati per quello che stava accadendo, avrebbero nuovamente ritirato le loro forze sulle lune di Giove. Questi erano i piani. Numerose donne, e Dyann prima fra tutte, avevano ammesso che poteva rivelarsi un progetto disastroso, e che la spedizione poteva risolversi in una nuvola di gas incandescente, o qualcosa di altrettanto brutto; ma l'idea non le preoccupava troppo, perché più audacemente si comportavano più avrebbero meritato l'eterna baldoria tra gli dèi che le attendeva dopo la morte, e i loro nomi sarebbero stati celebrati dall'epica finché il mondo fosse durato. Non riuscendo a dissuaderla, Ray cercò Urushkidan. Il marziano, dopo un tentativo abortito di rubare la nave e svignarsela da solo, era stato confinato in una stanza in cima a una torre. Abituatosi un poco alla gravità, si era sistemato in mezzo a un mucchio di trofei di caccia e si era messo a ricoprire un foglio di pergamena di equazioni. Che posto inverosimile, si disse Ray. Quindi snocciolò al marziano tutte le sue mestizie e preoccupazioni. L'altro si mostrò indifferente: «Che c'importa?», disse. «Se queste selbagge hanno successo, ci saremo assicurati il mezzo per tornare a casa. Se falliscono, non ci borrà molto prima che il propulsore ultraluce sia sbiluppato indipendentemente nel sisteba solare, e allora qualcuno verrà certamente a prenderci». «Lei non capisce», disse Ray. «Queste razziatrici ci vorranno come esperti. Ci porteranno con loro!». «Ohh! Se è così è diverso. Meglio premunirsi». Il marziano si buttò fra le sue carte. «Mi faccia bedere. Credo che l'equazione 549 per la 627 indichi... Sì, ci siamo. È possibile sfruttare lo stesso tipo di campa propulsore
da noi usato per trasportare la materia: sarà un raggio che imprimerà una belocità bettoriale desiderata a un oggetto estraneo. Inoltre... guardi qui. L'equazione mostra anche che sarebbe ugualmente facile interrompere i legami internueleari bombardando il nucleo con una particella appositamente selezionata. Il nucleo allora si separerebbe, con una liberazione di energia indipendente dalla sua posizione sulla curba di legame, a causa dei potenziali alterati...». Ray lo guardò con reverenza. «Lei», sussurrò, «ha appena inventato il raggio trattore, il raggio pressore, il disintegratore e il generatore atomico d'energia». «Davvero? E c'è da guadagnarci?». L'uomo si mise al lavoro. Sistemate nei dintorni, le tre spedizioni venute dal sistema solare avevano lasciato dietro di sé un considerevole quantitativo di congegni, strumenti scientifici e manuali operativi. L'idea era stata quella di accumulare materiale sufficiente per l'installazione di una base scientifica permanente, ma ora il viaggio a velocità ultraluce la rendeva obsoleta. La maggior parte di queste attrezzature era custodita nel tempio locale, dove ogni anno si compivano sacrifici in onore del computer digitale. Ci volle una complicata discussione teologica prima che i nativi glielo lasciassero prendere. Il fatto che bisognava ricuperare Ormun sembrava importante, ma le apparecchiature non furono concesse finché Dyann non ebbe una discussione privata con la gran sacerdotessa, in seguito alla quale costei finì in ospedale per qualche tempo. Ray nel frattempo si occupava dei progetti, e con l'aiuto di alcuni nativi che conoscevano un po' d'inglese o di spagnolo organizzò una squadra. Le nuove teorie di Urushkidan si rivelarono sorprendentemente semplici da applicare, e per quanto riguardava gli strumenti, tutto ciò che mancava nei depositi veniva costruito dai fabbri del luogo, una volta istruiti a dovere. Poiché i dispositivi atomici potevano rivelarsi troppo pericolosi, la regina Hiltagar consultò gli dèi e decretò che il combustibile da usare per i lavori era il carbone; i nobili si dedicarono all'onorevole lavoro di fuochisti. Quanto ai dispositivi atomici, sarebbero serviti a alimentare le navi e a fornire d'energia le armi che Urushkidan aveva reso possibili. Ray dovette chiedere inoltre al marziano qualche invenzione supplementare: schermi antiradiazioni, gravità artificiale (dopo che gli esperimenti ebbero dimostrato che troppe kathantumane non sopportavano la caduta libera), comu-
nicatori ultraluce eccetera. Tutte queste cose avrebbero richiesto anni, ma il marziano, sufficientemente esasperato, tirò fuori un'equazione che permise di progettarle in poche ore. Ottenuto questo, le astronavi vennero costruite con relativa calma. In sostanza erano scafi di legno duro, messi insieme dai carpentieri nel giro di qualche settimana, verniciati e ingrassati in modo da trattenere l'aria. Poiché la traversata sarebbe stata compiuta in poche ore, non c'era bisogno di sistemi di rigenerazione dell'aria: bastava avere delle taniche di gas compresso che «perdessero» quel minimo necessario a evitare un eccesso di biossido di carbonio nell'atmosfera di bordo. Ray prestò la massima attenzione alle chiusure e ai finestrini: avrebbero fatto bene a essere resistenti! Ancora di più si concentrò sui circuiti di pilotaggio: dovevano dare pieno affidamento durante il viaggio verso il sole e ritorno, ma subito dopo dovevano andare fuori uso. Poiché non voleva che le centauriane ci restassero male, le avvertì che ciò sarebbe successo, e fu lieto che il principio venisse accettato: tutti sapevano che i fili metallici si consumavano, dopo un impiego prolungato, e queste navi erano strapiene di fili di quel genere. Del resto, l'idea di una flotta di amazzoni che faceva scorrerie in tutta la galassia non era precisamente una prospettiva rassicurante. Nel frattempo le amazzoni si riversarono nelle astronavi, dieci volte più numerose di quanto i trenta e rotti scafi avrebbero potuto contenerne; giungevano a cavallo o a piedi dagli angoli più remoti di Kathantuma e dei regni vicini, per prendere parte alla scorribanda più fantastica che si potesse sognare. Solo Dyann si preoccupava di Ormun, che era il suo nume personale, e solo Ray pensava a Giove come a una minaccia per la Terra... Comunque l'uomo fu sorpreso di vedere quanto rapidamente le volontarie prescelte si trasformarono in equipaggi disciplinati, e quanto rapidamente le loro comandanti si familiarizzarono con le pratiche di volo. Egli pensò che il loro modo di vita le selezionasse in base alla prontezza, all'adattabilità e - sì, benché lo disturbasse ammetterlo - all'intelligenza. Tre mesi di sfacchinate dopo il loro arrivo su Varann la flotta partì. Finiti i suoi compiti, e assillato da Dyann che sosteneva che bisognava festeggiare, Ray sfruttò la maggior parte del tempo di volo dormendo. VII Enorme nei finestrini anteriori, solcato da sfumature di nubi e tempeste grandi come pianeti, incoronato di stelle Giove si offriva alla vista. Il cuore
di Ray batteva forte, i suoi palmi erano freddi e umidi, la lingua asciutta. In qualche modo si aprì la strada fra una folla di femmine in armi. Dyann sedeva ai controlli dell'ammiraglia, lo sguardo fisso sul gigante davanti a sé. «Senti», fece lui tra quella babele di avide voci di contralto, «lasciami almeno chiamare la Terra e scoprire che cos'è successo. Voi stesse dovete saperlo». «Va bene, va bene», rispose lei. «Ma svelto». Si sedette davanti allo schermo di comunicazione e armeggiò con le manopole. Solo l'anno scorso l'idea di una conversazione istantanea attraverso quasi un miliardo di chilometri sarebbe parsa pura fantasia. Lui, tuttavia, stava usando un'onda di fase a velocità illimitata per irradiare radio-fotoni. Li inviò da una distanza, calcolata col computer tascabile, che avrebbe permesso loro di raggiungere un satellite-comunicazioni con forza sufficiente per essere captati, amplificati e ritrasmessi. Il numero abbinato al segnale era quello dell'ufficiò centrale relazioni pubbliche dell'Unione. Era l'unico ufficio da cui era sicuro di ottenere risposta senza essere palleggiato da una segretaria all'altra.
Disegno di Alex Schomburg Il satellite rinviò la risposta nella direzione che i suoi strumenti avevano registrato, naturalmente tenendo conto del moto planetario. L'onda di Urushkidan-Tallantyre catturò i fotoni, ma catturò anche un annuncio pubblicitario dell'Oleomargarina extraoleolsa Chef Quimby's, e quando Ray finalmente ricevette l'addetto alle informazioni gli sembrò di vederlo attraverso parecchi metri d'acqua increspata. Comunque, l'immagine c'era. Non c'era stato il tempo di eliminare tutti i difetti dai circuiti. «Da chi viene la chiamata, prego?», chiese l'uomo mentre la réclame an-
nunciava: «Amici, di questi tempi perigliosi cosa c'è di meglio per tenervi su e aiutarvi a difendere la causa della civiltà di una bella, nutriente porzione...». «Qui è Raymond Tallantyre, che chiama dalle vicinanze di Giove. Sono appena tornato da Alpha Centauri su un'astronave più veloce della luce». «... Deliziosamente vitaminizzata...». «Signore», disse il portavoce dell'Unione, «non è il momento di fare dello spirito». «... È... gnam, gnam... BUONA». «Mi ascolti», gridò Ray, «voglio dare all'Unione la tecnologia per fabbricarne altre. Prenda nota...». Dall'altra parte, accanto a Dyann, Urushkidan si fece attento. «Ehi», protestò, «non ho mai detto che avrei dato via...». «Il suo comportamento non è affatto di buon gusto», disse l'addetto, e spense il comunicatore. Finalmente Ray ebbe l'idea di sintonizzarsi su un notiziario: non fu difficile, perché c'erano un mucchio di notiziari in quei giorni. Apprese così che Giove aveva dichiarato guerra «per rivendicare quei diritti razziali che così a lungo e crudelmente» erano stati negati ai suoi coloni. Tre settimane prima i gioviani avevano vinto una grande battaglia navale al largo di Marte. Non avevano ancora mosso direttamente contro la Terra, ma minacciavano di farlo a meno che i terrestri non accettassero un armistizio i cui termini equivalevano a una resa. Se non lo avessero fatto, i gioviani avrebbero «preso a malincuore le misure appropriate» contro un pianeta le cui risorse si erano già abbastanza indebolite. «Oh, merda», disse Ray. «Un'armata sibile avrà bisogno di enormi rifornimenti», opinò Urushkidan. «L'Udione ha navi e basi dappertutto, e può tagliare le linee di rifornimento dei giobiani». «Non se i gioviani riescono a entrare nelle linee terrestri, a mettere navi lanciamissili in orbita e a minacciare di ridurre la povera piccola Terra in una polpetta radioattiva», mormorò amareggiato l'umano. «E intanto quei ritardati laggiù non credono che io abbia ciò che potrebbe salvarli». «Lei ci crederebbe, se glielo dicessero per telefono?». «Be'... immagino di no. Ma dannazione, ora è diverso!». «Vedo un disco lunare davanti a noi», li interruppe Dyann, «e sembra Ganimede. Avanti, voi due! Siamo pronti pev l'azione!».
La nave ammiraglia, che un tempo era stata una pacifica navicella scientifica, entrò nell'atmosfera con un urlo. Dopo aver esplorato le distese desolate individuò la cupola di Wotanopolis e cominciò a gravitarvi intorno. Il resto della flotta, meno agile, seguì più lentamente. Non avendo tute spaziali, l'equipaggio non poteva sbarcare e buttarsi all'attacco con gli arieti, come era stato proposto su Varann. Dopo aver studiato la situazione Dyann si diresse allora al principale scalo mercantile. Qui si fece via libera col raggio disintegratore. La porta d'accesso stagna, grande quanto un'intera nave, sparì in un fuoco azzurrino e in un fiume di lava. L'aria si riversò all'esterno dalla cupola, bianca come un fantasma mentre il vapor acqueo gelava. Ma anche un buco così grande non avrebbe ridotto pericolosamente la pressione all'interno prima di svariate ore, dato l'immenso volume della città. Dyann mosse quindi verso una camera di sbarco che era praticamente inutilizzata, ora che si era in tempo di guerra. Si posò vicino all'ingresso, slacciò le cinture e balzò in piedi. «Tutti fuori!», gridò in inglese, e poi aggiunse un'esortazione in kathantumano. Le sue guerriere urlarono la loro approvazione. Con dita tremanti Ray indossò elmo e corazza, poi prese la spada. Intanto il resto della flotta barbara si fece largo a sua volta nello squarcio aperto nella cupola e le navi si posarono, talvolta affastellandosi le une sulle altre. Quando tutti furono dentro, Urushkidan svolse la sua parte nella missione fondendo il metallo intorno al buco e sigillandolo, per conservare l'atmosfera. Lui sarebbe rimasto lì, pronto a riaprire il passaggio al momento della ritirata. Quanto fortunato potrò essere?, pensò Ray, mentre uno sciame di guerriere lo spingeva attraverso il portello. «Hoo, ah!». La spada di Dyann sibilò nell'aria. Le sue coorti la seguivano, urlando e accalcandosi. Le altre navi vomitarono ancor più guerriere. Il brusco cambio di pressione non sembrava causare a nessuno il mal d'orecchi, eccetto a Ray. E il fracasso del metallo e delle voci femminili lo rendeva addirittura insopportabile; tuttavia lui non aveva altra scelta che lasciarsi trascinare dalla corrente. Attraverso la distesa risonante della camera, su per una lunga scalinata, e poi fuori su una piazza... Una mitragliatrice abbaiò, ma Ray si era già buttato pancia a terra prima di aver identificato il rumore. Una coppia di varanniane cadde, colpita, benché non dovessero essere ferite così gravemente, a giudicare dalla velocità con cui rotolarono fuori dalla linea del fuoco. Attraverso la piazza Ray vide la mitraglia, proprio dove sfociava un corridoio. Numerosi uomi-
ni in uniforme grigia si chinarono dietro di essa: per quanto scarsa, la guarnigione della città stava rispondendo con grande efficienza. Ray cercò di scavarsi una trincea. Ma non avrebbe dovuto preoccuparsi: con riflessi veloci come lampi, in condizioni di peso che per loro erano uno scherzo, le forze d'invasione si erano già sottratte al tiro delle pallottole, facendo grandi salti di lato o verso l'alto. Lance, dardi, asce furono la loro risposta, e un istante dopo le centauriane piombarono sui nemici di persona, Ray provò un fugace momento di simpatia per i gioviani: nessuno di loro fu ucciso, ma tutti furono ridotti in pessime condizioni. Uno squadrone nemico uscì dal corridoio adiacente: i loro fucili a fuoco rapido avrebbero inflitto senz'altro perdite spaventose alle amazzoni, se non fosse che una di quelle signore, che ne sapeva più delle altre in materia, afferrò la mitragliatrice sottratta all'altro gruppo e cominciò a usarla a tutto spiano come se fosse una pistola. Lo squadrone cercò scampo altrove. «Hai-ai!», urlò l'orda selvaggia, con altre pittoresche aggiunte. Ray, che aveva imparato l'abc del kathantumano, ne sarebbe certamente arrossito, se solo ci fosse stato il tempo. Ora come ora, fu di nuovo sospinto dalla marea dell'assalto. Vide poco di ciò che seguì. In questo labirinto di corridoi e appartamenti la battaglia diventò ben presto un gigantesco corpo a corpo: il che era proprio quello che le varanniane si auguravano, e su cui Dyann aveva fatto assegnamento. Lui l'ammirò in azione, quando, girato un angolo, l'amazzone si trovò davanti un plotone nemico. Fece un gran balzo, coi piedi in avanti mentre volava, e colpì in direzione di due uomini. Quando atterrò su di loro la spada sibilò descrivendo un arco che ne lasciò altri due o tre fuori combattimento. Un soldato che si trovava un po' più distante lanciò una granata verso di lei: Dyann l'afferrò e la rilanciò indietro. Quello riuscì ad agguantarla e a ritirarla di nuovo, ma non fu abbastanza rapido da scartare prima che lei la respingesse la seconda volta, mandandola a esplodere contro una porta dietro di lui. Mentre questo gioco andava avanti Dyann tramortì un nemico con un colpo di spada sul casco, ruppe il naso di un altro con il pomo della sua arma e mise in ginocchio un terzo. La banda delle amazzoni proseguì: non c'era altro da fare, qui. Ray caracollò tra le loro vittime, passò la porta che la granata aveva distrutto e entrò nel settore successivo. Magari si poteva nascondere sotto un letto. Un grido bestiale gli fece gelare il sangue nelle vene: due membri
dell'ex-plotone si erano ripresi abbastanza da buttarsi al suo inseguimento. Si sarebbe voluto mettere a gridare «Heil, Wilder!», e spiegare che era un onesto cittadino, ma sfortunatamente indossava anche lui l'elmo e la corazza delle barbare. Prima che potesse alzare le mani un gioviano puntò il fucile e sparò. Il colpo lo mancò: sebbene li dividessero solo pochi metri l'uomo era scosso. Inoltre nel soggiorno su Varann Ray aveva sviluppato inevitabilmente una certa forza e rapidità. Non è che scansasse deliberatamente il proiettile, ma si piegò al momento giusto, e tirò un fendente di spada che mandò il gioviano a terra con un brutto taglio. L'altro militare avanzò, usando il fucile, probabilmente scarico, come una mazza. Ray si girò per affrontarlo, ma inciampò nel fodero della sua stessa spada. Piombò al suolo e il nemico gli finì addosso: allora lui si aggrappò alle spalle dell'altro, gli tolse l'elmetto e gli batté la testa su e giù finché il gioviano giacque semisvenuto. Devo trovare un posto sicuro, pensò disperatamente Ray. Forse sulla nave... Fuggì dall'appartamento, passò attraverso la furia umana all'esterno e cominciò a correre. Non molto lontano giunse a un incrocio. Una raffica di mitra che veniva da sinistra per poco non lo beccò. «Oh, no!», si lagnò, buttandosi di nuovo sul pavimento. Fu un calcio nelle costole a riportarlo alla realtà: «Alzati!», gli fu ordinato. Si girò per obbedire, e ciò che vide fu come una mazzata: un gruppo di uomini elegantemente vestiti di nero, la famosa guardia scelta del Leader, accompagnava Martin Wilder in persona. E accanto al dittatore stava niente altro che il colonnello Roshevsky-Feldkamp... Ma come? Incaricato della difesa cittadina? Ray era stupito, e cercò di alzare le mani più in alto. «Tallantyre!». Il suo vecchio rivale lo fissò per un tempo che parve prolungarsi per l'eternità. «Così sei tu il responsabile». «No, io no, per carità», disse Ray battendo i denti. «E chi altri avrebbe potuto portare quelle selvagge fin qui?». L'ufficiale colpì il terrestre, e la testa di Ray vacillò sul collo. «Se non fosse per il tuo valore come ostaggio ti fucilerei immediatamente. Ma non faccio che differire questo piacere. Marsch!». Il gruppo proseguì per la strada che si era prefissa, lungo il corridoio di un quartiere commerciale, fiancheggiato da negozi. Le vetrine rotte e la merce in esposizione saccheggiata indicavano che le centauriane avevano
già cominciato a collezionare souvenir. Wilder si degnò di rivolgersi al prigioniero: «Non pensi neppure per un momento che questo criminale assalto ci possa realmente danneggiare. Forse dovremo ritirarci per qualche tempo dalla capitale, ma abbiamo già chiamato rinforzi, che stanno arrivando, e l'intera flotta sarà qui tra poco per una sacra missione di vendetta». Le centauriane smetteranno i loro stupidi saccheggi? Si renderanno conto in tempo del pericolo?, si chiese Ray con orrore. Non so perché, ma, ne dubito. «Domando scusa, glorioso signore», intervenne Roshevsky-Feldkamp, «ma dobbiamo sbrigarci, prima che gli invasori scoprano l'hangar di emergenza a cui siamo diretti». «No, no, questo non deve succedere», acconsentì il Leader. «Lei deve andare su, signore, per comandare personalmente il contrattacco». «Sì, sì, e istituirò una nuova medaglia: la Medaglia per la Difesa della Patria Razziale». «Lei ricorda, naturalmente, glorioso signore, che non dobbiamo limitarci a distruggere le astronavi pirate», disse Roshevsky-Feldkamp, «Dobbiamo catturarle per poterle studiare. Dopo, l'universo sarà nostro!». In quella si udì un urlo oltre le pareti: «Hoo-hah!», e da un passaggio laterale avanzò una banda di centauriane. Erano quasi piegate dal peso del bottino assortito che reggevano tra le braccia. Le guardie di Wilder si disposero in formazione e alzarono i fucili. Qualcosa di molto simile a una bomba atomica li attaccò alle spalle: più tardi Ray apprese che Dyann Korlas e la regina Hiltagar avevano elaborato una tattica per cui alcune esploratrici scelte pedinavano costantemente i gruppi nemici più importanti, col compito di escogitare trappole per metterli in difficoltà. Ma ciò che vide sul momento fu solo un'estrema confusione: una specie di tempesta lo scaraventò contro un muro, e dovette mettercela tutta per non battere il cranio contro gli spigoli di metallo. Scorse Dyann in persona che avanzava nel cuore della battaglia, scalciando, urlando, colpendo: vera incarnazione di quella volontà di conquista che i Simmetristi tanto predicavano. Le sue compagne non le furono da meno in quella devastazione, ma Ray ebbe solo una parte minore nell'azione. Una guardia rotolò vicino a lui, abbarbicata al suo mitra, cercando di indovinare un punto da cui sparare senza uccidere i suoi stessi compagni. Il terrestre si sfilò la pistola dal-
la fondina e gli sparò... nella natica sinistra, ma tanto bastò. Dyann lo vide: «Oh, che bravo!», cinguettò, mentre spaccava un'altra testa. La battaglia finì presto: la maggior parte dei gioviani si era presa semplicemente una bella battuta, e si lagnava con stupita mitezza. Ray vide Wilder e Roshevsky-Feldkamp pungolati da una tozza amazzone con un occhio solo, brizzolata e con uno stupido sorriso sulle labbra. Erano sicuramente destinati al suo harem (le loro decorazioni dovevano aver colpito la fantasia di lei), e Ray non riusciva a pensare a due persone più adatte a quello scopo. Ma... la flotta nemica poteva ancora arrivare, da un minuto all'altro. Ciò che Ray non seppe fino a quando tutto fu concluso fu che Urushkidan aveva portato la loro nave ammiraglia fuori della città, e si era servito dei suoi raggi disintegratori per annientare i vascelli gioviani, missili inclusi, man mano che tentavano di atterrare.. Mentre faceva questo canticchiava una vecchia aria degli operai marziani: ci sono volte in cui anche un filosofo deve prendere certe misure. VIII I banchetti ufficiali sulla Terra sono notoriamente noiosi, e questo non faceva eccezione. Che la guerra fosse finita, che i Satelliti Confederati si preparassero a diventare Repubblica di Giove e membro rispettabile dell'Unione Mondiale, che le stelle fossero a portata di mano: tutto sembrava in quest'occasione più piatto e prevedibile che mai. Ray Tallantyre dovette ammettere che il cibo e le bevande erano squisiti, e tuttavia ne aveva abbastanza. Si sarebbe addormentato durante tutti quei discorsi, se solo le scarpe non gli avessero fatto così male da impedirglielo. Così gli toccò ascoltare il rettore della sua università descrivere che razza di studente modello lui fosse stato, mentre in realtà c'era mancato poco che lo espellessero. Alla sua destra Urushkidan, ficcato in uno smoking adattato alle esigenze della sua specie, sbuffava con la pipa e faceva calcoli sulla tovaglia da tavola. Alla sinistra di Ray Dyann Korlas, le trecce bronzee serpeggianti su una tiara depredata, si guardava intorno stupefatta in una gonna troppo lunga e formale: il pugnale alla cintola serviva più che altro ad aggiungere un tocco di classe. Certo, era stato un po' imbarazzante quando aveva piazzato Ormun la Terribile a tavola davanti a lei e aveva insistito che tutti
rendessero grazie all'idolo. Comunque... «... Un genio scientifico unico, la cui vecchia università è lieta di onorare col dottorato in legge...». Dyann si piegò per sussurrare all'orecchio di Ray: «Qvando finisce tutto qvesto?». «Dio lo sa», rispose lui debolmente, «ma non credo che Egli sia previsto nel programma». «Non abbiamo avuto un attimo pev stare insieme da qvando è cominciata la tournée, no? Zempre gente intorno a chiederci di fare qvesto o qvell'altro. Che piani hai per qvando zarai libero?». «Be', innanzitutto voglio provare e brevettare la propulsione cosmica prima che lo faccia Urushkidan. Poi... non lo so». «È stato bello finché è durato, vero?». Il suo sorriso nascondeva la malinconia. «Io devo tornare subito a Varann: devo farne qualcosa della mia vita, tipo trovarmi un posto decente e conquistarmi un trono. Però tu... Ray, tu sei troppo bello e gentile per un compito simile. Tu appartieni a qvesto mondo, alle luci brillanti e alle feste, non a un mucchio di selvagge tra cui potresti solo farti del male». «Giusto», disse lui. «Ti ricorderò zempre». La mano di lei si strinse calda intorno al suo polso. «Forse un giorno qvando siamo vecchi ci potremo incontrare ancora, e annoieremo i giovani con un mucchio di vanterie sui nostri grandi giorni». Si guardò intorno. «Ma per il momento, basterebbe andarcene un po' per i fatti nostri. Conosco un bar non lontano di qvi... Ci sono anche le camere, sai». «Hmmm», mormorò lui. La prospettiva l'attraeva: quando non faceva la guerriera lei era estremamente femminile. «Ci vuole tattica: se riusciamo a scivolare giù dalle sedie piano piano, come per stanchezza (cosa che non meraviglierà nessuno) potremo poco a poco sottrarci alla vista, strisciare sotto il tavolo e infilare quella porta di servizio laggiù...». Mentre mettevano in azione quel piano, Ray sentì Urushkidan che, invitato a parlare, cominciava una dettagliata esposizione della sua ultima teoria. Titolo originale: Captive of the Centaurianess.
LA COMETA Alan Dean Foster Sonno... aveva così sonno... Il fatto che fosse vivo era provato unicamente dalla profondità dei suoi sogni, sogni di sterminate pianure verdi attraverso cui correva al rallentatore. Il sogno svanì. Cercò di aggrapparvisi mentre scompariva, poi lo perdette. Si svegliò. Chapman sospirò, e attese immobile e rigido che la vista gli si schiarisse. I liquidi rivitalizzanti scorrevano nelle sue vene. In bocca avvertiva il prevedibile sapore di cotone sfilacciato, come se non avesse inghiottito per millenni. Il nitido coperchio a cupola del cubicolo d'animazione sospesa scivolò dolcemente. Ne aprì un lato e muovendosi con attenzione, i muscoli intorpiditi da vari anni d'inattività, si mise seduto sull'orlo del lettino, e guardò la vuota cabina di pilotaggio. Tutte le poltrone erano vuote: lui era il solo occupante dell'immensa nave globulare. Si disse che a quest'ora doveva essere in orbita intorno ad Abraxis, e entro un'ora o poco più la colonia in pericolo avrebbe potuto cominciare a traghettare i suoi membri a bordo. Poi lui avrebbe affidato tutte le responsabilità ai capi della colonia. Ma questo fu il secondo sogno che gli mandarono in frantumi. «Posizione?». «Siamo a poco più di cinque giorni standard da Abraxis», replicò la voce uniforme del computer di bordo, come se gli avesse parlato per l'ultima volta ieri, e non tre anni fa. Chapman rifletté su questa rivelazione inattesa, e obbligò la lingua e il palato da tanto tempo fuori uso a parlare. «Allora perché sono stato svegliato adesso?». Non che pochi giorni di veglia in più lo disturbassero, ma non c'era ragione per la sua rianimazione anticipata: non una ragione programmata, almeno. «Al momento ci troviamo affiancati a un'unità Dhabiana», spiegò la na-
ve, «e là...». «Fammi vedere», tagliò corto Chapman. Prese un bicchiere d'acqua energizzata dal rifornitore del cubicolo, e la fece scendere a fatica giù per la gola. Obbediente, la nave eseguì il suo ordine. Un piccolo visore posto nella consolle di pilotaggio s'illuminò: sullo schermo apparve un massiccio ammasso di blocchi rosso-arancione. I blocchi erano collegati secondo un elegante schema inumano, per formare la nave Dhabiana. I terrestri avevano incontrato i Dhabiani più di vent'anni prima, e fin dal primo momento i rapporti tra le due razze erano stati piuttosto incerti. La curiosità umana sul conto dei Dhabiani si era scontrata con quella che veniva definita la «cordiale indifferenza» degli alieni. Poiché le navi Dhabiane, nonostante l'aspetto goffo, erano più veloci di quelle dell'uomo, la loro privacy era rimasta finora inviolata. Quando si verificava uno dei rari incontri tra navi umane e Dhabiane, gli extraterrestri a volte comunicavano e a volte no. Non erano mai ostili: solo disinteressati. Era chiaro che avrebbero avuto parecchio da offrire all'umanità, ma né preghiere, né minacce, né una pari ostentata indifferenza erano serviti a farli parlare. Nessuno aveva mai visto un Dhabiano, e Chapman non poté reprimere un piccolo brivido d'eccitazione: forse lui sarebbe stato il primo. Tuttavia i silenziosi Dhabiani erano un fattore noto: la loro presenza non giustificava il suo risveglio prematuro. Lo disse alla nave. Allora la nave cominciò a parlargli della nuova vampata stellare. Quelle vampe erano il motivo della sua missione, preparata in tutta fretta vari anni addietro, quando gli astronomi avevano previsto che la colonia di Abraxis avrebbe dovuto essere evacuata dal suo pianeta almeno temporaneamente, perché la stella intorno a cui girava stava per attraversare un periodo di breve ma intensa attività. Ciò avrebbe prodotto radiazioni di alta energia che avrebbero ucciso ogni essere umano sulla superficie di Abraxis, e anche un poco al di sotto. Per i quattro-sei mesi di attività stellare pericolosa la popolazione sarebbe vissuta a bordo dell'astronave di salvataggio. Ricevuto l'avvertimento, le autorità competenti avevano equipaggiato un vascello adatto allo scopo, ed esso era partito col tempo contato per recuperare la popolazione, prima che cominciasse l'attività pericolosa. Qual era il problema, allora? Gli astronomi si erano sbagliati? No, lo informò la nave, i dati erano corretti, e il ciclo di esplosioni non
sarebbe cominciato in anticipo. Ma questa nuova eruzione presentava un'anomalia, una peculiarità di cui non si era tenuto conto nelle previsioni: non avrebbe danneggiato immediatamente la colonia, salva sotto lo scudo amorfo dell'atmosfera, ma avrebbe messo fuori uso varie componenti e strumenti dell'astronave. Il grande globo sarebbe andato in avaria senza poter più compiere la sua missione. Incidentalmente, Chapman sarebbe morto. «Quando?», chiese il pilota, agghiacciato. «Da ventiquattro a quarantott'ore a partire da adesso». La risposta fu pacata: la nave era abbastanza sofisticata per tener conto dello stato emotivo del pilota, e generare impulsi vocali adeguati. Chapman chiese maggiori informazioni. Nel tempo che gli restava la nave globulare non poteva volare abbastanza lontano per sottrarsi alla micidiale vampa di energia proveniente dalla stella. Né poteva raggiungere in tempo il provvidenziale lato oscuro di Abraxis, il mondo della colonia. «Controlla i calcoli». La nave eseguì, e ripeté ciò che già Sapevano essere inevitabile. «Controlla di nuovo». No, così non andava. Le illusioni non potevano nulla contro le realtà della fisica, e la speranza non riuscì a ridurre la distanza critica da Abraxis o il numero di particelle energetiche che la stella avrebbe generato. Chapman cominciò a riflettere seriamente, analiticamente. La missione, dunque, sarebbe fallita. I duemila coloni, scienziati e tecnici del mondo in pericolo non sarebbero stati soccorsi in tempo. Sarebbero morti. Lui stesso sarebbe morto, un poco prima. Si sentiva al tempo stesso atterrito e vergognoso, perché era la seconda prospettiva quella che lo preoccupava di più. Una luce ammiccò sulla consolle: un segnale per ottenere la sua posizione in arrivo dal pianeta ancora lontano. «La nave Dhabiana», chiese, «riuscirà a sottrarsi agli effetti della vampa, in base a ciò che sappiamo delle loro capacità?». Una pausa, poi: «A meno che non possano sfruttare una velocità ignota, non ci riusciranno». Avrebbe avuto compagnia, dunque. «Presentagli la richiesta standard di scambio d'informazioni, nave». Sarebbe stato interessante sapere se anche loro erano condannati. Ma probabilmente la sua nave aveva ragione, e gli alieni non avevano nessuna miracolosa difesa contro la radiazione. Forse erano venuti al sistema di Abraxis per studiare l'attività della stella prima dell'eruzione, e sarebbero stati sorpresi e intrappolati da quell'anomalo scoppio di radiazioni proprio come lui.
In ogni modo serviva a passare il tempo. L'idea di rimettersi in animazione sospesa, di aspettare, la morte nel sonno lo sgomentava. Non si aspettava che gli alieni rispondessero veramente, e fu sorpreso quando una voce dal tono stranamente modulato gli parlò sussurrando dall'interfono. «Comunicheremo con te, uomo». «Questa stella genererà presto un'esplosione di plasma altamente carico che per me sarà fatale». Dopo aver riflettuto un attimo, aggiunse: «La mia nave verrà seriamente danneggiata». «Informazione». La risposta fu concisa, come tutti i messaggi Dhabiani. «Qual è la domanda?». «Che succederà a voi?». «Sarà per noi lo stesso che per te, uomo». La prima allusione alla mortalità dei Dhabiani, rifletté Chapman. Ma non provò euforia alla scoperta. Nessun altro avrebbe saputo ciò che lui aveva appreso qui. «Non c'è modo per voi di sopravvivere? Credevo che le vostre navi fossero veloci». «Non abbastanza. Ma forse una via c'è». Ci fu quella che parve una pausa incerta prima che il Dhabiano parlasse ancora. «Non l'hai ancora vista?». «Visto cosa?». Chapman era più confuso che eccitato. «L'onu». «E che diavolo è un...?». Chapman si calmò. «Potete darmi la posizione?». «I tuoi modelli non corrispondono esattamente ai nostri, ma da ciò che abbiamo appreso...», e il Dhabiano gli mostrò alcuni diagrammi. «Nave, che cosa significano?». «Un momento, Chapman». Immaginò di sentire la macchina che pensava... era stato troppo in animazione sospesa, pensò. «Focalizzando al massimo gli strumenti sulla regione indicata dal vascello straniero, si determina che un grande ma vago oggetto è situato nella posizione suggerita. I sensori di massa alieni devono essere più efficienti, potenti dei nostri. La posizione attuale ci impedisce l'identificazione visuale della cometa da quest'angolo di osservazione». «Cometa? Una domanda, nave. È abbastanza grande da fornire protezione adeguata contro l'eruzione imprevista?». «Sì, Chapman». «Seconda domanda: è grande abbastanza da proteggere entrambe le a-
stronavi?». «Saranno necessarie alcune manovre ravvicinate da parte di ciascuna nave per evitare danni causati dai getti radioattivi dell'altra. Si può fare. Ma c'è una difficoltà». Le speranze di Chapman si volatilizzarono, come i bambini quando è ora di giocare. «Che difficoltà?». «Il tempo necessario per raggiungere il cono d'ombra della cometa è stimato in trentanove ore». «Noi andiamo, uomo», lo informò il Dhabiano. «Dobbiamo mutare posizione per fare posto anche alla tua nave?». Chapman rifletté rapidamente. Trentanove ore voleva dire tirare al massimo il tempo concesso prima della grande eruzione. In trentanove ore lui si sarebbe trovato molto al di là della posizione della cometa, ma il computer lo informò che sarebbe stato ancora entro il raggio mortale delle radiazioni stellari. Era un dilemma facile da sciogliere. «Sì, tenterò anch'io». Il Dhabiano accettò l'informazione senza replicare. «Nave, regola la posizione in modo da piazzarci dietro il nucleo della cometa. Tieni conto delle indicazioni del Dhabiano». «Starò attenta, Chapman», rispose la nave in tono confidenziale. Le ore seguenti furono molto laboriose. Studiando il vascello Dhabiano mentre questo lo sorpassava a distanza ravvicinata ricavò un mucchio di informazioni che gli xenologi avrebbero trovato estremamente interessanti. Inoltre serviva a tenere lontana la mente dalle esili possibilità che gli restavano. Superato il limite delle ventiquattr'ore, quando ormai sapeva che le vampe mortali potevano cominciare da un momento all'altro, si buttò nel lavoro ancora più intensamente. Era una grande cometa, okay. Almeno quindici chilometri di diametro, alla testa. Alla trentaduesima ora ebbe la visione più ravvicinata della nave Dhabiana: era lunga ottocento metri, un centinaio in meno della sua, ma molto più massiccia. Gli passò davanti, correndo a velocità maggiore verso la protezione offerta dalla massa della cometa. Alla trentacinquesima ora si permise di sperare un poco. Alla trentaseiesima stava progettando un particolare rapporto alla Commissione in cui descriveva come si era salvato per un pelo. Alla trentasettesima ora la nave gli disse che sarebbe arrivato troppo tardi. «L'attività stellare di superficie mostra già i segni di eruzione imminen-
te, Chapman. Se le condizioni locali non cambiano, arriveremo al riparo della cometa un'ora, ventidue minuti e dieci secondi troppo tardi». «Quant'è il massimo che possiamo resistere alle radiazioni prima che la nave subisca danni irreparabili?». Con sua stessa sorpresa non fece domande sul suo destino personale. «Dieci minuti e mezzo». Era così, dunque. Mentre annegava gli avevano buttato una corda, ma era troppo corta. Si girò, e si lasciò cadere sulla poltrona di fronte al visore principale. La testa gli cadde in avanti, poi si sistemò nell'incavo del braccio destro, in modo da restare vicina al freddo metallo. Sapeva che la fiammata gli avrebbe scottato le ali, ma era così bella, così chiara... Bastava che fosse solo un po' più vicina, solo un po' più vicina, ecco tutto... Attraverso il tranquillo ruggito delle fiamme gli sembrò di udire il computer borbottargli qualcosa, ma questo era impossibile: i computer non parlano alle falene, i computer non borbottano. Ignorò i rumori senza significato, e si tuffò verso il demonio che lo chiamava. Le dita di fuoco sfiorarono le sue ali. Si svegliò sudando. E in questo c'era qualcosa che non quadrava, non quadrava per niente. Non doveva aver dormito molto, ma anche così non avrebbe dovuto essere vivo e sveglio, adesso. Avrebbe dovuto essere già morto, incenerito in un singolo sbuffo di fiamma, come una falena in un forno. Sbatté gli occhi e si guardò intorno, incredulo.
Disegno di Freff «Nave! L'eruzione, che...?». «Conto alla rovescia per l'arrivo delle prime particelle energetiche», disse calmo il computer. «Venti, diciannove, diciotto...». Chapman guardò stupidamente il visore, cercando di capire ciò che vedeva. Da una parte fluttuava un oggetto che sembrava messo insieme coi residui di qualche antica costruzione: la nave Dhabiana, la cui propulsione ridotta produceva un baluginare bianco-blu. Più avanti c'era una massa verde che sotto i suoi occhi eclissò il sole di Abraxis: la parte posteriore della cometa. Nella luce riflessa dall'astronave terrestre brillava di un verde ghiacciato e tagliente, e un momento sembrava solida, il momento dopo mutevole e instabile. «Quattro, tre, due, uno...», concluse il computer. Chapman trattenne il respiro, stupefatto. La chioma, lo spesso involucro gassoso che avvolgeva la testa della cometa, brillava così acutamente che gli faceva quasi male guardarla. I tenui filamenti gassosi e le particelle che scorrevano all'indietro, intorno alle due navi, assunsero una sfumatura vibrante, rosso porpora. Nella tempesta che devastava la superficie della stella davanti a loro i raggi di fiamma assunsero un aspetto quasi solido, come il velo serico di una danzatrice spagnola. Anche se, visto da qualche milione di chilometri di distanza, lo spettacolo sarebbe stato ancora più impressionante, la consapevolezza di trovarsi nella coda della cometa faceva sentire Chapman molto piccolo. Per cinque ore e mezzo le due navi corsero al riparo della cometa, mentre colori fiammeggianti danzavano intorno a loro. E l'energia mortale che si scontrava con la testa della cometa produceva uno spettacolo di bellezza, non di morte. Poi il computer annunciò che il livello delle radiazioni stellari stava calando rapidamente, e ben presto raggiunse un livello accettabile. Fu allora che la nave Dhabiana cominciò a muoversi, attraversando il flusso più smorzato, ma pur sempre maestoso della cometa; e fu allora che Chapman cominciò a riflettere su ciò che era accaduto. La sua nave non avrebbe potuto raggiungere da sola la posizione di sicurezza al riparo della cometa. Quindi, in qualche modo i Dhabiani lo avevano aiutato. Ma perché?
«Inoltra richiesta d'informazioni, nave». E dopo un momento: «Non rispondono, Chapman». Il vascello alieno continuava ad allontanarsi. «Prova ancora!». Il computer eseguì, e ripeté l'operazione molte volte prima che Chapman parlasse direttamente nel trasmettitore della cabina. «Dhabiani! Perché? Perché mi avete salvato? Vi sono debitore della vita. Duemila uomini ve ne sono debitori». Silenzio, mentre la grande nave continuava ad allontanarsi sullo schermo. «Perché non rispondete? Dite qualcosa!». Poi una voce cadenzata, profonda. «Domanda multipla. Inappropriato. Rivolgiti altrove, uomo, non qui». Per quanto provasse, Chapman non riuscì a strappare altre risposte agli alieni. Alcune settimane più tardi, quando la colonia si fu trasferita senza pericoli a bordo dell'astronave, che era ormai fuori dal sistema di Abraxis, Chapman domandò riluttante al computer: «Nave, i Dhabiani ci hanno salvato e io non so perché. Tu sai come hanno fatto a farci accelerare in modo che giungessimo in tempo al riparo della cometa?». «Domanda inappropriata, Chapman». Lui aggrottò la fronte. «Perché?». «Non c'è nessuna evidenza che l'astronave Dhabiana abbia interferito con la nostra velocità». Gli sembrava di avere le vertigini: il sollievo, concluse, e i troppi giorni passati a prendere stimolanti per restare sveglio. «Che vuoi dire? Se i Dhabiani non hanno modificato la nostra velocità, come abbiamo fatto a metterci in salvo dietro il nucleo?». «I Dhabiani erano troppo occupati con le manovre», fu la risposta. «L'evidenza indica che la cometa ha cambiato posizione per accoglierci nella sua ombra. I Dhabiani hanno dovuto rallentare, non accelerare, per conformarsi alla nuova posizione del corpo celeste». «Vuoi dire che i Dhabiani hanno spostato la cometa?». «Negativo, Chapman. Non c'è nessuna evidenza per sostenere quest'ipotesi». «Ma la cometa ha cambiato posizione». «Esatto». «È impossibile», disse lui con intenzione. «È quanto è successo». Il computer sembrava leggermente diffidente. Chapman rifletté. Infine i suoi occhi si allargarono, e allora si precipitò
per tutta la nave finché non trovò l'attuale comandante: il capo della colonia, Otasu. Stava chiacchierando con numerosi altri ufficiali negli angusti confini della cabina di pilotaggio. Si volse stupito all'ingresso ansioso di Chapman. Chapman andò immediatamente al visore: ma mostrava solo lo spazio punteggiato di stelle, e la macchia appena più brillante del lontano sole di Abraxis. «Dobbiamo tornare indietro, signore». «Indietro? Non possiamo tornare indietro, Chapman, lo sa». Poveretto, pensò: l'animazione sospesa gioca dei brutti tiri agli uomini. «Il nostro sole è entrato nel ciclo eruttivo, e finiremmo tutti arrosto». Rivolgiti altrove,. aveva detto il Dhabiano prima di tacere del tutto, altrove, altrove... Ma a chi altro ci si poteva rivolgere? La cometa aveva cambiato posizione... «Quindici ore», mormorò, fissando lo schermo. «Quindici ore». «Quindici ore per far cosa?», domandò gentilmente il capo della colonia, assecondando il pilota. La faccia di Chapman non si sollevò dallo schermo. «Ho avuto a disposizione quindici ore prima dell'inizio delle eruzioni e le ho sprecate per fare osservazioni e prender note sui Dhabiani». Sembrava in trance. «Osservazioni molto notevoli, mi dicono», riconobbe Otasu, cercando meglio che poteva di suonare calmo e complimentoso. «Ma non capisce!». Chapman fissò ancora più perdutamente lo schermo. La cometa era da qualche parte dietro di loro, muovendosi nel cielo come tutte le sue simili. Ma che ne sapevano, loro, delle comete? Poco, molto poco. «Ho sprecato quindici ore a studiare l'alieno sbagliato...». Titolo originale: Bystander. ATTRAVERSO IL TEMPO E LO SPAZIO CON FERDINAND FEGHOOT Grendel Briarton Uno dei segreti meglio custoditi della storia militare è come Ferdinand Feghoot aiutò Sir Robert Baden-Powell (il fondatore dei Boy Scouts) a resistere all'assedio di sette mesi di Mafeking, durante la Guerra Boera.
