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MAGGIE FUREY AURIAN (Aurian, 1994) Questo libro è dedicato con amore ad Eric per il suo costante supporto durante l'evolversi di un progetto molto molto lungo. INTRODUZIONE Fra le tradizioni letterarie e i contesti antropologici e culturali che fino a poco tempo fa hanno trovato scarsissima attenzione da parte della moderna fantasy, c'è sicuramente anche il «vicino Oriente», vale a dire quello che con un termine ormai in voga nell'odierno giornalismo potremmo chiamare il «Mondo Arabo», frazione fondamentale ma non esaustiva dell'Islam. La cosa non deve suscitare meraviglia. L'assenza del mondo arabo dalla fantasy si spiega infatti con la matrice pressoché esclusivamente anglosassone di questo genere romanzesco: da William Morris ai giorni nostri il novanta per cento della produzione letteraria riconducibile all'area della fantasy e dei suoi sottogeneri (a cominciare dalla sword & sorcery) è stato sempre farina del sacco di scrittori americani e inglesi. Come è noto i primi hanno lavorato per decenni esclusivamente di fantasia, creando di fatto una nuova antropologia immaginaria (quella dell'eroe barbaro e primigenio, senza macchia e senza padroni) che ha dato esiti pregevolissimi con Henry Kuttner, Catherine Lucille Moore, Clark Ashton Smith ed ha toccato il vertice della sua perfezione con il variegato pantheon degli eroi scaturiti dalla penna di Robert Howard, da Conan a Kull di Valusia. Certo, per chi sa andare al di là delle apparenze (in questo caso dell'iconografia e degli scenari, delle città dai nomi impronunciabili e del cozzare delle spade) non è difficile capire come in realtà questa tipologia di eroe caratterizzata soprattutto da franchezza, libertà personale assoluta e sostanziale integrità sia pure al di fuori degli schemi morali consolidati di un universo spesso descritto come decadente - non spunti affatto come un fungo, ma sia in evidente debito con la concezione eroica tipica della Frontiera (unica autentica mitopoiesi originale di produzione statunitense). Insomma, Hondo ha molto in comune con Conan: perché scandalizzarsi?
Quanto agli inglesi, il discorso è assai diverso. Da Morris in poi hanno sempre lavorato sulla propria ricca tradizione mitica e cavalleresca, sicché dal Beowulf ai Mabinogion gallesi, dagli Imrama celtici ai romanzi di Artù, tutto è stato riproposto nel corso dei decenni in chiave fantasy e non senza un'influenza marcata anche della commedia shakespeariana. Il risultato tuttavia è stato che mentre le tradizioni di origine strettamente britannica e più in generale nordeuropea (germani, sassoni, vichinghi e infine normanni sono tutti indissolubilmente legati alla storia, alla cultura e alla tradizione anglosassone) hanno fatto la parte del leone nel contesto della fantasy per oltre 80 anni, le altre tradizioni mitiche ed epiche - anche quelle più antiche e in qualche caso più ricche, come quella greca, quella egizia, quella indù e per l'appunto quella araba - sono rimaste in larga parte estranee alla storia e allo sviluppo di questa letteratura. In particolare l'indifferenza (o forse l'ignoranza) che gli autori inglesi e americani hanno manifestato nei confronti della pur ricchissima tradizione epica e cavalleresca del tardo medioevo e poi del rinascimento italiano, spiega la lunga assenza dalla fantasy di qualunque riferimento all'immaginario del «Vicino Oriente» - cui sarebbe stato certo ostico avvicinarsi nella lingua originale e che colpevolmente non è stato quasi mai tradotto in quelle lingue - ma che comunque aveva avuto ampia diffusione attraverso la nostra letteratura, fra il 1250 e il 1500. Non ci dimentichiamo infatti che nel XII e XIII secolo, del favoloso Oriente e in particolare del mondo arabo faceva parte anche la Sicilia! Così il Maghreb («terra di maghi» per una tradizione che corre dallo stregone della lampada di Aladino delle Mille e Una Notte fino al mago Atlante dell'Orlando Furioso) fa la sua comparsa - con contorno di vulcani e giganti, incantesimi e castelli - già negli Otia Imperialia di Gervasio di Tilbury e nelle avventure in prosa dell'Avventuroso Ciciliano, redatte da Bosone da Gubbio nel 1331 e «l'Arabia», compresa la Terrasanta e con riferimenti a importanti miti mediorientali come quello del «Vecchio della Montagna», ha un ruolo chiave nelle avventure del Guerrin Meschino, che Andrea da Barberino scrisse ai primi del 1400. D'altro canto i nessi con la cultura classica mediterranea dell'immaginario arabo risalgono con molte probabilità anche ad epoche più remote se è vero, come pare, che per esempio una delle parti più note e importanti delle Mille e Una Notte - vale a dire quella dei Viaggi di Sinbad - sia largamente ispirata a una remota versione araba dell'Odissea. Negli ultimi anni, finalmente, qualcosa si è
mosso nell'universo della fantasy e le lacune che ho voluto qui ricordare hanno cominciato, sia pure in minima parte, a essere colmate. A questa sorta di "nuovo corso" appartiene anche il romanzo che avete davanti a voi e che fra l'altro propone per la prima volta in Italia una giovane autrice di grande talento: Maggie Furey. L'avvio di Aurian è per molti versi d'impianto abbastanza tradizionale: una competizione fra maghi e maghe in un universo nel quale la magia è quasi scomparsa ma in cui la fa ancora da padrona, il tutto sullo sfondo di una società para-feudale di sapore abbastanza europeo. Ma a un certo punto, trascinata dagli eventi, Aurian, la protagonista, fugge verso le terre dell'estremo Sud e tutto d'un colpo il lettore si trova immerso nelle atmosfere incantate, nell'esotismo, nei mirabilia di un Oriente immaginato che ha tutto il fascino (e lo specifico sapore speziato) delle Mille e Una Notte. Come se non bastasse la Furey inserisce, proprio a partire da questo punto del romanzo, uno degli archetipi fantastici più ricorrenti (e amati) di tutta la letteratura dell'immaginario: quello del rapporto «empatico» con un animale, che entra in contatto telepatico perenne con la protagonista, diventandone amico e consigliere prediletto. Si tratta di un archetipo che affonda le proprie radici nel folklore e nel mito (basti pensare alla figura del familiare, lo spirito animale che secondo la tradizione popolare si accompagna sempre a maghi e streghe) e che ormai ha dato vita a una vera e propria, galleria di personaggi nel seno stesso della fantasy moderna. All'orso Gorm di Sterling Lanier, alla gatta Nisana di Ru Emerson, al cane di Damiano di Roberta MacAvoy, ai draghi di Anne McCaffrey e a quelli di Angus Wells si aggiunge ora la pantera di Aurian, che pare tolta di peso da un ingiustamente dimenticato film fantasy degli anni '80: Kaan, Principe Guerriero. L'esito è fra le vostre mani e lo affido al vostro giudizio, nella serena certezza che una volta in fondo attenderete l'uscita del secondo romanzo della serie con trepidante e gioiosa ansia. Alex Voglino CAPITOLO PRIMO LA SIGNORA DEL LAGO «Salve, ragazzina!» Aurian sussultò e la sfera di fuoco azzurro le scivolò di mano, cadendo
sullo strato di foglie secche che ricopriva il suolo della foresta: in preda al panico, la bambina non riuscì a ricordare l'incantesimo per spegnerla e si affrettò a soffocare il principio d'incendio con un piede. Consapevole che sua madre le aveva proibito di recarsi lì da sola e che adesso era troppo tardi per nascondersi, si girò quindi per fuggire, ma la stranezza dell'intruso sopraggiunto nella radura la indusse ad arrestarsi di colpo dove si trovava perché prima di allora lei non aveva mai visto un uomo. Lo sconosciuto era alto e ampio di spalle, vestito tutto di cuoio marrone e avvolto in un pesante mantello sotto cui si notava una spada enorme che gli pendeva dal fianco; i peli di colore castano che gli coprivano il volto le sembravano decisamente strani e insieme agli occhi scuri le ricordavano gli animali della foresta che le erano amici. Poi l'uomo accennò ad avanzare con la mano protesa e Aurian si affrettò ad indietreggiare di fronte alla sua figura incombente, cominciando al tempo stesso a modellare affrettatamente fra le dita un'altra sfera di fuoco. Lo sconosciuto però la scrutò per un momento con aria pensosa, poi si sedette per terra con le mani strette intorno alle ginocchia: adesso che si era portato al suo stesso livello, Aurian scoprì che l'intruso appariva molto meno minaccioso e si sentì d'un tratto più sicura di sé... dopo tutto, quelle erano le terre di sua madre. «Chi sei?» domandò. «Mi chiamo Forral... spadaccino e vagabondo, al tuo servizio, piccola signora» replicò l'uomo, chinando gravemente il capo nell'unica forma d'inchino che gli era permessa nella sua attuale posizione. «Sì, ma chi sei?» insistette Aurian, mantenendo sempre fra loro una certa distanza di sicurezza. «E cosa vuoi? Non dovresti essere qui, sai? Gli animali avrebbero dovuto provvedere a tenerti lontano.» «Non mi hanno dato fastidio» sorrise Forral. «Io non faccio del male a loro... e loro non ne fanno a me. È un modo di vivere eccellente.» Nonostante gli avvertimenti materni Aurian si accorse che cominciava a provare simpatia per quello sconosciuto: in effetti il suo era un modo di vivere eccellente, e poi le piaceva il suo sorriso. Di conseguenza, le parve soltanto giusto avvertirlo di quello che sua madre gli avrebbe fatto se lo avesse sorpreso a girovagare sulle sue terre. «Senti...» cominciò, ma l'uomo la prevenne. «Per caso potresti indicarmi come raggiungere la Signora del Lago?» domandò. «Chi?» «Sai... la Maga, Lady Eilin» spiegò Forral, agitando una mano in un ge-
sto vago. «Se non mi sbaglio tu devi essere la giovane Aurian, sua figlia, considerato che sei il ritratto di Geraint.» «Conoscevi mio padre?» sussurrò Aurian, a bocca aperta per lo stupore. «L'ho conosciuto» confermò Forral, in tono sommesso, mentre un'ombra di tristezza gli passava sul volto. «Ed ho conosciuto anche tua madre. È stato Geraint ad aiutarmi a dare un indirizzo alla mia vita: quando mi ha trovato ero un orfano ed avevo appena la tua età, ma lui mi ha fatto entrare nella scuola di scherma della guarnigione di Nexis e mi è stato amico in tutti gli anni che sono seguiti» continuò con un sospiro. «Quando tuo padre è morto ero lontano a combattere in terre straniere al di là del mare e al mio rientro ho saputo...» Forral s'interruppe e per un istante lottò per mantenere salda la voce, poi riprese: «Così sono venuto subito qui per offrire i miei servigi a tua madre.» «Lei non ti vorrà» affermò Aurian, e soltanto dopo che quelle parole le furono uscite di bocca si rese conto della propria mancanza di tatto, in quanto quella le sembrava una cosa davvero orribile da dire a qualcuno che aveva percorso tanta strada per venire ad aiutarle. Inoltre quell'uomo le era già simpatico, anche perché era la prima compagnia umana che le riuscisse di ricordare di aver mai avuto in tutti i suoi nove anni di vita, a parte naturalmente quella di sua madre, che peraltro aveva ben poco tempo da dedicare a sua figlia in quanto era concentrata completamente sul suo Grande Compito; avendo come unica compagnia quella degli animali, Aurian aveva quindi sempre condotto una vita molto solitaria. «Vedi» proseguì, cercando disperatamente un modo per spiegare la situazione senza urtare i sentimenti del suo nuovo amico, «mia madre non riceve mai visitatori: è così occupata che si accorge a stento anche di me.» Mentre parlava Forral la squadrò da testa a piedi in maniera tale che se avesse avuto alle spalle un'educazione più convenzionale Aurian si sarebbe di certo sentita imbarazzata per la lacera camicia grigia che aveva indosso, per i riccioli rossi tutti arruffati e le chiazze di sporcizia visibili sul volto e sulle ginocchia nude... ma poiché non era consapevole di quanto tutto questo fosse disdicevole lei incontrò con assoluta tranquillità lo sguardo dell'uomo. «Chi si prende cura di te, allora?» domandò infine Forral. «Nessuno» replicò la bambina, scrollando le spalle. «In tal caso è proprio ora che qualcuno comici a farlo» dichiarò il grosso soldato, accigliandosi in volto. «A proposito, quella è una cosa che ti è permesso fare?» aggiunse, indicando la dimenticata sfera di fuoco che sta-
va ancora danzando sul palmo di Aurian, che si affrettò a dissolverla e a nascondere le mani dietro la schiena, desiderando di poter nascondere con altrettanta facilità la propria espressione colpevole. «Non... non proprio» confessò. «Ma si è trattato di un'emergenza... non lo dirai a mia madre, vero?» supplicò quindi, mordendosi un labbro. «D'accordo, non glielo dirò... per questa volta» concesse Forral, dopo aver dato l'impressione di riflettere sulla cosa, poi continuò in tono severo: «Però non farlo mai più perché è molto pericoloso, hai capito? E non pensare che non abbia notato cosa stavi combinando quando sono arrivato: in quel momento non c'era nessuna emergenza, giusto? Avanti, ragazzina» concluse con un sorriso, accorgendosi che Aurian si era fatta carminia in volto, «andiamo a cercare tua madre.» «Lei non ne sarà molto contenta» lo avvertì Aurian, ma dalla sua espressione si rese conto che Forral non le aveva creduto. S'incamminarono insieme lungo il pendio coperto di alberi, Forral guidando per la cavezza il cavallo stanco e la bambina magra e dinoccolata in groppa all'irsuto pony marrone che montava a pelo, mentre intorno a loro la luce del freddo sole autunnale filtrava fra i rami ormai spogli e rivestiva di una tinta dorata i mucchi di foglie secche che coprivano il suolo. Una volta in cima all'altura la foresta cessò improvvisamente e la bambina si arrestò, assumendo un'espressione cupa e impenetrabile. «Che gli dèi ci proteggano!» sussurrò Forral, nel contemplare con occhi increduli la devastazione che si allargava sotto di lui. Apprendere la notizia dell'incidente occorso a Geraint lo aveva sconvolto, ma non si sarebbe mai aspettato nulla delle dimensioni del vasto e spoglio cratere che si allargava a perdita d'occhio oltre il costone su cui loro si trovavano. Contemplare quella prova tangibile della morte violenta del suo amico era quasi più di quanto lui potesse tollerare, perché non riusciva a credere che Geraint si fosse ucciso laggiù, lui che era stato il più brillante e impetuoso fra i Maghi, il candidato più idoneo alla carica di Arcimago. Alto e rosso di capelli. Geraint aveva però posseduto anche un carattere esplosivo unito ad una risata espansiva che indicava la sua infinita gioia di vivere e quella gentilezza di cuore che lo aveva portato ad aiutare un lacero orfano che osava sognare nonostante tutto. Tristemente, Forral rifletté che anche Geraint aveva osato sognare: otto anni prima aveva tentato di utilizzare l'antica e non del tutto comprensibile magia dello scomparso Popolo dei Draghi per controllare enormi quantità
di energia magica al fine di passare all'istante da un mondo all'altro, e i risultati erano stati disastrosi, al punto che si diceva che Geraint fosse giunto pericolosamente vicino a distruggere la terra stessa e da rendere evidente fin da ora che il suo nome sarebbe stato maledetto per generazioni a venire dai Maghi e dai Mortali in pari misura. Forral preferiva invece credere che il suo amico si fosse reso conto troppo tardi del pericolo e avesse sacrificato la vita per confinare il danno all'area più ristretta possibile. Anche così il cratere sottostante aveva comunque un diametro di almeno cinque leghe, i suoi fianchi erano un ammasso crepato e contorto di roccia fusa e il fondo in pendenza scintillava come vetro nero; al centro di quella distesa priva di vita era possibile scorgere il bagliore della luce del sole riflessa sull'acqua. Forral non avrebbe saputo dire per quanto tempo rimase lì immobile, sconvolto dalla distruzione che Geraint aveva causato; alla fine ciò che lo riportò alla realtà fu lo sguardo della bambina fisso su di lui. «Mia madre non è ancora arrivata fin qui» commentò Aurian, con voce piatta e sommessa. «Ti ho detto che molto occupata: ci sono una quantità di cose da fare.» Lo spadaccino provò un improvviso impeto di compassione nei confronti di quella bambina che stava crescendo trascurata e priva di amici in quella terra cupa e devastata: era vero ciò che si diceva in giro, e cioè che Eilin avesse perso la ragione dopo la morte del suo amato compagno e che, essendo un'adepta della Magia della Terra, avesse sepolto il proprio dolore sotto l'ossessione di porre rimedio alla devastazione causata dal tragico errore di Geraint? Per amore della bambina Forral si costrinse infine a ritrovare il controllo e ad assumere una facciata allegra, ma fu con cuore dolente che infine riprese il cammino. Il suo cavallo incontrò qualche difficoltà a raggiungere il fondo del cratere, mentre il pony di Aurian non mostrò di avere più problemi della sua padrona, che appariva capace di cavalcare come un centauro ed era senza dubbio abituata a percorrere il contorto tratto di terreno scivoloso che portava in fondo all'enorme depressione. Nel proseguire la discesa Forral pensò che laggiù l'estate doveva essere spaventosamente torrida, considerato che anche sotto il pallido sole autunnale la roccia simile a vetro era in grado di emanare ondate di calore unite a riflessi abbaglianti intensificati dall'acqua che si era raccolta sul fondo di alcune delle pieghe del terreno più profonde. Intorno la devastazione era assoluta, e l'unico segno di vita era dato dalla presenza di qualche uccello nel cielo.
«Com'era mio padre?» chiese d'un tratto Aurian, infrangendo infine il prolungato silenzio. La sua domanda colse Forral alla sprovvista, anche perché dietro di essa sembrava celarsi una supplica silenziosa. «Tua madre non te lo ha mai detto?» controbatté. «No» rispose la bambina. «Non vuole parlare di lui e afferma che questo è stato tutto colpa sua, che ha fatto una cosa cattiva e che è nostro dovere rimediare» aggiunse con voce tremante, accennando intorno a sé con la mano. Rabbrividendo, Forral si chiese cosa fosse successo ad Eilin per indurla a scaricare un così terribile fardello sulle spalle di una bambinetta. «Sciocchezze!» dichiarò poi, in tono deciso. «Geraint era un uomo buono e gentile, e per me è stato un vero amico. Ciò che è accaduto è stato un incidente, piccola, lui non lo ha certo fatto di proposito. Ha commesso un errore, ecco tutto... e non permettere a nessun altro di convincerti del contrario.» «Vorrei potermi ricordare di lui» affermò Aurian, illuminandosi in volto. «Vuoi dirmi qualcosa sul suo conto mentre cavalchiamo?» «Con piacere.» A circa due leghe dal fondo del cratere il terreno cominciò a spianarsi fino ad assumere una superficie uniforme caratterizzata da una leggera pendenza verso il basso e ben presto le rocce risultarono coperte da un sottile strato di terriccio nel quale stavano spuntando a fatica le prime piccole piante. Quando infine avvistarono il lago, stavano ormai procedendo su un terreno coperto da un manto erboso punteggiato di margherite, oltrepassando fitti cespugli di biancospino, di more e di sambuco chini sotto il peso della ricca messe di frutti e pullulanti di uccelli; più oltre macchie di alberi... in parte meli e peri... crescevano lungo le rive del lago, e nel guardarsi intorno Forral non poté evitare di meravigliarsi per la portata dei risultati che Eilin aveva ottenuto in appena otto anni, e di pensare al tempo stesso che era un peccato che lei non avesse dedicato le stesse attenzioni anche alla sua bambina. Il lago ampio e rotondo era formato dal defluire dell'acqua verso il fondo del cratere, e al suo centro sorgeva un'isola... ovviamente creata dall'uomo o da un Mago... collegata alla terraferma mediante un sottile ponte di legno. Su di essa si ergeva una torre che pareva levarsi dal lago come una lancia di luce e la cui vista strappò a Forral un sussulto di sorpresa in quanto a parte la base di pietra nera circondata dai giardini, il resto dell'edificio
era un'ariosa struttura di cristallo che si levava a sovrastare le acque brillanti del lago; l'etereo edificio era poi sovrastato da una snella guglia di vetro sulla quale un singolo punto luminoso splendeva come una stella caduta. «Per gli dèi, è meravigliosa!» esclamò lo spadaccino. «È dove viviamo» ribatté Aurian, contemplando la torre con aria cupa, poi scrollò le spalle e smontò, assestando una pacca amichevole al pony nel lasciarlo libero di pascolare; una volta che gli ebbe garantito che il suo cavallo sarebbe rimasto dove poteva trovare da pascolare, Forral imitò la bambina e liberò l'animale dalla sella, lasciandola sotto un albero prima di seguire Aurian oltre il ponte. Un sentiero di sabbia bianca attraversava il giardino di Eilin snodandosi fra file ordinate di verdure di stagione, aiuole di erbe mediche disposte secondo un mosaico intricato e preciso di diverse tonalità di verde, e macchie di accesi fiori autunnali che ospitavano nugoli di api ronzanti affaccendate a sfruttare quell'ultimo e raro periodo di tepore prima del sopraggiungere dell'inverno. Nel dirigersi verso la torre, Forral rifletté che la Maga era riuscita egregiamente a provvedere al sostentamento per sé e per la bambina in quel luogo isolato, ma al tempo stesso si chiese come avesse fatto Eilin a procurarsi grano, stoffa e altre cose di prima necessità che non potevano essere ricavate dal terreno della valle. La porta esterna della torre dava immediato accesso alla cucina, che costituiva evidentemente la stanza più usata. Le sue pareti erano state ricavate dalla roccia nera che formava la base della torre, ma l'aspetto simile ad una grotta era mitigato e reso accogliente dal bagliore che ardeva nella grossa stufa di metallo posta in un angolo e dalle colorate stuoie di lana che ricoprivano il pavimento; l'arredo era costituito da un tavolo di legno sotto cui erano infilate alcune panche, da due sedie dal sedile imbottito poste accanto alla stufa e da una serie di scaffali e di credenze addossati alle pareti in modo da occupare la maggior parte dello spazio. Due porte permettevano di accedere ad altre stanze, e Aurian indicò quella alla loro destra. «Quella è la mia camera» disse allo spadaccino. «Lei dorme di sopra per essere vicina alle sue piante.» Una delicata scala a chiocciola di metallo portava ai piani superiori, e quando arrivò davanti ad essa Aurian esitò, indicando a Forral di precederla: domandandosi il perché dell'espressione trepidante apparsa sul volto della bambina, lo spadaccino si avviò su per i gradini, strappando con i
suoi stivali al metallo rintocchi profondi come quelli di una campana. Guardando nelle diverse stanze che si diramavano dalla scala, Forral scoprì lo scopo pratico che si celava dietro la stravagante struttura dell'edificio, in quanto ogni camera era piena di panche sulle quali erano disposti vassoi pieni di terra in cui giovani piantine si crogiolavano sotto i caldi raggi del sole pomeridiano intrappolato dalle pareti di cristallo; un fine velo d'acqua che pareva scaturire dal nulla pervadeva l'aria di umidità che si mescolava al denso crepitare della magia da cui Forral dedusse la certezza che le piante stessero crescendo per magia sotto i suoi stessi occhi. Quando infine la rintracciarono in una delle stanze più alte, la Maga risultò troppo occupata per accorgersi di loro. «Vattene, Aurian» borbottò, senza sollevare lo sguardo. «Ti ho detto che non mi devi disturbare quando sto lavorando.» Nel guardarla Forral si rese conto che Eilin era invecchiata, e questo lo sorprese perché pur potendo morire per incidente o malattia come i semplici Mortali, i Maghi potevano peraltro vivere quanto a lungo volevano e conservare la forma fisica corrispondente all'età che preferivano, per poi morire soltanto quando si sentivano pronti ad abbandonare il mondo. Di conseguenza, Forral ricordava Eilin come una giovane donna piena di vita, mentre adesso i suo capelli scuri erano striati di grigio, la sua fronte era segnata da solchi profondi, rughe incise dall'amarezza le incurvavano gli angoli della bocca e lei appariva pallida e miseramente smagrita nella veste rappezzata e sbiadita. «Eilin, sono io... Forral» disse infine, soffocando il proprio sgomento, e accennò ad avanzare con le braccia protese per stringerla a sé... ma si bloccò a metà del gesto di fronte all'espressione d'ira che apparve sul volto di lei quando si accorse della sua presenza. «Vattene!» esclamò Eilin, poi piombò sulla bambina e la schiaffeggiò in pieno volto ringhiando: «Come hai osato portarlo qui?» «Non è stata colpa mia!» gemette Aurian, rifugiandosi dietro Forral, che si volse e la circondò con un braccio. «Stai bene?» le chiese, controllando a stento la propria ira. Nonostante il livido segno rosso che le spiccava sulla guancia pallida Aurian annuì, mordendosi un labbro, e nel vedere le lacrime che le brillavano negli occhi Forral la strinse a sé per un istante. «Scendi di sotto e aspettami vicino al ponte» le sussurrò quindi, e non appena lei se ne fu andata tornò a girarsi verso Eilin scandendo in tono gelido: «Non è stato un gesto equo.»
«Non esiste nulla di equo, Forral... l'ho scoperto quando è morto Geraint. Quella miserabile bambina avrebbe dovuto dirti che non ricevo mai nessuno!» «Lo ha fatto, ed io ho ignorato il suo avvertimento. Adesso vuoi colpire anche me?» ritorse lo spadaccino, lottando per controllare la propria ira. «Voglio che tu te ne vada» ribatté Eilin, voltandogli le spalle per evitare il suo sguardo. «Perché sei venuto qui?» «Quando ho saputo quello che era successo a Geraint sono venuto più presto che ho potuto... e vorrei averlo fatto ancora prima, perché questo avrebbe potuto salvarti dal diventare una vecchia amareggiata.» «Come osi?» «È la pura e semplice verità, Eilin. Comunque ero venuto per offrirti i miei servigi per amore di Geraint e la mia offerta è sempre valida.» «Dannazione a te, Mortale!» esclamò Eilin, spostandosi verso l'estremità opposta della stanza con movimenti resi scomposti dall'ira. «Sei incostante e capriccioso come tutti quelli della tua specie! A che mi serve il tuo aiuto adesso? Dov'eravate tu e il tuo aiuto otto anni fa, quando io avevo bisogno di te? Eri l'amico di Geraint, a te dava ascolto, e con il tuo appoggio forse sarei riuscita a dissuaderlo dalla sua follia! Ma no, tu avevi voglia di viaggiare, di vedere il mondo... ebbene, spero che quell'esperienza sia stata sufficiente a compensare la morte di un amico! I tuoi servigi mi giungono troppo tardi, Forral. Vattene di qui e non tornare indietro!» Per quanto fosse un indurito guerriero Forral sussultò sotto la sferza di quelle parole piene di amarezza, perché il suo dolore per la morte di Geraint era ancora recente e le accuse di Eilin contenevano una dose di verità sufficiente a ferirlo. Per un momento pensò che forse sarebbe stato meglio se se ne fosse andato... ma poi si ricordò della bambina. «No» ritorse, squadrando le spalle. «Non intendo andarmene, Eilin. È evidente che vivere da sola in questo modo ti ha fatto male e comunque quella bambina ha bisogno di qualcuno che si prenda cura di lei, quindi abituati all'idea della mia presenza qui perché non c'è nulla che tu possa fare al riguardo.» «Davvero?» esclamò lei, voltandosi di scatto... e Forral si accorse troppo tardi che adesso aveva in mano il suo bastone magico. Un istante più tardi il pavimento parve scomparire da sotto i suoi piedi, un rombo violento gli pervase gli orecchi, un caleidoscopio di luci colorate gli vorticò davanti agli occhi e lui sussultò per il dolore quando una sensazione lacerante gli attraversò il corpo per un istante.
Poi si trovò a sbattere con violenza contro il terreno e nell'aprire gli occhi con cautela scoprì di essere disteso su un folto tappeto erboso dalla parte opposta del ponte: fissando le acque tranquille del lago e la torre che sorgeva sull'isola, si concesse per qualche momento di imprecare con sentimento finché la ragazzina non attraversò di corsa il ponte per arrestarsi di colpo davanti a lui. «Allora ti ha buttato fuori» commentò, senza mostrarsi minimamente sorpresa, ma nel sollevarsi a sedere con un gemito Forral notò l'espressione ansiosa del suo volto. «Cosa diavolo è successo?» domandò. «Un incantesimo di dislocazione» spiegò Aurian, mostrandosi orgogliosa di conoscere il termine esatto. «Lei è molto brava nell'eseguirli... è così che ha trasferito il terriccio nella Valle.» «Un incantesimo di dislocazione, vero?» ripeté Forral, accigliandosi e passandosi con fare distratto le dita fra i ricci capelli castani. «Aurian. quanto potrebbe spingermi lontano con quest'incantesimo?» «Non più di quanto ha già fatto, credo» replicò la bambina, scrollando le spalle, «considerato che sei più pesante dei carichi che sposta di solito. Perché?» «Perché è un modo scomodo di viaggiare e voglio essere certo che non mi possa scaraventare fuori della Valle.» «Credo si aspetti che tu percorra a cavallo il resto della distanza» affermò Aurian, con fare tanto serio che Forral scoppiò a ridere. «Scommetto che è così, ma l'aspetta una sorpresa» ribatté. «Aurian, che ne dici di aiutarmi a montare il campo?» «Vuoi dire che rimani?» esclamò la bambina, mentre il volto le si illuminava di una gioia incredula. «Ci vuole più di qualche trucco da mago per buttarmi fuori, ragazzina. È ovvio che intendo rimanere!» Quello fu il pomeriggio più felice della vita di Aurian. Lei e Forral organizzarono il campo in un boschetto di robuste giovani betulle che crescevano sulla sinistra del ponte, e per quanto la bambina fosse preoccupata per quella scelta in quanto riteneva che lo spadaccino sarebbe stato più al sicuro lontano dalla vista di sua madre, Forral si limitò a ridere dei suoi timori. «Invece questo è esattamente quello che voglio, ragazzina» dichiarò. «Ogni volta che guarderà fuori dalle sue finestre Eilin mi vedrà insediato
quaggiù: intendo essere per tua madre una spina nel fianco fino a quando non la smetterà con questo comportamento assurdo.» Mentre lavoravano, Aurian pensò che il campo aveva un aspetto davvero piacevole e desiderò di potervi andare a vivere. Con il suo aiuto Forral tese una corda fra due robusti alberi e prelevò da dietro la sella un rotolo di tela oleata che appese alla corda in modo che entrambi i lati arrivassero fino a terra, distanziandoli quindi il più possibile e appesantendoli con delle pietre fino a formare una rozza tenda. «Ma il vento ci soffierà attraverso» obiettò Aurian. «Ho sopportato cose peggiori» replicò Forral, scrollando le spalle. Quando però Aurian lo avvertì che non poteva usare come combustibile nessun pezzo di legno presente nella valle perché sua madre aveva protetto con incantesimi tutta la vegetazione e prelevava lei stessa la legna da ardere dall'esterno, Forral si mostrò tutt'altro che contento della cosa e la bambina ebbe parecchia difficoltà a convincerlo. Con suo sollievo, comunque, alla fine lui cedette, sia pure con riluttanza. «Per adesso posso anche fare a meno del fuoco» disse, «ma Eilin farà meglio a spicciarsi a rinsavire prima che arrivi l'inverno» brontolò. Quando giunse il tramonto Aurian venne richiamata nella torre da sua madre e naturalmente si trovò di fronte ad una situazione tutt'altro che facile: a labbra strette, guardando fuori della finestra in direzione del campo dello spadaccino, Eilin le proibì di parlargli o di avvicinarglisi, ma la bambina inaspettatamente reagì, perché la presenza di Forral le aveva infuso nuovo coraggio. «Invece parlerò con lui, e tu non me lo potrai impedire!» esclamò. Eilin la fissò con stupore, poi s'incupì in volto per l'ira e provvide a infliggere ad Aurian una punizione corporale per la sua ribellione... con il solo risultato di renderla ancor più determinata. «Ti odio!» singhiozzò la bambina, quando la punizione fu conclusa, «e non m'impedirai di vedere Forral, qualsiasi cosa tu possa farmi!» «Non ci contare» ritorse Eilin, con un bagliore negli occhi. «Lui non rimarrà qui per molto.» «Lo farà! Me lo ha promesso!» «Lo vedremo» replicò soltanto Eilin, in tono cupo. La mattina successiva di buon'ora Aurian sgusciò fuori della torre e attraversò di soppiatto il ponte, portando legata in un fagotto la colazione per Forral, un po' di pane e un pezzo di formaggio ricavato dal latte delle capre che pascolavano vicino al lago. Quando raggiunse il boschetto la bambina
però si arrestò di colpo nel vedere che il campo dello spadaccino era stato fagocitato da un groviglio di viticci cresciuto durante la notte, senza dubbio per opera di sua madre. «Forral!» chiamò con voce frenetica, scrollando i resistenti rampicanti. «Forral!» Dopo un momento dall'interno del boschetto giunse un rumoroso fruscio seguito da una serie di vivaci imprecazioni, poi lo spadaccino si mise all'opera per aprirsi un varco con la spada, lavoro che gli richiese buona parte della mattinata. Quando infine sbucò allo scoperto, sporco e sudato, i viticci cominciarono a collassare su loro stessi per poi ridursi in polvere nell'arco di pochi minuti. «Credo che le cose saranno più difficili di quanto pensassi» commentò, guardando verso Aurian. Il mattino successivo i viticci tornarono a fare la loro comparsa e per combatterli Aurian portò a Forral un'ascia rubata dal ripostiglio di sua madre; il giorno successivo si trattò invece di un boschetto di rovi dalle spine lunghe e aguzze, e Forral suggerì ad Aurian di raccoglierne i frutti prima che si riducessero in polvere insieme al resto, con il risultato che lui e la bambina poterono usarli per fare colazione quando lo spadaccino si fu infine aperto un varco. A poco a poco quell'inconveniente mattutino cominciò così a trasformarsi in una sorta di gioco fra loro due e la solitudine di Aurian si dissolse grazie alla presenza del nuovo amico: in quei pochi giorni lei si trovò a ridere e a sorridere più di quanto avesse mai fatto in tutta la sua vita, e presentò con gioia Forral agli animali che le erano sempre stati compagni: timidi uccelli, schivi daini o feroci gatti selvatici provenienti dalla foresta... tutti accorrevano con gioia da Aurian che si protendeva verso di loro con la propria mente, spiegando a Forral le semplici emozioni che permeavano i loro pensieri. Quando scoprì che lo spadaccino non era in grado di comunicare a sua volta con gli animali la bambina però ne rimase delusa, perché aveva sempre creduto che si trattasse di una cosa possibile per tutti. D'altro canto Forral sapeva fare molte altre cose: era un genio nell'inventare nuovi giochi ed aveva una riserva di storie inesauribili in merito alla sua vita di soldato o relative a principesse, draghi ed eroi, e ben presto divenne l'eroe di Aurian, che sviluppò per lui una vera e propria adorazione. Per evitare ulteriori problemi con Eilin, la bambina non gli raccontò mai di come sua madre l'avesse picchiata e rimase al tempo stesso sollevata di non sentirsi più proibire di vederlo. Invece Eilin pareva preferire di asse-
gnarle lunghi e faticosi lavori in giardino per tenerla occupata, ma lei riusciva a portarli a termine nella metà del tempo necessario grazie all'aiuto di Forral, anche se si guardava bene dal parlarne con sua madre e si accontentava di rubare del cibo per il suo amico ogni volta che lei non poteva vederla. La Maga però non si era arresa. Il quarto giorno la tenda di Forral venne circondata da una foresta di ortiche e quando infine ne emerse lui aveva un aspetto così cupo che nel porgergli delle foglie di acetosa con cui attenuare il prurito indotto dalle ortiche Aurian fu assalita dal timore che infine lo spadaccino decidesse davvero di partire. Mentre si sfregava la faccia e le mani gonfie e irritate con la pianta calmante, Forral fissò però con espressione irosa la torre. «Vedremo chi si arrenderà per primo» borbottò a denti strettì. «Prima o poi dovrà rimanere a corto d'idee.» Le cose continuarono in questo modo mentre l'autunno cedeva lentamente il passo ai primi freddi dell'inverno. Dal momento che la sua specialità era la Magia della Terra, Eilin vi fece ricorso in ogni modo possibile per cercare di sloggiare il suo sgradito ospite: una notte il livello del lago salì misteriosamente fino ad allagare il campo di Forral e un altro pomeriggio nel ritorno da una passeggiata lui ed Aurian scoprirono le capre intente a finire di rosicchiare quel che restava della sua coperta e del suo equipaggiamento; subito dopo Eilin indusse gli uccelli che avevano i loro nidi nel boschetto ad attaccare lo spadaccino, ma Aurian provvide a bloccarli con un aspro rimprovero. Il suo intervento risultò peraltro meno efficace con le formiche, che vennero scagliate all'attacco il giorno successivo e che furono scacciate dalle coperte e dai vestiti di Forral soltanto dopo ore di fatica. Giunse poi una fredda e grigia mattina in cui Aurian, nell'attraversare il ponte di legno con la colazione che aveva rubato per lui insieme ad un fiasco del vino di more di sua madre, sentì un grido angosciato giungere dal campo di Forral. Quando arrivò davanti alla tenda, con il respiro affannoso per aver corso, la bambina non scorse però traccia dello spadaccino e infine si decise a sbirciare con timore dentro la tenda: Forral sedeva eretto sulle coperte, paralizzato per il terrore e ricoperto da centinaia di serpenti che si contorcevano e che erano intrecciati a tal punto gli uni con gli altri da rendere impossibile capire dove uno finisse e cominciasse l'altro. Chiedendosi dove sua madre fosse riuscita a trovare tanti rettili, Aurian provò un impeto di compassione per quelle povere creature in quanto la temperatura
era troppo fredda per loro e questo spiegava perché si fossero ammucchiati sopra l'unica fonte di calore disponibile... il corpo di Forral. D'altro canto lo spadaccino era suo amico e aveva bisogno di aiuto, quindi Aurian sospirò e si protese con la mente verso i serpenti. «Andate via» ingiunse con fermezza, parlando a voce alta a beneficio di Forral, e ad uno ad uno i serpenti si districarono con estrema riluttanza per poi strisciare fuori della tenda. Pallidissimo in volto, Forral si asciugò il sudore dalla fronte con mano tremante, poi afferrò la fiasca di vino che Aurian gli porgeva e la vuotò in un solo fiato mentre la bambina rimuginava sull'accaduto con ira crescente. «Adesso ha esagerato!» esclamò d'un tratto Aurian, inducendo Forral a sollevare lo sguardo con espressione sorpresa. «Come ha osato fare questo a quei poveri serpenti?» «Poveri serpenti?» ripeté lo spadaccino, con voce soffocata. «Moriranno perché per loro fa troppo freddo» spiegò Aurian, in tono impaziente. «Non so proprio come lei abbia avuto un'idea del genere!» «Poveri serpenti?» reiterò Forral, fissandola con espressione incredula. «Non possono rimanere all'aperto» ribatté Aurian, sbirciando fuori della tenda dove i rettili erano in attesa, storditi dal freddo e manifestamente speranzosi di essere riammessi all'interno. «Spero che tu non abbia intenzione di riportarli qui dentro!» Aurian si accigliò, riflettendo intensamente, poi fu assalita da un'idea meravigliosa. «So cosa fare!» esclamò, protendendo di nuovo la propria mente verso i rettili. «Dove stanno andando?» volle sapere Forral, raggiungendola sulla soglia della tenda in tempo per vedere gli ultimi serpenti attraversare il ponte di legno. «Qual è il posto più caldo che puoi trovare qui intorno?» ribatté Aurian, girandosi verso di lui con un ampio sogghigno sul volto. Un lento sorriso apparve sul volto di Forral quando lui infine comprese quale fosse il suo intento. «Sei un vero mostro!» esclamò con una risata, sollevandola da terra e abbracciandola con entusiasmo. I due amici erano impegnati a fare colazione quando infine Eilin scoprì i serpenti nelle sue stanze adibite a serre, e le sue urla d'indignazione echeggiarono fin sulla sponda opposta del lago.
«A quanto pare sono di nuovo nei guai» commentò Aurian, «ma ne è valsa la pena perché se non altro adesso mia madre dovrà rimandare quei poveri rettili là da dove sono venuti.» Eilin però doveva soltanto aspettare l'avvento di un silenzioso alleato. Pochi giorni più tardi Aurian si svegliò tremando nella sua stanzetta adiacente la cucina e scoprì di non poter vedere all'esterno a causa dello spesso strato di brina che rivestiva il vetro. «Forral!» esclamò con un sussulto, poi afferrò le proprie coperte e saettò fuori della stanza senza neppure attardarsi per infilarsi un paio di scarpe: all'esterno ogni cosa era rivestita di un candore scintillante e l'aria risultò tanto fredda da troncarle il respiro in gola mentre attraversava di corsa il ponte. Riuscire a svegliarlo non fu una cosa semplice e richiese parecchio tempo, ma alla fine Forral aprì gli occhi e cominciò a battere i denti, con le labbra bluastre per il freddo. Aiutandolo a sollevarsi a sedere Aurian lo avvolse nelle proprie coperte e gli massaggiò le mani e i piedi, poi incurvò le mani a coppa e si concentrò per creare una sfera di fuoco. «Ti ho detto di non farlo!» esclamò Forral, con voce tanto aspra che lei ne rimase sconvolta e sentì le lacrime che le salivano agli occhi mentre lasciava che la fiamma azzurra le morisse fra le dita. «Volevo soltanto aiutarti» protestò con voce tremante. «Lo so, tesoro, scusami» replicò Forral, cingendole le spalle con un braccio. «Sono soltanto preoccupato, perché se tua madre non cambierà idea... ecco, non posso certo sopravvivere tutto l'inverno senza cibo caldo e senza un fuoco, mangiando soltanto pane, miele e formaggio. Te ne rendi conto anche tu, vero? Se continua così potrei essere costretto ad andare via.» Incapace di tollerare l'idea Aurian gli si gettò fra le braccia e scoppiò in singhiozzi. «Portami con te!» gemette. «Non posso, ragazzina» sospirò Forral. «Il tuo posto è con tua madre e ci sono delle leggi che proibiscono di rubare i bambini... non vorrai certo che finisca in prigione, vero?» «Allora fuggirò! Non intendo restare qui senza di te!» «Non lo fare!» si affrettò ad esortarla lo spadaccino, stringendola maggiormente fra le braccia. «Ti potrebbe succedere qualsiasi cosa! Aspettiamo ancora qualche giorno, d'accordo? Magari le cose cambieranno.» Con sollievo di Aurian, nei giorni che seguirono le ondate di gelo si ri-
velarono meno violente. Lei aveva lasciato tutte le proprie coperte a Forral, sostenendo di averne delle altre e placando la propria coscienza di fronte a quella menzogna ripetendo a se stessa che lo stava facendo per lui: tremare ogni notte nel suo letto era un misero sacrificio se serviva a far sì che Forral rimanesse, e cedergli le sue coperte era la sola cosa che potesse fare, a parte tormentare di continuo sua madre con il solo risultato di destare la sua ira. Poi giunse l'inverno vero e proprio, ed Aurian cominciò a disperare. Una notte infine arrivò la prima nevicata: quando Aurian guardò fuori della finestra, all'ora di cena, il paesaggio era già del tutto nascosto da una bufera di neve e lei non riuscì a mangiare la sua porzione di stufato perché era oppressa dalla consapevolezza che Forral era là fuori a congelare, senza una cena calda che lo ristorasse. Quasi isterica per il timore nei suoi confronti tentò ancora una volta di implorare sua madre a cedere, e alla fine l'esasperata Eilin la rinchiuse nella sua stanza, dove Aurian continuò a picchiare contro la porta e ad urlare fino a farsi sanguinare le mani e ad arrochirsi la voce. Spossata, si gettò infine sul letto e pianse fino ad addormentarsi. Quando si svegliò era ancora notte. La gola le doleva per il troppo urlare, gli occhi erano impastati e il sangue sulle mani si era seccato. Chiedendosi per quanto tempo avesse dormito, si appoggiò al davanzale per guardare fuori e scoprì che la bufera si era intensificata e che adesso non si riusciva a scorgere altro che cortine di neve. Con un singhiozzo soffocato, pensò allora che Forral sarebbe morto congelato e lei sarebbe rimasta lì con sua madre, la donna crudele che lo aveva ucciso... una sorte che non intendeva tollerare e a cui avrebbe preferito poter morire a sua volta, perché almeno sarebbe rimasta con Forral. L'idea la spaventava, ma quanto più ci meditava sopra tanto più le appariva sensata, considerato che sua madre non avrebbe certo sentito la sua mancanza, e alla fine prese la sua decisione: sarebbe andata da Forral, in modo che potessero morire insieme. Il chiavistello della finestra risultò però bloccato dal gelo e rifiutò di cedere anche quando lei lo colpì con una scarpa, borbottando le imprecazioni preferite di Forral. Dopo qualche tempo rifletté però che se stava per morire quella stanza non le sarebbe più servita, quindi prese uno sgabello e lo scagliò attraverso la finestra, provocando un'apertura da cui entrò subito una folata di vento gelido che portò con sé una gran quantità di neve e una scheggia di vetro che le ferì la fronte. Asciugandosi il sangue che le colava negli occhi e pregando che il rumore della tempesta avesse impedito a sua
madre di sentire il frastuono della finestra che andava in pezzi, Aurian stese il proprio cuscino sugli aguzzi frammenti di vetro che costellavano il fondo dell'apertura da lei ottenuta e strisciò all'esterno. La neve aveva formato sotto la finestra un mucchio così alto che vi sprofondò quasi completamente con un sussulto dovuto al freddo intenso. Non appena ne emerse fu investita dal vento carico di fiocchi gelati che la sferzò violentemente, ma al tempo stesso scoprì che lo strato di neve presente sul terreno era adesso meno profondo e le permetteva di avanzare lentamente, sia pure con una certa difficoltà a causa dei piedi già intorpiditi dal freddo. Scivolando e cadendo di continuo si diresse verso il ponte, chinandosi in avanti per resistere alla bufera che stava cancellando alle sue spalle tutte le tracce da lei lasciate. Dopo qualche tempo si arrestò incerta, chiedendosi dove fosse il boschetto, considerato che avrebbe già dovuto raggiungerlo da tempo perché era certa di essere andata nella direzione giusta, anche se la neve vorticante le rendeva impossibile guardarsi intorno. Ci sto mettendo così tanto perché sono stanca dopo aver attraversato il ponte, si disse, rabbrividendo al ricordo di come era stata costretta a scivolare centimetro per centimetro lungo il sottile e scivoloso ponte di legno, tenendosi aggrappata alla ringhiera ghiacciata con mani intorpidite dal freddo e temendo di continuo che il vento potesse gettarla nel lago. Adesso riusciva a stento a costringere il suo corpo gelato a muoversi e non riusciva più ad avvertire le mani e i piedi, cosa che destò in lei un timore improvviso perché dopo tutto non era certa di voler morire, anche se desiderava terribilmente raggiungere Forral. «Non essere stupida» si rimproverò, sentendo una lacrima che le gelava sul volto. «Quanto prima ti rimetterai in cammino tanto prima lo troverai.» Facendosi coraggio si avviò nuovamente nel buio. Il freddo era così intenso che Forral aveva smesso di tremare, il che costituiva un sintomo tutt'altro che rassicurante, La tempesta aveva soffiato via il suo riparo, ma lui era riuscito ad afferrare la tela cerata appena in tempo e si era raggomitolato sottovento di un albero con il telo avvolto intorno alla persona, prendendo in considerazione l'idea di fare irruzione nella torre pur sapendo che sarebbe stato inutile perché Eilin si sarebbe limitata a buttarlo nuovamente fuori: dal momento che lei non aveva ancora ceduto, forse era giunto il momento di affrontare il fatto che quella era una battaglia senza speranza di vittoria.
«Forral. sei uno stupido!» borbottò. «Questo è un modo davvero idiota di morire!» A tratti si sentiva assalire da ondate di sonno, e sapeva che se avesse ceduto ad esso per lui sarebbe stata la fine, ma suo malgrado continuava a resistere ad esse perché il pensiero di Aurian e il rimpianto di non averle potuto dire addio continuavano a tormentarlo. «Devo dire addio ad Aurian» farfugliò, passando un braccio intorno ad un ramo basso dell'albero e issandosi faticosamente in piedi... poi d'un tratto scorse un tenue scintillio spettrale che tremolava fra i vortici di neve: qualcuno munito di lanterna stava venendo verso di lui. Quando la figura fu più vicina riconobbe la sagoma snella di Eilin, con i capelli inzuppati di neve e trasformati in filamenti simili a serpenti dal vento che le spingeva indietro il mantello e le appiattiva contro il corpo ossuto la veste marrone ricoperta da un bianco velo di neve. Il tremolio che lui aveva scambiato per quello di una lanterna era prodotto da una pallida e fredda sfera di Luce Magica che si librava sopra il bastone della Maga ed emanava una luce fra il bianco e l'azzurro. «Se n'è andata, Forral... Aurian è scomparsa!» esclamò Eilin, in tono angosciato, scrollandolo per un braccio, ma Forral si limitò a fissarla con espressione vacua perché il suo cervello intorpidito dal gelo non riusciva a mettere a fuoco il senso delle sue parole. Imprecando, Eilin frugò sotto il mantello e tirò fuori una piccola fiasca che stappò e accostò alle labbra dello spadaccino, costringendolo a bere: il liquore tracciò una scia di fuoco lungo la gola di Forral, costringendolo ad annaspare per respirare, ma al tempo stesso si rivelò un rimedio efficace perché entro pochi minuti lui avvertì gli arti che cominciavano a recuperare sensibilità e a formicolare dolorosamente, e sentì la mente che gli si snebbiava con altrettanta rapidità. «Cos'hai detto?» domandò. «Dov'è Aurian?» «Ti ho detto che se n'è andata. L'avevo rinchiusa nella sua camera ma lei ha infranto la finestra. Adesso c'è sangue dappertutto e lei è fuori nella tempesta e...» «È colpa tua!» esclamò Forral, assestandole uno schiaffo per troncare l'insorgere di quella crisi isterica e traendo una certa cupa soddisfazione nel sentirla sussultare di dolore. A fatica soffocò quindi l'impulso di strozzarla, consapevole che dovevano per prima cosa ritrovare la bambina. «Vieni con me!» gridò quindi, lanciandosi nella bufera e lasciando Eilin ad annaspare alle proprie spalle. Il buon senso gli stava dicendo che non sa-
rebbe mai riuscito a rintracciare Aurian in mezzo a quella tempesta di neve, che era ormai troppo tardi, ma lui allontanò selvaggiamente quel pensiero dalla mente perché contemplare una simile eventualità gli riusciva troppo doloroso. «Forral... aspetta!» esclamò Eilin, ma lo spadaccino non le prestò attenzione e per quanto si sforzasse lei non riuscì a mantenere il suo passo, con il risultato che di lì a poco la sua figura scomparve senza traccia nella tempesta. «Razza di stolto!» imprecò la maga. «Idiota di un Mortale impulsivo! Adesso vi siete persi entrambi nella bufera!» Per un momento rimase poi immobile, dimentica della tormenta che le infuriava intorno e paralizzata da un senso di colpa dovuto alla consapevolezza che Geraint si sarebbe infuriato se avesse visto in che modo lei aveva messo in pericolo la vita di sua figlia e del suo amico! Forral aveva avuto ragione nell'asserire che era tutta colpa sua, perché se soltanto lei avesse permesso allo spadaccino di alloggiare nella torre con Aurian questa tragedia non si sarebbe mai verificata. Ritrovando a fatica il controllo, cercò quindi di decidere cosa fare: per quanto riguardava Aurian, lei aveva già avvertito quelli fra i suoi amici animali che erano in grado di sopportare il gelo della tempesta mentre erano impegnati a cercarla, ma Forral non sarebbe mai riuscito a comprendere una guida del genere. Per lui avrebbe dovuto quindi trovare una soluzione diversa... ma pur sapendo come evocare una guida più sicura era esitante a farlo perché il rischio che ciò implicava era enorme. I Mortali avevano da tempo cessato di credere nei Phaerie e soltanto i Maghi conoscevano la verità che si celava dietro le storie relative a quell'antica razza che deteneva il potere della Magia Antica, in quanto erano stati proprio i Maghi del passato ad esiliare dal mondo i Phaerie per timore dei loro scherzi e delle loro interferenze. imprigionandoli in un misterioso Altrove al di là della conoscenza dei Mortali. Adesso i Phaerie non potevano tornare nel mondo a meno che fossero stati convocati da un Mago... e sebbene una convocazione del genere prevedesse un prezzo da pagare adesso in essa risiedeva la sua sola speranza di salvare lo spadaccino e sua figlia. Serrando il bastone con mano tremante, Eilin pronunciò le parole che avrebbero evocato il Signore dei Phaerie. Forral stava avanzando con passo barcollante fra i mucchi di neve, lottando contro il freddo e lo sfinimento ed avendo al tempo stesso l'impressione di essere intrappolato in un incubo. Gli effetti della pozione sommi-
nistratagli da Eilin si stavano attenuando e lui si sentiva gli arti dolenti e rigidi per il freddo, con il risultato che ogni volta che scivolava e crollava al suolo rialzarsi gli riusciva sempre più difficile. Per quanto si sentisse esausto e sperduto, era però deciso a non arrendersi. «Che sorta di miserabile parodia di guerriero sei?» inveì contro se stesso, per dissipare il terrore che gli serrava il petto in una morsa molto più fredda di quella della bufera. «Aurian ha bisogno di te! Per gli dèi, se questa è la fine morirai in piedi e ancora impegnato a cercarla!» Per qualche tempo il suo girovagare lo aveva portato fuori dei boschi ma adesso era di nuovo in mezzo alla vegetazione e stava avanzando fra gli alberi con un passo da ubriaco, su gambe che rifiutavano sempre più di sorreggerlo, aiutato dal fatto che qui le piante attutivano in parte la violenza del vento e lui poteva usare i loro rami come puntelli. D'un tratto scorse una luce tremolante che danzava in lontananza fra i tronchi e dentro di sé rese grazie agli dèi, certo che essa dovesse indicare la presenza di Eilin più avanti rispetto a lui. «Eilin!» gridò, con tutta la forza di cui disponevano i suoi polmoni affaticati, imprecando al tempo stesso contro quella stupida donna che non riusciva a sentirlo. «Eilin!» Lei però non accennò ad arrestarsi e Forral fu costretto a seguire quello spettrale bagliore, pungolato dal timore di perderlo di vista; poi di colpo si venne a trovare fuori dagli alberi e più avanti scorse due luci tremolanti che scintillavano una accanto all'altra fra le cortine di neve. «Forral!» chiamò la voce della Maga, e nell'avanzare verso di lei lo spadaccino scivolò, crollando al suolo ancora una volta. Quando si rialzò faticosamente trovò Eilin china su di lui e vide che in qualche modo le due luci erano divenute una sola. «Sia resa grazie agli dèi» borbottò, non appena un sorso bevuto dalla fiasca di Eilin cominciò a farlo sentire meglio. «Poco fa mi è parso di vederci doppio. Hai trovato Aurian?» «No... ma so che è vicina. Puoi proseguire?» domandò la Maga, ottenendo un cenno di assenso. «Aurian!» chiamò quindi Forral, spinto dalla disperazione, cercando di sovrastare con la propria voce l'ululato della tormenta. Un momento... quel suono non era prodotto dal vento ma era piuttosto l'agghiacciante ululato di trionfo di un lupo, portato fino a loro dalla bufera. «No!» sussurrò, arrestandosi di colpo, con il volto contorto dall'orrore. «L'hanno trovata!» gridò invece Eilin. illuminandosi per la gioia e tiran-
dolo per un braccio. Forral si ritrasse con un sussulto di disgusto, chiedendosi se quella donna era davvero pazza e se poteva odiare la bambina fino a quel punto. Nauseato oltre ogni dire, sollevò il pugno con l'intento di colpirla. «Forral, no!» stridette Eilin. «Quelli sono i lupi di Aurian... i suoi amici! Li ho chiamati io perché la cercassero!» Sconcertato, Forral riabbassò il braccio, mentre in lontananza il lupo riprendeva ad ululare. «Presto!» lo incitò Eilin. Tenendo d'occhio con cautela le grosse sagome grigie che lo circondavano Forral sollevò dalla neve il corpicino inerte, cercando il battito del cuore con dita ghiacciate. «È viva!» esclamò, ricacciando indietro a fatica lacrime di sollievo per le quali ci sarebbe stato tempo in seguito. «Dobbiamo fare in fretta: sei in grado di trovare la via del ritorno?» «Posso sempre trovare la via per tornare a casa» ribatté la Maga, incamminandosi faticosamente al suo fianco con la sua Luce Magica, seguita dalla dozzina di snelli lupi irsuti che avevano trovato raggomitolati addosso alla bambina per tenerla in vita con il calore del loro corpo e che adesso non distoglievano per un istante lo sguardo dalla sua sagoma immobile. Quando Forral raggiunse la torre i lupi si ostinarono ad entrare a loro volta, e senza essere d'intralcio rimasero a guardare intanto che lui ed Eilin spogliavano Aurian dei suoi abiti fradici e l'adagiavano su un letto di fortuna accanto alla stufa, avvolgendola in ogni trapunta e coperta che riuscirono a trovare; mentre Eilin metteva dell'acqua a bollire Forral sedette poi accanto alla bambina, allontanandole con dita tremanti i riccioli rossi dal volto bluastro. «Non puoi fare qualcosa?» chiese d'un tratto, in tono tagliente. «Lo sto facendo!» ritorse Eilin, sbattendo la pentola sul piano della stufa con tanta violenza che un po' d'acqua si riversò sibilando sulla sua superficie rovente... poi si nascose il volto fra le mani e scoppiò in pianto. «Adesso è troppo tardi per questo» dichiarò brutalmente Forral. «Non appena Aurian starà bene... sempre che si rimetta... ho intenzione di portarla via di qui, indipendentemente dal fatto che a te piaccia o meno.» «No!» esclamò Eilin, abbassando le mani per fissarlo. «Non puoi farlo! Lo proibisco! Aurian è mia figlia!» «E questo cosa significa, dal momento che la sola cosa che sai fare è tra-
scurarla? Questa bambina ha bisogno di amore, Eilin!» «Io le voglio bene, idiota!» «Non ti credo, Eilin» dichiarò lo spadaccino, scuotendo il capo. «Se gliene volessi, lo dimostreresti.» «Cosa ne puoi sapere tu di questo?» ritorse la Maga, ferita dalle sue parole, ripensando al suo incontro con il maestoso Signore dei Phaerie, che aveva acconsentito a trovare Forral e a guidarla da sua figlia... in cambio di un prezzo ben preciso. «Ricorda che questa faccenda è in sospeso fra noi, signora» aveva affermato il Signore dei Phaerie. «C'incontreremo ancora... e quando lo faremo richiederò il pagamento del tuo debito.» Eilin tremava al pensiero di ciò che avrebbe potuto esserle richiesto, ma ne sarebbe valsa la pena perché i Phaerie le avevano impedito di causare la morte di Aurian con la propria follia. Credi quello che vuoi, Forral, pensò fra sé, ma ci sono molti modi di amare... e molti modi per dimostrarlo. Sotto lo sguardo dello spadaccino procedette quindi a preparare con mani tremanti un infuso stimolante a base delle erbe, delle bacche e dei fiori secchi che pendevano a mazzi dal soffitto della cucina, e una volta che le ebbero fatto scivolare in gola un po' di quella bevanda, Aurian cominciò a respirare con maggiore facilità e a ritrovare un po' di colorito. Accanto a lei Forral trasse un profondo respiro e si rese conto infine di essere a sua volta fradicio e gelato. «Un po' di quella tisana potrebbe fare comodo anche a noi» suggerì. Eilin riempì due boccali e gli sedette accanto, porgendogliene uno, poi rimase per qualche tempo a fissare in silenzio la bambina addormentata prima di decidersi infine a parlare. «Ti devo delle scuse, Forral. Sono stata una pazza egoista» affermò. «Una completa idiota» convenne in tono gentile lo spadaccino, poi le prese la mano e aggiunse: «Per te è stato un periodo terribile, vero?» «Non ne hai idea» ammise lei, scuotendo il capo. «Lo avevo avvertito, sai... lo avevo implorato di non farlo. Io sono una Maga della Terra e sapevo che stava per compiere una follia, ma Geraint è sempre stato cocciuto...» «Una caratteristica tutt'altro che insolita fra i Maghi, non credi?» commentò Forral. «Come osi giudicarmi, Mortale?» esplose Eilin. con un sussulto da cui lui dedusse di averla punta sul vivo. «In seguito ci sono state persone che
hanno cercato di vendicarsi» proseguì, continuando a fissarlo con occhi roventi. «Sai, qui vivevano dei Mortali prima che...» Interrompendosi con un brivido sospirò e aggiunse: «Aurian ed io eravamo a Nexis... lei era molto piccola... e la gente era così infuriata che siamo riuscite a stento a salvarci. Io volevo cancellare il danno creato da Geraint, cancellare il suo ricordo, ma nel crescere Aurian è diventata sempre più simile a lui... quando sarà più grande finirà per ereditare perfino il suo profilo aquilino e già adesso se è arrabbiata i suoi occhi da verdi diventano grigi, proprio come facevano quelli di suo padre. Non posso guardarla senza vedere il suo volto... Oh, dèi, Forral, io lo odio!» «Credi di odiarlo soltanto perché ti ha lasciata» replicò Forral, in tono sommesso, «ma in realtà lo ami ancora, Eilin.» «Se mi avesse amata pensi che mi avrebbe abbandonata in questo modo? Mi manca terribilmente!» esclamò la Maga, con voce incrinata. «Allora piangi la sua morte. È ora che tu lo faccia» ribatté Forral, tenendola stretta a sé mentre lei scoppiava in pianto. «Sai» aggiunse, quando infine Eilin si fu calmata, «Geraint non se n'è andato completamente, ha lasciato qui una parte di sé.» E indicò la bambina addormentata. «Ne sono consapevole!» scattò Eilin. «Ed è proprio questo il problema, vero? Non te la prendere con lei, Eilin, perché non ha nessuna colpa.» «Quando sei arrivato mi hai fatto sentire così colpevole» ammise la Maga, con un sospiro, «ed è stato per questo che mi volevo liberare di te. Tu, un semplice Mortale, mi stavi costringendo a rendermi conto di com'ero venuta meno a mia figlia! Ma cosa posso fare se...» Interrompendosi trasse un profondo respiro, poi proseguì: «Forral, vorresti rimanere qui e prenderti cura di lei? Aurian ti vuole bene, e merita più di quanto io le possa dare.» «Anch'io le voglio bene. È ovvio che resterò... questa era l'idea di base fin dal principio, ricordi? È solo che ci è voluto parecchio tempo perché entrasse in quella tua cocciuta testa di Maga. Peraltro questo non ti assolve dalle tue responsabilità, Eilin: sei pur sempre sua madre e mi aspetto che tu faccia uno sforzo per comportarti come tale.» «Ci proverò, Forral, lo prometto» annuì Eilin, poi balzò in piedi aggiungendo: «Forse è meglio che prepari un po' di brodo per quando Aurian si sveglierà, dal momento che non ha cenato...» «Vedi quanto è facile prendersi cura di qualcuno, Eilin?» osservò Forral, rivolgendole un sorriso d'incoraggiamento. «Basta tentare.»
In un primo tempo Aurian credette di sognare. Aveva fatto un terribile incubo in cui era persa in mezzo alla neve... poi erano arrivati i suoi lupi... e adesso Forral era seduto in cucina accanto a sua madre, che sorrideva come lei non le aveva mai visto fare. «Come ti senti, tesoro?» domandò Forral, con un sorriso gioioso sul volto. «Forral?» chiamò lei, con voce rauca e appena udibile. «Va tutto bene... sono qui. Adesso bevi un po' di questo» la incoraggiò lo spadaccino, passandole un braccio intorno alle spalle e sollevandola per accostarle alle labbra una tazza di brodo caldo. «Va meglio?» chiese quindi. «Ho male dappertutto ed ho freddo.» «Non ne sono sorpreso. Sei stata sciocca a fuggire in quel modo in mezzo alla neve!» la rimproverò Forral con voce brusca. «Mi dispiace» replicò Aurian, scoccando un'occhiata nervosa in direzione di sua madre, «ma è stata un'emergenza.» «Dove ho già sentito questa scusa?» sorrise Forral. «Adesso ho una notizia per te, ragazzina: d'ora in poi sarò io a tenerti d'occhio, quindi è meglio che cominci a comportarti come si deve.» Aurian sgranò lentamente gli occhi e spostò lo sguardo su Eilin. «È vero?» sussurrò. «Ho chiesto a Forral di rimanere» annuì lei, «perché si potrà prendere cura di te meglio di come abbia fatto io.» «Oh, grazie!» esclamò Aurian, raggiante, protendendosi ad abbracciare sua madre, che s'immobilizzò per un istante con espressione sorpresa e infine ricambiò il suo abbraccio. Accanto a loro, Forral sorrise. CAPITOLO SECONDO LO SPADACCINO Forral non supponeva neppure lontanamente che prendersi cura di una bambina si sarebbe rivelato un lavoro decisamente faticoso. Quella sera si insediò nella dispensa adiacente la cucina e trascorse allegramente i due o tre giorni successivi impegnato con l'aiuto di Aurian a ricavare uno spazio per sé in mezzo all'assortimento di attrezzi, di sementi, di sacchi di grano e di verdure, di rotonde forme di formaggio, di botti di mele secche e di ba-
rattoli di miele e di conserva di frutta che Eilin aveva preparato in previsione dell'inverno. L'alloggio che ne risultò era piuttosto angusto e spartano ma sufficiente per le esigenze di un soldato, e Forral non trovò da obiettare a dormire in una stanza pervasa dall'aroma misto di tanti buoni alimenti. In quei giorni lo spadaccino trovò anche il tempo per chiudere con alcune assi la finestra rotta nella stanza di Aurian, in attesa che potesse essere riparata adeguatamente, e quando la bambina si lamentò che così la stanza sarebbe stata troppo buia interruppe il lavoro per fissarla con aria severa. «È colpa tua. Sei stata tu a romperla, ricordi?» ribatté, lasciando Aurian a fissarlo a bocca aperta. Da quel momento gli scontri di volontà fra loro due divennero un avvenimento quasi quotidiano perché Aurian era stata lasciata libera di crescere in modo selvatico per tutta la vita e Forral era consapevole che adesso era necessario imporle una certa disciplina per il suo stesso bene, per quanto questo gli facesse dolere il cuore, Il loro primo scontro ebbe luogo in merito al problema di lavarsi, perché Aurian rifiutò seccamente di fare il bagno, dichiarando che si bagnava già d'estate nel lago e che questo era sufficiente. «Benissimo» ribatté Forral, consegnandole un asciugamano ed un pezzo di sapone. «Allora va' a lavarti nel lago.» Con occhi dilatati per l'incredulità Aurian guardò fuori della finestra, fissando lo spesso strato di neve che copriva il terreno e le acque scure e profonde bordate da uno strato di ghiaccio. «Ma...» accennò a protestare. «Avanti, muoviti. Puzzi a tal punto che stai appestando la stanza» l'interruppe con estrema insensibilità Forral. Per un momento Aurian esitò, con il labbro inferiore percorso da un lieve tremito, poi la cocciutaggine propria dei Maghi ebbe la meglio e lei serrò la mascella, assumendo un'espressione accigliata. «D'accordo!» ribatté in tono secco, ed uscì a grandi passi sbattendosi la porta alle spalle. Quella piccola ostinata era decisa a chiamare il suo bluff! Inorridito, Forral la seguì di corsa perché il lago intorno all'isola era profondo e con un clima tanto freddo lui non se la sentiva di prestare fede al vecchio detto secondo cui era impossibile annegare un Mago. Arrivato in fondo al giardino in tempo per vedere Aurian gettarsi nell'acqua gelida, scattò in avanti con un'imprecazione e l'afferrò per i capelli prima che potesse allontanarsi
dalla riva: quando la tirò fuori di peso dall'acqua la bambina era già bluastra per il freddo, quindi l'avvolse nel proprio mantello e la riportò nella torre, scaricandola direttamente dentro la tinozza piena d'acqua fumante che aveva già preparato davanti alla stufa. «Ecco fatto» commentò, quando lei ebbe smesso di tremare grazie all'acqua calda. «Non trovi che sia meglio del lago?» Aurian si limitò a fissarlo con occhi roventi. «Se non ti piace, ti posso sempre riportare là fuori» suggerì allora Forral, e dopo un momento la bambina abbassò lo sguardo. «Forse non è poi così male» ammise, e infine Forral le consegnò con un sorriso la piccola barca di legno che aveva fabbricato per lei perché potesse giocarci nell'acqua. Per fortuna, una volta che si fu abituata all'idea Aurian si appassionò talmente ai bagni caldi che divenne un problema convincerla ad uscirne, mentre persuaderla a pettinarsi i capelli risultò un'impresa assai più difficile perché i suoi lunghi e folti riccioli rossi erano aggrovigliati in un ammasso di nodi formatisi nel corso di anni. La prima volta Forral impiegò un'interminabile e terribile ora a districare quell'intrico tenendo al tempo stesso ferma la bambina che strideva e si dibatteva, e alla fine gettò a terra il pettine con un senso di colpa, stringendo fra le braccia la ragazzina singhiozzante e pensando che avrebbe preferito combattere contro una dozzina di guerrieri piuttosto che pettinarla ancora. «Mi hai fatto male!» lo accusò Aurian. «Mi dispiace, tesoro, so che l'ho fatto, ma è stato soltanto perché nessuno ti pettinava ormai da tempo. Quando lo farai ogni giorno...» «Preferirei morire!» «È un vero peccato» sospirò Forral, «perché adesso sei davvero bellissima.» «Io? Bellissima? Come la principessa della tua storia?» chiese Aurian, sollevando la testa di scatto. Forral la fissò in volto, notando che la rotondità infantile stava già scomparendo e che Eilin aveva avuto ragione nel sostenere che la bambina avrebbe ereditato i lineamenti di suo padre, con gli stessi zigomi alti e angolosi e lo stesso naso aquilino. «Sei la ragazza più bella che io abbia mai visto» disse in tutta sincerità, «e sarebbe una vergogna se un bel principe passasse di qui e ti respingesse perché non ti sei pettinata i capelli.» «Non voglio uno stupido principe» dichiarò con fermezza Aurian. «Io
ho intenzione di sposare te.» Lo spadaccino rimase per un momento interdetto di fronte a questa complicazione imprevista. «Non credi che io sia un po' troppo vecchio per te?» obiettò quindi, con un certo imbarazzo. «Quanti anni hai?» «Trenta.» «Allora non sei vecchio» dichiarò Aurian, scrollando le spalle. «Mi hai detto tu stesso che mio padre aveva novantasei anni quando ha sposato mia madre.» Forral non seppe cosa rispondere, perché la bambina era ancora troppo giovane per comprendere le fondamentali differenze fra i Maghi e i Mortali. «Non mi vuoi sposare?» insistette intanto Aurian, con espressione addolorata. «Hai appena detto che sono bellissima.» «Lo sei» le garantì Forral, «e sarei felice di sposarti, però non sei ancora abbastanza grande. Ne riparleremo quando sarai cresciuta.» «Lo prometti?» «Lo prometto» garantì Forral, e pur detestandosi per questo aggiunse: «Ma a patto che ti pettini i capelli. Non posso sposare una ragazza che sembra una siepe di rovi.» «Oh, allora va bene» si arrese Aurian, con un sospiro. Con sollievo dello spadaccino Eilin insegnò poi a sua figlia a intrecciare la sua massa ribelle di capelli, risolvendo così il problema della maggior parte dei nodi, ed Aurian cominciò a trovare piacevole prendersi cura della sua capigliatura, anche se ogni tanto scoccava in direzione di Forral delle occhiate pensose che destavano in lui un senso di allarme, in quanto sapeva bene quanto lei potesse essere cocciuta una volta che si metteva un'idea in testa. Quando lo spadaccino aveva avuto la stessa età di Aurian, Geraint gli aveva insegnato a leggere e soltanto adesso che stava cercando di fare la stessa cosa con la bambina lui si rese conto di quanto quest'impresa dovesse aver messo a dura prova la pazienza del Mago. Eilin riuscì a scovare i vecchi libri che erano appartenuti a Geraint e fra essi Forral cercò di selezionarne alcuni che potessero interessare un bambino, per lo più vecchie storie piene di avventure e di gesti di coraggio che risultarono essere gli stessi su cui lui aveva imparato a leggere e la cui vista ebbe l'effetto di riacutizzare il suo dolore per la morte dell'amico, inducendolo a ricordare Ge-
raint chinò su quelle pagine mentre si sforzava di spiegare il mistero in esse contenuto al bambino che Forral era stato a quel tempo. Aurian detestò immediatamente la lettura perché non era abituata a restare seduta e a concentrarsi e considerava l'intera faccenda come una perdita di tempo. Di conseguenza, prese l'abitudine di nascondersi quando arrivava il momento delle lezioni e più di una volta Forral benedisse la propria abilità di cercatore di tracce che gli permetteva di rintracciarla e di trascinarla di nuovo nella torre mentre lei protestava per tutta la strada e si dibatteva con tanta energia da indurlo a temere che il rapporto esistente fra loro potesse esserne irrevocabilmente danneggiato. Alla fine lo spadaccino decise di ricorrere ad un sotterfugio e finse di arrendersi. «D'accordo» dichiarò con una scrollata di spalle. «Se per te è troppo difficile lasciamo perdere.» Aurian reagì fissandolo con espressione sospettosa e accigliata perché ormai sapeva che alla fine Forral riusciva sempre ad averla vinta, ma lui pretese di aver rinunciato davvero e si preparò un po' del tè di rose di Eilin che costituiva un perfetto antidoto contro il clima autunnale; aggiunta alla tazza di tè una dose di miele si sedette quindi con i piedi appoggiati alla stufa, aprì un libro di leggende e si mise a leggere. Dopo un po' Aurian cominciò a gironzolare per la stanza alla ricerca di qualcosa da fare perché il clima era troppo rigido per uscire all'aperto dove stava infuriando un'altra bufera e il vento era tanto violento da scuotere la struttura di cristallo della torre. Per tutto il tempo Forral continuò a seguire i suoi movimenti con la coda dell'occhio, e infine la vide venire verso di lui. «Non possiamo giocare a qualcosa?» suggerì Aurian. «Non ora» le rispose, in tono distratto. «Sono occupato.» La bambina assunse un'aria avvilita e gironzolò ancora un poco, strisciando i piedi con fare svogliato. «Forral, mi annoio» piagnucolò infine. «Io no» ribatté lo spadaccino, in tono compiaciuto. «Questa stona è molto interessante.» «Non ti credo!» gridò Aurian, battendo per terra un piede. «Lo dici soltanto per indurmi a leggere quella stupida cosa!» Forral sussultò, pensando che quella bambina era troppo intelligente per il suo stesso bene, poi rifletté in fretta ed assunse un'espressione offesa. «Pensi che ti mentirei? Se non mi credi te la leggerò io.»
Con aria sollevata Aurian sedette ai suoi piedi per ascoltare, e la storia risultò in effetti molto interessante, in quanto era stato per questo che Forral l'aveva scelta. Mentre leggeva lui continuò a scrutare di sottecchi l'espressione rapita della bambina, e quando arrivò al punto culminante della vicenda, in cui la giovane e coraggiosa eroina era intrappolata su una montagna da un'orda di orchetti e di troll, mise improvvisamente giù il libro e sbadigliò. «Non ti fermare» lo incitò ansiosamente Aurian, mordendosi un labbro. «Adesso cosa succede?» «Non ho più voglia di leggere e credo che andrò a fare un sonnellino» replicò Forral, scrollando le spalle, poi posò il libro sulla sedia e si ritirò nella sua stanza, chiudendone con decisione la porta nonostante le indignate proteste della bambina. Quando tornò, un'ora più tardi, trovò Aurian concentrata sul libro con gli occhi colmi di lacrime di frustrazione. «Non ha senso» gemette la bambina. «Sono soltanto piccoli segni neri, e adesso non saprò mai cosa è successo!» «È esattamente quello che ho detto a tuo padre quando lui ha usato questo libro per insegnarmi a leggere» replicò Forral, passandole un braccio intorno alle spalle. «Davvero?» esclamò Aurian, sgranando gli occhi. «Cosa ti ha detto?» «Ha detto» replicò Forral, sorridendo dell'espressione sorpresa del suo volto, «che se volevo scoprire come finiva la storia avrei dovuto lavorare duramente e permettergli di insegnarmi a leggere.» «Mi hai ingannata!» gridò Aurian, rabbuiandosi in volto. «Sei un furfante infido e mentitore!» Poi scagliò il libro contro una parete e fuggì di corsa nella sua stanza, sbattendosi la porta alle spalle, e per due giorni mantenne un atteggiamento incupito, rifiutandosi di rivolgere la parola allo spadaccino. Eilin mostrò di aver notato quel cambiamento ma evitò di fare commenti, e dal canto suo Forral si accorse di avvertire la mancanza dell'allegra compagnia di Aurian più di quanto avrebbe creduto possibile e cominciò ad autoaccusarsi di aver sottoposto la bambina ad una pressione eccessiva. «Mi dispiace» si scusò infine, non riuscendo più a tollerare il suo iroso silenzio. «Hai assolutamente ragione nel dire che sono stato infido e mentitore e ti chiedo perdono. Se vuoi ti leggerò il resto della storia.» «Ti voglio bene, Forral!» esclamò Aurian, gettandogli le braccia al collo con il volto illuminato da un sorriso.
«Anch'io ti voglio bene» rispose lui con voce rauca, sentendosi un nodo in gola. «Perché non vai a prendere quel libro?» «Tu vuoi davvero che io impari a leggere, non è così?» osservò Aurian, ritraendosi per fissarlo con espressione pensosa. «Per me significa molto, Aurian» annuì lui. «Non puoi neppure immaginare quanto sia importante.» «Allora suppongo che faremo meglio a cominciare» sospirò la bambina, assumendo l'atteggiamento di un prigioniero in procinto di essere trascinato sulla forca. Afferrare i rudimenti della lettura le richiese un tempo molto lungo, ma Forral ebbe il sospetto che questo fosse dovuto più che altro ad una sua mancanza di abilità come insegnante, in quanto Aurian possedeva un'intelligenza decisamente vivace; di conseguenza cercò di sopperire a quella sua carenza con la pazienza e badò che le lezioni fossero brevi e s'interrompessero prima che Aurian si facesse troppo stanca o annoiata, procedendo poi a leggerle qualcosa nella speranza che questo la invogliasse a desiderare di poter consultare quei libri da sola. Alla fine questo metodo ottenne i risultati sperati ed entro la fine del lungo inverno Aurian cominciò a leggere qualsiasi cosa su cui le capitasse di mettere le mani, tanto da costringere Eilin ad accertarsi che i libri d'incantesimi di Geraint fossero ben nascosti. Quell'inverno Forral insegnò alla bambina anche molte altre cose. Le parlò di Nexis, regina fra le città, che sorgeva a sudovest della valle e che ospitava l'Accademia dei Maghi, dove tutto il sapere magico veniva studiato sotto il controllo dell'Arcimago Miathan, e della guarnigione che ospitava a Nexis il miglior contingente militare della città e la più grande fra tutte le scuole militari. Da lui Aurian apprese cosa ci fosse al di là della sua Valle: le vicine colline settentrionali dove gli abitanti vivevano principalmente di silvicoltura e dell'allevamento di pecore e bestiame; la costa orientale, famosa per la pesca; le campagne a sud e ad ovest dove si ricavava l'argilla per il vasellame e dove si coltivavano grano, lino e uve da vino che venivano poi smerciati dalla potente Corporazione dei Mercanti di Nexis che coordinava i commerci fra contadini e pescatori da un lato e gli artigiani dei villaggi e delle città dall'altro. I due trascorsero ore accanto al fuoco mentre Aurian ascoltava affascinata le storie che Forral raccontava in merito alla sua vita di mercenario nei misteriosi Regni Meridionali d'oltre mare, dove c'erano feroci guerrieri dalla pelle bruna, oppure le parlava di navi e di tempeste e delle enormi balene che erano signore dei mari, o ancora le narrava le agghiaccianti leg-
gende relative allo scomparso Popolo dei Draghi... Maghi potenti i cui occhi emettevano un fuoco che poteva uccidere... e alla feroce razza di guerrieri alati che si diceva vivesse sulle montagne del meridione. Pur non essendo uno studioso, lo spadaccino le insegnò la poca storia che conosceva, includendo i nomi e la natura delle singole divinità: le dee Iriana delle Bestie, Thara dei Campi e Melisanda dalle Mani Risananti; gli dèi Chathak Dio del Fuoco, la divinità propria dei guerrieri, Yinze Dio del Cielo e Ionor il Saggio, Dio degli Oceani, che nel pantheon dei Regni Meridionali era anche chiamato il Mietitore di Anime. Piena di crescente meraviglia, Aurian assorbì ogni cosa che le veniva insegnata. Quell'anno la primavera giunse in maniera improvvisa e gioiosa, cancellando in fretta tutte le tracce del terribile inverno: gli alberi si rivestirono di foglie, i fiori apparvero all'improvviso dovunque e i boschi intorno al lago tornarono ad echeggiare del canto degli uccelli. Con il ritorno di un clima più mite Aurian e Forral cominciarono a trascorrere gran parte del loro tempo all'aperto sotto il sole, cercando le prime verdure di stagione con cui integrare la loro limitata alimentazione invernale e aiutando Eilin nel suo lavoro di semina e di estensione del tratto di terra fertile intorno al lago. Adesso che i boschi traboccavano nuovamente di vita Forral prese anche in considerazione l'idea di andare a caccia in quanto durante l'inverno avevano mangiato tutti ben poca carne... per lo più quella filacciosa e salata dei capretti maschi generati l'inverno precedente dalle capre di Eilin... e anche se la Maga aveva cercato di dissimularne il sapore unendola a zuppe e stufati, ormai Forral ne era decisamente stanco e pensava che qualche coniglio o anche un volatile sarebbero stati un cambiamento gradito... qualsiasi cosa che non fosse carne di capra! Nel corso della sua carriera mercenaria lui aveva acquisito una certa abilità nell'uso delle trappole e dell'arco, e con esitazione provò ad affrontare l'argomento della caccia con Eilin, aspettandosi un iroso rifiuto in quanto sapeva che la Maga viveva in comunione con la terra e con le sue creature; al tempo stesso, temeva anche che Aurian potesse rimanere sconvolta dalla prospettiva di veder apparire sulla tavola per cena uno dei suoi amici a quattro zampe... e fu per questo che la risposta di Eilin alla domanda da lui posta con diffidenza lo colse del tutto alla sprovvista. «Ma certo, Forral» rispose infatti la Maga. «Se vuoi cacciare, Aurian sarà lieta di mostrarti il metodo che noi usiamo qui nella Valle.»
In una sera dorata Aurian condusse Forral attraverso il boschetto di betulle e in profondità nel bosco più fitto che si stendeva al di là di esso, fino a raggiungere un'area erbosa punteggiata da macchie di rovi e di ginestrone, intorno alle cui radici era possibile vedere una moltitudine di fosse e di buchi. «Qui è dove vivono i conigli» avvertì la ragazzina, in tono sommesso. «Presto verranno fuori per nutrirsi.» Forral annuì, chiedendosi al tempo stesso cosa lei intendesse fare, considerato che gli aveva proibito di prendere con sé l'arco e che aveva scartato l'uso delle trappole reputandolo troppo crudele. «Resta in silenzio» sussurrò la bambina, poi uscì dagli alberi e si avvolse intorno al polso una spessa striscia di tessuto prima di sollevare il braccio e di emettere un fischio acuto. Per un momento non accadde nulla, poi in alto nel cielo apparve un minuscolo punto nero che scese in picchiata, s'ingrandì ed assunse una forma ben definita. Forral avvertì il frusciare del vento fra le piume e sentì un aspro stridio annunciare una forma alata che si posò sul polso di Aurian e si aggrappò ad esso, allargando le corte ali aerodinamiche per mantenere l'equilibrio e strusciando con dolcezza la testa orgogliosa dal ricurvo becco crudele contro il volto della bambina. «Questo è Ala Veloce, o almeno io lo chiamò così» dichiarò Aurian, scintillante di gioia, mentre il falco scoccava a Forral un'occhiata in tralice dei suoi occhi scuri accompagnata da un sibilo sommesso e tornava a mordicchiarle i capelli. Per un momento Aurian rimase in silenziosa comunione mentale con il fiero rapace, poi sollevò di scatto il braccio verso l'alto e lo lanciò nel cielo, dove esso riprese quota con una serie di spirali, prendendo poi a volare in cerchio sopra di loro. «Adesso aspettiamo» sussurrò intanto Aurian, guidando di nuovo lo sconcertato spadaccino al riparo degli alberi. Dopo qualche tempo i conigli cominciarono ad emergere dai cespugli per nutrirsi, avventurandosi timidamente allo scoperto con la loro andatura ondeggiante, e Forral sentì la mano di Aurian che gli si serrava intorno al braccio. «Adesso» sussurrò lei, e in alto nel cielo il falco ripiegò le ali lasciandosi cadere come una pietra. Forral sussultò, certo che l'uccello si sarebbe schiantato al suolo... ma all'ultimo momento esso riaprì le ali di scatto e proseguì il volo a pochi centimetri da terra, colpendo il bersaglio prescelto in mezzo ad una nuvola
di pelo e facendolo rotolare più volte su se stesso. Sorvolando l'erba ad una distanza di pochi centimetri, il falco tornò quindi verso l'inerte sagoma marrone che giaceva al suolo stordita e si appollaiò su di essa, finendola con un singolo rapido colpo del becco. Soltanto allora Forral sbatté le palpebre e si ricordò di respirare, perché l'intera scena si era svolta quasi troppo in fretta perché il suo cervello riuscisse a registrarla. Aurian intanto stava correndo verso il falco e lui si affrettò a seguirla. «Ben fatto! Oh, ben fatto davvero» esclamò lei, rivolta all'uccello, che si allontanò saltellando dal coniglio e si sistemò in attesa sull'erba mentre Aurian raccoglieva con un sospiro la creatura morta. «Povera bestiola» mormorò, accarezzando fugacemente il suo pelo marrone prima di riporla in una sacca. «Uccidere in questo modo non ti turba?» chiese in tono curioso lo spadaccino. «Certamente» replicò lei, fissandolo con un'espressione seria e in qualche modo più adulta di come lui l'avesse ai vista fino a quel momento. «È molto triste, Forral, ma succede. Ala Veloce deve mangiare, e così pure la sua compagna e i loro piccoli. I conigli sono un po' troppo grossi per lui... è per questo che spesso prima li stordisce... ma in ogni caso se ne nutre, e anche noi. Comunque prendiamo solo ciò di cui abbiamo bisogno e lui uccide in modo rapido e pulito, non come fanno le trappole. Ed è così bello...» aggiunse, fissando il falco con espressione sognante e dando l'impressione di essere per un momento a corto di parole. Forral però comprese cosa avesse inteso dire perché il volo rapido e temerario del rapace aveva commosso anche lui. «Mi dà l'impressione di essere lassù e di volare anch'io con lui» concluse intanto Aurian in tono sommesso, poi si riscosse e richiamò Ala Veloce sul suo polso con un fischio, tornando alla realtà concreta. «Adesso dovremo battere i cespugli per far tornare i conigli allo scoperto perché si sono spaventati» dichiarò. «Se pensi che Ala Veloce sia stato abile, aspetta di vederlo all'opera su un bersaglio in movimento. A proposito, quanti conigli hai detto che ti servivano?» Forral scosse il capo con espressione sorpresa, pensando che Aurian non cessava mai di stupirlo, e che questa volta era stata lei ad insegnargli qualcosa. Le giornate calde si susseguirono e ben presto giunse per la Maga il momento di fare il giro dei villaggi e delle fattorie che si trovavano nei
dintorni della Valle, in quanto ogni anno i Mortali che vivevano nelle campagne circostanti si aspettavano che lei li aiutasse usando la Magia della Terra per «benedire» i loro campi e garantire un buon raccolto; in cambio, essi le fornivano grano, attrezzi, stoffa e altre cose che non era in grado di coltivare o di fabbricare da sola. Quest'anno, in particolare, Eilin voleva un vetro nuovo per la finestra di Aurian e un po' di pollame, perché quello che possedeva era morto tutto a causa delle violente tempeste autunnali. Forral rimase inorridito nell'apprendere che durante le assenze di Eilin sua figlia era sempre rimasta sola nella valle, una nuova prova dell'indifferenza della Maga nei confronti della bambina che ebbe il potere di lasciarlo sgomento anche se sia Eilin che Aurian sembravano entrambe soddisfatte di quella soluzione. «Io non voglio andare con lei» ribadì la bambina, «perché sentirei la mancanza di Ala Veloce e degli altri animali. Sto bene qui.» «È ovvio che non corre rischi» convenne Eilin. «Ha i lupi che la proteggono e se dovesse succedere qualcosa Ala Veloce o un altro uccello mi avvertirebbero immediatamente.» Forral si arrese con un sospiro, pensando che quelle due erano davvero cocciute e indipendenti come tutti i Maghi, e al tempo stesso si consolò al pensiero che se non altro quest'anno una persona responsabile sarebbe rimasta a tenere d'occhio Aurian. Dopo che Eilin si fu allontanata in groppa al suo cavallo, una giumenta bianca che Forral non aveva mai visto fino a quel momento in quanto la Maga aveva di rado tempo per uscire a cavallo, lo spadaccino scoprì che nella Valle c'era lavoro a sufficienza per tenere lui e Aurian impegnati. A volte uscivano a caccia con Ala Veloce, e poi c'erano le capre da mungere e le trappole per i pesci che la Maga aveva disposto lungo le rive del lago erano da controllare regolarmente e da rimettere al loro posto. La cosa peggiore, però, era che le erbacce del giardino sembravano intenzionate a sfruttare al massimo l'assenza di Eilin e a ricrescere nell'arco di una notte. Sempre più stupito di fronte alla portata del compito che Eilin si era addossata, Forral si sentì vincolato dal dovere a fornire tutto l'aiuto possibile e oltre a lavorare nel giardino trascorse una notevole quantità di tempo nella torre, impegnato a riparare i danni peggiori apportati durante l'inverno dal maltempo. Intanto Aurian cominciò ad annoiarsi di tutte quelle attività: all'inizio della giornata si prestava ad aiutarlo animata dalle migliori intenzioni del mondo ma dopo un po' inevitabilmente sgusciava via, ufficialmente per
andare a trovare i suoi animali. Con il passare del tempo lo spadaccino si accorse però che la ragazzina scompariva sempre più di frequente e cominciò a chiedersi il motivo di quelle sue assenze, ma quando la interrogò in merito a dove trascorresse le sue giornate Aurian rispose in modo vago ed evasivo: essendo per natura una persona onesta, infatti, era poco abile nel mentire, e il suo atteggiamento richiamò inevitabilmente alla mente di Forral il ricordo del giorno in cui si erano incontrati e lui l'aveva sorpresa nella radura a giocare con le sfere di fuoco. Il sospetto che Aurian potesse aver ricominciato con quel passatempo lo riempì di preoccupazione. Lui sapeva già che Aurian aveva ereditato da sua madre la Magia della Terra, in quanto era in grado di comunicare con gli animali e poteva far prosperare le giovani piante, ma questo non costituiva un problema perché Eilin poteva sovrintendere ai suoi sforzi di apprendimento in quel campo e comunque con la Magia della Terra c'era ben poco che la bambina potesse fare per recarsi danno. Il potere di Geraint era stato invece quello della Magia del Fuoco, la più pericolosa fra tutte le discipline a causa del controllo dell'energia grezza che essa richiedeva, e il timore dello spadaccino era che Aurian potesse aver ereditato anche quella caratteristica o che potesse essere addirittura uno di quei rari Maghi i cui poteri abbracciavano tutte le forme di magia. Se le cose stavano davvero così, senza un'adeguata istruzione Aurian sarebbe stata in costante pericolo, e così pure chiunque fosse entrato in contatto con lei. Inizialmente Forral pensò di esporre il proprio sospetto ad Eilin quando lei fosse tornata, ma si trovò riluttante a farlo: ossessionata com'era dal suo dolore per la perdita di Geraint, la Maga non sarebbe infatti mai riuscita convivere con una bambina che avesse ereditato le sue capacità potenzialmente distruttive e sarebbe stato tragico se lei avesse nuovamente respinto Aurian proprio adesso che il rapporto fra loro stava migliorando. In ogni caso, non c'erano prove certe in merito a ciò che Aurian stava combinando, quindi Forral decise che non era il caso di agitare le acque prima di aver accertato come stavano le cose, e che comunque sarebbe stato meglio se si fosse occupato da solo del problema. La volta successiva che Aurian si allontanò di soppiatto lui la seguì, timoroso che gli uccelli potessero tradire la sua presenza. Essi però risultarono troppo impegnati a nutrire la loro avida progenie per pensare a qualsiasi altra cosa e il vero problema risultò consistere nel fatto che una volta lontana dalla torre Aurian chiamò a sé il suo pony. Imprecando, Forral fu così costretto a tornare indietro di corsa per prendere il proprio cavallo,
grasso e vivace dopo un inverno al chiuso e tanto esuberante che lui ebbe difficoltà a controllarlo. Quando infine ritrovò le tracce della bambina, Forral constatò che lei si stava dirigendo verso la foresta al di là del bordo del cratere e che stava seguendo un percorso indiretto per arrivarvi, segno che stava decisamente nascondendo qualcosa. Alla fine la pista lo condusse fino alla stessa radura in cui si erano incontrati per la prima volta e nello sbirciare attraverso il velo del sottobosco Forral si lasciò sfuggire un sussulto di fronte a ciò che vide. Aurian si stava concentrando al massimo delle sue capacità, perché sei sfere di fuoco erano il numero massimo che avesse mai cercato di usare contemporaneamente per i suoi giochi di abilità e stava trovando difficile tenerle in aria tutte quante senza bruciarsi. Madida in volto per il sudore, sentiva che le forze cominciavano a mancarle, come dimostrò il fatto che una delle colorate sfere di fiamma saettò improvvisamente lontano da lei, diretta verso uno degli alberi circostanti, costringendola a riportarla sotto controllo a prezzo di un violento sforzo di volontà e del rischio di strinarsi i capelli, evitato di stretta misura. Decidendo di averne abbastanza, spense con estrema cura le sfere che ondeggiavano a mezz'aria e si sedette su un tronco abbattuto, esausta ma soddisfatta di sé. Prima che il suo udito avesse il tempo di registrare il fragore che proveniva dal sottobosco, Aurian si sentì afferrare per le spalle, issare in piedi e girare in modo che si trovasse a fissare Forral in faccia: rovente in volto per il senso di colpa, la bambina si rese conto di non aver mai visto il grosso spadaccino così infuriato. «Cosa stavi facendo?» gridò Forral. «Dillo!» Aurian aprì la bocca per parlare ma non riuscì ad emettere suono, e lui la scrollò con tanta violenza da farle sbattere i denti. «Dillo!» reiterò. «S... stavo giocando con le sfere di fuoco» confessò a fatica Aurian. «E io cosa ti avevo detto?» «Di... di non farlo.» «Perché?» «Perché è molto pericoloso» replicò Aurian, con un filo di voce, troppo spaventata per piangere e sconvolta dalla trasformazione del suo gentile amico in un adulto infuriato. «Ebbene, adesso scoprirai quanto sia effettivamente pericoloso!» esclamò Forral. Cupo in volto, si sedette sul tronco abbattuto, gettò la bambina di traver-
so sulle proprie ginocchia e procedette a sculacciarla fino a farla urlare, fermandosi dopo quella che a lei parve un'eternità. La punizione risultò già di per sé dolorosa dal punto di vista fisico, ma ciò che fece maggiormente male ad Aurian fu che ad infliggerla fosse il suo adorato Forral. «Te lo meritavi» dichiarò in tono aspro lo spadaccino. «Sapevi perfettamente che quello che stavi facendo era sbagliato però lo hai fatto lo stesso. Credevo di potermi fidare di te, Aurian, ma vedo che non è così» concluse, scaricandola al suolo dove lei rimase distesa con il volto nascosto contro lo strato di foglie che copriva il terreno, singhiozzando disperatamente. Quando infine sollevò lo sguardo, Forral se n'era andato. Aurian si sentiva umiliata, e incapace di credere che Forral l'avesse sculacciata, perché lui era suo amico e prima d'ora non l'aveva mai picchiata: a poco a poco, cominciò a rendersi conto che doveva aver fatto una cosa veramente cattiva... ma d'altro canto giocare con le sfere di fuoco era così divertente! «Non smetterò di farlo» borbottò in tono ribelle. «Gli farò vedere io!» Subito però la voce della coscienza intervenne a ricordarle che Forral non faceva mai nulla senza avere una ragione e che le sue motivazioni risultavano sempre valide... e al tempo stesso un altro pensiero l'aggredì all'improvviso: e se lui si fosse arrabbiato al punto di decidere di andarsene? Scattando in piedi Aurian chiamò a sé il pony, animata dall'improvvisa e disperata urgenza di tornare alla torre. «Speriamo che sia a casa» pregò. «Se lo troverò a casa non lo farò mai più.» Il posteriore le doleva però troppo per poter cavalcare, quindi scese dalla groppa del pony e imprecò, poi si premette una mano sulla bocca con aria colpevole e serrando i denti si avviò a piedi, asciugandosi le lacrime che di tanto in tanto continuavano a rotolarle lungo le guance. L'oscurità la sorprese mentre era ancora in cammino, ma lei sapeva che nulla le avrebbe mai fatto del male all'interno del cratere perché le creature selvatiche erano tutte sue amiche, e che se fosse stata attenta non avrebbe corso il rischio di cadere sul terreno sconnesso perché i suoi occhi, come quelli di tutti i Maghi, erano perfettamente in grado di vedere al buio. Parimenti, non correva nessun pericolo di perdersi perché tutto quello che doveva fare era dirigersi verso la luce tremolante che ardeva come un faro sulla sommità della torre... ma a parte quella notte in cui si era persa in mezzo alla neve lei non si era mai venuta a trovare fuori al buio in quella vasta landa desolata e questo contribuì a farla sentire sgomenta e sola, certa che Forral non le volesse
più bene... piena di autocompassione, soffocò a fatica un singhiozzo causato in parte anche dai piedi che cominciavano a farle male e dal bruciore che le tormentava il posteriore. Nel complesso, fu quindi una ragazzina molto avvilita quella che infine percorse il ponte di legno che conduceva alla torre. Soltanto alcuni anni più tardi Forral le confessò infine che quella notte era sempre rimasto vicino a lei. seguendola fino a quando era giunta nelle immediate vicinanze di casa e compiendo il tragitto con una difficoltà molto maggiore della sua perché lui non era in grado di vedere al buio. Una volta vicina alla torre, Aurian provò un immenso sollievo nel constatare che la finestra della cucina era rischiarata da una luce sommessa, segno che Forral non se n'era ancora andato, ma le ci volle un certo tempo per raccogliere il coraggio necessario ad aprire infine la porta, scoprendo che lui era seduto al tavolo con la testa fra le mani e appariva arruffato e sporco come se fosse caduto da qualche parte. Dal momento che non l'aveva sentita entrare... o che era forse deciso a ignorarla... Aurian osò avvicinarsi maggiormente. «Forral, mi dispiace» disse con un filo di voce. Lentamente, lo spadaccino sollevò la testa e protese le braccia: troppo sollevata per parlare, Aurian lo raggiunse di corsa e gli si arrampicò sulle ginocchia, scoppiando a piangere quando lui l'abbracciò con forza. Dopo un momento si accorse con sorpresa che anche Forral stava piangendo. «Non piangere» lo implorò, perplessa. «Nessuno ha sculacciato te» aggiunse quindi, con una sfumatura d'indignazione nella voce. «Oh, piccola» replicò Forral, mentre la bocca gli si contraeva in un sorriso, «non sai quanto mi ha fatto male punirti in quel modo!» Poi procedette a raccontarle per la prima volta cosa fosse successo a suo padre, come Geraint fosse stato distrutto dalla sua stessa Magia del Fuoco, e quando infine concluse la narrazione Aurian stava tremando. «Non lo sapevo» sussurrò. «Avrei dovuto parlartene prima» replicò Forral, «ma speravo di poterlo evitare finché fossi diventata più grande. Adesso capisci perché mi sono infuriato? È stato perché mi hai terrorizzato, tesoro. Cosa succederebbe se per caso tu finissi per fare quello che ha fatto lui? Pur di impedirlo sarei pronto a tutto, anche se questo significa sculacciarti, perché ti voglio troppo bene per vederti finire come è finito tuo padre.» «Ma io non posso trattenermi!» protestò Aurian. «Davvero, non posso! Questa cosa è dentro di me e se non ho niente da fare salta fuori! Cosa
posso fare, Forral?» domandò, mostrandosi ora veramente spaventata. «Non ti preoccupare, tesoro, penseremo a qualcosa» garantì Forral, poi la tenne stretta a sé per un po' con la fronte contratta in un'espressione riflessiva, e intanto Aurian cominciò a sentirsi sempre più stanca ma riluttante a lasciare il conforto del suo abbraccio per andare a letto. «Forral, mi vuoi raccontare una storia?» chiese in tono assonnato. «Quella del più grande spadaccino del mondo, che è la mia preferita.» «Ci sono!» esclamò Forral, sollevandosi a sedere di scatto e facendola quasi rovinare giù dalle proprie ginocchia. «Aurian, che ne diresti di diventare lo spadaccino più famoso del mondo?» «Potrei riuscirci?» chiese lei in tono timido, illuminandosi in volto per la gioia incredula «Non vedo perché non dovresti. Ti insegnerò io.... però ti avverto che sarà una cosa molto dura perché non si diventa il più grande spadaccino del mondo senza impegnarsi e lavorare. Quando ho cominciato a imparare il mio istruttore mi ha quasi fatto a pezzi, e alla fine di ogni giornata ero così stanco e dolorante che riuscivo a stento a strisciare nel letto. Se vuoi davvero che ti insegni dovrai sopportare tutto questo... e a quel punto sarà troppo tardi per cambiare idea, anche se per contro non ti resterà in tutta la giornata un solo minuto libero in cui metterti nei guai. Che ne dici?» Aurian rifletté sulla sua proposta: da come Forral gliel'aveva descritta, quella non sembrava una cosa molto divertente, ma d'altro canto lei era dolorante e stanca e non voleva mai più passare un'altra giornata come questa, per cui era pronta ad accettare la sua idea se essa poteva tenerla lontana da questo tipo di guai. Sulla scia di quei pensieri il ricordo degli eroi che popolavano le storie di Forral affiorò nella sua mente, incendiandole l'immaginazione. «Sì!» esclamò, pervasa da un'improvvisa determinazione. «Lo farò!» Quello fu l'inizio dell'addestramento di Aurian. Il giorno successivo Forral preparò per entrambi due spade di legno e scelse per le lezioni un posto isolato e ben lontano dalla torre; quando poi Eilin rientrò dal suo viaggio lo spadaccino fece promettere ad Aurian di mantenere segreto ciò che stavano facendo. «Sono certo che tua madre non approverebbe, e non mi pare salutare spiegarle per quale motivo abbiamo cominciato a farlo» avvertì, ed Aurian fu pronta ad assentire. All'inizio l'addestramento fu terribile perché Forral non le fece nessuna
concessione a causa della sua taglia o della minor forza di cui era dotata, portandola a scoprire che avrebbe dovuto diventare molto brava nel minor tempo possibile se voleva evitare di essere praticamente bastonata ad ogni lezione. In un primo tempo tutto quello che riuscì a fare fu schivare e deviare i colpi di Forral senza neppure pensare ad attaccare, e ogni notte andò a letto dolorante e ammaccata da testa a piedi, imparando al tempo stesso la prima preziosa lezione che consisteva nello sviluppare una notevole capacità di sopportazione. Al tempo stesso Forral le insegnò anche altre cose... esercizi per rimanere flessibile e aumentare la muscolatura uniti a tecniche di respirazione e di meditazione per calmare e acutizzare la mente in previsione della battaglia... senza che Aurian si rendesse conto di quanto era fortunata ad averlo come istruttore, perché per quanto fosse restio ad ammetterlo per modestia, Forral era senza dubbio il migliore nel suo campo e sotto la sua tutela lei apprese infine l'Essere del Guerriero, quella condizione simile ad una trance in cui tutti i sensi si combinavano per diventare un qualcosa molto superiore alla somma delle parti, un singolo senso che diventava un'estensione della spada... che era la spada... in modo da far sì che ogni nuova mossa venisse attuata ancor prima che la mente avesse finito di elaborarla. Ben presto Aurian cominciò ad adorare quegli addestramenti, a vivere in funzione delle sue lezioni e ad uscire per esercitarsi con Forral sia d'estate che d'inverno, soffrendo, faticando, sudando e sopportando con tale costanza che quando infine giunse ad avere dodici anni si trovò a possedere un'abilità tale da poter tener testa con successo ad un avversario di abilità media che avesse il doppio dei suoi anni e fosse grosso il doppio di lei. Al tempo stesso stava anche crescendo con la velocità di un'erbaccia, il che le era d'aiuto ma comportò anche un nuovo problema in quanto nello svilupparsi i seni cominciarono ad esserle d'intralcio. Allorché lei si lamentò della cosa con Forral lo spadaccino borbottò qualcosa con imbarazzo ma provvide a prepararle un aderente giustacuore del genere usato dalle guerriere, che si allacciava strettamente sul davanti e aveva lo scopo di contenere quelle ridicole appendici. Alcune settimane prima del tredicesimo compleanno di Aurian lo spadaccino partì per un misterioso viaggio di cui rifiutò di rivelare lo scopo, e lei avvertì terribilmente la sua mancanza, al punto che si sentì assalire dall'intensa tentazione di ricominciare con i suoi giochi con le sfere di fuoco e si trattenne soltanto perché era decisa a mantenere la promessa fatta. Per distrarsi chiese invece a sua madre di insegnarle qualcosa di più sulla
Magia della Terra. «Ah, adesso che Forral è lontano di colpo hai un po' di tempo da trascorrere con tua madre» commentò Eilin, ma lo disse con un sorriso sulle labbra perché la presenza di Forral aveva portato in lei un notevole cambiamento e ultimamente madre e figlia andavano molto più d'accordo. Nel corso di quelle poche settimane Aurian scoprì che la compagnia di Eilin le riusciva gradevole e dal canto suo la Maga ne approfittò per insegnarle oltre alla magia anche ciò che presto sarebbe successo al suo corpo in via di maturazione e il modo in cui i Maghi affrontavano quel problema. Nel tempo libero Aurian continuò naturalmente ad eseguire gli esercizi che Forral le aveva assegnato, con la speranza di fare impressione su di lui quando fosse tornato. Al suo ritorno Forral riuscì a farsi abbondantemente perdonare la lunga assenza perché le portò per il suo compleanno un dono davvero principesco: una vera spada tutta per lei. Con la gola serrata da un nodo Aurian liberò il dono dall'involucro ed estrasse la lunga lama affilata dal fodero nero e argento producendo un sibilo metallico, poi posò l'arma e gettò le braccia intorno al collo di Forral. «Oh, grazie» esclamò. La spada scintillava di un bagliore fra l'azzurro e il bianco sotto il pallido sole invernale i cui raggi si riversavano come fuoco fluido lungo i suoi bordi affilati, traendo bagliori dalla singola gemma bianca incastonata nell'elsa. Nel complesso l'arma era più snella del grande spadone a due mani di Forral ma appariva comunque forte, elegante... e letale. Aurian non aveva mai visto nulla di tanto bello. Usare una spada vera fu come ricominciare da zero perché l'arma era stata forgiata tenendo presente che Aurian non aveva ancora finito di crescere e per adesso lei riusciva a stento a sollevarla e tanto meno a vibrare colpi con essa. Serrando i denti raddoppiò gli esercizi per irrobustire i muscoli, ma continuò a ritrovarsi alla fine di ogni lezione con la schiena e le braccia doloranti. Un altro fattore che la costrinse a rivedere da zero il proprio addestramento fu la scoperta che combattere con una lama vera e propria richiedeva una tecnica molto diversa da quella che le era stata tanto utile nelle esercitazioni con le spade di legno: la sua crescente abilità aveva fatto sì che lei diventasse piuttosto arrogante e cominciasse a considerarsi una grande spadaccina, ma adesso scoprì che non era affatto così e che la sicurezza personale era diventata un fattore di estrema importanza nell'ambito delle
lezioni, in quanto l'uso di spade vere da parte sua e di Forral implicava il rischio costante che ciascuno potesse infliggere all'altro gravi lesioni e costrinse Aurian a imparare che non poteva più improvvisare come aveva sempre fatto fino a quel momento. Anche se le parve che questo richiedesse un'eternità, i progressi cominciarono a risultare evidenti a mano a mano che lei continuò ad esercitarsi per tutta la primavera e l'estate, e giunse infine il momento in cui la lama prese a muoversi esattamente come lei voleva che facesse. Ben bilanciata e di fine fattura, era splendida da usare e Aurian traeva piacere dal prendersene cura come Forral le aveva insegnato a fare, mantenendo tanto la lama che il fodero meticolosamente puliti e oliati. Quando la usava, la spada scintillava e cantava nel solcare l'aria, e per questo lei la chiamò Coronach, che significava Canto di Morte. «Una buona lama merita un buon nome» convenne Forral in tono grave, senza ridere di quel suo capriccio. Il disastro si verificò verso la fine di quell'anno, quando la prima neve già copriva il terreno con un sottile e scintillante manto candido. Forse Forral aveva peccato di troppo entusiasmo nel regalarle così presto una spada o forse Aurian aveva acquisito un'eccessiva sicurezza di sé... quale che ne fosse la causa la ragazza commise un errore letale. Lei e Forral stavano duellando nel loro solito posto quando Aurian decise di sua iniziativa di tentare una nuova mossa a cui stava pensando già da qualche tempo: indietreggiando e abbassandosi eseguì una contorsione con l'intento di insinuare la lama sotto la guardia dell'avversario per colpirlo alla gola, ma la manovra andò nel modo più sbagliato perché nell'eseguire la contorsione lei scivolò sulla neve e perse l'equilibrio, con il risultato che la spada mancò il bersaglio e la lasciò indifesa di fronte al letale fendente di risposta di Forral. Questi lanciò un grido e tentò di deviare il percorso della pesante lama, ma l'impeto era eccessivo e la grande spada penetrò nella spalla sinistra di Aurian con un nauseante scricchiolio di ossa frantumate. Messa sul chi vive dalle frenetiche grida di aiuto di Forral, Eilin scese a precipizio la scala e si arrestò di colpo in fondo ad essa, facendosi cinerea in viso nel vedere Forral che con il volto solcato di lacrime reggeva fra le braccia il corpo immoto di Aurian avvolto nel suo mantello intriso di sangue; una scia di sangue era visibile al di là della porta aperta alle sue spalle e una pozza carminia si stava già formando sul pavimento di pietra della cucina. «Oh, dèi!» singhiozzò lo spadaccino, con il volto contorto dall'angoscia,
sentendo il sangue caldo e appiccicoso che gli inzuppava gli abiti. «Eilin, l'ho uccisa!» Tremante, Eilin gli tolse Aurian dalle braccia e l'adagiò con delicatezza sul tavolo della cucina, poi sussultò violentemente nel mettere a nudo la spaventosa ferita e si affrettò a premere una mano sulla gola della ragazza per controllarne le pulsazioni. «Grazie agli dèi è ancora viva» mormorò, e soltanto allora Forral osò guardare la ferita. La sua spada era penetrata in profondità nella spalla di Aurian, fracassando la clavicola e tranciando quasi il braccio di netto, e adesso la ragazza era grigia in volto per lo shock e la perdita di sangue. Accasciandosi su se stesso, Forral barcollò ed ebbe l'impressione che la stanza intorno a lui si facesse indistinta: in troppe occasioni aveva visto dei buoni amici finire mutilati o uccisi, oppure aveva lui stesso inflitto ferite anche peggiori ai nemici in battaglia senza sussultare, ma questa era una ragazzina che lui amava più della sua vita stessa, e vederla in quello stato era più di quanto potesse sopportare. «Mi dispiace. È stata colpa mia. io...» «Taci!» ingiunse Eilin, mentre posava le mani sulla ferita e socchiudeva gli occhi per la concentrazione nell'evocare i suoi poteri. «Vorrei aver appreso di più nel campo del risanamento» borbottò in tono impotente, ma al tempo stesso il flusso di sangue che colava dalla ferita si ridusse lentamente fino a cessare del tutto e infine Eilin si raddrizzò, voltandosi a fissare con occhi roventi lo spadaccino, che si lasciò cadere in ginocchio. «Eilin, è stato un incidente...» «Non importa, adesso! Devi andare a Nexis, Forral, e portare qui un guaritore dell'Accademia! Fa' presto, perché potremmo ancora perderla!» Pieno di sollievo all'idea di poter infine fare qualcosa di utile, Forral uscì di corsa, continuando a vedere davanti agli occhi il volto pallido di Aurian. Il suo cavallo scartò violentemente quando lui lo sellò, spaventato da quel pazzo dagli occhi spiritati che gli aveva gettato così rudemente la sella sul dorso, ma Forral gli serrò rudemente le narici e strinse con violenza la cinghia del sottopancia, poi balzò in sella e si allontanò al galoppo sollevando alti spruzzi di neve, ansioso di lasciarsi alle spalle il cratere e il suo terreno ineguale prima del calare del crepuscolo perché era deciso ad arrivare a Nexis in due giorni anche se si trattava di un tragitto che a cavallo di solito ne richiedeva cinque.
CAPITOLO TERZO IL FIGLIO DEL FORNAIO «Avanti, muoviti!» esclamò Anvar, agitando le redini per incitare il vecchio cavallo a procedere lungo il rozzo sentiero che si snodava in salita dal mulino che sorgeva sulla riva del fiume, ma Pigro agitò la testa e nitrì in segno di protesta per essere costretto a trainare il pesante carro su per l'erta collina. «Coraggio» continuò Anvar, rivolto al cavallo. «Se non altro tu non senti il freddo e non appena saremo a casa ti darò una buona colazione.» Nel parlare si soffiò sulle mani e le sbatté contro le cosce per attenuare la rigidità delle dita infreddolite dal gelo dell'alba che gli stava penetrando nelle ossa e gli dava l'impressione di essere ormai a milioni di chilometri dal fuoco caldo che ruggiva all'interno del mulino. Poi ricordò il sorriso di Sara, la graziosa figlia del mugnaio, e un diverso tipo di fuoco gli riscaldò il sangue. Nella città di Nexis la ricchezza e il potere erano nelle mani dei facoltosi mercanti, dei guerrieri di alto rango e degli altezzosi Maghi mentre la vita era molto più dura per la gente comune, gli artigiani, i sarti, i servi, gli operai, i bottegai, i barcaioli e i lampionai che mantenevano in funzione la città con i loro lavori umili ma essenziali. Di conseguenza i bambini imparavano molto presto ad addossarsi delle responsabilità e il padre di Anvar, che era mastro fornaio della città, aveva affidato al figlio maggiore il compito di andare a prendere la farina non appena questi era diventato abbastanza grande da poter guidare il carro in quanto il tragitto lungo la strada, sebbene più lungo e alquanto difficoltoso durante l'inverno, permetteva di risparmiare le cifre elevate richieste dai barcaioli per il trasporto via fiume. Fin dalla prima volta che Anvar si era recato al mulino, molto tempo prima, la piccola Sara dai capelli biondi era diventata la sua migliore amica, e quando erano più piccoli avevano avuto l'abitudine di sgattaiolare via insieme nel pomeriggio per andare a giocare, incontrandosi lungo lo stretto sentiero per il traino delle chiatte che correva lungo il fiume fino alla città. Adesso che avevano raggiunto la matura età di quindici anni, tuttavia, i loro giochi avevano cominciato a prendere una piega nuova e più seria, in quanto Anvar era innamorato e non dubitava che Sara condividesse i suoi sentimenti, uno sviluppo che i genitori di entrambi stavano contemplando con occhio tollerante, perché il padre di Anvar, Torl, e Jard il mugnaio vedevano all'orizzonte la vantaggiosa possibilità di congiungere un giorno le
loro attività, e le rispettive madri non avevano naturalmente nessuna voce in capitolo. Il pensiero di Sara strappò ad Anvar un sorriso mentre raggiungeva la cima della collina e guidava il carro scricchiolante sulla strada principale: sotto di lui Nexis era nascosta dalla gelida nebbia che avviluppava nel suo manto grigio la valle alberata, lasciando esposte alla vista soltanto le scintillanti torri bianche e la cupola dell'Accademia, che sorgeva su un promontorio roccioso da cui dominava il resto della città. Alla vista dell'Accademia il sorriso di Anvar si trasformò in un'espressione accigliata al pensiero che lassù di certo tutti stavano ancora russando su materassi di piume di cigno mentre la gente onesta si era alzata per lavorare ancor prima del sorgere dell'alba! Suo padre detestava i Maghi, che definiva arroganti parassiti e un'offesa per qualsiasi uomo per bene, un punto di vista talmente diffuso nel quartiere in cui era cresciuto da far sì che lui non si fosse mai sentito indotto a metterlo in discussione, anche se aveva notato come gli uomini abbassassero la voce e si guardassero nervosamente intorno nel profferire affermazioni del genere quando sedevano a bere nelle taverne. All'improvviso fu riscosso dai suoi sogni ad occhi aperti da uno scarto nervoso del suo vecchio cavallo che appiattì gli orecchi contro il cranio nel registrare un battito di zoccoli che si avvicinava: consapevole che qualcuno stava sopraggiungendo alle spalle del carro, galoppando rischiosamente sulla strada ghiacciata, Anvar sospirò e manovrò in modo da addossare il veicolo lungo il ciglio della strada, pensando che probabilmente si trattava di un corriere diretto alla guarnigione oppure all'Accademia o al quartiere dei mercanti, e che intralciare gli affari dei potenti avrebbe potuto costargli caro. Quando il cavallo lo oltrepassò a spron battuto, Anvar si rese conto che esso era prossimo alla fine perché poté sentire il suo respiro affannoso e affaticato al di sopra del rumore prodotto dagli zoccoli e intravide i fianchi coperti di spuma e sporchi di sangue. Sentendo il massiccio cavaliere imprecare contro il povero animale mentre lo sferzava con l'estremità delle redini, Anvar s'infuriò per quel trattamento crudele e incitò con gentilezza Pigro a rimettersi in cammino come se la sua dolcezza potesse in qualche modo fare ammenda per la crudeltà di cui era stato appena testimone... poi sentì il suono degli zoccoli farsi ineguale e subito dopo udì il tonfo del cavallo che crollava al suolo, seguito da una sfilza di selvagge imprecazioni. Aggirando una svolta della strada scorse quindi la massa scura del cavallo morto che giaceva poco più avanti, ancora fumante, e il grosso prepo-
tente che lo aveva cavalcato che sostava accanto ad esso arroventando l'aria con le proprie imprecazioni. Ribollente d'ira, e senza soffermarsi a riflettere sulle conseguenze delle proprie azioni, Anvar balzò giù al carretto e si scagliò contro il grosso cavaliere barbuto. «Razza di bastardo!» stridette. «Insensibile bastardo!» L'uomo però lo ignorò completamente e concentrò invece la propria attenzione sul carro, poi spinse di lato Anvar con sprezzante indifferenza e corse verso il veicolo, estraendo una daga dalla cintura con l'intento di tagliare i finimenti che assicuravano ad esso il vecchio cavallo. Inorridito dai risultati della propria follia, Anvar si rialzò di scatto dal fosso in cui era andato a cadere. «No!» esclamò, e si lanciò in avanti, afferrando quel folle per un braccio, ma un colpo inatteso lo gettò lontano e al tempo stesso lo sconosciuto finì di troncare i finimenti, accorciando poi le lunghe redini e balzando sulla groppa nuda dell'animale. Spaventato, Pigro tentò di scartare, ma l'uomo assestò un selvaggio strattone alle redini nel momento stesso in cui Anvar si rialzava una seconda volta, con le lacrime agli occhi, e si aggrappava con la forza della disperazione al suo mantello infangato. «Per favore, signore» implorò. «È un animale ormai vecchio. Non puoi...» Lo sconosciuto si girò a guardarlo come se si stesse accorgendo di lui per la prima volta e la sua espressione cupa si addolcì di colpo fino ad esprimere compassione e rincrescimento. «Mi dispiace, ragazzo» replicò con gentilezza, «ma si tratta di un'emergenza. È in gioco la vita di una ragazza e devo procurarmi un guaritore... cerca di capire. Lascerò il cavallo all'Accademia: quando andrai a prenderlo, riferisci che ti manda Forral.» Poi strinse fugacemente la spalla di Anvar e si allontanò con un martellare di zoccoli. Fermo dove si trovava, Anvar lo seguì con lo sguardo per un lungo momento, poi si volse a contemplare il carro abbandonato e il suo prezioso carico: quella mattina la farina sarebbe arrivata in ritardo e Torl non avrebbe potuto cominciare a lavorare, con il risultato che ci avrebbero di certo rimesso del denaro. Sospirando, Anvar s'incamminò per tornare al mulino a chiedere in prestito un cavallo, consapevole che suo padre si sarebbe senza dubbio infuriato per l'accaduto. La famiglia di Anvar viveva a nord di Nexis, nel popoloso labirinto di
strette strade che all'interno delle grandi mura cittadine si snodavano lungo la parte superiore dei pendii dell'ampia valle; più in basso c'erano i grandi viali di pietra con i loro splendidi edifici adorni di colonnati, i mercati e le botteghe frequentati dalle persone di rango, e poco lontano, su un pianoro prodotto da un momentaneo appiattirsi del pendio prima di riprendere la propria discesa verso il basso, sorgeva il grande complesso grigio simile ad una fortezza che ospitava la leggendaria guarnigione, mentre sul fondo della valle, lungo la riva del fiume, c'erano i magazzini e i moli dei mercanti, con il loro abituale contorno di topi, di mendicanti, di tagliaborse e di prostitute. Ponti eleganti valicavano il corso del fiume in diversi punti, collegando le zone lavorative a nord della città con l'ambiente del tutto diverso che si allargava a sud di essa. A sud del fiume, infatti, la valle risaliva verso l'alto con una serie di erte terrazze alberate e là. incastonate come gemme fra le piante, sorgevano le opulente dimore dei mercanti, con i loro eleganti prati e i lussureggianti giardini rischiarati da lanterne colorate nelle sere d'estate in cui l'aria era intrisa del profumo di mille fiori. A metà del proprio tragitto attraverso la città, il fiume compiva una deviazione che lo portava a ripiegare su se stesso verso nord come a formare una sorta di giogo prima di riprendere il proprio cammino verso il mare, e all'interno di quella specie di cappio si ergeva un alto promontorio roccioso, quasi un'isola vera e propria, collegato alla riva meridionale da una stretta lingua di terra sbarrata da una bianca porta ad arco. In cima al promontorio, nel punto più elevato della città, sorgevano le candide torri dell'Accademia, nelle quali i Maghi dimoravano in splendido e altezzoso isolamento. La mattina era già in buona parte trascorsa quando Anvar guidò il cavallo preso a prestito oltre le guardie di stanza alle porte settentrionali della città e si avviò lungo le strade strette in direzione di casa. In quella parte della città le case e le botteghe erano semplici ma solide costruzioni di legno, di mattoni e di intonaco, per lo più mantenute in ottimo stato come pure le strade, che erano coperte di acciottolato e pulite. Anvar aveva sentito dire che nelle città più piccole la gente aveva l'abitudine di gettare i rifiuti dalla finestra, trasformando le vie in fognature a cielo aperto, una cosa che sarebbe stata impensabile a Nexis, gioiello fra tutte le città e dimora dei Maghi. Circa due secoli prima Bavordran, un Mago esperto nella Magia dell'Acqua, aveva progettato un elaborato ed efficace sistema di fognature sotterranee di cui rifornire l'intera città e in quell'occasione per una volta i Maghi (che non erano certo famosi per l'aiuto che elargivano alla
popolazione Mortale di Nexis) avevano svolto con estrema serietà il dovere connesso al loro potere magico. La famiglia di Anvar abitava sopra la bottega di suo padre, dove venivano preparati pane, pasticci e focacce da vendere al piccolo mercato che si teneva ogni giorno in una piazza vicina, e di solito le strade circostanti erano piene della fragranza del pane fresco appena cotto che esalava dalla sua soglia... di solito ma non oggi. Nell'avvicinarsi alla casa Anvar sentì la voce di suo padre che saliva di tono per l'ira e si tormentò nervosamente un labbro con i denti, certo che si sarebbe presto trovato nei guai: guidando con attenzione il carro lungo la stretta strada che portava alla piccola stalla sul retro della casa sistemò il cavallo preso a prestito da Jard nello stallo riservato a Pigro e decise che era inutile procrastinare oltre l'inevitabile, perché l'ira di Torl sarebbe aumentata in proporzione al suo ritardo. Squadrando le spalle entrò con riluttanza nella bottega, sperando che suo padre gli desse almeno la possibilità di spiegarsi. Trol però non parve dell'umore adatto per accettare giustificazioni. «Ma non è stata colpa mia!» implorò Anvar. «Lui mi ha buttato a terra ed ha preso il cavallo...» «E tu glielo hai permesso! Stupido ragazzo, da quell'animale dipende la nostra sopravvivenza! Sai cos'hai fatto? Lo sai?» inveì Trol, serrando il grosso pugno e sollevando il braccio reso muscoloso da anni trascorsi a sollevare sacchi di farina e a preparare l'impasto per il pane. Anvar si abbassò di scatto e il colpo lo raggiunse alla spalla, scagliandolo in un angolo e facendolo rovinare a terra in mezzo ad un mucchio di vassoi per il pane ancora vuoti. «Goffo idiota!» ringhiò suo padre, avanzando verso di lui con fare minaccioso e issandolo su da terra per colpirlo ancora. «Resta fermo dove sei!» ingiunse quindi, cominciando a sfilarsi la cintura. «Lascialo in pace, Trol, il ragazzo non ha colpa» intervenne la voce pacata del nonno. Intento a massaggiarsi dove era stato colpito, Anvar si accasciò per il sollievo di fronte a quel soccorso inatteso, in quanto il vecchio era la sola persona che potesse tenere testa a Trol quando lui era di quell'umore. Confidente, insegnante, protettore e amico per Anvar, il nonno era un uomo alto e massiccio con una massa di capelli bianchi, un'espressione gentile e folti baffi ispidi. Il suo mestiere era stato quello di carpentiere e le sue grosse mani erano ancora capaci di fare miracoli, creando intagli intricati e delicati che erano molto richiesti e che portavano alla famiglia un
gradito introito in più anche se il vecchio regalava i suoi lavori con la stessa facilità con cui li vendeva, con estremo disgusto di Trol. Nato e vissuto in campagna, il nonno era venuto a vivere con il figlio dopo la morte tragica e prematura di sua moglie, che era stata una cuoca leggendaria e aveva insegnato a Trol i segreti grazie ai quali i suoi prodotti erano adesso così richiesti; per anni il nonno aveva cercato di affogare nel lavoro il dolore per la perdita della moglie, ma adesso si accontentava di riposarsi e di godere della compagnia dei nipoti, a cui cercava di insegnare gli antichi e semplici valori della sua giovinezza, trovando in Anvar un allievo molto più disponibile di Bern, il fratello più giovane, che somigliava a suo padre sia nel fisico che nell'amore per gli affari e nell'adorazione del profitto. Lasciando andare Anvar, Trol si girò verso il nonno con espressione accigliata. «Resta fuori da questa faccenda, vecchio!» ingiunse. «Non aedo proprio, Trol, non questa volta» ribatté il nonno, interponendosi fra il fornaio e la sua vittima designata. «Sei troppo duro con il ragazzo.» «Mentre tu e sua madre lo viziate! Non c'è da meravigliarsi che sia un buono a nulla!» «È abile in molte cose e basterebbe che gli dessi l'opportunità di dimostrartelo» dichiarò con fermezza il nonno. «Invece di prendertela con lui, perché non vai all'Accademia e scopri che ne è stato del cavallo?» «Cosa? Attraversare tutta la città e risalire quella collina? Hai perso il senno, padre? Grazie a questo idiota ho già sprecato fin troppo tempo.» «Sciocchezze, Trol. Puoi prendere il cavallo di Jard e comunque il tempo che impiegherai potrebbe non essere sprecato. Infatti può tornare utile far conoscere il tuo nome all'Accademia... anche lassù mangiano pane, sai, e nel frattempo noi potremo avviare la prima infornata durante la tua assenza, senza contare la probabilità che questo Forral ti elargisca una ricompensa. Da quello che ha detto Anvar mi pare che sia un uomo onorevole, e del resto se si trattava di un'emergenza, che altro poteva fare? Se fosse successo qualcosa a Bern anche tu ti saresti comportato nello stesso modo.» Ancora accigliato, Trol esitò per un momento. «Quei bastardi potrebbero morire di fame prima che mi decidessi a vendere loro una sola briciola del mio pane» dichiarò quindi. «E comunque non ne hanno bisogno perché se lo preparano da soli... o meglio lo fanno fare a quei Mortali leccapiedi che li servono!»
Soddisfatto di aver avuto l'ultima parola uscì quindi a grandi passi dalla bottega, sbattendosi la porta alle spalle, e quando se ne fu andato il nonno circondò le spalle di Anvar con un braccio. «Vieni, è meglio mettersi al lavoro perché questa mattina siamo molto in ritardo ed è improbabile che l'umore di tuo padre possa migliorare con il trascorrere della giornata.» Nel seguire il nonno, Anvar sentì le ultime parole che questi aveva detto a suo padre echeggiargli nella mente: Bern era il preferito di Trol, che non tentava nemmeno di nascondere i suoi sentimenti. Sempre Bern, pensò, scoccando un'occhiata cupa al bruno fratello minore che lo fissava dalla soglia con un sogghigno sulle labbra. Perché Trol lo preferiva in maniera così marcata? Il nonno aveva ragione nell'affermare che se fosse successo qualcosa a Bern suo padre avrebbe smosso le montagne per aiutarlo, mentre se si fosse trattato di lui... Anvar sospirò, senza concludere il pensiero perché sapeva fin troppo bene quale opinione Trol avesse sul suo conto, anche se gli sarebbe piaciuto capire da cosa fosse motivata. Quando finì di lavorare, quella sera, Anvar si trascinò direttamente su per la scala che portava all'angusto solaio che divideva con Bern, troppo stanco perfino per mangiare la cena speciale che sua madre aveva preparato con l'intento di placare l'umore nero del marito. Senza avere neppure la forza di spogliarsi, si lasciò cadere sul letto e ripensò a quella spaventosa giornata durante la quale Trol li aveva fatti lavorare tutti come schiavi, sfogando sull'intera famiglia la disavventura in cui Anvar era incorso. Entro sera sua madre era apparsa pallida e tremante per la stanchezza, e Anvar si era sentito consumare dai sensi di colpa dovuti alla consapevolezza di essere l'indiretto responsabile di quel suo sfinimento. Pur non essendo mai stata una donna robusta Ria aveva lavorato senza lamentele, timorosa che un suo eventuale cedimento potesse scatenare di nuovo le ire di Trol su suo figlio, e ancora una volta... come spesso gli capitava... Anvar si chiese come avesse potuto una donna così gentile e intelligente finire per sposare un uomo rozzo e avido come suo padre. Senza dubbio quella donna delicata e snella, con i capelli biondo scuro e gli occhi azzurri uguali a quelli ereditati dal figlio maggiore, doveva essere stata un tempo molto bella e avrebbe di certo meritato un partito migliore. Il passato di Ria era un mistero: contrariamente a tutti gli altri abitanti del vicinato lei era capace di leggere, scrivere e suonare, cose che aveva insegnato ad Anvar anche se Trol aveva dichiarato che si trattava di uno
spreco di tempo e aveva sottolineato che Bern almeno aveva il buon senso di non imitare i membri delle classi più elevate e stava invece imparando a seguire le orme di suo padre, come un figlio doveva fare. Per una volta Ria aveva però sfidato il marito su quel punto e Anvar era lieto che lo avesse fatto, perché fin dal giorno in cui il nonno gli aveva intagliato il suo primo, piccolo flauto di legno si era innamorato della musica e aveva dedicato ogni minuto libero ad esercitarsi nel suo uso, facendo impazzire l'intera famiglia e in particolare suo padre. Ben presto però aveva imparato ad eseguire alla perfezione le poche semplici melodie che conosceva e aveva cominciato a comporne di nuove, sfruttando al massimo le possibilità di uno strumento semplice come il flauto e costringendo il nonno a mettere a dura prova la propria ingegnosità per costruire nuovi strumenti che gli permettessero di ottenere i suoni desiderati. Anvar viveva per la sua musica, che insieme a Sara costituiva la sua unica consolazione in una vita di duro lavoro, e spesso benediceva sua madre per avergli elargito quel dono prezioso. Anvar voleva molto bene a sua madre, e adesso che lei era spenta, fragile e logorata, troppo intimidita per tenere testa alle prepotenze di Trol, desiderava spesso di poterla proteggere, ma sebbene crescendo stesse diventando alto e ampio di spalle, il suo corpo era ancora troppo magro e dinoccolato e se si fosse giunti ad uno scontro Trol avrebbe potuto abbatterlo con un solo pugno. Sospirando, Anvar pensò che quella notte aveva anche un altro problema: quando era andato al mulino si era accordato con Sara per incontrarla al loro solito posto lungo la riva del fiume, ma il lavoro sfiancante a cui Trol aveva sottoposto l'intera famiglia gli aveva impedito di tenere fede all'appuntamento e adesso lui poteva soltanto sperare che Sara non si fosse infuriata per il suo mancato arrivo. Inoltre era triste per il povero Pigro, perché quando aveva scoperto che l'animale era definitivamente sfiancato, Trol lo aveva venduto senza esitazione al macello e adesso Anvar piangeva la perdita di quel vecchio cavallo che per quanto recalcitrante e cocciuto aveva avuto un carattere eccellente e una notevole intelligenza, che aveva impiegato di continuo per cercare di evitare di lavorare. Anvar sapeva che avrebbe sentito la sua mancanza, mentre Trol sembrava riuscire a pensare soltanto alla somma generosa che Forral aveva lasciato per lui all'Accademia, dove si era fermato appena il tempo necessario a prelevare la guaritrice, Lady Meiriel, per poi ripartire con lei verso il nord in sella a due cavalli freschi.
Proseguendo nelle sue riflessioni, Anvar si chiese come fosse questa ragazzina la cui vita era in pericolo e anche se in un primo momento si sentì incline a provare del risentimento verso questa misteriosa sconosciuta che gli aveva causato tanti problemi, nel pensarci sopra si trovò a sperare che la guaritrice arrivasse in tempo per salvarla, in modo che dalla morte di Pigro potesse derivare almeno qualcosa di buono. Alcune settimane più tardi la famiglia di Anvar si venne a trovare a sua volta ad avere un disperato bisogno dei servigi di un guaritore. Per tutto l'inverno il nonno si era lamentato di sentirsi stanco e di avere le ossa doloranti, e dopo il Solstizio, in quella cupa stagione che seguiva il sopraggiungere dell'anno nuovo, era infine stato costretto a letto, facendosi ogni giorno più debole per quanto Ria lo assistesse diligentemente con gli infusi di erbe e i rimedi popolari che erano le sole terapie disponibili per i Mortali della città. Quando però Arvan... memore di Forral... implorò suo padre di mandare a chiamare un guaritore, Trol lo rimproverò aspramente. «Non so da dove ti sia venuta un'idea del genere!» esclamò. «Una famiglia come la nostra che manda a chiamare un guaritore? Lady Meiriel ci riderebbe in faccia! E poi non voglio vedere uno di quei Maghi varcare la soglia della mia casa. Adesso torna al lavoro, ragazzo, prima che usi su di te la mia cinghia!» Quando Anvar andò a trovarlo, quella sera, il nonno risultò troppo debole perfino per parlargli e rimase adagiato sui cuscini, inerte. Il suo volto era giallo e incavato, e la pelle aveva acquisito una strana trasparenza che Anvar non aveva mai visto prima e che gli causò un inesplicabile senso di timore. «Mamma, aiutalo» implorò. Ria però scosse il capo, con gli occhi velati di lacrime. «Devi affrontare la realtà, Anvar» replicò in tono sommesso. «Il nonno sta morendo.» «No, lui non può morire!» sussultò Anvar, poi prese una decisione improvvisa: «Vado a chiamare la guaritrice, indipendentemente da quello che vuole mio padre.» «Non puoi farlo!» esclamò Ria, sbiancando in volto e con gli occhi dilatati in un'espressione di puro terrore, una reazione tanto violenta da lasciare Anvar stupito nonostante il suo stato d'animo angosciato. «Perché no?» ribatté, riportando lo sguardo sul volto del nonno. «Non ho paura, e del resto pà è andato alla taverna e se farò in fretta non si accorgerà di nulla.»
«Non si tratta di questo!» ribatté Ria, che adesso stava tremando, poi gli prese le mani nelle proprie e continuò: «Anvar, tu ed io... noi due non dovremo mai avere nulla a che fare con i Maghi. Non ti posso dire il perché ma mi devi credere e devi restare lontano da loro, figlio, per amor mio... e soprattutto nel tuo interesse.» Anvar rimase sconcertato da quella reazione: cos'aveva avuto a che fare sua madre con i Maghi per essere tanto terrorizzata? Lei però non glielo avrebbe mai detto e comunque non aveva tempo per cercare di scoprirlo. «Mi dispiace, madre» mormorò, liberandosi dalla sua stretta, poi sgusciò senza far rumore al piano di sotto, sperando di evitare Bern che era sempre alla ricerca di nuove opportunità per metterlo nei guai, e una volta in strada si mise a correre in direzione del fiume, mentre dalla finestra aperta giungeva fino a lui il pianto di sua madre. Correndo senza posa, percorse le strade silenziose rischiarate dai lampioni e quando infine arrivò al fiume aveva ormai il respiro affannoso. Avvicinandosi alla zona dei moli decise di prendere una scorciatoia che lo avrebbe portato fino al ponte più vicino all'Accademia e si addentrò con passo rapido e nervoso nei vicoli bui del distretto dei moli, dove l'illuminazione era scarsa e la pavimentazione era così sporca da farlo sdrucciolare di continuo. Ben presto cominciò a pentirsi di aver scelto quel percorso perché il distretto in cui si trovava aveva una cattiva reputazione... e in quel momento dall'accesso puzzolente e buio di un piccolo vicolo secondario giunse un improvviso rumore strisciante accompagnato dall'apparizione di parecchie figure lacere che emersero dall'ombra e lo circondarono, costringendolo ad arrestarsi. Allorché le sagome avanzarono verso di lui Anvar fu assalito dalla nausea nell'avvertire l'odore di corpi sporchi e sudati che esalava da esse, e al tempo stesso si sentì inaridire la bocca per il timore nello scorgere il riflettersi della luce di una sovrastante finestra sulla lama di alcuni coltelli che quegli uomini avevano in pugno. «Consegnaci il tuo denaro, ragazzo» ingiunse una voce ringhiante dall'accento sconosciuto. «Non... non ne ho» balbettò Anvar, indietreggiando fino ad essere costretto ad arrestarsi con le spalle contro un muro. «Per favore lasciatemi andare, devo trovare una guaritrice... è un'emergenza» aggiunse, e nel ripetere le parole di Forral si sorprese irrazionalmente a ricordare il suo volto. «Ma senti un po'!» rise il tagliagole. «Non hai denaro ma stai andando a cercare una guaritrice, vero? Ragazzi, perquisitelo!» Anvar venne gettato a terra e mani dure e ossute frugarono fra i suoi ve-
stiti, facendogli accapponare la pelle: ebbe il tempo per lanciare un possente grido d'aiuto prima che i tagliagole cominciassero a percuoterlo. D'un tratto un rumore di zoccoli echeggiò nel vicolo e l'incubo ebbe fine. «Soldati!» gridò qualcuno. «Scappiamo!» Improvvisamente Anvar si ritrovò solo, ammaccato e indolenzito, e mentre lottava per rialzarsi da terra una mano lo afferrò per il colletto e lo issò in piedi. «Ti ho preso!» esclamò qualcuno, e Anvar si trovò a fissare il volto severo di un alto soldato. «Allora, marmocchio, cosa stavi combinando?» chiese l'uomo, con voce aspra. «Per favore, signore» balbettò il ragazzo, contorcendosi nella stretta ferrea dell'uomo, «sono stato assalito mentre andavo all'Accademia a chiamare un guaritore...» «Avanti, non riesci a inventare una scusa migliore?» chiese l'uomo scoppiando a ridere. «Pensi davvero che sia tanto ingenuo da crederti?» Nel parlare trascinò Anvar verso l'estremità del vicolo, dove una singola lampada pendeva da un sostegno di ferro, ma quando ebbe esaminato l'aspetto del ragazzo la sua espressione cambiò immediatamente. «Tu non sei di questa zona» affermò, quasi in tono di accusa. «Cosa ci fa un ragazzo come te a zonzo di notte in questo distretto? Hai perso il senno?» Balbettando. Anvar gli spiegò della malattia di suo nonno e infine il soldato gli lasciò andare il colletto. «Ragazzo» disse con gentilezza, «Lady Meiriel non si prenderà il disturbo di muoversi per gente come tuo nonno. Non sai come sono fatti i Maghi?» «Devo tentare» insistette Anvar. «Perché non dovrebbe volermi aiutare? Qualche tempo fa ho incontrato un uomo chiamato Forral, e...» «Conosci Forral?» chiese il soldato, mentre sul suo volto segnato appariva un'espressione di profondo rispetto. «Ci siamo incontrati sulla strada... e lui ha preso il mio cavallo. Ha detto che doveva andare a chiamare una guaritrice per salvare la vita di una ragazzina. Se è stata disposta a fare questo, perché Lady Meiriel non dovrebbe aiutare mio nonno?» «Non sai chi è Forral, ragazzo?» sospirò il soldato. «Lui è una leggenda vivente... il più grande spadaccino del mondo... ed è amico di alcuni Maghi. La ragazza in pericolo era la figlia di Eilin. la Signora del Lago, e non so neppure se Lady Meiriel è già tornata, considerato che la Valle è molto lontana, verso nord. Mi dispiace, ragazzo, ma anche ammesso che sia rien-
trata non uscirà certo a quest'ora di notte per aiutare il nonno di qualcuno.» «Ma se le potessi spiegare...» persistette Anvar. «Però non dire che non ti avevo avvertito» si arrese il soldato, con aria rassegnata. «Avanti, vieni con me, ti accompagnerò all'Accademia sul mio cavallo, perché se dovessi presentarti là da solo probabilmente i Maghi ti farebbero frustare per la tua sfacciataggine prima di buttarti fuori.» Gli zoccoli del cavallo risuonarono rumorosamente sulla strada rialzata che portava al promontorio allorché Anvar e il soldato si avvicinarono alla porta bianca, il cui vecchio custode era un Mortale, come tutti i servitori dei Maghi. Quando il nuovo amico di Anvar spiegò il perché della loro presenza l'uomo li fissò con espressione incredula. «Cosa? Stai scherzando? Lady Meiriel è tornata proprio oggi da un lungo viaggio e disturbarla mi costerebbe parecchio. Hargorn, avresti dovuto avere abbastanza buon senso da non portare qui questo ragazzo.» «Lo so, ma il suo è un caso speciale» insistette Hargorn. «Questo è il ragazzo che ha dato a Forral il suo cavallo. Se non fosse stato per lui la piccola Maga sarebbe potuta morire prima che la guaritrice arrivasse da lei, e di certo merita per questo un po' di considerazione.» «D'accordo, glielo chiederò» sospirò il vecchio. «Ma vi avverto che non sarà contenta di essere stata disturbata.» Con quelle parole rientrò nel tozzo casotto di guardia dove su uno scaffale era disposta una quantità di cristalli che brillavano ciascuno di una diversa luce colorata. Raccolta una pietra che splendeva di una cupa tonalità fra l'azzurro e il violetto, il vecchio parlò sommessamente tenendola accostata alle labbra e dopo un momento davanti a lui apparve una chiazza luminescente che con stupore di Anvar si tramutò a poco a poco in un volto di donna caratterizzato da corti capelli scuri, zigomi alti e un arrogante naso aquilino. «Cosa c'è?» chiese bruscamente la donna, che aveva un'espressione assonnata e irritata. «Spero che tu abbia un motivo valido per disturbarmi a quest'ora.» Con molti inchini e molte scuse il custode espose la situazione, e quando ebbe finito di parlare Lady Meiriel assunse un'espressione accigliata. «Quante volte ti ho ripetuto di non seccarmi per simili sciocchezze?» chiese. «Se dovessi occuparmi di ogni Mortale malato di Nexis esaurirei i miei poteri in un solo giorno! Manda via quel marmocchio... e quanto a te domani l'Arcimago verrà informato che non intendo tollerare oltre la tua incompetenza. Questo genere di cose succede troppo spesso, segno che
non sei evidentemente adatto per il tuo incarico!» Il volto scomparve nel buio e il custode si girò verso Hargorn. «Hai visto cos'hai fatto?» gemette... ma accanto a lui non c'era più nessuno. Il soldato raggiunse Anvar prima che questi arrivasse in fondo alla strada rialzata. «Lasciami in pace!» gridò il ragazzo, accecato dalle lacrime, ma Hargorn gli posò con gentilezza una mano sulla spalla. «Mi dispiace, ragazzo, però io ti avevo avvertito. Andiamo, ti riaccompagno a casa.» Il nonno morì prima che facesse giorno, e mentre Anvar piangeva vicino al suo corpo Ria cercò di dargli un po' di conforto. «Non ti dolere tanto per lui» sussurrò, cingendogli con un braccio le spalle scosse dai singhiozzi, poi gli indicò il volto del nonno, trasfigurato da un sorriso di gioia pura e sublime, e aggiunse: «Guardalo, è tornato dalla nonna. L'amava moltissimo ed ha sentito terribilmente la sua mancanza per tutti questi anni. Ora però sono di nuovo insieme, lo si vede dal suo volto, e per quanto sappia che soffrirai per la sua scomparsa, caro, dovresti essere contento per lui.» «Come fai a saperlo?» domandò Anvar. «Come puoi essere certa che adesso possa avere una qualsiasi forma di consapevolezza? È morto, anche se quella dannata guaritrice avrebbe potuto salvarlo.» «Anvar, tuo nonno era vecchio e logorato» sospirò Ria. «In realtà non gli è mai piaciuto vivere qui in città e non ha avuto un'esistenza facile. Era stanco, ecco tutto, ed è probabile che Lady Meiriel non avrebbe potuto fare nulla per lui...» «Avrebbe potuto tentare!» ritorse Anvar, rendendosi conto in modo vago che stava gridando. «Avrebbe potuto preoccuparsi per lui! Ma era soltanto un Mortale, e per i Maghi noi contiamo meno degli animali stessi!» Ria sospirò ancora ed uscì dalla stanza, lasciando per l'ultima volta il figlio solo con suo nonno, e mentre se ne stava inginocchiato in quella fredda camera, accanto ai vuoti resti di quello che era stato un uomo buono e amorevole. Anvar sentì un odio profondo e assoluto nei confronti dei Maghi gettare radici nel suo cuore. CAPITOLO QUARTO L'ARCIMAGO
Un suono di voci destò Aurian da un sonno agitato e per un momento pieno di panico lei si chiese dove fosse, finché non vide il chiarore che brillava oltre la soglia aperta che conduceva all'alloggio di Meiriel, all'estremità opposta dell'infermeria. «Lady Meiriel?» chiamò allora, con voce nervosa perché quel posto le sembrava molto strano, con le pareti bianche, nude e lisce e il lucido pavimento di marmo che rifletteva le file di letti vuoti. «Ti ho svegliata?» chiese la guaritrice, avvicinandosi con passo deciso e con un sorriso sul volto. «C'è qualcosa che non va?» replicò Aurian. «Nulla di cui preoccuparsi» rispose Meiriel, scrollando le spalle con indifferenza. «Soltanto un ignorante Mortale che ha creato dei problemi giù alle porte. Poiché siamo dotati di poteri loro pensano che il nostro scopo nella vita sia quello di correre a destra e a sinistra per aiutarli!» Aurian si accigliò, perché sentir parlare di Mortali le ricordava dolorosamente Forral... ma del resto ogni cosa pareva riportarle alla mente il pensiero dello spadaccino. «E non dovremmo farlo?» domandò, serrando i pugni e cercando di ricacciare indietro le lacrime. «Non capisco.» «Qui all'Accademia imparerai che sprecare i propri poteri con questi stupidi esseri lamentosi è una cosa che non si fa, Aurian» affermò la guaritrice, sedendo sul bordo del letto. «Adesso però devi riposare, perché abbiamo appena concluso un lungo viaggio. Vuoi qualcosa che ti aiuti a dormire?» «Sì, Meiriel, per favore» annuì Aurian, perché qualsiasi cosa era meglio che rimanere sveglia a pensare. Cercando di non contrarre la bocca in una smorfia bevve quindi il più in fretta possibile la pozione che la guaritrice le aveva portato: anche se aveva un sapore orribile la preferiva comunque alla magia del sonno di Meiriel, che aveva l'effetto di sconvolgerla perché mentre era sotto il suo effetto il tempo sembrava arrestarsi... le pareva di chiudere gli occhi per un momento appena e tuttavia quando li riapriva erano trascorse delle ore. Per fortuna la guaritrice si era mostrata comprensiva nei confronti delle sue paure, e dopo essere stata trascinata contro la sua volontà lontano da casa e in questo posto nuovo e spaventoso, Aurian era grata per la brusca e pratica gentilezza di Meiriel. Ricacciando indietro le lacrime scivolò di nuovo sotto le coperte, sperando che il sonno sopraggiungesse prima che la sua
mente ricominciasse a rimuginare sulla catastrofe che si era abbattuta sulla sua vita. La guaritrice aveva impiegato parecchie settimane a riparare la spalla danneggiata di Aurian, che però non ricordava nulla di quei primi giorni in cui Meiriel aveva faticato senza sosta per salvarle il braccio con la propria magia, ricongiungendo con infinita pazienza i frammenti dell'osso infranto e riparando i muscoli recisi per poi impiegare i propri poteri per accelerare la capacità di autorisanamento insita nell'organismo della paziente, un procedimento che aveva consumato le energie di Aurian e l'aveva fatta sprofondare in un sonno profondo mentre il suo corpo recuperava le forze. Quando infine si era svegliata la ferita si era ormai rimarginata e stava guarendo in fretta anche se il braccio era ancora rigido, dolorante e debole. Naturalmente aveva subito chiesto di Forral e in un primo tempo sua madre aveva cercato di tergiversare finché Meiriel non le aveva consigliato di darle la lettera... quella lettera che lei ormai conosceva a memoria, parola per parola: «Aurian, tesoro, mi dispiace di non poter essere presente quando ti sveglierai ma se aspettassi per dirti addio non riuscirei mai ad andarmene. Non so se sarò in grado di spiegarmi in modo tale da farti comprendere il motivo della mia decisione, ma intendo provarci. Non dare la colpa a tua madre... questa volta non è stata lei a mandarmi via. So che si è trattato di un incidente, ma è successo per causa mia: non avevo il diritto di esporti a simili rischi e non riesco a credere di poter essere stato tanto stupido. Lady Meiriel afferma che presto starai bene e che recupererai l'uso del braccio, per cui posso soltanto ringraziare gli dèi di non averti uccisa sul colpo... ma nonostante questo non mi perdonerò mai per l'accaduto. «Ho dovuto spiegare a tua madre perché abbiamo cominciato il tuo addestramento con la spada, ma non devi preoccuparti... non è arrabbiata, tranne che con me per non avergliene parlato prima. In ogni caso lei e la guaritrice vogliono che tu vada a Nexis per essere addestrata adeguatamente, il che è soltanto giusto perché in fin dei conti tu sei una Maga. Ho anche pensato di tornare a Nexis con te e di entrare di nuovo a far parte della guarnigione in modo da poterci vedere di tanto in tanto, ma questo non sarebbe giusto nei tuoi confronti perché hai bisogno di inserirti fra la tua gente e di imparare ad usare i tuoi talenti, ed io ti sarei soltanto d'impiccio. Di conseguenza sto per riprendere la mia vita di soldato. «Aurian, ti prego, perdonami se ti sto lasciando in questo modo: mi
spezza il cuore ma è la cosa migliore... e comunque non dubitare mai che un giorno ci rivedremo. Penserò sempre a te, che hai tutto il mio amore. Forral.» Le settimane successive erano passate in uno stato di apatica infelicità perché nulla aveva più importanza adesso che Forral se n'era andato. Stordita e con il cuore dolente, Aurian si era chiesta se non si era sbagliata in merito ai sentimenti dello spadaccino... infatti come avrebbe mai potuto abbandonarla in questo modo, se davvero l'amava? Passivamente, aveva fatto ciò che suo madre e la guaritrice le avevano detto, e a poco a poco il suo corpo si era ripreso abbastanza da permetterle di compiere il viaggio fino a Nexis insieme a Meiriel, ma neppure la vista di tanti luoghi nuovi era servita a riscuoterla e il clima cupo e freddo che aveva accompagnato il loro viaggio era parso in perfetta sintonia con il suo stato d'animo. Dapprima avevano attraversato una selvaggia brughiera innevata, poi avevano raggiunto la grande strada che scendeva verso la pianura attraversando distese di campagne e di foreste domate dall'uomo e sottoposte a coltura, ma Aurian non aveva badato a nulla di tutto questo, a stento consapevole di ciò che la circondava e tanto meno dell'importanza di quel viaggio. Ci era voluta la vista della città per strapparla alla morsa dell'autocompassione: dopo aver trascorso quasi tutta la vita in solitudine nell'isolata valle di sua madre la vista di Nexis con i suoi edifici incombenti e le sue orde di abitanti aveva avuto l'effetto di terrorizzarla. Tutto era così grande, rumoroso e affollato da darle l'impressione di non riuscire a respirare, e fino a quel momento non aveva mai immaginato che al mondo ci potessero essere tante persone. «Coraggio, bambina!» l'aveva confortata Meiriel, con i suoi modi bruschi ma comprensivi. «Non spaventarti, non ti faranno del male. Adesso trai qualche profondo respiro e resta vicino a me. All'interno dell'Accademia c'è molta più tranquillità, e comunque con il tempo ti abituerai alla città.» Aurian dubitava che si sarebbe mai abituata alla città o all'Accademia: l'asettica infermeria di Meiriel era terribilmente diversa dall'ingombra e familiare cucina di sua madre e poiché tutto le appariva alieno lei viveva nel costante timore di dire o di fare qualcosa di sbagliato, e desiderava disperatamente di poter tornare al rifugio della propria stanza e al conforto dato dalla presenza di Forral. Per alimentare il suo vacillante coraggio aveva preso l'abitudine di ag-
grapparsi alla sua spada, tenendola accanto a sé nel fodero perfino quando dormiva perché essa era tutto ciò che le restava di Forral. Non appena si era ripresa dalla ferita abbastanza da essere in grado di camminare era tornata nella radura dove lei e Forral avevano trascorso tante ore allegre esercitandosi nella scherma e aveva trovato la sua preziosa spada che giaceva intatta dov'era caduta, anche se il fodero di cuoio cominciava già a scolorire e la lama appariva chiazzata di ruggine. Scossa dai singhiozzi, aveva raccolto l'arma e il fodero e li aveva portati a casa, passando poi ore intere a pulire e ad oliare entrambi con la massima cura, soffermandosi di frequente per asciugare le lacrime che minacciavano di rovinare il suo lavoro. Nonostante tutte le obiezioni di Meiriel e di sua madre aveva rifiutato di separarsi dall'arma, reagendo con tanta violenza alla sola idea di abbandonarla che entrambe si erano rassegnate a permetterle di conservarla. Tenendola stretta a sé Aurian adesso pianse fino ad addormentarsi, come aveva fatto ogni notte da quando Forral era andato via. Nel suo alloggio, Meiriel stava ascoltando il suono sommesso del pianto di Aurian, rimpiangendo che fosse stato necessario rimuovere la bambina da casa in quel modo: quando infine nell'altra stanza scese il silenzio lei tornò silenziosamente accanto al letto di Aurian per accertarsi che si fosse davvero addormentata, poi chiamò un servitore perché le rimanesse accanto, si gettò un mantello sulle spalle e si avviò attraverso il cortile rivestito di brina in direzione della Torre dei Maghi, dove una luce rossa filtrava da una finestra dalle tende scarlatte dell'ultimo piano, a indicare che l'Arcimago era nelle sue stanze. «Come vanno le cose con la bambina, Meiriel?» domandò l'Arcimago. Come tutti i membri della sua razza era di alta statura, e con i lunghi capelli e la barba fluente di una scintillante tonalità argentea, il naso scarno e aquilino, gli occhi scuri e roventi e il comportamento altezzoso, appariva l'incarnazione stessa del Mago più potente del mondo; le sue vesti scarlatte frusciarono sui ricchi tappeti che ricoprivano il pavimento quando lui attraversò la stanza per versare un boccale di vino a Meiriel. Nel sedersi, la guaritrice scorse nell'ombra vicino alla finestra la snella figura vestita d'argento di Eliseth e si accigliò, perché non provava simpatia per la gelida e infida Maga del Clima e non si fidava di lei. «Pensavo che questo sarebbe stato un incontro privato» osservò. «Suvvia, Meiriel, non essere sciocca» la rimproverò l'Arcimago, por-
gendole il boccale di cristallo pieno di vino. «Da quando abbiamo ricevuto il tuo messaggio Eliseth mi ha aiutato ad elaborare i necessari piani. Se quello che affermi è vero la figlia di Geraint ha talenti che ci possono tornare utili e dovrà essere gestita in maniera molto speciale. Non devo certo ricordarti che abbiamo bisogno della massima lealtà da parte di tutta la nostra gente, in quanto il Popolo dei Maghi è diminuito notevolmente di numero, i nostri poteri sono severamente limitati dal Codice dei Maghi e il dissenso fra quei miserabili Mortali si sta facendo sempre più intenso. Per ora controllo ancora il portavoce della guarnigione presso il Consiglio dei Tre, ma presto Rioch andrà in pensione e fra i suoi guerrieri non ce n'è nessuno che possa risultare un successore altrettanto accomodante... e il nuovo rappresentante dei mercanti, quel ruffiano di Vannor, mi sta già creando dei problemi.» Accigliandosi, l'Arcimago fece una pausa e bevve un sorso di vino. «Poiché una Maga perde i suoi poteri nel corso della gravidanza, la nostra razza è sempre stata riluttante a riprodursi e fra noi non nascono nuovi bambini, il che significa che siamo pericolosamente inferiori di numero rispetto ai Mortali. Senza contare Eilin, che rifiuta di tornare fra noi, siamo infatti rimasto soltanto in sette... tu ed io, Eliseth e Bragar, i gemelli e Finbarr... e di questi sette i gemelli sembrano incapaci di accedere appieno al loro potere mentre Finbarr non lascia mai il suo archivio. Non ti offendere, Meiriel, so che lui è il tuo compagno, e mi rincresce che noi non si possa fare a meno dei tuoi poteri risananti per il tempo necessario a permetterti di portare a termine una gravidanza. Lo stesso naturalmente vale anche per Eliseth, considerato che i suoi studi sono arrivati ad un punto critico...» «Altrimenti sarei ovviamente lieta di sacrificarmi» intervenne con disinvoltura Eliseth, e Meiriel si trattenne a stento dal ribattere in modo sarcastico. Bugiarda, pensò. Tutto quello che vuoi è il potere e saresti pronta anche adesso a generare un figlio da Miathan, se lui te lo chiedesse. «Questo cosa c'entra con Aurian?» chiese, tornando a rivolgersi all'Arcimago. «Di certo non ti aspetterai che generi qualche nuovo Mago, considerato che quella bambina ha appena quattordici anni!» Miathan congiunse le mani e fissò la guaritrice con espressione paziente. «Mia cara Meiriel, ma che razza di suggerimento!» replicò in tono soave. «È ovvio che non mi aspetto una cosa del genere, non ancora almeno, però dobbiamo essere lungimiranti e di certo lei non avrà quattordici anni in eterno: se come tu affermi è dotata dell'intera gamma dei poteri, questo
è un talento che deve essere trasmesso per il vantaggio della nostra razza. Per il momento, tuttavia, stavo pensando piuttosto alla nostra precaria posizione in mezzo ai Mortali: se si dovesse risapere in giro che fra noi c'è una nuova Maga dotata di poteri che si possono definire spettacolari, loro ci penserebbero due volte prima di contrastarci. Dopo tutto hanno già avuto modo di sperimentare ciò di cui suo padre era capace.» «Questo è sgomentante, Miathan! Del tutto immorale!» esplose Meiriel. «Il Codice dei Maghi ci proibisce espressamente di usare il potere per ottenere il dominio sugli altri!» «Questo è ovvio, mia cara» convenne Miathan, con voce fluente e melodiosa, «ma se esamini con cura la terminologia del Codice ti accorgerai che in esso nulla vieta di indurre la gente a credere che un Mago possa usare i suoi poteri contro di essa, e se i Mortali dovessero sviluppare una simile assurda convinzione noi non ne avremmo nessuna colpa, non trovi?» «Sono soltanto sofismi e tu lo sai! Ti stai avvicinando pericolosamente ad infrangere il tuo giuramento di fedeltà al Codice, Miathan, e così ci porterai tutti alla perdizione insieme a te. Hai intenzione di corrompere anche quella bambina?» «Di certo stai reagendo in maniera spropositata» osservò Eliseth, scrollando con eleganza le spalle. «Dopo tutto queste sono soltanto congetture da parte dell'Arcimago e la sola cosa che attualmente gli interessa è aiutare la bambina e conquistare la sua fiducia. Chi può sapere quali assurdità Eilin e quello zotico di un Mortale possono averle instillato nella mente? Sai quanto sia duro il nostro addestramento, e quella ragazzina sta cominciando in ritardo, quindi sono pronta a scommettere che mancherà di disciplina e che sta per andare incontro a momenti difficili. L'ultima cosa che vogliamo è che finisca per nutrire del risentimento nei confronti dei Maghi... dopo tutto noi siamo il suo popolo... quindi Miathan ed io abbiamo pensato ad un modo per ovviare al problema. Ti garantisco che abbiamo soltanto a cuore il suo benessere... lo vedrai tu stessa, Meiriel.» «Infatti» convenne con vigore Miathan. «Meiriel, domattina affiderai Aurian ad Eliseth e questo concluderà per il momento la tua parte nel suo addestramento. Da domani dovrai lasciare fare a noi e tenerti lontana dalla bambina, badando a non interferire.» «Ma...» «Questo è un ordine diretto dell'Arcimago, Meiriel» tagliò corto Miathan, assumendo un'espressione inflessibile. «Adesso puoi andare.»
Aurian provò un'immediata antipatia nei confronti di Eliseth: anche se il suo volto era di una bellezza perfetta e i suoi capelli argentei fluivano fino ai piedi simili ad una cascata scintillante, la Maga aveva infatti un sorriso gelido che non le rischiarava mai gli occhi grigi, freddi e duri come l'acciaio. Per prima cosa Eliseth la condusse nella camera che d'ora in poi sarebbe stata la sua... una minuscola cella dalle pareti imbiancate che si trovava al pianterreno della Torre dei Maghi e che conteneva un arredo della massima semplicità, composto da uno stretto letto, un tavolo con una sedia, alcuni scaffali e una cassapanca in cui riporre le sue cose personali e i suoi abiti. A parte i vestiti che indossava, Aurian però non aveva cose personali tranne la spada, alla cui vista Eliseth si accigliò. «Non puoi tenerla» dichiarò quindi, in tono piatto. «È troppo pericolosa per una ragazzina. Dalla a me.» E protese la mano per prendere l'arma. «Non toccare la mia spada!» esclamò Aurian, sguainando in un lampo la lama, secondo la mossa che Forral le aveva insegnato. Eliseth socchiuse gli occhi e accennò un gesto con la mano sinistra, in reazione al quale Aurian si trovò avvolta in una gelida e trasparente nube azzurra che le strappò un sussultò e la immobilizzò: adesso il suo corpo era rigido e ghiacciato, pervaso di un gelo bruciante che pareva penetrarle nelle ossa, ed Eliseth approfittò della sua impotenza per piombare su di lei e sfilarle Coronach di mano, indugiando quindi a squadrarla da testa a piedi con espressione fredda quanto la nuvola da lei creata. «Ascoltami, marmocchia» sibilò. «Adesso che sei qui imparerai la disciplina e l'obbedienza... soprattutto l'obbedienza nei miei confronti... altrimenti ne soffrirai le conseguenze! Adesso andrò a cercare la cucitrice perché ti prenda le misure e ti confezioni qualche abito decente, e come punizione per il tuo inqualificabile comportamento resterai come sei fino al mio ritorno!» Poi uscì dalla stanza portando con sé la spada e lasciando Aurian ancora congelata e impossibilitata a piangere. Sebbene dentro di sé stesse ribollendo d'ira nei confronti della fredda Eliseth, la lezione da questa impartitale aveva comunque ottenuto il suo effetto: lei stava già cominciando a temerla. Più tardi quello stesso giorno Eliseth mostrò l'Accademia alla sua avvilita e infelice allieva, Il promontorio, sul quale c'erano in effetti molte cose
da vedere, aveva una forma simile a quella dell'ampia lama di una lancia, la cui punta era smussata in una curva gentile dall'alto muro che ne cingeva il perimetro su tutti i lati. Le porte principali, che si trovavano alla congiunzione dell'ipotetica punta di lancia con l'asta, erano fornite di un piccolo casotto sulla sinistra e al di là di esse l'erta strada che Aurian aveva percorso il giorno precedente si snodava a zigzag fino alla strada rialzata e al secondo casotto di guardia. Gli edifici si affacciavano tutti su un cortile centrale ovale rivestito di piastrelle colorate che formavano un mosaico intorno all'elegante fontana che nel centro emetteva un rilassante gorgoglio nel lanciare sottili e arcuati getti d'acqua nel sottostante bacino di marmo. L'infermeria di Meiriel si trovava sulla sinistra del casotto di guardia, e vicino ad essa c'erano le cucine e gli alloggi dei servi che erano a ridosso della Grande Sala, con le sue alte finestre ad arco; oltre la sala, là dove il muro descriveva una curva lungo il dirupo del promontorio, sorgeva l'alta ed elegante Torre dei Maghi in cui dimoravano tutti i Maghi presenti all'Accademia. Di fronte alla Torre e dal lato opposto della curva, era situata l'enorme biblioteca, un edificio dall'architettura convoluta e complessa al di là del quale si stendevano in direzione delle porte altri edifici destinati allo studio delle singole discipline magiche, dominati dalla massiccia e bianca cupola climatica il cui contorno era visibile tutt'intorno per un raggio di chilometri. Tutti gli edifici, perfino il casotto di guardia e gli umili alloggi dei servi, erano realizzati in un abbagliante marmo bianco che sembrava permeato di un innato bagliore perlaceo e che offriva uno spettacolo di una bellezza tale da togliere il fiato... ma Aurian, spaventata e piena di nostalgia di casa, lo trovò detestabile pur rimanendo stupita dall'immensità dei preziosissimi archivi, dal tempio scoperto che si levava sulla sommità della Torre dei Maghi con le sue immense pietre erette, e dall'imponente Grande Sala che era quasi sempre in disuso adesso che i Maghi erano così ridotti di numero. Aurian venne quindi condotta in uno speciale edificio privo di finestre e dotato di porte e di arredi di ferro in modo da permettere di studiare senza pericoli la Magia del Fuoco, poi visitò una bassa costruzione bianca che conteneva una profonda polla e molte fontane, ruscelli, canali e cascate per lo studio della Magia dell'Acqua. Più oltre una grande serra di vetro riservata alla Magia della Terra conteneva piante, erba e perfino alcuni piccoli alberi, e la sua vista ricordò dolorosamente ad Aurian la stanza di lavoro che sua madre aveva in cima alla sua torre, tranne per il fatto che l'erba era marrone e avvizzita, e tutte le piante erano morte e rinsecchite; quanto agli
animali, se un tempo là ce n'erano stati adesso erano scomparsi da tempo... una condizione di decadimento dovuta al fatto che Eilin era stata la sola Maga vivente che praticasse la Magia della Terra e quella stanza era rimasta in stato di abbandono da quando lei aveva lasciato l'Accademia. Il luogo che Aurian trovò più meraviglioso di tutti fu la massiccia cupola bianca la cui sagoma dominava l'intero complesso. La camera all'interno aveva il soffitto tanto alto da permettere che sotto di esso si formassero piccole nubi bianche, e nel tetto erano inserite una serie di valvole e di aperture di ventilazione: quella era la stanza di Eliseth, in cui lei praticava la Magia del Clima, e per quanto la sua vista l'avesse convinta che si trattava della magia più importante di tutte Aurian non osò chiedere il perché di questo. Durante quel giro dell'Accademia, Eliseth ne approfittò per presentare Aurian agli altri Maghi. «Noi tendiamo ad essere dei solitari» disse. «Per lo più siamo immersi nei nostri progetti e mangiamo nelle nostre stanze a meno che non sia un giorno di festa oppure un'occasione speciale, quindi è meglio che tu incontri subito tutti... tranne l'Arcimago, naturalmente, che è troppo impegnato per preoccuparsi di una ragazzina» aggiunse, dando all'ego di Aurian il colpo di grazia. Conoscere Finbarr ebbe peraltro l'effetto di rincuorarla un poco. Lei ed Eliseth lo trovarono negli archivi, un labirinto di cantine che era stato intagliato nella roccia viva al di sotto della biblioteca, dove il Mago sedeva ad un tavolo in una piccola caverna le cui pareti erano rivestite di scaffali che traboccavano di antiche pergamene. Il tavolo a cui Finbarr era seduto era del tutto sgombro tranne per uno stilo, due ordinati mucchi di carta, uno di fogli scritti e uno di fogli ancora da utilizzare, e una mezza dozzina di pergamene ordinatamente arrotolate e legate, e lui era intento a leggere un altro documento dall'aria antica alla luce di una scintillante sfera luminosa che restava sospesa del tutto immobile sopra la sua testa. «Vedo che sprechi ancora il tuo tempo con questa vecchia robaccia» commentò Eliseth, a titolo di saluto. Al loro ingresso il Mago era parso tanto concentrato che Aurian si aspettò di vederlo sussultare, ma lui si limitò a sospirare e a posare la pergamena sul tavolo, dove essa tornò immediatamente ad arrotolarsi. «Ferma!» ingiunse con voce tagliente il Mago, e subito la pergamena tremolò, appiattendosi nella giusta posizione mentre Finbarr si voltava a fissare le visitatrici con i suoi penetranti occhi azzurri che spiccavano nel
volto rasato e dalla struttura angolosa propria di tutti i Maghi; i capelli castani che gli incorniciavano il viso erano striati di grigio ma il suo aspetto non era né giovane né anziano e nel suo sguardo c'era un bagliore ammiccante e divertito mentre lui replicava in tono beffardo: «O Signora del Tuono, Padrona delle Tempeste, sei infine venuta ad annientarmi con una bufera di gelido disprezzo oppure ti limiterai a farmi piovere addosso, rovinandomi la giornata?» Nel parlare strizzò l'occhio ad Aurian, che soffocò a stento una risatina. «Finbarr, uno di questi giorni la tua cosiddetta arguzia ti metterà nei guai» scattò Eliseth. «La tua utilità è pari a quella di queste tue vecchie pergamene!» «Se non altro le mie pergamene sono una compagnia piacevole anche se esigente» rispose Finbarr, scrollando le spalle. «Mi pare di capire che il motivo di questa tua assolutamente insolita visita nel santuario del sapere e della saggezza sia quello di farmi conoscere questa splendida giovane signora» aggiunse, rivolgendo ad Aurian un sorriso gentile. «Sai già chi è, Finbarr» dichiarò Eliseth, accigliandosi. «È la marmocchia di quel rinnegato di Geraint.» Nel sentire quelle parole Aurian soffocò un piccolo verso di protesta e serrò i pugni, e subito Finbarr spinse indietro la sedia per accoccolarsi davanti a lei e portare il proprio corpo alto e dinoccolato al suo livello, sollevandole poi il mento con un dito gentile in modo da guardarla negli occhi. «Bambina, all'interno di queste venerabili mura sentirai una quantità di sciocchezze del genere» affermò in tono sommesso. «Limitati ad ignorarle. La sola colpa di Geraint è stata di avere un eccessivo orgoglio, un difetto comune a tutti i Maghi che vorrebbero insozzare il suo nome» proseguì, scoccando un'occhiata gelida ad Eliseth. «Non sto affermando che quanto lui ha fatto fosse giusto, ma soltanto che lo stesso disastro sarebbe potuto accadere ad uno qualsiasi di noi, quindi non badare a quello che la gente dice ma tieniti pronta ad imparare dai suoi errori... ed anche dai nostri, perché ciò che Geraint ha fatto non è certo stato unico nel suo genere. La stona è piena di simili esempi... come per esempio il Cataclisma, avvenuto quando gli antichi Maghi sono entrati in guerra fra loro, giungendo pericolosamente vicini a distruggere il mondo con i quattro grandi Manufatti del Potere e...» «Per l'amore del cielo, Finbarr. risparmiaci una conferenza!» esclamò Eliseth. Aurian rimase sconvolta dalla sua scortesia ma essa non parve sorpren-
dere Finbarr, che continuò a parlarle come se la protesta della Maga non avesse avuto importanza. «Mia giovane amica, spero che non permetterai mai ad Eliseth di insegnarti a disprezzare quel sapere che è tanto importante per tutti noi: se la studiamo bene, infatti, la nostra storia ci insegnerà a non ripetere gli stessi errori. So che per adesso Eliseth è incaricata di occuparsi del tuo addestramento, ma quando ti sarà permesso torna a parlare con me ed io ti insegnerò altre cose oltre alla magia, e sarò sempre pronto a rispondere alle tue domande. Adesso dimmi il tuo nome, perché mi pare che Eliseth si sia dimenticata di farlo.» «Mi chiamo Aurian» ripose lei, riuscendo a sfoggiare un sorriso. «Io sono Finbarr. Sono il compagno di Meiriel. e spero che con il passare del tempo ci vedremo più spesso, ma nel frattempo segui questo consiglio: applicati con diligenza e tieniti lontana dai guai... e non permettere a questa nostra Signora del Disordine di logorarti.» «È ora di andare, Aurian» intervenne in tono gelido Eliseth. «Vedi cosa intendo?» sorrise Finbarr. «Sarà meglio che tu le obbedisca, altrimenti ci ritroveremo entrambi in un istante sommersi dai chicchi di grandine.» «Dannazione a te, Finbarr!» ringhiò Eliseth. «Non osare divertirti a mie spese!» «Scusami, Eliseth» replicò l'Archivista, anche se ad Aurian non parve che avesse l'aria contrita, poi aggiunse: «Arrivederci, Aurian... almeno per ora.» L'incontro con gli altri Maghi risultò assai meno soddisfacente perché i gemelli la trattarono con indifferente disprezzo e lei si sentì estremamente a disagio in loro compagnia perché in quei due c'era qualcosa di strano che la turbava e che non riusciva a definire. Entrambi avevano l'aspetto giovane, con i capelli biondi e il volto rasato, ma Davorshan era sorprendentemente rozzo e tozzo per essere un Mago, i suoi corti capelli biondi avevano una sfumatura rossiccia e gli occhi incorniciati da ciglia chiare erano quasi incolori... una particolarità a causa della quale Aurian trovò quasi impossibile incontrare il suo sguardo, perché la colorazione neutra delle pupille sembrava respingerla fisicamente. La cosa peggiore era che Davorshan pareva essere consapevole di quella sua caratteristica e servirsene deliberatamente per mettere gli altri a disagio. Suo fratello D'arvan aveva un aspetto del tutto diverso, al punto da far apparire impossibile che fossero fratelli e tanto meno gemelli: i capelli
chiarissimi gli ricadevano sulle spalle e la sua ossatura era così fine e minuta da dargli un aspetto quasi femmineo, mentre i profondi e luminosi occhi grigi erano incorniciati da lunghe ciglia scure che avrebbero fatto invidia a qualsiasi ragazza. Durante l'incontro D'arvan si tenne sempre alle spalle del fratello, senza dire nulla e lasciando che fosse Davorshan a portare avanti la conversazione, un atteggiamento che indusse Aurian a giudicarlo freddo e strano, mentre se fosse stata più matura si sarebbe probabilmente resa conto che era soltanto terribilmente timido. «Loro cosa fanno?» si azzardò a chiedere ad Eliseth, una volta che ebbero lasciato l'alloggio dei gemelli. «Lo sanno soltanto gli dèi» replicò la Maga, scrollando le spalle. «Hanno nelle vene sangue di Maghi, perché sono figli del famoso Mago dell'Acqua Bavordran e della Maga della Terra Adrina, e Miathan è certo che debbano avere dei poteri, ma quali che siano essi non sono ancora emersi e noi pensiamo che dipenda dal fatto che sono gemelli e sono quindi legati mentalmente uno all'altro a tal punto da impedire che il loro potere venga liberato. Davorshan mostra una certa tendenza per la Magia dell'Acqua, ma sembra essere più affascinato dai mezzi fisici per controllarne lo scorrere che da quelli magici: la sua mente è piena di pompe, di condutture e di acquedotti, e per quanto continuiamo a ripetergli che queste cose sono per i Mortali e che noi abbiamo a disposizione altri mezzi non riusciamo a distoglierlo da queste assurdità. Quanto a D'arvan, non è neppure in grado di sputare senza l'aiuto del fratello, ma per quanto continui a ripetere all'Arcimago che addestrarlo è soltanto uno spreco di tempo lui insiste perché ci proviamo.» Eliseth mostrò invece di avere una notevole opinione dell'ultimo Mago, Bragar. La sua disciplina era la Magia del Fuoco, la stessa di Geraint, quindi Aurian era stata impaziente di conoscerlo, ma il suo entusiasmo si dissolse non appena lo vide perché Bragar aveva il volto scarno, era completamente calvo e i suoi occhi, scuri come quelli di Eliseth, erano privi di calore e di espressione al punto da farlo apparire simile ad un rettile. La sua aura era scura quanto le sue vesti purpuree e perfino Aurian, giovane e inesperta com'era, poté avvertire la crudeltà della sua natura che lo avviluppava come un paio di grandi ali nere. Bragar la guardò dall'alto in basso come se fosse stata una sorta di insetto e quando si degnò di parlarle usò un tono sardonico e condiscendente, facendole accapponare la pelle ad un punto tale da indurla a giurare a se stessa di tenersi d'ora in poi alla larga da lui. Al tempo stesso, la consapevolezza che Bragar possedeva come suo
padre il talento per la Magia del Fuoco e che quindi avrebbe dovuto probabilmente studiare sotto la sua guida ebbe l'effetto di riempirla di timore. Le settimane che seguirono il suo arrivo all'Accademia si trasformarono in un lungo incubo a cui non le era possibile sottrarsi: a quanto pareva era stata affidata esclusivamente alla guida di Eliseth, che era estremamente aspra ed esigente. Fino a quel momento Aurian non aveva ricevuto un addestramento formale nell'uso della magia, e l'impiego che aveva fatto dei suoi poteri era sempre stato spontaneo ed istintivo, mentre adesso doveva imparare a disciplinare quel suo talento selvaggio fino a trasformarlo nel potere controllato e focalizzato che costituiva il segreto dei Maghi... e secondo Eliseth questo risultato poteva essere ottenuto soltanto mediante la ripetizione infinita di esercizi che a lei sembravano non chiarire nulla e realizzare ben poco. Eliseth mise alla prova il suo talento con la Magia del Fuoco usando una fiamma di candela che lei doveva accendere, spegnere oppure cambiare di dimensioni, ma Aurian non ci riuscì perché non sapeva da dove cominciare e non fu neppure in grado di comunicare mentalmente con la sua istruttrice... un talento comunque raro fra i Maghi, anche se lei non aveva modo di saperlo... perché non esisteva traccia di empatia fra lei ed Eliseth. Con la levitazione e la Magia della Terra ottenne invece qualche successo ma trovò impossibile afferrare le basi della Magia dell'Acqua; quanto alla Magia dell'Aria... di cui la sua istruttrice era specialista in quanto Maga del Clima... Eliseth giudicò che non fosse neppure il caso di affrontarla, alla luce dei miseri risultati che Aurian aveva ottenuto fino a quel momento. Gli esercizi di concentrazione che Forral le aveva insegnato le furono in qualche misura di aiuto, ma al tempo stesso Aurian scoprì che focalizzare la propria volontà era molto diverso dal disciplinare la mente, e ripetutamente le capitò di lasciarsi distrarre da qualche piccola cosa, con il risultato che il suo potere svaniva del tutto o sfuggiva al controllo con conseguenze disastrose. In quelle occasioni le punizioni di Eliseth risultavano crudeli, umilianti e piene d'inventiva, e ben presto Aurian cominciò ad aver paura anche soltanto di tentare un esercizio per timore di fallire ancora, con l'unico effetto di avere ulteriori problemi con la sua impaziente insegnante. Perfino di sera non aveva un momento libero, perché Eliseth le aveva ordinato d'imparare a memoria l'intero Codice dei Maghi e la interrogava quotidianamente su di esso.
Nel complesso Aurian si sentiva più infelice e sola di quanto lo fosse mai stata in tutta la sua vita. Le cose sarebbero state più facili se avesse potuto mandare un messaggio a sua madre, oppure parlare con Finbarr o con Meiriel, ma Eliseth la teneva praticamente prigioniera, costringendola a lavorare tutto il giorno e chiudendola a chiave nella sua stanza di notte, tanto che ben presto Aurian perse l'appetito e cominciò ad aver problemi a prendere sonno: ogni notte restava sveglia ad agitarsi e a rigirarsi nel letto e ogni mattina il suo volto appariva più pallido, scavato e spento; al tempo stesso divenne sempre più timida e nervosa, scoppiando in pianto alla minima provocazione, e a mano a mano che le settimane divennero mesi e che la primavera tornò lentamente ad avvicinarsi lei infine si convinse che non sarebbe mai diventata una Maga. Inevitabilmente, nel suo animo la disperazione ebbe la meglio anche sulla paura della città e del vasto mondo esterno, e diede vita all'incontenibile desiderio di fuggire. Infine le si presentò l'opportunità che aspettava. Dopo una giornata particolarmente esasperante Eliseth la mandò nella sua stanza... e si dimenticò di chiudere a chiave la porta. Trattenendo quasi il respiro, Aurian attese fino a notte inoltrata, pregando che nel frattempo la Maga non tornasse ancora una volta a imprigionarla, poi raccolse i suoi abiti di ricambio in una coperta e strisciò fuori della torre, aspettandosi di sentire una voce irosa che la richiamava indietro. In un primo tempo le cose le parvero fin troppo facili, perché fuori l'aria era mite e primaverile, la luna piena dava luce in abbondanza e il cortile era del tutto deserto. Spostandosi silenziosamente da un'ombra all'altra, cercò un'uscita diversa dalle porte principali, che erano sorvegliate e permettevano di accedere soltanto alla strada priva di copertura che portava al secondo casotto di guardia ai piedi dell'altura, ma nel descrivere il perimetro delle mura dell'Accademia cominciò a disperare, perché sebbene dovesse di certo esserci un'altra via d'uscita le sue ricerche la riportarono infine ai piedi della Torre dei Maghi. Si sentiva talmente frustrata che avrebbe potuto sedersi per terra e mettersi a piangere, ma sapeva che l'occasione di fuggire avrebbe potuto non ripresentarlesi una seconda volta e che non poteva permettersi di sprecarla, quindi strinse i denti e si concesse una delle imprecazioni preferite di Forral. «D'accordo» borbottò. «Allora vuol dire che scalerò le mura.» Alla ricerca di un punto in cui la pietra liscia delle mura fosse più facile da scalare sgusciò verso l'angolo in cui esse combaciavano con il fianco rotondo della torre e là, nascosta nell'ombra, trovò una piccola pusterla di
legno inserita nelle pietre del muro. Mordendosi un labbro, lottò con il grosso anello di ferro che fungeva da maniglia e spinse con forza: la piccola porta infine si apri, ma non appena l'ebbe oltrepassata Aurian si sentì assalire dallo sconforto perché davanti a lei c'era un giardino recintato e non una via d'uscita. Nascondendosi fra i cespugli che crescevano lungo la recinzione indugiò allora a scrutare il giardino, che era veramente splendido, con l'erba dei prati tagliata in maniera uniforme, le fontane che brillavano sotto la luce della luna e le ordinate aiuole di delicati fiori primaverili su cui danzavano le prime farfalle notturne, attratte dal loro profumo che arrivava fino a lei sulle ali della brezza primaverile. A parte una macchia centrale di vegetazione più fitta, soltanto le mura con i cespugli ad esse addossate offrivano un nascondiglio di qualche tipo... e nel guardarsi intorno Aurian si accorse che un tratto di quelle mura, il più lontano da lei. era abbastanza basso da arrivare appena alla vita di un uomo. Una via d'uscita! Per un momento il cuore le balzò in gola per l'entusiasmo, ma quando cercò di orientarsi si rese conto che quello era il muro che si affacciava sull'erta parete dell'altura che scendeva verso il fiume sottostante in modo quasi perpendicolare, come la prua di una nave. Serrando la mascella in un gesto cocciuto lottò per ricacciare indietro la disperazione e decise che avrebbe dovuto tentare la discesa, che forse non si sarebbe rivelata così terribile come sembrava... e del resto anche la morte era una soluzione migliore al trascorrere un altro giorno in quel luogo. Con cautela cominciò a spostarsi lungo il perimetro del giardino, tenendosi all'ombra dei cespugli e dirigendosi verso il tratto più basso della recinzione, e ad un tratto si accorse di un vecchio, che al momento del suo ingresso nel giardino era stato nascosto alla sua vista dalla macchia centrale di cespugli e adesso era invece ben visibile, inginocchiato accanto ad un'aiuola con una piccola vanga in mano. Con il cuore che le martellava nel petto Aurian indietreggiò fra i cespugli, scoprendo troppo tardi che quello alle sue spalle era un roseto: le spine le si piantarono dolorosamente nella schiena e le si impigliarono nei capelli e nei vestiti, ma lei non osò emettere un solo suono o muoversi per liberarsi, anche se il vecchio giardiniere sembrava del tutto concentrato sul suo lavoro. Seguì un'attesa prolungata e angosciosa, durante la quale Aurian continuò a pregare che quel vecchio stolto si decidesse ad alzarsi e ad andarsene: di certo non poteva avere intenzione di lavorare per tutta la notte. «Non ti pare di essere un po' scomoda, laggiù?» osservò d'un tratto il
vecchio, senza sollevare lo sguardo. Aurian trattenne il respiro, sentendo le spine che le penetravano ancora di più nella pelle allorché si ritrasse maggiormente al riparo del cespuglio di rose. «Tanto vale che tu venga fuori, sai» continuò intanto la voce aspra del vecchio, in tono peraltro non privo di gentilezza. «Il giardino personale dell'Arcimago non è certo il posto ideale in cui nascondersi, mia cara. Dicono che qui perfino i fiori sussurrino segreti nel suo orecchio.» Con un sussulto Aurian saettò fuori del cespuglio, lacerandosi gli abiti con le spine. «Così va meglio» sorrise il vecchio. «Questo giardino non ha più visto una ragazza graziosa da più anni di quanti io ne possa contare. Sto per mangiare» aggiunse quindi, tirando fuori dalla tasca della logora tunica rappezzata una fiasca di vino e un pacchetto avvolto in un panno bianco. «Ti piacciono il pane e il formaggio?» Decidendo che quel vecchio non doveva essere del tutto sano di mente, Aurian cominciò a spostarsi verso il tratto più basso di muro. «No, grazie» rispose. «Temo di non averne il tempo.» «Sciocchezze. Sostengo sempre che è meglio fuggire con lo stomaco pieno piuttosto che vuoto.» «Come hai fatto a capirlo?» sbottò Aurian, prima di riuscire a trattenersi. «È più che evidente» replicò il vecchio, scrollando le spalle, «però al tuo posto non cercherei di scendere l'altura. Nessuno ci è ancora riuscito e non avresti un bell'aspetto se finissi per trasformarti in un mucchietto di ossa infrante sulle rocce del fondo.» Aurian lo fissò con aria sconfitta e una singola lacrima cominciò a colarle lungo la guancia. «Vieni con me» suggerì con gentilezza lo strano vecchio, «così potremo cenare insieme e mi racconterai ogni cosa. Può anche darsi che io ti possa aiutare.» Prima di allora Aurian non aveva mai bevuto vino, e tuttavia quella notte finì per consumare la maggior parte di quello contenuto nella fiasca, con il risultato di cominciare a parlare a ruota libera. Ben presto il vecchio riuscì a indurla a raccontare tutta la storia della sua vita, comprese le difficoltà e l'infelicità che avevano contraddistinto il tempo vissuto all'Accademia; per tutto il tempo lui l'ascoltò con espressione grave, insinuando di tanto in tanto una domanda, e le porse perfino il proprio fazzoletto quando lei ricominciò a piangere. Allorché Aurian infine concluse la sua narrazione, il
vecchio si alzò e le porse la mano. «Vieni con me» propose con gentilezza. «È ora di mettere a posto le cose.» Obbediente, Aurian lo seguì attraverso il giardino e oltre la pusterla, esitando soltanto quando arrivarono alla Torre dei Maghi: senza dubbio quel vecchio doveva essere pazzo. «Non posso!» sussultò. «Lì dentro c'è Eliseth, e... e c'è anche l'Arcimago!» «Mia cara bambina, non lo hai ancora intuito?» replicò il vecchio, trattenendola saldamente per quanto lei cercasse di sfuggirgli, e fissandola con i propri occhi scuri. «Io sono l'Arcimago.» Per poco Aurian non svenne al pensiero di essersi lamentata violentemente dell'Accademia proprio con l'Arcimago in persona, che l'aveva sorpresa nell'atto di tentare la fuga dopo essere entrata arbitrariamente nel suo giardino privato. Incapace di parlare, cominciò a tremare così violentemente che le gambe minacciarono di cederle, ma Miathan la sostenne circondandole le spalle con un braccio. «Non aver paura, bambina» disse. «Se dovrò rimproverare qualcuno per questa faccenda di certo non si tratterà di te. Avanti, vieni con me, ragazzina, non ti trasformerò in una ranocchia ma in una Maga di prima categoria» insistette con un sospiro, notando che Aurian continuava ad esitare a causa della nota improvvisamente dura affiorata nella sua voce, poi le rivolse un sorriso così luminoso e gentile che i timori di Aurian svanirono come neve al sole. Non appena furono giunti nelle sue stanze, l'Arcimago convocò un servo dall'aria assonnata e ordinò una seconda cena molto più sontuosa per entrambi, poi fece sedere Aurian su una comoda sedia accanto al fuoco mentre lui cambiava la vecchia tunica da giardinaggio con la splendida veste scarlatta propria della sua carica, e per ingannare l'attesa Aurian si guardò intorno con occhi sgranati, intimorita dalla ricchezza degli splendidi arredi, dallo spesso tappeto morbido e dagli arazzi ricamati in oro che decoravano le pareti. Quel posto era adatto ad un re ed era molto, molto diverso dalla sua piccola e nuda cella al pianterreno. Il cibo arrivò con una prontezza stupefacente, considerato che gli addetti alle cucine dovevano essere stati buttati giù dal letto perché potessero prepararlo, e nel contemplare con sconcerto quella quantità di vivande... di certo troppo abbondante per due sole persone... Aurian si chiese nervosamente se ci si aspettasse da lei che mangiasse tutto quanto. La qualità di
quei cibi era poi tale da lasciarla stupefatta. Eilin aveva avuto poco tempo per cucinare, per cui i suoi pasti erano stati buoni ma semplici, ed Eliseth era parsa ritenere che pane e latte fossero per lei alimenti più che sufficienti, mentre adesso aveva davanti carni la cui natura era incomprensibile a causa delle ricche salse di cui erano coperte, verdure e frutti preparati in maniera incredibilmente elaborata e alcuni cibi dall'aspetto esotico che non sapeva neppure come mangiare: doveva prenderli con le dita oppure farlo sarebbe stato un atto di maleducazione? Miathan parve però accorgersi del suo problema e insistette per servirla di persona, spiegandole la composizione di quei complicati piatti ogni volta che la vedeva esitare: incoraggiata dalla sua gentilezza e dal vino che cominciava a farle girare la testa, Aurian iniziò a rilassarsi e ad apprezzare il cibo. Mentre mangiavano, Miathan le spiegò che c'era stato un equivoco e che d'ora in poi avrebbe provveduto a sovrintendere di persona al suo addestramento... e Aurian si sentì improvvisamente raggelare. «Ma... ma Eliseth sostiene che io non valgo nulla» confessò con espressione vergognosa. «Cosa?» esclamò Miathan, inarcando le sopracciglia. «La figlia di Geraint e di Eilin non varrebbe nulla? Non ci credo!» Protendendo la mano spense l'unica candela presente, sistemata in un candeliere d'argento posto al centro del tavolo, e la stanza piombò di colpo nell'ombra, rischiarata ora soltanto dalle fiamme che ardevano nel focolare. «Aurian. vuoi accendere la candela per me? Non ci vedo abbastanza per continuare a mangiare» osservò quindi. Aurian si sentì assalire dal panico, che andò aumentando quanto più lei si sforzava di riportare sotto controllo i propri pensieri: cosa le avrebbe fatto l'Arcimago se avesse fallito? All'improvviso la mano forte di Miathan si chiuse sulla sua e la sua voce calda trapassò il panico che le avviluppava la mente. «Rilassati, bambina e pensa alla fiamma. Immaginala nella tua mente: dapprima è soltanto un punto luminoso che aderisce allo stoppino, poi la cera che ricopre lo stoppino comincia a sciogliersi... puoi sentirne l'odore... e la piccola fiamma fiorisce e cresce...» Aurian sgranò gli occhi: stava succedendo davvero! Una morbida chiazza di luce si allargò verso i contorni della stanza a mano a mano che la sua piccola fiamma attecchiva e si espandeva. «Ce l'ho fatta!» esclamò in tono di trionfo, poi si premette la mano sulla bocca in un gesto inorridito allorché in risposta alla sua euforia una colon-
na di fiamma si levò ruggendo dalla candela a strinare di nero il soffitto. Automaticamente, si affrettò allora a spegnere la fiamma come aveva fatto tante volte a casa con le sue sfere di fuoco, e si ritrasse da Miathan, sussurrando in tono contrito: «Mi dispiace.» L'Arcimago gettò indietro il capo e scoppiò in una sonora risata. «A dire il vero me lo sono voluto» replicò, continuando a ridere. «Adesso mi rendo conto che in futuro dovrò stare molto attento a quello che ti chiedo di fare.» «Vuoi dire... che va tutto bene?» domandò Aurian, sconcertata. «Ma ho appena rovinato il soffitto della tua stanza.» «Non pensare al soffitto, mia cara, i servitori lo ripareranno presto» replicò Miathan. «La cosa più importante è che tu hai appena dimostrato di non essere priva di potere ma di avere invece a tua disposizione un talento molto sviluppato. Tutto ciò che dobbiamo fare è insegnarti ad evocarlo... cosa che hai fatto ottimamente una volta che ti ho spiegato come procedere... e a controllarlo. Hai trascurato di spezzare il tuo collegamento con la fiamma, che ha semplicemente reagito alle tue emozioni.» «Mi vuoi mostrare come si fa?» domandò Aurian, piena di avido interesse. «Non sei stanca?» sorrise Miathan. «È molto tardi.» «Stanca? No, neppure un poco. È tutto così...» cominciò Aurian, ma fu interrotta da un enorme sbadiglio. «Vieni» suggerì allora l'Arcimago, porgendole la mano. «Per stanotte potrai dormire nel mio letto e domattina ti farò trasferire. Al piano di sotto ci sono alcune stanze vuote che appartenevano a tuo padre e che credo si adatteranno anche a te. In futuro lavoreremo a stretto contatto, quindi voglio averti vicina. Che te ne pare?» «Oh, grazie, Arcimago!» esclamò Aurian, e in un eccesso di gratitudine gettò le braccia intorno al collo di Miathan, abbracciandolo con entusiasmo. Per un momento pieno di tensione si chiese quindi se si fosse spinta troppo oltre, ma poi vide che il suo volto anziano e severo aveva un'espressione raggiante e in quel momento cominciò a volergli bene. Pochi momenti più tardi si addormentò nel suo grande letto a baldacchino, sentendosi più felice e sicura di come si fosse sentita da mesi, e il volto che riempì i suoi ultimi, assonnati momenti di veglia non fu quello di Forral ma quello di Miathan. Un colpetto contro la porta distolse l'Arcimago dalla contemplazione
della ragazzina addormentata. Sospirando, Miathan lasciò la camera da letto e si richiuse la porta alle spalle. «Non potevi aspettare domattina?» domandò in tono irritato, scoprendo che, come si era aspettato, la visitatrice era Eliseth. «Non riuscivo a dormire» replicò la Maga del Clima, accostandosi al fuoco per scaldarsi le mani. «Volevo sapere com'è andata.» «Senza dubbio hai recitato con successo la tua parte. Quella povera bambina è del tutto terrorizzata, ma il suo potere è incredibile per una persona tanto giovane!» «Posso sapere con esattezza quali sono i tuoi piani nei suoi confronti?» chiese Eliseth, con voce di colpo aspra. «Il fatto che intendi addestrarla di persona significa che hai in mente di sceglierla per succederti?» «Allora è questo lo scopo della tua visita notturna» ridacchiò l'Arcimago. «Avrei dovuto immaginarlo. Rilassati, mia cara, non ho ancora intenzione di nominare un successore... anzi, potrei non sceglierne mai uno.» «Cosa? Ma... la durata massima prevista per la carica di Arcimago è di duecento anni, lo è sempre stata.» «Secondo la tradizione sì, ma le tradizioni possono sempre essere accantonate. Mi piace essere l'Arcimago, e poi chi mi potrebbe succedere? Tu e Bragar avete delle ambizioni in tal senso...» «Bragar?» sussultò Eliseth. «Quanti sei ingenua!» rise Miathan. «Credevi di averlo domato con il fascino del tuo corpo? Non ha funzionato con me... quindi cosa ti ha dato la certezza di poter avere un risultato migliore con lui? È stato molto divertente osservarvi manovrare e complottare uno a spese dell'altra, ma sono pur sempre davanti a entrambi nel gioco del potere, mia cara, quindi faresti meglio a rimanere al mio fianco. Un giorno ho intenzione di dominare il mondo e allora ci saranno potere e ricchezza in abbondanza per i miei fedeli sostenitori. Non pensare di ostacolarmi, Eliseth» aggiunse l'Arcimago, facendosi di colpo cupo in volto. «Da solo sono già dieci volte più potente di te, e adesso dovrai preoccuparti anche di Aurian, perché con questo nostro piano ti sei messa egregiamente in trappola con le tue stesse mani: Aurian ti odia già... e adesso quella bambina è mia.» CAPITOLO QUINTO UNA VOCE NEL BUIO «Allora è così che si fa!» esclamò Aurian, lasciando scorrere le dita lun-
go gli scaffali carichi di pergamene e osservando l'aura azzurra del campo di magia che tremolava sotto il suo tocco. Nel guardare il suo volto illuminato dall'entusiasmo, Finbarr si meravigliò ancora una volta del cambiamento che sei anni avevano provocato nella giovane Maga che, ormai ventenne, era fiorita fino a diventare una donna alta e snella. La sua massa di lucidi capelli ramati era sempre la stessa ma adesso il suo volto era maturato fino a formare un insieme di piani e di angoli ben modellati che gli ricordava intensamente suo padre. Con quel naso aquilino Aurian non avrebbe mai potuto essere definita graziosa, ma i suoi tratti possedevano una bellezza del tutto unica, scarna, forte e affascinante, accentuata dal suo comportamento che era cambiato radicalmente da quello della bambina intimorita e nervosa che lui aveva inizialmente conosciuto. Adesso Aurian era felice e sicura di sé, i suoi poteri crescevano giorno per giorno e la sua sete di sapere era inestinguibile: decisamente Miathan aveva fatto un buon lavoro nell'addestrarla... anche troppo buono, come a volte Finbarr si sorprendeva a pensare. «Finbarr, mi stai ascoltando?» «Cosa? Sì, certo... cosa stavi dicendo?» «Ti ho chiesto» ripeté Aurian, con un sospiro di sopportazione ma con un sorriso sulle labbra, «se gli incantesimi di conservazione che utilizzi con i documenti antichi li rimuovono in qualche modo dallo scorrere del tempo.» «Sì, suppongo di sì» annuì Finbarr, sorpreso. «A dire il vero non ho mai pensato ad essi in questo modo, ma la tua è una supposizione sensata. Ho trovato l'incantesimo su una pergamena scritta da Barothas.... quell'antico storico ossessionato dal desiderio di dimostrare l'esistenza del Popolo dei Draghi. Nei suoi scritti lui accenna a parecchi riferimenti antecedenti... che purtroppo per noi sono andati perduti... in cui si parla della capacità di manipolare sia il tempo che altre dimensioni. In effetti, il tuo povero padre si è servito di quegli appunti per il suo tragico esperimento di trasferirsi da un mondo all'altro. Naturalmente, per manipolare lo spazio invece che il tempo si dovrebbe...» «Nel nome del cielo, Finbarr, ti sei mai soffermato a riflettere su ciò che questo implica?» «E cosa implicherebbe?» domandò in tono improvvisamente allarmato l'archivista, bruscamente strappato dal regno delle riflessioni accademiche. «Non lo so con esattezza» ammise Aurian, «però sono certa che potrei elaborare due o tre idee. Finbarr, mi vuoi insegnare quell'incantesimo» ag-
giunse quindi, con voce d'un tratto supplichevole. Finbarr scoccò alla giovane Maga un'occhiata severa, e anche se il suo volto era il ritratto dell'innocenza non si lasciò ingannare... ormai conosceva Aurian troppo bene. «Se con questo intendi chiedermi di permetterti di vedere la pergamena la risposta è no: dopo quello che è successo a Geraint l'ho riposta in un luogo sicuro e là rimarrà. Forse ti consolerà sapere che non sei la sola a cui sia proibito acquisire questo tipo di conoscenze, in quanto molto tempo fa ho deciso che la magia del Popolo dei Draghi era troppo pericolosa perché i Maghi la manipolassero. Rimpiango ancora adesso di non aver bruciato la pergamena nel momento stesso in cui l'ho trovata... e tuttavia perfino ora che so quali danni essa possa provocare non riesco a indurmi a distruggere una parte della nostra storia. Nessuno tranne noi, e forse tua madre, sa della sua esistenza... e faccio affidamento sul tuo onore perché tu non ne faccia parola ad anima viva, neppure all'Arcimago. Me lo prometti?» domandò, prendendo le mani di Aurian nelle proprie. «Certamente!» garantì lei. «A patto però che mi insegni quell'incantesimo temporale.» «Prima devo chiedere il permesso a Miathan» tergiversò Finbarr, esitando. «È lui che si sta occupando del tuo addestramento, e tu hai già fin troppo da fare.» «Oh, non ti preoccupare» si affrettò a rispondere Aurian. «Posso ricavare un po' di tempo libero. Anzi, se mi mostrerai come attuare questo incantesimo potrei procurarmene anche di più» aggiunse, con un bagliore da monella nello sguardo. Finbarr impiegò un momento a comprendere cosa lei avesse inteso sottintendere, e quando ci riuscì si sentì raggelare. «Aurian! Non osare neppure di contemplare l'idea di giocare con il tempo! Ti rendi conto di quanto potrebbe essere pericoloso? Soltanto gli dèi sanno quali danni potresti provocare.» «Tranquillizzati, Finbarr» lo calmò lei, battendogli un colpetto sul braccio. «Stavo soltanto scherzando.» Ma l'espressione del suo sguardo rimase pensosa. «Questa sera Meiriel ed io vorremmo averti a cena con noi» la invitò Finbarr, sperando di cambiare argomento. «Meiriel si lamenta del fatto che ultimamente non ti vede mai.» «Oh, stasera non posso» replicò Aurian. assumendo un'espressione avvilita. «Devo cominciare a vagliare questi libri sulla Magia del Clima che mi
hai scovato, perché anche se Miathan mi è stato d'aiuto la vera specialista in questo campo è Eliseth, e lei è così riluttante a istruirmi che devo cercare le nozioni teoriche dovunque mi sia possibile. Se soltanto potessi entrare nella cupola per esercitarmi! Ma lei trova sempre tutte le scuse possibili e immaginabili per non lasciarmela usare, ed io mi sento così frustrata!» esclamò, picchiando un pugno sul tavolo. «Non sapevo che avessi cominciato a studiare la Magia del Clima» osservò Finbarr, interdetto. «Quando ho smesso di studiare la Magia del Fuoco con Bragar avevo bisogno di qualcosa con cui occupare il mio tempo.» «Sì, ne ho sentito parlare» replicò l'archivista, accigliandosi. «Mia cara, non credi che sia stato poco saggio litigare con Bragar?» «Devo supporre che tu pensi che io abbia sbagliato?» ribatté Aurian, accigliandosi. «Bragar è un idiota! Crede di essere un esperto ma conosce appena i rudimenti della Magia del Fuoco ed io ho appreso da lui tutto quello che poteva insegnarmi. Se non gli è piaciuto che glielo dicessi in faccia, allora è peggio per lui.» «A quanto ho saputo, sei stata estremamente priva di tatto» l'ammonì Finbarr, «e il mio consiglio è quello di fargli le tue scuse. Ricorda che non è piacevole avere Bragar come nemico.» «Non ho il tempo di placare la sensibilità ferita di Bragar» dichiarò Aurian, scrollando le spalle. «Gli passerà. Per favore, Finbarr, insegnami quell'incantesimo!» «Non credi di aver già troppo da fare? Lavori in tutte le ore del giorno e della notte, e anche quando non sei troppo impegnata per mangiare ti dimentichi comunque di farlo, senza contare che vedo la luce accesa nelle tue stanze per tutta la notte. Non ti pare che dovresti lasciarti un po' di tempo per concederti qualche piccolo divertimento... o anche soltanto per dormire?» «Sto bene» garantì Aurian, facendosi improvvisamente seria in volto. «Finbarr, voglio rendere Miathan orgoglioso di me. Lui è stato così buono nei miei confronti... è stato per me il padre che non ho mai conosciuto, ed io voglio soltanto ripagarlo diventando la Maga migliore che sia mai vissuta... e ci riuscirò» concluse, serrando la mascella in quell'espressione cocciuta che Finbarr e chiunque altro vivesse all'Accademia... dai servitori all'Arcimago... aveva imparato a conoscere anche troppo bene. Sospirando, l'archivista rifletté che Meiriel aveva ragione ad essere preoccupata per il fatto che Aurian avesse sviluppato una vera e propria os-
sessione nei confronti del lavoro, dimenticandosi di mangiare e di dormire e sottoponendo così ad uno sforzo eccessivo le risorse interiori che erano la fonte dei suoi poteri magici. I primi sintomi di pericolo cominciavano già ad apparire, perché il suo volto era pallido e teso, e la sua pelle pareva ardere di una luce interiore, mentre gli occhi verdi erano sfocati e lucidi. L'estate precedente, quando aveva accompagnato Aurian a fare visita a sua madre, Finbarr aveva cercato di farsi aiutare da Eilin a persuadere la ragazza a rallentare il proprio ritmo di lavoro ma lei aveva giudicato eccessiva la sua preoccupazione perché era abituata al proprio sfiancante lavoro. In effetti anche Eilin si stava sottoponendo ad una fatica eccessiva in quanto si era imposta un compito che era superiore alle forze di un solo Mago, e Finbarr era rimasto allarmato dal suo aspetto emaciato, rendendosi conto al tempo stesso che Eilin sentiva la mancanza di Aurian più di quanto volesse ammettere. Quando però aveva cercato di implorarla a far ritorno all'Accademia aveva ottenuto un esplicito rifiuto. Tale madre, tale figlia, pensò adesso. Non è difficile capire da chi Aurian abbia ereditato il suo comportamento ossessivo... e la sua assurda cocciutaggine! «Aurian. ascoltami» insistette, facendo comunque un ultimo tentativo per convincere la giovane Maga testarda. «Devi avere più cura di te perché Meiriel ritiene che tu stia correndo il pericolo di andare in corto circuito. Possono succedere cose terribili ad un Mago che si sottoponga ad una fatica eccessiva, come tu stai facendo, e per quanto sia orgoglioso dei tuoi risultati Miathan non vuole certo perdere i tuoi poteri... e la tua mente... a causa di un eccesso di zelo da parte tua. Credimi, è una cosa che può succedere... se vuoi controllare, ho qui la documentazione relativa ad alcuni casi del genere.» «Meiriel è davvero preoccupata?» domandò Aurian, facendosi grave in volto. «Lo è. Se soltanto le parlassi...» «Certo che lo farò!» esclamò impulsivamente Aurian. «D'accordo... dopo tutto ho deciso che verrò a cena da voi, così sono certa che riuscirò a tranquillizzare Meiriel. Nel frattempo comincerò a dare un'occhiata a questi» aggiunse, raccogliendo il mucchio di vecchi volumi che si trovava sul tavolo, e uscì a precipizio dimenticandosi come al solito di salutare. Sospirando, Finbarr si consolò pensando che se non altro aveva fatto un tentativo, e che forse Meiriel sarebbe riuscita a inculcare in quella ragazza un po' di buon senso.