«Dobbiamo allearci con le formiche guerriere del Sud Africa», disse al comandante. «Sono molto intelligenti, e il loro spirito marziale è uguale al nostro. Ne saranno deliziate». Sir Robert era dubbioso, così Feghoot lo portò all'esterno, dove un vero e proprio distaccamento di formiche era impegnato in manovre. «Hanno un'estrema coscienza di rango», spiegò. «Se non ci rivolgiamo al loro comandante, ci ignoreranno completamente. Ora, guardi il primo plotone là...». La testa della colonna avanzava, poi improvvisamente la prima formica girò a sinistra. Quando la seconda la seguì, Feghoot parlò: «Ehi, ragazzi», buttò là, «perché non uscite un po' e non andate a rendere la vita difficile a quei Boeri là fuori?». Di colpo la formica si arrestò, agitando vigorosamente le mandibole. E poi l'intera colonna prese a marciare nella direzione opposta, verso l'esterno. «Fantastico!», esclamò Sir Robert. «Capitano, come ha fatto a capire che era quella il comandante del plotone?». «Molto semplice, Sir», disse Ferdinand Feghoot. «Mi sono rivolto alla seconda formica che ha girato a sinistra». Titolo originale: Through Time and Space with Ferdinand Feghoot
LA PROVETTA Ray Russell Nessun ardente seduttore fu più innamorato La fedeltà di nessun partigiano alla sua causa fu più vera: Quante ore da ragazzo al cinema ho passato Per adorare la tua fragile bellezza, il tuo limpido aspetto Il potere di uccidere, o dar la vita a ciò ch'è morto. Risparmiavi inutili rossori alla biondina nuda Nascondendo in veli di vapore i suoi tabù: Volute attraenti per celar seni, e più!, Quando lei giaceva imbavagliata sulla copertina di «Dime Detective» E il dottor Nasobecco, nel suo bianco grembiule, malvagio tentava Di farle del male: come, chissà. Eri scettro di re, mitra vescovile, bacchetta magica: Scienziati pazzi ti carezzavano e vezzeggiavano Finché il fumo saliva spesso e vellutato dalle tue labbra E all'istante tu concepivi, tu creavi Dai tuoi ricchi fumoni un Hyde pieno di voglie O, per placare il mostro del Barone, una moglie. Titolo originale: The Test Tube. gno di Alex Schomburg
Dise-
DOV'È ORA TUO FRATELLO, EPIMETEO? Jesse Peel Tal sapeva che non sarebbe dovuto venire al bar, e maledisse la forza dell'abitudine e i vecchi tempi. Una volta riusciva a risolvere i problemi in questo modo, ubriaco o fra le braccia di una donna. Ma adesso non più. Non questo problema. Fissò le profondità della birra spessa, rossiccia, che diventava calda nel boccale ancora pieno. L'aveva saputo prima di venire che non era la cosa più saggia, ma doveva tentare. Era quasi certo che avrebbe fallito, ma doveva scoprirlo. Così adesso sapeva. Si sentiva come il personaggio di uno dei suoi drammi favoriti, ingannato dagli antichi dèi e dalle circostanze, incapace di cambiare il fato. Sospirò. Era stato così immerso nei suoi pensieri che aveva ignorato la minaccia di un'intrusione indesiderata nella sua solitudine, e adesso c'era un nuovo problema, oh, una cosa da nulla... Sapeva che se avesse lasciato il bar avrebbe potuto evitarlo, ma esitò. Era quella consapevolezza che lo fregava, quella certezza, quel sapere, insieme dono e maledizione della sua anima. E non era nemmeno il peggio, oh, no di certo. Avrebbe potuto bestemmiare, ma sarebbe stato uno spreco d'energia: anche questo gli era negato. Ma quell'esitazione di un momento, l'ostinato tentativo di ribellarsi avevano deciso per lui. Adesso era troppo tardi per evitare i guai. Attraverso le luci basse, gialle, e le volute di fumo grigio e blu che riempivano il bar, Tal guardò il Kreeliano avvicinarsi al suo tavolo. Tutto l'essere dell'alieno rendeva manifeste le sue intenzioni, faceva presagire ciò che sarebbe accaduto. «Ma guarda», sogghignò, «se non è il playboy straniero!». Lottando contro se stesso Tal si sforzò di non guardarlo. Poteva rifiutarsi di farlo, rifiutarsi di stare al gioco. Avrebbe sopportato con tenacia, si sarebbe mantenuto a freno. «Non mi hai sentito, mister dito-in-bocca? O le tue orecchie sono piene di merda Arezilah?».
Avanti, Tal, pensò. Avanti! Puoi farlo. No. Non puoi. Alzò gli occhi lentamente, per fissare quelli dell'altro. Lo attraversò con lo sguardo, come se il Kreeliano fosse fatto d'aria. «Va' via», disse tranquillamente. Il tono della sua voce conteneva il potere... Era un avvertimento, vibrante di pericolo, pieno di forza. Ma l'alieno era ubriaco, e quelle parole lo resero furioso invece di spaventarlo. La sua rabbia esplose: fece un passo indietro e assunse una solida posizione di combattimento. Poi, dopo una pausa brevissima, tirò un calcio veloce e fluido, circolare, che avrebbe spaccato la testa di Tal. Nella frazione iniziale del successivo mezzo secondo, Tal percepì l'alieno come tutti gli altri nel bar. Il Kreeliano era umanoide, c'era appena un gradino di differenza dal ceppo terrestre. Alto due metri, pesante centodieci chili, indossava una tuta da scaricatore di porto macchiata di olio sintetico. A giudicare dai suoi movimenti era ben allenato: un essere pericoloso. Nella frazione seguente del mezzo secondo, Tal si sintonizzò sulle vibrazioni che erano il contenuto emozionale dell'altro: c'era odio e insicurezza, razzismo e paura, fiducia nella sua abilità... e gioia, al pensiero di infliggere dolore a un altro essere. Nella terza frazione di quel mezzo secondo Tal non vide più con gli occhi, ma con la mente. Era tutt'uno con l'Onda. L'Onda. La sentiva, la toccava, l'assaporava, l'odorava. Lui era lei, e lei era lui. Comprese il modello, sentì la disarmonia causata dall'attacco dell'alieno. E fu la disarmonia a farlo star male. Ma sapeva che cosa bisognava fare per correggerla. Nella frazione di secondo finale, Tal si piegò sotto il pesante stivale dell'altro, poi si allungò verso la schiena dell'attaccante. Gentilmente, precisamente spinse una mano, sfiorando appena l'anca dell'alieno. Quello perse l'equilibrio, oscillò selvaggiamente e si abbatté al suolo. Cercò di riprendersi, ma la birra versata dal boccale rovesciato lo fece sci-
volare. Urlò la sua rabbia, ma non poté fermare la caduta. Picchiò con la testa contro il tavolo, e rimase svenuto. Ora che il problema era sistemato, Tal sentì l'estasi di essere in accordo con l'Onda. E allora se ne abbeverò, assaporandola come puro spirito. L'Onda era tornata alla perfezione. Prima che le emozioni contrastanti degli altri che erano nel bar potessero risvegliarsi, Tal mosse alla porta e uscì. Non che ci fosse un vero pericolo: anche se lo avessero attaccato tutti e quindici, lui era sicuro di sé: era praticamente invincibile, come lottatore. Come spia, invece, era né più né meno ciò che lo avevano mandato a scoprire. E adesso sapeva. Rimpianse di aver appreso molto più di quanto avesse mai saputo in passato. «Non voglio questa missione. La rifiuto». «Ascoltami, Tal, sai che non te l'avrei chiesto, ma è vitale». «Sono tutte vitali, Sig, ogni fottuta missione lo è. Regs aveva detto solo altre tre, e io ne ho fatte cinque. Sono a posto. Più che a posto». «Lo so, lo so. Ma tu sei il migliore che abbiamo». «Risparmiatelo». «Pensa al tuo...». «E risparmiati anche la pappardella sulla "fedeltà al tuo mondo" e simili. Sono stato con voi per dieci anni, e so come son fatte le stelle!». «Per favore». Per un secondo Tal fu sicuro di aver sentito male. Per favore? Da Sig Thral, vice-comandante del Servizio di Spionaggio Extraterrestre? L'uomo che aveva sputato in un occhio a un Presidente... per favore? «E va bene, ti ascolto. Ma questo è tutto! Non ti prometto niente». La storia era questa: avevano stabilito un contatto, preso accordi con un traditore Arezilah, in cambio di un mucchio di crediti. Tutto ciò che serviva adesso era un esperto di arti marziali, uno che potesse scoprire il trucchetto, e in fretta. L'Arezilah era pronto a insegnare, a colui che riteneva uno studente e un religioso, il Servizio. «Il che...?».
«È una specie di training. Pensiamo che sia quello, che mette in grado il pilota di una nave Arezilah di fronteggiare dieci corazzate terrestri». «Ma certo. Ho sempre voluto saperne di più». «E lo saprai, se farai come ti dico». «Uhm. E va bene». La faccia di Sig s'illuminò. «Ma voglio un premio». «Me l'immaginavo». «C'è una copia della Mitologia di Hamilton in mostra al Museo di Storia Mondiale, un originale, stampato su carta. Lo voglio». «Impossibile! È un tesoro pubblico...». «...È un piccolo prezzo da pagare, se scopro quello che volete sapere. Certo non hai dimenticato quello che ci hanno fatto gli Arezilah durante la guerra». «Non l'ho dimenticato», grugnì Sig. «E mi pare che loro siano l'unico ostacolo fra noi e il sistema K-wayl». «Come fai a sapere... Ah, lascia perdere!». «Avanti, Sig. Le alte sfere devono volerlo terribilmente, questo segreto». Sorrise, fiducioso del suo ragionamento. Sig inspirò profondamente. «Compi la missione, e vedrò di farti avere il libro». Accidenti! Tal fece un largo sorriso soddisfatto: un Hamilton originale! Un libro del genere avrebbe fatto della sua raccolta la miglior collezione privata di mitologia e antiche leggende sulla Terra. Qualunque missione ne sarebbe valsa la* pena, anche dieci missioni! Un dubbio fastidioso si affacciò per un attimo sulla sua mente: Sig aveva accettato troppo in fretta per essere convincente. Avrebbe dovuto starci attento. Comunque, si sentiva grande. Vieni qua, Ercole, tieni un momento il mondo per me, e io sarò lieto di andare a cogliere le tue mele d'oro. Ma certo. Nessun problema. «Io sono Sull», disse l'alieno, «il tuo maestro». Tal lo squadrò attentamente. Nient'altro che un tipico Arezilah, come tanti che aveva visto da quando
era sceso sul Mondo di Harvey, uno dei quattro pianeti neutrali. Benché tecnicamente non fossero più in guerra, quei mondi erano i soli posti dove i Terrestri e gli Arezilah accettassero d'incontrarsi. Sull era alto meno di un metro e mezzo, e probabilmente non pesava più di cinquanta chili, su questo mondo: dunque circa venticinque chili meno di Tal. La sua pelle era rosa brillante, coperta di sottili scaglie tranne che sul volto appuntito. Gli occhi erano grandi globi gialli, che una forma di strabismo esoftalmico faceva sporgere dalle piatte occhiaie. La bocca era soltanto una fessura orlata di verde in fondo alla faccia, e non c'erano narici. Le mani e i piedi avevano tre dita ciascuno. Sull non portava vestiti, tranne un perizoma nero di seta sintetica agl'inguini. Difficilmente si sarebbe potuto considerare un avversario temibile, per quanto fosse allenato. Tal sapeva che di solito un uomo grosso ben preparato poteva batterne uno più piccolo, o comunque a lui pari. Quindi non si aspettava molto da questo piccolo alieno: probabilmente era solo un altro trucco. «Hai un minimo di preparazione nelle arti marziali?», chiese Sull. Tal annuì. «Sono una cintura nera». Sull scrollò le spalle nel modo tipico degli umani. Tal capì che non aveva alcuna cognizione del suo rango. Bene, l'avrebbe scoperto presto. «Usa il tuo sistema e attaccami». Tal annuì di nuovo. Tipico trucco degli allenatori: invitare all'attacco e poi mostrare un modo facilissimo per parare e contrattaccare. Per loro era una bazzecola sapendo quando l'attacco sarebbe giunto e tenendosi pronti a riceverlo. Avrebbe anche potuto risparmiarsi quei preliminari, considerato quanto pagavano la lezione. Il pugno di Tal fu deliberatamente lento, per dare a Sull la possibilità di sembrare bravo almeno una volta. Ma con sua sorpresa l'Arezilah si limitò a spostarsi impercettibilmente di lato, permettendo al colpo di sfiorargli il volto. «Certamente puoi fare di meglio. Prova ancora» Okay. Hai avuto la tua possibilità. Se vuoi giocare... Il secondo e il terzo pugno furono più veloci e meglio diretti. Ma anche loro mancarono il bersaglio.
Sentendosi leggermente irritato, Tal fece seguire l'attacco da un potente calcio laterale che terminò in una presa a rastrello. Niente. Non l'aveva nemmeno toccato. Allora le cose stavano così: una specie di aikido. Bene, sapeva come porvi rimedio. Un buon lottatore poteva ingannare con una finta il suo rivale aikido, costringerlo a impegnarsi e poi prenderlo. L'aveva fatto in passato e l'avrebbe fatto ora. Questa volta l'attacco fu il più diretto, veloce e pesante che riuscisse a organizzare. Era il ben noto, e tanto spesso praticato triplo colpo di taglio e pugno, con doppia finta di mano e finta di gomito. A questo, aggiunse un calcio a uncino: nell'improbabile evenienza che Sull riuscisse a evitare la prima scarica, il calcio l'avrebbe sistemato. Dieci anni di disciplina lo avevano portato a questo. Alla fine, tuttavia, Tal si rese conto di aver mancato il colpo: e una volta aveva battuto il suo istruttore con quella serie! Allora avvertì una leggera pressione, un tocco lievissimo sulla spalla sinistra, e il suo attacco bilanciato si risolse in una caduta. Piegò la testa e cercò di trasformare la caduta in una capriola, ma colpì ugualmente il pavimento con forza, ammaccandosi la schiena. Si rialzò e assunse una posizione di difesa, fronteggiando Sull. Il piccolo alieno aspettava a braccia incrociate. «Non male», ammise Tal. «Sei capace di farlo sempre?». «Cose così si possono fare a occhi chiusi». Tal non gli aveva creduto, allora. Più tardi, gli credette. Il cielo fuori del bar era di uno sporco grigio-verde, mentre cominciava a cadere una pioggia leggera. Tal non si preoccupò, ma camminò nelle strade deserte della città portuale di Louis, incurante dell'acqua. Conosceva il problema. Ma conoscerlo non era lo stesso che risolverlo. Era così difficile... All'inizio era sembrato facilissimo, ma ora... Tal si era allenato per tre cicli lunari del pianeta, circa sei mesi standard. In quel tempo aveva imparato più tecniche di combattimento di quanto a-
vesse fatto in tutti gli anni precedenti. Non riusciva mai a toccare Sull, non importa quanto veloci fossero i suoi attacchi e quante finte usasse, ma anche se non avesse appreso altro al momento sentiva di poter aver ragione di qualunque uomo, in una lotta corpo a corpo. «In realtà», disse Sull, «non hai appreso quasi niente». Le sopracciglia di Tal fecero un salto. «Tutto ciò che abbiamo fatto finora è soltanto... preparatorio». Allora quelle interminabili ore di sudore, quelle sbattute di qua e di là nella stanza anonima simile a un cubo in caduta libera non contavano niente? Dèi, ma che cosa li aspettava, dunque? «Finora abbiamo lavorato con il corpo. Ora ci dedicheremo alla parte più importante, la mente». Tal sorrise. Si preparava qualche specie di poutpourri religioso, ecco cosa. «Il tuo cervello non è fatto come il nostro: così non siamo certi che riuscirai ad apprendere ciò che ti aspetta. Tenteremo. Abbiamo imparato molto, grazie allo studio dei corpi che siamo riusciti a procurarci, a proposito del cervello umano. Gli esami psicoelettrici dimostrano che esistono vaste porzioni del cervello inutilizzate. Uno spreco simile in un organo così altamente sviluppato e specializzato è innaturale». Tal restò silenzioso nella stanza tranquilla, udendo solo la voce dell'Arezilah e il ronzio del condizionatore. «È nostra opinione che queste porzioni del sistema neurologico possano essere sintonizzate sull'Onda». «L'Onda? Che cos'è?». «Non si può dirlo, solo mostrarlo... quando sarai pronto». «E questo quando avverrà?». «Non lo sappiamo. Forse mai. Sei pronto per i preliminari?». «Quando si comincia?». «Ora». Tal fu costretto a stare in ginocchio in una posizione che si rivelò dolorosamente scomoda dopo due minuti. Gli fu ordinato di sopportarla per un'ora. Ogni volta che barcollava Sull lo colpiva sul volto, ma non per fargli del male: solo per ricordargli il suo
dovere. La seduta sembrò eterna. Quando fu terminata, Sull non spiegò a che cosa servisse. Tal imparò a odiarla ogni volta che dovette ripeterla. E dovette farlo due volte al giorno, da allora in poi. Gli incontri di lotta duravano ore, con Tal che attaccava sempre, e Sull che si difendeva sempre. L'alieno faceva sprecare energie all'uomo in colpi che non andavano mai a segno, e non permetteva mai che un singolo pugno lo raggiungesse. Quando Tal pensò di essere arrivato ai limiti della sopportazione, Sull lo costrinse a sforzarsi ancora di più. L'uomo perdette peso, e gli occhi gli affondarono in profonde occhiaie incavate. Il sonno gli fu limitato a tre ore per notte, e quasi ogni ora di veglia fu assorbita dagli esercizi, mentali e fisici. Molte delle cose che faceva gli sembravano del tutto senza senso, e Sull lo teneva come a una catena, senza rallentare mai. Di tutti gli esercizi, uno era quello che Tal odiava di più: la meditazione su un piede solo, come Sull lo chiamava. Lui doveva mantenersi in equilibrio su un solo piede, gli occhi chiusi e la mente «aperta». I suoi muscoli gridavano dal dolore, ma Sull non gli permetteva mai di riposare finché non aveva trascorso mezz'ora su ogni gamba, due volte al giorno. I giorni si trascinavano senza fine, e i cicli duravano eterni. Nelle rare occasioni in cui aveva un momento libero Tal non riusciva a fare altro che sedersi e fissare il vuoto, il corpo e la mente consumati, il suo stesso essere intimamente stanco. «Non usare gli occhi!», lo ammoni Sull. «Usa la mente! Protenditi verso la percezione!». «Sto cercando!». Il sudore scendeva giù dalla faccia di Tal, bagnando la camicia già umida. «Ti sforzi troppo! Cerca, ma non insistere. Lascia semplicemente che succeda».
Ma come si può dire sforzarsi di non sforzarsi? Era come dire: «sforzati di rilassarti», una contraddizione in termini. Se uno si sforza, non si rilassa. Tal cominciò a disperarsi. Il suo corpo e la mente erano ai limiti, e Sull voleva condurlo a superare anche quello sfinimento. Voleva andarsene, tornare a casa, alla quiete della storia passata, ai suoi libri e nastri. Quest'impresa era tremenda, più tremenda di ogni altra che avesse mai tentato, più dura dell'allenamento nel servizio segreto, e di tutti gli anni di lotta messi insieme. Pensò al libro che voleva, ma gli sembrava lontano, irreale. Niente valeva questo tormento, niente. Ma c'era quella scintilla di cocciutaggine che lo costringeva a restare: forse era orgoglio, o senso del dovere, o qualcos'altro. Il fato, magari. Le strade della città divennero oscure, mentre la pioggia calda si faceva più forte. Grosse gocce si abbattevano su Tal, inzuppando lui e il fondo stradale. La pioggia era parte dell'Onda, e rientrava nell'armonia. Non avrebbe potuto cambiarla, anche se avesse voluto, ma non lo voleva. Certo che non lo voleva: questo avrebbe turbato l'Onda, e lui non poteva fare una cosa simile. Non poteva. La rabbia lo fece urlare, lo fece fermarsi e urlare, flagellarsi le braccia e torcere le mani dalla furia impotente. «È inutile! Non posso! Non posso!». Sull sedeva e lo guardava, senza parlare. Tal lo fissò, e la sua rabbia crebbe, si espanse al punto di possederlo interamente, e poi... rifluì, incapace di sopportare la sua stessa violenza. Era troppo stanco per essere arrabbiato, troppo stanco per preoccuparsi. La sua mente si bloccò, e per un istante gli parve di non sentire niente. Sull si mise in piedi e lo raggiunse rapidamente. Gli diede un buffetto con le mani, due macchie rosate, e poi prese a schiaffeggiarlo con dita fredde e sottili. Esercitando una pressione incredibile sulla testa di Tal, egli
spinse. Tal urlò, e conobbe l'Onda. Lo inondò, rotolò su di lui, inarrestabile, lo avvolse, permeando ogni singola cellula; era il cuore dell'universo, più vasto di ogni altra cosa che avesse mai conosciuto. Una marea che era singola, e infinitamente plurima. Colorata, eppure invisibile, sonora e silenziosa: tatto, gusto, sensibilità, l'Onda era tutto. Lei era lui e lui... Svenne, incapace di sopportarla. Quando si riprese, Sull sedeva in silenzio accanto a lui. «Sull, io... è...». «Sì, lo so». Per la prima volta Sull sorrise. Dopo quella volta le cose furono più facili: lui apprese il controllo dell'Onda, e come arginare il flusso, in modo che i suoi sensi potessero contenerlo. Apprese le complicate movenze del Servizio, il sistema che gli permetteva di lavorare con l'Onda, di modificarla. E apprese le armonie, le note, le corde e le melodie. Seppe come parlare all'Onda e come ascoltarla. Imparò ad amarla. Si gloriò nella perfezione del flusso, quando corse regolato, e conobbe il tocco dell'amante, infinitamente più intenso di quanto ogni essere umano avrebbe potuto essere. E apprese della disarmonia: Sull lo condusse in certi luoghi della città dove si potevano sentire vibrazioni improprie. Provò agghiaccianti sensazioni di squilibrio e orribili sofferenze, come un'amputazione, fitte lancinanti alla testa causate da coloro che combattevano l'Onda... Conobbe tutte queste cose. Gli fu mostrato come correggerle, entro la sua sfera d'influenza, e come usare l'Onda per preavvertire la disarmonia, simile a un'increspatura su uno stagno. Sì, una volta che ebbe avuto l'Onda tutto fu più facile, più semplice. All'inizio. La tempesta ora si era scatenata, infuriando su di lui. Il cielo grigio si era mutato in porpora scuro, illuminato da lampi di energia crepitante e per-
cosso da tuoni spaventosi. Mentre camminava i ricordi turbinavano dentro di lui, poiché la sua coscienza non era ferita dal temporale. Pensò a Sull, il suo maestro rinnegato, e al loro ultimo incontro. «Hai imparato bene. Adesso puoi tornartene indietro al tuo mondo, spia». «Tu sapevi?». Sull annuì, e i grandi occhi risplendettero. «Allora perché mi hai insegnato? Se sapevi che avrei usato il Servizio come un'arma, perché? Anche un traditore...». «Non sono un traditore!». Sull si tirò su, fieramente. «Ho fatto il mio dovere. I miei Anziani mi hanno ordinato di istruirti». Tal si sentì mancare. «E perché?». «Noi non abbiamo niente da temere: un padrone dell'Onda è imbattibile, al suo livello. Dovresti averlo imparato». «Sì, certo. Ma ora anche il mio popolo avrà l'Onda!». Sull fece un altro sorriso, il secondo che Tal avesse visto. «Certo, sarete invincibili, come noi. Proprio come noi». «Che vuoi dire?». «È semplice. Si può usare l'Onda per difendersi contro chiunque, ma è impossibile usarla per attaccare». Tal non ci aveva pensato. Ma naturalmente era vero, Sull aveva ragione. Perché qualcuno avrebbe dovuto attaccare? Ciò creava disarmonia, e nessuno che usasse l'Onda l'avrebbe mai fatto. Sarebbe stato... inconcepibile. Oh, Dio. Ma c'era dell'altro. Ed era peggio. Un padrone dell'Onda non poteva attaccare nessuno, adesso lo sapeva, ma non poteva neppure starsene fermo e permettere che altri turbassero l'armonia. Non senza cercare di porvi rimedio. Ecco dunque il motivo per cui l'Arezilah glielo aveva insegnato: era una difesa perfetta, ancora più perfetta delle più evolute arti di combattimento che gli alieni avessero impiegato. Ma avevano fatto di più: lo avevano cambiato, in modo che non potesse
più sopportare l'imperfezione, che non potesse più fare niente. Se lui tornava sulla Terra e mostrava ai suoi simili ciò che sapeva, chiunque probabilmente sarebbe diventato come lui. Ma era pronto l'uomo per la pace? Una pace permanente, e autoimposta, e al prezzo a cui lui poteva offrirla? Sarebbe stato facile andare a casa, dare agli uomini la forza degli dèi, il potere virtuale dell'invulnerabilità. Ma loro avrebbero dovuto anche accettare la responsabilità, come avevano fatto gli Arezilah. Dèi, che abbiamo fatto? Tal ripensò alle vecchie leggende, a Epimeteo, il dimenticato fratello di Prometeo, donatore del: fuoco. Epimeteo, che aveva creato l'uomo, ma cui era mancata la lungimiranza necessaria per fare il lavoro nel modo giusta, e che era stato avaro nel donarci le qualità che ci avrebbero resi diversi dagli animali. Allora era andato da Prometeo per chiedere aiuto, e il più saggio fratello aveva finito il lavoro per lui. Epimeteo, che era capace solo del senno di poi e di riflessioni tardive: un povero dio, che non fu mai capace di portare a compimento un progetto dall'inizio alla fine... Dov'è adesso tuo fratello, Epimeteo? Chi ci salverà adesso? Dalle tenebre del temporale, sottili vibrazioni giunsero a Tal. Forme scure apparvero dietro quei mormorii, con propositi più oscuri ancora nella mente. C'erano il Kreeliano, più alcuni altri. E c'erano molti alieni più piccoli, Stineani. Erano creature minuscole e veloci, armate di lame sinuose, e i coltelli roteanti tagliavano l'acqua, brillando cupamente alla luce dei lampi. Lo circondarono, e il Kreeliano si avvicinò frontalmente. «Stavolta non te la casi così facilmente, terricolo». Se solo sapeste, pensò Tal. Se solo potessi restare quieto e lasciare che mi uccideste, così da liberarmi dal peso della decisione... Ma già la perturbazione dell'Onda lo colpiva, insopportabilmente. La perturbazione causata da quelle creature, con la morte nelle loro menti ignare. Avrebbe dovuto correggere la perturbazione, naturalmente.
E quando si mossero verso di lui finalmente comprese, in modo freddo e incontrovertibile. E prese la sua decisione. Le perturbazioni vanno corrette. Tutte. Ovunque. Titolo originale: Where Now Is Thy Brother, Epimetheus?
SCAMBIO SCONVENIENTE Isaac Asimov Continuavo ad andare alla deriva, e ogni tanto mi veniva in mente un pezzetto di musica. E le parole: «Diventan gli sciocchi conti e baroni, ma gli uomini intelligenti restan nell'oscurità». Fui consapevole della luce, poi della faccia di John Sylva, china su di me. «Ciao, Herb», disse la sua bocca. Non udii le parole, ma vidi le labbra formarle. Annuii e sprofondai di nuovo. Era buio quando riemersi un'altra volta. Un'infermiera si arrabattava intorno a me, ma io giacevo tranquillo e lei sparì. Era un ospedale, naturalmente. Non ero sorpreso: John mi aveva avvertito e io avevo accettato il rischio. Mossi le gambe, poi le braccia, piano piano. Non mi facevano male, e conservavano la sensibilità. La testa mi pulsava, ma anche questo c'era da aspettarselo. «Diventan gli sciocchi conti e baroni, ma gli uomini intelligenti restan nell'oscurità». Tespi, pensai con giubilo: avevo sentito la Tespi! Sprofondai di nuovo.
Era l'alba, e c'era gusto di succo d'arancia sulle mie labbra. Succhiai dalla cannuccia, con gratitudine. La macchina del tempo! No, John Sylva non voleva che la chiamassi così: trasferimento temporale, ecco come diceva lui. Potevo sentirglielo ripetere, e ne ero deliziato. Il mio cervello sembrava perfettamente normale. Cercai di risolvere mentalmente alcuni problemi, e pensai alla radice quadrata di 543. E poi nominai tutti i presidenti, in ordine. Oh, sembravo in ottima forma intellettuale. Potevo dirlo davvero? Ma certo, mi rassicurai che potevo. La grande preoccupazione era stata proprio quella dei danni cerebrali, e credo che non avrei mai corso il rischio se non fosse stato per la Tespi. Dovreste essere un fanatico di Gilbert & Sullivan per capirlo: io lo ero, e anche Mary. Ci eravamo conosciuti a un incontro del club G & S, ci eravamo corteggiati nelle riunioni successive e a teatro, mentre seguivamo gli spettacoli del Village Light Opera Group. Quando finalmente ci sposammo, un coro dei nostri amici del club cantò «Quando una fanciulla felice vola a nozze», dai Gondolieri. Dunque col cervello ero a posto. Ne ero sicuro, e fissai la fredda alba grigia che tingeva la finestra, riandando con memoria sempre più chiara ai fatti che erano accaduti. «Non è una macchina del tempo», diceva la voce di John nella mia mente. «Ci vorrebbe un'automobile per scorazzare avanti e indietro nei corridoi del tempo, ma è teoricamente impossibile. Quello di cui ci occupiamo noi è il trasferimento temporale. La mente può esercitare un'influenza sul tempo, o meglio, possono farlo le particelle subatomiche. Ora, se sono organizzate tanto complessamente come in un cervello avanzato, quest'influenza si moltiplica al punto da diventare apprezzabile, e io credo sfruttabile. Se due menti sono abbastanza simili fra loro può stabilirsi una risonanza, al punto che la coscienza può superare il tempo che le divide. Ecco cos'è il trasferimento temporale». «E tu puoi controllarlo?». «Penso di sì. Penso che ogni mente sia in risonanza con molte altre, e Dio sa se questo non spiega tante cose, a proposito dei sogni, delle sensa-
zioni di déja vu, dell'ispirazione improvvisa e così via. Ma per attuare un vero e proprio trasferimento ci vuole un'eccezionale risonanza fra due menti particolari, e bisogna amplificarla notevolmente». Io fui uno delle centinaia di individui che John sondò. Era inutile provare con gli animali, poiché solo il cervello umano produceva un campo abbastanza forte da poter essere individuato dagli strumenti. I delfini forse sarebbero andati bene, ma sarebbe stato pratico lavorare con loro? «Praticamente tutti posseggono una risonanza apprezzabile», disse John. «Tu ne hai una molto forte, per esempio, in una particolare direzione». «E con chi?», chiesi interessato. «È impossibile dirlo, Herb», disse lui. «Inoltre non possiamo essere sicuri di quanto siano esatte le nostre stime di spazio e tempo, ma apparentemente si tratta di qualcuno che visse a Londra nel 1871». «A Londra nel 1871?». «Sì. Ma non potremo verificare i nostri dati finché non sottoporremo qualcuno a un'amplificazione abbastanza forte da produrre il trasferimento, e francamente non mi aspetto di trovare molti volontari». «Mi offro io», dissi. Mi ci volle un po' di tempo per convincerlo che facevo sul serio. Eravamo vecchi amici, e lui sapeva della mia passione per Gilbert & Sullivan, ma immagino che non potesse concepirne la profondità. Mary invece poteva: ne fu affascinata proprio come me. Le dissi: «Pensa che fortuna! La Tespi fu prodotta a Londra proprio nel 1871. Se io potessi trovarmi in quel luogo e a quel tempo, potrei ascoltarla. Potrei...». Era un pensiero incredibile. Tespi fu la prima delle quattordici operette di Gilbert & Sullivan, un lavoro leggero e certamente minore, ma pur sempre di Gilbert & Sullivan; per di più la musica era andata irrimediabilmente perduta, tranne un coro introduttivo che fu poi usato con molto successo nei Pirati di Penzance, e una ballata. Ah, se avessi potuto ascoltarla! Dissi, entusiasticamente: «E non solo ascoltarla. Se potessi mettere le mani sulla partitura, e studiarla... Se potessi metterne una copia in una cassetta di sicurezza, e in qualche modo conservarla fino a oggi. Se...».
Gli occhi di Mary scintillavano, ma lei non perse il suo senso pratico. «Ma potresti farlo davvero? Certo, riportare alla luce la Tespi sarebbe la scoperta del secolo, per gli amanti di Gilbert & Sullivan, ma è inutile nutrire false speranze. Se tu entrerai nella mente di un tizio qualsiasi nel 1871, potrai fargli fare ciò che vuoi?».
Disegno di Freff «Potrei tentare», risposi. «Sicuramente sarà una persona che mi somiglia molto, se c'è una tale corrispondenza fra le nostre menti attraverso l'abisso di più di un secolo. Avrà quindi i miei gusti». «Ma se ti succede qualcosa?». «Certi obiettivi valgono pure i loro rischi», dissi con fermezza, e lei ne convenne: non sarebbe stata la mia Mary, se no. Tuttavia non le dissi che John mi aveva prospettato la possibilità di danni al cervello. «Non c'è modo di prevedere quanto il rischio sia grande», mi aveva detto lui, «o se c'è realmente un rischio. Dobbiamo provare. Ma preferirei non farlo col mio migliore amico». «Il tuo miglio amico insiste», affermai, e firmai tutti i documenti che i legali della Fondazione per il Trasferimento Temporale avevano preparato, con cui li sollevavo da ogni responsabilità. Presi inoltre una precauzione: non dissi a Mary quando esattamente sarebbe accaduto. Se qualcosa andava storto, non volevo che lei fosse con
me, al momento. Avrebbe presto fatto il suo solito viaggio annuale in Canada per andare a trovare i genitori, e quindi, quale momento migliore? John non sarà pronto prima dell'autunno, a dir poco», le mentii, e feci del mio meglio per sembrare contrariato. Tre giorni dopo Mary partì, e noi fummo pronti. Non mi sembrava di essere nervoso, e non lo fui nemmeno quando John disse: «Potrebbe non essere piacevole, sai». Scrollai le spalle. «John», chiesi, «quando sarò in Inghilterra, potrò agire, fare qualcosa? Volontariamente, intendo». John rispose: «Questo è un altro punto su cui non posso pronunciarmi categoricamente fino al tuo ritorno, che tra parentesi sarà spontaneo. Anche se io morissi o l'energia non bastasse la risonanza alla fine s'interromperebbe, e tu ti troveresti di nuovo qui. È a prova di errore, perché il tuo corpo fisico non partirà con te. Capisci?». «Sì, capisco». John pensava che rassicurarmi su questo punto avrebbe ridotto la tensione e diminuito le possibilità di danni al cervello. Mi rassicurò ancora e ancora. Io insistei: «Ma potrò agire?». «Ritengo di no. Penso che sarai capace soltanto di osservare». «Potrò modificare la storia?». «Questo provocherebbe paradossi, che è ciò che rende impossibile la nozione comune di viaggio nel tempo. Tu potrai osservare, e riportare indietro quelle osservazioni: cambierai la storia, ma solo in questo senso. E questo non provoca paradossi». «Meglio di niente», borbottai. «Certo», disse lui. «Potrai ascoltare quella tua operetta, forse, e questo sarà già qualcosa». Qualcosa, ma non abbastanza: io non ero un esperto musicista, e non avrei potuto riprodurre ogni nota. Mi consolai con la speranza che John si sbagliasse o che, magari, stesse mentendo. Se esisteva la probabilità che la storia venisse alterata l'Ufficio per gli Stanziamenti Tecnologici non avrebbe consentito che gli esperimenti continuassero. Certo John doveva sostenere che una tale possibilità non esisteva, o gli avrebbero tagliato i fondi. Mi portarono la colazione, e l'infermiera disse, con un sorriso standar-
dizzato: «Be', mi sembra che sia abbastanza in sé, ora». Aveva interrotto i miei ricordi, e non era nemmeno una gran colazione, ma io ero abbastanza affamato da trovare buoni perfino i fiocchi d'avena. Era un buon segno, e nella mia mente una voce cantò: «Oh, oh, questo è il modo che il mondo va, e così sempre sarà! Diventan gli sciocchi conti e baroni, ma gli uomini intelligenti restan nell'oscurità». Lo riconobbi: era il coro che precede l'assolo di Mercurio, dal primo atto della Tespi. O almeno, riconobbi le parole. La musica mi era nuova, ma era di Sullivan: su questo non c'erano dubbi. John Sylva arrivò alle dieci. Disse: «Mi hanno chiamato per dirmi che finalmente hai smesso le endovene, e che volevi vedermi. Come ti senti? Mi sembri abbastanza normale». Ma il suo sollievo non era completo: c'era un'aria preoccupata, nei suoi occhi. «Io ho chiesto di te?». Mi sforzai di ricordare. «Continuamente, quando eri semi-incosciente. Sono stato qui ieri, ma non eri del tutto sveglio». «Mi pare di ricordare», dissi, poi mi liberai di quel pensiero. «Ascolta, John», dissi. La mia voce era ancora debole, ma attaccai lo stesso l'assolo di Mercurio: «Oh, io son quello che nel cielo sfacchina dal mattino alla sera... Questa cosa deve finire. Faccio il galoppino tutto il giorno...», e andai avanti a cantare fino alla fine. John annui, tenendo il tempo. «Carino», disse. «Carino!». Era la Tespi, e io avevo visto lo spettacolo tre volte, a Londra. Non avevo dovuto faticare molto: il mio alter ego (un agente di cambio, tra parentesi, di nome Jeremy Bentford) l'aveva fatto di sua spontanea volontà. E poi avevo cercato di procurarmi una copia della partitura: ero riuscito a far intrufolare Bentford nel camerino di Sullivan durante la terza rappresentazione. Anche per questo non c'era voluto molto sforzo: era quello che anche lui voleva. Eravamo davvero molto simili, e questo era il motivo della nostra corrispondenza, naturalmente. «Il guaio è che fu beccato e buttato fuori. Aveva praticamente la partitura in mano, ma non riuscì a tenerla. Così, hai ragione tu: non possiamo cambiare il passato... Ma possiamo cambiare il futuro, perché ho imparato a memoria tutte le arie più importanti della Tespi».