Il caldo investì Aurian con la violenza di un colpo fisico non appena uscì dalla biblioteca e si trovò nel cortile polveroso e assolato. Così a nord capitava di rado che il clima fosse tanto afoso, ma adesso la calura stava durando ormai da un mese e non mostrava di volersi attenuare... un fenomeno che inizialmente aveva fatto piacere ai contadini dei dintorni ma che ora cominciava a preoccupare perché il fieno era ormai seccato e il granturco stava avvizzendo nei campi. Come se questo non fosse stato sufficiente, il fiume si era inaridito fino a ridursi ad un rivolo fangoso e maleodorante, e per la prima volta a memoria d'uomo a Nexis era diventato necessario razionare l'acqua. Naturalmente i Mortali si aspettavano che i Maghi provvedessero a risolvere i loro problemi e con il protrarsi della siccità da Nexis giungeva voce di crescenti agitazioni, ma questo occupava ben poco spazio nei pensieri di Aurian in quanto lei era assorbita dal suo lavoro e pervasa della fiduciosa convinzione che Miathan potesse risolvere qualsiasi problema. In realtà non aveva nessuna idea delle difficoltà che i Mortali stavano incontrando, in quanto l'Accademia era rifornita d'acqua da una profonda sorgente sotterranea, e poiché le capitava di rado di lasciare il promontorio non si era resa conto che ormai i Maghi erano diffidati dallo scendere in città da soli. Attraversando in fretta il cortile, decise che avrebbe trascorso il resto del pomeriggio a studiare nel giardino di Miathan... un privilegio concesso esclusivamente a lei e che indicava quanto fossero ormai stretti i suoi rapporti con l'Arcimago... ma quando arrivò alla pusterla di legno sentì giungere dalla parte opposta del muro la voce di Eliseth. «Ho fatto quello che potevo, Miathan. Non sono in grado di produrre la pioggia dal nulla, e le nuvole più vicine sono a centinaia di chilometri di distanza! Ho già messo in moto il processo, ma la pioggia impiegherà dei giorni a giungere e nel frattempo io sto consumando le mie energie. Quegli zotici della città ci dovrebbero essere grati! In tutta franchezza, se tu non avessi insistito non mi sarei neppure presa la briga di intervenire! A chi importa della loro stupida siccità? Noi Maghi stiamo bene.» «Ti ho spiegato perché fosse necessario, Eliseth» replicò Miathan, in tono stanco ed esasperato. «Sai quanto sia instabile la situazione laggiù: l'acqua è già razionata e Meiriel sostiene che se il livello del fiume dovesse abbassarsi ulteriormente insorgerebbe un serio pericolo di malattie. Già ci sono stati alcuni scoppi di violenza isolati durante i quali la popolazione ha attribuito ai Maghi la colpa di quanto sta succedendo, e se dovesse insor-
gere un'epidemia tutta Nexis prenderebbe fuoco come legna secca... e per ora non sono ancora pronto a far fronte ad una folla infuriata. Rioch è venuto da me la scorsa notte per dirmi che questa volta è deciso ad andare in pensione in quanto sostiene di essere troppo vecchio per fare fronte a queste agitazioni, e quanto a Vannor ho addirittura il sospetto che sia fra coloro che le fomentano. Era già un avversario abbastanza difficile, ma da quando sua moglie è morta lo scorso anno mi ostacola all'interno del consiglio ogni volta che ne ha la possibilità in quanto considera i Maghi responsabili del fatto che Meiriel non sia riuscita a salvare la sua donna.» Miathan fece una pausa, poi sospirò e proseguì: «Mi sarebbe utile poter trovare un sostituto per Rioch, ma ora come ora i Maghi non godono di molta simpatia all'interno della guarnigione, e non oso contemplare le conseguenze di ciò che potrebbe succedere se non riuscirai a far piovere al più presto.» «Sto facendo del mio meglio!» scattò Eliseth. «Se non mi tormentassi con i tuoi problemi, avrei più tempo per...» Aurian si allontanò con espressione accigliata. Povero Miathan! Forse se avesse fatto qualche progresso nel suo studio della Magia del Clima avrebbe potuto riuscire ad aiutarlo! Sulla spinta di una decisione improvvisa passò sull'altro braccio il peso del grosso mucchio di libri e si diresse verso le sue stanze. All'interno della torre regnava un caldo soffocante, e nel salire stancamente un gradino dopo l'altro dell'interminabile scala a spirale lei si trovò per una volta a desiderare che il suo alloggio si trovasse più vicino al pianterreno; quando arrivò infine alla propria porta si sentiva ormai debole e in preda alle vertigini, quindi bloccò un servitore diretto verso l'alloggio di Miathan e, memore dell'avvertimento di Finbarr, accennò a chiedergli di portarle del cibo ma poi si trattenne perché faceva troppo caldo per mangiare. «Portami una bevanda fresca» ordinò invece, pensando che avrebbe potuto mangiare qualcosa più tardi, ed entrò nelle proprie stanze lasciando cadere i libri sul tavolo con un sospiro di sollievo. Lo studio era caldo come un forno, le tende verde e oro pendevano immobili ai lati della finestra aperta e i granelli di polvere si libravano altrettanto statici all'interno del fascio di luce solare che cadeva sul tappeto verde muschio. D'impulso Aurian protese una mano verso la brocca d'acqua che c'era sul tavolo ma poi ne accantonò con una smorfia il contenuto tiepido e stantio e decise di aspettare il ritorno del servitore, riflettendo che se Miathan le avesse concesso un suo servitore personale non sarebbe stata
tanto trascurata. Accostata infine una sedia al tavolo, decise che era ora di mettersi al lavoro. Chi aveva stilato quegli antichi volumi aveva senza dubbio una calligrafia atroce, e ben presto lei cominciò a sfregarsi gli occhi indolenziti per lo sforzo di decifrare quegli scarabocchi quasi illeggibili, mentre le righe sembravano oscillare sulla pagina a causa della violenta luce solare che si riversava sulla pergamena con un bagliore accecante che sembrava ustionarle la mente. Con irritazione, Aurian si chiese quando il servitore si sarebbe deciso a portarle da bere, poi tornò a concentrarsi sul testo, riflettendo che per fortuna Finbarr le aveva insegnato un incantesimo per dare chiarezza a quegli arcaici geroglifici. Accigliandosi per la concentrazione focalizzò la propria attenzione sulla pagina e si protese all'interno di se stessa per accedere ai propri poteri. In un primo tempo non si rese neppure conto che c'era qualcosa che non andava, poi però si accorse che invece di risultare più chiare le parole sembravano diventare sempre più piccole e con un senso di shock scoprì anche che la sua visione periferica si era andata annebbiando al punto che lo scritto pareva allontanarsi progressivamente fino a portarsi all'estremità opposta di un lungo tunnel buio... e quando cercò di distogliere lo sguardo scoprì che il suo corpo rifiutava di obbedirle. Tutto si stava allontanando con una velocità crescente e lei stava cadendo... cadendo nel buio... «Mi dispiace, Arcimago, ma non posso fare di più. L'avevo avvertita che questo sarebbe successo se avesse continuato a pretendere troppo da se stessa» dichiarò la guaritrice, in tono turbato, e Miathan si costrinse a tenere sotto controllo la propria ira, consapevole di essere responsabile dell'accaduto perché aveva permesso ad Aurian di andare al di là dei propri limiti. «Ne sei certa?» domandò. «Sono ormai passati tre giorni, Meiriel!» «Fisicamente non ha nulla che non vada» replicò Meiriel, sedendo stancamente sul letto di Aurian. «In base a quanto ho potuto determinare non ha subito la perdita dei suoi poteri, ma qualcosa dentro di lei si è ritirato dalla realtà per impedirle che continuasse ad abusarne: credo che sia consapevole di quanto le sta succedendo intorno ma sia intrappolata dentro se stessa senza che noi si riesca a raggiungerla.» «Quanto durerà questa condizione?» «Chi può saperlo?» rispose la guaritrice, scrollando le spalle. «In tutta sincerità, Arcimago, se non riusciremo a raggiungerla presto la situazione
si farà critica.» «Pensi che sua madre potrebbe essere utile?» «Non credo che sarebbe di qualche aiuto» ribatté Meiriel, scrollando la testa. «A parte te, la sola persona vicina ad Aurian era quel Mortale.» «Forral! Ma certo!» esclamò Miathan, calando il pugno sul palmo dell'altra mano, mentre un'idea incredibile cominciava ad affiorare nella sua agile mente. «Forral potrebbe essere la soluzione più adatta per tutti i nostri problemi. Puoi chiedere a Finbarr di evocare immediatamente la sua visione per rintracciarlo? Provvederò io a inviare un messaggero, perché quanto prima lo manderemo a chiamare e tanto meglio sarà.» La luce che emanava dal cristallo luminoso posato sul tavolo davanti all'archivista proiettava ombre nette sulla parete alle sue spalle, mentre l'Arcimago si chinava a sbirciare da sopra la sua spalla, ribollente d'impazienza. «Vuoi toglierti di mezzo, Miathan?» domandò Finbarr, con voce insolitamente tagliente. «La tua aura emotiva è tale da bloccare la ricezione nel raggio di chilometri!» «Tu pensa soltanto a datti da fare!» Finbarr si alzò dalla sedia e si volse a fissare l'Arcimago negli occhi con espressione rovente, indicando poi la porta con un dito lungo e ossuto. «Fuori di qui!» ordinò, mentre Miathan lo fissava con aria stupefatta perché aveva dimenticato quanto l'archivista fosse affezionato ad Aurian. Soffocando una risposta rabbiosa si diresse verso la porta e cominciò a passeggiare all'esterno nel corridoio, ma dopo parecchi minuti Finbarr si affacciò alla porta e aggiunse: «Esci dalla torre. Quando avrò trovato lo spadaccino ti manderò a chiamare.» Con un profondo sospiro Forral spinse lontano da sé il mucchio di documenti, con il risultato che un'altra pila di fogli scivolò giù dalla scrivania ingombra fino all'inverosimile e si sparpagliò sul pavimento, strappandogli un'imprecazione. Per quale motivo gli era venuta l'insana idea di assumere il comando della guarnigione di questo buco sperduto al confine del nulla? In questo periodo la costa meridionale era tranquilla e le truppe di stanza nei forti sulle colline non avevano nulla da fare tranne provvedere a sedare le occasionali insurrezioni delle Tribù delle Colline, quel popolo rude, fiero e indipendente che estraeva minerali e metalli dai pendii delle cupe colline del meridione. Dal momento che le Tribù, per quanto selvagge, erano
del tutto disorganizzate e in costante conflitto le une con le altre, Forral aveva ben poco da fare tranne tener testa a quella marea di documenti amministrativi che lo stavano portando lentamente alla pazzia. In effetti in cuor suo stava cominciando a rimpiangere amaramente di essere mai venuto in quel posto, che pure in un primo tempo gli era apparso come un rifugio in quanto senza Aurian la sua vita era risultata priva di qualsiasi scopo. Dopo aver lasciato la valle aveva girovagato per quasi un anno senza una meta precisa, cercando lavoro qua e là soprattutto come guardia per le carovane o per i magazzini dei mercanti, senza badare al fatto che si trattava di incarichi monotoni e a volte degradanti e preoccupandosi a stento di avere un posto dove dormire e qualcosa da mangiare... e a volte qualche moneta da spendere nel bere e con le donne. Alla fine però era stato proprio questo a richiamarlo alla realtà: stanco della solitudine, dello squallore e del risvegliarsi al mattino con la testa dolorante e con un volto sconosciuto che giaceva sul cuscino accanto al suo, alla fine aveva accettato il comando di quel forte per dare a se stesso uno scopo nella vita. A suo tempo era parsa una buona idea, come stava ricordando ora con tristezza a se stesso. Senza riflettere allungò una mano verso la fiasca del vino ma poi tornò a posarla con una smorfia di disgusto, consapevole che la noia e l'inazione lo stavano portando a bere e che il vino comunque non era una soluzione ai suoi problemi. Fissando con espressione accigliata le spesse pareti di pietra grigia di quella che era diventata la sua prigione, decise che era arrivato il momento di apportare un cambiamento nella sua vita; allungata di nuovo la mano verso la fiasca si versò distrattamente una coppa di vino mentre cominciava a passare in rassegna le possibili alternative. Fare il mercenario, con tutti i pericoli e le difficoltà che questo comportava, era un mestiere che non aveva più per lui la stessa attrattiva che aveva avuto quando era più giovane, in quanto la vita al forte lo aveva abituato alle comodità... su questo non c'erano dubbi. Le sue cupe riflessioni furono interrotte da un colpo battuto sulla porta e dall'ingresso di un giovane soldato che gli si avvicinò con una certa timidezza dovuta, Forral ne era amaramente consapevole, al fatto che ultimamente i suo uomini cercavano di evitarlo il più possibile perché temevano il suo umore imprevedibile. «Cosa c'è?» chiese in tono secco. «Signore, è arrivato un corriere per te che porta un messaggio urgente dell'Arcimago in persona» riferì il soldato, salutando. Il suo tono era per-
vaso di una notevole meraviglia e di un reverenziale timore, e Forral si trovò a condividere in pieno quei sentimenti: cosa poteva volere Miathan da lui? «Allora farai meglio ad accompagnarlo qui» disse, assumendo un'espressione all'apparenza tranquilla e indifferente perché era consapevole che il giovane soldato lo stava osservando. Quando il messaggero entrò, coperto di polvere e incespicante per la stanchezza, Forral gli suggerì di andare prima alla mensa per ristorarsi, ma l'uomo esitò. «L'Arcimago mi ha detto di accertarmi che tu leggessi subito il messaggio, signore, perché è molto urgente» obiettò. «D'accordo, però tu intanto siediti, se non vuoi crollare a terra» replicò Forral, versandogli un bicchiere di vino prima di sedersi a sua volta e di infrangere il sigillo della spiegazzata pergamena. «Per il Grande Chathak!» esclamò un momento più tardi, sgranando gli occhi per l'incredulità nel constatare che gli si stava offrendo il comando della guarnigione di Nexis, con l'annessa posizione all'interno del consiglio che governava la città! La portata di quella nomina passò però in secondo piano di fronte al resto del messaggio: Aurian aveva bisogno di lui! «Concediti una giornata di riposo prima di ripartire» disse al corriere. «Io invece mi metterò in viaggio immediatamente.» Rovesciando la sedia per la premura saettò quindi fuori della stanza, chiamando a gran voce il suo comandante in seconda. Aurian era sperduta, intrappolata all'interno di un labirinto le cui pareti scure la imprigionavano senza speranza, costringendo la sua mente a vagare in cerchio in preda ad una disperata frustrazione. A volte sentiva delle voci... di Meiriel e di Finbarr e perfino di Miathan... ma era impossibilitata a rispondere ed aveva perso anche il senso del tempo e della realtà, scivolando in sogni spaventosi e bizzarri oppure tornando a volte addirittura alla propria infanzia. La sua sfera cosciente recepiva le voci di tanto in tanto, avvertendo il loro tono sommesso e preoccupato, e Aurian si aggrappava disperatamente ad esse per timore di impazzire. Poi una nuova voce trapassò l'oscurità, chiamandola... una voce cara e familiare che lei non sperava più di poter sentire ancora e che adesso stava tremando per l'emozione. «Aurian? Aurian, tesoro, sono io» chiamava quella voce. Era un sogno, doveva esserlo, ma la sua mente si trovò a desiderare disperatamente di
sentirla ancora, ed essa assunse d'un tratto un tono severo mentre continuava: «Mi hanno detto che stai trascurando di addestrarti con la spada. Come ti aspetti di diventare la migliore spadaccina del mondo se te ne resti distesa a letto tutto il giorno?» Ah, ecco di cosa si trattava. Era rimasta ferita e tutta quella faccenda dell'Accademia e dell'Arcimago doveva essere stata un sogno indotto dalla febbre, ma gli dèi sapevano che le era parso terribilmente reale. Adesso però Forral la stava chiamando, il che significava che le sue condizioni dovevano essere migliorate. Infine apri gli occhi e sbatté le palpebre, confusa, perché quello che aveva davanti era sì Forral... ma un Forral che sembrava più vecchio, con il corpo più massiccio e i capelli e la barba spruzzati di grigio. «Forral?» chiamò, lottando per sollevarsi a sedere. «Tesoro!» mormorò lui, con voce soffocata dall'emozione, stringendola a sé con forza. Conscia del suo tocco come non lo era mai stata fino a quel momento. Aurian sentì il cuore che prendeva stranamente a martellarle nel petto e al tempo stesso da sopra la spalla di Forral intravide le pareti bianche dell'infermeria e le figure familiari di Meiriel e dell'Arcimago: sconcertata e confusa, la sua mente si sforzò di far combaciare tutti i pezzi di quel rompicapo, e al tempo stesso lei si ritrasse dall'abbraccio, sfiorando lo spadaccino con dita esitanti. «Forral? Sei tornato? Sei davvero tornato?» domandò, e lui annuì in silenzio, incapace di parlare. Con gli occhi colmi di lacrime, Aurian gli gettò le braccia al collo e lo abbracciò a sua volta con forza. «Mi piace sempre vedere un lieto fine» intervenne in quel momento la voce asciutta di Miathan, e nel guardarlo Aurian si chiese perché apparisse accigliato. «Se è un lieto fine il merito non è di certo tuo» ritorse in tono secco Forral, girandosi a fissare l'Arcimago con espressione aggrondata. «Come hai potuto permettere che le succedesse questo?» Miathan s'incupì involto e Aurian sussultò, conoscendo fin troppo bene il carattere iroso dell'Arcimago... ma Forral si limitò a continuare a fissarlo con occhi roventi senza mostrarsi minimamente intimidito. «Adesso che sono tornato farò in modo di essere dannatamente certo che una cosa del genere non si verifichi di nuovo» aggiunse. «Questo dipende da te» ritorse Miathan, in tono freddo. «Quando ti ho presentato la mia proposta mi sei parso tutt'altro che entusiasta. Come po-
trai aiutare Aurian, se sarai altrove?» «Cosa significa?» interloquì Aurian. «L'Arcimago mi ha offerto il posto di comandante della guarnigione» spiegò Forral, con un sospiro. «Questo vuol dire che rimarrai a Nexis!» esclamò Aurian, stentando a contenere la propria gioia. «Oh, Forral, è meraviglioso! Mi sei mancato così tanto!» Per un momento Forral la fissò con espressione impotente, poi si arrese scuotendo il capo. «D'accordo, Miathan, mi dichiaro sconfitto. Accetto la tua proposta, ma soltanto alle mie condizioni, e prima di cominciare a prestare servizio intendo portare Aurian via di qui per una vacanza... una lunga vacanza... a tue spese.» Aurian e Forral lasciarono insieme l'Accademia senza accorgersi di essere osservati da un'alta finestra della Torre dei Maghi. «Dannazione a lei!» ringhiò Bragar. «Perché quella cagna arrogante non è morta? Perché Miathan ha fatto venire qui quel dannato spadaccino? Meno pezzi ci sono in questo gioco e meglio è, soprattutto quando si tratta di Aurian.» «Io non sarei tanto preoccupata se fossi in te, Bragar» replicò Eliseth, con una risata argentina, sommessa e compiaciuta, posandogli sul braccio una mano fresca. «Ho la sensazione che fra non molto la piccola beniamina di Miathan si escluderà da sola dal gioco.» «Cosa intendi dire?» domandò Bragar, accigliandosi. «Voi uomini siete così ottusi!» ribatté Eliseth, ridendo ancora. «Non hai notato il modo in cui guardava quello zoticone di un Mortale?» «Cosa?» «Risparmiami la tua indignazione, Bragar! Sia tu che io abbiamo avuto molte volte dei Mortali come compagni di letto, ma almeno abbiamo avuto il buon senso di nascondere le prove» affermò Eliseth, con voce mielata. «Invece sono pronta a scommettere che Aurian non lo farà, e il nostro caro Arcimago non accetterà mai di avere un rivale, dato che ha personalmente delle mire su Aurian. Tutto quello che dobbiamo fare è aspettare» proseguì scrollando le spalle. «A proposito di pezzi, credo che ci convenga reclutare a nostra volta una pedina.» «Cosa intendi dire? Cosa stai complottando adesso, Eliseth? Meiriel e Finbarr non accetterebbero mai...»
«Non parlavo di loro, idiota!» esclamò Eliseth, in tono sprezzante. «Stavo pensando a Davorshan.» «Mia cara Eliseth, come ti proponi di allontanarlo da quel suo gemello?» rise Bragar. «E anche se ci riuscissi a cosa ti servirebbe? Fra tutti e due quei gemelli non hanno neppure il potere necessario ad accendere una candela.» «Fra tutti e due no, ma se ce ne fosse soltanto uno? Sono convinta che il problema sia proprio questo, Bragar: quei due hanno potere sufficiente per un Mago, ma sono così strettamente collegati dal punto di vista mentale che nessuno dei due può attingere ad esso. Adesso però io voglio sfruttare questo potenziale inutilizzato e dei due Davorshan è il candidato più probabile. Quanto a separarlo da D'arvan...» proseguì, lasciando che un sorrisetto compiaciuto le affiorasse sulle labbra... «ritengo che sia arrivato ad un punto in cui certi incentivi possono avere effetto.» «Per gli dèi, sei davvero subdola!» commentò con approvazione Bragar, protendendosi per abbracciarla. «È vero» convenne Eliseth, evitando con abilità il suo abbraccio e pensando al tempo stesso che quello stolto non aveva idea di quanto lei potesse essere davvero subdola. Forral si stabilì con Aurian al Daino Veloce, una delle migliori locande di Nexis. e fin dall'inizio le proibì di usare la magia anche in misura minima, sia pure per accendere una candela... ma adesso che si era ricongiunta al suo adorato Forral lei non sentì neppure la mancanza della magia. Durante la loro prima sera di permanenza, mentre consumavano la cena migliore che la locanda potesse fornire, lei e Forral si ragguagliarono a vicenda su ciò che era loro successo in quegli anni, e lo spadaccino parlò della propria riluttanza ad accettare il posto di comandante della guarnigione. «È un grande onore» disse, «ma uno a cui non tengo molto, ed ho accettato soltanto perché non potevo rifiutare quest'occasione di essere di nuovo insieme. Non sai quanto ho sentito la tua mancanza.» «Ed io la tua» replicò in tono sommesso Aurian, protendendosi sul tavolo per prendergli la mano «Se soltanto sapessi quante lacrime ho versato... come hai potuto andartene in quel modo?» aggiunse, con un improvviso bagliore nello sguardo. «Mi dispiace, tesoro, mi dispiace davvero ma pensavo sinceramente che fosse la cosa migliore» rispose Forral, con aria imbarazzata. «Ero così
sconvolto per quello che era successo che non riuscivo a pensare in maniera coerente, e quando la guaritrice e tua madre hanno detto...» «Mia madre? Avrei dovuto immaginarlo!» esclamò Aurian, controllando a fatica la propria ira. «Scusami, non voglio rovinare questa serata. La cosa più importante è che sei tornato... ma perché non vuoi assumere il comando della guarnigione?» «Quanto sei cresciuta!» sorrise Forral. «In tutti questi anni ho pensato a te come ad una bambina e adesso invece mi trovo davanti una donna. Credo che mi ci vorrà un po' di tempo per abituarmi» aggiunse, scoccandole una lunga occhiata, ed Aurian si sorprese ad arrossire quando l'intimità di quello sguardo destò in lei uno strano senso di calore. «La guarnigione?» lo incitò, per nascondere la propria improvvisa timidezza, e con suo sollievo Forral si riscosse come se si fosse appena risvegliato da un sogno. «Quello che mi preoccupa non è la responsabilità» spiegò con una smorfia, «ma tutte quelle dannate scartoffie! Detesto il lavoro amministrativo!» «Tutto qui?» rise Aurian. «Se lo detesti, non farlo.» «Aurian, non credo che tu comprenda...» «Certo che capisco. Come comandante di guarnigione avrai però molta influenza, quindi potrai assumere qualcuno che si occupi dell'amministrazione al tuo posto, in modo da avere più tempo per fare quello che desideri... e da passare con me!» «Aurian, sei un genio!» esclamò Forral, illuminandosi in volto per lo stupore e il sollievo. La conversazione si protrasse per tutta la notte mentre entrambi godevano della reciproca compagnia, e per la prima volta nella sua vita Aurian si ubriacò perché Forral le fece assaggiare il brandy alla pesca che lei trovò anche troppo di suo gusto, con il risultato di svegliarsi l'indomani in condizioni disastrose, con lo stomaco sconvolto e la testa dolorante. Un rapido e doloroso sguardo in direzione della finestra le rivelò che il sole era già arrivato allo zenit. Allorché scese nella sala da pranzo privata riservata agli ospiti della locanda, scoprì che Forral era arrivato prima di lei anche se di stretta misura, e una sola occhiata al suo volto pallido e ai suoi occhi appannati le rivelò che se non altro stavano soffrendo insieme. Quando se lo trovò davanti ebbe un momento di esitazione, perché la notte precedente aveva fatto sogni assurdi, in cui lui la stringeva fra le braccia, la baciava... Sei una stupida, si disse quindi, con fermezza. Forral ti ha praticamente
allevata... deve essere stato soltanto un effetto del vino. Poi però lui sollevò lo sguardo, sorridendole, e nel sedersi Aurian fu assalita da un tremito che si ostinò ad attribuire ai postumi di sbornia dovuti al vino bevuto. «Per il Grande Chathak, tesoro, sei bianca come un lenzuolo!» esclamò Forral, in tono preoccupato. «Povera ragazza... era la prima volta che bevevi così tanto, vero? Ed è stata colpa mia.» Nel parlare le prese una mano fra le proprie e quel contatto generò una sorta di scossa rovente che si diffuse per tutto il corpo di Aurian, inducendola a chiedersi cosa le stava succedendo. Poi Forral le porse una tazza fumante e lei se raccostò alle labbra per cercare di nascondere la propria confusione: il liquido caldo era taillin, un infuso ricavato dalle foglie di un cespuglio che cresceva nel sudest e che era la sostanza stimolante più consumata dagli abitanti della città. Nel sorseggiarlo con una smorfia dovuta al suo sapore acido, Aurian sentì come non mai la mancanza delle tisane di sua madre, ricavate da una varietà di erbe, di bacche e di fiori che avevano ciascuno una proprietà benefica specifica, ma nonostante questo fu comunque grata dell'effetto stimolante del taillin. In quel momento uno dei servitori che lavoravano alla locanda si avvicinò loro con apologetica deferenza, in quanto l'identità di Forral era ormai nota, e avere una Maga come ospite era un onore senza precedenti. «Mi dispiace, Signora, signore» disse l'uomo, «ma questo è il meglio che siamo riusciti a fare come colazione, considerata l'ora tarda e il periodo così infausto...» Nel parlare depose sul tavolo due piatti contenenti qualcosa che Aurian riuscì a descrivere soltanto come uova strapazzate e si affrettò a battere in ritirata mentre lei fissava con aria incredula la piccola dose di sostanza giallastra che aveva davanti, tentando al tempo stesso di ricacciare indietro la bile che le stava salendo in gola. Cosa aveva inteso dire il servo parlando di periodo infausto? Di certo era impossibile che la situazione in città fosse così grave, nonostante la siccità, considerato che la loro cena della sera precedente era stata eccellente... anche se doveva ammettere che la sua attenzione era stata così concentrata su Forral che se pure non lo fosse stata non se ne sarebbe neppure accorta. «Signore! Comandante Forral!» chiamò in quel momento una voce. Si trattava del padrone della locanda, e a giudicare dal suo aspetto era in preda ad uno stato di panico totale: fissandolo interdetta, Aurian si chiese se quell'individuo arrossato in volto e dall'aspetto arruffato poteva essere
lo stesso uomo compito e controllato che li aveva accolti la sera precedente. Nel frattempo il locandiere si aggrappò al braccio di Forral, accantonando completamente la servile cortesia con cui tutti il personale del Daino Veloce trattava i clienti. «Vieni, signore, presto!» ansimò. «Al mercato è in corso un tumulto!» «Cosa?» esclamò Forral, gettando indietro la sedia e balzando in piedi. «Tu rimani qui» ordinò quindi ad Aurian, uscendo dalla stanza con il locandiere. Per un momento l'abitudine di obbedire allo spadaccino acquisita durante l'infanzia indusse Aurian a rimanere ferma dove si trovava, poi le sue sopracciglia si contrassero e la sua mascella cominciò a serrarsi: e così Forral voleva che lei restasse lì come se fosse stata ancora una bambina, eh? Doveva starsene in disparte a bere taillin mentre lui andava incontro al pericolo? «Neppure per idea» borbottò fra sé, alzandosi in piedi e affrettandosi a seguire Forral. CAPITOLO SESTO EVOCATRICE DI TEMPESTA La mensa della guarnigione di Nexis tendeva ad essere affollata durante l'ora del pasto di mezzogiorno, e di solito il chiasso era praticamente assordante a causa del rumore dei coltelli sui piatti che si mescolava al frastuono delle diverse conversazioni e degli scherzi sboccati che echeggiavano fra le spoglie pareti di pietra imbiancata. Oggi però non era possibile sentire altro se non il mormorio di qualche conversazione stentata e il ronzio delle grosse mosche nere che si accalcavano sul cibo avanzato sparso sui tavoli, perché a causa della siccità, dell'imminente cambiamento di comandante e dell'incombente minaccia di sommosse da parte dei civili, il morale della guarnigione era quanto mai basso. Nel fissare le file di tavoli e di panche vuote Maya si accigliò: non era sorpresa che nessuno stesse mangiando, perché le razioni erano ridotte a causa della siccità e il cibo irrancidiva in fretta per via della temperatura elevata; verdura e frutta scarseggiavano e finivano in genere sulla tavola delle persone più abbienti che potevano permettersi il loro costo divenuto esorbitante, o nelle cucine di locande come il Daino Veloce che servivano i ricchi, oppure... rifletté la minuta guerriera bruna, accigliandosi... nello stomaco di quei dannati Maghi! Serrando i pugni sotto il tavolo, Maya si
chiese che fine avesse fatto la giustizia: tutti gli abitanti di Nexis, inclusa la guarnigione, si stavano nutrendo prevalentemente delle carcasse filacciose e quasi marce dei capi di bestiame che nelle campagne continuavano a morire come mosche a causa della calura. «Che vita dannatamente orribile!» borbottò, senza sapere con certezza se stava parlando con se stessa o con Hargorn, che le strinse comunque la mano in un gesto pieno di comprensione, consapevole della causa del suo umore cupo. «Non te la prendere, dolcezza» commentò il vecchio guerriero. «Il fatto che l'Arcimago non ti voglia all'interno del Consiglio dei Tre non dipende dalla tua mancanza di abilità o dal fatto che sei una donna... anzi gli uomini lo hanno preso come un complimento, perché se non altro questo dimostra che non sei al soldo di quel bastardo. E comunque essere comandante in seconda di un così famoso spadaccino non è una promozione da poco, non credi?» «Lo è, se si aveva intenzione di diventare comandante!» replicò Maya, con una smorfia. «Inoltre per quanto Forral possa essere un grande spadaccino, sappiamo tutti che ha avuto la carica perché è tanto amico dei Maghi!» esclamò quindi, calando il pugno sul tavolo. «Miathan potrebbe anche assumere di persona il comando della guarnigione e farla finita: se non fosse per Vannor, noi poveri Mortali che viviamo in questa città non avremmo nessun rappresentante dalla nostra parte!» «Indipendentemente dall'essere una donna, non avresti mai ottenuto la carica a causa del tuo modo di pensare» dichiarò Hargorn, in tono amaro. «È stato proprio il fatto che la pensavo in questo modo a rovinare la mia carriera all'interno della guarnigione, ragazza, quindi presta attenzione al mio consiglio e tieniti alla larga dalla politica cittadina! Ora è meglio che vada» aggiunse, assestandosi la fascia che gli tratteneva i lunghi e folti capelli brizzolati e alzandosi in piedi, «Se Parric non rientrerà al più presto ci sarà bisogno di me.» «Non è ancora tornato dalla sua visita a Vannor?» domandò Maya, desiderando in cuor suo che quell'incarico fosse toccato a lei perché apprezzava e rispettava quell'ometto tozzo dal carattere forte che era a capo della Corporazione dei Mercanti e che possedeva un asciutto senso dell'umorismo e un atteggiamento privo di compromessi nei confronti della vita in generale e del Popolo dei Maghi in particolare. «Non so perché Rioch abbia mandato proprio Parric a portare a Vannor la notizia dell'identità del nuovo comandante» rispose Hargorn, scuotendo
il capo. «Come se sapere chi è il nuovo prescelto dell'Arcimago potesse fare per Vannor la minima differenza.» «Ecco Parric che arriva» lo interruppe Maya. All'intero della guarnigione circolava da sempre la battuta secondo cui l'asciutto e basso cavalleggero non era capace di entrare in una stanza senza portare scompiglio: questa volta Parric attirò l'attenzione generale con una violenta crisi di tosse dovuta alla polvere bianca che avviluppava perennemente l'arido terreno delle esercitazioni. Oltre a tossire disperatamente, il cavalleggero sembrava avere anche una fretta terribile: puntando dritto verso il loro tavolo si pulì dalla polvere la faccia abbronzata e la testa quasi calva, poi trangugiò in un solo sorso quel che restava del boccale di birra ormai tiepida di Maya. «Ci sono dei problemi» annunciò infine, «e non riesco a trovare Rioch da nessuna parte.» La strada dal mulino fino a Nexis era stata lunga, e adesso la salita che dal sentiero costeggiante il fiume portava alla Piazza del Mercato, dove i contadini provenienti da fuori città andavano a vendere i loro prodotti, pareva ancora più lunga. Nel risalire a fatica l'erto viottolo coperto di acciottolato Sara si assestò i capelli umidi di sudore e spostò sull'altro braccio l'ingombrante cesto per la spesa, battendo a terra un piede con irritazione quando esso le si impigliò nella stoffa della gonna e chiedendosi per quale motivo sua madre avesse dovuto farle percorrere tanta strada quando si sapeva benissimo che era inutile andare al mercato perché non ci sarebbe stato nulla da comprare. È forse colpa mia se siamo a corto di cibo? pensò con irritazione. Sono stata io a provocare questa dannata siccità? Ad aumentare la lista dei suoi motivi di lamentela suo padre, che di solito era molto indulgente, l'aveva rimproverata perché non si era alzata abbastanza presto da arrivare al mercato al momento dell'apertura... ma del resto suo padre era diventato impossibile da sopportare fin da quando l'abbassarsi del fiume aveva lasciato in secca la ruota del mulino. Questo aveva anche comportato che Anvar non venisse più con il suo carro a prendere la farina, costringendola così a fare tutta la strada a piedi; del resto, ultimamente Anvar non era più una compagnia divertente perché riusciva a pensare soltanto al lavoro, come se questo potesse permettergli di realizzare qualcosa d'importante. Il suo problema era che non aveva ambizione. Ormai prossima alla meta, Sara si concesse un sospiro di sollievo nel sa-
lire con passo strascicato l'erta rampa di gradini che portava all'ingresso della piazza: accaldata, indolenzita e affamata, era troppo impegnata a rimuginare sui propri motivi di scontento per notare il crescente frastuono di voci rabbiose, e nell'entrare nella piazza si venne a trovare nel bel mezzo di un tumulto. Avvertito da un messaggero dei frenetici mercanti che nella piazza del mercato erano minacciati da una folla di umore sempre più cupo, Vannor stava galoppando a rotta di collo lungo le strade cittadine, proveniente dalla sua casa sulla riva meridionale del fiume. «Razza di stupidi idioti» borbottò con esasperazione, continuando a frustare il suo povero cavallo e chiedendosi perché il messaggio era stato mandato al capo della Corporazione dei Mercanti invece che alla guarnigione, che era più vicina al mercato, Era stata una pura fortuna che Parric si fosse trovato da lui quando era arrivato lo sconvolto messaggero. Non osando percorrere la via più lunga per timore di perder tempo prezioso, Vannor spinse il cavallo su per l'erta rampa di scalini di pietra che costituiva la via d'accesso più rapida alla piazza del mercato, consapevole che la situazione sarebbe potuta benissimo sfuggire al controllo prima che Parric avesse il tempo di avvertire i soldati, e quando infine raggiunse la piazza scoprì che questo era già successo, come dimostrava un enorme falò alimentato dai pezzi di bancarelle distrutte che erano stati ammucchiati al centro della piazza piena di una massa ribollente di gente inferocita, in parte munita di randelli e in parte di torce, asce e coltelli, la cui vista lo allarmò ulteriormente. «Abbasso i mercanti!» cantilenava la folla. «Abbasso i Maghi!» Quelle grida strapparono a Vannor un'imprecazione, perché anche se nel profondo del suo cuore era d'accordo con il secondo motto scandito dalla folla, come capo della Corporazione dei Mercanti non poteva certo concordare con il primo. Tempestati di proiettili e di insulti, i proprietari delle bancarelle erano asserragliati dietro una barricata di carri rovesciati, e alle loro spalle era possibile vedere ciò che aveva dato origine al tumulto: un carro carico di cassette di frutti estivi, di verdure un po' avvizzite ma ancora in buono stato, di formaggi assortiti e di due gabbie piene di polli vivi. Sul carro spiccava il marchio dei Maghi, a indicare che il suo carico era destinato all'Accademia, e i mercanti erano decisi a difenderlo perché avevano troppa paura dell'ira di Miathan per venire meno all'impegno preso con lui.
Lottando per controllare il cavallo innervosito, Vannor si arrestò al limitare della piazza, chiedendosi cosa poteva fare di fronte ad una situazione del genere. Dov'erano gli uomini della guarnigione? Essendo arrivato alla sua attuale posizione di prestigio con le sue sole forze, dopo un'infanzia trascorsa nella povertà e nello squallore, il suo istinto principale era quello di simpatizzare con la folla disperata e affamata che gremiva la piazza, ma al tempo stesso lui era adesso il capo della Corporazione dei Mercanti e persone che dipendevano da lui e per le quali era responsabile erano in pericolo... il che significava che doveva riuscire a raggiungere i venditori asserragliati e costringerli a consegnare il carro. Senza osare soffermarsi a pensare alle conseguenze di quella decisione, cominciò quindi a incitare il cavallo recalcitrante per farlo avanzare in mezzo alla calca. Procedere risultò subito molto difficile perché il cavallo era terrorizzato e comprensibilmente restio a muoversi, un sentimento che Vannor si sentì propenso a condividere mentre cercava di tenere lontane le mani che si protendevano ad afferrarlo e di evitare al tempo stesso gli oggetti che venivano scagliati da più parti. Volti pallidi e scarni per la carenza di cibo si volsero verso di lui e da qualche parte fra la folla si levò un grido selvaggio che indusse Vannor a rendersi conto con sgomento del proprio errore quando ormai era troppo tardi per porvi rimedio: per quelle persone il suo cavallo significava cibo fresco. Una pietra lo raggiunse al volto e nell'avvertire in bocca il sapore del sangue lui vide la calca serrarsi alle sue spalle in modo da bloccargli la possibilità di ritirarsi, anche se la folla aveva ancora troppa paura degli zoccoli del cavallo per avvicinarsi ad esso. Per quanto si sforzasse di procedere, Vannor scoprì che non riusciva ad avanzare e che il frastuono circostante impediva ai venditori di sentire le grida con cui stava cercando di attirare la loro attenzione. All'improvviso il suo cavallo emise un acuto nitrito e s'impennò, sferzando l'aria intorno a sé con gli zoccoli: subito la folla si trasse indietro in preda al panico e nel lottare per riportare l'animale sotto controllo Vannor udì un grido che lo indusse a guardare verso il basso. Accorgendosi che una ragazza era caduta sotto gli zoccoli scalcianti del suo cavallo, il mercante costrinse la bestia a spostarsi assestando alle redini uno strattone che quasi gli slogò le braccia e si protese ad afferrare la giovane per un polso, in modo da porla fuori pericolo issandola in sella con sé, certo che quella ragazza piangente, ammaccata e terrorizzata non avesse nulla a che vedere con la folla in tumulto. «Va tutto bene» la confortò, mentre lei gli si stringeva contro singhioz-
zando istericamente. «Adesso sei al sicuro!» Naturalmente era una menzogna, come dimostrò il subitaneo barcollare del cavallo sotto l'impatto della folla infuriata, a cui la ragazza reagì con un altro strillo di terrore. Oh, dèi, pensò Vannor. come farò a tirare fuori entrambi da questa situazione? A Forral bastò una sola occhiata per rendersi conto di quello che stava succedendo. Dal momento che proveniva dal Daino Veloce, lo spadaccino raggiunse la piazza dal lato opposto rispetto a dove si trovava Vannor, arrivando da uno stretto vicolo che sbucava alle spalle della barricata eretta dai venditori. «Per gli attributi di Chathak!» imprecò, riflettendo che quello non era certo il modo migliore per inaugurare la sua carica di comandante della guarnigione, poi si chiese dove fossero finiti i suoi uomini, che avrebbero dovuto già essere lì. Guardandosi intorno, si rese conto che ormai nulla avrebbe potuto calmare la folla inferocita e che i mercanti avrebbero dovuto ritirarsi al più presto perché alcuni uomini che avevano il volto distorto dall'ira stavano già prelevando dal falò delle torce accese. Abbassandosi per evitare la pioggia di rifiuti e di ciottoli divelti proveniente dalla folla, s'insinuò quindi nello spazio ridotto alle spalle dei carri, dove i mercanti terrorizzati stavano facendo del loro meglio per tenere a bada la folla cercando di colpire chi si avvicinava infilando la spada nelle fessure presenti nella barricata. Afferrato per una spalla il primo mercante che gli capitò accanto, Forral lo costrinse a girarsi verso di lui. «Andate via di qui, prima che si ricordino del vicolo e vi blocchino la ritirata» ordinò. «Il cibo li tratterrà per qualche tempo.» «Non possiamo abbandonare il carro!» esclamò l'uomo, mentre sul suo volto già pallido per il timore si dipingeva un'espressione terrorizzata. «L'Arcimago ci...» «Al diavolo l'Arcimago!» ruggì Forral. «Così verrete uccisi.» Ormai era però troppo tardi: con un ruggito crepitante il legno secco dei carri che formavano la barricata prese fuoco, e mentre i venditori indietreggiavano urlando la folla si preparò ad attaccare. Aurian seguì Forral fino al momento in cui lui si addentrò nella piazza, poi si soffermò a riflettere sul da farsi, perché pur desiderando essergli ac-
canto adesso che era in pericolo sapeva che se avesse cercato di raggiungerlo lui l'avrebbe rimandata indietro... e avrebbe avuto un paio di cosette da dirle quando la situazione si fosse calmata. Per quanto angosciata dal terrore di poterlo perdere di nuovo, si sentì quindi indotta ad esitare perché in base ad esperienze passate sapeva che Forral si sarebbe infuriato se lei avesse messo a repentaglio la propria vita. Giunta infine alla decisione che avrebbe affrontato in seguito quel problema, si avviò verso l'estremità del vicolo e subito la sua attenzione fu attratta dalla porta laterale, leggermente socchiusa, di una delle case che cingevano il perimetro della piazza. Anche se si recava di rado a Nexis, ricordava comunque con precisione che quelle case erano dotate di balconate che si affacciavano sulla piazza e questo la indusse a oltrepassare senza esitazione la soglia dell'abitazione, che per fortuna risultò deserta, forse perché i suoi occupanti erano usciti per partecipare ai tumulti. Aggirandosi per le stanze ampie e ben proporzionate dell'edificio, un tempo grandioso come gli altri che sorgevano intorno al mercato e che adesso erano anch'essi fatiscenti e trasandati perché quel distretto non era più alla moda, cercò fino a trovare un'alta finestra che desse accesso alla balconata, ma quando spalancò le imposte ed uscì all'aperto il suo primo istinto fu quello di ritrarsi davanti al caos che regnava sotto di lei. Dalla parte opposta della piazza un uomo a cavallo stava lottando contro la folla che minacciava di trascinarlo giù di sella e cercava di usare la spada per tenere a bada gli assalitori nonostante l'intralcio costituito dalla ragazza bionda che era appollaiata dietro di lui sulla groppa dell'animale, una piccola stupida che si gli aggrappava istericamente alle braccia con il risultato di bloccargli i movimenti. Sbuffando per il disgusto Aurian distolse lo sguardo dai due e lo diresse verso sinistra nella speranza di intravedere Forral, che infine individuò proprio sotto di lei, intento a discutere con uno dei mercanti. Poi il sangue le si raggelò nelle vene allorché scorse un sottile nastro di fuoco che si snodava fra la calca a indicare l'avvicinarsi di uomini muniti di torce: consapevole che se la barricata avesse preso fuoco Forral si sarebbe trovato privo di qualsiasi difesa, Aurian prese a riflettere freneticamente sotto il pungolo del timore, giungendo alla conclusione che c'era una sola possibilità di porre fine a quella follia e che lei era l'unica che potesse attuarla. La pioggia, pensò, devo procurare la pioggia. Al tempo stesso però lo stomaco le si contrasse per il terrore dovuto al ricordo di ciò che le era successo l'ultima volta che aveva cercato di usare
la magia: rammentava fin troppo bene il disperato aggirarsi nel labirinto buio, il terrore e l'impotenza che aveva provato, e sapeva che da allora non aveva più provato a far ricorso ai suoi poteri, per cui non poteva sapere se erano ancora attivi e se nell'attingere ad essi le sarebbe successa di nuovo la stessa cosa. Inoltre non aveva un'effettiva esperienza pratica per quanto concerneva la Magia del Clima, che era difficile e spossante da effettuare, ma al tempo stesso doveva salvare Forral... Serrando le dita intorno alla ringhiera di metallo lavorato della balconata, spinse la propria consapevolezza al di fuori del corpo, così come le era stato insegnato di fare, e nel sondare il cielo imprecò sommessamente perché esso si stendeva assolutamente azzurro e scintillante in tutte le direzioni, fino a velarsi di bianco per la calura lungo l'orizzonte. Dov'erano le nubi che si supponeva Eliseth stesse muovendo? Richiamando alla mente ciò che aveva appreso in merito al funzionamento del clima sugli arcaici libri ottenuti in prestito da Finbarr, giunse alla conclusione che le nuvole sarebbero dovute giungere da ovest e focalizzò tutto il proprio potere in quella direzione, spingendo la mente sempre più lontano. Ah, ecco... al largo sopra l'oceano occidentale... L'erompere di alte fiamme accompagnato da un grido di giubilo della folla la riportò con violenza dentro il proprio corpo e per un momento non poté fare altro che aggrapparsi alla ringhiera, stordita e disorientata da quel brusco rientro... poi si accorse che i carri erano in fiamme. «Forral!» stridette, senza neppure rendersi conto che aveva gridato ad alta voce il suo nome perché riusciva soltanto a pensare che le nuvole erano troppo lontane e non sarebbe mai riuscita a spostare in tempo una simile massa di aria e di acqua. In quella frenetica frazione di secondo avvertì il calore delle fiamme che stavano divorando i carri, percepì l'ira della folla che era simile ad un altro muro di fiamma che si stesse abbattendo su di lei, pulsante di odio, e all'improvviso il volto di suo padre, che per lei era solo un vago ricordo d'infanzia, parve materializzarsi davanti ai suoi occhi, la sua voce sembrò echeggiarle nella mente. «L'energia assume molte forme, e il Mago saggio le può utilizzare tutte. Tutte le forti emozioni... ira, paura, amore... possono essere utilizzate per alimentare il potere della magia...» Aurian non si soffermò neppure a vagliare ciò che aveva visto e udito perché non ne aveva il tempo; invece si protese verso la folle e frenetica energia emanata dalla folla, verso la grezza energia-calore prodotta dal
fuoco... e trasse tutto verso di sé... Quell'assorbimento di potere le fece un strano effetto, perché da un punto di vista strettamente formale era contrario al Codice dei Maghi... e tuttavia l'energia che fluiva nella piazza era così abbondante da permetterle di attingere con facilità la quantità che le serviva senza recare danno a nessuno. La parte più difficile fu attirare l'energia dentro di sé e protendere al tempo stesso la propria consapevolezza verso l'esterno, perché dovette dimenticare del tutto il corpo e accantonare quasi la propria sfera cosciente, trasformandosi in una sorta di conduttura, in un contenitore, e lasciando che l'energia le fluisse attraverso... Poi la sua mente incontrò di nuovo gli ammassi di nuvole e si chiese se sarebbe stato più facile spingere o tirare. Dal momento che le nubi si stavano comunque muovendo verso di lei decise infine che era il caso di tirare, ma come? In che modo si poteva afferrare una nuvola? D'un tratto tutto le parve ovvio e lei si spostò in modo da porsi fra i banchi di nubi e il fronte di aria fredda che le precedeva, spingendo con tutte le sue forze in direzione di Nexis in modo da allontanare l'aria e creare un vuoto: l'aria risultò più leggera da smuovere dell'acqua, e un istante più tardi le nuvole si precipitarono a riempire lo spazio che si era creato. Con tutta l'energia che aveva a sua disposizione la cosa risultò quasi troppo facile, e in seguito lei si rese conto che il tempo che le era parso infinito mentre si trovava all'esterno del proprio corpo era stato nella realtà di appena pochi secondi. Allorché una spessa coltre di nubi nere ricoprì la città come un sinistro coperchio, lei tornò nel corpo, concentrò il proprio potere e colpì. Un lampo scaturì dalle nuvole, descrivendo un ampio arco nel cielo, e in lontananza un rombo di tuono echeggiò per la valle. Pioggia! pensò Aurian, protendendosi verso l'incombente strato di nubi con dita che parvero artigliarle e lacerarle per estrarre dal cielo la sua preziosa riserva di acqua. Lo scatenarsi del diluvio che seguì la riportò bruscamente in sé. La pioggia giunse all'improvviso, come un solido e pesante muro d'acqua che le appiattì all'istante i capelli intorno al volto e le rese difficile respirare come se si fosse trovata sott'acqua. Sotto di lei, le fiamme si estinsero in un istante. Nell'allontanarsi con riluttanza dal glorioso spettacolo dello scatenarsi della forza degli elementi, Aurian udì infine le grida di giubilo della folla e constatò che il tumulto era cessato in un istante, come se l'improvviso di-
luvio avesse lavato via la furia e la paura. Adesso la gente stava saltando di gioia in tutta la piazza, improvvisando danze selvagge e gioiose, mentre l'uomo a cavallo si faceva largo con cautela fra la calca festante per dirigersi verso la postazione dei mercanti. «Che cosa hai fatto?» Aurian si voltò di scatto, sorpresa, e si trovò faccia a faccia con Forral, che si era servito della superficie sgretolata dell'edificio per arrampicarsi fin sulla balconata. «Come ci sei riuscita? Sei stata tu, vero? Come hai osato esporti ad un simile pericolo? O forse non ricordi perché mi hanno richiamato qui d'urgenza?» inveì lo spadaccino, con voce resa aspra dall'ira e con un'espressione cupa sul volto annerito dal fumo, afferrandola per le spalle. Per un momento Aurian si ritrasse, memore del giorno in cui lui l'aveva sorpresa a giocare con le sfere di fuoco, poi però il suo orgoglio di Maga ebbe la meglio e lei si eresse sulla persona: come osava Forral trattarla come se fosse stata ancora una bambina? Quella fu l'ultima reazione che lo spadaccino si sarebbe aspettato, e quando Aurian si liberò con uno strattone dalla sua stretta si rese infine conto che la statura di lei era ormai pari se non superiore alla sua e che con il mento orgogliosamente alzato e gli occhi che ardevano di un fuoco freddo nel volto pallido per l'ira Aurian appariva una vera Maga, capace di intimidire chiunque. «Come osi?» esplose Aurian, mentre un fulmine si abbatteva sul tetto di una costruzione vicina. «Come osi abbandonarmi per tutto questo tempo e poi cercare di ucciderti dopo essere tornato da meno di un giorno? E cosa ti da il diritto di cercare di impedirmi di aiutarti?» Forral si affrettò a indietreggiare, consapevole che la sua era una ritirata in piena regola, e non essendo uno stupido si rese conto che il suo rapporto con Aurian avrebbe dovuto essere ampiamente riveduto, pensando al tempo stesso che lei era davvero splendida nella sua ira simile ad uno spirito evocato dalla tempesta con gli occhi che emanavano contemporaneamente fuoco e ghiaccio. Quel momento segnò per lui il principio della fine. «Io...» balbettò, ma ciò che stava per dire venne troncato sul nascere da un martellare di zoccoli che accompagnò il sopraggiungere nella piazza di una compagnia di guerrieri: a quanto pareva, i suoi uomini si erano infine degnati di arrivare. Tornando a voltarsi verso Aurian, che lo stava fronteggiando ancora con atteggiamento orgoglioso e inflessibile, e con un interrogativo bagliore di sfida nello sguardo, Forral le sorrise e le assestò una
pacca su una spalla, secondo il modo di fare cameratesco proprio dei soldati. «Ben fatto, ragazza» ridacchiò poi, vedendola sgranare gli occhi per la sorpresa. «Ben fatto davvero. Hai salvato la situazione!» Un'ora più tardi una riunione d'emergenza ebbe luogo nella sala da pranzo privata del Daino Veloce, rischiarata ora dalla luce delle lampade perché le spesse nuvole evocate da Aurian incombevano ancora sulla città e stavano conferendo una penombra crepuscolare a quel pomeriggio estivo nel riversare sulla città il loro carico di pioggia che tamburellava sulla pavimentazione delle strade e scorreva in rivoli lungo le finestre. L'ossequioso locandiere, evidentemente lusingato dalla presenza di tante persone influenti sotto il suo tetto, servì a tutti boccali di birra scura pieni fino all'orlo insieme a piatti di frutta, di carne fredda e di formaggio, ma Aurian si limitò a fissare il cibo con aria incupita perché sapeva ora che esso, per quanto scarso, sarebbe apparso come un banchetto alla gente affamata che aveva scatenato il tumulto, e stava cominciando a chiedersi per la prima volta perché proprio le scorte di viveri destinate ai Maghi fossero state l'obiettivo della folla inferocita. Allorché tutti ebbero preso posto intorno al tavolo, Aurian si guardò intorno e nello scrutare i volti che l'attorniavano frugò nella propria memoria per individuare il nome di ciascuna di quelle persone, che le erano state presentate appena pochi momenti prima. Seduto alla destra di Forral c'era un uomo tozzo dall'aspetto duro che sfoggiava barba e capelli tagliati molto corti e che rispondeva al nome di Vannor, capo della Corporazione dei Mercanti, mentre il posto alla sinistra di Aurian era occupato da una donna snella e minuta che indossava una tenuta da combattimento di cuoio: i suoi arti abbronzati rivelavano forti fasci di muscoli e le sue trecce scure e ancora ingioiellate di pioggia erano raccolte sul capo secondo lo stile delle guerriere. Quella donna, che le era stata presentata come il Tenente Maya, comandante in seconda della guarnigione, appariva a disagio e si stava tormentando un labbro fra i denti, torcendosi al tempo stesso le mani in grembo. Accanto a lei sedeva il comandante dei cavalleggeri, Parric. un ometto basso, bruno e snello (possibile che tutti questi guerrieri della guarnigione fossero di bassa statura?) dai radi capelli castani e dal volto segnato da linee che indicavano un'indole propensa al riso... anche se adesso lui non stava di certo ridendo. Aurian stessa si sentiva a disagio in mezzo a quegli sconosciuti dall'e-
spressione cupa, perché era la prima volta che si trovava circondata da tanti Mortali. Per nascondere la propria ansia prese il grosso boccale di peltro che si trovava sul tavolo davanti a lei e se lo accostò alle labbra. Prima di allora non aveva mai assaggiato la birra in quanto i Maghi bevevano soltanto vino e disprezzavano la birra, considerandola una sostanza comune adatta soltanto ai Mortali, e nel bere un sorso di quel liquido spumoso contrasse la bocca in una smorfia. Per gli dèi! Come facevano gli altri a starsene seduti lì a ingurgitare quella sostanza così amara? Per impedirsi di tossire trangugiò in fretta un altro sorso, in quanto era riluttante a fare una brutta figura davanti a quei Mortali, ma per quanto cercasse di darsi un contegno Vannor si accorse del suo disagio e le rivolse un sorriso comprensivo, ammiccando al tempo stesso con aria astuta e consigliandole con un gesto di continuare a bere. Timidamente, Aurian ricambiò il sorriso e tentò ancora, scoprendo che questa volta il sapore non risultava poi così sgradevole, segno che forse ci voleva un po' di tempo per abituarsi a quella bevanda. Intanto Vannor si schiarì la gola e si alzò in piedi, appoggiando le mani sul piano del tavolo. «Non siamo venuti qui per passare il pomeriggio a bere birra» esordì senza preamboli, «quindi è meglio cominciare... e non riesco a pensare ad un modo migliore per farlo se non ringraziare Lady Aurian per aver portato la pioggia e per aver ceduto il cibo destinato ai Maghi a coloro che più ne avevano bisogno. Signora, in qualità di capo della Corporazione dei Mercanti di Nexis ti sono estremamente grato, come lo sono anche gli abitanti della città» aggiunse, girandosi verso di lei ed inchinandosi. Aurian sentì il volto che le si arroventava per l'imbarazzo di fronte ad un complimento così pubblico, imbarazzo accentuato dal fatto che Vannor le si era rivolto usando il suo titolo onorifico, e quella era per lei la prima volta che veniva interpellata in quel modo. «Io...» mormorò, allargando le mani in un gesto impotente. «Che altro avrei potuto fare?» «Ben detto, Signora!» esclamò Vannor, con voce piena di approvazione. «Signore» cominciò Aurian, pensando che quello fosse il momento adatto per porre la domanda che da un po' la tormentava. «Signora, per favore, chiamami Vannor» la interruppe il mercante, con un sorriso. «Non so cosa farmene dei titoli altisonanti. Vannor andrà benissimo.» «Allora chiamami semplicemente Aurian» replicò lei, ricambiando il
suo sorriso e chiedendosi fugacemente perché il mercante apparisse tanto sorpreso e Forral fosse invece raggiante e pieno di approvazione. «In ogni caso» proseguì quindi, «c'è una cosa che mi stavo chiedendo... ecco, in questa locanda c'è del cibo» disse, indicando i piatti disposti sul tavolo, «e sono certa che non è l'unica ad averne. Perché questi viveri non sono stati distribuiti fra la gente? E perché l'obiettivo della folla era il carro con i viveri destinati ai Maghi?» Vannor parve sconcertato dalla sua domanda e d'un tratto incapace di incontrare il suo sguardo, mentre Forral si limitava ad osservare la scena con acuto interesse e con un accenno di sorriso sulle labbra. «Signora... Aurian... in un certo senso tu hai ragione» replicò infine Vannor, ritrovando la voce. «A Nexis ci sono delle ingiustizie, i ricchi pensano a loro stessi e i poveri... ecco, se la cavano come meglio possono. Quelli che non ci riescono sono costretti a vendere loro stessi in servitù per un periodo di anni oppure, nel caso di grossi debiti, a vita, il che non è altro che una forma di schiavitù legalizzata. Io faccio quello che posso nell'ambito del consiglio perché un tempo ho conosciuto la povertà... ma il problema è che come capo della Corporazione dei Mercanti rappresento una quantità di persone ricche: se il mio modo di agire cesserà di andare loro a genio non mi voteranno più e mi sostituiranno con qualcuno a cui non importi nulla dei poveri, e questo mi costringe a calibrare con precisione il mio comportamento. Aurian» proseguì con un sospiro, «devo ammettere che nell'ambito del consiglio non ricevo nessun aiuto dall'Arcimago o dal suo uomo di paglia, Rioch» aggiunse, scoccando un'occhiata penetrante a Forral che smise di colpo di sorridere, poi riportò il proprio sguardo su Aurian e concluse: «Vuoi forse negare che Miathan disprezza tutti i Mortali, ricchi o poveri che siano?» Questa volta fu Aurian ad arrossire perché Vannor aveva ragione... Miathan aveva ribadito fin troppo spesso quel suo modo di pensare che aveva il potere di metterla a disagio. L'Arcimago le aveva sempre descritto i Mortali come esseri infidi, pigri, ottusi e decisamente pericolosi, dipingendo Vannor come il peggiore fra tutti, e per quanto il comportamento avuto quel giorno dalla folla sembrasse confermare il punto di vita dell'Arcimago nel guardare Vannor lei poteva scorgere al di là dei suoi modi bruschi e diretti un uomo onesto, gentile e premuroso, e questo la portò a distogliere lo sguardo, sentendosi confusa come non le era mai capitato in tutta la sua vita. D'un tratto le tornò poi alla mente lo sgradevole incidente verificatosi l'anno precedente, quando Meiriel aveva rifiutato di aiutare la moglie di
Vannor nel corso di un parto difficile, sostenendo che il suo intervento non era necessario: ricordando come poi la donna invece fosse morta, Aurian si sentì arrossire per la vergogna e rifletté che non c'era da meravigliarsi se Vannor nutriva ben poco amore per i Maghi. Adesso comprendeva fin tropo bene perché il carro con i viveri destinati all'Accademia fosse stato preso di mira dalla folla, e non le restò che sperare che il suo atto di evocare la pioggia e di cedere quel cibo ai Mortali fosse in qualche modo servito a riportare un po' di equità. «Ascolta, Vannor» intervenne intanto Forral, con espressione accigliata e con un tono aspro che tradiva la sua irritazione. «Aurian è molto giovane ed è un membro decisamente minore del Popolo dei Maghi, quindi non puoi biasimare lei se l'Arcimago...» «Non era mia intenzione farlo!» esclamò Vannor, sollevando le mani in un gesto conciliatorio. «Se ho dato l'impressione di sottintendere una cosa del genere ti chiedo scusa, Aurian! Quel che hai fatto oggi è stato per me più che sufficiente.» «Un'altra cosa» intervenne Forral. «Se pensi che io sia un fantoccio di Miathan soltanto perché Rioch lo era...» «È stato lui a sceglierti, giusto?» sbottò Maya, con voce resa aspra dall'amarezza. «Quindi cosa ti aspetti che pensiamo?» «Ah, sì, il Tenente Maya» commentò Forral, fissandola con freddezza. «Prima che si cambiasse argomento avevo intenzione di interpellarti. Dal momento che Rioch si è ritirato dal servizio e che io non gli ero ancora subentrato, oggi eri tu ad avere il comando della guarnigione, quindi puoi spiegarmi perché nelle strade non c'erano pattuglie in servizio e perché i tuoi uomini sono arrivati soltanto quando l'emergenza era ormai superata? In qualità di comandante in seconda finora non mi hai certo fatto una buona impressione!» Aurian, che era seduta accanto a Maya, avvertì immediatamente lo sgomento della donna di fronte a quell'accusa, e nel vederla contorcersi sotto lo sguardo di Forral senza riuscire ad emettere una sola parola di giustificazione, provò compassione nei suoi confronti perché sapeva bene quanto Forral riuscisse ad intimidire le persone quando era infuriato. In un gesto istintivo dettato dall'impulso, in quanto la sua natura non la portava ad agire in modo così intimo con un'estranea... strinse la mano di Maya nella sua sotto il tavolo, offrendole sostegno e conforto. Dopo un istante la donna ricambiò la stretta e le rivolse un sorriso pieno di gratitudine, ritrovando infine la voce.
«Signore, io...» cominciò. «Aspetta un momento... signore!» intervenne però Parric in tono rabbioso, venendo in difesa della guerriera. «Non è stata colpa di Maya. Tu hai appena detto che Rioch ha lasciato il servizio attivo, ma questo non è vero... almeno non per quanto riguarda noi, perché lui ha continuato a gironzolare per la guarnigione, impartendo di tanto in tanto qualche ordine quando ne aveva voglia. Certo, naturalmente ha lasciato che Maya si addossasse tutti gli incarichi noiosi e fastidiosi che lui non aveva voglia di affrontare, ma non ha mai avvallato la sua autorità e non le ha mai permesso di agire di sua iniziativa, ponendo questa povera ragazza in una posizione insostenibile! Oggi poi quegli idioti di mercanti non hanno neppure pensato di mandarci a chiamare, e quando infine sono riuscito ad informare la guarnigione di quello che stava succedendo Rioch era ormai scomparso con tutte le sue cose e nessuno aveva idea di dove fosse finito. La povera Maya ha cercato di organizzare le truppe, ma tutti continuavano a correre di qua e di là come polli impazziti chiedendo dove fosse Rioch e chi stesse impartendo gli ordini, ed è stato un miracolo che alla fine lei sia comunque riuscita a smuoverli, considerato che questo comando sarebbe dovuto toccare a lei, che lo meritava e lo desiderava, e che invece è stata scavalcata...» «Parric!» stridette Maya, con espressione sconvolta. «È vero, ed è bene che lui lo sappia» ribatté Parric, scrollando le spalle. «Maya è un soldato dannatamente in gamba, signore, è la migliore, e non meritava uno sgarbo del genere.» «Allora le cose stanno così» sospirò Forral, con espressione ora contrita. «Vorrei averlo saputo prima di accettare la carica. Ti porgo le mie scuse, tenente, sono stato ingiusto nei tuoi confronti.» Trasse quindi un profondo respiro e lasciò vagare lo sguardo su quanti lo attorniavano mentre proseguiva: «Oggi sono state presentate fra noi cinque delle lamentele che devono essere risolte, perché non serve litigare fra noi mentre fuori la città va in rovina. Invece dobbiamo sostenerci a vicenda perché in mancanza di meglio siamo noi quelli che devono rimettere in piedi Nexis. E dal momento che dobbiamo avere fiducia gli uni negli altri, permettetemi di mettere bene in chiaro una volta per tutte che non intendo essere il fantoccio di Miathan o di chiunque altro.» All'improvviso tutti scattarono in piedi con grida di approvazione e la tensione presente nella stanza si dissipò come fumo mentre Aurian fissava Forral con orgoglio, pensando che era stato lui a creare quel senso di affia-
tamento. «Dunque» riprese Forral, riportando l'ordine fra i presenti. «Maya, hai detto di aver lasciato Hargorn e i suoi uomini a sorvegliare il mercato e a distribuire i viveri dei Maghi; dal momento che ritieni si tratti di un uomo abile ed esperto non ci dovrebbero essere problemi.» «Se dovessero essercene lui ti avvertirà immediatamente» sorrise Maya. «Bene. Mi piace essere circondato da persone affidabili. Parric, organizza un contingente di cavalleria e alle prime luci dell'alba batti la campagna circostante per procurare viveri. Bada di non ridurre alla fame i contadini, anche se non credo che dovrai arrivare a questo perché la siccità non è durata tanto a lungo ed ho il sospetto che loro stiano tenendo da parte il cibo migliore per far salire i prezzi. Per voto di maggioranza del consiglio» continuò, intercettando lo sguardo di Vannor, che ridacchiò, «da questo momento è in vigore il razionamento dei viveri a causa della situazione d'emergenza che si è creata, quindi i loro prodotti sono soggetti a requisizione. Bada di non accettare scuse e al tempo stesso di non lasciarti prendere la mano dall'entusiasmo prelevando anche sementi e bestiame da riproduzione, perché dobbiamo pensare al futuro. Prendi con te qualche uomo in più per far trasportare i viveri in città al più presto possibile...» «E avverti di portare tutto da me» interloquì Vannor, con una luce maliziosa nello sguardo. «Mi servirò dei miei mercanti per organizzare un'equa distribuzione e puoi essere certo che costringerò quei tirchi a comportarsi come si deve, senza cercare di trarre profitto a spese dei poveri. Compiere buone azioni sarà per loro un'esperienza nuova che li sconvolgerà» rise quindi, battendosi una pacca su un ginocchio e ammiccando verso Forral nel concludere: «naturalmente diranno che è colpa tua.» «Naturalmente» convenne in tono solenne Forral, ammiccando a sua volta. «D'accordo. Parric... dal momento che ti ci vorrà un po' di tempo per organizzarti è meglio che cominci subito.» «Immediatamente, signore» replicò il cavalleggero, in tono divertito e deciso, poi svuotò il suo boccale in un unico sorso da bevitore esperto e uscì con un ampio sorriso dipinto sul volto. «Maya» continuò intanto Forral. rivolto alla guerriera, «voglio che tu ti occupi della gestione quotidiana della guarnigione. Come Aurian può dirti» spiegò, sorridendo dell'espressione sconcertata della donna. «io non sono un amministratore... le mie doti sono il combattimento e l'insegnamento della scherma... quindi tanto vale distribuire i compiti di conseguenza. Inoltre non temere che io possa non appoggiare la tua autorità perché sono
pronto a sostenerti in tutto e per tutto... al punto che prima di lasciare questa stanza stilerò degli ordini scritti per evitare che possano sorgere altri dubbi in merito a chi sia a comandare.» «Grazie, signore» replicò Maya, con voce pacata che contrastava con la gioia dipinta sul suo volto. «Prometto che farò un buon lavoro.» «Chiamami Forral» la corresse lo spadaccino, con un sorriso. «Non dubito che farai un buon lavoro... come ho detto, voglio avere intorno persone affidabili. Ancora una cosa. Prima di assumere il comando mi spetterebbe un mese di licenza da trascorrere con Aurian e non vi vorrei rinunciare se soltanto sarà possibile. Naturalmente non avevo previsto l'attuale crisi, ma tu e Vannor, con l'aiuto di Parric, dovreste essere in grado di far fronte alla situazione. Naturalmente se ci dovessero essere dei problemi seri sarò a vostra disposizione, ma a parte questo tu fungerai in mia assenza da comandante della guarnigione, e...» «Chi ha osato rubare le provviste dei Maghi, già comprate e pagate, per nutrire la rissosa marmaglia di questa città?» ruggì l'Arcimago, irrompendo inaspettatamente nella stanza in preda ad un'ira temibile a vedersi. Quando lo vide arrestarsi nel centro della stanza, con gli occhi fiammeggianti e l'espressione infuriata, Aurian temette per Forral e per Vannor, perché non aveva mai visto Miathan così furente. Intanto il mercante e lo spadaccino si scambiarono un'occhiata. «Sono stato io» risposero all'unisono. Vedendo Miathan incupirsi ulteriormente in volto. Aurian si rese conto che doveva agire al più presto in sostegno dei suoi amici, e per quanto le tremassero le ginocchia al pensiero che l'ira incredibile di Miathan potesse concentrarsi su di lei. si alzò in piedi e affrontò l'Arcimago. «Questo non è vero» dichiarò, con voce sottile ma decisa. «Nessuno di loro aveva l'autorità necessaria per cedere il cibo, quindi l'ho fatto io, per l'onore del Popolo di Maghi. Vedi...» «Tu... hai fatto... cosa?» domandò Miathan, a denti stretti, ed Aurian si trovò di colpo a corto di parole di fronte alla nota di minaccia presente nella sua voce. «Lasciala finire, Arcimago» intervenne Forral, in tono pacato ma con il volto impassibile. Mentre lui parlava Aurian avvertì la mano di Maya che serrava la sua e comprese che la guerriera era dalla sua parte, pronta a restituire l'aiuto che le era stato elargito e a darle un sostegno inatteso da cui lei attinse il coraggio per proseguire.
«Non è colpa tua, Miathan, tu non potevi sapere quanto la situazione fosse grave qui a Nexis, altrimenti avresti di certo fatto qualcosa al riguardo. Se avessi visto quelle povere persone affamate avresti ceduto loro il cibo tu stesso! Io più di chiunque altro so quanto sei buono, quindi non essere infuriato, ti prego... ho agito come sapevo che avresti fatto tu.» Come Vannor commentò in seguito, in modo del tutto irriverente, le parole di Aurian sgonfiarono completamente Miathan come una vela a cui fosse stato tolto il vento, e per una volta nella sua vita l'Arcimago si trovò a corto di parole. «Arcimago, la città apprezza la generosità del Popolo dei Maghi» intervenne allora Vannor, in tono sommesso e persuasivo. «Oggi questa Signora ha guadagnato molta gratitudine nei vostri confronti con il suo cuore gentile e portandoci la pioggia.» «Sei stata tu a far piovere?» sussultò Miathan. «Io... io spero di aver fatto bene» balbettò Aurian, annuendo nervosamente. «Bene? Mia cara ragazza, Eliseth stava tentando da giorni di realizzare ciò che tu hai fatto. Davvero impressionante! Quanto al resto, devi però imparare a non agire senza riflettere. La nostra gente aveva bisogno di quei viveri...» «Non ti preoccupare per questo, Arcimago» interloquì ancora Vannor, accorgendosi che Miathan stava ricominciando ad accigliarsi. «Il Comandante Forral ha organizzato delle squadre di approvvigionamento e il cibo comincerà ad affluire in città domani stesso. Hai la mia parola che i viveri che sono andati perduti saranno rimpiazzati con priorità assoluta. Non essere infuriato con Lady Aurian... lei ha agito animata dalle migliori motivazioni.» «Concordo con Vannor» aggiunse Forral. «Oggi Aurian ha impedito che molte vite andassero perdute.» Trovandosi in una situazione d'inferiorità numerica Miathan fu costretto a cedere con una scrollata di spalle e con una smorfia che poteva forse essere scambiata per un sorriso. «Benissimo» replicò con fare rigido. «Pare che debba cedere... per questa volta.» Poi girò sui tacchi e lasciò la stanza. Sentendosi colpevole per la parte avuta nella sua sconfitta e ansiosa di sapere se era stata davvero perdonata, Aurian per poco non gli corse dietro, trattenendosi appena in tempo. «Accidenti, ci è mancato poco!» esclamò intanto Vannor. «Aurian, sei
un'eroina! Oggi ci hai salvato la pelle.» Illuminandosi in volto per il complimento Aurian beve un lungo sorso di birra per riprendersi dal tremito che la stava scuotendo. Dopo tutto Forral era lì e si supponeva che lei fosse in vacanza... «Per gli dèi, ragazza, quella è stata la cosa più coraggiosa che tu abbia fatto in tutta la giornata» si complimentò intanto lo spadaccino, con espressione piena di approvazione. Al tempo stesso Maya sorrise, e nell'incontrare il suo sguardo Aurian comprese che fra lei e quella guerriera bruna e minuta erano stati gettati i semi dell'amicizia, una cosa che le fece un immenso piacere perché prima di allora non aveva mai avuto per amica una donna. Sorridendole timidamente per mostrare di essersi accorta a sua volta di quella comprensione silenziosa creatasi fra loro, Aurian decise che nulla e nessuno, neppure l'Arcimago, avrebbe potuto separarla da quei suoi nuovi e speciali amici. La notte era ormai calata da un pezzo quando infine Vannor diresse il cavallo verso casa. Anche se la pioggia portata da Aurian stava ancora cadendo fitta, inzuppandolo fino alle ossa, il mercante sorrise fra sé nell'attraversare il ponte bianco nelle vicinanze dell'Accademia per poi risalire il viale alberato e illuminato che portava alla sua casa sulla riva meridionale del fiume. Per la prima volta da oltre un anno... da quando la sua adorata moglie era morta... Vannor si sentiva in pace con se stesso: naturalmente era lieto di aver raggiunto una comprensione così perfetta con il nuovo comandante della guarnigione e di avere per una volta uno dei Maghi dalla sua parte... una ragazza coraggiosa e gentile la cui presenza lasciava presagire bene per il futuro... ma la causa principale della sua quieta gioia era Sara, la ragazza che aveva salvato dal tumulto. Durante la riunione con gli altri Vannor aveva lasciato la ragazza affidata alle cure della moglie del locandiere, e quando l'aveva rivista lei era stata nutrita e curata; la moglie del locandiere le aveva inoltre prestato un abito per rimpiazzare quello rovinato e le aveva lavato e pettinato i capelli, apportando una trasformazione che aveva lasciato stupefatto il mercante al punto da farlo rimanere a bocca aperta come un ragazzino di fronte a quella fragile ed eterea bellezza. In quel momento Sara gli aveva ricordato la sua cara e perduta moglie. Adesso Vannor stava tornando indietro dall'aver riportato Sara presso la sua famiglia molto preoccupata, e il cuore gli batteva più in fretta ogni volta che pensava alla sua forma snella appollaiata davanti a lui sulla sella. Di
certo sarebbe passato qualche tempo prima che potesse rivederla, perché dopo la siccità a Nexis c'erano parecchie cose da sistemare e lui avrebbe avuto molto lavoro da fare nei prossimi giorni, ma dopo... Lottando contro lo sgradevole pensiero che Sara aveva quasi la stessa età della sua figlia maggiore, Vannor si disse che i suoi figli avevano bisogno di una madre e che quando c'era di mezzo l'amore l'età non era mai un problema. La famiglia di lei era di certo rimasta impressionata dalla levatura sociale del nuovo amico di Sara, che dal canto suo non aveva certo cercato di scoraggiare le sue attenzioni... Mentre dirigeva il cavallo lungo il sentiero ghiaioso che portava alla sua dimora, Vannor si concesse un ampio sorriso di pura gioia: adesso sapeva dove Sara abitava, e gli dèi gli erano testimoni che una volta superata l'attuale crisi era deciso a tornare a trovarla. CAPITOLO SETTIMO FUOCO LETALE Con l'avvento della pioggia la minaccia di agitazioni in città svanì ben presto, anche grazie all'affluire a Nexis di regolari scorte di cibo, dapprima scarse ma in aumento costante a mano a mano che gli uomini di Parric si dedicarono con sempre maggiore entusiasmo al loro compito di setacciare le campagne e i riluttanti mercanti (costretti a collaborare da Vannor) provvidero a sovrintendere alla distribuzione delle razioni. Finalmente la gente di Nexis poteva mangiare di nuovo... e forse per la natura perversa propria degli esseri umani i cittadini furono indotti ad attribuire tutto il merito di quel cambiamento alla giovane Maga dai capelli di fuoco che aveva portato la pioggia. La storia di ciò che Aurian aveva fatto si era diffusa per tutta Nexis con la rapidità di un incendio, con il risultato che dovunque andasse in compagnia di Forral la giovane Maga si trovava al centro dell'attenzione di molti nuovi ammiratori: anche se grazie ai lineamenti finemente scolpiti propri della loro razza i Maghi non potevano comunque passare inosservati in una folla di Mortali. Aurian rimase comunque ripetutamente stupita di come la gente fosse pronta a riconoscerla, avvicinandosi per ringraziarla oppure, nel caso degli artigiani, mettendole in mano le loro migliori mercanzie a titolo di omaggio. La goccia che fece traboccare il vaso fu però il caso di una donna che emerse dalla folla che ingombrava il mercato e le porse il proprio bambino sporco, urlante e decisamente bagnato con l'apparen-
te intento di farglielo baciare, una situazione da cui le riuscì difficile districarsi con buona grazia. Più tardi, quando si lamentò della cosa con Forral davanti ad un boccale di birra di cui sentiva di avere un notevole bisogno, lo spadaccino accantonò le sue preoccupazioni con una scrollata di spalle. «Non ti preoccupare, tesoro» replicò. «È soltanto una cosa momentanea e l'eccitazione generale si spegnerà presto. Nel frattempo, sii lieta che abbiano motivo di essere grati ai Maghi: hai recato un gran bene alla tua gente, e spero che Miathan apprezzi a dovere il tuo operato.» Nel parlare, lo spadaccino pensò fra sé che Aurian aveva apportato il massimo beneficio soprattutto mediante l'influenza che stava esercitando su Miathan, in quanto la sua discussione con l'Arcimago sembrava aver avuto su di lui un effetto positivo. Con sorpresa di Forral e di Vannor, infatti, Miathan li aveva sostenuti in sede di consiglio quando i primi contadini si erano presentati in città per lamentarsi delle visite dei guerrieri di Parric nelle loro fattorie. Allorché Miathan aveva dato la sua approvazione a quell'operazione di approvvigionamento, i contadini avevano smesso di protestare per timore dell'Arcimago e non appena la notizia si era diffusa nelle campagne i soldati di Parric avevano cessato di incontrare opposizione. Inoltre Miathan era contento del fatto che tutto il Popolo dei Maghi potesse attribuirsi il merito del gesto compiuto da Aurian nel porre fine alla siccità, e con estremo sollievo di Forral i rapporti fra Aurian e il suo mentore sembravano essere tornati del tutto amichevoli. Di lì a qualche tempo Aurian ebbe modo di constatare che Forral aveva avuto ragione: poiché la gente di Nexis doveva preoccuparsi innanzitutto della propria vita quotidiana, entro pochi giorni lei cessò di essere oggetto di attenzioni imbarazzanti e, libera dalla sgradita curiosità dovuta alla fama che aveva improvvisamente acquisito, poté infine riprendere la vacanza interrotta insieme a Forral, che aveva intanto lasciato la gestione della guarnigione nelle mani capaci di Maya. Ben presto le loro giornate cominciarono ad assumere un ritmo costante. A volte si limitavano a passeggiare per la città godendo dei panorami che essa offriva, il che permise ad Aurian di scoprire il gusto di curiosare fra e bancarelle dei mercanti cariche di sete e di velluti, di gioielli, di profumi e di pettini, anche perché adesso che era in compagnia di Forral stava cominciando a scoprire un improvviso interesse per il proprio aspetto. Sebbene i vestiti elaborati che erano attualmente di moda le apparissero troppo
assurdi e troppo poco pratici per i suoi gusti, qualche domanda al padrone del Daino Veloce le permise di rivolgersi alla migliore sarta della città e la moglie del locandiere si mostrò lieta di consigliarla e di aiutarla nella scelta dei tessuti, con il risultato che la grigia veste da Mago che lei portava di solito venne ben presto relegata in un armadio per essere sostituita con nuovi abiti eleganti e di colore luminoso, portando in lei una trasformazione che la lasciò sorpresa. «Spendi quanto vuoi» consigliò Forral, con aria molto tollerante, «tanto in fin dei conti è l'Arcimago a pagare.» Pur possedendo il notevole orgoglio proprio di tutti i Maghi, Aurian non era mai stata particolarmente interessata al proprio aspetto, ma la reazione dello spadaccino al suo nuovo abbigliamento ebbe l'effetto di gratificarla e di turbarla al tempo stesso, anche perché spesso le capitava di sorprenderlo intento a guardarla e di vederlo distogliere in fretta lo sguardo quando si accorgeva che lei se n'era resa conto. A peggiorare le cose fu il fatto che Aurian si trovò ben presto a fare la stessa cosa, affascinata dal candore del sorriso di Forral che brillava incorniciato dalla barba brizzolata o dal gioco dei muscoli robusti sui suoi arti segnati di cicatrici quando lui si muoveva con la grazia felina propria dello spadaccino nato, inaspettata in un uomo del suo fisico massiccio; oppure le capitava di osservare le sue mani tozze e abili e di meravigliarsi nel vedere tanta forza unita a tanta gentilezza, e di immaginare quelle mani nell'atto di toccarla, di accarezzarla, di stringerla... e in quei momenti si riscuoteva in fretta, perplessa e sgomenta per la piega presa dalla sua sfrenata immaginazione. Adesso lo spensierato e intimo cameratismo che avevano condiviso durante l'infanzia di Aurian era scomparso e da quando Forral era tornato fra loro era invece andata crescendo una sorta di tensione fatta in parte di senso di colpa e in parte di eccitazione, che ora caratterizzava la loro amicizia. Nonostante questo i due erano inseparabili e si sforzavano entrambi di fingere con tutte le loro forze che nulla fosse cambiato, anche se Aurian sentiva il cuore che le balzava in gola in modo sconvolgente ogni volta che Forral entrava nella stanza in cui lei si trovava e veniva travolta da un vertiginoso senso di felicità quando lo aveva vicino... ma del resto era sempre stata felice di vederlo, o almeno così continuava a ripetersi. È tutto a posto, garantiva a se stessa quando di notte giaceva sveglia nella sua stanzetta nella locanda dalle pareti imbiancate a calce, è solo che siamo rimasti separati per tanto tempo e abbiamo bisogno di abituarci di nuovo uno all'altra.
E con il passare del tempo giunse quasi a convincersi di questo, perché con l'abitudine e la familiarità quella strana tensione esistente fra loro parve placarsi... almeno un poco. A volte la sera s'incontravano con Vannor o con Maya e Parric, se quest'ultimo era in città, e trascorrevano ore allegre a chiacchierare e a fare baldoria in una delle numerose locande cittadine, con il risultato che Aurian trovò sempre più piacevole la compagnia di Maya e le due donne si avviarono a diventare intime amiche. Nelle giornate di sole, la Maga, Forral e a volte anche Maya, se aveva un po' di tempo libero, prendevano a prestito dei cavalli dalla guarnigione e si recavano a fare un picnic sui dintorni collinari di Nexis, oppure affittavano una barca per scendere il fiume di una ventina di chilometri fino ad arrivare al mare. Aurian, che non lo aveva mai visto prima di allora, se ne era innamorata e adorava nuotare con gli altri nelle sue acque che la facevano sentire stranamente leggera, per poi trascorrere ore a crogiolarsi al sole sulla sabbia; a poco a poco il suo corpo perse così il pallore acquisito durante gli anni trascorsi al chiuso a studiare e i suoi muscoli riacquistarono tono. Nella speranza che questo contribuisse a ridare la sua familiare veste di un tempo alla loro amicizia, Aurian cominciò a tormentare Forral perché acconsentisse a ricominciare con le lezioni di scherma, aiutata da Maya che si mostrò subito entusiasta all'idea... e anche se in un primo tempo Forral si mostrò riluttante perché ricordava ancora l'incidente, risultò evidente per Aurian che nel suo intimo era segretamente compiaciuto dell'idea. Dal canto suo Aurian possedeva ancora la sua spada, che le era stata restituita da Miathan, e l'idea che presto avrebbe ripreso ad usarla servì a rincuorarla allorché la sua vacanza infine si concluse. Inevitabilmente, giunse il giorno in cui Forral doveva assumersi i suoi nuovi doveri di comandante della guarnigione e Aurian doveva far ritorno all'Accademia. Alla ricerca di una scusa per rimandare l'inevitabile, i due decisero di effettuare un'ultima spedizione di acquisti alla Galleria Grande, una serie di gallerie di pietra sorrette da pilastri e collegate le une alle altre che ospitavano centinaia di piccole botteghe e di bancarelle che venivano frequentate dalla parte benestante della popolazione di Nexis. Correva voce che nella Galleria Grande fosse possibile comprare virtualmente di tutto a patto di avere denaro a sufficienza, e sebbene la maggior parte delle merci esposte esulasse dalla portata economica sia di Aurian che di Forral i due trovarono comunque piacevole passeggiare su e giù per le gallerie vivacemente illuminate. progettando ciò che avrebbero comprato quando
fossero diventati ricchi. Affamati e con i piedi indolenziti, si fermarono infine davanti alla bottega di un panettiere, attirati dal glorioso profumo del pane fresco appena sfornato; mentre Forral era intento a comprare un paio di pasticci dalla donna che si trovava dietro il bancone, un giovane emerse dal retro della bottega portando in mano un vassoio carico di pagnotte, ed Aurian lo vide arrestarsi a fissare lo spadaccino con un'espressione sorpresa negli occhi azzurri. Quando poi si allontanarono dal negozio, si accorse che Forral aveva un'aria improvvisamente accigliata. «Non ti preoccupare» gli disse. «La vacanza può anche essere finita ma continueremo comunque a vederci spesso.» «Non si tratta di questo» replicò Forral, scuotendo il capo, «ma di quel ragazzo che c'era nella bottega del panettiere... sono certo di averlo già visto da qualche parte, ma non riesco a ricordare dove.» Anvar era deluso perché si era aspettato una reazione di qualche tipo da parte di Forral, che invece non lo aveva riconosciuto. D'altro canto un uomo che girava in compagnia di uno di quegli arroganti Maghi... anche se si trattava della Maga che pareva avesse fatto giungere la pioggia (cosa di cui lui personalmente dubitava)... non poteva certo avere tempo per il figlio di un comune panettiere. Scrollando le spalle si decise infine a posare il pesante vassoio. «Questo è l'ultimo» disse a sua madre. «Se vuoi riposare ora penserò io alla bottega.» «Ti ringrazio, caro, ma sto bene» sorrise Ria. «Perché non te ne vai tu, invece? So che stasera ti devi vedere con Sara.» «Sei certa che posso andare?» insistette Anvar. Da quando Trol aveva comprato la bottega la vita di Ria era diventata molto meno dura, ma Anvar preferiva comunque risparmiarle delle fatiche ogni volta che gli era possibile. «Certamente» garantì Ria, abbracciandolo. «In ogni caso è quasi ora di chiudere ed è una serata deliziosa. Voi ragazzi divertitevi... e ricordati di salutare Sara da parte mia.» «Grazie, madre» rispose Anvar, ricambiando l'abbraccio, poi si tolse il grembiule bianco e lasciò a precipizio la bottega. Mentre usciva dalla galleria e si avviava lungo il fiume, non poté fare a meno di riflettere sui cambiamenti che si erano verificati nella sua vita da quando aveva visto Forral per l'ultima volta. Dopo che il nonno era morto
suo padre aveva trovato nella stanza del vecchio una cassapanca piena di oggetti meravigliosamente intagliati raffiguranti animali, uccelli e persone. Come spesso accadeva in questi casi la morte dell'artista aveva fatto salire il valore delle sue opere e ben presto i capolavori d'intaglio del nonno erano diventati un oggetto di moda fra la gente abbiente della città, con il risultato che Trol aveva potuto accumulare in breve tempo il denaro necessario per avviare la fase successiva del suo piano d'affari, che consisteva in un'idea semplice ma astuta. Con quei soldi aveva infatti comprato una bottega nella Galleria e poiché la sola che aveva potuto permettersi di acquistare era troppo piccola per ospitare un fornaio, aveva fatto installare nel retro un solo forno, provvedendo a trasportare fin lì dalla vecchia bottega mediante un carro le forme di pane cotte solo parzialmente per poi finirne la cottura nella bottega nuova, con il risultato di far diffondere ben presto per tutta la Galleria l'aroma del pane fresco appena sfornato e di attirare i clienti a decine. Nonostante le temporanee difficoltà provocate dalla siccità la nuova attività era decollata in maniera splendida, impegnando a fondo l'intera famiglia perché Ria ed Anvar lavoravano nella nuova bottega mentre Bern e Trol preparavano il pane nel vecchio forno. Bern adorava quel mestiere ed era ormai avviato a diventare un panettiere abile come suo padre; quanto ad Anvar, era perfettamente consapevole che suo fratello avrebbe voluto liberarsi di lui in modo da poter un giorno ereditare la bottega paterna, e in tutta onestà questa gli sembrava la cosa più giusta perché lui voleva invece diventare un menestrello e non nutriva il minimo interesse per il lavoro di fornaio, anche se non poteva certo dare sfogo alle proprie ambizioni finché suo padre era ancora in vita. A parte la musica, Sara era la principale consolazione della sua vita. In quelle lunghe sere estive erano soliti incontrarsi vicino al fiume e passeggiare lungo le rive ombreggiate dagli alberi e odorose di terra umida e di aglio selvatico. A volte capitava che portassero con loro una bottiglia di vino e una delle pagnotte di Trol, trascorrendo la notte ad amarsi sotto le stelle. Il pensiero della ragazza che amava indusse Anvar ad accelerare il passo lungo il sentiero polveroso. Quanto desiderava vederla! Durante la siccità aveva sentito la mancanza delle consuete visite al mulino, ma del resto suo padre aveva tenuto lui e Bern troppo impegnati, costringendoli ad andare in giro per le campagne o a setacciare i mercati di Nexis alla ricerca del cibo necessario a sostentare la famiglia in quel momento di crisi. Il caso a-
veva voluto che Anvar si trovasse fuori città per assolvere ad uno di quegli incarichi quando si era verificato il famoso tumulto, con il risultato che non era stato presente al cosiddetto miracolo dell'evocazione della pioggia. Sara invece vi aveva assistito... e l'idea che si fosse trovata esposta al pericolo del tumulto aveva l'effetto di raggelargli il sangue... ma non era mai riuscito a indurla a raccontargli cosa era successo. In seguito, quando avevano ricominciato ad incontrarsi, Sara gli era parsa in qualche modo diversa, più ombrosa e scontenta, meno felice di vederlo e più propensa a scivolare in lunghi momenti di silenzio. Questo suo atteggiamento preoccupava un poco Anvar, anche se lui continuava a ripetersi che doveva essere probabilmente dovuto a qualche problema di famiglia: sapeva infatti che i genitori di Sara avevano sofferto parecchio a causa della siccità, e il suo unico rammarico era di non aver potuto fare di più per aiutarli. Quando raggiunse il luogo in cui si incontravano di consueto, vicino al vecchio ponte di pietra al limitare della città, Sara lo stava già aspettando, vestita con un sottile abito estivo che metteva in evidenza il suo corpo snello e con i lunghi capelli biondi che scintillavano come una massa di raggi di sole. Nel vederla Anvar le corse incontro con il cuore che gli martellava nel petto, ma si arrestò di colpo nel notare la sua espressione. «Amore, cosa c'è che non va?» domandò, cingendola con le braccia e cercando di non mostrarsi ferito quando lei s'irrigidì ed evitò di incontrare il suo sguardo. «Sono incinta, Anvar... incinta!» «Ma è meraviglioso!» esclamò Anvar, sconvolto dall'annuncio ma pervaso al tempo stesso da un intenso impeto d'orgoglio. «Meraviglioso?» gridò Sara, girandosi di scatto a fissarlo con un'espressione selvaggia negli occhi. «Cosa c'è di tanto meraviglioso, razza d'idiota? Cosa dirà mio padre? È tutta colpa tua» inveì, con le lacrime che le scorrevano lungo le guance. «Adesso cosa farò?» Anvar la guidò sulla riva erbosa del fiume e la fece sedere con gentilezza, cingendole le spalle con un braccio. «Non ti preoccupare, Sara» la rassicurò. «Parlerò io con tuo padre e andrà tutto bene, te lo prometto. Oh, i nostri genitori s'infurieranno, si preoccuperanno di quello che dirà la gente e sosterranno che avremmo dovuto stare più attenti, ma sarà una cosa passeggera perché sanno come stanno le cose fra noi e l'hanno sempre approvato. Dovremo soltanto cominciare a pianificare il futuro, ecco tutto.»
«Ma io non voglio ancora sposarmi! Speravo che... voglio dire... sono giovane e voglio vivere!» Ferito dalle sue parole Anvar la fissò, sentendosi pervadere da un senso di gelo. «Credevo che mi volessi sposare» obiettò, poi trasse un profondo respiro e aggiunse: «Sara, hai cambiato idea?» Il panico divampò per un istante nello sguardo di lei, poi però Sara scosse il capo. «No!» si affrettò a rispondere. «No... senti, Anvar, mi dispiace per quello che ho detto... è solo che sono agitata e spaventata. Anvar, per favore, ho bisogno di te» concluse, fissandolo con i suoi enormi occhi violetti. Quella notte Sara si diede a lui in modo frenetico e quasi disperato, come se la ripetitività dell'atto fisico potesse cancellare le sue preoccupazioni, e Anvar non trovò da obiettare perché pensava di capire il suo stato d'animo e perché il fatto che lei gli avrebbe dato un figlio gliela rendeva doppiamente cara. Il mattino successivo si svegliò tardi, sentendosi rigido, infreddolito e umido a causa della rugiada, e sotto l'aspra luce del giorno cominciò infine a preoccuparsi di quello che avrebbero detto le loro rispettive famiglie. «Senti» suggerì a Sara, «perché non vieni con me e parliamo con mia madre? Lei è la persona più adatta a cui dare per prima la notizia.» «Devo proprio?» replicò Sara, mordendosi un labbro. «Non le puoi parlare tu?» «No» rispose Anvar, prendendola saldamente per mano. «Questa è una cosa che prima o poi dovremo comunque affrontare insieme. Ora andiamo perché sono già in ritardo: mia madre dovrà aprire la bottega da sola... e non è capace di accendere quel dannato forno.» E s'incamminò a passo deciso lungo il sentiero, seguito con riluttanza da Sara. Quando arrivarono alla Galleria una folla di clienti impazienti si era già raccolta davanti alla bottega e furono costretti ad aprirsi un varco in mezzo ad essa, entrando in tempo per vedere Ria inginocchiata in mezzo ad un mucchio disordinato di esca, impegnata come al solito nella sua lotta per accendere il forno. Ciò che successe subito dopo rimase inciso in eterno nella memoria di Anvar, tornando in seguito a perseguitarlo nel corso dei suoi peggiori incubi: nel momento in cui entrò nella bottega, lui vide sua madre prendere la lampada ad olio che si trovava sullo scaffale e rovesciarne il contenuto
sulla legna. «No!» urlò con quanto fiato aveva, ma ormai era troppo tardi: Ria produsse una scintilla e il forno esplose in una nube di fuoco, intrappolandola dietro una cortina di fiamme che le incendiò gli abiti e i capelli. Fino alla fine dei suoi giorni Anvar non riuscì mai a spiegarsi come si fosse verificato ciò che accadde in seguito, perché tutto ciò che riuscì a ricordare fu di aver gridato «Basta!» con voce sovrumana. L'istante successivo un'onda d'urto scaturita dal nulla lo mandò a sbattere contro la parete e le fiamme si spensero in maniera subitanea e completa mentre lui giaceva accasciato al suolo, in preda alle vertigini; distogliendo lo sguardo dalla cosa annerita e fumante che era stata sua madre lo spostò su Sara, che lo stava fissando con occhi pieni di orrore e la bocca aperta in un urlo silenzioso. Intanto qualcuno era andato a chiamare il panettiere, e d'un tratto Anvar fu consapevole in modo vago delle mani di suo padre che gli serravano la gola e della voce di Trol che gli inveiva contro. «Sei stato tu!» stava urlando il fornaio. «Tu l'hai uccisa!» Ancora in stato di shock e sconvolto da un senso di colpa, Anvar non accennò in nessun modo a difendersi e alla fine ci vollero quattro uomini per staccare Trol da lui. Anche quando si fu calmato ed ebbe appreso cosa era esattamente successo, il fornaio continuò ad adocchiare il figlio con una fredda espressione di odio mentre la gente presente nella galleria cominciava a prestare il proprio aiuto. Qualcuno si offrì di riportare a casa la piangente Sara, e il fabbricante di formaggi che possedeva la bottega vicina fece altrettanto con Anvar e con suo padre, mentre il corpo di Ria li seguiva su un altro carro, avvolto in una coperta. Infine una vicina gentile mise a letto Anvar e gli somministrò qualcosa che lo facesse dormire. Qualche tempo dopo un suono di voci lo riscosse dal sonno. «Ho ospitato quel giovane bastardo fin troppo a lungo» stava dicendo Trol, con voce grondante veleno. «Accettarlo era il solo modo per indurre una donna come Ria a sposare un uomo come me, ma lei non ha mai voluto dirmi chi fosse il padre del suo bambino ed io ho sempre creduto che si trattasse di qualche mercante che avesse rifiutato di sposarla perché la sua famiglia aveva perso tutto il suo denaro. Dopo che Anvar ha spento il fuoco in quel modo... ed ho una dozzina di testimoni pronti a confermare la mia parola... è però evidente che il padre è un uomo del tuo popolo, signore.» «Davvero?» ritorse una voce brusca ed aspra. «Questa è una grave accu-
sa, fornaio: sai che le unioni fra Maghi e Mortali non sono accettabili agli occhi di entrambe le comunità.» «Lo so, signore, ma credo che sia stato per questo che Ria è stata abbandonata quando è rimasta incinta, e dal momento che ciò che Anvar ha fatto oggi dimostra la mia supposizione... adesso lui è una vostra responsabilità. Non m'importa cosa gli farete a patto che lo portiate via di qui, perché non voglio rivederlo mai più!» Seguì una lunga pausa, poi l'altra voce tornò a farsi udire. «Molto bene... accetto a condizione che tu neghi tutta la storia, perché se un membro del Popolo dei Maghi ha commesso un errore non voglio che la cosa diventi di dominio pubblico. Sei disposto a firmare un contratto che lo vincoli al mio servizio per il resto della sua vita?» «Sono disposto a firmare qualsiasi cosa pur di liberarmi di lui.» «Allora lo porterò subito via con me» disse la voce aspra, poi una mano rude scosse Anvar per una spalla e lui si trovò a fissare il volto aquilino dell'Arcimago mentre questi ordinava: «Alzati, ragazzo, e vieni con me!» «Muoviti, idiota!» inveì Miathan, e in preda ad uno scatto d'ira assestò uno strattone alla corda legata ai polsi del suo nuovo servo vincolato, spronando al tempo stesso il cavallo per fargli accelerare il passo. Dietro di lui il giovane crollò al suolo con un grido, sbucciandosi ulteriormente le mani e le ginocchia già escoriate dalle precedenti cadute che avevano contrassegnato il suo tragitto incespicante lungo le vie cittadine, e l'Arcimago continuò a cavalcare per parecchi metri prima di accorgersi che questa volta il ragazzo non si era rialzato e cominciava ad essere trascinato come un sacco di ossa. Questo lo indusse a fermare il cavallo con un'imprecazione, in quanto sarebbe bastato il passaggio di una guardia impicciona perché lui si venisse a trovare al centro di un'attenzione eccessiva e indesiderata; mentre smontava di sella ringraziò fra sé la provvidenza per il fatto che l'ora era molto tarda e che le strade erano quasi deserte. Anvar giaceva nel canale di scolo... posto che secondo l'Arcimago gli si addiceva alla perfezione... e stava singhiozzando sommessamente. «Alzati!» ingiunse l'Arcimago, sfogando la propria ira con un calcio violento, ma la sua vittima si limitò a gemere e a restare distesa immobile. «Oh dèi, questo è proprio ciò di cui ho bisogno!» borbottò allora Miathan, in tono furente. Facendo appello alle proprie energie moltiplicate dall'ira e dalla magia
sollevò di peso Anvar e lo gettò di traverso sulla sella, cercando al tempo stesso di non guardare il suo volto che somigliava tanto a quello di Ria. Adesso lei è morta, finalmente, ricordò a se stesso. Nel guidare a mano il cavallo giù per l'erto vicolo che portava verso il ponte, si chiese quindi come Ria fosse riuscita a nascondere se stessa e suo figlio per tutti quegli anni. Aveva forse intuito che lui non le avrebbe mai permesso di generare quell'abominevole mezzosangue? Per gli dèi, quanto era stato stolto a lasciarsi attirare dalla bellezza di una Mortale! Con l'arroganza propria di tutti i Maghi, Miathan provava infatti soltanto disprezzo per i Mortali con cui condivideva il mondo e quella città, considerandoli poco più che animali, e per Anvar era una vera sfortuna che l'Arcimago fosse venuto a sapere della sua esistenza proprio in questo periodo in cui era ancora furente per la defezione di Aurian e la sua sgradevole e imprevista amicizia con quella razza inferiore e disprezzabile. Poiché era ansioso di conservare il rispetto e l'affetto di Aurian al fine di portare avanti i propri piani futuri nei suoi confronti, Miathan si era di conseguenza trovato nella posizione spiacevole ed umiliante di dover fare a Forral e a Vannor delle concessioni che altrimenti non avrebbe neppure preso in considerazione. Dentro di sé Miathan stava già cominciando a rimpiangere di aver riportato nella vita di Aurian quello spadaccino che già si era reso colpevole di aver corrotto il suo antico amico Geraint instillando nella sua mente quelle ridicole idee in merito ai diritti da concedere ai Mortali, ma se non altro Aurian era più giovane di suo padre e più facile da influenzare... e influenzarla era quanto mai necessario perché proprio quel giorno i suoi piani avevano avuto una svolta nuova e inattesa quando la giovane Maga aveva fatto ritorno all'Accademia, in quanto un semplice mese di assenza aveva trasformato una bambina in una donna. Miathan era rimasto sconvolto da quella differenza, che non era dovuta soltanto al vestiario: adesso in Aurian era possibile vedere un nuovo risveglio, una nuova aria d'innocente maturità, una consapevolezza del proprio io femminile che l'avviluppava in un'aura di inconscia sensualità e destava in lui sentimenti che aveva creduto di essersi lasciato alle spalle molto tempo prima a favore dell'ambizione. Naturalmente l'Arcimago era profondamente offeso dal fatto che a provocare questo cambiamento fosse stato uno zotico Mortale... e per di più uno che lui stesso aveva convocato sul posto... perché adesso più che mai era deciso ad avere Aurian per sé: una simile bellezza non poteva infatti appartenere che a lui, non certo ad un indegno animale di umile nascita
come quello spadaccino, e adesso avrebbe avuto l'opportunità di riconquistarla, avendo al tempo stesso la possibilità di sfogare la propria ira su un altro Mortale... uno nei confronti del quale aveva un debito di vendetta per il fatto che osava esistere in aperta sfida ai suoi desideri. Era notte, fuori della Torre dei Maghi. All'interno dell'opulento alloggio dell'Arcimago, avvolto dal caldo chiarore delle lampada, Anvar era ancora in parte sotto l'effetto del sonnifero e a stento consapevole di quello che gli stava succedendo. Il suo corpo era graffiato e ammaccato a causa del modo brutale in cui era stato trascinato lungo le strade cittadine, le gambe gli dolevano per la lunga salita dell'interminabile scala a spirale che portava in quella stanza, le braccia e i polsi erano pervasi da un dolore lancinante a causa degli strattoni spietati che Miathan aveva assestato alla corda e lui si sentiva del tutto confuso e terrorizzato. Cosa ci faceva in quel posto? Perché l'Arcimago lo aveva portato via dalla sua casa? I Maghi avevano forse intenzione di punirlo per la parte che aveva avuto nella morte di sua madre? Ricacciando indietro un singhiozzo, si rimproverò con disperazione per non essere arrivato in tempo quella mattina: era stata tutta colpa sua... ma perché suo padre lo aveva mandato via insieme a Miathan? Trol lo odiava dunque fino a questo punto? D'un tratto Miathan lo spinse rudemente a sedere e incombette su di lui, fissandolo con occhi gelidi come mille inverni sotto il cui sguardo lui cominciò a tremare in modo incontrollabile. «E così dopo tutti questi anni sei saltato fuori per tormentarmi» commentò l'Arcimago, in tono aspro. «Era stata mia intenzione farti distruggere prima che potessi nascere, ma quella miserabile di tua madre è fuggita. In ogni caso, puoi ancora essermi utile.» Nel parlare posò le mani su entrambi i lati della testa di Anvar. che sussultò per il dolore ed ebbe l'impressione che il suo cervello venisse rivoltato come un guanto. Piegandosi su se stesso, vomitò sul pavimento prima di potersi controllare. «Imbecille!» inveì l'Arcimago, sferrandogli un pugno che gli spinse la testa all'indietro con violenza. Anvar cercò di ritrarsi ma Miathan lo afferrò per i capelli e gli appese intorno al collo una catena d'argento da cui pendeva un piatto cristallo scintillante. «Non intendo tollerare la presenza di un bastardo fra le file del Popolo dei Maghi» disse. «Può anche darsi che tu abbia del potere... ma adesso provvederò a privartene!» Nel parlare sollevò il proprio bastone e gridò alcune parole in una lingua
strana e complessa: subito il cristallo che pendeva dal collo di Anvar si accese di un improvviso bagliore ultraterreno in reazione al quale il giovane lanciò un urlo di agonia e crollò al suolo, serrandosi la testa fra le mani e provando la sensazione che la vita stessa gli venisse risucchiata dal corpo. Vagamente, si rese conto che Miathan stava rimuovendo il cristallo, e quando il dolore infine si fu calmato abbastanza da permettere alla sua vista di schiarirsi vide l'Arcimago passarsi la catena d'argento intorno al collo con un sorriso compiaciuto. «Ecco risolto il problema dei tuoi poteri» dichiarò l'Arcimago. «Adesso mi appartieni, mezzosangue bastardo, ma credo che prima di mandarti dabbasso apporterò un ulteriore piccolo perfezionamento.» Ancora una volta si protese quindi a serrare fra le mani la testa del giovane, incontrando e trattenendo il suo sguardo terrorizzato con quello dei propri occhi roventi, poi Anvar sentì una sorta di banda di gelido acciaio che gli serrava intorno alla fronte. «Puoi avvertirla?» domandò l'Arcimago. «Resterà con te per il resto della tua vita, Anvar, e di solito non ti accorgerai neppure della sua presenza... ma se cercherai di raccontare a chiunque ciò che hai fatto oggi o di rivelare che hai sangue di Mago nelle vene, se tenterai anche soltanto di pensarci... quella banda si serrerà in modo da causarti un'agonia intollerabile, e se persisterai finirà per ucciderti.» In quel momento qualcuno bussò alla porta. «Avanti» rispose Miathan, e nella stanza entrò un uomo enorme con unti capelli neri e una faccia dai lineamenti brutali; l'uomo s'inchinò con deferenza davanti all'Arcimago e scoccò un'occhiata perplessa in direzione di Anvar, che giaceva ancora raggomitolato al suolo, gemente. «Mi hai mandato a chiamare, signore?» chiese l'uomo. «L'ho fatto, Janok!» replicò Miathan, con un sorriso cordiale. «Poiché l'Arcimago viene sempre ragguagliato anche sui problemi più insignificanti, mi è stata riferita la tua lamentela di essere a corto di aiutanti nelle cucine ed ho qui un nuovo servo vincolato per te: proviene da una famiglia di fornai, quindi potrebbe esserti di qualche utilità. Suo padre me lo ha consegnato dopo che ha ucciso sua madre.» «Signore, vuoi che porti un assassino nella mia cucina?» chiese Janok, accigliandosi. «Non ti preoccupare» rispose con allegra indifferenza Miathan. «È un piccolo bruto vigliacco: trattalo come merita e non dovresti avere problemi, ma se dovesse rivelarsi troppo difficile da gestire potrai naturalmente
parlarne con me» aggiunse, con una tacita minaccia scritta con chiarezza nello sguardo gelido. «Molto bene, signore» borbottò Janok, sconfitto ma evidentemente contrariato. «Tu, vieni qui» ordinò quindi, avvicinandosi ad Anvar e afferrandolo per la camicia in modo da issarlo di peso dal pavimento. Mentre veniva trascinato fuori, l'ultima cosa che vide fu il sorriso soddisfatto e crudele apparso sul volto di Miathan: l'Arcimago stava letteralmente gongolando. CAPITOLO OTTAVO SERVITÙ Come al solito, Anvar non si accorse neppure del piede che lo fece inciampare: stava trasportando un pesante secchio pieno di frattaglie e di bucce di verdura verso la porta esterna della cucina quando avvertì un acuto dolore alla caviglia e si ritrovò steso sul pavimento di pietra che aveva pulito appena quella mattina e che adesso era cosparso di sangue e di rifiuti puzzolenti. Il ruggito furente del capo cuoco si levò a troncare le risatine divertite degli altri lavoranti delle cucine. «Razza di stupido idiota!» inveì Janok colpendo Anvar allo stomaco, nelle costole e alla faccia con il pesante stivale, poi afferrò una scopa che era appoggiata alla parete e cominciò a percuotere con essa la sua vittima senza cessare di imprecare. Anvar ululò quando il pesante manico di legno gli calò ripetutamente sulla schiena e sulle spalle, poi cercò di allontanarsi strisciando per sfuggire ai colpi ma le sue mani scivolarono sulle frattaglie viscide e lui crollò a faccia in avanti sull'ammasso sanguinolento che copriva il pavimento, sbattendo con violenza il mento sulle pietre di cui era rivestito. Una risata che gli giunse in modo vago all'orecchio intervenne a salvarlo perché indusse Janok a girarsi come una furia verso gli altri servi intenti ad osservare la scena. «Cosa fate lì fermi a guardare? Tornate al lavoro prima che vi bastoni tutti quanti. Mancano appena due ore al banchetto del Solstizio! E tu pulisci questo pasticcio!» aggiunse, gettando la scopa addosso ad Anvar e assestandogli un altro paio di calci per buona misura. Sebbene si sentisse dolorante e nauseato, con il corpo serrato in un nodo di sofferenza, Anvar lottò per rialzarsi perché temeva quello che gli sarebbe potuto succedere se non lo avesse fatto. Tastando con delicatezza il lato
della faccia che era stato colpito dallo stivale di Janok appurò che non pareva esserci niente di rotto anche se la mascella gli faceva male e presto su di essa sarebbe apparso un nuovo livido che si sarebbe aggiunto agli altri che i pugni di Janok avevano lasciato il giorno precedente e in tutti quelli che lo avevano preceduto. Puntellandosi con la scopa, si issò infine a fatica in piedi senza che nessuno si offrisse di aiutarlo e con mosse rigide cominciò a raccogliere i rifiuti sparsi per terra, consapevole che adesso avrebbe dovuto lavare di nuovo il pavimento. I quattro mesi che aveva trascorso nelle cucine dell'Accademia erano stati per lui un costante incubo. Pur essendo soltanto in otto, i Maghi avevano abitudini culinarie estremamente disparate, in quanto ciascuno era solito richiedere pasti diversi ed elaborati in momenti e luoghi che non coincidevano con quelli scelti dagli altri, rifiutandosi di consumare i pasti in comune nella Grande Sala adiacente le cucine. Di conseguenza questo richiedeva una grande quantità di lavoro e ad Anvar venivano sempre affidati i compiti peggiori perché il capo cuoco Janok, un prepotente dal carattere violento che brutalizzava tutti i lavoranti delle cucine, sembrava averlo preso di mira in modo particolare. Ogni giorno Anvar lavava l'unto pavimento di pietra, sbucciava le verdure e lavava un'interminabile successione di piatti fino ad avere le mani screpolate e sanguinanti, poi Janok gli faceva lucidare le pentole di rame annerite e l'argenteria fino a farle scintillare, lo obbligava a portare fuori i rifiuti e a tagliare e trasportare la legna per i forni fino ad avere la schiena dolorante, dandogli da mangiare soltanto gli avanzi di cucina e bastonandolo se lasciava cadere o rompeva qualcosa. E se per caso Anvar riusciva ad arrivare alla fine della giornata senza essersi messo nei guai, Janok trovava comunque una scusa per picchiarlo ugualmente. Le cose avrebbero potuto essere meno difficili se Anvar si fosse fatto qualche amico fra gli altri servitori, ma essi erano un mucchio di individui cupi e gretti, che erano soltanto felici di vedere che era qualcun altro a sopportare al loro posto le ire del capo cuoco. Janok inoltre aveva fatto in modo di informare tutti del fatto che Anvar aveva assassinato sua madre, e dal momento che le cucine erano una fucina di pettegolezzi, la storia si era ingrandita a dismisura ogni volta che era stata riferita, con il risultato che adesso nessuno gli rivolgeva la parola se non per imprecargli contro o impartirgli degli ordini, e tutti facevano invece del loro meglio per metterlo in difficoltà con una serie di scherzi crudeli. Quando lui era impegnato a lavare i piatti approfittavano di un suo momento di distrazione per versare
dell'acqua bollente nella pentola che stava lavando, in modo da fargli scottare le mani, e se invece era intento a lucidare l'argenteria capitava che oggetti anneriti scomparissero per poi riapparire non appena Janok entrava nella stanza; se poi Anvar stava trasportando cibo o vassoi carichi di piatti, accadeva spesso che qualcuno gli mettesse lo sgambetto o lo spingesse in modo da fargli sfuggire di mano il suo carico. In aggiunta a questo tutti gli altri erano soliti scaricare su di lui la colpa dei loro errori: se in cucina c'era qualcosa che non andava, la responsabilità era sempre di Anvar. Inoltre il ragazzo era in preda ad un costante tormento interiore a causa di ciò che l'Arcimago gli aveva fatto e non cessava di chiedersi come fosse finito in quel luogo... ma ogni volta che cercava di ricordare cosa era successo nell'alloggio di Miathan i suoi pensieri venivano cancellati da una fitta lancinante che gli trapassava il cranio, e dopo qualche tempo per lui diventò più facile convincersi che lo si stesse punendo per la morte di Ria: il dolore per quella perdita continuava infatti ad angosciarlo e lui era fermamente persuaso di essere il responsabile dell'accaduto, perché se fosse arrivato al lavoro in orario sua madre sarebbe stata ancora viva ed era quindi come se lui l'avesse effettivamente assassinata. La sua disperazione era così grande che soltanto il pensiero di Sara lo tratteneva dal togliersi la vita: essendo consapevole di esserle venuto meno proprio quando lei aveva maggiore necessità del suo supporto, era infatti tormentato dal bisogno di sapere che ne fosse stato di lei e del loro bambino non ancora nato, ma al tempo stesso era impotente a fare qualsiasi cosa perché era imprigionato in quel luogo e sul dorso della sua mano sinistra spiccava evidente il marchio comune a tutti i servi vincolati dei maghi, tatuato in inchiostro nero indelebile. Durante i primi giorni, quando il suo spirito non era ancora stato del tutto spezzato, lui aveva preso in considerazione l'eventualità di tentare la fuga su uno dei carretti che ogni giorno portavano prodotti freschi dai mercati all'Accademia, ma alla fine aveva rinunciato perché sperare di riuscirci era impossibile in quanto Janok lo faceva sorvegliare di continuo... e se anche fosse riuscito nell'intento le pene previste per i servi fuggitivi erano molto severe. Adesso il Solstizio d'Inverno era ormai imminente, ma la festa non aveva per lui nulla di gioioso. Una volta finito di preparare il banchetto del solstizio per i Maghi, i lavoranti delle cucine si erano messi a festeggiare a loro volta aprendo botti di birra e dando inizio ad una festa vivace, mangiando, bevendo in abbondanza e scherzando fra loro. Coppie ubriache stavano danzando sui tavoli su cui l'indomani si sarebbe ripeso a preparare
il cibo e Janok aveva costretto in un angolo la più giovane delle lavandaie, sbattendola prona sui sacchi di farina che vi erano ammucchiati, e adesso le stava sollevando le gonne con un sogghigno lascivo sul volto arrossato e sudato. A giudicare dai suoi strilli soffocati la ragazza non stava apprezzando quell'esperienza, ma non aveva scelta perché Janok era il re del suo piccolo dominio. Nell'osservare la scena dal suo giaciglio umido e squallido, sotto i lavatoi di pietra, Anvar si sentì nauseato dal disgusto e al tempo stesso lieto, per una volta, di essere stato escluso come sempre dai festeggiamenti. Era in questi momenti in cui tutti erano allegri che sentiva maggiormente la mancanza della propria casa e della propria famiglia, e mentre se ne stava accoccolato nel suo umido e angusto rifugio, tormentato dal dolore fisico e da quello spirituale, si trovò a pensare ancora una volta che se quella mattina non fosse stato in ritardo adesso Ria sarebbe stata ancora viva, lui e Sara si sarebbero sposati e sarebbero stati in attesa della primavera e della nascita del loro primo figlio. Chiedendosi dove fosse Sara quella notte e come stesse trascorrendo la festa del solstizio, Anvar cedette alla disperazione e scoppiò in pianto. Esausto, debole e dolorante per le continue percosse di Janok e per il lavoro sfiancante a cui era sottoposto, che quel giorno era stato più frenetico del solito, alla fine si assopì per poi svegliarsi di colpo più tardi in mezzo ad una quiete assoluta: vedendo che il fuoco si era ridotto ad una massa di carboni ardenti e che i servi stavano russando sdraiati qua e là per terra, si sollevò a sedere di scatto, dimentico del dolore fisico e della stanchezza. Quella era l'occasione giusta per fuggire! Finalmente avrebbe potuto vedere Sara e tranquillizzarsi sul suo conto... e magari sarebbero potuti fuggire insieme! D'arvan era del parere che la Grande Sala apparisse splendida con i suoi addobbi festivi. Lui amava quella camera vasta e imponente perché per qualche motivo vi si sentiva più a suo agio che altrove, e quella sera la trovava particolarmente bella, con le doppie file di colonne portanti intagliate con abilità nella pietra scura a somiglianza di alberi dai rami intrecciati che sostenevano il soffitto decorate per l'occasione con sempreverdi punteggiati di bacche colorate e rischiarate da globi di cristallo pieno di dorata Luce Magica affissi alle pareti. Le fiamme danzanti delle candele scarlatte si riflettevano sul legno lucido dei tavoli e un enorme fuoco ardeva nel focolare, rallegrando l'ambiente.
L'ora era ormai tarda, tanto che la maggior parte dei Maghi si era già ritirata per la notte e il capo servitore dell'Accademia, Elewin, era salito nella galleria per servire vino caldo speziato agli stanchi musicisti, in modo da predisporli al tragitto fino a casa in mezzo alla neve. Gli altri servi erano intanto occupati a portare via i resti del banchetto del solstizio, che per tradizione era composto soltanto dei proventi della foresta e che era stato quell'anno più ricco e gustoso del solito, tanto che D'arvan era rimasto interdetto di fronte alla varietà di alimenti presente sulla tavola: cosciotti di cacciagione e un intero cinghiale arrostito e imbottito con erbe aromatiche e mele selvatiche, fagiano e cigno arrosto decorati con le loro stesse penne, pasticcio di piccione e di coniglio, succulente trote di ruscello che erano state cotte a fuoco lento con schegge di nocciola, insalate di tuberi selvatici e di verdure invernali, funghi secchi con una salsa di aglio selvatico e tartufi. Nel corso della stagione estiva, gli inservienti più fidati di Janok avevano passato al setaccio i boschi circostanti la città alla ricerca degli ingredienti per questo banchetto, avevano conservato frutti e bacche nello sciroppo e messo da parte vini pregiati per le torte e i dolcetti rivestiti di miele. Appoggiandosi allo schienale della sedia per allentare la cintura, D'arvan rifletté che si era trattato di un banchetto davvero splendido... poi un rumoroso sbadiglio di Aurian lo distolse dai suoi pensieri. «Credo che per me sia giunta l'ora di ritirarmi» annunciò la ragazza. «Sono esausta. Questa mattina durante l'allenamento con la spada Forral mi ha riempita di lividi e domattina mi dovrò alzare presto per subire la stessa sorte, anche se è la mattina del Giorno del Solstizio. Buona notte, D'arvan.» «Buona notte. Aurian, e...» cominciò D'arvan, poi imprecò mentalmente contro la propria dannata timidezza e concluse in tono sommesso: «E grazie per avermi fatto compagnia stanotte.» «Grazie a te, D'arvan» sorrise Aurian. «Non so cosa avrei fatto senza di te, perché queste feste dei Maghi sono davvero monotone!» D'arvan si sentì confortato dall'evidente sincerità della sua voce. Aurian aveva trascorso con lui la maggior parte della serata, parlandogli degli studi sul risanamento che stava portando avanti attualmente con Meiriel e dei nuovi amici che si era fatta fra i Mortali della guarnigione, ma per tutto il tempo lui aveva pensato che lo stesse facendo per semplice compassione, dovuta al fatto che Davorshan aveva mostrato di ignorare di proposito la presenza del suo gemello e aveva trascorso l'intera serata danzando e ce-
nando con Eliseth, ridendo e flirtando con lei e mostrando di non avere occhi per nessun altro. Adesso i due erano seduti accanto al fuoco e stavano conversando fra loro nel sorseggiare un boccale di vino. Quasi fosse consapevole di ciò che lo stava turbando, Aurian fissò intanto con espressione accigliata Eliseth e il suo affascinato compagno. «Non sono affari miei, D'arvan» osservò quindi, «ma forse passi troppo tempo in compagnia di tuo fratello. Se lo desideri, potresti venire qualche volta con me alla guarnigione. Quei Mortali ti piacerebbero perché sono brava gente, e comunque credo che tu abbia bisogno di cambiare le compagnie che frequenti.» D'arvan la fissò con espressione sorpresa, senza sapere cosa rispondere: lui mescolarsi a degli sconosciuti? Da solo? L'idea lo terrorizzava perché non aveva mai fatto nulla senza suo fratello, e tuttavia al tempo stesso non mancò di apprezzare la gentilezza dell'offerta di Aurian, che a quanto pareva aveva notato come negli ultimi mesi Davorshan avesse trascorso sempre più tempo insieme ad Eliseth e ai suoi amici. Torcendosi le mani sotto il tavolo per reagire alla disperazione incombente, D'arvan ripensò quindi all'affermazione di Davorshan secondo cui la Maga del Clima gli stava insegnando a far affiorare almeno una parte dei suoi poteri latenti: se questo era vero... e suo fratello non gli aveva mai mentito... allora lui. D'arvan. era adesso il solo Mago privo di poteri presente all'Accademia, un pensiero che gli strappò un brivido. Per quanto tempo ancora Miathan gli avrebbe infatti permesso di restare lì, se fosse risultato davvero privo di poteri? E dove sarebbe potuto andare se l'Arcimago lo avesse scacciato? «Stai bene?» gli chiese d'un tratto Aurian, in tono preoccupato. D'arvan desiderò di potersi confidare con lei e chiedere il suo aiuto... gli dèi sapevano che adesso aveva bisogno di un'amica... ma la sua spaventosa timidezza lo fece rimanere in silenzio, insieme alla riluttanza ad esporre Davorshan al biasimo di Aurian, che per qualche motivo non lo aveva mai trovato simpatico. «Devo essere stanco» replicò infine. «Forse andrò a letto.» Aurian inarcò un sopracciglio con espressione scettica e scrollò leggermente le spalle. «Una buona idea... del resto è quello che intendo fare anch'io. In ogni caso, rifletti su quanto ti ho detto perché la mia offerta rimane valida. E se mai dovessi aver bisogno di qualcuno con cui parlare... ecco, puoi contare su di me.»
Dopo che lei se ne fu andata, D'arvan rimase seduto in silenzio ad aspettare suo fratello, ma dopo qualche tempo si stancò di attendere e si alzò per andare ad augurargli la buonanotte. Davorshan sedeva accanto ad Eliseth, con un braccio intorno alle sue spalle e la testa molto vicina a quella di lei. La Maga del Clima appariva splendida in uno scintillante abito azzurro ghiaccio, con i lunghi capelli intrecciati e avvolti sul capo, trattenuti da una sottile catenella d'argento che passava fra le loro spire. Quando D'arvan si avvicinò Davorshan sollevò la testa di scatto e D'arvan, che come sempre era sintonizzato con i suoi pensieri percepì irritazione, un fugace senso di colpa... e qualcos'altro, qualcosa di sbagliato. Prima però che potesse determinare di cosa si trattasse, Davorshan abbassò bruscamente i propri schermi mentali in modo da escluderlo dalla sua mente per la prima volta nella loro vita e D'arvan barcollò come se fosse stato colpito in pieno volto. Mai si era sentito così solo... come se una parte del suo io fosse stata brutalmente strappata: l'isolamento, il senso di perdita, l'incertezza crearono in lui una sofferenza e una confusione tali da sopraffarlo e da impedirgli di parlare. «Come osi spiarmi?» gridò Davorshan, arrossandosi in volto. «Sono nauseato di vedermi seguire dappertutto con quell'espressione patetica sul volto! Sta' lontano da me, hai capito? Lasciami in pace!» D'arvan rimase sconvolto dall'aspra ostilità presente nel suo tono, e mentre si allontanava in tutta fretta, ricacciando indietro i singhiozzi, sentì echeggiare alle proprie spalle la risata argentina di Eliseth. Anvar attraversò in punta di piedi la cucina in penombra, evitando con cura di urtare i dormienti, e quando aprì silenziosamente la porta fu investito da una folata di vento carico di neve sottile. Afferrato un sacco vuoto con cui coprirsi la testa e le spalle sgusciò fuori e si richiuse il battente alle spalle senza far rumore: fuori il freddo era molto intenso e il cortile buio era del tutto vuoto, nessuna luce giungeva dalla torre dei Maghi e le due guardie di stanza alla porta superiore si trovavano nel loro casotto, raggomitolate accanto al braciere con una bottiglia di vino in mezzo a loro e intente a giocare a dadi al riparo dal vento gelido che stava trapassando con facilità gli abiti laceri del fuggiasco mentre questi avanzava di soppiatto tenendosi nell'ombra. Ogni minuto circa una delle guardie distoglieva lo sguardo dal gioco per gettare un'occhiata in direzione delle porte, e quando se ne rese conto Anvar imprecò: doveva riuscire a fuggire, doveva farlo... ma come? Intanto il vento invernale stava privando rapidamente il suo
corpo del proprio calore, e ogni minuto che passava a riflettere sul da farsi aumentava le sue probabilità di essere scoperto. D'un tratto un suono di voci lo fece sussultare, e nel guardare oltre l'angolo dell'edificio con il cuore che gli martellava selvaggiamente nel petto vide la porta della Grande Sala aprirsi e riversare sulla neve un fascio di luce dorata... poi sulla soglia apparve un gruppo di figure avvolte in pesanti mantelli e munite di un assortimento di fardelli dalla forma strana e d'un tratto Anvar ricordò di aver sentito dire che dei musicisti sarebbero venuti a rallegrare la festa dei Maghi. E adesso quei musicisti stavano tornando a casa. Stavano uscendo dall'Accademia. Senza osare soffermarsi a considerare i rischi, Anvar si nascose nell'ombra dello stretto vicolo che si snodava fra l'infermeria e le cucine e attese che i musicisti lo avessero oltrepassato tutti, diretti verso le porte, poi colmò correndo la distanza che lo separava da essi e si accodò al gruppo, augurandosi che nella penombra il sacco venisse scambiato per il cappuccio di un mantello. Gli stanchi musicisti, avviluppati nei loro mantelli e interessati soltanto ad arrivare a casa per sottrarsi alla morsa del freddo, non si accorsero che il loro numero era aumentato di un elemento, e non lo notarono neppure le guardie un po' alticce. «Felice Solstizio!» esclamarono all'indirizzo dei musicisti, poi le porte si richiusero dietro di loro con uno scatto metallico ed Anvar tirò un respiro di sollievo. Al casotto di guardia ai piedi della collina c'era adesso un custode più giovane di quello che lui ricordava di aver incontrato alcuni anni prima. Quando i musicisti si avvicinarono, l'uomo era intento a prepararsi sul fuoco un boccale di vino speziato e aprì le porte di ferro senza quasi guardare chi stesse lasciando l'Accademia, segnalando con impazienza al gruppo di spicciarsi perché voleva tornare al suo vino. Finalmente libero! pensò Anvar, con il cuore che gli si librava nel petto per la gioia. Nel frattempo i musicisti percorsero la strada rialzata e si avviarono lungo il viale alberato che portava al ponte di comunicazione con la città: abbandonato il gruppo, Anvar si nascose e attese che gli altri si fossero allontanati prima di attraversare da solo lo stretto ponte, e una volta oltre il fiume si addentrò nelle strade secondarie in modo da descrivere un ampio giro che gli permettesse di evitare l'area dei moli, tenendo al tempo stesso gli occhi bene aperti per individuare un'eventuale pattuglia della guarnigione. Evitando i saltuari gruppi di festosi ubriachi raggiunse quindi il sentiero che costeggiava il fiume, percorrendolo verso monte.
Il tragitto parve richiedere più tempo di quanto lui ricordasse, forse perché adesso la neve stava cadendo più fitta e si ammucchiava in grossi cumuli sul sentiero; la visibilità era inoltre talmente scarsa da costringerlo a tenersi addossato ai cespugli spinosi che crescevano sulla riva per evitare il rischio di cadere nel fiume, e il consumo di energie dovuto alla fuga stava intensificando i dolori che tormentavano il suo corpo maltrattato, facendolo tremare per la spossatezza e per il freddo mentre lottava contro il vento gelido che gli soffiava in pieno volto, accecandolo con la neve. Nonostante tutto si ostinò però a proseguire, attirato dalla prospettiva di poter rivedere Sara. Finalmente avvistò la figura indistinta di una donna che, avvolta in un mantello con cappuccio, era ferma davanti al mulino intenta a osservare la corrente veloce e scintillante che sospingeva le pale della macina, e il cuore prese a martellargli nel petto. «Sara?» sussurrò. «Anvar!» esclamò la donna, girandosi di scatto: si trattava di Verla, la madre di Sara. «Per favore» implorò Anvar, ignorando l'ostilità del suo tono di voce. «Devo vedere Sara. Lei sta bene?» «Come puoi chiederlo? E come osi venire qui dopo tutta l'angoscia che ci hai causato?» «Cosa intendi dire?» gridò Anvar, afferrandola per le spalle. «Cosa è successo? Dimmelo!» «D'accordo!» ringhiò Verla, liberandosi dalla sua stretta. «Dopo quello che è accaduto, Jard ha rifiutato di permettere a Sara di generare un tuo figlio e l'ha portata in città da una levatrice da quattro soldi.» «No!» esclamò Anvar, inorridito. «Oh, sì. Quella donna ha provveduto ad eliminare il bambino, ma qualcosa è andato storto e adesso Sara non potrà più avere figli.» «Oh, dèi!» sussurrò Anvar, lasciandosi cadere in ginocchio nella neve, con la testa fra le mani. Sara! Il suo bambino! «E dopo» continuò spietatamente Verla, «Jard ha venduto Sara a Vannor, come moglie.» «Cosa?» annaspò Anvar, ben sapendo che nessuno osava contrariare il più potente mercante della città... soprattutto in considerazione delle voci relative al suo passato violento, prima che divenisse ricco e rispettabile. «Proprio lui» confermò Verla, in tono amaro. «A Vannor non importava che lei fosse sterile perché aveva già avuto dei figli dalla prima moglie: vo-
leva soltanto Sara nel suo letto ed era disposto a pagare per averla. Non so se Sara sia felice perché non la vediamo mai, ma spero che tu sia contento di quello che hai fatto. Adesso vattene di qui perché non ti voglio vedere mai più!» Anvar apri la bocca per protestare e in quel momento fu raggiunto alla nuca da un colpo violento che lo fece crollare sulla neve, stordito e semiaccecato dal dolore. L'ultima cosa che sentì fu la voce di Jard. «Ben fatto, Verla. Adesso legalo mentre io vado a chiamare le guardie» commentò il mugnaio, afferrandogli una mano ed esaminando il marchio presente su di essa alla luce della torcia che aveva con sé. «Di certo ci sarà una ricompensa per chi riporta un servo fuggitivo.» Era la Notte di Mezz'Inverno, la più lunga dell'anno, e D'arvan giaceva sveglio nel suo letto dove aveva contato insonne le lunghe ore di oscurità che si erano susseguite prima che Davorshan rientrasse sul far dell'alba nelle stanze che aveva in comune con lui. D'arvan non aveva dubbi sul modo in cui il suo gemello aveva trascorso la notte perché quando la passione aveva incrinato la sua concentrazione lo schermo di Davorshan si era fatto imperfetto, anche perché il suo legame con il fratello era troppo forte e istintivo per essere infranto del tutto sulla scia di un capriccio improvviso. Di conseguenza D'arvan era stato torturato per tutta la notte dai pensieri di Davorshan, dalle sue sensazioni, da fugaci immagini di Eliseth che giaceva nuda su un copriletto di pelliccia bianca, dal tintinnare argenteo della sua risata, dal tocco bruciante delle sue dita che si era registrato sulla sua pelle come su quella di Davorshan... e si era sentito prosciugato, colpevole e nauseato nel cedere ad un orgasmo solitario e vergognoso che aveva fatto eco al culmine della frenetica passione del fratello. Anche quando la tempesta della passione di Davorshan si era finalmente esaurita, D'arvan aveva comunque trascorso una notte infelice perché i suoi pensieri... ancora sconvolti dallo shock del brutale e improvviso isolamento dalla mente del gemello e dal vortice di passione che vi aveva fatto seguito... continuavano ad oscillare fra il dolore, l'ira e il senso di colpa mentre lui biasimava ora suo fratello, ora Eliseth e ora se stesso per l'accaduto. Davorshan è tutto quello che ho, era il pensiero costante che gli affiorava a intervalli nella mente, ossessivo e disperato. È sempre stato così, ma adesso lui ha qualcun altro... cosa farò senza di lui? Durante tutta la loro vita i gemelli erano stati costretti a dipendere uno
dall'altro, perché i loro genitori, Bavordran e Adrina, avevano scelto di lasciare la vita quando loro erano ancora così piccoli che D'arvan riusciva a stento a ricordare il volto di entrambi... e per lui non aveva senso il fatto che essi avessero deciso di generare due figli per poi abbandonarli quasi subito. Gli altri Maghi più maturi rifiutavano sempre di parlare di quell'evento, ma D'arvan era certo che i loro genitori non fossero stati felici insieme, così come era certo che almeno sua madre non avesse voluto lasciarlo perché conservava il vago ricordo di una violenta lite e del volto di Adrina solcato di lacrime mentre lei lo cullava per farlo addormentare. Una volta che i loro genitori se n'erano andati, i gemelli erano stati allevati con un certo disinteresse da Meiriel e da Finbarr, con l'aiuto dei servi dell'Accademia, e naturalmente avevano compensato alla mancanza di amore da parte dei genitori con la loro reciproca devozione... un legame che adesso era stato tranciato in modo selvaggio e improvviso da Eliseth. D'arvan avvertì il ritorno del fratello prima ancora che questi entrasse nelle loro stanze perché sapeva sempre quando Davorshan era nelle vicinanze, e per quanto temesse di trovarsi davanti il gemello fu almeno lieto che il suo arrivo interrompesse l'angoscioso susseguirsi dei suoi pensieri tormentosi... o almeno lo fu finché Davorshan non sgusciò nell'appartamento con un sorriso compiaciuto sul volto, intriso dell'odore del vino e dell'intenso profumo di Eliseth, passando accanto al letto del fratello in punta di piedi e senza degnarlo neppure di un'occhiata. «Sono sveglio... non c'è bisogno che strisci come un ladro!» commentò D'arvan. Il veleno presente nella sua voce colse di sorpresa perfino lui stesso, ma ormai nel suo animo l'ira aveva avuto la meglio sul dolore. Davorshan non ebbe neppure la buona grazia di mostrarsi contrito e la sua espressione compiaciuta non subì la minima alterazione mentre lui sedeva ai piedi del letto del fratello con una scrollata di spalle, ora così aperto e gentile da far supporre che la schermatura ostile fosse stava rimossa. «Hai ragione ad essere infuriato con me» disse. «Senti, D'ar... mi dispiace per quello che è successo prima, alla festa, ma volevo restare solo con Eliseth... capirai cosa intendo quando troverai una compagna anche tu. Non volevo escluderti in maniera tanto improvvisa, ma ci sono alcune cose che non si possono condividere... neppure con il proprio affezionato fratello.» Appena poche ore prima D'arvan sarebbe stato pronto a credergli, si sarebbe fidato di lui e avrebbe gioito nel sentir spiegare e accantonare quella causa di attrito fra loro, perché adesso la mente di Davorshan era di nuovo
aperta a lui, con tutta la consueta confortante familiarità. E tuttavia... agendo per puro istinto D'arvan attinse a tutta l'amarezza, il tradimento e la sofferenza che per lui costituivano la feccia in fondo all'amaro calice di quella detestabile notte e se ne servì per modellare una sonda simile ad una lancia con cui trafisse la mente impreparata del fratello. Davorshan non ebbe il minimo preavviso... né il tempo per reagire. «Dannazione a te!» stridette, ritraendosi e rialzando a precipizio uno schermo che bloccasse quell'attacco inatteso. Ormai era però troppo tardi, perché la sonda di D'arvan aveva già incontrato il nucleo duro, cupo e pulsante formato da quei segreti che suo fratello aveva astutamente celato dietro il suo atteggiamento aperto e fiducioso. Tremante, D'arvan ritrasse la propria sonda come se si fosse ustionato. Per gli dèi... perché l'ho fatto? pensò con disperazione, in quanto questo secondo tradimento gli riusciva ancor più doloroso del primo. Perché non l'ho lasciato in pace? «Perché lo hai fatto?» sussurrò in tono dolente Davorshan, facendo eco ai suoi pensieri. «Io voglio questo... voglio lei... e nulla mi impedirà di averlo, neppure tu! Però ti garantisco, fratello, che non avevo nessun desiderio di farti del male.» Era possibile che quella fosse la verità... e di certo Davorshan sembrava sincero... ma D'arvan ne aveva abbastanza di menzogne e di tradimenti e non intendeva esporsi ad essi ancora una volta. «Lasciami in pace... voglio solo che mi lasci in pace!» esclamò, e per la prima volta nella sua vita chiuse la mente a quella del fratello, distogliendo il volto finché non sentì Davorshan allontanarsi verso il proprio letto. Quella fu la cosa più dolorosa e difficile che avesse mai fatto, e per distrarre la mente dal peso schiacciante della solitudine alimentò il proprio vacillante coraggio con l'ira nei confronti del fratello, costringendosi al tempo stesso a pensare ad Aurian e alla sua offerta. Forse lei aveva davvero ragione nel sostenere che avrebbe dovuto conoscere altre persone, se non poteva più fare affidamento su suo fratello. Dopo il Solstizio le avrebbe chiesto di accompagnarlo alla guarnigione, e fino ad allora avrebbe cercato di affrontare e di superare il suo dolore. CAPITOLO NONO CUORE DI GUERRIERA I muscoli della schiena e delle spalle di Aurian stridevano di protesta e la
spada sembrava incredibilmente pesante nelle sue mani stanche, quindi lei indietreggiò leggermente in modo da avere un po' più di tempo per reagire e sollevò la lama in posizione difensiva nello scrutare Forral con occhi socchiusi per cercare di prevedere la sua prossima mossa. Essa risultò essere un rapido colpo di traverso, così basso da essere diretto alle gambe, di fronte al quale Aurian si ritrasse di scatto con una goffa parata, avvertendo lo shock dell'impatto delle due lame che le correva lungo le mani, intorpidendole, e intravedendo al tempo stesso il rapido lampo bianco del sorriso di Forral in mezzo alla sua folta barba castana. Sollevando di nuovo la spada Aurian imprecò contro l'insensibilità alla stanchezza dello spadaccino e contro la sua insistenza perché si esercitassero anche la Mattina del Solstizio, contro la propria stupidità per aver bevuto troppo la sera precedente e per non essere andata a letto più presto. Dannazione a quel D'arvan! Tremante di stanchezza, con il sudore che le colava negli occhi e gocciolava sul suolo sabbioso della grande arena di addestramento della guarnigione, sollevò ancora la spada per parare un affondo fulmineo di Forral. chiedendosi al tempo stesso per quale motivo lo avesse tanto tormentato per riprendere l'addestramento: in effetti non avrebbe mai immaginato di essere così fuori esercizio, o che i quattro mesi di sfiancante tortura in quell'arena di sabbia avrebbero portato così pochi miglioramenti. Sarebbe mai tornata a possedere tutta la sua abilità? Improvvisamente Forral si lanciò all'attacco e la sua spada massiccia descrisse un indistinto vortice luminoso allorché lui ricorse a quella mossa circolare del polso che era il suo marchio personale e che né Aurian né altri sembravano in grado d'imparare... poi Aurian si lasciò sfuggire un sussulto di dolore allorché i suoi polsi furono spinti in posizione innaturale dall'impatto e la spada le sfuggì di mano, andando ad atterrare ad una certa distanza da lei. «Sei morta!» dichiarò Forral, scuotendo il capo, e prima che Aurian avesse il tempo di reagire la fece girare su se stessa per assestarle un colpo di piatto con la spada sul posteriore, una punizione con cui lei aveva familiarità e che Forral usava con tutti i suoi allievi come incentivo a non ripetere più un errore. Con una protesta indignata, Aurian si massaggiò la parte indolenzita, sentendo gli occhi che le si colmavano di lacrime di frustrazione e di stanchezza. Un momento più tardi le braccia di Forral la circondarono in un gesto confortante e una grossa mano prese a massaggiarle i muscoli tesi e dolo-
ranti delle spalle e del collo. «Non ti preoccupare, tesoro» mormorò lui. «So che è duro ma non puoi permetterti di commettere errori che ti potrebbero costare la vita. Adesso però cominci a ritrovare la forma di un tempo e si vedono dei miglioramenti, segno che devi soltanto recuperare una notevole quantità di tempo perduto. Tieni duro e presto sarai di nuovo in forma.» Aurian si appoggiò contro il suo petto, avvertendo il suo odore pulito che si mescolava al sentore di cuoio del suo vecchio giustacuore sfregiato: quelle parole d'incoraggiamento l'avevano tirata su di morale ed era grata per il sostegno che quelle braccia robuste stavano offrendo al suo corpo stanco. «D'accordo, Forral» mormorò fiduciosa, poi il cuore le diede un balzo nel petto quando lui le depose un bacio leggero sui capelli, un gesto che generò nel suo corpo una formicolante ondata di calore, come succedeva ogni volta che gli era vicino. Nel suo cuore, lei aveva amato Forral fin da quando era bambina, ma adesso quell'amore aveva subito un cambiamento di qualità che la lasciava sconcertata e frustrata e che l'aveva infine costretta ad ammettere con se stessa di volere più dell'affezionato cameratismo che avevano sempre condiviso. Accentuando la stretta delle proprie braccia intorno al collo di lui sollevò lo sguardo per scrutarlo in volto, incapace di nascondere il proprio desiderio... e come sempre Forral distolse lo sguardo dopo aver incontrato il suo per un tormentoso secondo. «Andiamo» disse quindi in tono burbero, ristabilendo le distanze fra loro. «Se ben ricordi, questa mattina dovrebbe venire Vannor, quindi sarà meglio che ci ripuliamo per essere presentabili di fronte a quella sua moglie altezzosa.» E si allontanò senza guardarla. Con la gola stretta da un nodo d'infelicità, Aurian recuperò la spada caduta a terra e lo seguì fuori dell'arena. Vannor e sua moglie erano intanto arrivati in anticipo ed erano in attesa nell'alloggio di Forral... ed Aurian avvertì una nota d'irritazione nel notare come l'elegante giovane donna stava arricciando con disgusto il naso alla vista del giustacuore di cuoio e dei calzoni che lei aveva indosso. Fin dall'inizio aveva sviluppato un'intensa avversione nei confronti della nuova moglie di Vannor. che ora si accentuò mentre lei osservava quella giovane donna snella e bionda scrutare l'alloggio spartano di Forral con aria di disgusto, come se fosse stata contrariata di trovarsi in un posto che non era alla sua altezza. Incupita, Aurian si chiese come facesse quella ragazza che era più bassa di lei e di Forral a riuscire a contemplarli entrambi dall'alto in
basso e a causa dei propri sentimenti ancora feriti dal recente, tacito rifiuto oppostole da Forral faticò a tollerare l'espressione innamorata che appariva negli occhi di Vannor ogni volta che questi guardava la sua nuova moglie. Aurian era affezionata al brusco e franco mercante che, con il suo fisico tozzo, la barba e i capelli tagliati molto corti e la voce rude che conservava ancora l'accento proprio dell'area dei moli, sembrava esattamente ciò che era, e cioè un rozzo bracciante del porto che aveva fatto fortuna, e non cercava in alcun modo di modificare il proprio aspetto o il proprio comportamento, anche se non riusciva a nascondere il cuore generoso che si celava dietro di esso. La sua infatuazione per Sara era evidente ed era dimostrata dagli splendidi abiti di velluto bordato di pelliccia che le aveva comprato e dai gioielli che le aveva regalato e che le ornavano le dita, i polsi e gli orecchi. Con i capelli raccolti sul capo in un nodo elaborato, Sara appariva di una bellezza perfetta... tranne per la sua espressione altezzosa e per lo sguardo che si faceva duro e calcolatore ogni volta che si posava su suo marito. Come capo della Corporazione dei Mercanti Vannor aveva progettato questa visita alla guarnigione nel Giorno del Solstizio come atto di cortesia nei confronti del nuovo comandante, e più tardi era atteso anche l'Arcimago, che costituiva il terzo membro del consiglio che governava Nexis. Nonostante l'occasione festiva l'atmosfera risultò però tutt'altro che vivace, perché anche se Vannor e Forral erano di solito un'ottima compagnia quel giorno il mercante appariva meno allegro e spontaneo del solito a causa della presenza di sua moglie, e Forral sembrava insolitamente quieto e più propenso ad accigliarsi che a sorridere; Aurian, dal canto suo, cominciava ad avvertire l'insorgere di un'emicrania e stava cercando di stabilire se doveva congedarsi e tornare all'Accademia quando qualcuno bussò alla porta. Sollevata da quell'interruzione, ne approfittò per seguire Forral nell'anticamera quando questi andò ad aprire. L'inatteso visitatore risultò essere Parric, il comandante della cavalleria, che quel giorno era in servizio come ufficiale di giornata. «Mi dispiace disturbarti, Forral» si scusò l'ometto, con aria contrita, «ma un mugnaio che vive lungo il fiume ha catturato un servo vincolato che era fuggito e ce lo ha appena portato.» Forral accolse la notizia con un sospiro d'irritazione. Come Aurian ben sapeva, lui detestava infatti la pratica della servitù vincolata, ma non era purtroppo riuscito ad indurre il consiglio a delegittimarla perché l'Arcimago invece la sosteneva e Vannor era costretto ad inchinarsi ai desideri dei
mercanti da lui rappresentati, che nei servi vincolati trovavano un modo per accrescere i loro profitti con l'impiego di lavoranti non retribuiti. «Per l'amore del cielo. Parric!» esclamò in tono seccato. «Perché m'infastidisci proprio ora con questa faccenda? Rinchiudi quell'uomo e ci occuperemo di lui domani, dopo che la giornata di festa sarà trascorsa.» «Ecco... io credo che dovresti vederlo» insistette però Parric, che appariva a disagio. «Quel poveretto è in uno stato pietoso... è coperto di lividi a tal punto che onestamente non lo biasimo per aver cercato di fuggire. Io non tratterei neppure un cane nel modo in cui hanno trattato lui.» «Scusami, Parric... se le cose stanno così allora hai ragione e sarà meglio indagare in merito» annuì Forral, accigliandosi. «Non intendo permettere che qualcuno perpetri abusi del genere e la passi liscia. A chi appartiene quel servo?» «Sai... è una cosa un po' imbarazzante...» tergiversò Parric. «Coraggio, di certo hai visto il suo marchio, quindi smettila di menare il can per l'aia!» «Il servo appartiene all'Accademia» replicò il cavalleggero, scoccando ad Aurian un'occhiata piena di disagio. «Cosa?» esclamò lei, sconcertata. «Non è possibile.» «Invece è proprio così, e se vuoi il mio parere, è una dannata vergogna» ritorse Parric, in tono d'accusa. «Calmati, Parric» intervenne Forral, cingendo con un braccio le spalle dell'indignata Maga. «Portalo qui e vedremo di chiarire la situazione.» «È là fuori» rispose Parric, poi abbozzò un gesto attraverso la soglia aperta e due guardie entrarono sostenendo in mezzo a loro una sagoma inerte e lacera. Vestito con indumenti stracciati e sporchi, il ragazzo puzzava ed era talmente fradicio che stava tremando violentemente e la sua pelle aveva assunto una tonalità bluastra. Fissando il suo volto gonfio e coperto di lividi, Aurian si sentì inorridire nel chiedersi chi all'Accademia potesse aver trattato tanto male quel poveretto. D'un tratto gli occhi del giovane... che erano dell'azzurro più intenso e penetrante che Aurian avesse mai visto... si aprirono e fissarono un punto che si trovava alle spalle di lei, dilatandosi al tempo stesso per la gioiosa sorpresa. «Sara!» annaspò quindi il servo. Voltandosi di scatto, Aurian vide che la moglie di Vannor era ferma appena all'interno della soglia, pallidissima in volto; un momento più tardi
Sara si eresse sulla persona e abbassò lo sguardo sul servo fuggiasco con espressione carica di gelido disprezzo. «Chi è costui?» domandò in tono freddo. «Non l'ho mai visto prima in tutta la mia vita.» «Però lui conosce il tuo nome» le fece notare Forral, che appariva sempre più accigliato. «Sono sposata al mercante più importante della città, e moltissime persone conoscono il mio nome» ribatté Sara, scrollando le spalle. «Vannor, riportami a casa. Questa rivoltante creatura mi dà la nausea.» «D'accordo» assentì Vannor, con aria impotente. «Forral, ti prego di scusarci.» Poi prese la moglie sottobraccio e l'accompagnò fuori, ma mentre passavano accanto al prigioniero questi si dibatté fino a liberarsi dalla presa delle guardie e crollò ai piedi di Sara, aggrappandosi al bordo del suo abito. «Sara, per favore...» implorò. Con un'esclamazione di disgusto la donna strappò le gonne dalla sua stretta e oltrepassò la porta. Alle sue spalle, Aurian chiuse gli occhi di fronte all'espressione ferita e tradita apparsa negli occhi del giovane e si sentì certa che Sara avesse mentito; un momento più tardi il servo abbandonò la testa fra le mani e scoppiò in un pianto così disperato e angosciato che Aurian si lasciò impulsivamente cadere in ginocchio accanto a lui, addolorata per la sua sofferenza. «Poveretto» mormorò. «Non ti preoccupare, ci prenderemo cura di te. e quanto a ciò che ti hanno fatto... chiunque sia stato, provvederò perché non ci provi ancora!» concluse, con voce improvvisamente decisa. Sollevando lo sguardo su quell'alta donna dai capelli rossi, Anvar comprese dal suo aspetto che apparteneva al Popolo dei Maghi, e riconobbe in lei la stessa Maga che quel giorno di tanto tempo prima era venuta insieme a Forral nella sua bottega... poi notò che i suoi occhi erano pervasi d'ira e credette che essa fosse diretta contro di lui, perché l'angoscia per il tradimento di Sara gli aveva impedito di sentire le parole di conforto di Aurian. Un rantolo di terrore cominciò a formarglisi nel profondo della gola, ma venne troncato sul nascere da un'improvvisa crisi di starnuti di fronte alla quale Aurian si accigliò e si frugò in tasca alla ricerca di un fazzoletto... un ampio quadrato di lino bianco che, a giudicare dalle macchie d'olio presenti su di esso, doveva essere stato usato per pulire una spada... porgendoglielo con un gesto deciso. Mentre Anvar si soffiava il naso, gli posò quindi una mano fresca sulla fronte.
«Forral, è malato!» esclamò in tono allarmato. «Aiutami a portarlo dentro. Parric, tu va' alla mensa a prendere un po' di brodo perché questo poveretto sembra mezzo morto di fame. Presto!» Anvar vide i due interpellati scambiarsi un'occhiata e scrollare le spalle con rassegnazione, poi si sentì sollevare da Forral e trasportare quasi di peso in un'accogliente camera interna dove ardeva un fuoco vivace. «Mettilo sul divano» continuò la donna... e Anvar si chiese chi fosse, per avere l'autorità di dare ordini al comandante della guarnigione: essendo rimasto sempre imprigionato nelle cucine dell'Accademia, infatti, non era mai venuto a contatto con nessuno dei Maghi che vi abitavano. «Ma Aurian... è sporco!» protestò Forral. Dunque quella era Lady Aurian. che si diceva fosse la preferita dell'Arcimago! Di fronte a quella scoperta Anvar si sentì raggelare dal terrore, perché quando era stato portato al cospetto del Comandante Forral aveva sperato di poter perorare il proprio caso mentre adesso stava scoprendo invece di essere di nuovo nelle mani dei Maghi... e chi poteva sapere quale punizione l'Arcimago avrebbe avuto in serbo per lui? Intanto la Maga stese una coperta sul divano e lo aiutò a sedervisi sopra cingendogli le spalle con un braccio... e facendo involontariamente pressione proprio sui lividi lasciati la sera prima dalla scopa di Janok. Incapace di trattenersi, Anvar emise un grido di dolore che indusse Aurian a strappargli di dosso i laceri resti della camicia con un gesto deciso... e un momento più tardi Anvar le sentì emettere un inarticolato verso di disgusto, seguito da una violenta imprecazione. «Chi ti ha fatto questo?» ringhiò poi Aurian, costringendolo a girarsi in modo da fronteggiarla, e nel sentirsi investire dall'ondata della sua ira come da una presenza fisica Anvar ebbe l'impressione che lei crescesse di statura davanti ai suoi occhi e che nei suoi occhi verdi si accendesse una gelida luce grigia. Pervaso da un improvviso timore cominciò a tremare perché si rese conto che c'era un motivo molto valido se quella donna era la protetta dell'Arcimago. «Calmati, tesoro, così lo stai terrorizzando» intervenne Forral. «Non ti preoccupare, ragazzo, non è con te che è infuriata.» «È stato Janok» sussurrò infine Anvar, rincuorato dalla voce gentile dello spadaccino. «Quel bastardo!» esplose Aurian, scattando in piedi e calando il pugno sulla mensola di marmo del camino con una forza così incrementata dalla magia da far sì che lo spesso angolo di pietra si staccasse con un bagliore
di luce... cosa che sgomentò Anvar e che strappò a Forral un sospiro rassegnato. «Aurian» disse soltanto quest'ultimo, in tono di mite rimprovero, e subito la Maga si chinò con aria colpevole a raccogliere il pezzo che si era staccato dalla mensola. «Mi dispiace, Forral» replicò, passando la mano sulla pietra in modo da fonderla con il resto senza lasciare tracce di giunture, poi scosse il capo e aggiunse: «Non riesco a credere che una cosa del genere sia potuta succedere all'Accademia. Aspetta che Miathan venga qui! Nel frattempo» proseguì, tornando a rivolgersi ad Anvar, «vedrò cosa posso fare per aiutare questo poveretto.» «Aurian, no!» esclamò però Forral, in tono urgente. «Perché no?» ribatté Aurian, in tono di assoluto stupore. «Ho imparato da Meiriel quanto basta per risanare...» «Non si tratta di questo» la interruppe Forral. «Lui è un servo fuggiasco, e...» «Questo non fa nessuna differenza!» insistette rabbiosamente Aurian. «Ascoltami, tesoro. So che non fare nulla è difficile, ma Miathan ha il diritto di punire questo ragazzo per la sua fuga, e se vedrà cosa gli hanno fatto forse sarà meno severo con lui... senza contare che l'Arcimago dovrebbe sapere cosa succede nella sua Accademia» continuò in tono severo. «Atrocità del genere devono cessare.» Sara entrò nella propria camera da letto e sfogò l'ira che la pervadeva sbattendo la porta con tale violenza da rischiare di far tremare l'edificio fin dalle fondamenta. La dimora di Vannor era però stata costruita da maestri artigiani con i materiali migliori che era possibile trovare in commercio e per quanto lei l'avesse spinta con tutte le sue forze la pesante porta di quercia si spostò pesantemente sui cardini bene oliati e bilanciati, scivolando nell'intelaiatura con uno scatto appena udibile. Privata di quella forma di sfogo esteriore, l'ira di Sara aumentò d'intensità e nello stridere imprecazioni degne di una pescivendola lei afferrò il primo oggetto che le capitò a portata di mano... nella fattispecie un vaso di porcellana bianca pieno di giacinti e di rose invernali... e lo scagliò contro la porta che non si era piegata al suo volere. Un attimo dopo sussultò e sentì la sua ira placarsi per un attimo a causa dell'orrore destato in lei dal danno che aveva causato... il vaso infranto, il buco nel liscio pannello di legno della porta, i fiori schiacciati e rovinati e
le chiazze d'acqua che attenuavano i vivaci colori dello spesso tappeto della camera... poi tornò a squadrare le spalle in un gesto di sfida: adesso quel posto apparteneva tanto a lei quanto a Vannor e poteva trattarlo come preferiva. Vannor si meritava soltanto che lei facesse a pezzi la sua preziosa casa con le proprie mani. In preda ad un nuovo accesso d'ira, prese a camminare avanti e indietro per la stanza, senza badare ai cocci e ai fiori rovinati che ad ogni suo passo affondavano sempre più nel tappeto. Come aveva osato Vannor rimproverarla per la scortesia che aveva dimostrato nel congedarsi tanto bruscamente da quello zoticone di un soldato e da quella Maga che sembrava un incrocio fra un ragazzaccio e uno spaventapasseri? Come aveva osato darle una simile lavata di capo, per di più sotto lo sguardo sogghignante dei suoi miserabili figli? Nel pensare al marito Sara sentì però la sua rabbia che si attenuava leggermente perché in realtà quella era stata la loro prima vera lite e nei mesi trascorsi da quando si erano sposati Vannor non aveva mai alzato la voce con lei prima di quel giorno. D'un tratto si rese conto di aver agito da stupida, di essere stata troppo sicura di sé, troppo certa di averlo in suo potere, il che significava che adesso avrebbe dovuto farsi perdonare il più in fretta possibile perché lui era la sua sicurezza... la fonte della ricchezza e del lusso che la circondavano, la sua protezione contro suo padre, contro lo squallore e la povertà e le ore di lavoro incessante e faticoso, contro lo scandalo di aver concepito un figlio da un miserabile e puzzolente servo vincolato che non era migliore di un animale... L'immagine di Anvar affiorò nella sua mente e lei cominciò a tremare: lo shock di rivederlo all'improvviso dopo tanto tempo, l'orrore di sentirlo chiamare il suo nome l'avevano sconvolta completamente e la sola cosa a cui era riuscita a pensare era stata la fuga... mettere la maggiore distanza possibile fra se stessa e quello sporco e ammaccato fagotto di stracci che l'aveva chiamata con la voce di Anvar e l'aveva fissata implorante con i suoi luminosi occhi azzurri. Con mani che tremavano violentemente girò la chiave dell'armadietto laccato posto accanto al suo letto e tirò fuori una bottiglia di cristallo che proiettò bagliori arcobaleno nella stanza pervasa del chiarore del sole invernale. Quella bottiglia era la sua consolazione e il suo segreto, e lei pagava la propria cameriera perché provvedesse a riempirla e a tacere al riguardo: nelle notti in cui Vannor visitava il suo letto... cioè quasi sempre... lei aspettava che avesse finito e se ne fosse andato per poi chiudere a chia-
ve la porta e passare lunghe ore sveglia a bere vino e ad ammucchiare sul copriletto bianco tutti i suoi gioielli, osservandoli scintillare alla luce delle candele. Oh, dèi! Versato un po' di vino in un bicchiere lo bevve d'un sorso e se ne versò ancora: avrebbe dato qualsiasi cosa per poter cancellare gli eventi di quella mattina, perché adesso sapeva infine cosa ne fosse stato di Anvar. Trol aveva semplicemente affermato che lui se n'era andato e la maggior parte delle persone aveva creduto che il giovane fosse fuggito in seguito all'incidente occorso a Ria, lasciando per sempre Nexis. I genitori di Sara avevano naturalmente supposto che lui fosse fuggito per sottrarsi alle proprie responsabilità nei confronti della fidanzata e del figlio non ancora nato, e anche Sara aveva preferito vedere in quella luce la sua scomparsa, perché questo le permetteva di accettare la corte di Vannor senza fastidiosi sensi di colpa... «Ricominci con il vino, matrigna?» Sara si girò di scatto con un'imprecazione: Zanna! La figlia secondogenita di Vannor era ferma sulla soglia e come al solito la stava fissando con occhi ostili da sotto l'irregolare frangia dei suoi folti capelli castani che come sempre avevano sconfitto gli sforzi delle cameriere di tenerli in ordine. Mordendosi un labbro per l'irritazione, Sara si chiese come avesse fatto quella marmocchia ad avvicinarsi con passo tanto silenzioso. «Cosa intendi dire?» ribatté, cercando di uscire da quella situazione con la sfacciataggine: sapeva benissimo che quella ragazza la detestava... un sentimento peraltro reciproco... e l'ultima cosa di cui aveva bisogno adesso era che quella piccola disgraziata causasse altri problemi fra lei e Vannor. Antor, il figlio minore del mercante che con la sua nascita aveva sgombrato la strada a Sara, rendendo Vannor vedovo, non costituiva un problema perché era ancora troppo piccolo per sapere chi lei fosse o per preoccuparsene, e Sara non aveva dovuto fare altro che lasciarlo alle cure delle bambinaie; quanto a Corielle, la figlia maggiore, era stato facile gestire anche lei perché aveva più o meno la sua stessa età e possedeva una bellezza dorata simile alla sua. Dal momento che Corielle era anche in un'età tale da cominciare ad essere estremamente interessata agli uomini in generale, e non soltanto ai figli di ricchi mercanti che suo padre considerava pretendenti accettabili, a Sara era bastato mancare qualche volta al suo dovere di accompagnatrice e chiudere un occhio di tanto in tanto su un biglietto amoroso o su un appuntamento segreto per conquistarsi la sua fiducia. Zanna costituiva però un
problema del tutto diverso perché somigliava a suo padre e questo significava che da un lato aveva un aspetto fisico insignificante e dall'altro era decisamente troppo astuta ed esperta per i suoi quattordici anni. «La prossima volta dovresti dire a Gelda di nascondere meglio la bottiglia quando la porta di sopra» aggiunse Zanna, che pur esprimendosi in modo rispettoso con la matrigna quando Vannor era a portata di udito aveva invece sempre un tono sfrontato e beffardo nel rivolgersi a lei in privato. Serrando con forza le dita intorno al fragile bicchiere di cristallo, Sara pensò che sarebbe stata lieta di strangolare quella piccola cagna, e quando replicò lo fece con voce che tremava per l'ira contenuta. «Ascoltami bene, marmocchia... se dirai a tuo padre una sola parola al riguardo ti farò pentire di essere nata. Mi hai capita?» Sotto la cortina di capelli che tanto infastidiva Sara, la ragazza socchiuse gli occhi in un'espressione calcolatrice, dimostrando che il sangue di Vannor scorreva senza dubbio puro nelle sue vene: quella piccola smorfiosa era un mercante nato! «Potrei anche tacere» replicò infine, in tono noncurante. «Sono certa che una persona astuta come te saprebbe come ricompensare il mio silenzio.» Era decisamente troppo. «Fuori di qui!» stridette Sara. «Esci subito... e manda quassù Gelda perché ripulisca questo disastro.» Zanna abbassò lo sguardo sui frammenti di porcellana sparsi sul pavimento e d'un tratto la sua espressione compiaciuta cedette il posto ad un odio intenso che risultò sconvolgente su un viso tanto giovane. «Quello era il vaso preferito di mia madre» disse, con voce sommessa e contratta. «Per gli dèi, quanto ti odio!» E dopo aver espresso per la prima volta ad alta voce quel sentimento se ne andò, lasciando la sconvolta Sara a versarsi un altro bicchiere di vino e a chiedersi come avesse fatto quella ragazzina a sbattere con tanta efficacia la porta mentre lei non ci era riuscita. Anvar lottò per rimanere cosciente soltanto perché era terrorizzato all'idea di quello che l'Arcimago avrebbe potuto fargli se lo avesse trovato svenuto e impotente. La Signora cercò di fargli bere del brodo, puntellandolo a sedere con un braccio e accostandogli la ciotola di liquido caldo alle labbra con l'altra mano, ma lui non riuscì a inghiottire nulla perché la testa gli pulsava a causa del colpo infertogli a tradimento da Jard e aveva dolori
in tutto il corpo. Quando sentì Miathan parlare con Forral nella stanza accanto prese a dibattersi con tanta violenza che rovesciò la tazza, inzuppando di brodo se stesso e la Maga. Poi l'Arcimago entrò nella stanza e torreggiò su di lui con occhi che ardevano d'ira. «Tu!» ringhiò, protendendosi ad issare in piedi Anvar, che si ritrasse gemendo. «Miathan, no!» esclamò Aurian, in tono sconvolto. «Non interferire, Aurian» ordinò l'Arcimago, con voce tagliente. «Questo miserabile ha infranto il suo vincolo e deve essere punito.» «Punito?» stridette Aurian, incredula. «È stato punito anche troppo! Non hai visto cosa gli ha fatto Janok?» «Aurian ha ragione, Miathan» intervenne Forral. «Questo va oltre tutti i limiti della ragione.» «Tu occupati soltanto di ciò che ti compete» scattò Miathan. «Questo mi compete» ribatté Forral, accigliandosi. «È mio dovere far osservare la legge a Nexis, e anche se vi sono coinvolti i Maghi non intendo chiudere un occhio di fronte ad una simile brutalità, perché perfino un servo vincolato ha dei diritti. Che figura ci faresti se una cosa del genere venisse risaputa?» Anvar fu assalito da un impeto di speranza: lo stavano difendendo tutti e due, perfino la Maga! Miathan dal canto suo parve sconcertato, ma si riprese in fretta. «Mio caro Forral, mi hai frainteso» affermò. «È ovvio che un così sfortunato incidente non debba ripetersi, e ti garantisco che mi occuperò a fondo della cosa. Peraltro» proseguì, fissando Anvar con espressione accigliata, «è opportuno che t'informi che questo Mortale è un elemento disturbatore ed un soggetto molto pericoloso.» «A me non sembra pericoloso» dichiarò in tono secco Forral. «Questo poveretto è terrorizzato e di certo per questa volta puoi perdonarlo, Arcimago. Ha già sofferto abbastanza.» «Per favore. Miathan... fallo per me» aggiunse Aurian, fissando l'Arcimago con aria fiduciosa, e Miathan assunse una tale espressione da topo in trappola che nel vederla Anvar sarebbe volentieri scoppiato a ridere, se non fosse stato per la situazione disperata in cui si trovava. «Oh, d'accordo» borbottò infine l'Arcimago. «Al mio ritorno parlerò con Janok.» Nel sentire il nome del cuoco Anvar emise un gemito: non poteva torna-
re nelle cucine, non di nuovo! Disperato, afferrò la mano della Maga che era ferma in piedi accanto a lui e costrinse il suo corpo indebolito a sollevarsi sulle ginocchia. «Non permettere che mi rimandi là» implorò. «Lui mi ucciderà. Per favore...» «Anvar!» esclamò Miathan, con voce sferzante come un colpo di frusta, avanzando verso il giovane che si ritrasse e si nascose il volto fra le mani. «Come osi? Lascia in pace Lady Aurian.» «No!» gemette Anvar, con voce stridente. «Per favore! non farmi ancora del male!» Poi urlò quando l'incantesimo di Miathan entrò in funzione e la banda di gelida sofferenza da esso attivata gli serrò la fronte facendolo crollare a contorcersi sul pavimento. «Oh, dèi!» esclamò Aurian, inginocchiandosi accanto a lui, e il dolore svanì immediatamente. Di nuovo in grado di respirare, Anvar sollevò lo sguardo e nel leggere con chiarezza il messaggio presente negli occhi scintillanti di Miathan... Se tenti di parlare, morirai!... comprese che lui aveva rimosso il dolore prima che Aurian potesse indagare sulle sue cause. «Va tutto bene» mormorò, impotente. «Sto bene, adesso.» «Cosa diavolo è successo?» domandò Aurian, accigliandosi. «Non capisco... cosa ha inteso dire, Miathan?» domandò, girandosi verso l'Arcimago. «Non gli avrai fatto del male, vero?» «Non essere ridicola» ribatté l'Arcimago, con un'aspra risata. «È evidente che questo ragazzo è pazzo.» «A me non sembra» ribatté però Aurian, scuotendo lentamente il capo. «No, invece sono certa che sia solo terrorizzato. Tutto ciò è davvero molto strano. Da dove viene questo poveretto?» «Aurian, tutto questo è proprio necessario?» domandò con irritazione Miathan. «Lascia che lo rimandi all'Accademia, così dopo potremo forse goderci il resto della giornata.» «Miathan. non puoi rimandarlo nelle cucine» supplicò Aurian. «Non dopo quello che ha passato. Un momento... ho trovato!» esclamò, illuminandosi di colpo in volto. «Da secoli mi prometti un servitore personale. Lascia che abbia lui.» «Cosa?» tuonò Miathan. «Certamente no! È fuori discussione!» Di fronte a quel rifiuto Aurian sgranò gli occhi per la sorpresa e si alzò in piedi, affrontando l'Arcimago con espressione cocciuta.
«Non vedo perché no. A me sembra una soluzione perfetta. Per favore, Miathan.» «Aurian, no. Ti troverò un altro servitore, ma Anvar non è decisamente il soggetto adatto. Ciò di cui ha bisogno è la disciplina.» «Disciplina un accidente!» scattò Aurian. «Se vuoi il mio parere, ne ha subita anche troppa. Quello che gli serve è un po' di gentilezza.» «Questo spetta a me giudicarlo!» ribatté l'Arcimago, e l'aria stessa parve crepitare e mandare scintille mentre i due Maghi si affrontavano faccia a faccia, fissandosi con espressione irosa, e accanto a loro Anvar tratteneva il respiro. «Aurian» intervenne Forral, in tono urgente. «Forse l'Arcimago ha ragione e se lui è davvero pericoloso...» «Non cominciare!» esplose Aurian, rivoltandosi anche contro lo stupefatto spadaccino. «Mi avete nauseata tutti e due. Non sono più una bambina e non devo rimettermi costantemente alla vostra cosiddetta saggezza!» proseguì, con voce pervasa di disprezzo. «In questo caso so di avere ragione e voglio aiutare questo povero ragazzo... per il bene dell'onore dei Maghi perché è colpa nostra se si trova in un simile stato... ma invece di permettermi di fidarmi della mia capacità di giudizio voi due sapete soltanto cavillare. Siete patetici!» «Aurian!» ruggì Miathan, incupendosi sempre più in volto. «Come osi parlarmi in questo modo? Torna immediatamente all'Accademia.» «Non lo farò!» gridò Aurian. «Tu puoi anche governare l'Accademia ma non domini il mondo e non domini me! Mio padre e mia madre hanno lasciato l'Accademia, e posso fare lo stesso anch'io!» Nel sentire quelle parole Miathan sbiancò in volto, e Anvar rimase perplesso nello scorgere nei suoi occhi un bagliore di panico e nel vederlo quasi rimpicciolire fisicamente. «Molto bene, mia cara» disse infine l'Arcimago. «Dato che evidentemente significa tanto per te, Anvar è tuo.» Aurian parve presa in contropiede da quella resa improvvisa, e mentre la tensione si dissipava dalla stanza arrossì violentemente, assumendo un'espressione vergognosa. «Grazie, Miathan» mormorò. «Sei così buono con me. Non avrei dovuto perdere il controllo, e me ne dispiace.» «Dispiace anche a me» replicò Miathan, con sentimento, poi allargò le braccia e Aurian corse ad abbracciarlo. «Farò in modo che lui si comporti bene» disse. «Te lo giuro.»
«Devi farlo» annuì Miathan, fissandola con espressione grave. «Adesso sei responsabile di questo Mortale e della sua condotta. Se dovesse comportarsi male tornerà immediatamente nelle cucine. Anvar» continuò, fissando il giovane con occhi roventi, «confido che non abuserai della gentilezza di Lady Aurian.» Nell'incontrare quello sguardo minaccioso, Anvar rabbrividì. «E adesso» aggiunse Miathan, con un freddo sorriso, «prima che ti permetta di entrare al servizio di questa Signora, dovrai giurare davanti a testimoni che non tenterai più di fuggire.» Anvar s'immobilizzò. Era intrappolato! Fissando la Maga che gli stava sorridendo con espressione incoraggiante, pensò che senza volerlo lei lo aveva incatenato con la sua gentilezza perché adesso non gli restavano alternative: con il cuore oppresso dallo sgomento, diede infine la sua parola. Nel percorrere le strade innevate per far ritorno all'Accademia l'Arcimago stava ribollendo d'ira. Come aveva osato Aurian sfidarlo? E per difendere il suo dannato figlio bastardo! Nel pensarci Miathan serrò i denti: tutto quello che voleva era uccidere Anvar e seppellire per sempre quel suo errore giovanile, ma non poteva farlo perché se Anvar fosse morto il potere che lui gli aveva sottratto sarebbe andato perduto... e poiché esso gli serviva era obbligato a tenerlo in vita. Le parole di Aurian gli echeggiavano ancora nella mente: dunque lui non dominava il mondo, vero? Un giorno lo avrebbe fatto, e allora Aurian avrebbe pagato per averlo sfidato, ed era soltanto giusto che fosse Anvar a fornirgli il mezzo per punirla. D'un tratto Miathan sorrise: adesso che possedeva i poteri aggiuntivi rubati al giovane nulla poteva fermarlo e non gli rimaneva altro che aspettare il momento giusto per colpire. Il potere era la sua ossessione, e la sua più grande ambizione era quella di riportare in auge i grandi giorni del passato, quando il Popolo dei Maghi aveva usato il proprio potere per dominare sulla razza dei Mortali. Per conseguire questo fine era arrivato fino alla posizione di Arcimago mediante metodi spietati, astuti e furtivi. Lui e Geraint erano stati amici fino a quando quest'ultimo, che nutriva un sovversivo interessamento per i Mortali, era stato candidato come nuovo Arcimago; a quel punto per Miathan era stato facile organizzare «l'incidente» che aveva eliminato il suo rivale, ma nel compiere quel gesto lui non aveva fatto i conti con il senso di colpa che da allora lo aveva tormentato. Per espiare, aveva inizialmente progettato di fare di Aurian colei che gli sarebbe succeduta, ma adesso aveva sviluppato
nuovi progetti per la figlia di Geraint: la voleva come consorte, al suo fianco e nel suo letto! Nel formulare quel pensiero fu assalito da un impeto di desiderio, e al tempo stesso si sentì raggelare nel ricordare come lei avesse minacciato di andarsene. Chiamare Forral a Nexis era stato un errore, ormai era evidente. Nel farlo Miathan aveva pensato di usare Aurian come strumento per conservare il controllo del portavoce della guarnigione e la supremazia in seno al consiglio, ma quel piano gli si era ritorto contro perché a causa della sua vicinanza a quel Mortale che era per lei insegnante ed amico Aurian stava diventando sempre più intrattabile e la sua fedeltà nei confronti del Popolo dei Maghi, che era stata coltivata con tanta cura nel corso degli anni, cominciava a vacillare. Sfortunatamente, per il momento non c'era modo di risolvere quel problema, perché se lui avesse avuto parte attiva nella rimozione di Forral dalla sua vita Aurian non lo avrebbe mai perdonato. Di conseguenza Miathan era rassegnato a pazientare, certo che prima o poi avrebbe trovato l'opportunità per eliminare lo spadaccino; nel frattempo doveva però conservare a tutti i costi l'affetto e la fiducia di Aurian, in modo da poterla piegare alla propria volontà una volta che Forral fosse stato tolto di mezzo e da usare i suoi poteri per realizzare i propri scopi. Sorridendo fra sé, Miathan si disse che liberarsi di un singolo uomo non poteva essere poi così difficile: dopo tutto, Forral era soltanto un Mortale. Aurian era stanca ma soddisfatta. Questa era stata la prima volta in cui aveva messo in pratica le nozioni che Meiriel le stava insegnando, ma tutto era andato per il meglio e le lunghe ore trascorse a studiare l'intricato funzionamento del corpo umano e ad apprendere come incanalare il proprio potere per ripararne i danni e accelerarne i normali processi di risanamento non erano state vane. Anche se aveva ancora molto da apprendere il suo primo sforzo indipendente era stato un successo. Con quella considerazione, Aurian disperse gli ultimi tremolanti residui azzurri di Luce Magica che indicavano la presenza dei suoi incantesimi di risanamento. Adesso il suo nuovo servitore riposava comodamente fra lenzuola pulite in una camera che gli era stata fornita da un alquanto irritato Forral, ed era possibile vedere che i lividi stavano scomparendo in fretta dalla pelle che appariva chiara e pallida ora che era stata ripulita. Presto ogni traccia di quelle percosse sarebbe svanita, e nel formulare quel pensiero la Maga benedisse i propri poteri che avevano reso possibile un simile miracolo. In quel momento le palpebre di Anvar si sollevarono e
lei sussultò di fronte al vivido e intenso azzurro dei suoi occhi. «Come ti senti?» gli chiese. «Non ho più dolore» rispose lui. in tono meravigliato. «Non ne ho davvero più! Oh dèi, avevo dimenticato...» «Adesso non sentirai più dolore» garantì Aurian, commossa al pensiero di quanto quel giovane doveva aver sofferto. «Ci ho pensato io.» «Ma i Maghi non risanano i Mortali!» esclamò Anvar, con voce incredula. «Lady Meiriel non ha voluto curare mio nonno e lui è morto!» Conoscendo bene Meiriel, Aurian ebbe la sgradevole impressione che quell’affermazione potesse corrispondere al vero. «Ebbene» ribatté in tono deciso, «Lady Aurian risana i Mortali... e di certo tu avevi bisogno di essere aiutato.» «Signora... cosa ne sarà di me?» «Non ricordi?» rispose Aurian, rivolgendogli un sorriso rassicurante, nel tentativo di dissipare il timore che gli leggeva sul volto. «Da questo momento sarai il mio servo, e baderò io perché non ti si faccia più male in quel modo. Adesso sei al sicuro.» «Oh» mormorò Anvar, che però appariva tutt'altro che convinto. Cosa ti aspettavi da un servo vincolato? pensò fra sé Aurian. Gratitudine? Se fossi in lui probabilmente anch'io diffiderei. Questa volta Anvar riuscì a inghiottire un po' di brodo e ben presto scivolò nel sonno. Dopo aver consumato tante energie nel risanamento e aver dovuto affrontare lo sgomentante compito di ripulire il suo paziente, anche Aurian aveva bisogno di mangiare e di farsi un bagno ma indugiò per qualche momento ancora ad osservare il giovane addormentato, cercando di liberarsi dalla persistente sensazione di averlo già visto in passato. Anvar... così l'Arcimago lo aveva chiamato... era tanto alto e largo di spalle da occupare tutto il letto, ma appariva spaventosamente magro e più giovane di quanto le fosse sembrato in un primo momento, tanto che lei giudicò dovesse avere più o meno la sua stessa età. Il suo volto era malinconico anche nel sonno, con le sopracciglia leggermente corrugate e le labbra generose incurvate verso il basso; continuando nel suo esame Aurian notò che la mascella aveva una curva decisa e i fini capelli color bronzo si arricciavano sulla nuca. E i suoi occhi! Lei non aveva mai visto simili occhi in un Mortale! Entrando nella stanza, Forral la sorprese intenta a contemplare il suo paziente con espressione stranamente tenera e sì sentì sconvolgere da una violenta ondata di gelosia: cosa aveva di speciale quel dannato servo, per-
ché lei avesse dovuto difenderlo con tanto impeto, contrastando l'Arcimago... e perfino lui stesso? In quel momento Aurian sollevò lo sguardo e si rannuvolò in volto. «Non ti ho sentito entrare» osservò. «Me ne sono accorto» replicò Forral, senza riuscire ad eliminare una nota brusca dalla propria voce. «Forral, mi dispiace di aver perso il controllo con te» si scusò Aurian, sussultando. «Ti sono davvero grata per il tuo aiuto...» «A giudicare dalla fierezza con cui hai difeso le tue convinzioni... e fronteggiato l'Arcimago... hai senza dubbio un cuore di guerriera. Sai che io sarò sempre pronto ad aiutarti, Aurian. ma... pensi davvero che questa sia una buona idea?» «Forral, non ricominciare! Non riesci a capire che non sono più una bambina?» ribatté lei, e il significato recondito della sua affermazione era così palese che Forral dovette lottare contro l'impulso di ammettere di amarla e di desiderarla nella stessa misura in cui lei evidentemente lo desiderava. Ritrovando a fatica il controllo si disse però che una cosa del genere era impossibile, che c'erano delle motivazioni valide per la proibizione di unioni fra Maghi e Mortali... ragioni che Aurian non aveva preso in considerazione... e che il suo dovere era quello di proteggerla da se stessa. Costringendosi a restare impassibile davanti alla supplica nascosta nel suo sguardo, si sforzò di assumere un tono cordiale. «Ti chiedo scusa, tesoro, ma se ben ricordi mi sono preso cura di te fin da quando eri una bambinetta, e noi vecchi tendiamo a dimenticare la rapidità con cui i nostri protetti diventano adulti.» Dalla velocità con cui lei distolse lo sguardo comprese che stava cercando di nascondergli quanto le sue parole l'avessero ferita, e questo lo indusse a lasciare in fretta la stanza, richiudendosi il battente alle spalle. Appoggiandosi al liscio pannello di legno imprecò sommessamente per parecchi minuti, chiedendosi al tempo stesso per quanto tempo ancora quella situazione si sarebbe potuta protrarre. Non sarebbe mai dovuto tornare, e alla luce di come le cose si stavano evolvendo avrebbe fatto meglio a partire immediatamente, anzi in quel preciso istante... però non poteva farlo, non poteva abbandonarla di nuovo Con un sospiro si allontanò dalla porta chiusa e andò a cercare un grosso bicchiere di vino Negli ultimi tempi, infatti, questa era la sola cosa che gli fosse d'aiuto.
CAPITOLO DECIMO L'OMBRA DEL MALE Quando fece ritorno all'Accademia in qualità di servitore di Lady Aurian, Anvar scoprì che la sua vita era del tutto cambiata: adesso non doveva più sopportare le angherie degli sguatteri delle cucine, perché i servitori personali dei Maghi vivevano separati dai livelli infimi della servitù e in condizioni molto diverse. Il capo della servitù Elewin, un vecchio alto e magro dai capelli argentei e dall'espressione gentile, dirigeva i servitori di livello superiore con il pugno di ferro ma era al tempo stesso scrupolosamente onesto e non tollerava pettegolezzi fra i suoi sottoposti, ed era deciso a badare che Anvar venisse lasciato in pace dai compagni finché avesse svolto il proprio dovere e non avesse causato problemi. Adesso il giovane aveva un letto nel dormitorio della servitù, che sorgeva a ridosso della torre dei Maghi, e consumava pasti abbondanti e regolari che venivano serviti nell'adiacente refettorio... e il pensiero che Janok e i suoi cupi dipendenti adesso fossero costretti a cucinare anche per lui gli dava non poca soddisfazione. I servitori personali avevano inoltre diritto ad abiti puliti ogni giorno e poiché entravano a contatto diretto con i Maghi si richiedeva che fossero anche decorosi e dotati di buone maniere. Nonostante tutto, Anvar era però lacerato fra la gratitudine e il risentimento nei confronti della Maga che lo aveva soccorso, perché se da un lato Aurian lo aveva salvato dalle ire dell'Arcimago e aveva migliorato le sue condizioni di vita, dall'altro gli aveva chiesto di pronunciare il giuramento preteso da Miathan e lo aveva così vincolato per sempre a quel luogo. D'altro canto, lui non aveva più una vita alternativa a cui tornare adesso che Sara lo aveva respinto in maniera tanto crudele... ma come poteva biasimarla per questo dal momento che per aver atteso un figlio da lui era stava venduta in moglie a quel bruto di un mercante? Anche ammesso che avesse osato tentare di aiutarlo in presenza di Vannor, lei non aveva nessun motivo per farlo e aveva invece ogni ragione di detestarlo, con il risultato che Anvar si sentiva il cuore spezzato. Adesso non aveva più nulla, neppure la speranza, e gli restava soltanto il suo lavoro. Di conseguenza si dedicò ad esso con il massimo impegno possibile, desiderando che la sua Signora gli desse più cose da fare in modo da lasciargli meno tempo per pensare, e si guadagnò l'approvazione di Elewin che gli fu quanto mai gradita dopo gli abusi patiti per mano di Janok.
Gli altri Maghi prestavano ben poca attenzione ai servitori, e nelle poche occasioni in cui venne in contatto con loro Anvar trovò Meiriel decisa ed efficiente. Finbarr gentile ma astratto ed Eliseth fredda e piena di disprezzo; D'arvan parlava di rado e Davorshan e Bragar erano due soggetti da evitare perché Davorshan era un prepotente e in Bragar c'era una vena di crudeltà che lo portava ad abusare abitualmente dei servi, che avevano paura di lui. Perfino Elewin evitava il più possibile il Mago del Fuoco. Inizialmente Anvar si era aspettato che dopo aver deciso della sua sorte con l'arroganza tipica dei Maghi, la sua Signora avesse ben poco tempo da dedicare ad un semplice servitore, ma presto scoprì di essersi sbagliato perché Aurian aveva sempre un sorriso e una parola gentile per lui e lo ringraziava invariabilmente per i suoi sforzi. Quella sua considerazione nei confronti degli altri le fruttava però ben poco rispetto da parte del resto dei servi, cosa che lasciò Anvar tanto perplesso da indurlo a fare appello a tutto il suo coraggio e a interrogare Elewin al riguardo. «La risposta è molto semplice» replicò il capo della servitù. «Il personale dell'Accademia manca alquanto d'immaginazione, e poiché Lady Aurian differisce dagli altri Maghi a causa della sua amicizia nei confronti dei Mortali, i servi vedono questo suo atteggiamento come una violazione dell'ordine naturale dell'Accademia e la cosa li rende nervosi. Personalmente» proseguì, con un bagliore negli occhi grigi, «io invece apprezzo il suo modo di comportarsi, ma è una cosa che farai bene a non ripetere in giro, giovane Anvar. Inoltre ricorda di non confondere mai la sua gentilezza con la debolezza: se dovessi prenderti delle libertà scopriresti presto che Lady Aurian ha un carattere degno di quello di qualsiasi altro Mago.» Anvar fece tesoro di quel consiglio sia perché nutriva ancora una certo diffidenza nei confronti della sua Signora, che faceva parte dell'odiato Popolo dei Maghi ed era quindi potenzialmente infida, sia perché viveva nel timore di quello che sarebbe successo quando la storia secondo cui lui aveva assassinato sua madre si sarebbe diffusa dalle cucine negli alloggi dei servitori, finendo per arrivare... come ogni pettegolezzo... all'orecchio della sua Signora. Al tempo stesso, continuava a chiedersi per quale motivo l'Arcimago non ne avesse parlato lui stesso con Aurian, soprattutto durante la lite che avevano avuto alla guarnigione. Poi una mattina, quando ancora non era passato neppure un mese dal suo ingresso nei ranghi della servitù di alto livello, lui vide gli altri servitori sussurrare negli angoli e cominciare ad evitarlo, e comprése che il segreto era trapelato; perfino il gentile Elewin lo fissava adesso con espressione accigliata, e l'atmosfera era tale
che Anvar fu lieto di prelevare la colazione della sua Signora... una grossa tazza di taillin e i panini caldi appena sfornati che lei era solita consumare a quell'ora... e dirigersi verso il rifugio costituito dalle sue camere. La Maga si alzava presto per andare alla guarnigione ad esercitarsi con la spada, e in quelle mattine d'inverno la sua stanza era sempre fredda e buia, quindi dopo aver preparato la tavola Anvar accese le lampade e cominciò a pulire il focolare proprio mentre Aurian, che al mattino non era mai di umore eccellente, faceva il suo ingresso con aria irritata e assonnata. Cercando di rendersi il più invisibile possibile e pregando dentro di sé che le voci non le fossero ancora arrivate all'orecchio, Anvar continuò con il proprio lavoro con l'orecchio teso a registrare il rumore di passi sul pavimento alle sue spalle, lo strusciare della sedia sul tappeto e il suono gorgogliante del taillin che veniva versato dalla teiera nella tazza. Dopo qualche momento Aurian si schiarì la gola. «Anvar... voglio parlarti» disse. Il cuore di Anvar diede un balzo e il terrore che lui provava nei confronti dei Maghi tornò a insorgere più intenso che mai, con il risultato che il secchio gli sfuggì di mano e cadde al suolo con un clangore assordante, liberando una nuvola di cenere che con estremo orrore del giovane andò a depositarsi su ogni superficie della stanza. Con una rovente imprecazione la Maga si alzò di scatto dal tavolo su cui giaceva la sua colazione rovinata, e al tempo stesso Anvar si gettò tremante ai suoi piedi. «Signora, ti prego, è stato un incidente» implorò. «Certo che lo è stato» replicò Aurian, inginocchiandoglisi accanto. «Non tremare in quel modo, Anvar... mi dispiace di averti spaventato. Ero assonnata e il rumore improvviso mi ha fatta sobbalzare.» Aurian si stava scusando... con lui? Anvar sollevò lo sguardo sulla Maga con espressione stupefatta e vide che le labbra le si stavano increspando in un sorriso. «Per gli dèi» commentò Aurian, con una risatina, «sembri la progenie di un fantasma e di uno spaventapasseri!» Poi si passò le mani nella massa di folti capelli rossi e fu immediatamente avviluppata da una soffocante nube grigia. «Signora, mi dispiace terribilmente» gemette Anvar, sgomento, mentre lei tossiva e sputava. «Non ti preoccupare, rimedieremo in un momento» lo rassicurò Aurian, poi schioccò le dita e in un istante ogni frammento di cenere tornò all'interno del secchio; gettata una bracciata di legna nuova nel focolare, Aurian
provvide poi ad accenderla con un altro gesto noncurante della mano, commentando: «Noi Maghi siamo così abituati ad avere altre persone che si affannano per accudirci che tendiamo a dimenticare di poter fare le cose da soli. Adesso vieni a sederti qui vicino a me, Anvar, perché c'è una cosa che ti devo chiedere» aggiunse quindi, tornando seria. Accompagnatolo al tavolo gli versò del taillin nella propria tazza, che lui accettò con mani tremanti, e lo fece sedere di fronte a sé, incontrando il suo sguardo con il proprio. «Elewin mi ha detto che hai assassinato tua madre» affermò quindi, senza preamboli. «È vero?» Anvar si morse un labbro, non sapendo come rispondere perché era terrorizzato all'idea che dire la verità potesse far entrare in funzione l'incantesimo di Miathan e al tempo stesso era convinto che lei non gli avrebbe mai creduto. «Allora?» insistette la Maga, infrangendo il silenzio che si andava prolungando. «Perché non vuoi parlare? Di cosa hai paura?» lo incalzò quindi, protendendosi a prendergli una mano nella sua e continuando in tono gentile: «Io non riesco a credere che quel che dicono sia vero, e neppure Elewin. Quando Janok, che sostiene di esserne stato informato da Miathan, lo ha avvertito del fatto che tu saresti un assassino, lui è rimasto così perplesso e preoccupato che è venuto subito a parlarne con me. Anche a me la cosa sembra strana, Anvar, perché se fossi stato accusato di omicidio il tuo caso sarebbe stato sottoposto a Forral, il che non è mai successo. Di conseguenza voglio sentire la tua versione dell'accaduto, e se la servitù vincolata ti è stata imposta ingiustamente farò del mio meglio per porre rimedio a questa ingiustizia.» Per un momento Anvar si limitò a fissarla, incapace di credere che lei potesse essere dalla sua parte. «È inutile» rispose infine. «Mio padre aveva il diritto di sottopormi a vincolo, perché mi mancava ancora un mese per essere abbastanza adulto da essere considerato legalmente un uomo indipendente.» «E quanto al resto?» domandò Aurian, in tono sommesso. «Come avrei potuto ucciderla?» esclamò Anvar, lottando per trattenere le lacrime. «Io le volevo bene!» Con infinita pazienza Aurian lo indusse a poco a poco a raccontare la storia della morte di sua madre, anche se lui non fu in grado di spiegarle in che modo avesse spento il fuoco. «È stato un incidente» concluse il giovane, «ma si è verificato per causa
mia, quindi mio padre me ne ha dato la colpa e mi ha condannato alla servitù a vita per vendetta.» «Tuo padre è un bastardo» dichiarò Aurian, con un brivido. «No» ribatté Anvar, scuotendo il capo e sentendosi arroventare il volto per la vergogna. «Il bastardo sono io, ed è stato per questo che lui mi ha sempre odiato» spiegò, avvicinandosi alla verità quanto più gli era possibile. «Anvar!» esclamò Aurian, accentuando la stretta della propria mano intorno a quella di lui e assumendo un'espressione più intensa. «Ascoltami: anche se non posso fare nulla per annullare il tuo vincolo non intendo comunque tollerare che tu sia accusato ingiustamente di omicidio! Parlerò con Forral questa mattina stessa, e se non altro potremo riabilitare il tuo nome.» Da quel giorno il rapporto fra Anvar e la Maga subì un progressivo cambiamento. Dopo la loro conversazione Aurian chiese a Forral di indagare sulla storia che il giovane le aveva raccontato e dopo aver interrogato i bottegai della Galleria il comandante giunse alla conclusione che Ria era morta a causa di un incidente. Quando ne fu informata, Aurian annunciò pubblicamente la cosa all'interno dell'Accademia e finalmente Anvar non dovette più sopportare le occhiate in tralice e i sussurri accusatori... e soltanto quando essi scomparvero si rese conto della tensione che la falsa accusa gli aveva causato, sviluppando di conseguenza una profonda gratitudine per la sua Signora. Al tempo stesso la gentilezza di Aurian nei suoi confronti divenne ancor più accentuata, come se lei intendesse fare ammenda di persona per la sventura che lo aveva colpito: quando andava a lavorare nelle sue stanze la Maga gli chiedeva spesso di sedersi per bere in sua compagnia un bicchiere di vino oppure una tazza di taillin, e nel parlare con lei Anvar cominciò ben presto a intravedere un nuovo pericolo: durante le loro conversazioni, infatti, Aurian formulava di tanto in tanto qualche domanda sul suo passato e sulla sua famiglia, e in quei casi lui non sapeva cosa rispondere. D'altro canto Aurian era una persona con cui era così facile parlare che il giovane si trovava nel pericolo costante di scatenare il terribile incantesimo dell'Arcimago, e al tempo stesso provava a volte il desiderio di confidarle ogni cosa e di chiedere il suo aiuto, ma era trattenuto dal fatto che pur avendolo aiutato tanto lei era comunque pur sempre una Maga e la preferita di Miathan, il che gli impediva di darle completamente la sua fiducia.
Nonostante questo, con il passare del tempo Anvar iniziò a preoccuparsi sempre più per la sua Signora perché Aurian lavorava troppo intensamente, come se stesse a sua volta cercando di scacciare con l'attività le proprie preoccupazioni, e spesso al ritorno dall'addestramento con la spada o da una lezione con Meiriel aveva l'aspetto del tutto sfinito, oltre ad avere il viso velato da un'espressione di tristezza che Anvar... non essendo a sua volta estraneo a quel genere di dolore... non mancò di notare, come notò anche che lei trascorreva sempre meno tempo alla guarnigione, finendo per recarvisi soltanto in occasione dell'addestramento del mattino, cosa che lo indusse a chiedersi se la sua tristezza avesse qualcosa a che vedere con Forral. Ciò che comunque sapeva per certo era che Miathan stava turbando la sua Signora coprendola di eccessive attenzioni: con il passare del tempo l'Arcimago aveva infatti preso l'abitudine di venire a trovare Aurian alle ore più assurde... a notte tarda oppure al mattino presto quando lei si stava lavando dopo un addestramento con la spada... e oltre a questo la copriva di doni e sembrava trovare sempre qualche scusa per toccarla. Ad Anvar non era sfuggito il bagliore possessivo che brillava nello sguardo dell'Arcimago, e stava cominciando a temere per la sua Signora, oltre ad essere turbato da quelle frequenti visite a causa del suo timore nei confronti di Miathan, che con il tempo non era certo diminuito. D'altro canto, ogni volta che l'Arcimago era presente Aurian sembrava trovare una scusa per trattenere il proprio servo personale nelle sue stanze, inventando per lui una serie di compiti inutili da assolvere per evitare che se ne andasse, ed Anvar non si sentiva di biasimarla per questo... anzi, era sollevato di riscontrare in lei un certo istinto di autodifesa sebbene fosse evidente che il comportamento dell'Arcimago aveva l'effetto di confonderla: per quanto ad Anvar questo apparisse incredibile, lei vedeva infatti Miathan come una sorta di padre e non riusciva semplicemente a credere che lui potesse tradire la sua fiducia. Se Aurian era riluttante a vedere la verità, Anvar non aveva invece dubbi sull'evolversi della situazione perché mentre lavorava poteva avvertire lo sguardo di Miathan fisso sulla sua schiena e quando si girava gli capitava di coglierlo a guardarlo con occhi roventi pieni di disgusto e di ostilità... e scintillanti di un inconfondibile bagliore di minaccia. Il pensiero di contrastare l'Arcimago lo riempiva di terrore perché sapeva che Miathan non era uomo da lasciarsi ostacolare a lungo e che Aurian costituiva la sua sola protezione, in quanto l'Arcimago non era ancora tanto irritato da rischiare
di destare la sua ira privandola del suo servo personale, ma d'altro canto era consapevole che presto o tardi la situazione sarebbe esplosa non appena Miathan avesse esaurito la sua limitata riserva di pazienza. Il timore di Anvar crebbe quando di lì a poco apprese che di solito durante l'estate Aurian era solita andare a trovare sua madre: se da un lato sapeva infatti che per Aurian sarebbe stato un bene allontanarsi per qualche tempo sia da Forral che da Miathan, d'altro canto era infatti terrorizzato all'idea che lei potesse lasciarlo all'Accademia, indifeso e in potere dell'Arcimago, in quanto era certo che se lo avesse fatto al suo ritorno lui non sarebbe più stato vivo. Il giorno precedente la partenza della Maga, Anvar era seduto sul pavimento della camera da letto della sua Signora con uno straccio unto in una mano e uno dei suoi stivali da equitazione nell'altra: data un'ultima lucidata alla morbida calzatura di cuoio marrone la posò accanto all'altro stivale e si voltò con un sospiro verso gli indumenti ordinatamente ripiegati sul letto... sapeva che ci si aspettava da lui che preparasse le sacche da viaggio di Aurian, ma stava scoprendo che gli era impossibile concentrarsi su quel compito perché Aurian non gli aveva ancora detto se sarebbe potuto andare con lei, affermando che per qualche misterioso motivo Miathan non voleva permetterlo ma che sperava ancora di riuscire a persuaderlo. Anvar sapeva bene cosa questo significasse, quindi non rimase sorpreso quando sentì Aurian entrare nelle proprie stanze come un uragano e la porta richiudersi alle sue spalle con un tonfo violento seguito da una sfilza di imprecazioni; rabbrividendo, Anvar si disse che evidentemente Miathan doveva aver opposto l'ennesimo rifiuto. Senza smettere d'imprecare Aurian entrò poi nella camera da letto e si arrestò di colpo nel vederlo lì. «Anvar! Non credevo di trovarti ancora qui!» «Mi dispiace, Signora... ci sta volendo più tempo di quanto credessi.» «Non importa... tanto non c'è fretta» replicò Aurian, poi passò nella stanza principale e di lì a poco fu di ritorno con due bicchieri pieni di vino, porgendone uno ad Anvar e sedendosi sul letto mentre aggiungeva: «Mi dispiace, Anvar, ma l'Arcimago non è disposto a cedere. Non si è mai comportato così, e non so proprio cosa gli stia succedendo di recente.» Anvar cercò di nascondere la propria paura ma il bicchiere prese a tremargli in mano ed Aurian gli scoccò un'occhiata compassionevole. «Non avere un'aria tanto spaventata» si affrettò a rassicurarlo. «So che hai paura di Miathan ma durante la mia assenza non avrai modo di vederlo
spesso: la scorsa notte stavo parlando con Finbarr e lui mi ha suggerito che in questo periodo porresti aiutarlo negli archivi perché attualmente sta vagliando dei documenti ed ha troppo lavoro per una persona sola. L'idea ti piace?» Anvar si sentì assalire da un senso di vertigine dovuto al sollievo. Fin da quando aveva scoperto che lui sapeva leggere, Aurian lo aveva incaricato di organizzare le sue ricerche, quindi ormai conosceva bene Finbarr e non poteva evitare di trovarlo simpatico, per quanto fosse un Mago. Come suo servitore sapeva che sarebbe stato al sicuro e che laggiù nelle catacombe degli archivi sarebbe stato ben lontano da Miathan, ma al tempo stesso non poté evitare di chiedersi di quanto aiuto avrebbe potuto essere per Finbarr e se Lady Aurian non avesse praticamente costretto l'archivista ad accettare quella soluzione. Quando però andò a prendere servizio nella sua nuova mansione, l'aspetto sporco e disordinato di Finbarr dissipò immediatamente quei dubbi, insieme al sollievo con cui l'archivista accolse il suo arrivo. «Sei davvero una vista gradita per i miei occhi, Anvar! Aurian si era offerta di darmi una mano nel portare a termine questo spaventoso lavoro, ma io ho insistito affinché partisse come al solito. Ultimamente sono preoccupato per lei a causa del troppo lavoro che si addossa. Inoltre, tutto ciò che mi serve è una persona sona sveglia di mente e con un paio di braccia robuste... anche se il tuo aspetto non è piacevole a guardarsi quanto quello di Aurian, se mi permetti di sottolinearlo. Vieni con me... attualmente sto lavorando ai livelli inferiori» proseguì, mostrando con una smorfia le mani impolverate. «Laggiù ci sono cose che non sono state smosse per secoli.» I giorni di assenza di Aurian passarono in fretta per Anvar, che si trovò a svolgere per Finbarr un lavoro più faticoso di quello che faceva per la sua Signora ma rimase al tempo stesso affascinato dal compito di dividere e di catalogare quegli antichi documenti al fine di permettere a Finbarr di portare avanti le ricerche sul suo argomento preferito, la storia antica del Popolo dei Maghi, e mostrò per essi un interesse che l'archivista... più che mai contento di avere la sua assistenza... fu pronto ad incoraggiare. «Se consulti gli annali, ragazzo mio» disse ad Anvar, «scoprirai che ogni archivista aveva una sua particolare ossessione. La posizione che io occupo è un po' strana in quanto i poteri magici di chi la detiene hanno poca importanza in rapporto ad essa, a parte il fatto che possono essere usati per portare avanti il lavoro da svolgere. I miei poteri, per esempio, abbracciano
soprattutto l'Aria e il Fuoco mentre il mio predecessore era una Maga dell'Acqua: il lavoro da lei svolto per eliminare l'umidità da questi livelli inferiori è stato preziosissimo, per non parlare del suo amore per l'ordine e della sua insaziabile sete di sapere, che sono le qualità fondamentali di un archivista!» Mentre lavoravano, Anvar ascoltava con piacere Finbarr esporre le sue teorie in merito alle guerre disastrose intraprese dall'antico Popolo dei Maghi. «Nella distruzione dell'Antica Nexis sono andate perdute così tante cose» era solito dolersi l'archivista. «Sai, nelle vecchie cronache ci sono alcuni vaghi accenni privi di prove concrete secondo cui a quel tempo noi non saremmo stati l'unica razza di Maghi. Naturalmente sappiamo che a quell'epoca esisteva il Popolo dei Draghi, anche se abbiamo scarse conoscenze in merito, ma certe fonti... purtroppo screditate come eretiche dai precedenti archivisti... lasciano intendere che il Cataclisma sia stato inizialmente avviato da un Mago che era in grado di volare, e altri ancora alludono al fatto che a quel tempo esistessero Maghi che potevano vivere sotto il mare e che tutte queste razze abbiano avuto parte nella creazione delle quattro leggendarie Armi degli Elementi... se soltanto potessi trovare qualcosa che riesca a ridurre la nostra ignoranza in merito a quell'epoca! Se sono davvero esistiti, i quattro Manufatti del Potere devono di certo essere ancora da qualche parte nel mondo, e se dovessero cadere nelle mani sbagliate la storia si potrebbe ripetere...» Pur rifiutando di perdere il sonno per la paura di un possibile nuovo Cataclisma, Anvar si augurava peraltro che Finbarr riuscisse a trovare quello che cercava, perché sebbene quella ricerca portata avanti per il puro amore del sapere con assoluta indifferenza per la povertà e le sofferenze di tanti Mortali avrebbe avuto una volta l'effetto di destare la sua ira, adesso sapeva che gli sforzi dell'archivista erano benintenzionati e al tempo stesso doveva ammettere in tutta onestà di trovare contagioso l'entusiasmo di Finbarr. In una luminosa e fresca mattina che portava con sé il presagio del cambiamento di stagione, Finbarr decise che era giunto il momento di affrontare il livello più basso degli archivi. «Devo sfruttare al massimo il tuo aiuto prima che torni Aurian» spiegò con un sorriso. «Ormai dovrebbe rientrare da un momento all'altro, e se devo essere sincero mi sto chiedendo cosa direbbe se decidessi di rubarti definitivamente a lei.»
Per un momento Anvar si sentì indotto in tentazione da quell'idea perché si era divertito ad aiutare l'archivista e soprattutto perché durante il periodo dell'assenza di Aurian non aveva mai visto l'Arcimago. Come servo di Finbarr sarebbe di certo stato più al sicuro e si sarebbe anche sottratto al tormento delle visite che Miathan faceva alla sua Signora... ma nonostante queste considerazioni avvertì una profonda riluttanza a lasciare Aurian: negli ultimi tempi si era infatti trovato ad aspettare di giorno in giorno il suo ritorno, e alla fine era stato costretto a giungere alla stupefacente conclusione che sentiva la sua mancanza! Guidato da Finbarr, si addentrò con lui in un labirinto di passaggi e di scale che era stato scavato nella roccia viva del promontorio, e ben presto si lasciarono alle spalle i livelli superiori in cui l'archivista aveva disposto una serie di cristalli luminescenti, finendo per avere come sola fonte di luce una sfera luminosa iridescente che Finbarr teneva davanti ad entrambi e che proiettava tutt'intorno giochi di ombre che sussultavano e danzavano come marionette sulle rozze pareti di pietra. «Ho pensato di cominciare da qui» annunciò Finbarr, abbassandosi per oltrepassare una soglia ad arco priva di battente, ed Anvar lo seguì in una piccola stanza di pietra piena di fatiscenti scaffali di legno: il locale era coperto da uno strato di polvere e di ragnatele, molti scaffali erano crollati sotto il peso dei documenti riposti su di essi e adesso pergamene e carte erano sparse sul pavimento in mucchi irregolari. «Ionor il Saggio mi è testimone che il mio predecessore ha trascurato in maniera vergognosa questi livelli» sospirò Finbarr. «Anvar, amico mio, temo che ci vorrà parecchio tempo a rimettere tutto in ordine, quindi è meglio cominciare subito» aggiunse, frugandosi nelle tasche della tunica, poi contrasse la bocca in una smorfia di irritazione ed esclamò: «Dannazione! Ho dimenticato di portare con me dei cristalli che ci facciano luce mentre lavoriamo!» «Andrò a prenderli, signore» si offrì Anvar. «So dove li tieni.» «Lascia perdere. Tornare su fino alla biblioteca e poi ridiscendere fin quaggiù ti porterebbe via troppo tempo, e poi è un percorso difficile per chi non lo conosce e Aurian non mi perdonerebbe mai se ti perdessi qui nelle viscere della terra, quindi ce la caveremo diversamente» replicò Finbarr, con uno scintillio divertito nello sguardo, poi lanciò la sfera di luce verso il soffitto, ma essa andò troppo in alto e s'infranse contro la superficie di pietra con un'esplosione di scintille, facendo piombare l'intera camera nel buio più assoluto.
«Dannazione, lo faccio sempre!» imprecò nell'oscurità la voce di Finbarr, resa aspra dall'irritazione. Accanto a lui Anvar sussultò, perché anche se era sempre stato in grado di vedere bene al buio non aveva mai sperimentato un'oscurità così assoluta, che sembrava incombere su di lui come se l'intera mole della collina stesse gravando sulle sue spalle: in preda al panico si volse per fuggire ma inciampò con un piede in un mucchio di pergamene e perse l'equilibrio, cadendo con violenza contro una parete. Gli scaffali che lo sovrastavano collassarono in una valanga di carta e di schegge di legno, e al tempo stesso un'intera sezione di parete cedette sotto il suo peso, sgretolandosi in una nube di polvere e con un fragore di pietra che crollava. Immediatamente Finbarr creò un'altra sfera di luce. «Per gli dèi, Anvar. guarda cos'hai trovato!» esclamò, con il volto senza età splendente per l'eccitazione. Districandosi dalle macerie Anvar si ripulì dalla polvere e dai detriti, e nel guardarsi intorno si accorse che al di là della parete crollata c'era una camera... no, una grotta, sul cui lato opposto si intravedeva una galleria che prometteva la possibilità di svelare ulteriori segreti! Con un'espressione rapita negli occhi scintillanti d'entusiasmo Finbarr stava intanto contemplando i tesori che erano ammucchiati nel nuovo ambiente: antichi volumi la cui rilegatura dorata brillava al chiarore della sua sfera di Luce Magica erano accumulati dentro cassapanche e sparsi sul pavimento, come se fossero stati abbandonati laggiù in tutta fretta, in un angolo c'erano arazzi e parecchi manufatti... che dall'aspetto sembravano essere oggetti personali... erano accatastati contro la parete opposta. In quel momento uno splendido calice dorato cadde dalla cima del mucchio e rotolò sul pavimento in direzione di Anvar, che si protese in avanti per prenderlo ma venne spinto indietro da Finbarr. «Aspetta! Qui c'è della magia! Questo posto è protetto» avvertì il Mago, afferrandolo per un braccio e trascinandolo di nuovo nella camera esterna. «Se non mi sbaglio, hai appena fatto la scoperta più preziosa della nostra epoca. Dobbiamo chiamare immediatamente l'Arcimago!» Prima di entrare nella Torre dei Maghi Aurian lasciò vagare a lungo lo sguardo sul familiare cortile dell'Accademia e decise di essere contenta di essere tornata, perché anche se aveva goduto della visita ad Eilin aveva sentito spaventosamente la mancanza di Forral ed era stata in costante preoccupazione per Anvar, chiedendosi come lui se la fosse cavata durante la
sua assenza. Nel pensare a questo si domandò ancora una volta per quale motivo il giovane avesse tanta paura di Miathan e perché l'Arcimago sembrasse aver sviluppato nei suoi confronti una così manifesta antipatia: il suo atteggiamento avrebbe potuto essere inizialmente giustificato dalla convinzione che il giovane fosse stato davvero colpevole della morte di sua madre, ma in tal caso perché Miathan non aveva modificato il suo comportamento una volta che il nome del giovane era stato riabilitato? Nel trascinare le pesanti sacche da sella su per le scale della torre, Aurian si sorprese a desiderare che Anvar fosse lì per aiutarla e si rese conto di essere rimasta in un certo senso delusa di non averlo trovato nel cortile ad aspettarla. «Aurian, sei un'idiota» disse a se stessa, affannando per la salita. «Come poteva sapere che stavi arrivando? E poi lui ha cose più importanti da fare che aspettare te.» Poi entrò nelle sue stanze e si dimenticò completamente di Anvar perché trovò Miathan ad aspettarla. «Carissima Aurian!» esclamò l'Arcimago, venendo avanti con le mani protese in un gesto di benvenuto. «Dalla mia finestra ti ho vista entrare nel cortile. Come sono contento che tu sia arrivata a casa senza problemi!» Lasciando cadere le sacche da sella Aurian si affrettò a indietreggiare di fronte a quel saluto così entusiastico, poi s'irrigidì in preda al panico quando le braccia di Miathan la circondarono. Come aveva fatto l'Arcimago ad entrare nelle sue stanze, considerato che lei e Anvar erano gli unici ad averne le chiavi? Era forse successo qualcosa al suo servitore? Al tempo stesso si ritrasse con disgusto di fronte all'innaturale scintillio degli occhi di Miathan. all'eccitazione che rendeva irregolari i suoi movimenti: mentre era lontana era stato facile convincersi che lo strano comportamento dell'Arcimago era stato soltanto frutto della sua immaginazione, ma all'improvviso stava scoprendo che non era così, e adesso infine lui era riuscito a sorprenderla sola. Nel lasciare la biblioteca Anvar vide il cavallo di Aurian che attendeva pazientemente davanti alla porta della Torre dei Maghi e di colpo si dimenticò della stupefacente scoperta effettuata nelle catacombe. «La mia Signora è tornata!» esclamò con gioia, e attraversò di corsa il cortile per poi salire a precipizio le scale della torre, seguito dal sorridente Finbarr. «No! Allontanati da me, Miathan!» stridette con rabbia la voce di Aurian
nel momento stesso in cui Anvar e Finbarr arrivarono al suo alloggio. Sussultando per l'orrore nel sentir nominare l'Arcimago, Anvar abbassò freneticamente la maniglia e quando scoprì che la porta era bloccata si scagliò senza riflettere contro di essa, picchiando con violenza contro il pannello di legno. Dall'interno giunse un'esclamazione irosa dell'Arcimago, che un momento più tardi spalancò la porta e apparve sulla soglia, con il bordo della veste lacero e bruciacchiato, le mani coperte di vesciche e nere di fuliggine, e il volto livido per l'ira. «Come osi interrompermi?» ringhiò, sollevando una mano per colpire, ma Finbarr si affrettò a interporsi fra l'Arcimago e la sua preda, e dentro di sé Anvar benedisse l'archivista per la sua presenza di spirito nel vedere Miathan riabbassare in fretta la mano con un'imprecazione soffocata. «Sono stato io a interromperti, Miathan» affermò Finbarr con estrema calma, come se non ci fosse stato nulla che non andava. «Devi scusare l'eccitazione di questo servo, ma abbiamo appena fatto negli archivi una scoperta incredibile che devi venire a vedere immediatamente.» Senza attendere risposta spinse quindi da parte lo sconcertato Arcimago ed entrò nella stanza, seguito da Anvar che si arrestò in preda allo sgomento alla vista della sua padrona. Aurian era in un angolo della stanza, con le spalle addossate alla parete, gli abiti laceri e gli occhi che scintillavano per l'ira; l'intricato intreccio in cui erano raccolti i suoi capelli si era sciolto e adesso essi ricadevano in una marea fiammeggiante fin quasi al pavimento, e in una mano incurvata come un artiglio lei serrava una fiammeggiante sfera di fuoco... certo non la prima che aveva creato a giudicare dal solco bruciacchiato che spiccava sul tappeto. Nel veder sopraggiungere Finbarr e il suo servitore la Maga lasciò lentamente spegnere la fiamma fra le dita e si appoggiò all'indietro contro la parete, pallida e tremante. «C'è qualcosa che non va, Aurian?» domandò Finbarr, posando al tempo stesso una mano sul braccio di Anvar, che si era irrigidito per l'ira, e scoccando una dura occhiata all'Arcimago. «Un semplice esperimento con la Magia del Fuoco che è sfuggito al controllo» spiegò con calma quest'ultimo, scrollando le spalle. «Quando sei arrivato stavo cercando di aiutarla.» «Devo chiamare Meiriel?» insistette Finbarr, continuando a rivolgersi a Miathan ma tenendo lo sguardo fisso su Aurian. «Non sarà necessario» scattò Miathan, poi tornò a mostrarsi sorridente e rilassato e nel girarsi verso la porta aggiunse: «Allora, vogliamo andare a
dare un'occhiata alla tua stupefacente scoperta? Sono certo che anche Aurian si vorrà unire a noi.» Quell'ultima affermazione era praticamente un ordine, e da questo Anvar comprese che l'Arcimago era riluttante a lasciare Aurian. «Lei ci seguirà quando si sarà ripresa» ribatté Finbarr, con sfacciata disinvoltura. «So quanto possono essere stancanti questi... esperimenti. Andiamo. Arcimago, non abbiamo tempo da perdere» proseguì, spingendo Miathan fuori della stanza; non appena lui fu uscito, l'archivista si girò con espressione accigliata verso Anvar e prima di andarsene a sua volta sussurrò: «Abbi cura della tua padrona. A Miathan ci penserò io.» Non appena lei ed Anvar furono soli, Aurian attraversò la stanza e si lasciò cadere sul divano, tremante. «Mi stava aspettando» sussurrò, nascondendosi il volto fra le mani. «Quando sono tornata era già qui. Lui... lui è parso impazzire, Anvar! ha detto che aveva pazientato anche troppo a lungo. Oh, dèi!» esclamò quindi, con un sussulto che era quasi un singhiozzo. «Come ha potuto farlo? Per me era come un padre!» Non sapendo come aiutarla, Anvar le versò un bicchiere di vino e quando lei l'accettò con gratitudine s'inginocchiò ai suoi piedi, riuscendo a stento a tollerare l'espressione addolorata e inorridita dei suoi occhi. «Signora... lui non ha...» cominciò, incerto. «No» ripose con voce tremante Aurian, scuotendo il capo. «Però ci ha provato con determinazione, ed è stato un bene che sapessi difendermi!» Nel vedere nei suoi occhi il bagliore delle lacrime Anvar si sentì assalire da un sorprendente impeto di protettività nei suoi confronti e osò prenderle le mani nelle proprie. «Non ti preoccupare, Signora» la confortò. «Finbarr ha visto quello che è successo e ha detto che parlerà lui con l'Arcimago. Inoltre» aggiunse, con una nota intensa nella voce, «Miathan non avrà un'altra occasione... ci penserò io! Qualsiasi cosa lui dica resterò accanto a te e non ti lascerò mai sola in sua compagnia, te lo prometto.» «Te ne sono grata, Anvar. So quanto sia difficile per te a causa della paura che nutri nei suoi confronti... e dopo l'episodio di oggi comincio a capire il perché del tuo timore» rispose Aurian, con un brivido. «Andrà tutto bene, Signora» garantì Anvar, desiderando di riuscire a dare un tono più sicuro alla propria voce. «Di certo Miathan non potrà tentare nulla davanti ad un testimone.» «Spero che tu abbia ragione» sospirò Aurian, «altrimenti non so proprio
cosa farò.» CAPITOLO UNDICESIMO IL DUELLO Nel guardarsi intorno mentre percorreva le strade deserte che portavano alla guarnigione Aurian si disse che era ormai giunto l'autunno: la giornata era limpida e serena ma i primi raggi di sole che stavano accarezzando con dita dorate i tetti della città apparivano ora più pallidi e l'aria era fresca e pungente a tal punto che lei aveva deciso per la prima volta da mesi di indossare il mantello ed era contenta di averlo fatto. Miathan gliene aveva regalato uno nuovo di spessa e morbida lana tinta del suo colore preferito, verde smeraldo, ma esso pendeva dimenticato da un piolo dietro la porta della sua stanza perché lei preferiva usare il vecchio e robusto mantello da soldato di Forral, fatto di lana di pecora montana. Sapeva che era una cosa sciocca, ma indossare quel mantello da lui scartato le dava l'impressione di averlo più vicino, soprattutto adesso che lo spadaccino continuava a mantenere fra loro una distanza discreta ma invalicabile, portandola sempre più vicina alla disperazione. Lo amava da così tanto tempo, fin dalla sua infanzia, e adesso che sapeva ciò che allora aveva ignorato... e cioè che ad un Mago era proibito amare un Mortale... ormai era troppo tardi: come avrebbe mai potuto amare chiunque altro? Questa linea di riflessione la riportò al suo problema più immediato e pressante: Miathan. Fin da quando l'aveva presa come sua allieva. l'Arcimago l'aveva trattata come una figlia preferita e lei lo aveva amato e rispettato come tale, ma gli eventi del giorno prima avevano cambiato ogni cosa e nel ricordarli Aurian si sentì percorrere da un brivido, incapace di liberarsi dalla sensazione di essere un qualche modo sporca. Anche se non aveva mai avuto un amante aveva ricevuto in quel campo un'esauriente educazione teorica da parte dei suoi amici della guarnigione, e l'idea di dividere il letto con Miathan la riempiva di repulsione, così come la fiducia che aveva nutrito nei suoi confronti, già minata dalla crudeltà che lui aveva dimostrato nei confronti di Anvar, era ormai scomparsa completamente, tanto che lei cominciava a chiedersi se Miathan avesse deliberatamente mentito nell'affermare che il servo era un assassino. Comunque fosse, lei sapeva che non sarebbe mai più riuscita a fidarsi dell'Arcimago e che adesso il suo rapporto con lui era alterato da una sfumatura di timore. La notte precedente, sulla scia dell'eccitazione causata dalla scoperta fatta da An-
var, lei era riuscita ad evitare di rimanere sola con Miathan, ma per quanto tempo ancora avrebbe potuto continuare ad evitarlo, considerato che lui era la persona più potente della città e che poteva prendere tutto quello che voleva? A parte Finbarr, non osava confidarsi con nessuno dei Maghi, perché se Miathan aveva nutrito quelle intenzioni nei suoi confronti fin dall'inizio era possibile che chiunque fra loro facesse parte del complotto, considerato che essere prescelta dall'Arcimago era considerato un onore tanto grande che Eliseth sarebbe stata disposta a dare il braccio destro per ottenerlo. Per un momento pensò di discutere della cosa con Maya, ma fu trattenuta dalla certezza che in quel caso Forral avrebbe scoperto tutto, mentre lei non voleva che questo accadesse in quanto non aveva difficoltà ad immaginare la sua reazione... e Forral non poteva tenere testa all'Arcimago. È inutile, pensò con disperazione. Dovrei lasciare Nexis e tornare nella Valle. Anche se quella era l'unica alternativa accettabile, il solo prenderla in considerazione le faceva salire le lacrime agli occhi. Come poteva andarsene? Che ne sarebbe stato di Anvar senza di lei? D'altro canto lui apparteneva all'Accademia e non le sarebbe mai stato permesso di portarlo con sé... e al tempo stesso non poteva certo lasciare Finbarr e Maya e Parric e Vannor... e Forral! Come poteva tollerare di perderlo ancora? Sotto il peso della stanchezza derivante dallo shock del giorno precedente e dalla notte insonne, i suoi pensieri continuavano ad agitarsi in un circolo vizioso dettato dall'angoscia, senza arrivare a trovare una soluzione. Assorbita nei suoi problemi, oltrepassò la grande porta di pietra della guarnigione senza quasi rendersene conto e sentì troppo tardi un battito di zoccoli che si avvicinava al galoppo: ciò che la salvò fu soltanto il suo addestramento... abbinato ad un cieco istinto. Nel tuffarsi sotto il ventre del cavallo, con un piede ancora nella staffa e una mano che stringeva le redini e il pomo della sella avvertì sopra la testa lo spostamento d'aria prodotto da una spada, e al tempo stesso si servì della mano libera per estrarre la daga e tagliare la cinghia della sella della cavalcatura che le stava passando accanto, issandosi poi di nuovo in posizione eretta e facendo girare di scatto il proprio cavallo in tempo per vedere la sella dell'altro che si rovesciava da un lato e scaricava il cavaliere nella polvere del terreno di parata. Soddisfatta, Aurian sogghignò mentre Parric. che negli ultimi tempi si era incaricato del suo addestramento, cominciava a imprecare restando seduto per terra.
«Ti ho preso!» gongolò Aurian, momentaneamente dimentica dei suoi problemi. «Mi devi una birra, Parric.» Il piccolo cavalleggero le scoccò un'occhiata acida e sputò una boccata di polvere. «Pah! Altro che una birra! Sei stata così dannatamente lenta che se lo avessi voluto avrei potuto tagliarti la testa.» «Sciocchezze» ribatté Aurian. «Se le cose stanno così, cosa ci fai laggiù? Avanti, ammetti che ho vinto io.» «Non hai vinto!» «Invece sì!» ribadì Aurian, e nel guardarsi intorno in cerca di sostegno vide Maya che nel campo di tiro con l'arco situato sul lato opposto del terreno di parata stava osservando D'arvan esercitarsi nel tiro insieme a Fional, il miglior arciere della guarnigione. «Maya, vai visto com'è andata?» gridò quindi. «Ho vinto io, vero?» Il comandante in seconda di Forral... una giovane donna snella e bruna di capelli, la cui bellezza delicata e luminosa nascondeva riflessi fulminei e uno stile di combattimento fra i più aggressivi e pericolosi che Aurian avesse mai visto... era alta circa un metro e sessanta ma non aveva problemi a mantenere l'ordine perché anche il più massiccio fra i soldati temeva la sua lingua tagliente. Fra sconosciuti lei appariva però silenziosa e timida, e in genere preferiva la compagnia di pochi amici intimi, della cui cerchia Aurian era entrata a far parte fin da quel primo incontro al Daino Veloce. Da allora, Maya sembrava aver sviluppato una simpatia per i Maghi in generale, a giudicare dal fatto che lei e D'arvan erano diventati inseparabili da quando questi aveva cominciato a venire alla guarnigione con Aurian. Dal canto suo, Aurian era lieta che il giovane e timido mago avesse trovato degli amici al di fuori dell'Accademia, perché la defezione di Davorshan a favore di Eliseth lo aveva ferito terribilmente. Le prime visite di D'arvan fra i Mortali della guarnigione erano state caratterizzate da una tensione e da un imbarazzo tale che Aurian aveva disperato della riuscita del suo piano, ma alla fine la timidezza di D'arvan era stata sconfitta dalla scoperta del suo incredibile talento per il tiro con l'arco, e di lì a poco Maya si era conquistata la fiducia del giovane Mago e aveva liberato Aurian da ogni preoccupazione nei suoi confronti. Al tempo stesso fra i due gemelli era parsa instaurarsi una tregua, perché anche se si erano trasferiti in alloggi separati entrambi avevano dato l'impressione di essersi rassegnati alle divergenze di vedute che avevano creato quella frattura fra loro, e Aurian aveva scoperto con sua sorpresa di aver trovato un altro amico all'Ac-
cademia e proprio dove meno si sarebbe aspettata di scoprirne uno. D'un tratto la voce di Parric la riportò con la mente al presente. «Allora, l'avete sentita... ha vinto?» Fional si limitò a scrollare le spalle e D'arvan agitò con distrazione una mano nella loro direzione perché era troppo concentrato sulla sua esercitazione, ma Maia venne verso di loro con un sorriso sulle labbra. «Parric ha ragione nell'affermare che sei stata troppo lenta» disse ad Aurian. «Visto?» gongolò il cavalleggero, mentre Aurian si oscurava in volto. «Però sei stata efficace» proseguì intanto Maya. «Tagliare la cinghia della sella è stato il trucco più intelligente che abbia visto da secoli! Affronta la realtà, Parric, l'hai addestrata troppo bene. Per me ha vinto Aurian.» «Ah!» esclamò Aurian. «Te l'avevo detto.» «Dannate donne» commentò il cavalleggero, in tono disgustato, rialzandosi e cominciando a spolverarsi i vestiti. «Sono sempre solidali fra loro!» Nel frattempo Aurian smontò di sella con un sorriso, pensando che uno spettatore esterno sarebbe rimasto inorridito di fronte ad una scena come quella che si era appena verificata, mentre per gli uomini della guarnigione simili attacchi a sorpresa costituivano un evento comune perché i soldati erano una sorta di famiglia molto compatta. Insieme pattugliavano la città e i suoi dintorni, affrontavano qualsiasi problema si presentasse, combattevano le battaglie a le guerre che il consiglio riteneva necessarie ed erano consapevoli in ogni momento dei pericoli connessi alla loro professione, il che spiegava gli scherzi potenzialmente letali che si facevano a vicenda, spingendo per amicizia loro stessi e i loro compagni al limite massimo delle rispettive capacità al fine di perfezionare l'abilità reciproca e di aumentare le loro probabilità di sopravvivenza. Grazie ai Forral e ai suoi compagni d'armi, adesso lei era una combattente migliore di quanto fosse mai stata, e aveva la loro amicizia che ai suoi occhi valeva più dell'oro. D'un tratto si accorse che Maya le stava parlando. «Cos'hai detto?» domandò. «Ti ho chiesto com'è andata la visita a tua madre.» «Oh, non lo so... come al solito, mi pare» replicò Aurian, trovando difficile credere di essere tornata appena il giorno precedente. «Questa mattina i tuoi pensieri sono davvero altrove» commentò Maya, prendendola sottobraccio e avviandosi con lei verso l'edificio simile ad un granaio che ospitava la palestra di scherma della guarnigione. «Come probabilmente D'arvan ti avrebbe detto se fossi riuscita a disto-
gliere la sua attenzione dal tiro con l'arco, sono rimasta alzata tutta la notte» replicò Aurian. «All'Accademia c'è una notevole eccitazione perché Finbarr ha trovato sotto gli archivi alcune grotte piene di antichi documenti che potrebbero contenere la storia del Popolo dei Maghi precedente al Cataclisma.» Nel sentir menzionare quelle remote guerre magiche che per poco non avevano distrutto il mondo Maya rabbrividì e tracciò un segno di protezione contro il male. «Dèi!» esclamò. «Credevo che fosse andato tutto distrutto.» «Lo credevamo tutti, ma a quanto pare qualcuno ha avuto il buon senso di nascondere quella roba in un posto sicuro. Anche se l'Accademia di quell'epoca è stata rasa al suolo insieme al resto della città, quei manufatti sono sopravvissuti ai secoli» affermò Aurian. «Abbiamo impiegato metà della notte per dissipare gli incantesimi che proteggevano il tutto, ma quando abbiamo provato a toccare quegli oggetti essi hanno cominciato a disintegrarsi ed è stato necessario dedicare il resto della notte ad incantesimi di conservazione per non perdere ogni cosa.» «Se vuoi il mio parere, avreste fatto meglio a lasciare tutto com'era» dichiarò Maya, in tono cupo. «Ricorda le mie parole, Aurian: dissotterrare antiche malvagità non porterà nulla di buono.» Nell'udire le parole dell'amica Aurian fu assalita da una sorta di formicolio ed ebbe l'impressione che l'aria s'incupisse come per l'incombere del presentimento di una catastrofe imminente. D'un tratto fu scossa da un brivido. «Cosa c'è che non va?» domandò Maya. «Nulla, sono soltanto stanca» replicò Aurian, cercando di convincersi che era davvero così. «Sei certa di poter combattere questa mattina?» chiese Maya, in tono ansioso. «Sai bene che la stanchezza porta a commettere errori.» «Per il Grande Chathak!» esclamò Aurian, arrestandosi di colpo. «Me n'ero dimenticata!» «Splendido» commentò Maya, in tono asciutto. «Quest'anno Forral sceglie proprio te fra tutta la guarnigione come sua avversaria nel duello dimostrativo per le nuove reclute e tu te ne dimentichi. Si tratta di un onore che viene concesso soltanto al guerriero migliore, quindi non mi meraviglia che una cosa così insignificante ti sia sfuggita dalla mente!» «Oh, smettila, Maya!» scattò Aurian. «Vedo che restare alzata tutta la notte non ha alterato il tuo leggendario
cattivo umore del primo mattino!» scherzò la guerriera, poi tornò a farsi seria in volto e aggiunse: «Scusami, Aurian, è evidente che qualcosa ti turba... senti, ne vuoi parlare? Ne abbiamo tutto il tempo, perché anche oggi Forral ha dormito più del dovuto» osservò con una smorfia. Aurian sospirò, tentata a sfogare le sue preoccupazioni con l'amica, poi ritrovò a fatica il controllo. «Ti ringrazio, Maya, ma è una cosa che devo risolvere da sola» disse. «Se ne abbiamo il tempo, però, mi andrebbe di bere un po' di taillin.» Mentre sedevano nella sala mensa deserta, con una tazza fumante stretta fra le mani, Maya tornò all'attacco. «Non si tratta di questa faccenda con Forral, vero?» domandò. «Cosa?» esclamò Aurian, pensando per un momento che l'amica avesse scoperto i suoi sentimenti nei confronti dello spadaccino, supposizione però subito confutata dalle parole successive di Maya. «È riuscito a nascondere la cosa alla maggior parte della guarnigione» disse infatti la guerriera, «ma nessuno può bere quanto fa lui senza che prima o poi la cosa risulti evidente.» «Da quanto tempo va avanti questa storia?» chiese Aurian, con un senso di sgomento. «Settimane... addirittura mesi» replicò Maya, con una scrollata di spalle. «Ultimamente però la situazione è peggiorata, e come amica di Forral e suo vice comincio ad essere preoccupata. Sta perdendo la prontezza, Aurian, e tu sai come funzionano le cose qui da noi: prima o poi qualcuno tenterà con lui uno scherzetto come quello che Parric ti ha giocato questa mattina e Forral finirà per restare ferito.» D'un tratto Maya s'interruppe nel notare l'espressione inorridita di Aurian, poi esclamò: «Dannazione alla mia grossa bocca! Non ne sapevi nulla, vero?» «Non ti preoccupare» la rassicurò Aurian, con voce debole. «Vorrei anzi che me ne avessi parlato prima, perché forse io potrò indurlo a ragionare.» «Ti ringrazio, Aurian. Scusami se ti ho addossato questo fardello, ma può darsi che a te dia ascolto. Lui...» D'un tratto Maya tacque, socchiudendo gli occhi, poi si alzò bruscamente in piedi e concluse: «Avanti, è ora di andare.» Le file di panche di legno disposte intorno alla sala di scherma erano piene al massimo della loro capienza, occupate in parte dalle nuove reclute che sedevano da un lato della sala e per il resto dai membri della guarnigione che in quel momento non erano in servizio, in quanto l'annuale dimostrazione di combattimento mediante un duello senza limiti o regole era
un modo per mostrare ai nuovi venuti cosa si potevano aspettare ed era al tempo stesso un'occasione spettacolare: nessuno infatti voleva perdere l'opportunità di vedere in azione il più grande spadaccino del mondo... soprattutto quest'anno. Per ognuna di quelle esibizioni Forral sceglieva sempre come suo avversario il guerriero migliore, e anche se nello scegliere Aurian aveva rischiato di essere accusato di favoritismo i suoi soldati sapevano bene che in effetti non era così, con la conseguenza che le abituali scommesse (del tutto illegali) sul risultato del duello stavano registrando livelli più elevati del solito. Quando entrò nell'arena. Aurian vi trovò un'atmosfera densa di eccitazione. Per quanto la riguardava aveva effettuato i necessari esercizi fisici e di meditazione per preparare il corpo e la mente allo scontro imminente, ma quando Forral arrivò a sua volta si sorprese a scrutarlo con preoccupazione: a parte un certo gonfiore intorno agli occhi lui però sembrava abbastanza in forma e dopo qualche istante Aurian si costrinse a allontanare ogni pensiero dalla mente allorché lei e lo spadaccino... vestiti con un'identica tenuta formata da giustacuore, calzoni e stivali di cuoio... s'inchinarono formalmente uno all'altra e diedero inizio al duello. Sapendo che non era il caso di esporsi prematuramente con un guerriero del calibro di Forral, Aurian iniziò a girargli cautamente intorno fino a quando lui effettuò un affondo improvviso e trovò nella sua difesa un'apertura che lei avrebbe potuto giurare non essere presente, sfiorandole con la punta della spada il giustacuore appena al di sopra delle costole e costringendola a ritrarsi d'un balzo. Sfruttando la propria agilità di movimenti, Aurian finse allora d'incespicare ed eseguì un colpo laterale in seguito al quale un sottile rivoletto di sangue apparve sul braccio sinistro di Forral. Quella vista strappò un sussulto non solo al pubblico ma anche alla stessa Aurian, che non si era aspettata di veder scorrere così presto il primo sangue, e tanto meno a suo vantaggio! Consapevole che Forral non avrebbe dovuto cadere in un trucco così vecchio, Aurian si rese conto che doveva fare qualcosa per scuoterlo e tornò di nuovo all'attacco con un affondo questa volta diritto, in modo che le loro spade s'incrociassero e che per un momento essi si venissero a trovare faccia a faccia nel lottare per rompere quella fase di stallo. Distrattamente, Aurian sentì gli spettatori sussultare ancora nella convinzione che lei avesse commesso un errore nel venire ad un confronto di quel genere con un avversario più massiccio e più forte di lei... senza sapere che invece quella era stata da parte sua una mossa deliberata.
«Cominci a perdere la grinta, vecchio?» sussurrò in tono provocatorio. «Questo è il giorno in cui ti sconfiggerò, Forral.» Vide sconcerto e ira susseguirsi sul volto di lui. poi non ebbe tempo per registrare altro perché Forral liberò la propria lama con una serie di mosse fulminee e tanto violente da strapparle quasi la spada di mano. Da quel momento il duello cominciò sul serio ed Aurian ebbe l'impressione che il tempo rallentasse il suo scorrere mentre lei e Forral intessevano la loro intricata danza di morte sulla sabbia dell'arena: dimentica di tutte le sue preoccupazioni, le parve che il mondo intero cessasse di ospitare qualsiasi altra cosa a parte lei stessa, il suo avversario e l'acciaio scintillante che entrambi stringevano in pugno. Coronach stridette il proprio canto di morte nel fendere l'aria ed Aurian esultò insieme alla lama... divenne la lama, con il suo elegante saettare in avanti per poi abbattersi sulla spada avversaria con un impatto devastante che le riverberava lungo il braccio. Fugacemente, il suo cervello registrò il caldo gocciolare del sangue da una dozzina di ferite superficiali e accantonò la cosa come insignificante: anche Forral perdeva sangue da parecchie lacerazioni e adesso era rosso in volto, il suo respiro si era fatto affannoso e i suoi movimenti cominciavano ad essere meno sciolti di quelli dell'avversaria. Con un improvviso senso di shock Aurian si rese infine conto di poterlo davvero sconfiggere, e quella fugace distrazione per poco non le costò la sconfitta perché vide il fendente di Forral appena in tempo per abbassare la testa, rotolare su se stessa e rialzarsi con la spada spianata e pronta per contrattaccare. Passo dopo passo costrinse quindi Forral ad indietreggiare e a quel punto sul volto di lui cominciò ad affiorare la consapevolezza dell'approssimarsi della sconfitta... che portò con sé un improvviso mutare dell'atmosfera che accompagnava il duello: adesso l'aria era carica di un'estrema tensione che creava fra loro un vincolo tanto stretto da portarli a combattere quasi come una persona sola... e d'un tratto Aurian comprese che ormai non stavano più lottando uno contro l'altro, ma uno con l'altro, sebbene ciascuno si stesse sforzando al massimo per arrivare alla vittoria. Nonostante le ferite e la stanchezza crescente, quella sensazione la inebriò come un vino potente e quando un lento sorriso apparve sul volto di Forral lei si trovò a sorridere a sua volta, rendendosi conto che mai erano stati così assolutamente uniti come ora. Quel duello entrò nella leggenda e quanti furono abbastanza fortunati da assistervi affermarono in seguito che le mosse di entrambi i contendenti
erano state così rapide da risultare praticamente invisibili. Nessuno seppe mai quanto durò lo scontro... la stessa Aurian perse la nozione dello scorrere del tempo a causa dell'esaltazione della gara finché essa non si concluse di colpo e Forral si venne a trovare steso sulla sabbia ai suoi piedi, con la punta della sua spada contro la gola. In mezzo allo sconcertato silenzio del pubblico Aurian sollevò la spada in un gesto di saluto nei confronti dell'avversario e al tempo stesso si sentì assalire dallo sfinimento a mano a mano che la tensione della lotta l'abbandonava. Appoggiandosi alla spada protese una mano per aiutare Forral a rialzarsi in piedi, e in quel momento i loro sguardi s'incontrarono, esprimendo in un'unica occhiata tutte le parole e i sentimenti che per tanto tempo erano rimasti nascosti nel cuore di ciascuno dei due e che adesso non potevano più essere ignorati. Sostenendosi a vicenda, si avviarono per lasciare l'arena e contemporaneamente la folla degli spettatori parve riscuotersi come da un incantesimo, balzando in piedi fra un fragore di applausi che colse entrambi i contendenti alla sprovvista in quanto si erano dimenticati dei presenti. In silenzio, tornarono zoppicando nell'alloggio di Forral. dove si ritrovarono uno nelle braccia dell'altra prima ancora che la porta avesse avuto il tempo di chiudersi e si amarono lì sul pavimento, incuranti del sangue, del sudore e della sabbia di cui erano coperti. Il tocco delle mani di Forral generò brividi deliziosi lungo la pelle di Aurian mentre lui liberava entrambi degli abiti sporchi di sangue e la faceva sua. Quando lui la penetrò Aurian si lasciò sfuggire un grido e serrò le dita con tanta forza che in seguito trovò sulle spalle di lui i segni che esse vi avevano lasciato in quel momento di dolore; poi al suo grido fece eco quello estatico di Forral allorché il suo corpo si tese e fu percorso dal brivido dell'appagamento, consumando forse troppo in fretta la sua passione ma incapace di trattenersi dopo aver atteso quel momento per così tanti anni. Rilassandosi si abbandonò quindi su di lei e le baciò gli occhi, il collo, le labbra, mentre Aurian gemeva, ancora tesa e piena di desiderio, poi prese ad accarezzarle lentamente i seni, il ventre e le cosce, scivolando nel loro incavo con le dita fino a portare la passione di lei sull'orlo dell'appagamento, e soltanto allora la possedette di nuovo. Questa volta il culmine del piacere giunse contemporaneamente per entrambi, consolidando una passione salda e imperitura perché fondata sull'amicizia, sul rispetto e sulla profonda gioia di un antico amore di colpo rinnovato. Dopo giacquero uno nelle braccia dell'altra, lasciando che il mondo an-
dasse lentamente alla deriva intorno a loro, ed Aurian si sentì a poco a poco pervadere di reverenziale meraviglia nel rendersi conto che aveva appena vissuto il momento più importante della vita di una donna... e che Forral l'amava, non come la ragazzina che aveva conosciuto tanto tempo prima ma come una donna. Questa consapevolezza la fece sentire di colpo come trasformata e le presentò anche Forral in una veste nuova, generando in lei un'improvvisa timidezza nei confronti di quell'uomo muscoloso che adesso era il suo amante. Poi Forral si girò verso di lei con il volto illuminato di tenerezza e di colpo tornò ad essere l'uomo di sempre, quello che lei amava e di cui si fidava. «Tesoro» mormorò. «Se soltanto sapessi.» «L'ho sempre saputo fin da quando ero una ragazzina» lo interruppe Aurian, protendendosi a sfiorargli il volto. «Te l'ho anche detto, ricordi?» «Sì, lo hai fatto, ma allora ho creduto che si trattasse di un capriccio infantile perché non ho preso in considerazione quanto tu possa essere cocciuta. E che combattente sei diventata! Per gli dèi, Aurian, oggi mi hai reso orgoglioso di te.» «Sei stato tu a insegnarmi, Forral... e adesso mi hai insegnato anche qualcos'altro» ribatté Aurian, con un bagliore da monella nello sguardo. «Chi pensi abbia vinto, questa volta?» «Sfrontata!» rise Forral. «Tu chi pensi che abbia vinto?» «Io credo che sia stato un pareggio» dichiarò allegramente Aurian, baciandolo. Dopo essersi lavati, si curarono a vicenda le ferite che avevano riportato nel duello, perché in quel giorno particolare Aurian non voleva ricorrere a nessun risanamento magico: infatti adesso possedeva già una magia di altro tipo e ognuna di quelle cicatrici era preziosa per lei, senza contare che si trattava soltanto di ferite superficiali per quanto dolorose, adesso che cominciava ad avvertirle. Inoltre il suo corpo stava cominciando ad irrigidirsi per aver sudato tanto durante il duello e aver poi giaciuto per terra esposto alle correnti d'aria, ma neppure questo aveva importanza perché lei e Forral erano incantati da un senso di meraviglia e non riuscivano quasi a smettere di toccarsi a vicenda e di fissarsi negli occhi. Per Aurian era come tornare a casa... ed era una sensazione così assolutamente perfetta da darle l'impressione di non aver mai saputo prima cosa fosse la perfezione. Le loro cure reciproche si sarebbero probabilmente trasformate in qualcosa di diverso se non fossero stati interrotti da qualche colpo battuto con discrezione contro la porta. Imprecando, Forral andò ad aprire ma sulla so-
glia trovò soltanto un grosso vassoio carico di cibi e di bevande che era stato lasciato davanti alla porta. Quando lo portò sul tavolo, Aurian notò un pezzettino di carta ripiegato e appoggiato contro una caraffa di vino, e nell'aprirlo Forral scoppiò a ridere. «Avrei dovuto saperlo» commentò, porgendo il messaggio ad Aurian, che riconobbe la calligrafia nitida e compatta di Maya che aveva scritto soltanto tre parole: «Era ora, dannazione!» Dopo aver mangiato decisero di verificare se amarsi fra lenzuola pulite era piacevole quanto farlo sul pavimento e ben presto scoprirono che era ancora meglio; il crepuscolo li trovò seduti sul letto intenti a sorseggiare brandy alla pesca mentre la voce di Maya, impegnata a far esercitare spietatamente le nuove reclute, giungeva fino a loro attraverso la finestra aperta. Nel centellinare quel liquore dolce Aurian ebbe l'impressione che la sensazione di calore che esso le generava lungo la gola corrispondesse al calore che la pervadeva interiormente, ma al tempo stesso esso le ricordò anche altri problemi più seri e la indusse a voltarsi verso Forral per chiarire subito alcune cose. «Perché hai cominciato a bere tanto?» domandò. Forral per poco non lasciò cadere il bicchiere e arrossì con aria colpevole. «Chi te lo ha detto?» «Maya. È preoccupata, Forral, e lo sono anch'io.» «Per gli dèi, ma quella dannata donna riesce a sapere proprio sempre tutto? Fra lei e te un poveretto non ha una sola possibilità di passare inosservato.» «È perché ci importa di te» mormorò Aurian. «Lo so, tesoro, e mi dispiace» replicò Forral, cingendole le spalle con un braccio. «Un uomo tende a mettersi sulla difensiva quando sa di essersi comportato come un idiota. Ho cominciato a bere perché... ecco, per causa tua.» «Per causa mia?» «Non so quando ho smesso di pensare a te come ad una bambina» annuì Forral, «ma quando l'ho fatto... ecco, in passato ho avuto altre donne...» «Davvero?» commentò Aurian, con una nota pericolosa nella voce, in quanto le precedenti amanti di Forral erano l'ultima cosa di cui desiderava discutere. «... ma non è mai durato a lungo» si affrettò a proseguire lui, arruffandole i capelli. «In ogni caso, sapevo che tu condividevi i miei sentimenti ed
ho cercato di evitare che questo accadesse per proteggerti. Al tempo stesso però sapevo che ti stavo ferendo e soffrivo anch'io della situazione... e così ho cominciato a bere.» «Perché non mi hai detto qualcosa?» domandò Aurian. «Pensa a quanto tempo abbiamo sprecato!» «Senti, parliamone in un altro momento» sospirò Forral. «Oggi siamo stati così felici che non voglio rovinare tutto.» «No» ribatté Aurian, in tono intenso. «Invece io voglio sapere di cosa si tratta... hai detto tu stesso che non sono più una bambina. È forse a causa di questo stupido divieto di unioni fra Maghi e Mortali? Se è così non ti preoccupare, perché ci ho già riflettuto sopra e non m'importa: se sarà necessario potremo andare via insieme. Dopo tutto, Miathan non possiede il mondo.» «No, non mi riferivo a Miathan, anche se avremo già abbastanza problemi quando lui scoprirà cosa è successo, bensì a qualcosa che tu non hai ancora preso in considerazione» ribatté Forral, assumendo un'espressione molto grave. «Aurian, tu appartieni al Popolo dei Maghi, e a meno che qualcosa non ti uccida potrai vivere quanto vorrai. Per me invece le cose sono diverse perché sono un Mortale e non sono più giovane... ormai ho superato i quarant'anni: anche ammesso che riesca a sopravvivere ai pericoli della vita di un guerriero, quanti anni pensi che ci rimangano? Ho cercato di impedire che questo accadesse perché ti amo e so che morirò fin troppo presto, e non riesco a tollerare l'idea di lasciarti sola nel dolore.» Aurian sentì lo stomaco che le si contraeva per l'angoscia nel rendersi conto che in effetti non aveva mai preso in considerazione la mortalità di Forral... e mentre lo fissava con sgomento la stanza intorno a lei parve scomparire sotto l'ondata di un'angoscia premonitrice simile a quella che aveva avvertito quella mattina: adesso le sembrava che ai lineamenti di lui fosse sovrapposta una visione di quello stesso volto che le era tanto caro, però pallido e immoto, con gli occhi chiusi nel sonno della morte. «No!» gridò, e quando il suono della sua stessa voce la riportò alla realtà, facendo svanire la visione, si gettò singhiozzando fra le braccia di Forral. Mentre lui la teneva stretta a sé la sua forza di guerriero parve fluirle nelle vene e infine Aurian irrigidì la schiena, asciugandosi gli occhi e sollevando il mento nel consueto gesto cocciuto. «Se questo dolore è il prezzo che devo pagare per il tuo amore allora lo pagherò» affermò. «Non volentieri, forse, ma fino in fondo. Io ti amo, For-
ral, ho aspettato questo momento per anni e adesso non intendo perderti. Neppure i Maghi vivono in eterno, e se pure rimarremo separati per qualche tempo prometto che un giorno ti ritroverò nei mondi dell'aldilà. Dovrò già lottare contro Miathan, e se sarà necessario sfiderò anche la morte.» «La mia guerriera» mormorò Forral in tono rude, sorridendo anche se aveva gli occhi velati di lacrime. «Sono lieto che tu sia dalla mia parte.» «Lo sarò sempre, e resteremo insieme ancora per molto tempo.» «Gli dèi aiutino chiunque cercherà di mettersi fra noi» commentò Forral, abbracciandola. «C'è però una cosa che ti voglio dire, mia cara: quando sarò morto...» «Non lo dire!» lo interruppe Aurian. «Lo farò soltanto una volta» ribatté con fermezza Forral, «e voglio che tu ricordi le mie parole. Tu non conosci ancora il dolore dovuto ad una perdita, ma io l'ho sperimentato e ti voglio mettere in guardia. Quando morirò in un primo tempo desidererai seguirmi... non farlo. Ti è stata elargita la benedizione di poter vivere molti anni, Aurian, e oltre a questo hai ricevuto molti altri doni, per cui gettarli via sarebbe un grave peccato ed io non potrei continuare a darti il mio amore se sapessi che così facendo ti priverei del tuo futuro. No. amore... quando non ci sarò più voglio invece che tu trovi qualcun altro, se ti sarà possibile, e che tu sia felice.» «Come potrei?» protestò Aurian, in tono amaro. «Come puoi chiedermi una cosa del genere?» «Posso perché ti amo e non voglio che tu trascorra molti anni da sola, in quanto sarebbe sciocco e ingiusto. Ho visto altre persone sprecare la vita nel lutto vicino alla tomba di coloro che amavano. Io invece ti sarò sempre accanto, nel tuo cuore, dovunque sarai, e se mai dovessi sorprenderti vicino alla mia tomba ti... ti farò piovere addosso!» Nonostante la sua angoscia Aurian fu costretta a sorridere e ben presto la conversazione si spostò su argomenti più lieti, anche se le parole di Forral continuarono ad echeggiarle nel cuore. Adesso si sentiva più matura più triste ma al tempo stesso più forte e decisa che mai, e il suo amore per Forral si era trasformato in qualcosa di dolceamaro ma infinitamente prezioso proprio in virtù della sua natura transitoria. Il giorno precedente Miathan si era accorto dell'assenza di Aurian, e non appena lei entrò nella stanza con la mano in quella di Forral comprese dove fosse stata e perché. «Arcimago» esordì con calma lo spadaccino, senza inchinarsi, «Aurian
ed io siamo diventati amanti.» Nell'udire le parole di quella nullità di un Mortale Miathan sentì lo stomaco che gli si contraeva sotto l'assalto di un'ira gelida, e poiché Aurian lo stava fissando negli occhi, pallida ma tutt'altro che contrita, preferì sfogare la sua furia su Forral. «Seduttore!» sibilò, con voce che tremava per la rabbia. «Trasgressore! Hai infranto le leggi!» «Cosa?» esclamò Aurian, pervasa di indignazione. «Osi accusare Forral...» All'improvviso s'interruppe e nel lottare per controllare la propria furia scoccò un'occhiata in tralice a Forral che non sfuggì all'occhio attento di Miathan. Dunque non glielo ha detto, pensò questi. «Ciò che avete fatto è proibito» scattò quindi, ad alta voce. «Sciocchezze!» ritorse Aurian. «Il divieto di unioni fra Maghi e Mortali non è una legge e non rientra nel Codice dei Maghi. Invece è una raccomandazione dovuta a motivazioni pratiche, e se Forral ed io possiamo convivere con i problemi che la nostra unione comporta tutto il resto non ti deve riguardare.» «Sarà uno scandalo che si risaprà in tutta la città!» infuriò Miathan, fuori di sé per l'ira. «Come osi mettere così in imbarazzo me e tutto il Popolo dei Maghi?» «Questo non è esatto, Miathan» intervenne Forral. «Dopo la faccenda della siccità la gente considera Aurian in maniera diversa rispetto al resto dei Maghi: gli abitanti della città la vedono girare con me, oppure andare e venire dalla guarnigione, e francamente la trovano molto più accettabile del resto di voi. La mia gente la considera già come una di noi e i miei soldati baderanno che non si facciano chiacchiere ingiustificate. Anche Vannor le è affezionato, quindi i mercanti non ci dovrebbero causare problemi...» «In tal caso ce ne saranno con i Maghi!» tempestò Miathan. «Ti spezzerò per questo, Forral! Ti farò espellere dal consiglio, bandire dalla città...» «Non credo proprio, Arcimago» ritorse Forral, con un freddo sorriso. «Vedi, adesso non spetta più a te controllare la componente militare in seno al consiglio e forse ti interesserà sapere che ho già nominato chi mi succederà nel caso che mi dovesse accadere qualcosa. Conosci Maya, il mio comandante in seconda? Per qualche motivo non le va affatto a genio l'idea che siano i Maghi a comandare a Nexis e credo proprio che ti divertirai a litigare con lei in sede di consiglio... uno spettacolo a cui Vannor è
impaziente di assistere.» «Ma... non puoi fare una cosa del genere!» farfugliò Miathan. «Oh, certo che posso» sorrise Forral. «Vannor ha approvato la nomina, che è già stata inserita negli atti ufficiali.» Sgomento, l'Arcimago avanzò verso lo spadaccino con l'intenzione di disintegrarlo, ma Aurian si affrettò a interporsi fra loro e sollevò la mano in un ampio gesto in reazione al quale Miathan vide l'aria tremolare per il formarsi del suo schermo magico, notando al tempo stesso sul volto di lei un'espressione di palese odio che non vi aveva mai scorto prima. «Provaci, Miathan» ringhiò Aurian. «Non per nulla sono la tua allieva. Vediamo con quanta abilità mi hai istruita.» Era evidente che faceva sul serio e che lui era sul punto di perderla completamente, perdendo al tempo stesso tutti i progetti elaborati con tanta cura... un'eventualità che fece riaffiorare in Miathan la sua antica astuzia che lo rendeva uno spietato esperto dell'arte dell'inganno. Adesso sapeva che aveva commesso un grave errore a lasciarsi prendere la mano dal desiderio quando Aurian era tornata dalla Valle, ma in qualche modo durante la sua assenza lui si era persuaso che una volta che avesse posseduto il suo corpo sarebbe diventato padrone anche della sua mente. Quanto era stato stolto! Questa non era una semplice ragazza Mortale che poteva essere intimorita dalla sua posizione e dai suoi poteri, e grazie alla sua fretta e alla sua goffaggine aveva ottenuto soltanto di spingere Aurian nelle braccia... e nel letto... dello spadaccino, praticamente autopunendosi per la propria stupidità. Adesso la cosa più importante era riconquistare la fiducia di Aurian, e per farlo avrebbe dovuto inghiottire il suo orgoglio: tremando per la tensione, Miathan si costrinse quindi a soffocare la propria ira e ad assumere un'espressione di apparente rincrescimento. «Aurian, ti prego di perdonarmi, mi dispiace davvero... di tutto. Mi sono comportato molto male con te e desidero fare ammenda. Forral, porgo anche a te le mie più profonde scuse: avrei dovuto prevedere da tempo una cosa del genere, sapendo quali fossero i sentimenti di Aurian nei tuoi confronti» proseguì con un sospiro. «Non posso dire di approvare la cosa... ma sono affezionato ad Aurian e apprezzo il tuo sostegno, quindi se questo è ciò che volete dovrò accettarlo. Siate felici, finché potete.» Aurian però esitò ancora, con un'espressione sospettosa dipinta sul viso. «Mia cara, ti prego» insistette Miathan, costringendo le lacrime ad affiorargli negli occhi. «Non mi punire per la mia impulsività, perché la buona opinione che hai di me è l'ultima cosa al mondo che vorrei perdere. Giuro
sulla mia stessa magia che accetto la tua decisione.» «Ti ringrazio, Arcimago» rispose in tono calmo Aurian, e Miathan la vide rilassarsi leggermente nel dissipare infine con sollievo i propri schermi. Contrariamente ad un tempo, quando sarebbe corsa ad abbracciarlo con gioia, lei rimase però dove si trovava, con una mano sul braccio di Forral, e l'Arcimago fu costretto a serrare i denti per resistere all'impeto possessivo di desiderio che stava insorgendo dentro di lui. Per gli dèi, quando infine lei fosse diventata sua le avrebbe fatto pagare a caro prezzo quest'umiliazione. Una volta che Aurian e Forral se ne furono andati, l'Arcimago sfogò la propria ira con una scarica di energia magica che fece tremare la torre fino alle fondamenta, poi attraversò a grandi passi il tappeto bruciacchiato, spingendo di lato a calci il mobilio devastato, e premette una sezione della parete annerita: un pannello si spostò di lato con uno scatto, rivelando una rientranza nella quale lui infilò la mano, prelevando dal suo interno un boccale d'oro. Sedutosi accanto alla finestra su una sedia rimasta intatta, lasciò quindi vagare lo sguardo all'esterno nell'accarezzare la coppa di metallo cesellato con intricati disegni. La coppa, che era ampia e poco profonda, con un sottile stelo dorato e una base ampia e pesante, ronzava di un potere così antico e così grande da rendere viva l'aria stessa intorno ad essa, e nell'avvertirlo Miathan sorrise, pensando che forse non tutto era perduto. Aveva trovato quel prezioso oggetto nella camera scoperta da Finbarr e lo aveva portato via di nascosto prima che gli altri lo notassero, perché sapeva di cosa si trattava e sapeva che possederlo cambiava del tutto le cose. Negli anni cupi che erano seguiti al Cataclisma la maggior parte della storia e delle tradizioni del Popolo dei Maghi era andata perduta, e tutto ciò che era rimasto della luminosa Era Antica erano state storie e leggende così vaghe e pittoresche da rendere impossibile separare la verità dalle divagazioni dei menestrelli e dalle superstizioni delle vecchie comari. Adesso però Miathan sapeva che almeno una di queste leggende era vera. In essa si parlava delle grandi e magiche Armi degli Elementi: l'Arpa dei Venti, il Bastone della Terra, la Spada di Fuoco e il Calderone della Rinascita... e anche se adesso la sua forma era quella di un calice dorato. Miathan era certo di tenere in mano un frammento del Calderone, forse rimodellato per renderlo irriconoscibile, così come era certo che esso fosse ancora permeato del potere del Calderone stesso, che con il tempo lui sarebbe giunto a dominare.
Coloro che avevano osato sfidarlo potevano pure aspettare, Aurian, Forral, Vannor... e Anvar, quel dannato abominio che aveva frustrato i suoi progetti nei suoi confronti quando essi erano ormai così vicini a compiersi. Che si godessero per qualche tempo la loro misera vittoria, e che Finbarr continuasse pure a scavare come una talpa negli archivi, fornendo così involontariamente a lui le informazioni di cui aveva bisogno per procedere nel proprio lavoro. E che Aurian si accoppiasse pure come un animale con quel dannato spadaccino, felicemente ignara del fato in serbo per lei... D'un tratto il cuore di Miathan fu trapassato da una fitta di timore mentre lui constatava come la storia si stesse ripetendo, e lui ripensò a Ria... così dolce e compiacente fra le sue braccia... ricordando il proprio disgusto quando lei gli aveva detto che sarebbe diventato padre di un mostro mezzosangue. E se una cosa del genere fosse successa di nuovo... ad Aurian? Il pensiero che lei potesse dare un figlio a Forral lo nauseava nel profondo del suo essere... ma cosa sarebbe accaduto se quell'ipotetico bambino fosse risultato essere un mostro effettivo? Si sarebbe trattato di una vendetta perfetta, perché Aurian e Forral sarebbero stati puniti per la loro perfidia e al tempo stesso una creatura del genere non avrebbe certo potuto possedere poteri magici. Miathan attinse al potere che lo circondava e sentì il calice tremargli fra le mani mentre sceglieva con cura le parole per evocare una letale maledizione contro qualsiasi bambino i due avessero concepito insieme, in modo che esso non assumesse la forma dell'umano che lo aveva generato ma quello del primo animale su cui Aurian avesse posato lo sguardo dopo averlo partorito. Mentre l'Arcimago pronunciava quella maledizione la coppa si accese di un bagliore improvviso e fugace e sulla città echeggiò un rumore simile ad uno scoppio di tuono in reazione al quale il cuore dell'Arcimago fu pervaso da una sensazione di trionfo: dunque quell'oggetto poteva essere utilizzato! Certo sarebbe stato necessario molto studio per imparare ad usarlo in maniera efficace, ma alla fine quell'arma gli avrebbe conferito il dominio sul mondo... e su Aurian, e allora lui avrebbe avuto a disposizione lunghi secoli per vendicarsi su di lei per ciò che gli aveva fatto. CAPITOLO DODICESIMO I CORSARI DELLA NOTTE Era il giorno precedente la Vigilia del Solstizio ma Zanna, la figlia di
Vannor, non si sentiva per nulla in sintonia con lo spirito di bontà e di altruismo che avrebbe dovuto caratterizzare quella ricorrenza perché lei e Dulsina, la governante, erano state costrette a recarsi una volta di più al mercato della Grande Galleria per conto della cuoca di casa che, naturalmente per colpa di Sara, era in uno stato di agitazione mai visto prima. Dal momento che i pasti che si consumavano in occasione di quella particolare ricorrenza erano molto complicati e richiedevano una notevole programmazione anticipata la cuoca che da anni cucinava per la famiglia, Hebba, aveva per il Solstizio una routine organizzata con un tempismo perfetto fino all'ultima deliziosa portata, per cui quando Sara aveva deciso, il giorno precedente l'inizio dei festeggiamenti per il Solstizio, che quest'anno era il caso di apportare alcuni cambiamenti al menù abituale, la reazione della cuoca era stata un misto di orrore, di indignazione e di assoluto panico. Poiché in quel momento Vannor non era in casa e la sua figlia maggiore Corielle aveva da poco sposato il figlio di un ricco capitano di nave, trasferendosi a vivere nella città portuale di Easthaven insieme al marito, il compito di fronteggiare quel dramma nel miglior modo possibile era ricaduto su Zanna e su Dulsina. Dal momento che Hebba non si fidava di assegnare un incarico del genere alle ragazze che l'aiutavano in cucina, asserendo che equivaleva a mandarle in giro a bighellonare per tutta la giornata, Dulsina e Zanna erano state spedite al mercato con una lista di prelibatezze indispensabili all'ormai frenetica cuoca che stava intanto rivoltando come un guanto la cucina nell'ansia di porre rimedio a quello scompiglio. In cuor suo Zanna era stata lieta di sfuggire a quel caos e di lasciarsi alle spalle le cameriere in lacrime e la cuoca furibonda, ma si era risentita del fatto che il resto della famiglia e lei stessa in particolare stessero subendo il cattivo umore della cuoca mentre Sara risultava come al solito immune dalle conseguenze della sua sventatezza. Hebba infatti poteva anche definire la nuova padrona una «piccola mendicante» quando lei non la sentiva, ma non era disposta a contrastare apertamente la moglie del suo padrone. Poiché il Solstizio era ormai prossimo, la Grande Galleria era affollata al massimo della sua capienza e in un primo tempo Zanna trovò divertente quella confusione perché le lunghe navate a colonne erano illuminate a giorno da file di lampade e l'aria pervasa dal mescolarsi degli aromi delle spezie, dei formaggi, delle carni affumicate e dei frutti di stagione, echeggiava delle grida dei venditori che pubblicizzavano le loro merci e degli allegri saluti che risuonavano qua e là fra la folla quando qualcuno incon-
trava in mezzo ad essa un amico, dando al tutto un'atmosfera di festa. Con il passare del tempo, però, le scorte di merci cominciarono ad esaurirsi e l'umore della folla a farsi più cupo e irritato perché nel frattempo la massa di gente era andata aumentando di continuo e l'edificio, per quanto immenso, si era fatto afoso e soffocante. Appesantita dagli acquisti fatti, Zanna si sentiva accaldata e scomposta, aveva le costole ammaccate per il continuo farsi largo fra la calca e i piedi doloranti per essere stati calpestati più di una volta e per l'aver camminato a lungo sul duro pavimento di pietra della Galleria; in aggiunta a questo sentiva insorgere una prepotente emicrania, era tormentata da una sete crescente e il mucchio di pacchetti che aveva fra le braccia le impediva di avanzare con scioltezza nella ressa che la circondava. Decidendo di averne abbastanza e che se Sara voleva qualche altra cosa poteva venire a comprarsela di persona, si girò verso Dulsina per annunciarle la sua decisione... e scoprì con orrore che la governante non si vedeva più da nessuna parte: evidentemente doveva averla perduta in mezzo alla calca, e adesso soltanto gli dèi sapevano come sarebbe riuscita a ritrovarla fra tutta quella confusione. La sua prima reazione fu quella di tentare di fermarsi, ma le fruttò soltanto le imprecazioni impazienti di quanti si trovavano dietro di lei, che la spinsero di lato senza troppi complimenti. Non essendo in grado di vedere nulla nella ressa a causa della sua bassa statura, si trovò così ad essere trascinata dal movimento generale della folla a cui non poteva opporsi se voleva restare in piedi, e si costrinse a non cedere al panico: doveva uscire di lì... ma come? «Salve, Zanna! Sei sola?» chiese una voce, e una mano salda l'afferrò per una spalla, sorreggendola. Al tempo stesso la folla le creò intorno un po' di spazio e nel rendersi conto con sollievo di essere di nuovo in grado di respirare Zanna si guardò intorno, trovandosi davanti il volto gentile di Lady Aurian, che era accompagnata dal Tenente Maya, della guarnigione. «Per gli dèi, che calca spaventosa» commentò allegramente la Maga. «Non mi sorprende che fossi così in difficoltà. Maya e io siamo venute qui per comprare un regalo per Forral e abbiamo quasi rischiato di morire calpestate! Vannor non aveva un servitore da cui farti accompagnare?» aggiunse quindi, contraendo le sopracciglia in un'espressione aggrondata. Zanna, che aveva incontrato sia Lady Aurian che Maya in parecchie occasioni in cui aveva convinto suo padre a portarla con sé in visita alla guarnigione, ammirava terribilmente entrambe... ma soprattutto la Maga, che era tutto ciò che lei avrebbe voluto essere. Leggermente intimorita dal
fatto di trovarsi in compagnia di una persona tanto importante, spiegò come fosse rimasta separata da Dulsina e involontariamente si trovò a raccontare alle sue comprensive soccorritrici l'intera storia di quella disastrosa giornata; nel menzionare il nome di Sara, vide le due donne fissarsi a vicenda con una smorfia, poi Aurian apri la bocca come per fare qualche commento ma un'occhiata da parte di Maya l'indusse a tacere e a limitarsi a scuotere leggermente il capo. «D'accordo» decise infine Maya. «Adesso ti accompagneremo alla tua carrozza. Se ha un po' di buon senso, Dulsina deve essere già tornata là e immagino che sia ormai in preda al panico per te.» La maga e Maya divisero quindi fra loro il carico dei pacchetti di Zanna e scortarono fuori della galleria la ragazza che rimase enormemente impressionata dal modo in cui la folla sembrava dissolversi davanti a quelle due donne dall'aspetto determinato e abbigliate in tenuta da combattimento. Come Maya aveva previsto, s'imbatterono nella governante all'altezza della grande arcata d'ingresso della Galleria: frenetica per la preoccupazione, Dulsina era sul punto di addentrarsi di nuovo nella calca alla ricerca della ragazza a lei affidata, e nel ritrovarla sana e salva diede sfogo al proprio sollievo in modo tale da mettere notevolmente in imbarazzo Zanna e da renderla estremamente grata ad Aurian per la decisione con cui riuscì a interrompere la governante. «Zanna è una ragazza sensata e stava già dirigendosi all'uscita quando l'abbiamo incontrata... però sai quanto tempo ci vuole a districarsi da una ressa del genere!» esclamò. La maga aiutò quindi di persona Zanna a salire in carrozza e le ammucchiò intorno i suoi pacchetti, poi la carrozza si allontanò e dal suo interno la figlia di Vannor continuò a ringraziare le due donne che si stavano già avviando lungo la strada. Prima che la distanza divenisse eccessiva, le loro parole le giunsero però all'orecchio sulle ali della quieta aria notturna. «Per gli dèi. Maya» stava commentando la Maga, «la moglie di Vannor è una vera strega.» «Non me lo dire. Se dipendesse da me la scaricherei nel fiume... in un sacco! Che ne diresti di bere una birra?» Nella carrozza Zanna sorrise fra sé: chissà come, le era di notevole conforto sapere che non era l'unica ad avere un'opinione del genere sul conto della sua matrigna. Le commissioni avevano richiesto più tempo di quanto Zanna avesse
previsto e il crepuscolo era ormai imminente allorché la carrozza attraversò rumorosamente il ponte dell'Accademia per risalire la collina alberata alla volta di casa. Il cielo sopra Nexis era tinto di un candore velato che lasciava presagire altra neve imminente ed era adesso pervaso dal bagliore ramato del tramonto, solcato da pennacchi di fumo che si levavano in verticale nell'aria immota. Accoccolandosi contro lo spesso rivestimento di pelliccia della carrozza, Zanna cercò di dare sollievo alle dita gelate e ai piedi doloranti e si lasciò sfuggire un sospiro malinconico al pensiero dei fuochi da cucina che brillavano nelle varie case della città, dell'aroma di limone e di spezie e di carni arrostite, e del volto eccitato dei bambini, perché sapeva che all'arrivo a casa avrebbe trovato una scena del tutto diversa: infatti Hebba non lavorava mai bene quando era irritata e dopo gli sconvolgimenti di quella giornata i festeggiamenti per il Solstizio nella casa di Vannor si sarebbero certo risolti in un disastro. I lampionai erano già all'opera lungo le strade, e mentre la carrozza risaliva faticosamente l'erta collina innevata i globi dorati si accesero uno dopo l'altro in rapida successione a illuminare il cammino; il cocchiere imprecò quando i cavalli scivolarono sulla strada fangosa e Dulsina, che aveva avuto per tutto il giorno un'espressione accigliata, gli assestò una gomitata nelle costole aggrottando al tempo stesso la fronte in un'espressione di disapprovazione. L'ampia curva che portava alla dimora del mercante era stata sgombrata dalla neve e il cocchiere, sollevato di aver portato a termine la pericolosa salita senza recare danni ai preziosi cavalli neri di Vannor, concluse il viaggio in stile, arrestandosi davanti alla porta in mezzo a schizzi di ghiaia; quando però Zanna si mostrò disposta ad accompagnare gli altri fino alla porta sul retro per aiutare a scaricare i pacchi Dulsina non ne volle spere. «Non farai nulla del genere, ragazza mia» dichiarò. «Entra in casa e mentre aspetti che ti porti una bevanda calda riposati un poco. È già abbastanza sconveniente che tu abbia dovuto girovagare per il mercato come una serva... una cosa che farebbe rivoltare nella tomba la tua povera madre, che sia benedetta.» Mentre entravano in casa Zanna lasciò che la governante continuasse a brontolare, ben sapendo che era indignata per il modo in cui entrambe erano state trattate. Dulsina reggeva bene il peso degli anni, con la sua pelle liscia e trasparente e con i capelli scuri che non avevano ancora tracce di grigio, e in passato era stata molto amica della madre di Zanna... un'amicizia che, secondo i pettegolezzi che circolavano nelle cucine, era stata la so-
la cosa che l'aveva indotta a celare a Vannor i propri sentimenti dopo la morte di sua moglie. Gli altri servi avevano però dato per certo un suo eventuale matrimonio con il mercante... finché Sara non era apparsa all'orizzonte. Mentre Dulsina si allontanava in direzione della scala che portava in cucina, Zanna si arrestò nell'ampio ingresso per liberarsi dei mantelli e degli scialli in cui la zelante governante l'aveva avvolta, e sospirò: Dulsina era animata di tante buone intenzioni, ma lei era stanca di essere coccolata come una bambina. Inevitabilmente i suoi pensieri tornarono a Lady Aurian... Maga e guerriera, lei sapeva cavalcare e combattere come un uomo, e non c'era nessuno che si azzardasse ad avvilupparla sotto una montagna di scialli di lana. Riflettendo che le sarebbe piaciuto essere come lei, Zanna accennò a togliersi la sciarpa che le riparava la testa e gli orecchi, e in quel momento sentì echeggiare un acuto strillo di rabbia. Consapevole che si stava verificando un nuovo disastro spiccò la corsa nella direzione da cui era provenuto il suono, ed era a metà della scala quando le giunse all'orecchio il pianto del fratellino. Il rumore scaturiva dalla stanza di Sara, e in altre circostanze forse Zanna avrebbe riso dello spettacolo che le si parò davanti. Antor, che adesso era un bambinetto di tre anni propenso a perpetrare ogni sorta di disastri, era sfuggito alla sua bambinaia ed era arrivato fino alla porta aperta della camera di Sara. Sfortunatamente in quel momento lei non era nella stanza, ma la collezione di vasetti disposti sul tavolino da toeletta dotato di specchio era risultata una tentazione irresistibile per il bambino. Al suo ingresso nella camera Zanna fu accolta da un odore intenso di profumo versato e le bastò un'occhiata per cogliere l'intera scena: la cipria sparsa sul tappeto, i vasetti e le bottigliette rovesciati che stavano lasciando colare lungo il tavolino il loro contenuto, e una serie di ditate di ogni colore sparse sulla parete, sui mobili e perfino sul copriletto. E Sara, con il volto arrossato e contorto dall'ira, che stava picchiando selvaggiamente Antor. Zanna non si soffermò neppure a riflettere: il suo risentimento nei confronti di Sara e l'intenso istinto protettivo che aveva nei confronti del fratello fecero divampare immediata la sua ira. «Lascialo stare, cagna!» stridette, attraversando a precipizio la stanza e trascinando il bambino lontano dalla matrigna. Non era certo stata sua intenzione permettere che la situazione sfuggisse al controllo... dopo tutto quella era la sua matrigna... ma quando Sara la schiaffeggiò perse del tutto
la testa e riuscì a mettere a segno un colpo deciso prima che Sara reagisse ed entrambe rotolassero sul pavimento mordendo, graffiando, tirandosi a vicenda i capelli e stridendo come due gatte selvatiche, mentre sullo sfondo Antor aggiungeva i propri strilli spaventati al chiasso generale. Nessuna delle due sentì Vannor entrare ed entrambe si accorsero della sua presenza soltanto quando lui si addentrò nella mischia e separò con decisione la moglie e la figlia. Una sola occhiata al volto paterno fu sufficiente per trasformare in orrore l'ira di Zanna mentre nella stanza scendeva un silenzio di tomba infranto soltanto dai lamenti di Antor e, dopo qualche istante, da una risatina proveniente dalla porta. «Vannor, devo proprio dire che hai in casa due leonesse! Non immaginavo che la tua vita domestica fosse tanto interessante!» Con orrore crescente, Zanna si rese conto che sulla soglia c'era uno sconosciuto che aveva assistito alla sua vergognosa rissa con Sara... e nonostante il proprio profondo imbarazzo sentì il cuore mancarle un battito alla vista di quel giovane avvenente mentre Vannor la fissava per un momento ancora con espressione più che mai furente prima di girarsi verso il visitatore con un sorriso forzato sulle labbra. «Yanis, ti dispiacerebbe scendere dabbasso mentre chiarisco questa faccenda?» chiese. «Sai dove tengo da bere.» Intanto quell'interruzione aveva dato a Sara il tempo di riordinare le idee, e non appena lo sconosciuto se ne fu andato lei si aggrappò al gomito del marito. «Vannor, mi ha aggredita! E guarda cos'ha fatto quel monello! Insisto perché tu li punisca, altrimenti...» «Altrimenti cosa? Tornerai alla povertà da cui ti ho tolta?» ritorse Vannor, cupo in volto. Di fronte a quelle parole Sara impallidì e tacque immediatamente, mentre Zanna sospirò di sollievo perché aveva temuto che suo padre fosse talmente infatuato di Sara da prendere le sue difese. Il suo sollievo ebbe però vita breve, perché quando Vannor si girò verso di lei la sua espressione mise bene in chiaro che Sara non era la sola ad essere nei guai. «Va' nella tua stanza» ringhiò infatti il mercante. «Mi occuperò di te più tardi.» Quando Vannor la raggiunse nella sua stanza, Zanna scoprì di non poter sopportare la sua delusione anche se era stata pronta a fronteggiare la sua ira. «Credevo di poter far affidamento sul tuo buon senso» tempestò infatti
Vannor. «Mi rendo conto che senti la mancanza di tua madre... ma credi forse che non la senta anch'io? So che non vuoi vedere Sara al suo posto, ma non intendo permettere che la mia casa venga trasformata in un campo di battaglia. Sara è la tua matrigna, Zanna, e tu la tratterai con il dovuto rispetto.» Soffocata dalle lacrime, Zanna non riuscì a replicare e suo padre, che era stato sul punto di lasciare la stanza tornò subito indietro per cingerle con un braccio le spalle scosse da singhiozzi. «Avanti, non piangere. Non sono tanto stupido da addossare a te tutta la colpa di quello che è successo. Ho parlato con Sara» aggiunse, assumendo un'espressione così cupa da indurre Zanna a chiedersi cose i due si fossero detti, «e ti prometterò che non maltratterà ancora Antor. Però lei non è abituata ai bambini, e...» «Dannazione, papà, perché devi sempre giustificarla? Non vedi che lei è...» esplose poco opportunamente Zanna prima di potersi trattenere, e venne zittita bruscamente da uno schiaffo di Vannor. «Bada a quello che dici, ragazza, altrimenti gli dèi mi sono testimoni che ti...» Con il volto contratto dall'ira e dall'angoscia Vannor lasciò la stanza a grandi passi, sbattendosi la porta alle spalle e scese al piano di sotto in uno stato di assoluto sconforto perché da un lato si vergognava di come aveva appena reagito e dall'altro era nauseato dalla scenata avuta in precedenza con Sara. Massaggiandosi la testa dolorante si chiese perché sua moglie e sua figlia, che lui adorava entrambe, non riuscissero ad andare d'accordo, domandandosi al tempo stesso se quella spaventosa serata sarebbe mai finita. Quando se n'era andato quella mattina tutto in casa procedeva senza problemi come di consueto, ma erano bastate le poche ore della sua assenza perché nel rientrare trovasse una situazione di assoluto scompiglio. Nel breve tempo trascorso dal suo ritorno aveva dovuto calmare il figlio in lacrime e consegnarlo all'irritata Dulsina (che, a giudicare dall'espressione che aveva sul volto, era decisa a dirgli il fatto suo prima che quella notte si fosse conclusa), poi aveva licenziato la bambinaia che si era trovata in giardino a flirtare con il giardiniere mentre Antor combinava i suoi disastri... e dopo aver mandato via la ragazza in lacrime si era trovato davanti la cuoca infuriata che, con i bagagli in mano, gli aveva annunciato che se il suo banchetto per il Solstizio non era più adeguato alle esigenze di quella casa per il futuro avrebbe potuto provvedere a cucinarsene uno da solo. Poi Hebba se n'era andata senza guardarsi indietro, e come se tutti
questi disastri non fossero stati già più che sufficienti ad essi lui era riuscito ad aggiungere una furente lite con Sara, che adesso si rifiutava di rivolgergli la parola, e per di più aveva anche fatto del male alla sua figlia prediletta. Questo sarà davvero un brutto Solstizio, pensò con amarezza, dirigendosi verso l'ambito rifugio offerto dalla sua biblioteca, e soltanto allora si ricordò con un gemito del suo visitatore: se quell'idiota era tanto disperato da presentarsi a casa sua, questo poteva soltanto far presagire guai in vista. Quando Vannor entrò nella biblioteca Yanis, che era seduto accanto al fuoco, scattò in piedi con un'espressione tesa e ansiosa sul volto avvenente. «Vannor, mi dispiace di essere venuto qui in questo modo e so cosa mi avevi detto in merito alla necessità di mantenere la segretezza, ma...» cominciò, poi distolse lo sguardo e si morse un labbro, borbottando: «Oh, dèi, non è stata colpa mia, lo giuro! Come potevo sapere che avrebbero...» «Calma calma!» lo interruppe Vannor, sollevando le mani per troncare a metà lo sfogo del giovane. «Se queste sono altre cattive notizie, Yanis, per l'amore degli dèi lascia prima che beva qualcosa.» Quella notte Vannor non fu il solo a recarsi in camera di Zanna. Sara infatti si presentò pochi istanti dopo che lui se n'era andato e si trattenne per pochissimo tempo, pronunciando però parole che ebbero l'effetto di raggelare Zanna per il terrore. «Ebbene, marmocchia... dal momento che sei tanto protettiva nei confronti dei bambini forse è ora che tu ne abbia di tuoi» dichiarò, in un tono mielato pervaso di cattiveria. «Adesso che hai compiuto quindici anni dovrò prendere più seriamente i miei doveri di matrigna e cominciare a cercare per te un marito adeguato!» Poi girò sui tacchi e se ne andò fra un frusciare di gonne. Il timore del futuro tenne Zanna sveglia nel buio per molto tempo dopo che le sue lacrime si furono esaurite, perché sapeva che adesso Sara non si sarebbe fermata finché non fosse riuscita a togliersi definitivamente dai piedi l'ostacolo costituito dalla figliastra. Essendo una ragazza dalla mente pratica che affrontava i problemi in maniera diretta, Zanna era consapevole che il suo matrimonio costituiva la soluzione più ovvia al problema di Sara e a quell'idea si sentiva raggelare, certa che lei l'avrebbe costretta a vestirsi come una stupida bambola, avrebbe indotto Vannor ad attribuirle una dote enorme e l'avrebbe rifilata al primo arrogante figlio di mercante che avesse desiderato mettere le mani sui suoi soldi! Quel pensiero la riempiva di un
panico tale da indurla a desiderare di fuggire... ma dove poteva andare? All'improvviso, e senza nessun motivo apparente, il volto del misterioso visitatore di suo padre le affiorò nella mente con i suoi incolti e arruffati capelli scuri e con i suoi occhi grigio scuro che si erano socchiusi agli angoli quando lui aveva sorriso nel contemplare la scena offerta dalla camera di Sara. Poi la porta della sua stanza si aprì senza far rumore e Zanna sussultò, arrossendo, perché era consapevole che la sua espressione doveva tradire ciò che stava pensando; un momento più tardi constatò con sorpresa che la sua visitatrice era Dulsina. «Shhh» sussurrò la governante. «Accendi la candela e vestiti. Andrai via di qui per un po'.» «Cosa?» esclamò Zanna, immobilizzandosi e sentendo la gola che le si contraeva per l'orrore. «Papà mi sta mandando via?» sussurrò quindi, riuscendo a stento a parlare. «No, razza di ochetta... come se potesse mai fare una cosa del genere! Ascoltami, Zanna: stanotte la tua matrigna è furiosa quanto uno sciame di vespe, e adesso che hai causato una lite fra lei e Vannor cercherà...» «So cosa ha intenzione di fare» interruppe con aria infelice Zanna, «ed è assai peggio di quanto tu possa immaginare. Vuole trovarmi un marito, Dulsina!» «L'ho sentito!» annuì la donna, cupa in volto. «Origliare è un privilegio di tutte le governanti! Certamente Vannor non è un tale idiota senza cuore da costringerti a prendere marito contro la tua volontà... ma sai quanto è deciso a fare in modo che le sue figlie contraggano dei buoni matrimoni, il che lo porterebbe a esercitare delle indubbie pressioni su di te. In ogni caso sei ancora troppo giovane per pensare a sposarti, indipendentemente dalle usanze in vigore fra questi idioti di mercanti, quindi ho pensato di mandarti presso mia sorella Remana fino a quando le acque non si saranno calmate. Antor potrà venire con te... e stare per un po' senza voi due avrà forse l'effetto di far rinsavire il vecchio Vannor.» Zanna si chiese se stava sognando, perché anche se poteva essere saggio allontanarsi da casa finché Sara non si fosse calmata non era comunque tipico della sensata Dulsina avere un'idea così pazzesca, senza contare che mai prima di allora la governante si era azzardata a criticare suo padre. Stordita dallo sconcerto, si vestì con indumenti caldi e provvide a preparare un po' di bagaglio secondo le direttive di Dulsina. «Tu hai una testa sensata, Zanna» continuò intanto la governante, «e so
che ti si può affidare senza rischio un segreto. Mia sorella Remana è... o forse dovrei dire era... la moglie di Leynard, il capo dei Corsari della Notte.» Zanna la fissò a bocca aperta, immobilizzandosi con una camicia da notte parzialmente ripiegata stretta in mano. I Corsari della Notte? Quegli elusivi contrabbandieri che violavano la proibizione a commerciare con i Regni Meridionali per importare sete, gemme e spezie, e che avevano spinto alla disperazione generazioni di comandanti della guarnigione? La contegnosa Dulsina aveva una sorella sposata ad un contrabbandiere? «Tanto vale dirti tutto» stava proseguendo Dulsina. «Tuo padre ha accumulato la sua fortuna commerciando in società con i Corsari della Notte, e il visitatore giunto stanotte è mio nipote Yanis, che è divenuto il capo dei Corsari lo scorso anno, dopo che Leynard è scomparso in mare. Quando ripartirà, lui vi porterà con sé. Ricorda che Yanis ha paura di Vannor» aggiunse la governante, con un bagliore divertito nello sguardo, «quindi è meglio che non sappia la verità. Ti darò un messaggio da consegnare a mia sorella, che si prenderà cura di voi.» «Ma come reagirà papà?» protestò Zanna. «S'infurierà di certo! E poi cosa farò se Sara mi troverà lo stesso un marito? In ogni caso, se conosco papà mi verrà a prendere immediatamente, senza contare che sentirò la sua mancanza. Come posso lasciarlo... per di più alla vigilia del Solstizio?» «Ti preoccupi troppo, bambina» dichiarò Dulsina, abbracciandola. «Vannor non biasimerà te... s'infurierà con me. E quanto a Sara, sarà troppo occupata per fare qualsiasi cosa. Una volta che te ne sarai andata, Vannor scoprirà chi stava effettivamente mandando avanti la casa perché io non coprirò di certo la falla lasciata dalla tua partenza. Che provveda Sara a tutti quei noiosi dettagli che tu ti sei sempre addossata: se vuole recitare il molo della grande dama è tempo che impari che questo non comporta soltanto starsene seduti a contare i propri gioielli.» «Ma cosa farò se papà mi verrà a cercare?» insistette Zanna. «Impossibile» ribatté in tono deciso Dulsina. «La posizione del covo dei contrabbandieri è un segreto così assoluto che Leynard non ha mai voluto rivelarlo neppure al suo socio, quindi Vannor non potrà sapere dove ti trovi ed io non glielo dirò di certo... a meno che si tratti di un'effettiva situazione d'emergenza. Fidati di me, mia cara, e andrà tutto bene.» Zanna esitò ancora... ma poi pensò a come sarebbe stato il suo futuro se fosse andata in moglie allo stupido figlio di qualche mercante che di certo non l'avrebbe amata. Infatti non si faceva illusioni in merito al proprio a-
spetto e sapeva di essere di bassa statura e tozza come suo padre, con un volto semplice e deciso che non la rendeva di sicuro una di quelle fragili bellezze con cui i mercanti benestanti amavano decorare la propria dimora opulenta. La sua dote principale era un cervello svelto e intelligente, e la sua più grande frustrazione era che suo padre non le permettesse di lavorare insieme a lui. «Chi ha mai sentito parlare di una donna mercante?» era solito rimproverarla con gentilezza Vannor. «È una cosa che non si fa, ecco tutto.» Però ci sono donne che fanno le Maghe, e donne guerriere, quindi vorrei proprio sapere perché non ci possa essere anche una donna mercante, pensò con risentimento: poi tornò con la mente all'incontro di quel pomeriggio con Lady Aurian e con Maya e disse a se stessa: Volevi essere come loro, e forse questa è l'occasione per diventarlo! «Hai ragione» dichiarò, sollevando con decisione il mento nel voltarsi verso Dulsina. «Sono pronta a partire.» Yanis lasciò in fretta la casa dalla porta posteriore, con gli orecchi ancora arroventati dagli epiteti di Vannor e riflettendo che l'ira del vecchio socio di suo padre era davvero tale da terrorizzare chiunque. «Non è stata colpa mia!» borbottò con impotenza... ma dopo la spiacevole serata appena trascorsa con Vannor quella giustificazione cominciò ad apparire inconsistente perfino a lui stesso. «In che cosa sto sbagliando?» si chiese quindi, mentre si dirigeva verso il fiume attraverso il giardino a terrazza del mercante, con gli stivali da marinaio che scricchiolavano sommessamente nell'affondare nel terreno coperto di neve. All'epoca in cui accompagnava suo padre nel sud tutto gli era parso abbastanza semplice, perché Leynard gli aveva insegnato come trovare la strada fino all'isolata e remota baia dove avevano luogo i loro incontri clandestini con i contrabbandieri meridionali, facendogli memorizzare la sequenza di bagliori luminosi che costituivano il segnale segreto per avere accesso sicuro nelle acque del meridione. Purtroppo suo padre non gli aveva trasmesso un'informazione di vitale importanza, e cioè come evitare di essere truffato da quei viscidi bastardi... «Ehi! Yanis!» Il contrabbandiere si girò di scatto, portando la mano alla spada, e rimase stupefatto nel vedere sua zia Dulsina che lo chiamava con un cenno dai cespugli che crescevano in fondo al giardino, vicino al piccolo e adorno casotto nel quale Vannor teneva la sua barca da diporto; al tenue chiarore
del cielo reso pallido dalla neve imminente pareva che la donna avesse fra le braccia un grosso fardello così avvolto in strati di scialli da sembrare quasi circolare. Non appena si fu avvicinato Dulsina lo afferrò per un braccio con la mano libera e lo trascinò al riparo dei cespugli. «Ascolta» gli disse senza preamboli. «Vannor vuole che tu porti i suoi figli a vivere per un po' con Remana.» «Davvero?» ribatté Yanis, sconcertato. «A me non ha detto nulla, Zia Dulsina... e poi perché siete nascosti fra i cespugli?» «Perché tu non dovresti essere qui, ricordi?» replicò Dulsina, con un sospiro. «Vannor ha pensato che se avessi lasciato la casa insieme ai suoi figli avresti dato troppo nell'occhio, quindi io li ho accompagnati qui ad incontrarti. Adesso va'... abbi buona cura dei figli di Vannor e ricorda di portare i miei saluti e il mio affetto a tua madre. Mi raccomando, Yanis, sta' attento e non farti prendere.» Prima che il giovane potesse ribattere la governante gli scaricò fra le braccia il figlio di Vannor e si allontanò in fretta dopo aver abbracciato la figura avvolta in uno spesso mantello che aveva accanto e che Yanis suppose essere la figlia del mercante. Senza parole per lo sconcerto, il giovane ficcò fra le braccia della ragazza lo scalciante fardello che gli era stato affidato e si chinò per tirare la corda a cui era ancorata la sua piccola imbarcazione, nascosta al riparo di alcuni salici che crescevano lungo il limitare dell'acqua. Nonostante il ghiaccio che rendeva scivoloso il molo, riuscì quindi in qualche modo a caricare a bordo la ragazza, il bambino e i loro numerosi fagotti... e quando furono tutti sistemati si accorse con sgomento che la figlia di Vannor stava piangendo con il volto premuto contro un fazzoletto di pizzo. «Stai bene?» le chiese, in tono nervoso. «Sì» fu la risposta, pronunciata con voce che era appena un sussurro. Poi con suo sollievo la ragazza si mise a sedere più eretta, si sistemò in grembo il bambino e mise via il fazzoletto. «Sì» ripeté con voce più decisa. «Sto bene. Non mi piace l'idea di lasciare mio padre ma ho sempre desiderato l'avventura e sono nauseata di restarmene a casa a cucire e a occuparmi di tutti quegli altri noiosi lavori femminili.» «Parli come mia madre» sorrise Yanis, riflettendo che dopo tutto quella ragazza non gli avrebbe causato problemi. «Anche lei voleva l'avventura, e ha finito per sposare un contrabbandiere.» Dall'ombra del cappuccio della ragazza giunse una risatina divertita. «Se non altro, allora, sto andando nel posto giusto» commentò lei.
Ridendo a sua volta, e pensando che la figlia di Vannor era senz'altro una ragazza divertente. Yanis prese i remi e cominciò a remare con decisione verso valle nella notte scintillante di brina, per raggiungere la sua piccola nave veloce che era ancorata in una tranquilla cala oltre il promontorio del porto di Norberth. Grato che nel periodo del Solstizio le ore di oscurità fossero più numerose di quelle diurne, Yanis ordinò di alzare le vele grigie come fantasmi e pilotò la nave fuori della rientranza che l'aveva nascosta ad occhi indiscreti fino a sboccare in mare aperto. I due passeggeri, sfiniti dal viaggio, stavano dormendo profondamente nel frapponte e questo era per lui un sollievo perché gli sarebbero stati soltanto d'impiccio sul ponte mentre era impegnato a seguire al buio la pericolosa linea costiera per evitare le rotte più sicure ma affollate dalle flotte di barche da pesca provenienti dai villaggi e dalle grosse e goffe navi dei mercanti legittimi. Inoltre, era meglio che i due passeggeri rimanessero lontani dall'equipaggio, che dopo il disastroso viaggio nel sud era di un umore che sconfinava con la ribellione ed aveva dimostrato chiaramente di essere tutt'altro che contento di avere la responsabilità di quegli inattesi passeggeri: Vannor infatti, pur avendo arricchito i Corsari della Notte con i suoi contatti commerciali, godeva ancora presso di loro della reputazione di un uomo a cui non era salutare fare dei torti, e tutti temevano le sue reazioni qualora fosse successo qualcosa ai suoi figli. «E se si scatenasse una tempesta?» aveva obiettato Gevan, il nostromo. «Cosa succederà se quei ragazzi dovessero cadere fuoribordo e annegare? E cosa dirà Vannor se una delle pattuglie di Forral dovesse sorprenderci con a bordo i suoi marmocchi? Quel grosso bastardo della guarnigione sta diventando decisamente troppo astuto.» «E se... e se!» lo aveva deriso Yanis. «Perché ti preoccupi, dato che è stato lo stesso Vannor a mandare con noi i suoi figli?» «E cosa mi dici della ragazza?» aveva insistito Gevan, imperterrito. «Io ho sempre sostenuto che una nave non è posto per una donna.» «È meglio che tu non ti faccia sentire da mia madre a dire una cosa del genere» aveva sorriso Yanis. «Userebbe i tuoi intestini come cordame per la velatura.» «Ma io non considero tua madre una donna: lei è un marinaio nato, il che non si può dire di quella ragazzina nel frapponte» aveva ribattuto il nostromo, e si era allontanato continuando a borbottare fra sé.
In realtà anche Yanis aveva i suoi dubbi, che erano però di natura diversa da quelli nutriti dal resto dell'equipaggio che aveva visto soltanto la figura minuta di Zanna avviluppata nello spesso mantello. Gli altri pensavano che lei fosse ancora una bambina... ma Yanis l'aveva vista lottare con la moglie di Vannor e sapeva che era più matura di quanto sembrasse. Le lunghe e lente ore del viaggio per discendere il fiume gli avevano dato il tempo di riflettere su quanto era successo, e le conclusioni a cui era giunto non gli piacevano molto. Perché Vannor aveva deciso senza preavviso mandare i suoi figli con i contrabbandieri? Perché non gli aveva parlato prima della cosa e per quale motivo Zia Dulsina era apparsa così all'improvviso e li aveva incitati a partire tanto in fretta? Queste domande potevano avere soltanto una risposta. «Quell'astuto bastardo ha mandato sua figlia a spiarmi» borbottò fra sé. Era tutto fin troppo evidente. Infuriato perché lui era stato imbrogliato dai Meridionali, Vannor aveva incaricato sua figlia di mescolarsi ai contrabbandieri per sondare i loro segreti, e dopo che li avesse scoperti... d'un tratto Yanis imprecò violentemente, Il comando! Vannor aveva intenzione di sottrarglielo e di assumere di persona il controllo delle operazioni di contrabbando. «Oh... siamo in navigazione!» Quella voce che gli risuonò alle spalle strappò a Yanis un sussulto, perché quella dannata ragazza gli si era avvicinata con passo tanto silenzioso da coglierlo del tutto alla sprovvista mentre era intento a pilotare. «Mi stai già spiando, vero?» ringhiò, spinto dalla sorpresa a dare voce ai propri sospetti. «So cosa stai combinando, ragazza, ma non funzionerà.» Durante il tragitto lungo il fiume Yanis era stato tanto gentile con lei e con Antor che adesso Zanna rimase sconvolta dall'improvvisa ostilità del suo tono di voce e dovette mordersi un labbro per trattenere le lacrime: quando si era avventurata sul ponte il resto dell'equipaggio si era mostrato così poco amichevole nei sui confronti che lei aveva fatto affidamento sul sostegno del suo capo, e non riusciva a capire cosa potesse aver fatto per destare la sua ira. Ricordando i modi gravi e dignitosi di cui Dulsina si serviva per dissipare le ire di Vannor. si eresse allora al massimo della sua scarsa statura. «Se davvero sai cosa sto combinando» ribatté con freddezza, «allora spero che me lo dirai, perché io invece non ne ho idea.» «Non ne hai idea, eh?» la derise Yanis. «Tu e Vannor non immaginavate
che fossi abbastanza intelligente da indovinare cosa stavate tramando, vero? Credevate che il povero, stupido Yanis non avrebbe mai capito che lo si stava spiando, considerato che è tanto tardo di cervello da lasciarsi imbrogliare dai Meridionali.» La maggior parte del significato di quello sfogo sfuggì a Zanna, che però colse l'amarezza nel tono di Yanis e gli sentì fare il nome di suo padre. «Papà?» esclamò. «Ma lui non sa neppure che io sono qui. Un momento più tardi si premette con espressione inorridita una mano sulla bocca, ma ormai era troppo tardi e Yanis la stava fissando con occhi socchiusi.» «Cosa?» stridette. «Lui non sa che voi siete qui?» Per gli dèi, che aspetto minaccioso aveva! Indietreggiando davanti all'ira del giovane, Zanna cominciò a parlare a precipizio nel tentativo di spiegarsi. «Ecco, naturalmente a quest'ora deve essere stato informato da Dulsina, ma quando ce ne siamo andati lui non ne sapeva niente...» cominciò, lasciando poi che la voce le si spegnesse perché Yanis non la stava certo aiutando a spiegarsi e la fissava invece con aria tempestosa. «Dovevo allontanarmi da Sara» continuò quindi. «Lei aveva intenzione di darmi in moglie a qualche stupido figlio di mercante dalla faccia da vitello.» «Non ti ha mandata Vannor?» chiese Yanis, fissandola a bocca aperta, e nell'incontrare il suo sguardo con un sospiro, Zanna rifletté che non c'era da meravigliarsi che i Meridionali fossero riusciti a raggirarlo. «No» ripeté. «Dulsina ha detto che se ti avessimo spiegato tutto non ci avresti accettati a bordo, e quindi temo che non ti abbia detto la verità» spiegò, scrollando le spalle. «Per i denti degli dèi! Vi devo riportare indietro prima che lui scopra cosa è successo!» esclamò allora Yanis, girando il timone con tanta violenza che la nave oscillò e tremò, inclinandosi da un lato allorché il vento smise di gonfiare le sue vele, mentre da tutto il ponte giungevano le imprecazioni dei membri dell'equipaggio che erano stati sballottati a destra e a sinistra dalla manovra improvvisa. «No!» gridò Zanna. «Non puoi farlo!» Senza riflettere cercò quindi di sottrarre la ruota del timone alla stretta di lui in modo da riportare la nave sulla rotta originale, e per un pericoloso momento i due lottarono uno contro l'altra mentre la nave oscillava e s'inclinava sempre più. «Idiota!» tuonò poi Yanis. «Ci farai rovesciare!» Cedendo alla pressione esercitata dalla ragazza permise quindi alla nave
di tornare a girarsi ed esalò un sospiro di sollievo quando il vento riprese a gonfiare le vele grigie e lo scafo si raddrizzò. «Scendi nel frapponte!» ingiunse allora a Zanna. «Dovrei gettarti fuoribordo!» «Non mi muoverò finché non avrai ascoltato tutto quello che ho da dire» ribatté Zanna, restando dove si trovava. «Non ci puoi riportare indietro.» Quello stupido non si rendeva conto che lei stava soltanto cercando di tenerlo lontano dai guai! Anche se lui non era responsabile della scomparsa dei suoi figli, Vannor non avrebbe certo visto le cose secondo questa stessa ottica, quindi lei cercò disperatamente un modo per indurre Yanis a cambiare idea. «Vuoi che il tuo equipaggio scopra in che modo sei stato raggirato?» domandò. «Ti deriderebbero tutti!» «Yanis, si può sapere cosa diavolo stai facendo lassù? Stai forse cercando di mandarci a fondo?» domandò intanto Gevan, venendo avanti con il volto pallido per l'ira sotto l'abbronzatura. «È stata colpa mia» si affrettò a intervenire Zanna, cercando di apparire contrita. «Io... credevo di poter pilotare, ma...» «Hai permesso a questa bambina di prendere il timone?» chiese allora Gevan, girandosi verso Yanis. «Sei impazzito?» Intanto gli altri membri dell'equipaggio si stavano raccogliendo tutt'intorno, zoppicando e massaggiandosi le ammaccature, per assistere con avida curiosità a quel confronto. «Non puoi biasimare Yanis» insistette Zanna. «Gli ho detto che sapevo come fare.» «Cosa?» esclamò Yanis, mostrandosi sconcertato. «Ma...» Zanna lo interruppe sferrandogli un violento calcio ad una caviglia. «Mi dispiace davvero, signore» proseguì intanto, rivolgendo al nostromo il suo sorriso più affascinante, poi sussultò quando Yanis le parlò all'orecchio. «Prendi il timone per un momento... bada solo a tenere la nave su questa rotta» sussurrò il giovane, e prima ancora di capire cosa stava succedendo Zanna si trovò a stringere il timone con mani tremanti e con la schiena rigida per l'ansia. «Che Thara ci protegga!» commentò con disgusto Gevan. «Non so chi di voi due è il più stolto...» Le sue parole si conclusero con un gorgoglio soffocato quando Yanis lo sollevò di peso dal ponte afferrandolo per la camicia e per quanto lui si di-
battesse lo bloccò contro la murata, con un ginocchio piantato contro l'inguine e la testa del nostromo che pendeva verso le onde che si agitavano schiumanti lungo il fianco della nave. «Adesso chiederai scusa alla signora per il tuo immondo linguaggio e dopo chiederai scusa anche a me» ringhiò, allentando la presa sul colletto dell'atterrito nostromo di quanto bastava per permettergli di parlare pur mantenendolo nella pericolosa posizione in cui si trovava, e attese che questi avesse pronunciato annaspando le scuse richieste prima di lasciarlo ricadere sul ponte e di voltarsi verso l'equipaggio sgomento per rivolgersi ad esso nel suo complesso: «So che non avete una grande opinione di me rispetto a quella che avevate di mio padre perché vi ho sentiti borbottare e sussurrare negli angoli... ma ci può essere un solo capitano su questa nave e un solo capo per tutti i contrabbandieri, quindi se qualcuno vuole prendere il mio posto è meglio che parli adesso o rinunci a farlo. Ricordate però che prima dovrete combattere contro di me... e che avrete il comando soltanto sul mio cadavere!» Seguì un lungo momento di silenzio durante il quale lui sostenne lo sguardo dei suoi uomini fino a quando essi si ritrassero ad uno ad uno. Accesa di ammirazione, Zanna stava fissando Yanis con occhi scintillanti, ma invece di posarsi su di lei il suo sguardo si spostò verso... «Attenta!» gridò d'un tratto Yanis, spingendola rudemente di lato e imprimendo al timone una violenta torsione in risposta alla quale la nave deviò e oscillò fra uno scricchiolare di fasciame e di alberatura. Sbilanciata da quello spostamento, Zanna cadde a sedere sul ponte, e in quel momento intravide sullo sfondo del cielo stellato alcune aguzze forme irregolari, sentendo al tempo stesso il fragore delle onde che s'infrangevano contro la roccia; poi la nave si raddrizzò e Yanis si girò verso di lei con un sorriso, porgendole la mano per aiutarla a rialzarsi. «Quando si naviga di notte così vicino alla costa bisogna tenere gli occhi bene aperti» disse in tono allegro, mentre Zanna lo fissava a bocca aperta e con il cuore in gola. «A parte questo te la sei cavata molto bene per essere la prima volta» aggiunse lui, in tono condiscendente. «Forse riusciremo a fare di te un marinaio.» «Io non ci conterei troppo» ritorse debolmente Zanna. «Per gli dèi. Yanis... non avevo visto quella roccia perché era troppo buio. Come hai fatto ad accorgerti della sua presenza?» «Vedi che non sono stupido quanto sembro?» rise il giovane, strizzandole l'occhio. «Anche se sono stato ingannato dai Meridionali!»
«Non ho mai detto che tu fossi stupido!» protestò Zanna. «No, ma tuo padre lo ha fatto e ha detto anche molte altre cose» ribatté lui, e per quanto si fosse espresso in tono leggero Zanna avvertì una nota di amarezza nella sua voce. «Cosa è successo?» gli chiese, in tono sommesso. «Questo commercio con la gente del sud si protrae da un tempo molto lungo... si potrebbe dire che è un'attività di famiglia» spiegò Yanis, con un sospiro. «Quando Vannor si è messo in società con papà e ci ha trovato nuovi mercati le cose hanno cominciato ad andare a gonfie vele. Noi commerciamo con i loro Corsari, che dovrebbero difendere le coste del Regno Meridionale ma che in realtà sono il peggior gruppo di furfanti e di ladri che potrai mai incontrare. Pur di gonfiarsi le tasche sono pronti a fare qualsiasi cosa.» «Quali sono le merci che trattate?» domandò Zanna, affascinata. «Svariate cose» rispose Yanis, scrollando le spalle. «La loro è una terra arida e calda che è poco coltivabile, quindi noi cediamo legname, lana e grano... merci che qui sono abbastanza comuni ma che nelle loro terre valgono una fortuna... e otteniamo in cambio spezie, sete e gemme. O almeno dovremmo ottenerle» aggiunse in tono cupo. «Questa volta, quando siamo tornati indietro e abbiamo aperto le casse, abbiamo scoperto che sotto un primo strato di merci c'era soltanto sabbia!» «Ma non hai pensato a controllare prima?» esclamò Zanna, stupita. «Controllare?» ribatté Yanis, fissandola con occhi roventi. «Questo non è un gioco, sai, è una cosa dannatamente seria e di una pericolosità mortale. Non abbiamo il tempo di fare controlli. Ci avviciniamo alla costa, scambiamo le merci più in fretta che possiamo e torniamo a casa alla massima velocità!» «Hmm...» mormorò Zanna, riflettendo con espressione accigliata. «In tal caso l'intera operazione è basata sulla buona fede. Lascia fare a me» aggiunse quindi, sulla spinta di un impeto di entusiasmo derivante dal trovarsi davanti ad una vera sfida. «Ti prometto che troverò il modo di raggirare quei Meridionali mentitori.» La bocca del giovane contrabbandiere si contrasse in un sorriso che lui non riuscì a contenere. «Certo che ce la farai» replicò quindi, con il tono gentile che avrebbe usato con un bambino molto piccolo e che fece ribollire interiormente Zanna, in quanto dimostrava che lui non aveva fede nelle sue capacità. D'altro canto Yanis aveva appena deciso di non riportarla da Vannor...
quindi per il momento non poteva rischiare di scatenare una lite. «Adesso devo tornare da Antor» disse in tono pacato, allontanandosi, ma in realtà si trattava di una scusa per scendere nel frapponte dove sarebbe stata libera di riflettere intensamente. Gli farò vedere io, disse a se stessa. Forse lui non lo sa ancora, ma ha bisogno della mia astuzia. So che mi posso creare un posto fra i contrabbandieri e li porterò a rispettarmi, fosse l'ultima cosa che faccio. CAPITOLO TREDICESIMO UN DONO DI SOLSTIZIO Aurian si appoggiò all'indietro contro lo schienale della sedia e bevve un altro sorso dal suo boccale di birra. «Sono stupefatta che Miathan si sia mostrato comprensivo in merito al fatto che tu ed io si sia diventati amanti, soprattutto dopo...» cominciò, ma poi s'interruppe di colpo, mordendosi un labbro, perché non osava ancora parlare con Forral dell'attacco da parte dell'Arcimago contro di lei. «Se la sua approvazione fosse stata soltanto una finta credo che ormai la sua facciata di condiscendenza si sarebbe incrinata, ma dopo quasi quattro mesi... Ultimamente ammetto di non averlo visto spesso perché è impegnato con un suo progetto di qualche tipo» proseguì scrollando e spalle, «ma quando lo incontro è gentile come sempre, e il modo in cui fa finta di non vedere che tu dormi con me all'Accademia e ci difende con gli altri Maghi...» D'un tratto sospirò e lasciò la frase in sospeso. «Sei ancora turbata per questo contrasto con Meiriel, vero?» domandò Forral. «Non posso evitarlo, Forral. Non m'importa degli altri... Eliseth e Bragar sono sempre stati marci nel profondo dell'anima, per non parlare di Davorshan, ma Meiriel... non avrei mai creduto che potesse nutrire simili pregiudizi! Ha perfino tentato di rifiutarsi di insegnarmi altro finché non è intervenuto Miathan. È terribile perdere un'amica in questo modo, ma neppure Finbarr riesce a farle cambiare idea.» «Non ci pensare, tesoro» la consolò Forral, posando la mano su quella di lei. «Se Meiriel vuole comportarsi così noi non possiamo farci nulla, senza contare che se fosse stata il genere di amica che tu credevi che fosse si sarebbe invece mostrata contenta per te.» «È quello che ha detto anche Anvar» annuì Aurian, riuscendo a sorridere. «Adesso è molto cambiato dalla creatura terrorizzata che abbiamo sal-
vato il Solstizio scorso, e devi ammettere che avevo ragione io sul suo conto.» «È vero, e ne sono contento. Nonostante quello che Miathan ha detto di lui. Anvar è risultato essere un bravo ragazzo.» «Questa è una cosa che mi lascia perplessa» osservò Aurian, accigliandosi. «Anche se è meraviglioso nel prendersi cura di me Anvar sorride di rado ed è ancora terrorizzato dall'Arcimago, sebbene non voglia dirmi il perché. Per di più, rifiuta di parlare del suo passato e della sua famiglia. Mi piacerebbe aiutarlo, perché appare sempre tanto infelice, ma come posso farlo se non si fida di me?» domandò, fissando il boccale di birra con occhi incupiti. «Per gli dèi, quanto detesto i misteri!» Era la Vigilia del Solstizio, e i due avevano cominciato per tempo i festeggiamenti con una visita all'Unicorno Invisibile, una taverna che sorgeva abbastanza vicina alla guarnigione da costituire il ritrovo preferito dei soldati fuori servizio. La sala comune lunga e bassa era un po' malandata ma accogliente con il suo soffitto di travi robuste e il grande focolare di mattoni rossi dall'apertura arcuata nel quale ardeva sempre un fuoco vivace. Le pareti un tempo bianche erano adesso rese meno nude da una patina di fumo e il pavimento era coperto da uno spesso strato di segatura che serviva ad assorbire la birra rovesciata e il sangue versato nelle occasionali risse che di solito il tollerante taverniere fingeva di non notare. La compagnia piacevole e la birra eccellente ne facevano uno dei locali preferiti di Aurian. ma questa notte lei aveva la testa troppo ingombra di pensieri per riuscire davvero a rilassarsi e a divertirsi. «Non puoi certo biasimare quel ragazzo» commentò Forral, protendendosi a rabboccare i boccali di entrambi da una caraffa di peltro posata sul tavolo. «Anche avendo la più gentile fra le padrone essere un servo vincolato deve essere una cosa terribile: dopo tutto lui ha perso la famiglia e ogni possibilità di avere un futuro... e se avesse avuto una ragazza? Che ne è stato di lei? Per gli dèi, questa pratica della servitù vincolata è davvero una barbarie!» Quella della servitù era per Forral una nota dolente a causa della quale nel corso dell'anno si era scontrato ripetutamente ma senza successo con gli altri membri del consiglio e in particolare con l'Arcimago. «Se però Anvar non vuole confidarsi con te, cosa puoi fare?» aggiunse dopo un momento. «Dopo che lo hai salvato come hai fatto, trovo strano che non si fidi almeno di te» rifletté, accigliandosi. «Però hai ragione su un punto... l'odio che Miathan nutre nei suoi confronti è davvero strano, con-
siderato che non si accorge neppure della presenza degli altri servitori. Adesso però non ti preoccupare di questo, tesoro» proseguì, notando l'espressione sempre più cupa di Aurian. «È la Vigilia del Solstizio e dovremmo divertirci... un momento, ho un'idea: che ne diresti se stasera portassi Anvar fuori con me mentre tu sei al banchetto dei Maghi? Vorrei che non dovessi andarci, ma in ogni caso potremo poi festeggiare per conto nostro più tardi, e fare baldoria con me e con i soldati potrebbe tirare su di morale quel povero ragazzo.» «È un pensiero gentile, Forral» annuì Aurian. illuminandosi in volto. «Quando tornerò all'Accademia avvertirò Elewin... del resto al banchetto ci sono sempre servitori a sufficienza perché l'assenza di Anvar passi inosservata. Vorrei poter venire con voi, ma non oso rischiare di irritare Miathan... non ora che siamo in rapporti così instabili con gli altri Maghi. In ogni caso, io e Finbarr abbiamo un piano per tirare su il morale di D'arvan stanotte... ha proprio bisogno di compagnia perché ha avuto una brutta annata a causa del modo in cui suo fratello è entrato a far parte della cerchia di Eliseth e del fatto che i suoi poteri non accennano ancora ad affiorare, con il risultato che Miathan manifesta nei suoi confronti una disapprovazione sempre maggiore ad ogni giorno che passa. Ho il sospetto che Eliseth stia cercando di persuadere l'Arcimago a liberarsi di lui in modo da poter avere Davorshan tutto per sé, e anche se è una benedizione che D'arvan si sia trovato degli amici, fra cui Maya, nell'ambito della guarnigione d'altro canto la sua posizione nell'ambito dell'Accademia si sta facendo sempre più isolata. Mi dispiace tanto per lui.» «Altre buone azioni, vero?» ridacchiò Forral, ma Aurian vide la luce d'orgoglio che gli brillava nello sguardo e comprese di avere la sua approvazione. «Del resto questa è la stagione della bontà, giusto?» ribatté, con una smorfia. «Adesso credo sia meglio che cominci a fortificarmi con un po' di birra. Ne rimane ancora un poco?» Anvar sedeva in solitudine sulla sua cuccetta nell'alloggio della servitù, intento a suonare un'aria triste sul piccolo flauto di legno che suo nonno aveva intagliato per lui tanto tempo prima e che costituiva il solo fra i suoi strumenti che lui fosse riuscito a portare con sé all'Accademia. Dietro richiesta di Aurian. il capo della servitù lo aveva esentato dal servire al banchetto e per quanto apprezzasse la gentilezza della Maga nel concedergli quella sera di vacanza il giovane si stava chiedendo a cosa questo potesse
servire, considerato che non aveva dove andare. Come di consueto in questo periodo dell'anno, i suoi pensieri tornavano alle persone care che aveva perduto... suo nonno e sua madre... e a Sara, che adesso era parimenti perduta per lui. Cercando senza successo di allontanare dalla mente il loro ricordo, lui continuava a suonare, fondendo la propria solitudine con le note tristi e dolenti del flauto del nonno. All'improvviso la porta si spalancò e il Comandante Forral apparve sulla soglia. «Ecco dov'eri finito!» esclamò. «Ti ho cercato dappertutto! Cosa ci fai qui tutto solo, ragazzo? Dal momento che stanotte lei deve partecipare al banchetto, Aurian ed io abbiamo pensato che potesse andarti di tenermi compagnia per un po' mentre bevo qualche birra con i ragazzi e le ragazze della guarnigione.» Nel parlare issò in piedi lo stupito Anvar senza quasi dargli il tempo di prelevare il mantello che pendeva da un piolo conficcato nella parete, poi però notò l'aspetto logoro dell'indumento e si arrestò di colpo. «Fuori sta nevicando, ragazzo, e non puoi uscire con indosso quello straccio» dichiarò, accigliandosi, quindi aprì il fermaglio del proprio mantello militare impermeabile e lo drappeggiò intorno alle spalle di Anvar, spingendo con un calcio il mantello vecchio sotto la cuccetta mentre aggiungeva: «Così va meglio. Ti calza bene, dato che hai più o meno la mia stessa taglia, quindi voglio che tu lo tenga come dono di Solstizio, per esserti preso cura così bene di Aurian. Adesso andiamo a prendere quello di riserva che tengo nella stanza di Aurian e poi usciamo a divertirci.» Anvar era sopraffatto dalla sorpresa. Quello era il secondo Solstizio che lui trascorreva all'Accademia, e in tutto quel tempo nessuno gli aveva mai fatto un regalo. Deglutendo a fatica cercò di balbettare qualche parola di ringraziamento, che Forral troncò sul nascere battendogli una mano sulla spalla con fare cameratesco. «Non ci pensare neppure, ragazzo, perché te lo sei meritato» dichiarò. «Adesso andiamo alla taverna: là c'è della buona birra che aspetta soltanto di essere gustata ed è doveroso fare la nostra parte!» Anvar si divertì immensamente all'Unicorno Invisibile, perché le truppe della guarnigione erano piene dell'allegria propria della Vigilia del Solstizio e le chiacchiere, le risate e la birra... offerta da Forral come dono di Solstizio per le sue truppe... scorrevano con pari abbondanza. Poi qualcuno scoprì che Anvar sapeva suonare e nonostante le proteste del taverniere una vecchia e malconcia chitarra venne prelevata dal suo abituale posto strettamente decorativo su una parete: ben presto il piacere di poter suona-
re un vero strumento ebbe la meglio sulla timidezza che Anvar provava all'idea di esibirsi in pubblico e i soldati si unirono a lui nel canto con grande entusiasmo, facendo echeggiare il locale di sguaiate ballate il cui argomento e volume di suono indussero ben presto i clienti più morigerati della taverna ad andare a casa (cosa su cui il taverniere non trovò da obiettare perché aveva notato la velocità con cui le botti di birra si stavano svuotando). La serata passò anche troppo in fretta e ben presto i nuovi amici di Anvar cominciarono a congedarsi. Con riluttanza, lui riappese alla parete la chitarra presa a prestito, riuscendoci dopo parecchi tentativi perché vedeva due chiodi e non riusciva a distinguere o a centrare quello vero; poi lui e Forral tornarono con passo barcollante verso l'Accademia, appoggiandosi uno all'altro ad angolo acuto con un braccio passato ciascuno sulla spalla del compagno; entrambi stringevano nella mano libera una bottiglia di vino e nel percorrere la strada innevata continuarono a cantare, scambiandosi rozze ballate popolari e scurrili canti da caserma, e minacciando di svegliare l'intera città a causa del chiasso che stavano facendo. Ad Anvar però non importava, perché quella sera, per una volta, si stava divertendo davvero. Meiriel invece non si stava divertendo al banchetto dei Maghi. Rigirando sul fondo del boccale la sua scarsa razione di vino ne bevve un piccolo sorso e lasciò scorrere con espressione rovente lo sguardo sull'allegro gruppetto che occupava il tavolo opposto. «Finbarr sembra di buon umore, stanotte» commentò Eliseth, occupando la sedia vuota accanto a quella della guaritrice, e Meiriel si accigliò perché non apprezzava la Maga del Clima e le sue subdole insinuazioni. «Capita di rado che lui si lasci trascinare fuori dei suoi archivi per festeggiare» replicò, scrollando le spalle con apparente indifferenza, «e non è abituato a bere tanto vino.» D'un tratto però la sua ira affiorò in superficie nonostante gli sforzi che stava facendo per nasconderla e aggiunse: «Per Aurian non ci sono problemi, perché lei è abituata a divertirsi a qualsiasi ora con quell'infima marmaglia Mortale della guarnigione...» «Come se non lo sapessimo tutti!» esclamò Eliseth, in tono comprensivo. «Credimi, Meiriel, vediamo come si stanno sviluppando le cose. Quel suo dannato spadaccino passa ormai qui la metà del suo tempo, profanando le nostre sale con la sua presenza, e fra non molto lei comincerà ad invitare il resto dei suoi amici Mortali, distruggendo per sempre la nostra tranquil-
lità e il nostro isolamento. Perché Miathan non pone fine a tutto questo?» «Sai anche tu il perché» ribatté Meiriel, in tono acido. «Aurian riesce a rigirarsi il nostro Arcimago sulla punta del mignolo!» «E non soltanto l'Arcimago, a quanto pare!» osservò Eliseth. indicando il tavolo vicino dove Finbarr e D'arvan stavano ridendo e bevendo con Aurian. La sua frecciata andò a colpire nel segno e Meiriel, già sovreccitata dal vino bevuto, sei sentì arrossire in volto per l'ira. «Bada agli affari tuoi, cagna!» esplose. «Volevo soltanto metterti in guardia» replicò Eliseth, senza che la sua espressione comprensiva subisse alterazioni, «ma se te ne sei già accorta...» Lasciando la frase in sospeso, in modo che questo accentuasse il suo effetto psicologico, proseguì quindi: «Hai pensato che se decidesse di abbandonare il suo amante Mortale per ambizione... perché di certo sa che non potrebbe mai diventare Arcimago mantenendo in piedi una relazione così scandalosa... Aurian dovrebbe cercarsi un compagno all'interno del Popolo dei Maghi?» «Cosa stai cercando di dirmi?» domandò Meiriel, fissandola. «Soltanto che la possibilità di scelta è limitata» ribatté Eliseth. scrollando ancora le spalle. «Lei detesta Bragar e Davorshan, D'arvan è praticamente inutile e corre voce che Aurian abbia già respinto Miathan, anche se è stata un'azione da stupida.» «Finbarr non mi lascerebbe mai!» dichiarò Meiriel, senza però riuscire a suonare convincente neppure ai proprio orecchi in quanto di recente i suoi pensieri si erano tinti di gelosia da quando Finbarr aveva preso le parti di Aurian in merito a quella sua vergognosa relazione con un mortale. «In tal caso è tutto a posto e non hai nulla di cui preoccuparti» affermò con calore Eliseth. «Volevo offrirti un piccolo suggerimento che avrebbe potuto interessarti, ma...» «Cosa?» domandò Meiriel, in tono più aspro di quanto fosse stata sua intenzione, e nel vedere il sorriso apparso sul volto della Maga del Clima imprecò interiormente contro il proprio errore. «Sai quanto Miathan aborra i mezzosangue» sussurro Eliseth, protendendosi verso di lei. «Se Aurian dovesse dare un figlio a quello spadaccino di certo l'Arcimago la esilierebbe definitivamente.» Poi si ritrasse e scrutò attentamente il volto di Meiriel. «Aurian non commetterebbe mai un errore del genere perché il suo controllo in questo campo è troppo assoluto. L'ho istruita io stessa.» «Però tu sei una guaritrice, Meiriel e devi avere il potere di annullare ciò
che hai insegnato... sempre che tu lo voglia, è ovvio.. Pensaci... un piccolo controincantesimo sarebbe sufficiente a liberarci per sempre di Aurian e della sua sgradevole influenza. In realtà faresti un favore a tutti gli interessati perché per quanto sembri impensabile i sentimenti di Aurian la stanno spingendo a fraternizzare sempre di più con i Mortali e se qualcuno prendesse al suo posto la decisione definitiva sarebbe di certo più felice in un altro luogo dove lei e Forral potessero vivere insieme in pace. E poi, stanotte ti si presenta la migliore opportunità in cui potresti sperare perché Aurian ha già bevuto parecchio e si sta divertendo troppo per potersi accorgere della tua interferenza. Quando scoprirà cosa è successo penserà di aver sbagliato lei stessa e non sospetterà mai di te.» Allorché tornò a raggiungere Davorshan e Bragar, la Maga del Clima stava sorridendo. «Allora?» le domandò Bragar, che non avrebbe mai imparato ad agire con sottigliezza. «Com'è andata?» «Non sarebbe potuta andare meglio» replicò Eliseth, sedendosi e assestandosi le gonne con cura prima di versarsi un bicchiere di vino. «Come supponevo, non ho avuto nessuna difficoltà a sfruttare a nostro vantaggio la ridicola gelosia di Meiriel. Oh, naturalmente ha protestato e ha detto che non potrebbe mai prendere in considerazione un atto del genere, ma ormai il seme è stato piantato e sono certa che lo farà.» Nel parlare indirizzò un sorriso smagliante a Davorshan, notando al tempo stesso con soddisfazione l'ira che questo fece apparire sul volto di Bragar: finché quei due stupidi erano uno alla gola dell'altro per cercare di conquistarsi i suoi favori lei avrebbe potuto continuare a controllarli entrambi con facilità. «Allora, Davorshan» proseguì con voce mielata. «Adesso che ci siamo occupati di Aurian possiamo dedicarci al compito di far altrettanto con il tuo sfortunato fratello. Perché non vai a prendere dell'altro vino? All'improvviso ho voglia di festeggiare.» Quando rientrarono all'Accademia, dopo essere stati severamente ammoniti di tacere dalle guardie di stanza alle porte, Anvar e Forral si fermarono barcollando davanti all'appartamento di Aurian. «Entra a bere qualcosa con me e con Aurian, ragazzo» suggerì Forral, con voce gaia e alquanto impastata. «Non hai ancora bevuto con lei, e s'infurierà se non lo farai... e noi non vogliamo che s'infuri» aggiunse con un sussurro esagerato e con una smorfia così buffa da costringere Anvar ad accasciarsi contro la parete per il troppo ridere, poi apri la porta ed en-
trambi oltrepassarono la soglia rischiando di rovinare al suolo. A giudicare dal suo volto arrossato e da come brillavano i suoi occhi verdi, anche Aurian aveva già festeggiato abbondantemente; per l'occasione lei aveva accantonato il cupo abbigliamento da Mago o quello da guerriero che indossava di solito a favore di un abito di velluto fra l'oro e il rosso, con una profonda scollatura e maniche lunghe e ampie; i suoi capelli di fiamma erano trattenuti da una reticella dorata e lei splendeva come una fiamma viva alla luce delle candele, così bella che il cuore di Anvar parve perdere un paio di battiti di fronte a quella vista abbagliante. Piombando su di lei, Forral le coprì il volto di baci senza mostrarsi all'apparenza imbarazzato per la presenza del giovane e Aurian rispose ai suoi baci con una risata, cingendogli il collo con le braccia. «Sembra proprio che vi siate divertiti» osservò con un sorriso. «Io e Anvar siamo stati all'Unicorno con i ragazzi e le ragazze» la informò Forral, «però abbiamo sentito la tua mancanza.» «Ed io la vostra» rise Aurian. «È tutta la sera che desidero il mio bacio del Solstizio» dichiarò quindi, assumendo un'espressione dolente finché Forral non la baciò di nuovo, poi scoprì la bottiglia di vino che lui aveva in mano ed esclamò: «Tesoro! Questa è per me?» «Non potevamo festeggiare senza di te» dichiarò Forral. «Adesso l'aprirò.» Liberato Anvar del mantello e dell'altra bottiglia versò del vino per tutti e tre perché potessero brindare davanti al fuoco acceso nel focolare. «Gioioso Solstizio, amore» disse Aurian a Forral, poi aggiunse: «Gioioso Solstizio anche a te, Anvar.» E per la prima volta da due anni Anvar si sentì effettivamente felice. Dopo aver bevuto sedettero tutti e tre al tavolo e Forral raccontò del concerto improvvisato, con grande imbarazzo di Anvar. «È stato davvero stupefacente, tesoro» disse. «Anvar ha suonato quella chitarra come... come tu maneggi la spada... tutto ritmo e fuoco e movimenti fluidi. Vorrei che tu avessi potuto sentirlo.» «Lo vorrei anch'io, perché pare sia stato meraviglioso» convenne Aurian. «Anvar, dove hai imparato a suonare in quel modo?» Poiché si sentiva tanto felice e il vino bevuto gli aveva sciolto la lingua, il giovane cominciò a raccontare di come Ria gli avesse dato lezioni di musica e suo nonno gli avesse intagliato gli strumenti che lui poi aveva perduto quando era stato portato all'Accademia. Nel parlare di quelle due persone che aveva amato tanto e che adesso erano entrambe morte gli oc-
chi gli si colmarono di lacrime, e Aurian si protese con gentilezza ad asciugargliene una dal volto. «Non essere triste, Anvar, perché essi sono ancora con te. nel dono della musica che tu ami tanto, e saranno sempre nelle tue mani e nel tuo cuore» osservò, e nel parlare scambiò con Forral un'occhiata così piena di amore e di dolore che nel comprenderne il significato Anvar si chiese di colpo se le sue lacrime fossero per se stesso o per queste due persone che erano state tanto gentili con lui e il cui amore era condannato un giorno a finire in tragedia. Dal momento che tutti avevano il bicchiere vuoto, Aurian si alzò in piedi con mosse un po' barcollanti per andare a prendere un vino che a parer suo era perfetto per un'occasione speciale. «Miathan me lo ha regalato per il Solstizio» disse, stappando la bottiglia polverosa. «È una delle sue annate speciali, e lui avrebbe di certo una crisi di nervi se sapesse con chi la sto bevendo.» I due uomini ridacchiarono, e grazie al dono dell'Arcimago ben presto l'atmosfera della piccola festa privata tornò a farsi allegra. Mentre cantavano insieme, senza accompagnamento e con voce sommessa a causa dell'ora tarda, nella mente di Anvar passò il pensiero fugace che l'indomani avrebbe dovuto alzarsi per tempo per servire la colazione, ma lui decise d'ignorarlo. Come sarebbe mai potuto giungere l'indomani? Quella era una notte intrappolata in eterno in una ragnatela di gioia fuori del tempo e la voce da contralto di Aurian lo stava entusiasmando, perché non aveva supposto che lei sapesse cantare tanto bene. Quando arrivarono in fondo alla bottiglia le canzoni che stavano intonando erano tornate ad essere ballate sconce e sciocche cantilene infantili, e tutti e tre stavano ridendo senza riuscire a fermarsi. «Oh, povera me!» annaspò Aurian, asciugandosi dagli occhi le lacrime dovute al troppo ridere. «Non mi divertivo tanto da secoli.» nel parlare inclinò la bottiglia per tornare a riempire i bicchieri ma da essa uscirono soltanto poche gocce. «Sterco di pipistrello!» borbottò, ricorrendo all'imprecazione preferita di Forral «È finito!» «In ogni caso è ora che vada» replicò Anvar, lottando per alzarsi in piedi. «Domattina mi dovrò alzare presto per servire la colazione a voi pigroni!» aggiunse senza riflettere, per una volta certo che le sue parole non avrebbero causato offesa, ma Aurian si rannuvolò subito in volto. «Oh, Anvar, mi dispiace» esclamò. «Non ho pensato...» «Senti, ragazzo» intervenne Forral accigliandosi, «sai che la tua situa-
zione non è colpa di Aurian: lei non ti può liberare dal vincolo ed io ho le mani legate. Se potessi porrei fine domani stesso a questa faccenda della servitù vincolata e ci ho provato più di una volta, ma sono in minoranza all'interno del consiglio. E poi, perché biasimare la povera Aurian? Non è stata certo lei a renderti un servo... anzi, ha soltanto cercato di aiutarti e non ti tratta di sicuro come uno schiavo. Sapevi che negli ultimi mesi non ha fatto altro che preoccuparsi per te? Se potesse, nulla le farebbe più piacere che poterti liberare, e questo non è certo il modo migliore per ricambiarla.» «Questo lo so!» esclamò Anvar, incapace di trattenersi oltre. «però come ti sentiresti tu al mio posto? Non sai cosa significhi non avere niente... né libertà, né futuro né speranza! Sai cosa voglia dire dover essere costantemente rispettoso, controllare ogni parola per evitare di essere punito per aver parlato a sproposito ed essere sempre a disposizione di qualcuno? Tu e Lady Aurian avete un posto nel mondo, avete rispetto, avete uno l'amore dell'altra, ma io non potrò mai sperare in tutto questo perché sono un servo vincolato e non sono neppure libero di amare. Riesci a immaginare che sorta di solitudine questo comporti? Per il resto della mia vita non avrò mai nulla a cui guardare, niente e nessuno che possa definire mio!» «Oh, Anvar» mormorò Aurian, con occhi pieni di compassione, avvicinandoglisi e prendendogli le mani nelle proprie. «Vorrei poter fare qualcosa» aggiunse mentre Anvar, già pentito del proprio sfogo, si sentiva ora più colpevole che mai. «Signora, mi dispiace» si scusò. «Non volevo dare l'impressione di lamentarmi di te che sei stata così gentile nei miei confronti. Io...» continuò, lottando per trovare le parole giuste... «io non avrei voluto perdere questa serata per nulla al mondo.» «Neppure io» garantì Aurian, facendogli tacitamente comprendere che le sue scuse erano state accettate, poi prelevò da un cassetto un pacchetto di erbe e glielo mise in tasca: «Dal momento che domattina non sarò di sicuro in condizione di tentare un risanamento, preparati un infuso con queste. È una delle cure di Meiriel per tutti i mali... meravigliosa per l'emicrania. Domani dormi pure quanto vuoi, Anvar, e quando deciderai di alzarti porta una colazione sufficiente per tre persone.» Nel sentire quelle parole Anvar suppose che Miathan avrebbe fatto colazione con Aurian e con Forral, e di colpo questo gli rovinò la serata. Con un sospiro si girò per andarsene, ma Forral lo trattenne passandogli un braccio intorno alle spalle.
«Noi ti comprendiamo, ragazzo... tutti e due» affermò in tono sommesso. «Non so se riusciremo a influenzare l'Arcimago, ma magari l'anno prossimo potremmo tentare di farti venire alla guarnigione. Mi hai detto che Aurian ha cominciato a insegnarti ad usare la spada, e se la cosa ti piace e dimostri di avere talento, forse Miathan ti permetterà di entrare a far parte delle mie truppe. Sei un uomo troppo in gamba per sprecare la tua vita servendo questi dannati Maghi... ti chiedo scusa, tesoro» aggiunse, scoccando un'occhiata piena d'imbarazzo in direzione di Aurian. «Naturalmente non mi riferivo a te.» Con sorpresa di Anvar, Aurian si mostrò deliziata e tutt'altro che infuriata. «Che splendida idea, Forral!» esclamò, abbracciando con impeto lo spadaccino. Avendo l'impressione che un enorme peso gli fosse stato tolto dal cuore, Anvar si lasciò indurre dalla gratitudine ad abbracciare a sua volta Forral, sfoggiando un sorriso tanto ampio da essere quasi doloroso. Poi l'abbraccio divenne generale e d'un tratto Forral lanciò un'esclamazione. «Un momento! Non hai ancora dato ad Anvar il suo bacio del Solstizio» affermò. «Una dimenticanza imperdonabile.» «Santo cielo, hai ragione» convenne Aurian, cingendo il collo di Anvar con le braccia e sfiorandogli la guancia con labbra leggere e fugaci quanto l'ala di una farfalla. «Questo è un bacio patetico, ragazza mia!» ruggì però Forral. «Non sai fare di meglio? Suvvia, è il Solstizio! Dagli un bacio come si deve!» Aurian obbedì, e anche se mancò della passione che lei riservava a Forral il suo fu comunque un bacio gentile e generoso, e per Anvar stranamente prezioso. Di nuovo il suo cuore prese a martellare in maniera irregolare e il tocco delle labbra morbide di lei lo fece tremare. «Così va meglio!» approvò Forral, inducendo Anvar a ricordarsi della sua presenza. «Hai fatto riapparire il suo sorriso.» «Lo spero proprio» replicò Aurian, poi fissò per un momento Anvar negli occhi e aggiunse: «Dovresti sorridere più spesso... ti si addice. Se le cose si evolveranno come speriamo forse in futuro avrai motivo di sorridere maggiormente.» «Beviamo a questo» sentenziò Forral. «Oh, dannazione, non possiamo farlo!» Invece di bere si diedero la buona notte... e quella notte Anvar ebbe l'impressione che il suo letto fosse meno duro e freddo del solito, e che i
suoi sogni fossero più dolci. Al risveglio, il Mattino del Solstizio, Anvar si trovò a pagare i festeggiamenti della sera precedente con un'emicrania tale da dargli l'impressione che la testa stesse per staccarglisi e da indurlo a desiderare che lo facesse davvero... qualsiasi cosa pur di liberarsi di quel dolore. Il rimedio datogli da Aurian operò tuttavia meraviglie e ben presto lui fu in grado di preparare il vassoio della colazione, anche se l'odore del cibo gli diede un senso di nausea. Mentre portava il vassoio su per le scale che conducevano all'appartamento della Maga sentì alle proprie spalle un rumore di passi affrettati e nel girarsi vide Aurian che sopraggiungeva di ritorno dall'esterno, vestita con mantello e stivali, con il respiro affannoso e con in mano una scatola di legno larga e piatta. Chiedendosi per quale motivo la sua Signora si fosse alzata tanto presto, soprattutto se si sentiva dolorante come lui, Anvar la osservò meglio e si accorse che appariva stanca e tesa, anche se il freddo aveva fatto affiorare un colore rosato sulle sue guance e un accenno dello scintillio della notte precedente nei suoi occhi. Alcuni fiocchi di neve si stavano fondendo come diamanti nei suoi capelli arruffati dal vento, e il profumo speziato e muschiato che lei prediligeva era attenuato dall'aroma fresco e rinvigorente della neve e dell'aria aperta. Pensando al bacio della notte precedente Anvar arrossì e si chiese se la Maga era pentita di ciò che era successo sotto l'influenza del vino. Nel vederlo avrebbe distolto lo sguardo con disprezzo o con imbarazzo? Lei però gli rivolse un sorriso aperto e cordiale... e molto comprensivo. «Anche tu?» chiese con un asciutto sorriso, portandosi una mano alla fronte, e quando Anvar annuì aggiunse: «Non importa, ne valeva la pena. Mi è piaciuto ogni singolo minuto della scorsa notte.» Stupito, Anvar si chiese se lei avesse letto nei suoi pensieri e se quelle parole racchiudessero un significato nascosto, e si accigliò con espressione riflessiva nel seguire la Maga verso le sue stanze. «Per gli dèi, che disastro!» esclamò Aurian con una smorfia, nel contemplare le bottiglie e i bicchieri sparsi dappertutto, poi andò ad aprire le tende; posato il vassoio Anvar cominciò a riassettare la stanza mentre lei provvedeva ad accendere il fuoco... un compito che non le richiedeva mai molto tempo. I rumori da loro prodotti dovettero intanto svegliare Forral, perché Anvar lo sentì gemere dal letto posto nella stanza accanto. Subito Aurian corse dallo spadaccino con un'espressione comprensiva sul volto, e nel frat-
tempo Anvar imprecò contro la propria stupidità: altro che significati nascosti! Che razza di stupido era stato. Pieno di vergogna per le proprie assurde fantasticherie, si volse per lasciare la stanza, ma in quel momento Aurian si affacciò sulla soglia della camera da letto. «Non te ne andare ancora» disse, e Anvar attese con riluttanza che lei preparasse una dose della medicina di Meiriel e la portasse a Forral, riflettendo al tempo stesso che l'amorevole affinità esistente fra loro due serviva soltanto a mettere più in evidenza il vuoto della sua esistenza e a farlo sentire escluso e un poco geloso. Inoltre, non voleva correre il rischio di incontrare Miathan. «A che ora aspetti l'Arcimago, Signora?» domandò, quando Aurian tornò nella stanza. «Miathan? Non deve venire? Mi ha forse mandato un messaggio?» ribatté Aurian, accigliandosi. «No, però pensavo...» mormorò Anvar, accennando alla tavola apparecchiata per tre. «Santo cielo, no» dichiarò Aurian, con un sorriso. «Miathan non mangerà mai con me finché Forral è qui. Ho pensato che stamattina potesse farti piacere unirti a noi, dato che è il Giorno del Solstizio. Avanti, siediti, Forral sta arrivando.» Nel frattempo lo spadaccino apparve sulla soglia e si fece verdastro in volto alla vista del cibo. «Devo proprio mangiare quella roba?» chiese in tono lamentoso. «Avanti, provaci» lo incitò Aurian. «È ciò di cui hai bisogno.» «Prepotente» borbottò Forral, ma ben presto il cibo e la medicina cominciarono a svolgere la loro opera e quando i piatti furono vuoti tutti si sentirono infine molto meglio. «Forral ed io ci siamo scambiati i nostri doni la scorsa notte» affermò allora Aurian, rivolta ad Anvar. «È stato in quel momento che mi sono Tesa conto di non averti regalato niente, perciò...» Interrompendosi, si protese a prendere la scatola che aveva appoggiato in un angolo e concluse: «Questa è per te.» Anvar si posò la scatola in grembo senza sapere cosa dire: la notte precedente Forral gli aveva donato il suo mantello, e adesso questo... lentamente sollevò il coperchio e si trovò davanti una splendida chitarra il cui legno lucido era decorato da intagli intricati che denotavano un lavoro di qualità. Per un momento si limitò quindi a fissare Aurian, incapace di credere ai propri occhi.
«Va bene?» domandò lei. «Avrei dovuto lasciarti scegliere da solo, ma volevo farti una sorpresa. In ogni caso sono certa che se vuoi il mercante in questione te la cambierà, anche se non è stato molto felice di essere trascinato giù dal letto proprio questa mattina.» Con cautela, Anvar tirò fuori lo strumento dalla scatola e sfiorò una corda: dopo il tragitto al freddo aveva bisogno di essere accordata, ma il suo suono era ricco e dolce. «Oh, Signora, grazie» sussurrò, con la gola serrata e gli occhi colmi di lacrime. Per quanto temesse e odiasse i Maghi, adesso sapeva ormai che Aurian costituiva un'eccezione molto speciale, e che se proprio doveva essere un servo vincolato non avrebbe potuto sperare in una padrona più gentile. Durante le settimane nevose che seguirono la festa del Solstizio la vita di Anvar fu rallegrata dal dono di Lady Aurian. Seguendo il suggerimento della Maga, lui aveva riposto lo strumento nelle sue stanze invece di lasciarlo incustodito per tutto il giorno nell'alloggio dei servi, e dal momento che Aurian si assentava dal suo appartamento per lunghe ore questo permetteva al giovane di restare là ad esercitarsi a suo piacimento; di sera, poi, Aurian e Forral si facevano spesso accompagnare da lui all'Unicorno Invisibile in modo che potesse suonare per i soldati, e il suo talento risultò così generalmente apprezzato che all'improvviso il giovane si trovò ad avere molti nuovi amici. Una notte, Anvar accompagnò soltanto Aurian all'Unicorno per incontrarsi con i suoi amici guerrieri, Maya e Parric, perché quella sera Forral era dovuto restare alla guarnigione per prepararsi alla riunione del consiglio prevista per l'indomani. Da quando lui e Aurian erano divenuti amanti, lo spadaccino si stava scontrando sempre più spesso con Miathan, e Anvar sapeva che questa era per Aurian una fonte crescente di preoccupazione, come dimostrava il fatto che quella sera lei appariva silenziosa e astratta, con la fronte contratta da un'espressione aggrondata che neppure le battute più assurde di Parric riuscivano a dissipare. Poi l'arrivo di Vannor portò nuova animazione sul volto della Maga. «Allora?» chiese lei, mentre il mercante si sedeva e cominciava a bere la sua birra. «Hai trovato Dulsina? Lei hai chiesto di tornare?» «Avevo forse qualche alternativa, dopo la strigliata che mi avete dato tu e Maya?» ritorse Vannor, fingendo di accigliarsi. «Sì, l'ho trovata... si era trasferita presso una cugina che affitta stanze nelle vicinanze della guarni-
gione... ed ha acconsentito a tornare, dopo avermi fatto abbondantemente umiliare.» «Ti serva di lezione per averla licenziata» sbuffò Maya. «Non ci fai compassione, vero, Aurian?» «Neppure un poco!» ridacchiò la Maga. «Vannor, devi ammettere che licenziarla non è stata una mossa molto intelligente, soprattutto se si considera che Dulsina è l'unica a sapere dove si trovino i tuoi figli. Se ben ricordo ci hai detto che li ha mandati a stare con sua sorella, giusto?» «Esatto» confermò il mercante, con un'allegra disinvoltura che Aurian trovò stranamente fasulla. «Comunque non esiste nessun mistero... la sorella di Dulsina abita da qualche parte lungo la costa nelle vicinanze di Wyvernesse, anche se in un primo tempo Dulsina non voleva dirmelo... credo per timore che mi precipitassi laggiù causando dei problemi. Sai, sento la loro mancanza, soprattutto quella di Zanna» continuò con un sospiro, «però la sorella di Dulsina si prenderà cura di entrambi in modo eccellente e farà loro bene restare per un po' lontano dalla città... e poi devo ammettere che è riposante non sentire Zanna e Sara che litigano di continuo. A pensarci bene, Dulsina ha avuto ragione ad agire come ha fatto... ed io avrei dovuto sapere fin dall'inizio che si era regolata nel modo migliore per tutti gli interessati.» «Sono pronta a scommettere che Sara è felice che Dulsina sia tornata!» commentò Aurian, con un bagliore malizioso nello sguardo e con un tono che destò la curiosità di Anvar. «Direi proprio di sì!» sbuffò Vannor. «Se devo essere sincero, ne sono contento anch'io... senza di lei la casa stava andando in rovina, e perfino Sara ha detto...» A questo punto Anvar si alzò per andare a prendere una nuova caraffa di birra perché sentire Vannor parlare di Sara come di sua moglie gli riusciva troppo doloroso; stava tornando a raggiungere gli altri al loro tavolo preferito vicino al focolare quando una figura pallida e barcollante apparve sulla soglia della taverna e nello scorgerla Anvar trattenne il respiro per lo stupore: D'arvan! Cosa ci faceva lì? «Aurian... grazie agli dèi sei qui!» ansimò il giovane Mago, barcollando fino al tavolo e accasciandosi su Aurian, che era scattata in piedi. «Miathan mi ha buttato fuori, e Davorshan... lui...» «D'arvan!» esclamò Aurian, accennando automaticamente ad abbracciare il Mago sconvolto, poi Anvar la vide sussultare come se fosse stata punta e ritrarre le mani, che risultarono coperte di sangue. Lo sgomento di Au-
rian fu però di breve durata, e un istante più tardi lei si girò verso Anvar, sibilando: «Presto, aiutami a portarlo via di qui prima che qualcuno si accorga del suo stato.» «Ti serve il mio aiuto?» domandò subito Vannor. «No, Vannor... ma ti sarei grata se dissipassi eventuali sospetti» replicò Aurian, scuotendo il capo. «Non voglio che si sappia in giro che un Mago è stato aggredito.» «Noi vi seguiremo fra un momento» sussurrò Maya, che appariva allarmata. Aurian augurò affrettatamente la buona notte a lei e a Parric, poi si fece aiutare da Anvar a sorreggere il corpo ormai inerte di D'arvan e infine i due sia avviarono verso la porta puntellando in mezzo a loro il Mago semincosciente. «E pensare» commentò intanto Maya alle loro spalle, rivolgendosi a Vannor e parlando ad alta voce per farsi sentire da eventuali curiosi, «che Aurian gli ha ripetuto chissà quante volte di non bere così tanto!» Aurian si sentì sollevata quando infine arrivarono alla porta dell'alloggio di Forral perché durante il tragitto il respiro di D'arvan si era fatto sempre più affaticato... anche se la ferita non doveva essere troppo grave dal momento che il Mago era riuscito ad arrivare da solo fino all'Unicorno. Nella taverna lei aveva agito in maniera decisa e immediata in modo da allontanare di lì D'arvan prima che gli altri clienti avessero il tempo di notare cosa stava succedendo, ma adesso cominciava a risentire della tensione ed era stanca per lo sforzo prolungato di trascinare il peso di D'arvan lungo le strade piene di fanghiglia, seguendo il percorso più lungo dei vicoli secondari in modo da evitare di attirare l'attenzione dei passanti. «Aurian! Cosa diavolo è successo?» esclamò Forral, venendo ad aprire la porta con aria stanca e con la bocca aperta per lo stupore. Senza rispondere Aurian aiutò Anvar ad adagiare D'arvan sul divano, poi permise a Forral di circondarla con le braccia e per un momento si concesse di rilassarsi, appoggiandosi alla sua spalla. «Stai bene, tesoro?» lo sentì chiedere, e come risposta si girò a baciarlo, lieta della sua vicinanza. «Io sì, ma D'arvan è stato ferito. Forral, accendi un'altra lampada e portaci un po' di vino mentre io controllo le sue condizioni, d'accordo? Anvar provvederà a spiegarti cosa è successo.» Sedutasi sul bordo del divano, Aurian strappò via quanto restava della
lacera veste di D'arvan fino a mettergli a nudo la schiena, constatando con un misto di sollievo e di costernazione che la ferita era soltanto un lungo taglio poco profondo anche se sanguinante, che doveva manifestamente essere stato prodotto con un coltello. Grazie agli dèi non era nulla di grave... ma chi poteva aver tentato di uccidere un Mago? Pur sapendo che i Maghi non erano ben visti dagli abitanti della città, le sembrava infatti impensabile che si fosse arrivati ad una cosa del genere. Attingendo al proprio potere risanante, che ormai sapeva usare con abilità, si concentrò fino a far apparire sulla ferita un tenue alone di luce fra l'azzurro e il violetto, osservando quindi con soddisfazione i tessuti che si ricongiungevano sotto il suo sguardo e il sangue che cessava di scorrere a mano a mano che la lacerazione si rimarginava. Nel momento in cui il dolore cessò di tormentarlo D'arvan si rilassò sotto le sue mani e aprì gli occhi; puntellandogli la schiena in via di risanamento contro alcuni cuscini, Aurian lo aiutò allora a sollevarsi a sedere e Forral gli porse una coppa di vino. In quel momento Maya entrò nell'alloggio insieme al comandante di cavalleria. «Non ti preoccupare, Aurian» disse Parric, a titolo di saluto. «Chiunque sia stato ad aggredirlo non vi ha seguiti fin qui.» «Lui sta bene?» domandò intanto Maya, in tono ansioso. «Ti ha raccontato come sono andate le cose?» «Non ancora» rispose la Maga, accigliandosi. «Ero proprio sul punto di chiederglielo.» Il volto sottile di D'arvan era più pallido del solito, ma adesso lui era cosciente e sembrava abbastanza lucido. «Sono certa che vorrai riposare» gli disse Aurian, «ma prima di farlo bevi quel vino. Adesso sei al sicuro, qui alla guarnigione» proseguì, sedendo accanto a lui sul divano e accettando con gratitudine il boccale di vino che Forral le stava porgendo. «Puoi spiegarmi cosa ti è successo?» «Miathan» sussurrò D'arvan, con un brivido. «Mi ha mandato a chiamare e mi ha detto che non sarei mai stato di nessuna utilità, ingiungendomi di lasciare l'Accademia. Poi ha ordinato alle guardie di scortarmi al di là delle porte superiori. Non sapevo cosa fare» proseguì, mentre le mani cominciavano a tremargli a tal punto da fargli rovesciare un po' di vino dalla coppa, «quindi ho deciso di venire a cercarti, e mentre stavo percorrendo la strada rialzata Davorshan è sbucato da dietro il muro ed ha cercato di pugnalarmi.»
Aurian trattenne il respiro per lo stupore. Davorshan? Un Mago che ne aggrediva un altro, che per di più era suo fratello? Senza dubbio dietro a tutto questo doveva esserci in qualche modo la mano di Eliseth. «Mi sono accorto della sua presenza a causa nel nostro stretto legame, che mi ha salvato» continuò D'arvan. «Ho letto l'intenzione omicida nella sua mente ed ho schivato, ma il coltello mi ha colpito lo stesso: abbiamo lottato e alla fine sono riuscito a fuggire, mentre Davorshan ha dovuto fermarsi per tranquillizzare le guardie del casotto inferiore, che avevano sentito il rumore da noi provocato. Aurian... siamo sempre stati così vicini: come ha potuto farmi questo?» chiese infine, lasciando cadere la coppa e affondando il volto fra le mani. Aurian lo circondò con le braccia e attese che si calmasse. «Hai detto di avergli letto nella mente» lo pungolò quindi, con gentilezza. «Sai perché ha agito così?» «Lui... lui sta studiando con Eliseth ed ha fatto qualche progresso nel campo della Magia del Clima» annuì D'arvan. «Al tempo stesso si è convinto che fra tutti e due noi abbiamo potere a sufficienza soltanto per un Mago, e non appena Miathan mi ha messo al bando si è sentito libero di uccidermi per assimilare in sé tutto il potere.» «Ma questo è ridicolo!» «Io non lo credo» ribatté D'arvan. «Anch'io nutrivo questo stesso sospetto, perché è la sola spiegazione possibile. Il mio potere e quello di Davorshan sono sempre stati mescolati fra loro in maniera aggrovigliata, ma da quando ha scoperto quale sia la branca magica in cui riesce meglio Davorshan ha fatto dei progressi nell'accedere almeno in parte al suo potenziale. Forse potrei riuscirci anch'io, se avessi del talento di qualche tipo, ma ormai ho tentato con tutto...» «Aspetta un momento!» esclamò bruscamente Aurian. «Questo non è esatto! Per gli dèi, che razza di stupida sono stata a non pensarci prima! Non hai provato ad apprendere la Magia della Terra per il semplice motivo che all'Accademia non c'è più nessuno che la possa insegnare. D'arvan, ti manderò a stare presso mia madre: nessuno saprà dove ti trovi e così sarai al sicuro. Al tempo stesso Eilin potrà schermarti e istruirti, e tu le sarai di immenso aiuto, perché anche se non vuole ammetterlo ha un bisogno disperato di compagnia.» «Ma io non sono certo...» cominciò D'arvan, in tono dubbioso. «Sciocchezze. Devi tentare, non lo capisci? Almeno dopo saprai con certezza come stanno le cose, e comunque non puoi permettere a tuo fratello
di cavarsela in questo modo senza combattere.» «Ecco... mi sono sempre piaciute le piante e...» «Non ne dubito» mormorò Aurian, notando che le palpebre di D'arvan cominciavano ad abbassarsi. «Adesso riposa. Andrò a prenderti una coperta e potrai dormire qui sul divano. Alla guarnigione sarai al sicuro e fra un paio di giorni troveremo il modo di farti lasciare la città di nascosto. In ogni caso, bisogna impedire a qualsiasi costo che gli altri Maghi scoprano dove ti trovi.» «Incaricherò Maya di accompagnarlo durante il viaggio, in modo che lo faccia arrivare a destinazione sano e salvo» decise Forral. «Sarò lieta di andare con lui» acconsentì Maya, poi si chinò ad abbracciare il giovane Mago e aggiunse: «Non ti preoccupare, ci prenderemo cura di te.» Dopo che Maya e Parric se ne furono andati, Forral ed Aurian indugiarono uno nelle braccia dell'altra a contemplare la figura dormiente di D'arvan. «Poveretto» commentò Forral, in tono sommesso. «È stata una fortuna che potesse rivolgersi a te... ma del resto tu hai sempre avuto la propensione a farti carico dei problemi degli altri. Che Arcimago saresti, amore mio!» Adesso che D'arvan stava dormendo, Aurian si scoprì incapace di controllare ancora la propria ira per il modo in cui il giovane era stato trattato. «Io non voglio essere il loro dannato Arcimago!» esclamò. «Non mi piace quello che sta succedendo all'Accademia: nulla è più come dovrebbe essere e quanto a Miathan... ecco, dopo il modo in cui ha trattato Anvar, e considerato che ha permesso una cosa del genere...» Esitò, tuttora incapace di parlare a Forral dell'aggressione da parte dell'Arcimago nei suoi confronti, ma al tempo stesso sentì cristallizzare dentro di sé la decisione che aveva appena preso e infine proseguì: «Ne ho abbastanza, Forral! Sono nauseata dell'Accademia e della maggior parte dei Maghi: abbiamo così tanti poteri, ma non li usiamo mai per aiutare la gente. Pensa al bene che avremmo potuto fare se non fossimo stati tanto arroganti ed egocentrici. Me ne voglio andare per trovare la mia strada nel mondo e per stare con te tutto il tempo e non soltanto per pochi momenti rubati.» «Forse hai ragione» assentì Forral intono sommesso, fissandola con espressione grave. «Anch'io la penso in questo modo sul conto dei Maghi da così tanto tempo che se non fosse stato per te me ne sarei andato già da anni. Certo che possiamo farlo, tesoro, ma dovremo elaborare i nostri piani
con cura e fuggire in fretta e lontano per sottrarci a Miathan, che non si rassegnerà facilmente a perderti.» «Dovremo portare con noi anche Anvar» replicò in tono urgente Aurian. guardandosi intorno alla ricerca del suo servitore. Vedendo che si era addormentato su una sedia lo coprì delicatamente con un'altra coperta prelevata dalla camera da letto di Forral e aggiunse: «Se non altro potremo ridargli la sua libertà.» «Adesso un po' di sonno farà bene a tutti» suggerì Forral. «Non appena D'arvan e Maya si saranno messi in viaggio potremo avviare i nostri piani. Avanti, tesoro, vieni a letto» aggiunse con uno sbadiglio. «Adesso siamo troppo stanchi per pensare con coerenza, e poi domani voglio avere la mente lucida perché mi aspetta un'altra lite in consiglio con quel dannato Arcimago... ci crederesti, vuole aumentare di nuovo la tassa sulle fognature e non sarà soddisfatto finché non avrà dissanguato completamente questa città. Se questa dovrà essere la mia ultima lite con lui, intendo fare in modo che se la ricordi a lungo... soprattutto dopo quello che ho visto stanotte.» Nell'adagiarsi con sollievo sul letto insieme a lui, Aurian notò con rammarico la scarsità di coltri. «Stanotte sarà bene che badi a non rubarmi le coperte perché avrò comunque problemi a tenermi al caldo» disse a Forral, raggomitolandoglisi contro, poi continuò: «Questo mi ricorda di quella volta in cui da bambina ti ho dato tutte le mie coperte in modo che non fossi costretto a lasciare la Valle. Oh, dèi, io ti amo, Forral, e non potrei tollerare di perderti!» esclamò d'un tratto, gettandogli le braccia intorno al collo. «Non mi perderai mai» la rassicurò lui, tenendola stretta e accarezzandole i capelli. «Mai, finché avrò vita.» Mentre parlava Aurian avvertì un brivido premonitore, simile ad un pezzo di ghiaccio che le scivolasse lungo la pelle nuda. Rabbrividendo, accentuò la propria stretta fino a strappare a Forral un assonnato grugnito di protesta, e al tempo stesso continuò a ripetere con disperazione a se stessa che non poteva essere vero, che stanchezza e preoccupazione stavano stimolando troppo la sua immaginazione. Poi chiuse gli occhi e fece del suo meglio per allontanare da sé i propri timori, ma per quanto fosse sfinita quella notte non riuscì a prendere sonno. CAPITOLO QUATTORDICESIMO GLI SPETTRI DI MORTE
Le riunioni del Consiglio dei Tre avevano luogo nel Palazzo Corporativo, uno splendido edificio circolare che sorgeva nelle vicinanze della Grande Galleria; al suo interno le decisioni che regolavano la vita della città venivano prese intorno ad un piccolo tavolino dorato posto al centro di una vasta camera rotonda, e chiunque desiderava assistere alle procedure poteva farlo dalla galleria sovrastante la sala, anche se di solito essa era occupata soltanto da pochi coraggiosi. Narvish, l'archivista cittadino, sedeva sempre al tavolo insieme ai Tre per documentare in forma scritta ciò che veniva detto. Quando arrivò al Palazzo della Corporazione, Forral scoprì che la galleria era occupata al massimo della sua capienza: l'interesse per l'andamento di quella riunione era infatti molto elevato perché il suo esito avrebbe coinvolto l'esistenza di ogni uomo, donna e bambino della città. L'Arcimago voleva infatti aumentare la tassa per le fognature, una somma nominale che ogni cittadino di Nexis pagava ai Maghi in cambio della manutenzione del sistema di fognature che rendeva la loro vita tanto sana e piacevole. La magia manteneva l'acqua in circolazione e pompava i rifiuti cittadini nel fiume, spingendoli verso valle, per cui nessuno era contrario a che si pagasse al Popolo dei Maghi una piccola somma in cambio dell'onere che esso si era addossato... ma adesso le nuove richieste da parte di Miathan erano spropositate, soprattutto per chi aveva una famiglia numerosa, e questo aveva destato nella popolazione una notevole animosità nei confronti dell'Arcimago e del consiglio. Già sul posto, Vannor sedeva da solo al tavolo con aria piena di disagio, e quando Forral occupò il seggio riservato al comandante della guarnigione si protese verso di lui per parlargli in tono sommesso, approfittando del mormorio generale che pervadeva la stanza. «Senza offesa, Forral» esordì il capo della Corporazione dei mercanti, venendo come al solito subito al dunque, «so che Miathan ti ha assegnato questa invidiabile posizione in seno al consiglio a causa di Aurian e in passato non ho mai detto nulla in merito perché tu hai sempre fatto del tuo meglio pur trovandoti in una posizione difficile... ma adesso vorrei sapere se hai riflettuto a fondo su questa faccenda delle fognature. Una tassa del genere stroncherà la fascia più povera della popolazione cittadina, e sarà tuo compito controllare che tutti paghino il dovuto. Cosa ne sarà di chi non potrà pagare? Per non parlare di quello che potrebbe succedere se tutti rifiutassero di sottostare alla tassa, cosa che potrebbe benissimo verificarsi a
giudicare dall'umore attuale della popolazione. Se questa legge dovesse essere approvata ci troveremmo nella melma fino al collo, e non soltanto in modo metaforico!» «Hai un modo di esprimerti veramente incantevole, Vannor» commentò Forral, sorridendo suo malgrado. «Me lo hanno già detto» replicò il mercante, ricambiando il sorriso, mentre Forral rifletteva con rimpianto che era un peccato che il suo rapporto con Aurian gli avesse impedito fino a quel momento di sfidare pubblicamente l'Arcimago: senza dubbio Vannor meritava di meglio, e sarebbe stato un vero piacere dargli una mano, almeno per questa volta. In quel momento Miathan fece il suo solito ingresso trionfale nella stanza, seguito da quel piccolo e ossequioso rospo di Narvish, e Forral serrò involontariamente le labbra alla vista dell'archivista cittadino... un vecchio fossile ossuto e sdentato che costituiva la condanna della sua esistenza. Correvano infatti voci che Narvish fosse al soldo di Miathan, e Forral era certo che le registrazioni di alcune recenti riunioni del consiglio fossero state alterate a favore dell'Arcimago. Naturalmente non si trattava di modifiche vistose o dimostrabili ma piuttosto di un'alterazione dell'enfasi del discorso o di qualche parola sostituita o dimenticata in modo da rendere confuso e dubbio il resoconto di una conversazione che era invece stata chiara e lineare. Oggi non ci sarà la possibilità di fare giochetti del genere, pensò fra sé Forral, con aria cupa. Quello sarebbe infatti stato un dibattito pubblico a cui sarebbe seguita una semplice votazione maggioritaria, e adesso che Aurian aveva deciso di lasciare l'Accademia lui non era più costretto ad evitare di contrariare l'Arcimago. Miathan stava per avere una grossa sorpresa, e quella prospettiva faceva allo spadaccino un piacere immenso. Il dibattito assorbì per intero le tre ore previste, e durante il suo evolversi Forral poté avvertire la sorpresa dei presenti: una cosa del genere non si era infatti mai verificata durante il periodo in cui Miathan aveva detenuto la carica di Arcimago perché lui aveva provveduto ad accertarsi di avere sempre almeno un sostenitore all'interno del consiglio in modo da poter fare a modo suo e da spazzare via con facilità ogni opposizione. Questa volta però le cose non stavano andando come di consueto, e adesso Vannor non cercava più neppure di nascondere il proprio sorriso divertito mentre lui e Forral procedevano a smantellare sistematicamente ogni argomentazione dell'Arcimago. Dal canto suo, Forral si accontentava invece di sorridere interiormente e di guardare l'espressione di Miathan
farsi sempre più cupa. Poi la campanella che annunciava il momento del voto trillò, ponendo fine al dibattito. Narvish, che era parso sempre più allarmato a mano a mano che la discussione si protraeva, si alzò allora in piedi e si rivolse ai membri del consiglio. «L'Arcimago Miathan ha presentato davanti a questo consiglio una mozione per l'aumento della tassa sulle fognature, nella misura di dieci monete d'argento» recitò. «Tutti coloro che sono a favore dell'inserimento della mozione nello statuto cittadino si alzino in piedi.» In mezzo ad un silenzio assoluto l'Arcimago si alzò in piedi... solo. Forral vide Miathan girarsi verso di lui. aspettandosi che lo imitasse, e con una dimostrazione di noncuranza si appoggiò contro lo schienale della sedia, puntellando sul piano del tavolo i piedi calzati di stivali. Il suo gesto fu accompagnato da un sussulto che echeggiò per la stanza mentre l'espressione di Miathan mutava da compiacente in irosa e Narvish si guardava selvaggiamente intorno, del tutto sconcertato, quasi stesse cercando una via di fuga. «Non... non c'è nessun altro?» stridette. «Va' avanti con la procedura» ringhiò Vannor, ma anche se il suo tono era duro i suoi occhi stavano scintillando e lui sembrava divertirsi enormemente. «Chi... chi è contrario?» domandò il viscido archivista, allontanandosi impercettibilmente dal ribollente Arcimago. Lentamente Forral abbassò i piedi dal tavolo e si alzò in piedi insieme a Vannor, fra i tumultuosi applausi degli spettatori. Livido in volto, l'Arcimago aprì la bocca per parlare ma quando Forral incontrò il suo sguardo rovente con assoluta indifferenza girò sui tacchi e lasciò tempestosamente la stanza, per una volta del tutto sconfitto. L'Arcimago stava camminando avanti e indietro per la sua camera, a stento in grado di contenere la propria ira. Questa volta Forral si era spinto davvero troppo oltre... come aveva osato schierarsi con quell'arricchito di Vannor e fare sfoggio della supremazia della feccia Mortale su un membro del Popolo dei Maghi? Consapevole che il controllo della città gli stava sfuggendo di mano, insieme con la realizzazione dei suoi progetti di portata più vasta, Miathan decise che Forral aveva passato la misura e che, nonostante Aurian, aveva appena firmato la propria condanna a morte... poi d'un tratto si accigliò nel ricordare un altro particolare che fino a questo
momento non aveva pensato a collegare al comportamento di sfida assunto da Forral. Da quando lui lo aveva mandato in esilio, la notte precedente, D'arvan era scomparso e le spie inviate da Miathan non erano riuscite a rintracciarlo in città. Riflettendo su questo, l'Arcimago si chiese se avesse fatto bene a cedere alla richiesta di allontanare D'arvan presentatagli con insistenza da Eliseth e da Bragar, sulla base della teoria secondo cui la presenza di D'arvan sarebbe stata d'ostacolo ai progressi del fratello nell'apprendimento della magia e che era meglio avere un Mago operante e fedele che due del tutto inutili. Ora però stava cominciando a dubitare della saggezza della decisione presa perché un individuo che aveva nelle vene sangue di Maghi era comunque sempre una fonte di potere e lo turbava sapere che adesso D'arvan era lontano dalla sua sfera d'influenza. E se lui avesse deciso di elaborare un complotto di qualche tipo con Forral e con Aurian? E poi, cosa avevano inteso dire Eliseth e Bragar nel parlare di «un mago fedele»? La fedeltà di Davorshan andava all'Arcimago o soltanto a quei due orditori di complotti? Perplesso, Miathan continuò a vagliare le diverse possibilità, in quanto era ormai caduto nella classica trappola che attendeva al varco chiunque passava la vita complottando contro gli altri e che consisteva nella convinzione che anche gli altri, per contro, stessero complottando per spodestare lui. Eliseth e Bragar sembravano essergli fedeli, ma lui non si fidava completamente di nessuno dei due, di certo non abbastanza da rivelare loro di cosa fosse entrato in possesso, come rifletté nell'accarezzare distrattamente il bordo di oro brunito del calice che era posato sul tavolo davanti a lui. Quel calice gli sarebbe stato di un'estrema utilità se quei due avessero cercato di coalizzarsi contro di lui, perché finalmente le ricerche di Finbarr gli avevano fornito tutte le risposte che stava cercando: il calice conteneva davvero il potere del Calderone e come tutti gli strumenti propri della Gramarye, la magia Alta, poteva essere usato per il bene o per il male. Un sorriso aleggiò sulle labbra di Miathan, dovuto alla considerazione che senza dubbio il Codice dei Maghi era stato elaborato per gli stolti: quella che aveva fra le mani era un'arma così formidabile... Le sue riflessioni furono interrotte da un sommesso bussare, e con un'imprecazione lui si affrettò a coprire di nuovo il calice con un panno ricamato, in modo da nasconderlo alla vista. «Avanti» rispose quindi, e Meiriel entrò nella stanza. «Ti chiedo perdono, Arcimago» disse, inchinandosi profondamente, «ma
devo parlarti con estrema urgenza.» «Non ti pare di essere un po' troppo formale, Meiriel?» replicò Miathan, con forzata giovialità, in quanto non c'erano prove che la guaritrice gli fosse ostile e in futuro avrebbe potuto aver bisogno di tutto il supporto possibile. «Avanti, siedi e lascia che ti versi un po' di vino.» All'apparenza molto turbata, con lo sguardo che saettava di continuo in ogni direzione e la mascella contratta, Meiriel sedette e accettò una coppa di vino, poi parlò senza neppure dare all'Arcimago il tempo di sedersi a sua volta. «Aurian aspetta un bambino, Arcimago!» sbottò. Miathan s'immobilizzò a metà dell'atto di sedersi e tutt'intorno la stanza parve farsi di colpo più buia e più fredda. «Ne sei sicura?» sussurrò. «Ne sono certa» confermò Meiriel. «L'aura di una Maga cambia quando questa concepisce un figlio, e un guaritore può rilevare tale mutamento mentre di solito la Maga in questione impiega più tempo di una Mortale a rendersi conto del suo stato, in quanto noi siamo addestrate a sopprimere il ciclo femminile che altrimenti servirebbe da segnale di allarme. Per ora la gravidanza è iniziata da poco più di due mesi, e non credo che Aurian si sia resa conto della cosa, che di certo non può prevedere. Presto, però... molto presto... si accorgerà del suo stato.» «Oh, dèi» sussurrò Miathan, lasciandosi cadere di peso sulla sedia. «Dèi... non questo!» Preparata com'era a trovarsi di fronte ad uno scoppio d'ira, la guaritrice lo fissò con espressione confusa, poi trasse un respiro improvviso e profondo. «Come hai potuto lasciare che questo accadesse?» inveì a sua volta. «Con un Mortale, per di più!» «Taci!» ingiunse Miathan, che non la stava ascoltando e stava invece ricordando un giorno lontano in cui una ragazza Mortale dagli occhi azzurri aveva pianto davanti a lui nel riferirgli una notizia simile a questa... e soprattutto un giorno di non molto tempo prima in cui lui aveva formulato una terribile maledizione. E adesso la sua Aurian era gravida della progenie mostruosa di quel dannato Mortale... stava generando un essere che lui stesso aveva contribuito a rendere mostruoso. «Arcimago?» chiamò Meiriel in tono urgente, tirandolo per una manica. «Dannazione a te, Meiriel, vattene... no, aspetta!» esclamò Miathan, serrando le mani di lei in una stretta ferrea. «Tu sei una guaritrice... non po-
tresti eliminare questo bambino senza che Aurian se ne renda conto?» «Cosa?» esclamò Meiriel. «Arcimago, cosa stai dicendo?» «Ascoltami» replicò Miathan. «Hai appena affermato che Aurian è inconsapevole del proprio stato di gravidanza, e noi dobbiamo approfittarne: tu sei una guaritrice, Meiriel, e come tale per te dovrebbe essere facile porre fine ad una gravidanza... ma se Aurian scoprirà il proprio stato non ci permetterà mai di fare una cosa del genere. Poiché i suoi poteri sono tali da poter bloccare i tuoi, dobbiamo agire in fretta, quindi la convocherò qui subito e la sottoporrò ad in incantesimo del sonno mentre tu provvederai ad eliminare il bambino. Quando si sveglierà non capirà neppure cosa le è accaduto e noi le potremo dire che si è semplicemente sentita male... che ha abusato di nuovo delle proprie forze... ponendo fine al problema. E dopo» proseguì l'Arcimago, incontrando con lo sguardo quello della guaritrice, «io mi occuperò una volta per tutte di quel dannato spadaccino, perché non si deve permettere che una cosa del genere si verifichi di nuovo.» «Ma...» annaspò Meiriel, fissandolo a bocca aperta. «Ma tu non dovresti... voglio dire, io...» «Meiriel, puoi farlo oppure no?» domandò Miathan, in tono tagliente. «Suppongo di sì» sussurrò con aria contrariata la guaritrice, ritrovando a fatica il controllo. «Eccellente» sorrise l'Arcimago. «Mia cara Meiriel, sono molto soddisfatto di te, e il tuo operato sarà ricompensato in maniera adeguata. Sei certa che nessuno a parte te nutra dei sospetti... magari Finbarr o qualcun altro?» «Credi che direi una cosa del genere a Finbarr?» ribatté Meiriel, assumendo un'espressione sprezzante. «Lui non sarebbe certo dalla nostra parte, perché pende dalle labbra di quella dannata donna!» Notando il bagliore d'ira che le era apparso nello sguardo Miathan assunse un'espressione pensosa: dunque Meiriel era gelosa di Aurian? «Molto bene» concluse, archiviando quell'informazione nella mente per usarla in futuro. «Adesso manderò a chiamare Aurian.» «Dannato arnese!» imprecò Aurian, assestando uno strattone violento alla spazzola che era intrappolata in una ciocca dei suoi capelli, poi cedette all'ira e scagliò l'oggetto in questione lontano da sé... con i prevedibili risultati. «Ouch!» gemette, picchiando il pugno sul tavolino con tanta violenza da far tremare lo specchio che lo sovrastava. «Signora, lascia che ci pensi io» si affrettò ad intervenire Anvar, recupe-
rando la spazzola che dondolava a mezz'aria ancora appesa alla ciocca di capelli. Dopo averla liberata con cautela lasciò quindi Aurian a massaggiarsi la testa e andò a prenderle un bicchiere di vino, portando con sé la spazzola per prevenire altre esplosioni d'ira e riflettendo che di recente la sua padrona sembrava aver sviluppato un umore stranamente instabile e ombroso. «Grazie, Anvar» sorrise Aurian, dopo aver trangugiato un lungo sorso di vino. «Non so cosa farei senza di te. Sono stata davvero stupida a comportarmi in quel modo, e non riesco a capire cosa mi prenda da qualche giorno a questa parte» aggiunse, massaggiandosi con irritazione la fronte. «Adesso però è meglio che tu mi restituisca la spazzola, altrimenti non arriverò in tempo all'appuntamento con Forral.» «Posso provvedere io, Signora?» si offrì Anvar. «Ero solito spazzolare i capelli a mia madre...» Il ricordo involontariamente evocato gli strappò un sussulto doloroso e lui si affrettò ad aggiungere: «In ogni caso, lei ha sempre affermato che avevo una mano delicata.» «Forse è meglio che ci provi tu» assentì Aurian, sorpresa da quell'accenno di Anvar al suo passato, sul quale lei ormai aveva smesso di tentare di interrogarlo. Impugnata la spazzola Anvar iniziò a pettinarla, usando le dita per districare con cura le singole ciocche prima di spazzolarle insieme alle altre: sentire quelle ciocche lunghe e folte che gli scivolavano fra le dita come seta era piacevole e lui si applicò con zelo al suo compito, tanto che ben presto cominciò a passare la spazzola con lunghi colpi uniformi e vide ogni traccia di rigidezza abbandonare le spalle di Aurian. «È molto gradevole» sospirò lei. «Che tu sia benedetto, Anvar. Non riesco a capire come abbiano fatto ad arruffarsi tanto, di solito non succede quando li tengo intrecciati. Deve essere stato per colpa della lezione di equitazione che Parric mi ha impartito: per tutto il giorno sono stata sul cavallo, sotto il cavallo, su un fianco del cavallo... per non parlare delle volte in cui sono caduta o sono stata disarcionata!» «Combattere a cavallo è molto diverso, Signora?» domandò Anvar, che era deciso ad eccellere un giorno nell'arte della scherma, che Aurian aveva cominciato di recente a insegnargli. «È del tutto diverso» annuì lei. «Tanto per cominciare non hai i piedi per terra e ti trovi invece su un grosso animale che è molto poco manovrabile, il che impone di fare affidamento più sulla forza fisica che sull'agilità. Ci sono diversi stili con cui combattere a seconda che l'avversario sia a sua
volta in sella oppure appiedato, perché se si tratta di un fante cercherà di arrivare al cavallo per abbatterlo in quanto esso costituisce di per sé un'arma formidabile, Infatti i cavalli da guerra vengono addestrati a combattere proprio come i guerrieri... scusami, Anvar» s'interruppe d'un tratto, con un sorriso contrito, «non volevo avviare una conferenza, ma in questo periodo Parric mi sta facendo praticamente mangiare, dormire e respirare arte dell'equitazione.» «Devo intrecciarti di nuovo i capelli?» domandò Anvar, sorridendo all'immagine di lei riflessa nello specchio, e godendo del rapporto disinvolto che ormai si era creato fra loro. «Sai fare anche questo?» esclamò Aurian, stupita. «Per gli dèi, Anvar, ma non c'è proprio fine alle tue doti? Suppongo» aggiunse quindi, con una risatina, «che tu sia consapevole di esserti appena addossato da solo un altro compito, considerato che tutto quell'intrecciare mi fa dolere le braccia!» «Ne sarò lieto, Signora» garantì Anvar, e rimase a sua volta sorpreso nel rendersi conto che era vero. «Ti ringrazio, Anvar, e apprezzo la tua offerta, ma per stanotte non me ne avvarrò perché ceneremo con Vannor e preferisco avere l'aspetto di una dama piuttosto che di una guerriera» replicò Aurian, alzandosi in piedi e racchiudendo la massa di capelli rossi in una reticella dorata per tenerli in ordine, poi si assestò la gonna dell'abito color verde smeraldo e proseguì: «Bene, adesso devo proprio andare. Ci vediamo più tardi, Anvar... oh, dannazione! Chi è, adesso?» Anvar andò ad aprire la porta e si trovò davanti un servo con una convocazione per Lady Aurian da parte dell'Arcimago. «Sterco di pipistrello!» imprecò Aurian, quando lesse il messaggio. «In questo modo arriverò in ritardo. Quel servo ti ha detto cosa vuole Miathan da me?» «No, Signora, mi dispiace» rispose Anvar, scuotendo il capo. «Signora, se vuoi posso andare a dire all'Arcimago che ho commesso un errore e che tu sei già andata via» suggerì poi, perché non gli era sfuggito il timore che si celava dietro l'atteggiamento di noncurante irritazione di Aurian. «Ti ringrazio, ma è meglio che vada di persona a sentire che cosa vuole, perché Miathan è solito sfogare sul messaggero la sua irritazione per le notizie che gli sono state portate. Prima di scendere in città passerò a prendere il mantello. Mi auguro solo che le cose non vadano troppo per le lunghe.»