John disse: «Ma di che stai parlando, Herb?». «L'Inghilterra! Nel 1871! Per l'amor di Dio, John: il trasferimento temporale!». Per poco lui non fece un salto. «Ed è per quello che volevi vedermi?». «Sì, naturalmente. Come puoi domandarmelo? Non sei stato qui tutto il tempo? Gesù, mi hai spedito nel passato. O almeno la mia mente». John sembrava completamente perso. Stavo dicendo forse cose senza senso? Il mio cervello era stato danneggiato, dunque? Ciò che sto dicendo è diverso da ciò che penso di star dicendo? Lui disse: «Abbiamo parlato molto del trasferimento temporale, Herb, è vero. Ma...». «Ma cosa?». «Non ha mai funzionato. Te lo ricordi, non è vero? È stato un fallimento». Adesso era il mio turno di essere allibito. «Come può aver fallito? Tu mi hai mandato indietro...». John ci pensò su un momento, poi si alzò. «Fammi andare dal dottore, Herb». Cercai di afferrargli la manica: «No, tu l'hai fatto! Altrimenti, come farei a conoscere i motivi della Tespi? Non crederai che li ho inventati, no? Mi credi capace di inventare quello che ti ho appena cantato?». Ma lui chiamò l'infermiera, e se ne andò. Più tardi arrivò il dottore e procedette al ridicolo rituale della visita di controllo. Perché John mentiva? Aveva avuto guai col governo per aver spedito la mia mente indietro nel tempo? Stava cercando di salvarsi il progetto obbligando anche me a mentire, o facendomi passare per pazzo? Era un pensiero inquietante e deprimente. Avevo la musica della Tespi, ma potevo provare che lo era davvero? Non sarebbe stato più facile pensare a una contraffazione? Forse poteva aiutarmi la Gilbert & Sullivan Society di New York, pensai: tra loro doveva esserci qualcuno capace di riconoscere la mano di Sullivan! Ma se John restava fermo nel suo diniego, tutto avrebbe contribuito a screditarmi. Il mattino seguente mi sentii battagliero: per la verità non avevo pensato ad altro. Telefonai a John (o dissi all'infermiera di farlo, è lo stesso) e gli
dissi che volevo vederlo di nuovo. Mi dimenticai completamente di chiedergli di portarmi la posta, che sicuramente conteneva qualche lettera di Mary. Quando John arrivò io dissi, non appena la porta si aprì e la sua faccia apparve nel vano: «Ascolta, ho la musica della Tespi. Te l'ho fatta sentire. Neghi che io dica la verità in proposito?». «No, naturalmente no, Herb», rispose pacatamente. «Anch'io conosco quelle arie». Questo mi paralizzò. Deglutii, e dissi: «Come puoi...?». «Senti, Herb, io lo capisco. Posso immaginare che vorresti che della Tespi si fosse persa memoria. Ma non è così, e devi rendertene conto. Guarda». Mi porse un libretto dalla copertina blu. Il titolo era Tespi, parole di William Schwenk Gilbert, musica di Arthur Sullivan. Lo aprii e lo sfogliai nel più completo sbalordimento. «Dove l'hai preso?». «In un negozio di musica vicino al Lincoln Center. Lo puoi trovare dovunque vendono gli spartiti di Gilbert & Sullivan». Restai in silenzio per un po'. Poi chiesi, in tono lamentoso: «Voglio che tu faccia una telefonata per me». «A chi?». «Al presidente della Gilbert and Sullivan Society». «Certo, dammi il numero e il nome». «Chiedigli di venire qui. Appena può. È molto importante». E di nuovo dimenticai di chiedergli la posta: ma comunque, la Tespi veniva prima di tutto. Saul Reeve arrivò in camera mia subito dopo colazione; la faccia gentile e il confortevole pancione erano elementi di solidità cui mi aggrappai con sollievo. Era la personificazione della Società, ma fui un poco sorpreso che non indossasse la sua maglietta con Gilbert & Sullivan. Disse: «Sono terribilmente felice che tu te ne sia tirato fuori, Herb. La Società è stata terribilmente in pensiero». (Tirato fuori da cosa? In pensiero per cosa? Come facevano a sapere dell'esperimento di trasferimento temporale? E se loro sapevano, perché
John continuava a mentire e a dire che non era mai avvenuto?). Dissi, seccamente: «Cos'è questa faccenda della Tespi?». «Che faccenda?». «La musica, esiste?». Il povero Saul non è un attore. Sa tutto quello che c'è da sapere su Gilbert & Sullivan, ma per il resto è vergine come un bambino. L'espressione di stupore che gli si dipinse sul volto era il segno di una genuina, sincera emozione. Disse: «Certo che esiste... ma per un pelo, se è questo che vuoi dire». «Come sarebbe, per un pelo?». «Oh, sai benissimo la storia». «Non importa. Dimmela. Dimmela!». «Be', Sullivan non fu per niente soddisfatto dell'accoglienza riservata all'opera, e aveva deciso di non pubblicare la partitura. Poi ci fu un tentativo di furto: un agente di cambio tentò di rubare lo spartito, e praticamente lo teneva in mano quando lo beccarono. Sullivan disse che se la partitura era abbastanza buona da tentare di rubarla, allora era anche buona per essere pubblicata. Se non fosse stato per quell'agente di cambio oggi non avremmo la musica, forse. Be', non che sia molto popolare, la rappresentano raramente... Ma tu sai tutto questo». Dopo non lo ascoltai più. ...Se non fosse stato per quell'agente di cambio! Allora io avevo cambiato la storia. Questo chiariva dunque tutti quei misteri... Un fatto così insignificante come la pubblicazione della Tespi aveva increspato le acque del tempo, e dato origine a un solco temporale alternativo, nel quale io ora mi trovavo... Ma se era così, che cosa aveva veramente provocato l'alterazione? La musica non poteva essere così importante: aveva forse ispirato qualcuno a fare o dire qualcosa che altrimenti non sarebbe mai stato detto o fatto? O magari la carriera dell'agente di cambio aveva avuto una svolta, dopo l'ansia del tentato furto, e questo aveva messo in moto il cambiamento? E ancora: il nuovo corso degli eventi era così diverso che John Sylva non era mai riuscito a sviluppare la tecnica del trasferimento temporale? Se era così, io ero intrappolato per sempre in questo mondo...
Adesso ero solo: non mi ero reso conto che Saul era andato via. Scossi la testa: com'era possibile? Come potevano le possibilità del trasferimento temporale essersi trasformate nella loro negazione? John Sylva non era cambiato. Saul Reeve non era cambiato. E allora, come faceva a esserci un cambiamento così macroscopico senza tanti mutamenti più piccoli alla base? Chiamai l'infermiera. «Mi porti una copia del "Times", per favore. Di oggi, di ieri, della scorsa settimana, non importa». Forse avrebbe trovato una scusa per non portarmela... Forse c'era una cospirazione per lasciarmi in quello stato di confusione, per qualche ragione che non potevo capire... Ma invece me la portò. Guardai la data: era quattro giorni dopo l'esperimento temporale. I titoli sembravano normali: il presidente Carter, la crisi in Medio Oriente, il lancio di un satellite... Lo sfogliai pagina per pagina, in cerca di qualche discrepanza rilevante. La senatrice Abzug aveva presentato un disegno di legge per portare aiuti federali la New York, finanziariamente in crisi. La senatrice Abzug? Ma non aveva perso le primarie dei Democratici in favore di Patrick Moynihan, nel 1976? Avevo cambiato la storia: salvando la Tespi, avevo distrutto il lavoro di John sul trasferimento temporale, e avevo fatto vincere le primarie, e poi le elezioni, a Bella Abzug. C'erano altri cambiamenti? Milioni di cambiamenti insignificanti su persone insignificanti che non avrei nemmeno riconosciuto? Se avessi avuto una copia del «Times» del mio mondo e avessi potuto compararlo con quello che stavo leggendo, avrei trovato un solo centimetro di carta in una qualsiasi colonna, in una qualsiasi pagina, esattamente uguale? Se le cose stavano così, non sapevo che cosa sarebbe accaduto della mia vita: io mi sentivo esattamente lo stesso. Naturalmente i miei ricordi riguardavano solamente la vita nell'altro solco temporale, il mio. In questo... avrei potuto avere dei figli, magari. E forse mio padre era ancora vivo. Potevo anche essere un disoccupato, per quel che ne sapevo.
Allora mi ricordai della posta, e desiderai averla. Chiamai l'infermiera e le dissi di telefonare di nuovo a John Sylva. Lui aveva una chiave del mio appartamento (ma era così anche in questo universo?), e avrebbe potuto portarmi le lettere di Mary. Ma John non venne; molto dopo cena arrivò invece il dottore. Però non era venuto per la solita routine tipo: dica trentatré. Si sedette e mi guardò pensieroso. Esordì: «Il signor Sylva mi ha detto che lei credeva che la musica di quell'opera, la Tespi, fosse andata perduta». Stetti in guardia: non mi avrebbero chiuso in un manicomio, questo no. Così risposi: «Lei è un appassionato di Gilbert & Sullivan, dottore?». «Non un appassionato, ma ho visto molte delle loro operette; inclusa la Tespi, circa un anno fa. Lei ha mai visto la Tespi?». Feci un cenno con la testa: «Sì, certo», e canticchiai l'assolo di Mercurio. Forse era meglio non dirgli che l'avevo vista nel 1871. Lui chiese: «Allora non crede che la musica sia andata persa, vero?». «Certamente no, dal momento che la conosco». Questo lo bloccò. Si schiarì la gola e cercò un'altra via. «Il signor Sylva pensa che lei avesse l'impressione... di essere tornato indietro nel tempo». Mi sentivo come un torero che affronta la carica del toro. E mi piaceva, quasi. «Oh, è uno scherzo fra di noi». «Scherzo?». «Il signor Sylva e io parlavamo spesso dei viaggi nel tempo». «Quindi», fece il dottore con una specie di esasperata pazienza, «questo era l'argomento su cui lei aveva deciso di scherzare. La scomparsa della Tespi...». «E perché no?». «Ha qualche ragione particolare per desiderare che quella musica non... esista?». «Ma no, naturalmente no». Mi guardò, riflettendo. «Mi ha detto di aver visto una rappresentazione della Tespi. Quando?». Scrollai le spalle: «Non posso ricordarlo così su due piedi. Perché?». «Potrebbe essere stato l'anno scorso, in dicembre?».
«È quando l'ha vista lei, dottore?». «Sì». «È possibile che sia stato allora». Il dottore incalzò: «Era una pessima giornata, quando l'ho vista io. Pioggia gelata. Questo l'aiuta a ricordare?». Stava per caso cercando d'intrappolarmi? Se avessi detto di ricordare anch'io le stesse cose, mi sarei cacciato in un trabocchetto? Risposi: «Senta, io non sto bene, e non posso rammentare ogni dettaglio con chiarezza. Che cos'altro ricorda, lei?». Gli avevo rilanciato la palla. Disse: «Quel giorno il teatro era pieno, nonostante il tempo. Molti vennero solo perché si trattava della Tespi, un'opera che danno molto raramente, e che quindi in pochi conoscono. È questa la ragione per cui io ci andai. Se la musica della Tespi fosse andata perduta, o se si fosse trattato di qualunque altra opera, naturalmente non ci sarei andato. È questo il motivo per cui lei ha detto al signor Sylva, quando è tornato in sé, che la musica non esisteva?». «Ma che vuol dire?». «Be', che in tal caso nemmeno lei ci sarebbe andato, e che quindi non sarebbe stato in quel taxi, al ritorno...». «Non la capisco». «Lei ha avuto un incidente, signore». «Vuol dire che è per questo che mi trovo qui?». Lo fissai con ostilità. «Oh, no. L'incidente è avvenuto un anno fa. È per via di sua moglie». Mi sembrò di essere pugnalato con una lama di ghiaccio. Cercai di reggermi sul gomito, ma dovette aiutarmi l'infermiera. Non l'avevo vista entrare. Il dottore disse: «Ora, ricorda?». Ma che cosa avrei dovuto ricordare? Che cosa c'era di più terribile? Dissi: «Mia moglie rimase uccisa?». Dica di no. Per favore, dica di no. Ma la vaga tensione del dottore diminuì, e tirò un sospiro. «Allora ricorda». Smisi di agitarmi: c'era ancora un punto oscuro, in quella faccenda. «Allora perché sono in ospedale? Avanti!».
«Vuol dire...». «Me lo ripeta!». Stava per rivelarmi la verità. La sua verità, la verità di questo mondo. Attesi che parlasse. «Dopo l'incidente lei ha subito una crisi depressiva. Ha tentato di suicidarsi, e noi l'abbiamo salvata. Ma l'aiuteremo». Non mi mossi, non parlai. Come potevano aiutarmi? Avevo cambiato la storia. Non sarei mai più tornato indietro. Avevo ritrovato la Tespi. Avevo perso Mary. Titolo originale: Fair Exchange? QUEL SORCIO FARABUTTO CHE NON ARRUGGINISCE MAI Harry Harrison I Blodgett è un pianeta tranquillo: il sole splende aranciato, la brezza fresca soffia gentile, mentre l'aria silenziosa è appena disturbata dal rombo distante dei razzi nello spazioporto. Tutto molto rilassante... fin troppo, per uno come me che deve stare in guardia, all'erta e sul chi vive in ogni momento. Ammetto però che non stavo facendo nessuna di queste cose quando l'annunciatore della porta di casa pigolò: l'acqua calda scrosciava sulla mia testa ed ero assonnato come un gatto che fa la siesta. «Vado io», disse Angelina, alzando la voce per essere udita sopra lo scroscio della doccia. Gorgogliai una specie di risposta mentre, con riluttanza, chiudevo il rubinetto e saltavo fuori. L'asciugatore mi avvolse in un manto d'aria calda, mentre un velo di lozione mi faceva pizzicare il naso. Canticchiavo tra me con gioia da sibarita, in pace col mondo e nudo come il giorno in cui ero nato (tranne naturalmente per i pochi aggeggetti di cui non mi libero mai). La vita aveva i suoi piaceri, e, mentre ammiravo il mio corpo aitante e la faccia vigorosa nello specchio, con quello spruzzo grigio alle tempie che aggiungeva effettivamente una nota di classe, non riuscivo a pensare a nulla di allarmante. A nulla, tranne l'improvvisa stretta che mi aveva afferrato, mandandomi
piccoli brividi lungo la spina dorsale. Era una premonizione psi? No, era solo il passare dei secondi: Angelina era stata troppo tempo alla porta. Qualcosa non andava. Mi precipitai nella sala e poi scesi giù, di corsa: la casa era vuota. Allora superai la porta d'ingresso e uscii sulla strada, saltellando disperatamente su una gamba mentre estraevo la pistola dalla fondina attaccata alla caviglia, e strabuzzavo gli occhi alla vista di Angelina ficcata in una macchina nera da due tipacci corpulenti. La macchina balzò in avanti e io arrischiai un colpo ai pneumatici, ma non potei sparare una seconda volta perché c'era troppo traffico. Angelina! Serrai i denti con rabbia, esplosi vari colpi in aria, in modo che gli spettatori che stavano godendosi le mie nudità pensassero piuttosto a cercarsi un riparo. Ma riuscii a serbare abbastanza lucidità da memorizzare la targa dell'auto. Rientrato in casa considerai la possibilità di chiamare la polizia, come ogni buon cittadino avrebbe fatto, ma siccome io sono sempre stato un cattivo cittadino abbandonai rapidamente l'idea. Temibile è l'Infido Jim di Griz nella sua collera! E la vendetta sarebbe stata mia. Attivai il terminalcomputer, impressi l'impronta del pollice sulla piastra d'identificazione, inserii il codice di priorità e la targa dell'auto dei rapitori, e feci domanda d'identificazione. Non era un problema per un computer planetario, e la risposta apparve sullo schermo appena schiacciai il bottone STAMPAMELA. Quando l'ebbe fatto caddi attonito nella poltrona. L'avevano presa loro, dunque! Era molto peggio di quanto avessi immaginato. Adesso statemi bene a sentire, non fatevi strane idee che io sia un codardo. Anzi, è l'opposto, lo confesso in tutta umiltà. Avete davanti a voi il sopravvissuto a una vita di crimini, che è anche sopravvissuto a un'altra vita spesa a combattere il crimine dopo l'arruolamento nel Corpo Speciale, l'organizzazione selezionata su scala galattica che usa le carogne per fregare altre carogne. E il fatto che mi sia conservato relativamente sano in anima e corpo tutti questi anni certo depone a favore dei miei riflessi, se non della mia intelligenza. E adesso dovevo usare tutta la mia esperienza per tirar fuori mia moglie da questo
dannato pasticcio. Ci voleva cervello, non azione, e benché fosse ancora mattino presto afferrai una bottiglia di Vecchio Spremicervello a 140° e me ne versai una generosa dose per lubrificarmi le sinapsi. Al primo sorso realizzai che i ragazzi dovevano aiutarmi nella faccenda. Angelina e io, amorevoli genitori, avevamo cercato di tenerli fuori dai crudeli fatti del mondo, ma adesso questo tempo era finito. Mancavano ancora alcuni giorni al loro diploma scolastico, ma ero sicuro che i tempi si potevano accelerare, usando un po' di persuasione e toccando i tasti giusti. Era strano pensare che i ragazzi erano praticamente fuori dall'adolescenza: come passano gli anni... la loro madre - Angelina, il mio tesoro rapito! era bella come sempre. Per quanto riguardava me potevo essere più vecchio, ma non più saggio. Il grigio nei capelli non aveva intaccato la brama del mio cuore. Non sprecai neppure un momento, pur facendo queste nostalgiche riflessioni, e dopo essermi buttato addosso i vestiti, aver infilato gli stivali e aver sistemato sulla mia persona una quantità di letali aggeggi tecnologici, scesi in garage mentre ancora mi abbottonavo l'ultimo bottone. La mia rossa, brillante Firebom 8000 ruggì mentre la porta si apriva, e si precipitò giù per la strada, costringendo gli esterrefatti cittadini del pacifico Blodgett a fuggire in tutte le direzioni. L'unica ragione per cui ci eravamo stabiliti su questo bucolico pianeta era di restare vicini ai ragazzi mentre completavano le scuole, ma mi avrebbe fatto un gran piacere abbandonarlo senza nemmeno un'occhiata di rimpianto. Non solo era noioso come tutti i pianeti agricoli, ma era anche afflitto da una burocrazia tentacolare. Poiché occupava una posizione centrale rispetto a un gran numero di sistemi stellari e vantava un clima salubre, i burocrati e gli amministratori della Lega vi si erano trasferiti per creare un'economia secondaria basata sui pubblici uffici. Io preferivo gli agricoltori. Le fattorie cedettero il posto agli alberi mentre bruciavo la strada, e poi alle squallide colline rocciose. Si rabbrividiva, a quell'altezza, alla vista delle cupe scarpate di pietra, e quando ebbi superato l'ultima curva mi sembrò che quella deprimente giornata s'intonasse perfettamente alla rozza linea dell'alto muro di pietra davanti a me. Mentre la grande cancellata che finiva in tante punte aguzze si sollevava lentamente cigolando, ammirai,
non per la prima volta, le lettere incise sul lastrone nero all'ingresso: CONVITTO MILITARE E PENITENZIARIO DORSKY I miei due gemelli erano imprigionati qui: come padre ne provavo pena, ma come cittadino mi sentivo sollevato. Quello che io sapevo essere solo spirito burlone, nei ragazzi, atterriva il resto del mondo: prima di venire qui erano stati espulsi da un totale di 214 scuole. Tre di queste erano poi bruciate in circostanze misteriose: un'altra era addirittura saltata in aria. Io non avevo mai creduto che il tentato suicidio in massa di tutti i professori, in un'ennesima scuola, avesse a che fare coi miei figli, ma le male lingue continuano a sparlare. In ogni caso avevano trovato il loro degno pari, se non proprio il loro maestro, nel vecchio colonnello Dorsky. Dopo essere stato costretto a ritirarsi dall'esercito aveva aperto questa scuola e aveva messo a frutto tanti anni di servizio, esperienza e sadismo. I miei figlioli avevano, sia pur con riluttanza, avuto la loro educazione, avevano compiuto il ciclo di studi e tra pochi giorni avrebbero affrontato la cerimonia del diploma e quindi sarebbero stati messi in libertà condizionata. Solo che adesso le cose dovevano un pochino accelerarsi. Come sempre consegnai le armi con una certa riluttanza, fui sottoposto ai raggi X e ai vari raggi spia, immesso attraverso le varie porte automatiche e lasciato nel quadrato interno. Vi si trascinavano alcune figure spiritate, abbattute dall'efficacia del sistema a prova di attentati e a prova di evasione della scuola. Ma più avanti, attraversato il prato d'erba artificiale in cemento armato, c'erano due figure vivaci, per nulla abbacchiate o avvilite. Feci un fischio, e quelli posarono i libri e corsero a salutarmi calorosamente. Dopo di che mi rimisi in piedi lentamente, mi scrollai la polvere di dosso e gli provai che un vecchio bastardo può ancora insegnare ai suoi cuccioli un trucchetto o due. Risero, si fregarono le parti doloranti e si rimisero in piedi anche loro. Erano un po' più bassi di me, perché avevano preso dalla madre, ma belli e forti come dèi. Parecchi papà con figlie femmine avrebbero fatto meglio a comprarsi una pistola, una volta che fossero usciti
di li. «Che cos'era quella mossa col braccio e il gomito, pa'?», chiese James. «Le spiegazioni possono aspettare. Sono qui per accelerare il vostro diploma, perché a mamma è successo qualcosa di non molto piacevole, stamattina». I sorrisi cinici sparirono all'istante, si protesero entrambi verso di me e bevvero ogni parola mentre raccontavo ciò che avevo visto. Di tanto in tanto annuivano il loro assenso. «Okay, allora», disse Bolivar. «Vediamo di convincere un po' il vecchio fetente Dorsky, e poi usciamo di qui...». «...E mettiamoci all'opera», aggiunse James, completando la frase. Lo facevano spesso, pensando come un uomo solo. Ci avviammo, alla bella andatura di centoventi passi al minuto, attraverso la grande sala e oltre gli scheletri in catene, su per la scalinata principale, sciaguattando nell'acqua che ne veniva costantemente giù, e finalmente fummo nell'ufficio del Capo. «Non si può entrare», disse il segretario-guardia del corpo tirandosi in piedi, duecento chili di carne addestrata a combattere. Ma noi non rallentammo: fummo poi costretti a scavalcare il suo corpo privo di sensi. Dorsky alzò lo sguardo grugnendo mentre facevamo il nostro ingresso, la pistola in pugno. «Mettila via», gli dissi. «È un'emergenza, e sono venuto per i miei figli qualche giorno in anticipo. Sii gentile, dagli i diplomi e i certificati di prestato servizio». «All'inferno! Non ammetto eccezioni. Andate fuori di qui!», fu quanto seppe consigliarci. Sorrisi alla pistola sempre puntata e decisi che una spiegazione sarebbe stata più fruttuosa della violenza. «Ho detto che è un'emergenza. Mia moglie, la madre dei ragazzi, è stata arrestata stamattina, e portata via». «Per forza, con le vite sregolate che fate. E adesso, fuori». «Senti, faccia di culo, deficiente, dinosauro militare, io non sono venuto qui né per simpatia verso di te né per combinare casino. Se fosse stato un arresto ordinario i poliziotti si sarebbero trovati K.O. dopo due secondi:
detective, agenti, polizia militare o dogana, nessuno resiste alla furia della mia Angelina». «Be'?», disse, stupito, ma senza abbassare la canna della pistola. «Si è fatta portare via senza protestare per darmi tempo. Tempo che mi serviva per prendere il numero sulla placca di circolazione della macchina. E quei furfanti erano agenti del...». Tirai un profondo respiro. «...Del Fisco Interstellare». «Gli uomini dell'imposta sul reddito!», sibilò lui, con gli occhi che gli diventavano rossi. La pistola sparì. «James diGriz, Bolivar diGriz, venite avanti. Accettate questi diplomi come attestato del riluttante compimento da parte vostra di tutti i corsi, e del tempo che avete servito in questo istituto. Siete ora ex-allievi del Convitto Militare e Penitenziario Dorsky, e spero che, come tutti gli altri diplomati, vorrete ricordarci ogni sera con una piccola maledizione prima di coricarvi. Vi stringerei la mano, ma le mie ossa si stanno facendo deboli e non mi concedo più da tempo la lotta libera. Andate con vostro padre e aiutatelo nella battaglia contro il male, e se vi capita date un colpo anche per me». Era tutto. Un minuto dopo eravamo fuori al sole e saltavamo in auto. I ragazzi si lasciavano alle spalle tutto ciò che avevano d'infantile ed entravano nel mondo delle responsabilità adulte. «Non faranno del male a ma', vero?», chiese James. «Non camperanno a lungo, se si azzarderanno», rispose Bolivar, e io sentii benissimo i suoi denti che si serravano. «Ma no, ma no. Ottenere il suo rilascio sarà abbastanza facile se riusciremo a mettere in tempo le mani sulle loro registrazioni». «Che registrazioni?», chiese Bolivar. «E perché quel fetente di Dorsky ci ha aiutati così facilmente? Non è da lui». «È da lui, perché sotto quella crosta di stupidità, violenza e sadismo militare è ancora abbastanza umano, proprio come noi. E come noi considera gli agenti delle tasse il nemico naturale». «Non capisco», disse James, e afferrò il reggimano mentre prendevamo una curva stretta, a un millimetro dallo strapiombo verticale. «Sfortunatamente capirai», gli risposi. «Fino a ora le vostre vite sono state abbastanza protette, e vi siete limitati a spandere senza guadagnare.
Ma presto guadagnerete come tutti noi, e con l'arrivo del primo gruzzolo, frutto del sudore della vostra fronte, arriverà anche l'agente delle tasse, avvicinandosi in circoli sempre più stretti; gracchiando si poserà sulla vostra spalla e col becco giallo vi beccherà la maggior parte dei soldi». «Hai fatto proprio un bel paragone, pa'». «Ma è proprio vero», mormorai, svicolando nell'autostrada e rombando nella corsia ad alta velocità. «Un grosso governo implica grossa burocrazia, che implica forti tasse; sembra che non ci sia mezzo di uscirne. Una volta che siete integrati nel sistema siete intrappolati, e finite col pagare sempre più tasse. Vostra madre e io abbiamo un piccolo gruzzolo da parte che vogliamo investire per il vostro futuro, soldi guadagnati prima che voi nasceste». «Soldi rubati prima che nascessimo», precisò Bolivar. «Profitti di operazioni illegali su una dozzina di mondi». «Non è vero!». «È vero, pa'», disse James. «Ci siamo dati la pena di scavare tra un mucchio di scartoffie per scoprire da dove venivano i soldi». «Be', è acqua passata». «Speriamo proprio di no!», dissero all'unisono i due ragazzi. «Che razza di galassia sarebbe senza qualche sorcio farabutto che non arrugginisce mai e che le dà un po' di emozioni? Abbiamo ascoltato le tue opinioni, prima di andare a letto, su come le rapine alle banche aiutino l'economia: danno qualcosa da fare alla polizia svogliata, danno ai giornali qualcosa da stampare, alla gente qualcosa da leggere e agli assicuratori qualcosa per cui pagare. È un bel calcione all'economia, e mantiene il denaro in circolazione. È un lavoro da filantropi». «No! Non vi ho allevati per farvi diventare due delinquenti». «Ah no?». «Be', magari per farvi diventare buoni delinquenti. Ricordatevi di prendere solo da chi può permetterselo; di non far mai del male a nessuno; di essere gentili, cortesi, amichevoli e irriverenti. E di essere delinquenti solo quel tanto che serve ad essere arruolati poi nel Corpo Speciale, dove potrete servire l'umanità dando la caccia alle carogne vere». «E quelli a cui stiamo dando la caccia adesso?».
«Sono agenti delle imposte sul reddito! Finché vostra madre e io abbiamo rubato e speso il nostro denaro non ci sono stati problemi. Ma appena abbiamo cominciato a percepire i sudati salari del Corpo Speciale e a investirli, ci siamo trovati a che fare con gli agenti delle tasse. Abbiamo fatto qualche piccolo errore di contabilità, e così...». «Insomma non avete mai denunciato nessun profitto, vero?», chiese James con innocenza. «Sì, qualcosa del genere. A pensarci ora è stata una bella scemenza, ma la verità è che avremmo dovuto tornare a rapinare le banche. Così adesso siamo in mano loro, costretti a fare il loro gioco, a subire denunce, controlli, avvocati, multe, e a rischiare la prigione... Insomma, tutto il casino. C'è solo una soluzione, e definitiva: ecco perché vostra madre ha seguito impassibile quei vampiri fiscali. Per lasciare me libero di tagliare il nodo di Gordio e tirarci fuori tutti quanti». «Che dobbiamo fare?», domandarono all'unisono. «Distruggere tutti i dati fiscali che ci riguardano nei loro archivi, ecco cosa. E magari finire al verde, ma liberi e felici». II Sedevamo nell'interno oscuro della macchina, e io mi rosicchiavo le unghie. «Non è bello», dissi alla fine. «Il rimorso mi tortura. Non posso condurre due innocenti sulla via del crimine». Sbuffarono, a indicare che, lì sul sedile posteriore, avevano le scatole piene: poi spalancarono e sbatterono le portiere con violenza, e io guardai allibito i ragazzi che imboccavano la strada avvolta dalla notte. Li avevo fatti fuggire... Avrebbero cercato di fare il lavoro da soli, rovinandolo? Che razza di disastri si preparavano? Annaspai verso la maniglia, cercando di ragionare con più calma, quando udii i loro passi avvicinarsi di nuovo. Uscii per andar loro incontro: avevano entrambi facce scure e senza voglia di scherzare. «Il mio nome è James», disse James. «E questo è mio fratello Bolivar. Per la legge siamo adulti, avendo superato il diciottesimo anno di età. Possiamo bere legalmente, fumare, bestemmiare e dare la caccia alle ragazze.
Possiamo anche, se scegliamo di farlo, infrangere qualsiasi legge su qualsiasi pianeta, sapendo benissimo che se ci prendono dovremo scontare una pena. Abbiamo sentito da un parente che tu, Infido Jim d'una carogna, stai per infrangere la legge per una causa particolarmente buona, e vogliamo associarci al lavoro. Che ne dici, pa'?». Che potevo dire? Ma cos'era quel groppo nella mia gola di sorcio? E c'era mica una lacrima nell'occhio da roditore? Accidenti, sperai di no: l'emotività e il crimine non vanno d'accordo. «Okay», scattai, nella miglior imitazione di un sergente istruttore con le emorroidi. «Siete arruolati. Seguite le istruzioni, fate domande solo se le istruzioni non sono chiare; altrimenti fate ciò che faccio io e fate ciò che dico. D'accordo?». «D'accordo!», gridarono in coro. «Allora mettetevi questa roba in tasca. Sono aggeggi che ci torneranno utili sicuramente. Avete indossato i guanti con le false impronte digitali?». Alzarono le mani, che luccicarono un po' alla luce dei lampioni stradali. «Bene. Sarete lieti di udire che le impronte che lascerete saranno quelle del sindaco di questa città e del capo della polizia. Ciò aggiungerà una nota d'interesse a una situazione d'altra parte confusa. Adesso, sapete dove andiamo? Naturalmente no. È un grande edificio, girato l'angolo, che non potete vedere di qui. Nella zona del quartier generale FIS, il Fisco Interstellare. Là dentro ci sono tutte le registrazioni sui loro tentati furti...». «Vuoi dire sui vostri furti, vero pa'?». «Il furto è una cosa soggettiva, figli miei. Loro spiano le mie attività, e io guardo con disgusto i loro osceni metodi di prelievo. Ma stanotte cercheremo di saldare il debito. Non ci avvicineremo direttamente all'edificio del FIS, perché è troppo ben difeso: sanno di non essere amati. Invece, entreremo nel palazzo che è subito dopo l'angolo, e il cui retro - non l'ho scelto a caso - è attiguo all'edificio delle imposte». Parlammo mentre camminavamo, poi entrambi i ragazzi ebbero un attimo di esitazione quando videro le luci e la folla davanti a noi. Le sirene ululavano mentre le macchine nere ufficiali si fermavano, le telecamere si agitavano di qua e di là e fasci di riflettori sciabolavano nel cielo. Sorrisi allo stupore dei miei figli e diedi loro un colpetto sulla schiena.
«Non è un piacevole diversivo? Chi penserebbe di entrare da un ingresso come questo? La sera della prima della nuova opera Cohoneighs in fiamme». «Ma ci vorranno i biglietti». «Li ho comprati da un bagarino oggi pomeriggio a un prezzo vergognoso. Andiamo». Ci facemmo strada attraverso la folla, consegnammo i biglietti e ci avviammo verso la fila più alta. Difficilmente l'opera si sarebbe sentita, da qui: ma comunque non avevo nessuna intenzione di ascoltare quei muggiti e belati bucolici. Inoltre c'erano altri vantaggi a stare nella parte alta del teatro: arrivammo al bar per primi, e io ordinai una birra fresca, mentre notai con piacere che i ragazzi prendevano solo bibite non alcooliche. Non fui altrettanto fiero invece delle altre loro attività: piegandomi verso Bolivar gli presi il braccio leggermente, poi gli paralizzai la mano in una morsa, premendogli sul polso col dito indice. «Veramente da fesso», dissi mentre il braccialetto di diamanti cadeva sul tappeto dalle sue dita intorpidite. Toccai la spalla di una donna dall'aspetto porcino e glielo mostrai quando si voltò. «Le chiedo scusa, signora, ma questo braccialetto le è caduto dal polso. No, lasci, faccio io. Oh, il piacere è tutto mio: possiamo benedirla per l'eternità?». Poi mi girai e lanciai uno sguardo d'acciaio verso le costole di James. Alzò le mani nel segno della pace. «Messaggio raccolto, pa'. Mi spiace, era solo per tenermi in esercizio. Ma per farne uno ancora migliore, oplà, ho rimesso il portafoglio nella tasca del signore appena ho visto Bolivar che si sfregava il braccio intorpidito. Ehm». «Così va bene, ma non provateci più. Abbiamo una missione seria da compiere stanotte, e non possiamo comprometterla con stupidate del genere. To', è suonata l'ultima chiamata: posate i bicchieri e andiamo». «Alle nostre poltrone?». «Assolutamente no. Al gabinetto degli uomini». Occupammo ciascuno un cubicolo, in piedi sui sedili in modo che le nostre gambe non rivelassero che eravamo là dentro, e aspettammo finché gli ultimi passi furono svaniti e le ultime latrine si furono risciacquate. Aspet-
tammo anche oltre, finché le prime note lamentose dell'opera assalirono le nostre orecchie. Il rumore dello sciacquone era stato assai più musicale. «Adesso andiamo», dissi, e così facemmo. Un occhio umido all'estremità di un umido tentacolo li osservò uscire. Il tentacolo emergeva da un cestino delle immondizie, ed era attaccato a un corpo che in qualche modo apparteneva alle immondizie... o a posti ancor più disgustosi. Era bitorzoluto, brutto, e con gli artigli. Niente di piacevole, da vedere... «Sembra che tu conosca l'itinerario abbastanza bene», disse Bolivar mentre passavamo attraverso una porta con su scritto PRIVATO e poi attraverso un corridoio umido. «Quando ho comprato i biglietti, oggi, mi sono intrufolato qui e ho fatto un giro d'ispezione. Eccoci». Lasciai che i ragazzi scollegassero i segnali d'allarme (è sempre un buon esercizio) e notai con piacere che non avevano bisogno di istruzioni. Misero anche alcune gocce di lubrificante prima di far scorrere la finestra. Quando si fu aperta guardammo fuori nella notte, e scorgemmo l'oscura forma di un edificio un buon cinque metri più sotto. «È quello?», chiese Bolivar. «Ma se è quello, come ci arriviamo?», disse James. «È lui, ed ecco come faremo». Feci scivolare l'oggetto che somigliava a una pistola dalla mia tasca interna, e lo tenni per il manico pesante ad anello. «Non ha un nome, perché l'ho progettato e costruito io stesso. Quando si tira il grilletto il proiettile, fatto a forma di minuscola ventosa, viene scagliato ad enorme velocità. Si lascia dietro una scia sottile, ma praticamente infrangibile, di filamenti monomolecolari. Che accade allora?, vi chiederete voi. Sarò lieto di dirvelo: la scossa ricevuta nello sparo provoca l'accensione, nel proiettile, di una potente batteria che consuma tutta la sua energia in quindici secondi. Ma durante questo tempo si crea all'estremità del proiettile un campo magnetico abbastanza forte da reggere un carico di un migliaio di chili. Semplice, no?». «Sei sicuro di non esserti scimunito, pa'?», chiese Bolivar, preoccupato.
«Come puoi essere sicuro di colpire un bersaglio nel buio con quell'affare?». «Per due ragioni, o figlio che si fa beffe di suo padre. Oggi ho scoperto che ogni piano di quell'edificio ha un cornicione d'acciaio sopra una trave pure d'acciaio. Ne segue che con un campo magnetico così forte sarebbe veramente difficile tenere il mio proiettile lontano da qualunque cosa fatta di ferro o d'acciaio, per l'appunto. Seguendo il suo tragitto, il proiettile cercherà inevitabilmente il suo bersaglio, il suo nido. James, hai la corda? Bene. Assicurane un'estremità a quel tubo; sembra abbastanza resistente, ma accertatene, è un brutto salto. Adesso, dammi l'altra estremità. Avete infilato i guanti col palmo corazzato? Eccellente. Vi farà bene ai muscoli, dondolare un po' sull'abisso. Io andrò là, assicurerò la corda e poi darò tre strattoni quando sarà pronta, e voi potrete attraversare. Andiamo». Alzai quell'arma vitale. «Buona fortuna», dissero come un solo uomo. «Grazie, apprezzo il sentimento, ma non l'idea: i sorci, nelle loro tane nei muri, devono fabbricarsela, la buona sorte». Compiaciuto della mia filosofia tirai il grilletto. Il proiettile sibilò e centrò il suo bersaglio con un chiarissimo splat. Premetti il bottone che tendeva il filamento monocellulare, poi mi tuffai a capofitto attraverso la finestra aperta. Quindici secondi non sono un tempo lunghissimo: piegai e poi stesi le gambe, feci una giravolta, imprecai e cozzai contro la parete dell'edificio, tutto nello stesso momento. Il peso del corpo gravò tutto su una gamba, che, se non si ruppe, certo non se la passò troppo bene. Niente del genere era mai accaduto mentre facevo le prove a casa, e i secondi passavano mentre io penzolavo mezzo stordito, oscillando sullo strapiombo. Dovevo ignorare la gamba fuori uso, per quanto mi dolesse; allungai la gamba buona, e trovai la sommità di una finestra alla mia sinistra. Diedi un calcio all'aria, così da oscillare in quella direzione, e nel frattempo rilasciai un po' di corda; finalmente fui in linea con la finestra, che colpii con il piede sano, mettendoci tutta la forza. Naturalmente non successe nulla: i vetri sono roba solida, al giorno d'oggi, ma il mio piede trovò il davanzale e cercò di poggiarvisi, mentre con le dita cercavo un appiglio sul telaio della finestra. In quel preciso i-
stante il campo magnetico cessò, e io fui abbandonato a me stesso. Fu un momento da farsela addosso: mi tenevo aggrappato con tre dita e poggiavo sulla punta insicura di un solo piede. L'altra gamba penzolava rigida come un salame. E sotto si stendeva il buio vuoto della morte. «Tutto bene, pa'?», sussurrò uno dei ragazzi alle mie spalle. Confesso che ci volle una notevole dose di autodisciplina per frenare il torrente di risposte che mi sarebbe piaciuto dargli: ma i ragazzi non devono imparare un linguaggio così sboccato dai loro genitori. Con uno sforzo contenni le parole e tirai fuori un grido strozzato, mentre lottavo per conquistare l'equilibrio. Ci riuscii, sebbene le mie dita stessero quasi per cedere. Con accortezza e pazienza appesi l'ormai inutile pistola alla cinta e ficcai la mano in tasca dove tenevo il tagliavetro. Non c'era tempo per sottigliezze o esitazioni: normalmente avrei applicato una ventosa, tagliato una piccola sezione di vetro, e quindi avrei aperto con la maniglia: ma non adesso. Con un rapido guizzo la mia arma disegnò un cerchio grossolano e, con un pugno, colpii il cerchio violentemente. Il vetro cadde all'interno della stanza, e io gli tirai dietro il taglierino. Poi mi allungai verso l'interno e afferrai il telaio della finestra. Il vetro colpì il pavimento con gran fracasso, e proprio in quell'istante le punte dei miei piedi scivolarono dal davanzale. Penzolai, reggendomi con una mano sola, cercando di ignorare il pezzo di vetro che mi si era ficcato nel braccio. Poi, benché lentamente, piegai il braccio e mi tirai su - ecco un vantaggio dell'esercizio costante - finché con l'altra mano non raggiunsi una presa più sicura. Fatto questo il resto fu uno scherzo, sebbene il sangue che scorreva sul braccio non mi facilitasse le cose. Rimessi i piedi sul davanzale aprii la finestra, dopo aver scollegato l'allarme antifurto, e scivolai all'interno cadendo, un po' zoppicante, sul pavimento. «Credo di essermi fatto un po' vecchio per questo genere di cose», mormorai a me stesso una volta che ebbi ripreso fiato. Tutto era silenzioso: il vetro caduto, che alle mie orecchie era parso rumorosissimo, non era stato udito da nessuno, o così sembrava, nell'edificio vuoto. Al lavoro. I ragazzi se ne stavano silenziosi, lì dov'erano, e questo era un segno di professionalità, ma sapevo che erano preoccupati. Con la mia torcia trovai un appiglio
sicuro per la corda, ve la legai e la tesi, poi detti tre robusti strattoni. I ragazzi arrivarono in pochi secondi. «Ci hai fatto preoccupare», dichiarò uno di loro. «Sono io che mi sono preoccupato! Uno di voi prenda la torcia e un'unità medica, e vedete se potete fare qualcosa per questo taglio che ho sul braccio. Il sangue è una traccia pericolosa, come ben sapete». I tagli erano superficiali, e furono facilmente medicati; la gamba mi faceva abbastanza male, ma stava tornando alla vita. La mossi in circolo, finché ritrovai una certa funzionalità. «Bene», annunciai finalmente. «Adesso viene il bello». Feci strada fuori della stanza e giù per il buio corridoio, camminando spedito nel tentativo di riprendere al più presto la piena efficienza della gamba. I ragazzi rimanevano un po' indietro, e io mi trovavo buoni tre metri avanti a loro quando girai l'angolo. In questo modo non furono visti dalla voce che mi intimò: «Fermo dove sei, diGriz. Sei in arresto!». III La vita è piena di piccoli momenti come questo, o almeno, la mia vita lo è: non posso parlare per gli altri. Sono momenti noiosi, sconcertanti, perfino spaventosi se uno non ci è preparato. Fortunatamente, grazie a uno speciale misto di preveggenza e professionalità io questo me l'aspettavo, e così lanciai la granata di gas oscurante mentre la voce ancora berciava. La bomba esplose con uno scoppio soffocato, sprigionando una nuvola nera, cosa di cui qualcuno non fu troppo contento. Per dargli ulteriore motivo di lamentela piazzai nel fumo un simulatore di sparatoria. Questo pratico aggeggio fa «bum» e «bang» come se fosse in corso una piccola guerra, e allo stesso tempo lancia pallottole di gas esilarante in tutte le direzioni. Semina un bel po' di confusione, debbo aggiungere. Mi girai allora tranquillo verso i ragazzi, che erano rimasti agghiacciati a metà di un passo, gli occhi larghi e sbarrati come uova affogate. Mi misi un dito sulle labbra e li trascinai indietro nel corridoio, lontano dal fracasso spaccatimpani della battaglia simulata.