Dopo che Aurian se ne fu andata Anvar cominciò ad aggirarsi per l'appartamento, riponendo gli abiti che lei aveva accantonato al ritorno dalla guarnigione: raccolti gli indumenti da combattimento di cuoio, la cintura per la spada e gli stivali avvolse il tutto nel mantello che un tempo era appartenuto a Forral e lasciò il fagotto accanto alla soglia, nel punto in cui la spada era già appoggiata alla parete, con l'intenzione di provvedere più tardi a ripulirli. Svuotata la tinozza che Aurian aveva usato per il bagno preparò la legna per il fuoco e sistemò una nuova fiasca di vino sul tavolo in previsione del ritorno della sua Signora. Ultimati i suoi compiti era sul punto di allungare la mano verso la chitarra per trascorrere suonando il prossimo paio d'ore di solitudine quando il suo sguardo si posò sul bastone di Aurian, che giaceva dimenticato sotto il letto. Il bastone era uno strumento di vitale importanza per un Mago, in quanto serviva a focalizzare e a concentrare il suo potere. Di conseguenza ogni singolo Mago, una volta raggiunto un certo livello di addestramento, provvedeva a modellare il proprio bastone da uno dei tradizionali alberi magici, usando a suo piacimento un ramo o una radice in cui infondere il proprio potere e la propria personalità. Aurian aveva rimandato a lungo il momento di preparare il bastone perché sapeva di essere goffa nell'intagliare e aveva paura che il risultato finale sarebbe stato un vero disastro; consapevole di questo e desideroso di ripagare il dono generoso che lei gli aveva fatto il giorno del Solstizio, Anvar si era recato nei boschi a sud del fiume e aveva raccolto una contorta radice di betulla... la pianta preferita di Aurian... intagliandola poi con cura grazie agli insegnamenti impartitigli dal nonno e seguendo le curve naturali del legno in modo da formare i due Serpenti della Magia Alta... il Serpente della Forza e il Serpente della Saggezza. Le spire dei due Serpenti si snodavano lungo tutto il bastone dalla base fino alla sommità, intrecciandosi fra loro, e nel complesso quello era l'oggetto più bello che lui avesse mai creato, pervaso di una sua forza vitale ancor prima di essere permeato di magia, e la gioia con cui Aurian aveva accolto quel dono era stata per Anvar una ricompensa più che sufficiente per la sua fatica. Nel notare il bastone abbandonato sotto il letto, Anvar si chinò d'istinto per raccoglierlo... e un momento più tardi lo lasciò cadere come se si fosse ustionato, perché nel momento in cui le sue dita avevano toccato il legno esso gli aveva trasmesso una scarica di paura mista a panico, come se Aurian gli avesse lanciato una disperata e impotente richiesta di aiuto. Con cautela, si protese ancora a prendere il bastone, ma questa volta non avver-
tì più nulla e nel rigirarlo fra le mani si chiese con aria accigliata cosa fosse successo ad Aurian. Ormai era lontana da molto tempo... possibile che qualcosa fosse andato storto e che lei fosse riuscita a trasmettergli il suo appello tramite quel bastone che lui aveva creato e che adesso era pervaso del suo potere di Maga? Nel formulare quel pensiero sentì un nodo di sofferenza che gli si formava fra gli occhi ma rifiutò di badarvi perché ricordava ancora il lampo di timore apparso nello sguardo di Aurian quando era stata convocata da Miathan: per quanto l'idea di affrontare l'Arcimago lo terrorizzasse, decise infine che sarebbe dovuto andare a verificare se la sua Signora stava bene. Con passo lento e riluttante salì fino all'ultimo livello della torre, cercando senza successo di autoconvincersi di aver immaginato tutto. Quando arrivò davanti alla porta di Miathan la trovò socchiusa e nel sollevare la mano per bussare udì all'interno un suono di voci, quella dell'Arcimago e quella di... Meiriel? Dov'era Aurian? In quel momento sentì qualcosa che lo raggelò e lo fece immobilizzare con la mano sollevata nell'atto di bussare. «Non funziona, Miathan» affermò Meiriel, con voce carica di tensione. «Anche sotto l'effetto dei tuoi incantesimi lei sta combattendo d'istinto per difendere il bambino.» «Dannazione! Non c'è nulla che possiamo fare?» «Ecco... potrei provare utilizzando un tipo di droga che influenza la mente e la rende docile agli ordini esterni. In questo modo potremmo indurla ad espellere il marmocchio da sola.» «Hai con te questa sostanza?» «Certamente» scattò Meiriel. «Però dobbiamo fare in fretta perché la droga impiegherà circa un'ora ad avere effetto, e se nel frattempo dovessero scoprirci...» «Non ti preoccupare di questo. Senza dubbio Eliseth e il suo compagno devono essere impegnati a complottare qualcosa, e sai che Finbarr non lascia mai i suoi archivi. Avanti. Meiriel, procedi: il figlio di Forral non deve sopravvivere a questa notte.» Anvar sussultò e si appoggiò contro la fredda parete di pietra della torre in cerca di sostegno, con la mente che vorticava per la confusione. Il bambino di Aurian stava per essere distrutto com'era accaduto a quello di Sara, e quasi per lo stesso motivo... il suo bambino... il bambino di Forral... Forral! Voltandosi di scatto scese le scale senza fare rumore fino a oltrepassare la prima curva, poi proseguì la discesa correndo a rotta di collo. Arrivato
in fondo alla scala s'infilò senza riflettere il bastone di Aurian nella cintura e attraversò a precipizio il cortile rischiarato dalle torce diretto alle stalle adiacenti il casotto di guardia. «Un cavallo, presto!» gridò alle sentinelle stupite. «Devo svolgere un incarico urgente per conto di Lady Aurian!» Ormai le guardie sapevano che lui era il fidato servitore di Aurian, quindi non cercarono di ostacolarlo mentre metteva la briglia al cavallo più vicino e gli saltava in groppa senza neppure sellarlo, abbassandosi per varcare la soglia della stalla e oltrepassando al galoppo le porte superiori nel momento stesso in cui una delle guardie sollevava una lanterna per avvisare l'altro custode di aprire le porte inferiori. Anvar arrivò alla guarnigione inseguito da parecchi soldati a cavallo che non avevano apprezzato il modo in cui lui aveva attraversato le strade cittadine, sparpagliando davanti a sé con noncuranza i passanti che gli avevano intralciato il cammino. Vedendosi sbarrare il passo da due sentinelle Anvar assestò uno strattone alle redini e balzò giù dalla groppa della sorpresa cavalcatura prima che essa avesse avuto il tempo di arrestarsi, ficcando le redini in mano ad uno degli stupiti soldati. «Dov'è il Comandante Forral?» ansimò, rivolto a Parric, che per fortuna era fra le guardie presenti. «Presto... dov'è?» «Nel suo alloggio, però...» cominciò il comandante di cavalleria, ma un momento più tardi si trovò a parlare al vento perché Anvar si era già allontanato, aprendosi un varco a spallate e attraversando di corsa il terreno di parata alla volta degli alloggi degli ufficiali nel momento stesso in cui i suoi inseguitori sopraggiungevano a loro volta e si arrestavano con aria interrogativa, guardando verso Parric che rispose con una scrollata di spalle. Raggiunta la porta dell'alloggio del comandante, Anvar si mise a bussare con tanta frenesia che per poco non colpì Forral in piena faccia quando questi venne ad aprire. «Anvar, cosa diavolo...» cominciò Forral. Il giovane entrò barcollando nella stanza, senza quasi accorgersi di Vannor, che era seduto accanto al fuoco, e raccontò con voce affannosa quello che stava succedendo. Il risultato della sua rivelazione fu però del tutto inaspettato perché Anvar, conoscendo Forral come un soldato di professione freddo e capace, non si era reso conto che lo spadaccino aveva un punto debole nelle sue difese personali, e che esso era costituito da Aurian. «Miathan!» ululò Forral, con voce inumana, sbiancando in volto e as-
sumendo un'espressione folle, poi afferrò la spada e abbandonò a precipizio la stanza, lasciando Vannor e Anvar a fissarsi inorriditi a vicenda per un istante prima di lanciarsi a loro volta sulle orme dello spadaccino infuriato. Quando infine furono riusciti a procurarsi dei cavalli e ad attraversare le strade affollate della città, Forral aveva ormai acquisito un notevole vantaggio su di loro, e nel raggiungere il casotto di guardia all'ingresso della strada rialzata i due s'imbatterono in una prova tangibile quanto orrenda del suo passaggio: il corpo del custode steso al suolo in una pozza di sangue. Giunti nel cortile dell'Accademia si trovarono poi di fronte ad una carneficina ancora peggiore: servi e guardie giacevano sulla pavimentazione insanguinata e il cavallo da guerra di Forral era fermo davanti alla porta della torre, con i fianchi ancora ansimanti, gli orecchi appiattiti sul cranio e le narici dilatate a causa dell'odore del sangue. Scesi a precipizio di sella Anvar e Vannor si lanciarono su per la scala della torre, ma quando arrivarono sulla soglia della stanza di Miathan si arrestarono di colpo, inorriditi dalla scena che si offriva ai loro occhi. Aurian era persa in un sogno oscuro nel quale stava lottando con tutte le sue forze contro un'entità cupa, nebulosa e inimmaginabilmente malvagia che stava cercando di impossessarsi della sua stessa anima; e mentre continuava a combattere, disperata e priva di armi, era al tempo stesso consapevole che a poco a poco stava cedendo, poteva avvertire la propria volontà che s'indeboliva sempre di più di fronte a quell'oscuro terrore e alla voce che cercava di dominarla. Poi sentì un'altra voce, che stava gridando il nome di Miathan. Forral! Distinto si aggrappò a quel suono come ad una fune di salvataggio, risalendo sempre più in alto... più in alto e all'esterno... Aprendo gli occhi, vide l'opulento alloggio di Miathan rischiarato dal chiarore delle lampade e Meiriel raggomitolata in un angolo... poi il suo sguardo si posò su Forral che. sporco di sangue e con una spada insanguinata stretta in pugno, stava avanzando verso l'Arcimago. Lentamente Miathan indietreggiò fino a porsi dietro ad un tavolo e con un gesto secco allontanò un panno che copriva qualcosa... un calice d'oro brunito e coperto di elaborate incisioni. Con voce agghiacciante l'Arcimago prese quindi a recitare le parole di un incantesimo, esprimendosi in una lingua antica e pervasa di malvagità, ed Aurian avvertì un doloroso ronzio all'interno del cranio allorché quell'oscura e oscena forza magica cominciò a permeare la stanza.
«Miathan, no!» stridette, lottando per liberarsi dagli effetti della droga e alzarsi dal divano su cui era distesa. Disperata, vide Forral che continuava ad avanzare con passo lento e inesorabile e con un'espressione omicida negli occhi, e lanciò mentalmente una frenetica richiesta di aiuto a Finbarr, il solo Mago di cui potesse fidarsi. Intanto l'aria si era ispessita e incupita, e in quella penombra improvvisa l'esterno della coppa stava cominciando a risplendere di una pallida e malsana luminescenza simile a quella di un fungo marcio, racchiudendo al proprio interno un nero abisso privo di fondo da cui emanavano un orribile fetore di putrefazione ed un gelo di morte. Poi qualcosa si agitò nelle profondità del calice e un'ombra simile ad una voluta di nero fumo oleoso fluttuò oltre il suo bordo: un singolo occhio rosso prese ad ardere di un bagliore intenso al centro di quei vapori ribollenti mentre lo spettro si espandeva e acquistava sostanza, diffondendo nella camera una gelida ondata di malevolenza che fece crollare in ginocchio lo spadaccino non appena la creatura accennò a muoversi nella sua direzione. Il volto di Forral si contorse in maniera orribile e lui urlò, una volta sola. «Miathan, no!» Il grido acuto di Aurian indusse l'Arcimago a girarsi in tempo per vederla lottare per alzarsi dal divano, con lo sguardo inorridito fisso sull'abominio da lui evocato. Poi Aurian si girò verso di lui e l'espressione di estremo dolore che c'era sul suo volto gli trafisse il cuore. «Richiamalo indietro!» gridò Aurian. «Per favore, Miathan, risparmialo! Farò qualsiasi cosa... lo giuro, ma ti imploro di richiamare quella cosa!» L'Arcimago esitò per un momento e la sua creatura si arrestò, librandosi nell'aria, mentre lui ricordava il debito di sangue che già aveva contratto nei confronti di Aurian uccidendo suo padre. Dopo tutto, nel suo modo avido, era davvero innamorato di Aurian, e lei gli aveva appena giurato di essere pronta a qualsiasi cosa, quindi se si fosse conquistato la sua gratitudine risparmiando Forral di certo sarebbe riuscito a riconquistare anche il suo cuore. Miathan si girò verso Forral, deciso a richiamare la creatura, ma nel momento in cui il suo sguardo si posò sullo spadaccino intrappolato in un angolo lui rammentò di colpo l'umiliazione subita quella stessa mattina per opera di quell'uomo... di quell'immondo Mortale che era anche l'amante di Aurian! Quel Mortale che aveva osato toccarla, riempirla del suo seme e generare da lei la propria mostruosa progenie. No, questo era troppo! Con
la mente consumata dalle fiamme devastanti della gelosia, l'Arcimago si lasciò sfuggire completamente quell'unica possibilità di redimersi. Aurian vide Miathan girarsi verso l'abominio da lui evocato, vide il suo volto contorcersi in un'orribile maschera di odio. «Prendilo!» stridette quindi Miathan. Raggomitolato a ridosso della parete, Forral stava fissando con occhi dilatati la cosa che aveva ripreso ad avanzare verso di lui: del tutto privo di timore di fronte a qualsiasi avversario umano, lo spadaccino era peraltro privo di risorse davanti ad un nemico del genere, capace di raggelare di terrore la stessa Aurian che dovette fare appello a tutto il proprio coraggio per non cedere ad un folle senso di panico e fuggire davanti a quella manifestazione malvagia che stava avanzando con intento letale verso l'uomo che lei amava. La creatura aveva l'aspetto di un sorta di nube scura, uno spettro fumoso che si contorceva e ondeggiava mosso da nauseanti pulsazioni, assumendo una successione di sogghignanti facce demoniache che tremolavano fugaci e talmente rapide da torturare lo sguardo e da dare un nauseante senso di vertigine. Era impossibile fissare la creatura ma al tempo stesso era impossibile distogliere lo sguardo da essa, ed Aurian cominciò a sentire la testa che le doleva a mano a mano che il vortice di gelida malvagità che avviluppava quella cosa procedeva a prosciugare ogni traccia di calore dal suo corpo. All'improvviso si rese conto che le restava poco tempo per agire, e con la forza della disperazione si costrinse a scattare in piedi e ad attraversare d'un balzo la stanza in modo da porsi davanti allo spadaccino e da attivare il proprio schermo magico a protezione di entrambi. La cosa continuò ad avanzare, lenta e inesorabile, e Aurian si costrinse a reprimere un grido quando essa colpì il suo schermo.... attraversandolo di netto come se non fosse neppure esistito! Ricacciando indietro il panico, indietreggiò verso Forral e afferrò la spada che pendeva dalle sue dita inerti per il terrore. Allorché la infuse della forza della propria Magia del Fuoco la lama vibrò e si ammantò di un bagliore intenso, poi Aurian scattò verso l'abominio che aveva davanti e vibrò un grande fendente a due mani, tagliandolo di netto nel mezzo. La sua spada non incontrò nessuna resistenza nell'attraversare il fumo e lo spettro emise una risatina cupa e gelida nel ricomporre senza sforzo le due metà mentre la violenza dell'impatto riverberava d'un tratto nel corpo
di Aurian e la sua lama si faceva spenta e opaca. Debolmente, lei crollò all'indietro e lasciò che la spada le sfuggisse dalle mani intorpidite dal gelo che si stava diffondendo su di esse. Intanto l'abominio persistette nella sua avanzata e parve crescere di dimensioni, nascondendo la stanza intera con la sua forma massiccia e scura: oltrepassando senza sforzo Aurian che giaceva al suolo, la cosa calò sullo spadaccino e lo avviluppò con la propria fetida oscurità. Forral gridò un'ultima volta il nome di Aurian con voce soffocata, poi la massa scura lo ricoprì completamente e scese il silenzio. Lentamente, l'abominio tornò infine a risollevarsi. Adesso Forral giaceva al suolo bianco e immobile, proprio come Aurian lo aveva visto tanto tempo prima in una delle sue angoscianti visioni. «Forral!» stridette, con voce pervasa di un'angoscia inesprimibile, e incurante del pericolo si gettò su di lui. Ormai però era troppo tardi e adesso il corpo di Forral era un gelido guscio privo di vita, il suo respiro non si avvertiva più e il suo grande cuore amorevole e generoso aveva smesso di battere per sempre. Anvar arrivò sulla soglia in tempo per assistere alla morte di Forral, poi vide Aurian gettarsi sul corpo dello spadaccino e, incurante del pericolo, cercare disperatamente di riportarlo in vita senza però riuscire a individuare con i suoi sensi di guaritrice una minima scintilla vitale a cui potersi aggrappare. Intanto la nera mostruosità accennò a scendere verso di lei con le fauci spalancate, emettendo un sibilo acuto. «No!» stridette Miathan. «Non lei, idiota!» La cosa però lo ignorò perché, rinforzata dalla forza vitale attinta dalla sua vittima, si era adesso sottratta al suo controllo. Con un grido inarticolato Anvar accennò a scattare in avanti ma venne spinto di lato dalla sagoma alta e dinoccolata di Finbarr, che si parò davanti al mostro e alzò il proprio bastone, gridando al tempo stesso alcune parole con voce forte ed echeggiante. L'abominio sussultò, come stupito, e all'improvviso si trovò circondato da una nebbiosa aura azzurra che ben presto lo immobilizzò completamente a mezz'aria, lasciandolo sospeso a pochi centimetri appena dal volto di Aurian, rimosso completamente dallo spazio e dal tempo in virtù dell'incantesimo di preservazione di Finbarr. Lanciando un'imprecazione oscena, Miathan sollevò le mani e reagì con un secondo incantesimo in risposta al quale altre forme presero ad emergere dal calice dorato, soltanto per essere
congelate immediatamente da Finbarr, il cui volto cominciava però ad essere contorto e madido di sudore per lo sforzo a cui lui era sottoposto. «Nihilim!» gridò. «Sono gli Spettri di Morte del Calderone! Anvar, portala via di qui!» Raggomitolata nel suo angolo, Meiriel aveva ripreso ad urlare. Senza bisogno di farselo dire due volte, Anvar scattò verso Aurian e si abbassò per evitare la forma raggelata dell'orribile mostruosità incombente su di lei, ma quando la prese per un braccio lei continuò a restare aggrappata a Forral. «Aurian, vieni via!» gridò il giovane. «Per favore... non c'è più nulla che tu possa fare per lui!» Lentamente Aurian fissò il suo volto bagnato di lacrime e all'improvviso il suo sguardo sì mise a fuoco, come se lo stesse riconoscendo soltanto adesso; passandosi la manica sugli occhi per asciugare le lacrime lei infine annuì e si girò verso Forral, sfiorandogli il volto con una carezza d'addio. «Ti auguro un viaggio sicuro, amore» sussurrò, «fino a quando c'incontreremo di nuovo.» Poi si ritrasse con un singhiozzo e si appoggiò pesantemente al braccio di Anvar mentre entrambi si dirigevano barcollando verso la porta. Intanto Finbarr stava ancora lottando contro l'interminabile successione di Spettri evocata dall'Arcimago, ma ormai cominciava a barcollare per la debolezza; alle sue spalle, Vannor era immobile sulla soglia, paralizzato per il terrore e pallidissimo in volto. «Aiutala!» ingiunse Anvar, spingendo Aurian verso di lui. «Presto!» Poi li precedette di corsa giù per le scale e s'infilò nell'appartamento di Aurian, prelevando il fagotto dei suoi abiti da guerriera e la spada prima di raggiungere Vannor e Aurian in fondo alla scala e aiutare la Maga sconvolta a montare su uno dei cavalli. Vannor balzò in sella ad un altro animale e Anvar gli passò il fagotto con gli abiti prima di montare dietro ad Aurian e afferrare le redini. «A casa mia!» gridò Vannor, spronando la cavalcatura in direzione delle porte senza badare ai cadaveri delle guardie che l'animale stava calpestando. Nell'oltrepassare le porte sentirono giungere dalla torre un urlo spaventoso lanciato da Meiriel. poi Aurian s'irrigidì fra le braccia di Anvar e sussultò come se fosse stata colpita. «Finbarr è morto» sussurrò con voce sottile e opaca, come se quest'ultimo dolore fosse stato per lei il colpo di grazia e adesso nulla avesse più il
potere di raggiungere il suo animo. Nel guardarsi alle spalle in direzione della torre, Anvar vide che le sinistre forme scure degli Spettri stavano cominciando a fuoriuscire dalle finestre, dirette alla volta della città. I fuggiaschi percorsero al galoppo la strada rialzata, desiderosi di allontanarsi il più possibile dall'orrore che avevano alle spalle, poi svoltarono a sinistra sulla strada rischiarata da lampioni che s'inerpicava in mezzo agli alberi e interruppero la loro fuga incontrollata soltanto quando arrivarono davanti alle robuste porte intagliate della dimora di Vannor. Oltrepassando lo sconcertato servo che era venuto ad aprire, Vannor precedette i compagni lungo il corridoio piastrellato che portava al suo studio e una volta là gettò per terra il fagotto con gli indumenti, segnalando con un cenno ad Anvar di aiutare la Maga a sedersi su un divano e versando per tutti un bicchiere di liquore prima di lasciarsi cadere sulla sua poltrona. «Per gli dèi, cosa dobbiamo fare adesso?» esclamò, tirando fuori di tasca un fazzoletto con cui asciugarsi la fronte. «È evidente che Miathan è impazzito» proseguì quindi, con il tono calmo proprio di chi è in un profondo stato di shock. «Ha infranto il codice dei Maghi ed ha scatenato su questa città un orrore di cui non si è mai visto l'uguale. Lui ha sempre voluto il potere e adesso lo otterrà... e poi ci verrà a cercare, soprattutto Aurian. Devi portarla lontano da qui, ragazzo, e il solo interrogativo è dove andare. Signora, credi che potresti recarti al nord, da tua madre?» aggiunse, rivolto direttamente ad Aurian. Lei sedeva rigida sul divano accanto ad Anvar, con gli occhi dilatati e vacui fissi nel nulla, il volto grigio e le dita strette intorno al bicchiere intatto al punto da far sbiancare le nocche. «Signora?» la incitò con gentilezza Anvar. poi le circondò le spalle con un braccio e le guidò alle labbra le mani in cui stringeva il bicchiere, incoraggiandola a bere: non appena inghiottì un sorso di liquore lei fu pervasa da un tremito e la terribile tensione che pervadeva il suo corpo si attenuò leggermente. «Forral» sussurrò, in tono malinconico, poi il suo sguardo tornò a mettersi a fuoco, così angosciato e pervaso di solitudine che Anvar non fu in grado di sostenerlo. Un momento più tardi Aurian però distolse il viso e con mano tremante protese il bicchiere verso Vannor perché tornasse a riempirlo, inghiottendo il liquore in un rapido sorso. «Anvar, cosa è successo?» domandò. «Cosa mi ha fatto l'Arcimago? Perché tu e... e Forral eravate lì?» In poche parole, con voce che tremava per l'emozione, Anvar le riferì
ogni cosa, e la vide sgranare progressivamente gli occhi per la sorpresa. «Un bambino?» sussultò infine Aurian. «Quale bambino? Io non sono... non è possibile!» Poi il suo volto si fece inespressivo per un momento e Anvar comprese che stava sondando dentro di sé con il proprio senso di guaritrice. «Dèi onnipotenti!» mormorò infine. «Al Solstizio! Deve essere successo la notte del Solstizio, quando eravamo così ubriachi... e felici. Però non posso essere stata tanto sbadata... è impossibile... Meiriel!» ringhiò d'un tratto, mentre negli occhi le divampava un'ira spaventosa. «Meiriel mi ha tradita! È l'unica ipotesi plausibile. Per gli dèi, me la pagherà cara!» Balzando in piedi, si girò di scatto verso Vannor, pervasa d'un tratto di cupa determinazione. «Tu devi andare al nord, Vannor» disse. «Mia madre deve essere avvertita che l'Arcimago è diventato un traditore e un rinnegato, perché prima che questa storia sia finita avremo bisogno dei suoi poteri. Lungo la strada cerca di raccogliere quanti più sostenitori ti sarà possibile; nel frattempo io mi recherò nel sud per radunare un esercito fra le guarnigioni dei forti sulle colline. Ti giuro che non avrò pace finché Miathan non avrà pagato per ciò che ha fatto stanotte.» «Cosa?» esclamò Vannor, scattando in piedi a sua volta, pallido e scosso. «Aurian, vorresti infrangere il Codice dei Maghi per vendicarti? Non ricordi l'amara lezione che ci è stata impartita dal Cataclisma? Non puoi scatenare di nuovo un simile terrore!» «Non ho scelta» ribatté la Maga, fissandolo con fredda fermezza. «Miathan ha già infranto il Codice e poiché Finbarr ha detto che quelle... quelle cose... erano i Nihilim, gli Spettri di Morte, questo può significare soltanto che l'Arcimago è entrato in possesso del leggendario Calderone e che ne ha volto il potere al male. Se non lo fermiamo finirà per tenere in pugno il mondo intero.» «Come puoi sperare di fermarlo, se possiede un'arma così potente?» domandò Vannor, rimettendosi bruscamente a sedere. «Non lo so» ammise Aurian, «però devo provarci o morire nel tentativo.» Era chiaro che non era possibile farle cambiare idea, e comunque il tempo a loro disposizione era troppo scarso, il pericolo troppo vicino per mettersi a discutere. Pur temendo per la sua stessa anima, Anvar comprese che avrebbe dovuto accompagnarla perché era impossibile prevedere cosa la Maga avrebbe potuto fare in reazione al dolore per la perdita subita; inoltre Aurian non sembrava prendere in minima considerazione il suo bambino
non ancora nato, quindi qualcuno doveva occuparsi di entrambi e questo era il minimo che lui poteva fare per espiare il suo errore. Avendo avuto un po' di tempo per riflettere su quanto era accaduto, Anvar era infatti consumato da un senso di colpa per la parte avuta nella morte di Forral. Se lui si fosse soffermato a riflettere sulle possibili conseguenze invece di precipitarsi alla ricerca dello spadaccino, adesso Forral sarebbe stato ancora vivo e così pure Finbarr... e Miathan non avrebbe scatenato l'orrore degli Spettri. Certo, il bambino sarebbe morto, ma per quanto si trattasse di una scelta difficile lui era sicuro che Aurian avrebbe preferito salvare l'uomo che amava. In questo momento il suo dolore era soffocato dal bisogno di agire, ma prima o poi anche lei si sarebbe resa conto di chi era il vero responsabile dell'accaduto... e nel rabbrividire all'idea di quello che allora la Maga avrebbe potuto fargli, Anvar si disse che sarebbe stata soltanto una giusta punizione. Serrando gli occhi in un impeto di angoscia, si chiese quindi se era davvero destinato ad essere la rovina di quanti gli erano cari: prima sua madre, poi Sara... e adesso Forral e Aurian. In cuor suo desiderava davvero di essere morto lui al posto dello spadaccino, ed era certo che anche Aurian la pensasse nello stesso modo. Intanto la Maga e Vannor stavano approntando in fretta i loro piani. Vannor avrebbe radunato le sue guardie personali e avrebbe cercato di trovare Parric in città, procedendo poi a raccogliere uomini che partecipassero alla resistenza contro l'Arcimago. Rabbrividendo, Anvar si meravigliò del coraggio che il mercante stava dimostrando, dal momento che lui era invece vergognosamente lieto di non doversi avventurare nelle strade cittadine infestate dagli Spettri: lui e Aurian avrebbero infatti preso la piccola barca da diporto di Vannor e sarebbero fuggiti lungo il fiume fino al porto, perché Aurian aveva deciso che la via più rapida per raggiungere i forti sulle colline era il mare, e Vannor le aveva fornito l'oro necessario per pagare il viaggio. Quando ormai era tutto deciso, il mercante avanzò infine una richiesta che ebbe l'effetto di strappare Anvar alle sue riflessioni e di farlo sussultare violentemente. «Quando partirete porterete Sara con voi? Lei sarà più al sicuro in uno dei forti meridionali che qui con me in città.» «Vannor, non possiamo farlo» replicò con brusca franchezza Aurian, accigliandosi. «Anche se Forral... anche se lui mi ha insegnato molte cose su come si affrontano le avventure, questo sarà il mio primo viaggio del genere, e avere con me Sara metterà in pericolo sia lei che noi. In realtà sarebbe più al sicuro qui con te.»
«Per favore, Aurian» insistette Vannor. «So che lei non è fatta per affrontare le difficoltà, ma se resterà qui correrà pericoli enormi.» «D'accordo, Vannor» si arrese Aurian, con un sospiro. «Dopo tutto ti devo molto... però bada che non potremo certo vezzeggiarla.» «Grazie, Signora!» esclamò Vannor, illuminandosi in volto. «La farò chiamare immediatamente.» Nell'apprendere cosa era successo Sara fu assalita a una crisi isterica e aggredì Vannor come una furia, investendolo con ogni possibile epiteto per essersi lasciato coinvolgere in quella storia, per aver destato le ire dell'Arcimago e per aver rovinato la loro vita. Di fronte a quel comportamento, il mercante assunse un'espressione di profonda vergogna mentre Aurian arricciò le labbra con disgusto e Anvar rimase in silenzio in disparte, contemplando ancora una volta la bellezza di lei con il cuore che gli martellava nel petto. Sebbene adesso Sara mostrasse di ignorare la sua presenza, l'aveva vista impallidire nell'accorgersi di lui, e il ricordo di come lo avesse ripudiato l'ultima volta che si erano incontrati era tornato ad assalirlo. Quel comportamento era però derivato dall'odio nei suoi confronti... o dal timore che Vannor potesse scoprire il vergognoso segreto nascosto nel suo passato? A giudicare dalla scena a cui stava assistendo era evidente che in quel matrimonio l'amore esisteva soltanto da parte di Vannor, perché nel modo in cui Sara gli si stava rivolgendo era possibile vedere soltanto freddezza e disprezzo: dal momento che sua madre aveva detto che Sara era stata venduta come moglie a Vannor, era possibile che lei fosse stata costretta a sposarlo contro la sua volontà? Era forse prigioniera in quella ricca dimora? Questo avrebbe spiegato il suo comportamento nei confronti del mercante, che era notoriamente conosciuto come un uomo gentile e onesto, ma d'altro canto se davvero odiava Vannor, come avrebbe reagito Sara nell'apprendere che avrebbe dovuto viaggiare con il suo antico amante, che le aveva dato un figlio e l'aveva abbandonata a subire da sola le conseguenze del suo stato? Vannor però non giunse a spiegarsi abbastanza diffusamente da includere anche Anvar nel suo discorso, perché quando riuscì a intromettersi nell'invettiva di Sara quanto bastava per accennare ai loro piani lei rifiutò di partire. «Perché dovrei farlo?» scattò, picchiando a terra un piede. «Non intendo girare per il mondo come una vagabonda insieme a lei» continuò, fissando Aurian con occhi roventi. «Nulla di quanto è successo è stato colpa mia... l'Arcimago non può certo biasimarmi per l'accaduto. Dopo tutto, non ho
scelto io di sposare uno stolto... o un fuorilegge!» Anvar vide l'espressione ferita che si dipinse sul volto di Vannor, vide Aurian avanzare imprecando con la mano sollevata e scattò in avanti, certo che la Maga stesse per colpire Sara... ma Aurian si limitò a posarle una mano sulla fronte. «Dormi!» ordinò, e lei si accasciò al suolo; subito Vannor le si inginocchiò accanto, e nell'incontrare il suo sguardo ansioso Aurian aggiunse: «Non ti preoccupare, servirà a impedirle per un po' di combinare guai. Chiama qualcuno che la trasporti fino alla barca, perché abbiamo già tardato anche troppo a partire.» «Sta bene?» chiese il mercante. «Certo che sta bene, meglio di quanto meriti» ribatté Aurian, in tono irritato. «È soltanto addormentata. Vannor, però ti avverto che la prossima volta che comincerà a comportarsi in quel modo la colpirò sul serio... e con molto piacere.» Fuori si era alzato il vento, che stava sospingendo brandelli di nubi davanti ad una pallida falce di luna la cui luce incerta permetteva di intravedere i rami spogli che si agitavano sullo sfondo del cielo. Chiazze di neve non ancora sciolta costellavano le rive boscose vicino al piccolo casotto per le barche di Vannor e il fiume scorreva rapido, mandando avide onde agitate a lambire i bordi del basso molo di legno. Una delle guardie di Vannor tenne sollevata la lanterna e un'altra tirò la piccola barca fuori dal suo riparo, tenendola ferma mentre il mercante adagiava con gentilezza all'interno la moglie addormentata e avvolta in abiti caldi, appoggiandole la testa sui patetici fagotti che costituivano il loro bagaglio. Sebbene avesse indosso un mantello prestatogli dal mercante, Anvar fu assalito da un tremito incontrollabile a causa del gelo notturno e dell'insorgere del senso di shock; ferma accanto a lui. Aurian si teneva stretto intorno al corpo il vecchio mantello di Forral e appariva pallidissima e inespressiva in volto, e questo destò la preoccupazione di Anvar, in quanto lui sapeva bene che soltanto la sua indomita volontà le stava impedendo di crollare. Vannor contemplò a lungo Sara, le diede un bacio di addio e si volse verso Aurian, stringendola in un rude abbraccio. «Gli dèi ti accompagnino, Signora» disse con voce soffocata e con il volto solcato di lacrime. «Mi auguro che accompagnino anche te, caro Vannor» replicò Aurian, con voce infranta da un singhiozzo, poi deglutì a fatica e aggiunse in tono
sommesso: «Abbi cura di te.» Quindi si asciugò gli occhi e si tirò il cappuccio sulla testa prima di scendere nella barca, facendo attenzione alla spada che ora portava al fianco. Infilatosi nella cintura il bastone che si era fatta restituire da Anvar, afferrò il palo che fungeva da timone e si tenne pronta a spingere l'imbarcazione lontano dal molo, mentre Vannor si volgeva verso Anvar e gli serrava la mano in una stretta calorosa. «Abbi cura di loro, ragazzo» disse, «Abbi cura di entrambe. Anvar annuì, incapace di parlare, poi prese posto a sua volta sulla fragile imbarcazione e impugnò i remi. Un momento più tardi Aurian spinse con il palo contro il molo e la barca fu catturata dalla corrente, prendendo velocità e lasciandosi in fretta alle spalle la figura sempre più piccola di Vannor, che infine scomparve all'orizzonte.» CAPITOLO QUINDICESIMO FUGA E INSEGUIMENTO Fuggendo davanti all'orrore che incombeva alle loro spalle. Aurian e Anvar spinsero in fretta la barca lungo la corrente, l'una con il lungo palo e l'altro con i remi, tenendosi a ridosso delle ombre della riva e osservando il susseguirsi dei giardini dei ricchi mercanti alternati ad altri tratti di foresta. Con il palo serrato fra le mani, Aurian si concentrò sul suo compito e cercò di ricacciare indietro il peso schiacciante del dolore, ma invece delle ribollenti acque scure che vorticavano loro intorno continuò a vedere il volto di Forral, con la consapevolezza che esso era perduto per sempre e che ora non avrebbe mai più rivisto i suoi lineamenti pieni di vita e di amore, non avrebbe più sentito intorno a sé le sue braccia, non avrebbe... «Smettila, stupida» ingiunse a se stessa, a denti stretti. «Non è ancora il momento... non ancora.» «Stai bene, Signora?» domandò Anvar, fissandola con espressione preoccupata. «Taci e rema» ingiunse Aurian, con voce tesa. Il porto di Norberth, che sorgeva all'imboccatura del fiume, distava circa diciotto chilometri verso valle, e lei era intenzionata a percorrere quella distanza il più in fretta possibile. Aiutata dalla corrente rapida resa più violenta dal disgelo primaverile, la barca stava oltrepassando in fretta mulini e villaggi, pascoli e foreste, mentre Aurian continuava a fare forza sul palo anche se la schiena cominciava a dolerle, le mani erano coperte di vesciche
e il sudore le faceva bruciare gli occhi. Dopo qualche tempo Sara gemette e accennò a risvegliarsi a causa dell'indebolirsi dell'incantesimo, e nell'accorgersene Aurian si lasciò sfuggire un'imprecazione, in quanto una cosa del genere non sarebbe dovuta succedere. Cosa c'era che non andava nella sua magia? Adagiato il palo sul fondo dell'imbarcazione si accoccolò quindi accanto alla ragazza. «Dormi» ingiunse con voce decisa, posandole una mano sulla fronte. Subito Sara tornò a rilassarsi, con gli occhi chiusi e il respiro regolare, ed Aurian trasse un sospiro di sollievo. Allorché ritrasse la mano, la fronte di Sara risultò chiazzata di sangue e quella vista strappò un sussulto ad Anvar. «Non ti preoccupare, lei non ha niente» lo rassicurò Aurian, osservando con aria cupa i palmi scorticati e sanguinanti, poi raccolse il palo e riprese il suo lavoro. Trascorse del tempo. Adesso Aurian non avvertiva più nulla a causa della cortina di sfinimento e di dolore che l'aveva avviluppata. Le sembrava impossibile che non fossero ancora giunti a destinazione e cominciava ad avere l'impressione che questa notte cupa e triste si stesse protraendo in eterno. All'improvviso il lungo palo non incontrò più il fondo del fiume e mancando del previsto punto di appoggio lei perse l'equilibrio, cadendo in acqua. L'impatto con la corrente gelata le fece perdere la presa intorno al palo, ma al tempo stesso incontrò il bordo della barca con l'altra mano e vi si aggrappò con la forza della disperazione. In quel punto l'acqua era molto profonda... troppo... e la violenza della corrente stava sballottando il suo corpo sempre più intorpidito mentre si teneva aggrappata all'imbarcazione con una mano sola: poteva già sentire la sua presa che si allentava, le dita che cominciavano a scivolare sul legno bagnato... In quel momento su di lei scese uno strano senso di pace accompagnato da un'insolita chiarezza di mente: tutto quello che doveva fare era abbandonare la presa e sarebbe stata al sicuro, fuori della portata di Miathan che l'aveva tradita in modo tanto orribile, e lontano dal dolore e dalla lotta. E avrebbe trovato Forral, il suo amato Forral, là ad aspettarla... «Resisti, Signora, sto arrivando!» esclamò Anvar, e il suono della sua voce fu per Aurian come uno schiaffo in pieno viso. Dita forti si serrarono prima intorno al suo polso e poi intorno al braccio, mani robuste la issarono di nuovo a bordo della barca oscillante: per quanto tentasse di protestare Aurian scoprì di essere troppo debole per opporsi e si lasciò scivolare sul fondo dell'imbarcazione in un mucchietto fradicio e tremante.
«Signora, le rapide!» stridette la voce di Anvar, resa acuta dal panico, levandosi a sovrastare il ruggito del fiume, e nell'asciugarsi gli occhi Aurian vide che adesso le acque nere erano crestate di spuma bianca. Un momento più tardi la fragile imbarcazione cominciò a dondolare selvaggiamente e ad acquistare velocità mentre Anvar lottava per controllarla mediante i remi, semiaccecato dagli spruzzi; poi il remo sinistro gli sfuggì di mano, strappato alla sua presa dalla corrente avida che lo trascinò con sé, e immediatamente la barca prese a girare su se stessa e a inclinarsi pericolosamente su un fianco, fuori da ogni possibilità di controllo. Sorridendo, Aurian pensò con malinconia a Forral: ancora un momento e lo avrebbe raggiunto... D'un tratto però le parve di sentire la voce dello spadaccino scaturire dal nulla: Desidererai seguirmi, ma non lo fare. Il suo sguardo si posò allora su Anvar: il giovane le aveva appena salvato la vita e lei non aveva il diritto di trascinarlo con sé nella morte, per quanto potesse essere grande la sua disperazione. Imprecando con amarezza, afferrò allora il suo bastone. «Togliti di mezzo!» gridò, oltrepassando Anvar in modo da portarsi a prua, scavalcando il corpo di Sara e lottando per tenersi aggrappata alla barca sussultante senza perdere la presa intorno al bastone. Un tratto di acque bianche si stendeva scintillante più avanti, spaventosamente vicino, e più oltre il ruggito del fiume si mutava in un fragore di tuono; appoggiato il bastone di traverso sulle ginocchia, lo afferrò con entrambe le mani e lo strinse fino a far sbiancare le nocche intorno al legno lucido mentre si concentrava con tutte le sue forze. Un momento più tardi il suono calmo della sua voce si levò a sovrastare il tuono delle rapide e il bastone cominciò a risplendere di una tremolante luce fra il bianco e l'azzurro che si allargò ad avviluppare l'intera imbarcazione allorché essa arrivò al limitare delle rapide e cominciò ad inclinarsi... Aurian sentì Anvar emettere un sussulto di timore, poi con un ultimo sforzo di volontà riuscì a raddrizzare la barca e a farla fluttuare serena al di sopra di quel maelstrom ribollente, sostenuta da una superficie di pura luce. Con delicatezza, la barca e il suo carico furono trasportati oltre l'area di pericolo e depositati su un tratto di acque tranquille al di là della violenza delle rapide. Superato il pericolo, Aurian si accasciò ansimando sul proprio bastone e lasciò che l'oscurità l'avviluppasse a mano a mano che la sua luce magica si estingueva, accorgendosi soltanto allora di essersi morsa un labbro e di avere la bocca piena del sapore metallico del proprio sangue. Vagamente,
si rese conto che Anvar l'aveva presa fra le braccia, lo sentì allontanarle con delicatezza i capelli arruffati dal volto e pulirle il mento dal rivoletto di sangue che vi era colato sopra. «Aurian? Signora?» chiamò quindi il giovane in tono ansioso, e quando lei aprì gli occhi con uno sforzo domandò: «Stai bene?» «Stanca» sussurrò Aurian, pronunciando quella singola parola a prezzo di uno sforzo immane. «Portaci a destinazione, Anvar» aggiunse quindi, con voce che sembrava giungere da molto lontano, tanto da indurla a chiedersi se lui l'avesse sentita. Anvar però annuì e la fece stendere il più comodamente possibile nello spazio ristretto disponibile a prua, sistemandole la testa sul proprio mantello umido prima di impugnare il solo remo rimasto. Piena di gratitudine, Aurian chiuse infine gli occhi. Quando li riaprì vide che sulle rive del fiume cominciavano ad apparire degli edifici: abitazioni, magazzini e mulini scomparvero in rapida successione alle loro spalle e infine nell'oltrepassare un'ansa si trovarono a passare sotto il grande ponte che contrassegnava il limitare del porto di Norberth: costituito da un possente arco di pietra bianca, il ponte si levava dal corso del fiume che in quel tratto era lento e pigro, e il lato inferiore dell'arco era avviluppato da un sempre mutevole gioco di luci argentee prodotto dai tremolanti riflessi delle luci cittadine sulla superficie dell'acqua che gorgogliava nel fluire sotto l'echeggiante volta di pietra. Oltrepassato il ponte si lasciarono in fretta alle spalle la città vera e propria e si addentrarono nel porto: davanti a loro il cielo era adesso costellato da un intrico di alberi e di vele, e nel contemplare quella specie di giungla Aurian si domandò quale di quelle navi l'avrebbe presto condotta al sud. Nel frattempo Anvar diresse la barca verso un vecchio molo fatiscente e abbandonato visibile sul lato meridionale del porto, e si aggrappò ai suoi piloni viscidi per spingere la barca sotto di esso, là dove l'ombra più fitta l'avrebbe nascosta alla vista. Issatasi stancamente a sedere, Aurian frugò in uno dei fagotti fino a trovare una fiaschetta d'argento e un involto contenente carne, pane e formaggio che stava cominciando a disintegrarsi a causa dell'acqua che si era riversata su di esso durante l'attraversamento delle rapide. Un rapido sorso del rovente liquore di Vannor fu sufficiente a generare un'ondata di calore nel suo corpo rigido e gelato, poi lei porse la fiaschetta ad Anvar. che l'accettò con gratitudine insieme alla sua parte del cibo fradicio; alla sua vista notturna da Maga il giovane appariva pallido e teso in volto, con gli occhi segnati di scuro dalla stanchezza e i capelli biondo scuro che gli ricadeva-
no intorno al viso ancora bagnati. Dopo che Aurian ebbe ripartito il cibo mangiarono in silenzio, entrambi troppo stanchi per parlare, e ben presto la Maga cominciò a sentirsi meglio perché il nutrimento stava ripristinando, sia pure temporaneamente, almeno parte delle energie da lei consumate per salvare entrambi dalle rapide. Le rapide. Ah, in quel momento era giunta così vicina a sfuggire a tutto questo... improvvisamente Aurian si sentì sopraffatta dal suo dolore personale e dal fardello oneroso costituito dai pericoli che doveva affrontare e dal compito che si era imposta: consumata dall'ira per l'interferenza di Anvar, si girò verso di lui e lo schiaffeggiò con quanta forza aveva. «Questo per avermi salvato la vita!» ringhiò. Per un momento lui assunse un'espressione ferita e sorpresa, poi serrò la bocca in una linea cupa e sollevò la mano di scatto, colpendola a sua volta. «E questo per aver salvato la mia!» ribatté, mentre il suono dello schiaffo echeggiava sull'acqua e Aurian barcollava all'indietro, con gli occhi dilatati per lo shock e una mano premuta sulla guancia bruciante. Un momento più tardi Anvar distolse lo sguardo con aria vergognosa e borbottò: «Signora, mi dispiace.» Aurian però scosse il capo, dicendosi che non poteva certo biasimare la reazione di Anvar, dal momento che corrispondeva in tutto e per tutto alla disperazione che lei provava. Per la prima volta si rese conto di non essere sola e che il giovane stava condividendo la sua situazione e le sue sofferenze... e gli porse la mano in un gesto paritario, da amica ad amico. «Dispiace anche a me, Anvar» mormorò. «Non avevo il diritto... è solo che non so come farò a trovare la forza per continuare con tutto questo.» Poi la voce le si spezzò e il rigido controllo che aveva esercitato su se stessa per tutta la notte cominciò a sgretolarsi. «Allora continueremo insieme» replicò Anvar, stringendo la mano offertagli. Poi Aurian cominciò a singhiozzare, dando infine sfogo al proprio dolore nell'accettare il fardello del dover continuare a vivere, e Anvar la tenne fra le braccia finché lei infine non si calmò, ritraendosi da lui e asciugandosi il volto sulla manica. «È un'abitudine orribile» osservò Anvar, con un sorriso in tralice. «Qualcuno ha dimenticato di portare i fazzoletti» ribatté lei, sfoggiando a sua volta un tremante sorriso. «Davvero vergognoso» dichiarò Anvar. «Se fossi in te picchierei il tuo servo.»
«Oh, ha anche dei pregi. Se non altro si è ricordato di portare dei vestiti più adatti» replicò Aurian, frugando sul fondo della barca e sfilando il fagotto da sotto la testa di Sara. «Adesso sarà meglio darci da fare per trovare una nave, perché il sole sorgerà anche troppo presto ed è meglio trovare un riparo prima che ci siano in giro troppe persone. È una fortuna che le notti siano ancora tanto lunghe.» Mentre parlava srotolò il fagotto dei suoi abiti da combattimento e procedette a spogliarsi dei resti laceri e fradici dell'abito verde; Anvar si affrettò allora a distogliere lo sguardo per cortesia, ma di lì a poco Aurian fu costretta a chiedere il suo aiuto per indossare gli abiti di cuoio perché essi erano ancora umidi e lei aveva le dita rigide per il freddo. «Ecco fatto» commentò infine in tono deciso, quando fu pronta. «Cercherò di fare il più in fretta possibile.» «Signora, di certo non vorrai andare da sola.» «Non possiamo evitarlo» gli fece notare Aurian, abbassando lo guardo sulla figura addormentata di Sara e accigliandosi in volto. «Tu dovrai restare qui a tenerla d'occhio... per gli dèi, questa donna sarà una vera seccatura» aggiunse con una smorfia. «Signora, io...» cominciò Anvar, tingendosi di un rossore colpevole e chiedendosi come avrebbe mai potuto spiegare il suo rapporto con Sara, l'amore che un tempo avevano condiviso. «La conosci, vero?» domandò Aurian, fissandolo con espressione interrogativa. «Quel giorno in cui ti hanno portato alla guarnigione... quando ci siamo incontrati... lei ha mentito nell'asserire di non averti mai visto prima, non è così?» Anvar annuì con aria infelice, chiedendosi in che modo lei avrebbe reagito se le avesse raccontato che un tempo la moglie di Vannor era stata la sua donna, ma per fortuna Aurian gli risparmiò quella confessione. «Altre complicazioni, eh?» commentò in tono dolente. «Ebbene, mi potrai parlare di lei più tardi, Anvar. adesso devo proprio andare.» Poi si gettò intorno alle spalle il mantello umido e scalò con cautela il groviglio di pali instabili che sosteneva il vecchio molo, scomparendo fra le ombre del porto. Sedutosi sul fondo della barca, Anvar s'immerse nelle proprie preoccupate riflessioni: il modo di fare improvvisamente deciso di Aurian non lo aveva minimamente tratto in inganno e sapendo quanto fosse profondo il suo dolore per la perdita di Forral lui era preoccupato che esso potesse influenzare la sua capacità di giudizio. In effetti il suo piano di radunare un esercito per sconfiggere l'Arcimago era pura follia, ma d'altro canto lui non
aveva un piano migliore da offrire... tranne l'alternativa di fuggire il più lontano e il più in fretta possibile. D'altro canto, questo era proprio ciò che adesso stavano comunque facendo, e forse con il tempo Aurian avrebbe ritrovato il buon senso. Continuando nelle sue riflessioni, il giovane si chiese quindi dove fosse adesso Vannor. Il mercante era riuscito a fuggire? D'un tratto si rese conto che se Vannor fosse rimasto ucciso Sara sarebbe stata libera... ma si affrettò a scacciare quel pensiero con un sussulto colpevole perché sapeva che Vannor era un brav'uomo. D'altro canto non poté fare a meno di chiedersi come avrebbe reagito il mercante se avesse saputo di aver affidato la propria adorata moglie al suo antico amante; quanto a Sara, era certo che non le importasse nulla del marito ed era curioso di vedere cosa avrebbe fatto adesso che era libera dalla sua presenza. Abbassando lo sguardo sulla sua figura addormentata, su quel volto incorniciato dalla massa di capelli dorati, notò quanto apparisse fragile e bella, e con una fitta di dolore si trovò a ricordare i giorni del passato, quando erano giovani è innamorati, felici uno della presenza dell'altra e sicuri del futuro. Possibile che non ci fosse per loro nessuna speranza di tornare ad essere come allora, che non avessero diritto ad un po' di felicità? Il chiarore grigio di un'alba umida si stava facendo sempre più intenso quando infine Aurian tornò indietro lungo il molo, tenendosi a ridosso del riparo offerto dai fatiscenti magazzini. Le ci era voluto un tempo enorme per trovare una nave il cui capitano fosse disposto a prenderli a bordo, e il prezzo da lui richiesto era risultato esorbitante, molto superiore alla quantità di oro che Vannor le aveva dato. Aurian aveva consegnato al capitano tutto l'oro che aveva ed era riuscita a convincerlo che avrebbe trovato il resto della somma ad attenerlo alla fine del viaggio, ma nel tornare a raggiungere Anvar era adesso preoccupata per il genere di persone con cui si sarebbero venuti a trovare a contatto su quella bagnarola infestata dai topi: in vita sua non aveva infatti mai visto un equipaggio dall'aspetto così piratesco e poco affidabile, ma sapeva di non avere altra scelta che quella di rischiare il tutto per tutto, perché se già non li stava cercando Miathan avrebbe comunque cominciato quanto prima a farlo. Allorché finalmente raggiunse la barca Aurian si sentiva debole per la stanchezza, con la mente appannata e lenta di riflessi, e quando Anvar si arrampicò sul molo, offrendosi di aiutarla a scendere lungo le travi marce e viscide, lei fu grata del sostegno saldo della sua mano.
«Ho procurato un passaggio per mare fino ad Easthaven» annunciò, non appena furono al sicuro sulla barca. «Da lì potremo proseguire via terra.» «Cosa facciamo con Sara?» «Non abbiamo tempo da perdere in inutili discussioni, quindi ci penserò io» replicò Aurian. poi schioccò le dita vicino al volto della ragazza addormentata e ordinò: «Svegliati.» Immediatamente Sara aprì gli occhi e si guardò intorno con espressione del tutto vacua, poi si sollevò a sedere e Anvar si affrettò ad aggrapparsi ad un pilone per tenere ferma la barca ondeggiante. «Non possiamo portarla a bordo in quello stato!» protestò. «Dovremo farlo. Tirale il cappuccio sulla faccia e prendila per un braccio, perché dovrai guidarla» ritorse Aurian, con un'espressione che non ammetteva obiezioni. Issare la ragazza fin sul molo comportò una lotta non indifferente, ma una volta che ci furono riusciti lei li seguì camminando con naturalezza, pilotata dalla mano che Anvar le teneva sul braccio mentre Aurian trasportava il loro bagaglio. Con sollievo di Aurian, i pochi passanti in cui s'imbatterono non prestarono loro attenzione, ma quando avvistarono la nave Anvar si arrestò di colpo con un'espressione sgomenta sul volto. «Oh, Signora, non è possibile che tu voglia imbarcarti sul serio su quella nave!» gemette. «Cosa ti aspettavi che facessi, Anvar?» ritorse Aurian, prossima alle lacrime. «Guarda in che stato siamo! Non abbiamo certo un aspetto rispettabile, non trovi? Credi che qualsiasi capitano per bene si sia mostrato disposto a prenderci a bordo? Ho fatto del mio meglio... e questa nave è comunque sempre un'alternativa migliore all'aspettare che Miathan ci trovi!» Quella, lo sapeva, era un'affermazione a cui Anvar non poteva controbattere. Scuotendo il capo, il giovane guidò infatti Sara su per la stretta e scivolosa passerella che portava sul ponte del piccolo e malconcio veliero, dove li stava aspettando il Capitano Jurdag, un individuo che sfoggiava spesse basette e un codino di capelli unti e rossicci, grossi orecchini d'oro e un'espressione ferina sul volto sottile che ricordava quello di un furetto. Il capitano accolse Aurian con un inchino pervaso di beffarda e lasciva cortesia, strappando qualche risatina divertita al resto dell'equipaggio... una massa di soggetti trasandati, sfregiati e sporchi. Un'occhiata fredda e penetrante di Aurian fu però sufficiente a produrre di colpo un teso e assoluto silenzio. «Capitano, accompagnaci nella nostra cabina e preparati a salpare» ordi-
nò poi la Maga in tono altrettanto freddo. «Benissimo, Signora» ribatté il capitano, trasformando il titolo onorifico in un insulto, e nel vedere Anvar arrossire per l'ira Aurian si affrettò ad afferrarlo per un braccio e a scuotere il capo. Ben presto furono condotti in una piccola e sporca cabina situata a poppa che il capitano aveva evidentemente sgombrato perché loro potessero usarla, come dimostrava il mucchio di indumenti sporchi e puzzolenti che si trovava ancora sul pavimento e che Aurian raccolse per poi metterglieli in mano. «Suppongo che questi siano tuoi. Per ora non ci serve altro» affermò, e non appena Jurdag fu uscito con espressione accigliata si affrettò a sbarrare la porta con un sospiro di sollievo, esclamando: «Dèi onnipotenti! Mi dispiace per tutto questo, Anvar!» Nel frattempo Anvar era impegnato a lottare per aprire un minuscolo pannello di vetro incrostato di salsedine inserito nella parete di poppa che costituiva il solo mezzo di ventilazione dell'ambiente. «Quanto tempo impiegheremo per arrivare ad Easthaven?» domandò con voce fievole. «Con i venti favorevoli circa quattro giorni... sempre che non ci taglino la gola» rispose Aurian, con aria cupa, quindi condusse Sara fino all'unica cuccetta e la fece sdraiare. «Riposa» le ordinò in tono sommesso, poi aggiunse con voce stanca: «Ecco fatto, adesso dormirà di un sonno naturale e si sveglierà quando sarà pronta a farlo. Speriamo soltanto che non sia troppo presto.» Estratta Coronach dal fodero sedette sul pavimento e si appoggiò con la schiena alla cuccetta, addormentandosi all'istante con la spada in mano. Qualche tempo dopo fu svegliata bruscamente dai lamenti di Sara. «Non intendo restare qui. Questo posto è sporco, puzza ed è infestato da insetti! Voglio tornare a casa! È colpa tua, Anvar. Se tu non avessi...» La Maga balzò in piedi e affrontò la ragazza isterica, che era seduta sulla cuccetta con le gonne avvolte strettamente intorno alle caviglie. «Adesso taci!» ordinò con voce tagliente, interrompendo a metà la sua tirata e inducendola a scoccarle un'occhiata rovente. Senza più degnarla della minima attenzione, si protese quindi a guardare fuori dalla minuscola finestrella di poppa perché aveva registrato un leggero ondeggiare del fasciame sotto i suoi piedi, e aggiunse con calma, indicando verso l'esterno: «La terraferma è laggiù, quindi ti suggerisco di cominciare a nuotare subito, prima che si allontani maggiormente. Non credo che tu possa passare
attraverso la finestra, ma sono certa di poter ottenere che ti buttino in mare.» «Ti odio!» scattò Sara, con il volto contorto dall'ira. «Odia quanto ti pare» ribatté Aurian, «perché la cosa non mi dà nessun fastidio. Ricorda però che adesso non hai più una casa: questo puzzolente buco infestato di pidocchi è tutto ciò che hai, ed è dove rimarrai finché non avremo raggiunto Easthaven.» «Vuoi dire che sono prigioniera?» stridette Sara, a bocca aperta per lo stupore. «Non puoi farmi questo! Come osi? Quando Vannor lo verrà a sapere...» «Vannor ti ha mandata con me per la tua stessa protezione. Adesso la tua sicurezza è una mia responsabilità e ti dico che non lascerai questa cabina per nessun motivo. Se dovesse venire qualcuno alla porta buttati su quella cuccetta e gettati addosso una coperta, nascondendo soprattutto il volto. Qualsiasi cosa succeda non dovrai mai lasciarti vedere da nessun membro dell'equipaggio perché ho detto al capitano che hai la varicella. Questo dovrebbe trattenerli dal...» «Da cosa?» stridette Sara, oltraggiata. «Signora, questo non è giusto...» protestò Anvar. «Voi due avete mai visto una giovane donna violentata da un branco di pirati?» domandò Aurian, in tono tanto pratico da zittire immediatamente i compagni e da far apparire una paura improvvisa negli occhi di Sara. «Quanto a me, è una cosa che non ho mai visto e che non voglio vedere adesso. Questa nave ha per equipaggio la peggior banda di furfanti e di tagliagole che abbia mai incontrato, e se quegli uomini dovessero darti anche una sola occhiata io e Anvar potremmo non riuscire a fermarli. So che questo è difficile per te, Sara, e Anvar ha ragione nel dire che non è giusto, ma ti prego di fare a modo nostro... nell'interesse di tutti noi.» Sara la fissò per un momento ancora, poi si lasciò cadere prona sulla cuccetta e scoppiò in pianto. Immediatamente Anvar si precipitò a consolarla, e dopo avergli scoccato un'occhiata sorpresa Aurian lasciò la cabina scrollando le spalle. Una volta sul ponte sedette sulla stretta panca che correva lungo la prua della nave e constatò che per il momento l'equipaggio sembrava intenzionato a girarle alla larga, anche se di tanto in tanto avvertì su di sé lo sguardo dei marinai mentre osservava il sole iniziare la sua lenta discesa verso il lontano orizzonte, sulla sua destra, pensando a ciò che era accaduto la notte precedente e facendo del proprio meglio per separare i fatti veri e propri
dalla nebbia d'ira, di dolore e di paura che avviluppava il suo ricordo di quanto era successo. Innanzitutto c'era là questione del bambino. Con meraviglia, rivolse i propri pensieri dentro di sé fino a sfiorare quella tenue scintilla di vita, ancora tanto minuscola che non si era neppure accorta della sua esistenza... e per quanto ci provasse non riuscì a soffocare un'ondata di risentimento che essa provocò in lei: se non fosse stato per quel bambino, infatti, Forral sarebbe stato ancora vivo, e tuttavia quella creatura era adesso tutto quello che le restava di lui e avrebbe dovuto considerarla preziosa. Inoltre quel bambino non aveva chiesto di essere generato, se esisteva era soltanto colpa della facilità con cui lei aveva permesso a Meiriel d'ingannarla, e al mondo aveva soltanto nemici... soprattutto l'Arcimago che era deciso ad ucciderlo come aveva ucciso suo padre... Come avrebbe mai potuto sperare di sconfiggere Miathan? D'un tratto Aurian rabbrividì. Sull'impeto del momento le era parso del tutto naturale pronunciare quel giuramento, ed era sempre intenzionata a vendicarsi di Miathan in qualsiasi modo possibile... ma come? L'Arcimago era pazzo, era un rinnegato e possedeva un'arma che andava molto al di là delle sue capacità. Quanto era potente il Calderone? A cosa sarebbe servito radunare un esercito per contrastare un simile potere se non a far sì che migliaia di persone rimanessero uccise senza nessun risultato? Se soltanto fosse riuscita a ritrovare gli altri manufatti della Magia Alta andati perduti... ma che ne era stato di essi e da dove doveva cominciare a cercarli, considerato che erano scomparsi ormai da secoli? Tutto questo è troppo per me, pensò, mentre il suo cervello si agitava in una serie di frustranti circoli viziosi. Se soltanto Forral fosse qui... Non appena pensò a lui la sua immagine le affiorò all'improvviso nella mente, solo che in quella visione lui non era morto e inerte come lo aveva visto l'ultima volta bensì era vivo e seduto... per assurdo... nella sala comune dell'Unicorno Invisibile, proteso verso di lei sul tavolo chiazzato di birra e intento a spiegarle qualcosa. D'un tratto, Aurian si rese conto che stava ricordando una conversazione che avevano avuto qualche tempo prima. «Se un problema ti appare troppo grosso» stava dicendo Forral, «non otterrai nulla scagliandoti in frontale contro di esso. Invece devi suddividerlo in una serie di fasi e affrontarle in ordine prioritario. In questo modo scoprirai che il più delle volte le fasi successive si risolvono da sole.» Era un buon consiglio, elargito nel momento più adatto. «Grazie, amore» sussurrò Aurian, sorridendo al ricordo, e l'immagine
parve ricambiare il sorriso nel dissolversi dalla sua mente. Fissando con espressione sconcertata l'oceano che le si stendeva davanti, Aurian scosse il capo e si chiese se si fosse trattato davvero di un ricordo o piuttosto di una visione, o del frutto della sua immaginazione. Non aveva idea di quale fosse la risposta giusta, ma sapeva che adesso si sentiva più serena e stranamente confortata, e che la strada da percorrere le appariva d'un tratto molto chiara. Doveva procedere in ordine prioritario: ebbene, la priorità più assoluta era concludere sani e salvi questo viaggio... sfuggire ai pirati e all'Arcimago e raggiungere i forti sulle colline, dove avrebbe potuto trovare aiuto e una certa protezione. E dopo? Ci avrebbe pensato in seguito. Un sommesso rumore di passi alle sue spalle la indusse a voltarsi di scatto, e la sua spada era già per metà fuori del fodero quando si rese conto che si trattava di Anvar, che si ritrasse con aria sorpresa; scrollando le spalle con fare apologetico, lei si spostò in modo da permettergli di sedere sulla panca accanto a sé. «Come sta Sara?» gli chiese. «È ancora infuriata» replicò Anvar, con una smorfia. «Impreca contro Vannor, contro di te, contro di me e contro chiunque altro le venga in mente.» «Finché impreca restando in cabina non intendo perdere tempo a preoccuparmi della cosa» sospirò Aurian. «Non riusciremo mai a indurre quella dannata ragazza a rendersi conto che non è la sola persona al mondo ad avere dei problemi.» «Tu come ti senti. Signora?» domandò subito Anvar, in tono preoccupato. «Non mi è piaciuto lasciarti qui sola tanto a lungo, ma lei...» «Sopravviverò. In realtà, credo di doverlo fare» replicò Aurian, addolcendo quelle parole cupe con un sorriso. «E comunque non m'importa di stare sola, Anvar. L'equipaggio non mi ha dato fastidio perché pare nutra un certo rispetto nei confronti di questa» proseguì, battendo un colpetto sull'elsa della spada, «e comunque avevo bisogno di riflettere un poco.» «Signora, cosa faremo?» «Non lo so» ammise Aurian, non vedendo nessuna utilità nel mentirgli. «Comunque per il momento non mi preoccuperei troppo di questo. Anvar. Per prima cosa dobbiamo scendere vivi da questa nave, quindi per adesso concentriamoci su questo. Mi chiedo che genere di cibo distribuiscano da queste parti.» Il cibo in questione risultò essere un intruglio grigio tinto e nauseante che passava sotto il nome di «stufato» e che non incontrò certo l'approva-
zione di nessuno, in particolare di Sara. «Non posso mangiare questa roba!» protestò con decisione. «È disgustosa! Mi sentirò male.» «Se intendi sentirti male, bada di vomitare fuori della finestra» ribatté brutalmente Aurian, costringendosi a inghiottire un'altra cucchiaiata di quella roba immonda e a non pensare ai topi morti. Sara si ritirò sulla cuccetta, ammantata in un offeso silenzio, e ben presto si sentirono i suoi singhiozzi provenire da sotto la coperta. «Signora» sussurrò Anvar, in tono imbarazzato. «non potresti essere... più gentile con lei? Questa situazione le riesce difficile da sopportare... non è abituata a queste cose...» «Anvar, posso ricordarti che non siamo ad un picnic?» imprecò Aurian. «Stiamo fuggendo per salvarci la vita e non abbiamo il tempo per coccolare Sara. Siamo tutti nella stessa situazione e lei ci si dovrà abituare... e dannatamente in fretta, per di più.» Poi scagliò a terra il piatto ormai vuoto e uscì a grandi passi dalla cabina, sbattendosi la porta alle spalle. Anvar sussultò al rumore, chiedendosi se doveva o meno seguirla, ma dopo un momento di esitazione scelse invece di andare a confortare Sara. «Suvvia, Sara, non piangere. Non diceva sul serio. In questo momento sta soffrendo molto, ora che Forral...» «Smettila di parlare di lei!» esclamò Sara, sollevandosi bruscamente a sedere e fissandolo con occhi dilatati nel volto arrossato. «Anzi, non mi parlare affatto! Tu e lei mi avete rapita... proprio quando pensavo che non sarei mai più stata costretta a rivederti.» «Non ricominciare» ribatté Anvar, in tono stanco. «Vannor ci ha implorati di portarti con noi. Non credo che tu capisca il pericolo in cui ci trovavamo, ma ti garantisco che non avevamo scelta.» «Vannor!» esplose Sara. «Quella bestia! Quell'imbecille! Lo disprezzo!» «Lui ti ama, Sara.» «Che ne puoi sapere tu? Una volta mi hai detto che mi amavi, e come mi hai dimostrato il tuo amore? Abbandonandomi quando già aspettavo un figlio da te, con il risultato che sono stata venduta a quel bruto ignorante. Non startene seduto lì a parlarmi di amore, Anvar.» «Non è stata colpa mia!» esclamò Anvar. mettendole davanti alla faccia la mano sinistra, su cui spiccava l'odiato simbolo della sua servitù. «Credi che io...» «Anvar!» D'un tratto la porta della cabina si aprì con fragore e Aurian
apparve sulla soglia, con i capelli arruffati dal vento e il volto pallido e pieno di tensione. «Anvar... l'Arcimago ci sta cercando! Credo che sappia dove siamo andati!» «Cosa?» esclamò Anvar, balzando in piedi. «Come fa a saperlo?» «Sta tentando di evocare la nostra immagine, probabilmente con un cristallo, considerato che è il metodo più potente» replicò Aurian, richiudendo la porta della cabina e appoggiandosi contro il battente. «Non sapevo neppure che fosse in grado di farlo, perché questo è sempre stato il talento personale di Finbarr» aggiunse, mentre la bocca le si contraeva per il dolore al ricordo della morte del suo caro amico, ucciso dall'Arcimago. «Deve aver trovato la nostra pista sul fiume, basandosi sui residui della magia che ho usato per oltrepassare le rapide, ed ha intuito la direzione che volevamo prendere. Adesso sta sondando l'oceano... là sul ponte ho sentito la sua mente sfiorare la mia.» «Dèi! Ci ha trovati?» «Sono riuscita ad erigere in tempo uno schermo» rispose Aurian, scuotendo il capo. «Il suo potere risultava esitante e non troppo forte, quindi credo che il suo utilizzo sia per lui una cosa nuova anche se non impiegherà molto tempo ad imparare, potendo attingere dal potere del Calderone. E comunque non si arrenderà finché non ci avrà trovati.» «Cosa possiamo fare?» chiese Anvar, in preda al terrore. «Pensi che manderà quelle... quelle cose a prenderci?» Poi notò l'espressione sconvolta apparsa sul volto di Aurian e imprecò contro se stesso per averle ricordato il mostro che aveva ucciso Forral. «No, dubito che lo farà perché è parso che avesse ben poco controllo sui Nihilim, dopo averli liberati» replicò lei con voce salda, pur rabbrividendo al pensiero. «Quando penso che ha scatenato quegli abomini in Nexis... in ogni caso non credo che quegli spettri ci causeranno fastidi. Soltanto gli dèi sanno cosa userà contro di noi, Anvar, in quanto ci potrebbe colpire in molti modi diversi, quindi la sola cosa da fare è restare nascosti, anche se ciò significa che d'ora in poi dovrò schermare costantemente l'intera nave.» «Signora, non puoi farlo!» esclamò Anvar, sconvolto, ricordando come sul fiume lo sforzo di impiegare la magia l'avesse sfinita. «Lo so, ma non si può evitare. Dovremo tentare, perché ne va della nostra stessa vita, e avrò bisogno del tuo aiuto.» «Del mio aiuto?» «Dovrò rimanere sveglia» annuì Aurian, «perché nel sonno i miei schermi si sgretolerebbero e ci lascerebbero esposti a essere scoperti. Di
conseguenza, Anvar, avrò bisogno che tu mi impedisca di dormire e temo che questo voglia dire che dovrai vegliare con me. Parlami, canta... se tutto il resto dovesse fallire picchiami... ma non mi permettere di addormentarmi, o tutto sarà perduto. Promettimelo, Anvar.» «Lo prometto, Signora» garantì Anvar, pur non sapendo come ci sarebbe riuscito, e dentro di sé cominciò a temere il lungo e sfiancante compito che li aspettava. CAPITOLO SEDICESIMO UN INCONTRO CON I LUPI La luce del giorno si stava incupendo per il sopraggiungere della sera quando Eliseth entrò senza farsi annunciare nella stanza che l'Arcimago occupava in cima alla torre, trovando Miathan chino con aria concentrata su un cristallo posto sul tavolo coperto da un panno nero. Al suo ingresso lui sollevò il capo con un bagliore negli occhi scuri. «Per pietà, Eliseth, non puoi lasciarmi in pace? Non sai quanto sia difficile questa procedura! Se non fosse per gli appunti di Finbarr...» «Se non fosse stato per Finbarr quei tuoi dannati abomini a quest'ora ci avrebbero massacrati tutti!» scattò Eliseth. «Per gli dèi, Miathan, perché non ci hai detto di questo?» continuò, accennando al Calderone che era posato sul tavolo e che aveva perso il suo aspetto di estrema bellezza ora che la sua superficie d'oro appariva nera e chiazzata. «Proprio tu fra tutti dovresti conoscere i pericoli inerenti all'uso della Magia Alta. Bragar ed io avremmo potuto aiutarti nelle ricerche per arrivare a controllare i suoi poteri, ma no... hai dovuto fare tutto da solo e guarda cosa è successo! Un Mago è morto, uno è scomparso e un'altro è un rottame delirante, senza contare che soltanto gli dèi sanno quanti Mortali siano stati uccisi in città dalle tue creature, la scorsa notte. L'intera Nexis è sottosopra.» «Basta!» ruggì Miathan, passeggiando avanti e indietro e respirando a fondo nel tentativo di non perdere la calma, come aveva invece fatto la notte precedente con risultati tanto disastrosi. «Com'è adesso la situazione in città?» «È per questo che sono qui... per farti un rapporto sul disastro che hai causato» replicò Eliseth, sedendosi e massaggiandosi gli occhi con aria stanca. «Bragar ed io abbiamo passato al setaccio la città nel tentativo di individuare e di immobilizzare le tue creature. Soltanto gli dèi sanno se le abbiamo trovate tutte e personalmente ne dubito, ma in ogni caso abbiamo
diffuso la storia secondo cui non si sa da dove vengano ma gli eroici Maghi stanno comunque rischiando la vita per difendere i cittadini di Nexis» proseguì, con voce che grondava disprezzo. «Per adesso pare che ci stiano credendo, quindi sarebbe bene che tu approfittassi di questo momento in cui tutti sono ancora terrorizzati per consolidare il tuo potere in città.» «Cosa mi dici della guarnigione?» domandò Miathan, in tono tagliente. «I soldati sono ancora sconvolti dalla tragica morte del loro adorato comandante» riferì Eliseth, scrollando le spalle. «Ho fatto scaricare il suo corpo dove tu mi avevi detto e loro non hanno impiegato molto tempo a trovarlo. Per il momento sono impegnati a mantenere l'ordine a causa del panico, dei saccheggi e di tutto il resto, e pare che siano a corto di ufficiali. Infatti Maya, il comandante in seconda di Forral, è lontana per assolvere ad un misterioso incarico, nessuno sa dove, e quanto al comandante della cavalleria, Parric, sembra essere svanito. Se aveva un po' di buon senso probabilmente ha disertato, e comunque finora non si è trovata traccia del suo corpo.» «Eccellente» approvò Miathan, sfregandosi le mani. «Forse possiamo ancora salvare la situazione. Ben fatto. Eliseth.» «Se ci riusciremo, ricorda chi ti ha aiutato ad uscire da questo pasticcio» ritorse lei, asciutta. «Cosa ne dobbiamo fare dei tuoi Spettri congelati. Miathan? Tu non hai idea di come riportare quelle miserabili creature nel Calderone ma d'altro canto non li possiamo lasciare sparsi per tutta la città.» «Usa un incantesimo di dislocazione... ha funzionato con quelli che erano qui» suggerì Miathan, indicando la stanza ora sgombra dagli Spettri. «Per il momento li ho immagazzinati negli archivi di Finbarr... non trovi che sia un posto adeguato?» «Francamente non mi va l'idea di vivere avendo quelle creature sotto di me» obiettò Eliseth, accigliandosi. «Sta' attento, Miathan, perché tutti noi sappiamo come annullare l'incantesimo di preservazione e riportare quegli esseri nel nostro tempo.» «Sono sempre cauto» garantì Miathan, in tono di velata minaccia. «Ho intenzione di far sigillare quella sezione delle catacombe, e comunque soltanto tu, Bragar ed io sappiamo dove si trovino quelle creature... e di certo posso fidarmi di voi, giusto?» «Senza dubbio» convenne Eliseth, deglutendo a fatica. «A proposito, come sta Meiriel?» «È ancora fuori di senno» sospirò Miathan «La morte di Finbarr è stata
per lei un duro colpo ed ho dovuto sprecare mezza giornata per persuaderla che la responsabile era Aurian e non io. Adesso è però in uno stato così vulnerabile che alla fine sono riuscito nel mio intento, il che dovrebbe risultare utile se potremo localizzare Aurian.» «Ancora nessuna traccia di lei?» «No... ma la troverò, non temere. So che è fuggita lungo il fiume, perché ho trovato tracce della sua magia sulle rapide. Non sono riuscito a localizzarla a Norberth, quindi ho ampliato la ricerca all'oceano. Pare che Vannor sia andato con lei, a meno che tu abbia trovato traccia di lui in città.» «Miathan» osservò Eliseth, scuotendo il capo, «non credi che per ora ti dovresti concentrare su Nexis? Questo è per noi un momento critico, considerato che Vannor è scomparso e che Forral è morto.» «No!» esclamò Miathan, con un bagliore folle nello sguardo. «Devo trovarla, Eliseth. Sai che non permetterà che la morte di Forral rimanga invendicata, e poi c'è ancora la questione di quel dannato bambino, a cui non deve essere permesso di sopravvivere.» «In tal caso sono certa che la troverai. Nel frattempo mi occuperò io di ogni altra cosa ma ho bisogno di aiuto perché secondo quanto dice Elewin la maggior parte dei servi e delle guardie è morta o è fuggita.» «In tal caso pensaci tu» annuì Miathan, congedandola con un gesto distratto della mano e tornando a concentrarsi sul cristallo. «Ancora una cosa» insistette però Eliseth, esitando. «È davvero necessario mandare via Davorshan proprio adesso? Noi Maghi siamo sempre meno numerosi e io potrei aver bisogno del suo aiuto.» «In effetti è necessario che parta» dichiarò l'Arcimago, sollevando lo sguardo su di lei. «Davorshan deve andare nella Valle, Eliseth, perché adesso Eilin è la sola minaccia che ancora incomba su di noi, motivo per cui ho intenzione di liberarmi della Signora del Lago... una volta per tutte.» Zoppicando, Maya risalì il pendio alberato che costeggiava il bordo della Valle illuminata dalla luna e assestò uno strattone alle redini del cavallo di D'arvan, che stava conducendo a mano. Era stata una sfortuna davvero incredibile che il suo cavallo si azzoppasse proprio quella mattina, dopo che avevano mantenuto una così buona andatura durante tutto il viaggio verso nord, senza contare che si era trattato di una nuova difficoltà che si era andata a sommare ai problemi che lei stava già avendo con D'arvan. Fermandosi per riprendere fiato, la guerriera scoccò un'occhiata piena di preoccupazione al Mago, che sedeva accasciato in sella con il volto delicato
privo di qualsiasi espressione e lo sguardo vacuo. Borbottando un'imprecazione da taverna, si augurò che lui si decidesse ad uscire da quello stato. Tre notti prima D'arvan l'aveva quasi spaventata a morte con uno strano e improvviso accesso di qualcosa: un minuto prima erano seduti entrambi in silenzio accanto al loro piccolo fuoco da campo e quello successivo lui si era irrigidito, aveva assunto un'espressione contratta e aveva rovesciato gli occhi all'indietro nelle orbite fino a lasciar vedere solo il bianco; al tempo stesso si era messo ad urlare qualcosa in merito a dei mostri, a Miathan e al fatto che Finbarr era morto. Poi si era accasciato e da allora era rimasto impassibile come la pietra: poteva cavalcare se lei lo caricava a cavallo, mangiare se lo imboccava e dormire... o almeno così pareva... se gli chiudeva gli occhi e lo faceva sdraiare, ma se avesse dovuto giudicare dalle reazioni che stava ottenendo da lui Maya si sarebbe convinta che quello che si stava portando dietro era un cadavere. Nel formulare quel pensiero si sentì percorrere da un brivido perché era sinceramente affezionata al giovane Mago e stava cercando di non indugiare con la mente sull'eventualità che quella sua condizione potesse risultare permanente. Spero di trovare presto la madre di Aurian, rifletté, mordendosi un labbro. Di certo lei sarà in grado di aiutare D'arvan. Avendo ripreso fiato, ricominciò a camminare cocciutamente verso la sommità del pendio, dicendosi che Lady Eilin sarebbe riuscita a venire a capo di quel problema, quale che fosse la sua natura, in modo da permetterle di tornare in città, cosa che aveva urgenza di fare perché aveva la sensazione che stesse succedendo qualcosa di grave e i suoi istinti, sviluppati nel corso di una dozzina di anni di servizio, si sbagliavano di rado. Sapeva per averlo sentito dire da Aurian che quando un Mago moriva tutti gli altri reagivano al suo decesso, quindi era possibile che D'arvan avesse reagito alla morte di Finbarr. Ma cosa c'entravano l'Arcimago e dei mostri? Se a Nexis c'erano dei problemi il suo posto era là con i suoi uomini, e saperlo la faceva ribollire di frustrazione, portandola a desiderare di non essersi mai offerta per quell'incarico di balia asciutta... un pensiero di cui si vergognava perché nell'arco di quegli ultimi mesi fra lei e D'arvan si era sviluppata un'intima amicizia. D'un tratto la Valle si allargò davanti a lei, vasta e illuminata dalla luna, e la sua vista le strappò un sussulto. Era immensa! Quale sorta di forza distruttiva poteva averne causato la formazione? Riscuotendosi guidò il cavallo verso l'orlo del cratere, alla ricerca di un punto sicuro dove cominciare la discesa delle sue nere ed erte pareti, quando un suono tale da far ag-
ghiacciare il sangue echeggiò nella foresta alle sue spalle... lo spettrale ululato di molti lupi in caccia. Subito il cavallo sollevò la testa di scatto, impennandosi e gettando a terra D'arvan, ma Maya mantenne una salda presa sulle redini e resistette alla ribellione del terrorizzato animale. «No, non lo farai» borbottò. «Non intendo perdere anche te.» In qualche modo riuscì quindi ad avvolgere le redini intorno ad un robusto ramo d'albero e a legarle saldamente, poi lasciò il cavallo a nitrire e a strattonare la cavezza e tornò di corsa verso il punto in cui giaceva D'arvan, constatando che non c'erano tracce di lesioni... ma che lui pareva insensibile alla caduta come lo era a qualsiasi altra cosa. Trascinato il suo corpo inerte fino ad un albero lo puntellò contro il tronco e si raddrizzò, ansimante, sentendo gli ululati che si facevano sempre più vicini e più acuti per l'eccitazione: i lupi erano sulla sua pista! Grande Chathak, erano tutt'intorno a lei! Per un momento prese in considerazione l'eventualità di lasciare libero il cavallo, nella speranza che attirasse lontano il branco, ma poi decise di ricorrere a questa manovra come ultima risorsa perché doveva comunque far arrivare D'arvan dalla parte opposta della Valle e con le sue sole forze non ci sarebbe mai riuscita. Pensando che i lupi avevano paura del fuoco, si chinò e accumulò un mucchietto di ramoscelli e di foglie secche da usare come esca, alimentando poi le prime fiamme incerte con i grossi rami secchi che giacevano sotto l'albero. Quando ebbe finito estrasse la spada e la piantò nel terreno davanti a sé, quindi prese l'arco che portava in spalla e incoccò una freccia, aspettando accanto a D'arvan, con la schiena a ridosso dell'albero. I lupi emersero dagli alberi come una marea d'ombra, uggiolando di trionfo, poi videro il fuoco e la massa grigia s'infranse, esitante; un solo lupo avanzò quindi nel cerchio di luce del fuoco, una grossa bestia dal pelo argenteo e dagli occhi che scintillavano di un verde smeraldo alla luce delle fiamme. Piena di tensione, Maya tese la corda dell'arco e prese la mira... «Aspetta!» «Cosa diavolo...!» sussultò Maya, con il risultato che la freccia mancò il bersaglio. Mentre con mosse febbrili ne prelevava un'altra dalla faretra, si chiese perché D'arvan avesse dovuto scegliere proprio quel momento per svegliarsi. «Maya, aspetta!» ripeté però il Mago, ora in tono urgente. «È tutto a posto. Posso parlare con lui e so che non ci farà del male.» Maya incoccò comunque la freccia ma poi esitò e fissò con assoluta in-
credulità il lupo, che si era seduto sulle zampe posteriori, con le fauci aperte in un ampio sorriso, e la lingua che penzolava da un lato della bocca, in tutto e per tutto simile al grosso cane che era solito mendicare avanzi di cibo davanti alle cucine della guarnigione. Più indietro il resto del branco aveva assunto una posizione simile oppure giaceva rilassato al suolo. «D'arvan» sussurrò Maya, a denti stretti, evitando di muoversi, «ti dispiacerebbe spiegarmi cosa diavolo sta succedendo?» «I lupi proteggono la valle» replicò il giovane Mago, lottando per sollevarsi a sedere. «Eilin li ha incaricati di montare la guardia dopo... dopo quello che è successo l'altra notte.» «E si può sapere cosa è successo l'altra notte, D'arvan?» «Finbarr...» cominciò il giovane Mago, con una smorfia di sofferenza sul volto, poi scosse il capo con espressione tormentata... e in quel momento il risuonare di un battito di zoccoli prima sulla roccia della valle e poi sul morbido terriccio della foresta intervenne a risparmiargli la fatica di dare una risposta. Istintivamente Maya tese l'arco, e subito i lupi scattarono in piedi. Poi un cavallo bianco apparve fra la vegetazione, recando in groppa la figura ammantata di una donna dai lunghi capelli scompigliati, che stringeva in pugno un bastone pervaso di un'ultraterrena luce verde. Un istante più tardi la punta della freccia di Maya fu avvolta da una fiamma incandescente e lei si affrettò a lasciarla cadere con un'imprecazione. «Chi siete?» chiese la donna, con voce carica di tensione. «Io sono Maya, tenente della guarnigione di Nexis e amica di Lady Aurian. Porto un suo messaggio indirizzato a sua madre, Lady Eilin» rispose Maya, traendo un profondo respiro e costringendosi a restare del tutto immobile, poi infilò con estrema lentezza una mano all'interno della tunica e tirò fuori una pergamena strettamente arrotolata, inchinandosi nel porgerla alla donna. Subito uno dei lupi si avvicinò con passo felpato e prese in bocca la pergamena per poi dirigersi verso Eilin e posargliela in mano. Lei esaminò il documento alla luce del bastone e infine annuì. «È il suo sigillo» mormorò, infrangendo il sigillo in questione e srotolando la pergamena per leggerne in fretta il contenuto. «Tu sei D'arvan?» domandò quindi al giovane Mago. «Sì. Lady Eilin» rispose questi, alzandosi in piedi e inchinandosi. «Resta dove sei!» ingiunse Eilin, con voce che echeggiò crepitante nella radura, seguita da un sommesso ringhio di avvertimento del grosso lupo. «Dopo quello che è successo l'altra notte, come faccio a sapere di potermi
fidare di voi?» chiese quindi la Signora del Lago. «Qualcuno vuole per favore dirmi che cosa è successo l'altra notte?» intervenne Maya. «Vuoi dire che non lo sai?» ribatté Eilin, scoccandole un'occhiata penetrante. «È colpa mia, Signora» affermò D'arvan. «La morte di Finbarr mi ha sconvolto a tal punto che da quel momento non ho più avuto coscienza di nulla finché non mi sono svegliato ed ho visto i tuoi lupi.» «È stato un bene per te che ti sia svegliato proprio allora» commentò Eilin, in tono asciutto. «Nel suo messaggio Aurian dice che i tuoi poteri non sono mai affiorati... quindi come mai puoi parlare con i miei lupi?» «Non sapevo di poterlo fare» confessò D'arvan. «Prima d'ora non avevo mai tentato di comunicare con gli animali e non avevo idea di esserne in grado.» «In tal caso per te può ancora esserci speranza» decretò Eilin, «a patto che tu mi stia dicendo la verità. Sei disposto a farti mettere alla prova?» D'arvan annuì e venne avanti con espressione tesa. Un attimo dopo la Signora protese il proprio bastone e lui allungò la mano a stringerne la base rivestita di ferro: subito il bagliore verde divampò in una sorta di accecante aureola che consumò il corpo del giovane Mago, che crollò in ginocchio con un sussulto. Attraverso il bagliore intenso che lo avviluppava Maya vide il sudore che gli imperlava la fronte e si lasciò sfuggire un grido involontario, accennando ad avanzare... soltanto per trovarsi il passo sbarrato dal grosso lupo mentre gli altri venivano avanti per accerchiarla. Poi tutto finì: la Luce Magica si dissolse, lasciando come unica fonte di luce le tremolanti lingue di fiamma del piccolo fuoco acceso da Maya, e D'arvan abbandonò la presa sul bastone con un sospiro di sollievo, accasciando le spalle. «Hai agito con coraggio, giovane Mago» sorrise Eilin. «La Prova della Verità non è un'esperienza facile o piacevole. Tenente Maya» proseguì quindi, «chiedo scusa per aver dubitato di entrambi, ma si stanno avvicinando momenti gravi... i più gravi che il mondo abbia fronteggiato fin dall'epoca del Cataclisma.» «Signora, cosa è successo?» domandò Maya, in tono implorante. «Se a Nexis ci sono dei problemi io devo tornare subito indietro.» «No, bambina, per te sarebbe un grave errore precipitarti di nuovo a Nexis spossata e disinformata come sei, e comunque è probabile che tornare indietro sia comunque inutile, ormai. Abbi pazienza ancora per un po':
quando arriveremo a casa ti dirò tutto quello che so, per quanto si tratti di cattive notizie, e poi potremo decidere cosa sia meglio fare.» «Benissimo, Signora» annuì Maya, ponendo un freno alla propria impazienza di fronte al buon senso di quell'affermazione. Lady Eilin fece quindi salire D'arvan in groppa al proprio cavallo e dopo aver spento con cura quel che restava del fuoco Maya montò in sella all'altro animale, avviandosi dietro ai due Maghi e lasciando i lupi a montare la guardia. Una volta nella cucina di Eilin. il calore della stufa dissolse in fretta il gelo della notte invernale e ben presto Maya e D'arvan si trovarono comodamente seduti e intenti a mangiare pane e formaggio davanti ad una tazza di tè bollente. Quando la Maga sedette di fronte a loro tenendo in mano la propria tazza, Maya si protese verso di lei sulla spinta di una disperata avidità di notizie: Eilin aprì la bocca come per cominciare a parlare, poi esitò e scrollò le spalle in un piccolo gesto d'impotenza. «Mi dispiace, ma non parlo con nessuno da tanto tempo che ne ho perso l'abitudine» si scusò con un sospiro. «Comunque adesso è necessario farlo.» Quindi chiuse gli occhi per rievocare il ricordo dell'accaduto, e Maya si costrinse a tenere a freno la lingua e ad avere pazienza anche se avrebbe voluto urlare per la frustrazione. «In genere io vado a letto con il calare del sole» esordì infine Eilin. «Tre notti fa mi sono svegliata all'improvviso perché mi era sembrato di sentire Aurian che mi chiamava e chiedeva aiuto... e la sua voce era parsa così disperata da farmi comprendere che non si era trattato di un sogno. Adesso che ero sveglia non potevo più avvertire nulla, ma ero terrorizzata, quindi mi sono alzata dal letto ed ho cercato il mio cristallo per evocare visioni che non usavo più da anni... che bisogno avevo infatti di vedere ciò che accadeva nel mondo esterno? Le visite saltuarie di Aurian mi permettevano di verificare che lei stava bene e questo mi bastava. Quella notte però ho usato il cristallo, ed ho visto...» La voce le s'incrinò e lei s'interruppe, serrando le mani intorno alla tazza fino a far sbiancare le nocche. «Cos'hai visto?» la incalzò Maya. «Signora, ti prego...» «Degli abomini» rispose Eilin, traendo un lungo e tremante respiro. «creature orribili che esulano dall'immaginazione. Servendosi di un manufatto magico che appartiene al passato... alla leggenda e alla storia... l'Ar-
cimago aveva scatenato gli Spettri di Morte del Calderone.» Non sapendo di cosa si trattasse Maya non ebbe reazioni particolari, ma non le sfuggì l'espressione sconvolta apparsa sul volto di D'arvan o l'occhiata sgomenta che lui scambiò con Eilin. «C'è dell'altro» proseguì poi la Signora del Lago, con occhi velati di tristezza. «Maya, mi dispiace di dover essere io a informarti di questo: l'Arcimago ha scatenato una di quelle orribili creature contro Forral, ed io l'ho visto morire.» «No» sussurrò Maya. «Oh, no!» Come guerriera aveva pensato di essere pronta ad accettare la morte in battaglia dei suoi compagni, ma adesso sentì la gola che le si serrava per il pianto trattenuto: non Forral! Non aveva mai conosciuto un uomo migliore di lui, ed oltre ad essere il suo comandante negli ultimi mesi anche lui come Aurian era diventato un suo caro amico. Aurian! «Che ne è stato di Aurian?» chiese con voce soffocata, trattenendo il fiato. «È viva. Finbarr è arrivato in tempo per salvarla: in qualche modo ha trovato il sistema di arrestare quelle mostruosità e due uomini... due Mortali... hanno portato via Aurian» rispose Eilin, con voce piena di tensione. «Non so cosa sia successo dopo, ma suppongo che siano fuggiti e sono certa che Aurian sia viva sebbene non riesca a trovarla perché ho perso il contatto quando il povero Finbarr è morto. Gli Spettri erano troppi per lui e alla fine lo hanno ucciso... e D'arvan deve aver avvertito la sua morte come è successo a tutti gli altri Maghi.» «Sì» sussurrò D'arvan, «l'ho sentito morire. Nel nome degli dèi, Signora, cosa possiamo fare? Come ha potuto Miathan commettere un atto simile?» «Miathan è sempre stato capace di cose ben peggiori di quanto la maggior parte della gente possa pensare» ribatté Eilin, con espressione d'un tratto dura. «Per quanto non possa provarlo ho sempre sospettato che lui abbia avuto a che fare con la morte di Geraint. il che costituisce uno dei motivi per cui mi sono rifugiata qui quando Aurian era piccola. Con il passare degli anni mi sono però autoconvinta che la mia era stata una stolta fantasticheria dovuta al dolore per la perdita di Geraint ed è stato per questo che ho poi permesso a mia figlia di andare all'Accademia, quando è diventata più grande. Che stolta sono stata! Avrei dovuto fidarmi dell'istinto. Quello che però vorrei sapere è per quale motivo adesso l'Arcimago sta commettendo queste nuove malvagità. D'arvan, dal momento che hai vissuto finora all'Accademia, puoi avanzare qualche suggerimento al riguar-
do?» «In realtà no, Signora, anche se di recente Miathan ha cominciato a comportarsi in modo strano. Quello che mi ha fatto... lui e poi mio fratello...» Esitando, D'arvan raccontò ciò che gli era accaduto ed Eilin lo ascoltò con aria accigliata. «È ridicolo!» esclamò infine. «È ovvio che hai del potere, e lui avrebbe dovuto saperlo. Peraltro» aggiunse in tono sommesso e riflessivo, «è possibile che ignori ogni cosa... D'arvan, tua madre ti ha mai parlato di tuo padre?» «Cosa avrebbe dovuto dirmi, Signora?» chiese il giovane Mago, in tono perplesso. «Entrambi hanno abbandonato la vita quando io ero molto piccolo... più o meno all'epoca in cui Miathan è diventato Arcimago... però ricordo bene mio padre: Bavordran era un Mago dell'Acqua, intelligente ma senza talenti particolari. Cosa avrebbe dovuto dirmi mia madre sul suo conto?» Per un momento Eilin parve immersa in profonde riflessioni, poi si raddrizzò sulla persona con aria improvvisamente decisa. «Forse sono la sola a saperlo» borbottò fra sé. «Forse Adrina mi ha scelta come unica confidente. Preparati ad uno shock, giovane Mago» proseguì quindi, fissando D'arvan negli occhi. «Davorshan non è il tuo gemello ed è soltanto il tuo fratellastro, perché lui è davvero figlio di Bavordran, mentre quanto a tuo padre... ecco, lui è qualcosa di molto diverso.» La tazza sfuggì dalle mani di D'arvan e si frantumò per terra senza che lui neppure se ne accorgesse. «Cosa intendi dire?» sussultò. «Non è possibile, non può essere vero!» «Oh, a volte noi Maghe riusciamo a fare cose del genere, se è necessario» replicò Eilin. «Avendo concepito te, Adrina ha subito provveduto ad avere anche un figlio da Bavordran in modo da stroncare sul nascere qualsiasi sospetto. Voi due siete stati concepiti ad appena pochi giorni di distanza uno dall'altro, e per lei è stata una cosa da poco farvi nascere nello stesso momento, considerato che oltre ad essere una Maga della Terra aveva anche un particolare talento per il risanamento. Quella è stata una mossa audace da parte sua» concluse con una scrollata di spalle, «dato che la gente ha cominciato presto a chiedersi come mai voi due aveste un aspetto tanto diverso.» «Ma...» balbettò D'arvan, esprimendosi a fatica come se le parole lo soffocassero. «Allora... chi è mio padre?»
«Kellerina, il Signore della Foresta» rispose Eilin, con un sorriso. «Signora, questo non è divertente!» esplose D'arvan, furente come Maya non lo aveva mai visto. «Come osi farti beffe di me in questo modo? Il Signore dei Phaerie... che assurdità! Quegli esseri esistono soltanto nelle leggende e nelle storie per bambini!» «Ragazzo, pensi che scherzerei mai su una cosa del genere?» ritorse Eilin, fissandolo con occhi severi. «Come la maggior parte della gente, sei del tutto in errore sul conto dei Phaerie, che esistono davvero e sono una razza più antica di quella dei Mortali o dei Maghi. I loro poteri sono diversi dai nostri e non posso certo biasimarli se li usano per tenersi alla larga da noi. Tua madre non mi ha mai raccontato come abbia incontrato Hellorin e si sia innamorata di lui, anche se all'Accademia non era un segreto per nessuno che lei e Bavordran nutrissero ben poco affetto uno per l'altra. Adrina ha acconsentito a diventare la sua compagna soltanto dietro insistenza di Zandar. suo padre e Arcimago prima di Miathan. Zandar era infatti preoccupato che il Popolo dei Maghi potesse finire per estinguersi e Bavordran era il solo compagno adeguato. Alla fine Adrina ha ceduto, per amore e rispetto nei confronti di suo padre, ma la loro non è stata un'unione felice perché Bavordran era il Mago più ottuso ed egocentrico che abbia mai incontrato e le rendeva la vita impossibile. Come amica di Adrina sono lieta che lei abbia trovato l'amore con il suo Signore dei Phaerie... un amore di cui tu sei il frutto, D'arvan. Tuo fratello è stato il bambino che lei doveva generare, ma tu sei quello che lei ha desiderato.» «Signora, allora io cosa sono?» esclamò D'arvan, in tono disperato, rabbrividendo. «Un individuo unico!» dichiarò Eilin, in tono deciso. «A mio parere, D'arvan, tu non sei per nulla inferiore al resto dei Maghi. Aurian è convinta che tu possa avere del talento per la Magia della Terra, e il fatto che riesci a parlare con i miei lupi sembra confermare la sua supposizione. Presto vedremo fino a che punto saprai progredire in quella direzione, e quanto ai talenti che puoi aver ereditato da tuo padre... ecco, non saprei da che parte cominciare perché i poteri dei Phaerie esulano dall'esperienza di qualsiasi Mago. Il mio suggerimento è quindi di concentrarti innanzitutto su ciò che io ti posso insegnare, e poi di rivolgerti ad Hellorin.» «Cosa?» sussultò D'arvan. «Non vedo perché non dovresti» replicò Eilin. «So che in questa valle i Phaerie ci sono vicini. Loro approvano il lavoro che sto svolgendo per riportare in vita gli alberi e tutto il resto, e se dovesse essere chiamato da suo
figlio di certo il loro Signore risponderebbe alla convocazione. Tuttavia...» proseguì, sollevando la mano in un gesto di ammonizione, «ti consiglio di non cercare questo incontro in maniera troppo precipitosa, D'arvan: i Phaerie hanno la reputazione di essere un popolo propenso a scherzi spiacevoli e non voglio rischiare di perderti per causa loro proprio adesso. È necessario opporsi a Miathan. e dal momento che Aurian è scomparsa e Finbarr è morto restiamo soltanto tu ed io, perché non ho la minima fiducia negli altri Maghi.» «Signora, cosa possiamo mai fare contro l'Arcimago?» domandò D'arvan. «Per ora non ne ho idea, quindi credo che sia meglio aspettare e vedere cosa succede. In ogni caso siamo entrambi stanchi e tu hai subito troppi shock in una sola notte per riuscire a pensare in maniera coerente... senza contare che la povera Maya sembra sul punto di addormentarsi da un momento all'altro» osservò Eilin, rivolgendo alla guerriera un sorriso gentile. «Suggerisco quindi di approfittare di quanto resta della notte per riposare e di rimandare i nostri piani a domattina.» Nessuno trovò da obiettare ed Eilin accompagnò Maya nella stanzetta sul retro della cucina che un tempo era appartenuta a Forral, assegnando invece a D'arvan la camera che era stata di Aurian... e la vista di quegli ambienti che le ricordavano dolorosamente i due amici perduti rammentò a Maya una notizia in particolare che non aveva ancora riferito alla Signora del Lago. «Lady Eilin» disse d'un tratto, incapace di trovare una formula meno brusca e diretta, «sapevi che Aurian e Forral erano amanti?» «Amanti?» ripeté Eilin, e per uno spaventoso momento fissò Maya con occhi roventi, prima di nascondere di colpo il volto fra le mani sussurrando: «Oh, dèi, perché non ho previsto una cosa del genere? Fra loro c'è sempre stato un amore così profondo... ma come hanno potuto essere tanto stolti? Di certo non è possibile biasimare loro se l'Arcimago ha ceduto alla lusinga del male, ma se non altro adesso sappiamo perché ha agito come ha fatto: essendo ossessionato dall'idea della purezza della nostra razza, Miathan non può aver accettato con grazia una cosa del genere. La mia povera bambina» mormorò quindi, scuotendo il capo, e mentre si avviava per salire le scale della torre Maya sentì distintamente il suono sommesso del suo pianto. Nel cuore della notte... in quel momento cupo e opprimente in cui pare
che l'alba non verrà mai... Maya lasciò la propria stanza per andare a sedersi vicino alla stufa della cucina, perché per quanto fosse sfinita si era infine arresa al fatto di non riuscire a prendere sonno. I suoi pensieri erano infatti pieni di dolore per la morte di Forral. che le sembrava più che mai vicino in quella stanzetta che un tempo gli era appartenuta, e di preoccupazione per Aurian che era adesso costretta alla fuga e che doveva essere devastata dalla perdita subita. Inoltre era preoccupata per la sua città caduta nelle mani di un folle e per i suoi soldati che avrebbero dovuto fare fronte a quel disastro, e presa fra il dolore e l'ansia trovava sempre più difficile riflettere con chiarezza. Cos'ho che non va? si chiese con disperazione. Sono un soldato addestrato a fare fronte alle emergenze... ci deve essere qualcosa che io possa fare! Ma per quanto tentasse non le veniva in mente nulla: mai prima d'ora si era sentita così assolutamente sola e impotente. Il rumore di una porta che si apriva la indusse a portare la mano alla spada, ma l'intruso risultò essere soltanto D'arvan, che uscì dalla propria stanza con aria tesa e tormentata. «Anche tu?» commentò Maya, d'un tratto lieta di avere compagnia. «Come potrei dormire dopo quello che mi è stato detto stanotte?» scattò D'arvan, fissandola con occhi roventi. «È vero: io stessa non riesco a dormire dopo quello che ho saputo e le notizie che tu hai avuto sono di gran lunga più sconvolgenti di quelle che ho avuto io» annuì Maya, mentre l'autocompassione presente nella voce del Mago l'aiutava a rendersi conto di quanto fosse andata vicina a scivolare lei stessa in quella trappola. «Vuoi un po' di tè?» suggerì. «No, voglio che tutto questo non sia mai successo! Voglio svegliarmi e ritrovarmi nel mio letto all'Accademia, e che tutto sia tranquillo e normale... che tutto sia come prima!» esclamò lui, lasciandosi cadere per terra accanto alla sedia occupata da Maya e appoggiando la testa contro il bracciolo. Per quanto il giovane stesse cercando di nasconderlo, dopo qualche istante lei si accorse che era scosso dai singhiozzi e protese una mano ad accarezzargli i fini capelli biondi. «Lo vorrei anch'io» mormorò con tristezza. «Lo vorrei anch'io!» «Per gli dèi, quanto mi devi disprezzare!» affermò d'un tratto D'arvan, con voce soffocata, sollevando di scatto la testa e passandosi una mano sugli occhi.
«E perché dovrei?» ribatté Maya, sconcertata. «Perché sono un buono a nulla, un inutile vigliacco... capace soltanto di piangere come una ragazza e di rendermi noioso. Invece tu sei una guerriera... ho visto quanto sei coraggiosa... e non ti copriresti mai di vergogna cedendo in questo modo al pianto.» «Evidentemente non sai che meno di un'ora fa me ne stavo sdraiata nella mia stanza a piangere fino a consumarmi gli occhi» ridacchiò Maya. «Davvero?» domandò D'arvan, sgranando gli occhi. «Ma certo, sciocco! Abbiamo ricevuto delle notizie spaventose di tradimenti e di tragedie, e in aggiunta a questo tu hai alcuni traumi personali a cui fare fronte. Questo è il momento migliore per dare sfogo ai nostri sentimenti personali, perché per adesso siamo in un posto sicuro, e comunque non è mai sbagliato dare o accettare conforto, il che è ciò di cui entrambi abbiamo bisogno in questo momento.» Nel parlare Maya scivolò per terra accanto a D'arvan e lo circondò con le braccia, ma lui distolse il volto. «Come puoi tollerare di toccarmi quando non so neppure cosa sono?» borbottò. «Idiozie! Io so esattamente cosa sei... lo so da mesi. Sei una persona timida e buona, ti piacciono la musica e i fiori, e sei dotato del più stupefacente talento per il tiro con l'arco che abbia mai visto, tanto che stentavo a credere ai miei occhi quando hai provato a tirare con il mio arco, il primo giorno che sei venuto alla guarnigione, e poi mi hai detto che non ne avevi mai usato uno. Questa è già una cosa in cui sei abile, tanto per cominciare, e poi sai parlare con i lupi e Lady Eilin pensa che te la caverai benissimo con la Magia della Terra... e chi può sapere quali doti hai ereditato da tuo padre? Io so cosa sei, D'arvan: sei una persona davvero speciale.» Tutto nacque dal suo semplice desiderio di offrire conforto al giovane Mago. Mentre parlava sentì D'arvan che cominciava a rilassarsi e a poco a poco la cingeva a sua volta con le braccia. Con sua sorpresa Maya scoprì che questo le faceva piacere e si trovò a ripensare a come di recente D'arvan avesse cominciato a destare il suo interesse. Il buon senso l'avvertì di smetterla con quella follia, ricordandole cosa era successo ad Aurian e a Forral, ma lei non vi prestò ascolto perché non si faceva illusioni in merito alla situazione in cui erano e di colpo le sembrava che quella potesse essere l'ultima occasione per lei e per D'arvan. «Sai che il tuo volto è il più bello che abbia mai visto?» sussurrò a D'arvan, e lo baciò.
Il Mago s'immobilizzò per un istante senza rispondere al bacio, poi si ritrasse di scatto. «No!» sussultò. «Non posso!» Sentendosi una vera stupida Maya cercò di volgere la cosa in scherzo, chiedendosi come avrebbe fatto a battere in ritirata senza ledere la propria dignità. «È così sgradevole?» domandò, scrollando le spalle. «Maya, no!» esclamò D'arvan, tingendosi di un intenso rossore. «Voglio dire... io non credo... non si tratta di te...» «Se non altro questo mi conforta» commentò lei, ma i suoi tentativi di salvarlo dall'imbarazzo in cui era piombato parvero soltanto peggiorare le cose e D'arvan distolse il viso, rifiutando d'incontrare il suo sguardo. «Mi dispiace» borbottò, «ma non posso farlo. Cioè, non ho mai... oh, dannazione, non so neppure da che parte cominciare!» «Se vuoi» suggerì Maya in tono sommesso, «per me sarebbe un onore e un piacere insegnartelo.» In un primo tempo lui risultò goffo, impacciato e spaventosamente timido, ma Maya si mostrò paziente nell'incoraggiarlo e guidarlo con estrema e pacata gentilezza, e l'espressione di meraviglia che apparve sul volto di D'arvan dapprima nello scoprire il piacere personale e poi nell'apprendere come recarne anche a lei, costituì una ricompensa più che sufficiente per i suoi sforzi. Nel contemplare il suo volto raggiante rischiarato dalla luce dell'alba che cominciava a filtrare dalla finestra della sua stanza, Maya si sentì assalire da una tenerezza così intensa da toglierle il respiro: per quanto in passato fosse sempre stata molto selettiva nello scegliere i suoi amanti, nessuno di essi aveva mai destato nel suo animo un'emozione del genere. «Ecco» mormorò, protendendosi ad accarezzargli il volto, «adesso abbiamo trovato un'altra cosa in cui sei abile.» «Oh, Maya, non avrei mai sognato...» replicò D'arvan, arrossendo ma con gli occhi che brillavano di gioia. «Maya... non tornerai in città, vero? Adesso non intendo più separarmi da te.» «D'arvan» replicò lei con gentilezza, aggrottando la fronte nel rendersi conto di come aveva involontariamente complicato le cose, «verrà il momento in cui dovremo combattere. Lo sai anche tu, vero?» Il Mago però la sorprese incontrando il suo sguardo con occhi limpidi e pieni di determinazione. «Lo so... e sono pronto a farlo» affermò. «È difficile da spiegare, ma do-
po che il mio... dopo che Davorshan mi ha tradito mi è parso di non avere più un motivo per continuare ad esistere. Mi sentivo vuoto, simile ad un'ombra, ma adesso è tutto diverso. Per la prima volta nella mia vita mi sento integro e indipendente, e adesso ho qualcosa per cui combattere» continuò con un sorriso. «La sola cosa che chiedo è che si possa farlo insieme, qualsiasi forma la battaglia possa assumere. Se davvero ritieni di dover tornare a Nexis, i miei studi di magia aspetteranno un altro momento, considerato che so usare bene l'arco. Dopo tutto, ho avuto la migliore insegnante possibile... in ogni campo.» Maya rimase talmente sorpresa dalle sue parole che impiegò un momento a ritrovare la voce. «Ci sono cento motivi per cui dovrei tornate indietro» disse infine, «tuttavia... ecco, forse è meglio che rimanga qui per qualche tempo, considerato che Lady Eilin sembra ritenere inutile che io rientri a Nexis. Per quanto mi senta colpevole per aver abbandonato il mio posto, infatti, anch'io non mi voglio separare da te. Forse insieme riusciremo a trovare il modo di combinare i nostri talenti contro l'Arcimago... sempre che Eilin approvi la nostra relazione, naturalmente. Con ogni probabilità si mostrerà inorridita e mi butterà subito fuori dalla Valle.» «In tal caso ci butterà fuori insieme» dichiarò D'arvan, con voce salda e pervasa di una nuova nota di gioia. Il mattino successivo Eilin li trovò ancora addormentati e stretti uno all'altra come due gatti sul letto sfatto: la pelle di D'arvan spiccava molto bianca là dove il suo braccio cingeva il corpo abbronzato e muscoloso di Maya, e nel sonno un sorriso aleggiava sulle labbra del giovane; i lunghi capelli sciolti della guerriera ricadevano su entrambi come un mantello. Per un lungo momento la Signora del Lago rimase a fissarli con la fronte aggrottata in un'espressione accigliata. «Oh, no, di nuovo» sospirò infine, poi scrollò le spalle con impotenza e levò gli occhi al cielo mormorando: «Oh, dèi, perché continuate a farmi questo? Adesso dovrò stare in ansia anche per loro!» CAPITOLO DICIASSETTESIMO NAUFRAGIO Appesa al gancio fissato nel soffitto, la lanterna oscillava seguendo il movimento della nave e il tenue cerchio di luce da essa proiettato ondeg-
giava avanti e indietro sul pavimento e sulle pareli di legno con regolarità ipnotica mentre Aurian sedeva a gambe incrociate nel centro del piccolo ambiente, impegnata a mantenere lo schermo che nascondeva la nave alle ricerche di Miathan. Di tanto in tanto lei avvertiva la pressione della sua mente che sfiorava lo schermo e tratteneva il respiro finché la sua presenza non si allontanava sulle onde... ma nonostante il pericolo e il fatto che avesse scelto di sedere in quella posizione proprio perché così non poteva addormentarsi senza cadere sul pavimento e svegliarsi, Aurian cominciava a sentire le palpebre che si facevano sempre più pesanti per il sonno. Questa era la seconda notte di veglia, più difficile della prima che aveva concluso con successo attingendo in modo massiccio alle sue scorte di potere magico in modo da rimanere desta e da mantenere lo schermo al suo posto; lei e Anvar avevano poi trascorso la maggior parte della giornata sul ponte a godere della pungente aria di mare, fino a quando le occhiate e i borbottii dell'equipaggio sempre più ostile li avevano indotti a tornare nella cabina. Quanto a Sara, rifiutava ancora di rivolgere la parola ad entrambi e se ne stava raggomitolata sulla cuccetta con aria cupa e infelice, garantendo se non altro una certa tranquillità; per tacito consenso reciproco, Aurian e Anvar avevano evitato di parlare dei rapporti che il giovane aveva avuto con la moglie di Vannor, sebbene Aurian continuasse a porsi delle domande al riguardo. In quel momento Anvar stava sonnecchiando accanto a lei, perché Aurian lo aveva costretto a concedersi un po' di riposo finché era certa di poter rimanere sveglia da sola, e nel sonno si agitava senza posa come se avesse potuto avvertire a sua volta il potere della mente di Miathan che continuava a passare e a ripassare su di loro, cercando. Per quanto riluttante a svegliarlo, Aurian infine dovette costringersi a farlo perché le sue palpebre erano ormai pesanti come il piombo e rifiutavano di restare ancora aperte. «Anvar» sussurrò, scuotendolo. «Anvar, ho bisogno del tuo aiuto.» «D'accordo» rispose lui, con voce appannata e stordita. Nel guardare la sua figura sporca e disordinata, il suo volto teso e pallido per la stanchezza, Aurian si chiese se esso corrispondesse almeno in parte a come lei si sentiva. «Lui è ancora là fuori?» sussurrò Anvar, porgendole la fiasca dell'acqua prima di bere lui stesso. «È meglio non menzionarlo mentre ci sta cercando» ammonì Aurian, annuendo. «Parlare indebolisce infatti la mia concentrazione sullo scher-
mo, quindi conviene scegliere argomenti il più lontani possibile da ciò a cui stiamo cercando di sfuggire.» «È impossibile non pensare a lui» gemette Anvar. «E poi, di che altro possiamo parlare?» «Del clima?» suggerì Aurian, scrollando le spalle. «È un argomento che dovrebbe occupare il nostro tempo per almeno un paio di minuti.» «Fingiamo invece di andare molto lontano... in un posto del tutto diverso» propose Anvar. «In questo modo, qualsiasi cosa dovesse trapelare attraverso gli schermi creerebbe soltanto confusione. Sai, non posso fare a meno di pensare che mi piacerebbe andare lontano... molto lontano da questi guai. Cosa mi puoi dire delle terre meridionali che si stendono al di là del mare?» Lieta di quella distrazione, Aurian si mostrò pronta a dire ad Anvar tutto ciò che aveva appreso in merito da Forral, che in gioventù era stato un agente dello spionaggio inviato a raccogliere notizie nel lontano meridione (e che era stato impegnato proprio per una missione del genere al momento della morte di Geraint). La guarnigione cercava infatti di rimanere informata sulle bellicose razze meridionali in quanto esse costituivano sempre una potenziale minaccia. Le cupe colline della costa meridionale si arrestavano a ridosso dell'oceano che divideva il continente settentrionale dai vasti Regni Meridionali, e fra i due continenti si avevano ben pochi contatti o comunicazioni, anche se le poche spie che avevano fatto ritorno in patria avevano portato conferma della bellicosità e della superiorità numerica dei popoli guerrieri dell'altro continente. Per fortuna, i guerrieri del meridione temevano i poteri dei Maghi, che finora erano stati sufficienti a tenerli a bada. A parte questo, era risaputo che nel sud esistevano almeno tre regni, anche se non si sapeva nulla dell'impenetrabile giungla che si allargava al di là del deserto; vicino alla costa settentrionale si ergeva un'alta catena di montagne che si diceva fosse abitata dal leggendario Popolo Alato, che difendeva quelle cime con selvaggia determinazione, e fra le montagne e il mare, là dove i picchi cedevano il posto a vallate cosparse di pini, si allargava il regno degli Xandim. Intrappolato fra le montagne e l'oceano, esso non aveva molte possibilità di espansione, e si diceva quindi che guardasse con avidità alle terre del settentrione a causa dei loro ricchi pascoli e dei favolosi cavalli che vi venivano allevati. A sud delle montagne si allargava poi il deserto, oltre il quale c'era la terra dei Khazalim, una razza di fieri guerrieri governati da
un re selvaggio e tirannico. Considerati i vicini che risiedevano al di là del mare, non c'era quindi da meravigliarsi se il consiglio che governava Nexis aveva deciso di potenziare al massimo le difese delle colline costiere meridionali. «Mi chiedo se quei popoli siano davvero tanto pericolosi» commentò Anvar. «Pare che non nutrano molta simpatia per i Maghi, quindi credo che sia meglio non cercare di appurare quanto siano pericolosi replicò» Aurian. «Comunque so cosa stai provando: anche a me piacerebbe visitare nuove terre per cercare di lasciarmi il passato alle spalle, ma per quanto mi riguarda è una cosa impossibile, anche se tu un giorno potrai forse realizzare il tuo sogno.» «Io?» ribatté Anvar, abbassando involontariamente lo sguardo sul tatuaggio che gli marcava la mano. «Io sono soltanto un servo, quindi come potrei aspettarmi di...» «Sciocchezze!» lo interruppe Aurian. «Dovresti forse essere considerato inferiore soltanto per via del genere di lavoro che svolgi? Invece a mio parere sei un uomo decisamente migliore di alcuni fra i Maghi, e al posto dell'Arcimago io avrei... Oh!» All'improvviso Aurian fu assalita dallo sgomento nel rendersi conto di quello che aveva fatto. «Oh, Anvar, ne ho avuto la possibilità, vero? Avrei potuto cambiare le cose per il meglio...» «Non ci hai mai pensato?» domandò Anvar, sorpreso. «L'idea non mi è neppure affiorata nella mente perché non m'importava di quel genere di potere e come un'idiota non mi sono mai soffermata a riflettere sul bene che avrei potuto fare. E poi ho gettato via tutto quando ho preso Forral come amante. Per gli dèi, sono stata io a precipitare su tutti noi questo disastro! E pensare che Forral mi aveva perfino avvertita...» Lasciando a mezzo la frase Aurian affondò il volto fra le mani tremanti. Allarmato da quella violenta autorecriminazione e timoroso che nel suo stato di sgomento lei potesse abbassare gli schermi e farli scoprire, Anvar si protese ad allontanarle le mani dal volto. «Non biasimare te stessa, Signora» affermò in tono deciso. «L'Arcimago è malvagio... i Mortali di Nexis lo hanno sempre odiato e temuto per questo... e alla fine si sarebbe impadronito comunque del potere indipendentemente da qualsiasi cosa tu avessi fatto, portando agli stessi risultati perché tu avresti lottato contro di lui... insieme al Comandante Forral, a Vannor e a Finbarr... e ci sarebbero stati comunque dei morti. Ringrazia invece gli dèi di essere ancora viva per portare avanti la lotta e non cedere in que-
sto modo, Signora, perché noi tutti abbiamo bisogno di te.» Per un momento la speranza affiorò sul volto di Aurian, poi però lei sospirò. «Le tue sono parole gentili, Anvar, ma se io e Forral non avessimo...» «Non lo dire, Signora, non lo dire mai!» ingiunse Anvar, afferrandola per le spalle. «Quello che è successo fra te e il Comandante Forral era inevitabile: qualsiasi idiota era in grado di vedere quanto eravate legati uno all'altra e se gli fosse davvero importato di te l'Arcimago avrebbe condiviso la tua gioia. Puoi davvero dirmi in tutta onestà che tu... o anche Forral... avreste preferito che le cose fossero andate diversamente?» «No» ammise Aurian, dopo un lungo momento. «Hai ragione, Anvar. Se non altro abbiamo avuto un po' di tempo insieme, ma...» «In tal caso smettila di commiserarti e rialza quel dannato schermo!» scattò Anvar. Aurian si ritrasse come se lui l'avesse schiaffeggiata e per un momento nei suo occhi affiorò un bagliore d'ira... poi però lei scoppiò improvvisamente in una sommessa risata accompagnata dal dissolversi della tensione che le permeava il volto e le spalle. In qualche modo riuscirono a superare la notte, tenendosi svegli a vicenda quando uno dei due cominciava a cedere. Usando la daga di Aurian per incidere il legno del pavimento giocarono a tutti i giochi di parole e d'ingegno che conoscevano, e quando concentrarsi divenne uno sforzo eccessivo presero a raccontarsi storielle e a cantare (in tono sommesso per non svegliare Sara) tutte le vecchie canzoni e le ballate che conoscevano... senza però mai cessare di essere consapevoli della presenza inquieta di Miathan, impegnato a setacciare gli oceani alla loro ricerca. Allorché infine la luce dell'alba iniziò a filtrare attraverso la minuscola finestrella di babordo, Aurian si sentiva ormai gli occhi impastati e la voce rauca; non appena smise di cantare Anvar seguì il suo esempio, sfregandosi gli occhi e stiracchiandosi con un enorme sbadiglio. «Sia lode agli dèi, si sta facendo giorno» mormorò. «So che abbiamo davanti ancora molto tempo di veglia, ma ho la sensazione di aver almeno superato un altro ostacolo... e nonostante tutto la scorsa notte mi sono divertito» aggiunse in tono timido ed esitante, incerto se aveva o meno il diritto di dire una cosa del genere. «Anch'io» sorrise però Aurian. «Sei una compagnia piacevole, Anvar.» «Anche tu, Signora, e vorrei essermene reso conto prima, invece di crogiolarmi nel risentimento per la mia posizione di servo...»
«Voi due siete già svegli?» Sorpresa, Aurian si girò di scatto e vide che Sara li stava fissando dalla cuccetta con espressione accigliata. «Siamo rimasti desti tutta la notte» scattò, irritata dal tono che lei aveva usato. «Dal momento che ti sei svegliata, cedi la cuccetta ad Anvar, che ha bisogno di dormire» aggiunse quindi. «Intanto io andrò a fare due passi sul ponte per svegliarmi un poco.» «Non è giusto!» protestò Anvar. «La scorsa notte io ho dormito...» «Anvar, ci aspettano ancora almeno altre due notti» lo interruppe con gentilezza Aurian, commossa dalla sua preoccupazione, «e se starai crollando per lo sfinimento non potrò fare affidamento su di te perché mi tenga sveglia, mentre se adesso riposi un poco potremmo farcela.» Mentre parlava si mise a frugare nello zaino che Vannor aveva dato loro e ne tirò fuori un piccolo involto, aggiungendo: «Prima di dormire, però, potresti chiedere a quell'orribile cuoco di prepararmi un po' di taillin che mi aiuti a stare sveglia?» Fece quindi per porgere il pacchetto ad Anvar ma si arrestò a metà del gesto e scosse il capo con aria contrita. «Ma senti che sciocchezze dico!» esclamò. «Dopo aver affermato che adesso siamo compagni continuo a darti incarichi da assolvere per mio conto. Non importa, Anvar, ci penserò io. Tu cerca di riposare un poco.» «No» ribatté Anvar, togliendole il pacchetto di mano. «Andrò io. Dal momento che devi restare sveglia, è il minimo che posso fare.» Poi lasciò la cabina, seguito da un'occhiata acida di Sara. «Continua ad essere un servitore devoto» commentò quindi la ragazza, in tono sarcastico. «È la sola cosa che sappia fare.» «Cosa vorresti dire?» ribatté Aurian, furente. «Chiedilo a lui» si limitò però a rispondere Sara, scrollando le spalle. «Sara, non causare problemi» ammonì Aurian, massaggiandosi stancamente il volto con una mano. «Se non sei in grado di trattare Anvar con cortesia almeno lascialo in pace.» Poi uscì dalla cabina perché non se la sentiva di passare un altro momento insieme a lei. Seduta a prua, prese a sorseggiare il taillin mentre contemplava il chiarore rosato dell'alba che si riversava sull'oceano, e nel rendersi conto che era passato qualche tempo dall'ultima volta che aveva avvertito la presenza di Miathan si chiese se lui stesse dormendo o se fosse impegnato a riportare l'ordine in una città che doveva essere impazzita per il panico dopo l'attac-
co di quelle abominevoli creature. Per un momento si soffermò a domandarsi cosa stesse succedendo a Nexis, poi allontanò con fermezza quel pensiero dalla mente perché non poteva essere certa che l'Arcimago avesse rinunciato alle ricerche e non osava quindi rilassare la propria vigilanza. Per riuscire a restare sveglia si alzò in piedi e cominciò a passeggiare avanti e indietro sullo stretto ponte ondeggiante, ignorando gli sguardi curiosi dei pochi membri dell'equipaggio che erano in giro a quell'ora così mattutina. Dopo qualche tempo il vento aumentò d'intensità quanto bastava per renderle impossibile camminare a causa dei violenti sobbalzi del plancito, e questo la indusse a scendere nell'angusta e maleodorante cambusa per ottenere dal cuoco di bordo qualcosa da mangiare. L'odore che l'assalì non appena oltrepassò lo stretto portello le riuscì disgustosamente familiare... ancora stufato... e in reazione ad esso lei sentì lo stomaco che le si contraeva. Serrando i denti per resistere all'ondata di nausea risalì a precipizio la scaletta e raggiunse di corsa la murata in modo da vomitare al di là di essa, sentendosi troppo male anche per reagire ai sogghigni che provenivano dall'equipaggio. Quando la crisi fu passata si lasciò ricadere sulla panca e bevve un lungo sorso di taillin freddo direttamente dalla caraffa, asciugandosi la fronte sudata con una manica mentre rifletteva che quello non era stato un attacco di mal di mare: per la prima volta, i problemi derivanti dall'essere in fuga in stato di gravidanza le si prospettarono in tutta la loro portata e lei sospirò nel posarsi una mano sul ventre, dove quella minuscola vita in formazione se ne stava annidata tranquilla e indifferente a tutto. «Signora, svegliati!» Aurian si riscosse con un sussulto nell'udire la voce di Anvar e si affrettò a ripristinare lo schermo, imprecando contro la propria noncuranza e debolezza. Se Miathan li aveva trovati... «Che stolta sono!» esclamò, rabbrividendo. «Mi dispiace, Anvar. Per quanto tempo ho dormito?» «Per la maggior parte della mattinata, direi» replicò Anvar, scrutando il sole con occhi socchiusi. «Non ti preoccupare, Signora, è stato meglio così, perché l'Arcimago non ci ha comunque trovati e tu avevi bisogno di riposo. Nel tuo stato...» «Lo so» annuì Aurian con fare contrito, mentre lui s'interrompeva e arrossiva per l'imbarazzo. «Questa piccola peste mi ha fatta prima vomitare e poi addormentare. Se continua così risulterà essere una seccatura peggiore anche di Sara.»
«Signora, non stai dicendo sul serio» la rimproverò Anvar. «Suppongo di no» sospirò Aurian, «però è vero.» Divise quindi con Anvar quanto restava del taillin e dopo fecero colazione insieme con alcune gallette durissime che lui era riuscito ad ottenere dal cuoco. Adesso che aveva dormito un poco la Maga si sentiva meglio, anche perché la nausea era scomparsa e quella splendida giornata le stava risollevando in certa misura il morale. Intorno a loro le onde verdi danzavano sotto il soffio del vento deciso che gonfiava le vecchie vele rattoppate della nave e il pallido sole sembrava giocare a rimpiattino con le nuvole che si rincorrevano nel cielo come tante pecore spinte dal vento fresco e stimolante. Quando ebbero portato a termine la notevole impresa di consumare il loro coriaceo pasto, Anvar tirò fuori da una tasca il piccolo flauto di legno. «Vuoi che suoni per te?» chiese. «Mi piacerebbe molto.» E così Anvar suonò... piccole melodie allegre di sua creazione che si adattassero alla giornata fresca e luminosa. Ben presto la sua musica attirò gli uomini dell'equipaggio, inducendoli a trovare delle scuse per rimanere a portata d'udito di quelle vivaci melodie. Con stupore di Aurian quei rudi marinai cominciarono a sorridere e a battere le mani e i piedi a tempo con la musica, poi provarono ad insegnare ad Anvar canti da osteria e danze da marinai, mettendosi a ballare con selvaggio abbandono. Dopo un po' il capitano venne a rimproverarli per aver abbandonato i loro posti, ma anche lui si lasciò di lì a poco travolgere da quello spirito di festa e dopo aver controllato che il clima fosse in effetti perfetto ordinò di aprire una botte di liquore. Dal momento che dovevano restare lucidi e all'erta, sia Anvar che Aurian evitarono di berne, ma gli altri ne abusarono e alla fine fu proprio a causa del liquore che la situazione sfuggì al controllo. Anvar si era alzato in piedi in modo da essere più vicino ai marinai che danzavano e Aurian stava osservando la scena, concentrata sul compito di mantenere eretto lo schermo, quando all'improvviso un braccio le circondò le spalle e un'ondata di alito fetido le aggredì il volto mentre una tazza piena di liquore le veniva piazzata davanti. «Bevi qualcosa, cara» invitò una voce impastata, e nel girarsi Aurian si trovò di fronte la faccia lasciva e barbuta di uno sporco pirata. «No, grazie» rifiutò, cercando di non far precipitare le cose. «Ti ho detto di bere!» ingiunse però l'uomo, poi l'afferrò per i capelli e le
premette la coppa contro la bocca con l'altra mano, rovesciandole il liquore appiccicoso lungo il mento e sul davanti della camicia. Aurian fu lenta a reagire perché era costretta a restare concentrata sullo schermo, e prima che potesse muoversi Anvar issò violentemente in piedi il marinaio e gli sferrò un pugno che lo scagliò disteso sul ponte. «Tieni le mani lontane da lei» ringhiò il giovane, con gli occhi accesi da un bagliore gelido che Aurian non vi aveva mai visto prima e la mascella contratta in un'espressione dura. Il tagliagole si rialzò di scatto stringendo in pugno una daga ricurva la cui vista indusse Aurian a balzare in piedi e a posare la mano sull'elsa della spada. «Perché tu devi avere due donne e noi nessuna?» ringhiò il pirata. «Ebbene, adesso me le prenderò entrambe... dopo averti sventrato!» Indietreggiando, Anvar estrasse a sua volta la sola arma di cui disponeva, un coltello dall'aspetto pateticamente inadeguato che Vannor gli aveva fornito, e subito i pirati si accalcarono tutt'intorno come lupi che circondassero la preda. La tensione venne infranta dal sibilo metallico della spada di Aurian che usciva dal fodero, poi lei si portò accanto ad Anvar e parlò con voce calma e piana. «Farai meglio a fermarli, capitano, se vuoi avere ancora un equipaggio con cui continuare il viaggio» avvertì. «Sciocchezze, ragazzi... è soltanto una donna» ruggì il furfante con la daga, e si lanciò all'attacco: immediatamente la lama di Aurian solcò l'aria con una rapidità tale da dare l'impressione di non essersi neppure mossa e la daga volò oltre la murata, mentre il suo proprietario crollava sul ponte, urlando e serrandosi la mano. «La prossima volta che ci proverai» affermò la Maga, puntandogli contro la spada, «non ci rimetterai una mano ma qualcosa di più prezioso... tu o chiunque altro oserà interferire con me» aggiunse, incontrando lo sguardo del capitano, e nel vederlo esitare domandò: «Vuoi vivere per spendere l'oro che ti ho dato?» «Avanti, ragazzi, datevi da fare e lasciate in pace i passeggeri» ordinò il capitano, imprecando e sputando sul ponte. «Una volta in porto con il loro oro potrete avere donne in abbondanza.» Mentre gli uomini si disperdevano, portando con loro il compagno ferito, Aurian si rivolse ancora al capitano con un sorriso che sconcertò Anvar. «Ti ringrazio, Capitano Jurdag» gli disse, «ti sono molto grata di aver ri-
sparmiato a tutti noi qualcosa di molto spiacevole.» Già stupito per la sua capacità di dissimulazione, Anvar rimase ancor più stupito di vedere che essa aveva l'effetto voluto. «Non c'è di che, signora» replicò infatti il capitano, sia pure a denti stretti. «Qualora tu e questo gentiluomo doveste avere dei problemi con l'equipaggio sarà mio piacere provvedere in merito. Sono certo che non hai bisogno di portare sempre con te quella ferraglia» aggiunse, con una nota inconfondibile di minaccia nella voce. «Non ne farei mai a meno» garantì Aurian, con una simile sfumatura nel tono. «È troppo utile.» Per un momento il capitano si limitò a fissare prima lei e poi Anvar. «Per gli dèi!» esclamò quindi, rivolto a quest'ultimo. «Sei davvero coraggioso a tenerti un donna del genere.» Per quanto sorpreso da quelle parole, Anvar rifletté che avvallare la supposizione del capitano non poteva certo recare danno, e si sforzò di assumere un atteggiamento naturale nel passare con noncuranza un braccio intorno alle spalle di Aurian. «Oh, credo di poterle tenere testa» ribatté con freddezza, e il capitano infine si allontanò con aria incupita. «E così tu mi puoi tenere testa, eh?» esclamò allora Aurian, in tono indignato ma con un bagliore divertito nello sguardo. «Non ci proverei neppure, Signora» confessò Anvar, con aria contrita, «e di certo oggi mi sono comportato in modo miserevole. Quando quell'animale ti ha messo le mani addosso ho ceduto al desiderio di fracassargli i denti e non ho neppure pensato che potesse avere un coltello. E non mi dire che potevi difenderti da sola... lo so benissimo, ma volevo avere il piacere di pestarlo di persona.» «Non mi è dispiaciuto, Anvar» sorrise Aurian. «È stato un gesto davvero cavalleresco e te ne sono grata, ma se pensi di prenderci l'abitudine, ricordati di guardarti dalle armi nascoste, perché non vorrei proprio perdere anche te.» Poi il suo sorriso scomparve, gli occhi le si velarono di colpo di tristezza e lei si volse di scatto, dirigendosi verso la murata opposta della nave mentre Anvar imprecava sommessamente fra sé, desiderando di poter fare qualcosa per alleviare il suo dolore e per evitare che tutto continuasse a ricordarle Forral. Aurian era ferma accanto alla murata, con le mani strette intorno ad essa
e lo sguardo perso sull'interminabile distesa dell'oceano, chiedendosi se c'erano altre terre al di là di essa, se qualcuno aveva tentato di trovarne e che ne era stato di quei coraggiosi. D'un tratto si sorprese a desiderare di poter intraprendere una simile esplorazione... o meglio di averla potuta intraprendere con Forral... e si trovò a ricordare quella volta in cui avevano parlato di quando lui sarebbe morto. Io sarò sempre con te, aveva promesso Forral, e nel ripensare alle sue parole Aurian sentì i capelli che le si rizzavano alla base del collo all'idea che potesse essere davvero così. In effetti in passato non era mai riuscita ad eseguire quello strano movimento rotatorio con la spada... e tuttavia quando ne aveva avuto bisogno oggi per disarmare il pirata lo aveva effettuato con estrema naturalezza. Possibile che Forral fosse ancora con lei? In tal caso di certo avrebbe dovuto avvertire qualcosa, recepire la sua presenza... confusa, scosse il capo, riluttante a permettere al suo cuore di indurla ad accettare una menzogna soltanto perché aveva un bisogno disperato di credere in essa. E tuttavia... Poi Anvar le si venne a fermare accanto e per un po' rimase in silenzio, lasciando che la brezza gli arruffasse i mossi capelli dorati. «Miathan sta continuando con i suoi trucchetti?» domandò infine, ed Aurian comprese che era ansioso quanto lei di spezzare quell'atmosfera cupa che si era instaurata fra loro. «Per nostra fortuna ormai non lo avverto più da parecchie ore» replicò. «Suppongo che abbia dovuto concedersi un po' di riposo, perché evocare immagini è faticoso. In ogni caso non oso rilassare la guardia.» Anvar era sul punto di ribattere quando Aurian lo bloccò afferrandolo per un braccio e girandosi verso un nuovo, strano suono che aveva attirato la sua attenzione. Quel suono giungeva dal mare ed era costituto da un canto acuto e selvaggio che stava destando in lei una serie di brividi mentre lo ascoltava immobile, piena di rapita attenzione. «Ascolta» sussurrò, aggrappandosi al braccio di lui. «Oh, ascolta. Riesci a sentirlo?» «Che cos'è?» domandò Anvar, scrutando il mare alla ricerca della fonte di quel suono irreale. «Sembra... sembra un canto.» Attesero, ascoltando con crescente attenzione mentre il suono si faceva sempre più vicino, poi in lontananza sul mare parecchie forme immense eruppero in superficie spiccando un alto balzo e contorcendosi nell'aria prima di ricadere in mare in mezzo a scrosci di spuma bianca; un momento più tardi sottili pennacchi bianchi alti il doppio di un uomo si levarono verso il cielo, riempiendo l'aria di piccoli arcobaleni.
«Balene!» esclamò Aurian. «Forral me ne aveva parlato. Oh, Aurian, sono bellissime!» Piena di eccitazione, continuò a scrutare quelle maestose creature, e quando furono più vicine vide che erano effettivamente immense, tanto che la più grossa aveva una lunghezza superiore a quella della nave. Il branco era composto da una mezza dozzina di esemplari, fra cui due piccoli la cui vista strappò ad Aurian uno strillo deliziato mentre contemplava con crescente fascino la grazia con cui quegli enormi corpi affusolati si muovevano nell'acqua, l'eleganza delle curve descritte dalla pinna caudale nel percuotere ad ogni tuffo la superficie con esuberante energia, la tenera amorevolezza con cui quella famiglia di colossi sorvegliava e proteggeva i due piccoli. Quello spettacolo l'incantò a tal punto che si dimenticò dello schermo... e con il suo inosservato sgretolarsi i primi pensieri le sfiorarono la mente, pensieri grandi e profondi quanto lo stesso oceano, pervasi di sorpresa e di curiosità, pieni di enorme amore, di infinita gioia e di infinito dolore. Lei, Aurian, era la prima a comunicare con il Popolo del Mare da un tempo incalcolabile: quello era un popolo che non intraprendeva guerre, non commetteva violenze e trascorreva i suoi giorni giocando e cantando, amandosi e allevando i suoi piccoli, ed elaborando pensieri profondi, saggi e gentili. E quanta saggezza c'era in esso! I Mortali e i Maghi che litigavano e si affannavano sulla terraferma non si concedevano né il tempo né la tranquillità per sviluppare la loro mente, per entrare in comunione con l'unione di tutte le cose, mentre i membri della razza dei Leviatani... quegli esseri che venivano definiti animali... racchiudevano nel loro immenso cervello tutta la saggezza dell'universo, con la quale giungeva anche l'amore. Persa com'era in quella comunione mentale, Aurian non vide la vedetta svegliarsi dal sonno indotto dal liquore e non la sentì lanciare il suo grido di avvistamento, tornando al presente soltanto quando l'intero equipaggio si riversò sul ponte intralciandosi a vicenda nei movimenti per la fretta di calare in mare la barca affusolata che pendeva dalla fiancata della nave... e nel vedere i lunghi arpioni dalla punta d'acciaio lei sentì la sua gioia mutarsi in orrore. «No!» gridò, abbassando la mano verso la spada per cercare di fermarli. Poi si trovò davanti Anvar che le sbarrò il passo e l'afferrò per le spalle. «Signora, non lo fare!» esclamò lui. «Per loro questa caccia significa oro... molto oro, e se li intralciassi non esiterebbero ad ucciderti!» Aurian continuò a lottare contro di lui, peraltro riluttante a fargli del ma-
le nonostante la sua disperazione. «Togliti di mezzo!» gridò. «Devo fermarli!» «Prima dovrai uccidere me» ribatté Anvar. in tono pacato, incontrando con fermezza il suo sguardo. «Non intendo permetterti di distruggerci tutti per una cosa del genere, Aurian.» Ormai era comunque troppo tardi, perché la barca era già stata calata in mare e alcuni uomini si stavano imbarcando su di essa, otto robusti rematori e un marinaio armato di arpione che andò a prendere posto a prua. «Dannazione a te!» ringhiò Aurian, fissando Anvar con occhi roventi. «Fuggite... fuggite!» urlò quindi alle balene, proiettando verso di esse i propri pensieri con tutte le sue forze. Accorgendosi del pericolo i colossi si voltarono e s'immersero per cercare la salvezza nelle profondità marine, ma la barca puntò rapida verso di essi sulla spinta delle otto coppie di remi e di lì a poco i giganti del mare dovettero riemergere per respirare. Aurian dal canto suo trattenne il fiato per l'ansia, mentre il capitano e i tre uomini rimasti con lui lavoravano freneticamente per ridurre la velatura e seguire come meglio era possibile la fuga della preda. Per un momento Aurian pensò che le balene sarebbero riuscite a fuggire, poi però vide che il cucciolo più piccolo era rimasto indietro e stava adesso nuotando in superficie, emettendo lamentose grida di aiuto mentre la barca si avvicinava sempre più rapida. L'uomo che si trovava a prua dell'imbarcazione sollevò intanto il braccio che reggeva l'arpione, tenendone pronto un secondo nella mano sinistra, e Aurian si chiese il perché della cosa finché non vide ciò che l'uomo aveva già scorto, e cioè la madre del cucciolo che stava tornando freneticamente verso il suo piccolo... proprio come i cacciatori avevano previsto. Il marinaio trasse indietro il braccio, preparandosi a scagliare l'arpione... E Aurian emise un grido inarticolato, muovendo al tempo stesso una mano in un gesto deciso in seguito al quale la barca si disintegrò completamente, scagliando in mare i suoi occupanti. «Dobbiamo virare!» tuonò Jurdag. «Prendete delle corde!» In mezzo a quella confusione la balena riuscì a recuperare il piccolo con l'aiuto del suo compagno: sospingendo il cucciolo su entrambi i lati le due balene seguirono quindi il resto della famiglia verso il largo, lanciando grida di gratitudine che echeggiarono nella mente di Aurian mentre lei cedeva al rilasciarsi della tensione e si accasciava contro la murata... Un momento più tardi la mente di Miathan piombò trionfante sulla sua,
avendola localizzata grazie all'uso da lei fatto della magia. «Vattene!» stridette silenziosamente Aurian, lottando con tutte le proprie forze contro la presa dell'Arcimago, poi avvertì il dolore e lo shock dell'avversario, sentì la sua presa che si allentava e innalzò all'istante gli schermi pur sapendo con nauseante certezza che era troppo tardi: adesso Miathan sapeva dove si trovavano e sarebbe tornato. Poi Anvar le si parò davanti, con il volto rigido per l'ira. «Sei stata tu! Non sai che i marinai non sanno nuotare e che probabilmente li hai condannati tutti ad annegare? E cosa faremo se si renderanno conto di avere a bordo un dannato Mago? Come hai potuto essere tanto stupida... e tanto insensibile?» «Come osi sindacare le mie azioni?» ringhiò Aurian, incapace di tollerare oltre. «Ah» commentò Anvar, in tono amaro, arricciando le labbra, «ecco che affiora la solita arroganza. Come oso io, un semplice servo, criticare uno dei grandi e potenti Maghi? Ecco a cosa sono servite tutte quelle chiacchiere sul fatto di essere compagni!» aggiunse, sputando con disprezzo sul ponte. «All'atto pratico, Signora, tu non sei meno arrogante e spregevole degli altri Maghi.» Poi la spinse rudemente di lato con una spallata e rientrò nella cabina, sbattendosi la porta alle spalle con una violenza che fece sussultare Sara. «Quella dannata cagna di una Maga!» lo sentì borbottare, e faticò a contenere un sorriso di trionfo nel rendersi conto che doveva aver litigato con Aurian. Durante le lunghe ore trascorse in quel buco puzzolente lei aveva riflettuto parecchio, rendendosi conto di essere del tutto sola e priva, forse per sempre, dei lussi a cui si era abituata. Dal momento che era improbabile che avesse mai modo di rivedere quell'idiota di Vannor, doveva procurarsi qualcuno che si prendesse cura di lei. e per il momento Anvar era la sua sola alternativa. In passato era sempre stata capace a fargli fare tutto quello che voleva e non dubitava di poterci riuscire ancora, ma il problema consisteva nell'allontanarlo da quell'arpia dai capelli rossi. Vedendolo sconvolto e furente, Sara decise quindi che era arrivato il momento propizio per riconquistarlo. «Anvar, cosa è successo?» domandò. Lui le raccontò ogni cosa con abbondanza di particolari, passeggiando avanti e indietro negli angusti confini della cabina, senza peraltro che Sara capisse granché di quello che era successo.
«Non posso crederci» continuò a ripetere Anvar in tono sconcertato e sgomento, scuotendo il capo. «Da lei non me lo aspettavo.» «Chi può sapere di cosa siano capaci i Maghi?» interloquì Sara, in tono insinuante. «Non hanno mai avuto a cuore i nostri interessi... ma ormai questo non ha più importanza perché adesso sei libero, da loro e da lei. Cosa pensi che possa fare per fermarci? Quando attraccheremo ad Easthaven potremo fare quello che vogliamo, andare dove preferiamo, essere insieme...» «Sara?» esclamò Anvar, stupefatto, girandosi verso di lei. Possibile che stesse dicendo sul serio, che dopo tutto lo amasse ancora? I pochi passi che li separavano fisicamente racchiudevano un abisso di anni, di dolore e di angoscia, ma Sara parve volare attraverso quel vuoto e finalmente il suo corpo minuto e sottile fu di nuovo fra le sue braccia, i suoi capelli mandarono bagliori dorati sotto il chiarore della lampada e i suoi occhi brillarono di pianto quando lui la fece voltare in modo da vederla in viso. «Gli dèi siano ringraziati» sussurrò lei. «Finalmente ti ho ritrovato.» Anvar si limitò a fissarla, incapace di credere che i suoi sogni si stessero finalmente realizzando. «Avevo tanta paura» continuò Sara, «ma tu sei stato così coraggioso, sei stato meraviglioso. Oh, Anvar» proseguì in fretta, senza dargli la possibilità di replicare, «ho sentito così tanto la tua mancanza!» «Credevo che mi odiassi, Sara» osservò lui, ritrovando infine la voce, «e dopo quello che hai detto...» «Ero profondamente ferita, Anvar, e... non sapevo cosa facevo» sospirò lei. «Perdonami, ti prego. Tu sei il solo uomo che abbia mai amato...» sussurrò quindi, con il volto perfetto rigato di lacrime. Con il cuore esultante, Anvar la strinse a sé desiderando di non lasciarla andare mai più. «Non piangere Sara, amore mio, adesso è tutto finito. Faremo quello che dirai tu, qualsiasi cosa tu voglia. Ce ne andremo e staremo insieme...» Sorridendo, Sara gli circondò il collo con le braccia e lo baciò a lungo, con tutta la passione perduta della loro giovinezza. Per un momento Anvar rimase sconcertato dal suo comportamento, poi quel bacio ridestò tutto il desiderio frustrato che aveva seppellito in fondo al suo cuore e lui accentuò la forza del proprio abbraccio nel ricambiare i baci di lei con passione sempre maggiore. Con il cuore che gli martellava nel petto e in preda ad un'eccitazione crescente, cominciò ad armeggiare per scioglierle i lacci del corpetto, accarezzarle i seni...
«Cosa significa questo?» esclamò Aurian, con voce severa e minacciosa, comparendo sulla soglia. «È così che ripaghi l'amore di Vannor?» Sara emise un gridolino di timore e portò le mani alla scollatura scomposta del vestito. «Bada agli affari tuoi» ingiunse però Anvar in tono secco, ponendosi fra le due donne. «Sara e io eravamo amanti e siamo stati separati senza che ne avessimo colpa... io sono stato venduto a te come schiavo e lei è stata consegnata ad una schiavitù di altro tipo. Abbiamo sofferto abbastanza e adesso ci prenderemo ciò che ci spetta, quindi non interferire.» «Non interferire!» gridò Aurian. «Per gli dèi, Anvar, come puoi scendere così in basso? Lei è la moglie di un altro uomo... un uomo onesto che si è fidato di te!» «Non sindacare il mio comportamento, razza di... di assassina!» urlò Anvar, fuori di sé per l'ira a causa dell'insidioso senso di colpa che le parole di Aurian avevano destato nel suo animo. Pallida in volto per lo sgomento, Aurian lo fissò per un momento a bocca aperta, poi si volse di scatto e lasciò la cabina senza notare il sorrisetto compiaciuto di Sara. Sul ponte era tutto tranquillo e non si vedeva in giro nessuno, tranne il capitano al timone e una vedetta appollaiata sull'albero di maestra. Il resto dell'equipaggio era nel frapponte, profondamente abbattuto per la perdita di due compagni nell'incidente di quel pomeriggio; uno di essi era l'uomo incaricato di usare l'arpione, e per quanto si sforzasse Aurian non si sentiva di piangere la sua perdita. In fretta raggiunse il suo posto abituale a prua, con la mente ancora sconvolta da ciò a cui aveva assistito e dalla velenosità dell'attacco verbale di Anvar. «Assassina!» Quell'accusa le echeggiava ancora negli orecchi, ma del resto come poteva Anvar comprendere il suo gesto, dal momento che ai suoi occhi i Leviatani erano soltanto degli animali? Se si fosse trattato di un bambino umano lui sarebbe stato il primo ad agire per salvarlo, e inoltre non aveva ricevuto come lei un addestramento da guerriero. La gente aveva bisogno dei guerrieri che uccidessero al suo posto e le permettessero di mantenere la coscienza pulita e di scaricare il biasimo sulle spalle di altri... una realtà che Forral comprendeva invece molto bene. «A conti fatti, questo è un lavoro sporco» le aveva detto una volta. «I cittadini per bene ti usano per avanzare in mezzo al sangue, al fango e ai cadaveri, mentre i tuoi amici vengono massacrati tutt'intorno a te, ti obbligano ad eliminare coloro che intralciano loro la strada in modo da non do-
ver rischiare personalmente il loro corpo flaccido e la loro candida coscienza; e poi, quando hai il coraggio di sopravvivere e di costituire quindi un ricordo vivente dell'accaduto, si rivoltano contro di te accusandoti di ogni atrocità!» «Allora perché combattiamo?» aveva domandato Aurian. «Pensa alle persone della guarnigione» aveva ribattuto Forral, con un sorriso. «Non esiste nulla di paragonabile al cameratismo che esiste fra i guerrieri. Ricorda il duello che abbiamo sostenuto il giorno in cui si siamo amati per la prima volta, ricorda la sensazione che ti ha dato, e capirai cosa intendo.» E lei aveva compreso. Per gli dèi, quanto sentiva la sua mancanza, e quanto lo desiderava! Adesso non aveva più nulla e il suo cuore era pieno di un vuoto cupo e dolente... come avrebbe potuto convivere con questo dolore per il resto della sua vita? Il suo sguardo si posò sulla botte di liquore che era stata dimenticata sul ponte e su una tazza vuota che rotolava avanti e indietro ai suoi piedi, e lei scelse d'ignorare la voce che in un angolo della mente le stava ricordando il pericolo incombente e la necessità di stare sul chi vive. Che importanza ha? pensò con indifferenza. Ormai ho comunque rovinato tutto quanto. Raccolta la tazza andò a riempirla, consapevole che il liquore era un ben misero conforto ma sperando che se non altro potesse servire ad attenuare per un po' il suo dolore. Si erano amati. Dopo che la Maga se n'era andata, Sara si era aggrappata ad Anvar con selvaggia ferocia, trascinandolo con sé sulla cuccetta e strappandogli via i vestiti. Dopo così tanto tempo, lui non era riuscito a resisterle e si erano accoppiati come animali in quella sordida cabina, in preda ad una bramosia irrazionale. Adesso che era tutto finito, però, Anvar si sentiva prosciugato e colpevole, e aveva in un certo senso l'impressione di essere stato usato, perché l'antica, dolce innocenza del loro amore era ormai scomparsa. Allontanando quei pensieri, si rimproverò per la propria follia nel filosofeggiare tanto: lui e Sara si amavano e adesso finalmente lei era di nuovo sua... cos'altro poteva avere importanza di fronte a questo? Girandosi verso di lei si protese a stringerla fra le braccia, dicendosi che forse questa volta sarebbe stata migliore... «Non ora» lo fermò Sara, e le sue parole furono per lui come uno schiaffo in pieno viso.
«Perché no?» ribatté in tono ferito, protendendosi di nuovo ad abbracciarla. «Ci sarà tempo per questo più tardi, quando avremo lasciato la nave» affermò lei, allontanandogli le mani ed elargendogli un sorriso. «Adesso invece devi andare ad accertarti che la Maga sia sempre sveglia.» «Cosa? Dopo quello che le ho detto non vorrà certo vedermi» obiettò Anvar, assalito da un tagliente senso di colpa. «Cosa conta quello che vuole lei?» ritorse Sara, in tono duro. «la cosa importante è che noi si sopravviva a questo viaggio. Dopo tutto, l'Arcimago non sta inseguendo noi, e dopo che avremo attraccato potremo liberarci di Aurian e di lui per sempre.» Anvar non riusciva ad immaginare di non vedere mai più Aurian, ma si autoconvinse che Sara aveva ragione e che dopo quella notte probabilmente sarebbe stata la stessa Aurian a non voler più avere nulla a che fare con lui. Tutto era cambiato così improvvisamente... però Sara era nel giusto quando asseriva che la cosa più importante era impedire che l'Arcimago li trovasse. Sospirando, cercò per terra i propri abiti, si rivestì in fretta e si lasciò congedare da Sara con un bacio su una guancia. Nell'attraversare il ponte fu assalito da una spaventosa riluttanza ad affrontare la Maga, che però si dissolse con ogni altro pensiero quando la vide addormentata a prua con il volto bagnato di lacrime, la testa appoggiata alla murata e una tazza piena a metà di liquore posata accanto a sé. D'un tratto Anvar sentì un brivido corrergli lungo la schiena e nel chinarsi per svegliarla fu assalito dalla sensazione improvvisa che il pericolo fosse molto vicino. Accadde tutto con una rapidità incredibile. In un istante Aurian balzò in piedi e gli serrò le mani intorno alla gola in una morsa soffocante, fissandolo con occhi fiammeggianti che non erano i suoi! Lottando per respirare, Anvar artigliò quelle dita che lo soffocavano, e al tempo stesso vide Aurian aprire la bocca e contrarre il volto in un'orribile parodia del suo aspetto consueto. Poi si sentì raggelare quando la voce di Miathan scaturì dalle labbra di lei. Anvar! Avrei dovuto immaginarlo, così come avrei dovuto porre fine molto tempo fa alla tua miserabile vita! Comunque è davvero adeguato che adesso io mi serva delle mani di Aurian per ucciderti! La morsa intorno alla gola di Anvar si accentuò. «Aurian, no!» urlò lui, in quell'ultimo istante in cui gli era ancora possibile farlo, poi non riuscì più a respirare e i polmoni presero a bruciargli
mentre la vista gli si oscurava. Senza preavviso, le mani lo lasciarono andare e lo respinsero con tanta violenza da farlo cadere sul plancito, dove giacque rantolando nel tentativo di immettere aria nella gola illividita. Da molto lontano gli giunse la voce di Aurian che chiamava il suo nome, poi la vista gli si schiarì e la vide china su di lui, molto scossa e con un'espressione accigliata sul volto. «Stai bene?» gli chiese. Anvar annuì e le permise di aiutarlo a sedersi sulla panca; sentendosi la gola ammaccata, prese quindi la tazza di rhum e ne bevve a fatica un sorso. «Sei tu?» sussurrò con voce rauca. «Adesso sono io» confermò lei, in tono molto cupo. «Cosa è successo?» volle sapere Anvar. «Riesci a ricordarlo?» «Mi sono addormentata» rispose Aurian, distogliendo lo sguardo e parlando in tono asciutto e privo di emozione. «All'improvviso non mi sono più trovata nel mio corpo ma in un altro posto grigio e nebbioso che non apparteneva a questo mondo.» «È una cosa possibile?» sussultò Anvar. «Certo che è possibile!» scattò la Maga, che stava tremando per quanto cercasse di controllarsi. «È stato Miathan a portarmi là e a trattenermi laggiù in qualche modo: non potevo muovermi né tornare indietro, e neppure combattere. Poi ho sentito la tua voce, che è parsa infrangere la concentrazione di Miathan e mi ha permesso di cominciare a combatterlo. Però non avrei dovuto poter vincere... non su un terreno di sua scelta» aggiunse, scuotendo il capo. «Mi è parso che lui non stesse usando tutto il suo potere...» «Probabilmente perché intanto stava occupando il tuo corpo» suggerì Anvar. «Allora è stato per questo che ho cercato di ucciderti!» esclamò Aurian. «Oh, dèi... pensare che è entrato nella mia mente, ha usato il mio corpo...» D'un tratto si girò di lato e vomitò con violenza, ma quando Anvar le offrì la tazza di liquore piena quasi a metà la rifiutò con un gesto secco. «Come hai fatto a tornare indietro?» domandò intanto Anvar, sperando di distrarla dall'orrore di ciò che le era successo. «Non lo so... ho avvertito una sorta di scossone e mi sono ritrovata con le mani intorno alla tua gola.» «Adesso lui dov'è?» insistette Anvar, con una nota d'allarme nella voce. «Non lo so, e questo non mi piace» replicò Aurian, accigliandosi. «Lui...»
In quel momento un'onda enorme si abbatté sulla prua della nave, riversando su entrambi una massa di acqua gelata. Annaspando, Aurian si allontanò dagli occhi i capelli fradici e guardò con sgomento verso il cielo, dove adesso nere nubi ribollenti si stavano accalcando a coprire le stelle con una velocità incredibile; contemporaneamente un violento colpo di vento aggredì le vele e l'alberatura scricchiolò in modo pericoloso mentre la chiglia s'inclinava con un'angolazione allarmante e la vedetta precipitava con un urlo dall'albero di maestra per scomparire nelle onde sempre più minacciose. Poi la nave scivolò in un profondo avvallamento fra le onde e una grande massa d'acqua si riversò di nuovo sulla prua, scagliando Anvar e Aurian sul ponte in un groviglio di braccia e di gambe. «Cosa diavolo sta succedendo?» esclamò Jurdag, mentre l'equipaggio si affrettava ad accorrere sopracoperta. «Nessuna tempesta arriva in maniera tanto improvvisa.» La violenza della bufera stava intanto aumentando, e con essa l'altezza delle onde che si abbattevano sulla piccola nave, che s'inclinò di nuovo in maniera pericolosa: un torrente d'acqua si abbatté sul ponte, e Aurian si aggrappò ad Anvar per resistere alla violenza dell'impatto. «Tagliate quella vela!» stridette intanto Jurdag. con voce piena di panico, e nel guardare verso l'alto Aurian scoprì che la vela di maestra si era incastrata nella sua posizione, con il risultato che la spinta inesorabile del vento minacciava ora di far rovesciare l'imbarcazione. Subito due uomini s'inerpicarono sul sartiame per eseguire l'ordine, ma la successiva, mostruosa ondata li trascinò via e l'albero s'inclinò di nuovo in maniera allarmante, tanto che la pesante vela per poco non s'inabissò. Comprendendo che doveva agire in fretta Aurian si alzò in piedi e spiccò la corsa verso l'albero di maestra, aggrappandosi ad esso con tutte le sue forze quando il ponte prese a sussultare e a inclinarsi sotto i suoi piedi. Mordendosi un labbro per la tensione cercò quindi di concentrarsi sulla vela principale, ma scoprì che le era impossibile attingere alla propria magia e mantenere la presa intorno all'albero e si guardò intorno alla ricerca di Anvar. «Tienimi ancorata!» gli gridò, al di sopra del fragore della tempesta. Un momento più tardi lui le fu accanto e si aggrappò con un braccio all'albero, puntellando i piedi sul ponte sussultante e cingendo la vita di Aurian con il braccio libero. «Adesso!» esclamò lei, sollevando le mani: con un fragore di tuono la vela si lacerò nel mezzo da cima a fondo, e non appena la tela fradicia si
avvolse intorno all'albero in un groviglio di corde la nave tornò a raddrizzarsi. Per un momento il capitano rimase a fissare la vela a bocca aperta, poi ordinò a quel che restava del suo equipaggio di tagliarne via i resti e di ammainare la vela di prua, perché essa era sufficiente a spingere la nave ad una velocità spaventosa sotto l'impeto del vento di burrasca. «La situazione è grave!» gridò Anvar, accostando la bocca all'orecchio di Aurian. «Andiamo a prendere Sara.» Sostenendosi a vicenda e aggrappandosi a tutto ciò che si trovava a portata di mano attraversarono barcollando il ponte sferzato dalle onde, correndo il costante pericolo di essere spazzati via dai muri d'acqua che minacciavano d'inabissare l'imbarcazione, e dopo quella che parve loro un'eternità raggiunsero il rifugio della cabina... trovando la porta bloccata da un groviglio di detriti spinti lungo il ponte dal succedersi di onde. «Riparati gli occhi!» gridò Aurian, con un'imprecazione, poi sollevò di nuovo le mani e disintegrò quell'ammasso, provocando una pioggia di frammenti e di schegge. Un attimo dopo Anvar spalancò la porta e si precipitarono entrambi all'interno, seguiti da un vorticare di acqua gelida. Allorché l'acqua si riversò sul pavimento della cabina Sara urlò e si rifugiò sulla cuccetta mentre Anvar lottava senza successo contro la forza dell'acqua per cercare di richiudere la porta, riuscendoci infine soltanto con l'aiuto di Aurian. «Se non altro il pavimento è stato lavato dopo chissà quanto tempo» commentò con voce affannosa la Maga, abbassando lo sguardo sull'acqua sporca che le vorticava intorno alle caviglie, poi attraversò la stanza per recuperare il suo bastone che s'infilò nella cintura e aggiunse: «Andiamo. Non dobbiamo restare intrappolati qui, nel caso che la nave affondi.» «Signora, di certo la tempesta finirà per esaurirsi prima» obiettò Anvar, con una tacita supplica nella voce. «No, Anvar» replicò però Aurian, scuotendo il capo. «Questa tempesta è opera di Eliseth, e non cesserà fino a quando lei avrà esaurito le forze... il che non accadrà ancora per parecchio tempo... o fino a quando la nave non sarà affondata. Miathan ci vuole morti.» Sara emise un gridolino spaventato, scoppiando in pianto, e Anvar si fece grigiastro in volto. «Signora, io non so nuotare» confessò. Aurian lo fissò incredula, lottando per mantenere l'equilibrio sul pavimento instabile.
«Non sai nuotare?» ripeté, sgomenta. «No. Sara ne è capace, perché vivendo vicino al fiume ha dovuto imparare, ma mio padre mi ha sempre tenuto troppo occupato perché avessi anch'io il tempo di farlo.» «Come se già non avessimo problemi a sufficienza!» esclamò Aurian, assestandosi con esasperazione una manata sulla fronte. «Rimani vicino a me e cercherò di aiutarti... ma se devo essere onesta, Anvar, non saper nuotare significa soltanto che uscirai da questo pasticcio un po' più in fretta rispetto a noi, perché nessuno potrebbe sopravvivere ad una simile tempesta» aggiunse, sentendosi amareggiata, infelice e sconfitta. Una scarica di tuoni strappò un sussulto a tutti e tre, poi fuori della finestra brillò il vivido bagliore di un lampo e in alto si sentì uno schiocco violento seguito da un tonfo che fece tremare l'intera nave. Nella cabina la lampada si spense, gettando tutto nel buio, e Aurian si sentì scagliare improvvisamente in avanti, andando a cadere con Anvar e con Sara in un groviglio di arti ammaccati: rialzatasi in piedi si aggrappò alla cuccetta per non perdere l'equilibrio e formò una sfera di Luce Magica, il cui chiarore rivelò che il pavimento era violentemente inclinato verso poppa. Quella vista le strappò un'imprecazione e la indusse a spostare di peso Sara che ancora ostacolava Anvar e gli impediva di rialzarsi. «Presto!» gridò. «Dobbiamo uscire di qui.» Quando raggiunsero il ponte si trovarono davanti uno spettacolo caotico: l'albero di maestra era stato colpito dal fulmine e aveva preso fuoco, spezzandosi nel mezzo e rovinando sul sartiame dell'albero di prua, che era crollato a sua volta e aveva sradicato un tratto di ponte, sfasciando anche la murata sul lato di tribordo. Adesso l'albero caduto sporgeva in fuori sull'acqua, alterando il bilanciamento della nave e facendola inclinare verso le onde devastanti che già cominciavano a distruggerla. Nel frattempo il mare si stava riversando al di là della murata infranta e a poppa il capitano era ancora aggrappato disperatamente al timone... un gesto inutile dal momento che esso era del tutto fuori dell'acqua. La nave stava affondando. Paralizzati dallo spettacolo che si offriva loro, i tre la guardarono cominciare a rovesciarsi: a poco a poco l'inclinazione del ponte divenne troppo ripida ed essi iniziarono a precipitare verso le acque. Aurian sentì Anvar afferrarle la spalla e poi perdere la presa nel momento in cui lei piombò fra le onde gelide, in preda ad una corrente che cercava di trascinarla a fondo insieme alla nave condannata: non appena l'acqua le si chiuse sopra la testa prese a dibattersi nel tentativo di allonta-
narsi dal pericolo, ma la trazione risultò troppo forte e si sentì risucchiare sempre più in profondità. Poi la presenza di Miathan ricomparve nella sua mente e lei avvertì gli artigli gelidi della sua volontà che cercavano di afferrarla. Era troppo. Lui non poteva tornare a tormentarla proprio adesso che era prossima da annegare e aveva bisogno di tutte le proprie risorse per sopravvivere! Aurian sentì l'ira insorgere dentro di lei come una marea carminia nel ricordare il coraggio dimostrato da Forral e il modo brutale in cui lui era stato ucciso dalle immonde creature evocate dall'Arcimago, che lo aveva privato della decorosa morte dovuta ad un guerriero. Senza riflettere a causa della cieca furia che si era impadronita di lei aprì la bocca per imprecare ad alta voce contro Miathan e l'acqua salata le si riversò in gola, inondandole i polmoni. Decisa a fare del proprio meglio per trascinare Miathan con sé nella morte, Aurian si strappò con uno sforzo dalla sua morsa, poi rimosse la propria consapevolezza dal corpo e si lanciò con la velocità di una freccia verso Nexis, dove lo trovò chino come un ragno sul suo cristallo. Penetrata nel cristallo, chiamò a sé la forza della propria Magia del Fuoco e diresse una scarica di energia contro gli occhi dell'Arcimago, che emise un orribile stridio e si serrò il volto fra le mani, barcollando all'indietro ormai accecato mentre sottili volute di fumo gli s'insinuavano fra le dita. Non era sufficiente! Dannazione alla sua debolezza! Allorché il suo corpo morente la trascinò indietro Aurian avvertì in bocca il sapore amaro del fallimento, perché sapeva che Miathan era ancora vivo; l'unica consolazione a cui poté aggrapparsi con i suoi ultimi brandelli di consapevolezza nell'essere risucchiata all'interno del proprio corpo agonizzante fu la consapevolezza di averlo accecato, distruggendo i suoi occhi in maniera irrevocabile. Questo è per Forral, bastardo, pensò, poi sprofondò nell'oscurità. CAPITOLO DICIOTTESIMO LEVIATANI Cosa diavolo stava succedendo? Questa non poteva essere la morte, perché stava ancora nuotando in un oceano buio e gelido, e il suo innato senso del tempo la stava informando che erano trascorsi soltanto pochi secondi da quando aveva perso conoscenza... e un intervallo appena più lungo da quando era caduta nel mare. Poi si rese conto con suo immenso stupore
che stava respirando con facilità pur essendo sott'acqua e scoppiò a ridere, un suono che echeggiò distorto e soffocato a causa dell'acqua pompata fuori della bocca dai polmoni. Dunque le leggende secondo cui era impossibile affogare un Mago erano vere, e il suo corpo doveva essersi adattato in maniera istintiva, modificando i polmoni in modo che si adeguassero al nuovo ambiente. Scommetto che Miathan non sa nulla di questo, pensò con un senso di trionfo. Lui mi crederà morta, e comunque gli ho dato troppo di cui preoccuparsi perché possa sospettare che sono ancora viva. Per gli dèi, spero che stia soffrendo atrocemente. Poi si ricordò di Anvar e di Sara, i cui polmoni non potevano adattarsi all'acqua e che certo stavano annegando. Tornata verso la massa di detriti galleggianti che erano quanto restava della nave naufragata si tuffò in profondità per cercarli, cercando di respingere l'insidioso pensiero che probabilmente era tutto inutile: doveva tentare, perché aveva promesso a Vannor che si sarebbe presa cura di Sara e perché era stata lei a portare Anvar incontro a questa sorte. Vedere nelle cupe profondità marine era però un'impresa disperata, in quanto neppure la sua vista notturna da Maga poteva penetrare quell'oscurità e lei avrebbe dovuto possedere invece la capacità propria delle balene di percepire le forme anche nei più bui abissi marini... ma certo! Sulla spinta di un'ispirazione improvvisa, Aurian intonò un canto che aveva imparato soltanto quel giorno ma che le sembrava di conoscere da tutta la vita, e chiamò con la mente i Leviatani, chiedendo il loro aiuto. Con suo sollievo essi risposero, raggiungendola in un tempo incredibilmente breve e cominciando a passare al setaccio le acque cosparse di rottami per trovare i suoi compagni; di lì a poco uno di essi tornò vicino a lei, sovrastandola con la sua immensa mole, ed Aurian riconobbe gli schemi di pensiero del padre di cui aveva salvato il piccolo. Poi la voce profonda e gentile della balena le echeggiò nella mente. «Ho trovato l'uomo e la mia compagna sta cercando la donna. Puoi salire sul mio dorso, piccola? L'uomo ha bisogno di aiuto.» Dopo averlo ringraziato Aurian risalì in superficie e s'inerpicò con una certa difficoltà sull'ampia schiena che la balena stava tenendo fuori dell'acqua, augurandosi al tempo stesso di non farle male nel cercare appigli. Una volta esposta all'aria ebbe appena il tempo di meravigliarsi per il caldo tepore della pelle liscia che aveva sotto le mani quando si trovò ad annaspare e a soffocare perché incapace di respirare: stava annegando di nuovo... nell'aria!
Anche se i momenti pieni di panico che i suoi polmoni impiegarono ad adattarsi parvero protrarsi per un'eternità, questa volta non perse però conoscenza e cercò di vagliare coscientemente quello che le stava succedendo perché sapeva che un giorno conoscere quel procedimento le sarebbe potuto tornare utile. «Hai considerato le implicazioni di tutto questo?» Le parole che lei stessa aveva detto in passato a Finbarr le affiorarono nella mente con sconcertante chiarezza mentre tossiva e ansimava. Infine riprese a respirare normalmente e si guardò intorno con espressione stordita ma sollevata, sentendosi al tempo stesso gelata ed esausta. Adesso si trovava sull'ampia schiena della balena, che dondolava dolcemente sul mare già più calmo, e la sagoma inerte di Anvar giaceva immobile non molto lontano da lei. Quando lo raggiunse strisciando con cautela sul dorso della balena, lui risultò terribilmente freddo, e nel rendersi conto che non stava respirando Aurian si sentì assalire da un brivido di terrore. Era forse troppo tardi? Per prima cosa tentò di raggiungerlo con i suoi sensi di guaritrice, ma scoprì con orrore che non era in grado di farlo perché il freddo e lo sfinimento avevano logorato le sue forze e aveva poi consumato il potere che le restava nell'attacco contro Miathan, prosciugandosi infine del tutto nei contattare i Leviatani. Imprecando, sfogò la propria frustrazione calandosi un pugno sulla coscia. Furente che il suo corpo l'avesse tradita proprio adesso che aveva maggior bisogno delle sue risorse e consapevole che non avrebbe potuto raccogliere le intense energie richieste dal risanamento fino a quando cibo e riposo non l'avessero rimessa in forze. Lottando contro il panico si costrinse a riflettere alla ricerca di un'alternativa, e infine ricordò le istruzioni che Meiriel aveva fornito per eventualità di questo tipo: girato Anvar in posizione prona, esercitò ripetutamente pressione sulla sua schiena, e quando vide che nonostante il rivoletto d'acqua che gli colava dalla bocca lui continuava a non respirare accentuò i propri sforzi, riscaldandosi per la fatica nonostante il vento gelido a cui era esposta. «Respira, dannazione a te!» esclamò, accorgendosi di essere prossima a crollare e di avere il volto madido di sudore freddo. Finalmente, quando era ormai sull'orlo della disperazione, Anvar dilatò il petto una, due volte, poi tossì e vomitò fuori molta acqua di mare, riuscendo infine a trarre una serie di respiri profondi e affannosi; dibattendosi fra le braccia di Aurian, si guardò quindi intorno con occhi dilatati, e nel
notare il mare sempre più calmo e la vasta schiena ricurva della balena tentò di parlare, con il solo risultato di tossire ancora. «Sta' calmo, Anvar, e presto ti sentirai meglio» consigliò Aurian, in tono comprensivo, perché ricordava ancora i momenti di panico vissuti sul dorso della balena mentre i suoi polmoni si adattavano di nuovo a respirare aria. «Riposa per un momento e riprendi fiato intanto che ti metto al corrente di quanto è accaduto. Le balene non sono soltanto animali, Anvar, sono esseri intelligenti ed io posso parlare mentalmente con loro. Questa in particolare ti ha salvato la vita.» «Sara?» chiese lui, con voce rauca e flebile, interrompendola. «Non so dove sia, Anvar» rispose Aurian, scuotendo il capo. «Aspetta un momento e...» «Perché non l'hanno salvata?» esclamò Anvar, in tono duro e accusatorio, sovrastando la sua voce. «Hai chiesto loro di cercarla?» Aurian sussultò in preda all'indignazione e all'ira. Quel miserabile ingrato non stava pensando minimamente a come lei stessa avesse rischiato di morire o a ringraziarla per averlo salvato! Per un istante tornò con la mente a quella spaventosa notte sul fiume e alla violenza con cui lei aveva reagito a causa del proprio dolore per la morte di Forral dicendosi che forse ad Anvar stava succedendo la stessa cosa, ma poi ricordò come lui l'avesse definita un'assassina e questa nuova prova di mancanza di fiducia nei suoi confronti la ferì a tal punto da indurla a reagire con l'ira e a decidere che non appena fossero arrivati a terra lo avrebbe abbandonato al suo destino. «Ira, piccola?» domandò in tono di rimprovero la voce della balena, piena di calore, echeggiandole nella mente. «L'altro membro del nostro gruppo è disperso, possente signore» spiegò Aurian, «e l'uomo me ne ritiene responsabile.» «Davvero?» replicò il gigante, i cui pensieri erano adesso pervasi di gorgogliante divertimento. «Deve avere un'enorme opinione di te per ritenerti capace di addossarti una così spaventosa responsabilità.» Quella teoria colse Aurian alla sprovvista, ma una volta superata la sorpresa iniziale lei si affrettò a confutarla. «Temo di no, possente signore. Quando si tratta di me la sua mente sembra essere piena di dubbi.» «Piccola, quando dubitiamo grandemente di noi stessi spesso troviamo più comodo trasferire i nostri dubbi su qualcun altro» rise il Leviatano. «L'uomo imparerà, con il tempo; quanto alla sua perduta amica, digli che può accantonare i suoi timori perché mia sorella l'ha tratta in salvo e la
porterà a terra prima che voi vi arriviate. E per questo lui deve ringraziare te.» Come Aurian aveva previsto, Anvar si rischiarò in volto nell'apprendere la notizia, e in un eccesso di gioia accennò ad abbracciarla. «Sta' lontano da me!» gli ingiunse però lei, ritraendosi con rabbia. «Hai già messo bene in chiaro cosa pensi sul mio conto, quindi una volta a terra tu e quella piccola sventata egoista potrete arrangiarvi per conto vostro... ti auguro ogni bene con lei, Anvar, ma ricorda che un giorno potrebbe tradirti come ha già tradito il povero Vannor.» «Come osi parlare in questo modo di Sara?» ritorse lui, incupendosi. «Sei stata ingiusta con lei fin dall'inizio. Non hai idea di quello che ha sofferto...» «No, e non me ne importa: vedo cosa è diventata, e mi basta. Si servirà di te, e ti scaricherà non appena le farà comodo, ma almeno questa volta io non sarò lì per assistere alla cosa. Ho chiuso con voi due e spero di non rivedervi mai più.» Per quanto fosse furente, Aurian fu colta alla sprovvista dall'espressione apparsa sul volto di Anvar, perché non lo aveva mai visto tanto infuriato. «Mi va benissimo!» ritorse intanto lui, in tono rovente. «Noto che durante l'ultimo anno tu non hai avuto obiezioni ad usarmi, Signora, quindi lascia che ti dica una cosa: ho finito di fare lo schiavo per voialtri dannati Maghi! Da oggi Sara e io cercheremo la nostra strada nel mondo... senza la vostra interferenza!» A questo punto la balena intervenne, affermando che le emanazioni d'ira che provenivano dalla loro mente le stavano causando un grande disagio. Subito contrita, Aurian chiese scusa all'enorme creatura e si allontanò da Anvar quanto più le era possibile sul dorso della balena, disponendosi a dormire tranquillamente per la prima volta da giorni. Il sonno tardò però a venire, perché durante il naufragio aveva perso lo spesso mantello di Forral e i suo abiti bagnati le aderivano addosso come una coltre di ghiaccio, e lei dovette ammettere con se stessa che avrebbe preferito raggomitolarsi contro Anvar in modo che entrambi potessero condividere il poco calore corporeo che restava loro. Un'occhiata scoccata di nascosto nella sua direzione le mostrò che il giovane era appallottolato nel suo angolo isolato e stava tremando visibilmente, ma rifiutava al tempo stesso di fare la minima mossa verso di lei. Benissimo, non sarò certo io a fare il primo passo, si disse Aurian. Se vuole stare più caldo dovrà venire qui.
E rimase dov'era, sorretta soltanto dal suo vuoto e cocciuto orgoglio di Maga, fino a quando lo sfinimento ebbe la meglio su di lei. L'alba sorse limpida, con il cielo di un azzurro pallido e terso, il mare assolutamente piatto e l'aria sorprendentemente tiepida... e portò con sé l'avvicinarsi della terraferma. Quando si svegliò, tutt'altro che riposata e con lo sguardo appannato, Aurian avvistò una spiaggia di fine sabbia argentea interrotta da grossi agglomerati di rocce; al di là di essa si stendeva una densa fascia di foresta e più oltre torreggianti e contorte alture di pietra grigia raggiungevano altezze incredibili. L'aria morbida e profumata echeggiava degli acuti richiami di creature ignote che vivevano nella foresta... e nel guardarsi intorno lei si rese conto con un senso di shock che quella non era la costa settentrionale: a quanto pareva la violenza della tempesta li aveva spinti fino alle misteriose terre del meridione! La balena si arrestò ad un tiro di freccia dalla riva, dove l'acqua era ancora abbastanza profonda da mantenere a galla la sua mole massiccia, e Aurian si girò infine verso Anvar. «Tu scenderai a terra qui» annunciò con voce secca. «Lui afferma che sua sorella ha depositato Sara in questo punto, quindi lei dovrebbe essere nelle vicinanze.» «Puoi effettivamente parlare con questa cosa, vero?» domandò Anvar, stupefatto. «Cosa? Lui è un amico, Anvar, e trovo la sua conversazione infinitamente più piacevole della tua, quindi ti prego di andartene» ritorse Aurian, serrando la mascella e distogliendo lo sguardo per non vedere l'espressione ferita di Anvar. Lui abbassò lo sguardo verso la superficie dell'acqua, che in quella baia riparata era di una limpidezza cristallina, ed era popolata da migliaia di pesci scintillanti che ne solcavano le azzurre profondità. «Qui è troppo profondo, Aurian. Non posso...» Notando il panico che gli era affiorato negli occhi, Aurian si ricordò in ritardo che lui non sapeva nuotare, e rabbrividì nel rammentare il terrore provato la notte precedente quando l'acqua le era penetrata nei polmoni torturati. Poi si accorse che Anvar stava tremando e cedette suo malgrado ad un impeto di compassione nei suoi confronti. «D'accordo, ti aiuterò io» sospirò. «Scenderò in acqua per prima...» Facendo seguire gli atti alle parole si spostò lungo la schiena della balena fino a entrare nell'acqua, la cui temperatura tiepida risultò una piacevole sorpresa dopo il gelo intenso dei mari settentrionali.
«Adesso voglio che ti lasci scivolare fino a qui» disse quindi ad Anvar, dopo una rapida consultazione con la balena. «La sua pinna caudale...» «La sua cosa?» «La sua coda. Si trova appena sotto il pelo dell'acqua e questo ti permetterà di reggerti in piedi su di essa senza sprofondare.» Anvar esitò, mordendosi un labbro. «Avanti... ha detto che la cosa non lo infastidisce» lo incitò Aurian. «Forse, ma infastidisce me» borbottò a denti stretti Anvar. «Non corri nessun rischio» insistette Aurian. «Prometto che non ti permetterò di finire con la testa sott'acqua. Per una volta, fidati di me!» aggiunse, non riuscendo a soffocare una nota tagliente che le trapelò nella voce. Alla fine riuscì a indurlo con le blandizie a scendere sulla pinna caudale che la paziente balena stava tenendo immobile. Per gli dèi, quanto è alto, pensò Aurian, raggiungendolo a nuoto e constatando che l'acqua gli arrivava al livello del mento. «Non ti aggrappare a me!» avvertì quindi, rendendosi conto di quello che lui stava per fare, poi si raddrizzò e si posò accanto a lui sulla pinna, scoprendo così che il problema di Anvar consisteva nella difficoltà a restare in posizione verticale, perché sotto la spinta dell'acqua salmastra il suo corpo aveva la tendenza a girarsi in posizione orizzontale e a galleggiare. «Cosa stai facendo?» sussultò Anvar, quando lei gli posò una mano sulla nuca. «Ti sto tenendo la testa fuori dell'acqua. Adesso tutto quello che devi fare è trarre un profondo respiro e adagiarti all'indietro... rilassati e vedrai che i tuoi piedi si solleveranno naturalmente e che galleggerai. Ti prometto che non affonderai e che ti porterò a riva sano e salvo.» Dopo qualche tempo Anvar ritenne di aver raccolto il coraggio necessario per fare come gli aveva detto, ma immediatamente cedette al panico e prese a dimenarsi e a scalciare, aggrappandosi a lei e ricoprendola di spuma. A costo di un'immersione forzata Aurian riuscì a impedirgli di inghiottire troppa acqua e a riportarlo sulla pinna; quando spinse indietro la massa di capelli bagnati che le pendeva davanti alla faccia, vide però Anvar fissarla con occhi pieni d'indignazione e arrossati dall'acqua salata. «Hai detto che avrei galleggiato!» «Ti ho detto di rilassarti, idiota, e che dopo avresti galleggiato!» «Non posso rilassarmi, sono terrorizzato!» Ci volle un certo tempo, ma alla fine riuscirono a mettere in pratica la
fase dell'operazione connessa al galleggiamento, e Anvar si adagiò all'indietro nell'acqua con un sorriso di stupore sul volto. «Anvar, non dimenticarti di respirare!» avvertì Aurian. Seguì un altro momento di agitazione ma anche quell'ostacolo venne superato, dopo di che trainare Anvar fino a riva risultò essere una cosa relativamente semplice. Entro pochi momenti si trovarono entrambi immersi fino alle ginocchia nella risacca che si riversava danzando sulla spiaggia e creava intorno a loro un intreccio di merletti di spuma. «Se non altro» commentò Aurian, «nel caso che ti dovesse capitare ancora di trovarti nell'acqua alta, adesso almeno sai tenerti a galla.» D'impulso sfilò quindi dallo stivale una lunga daga dall'aspetto letale e gliela mise in mano senza però incontrare il suo sguardo. «Prendi questa, così non sarai del tutto disarmato» aggiunse. Tutti e due si resero conto nello stesso momento che erano ormai sul punto di separarsi, e rimasero a fissarsi a vicenda immersi in un silenzio carico di tensione. All'improvviso Aurian si sentì indotta a rivedere la propria decisione... come poteva lasciare Anvar? Le sembrava impossibile riuscire a volgergli le spalle per andarsene, e anche lui appariva infelice e indeciso mentre giocherellava con la daga e si mordicchiava un labbro. Dannazione, pensò Aurian. Ci stiamo comportando come bambini! Scusarsi per prima era fuori discussione, considerato che era lui ad avere torto, ma stava comunque per aprire bocca e dire che era meglio restare uniti quando Sara emerse dalla foresta e si precipitò verso di loro lungo la spiaggia, chiamando Anvar per nome. «Ho avuto tanta paura! Quegli orribili mostri marini... credevo che mi avrebbero divorata!» esclamò, poi lanciò uno strillo improvviso e aggiunse: «Attento, ce n'è uno proprio dietro di te! Presto, esci dall'acqua!» «Sara... grazie agli dèi sei salva!» gridò Anvar. Improvvisamente dimentico della presenza della Maga si affrettò quindi raggiungere la riva per correre da lei. Rimasta sola, Aurian imprecò per il disgusto e si addentrò di nuovo nelle onde calde, nuotando fino al Leviatano e inerpicandosi sul suo dorso con il cuore più pesante di quanto lo fossero i suoi abiti fradici. Quando si guardò indietro Sara era fra le braccia di Anvar e la sua voce acuta arrivò fino a lei senza difficoltà. «A chi importa se vuole andarsene! In ogni caso non la vogliamo con noi!» Stringendo i denti, Aurian si assestò meglio sul corpo caldo della balena.
«Andiamo» disse, e non sentì la voce frenetica di Anvar che le chiedeva di tornare indietro. Sulla spiaggia Anvar era furioso. «Taci, altrimenti ti sentirà!» ingiunse a Sara, incapace di credere che Aurian lo stesse lasciando davvero e sentendosi in qualche modo sperduto, privo di ormeggi. La chiamò, implorandola di aspettare, ma in quel momento la balena emise il suo ruggente geiser di aria e acqua, impedendo ad Aurian di sentire la sua voce. Poi le braccia di Sara gli scivolarono intorno al collo con fare persuasivo e lei lo baciò, costringendolo a distogliere il volto dall'oceano e impedendogli in maniera efficace di chiamare ancora. «Lasciala perdere» mormorò. «Pensa alla tua libertà, Anvar. Pensa a noi.» Se voleva, il Leviatano era capace di muoversi molto in fretta e quando infine Anvar riuscì a liberarsi dal bacio Aurian era ormai fuori portata di voce. «Nel nome degli dèi, cosa credi di fare?» scattò in tono secco, rivolto a Sara. «Qui non si tratta di una questione di libertà, non ora, ma piuttosto del fatto che sarebbe più sicuro rimanere uniti.» In cuor suo sapeva però di essere stato lui ad allontanare la Maga, e questo destava nel suo animo un nauseante senso di vergogna. «Come osi parlarmi in questo modo?» infuriò Sara. «Secondo te sarebbe quindi colpa mia? Non sono stata però io a definirla un'assassina. Credevo volessi che noi due stessimo insieme, soli» proseguì, mentre i suo innocenti occhi violetti si colmavano di lacrime. «Credevo che mi amassi, ma invece era lei quella che volevi.» Poi sollevò le gonne lacere e si allontanò di corsa lungo la spiaggia. Chiedendosi che altro poteva andare storto, Anvar gemette e si affrettò a seguirla sotto il sole ardente che brillava in un cielo limpido; il calore dell'astro stava già cominciando ad asciugargli addosso i vestiti fradici, ma Anvar aveva l'impressione che il gelo delle acque tempestose gli fosse penetrato irrimediabilmente nelle ossa e al tempo stesso si sentiva la pelle irritata e rigida a causa della salsedine, aveva gli occhi che bruciavano e il corpo che era tutto un dolore. Ansimando per il caldo, infine raggiunse Sara e la circondò con un braccio. «Mi dispiace» le disse. «Voglio davvero stare con te.» Dopo un po' Sara acconsentì a lasciarsi blandire, ma nei suoi occhi rimase una certa espressione dura da cui Anvar dedusse che avrebbe continuato
a camminare sul ghiaccio ancora per un po'. Imprecando fra sé contro le donne in generale tornò a scrutare il mare, ma ormai Aurian era scomparsa e loro erano soli. «Vieni» disse allora, in tono rassegnato, «andiamo a cercare dell'acqua da bere.» Per fortuna l'acqua fresca abbondava nella foresta, dove giungeva dalle alture al di là di essa sotto forma di ruscelli che attraversavano la vegetazione per sfociare nel mare, quindi ad Anvar e a Sara bastò camminare per un breve tratto lungo la spiaggia fino a trovare il punto in cui uno di quei ruscelli si gettava nell'oceano e seguire poi il suo corso nell'ombra della foresta, dove l'aria era più fresca e umida grazie al groviglio di vegetazione a foglia larga che impediva in buona parte il passaggio della luce del sole. Intorno a loro l'aria era pervasa dal ronzare intenso degli insetti misto a strida e a richiami che giungevano dal fogliame sovrastante e che indussero Sara a stringersi ad Anvar con timore. «È tutto a posto» la rassicurò lui. «Sono soltanto uccelli e animali.» Al tempo stesso si servì però della daga di Aurian per tagliare due robusti rami da un albero vicino in modo che servissero da bastoni, pensando che la Maga si sarebbe irritata nel vedere usare in quel modo una così buona lama. Infine giunsero in un punto in cui le acque del ruscello si raccoglievano in una depressione a formare una piccola polla non troppo profonda intorno alla quale la vegetazione era stata brucata fino a lasciare un tratto di terreno spoglio, segnato dalle impronte degli animali che si recavano in quel luogo a bere: inginocchiandosi. Anvar esaminò quelle tracce, riscontrando i segni lasciati da qualche roditore, dagli zoccoli di un daino e dal sinistro passaggio di un serpente. Poi il suo sguardo si posò su alcune impronte che sembravano prodotte da minuscole mani umane e lui si sentì rabbrividire, assalito dall'improvvisa sensazione che l'intera foresta lo stesse osservando. Un momento più tardi si affrettò a cancellare le tracce con lo stivale per evitare che Sara le potesse vedere. Disidratato dal caldo e dall'acqua salata che aveva inghiottito in precedenza, si gettò quindi al suolo per bere, spruzzandosi di acqua fresca il volto irritato dalla salsedine, e dopo aver placato la sete si guardò intorno, timoroso di perdere la strada nella foresta... finché non si ricordò con una certa vergogna che sarebbe bastato seguire il ruscello per tornare sulla spiaggia. Se soltanto Aurian avesse deciso di cambiare idea... ma non lo avrebbe fatto, non dopo il modo in cui lui l'aveva trattata; ricordando le
proprie aspre parole della notte precedente, Anvar rimpianse di non aver mantenuto il controllo invece di aggredirla verbalmente soltanto perché lei lo aveva fatto sentire colpevole, in quanto sapeva che allora Aurian avrebbe di certo compreso... Per gli dèi, quanto era affamato! Assalito da un divorante senso di vuoto allo stomaco, cominciò a riflettere sulle possibilità di trovare del cibo in quel posto alieno e di lì a poco scoprì che anche Sara stava pensando la stessa cosa. «Anvar, ho bisogno di mangiare qualcosa» affermò infatti, e quella frase che era poco meno che un ordine destò in Anvar un impeto d'irritazione, dovuto al fatto che Aurian non gli aveva mai parlato in quel modo sebbene fosse stato il suo servitore. «Anch'io» rispose, sforzandosi di mantenere la calma. «Lasciami il tempo di riflettere.» «Ma io ho fame! Voglio qualcosa da mangiare, e subito!» Per sua fortuna, Anvar venne aiutato dal ricordo del nonno morto da tempo, che aveva riempito la sua fanciullezza con le storie della sua gioventù vissuta in campagna, facendo sì che a nove anni lui sapesse già tutto su come si catturava una trota a mani nude... almeno dal punto di vista teorico. «Vieni con me, Sara» propose, «e cattureremo qualche pesce da mangiare per cena.» La pratica si rivelò però molto più difficile della teoria e i pesci parvero aver sviluppato una loro forma di magia di fuga: più e più volte la mano di Anvar si chiuse con cautela intorno al corpo snello e liscio di qualche pesce, soltanto per vederlo svanire all'improvviso e lasciare il cacciatore con una mano piena soltanto d'acqua. Immerso nell'oceano fino alla cintura, Anvar si stava irritando sempre più ad ogni secondo che passava, chiedendosi perché quelle dannate bestie non rimanevano immobili almeno per un momento. Gli occhi gli dolevano per il continuo scrutare le acque abbaglianti del mare e il sole martellava spietatamente sulla sua testa e sulla schiena prive di protezione. Ormai gli sembrava di essere impegnato in quel faticoso lavoro da ore e per quanto ci provasse non riusciva a liberarsi dell'idea che i pesci si stessero facendo beffe dei suoi goffi sforzi; tirando fuori le mani dall'acqua, vide che la pelle era bianca e rugosa per l'immersione troppo prolungata. «Anvar! Anvar!» gridò dalla riva la voce di Sara. Vagamente consapevole che lei lo stava chiamando già da tempo, Anvar
si girò per appurare cosa volesse e vide che teneva sollevata una sacca ricavata da un pezzo di lino bianco strappato dalla sua sottogonna e piena di qualcosa che si contorceva nella sua stretta. «Guarda! Ne ho preso qualcuno!» annunciò intanto lei, ridendo. Per una frazione e di secondo Anvar si sentì sul punto di strangolarla, poi assimilò il senso delle sue parole e si sentì al tempo stesso sollevato e stupito mentre tornava a riva più in fetta che poteva. «Come ci sei riuscita?» domandò, cercando di non apparire indignato quanto si sentiva. «È stato facile... non sei orgoglioso di me?» ribatté Sara, scaricando il proprio fardello sulla sabbia e cingendogli con le braccia il collo scottato dal sole, strappandogli un sussulto di dolore. «Certamente!» scattò lui, fissandola con occhi roventi. «Non ti sei accorto che la marea è cambiata?» domandò allora Sara, indicando con un gesto le scogliere ora esposte alla vista. «Laggiù ci sono un mucchio di pesci, intrappolati nelle polle fra le rocce.» «La marea?» ripeté stupidamente Anvar, che aveva sentito parlare delle maree ma non ne aveva mai compreso l'importanza e la funzione perché era nato in città da una famiglia povera e poi era diventato uno schiavo. «Oh» mormorò intanto Sara, rendendosi conto della situazione. «Prima d'ora non eri mai stato al mare, vero?» «Come avrei potuto? I Maghi non elargiscono ai loro servi gite lungo la costa» ritorse Anvar. «Piuttosto, tu come fai a conoscere le maree?» «Vannor mi portava al mare ogni estate» spiegò lei, distogliendo lo sguardo, poi notò l'espressione apparsa sul volto di Anvar e si affrettò a cambiare argomento perché sapeva di non potersi permettere di indisporlo nei propri confronti. «Comunque» proseguì in tono allegro, «a parte averli catturati, che è stata una cosa semplicissima, per il resto non servo a nulla perché non me la sento di ucciderli e l'idea di prepararli per la cottura mi disgusta.» Evidentemente aveva detto la cosa più giusta perché subito Anvar sorrise. «Ci penserò io» garantì. «Ho imparato come si fa nelle cucine dell'Accademia.» Sara rabbrividì, desiderando che lui non continuasse a ricordarle di essere stato un servo vincolato. Vivendo con Vannor si era abituata ad avere intorno dei servi, e aveva cessato di pensare ad essi come a degli esseri
umani per considerarli piuttosto un qualcosa che era semplicemente là... cortese, anonimo e pronto ad obbedire ai suoi ordini... per cui adesso si sentiva in qualche modo sporca a dividere il letto con uno di essi, anche se per necessità era disposta a tollerarlo. Voltandosi verso Anvar, gli rivolse il suo sorriso migliore, che su Vannor aveva sempre avuto effetto. «È un bene che qui ci sia qualcuno dotato di spirito pratico» dichiarò, «perché io temo proprio di essere inutile. Sai anche come accendere questo fuoco?» Prima del suo sfortunato tentativo di pescare, Anvar aveva lasciato acciarino ed esca ad asciugarsi accanto alla camicia (che rimpiangeva di essersi tolto adesso che la schiena scottata dal sole cominciava a bruciargli) su una roccia esposta al sole, e grazie alla quantità di legname fornita dalla vicina foresta ben presto accese un fuoco vivace; si servì quindi della daga di Aurian per sventrare il pesce, sentendosi di nuovo in colpa perché sapeva che lei gli aveva lasciato l'arma perché la usasse per cose più importanti di questa, poi mise il pesce a cuocere su una roccia piatta posta vicino al fuoco e infine lui e Sara banchettarono all'ombra vicino al ruscello, dove il fitto fogliame li proteggeva dai raggi intensi del sole di mezzogiorno. Anvar si svegliò con la frescura fragrante del crepuscolo, in tempo per vedere gli ultimi bagliori del sole al tramonto che scomparivano oltre le alture e i pipistrelli che scendevano in picchiata sulla spiaggia per dare la caccia agli insetti attirati dalle fiamme del fuoco, accanto al quale orde di piccoli granchi stavano banchettando con quello che restava del pesce. Rabbrividendo, si affrettò a balzare in piedi con un sussulto dovuto al bruciore della schiena scottata dal sole e cercò di schiarirsi la mente ancora offuscata dal sonno: evidentemente aveva infine risentito della lunga veglia sostenuta insieme ad Aurian e si era addormentato prima ancora di aver finito di mangiare. D'un tratto si accorse che Sara era scomparsa e si volse a scrutare con ansia la spiaggia, dicendosi che di certo lei non poteva essere stata tanto stupida da allontanarsi da sola. Prelevato un ramo dal mucchietto della legna da ardere lo accostò alle braci per accenderlo ed esaminò il punto in cui Sara si era seduta per mangiare: sul terreno non c'erano però segni di lotta che indicassero un'aggressione da parte di qualche bestia uscita dalla foresta, e invece spiccavano nitide le impronte di lei che si dirigevano verso il ruscello per poi addentrarsi fra gli alberi. Imprecando, Anvar si incamminò a sua volta fra la vegetazione, seguendo il corso d'acqua. Di notte la giungla aveva un aspetto molto più spettrale che di giorno: le
radici sembravano levarsi dal suolo per mettergli lo sgambetto, i viticci (oppure erano serpenti?) gli sfioravano il volto spaventandolo quasi al punto da fargli sfuggire la torcia di mano, e i rami gli artigliavano i vestiti mentre sui tronchi parevano affiorare volti sogghignanti che lo fissavano al chiarore della torcia. Il fatiscente strato di foglie che copriva il terreno era reso viscido dall'umidità della sera e dai rami marci sparsi in mezzo ad esso sporgevano disgustosi funghi luminescenti che gli ricordarono l'orribile chiarore malsano esalato dal calice di cui Miathan si era servito per evocare gli Spettri. Con il cuore che gli martellava in gola e il respiro sempre più affannoso, Anvar si chiese cosa lo aspettasse più avanti... poi scorse una strana luce spettrale e tremolante che lo indusse a rallentare il passo in modo da avvicinarsi con cautela alla radura in cui si trovava la piccola polla, dove si arrestò di colpo, incantato. Una ninfa si stava bagnando nell'acqua scura e immota della polla: la sua pelle era chiara come la luce lunare, i suoi capelli erano d'oro e lei era circondata e servita da una corte di stelle che danzavano sull'acqua, incoronandola d'argento. Mentre Anvar contemplava la scena trattenendo il fiato, una di quelle stelle volò verso di lui, permettendogli di vedere che si trattava di un insetto il cui corpo splendeva di un bianco fuoco freddo, poi la ninfa si volse nella sua direzione, emergendo nuda dal centro della polla incantata, con i capelli che le ricadevano sulle spalle in una massa d'oro. Sara. Affascinato, Anvar si sentì di colpo impotente di fronte ad una simile bellezza ultraterrena. Era stata sua intenzione rimproverare Sara per essersi addentrata nella foresta da sola e per la sua mancanza di buon senso, ma adesso si trovò ad avanzare verso di lei in modo inesorabile, come un sonnambulo attratto dal miraggio elusivo di un sogno: gettata via la torcia prossima a spegnersi, si liberò degli abiti e andò a raggiungerla nella polla. Lei s'irrigidì e accennò una protesta, poi però scrollò le spalle e sollevò il volto per accettare i suoi baci, cingendolo a sua volta con le braccia. Si amarono sulla riva della polla, e Anvar si lasciò trasportare sulle ali dell'amore e della passione, alimentati e intensificati dalla bellezza di Sara e dalla magia di quella notte fatata; fu solo quando giunse all'apice del piacere che avvertì lo spiacevole dubbio che Sara non fosse veramente con lui. Oh, il suo corpo stava reagendo meravigliosamente, con tutte le mosse giuste e i suoni adeguati, ma in quell'istante esplosivo i suoi occhi si spalancarono, e nel fissarli Anvar si rese conto che l'io più intimo di Sara era molto lontano da lui.
Poi, mentre si rilassava con il cuore che gli martellava nel petto, Sara gli sorrise e gli passò pigramente le dita fra i capelli, e Anvar si convinse di aver immaginato ogni cosa, che la sua impressione fosse stata causata da un gioco di luce di quelle dannate lucciole. Però la sua gioia si era dissolta e nel suo cuore la tranquillità era stata sostituita dalla disperata consapevolezza di quanto aveva bisogno di Sara. Lei era stata sua fin dalla fanciullezza, e adesso che finalmente l'aveva tutta per sé l'idea di poterla perdere gli riusciva inimmaginabile... ma per la prima volta l'insidioso tocco del dubbio gli stava sfiorando la mente come un dito gelido: possibile che Aurian avesse avuto ragione? Che Sara avesse usato Vannor per i suoi scopi e stesse ora usando anche lui nello stesso modo? «Ho freddo» si lamentò intanto Sara. «Sono infreddolita e infangata, e adesso mi dovrò lavare di nuovo» aggiunse con una smorfia, cercando di sgusciare via da sotto di lui. Con un sospiro Anvar la lasciò alzare ed entrò con lei nella polla per lavarsi. Ora che l'incanto si era rotto, il gelo dell'acqua lo aggredì con violenza e disperse in fretta i residui di magia che ancora aleggiavano nella notte. Senza parlare, tornarono sulla spiaggia, dove Anvar alimentò ancora il fuoco fino ad ottenere un grosso falò. «Ho di nuovo fame» si lamentò intanto Sara, ma il pesce residuo era stato portato via dai granchi e fino all'indomani sarebbe stato impossibile trovare dell'altro cibo. «Tenta di dormire» consigliò quindi Anvar. «Domattina cercheremo qualcosa da mangiare.» «E dopo cosa faremo?» domandò Sara. «Non possiamo restare per sempre in questa orribile foresta.» A parte le scottature provocate dal sole, per Anvar quel posto era invece un paradiso, ma cercò di convincersi che probabilmente Sara aveva ragione. «Non lo so» rispose. «Domani potremmo scalare quelle alture...» «Cosa? Arrampicarci lassù? Stai scherzando!» «In tal caso potremo avviarci lungo la spiaggia» sospirò Anvar. «Quelle alture non possono essere interminabili.» «In quale direzione andremo?» insistette Sara. «Non sai neppure su che terra ci troviamo.» «Non lo sai neanche tu, anche se sostieni di aver viaggiato più di me» ribatté Anvar, seccato. «Perché non avanzi qualche suggerimento?»
«Sei un essere del tutto inutile, Anvar! Non sai niente di niente! Vorrei non aver mai...» Sara s'interruppe bruscamente, lasciando a mezzo la frase. «Cosa stavi per dire?» domandò Anvar, pervaso da un minaccioso senso di gelo, ma Sara gli volse le spalle e si rifiutò di aggiungere altro, e dal canto suo lui non osò insistere oltre. Nell'arco di pochi minuti Sara sprofondò nel sonno, o quanto meno finse di dormire, e Anvar rimase a fissare con aria infelice il cielo notturno: lì le stelle sembravano più vicine, come una serie di lampade inserite in una volta di velluto, ed erano così diverse dalla massa scintillante di lontani bagliori propria del cielo a lui familiare che di colpo si sentì sperduto e molto solo, nonostante Sara che gli dormiva accanto. Si chiese quindi dove fosse Aurian, e rimpianse ancora una volta le parole offensive con cui l'aveva allontanata da sé. Lei avrebbe saputo cosa fare perché Forral l'aveva istruita bene, e anche quando era alle prese con qualcosa di sconosciuto suppliva con il coraggio alla mancanza di conoscenze... anzi, la sua sicurezza di sé era così grande da sconfinare nell'arroganza, e in quel momento d'introspezione Anvar ammise con se stesso che spesso era proprio questo ad irritarlo tanto, unitamente al fatto che lei era una Maga e apparteneva quindi alla razza che lo aveva derubato del suo legittimo posto nel mondo. Nel riflettere prese a giocherellare con la daga che Aurian gli aveva dato, un'arma pratica ed efficiente come la sua precedente proprietaria, domandandosi come sarebbe riuscita a cavarsela, incinta, sola e oppressa dal dolore, con Miathan lanciato al suo inseguimento, e sentendosi angosciato per lei e per il fatto di essere venuto meno alle proprie responsabilità nei suoi confronti. Le lunghe giornate di fuga e di terrore lo avevano però sfinito più di quanto supponesse, e molto prima di poter svegliare Sara perché montasse la guardia si addormentò nel bel mezzo delle proprie riflessioni. Se avessero saputo in che terra erano giunti e quale razza vi abitava, Anvar e Sara non avrebbero mai acceso un grande fuoco che spiccava come un faro sulla costa; se fossero stati consapevoli del pericolo si sarebbero nascosti nella foresta e sarebbero stati più accorti nel montare la guardia... ma poiché non sapevano nulla continuarono a dormire sereni, accanto al fuoco che era visibile dal mare aperto per un raggio di chilometri. Non si accorsero quindi della lunga e nera galea che si accostò alla riva e non sentirono il lieve scricchiolio degli stivali sulla sabbia, seguito dal sibilo dell'acciaio che usciva dal fodero. Anvar fu destato da alcune mani che lo afferravano e da un urlo di Sara
che lacerò il silenzio della notte. Lottando violentemente riuscì per un momento ad alzarsi in piedi e cercò a tentoni la daga di Aurian, che però gli era sfuggita di mano durante il sonno e si era persa fra la sabbia. Fece appena in tempo ad intravedere un tremolante bagliore di torce e alcuni volti bruni e sogghignanti, poi un pesante colpo sulla nuca lo gettò al suolo privo di sensi. CAPITOLO DICIANNOVESIMO IL CATACLISMA Il Leviatano, che rispondeva al nome di Ithalasa, percepì il bisogno di riposare di Aurian e le disse che l'avrebbe portata in una laguna riparata che si trovava più a sud, dove il suo popolo trovava spesso rifugio; durante il tragitto la Maga vide le alture a ridosso della riva farsi sempre più vicine al mare fino a formare una linea costiera costituita da alte pareti di roccia grigia chiazzata qua e là dal verde di qualche cespuglio che era riuscito a mettere radici in uno degli innumerevoli crepacci; a volte le alture curvavano verso l'interno a formare profonde insenature riparate, ma Ithalasa non si fermò in nessuna di esse e continuò a nuotare instancabile, comunicando al tempo stesso con le altre balene mediante un indecifrabile mormorio mentale che aleggiava al limitare massimo della mente di Aurian. Tormentata dal bagliore del sole sull'acqua azzurra e da una fame spaventosa, Aurian si sentiva dolorante, stanca e avvilita, perché per quanto ci provasse non riusciva ad allontanare il pensiero di Anvar dalla propria mente. Ogni volta che chiudeva gli occhi per cercare di dormire rivedeva davanti a sé il suo volto, improntato dalla stessa espressione infelice che aveva avuto quando avevano sostato insieme sulla spiaggia, e si sentiva indotta a chiedere a Ithalasa di riportarla indietro: subito dopo ricordava però quello che era successo fra loro due e Sara la notte precedente e si sentiva pervadere di nuovo dall'ira. E nei momenti in cui non pensava ad Anvar era assalita dal ricordo di Forral, che le causava un'angoscia ancora maggiore. Alla fine decise di confidarsi con Ithalasa e di chiedere consiglio a lui, perché non aveva idea sul da farsi e aveva il disperato bisogno di distrarsi dalla propria solitudine e dal senso di colpa che le derivava dall'aver abbandonato gli altri. Con suo sollievo il colosso si mostrò disposto ad ascoltarla e ammise addirittura di nutrire una certa curiosità riguardo alla causa della sua angoscia e al motivo che aveva indotto un membro del Popolo dei Maghi a spingersi tanto a sud.
La reazione di Ithalasa al suo racconto risultò stupefacente, in quanto lui si mostrò così agitato da prendere a sferzare ripetutamente il mare con la coda massiccia, generando fontane d'acqua che inzupparono completamente Aurian. «Il Calderone è stato ritrovato ed è finito in mani malvagie? Oh, che giorno di sventura!» esclamò mentalmente il Leviatano, esprimendo un'angoscia così intensa da soffocare quasi la sfera cosciente della Maga. «Sai del Calderone?» domandò Aurian, mantenendo con difficoltà l'equilibrio sul dorso scivoloso e sobbalzante del colosso... poi si disse che era una domanda stupida, perché era evidente che Ithalasa sapeva di cosa si trattava. «So cos'è» confermò il Leviatano, in tono grave. «Il mio popolo custodisce nella sua mente tutti i segreti perduti connessi al Cataclisma: questo è il nostro fardello e il nostro dolore, perché sarebbe meglio che quella parte del passato fosse sepolta e dimenticata.» Lui sapeva tutto... tutto! Per gli dèi, il Leviatano possedeva le risposte che lei stava cercando, ma al tempo stesso era possibile avvertire la sua riluttanza a parlare dell'argomento. «Mi dispiace crearti angoscia con la mia richiesta... ma potresti raccontarmi ciò che sai?» chiese ugualmente Aurian. «Se voglio avere qualche speranza di contrastare questa malvagità devo annullare la mia ignoranza, che pone un'arma letale nelle mani dei miei nemici, e comunque questa è una lotta che devo affrontare, perché ho giurato di schiacciare la malvagità dell'Arcimago o di morire nel tentativo.» «Come posso farlo, bambina?» ribatté Ithalasa, i cui pensieri erano adesso sfumati di profondo rincrescimento. «Comprendo il tuo bisogno di opporti a questo essere malvagio, ma tutte le razze del Popolo dei Maghi hanno giurato di non riportare mai più in vita questo pericoloso sapere per evitare un ripetersi del Cataclisma, quindi non ti posso dire nulla al riguardo. Vorresti forse che la distruzione del mondo gravasse sulla tua coscienza, e sulla mia?» «Possente e saggio signore» sospirò Aurian, «forse dal tuo punto di vista io posso apparire giovane e ignorante, ma ti garantisco che comprendo a fondo la spaventosa responsabilità che mi grava sulle spalle e sono consapevole della devastazione che potrebbe derivare da una guerra fra Maghi. Se però potessi impadronirmi delle altre tre armi perdute, di certo dovrei poter sconfiggere Miathan senza causare troppo danno. Ammetto di essere stata addestrata nell'arte della guerra, ma colui che mi ha istruita non ama-
va la violenza e la distruzione, era l'uomo migliore e più gentile che si potesse trovare, e il più grande fra i molti doni che mi ha elargito è stato quello di insegnarmi a rispettare tutti gli altri esseri, a qualsiasi razza appartenessero, e a detestare la morte e gli inutili spargimenti di sangue.» Seguì una lunga pausa di riflessione da parte del Leviatano, che mantenne però i propri pensieri nascosti alla Maga. Infine il colosso emise un possente sospiro accompagnato da una scintillante fontana d'acqua che zampillò dal suo sfiatatoio. «Piccola... supponiamo che tu riesca a trovare queste armi e che le impieghi per sconfiggere l'Arcimago, impadronendoti così anche della quarta. Dopo cosa faresti?» domandò. «Consegnerei le armi a te» rispose senza esitazione Aurian, «perché il tuo popolo sarebbe più adatto del mio a custodire oggetti tanto pericolosi. Lascerei a te di decidere se dovessero essere nascoste o distrutte, perché non cerco il potere ma soltanto l'adempimento del mio compito.» «Sei certa di ciò che dici?» insistette Ithalasa, con una sfumatura di stupore. «Lo giuro. Se vuoi puoi leggere nella mia mente, in modo da essere certo che io abbia detto la verità.» «Ti sottometteresti ad una cosa del genere?» esclamò il Leviatano, che ora appariva stupefatto perché un sondaggio del genere non veniva eseguito quasi mai: più profondo e intenso della Prova della Verità, si diceva che esso rivelasse le profondità dell'anima stessa di una persona... e offrisse quindi ad un esperto praticante la possibilità di manipolare il soggetto e di abusarne pericolosamente. Di conseguenza nel suggerire una cosa del genere Aurian aveva tacitamente espresso la propria assoluta fiducia nei confronti di Ithalasa. «Lo farei... e intendo farlo» ribatté lei, in tono deciso. «Benissimo, piccola. Accetto... e ne sono onorato.» Preparandosi a ciò che l'aspettava, Aurian aprì la propria mente al sondaggio di Ithalasa, che risultò essere ancora peggiore di quanto lei avesse immaginato... una devastante intrusione molto più profonda e intima di quanto avrebbe potuto esserlo qualsiasi violenza di tipo fisico. Il Leviatano vagliò ogni recesso della sua mente, rivoltando perfino i fondi limacciosi della sua anima fino a portare in superficie tutto ciò che era indegno o meschino, tutti i suoi peccati d'orgoglio, d'ira e di cocciutaggine che costituivano una parte integrante della sua natura. Tutte quelle cose che Aurian aveva negato o nascosto a se stessa furono smosse e sollevate come una
nube di fango che salisse dal fondo di un limpido ruscello, e quando infine quel sondaggio si concluse lei si ritrovò raggomitolata in un mucchietto tremante sul dorso nodoso del colosso. «Calmati, piccola» sussurrò il Leviatano, la cui voce mentale si sparse ora come un balsamo sulla consapevolezza devastata ed escoriata di Aurian, «pare che neppure gli dèi stessi abbiano mai raggiunto la perfezione. Certo non è piacevole essere messi a confronto con le proprie pecche, ma questo è il sentiero della vera saggezza... e ciò spiega perché siano così pochi coloro che l'hanno raggiunta. Quello che c'è di buono in te... una grande onestà, onore e coraggio, abbinati ad un cuore amorevole... è nettamente superiore ai difetti. Mantieni un giusto equilibrio fra questi due aspetti della tua natura, figlia, e tutto andrà per il meglio.» Figlia... il Leviatano l'aveva chiamata figlia! Di colpo l'infelicità di Aurian venne dissipata da un'ondata di orgoglio e di amore, poi lei tentò di ritrovare il controllo almeno quanto bastava per chiedere al colosso cosa avesse deciso di fare, ma Ithalasa le risparmiò quello sforzo. «Per quanto mi concerne hai la mia fiducia» le disse, «e ti sono profondamente debitore per aver salvato il mio bambino... ma questa non è una decisione che io possa prendere da solo. Ormai siamo vicini alla laguna, che si trova appena al di là di quell'alto promontorio che sporge verso l'oceano, e una volta al sicuro laggiù tu potrai mangiare e riposare. Mentre dormirai io mi consulterò con il mio popolo e perorerò la tua causa, perché questa è una decisione che deve essere presa da tutti noi e non da uno soltanto.» Aurian si sentì assalire dall'avvilimento. Dopo tutto quello che aveva passato... d'altro canto sapeva che Ithalasa aveva fatto tutto ciò che poteva e che sarebbe stato sbagliato pressarlo ulteriormente, quindi con uno sforzo enorme si costrinse comunque a ringraziarlo, e nel percepire il sorriso che aleggiava ora nei pensieri del Leviatano comprese che lui stava approvando i suo sforzi. «Vedi?» le disse infatti Ithalasa. «La tua saggezza sta già aumentando.» La laguna formava un cerchio quasi completo, chiuso sul lato dell'oceano da barriere coralline e lungo la terraferma da erte alture, e costituiva il rifugio più sicuro che fosse possibile trovare, in quanto nulla avrebbe potuto accedervi tranne che dal mare o dall'aria. Aurian raggiunse a nuoto la striscia di spiaggia sassosa che descriveva una mezzaluna lungo il limitare opposto della laguna, e Ithalasa sospinse alcuni pesci verso l'acqua bassa in modo che lei potesse catturarli... un aiuto di cui gli fu grata perché sapeva
che altrimenti non sarebbe mai riuscita a pescarne neppure uno. Mentre si accingeva ad accendere il fuoco il Leviatano infine si congedò, promettendo di tornare il più presto possibile. Spossata, la Maga resistette al sonno ancora il tempo necessario a mangiare un po' di pesce e a dissetarsi da un ruscelletto che colava lungo l'altura, poi si sdraiò per riposare, certa che i raggi intensi del sole avrebbero provveduto ad asciugarle gli abiti che aveva indosso. Questa volta il sonno giunse immediato, e con esso un sogno meraviglioso che riguardava il passato e l'antica alba del suo mondo. Il Popolo dei Maghi era numeroso e potente, e governava il mondo, controllando il clima e gli elementi, i mari e i raccolti nei campi, gli uccelli e le bestie e i Mortali che, essendo privi di magia ed essendo essi stessi poco più che animali, erano tenuti come servitori e come schiavi. Le terre e i mari erano abitati da quattro grandi razze di Maghi, ciascuna delle quali controllava uno dei quattro elementi su cui si fondava la magia. I Maghi Umani, o Incantatori, come essi stessi si facevano chiamare, dominavano l'elemento della terra, erano in grado di parlare con tutte le creature che vivevano su di essa, con gli alberi e con ogni forma di vegetazione; i più abili fra essi potevano addirittura comunicare con le rocce stesse delle montagne. Il loro compito era quello di mantenere fertile ogni cosa e di conservare il giusto equilibrio fra tutto ciò che viveva o cresceva sulla terra, in modo che tutti potessero prosperare e occupare il loro giusto posto nell'intreccio della vita. I Maghi Alati, che si facevano chiamare anche Popolo del Cielo, controllavano l'elemento dell'Aria, dimoravano nelle loro città appollaiate sulle più alte montagne ed erano responsabili degli uccelli e di ogni altra creatura volante; il loro potere sottometteva i venti portatori di nubi, ed era usato per mantenere fertile il mondo. La gestione del clima era affidata però non soltanto al Popolo del Cielo ma anche ai signori dell'elemento dell'Acqua... i Maghi della Razza dei Leviatani, da cui dipendevano le acque del mondo e le creature che vi abitavano. Essi controllavano i mari, i fiumi e i laghi, e anche le grandi calotte polari a nord e a sud del pianeta, da essi dominate mediante l'uso della Magia Fredda, prima che venisse volta al male. Ai Leviatani apparteneva anche il dono della pioggia, che veniva poi spinta dove era necessaria dai venti del Popolo del Cielo. A causa della loro dimora acquatica, i Leviatani non avevano una forma umana e avevano sviluppato dimensioni immense
perché potevano fare affidamento sull'acqua che sosteneva il loro peso. Essi erano affusolati ed eleganti, con grandi pinne ricurve che permettessero di dirigere il loro nuoto e una piatta coda orizzontale che forniva una notevole velocità, ma erano comunque creature a sangue caldo che respiravano aria e generavano piccoli viventi. Si diceva che i Leviatani fossero la più antica fra le razze che componevano il Popolo dei Maghi, quella originaria da cui poi erano derivate le altre... e di certo possedevano una saggezza incommensurabile e una profonda gioia di vivere. L'elemento del Fuoco era pertinenza del Popolo dei Draghi, che dimorava nelle vaste terre desertiche. I suoi membri avevano l'aspetto più imponente di tutti, perché erano creature sinuose dal collo e dalla coda molto lunghi, dotate di ali e coperte di scaglie che splendevano di un bagliore metallico. Gli occhi enormi, sporgenti e simili a gemme, permettevano loro di vedere tutt'intorno senza bisogno di voltare la testa. Alla nascita le loro scaglie erano di una pura tonalità argentea ed essi sceglievano durante l'infanzia il colore che avrebbero poi mantenuto per tutta la vita, e anche se alcuni optavano per l'azzurro, il verde o il nero, i più preferivano i colori propri dell'elemento del Fuoco, e cioè le tonalità dell'oro e del rosso. Il Popolo dei Draghi poteva generare due tipi di fuoco, perché da un lato poteva attingere alle energie immagazzinate al proprio interno per trasformarle in una lunga fiammata e dall'altro poteva produrre un fuoco assai più letale focalizzando l'energia attraverso la struttura cristallina dei propri occhi in modo da formare un raggio sottile e concentrato dalle sconvolgenti capacità distruttive. Anche i denti e gli artigli erano armi letali, ma servivano soltanto per la difesa, perché i Draghi non mangiavano carne e per nutrirsi allargavano invece le enormi ali trasparenti e dotate di un'intelaiatura ossea simile a quella di un pipistrello, assorbendo energia pura dal sole stesso come le piante fanno con le foglie. Quelle ali immense erano poco adatte al volo, ma un drago adulto era comunque in grado di usarle per librarsi per brevi tratti mentre i piccoli, essendo più leggeri, potevano svolazzare su distanze più lunghe. Nell'ambito della Magia del Fuoco propria del Popolo dei Draghi ricadeva anche la capacità di immagazzinare potere nelle gemme e nei cristalli formati all'interno della terra dal calore e dalla pressione, e così pure l'abilità di lavorare e di fondere i metalli. Tutte le forme di energia legate al fuoco ricadevano sotto il loro dominio e i Draghi erano capaci di creare le armi più letali e spaventose... un talento che però tenevano accuratamente segreto perché erano un popolo pacifico.
A causa della natura stessa dell'universo, ciascuna delle quattro magie legate agli elementi era controbilanciata da una magia negativa, ed era responsabilità del Popolo dei Maghi mantenere queste forme di magia negativa sotto controllo e, se possibile, strumentalizzarle per fini positivi. Nessuno di questi poteri negativi era dominio specifico di una singola razza di Maghi ma ognuna di esse era una responsabilità comune, in quanto tutte le forze negative erano selvagge, imprevedibili e potenzialmente molto distruttive. Il primo e più remoto di questi poteri negativi era la Magia Antica, che attingeva a forze elementari vecchie quanto il tempo che avevano permeato il caos dell'universo appena nato prima che i Guardiani vi inserissero i Maghi perché fornissero un ordine coerente. La Magia Antica era il potere di questi spiriti del passato... gli spiriti della roccia, o Moldan, che un tempo si aggiravano sulla terra in forme gigantesche; gli spiriti degli alberi, o Veridai, e le Naiadi che erano gli spiriti dell'acqua. Questi esseri erano da tempo stati sottomessi dai Padri del Popolo dei Maghi, e adesso erano intrappolati e impotenti, a meno che venissero deliberatamente richiamati nel mondo. Altre razze che si servivano a loro volta della Magia Antica erano di nascita più recente: i Tritoni, i Phaerie e i Dwelven, che vivevano in pace con gli antichi spiriti nelle acque profonde, nel cuore delle foreste primordiali e nel cavo delle colline, e che a loro piacimento potevano scegliere se dimorare nel mondo terreno o nell'Altrove abitato dagli spiriti elementari. Correva voce che questi esseri fossero il risultato di accoppiamenti dei primi Maghi con gli antichi spiriti, ma in ogni caso i Maghi avevano infine ritenuto opportuno imprigionarli nel misterioso Altrove della Magia Antica, in modo da proteggere le razze che in seguito avevano cominciato a popolare il mondo, perché essi avevano la nomea di essere ingannatori, falsi e pericolosi. Evocare uno qualsiasi di questi esseri elementari era una cosa pericolosa, perché se da un lato risultavano dotati di grandi poteri nel momento in cui venivano liberati nel mondo dopo il loro imprigionamento, d'altro canto era probabile che si rivoltassero contro chi li aveva evocati ritenendolo un nemico. Con sgomento dei Maghi, alcuni di essi erano però ancora liberi di girovagare per il mondo, intervenendo di tanto in tanto per dare alla marea della storia una nuova direzione... cosa peraltro giusta perché senza l'elemento del caso oltre che dell'equilibrio l'evoluzione dell'universo avrebbe finito per arrestarsi.
La seconda di quelle magie negative era di natura molto più sinistra e le sue origini erano ammantate nel mistero: si trattava della negromanzia, la Magia di Morte mediante la quale uno stregone poteva prosciugare la forza vitale di un altro essere. Come gli Spettri di Morte che si servivano di questa forma di magia per nutrirsi, un Mago malvagio poteva impiegare l'energia vitale di un'altra persona per alimentare il proprio potere, rendendolo temporaneamente più forte. Questo vampiresco annientamento della vita andava però contro la natura stessa dell'universo in maniera così evidente che ben pochi fra i Maghi ne conoscevano anche solo l'esistenza, e quei pochi custodivano il segreto con tutte le loro forze. C'era poi la Magia Fredda, cioè la magia dell'entropia che derivava il suo potere dalle gelide e nere distese senza vita dell'universo. Nelle mani di un Mago potente la Magia Fredda avrebbe potuto prosciugare il calore stesso del sole, immergendo il mondo nell'oscurità di un perenne inverno. L'ultima di quelle forze negative era la Magia Selvaggia, che governava le forze primordiali della natura... tempeste, uragani e tornadi, inondazioni e onde di marea, terremoti, eruzioni vulcaniche e fulmini. Si diceva che con il suo impiego un Mago avrebbe potuto far affiorare come una forza vivente l'anima stessa del mondo, ma quanto a sottometterla... questo era un problema del tutto diverso. Nel suo sogno, Aurian si vide esporre tutte queste nozioni sotto forma di un quadro storico che abbracciava intere generazioni, e infine vide come le quattro razze del Popolo dei Maghi avessero creato le Armi degli Elementi proprio come difesa contro quelle forme di magia negativa. La Razza dei Leviatani aveva modellato il Calderone della Vita, che avrebbe dovuto fungere da difesa proprio contro quegli atti di negromanzia per cui Miathan lo aveva invece usato; il Popolo del Cielo aveva creato l'Arpa dei Venti, destinata a dominare la Magia Selvaggia ma capace di evocarla se fosse caduta nelle mani sbagliate, perché nel loro orgoglio i Maghi avevano dimenticato un fatto fondamentale... e cioè che tutte le armi sono a doppio taglio. Aurian vide i Maghi da cui lei discendeva creare il Bastone della Terra per controllare la Magia Antica: davanti ai loro occhi inorriditi, esso si rivoltò contro i suoi creatori e liberò nel mondo una creatura elementare... un Moldan che aprì fra le terre del nord e quelle del sud uno squarcio subito colmato dal mare... inducendo infine i Maghi a rendersi conto dell'errore commesso. Il potente Popolo dei Draghi, signore di tutte le armi, accantonò allora il suo compito protettivo per forgiare un'arma contro la Magia Fredda, con il
risultato di creare invece un'arma superiore a qualsiasi altra... la Spada di Fuoco, i cui poteri erano molteplici e trascendevano quelli delle altre tre armi. Ultimata la loro opera, i Draghi ritennero però che la Spada fosse troppo pericolosa per correre il rischio che potesse cadere nelle mani sbagliate, e al tempo stesso uno dei loro veggenti predisse che un giorno, in un futuro tanto lontano da essere inimmaginabile, quell'arma sarebbe stata necessaria per salvare il mondo dal male. Sotto la sua guida i Draghi modellarono quindi la Spada in modo che potesse essere impugnata soltanto dall'Uno destinato a usarla: essendo permeata di una sua misteriosa intelligenza, la lama venne dotata della capacità di saper riconoscere la mano autorizzata ad impugnarla, ma al fine di ridurre ulteriormente i rischi venne poi imprigionata in un grande cristallo indistruttibile: per ottenere la Spada. l'Uno avrebbe dovuto trovarla e liberarla dal cristallo. Portata a termine la sua opera, il Popolo dei Draghi nascose quindi la Spada dove sarebbe stato impossibile trovarla, e i pochi che erano a conoscenza della sua dislocazione si tolsero la vita, con il risultato che della Spada di Fuoco si perse ogni traccia. Aurian si svegliò con il sogno ancora nitido nella mente in ogni dettaglio, e vide la luce dell'alba fluttuare sulle acque argentee della laguna; rabbrividendo per l'aria fresca del primo mattino, stiracchiò gli arti indolenziti dal contatto con le rocce su cui aveva dormito e rivolse i propri poteri all'interno del suo corpo per esaminare la minuscola scintilla di vita che era il figlio suo e di Forral Ah, Forral... era dunque destinata per tutto il resto della sua vita a svegliarsi ogni giorno con la cupa consapevolezza che lui non c'era più? Il bambino... il loro bambino... sembrava serenamente addormentato, al sicuro dentro di lei, ed Aurian pregò che continuasse a stare bene. Poi vide la mole di Ithalasa affiorare in superficie nella laguna e ogni altro pensiero le fuggì dalla mente. «Stai bene, padre?» domandò, cercando di impedire all'urgenza di permeare la sua voce mentale. «Cos'ha detto il tuo popolo?» La risatina di Ithalasa le echeggiò nitida nella mente. «Sciocca bambina... rifletti! Sai già quale sia stata la sua risposta!» «Davvero?» replicò Aurian, sconcertata e con la mente ancora appannata dal sonno. «Certamente» rise ancora Ithalasa. «Ti è già stato detto metà di quello che desideravi sapere.» «Il mio sogno! Ma certo!» esclamò Aurian, e sulla scia dell'entusiasmo
attraversò di corsa la spiaggia per poi tuffarsi nell'acqua fresca e raggiungere a nuoto la testa massiccia del Leviatano, desiderando che non fosse troppo grosso per poter essere abbracciato. «Abbiamo pensato che fosse il modo migliore e più rapido» commentò il Leviatano, fissandola con un bagliore divertito nel suo grande occhio scintillante. «Oh, grazie» mormorò Aurian. «Ti sono grata con tutto il mio cuore.» «Non è stata una decisione facile» sospirò Ithalasa. «ma preghiamo che sia stata quella giusta. Ti imploro, figlia... se mai riuscirai nel tuo compito, non dimenticare il giuramento che hai pronunciato, perché non abbiamo nessun desiderio di creare un tiranno con il nostro operato di oggi.» Aurian si fece immediatamente seria. Adesso che aveva visto con i suoi occhi la portata dei poteri con cui avrebbe presumibilmente avuto a che fare comprendeva fin troppo bene la portata della fiducia che i Leviatani avevano dimostrato nei suoi confronti; agitando una mano per restare a galla protese l'altra a toccare la testa nodosa di Ithalasa. «Capisco, padre» replicò, «e giuro che non vi verrò meno.» Ancora una volta il colosso l'aiutò a catturare qualche pesce per la colazione, perché Aurian aveva dormito per mezza giornata e per tutta la notte e adesso era famelica, anche a causa della reazione del suo corpo alle esigenze della vita che stava crescendo dentro di lei. Mentre mangiava, riprese a parlare con il Leviatano. «Padre, sono confusa» affermò. «Non ho mai saputo che esistessero quattro razze di Maghi e all'Accademia mi è stato insegnato che esistevamo soltanto noi, tanto che ci siamo sempre definiti il Popolo dei Maghi e non gli Incantatori, come voi avete invece detto che eravamo soliti chiamarci. Che ne è stato delle altre razze? E perché ignoravamo la vostra esistenza? Che fine hanno fatto le armi?» «Ah. Questa è una storia del tutto diversa, al cui interno le risposte a tutte le tue domande sono legate inestricabilmente le une alle altre. Si tratta della tragica storia del Cataclisma, che con mio dolore sono stato incaricato di narrarti.» Aurian era però turbata da rimorsi di coscienza. Da quando aveva avuto modo di vedere le proprie pecche tramite il sondaggio effettuato da Ithalasa, la sua ira nei confronti di Anvar si era raffreddata e si era trasformata in un soffocante senso di colpa, perché adesso era consapevole di averlo ferito con la sua arroganza e di averlo giudicato senza neppure sapere quale fosse la verità del rapporto che lui aveva con Sara, che era stato la causa
scatenante delle loro violenta lite. In effetti la colpa dell'accaduto andava ripartita fra tutti e due... ma quante volte Forral le aveva ripetuto di non abbandonare mai i suoi compagni, qualsiasi cosa potesse succedere? Ripensare al suo comportamento destava in lei una vergogna profonda, e inoltre era tormentata da una vocina interiore, da un istinto imprecisato che la incitava ad andare immediatamente a cercarli perché non c'era altra linea d'azione possibile: per quanto le seccasse, sapeva che sarebbe dovuta tornare da loro perché quei due idioti non se la sarebbero mai cavata da soli e lei aveva promesso a Vannor che avrebbe avuto cura della sua miserabile, infedele moglie. «Saggio padre, prima che tu mi narri questa storia io devo trovare i miei compagni» disse quindi. «Non avrei mai dovuto lasciarli soli e temo che possano essere in difficoltà.» «Ah, piccola, non ho forse affermato che stavi imparando ad essere saggia?» sospirò Ithalasa. «Adesso però temo che tu debba imparare anche un'altra cosa... e cioè a scegliere fra un bene minore ed uno maggiore. Non oso infatti rimandare a narrarti il resto della storia perché anche se il mio parere è stato sufficiente a convincere il mio popolo esso nutre ancora molti dubbi e potrebbe cambiare idea in qualsiasi momento. Se uno soltanto dei suo membri dovesse fare una cosa del genere a me sarebbe vietato di rivelarti altro, ed è per questo che dobbiamo agire in fretta. La storia del Cataclisma è lunga, richiederà tutto il giorno e mettersi in viaggio di notte non sarebbe di nessuna utilità, senza contare che tu sei ancora stanca e che il bambino che porti dentro di te richiede che tu riposi dopo una così intensa comunicazione mentale. Se desideri sentire la storia, dovremo aspettare domani per andare alla ricerca dei tuoi amici.» Aurian si morse un labbro, intrappolata fra le esigenze della propria coscienza e la necessità di apprendere il resto della storia, da cui poteva anche dipendere il futuro del mondo. Cercò di dirsi che di certo Anvar e Sara non avrebbero corso rischi, dal momento che Ithalasa li aveva depositati a terra in un punto sicuro, ma la voce interiore non si lasciò zittire e ribatté che lei si stava sbagliando. Esasperata, Aurian scosse il capo, lottando con se stessa, e alla fine prese una decisione: doveva ascoltare il racconto di Ithalasa... era troppo importante per rischiare di perderlo. Quando avesse appreso ciò che le serviva avrebbe potuto tornare da Anvar e da Sara. Si rivolse quindi a Ithalasa, che si era avvicinato il più possibile alla riva ed era rimasto in attesa, silenzioso e distaccato, finché lei non aveva risolto il proprio dilemma interiore.
«Benissimo» gli disse. «Rimarrò qui ad ascoltare il tuo racconto.» «Credo che tu abbia scelto bene, perché le mie parole ti restituiranno quel sapere che la tua gente ha perso molto tempo fa. Usale bene, figlia» replicò Ithalasa, poi i suoi pensieri le invasero la mente, riempiendola di parole e di visioni che dipanarono davanti ai suoi occhi i terrori e le tragedie di un tempo remoto. Nei giorni dorati del lontano passato tutto era pace ed armonia, e le quattro razze del Popolo dei Maghi lavoravano insieme al loro grande compito per mantenere il mondo sereno, prospero e bello; come sempre, però, il caso si aggirava come un lupo al di fuori dei cancelli dell'equilibrio, in attesa di poter sospingere il Destino lungo una nuova rotta. Stelle malvagie accompagnarono la nascita di Incondor e di Chiannala. Incondor apparteneva al Popolo del Cielo ed era avvenente, muscoloso e agile, con grandi ali le cui piume avevano l'iridescente tonalità nera di quelle di un corvo reale. Per quanto giovane era un potente mago e mostrava tutte le qualità per diventare ancora più grande e potente... ma venne stroncato dalla sua stessa arroganza. In seguito ad una stupida scommessa da ubriachi fatta con i suoi sventati amici, Incondor rubò infatti l'Arpa dei Venti per evocare la proibita Magia Selvaggia e creare un vortice che lo portasse in alto nei cieli, più in alto di dove fosse mai giunto qualsiasi membro del suo popolo. Il vortice alimentato dal potere imprevedibile della Magia Selvaggia si rivelò però superiore alla sua capacità di controllarlo e la sua violenza gli lacerò e fracassò le ali in maniera irreparabile prima di scagliarlo al suolo in un groviglio di arti spezzati, procedendo poi a seminare morte e distruzione finché alcuni saggi del Popolo del Cielo non riuscirono a riportarlo sotto controllo. Quanto a Incondor, la sua gente ritenne che fosse già stato punito a sufficienza, perché adesso il cielo gli sarebbe stato negato in eterno e senza la libertà dell'aria la vita dei membri del Popolo dei Cielo perdeva ogni significato. Vincolato a terra, storpio e coperto di vergogna, Incondor venne esiliato dalle terre del suo popolo e mandato a Nexis, la più grande città degli Incantatori, nella speranza che laggiù potesse trarre beneficio dalle arti di guarigione in cui gli Incantatori eccellevano e apprendere infine la saggezza. In effetti gli Incantatori riuscirono almeno in parte a risanare il suo corpo, anche se esso rimase deforme e le ali non poterono essere recuperate, ma prima di poter imparare la saggezza Incondor incontrò Chiannala. e il caso ebbe la meglio sull'equilibrio.
Chiannala era la figlia di un Incantatore e della sua serva Mortale, un genere di accoppiamento che era possibile a causa della somiglianza fisica fra le due razze ma che si verificava di rado perché destinato a finire presto a causa della brevità della vita dei Mortali. Inoltre, essendo tutti i Maghi per natura molto orgogliosi, gli Incantatori guardavano ai Mortali come a creature inferiori e primitive, impotenti in un mondo in cui la magia era tutto. Non tutti gli Incantatori condividevano però questo modo di pensare e a volte capitava che si verificassero unioni miste, la cui progenie poteva risultare o meno Mortale a seconda del capriccio del caso. Chiannala aveva ereditato le caratteristiche paterne e già in età infantile aveva rifiutato completamente la propria madre, dedicandosi in maniera ossessiva allo studio della magia e allo sviluppo dei propri poteri nel tentativo di sradicare la macchia costituita dalle proprie ascendenze Mortali. Quando però aveva dimostrato di eccellere nei propri studi al punto da risultare la candidata più ovvia alla carica di Capo Incantatore, si era vista rifiutare la nomina a causa del proprio sangue impuro. Fu in questo stato d'animo amareggiato e furente che lei incontrò per caso Incondor a Nexis, trovando in lui una mente affine e gettando così i semi del futuro disastro, perché per vendicarsi dei Maghi che li avevano scacciati entrambi i due complottarono per impadronirsi del potere e dominare il mondo. Volgendo i suoi poteri di guaritrice a fini distruttivi, Chiannala generò una pestilenza che si abbatté fra gli Incantatori come una falce, uccidendone molti e gettando nel caos la loro società mentre essi cercavano disperatamente una cura per quel male. In mezzo a quella confusione si scoprì poi improvvisamente che il Bastone della Terra era scomparso, senza che nessuno avesse la minima idea di dove fosse finito. Nel frattempo, Incondor provvide a scatenare la Magia Selvaggia contro i nidi montani del Popolo dei Cielo, riversando su di essi uragani e bufere che ridussero all'impotenza i Maghi Alati, costringendoli a restare trincerati nelle loro città, incapaci di liberarsi dai suoi incantesimi. Mentre i Maghi di quelle due razze erano impegnati a lottare contro queste minacce, i due malvagi rinnegali colpirono il Popolo dei Draghi con la Magia Fredda, annientando quasi la loro razza che per sopravvivere aveva bisogno dell'energia del sole. Infine i pochi superstiti, logorati al di là di ogni limite dalla debolezza, dall'angoscia e dalle sofferenze, rivelarono i letali segreti della Magia del Fuoco, compreso il modo in cui approntare armi esplosive e come immagazzinare il potere nei cristalli. Ormai il mondo era tutto in tumulto, il suo equilibrio era compromesso
in maniera irrevocabile. Negli oceani i gentili Leviatani si riscossero troppo tardi dalle loro meditazioni, scoprendosi assediati dalla Magia del Fuoco: violente esplosioni devastarono le profondità marine, massacrandoli senza pietà, poi i superstiti si trovarono assediati da eserciti di Tritoni, evocati da Chiannala mediante la Magia Antica. Pacifici fin nel nucleo più profondo del loro essere, i Leviatani non furono in grado di contrattaccare e scelsero invece di ritirarsi, diminuendo costantemente di numero. E durante questa ritirata il Calderone della Vita, la loro creazione la cui difesa era il loro incarico primario, venne rubato dai Tritoni che lo consegnarono nelle mani di Incondor e di Chiannala. Volgendo il Calderone ad usi malvagi, essi evocarono gli Spettri di Morte... spettrali vampiri che risucchiavano la forza vitale delle anime viventi, e scatenarono questo potere negromantico contro gli assediati Maghi Alati. Disperato, il Popolo del Cielo radunò ogni suo membro, anche il bambino più piccolo, e unì le menti in un ultimo disperato tentativo... una singola, coordinata scarica di potere diretta contro la coppia malvagia. Incondor e Chiannala erano però preparati ad una reazione del genere e servendosi della magia del Popolo dei Draghi avevano costruito un grande cristallo per assorbire la magia del Popolo Alato e intrappolarla, rendendo così la loro razza impotente per sempre. Ormai i Maghi versavano in condizioni disperate, ridotti drasticamente di numero e con le loro armi nelle mani del nemico. L'ultima speranza dell'universo è però sempre che il male si rivolti contro se stesso: ora che la meta era in vista, Incondor e Chiannala cominciarono a litigare fra loro per decidere chi avrebbe dovuto comandare sull'altro. Servendosi del Calderone, Chiannala prosciugò le energie vitali di vasti eserciti di schiavi Mortali per alimentare il suo potere mentre Incondor utilizzò il grande cristallo che conteneva la magia del Popolo del Cielo per aumentare il proprio potere. Dal momento che ormai tutte e quattro le forme di magia erano nelle mani di quei due malvagi, il mondo venne devastato dal fuoco e dal ghiaccio, da inondazioni e tempeste, da terremoti e fulmini mentre essi lottavano uno contro l'altra. Possenti eserciti di creature elementari furono scatenati uno contro l'altro, portando alla loro distruzione reciproca e all'annientamento di qualsiasi essere vivente che si trovasse nelle vicinanze. Infine, com'era inevitabile, Chiannala e Incondor si distrussero a vicenda e l'universo tornò a respirare. I pochi superstiti emersero dalle rovine e si trovarono di fronte ad un mondo mutato e devastato. In preda alla disperazione, i Leviatani si erano salvati generando una
razza di piccoli e feroci guerrieri... le Orche... in modo che ponessero fine alla minaccia costituita dai Tritoni e riportassero la pace nei mari. Per quanto spaventose e temibili, le Orche avevano però il cuore gentile proprio di tutti i Leviatani e aborrivano uccidere, per cui il sangue versato divenne un peso intollerabile che gravava sulla loro coscienza. Quando ebbero ultimato il loro compito, venne quindi concesso loro, come atto di misericordia, di poter dormire di un sonno eterno nascoste in una profonda caverna sottomarina, pronte ad essere richiamate in vita se si fosse verificata una nuova emergenza. Fatto questo, il Popolo dei Leviatani decise di non avere più contatti di sorta con gli aggressivi e distruttivi popoli della terraferma e si isolò lontano da ogni contatto con il mondo esterno, tornando al gioco e alle meditazioni... e ben presto i popoli del devastato mondo delle terre emerse dimenticarono che essi fossero qualcosa di più e di diverso da semplici animali. Per espiare alla colpa di aver rivelato i segreti della Magia del Fuoco, con il risultato di scatenare una simile devastazione, i pochi membri superstiti del Popolo dei Draghi si isolarono a loro volta da tutto, ritirandosi nel deserto e giurando di abbandonare per sempre la magia. Per quanto desiderassero evitare ogni contatto con gli altri popoli, essi vennero però disturbati di frequente da guerrieri dotati più di coraggio che di buon senso, con il risultato che con il passare del tempo molti di essi infransero il loro voto e si servirono del potere della Magia del Fuoco per trasferirsi su altri mondi, qualche volta portando con sé un Mortale puro di cuore e di indole gentile per saziare il loro desidero di contatti con il mondo esterno. Privati dei loro poteri, i superstiti del Popolo del Cielo consegnarono l'Arpa dei Venti ad una Guardiana che dimorava al di là del mondo... la Cailleach, o Signora delle Nebbie, che viveva fuori del tempo sulle rive del Lago Eterno. Ridotti di numero e privi delle loro arti magiche, essi furono quindi per forza costretti a sviluppare le loro doti di guerrieri, tenendosi isolati nel loro territorio ma difendendolo con incessante ferocia contro qualsiasi intruso per nascondere la vergogna della loro degradazione, e ben presto il mondo esterno imparò a disinteressarsi di loro. E gli Incantatori? La loro storia andò in modo diverso. Allo scoppio della pestilenza il Capo Incantatore si preparò al peggio e convocò suo figlio Avithan, che era famoso per la sua saggezza, incaricandolo di scegliere sei compagni dotati di talenti speciali... tre uomini e tre donne che mandassero avanti la razza nel caso che tutti gli altri fossero periti. Avithan scelse Iriana, la cui specialità erano le bestie della terra; Thara, che amava la terra in
se stessa e i suoi frutti; Melisanda, le cui arti di guaritrice la rendevano riluttante ad abbandonare il suo popolo nel momento del bisogno. Con loro andarono anche tre uomini... Chathak, che amava i Draghi e conosceva la loro magia; Yinze, amico del Popolo del Cielo; e Ionor il Saggio, ambasciatore presso la razza dei Leviatani. Avithan si recò quindi dalla Cailleach e la implorò di portare i Sei fuori del tempo per cento anni, cosa a cui lei accondiscese a patto che Avithan scegliesse di uscire dal tempo per sempre per diventare il suo compagno, perché il Lago Eterno era un luogo solitario e Avithan era un bel giovane, buono e saggio. Lui acconsentì e così abbandonò il mondo terreno per poi riemergere nella leggenda come Avithan, il Padre degli dèi. Trascorse un secolo, e al loro ritorno i Sei scoprirono che il mondo era tanto cambiato da non essere riconoscibile. Le altre razze di Maghi si erano ritirate in un autoimposto esilio e la razza degli Incantatori era stata spazzata via dalla pestilenza e dal Cataclisma che ad essa era seguito. Adesso quel che restava del mondo era dominato dalle razze inferiori dei Mortali, che si stavano riproducendo come ratti in mezzo alle rovine. Accantonando l'orrore e il dolore, i Sei si misero coraggiosamente all'opera per risanare il mondo. Iriana e Thara operarono per ridare fertilità alle bestie e alla terra, in modo da rendere di nuovo verde e ospitale il pianeta. Melisanda intanto provvide a risanare i Mortali e gli animali affetti da molteplici malattie, e i tre uomini presero a viaggiare in lungo e in largo, raccogliendo tutte le cognizioni ancora esistenti in merito alle discipline del Fuoco, dell'Aria e dell'Acqua, perché adesso tutti e quattro i poteri avrebbero dovuto risiedere nelle mani degli Incantatori, che da quel momento assunsero il titolo di Popolo dei Maghi. I sei procedettero quindi a ricreare la loro razza... un compito piacevole che doveva però essere intrapreso con attenzione e seguendo una pianificazione precisa... e come prevenzione contro futuri abusi dei loro poteri formularono il Codice dei Maghi, trasmettendolo ai loro discendenti come una legge incontrovertibile che ogni Mago doveva giurare di rispettare a costo della propria anima. Accettando l'inevitabile... e cioè che l'era della libertà era infine giunta per i disprezzati Mortali... essi procedettero quindi a insegnare loro tutto il possibile, in modo che la loro razza potesse crescere in saggezza e responsabilità. I Sei faticarono per migliaia di anni e infine, troppo stanchi per fare altro, abbandonarono insieme la vita terrena per rimanere nella leggenda
come dèi e dee... Iriana delle Bestie, Thara dei Campi, Melisanda dalle Mani Risananti. Chathak Dio del Fuoco, Yinze Dio del Cielo e Ionor il Saggio... che presso le razze meridionali divenne noto come il Mietitore di Anime a causa della sua parziale conoscenza del sapere dei Leviatani, che avevano creato il Calderone a cui era attribuito il potere di poter controllare la rinascita delle anime. Avithan divenne noto come il Padre degli dèi, e la Cailleach come la loro Madre. Ma che ne era stato dei quattro grandi Manufatti del Potere? La Spada era nascosta, in attesa dell'Uno per cui era stata forgiata, e l'Arpa era stata mandata al di là del tempo. Il Bastone della Terra era andato perduto, e si riteneva che il Calderone fosse andato distrutto nel corso del Cataclisma. Nessuno aveva mai pensato che un suo frammento potesse essere sopravvissuto, per scagliare di nuovo in secoli futuri il caso a disperdere l'equilibrio. Aurian emerse dalla narrazione di Ithalasa sentendosi stordita da ciò che aveva udito e visto: la storia del suo popolo era stata sciorinata davanti ai suoi occhi come un libro aperto, ma nonostante questo la sua meta sembrava più irraggiungibile che mai perché Miathan possedeva una delle quattro armi, altre due sembravano ormai irraggiungibili e la quarta, il Bastone della Terra, era dispersa da secoli. Soltanto la presenza del Leviatano la trattenne dal mettersi a imprecare furiosamente, inducendola invece ad accontentarsi di un sospiro sconsolato. «A quanto pare, padre, non c'era bisogno che ti preoccupassi di quello che avrei potuto fare con le armi, considerato che non vedo come possa sperare di trovarle tutte. Dovrò affrontare l'Arcimago senza di esse... ma soltanto gli dèi sanno come potrò fare.» «Non disperare, piccola» la confortò Ithalasa. «Adesso conosci meglio del tuo nemico la natura del mondo e i poteri e i popoli che lo abitano. Può darsi che tu trovi alleati inattesi, e comunque adesso che sai quale sia stata la sorte delle armi è possibile che alla fine siano esse a venire a te.» Non ci scommetterei proprio, pensò con irritazione Aurian, ma badò a schermare quel pensiero da Ithalasa perché lui aveva fatto del suo meglio e meritava la sua gratitudine, che le parole successive del colosso accentuarono ulteriormente. «C'è ancora una cosa che posso fare per aiutarti, figlia. Io e il mio popolo non possiamo combattere per te perché una cosa del genere esula dalla nostra natura, ma ora t'insegnerò un antico incantesimo... quello che può
risvegliare le Orche dal loro sonno. Per pietà verso le loro sofferenze, ti imploro però di usarlo soltanto in condizioni di estremo bisogno... anche se so che la mia supplica è superflua.» I suoi pensieri si riversarono quindi su di lei, colmi di affetto e di approvazione, e misto ad essi l'incantesimo le penetrò nella mente... il richiamo che poteva risvegliare dal sonno i guerrieri della razza dei Leviatani. «Ithalasa, come potrò mai ringraziarti?» esclamò Aurian, sopraffatta dalla gratitudine. «Impedisci un altro Cataclisma, figlia. Se puoi, riporta la pace nel mondo.» La notte era ormai prossima, e Aurian si sentiva di nuovo affamata e molto stanca, quindi il Leviatano insistette perché si nutrisse e si concedesse un po' di sonno prima di tornare dai suoi compagni. L'indomani mattina si rimisero poi in cammino mentre la Maga, appollaiata come sempre sull'ampio dorso del suo grande amico, cercava di tenere a freno la propria ansia e la propria impazienza; quando però raggiunsero la spiaggia cinta da alberi dove avevano lasciato Anvar e Sara, non vi trovarono più nessuno. CAPITOLO VENTESIMO LO SCHIAVISTA Dal modo familiare in cui il pavimento dondolava e oscillava sotto di lui Anvar si rese conto di essere di nuovo a bordo di una nave: subito dopo scoprì di essere legato con una ruvida corda e di avere la testa dolorante che pulsava all'unisono con un vago rumore echeggiante e soffocato che gli rimbombava monotono negli orecchi. Per un momento ancora rimase immobile, non osando aprire gli occhi e con la guancia appoggiata alle assi umide e scheggiate; intorno a lui regnava un caldo soffocante pervaso da un odore di pece e dal puzzo di corpi non lavati, di vomito e di escrementi, e oltre al suono ritmato che gli echeggiava dolorosamente nel cranio poteva sentire anche un tintinnare di catene e un occasionale schiocco di frusta seguito da un grido di dolore. Infine aprì gli occhi e vide di essere sdraiato in uno spazio lungo e stretto rischiarato da torce che pareva occupare la maggior parte del frapponte di una nave. Schiavi incatenati in file di quattro sedevano sulle panche disposte sui due lati di una stretta navata, e ciascun gruppo di quattro impugnava un lungo e pesante remo mentre la figura massiccia e minacciosa di un sorvegliante si spostava di continuo su e giù per la navata brandendo
una frusta, e all'estremità opposta un gigante calvo dalla pelle simile a cuoio scuro picchiava su un grosso tamburo per dare il ritmo ai vogatori. Anvar, che era stato gettato nello spazio ristretto che rimaneva libero a prua, dove non c'era posto per i vogatori, si guardò rapidamente intorno alla ricerca di Sara, e quando si accorse che lei non c'era sentì lo stomaco che gli si contraeva per il timore. Poi qualcuno scese la scaletta attaccata alla parete di legno alle spalle del colosso che suonava il tamburo, e nel notare il portamento improvvisamente più eretto dei sorvegliante, l'accelerarsi del ritmo del tamburo e la ricchezza degli abiti del nuovo venuto, Anvar decise che doveva trattarsi del capitano. Questi era un uomo alto dall'aspetto emaciato, con il naso aquilino e una barba lunga e rada; la testa era del tutto rasata con l'eccezione di una coda intrecciata sulla nuca e la sua pelle splendeva come legno lucido alla tenue luce delle torce. «Accelera il ritmo, tu!» ingiunse l'uomo al suonatore di tamburo, con voce profonda e gutturale. «Fa' muovere questi pelandroni, se non vuoi ritrovarti in mezzo a loro!» Anvar rimase sconvolto nel rendersi conto che aveva capito ogni parola, anche se l'uomo si stava esprimendo in una lingua a lui sconosciuta. La capacità di comprendere e di parlare qualsiasi lingua era comune a tatti i Maghi... nel formulare quel pensiero sentì una fitta di avvertimento trapassargli il cranio e dovette serrare i denti per impedirsi di gemere. Per distogliere la mente da quelle pericolose riflessioni si concentrò quindi sulle parole del capitano. «E provvedete a pulire questo porcile! Come potete sopportare tanto fetore? Non intendo permettere che si entri in porto puzzando come una nave per il trasporto del bestiame. Noi siamo Corsari Reali e abbiamo una reputazione da mantenere!» «È già abbastanza sgradevole dover vivere a contatto con questi animali» gemette il sovrintendente, in tono di protesta. «Perché dovrei anche ripulire la loro sporcizia?» Il crepitio del pugno del capitano quando esso si abbatté sul mento del suo sottoposto echeggiò nello spazio ristretto del frapponte. Il sorvegliante barcollò e cadde al suolo, perdendo la presa sulla frusta e andando a sbattere con la testa contro il bordo di una delle panche, in mezzo al mormorio di approvazione degli schiavi. «Perché se li lasci immersi nella loro sporcizia si ammaleranno e moriranno, stupido figlio di un somaro» ribatté in tono seccato il capitano. «Già
così si logorano fin troppo presto, e se dovrò rinunciare a parte dei nostri profitti per comprare altri schiavi da mettere ai remi mi rivarrò sul premio che spetta a te.» «Questo non è giusto» stridette il sorvegliante. «Consideralo un favore. Se scoprisse di averci rimesso dei soldi a causa della tua negligenza l'equipaggio ti taglierebbe la gola» ritorse il capitano, con un sogghigno pieno di cattiveria. «Datti da fare, Harag. E tu, Abuz, riprendi quel dannato ritmo. Questa notte voglio rientrare in tempo per parlare con il mezzano del Khisu, perché credo che sarà molto interessato a comprare quella ragazza dai capelli chiari per la collezione di Sua Maestà. Quanto all'uomo, ci frutterà un buon prezzo sul mercato, perché finché il Khisu sarà impegnato nella costruzione del suo palazzo d'estate il prezzo degli schiavi rimarrà elevato. L'addetto agli schiavi riuscirà a trovare del lavoro anche per un nordico illegale, e il suo oro ci riempirà le tasche. Pensa a questo mentre lavori, potrebbe aiutarti ad essere più rapido e diligente.» E se ne andò fischiettando. Essendo stato inzuppato da parecchie secchiate di acqua di mare durante l'approssimativa operazione di pulizia svolta da Harag nel frapponte, Anvar non poté più fare finta di essere privo di sensi e quando prese a tossire e a sputare a causa dell'acqua Harag lo afferrò per i capelli, tirandogli indietro la testa ed emettendo un lungo fischio di stupore. «Abuz, dovresti vedere quest'uomo! È vero... i nordici hanno gli occhi del colore del cielo. Io dico che è innaturale» continuò, rabbrividendo e lasciando andare la testa di Anvar. «Sono contento che il capitano abbia deciso di venderlo... occhi del genere portano di certo sfortuna.» «So cosa intendi dire» replicò Abuz, senza rallentare il rapido ritmo del suo tamburo. «Quando ero giovane ne ho visto uno... una spia prigioniera che stava per essere giustiziata. Quando gli hanno tagliato la testa quegli occhi pallidi hanno continuato a fissarmi e mi hanno provocato incubi per molto tempo. Sono convinto che i nordici portino sfortuna e penso sia un bene che siamo ormai vicini a casa.» «Dobbiamo dargli da mangiare?» si chiese intanto Harag. «Il capitano ci scuoierà vivi se arriverà a terra in questo stato miserando.» «No. Servirebbe soltanto a farlo stare male e poi dovresti pulire di nuovo. Gli daranno da mangiare nel recinto degli schiavi... a loro spese!» Anvar chiuse gli occhi, sentendosi assalire da un'infelicità inesprimibile. Uno schiavo! Oh, dèi, no! E che ne sarebbe stato della povera Sara? Im-
precando interiormente prese a lottare contro i legami fino a quando venne interrotto da un calcio violento da parte di Harag che lo fece piegare su se stesso e vomitare bile sul pavimento di legno. «Immondo porco! Avevo appena pulito!» inveì Harag, furente, poi sollevò la frusta e Anvar si ritrasse, aspettandosi il colpo imminente. «Smettila, Harag!» tuonò Abuz. «Non voglio perdere il mio premio a causa del tuo caratteraccio!» «Bada agli affari tuoi, stupido bue!» esclamò Harag, girandosi verso il colosso con il volto livido e la frusta ancora alzata. Abuz posò le massicce bacchette sul tamburo e si alzò in piedi, incurvandosi in avanti a causa del soffitto troppo basso per la sua mole. Immediatamente gli schiavi smisero di remare, con il sollievo dipinto sul volto sudato e sofferente. «Devo venire laggiù a vedermela con te, Harag?» domandò intanto Abuz. «Stai cominciando a farmi irritare, e sai cosa succede quando io mi irrito.» Il volto bruno di Harag impallidì vistosamente e lui abbassò a poco a poco la frusta. «Nel nome del Mietitore, cosa sta succedendo là sotto?» tuonò la voce rabbiosa del capitano attraverso il portello aperto. «Perché ci siamo fermati?» «Mi dispiace capitano» sussultò Abuz. «Abbiamo solo avuto qualche problema con il nuovo schiavo.» Senza attendere una risposta si rimise a sedere e riprese le bacchette, scandendo un ritmo veloce mentre Harag sfogava il proprio malumore sugli ansimanti schiavi e camminava avanti e indietro per la navata sferzandoli per indurli a raddoppiare i loro sforzi. Nel suo angolo, Anvar si raggomitolò intorno allo stomaco dolorante e si abbandonò alla più assoluta infelicità. Fu svegliato bruscamente da una cascata di acqua fredda che lavò via la polla di vomito su cui si era accasciato, e un momento più tardi gli giunse all'orecchio la voce irosa del capitano. «Credevo di averti detto di ripulire questo posto!» esclamò questi, poi si udì il rumore nauseante di un pugno che colpiva la carne. «L'ho fatto!» gemette Harag, «ma quel miserabile cane ha vomitato di nuovo.» «Non importa. Datti da fare e basta.» Un sacco puzzolente venne infilato sulla testa di Anvar, poi lui si sentì
afferrare da mani rudi che lo issarono attraverso il portello; una volta all'esterno il suo udito fu assalito da un baccano che suppose provenire dai moli, e al tempo stesso il calore del sole si abbatté su di lui con la violenza di un colpo fisico mentre veniva trasportato lungo una passerella sobbalzante e spinto in avanti con tanta forza da togliergli il fiato. All'improvviso avvertì un movimento sobbalzante che doveva essere quello di un carretto e fu circondato da una moltitudine di suoni che parevano indicare che lo stavano portando in una città di qualche tipo. Pensò allora di capire perché gli avessero infilato quel sacco sulla testa... anche ammesso che fosse riuscito a fuggire, infatti, non avrebbe avuto la minima idea di dove si trovava o di dove rifugiarsi... e non avendo familiarità con gli usi locali non si rese conto che lo scopo del sacco era invece quello di nascondere il fatto che il capitano stava portando al mercato degli schiavi uno straniero introdotto illegalmente, anziché consegnarlo alle autorità cittadine come richiedeva la legge. Il carro continuò il suo viaggio fra sussulti e scossoni che accentuarono il dolore alla testa di Anvar e gli diedero l'impressione di essere sul punto di vomitare di nuovo da un momento all'altro, anche perché il suo corpo si stava cucinando sotto i raggi roventi del sole e il sacco puzzolente minacciava di soffocarlo. Infine il calore del sole svanì bruscamente e la tenue luce che filtrava attraverso la trama del sacco diminuì, poi le ruote del carro risuonarono su una superficie di pietra liscia e infine si fermarono. «Salve, capitano» salutò una voce allegra, mielosa e piena di falsità. «Posso confidare che il tuo viaggio sia stato proficuo? Oggi sei qui per vendere o per comprare?» «Per vendere, Zahn. Questa volta ne ho soltanto uno.» «Solo uno? Suvvia, capitano, di solito sei uno dei miei fornitori più affidabili.» «Sii ragionevole, Zahn» ribatté il capitano, in tono irritato. «Cosa potevano fruttarci due noiosi mesi di pattuglia lungo la costa? Noi siamo i Corsari del Khisu, lo sai bene, e a volte dobbiamo accantonare per un po' il nostro profitto al fine di fare il nostro dovere.» «La tua fedeltà ti fa onore, capitano» replicò con disinvoltura Zahn. «Vogliamo ispezionare la mercanzia?» Le corde che serravano i piedi di Anvar furono tagliate e lui sussultò di dolore quando il sangue riprese a scorrere negli arti intorpiditi, poi si sentì sollevare dal carro e mettere in piedi da mani decise e il sacco gli venne strappato dalla testa.
«Per il Mietitore di Anime!» sussultò l'ometto avvizzito dall'aria sbalordita che aveva davanti. «Un nordico! Come osi portare qui uno schiavo illegale?» «Risparmiami le tue proteste da anima candida, Zahn» tagliò corto con impazienza il capitano. «So che attualmente hai un bisogno disperato di schiavi... di qualsiasi tipo.» Le sue parole parvero smantellare l'indignazione dello schiavista. «Dove lo hai trovato?» chiese poi Zahn, accigliandosi. «Dato che abbiamo visto alcuni cadaveri e dei rottami che andavano alla deriva suppongo che sia naufragato durante quella strana tempesta e sia stato gettato sulla costa. La sua nave deve essere stata sospinta lontano dalla sua rotta, perché di solito i nordici hanno abbastanza buon senso da non avventurarsi nelle nostre acque» rispose il capitano, con un sorriso ferino. «Ora però basta con le chiacchiere. Lo vuoi oppure devo consegnarlo agli arbitri, come un bravo Corsaro onesto?» Lo schiavista arricciò le labbra e cominciò a girare intorno ad Anvar, scrutandolo attentamente da testa a piedi e di tanto in tanto pizzicandolo e pungolandolo. «Spogliatelo» ordinò poi, e uno dei suoi inservienti estrasse un coltello con cui cominciò a tagliare quel che restava degli abiti laceri del giovane. Indignato, Anvar prese a dibattersi selvaggiamente fino a quando il contatto del freddo acciaio contro la carne nuda non lo indusse a immobilizzarsi, deglutendo a fatica nel rendersi conto del punto in cui la guardia aveva appoggiato la lama. «Cosa stai facendo?» protestò il capitano. «Non ti preoccupare» ribatté Zahn, con un sogghigno malvagio. «Come eunuco posso venderlo altrettanto bene, ma probabilmente non ci sarà bisogno di ricorrere a questo. Anche se non parla la nostra lingua credo che abbia capito la situazione.» Anvar sentì la fronte che gli si imperlava di sudore, e pur essendo nauseato dal tocco troppo familiare delle mani di Zahn sul suo corpo si costrinse a restare passivo, perché aveva ancora le braccia legate ed era fiancheggiato da due massicci inservienti, uno dei quali continuava a tenere il coltello in quella pericolosa posizione. Serrando i pugni, rabbrividì e si concentrò su quanto lo circondava per distrarre la mente dall'esame che stava subendo. Si trovava in una vasta camera circolare, costruita in pietra e con il soffitto a cupola, al centro della quale c'era una piattaforma rialzata e cinta da
funi, mentre da un lato si vedeva una fila di grandi gabbie di ferro per il momento vuote. A intervalli regolari nelle pareti della camera si aprivano alcune soglie ad arco, una sola delle quali era pervasa dal bagliore accecante del sole, chiaro segno che era quella che portava all'esterno... Poi la voce di Zahn riportò di scatto la sua attenzione sullo schiavista, che ora lo stava adocchiando pensosamente. «Tutto considerato direi che è in buone condizioni» commentò questi, rivolto al capitano. «Inoltre sembra piuttosto forte, con quella statura e quelle adorabili spalle larghe» aggiunse, adocchiando Anvar con un manifesto interesse che gli strappò un brivido, poi proseguì: «Sfortunatamente non posso venderlo ad un cliente privato perché quegli occhi respingerebbero gli acquirenti e comunque provocherebbero troppe domande. Come sai, però, il Khisu ha un bisogno disperato di continua mano d'opera, anche se soltanto il Mietitore sa come facciano lassù a consumare tanti schiavi. Se vuoi il mio parere si tratta di pura e semplice cattiva gestione, ma in ogni caso questo palazzo d'estate costituisce per me la miglior fonte di introiti da anni a questa parte, e Sua Maestà paga generosamente, quindi credo che potremo arrivare ad un accordo. Naturalmente lui non resisterà a lungo con il nostro clima, ma questo problema non ci riguarda. Vieni, amico mio, discutiamo del prezzo bevendo un bicchiere di vino» concluse, poi schioccò le dita in direzione dei due uomini che trattenevano Anvar e ordinò: «Portatelo via.» Con estremo sollievo di Anvar il coltello venne allontanato e lui venne trascinato oltre una delle soglie ad arco e lungo un corridoio echeggiante rischiarato da lampade appese a catene inserite nel soffitto. Arrivati ad una porta di legno dalle cui fessure filtravano raggi di luce solare i suoi catturatoli aprirono il battente e spinsero Anvar in un cortile polveroso su cui si affacciavano alcune botteghe formate da baracche chiuse solo su tre lati. In una sedeva un vasaio intento a modellare sulla ruota una manciata di argilla grezza e in un'altra una donna spettinata era impegnata a rigirare il contenuto maleodorante di un calderone appeso su un fuoco, soffermandosi di tanto in tanto per allontanare la miriade di mosche verdi e nere che le ronzavano intorno alla faccia unta; davanti ad una terza bottega un uomo stava intrecciando lunghe e sottili strisce di cuoio in modo da formare una frusta e Anvar si affrettò a distogliere lo sguardo da lui, tutt'altro che rassicurato dalla sua attività. Su un lato del cortile c'era la fucina di un fabbro, dove un ragazzino magro e sudato manovrava il mantice per mantenere incandescente la fornace
mentre due uomini dalla pelle scura che portavano un grembiule di cuoio modellavano a colpi di martello manette e catene. Il fabbro vero e proprio era facilmente riconoscibile, in quanto si trattava di un uomo tozzo dalla pelle nera indurita e segnata dal calore del fuoco fino a sembrare cuoio e con spalle larghe il doppio di quelle di Anvar e rivestite di muscoli simili a rocce. Quando le due guardie gli si avvicinarono con aria rispettosa, il fabbro sgranò gli occhi nel vedere Anvar in mezzo a loro. «Che il Mietitore mi prenda!» esclamò quindi, con disgusto. «Zahn deve proprio essere disperato!» Seguito dal suo assistente che stringeva in pugno un ferro incandescente, avanzò quindi verso Anvar tenendo in mano un collare di metallo che sembrava un bracciale per bambini nelle sue mani enormi. Anvar prese a lottare disperatamente e si ritrasse sussultando allorché il grosso collare gli venne posto intorno al collo e le due estremità vennero avvicinate una all'altra, ma le guardie non ebbero difficoltà ad immobilizzarlo e il fabbro gli causò ben poco dolore perché era molto pratico di quel delicato lavoro. Nonostante questo Anvar emise un gemito di timore nel sentire il collare scaldarsi per il contatto con il ferro rovente che ne stava saldando le estremità, ma un istante più tardi il calore venne dissipato da una secchiata di acqua gelida rovesciatagli addosso dal ragazzino addetto al mantice, che nel tornare al proprio lavoro gli scoccò un sorriso divertito che lo fece sentire uno stupido e un vigliacco. Un momento più tardi la rozza corda che gli legava i polsi venne tagliata e le guardie lo costrinsero a protendere le mani davanti a sé, passandogli intorno ai polsi un paio di manette unite da una corta catena; una delle guardie tirò quindi fuori un'altra catena che collegò ad un anello presente nel collare, poi rivolse un brusco cenno di ringraziamento al taciturno fabbro e assestò uno strattone alla catena per indurre Anvar a muoversi. Lo avevano messo al guinzaglio come un cane! Furioso, umiliato e ancora tremante per la scarica di paura che lo aveva attraversato quando il collare era stato saldato, Anvar afferrò la catena con le mani e tirò con tutte le sue forze, ma l'altra guardia sfilò immediatamente una corta e spessa frusta dalla cintura e lo colpì con forza due o tre volte sulla schiena e sulle spalle. Anvar barcollò con un grido di dolore e la guardia che stringeva la catena impresse ad essa un violento strattone: il bordo del collare gli affondò nel collo e al tempo stesso la frusta si abbatté su di lui ancora una volta, tracciandogli una linea di fuoco lungo la schiena mentre lui si avviava barcollando per seguire la guardia, tallonato dall'altra che si mostrò
pronta ad usare la frusta ogni volta che lui incespicava o rallentava il passo. I due riportarono il giovane all'interno dell'edificio e giù per una rampa di gradini che conduceva nel sottosuolo, dove lo spinsero in una cella spoglia e cupa che conteneva già parecchi altri schiavi, tutti uomini. Ciascuno di quei prigionieri era legato ad un anello piantato nel muro all'altezza della vita, a cui era connesso mediante una catena attaccata ad esso e al suo collare, e lunga poco più di una spanna, in modo da costringerlo a rimanere costantemente seduto. Ventilato soltanto mediante una griglia posta in alto nella parete, l'ambiente puzzava di escrementi umani e il pavimento era attraversato da una serie di canali di scolo che confluivano in un fetido pozzetto aperto e che erano necessari perché, come Anvar ebbe modo di scoprire in seguito, la cella veniva lavata con tutto il suo contenuto umano due volte al giorno... il che costituiva il massimo delle misure sanitarie adottate dagli schiavisti. Le guardie incatenarono Anvar ad un anello libero lungo la parete e se ne andarono, richiudendosi la porta alle spalle. Nessuno degli altri schiavi mostrò di reagire in qualche modo alla presenza del nuovo compagno di sventura: sporchi, affamati e coperti di pustole e di cicatrici, erano tutti rottami umani immersi nella loro personale sventura e intenti a piangere o a dormire, o a guardarsi intorno con occhi vacui e con espressione passiva. Anvar tentò di protendere le braccia alle proprie spalle per afferrare la catena che lo vincolava alla parete e infine riuscì nell'intento, anche se rischiò di strozzarsi... ma per quanto provasse a tirare fino a farsi sanguinare le dita essa risultò saldamente attaccata al collare da un lato e all'anello nella parete dall'altro, e alla fine rinunciò a quella lotta ineguale per nascondersi il volto nelle mani sanguinanti e abbandonarsi alla disperazione derivante dalla certezza che non c'era via di fuga. Che ne sarebbe stato di lui? E cosa stava succedendo a Sara? E soprattutto dov'era quella Maga traditrice? In un impeto di autocompassione immaginò Aurian nell'atto di continuare serena il proprio viaggio, libera e indifferente alla sorte dei due compagni che si era così spietatamente lasciata alle spalle. Nonostante l'ira che provava nei suoi confronti il pensiero di Aurian lo aiutò a controllarsi: se non altro lei affrontava sempre ogni cosa con coraggio e con determinazione... che avrebbe detto se lo avesse visto cedere in questo modo alla disperazione? Nel porsi quella domanda, Anvar si rese conto di colpo che Aurian non avrebbe detto assolutamente nulla: invece si sarebbe limitata a liberarlo dalle catene e a portarlo via di lì... e quella non
sarebbe certo stata la prima volta che lei interveniva a salvarlo. Sulla scia di quel pensiero ricordò le passate gentilezze usategli da Aurian, la vicinanza che avevano condiviso per breve tempo a bordo della nave e come nel portarlo con sé in questo viaggio lei lo avesse salvato dagli Spettri di Morte, rammentando anche per quale motivo la Maga avesse infine deciso di abbandonarlo a se stesso. Era soltanto colpa sua, era stato lui ad allontanarla, e dovunque fosse adesso lei stava affrontando ogni difficoltà da sola. Il minimo che poteva fare era prendere coraggio dal suo esempio, quindi giurò a se stesso che qualsiasi cosa gli fosse successa avrebbe resistito, come sapeva che Aurian avrebbe fatto al suo posto. «Sopravviverò a questo» promise a se stesso. «E un giorno rivedrò Sara e Aurian.» Sara si ritrasse quanto più glielo permettevano i polsi legati, raggomitolandosi in un angolo della stretta cuccetta quando vide aprirsi la porta della cabina e il capitano entrare con un fagotto fra le braccia, seguito da due massicci marinai che trasportavano una tinozza piena d'acqua e da un terzo che aveva in mano un piatto carico di pane e di frutta e una coppa brunita, che posò sul tavolo. Il capitano attese che i suoi uomini se ne fossero andati, poi estrasse da una manica della sua ampia tunica una daga ingioiellata alla cui vista Sara emise uno strillo spaventato. L'uomo però si servì della daga soltanto per tagliare le corde che le legavano i polsi e le caviglie, poi le segnalò a gesti di spogliarsi e per tutta reazione Sara si portò le mani alla scollatura dell'abito lacero, scuotendo il capo in un selvaggio gesto di diniego. «No!» sussultò. «Per favore, no!» Il capitano però scoppiò a ridere e indicò la tinozza piena d'acqua, il fagotto che aveva gettato sul letto e il cibo sul tavolo, poi eseguì un inchino ironico e lasciò la cabina, richiudendosi la porta a chiave alle spalle. Dopo un momento Sara si alzò dalla cuccetta e corse ad abbassare la maniglia della porta anche se sapeva che si trattava di un gesto inutile. Naturalmente essa risultò chiusa, cosa di cui lei non seppe se essere contenta o dispiaciuta, perché in un certo senso era un sollievo avere quel pezzo di solido legno fra se stessa e gli uomini che l'avevano afferrata sulla spiaggia. Il ricordo di quell'aggressione ebbe il potere di strapparle ancora un brivido di timore. Memore dell'avvertimento datole da Aurian in merito all'equipaggio della prima nave, lei era stata assalita dal terrore, ma poi il capitano l'aveva squadrata bene e aveva impartito alcuni ordini nella sua
aspra lingua straniera, facendola portare in quella cabina dove, a parte dormire per un po', era rimasta distesa a tremare di timore ogni volta che sentiva avvicinarsi un rumore di passi. Adesso pareva che il capitano avesse deciso di tenerla per sé, il che era comunque meglio che essere violentata dal suo disgustoso equipaggio, dato che se non altro lui si era mostrato cortese; ormai abituata alla paura a tal punto che essa era diventata una familiare compagna, Sara reagì infine con spirito pratico alla situazione. I frutti deposti sul tavolo le erano sconosciuti ma apparivano maturi e saporiti, ed avevano un profumo eccellente... contemplandoli, si disse che non ci avrebbe rimesso nulla ad essere violentata con lo stomaco pieno. La coppa conteneva un vino leggero e speziato che lei trovò delizioso e di cui si accontentò anche se nel suo stato di disidratazione avrebbe preferito dell'acqua, perché non osava correre il rischio di bere quella contenuta nella tinozza sebbene ad occhio nudo apparisse trasparente e pulita. Dopo aver mangiato si sentì molto meglio e procedette ad esaminare il fagotto posato sul letto, che conteneva alcuni panni per lavarsi, asciugamani, un pezzo di sapone, un pettine ricavato da una sostanza bianca che sembrava osso e una veste ricca di ricami e dotata di cappuccio, fermata in vita da una cintura di seta. Quando prese la veste per esaminarla meglio, dalle sue pieghe cadde qualcosa che rotolò sul pavimento della cabina e che risultò essere una fialetta di profumo: annusandone con apprezzamento la fragranza, Sara rifletté che la situazione sembrava migliorare, nonostante i pericoli che incombevano ancora troppo vicini. L'acqua contenuta nella tinozza era poca e appena tiepida, ma potersi fare un bagno risultò comunque uno splendido lusso e lei ne approfittò per lavarsi anche i capelli, asciugandoli poi come meglio poteva con i panni umidi e pettinandoli fino ad ottenere la consueta cascata dorata. La veste risultò morbida e fresca a contatto con la pelle nuda e il profumo l'avvolse in una fragranza ricca e dolce... essere di nuovo pulita era una sensazione meravigliosa, e il suo unico rammarico era quello di non avere uno specchio. Il rumore della porta che si apriva le strappò un sussulto e nel vedere il capitano fermo sulla soglia con un sorriso di approvazione fra le labbra si affrettò a indietreggiare, chiedendosi se aveva commesso un errore nel rendersi di nuovo presentabile. Poi lui le indicò la porta con un gesto. «Dove mi vuoi portare?» domandò Sara, in tono sospettoso, dimenticandosi che quell'uomo non poteva capirla.
Il capitano scrollò le spalle e abbandonò ogni pretesa di pazienza, calando su di lei in tre rapidi passi e afferrandole i polsi, che legò insieme con le estremità della sua cintura. Ignorando le sue strida e i suoi tentativi di dibattersi, il capitano chiamò quindi un massiccio marinaio perché la tenesse ferma mentre lui le sistemava sulla testa un velo di un materiale sconosciuto e trasparente e tirava in avanti il cappuccio dell'abito a coprire il viso. Quando ebbe finito il marinaio se la caricò in spalla con noncurante facilità e la portò via di peso. Come Anvar, anche Sara venne caricata su uno scomodo carretto sussultante e viaggiò alla cieca; dopo qualche tempo comprese dall'inclinazione del veicolo che stavano risalendo una collina molto erta, poi la strada si appiattì nuovamente e il carretto si arrestò; da poco lontano giunsero alcune voci, quindi lo scricchiolio prodotto dall'aprirsi di una grande porta che preannunciò il riprendere del movimento. Quando si fermarono ancora Sara sentì l'allegro gorgheggio di una fontana, e una volta che il capitano l'ebbe aiutata a scendere dal veicolo si venne a trovare su una superficie di pietra lucida che risultò meravigliosamente fresca a contatto con i suoi piedi nudi; il capitano la liberò quindi dal cappuccio e attraverso la trasparenza del velo lei riuscì a scorgere i contorni della sua figura e quelli di un altro uomo con cui lui stava parlando in toni rapidi ed eloquenti. Al termine del suo lungo discorso il capitano sollevò infine anche il velo e il suo interlocutore sussultò, mentre Sara sbatteva le palpebre e sussultava a sua volta nel rendersi conto che quell'uomo basso e grassoccio aveva il volto elaboratamente truccato e gli occhi delineati con il khol; le sue vesti a colori vivaci erano coperte di collane scintillanti e agli orecchi spiccavano degli orecchini d'oro, mentre la testa rasata era dipinta con vorticanti disegni realizzati in una tinta dorata. Il tutto creava un effetto abbagliante... e nell'incontrare lo sguardo dell'ometto Sara pensò con un certo compiacimento che anche lui sembrava abbagliato dal suo aspetto, dato che stava quasi saltellando per l'eccitazione. Seguì una rapida conversazione fra i due uomini e alla sua conclusione l'ometto grasso consegnò al capitano parecchi sacchetti tintinnanti e dall'aspetto pesante, la cui vista destò in Sara un'improvvisa fitta di timore: il capitano la stava forse vendendo? Quando questi si volse per andarsene cercò di aggrapparsi alla sua manica, perché costituiva l'unica cosa familiare in quel luogo sconosciuto, ma lui si liberò con uno strattone e balzò sul carretto, facendo girare con cau-
tela l'asino nello spazio ristretto del cortile dalle mura bianche; non appena ebbe oltrepassato le porte alte e robuste, esse vennero richiuse alle sue spalle da un paio di giovani snelli dalla testa rasata e dal volto dipinto e stranamente effeminato, e Sara provò l'improvviso impulso di fuggire... solo che non aveva dove andare perché le pareti che la circondavano erano molto alte. Sgomenta, diede libero sfogo alle lacrime, che le colmarono gli occhi e le colarono lungo le guance perché non poteva asciugarsele, avendo ancora le mani legate con la cintura. «Tu non piange» disse l'ometto, con una strana voce acuta, battendole un colpetto sul braccio con aria preoccupata. «Parli la mia lingua?» domandò Sara, fissandolo con stupore e con sollievo. «Un poco» sorrise l'ometto. «Khisu parla bene. Lui insegna. A te piace Khisu. Non piangere, signora. Ti sciupi» aggiunse, asciugandole le lacrime dalle guance con mano gentile. «Tu per Khisu... vostra parola, re.» «Re?» sussultò Sara. «Khisu ha molte belle donne» replicò l'ometto, annuendo. «Lui vuole sempre belle donne, di certo vuole te. Vieni» proseguì, sfoggiando un altro sorriso che rivelò un incisivo d'oro. «Ti lavi. Ti vesti. Vedi altre donne, molte donne. Vedi Khisu stanotte. Non piangere. Lui ti piace.» Gli alloggi delle donne risultarono essere un labirinto di stanze comunicanti fra loro, con le pareti e i pavimenti decorati con piastrelle color pastello e intricati mosaici. C'erano stanze con divani rivestiti di seta e tavoli, sedie e cassapanche intarsiati in oro; stanze con letti ampi e bassi protetti da tende di ariosa mussola bianca; stanze con fontane, polle e grandi bagni circolari di marmo. E poi c'erano cortili ombrosi e giardini pieni di fiori esotici e di farfalle dai colori intensi, dove l'aria era intrisa di profumi e permeata dal canto di uccelli multicolori chiusi in gabbie dorate. Le donne si aggiravano di continuo in quel labirinto, alcune simili a spettri silenziosi nei loro abiti diafani, altre raccolte in gruppi ciarlieri sul bordo delle polle o intente a schizzarsi e a lavarsi a vicenda nei bagni comuni senza la minima preoccupazione per la decenza, e altre ancora impegnate a scambiarsi pettegolezzi adagiate sui morbidi cuscini dei divani. Ce n'erano più di quante lei fosse in grado di contarne, e ognuna era più bella delle precedenti. L'ometto che l'accompagnava prelevò una mezza dozzina di brune bellezze da uno di quei gruppi e farfugliò qualcosa nella loro lingua, indicando di tanto in tanto verso di lei. Subito le donne mostrarono uno stupore
intenso quanto quello dello strano ometto alla vista dei suoi capelli dorati e le si accalcarono intorno lanciando esclamazioni e toccando la sua folta capigliatura fino a quando l'ometto le zittì bruscamente e impartì quella che parve una successione di ordini. «Io, Zalid» disse infine con un sorriso, tornando a rivolgersi a Sara e indicando se stesso. «Tu mi vuoi, tu chiami. Tu?» «Sara» rispose lei, comprendendo che voleva sapere il suo nome. «Sara. Bene. Come vento del deserto. Va' con donne, ora. Ti bagni, ti vesti, mangi. Più tardi vedi Khisu.» E dopo averle slegato le mani l'affidò al gruppetto di ragazze, che la condussero in una serie di camere lussuose dove per prima cosa le servirono un pasto a base di carni speziate, di frutti e di uno strano pane piatto e simile a cuoio. Mangiando lei bevve del vino da un boccale adorno di gemme e contemplò con occhi sgranati l'ambiente sontuoso che la circondava, chiedendosi se era finita in un sogno. Dopo aver mangiato fece un altro bagno in una profonda polla di acqua corrente profumata con fiori ed erbe, e quando ebbe finito due delle ragazze le massaggiarono il corpo con oli profumati. Sara si rilassò sotto le loro mani, godendo di quelle attenzioni. Come moglie di Vannor si era abituata ad una vita comoda e protetta di cui aveva sentito spaventosamente la mancanza negli ultimi giorni, e dopo il terrore e le fatiche della sua fuga da Nexis adesso quell'harem le appariva come un rifugio e non come una prigione. L'incontro con il... qual era il suo nome?... con il Khisu non la preoccupava perché sapeva di essere molto bella e come si era servita della sua bellezza per manipolare Anvar e quell'idiota di Vannor sarebbe indubbiamente riuscita a fare lo stesso con il re. A quel pensiero fu assalita da un senso di eccitazione: un re vero, in carne ed ossa! Quella era un'occasione che capitava soltanto una volta nella vita. Stiracchiandosi come un gatto, pensò che negli ultimi anni aveva fatto davvero molta strada, raggiungendo risultati molto più notevoli del matrimonio con il misero figlio di un fornaio! Nel pensare ad Anvar si accigliò con irritazione a causa di una lieve fitta di colpevolezza che venne a turbare il suo compiacimento, dovuta al fatto non lo aveva più visto da quanto era stata catturata. Subito dopo però scrollò le spalle, riflettendo che se allora era stato ancora vivo questo significava che quella gente doveva avere dei progetti nei suoi riguardi... e poiché lui era già stato un servitore le cose non potevano certo andargli peggio di così. Inoltre si meritava qualsiasi cosa gli fosse capitata come
punizione per averla trascinata in questo folle viaggio! Quanto a lei. era decisa a sopravvivere e a prendersi cura di se stessa... e con questa riflessione allontanò dalla mente ogni pensiero relativo ad Anvar. Le donne le portarono degli abiti fra cui scegliere... vesti di seta ricamata e tinta di una miriade di colori e veli più inconsistenti delle nebbie di un mattino d'estate... poi le fornirono sandali dorati, profumi, cosmetici e più gioielli di quanti ne avesse visti in tutta la sua vita, e lei impiegò parecchio tempo a scegliere, in modo da abbinare i diversi materiali fino ad ottenere l'effetto migliore: adesso era nel suo elemento, perché questa era la cosa in cui più eccelleva. Infine fu pronta e indugiò a contemplare la propria immagine in un grande specchio di lucido argento, trovandosi davanti una visione che le tolse il respiro. Per gli dèi, pensò, sono splendida! Non sono mai apparsa così bella. Anche se il cuore le stava martellando nel petto, attese quindi con calma sicurezza di essere convocata alla presenza del re. mentre l'abbagliante creatura riflessa dallo specchio le sorrideva in modo enigmatico, certa che conquistare il Khisu sarebbe stato un gioco da ragazzi. CAPITOLO VENTUNESIMO I BRACCIALI DI ZATHBAR Aurian passò al setaccio la spiaggia deserta un centimetro dopo l'altro fino a trovare i resti di un fuoco e tracce di una lotta violenta la cui vista le fece contrarre il cuore per il timore. Cosa era successo su quella spiaggia? La sabbia conservava ancora qualche nitida impronta di strani stivali appuntiti, e poco lontano si vedeva in mezzo ad essa un bagliore metallico che risultò essere emesso dalla daga che lei aveva lasciato ad Anvar. Con sgomento crescente, cercò di ricostruire l'accaduto, giocherellando distrattamente con il coltello mentre rifletteva. L'assenza di strane impronte che andassero verso la foresta o ne emergessero indicava che gli assalitori erano giunti dal mare, e al limitare dell'acqua era ancora visibile un profondo solco che poteva essere stato prodotto dalla prua di una barca tirata in secca. L'assenza di cadaveri e di sangue sembrava indicare che Sara e Anvar erano stati catturati vivi, ma in tal caso adesso dove si trovavano? Angosciata e piena di sensi di colpa, Aurian imprecò contro la propria lentezza nel tornare indietro e contro il fatto di aver lasciato soli i compagni. «Simili pensieri sono stolti, figlia, e in ultima analisi possono essere di-
struttivi» la rimproverò con gentilezza Ithalasa. «Hai fatto ciò che dovevi, e se adesso desideri ritrovare i tuoi compagni forse io ti posso indirizzare sulla strada giusta.» Il Leviatano le spiegò quindi che le navi che solcavano quelle acque andavano e venivano da un grande fiume che sfociava in mare più giù lungo la costa, aggiungendo che i suoi cugini, i delfini fluviali, gli avevano parlato di una città che si trovava molti giorni di marcia a monte del fiume e che doveva essere il posto in cui erano stati portati i suoi compagni. «In ogni caso non hai sbagliato nel descriverli come due sprovveduti» aggiunse in tono asciutto, «perché soltanto un imbecille accenderebbe un fuoco del genere in una terra sconosciuta, con il rischio di attirare chissà cosa! Adesso però devi decidere cosa fare. Se desideri recarti al nord alla ricerca delle armi io ti potrò trasportare per un buon tratto di strada, anche se normalmente noi non ci avventuriamo nelle acque settentrionali. Se invece vuoi cercare i vuoi compagni dovrai andare a sud, e in quel caso io ti potrò trasportare fino alla foce del fiume Khazala... la Linfa Vitale.» Aurian si trovò di nuovo davanti ad un dilemma. Sapeva che avrebbe dovuto dirigersi al nord con la massima rapidità perché il tempo giocava a suo sfavore: con l'avanzare della gravidanza, infatti, i suoi poteri sarebbero gradualmente diminuiti fino a scomparire per un periodo di circa sei mesi in cui sarebbe rimasta del tutto priva della magia fino alla nascita del bambino. Di conseguenza non aveva nessun desiderio di indugiare nei Regni Meridionali, con la loro ostilità nei confronti dei Maghi, in quanto non voleva certo che il suo bambino nascesse qui, e sapeva che Ithalasa avrebbe potuto riportarla nelle sue terre viaggiando a piccole tappe e senza farle correre molti rischi lungo il percorso. D'altro canto lei si considerava peraltro responsabile della situazione in cui si trovavano Anvar e Sara perché era consapevole che non avrebbe mai dovuto lasciarli soli, e anche se questo significava un rischio molto più grande e un grosso ritardo nell'esecuzione dei suoi piani, la sua coscienza non le avrebbe dato tregua se li avesse abbandonati al loro destino. Con il cuore pesante e la mente piena di dubbi, chiese infine al suo gigantesco amico di trasportarla fino alla foce del fiume. «Non ti sconfortare, piccola» affermò Ithalasa, mentre riprendevano il viaggio. «Chi può conoscere i meccanismi del fato? È possibile che tu abbia un compito da assolvere in queste terre e che possa addirittura trovare parte di quello che stai cercando. Di certo un simile atto di amicizia e d'onore darà buoni frutti.»
Aurian pensò al proprio amore per Forral, che era cominciato come un rapporto d'amicizia e d'onore ed era finito in tragedia, e si trattenne dal replicare. Separarsi da Ithalasa non fu una cosa facile, e quando si congedò da lui con le lacrime agli occhi, vicino all'ampio delta con cui il fiume si gettava nel mare, lei ebbe l'impressione di lasciarsi alle spalle una parte della sua anima. Nell'incamminarsi pensò a Forral e a Finbarr, a Vannor. a Maya, a D'arvan e perfino a sua madre... e a Meiriel e all'Arcimago che l'avevano tradita. La sua vita era dunque destinata ad essere disseminata di dolorose separazioni? Smettila, idiota! si rimproverò, mentre avanzava a fatica nella fanghiglia rossa del delta del fiume. L'autocompassione non ti sarà d'aiuto! Si asciugò quindi le lacrime con la manica lacera e un sorriso le affiorò sulle labbra al ricordo di come una volta Anvar l'avesse rimproverata per quella sua abitudine. Riflettendo che forse in questo caso si stava dirigendo verso un ricongiungimento invece che verso una separazione, si augurò che fosse davvero così. Ben presto scoprì che il tragitto verso monte avrebbe richiesto più tempo di quanto si fosse aspettata, perché la valle era ampia e con il fondo piatto, cinta su entrambi i lati da torreggianti alture di pietra rossiccia; osservandole, si chiese cosa ci fosse al di là di esse, pur sapendo che non era il caso di cercare di scoprirlo a causa della sua congenita paura dei luoghi alti e anche perché non aveva né il tempo né le energie per delle deviazioni in quanto il viaggio era di per sé tutt'altro che facile. Adesso che lo stava costeggiando poteva vedere con chiarezza perché quel fiume fosse chiamato Linfa Vitale, in quanto le sue acque vaste e lente erano tinte dello stesso rosso ruggine delle alture che torreggiavano su entrambi i lati; la sottile striscia di terra pianeggiante che si allargava fra il fiume e le alture era una piatta distesa di fetido fango rossiccio e di polle stagnanti piene di canne, e quel terreno paludoso e infido le imponeva di viaggiare di giorno, sentendosi terribilmente esposta sulla spoglia distesa di fango e soffrendo a causa dei raggi martellanti del sole che le bruciavano la pelle chiara e parevano rendere l'aria troppo spessa perché la si potesse respirare. Nonostante la calura, non poteva però liberarsi dei vestiti a causa delle ronzanti nuvole d'insetti che le sciamavano intorno pronte a nutrirsi di ogni centimetro di pelle esposta e che ben presto le trasformarono la faccia e le mani in un ammasso di gonfie chiazze rosse, costringendola ad un enorme sforzo di volontà per impedirsi di grattarsi. Pur sapendo che avrebbe potuto ricorrere ai suoi poteri per creare uno schermo fra se
stessa e quei piccoli orrori, lei era peraltro riluttante a consumare le proprie energie sempre più scarse ed era inoltre restia ad usare la magia in una terra in cui essa era proibita. Entro il secondo giorno cominciò a sentirsi esausta e a soffrire sempre più a causa del calore. Anche se aveva intrecciato la lunga e folta massa di capelli perché non le fosse d'impiccio il suo peso intriso di sudore le tirava il cuoio capelluto e le faceva dolere la testa, tanto che verso mezzogiorno non riuscì a resistere oltre e si fermò a riposare, senza però trovare sollievo dal sole ardente perché in giro non c'era la minima traccia d'ombra e lei non se la sentiva di immergersi nel fiume per rinfrescarsi: nel pescare i piccoli pesci simili ad anguille che costituivano la sola fonte di nutrimento a portata di mano, aveva infatti scoperto che il fiume era pieno di sanguisughe e che nelle sue acque vivevano anche grosse lucertole più lunghe di quanto lei era alta e dotate di lunghe fauci irte di zanne. Fra i due, Aurian avrebbe quasi preferito affrontare le lucertole, ma se possibile preferiva evitare entrambe. Sentendo la testa che le pulsava sempre più e la nuca arroventata là dove la massa dei capelli gravava su di essa, giunse infine alla conclusione che era necessario eliminare la treccia, una decisione che un tempo avrebbe richiesto un lungo esame di coscienza e che adesso le parve insignificante alla luce delle scelte molto più gravose che era stata chiamata a fare. Usando come specchio una polla di acqua stagnante bordata di canne, impugnò la daga che aveva lasciato ad Anvar e troncò di netto la treccia, avvertendo un immediato sollievo e sentendosi letteralmente la testa leggera. Poi il suo sguardo si posò sulla treccia tagliata che giaceva pateticamente al suolo come un serpente morto, impastata di fango e di sudore e intrecciata con pezzi di canne e altre cose senza nome, e si sentì assalire dallo sgomento: in che condizioni si stava riducendo? Aveva sempre avuto tanta cura dei suoi capelli fin da quando Forral le aveva insegnato come fare all'epoca in cui era ancora una bambinetta, e adesso le sembrava di aver tagliato via parte della vita vissuta con lui. Io non voglio un principe. Sposerò te... il ricordo improvviso di quelle parole infantili la trafisse come un coltello piantato nel ventre. D'impulso, si chinò allora a raccogliere la treccia e la lavò nella piccola polla: a contatto con l'acqua essa si sciolse immediatamente a partire dall'estremità dove era stata tagliata e si allargò nella polla come una nube tinta di rosso dal tramonto. Dopo averla sciacquata con cura, lei la tirò fuori dall'estremità ancora fissata e se l'avvolse intorno alla testa per asciugar-
la come meglio poteva, poi l'arrotolò intorno ad una mano e la ripose in una delle profonde tasche della tunica di cuoio, sentendo ben presto l'umidità che da essa emanava penetrarle nella pelle. «Idiota» disse a se stessa. «Sei un'idiota sentimentale! Hai tagliato quella dannata treccia proprio per non doverne più portare a spasso il peso.» Al tempo stesso si sentì però molto meglio... almeno finché la superficie della polla non fu tornata immobile, permettendole di vedere la propria immagine riflessa e rivelandole quanto essa foste disastrosa... tanto da lasciarla sgomenta anche se non era mai stata particolarmente vanesia nei confronti del proprio aspetto. Con cura, si servì allora della daga per regolare le ciocche che le ricadevano sul volto fino ad ottenere un risultato accettabile e senza dubbio più comodo e pratico con un clima di quel genere, come ricordò a se stessa per confortarsi nel rialzarsi in piedi per riprendere il cammino. Quello stesso giorno trovò, sia pure per caso, anche il modo di risolvere il problema degli insetti. Mentre camminava avvistò d'un tratto una nave che stava scendendo il fiume, e per mimetizzarsi non le rimase altra scelta che gettarsi nel fango e rotolarvisi per poi rimanere perfettamente immobile al suolo fino a quando la galea non si fu allontanata. Nel rialzarsi, si rese d'un tratto conto che lo strato di fango puzzolente che le ricopriva la pelle costituiva una protezione perfetta non soltanto contro le scottature ma anche contro gli insetti che l'avevano tanto tormentata, e riprese il cammino con estremo sollievo, soffermandosi di tanto in tanto a rinnovare la protezione quando il fango si seccava e cominciava a staccarsi. Pensando che neppure sua madre l'avrebbe riconosciuta in quello stato, si chiese quindi cosa stesse succedendo ad Eilin, nella sua lontana casa nel settentrione, e nel domandarsi se l'Arcimago aveva sfogato la propria ira su di lei rabbrividì, desiderando di aver trovato il modo di avvertirla di quanto era accaduto. Adesso però non c'era nulla che lei potesse fare al riguardo, quindi strinse i denti e si costrinse a concentrarsi sul compito che l'attendeva. Entro il quarto giorno il terreno cominciò a farsi gradualmente meno fangoso e lei iniziò ad imbattersi in piccoli tratti di terra coltivata accanto ai quali capitava di vedere una capra legata con una corda e rozze capanne di canne intrecciate... senza dubbio dimora di contadini e di pescatori. Questo cambiamento del territorio la costrinse a cominciare a viaggiare di notte e a tenersi nascosta di giorno nei canneti pullulanti di sanguisughe che costituivano il solo rifugio disponibile, tormentata dalla tensione dovu-
ta al costante pericolo di essere scoperta e da una fame incessante, in quanto la sua speranza iniziale di poter rubare un po' di cibo ai contadini per avere un'alternativa alla sua inadeguata dieta a base di pesce era morta sul nascere quando si era resa conto che quella gente era disperatamente povera e indigente... tanto che di rado era riuscita ad indursi a sottrarre qualcosa. La sesta notte raggiunse infine un'area totalmente coltivata: qui ogni prezioso frammento di terra fra il fiume e le alture era stato seminato e le abitazioni che si vedevano nei dintorni avevano un aspetto più solido, costruite com'erano con cannicciate e fango e con il tetto coperto dalle onnipresenti canne. Alberi stentati iniziarono quindi ad apparire qua e là, offrendo una maggiore possibilità di nascondersi in quell'area più densamente popolata e anche una ricca messe di nocciole, introvabili in quel periodo nelle terre del nord... un dono inatteso per il quale Aurian ringraziò con fervore gli dèi. Due notti più tardi, nell'aggirare un'ansa in cui la lunga valle fluviale si ripiegava su se stessa, Aurian avvistò la città, la cui vista la colse completamente impreparata, inducendola a dimenticare la cautela usata in quegli otto giorni di viaggio. In tutta la sua vita lei non aveva infatti mai visto nulla di simile: gli edifici spiccavano bianchi sotto la luce lunare e si accalcavano gli uni a ridosso degli altri sulla pianura che si allargava ai due lati del fiume, per poi ergersi quasi in verticale su una serie di terrazze ricavate nelle alture che incombevano sulla valle da entrambe le parti. Affusolate navi da guerra dall'aspetto sinistro occupavano i moli del porto fluviale insieme ad imbarcazioni più piccole e a basse chiatte il cui aspetto effeminato era molto più rassicurante. Nel complesso la città era molto più grande di quanto lei si fosse aspettata, e la sua architettura le appariva strana, con i tetti piatti, oppure a cupola o ancora ritorti in snelle guglie affusolate. Porte e finestre avevano la tendenza ad essere ad arco invece di avere la pratica forma squadrata a cui lei era abituata, e ponti assurdi che da terra apparivano privi di consistenza come fili di seta erano sospesi al di sopra di abissi profondi decine o addirittura centinaia di metri. Soltanto pensare di trovarsi su uno di quei ponti destò in lei il senso di vertigine causato di solito dal suo irrazionale terrore delle vette, misto ad un senso di sconcerto per la mancanza di mura cittadine... sconcerto dovuto all'ignoranza del fatto che al di là delle alture la città era protetta da qualcosa che era più potente e terrificante di qualsiasi difesa escogitata dall'uomo.
Allontanandosi dagli occhi i capelli arruffati Aurian cercò di costringere il suo cervello stanco a riflettere: entrare nella città sarebbe stato abbastanza facile, ma cosa avrebbe fatto una volta dentro di essa? Come avrebbe potuto rintracciare Sara e Anvar in un posto di quelle dimensioni, sempre supponendo che si trovassero davvero lì? Erano ancora vivi? Perché mai aveva deciso di abbandonarli? Quelle e altre domande continuarono a vorticare nella sua mente stanca senza che lei riuscisse a dare loro una risposta. Ricordando tardivamente di essere in una posizione alquanto esposta, si riscosse infine da quelle riflessioni inutili e si diresse verso le alture e la protezione di un basso boschetto di alberi contorti, augurandosi che contenessero un abbondante raccolto di nocciole perché il bambino le stava prosciugando le energie ed era tormentata dalla fame. In fretta, prima che la luna tramontasse dietro le alture, raccolse un grosso mucchio di nocciole e si sedette comodamente fra le radici di una vecchia pianta per mangiare, rompendo il duro guscio con l'elsa della daga. Non appena ebbe lo stomaco pieno si sentì meglio e cominciò ad esaminare il problema che aveva di fronte, servendosi del metodo insegnatole da Forral di dividere ciò che doveva fare in una serie di fasi facilmente realizzabili. Qual era dunque il primo passo? Smetterla di preoccuparsi: se Sara ed Anvar erano in città li avrebbe trovati, altrimenti avrebbe affrontato quel problema quando fosse giunto il momento. La prima cosa da fare per entrare in città inosservata era rubare dei vestiti con cui rimpiazzare la sua tenuta da combattimento ormai lacera; se voleva farsi passare per una nativa del posto avrebbe inoltre dovuto appurare quale fosse il loro aspetto ed elaborare un adeguato travestimento. Quanto alla lingua, dal momento che lei era una Maga essa non avrebbe costituito un problema, mentre lo sarebbe stato procurarsi non solo gli abiti ma anche ciò che da quelle parti veniva usato come denaro. Riflettendo con una sorta di cupo divertimento che stava per aggiungere il furto al suo assortimento di talenti, sia magici che marziali, si concesse infine di distendersi e di rilassarsi, perché adesso che aveva elaborato un piano di qualche tipo poteva riposare per un po' nel nascondiglio offerto dagli alberi. Sfinita, scivolò in un sonno profondo, annidata fra le radici del nocciolo, e stava ancora dormendo quando all'alba i cacciatori d'uccelli giunsero sul posto muniti di cani e di reti. I cani le furono addosso in un momento e i loro latrati le permisero di svegliarsi appena in tempo per estrarre la spada e difendersi contro i loro padroni. Dal momento che quei cacciatori non e-
rano certo dei guerrieri, riuscì ad ucciderne uno e a metterne fuori combattimento altri due prima che i loro compagni riuscissero a bloccarla avviluppandola nelle loro reti e trascinandola al suolo. Nel frattempo il rumore dello scontro aveva attratto altri contadini dai campi circostanti, e Aurian si trovò a giacere impotente in un groviglio di reti, attorniata da una folla stupefatta e vociferante. «Guarda quella pelle pallida!» «E guarda i suoi capelli... hanno il colore del sangue!» «È un guerriero?» «Oppure un demone?» «È una donna?» «Ha ucciso il povero Harz!» «Chiamate gli Anziani!» Al diavolo gli Anziani, pensò Aurian, accennando a muovere una mano per evocare la Magia del Fuoco con cui bruciare le reti. Il suo gesto risultò però poco saggio perché uno dei contadini lo notò e un pesante colpo di bastone la fece sprofondare nell'incoscienza. Aurian si svegliò tormentata da una violenta emicrania, e scoprì di essere distesa su un pavimento di marmo in una lunga sala bianca. I contadini l'avevano avvolta nelle reti, che erano poi state legate strettamente con una corda, e le avevano lasciato il bastone nella cintura, sottraendole peraltro la spada... constatazione che la indusse a imprecare sommessamente. A quanto pareva era stata portata nella città, e una rapida occhiata a quanto le stava succedendo intorno fu sufficiente a indicare che si trovava in una sorta di tribunale. I tre giudici, che scoprì essere chiamati con il rispettoso titolo di Arbitri e che erano vestiti tutti nello stesso modo con una lunga veste bianca e un fluente copricapo dello stesso colore, sedevano ad un tavolo posto su una piattaforma rialzata situata all'estremità opposta della camera. Anche il loro volto era coperto da una maschera bianca, che li rendeva anonimi ed inespressivi, e il loro abbigliamento ebbe un effetto spiacevole su Aurian, in quanto nella sua terra il bianco era il colore della morte. Notando che la gente che la circondava aveva la pelle bruna, i capelli scuri e l'ossatura minuta, dedusse sulla base dei racconti di Forral di essere finita fra i Khazalim, e che di conseguenza l'uso della magia da parte sua avrebbe comportato un'immediata condanna a morte... il che spiegava la presenza degli arcieri che poteva vedere di guardia sulla galleria al piano superiore della sala. Sulla base di quelle riflessioni decise quindi di lasciare la magia come ultima risorsa e di aspettare per vedere se sarebbe riuscita
a cavarsela in altro modo. Mentre i suoi catturatori aspettavano che arrivasse il loro turno, ebbe intanto modo di ascoltare altre sentenze fomite dagli Arbitri, notando che le punizioni erano sempre e comunque severe. Il furto era punito con la perdita di una mano, l'adulterio con la castrazione e la lapidazione, rispettivamente per l'uomo e per la donna... chissà quale era quindi la pena prevista per l'omicidio? Sentendo la paura stringerle lo stomaco in una morsa gelida, Aurian si tese, pronta a vendere cara la vita. Quello non era certo il posto più adatto per agire, con tutti quegli arcieri pronti a tirare... ma se avessero deciso di giustiziarla avrebbero dovuto portarla all'esterno... Poi giunse il suo turno e gli uomini che l'avevano catturata la trascinarono al cospetto degli impassibili Arbitri, costringendola a inginocchiarsi mentre uno degli Anziani del villaggio... un vecchio dal volto scavato e segnato dalle fatiche e dalle malattie... esponeva l'accaduto. Quando l'uomo ebbe finito di parlare, gli Arbitri si volsero verso Aurian. che sentì il loro sguardo freddo vagliarla da testa a piedi nell'assimilare il suo aspetto alieno. «Hai qualcosa da dire in tua difesa?» chiese quindi l'Arbitro seduto al centro. Nel frattempo il cervello di Aurian aveva lavorato con la rapidità data dalla disperazione nel tentativo di elaborare una storia plausibile che potesse salvarla... e dal momento che quella gente sembrava dare tanta importanza alla fedeltà coniugale aveva deciso di puntare su questo. Con esitazione, spiegò quindi che stava viaggiando con suo marito e con la sorella di lui (nel caso che Anvar e Sara si trovassero da qualche parte nella città) quando la loro nave era stata spinta verso sud da una tempesta ed era naufragata. Avendo perso di vista gli altri, lei aveva risalito il fiume per cercarli e alla fine si era addormentata sotto un albero, svegliandosi circondata da una banda di uomini laceri che avevano preso a molestarla (se non altro questo era vero). Ancora assonnata e pensando che quegli uomini intendessero violentarla, si era difesa come meglio poteva, pronta a morire pur di non darsi ad un uomo che non era suo marito. Gli Arbitri discussero fra loro con voce sommessa, poi quello che si trovava al centro tornò a rivolgerle la parola. «Questo però non spiega la tua abilità nel combattere» osservò. «Nella mia terra molte donne vengono addestrate come guerrieri» replicò Aurian, lottando per restare calma e desiderando di poter vedere in volto il suo interlocutore.
«Capisco» commentò l'Arbitro, poi appoggiò le braccia sul tavolo e si protese in avanti, tanto da permetterle di vedere i suoi occhi socchiudersi dietro la maschera. «E come spieghi il fatto di conoscere la nostra lingua? Soltanto gli stregoni del nord hanno questo talento. Vuoi forse negare di essere una di loro?» Dagli astanti si levò un mormorio di stupore e coloro che si trovavano più vicini a lei si affrettarono ad indietreggiare con lo sguardo dilatato per il timore. Aurian intanto deglutì a fatica, rendendosi conto di essersi tradita da sola, e dopo aver riflettuto in fretta decise di rischiare il tutto per tutto. «Lo ero, ma sono fuggita alla loro corruzione per poter stare con mio marito» rispose, chiedendosi come l'Arbitro avrebbe accolto quell'affermazione. «Anche tuo marito è un Mago?» «No. Lui è un Mortale, e la nostra unione era proibita. È stato per questo che sono fuggita per sempre alla stregoneria. Non era mia intenzione entrare nelle vostre terre e non nutro animosità di sorta verso il vostro popolo. Mi dispiace profondamente di ciò che ho fatto ma è stato un incidente, e tutto ciò che voglio è ritrovare mio marito e andare via di qui perché sono sola, abbandonata e spaventata. Nel nome della compassione, non potete lasciarmi andare?» «Compassione?» ripeté l'Arbitro, ergendosi sulla persona «In questa città non c'è compassione per chi viola la legge. Tu hai spento una vita, e questo è proibito! Sei una straniera che è entrata nelle nostre terre, e anche questo è proibito! Sei una Maga... proibito! Che diritto hai tu alla compassione?» «Nessuno, e tuttavia la chiedo» ribatté Aurian. abbassando lo sguardo. «Potrebbe essere... tutto ciò che mi rimane.» Di nuovo gli Arbitri conferirono fra loro e l'uomo al centro, che sembrava detenere l'autorità maggiore, parve discutere con gli altri due prima di tornare a rivolgersi a lei. «Io credo che tu stia dicendo la verità, perché se non avessi rinunciato ai tuoi poteri demoniaci li avresti usati contro coloro che ti hanno catturata o per sottrarti a noi. Non lo hai fatto, il che sottintende che non avevi intenzioni malvagie... e in effetti ho compassione di te perché sei davvero sola e abbandonata. Tuo marito non ha raggiunto questa città, perché se lo avesse fatto sarebbe stato portato al nostro cospetto, come prescrive la legge.» Le sue parole si abbatterono su Aurian come un colpo fisico e lei non ebbe più difficoltà a manifestare sgomento o dolore: evidentemente Anvar
e Sara dovevano essere morti per colpa sua, e tutto ciò che lei aveva fatto era stato inutile. Poi l'arbitro riprese a parlare, in tono meno aspro. «Secondo la legge dovresti morire per i tuoi crimini, ma di certo il Mietitore di Anime sarebbe contrariato con noi se condannassimo una donna nelle tue condizioni. D'altro canto non possiamo lasciarti andare, quindi ti offriamo una scelta: come alternativa all'esecuzione capitale puoi rischiare l'arena, dove i criminali come te combattono fino alla morte per intrattenere il Khisu e il popolo. Mi hai detto che possiedi le doti di un guerriero, quindi forse se combatterai bene riuscirai a conquistarti la libertà... mentre se desideri seguire tuo marito nei Granai del Mietitore potrai farlo in qualsiasi momento. Accetti questo giudizio?» Era una domanda retorica, e Aurian lo sapeva bene, ma almeno questa soluzione le lasciava una tenue via di fuga. «Accetto... e ti sono grata per la tua misericordia» disse. «Ancora una cosa...» aggiunse l'Arbitro, poi rivolse un cenno ad un funzionario della corte e gli mormorò qualcosa che indusse l'uomo a lasciare la stanza e a tornare di lì a poco con una scatola di metallo grigio cesellata con intricati simboli arcani la cui vista strappò ad Aurian un brivido. Rimosso con un soffio il velo di polvere che rivestiva la scatola l'Arbitro ne sollevò il coperchio e prelevò dal suo interno qualcosa che Aurian non riuscì a vedere, poi ordinò alle guardie di slegarla, le si avvicinò con cautela e con un tocco sorprendentemente gentile le fissò qualcosa intorno ai polsi. Nel momento in cui la seconda serratura si chiuse con uno scatto secco Aurian barcollò e cadde con un urlo di agonia, perché le sembrava la stessero rivoltando come un guanto e si sentiva pervadere da una crescente debolezza, quasi che le venisse sottratta la sua stessa anima... poi l'Arbitro la sollevò fra le braccia robuste, l'adagiò su una panca addossata alla parete e le accostò alle labbra una coppa di vino che Aurian sorseggiò con gratitudine, assalita dalle vertigini e consapevole che i muscoli rifiutavano di sorreggerla. La cosa peggiore era che da qualche parte dentro di lei si annidava un vuoto grigio e freddo che sembrava sottrarsi sfuggevole al vaglio della sua mente indagatrice. «Cosa mi hai fatto?» sussurrò. «Ti ho applicato i bracciali di Zathbar, Rovina degli Stregoni» rispose l'Arbitro, che appariva scosso. «Sono dei manufatti sottratti molto tempo fa al tesoro di un Drago e il segreto della loro fabbricazione si perde nelle nebbie dei tempi. Non avevo idea che avrebbero avuto su di te un simile effetto, ma il loro uso è necessario, se vuoi vivere nelle nostre terre. All'in-
terno dei bracciali ci sono delle pietre incantate che assorbono il tuo potere demoniaco e che fungeranno come salvaguardia per il mio popolo contro qualsiasi tentativo da parte tua di usare i tuoi poteri malvagi contro di noi.» Aurian si sentì assalire da un'ondata di rabbia al pensiero che questo popolo tanto avverso all'uso della magia fisse ricorso ad una magia negativa per vincolare i suoi poteri. Oh, dèi, pensò con disperazione. Come farò ad uscire da questa situazione? Gli alloggi riservati ai guerrieri all'interno dell'arena erano gradevoli... per essere una prigione. La cella di Aurian aveva le sbarre alle finestre e una porta robusta, ma le lisce pareti bianche e il pavimento di piastrelle erano immacolati e l'arredo era costituito da un tavolo, una sedia, una cassapanca ed un letto; alcuni pioli piantati nelle pareti servivano per appendere i vestiti e una stuoia dai colori vivaci copriva il pavimento, ravvivando l'ambiente. Aurian ricordava ben poco del tragitto fino a quel luogo, tranne che qualcuno l'aveva aiutata ad arrivare fin lì e l'aveva liberata dai legami, e che subito dopo era scivolata nel sonno, del tutto esausta. Adesso era ormai il crepuscolo, e la camera era rischiarata da una lampada ad olio posta in una nicchia scavata in alto nella parete e chiusa da una grata d'avorio... presumibilmente per prevenire un suo tentativo di darsi fuoco. Adesso il dolore e la debolezza erano scomparsi, lasciando soltanto quell'orribile vuoto grigio... l'assenza della sua magia... la cui presenza destò in lei un soffocante senso di panico. Subito dopo s'impose però di controllarsi, e si disse che se voleva uscire da quella situazione avrebbe dovuto abituarsi in fretta a quell'orribile e gelida sensazione di vuoto. Sollevandosi a sedere scrutò la stanza e vide sul tavolo un pasto abbondante che le ricordò quanto fosse affamata. Anche se si era raffreddato il cibo era ancora buono ed era costituito da una sorta di porridge speziato, da un cosciotto arrosto che risultò essere di capra e da uno strano pane piatto. Inoltre il vassoio conteneva una ciotola di frutta, un formaggio bianco tanto pungente da farle salire le lacrime agli occhi e dell'ottimo vino rosso, fruttato e forte. Aurian mangiò a sazietà, rifacendosi delle lunghe giornate di digiuno, poi tornò sul letto portando con sé la bottiglia del vino ed una coppa, si appoggiò con la schiena alla parete e fissò con occhi socchiusi la fiamma danzante della lampada, che pareva sdoppiarsi e farsi indistinta. Possibile che il vino fosse tanto forte? Oppure quel fenomeno era dovuto al fatto che era ancora terribilmente stanca?
In quel momento si sentiva stranamente intorpidita e distaccata da tutto, incapace di affrontare la perdita dei suoi poteri, la sua attuale situazione e la scomparsa di Anvar e di Sara. Sapeva che avrebbe dovuto elaborare qualche piano, ma non riusciva semplicemente a riscuotersi a sufficienza per farlo: fin da quando era fuggita dall'Accademia era rimasta in preda ad una costante tensione, sempre sul filo del rasoio, e adesso che era imprigionata e costretta a restare immobile la sua mente e il suo spirito parevano decisi a sfruttare al massimo quest'opportunità per riposare e rigenerarsi... senza dubbio aiutati dal vino, che le stava inducendo un piacevole senso di sonnolenza... Il rumore di una chiave che girava nella serratura la indusse a sollevarsi a sedere di scatto, sbattendo le palpebre per difendersi dall'abbagliante luce solare che penetrava attraverso le sbarre della finestra. D'istinto allungò la mano verso la spada, naturalmente senza trovarla, poi vide entrare un uomo di mezz'età, alto e bruno di carnagione, che reggeva in mano un vassoio e rimase immobile ad osservarlo mentre lui si dirigeva verso il tavolo e posava su di esso il proprio carico. L'uomo aveva la testa completamente calva e portava sull'occhio sinistro una benda rossa da sotto la quale partiva una pallida cicatrice irregolare che gli solcava il volto; sotto l'ampia veste rossa il suo corpo appariva snello ma largo di spalle, una conformazione fisica che le ricordò con angoscia Anvar. «Una giornata propizia a te, guerriera» salutò infine l'uomo, girandosi verso di lei con un profondo inchino. La sua voce era profonda e fluente, e nel reagire d'istinto alla sua cortesia Aurian rispose all'inchino con un cenno del capo. «Una giornata propizia a te, signore... e temo che la tua sarà di certo migliore della mia» replicò in tono asciutto. «Questo è da vedersi» sorrise l'uomo. «Io sono Eliizar, maestro d'armi dell'arena» si presentò quindi, con un altro inchino che Aurian questa volta ricambiò, alzandosi in piedi e massaggiandosi il collo dolorante. «Io sono Aurian... e sono anche una stupida per essermi addormentata in posizione seduta» replicò, chiedendosi al tempo stesso per quale motivo i bracciali non avessero bloccato anche la sua capacità di comprendere il linguaggio locale. Possibile che ci fosse qualche scappatoia da quell'incantesimo? «Sei veramente stanca, e anche affamata, a quanto pare» sorrise Eliizar, inarcando un sopracciglio in direzione degli scarsi resti della cena della notte precedente. «Ho ritenuto fosse meglio lasciarti dormire, e prima di
affidarti a dei massaggiatori che ti liberino dalla tua rigidità vorrei fare colazione con te perché sono curioso di sentire la tua storia e certo che tu abbia molte domande da pormi.» La colazione consisteva di uova sode sgusciate, dell'onnipresente pane piatto, di formaggio, miele e frutta... e di un recipiente coperto da cui esalava un aroma appetitoso. «Questo cos'è?» chiese Aurian, indicando la pentola. «Non conosci il liafa?» replicò Eliizar, inarcando le sopracciglia per la sorpresa. «In tal caso non hai mai vissuto veramente! Questa è la salvezza del guerriero... dona forza, lucidità di mente e nutrimento» spiegò quindi, versando una coppa del fumante liquido nero e porgendola ad Aurian, che fece una smorfia nel vedere quella sostanza simile a fango. Invogliata dall'aroma delizioso bevve però un sorso e quasi si strozzò, perché il sapore era troppo intenso e molto amaro. «Il... il sapore non è buono come l'odore» disse con aria contrita. Sorridendo, Eliizar versò nella tazza un cucchiaino di miele e rimestò vigorosamente il tutto. «Prova di nuovo» consiglio quindi. Aurian prese la tazza come se fosse stata una vipera, ma non volendo fare una brutta figura inghiottì un altro sorso... e questa volta s'illuminò in volto per il piacere: adesso che il miele ne attenuava il gusto amaro la bevanda era davvero deliziosa... ed anche stimolante, notò con approvazione, nel ripensare alla fatica fatta quella mattina a svegliarsi, mentre aggrediva di gusto la colazione. «Come sei giunta qui, Aurian?» domandò intanto Eliizar, distogliendo la sua attenzione dal cibo. «Come mai una donna è una guerriera? In questa terra non si sono mai viste donne capaci di maneggiare una spada.» Aurian ripeté la stessa storia che aveva raccontato agli Arbitri, e quando accennò ai suoi due compagni scomparsi vide l'occhio sano di Eliizar socchiudersi in un'espressione pensosa. «Ah» commentò questi. «Allora è possibile che in quelle voci ci sia davvero qualcosa di fondato, dopo tutto.» «Quali voci?» chiese immediatamente Aurian. «Può darsi che non ci sia nulla di vero» esitò il maestro d'armi. «Sai che dicerie del genere possono nascere senza basi fondate...» «Dimmi di cosa si tratta!» ingiunse Aurian, serrandogli la mano intorno al polso. «D'accordo» acconsentì con riluttanza Eliizar, distogliendo lo sguardo.
«Alcuni giorni fa al mercato si è parlato di una nave corsara che aveva trovato degli stranieri più a monte lungo la costa. A quanto pare uno di essi era una donna di incredibile bellezza... però che io sappia in città non si sono visti stranieri di sorta, tranne te.» «Se fossero stati catturati che ne sarebbe stato di loro?» insistette Aurian. «Ti prego, dimmelo.» «Sarebbero stati portati alla presenza degli Arbitri come è successo a te. È la legge» replicò in tono brusco il maestro d'armi. «E se questo non fosse successo?» persistette Aurian. «Ecco... da tempo corrono voci di un commercio illegale di schiavi, ma in quel caso la donna sarebbe stata venduta ad una casa di piacere, il che non è successo perché ormai la notizia di una simile meraviglia si sarebbe diffusa per tutta la città. Lascia perdere, Aurian: qualsiasi cosa ne sia stata di loro adesso a te non può più importare» proseguì Eliizar, deglutendo a fatica, con aria infelice. «Ora devi concentrarti per sopravvivere in questo posto il più a lungo possibile, perché prima o poi la tua sentenza di morte verrà eseguita nel momento in cui entrerai nell'arena.» «Ma l'Arbitro ha detto che avrei avuto la possibilità di conquistarmi la libertà!» esclamò Aurian, sgomenta. «Il giudice è stato crudele e scorretto nel farti balenare davanti agli occhi una simile speranza» ribatté in tono piatto il maestro d'armi, scuotendo il capo. «Allora ha mentito? Non c'è nessun modo...» «Impossibile!» esclamò Eliizar, alzandosi bruscamente in piedi. «Qui voi non siete altro che vittime destinate al divertimento del Khisu, che è un uomo crudele... come ho sperimentato di persona. Per prima cosa dovrò verificare il tuo livello di abilità mettendoti a confronto con gli altri guerrieri: ho la tua spada, che ti restituirò, e con essa ti addestrerai sotto la mia supervisione. Ti avverto che nell'arena si combatte sempre e soltanto fino alla morte: quando sei lì dentro devi sopraffare il tuo avversario, e se ci riesci ne dovrai fronteggiare due contemporaneamente, e poi tre. Se per qualche miracolo alla fine sarai ancora viva, ti metteranno a confronto con il Demone Nero.» «E se dovessi sconfiggere questo Demone?» chiese Aurian, sentendo i capelli che le si rizzavano sulla nuca. «Allora potrai avere la libertà... però è un'impresa impossibile. Nessuno ha mai sconfitto il Demone, nessuno può farlo.» «Io ci riuscirò» ringhiò Aurian, squadrando le spalle. «Quando comin-
ciamo?» Eliizar scosse tristemente il capo e se ne andò senza aggiungere una sola parola. Quando sentì la chiave girare nella serratura Aurian scrollò le spalle e tornò a concentrarsi sulla colazione, rifiutandosi di lasciare spazio all'insidioso timore che provava per se stessa e per suo figlio perché sapeva che doveva rimettersi in forze. Dopo aver mangiato e aver riposato per qualche tempo si immerse nei profondi esercizi di meditazione che Forral le aveva insegnato e che da tanto tempo stava trascurando: qualsiasi cosa fosse successa sarebbe stata pronta ad affrontarla. Doveva esserlo. CAPITOLO VENTIDUESIMO L'UNICORNO INVISIBILE «Ancora!» gridò Maya. Attingendo alle sue forze residue l'esausto D'arvan spiccò la corsa verso di lei attraverso la radura boschiva, agitando selvaggiamente la spada di legno; la guerriera però si trasse agilmente di lato e protese un piede in modo da mettergli lo sgambetto, facendolo crollare come un albero abbattuto a faccia in avanti nel fango e nelle foglie secche. «Credo che per oggi possa bastare» commentò Maya, con tatto, mentre gli angoli della bocca le si contraevano per lo sforzo di contenere una risata, e gli si avvicinò per aiutarlo a rialzarsi. «Razza... razza di megera!» infuriò D'arvan, pulendosi gli occhi dal fango. «Mi dispiace, tesoro, ma quella è una mossa standard» spiegò Maya, porgendogli la mano. «Se vuoi, domani te la insegnerò.» «Perché prendersi il disturbo?» borbottò D'arvan, issandosi in piedi: recuperato il mantello che pendeva da un ramo, ne usò un'estremità per pulirsi la faccia prima di gettarselo sulle spalle, aggiungendo: «Ormai sto prendendo lezioni da due settimane, e ancora non riesco quasi a distinguere un'estremità della spada dall'altra.» «Imparerai, non ti preoccupare. Due settimane sono un tempo insignificante nell'addestramento alla scherma... soprattutto quando si comincia da zero alla tua età» garantì Maya, ma le sue parole parvero soltanto accentuare l'irritazione del Mago. «Adesso si tratta della mia età, vero? A quanto pare non ho vie d'uscita: quando mi insegna la magia Eilin mi tratta come un bambino, mentre adesso tu mi stai dicendo che sono ormai decrepito!»
«Nel vederti comportare in questo modo mi viene da supporre che Eilin abbia ragione» scattò Maya. Notando la sua espressione accigliata, D'arvan si sforzò di liberarsi del proprio umore cupo perché temeva di poter mettere a repentaglio l'amore che stava fiorendo fra loro. «Mi dispiace. Maya... so di essere di pessimo umore, questa mattina» si scusò, cingendole le spalle con un braccio, poi si avviarono insieme per tornare verso la torre e d'un tratto lui fu percorso da un brivido che non era dovuto soltanto alla grigia e gelida giornata invernale. «La scorsa notte non ho dormito bene» commentò. «Ho avuto degli incubi ogni volta che ho chiuso gli occhi.» «Perché non mi hai svegliata?» domandò Maya, con voce piena di comprensione, accentuando la stretta del proprio braccio intorno alla vita di lui. «Cos'hai sognato di tanto spaventoso?» «Si trattava di mio fratello... o meglio del mio fratellastro. Ho continuato a sognare che lui stava strisciando verso di me armato di coltello... per uccidermi, come ha già tentato di fare in passato» rispose D'arvan, deglutendo a fatica. Il ricordo del sogno era ancora molto nitido dentro di lui e gli trasmetteva un senso di tensione fra le spalle e nella gola arida... insieme all'incombente e onnipervasivo terrore di un assassino nascosto nel buio munito di coltello. «Ecco, dopo tutto non mi sorprende se si considera...» cominciò Maya, poi si fermò di colpo e si girò verso il compagno con gli occhi dilatati dall'ansia: «D'arvan, non pensi che possa essere una visione effettiva, vero? Voi due eravate così uniti... non è possibile che Davorshan abbia scoperto dove sei e che stia venendo per...» D'arvan sussultò nel riconoscere quella verità che lui non aveva voluto scorgere a causa del proprio timore e che Maya aveva individuato grazie all'istinto, come sempre molto più affidabile del suo. «Dèi santi... Eilin!» gridò. «Lui verrà di certo alla torre. Presto!» Poi sfilò dal fodero di Maya la sua spada affilata e spiccò la corsa fra gli alberi, lasciando la guerriera a sforzarsi di tenergli dietro come meglio poteva. «D'arvan, aspetta!» gli gridò dietro Maya, accorgendosi di non riuscire a tenere il suo passo. «Non puoi...» Ma lui era ormai lontano. D'arvan era quasi arrivato al limitare degli alberi che costeggiavano il prato erboso adiacente il lago quando l'urlo mentale di aiuto di Eilin lo fe-
ce barcollare. Con il respiro affannoso riprese a correre ancora più in fretta, aprendosi a forza il varco in mezzo ai rami che lo sferzarono sul volto e sul petto, scavalcando radici che parevano sollevarsi dal terreno per farlo inciampare, avvolgendoglisi intorno alle caviglie e alle ginocchia; la sua mente era però così concentrata sul pensiero del fratello che in un primo tempo lui non pensò neppure a chiedersi per quale motivo la foresta sembrasse adesso molto più densa e il percorso per arrivare alla torre più lungo del consueto... poi però gli venne fatto di domandarsi come fosse riuscito Davorshan ad evitare i lupi che proteggevano la Valle. Quale stregoneria aveva usato per piombare loro addosso in questo modo? Imprecando con voce affannosa, si rimproverò per non aver prestato maggiore attenzione ai suoi sogni. Quando infine arrivò al lago si arrestò di colpo, confuso e sgomento, nel vedere che adesso gli alberi arrivavano fino alla riva e stavano obliterando con le loro radici il liscio pendio erboso che fino a poco prima aveva occupato quello spazio. Anche la torre che sorgeva sull'isola appariva trasfigurata al di là di ogni possibilità di riconoscimento da enormi viticci che si stavano inerpicando lungo le pareti un tempo lisce, graffiando la pietra e incrinando il cristallo, mentre spinosi cespugli di rovi e di susini soffocavano il ponte di legno e il terreno antistante la porta della torre. I meli del frutteto di Eilin si erano spostati in modo da raccogliersi davanti all'imboccatura del ponte dal lato della Valle, e con estremo stupore di D'arvan si stavano ora riempiendo a vista d'occhio di frutti fuori stagione... fenomeno di cui lui non riuscì a comprendere il motivo fino a quando un ramo si piegò all'indietro con la rapidità di un serpente e scattò in avanti, scagliando una mela come se fosse stato un sasso lanciato con una fionda. D'arvan tentò di scansare il proiettile, che però lo raggiunse alla spalla con forza sufficiente a causare un livido, mancandogli di stretta misura la faccia. Quel primo colpo fu poi seguito da una vera e propria raffica di frutti che lo costrinse a gettarsi dietro un albero per proteggersi: immediatamente le radici si svincolarono però dal suolo con una pioggia di terriccio e l'albero in questione prese a spostarsi di lato in modo da permettere ai meli di centrare il loro bersaglio. Tutta la Valle era in subbuglio e ogni forma di vegetazione stava cercando di proteggere Eilin, signora della Magia della Terra... e avendo scambiato D'arvan per un intruso le piante gli stavano impedendo di andare in aiuto della Maga. Stringendo saldamente con entrambe le mani l'impugnatura della spada di Maya, il giovane Mago cominciò a colpire i rami che lo circondavano, reagendo in modo frenetico
e irriflessivo a causa della premura. D'un tratto un sinistro fruscio si diffuse fra gli alberi e una nebbia carminia cominciò a diffondersi fra i rami protesi, manifestazione tangibile dell'ira della foresta; poi un suono simile all'ululato di una bufera aggredì gli orecchi del Mago e i rami presero ad agitarsi di qua e di là, protendendosi come dita ossute per afferrargli i capelli e strappargli gli occhi e gli abiti; le sue nocche si coprirono di sangue per le sferzate impresse dagli arbusti che cercavano di fargli abbandonare la presa sulla spada e da molto lontano, semisoffocato dal ringhiante fragore della foresta infuriata, giunse un grido d'aiuto da parte di Maya. Angosciato, D'arvan tentò di tornare verso di lei ma si trovò il passo bloccato da una macchia di piante d'agrifoglio irte di foglie acuminate e nel frattempo la foresta approfittò della sua esitazione per avviluppargli intorno alle caviglie radici simili a tentacoli incrostati di terra: un solo strattone fu sufficiente a scagliare a terra il giovane, poi le radici cominciarono a trascinarlo verso il cuore profondo della foresta. I rovi gli si avvolsero intorno alle mani, affondando le spine affilate nella pelle tenera dei polsi e del dorso delle dita, che erano ancora strette intorno alla spada, e al tempo stesso vortici di polvere si levarono dal terreno in modo da scagliargli negli occhi una bufera in miniatura di terriccio e di ciottoli. «Aiuto!» stridette ancora una volta nella sua mente la voce di Eilin, sempre più debole e disperata. «Non posso!» ansimò ad alta voce D'arvan, con il volto rigato da lacrime di dolore e di frustrazione. Le ginocchia e i gomiti dei suoi abiti erano ormai lacerati dal contatto con il suolo della foresta e la pelle sottostante era coperta di escoriazioni, mentre le mani cominciavano a intorpidirsi a causa dei viticci che ne stavano bloccando la circolazione. Presto avrebbe perso la presa intorno alla spada e allora sarebbe stato del tutto impotente ad andare in aiuto della sua insegnante... Ma certo! Come aveva fatto a non ricordarsi di essere anche lui un Mago della Terra? Non c'era da meravigliarsi che la foresta lo avesse scambiato per un nemico, dal momento che l'aveva aggredita come uno stupido e ignorante Mortale! Lottando per mettere a fuoco i propri pensieri e ricordare ciò che Lady Eilin gli aveva insegnato in quelle settimane, D'arvan chiamò a raccolta il proprio potere e protese la mente per cercare di contattare il cuore... l'anima stessa... della foresta. Essa lo aggredì rabbiosamente, perché la sua intelligenza era adesso annebbiata da un'ira ribollente, ma lui persistette.
Sono un amico! Un amico! Ti aiuterò a soccorrere la Signora! Sono un Mago della Terra, il suo allievo. Vedi? implorò, protendendo i propri poteri come Eilin gli aveva insegnato a fare, in modo che fossero esposti all'esame della foresta; al tempo stesso evocò i sentori umidi e ricchi del fiorire della primavera e l'antico odore muschiato della madre terra, custode di ogni seme, il chiarore della luce del sole fra i rami delle betulle e la danza delle acque adamantine di un ruscello, lo splendore argenteo della luce lunare e la setosità della nebbia mattutina, il nudo candore del sudario invernale e la commovente esuberanza del fuoco autunnale. E qualcosa cambiò. Improvvisa come lo scatto di una chiave che girasse in una serratura, come la rimozione di una catena, come l'attenuarsi dell'artiglio del gelo sulla terra per il sopraggiungere della primavera, giunse l'accettazione della foresta. L'ululato si trasformò in un mormorio sommesso e D'arvan provò un sollievo intenso quanto la rimozione di un peso gravoso nel rendersi conto che l'ira degli alberi aveva cessato di percuoterlo. Le radici e i viticci allentarono la presa e si ritrassero, e al tempo stesso davanti a lui apparve un sentiero sgombro che portava fino al ponte e al di là di esso, arrivando davanti alla porta della torre. Rialzatosi in piedi, spiccò la corsa verso di essa, incitato da un ramo che si protese a pungolargli energicamente la schiena. I viticci che ostruivano la porta si ritrassero sibilando allorché lui giunse davanti alla soglia con la spada in pugno, e nell'oltrepassarli per entrare in cucina D'arvan si chiese per quale motivo essi non lo avessero seguito all'interno, notando al tempo stesso che una forza di qualche tipo pareva impedire loro l'accesso all'edificio. Poi arrivò alla base della scala e si rese colpo di conto di cosa si trattasse quando si trovò a indietreggiare barcollando sotto l'impatto nauseabondo di una magia malvagia: tossendo e con gli occhi lacrimanti si costrinse a rialzarsi aggrappandosi alla ringhiera liscia e ricurva e iniziò ad issarsi su per la scala di metallo, un gradino dopo l'altro. Ai piani superiori le stanze che si affacciavano sulla scala risultarono completamente devastate, e D'arvan sussultò nel vedere il caos che aveva travolto ogni cosa: le finestre erano crepate, le panche di legno rovesciate e scheggiate, le tenere piantine erano state strappate e calpestate, e adesso che aveva aperto la propria mente all'uso dei suoi poteri lui ne poteva avvertire acutamente la sofferenza, poteva udire i loro minuscoli e silenziosi urli di dolore che gli trapassavano la mente e gli stringevano il cuore. Ogni stanza risultava però vuota di presenze umane, e per quanto si sforzasse lui
non riusciva più a raggiungere la mente di Eilin mentre continuava la sua ascesa imbattendosi dovunque nella stessa sconvolgente distruzione. Nell'aggirare la curva finale della scala infine si arrestò nel vedere sull'ultimo pianerottolo una figura che stringeva nella mano sinistra una spada che grondava sangue: Davorshan. «Ben incontrato, fratello» salutò questi, contorcendo il viso in un sogghigno malvagio alla vista di D'arvan. «Per trovarti ho impiegato più tempo di quanto pensassi... ma la tua morte mi ripagherà dei giorni che ho perso a vagare su quelle dannate brughiere» aggiunse, poi sollevò la spada e prese ad avanzare con una luce omicida negli occhi. Consapevole che Davorshan aveva il vantaggio di essere in una posizione sopraelevata rispetto alla sua, D'arvan serrò la spada con dita improvvisamente viscide di sudore e cominciò lentamente a indietreggiare lungo la scala, tastando con cautela ogni gradino con i piedi perché non osava distogliere lo sguardo dal fratello neppure per un istante: l'odio di Davorshan gli bruciava nel cervello, simile all'ira della foresta ma più profondo, più vicino, più intimo. Le loro menti erano rimaste unite per così tanti anni che Davorshan lo conosceva alla perfezione ed ora lo stava divorando con la propria malizia, accentuando le sue paure e le sue insicurezze, minando il suo coraggio e la sua determinazione. «Mezzosangue!» ringhiò d'un tratto Davorshan. «Vile, impotente bastardo! Credevi davvero che avrebbe funzionato, D'arvan... pensavi sul serio di poterti nascondere dietro le gonne della Signora? Un momento, cos'abbiamo qui?» Frugando con spietata indifferenza nella mente del fratello, la sua volontà aveva scoperto quello che per D'arvan era il ricordo più prezioso. «Allora è questo che stai combinando, fratello mio?» commentò Davorshan, con una risata crudele e beffarda. «Ti stai divertendo con una piccola cagna Mortale dal momento che non riesci a procurarti nulla di meglio? Almeno lei vale qualcosa, D'arvan? Forse la proverò io stesso, dopo averti ucciso, o magari lo farò prima, in modo che tu possa guardare. Lei dov'è? Dove hai nascosto la tua sgualdrina Mortale?» Un rosso velo d'ira avviluppò la mente di D'arvan e la mano con cui lui serrava la spada fu assalita da un tremito, ma l'addestramento impartitogli da Maya... che gli aveva insegnato a non cadere preda di provocazioni tanto trasparenti... ebbe la meglio sulla rabbia e invece di cedere ad essa lui cominciò a chiamare a raccolta i propri poteri nel continuare la discesa del-
la scala, chiedendosi al tempo stesso quale aspetto della Magia della Terra poteva tornargli utile contro suo fratello. Le piante al piano di sopra erano troppo piccole, ma... poteva ricorrere ai viticci che avevano avviluppato la torre? Se fossero riusciti a rompere una finestra... «Oh, no, non lo farai!» ringhiò la voce di Davorshan. «Non perderò tempo in una gara di magia, D'arvan... non sul suo terreno.» «Davvero?» ritorse D'arvan, sollevando una mano pronto a colpire. «Ti avverto! Vuoi essere responsabile della morte di Eilin?» D'arvan si arrestò a metà del gesto e il suo sguardo si spostò involontariamente al di là del fratello, verso la sommità delle scale. «Finalmente te ne sei reso conto» lo derise Davorshan. «Se fosse già morta tu lo avresti avvertito.» «Dov'è?» esclamò D'arvan. «Cosa le hai fatto?» Davorshan scrollò le spalle e sollevò la spada insanguinata. «Anche se non mi hai dato il tempo di finire il mio lavoro, non fare affidamento sulla possibilità che lei venga in tuo aiuto. Se però vuoi spostare il confronto sul piano della magia, ricorda quale sia il campo d'azione del mio talento: io posso far alzare le acque del lago fino a sommergere la torre... e che fine farà Eilin quando essa crollerà?» «Bastardo!» ringhiò D'arvan, a denti stretti. «No, fratello, stando a quanto mi ha detto Eliseth sei tu il bastardo. Per tutta la vita hai continuato a prosciugare il mio potere... quel potere che mi spettava di diritto e che tornerà a me una volta che ti avrò ucciso. Non saresti mai dovuto nascere!» Allora era stato questo il modo in cui Eliseth era riuscita a conquistare Davorshan alla sua causa! D'arvan poteva avvertire il risentimento di suo fratello, la sua rovente avidità e l'irragionevole ira che lo consumava, e comprese che quando quei sentimenti fossero giunti al culmine Davorshan lo avrebbe attaccato. Tastando con cautela alle proprie spalle con il piede nel discendere un altro gradino, scoprì di essere giunto su un pianerottolo e nella sua mente cominciò a formarsi un piano d'azione. «Oh, no, fratello mio, sei tu ad essere in errore» dichiarò, incurvando le labbra in un sorriso beffardo. «Eilin mi ha raccontato tutta la storia e mi ha spiegato che io sono il figlio che nostra madre ha voluto avere dall'uomo che amava. Lei odiava Bavordran ed ha concepito te soltanto per sedare qualsiasi sospetto. Io posso anche essere un bastardo, ma sei tu quello che non sarebbe mai dovuto nascere!» «Bugiardo!» urlò Davorshan, lanciandosi alla carica con il volto contor-
to dall'ira e la spada insanguinata che sferzava l'aria. Nel momento stesso in cui lui si mosse D'arvan si spostò però da un lato, infilandosi nella soglia aperta di una stanza, e protese in fuori il piede come aveva visto fare a Maya quella mattina stessa. Subito dopo avvertì il dolore rovente dello strappo impresso ai suoi muscoli dall'impeto del corpo del fratello che gli piegò violentemente la gamba da un lato, e nel cadere su un fianco sentì il fragore metallico prodotto da Davorshan nel precipitare rotolando lungo la scala. Aveva funzionato! Facendo leva su una panca rovesciata D'arvan tentò di issarsi in piedi ma una lancinante fitta di dolore gli percorse la gamba lesa e lui barcollò, cadendo nuovamente al suolo; ringhiando una delle imprecazioni preferite di Maya, si trascinò allora fino alle scale e cominciò a scivolare verso il basso sul sedere, un gradino dopo l'altro, come lui e Davorshan avevano fatto tanto spesso da bambini... quel ricordo gli causò un dolore pari alla torsione di un coltello all'interno di una ferita, ma poi ricordò a se stesso che adesso la fanciullezza era finita e che il compagno di quell'epoca si era trasformato in un mostro assassino: se non voleva che Davorshan lo uccidesse, doveva arrivare in fondo alla scala e dargli il colpo di grazia... sempre che fosse stato ancora vivo. Giunse in fondo con il volto fradicio di sudore e di lacrime, e nel vedere Davorshan che giaceva prono e immobile sul pavimento della cucina, ai piedi delle scale, pregò fra sé che fosse già morto. «Oh, dèi» supplicò, appollaiandosi sull'ultimo gradino con la spada stretta nella mano tremante, «per favore, non mi costringete a fare questo.» In quel momento però Davorshan gemette e si mosse, rotolando supino, e nei suoi occhi vitrei scintillò quell'odio incontenibile che ormai gli aveva distorto la mente... un odio che non si sarebbe mai più spento. Comprendendo infine quella realtà ineluttabile, D'arvan si costrinse ad accettarla e levò in alto la spada con entrambe le mani, conficcandola nel cuore del fratello. Un dolore intollerabile gli trafisse il petto quando le loro menti si unirono per l'ultima volta e lui urlò, serrandosi le mani sul torace e piegandosi su se stesso. Fratello... Il sussurro tronco di Davorshan fluttuò attraverso la mente di D'arvan e si dissolse nell'istante in cui l'anima dell'altro Mago abbandonava il corpo, poi D'arvan sentì il dolore che gli serrava il petto trasformarsi nel rovente senso di lacerazione che contrassegnava la morte di un Mago... morte che questa volta lui aveva inflitto di suo pugno.
«D'arvan!» chiamò la voce brusca di Maya, che come un raggio di luce scese a trapassare il nero velo di dolore che avviluppava il Mago della Terra, inducendolo a sollevare con aria stordita lo sguardo su di lei. Lasciatasi cadere sul gradino accanto a lui Maya lo circondò con le braccia, con il volto solcato da quelle lacrime che D'arvan era stato incapace di versare, ma quando parlò lo fece in tono sorprendentemente secco e pratico. «Lo hai ucciso» affermò soltanto, e senza attendere una risposta che non era peraltro necessaria proseguì: «A giudicare da come si sono messe le cose non sarà certo l'ultimo che dovrai uccidere. Spegnere una vita non è mai facile, almeno per la maggior parte di noi. e non dovrebbe mai esserlo; tutto quello che possiamo fare è cercare di mantenere un po' di distacco e di portare avanti la nostra vita come meglio possiamo... però ti prometto che non sarà mai orribile come lo è stato questa prima volta. Il peggio è passato, amore.» D'arvan si aggrappò a lei, stranamente confortato da quelle parole brusche e dirette: era tipico di Maya elargire al tempo stesso compassione e buon senso, ed era davvero fortunato ad averla al fianco in mezzo a tanta morte e devastazione... «Eilin!» gridò d'un tratto, con voce incrinata. «Maya, lei è di sopra, e credo che sia gravemente ferita.» «Per tutti i demoni!» esclamò Maya, balzando in piedi. «Dov'è?» «In cima alla torre» rispose D'arvan, cercando di alzarsi a sua volta con il solo risultato di ricadere seduto sul gradino con uno strillo di dolore che indusse Maya a girarsi di scatto verso di lui. «Sei ferito?» gli chiese. «Mi sono procurato uno strappo alla gamba effettuando quella tua mossa dello sgambetto. Precedimi... io ti verrò dietro come meglio potrò.» Maya annuì e si lanciò su per la scala mentre D'arvan la seguiva con estrema e dolorosa lentezza, issandosi di gradino in gradino con l'ausilio della gamba sana e appoggiandosi alla ringhiera. Era appena a metà dell'ascesa quando sentì il rumore degli stivali di Maya sui gradini di metallo e la vide sopraggiungere a precipizio lungo la scala per poi arrestarsi di colpo nel trovarselo davanti. «Sta morendo» affermò la guerriera. Non appena vide di persona la Signora del Lago, che giaceva come un fagotto di stracci in mezzo alla devastazione della sua stanza, D'arvan si rese conto che Maya aveva ragione. Nella camera c'era sangue dappertutto,
sulle pareti e sul letto, sul pavimento dove aveva formato una pozza e sulle vesti della Maga che ne erano intrise ed erano lacerate in una dozzina di punti. Dopo averlo aiutato a puntellarsi contro una parete con il peso del corpo bilanciato sulla gamba sana. Maya tornò di corsa accanto ad Eilin, la cui pelle aveva già assunto quella pallida trasparenza che annunciava una morte imminente... e mentre il D'arvan di un tempo sarebbe stato assalito dal disgusto e avrebbe distolto con orrore lo sguardo, il nuovo D'arvan si sentì serrare lo stomaco da un impeto d'indignazione che in un cupo istante cancellò il suo dolore e il senso di colpa per aver ucciso Davorshan. «Non permetterò che succeda» disse, con voce che suonò aliena e remota perfino ai suoi stessi orecchi. «D'arvan, non possiamo fare nulla per lei» replicò in tono dolente Maya, che si era inginocchiata accanto alla Maga. «Neppure una guaritrice potrebbe...» «Ma mio padre sì.» «Cosa?» D'un tratto D'arvan si sentì estremamente calmo: ciò che intendeva tentare era una cosa disperata e molto rischiosa, ma era anche la loro unica speranza. «Esci di qui, Maya. Non devi rimanere coinvolta in questo» ordinò. «Che io sia dannata se lo farò... e non hai il tempo per discutere con me al riguardo» ribatté lei, rialzandosi in piedi con le mani e le ginocchia sporche di sangue, poi raccolse il bastone della Maga che giaceva sul pavimento e lo porse a D'arvan aggiungendo: «Prendi... ti servirà come sostegno in più di un modo.» «Peste cocciuta!» ribatté lui, baciandola in un impeto d'amore nei suoi confronti, e sentì la tensione che svaniva dalle labbra di lei mentre ricambiava il suo abbraccio. «Sei un dannato testardo, D'arvan, ma... sta' attento» ritorse Maya, poi si ritrasse dall'abbraccio e gettò la propria spada oltre la soglia della stanza. «Secondo le leggende, è bene non avere addosso del ferro quando ci sono in giro i Phaerie» spiegò. «Davvero?» replicò D'arvan, irritato con se stesso per averlo ignorato. «Le leggende danno qualche altra informazione utile?» «Dunque... sì. Dovrai chiamarlo con i suoi tre veri nomi. Presto, D'arvan.» Appoggiandosi al bastone per dare sollievo alla gamba lesa, D'arvan chiamò a sé il proprio potere e scagliò la mente e lo spirito alla ricerca di
quel misterioso Altrove dove si diceva che dimorassero i Phaerie. Ancora una volta invocò l'essenza della foresta... i suoi sentori e i suoi colori, i suoi umori che accompagnavano il mutare dei giorni, il suono delle api operose e degli uccelli ciarlieri, il frusciare delle foglie e il gorgogliare del ruscello, il correre precipitoso dello scoiattolo e del coniglio, il passo morbido e sicuro del daino e quello furtivo e fluido della donnola e della volpe. Poi trasse un profondo respiro e lanciò il proprio richiamo servendosi sia della voce fisica che di quella mentale. «Hellorin! Signore della Foresta! Padre! Nel nome di Adrina, mia madre, io ti convoco!» Per un momento parve che non succedesse nulla, e tuttavia la sua visione della foresta era così limpida e netta che gli pareva quasi di vederla modellarsi intorno a lui. A poco a poco la camera devastata scomparve alla vista e gli alberi parvero prendere forma come emergendo da una cortina di nebbia... betulle argentee e statuarie come colonne, querce robuste e nodose simili ai muscoli di un gigante, flessuosi salici e marziali piante di agrifoglio irte di lance, il gaio biancospino agghindato di fiori come una fanciulla e lo snello sorbo selvatico etereo come un sogno; in mezzo agli alberi era possibile scorgere lo scintillio dell' acqua rischiarata dalle stelle, e D'arvan sussultò nel riconoscere il lago e l'isola, anche se la torre era scomparsa. Adesso poteva avvertire l'intenso profumo dell'erba estiva che copriva la solida terra sotto i suoi piedi... e tuttavia fuori era inverno. Com'era possibile tutto questo? Sgranando gli occhi incontrò lo sguardo di Maya, che era ferma a bocca aperta sul lato opposto della radura, con la mano protesa automaticamente alla ricerca della spada mancante e con la forma inerte di Eilin stesa ai suoi piedi. «Chi convoca il Signore della Foresta?» chiese quindi una voce profonda e triste come il bosco autunnale, e al tempo stesso lieve e serena come il sussurro della brezza estiva fra le cime degli alberi. Davanti ad una quercia possente si stagliava una figura che oscurava il grande albero con la propria immensità e che era avvolta in uno scintillante e cangevole mantello verde e grigio. La sua statura era così alta che l'argento che brillava nei suoi lunghi capelli scuri era la luce delle stelle, la sua fronte era cinta da un diadema di dorate foglie di quercia al di sopra delle quali torreggiavano ombrose le ramificazioni delle corna di un orgoglioso cervo. Poi l'apparizione parlò ancora, con voce permeata ora del gelo invernale e al tempo stesso del gradevole calore di un nuovo giorno di primavera «Chi osa convocare il Signore dei Phaerie?» domandò.
Sgomento, D'arvan per poco non si lasciò cadere in ginocchio, ma poi strinse più saldamente il bastone di Eilin e ricordò a se stesso che questo essere era suo padre. Ciò che stava vedendo andava però al di là di qualsiasi immaginazione e lui non riuscì a fare altro che inchinarsi profondamente, incapace di parlare: cosa si poteva mai dire ad una creatura come Hellorin? «Mio Signore, permettimi di presentarti il Mago della Terra D'arvan, tuo figlio» scandì la voce brusca di Maya, spezzando il silenzio che si era creato. «Cosa?» tuonò il Signore della Foresta, trapassandola con uno sguardo incandescente, e un bagliore simile ad un lampo gli attraversò gli occhi sovrastati dalle scure sopracciglia aggrondate... poi sollevò una mano in un gesto che parve far tremare gli alberi stessi e di colpo D'arvan scoprì di potersi muovere di nuovo. Appoggiandosi al bastone attraversò zoppicando la radura fino a raggiungere Maya e si pose davanti a lei per proteggerla. «È vero!» esclamò. «Ti ho chiamato con il tuo vero nome di Padre e tu hai risposto. Mia madre era Adrina del Popolo dei Maghi, ed io ti ho convocato in suo nome perché abbiamo disperato bisogno del tuo aiuto. Lady Eilin, amica di mia madre e custode di questa Valle, sta morendo.» Non appena ebbe finito di parlare l'imponente figura scomparve all'improvviso, e nel guardarsi selvaggiamente intorno D'arvan vide suo padre sbucare da dietro la quercia, ridotto ora a normali dimensioni umane ma permeato della stessa potenza e maestosità di prima. Muscoli possenti gli delineavano il petto, nudo sotto il mantello, le gambe robuste erano avvolte in gambali scuri e alti stivali, e l'immagine spettrale della corona dotata di coma di cervo aleggiava ancora sulla sua fronte cinta di foglie di quercia. Adesso però i suoi lineamenti severi e regali apparivano meno duri e nei suoi occhi scuri c'era un'espressione indecifrabile. «Mio figlio?» domandò con voce profonda e al tempo stesso sommessa, permeata di mille interrogativi, poi venne avanti a grandi passi e serrò con mani forti le spalle di D'arvan, scrutandolo in volto con i suoi occhi insondabili sotto il cui esame il giovane Mago sentì lo sguardo che gli si velava di pianto. «Mio figlio» ripeté Hellorin, mentre un sorriso meravigliato cominciava a incurvargli gli angoli della bocca. «Sei mio figlio, ed io non ho mai saputo che esistessi.» «Padre...» sussurrò D'arvan, poi lasciò cadere il bastone e gettò le braccia intorno alle ampie spalle di Hellorin... e là, in quella radura boschiva rischiarata dalle stelle, padre e figlio infine si abbracciarono.
«D'arvan? Lord Hellorin?» chiamò la voce esitante di Maya, interrompendo quel ricongiungimento; le lacrime che le brillavano negli occhi indicavano che non era rimasta insensibile alla scena, ma il suo spirito pratico la portò a richiamare l'attenzione sul corpo di Eilin mentre aggiungeva: «Chiedo scusa, Signore, ma le condizioni di Lady Eilin sono disperate e potrebbe già essere troppo tardi.» «Chi è questa persona temeraria?» domandò a suo figlio il Signore della Foresta, inarcando un sopracciglio. «Il Tenente Maya, una guerriera senza pari, una coraggiosa e sincera compagna e... la mia Signora» replicò D'arvan, con un'orgogliosa nota di sfida nella voce. Il Signore della Foresta scoppiò a ridere, e nel vedere Maya accigliarsi D'arvan le segnalò con un gesto urgente di tacere, timoroso dello sfogo furente che sapeva essere prossimo. «Non riesco a vedere cosa ci sia di tanto divertente» commentò quindi il giovane Mago, in tono gelido. «Ah, figlio mio» ridacchiò Hellorin, traendo un profondo respiro e asciugandosi gli occhi, «quanto mi fa piacere vedere che stai già portando avanti un'antica tradizione del nostro popolo!» «Cosa?» esclamò D'arvan, sconcertato. «Non conosci le leggende?» ribatté suo padre, con un bagliore divertito nello sguardo. «Non hai mai sentito quelle storie sui Phaerie che attirano i Mortali lontano dalla loro casa per farne la loro compagna... o il loro compagno, dato che le signore del mio popolo mi renderebbero la vita impossibile se negassi loro l'occasione di concedersi un vigoroso stallone Mortale? Lady Maya» proseguì quindi, rivolgendo alla guerriera un profondo inchino. «sono onorato di conoscere la prescelta di mio figlio e mi scuso per la mia sconveniente ilarità. A mio parere la sua è stata davvero un'ottima scelta.» Mentre parlava il suo sguardo fluì sulla figura di Maya come una carezza così palese e potenzialmente lasciva che D'arvan si sorprese a serrare i denti e Maya arrossì, non sapendo se sentirsi indignata o adulata. Infine si erse in tutta la sua altezza e fissò freddamente Hellorin negli occhi. «Ti ringrazio per la tua cortesia, Signore, ma questo non è certo il momento più adatto per i convenevoli. Non potremmo invece considerare l'urgente problema che dobbiamo risolvere?» D'arvan gemette, coprendosi gli occhi con una mano, ed Hellorin scoppiò in un'altra possente risata.
«Una scelta eccellente, non c'è che dire! D'arvan, hai per le mani una vera lupa!» esclamò, poi tornò serio e proseguì: «Non temere, piccola guerriera, Lady Eilin non subirà ulteriori danni. I Phaerie la onorano per il lavoro che ha svolto in questa valle ed io non permetterei mai che lei morisse. Convocandomi, vi siete trasportati nel mio regno, dove il tempo non ha potere, e qui la sua vita è sospesa... sospesa e preservata. Adesso però ho bisogno di sapere chi sia il responsabile di quest'atrocità e per quale motivo l'abbia commessa, perché tu hai ragione nell'affermare che è una questione grave e il mio istinto mi avverte che si tratta di una parte di una più grande trama di malvagità. Mettiamoci dunque comodi, figli miei, e ditemi cosa è successo nel mondo esterno.» Nel parlare il Signore della Foresta agitò una mano e la radura in cui si trovavano si fece indistinta, gli alberi che li circondavano si mutarono nelle colonne di una grande sala e i rami si congiunsero in alto a formare un tetto; da un lato, dove poco prima c'erano gli agrifogli carichi di bacche rosse, adesso un fuoco vivace ardeva nel focolare, e il pavimento era coperto da un fitto tappeto verde. «Somiglia alla Grande Sala dell'Accademia!» sussultò D'arvan. «A chi credi che i Maghi abbiano rubato il progetto?» replicò Hellorin, con una sfumatura cupa nella voce che però si dissolse con le sue parole successive: «Avanti, sedetevi.» D'arvan recuperò il bastone di Eilin e Maya lo aiutò a raggiungere zoppicando le ampie e comode poltrone disposte accanto al fuoco ruggente, davanti al quale era disteso un grosso cane grigio che occupava quasi tutto lo spazio antistante l'ampio focolare; nel frattempo le porte all'estremità della sala si aprirono senza nessun ordine apparente di Hellorin e nella sala entrò un'alta dama phaerie dai capelli color rame e vestita di verde, snella come i salici a cui somigliava. Nel vedere i due stranieri sporchi di sangue, la donna si arrestò e inarcò le sopracciglia con espressione stupita. «Melianne, vuoi per favore portarci dei rinfreschi?» le chiese Hellorin. «E provvedi anche ad affidare Lady Eilin ai nostri guaritori.» «Lady Eilin?» esclamò la Phaerie, sgranando gli occhi alla vista della Maga della Terra. «Mio Signore, che malvagità è mai questa?» «È ciò che intendo scoprire!» replicò Hellorin, congedandola con un cenno. «Convoca i Phaerie, mia cara, perché credo che questo evento possa contrassegnare la fine della nostra lunga attesa.» «Subito, mio Signore» replicò la donna, con un bagliore improvviso nello sguardo, e scomparve con un'esplosione di luce dorata.
«In genere usiamo le porte» commentò in tono asciutto Hellorin, ridacchiando di fronte all'espressione sconcertata di Maya, «ma Melianne è un po' eccitabile.» Essendo del tutto sfinito, prosciugato nel corpo e nell'anima dagli eventi della giornata, D'arvan credette in un primo momento che il tremolare dell'aria davanti al focolare fosse un'illusione ottica creata dalla luce del fuoco che ingannava i suoi occhi stanchi... poi però sentì la voce secca di Melianne scaturire apparentemente dal nulla. «Barodh, stupida bestia, togliti di mezzo!» ingiunse la Phaerie, e subito il cane balzò in piedi, andando a sdraiarsi con aria colpevole accanto al suo padrone; contemporaneamente, nel punto in cui esso si trovava poco prima l'aria tremolante cominciò a risplendere e formò un globo di luce dorata che infine si dissolse a rivelare un basso tavolo rotondo coperto da un panno candido sul quale erano disposti una caraffa di limpido vino bianco e tre calici di cristallo; pane e frutta occupavano lo spazio residuo, e la loro fragranza fece venire l'acquolina in bocca a D'arvan... la cui attenzione fu però distolta dal cibo da un'esclamazione angosciata di Maya. «Eilin!» gridò la guerriera, e nel voltarsi di scatto sulla poltrona D'arvan vide che adesso il corpo della Maga della terra era circondato da una luce dorata, che un attimo dopo scomparve insieme ad esso. «Non ti preoccupare, Maya» affermò intanto Hellorin, con voce tranquillizzante. «I miei guaritori sono nettamente superiori per abilità a quelli del Popolo dei Maghi. Adesso mangiate e riposatevi, figli miei... e narratemi la vostra storia.» Mentre parlava, il Signore della Foresta servì il vino e porse ai suoi ospiti i calici scintillanti, e nel notare l'improvvisa esitazione di Maya osservò con un sorriso: «Ancora le leggende, Maya? Ebbene, questa è una leggenda di cui non devi preoccuparti, perché assaggiare i nostri cibi e le nostre bevande non vi metterà entrambi in mio potere più di quanto vi ci siate già messi voi stessi convocandomi.» D'arvan incontrò lo sguardo di Maya e scrollò le spalle: dopo tutto, quello era suo padre, e fino a quel momento li aveva aiutati, quindi bevve con decisione un sorso di vino e Maya fece altrettanto, anche se aveva ancora l'aria sospettosa. La consapevolezza che lei era disposta a seguirlo perfino in questo riscaldò l'animo di D'arvan nella stessa misura in cui la bevanda fortemente alcolica gli stava riscaldando il corpo, scorrendogli nelle vene come fuoco liquido e dissolvendo la sua stanchezza: di colpo ogni particolare della stanza parve divenire nitido e preciso e il dolore rovente che gli pervadeva la gamba lesa scomparve come se non fosse mai esistito.
Hellorin insistette quindi perché si servissero anche del cibo, e mentre mangiavano D'arvan gli raccontò della perfidia di Miathan, della sua violazione del Codice dei Maghi e di come il Popolo dei Maghi si fosse lasciato travolgere dalla malvagità. Hellorin rimase in silenzio fino a quando lui ebbe terminato la sua storia parlando dell'aggressione di Davorshan nei confronti di Eilin e della morte del Mago, seguita dalla disperata convocazione del Signore dei Phaerie. Infine D'arvan tacque, e un momento più tardi vide suo padre balzare in piedi e protendere un pugno verso il cielo in un gesto di vittoria. «Finalmente!» esultò Hellorin. «Finalmente!» In risposta al suo grido, all'esterno un glorioso coro di voci phaerie si levò in una selvaggia ovazione che indusse Maya a scattare a sua volta in piedi con un'esclamazione di sgomento. «Padre!» gridò D'arvan, e la sua voce sconvolta raggiunse il Signore della Foresta nonostante il suo stato di gioiosa esaltazione. «Oh, figlio mio» ansimò Hellorin, rimettendosi a sedere con il respiro affannoso, «se soltanto sapessi quanto abbiamo aspettato questa notizia, nel corso di interminabili anni! Per l'amor del cielo, ragazza, siediti!» ingiunse quindi con irritazione, rivolto a Maya, che era ancora in piedi e stava cercando con lo sguardo un'arma di qualche tipo. «Mio Signore, come puoi gioire di una storia così orribile?» domandò D'arvan, in tono di freddo rimprovero. «Hai forse dimenticato mia madre? Io sono un Mago nella stessa misura in cui sono un Phaerie, e tu ti stai facendo beffe del mio dolore e di quello di tutti coloro che stanno soffrendo a causa di questa malvagità.» «Porgo le mie scuse ad entrambi» replicò Hellorin, in tono sommesso ma con sguardo indecifrabile. «Per favore, signora, siediti e permettimi di spiegarmi, così forse comprenderai la mia sconveniente esultanza.» «Lo spero» ringhiò Maya, trapassandolo con uno sguardo rovente. «Vi è stato insegnato che l'universo è modellato dal caso e dall'equilibrio» cominciò Hellorin. versandosi un'altra coppa di vino, «ma forse non sapete che i Maghi sono stati creati perché preservassero e proteggessero l'equilibrio, come altri fanno su mondi diversi, in modo da evitare che il caso prendesse piede e che l'universo venisse distrutto dal caos, che ne è il figlio bastardo.» Soffermandosi a riprendere fiato, il Signore dei Phaerie notò che Maya stava tamburellando nervosamente con le dita sul bracciolo della poltrona. «Abbi pazienza, Maya» la esortò. «Per essere brevi, noi Phaerie siamo
sempre stati... alquanto imprevedibili, e poiché deteniamo i grandi poteri della Magia Antica, i Maghi del passato hanno avuto paura di noi, ritenendoci agenti del caso... il che peraltro era del tutto vero. Di conseguenza hanno fatto in modo di escluderci dal mondo... di imprigionarci in questo Altrove che non possiamo lasciare a meno di essere convocati e dal quale non possiamo influenzare gli eventi del mondo. In questo posto siamo anche impossibilitati ad avere figli fra noi... il che spiega il nostro occasionale bisogno di un Mago o di un Mortale che ci aiuti ad incrementare la nostra razza...» «Vuoi dire che hai usato mia madre...» cominciò D'arvan, agghiacciato. «No... non l'avrei mai fatto!» esclamò Hellorin, protendendosi a stringergli un braccio. «Credi forse che noi Phaerie siamo dei mostri? Nessun bambino nasce fra noi senza essere frutto di un amore profondo, e mi si è lacerato il cuore quando Adrina è tornata a Nexis per adempiere a quella ridicola promessa fatta a suo padre. Ho pianto, infuriato e imprecato, perché avevo il disperato bisogno di andare da lei, di trovarla e riportarla a casa... ma non potevo raggiungerla a meno di essere convocato, cosa che nessuno ha fatto finché non è stato troppo tardi» concluse, con voce resa soffocata dal dolore. «Oh, padre» sussurrò D'arvan, troppo commosso per dire altro. «Forse adesso cominci a capire perché non siamo molto amici del Popolo dei Maghi» riprese Hellorin, dopo aver bevuto un lungo sorso di vino. «Essi ci hanno derubati della nostra libertà molti secoli fa, e nel farlo hanno commesso un errore perché il caso è essenziale al mondo quanto l'equilibrio. Senza di noi, il Popolo dei Maghi ha cominciato a ristagnare, diventando sempre più introspettivo, orgoglioso e caparbio... e sulla spinta dell'orgoglio ha creato i quattro grandi Manufatti del Potere, fra cui anche il Calderone. Poi è giunto il Cataclisma, e nel suo infuriare noi siamo quasi riusciti a fuggire alla nostra prigione, ma abbiamo fallito... ed è stato allora, nel momento più amaro della nostra storia, che si è presentata la nostra più grande speranza: la Spada di Fuoco, la più potente delle quattro armi, è stata affidata alla nostra custodia dai suoi creatori, che volevano fosse rimossa dal mondo fino a quando non sarebbe stata reclamata dall'Uno per cui era stata forgiata. «Essi ci hanno detto che quando fosse giunto il momento avremmo dovuto riportarla nel mondo, disponendo intorno ad essa trappole e sentinelle in modo da garantire che potesse cadere soltanto nelle mani a cui era destinata. "Ma come faremo a riconoscere le mani a cui questa cosa è destina-
ta?'' abbiamo domandato. "Questa sarà la vostra prova," ci hanno risposto. "Ma come faremo a sapere quando ci sarà bisogno della Spada?" abbiamo insistito. "Lo capirete," ci hanno detto. "Verrà un giorno in cui il Popolo dei Maghi diminuirà di numero fin quasi ad estinguersi e i suoi membri si scaglieranno come lupi gli uni contro gli altri. Il fratello ucciderà il fratello, l'ambizione tradirà la fiducia e il mondo cadrà preda di una grande malvagità. Allora sarà giunto il momento." "Ma come potremo riportare la Spada nel mondo? e Come potremo proteggerla, in un luogo dove siamo impotenti?" abbiamo chiesto ancora. E quando ci è stato risposto che questo era un nostro problema, io personalmente ho domandato: "Quale sarà la nostra ricompensa per il grande compito che ci chiedete di addossarci?"» Hellorin fece una pausa, poi concluse, con un bagliore nello sguardo: «I creatori della Spada ci hanno promesso la libertà, asserendo che la Spada avrebbe aggirato gli incantesimi usati dagli antichi e ci avrebbe riportati nel mondo. Noi abbiamo allora giurato fedeltà ad essa e all'Uno che è destinato ad impugnarla: quando lui la reclamerà noi lo seguiremo, tornando nel mondo per combattere al suo fianco contro il male, e dopo averlo sopraffatto saremo liberi come lo eravamo un tempo. Liberi, figli miei!» «Quando il fratello ucciderà il fratello» sussurrò D'arvan. «Allora il momento è prossimo... ma come farai a riportare la Spada nel mondo, Padre? E come la proteggerai?» Il Signore della Foresta rifiutò di incontrare il suo sguardo e rimase seduto a fissare il fuoco, con un'espressione dolente nello sguardo, mentre il silenzio si prolungava fra loro. «Mi pare di capire, mio Signore, che hai intenzione di servirti in qualche modo di noi» osservò infine Maya, con brusca franchezza. «D'arvan, mi dispiace» annuì Hellorin, sollevando infine lo sguardo. «Esistono leggi antichissime che regolano i rapporti con i Phaerie, leggi che io stesso ho creato molto tempo fa nell'interesse del mio popolo: quando mi avete convocato vi siete sottoposti a tali leggi e adesso non le posso alterare, neppure per mio figlio. Mi avete chiesto un favore... salvare la vita di Lady Eilin... proprio come lei stessa una volta mi ha implorato di aiutarla a trovare sua figlia, ed io ho aiutato sia voi che lei. Adesso siete indebitati con me, ed io posso esigere da voi un servigio. Lo capisci?» «Vuoi che proteggiamo la Spada» sintetizzò D'arvan, mentre in lui la delusione nei confronti di suo padre combatteva con la comprensione per la situazione in cui il Signore della Foresta si trovava: in qualità di sovrano, Hellorin doveva obbedire alle sue stesse leggi, ed aveva inoltre la respon-
sabilità del suo popolo che gli gravava sulle spalle. «Ci proverò» assentì infine, «ma ti chiedo almeno una cosa, padre... ti imploro, non coinvolgere anche Maya.» «No, D'arvan, è una cosa che affronteremo insieme.» «D'arvan, non posso.» Le due proteste echeggiarono contemporaneamente, e D'arvan lasciò scorrere lo sguardo da suo padre alla sua donna con crescente irritazione. «Voi due volete smetterla?» borbottò. Maya ed Hellorin si scambiarono un'occhiata e scoppiarono a ridere. «Ah, che donna!» esclamò Hellorin. «Quanto vorrei potervi tenere entrambi qui con me... ma siamo tutti stretti nella morsa di eventi più grandi di noi. Vi prometto che resterete insieme» proseguì, stringendo entrambi a sé in un abbraccio, «anche se rimarrete separati come amanti fino a quando non avrete portato a termine il vostro compito. In considerazione di questo, ritengo che i grandi eventi possano aspettare ancora un poco, perché voi due avete bisogno di trascorrere un po' di tempo insieme... nella misura in cui il concetto di tempo può esistere qui. Vi ho fatto preparare una stanza, figli miei, quindi andate e riposate... oppure non fatelo, a seconda di cosa preferite» aggiunse, con un bagliore malizioso nello sguardo. «Vi chiamerò quando giungerà il momento di andare.» S'incontrarono di nuovo nella grande sala dopo un lasso di tempo corrispondente ad una notte secondo gli schemi del mondo ma che era parso troppo breve secondo quelli personali di D'arvan e di Maya. «Siete pronti, figli miei?» chiese Hellorin, abbracciandoli ancora una volta. Entrambi annuirono, perché lo erano nella misura in cui potevano esserlo. Durante il tempo trascorso da soli avevano condiviso le loro paure e i loro segreti, si erano scambiati i loro voti e si erano amati, cercando ricordi da immagazzinare in previsione del tempo che avrebbero dovuto trascorrere separati. «Eilin si riprenderà?» domandò Maya, e nel vederla fronteggiare suo padre, pallida e composta, D'arvan si meravigliò ancora una volta del suo coraggio. «I nostri guaritori affermano che guarirà» annuì Hellorin, «e dopo rimarrà al sicuro presso di noi fino alla fine di questa storia.» «Grazie» rispose Maya. «Hai idea di quanto tempo ci vorrà per questo?» chiese quindi, e nel sentire la sua voce leggermente incrinata D'arvan si rese conto che era spaventata quanto lui.
«Finché l'Uno non reclamerà la spada... questo è tutto ciò che sappiamo» replicò Hellorin, scuotendo il capo. «Nell'interesse di tutti speriamo che lui si affretti!» «Cosa ti rende tanto sicuro che si tratti di un uomo, mio Signore?» ribatté Maya, con un bagliore nello sguardo, poi si trasse indietro per permettere a D'arvan di congedarsi da suo padre. «Mi addolora perdere il figlio che ho appena trovato» affermò Hellorin. abbracciandolo. «E a me duole perdere te» sussurrò D'arvan. «Spero che quando sarà tutto finito potremo recuperare il tempo perduto.» «Adesso, figlio mio» disse Hellorin, annuendo con aria grave, «ci dovrai riportare nel tuo mondo con te.» «Io? E come?» esclamò D'arvan, fissandolo con stupore. «Evoca la foresta, come hai fatto ieri, e serviti del bastone di Lady Eilin... ha più potere di quanto immagini.» La transazione risultò più facile di come D'arvan si fosse aspettato, perché il bastone di Eilin sembrava voler andare a casa. Entro pochi istanti si ritrovarono sulla riva del lago rischiarato dall'alba: l'erba era ancora smossa dove le radici avevano devastato il terreno e, anche se i viticci si erano ritirati dalla torre, adesso la pietra appariva sfregiata e i vetri infranti esponevano l'edificio agli elementi. «Se la vedesse così Eilin ne avrebbe il cuore infranto» mormorò D'arvan. «Non lo vedrà» replicò Hellorin. poi pronunciò una parola e la torre scomparve per essere sostituita da un immenso cristallo rosso, che nell'intercettare i primi raggi del sole si accese di una luminosità pulsante e prese a vibrare di potere, abbagliando lo sguardo; all'interno della sua superficie sfaccettata era possibile sorgere i contorni della Spada che brillava di una propria luce spettrale. «Così non va» dichiarò Hellorin, agitando una mano, e subito l'enorme gemma si velò e si tinse di grigio, assumendo l'aspetto di un grosso masso irregolare che la vegetazione si affrettò a ricoprire, rivestendone la superficie di muschio e di licheni. «Come hai fatto?» sussultò Maya. «Credevo che non avessi potere in questo mondo.» «Ne ho tramite D'arvan» spiegò il Signore della Foresta. «Lui mi ha portato qui ed è in parte Phaerie, come me, e in parte Mago... e sono stati i Maghi a creare queste regole. Ora però dobbiamo affrettarci, perché posso
sottomettere la magia soltanto entro certi limiti» aggiunse, con il volto che tradiva già tracce di tensione. «Ed ora, mia carissima figlia...» «Aspetta!» esclamò Maya, poi corse verso D'arvan e gli cinse il collo con le braccia, sussurrando: «Ti amo.» «Anch'io ti amo» rispose lui, baciandola un'ultima volta prima di trarsi indietro con riluttanza nel vedere il Signore della Foresta alzare una mano. Maya svanì e al suo posto apparve la creatura più splendida che si fosse mai vista dai tempi dell'alba del mondo: un unicorno, privo di sostanza e all'apparenza formato da ogni tipo di luce: in esso c'erano il chiarore delle stelle, il candore della luce lunare, la luminosità velata dell'alba e il bagliore incandescente dei raggi solari, là dove gli zoccoli toccavano il terreno. Sulla sua fronte spiccava un corno argenteo lungo, sottile e acuminato. «Visto?» mormorò Hellorin. «La nostra guerriera ha ancora la sua spada... perché sarà suo compito proteggere la Spada di Fuoco. Soltanto tu potrai vederla e per tutti gli altri rimarrà invisibile, perché per essere degno della Spada il predestinato deve essere saggio quanto coraggioso: al fine di avvicinarsi ad essa dovrà trovare il modo di vedere l'invisibile, perché soltanto così potrà oltrepassare il nostro invisibile guardiano.» «Oltrepassare?» gridò D'arvan. «Vuoi dire uccidere?» «No, non intendevo che dovesse ucciderla. L'incantesimo prevede che nel momento in cui Maya diverrà visibile ad un'altra persona oltre a te il suo incarico di guardiana sarà sospeso e non ci sarà quindi bisogno di ucciderla. Inoltre, ritieni che un individuo degno della Spada di Fuoco potrebbe uccidere per capriccio una creatura così bella? Io credo di no.» «E cos'hai in serbo per me?» domandò con voce tesa D'arvan, scuotendo il capo. «Per te? Tu sei un Mago della Terra e il figlio del Signore della Foresta, impugni il bastone della Signora del Lago e la foresta si piegherà al tuo volere. Il tuo compito sarà quello di rendere di nuovo selvaggia la vegetazione di questa valle, di creare una barriera impenetrabile di alberi. Le creature selvatiche vi dimoreranno, traendone sostentamento, e i lupi saranno tuoi amici, condividendo il tuo compito. Proteggerai la Spada da tutti i nemici e la foresta darà inoltre riparo ai nemici del male, che tu proteggerai e fornirai di sostentamento... anche se non potranno vederti o essere consapevoli della tua presenza. Tu e Maya condividerete il vostro compito di guardiani fino a quando l'Uno verrà a prendere la Spada, poi sarete liberi e di nuovo uniti, come lo saremo finalmente tutti. Non posso fermarmi oltre» concluse Hellorin, i cui contorni stavano già cominciando a farsi inde-
finiti. «Arrivederci, figlio mio... e perdonami.» Poi scomparve. Rimasto solo, D'arvan spostò lo sguardo sull'unicorno e la splendida creatura sbuffò, battendo il terreno con lo zoccolo in un'esplosione di zolle di terra e di raggi di sole, per poi trottare verso il Mago e appoggiargli la testa sulla spalla, fissandolo con enormi occhi scuri che erano due infinite polle di dolore. «Oh, amore mio» mormorò D'arvan, cingendo con le braccia il suo collo forte e arcuato, e sentendo in gola il nodo del pianto, «quanto sentirò la tua mancanza!» L'unicorno invisibile sbuffò ancora e scosse la testa. «Hai ragione» annuì D'arvan. «È meglio darsi da fare.» Voltandosi, sollevò il bastone della Signora del Lago e cominciò ad evocare la foresta. CAPITOLO VENTITREESIMO IL DEMONE L'arena era pervasa dal mormorio ronzante della folla eccitata che riempiva al massimo della capienza le file di panche di marmo e alternava la propria attenzione fra il terreno di lotta coperto di sabbia, che occupava il fondo della grande costruzione circolare, e la balconata reale adorna di fiori, dove sedevano l'accigliato Khisal, erede al trono, il sorridente Khisu Xiang e la sua nuova regina, la Khisihn, le cui nozze con il Khisu venivano festeggiate proprio quel giorno. Gli spettatori accalcati gli uni contro gli altri sulle panche stavano fissando la balconata con estrema curiosità perché quel matrimonio destava grande meraviglia: stupiva infatti che dopo essersi accontentato per tanto tempo del suo harem di splendide donne, il Khisu avesse infine elevato una dama al rango di consorte, per insediarla al posto della vecchia regina, morta ormai da molti anni... si diceva, per mano del Khisu stesso. «Adesso il giovane principe dovrà stare attento a dove mette i piedi» stavano commentando le vecchie comari, annuendo con aria saputa. «Non ha mai goduto del favore di suo padre e se la nuova regina dovesse avere un figlio il Khisal Harihn potrebbe ritrovarsi in fondo al fiume chiuso in un sacco, come sua madre.» Gli spettatori seguirono i primi incontri con scarsa attenzione e con una pazienza ancora minore perché stavano aspettando che cominciasse il vero
intrattenimento della giornata: oggi era infatti previsto che scendesse in campo un nuovo gladiatore... una donna straniera che si diceva praticasse la stregoneria e fosse feroce quanto il Demone Nero. Correva infatti voce che quella donna avesse devastato un intero villaggio a valle del fiume, ed era in virtù di queste dicerie che l'arena si era riempita per tempo e che alle porte centinaia di ritardatari delusi stavano venendo rimandati indietro. Il cortile dei guerrieri, che si trovava sotto le gradinate di pietra dell'arena, era fresco e ombroso; seduta in un angolo, Aurian si stava sottoponendo agli esercizi appresi da Forral per preparare il corpo e la mente alla prova che l'aspettava, ma trovava difficile reprimere il timore che provava per il suo bambino, in quanto era consapevole che gli sforzi e i pericoli di quella giornata avrebbero potuto causarne la morte. Se avesse avuto a disposizione la propria magia avrebbe potuto proteggerlo, ma essendone priva... «Oh, Chathak» pregò, «proteggi questo bambino, che è figlio di guerrieri.» Mentre meditava, si rese vagamente conto che lo sguardo degli altri combattenti era fisso con curiosità su di lei. Essi le erano tutti sconosciuti, perché i gladiatori venivano tenuti accuratamente separati gli uni dagli altri per evitare lo spiacevole instaurarsi di amicizie fra loro e s'incontravano soltanto nel corso degli allenamenti durante i quali venivano attentamente sorvegliati e avevano la proibizione di rivolgersi la parola. Nel corso delle ultime settimane Aurian si era addestrata con parecchi di essi, lasciando stupefatto perfino lo stesso Eliizar con la propria abilità; a parte l'addestramento, le sue giornate erano state dedicate a mangiare, a riposare e a bagnarsi della grande polla dell'arena, e adesso lei era pronta come più poteva esserlo. Costringendosi ad allontanare dalla mente il pensiero dei suoi compagni perduti e perfino del suo bambino, si concentrò per mantenere la calma e l'autocontrollo che le sarebbero serviti per non perdere la vita e conquistarsi la libertà, dato che era decisa a tentare nonostante l'avvertimento datole a Eliizar. Dopo la riluttanza dimostrata inizialmente, il maestro d'armi era diventato un suo buon amico, e così pure la sua florida e materna moglie Nereni. che si era assunta il compito di occuparsi di Aurian in quanto lei era l'unica donna presente fra i guerrieri. Nel corso delle loro conversazioni, Aurian aveva scoperto che Eliizar era stato un ufficiale della Guardia Reale e che aveva perso l'occhio sinistro nel difendere il Khisu da un tentativo di assassinio, attentato che lui aveva sventato uccidendo da solo quattro assali-
tori. Dal momento che gli storpi non erano tollerati nella società khazalim. la perdita dell'occhio gli aveva lasciato come sole alternative la morte o la schiavitù per se stesso e per la sua adorata moglie, ma per fortuna Xiang era intervenuto con un raro gesto di gratitudine e aveva ricompensato Eliizar elargendogli la carica di maestro d'armi dell'arena. «Si è trattato di una ricompensa crudele e ambigua» aveva confidato Eliizar ad Aurian, «perché adesso sono costretto a mandare giovani e sani guerrieri incontro alla morte per soddisfare una folla assetata di sangue. Come si può convivere con un simile peso e riuscire a dormire la notte? E tuttavia non ho altra scelta che quella di restare qui, perché lasciare la mia carica significherebbe la morte o la schiavitù per me e per la povera Nereni. Odio il Khisu, per quello che mi ha fatto.» «Sei pronta?» domandò ora Eliizar, e il suono della sua voce riportò Aurian al presente. Le grandi porte di legno che davano accesso al terreno di lotta erano state aperte e un guerriero stava rientrando con passo zoppicante, aiutato da due inservienti e sanguinante a causa di parecchie ferite. Due guardie in armatura trasportavano il suo avversario, ridotto ad un cadavere mutilato e insanguinato nei cui lineamenti contorti Aurian riconobbe quelli di un giovane sorridente con cui si era esercitata appena un paio di giorni prima. «Che il Mietitore mi perdoni» sussurrò Eliizar, asciugandosi il volto con mano tremante, ed Aurian gli posò una mano sul braccio in un impulsivo gesto di compassione. «Eliizar, devi andartene da qui. Quando otterrò la libertà tu e Nereni dovreste venire nel nord con me, perché avrò bisogno di una vera amica e di un abile guerriero, anche se con un occhio solo.» Eliizar la fissò con stupore, poi le volse le spalle allorché il suono possente di un gong la convocò nell'arena. «Perdonami, Aurian» sussurrò. «Non ho nulla da perdonarti» replicò lei, in tono leggero, «perché se l'arena è la mia sola via verso la libertà, allora l'avrei scelta in ogni caso. Ci vediamo più tardi, Eliizar... e rifletti su quello che ti ho detto, perché non stavo scherzando.» Deposto un bacio sulla testa calva del maestro d'armi, s'impose quindi di restare calma e si avviò nella galleria di accesso, sussurrando la preghiera dei guerrieri che Forral le aveva insegnato tanto tempo prima: era pronta, doveva esserlo. Allorché emerse dall'ombra della galleria per addentrarsi nel chiarore
luminoso dell'arena un possente ruggito si levò da tremila gole, echeggiando e riecheggiando all'interno dell'anfiteatro fino a stordirla e ad esaltarla. Alzata la spada... la sua Coronach, che le era stata restituita... in un gesto di saluto rivolto agli spettatori, lasciò che la luce del sole scorresse come fuoco liquido sulla sua lama affilata mentre sollevava il volto in un gesto di sfida e spingeva indietro i capelli, ora troppo corti per essere intrecciati. Nelle sue narici c'era un sentore misto di sudore, di polvere e di sangue... l'odore della battaglia. Poi vide il suo avversario e si arrestò di colpo per la sorpresa, perché si era aspettata di scontrarsi con uno dei massicci guerrieri con cui si era esercitata quando Eliizar aveva cercato di valutare il livello delle sue capacità, mentre adesso si stava trovando di fronte uno sconosciuto... un ometto dai muscoli che sporgevano nodosi come corde sulle braccia e sulle gambe, e tanto basso che arrivava a stento con la testa all'altezza dei lacci del suo corsetto. Aurian si stava ancora chiedendo con disprezzo se ci si stava facendo beffe di lei quando l'ometto scattò in avanti con una mossa tanto repentina da far apparire la sua spada come un indistinto bagliore argenteo: un momento più tardi una sferza di fuoco freddo corse lungo il braccio di Aurian. seguita da un fiotto di sangue caldo, mentre l'ometto si affrettava a portarsi agilmente fuori della sua portata. Per una frazione di secondo la Maga fissò a bocca aperta la lacerazione apparsa appena sotto la sua spalla sinistra, poi sentì la voce di Forral echeggiarle nella mente: Non sottovalutare mai un avversario, quale che possa essere il suo aspetto. Adesso che il suo fervore guerriero era stato sedato da una gelida ondata di buon senso, prese quindi a girare intorno all'ometto con improvviso rispetto, cercando di prevedere la sua mossa successiva e di trovare qualche punto debole nella sua tecnica di combattimento. Poi l'uomo scattò di nuovo con messe fluide come il mercurio e Aurian tentò di schivare e di colpire al tempo stesso con cieco istinto: un istante più tardi sentì la punta della lama nemica strisciarle lungo la coscia, accompagnata da un suono che annunciò il lacerarsi del bordo del ridicolo gonnellino che i gladiatori erano costretti a indossare nell'arena. Di nuovo avvertì lungo la pelle il calore del sangue che colava, ma questa volta si trattò di un graffio superficiale che non le avrebbe causato particolari problemi... e per contro il suo fendente di risposta riuscì a raggiungere il bersaglio, anche se a causa dell'eccessiva differenza di statura il suo colpo istintivo destinato a decapitare l'avversario giunse troppo in alto. Adesso una striscia di pelle pendeva sull'occhio sinistro dell'ometto e il sangue gli colava sul volto da quella ferita al cuoio
capelluto, accecandolo e inducendolo a girare a sua volta in cerchio in attesa di un'occasione propizia per attaccare ancora. Incontrando il suo sguardo l'uomo le rivolse un saluto con la spada accompagnato da un sorriso e Aurian rispose sia al sorriso che al saluto, consapevole di avere di fronte un avversano coraggioso e sorprendendosi a desiderare di poter combattere al fianco di quell'ometto invece che contro di lui. Un momento dopo eseguì un affondo che lui parò con una finta, riportando il duello ad una situazione di stallo e inducendo i due contendenti a riprendere a girare in cerchio, fra i fischi della folla che voleva uno spettacolo più vivace. Poi l'ometto scattò in avanti e Aurian rotolò al suolo per schivare la sua lama, imprecando per l'atroce dolore alla spalla ferita; rialzatasi di scatto per fronteggiare l'avversario, scoprì che nel rotolare lo aveva colpito con la spada alla caviglia, anche se non avrebbe saputo dire se si era trattato di un puro caso o del frutto del duro allenamento impostole da Forral. In ogni caso adesso l'ometto aveva un piede quasi reciso e zoppicava vistosamente, perdendo fiotti di sangue, mentre la folla stava ruggendo di entusiasmo nel richiedere a gran voce che lei abbattesse la sua vittima. Per un momento Aurian si disse che il vero nemico era quella folla e non il coraggioso guerriero che aveva davanti, ma poi s'impose di smetterla con quei ragionamenti, perché adesso non era più alla guarnigione e simili sentimentalismi avrebbero potuto significare la sua morte. Preparandosi ad attaccare serrò più saldamente la spada con la mano destra in modo da reggerne il peso e cercò di bilanciarla come meglio poteva con la sinistra pressoché inutile: dinanzi a lei l'ometto stava barcollando, con il volto bagnato di sudore e di sangue... senza preavviso, Aurian si spostò di scatto verso destra, in modo che la visuale dell'avversario fosse ostacolata dal lembo di pelle che gli copriva l'occhio sinistro, e lui si girò troppo tardi: Aurian avvertì un dolore lancinante al braccio sinistro quando la spada attraversò l'osso, poi la testa dell'ometto rotolò sulla sabbia e il suo corpo ondeggiò e crollò al suolo in mezzo al sangue che zampillava dal collo reciso. L'ululato con cui la folla accolse la sua morte creò un muro di suono così violento che per poco Aurian non si accasciò sotto il suo impatto: barcollando di fronte a tanto fragore, rimase però eretta accanto all'avversario caduto e levò in alto la spada insanguinata, baciandola in un gesto di omaggio nei confronti del nemico ucciso. Fu il rinnovato ruggito della folla a metterla in guardia perché, accecata dalle lacrime, non aveva visto i nuovi avversari emergere dalla bocca della galleria e ormai essi le erano quasi addosso. Passandosi la mano insangui-
nata sugli occhi si girò ad affrontare la nuova sfida e rimase sconcertata nel trovarsi davanti due uomini, uno munito di lancia e l'altro soltanto di una rete. Per un momento si limitò ad osservarli con espressione confusa, perché una cosa del genere esulava completamente dalla sua esperienza, poi li vide allargarsi sulla destra e sulla sinistra in modo da impedirle di tenerli d'occhio entrambi e... quando ormai era troppo tardi... comprese: il guerriero con la rete aveva lo scopo di distrarla, quindi lei avrebbe dovuto invece non perdere di vista quello munito di lancia che teneva la punta letale spianata in direzione del suo petto, perché se avesse distolto lo sguardo lui avrebbe potuto scagliarle contro la lancia o gettarsi su di lei. D'altro canto, mentre teneva sotto controllo il lanciere, l'uomo con la rete avrebbe potuto prenderla alle spalle e immobilizzarla. L'ira divampò dentro di lei con la violenza di un incendio boschivo di fronte a quel confronto sleale, ma questa volta si trattenne in tempo e si ingiunse di restare calma e di riflettere, perché indipendentemente dalla lealtà dello scontro doveva vincere per potersene andare da lì. Durante tutto il tempo che impiegò a riflettere continuò intanto a indietreggiare in modo da far sì che entrambi gli uomini rimanessero nel suo campo visivo, e d'un tratto si rese conto che presto si sarebbe venuta a trovare intrappolata contro il muro di pietra che delimitava l'arena, cogliendo al tempo stesso un'occhiata d'intesa fra i suoi due avversari: dunque la volevano con le spalle al muro! Il motivo di quella manovra non le era chiaro, ma se questo era il loro intento avrebbe fatto in modo che non riuscissero a realizzarlo. Eseguita una finta verso destra si tuffò all'improvviso verso sinistra, in direzione dell'uomo con la rete, e con la coda dell'occhio intravide il movimento compiuto dal lanciere per scagliare la sua lancia... sentendo subito dopo la pesante punta di ferro trapassarle il polpaccio, strisciando contro l'osso e lacerando il muscolo. Il dolore fu così intenso che per poco non perse i sensi, ma il suo balzo disperato l'aveva intanto portata abbastanza lontano da permetterle di calare la spada sulle ginocchia dell'uomo con la rete, con violenza tale da farle vibrare i polsi. Un istante dopo l'uomo crollò al suolo in una pozza di sangue, azzoppato e urlante. Essendo disarmato, il lanciere approfittò dello stato d'impotenza di Aurian per correre a impossessarsi della rete, per avvilupparla con essa e porre fine allo scontro. Consapevole di questo, Aurian si rese conto di aver bisogno della lancia perché aveva una portata più lunga rispetto alla spada, e senza esitazione lasciò cadere la propria arma per afferrare l'asta di legno, estraendo la lama di metallo dalla gamba fra il lacerarsi dei muscoli del
polpaccio. Il dolore lancinante le causò un senso di nausea misto a vertigini e le offuscò la vista: non avendo il tempo di alzarsi in piedi, fece quindi roteare la lancia intorno a sé quasi alla cieca, riuscendo ad agganciare la rete con l'estremità dell'asta, e a quel punto le bastò imprimere un deciso strattone trasversale per sfilare la rete da sotto le mani protese dell'avversario, per il quale quella manovra giunse come una cosa del tutto imprevista. Rendendosi conto che per riconquistare la rete si sarebbe dovuto avvicinare all'avversaria più di quanto fosse saggio fare essendo disarmato, il guerriero ebbe un istante di esitazione che Aurian sfruttò per agire: liberata l'asta della lancia dalla rete, girò l'arma e la scagliò. Il lanciere intuì in tempo il suo piano e spiccò la corsa, approfittando del fatto che Aurian era ancora a terra e quindi non era nella posizione più adatta per imprimere forza al tiro. La distanza però era breve e la lancia arrivò al bersaglio, conficcandosi nella schiena del guerriero che incespicò e cadde al suolo. Vagamente, Aurian pensò che quel debole tiro non poteva certo averlo ucciso... ma d'altro canto l'uomo non accennò a rialzarsi e infine lei si rese conto che se non si fosse risollevata in piedi sarebbe stata considerata a sua volta sconfitta... ricordava ancora il giovane guerriero esausto che aveva lasciato l'arena prima che lei vi entrasse, condannato a ripetere la sua esibizione non appena le sue ferite fossero guarite. Intorno a lei gli ululati della folla si fecero più fiochi a mano a mano che un velo di gradita oscurità prendeva a vorticarle nella mente: sarebbe stato facile lasciarsi andare e scivolare nell'incoscienza, e del resto così forse sarebbe vissuta per riprendere la lotta un altro giorno... E vivere di nuovo un'esperienza del genere? «No!» ingiunse fermamente a se stessa. «Alzati in piedi, guerriera!» A tentoni recuperò la spada e ne conficcò la punta nella sabbia intrisa di sangue, poi si issò faticosamente in piedi gravando con il proprio peso sulla robusta lama, assalita da un dolore tanto intenso da farle venire le lacrime agli occhi. La gamba ferita rifiutava di reggere il suo peso, la schiena le doleva perché si era stirata i muscoli nel gettarsi al suolo e il braccio sinistro era pressoché inutilizzabile... e in aggiunta a questo era debole per lo sfinimento e la perdita di sangue. Oh, dèi, pensò, come potrò affrontare un altro avversario in queste condizioni? Fugacemente si sorprese a rimpiangere i propri poteri perduti, pensando con amarezza che senza i bracciali avrebbe ancora potuto salvarsi... e d'un tratto si chiese se essi le avrebbero anche impedito di assorbire potere dall'esterno oltre a bloccare qualsiasi emissione da parte sua, e al
tempo stesso ricordò come durante i tumulti di Nexis si fosse servita dell'ira della folla scatenata per attirare la pioggia. Concentrandosi con tutte le sue forze, rivolse interiormente la propria volontà nello stesso modo in cui di solito la protendeva verso l'esterno... e funzionò: l'energia cominciò ad affluire dal calore del sole, dalla stessa forza vitale e dall'avidità di sangue della folla che la circondava, mentre tutti gli altri ebbero l'impressione che nell'aria si fosse diffuso un gelo improvviso e che una nube fosse passata davanti al sole, sebbene il cielo fosse del tutto sereno. Il suo respiro irregolare e affaticato si regolarizzò, la vista le si schiarì e la debolezza dovuta alla perdita di sangue l'abbandonò, anche se non poté fare nulla per risanare le ferite e attenuare il dolore. A mano a mano che le forze cominciarono a tornarle grazie a quell'energia presa a prestito, si chiese poi per quale motivo il prossimo avversario tardasse ad arrivare, perché le stessero concedendo quel momento di respiro di cui aveva tanto bisogno. Poi le grida della folla tornarono a registrarsi nella sua sfera cosciente e si abbatterono su di lei come un'onda di marea. «Il Demone! Il Demone!» stavano cantilenando mille voci, e al tempo stesso sembrava che si fosse creata una certa confusione. Mentre aspettava, appoggiata alla spada, vide Eliizar avanzare nell'arena fino ad arrestarsi sotto la balconata decorata di fiori ed ebbe l'impressione che lui fosse impegnato in una discussione di qualche tipo con il re. Dopo qualche momento parve che si arrivasse ad una decisione e il maestro d'armi si diresse verso di lei scuotendo il capo. «È una cosa che non ha precedenti» disse. «La folla vuole che ti venga evitata l'ultima prova contro avversari umani e che tu venga messa a confronto con il Demone Nero... e Sua Maestà ha acconsentito. La nuova Khisihn si è mostrata contraria, per qualche motivo che ignoro, ma è prevalso il volere di Sua Maestà.» Che farsa! pensò Aurian, ergendosi sulla persona e fissando Eliizar negli occhi. La mia sorte dipende da una lite della coppia reale! «D'accordo» assentì Aurian, in tono rassegnato. «Porta dentro il tuo Demone.» Con il volto solcato da una lacrima, Eliizar la strinse in un rapido abbraccio. «Addio, coraggiosa guerriera» disse, prima di allontanarsi. «Mi dispiace che sia dovuta finire così e prego che il Mietitore sia misericordioso con te.»