«Qui ci dividiamo», dissi. «Ed eccovi i codici di programmazione del computer». Bolivar li prese automaticamente, poi scosse la testa come per scrollarsi un immaginario pulviscolo dal cervello. «Pa', vuoi dirci...». «Sicuro: quando ho fracassato il vetro della finestra sapevo che il rumore, per quanto piccolo, sarebbe stato registrato dagli allarmi di sicurezza. Quindi sono passato al piano B, mancando d'informarvi in proposito per evitare che protestaste. Il piano B prevede che io tenga occupati i nostri amici, mentre voi due andate nella sala del computer e finite il lavoro. Usando la priorità dei Corpi Speciali sono riuscito a ottenere tutti i dettagli che vi serviranno per accedere alla memoria del FIS e cancellare i dati che ci riguardano. Un semplice comando dato al computer, che è privo di cervello, basterà a distruggere le pratiche fiscali di tutti gli individui che hanno la fortuna di avere i cognomi comincianti per "D", in un raggio di parecchi anni luce. Alle volte mi considero proprio...». «Pa'!». «Lo so, scusate, facevo una piccola digressione. Dopo aver fatto questo cancellerete anche la U e la P, per evitare che stabiliscano troppo presto una connessione tra la mia presenza qui e la distruzione delle registrazioni. D'altra parte la scelta di queste due lettere non è fatta a caso...». «È vero, dal momento che dup è l'insulto più feroce nello slang di Blodgett. Vuol dire qualcosa di peggio che "dispossenti", no?». «Sicuro, James, le tue cellule cerebrali stanno facendo veramente miracoli, stanotte. Terminato il vostro compito, uscirete dal piano terreno, attraverso una delle finestre, e vi mescolerete tranquillamente alla folla. Non è un piano semplicissimo?». «Tranne per il piccolo particolare che tu verrai arrestato», disse Bolivar. «Non possiamo lasciartelo fare, pa'». «Non potete fermarmi, ma apprezzo il sentimento. Fate i bravi ragazzi: il sangue è molto più facile da identificare delle impronte digitali, e i nostri segugi ne hanno un bel po' a disposizione, del mio, per farci i loro giochetti. Così se anche gli sfuggo adesso diventerò un uomo braccato non appena avranno finito le analisi: senza considerare che mi hanno già visto. In ogni caso vostra madre è in prigione, mi manca e io devo cercare di raggiunger-
la là. Una volta distrutte le registrazioni fiscali tutto ciò di cui potranno accusarmi sarà scasso e violazione di edificio pubblico, e allora io pagherò la cauzione e finalmente tutti lasceremo per sempre questo pianeta». «Potrebbero non accettare la cauzione», disse preoccupiate James. «In tal caso i vostri genitori troveranno un altro facile sistema per cavarsi dal budello. Non preoccupatevi: fate il vostro lavoro e io farò il mio. Poi tornate a casa e fatevi un pisolino. Io vi farò avere nostre notizie». Poiché erano bravi ragazzi, obbedirono. Io tornai alla battaglia, mettendomi gli occhiali e i filtri per il naso. Avevo granate di tutti i tipi: fumogene, oscuranti, lacrimogene, vomitogene: il FIS mi aveva fatto dar di stomaco un sacco di volte, e volevo rendergli il favore. Qualcuno cominciò a sparare, abbastanza stupidamente, perché rischiava molto più di colpire i suoi compagni che me. Mi avventurai nel fumo, lo trovai, lo stordii con un buon colpo che dopo gli avrebbe lasciato un'emicrania gigante e presi la pistola: aveva il caricatore pieno, e lo vuotai sul pavimento. «Non prenderete mai Jim l'Infido!», urlai in quelle tenebre così poco tranquille, poi cominciai a tirarmi dietro quel branco di pirati della finanza per tutto l'edificio, in un'allegra caccia. Calcolai il tempo che ci sarebbe voluto ai ragazzi per finire il lavoro, aggiunsi quindici minuti per precauzione e finalmente mi sprofondai in un divano nell'ufficio del direttore, accesi uno dei suoi sigari e mi rilassai. «Mi arrendo, mi arrendo», urlai ai miei scalmanati inseguitori. «Siete troppo furbi per me: promettetemi solo che non mi torturerete». Strisciarono dentro con cautela, coadiuvati dalla polizia locale che era venuta a rendersi conto di che diavolo stava succedendo, e da uno squadrone dell'esercito in perfetta tenuta da combattimento. «Tutto questo per me», dissi, soffiando un anello di fumo nella loro direzione. «Mi sento lusingato. Ma voglio fare una dichiarazione alla stampa su come sono stato rapito, portato qui incosciente, poi spaventato e inseguito. Voglio il mio avvocato». Ma quelli mancavano totalmente di humor, e io ero l'unico che rideva mentre mi portavano via. Non mi usarono molta violenza: c'era troppa gente intorno, per quello, e poi contrastava con le abitudini di Blodgett. La gomma da masticare più venduta laggiù si chiamava Ponza, e loro passa-
vano davvero tutto il tempo a ponzare. Le sirene urlarono, le auto si mossero, e io fui ammanettato. Ma non mi portarono in prigione, questo è il bello: arrivati all'ingresso del penitenziario fummo fermati, e là fra i miei guardiani si svolse un'animata discussione, e qualcuno agitò perfino un pugno, dalla rabbia. Comunque rientrarono nelle auto e mi scortarono piuttosto al municipio, dove con mia sorpresa mi tolsero le manette prima di lasciarmi entrare. Sapevo che stava accadendo qualcosa di strano, e loro mi spinsero attraverso una porta senza contrassegni, facilitandomi l'ingresso con un calcetto. La porta si chiuse, mi spazzolai gli abiti malridotti, poi mi girai e sgranai gli occhi alla vista della familiare figura nella poltrona dietro la scrivania. «Che piacevole sorpresa!», dissi. «Sta bene...?». «Avrei fatto meglio a farla fucilare, diGriz», ringhiò per tutta risposta. Era Inskipp, il mio capo, cervello del Corpo Speciale, forse l'uomo col maggior potere personale in tutta la galassia. Il Corpo Speciale era usato dalla Lega per mantenere la pace interstellare, cosa che faceva in maniera esemplare, se non sempre nel modo più onesto. È risaputo che ci vuole un ladro per beccare un ladro, e il Corpo incarnava questo ideale. Una volta, prima di arruolarsi, Inskipp era stato il più gran delinquente dell'universo, una vera fonte d'ispirazione per tutti noi. E io stesso sono costretto ad ammettere di aver condotto una vita tutt'altro che esemplare prima di convertirmi forzatamente alla causa del bene (conversione parziale, come forse avrete notato, sebbene mi piaccia credere che il mio cuore stia dalla parte giusta, anche se non ci stanno le mie dita...). Estrassi la pistola finta che mi portavo dietro per simili occasioni e me la premetti alla fronte. «Se lei pensa che io debba essere giustiziato, grande Inskipp, allora posso darle una mano. Addio, mondo crudele...». Tirai il grilletto, e si udì un realistico «bang». «Smetta di fare il matto, diGriz. Questa è una faccenda seria». «Lo è sempre, con lei, ma credo che un po' d'allegria aiuti la digestione. Mi permetta di toglierle quel filo dalla giacca». Lo feci, e gli sfilai contemporaneamente la scatola dei sigari dalla tasca. Era così distratto che non lo notò finché non ne accesi uno e gliene offersi un altro. Riafferrò la scatola.
«Mi serve il suo aiuto», disse. «Naturale. Perché se no starebbe qui a prendersi tante premure? Ma dov'è la mia dolce Angelina?». «È fuori di prigione, e sta andando a casa per badare a quegli ossessi dei suoi figli. I babbei di questo pianeta forse non hanno capito che cos'è veramente successo alle loro registrazioni fiscali, ma io lo so. Tuttavia, per il momento, ce ne dimenticheremo... visto che un'astronave la sta aspettando allo spazioporto per portarla a Kakalak-due». «Un pianeta morto che gira intorno a una stella nera. E che cosa troverò in questo così poco promettente scenario?». «È quello che non troverà ciò che ci interessa. La base satellite che ruotava intorno al pianeta era la sede dell'incontro biennale dei capi di stato maggiore della Flotta della Lega...». «Ha detto era con una certa enfasi. Devo ritenere...?». «Deve, deve. Sono tutti scomparsi senza lasciare tracce, e così il satellite. Non abbiamo la più pallida idea di che cosa possa essergli capitato». «Qualcuno ne sentirà la mancanza? Penso che ci sarà un certo tripudio, sottocoperta...». «Si risparmi l'humor, diGriz. Se la stampa mette le zampe su questa faccenda, pensi alle ripercussioni politiche. Per non parlare della disorganizzazione delle nostre difese». «Oh, questo non dovrebbe preoccuparci molto: non mi sembra che ci sia alcun pericolo di guerra galattica, all'orizzonte. Comunque, mi faccia chiamare casa: darò loro una versione censurata delle sue informazioni, e poi partiremo». Dietro la presa d'aria nel muro la creatura penzolava, sorretta da tentacoli muniti di ventosa. I grandi occhi verdi brillavano nel buio. L'essere emetteva strani suoni soffocati mentre si sfregava i denti aguzzi come aghi nella bocca ossuta. E puzzava. «C'è qualcosa sotto questa faccenda, Jim, e non mi piace», disse Angelina con gli occhi che fiammeggiavano attraverso il visore. Ah, come amavo quel fuoco!
«Ma no, cara», mentii. «Una missione improvvisa, ecco tutto. Roba di pochi giorni. Tornerò non appena è tutto sistemato. Adesso che i ragazzi hanno preso il diploma, scartabella un po' tra tutti quei vecchi depliant, e trova un posto simpatico dove possiamo andarcene tutti a fare una vacanza». «Sono contenta che tu abbia accennato ai ragazzi. Sono arrivati pochi minuti fa laceri, sporchi e stanchi, e non hanno voluto dire una parola su quello che è successo». «Lo faranno. Dì loro che pa' comunica che tutto è andato liscio, e ti racconteranno l'intera storia delle nostre interessanti avventure serali. A presto, tesoro!». Le mandai un bacio e spensi prima che potesse protestare di nuovo. Nel tempo che le ci sarebbe voluto per ascoltare tutte le pazzie di quella notte io sarei stato nello spazio e avrei anche compiuto la pericolosa missione. Non che m'importasse di quel che poteva accadere a poche centinaia di ammiragli, ma la meccanica della loro scomparsa pareva abbastanza interessante. E lo era davvero. Come ci mettemmo in viaggio per Kakalak-due io aprii il dossier, mi versai un generoso bicchiere di Sudore di Pantera Siriana (un infarto garantito in ogni bottiglia) e mi disposi a leggere. Lo feci una volta lentamente, poi una seconda più veloce, quindi una terza, per riassumere i punti principali. Quando chiusi la cartella vidi Inskipp che, seduto di fronte a me, mi guardava intensamente, si mordeva le labbra, batteva le dita sul tavolo e agitava i piedi. «Nervoso?», gli chiesi. «Provi un bicchiere di questo». «Silenzio! Si limiti a dirmi che ne pensa, che cosa ha trovato». «Ho trovato che stiamo andando nel posto sbagliato, tanto per cominciare. Cambi rotta e diriga alla Centrale del Corpo Speciale: devo fare quattro chiacchiere col mio vecchio amico professor Coypu». «Ma le indagini...». «Non approderemmo a niente, laggiù». Battei una mano sul dossier. «Tutto quello che si poteva fare è stato fatto: sappiamo che c'erano tutti questi militari riuniti, che le comunicazioni radio erano normali, e che poi ci sono state quelle grida di avvertimento e l'enigmatico grido: "I denti!". E poi nient'altro. I suoi espertissimi investigatori sono stati sul posto, ma
hanno trovato solo spazio vuoto, niente resti del satellite né alcuna traccia di ciò che è accaduto. Se io andassi là troverei la stessa cosa. Quindi, mi porti da Coypu». «Perché?». «Perché lui è il creatore dell'elica temporale. Per scoprire ciò che è accaduto devo tornare indietro nel tempo quel tanto che basta per vedere gli avvenimenti di quel giorno fatale». «Non ci avevo pensato», rimuginò Inskipp. «Certo che no. Ecco perché lei se ne sta dietro una scrivania e io sono il miglior agente in campo. Mi prenderò uno dei suoi sigari come premio per le mie brillanti qualità, così spesso dimostrate». Il professor Coypu non parve interessato: batté gli impressionanti denti gialli e sporgenti contro il labbro inferiore, poi scosse la testa in un segno di diniego così vigoroso che i pochi fili di capelli grigi che gli restavano gli cascarono sugli occhi. Allo stesso tempo atteggiò le mani a un gesto di ripulsa. «Sta cercando di dirci che non approva l'idea?», feci. «Follia! No, mai. Da quando abbiamo usato l'elica temporale l'ultima volta abbiamo avuto solo feedback temporali lungo le curve di sinergia statica...». «La prego, professore», implorai, «semplifichi, per favore. Tratti me e Inskipp, qui, come se fossimo due deficienti, scientificamente». «Il che siete. Sono stato costretto a usare l'elica temporale una volta per salvarci tutti dalla distruzione, poi fui persuaso a usarla ancora per salvare lei nel passato. Ma ora non l'userò mai più, avete la mia parola!». Inskipp dimostrò allora di essere fatto di una pasta più dura che qualunque fisico ribelle: fece alcuni passi avanti finché lui e Coypu furono occhio contro occhio, o meglio naso contro naso, perché avevano entrambi due rostri formidabili. E una volta in questa posizione sparò una salva di imprecazioni da caserma, seguite da alcune minacce piuttosto realistiche. «E siccome sono il suo capo, se io dico: "vada", lei va, siamo intesi? Non la passeremo per le armi, non siamo così crudeli, ma la sbatteremo a insegnare al primo anno di fisica a un branco di studenti deficienti su un
pianeta di merda, così lontano da ogni luogo civile che quando lei gli parlerà della macchina del tempo penseranno che sia un orologio! Allora, collaborerà?». «Non può minacciarmi!», s'infuriò Coypu. «L'ho già fatto. Ha un minuto per decidere. Guardie!». Due bruti antropoidi in uniformi spiegazzate apparvero ai lati del piccolo professore e lo afferrarono vigorosamente per le braccia, sollevandogli i piedi da terra. «Trenta secondi», sussurrò Inskipp col calore di un cobra che sta per colpire. «Ho sempre voluto fare qualche altro esperimento con l'elica temporale», fece rapidamente marcia indietro Coypu. «Bene», s'impietosì Inskipp. «Posatelo, è tutto. Sarà una cosa facile: lei manderà il nostro amico qui una settimana indietro nel tempo, assieme ai mezzi per ritornare quando la missione sarà compiuta. Le daremo le coordinate e il periodo in cui deve essere spedito. Non dovrà sapere altro. Lei è pronto, diGriz?». «Sempre pronto». Guardai la tuta spaziale e il mucchio di strumenti che mi ero preparato. «Indosso la tuta e parto. Sono altrettanto curioso di lei di sapere che diavolo è accaduto, e ancora più desideroso di tornare, perché ho già sperimentato questi viaggi nel tempo, e sono proprio una cosa che dà sui nervi». La molla a spirale dell'elica temporale splendeva verdastra, col fascino ipnotico dell'occhio di un serpente. Sospirai e mi preparai al viaggio. Rimpiangevo quasi di non essermi sottomesso al viscido, cadaverico abbraccio dell'agente delle tasse. Quasi. IV Il fatto che questo non fosse il mio primo viaggio nel tempo non servì a mitigare le sgradevoli sensazioni che provai. Una volta ancora sentii lo strappo verso una nuova e indescrivibile direzione e ancora vidi le stelle sfrecciare veloci come razzi. Era veramente seccante, e durava troppo a lungo. Poi tutto cessava com'era cominciato, il grigiore dello spazio-tempo
svaniva per essere rimpiazzato dal salutare panorama del cosmo punteggiato di stelle. Fluttuavo in assenza di gravità, rotolando lentamente, e ammirando lo spettacolo della stazione satellite quando entrò nel mio campo visivo. Feci un piccolo rilevamento con l'unità radar sul mio petto, e vidi che ne distavo dieci chilometri: Coypu aveva fatto praticamente centro. Il satellite era di grossa mole, pieno di congegni che si protendevano nello spazio e di luci di segnalazione che ammiccavano tra le numerose aperture illuminate. E pieno, ne ero sicuro, di obesi ammiragli che s'ingozzavano e bevevano e di tanto in tanto, se capitava, trattavano di qualche problema militare. Ma li aspettava una sorpresa, e io dovevo scoprire quale. Sintonizzai la mia radio sul loro cronosegnale, e scoprii di essere arrivato con un'ora di ritardo rispetto al tempo che mi ero prefisso: Coypu ne sarebbe stato interessato. Tuttavia avevo ancora sei ore da ammazzare prima del momento della verità. Per ovvie ragioni non potevo fumare, nella tuta, ma potevo bere. Avevo preso la semplice precauzione di togliere l'acqua dal contenitore e di sostituirla con una certa quantità di bourbon e acqua. Qualcosa come 32.000 anni addietro, su un pianeta chiamato Terra, avevo sviluppato un certo gusto per questo beveraggio; e sebbene quel pianeta fosse stato distrutto da tempo mi ero portato dietro la formula, e dopo un certo numero di micidiali esperimenti ero riuscito a riprodurne una bevibile imitazione. Attaccai le labbra al tubo d'abbeveramelo del casco e bevvi. Abbastanza buono. Ammirai le stelle brillanti, il satellite vicino, e cominciai a recitare poesie. Le ore passarono. Cinque minuti prima che l'evento che attendevo si verificasse, come doveva, con la coda dell'occhio percepii un movimento improvviso. Mi girai per vedere un'altra figura in tuta spaziale che fluttuava lì vicino, seduta su un oggetto a forma di razzo lungo due metri. Estrassi la pistola (avevo insistito a portarmela poiché non avevo nessuna idea di ciò cui mi sarei trovato di fronte) e la puntai sul nuovo venuto. «Tieni le mani bene in vista e girati, in modo che ti possa vedere. La pistola contiene capsule esplosive». «Mettila via stupido», disse l'altro, girandomi la schiena mentre operava sul pannello di controllo del razzo. «Se non sai tu chi sono, allora nessuno lo sa».
«Sei me!», dissi, cercando di non spalancare troppo la bocca dallo stupore. «No, sono io. Io sono te, o qualcosa del genere. La grammatica non sopporta questo tipo di cose. La pistola, idiota!». Abbassai la mascella con uno scatto e rimisi la pistola nella fondina. «Vorresti spiegarmi per favore...». «Ho dovuto farlo, perché tu, o io, non abbiamo avuto abbastanza cervello da pensarci la prima volta. Così è stato necessario fare un secondo viaggio per portare qui questa sanguisuga iperspaziale». Guardò l'orologio, o forse fui io che guardai il mio, o qualcosa del genere, poi lui (io?) disse: «Tieni gli occhi ben aperti, è il momento». Lo spazio oltre il satellite era vuoto, ma un istante dopo non lo fu più. Qualcosa di grande, molto grande apparve e puntò contro il satellite. Vidi una forma nera, bitorzoluta, allungata che si aprì improvvisamente sul davanti. L'apertura era immensa e brillava di una luce infernale: sembrava una bocca di dimensioni planetarie, zeppa di denti alti come torri. «I denti!», tuonò la mia radio, e fu l'unico messaggio dal satellite perduto (o che perlomeno rischiavamo di perdere); poi la grande bocca si richiuse e la stazione scomparve alla vista all'istante. Una striscia fiammeggiante mi abbagliò la vista e la forma bianca della sanguisuga iperspaziale si lanciò verso l'attaccante: non troppo in anticipo, perché subito dopo un improvviso bagliore avvolse la gigantesca forma, che in un secondo sparì nell'iperspazio. «Che cos'era?», chiesi. «Come faccio a saperlo?», replicai. «E anche se lo sapessi non te lo direi. Adesso torna indietro, così posso tornare anch'io, o puoi tu, voglio dire... oh, all'inferno. Muoviamoci». «Non imbestialirti», mormorai. «Non credo che dovrei parlare a me stesso in questo modo». Tirai la leva sul controllo dell'elica temporale, e, nello stesso scomodo modo in cui ero arrivato, ritornai. «Che ha scoperto?», chiese Inskipp appena mi fui tolto il casco. «Soprattutto che devo tornare una seconda volta. Mi ordini una sanguisuga e sarò lieto di spiegarle ogni cosa». Decisi di non sfilarmi la tuta per poi riinfilarmela di nuovo: così mi piegai contro il muro e presi una bella
sorsata di bourbon. Inskipp annusò: «Si è sbronzato in servizio?». «Naturalmente. È una delle cose che rendono il mondo sopportabile. Adesso per favore stia zitto e ascolti. Qualcosa di veramente enorme è emerso dall'iperspazio, a pochi secondi dal satellite: una manovra incredibile, che non credevo possibile, ma che evidentemente lo è. Qualunque cosa fosse ha aperto la sua bocca illuminata, piena di denti, e ha inghiottito ammiragli, stazione spaziale e tutto». «È la sbornia. Lo sapevo!». «No, non lo è, e posso provarlo perché la mia cinepresa ha funzionato regolarmente. Poi, dopo aver fatto colazione, quella cosa ha attivato un campo distorsore e si è rituffata nell'iperspazio». «Dobbiamo mandarle contro una sanguisuga iperspaziale, allora». «È proprio quello che ho detto io, e infatti sono tornato indietro con la sanguisuga e l'ho lanciata nella giusta direzione». Come avevamo chiesto, ci fu portata una sanguisuga. «Grande, Forza, Coypu, mandi me e quest'affare cinque minuti prima dell'ora zero, e finalmente potrò togliermi questa tuta. Tra parentesi, ha sbagliato di un'ora nel mio primo viaggio: stavolta mi aspetto maggior precisione». Coypu mormorò qualcosa a proposito della calibratura, poi regolò i quadranti nel modo opportuno; mi aggrappai alla lunga forma bianca del razzo e partii di nuovo. Lo scenario fu lo stesso della prima volta, solo visto da un angolo diverso. Quando fui tornato dal secondo viaggio ne avevo avuto abbastanza dei viaggi nel tempo, e non volevo nient'altro che un bel pasto innaffiato da un piccola bottiglia di vino, e dopo un buon letto. Ebbi tutto questo, e tempo a sufficienza per goderne, perché passò quasi una settimana prima che ricevessimo un rapporto dalla sanguisuga. Ero con Inskipp quando il messaggio arrivò, e, lui fece un sacco di smorfie e occhiacci alla vista del foglio, come se il fatto di rileggerlo potesse cambiarne il contenuto. «È impossibile», disse. «Questo è quello che mi piace di lei, Inskipp: sempre ottimista». Presi il messaggio dalle sue dita sudate e lo lessi a mia volta, poi tracciai le coordinate sulla carta dietro il tavolo. Aveva ragione. O quasi. La sanguisuga spaziale aveva fatto bene il suo lavoro: l'avevo sparata
giusto in tempo, e lei si era attaccata al mangiasatellite, qualunque cosa fosse. Erano piombati insieme nell'iperspazio, dove la sanguisuga avrebbe tenuto duro fino alla riemersione nello spazio normale. Anche se la cosa aliena avesse compiuto il percorso in più balzi la nostra sanguisuga era programmata per starle attaccata finché non avesse scoperto tracce di atmosfera, o la massa di un pianeta o di una stazione orbitale; a quel punto avrebbe potuto scollarsi e venire via. Era interamente non-metallica, e praticamente inidentificabile da qualunque strumento. Una volta raggiunto l'obbiettivo usava raggi chimici per allontanarsene, e poi cercava un segnalatore della Lega. Appena raggiunto il più vicino comunicava i risultati. Inutile dire che era anche suo compito prendere foto della zona raggiunta: a quel punto i computer identificavano le stelle fotografate e determinavano il punto dello spazio da cui le foto erano state scattate. Solo che questa volta la risposta che avevano fornito era impossibile. «O molto improbabile», dissi io, battendo le dita sulla carta stellare. «Ma se l'identificazione è corretta ho la sensazione che avremo dei guai». «Non crede che sia solo una coincidenza che abbiano rapito gli ammiragli, vero?». «Ha-ha». «Sì, sapevo che mi avrebbero risposto così». Per capire il nostro problema dovete considerare un attimo la natura fisica della galassia. Sì, lo so che è roba noiosa che è meglio lasciare agli astrofisici e agli altri testoni che si divertono con questo tipo di cose, ma una spiegazione è necessaria. Se può esservi d'aiuto, pensate alla galassia come a una grande stella marina: non lo è, in realtà, ma il paragone va abbastanza bene per il nostro semplicistico racconto. Le braccia e il centro della stella marina sono altrettanti gruppi di stelle; stelle sparse si trovano tra le braccia, come pure gas spaziali, molecole vaganti e roba simile. Spero di non avervi persi per strada, perché so quanto sono confuso io stesso. In ogni modo, tutte le stelle appartenenti alla Lega sono situate in un solo braccio bello dritto che si trova alla sommità della stella di mare; altri pochi soli, che talora noi esploriamo, si trovano in prossimità del centro, e pochi altri ancora sono sparpagliati nelle braccia di destra e sinistra. Ci siete? Okay. Ora, sembrava che gli assalitori del nostro satellite fossero venu-
ti da qualche parte nel braccio inferiore sinistro. Be', e perché no, direte voi, è pur sempre una parte della galassia. Come no, vi rispondo: ma è una parte dove noi non siamo mai stati, che non abbiamo mai contattato né esplorato. Non ci sono pianeti abitati, laggiù. Abitati da esseri umani, voglio dire. In tutte le migliaia d'anni che l'umanità ha vagato nello spazio non ha mai incontrato un'altra forma di vita intelligente: abbiamo trovato tracce di civiltà svanite da lungo tempo, ma milioni di anni ci separano da esse. Durante i giorni dell'espansione coloniale, dell'Impero Galattico, delle Marchette Feudali e altre simili follie, le astronavi andavano avanti e indietro in tutte le direzioni: poi ci fu il Crollo e in pratica la cessazione delle comunicazioni per molte migliaia d'anni. Oggi stiamo uscendo da questo periodo buio, e stiamo riprendendo i contatti con pianeti che ospitano i più svariati tipi di civiltà (o mancanza di civiltà); ma non ci espandiamo più. Forse lo faremo ancora, un giorno, ma per il momento la Lega è troppo occupata a rimettere insieme i pezzi della prima espansione. Ed ecco che ti salta fuori questa storia nuova. «Che pensa di fare?», chiese Inskipp. «Io! Io non farò proprio niente, tranne starmene a guardare lei che dà gli ordini appropriati per indagare sulla faccenda». «Giusto. Allora ascolti il primo ordine: lei, diGriz, va subito fuori di qui e comincia a investigare». «Sono stanco. Avete le risorse di interi pianeti su cui fare affidamento, intere flotte - sia pur con l'eccezione degli ammiragli in carica - una quantità impressionante di agenti. Usi quelli». «No. Ho la netta sensazione che spedire una normale nave di pattuglia in una missione come questa equivarrebbe a chiedere al suo equipaggio di farsi una passeggiatina nelle viscere di una pila atomica». «Descrizione confusa, ma... capisco il senso». «Lo spero. Lei è il più incallito agente che conosca; ha un istinto di sopravvivenza che finora l'ha resa praticamente immortale. È su questo che faccio assegnamento, e sulle contorte circonvoluzioni della sua mente, diGriz. Deve andarci. Quindi lo faccia, cerchi di capire che diavolo sta succedendo e torni poi con un rapporto».
«Devo riportare anche gli ammiragli?». «Solo se le fa piacere. Possiamo fabbricarne a dozzine, di quelli». «Lei è crudele e senza cuore, Inskipp, e una carogna, proprio come me». «Certo. Come crede se no che tirerei avanti questa baracca? Ora mi dica quando partirà, e che cosa le serve». Dovetti pensarci. Non potevo andarmene senza dir niente ad Angelina, e quando avesse saputo com'era pericoloso avrebbe insistito, per venire con me. Bene: in fondo sono un porco maschio sciovinista, ma so riconoscere il talento, quando lo vedo, e avrei preferito avere lei al mio fianco piuttosto che tutto il resto del Corpo Speciale. Ma i ragazzi? Anche qui la risposta era ovvia: le loro inclinazioni naturali e i caratteri ereditari li rendevano adatti solo a due cose: una vita da criminali o la carriera nel Corpo. Avrebbero pur dovuto ricevere il battesimo del fuoco, una volta o l'altra, e questa poteva essere l'occasione propizia. Cosi fu deciso. Di colpo spalancai gli occhi e mi resi conto che non avevo fatto altro che borbottare tra me per qualche minuto, e che Inskipp mi stava guardando in maniera parecchio sospettosa, allungandosi lentamente verso il pulsante d'allarme sulla sua scrivania. Ripescai nella memoria la domanda che mi aveva fatto prima che cadessi in trance: «Ah, sì, mmmm, naturalmente. Partirò prestissimo, ho già il mio equipaggio fidato; ma voglio un incrociatore completamente automatico, classe "Belva", con tutto l'armamentario a posto». «Fatto. Ci vorranno venti ore per averne uno qui: nel frattempo potrà fare i bagagli, e scrivere un nuovo testamento». «Che pensiero gentile. Devo fare anche una chiamata psi». Mi collegai col centro comunicazioni, che chiamò l'operatore su Blodgett come un lampo, e nel giro di alcuni secondi la linea agganciò Angelina. «Ciao, tesoro», dissi. «Indovina dove andiamo in vacanza?». V «È una bella nave, pa'», disse Bolivar, facendo scorrere gli occhi con soddisfazione sui vari controlli dell'incrociatore della Lega Divoratore.
«Lo credo: gli incrociatori della classe "Belva" sono ritenuti i migliori dello spazio». «Controllo centrale del fuoco e tutto il resto, wow!», esclamò James schiacciando un pulsante prima che potessi fermarlo. «Non dovevi disintegrare quel pezzo di roccia: non ti aveva fatto nessun male», lo rimproverai, appropriandomi dei comandi di fuoco prima che combinasse altri guai. «I ragazzi sono sempre ragazzi», disse Angelina, guardandoli con orgoglio materno. «Be', che facciano i ragazzi coi soldi delle loro tasche. Sai quante migliaia di crediti costa ogni colpo sparato con questi cannoni a energia?». «No, e non me ne importa». Sollevò un delicato sopracciglio. «E da quand'è che importa tanto a te, Infido Jim, saccheggiatore delle tasche pubbliche?». Mormorai qualcosa e mi girai verso gli strumenti. Mi importava veramente? O era solo un riflesso condizionato paterno? No... era autorità! «Sono io il comandante, qui», abbaiai nella mia tipica voce da lupo dello spazio. «E l'equipaggio deve obbedire». «Vogliamo dare un'occhiata al ponte, caro?», chiese Angelina in tono del tutto irragionevole. Cambiai argomento. «Sentite. Se vi siederete tutti qui, buoni e tranquilli, ordinerò una bottiglia di champagne e un dolce al cioccolato, e ci rilasseremo un poco prima che la missione cominci e io inizi a far schioccare la frusta». «Ci hai già spiegato tutto, pa'», disse James. «Ma non potresti ordinarlo di fragole, quel dolce?». «So che sapete tutto ciò che è accaduto e su dove stiamo andando, ma dobbiamo ancora decidere quello che faremo una volta che saremo arrivati li». «Sono sicuro che ce lo dirai al momento buono, caro. E non è un po' troppo presto, per lo champagne?». Premetti i pulsanti del controllo ordinazioni e cercai di organizzare comunque i miei pensieri. Tutti capi in questa missione, eh? Dovevo rimanere calmo. «Adesso statemi bene a sentire. Ordine del giorno: partiremo esattamen-
te fra quindici minuti. Procederemo con la dovuta celerità verso il punto dello spazio individuato dalla sanguisuga spaziale. Emergeremo dall'iperspazio per esattamente un punto e cinque secondi, che sarà abbastanza per raccogliere dati con i rilevatori sulla regione di spazio circostante. Poi torneremo automaticamente alla nostra ultima posizione e analizzeremo ciò che abbiamo scoperto. Quindi agiremo di conseguenza. Capito?». «Sei così bravo», sussurrò Angelina sorseggiando il suo champagne. Non c'era modo di capire dal suo tono di voce che cosa aveva voluto dire veramente con quest'osservazione. Lo ignorai. «Allora avanti. Bolivar, dalla tua pagella vedo che avevi buoni voti in navigazione...». «Per forza: ci incatenavano al banco senza cibo finché non risolvevamo l'esercizio». «Dettagli, dettagli: ora tutto questo te lo sei lasciato alle spalle. Traccia una rotta verso la nostra destinazione e poi fammela vedere prima di metterla in pratica. James, tu programmerai il computer per effettuare i rilevamenti necessari una volta che saremo arrivati, e per riportarci indietro nel secondo e mezzo che avremo a disposizione». «E io che faccio, amore?». «Apri l'altra bottiglia, dolcezza, e ce ne staremo a guardare con orgoglio la nostra prole che fa il lavoro». Lavorarono senza lamentele, e fecero bene ciò che dovevano. Non era più tempo di giochi: questa era la realtà, e c'era di mezzo la sopravvivenza di tutti, così ci si buttarono con gusto. Controllai e ricontrollai i risultati, ma non riuscii a trovare sbagli. «Una stella d'oro per tutti e due. Prendetevi una doppia porzione di dolce». «Fa venire la carie ai denti, pa'. Preferiamo piuttosto un po' di champagne». «Certo. Siete in tempo per il brindisi: al nostro successo». Brindammo e bevemmo, poi mi piegai sui comandi e schiacciai il pulsante di volo. Eravamo partiti. Come in tutti i viaggi non c'era assolutamente nulla da fare, Una volta che il computer era stato programmato. I gemelli esplorarono la nave coi manuali tecnici sottobraccio, finché non
ebbero imparato ogni dettaglio della sua guida e funzionamento. Angelina e io trovammo cose molto più interessanti da fare, e i giorni scivolarono in punta di piedi, amabilmente, finché l'allarme suonò e noi fummo pronti per il balzo finale. Ancora una volta eravamo riuniti nella sala di controllo. «Pa', lo sapevi che a bordo c'erano due scialuppe?», chiese Bolivar. «Sì, e sono due ottime navette. Preparatevi per l'occhiata veloce, come dai piani. Dopodiché indosseremo le tute da combattimento». «Perché?», chiese James. «Perché vi è stato ordinato di farlo», disse Angelina, e c'era un'inflessione d'acciaio nella sua voce. «Se ci aveste pensato un altro secondo avreste avuto la risposta senza doverlo chiedere». Così coadiuvato, sentii che la mia autorità era più ferma che mai e non dissi nient'altro mentre tutti indossavamo le tute. Le tute da combattimento, corazzate e armate, ci avrebbero tenuti in vita se qualcosa di poco gradevole stava per caso aspettandoci nello spazio normale. Ma non c'era niente: arrivammo, gli strumenti ronzarono e ticchettarono, e tornammo di nuovo al punto di partenza, a un centinaio di anni luce di distanza. Ordinai a tutti di tenere le tute corazzate per accertarci che nessuno ci avesse seguiti, ma eravamo soli. Dopo mezz'ora ci togliemmo le tute e cominciammo a esaminare i risultati delle nostre ricerche. «Niente di veramente vicino», disse Angelina dando un'occhiata ai dati stampati. «Ma c'è un sistema solare a due anni luce di distanza dal punto». «Quindi è quello il nostro prossimo obbiettivo», dissi. «Il piano è questo: noi ce ne staremo qui, a distanza di sicurezza da ciò che ci aspetta là fuori, ma manderemo un occhio-spia per cartografare il sistema, individuare eventuali pianeti abitati, esplorarli e inviare continui rapporti a un satellite ricevitore che si terrà in orbita nelle vicinanze. Il satellite è programmato in modo da tornare qui non appena succede qualcosa d'imprevisto all'occhio-spia. D'accordo?». «Posso programmare l'occhio-spia?», chiese Bolivar, parlando un istante prima di suo fratello. Facevano addirittura a gara! Il cuore mi si scaldò e affidai loro i rispettivi incarichi. Entro pochi minuti gli apparecchi erano stati lanciati, e, una volta che ebbero preso la loro strada, ci sedemmo a mangiare. Avevamo quasi finito il pranzo quando il satellite annunciò il
suo ritorno. «Ha fatto presto», disse Angelina. «Troppo presto. Se qualcosa ha catturato l'occhio-spia, questo vuol dire che i nostri amici hanno un ottimo sistema d'intercettazione. Vediamo che ha scoperto». Feci scorrere velocemente i nastri delle registrazioni finché arrivammo alla parte interessante. La stella al centro dello schermo corse verso di noi e divenne in un momento un sole bruciante. Le immagini sul secondo schermo rivelarono che il sistema aveva quattro pianeti, e che radiazioni prodotte dai sistemi di comunicazioni e da un'attività industriale. «Oddio, oddio», mormorò Angelina, e io potei solo annuire in segno di consenso. L'intero pianeta era un'unica enorme fortezza: le bocche di cannoni giganti si spalancavano verso il cielo, riparate dalle spesse mura delle fortificazioni. Fila dopo fila le astronavi erano allineate in ranghi provenivano da tutti e quattro. L'occhio-spia si era diretto verso il mondo più vicino e si era abbassato verso di esso. apparentemente senza fine, e man mano che l'occhio-spia procedeva innumerevoli macchine da guerra spuntavano fino all'orizzonte. Nemmeno un pezzetto della superficie naturale del pianeta sembrava visibile, sommersa dall'enorme quantità di strumenti bellici. «Là, guardate», dissi. «Quell'affare assomiglia alla balena spaziale che ha inghiottito gli ammiragli e il loro satellite. E ce n'è un'altra... e un'altra...». «Mi chiedo se saranno amichevoli», disse Angelina, ma lei stessa non riuscì a ridere della sua battuta. I ragazzi avevano gli occhi strabuzzati e stavano in silenzio. La fine venne rapidamente: quattro improvvisi segnali sul radar, che si avvicinavano a velocità vertiginosa, e poi lo schermo si spense. «Non molto amichevoli», dissi, versandomi un drink con mano non troppo salda. «Fate una copia di queste registrazioni e inviatele via relè alla base. Mandatele tramite la più vicina base dotata di un uomo-psi, così che almeno una versione condensata del rapporto possa arrivare alla Centrale immediatamente. Poi vorrei che qualcuno si facesse venire un'idea sul nostro prossimo passo. Una volta fatto rapporto su ciò che abbiamo scoperto
saremo abbandonati a noi stessi». «E diventeremo "sacrificabili", vero?». «Hai afferrato il punto, figlio». «Ma che bello», disse James. «Abbandonati a noi stessi e senza ordini da nessuno». Non so cosa volesse dire esattamente, ma continuavo a essere orgoglioso dei miei figli. «Qualche suggerimento?», chiesi. «In caso contrario ho una specie di piano». «Sei tu il capitano, caro», disse Angelina, credo con una certa intenzione. «Bene. Non so se lo avete notato leggendo i dati, ma quel sistema solare è pieno di detriti cosmici. Suggerisco perciò di trovare un pezzo di roccia delle dimensioni giuste, produrre in esso una cavità e sistemarvi una delle nostre navette. Se faremo un buon lavoro non sembrerà affatto diverso da tutti gli altri asteroidi del sistema. Poi cercheremo gli altri pianeti per vedere se ci sono satelliti su cui nasconderci per ricavare maggiori informazioni per un piano d'attacco. Dev'esserci pure un posto a cui possiamo avvicinarci e che non è armato fino ai denti come il primo pianeta che abbiamo visto. Siete d'accordo?». Dopo qualche discussione, poiché nessuno era in grado di tirare fuori un piano migliore si decise di fare a modo mio. Accendemmo l'iperdrive, il radar sempre in funzione, e entro un'ora avevamo trovato una nuvola di rocce e pietre, ferro meteorico e detriti interstellari che apparentemente descrivevano un'orbita ellittica nei pressi della stella più vicina. Mi accostai lentamente a quella massa volante, equiparando la velocità e individuando l'asteroide che faceva al caso nostro. «Là», annunciai. «Forma giusta, dimensioni giuste, fatto di ferro quasi puro: sarà un ottimo riparo per la navetta. Angelina, prendi il timone e portaci più vicino. Bolivar, tu e io indosseremo le tute e andremo lassù con la scialuppa: useremo i cannoni per scavare il buco che ci occorre. James terrà le comunicazioni con noi: tieniti in contatto e stai pronto a inviarci tutto l'equipaggiamento speciale di cui potremo avere bisogno. Dovrebbe essere un lavoro facile». Lo fu: anche alla potenza minima il cannone di prua della navetta scavò
il ferro come burro fuso, liberando nubi di gas monoatomico. Quando la cavità sembrò abbastanza profonda sigillai la mia tuta e uscii per esaminare il lavoro che avevamo fatto, calandomi nel buco di ferro. «Sembra che vada bene», dissi quando ne emersi. «Bolivar, pensi di potercela sistemare? Prima la prua, e cerca di scassarla il meno possibile...». «Sarà uno scherzo, pa'!». Mantenne la parola, e io me ne restai da una parte a vedere la scialuppa che scivolava silenziosamente nel crepaccio e poi svaniva alla vista. Ora potevamo piazzare la strumentazione di superficie, collegarla alla nave, tagliare un'altra fetta di asteroide per tappare il buco, preparare dei tiranti per la navetta... Mi trovavo di faccia al Distruttore, chiaramente visibile a due chilometri di distanza, ai limiti del campo di detriti spaziali. I suoi portelli splendevano in modo rassicurante, e già mi preparavo a tornare indietro e a rimettere i piedi a bordo dopo una sana giornata di lavoro. Poi apparve la forma nera, oscurando le stelle. Era grande e veloce, molto veloce: e l'apertura simile a una bocca si spalancò non appena la cosa si avventò dallo spazio. Inghiottì il Distruttore e si chiuse di nuovo, e poi sparì, tutto nel giro di un istante, in cui io potei solo restare muto, paralizzato. Se n'era andata: la nave, Angelina, James. Andata. VI Avevo avuto altri brutti momenti, ma questo era senza dubbio il peggiore. Me ne stavo raggelato, i pugni serrati, a fissare con orrore il punto dove la nave era stata solo un istante prima. Fino a quel momento i brutti quarti d'ora della mia vita avevano coinvolto, nella maggior parte dei casi, me e me solo. E il pericolo solitario rischiara meravigliosamente la mente, oltre a promuovere il flusso dell'adrenalina nel momento in cui per sopravvivere occorre azione istantanea. Ma adesso io non ero minacciato, o in pericolo, non rischiavo di morire: Angelina e James, invece, sì. E non c'era niente che potessi fare.