Grazie per avermi tirato su il morale, Eliizar, pensò con irritazione Aurian. Il sole prossimo a tramontare le batteva sul collo mentre aspettava, e nugoli di mosche si libravano intorno al sangue che le colava dalle ferite, il loro ronzio chiaramente udibile adesso che sulla folla era sceso un silenzio carico di aspettativa. Allontanata una mano tremante dall'elsa della spada, Aurian si pulì il volto dalla polvere e dal sudore, sforzandosi di ignorare la sete che la tormentava e che in quel momento era la minore fra le sue preoccupazioni e chiedendosi cosa fosse questo Demone di cui tutti parevano avere tanta paura. Poi nella galleria d'accesso echeggiò un rumore di ruote di legno e una grossa gabbia di ferro apparve nell'arena, trainata da una dozzina di schiavi; non appena la processione si arrestò, uno degli schiavi si protese a sfilare lo spesso chiodo di metallo che teneva chiusa la porta della gabbia per poi allontanarsi il più in fretta possibile con i compagni verso la sicurezza offerta dalla galleria, le cui porte di legno vennero fragorosamente chiuse dopo il loro passaggio, precludendo ogni via d'uscita. Intanto Aurian continuò ad aspettare, tuttora all'oscuro di cosa l'aspettasse perché le spesse sbarre della gabbia erano tanto ravvicinate da impedirle di vedere cosa ci fosse all'interno, dove poteva distinguere soltanto un'indistinta forma scura che si muoveva inquieta. D'un tratto nell'arena echeggiò un ruggito, così possente e improvviso da farle tremare il terreno sotto i piedi... un suono permeato di sete di sangue, di furia e di minaccia, di fronte al quale la folla si ritrasse visibilmente, spaventata... e la porta della gabbia si spalancò lentamente sui cardini scricchiolanti, permettendo ad un'enorme forma nera dagli occhi di fiamma di balzare con fluida agilità sulla sabbia dell'arena. Una grande bocca rossa si spalancò in un ringhio di sfida, mettendo in mostra ricurve zanne d'avorio più lunghe della mano di Aurian, che sussultò ed accentuò la stretta intorno all'elsa della spada. Il Demone era un grosso felino, più grande di come lei avrebbe potuto immaginarlo perfino nei suoi peggiori incubi, lungo il doppio della statura di un uomo e tanto alto da arrivarle all'altezza della vita; i suoi occhi gialli scintillavano come fiamme nel fissare la preda e gli artigli simili a scimitarre d'acciaio spiccavano lucenti sulla sabbia insanguinata ad ogni passo lento e deliberato che esso stava muovendo per avvicinarsi alla sua vittima. Piantati saldamente i piedi per terra Aurian sollevò la spada, con il cuore che le martellava selvaggiamente nel petto per il timore. Come poteva chiunque tenere testa ad una simile creatura? E come poteva lei sperare di far-
le fronte, impacciata com'era dalle ferite e dallo sfinimento? Poi i suoi occhi incontrarono quelli del felino e lei rimase sconvolta nel sentire le loro menti che si toccavano: esso era intelligente... o forse avrebbe dovuto dire essa, considerato che quella era una regina... la matriarca del suo popolo... catturata, umiliata e decisa ad avere vendetta. Sforzandosi di rimettere ordine nei propri pensieri sconvolti, la Maga protese allora la propria mente. «Aspetta» disse. «Perché?» fu la risposta, carica di derisione sotto cui si avvertiva però una sfumatura di stupore. Nel frattempo il felino continuò ad avvicinarsi fino ad arrivare alla distanza ottimale per spiccare il balzo, e Aurian fu quasi lieta che la gamba ferita le impedisse di fuggire. «Io non sono una tua nemica» tentò ancora, costringendosi a non apparire supplichevole. «Sono prigioniera come te.» «Tutti gli uomini sono miei nemici.» «Io non lo sono» insistette la Maga mantenendo salda la propria voce mentale. «Le persone che ci sono qui sono anche mie nemiche. Perché ucciderci a vicenda quando abbiamo gli stessi avversari?» Il grosso gatto si arrestò con una zampa sollevata a mezz'aria, e per un momento diede l'impressione di riflettere su quelle parole; poi però si accoccolò al suolo con aria minacciosa. «Menti!» ringhiò. «Muori!» E spiccò il balzo. Essendo un'amante dei gatti, Aurian notò però l'oscillazione rivelatrice dei quarti posteriori che precedette il salto in se stesso, e si tuffò in avanti prima che il felino potesse piombarle addosso. Gli artigli le lacerarono dolorosamente il fianco e al tempo stesso lei sentì un furioso ruggito di dolore quando la punta della sua spada strisciò contro le costole dell'animale, poi cercò di rialzarsi in piedi per affrontare il felino ma la gamba ferita cedette sotto il suo peso ed esso le fu addosso, appiattendola con la faccia premuta contro la sabbia e facendole sfuggire di mano la spada che scivolò fuori della sua portata. Per alcuni istanti, durante i quali la folla trattenne il respiro, entrambi rimasero immobili... poi la Maga stabilì di nuovo il contatto mentale con la belva. «Stai commettendo un grosso errore» affermò... trattenendosi dal ridere della propria temerarietà soltanto perché la sua situazione era veramente disperata. «Ma certo» la beffò il grosso felino, con una sfumatura di crudele diver-
timento che le percosse la mente come una frustata. Con estrema lentezza, Aurian si sollevò leggermente, senza neppure osare di sputare la sabbia che aveva in bocca per timore di essere scoperta: subito i grandi artigli le scivolarono leggeri sulla schiena, lacerando il suo giustacuore di cuoio e segnando la pelle sottostante, e lei non riuscì a trattenersi dal lanciare un grido. Al tempo stesso però riuscì a ottenere ciò che si era prefissa e a infilare una mano sotto di sé per cercare a tentoni la daga che aveva rubato ad Eliizar e nascosto sotto il giustacuore. Involontariamente, il felino le era stato d'aiuto disintegrando quasi del tutto l'indumento, cosa che permise alla lama lunga e piatta di scivolarle in pugno con facilità. All'improvviso un colpo possente dell'enorme zampa la fece rotolare su se stessa: a quanto pareva, la belva era decisa a giocare con lei come un gatto domestico avrebbe fatto con un topo... e così facendo la mandò a ricadere questa volta supina, con un impatto che le provocò una fitta di dolore tanto acuta da troncarle il respiro. Incapace di determinare esattamente la causa della fitta e di stabilire se si trattava delle costole o del bambino, Aurian si sentì assalire da un intenso timore. Poi il felino le fu addosso e protese gli artigli per sventrarla... immobilizzandosi nel momento in cui lei sollevò la daga a sfiorargli la gola. «Credo che sia una situazione di stallo» affermò mentalmente Aurian, fissando quei roventi occhi gialli così vicini ai suoi, e anche se non ebbe risposta le parve di cogliere in essi una sfumatura di dubbio. Imponendosi di restare calma, decise di rischiare il tutto per tutto. «Mi hanno detto che se ti ucciderò avrò la libertà» disse. «Hanno offerto anche a te la stessa cosa? Naturalmente puoi riuscire ad uccidermi prima che faccia in tempo a colpirti... però potresti anche non essere abbastanza veloce.» Il felino emise un ringhio minaccioso, ma Aurian non si lasciò intimidire. «La mia morte non può fruttarti nulla tranne un rapido pasto... e ti garantisco che mi troveresti molto coriacea» proseguì, e questa volta la belva parve reagire al suo umorismo rilassandosi leggermente. «Ma cosa succederà se rifiuteremo di ucciderci a vicenda? Pensi che potremmo conquistarci la libertà combattendo? In caso contrario trascineremo di certo molti di loro nella morte insieme a noi. Cos'abbiamo da perdere? Vuoi restare qui per sempre, prigioniera in una gabbia?» «Gli uomini non sono degni di fiducia» dichiarò il felino, in tono secco. «D'accordo» replicò Aurian, che pure aveva sperato di non dover arriva-
re a questo, e incontrò nuovamente con franchezza lo sguardo dell'enorme fiera, aggiungendo: «Devi decidere da sola. Io ti vorrei per amica, perché sei la creatura più bella, coraggiosa e possente che abbia mai visto, ma se questo non è possibile non voglio comunque essere responsabile della tua morte.» Muovendosi con cautela, allontanò la daga dalla gola del felino e la scagliò lontano da sé, facendola scivolare e rimbalzare sulla sabbia. La folla, che era da tempo balzata in piedi per la tensione, emise un sussulto corale. Seguì un momento di assoluta immobilità, poi il felino spalancò le grandi fauci e le sue lunghe zanne letali brillarono al sole. Sussultando a sua volta, Aurian chiuse gli occhi per non vedere la morte incombente, ma all'ultimo momento la grossa testa si girò di lato e una lingua ruvida come una lima d'acciaio lambì il sangue che le colava dalla ferita al braccio. Aurian riaprì di scatto gli occhi con stupore e incontrò lo sguardo dorato della fiera. «Mi chiamo Shia» disse il felino. «Bevi il mio sangue e sii mia amica.» Poi indietreggiò leggermente in modo da liberare Aurian dal proprio peso e lei si sollevò a sedere a fatica, resa debole dal rilasciarsi della tensione; ignorando i mormorii confusi che provenivano dalla folla, accostò la bocca al costato del felino e leccò il suo sangue. «Mi chiamo Aurian» si presentò quindi, «e sono onorata di essere tua amica.» Al tempo stesso protese con audacia le dita insanguinate ad accarezzare la testa ampia e setosa di Shia, e gli spettatori stupefatti udirono un suono che mai prima di allora era echeggiato nell'arena... il lento e basso rombo delle fusa del grosso felino. Defraudata del previsto spettacolo di morte, la folla esplose in un fragore di fischi e di imprecazioni, scagliando nell'arena ogni sorta di proiettili improvvisati... frutti, dolcetti, boccali e perfino scarpe. Al tempo stesso le porte all'imboccatura della galleria si aprirono e lasciarono passare una ventina di guardie armate e dotate di armatura, che si avvicinarono con riluttanza e si allargarono a formare un ampio cerchio intorno ad Aurian e a Shia. Mentre la Maga lottava per rialzarsi in piedi, Shia raggiunse il punto in cui giaceva la sua spada e gliela riportò trasciandola per l'elsa, poi Aurian si servì di Coronach per sostenersi e verificare la resistenza della gamba ferita. A quanto pareva, essa era in grado di reggere il suo peso se rimaneva immobile, ma non c'era da sperare che continuasse a farlo qualora avesse dovuto muoversi... cosa che però quei soldati ignoravano. Strin-
gendo in pugno la spada, si addossò a Shia mentre il cerchio di uomini armati si stringeva sempre di più intorno a loro. «D'accordo» esclamò in tono cupo. «Chi di voi figli di porci vuole essere il primo?» Un ringhio di Shia fece minacciosamente eco alle sue parole e i soldati si scambiarono occhiate dubbiose, dimostrando con chiarezza che nessuno di essi voleva avanzare per primo. In quel momento Eliizar emerse correndo dalla galleria e attraversò l'arena fino a raggiungere la balconata reale. Quando vi arrivò il Khisu si alzò in piedi, e questo fece piombare l'arena in un silenzio improvviso. «Vostra Maestà» gridò il maestro d'armi, con voce tremante. «La decisione relativa alla vita o alla morte di questa guerriera dipende da te. Di solito la morte è la pena prevista per chi manchi di abbattere il suo avversario, ma questa donna... questa guerriera... ci ha onorati offrendoci l'esibizione più coraggiosa che si sia vista in tutta la storia dell'arena e nessuno di noi dimenticherà questo giorno. Vuoi dunque, nella gioiosa occasione del tuo matrimonio, usare clemenza?» Che tu sia benedetto, Eliizar, pensò Aurian. Sulla balconata il re si prese del tempo per riflettere, incerto: da un lato infatti il gesto che gli veniva suggerito sarebbe stato splendido e degno di un Khisu, ma d'altro canto gli Arbitri gli avevano parlato di quella pericolosa straniera e lui non era certo di volerla in circolazione nelle sue terre. Trattenendo il respiro per l'ansia, Aurian stava intanto scrutando a sua volta con attenzione il Khisu, in quanto quella era la prima occasione che le si offriva per studiarlo a fondo. Il sovrano, che appariva più giovane di quanto doveva essere in realtà, aveva un'espressione ferina e occhi scuri che brillavano di una luce crudele; i capelli neri che gli ricadevano oltre le spalle non mostravano tracce di grigio come non ce n'erano nei suoi lunghi baffi; il corpo era snello, agile e muscoloso, una vera macchina per uccidere che dava l'impressione di essere usata spesso... e bene. Osservandolo, Aurian pensò che non le sarebbe piaciuto combattere contro di lui, anche se forse le sarebbe piaciuto averlo nel proprio letto... l'assurdità di quel pensiero, del tutto fuori posto in quelle circostanze, la sconvolse, ma al tempo stesso non poté negare l'aura irresistibilmente sensuale e pericolosa che emanava da quell'uomo, rendendolo simile ad una splendida bestia selvatica. D'un tratto la regina... la nuova Khisihn... emerse dall'ombra della balconata per mormorare qualcosa all'orecchio del Khisu, e nonostante il velo
che le copriva il volto Aurian distinse lo stesso l'inconfondibile bagliore dorato dei suoi capelli: Sara! Stordita dalla sorpresa, si accasciò contro il fianco di Shia, chiedendosi come avesse fatto quella dannata donna a riuscire a diventare regina. Sara, dal canto suo, era rimasta parimenti sconvolta quando aveva visto Aurian entrare nell'arena, perché se quella dannata Maga avesse rivelato al Khisu che lei era già sposata tutto il suo lavoro per conquistarlo sarebbe stato vano; per prevenire tale eventualità, si avvicinò ora al Khisu e si protese a sussurrargli nell'orecchio, lieta che lui parlasse con disinvoltura la sua lingua anche se lei stava a sua volta facendo progressi nell'imparare quella locale. «Uccidi questa donna, mio Signore» gli disse. «Regalami la sua morte.» Xiang la fissò con stupore, chiedendosi se quella era davvero la creatura gentile che lo aveva incantato. «Per favore, amore mio» insistette Sara, con un sorriso affascinante a cui il Khisu si trovò come sempre impotente a resistere. Il suo pollice cominciò a girarsi verso il basso nel segnale tradizionale di morte. «Fermo!» intervenne il Principe Harihn, avanzando verso la parte anteriore della balconata. «È costume del Khisu elargire doni nel suo giorno di nozze, cosa che fino a questo momento mi pare sia stata dimenticata» proseguì, rivolgendo al padre un sorriso privo di calore. «Dalla a me, padre, concedimi il dono della vita di questa donna.1» La sua voce, volutamente alta di tono, echeggiò per l'arena, e nel trovarsi di colpo al centro di centinaia di sguardi incuriositi il Khisu fissò il figlio con occhi roventi. «In nome del Mietitore... perché?» domandò. «Continui a ripetermi da tempo che ho bisogno di una donna tutta per me, e questa guerriera straniera costituisce una sfida a cui non so resistere» replicò il Harihn, scrollando le spalle. «Mio Signore» intervenne Sara, che era riuscita a seguire la maggior parte della conversazione e cominciava a sentire la situazione sfuggirle di mano, «ti imploro, concedimi la morte di questa donna.» «Ecco, figlio mio, vedi in che situazione mi hai messo?» osservò il Khisu. «Adesso devo scontentare il mio erede... o la mia nuova sposa» continuò, elargendo a Sara uno smagliante sorriso prima di tornare a volgersi verso il principe. «Senza dubbio questa donna non può essere così importante... non è certo una bellezza e qualsiasi uomo ci penserebbe due volte prima di dividere il letto con una simile diavolessa. Suvvia, Harihn, scegli
un altro dono» aggiunse, con una nota di durezza nella voce. «Se è una donna che vuoi, ne potrai prendere una nel mio serraglio personale, che è composto soltanto di bellezze senza pari esperte nell'arte dell'amore.» «No» ribatté in tono secco Harihn, serrando la mascella. «Io voglio quella.» Abbandonando ogni finzione di cordialità padre e figlio sì squadrarono a vicenda con occhi roventi mentre il Khisu rifletteva rapidamente: cosa stava cercando di ottenere Harihn? Stava soltanto tentando di metterlo in imbarazzo in pubblico oppure voleva creare attrito fra lui e la sua nuova moglie? O magari aveva qualche altro motivo per voler portare la strega straniera nella propria casa? Infine prese la sua decisione: molto probabilmente, la strega avrebbe piantato una daga nel corpo del suo benefattore alla prima opportunità, risolvendo così il suo problema, e in caso contrario... c'erano metodi meno pubblici di sistemare faccende del genere. «Molto bene, figlio mio» disse ad alta voce, a beneficio della folla che stava seguendo la scena con rapito interesse. «Non ti posso opporre un rifiuto, quindi affido alla tua custodia questa coraggiosa guerriera.» Poi sollevò il pollice a indicare che la vita della straniera era salva e la folla applaudì, mentre Sara sussultava. «Ti ringrazio, padre mio» replicò Harihn, poi saltò giù dalla balconata con un melodrammatico volteggio e attraversò l'arena diretto verso Aurian. Nel frattempo, la Maga si consultò rapidamente con Shia. «Pare che ci sia stata salvata la vita... per ora. Pensi che dobbiamo andare con quest'uomo?» «Non mi fido di lui.» «Neppure io, ma ritengo che dovremo correre il rischio, perché è sempre meglio che essere fatte a pezzi da questi idioti.» «Sono d'accordo.» Allorché il Khisal si avvicinò Aurian gli rivolse un profondo inchino, serrando i denti per resistere al dolore e per soffocare l'ira derivante dall'espressione interessata con cui lo sguardo di lui indugiò sui suoi seni, esposti dalla devastazione subita dal giustacuore. «Ringrazio Vostra Altezza» disse. «Hai combattuto con coraggio, guerriera, e l'onore è mio» sorrise il principe. «Vuoi venire con me?» aggiunse quindi, protendendo una mano per aiutare Aurian, ma fu bloccato nel suo gesto da un ringhio di avvertimento di Shia.
«Temo che tu abbia ereditato anche la mia amica» osservò Aurian. «Mi piacerebbe» mentì Harihn, adocchiando Shia con aria dubbiosa. «ma mio padre non l'ha inclusa nel nostro accordo.» Di colpo Aurian si sentì nauseata da quella farsa e al tempo stesso si rese conto di essere arrivata al limite delle forze. «Shia verrà dove andrò io» ribatté in tono secco. «Vorresti forse tentare di fermarla? Oppure hai più paura di tuo padre?» Harihn si accigliò e scoccò in direzione della folla un'occhiata da cui Aurian comprese che pur temendo il felino lui aveva più paura di fare la figura dello sciocco qualora Shia avesse rovinato la sua trionfale uscita di scena. «Lei non farebbe mai del male ad un mio amico... e il tuo popolo rimarrebbe molto impressionato da un principe capace di domare una creatura del genere» suggerì. «Benissimo» annuì Harihn, rischiarandosi in volto. «Mi permetterà di aiutarti?» «Certamente.» Il principe sollevò allora teatralmente Aurian fra le braccia e la portò fuori dell'arena, con il grosso felino che lo seguiva con aria guardinga, mentre tutt'intorno la folla applaudiva deliziata, all'apparenza dimentica di aver ululato appena pochi momenti prima per ottenere la morte di entrambi i contendenti. Prima che lei entrasse nella galleria lo sguardo di Aurian si posò però sul Khisu e su Sara, che stavano seguendo la scena con occhi roventi e con un'espressione furente sul volto, e un gelido brivido di disagio le scivolò lungo la schiena, anche perché ignorava che intenzioni avesse il principe nei suoi confronti. «Aiutami a mantenere la mente lucida» chiese a Shia. «Per il momento non oso ancora permettermi di svenire.» CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO ALLA RICERCA DI ANVAR Ad Anvar era stata risparmiata l'umiliazione del mercato degli schiavi: dopo aver languito per parecchi giorni nello squallore e nella disperazione di quella fetida cella, lui e altri cinquanta schiavi erano stati incatenati gli uni agli altri in gruppi di dieci e condotti di notte lungo le strade strette e tortuose della città fino ai moli, dove all'alba erano stati caricati su alcune chiatte aperte e trasportati a forza di remi alcuni chilometri più a monte sul
fiume, fino al posto in cui si stava costruendo il palazzo d'estate del Khisu. L'area in questione era un alveare di attività. L'enorme nuovo edificio stava sorgendo a poco a poco su una serie di terrazze che erano state scavate a mano e a prezzo di parecchie vite nella superficie delle torreggianti alture rosse, e tutt'intorno l'aria era pervasa di polvere ed echeggiante di ordini gridati a gran voce, mentre il battito di martelli e ceselli, il crepitare delle fruste e i gemiti degli schiavi torturati echeggiavano in un'incessante cacofonia di suoni fra le pareti della gola che intrappolavano al loro interno ogni rumore e l'intenso calore fino a formare un ribollente calderone di sofferenza. I massicci blocchi di pietra bianca che erano stati trasportati via fiume dalle cave che si trovavano più a monte erano già in procinto di essere messi al loro posto e squadre di schiavi esausti erano impegnati a tirare le corde dei grandi paranchi usati per sollevarli, mentre altri sciamavano sulle intelaiature di legno che rivestivano le mura erette solo in parte oppure erano impegnati a mescolare enormi quantità di calcina che correvano il costante pericolo di seccare sotto il sole rovente. Interi eserciti di tagliapietre, di mastri intagliatori e di carpentieri erano impegnati a svolgere la loro opera, e gli architetti si aggiravano per il sito dei lavori muniti di rotoli di pergamene e dandosi un'estrema importanza. Più lontano, una vasta cucina all'aperto era stata approntata su un tratto di terreno pianeggiante adiacente il fiume, e parecchi cuochi sudati vi lavoravano in maniera incessante, all'apparenza ignari della puzza, della polvere e dei nugoli di mosche. Il gruppo di cui faceva parte Anvar venne scaricato su uno degli improvvisati moli di pietra che si protendevano nell'acqua lenta e pigra, e il capo schiavista del sito venne ad esaminarlo con espressione acida. «Tutto qui?» domandò al capitano del convoglio di chiatte. «Me ne servono il triplo, altrimenti il palazzo non verrà mai ultimato. In queste condizioni gli schiavi durano pochissimo.» «Non te la prendere con me» ribatté il capitano, sputando sul terreno polveroso. «Io mi limito a portarteli. Comunque, se li trattassi meglio forse resisterebbero più a lungo» aggiunse, guardando con disprezzo il cantiere puzzolente e polveroso. «Non mi dire come fare il mio lavoro, perdigiorno di un marinaio. Se il palazzo del Khisu non verrà finito in tempo qualcuno ci rimetterà la testa, ed io non intendo addossarmi nessuna colpa. Come ci si aspetta che possa lavorare con il materiale umano scadente che continuate a mandarmi... guarda quello! Nel nome del Mietitore, cosa dovrebbe essere?» esclamò lo
schiavista, protendendo di scatto un dito ad indicare Anvar. «Come faccio a saperlo?» replicò il capitano, scrollando le spalle. «Io mi limito a portarteli, ricordi? Zahn non mi dice dove si procura gli schiavi ed io non gli faccio domande... è più salutare. Finché lui continua a mandarne sarebbe saggio da parte tua usarli e tenere la bocca chiusa. A chi importa il colore della pelle di un dannato schiavo? A Zahn no di certo, se c'è da ricavare del profitto, e di certo non importa neppure al Khisu, dato che a lui interessa soltanto vedere questo dannato palazzo ultimato. Trattalo come tutti gli altri... fallo lavorare fino a quando cadrà morto e dopo seppelliscilo da qualche parte oppure gettalo nel fiume in pasto ai lucertoloni. Se qualcuno dovesse chiedermi qualcosa... io non l'ho mai visto. Adesso è meglio che me ne vada, perché questo posto puzza.» «Mi sei davvero di grande aiuto» borbottò lo schiavista. «Avverti Zahn che mi servono altri schiavi... e che sarà opportuno che la loro qualità migliori, altrimenti qualcuno potrebbe sussurrare all'orecchio del Khisu che lui ha cominciato a importare illegalmente nordici.» «Io non dirò un bel niente a Zahn» ritorse il capitano, sputando ancora, «e se fossi in te starei ben attento a come parlo, perché se conosco bene Zahn potresti finire sepolto sotto le fondamenta di questo edificio.» Poi girò sui tacchi e se ne andò. Gli schiavi vennero messi immediatamente al lavoro. Ad uno ad uno ciascun uomo venne liberato dalle catene e interrogato per appurare se possedeva cognizioni atte a usarlo come tagliapietra o come carpentiere; se la risposta era affermativa l'uomo in questione era fortunato, perché veniva incaricato di assistere gli artigiani e si vedeva così risparmiare molto faticoso lavoro sotto i raggi di un sole impietoso. A mano a mano che la fila si assottigliava e che si avvicinava il suo turno, Anvar si trovò di fronte ad un dilemma, e cioè se doveva fingere di ignorare la lingua locale nella speranza che questo gli potesse dare una probabilità in più di fuga o se invece doveva dichiarare le cognizioni di carpenteria apprese da suo nonno, in modo da sopravvivere più a lungo in quel luogo terribile. La decisione gli venne però risparmiata perché quando il sovrintendente accennò a interpellarlo il capo schiavista intervenne. «Quello no» ordinò in tono secco. «Non voglio che resti in circolazione troppo a lungo, quindi mettilo nelle squadre addette ai paranchi.» Quello era il lavoro peggiore di tutto il cantiere, come Anvar ebbe ben presto modo di scoprire: in gruppi di venti per volta, gli schiavi tiravano le spesse corde che servivano a sollevare i blocchi di pietra fino alla sommità
delle mura in fase di costruzione, e poiché l'altezza delle mura era in continuo aumento ogni nuovo masso da sollevare sottintendeva un aumento della fatica per gli schiavi esausti, con un numero quotidiano di morti sgomentante. Una volta che un blocco aveva cominciato la sua ascesa non era più possibile fermarsi perché se si fosse perso l'impeto la pietra sarebbe caduta e avrebbe potuto creparsi nel colpire il terreno, comportando un enorme spreco di tempo e di fatica per tagliarne e trasportante un'altra fin lì dalle cave. Di conseguenza se uno schiavo era tanto sfortunato da scivolare o da crollare per la stanchezza, finiva per essere calpestato da quelli che erano dietro di lui, che a loro volta si trovavano a lottare disperatamente per impedire che i loro piedi nudi scivolassero sulla viscida poltiglia sanguinolenta che fino a poco prima era stata un uomo. La vita al cantiere era un incubo interminabile perché il lavoro procedeva dall'alba al tramonto quasi senza soste, il cibo era scarso e poco nutriente... una liquida farinata di grano distribuita la mattina e la sera... e l'acqua era insufficiente alle necessità degli schiavi a causa del sole rovente, con il risultato che molti collassavano per i colpi di calore. Brutali sorveglianti muniti di frusta si aggiravano per il cantiere e non permettevano che il ritmo del lavoro rallentasse, nonostante i tormentosi nugoli di insetti, gli scorpioni e i serpenti che sbucavano da sotto le pietre quando esse venivano sollevate e si scagliavano a casaccio verso le gambe e i piedi nudi degli schiavi... infliggendo agli sfortunati che venivano morsi una morte che giungeva dopo molte ore di agonia. Entro la fine della prima giornata di lavoro la pelle chiara di Anvar era già bruciata e coperta di vesciche a causa del sole rovente, le sue mani e le spalle erano insanguinate ed escoriate a causa dell'attrito delle corde e i piedi nudi erano lacerati e segnati dal terreno sassoso e ineguale; la sua schiena era solcata dai tagli inflitti dalla frusta, la testa gli pulsava per il calore spietato e la lingua gli si era gonfiata nella bocca riarsa... e in mezzo a tanta sofferenza tutto il mondo si era ristretto per lui ad un solo pensiero: continuare a muoversi e sopportare. Quando giunse la sera con la sua benefica frescura un'altra squadra venne a sostituire gli spossati schiavi sopravvissuti al turno ai paranchi e il lavoro proseguì alla luce delle torce mentre Anvar e gli altri schiavi del turno di giorno venivano condotti all'interno di un'alta recinzione, in uno spazio chiuso privo di qualsiasi misura sanitaria e che quindi puzzava come una fogna ed era invaso da sciami di mosche. Nell'oltrepassare le porte ogni uomo ricevette soltanto una ciotola di farinata, perché l'acqua era contenu-
ta in un lungo abbeveratoio comune di pietra alimentato dalla fangosa acqua del fiume. Dopo aver lottato per poter accedere all'abbeveratoio intorno al quale gli uomini si stavano accalcando per contendersi un sorso di quell'acqua malsana, Anvar si allontanò barcollando dalla calca e si lasciò cadere in mezzo alla sporcizia, troppo stanco per pensare o anche soltanto per registrare il dolore che pervadeva il suo corpo spossato... e dopo quello che a lui parve un istante appena venne svegliato con un calcio per cominciare un'altra spaventosa giornata di lavoro. Se fosse stato un vero Mortale, senza dubbio non sarebbe mai sopravvissuto per più di due giorni in quel posto spaventoso, ma in qualche modo durante il sonno il sangue di Mago che gli scorreva nelle vene provvide automaticamente a risanarlo e a ripristinare le sue energie quanto bastava per permettergli di affrontare un'altra giornata di spaventose sofferenze. D'altro canto, quel sistema di difesa automatico non poteva fare miracoli da solo ed Anvar non era mai stato istruito nell'arte del risanamento, oltre ad essere stato privato da Miathan dell'elemento attivo dei suoi poteri; inoltre avrebbe avuto bisogno di cibo e di riposo per rigenerare le energie utilizzate dal processo di risanamento, e questi erano due beni che scarseggiavano in modo disperato nel cantiere... quindi un giorno dopo l'altro le sue condizioni cominciarono a deteriorarsi e il risanamento sempre meno efficace ebbe soltanto l'effetto di prolungare la sua agonia. Al tempo stesso, però, i sorveglianti cominciarono ad essere stupefatti della sua resistenza e a scommettere su quanto sarebbe durato questo strano nordico dalla pelle chiara. Ignaro di tutto, con il corpo e la mente devastati dalla sofferenza e dallo sfinimento, Anvar intanto operava ormai soltanto ad un livello di mera sopravvivenza, e per lui il lusso di riuscire a pensare era diventato un sogno da tempo dimenticato: tutto ciò che di esso rimaneva era una vaga scintilla di consapevolezza, una cocciuta e determinata manifestazione della volontà di vivere. Nell'aprire gli occhi Aurian vide la luce della luna risplendere in un abbagliante caleidoscopio di sagome a forma di stella e di diamante attraverso gli intrecci delle persiane delicatamente intagliate che a loro volta formavano un merletto di ombre sulle chiare e sottili lenzuola del suo letto. In un primo tempo si sentì confusa perché non ricordava bene come fosse giunta lì e la sua mente era ancora assonnata, ma avvertì comunque la certezza che ci fosse qualcosa che non andava e sentì i capelli rizzarlesi sulla nuca in reazione ad una vaga paura informe che destò in lei l'irrazio-
nale istinto infantile di nascondersi sotto le coperte nella speranza che quel terrore ignoto non riuscisse a trovarla. Dopo un momento però cercò di recuperare il controllo, ricordando severamente a se stessa che era una guerriera, e giacque del tutto immobile e con i sensi concentrati sul compito di identificare ciò che aveva determinato quel senso di disagio. Dopo un momento si rese conto che il fattore di disturbo era il silenzio. Da quando era giunta in quelle terre ogni notte era stata pervasa dal ritmico frinire degli insetti notturni che formavano un coro penetrante e continuo, mentre adesso la quiete era assoluta, al punto che lei poteva sentire il proprio respiro irregolare e poco profondo e il martellare del proprio cuore nel petto. Nonostante il calore che regnava nella stanza una goccia di sudore gelido le colò lungo la schiena allorché si rese conto che c'era ancora qualcosa che le sfuggiva... Shia! Dal momento che udiva soltanto il suono del proprio respiro era evidente che nella stanza non c'era nessun altro. Shia era scomparsa! Aurian si guardò selvaggiamente intorno, ma adesso la camera si stava facendo sempre più buia perché qualcosa stava assorbendo la luce che penetrava attraverso la finestra, consumandola e soffocandola con un'ondata sopraffacente di assoluta oscurità. Poi quel qualcosa si mosse in un angolo e lei ne avvertì la presenza silenziosa che strisciava... no, fluttuava verso di lei, e quando esso passò davanti alla finestra sentì il sangue che le si congelava nelle vene alla vista della forma che popolava i suoi ricordi più orribili. I Nihilim! Miathan aveva mandato gli Spettri di Morte a cercarla! Aurian cercò di muoversi, di protendere la mano verso la spada, ma fu tutto inutile: lo Spettro continuò ad avanzare emettendo la strana e crudele risatina che lei ricordava così bene e l'ondata di gelo paralizzante e di terrore che la creatura sospingeva davanti a sé l'investì in pieno. L'incantesimo! L'incantesimo di Finbarr! Com'erano le parole di quell'incantesimo? La sua mente era ormai in preda al panico, incapace di pensare, e lei non era in grado di muoversi, al punto che la lingua sembrava paralizzata all'interno della bocca e gli arti congelati sul letto... poi lo Spettro calò su di lei con le grandi fauci che lasciavano colare lunghi filamenti di viscida oscurità che si protesero ad avvilupparla come avevano fatto con Forral... «Forral! Forral!» «Per l'amor del cielo, signora, svegliati!» Aurian sbatté le palpebre, e quando la vista le si schiarì scoprì di essere seduta sul letto in una stanza rischiarata dal bagliore di alcune lampade: il braccio sinistro fasciato era appeso al collo con una sciarpa e la gola le do-
leva, escoriata per il troppo gridare; davanti a lei non c'era l'orribile forma malvagia di un Nihilim ma quella dei Principe Harihn, che la stava scuotendo per le spalle e appariva grigiastro in viso per lo spavento, mentre Shia era ferma accanto al letto con il muso ringhiante contorto in una maschera di furia e di timore e gli occhi gialli che fissavano roventi qualcosa che non c'era. Che non c'era! A mano a mano che l'incubo di Aurian si dissolse il grosso felino si rilassò progressivamente, scuotendo la grossa testa con aria sconcertata, anche se gli orecchi erano ancora appiattiti sul cranio e la lunga coda nera persisteva ad agitarsi nervosamente; al tempo stesso Aurian fu assalita dalla reazione al sogno e cominciò a tremare in maniera incontrollabile, indebolita dalle ferite e sconvolta dal vivido ricordo dell'orribile morte di Forral, riportato in superficie dall'incubo che aveva riaperto le sue ferite interiori ancora in via di guarigione. Incapace di controllarsi, scoppiò in un violento pianto isterico; accanto a lei Harihn imprecò e ordinò ad un servitore di andare a chiamare il chirurgo, poi cercò di confortarla battendole qualche colpetto imbarazzato sulla spalla. «Calmati, signora» sussurrò, cercando di tranquillizzarla. «Era soltanto un sogno... un brutto sogno dovuto alla febbre. Adesso sei qui, il tuo Demone è accanto a te e ti garantisco che nulla ti può fare del male.» Di lì a poco arrivò il chirurgo, un ometto dalle spalle arrotondate e dal volto rugoso che Aurian ricordava in modo vago come la persona che le aveva ricucito i muscoli lacerati del polpaccio, tremando per tutto il tempo sotto lo sguardo rovente di Shia che si era trattenuta a stento dall'attaccare quell'insignificante creatura che stava causando tanto dolore alla sua amica. Adesso il medico appariva l'incarnazione dell'efficienza nonostante la lunga camicia da notte bianca che aveva indosso, così ridicola che al solo vederlo Aurian si sentì assalire dall'impulso di scoppiare a ridere senza riuscire al tempo stesso a smettere di piangere, con il risultato che risate e singhiozzi si mescolarono a troncarle il respiro. Liberandosi dalla stretta di Harihn, si serrò allora le costole fasciate e doloranti, lottando per respirare con il volto inondato di lacrime. Poco lontano sentì il chirurgo emettere un verso di disapprovazione, poi qualcuno le premette una coppa contro le labbra e la costrinse a inghiottire una bevanda bruciante che la fece tossire e sputacchiare, causandole un'ulteriore fitta di dolore alle costole. «Per favore, trai alcuni respiri profondi» ordinò in tono paziente il chirurgo, parlandole come se fosse stata una bambinetta, e subito dopo la vo-
ce di Shia le echeggiò nella mente, pratica e confortante. «Adesso basta, amica mia» consigliò il felino, «altrimenti ti farai del male.» Con uno sforzo sovrumano Aurian riuscì a controllarsi abbastanza a lungo da inghiottire il resto del medicinale, e ben presto il nodo di tensione che avvertiva dentro di sé cominciò ad allentarsi, permettendole di rilassarsi anche se stava ancora tremando quando infine si riadagiò contro i cuscini asciugandosi gli occhi. «Signora, il Mietitore mi è testimone che ci hai fatti spaventare tutti» dichiarò Harihn, che appariva sollevato. «Sciocchezze!» esclamò in tono deciso il chirurgo. «Si è trattato soltanto della febbre. Sei stata molto malata per parecchi giorni, signora» proseguì, chinandosi a posare una mano sulla fronte di Aurian. «Adesso però la febbre è caduta, quindi non dovresti fare altri sogni spiacevoli. Inoltre sarai lieta di sapere che il tuo bambino sta bene.» Il bambino! Aurian se n'era del tutto dimenticata, così come non riusciva a ricordare qualcosa che avrebbe dovuto fare... qualcosa di urgente... perché aveva la mente ancora sconvolta dal sogno e dominata dal tormentoso ricordo di Forral e di quegli orribili Spettri. «Posso avere del vino?» chiese in tono affannoso, cercando di respingere le immagini che le aleggiavano nella memoria. «Quando i miei pazienti cominciano a chiedere del vino significa che sono in via di guarigione» sorrise il chirurgo. «Ne hai un po' qui, Altezza?» «Lei può berlo?» domandò in tono ansioso il principe. «Dopo tutto ha appena preso quella medicina... e non ha mangiato niente da...» «A questo si può porre rimedio in fretta» lo interruppe il medico, avvicinandosi alla porta e impartendo alcuni ordini ad un servitore in attesa. Mentre aspettava, Aurian cercò di ricostruire quello che era successo. «Quanto sono gravi le mie ferite?» domandò al chirurgo. «Signora, curarti non è stato lavoro da poco» replicò questi, con un'espressione accigliata sul volto rugoso. «Adesso però il braccio sta guarendo, e le costole non erano rotte ma soltanto incrinate per cui con un po' di cautela si salderanno presto. Quanto alla gamba. I muscoli erano molto lacerati e temo che rimarranno delle brutte cicatrici.» «Le cicatrici non hanno importanza. La gamba tornerà sana?» «Dovrebbe» replicò il medico, dopo un momento di esitazione. «O per meglio dire lo farà se le darai la possibilità di guarire, il che significa che
dovrai evitare di usarla per almeno dieci giorni, o anche di più, se possibile.» «Cosa?» esclamò Aurian, sollevandosi a sedere di scatto e sussultando per una fitta di dolore alle costole. «Io non ho tutto questo tempo!» «Dovrai trovarlo, signora.» «Ma c'è una cosa che devo fare... è importante!» protestò ancora Aurian, cercando disperatamente di ricordare di cosa si trattasse. «Regolati come preferisci» replicò il medico in tono gelido, fissandola come se fosse stata una bambina petulante. «Se però non darai a quei muscoli la possibilità di risanarsi adeguatamente rimarrai azzoppata a vita o nel migliore dei casi ti troverai con una gamba definitivamente indebolita. Dovrai restare a letto fino a nuovo ordine... e in caso contrario potrai biasimare soltanto te stessa per le conseguenze.» Aurian imprecò violentemente e calò il pugno sul cuscino, frustrata dai limiti delle capacità curative dei Mortali. Se soltanto avesse avuto i suoi poteri avrebbe potuto risanare le proprie lesioni in pochissimo tempo... In quel momento il servitore rientrò nella stanza portando una tazza di brodo. «Bevi questo, signora» le consigliò il medico, «e dopo potrai avere il vino che desideri.» Nonostante la propria frustrazione, Aurian si accorse di avere lo stomaco contratto non soltanto dall'ira ma anche dalla fame e bevve avidamente il brodo, accettando poi il boccale di vino rosso alquanto dolce che il chirurgo le porgeva. «Non temere, Altezza» disse intanto l'ometto ad Harihn. «Insieme alla medicina il vino la farà dormire, il che è ciò di cui più ha bisogno... e forse allora potremo tornare anche noi nel nostro letto» aggiunse, con una sfumatura acida nella voce. Nel sentire le sue parole Aurian serrò la mano intorno allo stelo del boccale, in preda al panico: non poteva dormire! Cosa avrebbe fatto se gli incubi si fossero ripresentati? Ormai però era troppo tardi perché aveva già bevuto quasi tutto il vino e una sonnolenta euforia si stava impadronendo di lei... una sensazione davvero piacevole dopo quello che aveva appena passato. Ridacchiando protese il boccale per farselo riempire ancora e il chirurgo emise un verso di disapprovazione. «Può darsi che sia meglio così» commentò però subito dopo, versandole dell'altro vino. «Qualsiasi cosa sia stata, ciò che ha sognato le ha procurato un grave shock. Forse dovresti bere un po' di vino anche tu, Altezza, per-
ché hai l'aria esausta. Non sarebbe meglio che lasciassi un servitore a vegliare su quest'ingrata? Hai cose più importanti di cui preoccuparti e devi riposare un poco.» Harihn congedò il medico con poche brusche parole di ringraziamento: quell'ometto era troppo pomposo per i suoi gusti, ma riusciva a farsi tollerare perché era estremamente abile nella sua arte. Massaggiandosi gli occhi stanchi, si volse quindi verso la donna misteriosa che aveva impulsivamente salvato dall'arena e che adesso stava già dormendo serenamente, infine libera dall'espressione di terrore che le aveva distorto il volto. Cosa poteva aver sognato per sprofondare in una simile angoscia? Quello che aveva gridato era stato il nome di suo marito? Le indagini da lui condotte presso gli Arbitri gli avevano permesso di scoprire che quella donna era probabilmente una vedova, e il medico aveva accertato che aspettava un bambino... una notizia che lo aveva lasciato stupefatto in quanto alla luce del suo stato l'esibizione fornita da quella straniera nell'arena risultava essere quasi miracolosa. Rendendo silenziosamente omaggio al suo coraggio, si chinò su di lei per assestarle meglio le coltri intorno alle spalle e subito il Demone sollevò la testa, snudando in un ringhio le lunghe zanne bianche. «Sta' calmo» lo tranquillizzò Harihn, pur tenendolo d'occhio con cautela. «Ormai dovresti sapere che non farò del male alla tua amica.» Il grosso felino riadagiò la testa sulle zampe protese, accontentandosi di scoccargli una cupa occhiata, e riassunse la sorveglianza che aveva mantenuto per tutta la malattia di Aurian, trattando con sospetto quanti si erano presi cura di lei e inducendo la maggior parte dei servi ad aver paura di entrare nella stanza. Decidendo infine di seguire il consiglio del medico, Harihn si versò un bicchiere di vino, poi aprì le imposte intagliate che andavano dal soffitto al pavimento ed uscì nel tranquillo giardino odoroso di fiori e rischiarato dalla luna, portando con sé la coppa. Amava quell'angolo cinto da un alto muro, che con il suo prato erboso, i cespugli in fiore e gli alberi ombrosi costituiva un rifugio verde nel cuore arido della città creato da sua madre quando era stata portata come sposa prigioniera in questo piccolo ma splendido palazzo sul lato meridionale del fiume... quello opposto rispetto all'arena e alla sontuosa dimora del Khisu. Il suo rifiuto di vivere nella stessa casa con il suo signore e il suo harem di concubine era stato una delle cause che avevano portato al suo assassinio perché il Khisu, abituato ad avere a che fare con le donne sottomesse della sua terra, non era stato capace di far fronte al suo orgoglio e all'odio pieno di disprezzo che lei non
aveva mai cercato di nascondere all'uomo che l'aveva sottratta con la forza al suo popolo, gli Xandim. Attraversato il prato, Harihn sedette sul basso muretto di marmo che cingeva la polla in cui nuotavano alcune carpe dorate; l'aroma del grandi boccioli bianchi dell'albero che sovrastava lo specchio d'acqua rischiarato dalla luna era intossicante, ma lui non vi badò neppure perché i suoi pensieri erano altrove: dopo tutti quegli anni sentiva ancora la mancanza di sua madre e ricordava con chiarezza i suoi lunghi capelli castani, i suoi occhi scintillanti e il suo spirito indomito che non si era mai lasciato asservire dalla brutalità del Khisu. Adesso Harihn dimorava in quella casa per lo stesso motivo per cui sua madre vi si era stabilita... per mantenere la propria indipendenza e per tenersi il più lontano possibile da Xiang... ma vivere lì lo faceva soffrire perché la casa era pervasa di ricordi di sua madre, cosa che dipendeva in parte anche da una sua scelta in quanto non aveva mai permesso che vi si cambiasse nulla. Fra i servitori c'era stato un certo scompiglio... per usare un eufemismo... quando lui aveva portato quella straniera dai capelli di fiamma nell'antico appartamento di sua madre, ma per qualche indecifrabile motivo quella gli era parsa la cosa più giusta da fare perché il suo spirito, il suo coraggio, il suo orgoglio e soprattutto il rifiuto di arrendersi nell'arena gli avevano richiamato alla mente ricordi così intensi di sua madre da indurlo suo malgrado a intervenire per aiutare quella donna... per salvarla come non aveva potuto fare con sua madre a causa della troppo giovane età. Da quando aveva lasciato l'arena aveva naturalmente avuto tutto il tempo di riflettere sul suo gesto impulsivo e adesso si chiese ancora una volta cosa lo avesse spinto ad agire in quel modo. Finora la sola cosa che aveva appreso da quella donna era il suo nome... Aurian... ma non aveva idea della sua provenienza o della sua storia, né sapeva come avesse fatto una semplice donna a imparare a combattere così bene. Il fatto che fossa una femmina della razza di stregoni che viveva nel nord lo rendeva molto nervoso, nonostante i bracciali che lei aveva indosso e che a quanto gli era stato garantito avevano il potere di negare la sua magia. Per l'ennesima volta Harihn si chiese se avesse addentato un boccone troppo grosso per i suoi denti... per esempio, quando era intervenuto non aveva mai pensato che si sarebbe trovato a dover ospitare lo spaventoso Demone. In aggiunta a questo il Khisu era ovviamente infuriato con lui. ma questa non era certo una novità. Pensando a suo padre, Harihn si trovò a riflettere che il suo atto presen-
tava anche dei vantaggi: era infatti stato davvero piacevole vedere l'ira apparsa sul volto di Xiang e della sua nuova sposa... il cui desiderio di vedere morta la guerriera era davvero strano. Harihn era convinto che le due donne avessero viaggiato sulla stessa nave, perché l'apparizione di due straniere in città nello stesso momento non poteva essere una semplice coincidenza, e se la sua misteriosa straniera avesse potuto fornirgli delle informazioni che tornassero a detrimento della Khisihn, questo avrebbe potuto fornirgli una nuova arma da usare contro il Khisu... cosa di cui aveva un notevole bisogno. Contorcendo la bocca in una smorfia piena di amarezza, Harihn rifletté che l'odio che suo padre nutriva nei suoi confronti non era un segreto per nessuno, e che sotto questo aspetto Aurian avrebbe potuto dimostrarsi davvero utile in quanto sapeva combattere come un demone... lo aveva dimostrato ampiamente... ed aveva il suo Demone ad aiutarla. Fra tutti e due formavano una coppia davvero straordinaria, e forse lui aveva davvero preso la decisione più giusta scegliendo di salvare quella donna. Quando Aurian si svegliò nuovamente era ormai giorno pieno e il principe non era più nella stanza; al suo posto c'era uno sconosciuto che stava sonnecchiando su una sedia accanto al letto, e nel vedere la sua mole enorme lei si lasciò sfuggire un sussulto. Un momento più tardi si accorse però che Shia stava dormendo in fondo al letto, con la coda stesa sugli occhi, e da questo dedusse che il nuovo venuto doveva essere degno di fiducia, chiedendosi al tempo stesso se sarebbe stato disposto a portarle del cibo, dal momento che si sentiva lo stomaco contratto per la fame. Non appena si protese a toccargli un braccio il gigante si svegliò immediatamente con un'espressione colpevole sul volto, e nel notare la paura che gli apparve nello sguardo Aurian cercò istintivamente di tranquillizzarlo. «Non ti preoccupare, non hai fatto nulla di male addormentandoti, dato che non eri il solo a dormire» gli disse, accennando con un sorriso a Shia, che continuava ad essere immersa nel sonno. «Però ho una fame spaventosa... credi che potresti procurarmi un po' di cibo e una tazza di liafa?» aggiunse, in quanto nel periodo trascorso all'arena aveva sviluppato una vera passione per quella bevanda. Il gigante balzò subito in piedi, annuendo con tanto vigore da correre il rischio che la testa calva gli si staccasse dal collo, e sfoggiò un timido sorriso che gli illuminò il volto bruno. Nel vederlo in tutta la sua statura Aurian sgranò gli occhi per la sorpresa, perché quell'uomo doveva essere alto almeno un paio di metri ed era così ampio di spalle da indurla a chiedersi
come faceva a passare dalle porte; mentre ancora lo fissava il gigante s'inchinò e lasciò la stanza con una velocità inaspettata in un individuo della sua mole, tornando di lì a poco con un vassoio ampio quanto le sue spalle. Nel vagliarne il contenuto con l'acquolina in bocca Aurian decise che qualsiasi ora fosse, non doveva certo essere quella della colazione: sul vassoio c'erano infatti una densa zuppa, del pollame arrosto, frutta, formaggio, miele e il consueto pane piatto, oltre ad una caraffa di vino e ad una cuccuma piena fino all'orlo di liafa che occupava il poco spazio rimasto. «Questo è un vero banchetto!» esclamò. «Grazie!» Nel sentire l'odore del cibo Shia infine si riscosse dal sonno e i suoi occhi dorati s'illuminarono alla vista del vassoio, cosa che strappò un sospiro ad Aurian: certo non se la sentiva di rifiutare alla sua amica di condividere il suo pranzo, ma... Peraltro il gigante aveva pensato anche a questo e da sotto il braccio, dove l'aveva infilato per poter avere le mani libere, tirò fuori un massiccio oggetto avvolto in un panno: rimosso il panno, offri quindi un quarto di carne cruda al felino senza mostrare la minima traccia di paura... e Shia lasciò Aurian stupefatta mettendosi a ronfare sonoramente e sfregando un lato del muso contro la mano dell'uomo. «Ti ringrazio» disse quindi Aurian. «È stato molto premuroso da parte tua. Shia! Non sul letto, per favore!» «Perché no? Anch'io ho fame» protestò Shia, scoccandole un'occhiataccia prima di uscire in giardino trascinandosi dietro la sua carne mentre Aurian si lanciava all'attacco del pasto. «Come ti chiami?» chiese al colosso, con la bocca piena di cibo, ma lui si limitò a fissarla e ad agitare le mani davanti al proprio volto. «Si chiama Bohan, e non ti può rispondere perché non può parlare» affermò Harihn, entrando nella stanza. Immediatamente Bohan s'inginocchiò e si prostrò fino a toccare il pavimento con la fronte, poi si affrettò a lasciare la stanza in risposta ad un cenno indifferente del principe, che aggiunse: «È un eunuco che ho incaricato di proteggerti e di servirti, come richiedono le convenienze.» «Poveretto!» sussultò Aurian. «Che crudeltà!» «Perché dici che è una crudeltà?» ribatté Harihn, stupito. «Tutte le dame di rango vengono servite da eunuchi, altrimenti come potrebbe essere salvaguardata la santità della loro persona?» Aurian rabbrividì, pensando ad Anvar... Anvar! Per il grande Chathak, come aveva fatto a dimenticarsi di lui?
«In ogni caso la sua condizione non ha importanza, e spero che tu sia soddisfatta di lui» proseguì intanto il principe, scrollando le spalle, poi si sedette comodamente ai piedi del letto e si servì con noncuranza di una coscia del pollo di Aurian, che si affrettò ad addentare un altro grosso boccone perché non voleva essere defraudata di altre parti del suo pranzo. «Come ti senti?» le chiese Harihn in quel momento, e lei quasi si strozzò per rispondere, trovandosi costretta a bere un sorso di vino e a trarre un profondo respiro. «Affamata» replicò in tono seccato, poi si dispiacque della propria maleducazione perché in fin dei conti era molto indebitata con quell'uomo e dipendeva dalla sua benevolenza nei propri confronti. Il principe però le rivolse un sorriso tollerante e nell'osservarlo lei pensò che era un uomo avvenente, con i ricci capelli neri, le spesse sopracciglia regolari e gli scintillanti occhi scuri. Il suo volto era più delicato di quello paterno, meno angoloso e ferino, ma il suo portamento era permeato dallo stesso orgoglio e il suo corpo era altrettanto snello e forte. Per quanto potesse trovarlo attraente, però i suoi modi condiscendenti stavano cominciando ad irritarla, e dovette costringersi a controllare le proprie reazioni. «Chiedo scusa, Vostra Altezza» disse. «Temo di non essere mai al mio meglio appena sveglia.» «Puoi chiamarmi Harihn» replicò lui, con l'aria di chi stesse elargendo un onore molto particolare, «e non ho nessuna obiezione a che tu mangi mentre parliamo.» Bontà tua, pensò acidamente la Maga. «Ti ringrazio» rispose però ad alta voce. «Tu puoi chiamarmi Aurian.» «Certamente» replicò Harihn, inarcando un sopracciglio... ed Aurian si trattenne a fatica dallo scagliare la colazione contro il suo compiacente volto da idiota, ma soltanto perché era buona e lei ne aveva bisogno. «Harihn, perché mi hai salvata?» domandò invece, fissandolo con franchezza negli occhi. «Signora» sorrise il principe, «tu non hai nulla da temere perché per me sei più preziosa da viva che da morta. Vedi, ho bisogno di te... e del tuo Demone, se mi vorrà aiutare: ti ho vista combattere e ho pensato che avresti potuto usare la tua abilità per proteggermi, dal momento che la mia vita è in costante pericolo a causa di mio padre... per non parlare della sua nuova moglie. Se lei dovesse dargli un altro erede...» Senza aggiungere altro, Harihn si passò una mano sulla gola in un gesto significativo.
Accorgendosi di essere rimasta a bocca aperta per la sorpresa. Aurian si affrettò a riempirla di cibo per concedersi un po' di tempo per riflettere. Il suo primo impulso fu quello di spiegare per quale motivo non poteva rimanere, ma poi si rese conto che quell'egocentrico giovane principe non avrebbe certo preso in considerazione i suoi problemi, senza contare che non poteva andarsene senza aver prima trovato Anvar e, cosa ancor più importante, senza aver trovato il modo di liberarsi da quei bracciali che stroncavano i suoi poteri. Intanto il principe la stava fissando con espressione accigliata, senza dubbio intento a chiedersi per quale motivo lei non fosse sopraffatta dalla gioia alla prospettiva di diventare la sua guardia del corpo. «Chiedo scusa. Altezza» si affrettò quindi a rispondergli, sforzandosi di esibire un sorriso. «Sono quasi senza parole per l'onore che mi vuoi fare, ma... senza dubbio il chirurgo ti avrà informato delle mie condizioni: come potrò difenderti adeguatamente quando la mia gravidanza sarà in stato avanzato?» «Apprezzo la tua franchezza nel discutere con me di una cosa tanto delicata» replicò Harihn, scrollando le spalle e con un'espressione lievemente disgustata che smentiva le sue parole. «In ogni caso questo potrebbe non essere un problema perché avrai il tuo Demone ad assisterti, senza contare che il tuo stato potrebbe destare in un eventuale sicario un falso senso di sicurezza. Dopo tutto, chi potrebbe mai sospettare che una concubina incinta possieda doti di guerriero?» Aurian si strozzò di nuovo con un boccone, e quando infine ebbe ritrovato il respiro allontanò da sé il vassoio, perché ormai il suo appetito era svanito. «Hai detto concubina?» «Non ti aspetterai certo che ti sposi, vero?» replicò Harihn, sgranando gli occhi. «Il mio popolo non accetterebbe mai una strega straniera come sua Khisihn!» «È ovvio che non me lo aspetto! Però credevo che mi volessi come guardia del corpo e non come...» farfugliò rabbiosamente Aurian, ormai incapace di controllarsi. «Devi essere impazzito.» «Il medico mi aveva avvertito che avresti potuto reagire in questo modo» dichiarò Harihn, assumendo una tale aria di benevola pazienza che lei provò l'impulso di strozzarlo. «Comprendo che, essendo incinta, non sei in grado di controllarti, e inoltre ho appreso dagli Arbitri la tua storia e mi rendo conto che essendo rimasta recentemente vedova tu possa ancora es-
sere sentimentalmente sconvolta. D'altro canto non è permesso che una donna non abbia un uomo che la guidi e la tuteli, e come potrebbe essere altrimenti? Hai bisogno della protezione di un uomo, di una casa e di un futuro per tuo figlio, e se dovessi andare via di qui ti verresti a trovare alla mercé della legge, con la sola alternativa della schiavitù... o del ritorno nell'arena. Pensi che il tuo bambino potrebbe sopravvivere ad un'altra esperienza del genere? E tu? Io non lo credo. Non ho idea di come funzionino queste cose nelle tue terre, ma qui una vedova viene assorbita come concubina o addirittura come moglie nella famiglia del fratello del marito o di qualche altro parente o perfino di un intimo amico. Dal momento che sei straniera in questa terra e che non hai nessuno che ti renda questo servigio, di certo non potrai restare insensibile all'onore che ti sto facendo.» Possenti dèi! Quell'idiota si stava addirittura pavoneggiando! Aurian imprecò contro la propria immaginazione, che aveva elaborato quell'assurda storia relativa ad un marito scomparso, imprecò contro le ridicole leggi di questa terra in base alle quali le donne venivano passate di mano in mano come degli oggetti, e imprecò contro quel damerino arrogante che pensava di farle un enorme favore. Dopo qualche istante però ritrovò il controllo e cominciò a riflettere con frenetica rapidità, giungendo alla conclusine che forse la storia secondo cui Anvar era suo marito sarebbe potuta tornarle utile, nel caso che lui fosse stato ritrovato. Incrociando le dita sotto le lenzuola trasse un profondo respiro e tentò. «Ma come faremo con mio marito. Vostra Altezza?» mormorò. «Aurian, tuo marito è morto» ribatté Harihn. accigliandosi. «E se non lo fosse? Non possiamo saperlo con certezza» ribatté lei, e nel pronunciare quelle parole l'immagine di Forral le affiorò nella mente tanto nitida che lei dovette soffocare un singhiozzo. Oh, Forral, perdonami, implorò mentalmente, mentre proseguiva con voce tremante: «Cosa succederebbe se lui dovesse venire qui e scoprire che io sono diventata la concubina di un altro uomo? Per favore, Altezza, di certo tu potrai avviare delle ricerche per ritrovarlo... te ne scongiuro, in qualità di donna sola in una terra straniera mi affido alla tua misericordia.» Dal momento che questa tattica implorante aveva funzionato con gli Arbitri, lei si augurò che avesse lo stesso effetto sul principe... ma nel fissarlo con occhi velati da lacrime fasulle vide la sua espressione indurirsi. «Signora» dichiarò, in tono secco, «quello che mi chiedi è impossibile.» Mi sono sconfitta da sola, rifletté Aurian. Non ha nessuna intenzione di ritrovare Anvar perché mi vuole per sé.
«Con la sua pelle chiara e i suoi occhi azzurri?» insistette. «Credevo che sarebbe stato subito notato in questa città. Se è stato portato qui con Sara, di certo qualcuno rammenterà di averlo visto.» «Infatti dovrebbe essere così, ma in tutto questo tempo nessuno ha mai accennato ad un uomo con tali caratteristiche... un momento, cos'hai detto? Lui era con Sara? La Khisihn? Perché?» domandò Harihn, protendendosi in avanti con un'espressione improvvisamente intenta nello sguardo. Notando il subitaneo cambiamento, Aurian si chiese cosa gli fosse successo e se avesse potuto sfruttare la cosa a proprio vantaggio. «Sara non ha parlato di lui?» «Di certo non lo ha fatto! Perché avrebbe dovuto? Erano insieme? Perché Sara non ha accennato a lui? Si tratta di qualcosa che potrei usare per screditare mio padre?» tempestò Harihn. subissandola di domande sotto la spinta della curiosità e dell'impazienza. Avendo infine compreso dove lui volesse andare a parare, Aurian represse a fatica un sospiro di sollievo, consapevole che se avesse gestito bene quella situazione... «Non mi sorprende che lei non abbia parlato di Anvar al Khisu» replicò, assumendo un'espressione che si augurò apparisse abbastanza sconvolta. «Lei era la sua concubina, ed è per questo che mi vuole morta. Harihn, per evitare che tradisca il suo segreto. Naturalmente se il povero Anvar è morto la cosa non ha più importanza, ma se lui dovesse essere ancora vivo questo porrebbe tuo padre in una situazione molto imbarazzante...» «Ah!» esclamò il principe, con una risata di trionfo. «Mi stai già ripagando del mio investimento. Quando ti ho salvata mi sono chiesto se voi due vi conoscevate, perché l'arrivo così ravvicinato di due straniere poteva difficilmente essere una coincidenza. Mi domando cosa dirà mio padre quando apprenderà che la sua preziosa Khisihn è la concubina di un altro uomo.» Aurian sospirò, pensando che Harihn era davvero ingenuo. «Sara dichiarerà che io sto mentendo o che sei tu a mentire, e il Khisu naturalmente le crederà, con il risultato che noi finiremo entrambi nei guai» replicò in tono piatto, spegnendo l'entusiasmo di Harihn. «Quello che ci serve sono delle prove, e se tu potessi trovare Anvar...» «Per il Mietitore, sei davvero astuta!» approvò Harihn, tornando a rischiararsi in volto. «Io non ci avrei mai pensato. È un vero peccato che tu sia una straniera, perché saresti una Khisihn senza dubbio migliore di quella femmina di sciacallo che mio padre ha sposato! Vali il tuo peso in tesori
del deserto!» aggiunse, e pur trovando strano quel complimento Aurian non avanzò commenti. Intanto il principe balzò in piedi e continuò: «Manderò subito un uomo ai moli perché la pista, se esiste, dovrebbe partire da lì.» «Harihn, non sai quanto ti sono grata» ribatté Aurian, con profondo sollievo. «Prometto che non appena mi sarò rimessa ripagherò la tua gentilezza. Con il tuo permesso, comincerò ad addestrare la tua guardia personale nelle tecniche di combattimento del settentrione, così avrai la massima protezione possibile, nel caso che tuo padre dovesse decidere di fare qualche mossa contro di te.» Così quando me ne andrò, aggiunse fra sé. se non altro tu avrai chi saprà difenderti. «Signora, hai la mia sentita gratitudine» rispose Harihn, perdendo perfino la sua arroganza sull'impeto della gratitudine... e di colpo Aurian si rese conto che aveva molta paura di suo padre e che era molto solo. Consapevole della propria intenzione di tradirlo, conquistando la sua fiducia e sfruttando il suo aiuto per poi abbandonarlo al momento più opportuno, si detestò profondamente e si chiese quanto si sarebbe allargata la macchia d'olio costituita dalla malvagità di Miathan. Possibile che essa stesse già per avviluppare anche lei? Pur costringendosi a sorridere rabbrividì interiormente, disprezzandosi per quello che stava facendo. «Sarà mio privilegio servirti, Altezza» dichiarò, e fra sé pensò E che gli dèi mi aiutino. CAPITOLO VENTICINQUESIMO I PRIGIONIERI I Corsari della Notte si erano stabiliti in un sicuro e segreto labirinto di grotte che poteva essere raggiunto dal mare mediante una galleria che si apriva nel punto in cui le onde si abbattevano su un'ombrosa rientranza della parete dell'altura. Nei momenti in cui l'acqua era abbastanza profonda da permettere il passaggio di una nave, quell'accesso portava ad una vasta caverna scavata eoni prima dall'incessante movimento delle onde nello spazio ristretto sottostante le alture; là una striscia a mezzaluna di spiaggia sassosa si assottigliava fino a scomparire nelle acque profonde che lambivano le lisce pareti a picco che racchiudevano la caverna su tre lati. In quella polla segreta erano all'ancora quattro piccole navi dalla linea snella e veloce, con la polena di prua intagliata e dipinta con abilità ed amore in modo da raffigurare animali leggendari; un agglomerato di imbar-
cazioni più piccole era invece all'ancora vicino alla spiaggia, che saliva fino ad un'ampia e piatta sporgenza di roccia alle spalle della quale la parete dell'altura era trapassata dalle buie gallerie d'ingresso al labirinto di corridoi e di camere in cui vivevano i contrabbandieri. La caverna era rischiarata da lampade e da torce fissate a sostegni conficcati nella roccia stessa oppure montati su altri pali di legno saldamente piantati fra i sassi della spiaggia, e la luce tremolante di quelle fiamme sparse strappava riflessi scintillanti alle venature di mica e di altri minerali presentì nelle pareti, creando un gioco di bagliori arcobaleno che gareggiava per intensità con il brillare delle lacrime negli occhi di Zanna. Lei non avrebbe voluto andarsene, perché nei tre mesi trascorsi dal suo arrivo quel luogo era diventato la sua casa, e per giustificare il senso di colpa che le derivava dal suo desiderio di rimanere lì continuava a ripetersi che in quel posto le stavano permettendo di crearsi una vita. Pur essendosi mostrata gentile e cordiale nell'accoglierla, la sorella di Dulsina, Remana, non aveva mai cercato di viziarla come se avesse temuto che lei potesse andare in pezzi, in quanto nel mondo segreto dei Corsari della Notte tutti dovevano rendersi utili. Zanna si arrestò sulla soglia dell'enorme caverna, cedendo all'assalto dei ricordi relativi al giorno del suo arrivo in quel posto. Lei si era sentita stanca e gelata, e non poco timorosa perché nonostante le garanzie di Dulsina la riluttanza dimostrata dall'equipaggio di contrabbandieri ad accettarla a bordo aveva destato nel suo animo una comprensibile incertezza in merito al benvenuto che le sarebbe stato riservato a destinazione, ma dal momento in cui aveva sceso con passo incerto la passerella tenendo in braccio l'agitato Antor, Remana si era rivelata una fonte di conforto e di rassicurazione. Alta e grigia di capelli, lei era più vecchia di sua sorella ma aveva lo stesso portamento eretto, gli stessi modi decisi e gli stessi astuti e ammiccanti occhi grigi: caricandosi su un braccio Antor, Remana aveva passato l'altro intorno alle spalle della ragazza stanca e aveva troncato sul nascere qualsiasi suo tentativo di spiegazioni con una marea di chiacchiere decise e cordiali. «Non importa, bambina... hai un'aria molto stanca da cui deduco che nessuno di questi inutili uomini ha pensato a darti da mangiare, giusto? Gli uomini... il solo modo per inculcare in loro del buon senso è colpirli sulla testa con un remo. Cosa? Dulsina ti ha dato una lettera per me? Questa sì che è una cosa di cui meravigliarsi, perché anche se devo ammettere che
non è facile far arrivare delle lettere fino a questo posto d'altro canto lei è negata per la corrispondenza... eccoci arrivate, mia cara... questa è la cucina... ora ti nutriremo e ti scalderemo in un momento...» Mentre parlava, Remana aveva sospinto la stupefatta Zanna attraverso quello che all'epoca le era parso un labirinto di grotte e di gallerie comunicanti, oltrepassando infine una bassa soglia arcuata all'estremità di un corridoio per addentrarsi in una caverna calda e fragrante che era adibita a cucina comune. Nella comunità dei Corsari della Notte perfino lavorare in cucina era un servizio organizzato, a cui erano adibiti i vecchi o i ragazzi che non erano in grado di svolgere compiti più faticosi per contribuire alla sopravvivenza della comunità. In questo modo tutti quanti, anche i bambini, collaboravano al benessere generale di quel gruppo strettamente affiatato, cosa che generava fin dalla più tenera età un radicato senso di appartenenza, un sistema che a Zanna era parso molto valido e migliore di quello adottato in città, dove chi era molto povero veniva vincolato come uno schiavo mentre i bambini e i vecchi troppo anziani per lavorare erano ridotti a mendicare nelle strade puzzolenti o a dedicarsi al crimine per sopravvivere. La cucina era pervasa da un allegro vociare ed era vivacemente illuminata da molte lampade e dai fuochi per cucinare, che tingevano di un morbido bagliore rossastro le pareti chiazzate di fumo. Perfino a quell'ora così mattutina la caverna era piena di una confusione ordinata: una ragazza in età adolescente... una delle pastorelle che sorvegliavano il piccolo branco di capre che pascolava sulle alture sovrastanti... era impegnata a versare del latte fresco ancora tiepido in alcuni contenitori posti in una polla ghiacciata sul retro della caverna, dove il mare penetrava attraverso qualche fenditura sotterranea presente nella roccia; più lontano un ragazzo sedeva sul bordo di un focolare, incaricato di rigirare il contenuto di un calderone di porridge accanto al quale fumava una teiera piena di tè fragrante ricavato da fiori secchi e da erbe marine che crescevano sulla sommità dell'altura. In un angolo un vecchio dalle mani nodose era impegnato a pulire alcuni pesci per poi deporre i frutti del suo lavoro a cuocere su una griglia, tenuta sotto controllo da sua moglie. Ad un tavolo un'altra vecchia era intenta a sbattere alcune uova di gabbiano all'interno di una terrina, sotto gli occhi avidi di due bambinetti... un maschio e una femmina... che si erano arrampicati sulle rocce per raccoglierle. L'arrivo di Antor aveva causato una notevole agitazione ed entro pochi secondi il bambino era stato preso in custodia da un vociferante gruppo di
vecchie che avevano provveduto a lavarlo, a nutrirlo, a vezzeggiarlo e a viziarlo mentre Remana, accertatasi che tanto zelo non inducesse le donne a trascurare i preparativi per la colazione, aveva concentrato invece la propria attenzione su Zanna, facendola sedere vicino al fuoco e mettendole in mano una grossa ciotola di porridge, una fumante tazza di tè, un pezzo di pane fresco e un pezzo di formaggio di capra. Versandosi a sua volta un po' di tè si era quindi seduta dall'altro lato del focolare e aveva letto la lettera di Dulsina mentre Zanna mangiava. «Mia povera ragazza, hai passato dei brutti momenti, vero?» aveva commentato infine, sollevando lo sguardo dalla lettera e scrutando Zanna in maniera tale che lei era arrossita sotto il suo esame. «Non ti preoccupare, bambina... ci prenderemo buona cura di te e di tuo fratello, e potrete restare qui per tutto il tempo che vorrete. Puoi essere certa che siete davvero i benvenuti, mia cara.» E così era cominciato uno dei periodi più felici della vita di Zanna, che si era insediata in una cameretta vicina a quella di Remana... un piccolo cubicolo chiuso con una tenda che come molte altre aree abitate era stato scavato faticosamente nella roccia nel corso dei molti anni in cui i Corsari della Notte avevano dimorato nel labirinto di caverne; per quanto angusta la camera era però arredata in maniera deliziosamente eccentrica con mobili fabbricati con pezzi di legno spinti alla deriva dal mare e con stuoie a colori vivaci, mentre spessi arazzi di lana rivestivano le pareti per proteggere dal freddo, perché soltanto la cucina e l'area comune principale avevano focolari dotati di un condotto di ventilazione costituito da una fenditura naturale presente nell'altura. «Non vi preoccupate che il fumo possa essere visto?» aveva chiesto inizialmente Zanna a Remana. «Per nulla, mia cara. Tanto per cominciare ne rimane ben poco quando infine arriva in superficie dopo aver attraversato tutta quella roccia, e poi...» Remana aveva fatto una pausa, sgranando gli occhi e abbassando il tono di voce mentre concludeva: «E poi nessuno viene mai in questo desolato tratto di costa, perché è popolato dagli spiriti.» «Dagli spiriti?» aveva sussultato Zanna. «Zanna, se potessi vedere la tua faccia!» aveva esclamato Remana, scoppiando a ridere. «Non è nulla di cui preoccuparsi. Qui vicino, sulla punta opposta della baia c'è una grossa pietra eretta nera e imponente, che assume un aspetto molto sinistro soprattutto sotto la luce della luna. Il nonno di Leynard, che è stato anche il primo capo dei Corsari della Notte,
ha scoperto per caso che i pescatori e i pastori locali nutrivano una paura superstiziosa nei confronti di quella roccia, e così ha organizzato qualche «apparizione»... luci misteriose che di notte si manifestavano intorno alla pietra voci spettrali che echeggiavano nel vento, il rumore del passaggio di cavalieri invisibili... tutte le solite stupidaggini. Il risultato è che adesso nessuno è disposto ad avvicinarsi ad essa per un raggio di chilometri. Bada bene» proseguì, mentre un'espressione accigliata le aggrondava la fronte, «ammetto che gli animali hanno paura di quella pietra, ma in realtà non c'è nulla di cui preoccuparsi... anzi, noi la benediciamo perché ci protegge. Te lo dico soltanto perché potresti spingerti a cavallo da quelle parti ed è meglio che eviti di avvicinarti ad essa se non vuoi essere disarcionata...» «Posso imparare a cavalcare?» aveva esclamato Zanna, già dimentica della pietra e quasi incapace di contenere la propria gioia. «Vuoi dire che tuo padre non te lo ha insegnato?» si era indignata Remana. «Dulsina mi ha detto che Vannor si stava dimostrando troppo protettivo nei confronti delle sue figlie, ma mi pare proprio che abbia esagerato! Certo che puoi imparare a cavalcare... è una cosa che ogni ragazza dovrebbe saper fare. E quando la stagione migliorerà ti insegnerò anche a navigare a vela.» Remana aveva tenuto fede alla parola data e non aveva perso tempo a reclutare un giovane contrabbandiere di nome Tarnal perché istruisse Zanna nell'arte dell'equitazione, con il risultato che lei era diventata una cavallerizza insaziabile e pronta ad uscire a cavallo con quel ragazzo dai capelli color sabbia ogni volta che il tempo incerto lo permetteva. I Corsari della Notte allevavano un branco di robusti e rapidi pony che di solito correvano liberi sulle alture erbose ma che erano pronti a scendere nella galleria nascosta dal ginestrone per lasciarsi sistemare in una sicura stalla sotterranea ogni volta che la costa orientale era sferzata da una tempesta. Zanna adorava le sue cavalcate con Tarnal, che le permettevano di godere dello splendido panorama visibile dalla sommità dell'altura sovrastante il rifugio dei contrabbandieri: in basso e sulla destra si allargava la pallida mezzaluna della spiaggia, abbracciata dalle alture e protesa a sua volta ad abbracciare il mare scintillante, mentre a mezza lega di distanza, sul corno opposto della mezzaluna, c'era una verde collinetta sovrastata dalla nuda e sinistra pietra eretta, alle cui spalle si stendevano le vaste e vuote distese della brughiera. In sella al suo pony, un irsuto animale pezzato che lei aveva chiamato Piper, Zanna cavalcava per chilometri sulla brughiera insieme al giovane
contrabbandiere, con i capelli agitati dal vento invernale, e al tramonto entrambi facevano ritorno alle grotte, stanchi ma entusiasti, con le mani e il volto che pizzicavano dolorosamente per il freddo, pronti a ricevere in cucina una ciotola di zuppa calda e un rimprovero da parte di Remana per essere rimasti fuori tanto a lungo. Anche se sentiva la mancanza di suo padre, Zanna aveva l'impressione di aver infine trovato la sua casa. In un primo tempo si era chiesta come mai non stesse notando nessuna traccia di attività di contrabbando, ma Remana le aveva subito chiarito le idee in proposito. «Non d'inverno, bambina cara» aveva ridacchiato. «Questa è quella che si potrebbe definire la nostra stagione tranquilla, perché il mare è troppo agitato per correre il rischio di solcarlo e comunque c'è ben poco commercio.» Aveva quindi spiegato a Zanna che l'attività principale dei contrabbandieri si svolgeva fra i villaggi della costa e consisteva nel trasporto di viveri e di manufatti fra le diverse comunità mediante un sistema basato sul baratto che aveva lo scopo di aggirare le tariffe esorbitanti imposte dalla Corporazione dei Mercanti e di permettere ai poveri contadini di godere di qualche lusso che altrimenti sarebbe stato loro negato. «Naturalmente tuo padre, in qualità di capo della Corporazione, è ufficialmente avverso a questo comportamento criminale» aveva commentato Remana. «Per fortuna, lui nutre la personale convinzione che i mercanti accumulino anche troppi profitti e che i contadini debbano poter godere del frutto del loro lavoro... senza contare che c'è la nostra compartecipazione nei traffici con il sud... o almeno c'era» si era corretta, rannuvolandosi in volto, e si era rifiutata di aggiungere altro, ma Zanna aveva compreso che lei stava pensando al povero Yanis, e aveva giurato a se stessa che prima del momento in cui lui avesse dovuto riprendere il mare avrebbe elaborato un piano per permettergli di sconfiggere i mercanti del meridione. Con il trascorrere dell'inverno lei aveva imparato molte cose dai suoi amici contrabbandieri. I vecchi le si erano affezionati e le avevano mostrato come fare a pescare con la lenza nelle polle lasciate dalla marea davanti alla caverna, e nei periodi di bassa marea si erano contesi il privilegio di insegnarle a mettere trappole per i granchi lungo le scogliere rocciose che si allargavano intorno all'imboccatura della grotta e che proteggevano il nascondiglio dall'avvicinarsi di altre navi. Quanto a Remana, le aveva rinnovato la promessa che con l'avvento del più mite clima primaverile le avrebbe insegnato a pilotare un'imbarcazione lungo l'unica rotta sicura che
permetteva di attraversare quel labirinto di scogli sommersi. Nel corso dell'inverno la maggior parte del lavoro riservato agli uomini più giovani e fisicamente abili consisteva nella riparazione e nella manutenzione delle navi e del loro equipaggiamento. Mentre all'esterno infuriavano le tempeste di neve, le donne avevano mostrato a Zanna come rammendare le reti e le vele, come aggiustare le gomene e come intessere le stuoie che proteggevano i loro piedi dal contatto con il freddo pavimento di pietra passando frammenti di stracci attraverso la trama di una rozza tela da sacco; inoltre le avevano insegnato i segreti della loro tessitura splendida e intricata, mediante la quale approntavano i caldi arazzi a parete che ravvivavano la cupa oscurità delle grotte. Quello era stato un periodo di convivialità. pieno di chiacchiere e di risate, di pettegolezzi e di scherzi fra le donne più giovani, che avevano anche parlato a lungo degli avvenenti e abbronzati giovani contrabbandieri, dei rispettivi amori e di chi avrebbero sposato. Per lo più Zanna si era accontentata di ascoltare e di tenere per sé i propri sentimenti, perché anche se Tarnal era diventato la sua ombra devota lei aveva già deciso che avrebbe sposato soltanto Yanis, perché si era innamorata di lui fin dalla prima volta che lo aveva visto. Per fortuna... o forse per sfortuna... il capo dei Corsari della Notte non aveva ancora idea del fato che lei aveva deciso per lui... e adesso forse non lo avrebbe mai saputo, visto che doveva andare via di lì. Zanna si arrestò nell'ombra dell'ingresso alla grande caverna, paralizzata dall'afflusso di ricordi lieti che l'aveva così dolorosamente assalita, poi scosse il capo con rabbia e si asciugò gli occhi dalle lacrime, perché cedere all'autocompassione non serviva a nulla. Per tre mesi era stata felice, finché non era giunta la notizia della recente catastrofe abbattutasi su Nexis, e degli orribili mostri che avevano provocato tante morti. Pareva che adesso l'Arcimago si fosse impadronito del potere e stesse dominando la città con il terrore... e al tempo stesso non si sapeva più nulla di Vannor, che era scomparso senza lasciare traccia fin da quell'orribile notte in cui tante persone erano morte. Quando Remana le aveva riferito la notizia il senso di colpa che Zanna provava per aver lasciato suo padre era tornato ad assalirla e lei aveva compreso immediatamente cosa doveva fare: doveva tornare a Nexis per trovare suo padre o almeno per scoprire cosa ne era stato di lui. Naturalmente i Corsari della Notte non le avrebbero mai permesso di partire se avessero scoperto le sue intenzioni... ed era per questo che adesso lei si stava aggirando di soppiatto nelle caverne a tarda notte, preparandosi alla
fuga. Per fortuna c'erano appena state parecchie giornate di tempo burrascoso, per cui i cavalli erano al riparo nelle stalle sotterranee: la bufera che infuriava all'esterno avrebbe peraltro reso il viaggio difficile e pericoloso, ma Zanna era certa che per quella notte avrebbe dovuto soltanto trovare un riparo di qualche tipo, e che dopo aver seminato gli inseguitori che senza dubbio Remana avrebbe mandato a cercarla avrebbe potuto continuare il viaggio alla luce del giorno. Di certo non le sarebbe stato troppo difficile trovare il modo di attraversare la brughiera per arrivare fino a Nexis... o almeno così sperava. Sbirciando oltre il lato dell'arcata cercò con lo sguardo la sentinella incaricata di sorvegliare di notte le navi e quando la vide avvicinarsi sulla spiaggia sassosa trasse un sospiro di sollievo: fino a quel momento il suo piano stava funzionando. Infatti lei si era costretta ad aspettare, sia pure a fatica, fino alla notte in cui sapeva che sarebbe stato di guardia Tarnal, a cui andò ora incontro dopo aver tratto un profondo respiro. «Sei ancora alzata?» esclamò il giovane, in tono sorpreso, ma come lei si era aspettata i suoi caldi occhi castani s'illuminarono alla sua vista. Nell'atteggiare il volto ad un sorriso, Zanna si augurò che il suo operato di quella notte non finisse per mettere il giovane nei guai. «Non riuscivo a dormire» spiegò con aria contrita. «Anche se qui siamo nel sottosuolo, le tempeste hanno comunque l'effetto di innervosirmi.» «Ah, succede a molti di noi» garantì Tarnal. «Significa che sei sensibile al clima e che hai la stoffa di un buon Corsaro della Notte» aggiunse con un sorriso timido, e Zanna non faticò a comprendere cosa avesse in mente, considerato che le stava facendo la corte da parecchio tempo. Ma che cominciasse a fare il romantico proprio adesso... «In ogni caso» proseguì Zanna, in tono deciso. «dal momento che non riuscivo a dormire ho pensato di scendere nelle stalle per vedere se Piper stava bene.» «Ottima idea» convenne Tarnal, illuminandosi in volto. «Non si sa mai come possano reagire i cavalli ad un clima del genere. Verrò con te, nel caso che tu abbia bisogno di aiuto.» Oh, niente affatto, pensò Zanna. So cosa succederebbe se riuscissi a trovarti solo con me in un'accogliente caverna dal suolo coperto di felci secche... «Sei molto gentile, Tamal. ma se Yanis dovesse scoprire che hai lasciato il tuo posto ti troveresti nei guai» si affrettò a ribattere, strizzandogli l'oc-
chio con fare da cospiratore. «Resta qui... tornerò fra un momento.» E si affrettò ad allontanarsi, pregando che lui non decidesse di seguirla. La caverna adibita a stalla era riscaldata dalla presenza di tanti animali addossati gli uni agli altri. Quando vi entrò, bloccando di nuovo l'accesso alle proprie spalle, Zanna fu accolta dal suono sommesso dei cavalli che respiravano nell'ombra, seguito dal frusciare della paglia e dal battito di uno zoccolo sulla pietra allorché le creature assonnate si accorsero della sua presenza e grandi occhi lucidi si girarono nella sua direzione, scintillanti come gioielli sotto la luce della lampada che lei aveva in mano. Sollevandosi in punta di piedi, Zanna si protese a posare la lanterna in una profonda nicchia intagliata in alto nella parete rocciosa, perché vigevano regole severe in merito al tenere qualsiasi tipo di fiamma lontana dalle felci secche che coprivano il pavimento della caverna. Infatti sarebbe bastata una sola scintilla per trasformare la stalla in un inferno nell'arco di pochi secondi. Avanzando fra i mucchi di paglia, Zanna si spostò lungo la parete fino ad arrivare ad una serie di pioli conficcati in una fenditura orizzontale che attraversava la roccia e ai quali erano appese selle e briglie: frugando sotto un mucchio di felci tirò quindi fuori il suo mantello e il fagotto di cibo e di oggetti di prima necessità che aveva lasciato là in precedenza. Invece di trasportare il tutto e anche l'ingombrante sella in mezzo alla massa di animali inquieti, decise di recuperare Piper e di portarlo lì, quindi prelevò la sua briglia dal piolo e prese una mela dalla tasca della gonna, muovendosi con cautela fra gli animali ora un po' agitati e chiamando in tono sommesso il cavallo pezzato. Piper rispose subito al richiamo perché lei gli aveva insegnato a farlo portandogli qualcosa da mangiare ogni volta che voleva cavalcarlo: affondandole il muso nel palmo della mano con un'avidità tale da strapparle un sorriso, il cavallo divorò la mela in un solo morso e mentre ne stava cercando un'altra Zanna ne approfittò per mettergli la briglia; nonostante la fretta gettò quindi le braccia intorno al collo arcuato di Piper, affondando il volto nella sua lunga criniera bianca e nera per soffocare i propri singhiozzi: gli voleva così tanto bene! E anche a Remana, a Yanis, ad Antor e a Tarnal e a tutti gli altri... Il pony sbuffò, spostando la testa in modo da mordicchiarle la tasca, spingendo al tempo stesso indietro gli orecchi con aria speranzosa. Zanna però non aveva altre mele, e lui trovò soltanto il suo fazzoletto, che tirò comunque fuori.
«Grazie, intelligente creatura!» esclamò Zanna, ridendo fra le lacrime, poi recuperò il fazzoletto mordicchiato e alquanto umido, e guidò il pony fino al punto in cui aveva lasciato le sue cose. Legato Piper ad un piolo piantato nella parete si girò quindi per prendere la sella appesa alla parete... una cosa che le riusciva sempre difficoltosa a causa della sua statura minuta... e dopo averla sistemata con cura sul dorso del pony si chinò per cercare la cinghia del sottopancia... raddrizzandosi poi di colpo con uno strillo quando una mano le calò sulla spalla: girandosi di scatto, con il cuore che le martellava nel petto per lo spavento, si venne a trovare fra le braccia di Yanis. «Mi aspettavo che tentassi di fuggire fin da quando ti abbiamo detto di tuo padre» affermò il contrabbandiere, il cui volto esprimeva peraltro comprensione e non ira. «Per favore. Yanis, non mi fermare» implorò Zanna, con gli occhi colmi di lacrime. «Devo andare... non posso sopportare oltre. Io devo sapere...» «Lo capisco, ragazza, e al tuo posto proverei la stessa cosa» replicò con gentilezza Yanis, «ma fuggire da sola in mezzo alla tempesta non è una soluzione accettabile. Ci sono uomini duri ed esperti che si sono persi sulla brughiera durante una bufera, e a primavera abbiamo trovato soltanto le loro ossa spolpate dai lupi... le rare volte in cui abbiamo ritrovato qualcosa.» Zanna lo fissò con sgomento. Per un istante aveva sperato di persuaderlo... ma anche se questo era senza dubbio impossibile la sua agile mente stava già escogitando un nuovo piano. All'inizio Yanis avrebbe continuato a sorvegliare i cavalli con un'attenzione da falco, ma se fosse riuscita a placare i suoi sospetti per un tempo abbastanza lungo... «D'accordo» sospirò, asciugandosi gli occhi. «Mi dispiace, Yanis... non sapevo che la brughiera fosse tanto pericolosa, ma adesso che me lo hai detto...» S'interruppe, trattenendo il respiro, improvvisamente consapevole delle braccia di lui che la circondavano e del fatto che quella era la prima volta che Yanis la toccava, da quando era arrivata lì. Non voleva che lui la lasciasse andare, ma se desiderava che il suo piano funzionasse era imperativo ingannarlo e indurlo a credere che si fosse rassegnata. Sospirando, lo respinse e si volse per andarsene. «Aspetta!» esclamò Yanis, afferrandola per un braccio. «So cosa stai pensando. Ritieni che ti basterà aspettare un po' di tempo per poi tentare ancora... ma non funzionerà.» Zanna sussultò, furente che il suo piano fosse risultato così evidente.
«E come saresti arrivato a questa conclusione?» commentò in tono acido. «So cosa pensi di me» dichiarò il giovane contrabbandiere, incupendosi in viso, «ma questa è la prima volta che arrivi quasi sul punto di darmi apertamente dello stupido. Ebbene, lascia che ti dica una cosa... ci sono stupidi e stupidi, e non mi ci è voluto molto per rendermi conto di cosa stavi combinando: mi è bastato mettermi al tuo posto per un momento. Io non avrei mai ceduto con tanta facilità, e considerato quanto sei affezionata a tuo padre ho escluso che tu potessi farlo. Sei tu che sei stata stupida a sottovalutarmi. I Corsari della Notte non ti permetteranno di fuggire andando incontro alla morte, piccola idiota!» continuò, accentuando la propria stretta intorno al braccio di Zanna. «Io non te lo permetterò. Sono un uomo molto paziente, e adesso che è inverno non ho niente d'importante da fare, quindi è meglio che ti abitui ad avermi intorno, ragazza, perché d'ora in poi ho intenzione di diventare la tua ombra.» Zanna rimase a bocca aperta e senza parole per l'ira, fissando quel volto aspro e avvenente, quegli occhi grigi che adesso brillavano d'ira e la bocca serrata in una linea dura e inflessibile. Appena poco prima sarebbe stata lieta al pensiero di avere Yanis costantemente al suo fianco, ma adesso quell'idea la riempiva d'ira e di frustrazione. «Dannazione a te!» gridò, sferrandogli con tutte le sue forze un calcio ad uno stinco. «È come se fossi tua prigioniera!» Soffocando un'imprecazione Yanis le lasciò andare il braccio e lei fuggì dalla caverna con il volto solcato da lacrime di rabbia. «È come se fossi tua prigioniera!» esclamò Lady Eilin, fissando con occhi roventi il Signore della Foresta. «Hai deliberatamente dato il mio bastone a D'arvan in modo che non potessi tornare nella mia valle... a quanto pare non hai saputo resistere alla tentazione di manomettere ancora una volta il fato del mondo esterno!» Hellorin la fissò con fermezza ma senza rispondere alla sua accusa, e infine Eilin cominciò a nutrire il sospetto che lui stesse soltanto aspettando che la sua ira si esaurisse... dopo tutto, che bisogno aveva di sprecare fiato in una discussione inutile? Per quanto potesse infuriare e tempestare lei era completamente in suo potere, un pensiero che la fece tremare di rabbia. «Manipolatore!» ringhiò. «I Phaerie sono sempre stati così. Per te non ha importanza il fatto che l'Arcimago stia schiacciando il mondo sotto il suo tallone... che te ne importa finché puoi esercitare la tua influenza sugli
eventi? Non ti rendi conto che io sono la sola Maga rimasta nel nord che ancora si contrapponga a Miathan? Hai lasciato quei ragazzi nella mia Valle, muniti del mio bastone ad affrontare da soli l'Arcimago. Nel nome di tutti gli dèi, mio Signore... loro hanno bisogno di me!» «No, Eilin... non hanno bisogno di te» rispose infine Hellorin, con voce sommessa ma permeata di potere che generò un brivido nella liscia corteccia argentea che rivestiva le pareti della camera. Eilin lottò allora per controllare la propria ira la leggendaria ira dei Maghi che era la sola cosa che la salvasse dall'essere intimorita e affascinata da quello stupendo immortale. Incrociando le braccia sul petto serrò le labbra in una linea cocciuta. «Perché no?» ribatté. «Forniscimi una motivazione valida.» «Perché qui io sono il Signore ed ho detto che non hanno bisogno di te!» dichiarò Hellorin, con espressione accigliata... e nel momento in cui le sue sopracciglia scure si aggrondarono fu come se una nube fosse passata davanti al sole... anche se non c'era sole in questo Altrove immutabile e senza tempo. In lontananza echeggiò un remoto rombo di tuono ed Eilin rabbrividì mentre lui aggiungeva: «Attenta Maga... io non manipolo, per usare la tua definizione, per noia o per dispetto... anche se il debito che il tuo popolo ha nei confronti del mio potrebbe indurmi a farlo.» Adesso la sua voce era simile ad una lama di ghiaccio, ed Eilin indietreggiò involontariamente di un passo, massaggiandosi le braccia coperte di pelle d'oca. «Allora si tratta di questo!» sibilò. «Pura e semplice vendetta. Oh, puoi anche protestare la tua innocenza, Signore, ma se non fossi stata una Maga...» «Se non fossi stata una Maga non saresti mai sopravvissuta al tentativo di assassinio da parte di un membro del tuo popolo» dichiarò Hellorin in tono secco, con un bagliore irritato nello sguardo. «Se non fossi stata una Maga non saresti mai venuta qui a tormentarmi.» «Se ti tormento, lasciami andare!» fu pronta a ribattere Eilin. «Per tutti gli dèi, Eilin. possibile che tu non lo capisca? Non... posso... farlo!» esclamò Hellorin, sollevando le braccia in un gesto di sconfitta e attraversando la stanza in direzione di una finestra profondamente rientrata, dove una caraffa di vino e due coppe erano posati sul davanzale. Lasciandosi cadere su un sedile sottostante la finestra versò del vino ad entrambi e protese una coppa verso Eilin. «Avanti, insopportabile donna, siediti e vediamo di porre fine a questa discussione, una volta per tutte...»
«Ma...» «Eilin, per favore.» Disarmata dall'improvviso cambiamento nel tono di voce del Signore della Foresta, Eilin si morse un labbro e attraversò a sua volta la stanza, appollaiandosi con esitazione sul bordo del davanzale. «Sembri un piccolo uccello marrone pronto a volare via al primo accenno di pericolo» commentò Hellorin incurvando la bocca cesellata in un morbido sorriso... e con suo sgomento Eilin sentì gli ultimi brandelli della sua ira che si dissolvevano come nebbia al sole. «Piccolo uccello marrone un accidente!» rispose comunque in tono tagliente, ma per quanto si sforzasse di apparire indignata le labbra le si contrassero in un sorriso mentre accettava la coppa che lui le porgeva. «Riposati, mia Signora» suggerì Hellorin, senza distogliere lo sguardo dal suo. «Il tuo risanamento è stato portato a termine soltanto da poco ed hai bisogno di tempo per recuperare le forze. Non ti serve a nulla agitarti in questo modo.» «È per questo che non vuoi ancora lasciarmi andare?» domandò Eilin, aggrappandosi con avidità alle sue parole. «Vuoi dire che quando...» «No» la interruppe lui, con spaventosa finalità, poi sospirò e proseguì: «Signora, ho rimandato a fornirti una spiegazione per non angosciarti al di là dei limiti delle tue forze... e perché temevo che non mi avresti creduto. Devi cercare di capire. Eilin» insistette, prendendole la mano nella propria stretta calda e decisa, e trapassandola con lo sguardo dei suoi occhi profondi. «Ciò che sto per dirti è l'assoluta verità... lo giuro sulla testa di mio figlio. Quando ti hanno portata da noi le tue ferite erano letali, perfino per una Maga. I miei guaritori ti hanno riportata indietro dalla soglia della morte, cosa che è stata loro possibile in questo luogo dove i Phaerie hanno i loro poteri e il tempo non esiste. Grazie ai tuoi antenati, tuttavia, il nostro potere non si estende più al mondo concreto... in poche parole, sei stata risanata ma non puoi fare affidamento solo su te stessa, e se dovessi tentare di tornare...» «No!» gridò Eilin, con voce soffocata, sentendo il sangue che le si ghiacciava nelle vene. «Non può essere vero... non può!» Ma l'espressione dolente sul volto del Signore della Foresta, la grande compassione presente nel suo sguardo, la convinsero meglio di qualsiasi altra cosa che ciò che lui aveva detto era l'assoluta verità. Dopo le tragedie della sua vita, Eilin aveva creduto di essere in grado di fronteggiare qualsiasi disastro il fato avesse gettato sulla sua strada, ma quest'ultimo crudele
scherzo del destino l'abbatté come un colpo letale. L'impenetrabile cittadella del fiero orgoglio di Maga dietro le cui mura si era trincerata dopo la morte di Geraint cominciò a sgretolarsi e a crollare, e lei ebbe l'impressione di andare in pezzi insieme ad essa. «Non me ne posso andare?» sussurrò. «Non potrò tornare a casa... mai più?» Il dolore nello sguardo di Hellorin fu già di per sé una risposta sufficiente. «Temo di no, Signora» replicò lui. in tono dolente. «A meno che...» Eilin però non udì quelle ultime, importantissime parole, che furono soffocate da un fragore di vetri infranti allorché la sua adamantina fortezza interiore esplose in una miriade di schegge che presero a cadere come le sue lacrime... Hellorin poté soltanto tenerla stretta a sé mentre lei tremava e piangeva. Naturalmente Eilin era stata spaventosamente indebolita dalle ferite riportate... indebolita molto più di quanto si aspettasse... ma la sua reazione sconvolse comunque il Signore della Foresta, che non riuscì a tollerare di vederla ridotta in uno stato di così profonda angoscia, lei che era tanto fiera e orgogliosa. Quella era una dote per cui lui l'ammirava, considerato che nessuno aveva più osato tenergli testa in quel modo da eoni... tranne la piccola Maya, naturalmente. Siamo rimasti lontano dal mondo troppo a lungo, rifletté, e a quanto pare in nostra assenza si è evoluta una razza di donne selvagge e meravigliose. Però a volte anche le donne più forti hanno bisogno di aiuto. «Basta!» ruggì il Signore dei Phaerie, chiamando a raccolta i suoi poteri, e subito l'aria venne lacerata da uno spaventoso scoppio di tuono e un lampo incandescente attraversò la stanza. Eilin scattò in piedi con i pugni premuti contro la bocca e i capelli arruffati ritti in un'irta aureola a causa del residuo di potere presente nella stanza. Fissando i suoi occhi, enormi nel volto pallidissimo, Hellorin le sorrise. «Così va molto meglio» dichiarò in tono deciso. «E adesso che ho la tua attenzione, Signora...» Afferrata la stupita Maga per una mano, la trascinò fuori della stanza e le fece scendere a precipizio la scala a chiocciola di legno che seguiva le pareli della snella torre. Ignorando gli sguardi increduli dei suoi sudditi, continuò a trascinarla attraverso l'interminabile successione di sale e di camere che componeva la sua cittadella, fino ad attraversare la grande sala dove Maya e D'arvan si erano concessi un po' di riposo e a sbucare all'aperto.
Senza fermarsi, le fece scendere in fretta i gradini delle terrazze esterne e la guidò attraverso i prati in direzione dei nebbiosi contorni dei boschi circostanti. «Hellorin, aspetta! Non posso...» L'affannoso lamento di Eilin indusse il Signore dei Phaerie ad arrestarsi, e nel voltarsi verso di lei si accorse che effettivamente era in grave difficoltà, con le gambe tremanti e il respiro affannoso per l'insolito sforzo fisico, giunto troppo presto dopo la guarigione dalle sue spaventose ferite. Se non altro adesso lei aveva ricominciato a parlare e il bagliore iroso che le aleggiava nello sguardo annunciava una rinascita del suo spirito indomito. «Una bella corsa, mia Signora» commentò, pensando che era un bene che lei non avesse il fiato necessario per pronunciare la risposta rovente che era scritta a chiare lettere sul suo volto. Cingendola con un braccio la fece quindi girare nella direzione da cui erano venuti e fu ricompensato da un sussulto deliziato. «Perdonami per averti fatta uscire a precipizio in modo tanto rude e sconveniente» le disse con gentilezza, «ma ci tenevo molto a mostrarti questo.» Davanti a loro, sulla curva gentile di una collinetta erbosa sorgeva l'orgoglio di Hellorin... la cittadella che era la dimora del suo popolo. Per quanto fossero consumati maestri nell'arte dell'illusione, nel crearla i Phaerie avevano superato loro stessi, combinando la natura con la magia fino ad ottenere una vera entità che viveva e respirava intorno a loro, del tutto diversa dall'oppressivo cumulo di pietra morta e priva di anima che costituiva le dimore dei Maghi e dei Mortali. Scintillante come una gemma sotto la strana luce dorata che era la sola caratteristica immutabile di questo Altrove privo di tempo, la cittadella aveva l'aspetto esteriore di una massiccia collina rocciosa: le sue mura e le sue balconate erano alture e sporgenze, le finestre erano nascoste alla visuale esterna da incantesimi e le molte, delicate torri di legno come quella in cui Eilin era stata alloggiata, erano boschetti di vive betulle che si levavano gloriosi verso il cielo. Le aree pianeggianti sfoggiavano radure e giardini cosparsi di fiori trasparenti e multicolori che scintillavano come vetro soffiato sotto quell'irreale luce ambrata, ruscelli e fontane rivestivano i fianchi della collina di uno splendore adamantino e si riversavano in argentee cascate lungo le pareti di roccia. Hellorin si concesse un sospiro appagato: nel corso di tanti secoli quello spettacolo non aveva mai mancato di commuoverlo e di dargli un piacere tanto intenso da rasentare il dolore.
«Splendido, non trovi?» mormorò quindi, sorridendo ad Eilin che fissava immobile quello spettacolo, con un'espressione rapita sul volto. «Anche se il tuo esilio ti è amaro, Signora, questo posto non può placare un poco il tuo dolore?» «Un poco, forse... con il tempo» sospirò Eilin. «Ah, il tempo... se non altro il tempo può porre riparo a molte cose» commentò Hellorin, e nel notare l'espressione perplessa della Maga si affrettò a spiegare: «Il nostro esilio non durerà in eterno, Signora... ma soltanto finché saremo imprigionati qui.» «Cosa?» sussultò Eilin. «Non capisco.» «Ha tutto a che vedere con la nostra magia e i suoi limiti» proseguì il Signore della Foresta. «Il potere dei nostri guaritori non si può ancora estendere al tuo mondo, ma quando noi Phaerie saremo liberati dall'esilio anche i nostri poteri saranno liberati dalle loro restrizioni. A quel punto tu potrai tornare senza problemi ed essere di nuovo integra e sana come prima.» «Ma credevo che gli antichi Maghi vi avessero imprigionati qui per l'eternità» obiettò Eilin, accigliandosi. «Ah, certo... percepisco la tua confusione. Ho spiegato la profezia a Maya e a D'arvan, ma avevo dimenticato che tu non ne sai nulla. Adesso però sei stanca e un prato non è il posto adatto per una lunga storia. Torna dentro con me, Signora, per ristorarti e riposare comodamente, poi ti dirò tutto ciò che desideri sapere.» «E così la vostra... la nostra... libertà dipende dall'Uno che verrà a reclamare al Spada di Fuoco?» domandò Eilin, sentendosi di nuovo schiacciare dalla delusione. Avrebbe quasi preferito che Hellorin le avesse risparmiato queste ridicole teorie, perché una profezia phaerie era un filo davvero fragile a cui appendere le sue speranze. «Devi avere fede, Signora» replicò Hellorin, prendendole la mano. «Credimi, se avessi conosciuto il Popolo dei Draghi come l'ho conosciuto io le sue parole non avrebbero mancato di darti conforto. Gli eventi si sono messi in moto... ora dobbiamo soltanto aspettare.» «Sì, ma per quanto tempo?» ribatté Eilin, con una lacrima che le tremava fra le ciglia. «Mentre parliamo gli eventi sono effettivamente in moto là fuori nel mondo. Mia figlia è sperduta e in pericolo, Nexis è caduta, i Maghi hanno ceduto alla corruzione... e Maya e D'arvan sono nella foresta a fare soltanto gli dèi sanno che cosa con questa tua spada magica...» Le sue parole si persero in un singhiozzo, poi lei proseguì: «Hanno bisogno di me,
Hellorin! E io sono costretta a oziare in questo... questo Altrove, senza neppure sapere cosa sta succedendo...» Con suo sgomento si rese conto che stava piangendo di nuovo. «Calmati, Signora» la confortò Hellorin. «In questo almeno posso dare sollievo alla tua mente. Vieni, Eilin, ho ancora una meraviglia da mostrarti.» Prendendo la Maga per mano la condusse lontano dal focolare e verso l'estremità opposta della sala, dove Eilin rimase stupita nel vedere una breve rampa di scalmi che sembrava finire nel nulla: i gradini arrivavano fino a metà del muro e s'interrompevano appena al di sotto di un ricco arazzo di broccato verde e oro. Salita la scala insieme a lei, Hellorin trasse di lato il tendaggio ed Eilin sussultò: inserita nel muro c'era una meravigliosa finestra di scintillante cristallo sfaccettato e modellato come un raggio di sole; intorno ai bordi i pannelli dai colori intensi emettevano raggi di luce multicolore che si riversavano nella camera come una cascata, e al centro un singolo cristallo circolare era posto all'altezza degli occhi di chi si fosse trovato sulla scala. «Avanti» la incitò Hellorin, cingendole le spalle con un braccio e spingendola in avanti. «Guarda attraverso la mia finestra.» «Oh!» esclamò la Maga, sfregandosi gli occhi e sbirciando con maggiore attenzione. «Per tutti gli dèi... è Nexis. Questo è un altro dei tuoi trucchi phaerie?» chiese quindi con sospetto, girandosi di scatto a fissarlo. «Ti giuro che non lo è» ribatté Il Signore della Foresta, con un bagliore irritato nello sguardo. «Per gli dèi, sei davvero la creatura più bisbetica e cocciuta che sia mai giunta fra queste mura...» D'un tratto cominciò a ridere sommessamente e aggiunse, scuotendo il capo: «A dire il vero non avevo più goduto di un simile scontro d'ingegno e di volontà da quando ho perduto la mia povera Adrina. Fidati di me, Lady Eilin... non t'ingannerei mai. Questa è la mia finestra sul mondo... lasciatami dai tuoi dannati antenati con l'indubbio intento di torturarmi con la vista di tutto ciò che ai Phaerie era ora negato. È stato attraverso questa finestra che ho visto per la prima volta Adrina raccogliere erbe nella foresta» sospirò quindi. «Ho fatto coprire il cristallo il giorno in cui l'ho perduta e non l'ho più usato da allora... ma se può servire a tranquillizzarti, Signora, verremo qui ogni volta che lo vorrai e veglieremo insieme sugli eventi del mondo, in attesa che il nostro esilio finisca.» La Maga della Terra fissò il Signore dei Phaerie, improvvisamente commossa dalla sua gentilezza. Come avevano potuto i suoi antenati esse-
re tanto crudeli da esiliare dal mondo una creatura così splendida, gentile e generosa? Le sue dita si serrarono intorno a quelle di lui e per la prima volta da quando si conoscevano lei gli sorrise. «Ti ringrazio, mio Signore» disse con semplicità. «Mi piacerebbe moltissimo farlo.» CAPITOLO VENTISEIESIMO UN PATTO CON LA MORTE Anvar era infine arrivato al limite della resistenza: dopo parecchi giorni... ormai aveva perso il conto di quanti fossero... trascorsi nel campo di schiavi venne assalito dalla febbre portata dal morso degli insetti e una mattina scoprì di essere incapace di alzarsi in piedi perché aveva il corpo devastato dai brividi e la mente in preda al delirio. «Per lui è finita» commentò il sorvegliante, girandolo supino con un piede. «Mandate gli altri al lavoro, a lui penseremo più tardi. È un peccato che non abbia resistito di più: mi aveva già fruttato l'equivalente di un mese di paga e avrebbe potuto farmi guadagnare altro denaro.» Quelle furono le ultime parole che Anvar udì prima di precipitare in un'oscurità vorticosa... poi si sentì di colpo libero da ogni traccia di sofferenza, di angoscia e di stanchezza e fu lieto di lasciarsi andare per cominciare il viaggio definitivo. Dopo la sua conversazione con Harihn, per parecchi giorni Aurian non fece altro se non mangiare, dormire e discutere con il chirurgo per sapere quando le sarebbe stato permesso di lasciare il letto. Nel frattempo le ricerche di Anvar non stavano facendo nessun progresso e lei era ansiosa di vedere le cose cominciare a muoversi alla velocità desiderata, ma il chirurgo rimase inflessibile e quando tentò di provare di nascosto la resistenza della gamba lesa con suo sgomento lei venne bloccata da Shia. che mostrò di essersi schierata imprevedibilmente e con estrema decisione dalla parte del chirurgo... e dal momento che il grosso felino non la lasciava mai sola, Aurian si trovò ad essere confinata a letto e servita in tutto e per tutto dal gigantesco Bohan. Per gratitudine nei confronti della devozione del colosso e della benintenzionata preoccupazione di Shia e del medico, cercò di tenere a freno la propria irritazione, che però andò crescendo di giorno in giorno insieme al suo senso di frustrazione. Harihn trascorreva parecchio tempo in sua compagnia, e nel corso di
quelle conversazioni le parlò diffusamente della città in cui era inavvertitamente giunta: la città-stato di Taibeth era la capitale e l'avamposto più settentrionale dei Khazalim, che per lo più conducevano una vita nomade nelle aride distese a sud della valle fluviale o dimoravano in insediamenti sparsi, più a monte del fiume e verso ovest. «Questa è una terra difficile» le spiegò Harihn, «e i Khazalim sono un popolo aspro... fiero, bellicoso e spietato con i nemici. Mio padre è un valido esemplare della nostra razza.» Partendo da quel commento procedette quindi a parlare della propria fanciullezza infelice. Sua madre era stata una principessa degli Xandim, che vivevano dall'altra parte del deserto ed erano famosi per i loro leggendari cavalli. Catturata nel corso di una scorreria, lei era andata in sposa a Xiang ma il suo spirito si era dimostrato troppo orgoglioso e indipendente per i gusti del Khisu, che infine l'aveva fatta annegare nel fiume da alcuni sicari quando Harihn era ancora un bambino. Da quel momento il giovane principe aveva trascorso l'infanzia girovagando per il palazzo reale, solo e privo di amore, vittima costante della brutalità patema, ma la sua vita era stata comunque al sicuro perché lui era il solo erede e suo padre non si era mai risposato... fino ad ora. Con sgomento di Aurian, il principe si mostrò quindi determinato nella sua idea di servirsi di Anvar per gettare il discredito sulla nuova regina. «Tuo marito potrebbe risultare per me un'arma da usare contro il mio regale padre» commentò infatti. «Aspetta un momento» ribatté Aurian. «Non intendo vedere Anvar messo in pericolo a causa di questa vostra faida familiare.» «Pericolo? Faida? Aurian, tu non capisci» dichiarò Harihn, protendendosi in avanti con un'espressione intensa nello sguardo. «Se è ancora vivo, tuo marito sta correndo un enorme pericolo, perché se il Khisu dovesse scoprire il rapporto esistente fra lui e la sua nuova Khisihn la vita di Anvar varrebbe meno di un granello di sabbia. E poi bisogna considerare la Khisihn stessa... hai visto in che modo spietato ha insistito per ottenere la tua morte: di certo non permetterebbe mai al tuo uomo di vivere abbastanza a lungo da tradire il suo segreto. No, invece devo intensificare immediatamente le ricerche perché preferisco avere questa pedina nelle mie mani il più presto possibile, non solo per la tua pace mentale e il mio vantaggio, ma anche per la sua stessa sicurezza.» Nonostante questo trascorsero ancora quattro giorni prima che infine le ricerche dessero qualche risultato. Folle per l'impazienza, Aurian si era in-
tanto conquistata infine il diritto di lasciare il letto, perché la sua persistenza aveva ormai logorato Harihn, il chirurgo e perfino Shia al punto da indurre il medico a decidere che Bohan l'avrebbe portata fuori in braccio e l'avrebbe sistemata su una comoda sedia all'interno del giardino recintato, con la gamba lesa appoggiata su uno sgabello. Peraltro le venne severamente proibito di tentare di alzarsi in piedi e l'eunuco le rimase costantemente accanto per provvedere a tutte le sue esigenze. Aurian accettò quel cambiamento dicendosi che se non altro era un progresso, per quanto minimo, rimpiangendo al tempo stesso fra sé la magia perduta. In un primo tempo aveva tormentato spietatamente il principe perché la liberasse da quei dannati bracciali, ma Harihn aveva risposto che il segreto di come aprirli era andato perduto da tempo e che comunque secondo un'antica legge la liberazione di uno stregone all'interno dei confini del regno comportava che tutte le persone implicate venissero scuoiate vive. La Maga aveva allora lasciato cadere l'argomento, ma quella notizia era servita soltanto ad aumentare la sua disperazione. Adesso se ne stava seduta vicino alla polla ornamentale, all'ombra di un albero in fiore, e stava ribollendo interiormente a tal punto che Shia aveva perso la pazienza con lei e si era ritirata a dormire all'ombra, lasciandola a giocherellare con i profumati boccioli allungati della pianta, spezzettandoli distrattamente fra le dita con aria cupa per poi gettarne i frammenti nella polla, dove essi venivano ogni volta afferrati dalle avide carpe dorate, che poi li risputavano con disgusto. Stupidi pesci, pensò con irritazione Aurian, ormai dovrebbero aver capito che non si tratta di cibo. In quel momento Bohan, che era seduto accanto a lei sull'erba, scattò in piedi nel sentir avvicinarsi un rumore di passi, e subito dopo si prostrò al suolo quando vide apparire il principe, che attraversò quasi di corsa la terrazza con il volto acceso dall'entusiasmo. «Notizie, Aurian!» esclamò. «Finalmente ho delle notizie.» Subito Aurian cercò di alzarsi in piedi, ma lui la costrinse con gentilezza a rimettersi a sedere. «Dimmi di cosa si tratta!» esclamò lei, ignorando la fitta di dolore alle costole strettamente fasciate, mentre Harihn si lasciava cadere sull'erba al suo fianco, con il respiro affannoso per la temperatura elevata, e versava due coppe di vino dalla caraffa posata sul tavolo accanto ad Aurian. «La scorsa notte abbiamo trovato il capitano della nave corsara» disse quindi. «Naturalmente si è mostrato riluttante ad ammettere di commercia-
re illegalmente in schiavi stranieri, ma un breve soggiorno nelle mie prigioni lo ha indotto a cambiare idea» spiegò, con gli occhi accesi da un selvaggio bagliore di soddisfazione che Aurian trovò disgustoso. Tale padre, tale figlio, pensò fra sé. È bene che stia più in guardia. «A quanto pare» proseguì intanto Harihn, «quel capitano ha venduto il tuo Anvar ad un famigerato mercante di schiavi di nome Zahn. I miei uomini gli hanno fatto una visita questa mattina, e quando lui ha provato a negare di sapere qualsiasi cosa al riguardo gli hanno offerto la scelta fra una grossa ricompensa e una visita al suo amico capitano che era ancora ospite delle mie prigioni. A quel punto lui si è mostrato quanto mai disposto a collaborare, ed è stato meglio così» aggiunse con aria accigliata, «perché se fossi stato costretto ad arrestarlo avrei attirato l'attenzione del Khisu, in quanto quel mercante è la principale fonte di provenienza degli schiavi impegnati ad erigere il suo palazzo d'estate. Se mio padre fosse venuto a sapere di tuo marito le cose si sarebbero potute mettere molto male per tutti noi.» «Lascia perdere tuo padre» replicò con impazienza Aurian, per nulla interessata a quell'aspetto della situazione... cosa che in seguito avrebbe scoperto essere stata un errore. «Cos'hai scoperto? Dov'è Anvar?» «Cerca di non nutrire troppe speranze, Aurian» consigliò il principe, facendosi serio in volto. «Zahn lo ha venduto al sovrintendente incaricato dei lavori per la costruzione del palazzo d'estate di mio padre, perché lo inserisse nelle squadre di lavoro. Il Khisu vuole che i lavori vengano ultimati e non gli interessa quante vite possono andare perdute per questo. Una volta sono stato a visitare il cantiere, e la brutalità con cui vengono trattati quegli schiavi mi ha nauseato. Aurian» proseguì, prendendo la mano della Maga nelle proprie, «il tuo Anvar è stato mandato là parecchie settimane fa, e in quel posto gli schiavi muoiono come mosche, senza contare che voi nordici non avete un fisico adatto a tollerare il nostro clima. Quasi certamente lui è già morto.» «No!» «In ogni caso» si affrettò a proseguire Harihn, vedendo la sua espressione sconvolta, «ho già fatto approntare una barca e sto per recarmi sul posto per verificare.» Immediatamente il consueto bagliore riapparve nello sguardo di Aurian. «Bene» commentò lei. «Per un momento ho temuto che avrei dovuto convincerti a farlo. Quando possiamo partire?» Harihn la fissò, lasciando vagare lo sguardo sulla spessa fasciatura al co-
stato, visibile attraverso il sottile abito di garza bianca che lei aveva indosso, sulla gamba avvolta in strette bende e sul braccio sinistro ancora appeso al collo al fine di tenerlo il più immobile possibile, notando anche i lividi che cominciavano a sbiadire sulle braccia e sul volto pallido. «Aurian, tu non puoi venire» ribatté in tono deciso. «Sei disposto a scommettere, mio principe?» ritorse Aurian, serrando la mascella. In qualsiasi altro momento il viaggio per risalire il fiume sarebbe stato molto piacevole, in quanto Aurian e Harihn erano comodamente adagiati su un mucchio di cuscini tenuto in ombra da un baldacchino, e Bohan stava agitando un ventaglio per tenere lontani da loro gli sciami d'insetti che si libravano sulle lente acque del fiume. Anche se Harihn aveva rinunciato ad usare la sfarzosa barca reale e aveva preferito un'imbarcazione più semplice per attirare il meno possibile l'attenzione, il tragitto si svolse comunque in un'atmosfera lussuosa, ma per quanto ci fossero a disposizione frutta e vino Aurian non riuscì a toccare nulla a causa dell'ansia eccessiva, e per tutto il tempo rimase seduta con la schiena rigida e lo sguardo fisso sulla riva, desiderando che i battellieri remassero più in fretta e rosicchiandosi le unghie... cosa che in vita sua non aveva mai fatto prima di allora. «Aurian» osservò Harihn, dopo averla osservata per qualche tempo con espressione accigliata, «devi proprio agitarti tanto?» «Tu che ne pensi?» ritorse Aurian. «Come posso non agitarmi quando so quanto Anvar stia soffrendo? Tutto questo è colpa mia» aggiunse, in tono amaro. «Aurian, cosa avresti potuto fare?» osservò il principe, sollevandosi a sedere per posarle una mano sul braccio in un gesto di conforto. «Ti addossi troppe responsabilità. È inutile rimpiangere le azioni passate... e poi ricorda che per poco tu stessa non hai perso la vita. Come la Khisihn. anche tu avresti potuto volgere le spalle ad Anvar, ma non lo hai fatto... che altro pretendi da te stessa? Indipendentemente dall'arrivare o meno in tempo, di certo non arriveremo più in fretta se continui a preoccuparti in questo modo.» «Lo so» ammise Aurian, in tono infelice, «ma non posso farne a meno.» Quando la barca si avvicinò al molo antistante il cantiere lei poté infine vedere con i suoi stessi occhi quanto soffrissero gli schiavi e fino a che punto si abusasse di loro, e sentì la gola che le si serrava per il timore al pensiero che di certo Anvar non poteva essere sopravvissuto in simili condizioni.
Rimproverandosi ancora una volta per averlo abbandonato, serrò le nocche fino ad affondare le unghie nella murata di legno tenero della barca. Non appena ebbero attraccato, Bohan la trasportò a terra e la depose sul terreno polveroso intanto che Harihn mandava a chiamare il capo schiavista, poi si disposero ad attendere mentre il chirurgo... che Harihn aveva insistito per avere con sé, lasciando invece a palazzo la contrariatissima Shia... osservava quanto lo circondava con aria di estrema disapprovazione; quando Aurian, che era al parossismo dell'agitazione, incontrò il suo sguardo con aria supplichevole, il medico reagì con un lieve cenno negativo del capo. Vi supplico, dèi, pregò allora Aurian, pur sapendo che le divinità che le avevano insegnato ad adorare erano state soltanto dei Maghi come lei. Vi supplico... Infine il capo schiavista arrivò e non appena riconobbe il principe si prostrò al suolo, tremante. Harihn gli ordinò però di alzarsi e lo trasse in disparte in modo che le loro voci non potessero essere sentite, avviando una discussione che ad Aurian parve interminabile: anche se non poteva sentire cosa stavano dicendo, poteva infatti vedere il capo schiavista allargare le mani in un gesto di diniego e scuotere il capo con veemenza. Alla fine Harihn si stancò di discutere e fece schioccare le dita, chiamando a sé due minacciose guardie di palazzo armate di una lunga scimitarra, che lasciarono la barca e si vennero a piazzare ai lati dello schiavista con la lama in pugno. Subito l'uomo si gettò in ginocchio con fare supplichevole e protese un dito: nel seguire con lo sguardo la direzione da lui indicata, Aurian vide che laggiù c'era il recinto degli schiavi. Un momento più tardi Harihn tornò verso di lei con il volto atteggiato ad un'espressione cupa. «Anvar è qui» annunciò, «e Bohan ti porterà subito da lui, perché a quanto dice il capo schiavista le sue condizioni sono tanto gravi che sta per morire.» Quando entrarono nel recito, che era pervaso da un fetore intollerabile, Bohan adagiò Aurian per terra accanto all'unico occupante raggomitolato sul lato più lontano, nella scarsa ombra offerta dalla palizzata di legno, e lei sussultò nel vedere che Anvar non era quasi riconoscibile con la pelle arrossata e coperta di vesciche, le labbra screpolate e il corpo coperto di lividi e di piaghe sotto uno stato di sudore e di sporcizia. Sfilato il braccio sinistro dalla fascia che lo sosteneva, spostò il giovane in modo che la sua testa le poggiasse in grembo e gli pulì il volto dalla terra con un angolo
della propria manica. «Presto» ordinò a Bohan, sollevando su di lui lo sguardo velato di lacrime, «trovami dell'acqua!» Non appena l'eunuco si fu allontanato lei chiamò a sé il chirurgo con un cenno, e questi esaminò Anvar con espressione grave. «Quest'uomo sta morendo» dichiarò infine, in tono piatto. «Ma ci deve essere qualcosa che puoi fare» implorò Aurian... e per la prima volta da quando lo conosceva vide il chirurgo spogliarsi della sua maschera professionale per assumere un'espressione compassionevole. «Signora, io non posso fare nulla... tranne porre fine alle sue sofferenze e accelerare la sua dipartita. Questo sarebbe di certo l'atto più misericordioso nei suoi confronti» replicò, posandole una mano sulla spalla in un gesto inteso a confortarla. «Che tu sia dannato se lo farai!» ringhiò Aurian, con occhi pervasi da una furia tale che il medico si gettò prono a terra per il terrore. «Vattene di qui!» ingiunse intanto Aurian. «Sparisci!» Mentre l'ometto si affrettava a ritrarsi si protese quindi a prendere le mani sfregiate di Anvar nelle proprie, con le lacrime che le colavano lungo le guance per poi cadere a bagnare il volto di lui, e si sentì trapassare il cuore dal dolore di un ricordo intollerabile, perché quella era un'esperienza che aveva già vissuto quando era morto Forral. «Dannazione a te, Anvar, non morire anche tu» implorò, traendo un respiro sibilante. «Non posso affrontare di nuovo una cosa del genere, e non ti permetterò di morire!» Serrando le mani di Anvar in una morsa ferrea, come se avesse potuto riportarlo alla vita con la semplice forza fisica, lottò quindi disperatamente per accedere al proprio potere... per raggiungerlo e risanarlo... ma la sua volontà continuò a sfuggirle come acqua che le colasse fra le dita, assorbita nel letale vortice grigio creato dal potere dei bracciali. Serrando i denti per resistere alla disperazione persistette nel tentativo, ma quanto più si sforzava tanto più si sentiva indebolire a causa dell'assorbimento del suo potere da parte dei bracciali: la vista le si oscurò e lei perse ogni consapevolezza di quel posto maleodorante e dello spietato calore del sole fin quasi a svenire, restando appesa ad un singolo filo di volontà che però risultò di una resistenza adamantina e le permise di continuare a lottare, immergendosi sempre più in un tunnel di infinita oscurità a causa del proprio rifiuto di arrendersi. Poi un tocco gentile sulla spalla la riportò di colpo alla realtà e lei si trovò accasciata sulla forma immota di Anvar, con la mente ancora scos-
sa per lo shock della transizione... e d'un tratto si rese conto che non avvertiva più il respiro di lui... no! Non poteva essere finita. A poco a poco mise poi a fuoco anche il volto di Bohan, inginocchiato al suo fianco sul terreno sporco con una caraffa d'acqua posata accanto a sé: protendendo con gentilezza un dito, il colosso toccò le lacrime che le solcavano il viso e la fissò con occhi pieni di compassione... e in quel momento qualcosa scattò nella mente di Aurian, che ricordò l'arena e il modo in cui aveva attinto forza dalla folla che la circondava. «Bohan» sussurrò, «sei disposto ad aiutarmi?» Il gigante esitò per un momento con aria spaventata, poi annuì. «Metti le mani sulle mie» ordinò Aurian e lui obbedì, avviluppando nelle sue grosse mani sia quelle della Maga che quelle di Anvar. «Bene» approvò Aurian, traendo un profondo respiro. «Adesso resta del tutto immobile e rilassati. Prestami la tua forza, Bohan, per salvare la vita di Anvar.» Aurian si concentrò quindi come non aveva mai fatto prima, sforzandosi di valicare la barriera costituita dal potere dei bracciali, e infine riuscì nell'intento: come se avesse aperto una chiusa, la forza di Bohan fluì a incrementare le sue energie, e attraverso una nebbia rossastra lei vide le pietre color ruggine inserite nei bracciali pulsare e risplendere come minuscoli carboni ardenti nel satollarsi della sua magia, generando un calore rovente che le tormentò i polsi. In un primo momento non badò alla cosa, ma poi si rese conto con un senso di shock che i bracciali immagazzinavano il potere... non soltanto il suo ma anche quello di tutti i Maghi che li avevano portati prima di lei, e che se fosse riuscita ad accedere a tanto potere sia pure per un solo istante avrebbe potuto aprire una breccia nelle mura stesse della morte. Ma come liberarlo... qual era la chiave di accesso? Suvvia, Aurian, rifletti, si pungolò. La vita di Anvar dipende da questo. Nel formulare quel pensiero si accorse che la sua mente si stava protendendo verso l'essenza dell'uomo chiamato Anvar e si trovò a ricordare quei penetranti occhi azzurri che sorridevano più di quanto facessero le labbra, e il modo in cui i rari sorrisi effettivi gli trasformavano il volto. Il ricordo di quel sorriso le trafisse il cuore come una freccia, facendolo contrarre nel petto... e di colpo Aurian si trovò la visuale bloccata da una vasta forma ammantata di scuro che incombeva su di lei torreggiando nel cielo. «Aaaah» esclamò la figura, con una voce profonda, secca e frusciante come foglie agitate di notte dal vento in un cimitero, che parve penetrarle nell'anima come un verme. «E così... credi di potermi defraudare ancora una volta?»
Aurian deglutì a fatica, facendo appello a tutto il proprio coraggio per rispondere, per sfidare la morte stessa. «Sì, se è necessario» ribatté. «Mi hai già tolto abbastanza. Cerca altrove le tue prede!» La morte scoppiò in una risata che ad Aurian parve una lama gelida appoggiata contro la sua schiena. «Sei davvero stolta se credi che le cose siano tanto semplici, e tuttavia nella tua ignoranza hai trovato la sola moneta che ti può permettere di stipulare con me un patto del genere. Molti prima di te ci hanno provato, però ti avverto che il mio prezzo è elevato... e che lo pagherete entrambi prima che c'incontriamo ancora!» Nel parlare lo spettro avanzò incombente e minaccioso, ed Aurian si morse un labbro, costringendosi a non ritrarsi davanti ad esso. «Hai del coraggio, signora» commentò la morte, con voce questa volta sfumata di rispetto. «Nonostante la mia malvagia reputazione non credere mai che la morte sia spietata... tutt'altro: se la moneta che tu e quest'uomo possedete entrambi dovesse risultare vera e non contraffatta, potreste uscire tutti e due vincitori dal nostro accordo. Ricordalo, quando verrai a pagare il mio prezzo!» Poi la figura svanì in un abbagliante lampo di luce rossa e il potere dei braccialetti, improvvisamente liberato, fluì in Aurian, in Bohan... che venne scagliato all'indietro... e infine in Anvar. Al tempo stesso Aurian sentì la propria anima salire a incontrare quella del suo compagno, per abbracciarla e ricondurla al sicuro a casa. La Maga sbatté le palpebre e per un momento rimase sconcertata di ritrovarsi nello squallore del recinto degli schiavi, poi il suo sguardo si posò sui polsi ora nudi e lei vide che i bracciali si erano ridotti ad un mucchio di cenere sottile che si stava già dissipando sotto i suoi occhi. Contemporaneamente Anvar si mosse e i suoi luminosi occhi azzurri si aprirono, incontrando il suo sguardo. Tutte le sue lesioni erano svanite senza lasciare traccia e così pure quelle di Aurian, che però se ne rese conto soltanto più tardi perché in quel momento era consumata dal sollievo, dalla gratitudine e dalla meraviglia per il miracolo operato dalla sua volontà indomita. «Aurian?» chiamò la voce di Anvar, che scaturì come un flebile sussurro dalla sua gola riarsa. «Sono qui» rispose la Maga, con la gola serrata dall'emozione. Accanto a lei, Bohan le porse una tazza d'acqua, ma Aurian aveva le
mani scosse da un tremito troppo violento per poterla prendere e inoltre aveva paura di abbandonare la presa intorno alle mani di Anvar perché temeva ancora di poterlo perdere, quindi si limitò a sorreggerlo e a lasciare che fosse l'eunuco ad accostargli la tazza alle labbra. D'un tratto l'ombra di Harihn cadde sul piccolo gruppo accoccolato per terra. «Strega! Ci hai traditi tutti!» inveì il principe, fissando con occhi dilatati dall'orrore i polsi di Aurian, ora privi dei bracciali di Zathbar. «Harihn...» cominciò Aurian, in tono urgente, ma ormai il principe aveva già estratto dal fodero la spada adorna di gemme e quando lei tentò di alzarsi in piedi si trovò ostacolata da Anvar, che si era accorto del pericolo e stava a sua volta cercando debolmente di sollevarsi nel vedere la lama che descriveva il suo arco letale. Bohan si mosse con un'agilità inimmaginabile per un individuo della sua immensa mole e si scagliò fra la Maga e la lama di Harihn tenendo a sua volta in pugno la spada: ci fu un clangore di metallo contro metallo e una pioggia di scintille si riversò su Aurian e su Anvar allorché l'eunuco deviò l'attacco del principe, spingendo la sua lama all'indietro e verso il basso sotto la violenza del proprio colpo. Afferrato con la mano sinistra il polso di Harihn, l'eunuco accentuò quindi progressivamente la stretta fino a quando il principe emise un sommesso grido di dolore e lasciò cadere l'arma. Ridotto all'impotenza, Harihn gonfiò il petto in un ampio respiro, preparandosi a chiamare le sue guardie, ma Aurian lo prevenne. «Fermo!» ingiunse, con voce non troppo alta ma secca come la sferza di una frusta, poi proseguì in fretta, sempre in tono sommesso: «Se mi ucciderai Xiang vorrà restituiti i suoi bracciali ma tu non potrai farlo perché si sono dissolti. Cosa gli dirai, allora? Lui sta aspettando da tempo un'occasione del genere e ti accuserà di averli rimossi tu stesso: adesso che ha una nuova Khisihn e l'opportunità di avere un altro erede si concederà il piacere di farti scuoiare vivo... quindi rifletti a fondo prima di agire.» Harihn impallidì nel sentirle riassumere così bene il proprio dilemma, e Aurian ne approfittò per sfruttare il vantaggio acquisito. «Siamo pronti ad andarcene, vero?» domandò, e quando lui annuì aggiunse: «Bene, allora allontaniamoci da qui prima che qualcuno si accorga di quello che è successo. Potremo elaborare un piano durante il viaggio di rientro a palazzo.» «Il chirurgo ha visto tutto» osservò Harihn, a denti stretti. «È corso da me farfugliando di atti di stregoneria, e qualcuno potrebbe averlo sentito.»
«D'accordo» replicò Aurian, dopo aver riflettuto. «Procura qualcosa in cui avvolgere Anvar, i modo che nessuno possa vedere che è stato risanato, poi Bohan lo porterà a bordo della barca e tu farai lo stesso con me. Io mi coprirò i polsi con le maniche in modo che nessuno possa accorgersi che i bracciali non ci sono più, e una volta a bordo comincerai ad inveire contro il chirurgo accusandolo di aver mentito, e mostrandoti molto infuriato nei suoi confronti.» «Credo di poterci riuscire senza problemi» borbottò Harihn, cupo. «Bada soltanto a fare in modo che nessuno creda a ciò che è effettivamente accaduto e che si possa andare via di qui il più in fretta possibile. Più tardi potrai sempre offrire al chirurgo una ricompensa per comprare il suo silenzio... d'accordo?» «D'accordo... per il momento» ribatté Harihn, sempre più accigliato, «però ricorda che questa faccenda è ancora in sospeso fra noi, signora.» «Mi sembra equo» annuì in tutta tranquillità Aurian. «Ora diamoci da fare.» Bohan andò a prendere una coperta nel campo degli artigiani e trasportò Anvar fino alla barca, seguito dal principe che reggeva Aurian fra le braccia con atteggiamento rigido e la mascella serrata per l'ira. Dopo averla sistemata con cura a bordo, Harihn procedette con la sua sfuriata nei confronti dell'impotente chirurgo, e Aurian vide con orrore il vecchio terrorizzato indietreggiare fino al limite estremo del molo mentre il principe incombeva su di lui in preda all'ira; d'un tratto Harihn strappò la frusta dalle mani di un sorvegliante e prese a colpire il medico sulla faccia e sulle spalle, urlando al tempo stesso con voce tale da sovrastare le sue grida di dolore e da farsi sentire dall'intero campo. «Bugiardo! Stolto! Come osi venire dal tuo principe con una storia del genere?» infuriò, poi gettò via la frusta e avanzò verso il povero chirurgo, che era crollato in ginocchio gemendo, sollevandolo di peso e scagliandolo nel fiume. Aurian sussultò per l'orrore nel vedere orde di grosse lucertole munite di lunghe zanne apparire come per magia e convergere sulla loro vittima impotente: l'ultimo disperato lamento del medico mori sul nascere in mezzo ad un agitarsi di code e di zanne, poi lui venne trascinato sotto la superficie e fatto a pezzi. Un momento più tardi sul fiume tornò una quiete assoluta, e un'ampia chiazza rossa prese ad allargarsi sull'acqua. Impassibile in volto, Harihn balzò allora sulla barca e segnalò ai rematori di mettersi al lavoro.
«Così periscono tutti coloro che mentono al loro principe. Ricordatelo» esclamò quindi, rivolto agli spettatori allibiti dai quali non giunse il minimo suono. Del tutto nauseata, Aurian volse le spalle alla scena e assestò meglio Anvar sui cuscini, allontanandogli la coperta dal volto. «Stai bene?» le sussurrò lui. ed Aurian annuì... sconcertata dal fatto che fosse proprio Anvar a preoccuparsi delle sue condizioni. «Riposa... io tornerò fra un momento» replicò, battendogli un colpetto sul braccio, quindi si volse verso Bohan e gli prese la mano nella propria. «Abbi cura di lui, per favore» gli disse, e poi aggiunse: «Bohan. non ho parole per dirti quanto ti sono grata dell'aiuto che mi hai dato oggi e per il quale ti sarò per sempre debitrice.» Il colosso scosse il capo con un sorriso, ma lei insistette con fermezza. «In qualche modo, amico mio, troverò il modo di ripagarti» dichiarò. Facendosi coraggio, si diresse quindi verso prua, dove il principe sedeva con lo sguardo opaco e fisso sulle acque fangose del fiume. «Spero che tu sia orgoglioso di te stesso» sibilò. «Come puoi giustificare un atto così mostruoso?» Harihn si girò di scatto a fissarla con espressione infelice e al tempo stesso disgustata, mentre i suoi occhi brillavano di lacrime trattenute. «Quell'uomo era un chirurgo!» ribatté con veemenza. «Era convinto di aver assistito ad un miracolo e non avrebbe resistito alla tentazione di parlarne con altri, causando così la nostra rovina! Quello schiavo stava morendo... anzi, era già morto, e le tue azioni sono state contrarie ad ogni legge della natura» continuò, con voce pervasa di amarezza. «Non hai pensato che ci sarebbe stato un prezzo da pagare? Direi che si è trattato di uno scambio equo, la vita del mio servitore contro quella del tuo uomo. Sei stata tu a privare il chirurgo della sua vita, Aurian, mediante il tuo atto, ed io sono stato soltanto l'agente motore. Spera soltanto che la cosa finisca qui, perché il Mietitore potrebbe anche esigere un prezzo più elevato per l'anima che gli hai sottratto.» «Sciocchezze superstiziose!» scattò Aurian, spaventata da quelle parole perché le pareva di ricordare qualcosa che riguardava un prezzo e una moneta autentica... qualcosa che però non riusciva a mettere a fuoco perché la morte aveva già cancellato le proprie parole dalla sua mente. «Ho soltanto agito in buona fede per salvare una vita» protestò. «E quante vite andranno perdute in futuro perché non potranno usufruire dell'abilità del chirurgo?» ribatté Harihn, con una nota isterica nella voce
sempre più acuta. «Quale conforto trarrà la sua famiglia dalla tua buona fede? E una volta che mio padre mi avrà fatto scuoiare vivo per aver scatenato una strega straniera in mezzo al suo popolo, tu cosa...» «Basta!» ruggì con voce tremante Aurian, balzando in piedi con tanta violenza a far oscillare la barca. «Benissimo, la colpa è mia e me ne addosso la responsabilità, ma è stata la vostra dannata legge a mettermi addosso quei maledetti bracciali, ed è quella stessa legge che mi considera una criminale se uso i miei poteri per salvare una vita, e che condanna anche te per il fatto che ho agito mentre ero sotto la tua custodia. Se dovessi trovarmi di nuovo di fronte alla stessa decisione, agirei ancora nello stesso modo... non soltanto per Anvar ma per te o per chiunque altro mi stia a cuore! Harihn» continuò in tono più dolce, rimettendosi a sedere, «mi dispiace per averti causato questi problemi. So che è un brutto modo per ripagare tutto quello che hai fatto per me e cercherò di escogitare un modo per proteggerti dalle conseguenze del mio operato. Riesci però a capire che non avevo scelta?» «Signora, ho paura di te» ammise con franchezza Harihn, distogliendo lo sguardo dal suo. «Parli di ripetere lo stesso atto in caso di necessità... ma io ti dico con sincerità che se ti vedessi di nuovo nell'arena non muoverei un dito per salvarti, sapendo quello che accadrebbe dopo.» «Parli di quello che è successo, ma le cose non hanno ancora finito di evolversi e la nostra vita non si è conclusa» replicò Aurian. cercando disperatamente un modo per porre rimedio a quella situazione. «Spero che alla fine non avrai motivo di rimpiangere di avermi salvato la vita, Harihn, ed è anche possibile che io sia in grado di aiutarti, ora che i miei poteri non sono più impastoiati.» «No!» esclamò il principe, con un sussulto. «Non mi tentare con la tua magia malvagia. Non vorrei mai ottenere il potere in questo modo.» «Adesso capisci quanto sia grave la responsabilità che i Maghi si devono addossare?» domandò Aurian. «Un simile potere è una tentazione costante... ed un costante fardello. Pensa alle stragi che si verificherebbero se tu scatenassi una rivoluzione con il mio aiuto, pensa alle morti che graverebbero allora sulla mia coscienza. Quanto però all'usare il mio potere per salvare una vita... non posso credere che questa sia un'azione malvagia.» «Credo di capire... un poco» sospirò Harihn. «Signora, va ad accudire tuo marito e lasciami solo per un po', perché ho molto su cui riflettere... e molti rimpianti.» La loro conversazione si era protratta per quasi tutta la durata del viag-
gio, ed Aurian rimase sorpresa di vedere di nuovo intorno a sé la città e, in lontananza, gli eleganti contorni della rimessa delle barche del principe, ma al tempo stesso non rimpianse il tempo impiegato per arrivare ad una specie di comprensione reciproca con Harihn: il timore che lui nutriva nei confronti della magia era quello comune a tutto il suo popolo... e lei si disse che in un certo senso era giustificato, ricordando con un brivido i Nihilim che Miathan aveva scatenato e la spaventosa ferocia della tempesta evocata da Eliseth. Quei due avevano venduto l'anima in cambio del potere, un pensiero che le dava la nausea e la induceva a chiedersi se anche lei sarebbe finita in quel modo. Giurando a se stessa che non sarebbe mai scesa tanto in basso respinse quei cupi pensieri e si spostò a poppa per controllare le condizioni di Anvar. Sebbene stesse dormendo, lui aprì gli occhi nel momento in cui gli si accostò, quasi avesse avvertito la sua presenza... o forse proprio per questo, considerato che quando lei lo aveva tratto indietro dalla soglia delle morte le loro anime si erano toccate, una forma d'intimità che nessuno dei due aveva mai condiviso con altri. Nonostante questo, Aurian si sentì riluttante ad avvicinarglisi, perché era oppressa dal senso di colpa per averlo abbandonato a fronteggiare simili sofferenze e non se la sentiva di guardarlo in faccia in quanto era certa che ormai lui dovesse odiarla. Mentre esitava, però, Anvar si protese a prenderle la mano e si aggrappò ad essa con forza sorprendente, come se quella fosse stata la sola ancora che lo manteneva collegato alla vita. «Credevo che non saresti più venuta» sussurrò, «e per poco non mi sono lasciato andare. Mi dispiace, Aurian, non avrei dovuto dubitare.» Aurian lo fissò interdetta, con gli occhi colmi di lacrime: lui si stava scusando? «Oh, Anvar» replicò, «potrai mai perdonarmi?» «Sei venuta» ribatté lui. «Quando c'è bisogno di te ci sei sempre... perché ci ho messo tanto tempo a rendermene conto?» «Questa volta per poco non sei morto a causa della mia irascibilità!» insistette Aurian, sconcertata. «Non avrei mai dovuto lasciarti in quel modo, e quando ti sentirai meglio potrai picchiarmi per questo... me lo merito.» «No» ribatté Anvar, serrando la mascella in un'espressione cocciuta simile alla sua. «Allora lo farò da sola» decise Aurian, mimando l'atto di darsi un pugno e di crollare la suolo, e lui scoppiò a ridere. Grata di averlo trovato in tempo e di vederlo di nuovo in salute, Aurian
lo abbracciò in un impeto di sollievo, e sentì le sue braccia cingerle le spalle. «Hai trovato Sara?» chiese poi Anvar, e quelle parole ebbero su di lei l'effetto di una doccia gelata, inducendola a ritrarsi con espressione accigliata. Sempre Sara! Come avrebbe fatto a dirgli che Sara lo aveva tradito... lo aveva abbandonato a favore di un re e non aveva alzato un solo dito per cercarlo e tanto meno per aiutarlo? Consapevole che una rivelazione del genere lo avrebbe annientato, Aurian distolse lo sguardo per non vedere la speranza che era affiorata nei suoi occhi. «Sara sta bene» disse, in tono evasivo. «Se l'è cavata meglio di tutti noi.» Con suo immenso sollievo in quel momento la barca raggiunse il molo antistante il palazzo di Harihn, e lei aggiunse subito in tono vivace: «Siamo arrivati! Adesso ti porteremo dentro per lavarti e nutrirti. Quel colosso si occuperà di te: si chiama Bohan e ti puoi fidare di lui. Quando ti sarai riposato ti racconterò tutto.» In fretta segnalò quindi a Bohan di portare Anvar nelle sue stanze, e si trasse di lato prima che lui potesse rivolgerle altre domande imbarazzanti. Disteso nel letto, con lo sguardo perso ad osservare le sottili tende che proteggevano il suo letto dagli insetti oscillare sotto il soffio della brezza, Anvar stava godendo del contatto delle fresche e morbide lenzuola di seta con il suo corpo appena lavato. Per una ragione a lui sconosciuta, il risanamento non aveva avuto il consueto effetto spossante e si sentiva lucido e vibrante di vita... ed anche affamato, cosa che non lo sorprendeva affatto, considerato come gli sporgevano le costole per la magrezza eccessiva. Il ricordo degli orrori vissuti al cantiere lo indusse ad irrigidirsi e a portare le mani al grosso collare da schiavo che doveva ancora essere rimosso dal suo collo, poi però s'impose con fermezza di non pensare a queste cose, perché adesso era tutto finito: Aurian era venuta a cercarlo, come aveva pregato che lei facesse, e lo aveva salvato ancora una volta. Sulla scia di quei pensieri si trovò a ripensare al primo incontro con la Maga, dopo la sua fuga dalle cucine dell'Accademia: anche in quel caso di era svegliato fra lenzuola pulite, in una stanza della guarnigione, con le ferite risanate e vedendo davanti a sé Aurian che gli sorrideva. A quel tempo non si era fidato di lei... ma adesso era deciso ad agire in maniera molto migliore e a ripagarla prendendosi cura di lei fino alla nascita del bambino perché era evidente che avrebbe avuto bisogno del suo aiuto, anche se sarebbe stato difficile convincerla della cosa perché era molto cocciuta e in-
dipendente. In qualche modo avrebbe dovuta persuaderla che il suo aiuto era necessario... e avrebbe dovuto convincere anche Sara. Con un sussulto colpevole si chiese come avrebbe fatto a riconciliare quelle due, considerato che Sara non avrebbe mai tollerato la presenza della Maga. «Questo è un suo problema!» si disse, pensando ad alta voce, e rimase sorpreso dalla propria veemenza e dalle conclusioni a cui era giunto. La verità aveva però cominciato ad apparirgli evidente durante la sua prigionia nelle celle sottostanti il mercato degli schiavi: Sara era l'amore della sua infanzia e faceva presa sul suo cuore, ma al tempo stesso non era più una ragazza innocente, si era indurita e adesso nei suoi modi c'era una sfumatura di calcolo... qualcosa di contaminato di cui lui non osava fidarsi. Gli ci era voluto il tempo che loro due avevano trascorso da soli dopo il naufragio per giungere a questa conclusione, perché l'assenza di Aurian aveva lasciato dentro di lui un vuoto, come se una parte del suo essere se ne fosse andata. Per gli dèi, quanto aveva sentito la sua mancanza e come l'aveva rincuorato vederla di nuovo! Il pensiero della Maga gli aveva dato coraggio e speranza in mezzo alle torture e ai tormenti, e lui aveva sempre saputo che sarebbe venuta a cercarlo perché era di lei e non di Sara che si fidava. Soltanto di lei. Ma tu ami Sara, protestò una parte della sua mente, e pur sapendo che era vero Anvar si trovò a chiedersi che cosa amava... ciò che lei era adesso o ciò che era stata? E amava Aurian? Lei era un'amica e una compagna affidabile, ma... poteva amare una Maga? Non lo sapeva, ma sapeva chi avrebbe preferito avere accanto in una situazione difficile. Poi sentì la porta che si apriva e il rumore di un vassoio che veniva posato; qualcuno si mosse quindi all'esterno della tenda di garza che gli circondava il letto e lui suppose che dovesse trattarsi del taciturno Bohan, venuto a portargli del cibo. Con sua sorpresa fu invece Aurian a spingere di lato le tende, e nel vederla Anvar sorrise di gioia sebbene fossero rimasti lontani per appena un'ora. «Come ti senti?» domandò Aurian, che pareva preoccupata... possibile che si sentisse ancora colpevole per ciò che lui aveva sofferto nel campo di schiavi? «Sto benissimo» dichiarò, cercando di rassicurarla. «In effetti non ho proprio motivo di restare a letto... se non fosse per il fatto che il tuo amico Bohan mi ci ha messo e mi ha impedito di alzarmi.» «Ha fatto lo stesso con me» annuì Aurian, comprensiva. «A volte riesce ad essere un po' troppo zelante! Ti ho portato qualcosa da mangiare» ag-
giunse, posando il vassoio sul letto ma impedendogli di afferrare subito il cibo e ammonendo: «Hai l'aria affamata, ma sarà meglio che mangi lentamente, altrimenti potresti sentirti male.» Anvar assentì con il capo e cominciò ad aggredire il cibo in maniera controllata. «Dove siamo?» chiese fra un boccone e l'altro. «Che posto è questo?» «Sfarzoso, vero?» sorrise Aurian. «Appartiene al Khisal, il principe. Lui mi ha salvata dall'arena, e...» «Ti ha salvata da cosa?» «Suppongo che sia meglio che cominci dal principio» dichiarò Aurian, versandosi un po' di vino, e mentre lui mangiava le parlò dei propri rapporti con i Leviatani, della scoperta che lui era stato catturato e della terribile marcia lungo il fiume alla sua ricerca. «Mi dispiace per i tuoi capelli» la interruppe Anvar. «Erano così belli.» «Non erano pratici con tutto questo caldo» replicò Aurian, scrollando le spalle ma sorridendo del complimento, poi aggiunse in tono sommesso: «Inoltre mi dispiaceva non avere te accanto che me li spazzolassi.» «In questo caso sarà meglio che cominci a farli ricrescere» dichiarò con fermezza Anvar, protendendosi a prenderle una mano nella propria. «Non credevo che avresti voluto...» sussurrò Aurian, fissandolo come se non riuscisse a credere ai propri orecchi. Anvar notò con sgomento che aveva gli occhi velati di lacrime e si sentì lacerare il cuore nel vederla così vulnerabile, lei che era sempre apparsa tanto coraggiosa e autosufficiente da indurlo a dimenticare che aveva bisogno di sostegno e di conforto come chiunque altro. «Aurian» affermò, accentuando la stretta intorno alla mano di lei, «quello che è successo è stato colpa mia quanto tua, perché mi sono comportato in maniera abominevole sulla nave e anche in seguito. Abbiamo bisogno uno dell'altra, quindi dimentichiamo ogni cosa. In qualche modo riuscirò a far capire e accettare la cosa a Sara.» Nel sentir menzionare Sara, la Maga sussultò e distolse lo sguardo. «Forse è meglio che ti racconti anche il resto» affermò quindi, in un tono cupo che destò in Anvar un senso di allarme. Lei però gli aveva detto che Sara era sana e salva, perciò di fronte alla sua espressione tetra decise che sarebbe stato più saggio permetterle di raccontare la storia a modo suo. Aurian gli parlò quindi della propria cattura nei dintorni della città e di come gli Arbitri le avessero messo i bracciali per privarla dei suoi poteri, condannandola poi a combattere nell'arena. Era arrivata a descrivere il
punto culminante del suo scontro con Shia quando venne interrotta da uno spaventoso clamore e da un clangore di armi che cozzavano. «Cosa sta... Xiang!» esclamò Aurian, girandosi si scatto, poi balzò in piedi e corse verso la sua spada, che era appoggiata alla parete in un angolo, ma in quello stesso momento la porta si spalancò e parecchi armigeri muniti di balestra fecero irruzione nella stanza. Il grido di avvertimento che Anvar era stato sul punto di emettere gli morì in gola quando Aurian si girò e crollò al suolo serrandosi la spalla al di sopra del seno destro, con il sangue che le fluiva fra le dita, mentre la quadrella che le aveva trapassato la carne ed era uscita di netto dall'altra parte a causa della distanza ravvicinata andava a rimbalzare contro la parete e cadeva rumorosamente sul pavimento, lasciandovi una macchia di sangue. Immediatamente la Maga venne circondata da numerosi soldati che avevano tutti la balestra carica e puntata contro di lei, ed Anvar... che nel frattempo era balzato dal letto senza pensare al pericolo che correva... ebbe appena il tempo di intravedere la sua forma immota prima di essere afferrato e trascinato fuori della stanza. CAPITOLO VENTISETTESIMO RIVELAZIONI... E UN TRADIMENTO I soldati che avevano catturato Anvar gli legarono le mani dietro la schiena stringendo le corde a tal punto da farle penetrare dolorosamente nei polsi, e usarono modi così bruschi da procurargli una nuova serie di lividi in sostituzione di quelli che erano appena stati risanati, ma lui non badò quasi al suo crescente disagio perché era estremamente preoccupato per Aurian e tormentato da mille interrogativi. Che ne era stato di Aurian? Quanto era grave la sua ferita? Quelle che li avevano attaccati erano le guardie del principe, che si era pentito di aver dato loro ospitalità? E perché Harihn aveva cercato di aggredire lui e Aurian, quando erano al cantiere? La Maga non aveva infatti avuto il tempo di finire la sua narrazione, e questo gli impediva di capire cosa stava succedendo anche se aveva tempo a sufficienza per riflettere e per preoccuparsi dal momento che i soldati lo avevano lasciato nella camera di Aurian, sorvegliato da due guardie cupe e taciturne, dove rimase per oltre un'ora con la sola compagnia dei propri timori. Xiang entrò con passo regale nella camera delle udienze di Harihn, te-
nendo sottobraccio la sua Khisihn e circondato da un seguito di guardie. Sedutosi sulla sedia dorata del principe segnalò a qualcuno di portare un seggio per Sara, poi dedicò la propria attenzione al capitano delle guardie, che si era avvicinato con un profondo inchino e attendeva di fornire il proprio rapporto. «Il palazzo è stato occupato interamente, Vostra Maestà: il Khisal è sotto la nostra custodia e la sua strega è stata messa in condizione di non nuocere dai nostri balestrieri. Adesso si trova nelle segrete, priva di sensi ma sotto stretta sorveglianza.» «Ben fatto» approvò Xiang, con un sorriso. «Avete catturato il Demone?» «Sì, sire» annuì il capitano. «Sopraffarlo ci è costato la perdita di parecchi uomini, ma è illeso come tu hai ordinato. Anch'esso è imprigionato nelle segrete, in attesa di essere trasportato all'arena.» «Eccellente. E lo schiavo?» «I miei uomini lo stanno portando qui ora, Vostra Maestà.» «Benissimo. Puoi scortare qui anche il Khisal.» Il Khisu si appoggiò quindi allo schienale della sedia dorata del figlio con un sorriso di trionfo sulle labbra, soddisfatto dell'evoluzione dei piani avviati non appena gli era giunto il messaggio del suo capo schiavista. Questa volta Harihn aveva forzato troppo la mano: il ragazzo era stato davvero uno stolto a liberare la strega dai bracciali e a permetterle di esercitare le proprie arti malvagie in presenza di testimoni... e tutto per salvare uno schiavo che la Khisihn Sara accusava di averla rapita dalla propria terra natale. Xiang era certo che si fosse trattato di un complotto per spodestarlo e che Harihn si fosse alleato con i due stranieri a questo scopo. Il principe aveva però sottovalutato suo padre e adesso avrebbe pagato il proprio errore, perché liberando la strega si era automaticamente esposto alla condanna a morte... anche se forse sarebbe valsa la pena di tenerlo in vita per qualche tempo, in modo da fargli assaporare il terrore della minaccia di morte. Quanto alla strega, avrebbe dovuto essere giustiziata al più presto, perché adesso che non aveva più i bracciali costituiva una minaccia troppo grande. Un certo movimento vicino alle porte della camera preannunciò il sopraggiungere delle guardie che trascinarono dentro Harihn, tremante e pallidissimo in volto, e lo gettarono ai piedi del Khisu, che sfoggiò un sorriso crudele e soddisfatto nel contemplare il terrore che si leggeva negli occhi
di suo figlio. Infine i soldati vennero a prendere Anvar e lo trascinarono attraverso una serie di lunghi corridoi per poi spingerlo oltre un paio di enormi battenti decorati in bronzo e dentro una vasta sala che pareva piena di armigeri e nella quale il giovane che Aurian aveva identificato come Harihn era prostrato davanti ad un uomo che occupava un trono posto su una bassa piattaforma e che poteva essere soltanto il re. Un momento più tardi ogni altro pensiero si dissolse però dalla mente di Anvar quando il suo sguardo si posò sulla figura dai capelli dorati che sedeva accanto al trono, ingioiellata e vestita con abiti di seta che le conferivano un aspetto splendido e regale. «Sara!» gridò con gioia, lottando per raggiungerla, ma una delle guardie lo immobilizzò e la fredda indifferenza dell'atteggiamento di Sara non subì il minimo mutamento mentre lui veniva gettato a terra accanto al principe. Avendo le mani legate, Anvar non poté frenare la caduta e andò a sbattere con la fronte contro il pavimento di marmo, sollevandosi poi in ginocchio con la vista appannata e la mente confusa nel momento stesso in cui il re cominciava a parlare rivolto ad Harihn. «Ben incontrato, figlio mio» esordì Xiang, in tono sogghignante e con un bagliore di trionfo nello sguardo. «Mi hanno informato che ti sei esposto all'accusa di tradimento liberando la strega dai vincoli che la privavano dei suoi poteri, in violazione con le leggi. Cos'hai da dire di fronte a tale accusa?» Scoccando un'occhiata in tralice al principe, Anvar vide che aveva il volto contorto dallo shock e dal panico. «No!» gridò Harihn. «Non è vero! Non sono stato io a liberarla: si è sottratta da sola a quei vincoli.» «Menti» dichiarò il Khisu, sovrastando la terrorizzata smentita di suo figlio, e Anvar vide la fronte di Harihn imperlarsi di sudore mentre suo padre proseguiva: «Inoltre hai rubato uno dei miei schiavi... un raro esemplare proveniente dalle terre del nord. La mia Khisihn mi ha detto che questa creatura ha cospirato con la tua strega per rapirla dalla sua terra natale, e da questo io posso dedurre soltanto che tu stia cospirando con i nemici della Khisihn al soli fine di abbatterla e di spodestarmi. È questo lo schiavo, mia regina?» domandò quindi a Sara. Quelle parole si abbatterono su Anvar come un colpo mortale. «Regina!» gridò, troppo inorridito per considerare le conseguenze del
proprio atto, e una delle guardie lo schiaffeggiò con violenza sulla bocca. «Silenzio!» ingiunse, mentre Anvar crollava sul pavimento con la bocca ammaccata e sanguinante. «È lui» dichiarò intanto Sara, scoccando al suo antico fidanzato un'occhiata piena di disprezzo. «Benissimo» annuì Xiang. «Cosa ne devo fare di lui, mia adorata? Lascio a te la scelta della punizione da infliggergli.» «Uccidilo» suggerì con indifferenza Sara, scrollando le spalle... e Anvar si sentì raggelare, incapace di credere che lei avesse appena ordinato con tanta indifferenza la sua morte. «Un momento! Lo schiavo è mio!» esclamò Harihn. «Cos'hai detto?» ribatté Xiang, con voce fredda e stridente quanto un coltello che strisciasse sulla pietra. «Il tuo informatore ha mentito, Maestà» replicò Harihn. «Io posseggo questo schiavo: l'ho comprato dal tuo capo schiavista meno di tre ore fa, pagandolo in oro... e l'ho fatto per un motivo molto valido» aggiunse, liberando con uno strattone un braccio dalla presa delle guardie ed esibendo una pergamena sgualcita: l'atto di acquisto dello schiavo in questione. «Tu sei già stato condannato come traditore, quindi quel documento di possesso non conta nulla» scattò il Khisu. «Padre, ascoltami!» gridò Harihn, con voce incrinata dalla tensione. «Ho fatto tutto questo a tuo beneficio, perché questo schiavo è la prova vivente che la tua Khisihn ti ha tradito e merita la morte. Lei era la sua concubina!» Anvar sussultò. «No!» stridette Sara. «Sta mentendo!» «Silenzio!» ruggì il Khisu, ora livido in volto, poi si rivolse al figlio e con voce ringhiante proseguì: «Adesso voglio tutta la verità, prima di porre fine alla tua miserabile vita. Chi ti ha dato un'idea così assurda?» «Aurian... la strega» replicò Harihn, tremando nel fronteggiare suo padre. «Non ti è parso strano che la Khisihn la volesse morta a tutti costi, quando lei ha combattuto nell'arena? Lo ha fatto perché Aurian sapeva la verità... com'è logico, dal momento che quest'uomo è suo marito.» Anvar, già sconvolto dalle diverse rivelazioni avute nel corso di quella giornata, rimase interdetto: Aurian aveva detto ad Harihn che lui era suo marito? Per quale motivo aveva mentito al principe? In quel momento il suono della risata beffarda della Khisihn echeggiò acuto nella stanza.
«Ha detto che lui è suo marito?» esclamò Sara. «Vorresti negarlo?» domandò Harihn, che d'un tratto appariva molto meno sicuro di sé. «Certamente» affermò con calma Sara. «Ha mentito per evitare una morte da traditrice. Quest'uomo non è suo marito ma il suo servo vincolato e il suo complice nel mio rapimento. Credi che io, la Khisihn, mi abbasserei a mentire per un semplice servitore?» Il disprezzo che permeava la sua voce trapassò il cuore di Anvar come la lama di un coltello, impedendogli di notare l'espressione di shock e di indignazione apparsa sul volto di Harihn, poi lui cercò di difendersi da quella sofferenza dicendo a se stesso che Sara non stava parlando sul serio... che era alla mercé del Khisu e stava soltanto cercando di salvare se stessa. Intanto Xiang spostò su di lui il proprio sguardo rovente e gli si rivolse nella lingua del nord. «Allora, schiavo? Cos'hai da dire? Da un lato mio figlio afferma che la Khisihn è la tua concubina, mentre lei ti accusa di averla rapita. Soppesa bene la tua risposta, perché da essa dipendono delle vite... compresa la tua stessa miserabile esistenza.» Anvar esitò, talmente confuso da quella miscela di tradimenti e di menzogne a non saper più cosa dire. Sostenere la storia di Sara avrebbe significato la sua stessa morte, per non parlare di quella di Aurian e del principe, ma se avesse affermato il contrario sarebbe stata in gioco la vita di Sara. Intrappolato in quel dilemma e a conoscenza soltanto di una parte dei fatti in gioco, rimase in silenzio perché non sapeva che scelta compiere. «Vedi?» esclamò Sara, in tono di trionfo. «Non può affermare che ho mentito e tace soltanto per proteggere la sua padrona. Credimi, mio Signore: io non ti tradirei mai, ma tuo figlio sarebbe pronto a farlo... anzi, lo ha già fatto cospirando con quella strega contro me e te.» Sul volto del Khisu apparve un'espressione di sollievo e lui si rivolse alla sua Khisihn con un sorriso sulle labbra. «Sei saggia quanto sei bella, mia adorata. Come ho potuto dubitare di te?» affermò, poi rivolse un cenno alle guardie e aggiunse: «Uccidete questi traditori, e dopo ci occuperemo della loro strega.» Oscurità, un pavimento freddo e umido sotto di lei, un dolore lancinante alla spalla destra che si diffondeva come fuoco lungo il braccio e il fianco, generando un senso di nausea che le serrava la gola: Aurian trattenne il respiro per soffocare un gemito, in quanto sapeva che dovevano esserci in
giro delle guardie e preferiva che la credessero ancora priva di sensi, dal momento che in quella cella buia nessuno poteva vederla... a meno di possedere la vista notturna propria dei Maghi. Avendo riconosciuto la livrea delle guardie di Xiang era in grado di avanzare qualche supposizione in merito a ciò che era successo. Restando del tutto immobile, prona sul pavimento di pietra sul quale l'avevano noncurantemente gettata, ricorse innanzitutto al proprio senso di guaritrice per controllare le condizioni del bambino, accertando con sollievo che tutto pareva essere a posto: quel piccolino doveva essere davvero resistente se continuava a sopravvivere a tutto ciò che di recente era accaduto a sua madre. Madre... questa era la prima volta che lei usava questa parola, anche soltanto nei suoi pensieri, e nonostante il dolore, il disagio e il pericolo in cui versava, essa ebbe l'effetto di farle incurvare le labbra in un sorriso, in quanto significava che aveva finalmente accettato quel bambino, quel piccolo guerriero indomito e resistente che pareva già somigliare a suo padre. Il pensiero di Forral intensificò la sua determinazione e la indusse a rivolgere la propria attenzione alla spalla ferita, procedendo innanzitutto a controllare il dolore lancinante che essa causava e che disturbava la sua concentrazione per poi procedere a riparare il danno vero e proprio in modo da recuperare l'uso del braccio destro... quello con cui impugnava la spada. Il procedimento risultò più difficile di quanto si fosse aspettata. Sebbene non avesse mai tentato di guarire se stessa, sapeva per averlo appreso dai suoi studi con Meiriel che un'operazione del genere implicava un rischio considerevole. Il risanamento richiedeva infatti una notevole quantità di energia, in parte del guaritore e in parte del paziente, il che spiegava perché esso risultasse spesso tanto debilitante per entrambi; quando si cercava di guarire se stessi, si avevano però soltanto le proprie forze a cui attingere, il che significava che se non fosse stata estremamente attenta avrebbe corso il rischio di esaurire le proprie riserve e di uccidersi... cosa peraltro già successa ad altri Maghi. D'altro canto era difficile imporsi di avere pazienza, procedere con cautela e fermarsi di frequente per riposare, perché lei era acutamente consapevole che il fattore tempo giocava a suo sfavore e non poteva evitare di chiedersi cosa stesse succedendo nel palazzo, e per quanto tempo fosse rimasta priva di sensi. Dal momento che la ferita stava ancora versando sangue fresco non poteva essere passato un tempo molto lungo, ma Harihn aveva detto che suo padre era deciso ad ucciderlo e se c'era di mezzo Sara le possibilità di sopravvivenza di Anvar sarebbero state altrettanto scarse. Costringendosi a non indulgere in questi pensieri ri-
prese il proprio lavoro, in quanto soltanto così poteva avere una possibilità di aiutare gli altri. Un passo dopo l'altro, lavorando più in fretta che poteva, riparò il danno e ricostruì con pazienza e fatica la carne e i muscoli lacerati, consapevole che un errore commesso a causa della fretta avrebbe potuto rovinarle per sempre l'arto. E finalmente concluse il procedimento! A titolo di esperimento provò a muovere il braccio e la spalla, desiderando invano di avere del tempo per far riposare i tessuti appena riparati, e decise che per quanto l'arto non fosse ancora come nuovo sarebbe servito allo scopo e si sarebbe poi ripreso del tutto con il tempo. Indubbiamente il risanamento aveva però smorzato le sue energie e adesso lei si sentiva spossata al punto che avrebbe voluto restare a dormire su quel pavimento freddo e sporco per dare al proprio corpo il tempo di riprendersi, cosa peraltro impossibile in quella situazione. Badando a non correre il rischio di sforzarsi eccessivamente e di non riuscire poi a rientrare nel proprio corpo, protese quindi la propria essenza verso l'esterno alla ricerca delle scintille di consapevolezza umana che avrebbero indicato la presenza delle guardie. Non si era ancora allontanata di molto dalla sua cella quando incontrò una struttura di pensiero che le fece balzare il cuore nel petto per la gioia: Shia! Il grande felino era imprigionato nella cella adiacente la sua e i suoi pensieri erano ribollenti d'ira. «Erano in troppi ed hanno usato delle reti!» ringhiò la fiera, ed Aurian poté avvertire la sua sofferenza mentre lei continuava a lottare contro le maglie che l'avviluppavano. «Pazienza» la calmò. «Ti libererò io... però adesso resta immobile e non attirare l'attenzione.» «D'accordo» ringhiò con riluttanza Shia, «ma quando mi avrai liberata quegli uomini saranno carne per i miei denti!» Aurian non trovò da obiettare a quella richiesta e si concentrò invece per trovare un modo per uscire dalla cella, rimpiangendo di aver indebolito i propri poteri nel risanamento in quanto il senso di urgenza che la divorava era ormai tale che avrebbe voluto abbattere la porta con una sola scarica di energia. D'altro canto... di nuovo si mise alla ricerca delle guardie, appurando che erano una dozzina e che secondo il più puro stile mercenario si erano raccolte nella sala di guardia al livello superiore, lontano dal gelo e dal fetore della segreta. Su quel piano ce n'era soltanto una, che si trovava vicino alla curva del passaggio e alla base delle scale, pronta a dare l'allarme se qualcosa si fosse mosso. Ciò che più la soddisfece fu però avver-
tire la presenza rabbiosa e spaventata di numerosi altri prigionieri che occupavano diverse celle lungo il passaggio e che lei si augurò essere le guardie di Harihn, imprigionate là sotto perché non fossero d'impiccio. Infine si avvicinò senza far rumore alla porta della cella, e invece di abbatterla violentemente... cosa che non solo le era fisicamente impossibile ma avrebbe anche fatto accorrere le guardie di Xiang e rischiato di far crollare il basso soffitto... concentrò invece il potere che le rimaneva per manipolare la serratura, esaminandone i meccanismi logori e rigidi con la propria sensibilità di guaritrice come se si fosse trattato di sondare una ferita. Ben presto scoprì che bastava esercitare pressione in un paio di punti, e concentrò la propria volontà su di essi. La serratura arrugginita si aprì e subito Aurian s'irrigidì, pronta a combattere e chiedendosi se la guardia avesse sentito qualcosa. Con suo sollievo... misto a disgusto per tanta disattenzione... l'uomo non parve essersi accorto di nulla e lei ne approfittò per spingere il battente appena di quanto bastava per sgusciare all'esterno, al fine di evitare che i cardini arrugginiti potessero stridere... poi avanzò di soppiatto nel basso passaggio dalla volta arcuata desiderando invano di poter riavere la sua tenuta da combattimento, perché quella veste sottile le sarebbe stata d'impaccio in uno scontro ed era al tempo stesso mutile a proteggerla dal freddo intenso che regnava nella segreta e che le stava già penetrando nelle ossa, irrigidendole i muscoli. Adesso poteva vedere il profilo dell'uomo di guardia stagliarsi sullo sfondo della luce gialla delle torce che ardevano ai piedi della scala: quell'idiota le stava dando le spalle e guardava con malinconico desiderio in direzione della scala che portava alla calda sala delle guardie invece di tenere sotto controllo il corridoio che avrebbe dovuto sorvegliare. Il braccio di Aurian gli passò improvviso intorno alla gola nella rapida e letale presa di soffocamento che Maya le aveva insegnato tanto tempo prima, ma non avendo mai ucciso prima di allora a mani nude lei non riuscì a reprimere un brivido di disgusto allorché l'uomo scivolò al suolo con la trachea schiacciata e gli occhi dilatati e fissi. Serrando i denti, si costrinse a perquisire in fretta il corpo che ancora si contraeva per sottrargli la spada, il coltello e le chiavi, evitando al tempo stesso di incontrare lo sguardo pieno di accusa di quegli orribili occhi fissi, poi tornò indietro di corsa lungo il corridoio in direzione della cella di Shia, piena di sollievo per essersi lasciata alle spalle il macabro frutto del proprio operato. Allorché Aurian tagliò i legami che lo trattenevano, il grosso felino e-
splose in una frenesia di movimento come una molla appena liberata, ma ricadde subito su un fianco perché gli arti intorpiditi rifiutarono di reggere il suo peso. Inginocchiandosi per massaggiare le zampe fredde della fiera, Aurian rifletté che sebbene le imprecazioni non sembrassero fare parte del vocabolario mentale di Shia, la lunga sequenza di ringhi e di soffi che lei stava emettendo era abbastanza simile ad una serie di invettive umane da strapparle un sorriso. «Ascoltami» le disse infine. «Non appena ti potrai reggere di nuovo in piedi, va' alla base delle scale e sorveglia il corridoio mentre io tiro fuori di cella gli altri prigionieri.» «Quegli uomini!» esclamò Shia, con una luce selvaggia negli occhi. «Non quelli» precisò Aurian. «Non appena avrò liberato gli uomini buoni, ti prometto che ci occuperemo di quelli cattivi.» «Quali uomini buoni?» ribatté Shia, contrariata. «Fidati di me» tagliò corto Aurian, poi l'abbracciò e la spinse fuori della cella, avviandosi nella direzione opposta per liberare gli altri prigionieri. Un sommesso mormorio di voci nervose le permise di individuare la prima delle celle occupate. «Chi c'è lì dentro?» sussurrò, provocando una cessazione immediata di ogni suono. «Io sono Yazour, capitano della guardia del Khisal. Tu chi sei?» replicò una voce giovane ma salda e decisa nonostante il fatto che il suo proprietario fosse imprigionato e alla dubbia mercé del suo crudele re. «Sono Lady Aurian, la maga del Khisal» sussurrò di rimando Aurian, provocando all'interno della cella un frenetico borbottio che venne affrettatamente messo a tacere da Yazour. «Signora, puoi liberarci?» chiese questi. «Sua Altezza ha estremo bisogno di noi.» Senza perdere tempo Aurian aprì la porta, lottando un poco con la pesante serratura, poi ricordò tardivamente che quei Mortali non sarebbero riusciti a vedere nulla nel passaggio buio e accese con un noncurante cenno della mano una torcia in parte consumata infilata in un anello fissato alla parete. «Come hai... Signora, queste sono cose proibite» la rimproverò una voce severa, ed Aurian si trovò di fronte il capitano delle guardie, riconoscibile dai gradi sulle spalle della tunica, che la stava fissando con aria di disapprovazione. «Se vuoi salvare il Khisal non è certo il momento di fare lo schizzinoso»
ribatté in tono secco Aurian, apprezzando poi il brusco cenno di assenso con cui lui accettò le sue parole. Sfilato il grosso mazzo di chiavi dalla serratura, Yazour mandò uno dei suoi uomini lungo il passaggio ad aprire le altre celle, dimostrando così di possedere una mente pratica. Come il suo principe, anche Yazour appariva giovane per la posizione di responsabilità che rivestiva, dal momento che non c'era traccia di grigio nel lunghi capelli scuri fermati in una coda sulla nuca, ma il suo comportamento severo e il suo sguardo franco e diretto promettevano una riserva notevole di coraggio e di buon senso. Aurian non ebbe però il tempo di approfondire il suo esame perché in quel momento una figura massiccia si fece largo a gomitate fra i soldati. «Bohan! Grazie agli dèi stai bene!» esclamò Aurian, alzandosi in punta di piedi per abbracciare il colosso, sul cui volto apparve un sorriso stupito e deliziato al tempo stesso. Alcune lacerazioni da spada sulle braccia e parecchi lividi indicavano che il gigante aveva venduto la propria libertà a caro prezzo, ma lui non pareva essere stato indebolito da quelle lesioni superficiali e restituì l'abbraccio con forza tale da incrinare le ossa. «Arriva qualcuno!» avvertì nitida la voce di Shia nella mente di Aurian. «Eliminalo» replicò lei. «Senza far rumore, se ti è possibile.» «Con piacere!» Dal fondo del passaggio giunse un rumore improvviso seguito dal silenzio più assoluto. «Cos'è stato?» chiese Yazour, in tono tagliente. «Il Demone dell'arena si è occupato di una delle guardie di Xiang. Sarà meglio avvertire i tuoi uomini che quella fiera è dalla nostra parte.» «Per il Mietitore!» mormorò Yazour, sgranando gli occhi. La lotta nella sala delle guardie fu sanguinosa ma breve. Aurian mandò avanti Shia, che si scagliò nella stanza in un vortice di zanne e di artigli, scatenando il caos e la distruzione fra gli inorriditi soldati di Xiang; Aurian seguì quindi il felino insieme a Yazour e ai suoi uomini, che s'impadronirono in fretta delle armi dei caduti e di quelle immagazzinate nella stanza, procedendo poi ad aprirsi un varco attraverso i corridoi del palazzo, allargandosi a ventaglio per meglio abbattere senza pietà ogni avversario in cui s'imbattevano lungo il percorso in quanto era vitale che non rimanesse in vita nessuno che potesse andare ad avvertire Xiang di quello che stava succedendo. Infine arrivarono ai livelli superiori del palazzo e imboccarono il lungo corridoio che portava alla camera delle udienze, scoprendo infine per quale motivo fino a quel momento avevano incontrato un'opposi-
zione tanto scarsa: il corridoio infatti pullulava di guardie armate. «Xiang deve essere là dentro» sussurrò Yazour, dopo aver lanciato una rapida occhiata da dietro un angolo. «Adesso che si fa? Non attraverseremo mai un simile sbarramento senza dare l'allarme» gemette Aurian, indotta dalla stanchezza a scoraggiarsi con facilità e al tempo stesso nauseata da tanto spargimento di sangue; inoltre la grande scimitarra ricurva di cui si era munita le riusciva difficile da maneggiare perché troppo diversa dalla dritta lama a doppio filo preferita dal suo popolo, ed era tutt'altro che facile imparare una tecnica di scherma del tutto nuova in una situazione in cui si stava mettendo a repentaglio la vita. D'un tratto Bohan la tirò con urgenza per un braccio e indicò nella direzione da cui erano venuti. «Vuoi dire che c'è un altro ingresso?» domandò Aurian, cercando di decifrare i suoi gesti, e il muto annuì vigorosamente. «Ma certo, le cucine» mormorò allora Yazour. «C'è un passaggio che da esse porta direttamente alla sala delle udienze in modo da permettere di servire speditamente il cibo.» Approntando in tutta fretta un piano decisero che Aurian, Bohan, Shia e un piccolo gruppo di soldati avrebbero seguito il percorso delle cucine per fare irruzione nella sala, mentre Yazour e i suoi uomini avrebbero atteso il loro segnale per sferrare un attacco frontale contro le guardie poste a protezione delle porte principali, poi Aurian radunò il suo gruppetto e sgusciò via. Nelle cucine un gruppo di servi terrorizzati era tenuto sotto sorveglianza da una mezza dozzina di guardie del Khisu, ma se Aurian si era aspettata di ricevere aiuto da loro le sue speranze andarono subito disilluse in quanto non appena lo scontro ebbe inizio i servi ne approfittarono per fuggire, tenendosi alla massima distanza possibile dalla guerriera dai capelli di fiamma e dal suo feroce Demone. Impegnata com'era a difendersi da due soldati che parevano decisi a farla a pezzi, Aurian poté soltanto augurarsi che quei servi non decidessero di fuggire in direzione della sala del trono con il risultato di tradire la loro presenza. Con il respiro affannoso, indietreggiò verso la porta e cercò di difendersi come meglio poteva con la goffa scimitarra di cui era dotata... poi la figura incombente di Bohan torreggiò alle spalle dei suoi assalitori e una grande mano calò intorno al collo di ciascuno, bloccandoli in modo che Shia potesse avanzare per sventrarli a colpi di artiglio.
«Questo sì che è divertimento» commentò il felino, rivolto ad Aurian. «Sono lieta che ti stia divertendo» replicò lei, a fatica, concedendosi un momento per riprendere fiato. Adesso le cucine avevano l'aspetto di un mattatoio, l'abito ridicolo e inconsistente che Harihn le aveva dato era inzuppato di sangue e un rapido conto dei corpi rivelò che tutti i nemici erano morti... insieme a due dei loro soldati. Rattristata da quelle perdite, Aurian convocò a sé i superstiti e seguì con loro Bohan oltre una porta nascosta nell'ombra di un'alcova che si trovava in fondo alla cucina. All'estremità opposta del passaggio non c'erano porte, soltanto una rampa di gradini che portava alla sala del trono e finiva a ridosso di un'arcata chiusa da una pesante tenda. Spostando con cautela il tendaggio da un lato di quanto bastava per sbirciare nella stanza. Aurian scoprì di trovarsi quasi direttamente alle spalle del trono, una posizione da cui poteva vedere Harihn saldamente bloccato fra due guardie e paralizzato dal terrore. Qualsiasi timore di poter essere scorta risultò però superfluo perché in quel momento tutti gli sguardi erano fissi su uno spazio sgombro ai piedi di Xiang. dove Anvar era inginocchiato con le mani legate, gli occhi serrati e il volto esangue per il terrore, mentre una figura vestita di nero incombeva su di lui brandendo una spada sollevata. «Adesso!» urlò Aurian. Subito Shia la oltrepassò di scatto e raggiunse il Khisu con un solo balzo, appiattendolo al suolo con il proprio peso e chiudendo le possenti fauci intorno alla sua gola. «Gettate le armi! Se qualcuno si muove il Khisu morrà!» gridò quindi Aurian, sentendo al tempo stesso arrivare dal corridoio il clangore dello scontro selvaggio impegnato da Yazour e dai suoi uomini contro le guardie di stanza all'esterno della sala. Con un cenno indicò quindi ai propri uomini di entrare nella stanza per disarmare le guardie di Xiang, e per quanto desiderasse correre da Anvar s'impose invece di avvicinarsi allo sconcertato principe e d'inchinarsi profondamente, intravedendo mentre lo faceva la figura di Yazour che si affacciava per un momento alle porte principali per indicare che tutto stava procedendo per il meglio. «Vostra Altezza» affermò quindi, con voce limpida, «oggi tu hai rifiutato di servirti della magia per conquistare il trono, ed ora io ti offro di ottenerlo con mezzi Mortali. Basta una sola parola e tu diventerai il nuovo Khisu.»