Dovevo aver prodotto qualche strano suono, pensando a questo, e certo non molto bello, perché la voce di Bolivar squillò nelle mie orecchie: «Pa', che sta succedendo? Qualcosa è andato storto?». La tensione si ruppe e io mi diressi alla scialuppa, spiegando ciò che era accaduto non appena mi trovai nella camera stagna. Lui era pallido ma si controllava, quando apparvi nella cabina di controllo. «Che facciamo?», chiese con voce sommessa. «Ancora non lo so. Dobbiamo andargli dietro, naturalmente... ma dove? Ci vuole un piano». Una specie di acuto gorgheggio echeggiò allora dal comunicatore, e girai gli occhi in quella direzione. «Che cos'è?», chiese Bolivar. «Un psi-allarme generale. Ho letto che esiste nei manuali, ma non avevo mai sentito che fosse stato usato, finora». Mi avvicinai ai controlli e tracciai una rotta. «Come certo sai le onde radio viaggiano alla velocità della luce, così che un messaggio trasmesso da una stazione a cento anni luce da qui impiegherebbe cento anni per raggiungerci. Non è il mezzo più veloce per comunicare, ed ecco perché molti messaggi vengono portati direttamente dalle navi da un punto all'altro. Questa è l'altra forma di comunicazione libera dalle leggi einsteniane: la comunicazione psichica, che è in pratica istantanea. Gli uomini-psi possono parlare l'uno con l'altro, telepaticamente, senza aspettare lunghi lassi di tempo. Tutti quelli che sono dotati di facoltà psichiche lavorano per la Lega, e buona parte per il Corpo Speciale. Esistono apparecchiature elettroniche capaci di intercettare le comunicazioni psi, ma solo se queste raggiungono la massima potenza, e solo in termini estremamente elementari. Ogni astronave della Lega è equipaggiata con uno di questi apparecchi, sebbene finora fossero stati usati solo in via sperimentale. Perché essi entrino in funzione, tutti gli uominipsi viventi devono trasmettere lo stesso pensiero nello stesso momento: è una singola parola, guai. Quando lo psi-allarme è ricevuto, ogni astronave deve recarsi alla più vicina stazione trasmittente per scoprire cos'è accaduto. Ed è quello che noi stiamo facendo». «Ma mamma e James...». «Per trovarli ci vorrà un piano, come ti ho detto, e ci vorranno aiuti. E
poi, sarà un sospètto, ma ho la sensazione che quest'allarme abbia qualcosa a che fare con la faccenda di cui ci stiamo occupando». Sfortunatamente avevo ragione. Riemergemmo dall'iperspazio nelle vicinanze di un ripetitore, e il messaggio registrato si diffuse istantaneamente nella nostra radio. «...Ritornare alla base. Tutte le navi a rapporto per ordini. Diciassette pianeti della Lega sono stati attaccati da forze aliene nell'ultima ora. La guerra divampa nello spazio su un gran numero di fronti. A rapporto per ordini. Tutte le navi devono ritornare alla base. Tutte le navi...». Avevo stabilito la rotta prima ancora che il messaggio avesse avuto il tempo di ripetersi: mi diressi alla Centrale del Corpo Speciale. Non c'era altro posto dove andare: la resistenza contro gli invasori sarebbe stata organizzata da Inskipp, e tutte le informazioni disponibili si sarebbero trovate lì. Non vi dirò come ci sentivamo mentre passavano i giorni: Bolivar e io trovavamo sopportabile lo scorrere del tempo solo ripetendoci che la distruzione per la distruzione non era evidentemente lo scopo degli alieni, poiché con tutto l'armamentario che avevamo visto avrebbero potuto facilmente distruggere sia il satellite degli ammiragli che la nostra nave. Invece avevano preferito prendere vive le persone che c'erano dentro, anche se non osavamo pensare perché. Ci limitavamo a supporre che i nostri cari fossero prigionieri da qualche parte e che presto saremmo andati a liberarli. Pilotai la nave in maniera del tutto automatica quando emergemmo dall'iperspazio in prossimità della base. La sbatacchiai sotto la spinta del massimo di G, e compii l'inversione solo all'ultimo momento, al massimo della propulsione: i controlli gemettero quando i ramponi magnetici entrarono in funzione. Mi precipitai al portello che si stava ancora aprendo. Bolivar era sempre al mio fianco. Attraversammo i corridoi alla stessa andatura e fummo nell'ufficio di Inskipp, per trovarlo addormentato e russante sul tavolo. «Parli», ordinai, e lui aprì i due occhi più rossi che avessi visto, poi gru-
gnì. «Avrei dovuto immaginarlo. La prima volta che tento di dormire in quattro giorni appare lei. Sa cosa...». «So che una di quelle balene spaziali ha inghiottito il mio incrociatore con dentro Angelina e James, e noi abbiamo dovuto arrangiarci a tornare qui con una scialuppa». Si mise in piedi, barcollando. «Mi spiace, non lo sapevo; anche qui abbiamo avuto il nostro daffare». Si diresse a un armadietto e versò un liquido scuro da una bottiglia di cristallo in un bicchiere, che vuotò. Annusai la bottiglia e mi versai anch'io una razione. «Mi spieghi», ordinai. «Che è successo?». «Un'invasione aliena: e mi lasci dire che sono in gamba. Quelle balene spaziali sono navi da battaglia corazzate, e non siamo stati capaci nemmeno di scalfirle. Non abbiamo niente che possa competere con loro, nello spazio. Così, tutto quello che possiamo fare è ritirarci. Finora, che si sappia, non hanno tentato di atterrare su alcun pianeta, ma si sono limitati a bombardarci dalla spazio, perché le nostre unità di terra sono abbastanza forti da respingerli. Non abbiamo idea di quanto durerà tutto questo». «Vuol dire che stiamo perdendo la guerra?». «Al cento per cento». «Sempre ottimista, vedo. E le spiacerebbe dirmi chi è che stiamo combattendo?». «Ma certo: loro, essi!». Andò allo schermo, schiacciò i pulsanti, e - a colori sgargianti e nel realismo del 3D - una figura mostruosa si parò dinanzi a noi: irta di tentacoli, verdastra, untuosa e dotata di artigli, con una quantità di occhi che pendevano da tutte le parti, e una serie di altre appendici che è meglio non descrivere. «Ugh», disse Bolivar, esprimendo l'opinione di noi tutti. «Be', se quello non vi piace che ne dite di questo... o questo?». Sullo schermo sfilavano diapositive di creature ancora più repellenti (era mai possibile?) della prima. Cose odiose, insopportabili, accomunate solo dalla loro mostruosità. «Basta», dissi alla fine. «È una cosa da dare la nausea; non mangerò per
una settimana. Ma quale di loro è il nemico?». «Tutti. Il professor Coypu glielo spiegherà». Un'immagine registrata del professore apparve sullo schermo, e devo ammettere che era abbastanza meglio di quegli orrori striscianti, a dispetto dei denti in fuori e dell'atteggiamento cattedratico. «Abbiamo esaminato gli esemplari catturati, sezionato quelli morti e sondato quelli vivi per ottenere informazioni. Ciò che abbiamo scoperto è alquanto sconcertante. Si tratta di una notevole quantità di razze, provenienti da diversi sistemi stellari. Da ciò che dicono, e non abbiamo motivo di metterlo in dubbio, sono impegnati in una santa crociata. Il loro scopo è semplicemente distruggere l'umanità, spazzare via tutti i rappresentanti della nostra specie della galassia». «Perché?», chiesi forte. «Vi domanderete perché», continuò l'immagine di Coypu. «Un interrogativo naturale. La risposta è che non possono sopportare la nostra vista. Ci considerano troppo mostruosi per esistere. Fanno un gran parlare del fatto che abbiamo troppe poche membra, che siamo troppo asciutti, che i nostri occhi non penzolano come i loro da peduncoli, che non secerniamo gradevole fanghiglia, e che ci mancano altri importanti organi. Quindi ritengono che siamo troppo disgustosi per esistere accanto a loro». «Senti chi parla!», disse Bolivar. «La bellezza è soggettiva», gli rammentai. «Ma in ogni caso sono d'accordo con te. Adesso però sta zitto e ascolta il professore». «Questa invasione è stata attentamente preparata», Coypu disse, sbirciando i suoi appunti e limandosi le unghie contro i denti sporgenti. «Da quando l'attacco è cominciato abbiamo trovato molti alieni che si nascondevano nei bidoni dei rifiuti, nelle bocche dei condizionatori, nelle botole, nello scarico dei gabinetti, ovunque. Ovviamente ci hanno osservati per un mucchio di tempo, ammassando dati su di noi. Il sequestro degli ammiragli è stata la prima avvisaglia d'attacco, un tentativo di disorganizzare le nostre forze rapendone i capi. Tale manovra ci ha lasciato effettivamente a corto di ammiragli, ma i loro giovani vice-comandanti sono stati messi alla testa delle astronavi che mancavano di ufficiali anziani, col vantaggio di raddoppiarne l'efficienza. Tuttavia ci manca un'autentica conoscenza delle
strutture e dei mezzi del nemico, poiché ne abbiamo catturato solo piccole navi, guidate da ufficiali di basso grado. Si suggerisce di procurarsi maggiori informazioni...». «Ah, grazie tante», grugnì Inskipp, spegnendo la registrazione di Coypu prima che potesse finire. «Non ci sarei mai arrivato, da solo». «Io posso farlo», gli dissi, e mi piacque il modo in cui lui alzò gli occhi verso di me, rivelandone tutto il bianco (o meglio il rosso). «Lei? Lei potrebbe riuscire là dove tutte le nostre forze hanno fallito?». «Naturalmente. Abbandonerò ogni modestia e le confesserò di avere un'arma segreta che ci permetterà di vincere la guerra». «E come?». «Mi faccia prima parlare con Coypu. Poche domande, poi rivelerò tutto». «Andiamo a prendere mamma e James?», chiese mio figlio. «Calma, ragazzo. Certo, quello è in cima alla lista delle priorità: ma allo stesso tempo salveremo la galassia dalla distruzione». «Perché viene a scocciarmi quando devo lavorare?», chiese Coypu attraverso il comvisore; era vivo, adesso, non una registrazione, e parlando sputacchiava e aveva gli occhi rossi proprio come Inskipp. «Si rilassi», lo confortai. «Risolverò tutti i suoi problemi, come ho già fatto altre volte in passato, ma mi serve il suo aiuto per farlo. Quante specie differenti di alieni ha scoperto finora?». «Trecentododici. Ma perché...». «Glielo dirò tra un momento. Di tutti i tipi, forme e colori?». «Può scommetterci! Dovrebbe vedere i miei incubi». «No, grazie. Evidentemente lei ha scoperto il linguaggio col quale comunicano tra loro: è difficile?». «Lei lo conosce già: è esperanto». «Andiamo, Coypu». «Non mi parli in quel tono di voce!», disse isterico. Poi riprese il controllo di sé, ingoiò una pillola e rabbrividì. «Perché no? È chiaro che ci hanno osservato per un sacco di tempo prima di invaderci, imparando tutto di noi. Devono aver ascoltato un mucchio delle nostre lingue, poi hanno
scelto l'esperanto, proprio come abbiamo fatto noi, perché è la più semplice, la più facile e più efficiente forma di comunicazione». «Mi ha convinto. Grazie, professore, e si riposi, perché tra poco sarò lì, e lei dovrà fabbricarmi l'equipaggiamento necessario a introdurmi nel quartier generale alieno; là scoprirò che cosa ci «attende, salverò la mia famiglia e forse anche gli ammiragli, se ne avrò la possibilità». «Ma di che diavolo sta parlando?», sibilò Inskipp, mentre l'immagine di Coypu sullo schermo echeggiava la stessa domanda, in un tono di voce ugualmente repellente. «Semplice, almeno per me. Il professor Coypu mi fabbricherà un costume da alieno, completo di pompetta per il fango, e io lo indosserò. Loro mi accoglieranno come uno di famiglia: sarò una specie di mostro che ha udito della santa crociata e che muore dalla voglia di essere arruolato. Mi vorranno bene. Arrivo, professore». I tecnici fecero un lavoro veloce, ma eccellente. Rimpinzarono il computer di disgustosi particolari sulla natura degli alieni: tentacoli, artigli, occhi peduncolati, sensori e insomma ogni genere di cose, poi lo programmarono perché progettasse qualche realistica variante. Mamma! Perfino Bolivar fu impressionato. Prendemmo un paio di disegni del computer, li combinammo un po' tra loro e ottenemmo il progetto finale. «Ma sei proprio tu, pa'?», disse Bolivar, girando intorno alla cosa e ammirandola da tutti gli angoli. Somigliava a un tyrannosaurus rex in miniatura, lebbroso a uno stadio avanzato e dal pelame gocciolante. Un bipede, per l'ovvia ragione che io stesso lo ero. La pesante coda, che alla fine si biforcava in tentacoli dalle estremità coperte di ventose, serviva sia a bilanciare il peso del bestione sia a contenere in uno spazio vuoto l'impianto energetico e l'equipaggiamento. La parte frontale della testa era ornata da una mascella gigantesca, ricoperta da una schiera di denti verdi e gialli, un po' sporgenti, proprio come quelli del loro costruttore. Le orecchie erano da pipistrello, i baffi da topo, gli occhi da gatto e le branchie da aringa: insomma, una cosa veramente mostruosa. La parte anteriore venne aperta e io scivolai cautamente all'interno. «Gli avambracci ricevono poca energia, e dovrà fare tutto lei», disse Co-
ypu, «ma le grandi gambe sono dotate di servomeccanismi, e seguiranno i movimenti delle sue: stia attento, quegli artigli possono fare un buco in un muro d'acciaio». «È proprio quello che voglio provare. E la coda?». «Fa da contrappeso, e scodinzola mentre lei cammina. Questi controlli le permetteranno di farla dibattere quando non cammina: sembrerà più realistico. Questo comando serve a farla guizzare quando per esempio lei sta seduto, o sta immobile per un lungo periodo. Questo invece è il bottone della '75 senza rinculo che ha montata nella testa, giusto fra gli occhi. La vista ce l'ha qui, sul naso». «Fantastico. E le granate?». «Il lanciatore è sotto la coda, naturalmente. Le granate medesime sono camuffate da... lei sa cosa». «Un tocco di classe: vedo che ha proprio la mente contorta che ci vuole per questo genere di cose. Ora mi faccia chiudere la cerniera e poi si allontani mentre faccio le prove». Fu necessaria un po' di pratica per muovere la bestia gigantesca con naturalezza, ma dopo pochi minuti avevo capito come si faceva. Mi mossi un po' in giro, lasciando una traccia fangosa ovunque andassi, scavando solchi nei tavoli d'acciaio con gli artigli, e provando a tirare qualche colpo con la mitraglia che avevo in testa. Senza rinculo o no, dopo aver preso varie pillole per il mal di testa decisi che l'avrei usata solo in caso di emergenza disperata. Quando rientrai nel laboratorio un robot dal passo goffo si fece avanti da una porta e si piazzò sulla mia coda. «Ehi, liberatemi da quell'affare!», gridai quando il segnale DOLORE ALLA CODA lampeggiò sul mio pannello di controllo. Indirizzai un calcio al robot, che lui schivò facilmente; poi mi si piazzò di fronte e la torretta con le lenti ottiche si aprì, e io mi trovai davanti la faccia sorridente di Bolivar. «Può sapere un povero diavolo che accidenti stai facendo in quella cosa?», chiese un povero diavolo. «Sicuro, pa'. Vengo con te: robot assistente per portare i tuoi bagagli. Non è logico?». «No, non lo è». Spiattellai i miei argomenti, ma sapevo già che era una
discussione che avrei perso. Infatti persi, e ne fui segretamente lieto. Benché temessi per lui mi avrebbe fatto comodo avere qualcuno con me. Saremmo andati insieme. «E dove?», chiese Inskipp, guardando con disgusto il mio costume da alieno mentre né uscivo. «Su quel pianeta-fortezza dove tengono gli ammiragli. E, probabilmente, anche Angelina e James. Se non è il loro quartier generale, o base principale o qualcosa del genere, certo andrà benissimo finché non scopriremo quella vera». «E le spiacerebbe dirmi come pensa di arrivarci?». «Con piacere: con la stessa scialuppa con cui siamo arrivati qui. Ma prima di partire voglio che lo scafo venga squarciato, e poi rattoppato alla meglio. Colpitelo all'esterno, all'interno, frantumate gli strumenti non essenziali: voglio che sia realistico. Prendete del sangue al mattatoio, e spruzzatecelo dappertutto. E... mi creda, non mi piace suggerirlo, ma il realismo è quello che conta: non avreste dei cadaveri umani che vi avanzano?». «Fin troppi», rispose Inskipp cupamente. «Vanno bene due o tre, in uniforme, a bordo?». «Sì, potrebbero salvarci la vita. Farò un sacco di casino con quella nave, accenderò la radio al massimo e sventaglierò le luci, e mi offrirò volontario insieme col mio pianeta di mostri per la nobile causa della distruzione dell'umanità». «La cui esistenza voi avete scoperto ora per la prima volta, dopo la cattura di quell'astronave, immagino». «È un tipo sveglio per la sua età, Inskipp. Lo faccia fare subito, perché parto immediatamente». Poiché la nostra missione sembrava l'unico raggio di speranza nella guerra che stavamo perdendo, ottenemmo i servizi migliori. La scialuppa, opportunamente sfigurata, fu caricata su un incrociatore che partì nel momento stesso in cui mettemmo piede a bordo. Ci portarono a destinazione, nell'ultimo punto sicuro prima delle stelle nemiche, poi ci espulsero. Navigai intorno a una grande nube di polvere, costeggiai un buco nero o due per confondere le nostre tracce e infine mi tuffai nel braccio della galassia
che ospitava il nemico. «Pronto, figliolo?», chiesi, facendo capolino con la testa attraverso la fessura nel collo dell'alieno. «Sono pronto se lo sei tu, Infido Jim», rispose il robot, poi la torretta si abbassò con uno scatto e rimase fissa al suo posto. Mi chiusi dentro a mia volta, allungai un braccio con gli artigli e agitai un tentacolo. Poi mi misi al lavoro. Sullo scafo della navetta ormai goffa e inumana erano state installate luci aggiuntive, così che quando le accesi assomigliammo a una specie di albero di Natale volante. Poi inserii la registrazione dell'inno, appena composto, del mio immaginario pianeta natale, e cominciai a trasmetterlo a pieno volume su 137 lunghezze d'onda. Così acconciati ci dirigemmo verso il pianeta-fortezza, veleggiando sul motivo di una deliziosa musica che faceva accapponare la pelle: Fangosi e gorgoglianti, coi grossi dentoni Siamo i più fetenti tra tutti gli alieni. VII «Kiu vi estas?», disse una voce stridente come ghiaia. Lo schermo si accese nello stesso momento, per mostrare una fisionomia aliena particolarmente ripugnante. «Kiu mi estas? Ciuj konas min, se mi ne konas vin, belulo...». Avevo deciso di essere arrogante, sicuro di ricevere così un caloroso benvenuto, e di mostrarmi poi adulatore, benché il fatto di chiamare «bello» una di queste facce di vermi richiedesse qualche sforzo. Ma l'adulazione si mostrò fruttuosa: l'essere si lisciò vanitosamente una massa di viticci con un tentacolo mucillaginoso, e continuò in tono di voce più amichevole. «Andiamo, andiamo, tesoro. Forse sapranno chi sei a casa, ma adesso sei molto lontano da casa. E poi c'è una guerra, e dobbiamo rispettare i regolamenti di sicurezza». «Certo, è naturale, e ne sono entusiasta. State facendo una guerra di
sterminio, vero? Contro quei secchi, rigidi alieni dalla pelle rosa, vero?». «Facciamo del nostro meglio, stella». «Be', contate pure su di noi! Abbiamo preso questa nave mentre si aggirava furtiva dalle parti del nostro pianeta, non abbiamo vere astronavi, ma l'abbiamo abbattuta con un razzo da combattimento. Poi abbiamo succhiato il cervello dei sopravvissuti, imparato il loro linguaggio e appreso che tutte le razze attraenti della galassia si sono unite contro di loro. Così, vogliamo unirci alle vostre forze: io sono l'ambasciatore. Presto, dateci istruzioni, perché siamo dei vostri!». «Potenti sentimenti», sussultò la cosa. «Manderemo una nave per guidarvi qui e il comitato di ricevimento vi darà il benvenuto. Ma c'è una domanda, dolcezza». «Fai pure, bellimbusto». «Con occhi come i tuoi... sei una femmina, vero?». «Lo sarò l'anno prossimo, di questa stagione. Per adesso sono in uno stato neutro, a metà tra il maschio e la femmina». «Allora è un appuntamento. Ci vediamo fra un anno». «Me lo annoto sul diario», tubai; poi spensi lo schermo e mi allungai alla bottiglia più vicina. Ma Bolivar il Robot mi prevenne e mi versò un generoso bicchiere, da cui bevvi con una cannuccia. «Sbaglio, pa', o quel residuato di fogna è andato in calore per te?». «Sfortunatamente, ragazzo, hai ragione. Nella nostra ignoranza abbiamo fatto un costume che corrisponde al massimo dell'avvenenza tra questa banda di mostri. Dobbiamo renderlo più repellente!». «Oh, lo renderesti solo più sexy». «Hai ragione, è ovvio». Soffiai con passione nella cannuccia. «Non mi resta che tenermi le loro attenzioni amorose, e vedere se non mi riesce di ricavarne qualche vantaggio». L'astronave-guida apparve pochi momenti più tardi, e io regolai il pilota automatico in modo che la seguisse. Fluttuammo verso il basso, attraverso campi minati invisibili e schermi difensivi, per atterrare infine su un quadrato di metallo in una grande fortezza. Sperai che fosse l'astroporto riservato ai visitatori importanti, non l'ingresso della prigione. «Ti ci vorrà l'elmo, pa'», disse Bolivar con un tono di voce robotico, ri-
portandomi alla realtà dal mare di neri pensieri in cui mi ero immerso. «Hai ragione, o saggio e nobile robot». Indossai l'elmo d'acciaio placcato in oro con la nebulosa di diamanti sulla fronte, esaminai la mia immagine allo specchio: delizioso. «Ma farai meglio a non chiamarmi più "pa'": darebbe adito a certe domande biologiche cui non potremmo dare risposta». Un'inverosimile parata di figure che strisciavano, zoppicavano o si torcevano si fece avanti quando apparimmo sul portello, con il robot-Bolivar che trasportava il bagaglio alieno da noi attentamente ricostruito. Un individuo con due viticci biondo-fangosi si staccò dal branco e agitò un mucchio di artigli nella mia direzione. «Benvenuti, ambasciatori delle stelle», disse. «Io sono Gar-Baj, Primo Ufficiale del Consiglio di Guerra». «È un grande onore, per me: io sono Infyyd Jeem, di Geshtunken». «Infyyd è il tuo nome o un titolo onorifico?». «Nella lingua della mia razza significa Colui che Calpesta il Sedere dei Villici con Aguzzi Artigli, e sta a indicare un membro della nobiltà». «Avete una lingua veramente sintetica, Infyyd: dovrai insegnarmela... in privato». Mi fece l'occhiolino con sei dei suoi diciotto organi visivi, e così seppi che il vecchio sex-appeal era di nuovo all'opera. «Lo farò volentieri nel mio prossimo periodo fertile, Gar. Ma per il momento... è la guerra che conta! Dimmi come vanno le cose e cos'è che noi di Geshtunken possiamo fare per la nobile causa». «Sarà fatto. Lascia che ti guidi ai tuoi quartieri personali; ti spiegherò mentre andiamo». Congedò gli altri presenti con un tentacolo, facendo segno a me di seguirlo con un altro. Lo feci, col fedele robot che caracollava dietro di me. «La guerra procede secondo i piani», disse. «Tu naturalmente non lo sai, ma abbiamo impiegato parecchi anni per prepararla. Le nostre spie si sono infiltrate in tutti i pianeti abitati dagli umani, e sappiamo quali sono le forze di cui dispongono, fino all'ultimo fucile a raggi. Non possono fermarci: abbiamo il controllo assoluto dello spazio e ci prepariamo ora alla seconda fase». «Che sarebbe...?». «L'invasione planetaria. Dopo aver distrutto la loro flotta coglieremo i
loro pianeti, uno per uno, come cerizoj maturi». «Questo fa per noi!», gridai, e con gli artigli tracciai un bel po' di solchi nell'asfalto metallico. «Noi di Geshtunken siamo terribili combattenti, pronti a buttarci alla carica, e desiderosi di morire per una giusta causa». «Proprio quello che speravo di sentire da qualcuno così ben piazzato come te, con artigli, denti e tutto. Di qua, prego. Abbiamo molte navi da trasporto, ma saremo lieti comunque di usare un'esperta fanteria». «Siamo guerrieri che sfidano la morte!». «Meglio così. Presenzierai al prossimo Consiglio di Guerra, e faremo piani per una mutua cooperazione. Ma adesso vorrai riposare...». «Mai!». Feci scattare le mascelle e staccai con un morso un grosso pezzo del divano lì accanto. «Non riposerò finché l'ultimo nemico non sarà distrutto». «Un nobile sentimento, ma perfino noi qualche volta riposiamo». «Non i Geshtunken. Non avete un prigioniero o due che possa sbranare, per un film di propaganda?». «Abbiamo un intero carico di ammiragli, ma ci servono per succhiargli le informazioni dal cervello, in vista dell'invasione». «Male. Io stacco gambe e braccia agli ammiragli come petali di fiori. Non avete qualche prigioniero femmina... o bambino? I loro urli sono i migliori». Era la domanda da 64.000 crediti, finalmente, dopo tutte le altre sciocchezze, e la coda mi scodinzolava mentre attendevo la risposta. Il robot smise di ronzare. «È proprio buffa, questa: abbiamo da poco catturato una nave spia nemica con una femmina e un giovane come equipaggio». «È quello che ci vuole!», gridai, e la mia eccitazione era reale. «Devono essere torturati, interrogati, pestati: è roba per me. Conducimi da loro!». «In condizioni normali sarei lieto di farlo. Ma ora... è impossibile». «Sono morti?», chiesi, cercando di mascherare la disperazione sotto il disappunto. «No, ma vorrei che lo fossero. Non abbiamo ancora potuto capire come sia successo: cinque dei nostri migliori lottatori-mostro si trovavano soli in una stanza con queste due pallide creature nane. E tutti e cinque sono stati
annientati, ancora non sappiamo come. I nemici sono fuggiti». «Male», dissi, simulando adesso una certa noia verso l'intera faccenda; mi avvicinai la coda e con un artiglio ne grattai la punta scrofolosa. «Naturalmente li avete ricatturati...». «No, e questa è la cosa più strana. È successo qualche giorno fa, e... Ma non vorrai che ti annoi con questi trascurabili problemi. Rinfrescati, e ti manderò un messaggero quando la riunione sarà pronta. Morte agli umani manici di scopa!». «Morte ai manici di scopa. Ci vediamo alla riunione». La porta si chiuse dietro di lui e il robot-Bolivar parlò. «Dove vuoi che ti metta il bagaglio, o potente Infyyd?». «Dove vuoi, stupido automa». Gli allungai un calcio che il robot dovette affrettarsi a evitare. «Non seccarmi con simili sciocchezze». Passeggiai per la stanza, cantando l'inno nazionale Geshtunken con voce stridula, mentre esploravo ogni angolo con cautela. Alla fine, rassicurato, mi aprii la lampo sul collo. «Puoi venir fuori a sgranchirti, se vuoi», dissi. «Evidentemente questi lumaconi si fidano di noi, perché non vedo microfoni, spie o telecamere nascoste in questa camera». Bolivar uscì svelto dal robot, e fece subito qualche piegamento sulle ginocchia, accompagnato da uno scricchiolare di giunture. «Si sta stretti là dentro dopo un po'. E adesso? Come facciamo a trovare mamma e James?». «Una buona domanda a cui non è facile dare risposta. Ma almeno sappiamo che sono vivi e vegeti, e che stanno dando filo da torcere al nemico». «Forse ci hanno lasciato un messaggio, o una traccia che possiamo seguire». «La cercheremo, ma non credo. Comunque seguendo questi mostri saremo sempre aggiornati. Stappa una bottiglia di Vecchio Spremicervello dal tuo armamentario, li, e vedi se c'è un bicchiere in questo bazar. Intanto io penso». Pensai sodo, ma con scarsi risultati. Forse l'ambiente non era dei più adatti: gli arazzi alle pareti erano verdastri su uno sfondo rosso-scaglioso.
Metà della stanza era occupata da una vasca di fango grande come una piscina che gorgogliava ed emetteva di tanto in tanto grandi bolle dalla puzza atroce. Bolivar andò in giro a esplorare, ma dopo essere stato quasi strangolato dagli speciali apparecchi sanitari e aver dato un'occhiata alle scorte alimentari (tornò verde come il mio travestimento da alieno) fu ben contento di mettersi a guardare la TV, provando i vari canali. La maggior parte dei programmi ci erano incomprensibili, benché grandemente disgustosi, e se comprensibili erano deprimenti come i notiziari sull'andamento della guerra. Nessuno dei due tuttavia si rese conto che il televisore serviva anche da comunicatore, finché un campanello suonò e la scena del bombardamento di un pianeta inerme lasciò il posto alle repellenti fattezze di Gar-Baj. Fortunatamente i riflessi dei diGriz non si erano rammolliti: Bolivar si buttò di lato, fuori del campo della telecamera, mentre io, girata la schiena alla TV, mi tiravo la lampo sul collo. «Non vorrei disturbarti, Jeem, ma il Consiglio di Guerra è riunito e richiede la tua presenza. I messaggeri ti scorteranno qui. Morte ai rammolliti». «Già, già», bofonchiai mentre la sua immagine svaniva, cercando di sistemare la testa nella giusta posizione tra le pieghe della carne di plastica. Un suono come di graticola venne dall'annunciatore alla porta. «Vai ad aprire, robot», dissi. «E comunica che sarò con loro tra un momento. Poi vieni a reggermi lo strascico». Quando uscimmo il mostro che era stato mandato a prendermi strabuzzò gli occhi alla scena, e fu una cosa impressionante, perché ne aveva due dozzine, che subito si protesero di un buon metro sui peduncoli. «Indicaci la strada, testa di spaghetti», ordinai. Lui s'incamminò e io lo seguii, seguito a mia volta dal robot che reggeva l'estremità dello strascico. Quest'attraente gualdrappa era fatta di tre metri di tessuto porporino, tempestato di stelline d'oro e d'argento e sormontato da un pesante, favoloso pizzo rosa. Mamma! Fortuna che non dovevo guardarmi allo specchio, ma compiansi il povero Bolivar. Ero sicuro che gli indigeni lo avrebbero apprezzato, e poi, anche se non avevo alcun bisogno di uno strascico, sembrava l'unico modo per portarmi Bolivar sempre
dietro. Il Consiglio restò positivamente impressionato, se è vero che gorgoglii, leccamenti di labbra e grugniti vari erano il modo locale di manifestare adulazione. Mi esibii per due volte nella sala del Consiglio, percorrendola in circolo, prima di accomodarmi nella sedia che mi avevano indicato. «Siamo felici, amabile Infyyd Jeem, che tu sia con noi al Consiglio di Guerra», esordì Gar-Baj. «Raramente quest'aula è stata illuminata da tanta bellezza. Se tutti i Geshtunken sono come te - e se sono altrettanto bravi guerrieri, come sono certo - questa guerra sarà vinta semplicemente con la forza del morale». «Un film di propaganda!», gorgogliò qualcosa di nero, umidiccio e repellente dall'altra estremità della sala. «Condividiamo il nostro piacere con le truppe combattenti, riveliamo a tutti quest'incantevole presenza! Pensate a tutti i volontari che avremo nel giro di poco tempo!». «Grande idea! Meraviglioso!». Ci furono urla di giubilo e di plauso da tutte le parti, accompagnate da un febbrile agitarsi di tentacoli, ventose, peduncoli, antenne, artigli e altre cose troppo schifose da menzionare. Poco ci mancò che rimettessi la colazione, ma sorrisi a tutti denti, per mostrare quanto fossi compiaciuto. Non so per quanto tempo questo bailamme insensato sarebbe andato avanti se la cosa-segretario non avesse battuto con forza un martello metallico su una grande campana. «Abbiamo affari urgenti, o nobili cose. Vogliamo andare avanti?». Ci furono grida irate di «guastafeste», o peggio ancora, e il segretario dovette umiliarsi. Era una creatura repellente, simile a una rana spappolata, con coda pelosa e una specie di ventosa che ricordava una sanguisuga là dove avrebbe dovuto esserci la testa. Sbatté gli avambracci in segno di scusa, ma nondimeno tornò ai problemi di lavoro non appena le urla si furono calmate. «Questa quattromilatredicesima riunione del Consiglio è aperta. Minute della riunione precedente sono disponibili, se le desiderate. I nuovi problemi sono l'ordine di battaglia, i piani logistici d'invasione, l'amministrazione delle riserve di bombe e i rifornimenti di cibo inter-razze». Il segretario aspettò che i muggiti fossero cessati prima di continuare. «Tuttavia
prima di cominciare chiediamo al nuovo membro un breve discorso per il telegiornale della sera. Stiamo registrando, Infyyd Jeem: vuoi usarci la cortesia di parlare?». Ci fu uno spiaccicarsi e un frusciare di tentacoli, che capii dovevano essere applausi, e mi inchinai verso l'occhio della telecamera, dando, nel farlo, uno strattone allo strascico. «Cari amici umidi, fangosi e fradici dell'ammasso galattico», cominciai, poi attesi con gli occhi pudicamente abbassati che l'applauso scemasse. «Non posso dirvi quale piacere faccia battere i miei quattro cuori per essere qui tra voi oggi. Dal momento che noi Geshtunken abbiamo scoperto che esistevano altri esseri a noi simili abbiamo cominciato a colare dalla voglia di unirci alle vostre forze. Il caso ha voluto che ciò fosse possibile, e io sono qui oggi per dirvi che siamo dei vostri, uniti in questa grande crociata contro i pallidi manici di scopa umani che infestano la galassia. Siamo rinomati per la nostra abilità guerriera...», pronunciai quelle parole scavando un solco nel leggio metallico che avevo dinanzi, «...e desideriamo contribuire con la nostra abilità a questa sacra causa. Come dice la nostra regina, Sua Maestà Engela Redenrundt, non è possibile piegare un buon Geshtunken... Né è saggio provarci!». Sedetti mentre si levavano urla sempre più eccitate, e incrociai le zampe, sperando che il mio piccolo trucco avesse funzionato. Nessuno sembrava essersene accorto: era un colpo, però, che benché tirato lontano poteva funzionare. Dovunque Angelina si trovasse era probabile che fosse vicina a un televisore; se era così avrebbe ascoltato le notizie, e in tal caso avrebbe sicuramente riconosciuto il nome sotto cui l'avevo incontrata per la prima volta, alcuni anni prima. Come ho detto, un colpo tirato lontano, ma meglio di niente. I miei compagni mostri non erano troppo soddisfatti di mettersi al lavoro, ma il piccolo orribile segretario riuscì finalmente a ottenere l'ordine. Mandai a memoria le parti essenziali dei vari piani di guerra, e, essendo un membro nuovo, non feci alcuna proposta. Ma quando mi chiesero quante truppe d'assalto noi Geshtunken potevamo mettere in campo fornii alcune cifre iperboliche che li misero tutti di buon umore. Ben presto cominciai a scocciarmi, ma non fui il solo a tirare un respiro di sollievo quando il se-
gretario aggiornò la riunione. Gar-Baj si avvicinò, torcendosi, e mi piazzò un amichevole tentacolo sulla coda. «Perché non vieni un momento da me, eh? Possiamo farci un bicchiere di succo putrefatto, e sbocconcellare un po' di pyekk... Una buona idea, no?». «Meravigliosa, Gar-bebé, ma Infyyd ha bisogno di riposare, e deve andare a letto, adesso. Dopo ci vedremo sicuramente: ma non chiamarmi, ti chiamerò io». Me la battei prima che potesse replicare, col robot che mi correva dietro attaccato all'estremità dello strascico. Mi precipitai lungo i rugginosi corridoi fino alla porta dei miei appartamenti, tutto felice di essermi sottratto agli appassionati abbracci di quel disgustoso Lotario. Ma quando entrammo qualcuno richiuse la porta con un colpo prima ancora che avessi il tempo di toccarla, e la scarica di un fulminatore bruciò il pavimento ai miei piedi. Rabbrividii mentre una voce cavernosa intimava: «Muoviti, e bada che il prossimo ti andrà dritto in quella testa di carogna». VIII «Non ho armi!», gridai con una voce altrettanto poco umana di quella dell'invisibile attaccante. «Ehi, aspetta... non sparare!». Eppure quella voce era in qualche modo familiare... Potevo azzardarmi a dare un'occhiata? Stavo cercando di decidermi quando Bolivar lo fece per me: aprì la torretta del robot e mise fuori la testa. «Ehi, James», chiamò allegramente, «che ti è successo alle corde vocali? E non ammazzare quel brutto alieno, perché dentro c'è il nostro pa'». Arrischiai un'occhiata ora, e vidi James nascosto sotto una specie di mobile, il mento e il fulminatore che tremavano entrambi per l'emozione. Angelina, piacevolmente vestita con un bikini di pelliccia, fece il suo ingresso dall'altra stanza, rimettendo la pistola nella fondina. «Striscia fuori da quella cosa, una buona volta», ordinò, e io mi liberai a fatica del mio corpo di plastica per abbracciare quello di lei, decisamente superiore. «Hmm», fece dopo un bel pezzo, e quel bacio appassionato fu
interrotto solo dalla mancanza di ossigeno. «Devono essere anni luce che non ci vedevamo». «Qualcosa del genere. Vedo che hai raccolto il messaggio». «Quando il tuo alter-ego mostro ha nominato quel nome al telegiornate ho capito che in qualche modo c'entravi tu. Ma non potevo sapere che eri nascosto nella creatura, ed ecco perché siamo venuti armati di pistola». «Be', adesso siete qui, e apprezzo il tuo abbigliamento». Poi guardai i pantaloncini di pelliccia di James: «E anche il tuo, figliolo. Vedo che vi siete serviti dallo stesso sarto». «Ci avevano preso tutti i vestiti», disse James, sempre continuando con la voce cavernosa. Lo guardai più da vicino. «Quella cicatrice sulla gola, ha qualcosa a che fare col modo come parli?», chiesi. «Puoi scommetterci. Me la sono fatta mentre scappavamo, ma l'alieno che me l'ha fatta... be', ecco da chi abbiamo preso il pelo per i costumini». «Proprio figlio mio! Bolivar, prendi una bottiglia di champagne dalla nostra riserva di sopravvivenza, per favore. Dobbiamo festeggiare questo incontro, mentre tua madre racconta cosa è successo dopo che ci siamo visti l'ultima volta». «Piuttosto semplice», disse lei, arricciando deliziosamente il naso per via delle bollicine. «Siamo stati catturati da una delle loro navi da battaglia: sono sicura che avrai visto com'è successo». «Uno dei più brutti momenti della mia vita», gemetti. «Povero caro. Come puoi immaginare anche noi non ci sentimmo troppo allegri. Attivammo tutti i cannoni, ma il ventre dell'astronave era rivestito di collapsium, e il nostro fuoco non servì a niente. Allora risparmiammo le munizioni per il momento in cui gli alieni sarebbero venuti a prenderci, ma anche questo non servi: il soffitto dell'enorme sala cominciò ad abbassarsi fino a schiacciare il Divoratore, così dovemmo uscire. Allora i nemici ci disarmarono, o almeno così pensavano. Mi sono ricordata di quel piccolo trucco che tu hai usato su Burada, le unghie avvelenate. Abbiamo fatto lo stesso qui, avvelenandoci anche le unghie dei piedi: così quando loro ci hanno portato via gli stivali non hanno fatto che facilitarci il compito. Comunque, lottammo finché i nostri fucili non furono scarichi, poi venimmo
acchiappati e buttati in prigione, o in una camera di tortura (non ci siamo rimasti tanto a lungo da scoprirlo!). Infine abbiamo sistemato i nostri catturatori e siamo fuggiti». «Meraviglioso! Ma questo è successo parecchi giorni fa. Come ve la siete cavata nel frattempo?». «Be', con l'aiuto dei Cill Airne». Nel dire questo agitò una mano, e cinque uomini balzarono dall'altra stanza nella nostra, brandendo le armi nella mia direzione. Ero allibito, ma rimasi ugualmente immobile, perché Angelina non pareva stupita da quell'apparizione. Gli uomini avevano pelle pallida e capelli neri, e il loro abbigliamento, se tale poteva essere definito, era fatto di pezzi e bocconi di pelle aliena, tenuta insieme da un poco di filo. Le asce e le spade che impugnavano avevano un'aria piuttosto rozza, ma indubbiamente servivano allo scopo. «Estas gronda plezuro renkonti vin», dissi, ma nessuno di loro si mosse. «Se non parlano esperanto, che parlano?», chiesi ad Angelina. «La loro lingua, naturalmente, di cui ho imparato qualche parola. Do gheobhair gan dearmad taisce gach seoid», fece lei. Essi annuirono consenzienti, fecero risuonare le armi le une contro le altre, ed emisero acute grida di battaglia. «Hai fatto colpo su di loro», dissi. «Gli ho detto che tu sei mio marito, capo della nostra tribù, e che sei venuto qui per distruggere il nemico e condurli alla vittoria». «Vero, vero», dissi, intrecciando le mani e agitandole sopra la testa mentre quelli mi acclamavano ancora. «Bolivar, offri il liquore a buon mercato ai nostri alleati mentre mamma mi spiega un po' meglio che diavolo di faccenda è questa». Angelina sorseggiò lo champagne e aggrottò la fronte delicatamente. «Non sono proprio sicura dei dettagli», disse. «La barriera della lingua, capisci, e tutto il resto. Ma i Cill Airne sembrano essere gli abitanti originari di questo pianeta, o perlomeno i suoi colonizzatori. Come vedi sono umani: certo si tratta di una colonia tagliata fuori durante il Crollo. Come e perché si siano spinti così lontano dagli altri pianeti colonizzati non lo sapremo mai. Comunque se la passavano bene, qui, finché non arrivarono gli
alieni. Fra loro ci fu odio a prima vista: gli alieni li invasero e loro cominciarono la resistenza, e pare che lo stiano facendo ancora. I mostri hanno fatto di tutto per spazzarli via, distruggendo la superficie del pianeta e coprendola, centimetro per centimetro, di metallo. Ma non ha funzionato: gli umani si sono infiltrati negli edifici alieni e hanno imparato a viverci, nascosti nelle mura o nelle fondamenta». «Sorci indomabili!», gridai. «Hanno tutta la mia simpatia». «Penso che sia giusto. Così, dopo che James e io scappammo fuggendo per un corridoio, non troppo sicuri di dove saremmo andati, una porticina si apri nel pavimento, ne sbucarono loro e ci tirarono dentro. Questo è successo dopo che l'ultima guardia aliena ci era appena saltata addosso, e James aveva dovuto fare quel che ti ho detto. I Cill Airne lo hanno apprezzato, e hanno scuoiato il mostro per noi. Forse non potevamo parlare il loro linguaggio, ma quello che avevano fatto valeva più delle parole. E questo è quanto ci è successo. Ci siamo nascosti nelle tane dei nostri amici, nei muri, e abbiamo pensato a un piano per liberare gli ammiragli». «Tu sai dove li tengono?». «Certo: non è lontano da qui». «Allora ci vuole un piano, e a me una buona notte di riposo. Perché non ci dormiamo sopra e pensiamo alla guerra domani?». «Perché non c'è tempo, e poi so che cos'hai in mente... Avanti, all'opera!». Sospirai. «D'accordo. Cosa facciamo?». Le cose si decisero da sole quando la porta si spalancò e il mio pseudoinnamorato, Gar-Baj, si precipitò dentro. Doveva avere intenzioni piccanti, se il pigiamino rosa significava qualcosa, ma rimase leggermente sorpreso da quello che trovò. «Jeem, tesoro... Perché stai lì immobile col collo aperto? Awwrrk!». Quest'ultimo grugnito fu aggiunto quando la prima spada gli trafisse le chiappe. Ci fu una veloce battaglia, che lui perse rapidamente, benché non senza onore. Non era entrato completamente nella stanza quando la mischia si era scatenata; e quando gli tagliammo l'ultimo pezzetto di coda, dotato indubbiamente di un rudimentale cervello autonomo, strisciò velocemente lungo il corridoio e sparì alla vista.
«Avremmo fatto meglio a inseguirlo», dissi. «Presto, rifugiamoci nel tunnel!», gridò Angelina. «È abbastanza grande per il mio travestimento da alieno?», domandai. «No». «Allora fermate tutte le attività per un momento mentre io penso», dissi, e cominciai a pensare. Rapidamente. «Ci sono. Angelina, tu sai raccapezzarti in questo labirinto di mostri?». «Certo». «Magnifico. Bolivar, è la tua occasione di sgranchirti un po'. Esci dal robot e facci entrare tua madre. Spiegale come funzionano i comandi e poi va' con gli altri. Ci incontreremo da loro più tardi». «Grazie, caro», sorrise Angelina, «avevo proprio i piedi che mi facevano male. James, mostra a tuo fratello la strada: vi raggiungeremo più tardi, come ha detto papà. E faremo meglio a mettere via qualche pezzo della creatura che avete appena ucciso, perché avremo qualche invitato in più, a cena». «Che vuoi dire?», domandai. «Gli ammiragli. Possiamo sicuramente liberarli, con tutto l'armamentario che ti sei portato, e poi li condurrò al sicuro nelle gallerie sotterranee». Tutti aderirono entusiasticamente al piano. Nella famiglia diGriz abbiamo l'abitudine di prendere le decisioni rapidamente, e quanto ai Cill Airne avevano stante opposizione al nemico. Alcuni tappeti furono sollevati per rivelare una tappeti furono sollevati per rivelare una botola che fu presto sollevata, e io cominciai a pensare che gli alieni non erano poi così intelligenti se permettevano che gli succedessero tutte queste cose sotto il naso, o tentacoli olfattivi che fossero. Bolivar e James si calarono nell'apertura seguiti dai nostri alleati che se ne uscirono con feroci urla di «Scadan! Scadan!». «È abbastanza comodo, qui dentro», disse Angelina, scivolando nel robot. «C'è una radio a circuito chiuso per comunicazioni?». «Sì, il circuito 13, quell'interruttore vicino alla tua mano destra». «L'ho trovato», disse lei, poi la sua voce mi arrivò direttamente dentro l'orecchio: «È meglio che tu vada avanti. Ti darò le istruzioni man mano che procediamo».
«Ogni tuo desiderio è un ordine». Mi affacciai nel corridoio col robot che mi saltellava dietro. Il pezzo di coda tagliato era scomparso. Presi a calci e a spintoni la porta del mio appartamento finché non fu ridotta a un ammasso accartocciato nel telaio, tanto per confondere gli inseguitori il più possibile, poi feci strada verso il corridoio metallico. Fu un viaggio lungo, e francamente noioso, attraverso la città metallica. Gli alieni non sembravano essere buoni pianificatori, e le nuove costruzioni sembravano essersi aggiunte alle vecchie senza tener conto dell'ambiente. Una volta ci si trovava a camminare in un solido corridoio rugginoso dal soffitto inclinato, un'altra si attraversava un campo percorso da strutture metalliche sotto il cielo aperto. Talvolta i passaggi pedonali erano usati anche come canali, e io dovevo dibattermici a gran velocità, spinto dalla coda che si agitava freneticamente. Il robot era troppo pesante per far questo, e poteva solo rotolare sul fondo. Passammo vicino a magazzini, fabbriche (avete mai visto un migliaio di cose che assomigliano ad alligatori in putrefazione lavorare tutti insieme con le trapanatrici?), dormitori e altri locali che sfidavano ogni descrizione. E dappertutto c'erano i freak, che blateravano in esperanto e mi facevano gesti eloquenti mentre passavo. Molto carini: rispondevo ai loro saluti e mentalmente li maledicevo. «Sto cominciando a stufarmi», confidai ad Angelina tramite la nostra radio a circuito chiuso. «Coraggio, mio prode, ci siamo quasi. Solo pochi chilometri ancora». Una porta sbarrata apparve finalmente davanti a noi, sorvegliata da creature armate di lancia e che battevano rumorosamente i denti. Quando io apparvi cominciarono a fare ancor più baccano: percossero il suolo con le lance, urlarono e sbatterono le mascelle così violentemente che pezzetti di denti scheggiati volarono in tutte le direzioni. «Jeem, Jeem!», gridarono, e: «Viva i Geshtunken! Benvenuti alla nostra grande crociata!». Erano tutti fans del telegiornale della sera, evidentemente, da cui mi avevano riconosciuto. Alzai le zampe e aspettai che il tumulto si fosse sedato. «Grazie, grazie», dissi. «È un grande piacere per me unirmi a creature disgustose come voi, prole di qualche pianeta nauseante perduto fra le stel-
le incancrenite». Non erano insensibili all'adulazione, e presero a urlare ancora di più. «Durante il mio breve soggiorno qui ho visto cose che strisciano, brulicano, si contorcono e fanno schifo, ma devo dire che voi qui siete i più contorti, i più viscidi e i più gran schifosi che ho mai incontrato». Dato il tempo alle grida beduine di sfogarsi venni al punto: «Noi di Geshtunken abbiamo visto solo una nave carica dei pallidi manici di scopa umani, che abbiamo macellato all'istante, per semplice riflesso. Mi pare di capire che qui avete un intero satellite carico di nemici: è vero?». «Certo, Jeem l'Infyyd», sputacchiò uno dei mostri. Vidi ora che aveva delle comete d'oro assicurate ai lati della testa, indubbiamente segno di un rango importante. Indirizzai le mie domande a lui: «Oh, mi fa piacere! E sono là dentro?». «Certo, sono là». «E non ne avreste uno vecchio, danneggiato, o che non vi serve più per farmelo fare a pezzi, mangiare o qualcosa del genere?». «Se l'avessi te lo darei, come omaggio alla tua bellezza, ma ahimè, no: ci servono tutti, per cavargli informazioni. E poi ho già una lista piena di volontari che intendono sbranarli, e molti di alto rango». «Oh, molto male. C'è almeno la possibilità di dargli un'occhiata? Sai com'è: conosci il tuo nemico...». «Solo da qui, però. A nessuno è permesso di avvicinarsi di più senza un lasciapassare. Accosta un occhio o due alle sbarre e li vedrai». Uno dei miei finti occhi peduncolati aveva una telecamera incorporata: usai quello, e girarla scena con l'ingranditore. Sicuro, erano là. Una bella quantità di capoccioni. Passeggiavano in circolo, o giacevano sul pavimento, magri e con le barbe lunghe, i brandelli delle uniformi che pendevano loro di dosso. D'accordo, erano ammiragli, ma mi fecero pena lo stesso. Anche gli ammiragli sono stati umani, una volta. Dovevo liberarli! «Grazie mille», dissi, ritirando l'occhio. «Sei stato molte gentile, e mi ricorderò di te nel rapporto al Consiglio di Guerra». Li salutai mentre ci allontanavamo, e tutti i mostri salutarono in risposta: con tutti quei tentacoli che volavano sembrava un'esplosione. «Sono depresso», confidai alla moglie-robot quando girammo l'angolo. «Non c'è modo di raggiungerli, così».
«Sta' allegro», mi rispose via radio. «E proviamo il prossimo pozzo: se esiste un livello inferiore a questo possiamo penetrare dal sottosuolo». «Mio genio!», dissi, e le battei affettuosamente una zampa sulla spalla metallica. «Faremo proprio così, e credo che quell'imboccatura là davanti sia proprio ciò che cerchiamo. Ma come faremo a sapere quando siamo sotto il punto giusto?». «Lo sapremo perché io ho piantato un rivelatore sonico mentre tu tenevi la concione a quegli incubi». «Ma sicuro! Avevi già fatto il tuo piano da tempo. Se tu fossi qualcun altro sarei verde di gelosia, ma m'inchino con piacere all'ingegno della mia piccola moglie». «Be', allora cerca di non metterla in quei termini da porco maschio sciovinista. Le donne sono brave quanto gli uomini; di solito sono anche meglio». «Mi metto in castigo, robot mia. Indica la strada e ti seguirò». Scendemmo lungo una scalinata coperta di fango che si perdeva nel buio più profondo. Evidentemente la usavano di rado: meglio ancora. Angelina accese una torcia e vedemmo una pesante porta di metallo che sorgeva davanti a noi, proprio al termine della scalinata. «Devo disintegrarla?», domandò, spingendo la testa fuori dal robot per prendere un po' d'aria. «No, non mi fido. Prova coi rivelatori, e vedi se trovi traccia di attività elettronica sotto la superficie». «Molta», disse, eseguendo scrupolosamente. «Ci sono almeno una dozzina di allarmi. Li neutralizzo?». «Non vale la pena. Sonda quel muro lì: se è pulito entreremo aggirando la porta». E così facemmo. Questi alieni erano veramente dei sempliciotti. Il muro disintegrato ci condusse a un magazzino, e il muro dopo ci permise di accedere al locale che la porta massiccia avrebbe dovuto proteggere. Sarebbe stato un giochetto anche per uno scassinatore dilettante, e la mia opinione del quoziente d'intelligenza nemico calò ancora di qualche punto. «Così è questo il motivo per cui non vogliono che nessuno ficchi il naso qua dentro!», disse Angelina, guardandosi intorno alla luce della torcia.
«Il tesoro della città», mormorai compiaciuto. «Dobbiamo tornare indietro e arraffare a piene mani, appena si presenta l'occasione». Ricchezze senza fine si estendevano in ogni dilezione: il bottino di cento mondi. Oro e lingotti di platino, diamanti tagliati, monete e banconote di cento specie diverse: tanti soldi da poterci fondare una banca, altro che rapine! Repressi i miei istinti ladreschi e sferrai qualche calcio affettuoso ai bauli aperti colmi di lingotti, poi mi buttai a sguazzare nell'oro. «So che ti rilassa», disse Angelina con indulgenza, «ma non dobbiamo continuare l'operazione di salvataggio?». «Certo. Possiamo andare, mi sono rinfrescato abbastanza». Si sintonizzò sul suo segnalatore subsonico e seguì la freccia indicatrice. Attraversammo la camera del tesoro e, dopo aver disintegrato qualche altro muretto e qualche porta, raggiungemmo il punto indicato. «Siamo proprio di sotto», disse Angelina. «Bene». Diedi un'occhiata attenta. «Allora la porta sbarrata deve essere qui, e i prigionieri qui». Calcolai la distanza con accuratezza. «In questo punto c'erano delle sedie, e dei mucchi di detriti; così, se emergiamo qui saremo nascosti e al riparo da sguardi indiscreti. È pronto il tuo trapano?». «Freme tutto». «Allora forza: si comincia». Il braccio munito di trapano del robot si allungò addentando il soffitto coperto di ruggine. Quando le vibrazioni si attenuarono Angelina spense le luci e continuò il lavoro lentamente, nelle tenebre. Quando posò il trapano per l'ultima volta un raggio di luce esterna fece capolino attraverso il buco. Aspettammo in silenzio, ma non ci fu nessun allarme. «Fammi intrufolare uno dei miei occhi nel buco», dissi. Bilanciandomi sulla punta della coda e su quelle delle dita dei piedi mi alzai abbastanza per protendere un peduncolo oculare attraverso l'apertura. Diedi un'occhiata panoramica a 360° e poi lo ritirai. «Veramente grande. Cianfrusaglie e detriti tutto intorno, e nessuno dei vecchi ammiragli che guarda da questa parte. Le guardie sono fuori di vista. Dammi lo smolecolatore e sta' indietro». Uscii dal travestimento da alieno e gli montai sulle spalle, in modo da raggiungere facilmente il soffitto. Lo smolecolatore è un oggetto molto uti-
le, che riduce l'energia di legame delle molecole in modo che esse si trasformano in pulviscolo monoatomico e si disperdono. Lo puntai e poi sparai, facendogli descrivere un ampio cerchio, cercando di non starnutire quando la polvere sottile cominciò a cadere, poi afferrai il disco metallico e completai il cerchio.' Dopo aver fatto questo affacciai la testa attraverso l'apertura e mi guardai intorno: andava tutto bene. Un ammiraglio dalla mascella di ferro e l'occhio di vetro era seduto lì vicino, l'immagine dell'abbattimento. Decisi che ci voleva un po' di tonico morale. «Psst, ammiraglio», sussurrai, e quello si voltò dalla mia parte. L'occhio buono gli si allargò dallo stupore, e la mascella sporgente sobbalzò in maniera impressionante quando vide la mia testa senza corpo. «Non dica una parola, per carità. Sono qui per salvarvi tutti. Capito? Faccia sì con la testa». E poi dicono che gli ammiragli sono gente fiduciosa: non solo quello non annuì come gli dicevo, ma balzò in piedi e urlò con quanto fiato aveva in corpo: «Guardie! Aiuto! Ci salvano!». IX Non mi aspettavo in realtà molta gratitudine, non da un alto ufficiale: ma questo era addirittura ridicolo. Attraversare migliaia di anni luce, superare tanti pericoli che non si possono neppure enumerare, sopportare le attenzioni amorose di Gar-Baj... e tutto per salvare qualche ammiraglio rincitrullito, uno dei quali cercava addirittura di consegnarmi alle guardie. Questo era troppo! Comunque non mi ero aspettato di meglio: non si diventa un sorcio che non arrugginisce mai con le tempie grigie senza essere sospettosi di tutto e tutti. La mia pistola ad ago era pronta, perché mi aspettavo noie dalle guardie, ma ero altrettanto preparato a riceverne dai prigionieri. Spostai la levetta dell'arma da veleno a sonnifero (e mi costò non poco sforzo, lasciatemelo confessare), e poi sparai un ago d'acciaio nel collo dell'ammiraglio. Quello barcollò decorosamente, crollando verso di me con entrambe le
braccia protese, come per un ultimo abbraccio al suo salvatore. Rabbrividii, incapace di muovermi, quando vidi ciò che rivelavano i suoi polsi tormentati. «Che succede?», mormorò Angelina da sotto. «Niente di buono», mormorai. «Ma adesso, silenzio assoluto». Con un movimento furtivo abbassai la testa finché solo gli occhi rimasero sull'orlo dell'apertura, ancora nascosti dalle vecchie sedie scassate, dalle scatole vuote di razioni alimentari e altre cianfrusaglie. Le guardie si erano accorte del trambusto? Certo gli altri prigionieri sì. Due ufficiali ottuagenari si misero in piedi traballando e guardarono la figura accasciata del loro compagno. «Che succede? Gli ha preso un attacco?», chiese uno di loro. «Avete sentito che cosa ha urlato?». «Non molto bene. Avevo l'apparecchio acustico staccato, per risparmiare la batteria. Era qualcosa come: "Vardaiùt, cisalvà"». «Ma non ha senso! Forse vuol dire qualcosa nella sua lingua nativa...». «No. Il Vecchio Schimsah viene da Deshnik, e quella roba non vuol dire un accidenti, in deshnikiano». «Giratelo e vediamo se respira ancora». Lo fecero, e io, che li osservavo da vicino, annuii soddisfatto quando l'ago d'acciaio scivolò dal collo del Vecchio Schimsah appena l'ebbero toccato. Eliminata questa prova ci sarebbero volute due ore buone prima che lui tornasse in sé e potesse raccontare ciò che era accaduto. E questo era proprio il tempo che mi ci voleva: stavo già facendo dei piani. Tornai giù e presi il disco di metallo che avevo da poco rimosso con lo smolecolatore, ne spalmai il bordo con colla di lepak (più forte di una saldatura) e lo risistemai al suo posto. Ci fu uno scricchiolio quando la colla fece presa e il soffitto, come del resto il pavimento lassù nel cortile degli ammiragli, fu di nuovo integro. Poi balzai giù e sospirai profondamente. «Angelina, ti prego, accendi una delle tue torce e stappa una bottiglia del whisky migliore». Ci fu la luce, poi il gorgoglio del liquido nella bottiglia, e la paziente Angelina attese che me lo fossi scolato prima di parlare. «Non è il momento di raccontare a tua moglie che diavolo sta succeden-
do?». «Perdonami, luce della mia vita, ho solo avuto un incidente, lassù». Vuotai di nuovo il bicchiere e feci un sorriso forzato. «È cominciato quando mi sono rivolto all'ammiraglio più vicino: quello mi ha guardato e ha chiamato le guardie, così ho dovuto sparargli». «Be', uno di meno da salvare», disse lei con soddisfazione. «Non esattamente: ho usato solo un ago soporifero. Nessuno ha udito ciò che ha detto, così sono scivolato via e adesso l'apertura è sigillata. Ma non è questo che mi disturba». «Ehi, so che non hai bevuto, ma mi sembri poco lucido lo stesso». «Mi spiace. È stato l'ammiraglio: quando è crollato gli ho visto i polsi, e c'erano dei segni rossi, sopra, come cicatrici». «E allora?», chiese lei, evidentemente stupita. Poi anche la sua faccia divenne pallida: «No! Come può essere?». Annuii lentamente,poiché era impossibile fingere un sorriso. «Gli uomini grigi. Potrei riconoscere ovunque la loro opera». Gli uomini grigi: solo a pensarci sentivo un brivido lungo la schiena, e la mia schiena, vi assicuro, non è facilmente soggetta a questi pizzicorini. Io sono forte e coraggioso, e non mi ritiro mai di fronte a nessuna battaglia fisica, ma - come tutti noi - trovo difficile resistere a un attacco diretto alla mia materia grigia. Il cervello non ha più difesa una volta che siano stati scavalcati i terminali nervosi corporei: ficcate un elettrodo nel centro del piacere di un qualsiasi cervello animale e la cavia continuerà a premere il bottone che fornisce la corrente, fino a morire di fame o di sete. Muore contenta. Alcuni anni prima, mentre mi occupavo di un caso d'invasione planetaria io stesso avevo fatto la parte dell'animale cavia. Gli uomini grigi erano la forza occulta che manovrava l'invasione, e per mia sfortuna mi avevano catturato. Essi erano - e sono! - i signori della tortura psicologica, ed erano capaci di alimentare con falsi ricordi direttamente le cellule cerebrali. Nel mio caso particolare mi instillarono il ricordo (ma naturalmente il fatto non era mai avvenuto) che entrambe le mani mi erano state tagliate ai polsi. Oh, non fu affatto bello. Quando la faccenda fu conclusa io mi ritrovai delle cicatrici rosse sui polsi, e il segno lasciato dalla sutura, proprio come se
le mani mi fossero state ricucite. Ma non potevo accettarlo, e alcuni eventi successivi provarono che avevo ragione. L'amputazione era stata soltanto un falso ricordo, e i segni erano solo cicatrici superficiali. Quella faccenda era stata una delle più spiacevoli che mi fossero capitate in una vita di esperienze avventurose, e non mi piaceva ricordarmene. Ma i fatti erano questi: gli uomini grigi erano di nuovo all'opera, e usavano la stessa tecnica di tortura mentale su quei poveri diavoli di ammiragli, che finora non avevano pensato ad altro che a una vita di tranquilla inefficienza. «Gli uomini grigi sono qui», dissi. «E lavorano dalla parte degli alieni. Non mi meraviglio che gli ammiragli cooperino con loro: essendo abituati al comando, all'obbedienza e basta sono bersagli perfetti per il lavaggio del cervello». «Credo che tu abbia ragione, ma... com'è possibile? Gli alieni odiano tutti gli umani, e non credo che farebbero eccezione per gli uomini grigi. Per quanto farabutti quelli sono pur sempre umani». Appena ebbe detto queste parole vidi chiara la risposta: sorrisi, l'abbracciai e la baciai, cosa che lei gradì, poi me ne separai, perché era una tentazione troppo forte: e dovevamo muoverci. «Ascolta, amore: credo di aver trovato il bandolo della matassa. Non tutti i dettagli sono chiari, ma so ciò che devi fare. Potresti portare i ragazzi e un po' di quei Cill Airne quaggiù? Dopo dovresti guidarli su nel cortile degli ammiragli, sparare alle guardie, mettere a nanna i vecchi e portarli in salvo. Te la senti?». «Posso farlo, credo, ma sarà un po' pericoloso. E poi, come faremo con gli altri alieni?». «Di questo mi occuperò io. Se scatenassi un bel parapiglia su scala planetaria, con nessuno che sa cosa sta succedendo o da chi prendere ordini... non sarebbe tutto più semplice?». «Certo, semplificherebbe le cose. Ma come pensi di fare?». «Se te lo dicessi penseresti che è troppo pericoloso e me lo proibiresti. Ti dico solo che deve esser fatto, e che sono l'unico che può riuscirci. Ora andrò fuori nel travestimento da alieno, mentre tu avrai due ore per radunare le truppe. Quando gli eventi cominciano a precipitare tu muoviti, e porta
tutti in salvo in qualche posto sicuro, preferibilmente vicino allo spazioporto. Compiuta la mia missione tornerò agli appartamenti che mi hanno assegnato, dove tu lascerai una guida ad aspettarmi. Ma non dovrà attendere più di un'ora. Ciò che devo scoprire, e fare, può essere compiuto in questo lasso di tempo, dopodiché tornerò indietro. Non dovrebbero esserci problemi, ma se ce ne fossero e io non tornassi in tempo, la guida verrà ad avvertirvi. Comunque so prendermi cura di me stesso, lo sai bene: quando la guida ritorna, con o senza me, tu va' via. Prendi un'astronave, approfittando del culmine della confusione, e lascia questo posto». «Misura il tempo: mi aspetto che tu ritorni». Mi baciò, ma non era felice. «Non vuoi proprio dirmi che cosa vai a fare?». «No. Se te lo dicessi dovrei poi darti retta, e forse non ne farei più niente. Ti dico solo che il mio obbiettivo consiste in tre punti: trovare gli uomini grigi, usarli contro i nostri amici alieni e poi battermela». «Bene, allora fallo. Ma non sbagliare nessuno dei tre passi... In particolare l'ultimo». Ci ficcammo nei rispettivi travestimenti, poi ci dividemmo prima che potessimo cambiare idea. Angelina trotterellò via con abile andatura, e io mi avviai nella direzione opposta, pesantemente. Credevo di conoscere la via, ma dovevo aver fatto un giro sbagliato: cercando una scorciatoia per i livelli superiori m'imbattei in un'estensione rugginosa del pavimento che doveva aver ospitato un lago coperto o una riserva d'acqua. Comunque mi trascinai per un bel po' nelle tenebre, illuminandomi il tragitto solo grazie agli occhi fosforescenti. Non sembrava esserci via d'uscita, e allora mi risolsi a espellere una granata dall'intestino e a tirarla contro il muro con un colpo di coda. Il muro si polverizzò a dovere, e io strisciai attraverso l'apertura nella luce del giorno, appena in tempo per vedere un ufficiale alla testa di un gruppo di freak che si precipitava alla mia volta per scoprire che stava succedendo. «Aiuto, oh, aiuto», mugolai, barcollando e premendomi le zampe sulla fronte. Grazie a Dio l'ufficiale era anche lui un fanatico del telegiornale. «Dolce Infyyd, che cosa ti accade?», gridò al colmo dell'emozione, mostrandomi qualcosa come cinquemila denti marciti e un metro o due di gola porporina. «Tradimento! Tradimento nelle nostre file», urlai. «Invia un
messaggio per convocare d'urgenza il Consiglio di Guerra, poi portamici, al più presto». Fu fatto all'istante, poi per alleviarmi mi avvolsero in un migliaio di tentacoli e mi sollevarono da terra. Questo rese il viaggio più comodo, e mi permise di risparmiare sulle batterie; quando giungemmo alla porta della sala del Consiglio fui rinfrescato e rilasciato. «Siete un branco proprio ripugnante», dissi. «Non mi dimenticherò di voi». Se ne rallegrarono e fecero schioccare le ventose contro il pavimento, mentre io accedevo alla sala delle riunioni. «Complotto, tradimento, congiura!», strillai. «Mettiti a sedere e fai le tue dichiarazioni nella forma appropriata, dopo che la seduta sarà stata convenientemente aperta», disse il segretario. Ma una cosa che sembrava una balena porporina con le emorroidi si mostrò più comprensiva. «Jemm gentile, qualcosa ti disturba. Abbiamo sentito che c'è stato tafferuglio nel tuo appartamento, e tutto ciò che abbiamo trovato del nobile Gar-Baj è la coda, che non è poi molto. Puoi darci qualche spiegazione?». «Posso, e lo farò, se il segretario me ne dà il modo». «Ohh, e avanti, allora», grufolò il segretario con malagrazia: somigliava ogni momento di più a un ranocchio spappolato. «L'assemblea è richiamata all'ordine; Infyyd Jeem riferisce su alcuni gravi fatti». «Ecco», spiegai all'attentissimo Consiglio di Guerra. «Noi di Geshtunken abbiamo alcune rare facoltà... oltre quella di essere incredibilmente sexy, voglio dire». Apprezzarono quest'ultima battuta, e si udì un torbido picchiare sui banchi, accompagnato dallo schioccare di umide labbra. «Grazie, lo stesso a voi. Ora, una cosa che noi possediamo è un eccellente odorato... ehm, sì, lo so, abbiamo anche un buon odore, ma siedi, ragazzo, che ingombri. Come stavo dicendo, il mio acuto senso dell'olfatto mi ha portato a scoprire che su quésto pianeta non c'era solo purezza: odora e odora, ho percepito il puzzo degli umani!». Attraverso le grida d'orrore che si levarono dall'uditorio percepii le parole «Cill Airne!», e annuii in quella direzione. «No, non i Cill Airne, i nativi di questo pianeta. Avevo già scoperto le loro tracce, ma sono come escrementi di topo, e so che i corpi di sterminio si prendono già abbastanza cura
di loro. No, io voglio dire esseri umani, proprio qui, fra di noi! C'è stata un'infiltrazione!». Quest'affermazione li fece impazzire, e io li lasciai urlare e contorcersi un poco mentre mi rifilavo gli artigli con una lima. Poi alzai le zampe chiedendo silenzio, e l'ottenni immediatamente. Tutti gli occhi, grandi, piccoli, peduncolati, verdi, rossi o acquosi erano puntati su di me. Feci qualche passo avanti, lentamente. «Sì, essi sono fra noi. Umani. E fanno del loro meglio per sabotare la nostra deliziosa crociata di sterminio. E io ne smaschererò uno davanti a voi... proprio adesso!». I motorini delle mie gambe ronzarono e l'impianto energetico si scaldò mentre facevo un gran salto in alto. Descrissi un arco di venti metri, forse più, e per giunta con grazia. Atterrai con un terribile schianto che mi fece gemere le sospensioni, e piombai - crash! - sul tavolo del segretario, che andò in mille pezzi. Stesi le zampe, affondandole nella pelle scura e umidiccia del mostro, lo sollevai in aria e lo feci girare sulle teste degli altri, mentre si dibatteva e urlava. «Ehi, è una pazzia! Mettimi giù! Io non sono più umano di te, capito?». Fu questo che mi fece decidere: finora era stata tutta un'improvvisazione. Sapevo che gli uomini grigi erano qui, dovevo smascherarli, e la sola creatura con quattro membra oltre me stesso era proprio il segretario: inoltre occupava la posizione giusta per dirigere la baracca, ed era il solo alieno con un po' di sale in zucca che avessi incontrato. Nonostante questo mi ero fidato solo del mio intuito, finché non aveva parlato: ora, ruggendo la mia vittoria, conficcai gli artigli appena limati giù nella sua gola. Un liquido oscuro se ne versò, e lui gemette roco. Deglutii e per un attimo esitai: mi ero sbagliato? Stavo per fare a pezzi il segretario del Consiglio di Guerra sotto gli occhi dell'assemblea? Ebbi l'impressione che non l'avrebbero presa troppo bene. No! Fu solo un microsecondo d'incertezza, poi andai avanti nel lavoro. Dovevo avere ragione. Gli squarciai la gola, gli torsi il collo e finalmente gli staccai la testa. Quando il cranio mostruoso rotolò sul pavimento ci fu un silenzio generale, atterrito. Poi cominciarono i singulti da tutte le parti.
Sotto la prima testa c'era un'altra testa: una pallida, torva testa umana. Il segretario era un uomo grigio. Mentre il Consiglio restava paralizzato dallo stupore, l'uomo grigio si dette da fare: estrasse una pistola da una branchia e l'alzò verso di me. Naturalmente me l'ero aspettato, e la feci volare via con un colpo. Ma non fui altrettanto veloce quando estrasse un microfono dall'altra branchia e cominciò a urlare qualcosa nella sua strana lingua. Non fui veloce perché volevo che lo facesse. Gli diedi tempo a sufficienza perché comunicasse il suo messaggio, poi gli strappai il microfono. Lui mi sferrò un calcio nello stomaco e io ruzzolai a terra, mentre l'uomo grigio svaniva attraverso una botola nel pavimento. Barcollante, rifiutai ogni offerta di aiuto. «Non preoccupatevi di me», mugugnai, «perché il colpo è stato mortale... Vendicatemi! Date l'allarme e acchiappate tutti gli altri ranocchi neri come il segretario. Non fatene scappare nessuno! Andate, ora!». Andarono, e io dovetti farmi da parte per non essere travolto dalla folla. Poi mi trascinai da un lato e spirai, nel caso qualcuno stesse guardando. Attraverso una palpebra mezzo chiusa li osservai finché non se ne furono andati tutti. Solo allora feci saltare la serratura della botola sigillata e seguii l'uomo grigio. Come potevo seguirlo?, potrebbe chiedersi qualcuno di voi. Sarò lieto di spiegarglielo. Durante la lotta gli avevo appiccicato al travestimento da segretario un piccolo generatore di neutrini; ora, un neutrino può attraversare, senza venire deviato né tanto meno fermato, l'intera massa di un pianeta. Il metallo con cui era fatta la città non avrebbe potuto minimamente ostacolarli. È necessario aggiungere che io possedevo nel muso un rivelatore direzionale di neutrini? Non vado mai in missione senza essermi un po' attrezzato in anticipo... L'ago luminoso mi indicava la strada: lo seguii, imboccai un pozzo in discesa, ben deciso a scoprire che cosa facevano gli uomini grigi su questo pianeta. E il mio segretario in fuga mi avrebbe condotto al loro nascondiglio. Ma fece meglio ancora: mi portò alla loro astronave.
Quando vidi le luci davanti a me rallentai l'andatura, poi dall'oscurità del tunnel spiai nella grande sala a cupola. Al centro stava una grande nave scura, mentre da tutti i lati apparivano gli uomini grigi, qualcuno correndo, senza il travestimento, altri goffi e impacciati dalla mascheratura aliena. Erano i topi che abbandonano la nave che affonda: roba per me. La confusione sul pianeta doveva essere al culmine, ora, e certo Angelina stava salvando gli ammiragli. Tutto procedeva secondo i piani. Ma non avevo previsto di trovare la loro astronave: da quello che potevo capire stavano preparandosi a una ritirata in fretta e furia, e questa era un'occasione troppo buona per lasciarsela sfuggire. Come rintracciarli, una volta che fossero scappati? Sicuro, c'erano macchine che avrebbero permesso di pedinare facilmente la nave, ma sfortunatamente non me n'ero portata dietro una: una vera trascuratezza, anche se c'è da dire che il più piccolo di quegli aggeggi pesa novanta chili. Quindi, che mi restava da fare? Furono loro tuttavia a prendere la decisione per me: una rete metallica mi piombò addosso e gli uomini grigi mi si precipitarono contro da tutte le parti. Lottai, e bene, ma qualcuno mi dette una mazzata alla testa con una sbarra di metallo. Non riuscii a schivarla, e la mia testa da alieno finì in pezzi. Un istante dopo, fu il buio. X Il primo pensiero che ebbi quando mi svegliai fu il desiderio di tornare nell'oblio. Dire che mi sentivo dolere in tutto il corpo è un ridicolo eufemismo: mi pareva, in realtà, di essere stato fatto passare sotto una porta, e particolarmente bassa, per giunta. Così giacqui per un po', tenendo gli occhi chiusi per difendermi dalla luce, e aspettando di sentirmi meglio. Dopo un periodo incommensurabile mi resi conto che mi sentivo peggio: ma poiché non amo cedere alla fragilità del corpo tirai un profondo respiro, e cercai di mettermi a sedere. Ahimè, solo per scoprire che ero incatenato da tutte le parti. Come risultato la testa fece un piccolo scatto in avanti, poi ricadde a terra e picchiò
contro qualcosa di terribilmente duro. Luce e dolore fiammeggiarono dietro i miei occhi, e l'intero universo diventò nero per la seconda volta. Stavo imparando: feci in modo che non succedesse una terza. Strisciai lentamente verso la piena coscienza, muovendo cautamente le gambe per vedere se funzionavano. Potevano muoversi, ma entrambe erano trattenute da qualche specie di legame. La luce incessante continuava a piovere giù, e mi ci volle tutta la forza di volontà per costringere un occhio a aprirsi, lentamente. Non fu un bene, per il mal di testa, ma pazienza. Finalmente potei aprire tutti e due gli occhi e dare uno sguardo alla mia prigione. Molto efficiente, e a prova d'evasione, fu la prima reazione che ebbi. Mura di metallo, pavimento di metallo e soffitto di metallo. Una singola luce brillante splendeva sulla mia testa, e ceppi d'acciaio mi tenevano bloccato al suolo. Non c'era altro: né cibo, né acqua, e a quel pensiero fui di colpo assalito da una fame e una sete rabbiose. «Acqua!», rantolai, ma me ne pentii subito, perché mi sembrava che la testa scoppiasse al suono delle mie stesse parole. Tuttavia servi: dopo alcuni minuti una porta sferragliò e si aprì da qualche parte che non potevo vedere, oltre i miei piedi. Un uomo grigio mi si avvicinò con una coppa d'acqua e qualche striminzita razione di cibo da astronavi. Ma invece di darmeli si limitò a fissarmi, immobile, con un'espressione che non conteneva alcuna pietà. «Muoviti, cameriere», grugnii. «Non è detto che perché il cibo fa schifo il servizio dev'essere ugualmente cattivo». «Sappiamo chi sei, diGriz», disse con voce smorta. «Ci hai causato un mucchio di guai, in passato. Tutte le informazioni di cui disponi ti saranno estorte, e poi sarai eliminato». Dopo quest'allegra informazione posò i due recipienti vicino alla mia testa, e staccò la catena che mi bloccava il braccio sinistro. Io, naturalmente, l'afferrai immediatamente per una caviglia. Lui fece un salto indietro e poi mi schiacciò violentemente le dita; restò in silenzio mentre mi leccavo la mano martoriata, e borbottavo qualche maledizione al suo indirizzo. Si mostrò altrettanto indifferente ai miei altri tentativi di conversazione, aspettando in silenzio che il fiato mi mancasse. Allora mangiai e bevvi l'acqua che mi aveva portato. Poi, ancora senza dire una parola, mi calpestò il
polso sotto lo stivale, mi incatenò di nuovo il braccio, raccolse il piatto vuoto e uscì. L'unico rumore che fece fu lo sferragliare delle chiavi quando chiuse la porta. «Chiacchierone!», gli gridai dietro, poi guardai tristemente ciò che potevo vedere dei brandelli del mio vestiario. Sembrava che avessero usato i rivelatori per scoprire i fidati aggeggi che mi portavo addosso, e che mi avessero strappato i vestiti a quello scopo. Inoltre, come indicava un certo numero di ferite, mi avevano strappato pezzi di pelle nei punti in cui i miei congegni offensivi erano attaccati direttamente all'epidermide. Non potevo fare niente, e il tempo passò, giorno dopo giorno, senza che spegnessero mai la luce, e la noia era assoluta, mentre un pasto monotono si succedeva a un altro pasto monotono; poi arrivammo. Potei sentire le vibrazioni dei getti d'atterraggio attraverso il pavimento, poi un colpo quando la nave si fermò. Non sapevo dove fossimo, ma ero sicuro che non mi aspettava niente di buono: tuttavia mi sforzai di essere allegro. Qualunque cosa sarebbe stata meglio che un'altra eternità incatenato al pavimento metallico in quelle condizioni di abbandono e sudiciume. Quando vennero a prendermi feci ciò che potei per prepararmi mentalmente, se non fisicamente, a un tentativo di fuga. Eravamo atterrati e presto avremmo lasciato la nave: mi avrebbero portato sicuramente in qualche posto dove non mi sarebbe accaduto niente di buono. Non sapevo ancora che cosa volevano, e, per quanto mi riguardava, la vita sarebbe stata molto più tranquilla se non l'avessi scoperto mai. Tra poco comunque avremmo lasciato la nave, e, sia pure per un breve periodo, saremmo stati in movimento. Quello era il momento di agire. Il fatto che non avessi la minima idea di ciò che poteva esserci fuori non aveva alcun peso: dovevo fare qualcosa. Ma naturalmente non mi avrebbero reso facile quel compito. Cercai di mostrarmi indifferente quando aprirono i ceppi che mi tenevano avvinto, per sostituirli con un collare metallico che fecero scattare intorno al mio collo, ma in realtà il sangue mi si raggelò all'istante: avevo già indossato quel collare, una volta. Un cavo sottile lo congiungeva a una piccola scatola, che uno di essi reggeva tra le mani. «Non c'è bisogno di dimostrazioni», dissi, in quello che voleva essere un tono brillante e scherzoso, ma che certamente non lo era. «Ho già portato
uno di questi affari in passato, e il vostro amico Kraj - vi ricordate Kraj? mi dimostrò come funzionava per un lungo periodo di tempo». «Posso farti questo», disse il mio carnefice, premendo un dito su uno dei molti bottoni della scatola. «È già stato fatto», urlai contorcendomi. «E ha usato le stesse parole. Lo so, non cambiate mai la routine. Premete un bottone, e...». Mi sentii invadere dal fuoco. Mi accecava, bruciavo e morivo, e la pelle era in fiamme, gli occhi erano come cauterizzati. Ogni nervo del mio corpo rispose al dolore prodotto dalle correnti neutrali della scatoletta. Sapevo qual era la causa, ma non serviva a niente. Il dolore era reale, e continuò, e continuò, e... Quando finì mi ritrovai sul pavimento, acciambellato, prosciugato di ogni energia e praticamente senza speranza. Due di loro mi sollevarono in piedi, e mi trascinarono sulle gambe barcollanti attraverso un corridoio. Il mio padrone, quello con la piccola scatola, camminava alle nostre spalle, dandomi un piccolo strappo ogni tanto, nel collo, per ricordarmi chi è che comandava. Non parlavo con lui. Dopo un po' potei reggermi da solo, ma essi tenevano ancora le mani strette intorno alle mie braccia. E mi piaceva. Trovai difficile non ridere: erano così sicuri che non potessi fuggire... «Fa freddo, fuori?», chiesi quando raggiungemmo il portello stagno. Nessuno si preoccupò di rispondermi, ma tutti indossarono guanti e cappelli di pelo, che di per sé erano abbastanza significativi. «Perché non date i guanti anche a me?». Fui ancora ignorato. Quando il portello stagno venne aperto capii il perché di tutti quei preparativi. Un ricciolo di neve fu portato dentro da un soffio d'aria gelida che mi intirizzì, poi si posò al suolo, sognante. Certo là fuori non era estate, ma mi spinsero ugualmente avanti nella tormenta. Be', forse non era una vera tormenta, ma non mancavano le raffiche pesanti. Un'onda accecante di fiocchi turbinò davanti a noi, poi si disperse in pochi momenti. Un sole pallido e sottile brillava attraverso il paesaggio bianco accecante. La neve si estendeva in tutte le direzioni... No, un momento, c'era qualcosa di scuro più avanti, qualcosa come un muro di pietra o un edificio di qualche tipo, che fu oscurato un attimo dopo. Procedevo a
fatica, e io cercai d'ignorare l'intorpidimento delle gambe e della faccia, e ancora la nostra meta distava un buon duecento metri... Il corpo e i piedi li avevo ancora abbastanza caldi, ma le parti esposte al gelo non potevano dire altrettanto. Eravamo circa a metà strada tra l'astronave e il rifugio caldo che ci aspettava quando un'altra mini-bufera si abbatté su di noi, sotto forma di raffiche di neve ruggenti. Un attimo prima che ci investisse io scivolai e caddi, trascinando con me uno dei miei catturatori, che slittò sulla superficie ghiacciata. Quello non si lamentò, ma il sadico che teneva la scatola della tortura mi inviò una rapida esplosione di dolore a titolo di avvertimento. Come dire: «guarda dove metti i piedi». Il tutto in perfetto silenzio: silenzio anche da parte mia, perché cadendo ero riuscito ad afferrare con la bocca un pezzo del filo che collegava la scatola nera col disco che portavo al collo, e l'avevo spezzato in due coi denti. Non era stato così difficile come sembra a raccontarlo, perché sotto le capsule dei denti davanti tenevo altrettante lamine dentellate di carburo di silicio. Erano invisibili ai raggi X, avendo la stessa densità dello smalto dei denti, ma erano dure come pezzi d'acciaio. Le capsule si scrostarono e si scheggiarono quando caddi al suolo, e morsi disperatamente prima che qualcuno notasse ciò che stava accadendo. La neve, eternamente fioccante, nascose i miei gesti per i pochi secondi che bastarono. I muscoli della mascella umana possono esercitare una pressione di 35 chili per parte, e fu quello che feci io, mordendo il filo con tutta la forza che avevo. Il cavo si tranciò. Non appena questo accadde rotolai sul fianco e tirai una ginocchiata all'inguine del mio guardiano sulla destra. Cacciò un urlo, cadde e mi lasciò libero il braccio: Libero di dare un colpo veloce alla gola dell'altro uomo. Ora avevo tutt'e due le mani a disposizione, e roteai come un fulmine verso l'ultimo avversario. Questi perdette secondi preziosi fidando nella tecnologia del suo giocattolo, invece che abbandonarsi unicamente ai riflessi. E sì che gli avevo dato la schiena per ben due volte, mentre atterravo i suoi compari! Ma come ho detto non fece niente, o almeno, niente salvo pigiare selvaggiamente i bottoni della scatoletta. Li stava ancora tastando quando con un calcio lo beccai alla bocca dello stomaco; quando crollò io gli finii sotto, così cadde
sopra la mia spalla. E non mi fermai a vedere chi è che stava urlando, mentre mi avviavo col mio ostaggio verso l'immensità gelata, coperta di neve e battuta dai venti. La mia sortita può sembrare pazzesca, ma quale pazzia maggiore che andare docilmente al macello nelle mani di quei vampiri? C'ero già passato una volta, e ne portavo ancora le cicatrici. Ora, naturalmente, avevo buone probabilità di morire assiderato, ma era sempre meglio che cedere agli uomini grigi. Inoltre c'era sempre la remota possibilità che riuscissi a sopravvivere per qualche tempo, e a causargli qualche fastidio, qualunque cosa. E poi non ero tanto debole come avevo finto: quello era stato solo un piccolo stratagemma per evitare che stessero troppo in guardia. Tuttavia adesso mi sarei effettivamente indebolito, e intirizzito, nel giro di poco tempo. Il mio ex-torturatore pesava quasi come me, e poiché praticamente lo portavo a spalla dovevo rallentare l'andatura. Tuttavia continuai ad avanzare, procedendo ad angolo retto rispetto alla pista che avevamo seguito prima, finché barcollai e caddi a capofitto nella neve, la faccia e le mani troppo intorpidite per sentire alcunché. C'erano degli uomini che gridavano da tutte le parti, ma per il momento non potevo vederne nessuno, perché la neve veniva giù troppo fittamente. Le dita mi erano diventate rigide come bastoni quando abbrancai il cappello dalla testa del mio compagno e lo misi sulla mia. Era quasi impossibile aprire le chiusure della sua tuta, ma alla fine ci riuscii, ficcai le braccia all'interno e infilai le mani sotto le sue ascelle. Mentre la sensibilità tornava nelle mie dita, le sentii bruciare peggio che sotto la tortura. Benché fosse svenuto, il freddo del mio tocco fece riprendere l'uomo grigio: ma appena gli occhi gli si aprirono estrassi una mano quel tanto che bastava per mollargli un pugno e lo colpii alla mascella. Dormì meglio, dopo: e io mi accucciai lì, mezzo coperto di neve, benché la sofferenza più grave fosse ormai finita. Uno dei nostri inseguitori venne da quelle parti, ma non ci vide. Poco dopo non ebbi alcun rimorso nel prendere i vestiti e i guanti del mio prigioniero, sebbene notassi che si dibatteva ancora mentre io ricominciavo a procedere nella neve. Naturalmente feci la sola cosa sensata che c'era da fare: seguii un per-
corso circolare e tornai indietro verso l'astronave; gli uomini grigi, creature di limitata immaginazione, avrebbero sicuramente pensato che un prigioniero evaso volesse andar lontano, ma io li delusi e ripercorsi la strada che avevamo già fatto, giungendo all'astronave, che come potei vedere con soddisfazione era deserta. Attesi quindi che la neve coprisse le mie orme e poi corsi verso l'edificio che sorgeva a poca distanza, girai l'angolo e m'imbattei nell'uomo che lo sorvegliava. «Non cercare di fuggire», disse, puntandomi una pistola allo stomaco. XI Naturalmente ero già pronto per quel tentativo: Jim l'Infido se la ride, ah! ah!, delle pistole puntate allo stomaco. C'erano un sacco di modi interessanti - e letali - per capovolgere quella situazione, ma l'uomo parlò prima ancora che tendessi i muscoli. «L'arma serviva solo a impedirti di attaccarmi all'istante, diGriz. Conosco bene la tua fama: prendi». Girò la pistola e me la porse per il manico; io la presi meccanicamente. «Ora seguimi: si va in un nascondiglio sicuro». Lo seguii, anche perché c'era poco da scegliere, ma intanto giravo la testa tutto intorno, fino a farmi dolere il collo, per vedere se c'erano eventuali trappole; non ne vidi. L'uomo mi condusse a una porta che si apriva su un ambiente oscuro e piacevolmente caldo. La richiuse dietro di noi e, sempre al buio, mi guidò attraverso una serie di tre altre porte, che chiuse sempre a chiave dopo che fummo passati. L'ultimo locale era senza finestre, e infatti accese le luci non appena ebbe chiuso la porta. Mi girai intorno, la pistola in pugno, senza vedere niente tranne alcune grandi casse da imballaggio. Poi finalmente guardai il mio accompagnatore. Era vecchio, molto vecchio. La pelle giallastra gli pendeva in magre pieghe dal collo, e potevo chiaramente vedere il tremito delle sue dita. Solo gli occhi erano giovanili, vivi e brillanti, e mi guardavano intensamente mentre li studiavo. «Il mio nome è Hanasu», disse. «Ho sentito i rapporti che dicevano che eri stato catturato, e che ti descrivevano come uno che in passato ci ha cau-
sato molti guai. Sapendo questo ero sicuro che avresti cercato di fuggire appena arrivato, e che probabilmente ci saresti riuscito. Poi ho fatto il tuo stesso ragionamento, e ho pensato che saresti tornato indietro: ecco perché ti aspettavo». «Molto furbo», dissi, tentando di sorridere. «Sì, ma sono l'unico: gli altri sono d'intelligenza limitata, e di poca immaginazione. Penseranno sicuramente che sei morto assiderato nella neve. Ma adesso devo parlarti di me: devi sapere certe cose, se vuoi capire perché ti sto aiutando. La mia carica è quella di primo maestro alla scuola di Yurisareta, dove i nostri giovani vengono educati. Potrà sembrarti un posto importante, ma in realtà è quasi l'opposto. Vi sono stato inviato per punizione, e anzi aggiungerò che mi avrebbero ucciso, se ne avessero avuto il coraggio». «Non ho la più pallida idea di ciò che stai dicendo. Vuoi spiegarti meglio?». «Certo. Questo pianeta è dominato dal Comitato dei Dieci, e io ne ho fatto parte per molti anni. Sono un grande organizzatore, sai. Sono stato io che ho cominciato e guidato l'operazione Cliaand; quando terminò, grazie ai tuoi sforzi, io tornai qui e divenni Primo nel Comitato. Fu allora che cercai di cambiare i nostri programmi, e loro mi hanno punito per questo. Da allora mi occupo della scuola, e non posso andarmene di qui né alterare una sola parola del programma, che è fisso e immutabile. È una prigione molto sicura...». La cosa si faceva davvero interessante. «Che tipo di cambiamenti volevi fare?». «Cambiamenti radicali. Cominciai a dubitare dei nostri scopi, perché ero stato esposto all'influsso di altre culture, che i miei concittadini definiscono corrotte, e presi a interrogarmi sempre più profondamente sulla nostra. Ma appena cercai di tradurre in realtà le mie idee fui preso, destituito dall'incarico e inviato alla scuola. Non sono ben accette le nuove i-dee, su Kekkonshiki. Ma il mio guaio è che sono troppo intelligente: sono sempre stato il primo in tutti i corsi che ho seguito, e poi ho primeggiato nel Comitato. Nel corso degli anni ci ho pensato spesso, e ho concluso che la maggior parte della gente su questo pianeta sia stupida e priva d'immaginazio-
ne: l'intelligenza e la fantasia sono altrettanti ostacoli alla mera sopravvivenza in un ambiente ostile come il nostro. Il che vuol dire che io appartengo a un ceppo diverso, sono un mutante. Queste differenze si erano manifestate solo relativamente durante i primi anni della mia vita: mi limitavo a credere a ciò che mi veniva insegnato, ed eccellevo negli studi. Non facevo domande, perché fare domande qui è inconcepibile. L'obbedienza è tutto. Ma adesso mi pongo molti interrogativi, e mi dico che noi non siamo affatto superiori al resto dell'umanità: solo diversi. I nostri tentativi di distruggere o soggiogare gli altri uomini sono stati sempre sbagliati, e usare gli alieni per combattere la nostra specie è stato il crimine più grande». «Hai ragione», dissi. Ma Hanasu continuò come se non mi avesse neppure sentito. «Quando mi resi conto di tutto questo cercai di modificare i nostri piani, i nostri obbiettivi. Ma è impossibile: figurati che non posso cambiare nemmeno una virgola nei programmi di studio dei ragazzi, e sono il capo della scuola!». «Io però posso cambiare tutto», dissi. «Sicuro», rispose lui, volgendosi verso di me. Poi la faccia si coprì di solchi, mentre piegava gli angoli della bocca. Sorrise, piano piano, ma era pur sempre un sorriso. «Perché credi che ti abbia aspettato? Tu puoi fare ciò che io ho impiegato un'intera vita a salvare il popolo di questo pianeta gelido da se stesso». «Basterà un'informazione: le coordinate del pianeta». «Sì, e poi... la tua Lega verrà qui e ci distruggerà. È tragico, ma inevitabile». «No. Non vi torceranno un capello». «Se è uno scherzo, non mi piace affatto. Non prenderti burla di me!». C'era una traccia d'ira, nella sua voce. «È la verità. I popoli civili reagiscono... in un modo che qui non conoscete. Ammetto che parecchi cittadini, se sapessero chi siete, preferirebbero mandarvi contro una tonnellata di bombe, ma con un po' di fortuna il pubblico non scoprirà mai il segreto. La Lega si limiterà a tenervi d'occhio in modo da non farvi combinare altri guai. E vi offrirà aiuti e assistenza». Non credeva alle sue orecchie. «Non capisco. Potrebbero ucciderci...».