Harihn la fissò per un momento, cercando di assimilare la svolta imprevista presa dagli eventi, e quando lei gli rivolse un cenno di conferma infine si avvicinò al padre con un improvviso sorriso sulle labbra. Seguendolo, Aurian vide che adesso il volto di Xiang era contorto dal terrore e che la sua abituale espressione crudele sembrava essersi trasferita sul volto del figlio... un mutamento che la indusse a sentirsi sgomenta del proprio operato. «Allora, padre mio, come ci si sente nei panni di vittima?» chiese Harihn. «A mia madre sarebbe piaciuto vederti in queste condizioni.» «Figlio mio, ti supplico...» balbettò Xiang, che per il terrore aveva perso il controllo della vescica, come indicava una chiazza scura che si stava allargando sul pavimento. «Per favore...» Osservandolo, Aurian non ebbe dubbi su quanto gli fosse costato pronunciare quella parola. «Stai implorando, padre?» insistette Harihn, con un bagliore nello sguardo. «Oh, questo mi piace. Implora ancora.» «Figlio mio... per favore. Farò qualsiasi cosa...» D'un tratto Harihn gli volse le spalle con espressione disgustata. «No!» gridò, e parve che quella singola parola gli venisse strappata dai recessi più profondi dell'anima, poi riportò a fatica la voce sotto controllo e si girò verso i presenti, continuando in tono piatto: «Io non voglio il trono, perché oggi ho imparato fin troppo bene quanto il potere possa corrompere. Il potere della stregoneria...» precisò, scoccando una fredda occhiata in direzione di Aurian... «il potere reale» continuò, guardando con disprezzo prima suo padre e poi Sara, «e il potere che un uomo ha su un altro» concluse, abbassando lo sguardo sull'atto di proprietà di Anvar che temeva ancora appallottolato in mano. «Padre, puoi tenerti il tuo trono e la tua vita... se giuri che a me e alla mia gente sarà permesso di lasciare senza pericolo questa terra. Non ti preoccupare... non tornerò indietro. Sei pronto a giurare?» «Hai la mia parola» annuì il Khisu... ma Aurian notò il bagliore di disprezzo apparso nel suo sguardo e ritenne che avesse ceduto troppo prontamente. «Un momento» intervenne, ancora sconvolta dal rifiuto da parte di Harihn di impadronirsi del trono, poi si spostò in modo da entrare nel campo visivo del Khisu e aggiunse: «Xiang, non mi sento per nulla sicura che manterrai la tua parola.» Di fronte a quell'affermazione Xiang distolse lo sguardo con evidente di-
sagio, dandole la conferma dei propri sospetti; riflettendo in fretta, Aurian assunse allora l'espressione più minacciosa di cui era capace. «Al fine di garantire la sicurezza del Khisal, pongo la mia maledizione su di te e su tutti gli abitanti della tua terra» dichiarò, sentendo echeggiare alle spalle dei sussulti inorriditi. «Cosa stai facendo?» stridette Harihn. «Soltanto questo. Finché il Khisu manterrà la sua parola a nessuno accadrà nulla di male, ma se dovesse infrangerla tutto il suo regno e il suo popolo saranno consumati dal fuoco. I raccolti bruceranno nei campi, gli occhi avvizziranno, la carne si scioglierà e tutti periranno nella più atroce agonia. Hai sentito le mie parole, Xiang?» «Le ho sentite» replicò lui, con voce che grondava veleno. «Allora ricordale bene, onde evitare che ciò che ho detto si possa verificare.» Il Khisu annuì, fissandola con occhi roventi, ma Aurian sapeva di averlo ormai in pugno. «Ancora una cosa» non seppe trattenersi dall'aggiungere. «Ritengo che per il futuro tu debba diventare un sovrano migliore, il che significa che non ci saranno altri giochi crudeli: l'arena verrà immediatamente chiusa e tutti gli schiavi saranno posti in libertà.» «Cosa?» ruggì Xiang, dimenticando sulla spinta dell'ira la pericolosità della sua posizione. Ad un cenno di Aurian le fauci di Shia accentuarono impercettibilmente la loro stretta e il Khisu emise un suono soffocato, scivolando poi in un cupo silenzio. «Ti terrò d'occhio, Xiang» mentì Aurian. «Per quanto lontana possa essere ti sorveglierò. Ricordalo... e rammenta che la maledizione è soltanto sospesa e che si abbatterà su di te se dovessi infrangere il giuramento. Shia, lascialo alzare» aggiunse ad alta voce, a beneficio del presenti. «Ho del lavoro da fare. Vattene, Xiang, e porta con te i tuoi soldati. Shia provvederà a scortarvi fuori della tenuta.» «Vuoi dire che non posso ucciderlo?» protestò in tono petulante il felino. «Temo di no.» «Non è giusto!» brontolò la fiera, allentando con riluttanza la presa e continuando a fissare il Khisu con occhi roventi. Per quanto terrorizzata dalla vicinanza del Demone Nero e della strega straniera, una delle guardie si affrettò ad aiutare il suo sovrano a sollevarsi dai resti del trono, e nel notare la cosa Aurian pensò che quello era un uo-
mo coraggioso. Sara, che per tutto quel tempo era rimasta in silenzio, si alzò per seguire Xiang. scoccando al tempo stesso ad Aurian un'occhiata che grondava odio... ma prima che potesse uscire dalla sala venne intercettata da Anvar, che nel frattempo era stato liberato da Bohan. «Sara, aspetta, adesso sei libera e non sei obbligata ad andare con lui» implorò il giovane, con voce che tremava per il sussistere della speranza di scoprirla innocente nonostante tutto ciò a cui aveva assistito. Oh, dèi, possibile che non riesca ad accettare la realtà di fatto neppure adesso? pensò con avvilimento Aurian. «Stolto» lo derise Sara, fissandolo con estremo disprezzo. «Pensi davvero che verrei con te... un semplice servitore... uno schiavo... quando posso essere una regina?» Anvar sussultò come se lei lo avesse colpito in pieno viso. «Dunque avevo ragione a non fidarmi di te» affermò poi, in tono sommesso. «Quando hai detto di amarmi ancora mentivi.» Sara scoppiò in una risata stridula, penetrante e crudelmente beffarda. «E tu mi hai creduto, come sapevo che avresti fatto! Ho agito così perché mi tornava comodo e perché te lo meritavi, per avermi abbandonata nelle mani di quella macellala di levatrice e di quel rospo di un mercante. E adesso dovrei venire con te? Sei patetico, Anvar... striscia a nasconderti dietro le gonne della tua padrona: lei ti apprezza, mentre io ti disprezzerò fino al giorno della mia morte.» Gli occhi di Anvar s'indurirono fino ad assumere la tonalità gelida del cielo invernale. «Aspetta!» ingiunse, in un tono così aspro e imperioso che Sara si volse lentamente, a bocca aperta per lo stupore, mentre lui proseguiva in tono freddo e sardonico: «Hai commesso uno spiacevole errore, Sara. Nella tua arroganza sembri aver dimenticato un importante dettaglio: adesso Xiang non ha più un erede... e si aspetterà che tu gliene fornisca un altro.» Sara impallidì fino a tingersi in volto di un colore spettrale fra il verde e il bianco, poi cominciò a tremare e parve quasi rimpicciolire per lo svanire della sua altezzosità. Mordendosi un labbro, protese quindi le mani in un gesto supplichevole. «Anvar, io...» «No, Sara, non questa volta, non più. Hai avuto quello che desideravi, ora spetta a te destreggiarti in questa situazione» la interruppe Anvar, con voce inflessibile come l'acciaio. «Vattene, Sara, va' dal re che hai tanto de-
siderato e comincia a pensare ad un modo per ingannarlo come hai ingannato Vannor e me... però farai meglio a spicciarti!» Con il volto contorto per l'ira Sara si ritrasse come un serpente e gli sputò in volto, poi si girò con un vorticare di gonne dorate e seguì Xiang. Non appena fu uscita, Anvar si lasciò cadere in ginocchio con il volto trasformato in una maschera di angoscia e Aurian si affrettò a raggiungerlo per dargli conforto, perché anche se era rimasta sconcertata e perplessa di fronte a quello strano dialogo fra lui e Sara, sapeva che questo non era il momento di porre domande bensì di offrire sostegno ed era sgomenta per il cupo vuoto che poteva scorgere nei suoi occhi. «Per favore» sussurrò lui, in tono angosciato, «lasciami solo.» Poi le volse le spalle e nascose il volto fra le mani mentre Aurian indietreggiava, rispettando il suo stato d'animo: nel vederlo ripudiare Sara aveva provato un moto di orgoglio nei suoi confronti, ma sapeva quanto gli fosse costato. Prosciugata di ogni energia, si mise a sedere per terra accanto a lui... e un momento dopo una mano le calò sulla spalla. «Aurian!» chiamò Harihn, sovrastandola con un'espressione gelida quanto la sua voce. «Cosa c'è?» sospirò lei, poi si issò in piedi sentendosi indegnamente maltrattata: considerato che gli aveva appena salvato la vita, infatti, il principe non sembrava certo sopraffatto dalla gratitudine e la stava invece fissando con i pugni serrati e il volto scarlatto per l'ira. «Cagna mentitrice!» gridò il principe. «Grazie alle tue macchinazioni oggi ho perso un trono. Ingrato serpente! Come hai potuto ingannarmi, inducendomi a credere che questo infimo schiavo fosse tuo marito?» Aurian sussultò, chiedendosi come avesse fatto Harihn a scoprire la verità. «Per il Mietitore, pagherai per questo!» inveì il principe, protendendo una mano per afferrarla e sollevando l'altra per colpire. «Lasciala in pace!» ingiunse Anvar, venendosi a porre fra loro. «Lei non ti ha mentito, Altezza: io sono suo marito.» «Cosa?» stridette Harihn. «Vuoi dire... che è vero?» Aurian non era meno stupita del principe: perplessa e grata cercò con il proprio lo sguardo di Anvar, che nel frattempo le passò un braccio intorno alle spalle con fare possessivo. «Certo che è vero» dichiarò. «Sara ha mentito a tutti... o forse ti aspettavi che rivelasse a Xiang di averlo tradito? Inoltre Aurian non ti ha fatto
perdere un trono... invece te lo ha offerto e tu lo hai rifiutato, quindi credo che tu debba alla mia signora delle scuse... e i tuoi ringraziamenti per averti salvato la vita.» «Io... ti chiedo scusa» mormorò Harihn, con lo sguardo basso, mostrandosi improvvisamente svuotato. «Avrei dovuto sapere che era vero. Il fatto stesso che tu riesca a parlare la nostra lingua come fa lei... questo significa che anche tu sei un Mago?» Aurian sussultò... erano successe tante cose che non si era ancora soffermata su quel particolare... e con la coda dell'occhio vide Anvar impallidire. «No» si affrettò a rispondere, «e non so come faccio a parlare la vostra lingua. Credo che Aurian possa avermi trasmesso questo talento con l'incantesimo che ha usato per riportarmi indietro dalla morte. Adesso cosa farai, Altezza? Aurian può aver spaventato momentaneamente tuo padre, ma non possiamo aspettarci che l'effetto delle sue minacce duri a lungo.» Aurian lo guardò con espressione un po' seccata, ma lui fece in modo di evitare il suo sguardo e questo la insospettì, inducendola a chiedersi per quale motivo Anvar avesse cambiato così in fretta argomento. E tuttavia... lui non era un Mago! Certo la spiegazione che aveva appena fornito poteva essere la sola plausibile. «Distruggeresti davvero i Khazalim con la tua maledizione?» chiese intanto Harihn, con timore. «Anche se ho rinunciato al trono questo è pur sempre il mio popolo... lo avresti davvero annientato se mio padre avesse rifiutato di giurare?» «Per gli dèi, no!» esclamò Aurian, con un sorriso malizioso. «Non avrei saputo neppure da che parte cominciare, però Xiang non lo sa.» Il principe si mostrò al tempo stesso sollevato e stupito, poi scoppiò a ridere. «Sei... sei assolutamente impossibile!» dichiarò. «E quello che le ripeto sempre» commentò Anvar, scrollando le spalle, «ma cosa ci posso fare?» «Segui il mio consiglio e picchiala più spesso. La sua abitudine di prendere il controllo delle situazioni è del tutto sconveniente in una donna.» «Mi sembra una buona idea» annuì Anvar, ignorando l'espressione indignata di Aurian, che s'infuriò ulteriormente quando Harihn prese sul serio quell'affermazione. «Benissimo» disse. «Adesso ho molte cose a cui provvedere se vogliamo partire prima del tramonto. Credo che mi dirigerò al nord, perché il
popolo di mia madre potrebbe accogliermi presso di sé, se riusciremo ad oltrepassare le terre del Popolo del Cielo. Voi verrete con me, vero? Da soli non riuscireste mai ad attraversare il deserto.» «Credo che questa la soluzione migliore... vero, cara?» replicò Anvar, e quando si girò a fissarla con un bagliore divertito nello sguardo Aurian comprese che si stava vendicando per la menzogna che lei aveva detto sul suo conto. «Ma certo, mio caro» ribatté con dolcezza, trattenendo l'impulso di sferrargli un calcio. Nel suo intimo però si sentiva sollevata, perché adesso che aveva ritrovato Anvar e recuperato i suoi poteri non poteva permettersi di sprecare altro tempo in queste terre; d'altro canto aveva bisogno dell'aiuto di Harihn ancora per qualche tempo ed era sgradevolmente consapevole di non aver ancora ripagato il debito contratto con lui. «Grazie per avermi appoggiata» disse ad Anvar, dopo che Harihn se ne fu andato. «Era il meno che potevo fare» replicò lui, scrollando le spalle. «Devi aver avuto le tue ragioni, se hai mentito al principe.» «Ragioni molto valide! Harihn mi voleva come concubina... il che è ciò che la legge prescrive da queste parti per una donna priva di un uomo che la protegga. Nell'arena ero rimasta gravemente ferita e lui mi ha salvato la vita... e poiché ero impotente senza i miei poteri, avevo bisogno del suo aiuto per trovarti, quindi sono stata costretta a mentire. Harihn non mi ha lasciato alternative.» «Vuoi dire... non posso crederlo!» esclamò Anvar, accigliandosi. «Lui... lui ha... quel bastardo...» Vedendolo prossimo a soffocare per l'ira, Aurian gli posò una mano sul braccio. «No, non mi ha toccata perché gli ho parlato di te» lo tranquillizzò. «Comunque non credo che la cosa gli sia andata a genio.» «Sarà meglio che ci si abitui... e in fretta!» dichiarò lui, con espressione tanto fiera che Aurian non poté trattenere un sorriso. «Ti ringrazio, Anvar» mormorò, commossa dal suo sostegno, «però dobbiamo essere cauti perché per tornare al nord avremo bisogno dell'aiuto di Harihn nell'attraversare il deserto, e dal momento che lui ha il sostegno dei suoi soldati siamo nettamente inferiori di numero.» «Per gli dèi, che situazione. Un momento... questo significa che anche Sara è stata costretta a... a...»
Anvar, mi dispiace, pensò Aurian, consapevole che per il suo bene doveva essere di una franchezza brutale. «L'hai vista oggi, hai sentito quello che ha detto. Sara sta agendo di sua libera scelta. Anche lei avrebbe potuto servirsi di Xiang per trovarti, come io ho fatto con Harihn, ma era troppo impegnata a portare avanti le sue ambizioni, e se oggi avesse potuto fare a modo suo adesso tu saresti morto. Che genere di donna farebbe mai una cosa del genere all'uomo che l'ama?» «È ciò che ho pensato anch'io» annuì Anvar con un brivido, facendosi cupo in volto. CAPITOLO VENTOTTESIMO FUGA DA TAIBETH Con il trascorrere delle ore pomeridiane il cortile del palazzo di Harihn si trasformò in un caos assoluto, in quanto tutta la servitù era impegnata nei preparativi per la partenza. Botti e otri d'acqua venivano prelevati da cantine e magazzini per essere portati al fiume e riempiti in previsione della traversata del deserto, leggere tende di seta venivano arrotolate intorno ai loro pali di sostegno e ammucchiate in un angolo, pronte ad essere caricate sui muli che erano stati impastoiati in una lunga fila su un lato del cortile, e nel frattempo si stava provvedendo ad approntare anche le scorte di viveri e di foraggio per gli animali, mentre i soldati della guardia del principe si aggiravano per il cortile con i loro cavalli, contribuendo soltanto ad aumentare la confusione. Sulla base dell'editto di Aurian, il principe aveva messo in libertà i suoi schiavi, ma anche se alcuni di essi sarebbero rimasti in città per cercare di rintracciare amici e familiari perduti da tempo, la maggior parte aveva scelto di seguire il suo principe in esilio. Harihn era rimasto commosso da tanta fedeltà, ma al tempo stesso l'organizzazione necessaria per attraversare il deserto con un gruppo di persone così numeroso si stava rivelando un vero incubo e lui era in movimento continuo, quasi stesse cercando di trovarsi contemporaneamente in due posti diversi, mentre tutt'intorno c'erano persone che si accomiatavano, schiavi che festeggiavano la libertà acquisita e persone che vagliavano i loro averi, cercando di fare rinunce dolorose in quanto sapevano che era necessario viaggiare con poco carico. Ad un certo punto un cavallo cedette al panico di fronte a quella confusione e si lanciò al galoppo attraverso il cortile, sparpagliando persone e oggetti a destra e a sinistra.
Nell'uscire nel cortile Anvar si coprì gli orecchi per proteggersi dal rumore. Con sua estrema irritazione il principe aveva convocato Aurian alla sua presenza per farsi aiutare nel lavoro di organizzazione, impedendole di concedersi il riposo che le era assolutamente necessario; adesso lei stava parlando con Harihn. ed era possibile sentire come si sforzasse per farsi sentire al di sopra dei chiasso generale. «Comincia a traghettare i soldati e in cavalli dall'altra parte del fiume» stava dicendo. «In questo modo otterrai almeno un po' più di spazio e questo ci permetterà di mettere ordine in tutto il resto.» Harihn annuì con gratitudine e andò a parlare con il capitano delle sue guardie. Traghettare sull'altra riva il centinaio di soldati con le loro cavalcature richiese un certo tempo, ma come Aurian aveva previsto questo fornì un più ampio spazio di manovra ai servi e rese più facile assegnare i compiti a ciascuno. Ben presto il cortile venne sgombrato anche da coloro che non avrebbero partecipato all'esodo e i muli ormai carichi furono traghettati uno dopo l'altro. Adesso che era più facile contare le teste di quanti erano rimasti, Harihn si mostrò però di colpo preoccupato, e Anvar lo sentì conferire di nuovo con Aurian quando venne a raggiungerli accompagnato da Bohan. «Ci sono una quarantina di persone del mio seguito che verranno con noi ed è necessario fornire loro dei cavalli; poiché ci servono anche degli animali per trasportare le scorte di cibo e di acqua, questo ci lascia con poche cavalcature di scorta e un margine di sicurezza minimo: dovremo attraversare il deserto prima che le provviste di acqua e di cibo si esauriscano, ma al tempo stesso non dovremo tenere un'andatura tale da correre il rischio di perdere i cavalli.» «Nel deserto non c'è nessuna possibilità di procurarsi dell'acqua?» domandò Aurian. «Ci sono dodici oasi, e ci serviranno tutte» replicò Harihn. «È un viaggio che richiede molti giorni anche seguendo il percorso più breve, ed è impossibile sperare di portarsi dietro tanta acqua da farla durare fino alla fine dell'attraversata.» Intanto Anvar li raggiunse insieme a Bohan. Adesso che lo avevano liberato dal collare di ferro camminava più eretto, sebbene il peso di quel simbolo di schiavitù fosse stato insignificante rispetto a quello che ora gli gravava sul cuore. «Come ci si sente ad essere liberi?» domandò il principe, girandosi verso di lui.
Anvar sentì la provocazione presente nel suo tono e comprese che Harihn lo stava deliberatamente punzecchiando ricordandogli al sua precedente condizione di schiavo. «Trovo il cambiamento molto piacevole» ribatté quindi con freddezza, omettendo di proposito il titolo di Harihn. «In effetti molte cose sono cambiate in poco tempo» convenne questo in tono disinvolto, anche se Anvar ebbe la soddisfazione di vedere il suo sorriso beffardo trasformarsi in un'espressione accigliata. «In un solo giorno tu hai cessato di essere uno schiavo ed io di essere un principe. La tua Signora è davvero una grande livellatrice di uomini.» «Se non altro adesso non sarà costretta a diventare la tua concubina!» scattò Anvar. «No!» si affrettò a intervenire Aurian. «Non intendeva mancarti di rispetto, Altezza, e sono certa che si scuserà.» Al tempo stesso scoccò un'occhiata ammonitrice ad Anvar e i loro sguardi cozzarono in uno scontro di volontà: Anvar stava però scoprendo dentro di sé una nuova e insospettata cocciutaggine che lo indusse a serrare le labbra in un'inconsapevole espressione di rifiuto. «Per favore» sillabò in silenzio Aurian, girando il capo in modo che Harihn non potesse scorgere il movimento delle sue labbra, e nel vederla così stanca e sconvolta Anvar si vergognò improvvisamente di se stesso, consapevole com'era che quel giorno lei non aveva certo bisogno di altri guai. «Mi dispiace, Altezza» borbottò, con un sospiro. «Ecco, è tutto risolto» commentò Aurian. A giudicare dall'espressione del volto di Harihn la cosa era però tutt'altro che risolta, ma per fortuna in quel momento furono interrotti da Yazour, che accompagnò da loro due persone. «Eliizar! Nereni!» esclamò Aurian, illuminandosi per la gioia e correndo ad abbracciare i due coniugi. «Altezza, queste persone hanno chiesto di parlare con la str... la Signora» riferì il capitano. «Non ti ho già visto da qualche parte?» domandò il principe ad Eliizar, che si stava inchinando profondamente davanti a lui. «Io sono... ero... il maestro d'armi dell'arena. Altezza» rispose Eliizar. «Adesso però il Khisu ne ha ordinato la chiusura e la città brulica di dicerie e di agitazione. Abbiamo appreso che Lady Aurian sta per recarsi nel nord con te, e poiché un tempo ci aveva offerto di andare con lei siamo ve-
nuti a porci al suo servizio, se ci vuole ancora.» «Ma certo! Miei cari amici, sono così contenta di rivedervi e di certo possiamo accogliere altre due persone... non è così, Harihn?» domandò Aurian, in tono supplichevole. «Pare che tu stia raccogliendo un tuo fedele seguito personale, Signora» commentò il principe, accigliandosi. «Prima il mio eunuco e quel pericoloso animale, poi il tuo scortese marito e adesso il maestro d'armi dell'arena. Se rimarrai qui ancora per qualche tempo finirai per diventare Khisihn tu stessa.» «Però non rimarrò qui, e neppure tu» replicò in tono secco Aurian, «e al tuo posto sarei grata di avere a disposizione una buona lama in più, Harihn. Eliizar, Nereni, siamo lieti di avervi con noi. Quanto a me, non ho mai dimenticato la vostra gentilezza.» «Ho una cosa da darti» affermò Eliizar, consegnandole il suo prezioso bastone che era rimasto all'arena e di cui lei si era dimenticata nel corso della degenza e della successiva preoccupazione per Anvar. «Per tutti gli dèi!» esclamò Aurian. «Eliizar, non sai quanto sono grata di riaverlo!» «Vedo che hai ritrovato anche tuo marito» commentò il maestro d'armi, guardando in direzione di Anvar. «È troppo prezioso per essere soltanto un marito» osservò Nereni. con un bagliore malizioso nello sguardo, poi si rivolse ad Anvar e aggiunse: «Sei un uomo fortunato. Sai che lei è stata tormentata dalla preoccupazione per te per tutto il tempo che è rimasta all'arena? Sono davvero contenta che ti abbia ritrovato.» Anvar rimase interdetto: Aurian aveva detto anche a quelle persone che lui era suo marito? E si era davvero preoccupata tanto per lui? Sapendo quanto ancora soffrisse per la morte di Forral, non faticava ad immaginare quanto dovesse esserle costato mentire. «Anch'io sono lieto che mi abbia ritrovato» dichiarò, cercando invano di incontrare lo sguardo della Maga. «E convengo con te... sono un uomo molto fortunato.» «È tempo di partire» intervenne Harihn, con voce tesa, e si allontanò con passo rigido. Vincendo la resistenza di Aurian, Anvar la prese per un gomito e la guidò verso un'arcata che si apriva nel muro del cortile e si affacciava sullo splendido panorama offerto dal fiume, dalla città e dalle erte alture rosse sulla riva opposta. Scarlatta in volto per l'imbarazzo, Aurian pareva deside-
rare che il terreno si aprisse per inghiottirla. «Anvar, mi dispiace» si scusò in tutta fretta, guardando dovunque pur di non incontrare il suo sguardo. «Non c'è bisogno che ti scusi, Signora: ti sono grato... e mi sento molto onorato.» «Allora capisci?» chiese Aurian, scoccandogli un'occhiata penetrante. «Lady Aurian» intervenne Eliizar, inchinandosi per scusarsi di averli interrotti, «il Khisal manda a dire che è ora di partire. Sembra molto irritato.» «D'accordo» sospirò Aurian. «Bohan ha i nostri cavalli. Dal canto suo, Anvar avrebbe voluto avere a disposizione un po' più di tempo solo con lei, ma comprese che per il momento doveva rinunciarci.» Il gruppo del principe fu l'ultimo ad essere traghettato sulla riva opposta per unirsi ai soldati e agli altri membri del suo seguito che sembrava e in effetti era un piccolo esercito, con i soldati schierati intorno ai servi e ai muli con il bagaglio, costituito prevalentemente dalle scorte d'acqua in quanto per necessità i pasti sarebbero stati ridotti al minimo durante tutta l'attraversata. Yazour, che era un veterano dei viaggi nel deserto, si portò in testa alla colonna e indirizzò un sorriso ad Aurian nel rivolgersi al principe. «Altezza, dobbiamo muoverci adesso che abbiamo a disposizione ancora un po' di luce diurna, perché la strada dell'altura è pericolosa al buio» affermò. La colonna si allontanò quindi dal guado, oltrepassando la manciata di case bianche che costituiva la periferia di Taibeth. In giro non si vedeva nessuno perché gli abitanti, avendo sentito le incredibili dicerie che si stavano diffondendo con la rapidità di un incendio, si erano precipitati in città per scoprire cosa stava succedendo. A partire dal fiume il terreno cominciò a salire gradualmente, poi la strada si divise e il ramo di destra si diresse verso la capitale, mentre quello di sinistra prese ad inerpicarsi verso le alture incombenti. Ben presto le case si fecero sempre più rade, inframezzate da campi ora deserti e tinti di rosso dai bagliori del tramonto ormai prossimo, il cui avvicinarsi portò un'espressione preoccupata sul volto di Yazour: il tempo cominciava a scarseggiare. Quando scorse per la prima volta la strada dell'altura, Aurian si lasciò sfuggire un sussulto di sgomento perché essa appariva larga a stento quanto bastava per far passare un singolo cavaliere e si snodava tortuosa avanti e indietro, letteralmente intagliata nell'erta facciata di roccia rossa e così in
pendenza che in alcuni tratti su di essa erano stati intagliati bassi gradini al fine renderla meno ripida; in altri punti la strada pareva sospesa su un vertiginoso precipizio, e in altri ancora svaniva all'interno dell'altura, attraversando striate colonne di roccia per riemergere sul lato opposto. Yazour aveva già mandato avanti il primo contingente di soldati, che sembravano adesso mere formiche impegnate a scalare quella gigantesca opera della natura. «Se ci vuoi precedere, Altezza...» suggerì il capitano, venendo a raggiungere il principe. «No.» «Devi cominciare l'ascesa adesso che c'è ancora un po' di luce, mio signore» insistette Yazour, accigliandosi. «Se il Khisu dovesse...» «Yazour, qui ci sono donne e bambini. Pensi davvero che dovrei andare a mettermi al sicuro lasciandoli a cercare la strada nel buio? Manda avanti la mia gente e questa Signora: il Khisu non tenterà nessuna imboscata, se ha a cuore i suoi interessi» aggiunse, scoccando un'occhiata ad Aurian. «Ma, Altezza...» protestò ancora il capitano. «Obbedisci ai miei ordini, Yazour. Adesso!» Yazour si allontanò con lo sgomento dipinto sul volto, riflettendo che da quando si era imbattuto nella Maga il principe si era fatto più aspro... possibile che lei lo avesse stregato? Subito dopo respinse però quelle sciocche supposizioni, perché nel breve tempo in cui avevano combattuto fianco a fianco aveva imparato a rispettare quella donna... anzi, ad ammirarla e a trovarla simpatica. Il cambiamento dipendeva soltanto dal fatto che Harihn stava finalmente agendo come si conveniva ad un principe e ad un uomo. «Ben detto, Altezza» approvò intanto Aurian, affiancando il proprio cavallo a quello nero del principe, «tranne per un particolare: io aspetterò insieme a te.» «Ma, Signora...» «Non discutere. Harihn» lo interruppe lei, fissando ancora una volta l'erta strada e sentendosi fisicamente male al pensiero di doverla percorrere, tanto che le mani strette intorno alle redini le si fecero gelide e sudate mentre aggiungeva: «Quando m'inerpicherò lassù l'ultima cosa che voglio è vedere il precipizio. Anzi, non sono neppure sicura di potercela fare» aggiunse, con una smorfia di irritazione per quella sua irrazionale paura. «Aurian!» protestò il principe. «Andrà tutto bene» intervenne accanto a lei la voce quieta e familiare di Anvar, piena di comprensione. «O almeno questo è ciò che tu hai detto a
me sulla spiaggia, ricordi?» Aurian rammentò le lezioni di nuoto che gli aveva impartito e il suo terrore dell'acqua... e come lei si fosse infuriata al punto di desiderare di poterlo annegare sul posto. «Se io ce l'ho fatta, puoi riuscirci anche tu» le garantì Anvar. «Io ti sarò vicino, se avrai bisogno di me.» Aurian ebbe l'impressione che il suo turno di cominciare l'ascesa fosse giunto anche troppo presto, sebbene nel frattempo il sole fosse tramontato e il fondo della valle si fosse ammantato di profonde ombre purpuree, mentre le rocce rosse dell'altura splendevano ancora della luce carminia del tramonto. Giunti ai piedi della stretta pista smontarono di sella e Yazour porse a ciascuno una torcia che gli rischiarasse la strada. «Una mano per reggere la torcia e l'altra per guidare il cavallo» gemette Aurian, accettando la propria con riluttanza. «Come farò a sorreggermi in caso di bisogno?» «Il sentiero è più ampio di quanto sembri, mia Signora» le disse Yazour. «Tieniti lontana dall'orlo e tutto andrà bene.» «Splendido» commentò con voce flebile Aurian, scoccandogli una cupa occhiata. «Non ti preoccupare» la rassicurò Anvar. «Andrò avanti io e tu potrai seguirmi. Bada soltanto di non guardare in basso e non ti succederà nulla.» Mordendosi un labbro Aurian cominciò l'ascesa: il sentiero era abbastanza uniforme e le torce illuminavano soltanto le immediate vicinanze con il risultato di lasciare l'abisso sottostante immerso nel buio, ma nonostante questo Aurian badò a tenere lo sguardo distolto dal precipizio, fissandolo sul terreno davanti ai propri piedi e cercando di non pensare al volo nel vuoto che era in agguato appena più a sinistra. La vera difficoltà consisteva nel superare le brusche svolte dove il sentiero si snodava a zig zag: all'improvviso i quarti posteriori del cavallo di Anvar scomparvero oltre una di quelle svolte e davanti a lei non rimase più nulla tranne il vasto abisso sottostante. Sarebbe bastato mettere un piede in fallo nel percorrere quella svolta... Aurian indietreggiò barcollando, e si appiattì contro la confortante solidità della parete di roccia, incapace di muoversi. Impaziente di seguire il suo compagno, il cavallo la urtò con il muso, spingendola più vicino all'abisso e facendole quasi cadere di mano la torcia. «Smettila!» stridette Aurian, tremando per lo shock e con il cuore che le martellava in gola... e colpì con violenza il muso dell'animale, inducendolo
a indietreggiare di un passo con gli occhi dilatati per lo stupore. «Cosa succede lassù? Perché vi attardate?» chiese la voce di Harihn, da un punto più basso del sentiero. «Non essere debole» si rimproverò allora Aurian, traendo un profondo respiro. «Se Anvar è riuscito a vincere la paura dell'acqua di certo tu puoi superare questo!» L'unica cosa sicura era che nessuno poteva venire in suo aiuto perché il sentiero davanti e dietro di lei era ostruito dai cavalli. «Va tutto bene!» gridò di rimando, desiderando che fosse vero. Mantenendo la schiena premuta contro la roccia si spostò quindi un passo dopo l'altro fino a superare la svolta, seguita a rispettosa distanza dall'avvilito cavallo. Non appena ebbe superato la curva e si trovò di nuovo davanti il sentiero in tutta la sua solidità, si sentì prossima a svenire per il sollievo... ma la salita era ancora lunga, e lei stava facendo attardare gli altri. Serrando le labbra in una linea dura sollevò la torcia e riprese a camminare. L'ascesa si rivelò estenuante. In totale c'erano nove spaventose curve da superare prima di arrivare in cima, e quanto più salirono in alto tanto più i cavalli divennero recalcitranti e nervosi; al tempo stesso le gambe e la schiena di Aurian cominciarono a dolere a tal punto che ogni passo si trasformò in una tortura e il suo respiro si fece affannoso. A mano a mano che procedeva, l'abisso si spostò dal suo lato sinistro al destro e poi viceversa ad ogni contorsione della pista, e il solo momento in cui lei ebbe un po' di respiro fu quando il sentiero penetrò nell'altura stessa, fiancheggiato per un breve tratto da pareti di solida roccia. Due volte durante la salita lei sentì urla agghiaccianti provenire dall'alto e vide uomini e cavalli precipitare nell'abisso, passandole pericolosamente vicini per poi andare a colpire il terreno con un suono nauseante. «Aurian! Stai bene?» Lei si guardò intorno con espressione stordita, scoprendo una distesa di terreno pianeggiante davanti a sé e su ogni lato... era arrivata in cima! Con gentilezza, Anvar le tolse di mano la torcia e le redini del cavallo, consegnando entrambe a Bohan, poi le circondò le spalle con un braccio e la condusse lontano dal limitare dell'abisso; un volta all'ombra delle rocce che delineavano la pista Aurian si aggrappò a lui con disperazione, cingendogli il collo con le braccia e nascondendo il volto contro la sua spalla, e Anvar la tenne stretta a sé finché smise di tremare e il suo respiro fu tornato regolare. «Ti avevo detto che potevi farcela» mormorò, solleticandole un orecchio
con il proprio respiro, e Aurian contorse il volto in una smorfia nell'incontrare il suo sguardo. Fermo sul limitare dell'altura, Harihn stava contemplando per l'ultima volta la terra su cui avrebbe dovuto regnare: in città erano in corso dei festeggiamenti e fuochi d'artificio si levavano nell'aria come stelle comete argentee che esplodevano a formare giganteschi fiori rossi, oro e verdi nel cielo notturno; un chiarore altrettanto intenso al livello del terreno indicava i mercati degli schiavi che stavano bruciando. «Rimpianti, principe?» domandò Aurian, che gli si era avvicinata silenziosamente seguita da Anvar. «Se vuoi tornare, sono certa che il popolo ti accoglierà a braccia aperte.» «Non me la sento di avviare una rivoluzione» replicò lui, scuotendo il capo, «e poi quel posto contiene soltanto ricordi spiacevoli. Adesso la mia strada è altrove, e senza dubbio Xiang si procurerà un nuovo erede.» «Non con questa regina» osservò Anvar. «Cosa intendi dire?» domandò Harihn. girandosi di scatto verso di lui. «Altezza, ciò che intendo dire è che Sara... la Khisihn... è sterile» replicò Anvar, con un'espressione rovente negli occhi. «Ha mentito a tuo padre come ha mentito a me. Attualmente, tu sei il solo erede reale e un giorno potrai tornare indietro... se lo vorrai.» «Sei sicuro?» insistette Harihn, sgranando gli occhi. «Assolutamente sicuro, Altezza.» «Aurian, tu lo sapevi?» La Maga scosse il capo, altrettanto sconvolta dalla notizia data da Anvar, poi il principe gettò indietro il capo e scoppiò a ridere. «Per il Mietitore!» esclamò con maligno divertimento. «Che bello scherzo a spese di mio padre! Vorrei poter essere presente quando lo scoprirà.» Evidentemente anche i pensieri di Anvar avevano seguito la stessa falsariga, e nel vedere la sua espressione contorta Aurian infine comprese cosa lui avesse inteso dire nel respingere Sara: quando Xiang avesse scoperto la sua sterilità lei avrebbe cessato di essergli utile e la sua vita avrebbe potuto essere in pericolo... e pur avendo infine scorto la sua vera natura, Anvar si sentiva colpevole per averla abbandonata alla sua sorte. Aurian non poté fare a meno di chiedersi se lui l'amava ancora, e al tempo stesso rimase perplessa per l'irritazione che questo le causava. Intanto la carovana aveva assunto di nuovo la sua formazione e il viaggio riprese lungo il sentiero che adesso si snodava fra alte formazioni di roccia trasformate dall'erosione in strane sculture contorte che le facevano
somigliare ad una foresta di pietra. Alcune di quelle rocce erano attraversate da buchi di svariate dimensioni che incanalavano il vento leggero creando fischi e ululati simili al lamento di anime torturate e che avevano l'effetto di far sussultare nervosamente i cavalli. Dopo circa un'ora il sentiero parve cessare all'improvviso, scomparendo nel nulla fra due alte pietre oltre le quale si stendeva un erto pendio cosparso di massi che sembrava scintillare in modo strano alla luce della luna. Al di là di esso, infine, si allargava il deserto. Aurian, che procedeva in testa alla carovana insieme ad Harihn, a Yazour e ad Anvar, trattenne il respiro per l'incredulità di fronte a quello spettacolo. «Per il Grande Chathak!» esclamò con voce soffocata. «Si tratta davvero di quello che penso?» Il deserto brillava sotto la luce della luna crescente, e il vento sollevava cortine di sabbia scintillante tinta di opache sfumature rosse, azzurre, bianche e verdi, mentre i costoni delle dune riflettevano il chiarore lunare con bagliori simili a quelli emessi dalla brina sotto la luce dell'alba. La luminosità era così intensa che lei fu costretta a ripararsi gli occhi con una mano anche se la luna aveva appena cominciato a levarsi nel cielo. «È ciò che pensi» annuì Yazour, in risposta alla domanda di cui lei si era già dimenticata. «L'intero deserto è composto di gemme e di polvere di gemme. Vedi quanto è luminoso? È per questo che dobbiamo viaggiare di notte, perché alla luce del giorno un simile bagliore ci brucerebbe gli occhi. Dovremo accamparci per tempo prima che faccia giorno, in modo che tutti siano al riparo quando sorgerà il sole.» Mostrò quindi ad Aurian e ad Anvar come velarsi gli occhi con le estremità pendenti del copricapo da deserto di cui tutti erano muniti, tirandosi sul volto il velo sottile come garza e fissandolo sul lato opposto della banda che cingeva la fronte, e quando ebbe finito l'operazione Aurian scoprì che la stoffa non le impediva di vedere con chiarezza ma riduceva notevolmente il bagliore. Si provvide quindi a fasciare gli occhi di cavalli e muli con pezzi di stoffa dello stesso tipo, ma Shia rifiutò di prestarsi a simili assurdità, ancora irritata per essere stata costretta a salire l'altura per ultima al fine di evitare che potesse spaventare i cavalli. «Non ho bisogno di trucchi umani» disse ad Aurian, con disprezzo. «Io sono un felino, i miei occhi si adeguano.» La carovana proseguì la sua marcia in mezzo allo scintillante mare di gemme; i cavalieri erano simili a spettri vaganti con i loro chiari copricapi velati e le ampie vesti adatte per il deserto, e gli zoccoli delle cavalcature
sollevavano una fine polvere di gemme che creava alle loro spalle una scia che brillava come fuoco freddo e ricopriva i cavalli e chi li montava di un manto di luce scintillante. Mentre si chiedeva quali gemme potessero mai racchiudere una simile abbagliante luminosità, Aurian si sentì stringere la gola da un nodo di commozione perché come la gioiosa bellezza delle balene che balzavano fra le onde anche la spettrale bellezza di quel luogo possedeva una qualità ultraterrena e di un'intensità intollerabile. Da Yazour apprese però poi che il deserto poteva essere anche letale, perché in certe stagioni si scatenavano nell'arco di pochi momenti violente tempeste di sabbia, durante le quali gli acuminati frammenti di gemme spinti dal vento erano in grado di staccare la carne dalle ossa di un uomo; inoltre, si diceva che quel mare di gemme avesse la caratteristica di attirare i draghi. «I draghi?» sussultò Aurian. «Qui ce ne sono?» «Sono soltanto leggende» replicò Yazour. «secondo le quali i draghi vivevano nel deserto dove potevano trovare sostentamento con facilità. Sai che pare si nutrissero di luce solare?» «Che razza di storia!» esclamò Anvar, in tono di derisione. «Ci crederò quando lo vedrò, Yazour.» Continuarono la marcia per tutta la notte e ben presto furono tutti troppo stanchi per parlare... tanto stanchi che Aurian si sentì sollevata allorché Yazour lasciò scorrere lo sguardo sull'orizzonte che appariva sempre uguale e annunciò che era giunto il momento di accamparsi. Ridotta allo sfinimento, si chiese se era passato davvero appena un giorno da quando aveva ritrovato Anvar e lo aveva strappato agli artigli della morte, dato che da allora erano successe una quantità di cose, senza un momento di respiro; mentre formulava queste riflessioni scese da cavallo e nel rendersi conto di quanto fossero deboli le sue gambe fu lieta di non avere nessun compito da assolvere. Affidato il cavallo a Bohan, che si era subito materializzato al suo fianco, rimase a guardare i soldati di Harihn impegnati a montare le leggere tende di seta con grande rapidità ed efficienza, erigendo perfino dei ripari sotto cui picchettare cavalli e muli in quanto nessuna creatura vivente era in grado di sopravvivere allo scoperto nel deserto durante le ore diurne. Nella confusione che seguì Aurian perse di vista i suoi amici con la sola eccezione di Shia, che le rimase accanto come un'ombra; prelevata per entrambe la scarsa razione di cibo e di acqua, Aurian si avviò in cerca di Anvar, che trovò seduto in disparte sulla soglia di una piccola tenda, con una fiasca d'acqua posata accanto, il cibo che giaceva intatto ai suoi piedi e lo
sguardo che fissava senza vederlo il campo rischiarato dalle torce: notando la piega amara della sua bocca e l'espressione dolente sul suo volto meditabondo, Aurian accennò ad allontanarsi di soppiatto, riluttante a disturbarlo, ma Anvar parve ancora una volta percepire la sua presenza e si girò verso di lei. «Sai» disse, senza guardarla in volto, «neppure una volta mi hai rinfacciato i miei errori con un "te l'avevo detto".» «Piuttosto mi sarei tagliata la lingua!» protestò Aurian. «Perché avrei dovuto aumentare il tuo dolore?» «No, non sarebbe stato da te» sospirò Anvar. «Tu sei troppo giusta. Mi avevi avvertito sul conto di Sara, ma invece di darti ascolto ti ho allontanata da me... e guarda cosa è successo.» «Non avrei mai dovuto lasciarti solo, Anvar. È stata tutta colpa del mio dannato carattere, e non me lo perdonerò mai!» «Allora siamo in due» ribatté Anvar, cupo. «Perché non sono stato in grado di vedere di chi di voi due mi potevo fidare? Mentre attraversavamo il deserto ho riflettuto a lungo, su come hai sfidato Miathan per me, all'Accademia, e sulla tua gentilezza quando ero il suo servitore, e su come sei uscita nella neve la mattina del Solstizio per comprarmi una chitarra... ed io come ti ho ricambiata?» continuò, alzando il tono della voce pervasa di autoderisione. «Ti ho detto cose dolorose... ti ho allontanata da me... perché stavo difendendo Sara. E poi tu cos'hai fatto? Mi hai salvato dalla morte in un campo di schiavisti ed hai sostenuto che ero tuo marito, mentre lei ha cercato soltanto di farmi uccidere per poter essere una regina! Per gli dèi, sono davvero uno stupido, Aurian, un cieco, miserabile stupido!» esclamò, tremando per l'angoscia. Aurian lo circondò con le braccia, confortandolo come Anvar aveva fatto con lei sulla sommità dell'altura, e quando lui le appoggiò la testa sulla spalla gli accarezzò i fini capelli dorati. «Sai cosa farei se fossimo a Nexis?» mormorò. «Ti porterei a fare il giro di tutte le taverne della città e ti ridurrei più ubriaco di quanto tu lo sia mai stato in tutta la tua vita. Forral diceva sempre che era la medicina migliore per curare un cuore infranto.» Intanto verso est l'orizzonte stava cominciando a rischiararsi e ben presto il bagliore del deserto divenne tale da costringerli a rifugiarsi nella tenda; una volta dentro Aurian lasciò ricadere il telo d'ingresso in modo da escludere del tutto la violenta luminosità, e Anvar le rivolse un sorriso contrito. «Quando arriveremo nella prossima città sarò lieto di accettare la tua of-
ferta» disse, «ma devo confessare di non avere il cuore spezzato ma di sentirmi piuttosto deluso, umiliato e semplicemente furioso con me stesso per essere stato tanto credulone. Mi sento in colpa per esserti venuto meno» concluse, con una strana espressione sul volto. «Non ti tormentare per questo, Anvar... adesso è tutto finito» replicò Aurian, stringendogli la mano. «Sara era la fidanzata della tua infanzia, tu l'amavi e non potevi sapere quanto fosse cambiata. Adesso perché non cerchi di dormire un po'? Forse le cose non ti sembreranno più così brutte dopo che ti sarai riposato.» «Stai ricominciando a prenderti cura di me?» commentò lui, con un sorriso contrito. «Credevo che dovesse essere il contrario.» «Non ti preoccupare, verrà anche il tuo turno. Adesso dormi, se non vuoi che usi le maniere forti!» «Cosa farai... mi scatenerai contro quel mostro?» domandò Anvar, adocchiando con cautela Shia, che sembrava enorme nello spazio ridotto all'interno della tenda. «Non ti preoccupare per Shia. È una buona amica e si prenderà cura di entrambi» lo rassicurò Aurian, protendendo una mano ad accarezzare la testa della belva, che la ricompensò con un assonnato ronfare. «Lui mi piace» dichiarò il felino. «Davvero?» esclamò Aurian, sorpresa perché finora Shia non aveva fornito una valutazione del genere sul conto di nessuno, neppure di Bohan. «Piace anche a me.» Si girò quindi verso Anvar, che si era raggomitolato sui cuscini e stava già dormendo: sotto lo strato scintillante di polvere di preziosi che gli ricopriva il volto lui appariva teso e vulnerabile, oppresso dal dolore, e d'impulso Aurian protese la mano a toccargli con gentilezza una guancia.... e come già era successo nel recinto degli schiavi, il suo cuore parve rivoltarsi come un guanto, e qualcosa andò di colpo al suo posto con uno scatto. Subito ritrasse la mano come se si fosse bruciata, consapevole che quell'inesplicabile ondata momentanea di forza era di natura uguale a quella che aveva neutralizzato il potere dei braccialetti. Per un momento rimase del tutto immobile, stringendosi la mano in questione nell'altra e aspettando che il cuore smettesse di martellarle nel petto. «Lo hai avvertito anche tu?» chiese a Shia, a titolo di esperimento. «Avvertito cosa?» fu l'assonnata risposta del felino. «Non importa» replicò Aurian, cercando di riorganizzare i suoi pensieri in subbuglio... ma la sola cosa che le venne in mente fu l'immagine del
volto di Forral, tenero e luminoso come lo era stato la prima volta che si erano amati. Dolore e solitudine la trapassarono così dolorosamente da strapparle un grido soffocato, e per una volta lei cedette alle lacrime, continuando a piangere fino ad addormentarsi. In un momento imprecisato della lunga e luminosa giornata Anvar prese ad agitarsi e a gemere nella morsa di un incubo, poi la sua mano incontrò quella della Maga che nel sonno la serrò nella propria, dissolvendo di colpo la sua inquietudine. Fu così che li trovò Harihn al tramonto, stesi uno accanto all'altro mano nella mano, e per un lungo momento indugiò a fissarli con espressione accigliata. Quando però Shia aprì un occhio con aria assonnata il principe si affrettò a lasciare la tenda con passo rapido e silenzioso, riabbassando alle proprie spalle il telo d'ingresso, e poiché se n'era andato senza tentare di fare del male ad Aurian o ad Anvar, il felino tralasciò di parlare alla maga di quella visita. CAPITOLO VENTINOVESIMO TOPI DI FOGNA Il vecchio forno era così cambiato che se l'avesse visto Anvar non avrebbe mai riconosciuto in esso la dimora della sua infanzia, perché dopo che Ria era morta ogni cosa era andata per il verso sbagliato e Trol si era perso d'animo. La prospera bottega nella Galleria era andata distrutta dall'incendio che era costato la vita a sua moglie, e questo lo aveva costretto a tornare ad operare soltanto sulla base della vecchia e piccola bottega nel misero distretto operaio... ma senza Ria che provvedesse a tenere pulito il posto e senza il lavoro di Anvar le cose erano andate costantemente di male in peggio e nonostante gli sforzi fatti da Bern per salvare l'attività che un giorno lui avrebbe ereditato adesso il forno era in condizioni disastrose, con l'intonaco della facciata che si sgretolava, il tetto che aveva urgente bisogno di riparazioni, l'interno che avrebbe dovuto essere ripulito e le pareti che richiedevano una nuova mano di imbiancatura. Non c'è da meravigliarsi che abbiamo perso i nostri clienti, pensò con disgusto Bern, nel togliere dal forno le pagnotte per l'indomani in quanto Trol, ormai incupito e amareggiato, non si preoccupava più di alzarsi per tempo per preparare un'infornata fresca... una fatica che in effetti era alquanto sprecata, come rifletté Bern fissando con aria accigliata il pane stantio ammucchiato sul tavolo sottostante la finestra: nel distretto tutti sapevano infatti in che condizioni veniva preparato il pane un tempo famoso
di Trol, e nessuno era disposto a comprarlo. In quel momento l'oggetto dei cupi pensieri di Bern entrò nel panificio, accompagnato da una folata d'aria che fece divampare più alte le fiamme del forno e da un vorticare di fiocchi di neve che brillavano come scintille alla luce della lanterna che lui aveva in mano... necessaria in quanto il nuovo consiglio al soldo dei Maghi aveva decretato che non si doveva sprecare altro denaro per pagare i lampionai, con il risultato che il crimine prosperava nelle strade buie e i passanti erano costretti a portarsi dietro un mezzo d'illuminazione. «Una nottata orribile» grugnì Trol. «Dannato inverno!» «Pulisciti i piedi, papà!» esclamò Bern, pur sapendo prima ancora di aprire bocca che le sue parole erano inutili. Trol infatti le ignorò come sempre e cominciò ad accumulare le pagnotte stantie in un sacco che aveva prelevato nella stalla vuota. «Sto andando alla taverna» borbottò. «Harkas vuole questo pane per i maiali.» «No, papà, non farlo di nuovo!» protestò Bern. «Non possiamo andare avanti in questo modo. Se tu portassi a casa il denaro che Harkas ti dà, invece di spenderlo tutto per bere, forse potremmo permetterci di rimettere in buono stato questo posto in modo da preparare del pane adatto per delle persone e non per i maiali... e poi non è possibile che lui ti paghi abbastanza, considerato che è passato molto tempo dall'ultima volta che ti ho visto rientrare anche soltanto alticcio.» «Pensa agli affari tuoi, Bern.» «Devo pensare agli affari miei? Questa bottega è tutto quello che ho... che abbiamo... e tu stai permettendo che vada in rovina!» «E se anche fosse?» ritorse Trol, accigliandosi. «A cosa serve lavorare se quei dannati Maghi dissanguano la città? Pedaggi qui, tasse là... preferirei bruciare questo posto che versare un'altra moneta nelle casse dei Maghi!» Profondamente allarmato da quell'invettiva, Bern cercò di assumere un tono conciliante. «Senti, papà, perché non mi lasci venire con te, stasera? Mi andrebbe di bere una birra e forse fra tutti e due riusciremo ad estorcere ad Harkas un po' più di denaro in cambio del pane. Che ne dici?» «No!» esclamò Trol, con una violenza che colse Bern alla sprovvista, poi distolse lo sguardo con aria scaltra e aggiunse: «Non stanotte, Bern. Fuori c'è un tempo orribile e tu hai lavorato per tutto il giorno, quindi è i-
nutile che ti trascini in mezzo al fango e alla neve soltanto per tenermi compagnia. Riposati, invece, e scegli un'altra sera per venire con me.» Poi uscì prima che suo figlio avesse il tempo di reagire. «Cosa starà combinando?» borbottò Bern, concedendosi soltanto il tempo necessario per smorzare le fiamme del forno prima di gettarsi il mantello lacero intorno alle spalle e di lasciare la bottega con in mano una lanterna accesa per seguire le orme lasciate da suo padre sul terreno innevato. Intanto Trol stava gelando perché avendo una mano occupata dal sacco e l'altra dalla lanterna era impossibilitato a tenere chiuso il mantello che gli svolazzava intorno al corpo sotto il soffio del vento gelido; infreddolito, tentò infine di bloccare l'indumento ma riuscì soltanto a far cadere il sacco, con il risultato che le pagnotte rotolarono sul terreno gelato e lui dovette chinarsi a raccoglierle. «Dannato Vannor» imprecò fra sé. «Non so proprio perché continuo a fare questo, adesso che lui non ha più oro.» Naturalmente sapeva molto bene perché lo faceva: stava aiutando i ribelli di Vannor per puro e semplice odio nei confronti di quei dannati Maghi che avevano distrutto la sua famiglia, rovinato i suoi affari e devastato la sua esistenza... un carico di rancore al confronto del quale poche pagnotte stantie e un certo rischio sembravano un misero prezzo da pagare. Vannor aveva insediato il suo quartier generale nell'intricato sistema fognario cittadino, sfruttando una serie di gallerie costruite al di sopra di quelle principali al fine di garantire il deflusso delle piogge intense o della neve che si scioglieva. Più pulite delle fogne vere e proprie, quelle gallerie sarebbero rimaste abbastanza asciutte e ospitali fino al periodo del disgelo ed offrivano un rifugio accogliente; quanto al cibo e agli altri generi di prima necessità, essi venivano procurati di nascosto ai ribelli da alleati che vivevano in superficie. Il cunicolo di scolo che passava sotto la casa di Trol era stato scelto come base ideale perché il fornaio poteva considerarsi una persona fidata a causa del suo violento odio nei confronti dei Maghi e perché grazie al fatto che di solito il forno della bottega era quasi sempre acceso un po' di calore filtrava attraverso il terreno a migliorare la temperatura gelida del condotto. Karlek, che era stato un ingegnere militare della guarnigione, aveva creato un camino che andava a confluire con la canna fumaria del forno, in modo da permettere ai ribelli di accendere il fuoco senza che il suo fumo venisse notato in superficie, e naturalmente il panettiere portava loro con regolarità una scorta di pane. A conti fatti, si disse Trol, Vannor e i suoi uomini se la stanno cavando
piuttosto bene a mie spese. La strada da percorrere non era molta: Trol aggirò l'angolo della bottega e imboccò lo stretto vicolo che passava alle spalle del muro del cortile delle stalle, soffermandosi per precauzione a guardarsi intorno anche se nessuno imboccava mai quel vicolo a fondo cieco; posato per terra il sacco, procedette quindi a sollevare a fatica una grata che era inserita nell'acciottolato, poi prese con sé il pane e la lanterna e si calò nel cunicolo, protendendosi a rimettere a posto la grata alle sue spalle... il tutto senza rendersi conto che lo stavano osservando. Incapace di credere che suo padre fosse scomparso nella conduttura, Bern lasciò in fretta il proprio nascondiglio nell'ombra e raggiunse la grata in tempo per sentire la voce di Trol risuonare sommessa nell'oscurità sottostante. «Sono io. Devo parlare con Vannor: credo che mio figlio cominci a insospettirsi.» Bern s'irrigidì nel sentire il nome di Vannor, perché il mercante era stato dichiarato fuorilegge e correva voce per tutta la città che adesso stesse radunando un esercito per combattere i Maghi, poi impiegò pochi secondi per arrivare alle ovvie conclusioni... e alla soluzione dei suoi problemi: Trol sarebbe morto per il suo tradimento, cessando per sempre di essere d'impiccio, e lui avrebbe di certo incassato una ricompensa che gli avrebbe permesso di rimettere a posto la bottega. Rialzatosi in piedi di scatto si mise a correre, chiedendosi se doveva andare all'Accademia e decidendo che la guarnigione era più vicina e che i soldati avrebbero potuto sorprendere Trol insieme ai ribelli; prima di fornire le sue informazioni avrebbe però dovuto accertarsi di incassare la ricompensa perché il nuovo comandante della guarnigione, Angos, era un irascibile mercenario assoldato dai Maghi e talmente corrotto che sarebbe stato pronto a vendere sua nonna pur di trarne profitto. D'altro canto questo non aveva nessuna importanza se lui e le sue truppe gli avessero permesso di entrare in possesso della sua eredità. Con quel pensiero in mente Bern accelerò il passo, incurante della neve. «Ti dico che è viva!» ringhiò Miathan, calando in un gesto silenzioso e violento i pugni ossuti sullo spesso piumino che copriva il suo letto; al di sotto della benda che nascondeva gli occhi devastati, il suo volto era una contorta maschera d'ira. «Sei certa che lei non gli abbia fritto anche il cervello e non solo gli oc-
chi?» sussurro Bragar nell'orecchio di Eliseth. «Ti ho sentito!» esclamò Miathan, girandosi verso il Mago del Fuoco con assoluta precisione, poi sollevò una mano e dalle sue dita scaturì un gelido vapore nebbioso che si raccolse intorno ai piedi di Bragar, solidificando e assumendo la forma di uno scintillante serpente che cominciò a inerpicarsi lungo le gambe del Mago. Soffocando un urlo, Bragar tentò troppo tardi di reagire con frenetici gesti di protezione mentre il muso crudele del serpente arrivava al livello della sua faccia e snudava sibilando le zanne aguzze grondanti veleno. «Miathan, no!» si affrettò a intervenire Eliseth. «Lui non parlava sul serio!» «È vero, Arcimago! Io... ti chiedo scusa» aggiunse Bragar, con voce stridula e sottile. Il serpente scomparve e Miathan scoppiò in una risata sprezzante che s'interruppe a mezzo con sconvolgente subitaneità. «Allora, cos'hai intenzione di fare al riguardo?» chiese l'Arcimago ad Eliseth. «Riguardo a Bragar?» chiese la Maga del Clima. «No, stupida donna! Riguardo ad Aurian! Lei sta tornando qui, per me... per tutti noi! Perseguita i miei sogni e in essi la vedo venire a cercarci con la morte negli occhi...» «Com'è possibile, Arcimago?» protestò Bragar. «Aurian è annegata nella tempesta creata da Eliseth. Noi tutti abbiamo avvertito un...» «Non è stato abbastanza intenso!» scattò l'Arcimago. «Non come quando quell'idiota di Davorshan si è fatto uccidere!» Eliseth sussultò, e Miathan accolse quella sua reazione con un'altra risata chiocciante. «Oh, sapevo tutto su di te e su di lui fin dall'inizio. Posso anche essere cieco, ma non mi sfugge molto di quello che accade qui intorno.» «Questo non ha importanza» ritorse Eliseth, in tono secco e furente. «Aurian è morta. Che differenza fa se abbiamo avvertito a stento il suo trapasso? Non è una cosa sorprendente, dal momento che eravamo separati dall'oceano... per non parlare del panico scatenato dal suo attacco contro di te.» «Sei una stolta, Eliseth» dichiarò Miathan. «Aurian è viva, costituisce una minaccia per tutti noi, e se vogliamo conservare quello che abbiamo conquistato, sarà necessario intercettarla. E poi cosa mi dici di quel dannato Anvar?» proseguì, serrando le mani simili ad artigli intorno al cristallo
che portava al collo. «So che lui è sopravvissuto alla tua goffa tempesta.» «Chi accidenti è Anvar?» intervenne Bragar. «Non ne ho idea» replicò Eliseth, guardandolo con aria sconcertata. «Lui era il servitore personale di Lady Aurian» interloquì da un angolo della stanza la voce rispettosa di Elewin, di cui gli altri avevano dimenticato la presenza perché era ormai abituale vederlo impegnato a servire devotamente il suo signore. «Il mio signore l'Arcimago non ha mai avuto simpatia per il povero Anvar» proseguì il servitore, «anche se lui era il ragazzo più diligente che io abbia mai...» «Taci!» sibilò Miathan. «Sì, era il suo servitore anche se questo andava contro i miei desideri. Lo voglio morto, capite? Voglio vedere la sua testa su una picca, il suo cuore strappato dal corpo ancora vivo! Il suo cadavere fatto a pezzi e spappolato sul terreno! Voglio...» «Adesso calmati, Arcimago» mormorò Eliseth, porgendogli una coppa di vino. «Ti prometto che Bragar ed io ci occuperemo di Aurian e del suo servo.» «Non Aurian, imbecille! Voglio che lei mi venga portata qui viva, la voglio...» Miathan s'interruppe, umettandosi le labbra in maniera lasciva, e si perse nei propri pensieri, mentre Eliseth troncava con un cenno la protesta che Bragar era stato sul punto di profferire. «Non ti preoccupare, Arcimago» disse quindi la Maga del Clima. «Puoi lasciare senza preoccupazione la cosa nelle mostre mani. Resta con lui, Elewin» ordinò quindi, poi prese Bragar per mano e lo trascinò con decisione lontano dal letto. Dopo averli scortati alla porta con un inchino, Elewin tornò al capezzale di Miathan. «Altro vino, Arcimago?» domandò, sfilando la coppa dalla stretta di Miathan. Prelevata di tasca una bustina di carta, versò nel vino la polvere verdastra in essa contenuta e restituì la coppa a Miathan, chiedendo: «Così va meglio, Arcimago?» «È buono» approvò Miathan, dopo aver svuotato la coppa. «Non riconosco l'annata ma è molto buono...» Un momento più tardi si accasciò all'indietro sui cuscini russando lievemente, e dopo avergli tolto la coppa di mano Elewin accantonò ogni traccia di atteggiamento ossequioso, affrettandosi a seguire i Maghi al piano di sotto e soffermandosi ad origliare dietro la porta di Eliseth, con l'orecchio premuto contro il pannello di legno.
La camera dipinta di bianco occupata da Eliseth era spaziosa e spartana, arredata in modo elegante ma frugale e scomodo... e Bragar si contorse a disagio sulla rigida sedia di legno, desiderando che Eliseth non persistesse nel presentare al mondo una così gelida facciata. Lui sapeva infatti che la camera da letto celata dietro le porte all'estremità della stanza era un nido lussuoso dal pavimento coperto di tappeti e dalle pareti rivestite di tendaggi di seta, un tempio profumato dedicato alla sensualità e al piacere. Quel pensiero gli ricordò in modo sgradevole il fatto che da quando Eliseth aveva cominciato a interessarsi a Davorshan a lui era stato negato ripetutamente l'accesso a quel santuario personale, motivo per cui aveva accolto con piacere la notizia della morte di quel viscido giovane. «Vino?» chiese Eliseth, prelevando due boccali da un armadietto di legno. «Non hai qualcosa di più forte?» chiese il Mago del Fuoco. «Stai bevendo troppo, Bragar!» lo rimproverò Eliseth, levando gli occhi al cielo. «Come posso fare affidamento su di te se il tuo cervello è perennemente offuscato?» «Taci e dammi da bere!» ringhiò Bragar, pensando fra sé che un giorno le avrebbe fatto pagare il modo in cui era solita trattarlo, e che quando avesse finito lei avrebbe implorato misericordia... o gli avrebbe chiesto di continuare! Quella riflessione gli fu di qualche conforto, insieme al boccale che Eliseth gli stava porgendo con fare riluttante. «Allora, cosa ne pensi» chiese la Maga, spezzando il filo delle sue riflessioni. «Non che chiedertelo serva a qualcosa» aggiunse poi, prendendo posto su una sedia accanto al fuoco, con il boccale di vino in mano. «È un vero peccato che tu non abbia nessun altro da interpellare» ribatté Bragar, incapace di trattenersi dal provocarla in merito alla morte di Davorshan, ed ebbe la soddisfazione di vederla incupirsi in volto per l'ira mentre lui proseguiva: «Cosa posso dire? È evidente che il cervello di Miathan è stato danneggiato dall'attacco da parte di Aurian. Come potrebbe lei essere ancora viva?» «Non ne sono certa» obiettò però Eliseth, accigliandosi. «Ricordi quanta intimità c'era fra lei e l'Arcimago? Lui più di ogni altro dovrebbe sapere con certezza se Aurian è davvero morta o meno.» «Stupidaggini! Quel vecchio idiota ha perso il senno, e tu lo sai. Dovremmo porre fine alle sue sofferenze e assorbire i suoi poteri.» «Bragar, hai il cervello di un bue!» scattò Eliseth. «L'Arcimago ci serve
come uomo di paglia, perché ha reso inattaccabile la sua posizione quando ha fatto circolare la voce di essere l'autore diretto della distruzione dei Nihilim. Per adesso siamo riusciti a far eleggere quel rospo di Narvish come rappresentante dei mercanti presso il consiglio e Angos è solo uno stupido mercenario disposto a fare qualsiasi cosa in cambio di denaro, ma nessuno dei due reggerebbe a lungo nella sua posizione se non fosse spalleggiato da Miathan, perché è soltanto il timore che i Mortali nutrono nei confronti dei suoi poteri a mantenere la città in nostra mano!» «Se lui è soltanto un uomo di paglia, perché noi dobbiamo scattare ogni volta che schiocca le dita?» obiettò Bragar. «In linea di massima non facciamo nulla di simile» replicò Eliseth, sorseggiando il vino. «Se però esiste una possibilità che Aurian sia sopravvissuta non possiamo correre il rischio di ignorarla e di vederla tornare. Può darsi che Miathan la voglia viva, ma io no, ed ho riflettuto parecchio sulla situazione. Sappiamo che lei era in navigazione ed io conosco la potenza e la direzione della tempesta da me evocata... direi che se è ancora viva si deve trovare nei Regni Meridionali.» «Nel sud? Anche se avessimo uomini a sufficienza non potremmo mandare un contingente abbastanza numeroso da riuscire a trovarla in quelle terre» protestò Bragar. «I Meridionali la considererebbero un'invasione, e attualmente una guerra è l'ultima cosa di cui abbiamo bisogno, senza contare che si suppone che quei popoli siano ostili ai Maghi. Se Aurian si trova là il nostro problema finirà per risolversi da solo.» «Perché fare affidamento sul caso, quando abbiamo altri mezzi a nostra disposizione?» osservò Eliseth, fissandolo con espressione astuta, e Bragar comprese che voleva indurlo a chiederle cosa avesse inteso dire, per poi poterlo accusare di nuovo di stupidità. Rifiutandosi di abboccare all'esca trangugiò invece il contenuto del proprio boccale e andò a riempirlo di nuovo. «Hai sempre avuto un'elevata opinione di te stessa» commentò soltanto. «Come osi!» esclamò Eliseth, abboccando al suo amo. «Io sono il solo Mago del Clima esistente al mondo, e se scatenerò su di esso i miei poteri il sud sarà fortunato a conservare qualche abitante, per non parlare della fine che farà quella cagna dai capelli rossi. Ho visto alcune mappe» proseguì con maggiore calma. «I Regni Meridionali hanno un'enorme catena montuosa e vasti deserti, e perfino delle giungle, se ci si spinge abbastanza a sud. Con una topografia del genere è facile produrre un clima violento, e una tempesta di sabbia nel posto giusto o una bufera fuori stagione sulle
montagne dovrebbero bastare a risolvere il nostro problema, senza contare che infliggerebbero un duro colpo alle razze del meridione, predisponendole ad essere conquistate» aggiunse in tono persuasivo. «Eliseth, non puoi farlo!» esclamò Bragar, sussultando così violentemente da rovesciare parte del brandy sul pavimento di piastrelle bianche. «In questo modo altererai il clima dappertutto e dopo ci potrebbero volere secoli per ripristinare l'equilibrio.» «E allora?» ribatté Eliseth, scrollando le spalle. «Che importanza ha se perderemo qualche migliaio di Mortali a causa delle tempeste o della carestia? Ridotti di numero saranno più facili da controllare e comunque noi non avremo problemi di sorta grazie all'incantesimo preservante di Finbarr: ordineremo ad Elewin di accumulare scorte di cibo nelle catacombe e con l'incantesimo lo preserveremo a tempo indefinito. Sarà facile, dato che adesso abbiamo poche bocche da sfamare.» Di fronte a quel ragionamento spietato Bragar rimase al tempo stesso impressionato e sgomento. Un tempo era stato lui ad istigare i loro complotti, ma adesso che era giunto il momento di agire invece che di parlare stava scoprendo di trovarsi sempre più fuori dal suo elemento, perché un conto era parlare di magia negativa e tutt'altra cosa era trovarsi di fronte a quelle cose uscite dal Calderone, la cui vista aveva minato la sua sicurezza di sé. Assalito dal ricordo orribile degli Spettri trangugiò d'un sorso il liquore, chiedendosi come potesse Eliseth essere tanto composta: la sua forma snella appariva delicata e fragile quanto una lancia di ghiaccio, e tuttavia lei prosperava in situazioni che a lui facevano agghiacciare il sangue. La sua precedente visione di un'Eliseth sottomessa e conquistata evaporò di colpo di fronte alla consapevolezza che stava perdendo terreno. Adesso la sua unica speranza era quella di assecondarla e di aspettare che si spingesse al di là dei suoi limiti, perché allora sarebbe finalmente giunto il suo turno. «Forse hai ragione...» cominciò a dire, decidendo di cambiare tattica, ma di colpo s'interruppe nel percepire un formicolio d'avvertimento alla base del collo e un fugace accenno di movimento all'esterno. Rovesciando la sedia per l'impeto di muoversi, raggiunse d'un balzo la porta e la spalancò. «Bragar, cosa stai facendo?» domandò Eliseth. Il Mago del Fuoco scrutò la scala vuota e richiuse la porta, scuotendo il capo con perplessità. «Mi era parso...» Appiattito contro la parete oltre la curva della scala, Elewin esalò il re-
spiro che aveva finora trattenuto, emettendo un lungo sospiro di sollievo... ci era mancato poco! Per un momento prese quindi in considerazione l'idea di tornare ad origliare, ma poi decise che era inutile correre degli altri rischi dal momento che aveva già sentito abbastanza e doveva trasmettere ad altri le informazioni in suo possesso. Scesa in fretta la scala uscì dalla torre e dopo le molte ore trascorse nella calda camera di Miathan rabbrividì all'impatto con l'aria gelida: quel dannato inverno sembrava protrarsi all'infinito, tanto da indurre a chiedersi se sarebbe mai giunta la primavera. Mentre lui era impegnato ad occuparsi dell'Arcimago altra neve era scesa ad ammantare di bianco il terreno, ma adesso il cielo notturno era limpido e la temperatura si era abbassata notevolmente, tanto da ghiacciare la neve fresca che adesso scricchiolò sonoramente sotto i suoi stivali mentre lui attraversava il cortile scoccando occhiate nervose in direzione della finestra illuminata di Eliseth. Se lo avessero sentito e si fossero affacciati non sarebbe mai riuscito a trovare una spiegazione plausibile per essersi dovuto recare nella biblioteca, soprattutto a quell'ora della notte, considerato che ormai Miathan non aveva più bisogno di libri. Da quando Finbarr era morto la biblioteca era buia e fredda, gli incantesimi di preservazione che richiedevano di essere rinnovati di frequente erano in fase di dissoluzione e al suo ingresso Elewin fu accolto da un suono frusciante simile a quello delle fronde smosse dal vento, prodotto da topi e scarafaggi che si precipitavano al sicuro. Scuotendo il capo con tristezza il vecchio servo pensò che Finbarr sarebbe rimasto sgomento di fronte a quell'abbandono e nel vedere il prezioso sapere antico di secoli che lui aveva custodito con tanta abilità e amore essere ridotto a fornire una tana ai topi! Devo trovare qualcuno che si occupi di questo problema, pensò, detestando l'idea che i preziosi volumi di Finbarr potessero marcire sotto un velo di polvere e di ragnatele: era una grave mancanza di rispetto nei confronti dell'archivista permettere che il lavoro di tutta la sua vita andasse in rovina... ma la verità era che non c'era più nessuno che potesse occuparsi di quei volumi. La maggior parte dei servi era fuggita in preda al terrore durante la Notte della Morte, come la chiamavano gli abitanti della città, e ben poche persone erano adesso disposte ad avvicinarsi all'Accademia, per cui Elewin si trovava già in difficoltà a sopperire alle esigenze primarie e non aveva certo servitori superflui da incaricare di spolverare i libri. Non osando accendere una luce il capo della servitù avanzò a tentoni
nella lunga stanza che puzzava di muffa, imprecando quando andò a sbattere contro l'angolo di un tavolo e cadde nell'inciampare in una sedia spostata, rimpiangendo di non avere la vista notturna dei Maghi o di disporre almeno del chiarore lunare che penetrasse dalla finestra a mostrargli la strada. Finalmente raggiunse l'estremità opposta della stanza e sempre al tatto individuò la porta rientrata che dava accesso alle catacombe: sorridendo nel buio tirò allora fuori di tasca una chiave di forma complessa. Eliseth e Bragar erano convinti di avere in mano loro tutte le chiavi degli archivi, e non c'era da meravigliarsi che non volessero permettere a nessuno di accedere alle catacombe, considerato cosa avevano immagazzinato laggiù! Peraltro essi ignoravano che Finbarr aveva dato ad Anvar la propria chiave e che lui l'aveva trovata in mezzo agli scarsi averi del giovane dopo che questi era fuggito. Oltrepassata la soglia, si richiuse con cura la porta alle spalle e si venne a trovare in un corridoio le cui pareti erano gelide al tatto. L'aria era così fredda da gelargli le dita al punto da rendergli difficile accendere la lampada: l'acciarino gli sfuggì dalle dita intorpidite, costringendolo a inginocchiarsi per cercarlo a tentoni sul pavimento, imprecando... e pensando al tempo stesso quanto fossero cambiate le cose. Un tempo infatti lui avrebbe percosso di persona qualsiasi servo sorpreso a imprecare all'interno dell'Accademia, ma questo era stato prima di diventare una spia e di decidere di tradire i Maghi, un mutamento indotto da quello avvenuto in loro. Elewin si rilassò un poco quando riuscì infine ad accendere la candela, il cui morbido chiarore dorato dissolse l'oscurità e parve riscaldare un poco l'atmosfera. Trovarsi lì sotto al buio con quegli Spettri era infatti più di quanto lui riuscisse a tollerare, perché anche se erano stati messi nell'impossibilità di nuocere era facile immaginare di poterli sentire muoversi... svegliarsi... Con un brivido, s'incamminò con cautela nel labirinto di passaggi e di scale sottostante l'Accademia, e quando oltrepassò la stanza in cui erano rinchiusi gli Spettri accelerò il passo trattenendo il respiro. La lama emerse sibilando dal buio e si arrestò a meno di mezzo centimetro dalla sua faccia, inducendolo ad indietreggiare d'un balzo dalla brusca svolta del corridoio e a sussultare con tanta violenza che per poco non lasciò cadere la lanterna. «Sono io, idiota!» sibilò. «Cosa diavolo ci stai facendo qui? Mi hai quasi staccato il naso!» «Mi dispiace» si scusò Parric, il basso e muscoloso comandante di cavalleria, aggirando l'angolo con un ampio sorriso dipinto sul volto. «Devo
essermi arrugginito, perché nelle mie intenzioni avrei dovuto staccarti la testa.» «Perché non mi hai aspettato al solito posto?» ribatté Elewin, tutt'altro che divertito. «E se fossi stato uno dei Maghi?» «Eri in ritardo» si lamentò Parric, scrollando le spalle, «e là sotto mi stavo congelando gli attributi, quindi ho dovuto muovermi per tenermi caldo.» «Non importa» sospirò il capo della servitù, pensando che adesso era chiaro da chi lui avesse ultimamente appreso un certo linguaggio scurrile. «Ho delle notizie per te, ma ne parleremo dopo essere scesi più in profondità, al sicuro.» «Non so perché sei tanto preoccupato» borbottò Parric. «Nessuno sano di mente scenderebbe quaggiù in una notte come questa. Giuro che mi stanno crescendo dei ghiaccioli sull'estremità del...» «Parric!» Il comandante di cavalleria sogghignò. La parte antica delle catacombe scoperta da Anvar era poco più di una serie di caverne naturali inserite nelle profondità dell'estremità del promontorio: adesso quelle camere erano state spogliate dei loro tesori e i passi dei due uomini echeggiarono stentorei negli ambienti nudi; da quando gli antichi incantesimi usati per proteggere i contenuti di quel luogo erano stati infranti, l'umidità aveva iniziato a filtrare dal vicino fiume e adesso le pareti di roccia erano impreziosite da cristalli di ghiaccio che scintillavano alla luce della lampada, rifrangendola, mentre il pavimento era scivoloso e viscido. Stringendo maggiormente la lanterna per impedire che gli scivolasse dalle dita intorpidite dal freddo, Elewin rimpianse ancora una volta la morte di Finbarr, perché quando l'archivista era vivo quelle caverne erano state rischiarate da sfere di Luce Magica e riscaldate dai suoi incantesimi. «Hai visto? Ti avevo detto che questo posto è più freddo del cuore di una prostituta» commentò Parric, mentre tirava a sé i resti di una cassapanca di legno addossata ad una parete e vi si sedeva sopra, segnalando ad Elewin di imitarlo. «Non è che per caso hai portato con te da mangiare, o magari una bottiglia di liquore, vero?» chiese quindi in tono speranzoso. «Mi dispiace ma non ne ho avuto la possibilità. So che nel vostro nascondiglio non godete di molte comodità, ma ho delle notizie che ti riscalderanno il cuore più del liquore» sorrise Elewin, assaporando quell’importante momento. «Pare che Lady Aurian sia viva!» La reazione che ottenne non fu peraltro quella che si era aspettato: inve-
ce di esultare l'indurito comandante di cavalleria lo fissò con occhi d'un tratto colmi di lacrime che gli stavano scivolando lungo le guance, poi gli volse di colpo le spalle e si nascose la faccia fra le mani, scoppiando in singhiozzi. «Parric!» esclamò Elewin, sconcertato, posando a terra la lanterna e passando un braccio intorno alle spalle del soldato. «Mi dispiace» mormorò Parric, con voce soffocata, poi si asciugò la faccia con aria imbarazzata. «Non è certo la reazione che ti saresti aspettato da un vecchio bastardo come me, vero?» commentò, deglutendo a fatica. «Per gli dèi, ero così affezionato a quella ragazza! Noi tutti le volevamo bene... a lei e a Forral. Abbiamo creduto che fossero stati uccisi entrambi... e poi Vannor ci ha detto che lei aspettava un figlio da Forral!... Elewin, è un miracolo! Un dannato miracolo!» esclamò, serrando il braccio del servitore. «Dov'è? Come sta?» «Non farti troppe illusioni. Parric» replicò Elewin, pur detestando di dover smorzare la gioia del soldato. «Non è una cosa sicura, però Miathan insiste che lei è viva, e che è insieme al suo servitore.» «Il giovane Anvar? Che io sia dannato! Forral ha sempre pensato che ci fosse del buono in lui!» «La cattiva notizia è che se davvero sono vivi si trovano nei Regni Meridionali.» «Cosa? E come diavolo ci sono arrivati?» Elewin procedette a raccontare a Parric tutto quello che aveva sentito. «Come puoi vedere la situazione è grave» concluse. «Se Eliseth dovesse manipolare il clima questo non avrebbe soltanto l'effetto di mettere in pericolo Aurian ma risulterebbe anche catastrofico per la nostra gente... sarebbe una calamità peggiore di qualsiasi cosa si sia vista dai tempi del Cataclisma.» «Questo cambia tutto» affermò Parric, accigliandosi. «Naturalmente ne discuterò con Vannor, ma credo che sia giunto il momento di lasciare la città perché al sopraggiungere del disgelo dovremo comunque andare via di qui e perché siamo troppo vicini all'Accademia per poter riunire un contingente abbastanza numeroso. Però quando Aurian tornerà...» «Credi che tornerà?» domandò Elewin, sorpreso. «Aurian? Certamente! Ci vorrà più di un oceano per tenere quella ragazza lontana da Miathan, adesso che lui ha ucciso Forral. Scommetto che sta già tornando indietro per pareggiare i conti con l'Arcimago, e che quando arriverà assisteremo ad uno spettacolo notevole.»
«Parric! Stiamo parlando dei Maghi!» protestò Elewin. «Non sarà tanto facile.» «Lo so» annuì il comandante di cavalleria, tornando serio. «È per questo che abbiamo bisogno di un esercito: Aurian non può farcela da sola, proprio come non possiamo farcela noi senza l'aiuto di un Mago. Insieme però... in ogni caso adesso devo tornare da Vannor per riferirgli queste notizie.» D'un tratto il cavalleggero esitò, con espressione pensosa, poi aggiunse: «Elewin, perché non vieni con me? Se ci trasferiremo altrove non ci sarai più necessario come informatore e per te è pericoloso rimanere.» Per quanto tentato, Elewin scosse il capo. «Preferisco restare. Se dovessi scomparire all'improvviso Eliseth e Bragar s'insospettirebbero e comincerebbero a cercarmi, cosa che vi potrebbe mettere in pericolo. E poi se volete attaccare l'Accademia vi serve avere qualcuno al suo interno.» «Ma potrebbe passare molto tempo prima di arrivare a questo!» «Non si può fare diversamente. Io me la caverò. Inoltre, adesso Miathan dipende completamente da me, e vederlo ridotto in questo modo, cieco e menomato... so che è tutta colpa sua, ma mi sembra così impotente...» «Elewin, mi rendo conto che questa situazione sta mettendo a dura prova i tuoi sentimenti di fedeltà» replicò Parric, stringendogli un braccio in un gesto di conforto. «Noi ti siamo molto grati, ma...» «Non si tratta soltanto di questo. L'equilibrio di potere all'interno dell'Accademia sta cambiando, Parric, e adesso quella da cui bisogna guardarsi è Eliseth.» «Lo terrò presente. Aurian ha sempre odiato quella cagna. Allora, sei certo di non voler venire?» «Non posso farlo.» «D'accordo» annuì Parric. «Sei un uomo coraggioso, Elewin... o forse sei pazzo, ma del resto Forral ha sempre sostenuto che non esisteva molta differenza fra le due cose. Addio, amico mio, le nostre preghiere ti accompagneranno e Vannor cercherà di farti avere notizie di tanto in tanto.» «Vannor? E tu cosa farai?» «Io? Per quanto mi riguarda ho l'improvviso desiderio di andare al sud, perché là il clima è più caldo» sorrise il cavalleggero. Ammiccando, poi raccolse la propria lanterna e scomparve nell'ombra in fondo alla grotta, lasciando Elewin a bocca aperta per lo stupore. La rete fognaria si stendeva sotto l'intera città, e costituiva una sorta di strada democratica che collegava l'altezzosa Accademia alla più umile abi-
tazione. Senza dubbio non era il posto più piacevole in cui nascondersi, ma c'era una certa soddisfazione nell'essere in grado di muoversi sotto il naso dei Maghi senza essere visti, ed era stato molto semplice infrangere la sottile barriera di pietra che separava le fogne dalla parte più antica degli archivi, Il buco era stato praticato in un angolo dove uno spuntone di roccia si protendeva a nascondere l'apertura con la propria ombra, e Parric era stato scelto come tramite a causa del suo fisico snello e minuto. Tenendo la lanterna protesa davanti a sé lui s'insinuò nell'apertura per raggiungere lo stretto canale di scolo al di là di essa: per fortuna il ridursi della popolazione dell'Accademia abbinato al clima freddo aveva attenuato il fetore che aleggiava nell'aria, ma Parric tentò lo stesso di trattenere il respiro... le cose a cui un uomo poteva finire per abituarsi erano molte, ma c'erano comunque dei limiti! Lo stretto cunicolo proseguì per un buon tratto sotto il promontorio dell'Accademia prima di incontrare la rete fognaria principale, dove i moncherini arrugginiti di un'antica scaletta di metallo per le ispezioni sporgevano affilati e pericolosi dalla parete di congiunzione. Agganciata la lanterna alla cintura Parric si infilò i guanti di cuoio per proteggere le mani dagli spuntoni di ferro arrugginito, poi cominciò ad arrampicarsi con estrema cautela, consapevole che laggiù qualsiasi taglio o escoriazione sarebbe potuto risultare fatale a causa del quasi certo sopraggiungere di un'infezione... come dimostrava il fatto che avevano già perso due uomini a causa del morso di un topo e del tetano. Il canale fognario era una galleria di pietra fatiscente e levigata, munito di passatoie sopraelevate ai due lati delle acque lente e fetide del canale; nel raggiungerlo, Parric fu lieto che il livello dell'acqua fosse troppo basso per arrivare alla bocca inclinata della galleria, in quanto a volte gli era capitato di fare quell'ascesa mentre dall'alto gli cascava addosso ogni sorta di sostanze disgustose e quella era un'esperienza che non desiderava ripetere. Sbucato dalla bocca del canale di scolo si avviò lungo la passatoia fino a raggiungere la sua zattera improvvisata, che poteva usare per tornare indietro in virtù del fatto che l'acqua era tanto bassa. Quando infatti il flusso era al suo massimo il tragitto andava compiuto lungo le viscide e fatiscenti passatoie, con la prospettiva di annegare nel canale pieno di sporcizia se soltanto si fosse messo un piede in fallo. Avendo come unica fonte di luce la lanterna che gli pendeva dalla cintura, raccolse quindi la pagaia e prese a remare per risalire la rete di gallerie che portava al nascondiglio dei ribelli. Era quasi arrivato a destinazione quando udì i primi violenti rumori che
indicavano un combattimento in corso, e il cuore gli balzò in gola mentre spingeva la zattera verso una delle passatoie e cercava di vagliare la situazione, chiedendosi chi li avesse traditi... domanda per il momento irrilevante... e da quanto tempo fosse cominciato l'attacco, nonché quanto fossero numerosi i nemici. Gli assalitori avevano avuto a loro favore l'elemento della sorpresa, ma non conoscevano queste gallerie bene quanto lui. vantaggio che intendeva sfruttare a fondo. Salito sulla passatoia spense la lampada e intanto che aspettava che i suoi occhi si abituassero all'oscurità controllò i coltelli da lancio che portava infilati uno in ciascuna manica ed estrasse una lunga daga dallo stivale, lasciando la spada nel fodero perché si sarebbe trattato di uno scontro a distanza ravvicinata. Con il volto contratto in una smorfia scivolò quindi nel canale puzzolente nel quale sprofondò fino alla coscia e cominciò ad avanzare a guado, sorreggendosi al bordo della passatoia per evitare di scivolare sulla fanghiglia accumulata sul fondale. La prima guardia che avvistò non morì all'istante soltanto perché lui aveva bisogno di alcune informazioni: la donna ebbe soltanto il tempo di sentire una mano emersa dal nulla afferrarle la caviglia, poi un deciso strattone la fece precipitare a testa in avanti nel canale e Parric le fu addosso prima che potesse reagire al panico e ritrovare l'equilibrio. «In quanti siete?» ringhiò, issandola rudemente in piedi e puntandole la daga alla gola. «Rispondimi!» «Per il grande Chathak, conosco questa voce!» esclamò però la donna, irrigidendosi. «Parric... sei proprio tu?» «Puoi esserne dannatamente certa! Adesso rispondi alla mia domanda!» «Parric, sono io... Sangra! Che gli dèi ci perdonino, ci avevano detto che eri morto. Adesso metti via quello stupido coltello in modo che ti possa abbracciare.» Nel rendersi conto che l'emozione presente nella voce della donna era troppo intensa per essere fasulla, Parric avvertì un impeto di gioia perché Sangra era una vecchia amica... una ragazza robusta e decisa con doti fisiche che nessun giustacuore poteva contenere appieno. Ah, quanto si erano divertiti insieme in tempi più felici! Sorridendo, abbassò il coltello e riuscì a verificare con mano quelle prorompenti doti fisiche prima che lei si girasse a fronteggiarlo. «Adesso so che sei proprio tu!» esclamò, ridendo e piangendo al tempo stesso nell'abbracciarlo con un impeto che gli fece scricchiolare le costole... e per un momento rimasero stretti uno all'altra, dimentichi della spor-
cizia di cui erano coperti. «Sangra, cosa sta succedendo?» domandò infine Parric, liberandosi con riluttanza dall'abbraccio. «Il figlio del panettiere vi ha traditi... o quanto meno ha tradito Vannor, dato che non avevamo idea che tu fossi quaggiù. Parric, hai con te altri dei nostri?» «Sì, parecchi.» «Per gli dèi! Devo avvertire i ragazzi, perché non intendiamo combattere contro i nostri compagni.» «Brava ragazza! Avanti, spicciamoci!» Le truppe della guarnigione erano intanto riuscite a bloccare gli uomini di Vannor in una galleria a fondo chiuso e il combattimento si era fatto feroce. La maggior parte delle torce che i soldati avevano portato con loro si era spenta nel corso della battaglia e nella semioscurità era difficile distinguere gli amici dai nemici, ma Sangra parve non avere problemi a riconoscere i suoi compagni quando lei e Parric arrivarono alle spalle della massa di uomini in lotta e si gettarono senza esitazione nella mischia. Grazie alla sua bassa statura, Parric non ebbe difficoltà a farsi largo in mezzo alla calca di uomini impegnati a combattere, aprendosi un varco con un metodo estremamente diretto che consisteva nel risparmiare chiunque gli era noto e nell'eliminare chiunque non conosceva. Nel frattempo Sangra circolò a sua volta fra i combattenti, soffermandosi a parlare all'orecchio di tutti coloro che erano stati agli ordini di Forral. e un immediato cambiamento sì fece subito avvertire: con il volto illuminato dal sollievo e dalla gioia, i soldati della guarnigione si scagliarono sui feroci mercenari di Angos. A quel punto lo scontro si concluse in fretta perché i ribelli di Vannor, liberi dalla pressione a cui si erano trovati sottoposti, poterono passare all'offensiva con il risultato che i mercenari di Angos si trovarono ad essere attaccati su due lati. Parric nel frattempo riuscì a raggiungere il mercante e a spiegargli cosa era successo, e di lì a poco i membri dell'antica banda di Forral festeggiarono l'essersi ritrovati in mezzo alla galleria cosparsa dei cadaveri dei mercenari. Se anche rimase sconcertato di vedere il suo piccolo contingente ingrandirsi di colpo fino a contare una cinquantina di uomini, Vannor non lo diede a vedere e quando Parric gli presentò Sangra la salutò con la massima cortesia, ignorando coraggiosamente il fatto che sia lei che il cavalleggero erano in condizioni spaventose a causa del tuffo nelle acque fognarie. «Se avessimo saputo che eravate tutti quaggiù vi avremmo raggiunti
prima» si scusò Sangra. «Abbiamo passato momenti orribili da quando Angos ha portato alla guarnigione i suoi mercenari per aumentare i nostri effettivi, ma abbiamo ritenuto di dover rimanere perché pensavamo che Forral lo avrebbe voluto a causa del nostro giuramento di fedeltà alla città, e perché volevamo proteggere la gente dagli eccessi di Angos e dei Maghi. Adesso cosa facciamo?» continuò, guardando verso Parric. «Angos è in attesa con altri soldati all'ingresso del canale, e dal momento che sa dove siete non possiamo restare qui.» «Andremo al nord» dichiarò una voce decisa. «Lasciare la città non dovrebbe essere difficile perché Angos non potrà sorvegliare tutti i canali, e i Corsari della Notte saranno certo disposti a darci rifugio.» «Dulsina, non la smetterai mai di organizzare le cose per me?» protestò Vannor, con una smorfia. «Non finché avrò un alito di respiro» replicò allegramente la donna alta e bruna, con un sorriso divertito. «E poi Zanna sente la tua mancanza, nonostante i messaggi che siamo riusciti a mandarle. È tempo che tu riveda tua figlia.» «Un momento!» interruppe Parric. «Tu conosci i Corsari della Notte abbastanza bene da affidare loro tua figlia? Che gli dèi mi diano forza» proseguì, levando gli occhi al cielo in un gesto di supplica. «Quei dannanti contrabbandieri sono stati una spina costante nel fianco di Forral, che ci ha quasi fatti impazzire per tentare di scoprire il loro nascondiglio... e tu hai sempre saputo dove si trovavano?» «Come credi che sia riuscito ad ammassare la mia fortuna?» ribatté Vannor, ammiccando. «Razza di furfante!» esclamò Parric, scoppiando a ridere. «Ti servivi di loro per commerciare con i Meridionali e ottenere gemme, sete e altre merci pregiate, vero?» «Un uomo deve sbarcare il lunario in qualche modo» affermò il mercante, scrollando le spalle, «e poi adesso il mio passato criminale si sta rivelando utile. Avanti, andiamo via di qui.» Fra i ribelli risultarono esserci poche perdite, ma mentre lasciavano i canali di scolo Parric scoprì il cadavere di Trol che galleggiava prono nell'acqua della fogna con un coltello piantato nella schiena e sospirò, perché nonostante le sue pecche, quell'uomo era stato un buon amico dei ribelli. D'altro canto, forse era stato meglio così, in quanto se non altro lui non aveva avuto modo di scoprire che suo figlio lo aveva tradito... oppure no? Guardando meglio, Parric si accorse che il coltello non era una daga
da soldato ma una lunga lama seghettata di uso domestico... il tipo di coltello di cui si sarebbe potuto servire un panettiere. Dopo una rapida consultazione, i ribelli decisero di servirsi delle fogne per attraversare la città e di discendere poi il fiume fino a Norberth come aveva fatto Aurian; una volta là avrebbero contattato uno degli agenti di Yanis che avrebbe procurato loro una nave con cui raggiungere il nascondiglio dei contrabbandieri. Quello che seguì fu un viaggio da incubo perché mentre gli uomini di Vannor erano abituati a percorrere le viscide passatoie le nuove reclute erano di continuo in difficoltà e a intervalli di pochi minuti uno dall'altro si udivano tonfi e imprecazioni quando qualcuno scivolava nell'acqua e doveva essere soccorso... cosa a cui gli uomini non parevano dare importanza ma che preoccupò Parric, in quanto lui era fin troppo consapevole della facilità con cui avrebbero potuto perdere qualche membro della loro banda a causa delle malattie che proliferavano in quel luogo. Nell'oltrepassare il canale di scolo che portava all'Accademia Parric emise un sospiro di sollievo al pensiero che fra non molto avrebbero raggiunto la bocca di scarico e sarebbero sbucati all'aperto... poi però cominciò a sentirsi nervoso nel tenere la sua posizione di retroguardia, perché l'istinto sviluppato nel corso di molti anni di vita militare lo stava avvertendo che erano seguiti da qualcuno. Sciocchezze, cercò di dire a se stesso. Angos non potrebbe mai rintracciarci in questo labirinto di gallerie. Però la sensazione rifiutò di dissolversi e non riuscendo più a tollerarla alla fine lui decise di rimanere indietro rispetto agli altri per appurare di cosa si trattava. «Ti ho preso!» esclamò di lì a poco, piombando su una figura ammantata che per quanto alta era di costituzione troppo snella per appartenere ad un guerriero. Ridurre all'impotenza l'intruso, che sembrava essere solo, non gli costò fatica, ma un momento più tardi rimase stupefatto nel sentire una serie di strilli indubbiamente femminili provenire dalla figura infagottata: a quanto pareva il suo prigioniero era una donna. Parric stava per spingere indietro il cappuccio che le nascondeva il volto quando sentì un rumore di passi troppo affrettati per una superficie viscida e infida come quella della passatoia, e un momento più tardi vide sopraggiungere Elewin, munito di una lanterna. «Grazie agli dèi l'hai trovata!» esclamò il vecchio servitore, illuminan-
dosi di un sorriso di pura gioia nel vedere Parric e la sua prigioniera. «Chi avrei trovato?» domandò il cavalleggero, poi rimosse il cappuccio della donna alla luce della lanterna e sussultò: «Lady Meiriel!» «Toglimi le mani di dosso!» ingiunse la Maga, sputandogli in faccia. «Cosa succede?» chiese in quel momento Vannor, sopraggiungendo sul posto con Sangra e Dulsina. «Parric, credevamo di averti perduto...» cominciò, poi sgranò gli occhi alla vista di Meiriel ed esclamò: «Cosa sta succedendo qui?» «Bada agli affari tuoi, Mortale!» stridette Meiriel «È fuggita dall'Accademia» disse Elewin, incontrando con irritazione lo sguardo rovente della Maga. «Hai detto che è fuggita?» domandò Vannor, spostando lo sguardo da Elewin a Meiriel. «Qualcuno vorrebbe darmi qualche spiegazione?» «È molto semplice» dichiarò freddamente la guaritrice. «Siccome non ho potuto risanare gli occhi di Miathan, quella cagna di Eliseth mi ha fatta rinchiudere.» «Non hai potuto... o non hai voluto?» puntualizzò Parric. «I suoi occhi erano del tutto distrutti» replicò Meiriel, fissandolo con espressione altezzosa, «ma anche se avessi potuto guarirlo non lo avrei fatto, non dopo che le sue creature hanno assassinato il mio Finbarr» ringhiò, con voce pervasa di odio. «In ogni caso, stanotte sono riuscita a fuggire: ho seguito Elewin e ho sentito quello che ti ha detto in merito al fatto che Aurian è ancora viva. Io devo trovarla.» «È viva? Perché non me lo hai detto» gridò Vannor, rivolto a Parric. «Non ce n'è stato il tempo» protestò il cavalleggero. «Lo scontro...» «Quale scontro?» interruppe Elewin. «Siamo stati traditi» gli spiegò Vannor. «Voi due dovrete venire con noi» interloquì intanto Parric. «Adesso tu non puoi più restare qui, Elewin, e non sarebbe saggio lasciarsi Meiriel alle spalle.» «Un momento!» intervenne Vannor, fronteggiando la guaritrice. «Perché devi trovare Aurian?» «Ha bisogno del mio aiuto» replicò la Maga. «Miathan ha gettato una maledizione sul bambino, e ora lei sta portando in grembo un mostro.» «Cosa?» esplose Parric. «Quel bastardo! Lo ucciderò!» «Calmati, Parric» ingiunse Vannor, facendo appello a tutta la sua forza fisica per impedire all'amico di lanciarsi lungo la galleria. «Questo non è il momento adatto. Dobbiamo metterci in salvo prima di poter affrontare
questo problema.» S'incamminarono quindi per raggiungere gli altri ribelli allo sbocco delle fogne. Sangra e Parric. che era ancora sconvolto dall'ira e dall'angoscia, si posero all'avanguardia, seguiti da Dulsina che si era incaricata di tenere sotto controllo Meiriel e infine da Vannor e da Elewin, che mentre camminavano trattenne il mercante in modo da venire a trovarsi fuori della portata di udito degli altri. «Ascoltami» gli disse. «Può darsi che Lady Meiriel stia dicendo la verità, ma ti consiglio di stare attento perché anche se adesso sembra lucida da quando Finbarr è morto ha perso completamente la ragione. Stai avendo a che fare con una pazza, Vannor, quindi non ti fidare di lei, qualsiasi decisione tu prenda.» CAPITOLO TRENTESIMO RAVEN Il principe e i suoi seguaci tolsero il campo al tramonto, concedendosi soltanto il tempo necessario per una rapida cena prima di incamminarsi di nuovo attraverso il deserto. Sebbene la luna non fosse ancora sorta non mancava certo la luce perché la polvere di pietre preziose scintillava e splendeva di mille colori cristallini, conservando il chiarore del tramonto molto tempo dopo che esso era scomparso dal cielo; piccoli vortici di sabbia sospinti lungo il terreno da una lieve brezza notturna attraversavano la loro pista come fuochi fatui che danzassero sotto le stelle. Poiché Aurian appariva stranamente silenziosa e riflessiva Anvar, che cavalcava al suo fianco, si sentì spinto dalla noia e dalla curiosità ad andare a raggiungere Yazour per chiedergli come riuscisse a trovare con tanta sicurezza la strada in mezzo a quell'uniforme distesa di sabbia. «Si tratta della magia del mio popolo: il deserto è nel nostro sangue da innumerevoli generazioni» sorrise Yazour... poi però scoppiò a ridere e aggiunse: «Ti sto prendendo in giro, amico mio. In realtà ci sono dei sistemi per essere sicuri della strada da seguire, come la natura del terreno o la direzione in cui si spostano le dune di sabbia sotto il soffio del vento... anche se mi oriento soprattutto con le stelle.» «Non ci avevo pensato» ammise Anvar, con una smorfia. «Suppongo sia dipeso dal fatto che qui le stelle sono molto diverse dalle nostre.» «Sono diverse?» ripeté Yazour, inarcando le sopracciglia. «Dimmi, Anvar, è proprio tutto differente nella vostra terra del settentrione? Com'è la
vita laggiù?» Sorridendo, Anvar si chiese da dove cominciare, in quanto le cose erano talmente diverse nel nord da fornirgli argomenti di conversazione sufficienti per tutta la notte... però non riuscì neppure a iniziare a rispondere perché in quel momento il suo cavallo emise un nitrito di dolore e incespicò sulla morbida polvere di preziosi, prendendo a sgroppare in modo tale che Anvar venne scagliato violentemente in avanti sulla sella mentre lottava per mantenere l'equilibrio e la presa sulle redini. Con una violenta imprecazione Yazour si affrettò ad afferrare la sua briglia, calmando la giumenta e facendola arrestare in modo che Anvar potesse smontare di sella: l'animale stava tremando e teneva uno degli zoccoli posteriori sollevato da terra. «Sangue del Mietitore! Si è azzoppata!» imprecò Yazour, esaminando lo zoccolo con un'espressione inorridita che andava al di là del semplice rincrescimento. «Cosa succede?» domandò in tono aspro Harihn, facendo arrestare accanto a loro il proprio stallone. «La cavalcatura di Anvar si è azzoppata» riferì Yazour, in tono cupo. «Un vero peccato» commentò freddamente il principe, scrollando le spalle. «In tal caso, sai cosa fare.» «Ma, Vostra Altezza...» «Provvedi, Yazour.» «Mi dispiace, Anvar» mormorò il guerriero, con un sospiro. «Se ci fosse un altro modo...» «Cosa vuoi dire?» domandò Anvar, allarmato dal modo in cui Yazour lo stava guardando: come se fosse stato già morto... «È la legge del deserto» spiegò Harihn, con voce fredda e indifferente. «Non abbiamo cavalli di scorta... gli ultimi sono andati a quegli amici che Aurian ha insistito per portare con sé... e poiché abbiamo una così scarsa scorta d'acqua non possiamo osare di rallentare la marcia fino alla prossima oasi. La legge del deserto impone che tu venga lasciato qui.» «Cos'hai detto?» esclamò Aurian, che si era avvicinata senza essere notata da nessuno. Spinti indietro i veli che le coprivano il volto avanzò quindi verso Harihn con la mano sull'elsa della spada e una luce strana e metallica nello sguardo. «Se credi che ti permetterò di lasciare qui Anvar a morire ti sbagli di grosso, principe.» «Resta fuori da questa faccenda, Signora. Non si possono fare eccezioni alla legge» ribatté Harihn, mentre ad un suo cenno un cerchio di soldati si
materializzava intorno alla Maga con la balestra spianata e carica. «Vorresti affrontare tutto il mio esercito per difendere un solo uomo?» «Non commettere l'errore di minacciarmi» ringhiò Aurian, con un bagliore freddo nello sguardo, e alle sue parole fece eco il ringhio assai più spaventoso di Shia. «Ti consiglio di ripensarci» proseguì quindi la Maga, puntando un dito verso il principe, «perché potrei abbatterti prima che quelle quadrelle avessero il tempo di raggiungermi.» «Abbassate le armi» ingiunse in tono secco Yazour e i soldati, abituati alla disciplina, gli obbedirono all'istante. «Come osi?» esplose Harihn. «Lui ha più buon senso di te» dichiarò Aurian, smontando di sella. Sono certa che si possa risolvere questo problema senza violenza. Avanti, Anvar, lascia che dia un'occhiata al tuo cavallo. Anvar tenne fermo l'animale mentre lei s'inginocchiava per esaminare lo zoccolo leso, con il volto aggrondato per la concentrazione. «Hmm» mormorò. «Non si vede nulla... ma cos'è questo? Un istante più tardi le sue mani cominciarono a risplendere di un'aura fra l'azzurro e il violetto che avviluppò lo zoccolo della cavalla: la sua concentrazione era tanto intensa che parve estendersi a tutti i presenti e per un lungo momento nessuno si mosse o emise il minimo suono. Quando ormai la tensione stava arrivando a livelli intollerabili si sentì poi un suono stridente e qualcosa scivolò fuori dalla pianta sensibile dello zoccolo, cadendo nella mano della Maga.» «Ecco fatto» mormorò Aurian, per placare l'animale. «Così va meglio, e adesso rimedieremo al danno.» L'aura emise un bagliore e scomparve, poi Aurian si sollevò in piedi asciugandosi la fronte sudata, mentre la giumenta posava al suolo lo zoccolo, dapprima con cautela e poi con sempre maggiore sicurezza. Dai soldati raccolti tutt'intorno si levò un mormorio di sorpresa che però Aurian non sentì neppure, perché stava fissando ciò che aveva in mano con un'espressione irosa sul volto. «Se non mi sbaglio, questa è la punta di una daga» disse infine, protendendo la piccola scheggia di metallo che aveva sul palmo perché Yazour potesse esaminarla. «Era stata conficcata nello zoccolo e quella povera bestia doveva patire terribilmente ogni volta che appoggiava il peso su di esso. Chiunque lo ha fatto sapeva che se il suo cavallo si fosse azzoppato Anvar sarebbe stato lasciato a morire nel deserto, quindi questo non è stato un incidente ma un tentativo di assassinio.»
«Anvar, ti chiedo scusa per quello che è successo» mormorò Yazour, livido in volto. «Giuro che troverò e punirò il colpevole. Tu stai bene, Signora?» «Sto bene» rispose Aurian, anche se stava barcollando. «Lascia che ti aiuti» si offrì Yazour, assistendola nel rimontare a cavallo. «Restami vicino» consigliò Aurian ad Anvar, una volta in sella. «Finché non sapremo chi ha fatto questo sarà meglio non correre rischi, quindi chiederò a Bohan di farti da guardia del corpo.» Poi fece ruotare abilmente la cavalcatura sulle zampe posteriori, sollevando un'iridescente nube di polvere scintillante, e si allontanò chiamando a gran voce l'eunuco. «Una guardia del corpo!» esclamò Harihn, con una risata sprezzante. «Avresti bisogno piuttosto di una balia, Anvar. Anzi, saresti dovuto rimanere uno schiavo... o diventare un eunuco, perché nessun uomo trascorre la vita nascondendosi dietro le gonne di una donna.» «Razza di...» ringhiò Anvar, e cercò di scagliarsi contro di lui per trascinarlo giù di sella, ma venne trattenuto bruscamente da Yazour. «No, Anvar!» sussurrò in tono urgente il capitano. «Vuole che tu lo aggredisca, perché se dovessi minacciarlo i suoi soldati ti piomberebbero addosso e neppure la Signora ti potrebbe salvare.» Tremante d'ira, Anvar si costrinse a trarre un profondo respiro e fissò Harihn negli occhi. «Verrà un altro momento» ringhiò, poi gli volse le spalle e rimontò in sella. I commenti del principe lo tormentarono però senza tregua mentre cavalcava accanto a Bohan, isolato dietro una barriera d'ira che continuava ad autoalimentarsi mentre la giumenta divorava i chilometri. Questo era davvero troppo: non sarebbe dunque mai stato padrone del proprio destino? Prima servitore, poi schiavo e adesso, a quanto pareva, meno che un uomo! E poiché si era infine imposto di riconoscere il debito contratto nei confronti di Aurian, dipendere in questo modo da lei gli risultava doppiamente umiliante. Per tutti gli dèi, aveva promesso a Vannor che si sarebbe preso cura di lei, e adesso quell'affermazione cominciava a suonare come una barzelletta! Per tutta la notte quei pensieri pervasi di furia gli frullarono per la mente senza posa in un circolo vizioso. «Anvar?» Anvar era stato così immerso nelle sue cupe riflessioni da non accorgersi che Yazour aveva dato il segnale della sosta. Sollevando lo sguardo vide
Aurian accasciata in sella e pallidissima in volto sotto il velo di cui si stava liberando, e comprese che quello sfinimento era dovuto all'aver risanato il suo cavallo, perché a causa della gravidanza adesso accedere alla magia le riusciva ogni volta più difficile. Nella sua mente il grigiore del senso di colpa andò a mescolarsi alla rossa cortina dell'ira. «Lascia che ti aiuti» si offrì, smontando e portandosi al suo fianco. Se non altro, pensò con amarezza, posso almeno adempiere ai compiti propri di un servitore. «Va tutto bene» protestò però Aurian, scivolando a terra senza usufruire della sua mano protesa. «Mi occuperò io del cavallo, tu va' a riposare» insistette Anvar, a denti stretti, prendendo il suo cavallo per le briglie. «Posso farcela da sola» replicò lei, ma quando tentò di recuperare le redini lui gliele sottrasse con un gesto iroso. «Ho detto che lo farò io!» «Cosa ti prende?» domandò Aurian. indietreggiando di un passo con gli occhi sgranati per lo stupore. «Niente. Io sono il tuo dannato servitore, giusto? Quindi mi occuperò del cavallo. È la sola cosa per cui la gente pare pensare che sia adatto.» Aurian lo fissò per un momento con le labbra serrate in una linea sottile, poi chiamò a sé Bohan con un cenno. «Bohan, vuoi per favore occuparti dei cavalli? Ho bisogno di parlare con Anvar.» Mentre l'eunuco portava via i cavalli, s'incamminò quindi insieme a Shia, e quel suo dare per scontato che lui la seguisse ebbe l'effetto di far infuriare ancora di più Anvar. «Allora, cosa c'è che non va?» disse infine la Maga, precedendolo all'interno della loro tenda, che gli uomini di Harihn avevano appena finito di montare. «Cosa c'è che non va?» esplose Anvar. «Da dove devo cominciare?» «Perché non cominci da ciò che ti ha reso così iroso?» suggerì Aurian, e i suoi modi calmi agirono su Anvar come un'ulteriore provocazione, perché lui era invece in cerca di una lite con cui sfogare la propria rabbia. «D'accordo!» gridò. «Se proprio lo vuoi sapere, ho la nausea di essere salvato da te, perché non sono né stupido, né debole, né incompetente! Sono un uomo come tutti gli altri, ma tu mi fai apparire inferiore a chiunque.» «Ma che altro potevo fare, Anvar?» protestò Aurian. «Non potevo certo
lasciarti a morire in quel campo di schiavi, e oggi ho dovuto usare di nuovo i miei poteri per impedire ad Harihn di abbandonarti nel deserto. Avresti preferito...» «Si tratta proprio di questo» la interruppe Anvar. «I tuoi poteri! I tuoi dannati poteri magici! Ebbene, Signora, lascia che ti dica che anch'io avevo dei poteri, perché c'è sangue di Maghi nelle mie vene... però Miathan me li ha rubati e ha fatto di me un servitore.» Ormai Anvar si era lasciato trasportare dall'ira a tal punto che non notò l'espressione sconvolta di Aurian e non si accorse neppure che per la prima volta l'incantesimo apposto su di lui da Miathan aveva mancato di funzionare. Al solo pensiero dell'Arcimago, infatti, l'ira e il risentimento che era stato costretto a reprimere per tanto tempo erano sfuggiti ad ogni controllo e adesso lui riusciva a vedere soltanto Miathan... lo vedeva fissarlo compiaciuto e gongolante, con intorno al collo rugoso il cristallo che conteneva i suoi poteri, mentre lui si contorceva al suolo in preda all'agonia... e quell'immagine era molto, molto reale. Possenti dèi... era reale! Per un momento la vista gli si fece indistinta e sfumata, come se lui stesse rimanendo immobile mentre il resto del mondo gli sfrecciava intorno troppo veloce per essere visibile, e da molto lontano gli parve di sentir giungere la voce di Aurian «Anvar, no!» le sentì gridare, poi il mondo si arrestò con un movimento vorticante e lui si venne a trovare in una stanza debolmente illuminata: davanti a lui Miathan stava dormendo nel suo letto, con gli occhi fasciati da un panno bianco e con il cristallo che gli pendeva dal collo e ammiccava alla luce delle lampade. Incapace di trattenersi, Anvar protese la mano verso quell'oggetto meraviglioso... e di colpo ci fu un accecante bagliore di luce multicolore in seguito al quale un'energia intensa, rovente e gioiosa pervase il suo corpo. Adesso lui era nel cristallo... esso era in lui... lui era il cristallo! Miathan emise uno stridio di rabbia... e di dolore dovuto a quella perdita lacerante... e subito Anvar fuggì. Di nuovo il mondo gli saettò intorno in un susseguirsi di indistinte chiazze di colore, ma adesso l'Arcimago... che non appariva più vecchio e cieco ma forte e potente... lo stava inseguendo nella forma di un grande drago nero creato attingendo ai più cupi terrori umani. L'intensità della sua ira lo stava incalzando mentre lui fuggiva... dove? Come avrebbe fatto a trovare la via del ritorno? Miathan si stava avvicinando sempre di più... all'improvviso una scarica di forza luminosa modellata come una lancia di luce oltrepassò Anvar e si andò a piantare
nell'Arcimago, scagliandolo indietro e lontano... «Vieni!» esclamò la voce di Aurian, e Anvar si affrettò a seguire con sollievo la sua luce scintillante fino a quando avvertì un'esplosione silenziosa accompagnata da un violento scossone, e si ritrovò steso sul pavimento della tenda. Distesa vicino a lui, Aurian aprì gli occhi e lo trapassò con un'occhiata che Anvar incontrò a fatica e nella quale lesse ira, confusione e soprattutto una devastante paura per la sua sicurezza che era intrecciata al ricordo di un più vecchio e più grande dolore: era come se i suoi occhi fossero stati una polla boschiva nella quale lui poteva vedere i suoi pensieri spostarsi elusivi come pesci. «Che cosa hai fatto?» sussurrò infine la Maga. «E come hai potuto farlo?» Anvar non riuscì a rispondere perché aveva la strana sensazione di trovarsi altrove, come se non fosse stato circondato dagli angusti confini della tenda ma da uno spazio incommensurabile nel quale sarebbe potuto facilmente precipitare... avvertendo il suolo che sembrava tremolare e fondersi sotto di lui, si sentì assalire dal panico e si aggrappò alla mano della Maga, che si sollevò a sedere e lo scrutò con espressione intensa. «Chiudi gli occhi» gli ordinò quindi, in tono improvvisamente secco e pratico. «Concentrati sul tuo corpo, perché sei tornato indietro troppo in fretta e non sei rientrato del tutto in te stesso: avverti il tuo corpo, Anvar, il battito del tuo cuore, il terreno solido che hai sotto di te e il calore che avviluppa la tua pelle.» Nel parlare si protese in avanti fino a portare la faccia vicino a quella di lui, e Anvar contemplò le verdi profondità dei suoi occhi, le ciglia lunghe e ricurve, l'arco netto delle sopracciglia, gli alti e fieri zigomi finemente modellati, il naso aquilino; la polvere di pietre preziose che scintillava fra i suoi capelli gli richiamò d'un tratto alla memoria il ricordo estremamente vivido di quella Mattina del Solstizio in cui l'aveva incontrata sulle scale della torre e lei aveva avuto la testa coronata di fiocchi di neve che brillavano come diamanti. «Devi pensare al tuo corpo... non al mio!» ingiunse Aurian, in tono tagliente, facendolo arrossire perché non aveva preso in considerazione che lei potesse leggere i suoi pensieri con la stessa chiarezza con cui lui vedeva i suoi. «Va tutto bene... adesso mi sento meglio» garantì, senza riuscire a incontrare il suo guardo.
«Bene» commentò Aurian, secca, «perché ci sono alcune spiegazioni che mi devi fornire.» In quel momento Bohan entrò nella tenda con gli occhi socchiusi per difendersi dal bagliore sempre più intenso presente all'esterno e portò loro da mangiare e da bere, fissandoli con aria di rimprovero per essersi dimenticati di quelle necessità essenziali. «Bohan, cosa faremmo senza di te?» esclamò Aurian, facendo apparire un sorriso soddisfatto sul volto dell'eunuco mentre questi lasciava la tenda, poi si rivolse ad Anvar e ordinò: «Mangia. Viaggiare fuori del corpo comporta un elevato dispendio di energie.» «È questo ciò che ho fatto?» chiese Anvar, tremante, affrettandosi a staccare un boccone da una striscia di carne secca. «Sì, Anvar, questo è ciò che hai fatto» sospirò Aurian, con aria di autoimposta pazienza. «In nome di tutti gli dèi. vuoi per favore dirmi cosa sta succedendo?» Nel ricordare come fosse sfuggito di stretta misura all'Arcimago, Anvar si sentì raggelare. «Lui... lui non ha potuto seguirci, vero?» comandò. «No» garantì Aurian. «L'ho colpito con tanta forza che gli ci vorrà qualche tempo prima di ritrovare il proprio corpo. Vorrei averlo potuto finire, ma quando siamo fuori dal corpo ci veniamo a trovare su un altro livello del reale dove un Mago non può essere ucciso, anche se è possibile intrappolarlo lì qualora il suo corpo nel frattempo venga distrutto. In ogni caso, ora lasciamo perdere Miathan, perché dobbiamo parlare di te.» Con voce tremante per l'emozione, Anvar le raccontò della morte di Ria e della scoperta dei suoi poteri, poi descrisse ciò che Miathan gli aveva fatto e concluse parlando della propria fuga dalle cucine che aveva portato al loro incontro alla guarnigione. Quando ebbe finito Aurian lo fissò per un momento a bocca aperta per lo stupore, poi calò con violenza il pugno sul terreno. «Tutto questo è mostruoso!» esclamò, sconvolta. «Come ha potuto Miathan fare una cosa del genere? Se soltanto lo avessi saputo... se tu avessi potuto dirmelo.» «Probabilmente non lo avrei fatto, perché a quel tempo non mi fidavo di te» replicò Anvar, scrollando le spalle. «Credevo che fossi come gli altri e che fossi alleata con Miathan, anche se poi ho capito che non era così» aggiunse, deglutendo a fatica. «Mi piacerebbe sapere come sei riuscito ad infrangere l'incantesimo di
Miathan e cosa è successo quando sei schizzato via in quel modo» osservò Aurian, tornando ad un modo di fare pratico. «Posso rispondere alla seconda domanda» replicò Anvar, raccontandole quello che aveva fatto. «Li hai riavuti?» mormorò Aurian, esterrefatta. «Non mi meraviglia che Miathan fosse tanto furente...» D'un tratto fece schioccare le dita ed esclamò: «Furente! Ma certo! Anvar, ho appena capito come hai fatto a infrangere l'incantesimo che Miathan aveva apposto su di te: per funzionare, esso richiedeva che tu fossi convinto che avresti sofferto se avessi detto una sola parola, ma oggi eri così infuriato che l'ira ti ha reso cieco alle conseguenze a cui andavi incontro... e ti ha dato l'impeto necessario per liberarti.» «Vuoi dire» replicò lentamente Anvar, sgomento. «che sono il solo responsabile delle sofferenze che ho patito in tutti questi anni?» «Certamente no. La tua accettazione era soltanto parte dell'incantesimo, e se tu ti fossi trovato ancora nelle vicinanze di Miathan dubito che saresti riuscito a liberarti. Adesso però lui è lontano e il suo potere deve essere stato indebolito dall'attacco che io gli ho sferrato: questi fattori ti hanno dato l'occasione per liberarti e sei stato subito attratto dai tuoi poteri.» D'un tratto Aurian scivolò nel silenzio e lo fissò come se fosse stato uno sconosciuto, mormorando: «Ancora non riesco a crederlo, Anvar: tu sei un Mago.» «Questo fa tanta differenza?» ritorse Anvar, in tono più aspro di quanto fosse stata sua intenzione... e d'un tratto si rese conto di essere terrorizzato all'idea che Aurian potesse reagire come aveva fatto Miathan e considerarlo una sorta di mostro. «No!» esclamò subito Aurian, in tono indignato, ma subito dopo distolse lo sguardo e ammise con un sospiro: «Sì. Non posso crederci, Anvar: tu... sei suo figlio..» «Non lo dire mai!» ringhiò Anvar. «Non sono figlio di Miathan e non lo sarò mai. Mia madre apparteneva a quei Mortali che lui tanto disprezza... e tu sai cosa ha fatto a me, a te e a Forral: credi davvero che potrei mai essere come lui?» «Sono proprio una stupida» mormorò Aurian, distogliendo lo sguardo con espressione vergognosa. «Hai ragione... oh dèi, hai proprio ragione! Tu non saresti mai capace di commettere le malvagità di cui si è macchiato Miathan e sei stato una sua vittima proprio come lo siamo stati io e Forral. Potrai mai perdonarmi?» chiese, protendendo una mano verso di lui.
«Mia Signora» replicò Anvar, stringendo con sollievo la mano che gli veniva offerta, «non vorrei mai essere un Mago come Miathan, ma non ho paura di diventare un Mago come te. Al contrario, spero di diventarlo... se vorrai istruirmi.» «Io?» domandò Aurian, con un bagliore deliziato nello sguardo. «Devi ammettere che non ho molte alternative.» «Razza di...» esplose Aurian, in tono indignato, poi di fronte al sorriso divertito di Anvar scoppiò in una risata e brontolò: «Furfante! Prevedo che ci vorrà del tempo per abituarsi a questo nuovo stato di cose ma sarò orgogliosa di istruirti, amico mio, se davvero vuoi che lo faccia.» «Certo che lo voglio. Fra tutti i Maghi, sei la sola che sceglierei mai come maestra.» Dopo quella giornata memorabile il viaggio assunse un andamento regolare. Anvar ed Aurian continuarono a condividere una tenda durante le ore diurne, e mentre Shia proteggeva la loro intimità la Maga cominciò ad insegnare ad Anvar come usare e controllare il suo potere, consapevole di non avere più molto tempo a disposizione per farlo perché i suoi poteri si stavano affievolendo a causa della gravidanza ormai entrata nel quarto mese e le cognizioni teoriche che poteva insegnare senza una dimostrazione pratica erano alquanto limitate. La prima cosa da fare era determinare quale fosse l'esatta natura dei talenti di Anvar, e lei rimase stupita nel constatare che anche lui aveva poteri che abbracciavano l'intero spettro delle facoltà magiche, sebbene i suoi punti di forza e le sue debolezze sembrassero risiedere in aree diverse rispetto alle sue. Mentre i campi in cui lei eccelleva erano quelli del Fuoco e della Terra... cosa tutt'altro che sorprendente se si considerava la sua ascendenza... Anvar incontrava una certa difficoltà nel controllare questi poteri ed eccelleva invece nella Magia dell'Aria, ed Aurian aveva il sospetto che avrebbe fatto altrettanto con quella dell'Acqua se ce ne fosse stata a disposizione. Dal momento che quei due campi si combinavano naturalmente a generare la Magia del Clima, sembrava quindi che Eliseth avrebbe prima o poi avuto della concorrenza, ma questo riguardava il futuro in quanto per ora Anvar era soltanto un principiante e aveva molta strada da percorrere. Ogni giorno mentre il resto del campo dormiva Aurian sottoponeva Anvar a spietate esercitazioni fino a quando entrambi erano esausti; per recuperare il sonno perduto, Aurian fece ricorso alle nozioni che Parric le aveva impartito alla guarnigione, insegnandole a recuperare preziosi momenti
di sonno mentre si trovava a cavallo, e spiegò ad Anvar come imitarla, con il risultato che essi trascorsero le lunghe ore di viaggio notturno sonnecchiando sulla sella, ben sapendo che i loro cavalli sarebbero rimasti con il resto della carovana. Questo provocò naturalmente una quantità di battute scherzose da parte di Yazour, di Eliizar e soprattutto di Nereni, ma i due impararono ben presto a non smentire le loro supposizioni sul modo in cui trascorrevano i periodi di riposo perché era comunque meno pericoloso che rivelare il segreto dei poteri recuperati da Anvar. Le notti scintillanti e le torride giornate si succedettero senza posa, come perline infilate una dietro l'altra su un filo costituito dalla pista interminabile. Durante quel tempo Yazour non riuscì a fare progressi nella ricerca dell'aspirante assassino, cosa che lo irritò non poco, ma al tempo stesso non ci furono altri attentati alla vita di Anvar, forse in virtù dell'aumentata vigilanza. Quanto ad Harihn, ebbero ben poche occasioni di vederlo perché a mano a mano che la distanza fra lui e il suo regno andava aumentando il principe si era fatto sempre più distaccato e irritabile, con il risultato che la maggior parte della sua gente preferiva tenersi alla larga da lui. Se non altro, comunque, stava lasciando in pace Aurian ed Anvar, cosa di cui essi erano lieti anche se Aurian si sorprendeva spesso a desiderare di poter parlare con il principe per cercare di rasserenare la sua mente, in quanto sapeva cosa si provasse ad essere esiliati e comprendeva che doveva essersi pentito della propria decisione di rinunciare al trono, considerato che lei stessa si chiedeva spesso cosa il futuro potesse avere in serbo per lui. Anvar, tuttavia, aveva delle idee del tutto personali in merito al pessimo umore del Khisal: in base a certi commenti velati che Harihn aveva fatto e al modo in cui il suo sguardo tendeva ad indugiare con aria riflessiva su Aurian per farsi poi freddo nel fissarsi su di lui, era giunto alla conclusione che apprendere della sterilità di Sara avesse portato un cambiamento nel cuore del principe e che questi stesse pensando di tornare indietro e di farsi aiutare da Aurian a conquistare il trono. Non essendo abituato a pensare che le donne potessero essere dotate di libera volontà, lui vedeva in Anvar il principale ostacolo alla realizzazione del suo piano... e pur non avendo nessuna prova al riguardo questi stava cominciando a nutrire il fondato sospetto che fosse stato proprio il principe ad azzoppare il suo cavallo. Infatti chi altri avrebbe potuto oltrepassare le guardie di Yazour senza essere fermato? Dal momento che lui e Aurian erano nettamente inferiori di numero e avevano ancora bisogno dell' aiuto del Khisal per riuscire ad attraversare il deserto, Anvar tenne per sé quelle riflessioni pur restando costantemente
in guardia, consapevole che con il progredire del viaggio sarebbe diventato sempre più probabile che Harihn attentasse ancora alla sua vita. Yazour intanto continuò a guidarli con la massima precisione, mantenendosi senza fallo sull'antica strada che attraversava il deserto da un'oasi all'altra. Ogni due o tre notti i viaggiatori potevano avvistare in lontananza un'irregolare sporgenza di roccia che emergeva dalla distesa di polvere di preziosi, e cavalli e muli sbuffavano con impazienza per poi accelerare il passo nell'avvertire più avanti l'odore dell'acqua. Il principe e i suoi seguaci si accampavano quindi per la notte all'interno di un bacino di pietra che racchiudeva al suo centro una polla d'acqua dolce alimentata da sorgenti che nascevano in profondità all'interno della roccia. Secondo Yazour, quel susseguirsi di sporgenze rocciose faceva parte di una catena che si stendeva attraverso tutto il deserto come una nodosa spina dorsale e che era in gran parte sepolta sotto la sabbia. Ognuna di quelle preziose fonti aveva un nome, e lui insegnò ai due Maghi a recitarli nel giusto ordine, una cosa che tutto il suo popolo imparava fin dall'infanzia. La carovana incontrò la prima oasi, Abaia, durante la terza notte di viaggio: ad essa fecero seguito Ciphala, Biabeh, Tuvar, Yezbeh ed Ecchith, che contrassegnava approssimativamente il punto mediano del viaggio. Più oltre avrebbero incontrato la bella Dhiammara, Varizh, Efchar, Zorbeh, Orbah e infine Aramizal. «Aspettate di arrivare a Dhiammara!» sorrise Yazour. rivolto ai Maghi. «A mio parere quell'oasi costituisce lo spettacolo più affascinante di tutto il deserto, tanto che vale la pena di sobbarcarsi un duro viaggio pur di contemplarlo.» «Stupide romanticherie!» sbuffò Eliizar, che da giovane aveva attraversato spesso il deserto. «La più bella oasi di questa landa desolata è Aramizal, perché lì ha inizio la tappa finale del viaggio ed è possibile vedere le montagne del Popolo Alato levarsi in lontananza a indicare la fine del deserto.» «Il Popolo Alato!» ripeté Yazour. in tono sprezzante. «E osi definire me un romantico. Tanto varrebbe che ti aspettassi di vedere dei draghi.» «Il Popolo Alato esiste» insistette Eliizar. «La sua cittadella sorge su picchi inaccessibili che gli uomini non possono scalare.» «In tal caso come fai a sapere che c'è?» ribatté Yazour. «So da fonte sicura che la cittadella esiste» intervenne Aurian, sorprendendoli entrambi, poi sorrise nel ricordare il Leviatano suo amico e lasciò vagare con espressione sognante lo sguardo verso nord, quasi stesse cercando di spingerlo al di là dei chilometri che ancora la separavano dalle
montagne del Popolo del Cielo. Aerillia, la città del Popolo Alato, era intagliata nella parete del picco più alto della catena montuosa settentrionale e il palazzo, costituito da un arioso intreccio di terrazze e di torri, era situato al di sopra e all'interno del pinnacolo più alto. Di conseguenza dalla sua stanza Raven godeva di un meraviglioso panorama dell'intera città, e in quel momento era affacciata alla finestra, intenta a contemplare le rocce innevate e le luci che ammiccavano nell'aria limpida e gelida, con le spalle accasciate per l'avvilimento e le grandi ali dalle lucide e iridescenti penne nere che strisciavano contro il pavimento. «Raven?» «Vattene, madre!» esclamò la principessa, girandosi di scatto con espressione accigliata. «Mi rifiuto di sposare il Sommo Sacerdote, e non intendo aggiungere altro al riguardo.» «Neppure per idea!» ritorse Ala di Fiamma, con voce permeata della consueta autorità anche se dolore e tensione avevano tracciato nuove linee sul suo volto, poi prese a passeggiare avanti e indietro per la stanzetta circolare accompagnata dal frusciare delle sue ali fra il rosso e l'oro, e con un'espressione difensiva e al tempo stesso irosa proseguì: «Tu farai quello che ti è stato ordinato. Sei una principessa di sangue reale, Raven, la figlia di una regina, e sei stata allevata nella consapevolezza di avere delle responsabilità nei confronti del tuo popolo e del trono... fra cui anche quella di contrarre un matrimonio vantaggioso.» «Vantaggioso per chi?» gridò Raven. «Per me? Per te? Se sposerò quel vecchio mostro corrotto chi ne trarrà veramente beneficio? Lui e nessun altro! Non può fare niente per aiutarci, madre, sta ingannando te e tutto il nostro popolo perché in realtà non ha nessuna influenza sul Dio del Cielo. Forse che i sacrifici da lui offerti hanno comportato qualche differenza? Tutte quelle vite... vite appartenenti al nostro popolo che noi abbiamo giurato di proteggere... sono andate sprecate senza che la morsa di questo inverno spaventoso e prematuro accennasse ad attenuarsi, e adesso il prezzo che lui pretende per salvarci è la mia mano, cosa che per pura coincidenza gli permetterebbe di raggiungere un'inattaccabile posizione di potere. Non riesci a renderti conto che è un imbroglione? Come puoi essere tanto ottusa?» «Come osi?» Il suono dello schiaffo parve protrarsi echeggiante nel silenzio che seguì,
mentre Raven indietreggiava inorridita, con la mano premuta contro il volto e i grandi occhi scuri colmi di lacrime, perché mai prima di allora Ala di Fiamma aveva alzato una mano contro la sua adorata figlia. «Madre, ti prego» insistette, con voce che era poco più che un sussurro. «Conosci anche tu le usanze del nostro popolo: noi ci accoppiamo per la vita, e se sposassi Artiglio Nero trascorrerei il resto dei miei giorni nell'infelicità accanto ad una persona che disprezzo e che temo. Anche se una principessa deve contrarre un matrimonio adeguato, a nessuna è mai stato chiesto di sottomettersi ad una cosa del genere. Ti imploro di non costringermi a sposarlo: è malvagio, io lo so.» «Bambina» sospirò Ala di Fiamma, «mai in tutta la nostra storia, fin dai tempi del Cataclisma, ci siamo trovati di fronte ad un simile pericolo. Il freddo non è mai giunto così improvviso e intenso da distruggere le colture sulle nostre terrazze e da uccidere tutti gli animali o da indurli a migrare in cerca di un clima più mite. Questo inverno annienta tutto ciò che tocca e l'intercessione di Artiglio Nero è la nostra unica speranza. Il nostro popolo sta morendo, Raven, e per quanto mi addolori in maniera inesprimibile non ho scelta: domani tu sposerai Artiglio Nero e non c'è altro da aggiungere. Adesso lo riceverai, perché desidera parlarti, e ti mostrerai cortese con lui. Il tuo popolo ha bisogno di te, Raven: sei stata allevata come una principessa, quindi agisci come tale!» Con quelle parole la regina si affrettò a lasciare la stanza, come se non potesse tollerare la vista di sua figlia insieme al Sommo Sacerdote. Artiglio Nero aveva la testa calva e dipinta con una serie di disegni arcani e di simboli magici; il suo volto era scarno e crudele, con il naso aquilino e i roventi occhi da fanatico, le piume delle ali erano di un nero opaco e quasi polveroso identico a quello delle sue vesti, e la sua arroganza in presenza di una principessa reale era così intollerabile da destare in Raven il desiderio di sferrargli un pugno. «Sono venuto a felicitarmi con la mia sposa alla vigilia delle nostre nozze» esordì il Sommo Sacerdote, in tono lascivo. «Hai un aspetto davvero adorabile, mia cara, al punto che riesco a stento a tollerare l'attesa» continuò, protendendo le mani avide a toccarla, ma Raven indietreggiò ed estrasse la daga. «Allontanati da me!» ringhiò. «Preferirei morire piuttosto che sposarti, lurido avvoltoio!» «Davvero adorabile» commentò Artiglio Nero, con un sorriso privo di divertimento. «Sei proprio piena di fuoco... e non puoi immaginare quanto
io sia contento dei sentimenti che nutri nei miei confronti, perché mi renderanno ancor più piacevole conquistarti.» «Non ci contare» ribatté Raven, a denti stretti. «Oh, invece ci conto, mia cara. Una volta che sarai mia basterà batterti a dovere per smussare gli spigoli del tuo carattere.» «Non oseresti mai!» sussultò Raven. «Non oserei certo mai usare violenza alla principessa» la corresse il Sommo Sacerdote, scrollando le spalle, «ma il modo in cui scelgo di punire la mia compagna è una cosa che riguarda soltanto me... come avrai modo di scoprire. Ti auguro sogni piacevoli, mia piccola sposa. Dormi bene... finché hai la possibilità di farlo.» Dopo che Artiglio Nero se ne fu andato, Raven perse ben poco tempo a piangere, perché di colpo il tempo sembrava essere diventato troppo prezioso per sprecarlo in quel modo in quanto lei ormai sapeva che la sua unica speranza di salvezza era la fuga e dedicò quindi l'ora successiva a formulare i suoi piani, passeggiando nervosamente avanti e indietro per la stanza, dietro la porta chiusa a chiave. Sapeva che nessuno avrebbe mai pensato che lei potesse fuggire perché un'antica legge proibiva al Popolo Alato di lasciare la sua montagna, cosa di cui lei si era spesso chiesta il motivo senza però che nessuno sembrasse capace o disposto a fornirle una risposta; in ogni caso, la legge prevedeva che chiunque avesse scelto di andarsene sarebbe stato condannato a morte nel caso che avesse poi deciso di tornare, una proibizione talmente radicata che in condizioni normali nessun membro del Popolo Alato avrebbe mai preso in considerazione la prospettiva di violarla... prospettiva di fronte alla quale Raven stessa si trovò a tremare così violentemente che i suoi preparativi richiesero il doppio del normale. «Non ho alternativa» ribadì con decisione a se stessa, nel riporre il pane e la carne che non aveva mangiato per cena in una piccola sacca che legò alla cintura. Tirata fuori la balestra che aveva nascosto sotto il letto, raccolse in una treccia la massa di fini e ribelli capelli neri e indossò gli abiti che usava per volare... una tunica di cuoio nero che le lasciava gli arti liberi di muoversi e sandali dello stesso materiale dotati di lacci da avvolgere intorno alla gamba fino all'altezza del ginocchio... decidendo di non prendere con sé altri indumenti. Di solito la sua razza era infatti poco sensibile al freddo e lei sperava di potersi allontanare in fretta dal gelo di quest'inverno così innaturale. Riposta la daga nella cintura, si accostò infine alla finestra: lanciarsi dal davanzale non sarebbe stato un problema, perché
quella era una cosa che faceva fin da quando era bambina e aveva scoperto il piacere di volare senza averne il permesso. Lieta per una volta che sua madre avesse insistito per farle condividere il proprio noioso fardello dell'amministrazione del palazzo, ripassò quindi mentalmente la posizione di ogni sentinella della città, studiando il modo migliore per evitarle tutte. Nel frattempo era scoppiata un'altra imprevedibile bufera, così violenta da strapparle un sussulto all'idea di affrontarla, cosa folle ma inevitabile perché doveva partire subito se non voleva restare intrappolata per sempre; quanto alle conseguenze a cui sarebbe andata incontro se fosse stata scoperta, esse erano tali che preferì evitare di pensarvi. Nel salire sul davanzale ebbe un momento di esitazione, sopraffatta dalla gravità del passo che stava per compiere, perché se si era sbagliata e sua madre aveva ragione, allora stava tradendo tutta la sua razza, e perché nel lasciare le montagne si sarebbe automaticamente condannata all'esilio, senza nessuna possibilità di tornare un giorno a casa. Con aria pensosa si toccò la guancia su cui spiccava ancora l'impronta bruciante della mano di sua madre, e ripensò alla crudeltà che brillava negli occhi di Artiglio Nero... e questo fu sufficiente a farle prendere una decisione: traendo un profondo respiro spiccò il balzo dal davanzale e allargò le grandi ali nere in modo da frenare la propria vertiginosa caduta, poi si librò come un pipistrello in caccia in modo da portarsi sul lato d'ombra del palazzo e si lanciò lontano dalla propria casa e dalle terre del suo popolo. Volare in mezzo alla bufera risultò essere peggio di quanto avesse supposto perché la visibilità era praticamente inesistente in mezzo alle vorticanti nubi bianche e i venti erano soggetti a violente folate e a mulinelli che la percuotevano senza pietà e che in più di un'occasione minacciarono di mandarla a sbattere contro le pareti delle affusolate torri della città. Se avesse avuto del tempo per riflettere forse avrebbe trovato conforto nel pensiero che senza dubbio la sua foga sarebbe passata inosservata, ma in mezzo a quella bufera dovette invece concentrare tutte le sue risorse per restare in volo ed evitare di andare a sbattere contro eventuali ostacoli, consapevole di aver perso del tutto il senso della direzione e di poter soltanto sperare che il suo volo si stesse svolgendo in linea retta invece di descrivere un cerchio che avrebbe finito per riportarla verso la città... e da Artiglio Nero. Ormai si sentiva gelata fino alle ossa e quella sensazione era per lei del tutto nuova, decisamente sgradevole e spaventosa. Gli orecchi e i denti le dolevano per il morso gelido del vento, le ali erano sempre più rigide e
lente a reagire, e perfino la sua mente cominciava ad essere confusa e intorpidita. Da quanto tempo stava volando? Perché era sola in mezzo a quella spaventosa tempesta? Da dove veniva e dove stava andando? All'improvviso urtò con il piede sinistro contro qualcosa di duro e di irregolare e l'impatto la scagliò in avanti facendole perdere l'equilibrio e mandandola a rotolare su se stessa in un groviglio di arti e di ali che si agitavano, ammaccandosi contro le rocce gelate per poi andare ad arrestarsi a testa in giù contro un cumulo di neve. Troppo dolorante e scossa per fare qualsiasi altra cosa, scoppiò in un pianto dirotto. «Dove sono?» si chiese, aprendo gli occhi, e per un momento la paura le ottenebrò la mente. Poi però il suo retaggio regale tornò a farsi valere e lei trasse un profondo respiro, costringendosi a calmarsi e a verificare dove si trovasse anche se c'era ben poco da vedere: il suo corpo indolenzito era infatti incastrato in uno stretto crepaccio che si apriva fra alcune rocce e che era coperto da una barriera di neve. Il ricordo della fuga della notte precedente le riaffiorò quindi nella mente e quando si rese conto di essere andata a sbattere contro la montagna la consapevolezza di essere sfuggita di stretta misura alla morte le strappò un brivido. Con esitazione si sollevò a sedere per esaminare il piede dolorante, e i suoi timori risultarono fondati in quanto l'arto si era gonfiato e adesso i lacci del sandalo affondavano nella carne, che era coperta di abrasioni e di lacerazioni. Serrando i denti per resistere al dolore fece sciogliere un po' di neve fra le mani e se ne servì per pulire le escoriazioni, pensando che la neve avrebbe contribuito a far diminuire il gonfiore e che comunque non sarebbe stata ridotta all'impotenza finché avesse potuto volare. Un momento dopo sussultò nel ricordare la caduta fra le rocce e il violento atterraggio. Le sue ali... nel crepaccio non c'era spazio sufficiente per muoverle, quindi cominciò a scavare freneticamente per aprirsi un varco nella neve, spostandone di lato grossi blocchi con le braccia. Adesso riusciva a rammentare in modo vago di essere strisciata dentro quella nicchia nell'istintiva ricerca di un riparo dalla tempesta, e anche se per uscire le parve di impiegare più tempo di quanto ce ne fosse voluto per entrare, alla fine gli ultimi centimetri della parete di neve crollarono sotto il suo assalto deciso e lei sbucò all'aperto. Una volta fuori si aggrappò alle rocce per issarsi in piedi e avvertì una intensa fitta di dolore allorché il piede danneggiato toccò il terreno. La sua preoccupazione maggiore erano però le ali, quindi si appoggiò alle rocce per non perdere l'equilibrio e provò a spalancarle, scoprendo che per quan-
to fossero rigide non le causavano dolore e sembravano aver riportato ben pochi danni a parte la perdita di qualche penna e il fatto che il piumaggio un tempo lucido e liscio appariva adesso malconcio e arruffato. Tratto un profondo respiro spiccò allora il volo verso l'alto lanciandosi come meglio poteva a causa della gamba lesa: per un momento perse l'equilibrio e per poco non finì distesa per terra, ma con suo sollievo le ali ressero il suo peso e le permisero di prendere lentamente quota. Eliminata la sua principale causa di preoccupazione, Raven decise allora di dare un'occhiata in giro per poi stabilire cosa doveva fare. Il cielo era di uno splendore abbagliante dopo essere rimasto per tanto tempo coperto da dense nubi grigie e lei si crogiolò nelle morbide tonalità rosate miste ad un verde delicato, ad un azzurro cupo e trasparente e all'oro abbagliante del tramonto... al punto che per qualche tempo rimase così incantata da tanta bellezza celeste da trascurare di guardare verso il terreno; quando infine ogni traccia di colore svanì dal cielo, rimase stupita di veder apparire quelle stesse tinte sul suolo, al punto che per un momento si sentì del tutto disorientata. Se guardava direttamente sotto di sé poteva però vedere il pianoro da cui aveva spiccato il volo, che si trovava sull'ultimo contrafforte montano: a mano a mano che scendevano verso la pianura, i pendii delle montagne perdevano la loro coltre di neve per lasciare il posto ad un nudo ammasso di rocce che si stendeva fino alla cupa e sinistra foresta sottostante, al di là della quale si allargava a perdita d'occhio quell'incantevole mare di colori scintillanti la cui vista le toglieva il fiato: dunque era arrivata al sud, e questo era il leggendario deserto di preziosi. Accertato dove si trovava, tornò infine sul pianoro per riposare perché dopo gli sforzi della notte precedente si stancava ancora facilmente e perché aveva bisogno di riflettere... e di mangiare. Non avendo nessuna esperienza in fatto di viaggi, attaccò voracemente il contenuto della sua sacca dei viveri senza preoccuparsi di dove si sarebbe procurata il pasto successivo, e mentre mangiava rifletté sul da farsi, perché aveva lasciato il palazzo senza pensare a dove sarebbe potuta andare o a come avrebbe fatto a sopravvivere. Per la prima volta si sentì veramente spaventata. Cosa avrebbe fatto se avesse scoperto che quaggiù la gente era come Artiglio Nero o addirittura peggiore di lui? Il pensiero del Sommo Sacerdote e della sorte che l'attendeva a casa fu però sufficiente a rafforzare la sua determinazione, anche se al tempo stesso comprese che doveva trovare chi l'aiutasse perché aveva abbastanza buon senso da rendersi conto di essere una principessa viziata e
di non avere la minima idea su come fare per sopravvivere da sola. Inoltre, si disse, se dovessero minacciarmi potrò sempre volare via di nuovo. L'interrogativo su dove andare trovò facilmente risposta perché non poteva tornare al nord, dove ormai stavano certo dandole la caccia. Rabbrividendo al pensiero di un eventuale inseguimento decise che sarebbe stato meglio partire immediatamente dirigendosi a sud, lontano dalle montagne su cui era nata. Dal momento che le sabbie scintillanti sembravano fornire una luce sufficiente a viaggiare di notte distese le ali e si lanciò nell'aria, puntando verso sud attraverso il deserto lucente. CAPITOLO TRENTUNESIMO DHIAMMARA «Guardate, ecco la bella Dhiammara!» «Stai scherzando» esclamò Aurian, voltandosi a guardare verso Yazour con evidente incredulità. Dopo diciotto giorni di viaggio la bellezza del deserto aveva cessato di esercitare il suo fascino perché la polvere di gemme s'infilava da tutte le parti... nei capelli, in gola e perfino dentro i vestiti... ma lavarsi era proibito perché l'acqua delle oasi che avevano visitato era necessaria per la sopravvivenza dei viaggiatori. Di conseguenza Aurian si sentiva spaventosamente sporca e piena di pruriti, senza contare che il bambino consumava il nutrimento contenuto nelle scarse razioni di cibo e la lasciava costantemente affamata anche se Anvar e Bohan la costringevano ad accettare parte delle loro razioni. In aggiunta a questo le intense sessioni di addestramento con Anvar stavano privando entrambi di sonno e lei si sentiva stanca e irritabile, con gli occhi che bruciavano per la sabbia e il bagliore del deserto, per cui non era dell'umore più adatto per accettare degli scherzi. Facendo rallentare il passo al cavallo sollevò il velo che le copriva gli occhi e socchiuse le palpebre per difendersi dal bagliore della sabbia nel contemplare la montagna isolata che si stagliava sullo sfondo del deserto e che appariva di un'altezza assurda: la sua sommità risultava stranamente tronca, come se fosse stata mozzata da una spada gigantesca, e le pareti erte e lisce splendevano come lucidi specchi senza mostrare la minima traccia di logoramento dovuto agli elementi, cosa impossibile in quel luogo costantemente sferzato dalle sabbie. «Quella non è una struttura naturale!» esclamò, quasi in tono di accusa.
«Ne convengo con te, anche se nessuno ne conosce la storia» replicò Yazour. «Da vicino le sue dimensioni sono incredibili, e in realtà è molto più enorme di quanto possa apparirti adesso perché nel deserto le distanze sono ingannevoli.» Yazour aveva ragione, come dimostrò il fatto che ci vollero ancora parecchie ore di viaggio per arrivare al picco torreggiante, tempo durante il quale l'orizzonte andò sempre più schiarendosi e la montagna si fece immensa, dando l'impressione di essere ancora più grande per il fatto che il terreno non saliva gradualmente verso di essa e la sua forma snella emergeva invece all'improvviso dalle sabbie circostanti, come un'isola dal mare. Nel corso degli ultimi chilometri era ormai diventato impossibile abbracciare in un solo colpo d'occhio l'intera struttura, e adesso che erano arrivati ai suoi piedi tutto ciò che si poteva vedere era un muro verticale di scintillante roccia scura che si stendeva a perdita d'occhio per chilometri sopra di loro e su entrambi i lati; a quel punto Yazour prese a costeggiare la parete di roccia e ben presto Aurian vide apparire in essa un'apertura larga appena quanto bastava a permettere il passaggio di un cavallo. Uno dopo l'altro i membri della carovana guidarono la loro cavalcatura oltre quella soglia e nella fresca oscurità al di là di essa, raccogliendo le torce ammucchiate accanto all'ingresso e accendendole per poi infilarle nei sostegni disposti lungo le pareti. A mano a mano che il chiarore si fece più intenso Aurian si guardò intorno con incredulità, scoprendo di trovarsi in un'enorme caverna il cui soffitto si perdeva nell'ombra sopra di loro. Alla sua sinistra metà dello spazio disponibile era occupato da due polle d'acqua, la prima delle quali si trovava in alto su una sporgenza di roccia da dove alimentava mediante una cascatella quella inferiore, e una rampa inclinata in pietra portava alla polla superiore a cui vennero condotti ad abbeverarsi i cavalli e i muli. Il suolo roccioso della caverna era pianeggiante e in alcuni punti era coperto da mucchi di sabbia che era stata sospinta all'interno dal vento e che insieme al riflesso prodotto dalle pareti serviva ad aumentare il chiarore delle torce. «Questo posto è incredibile!» esclamò Anvar, che si stava guardando intorno con occhi sgranati. «La polla inferiore serve per lavarsi» spiegò Yazour, «e dal momento che a Dhiammara teniamo sempre abbondanti rifornimenti di viveri e di legna oggi potremo banchettare... o almeno avere un pasto che ci sembrerà un banchetto dopo aver avuto il cibo razionato per tanto tempo. Prima di riprendere il viaggio riposeremo qui per due o tre giorni.»
«Splendido!» sorrise Aurian. scusandosi tacitamente per l'umore cupo che aveva avuto di recente. «Non avrei mai pensato di potermi stancare di cavalcare, ma attualmente vorrei non dover vedere mai più un cavallo e potrei anche uccidere pur di potermi concedere un bagno, un pasto caldo e una lunga dormita.» «Allora avrai tutte queste cose» intervenne Anvar, passandole un braccio intorno alle spalle e conducendola verso destra, dove si stava provvedendo ad accendere una serie di piccoli fuochi vicino ad un condotto di ventilazione scavato nella roccia che aspirava il fumo fuori della caverna. Da quando Anvar aveva recuperato i propri poteri e aveva cominciato ad apprendere da lei come usarli, il rapporto esistente fra loro aveva subito una sottile alterazione: l'antico asservimento da parte di Anvar era infatti scomparso del tutto non solo in pubblico, com'era necessario in quanto a parte Bohan e Shia tutti gli altri lo consideravano il marito di Aurian, ma anche quando era solo con la Maga, e lui si era mostrato molto deciso nel costringerla ad accettare del cibo extra prelevato dalle proprie razioni e da quelle dell'eunuco. Aurian, dal canto suo, era rimasta sorpresa di scoprire che quella nuova assertività da parte di Anvar non la infastidiva per nulla: fin da quando erano fuggiti da Nexis lei era stata costretta ad essere l'elemento forte fra loro due, ad addossarsi per intero il fardello costituito da quel viaggio, per cui avere adesso qualcuno con cui condividere le responsabilità le era di sollievo, e sebbene la sua occasionale mancanza di pazienza come insegnante unita alla stanchezza di entrambi avesse portato ad alcune aspre discussioni... Anvar sembrava infatti possedere la cocciutaggine tipica dei Maghi in misura pari alla sua... fra loro si era comunque sviluppata un'amicizia intima e confortante che serviva a lenire la solitudine che li accomunava. I due Maghi condivisero il fuoco con Eliizar e con Nereni, e mentre aspettavano che la cena cuocesse passarono il tempo a chiacchierare, lieti di quell'opportunità dopo il forzato isolamento imposto dall'accamparsi nel deserto. Adesso che era libero dall'arena e di nuovo inserito in una compagine militare, Eliizar sembrava ringiovanito di parecchi anni, e il suo unico occhio scintillava di entusiasmo mentre lui parlava del deserto che gli era tanto caro; paffuta e sorridente, Nereni era contenta quanto lui di aver abbandonato l'arena ma stava trovando quel viaggio difficile da sopportare, sentimenti con cui Aurian non faceva fatica a simpatizzare: infatti se lei che era un'esperta amazzone stava trovando faticoso quel continuo cavalcare, non riusciva neppure a immaginare quanto potesse essere spossante
per una principiante come Nereni. Anche Anvar, che all'Accademia aveva avuto ben poche occasioni per montare a cavallo tranne quando Aurian inventava per lui qualche incarico da assolvere, stava avvertendo la fatica del viaggio. «Tu non hai molti problemi» commentò, fissando in modo espressivo il rotondo posteriore di Nereni, «perché se non altro hai una certa imbottitura fra te stessa e la sella.» In risposta a quelle parole Nereni gli tirò contro un cucchiaio, costringendolo a schivarlo, e tutti e quattro scoppiarono a ridere; di lì a poco Bohan venne a raggiungerli dopo essersi occupato dei cavalli, e ben presto tornò anche Shia che era andata ad esplorare la grotta. «Questo posto non mi piace» disse ad Aurian. «Non riesco a vedere niente, ma mi sento... nervosa.» La Maga, impegnata a gustare il delizioso stufato di Nereni, non le prestò eccessiva attenzione. «Forse hai un po' di sabbia nel pelo» replicò distrattamente, e ben presto si dimenticò di quella conversazione, senza sapere che in seguito avrebbe avuto modo di rammentarla con rammarico. Adesso che aveva il ventre pieno di cibo saporito, scoprì che gli occhi le si stavano chiudendo di loro iniziativa, con il risultato che i contorni delle fiamme danzanti cominciarono a farsi indistinti e il suono della conversazione divenne sempre più ovattato. «Se devi dormire, pigrona, fallo come si deve.» La voce di Anvar la indusse a riscuotersi: sbattendo le palpebre, vide che lui le stava porgendo una coperta. «Volevo fare un bagno» protestò, finendo però la frase con un enorme sbadiglio. «Lo farai domani. Non m'importa di dormire con una donna sporca.» «Tu sei altrettanto sporco» cominciò Aurian, in tono indignato, poi scivolò in un silenzio pieno di sgomento quando afferrò il sottinteso contenuto nelle parole di lui: senza avere a disposizione una tenda che li riparasse da occhi indiscreti, avrebbero dovuto recitare fino in fondo la finzione di essere sposati. Perché non le era venuto in mente prima che si sarebbe potuta presentare una situazione imbarazzante di questo tipo? «È tutto a posto» sussurrò Anvar, avvolgendole la coperta intorno alle spalle, e quando si sdraiarono la prese fra le braccia. Il calore del suo corpo risultò piacevole a causa dell'aria fresca della grotta e ben presto Aurian si rilassò assonnatamente accanto a lui... era passato così tanto tempo dall'ul-
tima volta che aveva avuto di notte il conforto dell'abbraccio di un uomo. Poi scivolò nel sonno con il cuore dolente per la perdita di Forral. L'aroma fragrante che la stuzzicò fino a svegliarla le ricordò così intensamente l'arena da indurla ad aprire gli occhi aspettandosi di vedere le pareti bianche della sua vecchia cella... e invece vide Anvar che le porgeva una tazza fumante. «Ho una sorpresa per te» disse. «Il tuo amico Eliizar ha portato con sé una scorta di...» «Liafa!» esclamò Aurian, raggiante, protendendo avidamente le mani verso la tazza. «E pensare che ho creduto che Eliizar stesse esagerando quando mi ha detto quanto ti piaceva questa roba. È la prima volta che ti vedo sorridere appena sveglia.» «Non tutti sono mattinieri come te» ritorse lei, facendogli una linguaccia. «A quanto pare ti sei alzato da ore.» «Essendo meno dormiglioni, gli uomini hanno avuto il primo turno nella polla» sorrise Anvar. In effetti adesso ogni traccia della polvere scintillante era scomparsa dalla sua pelle e i capelli mossi erano ancora umidi; nel periodo trascorso in prigionia essi erano cresciuti, e per impedire alle ciocche bagnate di ricadergli sul volto Anvar aveva imitato Yazour, legando la capigliatura sulla nuca con un laccio... uno stile che Aurian ritenne donargli parecchio. «Cosa stai fissando? Sono ancora sporco da qualche parte?» «Chi, io? Nulla» replicò Aurian, imbarazzata. «Avevo soltanto dimenticato che aspetto avessi sotto tutta quella polvere.» «In ogni caso, adesso tocca alle donne lavarsi, quindi farai meglio a spicciarti se vuoi liberarti del tuo strato di polvere.» «A dire il vero è un peccato» sorrise lei, posando la tazza vuota. «Ora come ora devo valere una fortuna in gemme.» Nereni era già nella polla insieme alle altre donne del seguito di Harihn, tutte intente a ridere e a schizzarsi a vicenda. Liberatasi degli abiti impolverati, Aurian entrò nell'acqua e scoprì che essa non era fredda come si era aspettata e che il fondale per quanto basso abbastanza da permettere di stare in piedi non lo era tanto da impedire di nuotare. Il fondo della polla era rivestito da un morbido strato di polvere di pietre preziose, senza dubbio depositato dal passaggio di generazioni di viandanti, che rifletteva la luce delle torce. Nel frattempo Nereni le si avvicinò e le porse un pezzo di rozzo sapone.
«Vero sapone!» esclamò Aurian. «Nereni, tu pensi proprio a tutto!» «È ovvio... ed è un bene per voi guerrieri che sia così» ribatté la donna, con un sorriso sul volto paffuto. «Adesso devo andare a preparare il pasto per la giornata, ma prima ti porterò un panno per asciugarti e dei vestiti puliti.» Dopo che Nereni se ne fu andata Aurian si lavò con cura, lieta di potersi liberare i capelli dalla polvere; mentre li lavava rifletté che stavano crescendo e che forse avrebbe potuto presto chiedere ad Anvar di intrecciarglieli. Allorché ebbe finito di lavarsi le altre donne avevano già lasciato la polla, ma lei indugiò ancora un po' nell'acqua, godendo della pace e della solitudine fino a quando i morsi della fame non l'indussero ad andare a sciacquarsi sotto la cascatella prima di uscire dalla polla. Non ebbe il minimo sospetto del pericolo incombente finché non fu troppo tardi. Nel momento in cui posò una mano contro la liscia parete di roccia lungo la quale colava la cascatella nell'aria echeggiò un clamore stridente simile alle urla di un'enorme bestia sofferente, poi la roccia parve diventare viva sotto le sue dita, intrappolandole le mani, le braccia e infine risucchiando inesorabilmente tutto il suo corpo nelle proprie morbide fauci... e per quanto si dibattesse Aurian si trovò ad essere trascinata nell'oscurità al di là di esse. Entro pochi secondi il muro si richiuse poi alle sue spalle, tornando ad essere liscio e uniforme. Anvar spiccò la corsa verso la polla prima che gli echi iniziali si fossero spenti, subito seguito da Yazour e da Eliizar che avevano le armi in pugno: quando arrivarono alla polla, i due lo trovarono già nell'acqua e intento a cercare qualsiasi possibile traccia della Maga e subito andarono ad raggiungerlo, Yazour immergendosi per controllare il fondale ed Eliizar spostandosi lungo il diametro della polla. Poi il clangore cessò bruscamente e nell'aria echeggiarono soltanto i richiami angosciati di Anvar. «Aurian! Aurian!» Adesso l'atmosfera del campo era pervasa di tensione e di apprensione, donne e bambini erano stretti in un gruppo compatto nell'angolo più lontano dalla sinistra polla, protetti da guerrieri armati, e una squadra di balestrieri stava tenendo le armi spianate contro l'acqua immota, pronti a tirare al minimo agitarsi della sua superficie. Di lì a poco venne infine indetta una cupa riunione intorno al fuoco di Harihn, che lasciò scorrere lo sguardo con aria timorosa sui volti tesi che lo circondavano. «Deve essere stata presa da qualche animale» ribadì. «Cos'altro avrebbe potuto fare una cosa del genere?»
«Signore, la polla era vuota» protestò Yazour. «L'ho esaminata attentamente e non ho trovato accessi subacquei, sangue o resti di sorta.» «No!» gridò Anvar, rovesciando il contenuto della tazza di liafa bollente che Nereni gli aveva messo in mano sulla coperta che lei gli aveva avvolto intorno alle spalle tremanti. Yazour gli scoccò un'occhiata contrita e Nereni scosse il capo, con un'espressione compassionevole sul volto solcato di lacrime. «Si deve essere trattato di qualche creatura» ribadì Harihn, scoccando un'occhiata nervosa in direzione della polla. «Cos'altro avrebbe potuto emettere quelle grida orrende? E se quella bestia tornasse? Devono morire altre persone perché tu ti persuada?» «Non ci sono prove.» «Potremmo effettuare altre ricerche» suggerirono contemporaneamente Yazour ed Eliizar, per quanto bagnati e tremanti sotto le rispettive coperte, ma Anvar avvertì la nota di dubbio nella loro voce. «È inutile» dichiarò Harihn, scuotendo il capo e alzandosi in piedi. «Lei è di certo morta. Non possiamo osare di sostare ancora qui, Yazour. Quindi ci prepareremo a partire.» «Bastardo!» Gettata di lato la coperta Anvar superò d'un balzo il fuoco e sferrò un pugno al principe, imprimendo al colpo tutto l'impeto del proprio corpo e gettando Harihn al suolo per poi scagliarsi su di lui e continuare a tempestarlo alla cieca di pugni. «Vigliacco!» stridette, consapevole che il suo corpo stava a sua volta incassando dei colpi ma insensibile al dolore a causa dell'ira che lo pervadeva: dopo tutti gli insulti e le offese, l'arroganza e l'ostilità che aveva dimostrato verso di lui, adesso Harihn aveva intenzione di fuggire e di abbandonare Aurian al suo destino. Anvar era deciso a trasformare il principe in poltiglia, ma braccia forti lo afferrarono e lo trascinarono lontano da lui; in preda ad una furia frenetica, cercò di lottare contro i nuovi assalitori, resistendo a tutti i tentativi di immobilizzarlo finché un'ondata di acqua fredda non gli si abbatté con violenza sul volto, riportandolo in sé. Eliizar e Yazour lo stavano tenendo fermo, e Nereni era in piedi accanto a lui, con in mano un recipiente gocciolante. «Credevo che foste miei amici» borbottò, sbattendo le palpebre per liberare gli occhi dall'acqua e dalle lacrime. «Lo siamo, Anvar» replicò in tono triste Yazour, «ma purtroppo il principe ha ragione. Vorresti sacrificare anche loro?» domandò in tono som-
messo, accennando al terrorizzato gruppetto di donne e di bambini. «Non intendo lasciarla!» «E infatti non la lascerai!» dichiarò Harihn, con espressione accigliata. Anvar ebbe il tempo di notare con soddisfazione che la sua faccia illividita stava cominciando a gonfiarsi quando un calcio violento del principe lo raggiunse alle costole, facendolo piegare su se stesso per il dolore. «Signore!» esclamò Yazour, con voce piena di disgusto di fronte a quella vile aggressione. «Morirà se lo abbandoniamo qui!» «Hai ricevuto i tuoi ordini, Yazour. Questo cialtrone merita di morire per avermi aggredito, quindi verrà abbandonato qui.» «Quest'uomo è disperato, Altezza, e non puoi certo ritenerlo responsabile delle sue azioni in un momento del genere.» «Se preferisci lo farò giustiziare subito» ribatté Harihn, asciugandosi un rivolo di sangue che gli colava dall'angolo della bocca e scoccando un'occhiata velenosa ad Anvar, che reagì ad essa con un cupo sorriso. «Qualsiasi scusa è buona, vero, Harihn?» commentò, «Ebbene, finalmente hai quello che desideravi... ma adesso è troppo tardi perché anche se ti libererai di me non potrai più avere Aurian!» Poi si girò e sputò ai piedi del principe. «Silenzio, cane!» ruggì Harihn, livido in volto per l'ira. «Yazour, accertati che tutte le provviste vengano prelevate o distrutte! Mentre morirai lentamente di fame, Anvar, io gioirò al pensiero della tua sofferenza.» «Se deve essere abbandonato qui, Anvar non resterà solo» dichiarò Eliizar, con voce decisa. «Preferisco restare con lui che percorrere un altro chilometro con te.» «Anch'io!» aggiunse Nereni, venendosi ad affiancare al marito. Anvar cercò di protestare, ma fu ridotto al silenzio dallo stupore provocato in lui da una voce che pareva scaturire dalla sua stessa mente. «Resterò anch'io» disse la voce, e con sua sorpresa Anvar vide Shia portarsi accanto a lui e fissarlo con i suoi occhi dorati, seguita da Bohan che annuì per indicare il proprio silenzioso sostegno. «Come volete» replicò soltanto Harihn, scrollando le spalle. «Signore, lascia almeno loro dei cavalli ed un po' di provviste» protestò Yazour. «No! E se sentirò da te un'altra parola sull'argomento ti abbandonerò a morire con loro.» «Ti ho servito per tutto questo tempo» affermò a denti stretti il guerriero, sbiancando in volto. «e non ho mai saputo cos'eri. Ti guardo in volto e ve-
do tuo padre.» Poi volse le spalle al principe e andò a radunare i suoi uomini. I quattro amici e il felino vennero tenuti sotto sorveglianza da un cerchio di balestrieri mentre gli altri si preparavano per partire, e per quanto fosse tormentato dall'ansia di riprendere a cercare Aurian, Anvar fu costretto all'immobilità perché Harihn aveva dato ai suoi uomini l'ordine di abbatterli tutti se uno solo di loro avesse fatto un gesto. Mentre aspettavano, cercò invano di persuadere i suoi compagni a non sacrificarsi, ma Eliizar e Nereni reagirono entrambi con indignazione di fronte a quel suggerimento e Bohan se ne mostrò profondamente offeso mentre Shia assunse un aspetto così selvaggio da indurre Anvar a chiedersi se non avesse immaginato di sentire la sua voce nella propria mente. Non appena fuori scese la notte la carovana del principe abbandonò l'oasi e sulla caverna scese una quiete quasi irreale. Senza dire una sola parola, Anvar si alzò in piedi e si diresse verso la polla, mentre gli altri si sparpagliavano per setacciare ancora una volta la caverna. Anvar sedeva vicino all'ingresso della grotta immerso nella propria infelicità e con la testa dolente nascosta fra le mani: dall'apertura giungeva già la luce riflessa dell'alba e ancora non avevano trovato traccia di Aurian. Quanto tempo era ormai passato? Anvar cercò di calcolare le ore trascorse da quando erano giunti in quel luogo maledetto: prima avevano mangiato... e le risa che avevano accompagnato quel pasto sembravano ora un sogno remoto... poi avevano dormito uno nelle braccia dell'altra per il resto della giornata e parte della notte successiva, ed era stato allora che Aurian era andata a lavarsi nella polla. Oh, Aurian, perché non ti ho lasciata dormire? pensò. Lei era scomparsa ormai dalla notte precedente e l'avevano già cercata per tutta una giornata e la notte successiva senza risultati. Di certo ormai non potevano esserci più speranze. Qualcuno gli posò una mano sulla spalla, e nel sollevare lo sguardo lui vide che si trattava di Nereni. «Yazour ha nascosto alcune provviste per noi in fondo alla grotta» disse la donna. «Vieni a mangiare, Anvar. Fare così non serve a nulla.» «Come ti aspetti che possa mangiare?» ribatté Anvar, desiderando di gridarle di lasciarlo in pace senza però osare farlo perché anche lei era addolorata per Aurian, e per di più era preoccupata per lui. «Mi dispiace» mormorò Nereni, circondandogli le spalle con un braccio
con fare materno. «So quanto l'amavi.» «Non puoi saperlo» ribatté Anvar in tono amaro. «Finché non l'ho persa non lo sapevo neppure io!» Nereni se ne andò sospirando e Anvar la guardò allontanarsi desiderando che lei e gli altri fossero andati con Harihn e si fossero salvati... di se stesso, infatti, ormai gli importava ben poco. Era davvero ironico che non avesse mai osato ammettere la profondità dei propri sentimenti per Aurian fino a queste ultime settimane in cui la scoperta dei suoi poteri magici li aveva tanto avvicinati... e che adesso fosse troppo tardi. Tutto era cominciato molto tempo prima, durante quella meravigliosa Notte del Solstizio quando avevano festeggiato insieme a Forral, ma a quel tempo lui aveva nascosto la verità perfino a se stesso. Nel profondo del mio cuore sapevo che lei non era per me e non avrebbe mai potuto esserlo. L'amore di Aurian per Forral, il mio odio per i Maghi e poi il ritorno di Sara mi hanno permesso di nascondere a me stesso il fatto che l'amavo. Come ho potuto essere tanto cieco? si chiese in tono dolente. L'ho fatto per proteggere me stesso, perché finché Forral era vivo Aurian non avrebbe mai cessato di amarlo e perché lei gli è rimasta fedele anche dopo che è morto. Sapevo che non avrebbe mai accettato nessun altro... e adesso non la rivedrò mai più, non proverò mai più il conforto della sua amicizia, la gioia della sua presenza. Se n'è andata. «Non è vero!» affermò la voce di Shia. «Cos'hai detto?» chiese Anvar, guardandola con occhi colmi di lacrime. «Formula con chiarezza i tuoi pensieri, uomo. Non sei molto abile a comunicare in questo modo, ma appartieni alla stessa razza a cui appartiene lei e questo mi permette di parlarti se decido di farlo. Adesso accantona quest'inutile dolore e rifletti. Aurian è mia amica e le nostre menti sono collegate: se fosse morta lo saprei di certo... ma se è viva, perché non riesco a raggiungerla?» «Possenti dèi, hai ragione!» esclamò Anvar, mentre la speranza divampava dentro di lui. «Mi ha detto che i Maghi possono avvertire la morte di uno della loro razza, quindi se lei fosse...» «Lo avresti avvertito anche tu» concluse Shia, al suo posto. «Ma se è al di fuori della nostra portata... allora dov'è?» «Sgombra la tua mente e ascolta» ingiunse Shia, arrotolando con precisione al coda intorno alle zampe. «Quando voi due eravate nella tenda a fare quelle cose...» «Non le abbiamo fatte!»
«Non quelle cose, stupido.» «Ah, ti riferisci alla magia.» «Mi dà sempre una sgradevole sensazione di formicolio sotto il pelo» dichiarò il felino, contraendo la coda. «E in queste grotte mi succede lo stesso.» «Allora non si è trattato di una bestia? Pensi che Aurian sia stata intrappolata con la magia? Ma abbiamo setacciato tutta quella dannata polla senza avvertire nulla.» «Se Aurian l'avesse avvertita, credi che sarebbe rimasta intrappolata?» «Allora la trappola deve ancora essere là, di qualsiasi cosa si tratti!» esclamò Anvar, scattando in piedi e spiccando la corsa verso la polla. Mentre si tuffava si chiese cosa stesse cercando con esattezza. Un'apertura nascosta, magari? Alzandosi in piedi nell'acqua che gli arrivava all'altezza della vita si guardò selvaggiamente intorno: ciò che cercava non poteva essere sotto la superficie perché avevano già setacciato la polla da un'estremità all'altra... d'un tratto la soluzione gli parve ovvia: qual era il punto più adatto in cui inserire una porta? Un muro, naturalmente. Il suo sguardo si spostò automaticamente verso la superficie di roccia liscia e piatta lungo cui colava la cascatella. «Anvar! Cosa stai facendo?» chiesero gli altri, che intanto si erano raccolti sull'orlo della polla. Ignorandoli, lui avanzò a guado verso la parete e cominciò a tastarne la superficie con entrambe le mani. «Ho trovato!» esclamò d'un tratto, mentre il suo grido di trionfo veniva subissato dall'acuto stridio dell'allarme. Un momento più tardi il suo giubilo si mutò però in orrore quando la pietra cominciò a fondersi sotto le sue mani, facendosi aderente e vischiosa e risucchiandolo come sabbie mobili fino ad avviluppargli la testa e le spalle in modo tale da impedirgli di respirare. In preda al panico cominciò a dibattersi, ma un istante più tardi la sua faccia riaffiorò nell'aria anche se non riuscì a vedere nulla nell'assoluta oscurità che regnava al di là del muro. «Aurian!» chiamò, senza ottenere risposta. Ormai il suo corpo aveva quasi oltrepassato il portale e lui artigliò freneticamente la superficie liscia che avvertiva sotto le mani nel tentativo di trascinarsi in avanti; poi però i suoi piedi vennero stretti in una morsa ferrea e qualcosa cominciò a trascinarlo indietro. «No!» ululò. Era così vicino a passare dall'altra parte... doveva continuare! Un centimetro dopo l'altro strisciò però all'indietro fino a quando le sue grida vennero di nuovo soffocate dalla vischiosità del portale, poi uno
strattone impresso alle sue caviglie lo fece cadere all'indietro nella polla addosso a Bohan, che nonostante i suoi tentativi di dibattersi lo trascinò fino al limitare dell'acqua. «Imbecille!» ringhiò la voce mentale di Shia, e sebbene gli artigli fossero ritratti il colpo della sua zampa massiccia lo gettò al suolo. «Dannazione a te!» inveì Anvar, rivolto a Bohan, risollevandosi a sedere. «Ero quasi passato.» «Non abbiamo avuto scelta» protestò Eliizar. «A cosa sarebbe servito lasciarvi finire in trappola entrambi?» «Rifletti!» ingiunse Shia, in tono sferzante. «Dobbiamo trovare il sistema per impedire al portale di chiudersi, in modo da poter entrare e, cosa più importante, poter poi uscire.» «Anvar, l'hai vista?» chiese in tono ansioso Nereni. «Non ho visto nulla... era troppo buio... però l'ho chiamata e non ho avuto risposta» replicò Anvar, in tono infelice. «Quando ho setacciato la polla ho esaminato quelle rocce, e le ho trovate impenetrabili» osservò Eliizar, accigliandosi. «Dunque reagiscono soltanto ai Maghi» affermò lentamente Anvar, fissandolo in volto. «Agli stregoni?» sussultò Eliizar, affrettandosi a indietreggiare e ad accennare un segno di protezione contro il male. «Ma tu non sei...» «Lo sono, Eliizar... proprio come Aurian.» Per quanto sorpresa, Nereni si dimostrò più pratica del marito e si aggrappò con fare urgente al braccio di Anvar. «Allora puoi usare la magia per aprirci un varco?» chiese. Poteva farlo? Forse sì, ma in che modo? Lui non aveva idea di come funzionasse quel portale magico... era ancora troppo agli inizi dei suoi studi per questo genere di nozioni e Aurian non aveva avuto il tempo di insegnargli molte cose. D'un tratto però l'intuito gli suggerì la soluzione, racchiusa in uno dei primi incantesimi che Aurian gli aveva fatto apprendere, sulla spinta del terrore dei Nihilim che era ancora vivido nella sua mente. «Credo di poterlo fare, Nereni!» esclamò. Prese quindi posizione davanti all'uniforme parete di pietra e Bohan si mise dietro di lui, cingendogli la vita con le braccia massicce, mentre Eliizar e Nereni rimasero in attesa sul bordo della polla, non osando avvicinarsi maggiormente per quanto il maestro d'armi mostrasse palesemente di vergognarsi della propria debolezza. «Sei pronto, Bohan?» chiese Anvar, scoccando un'occhiata all'indietro al
di sopra della propria spalla, e l'eunuco annuì, accentuando la stretta. «Ora!» borbottò allora Anvar, posando una mano contro la pietra. Il fragore stridente tornò ad echeggiare e la roccia si fece fluida, aderendo al braccio di Anvar per trascinarlo all'interno, ma questa volta Bohan lo trattenne dove si trovava, contrastando la trazione della trappola e al tempo stesso Anvar si concentrò con tutte le proprie forze, cercando di escludere dalla mente la distrazione costituita dallo stridulo meccanismo d'allarme perché doveva eseguire l'incantesimo nel modo giusto. Con la fronte imperlata di sudore protese la mano libera e costruì con cura l'incantesimo temporale di Finbarr... e un momento più tardi rovinò all'indietro nell'acqua insieme a Bohan quando la trazione proveniente dalla parete venne di colpo a cessare. Rialzatosi in piedi tossendo e ansando, si protese verso la parete di pietra, ma Bohan lo prevenne e infilò il pugno attraverso l'apertura per poi ritrarlo senza difficoltà. «Ha funzionato!» gridò Anvar. «Eliizar. ha funzionato! Ho isolato il portale dallo scorrere del tempo, e adesso possiamo oltrepassarlo!» Shia scattò in avanti senza bisogno di ulteriori esortazioni, ma Eliizar esitò, pallido in volto. «Io... non posso farlo!» ansimò. «Anvar, perdonami, ma la stregoneria... non posso!» «Non ti preoccupare. Eliizar... ognuno di noi ha le sue paure» replicò Anvar, posandogli una mano sulla spalla e ricordando con una stretta al cuore di aver detto la stessa cosa ad Aurian, in cima all'altura. «Ora devo andare.» aggiunse quindi, voltandosi verso il portale accanto al quale Shia e Bohan erano in attesa, evidentemente ansiosi di incamminarsi. «Tu e Nereni rimanete qui e aspettateci. Faremo il più in fretta possibile.» «Aspetta!» esclamò Nereni, addentrandosi di corsa nell'acqua e mettendogli fra le mani un fagotto. «Prendi questo: ci sono acqua e cibo... quella povera ragazza deve essere affamata... e anche una veste per lei e degli stivali... e potrebbero servirle anche questi» aggiunse, porgendogli la spada e il bastone di Aurian. «Fa' presto» lo incitò, baciandolo su una guancia. «Fa' presto, Anvar, e torna indietro sano e salvo.» Senza la trazione esercitata dal portale, aprirsi un varco attraverso la sostanza vischiosa in cui la roccia si era trasformata risultò difficile. Shia andò per prima, con il pelo irto per l'impazienza, aiutata da Anvar e da Bohan che la spinsero da dietro, poi fu la volta di Anvar, che sentì le fauci massicce del felino afferrargli il collo della tunica per tirarlo dall'altra parte, dove l'oscurità era assoluta perfino per chi, come lui, era dotato della vi-
sione notturna propria dei Maghi. Girandosi, cercò a tentoni la mano di Bohan e con l'aiuto di Shia tirò l'eunuco dall'altra parte; questi aveva portato con sé una torcia, ma quando l'accese la fiamma risultò non emanare luce. «Cosa accidenti...» sussultò Anvar. La fiamma era visibile come un pallido tremolio che si agitava a mezz'aria simile ad uno spirito privo di corpo, ma non forniva la minima illuminazione. «Magia!» commentò in tono disgustato Shia. «Procura tu una luce.» Anvar sospirò. La Magia del Fuoco non era uno dei suoi punti di forza, ma concentrandosi riuscì infine ad ottenere un'imperfetta sfera di Luce Magica... poi si ritrasse con un urlo quando nella camera si diffuse una luminosità tale da ferire gli occhi. «Spegnila!» ringhiò Shia, con voce sofferente. Subito Anvar estinse la luce, accecato dalle lacrime e da chiazze verdi e rosse che gli danzavano davanti agli occhi. Si stava rialzando da terra quando venne di nuovo scagliato al suolo da un movimento improvviso dell'intera camera, che con un ruggito stridente saettò verso l'alto ad una velocità terrificante. Allorché la vista gli si schiarì Anvar scoprì che adesso la camera era rischiarata da un chiarore diffuso che sembrava emanare dalle pareti... con la mente ancora sconvolta e stordita, impiegò qualche istante a rendersi conto di trovarsi nell'interno cavo di una gigantesca gemma. Tutt'intorno a lui le scintillanti sfaccettature riflettevano una miriade di immagini di se stesso, di Shia e di Bohan, e quando accennò a muoversi quelle immagini sussultarono e oscillarono in maniera tale da lasciarlo disorientato e nauseato: era quasi come se anche lui fosse stato parte di quei riflessi, come se la sua anima e il suo stesso io venissero a poco a poco risucchiati dalle pareti. Accanto a lui Shia uggiolò, mostrando per la prima volta la minima traccia di paura. «Va tutto bene» disse Anvar, cercando di apparire convincente. «Sdraiatevi e chiudete gli occhi. Ci stanno portando da qualche parte... forse sulla cima della montagna... e quando la raggiungeremo ci dovremo fermare per forza.» «Nel suo interesse, mi auguro di non incontrare chi ha creato questa cosa» borbottò in tono iroso Shia, e le sue parole indussero Anvar a chiedersi chi potessero in effetti essere i creatori di quel luogo, dal momento che sembravano possedere un potere di gran lunga superiore a quello dei Maghi. Con chi... o cosa... avevano a che fare qui? E cosa avevano fatto ad
Aurian? Come lui aveva previsto, infine quello strano mezzo di trasporto si arrestò con un violento scossone, e il suo primo pensiero mentre si guardava intorno, confuso dalla miriade di immagini infinite su tutti i lati, fu come avrebbero fatto ad uscire di lì. Poi la vide... una pallida e scintillante chiazza azzurra di Luce Magica che contrassegnava l'area su cui aveva apposto il suo incantesimo di preservazione. Sollevandosi in ginocchio protese una mano in quella direzione a titolo di esperimento e scoprì con sollievo che essa passava con facilità attraverso la parete della gemma, segno che l'incantesimo era ancora attivo. «Lascia che vada prima io» ingiunse Shia, oltrepassandolo. «Se là fuori c'è qualcuno voglio occuparmene di persona.» Emersero su una piatta distesa di roccia immersa nella semioscurità di un'altra caverna. Guardandosi alle spalle. Anvar scorse soltanto un'uniforme parete di pietra lucida e nessuna traccia del chiarore del suo incantesimo che potesse indicare il punto da cui erano sbucati... mentre lui aveva sperato che esso resistesse, perché questa era la prima volta che tentava qualcosa di tanto complesso senza l'aiuto di Aurian e non era ancora sicuro dei suoi poteri grezzi e non sperimentati. La volta della piccola caverna era bassa e simile ad una ciotola rovesciata, la parete attraverso cui erano emersi si allargava in un ampio semicerchio e le sue estremità erano contrassegnate da una massiccia arcata di pietra dalla quale giungeva un tenue chiarore. Vedendo al di là dell'arco Bohan che lo chiamava con un cenno, Anvar si affrettò a raggiungerlo. Oltre l'arco c'era un'ampia piattaforma di pietra, un costone che si stendeva su... sul nulla. Anvar si ritrasse barcollando dall'orlo dell'abisso e deglutì a fatica: per quanto poteva vedere l'abisso sottostante era senza fondo, con le pareti lisce e verticali che si allargavano su entrambi i lati e sprofondavano in quel nulla vertiginoso al centro del quale brillava la debole luce malsana che rischiarava questa enorme spaccatura nel cuore della montagna. Ad una trentina di metri di distanza, sul lato opposto dell'abisso, c'era un'altra sporgenza di roccia uguale a quella su cui lui si trovava, e dietro di essa era visibile un arco uguale a quello alle sue spalle. Sentendosi la bocca improvvisamente arida, Anvar pregò che il costone su cui si trovava fosse più solido di quanto sembrasse esserlo il suo gemello, e al tempo stesso pensò che indipendentemente dall'ampiezza della spaccatura Aurian non sarebbe comunque mai riuscita a valicarla a causa del suo senso di vertigini... e tuttavia non si scorgeva traccia di lei da nessuna parte.
Prendere in esame la supposizione più ovvia, e cioè che lei fosse precipitata nell'abisso, era naturalmente impensabile e in tal caso rimaneva solo un'alternativa, e cioè che qualcosa l'avesse trasportata sull'altro lato... senza dubbio contro la sua volontà, considerato il terrore che lei aveva dimostrato sull'altura. Sollevando lo sguardo, Anvar scrutò il basso soffitto costellato di stalattiti simili a zanne gocciolanti alla vana ricerca di un modo di passare dall'altra parte... una corda, degli appigli intagliati nella roccia, qualsiasi cosa... ma non trovò nulla. Poi uno stridio acuto, simile allo sfregare di due metalli uno contro l'altro, lo fece girare di scatto nella direzione da cui era giunto quel suono agghiacciante, e sotto l'arcata al di là dell'abisso scorse una creatura la cui vista ebbe l'effetto di gelargli il sangue nelle vene. Il corpo gonfio e sferico dell'essere era più largo di quanto un uomo fosse alto e si muoveva su uno strano agglomerato di gambe angolose e articolate... troppe perché Anvar le potesse contare sul momento... che non sembravano destinate tutte allo scopo di camminare, dato che alcune di esse sporgevano come orribili escrescenze dal corpo liscio e opaco, terminando alcune con pinze dall'aspetto crudele, altre con lame affilate come coltelli ricurvi e altre ancora con un mazzo di manipolatori simili a dita che si aprivano e si chiudevano di continuo come per afferrare l'aria. La creatura era priva di testa ma gruppi di luci brillanti che fungevano da occhi erano sparse a intervalli lungo il corpo rigonfio oppure erano montate alle estremità di arti che si contorcevano di continuo. Con una lentezza da incubo quelle protuberanze si mossero nell'aria e rivolsero con precisione i loro raggi accecanti in direzione di Anvar e dei suoi amici. «Gli dèi ci preservino!» esclamò Anvar, in preda ad un cieco terrore, e cominciò a indietreggiare lentamente verso il riparo offerto dall'arcata; accanto a lui, Shia emise un ruggito tale da gelare il sangue nelle vene. «Sparpagliatevi!» ingiunse d'un tratto il felino, nell'istante stesso in cui la creatura scattava verso di loro rapida come il pensiero... e superava d'un balzo la barriera costituita all'abisso. Il grosso felino si spostò da un lato e Anvar si lanciò verso il riparo offerto dall'arcata mentre la creatura atterrava sulla sporgenza di roccia e si soffermava su di essa, con la sua miriade di arti che strideva e ticchettava e i suoi raggi luminosi che si spostavano di qua e di là fino ad arrestarsi su Bohan, che era rimasto sull'orlo del precipizio, paralizzato dalla paura. «Prendilo!» Il pensiero di Shia echeggiò rovente nella mente di Anvar nel momento
stesso in cui il felino si scagliava contro quella creatura mostruosa, serrando le fauci intorno ad una delle sue gambe sottili. Subito gli occhi della creatura si girarono verso di lei e parecchi arti si spostarono sibilando nell'aria con un tintinnare di pinze e di coltelli, soltanto per incontrare il vuoto perché nel frattempo Shia era scattata indietro e fuori della loro portata. Approfittando di quel momento di distrazione del nemico, Anvar spiccò intanto la corsa verso Bohan e lo trascinò lontano dall'orlo dell'abisso. «Sparpagliatevi!» gridò. «Circondatelo e cercate di confonderlo!» Bohan, libero dalla paralisi del terrore adesso che c'era qualche speranza di contrastare quel mostro, estrasse la spada e si spostò da un lato, agitando la lama luccicante per distrarre la creatura... e mentre questa avanzava pesantemente verso di lui Shia scattò ancora in avanti per afferrare di nuovo fra i denti uno dei suoi arti... che però questa volta si girò verso l'alto con violenza tale da scagliare il felino contro il lato dell'arcata. Nel frattempo Anvar. che aveva impugnato la spada di Aurian, la calò in un fendente che troncò di netto uno degli steli che reggevano gli occhi, causando una pioggia di scintille e un violento shock che gli intorpidì il braccio mentre nell'aria echeggiava lo stridere del metallo contro il metallo. Con un sussulto che era più di sorpresa che di dolore, Anvar si rese allora conto che ciò che avevano di fronte non era una bestia esistente in natura ma una cosa che era stata creata. Quel momento di distrazione per poco non gli costò la vita, perché sollevò lo sguardo appena in tempo per vedere una delle lame arcuate calare dritta verso la sua testa. Bohan fu però pronto ad avanzare lateralmente, serrando una grossa mano intorno ad una delle gambe della cosa e assestando uno strattone così violento che la faccia gli si tinse di carminio per lo sforzo sostenuto. Nonostante la sua forza incredibile, la creatura non si spostò di un centimetro, ma quella distrazione fu sufficiente a mandare a vuoto il colpo diretto contro Anvar, che si ritrasse schivando nel momento in cui la lama gli passava sibilando davanti al volto. Shia diede quindi all'eunuco il tempo di mettersi al sicuro tuffandosi direttamente sotto il ventre ricurvo di quella cosa mostruosa e aggredendo le sue zampe di metallo in un vorticare di artigli, con il risultato che la cosa prese a ronzare e a ticchettare nel girare violentemente su se stessa senza però riuscire a protendere sotto il proprio corpo i suoi arti assassini. Inorridito, Anvar vide il felino cominciare a spostarsi deliberatamente verso il limitare del precipizio, seguito dalla creatura che in preda ad una furia insensata si spostò
insieme ad esso nel vano tentativo di afferrare il proprio tormentatore. A poco a poco la cosa arrivò sull'orlo dell'abisso, cominciò ad inclinarsi e infine scomparve... e Shia con essa. «Shia!» urlò Anvar, angosciato, lanciandosi verso l'orlo del precipizio in tempo per vedere due serie di artigli che affondavano disperatamente nella pietra del costone che già cominciava a sgretolarsi. «Aiuto...» stridette nella sua mente la voce di Shia, al parossismo dell'angoscia. Un momento più tardi Bohan si protese ad afferrare freneticamente le zampe nere, senza curarsi dell'abisso che si apriva sotto di lui. Perfino la forza notevole dell'eunuco non era però sufficiente a reggere il peso del corpo massiccio del felino, e a poco a poco anche Bohan iniziò a scivolare verso il precipizio, incapace di puntellare i piedi sulla roccia liscia. Gettandosi prono sul costone, Anvar si sporse a sua volta ad afferrare Shia, che con uno sforzo devastante riuscì ad affondare nella pietra anche gli artigli delle zampe posteriori, sollevandosi quanto bastava perché lui potesse affondare entrambe le mani nelle morbide pieghe di pelle alla base del suo collo. La lotta con l'abisso parve protrarsi per ore, durante le quali Anvar tirò fino ad avere l'impressione che le braccia gli si spezzassero, tormentato dal timore di poter scivolare a sua volta incontro alla morte. Con l'aiuto di due uomini che sostenevano il suo peso Shia fu però in grado di issarsi verso l'alto un centimetro dopo l'altro, faticosamente... e infine con un ultimo possente sforzo balzò di nuovo al sicuro sul costone. Anvar rotolò lontano dall'orlo dell'abisso, con il respiro affannoso e i muscoli delle braccia contratti e doloranti anche adesso che erano stati liberati dal loro fardello. «Hai fatto una cosa veramente stupida!» esclamò in tono furente, rivolto al felino, e avvertì per tutta risposta l'equivalente di una scrollata di spalle mentale. «Però ha funzionato, giusto?» ribatté Shia, ma nonostante la sua spacconeria, la sua voce suonò alquanto scossa. «Infatti» sorrise Anvar, «ed ha salvato la vita a tutti noi.» «Come voi umani avete salvato la mia. Vi ringrazio entrambi.» «In realtà dovresti ringraziare Bohan» precisò Anvar, battendo una pacca sulla spalla del grosso eunuco che rispose con un sorriso. «Siamo stati necessari tutti e tre per sconfiggere quella creatura» osservò quindi Shia, con un ringhio sommesso. «Se Aurian l'ha incontrata da sola...»
«Oh, dèi!» esclamò Anvar, rabbrividendo al pensiero di Aurian costretta a fronteggiare quella spaventosa bestia metallica nuda e disarmata, poi respinse quel pensiero e si alzò in piedi, affermando: «Io non intendo arrendermi. Dobbiamo proseguire.» «Sono d'accordo... ma in che modo?» domandò Shia, guardando in direzione dell'abisso che spaccava in due la caverna e agitando nervosamente la coda. «Quella cosa è riuscita...» cominciò Anvar, costringendosi a tornare vicino all'orlo del precipizio per cercare di capire come la creatura avesse potuto superarlo. «Deve esserci un modo di passare oltre che a noi sfugge. Shia, vieni qui e controlla se riesci ad avvertire la presenza di qualche magia in funzione.» «La sento!» ringhiò quasi subito il felino, indietreggiando dall'orlo dell'abisso con il pelo irto. Inginocchiandosi sul bordo. Anvar ne tastò i contorni con le mani, e sebbene lo sguardo persistesse nel dirgli che davanti a lui non c'era nulla, le sue dita incontrarono una liscia distesa di pietra che si protendeva sull'abisso fin dove lui riusciva ad arrivare. «Il ponte è sempre stato qui, ma era invisibile. Possiamo passare» annunciò. Bohan, che nel frattempo aveva raccolto il fagotto abbandonato per terra durante la lotta, esitò sull'orlo dell'abisso con espressione accigliata e guardò verso Anvar con aria interrogativa, accennando al baratro per poi abbozzare gesti vaghi nell'aria con la mano in un messaggio che Anvar comprese fin troppo bene, dato che anche a lui si stava contraendo lo stomaco al pensiero di attraversare quel vertiginoso precipizio senza nessun sostegno apparente. «No, amico mio» replicò in tono contrito. «Sfortunatamente non so come renderlo visibile, quindi dovremo stare molto attenti.» Per tutta risposta Bohan rabbrividì. Anvar si avviò per primo, strisciando carponi sulla pietra invisibile. Muovere il passo iniziale nel vuoto richiese più coraggio di quanto lui pensava di possederne e fu soltanto pensando ad Aurian che riuscì a ricacciare indietro il panico che minacciava di sopraffarlo e a imporsi di avanzare lentamente, controllando a tentoni l'ampiezza del ponte con mani che tremavano violentemente. Quando cercò di comunicare con gli altri dalla gola gli uscì soltanto un suono stridulo e fu costretto a schiarirsi la voce prima di tentare ancora.