«Noi abbiamo smesso di ucciderci. Vivere o morire, ammazzare o essere ammazzati: questo è un problema vostro, che appartiene a uno stadio oscuro della storia dello sviluppo umano, e che per fortuna noi ci siamo lasciati dietro. Forse non avremo la migliore tra tutte le civiltà possibili, eticamente parlando, ma almeno nel nostro mondo evitiamo la violenza istituzionalizzata. Perché credi che i vostri amici alieni ce le stiano suonando? Non abbiamo più eserciti o flotte veramente efficienti. Non abbiamo più guerre. Almeno, non le abbiamo avute finché popoli come il vostro non hanno spostato le lancette del tempo indietro di ventimila anni. Non bisognerà mai più uccidere per mantenere il potere. Mai più». «Ma si deve pur far rispettare la legge! Se un uomo uccide dev'essere ucciso a sua volta». «Assurdo. Un secondo delitto non serve a riportare in vita la vittima. Le società che praticano il delitto come strumento di governo si mettono alla pari dell'assassino. Vedo che hai già la bocca aperta per la prossima obiezione: ma la pena capitale non serve a prevenire il delitto, questo è ampiamente dimostrato. La violenza genera violenza, l'assassinio genera assassinio». Hanasu passeggiava avanti e indietro per la stanza, sforzandosi di capire questi concetti, che a lui erano estranei. «Ciò che mi dici è al di là della mia comprensione. Devo rifletterci, ma per il momento questo è poco importante. Ciò che importa è che ho preso la mia decisione: i piani dei Kekkonshiki devono essere arrestati, perché c'è stata troppa morte. Forse finiremo tutti in un olocausto ancora più grande, ma tu mi hai detto che ciò non accadrà. Mi piacerebbe crederti. Comunque, non importa: invia il messaggio alla tua Lega». «Ne sarò felicissimo. Ma per farlo dovrò lasciare il pianeta...». «Sì, e ho già preparato tutto. Il nome del pianeta è Kekkonshiki, e su questo foglio ci sono le coordinate spaziali». Me lo cedette, così, semplicemente: ed era la fine del suo mondo, la fine di un'era. Aveva avuto il coraggio delle sue convinzioni. «Non indugiamo. In queste casse da imballaggio c'è della valuta, che noi riceviamo dagli alieni: serve per comprare quel che ci occorre a sopravvivere su questo squallido pianeta. Ci sono molti mondi dove si pratica il commercio, e dove si può comprare qualun-
que cosa, se si ha la somma giusta. L'astronave caricherà le casse e farà rotta su uno di quei mercati, non appena sarà stata rifornita di carburante. Ti ho preparato un nascondiglio in una delle casse: hai la pistola e la tua abilità, quindi ti dovrebbe essere facile scappare, una volta giunto a destinazione. Ecco, ti nasconderai qui. Domande?». Guardai l'apertura nera, le sottili coperte, le fiasche d'acqua allineate, e mi vennero in mente mille domande. Ma nessuna veramente importante: se era una trappola, bene, ci sarei cascato. Ma se Hanasu agiva in buona fede allora sarei stato libero. E nessuna domanda avrebbe potuto darmi quel genere di risposta. «Grazie, Hanasu», dissi, e scivolai all'interno. «Tornerò coi soldati, e vedrai che andrà tutto bene». Annuì e chiuse il coperchio. Non dirò che mi godetti il viaggio, ma dopo gli scossoni del caricamento a bordò cominciai a sentire che la fuga era sempre più vicina: ne ero sicuro, quando partimmo, e mi concentrai su quel pensiero. Fortuna però che non soffrivo di claustrofobia, perché quello sarebbe stato il posto ideale per un attacco; mi limitai a un po' d'auto-ipnosi per mantenermi semiincosciente durante il viaggio, poi mi ripresi completamente quando la cassa venne smossa all'arrivo. Ci furono altri scossoni, quindi entrarono all'opera i ganci, e io sentii che cominciavano ad aprire le casse. Sbattei gli occhi alla luce quando sollevarono il mio coperchio. Due Kekkonshiki mi fissarono con la bocca spalancata, e a loro si unirono alcuni funzionari della dogana. E mentre il nemico se ne stava lì a guardarmi li afferrai per il collo e li sbattei testa contro testa, con grande entusiasmo. «Così va bene», dissi, sorgendo dalla tomba. Poi, ai funzionari: «Ora, se lor signori vogliono condurmi dal loro capo, ascolteranno una storia che li stupirà e sbalordirà. Presto, per favore. C'è ancora una guerra da vincere». XII C'era una nave esplorativa della Lega, nei paraggi, e atterrò prima che il giorno fosse terminato. Mentre l'aspettavo ero riuscito a convincere gli abi-
tanti del pianeta che commerciare col nemico non sarebbe stato giudicato bello, ma che li avremmo perdonati se avessero messo l'equipaggio di uomini grigi sotto chiave: cosa che fecero con gran premura. La nave esplorativa ripartì non appena ebbi messo piede a bordo, e nel tempo che impiegammo a raggiungere la stazione trasmittente della Lega io composi i miei messaggi. Ci voleva qualcosa di grosso e con tanti cannoni, dissi, per portare la civiltà ai Kekkonshiki: davo poi esatte istruzioni su come trovare Hanasu e farne il capo dei negoziati. Giustizia, vendetta e tutto il resto sarebbero venuti più tardi. Per il momento l'importante era neutralizzare gli uomini grigi, e guardarci le spalle. La guerra non era ancora vinta. Lessi tutti i rapporti dalla nave, e mentre facevamo rotta per la Centrale del Corpo Speciale, più tardi, avevo già elaborato un certo numero di piani. Ma li dimenticai tutti alla vista dell'agile figura della donna che amavo. «Aria...», boccheggiai, dopo vari minuti d'abbraccio appassionato. «Oh, è bello essere di nuovo a casa». «E vedrai come sarà bello tra poco... ma suppongo che tu voglia aggiornarti innanzitutto sulla situazione della guerra». «Se non ti dispiace, mio prezioso tesoro. Hai avuto qualche noia a salvare tutti quegli ammiragli?». «No: hai scatenato davvero un bel putiferio. E poi, i ragazzi hanno imparato presto, e mi sono stati di grande aiuto. Adesso sono fuori con la flotta, e fanno cose importanti, sai. Ma tu mi hai fatto preoccupare...». «E ne avevi tutte le ragioni, ma adesso è finita. Non è, per caso, che ti sei fermata a prendere qualche souvenir, nella stanza del bottino aliena?». «Ho incaricato i gemelli, che hanno preso tutto da loro padre. E ciò che hanno rubato ci permetterà di vivere senza problemi fino alla fine dei nostri giorni... se vivremo». «Eh, già, la guerra». La mia euforia si mutò in depressione, a quel pensiero. «Come si mette?». «Non bene. Come hai notato anche tu, gli alieni presi da soli sono piuttosto ingenui: una volta che gli uomini grigi se la sono battuta i capi della coalizione mostruosa devono essersi divisi in fazioni, ma evidentemente sono rimasti lo stesso alcuni generali abbastanza lucidi da capire che l'unica cosa da fare era sferrare un attacco generale, e così hanno fatto. Hanno
abbandonato completamente la loro base, hanno raccolto tutte le forze che avevano e ci sono venuti dietro. Così a noi non resta che correre, e stiamo ancora correndo. Ci limitiamo a sostenere qualche scaramuccia alle frange della loro flotta, per fargli credere che resisteremo e combatteremo. Ma in realtà non possiamo permettercelo: ci soverchiano come numero e come armamenti, e la proporzione è mille a uno». «Ma quanto tempo può durare tutto questo?». «Non molto ancora, temo. Abbiamo quasi superato tutti i pianeti abitati, e tra poco ci troveremo davanti lo spazio intergalattico. A quel punto chiaramente non potremo più ritirarci da nessuna parte. E allora anche i freak capiranno qual è la cosa più conveniente da fare: stanzieranno una piccola flotta per tenerci in scacco, e col grosso dell'armata piomberanno sulle nostre basi planetarie». «Non sembra una bella prospettiva». «E non lo è». «Non preoccuparti, tesoro». L'abbracciai e la baciai ancora. «Il tuo Infido Jim salverà la galassia». «Dillo ancora: è meraviglioso». «Mi è stato ordinato di venire qui», disse una voce familiare. «Per far cosa? Per vederla sbaciucchiare con sua moglie? Non sa che è in corso una guerra? Sono un uomo occupato, io». «Non quanto lo sarà fra poco, professor Coypu». «Che vuol dire?», gridò lo scienziato sbattendo gli incisivi sporgenti nella mia direzione. «Voglio dire che lei costruirà l'arma che ci salverà, e il suo nome risuonerà per sempre in tutti i libri di storia: Coypu, il salvatore della galassia». «Lei dà i numeri». «Non creda di essere il primo che me lo dice. Tutti i geni vengono definiti pazzi, o peggio. Ho letto in un dossier riservato che lei crede negli universi paralleli...». «Zitto, idiota! Non doveva saperlo nessuno, e lei men che meno». «È stato un caso. Una cassaforte si è aperta proprio mentre io passavo, e il dossier è caduto fuori. Ma è vero?». «Vero, vero», mormorò, battendosi infelice le unghie sui dentoni. «Ve-
de, ho capito il mistero della sua doppia gita con l'elica temporale: la prima volta lei è rimasto intrappolato in un nodo nel tempo, in un frammento di storia passata che non è mai esistito». «È esistito per me». «Naturalmente, non è quello che ho detto? Tuttavia, se può esistere un passato differente, allora deve esisterne un'infinità, e anche un'infinità di presenti alternativi: è logico». «Certo che lo è», feci, con allegria. «E così lei ha fatto degli esperimenti». «Certo. Ho dimostrato la possibilità di accedere agli universi paralleli, ho preso note e appunti. Ma in che modo questo salverà la galassia?». «Ho ancora un'altra domanda, se non le spiace. È possibile introdursi in questi... universi paralleli?». «Naturale, gliel'ho detto. Come avrei potuto fare le mie osservazioni, altrimenti? Ho inviato una piccola macchina nel varco, e lei ha scattato le foto e registrato i dati». «Potrebbe mandarci una macchina più grande?». «Dipende dalla potenza del campo». «Bene, allora questa è la risposta». «Forse è una risposta per te, Infido Jim», disse Angelina un po' perplessa, «ma per me non ha molto senso». «Ahh, amore, ma pensa a cosa si può fare con una macchina come quella: tu salti su un'astronave che trasporta questa invenzione, raggiungi la nostra flotta spaziale e attacchi battaglia col nemico. Poi le nostre forze se la svignano, la tua astronave resta dietro a fare la lepre, il nemico si butta all'inseguimento e tu accendi il campo...». «... E tutti quegli spaventosi fricchettoni con le loro armi e le loro navi finiscono dritti in un altro universo, e la minaccia è finita per sempre!». «Sì, stavo pensando grosso modo a una cosa così», dissi modestamente, sfregandomi le unghie sul petto. «Coypu, si può fare?». «Uhm, è possibile, è possibile...». «Allora andiamo al suo laboratorio e studiamo i dettagli, per vedere se ci riesce di tradurli in realtà». La nuova invenzione di Coypu non dava molto nell'occhio: solo un am-
masso di scatole, fili e aggeggeria assortita, che occupava quasi tutta la stanza. Ma lui ne era orgoglioso. «È ancora un modello rozzo, come può ben vedere», disse. «I componenti sono molto semplici: lo chiamo parallelizzatore...». «Cos'è, uno scioglilingua?». «Non scherzi, diGriz! Quest'invenzione cambierà i destini dell'universo conosciuto, e di almeno uno sconosciuto». «Non sia così suscettibile», dissi cercando di rabbonirlo. «Il suo genio non sarà mai sottovalutato, prof. Ora, sia così gentile da mostrarci come funziona il parallelizzatore». Coypu soffiava e borbottava tra sé mentre faceva gli opportuni aggiustamenti, spostava interruttori e picchiava sui quadranti: insomma, la solita roba. Mentre era così indaffarato anch'io trovai da fare: afferrai Angelina, mi buttai su di lei, e lei rispose con entusiasmo. Il professore, tutto intento al lavoro, non notò che noi eravamo occupati in cose private, e continuò i suoi rilevamenti mentre noi ce la spassavamo. «La precisione, questa è la cosa importante. I vari universi paralleli sono separati solo dal fattore probabilità, che è molto sottile, come certo immaginerete. Cogliere una di queste probabilità tra tutte le infinite che esistono è la parte più delicata dell'operazione. Naturalmente le linee di probabilità che presentano minori varianti rispetto al nostro mondo sono le più vicine, mentre gli universi dove le probabilità si sono sviluppate in modo completamente diverso sono i più lontani e quelli che richiedono maggiore energia per essere raggiunti. Quindi, per questa dimostrazione prenderò il più prossimo a noi, e aprirò un varco... così!». Manovrò un ultimo interruttore e le luci si abbassarono, mentre la macchina assorbiva tutta l'energia a disposizione. Da tutte le parti i congegni ronzarono e mandarono scintille, e un acuto odore di ozono riempì l'aria. Lasciai Angelina e mi guardai intorno attentamente. «Sa, professore», dissi, «per quanto mi riguarda sembra che non sia successo proprio niente». «Lei è un cretino! Guardi là, attraverso il generatore di campo». Guardai la grande struttura di metallo coperta di fili di rame, e che mandava caldi riflessi, ma senza vedere ancora niente. Lo dissi a Coypu, che
andò in bestia e cercò perfino di strapparsi qualche capello, cosa in cui fallì dal momento che era quasi calvo. «Guardi attraverso il campo: vedrà l'universo parallelo dall'altra parte». «Io vedo solo il laboratorio...». «Fesso! Quello non è il nostro laboratorio, ma il suo equivalente nell'altro mondo. Ne esiste uno laggiù esattamente come qui». «Magnifico», dissi sorridendo, perché non volevo offendere il vecchietto. Però pensavo lo stesso che fosse matto come un cavallo. «Vuole dire che se volessi mi basterebbe fare un passo attraverso lo schermo e mi troverei nell'altro universo?». «È possibile. Ma dovrebbe anche essere morto: finora non ho mai tentato di spedire attraverso lo schermo la materia viva». «E non sarebbe ora che tentasse?», chiese Angelina, afferrandomi per un braccio. «Naturalmente con qualcosa che non sia mio marito». Borbottando Coypu uscì e tornò con un topo bianco, lo mise in una morsa, fissò la morsa a una pertica, e infine spinse lentamente il topo attraverso lo schermo. Sembrò che non accadesse assolutamente niente, a parte il fatto che il topo, a furia di dibattersi, riuscì a liberarsi dalla morsa e cadde sul pavimento. Poi corse da una parte e sparì. «Dov'è andato?», domandai, sbattendo due o tre volte gli occhi. «È nel mondo parallelo, come le ho spiegato». «Sembrava spaventato, povera anima», disse Angelina. «Però non pareva che stesse male, anzi». «Bisognerà fare esperimenti», disse Coypu. «Più topi, esami microscopici dei tessuti, determinazione spettroscopica dei fattori...». «In tempi normali sì, prof», dissi, «ma c'è la guerra, e semplicemente non possiamo permettercelo. E c'è solo un modo per risparmiare tutto quel lavoro...». «No!», gridò Angelina, che aveva afferrato le mie intenzioni prima dello stesso Coypu. Ma era troppo tardi. Poiché, nello stesso momento in cui lei lanciava il grido, io attraversavo lo schermo. XIII
L'unica sensazione che avvertii fu una specie di leggero titillamento, benché anche questo avrebbe potuto essere solo un prodotto della mia immaginazione, che comunque si aspettava di provare qualcosa. Mi guardai intorno e tutto mi sembrò identico al posto che avevo lasciato, anche se ovviamente qui non c'era traccia del parallelizzatore. «Jim diGriz, torna immediatamente indietro... o mi butterò anch'io», sentii che diceva Angelina. «Solo un minuto. È un grande momento nella storia della scienza, e voglio godermelo pienamente». Era sconcertante guardare indietro, attraverso lo schermo, e scoprire che la vista dell'altro laboratorio - come del resto Angelina e il professore svaniva se appena mi muovevo un po' di lato. Mettendomici di fronte il campo stesso era invisibile, ma se gli giravo intorno arrivandogli dietro diventava chiaramente distinguibile come una superficie nera che fluttuava nello spazio. Con l'angolo dell'occhio vidi qualcosa che si muoveva: il topo che scappava dietro un armadietto. Sperai che gli piacesse, qui. Prima di tornare, comunque, sentivo che dovevo suggellare in qualche modo quel grande momento. Presi allora la penna stilografica e scrissi sul muro: JIM L'INFIDO È STATO QUI. E che poi ne facessero ciò che credevano. In quel momento la porta cominciò ad aprirsi, e io me la diedi a gambe attraverso lo schermo: non avevo nessun desiderio di incontrare chi sarebbe entrato. Poteva essere un mio doppio, un mio parallelo, e questo non sarebbe stato piacevole. «Tutto molto interessante», dissi mentre Angelina mi abbracciava e Coypu spegneva la macchina. «Qual è la massima dimensione che possiamo dare allo schermo?», chiesi. «Non ci sono limiti fisici o teorici, dal momento che in pratica è come se non esistesse. Ora come ora uso spire di metallo per contenere il campo, ma in teoria sono superflue. Una volta che sarò in grado di proiettare il campo senza strutture di contenimento materiali, sarà abbastanza grande da contenere tutta la flotta aliena». «E sarà proprio quello che ci vuole. Ora vada al suo tavolino e cominci a preparare il progetto. Nel frattempo io porto la notizia ai capi».
Radunare tutti i capi di stato maggiore non fu facile, perché erano profondamente impegnati a combattere la loro guerra, se non a vincerla. Alla fine dovetti ricorrere a Inskipp, che usò i poteri del Corpo Speciale per ordinare la riunione: e dal momento che i militari usavano la nostra base come quartier generale della difesa non potevano ignorare la chiamata del loro ospite. Li aspettavo quando arrivarono, azzimato e lustro nella mia nuova uniforme, con un mucchio di medaglie vere e poche false appuntate al petto. Quelli mormoravano tra loro, accesero grandi sigari e guardarono torvamente dalla mia parte. Quando si furono tutti seduti picchiai un colpo per ottenere attenzione. «Signori, ora come ora noi stiamo perdendo la guerra». «Non ci siamo riuniti qui per sentircelo dire da lei», ringhiò Inskipp. «Quali sono le novità, diGriz?». «Vi ho voluti qui per dirvi che la fine del conflitto è prossima. E che vinceremo». Questo non se l'aspettavano, okay. Ogni testa brizzolata si tendeva ora nella mia direzione, ogni occhio penduto o ingiallito mi fissava. «Otterremo questo grazie all'uso di una nuova invenzione, il parallelizzatore. Col suo aiuto la flotta nemica si perderà in un universo parallelo e non la vedremo mai più». «Ma di che diavolo parla, quel pazzo?», brontolò un ammiraglio. «Parlo di un concetto cosi rivoluzionario che perfino la mia mente immaginifica trova difficoltà ad afferrarlo, e non mi aspetto che le vostre, già fossili, ci capiscano un'acca. Ma dovete sforzarvi». Un vero e proprio ruggito corse per la sala a quelle parole: ma perlomeno avevo di nuovo la loro attenzione. «La teoria è questa: noi possiamo andare nel passato, ma non possiamo cambiarlo. Poiché però, ovviamente, già il semplice fatto di andarci è un cambiamento, ciò vuol dire che tale cambiamento fa già parte del passato del presente in cui viviamo». Un certo numero di occhi si appannò a queste affermazioni, ma io incalzai. «Tuttavia, se modifichiamo il passato in maniera più radicale finiremo col creare un... diverso passato, e di conseguenza un diverso presente. Un presente di cui non sappiamo niente, perché non è in esso che viviamo, ma che è reale per la gente che vi dimora. Queste linee temporali alternative, o universi paralleli, erano inac-
cessibili fino a che il genio della nostra milizia, il professor Coypu, non ha inventato il parallelizzatore. Tale invenzione ci permette di avventurarci nei mondi accanto, o di volare in essi, o comunque di raggiungerli in un mucchio di interessanti maniere. La più interessante, per noi, sarà però la generazione di uno schermo grande abbastanza da contenere tutta la flotta aliena, in modo che essa vada a finirci dentro e non ci affligga mai più. Ci sono domande?». Naturalmente ce ne furono, e dopo mezz'ora di estenuanti spiegazioni riuscii a convincerli se non altro che, insomma, qualcosa di molto spiacevole stava per capitare agli alieni, e che la guerra sarebbe finita: a questo punto essi approvarono il piano, e ci furono sorrisetti e cenni d'assenso, e perfino qualche risatina smorzata. Quando Inskipp parlò era chiaro che lo faceva a nomi di tutti. «Dobbiamo farlo! Dobbiamo finire questa terribile guerra! Manderemo la flotta nemica in un altro universo!». «È proprio ciò che faremo», dissi. «È proibito», disse una voce profonda, che veniva apparentemente dall'aria. Fu molto impressionante, e almeno un ufficiale si portò una mano al petto, non è ben chiaro se per via del cuore o per tirar fuori qualche libriccino di preghiere. Ma Inskipp, gran imbroglione lui stesso, non si lasciò imbrogliare. «Chi ha parlato? Chi è quel burlone che sta usando un amplificatore da ventriloquo?». Tutti si protestarono innocenti, tra alte grida, e tutti si affannarono a guardare sotto il tavolo e i mobili, per arrestarsi quando la voce parlò di nuovo. «È proibito perché è immorale. Abbiamo detto». «Chi l'ha detto?», gridò Inskipp. «Siamo il Corpo Morale». Stavolta la voce veniva dalla porta aperta, non dall'aria, e ci volle un momento per rendersene conto. Una per una le teste si girarono, e tutti gli occhi si fissarono sull'uomo che stava entrando. Era veramente impressionante: alto, con lunghi capelli e barba bianca, con indosso una veste candi-
da lunga fino ai piedi. Ma era difficile impressionare Inskipp. «Sei in arresto», disse. «Chiamate le guardie per portarlo via. Non ho mai sentito parlare del Corpo Morale». «Naturalmente no», disse l'uomo con voce profonda. «È segretissimo». «Tu, segretissimo?», ghignò Inskipp. «Il mio Corpo Speciale è così segreto che molti credono sia soltanto una diceria». «Lo so. Ma questo non vuol dire segreto: il mio Corpo Morale è così occulto che non esistono nemmeno le dicerie, sulla sua esistenza». Inskipp si stava facendo rosso e cominciava a gonfiarsi. Mi intromisi velocemente prima che scoppiasse. «Tutto quello che dici è molto interessante, ma dovremmo avere una piccola prova, no?». «Certamente». Mi fissò con sguardo d'acciaio. «Qual è il vostro codice più segreto?». «Devo dirtelo io?». «No, certo che no. Sarò io a indovinarlo. È il cifrario Vasarnap, vero?». «Può darsi», temporeggiai. «Lo è», ribatté lui duramente. «Ora vai al terminale riservato del computer e trasmetti questo messaggio in Vasarnap: RIVELAMI TUTTO SUL CORPO MORALE». «Lo farò io stesso», disse Inskipp. «L'agente diGriz non è a conoscenza del Vasarnap». Questo è quello che credeva lui. Ma tutti gli occhi lo seguirono quando andò al computer: prese la bobina del cifrario e l'inserì nel terminale. Poi batté il messaggio. Lo speaker si schiarì la voce e la monotona litania del computer cominciò. «Da chi proviene la richiesta?». «Da me, Inskipp, capo del Corpo Speciale». «Allora rivelerò che il Corpo Morale è la forza segreta più autorevole impiegata dalla Lega. È necessario obbedire ai suoi ordini. Gli ordini vengono impartiti dal massimo dirigente del Corpo Morale, che attualmente è Ge Ovah». «Io sono Ge Ovah», disse il nostro visitatore. «Quindi, lo ripeto: vi proibisco di spedire gli invasori alieni in un altro universo». «Ma perché?», chiesi. «Non ti preoccupi mica tanto quando li combattiamo in modo convenzionale...».
«Combattere per difendersi non è immorale, perché si salvaguardano la propria casa, e i propri cari». «Va bene, ma se non ti importa che ci combattiamo perché credi che sia un male spedirli in un mondo alternativo? Non gli farà neanche la metà del male che ci fa la guerra». «No, non gli farà male: ma voi avrete inviato un'orda inferocita, una gigantesca flotta da battaglia in un mondo dove prima non esistevano. Sarete i responsabili della morte di tutti gli esseri umani in quell'universo, e questo è immorale. Bisogna trovare il modo di eliminare il nemico senza procurare sofferenze a terzi». «Non ci puoi fermare!», esclamò incollerito uno degli ammiragli. «Posso e lo farò», disse Ge Ovah. «È scritto nella costituzione della Lega dei Pianeti Uniti che non verrà tollerato alcun atto immorale da parte dei pianeti membri, o di forze che sono agli ordini dei pianeti membri. E nel testo originale firmato dai rappresentanti di tutti i mondi è inclusa una clausola in cui si dice che verrà fondato un Corpo Morale per decidere ciò che rientra o meno nella sfera della moralità. Noi siamo l'autorità suprema, e noi diciamo no. Trovatevi un altro piano». Mentre Ge Ovah parlava i piccoli ingranaggi del mio cervello si erano messi in moto. Finalmente si arrestarono, e io estrassi i bussolotti vincenti. «Finiamola di bisticciare», dissi, poi lo ripetei più forte, urlando, perché mi sentissero. «Ho trovato il piano di ricambio». Questo li fece calmare tutti, e perfino Ge Ovah smise di pontificare per un minuto per ascoltarmi. «Il Corpo Morale afferma che sarebbe indegno scaraventare i freak in un universo parallelo, dove sarebbero liberi di fare ciò che vogliono degli esseri umani che vivono laggiù. È questa l'obiezione, no, Ovah?». «È messa crudamente, ma in sostanza, sì». «Allora non protesteresti se buttassimo i nemici in un universo dove non esistono esseri umani, vero?». Apri e richiuse la bocca varie volte, poi mi guardò fisso e torvo. Sorrisi e mi accesi un sigaro. Gli ammiragli borbottavano, per lo più stupefatti, dal momento che nessuno di loro era troppo perspicace; d'altra parte se lo fossero stati non sarebbero stati arruolati nella flotta, un'istituzione ormai anacronistica.
«Mi piacerebbe ascoltare anche un'altra opinione», disse finalmente Ge Ovah. «Senz'altro, ma fa' in fretta». Mi guardò, poi tirò un pendaglio dorato che gli pendeva dal petto e vi sussurrò dentro qualcosa. Quindi attese la risposta e annuì. «No, non è immorale mandare gli alieni in un universo dove non esistono esseri umani. Ho parlato». «Ma che succede, insomma?», sbottò un ammiraglio, che non ci capiva un'acca. «È molto semplice», gli dissi. «Ci sono milioni, miliardi, probabilmente un numero infinito di galassie parallele. Tra queste dev'esserci senz'altro una galassia popolata solamente da alieni, dove i nostri amici saranno i benvenuti». «E lei si è appena offerto di trovarla, diGriz», mi ordinò subdolamente Inskipp. «Si muova, e scovi il posto migliore dove mandare quella dannata flotta». «Non andrà solo», annunciò Ge Ovah. «Abbiamo tenuto d'occhio questo agente per molto tempo, perché è l'uomo più immorale di tutto il Corpo Speciale». «Molto cortese, da parte tua», dissi. «Quindi non accetteremo la sua parola senza controllo. Quando partirà per trovare la galassia che fa alla bisogna, un nostro agente lo accompagnerà». «Questo mi fa piacere», ribattei. «Ma per favore, non dimenticarti che c'è una guerra: e io non voglio uno dei tuoi moralisti salmodianti e polentoni, tra i piedi». Ovah dettava istruzioni nel suo comunicatore. «Questa è un'operazione militare, e devo muovermi in fretta...». Ma quando lei varcò la soglia dovetti chiudere il becco. Doveva far parte del Servizio di Ge Ovah, se la lunga veste significava qualcosa, ma quella tunica era riempita da ben altra merce... Alcune curve particolarmente interessanti erano rivelate più che nascoste, i capelli erano biondo-miele, le labbra rosate, gli occhi splendenti. Una confezione di lusso, in ogni senso. «Questo è l'agente Incuba, che ti accompagnerà», disse Ge Ovah. «Be', in tal caso ritiro tutte le obiezioni», balbettai. «Sono sicuro che sia
un elemento molto efficiente...». «Ah, sì?», sbottò una voce dal nulla, per la seconda volta quel giorno. Solo che stavolta era una voce femminile, che riconobbi all'istante. «Se pensi di andar a cercar galassie solo con quella bomba di sesso, Jim diGriz, ti sbagli. Farai meglio a prenotare tre biglietti». XIV «Ma che razza di conferenza segreta è questa?», urlò esasperato Inskipp. «Questa era sua moglie sul circuito di origliamento, diGriz, vero?». «Sembrava lei», dissi, un po' troppo accorato. «Immagino che dovrà revisionare gli apparati di sicurezza, ma questa è una cosa che dovrà fare da solo, perché io ho da cercare galassie, ed è una faccenda che porta via tempo. Avrete presto mie notizie, signori». Uscii, tallonato da Incuba. Angelina mi aspettava nel corridoio, gli occhi accesi come una leonessa, le dita contratte, per sembrare artigli. Mi sembrò di sentire la pelle scottare sotto i suoi occhi di fuoco, finché rivolse quelle pupille vulcaniche su Incuba. «Hai intenzione di indossare quell'accappatoio per tutto il viaggio?», domandò, la voce prossima allo zero assoluto. Incuba squadrò Angelina dalla testa ai piedi, e la sua espressione non cambiò: ma le sue narici si contrassero lievemente, come se avesse annusato qualcosa di sgradevole. «Probabilmente no. Ma in qualunque modo mi vestirò... sarà certo più pratico e più attraente di quello». Prima che il casus belli degenerasse presi la risoluzione del codardo: lanciai una mini-granata fumogena. L'ordigno fece un piccolo scoppio, mandò fumo e distolse la loro attenzione dalle reciproche differenze per un istante. Parlai rapidamente. «Signore, partiremo fra mezz'ora, quindi vi prego di prepararvi. Io vado al laboratorio, per sistemare i dettagli col professor Coypu: spero che avrete la compiacenza di raggiungermi lì». Angelina mi raggiunse all'istante, artigliandomi un braccio; mi condusse fuori dal corridoio, mi bisbigliò alcune parole all'orecchio e poi me lo morse, così, tanto per sottolineare.
«Una svenevolezza con quella puttana, un'occhiata, un tocco solo della mano su di lei e sei un uomo morto, vecchio bastardo Jim diGriz». «Rispetta l'innocente finché non hai provato che è colpevole», grugnii, massaggiandomi il lobo indolenzito dell'orecchio. «Io amo te, e nessun'altra. E adesso, vogliamo farla finita e pensare alla guerra? Forza, Coypu ci aspetta». «C'è solo una galassia possibile, in realtà», disse Coypu quando gli ebbi spiegato la situazione. «Che vuol dire?». Ero scioccato. «Lei ha detto... miliardi, un numero infinito...». «Infatti, tante ne esistono. Ma noi possiamo accedere solo a sei di esse con una macchina grande quanto un'astronave. Al di là di queste occorrerebbe una quantità di energia enorme anche solo per fabbricare uno schermo largo due metri: e non ci passa una flotta aliena, in un buco così». «Bene, allora ci restano sei universi. Perché ha detto uno solo?». «Perché negli altri cinque questo laboratorio esiste, e ho potuto scorgere me stesso e altri esseri umani. Nel sesto, che chiamo Spazio Sei, non c'è né laboratorio né base del Corpo. Lo schermo si affaccia sullo spazio interstellare». «Allora tenteremo quello», disse una voce dorata, e Incuba si fece avanti attraverso la porta. Era piacevolmente abbigliata con un'aderente tuta di volo, stivali neri e altri eccitanti ammennicoli che mi figurai più che notare, perché Angelina era proprio dietro di lei. Mi voltai verso Coypu, più brutto ma almeno più sicuro. «Allora tenteremo quello», feci eco. «Sapevo che ne avrebbe convenuto. Ho piazzato lo schermo del parallelizzatore fuori di questo edificio: ha un diametro di cento metri. Suggerisco che si procuri una nave di larghezza inferiore, e poi le darò le istruzioni». «Grande! Una nave esplorativa farà giusto al caso nostro». Uscii, seguito dal fidato equipaggio, mi procurai la nave e feci tutti i controlli con l'aiuto di Angelina. Incuba rimase fuori della sala di controllo, il che rese la vita un momentino più facile. «Ho sempre voluto vedere un altro universo», dissi raggiante. «Chiudi il becco e guida quest'affare».
Sospirai e chiamai Coypu alla radio. «Voli a 46° dalla sua attuale posizione», mi disse. «Vedrà un anello circolare luminoso». «Capito». «Poi lo attraversi. Le consiglio di registrare attentamente il punto in cui emergerà, dall'altra parte, e di lasciarsi indietro dei segnalatori per ritrovare la strada». «Molto utile, come consiglio. Mi piacerebbe tornare indietro, un giorno o l'altro». L'astronave scivolò attraverso l'anello, che svanì dietro di noi. Negli schermi retrovisori potevo vedere un disco nero nascondere le stelle. «Posizione registrata, segnalatore lanciato», disse Angelina. «Sei meravigliosa. Noto dai dati che c'è una stella di classe G2, a circa cinquanta anni luce da qui. E la radio mi dice che emetteva segnali radio, fino a cinquant'anni fa. Andiamo a dare un'occhiata?». «Sì, ma è tutto quello che ti permetterò di osservare, guardone!». «Amore!». Le presi le mani nelle mie. «Ma se ho occhi solo per te». Poi vidi che sorrideva, anzi, rideva gioiosamente; così ci sfregammo un po' uno addosso all'altra. «Mi hai preso un po' per i fondelli, eh?», l'accusai. «Un po'. Volevo fare anch'io questo viaggio, e la gelosia è sempre un buon motivo. Ma ti sfregerò lo stesso con una bottiglia spaccata, se ronzi troppo intorno a quella pollastra del Corpo Morale». «Non aver paura. Sarò troppo occupato a salvare la galassia per l'ennesima volta». Quando uscimmo dall'iperdrive Incuba ci raggiunse ai controlli. «Ma ci sono due pianeti abitati, intorno a quel sole!», esclamò. «Questo è quel che dicono gli strumenti e la radio. Daremo un'occhiata al più vicino». Fu solo questione di un salto, e poi calammo nell'atmosfera del pianeta. Cielo blu, nuvole bianche, un posto veramente piacevole. La radio trasmetteva una musica sinistra, e occasionali sprazzi di un linguaggio incomprensibile. Nessuno di noi se la sentì di dire niente: cosa,o chi Quel sorcio farabutto che non arrugginisce mai abitava questo pianeta era della massima importanza. E man mano che ci abbassavamo il paesaggio si schiariva da-
vanti a noi. «Case», disse Angelina in tono infelice. «E campi coltivati. Sembra proprio di essere a casa...». «No, no che non sembra!», urlai, continuando a riprendere le immagini con l'ingranditore. «Bello!», sospirò Angelina, e lo era. Almeno fino a questo momento: qualcosa che aveva un po' troppe gambe stava ora spingendo un aratro. Era un alieno repellente, che si sarebbe trovato benissimo al fianco dei nostri degni nemici. «Un universo alieno!», urlai, raggiante. «Possiamo mandare qui i nostri freak, faranno amicizia senz'altro. Torniamo subito indietro con le buone notizie!». «Perché non diamo un'occhiata anche all'altro pianeta?», disse Incuba senza scomporsi. «E a tutti gli altri, com'è nostro dovere per decidere se gli umani sono veramente assenti da questa galassia?». Angelina le diede un'occhiata fredda, e io sospirai. «Sicuro, ecco quello che dobbiamo fare: guardarci intorno e accertarci che ci siano solo mostri. E lo faremo». Dannata boccaccia! Sfrecciammo verso il secondo pianeta abitato, e dall'alto scorgemmo mulini e miniere, città e campagne. E gli umani più umani che avessi mai visto. «Magari sono alieni dentro», dissi, aggrappandomi all'ultima esile speranza. «Dobbiamo sezionarne uno e accertarci?», chiese Angelina con serietà. «La dissezione di altre creature, umane o aliene, è proibita dal Corpo Morale». Ma le parole di Incuba vennero interrotte da una serie di scariche statiche alla radio, e da alcune parole gridate in una lingua strana. Nello stesso momento parecchi indicatori lampeggiarono e io fissai il visore. E feci un salto indietro. «Abbiamo compagnia», dissi. «Che si fa, abbandoniamo?». «Io sarei prudente», fece Angelina. All'esterno, molto vicina a noi, c'era un'orribile nave da battaglia nera; i cannoni avevano bocche così enormi da contenere tutta la nostra navicella,
e chissà perché sentivo che non era una combinazione se erano puntati contro di noi. Mi allungai verso i propulsori, ma proprio in quel momento sentii un fascio di raggi trattori accalappiarci come salami. «Credo che andrò fuori e cercherò di parlargli», dissi, alzandomi e prendendo la tuta. «Voi limitatevi a badare alla bottega finché non ritorno». «Vengo con te», disse Angelina con decisione. «Non questa volta, luce dei miei occhi. E questo è un ordine. Se non rientro, vedete di tornare e fate rapporto su ciò che abbiamo visto». Dopo queste nobili parole indossai la tuta, uscii e fluttuai verso la corazzata straniera, dove un portello si aprì cortesemente per me. Entrai, e fui lieto di vedere che il comitato di ricevimento era tutto umano: gente dagli occhi duri, in uniformi nere aderenti. «Krzty picklin stimfrx!», mi disse quello con le patacche più vistose. «Sono sicuro che è una gran lingua, ma io non la parlo». L'altro tése l'orecchio e ascoltò, poi diede un secco ordine. Alcuni uomini corsero via e tornarono con una scatola di metallo, fili, collegamenti vari e un elmetto che non mi ispirava niente di buono. Tentai di sfuggirgli, ma mi piantarono le loro armi nelle costole, e così desistetti. Mi piazzarono l'elmetto in testa, sistemarono i vari congegni e quindi l'ufficiale parlò di nuovo. «Puoi capirmi, adesso, verme d'un intruso?». «Posso sì, ma non c'è bisogno di usare questo linguaggio. Abbiamo fatto un mucchio di strada, e non per ricevere i tuoi insulti». Quando sentì la mia risposta le labbra gli si arricciarono sui denti, e pensai che me li avrebbe affondati nella gola. Gli altri presenti trasalirono, sconvolti. «Sai chi sono, io?!», urlò. «No, e non me ne importa, perché nemmeno tu sai chi sono. Quindi ti informo che hai l'onore di trovarti davanti al primo ambasciatore di un universo parallelo. Dovresti dirmi qualcosa come "salve", credo». «Dice la verità», lo informò un tecnico scrutando gli aghi del suo rivelatore. «Be', in questo caso è diverso», ammise il militare calmandosi improvvisamente. «Non potevi conoscere i nostri limiti d'avvicinamento al pianeta.
Io mi chiamo Kangg: vieni a prendere un drink e dimmi che cosa fai qui». La bevanda non era male, e furono tatti affascinati dal mio racconto. Prima che avessi finito mandarono a prendere le signore e brindammo tutti insieme. «Be', auguro buona fortuna alla vostra ricerca», disse Kangg alzando il bicchiere. «Non invidio il vostro compito: ma come potete vedere anche noi abbiamo i nostri problemi con gli alieni, e l'ultima cosa di cui abbiamo bisogno è un'invasione. La guerra qui finì un migliaio d'anni fa, e non fu una cosa piacevole. Per fortuna riuscimmo a distruggere tutte le astronavi aliene, per essere sicuri che i freak se ne rimanessero sui loro pianeti. In realtà sono sempre pronti a saltarci al collo in ogni momento, cosi li teniamo d'occhio con pattuglie come la mia». «Torneremo a casa, e riferiremo che sarebbe immorale scaricare i nostri alieni qui», disse Incuba. «Possiamo prestarvi un po' di astronavi, però», si offrì Kangg. «Ne abbiamo anche delle dimensioni che vi servono». «Riferirò la vostra offerta, grazie», dissi. «Ma temo che ci voglia una soluzione più drastica. E adesso dobbiamo andarcene, perché dobbiamo trovare una soluzione al più presto, o sarà tutto inutile». «Spero che li sistemiate a dovere. Quei mostri sanno essere veramente malvagi». Fu nel più nero abbattimento che tornammo alla nave e dirigemmo la rotta in base alle indicazioni del segnalatore che ci eravamo lasciato dietro a suo tempo. Poi, forse per effetto del beveraggio che ci avevano offerto sul mondo parallelo, o per la disperazione che mi stimolava gli ingranaggi cerebrali, ebbi un'idea molto interessante. «Ci sono!», gridai con gioia irrefrenabile. «Finalmente la risposta al nostro problema». Attraversammo lo schermo di Coypu e tornammo nel nostro universo. Poi mi diressi alla base correndo come un pazzo. «Voi due, venite con me e state a sentire!». Mi precipitai, con le ragazze alle calcagna, nella sala dove i capi di stato maggiore si stavano riunendo in risposta alla mia convocazione d'emergenza. «Allora, possiamo mandare gli alieni laggiù?», chiese Inskipp.
«Assolutamente no. Anche lì hanno i loro problemi coi freak». «E allora che facciamo?», mugugnò un ammiraglio piuttosto sul senile. «Avevamo sei galassie parallele, e in tutte abitano esseri umani! Dove scaricheremo gli alieni?». «In nessuna», dissi. «Ma li manderemo da qualche altra parte. Mi sono consultato con Coypu, e secondo lui è possibile; adesso sta elaborando le equazioni». «Ma insomma, dove? Ce lo dica!», ordinò Inskipp. «Useremo il viaggio nel tempo. Li manderemo nel tempo». «Nel passato?». Era colpito. «No, quello non funzionerebbe. Aspetterebbero che la razza umana cominciasse a svilupparsi, e poi ci eliminerebbero facilmente. Il passato quindi non è una buona soluzione: resta il futuro». «Lei è pazzo, diGriz. A che servirebbe?». «Ascolti, li manderemo un centinaio d'anni nel futuro. E mentre loro sono fuori dai piedi noi impiegheremo le migliori menti scientifiche della galassia per trovare il modo di sconfiggerli. Avremo cento anni, per riuscirci: troveremo qualcosa e - di qui a un secolo - li aspetteremo al varco, quando riappariranno. E allora sapremo come risolvere la faccenda, una volta e per tutte». «Magnifico!», disse Angelina. «Mio marito è un genio. Costruite la macchina e mandateli nel futuro». «È PROIBITO», disse una voce profonda che veniva dall'alto. XV Il silenzio attonito che seguì quest'annuncio inatteso durò un battito di cuore o due, poi fu drasticamente interrotto da Inskipp, che tirò fuori la pistola e cominciò a sforacchiare il soffitto come un forsennato. «Riunione segreta! Massima sicurezza! Pfui! Ma perché non la facciamo alla TV, questa farsa? Sarebbe certo più discreta!». Schiumava letteralmente, e si disfece con malagrazia degli anziani ammiragli che cercavano di calmarlo. Io saltai sul tavolo e lo disarmai, dandogli un leggero colpo. Inskipp crollò nella poltrona, gli occhi di vetro,
borbottando qualcosa a se stesso. «Chi ha parlato?», gridai poi. «Io», rispose un uomo apparso all'improvviso a mezz'aria. Lo seguiva un suono acuto, fragoroso. Si abbassò sul tavolo, quindi saltò agilmente a terra. «Son io che favellai, gentiluomini. Il lauto Ga Binetto». Era un tipo interessante: indossava vesti di velluto sformate, alti stivali e un gran cappello dalla piuma riccioluta, e aveva baffi arricciati che tormentava con una mano. L'altra riposava sul pomo della spada. Poiché Inskipp stava ancora delirando dovetti parlargli io. «Non ci interessa quanto sei alto», affermai, poiché avevo capito male le sue ultime parole. «Come ti chiami?». «Nome? Nomen, sicuro. Mi chiaman Ga Binetto». «E che cosa ti dà il diritto di sbarcare qui, nel pieno di una riunione segreta?». «Invero, non esistono segreti per la Milizia de lo Tempo!». «Una polizia temporale?». Questa era nuova. «Siete viaggiatori del passato?». Anch'io cominciavo a sentirmi lievemente confuso. «Fulmini e saette, garzone, no! Perché pensasti ciò?». «Pensai ciò perché quell'abbigliamento e quel linguaggio non si vedono più in giro da almeno 32.000 anni». Mi dette un'occhiataccia e manovrò un paio di aggeggi sul pomo della spada. «Non fare così il superiore», scattò poi. «Prova tu a saltare da un'epoca all'altra e a ricordare tutte le fottute lingue e dialetti! Non saresti così...». «Vogliamo tornare al punto?», lo interruppi. «Tu sei nella Polizia del Tempo, ma non vieni dal passato. Allora, vediamo se indovino, si tratta forse del futuro? Fai solo segno di sì con la testa, così. Oh, va bene. E adesso dicci perché non possiamo mandare questi alieni un secolo o due avanti nel tempo». «Perché è proibito». «Questo l'hai già detto. Ora, vuoi dirci la ragione?». «Non sono tenuto». Mi guardò freddamente, di traverso. «Avremmo potuto mandarvi una bomba H, invece di me, quindi basta con le ciance».
«Ha ragione», disse uno dei vecchi ammiragli. «Benvenuto nella nostra epoca, o illustre viaggiatore del tempo. Dacci istruzioni, se non ti spiace». «Così va meglio. Il rispetto innanzi tutto, se non vi disturba troppo. Tutto ciò che vi è concesso sapere è che il compito della Polizia del Tempo è mantenere l'ordine pubblico nel tempo. Facciamo in modo che non si verifichino paradossi e che un uso scorretto dei cronoviaggi, com'è nel vostro piano, non venga attuato; il tessuto stesso del tempo e delle probabilità verrebbe leso, se un evento del genere dovesse verificarsi. È proibito». Un lungo silenzio seguì queste notizie, mentre io pensavo furiosamente. «Dimmi, Ga Binetto», feci, «sei umano o alieno, sotto quella mascherata?». «Sono umano come te», rispose con rabbia. «E probabilmente di più». «Buono a sapersi. Ma se tu sei umano e vieni dal futuro, allora gli alieni non sono riusciti a cancellarci dalla galassia, come è nei loro piani. Giusto?». «Giusto». «Allora, come abbiamo fatto a vincere la guerra?». «La guerra è stata vinta...». Si morse le labbra, arrossì e chiuse la bocca. «Quest'informazione è riservata, non posso dirvela. Trovatevela da soli». «Non raccontarci cronoballe», ruggì Inskipp, che intanto si era ripreso. «Tu vuoi fermare l'unico piano che può salvare la razza umana. E io dico: sicuro, lo fermeremo... se tu in cambio ci dici che cosa dobbiamo fare. In caso contrario, agiremo come previsto». «Mi è proibito dirvelo». «Puoi almeno fare qualche allusione?», suggerii. Ci pensò per un momento, poi sorrise. E non mi piacque, quel sorriso. «La soluzione dovrebbe essere ovvia per uno della tua intelligenza, diGriz. È tutta nella mente». Saltò nell'aria, sbatté i talloni e sparì. «Che diavolo avrà voluto dire?», chiese Inskipp, aggrottando le sopracciglia per la concentrazione. Che aveva voluto dire? L'allusione era diretta a me, quindi io avrei dovuto essere in grado di sciogliere il mistero. La prima parte, quella faccenda dell'intelligenza, era stata detta per mettermi fuori strada, ne ero sicuro.
È tutta nella mente... La mia mente? O la mente di chi? Si trattava forse di un'idea che non avevamo avuto prima, o aveva voluto riferirsi letteralmente al cervello di qualcuno? Non lo sapevo. Incuba guardava trasognata nel vuoto, facendo senza dubbio profonde considerazioni morali. Cominciavo a pensare che fosse muta. Non così Angelina: quella bella mente era al lavoro come un vulcano, perché aveva un cervello «maggiorato», proprio come il suo corpo. Strinse gli occhi dalla concentrazione, poi li spalancò di colpo. E sorrise. Quando vide che la osservavo il sorriso si allargò, e mi ammiccò. Io alzai le sopracciglia, in una muta domanda, e mia moglie annuì, sempre lievemente. Se quei segni non m'ingannavano tutto stava a indicare che aveva risolto il problema. Avendo avuto occasione di vedere recentemente com'erano veramente i porci maschi sciovinisti, stavo cominciando ad abbandonare quel ruolo. Se Angelina aveva la risposta l'avrei accettata da lei umilmente e con gratitudine. Mi piegai dalla sua parte. «Se hai la risposta... diccela», feci. «E il merito vada a chi merita». «Stai maturando con gli anni, eh, caro?». Mi mandò un piccolo baciò, poi alzò la voce. «Signori, la risposta è ovvia». «Be', non per me», disse Inskipp. «È tutta nella mente, ha detto. Può solo significare "controllo mentale"...». «Gli uomini grigi!», urlai. «Gli strizzacervelli di Kekkonshiki!». «Ancora non vedo...». «Perché lei concepisce tutto in termini di battaglia fisica, vecchio soldato d'un Inskipp», mi entusiasmai. «Quello a cui il nostro severo visitatore temporale ha alluso è stata invece la completa fine della guerra!». «E come?». «Facendo cambiare idea agli alieni. Facendo imparare loro l'amore per gli esseri umani, convincendoli a usare la loro potenza industriale per riparare i danni fatti dalla guerra, e rendendo questo universo un modello per tutti gli altri. E chi sono i maestri della persuasione? I Kekkonshiki. A quanto pare possono usare le loro tecniche di condizionamento psichico su tutte le razze». «E come crede che potremo indurli a far questo?», domandò un ammira-
glio. «Penseremo ai dettagli più tardi», dissi, per significare che al momento non ne avevo la più pallida idea. «Preparatemi un incrociatore, e fatelo riempire di marines spaziali. Vado a salvare la galassia». «Io non ne sarei tanto sicura», disse Incuba. «C'è una questione di moralità, nella manipolazione mentale...». Ma le sue parole si spensero di colpo e lei stessa stramazzò al suolo. «Poveretta, è troppo stanca. Tutto quello stress, sapete... Ma adesso la porto nelle sue stanze», si offrì Angelina. Stanca, davvero! Avevo visto mia moglie in azione, e sapevo bene cos'era accaduto. Mentre portava via la ragazza svenuta mi mossi velocemente, sfruttando il tempo che ci eravamo guadagnato. «L'incrociatore! Lo chieda immediatamente all'arsenale, perché mi imbarcherò senza perder tempo». «Tutto a posto», disse Inskipp, «sta arrivando». Si rendeva conto di quel che avevamo fatto, ed era ansioso come me di varare la missione mentre l'osservatrice del Corpo Morale era accidentalmente indisposta. Compimmo un viaggio rapido e silenzioso. Per misura di sicurezza imposi il silenzio radio, e dissi all'uomo-psi della centrale comunicazioni di non inoltrare messaggi diretti a noi. Così quando il freddo mondo di Kekkonshiki apparve sugli schermi davanti a noi, non avevamo ricevuto alcun ordine di rientro. Poi, dopo essermi concentrato un po', seppi ciò che dovevamo fare. «Interrompete il silenzio radio; comunicate con le truppe che abbiamo inviato sul pianeta per stabilire la pace», ordinai. «Sono in linea, signore», disse l'operatore. «Ma non sono mai atterrate su Kekkonshiki. La loro nave è tuttora in orbita». «Come mai?». «Le passo il comandante, signore». Un ufficiale dalla testa bendata apparve sullo schermo. Quando vide tutte le trecce d'oro sulla mia divisa salutò, deferente. «Insistono a combatterci», disse. «I miei ordini erano di portare la pace su questo mondo, non di distruggerlo. Così, quando tutti i tentativi di comunicazione sono falliti ho dovuto ritirarmi, limitandomi a neutralizzare le
loro astronavi». «Ma sanno che non possono vincere». «Lei lo sa, e io lo so. Ma provi a spiegarlo a quei pazzi». Avrei dovuto immaginarlo: i Kekkonshiki, fatalisti per natura, avrebbero preferito morire piuttosto che arrendersi. Arrendersi era una parola che nemmeno conoscevano, probabilmente, un concetto estraneo alla loro filosofia della sopravvivenza. E tuttavia a noi serviva il loro aiuto. C'era solo una persona in tutto il pianeta - fortunatamente ancora viva - che forse poteva riuscire a far qualcosa. «I suoi osservatori hanno già approntato delle mappe?», chiesi. «Naturalmente, con la solita tecnica: ipno-sondaggio dei prigionieri». «Perfetto. Per favore, cerchi di ottenere una mappa con la posizione della scuola di Yurisareta. Quando l'avrà trovata mi comunichi i dati in modo che io possa scenderci proprio sopra». Entro un'ora avevo dato gli ordini necessari, raccolto l'equipaggiamento che mi occorreva, e fluttuavo in una tuta spaziale verso il pianeta sotto di me. Il gravipiano rallentò la mia caduta, e le lenti infrarosse mi permisero di vedere chiaramente attraverso la neve che continuava a cadere. Era notte fonda, e questo mi faceva proprio comodo. Caddi nella neve alta dietro un grande edificio, scivolai fuori dall'imbracatura spaziale e mi avvicinai alla porta più vicina. Si apriva su un ufficio nel quale un giovanotto sedeva dietro un tavolo, e leggeva. Mi guardò con calma, quando entrai, e appoggiò meticolosamente il fascio di fogli davanti a lui. «Chi sei?», chiese con voce priva d'emozioni. Io gli risposi altrettanto pacificamente, cercando di bluffare prima di passare alla violenza. «Questo non ti riguarda. Sono qui per una faccenda importante: portami da Hanasu, alla svelta». Con mia sorpresa, funzionò. Mi guidò attraverso l'edificio verso una porta pesante, e vi batté due colpi prima di aprirla. Anche Hanasu si attardava a leggere fino a notte fonda, e si limitò ad annuire quando entrai; poi congedò il mio accompagnatore col gesto di un dito. «Quando sono arrivati i soldati della Lega ho capito che eri riuscito a fuggire», disse. «Che è successo, qui?».
«C'è stata confusione: nessuno sapeva che fare. Alcuni credono che se ci arrenderemo verremo uccisi, altri non riescono a rassegnarsi alla resa. Il gruppo più influente è guidato da un uomo che si chiama Kome, il quale crede che combattere sia l'unica cosa giusta, anche se la lotta si risolverà con la morte di noi tutti. Poiché questo si conforma alla nostra etica, la maggior parte dei miei concittadini segue il suo partito, benché non sia una cosa facile. Nessun comandamento prescriveva come dovevamo comportarci, e quindi la gente si è limitata a obbedire agli ordini di Kome. Non avevo alcun mezzo per combatterlo, e così non ho fatto niente: sono rimasto ad aspettare». «Saggio. Ma ora che io sono qui c'è qualcosa di molto importante che puoi fare». «Di che si tratta?». «Convincere la tua gente a indossare di nuovo i travestimenti da alieni e tornare sui loro mondi a comandarli». «Non capisco... Vuoi che li incoraggino ancora alla guerra?». «No. Esattamente l'opposto. Voglio che vi pongano fine». «Devi spiegarti meglio: questo è troppo, per me». «Lascia prima che ti faccia una domanda: le vostre macchine per il controllo cerebrale possono essere usate sugli alieni? Possono convincerli che gli esseri umani sono gente simpatica, tutto sommato? In fondo abbiamo bulbi oculari umidi, e sudiamo un sacco, e le dita non sono poi molto diverse dai tentacoli, no? Si può fare?». «Sì, e facilmente. Devi sapere che le culture aliene sono fondamentalmente primitive, e quindi essi possono essere facilmente manipolati. Quando cominciammo a infiltrarci tra loro per organizzare l'invasione ci trovammo dapprima di fronte a un muro d'indifferenza. Per superare quest'ostacolo i loro capi furono condizionati a odiare gli umani. Poi, tramite la propaganda, i capi convinsero il resto della popolazione. C'è voluto molto tempo, ma questo è il metodo che abbiamo seguito». «Il processo di indottrinamento può essere rovesciato?». «Penso di sì. Ma come convincere il mio popolo a fare una cosa del genere?». «Questo è il punto importante, ci stavo arrivando». Passeggiai su e giù
per la stanza, organizzando i miei pensieri. «Ciò che bisogna fare va fatto attraverso gli insegnamenti della filosofia morale, così come voi la concepite. La vostra cultura è vitale, e contiene elementi che possono essere di vantaggio a tutta l'umanità: è stata solo applicata male, una volta che ha lasciato la superficie di questo pianeta. La vostra filosofia vi insegna forse che siete destinati a diventare i conquistatori della galassia?». «No. Abbiamo imparato a odiare coloro che ci abbandonarono su questo mondo perché dobbiamo credere che essi non torneranno più a salvarci, e che dobbiamo riscattarci da soli. La sopravvivenza è il fine di tutto: ogni cosa che va oltre questo scopo è sbagliata». «Allora Kome è in errore, col suo piano di suicidio razziale!». Per essere un Kekkonshiki Hanasu manifestò davvero un grande stupore. «Ma certo! Le sue idee sono contrarie alla legge! Bisogna rivelarlo al popolo». «Agiamo con oculatezza. Dobbiamo essere sicuri che Kome non spari prima e poi accetti di discutere. Se riusciamo a tenere tranquillo lui, pensi di poter convincere le truppe?». «Non c'è dubbio. Nessuno oserà contraddirmi, perché illustrerò la legge così com'è scritta, e come essi l'hanno imparata fin da quando erano ragazzi, come quelli a cui insegno qui». Come se avessero risposto a un segnale quei ragazzi spalancarono la porta: erano in tanti, e si accalcavano sull'uscio, erano tutti armati pesantemente e obbedivano agli ordini di quello che mi aveva fatto strada. Ora egli puntò la sua pistola contro di me. «Metti giù quell'arma», mi ordinò. «Sparerò e ti ucciderò se non lo fai». XVI Naturalmente avevo puntato la pistola contro di loro: i miei riflessi sono ancora in buona forma. Non appena la porta si era socchiusa mi ero piegato automaticamente e l'avevo estratta. Ma ora mi alzai lentamente e lasciai cadere l'arma ai miei piedi: avevo troppe canne puntate addosso, e quelle armi mortali erano manovrate da ragazzi nervosi. Non c'era da rischiare. «Non sparate, avete vinto!», li calmai.
«Che cosa vuol dire tutto questo?», chiese Hanasu, dirigendosi verso la porta. «Abbassate quelle armi. È un ordine». I ragazzi obbedirono all'istante - sapevano chi era il Primo maestro - ma il loro capo esitò. «Kome ha detto...». «Kome non è qui. Kome è in errore. Ti ordino per l'ultima volta di abbassare quell'arma». L'altro esitò ancora, e Hanasu si volse a me: «Sparagli», ordinò. Naturalmente lo feci e lui si abbatté al suolo, con un ago soporifero piantato da qualche parte: ma era meglio che i ragazzi non conoscessero quel particolare. Mi chiesi se Hanasu si sarebbe preoccupato della sua morte: era troppo adirato per la disobbedienza ai suoi ordini. «Dammi quella pistola», comandò al ragazzo più vicino, «e convoca subito l'assemblea di tutta la scuola». Cedettero tutti le pistole e se ne andarono immediatamente. Hanasu chiuse la porta, pensando intensamente. «Dunque ecco ciò che faremo», disse infine. «Spiegherò loro il problema in termini di filosofia morale. Finora i ragazzi sono stati turbati da un conflitto interno che opponeva i loro principi filosofici all'applicazione pratica che ne veniva fatta. Mostrerò loro come risolvere il dilemma, e quando avranno capito marceremo sullo spazioporto. Kome e i suoi attivisti sono là. Ripeterò le mie ragioni anche a loro, ed essi si uniranno a noi. Poi tu farai atterrare la tua nave e procederemo alla seconda parte del programma». «Uhm, sembra convincente. Ma se i tuoi concittadini non fossero d'accordo con te?». «Dovranno esserlo per forza, perché non è con me che dovranno convenire, ma col testo della filosofia morale, della nostra etica così com'è scritto. E quando avranno capito non si tratterà più di scelta o accordo, ma di obbedienza». Sembrava molto sicuro di sé, così feci gli scongiuri e sperai che avesse ragione. «Penso che dovrei venire con te. In caso di guai...». «Tu aspetterai qui finché non verrai chiamato». Hanasu uscì dopo aver pronunciato quella sentenza, e non potei far altro
che lasciarlo andare. Tirai fuori la radio e contattai le mie astronavi, perché si preparassero a entrare nel gioco. Dissi di mantenersi in orbita sullo spazioporto e aspettare altri ordini, poi interruppi il contatto quando qualcuno bussò alla porta. «Vieni con me», ordinò un ragazzo piccolo, ma dalla faccia severa. Obbedii. Hanasu aspettava davanti al portone aperto della scuola, mentre i ragazzi e gli altri insegnanti sfilavano intorno a lui da entrambi i lati. «Andiamo allo spazioporto», disse. «Lo raggiungeremo all'alba». «Nessun problema?». «Naturalmente no. Posso affermare che i miei allievi si sono sentiti sollevati quando ho risolto per loro la contraddizione. La mia gente è forte, ma ricava la sua forza dall'obbedienza: ora dunque è più forte ancora». Hanasu guidava il solo autoveicolo a disposizione, e io fui lieto di viaggiare con lui. Gli altri insegnanti e gli studenti ci venivano dietro con gli sci, e senza lamentarsi, nonostante che solo un'ora prima fossero tutti profondamente addormentati. La disciplina fa miracoli: non li fanno, invece, le macchine Kekkonshiki, che sono del tutto prive di comfort. L'alba illuminava la prima tempesta di neve di quel giorno quando raggiungemmo l'entrata dello spazioporto. Due guardie emersero dal capannone e guardarono stupidamente la macchina e gli sciatori che le venivano dietro, come se questo succedesse tutti i giorni. «Dite a Kome che sono qui per vederlo», ordinò Hanasu. «A nessuno è permesso di entrare. Kome l'ha ordinato: tutti i nemici devono essere uccisi. C'è un nemico nella tua macchina: uccidilo». La voce di Hanasu era fredda e bassa, ma suonava autoritaria. «Il Quattordicesimo Comandamento dell'Obbedienza afferma: obbedirai agli ordini dei Dieci. Io ti ho dato un ordine. Non esistono comandamenti sull'uccisione dei nemici. Ora fatti da parte». Una traccia d'emozione sembrò sfiorare il volto della guardia, poi spari. L'uomo si limitò a scansarsi, e a dire: «Procedete. Kome verrà informato». In fila, la nostra forza d'invasione composta da uomini giovani e anziani scivolava per lo spazioporto verso gli edifici dell'amministrazione. Sorpassammo alcune batterie antiaeree, ma gli addetti si limitarono a guardarci senza tentare di fermarci. Era un'alba grigia, gelida, spazzata da raffiche di
neve; il nostro veicolo si arrestò davanti all'ingresso dell'amministrazione, e Hanasu era appena saltato a terra, facendo scricchiolare il suolo gelato, quando la porta si aprì. Io rimasi nell'auto cercando di rendermi invisibile. Kome e una dozzina di seguaci vennero fuori, tutti armati di fucili e pistole. Forse era stato il freddo a gelarmi il cervello, fatto sta che solo ora mi resi conto di essere l'unico uomo armato del nostro gruppo. «Tornatene alla tua scuola, Hanasu. Non sei desiderato, qui», esordì Kome. Hanasu lo ignorò, proseguendo finché non si trovò faccia a faccia con il suo rivale. Quando parlò, parlò a voce alta, in modo che tutti potessero sentire. «Ordino a tutti voi di deporre le armi, perché ciò che state facendo è contrario ai comandamenti della filosofia morale. Per quegli stessi comandamenti, ciò che noi dobbiamo fare è essere di esempio alle razze più deboli, non commettere suicidio lottando contro chi dispone di forze enormemente più numerose delle nostre. Se continueremo a combattere, come stiamo facendo adesso, verremo tutti uccisi. Dovete...». «Tu devi andartene di qui», gridò Kome. «Sei tu che infrangi i comandamenti! Vattene o verrai ucciso». Alzò la pistola e la puntò contro Hanasu. A quel punto io scivolai dalla macchina. «Non lo farei, se fossi in te», dissi, puntando la mia arma. «Hai portato uno straniero qui!». La voce di Kome era alta, quasi rabbiosa. «Lo uccideremo, e poi uccideremo te...». Ma quelle minacce s'interruppero, perché Hanasu fece un passo avanti e gli diede uno schiaffo in pieno volto. «Io ti metto al bando», disse Hanasu, e tutti i presenti trattennero il fiato. «Hai disobbedito, e con ciò sei finito». «Finito? Non io, tu!», urlò Kome, al massimo della furia, pronto a tirare il grilletto. Mi feci di lato, cercando la posizione giusta per sparare, ma c'era Hanasu di mezzo. E di colpo si udì lo schianto secco di molte pistole. Hanasu rimase in piedi, immobile, mentre il corpo di Kome cadeva al suolo. Tutti i suoi seguaci gli avevano sparato nello stesso momento. Il potere della filosofia Kekkonshiki lo aveva distrutto. Calmo e inflessibile
Hanasu si volse ai presenti e spiegò la nuova interpretazione della legge, che aveva appena scoperto. I suoi ascoltatori non mostravano alcuna particolare espressione, ma era evidente che si sentivano sollevati. C'era di nuovo solidità nelle loro vite, c'era una struttura e c'era ordine. Il corpo raggomitolato di Kome era l'unico segno che c'era stato uno scisma, ma adesso non lo vedevano, o perlomeno si rifiutavano di vederlo. L'ordine era tornato. «Ora potete scendere», dissi nella mia radio. «Negativo. Nuovi ordini prioritari annullano i precedenti». «Negativo!», urlai nel microfono. «Ma di che state parlando? Portate quelle bagnarole quaggiù immediatamente, o friggerò il vostro comandante e me lo mangerò per colazione!». «Negativo. Nave portaordini in arrivo, tempo previsto tre minuti standard». Il contatto fu interrotto e io potetti solo guardare, frastornato, l'inutile radio. Che diavolo era successo? Intanto sempre più uomini si avvicinavano per ascoltare Hanasu. Avevamo la situazione in pugno, avevamo la soluzione... e io ero di nuovo nei guai. Una piccola navetta d'esplorazione scese attraverso la neve, e io corsi al portello appena si aprì, col fuoco negli occhi e le dita a pochi millimetri dal calcio della pistola. E una figura familiare e antipatica uscì dal boccaporto. «Tu!», gridai. «Sì, io, appena in tempo per evitare un affronto alla giustizia e alla morale». Era Ge Ovah, il boss del Corpo Morale, e credevo di sapere perché fosse qui. «Non c'è bisogno di te in questo posto», dissi. «Inoltre non sei neppure troppo vestito, dato il clima. Ti consiglio di tornartene indietro». «Il rispetto della morale innanzi tutto». Rabbrividì, perché nessuno l'aveva informato di com'era il tempo quassù, e lui portava semplicemente il solito accappatoio. «Ho cercato di parlargli, ma non mi ha ascoltato», disse una voce ancor più familiare, e Angelina emerse alle sue spalle. «Cara!», gridai, e ci abbracciammo rapidamente, lasciandoci quando la
voce di Ge Ovah s'interpose fra noi. «Mi par di capire che la vostra missione sia convincere questa gente a usare le sue tecniche di manipolazione psichica sugli alieni, in modo da vincere la guerra. Tali tecniche sono immorali, e quindi non saranno usate». «Chi è quel tipo?», chiese Hanasu con voce gelida. «Si chiama Ge Ovah», dissi. «È il capo del nostro Corpo Morale. Deve assicurarsi che non facciamo cose che contrastino col nostro codice etico». Hanasu lo squadrò, come fosse un parassita particolarmente repellente, poi si girò e mi guardò. «L'ho visto», disse. «Ora puoi portarlo via. Poi fai atterrare le tue navi, e che l'operazione contro gli alieni cominci». «Non credo che mi abbiate capito bene», disse Ge Ovah, a denti stretti. «Quest'operazione è proibita. È immorale». Hanasu si voltò a guardarlo lentamente, trafiggendolo con uno sguardo di ghiaccio. «Non parlare d'immoralità a me. Io so tutto di filosofia morale, io interpreto la Legge. Ciò che abbiamo fatto agli alieni per cominciare questa guerra è stato un errore: ora useremo le stesse tecniche per porvi rimedio». «No! Con due errori non si fa la giustizia. È proibito». «Non puoi fermarci, perché qui non hai autorità. Puoi solo ordinare che ci uccidano: e solo così ci arresterai. Ma se non saremo uccisi faremo ciò che dev'essere fatto, come comanda il nostro codice morale». «Sarete fermati...». «Solo dalla morte. Se non puoi ordinare che ci uccidano, togliti dai piedi e lasciaci lavorare». Hanasu gli voltò la schiena e se ne andò. Ovah agitò la mascella un paio di volte, ma non riuscì a parlare. Stava anche diventando blu. Chiamai due studenti con un gesto: «Venite qui, ragazzi. Aiutate questo povero vecchio a tornare nella sua nave, così che possa scaldarsi un po' e meditare sul vecchio problema filosofico di una forza irresistibile che incontra un oggetto immobile». Ge Ovah tentò di protestare, ma i ragazzi lo tennero ben stretto e lo portarono di peso sulla nave. «E adesso che si fa?», chiese Angelina.
«I Kekkonshiki sono con noi, andranno dagli alieni e cercheranno di vincere la guerra. E il Corpo Morale non potrà mai trovare una ragione valida per uccidere chi vuole semplicemente salvarci. Credo che Ovah e Incuba si strapperanno un po' di capelli. Forse ordineranno a noi di non aiutare i Kekkonshiki, ma troveranno difficile anche giustificare questo». «Sono certa che hai ragione. E ora?». «Ora? Be', ma andiamo a salvare la galassia, no? Ancora una volta». «Il mio maritino modesto, eh?», disse lei, ma temperò quel dolce rimprovero baciandomi con passione. XVII «È veramente impressionante, non trovi?», domandai. «Trovo che è disgustoso», disse Angelina, arricciando il naso. «E non solo questo: puzzano». «È un miglioramento rispetto al primo modello: ricordalo, dove stiamo andando tutto ciò che è brutto è bello». In un certo senso Angelina aveva ragione: era disgustoso. Il che ci andava proprio a pennello. Eravamo nella cabina di comando dell'astronave che avevamo requisito per la nostra missione, e davanti a noi erano sistemate, fila dopo fila, cinquecento pesanti sedie. Su ogni sedia si rannicchiava, o sgocciolava, o si torceva un alieno particolarmente schifoso: roba da far illuminare gli occhi peduncolati del nemico, ne ero certo, perché i mostri che avevamo davanti erano stati modellati in base al mio primo travestimento, che tanto successo aveva riscosso. Molti dei nostri freak appartenevano alla stessa razza, i popolarissimi Geshtunken. Ciò che invece, se ne fossero stati al corrente, non avrebbero scaldato i multipli cuori dei nostri avversari, o pompe di plasma che fossero, era che ognuno dei nostri alieni d'esportazione nascondeva un severo Kekkonshiki, e che nascosto in ogni coda c'era un potente generatore sinaptico. La crociata della pace andava a incominciare. Organizzarla non era stato facile: il Corpo Morale si era schierato risolutamente contro il nostro tentativo di manipolare i cervelli del nemico, ma la sua autorità si esprimeva pur sempre attraverso i governi planetari e i lo-
ro capi. Per una volta benedissi i cavilli della burocrazia: e mentre gli ordini dei moralisti venivano impartiti e cominciavano il loro iter per diventare operativi, noi del Corpo Speciale preparavamo in fretta e furia un programma per aggirarli prima ancora di riceverli. Aldini abilissimi tecnici furono sbattuti lontano dalle loro sedi abituali, e la destinazione per cui erano partiti non venne mai rivelata; un incollerito professor Coypu fu strappato dal suo letto a mezzanotte e si ritrovò nello spazio profondo prima di avere il tempo per mettersi i calzini: sbarcò su un pianeta industriale completamente automatizzato scelto dai nostri agenti, dove venne raggiunto dai volontari Kekkonshiki. Mentre questi ingegnosi individui fabbricavano i travestimenti da alieni, Hanasu istruiva la squadra di tecnici addetti allo psico-controllo. Avevamo fatto appena in tempo, ed eravamo riusciti a partire poche ore prima dell'astronave da battaglia inviata dal Corpo Morale per fermarci. Alla fin fine questo aiutò la nostra finzione, perché volammo verso la flotta aliena con l'astronave del Corpo che ci inseguiva, ma che, quando vide lo sbarramento di balene spaziali, se la dette a gambe. «Siamo entro il raggio di comunicazione, ora», annunciai. «Siete pronti per la vostra missione, volontari Kekkonshiki?». «Siamo pronti», venne la forte ma pacata risposta. «Buona fortuna. Ai costumi, gente». Mi infilai nel travestimento da alieno e Angelina fece lo stesso. James si era ficcato in un robot, Bolivar in un altro. Ci salutarono, poi chiusero i rispettivi coperchi. Mi chiusi la cerniera sul collo e mi diressi al comunicatore. «L'adorabile Infyyd Jeem è tornata dalla tomba!», gorgogliò dallo schermo una cosa immonda con artigli e tentacoli. «Io non ti conosco, o brutto signore», risposi con una smorfietta, «ma evidentemente devi aver conosciuto la mia gemella. Io sono sua sorella, Infyyd Bolivar». Azionai la levetta del pianto, e una lacrima oleosa mi sgorgò dalle lunghe ciglia, schiantandosi al suolo. «Laggiù, su Geshtunken, abbiamo appreso della sua nobile morte, e siamo venuti a vendicarla!». «Benvenuti, benvenuti!», gorgogliò la cosa, contorcendosi. «Io sono Sess-Piagn, nuovo comandante in capo della flotta: venite, presto, festeg-
geremo con un gran banchetto puzzolente!». Feci come voleva, e ci recammo al disgustoso appuntamento: Angelina era al mio fianco. Dovetti scansarmi per evitare l'umido abbraccio di Sess, che andò a spiaccicarsi sul pavimento. «Ehm, ti presento Ann-Gel, mio capo di stato maggiore. Quei piccoli robot portano in dono cibo e bevande che consumeremo insieme». Il nostro gruppo si trasferì sull'immensa balena spaziale, mentre sempre più ufficiali alieni venivano a renderci omaggio. Mi chiesi chi provvedesse a far volare quell'affare: probabilmente nessuno. «Come va la guerra?», chiesi. «Malissimo!», mormorò Sess, scolandosi una fiala di qualcosa di verde e ribollente. «Oh, quelle pappemolle aliene si ritirano sempre più velocemente, ma non si fermeranno mai per combattere. E il morale è basso, perché i nostri soldati ne hanno abbastanza di questa guerra, e vogliono tornare al fetido abbraccio delle loro cose-morose. Ma la guerra deve continuare, suppongo». «Allora avrete l'aiuto che vi serve», gridai, dandogli una manata sulla spalla e poi pulendomi la mano sul tappeto. «La mia nave è zeppa di volontari assetati di sangue che non chiedono altro che guerra, vittoria e vendetta. E oltre a essere gran combattenti e ad avere un senso dell'odorato molto sviluppato i miei compagni sono grandi navigatori, ottimi tiratori e abilissime sentinelle e cuochi». «Santa fanghiglia, li useremo!», gorgogliò Sess. «Hai molti soldati con te?». «Be'», dissi timidamente, «dovremmo averne abbastanza per assegnarne uno a ciascuna delle vostre navi ammiraglie, e ogni ammiraglia può comandare una flotta. E se gli ufficiali della flotta hanno bisogno di tirare su il morale della truppa potranno servirsi della mia gente, che lavora giorno e notte e che per soprammercato è terribilmente sexy». «Siamo salvi!», urlò la cosa. O fregati, pensai tra me e me, sorridendo a tutti denti al disgustoso assembramento che ci attorniava. Mi domandai quanto tempo avrebbero impiegato i miei sabotacervelli a compiere il loro lavoro. Non ce ne volle molto, in realtà. Poiché gli alieni erano stati convinti a
intraprendere quella guerra, e se ne erano poi abbondantemente stufati, ora erano più che maturi per il trattamento contrario. Pochi giorni dopo SessPiagn strisciò da me nella sala di navigazione, dove io stavo attento a che non c'imbattessimo nella flotta umana. Mi guardava tristemente, con una mezza dozzina di occhi sanguigni e peduncolati. «Non hai dormito bene, ultimamente?», chiesi accarezzandogli una delle orbite paffute con un artiglio. Lui la ritirò infelice. «Puoi dirlo. È tutto così deprimente: la flotta continua la sua corsa, e laggiù a casa mia l'ultima infornata di vergini si avvicina alla maturità. Comincio a chiedermi cosa ci faccio, qui». «Cosa ci fai, qui?». «Non lo so. Il mio cuore non è più con questa guerra». «Curioso: anch'io pensavo la stessa cosa, l'altra notte. Hai mai notato che gli alieni non sono poi così deplorevoli? In fondo hanno occhi umidi, e delle cose rosse, umidicce e piuttosto orripilanti che gli guizzano in bocca». «Hai ragione!», sbavò. «Non ci avevo mai pensato prima. Ma che possiamo fare?». «Bene», dissi. «Ascolta...». E questo fu tutto. Dieci ore più tardi, dopo un intenso scambio di messaggi fra le navi, la più formidabile armata che la galassia avesse mai conosciuto descrisse un grande arco nello spazio. Insomma girò, fece dietrofront, tornando alle orribili dimore da cui era partita. Nei festeggiamenti di quella sera, che celebravano la vittoriosa fine della guerra (con un po' d'aiuto avevano razionalizzato le cose in questi termini) io e. Angelina ci artigliammo amorevolmente guardando compiaciuti il rivoltante spettacolo dei nostri ospiti. «Sono quasi carini, una volta che ti ci sei abituato», disse lei. «Non arriverò a dire questo, ma... sono innocui, una volta abbandonati i loro piani d'aggressione». «E ricchi, anche», disse il robot James, versandomi qualcosa di maleodorante nel bicchiere. «Abbiamo fatto qualche indagine», disse Bolivar rotolando dall'altra parte. «Nelle loro varie scorrerie hanno catturato navi, pianeti e satelliti.
Hanno vuotato tutti i sotterranei delle banche, perché sapevano che noi attribuivamo valore al loro contenuto, anche se non riuscivano a spiegarsene il motivo. Essi non usano il denaro come lo concepiamo noi». «Lo so, usano l'Unità Eck, che è meglio non soffermarsi a descrivere». «Giusto, pa'», disse James. «Perciò, quando espropriavano i nostri tesori li mandavano qui, sull'astronave ammiraglia, sperando che qualcuno... ehm, qualcosa... sarebbe riuscito a scoprire cosa farne. Ma tutto quel che ne hanno fatto è ammucchiarli in una stiva». «Vediamo se indovino», disse Angelina, «La stiva, ora, è vuota?». «Hai quasi ragione, ma'. E la nostra nave è quasi piena». «Dovremo restituire quel bottino ai vecchi proprietari», dissi, e mi compiacqui di notare due esterrefatti sguardi robotici e un'occhiata aliena colma di disperazione. «Jim...!», ansimò Angelina. «Non preoccuparti, non sono impazzito. Volevo dire che dovremo restituire il bottino alieno che abbiamo rinvenuto...». «...ma in fondo non abbiamo trovato molto», finì la frase per me. Qualcosa di pesante, verde-brunastro, tentacolato e artigliato mi si avvicinò rumorosamente. «Alla vittoria!», urlò Sess-Piagn. «Dobbiamo brindare alla vittoria! Silenzio, tutti silenzio, mentre la deliziosa Infyyd propone un brindisi». «Lo farò!», urlai, balzando in piedi, consapevole dell'improvviso silenzio, e del fatto che ogni cuscinetto oculare, ogni occhio peduncolato, ogni tentacolo ottico - per non parlare di sei occhi umani - era fissato su di me. «Un brindisi», dissi, alzando il bicchiere con tale entusiasmo che parte del liquido si versò corrodendo subito il tappeto. «Un brindisi a tutte le creature che vivono nel nostro universo, grandi e piccole, solide e gelatinose; possa la pace e l'amore essere la loro eredità, per sempre. Viva la vita, la libertà... e il sesso opposto!». E così galoppammo attraverso gli anni luce verso un futuro molto, ma molto migliore. Spero.
Titolo originale: The Stainless Steel Rat Wants You! FINE