«State attenti» avvertì. «È molto stretto e non c'è ringhiera. Procedete lentamente perché la superficie è liscia e affrettarsi può essere fatale.» Il tempo si protrasse in un incubo interminabile. In un primo tempo Anvar provò a tenere gli occhi fissi sulla parete opposta dell'abisso ma questo non gli fu d'aiuto perché essa non pareva avvicinarsi, tanto che lui si trovò a chiedersi se sul ponte c'era qualche magia malvagia che faceva indietreggiare la meta fuori della sua portata, bloccandolo per sempre sospeso sull'abisso fino a quando le forze gli fossero venute meno e lui fosse precipitato incontro alla morte. Non appena chiuse gli occhi si sentì meglio e infine si rese conto che non aveva bisogno di vedere... dopo tutto il ponte era invisibile... e che poteva procedere più facilmente se avesse escluso la visuale dello spaventoso precipizio che si apriva sotto si lui. Continuò quindi a strisciare con penosa lentezza, cercando a tentoni i contorni del ponte su entrambi i lati con le mani sudate, mentre il cuore gli martellava selvaggiamente nel petto e negli orecchi. «Sono passato!» esclamò, non appena sentì la pietra farsi più grezza sotto le proprie mani. Non riuscendo più a trovare i contorni del ponte sotto le dita aprì gli occhi e scoprì di essere al sicuro sul costone opposto. Spostatosi in modo da non essere d'intralcio agli altri quando lo avessero raggiunto, si accasciò con gratitudine al suolo, premendo la guancia sulla solida roccia, prossimo a piangere di sollievo nonostante il corpo dolorante, madido di sudore e ancora scosso dalla tensione. Finalmente anche Bohan e Shia lo raggiunsero e tutti e tre riposarono per qualche tempo, troppo spossati da quell'esperienza per riuscire anche soltanto a parlare. Infine Anvar li costrinse a rimettersi in movimento, sebbene l'eunuco apparisse esausto e perfino il passo di Shia si fosse fatto un po' barcollante, e non si soffermò neppure per un momento a pensare ai sentimenti che lo stavano spingendo al di là della resistenza fisica e perfino della speranza: sapeva soltanto che doveva trovare Aurian oppure morire con lei su quella montagna. Al di là dell'arcata si erano aspettati di incontrare un'altra parete ricurva, invece trovarono l'accesso ad una camera lunga e stretta dall'alto soffitto a volta, dove la pietra aveva di nuovo un aspetto lucido e simile al vetro, come se fosse stata fusa e rimodellata nella sua attuale forma. Una strana luce rossastra che pareva scaturire dal nulla rischiarava la stanza e l'aria era pervasa da un acuto e remoto ronzio che produceva un'irritante risonanza nelle ossa del cranio e della mascella. Ciò che però attirava l'attenzione era una fila di alte gemme di forma ovale simili a pietre di luna congelate e di-
sposte lungo le pareti della camera: quegli oggetti sembravano i bozzoli creati da qualche sinistro e gigantesco insetto e la loro vista destò in Anvar uno strano senso d'inquietudine che lo indusse ad andare ad esaminare il più vicino, seguito da Shia e da Bohan. Sul davanti della gemma ghiacciata spiccava una singola sfaccettatura trasparente simile ad una finestra aperta sull'interno, e quando si protese a sbirciare in essa Anvar si ritrasse con un'esclamazione soffocata nel trovarsi davanti la faccia sogghignante di un teschio umano, che per un effetto ottico della struttura interna della gemma parve balzare verso di lui dalla sua tomba di cristallo. Spingendo Anvar da parte Shia si sollevò sulle zampe posteriori per guardare attraverso la sfaccettatura trasparente. «Questo è ciò che accade a coloro che penetrano in questo posto» ringhiò. «Vengono imprigionati nel cristallo da quella creatura di metallo.» «Non penserai...» cominciò Anvar, reprimendo un brivido. «Spero di no, ma in ogni caso dobbiamo cercare» ribatté Shia, trottando fino al cristallo successivo e sollevandosi a sbirciare in esso mentre Anvar la seguiva con il cuore stretto dall'angoscia. Ad uno ad uno esaminarono ogni bozzolo della fila, ed Anvar dovette fare violenza a se stesso per guardare dentro ciascuno, timoroso di ciò che avrebbe trovato. Tutti i bozzoli contenevano ossa, per lo più umane ma in alcuni casi anche di altre creature, e mentre alcuni corpi erano all'apparenza intatti altri erano stati crudelmente schiacciati e mutilati dalle appendici della bestia di metallo. Alcune di quelle creature erano irriconoscibili, ma lo scheletro di un grosso felino strappò a Shia un ringhio selvaggio e in due bozzoli trovarono due minuti scheletri dall'aspetto quasi umano... tranne che per una serie di ossa che si allargavano a ventaglio dalla spalla dotata di una strana articolazione: esseri alati! Infine arrivarono all'ultimo bozzolo, e Anvar esitò. «Lascia guardare me» si offrì Shia. Per un lungo momento sbirciò nell'apertura mentre Anvar attendeva con la bocca arida, poi si lasciò ricadere a quattro zampe, con la coda che si agitava per l'emozione, e annunciò: «Aurian è lì dentro.» CAPITOLO TRENTADUESIMO LA CITTÀ DEL POPOLO DEI DRAGHI Aurian era sospesa al centro della luce lattea racchiusa nella gemma,
impossibile da raggiungere attraverso lo spesso cristallo che sigillava la sua tomba e congelata come una statua di alabastro, al punto che l'unica traccia di colore era costituita dai suoi capelli di fiamma. I suoi occhi erano chiusi come se dormisse, le labbra socchiuse... Anvar non riuscì a vedere altro prima che gli occhi gli si velassero di lacrime, e si accorse a stento che Bohan lo stava allontanando dal cristallo, così come non vide Shia prendere il suo posto dietro il panello trasparente. Le ginocchia gli cedettero e lui si accasciò al suolo in preda all'angoscia. «Un momento!» gli risuonò nella mente la voce di Shia. «Respira ancora!» «Non essere stupida!» urlò Anvar, girandosi verso di lei. «È morta, dannazione a te! Quello è soltanto un effetto ottico del cristallo... hai visto anche tu gli altri... le ossa...» «L'ho vista respirare!» ruggì Shia, assestandogli una violenta zampata con gli occhi che ardevano d'ira. «Tirala fuori di lì, umano!» «Se ti stai sbagliando...» cominciò Anvar, rialzandosi lentamente in piedi. «Guarda tu stesso, ma questa volta osserva con molta attenzione, con la testa e non con il cuore.» La vista del volto pallido e privo di vita di Aurian lo ferì come un coltello piantato nella carne, ma si costrinse a guardare. Trascorse un minuto, poi un altro ancora... e d'un tratto lui s'irrigidì: aveva forse immaginato ciò che aveva visto? Aspettò un altro minuto poi lo vide di nuovo... un sollevarsi del petto di Aurian, appena percettibile ma innegabile. «Possenti dèi!» sussurrò. «Hai ragione, Shia! Hai ragione!» E abbracciò il grosso felino in un selvaggio impeto di gioia. «Certo che ho ragione» ribatté in tono compiaciuto Shia. «I felini sono saggi, Anvar. Gli altri resti sono molto vecchi... forse quelle creature sono morte di fame, o a causa delle ferite riportate. Comunque abbiamo lo stesso un problema: come facciamo a tirarla fuori?» Già, come? Un'ora più tardi Anvar si sentiva prossimo ad urlare per la frustrazione: avevano colpito il cristallo con l'elsa delle spade e Shia gli si era scagliata contro con le zanne e con gli artigli, ma esso aveva sventato tutti i loro sforzi rimanendo integro e impervio a qualsiasi attacco. Indietreggiando con il respiro affannoso, Anvar fissò con aria aggrondata la gemma. «Così non otteniamo nulla» disse. «È assolutamente infrangibile, e tuttavia la creatura ha messo Aurian al suo interno, il che significa che deve
essere possibile aprirlo in qualche modo. Shia, avverti magie di sorta?» «Avverto qualcosa» rispose il felino, che si era accasciato a terra con aria avvilita, «ma è diverso, non si tratta di un incantesimo.» Facendo una pausa, grattò il liscio pavimento di pietra con gli artigli, alla ricerca delle parole giuste. «È come se il cristallo fosse una magia ma non operasse la magia, se riesci a capire quello che intendo» aggiunse quindi. Anvar non comprese, ma al tempo stesso ebbe paura di provare uno qualsiasi degli incantesimi del suo limitato repertorio per timore di poter attivare nella sua ignoranza qualcosa che potesse fare del male alla Maga racchiusa nel cristallo. Riflettendo intensamente alla ricerca di un modo per superare quella difficoltà lasciò scorrere le mani lungo le lisce pareti della gemma e d'un tratto si ritrasse con un'imprecazione allorché le sue dita incontrarono un bordo affilato. «Bohan, sei riuscito a staccare un pezzo da questa cosa?» domandò. L'eunuco scosse il capo con enfasi. Succhiandosi le dita sanguinanti Anvar esaminò il punto su cui si era tagliato. Sapeva che esso si trovava in alto su un lato del cristallo, ma in un primo momento non riuscì a scorgere nessuna imperfezione nella sua superficie omogenea... poi una chiazza di sangue guidò il suo sguardo sull'area in questione e tastando con maggiore cautela trovò una depressione, un punto in cui mancava una singola sfaccettatura la cui assenza era nascosta dai riflessi interni della gemma. «Manca un pezzo» rifletté. «Mi chiedo se...» «Se sia una chiave?» domandò Shia, che aveva capito ciò che lui stava pensando. «Se lo è dobbiamo trovarla in fretta, perché chi può sapere per quanto tempo ancora Aurian riuscirà a sopravvivere lì dentro?» replicò Anvar, poi s'immobilizzò a causa di un pensiero agghiacciante: «E se la creatura lo aveva su di sé?» osservò. «C'è un solo modo per appurarlo: smetterla di temere il peggio e dare inizio alle ricerche» ribatté Shia, allontanandosi per cominciare ad esaminare la camera. Alla fine fu Bohan a trovare il pezzo mancante, infilato in una nicchia nel muro alle spalle del cristallo, e subito Anvar glielo tolse di mano: il frammento era grosso quanto il suo pugno ed acuminato all'estremità interna, mentre lungo i bordi lisci le sue molteplici sfaccettature creavano piacevoli giochi di luce. Trattenendo il respiro, si protese verso l'alto e spinse il pezzo nella rientranza, girandolo in modo che vi si adattasse: esso
scivolò al suo posto con uno scatto e un momento più tardi Anvar si affrettò a indietreggiare allorché la gemma fu pervasa da un'abbagliante luce bianca che poi si dissolse lentamente, lasciando il cristallo trasparente e del tutto privo del precedente chiarore latteo, e rendendo possibile vedere ora all'interno i riflessi distorti del corpo di Aurian. La luce si era appena spenta quando una fenditura apparve sul davanti della gemma, che si aprì in tutta la sua lunghezza come un guscio dotato di cardini che si dividesse in due segmenti cavi dalle pareti spesse, e quando scattò in avanti per sorreggere la Maga che stava scivolando fuori da quello strano bozzolo. Anvar si trovò ad avere fra le mani un vero e proprio demonio. Il mostro, quell'orribile creatura simile ad un ragno, l'aveva afferrata! Aurian si mise istintivamente a lottare, colpendo con i pugni e con i piedi come Maya le aveva insegnato a fare, poi sentì un grugnito dal suono stranamente umano allorché uno dei suoi colpi andò a segno e la stretta che la bloccava scomparve. «Davvero splendido. Lui passa tutti questi guai per soccorrerti e tu lo aggredisci» commentò nella sua mente una voce familiare. «Shia!» esclamò, girandosi e guardandosi intorno sbattendo le palpebre sotto quella strana luce rossa; ebbe però a stento il tempo di scoprire la presenza dei suoi tre amici che Anvar la strinse in un abbraccio che le tolse il respiro e la sollevò da terra. «Per gli dèi, Aurian, è così bello vederti viva!» esclamò. Avendo la testa affondata nella spalla di Anvar, lei era impossibilitata a guardarlo in viso, ma notò come la sua voce suonasse rauca e soffocata e quando tentò di rispondere scoprì di avere la gola troppo arsa per riuscire a parlare. Accorgendosene Anvar allontanò un braccio da lei per il tempo necessario a frugare in un fagotto che aveva accanto e a tirare fuori una fiasca d'acqua. Sorreggendola mentre beveva, la costrinse quindi con sua irritazione a inghiottire l'acqua in piccoli sorsi, allontanando la fiasca quando lei cercò di afferrarla. «Aspetta un momento» ordinò, con voce ora più salda. «Non bevi da quasi tre giorni e se esageri potresti sentirti male.» «Giorni?» annaspò Aurian, lottando invano per ricordare cosa era successo. Decifrare l'espressione di Anvar sotto quella luce fievole e rossastra era difficile, ma lei ebbe l'impressione di scorgere una lacrima che gli scorreva lungo la guancia. «Sono stata malata? Ho sognato quella cosa orribile simile ad un ragno? Mi sembra di aver passato tre giorni a sbronzarmi con
Parric» gemette quindi, sentendosi la bocca arida, la testa pulsante e lo stomaco che bruciava, oltre a registrare gli stessi irritanti vuoti di memoria che erano di solito provocati dall'aver bevuto troppa birra. «Credo che questa ti possa servire» osservò intanto Anvar, prelevando dal fagotto un'ampia veste nello stile del deserto. Aurian sussultò, improvvisamente consapevole della propria nudità, e di colpo ricordò ogni cosa... la nuotata nella polla e ciò che era successo dopo... mentre Anvar la aiutava a vestirsi e le dava dell'altra acqua insieme ad una piccola forma piatta di pane preparato da Nereni, tenendola quindi stretta fra le braccia mentre mangiava. In un primo tempo Aurian sbocconcellò lentamente il pane, perché le sembrava di potersi sentire male da un momento all'altro, ma quando infine esso le si assestò nello stomaco cominciò a stare meglio e si sentì pronta a mangiare ancora. Intanto che si rifocillava, procedette a raccontare ai suoi amici quello che le era successo. Dopo essere stata risucchiata dal portale, aveva fatto la stessa accidentale scoperta di Anvar, e cioè che la Luce Magica provocava l'ascesa di quello strano mezzo di trasporto a forma di gemma, ma arrivata alla sommità aveva trascorso parecchio tempo cercando di trovare un incantesimo che le permettesse di scendere e di tornare dagli altri. Quando infine i suoi sforzi non avevano dato nessun risultato si era poi decisa a lasciare il cristallo per cercare un diverso modo per scendere. «Ne sono uscita più o meno come sono entrata» spiegò. «Sono stata risucchiata attraverso la parete e mi sono trovata davanti quella cosa che sembrava un ragno. Non avete idea di quanto sia orribile.» «Ce l'abbiamo» garantì Shia, in tono cupo. «L'abbiamo incontrata anche noi.» «Io non ho potuto contrastarla» affermò Aurian, con un brivido. «Sapevate che è impervia alla magia?» «Non ho neppure pensato di provare ad usarla» confessò Anvar, scuotendo il capo. «È stato meglio così, perché quella cosa sembra possedere la capacità di ritorcere gli incantesimi contro chi li impiega... per poco non mi sono fritta da sola prima di scoprirlo. In ogni caso mi ha afferrata.» Aurian fece una pausa, deglutendo a fatica nel tentativo di tenere sotto controllo la voce, e quando Anvar la strinse maggiormente a sé gli rivolse un sorriso di gratitudine, proseguendo: «Ricordo che stavo lottando... poi non rammento più nulla e mi è parso che sia trascorso soltanto un istante fra allora e il momento in cui ho sentito Shia dirmi che ti avevo colpito. Ti
ho fatto male, Anvar... mi dispiace» aggiunse, sollevando una mano a sfiorare un livido che gli stava fiorendo sullo zigomo. «Quella non è opera tua ma di Harihn.» «Oh, Anvar, avete litigato?» esclamò Aurian, sgomenta. «So che voi due non avete simpatia uno per l'altro, ma...» «Aspetta di sentire tutta la storia.» Assistito da Shia e da qualche cenno di conferma da parte di Bohan, le raccontò quindi tutto quello che era successo. Aurian lo interruppe con un grido di gioia quando apprese che adesso lui e Shia erano in grado di comunicare fra loro, e con una sfilza di agghiaccianti maledizioni scagliate sulla testa di Harihn nel sentire come questi avesse abbandonato i suoi amici a morire. Una volta che la sua ira si fu placata abbastanza da permetterle di ascoltare il resto della storia, rabbrividì quindi al resoconto dello scontro con il mostro metallico e del rischio corso da Shia di precipitare nell'abisso. Poi Anvar cominciò a descrivere l'attraversamento del ponte invisibile e lei non resse oltre. «Non me lo dire, questa è una parte che preferisco non sentire, se a te non dispiace» si scusò. Una volta che Anvar ebbe concluso il suo racconto, Aurian lasciò vagare lo sguardo sui suoi tre compagni, commossa dal loro coraggio e dalla loro fedeltà. «Miei carissimi amici, siete stati così coraggiosi... non so come ringraziarvi...» mormorò, poi rimase a corto di parole e si asciugò una lacrima dal viso. «Ci basta che tu stia bene» rispose Anvar. «Tu e il bambino.» «Grazie a voi tre sembriamo essere illesi» replicò Aurian, guardandolo con affetto. «L'interrogativo è cosa fare adesso. Siamo intrappolati qui grazie a quell'idiota di Harihn, e se non troveremo in queste gallerie qualcosa che ci aiuti moriremo di fame. E poi c'è un'altra cosa, Anvar» aggiunse, con gli occhi accesi dall'eccitazione. «Non ti sei ancora reso conto di cosa deve essere questo posto? I cristalli, la creatura di metallo immune alla magia... tutti gli indizi rivelano che abbiamo trovato la civiltà perduta del Popolo dei Draghi! Qui ci devono essere dei manufatti... conoscenze, armi, forse perfino la Spada di Fuoco stessa... che potremmo usare contro Miathan.» «Non ti arrendi mai, vero?» commentò Anvar, scuotendo il capo con esasperazione. «E se trovassimo altri ragni mostruosi? E se ci fosse di peggio?»
«Dopo la mia recente esperienza non pensi che sia inorridita all'idea di quelle cose simili a ragni?» replicò Aurian, scrollando le spalle. «Se devo essere onesta, Anvar, non vedo alternative: senza dubbio non possiamo tornare da dove siamo venuti, quindi la sola possibilità è proseguire.» Sebbene desiderassero tutti dormire decisero di riprendere immediatamente la marcia perché le scorte di cibo erano scarse e per quanto non sapessero quali pericoli si potevano celare in quella roccaforte montana sapevano almeno che non avevano nulla da guadagnare ad indugiare. L'unica altra uscita dalla lunga camera era un'enorme soglia ad arco all'estremità opposta, dove un'ampia rampa si snodava in larghe curve su per una vasta galleria il cui alto soffitto era a punta come l'arcata. Shia si avviò per prima, i due Maghi la seguirono insieme per tacito assenso e Bohan si mise alla retroguardia con la spada spianata. Adesso che Anvar le aveva restituito il suo equipaggiamento, Aurian era sollevata di avvertire di nuovo al fianco il peso familiare della spada, e nell'accarezzarne l'elsa logora pensò che lei e Coronach avevano vissuto insieme una quantità di esperienze... poi ricordò quel compleanno di tanto tempo prima, quando Forral le aveva regalato quell'arma, e si portò inconsciamente una mano al ventre, chiedendosi se suo figlio sarebbe sopravvissuto abbastanza a lungo da impugnare una spada. «Aurian?» chiamò Anvar, fissandola con espressione ansiosa. «Sto bene» garantì lei, stringendo più saldamente il bastone e facendo del suo meglio per allontanare quei pensieri malinconici. Adesso l'inquietante luce rossa che regnava nella camera dei cristalli era stata sostituita da un morbido chiarore ambrato che emanava da una ragnatela di lucenti venature che solcavano la pietra liscia e uniforme del passaggio, l'aria che sfiorava loro il volto era priva di qualsiasi traccia di umidità o di muffa e le pareti e il pavimento non recavano tracce di polvere o di ragnatele; a mano a mano che salivano l'irritante ronzio era diminuito d'intensità e soltanto quando cominciò a rilassarsi un poco Aurian si rese conto di quanto esso l'avesse infastidita. «Sai» disse ad Anvar, «questo passaggio è come una scala a chiocciola con la differenza che non ci sono gradini. Suppongo che i draghi potessero avere delle difficoltà a salire le scale, ma se questo passaggio è stato costruito per loro, ciò significa che dovevano essere ancora più grandi di quanto supponessi.» «E più potenti di quanto pensassimo, se hanno potuto creare questo posto e la creatura di metallo» annuì Anvar, cupo. «Dovremo stare attenti.»
Nel risalire un tunnel sempre uniforme come quello era facile perdere la nozione del tempo, ma dopo un po' cominciarono a imbattersi in stanze che si aprivano su entrambi i lati, e con estrema frustrazione di Aurian alcune di esse risultarono chiuse da grandi porte di metallo o di cristallo impervie alla forza e alla magia; altre stanze erano prive di porta o aperte, ma grandi o piccole che fossero erano del tutto vuote e illuminate soltanto dal vago chiarore del passaggio che penetrava attraverso l'ampio ingresso, e Shia riferì che all'interno non si avvertivano tracce di magia. «Che sorta di luogo ridicolo è questo?» si lamentò Aurian, mentre esploravano un'ennesima camera abbandonata, sentendosi i muscoli doloranti per lo sfinimento e la testa che ricominciava a pulsarle. «A cosa serve tutto ciò?» «Come diavolo faccio a saperlo?» scattò Anvar, accasciandosi contro di lei e sfregandosi con le nocche gli occhi brucianti... e dopo avergli scoccato un'occhiata penetrante Aurian spostò lo sguardo su Bohan, riscontrando anche in lui una pari stanchezza. «Da quanto tempo non dormite?» domandò infine. «Giorni... non ricordo bene» gemette Anvar. «Da quando tu sei scomparsa.» «Anvar, perché non me lo hai detto?» Prendendolo per un braccio Aurian lo condusse in fondo ad una piccola stanza e lo fece sedere a ridosso della parete, aggiungendo: «Questo posto è la posizione più difendibile che si possa trovare. Riposeremo qui.» Bevvero tutti a turno un piccolo sorso dalla borraccia, poi Aurian piegò le mani a coppa e Anvar vi versò un po' d'acqua perché anche Shia potesse dissetarsi, e infine la Maga insistette per addossarsi il primo turno di guardia. «Non ho fatto nulla in tutto il tempo che voi avete passato a cercarmi, quindi è soltanto giusto così» sottolineò, e nessuno ebbe l'energia per controbattere. «Sveglia me per il cambio» le disse Shia. «Possiamo condividere i turni di guardia perché a me serve meno riposo di quanto ne necessitiate voi deboli creature a due zampe.» Lasciandoli dormire, Aurian sedette da un lato dell'entrata con la spada pronta in pugno e cominciò a scandire il tempo battendo la lama sul palmo della mano per contare i minuti e cambiando mano con il trascorrere di ogni minuto, ma ben presto smise perché contare le induceva sonnolenza e stava cominciando ad assopirsi. Invece pensò al suo bambino, che doveva
essere ormai di cinque mesi, sebbene fosse difficile determinare con precisione il tempo trascorso perché alle Maghe veniva insegnato come bloccare i loro cicli mensili che erano una tale seccatura per le Mortali; di solito si rendevano comunque conto di essere incinte dopo il secondo mese, quindi Aurian riteneva che i suoi calcoli fossero più o meno esatti anche perché aveva subito avvertito la presenza del bambino dentro di lei una volta che la sua attenzione era stata richiamata su di essa. Fra non molto i miei poteri svaniranno del tutto, pensò, e cosa faremo allora? Sempre che si riesca a fuggire da qui, naturalmente. Cosa può avere provocato un simile tradimento da parte di Harihn? Ho dunque sbagliato così tanto nel giudicarlo? Si chiese quindi cosa stesse accadendo a Nexis e se Miathan avrebbe usato il potere del Calderone per schiavizzare i Mortali che lui tanto disprezzava, avvalendosi della complicità di Eliseth, di Bragar e di Davorshan. Che fine avevano fatto i suoi amici? Vannor e Parric erano riusciti a sopravvivere? E che ne era stato di Maya e di D'arvan e di sua madre? Non ne aveva idea, perché nel periodo in cui i bracciali avevano bloccato i suoi poteri era possibile che qualche Mago fosse morto senza che lei avesse potuto recepirlo. Quel pensiero le strappò un brivido, nonostante l'aria calda presente nella stanza, e la indusse a rimpiangere il vecchio e robusto mantello di Forral, andato perduto nel naufragio, perché il suo peso familiare sulle spalle le era sempre stato di conforto. Adesso però il mantello e Forral non c'erano più, e lei si sentiva fredda e sola in questo posto buio. Persa nei suoi dolenti pensieri, sussultò nel sentire un naso freddo e nero che le sfiorava la faccia. «Proprio come supponevo» commentò Shia. «Stai quasi dormendo, quindi è tempo che ti dia il cambio.» La Maga non esitò ad acconsentire perché rifugiarsi per qualche tempo nell'oblio del sonno sarebbe stato un sollievo. Raggiunto il punto in cui stavano dormendo i suoi amici si sdraiò accanto ad Anvar: come sempre lui parve avvertire la sua presenza e si girò per circondarla con un braccio, mormorando il suo nome nel sonno... e mentre gli si stringeva contro lei sentì il proprio fardello farsi un po' più leggero. Se non altro ho Shia e Bohan, pensò, e soprattutto Anvar. Non ho mai preso decisione migliore di quella che mi ha portata a salvarlo quel giorno da Miathan, e lui si è dimostrato un vero amico. Sentendosi confortata, infine si addormentò. Il giorno successivo, se di giorno si trattava, s'imbatterono nella trappo-
la. Dopo una colazione frugale che ridusse notevolmente le loro già scarse scorte di viveri, ripresero stancamente il cammino continuando a risalire l'anonima spirale di pietra affiancata da stanze vuote fino a trascinare i piedi per lo sfinimento. Ormai prossima alla disperazione, Aurian cominciava a domandarsi se si era sbagliata nello sperare di poter trovare il sapere perduto del Popolo dei Draghi e se trovarlo avrebbe avuto importanza, dal momento che sembravano condannati a morire lì e quella montagna pareva destinata a diventare la loro tomba, quando Shia. che come sempre procedeva all'avanguardia, si arrestò di colpo. «Magia» ringhiò. «Hai ragione» annuì Anvar. «Vedi, Aurian, è laggiù. Qualche passo più avanti rispetto a loro si scorgeva nell'aria una sorta di tremolio argenteo, simile all'effetto illusorio che il calore produceva su una pavimentazione di pietra in una giornata torrida, e il fenomeno si allargava su tutto il passaggio come una tenda che sbarrava loro il passo...» Indipendentemente dal pericolo che quel fenomeno poteva comportare, Aurian si sentì lieta che qualcosa fosse intervenuto a interrompere la monotonia della marcia e avanzò con cautela, con il bastone in una mano e l'altra protesa davanti a sé con il palmo in fuori. Allorché raggiunse quella strana distorsione accaddero contemporaneamente due cose: il tremolio svanì e la galleria piombò nel buio più assoluto. Presa alla sprovvista, Aurian avanzò di un altro passo e creò al tempo stesso una sfera di Luce Magica sopra la propria testa... e in quel momento dall'alto giunse un rumore stridente che la indusse a guardare in quella direzione, appena in tempo per vedere uno degli enormi blocchi del rivestimento del soffitto staccarsi e precipitare verso di lei. Le sembrò che tutto succedesse in modo rallentato, come un incubo: il blocco parve fluttuare verso il basso e lei tentò di scattare in avanti, ma un piede le scivolò e cadde con una torsione, trovandosi rivolta nella direzione da cui era venuta. «Aurian!» urlò Anvar, lanciandosi in avanti e tuffandosi nello stretto spazio fra la pietra e il pavimento. Il blocco continuò però la sua inesorabile discesa e schiacciò Anvar contro il suolo con uno schianto che fece tremare le pareti. «Anvar!» stridette Aurian, con tanta violenza da escoriarsi la gola, e la sua Luce Magica si spense, facendo piombare la galleria nel buio mentre la sua mente veniva aggredita da orribili immagini di Anvar, polverizzato da tonnellate di pietra.
Accasciandosi all'indietro contro la parete, scoppiò in singhiozzi... e un momento più tardi sussultò con estrema violenza nel sentire una mano che le sfiorava la spalla. «Sono io» disse Anvar, con voce soffocata che venne sovrastata dall'urlo spaventato di Aurian. «Tu! Ma non puoi... ho visto...» balbettò lei, facendo fatica a parlare a causa della violenza con cui le battevano i denti: dal momento che anche Anvar sembrava avere difficoltà dello stesso tipo, per un momento si limitarono a restare stretti uno all'altra, tremando. «Illusione» sussurrò infine lui. Illusione? La Luce Magica di Aurian tornò ad accendersi, tinta questa volta di un rosso acceso a causa dell'ira che ribolliva dentro di lei. «Stupido! Razza di dannato idiota! Credevo che fossi morto, dannazione a te! Come hai potuto fare una cosa tanto idiota?» inveì, asciugandosi con rabbia le lacrime d'ira e di paura che le colavano lungo il volto. «L'ho fatto perché non sono disposto a perderti ancora» ribatté Anvar, afferrandola per le spalle con tanta forza che le sue dita le affondarono nella carne. «Piuttosto preferisco morire... lo capisci?» Aurian sentì la propria ira dissolversi perché capiva benissimo, in quanto aveva provato la stessa cosa nei confronti di Forral, e al tempo stesso scosse il capo perché non si sentiva disposta ad accettare ciò che quell'affermazione sottintendeva. «Anvar...» cominciò. «Lascia perdere» la interruppe però lui, distogliendo lo sguardo e mordendosi un labbro. «Dimentica ciò che ho detto.» «Allora avete finito, voi due?» intervenne la voce di Shia, che giunse come una gradita interruzione, e nell'avvertire il suo tono gelido Aurian si rese conto che anche lei era irata per lo spavento che le avevano fatto prendere. «Non so proprio come vi aspettiate che qualcuno vi possa trasmettere i propri pensieri con la confusione che avete scatenato» proseguì intanto Shia, sempre con irritazione e tuttora nascosta alla vista dall'illusorio blocco di pietra, «ma dal momento che vi siete finalmente degnati di comunicare con me vorrei sapere se avete qualche suggerimento costruttivo da offrire.» D'un tratto Aurian cominciò a ridere senza riuscire a frenarsi, poi anche Anvar si lasciò contagiare dalla sua ilarità ed entrambi continuarono a ridere fino ad avere le costole doloranti e il respiro affannoso, mentre la piccola sfera di Luce Magica di Aurian tornava a tingersi di una tonalità dorata e
prendeva a sussultare nell'aria come se stesse ridacchiando a sua volta. «Allora?» tuonò la voce di Shia nella mente di entrambi. «Mi dispiace, Shia» rispose Aurian, sorridendo ad Anvar ed esprimendosi ad alta voce a beneficio di Bohan. «Vi suggerisco di attraversare quel blocco di pietra perché è un'illusione... come Anvar ha dimostrato senza ombra di dubbio» aggiunse, fissando il giovane con finto cipiglio. Da parte di Shia seguì una pausa di sconvolto silenzio. «Vorrei poter imprecare come voi umani!» esplose poi, dando l'impressione di parlare a denti stretti sebbene si stesse esprimendo mentalmente. «Adesso passiamo.» «No, aspetta!» gridò Aurian, ma la sua voce venne soffocata da un rombo stridente che proveniva dall'alto a cui fece seguito un angosciato ululato... poi Bohan attraversò il blocco di pietra correndo con tutte le sue forze seguito da Shia che sembrava un proiettile nero. Un momento più tardi echeggiò un tonfo assordante e i Maghi si strinsero uno all'altra mentre il pavimento della galleria sussultava sotto di loro, una nube di polvere si levava ad avvilupparli e minuscole schegge di pietra pungevano loro la pelle. Quando la polvere cominciò a depositarsi Aurian vide con sollievo che Bohan e Shia erano salvi; tossendo, protese una mano verso il blocco e incontrò uno strato di solida pietra. «Questa volta è caduto davvero» mormorò Anvar, scosso. «Credo di capire» mormorò pensosamente Aurian. «Si è trattato di una trappola temporale, Anvar: quello che abbiamo visto... che abbiamo creduto ti avesse colpito... non era un'illusione, bensì il futuro.» «Ma perché? Di certo se era una trappola poteva benissimo scattare direttamente senza tante complicazioni.» «Non ne sono certa» replicò Aurian, accigliandosi. «È presumibile che i draghi fossero in grado di riconoscere la loro magia e che di conseguenza l'illusione dovesse servire loro come avvertimento a passare in fretta, mentre nel caso di qualsiasi Mago sconosciuto che fosse penetrato qui dentro... ecco, se non avessi mosso quell'ulteriore passo in avanti io avrei visto cadere il blocco fittizio e sarei indietreggiata.» «In questo modo avremmo scoperto l'illusione» continuò per lei Anvar, «saremmo passati e...» «E la trappola ci avrebbe annientati comunque. Che popolo dannatamente subdolo» commentò Aurian, irritata e piuttosto spaventata. «Che genere di potere dovevano possedere, per essere in grado di fare scherzi del gene-
re con il tempo?» si chiese quindi. Nel girarsi verso gli altri rimase sorpresa di vedere Bohan massaggiarsi il posteriore con una mano e agitare rabbiosamente l'altro pugno in direzione di Shia. «Voi due state bene?» domandò. «Bohan, cosa c'è che non va?» «Questo grosso bue non si stava muovendo abbastanza in fretta» spiegò la voce di Shia, carica di disgusto, «quindi gli ho piantato gli artigli nel posteriore.» Uno stridio soffocato da parte di Anvar dimostrò che anche lui aveva sentito le parole di Shia, e al tempo stesso Aurian si trovò a ridacchiare senza riuscire a contenersi, e l'espressione indignata unita allo sguardo irato di Shia ebbero soltanto l'effetto di peggiorare le cose, con il risultato che i due Maghi si accasciarono uno contro l'altro ridendo in maniera incontrollabile. «Come hai fatto a capire che questa volta la pietra stava per cadere sul serio?» domandò infine Aurian a Shia, una volta che fu riuscita a ritrovare il controllo. Adesso che erano entrambi in grado di parlare con la belva, i due Maghi avevano preso l'abitudine di esprimere i pensieri a lei rivolti ad alta voce perché rendeva le cose molto più facili. «Non l'ho capito, ma i felini non corrono mai rischi!» replicò Shia, sedendosi e cominciando a leccarsi con indifferenza una zampa, anche se la coda sussultante tradiva ancora la sua agitazione. «Davvero, furbacchiona?» ribatté Anvar. «E cos'hai fatto quando per poco non sei precipitata nell'abisso nel combattere contro quella specie di ragno?» «Quello era diverso!» esclamò Shia, trapassandolo con occhi roventi. «Davvero?» «Mi è venuta in mente una cosa» intervenne Aurian, per prevenire la rissa imminente. «Sei stato tu ad emettere quello spaventoso ululato che ho sentito mentre stavate passando, Bohan?» Il grosso eunuco assunse un'espressione perplessa. «Di certo non sono stata io» dichiarò Shia. «Ma questo significa che tu puoi parlare!» esclamò Aurian. Bohan aprì la bocca ma da essa non emerse alcun suono, e nel vederlo diventare sempre più rosso in volto per lo sforzo Aurian si affrettò a bloccarlo. «No, Bohan, così ti farai soltanto del male. È evidente che non si tratta di un problema fisico, ma in questo momento sono troppo stanca per tenta-
re una guarigione mentale. Ti prometto però che se usciremo da questo posto ti aiuterò a ritrovare la voce.» Bohan le sorrise e con lo sguardo espresse una speranza e un desiderio tali che Aurian si sentì stringere il cuore. «Adesso riposa» gli consigliò, battendogli un colpetto gentile sul braccio. «Credo che abbiamo tutti bisogno di riprenderci prima di proseguire.» Questa volta nessuno suggerì di montare la guardia, per quanto questa potesse rivelarsi una follia: resi negligenti dallo sfinimento, sconvolti dagli shock dell'ultima ora, dormirono come bambini sperduti, e quando infine Bohan svegliò Aurian scoprirono che la luce era riapparsa nella galleria e che la pietra si era risollevata fino al soffitto, ridisponendo la trappola perché potesse scattare ancora. Una volta svegli consumarono quel poco che restava delle loro scorte di cibo e di acqua, ma il pasto venne turbato da un senso di disagio, perché non avevano modo di sapere se la pietra era tornata al suo posto da sola o se qualcuno... o qualcosa... si era avvicinato mentre dormivano per rinnovare l'incantesimo. «Sciocchezze» dichiarò Aurian. «Se qui intorno ci fosse stato qualcuno ormai avrebbe fatto notare la sua presenza, ve lo garantisco!» Nonostante questo continuò ad avvertire un senso di disagio che il buon senso non era in grado di dissipare, e nel guardare in volto gli altri comprese che condividevano quella sensazione. Quando ripresero la marcia scoprirono che la galleria cominciava a raddrizzarsi e che la sua pendenza andava facendosi sempre più erta: adesso non c'erano più stanze laterali a cui accedere e ben presto la luce stessa cambiò, a mano a mano che le venature ambrate presenti nella pietra furono rimpiazzate da costellazioni di gemme multicolori che, come quelle che si trovavano nel deserto sottostante, parevano brillare di una misteriosa luce propria. Ben presto la strada risultò illuminata soltanto dal tremolante chiarore delle gemme che li circondava da tutte le parti, come se stessero percorrendo i sentieri stellati dell'universo stesso. «Quanto è bello» mormorò Aurian. «Sono lieta che abbiamo avuto la possibilità di vedere questo spettacolo, anche se...» «Anche se dovessimo morire per questo?» domandò Anvar, e quelle furono le prime parole da lui pronunciate dopo essersi svegliato. Dopo la sua esplosione verbale del giorno precedente fra i due Maghi sembrava essere calato un certo riserbo, come se fossero entrambi ansiosi di evitare ciò che quelle parole avevano rivelato... ma d'un tratto Aurian si sentì nauseata del
protrarsi di quello stato di cose. Non è cambiato nulla, disse a se stessa. Lui è sempre Anvar... che differenza possono fare poche parole pronunciate in un momento di tensione? Se moriremo non avranno importanza comunque, e in caso contrario... è una cosa che può aspettare e nel frattempo non ha senso rovinare per questo una buona amicizia. «Non disperare» gli disse, prendendogli la mano. «Pensa a tutte le volte che per poco non siamo morti da quando abbiamo lasciato Nexis, riuscendo però sempre a cavarcela. Tu ed io siamo una squadra troppo dura perché ci possano abbattere.» Anvar le strinse la mano e infine incontrò il suo sguardo, mostrandosi d'un tratto più sereno. «Hai ragione» replicò, «e insieme supereremo molte altre cose prima che tutto questo sia finito.» «Luce! C'è luce più avanti!» esclamò Shia, inducendoli a girarsi entrambi nella direzione da cui era giunto quel grido. La luce del giorno filtrava tenue al di là di una gigantesca curva descritta dalla galleria e attenuava con la propria presenza il bagliore delle gemme, ma Shia si era arrestata prima della svolta con il pelo irto. «Più avanti c'è della magia» avvertì, arrestando il loro impeto. Aurian mosse un passo in avanti ma Anvar, che non aveva abbandonato la sua mano mentre correvano, la trasse indietro. «Oh, no, non lo farai» ringhiò. «Questa volta andremo insieme.» Avanzarono quindi con estrema cautela, sbirciando con ansia oltre la svolta del passaggio. «Per gli attributi di Chathak!» imprecò Aurian, vedendo che la galleria davanti a loro era bloccata da una grande gemma che somigliava alle impervie porte che ai livelli più bassi avevano sconfitto tutti i loro tentativi di aprirle. La luce del giorno attraversava scintillando le sue molteplici sfaccettature... così vicina e tuttavia tanto irraggiungibile da essere a milioni di chilometri di distanza se non fossero riusciti a trovare il modo di superare quell'ostacolo. «Quel rumore è ricominciato» osservò Anvar. «Lo senti?» In effetti l'acuto e irritante ronzio aveva ripreso ad infastidire Aurian. «Cos'è?» domandò lei, in tono irritato, lottando contro il desiderio di scoppiare in lacrime per la frustrazione. «Credo che giunga dalla parte opposta. Shia, vieni qui!» «Ti sento, non c'è bisogno di gridare» replicò il grosso felino, aggirando
l'angolo e scoccandogli una cupa occhiata. «Scusami. Sei in grado di determinare se la magia proviene dalla pietra o se davanti a noi c'è un'altra trappola?» «Non credo che sia una trappola. Si tratta del cristallo in se stesso.» «D'accordo» annuì Anvar, accennando ad avanzare, ma Aurian lo trattenne per un braccio. «Aspetta un momento» ingiunse. «Sei stato tu a stabilire le regole, ricordi? Andremo tutti e due o non andremo per niente.» Insieme esaminarono quindi il cristallo, facendo scorrere le mani sulla sua superficie liscia e dura. «Esattamente come gli altri» commentò Anvar, in tono deluso. «Al contrario di quello in cui eri imprigionata, questi cristalli non hanno una chiave. Siamo in un vicolo cieco.» «Non è possibile!» esclamò Aurian, sferrando un calcio violento all'ostacolo e ringhiando un'imprecazione quando la punta del suo stivale entrò violentemente in contatto con la rigida superficie della gemma. «Ora ne ho abbastanza!» Stridette quindi, e in un impeto d'ira irriflessiva sollevò il proprio bastone, scatenando una sfrigolante scarica di energia contro il cristallo. «Aurian, no!» urlò Anvar, riparandosi gli occhi nel venire scagliato con violenza all'indietro contro la parete del passaggio che si riempì di fumo mentre la gemma cominciava a sibilare e a pulsare di luce. «Ferma!» ingiunse in tono urgente Shia. «Stai peggiorando le cose. La magia della pietra sta crescendo!» La Maga si rese conto con orrore che era vero: la gemma si stava comportando come avevano fatto i bracciali, assorbendo i suoi poteri per incrementare i propri. Il bastone tremò nella sua mano protesa mentre l'energia fluiva dal suo corpo e lungo il suo braccio, prosciugandola e indebolendola sempre più ad ogni secondo che passava, perché adesso non era più lei ad emanare il proprio potere ma la gemma ad estirparglielo. «Aiuto!» gridò, in preda al panico. «Non riesco a fermarla!» Qualcosa di duro andò a sbatterle contro e la scagliò al suolo senza fiato, poi il bastone le venne strappato di mano in una pioggia di scintille, infrangendo il letale legame magico: distesa al suolo, annaspante come un pesce in secca, Aurian vide Bohan lasciar cadere il bastone fumante con una smorfia di dolore, e al tempo stesso il bagliore che emanava dal cristallo cominciare ad attenuarsi e il fumo a dissolversi.
«Accidenti al tuo dannato carattere, Aurian!» esclamò Anvar, che stava esaminando la mano di Bohan. «Lo so. Mi dispiace, Anvar, sono consapevole di aver agito in modo stupido. Bohan sta bene?» «Più o meno» replicò Anvar, mentre Bohan faceva eco alle sue parole con un cenno di assenso, poi protese una mano per aiutarla a rialzarsi e aggiunse: «Aurian, dobbiamo smetterla di terrorizzarci a vicenda in questo modo.» «Affare fatto» assentì Aurian, issandosi in piedi e tornando a voltarsi verso il cristallo. «Io però ho un'idea» proseguì, ricordando come i bracciali avessero assorbito il suo potere quando lei aveva tentato di aiutare Anvar, nel recinto degli schiavi. «Sta' attenta» si affrettò ad ammonirla Anvar. «Lo sarò. Ho imparato la lezione, e questa volta non ci saranno stupidi fuochi d'artificio, lo prometto» garantì Aurian. poi premette le mani e il lato della faccia contro il cristallo, sondando il suo interno con i propri sensi di guaritrice e tastando la delicata struttura che costituiva l'intelaiatura e la vita della pietra. Dal momento che i suoi poteri erano stati prosciugati dall'atto sventato di poco prima le ci volle molto tempo per trovare le sue debolezze, le smagliature nelle difese di cui era alla ricerca, ma infine le individuò, le sondò con la propria volontà, e cominciò a tirare... Ah, adesso la situazione si era rovesciata e lei poteva sentire i palmi che le formicolavano per il potere che fluiva in essi attraverso la breccia nella gemma. Concentrandosi, continuò ad attingere all'energia della gemma fino a sentirsi prossima a scoppiare perché incapace di contenere così tanta magia, e cominciò a domandarsi se non aveva sopravvalutato la propria capacità di gestire il potere intessuto nella struttura di pietra. Di nuovo avvertì la gelida morsa del panico mentre si diceva che avrebbe dovuto insegnare quell'incantesimo ad Anvar, in modo che l'aiutasse. Se soltanto avesse avuto un modo di immagazzinare il potere in eccesso! E invece... «Tornate dietro l'angolo» gridò d'un tratto, sforzandosi per contenere l'energia finché gli altri si fossero messi al sicuro. «E copritevi gli occhi!» aggiunse, poi sollevò una mano e lanciò una potente scarica di energia contro la barriera, innalzando al tempo stesso in fretta i propri schermi. La gemma esplose non appena venne colpita e la violenza dello scoppio si abbatté sul suo schermo che però resistette. Quanto al cristallo, aveva finito di esistere: priva dell'energia che l'aveva tenuta insieme, la gemma stava collassando con un frusciante sussurro fino a ridursi ad un mucchio di pol-
vere sottile... e nel vederla ai suoi piedi lei emise un enorme sospiro di sollievo. Un attimo dopo Anvar riapparve oltre l'angolo, pallido in volto. «Mi pareva che avessimo acconsentito a non spaventarci più a vicenda» affermò in tono quieto, ma con un bagliore d'ira negli occhi. «Anvar, mi dispiace. Non avrei mai creduto... non mi sono resa conto di quanta energia avrei dovuto assorbire» spiegò Aurian, poi s'illuminò in volto nel continuare: «In ogni caso ha funzionato, giusto? E alla fine non è successo nulla di male.» «Niente di male?» ringhiò Shia. «E cosa mi dici del danno ai miei nervi?» «Devo ammettere che ha funzionato» sospirò Anvar, «ma se farai mai di nuovo una cosa del genere...» «D'accordo» assentì Aurian. «Invece di farlo t'insegnerò come funziona l'incantesimo, così la prossima volta ci penserai tu.» «Umani!» brontolò Shia, in tono di disgusto. Insieme si arrampicarono sul mucchio di sottile polvere di cristallo e sbirciarono attraverso l'apertura che Aurian aveva creato... e la Maga si sentì assalire dall'avvilimento. «Per gli dèi! Dopo tanta fatica non si tratta neppure di uno sbocco all'esterno!» esclamò, gettando a terra il bastone e sedendosi sulla polvere di diamante con la testa fra le mani. «Aurian, guarda qui!» la chiamò però Anvar, che pareva eccitato. «Guarda tu, io ho visto abbastanza di questo dannato posto.» «Non essere ridicola» insistette lui, issandola in piedi con decisione. Gemendo, Aurian raccolse il proprio bastone e lo seguì, ma si ritrasse con una violenta imprecazione non appena vide il precipizio che si allargava sotto i suoi piedi: erano all'interno di una torre... composta da un'unica camera circolare che si protendeva verso l'alto in maniera tale da ingannare lo sguardo. Le pareti prive di giunture erano formate da trasparente pietra bianca e attraversate da una spirale fatta di circolari finestre di cristallo che facevano piovere sul pavimento raggi di sole sottili come lame di spada... solo che non c'era pavimento e loro si trovavano invece su una stretta striscia di pietra che aderiva alla parete della torre e saliva a spirale verso la cima, tanto lontana da essere invisibile. Sotto di loro si allargava un pozzo, rischiarato dai raggi focalizzati che entravano dalle finestre, e al livello degli occhi c'era un grande cristallo sferico che sembrava sospeso sopra l'abisso e che emetteva lo snervante ronzio che avevano udito nel corridoio e
nella camera illuminata di rosso posta molto più in basso. «È stupefacente!» esclamò Anvar, sdraiandosi prono e sporgendosi oltre il bordo di quell'abisso in modo tale da far sussultare Aurian. «Vuoi scommettere che questo pozzo comunica con quel precipizio che abbiamo attraversato?» «Anvar, vieni via di lì!» gemette Aurian. «Sì, vieni via» rincarò Stria. «Questo posto pullula di magia.» «È ovvio che sia così. Non capisci? Questa è una sorta di pompa magica che aiuta la circolazione dell'aria, il che spiega per quale motivo l'aria sia tanto respirabile ai livelli più bassi.» «Molto astuto, Anvar» ribatté Aurian, con una nota di disperazione nella voce. «Forse avrai notato anche che questo è un vicolo cieco e che dovremo tornare indietro.» «Non credo» affermò Anvar, ritraendosi dal bordo dell'abisso e indicando la striscia di terra su cui si era addentrato. «Questo sentiero... questa scala per draghi, se preferisci... continua a salire, e ritengo che in cima ci possa essere una via per uscire.» Aurian sollevò lo sguardo sul sentiero, che s'inerpicava a spirale sempre più in alto rispetto a dove si trovavano, poi fissò l'abisso senza fondo e infine guardò Anvar deglutendo a fatica. «Non dovevamo smettere di spaventarci a vicenda?» domandò. «Hai già infranto quella promessa» le ricordò lui con un sorriso. «Non è divertente.» «Lo so, ma è la nostra sola via d'uscita. Senti, il sentiero non è poi tanto stretto dal momento che è stato costruito per dei draghi. Avanti, Aurian, ti terrò per mano ma devi farcela.» «D'accordo, Anvar» sospirò Aurian, «però ricorda se quando arriveremo alla sommità non troveremo una via d'uscita finirai dritto in questo pozzo a testa in avanti!» In seguito, Aurian evitò sempre di ricordare quell'ascesa che le parve protrarsi in eterno mentre strisciava su per la rampa in pendenza con la schiena premuta contro la parete della torre. I quattro continuarono la salita fino ad avere le gambe tremanti per la stanchezza, ma lei rifiutò di fermarsi. «No» implorò. «Proseguiamo e facciamola finita.» Dopo qualche tempo risultò però evidente che nel loro stato di spossatezza e di fame non sarebbero mai riusciti ad arrivare alla cima e Aurian si rassegnò a sedersi, sia pure raggomitolata il più lontano possibile dal limi-
tare della rampa, con gli occhi serrati. Una volta che si furono concessi una breve pausa ripresero a salire, con i muscoli doloranti per i crampi e la testa che girava al punto che perfino Aurian si dimenticò del precipizio sottostante per concentrarsi soltanto sul crescente dolore agli arti. Fu quindi con un senso di stupore che infine avvistò l'arcata che la sovrastava ed uscì con passo incerto sotto la benedetta luce del sole. «Attenta!» esclamò Anvar, afferrandola per un braccio e tirandola di nuovo a ridosso della soglia mentre lei barcollava e cadeva al suolo. «Anvar» ansimò. «Ti odio in modo assoluto e totale.» Fu svegliata da una mano gentile che le scuoteva la spalla e trovò il volto di Anvar vicino al suo. «Mi dispiace» disse lui, «ti ho lasciata dormire quanto più a lungo osavo, ma adesso dobbiamo muoverci finché c'è ancora luce diurna. Mi odi ancora?» «Dipende» replicò Aurian, gemendo e sentendosi piena di dolori. «Ho visto davvero quello che ho visto?» «Temo di sì.» Muovendosi con estrema cautela lei sbirciò oltre il limitare della piattaforma che costituiva la sommità della torre, pensando che era bello vedere di nuovo il cielo e il sole dopo il lungo viaggio notturno e i lunghi giorni passati nelle cupe sale annidate sotto la montagna. Le pareti irregolari del picco erano più alte del tetto su cui lei era appollaiata e riparavano la valle sottostante dall'impatto della luce solare, e nella valle... Aurian trattenne il respiro nel vedere davanti a sé la città perduta del Popolo dei Draghi. Essa non era disposta seguendo linee ed angoli come le città umane ma in una serie di cerchi intrecciati che si univano come la tela di un ragno e convergevano tutti verso una massiccia struttura conica simile ad un grande campanile più alto anche della torre... tanto alto che il sole traeva bagliori di fuoco dalla sua punta sottile, cosa tutt'altro che sorprendente dal momento che l'edificio era stato ricavato intagliando un'unica, massiccia, gemma verde. Quando ebbe superato il primo stupore, Aurian si rese conto che tutti gli edifici della città erano costruiti nello stesso modo, ciascuno intagliato in una gemma che fiammeggiava di luce corrusca; per lo più le costruzioni avevano forma rotonda ed un solo piano, con un tetto ampio e piatto su cui lei suppose che i draghi fossero soliti crogiolarsi al sole per assorbire quell'energia che era la loro linfa vitale. Nella città si vedevano parecchie torri, cupole e minareti, tutti intagliati e cesellati in maniera intricata, ma le
strutture più alte erano la torre su cui si trovavano e l'edificio centrale. A quanto pareva, Anvar aveva già contemplato quel panorama mentre lei dormiva ed era pronto adesso a dedicarsi ai problemi pratici. «Laggiù ho visto una quantità di uccelli da cui mi pare di capire che questo per loro sia un posto dove sono soliti riposare nel dirigersi oltre il deserto. Se riusciremo a trovare il modo di intrappolarli avremo da mangiare, senza contare che laggiù ci deve essere dell'acqua perché anche il Popolo dei Draghi doveva averne bisogno.» «Allora scendiamo» lo incitò Aurian, a cui non era sfuggito il sentiero a spirale, gemello di quello che si snodava all'interno della torre e che in questo caso scendeva sempre più in basso verso la città. «Che siano dannati!» esclamò poi, calando il pugno sulla roccia e scoppiando in pianto. «Perché non hanno messo una ringhiera a queste dannate scale?» «Mi dispiace, tesoro» cominciò Anvar, accarezzandole i capelli, «ma...» «Lo so. lo so» lo interruppe Aurian, sollevandosi a sedere e tirando su con il naso prima di sfregarsi la faccia con una manica, un gesto che ricordò ad entrambi quell'occasione di molto tempo prima in cui Anvar l'aveva rimproverata proprio per quell'abitudine. «Non badare a me, Anvar. mi sto comportando da stupida. Precedici, dunque, dal momento che quando si tratta di posti sopraelevati sembri essere tu a comandare.» La discesa fu molto peggiore della salita perché il sentiero sembrava inclinarsi follemente sotto i piedi di Aurian e in basso non c'era altro che il vuoto. Anche gli altri stavano incontrando difficoltà del genere e la discesa fu così lenta che il sole era ormai scomparso da tempo dietro le alte mura montane prima che arrivassero in fondo. Dal momento che il sentiero era avvolto nell'ombra e che stavano badando tutti a dove mettevano i piedi nessuno notò l'ombra che scattò in avanti. Anvar, che procedeva in testa al gruppetto, si girò intanto per parlare con Aurian. «Che ne dici di qualche...» cominciò, poi il volto gli si paralizzò per l'orrore. La Maga non ebbe il tempo di guardarsi alle spalle prima che qualcosa la colpisse con violenza e la scagliasse giù dal sentiero; braccia muscolose l'afferrarono e lei colse il bagliore di una daga mentre cominciava a cadere... CAPITOLO TRENTATREESIMO IL BASTONE DELLA TERRA
«Aurian!» urlò Anvar in tono angosciato, lanciandosi giù per il sentiero a spirale seguito da Bohan e da Shia e arrivando ai piedi della torre sul lato opposto rispetto a quello dove Aurian era precipitata per poi aggirarne di corsa la base senza neppure osare di pensare a ciò che poteva essere successo... con la conseguenza che per poco non andò a sbattere contro una sagoma minuta, avvolta dalle fitte ombre che pervadevano il fondo del cratere, che stava lottando al suolo con Aurian. «Sta' indietro!» gli ingiunse una voce stridula, poi lui vide che quello sconosciuto avvolto in una sorta di manto di un nero assoluto aveva afferrato Aurian per i capelli e le aveva tirato indietro la testa, puntandole alla gola una daga affilata. Senza perdere tempo a chiedersi come avesse fatto Aurian a sopravvivere alla caduta, Anvar misurò la distanza fra se stesso e i due combattenti, cercando di valutare la possibilità di sferrare un attacco a sorpresa e decidendo che erano molto scarse. Se soltanto avesse potuto vederci meglio... uno gesto delle dita accompagnò l'apparizione nella sua mano di una sfera di Luce Magica a cui fece seguito uno strillo sorpreso da parte dello sconosciuto. Nello stesso tempo Aurian approfittò della momentanea distrazione dell'avversario, e dopo un'ulteriore lotta accompagnata da un grugnito di dolore la rispettiva posizione dei due avversari risultò rovesciata; mentre Bohan andava a recuperare la daga che era volata lontano durante la colluttazione, Aurian bloccò al suolo il suo avversario e prese a percuoterlo con entrambi i pugni ringhiando un'interminabile sfilza d'imprecazioni. Rammentando l'ira cieca che si era impadronita di lui durante la sua lotta con Harihn, Anvar scattò in avanti per bloccarla. «D'accordo, hai vinto tu» disse, con il respiro affannoso, ma quando cercò di farla alzare in piedi Aurian ricadde al suolo con un grido di dolore e lui le si accoccolò subito accanto domandando in tono ansioso: «Sei ferita?» «Mi sono stirata un ginocchio nel cadere» rispose Aurian, continuando a imprecare. «È stato così che lei si è venuta a trovare in posizione di vantaggio... per questo e perché ero terrorizzata. Ma perché ha attutito la mia caduta?» si chiese quindi, scuotendo il capo con aria perplessa. «È una lei?» Aurian creò a sua volta una Luce Magica con una facilità che strappò ad Anvar un sospiro d'invidia. «Hai mai visto un uomo combattere in questo modo?» domandò, mostrando le braccia e il volto segnati da graffi lunghi e profondi. «In aggiun-
ta a questo ho dovuto sacrificare una manciata di capelli per liberarmi dalla sua stretta» aggiunse, sbuffando per il disgusto e massaggiandosi il cuoio capelluto; il suo volto appariva grigiastro sotto il chiarore della Luce Magica, e nel guardarlo Anvar comprese che la caduta doveva averla terrorizzata quando aveva spaventato lui. «Non so perché abbia rallentato la tua caduta, ma ringrazio gli dèi che lo abbia fatto» disse con voce tremante. La compostezza di Aurian si stava intanto sgretolando, e per un momento Anvar pensò che gli si sarebbe gettata fra le braccia come aveva fatto dopo la terribile ascesa delle alture di Taibeth; invece lei trasse un profondo respiro e fece un visibile sforzo per controllarsi. «Se mi soffermo a pensarci mi verrà una crisi isterica» affermò. «Diamo un'occhiata alla nostra prigioniera.» Soffocando un insidioso senso di delusione, Anvar si volse verso la ragazza mentre Aurian spostava la propria Luce Magica in modo da illuminare la figura raggomitolata e piangente. «Che gli dèi ci salvino!» esclamò allora Anvar, riuscendo a vedere bene per la prima volta ciò che in precedenza aveva scambiato per un mantello nero. «Ha le ali!» Dopo aver incaricato sia Shia che Bohan di dare un'occhiata in giro per accertarsi che non ci fossero altre esseri alati annidati in agguato, s'inginocchiò quindi per esaminare quella strana prigioniera. La ragazza era molto minuta e fine di ossatura... al punto che il suo peso doveva essere all'incirca la metà di quello di Aurian e che le grandi ali nere che le sporgevano dalla schiena erano più lunghe del suo corpo, articolate in maniera tale che la sezione superiore si levava al di sopra della testa e delle spalle, mentre quella inferiore ricadeva fino ai piedi in una curva aggraziata. Allorché Anvar la costrinse ad allontanare le mani dal volto ammaccato e rigato di lacrime, lei fissò su Aurian lo sguardo rovente dei suoi occhi grandi e scuri. «Mi ha colpita!» esclamò con voce stranamente accentata... e Anvar comprese che la strana capacità propria dei Maghi di comprendere tutte le lingue era di nuovo all'opera. «Cos'altro ti aspettavi, considerato che stavi cercando di tagliarle la gola?» ribatté con rabbia. «Nella mia terra la ucciderebbero per aver colpito una principessa!» ritorse la ragazza alata, sputando ai piedi di Aurian. «No, non un altro rampollo regale» gemette Aurian.
Raven fissò quella donna alta e cupa che sapeva combattere come un demone e sentì lo stomaco che le si serrava in un nodo di paura mentre si chiedeva chi fossero questi orribili esseri privi di ali di cui non aveva mai visto l'uguale, come mai si trovassero lì e cosa ne avrebbero fatto di lei. Poi l'uomo con gli spaventosi occhi del colore del cielo l'afferrò rudemente per un braccio. «Ci sono in giro altri esseri come te?» domandò. «Certamente» dichiarò Raven, in tono altezzoso, dopo aver riflettuto in fretta. «Pensi forse che una principessa circolerebbe priva della sua scorta? Lasciatemi andare, prima che chiami le mie guardie per farvi giustiziare.» «Sta mentendo» asserì la donna dai capelli rossi. «Dicci la verità!» insistette l'uomo, accentuando la propria stretta intorno al suo braccio fino a farla contorcere e sussultare di dolore... e per quanto interiormente stesse ribollendo d'ira Raven si sentì al tempo stesso tremare di paura di fronte a quello sguardo del colore del ghiaccio. «Sono sola» confessò infine, incapace di smettere di piangere. Per un momento le parve di scorgere un'espressione compassionevole affiorare sul volto dell'uomo, poi lui guardò verso la donna alta e tornò a indurirsi; Raven aveva però ormai visto una via di salvezza e lo fissò con occhi imploranti, gemendo: «Per favore, non permettere che mi faccia ancora del male.» «Puoi smetterla di recitare la parte della ragazzina terrorizzata perché non stai ingannando nessuno» sbuffò però con disgusto la donna alta. «Scommetto che sei più matura di quanto sembri, e i segni che ho sul corpo dimostrano quanto sei pericolosa.» «Come osi?» esclamò Raven, furente nel vedere scoperto il proprio inganno. «Sono una principessa di sangue reale!» «Qui non lo sei» ringhiò la donna. «Sei nostra prigioniera e sei nei guai perché sei stata tu ad attaccarmi per prima, e devo ancora fartela pagare per avermi gettata giù da quella torre.» Raven dovette ammettere con se stessa che questo era vero, e che per quanto avesse attaccato la donna quelle persone non le avevano fatto del male anche se avrebbero potuto ucciderla all'istante. E poi era così stanca di essere sola... «Signora» disse infine, «ti chiedo perdono per questo. Io... ti ho vista arrivare ed ho avuto paura... ho pensato che se ti avessi colta di sorpresa...» «Tutto considerato non te la sei poi cavata così male» sorrise con sua sorpresa la donna. «Mi chiedo però perché tu abbia frenato la mia caduta
con le ali: se mi avessi lasciata andare da quell'altezza mi avresti sicuramente uccisa.» «Ho pensato che se avessi avuto un ostaggio gli altri non mi avrebbero fatto del male» spiegò Raven, scrollando le ali con un movimento che fece frusciare le piume. In quel momento dall'ombra emerse una figura massiccia che le strappò un sussulto spaventato, perché se i due con cui stava parlando le apparivano grossi quell'uomo era addirittura enorme; dietro di lui veniva una temibile sagoma scura dagli occhi ardenti... uno di quei grossi felini che vivevano sul lato settentrionale delle montagne e che erano in guerra costante con il suo popolo. Lanciando un urlo di terrore cercò di fuggire, ma l'uomo la trasse di nuovo vicino a sé. «Va tutto bene» le garantì. «Shia è un'amica e noi le possiamo parlare.» «Dice che sei del tutto sola e che ha trovato un campo approssimativo e del cibo» ridacchiò la donna. «È seccata perché Bohan non le ha permesso di mangiare niente, e come tutti noi ha molta fame. Quello è davvero il tuo campo?» «Dividerò con voi quello che ho» si offrì Raven, ansiosa di compiere un gesto di amicizia di qualche tipo. «Ho catturato alcuni uccelli ma non ho modo di accendere il fuoco, e poi non ho mai imparato a cucinare, per cui sono affamata quanto voi.» S'incamminarono attraverso la città vuota, la donna alta appoggiandosi al braccio dell'uomo e zoppicando vistosamente, e si scambiarono i rispettivi nomi senza però avviare una vera e propria conversazione perché il pensiero preponderante nella mente di tutti era quello del cibo. Raven aveva sistemato il suo campo in un edificio che consisteva di un'unica ampia stanza con le pareti formate da un cristallo di un azzurro velato, priva di battenti che bloccassero l'ingresso, di mobilio o di tracce che esso fosse mai esistito, anche se nella parete erano state intagliate alcune nicchie e in un angolo era ammucchiato un cumulo di gemme assortite. Il vantaggio maggiore offerto da quella stanza era una piccola polla alimentata da una sorgente sotterranea, che per parecchio tempo assorbì l'intera attenzione degli assetati stranieri. Raven esibì quindi quattro grosso uccelli che aveva abbattuto colpendoli all'ala come aveva spesso fatto a casa per divertimento, e gli stranieri si incaricarono di preparare la cena con un'abilità che destò la sua invidia. Mentre gli uomini... Anvar e il grosso Bohan... portavano fuori i volatili per pulirli, la donna alta di nome Aurian si mise a frugare in mezzo al
mucchio di gemme, cosa che lasciò Raven sconcertata: a cosa le potevano servire i gioielli in un luogo come quello? Con gli occhi che le sporgevano dalle orbite per lo stupore, la guardò scegliere un grosso e piatto pezzo di cristallo e porlo nel centro del pavimento per poi sedere a gambe incrociate per terra e protendere le mani su di esso con espressione concentrata. Entro pochi minuti la gemma si fece incandescente, emanando calore ed una luce morbida che rivestì di un piacevole tepore le pareti del loro riparo. «Sei una Maga?» sussurrò Raven, fissandola con assoluta incredulità, in parte timorosa e in parte incapace di credere alla propria fortuna. Ancora concentrata sul suo lavoro, Aurian annuì fugacemente e d'un tratto Raven si aggrappò a lei, con le parole che le si riversavano dalle labbra senza che lei riuscisse a trattenerle. Non era mai stata sua intenzione tornare indietro, ma... «Mi aiuterai?» chiese. «Il mio popolo ha un disperato bisogno di te.» «Non so se possiamo farlo, Raven, perché noi stessi siamo intrappolati quassù» sospirò Aurian. «In ogni caso ci potrai raccontare tutto mentre mangiamo. La situazione deve essere stata davvero grave per spingerti a fuggire fin qui da sola.» Intanto Anvar e Bohan rientrarono con gli uccelli pronti per essere cucinati e i Maghi li infilzarono sulla lama della spada per poi sistemarli al di sopra del fuoco che ardeva nella gemma. «Posso aiutarti a scaldare quella cosa?» domandò Anvar ad Aurian. «Sto consumando ben poca energia perché il cristallo incrementa il mio potere» rispose lei, scuotendo il capo. «La magia dei draghi ha i suoi pregi.» Mentre mangiavano Raven raccontò la sua storia. Il suo popolo viveva ormai da secoli in completo isolamento sulle alte vette, coltivando raccolti sulle terrazze montane e allevando capre di montagna e uccelli da cortile, ma in quell'ultimo mese una serie di innaturali tempeste fuori stagione aveva devastato la loro civiltà: improvvise bufere di neve e il freddo intenso avevano rovinato i raccolti, e il malvagio Sommo Sacerdote ne aveva approfittato per ampliare il suo potere. Raven rabbrividì nel parlare dei sacrifici umani, delle atrocità commesse nel nome della salvezza, dell'impotenza e della disperazione di sua madre, la regina. «Poi Artiglio Nero ha insistito per avermi in sposa» concluse. «ed io ho capito che era intenzionato a deporre Ala di Fiamma e a consolidare per mio tramite il suo dominio sul Popolo del Cielo.» Descrisse quindi la propria fuga da Aerillia e le difficoltà incontrate
nell'attraversare il deserto volando da un'oasi all'altra, sfinita e affamata ma pungolata a proseguire dalla disperazione e dalla paura. «Non volevo fuggire» mormorò, con gli occhi colmi di lacrime, «ma era la mia sola speranza, perché non sarei sopravvissuta a lungo alla crudeltà di Artiglio Nero. Partire però mi ha spezzato il cuore, e anche se tornando indietro metterò a repentaglio la mia vita lo farei subito se pensassi di poter fare qualcosa di utile. Mi potete aiutare? Per favore. Il mio popolo sta morendo.» Aurian distolse lo sguardo, incapace di incontrare lo sguardo supplichevole della ragazza, ed Anvar intuì e vide la sua angoscia, comprendendo cosa lei stesse pensando: Eliseth. Chi altri avrebbe potuto scatenare un inverno così innaturale? Il Popolo dell'Aria era caduto vittima della spietata caccia che i Maghi stavano dando ad Aurian. Per un momento nella stanza regnò un silenzio pieno di disagio, poi Aurian gettò bruscamente da parte la propria cena e senza dire una parola si issò in piedi con l'aiuto del bastone per poi uscire zoppicando dalla camera. Seguendola all'esterno, Anvar la trovò seduta con la schiena appoggiata alla parete dell'edificio, con il corpo scosso da un lieve tremito a causa del freddo vento notturno e lo sguardo fisso con espressione vacua sul cielo scintillante. «Vattene» gli disse, senza voltarsi. «No» rifiutò Anvar, sedendole accanto. «Stai biasimando te stessa, vero?» «E chi altri dovrei biasimare?» ritorse lei, con una sfumatura d'ira nella voce. «Tutto ha avuto inizio perché io e Forral...» «Non essere stupida!» la interruppe Anvar. «Ne abbiamo già parlato, Aurian: tutto è cominciato perché Miathan ha volto al male il potere del Calderone, e a causa del cieco e arrogante pregiudizio dei Maghi nei confronti dei Mortali. Hai già sofferto abbastanza senza doverti lacerare interiormente a causa del Popolo Alato.» «Come puoi dire una cosa simile!» infuriò Aurian. «Noi tutti siamo responsabili... perfino tu, Anvar» aggiunse, con espressione improvvisamente dura. «Sei stato tu a portare Forral nella camera di Miathan, quella notte, costringendo l'Arcimago a liberare gli Spettri.» «Mi sono sempre chiesto se tu mi biasimassi per la morte di Forral» osservò Anvar in tono quieto, sentendosi raggelare interiormente. Aurian rimase in silenzio, rifiutando di guardarlo, e senza sapere che altro dire lui rientrò nella costruzione a testa china e con il passo pesante.
«Ho detto qualcosa che non va?» domandò ansiosamente Raven, mentre Anvar la fissava come se fosse appena emerso da un sogno, cercando di riportare sotto controllo i propri pensieri sconvolti. «No... nulla. Aurian ha bisogno di tempo per riflettere» rispose. «Devo andare da lei?» domandò Shia, che non si era lasciata ingannare da quella risposta. «Vuole stare sola» rispose Anvar, scuotendo il capo. Intanto la luce del cristallo stava morendo, e per quanto si fosse sdraiato accanto ad essa il calore che ancora ne emanava non fu sufficiente a penetrare il gelo che lui avvertiva dentro di sé. Perché proprio adesso, stava pensando. Perché mi ha accusato dopo tutto questo tempo? D'altro canto Aurian aveva ogni diritto di accusarlo. Durante quei mesi di viaggio lui aveva respinto in un angolo della mente il ricordo della parte avuta nella morte di Forral, non volendo rammentarla e sperando che non lo facesse neppure Aurian. Aurian... di certo se gli attribuiva quella colpa doveva anche odiarlo. Inquieto, tormentato da un senso di colpa e dall'infelicità, continuò ad agitarsi per ore, e quando infine si addormentò Aurian non era ancora tornata. Aurian rimase a lungo seduta con lo sguardo fisso sulle stelle, cercando di venire a patti con la propria confusione e con il proprio senso di colpa. Il modo irriflessivo e rabbioso con cui si era sfogata a spese di Anvar la inorridiva perché non era stata sua intenzione accusarlo e le parole le erano scaturite di bocca come dal nulla nel momento in cui quel pensiero le era affiorato nella mente. Lo biasimo davvero per la morte di Forral? si chiese. Possibile che questo pensiero sia rimasto per tanto tempo in un angolo della mia mente? D'un tratto si riscosse dalle proprie riflessioni nel notare con la coda dell'occhio un movimento furtivo nell'oscurità alle proprie spalle e si protese di scatto ad afferrare la spada... poi però trattenne il respiro quando vide una figura emergere dall'ombra. «Forral!» Quell'esclamazione le si congelò in gola nel vederlo avanzare verso di lei sotto la forma di un pallido spettro e non dell'uomo vivo e vitale che aveva conosciuto e amato. La sua immagine tremolava, stranamente trasparente e avvolta in uno scintillio che ingannava lo sguardo, il suo volto spettrale appariva accigliato e triste, ed Aurian arrossì per la vergogna nel
sentire la sua voce brusca echeggiarle nella mente. «Non sei stata molto giusta con Anvar, vero, tesoro? Ti ho insegnato che non si deve sprecare tempo ad attribuire colpe. Il male che Miathan rappresenta si sta diffondendo e non è così che lo puoi fronteggiare.» «Lo so e mi dispiace» sussurrò lei, con aria infelice, e subito la figura spettrale sorrise, assumendo una più dolce espressione di malinconico desiderio, poi le rivolse un cenno della mano e cominciò ad allontanarsi da lei. «Forral, aspetta!» chiamò Aurian, issandosi in piedi appoggiata al bastone e avviandosi con passo zoppicante per seguirlo in mezzo alle ombre della città abbandonata. Non riusciva a raggiungerlo: per quanto ci provasse, il fantasma di Forral manteneva sempre la stessa irritante distanza fra loro anche se non usciva mai del tutto dal suo campo visivo, e quando infine si arrestò per poi voltarsi verso di lei, Aurian si rese conto che avevano raggiunto il misterioso edificio a forma di cono che si trovava al centro della città. Il potere ronzante che ne emanava sembrava penetrarle nelle ossa, ma lei continuò a tenere lo sguardo fisso sulla figura che le era tanto cara e avanzò zoppicando verso di essa con le braccia protese, desiderando di poterla stringere a sé ancora una volta. «Non farlo!» avvertì Forral, in tono gentile ma con voce abbastanza decisa da indurla ad arrestarsi, poi scosse il capo con un'espressione di estremo rammarico sul viso e spiegò: «Non mi puoi toccare, ragazza... ho già infranto le leggi venendo da te in questo modo... ma del resto tu ed io non abbiamo mai dato molto peso alle regole, vero?» aggiunse con un sorriso un po' triste. «Ma io voglio stare con te!» esclamò Aurian, con voce che era quasi un singhiozzo. «Lo so. Mio carissimo amore, quanto ho sentito la tua mancanza! Però non devo invidiare te e il nostro bambino per la vita che ancora avete... senza contare che su di te grava una pesante responsabilità. Ti aspettano tempi difficili, ma so che te la saprai cavare» dichiarò, con il volto che splendeva di orgoglio e di amore. «Tu e il giovane Anvar avete il coraggio e la determinazione necessari per riuscire.» Mentre parlava, le sue parole si fecero gradualmente sempre più deboli e la sua ombra parve dissolversi e fluttuare lontano da lei come fumo portato dal vento. «Non mi lasciare!» gridò Aurian, in tono angosciato, nel vederla scomparire.
«Mi stanno richiamando» sussurrò la sua voce, ora molto distante. «Abbi cura del nostro bambino, amore. Ricorda... che ti amo... ma non ci sono più...» «No!» stridette Aurian, gettandosi in avanti verso il punto in cui lui si trovava un momento prima. «Anch'io ti amo, Forral» sussurrò poi, appoggiando la testa contro la pietra fresca e vibrante del muro dell'edificio e cedendo infine al proprio dolore che la fece scoppiare in singhiozzi. Non seppe mai per quanto tempo rimase là seduta a piangere, ma di certo non fu molto: a mano a mano che le sue lacrime cominciarono a cadere sulla lucida superficie di cristallo il ronzio prese ad aumentare di volume e di tono, ma lei non se ne accorse perché i suoi pensieri erano accentrati su Forral... e si rese conto di quanto stava accadendo soltanto allorché la porta alle sue spalle si aprì improvvisamente e la fece cadere all'interno dell'edificio. Con un sussulto di meraviglia si sollevò allora a sedere asciugandosi gli occhi e scoprì di trovarsi in un ampio corridoio che era stato intagliato nell'interno di una gemma pervasa di una tenue luce verde. Lì dentro l'aria risultava stantia e pervasa di uno strano odore speziato, ma si stava rinfrescando in fretta grazie all'afflusso dell'aria fredda e rarefatta del pianoro che adesso s'insinuava sussurrando attraverso il portale ormai schiuso. Ancora una volta Aurian avvertì una mente viva all'interno di quel posto, percepì un potere alieno che la incitava ad addentrarsi maggiormente in quell'edificio. Per un momento resistette a quel richiamo perché voleva rimanere dove si trovava e restare aggrappata al prezioso ricordo del suo incontro con Forral come si sarebbe aggrappata ad una daga che le fosse stata piantata nel cuore... ma esso risultò essere troppo persistente, e lei ricordò come Forral le avesse detto senza mezzi termini che aveva delle responsabilità da assolvere. «Oh, d'accordo» borbottò con riluttanza, cercando a tentoni il proprio bastone. «Dovrai però aspettare che abbia rimesso in sesto questo dannato ginocchio perché voglio avere entrambe le gambe sane prima d'incontrarti, qualsiasi cosa tu sia.» Il risanamento le riuscì così stranamente facile da indurla a sentirsi pronta a giurare che quel misterioso potere la stesse aiutando, cosa che la rassicurò anche se non aveva modo di sapere se la sua supposizione era vera o meno. Alzatasi in piedi, soffocò il crescente senso di riverenziale timore che quel posto le ispirava e iniziò ad addentrarsi nelle sue profondità, imboccando un ennesimo corridoio a spirale.
Comincio ad avere la nausea di questi corridoi, pensò fra sé. Di tanto in tanto avrebbero anche potuto elaborare una struttura architettonica di genere diverso! Il sorriso che la sua temerarietà le aveva fatto affiorare sulle labbra si dissolse però bruscamente quando di lì a poco il passaggio sbucò in una vasta stanza ariosa e circolare dalla quale non si diramavano altre uscite. Adesso la luce che trapelava attraverso le pareti di cristallo appariva più intensa, segno che forse fuori stava ormai albeggiando, e il pavimento della sala vuota scintillava sotto quella luce crescente che metteva in evidenza un delicato mosaico realizzato in una serie di strutture vorticanti che ebbero l'effetto di guidare il suo sguardo e i suoi passi fino alla grande immagine di un raggio di sole realizzata la centro della stanza. Nel momento in cui posò piede su di esso nell'aria echeggiò un possente scoppio di tuono e lei fu costretta a indietreggiare e a proteggersi gli occhi con un braccio allorché un accecante raggio di luce focalizzato da qualche apertura nascosta presente nel soffitto, scese ad ammantarla di un'aura dorata. «Aurian se n'è andata!» avvertì Shia, spingendo rudemente Anvar con la zampa per svegliarlo e fissandolo con occhi di fiamma. «Cosa è successo fra voi due la scorsa notte?» «Per gli dèi, devo trovarla!» esclamò di rimando Anvar, di colpo del tutto sveglio. «Dopo questa notte non si può prevedere cosa potrebbe fare.» La tenue luce dell'alba filtrava attraverso le pareti del cristallo in cui si trovavano, illuminando Bohan intento a riporre le loro poche cose e Raven che li fissava con occhi sgranati tenendosi in un angolo. «Cosa succede?» chiese d'un tratto. «Che ne è stato della Maga?» Anvar per poco non si soffocò per l'intensità del proprio risentimento: se lei non avesse deciso di scaricare sulle loro spalle i propri problemi... «Vieni con me, tu!» si limitò però a dire con voce aspra, issandola in piedi. All'esterno trovarono Shia che stava già esaminando con attenzione il terreno. «Di solito i felini non cacciano con l'ausilio dell'olfatto, ma credo che lei si sia addentrata nella città.» Quando la vista a poco a poco le si schiarì e fu di nuovo in grado di guardarsi intorno, Aurian stentò a credere ai propri occhi: la sala su cui si era abbattuto il raggio di sole era del tutto svanita e adesso lei si trovava in
un vasto ambiente formato interamente d'oro, con le pareti arrotondate dal soffitto al pavimento, nel cui centro era ammucchiata a casaccio una quantità di oro e di gemme in cima alla quale... Aurian dovette farsi coraggio per non darsi alla fuga, perché accoccolato sul mucchio di gioielli e rischiarato da un singolo raggio di sole che scendeva su di lui da un'apertura presente nel tetto della cupola, c'era un enorme drago dorato. Estratta la spada, indietreggiò alla ricerca di una via di fuga ma non ne vide perché a parte l'apertura nel soffitto quella stanza era priva di ingressi di sorta, e trascorse qualche spiacevole momento di panico prima di accorgersi che in realtà il drago aveva gli occhi chiusi e non si era mosso da quanto lo aveva inizialmente visto. D'un tratto ricordò l'ingegnosa trappola temporale e il fatto che il Popolo dei Draghi era famoso per la sua astuzia, per cui era possibile che quel drago d'oro stesse cercando di indurla ad avvicinarsi maggiormente. Un momento più tardi si rimproverò per aver pensato quelle assurdità, perché una creatura di quelle dimensioni avrebbe potuto afferrarla nell'arco di una manciata di secondi se avesse deciso di causarle dei problemi, e socchiuse gli occhi per difenderli da tanto bagliore e poter scrutare meglio la creatura immobile, riluttante ad avvicinarsi di più... ed infine comprese il motivo dell'immobilità del drago, rivelato da un tenue chiarore azzurrino che era difficile vedere a causa del bagliore dorato delle scaglie ma la cui presenza era innegabile: qualcuno aveva imprigionato quel drago, rimuovendolo dallo scorrere del tempo con l'ausilio dello stesso incantesimo che Finbarr le aveva insegnato tanto tempo prima. Sopraffatta infine dalla curiosità propria di tutti i Maghi, si decise ad avvicinarsi un po' di più a quel mostro addormentato. Non averne paura era difficile anche se adesso sapeva che il drago era impotente a colpirla, perché il suo corpo era tanto immenso che avrebbe potuto facilmente occupare tutta la Grande Sala dell'Accademia. Al tempo stesso esso era splendido, con la luce del sole che delineava i contorni del suo corpo addormentato e raggomitolato come quello di un gatto, con la coda snella e affusolata che passava sopra le spaventose fauci e le enormi ali allargate protettivamente a coprire il suo tesoro. Le ali in particolare affascinarono Aurian, perché come quelle di un pipistrello erano attraversate da una traccia di ossatura sulla quale era stesa una fragile e trasparente membrana ricoperta dalle scaglie e solcata da una rete argentea di vene simili al filo sottile usato per avvolgere l'impugnatura di una spada. Ricor-
dando come sia Yazour che Ithalasa avessero affermato che i draghi ricavavano energia dal sole assorbendola attraverso le ali, giunse alla conclusione che entrambi avevano avuto ragione. «Adesso cosa faccio?» sussurrò infine, e le sue parole echeggiarono oscenamente risonanti nella quiete assoluta della camera mentre lei lottava alle prese con la convinzione di essere stata attirata in quella camera dal potere misterioso per una ragione ben precisa, e cioè commettere l'atto più folle che avesse mai pensato di poter compiere. Infatti era stata guidata deliberatamente fino a questo posto... anche se restava ancora da determinare se ciò sarebbe tornato a suo beneficio... e nel guardare il drago addormentato stava cominciando a provare suo malgrado un'imprevedibile compassione per quella povera creatura intrappolata in quel modo da chissà quanto tempo. Indietreggiando fino a portarsi a quella che si augurò essere una distanza di sicurezza, sfilò il bastone dalla cintura e cominciò ad annullare l'incantesimo. Mentre procedeva a farlo fu assalita dalla preponderante sensazione che questo fosse un atto giusto... ma quel senso di sicurezza l'abbandonò all'improvviso per essere sostituito dal timore allorché il drago sollevò la testa e la inchiodò dove si trovava con lo sguardo dei suoi occhi sfaccettati in cui ardevano fiamme lambenti. Poi esso aprì le fauci irte di lunghe zanne simili a spade ricurve e lucenti... e il timore di Aurian si mutò in gioia allorché la camera venne pervasa di luce e di musica, mentre vortici di puri colori sempre cangianti prendevano a fluire sul soffitto e sulle pareti. Adesso l'aria tremolava e scintillava di frammenti di arcobaleno, e i colori danzavano e vorticavano al suono di una musica tanto pura che la Maga si sentì indotta da essa a dimenticare la situazione di pericolo in cui si trovava. Arrotondata e melliflua, ma rafforzata da una sottostante sfumatura metallica, la cascata di note era dura e morbida al tempo stesso, proprio come l'oro, e mentre Aurian l'ascoltava come rapita i suoi poteri provvidero ad analizzare, ricordare e ritrovare la struttura di quella musica, con il risultato che dopo qualche tempo da quell'affascinante miscela di luci e di suoni cominciò ad emergere il linguaggio del Popolo dei Draghi. «Ho chiesto chi mi ha svegliato?» ripeté il drago, con una sfumatura di irritazione nella serie di note fluide, sotto la quale si avvertiva un desiderio intenso. «Perché non rispondi? Sei l'Uno che è finalmente giunto?» «Non lo so» confessò Aurian, sentendo la propria voce risuonare piatta e priva di vita al confronto della melodia di quella del drago. «Lo sono?»
Il drago parve non avere problemi a capire la sua lingua ed emise una risatina che sparse per la stanza sussultanti e danzanti prismi di luce. «Se non altro possiedi coraggio ed onestà» commentò. «E sei hai superato la prima prova, aprendo le porte sigillate del tempio, c'è almeno speranza che tu possa essere l'Uno.» «Ho aperto io la porta?» domandò Aurian, stupita. «Certamente!» sbuffò il drago. «Questo tempio è rimasto sigillato per secoli, fin da quando il Popolo dei Draghi ha abbandonato Dhiammara. I nostri saggi hanno deciso a quel tempo che poiché noi ce ne stavamo andando di qui oppressi dal dolore dovuto al Cataclisma, il dolore avrebbe dovuto essere la chiave necessaria all'Uno per accedere di nuovo alla nostra antica saggezza. Sono state le tue lacrime ad aprire quella porta, Maga!» concluse il drago, poi piegò la testa massiccia da un lato e domandò. «Erano le tue, vero?» «Certo che lo erano» ribatté Aurian, sconcertata. «Stavo piangendo per qualcuno che mi era molto caro e che è morto.» «Dolore dovuto ad una perdita? Davvero appropriato» commentò il drago, in un tono così compiaciuto che Aurian serrò i pugni per l'ira. «Sono lieta che la pensi a questo modo» scattò in tono secco. «Personalmente, non ritengo particolarmente bello approfittare delle debolezze altrui.» «Chi sei tu per mettere in discussione la saggezza del Popolo dei Draghi?» Aurian fu investita con violenza dal ruggito del drago, in reazione al quale le luci colorate che formavano il suo modo di parlare si trasformarono in schegge affilate di saette bianche che apparvero davanti ai suoi occhi e la scagliarono al suolo; rialzandosi, fissò il drago con occhi roventi, così irritata dal suo atteggiamento da dimenticare di avere paura. «Chi sono io, dici?» gridò. «Io sono Aurian, figlia di Geraint, Mago del Fuoco. Mio padre è morto mentre cercava di svelare i segreti della cosiddetta saggezza del Popolo dei Draghi, quindi non ti aspettare che io rimanga impressionata dai tuoi poteri e risparmiami i tuoi giochetti, drago, perché non ho tempo per essi. I Maghi... gli Incantatori, come li chiamavate un tempo... si sono votati al male, il Calderone è stato trovato e i Nihilim liberati nel mondo. La tua immensa saggezza cosa suggerisce di fare al riguardo?» «Allora le antiche profezie si sono adempiute e tu devi essere l'Uno!» esclamò il drago, mentre un bagliore carminio gli divampava negli occhi.
«L'Uno? Quale Uno?» ripeté Aurian, accorgendosi che stava gridando. «Non capisco!» «Vedo che i secoli hanno apportato ben pochi miglioramenti al notorio carattere degli Incantatori» scattò il drago, agitando con irritazione le ali in un gesto che provocò una cascatella di oro e di gemme che scivolarono con un suono musicale lungo i pendii della sua collinetta di preziosi. «Sto parlando della Spada, imbecille! Di Chierannath, la Spada di Fuoco, la cui fabbricazione è stata ordinata dal più grande fra i nostri veggenti, al fine di combattere gli abusi commessi con le altre armi. Tu osi parlare a me di perdita e di dolore? A me, che sono stato separato dal mio popolo, dai miei amici e dai miei cari al fine di attendere qui, raggelato nel tempo, il giorno in cui ci sarebbe stato bisogno della Spada? Il mio compito, essere ignorante, è quello di identificare l'Uno per cui essa è stata forgiata, e adesso tu sei venuta a disturbare il mio sonno con le tue domande e la tua sciocca ira.» «Stai dicendo» scandì Aurian, con la calma che le derivava da un profondo senso di shock, «che la Spada... la più potente fra le quattro armi... è stata forgiata espressamente per me secoli prima della mia nascita?» «È ancora da stabilire se essa sia per te» avvertì il drago. «Devo ammettere che nell'immaginare l'Uno avevo in mente una figura più... eroica.» «Il che significa che saresti più contento se io fossi un massiccio guerriero tutto muscoli, vero? Ebbene, questo è un tuo problema.» «Attenta a quello che dici» ingiunse il drago, con un bagliore pericoloso nello sguardo. «Non intendo accettare offese da un insignificante Incantatore umano a due zampe.» Aurian deglutì a fatica, ricordando l'ultimo guaio in cui si era ficcata a causa dell'ira, ma pensò che il drago non aveva ragione di lamentarsi del suo carattere, visto che ne aveva uno peggiore. «Molto bene» disse. «Supponendo che io sia l'Uno, adesso cosa succede?» «Supponendo che tu lo sia, dovrai completare la terza prova, che consiste nel ricreare il Bastone della Terra.» Ricreare il Bastone della Terra? Aurian rimase senza parole, pensando che era un compito impossibile e sentendo il dubbio scivolarle nella mente e la delusione soffocarle il cuore. Ha ragione lui... io non posso essere la persona giusta, pensò con infelicità, e per poco non lo disse anche al drago... poi però strinse più saldamente il proprio bastone e raddrizzò la schiena, ben sapendo che se si fosse
arresa senza neppure tentare non avrebbe più potuto vivere in pace con se stessa. «Allora?» la incalzò il drago, che la stava fissando con un'espressione intensa negli occhi. «Intendi restare lì ferma a fissarmi per sempre?» «Mi è permesso porre domande?» replicò Aurian, imprecando fra sé contro di lui. «Brava!» rise il drago. «Io posso rispondere a tre domande... ma non a quella più ovvia. Bada di scegliere bene.» «Mi è stato detto che il Bastone è andato perduto durante il Cataclisma» azzardò lei, ricordando tutto quello che le era stato detto su quell'oggetto magico. «Ciò significa che è andato distrutto?» «Sì» replicò concisamente il drago, portando Aurian a commentare acidamente fra sé che di certo non le stava facendo nessun favore di generosità. «Tuttavia tu hai parlato di ricreare, il che significa che i poteri del Bastone devono esistere ancora» rifletté, rammentando con improvvisa ispirazione come Anvar avesse recuperato i suoi poteri e come in precedenza l'Arcimago glieli avesse sottratti; ricordò la porta di cristallo sotterranea che le aveva quasi prosciugato le forze e i bracciali usati dal popolo di Harihn. «Quella era una domanda?» chiese il drago, interrompendo... di proposito, Aurian ne fu certa... il filo delle sue riflessioni. «No» si affrettò a rispondere, fidandosi del proprio intuito. «Ecco la mia seconda domanda: il cristallo che contiene il potere del Bastone si trova in questa stanza?» «Sì» cantò il drago, mentre scariche di luce solare si diffondevano per la camera. «E adesso lo dovrai trovare.» Aurian emise un'imprecazione violenta, comprendendo infine perché il drago giacesse su quello scomodo letto: esso era lo specchietto per le allodole che nascondeva un'altra prova e da qualche parte in quel mucchio e in mezzo alle altre pietre preziose, c'era il cristallo che lei stava cercando. Inorridita, pensò che ci sarebbero voluti anni per esaminare tanti preziosi e s'ingiunse di riflettere perché ci doveva essere un modo migliore per effettuare le ricerche... e d'un tratto si rese conto di avere la soluzione a portata di mano. A causa della propria natura lei aveva sempre avuto la tendenza per la Magia del Fuoco paterna e questo l'aveva portata a trascurare le eredità acquisite da Eilin, ma ora avrebbe infine ammesso il proprio retaggio. Piantando saldamente a terra il proprio bastone lo strinse con entrambe
le mani ed evocò i poteri della Terra... la vitalità lenta e pesante della montagna e della pietra, il grembo fecondo del suolo, l'esuberante sbocciare di nuovi arbusti e la luminosa, breve vita delle creature che strisciavano o correvano nel percorrere l'interminabile ciclo di vita, morte e decadimento da cui sarebbe nata altra vita. In nome di tutto questo e delle molteplici altre cose che componevano il potere della Terra, che chiamò a sé i poteri del Bastone della Terra. Ed essi risposero con tanto vigore che il bastone venne quasi strappato dalla mano di Aurian quando si sollevò di scatto per puntare verso il nucleo centrale del tesoro del drago; poi i serpenti intagliati nel legno presero a ronzare e a vibrare, rivestendosi di una densa luce smeraldina, e il drago emise uno stridio sorpreso... il suono meno musicale che avesse finora pronunciato... nell'affrettarsi a spostarsi di lato con una velocità insospettabile in una creatura di una simile mole mentre il suo giaciglio cominciava a sussultare e a tremare, riversandosi in tutta la stanza come una cascata. Poi dal centro del mucchio si levò un raggio verde di risposta, ed Aurian si gettò al suolo, proteggendosi la testa, allorché una violenta deflagrazione scagliò gemme e oro contro le pareti circostanti. Nel silenzio che seguì la Maga constatò con suo sollievo di aver mantenuto la presa intorno al bastone, e nel rialzarsi con mosse tremanti, ancora ammaccata dalla tempesta scatenatasi nella stanza, scoprì che adesso tutt'intorno era diffusa un'intensa luce verde. In quel momento il drago fece capolino con la testa da sotto un'ala e trasse un profondo e raspante respiro. «Sarei pronto a giurare che tu non sappia cosa siano le mezze misure, Incantatrice» dichiarò. Adesso il bastone indicava con assoluta certezza verso il centro della stanza, dove nello spazio che si era creata con tanta vigorosa spontaneità, spiccava una gemma verde grande quanto il cerchio creato dall'unione del pollice e dell'indice di Aurian. La Maga si avvicinò ad essa con cautela, socchiudendo gli occhi per difenderli dall'intensa luce verde che emanava dalla pietra, e si arrestò ad un braccio di distanza a causa dell'energia che pulsava come un muro e le impediva di procedere oltre, perché soltanto quando avesse ricreato il Bastone quel potere sarebbe stato sottomesso e contenuto abbastanza da permettere ad un Mago di usarlo e di sopravvivere. Ma come effettuare la necessaria procedura? Aurian lasciò scorrere le mano lungo il proprio bastone, avvertendo la vivace perfezione degli intagli di Anvar sotto le dita: due serpenti che si arrotolavano intorno al bastone e realizzati cosi bene che
pareva quasi di vederli muovere. Vederli muovere... questo le diede di colpo un'idea. Prima di procedere c'era però un'ultima questione da risolvere, quindi tornò a rivolgersi al drago. «Voglio porre la mia ultima domanda» annunciò. «Fa' pure, ma bada che non ti posso dire come adempiere al tuo compito» fu la risposta. «Non importa. Quello che voglio sapere è questo: se ricreo il Bastone posso anche tenermelo?» Il drago gettò indietro la testa e scoppiò in un ruggito... di divertimento e non d'ira, come lei aveva temuto che potesse fare. «Temeraria Incantatrice! Nessuno ha mai dato punti alla tua razza quanto a sfacciataggine. Sì, potrai tenerti il Bastone perché te lo sarai guadagnato, ma bada di restare sempre consapevole delle forze a tua disposizione e della distruzione che possono scatenare. Non commettere mai l'errore in cui sono caduti coloro che hanno usato il Calderone.» Avvicinatasi alla pietra quanto più osava, Aurian attinse di nuovo ai suoi poteri, concentrandoli però non sulla gemma ma sul bastone stesso, passando le mani lungo la sua familiare superficie con le dita che le formicolavano per via della luce verde, mentre si serviva della Magia della Terra per dare vita al legno. Sotto le sue dita i serpenti si mossero, i loro occhi ammiccarono, le lingue saettarono dentro e fuori dalle fauci, la testa si sollevò minacciosa dal bastone. Concentrando la propria volontà su di essi, Aurian impartì un ordine e impugnò quindi il bastone dall'estremità rivestita in metallo dell'asta, protendendolo fino a toccare la pietra: subito i due serpenti rizzarono la testa e serrarono entrambi con forza la gemma fra le fauci. Una scarica enorme di energia corse lungo il bastone, quasi scagliando a terra la Maga, che però rimase in piedi aggrappandosi al potere fiammeggiante della pietra che la stava pervadendo. Poteva avvertire la propria mente espandersi ad abbracciare quella stanza, la città, il deserto... ad abbracciare il mondo intero fino a essere ogni filo d'erba e ogni creatura che respirasse e ogni pietra... era tutto questo e tutto ciò era lei, che si gloriava nel miracolo della loro creazione. Il suo grido di trionfo echeggiò fino alle stelle stesse mentre lei levava in alto il ricreato Bastone della Terra. Shia aveva perso la pista della Maga. Precedendo gli ansiosi compagni attraverso la città li aveva guidati fino ai piedi del torreggiante cono verde,
e a quel punto il sentore di Aurian era scomparso. «Non capisco» riferì Shia ad Anvar. «L'odore arriva fino a questo punto e poi sparisce.» «Non essere ridicola!» scattò Anvar. «Lei deve essere da qualche parte, là dentro. Non può essere sparita!» «Vuoi provare ad entrare?» commentò Shia, fissandolo con occhi roventi. «Mi dispiace, Shia» si scusò Anvar, con un sospiro. «Neppure io so cosa fare: abbiamo girato intorno a questa cosa e non c'è traccia di accessi da nessuna parte, e lei non può averla scalata» aggiunse, osservando le erte pareti lisce. Le sue parole furono soffocate dal fragoroso rombo di un'esplosione durante la quale il cono di luce si tinse di una penetrante luce verde e l'intero edificio tremò fin dalle fondamenta mentre Anvar e gli altri venivano scagliati per terra dal sussultare del suolo sotto i loro piedi. Subito dopo un vento sferzante, carico di nuvole di polvere e di detriti, prese a soffiare ululando e sibilando per le vie della città, bloccando al suolo Anvar nonostante i suoi tentativi di alzarsi. «Lei è là dentro!» gridò, sovrastando il frastuono della tempesta improvvisa. «Deve esserci! Possenti dèi, che altro ha combinato, questa volta?» CAPITOLO TRENTAQUATTRESIMO TERREMOTO Il tremito improvviso e violento che scosse il terreno fece perdere l'equilibrio ad Anvar, gettandolo al suolo; poco lontano da lui anche gli altri erano stati abbattuti come birilli dalla violenza devastante della bufera di vento che si accompagnava al sussultare della terra sotto di loro. Tossendo e soffocando a causa della polvere sollevata dalla tempesta, Anvar si sfregò gli occhi lacrimanti fino a potersi guardare intorno: poco lontano, Raven stava piangendo di terrore, pallidissima in volto e incapace di levarsi in volo a causa del vento, che in quel momento le si insinuò sotto le ali sollevandola parzialmente da terra e facendola rotolare su se stessa. Quando gli passò accanto, Bohan fu però pronto ad afferrarla per un polso in modo da fornirle un'ancora, e Raven si aggrappò a lui con la mano libera e con il volto contorto in una maschera silenziosa di terrore. Poi un orribile suono stridente che proveniva da un punto sopra la sua
testa attirò verso l'alto l'attenzione di Anvar, che vide con orrore una rete di fenditure aprirsi e allungarsi lungo i fianchi verdi della torre. «Dobbiamo andare via di qui!» stridette, cercando di alzarsi in piedi con il solo risultato di essere di nuovo scagliato a terra dal vento ululante che portò via con sé le sue parole. L'unica che lo sentì fu Shia, in virtù del legame mentale esistente fra loro. «Come?» domandò, e quell'unica parla echeggiò nella mente di Anvar pervasa di un intenso timore. Intanto le fenditure si stavano allargando, e con suo sgomento Anvar si accorse che anche gli edifici circostanti stavano subendo la medesima sorte: il cerchio di distruzione si stava allargando a raggiera intorno alla torre fino ad avviluppare non soltanto l'intera città ma la torturata ossatura della montagna stessa. D'un tratto il terreno si lacerò sotto i suoi piedi a formare una fenditura sempre più larga e lui cercò di gettarsi da un lato, ma non fu abbastanza rapido e urlò nel sentire la terra che si sgretolava, mandandolo a precipitare a testa in avanti in un abisso le cui estremità stavano già cominciando a richiudersi. Una fitta di dolore gli percorse la gamba destra allorché una mano gli si serrò con forza intorno alla caviglia, arrestando la sua caduta con uno scossone violento e lasciandolo a penzolare a testa in giù dentro la spaccatura sempre più ristretta. Semisvenuto per il terrore, non si accorse quasi della morsa che gli afferrò anche l'altra caviglia e fu consapevole soltanto del fatto che qualcuno lo stava issando al sicuro mentre le labbra del crepaccio gli strisciavano dolorosamente contro lo stomaco e le costole, lacerandogli la veste. Poi le due estremità si ricongiunsero con un suono stridente, evitando per pochi millimetri di schiacciargli le dita penzolanti, e lui si sentì issare rudemente in piedi... e si trovò faccia a faccia con Aurian. «Entra!» ingiunse lei, spingendolo verso una porta, un'apertura nella superficie della torre verde che prima non esisteva. Shia era già accoccolata all'interno con il muso arricciato in un'espressione ringhiante e Bohan stava combattendo con tutte le sue forze contro la violenza del vento per trascinare verso l'ingresso la ragazza alata. Poi Anvar avvertì il braccio di Aurian che gli cingeva le spalle e lo costringeva a procedere con passi barcollanti lungo un corridoio a spirale che si snodava nel cuore dell'edificio in via di disintegrazione; dopo essersi lanciata una rapida occhiata alle spalle per accertarsi che gli altri la stessero seguendo, la Maga riprese a trascinarlo in avanti in mezzo ad un'accecante pioggia di polvere verde che cadeva dal soffitto sovrastante, mentre sporgenze infor-
mi di smeraldo che emergevano dal pavimento crepato portavano i piedi a incespicare e a scivolare di continuo. D'un tratto Aurian si arrestò con un'imprecazione e Anvar si accorse che la via era ostruita da un crollo: prima che lui avesse il tempo di sbattere le palpebre, però, la Maga sollevò la mano libera nella quale stringeva qualcosa che emanava un'abbagliante luce verde, poi ci fu un'accecante esplosione di magia che scagliò Anvar a terra e un momento più tardi il passaggio risultò nuovamente sgombro. Aurian lo issò allora in piedi con una forza tale da slogargli quasi il braccio all'altezza della spalla, ma Anvar si ritrasse, spaventato dall'incredibile intensità del potere che aveva appena visto manifestarsi. «Quello cos'era?» domandò con voce stridente. «Il Bastone della Terra» rispose bruscamente Aurian, come se quella fosse stata la cosa più normale del mondo. «Vieni!» E riprese a trascinarlo lungo la scala fino a raggiungere una camera circolare dove un mosaico dorato traspariva scintillante sotto il velo di polvere che ricopriva il pavimento; una volta dentro di essa, Aurian lo costrinse a raggiungere quasi di corsa il lato opposto della camera e lo spinse contro la parete: Anvar si sentì cadere e il cuore gli mancò un battito per il timore, ma quando protese le mani per cercare un appiglio esse attraversarono la pietra e il suo corpo fu afferrato dalla sostanza vischiosa di un portale simile a quello che si trovava nell'oasi. Una volta passato nell'oscurità al di là della porta, la familiarità di quella situazione gli diede la presenza di spirito necessaria per allontanarsi dalla soglia in modo da non essere d'intralcio agli altri. La prima a raggiungerlo fu Shia, che gli passò accanto ringhiando e soffiando, con il manto di pelo nero coperto di polvere; poi fu la volta di Raven che. ormai del tutto isterica, stava urlando con quanto fiato aveva e cercava di percuotere qualsiasi cosa le si avvicinasse. Mentre si agitava scompostamente in preda ad un cieco terrore, la ragazza colpì involontariamente Anvar al volto con la punta di un'ala, e per quanto volesse cercare di fermarla e di rassicurarla, lui si trovò incapace a fare qualsiasi cosa perché aveva il respiro ormai mozzo ed era ostacolato nei movimenti da un acuto dolore al fianco, coperto di sangue fra le costole e lo stomaco là dove la pelle era stata lacerata dalle estremità della fenditura. Come tutte le abrasioni, quella ferita superficiale bruciava terribilmente, anche a causa del sudore che ricopriva il suo corpo sfinito, e per quanto fosse stupefatto da ciò che Aurian gli aveva detto, per il momento
riusciva soltanto a ricordare quelle labbra di pietra che si richiudevano sul suo corpo, sempre più vicine... Infine Raven smise di dibattersi, confortata dalla solida e silenziosa presenza di Bohan, e Aurian venne a raggiungerli nella camera angusta e ormai affollata. «Copritevi gli occhi!» ordinò con voce echeggiante nel buio. Il bagliore di Luce Magica che seguì risultò visibile per Anvar anche attraverso le palpebre chiuse e le mani serrate su di esse per ripararle, ma per uno spaventoso momento non successe nulla e lui dovette lottare contro la soffocante sensazione di panico derivante dalla possibilità di restare intrappolato nella torre prossima a collassare. All'improvviso però, dopo quella che gli parve un'eternità, il cuore gli balzò in gola allorché la camera prese a scendere verso il basso con una serie di scossoni e di sussulti irregolari. «Sia resa grazie agli dèi! Per un momento ho temuto che ce ne fossimo andati troppo tardi» commentò Aurian, e il tono pratico della sua voce fu come un balsamo per Anvar, che con un sospiro si lasciò infine scivolare nell'oblio. «Ecco fatto, amico mio... adesso ti senti meglio?» In effetti la sensazione del panno umido e freddo che gli passava sul volto, lavando via la polvere che gli intasava gli occhi e la bocca, era piacevole. Anvar aprì gli occhi e si trovò davanti il viso pienotto e rassicurante della moglie di Eliizar. «Aurian, si sta svegliando!» chiamò subito la donna. Il tono allegro della sua voce ebbe l'effetto di rassicurare Anvar... finché il suo sguardo non si posò sulla Maga: Aurian era cambiata. Adesso lei aveva l'effetto di pervadere completamente la sua sfera di consapevolezza e appariva più alta, più fiera, più vibrante e più bella di come lui l'avesse mai vista, illuminata interiormente da uno spaventoso potere che l'avviluppava come un mantello di luce. Deglutendo a fatica, Anvar si disse che quella che stava vedendo era una dea... una possente regina uscita da qualche leggenda... e non la sua Aurian. «Cosa ti è successo?» riuscì a chiedere con fatica, intimorito dalla sua presenza e lottando contro l'impulso di ritrarsi per il timore. «Sei diversa.» «Temo di essere quella di sempre» replicò lei, scuotendo il capo. «Ho davvero un aspetto così spaventoso?» aggiunse quindi, mentre il suo sorriso veniva sostituito per un momento da un'espressione accigliata.
«No, non spaventoso... sei splendida» rispose Anvar, in qualche modo rassicurato dalla sua incertezza. «È questo che ha tanto sconvolto tutti?» domandò la Maga con una smorfia. «Quando mi ha vista, per poco Eliizar non è svenuto.» «Cosa ti è successo?» insistette Anvar, consapevole che lei stava evitando di rispondere alla sua domanda. «Non lo ricordi? L'ho trovato, Anvar, ho trovato il Bastone della Terra» dichiarò Aurian, e tirò fuori il Bastone da sotto le pieghe della veste, sotto cui aveva nascosto la sua luce abbagliante. Anvar si ritrasse con istintivo timore di fronte al potere che pervadeva quel semplice pezzo di legno e al tempo stesso comprese che quella era la fonte del potere che pervadeva la Maga, e tuttavia... accigliandosi, esaminò meglio il Bastone e si rese conto che si trattava del vecchio bastone magico di Aurian, che però ora appariva diverso: sulla sommità, dove prima non c'era stato nessun ornamento, le teste gemelle dei due serpenti erano adesso sollevate e reggevano fra le fauci aperte una gemma verde la cui incandescenza appariva più intensa della luce stessa del sole, al punto che lui non riuscì a fissarla direttamente e dovette ripararsi gli occhi dal suo chiarore. Subito Aurian ripose il Bastone sotto la propria veste in modo da velarne la luce. «Quando avrò imparato a controllarlo a dovere avremo finalmente un'arma da usare contro Miathan» dichiarò in tono pacato, peraltro smentito dal selvaggio bagliore che le scintillava negli occhi. Anvar rabbrividì, improvvisamente spaventato, e ripensò al terremoto che per poco non li aveva uccisi tutti, ricordando al tempo stesso ciò che l'Arcimago era riuscito a fare con il Calderone e chiedendosi se Aurian avrebbe scatenato una pari devastazione nell'andare in cerca della sua vendetta. Poi si accorse che il volto di Aurian era rigido per la tensione e che lei stava lottando per mantenere la voce leggera e pacata mentre continuava a parlare in fretta per non dargli l'opportunità d'interromperla. «Ho risanato quei graffi che ti eri procurato e che erano pieni di terra staccatasi dal bordo della spaccatura, quindi adesso ti sentirai prosciugato per un po'. Intanto Nereni ci preparerà qualcosa da mangiare e io andrò a svegliare Raven: era così isterica che l'ho costretta a dormire per qualche tempo, e prima che si svegli voglio cercare di fare qualcosa in merito al problema della lingua, che costituirà una difficoltà adesso che ci siamo ricongiunti agli altri. Se potrò metterla in condizione di comprendere la lin-
gua dei Khazalim le permetterò di comunicare con tutti.» «Puoi farlo?» domandò Anvar, sorpreso. «Ecco... non ho mai sentito parlare di un tentativo del genere prima d'ora, ma credo di poterci riuscire. Se ben ricordi, il suo popolo faceva parte del Popolo dei Maghi prima di perdere i suoi poteri, quindi la comprensione delle lingue potrebbe ancora essere latente dentro di lei e richiedere solo di essere portata in superficie» ribatté la Maga, e si allontanò prima che Anvar potesse replicare. «Stai bene?» gli chiese Nereni, in tono ansioso. «Sono soltanto stanco» rispose Anvar, che si era dimenticato della sua presenza. «Non mi meraviglia che voi tutti foste così scossi» annuì Nereni. «Quaggiù abbiamo creduto che l'intera montagna stesse per crollare» aggiunse, accigliandosi con aria preoccupata e guardando in direzione di Eliizar, che si stava prendendo cura di Shia e di Bohan e appariva cinereo in volto anche se entrambi non sembravano aver riportato danni particolari. «Anvar...» proseguì quindi, con esitazione. «Cosa è successo lassù? Cosa ha provocato il terremoto? Aurian è cambiata... abbastanza da terrorizzare Eliizar quando avete attraversato la parete sul fondo della caverna.» Dunque era da lì che erano emersi... in effetti Anvar si era chiesto come avesse fatto Aurian a riportarli indietro. «E tu non hai avuto paura di lei?» domandò a sua volta, evitando di rispondere. «Non lo so... ero così sollevata di vedervi tutti quanti che non ho neppure pensato...» Nereni s'interruppe, scrollando le spalle, poi sorrise e aggiunse, in tono confidenziale: «A volte credo che le donne siano più pratiche degli uomini... ma non riferire mai ad Eliizar questo mio parere. In ogni caso, adesso dovete mangiare, quindi vi preparerò un po' di cibo e poi forse mi racconterete come avete fatto a trovare quella ragazza» concluse, indicando in direzione di Raven, che adesso era sveglia e stava parlando in tono tranquillo con Aurian esprimendosi, con estrema sorpresa di Anvar, nella lingua dei Khazalim. Non avrei mai pensato che lei potesse riuscirci, pensò con un brivido, chiedendosi al tempo stesso quanto potessero essere adesso grandi i poteri che la Maga aveva a sua disposizione. Dopo qualche tempo, quando ormai sul deserto stava scendendo la notte, Aurian riuscì a persuadere Raven a raggiungere gli altri intorno al fuoco e Anvar notò con sollievo che la ragazza alata cominciava a reagire positi-
vamente alle cure materne che Nereni le stava elargendo mentre cenavano. «Credo che sia giunto il momento di spiegare ai nostri amici cosa ci ha portati nel sud» disse infine Aurian, guardando verso Anvar, poi procedette a riassumere a beneficio degli altri la storia della perfidia di Miathan e di come questa avesse portato lei ed Anvar nei Regni Meridionali. Mentre parlava. Anvar notò che stava omettendo ogni menzione di Forral e del fatto che loro due non fossero sposati come avevano sostenuto e se ne chiese il motivo, pensando al tempo stesso che forse Aurian aveva ragione, perché tacere quei particolari non causava comunque alcun danno e alla luce delle usanze di quella gente poteva essere utile prolungare ancora la finzione. Senza dare a nessuno il tempo di parlare, Aurian proseguì intanto con il racconto di ciò che era accaduto all'interno della montagna e di come fosse entrata in possesso del Bastone della Terra. Nell'ascoltare la narrazione Anvar ebbe la certezza che stesse omettendo dei particolari anche da questa parte della storia, perché da quando Aurian gli aveva salvato la vita nel campo di schiavi fra loro si era creata un'intimità tale da permettergli di avvertire istintivamente se lei nascondeva qualcosa... e questo creò nel suo animo un forte senso di disagio: perché Aurian non aveva raccontato cosa era successo dopo che si erano lasciati, quella notte? Cosa l'aveva attirata verso la torre di smeraldo? Lei sosteneva che la porta si era aperta quando vi si era appoggiata contro, ma avendo tentato a sua volta di fare la stessa cosa sapeva che si trattava di una menzogna e questo lo portò a lottare contro crescenti sospetti e a chiedersi cosa lei stesse tentando di nascondere. «E allora il drago ha detto che avevo dimostrato di essere l'Uno per cui era stata forgiata la Spada» concluse Aurian, e le sue parole strapparono bruscamente Anvar dal vortice dei suoi tormentosi pensieri. «Hai la Spada?» «È stata nascosta» rispose la Maga, scuotendo il capo. «I draghi l'hanno consegnata ai Phaerie perché la portassero via dal mondo, ma se i loro veggenti hanno ragione, essi la restituiranno quando verranno a sapere di questa nuova malvagità che si è scatenata. Il drago mi ha detto che la devo trovare e che devo evitare le trappole poste a sua difesa, poi ha aggiunto che i Phaerie hanno un potente incentivo ad adempiere alla loro parte dell'accordo, e che quando la Spada sarà riportata nel mondo la sua presenza dovrebbe presto o tardi attirarmi fino a lei.» Le sue parole furono seguite da un profondo silenzio. Tutti la stavano fissando intensamente, e Anvar in particolare stava cercando d'incontrare il
suo sguardo, ma lei si morse un labbro e distolse il proprio. «Che ne diresti di aggiungere le parti della storia che hai omesso?» domandò allora il giovane. «Come hai fatto veramente ad entrare nella torre? E cosa ti ha indotto a recarti là? Se quel drago esiste davvero, adesso dove si trova? E, cosa più importante, perché hai provocato la distruzione della città?» «Mi stai dando della bugiarda?» ribatté Aurian, in tono minacciosamente sommesso. Anvar notò la delusione e il dolore che spiccavano sul suo volto e si rese conto che si stava comportando con lei in modo duro e forse ingiusto... ma doveva sapere la verità perché il Bastone della Terra era troppo potente per permettere che finisse per essere corrotto come il Calderone lo era stato per opera di Miathan. Sulla scia di queste riflessioni di colpo si accorse con imbarazzo che gli altri avevano sentito le sue parole e che il volto di Eliizar era rigido per il timore e la diffidenza nei confronti di tutti quei discorsi di magia, e all'improvviso comprese il bisogno che i Maghi avevano avvertito da sempre di tenere per sé i loro affari: dopo tutto, questa era una faccenda che riguardava soltanto lui e Aurian. «Dobbiamo parlare» le disse a bassa voce, nella loro lingua natale, ma le sue parole furono soffocate dal suono scandito di un battere di zoccoli sulla pietra. Girandosi, Anvar vide la figura velata e indistinta di un singolo cavaliere oltrepassare l'ingresso della caverna, abbassandosi sulla sella per evitare la volta e provocando uno spostamento d'aria che fece tremolare la luce delle torce e levare da esse volute di fumo. «Yazour!» esclamò Eliizar, con un grido di gioia. Mentre gli si affollavano intorno, parlando tutti nello stesso tempo e dimentichi per il momento di altre considerazioni, il giovane capitano lasciò liberi i cavalli che aveva portato con sé in modo che le bestie assetate, abituate a frequentare l'oasi di Dhiammara, potessero risalire la rampa che portava alla polla superiore senza attendere di essere liberate dal loro carico. Dopo qualche momento Nereni riuscì a persuadere gli altri a smetterla di affollarsi intorno allo stanco capitano per il tempo sufficiente a permettergli di sedere vicino al fuoco, dove tutti tornarono a circondarlo con un'espressione piena di aspettativa sul volto. Yazour bevve con gratitudine un sorso d'acqua da un otre, poi si sfregò il volto sudato e non rasato con una mano, lasciando scorrere lo sguardo su quanti lo attorniavano. «Siete tutti qui... compresa la nostra signora data per dispersa! Vedo an-
che che avete trovato le provviste e... chi è questa donna?» aggiunse, fissando con aria di meraviglia Raven, che rispose con un timido sorriso. «Ho vinto la nostra scommessa» spiegò con un sorriso Eliizar, che era manifestamente più a suo agio adesso che il guerriero era tornato. «Vedi... dopo tutto, il Popolo Alato esiste davvero.» «In effetti esiste, Eliizar, e se mi avessi detto che i suoi membri erano tanto graziosi mi sarei arrampicato su quelle montagne per andare a cercarli.» Raven si tinse di un rossore ancora più intenso e Anvar si sorprese a sorridere nonostante i pensieri che lo turbavano. «Vorrei essere tornato prima» proseguì intanto Yazour, «ma avevo pronunciato un giuramento di fedeltà... è stata una decisione difficile da prendere, ma ero così nauseato da ciò che il Khisal aveva fatto che... ecco, alla fine non sono riuscito a resistere oltre. Sapevo che dovevo tornare a prendervi, quindi ho convinto una guardia a voltarsi dall'altra parte mentre sgusciavo via e l'ho stordita per evitare che l'ira di Harihn ricadesse sulla sua testa una volta che la mia fuga fosse stata scoperta. Poi sono tornato qui più in fretta che potevo.» «Non c'è nessuna possibilità che il principe ti abbia seguito?» domandò Aurian, con voce resa aspra dalla preoccupazione. Yazour scosse il capo, assumendo di colpo un'espressione cupa. «Neppure Harihn è tanto stupido da fare una cosa del genere, e sceglierà di salvare la propria pelle. Vedi, mia Signora, siamo in grave pericolo perché il clima è cambiato in modo imprevisto per la stagione in cui siamo, per cui dovremo partire domani al calare della notte e attraversare il deserto il più in fretta possibile. Sarà un viaggio difficile perché siamo male equipaggiati con quel poco che ho potuto portare, ma dovremo fare in fretta per salvarci la vita perché le tempeste di sabbia si abbatteranno su di noi da un momento all'altro, e se non dovessimo portarci al sicuro prima del loro arrivo...» Anvar serrò i pugni, consapevole che quella doveva essere opera di Eliseth: il Popolo dei Maghi non aveva la minima preoccupazione per le vite innocenti che potevano essere stroncate... e che già lo erano state... nel corso dei tentativi per distruggere Aurian. Questa riflessione ebbe soltanto l'effetto di aumentare la sua preoccupazione per Aurian e di indurlo a domandarsi di cosa sarebbe stata capace lei, adesso che disponeva di quel nuovo potere. Nel guardarla mentre sedeva a parlare con Yazour, intenta ad approntare piani per l'indomani, si chiese che ne fosse stato della fi-
ducia che avevano condiviso, e perché lei avesse mentito. L'eccitazione provocata dall'arrivo di Yazour gli tolse però la possibilità di parlare in privato con la Maga, che lo evitò per tutta la notte e scelse di andare a sdraiarsi dalla parte opposta del gruppo rispetto a lui, vicino a Shia, quando al sorgere dell'alba gli altri si distesero infine per riposare in previsione del viaggio che li attendeva... e nel rendersi conto di sentire la sua mancanza al proprio fianco Anvar si diede dello stupido. Per quanto volesse restare sveglio, in modo da poter discutere in privato con Aurian delle discrepanze che aveva rilevato nella sua storia, i suoi occhi si rifiutarono di restare aperti e dopo qualche tempo scivolò nel sonno. Fu svegliato più tardi da un inconscio meccanismo interno, da un vago e indefinito senso di angoscia che lo fece emergere dal sonno quando ancora l'intensa luce del mezzogiorno penetrava dall'imboccatura della caverna. Aprendo gli occhi si sollevò a sedere e vide che Aurian non era più con gli altri, ma quando andò a cercarla scoprì che non era andata lontano e che sedeva sola vicino alla polla, scossa dai singhiozzi e con le nocche di una mano premute contro la bocca mentre piangeva con il disperato abbandono di una bambina angosciata. Subito preoccupazione e compassione ebbero la meglio su di lui, e in quel momento comprese che non avrebbe mai potuto fare a meno di amare Aurian, qualsiasi cosa lei fosse diventata o avesse potuto fare con il nuovo e spaventoso potere a sua disposizione. Persa nella propria disperazione, lei quasi non reagì alla sua presenza quando le sedette accanto. «Non piangere» le mormorò, non sapendo come confortarla. «Va tutto bene... sono qui con te.» «E allora? Tu mi consideri una bugiarda!» sibilò lei, in tono tanto velenoso da indurlo a ritrarsi di scatto. «Non sarebbe la prima volta che mi sono sbagliato sul tuo conto» replicò Anvar, costringendosi a esprimersi con calma perché era consapevole di quanto lei fosse scossa, «ma ogni volta mi hai dimostrato che ero in errore, e ne sono contento.» Mentre parlava Aurian sollevò lo sguardo su di lui con espressione così supplichevole da trafiggergli il cuore come una daga, ma quando cercò di prenderla fra le braccia lei lo respinse. «Il drago» cominciò con voce tremante, parlando in fretta e senza guardarlo. «Volevi sapere del drago: ebbene, è morto. Io l'ho ucciso... ed ho distrutto la città.» Anvar si costrinse a rimanere in silenzio, consapevole che non era il caso
di interromperla adesso che aveva cominciato a parlare. «La città, Anvar... non era veramente qui» proseguì lei, lottando per controllare la voce. «Ciò che abbiamo visto... che abbiamo sperimentato... apparteneva al remoto passato. Quando ha lasciato Dhiammara, il Popolo dei Draghi l'ha distrutta, ma ha bloccato nel tempo l'istante della sua distruzione finché non fosse giunto l'Uno destinato a impugnare la Spada. Nel momento in cui questo è successo l'incantesimo è stato annullato e la città ha cominciato a crollare. Volevo aiutare il drago» proseguì, con voce rotta da un singhiozzo. «Volevo portarlo di nuovo fuori del tempo, ma lui non me lo ha permesso, ha detto che aveva scelto di persona di restare indietro e che adesso il suo compito era concluso. Era adorabile, Anvar... arrogante, astuto e irritabile, ma... oh, era così bello e intelligente, e le sue parole erano fatte di musica e di luce! Aveva aspettato per così tanto tempo, al punto che per quanto ne sappiamo poteva anche essere l'ultimo della sua razza, ed è morto per causa mia. Non gli ho neppure chiesto come si chiamava» concluse, nascondendo il volto fra le mani e riprendendo a piangere. «Calmati» mormorò Anvar, accarezzandole i capelli, addolorato dalla sua angoscia ma al tempo stesso quasi ebbro per il sollievo: come avrebbe mai potuto questa donna, che piangeva per la morte della bellezza, del coraggio e del sacrificio, diventare malvagia? «Non hai scelto tu di essere colei che quel drago stava aspettando, questa strada è stata predisposta per te, per tutti noi, nel passato. Quel drago aveva ragione, Aurian: lui era già morto secoli prima della nostra epoca, e ciò che tu hai visto è stato solo un fantasma... in una città di fantasmi.» Aurian si volse a fissarlo con un'imprecazione inarticolata, sgranando gli occhi e portandosi una mano alla bocca. «Come fai a sapere di questo?» «Di qualsiasi cosa si tratti, non la so. Me ne vuoi parlare?» «Non voglio farlo! Non mi crederesti neppure questa volta!» «Senti, ho sbagliato...» cominciò Anvar, ma lei lo zittì con un gesto brusco della mano. «Questo potere con cui stiamo avendo a che fare... avevi ragione ad essere preoccupato, perché la tentazione di cedere al male come ha fatto Miathan è grande e ci dovremo tenere sotto controllo a vicenda di continuo» disse. «È per questo che avrei dovuto dirti tutto, ma è solo che... prima non potevo farlo, mi causava troppo dolore. Comunque...» Con voce sommessa e tremante gli parlò quindi del proprio incontro con il fantasma di Forral e di come esso l'avesse guidata fino alla torre verde, e
quando ebbe finito Anvar si trovò ad essere senza parole per lo sgomento: lo spettro di Forral che li seguiva e li proteggeva... fu assalito da un brivido, rifiutandosi di accettare una cosa del genere o di credervi. «Aurian... perdonami... ma sei certa di non aver immaginato tutto?» chiese, quando ebbe ritrovato la voce. «E come avrei potuto immaginarlo, dannazione a te? Forral mi ha guidata alla torre, altrimenti come avrei fatto a trovarla così in fretta? Sapevo che non mi avresti creduta.» «Io ti credo... e mi dispiace se in precedenza ho dubitato di te» rispose lui, deglutendo a fatica. «Però vorrei non averti costretta a parlarmene, Aurian, perché tutto questo mi spaventa.» «Dopo quello che ti ho detto la notte in cui ho visto Forral...» mormorò Aurian. distogliendo lo sguardo e tormentando un angolo della coperta. «Questo non c'entra nulla.» «Anvar» lo interruppe lei, con determinazione. «ti devo delle scuse per quello che ho detto. Noi tutti abbiamo svolto il nostro ruolo in questa spaventosa faccenda... tu, io, lo stesso Forral, anche se mi fa molto male ammetterlo... però io non ti ritengo responsabile della sua morte, e neppure lui, adesso lo so. Che altro avresti potuto fare? Da solo non avresti potuto combattere contro l'Arcimago, e il modo in cui hanno reagito sia Forral che Miathan non è stato colpa tua. Tu volevi soltanto aiutarmi.» «Vorrei poter assolvere me stesso con altrettanta facilità da ciò che ho fatto quella notte» sospirò Anvar. «È stato per questo che sei venuto con me? Per un senso di colpa?» ritorse Aurian, in tono tagliente. Anvar si passò le mani fra i capelli in un gesto angosciato, riluttante a continuare ma la tempo stesso in qualche modo obbligato a rispondere alla sua domanda. «In un primo tempo sì... per un senso di colpa e per paura, se devo essere franco. In seguito però, quando mi hai salvato dal campo di schiavi, mi sono detto che si trattava invece di fedeltà e di gratitudine... però mi sbagliavo» dichiarò, incontrando lo sguardo della Maga. «Adesso desidero soltanto restare al tuo fianco per prendermi cura di te e del bambino.» «Il bambino?» ripeté Aurian, infondendo in quelle due sole parole un universo di interrogativi. «M'importa del bambino perché sono indebitato con Forral ma anche perché... ecco, ho la sensazione che fra lui e me ci sia in vincolo che ci unisce. Come me anche lui è figlio di un Mago e di un Mortale, il che signi-
fica che non appartiene del tutto a nessuna delle due razze. So cosa questo significhi, Aurian, e sebbene non l'abbia generato io, quel bambino è figlio del mio cuore... anche e soprattutto per i sentimenti che provo verso sua madre.» «Non me ne sono mai accorta» ammise Aurian, fissandolo con espressione meravigliata. «Chissà come, non ho mai pensato in questi termini.» «La cosa ti dispiace?» domandò Anvar, trattenendo il respiro. «Come potrebbe dispiacermi?» replicò lei, scuotendo il capo. «Inoltre i miei poteri presto mi abbandoneranno, e non mi vergogno di ammettere di aver bisogno di te, Anvar... ne abbiamo sia io che il bambino» aggiunse, e quando infine sorrise Anvar dovette farsi violenza per non infrangere il tenue legame nato fra loro baciandola in quel preciso momento. Invece la strinse a sé e le arruffò i capelli, cercando di mascherare con un tono deciso la tenerezza che gli permeava la voce. «Adesso che la questione è risolta suggerirei di concederci un po' di sonno, dato che presto ci rimetteremo in marcia.» Si svegliò al tramonto, con Aurian che gli dormiva fra le braccia: adesso che era immersa nel sonno la gloria infusa in lei dal Bastone era diminuita e la Maga appariva stanca, vulnerabile e fin troppo umana. Sotto la sottile coperta era ormai possibile vedere il lieve rigonfiamento del suo ventre, che destò nel suo animo un'immensa tenerezza nei confronti di Aurian e del suo bambino non ancora nato. Ciocche ribelli di capelli, che lei non era più riuscita a controllare da quando li aveva tagliati, le erano ricadute sul viso durante il sonno e adesso si agitavano con il ritmo del suo respiro: osservandole, Anvar sorrise e ripensò alla cascata di capelli del colore del fuoco che un tempo le ricadeva fin sotto la cintura, e a come gli era piaciuto pettinarla la notte in cui Forral era morto. Che sensazione meravigliosa gli avevano dato quelle ciocche morbide come la seta che gli scorrevano fra le dita! L'amavo già allora, pensò. L'amavo e non potevo ammetterlo neppure con me stesso: come avrei potuto farlo, io che ero soltanto un servitore? E come posso osare di ammetterlo adesso? Lei non mi amerà mai, non con tutto ciò che si frappone tra noi... il ricordo del passato e lo spettro di Forral che getta ombra sulla nostra vita. Se quella notte non fossi andato da lui forse adesso Forral sarebbe ancora vivo, e per quanto Aurian giustifichi le mie azioni, come posso aspettarmi che dopo quanto ho fatto riesca ad amarmi? Però sono ancora in debito con lei, pensò, guardando la Maga addormentata e sentendo cristallizzarsi
la propria decisione. È un debito di sangue generato dalla morte di Forral, che deve essere ripagato anche se dovesse costarmi la vita... e un giorno troverò il modo di saldarlo. Mentre indugiava in quelle riflessioni protese una mano, come se toccare Aurian servisse a sigillare il proprio voto, e allontanò con delicatezza le ciocche di capelli dal suo volto. Con suo sgomento lei si riscosse, aprendo gli occhi, e questo lo indusse a ritrarre subito la mano come se si fosse scottato perché il potere del Bastone della Terra tornò ad ardere immediatamente dentro di lei. Aurian però stava già imparando a controllarlo e la gloria emanata dal Bastone si affievolì a mano a mano che riusciva a contenerla in se stessa. «È già mattina?» sospirò con voce assonnata, e nel guardare verso la bocca della caverna Anvar desiderò che non fossero sempre così pressati e di poter avere un po' di tempo solo con lei, un lusso che sembrava però irraggiungibile quanto la luna stessa. «Credo piuttosto che sia il tramonto» ribatté. «Sarà meglio svegliare gli altri, perché è ora di andare.» Il resto del viaggio attraverso il deserto richiese una ventina di giorni... alcuni fra i peggiori che Aurian riuscisse a ricordare in tutta la sua vita. Perennemente consapevole dell'avvicinarsi delle tempeste, Yazour costrinse il gruppo a procedere a marce forzate, spingendo persone e cavalli al limite della loro resistenza. Ben presto Aurian si trovò ad invidiare Raven che li aveva preceduti in volo seguendo le oasi in modo da arrivare al più presto possibile al limitare del deserto. Dal momento che Yazour non aveva potuto prendere con sé delle tende, i membri del gruppo erano costretti a trascorrere le torride ore diurne all'aperto, riparandosi sotto rifugi improvvisati con le coperte, proteggendo i propri occhi e quelli dei cavalli con strisce di tessuto in modo da difenderli dal bagliore accecante. Poiché non disponevano di animali da soma, cibo e acqua erano severamente razionati, con il risultato che tutti stavano patendo la fame e la sete. La cosa peggiore era il calore incessante. Durante la prima parte del viaggio c'era sempre stata l'inquieta brezza notturna che veniva a rinfrescarli, ma lo strano cambiamento climatico fuori stagione subito dal deserto aveva portato alla sua scomparsa e ogni notte il calore immagazzinato durante le ore diurne si levava ora a ondate dal terreno ad avviluppare i viaggiatori, rendendo l'aria afosa e soffocante. Adesso il pelo dei cavalli era incrostato di polvere e di sudore, il loro respiro reso faticoso dalle nuvole di polvere
di gemme era ansante e stentato, e i cavalieri erano intrisi di sudore che scorreva loro negli occhi sotto i veli soffocanti e inzuppava gli abiti da deserto che aderivano appiccicosi al corpo mentre l'umore vitale da esso emesso si disseccava nell'aria torrida del deserto. Chi soffriva maggiormente era Shia, a causa del suo folto pelo proprio di una creatura delle montagne e a causa del fatto che era costretta a galoppare dietro i cavalli mentre i suoi compagni potevano cavalcare. Strutturata per corse brevi e veloci, Shia stava scoprendo che quella massacrante corsa contro il tempo attraverso il deserto rischiava di risultare superiore alle sue forze, sia per la stanchezza e la sete che la torturavano sia per il fatto che le sue zampe si piagavano e si coprivano di vesciche a causa dell'attrito con la polvere di gemme rovente, al punto che ben presto cominciò a lasciarsi alle spalle una serie di impronte insanguinate. Soltanto il suo affetto per la Maga le dava la forza di continuare la marcia, e alla fine di ogni giornata, quando avrebbe dovuto invece riposare per preservare le proprie energie, Aurian si sfiniva ulteriormente per risanare il felino esausto e sofferente, cercando di infondere in esso parte delle proprie forze sempre più esigue in modo da permettergli di continuare la marcia. Anvar, che con il passare del tempo appariva sempre più preoccupato, faceva del suo meglio per essere d'aiuto, ma lui non era un guaritore e i suoi sforzi erano di scarsa utilità pratica, tranne per il fatto che riusciva a prestare alla Maga le energie che le permettevano di proseguire da un giorno all'altro. Con il passare del tempo Aurian si andò facendo sempre più frenetica perché quell'attraversamento del deserto era ormai una corsa contro il tempo che lei sapeva essere prossima a perdere. Adesso il suo corpo stava cominciando ad essere goffo e ingombrante a causa del progredire della gravidanza, e cavalcare le riusciva già sempre più difficile. Al tempo stesso, i suoi poteri si andavano indebolendo nonostante il supporto del Bastone della Terra, e la consapevolezza che presto sarebbero scomparsi del tutto serviva soltanto ad accelerare quel processo. Fra non molto essi sarebbero svaniti, e quando pensava a questo lei si sentiva assalire dal panico nel chiedersi come avrebbe fatto allora ad aiutare Shia e a proteggere se stessa, il suo bambino e i suoi amici dalla malvagità dell'Arcimago e di Eliseth. L'aspetto peggiore della situazione consisteva nel fatto che secondo la legge del deserto Shia avrebbe dovuto essere abbandonata, cosa che nelle giornate più difficoltose lei chiese addirittura che venisse fatto, fissando i due Maghi con occhi remoti e vitrei e pregandoli di abbandonarla o di por-
re fine alle sue sofferenze. Ogni volta Aurian serrava i denti e vietava con un'occhiata ferrea ad Anvar di riferire agli altri quello che Shia aveva detto, sebbene fosse evidente ciò che essi già stavano pensando... Aurian lo poteva capire dalle lacrime frequenti di Nereni e dall'aria colpevole con cui Eliizar e Yazour evitavano d'incontrare il suo sguardo; perfino Bohan, la sua incrollabile torre di forza, cominciava a mostrarsi a disagio, e prima o poi lei era consapevole che avrebbe dovuto vedersela anche con Anvar. Sebbene finora lui avesse rifiutato di affrontare l'argomento perché sapeva quanto Shia fosse importante per lei, la preoccupazione nei suoi confronti e in quelli del bambino lo stavano infatti portando ad arrivare a quell'inaccettabile conclusione, e tutto quello che Aurian poteva fare per evitarla era consumare se stessa senza pietà, costringendosi a sfidarli tutti con la forza della sua indomabile volontà, e fare in modo che Shia continuasse in qualche modo a resistere fino alla fine del viaggio. Erano ancora a qualche giorno di distanza dal limitare del deserto quando si verificò il peggio ed Aurian cedette infine al calore e allo sfinimento. Avendo sempre vissuto in quel clima così caldo, gli altri erano più adatti a sopportare temperature tanto elevate e Anvar aveva accumulato una certa dose di resistenza ad esse durante la sua prigionia nel campo di schiavi. Aurian, invece, era stata viziata e coccolata, dapprima come guerriero scelto per l'arena e poi nella confortevole frescura del palazzo di Harihn... e nonostante questo avrebbe forse retto lo stesso se non si fosse spinta ai limiti dello sfinimento, con il risultato che ogni giorno le sue condizioni si andarono aggravando fino a portarla ad essere sopraffatta da quello che Yazour definì un malore da calore. Anche se gli abiti le aderivano al corpo appiccicosi per il sudore, lei era devastata dai brividi, la testa le pulsava ed era assalita da vertigini e da un senso di nausea che le impedivano di conservare il cibo nello stomaco e la rendevano troppo debole per tentare di risanarsi. Tutto quello che poteva fare era aggrapparsi disperatamente al pomo della sella e sforzarsi di rimanere sul suo cavallo, tanto che quando arrivarono finalmente all'ultima oasi Anvar dovette tirarla giù di sella, senza quasi che lei ne fosse cosciente. Allorché l'adagiò con gentilezza al suolo, la Maga venne trattenuta dallo sprofondare nel sonno da un grido d'aiuto, debole e penoso, che le echeggiò nella mente, e subito tentò di sollevarsi a sedere, respingendo le mani di Anvar che tentava di trattenerla e ignorando il dolore che le trafisse la testa. «Shia» ansimò. «Dov'è Shia?»
Anvar dovette ricorrere ad una notevole dose di persuasione per convincere Yazour a tornare indietro a cercare Shia, ma alla fine Aurian divenne tanto frenetica che il guerriero si arrese e tornò dopo un'ora con il grande felino gettato di traverso sul dorso del suo cavallo terrorizzato e barcollante. Nel frattempo Nereni aveva cominciato a bagnare il corpo della Maga febbricitante con l'acqua dell'oasi e Bohan la stava aiutando a bere tutta l'acqua che era in grado di trattenere nel corpo, mentre Anvar passeggiava avanti e indietro, venendo a controllare di tanto in tanto le condizioni di Aurian per poi tornare a scrutare le dune con il volto impolverato che esprimeva una notevole preoccupazione, imprecando contro se stesso per non essere in grado di aiutare la Maga e anche per aver permesso alla preoccupazione nei suoi confronti di indurlo a dimenticarsi di Shia. Quando Yazour arrivò lui aiutò Bohan a tirare giù il felino dalla groppa del cavallo tremante e lo adagiò accanto ad Aurian, accarezzandogli la liscia testa nera e lucida resa ora opaca dalla polvere e ascoltando il suono torturato del suo respiro. Dopo un momento Shia aprì gli occhi che avevano perso il loro scintillante bagliore dorato e gli trasmise un pensiero nebuloso come una voluta di fumo. «Addio.» Anvar strinse nelle mani quelle zampe sanguinanti e sentì la scintilla della vita tremolare all'interno del corpo del grande felino, il battito del cuore vigoroso cominciare a cedere. «Addio, amica mia» sussurrò. «Addio un accidente!» esplose la voce di Aurian, crepitando come una frusta e riscuotendo Anvar dal suo abbattimento con la stessa violenza di uno schiaffo: girandosi verso di lei. Anvar vide che si era sollevata a sedere con occhi cupi e roventi, e con un'espressione risoluta sul volto. Prima che potesse fermarla, la Maga protese una mano verso Shia e si vincolò irrevocabilmente all'amica morente. Anvar afferrò appena in tempo il corpo inerte della Maga che si accasciò da un lato, libero dal controllo della mente che adesso era isolata in un inaccessibile stato di trance e impegnata in una lotta disperata per mantenere l'anima di Shia all'interno del suo corpo prossimo a spegnersi. Impotente e sgomento, Anvar strinse Aurian a sé e sentì una morsa gelida di terrore serrargli il cuore allorché si rese conto che non riusciva a sua volta a raggiungerla, in quanto sapeva bene cosa stava tentando, la stessa cosa che aveva fatto nel campo di schiavi quando era andata alla ricerca del suo spirito e lo aveva riportato sano e salvo nel corpo. Questa volta però lei era
indebolita, esausta e malata, non aveva la forza necessaria per sostenere una simile lotta e per impedire a Shia di trascinarla con sé nella morte, così come non aveva la forza necessaria per staccarsi da lei e tornare indietro. Freneticamente, il giovane protese la propria mente come Aurian gli aveva insegnato a fare, cercandola e tentando di individuare anche la minima traccia del suo passaggio, ma per quanto frugasse e si sforzasse dovette ben presto arrendersi al fatto che lei era ormai perduta. «Anvar!» chiamò una voce ridotta ad una flebile eco, che riuscì a penetrare in modo vago e indistinto nella sua sfera cosciente e a richiamarlo indietro. Una mano lo stava scuotendo rudemente per le spalle, e nel guardarsi intorno lui rimase sorpreso di vedere che le ultime tracce di chiarore diurno si stavano dissolvendo all'orizzonte verso occidente. Era rimasto in trance così a lungo? Una fitta di timore gli troncò per un istante il respiro, ma poi avvertì un tenue accenno di respirazione nel corpo che stava ancora stringendo fra le braccia doloranti e percorse da crampi, e vide la cassa toracica del grosso felino dilatarsi parimenti nel respirare: dunque erano ancora vive... e Aurian stava ancora lottando. Nel frattempo Yazour gli lasciò andare le spalle e si accoccolò davanti a lui nell'apertura dell'improvvisato riparo di coperte che era stato eretto su Anvar, Aurian e Shia. «Per tutti gli dèi. Anvar, mi hai terrorizzato! Ero convinto che vi avessimo persi tutti e tre!» esclamò, con il volto atteggiato ad un'espressione che era al tempo stesso di sollievo, di irritazione e di preoccupazione. «Cosa è successo? Cosa possiamo fare? Guarda il cielo... le tempeste di sabbia si abbatteranno su di noi fra pochissimo tempo» aggiunse, accennando verso l'orizzonte occidentale che era velato e indistinto, e percorso da vivide venature di luce arancione. «Aurian è collegata a Shia... e non possiamo spostarle» replicò Anvar, con voce resa rauca dalla gola arida ma in un tono che suonò stranamente calmo ai suoi stessi orecchi. «Dovrete andare via senza di noi, Yazour: prendi gli altri con te e partite subito... correte verso la salvezza finché potete.» «Tu verrai con noi?» domandò Yazour, in tono estremamente quieto. Anvar era consapevole che non c'era speranza, che non poteva fare nulla per aiutare la Maga e Shia, che erano da considerarsi già morte, quindi la cosa più ragionevole sarebbe stata andare con gli altri, salvare se stesso e il Bastone della Terra e muovere guerra a Miathan nel nome di Aurian. Pur essendo perfettamente consapevole di questo, e pur sapendo che Au-
rian avrebbe voluto che lui agisse in questo modo, non si sentì di farlo. Nell'abbassare lo sguardo sul suo corpo immoto ricordò l'angoscia che aveva provato a Dhiammara quando aveva creduto che lei fosse morta all'interno del cristallo, il terrore che lo aveva trapassato allorché la grande pietra era parsa precipitare nella galleria e come si fosse lanciato in avanti per morire con lei piuttosto che essere di nuovo torturato dalla consapevolezza di averla perduta. Sotto il suo sguardo il petto della Maga si sollevò e si abbassò in una misera parodia di vita, e lui che conosceva più di chiunque altro la sua cocciuta forza di volontà si rese conto che non poteva lasciarla mentre era ancora in vita, che non avrebbe potuto affrontare il resto dell'esistenza sapendo di averla abbandonata impotente nel deserto di una terra straniera. «Non essere stupido» rispose quindi, sollevando lo sguardo su Yazour e scuotendo il capo. CAPITOLO TRENTACINQUESIMO IL POZZO DELLE ANIME La porta era antica, fatta di spesso legno segnato dagli elementi e ormai grigio e pesante come un blocco di pietra, e decorata da intagli che il trascorrere degli anni aveva smussato e levigato. Allorché Anvar posò una mano su di essa vaghe sagome e disegni intrecciati parvero emergere in improvviso risalto, delineati da linee argentee di fuoco magico che gli scaturivano dalle dita e trasformavano la sua mano in una torcia ardente. Anvar sussultò, nauseato dalla vista delle proprie ossa che splendevano cupe attraverso la carne incandescente senza però che lui avvertisse il minimo senso di calore o di dolore, e intanto la porta si aprì silenziosamente e gli permise di oltrepassare la soglia. Allorché allontanò le dita dai pannelli, il fuoco che gli avvolgeva la mano si spense e tutto ciò che lo circondava venne avvolto dalla penombra. Una scintillante nebbia grigia lo avvolse quindi nelle sue spire, riducendo il suo campo visivo con la stessa efficacia con cui avrebbe potuto farlo una tenda... e come una tenda si aprì quindi a rivelare una figura curva la cui forma era oscurata da un grande mantello grigio munito di cappuccio. L'apparizione stringeva in pugno un bastone a cui si stava appoggiando in maniera tale da dare l'impressione di un'età molto avanzata, e nella mano libera teneva una lanterna cieca che emanava un singolo raggio di luce argentea diretto su un sentiero di lucenti e umidi ciottoli bianchi. Allorché
la visione volse il capo Anvar intravide il bagliore intelligente di penetranti occhi neri e i contorni indistinti di una barba brizzolata che si celava nell'ombra del cappuccio, e per un momento quel vecchio gli parve molto familiare, come se fosse stato una persona che lui conosceva da sempre, ma al tempo stesso non riuscì a rammentare di averlo mai incontrato o di aver mai visto qualcuno che gli somigliasse... anzi, con un brivido si rese conto di non essere in grado di rammentare nulla, neppure come fosse giunto in quel posto o da dove vi fosse arrivato. Quasi fosse stato in grado di recepire i suoi pensieri confusi, il vecchio gli rivolse un sorriso incoraggiante e lo invitò con un cenno a seguirlo. In un primo tempo il sentiero li condusse lungo una depressione dalle erte pareti sulle quali crescevano alberi i cui rami pendevano ad ombreggiare la strada e a formare una sorta di galleria, mentre gli alti terrapieni sui due lati erano costellati di massi coperti di muschio e di folti cespugli di felci. L'aria era intrisa di umidità e pervasa dei sentori aspri delle foglie che marcivano, dell'aglio selvatico e della vegetazione bagnata, e quell'atmosfera così fragrante e fresca risultò un tale sollievo dopo l'aria rovente del deserto che lui si trovò a trarre profondi respiri e a sentire la tensione che gli serrava il petto cominciare a rilassarsi... Il deserto! Anvar si arrestò di colpo, sforzandosi di mettere a fuoco un ricordo che cercava di sfuggirgli: era stato in un deserto... Il vecchio però lo afferrò per un braccio, scuotendo il capo in un gesto di ammonimento e con una tensione tale da denotare una disperata urgenza. Dobbiamo fare presto, sembrava dire. Non c'è tempo per pensieri del genere. Poi lasciò la presa e accelerò il passo a tal punto che il fievole chiarore della sua lanterna andò scomparendo in fretta nella caligine circostante: in preda al panico all'idea di perdere la sua unica guida in quello strano posto, Anvar si affrettò ad accorciare le distanze fra loro. D'un tratto, in maniera tanto improvvisa da togliere il fiato, lo stretto sentiero sboccò in una vallata e la nebbia soffocante scomparve, lasciando soltanto veli argentei e setosi di caligine che coprivano il terreno e vorticavano intorno ai piedi, smossi dal suo silenzioso passaggio e da quello della sua guida... e in un momento in cui essi si aprirono, permettendogli di intravedere il terreno, Anvar si rese conto che stava camminando su uno strato di erba corta e folta che copriva il suolo della valle cinta su entrambi i lati dalle gobbe arrotondate delle colline che si addossavano le une alle altre e si levavano verso un cielo notturno cosparso di milioni di stelle scin-
tillanti. Intorno a loro il silenzio stava intanto intessendo una sorta di tangibile incantesimo mentre Anvar, privo di qualsiasi ricordo del passato o da pensieri inerenti al futuro, continuava a seguire la curva figura ammantata e la sua lanterna come se questo fosse stato l'unico scopo per cui era nato. Poi un boschetto emerse dall'oscurità circostante come se si fosse materializzato di colpo scaturendo da un sogno, e nel guardarlo Anvar lo trovò stranamente familiare, anche se di certo non poteva mai aver visitato in precedenza questo luogo strano e ultraterreno. Gli antichi alberi che componevano quella macchia si protendevano gli uni verso gli altri come per celare qualche mistero, quasi si sussurrassero a vicenda interminabili segreti nel corso di quella notte senza fine, e per un istante il pensiero del deserto affiorò di nuovo nella mente di Anvar: con suo estremo orrore la scena che aveva davanti cominciò a tremolare e a distorcersi, come se avesse lasciato cadere una pietra nel pozzo senza fondo costituito dalle meditazioni degli alberi, e nel protendere una mano davanti a sé si rese conto che essa stava diventando diafana e incorporea, così come lo scheletro interno degli alberi era adesso chiaramente visibile attraverso il dissolversi del loro involucro esteriore. Il vecchio si girò di scatto verso di lui con un sibilo di avvertimento... il primo suono che Anvar gli avesse sentito emettere... accompagnato da un respiro che gli si condensò in una nuvoletta davanti alla faccia, cospargendo la cespugliosa barba brizzolata di goccioline che presero ad ammiccare come stelle alla luce della lampada, creando un effetto così assurdo da distrarre Anvar e da portarlo a concentrare i suoi pensieri vaganti sul momento che stava vivendo. Con suo sollievo la scena davanti a lui tornò a stabilizzarsi e la sua stessa carne ritrovò solidità. Il vecchio intanto si volse di nuovo verso il boschetto, inchinandosi profondamente tre volte, e con sorpresa di Anvar un sentiero apparve allora in mezzo agli antichi tronchi, come se gli alberi avessero accettato la loro presenza e si stessero ritirando in tutta fretta per permettere il passaggio. Meravigliato e non poco spaventato, Anvar seguì la sua guida addentrandosi in una galleria di fogliame che portava verso il cuore del boschetto. Al centro della macchia di alberi, racchiusa da un morbido cerchio di muschio, c'era una polla che era il nucleo stesso di questo luogo magico e che aveva una superficie scura e immota, su cui non galleggiava neppure una foglia nonostante i rami frondosi che pure si protendevano su di essa. Anvar seguì la sua strana guida fino all'orlo della polla, guardò verso il
basso e si ritrasse per lo stupore quando scoprì che invece di riflettere il suo volto incorniciato dal sovrastante intreccio di rami quelle acque di una profondità inimmaginabile presentavano invece l'immagine di un infinito cosparso di stelle la cui semplice vista era sufficiente a fargli girare la testa e a fargli martellare il cuore come se stesse cercando di uscirgli dal petto per il timore dovuto alla radicata convinzione che se fosse caduto in quella polla avrebbe continuato a precipitare all'infinito. Il vecchio emise un sospiro di sopportazione e poi, con orrore di Anvar, indicò verso la polla spaventosa e infine parlò, con voce arida e spenta quanto l'agitarsi della polvere in un cimitero sotto il soffio gelido del vento notturno. «Non credere mai che la morte sia spietata. Adesso è giunto il momento di adempiere alla seconda parte del patto... ma rammenta che la terza volta sarà quella decisiva» disse, e scomparve. Anvar ruotò di scatto su se stesso, guardandosi intorno selvaggiamente pur sapendo in cuor suo che era inutile e che la sua guida era svanita. La sola cosa che riusciva a comprendere era la palese ingiunzione di tornare vicino alla polla ma per un momento ancora lui esitò, timoroso di avvicinarsi all'orlo di quell'abisso senza fine, e come se avessero in qualche modo avvertito la sua riluttanza gli alberi presero a tremare per l'ira mentre un sibilo soffuso cominciava ad echeggiare fra i rami che ora si stavano contorcendo come serpenti e protendendo verso di lui come ossute mani minacciose. Intimorito da quella reazione, Anvar si affrettò ad avvicinarsi alla polla e il tumulto insorto fra gli alberi cessò non appena si accostò all'acqua, dove una serie di scintille prese a divampare dalla sua scura superficie vitrea, costringendolo a sussultare e a ripararsi gli occhi mentre s'inginocchiava con trepidazione sulla riva in quanto quella posizione lo faceva sentire più al sicuro. Un attimo dopo fu grato di quella misura di sicurezza perché l'universo stellato racchiuso nella polla prese a ruotare in un furioso vortice di luce che lo trascinò minacciosamente verso il basso... Consapevole che si stava protendendo pericolosamente verso la polla, con il naso che arrivava quasi a toccare la sua superficie vorticante, e che stava per perdere l'equilibrio senza però essere capace di ritrarsi da quell'ipnotico vortice, Anvar affondò in profondità le dita nel morbido strato di muschio e si spinse all'indietro con tutta la forza delle sue braccia irrigidite, poi sbatté le palpebre allorché una scintilla incandescente che spiccava più luminosa in mezzo a quel maelstrom di candore si diresse
vorticando verso di lui emergendo dalle profondità della polla. A poco a poco la scintilla si allargò e si modificò fino ad assumere una forma precisa che strappò un grido dalla gola di Anvar. che venne scagliato violentemente all'indietro allorché la figura emerse dall'acqua, riversando su di lui una pioggia di gocce cristalline che bruciavano come fuoco al contatto con la pelle. Al tempo stesso una voce pervasa di disperazione chiamò il suo nome mentre lui guardava Aurian lottare e dibattersi nel centro della polla, cercando con tutte le sue forze di non essere risucchiata nelle profondità di quel nulla vorticante. «Aurian!» urlò Anvar, mentre la memoria gli tornava in un lampo devastante unita ad un enorme senso di confusione. Dov'era l'oasi? Adesso però non c'era tempo per porsi domande perché la Maga si stava indebolendo, trascinata com'era verso il basso da un enorme fardello nero più grande di lei... Shia. Comprendendo in modo vago che se fosse entrato a sua volta nella polla questo avrebbe significato la fine per tutti e tre, Anvar si protese sull'acqua quanto più gli era possibile, cercando di afferrare Aurian, cosa resa difficile dal suo selvaggio dibattersi come dimostrò il fatto che lui mancò la presa più di una volta, anche perché sebbene lei sembrasse avere ancora indosso gli abiti da deserto essi non parevano offrire nessun appiglio. «La mano!» le gridò, pregando che lei riuscisse a sentirlo. «Dammi la mano!» La vide modificare la presa con cui sorreggeva Shia, vide il candore del braccio che stava protendendo verso di lui e si lanciò pericolosamente in avanti per afferrarlo, cercando al tempo stesso di proiettarsi all'indietro nel momento stesso in cui sentì le proprie dita chiudersi intorno al polso di lei. Il peso congiunto di Aurian e del grosso felino risultò però superiore alle sue forze e nel sentirsi scivolare in avanti lui si appiattì contro il terreno, mantenendo la presa con tutte le sue forze e avvertendo nelle braccia una tensione che minacciava di arrivare al punto di rottura: se soltanto avesse potuto usare entrambe le mani... ma una di esse era sempre ancorata in profondità nel morbido muschio della riva ed era la sola cosa che gli impedisse di precipitare nella polla insieme alla Maga, e per quanto quell'appiglio fosse stato inizialmente solido, lui poteva adesso sentire il terreno che cominciava a sgretolarsi sotto le sue dita... Allorché il muschio cedette del tutto, Anvar precipitò in avanti, ma in quel momento una mano emerse apparentemente dal nulla e gli si serrò intorno al polso come l'artiglio di un'aquila: lunghe unghie affilate gli affon-
darono nella pelle, schiacciando tendini ed ossa in maniera tale da strappargli in grido di agonia, ma lui non abbandonò la presa con cui sosteneva la Maga e un istante più tardi la mano che lo aveva afferrato gli impresse senza sforzo apparente uno strattone che lo tirò fuori dalla polla insieme ad Aurian e a Shia. Poi la mano abbandonò la presa, ma Anvar continuò ad avvertire la sua impronta che gli bruciava la carne e nell'abbassare lo sguardo sul polso vide che la pelle era insanguinata e lacerata là dove le unghie vi avevano inciso profondi solchi a forma di mezzaluna. Mordendosi le labbra per resistere al dolore rotolò sulla schiena e sentì il cuore contrarglisi fino a diventare una sfera di ghiaccio allorché il suo sguardo si posò su un volto sfregiato e devastato e sulle orbite bruciate che un tempo avevano ospitato gli occhi roventi e spaventosi dell'Arcimago. Miathan era vestito di nero e il suo volto appariva orrendamente sfigurato: la pelle intorno alle orbite vuote era annerita e crepata, in suppurazione e aperta qua e là in modo da lasciar intravedere in modo nauseante il rossore della carne viva e il candore delle ossa del cranio... e inserita in ciascuna orbita vuota c'era adesso una gemma sfaccettata che ardeva di una luce rovente, ora bianca e ora rossa, e conferiva al suo volto simile ad un teschio l'aspetto minaccioso di quello di un gigantesco insetto. Ciò che più terrorizzò Anvar fu però il sorriso che aleggiava su quei lineamenti spaventosi: sgomento e ammutolito, non riuscì a fare altro che rimanere a fissare come paralizzato quella faccia e la sua malvagia espressione gongolante. Poi una mano gli serrò la spalla e Aurian si servì di lui come sostegno per issarsi in piedi, cercando al tempo stesso di spingerlo al sicuro dietro di sé. I suoi occhi erano ora pervasi di un argenteo bagliore di odio e il timore che Anvar poteva avvertire nel lieve tremito delle sue dita non le traspariva minimamente dal volto. Vergognandosi di se stesso di fronte a tanto coraggio, cercò a sua volta di alzarsi ma l'Arcimago accennò con le dita un gesto sprezzante accompagnato da un bagliore di luce nei suoi occhi di cristallo, e una scarica di oscurità rovente si abbatté su di lui, scagliandolo di nuovo al suolo ansimante per il dolore. «Come osi!» esclamò Aurian, parandosi con atteggiamento pieno di sfida davanti a Miathan e parlando con voce tonante quanto il fragore di una frana. «È vietato usare la magia nel Luogo Fra i Mondi!» «Stolta!» ribatté l'Arcimago, scoppiando in una crudele risata beffarda. «Vorresti citare la Legge di Gramarye a me che ti ho insegnato tutto quello che sai? Io posso osare qualsiasi cosa!» esclamò quindi, protendendo di scatto la mano ossuta e sferzando con la sua rovente oscurità la Maga, che
si piegò su se stessa con un grido di dolore, accasciandosi al suolo. Anche se i suoi occhi erano andati distrutti, era evidente che l'Arcimago si era servito della magia arcana delle gemme per ritrovare la vista: il freddo e orribile bagliore del suo sguardo alieno si posò su Aurian e su Anvar, e su quel volto spettrale apparve un sorriso pieno di disprezzo. «Così va meglio» disse quindi. «Umiliati davanti a me, com'è giusto che tu faccia!» «Non mi umilierò mai davanti a te, pezzo di sporcizia!» ritorse Aurian, sollevandosi in ginocchio e sputando verso i piedi di Miathan. «Però hai la mia parola che un giorno ti ucciderò.» «Davvero?» rise Miathan, sempre più beffardo. «Ne dubito... impotente come sei per la presenza del marmocchio di Forral nel tuo ventre. Avresti fatto meglio a sottometterti a me, ragazza: al mio fianco avresti avuto tutto il potere che volevi, mentre adesso non sei nulla, sei soltanto una fuggitiva senza speranza menomata da un abominio per metà Mortale. Senza i tuoi poteri sei impotente quanto una mendicante, donna, e come qualsiasi prostituta da strada sarai esposta al desiderio di qualsiasi uomo di passaggio... compreso questo vile bastardo! Adesso avrai ciò che volevi, vero?» continuò, volgendosi verso Anvar, con voce che grondava disprezzo. «Adesso che i suoi poteri non ci sono più la tua lunga attesa è finita, Anvar. Chi lo sa, forse potrebbe perfino trovarti di suo gusto... visto che pare trarre piacere dall'essere contaminata da feccia Mortale tua pari!» La voce di Miathan ebbe l'effetto di gettare una sorta d'incantesimo sulla sua vittima e di indurre Anvar a guardare verso Aurian, che giaceva impotente davanti a lui, avvertendo al tempo stesso l'insorgere del desiderio tanto a lungo represso. Poi sentì Aurian sussultare e vide nei suoi occhi l'affiorare improvviso della paura e del dubbio che lo trafissero come una spada... e nel rendersi conto di essere stato ingannato fu assalito da un'ira simile ad una fiamma gelida che gli schiarì la mente e lo indusse a fissare l'Arcimago con occhi roventi. «Come tu ben sai, Miathan, io non sono un Mortale ed ho recuperato i poteri che mi avevi rubato» ribatté in tono pacato. «Inoltre non c'è bisogno che tu trasferisca su di me le tue bramosie perché la Signora sa benissimo quale di noi due voglia violarla... e quale sia disposto a proteggerla ad oltranza! Aurian può anche essere impotente, ma se ti avvicinerai a lei dovrai vedertela con me.» Nel parlare Anvar sapeva benissimo che la sua era una minaccia a vuoto perché Miathan disponeva del Calderone, ma nonostante questo Aurian gli
scoccò un'occhiata piena di gratitudine mista a irritazione all'idea di aver bisogno di protezione... una reazione così tipica del suo carattere che ebbe l'effetto di rincuorarlo nonostante il pericolo in cui si trovavano. Per nulla turbato dal fallimento del suo piccolo complotto, Miathan scoppiò in una fragorosa risata. «Avresti dovuto attenerti alla tua precedente ambizione di essere un menestrello, ragazzo, dal momento che mi stai già divertendo come mi aspettavo che avresti fatto. Sappi infatti» proseguì, in tono improvvisamente duro, «che non vi ho salvati dal Pozzo delle Anime per semplice bontà di cuore.» «È vero... perché tu non hai un cuore!» scattò Aurian. «Taci!» ingiunse Miathan, sferzandola ancora con un crepitante filamento di oscurità che la raggiunse in pieno volto e la fece barcollare, anche se questa volta lei si rifiutò di gridare per il dolore. Pervaso di un'ira sempre più intensa ed ora rovente là dove prima era stata gelida, Anvar cercò di scagliarsi contro Miathan, che però lo immobilizzò con un gesto noncurante e continuò a parlare come se non fosse successo nulla. «Se vi avessi considerati una minaccia avrei potuto lasciarvi perire qui e risparmiarmi una buona quantità di fastidi, ma non ho ancora finito con nessuno di voi due. Infatti mi seccherebbe molto, Anvar, che tu andassi incontro ad una morte rapida e indolore, e quando a te, mia cara» proseguì, rivolgendosi ad Aurian con un raggelante sorriso lascivo, «ho altri piani per quel che ti concerne. Fino a quando non ci incontreremo di nuovo in carne ed ossa potrete divertirvi ad immaginare quale sorte io abbia in serbo rispettivamente per ciascuno di voi ma per adesso... addio!» Nel momento in cui l'Arcimago pronunciava quell'ultima parola la scena cominciò a tremolare e a dissolversi davanti agli occhi di Anvar, che abbassò per un istante le palpebre in modo da difendersi da quel vertiginoso vorticare e nel risollevarle si venne a trovare di nuovo nell'oasi, dove una luce malsana e sulfurea aleggiava sopra le dune e il sole stava lottando per trapassare le minacciose nubi che si addensavano all'orizzonte. Devo essermi addormentato, pensò. Per gli dèi, che incubo! In quel momento però anche Aurian aprì gli occhi, nei quali era possibile leggere un orrore e un profondo, nauseante timore pari a quelli che lui stesso stava provando. Aurian risultò essere incapace di spiegare quello che era successo al
Pozzo delle Anime, e la sola supposizione che si sentì di avanzare fu che Anvar si fosse addormentato e che la sua anima in ansia, libera dalle pastoie della consapevolezza, fosse riuscita a penetrare nel dominio della morte per arrivare fino a lei. Peraltro il racconto che Anvar le fece del proprio incontro con il Mietitore di Anime e di come lo spettro avesse accennato ad un patto ebbe l'effetto di destare in lei una vaga inquietudine perché in esso c'era qualcosa che le appariva in qualche modo familiare... senza dubbio, quando aveva strappato Anvar dalle grinfie della morte, a Taibeth, il Mietitore aveva detto anche a lei qualcosa del genere, ma non riusciva a ricordarlo. E poi, come aveva fatto Miathan a raggiungerli là? Aurian fissò con espressione accigliata la striscia di carne secca che aveva in mano e sentì la propria fame attenuarsi a causa del senso di colpa che la tormentava per aver esposto Anvar e se stessa all'ira dell'Arcimago e del timore che le contraeva il ventre. Miathan aveva avuto ragione nell'affermare che i suoi poteri, sforzati al di là del loro limite massimo nel momento in cui erano maggiormente vulnerabili, erano adesso del tutto scomparsi e l'avevano lasciata priva di difese. «Dannato Miathan» borbottò. «Perché doveva ricomparire proprio adesso, nel momento meno indicato?» Con un'imprecazione scagliò lontano da sé il cibo che aveva in mano e Anvar protese la mano fuori dal riparo per recuperare la carne, liberandola con cura dalla polvere prima di rimettergliela in mano. «Sii ragionevole, Aurian, hai bisogno di mangiare» le disse. Lei lo fissò con espressione rovente, sul punto di ribattere in modo aspro, ma poi avvertì la sfumatura tagliente nella sua voce, vide le chiazze scure che gli delineavano gli occhi e le linee di tensione che gli segnavano il viso impolverato e si costrinse a staccare un altro morso. Il confronto con Miathan aveva rovinato la gioia del loro ritorno e una lite era adesso l'ultima cosa di cui avevano bisogno, anche perché se voleva essere onesta doveva ammettere che Anvar non aveva detto una sola parola di biasimo nei suoi confronti, sebbene sarebbe stato meglio forse se lo avesse fatto, dal momento che così l'aveva lasciata a biasimarsi da sola. E tuttavia... lo sguardo di Aurian si posò su Shia, che adesso stava riposando per recuperare le forze e che non ricordava nulla di quello che era accaduto sebbene si fosse trovata del tutto risanata... come la stessa Aurian... in conseguenza del contatto con il Pozzo delle Anime. Che altro avrei potuto fare? si chiese la Maga. Se non avessi agito come ho fatto Shia sarebbe morta. E pregò che il prezzo per la vita del grosso fe-
lino non dovesse risultare troppo elevato. «Hai fatto quello che dovevi» osservò Anvar, in tono quieto, intervenendo nel corso dei suoi pensieri come se avesse potuto leggerle nella mente. «Ti ringrazio per questo» replicò Aurian, prendendogli la mano, «ma adesso siamo di fronte a così tante difficoltà, con la tempesta prossima ad avvicinarsi, Miathan che ci sta dando la caccia e i miei poteri ormai svaniti... Anvar, ho paura» ammise, incapace di controllare il tremito che le pervadeva la voce. «Senza la magia sono terribilmente vulnerabile, ed ora che Miathan si è ripreso dal mio attacco potrebbe succedere qualsiasi cosa. E che dire del Bastone?» proseguì con un brivido. «Non credo che lui sappia che ne siamo entrati in possesso, ma se dovesse scoprirlo... Anvar, ricordi il naufragio, quando Miathan si è impadronito del mio corpo ed ha cercato di ucciderti?» Anvar annuì, mostrandosi perplesso per quell'improvviso cambiare argomento, mentre Aurian traeva un profondo respiro, spaventata lei stessa da quello che doveva dire. «Anvar... e se questo succedesse di nuovo, adesso che Miathan si è ripreso? Se lui dovesse assumere il controllo del Bastone...» «No!» esclamò lui, avendo ora compreso dove lei intendesse andare a parare. «Non lo dire neppure, Aurian.» «Devo farlo. Se io... se Miathan dovesse riuscire a controllarmi tu sarai costretto ad uccidermi, Anvar, non avrai scelta... come non ne avrei io se questo dovesse succedere a te.» «Non intendo ucciderti, non lo farò» ribatté Anvar, con voce ridotta ad un sussurro inorridito. «Non posso farlo.» Per quanto commossa, Aurian si costrinse ad incontrare il suo sguardo senza sussultare. «Mi dispiace, tesoro, ma dovrai farlo. Se Miathan dovesse impadronirsi del Bastone questo potrebbe significare la fine di tutto... e comunque è meglio morire di nostra mano che permettere a lui di ucciderci. Hai sentito quello che ha detto nel Pozzo delle Anime.» Anvar non udì quasi le sue ultime parole, perché anche se sapeva che quel termine affettuoso era sfuggito ad Aurian senza che lei se ne accorgesse non poteva evitare di sentirsi giubilante e stava lottando per non lasciare che quella sensazione gli trasparisse dal viso in quanto non voleva che lei tornasse ad erigere un muro fra loro, come era certo che avrebbe fatto. Quali che fossero i sentimenti che provava per lui, infatti, Aurian stava ancora soffrendo per la morte di Forral e sarebbe caduta preda di e-
normi sensi di colpa al solo pensiero di rimpiazzare l'amore della sua infanzia. È troppo presto... dalle dell'altro tempo, disse a se stesso, pregando intanto tutti gli dèi perché l'Arcimago lasciasse loro il tempo di cui avevano bisogno. La camera di Miathan era cupa e gelida, perché la fiamma ardente che lui aveva lasciato nell'enorme focolare si era ridotta a pochi carboni ardenti semisoffocati dalla cenere e le lampade si erano spente. La luce opaca che filtrava attraverso le tende annunciava il sorgere su Nexis di un'altra tetra giornata e il suo corpo giaceva sul letto proprio come lui lo aveva lasciato, simile ad un pallido e gelido cadavere nell'intenso chiarore della stanza. La sua consapevolezza che si librava su di esso rabbrividì e si ritrasse dall'idea di tornare in quell'involucro freddo e devastato dalla sofferenza, ma era una cosa che doveva essere fatta, quindi Miathan si controllò e si lanciò verso il basso, scivolando nella propria forma corporea con la disinvoltura derivante dalla lunga pratica. Rientrare nel corpo risultò un'esperienza peggiore del tuffarsi in una polla gelida e lui imprecò con veemenza, imponendosi di resistere al dolore. Da quando Aurian lo aveva attaccato aveva continuato a soffrire terribilmente a causa degli occhi bruciati, e ormai sapeva che quel dolore non avrebbe mai trovato sollievo. Con l'aiuto di Eliseth, era riuscito a riportare alla luce quanto bastava dell'antica magia del Popolo dei Draghi da poter usare i cristalli per tornare in qualche modo a vedere, ma i bordi affilati delle gemme gli irritavano le orbite torturate e aumentavano l'agonia che esse gli causavano. Peraltro, questo era sempre meglio della completa cecità... ancora una volta Miathan imprecò per l'ennesima volta contro quella folle cagna di Meiriel, che si era rifiutata di risanarlo, e contro quel verme traditore di Elewin che l'aveva aiutata a fuggire... Infine ricordò a se stesso che rimanere disteso a dare sfogo alla sua ira non lo avrebbe portato più vicino alla sua vendetta, quindi si strinse maggiormente nelle vesti e sollevò il proprio corpo scricchiolante dal letto, anche se stava tremando violentemente per il freddo e per il viaggio prolungato fra i mondi che aveva enormemente logorato le sue riserve di energia. Appoggiandosi al bastone raggiunse zoppicando il focolare e vi gettò dentro una manciata di ceppi, decidendo di lasciare che prendessero fuoco di loro iniziativa invece di sprecare gli ultimi residui delle proprie forze per accenderli con la magia; mentre aspettava che le fiamme attecchissero pro-
cedette a riempire e a riaccendere di persona le lampade, infuriando interiormente per le mosse impacciate a cui era costretto dal suo attuale stato di debolezza. Quando ebbe finito la stanza era già più accogliente: il fuoco scoppiettava e crepitava nel focolare, dissolvendo il silenzio e levando lunghe lingue di fiamma arancione a lambire i ceppi pieni di resina che cominciavano a pervadere l'aria stantia con l'aromatico profumo di pino, e il caldo bagliore delle lampade addolciva l'asprezza della tetra luce diurna, avvolgendo di bagliori dorati il piatto d'argento carico di frutta e di pane che era posato sul tavolo. Nel concentrarsi infine sul cibo che teneva sempre nel proprio alloggio in previsione della debolezza che si accompagnava ad ogni ritorno da un viaggio extracorporeo, l'Arcimago si versò del vino e notò con una fitta d'irritazione che la caraffa era vuota per metà... un'omissione che non si sarebbe mai verificata se Elewin fosse stato ancora all'Accademia. Però il capo dei servi se n'era andato, era diventato un traditore proprio come Aurian. Aurian! L'Arcimago si passò la lingua sulle labbra al ricordo di come lei gli era caduta ai piedi, torturata dal dolore che le aveva inflitto, e si disse che quando l'avesse riavuta in suo potere avrebbe provveduto a insegnarle cosa significasse veramente soffrire! Una volta che avesse spezzato la sua volontà l'avrebbe poi fatta sua, e finalmente aveva i mezzi per riuscire nell'intento... Sorridendo fra sé, convocò mentalmente Eliseth, perché per quanto detestasse confidarsi con lei c'erano cose che la Maga del Clima doveva sapere. La convocazione dell'Arcimago raggiunse Eliseth negli archivi e la indusse a imprecare nell'allontanarsi una ciocca di capelli dal volto con una mano impolverata: cosa poteva volere adesso quel vecchio stolto? Da quando Elewin se n'era andato Miathan pareva pensare che lei non avesse niente di meglio da fare che accudirlo e non le era minimamente grato dei suoi sforzi... e neppure del fatto che lei avesse trovato un mezzo per curare la sua cecità. Soltanto lei aveva pensato a cercare delle risposte nei fatiscenti documenti riposti sotto la biblioteca, una volta che la fuga di Meiriel e di Elewin aveva attirato l'attenzione generale sulle catacombe, del tutto ignorate da quando Finbarr era morto. Naturalmente Bragar era troppo stupido per pensare ad utilizzare l'antico sapere in esse immagazzinato, ma Eliseth si era resa conto che qualsiasi ulteriore cognizione avrebbe potuto metterla in posizione di vantaggio... non soltanto nei confronti di Bragar ma anche in
quelli di Miathan. Le sue ricerche in quelle gallerie fredde e sporche erano state tutt'altro che piacevoli ma avevano fruttato risultati tali da non farle rimpiangere quei disagi, in quanto oltre alla cura per restituire la vista a Miathan lei aveva scoperto anche molte altre cose... nozioni di sapere arcano e oscuro che risalivano a tempi antecedenti il Cataclisma e di cui l'Arcimago non aveva la minima idea... non che lei intendesse illuminarlo al riguardo. Fino a questo momento non aveva ancora incontrato nessuna soluzione al problema costituito dagli Spettri, ma aveva dissotterrato una quantità di informazioni relative al Calderone e ormai sapeva meglio di Miathan come convenisse utilizzarlo, per cui le sarebbe bastato soltanto scoprire dove quel vecchio stupido lo avesse nascosto... Eliseth sorrise nel rispondere alla convocazione di Miathan, perché la sua voce mentale conteneva delle sfumature trionfanti e lei era ansiosa di scoprire cosa stava combinando e come questo poteva inserirsi nei suoi piani. Di lì a poco ascoltò incredula l'Arcimago raccontarle come avesse percepito la presenza di Aurian fra i mondi e l'avesse rintracciata nel Pozzo delle Anime insieme ad Anvar. «Il servo di Aurian sarebbe uno di noi?» sussultò, sconvolta dallo scoprire l'esistenza di un altro Mago. «E tu lo sapevi?» «No» rispose Miathan, scuotendo il capo, ma lei comprese che stava mentendo. «Avevo dei sospetti e sapevo che lei stava ricevendo aiuto da qualcuno, ma non mi è parso il caso di fame menzione perché l'idea mi sembrava troppo assurda per essere vera.» «Assurda a dir poco! Come può essere rimasto qui all'Accademia per tanto tempo senza che nessuno di noi scoprisse la verità? E da dove è venuto? Chi erano i suoi genitori?» «Chi può dirlo?» replicò Miathan, in tono sospettosamente neutro, scrollando le spalle. «È giunto a noi come un comune Mortale, figlio di un fornaio, ma pare che il suo vero padre fosse una persona del tutto diversa. Anvar è un bastardo, un mezzosangue che ha per madre una Mortale... ma quanto ad accertare chi fra i Maghi lo abbia generato...» L'Arcimago scrollò di nuovo le spalle e lasciò la frase in sospeso, apparendo il ritratto stesso dell'innocenza, ed Eliseth lo fissò socchiudendo gli occhi perché quella spiegazione le pareva troppo sbrigativa e di certo Miathan pareva sapere troppe cose sul conto di quel ragazzo. Questa sì che è una sorpresa, pensò fra sé. A quanto pare il grande Arcimago è sempre stato propenso quanto noi ad usare i Mortali per il pro-
prio piacere, ma è stato anche tanto sbadato da generare un figlio... ecco perché l'idea della gravidanza di Aurian lo ha così sconvolto! Adesso però non c'era il tempo per valutare quale vantaggio potesse derivarle da quelle informazioni, quindi tornò a rivolgersi a Miathan prima che lui potesse intuire la direzione imboccata dai suoi pensieri. «Adesso cosa facciamo?» domandò. «Io non ti capisco, Arcimago: perché non li hai uccisi entrambi quando potevi farlo?» «Quante volte ti devo ripetere che voglio Aurian viva?» esclamò Miathan, calando con violenza un pugno sul tavolo. Eliseth si costrinse a reprimere la propria ira di fronte al fatto che l'Arcimago continuava a desiderare Aurian dopo tutto ciò che quella cagna gli aveva fatto. Soffocando la rabbia, ricorse quindi all'arma del buon senso. «Con tutto il rispetto, Arcimago... ci stai chiedendo l'impossibile. Aurian è troppo lontana perché noi la si possa catturare e se aspetterai che lei si decida a venire da te... ecco, hai detto tu stesso che questo comporterebbe un rischio troppo grande. Viva non sarà sempre una minaccia per noi?» «Provvederemo a spezzare la sua intransigenza» ribatté Miathan. mentre le gemme che gli sostituivano gli occhi si accendevano di un bagliore rossastro che tradiva la sua ira, poi sfoggiò un sorriso agghiacciante e aggiunse: «Inoltre si sta già provvedendo alla sua cattura. La sua mente e quella di Anvar non sono le sole che ho incontrato nelle terre del meridione, e ne ho trovata una che per sue ragioni personali può essere facilmente piegata alla mia volontà.» «Cosa?» esclamò Eliseth, sgomenta, rendendosi conto di aver eccessivamente sottovalutato lo svilupparsi dei nuovi poteri di Miathan, se adesso lui poteva già controllare con tanta sicurezza la mente dei Mortali. «I nostri esperimenti servendoci di sacrifici umani hanno dato i loro frutti più in fretta di quanto mi aspettassi» proseguì intanto Miathan, richiamando su di sé la sua attenzione. «Possiamo procedere, Eliseth... ma ho bisogno di altro potere per tenere sotto stretto controllo la mia pedina nel meridione, quindi avverti Angos che stanotte avrò bisogno di altri Mortali.» «Arcimago» protestò Eliseth, «in città ci sono già delle agitazioni per queste "sparizioni". Dobbiamo essere più circospetti.» «Hai sentito cosa devi fare! Ordina ad Angos di procedere immediatamente!» ingiunse Miathan, con un bagliore negli occhi sfaccettati. «Vorrei aver scoperto prima questo sistema, perché con il potere che deriva dal sacrificio rituale di vite Mortali nulla ci è precluso, ed io ho bisogno di que-
sto potere, Eliseth. Attualmente Aurian si trova nel deserto sudorientale, ma quando lo lascerà ho in serbo per lei una sorpresa. Allora scoprirà cosa significhi sfidare l'Arcimago!» Eliseth lasciò la torre in preda ad un'ira furibonda e mandò il primo terrorizzato servo in cui s'imbatté ad avvertire Angos, il capitano dei mercenari, di venire all'Accademia, poi rimase ferma con i pugni serrati lungo il corpo rigido a fissare con occhi roventi il servo che si allontanava in tutta fretta. Fino a questo punto era disposta ad obbedire agli ordini di Miathan, ma non oltre. «Sei deciso a riportarla qui, vero, Miathan?» borbottò. «Ebbene, forse io ho una sorpresa in serbo per te!» A passi veloci si diresse attraverso il cortile in direzione della cupola in cui svolgeva il proprio lavoro di controllo del clima. E così Aurian era nel deserto, vero? Eccellente! Non ne sarebbe mai uscita viva. Con la bocca incurvata in un cupo sorriso, Eliseth andò a scatenare le tempeste di sabbia. CAPITOLO TRENTASEIESIMO BATTAGLIA NELLA FORESTA A tarda notte, Vannor stava passeggiando con sua figlia Zanna lungo la spiaggia sassosa rischiarata da torce che si allargava all'interno della caverna dei contrabbandieri; gli unici rumori che si sentivano erano il saltuario scricchiolio di qualche frammento di conchiglia che si rompeva sotto i loro piedi e il sommesso sciabordio delle acque che lambivano le erte pareti sul fondo della grotta e sul suo lato più lontano. Infine quel rilassato silenzio venne infranto da un sospiro di Vannor, dovuto al fatto che per quanto il ricongiungimento con Antor e con sua figlia fosse stato gioioso il breve tempo trascorso con loro era volato e l'indomani lui sarebbe dovuto ripartire ancora. «Rasserenati, papà» consigliò Zanna, stringendogli la mano, e Vannor si sentì quasi irritato che fosse lei a consolarlo, in quanto riteneva che avrebbe dovuto essere il contrario. Peraltro la sua figlia secondogenita, che aveva appena compiuto sedici anni, possedeva un buon senso incredibile per la sua età ed era la sua preferita, perché gli somigliava sotto ogni aspetto... incluso purtroppo quello fisico, come rifletté osservando con un sorriso il suo corpo piccolo e compatto, il volto semplice e gradevole, i capelli castani raccolti lontano dal
viso mediante un paio di pratiche trecce. «Credevo che volessi venire con me» osservò. «In tal caso avresti dovuto insegnarmi a combattere come Lady Aurian perché le arti femminili che hanno fruttato un marito a mia sorella con me sono sprecate» replicò Zanna, e con un sospiro che tradiva i suoi veri sentimenti aggiunse: «Vorrei poter venire, ma ti sarei soltanto d'impiccio, e poi sarò più utile qui.» «A quanto pare hai pensato a tutto» commentò Vannor, cingendola con un braccio e stringendola a sé. «Hai qualche progetto particolare di cui il tuo vecchio genitore dovrebbe essere informato?» Zanna reagì con un sorrisetto misterioso che aggiungeva nuova maturità al suo volto. «In effetti sì... ma devi promettere che mi ascolterai fino in fondo prima di cominciare a strillare.» «D'accordo» assentì il mercante, chiedendosi al tempo stesso cosa stesse escogitando sua figlia. «Intendo sposare Yanis» dichiarò Zanna, dopo un istante di esitazione. «Cosa? Sei impazzita? Sarà soltanto sul mio cadavere che sposerai un fuorilegge di umile nascita...» «Papà, avevi promesso di ascoltarmi, e comunque adesso non puoi più essere tanto schizzinoso perché sei un fuorilegge anche tu» gli ricordò Zanna. «Può darsi che questo non sia il matrimonio che tu desideri per me, ma non riesci a vedere come sia la scelta più sensata? Io non sono tagliata per essere la moglie di un mercante, signorile e decorativa» proseguì, con una smorfia, «e poi sai che i mercanti pretendono una moglie avvenente, senza contare che adesso non ti puoi più permettere una dote che mi renda un partito appetibile... e che c'è bisogno di me qui. Yanis è in difficoltà da quando ha assunto il controllo di tutto, perché per quanto sia coraggioso e pieno di idee non sa come pianificare le cose, mentre questo è un campo in sui io eccello... non per nulla sono tua figlia!» Per un istante Vannor la fissò a bocca aperta, stupefatto e suo malgrado impressionato. «Ma lui ha il doppio dei tuoi anni» obiettò. «Non ne ha neppure trenta» ritorse in fretta Zanna, «e comunque tu sei l'ultimo che può parlare di differenze d'età.» Consapevole della veemenza con cui Zanna disapprovava il suo matrimonio con Sara, il mercante sussultò e si affrettò a cambiare argomento. «Questa è una sua idea? – chiese.»
«Certamente no!» esclamò Zanna, con indignazione. «Remana però mi aiuterà, perché ritiene sia tempo che suo figlio si sposi...» «Un momento! Vuoi dire che Yanis non ne sa ancora nulla?» «No... ma non ho intenzione di permettere che questo mi blocchi» sorrise Zanna, scuotendo il capo. «Dulsina dice...» «Ancora Dulsina» ringhiò Vannor. «Avrei dovuto sapere che lei c'entrava in qualche modo.» E cercò di soffocare il sorriso pieno di affetto che gli stava affiorando sul volto al pensiero della sua indomabile governante. Quando era stato dichiarato fuorilegge Dulsina aveva insistito per accompagnarlo nelle fognature, dove aveva proceduto ad organizzare i suoi scalcinati ribelli e a prendersi cura di loro, imparando al tempo stesso a tirare con l'arco e a maneggiare il coltello in maniera letale con lo stesso calmo interesse che avrebbe potuto dimostrare nei confronti di una nuova ricetta, e adesso che era venuta con lui ad unirsi ai Corsari della Notte aveva ripreso a gestire la vita della sua famiglia come se non avesse mai smesso di farlo. «Dèi santi!» esclamò infine, scuotendo il capo, e si rese conto che all'improvviso aveva smesso di preoccuparsi per questa sua figlia così assennata e che le sue simpatie erano invece dirette verso l'ignaro capo dei contrabbandieri, perché il povero Yanis non aveva la minima speranza di salvezza. «Muoviti, papà» lo incitò in quel momento Zanna, tirandolo per un braccio. «Stanno arrivando Parric e gli altri: è ora di andare a salutarli.» «E questa è un'altra cosa...» cominciò Vannor, poi chiuse bruscamente la bocca perché non aveva il diritto di opprimere sua figlia con i propri dubbi in merito all'assurda decisione di Parric di recarsi nel sud alla ricerca di Aurian. Dovrebbe invece venire con noi nella Valle, pensò. Anche ammesso che la Signora sia disposta ad aiutarci, come farò ad organizzare una base ribelle senza il suo aiuto? Parric può benissimo sostenere che avrò Hargorn a darmi una mano, ma lui è un soldato e non uno stratega, ed io non ho sufficiente esperienza militare per fronteggiare una situazione del genere mentre Parric va a farsi uccidere per niente! Intanto il comandante di cavalleria era sbucato dall'apertura che dal suo alloggio portava nella grotta e nel vedere Zanna insieme a suo padre sorrise, contento che quella ragazzina fosse venuta a salutarlo perché si era affezionato a lei. Se soltanto fosse stato più giovane di qualche anno... Parric soffocò però quel pensiero sul nascere perché sapeva che Vannor non a-
vrebbe mai accettato l'idea che un semplice soldato potesse avere un'avventura con la sua figlia preferita, senza contare che la ragazza aveva già concentrato il proprio interesse altrove e che a lui non restava che augurarle buona fortuna. Yanis non era particolarmente sveglio ma era avvenente, e comunque era chiaro dal principio chi avrebbe tenuto le redini di quel matrimonio. Ridacchiando, il cavalleggero si chiese se la ragazza aveva avuto l'occasione di dare la notizia a suo padre, cosa probabile a giudicare dall'espressione stordita sul volto di Vannor e dall'astuta strizzata d'occhio che Zanna gli indirizzò da dietro la schiena patema in un momento in cui Vannor non poteva vederla. Mentre lottava per mantenere un'espressione neutra, Parric si sentì assurdamente soddisfatto che quella ragazzina avesse scelto di confidarsi con lui, anche se questo implicava che lei lo vedeva come una sorta di padre, cosa che gli faceva un po' meno piacere. «Sarà meglio che vi spicciate» chiamò dal ponte della sua nave Idris, il capitano che li avrebbe portati al sud. «La marea non aspetterà i vostri comodi.» Parric sogghignò e rispose con un gesto osceno prima di voltarsi verso Vannor, che continuava a sfoggiare l'espressione turbata che aveva assunto fin da quando lui aveva escogitato quello che il mercante definiva il suo «piano pazzesco»; non avendo nessun desiderio di ricominciare a discutere al riguardo, Parric decise di battere sul tempo qualsiasi obiezione da parte sua. «Andrà tutto bene, Vannor» dichiarò in tono deciso. «Tu te la caverai e io anche... e sarò di ritorno non appena avremo trovato Aurian.» «Se la troverai» borbottò Vannor, in tono dubbioso. «Non hai idea di quanto siano vasti i Regni Meridionali... per non parlare della natura ostile e bellicosa dei loro abitanti!» «È proprio per questo che Aurian ha bisogno del mio aiuto» ribatté Parric, ma fu come se non avesse parlato. «In aggiunta a questo ti sei anche addossato il fardello della compagnia di un vecchio e di una Maga impazzita» continuò infatti Vannor... ma con sollievo di Parric si affrettò a tacere non appena il vecchio e la Maga in questione vennero a raggiungerli insieme a Sangra, che aveva rifiutato di lasciarsi escludere dalla spedizione. «Pronti ad andare?» domandò la guerriera, in tono tanto allegro che Parric si sentì indotto a baciarla... cosa che peraltro poteva essere rimandata a più tardi.
«Portali a bordo, tesoro» replicò. «Io arrivo subito. Hai ragione soltanto su una cosa... vorrei essere riuscito a persuadere Elewin a rimanere qui» aggiunse quindi, rivolto a Vannor. «Il viaggio fino a questo posto lo ha sfinito e non è certo nella condizione fisica più adatta per mettersi a girovagare per il sud.» «Meiriel sarà in buona compagnia, visto che siete tutti pazzi!» dichiarò Vannor, scuotendo il capo. «Non so per quale motivo Elewin sia tanto sicuro di essere il solo che si possa prendere cura di lei, considerato che è rimasta sempre abbastanza lucida da quando si è unita a noi.» Poi il suo atteggiamento brusco e distaccato si dissolse di colpo e lui abbracciò Parric borbottando: «Sentirò la tua mancanza, razza d'idiota. Abbi cura di te... e per l'amore degli dèi bada a tornare sano e salvo.» «Puoi contarci» garantì Parric, in tono più emozionato del solito, ricambiando l'abbraccio. «E non ti preoccupare per come fare a comandare le mie truppe, Vannor... loro conoscono il mestiere e ti proteggeranno, senza contare che quando l'avrai trovata Eilin ti fornirà tutto l'aiuto di cui hai bisogno. Quanto a me, sarò di ritorno prima di quanto tu possa immaginare... e soprattutto riporterò indietro con me tua moglie.» «Lo spero, Parric... lo spero davvero.» La sera successiva trovò Vannor fermo insieme a Dulsina e a Zanna sulla vetta dell'altura erbosa, mentre il sole pallido tramontava dietro le colline alle sue spalle. L'aria era gelida per il protrarsi dell'innaturale inverno che quell'anno era durato più a lungo del solito ma lo spettacolo offerto dal panorama era meraviglioso: in basso e sulla destra si allargava la pallida sagoma a mezzaluna della spiaggia, abbracciata alle spalle dalle alture e protesa a racchiudere al suo interno la calma distesa scintillante del mare; a circa mezza lega di distanza, sul corno opposto della mezzaluna, si levava una collinetta verde sormontata da una nuda e sinistra pietra verticale mentre in basso, direttamente ai piedi del mercante, una rientranza a forma di V nascondeva l'inizio di uno stretto sentiero che scendeva lungo l'altura. A parte la galleria segreta usata per i cavalli questo pericoloso e ben sorvegliato costone era il solo accesso che la roccaforte dei contrabbandieri avesse sulla terraferma. «Hai dei ripensamenti?» chiese Yanis, con il respiro ancora affannoso per aver appena risalito l'erto sentiero, poi continuò: «A mio parere dovresti averne. Perché portare la tua gente nell'entroterra, Vannor? Qui siete più al sicuro e a noi fa piacere che rimaniate. I tuoi figli hanno il cuore spezzato all'idea di separarsi ancora da te.»
«È quello che ho continuato a ripetergli» osservò Dulsina. «Questo posto non va bene per noi come base da cui combattere, Dulsina... come tu stessa sai bene» replicò il mercante, con un sospiro. «Continui ad avanzare tante obiezioni soltanto perché non ti ho permesso di venire con noi.» «Un errore tuo, Vannor» replicò serenamente la donna, scrollando le spalle e inarcando un sopracciglio. Accigliandosi, Vannor desiderò che gli altri lo lasciassero in pace perché per lui era già abbastanza difficile separarsi dai suoi figli, che costituivano tutto ciò che adesso gli rimaneva. Subito dopo però si rimproverò per quei pensieri, dicendosi che Sara stava di certo bene perché era con Aurian, e che Parric aveva promesso di riportarla da lui... per quanto detestasse ammetterlo con se stesso, Vannor sapeva che questo era il solo motivo per cui aveva permesso al comandante di cavalleria di convincerlo ad accettare il suo folle piano. «In ogni caso, Yanis, quelli a cui sto pensando sono i miei figli e la tua gente» affermò, riprendendo il filo della conversazione. «Loro saranno più al sicuro se noi ci allontaneremo da qui.» «Adesso però la Valle ha una pessima reputazione» protestò Yanis. «Dicono che il Mago Davorshan sia stato ucciso laggiù.» «E questo è proprio il motivo per cui vi sto andando. Sono sicuro che la morte di Davorshan non sia stata un incidente, e dopo quello che è successo ad Aurian e a Forral puoi essere certo che la Signora ci proteggerà.» «Il rischio però risiede nell'arrivare fin là! Angos sta passando a pettine fitto la zona per trovarti!» «Staremo attenti. La Valle sarà per noi una base migliore, perché è in posizione più centrale e più vicina alla città.» «È questo che mi preoccupa» ribatté Yanis, cupo. «D'accordo, parti pure se sei deciso a farlo; se riceveremo notizie da Parric cercherò di fartele avere. Gli dèi ti accompagnino, amico mio, e non ti preoccupare... mi prenderò cura io dei tuoi figli.» «Arrivederci, Yanis... e grazie per tutto quello che hai fatto» rispose Vannor, riflettendo che probabilmente presto sarebbe stato uno dei suoi figli a prendersi invece cura di Yanis. «Abbi cura di te» gli disse Dulsina, «dal momento che io non sarò là a farlo al tuo posto.» «Arrivederci, Dulsina» replicò Vannor, abbracciandola. «Abbi cura di Zanna per me, d'accordo?»
«Come se Zanna non sapesse badare da sola a se stessa» sbuffò la governante. «È per voialtri uomini idioti che mi preoccupo!» Con quelle parole lo lasciò solo perché potesse congedarsi da Zanna, ma ormai padre e figlia si erano già detti tutto e fra loro non c'era più bisogno di parole. «Non osare di sposare quel tuo contrabbandiere prima che io sia tornato!» la stuzzicò Vannor. «Questo è un matrimonio a cui non voglio mancare!» «Allora farai meglio a spicciarti, papà» rispose Zanna, abbracciandolo e strizzandogli un occhio fra le lacrime. «perché io non ho intenzione di aspettare per sempre.» Per un lungo momento si fissarono a vicenda, poi Zanna si morse un labbro e accentuò la forza del proprio abbraccio. «Arrivederci, papà» mormorò, quindi si girò di scatto e si allontanò. Rimasto solo il mercante si volse verso il suo gruppo di ribelli in attesa, e forse a causa della confusione della partenza non si accorse che ad esso mancava un uomo. Non appena il contingente di Vannor fu scomparso al di là dell'altura più vicina il ginestrone che nascondeva la galleria usata per i cavalli si apri e dal passaggio sbucarono Zanna, Dulsina che era vestita da guerriero e infine il brizzolato Hargorn, che portava due zaini. «Soltanto gli dèi sanno perché vi ho permesso di convincermi a fare questo» commentò il veterano con un sospiro, scuotendo il capo. «Quando lo scoprirà Vannor mi staccherà gli attributi... chiedo scusa per l'espressione» si affrettò ad aggiungere, notando una gelida occhiata di Dulsina. «Lo stai facendo perché ci vuoi bene» sorrise Zanna. «Sei pronta. Dulsina?» «Spero di ritrovare presto la mia attitudine alla marcia» rispose in tono dubbioso la governante, con un asciutto sorriso. «Con tutto il rispetto, signora, mi auguro che sia così» sbuffò Hargorn. «perché non possiamo permetterti di rallentarci l'andatura... e adesso farai meglio a spicciarti se vogliamo raggiungere gli altri. Vannor non si accorgerà di nulla se ci accoderemo senza parere al gruppo.» «Non ti preoccupare, Hargorn, se Vannor è in grado di reggere a questa marcia allora posso farlo anch'io, considerato che quell'uomo non fa più esercizio fisico da anni» tagliò corto Dulsina. poi abbracciò Zanna e si mise in spalla lo zaino levando gli occhi al cielo e sospirando: «Cosa non faccio per Vannor.»
«Cosa non fai per amore, vuoi dire» mormorò in tono sommesso Zanna, mentre la donna si allontanava con passo deciso verso il crepuscolo; sorridendo, cominciò quindi a scendere lungo l'altura per tornare da Yanis. Dove accidenti siamo? si chiese Vannor. La separazione dalla sua famiglia e dagli amici sembrava un sogno risalente a secoli prima, adesso che i ribelli stavano vagando da giorni sulla spoglia brughiera che si stendeva dal mare alla Valle di Eilin. Poiché erano stati costretti a restare sul fondo delle vallate tortuose per sfuggire alle bande di mercenari inviate alla loro ricerca, e più numerose di quanto Vannor si fosse aspettato, i ribelli avevano ben presto perso la strada e adesso erano doppiamente sperduti nel cuore di questa notte buia come la pece in cui le nubi erano calate sulle colline avviluppandoli in una densa nebbia che sfiorava la faccia del mercante come un freddo ammasso di ragnatele. Vannor imprecò, come ormai stava facendo da giorni, e si chiese cosa avessero fatto i Maghi al clima. Secondo il calendario, il periodo della fienagione avrebbe ormai dovuto essere prossimo a finire e a cedere il passo alla stagione della mietitura, e queste colline avrebbero dovuto essere immerse nella luce del sole, rivestite della vivida tonalità verde delle felci giovani e da nuvole di erica purpurea sotto un cielo di un profondo azzurro gorgogliante del canto gioioso delle allodole. Invece quest'anno la primavera non era mai giunta, e tanto meno l'estate, e la terra era spoglia e avvizzita al punto che ormai la gente stava probabilmente cominciando a patire di fame e che quanti erano morti nella Notte degli Spettri potevano considerarsi fortunati rispetto a coloro che erano sopravvissuti. Quel tetro clima invernale stava avendo un effetto nefasto sullo spirito del mercante, prosciugando in lui il coraggio e la speranza: se soltanto Parric fosse stato presente con la sua esperienza militare e con il suo insopprimibile buon umore! Lui non li avrebbe fatti perdere nella nebbia. Se avessero avuto a disposizione dei cavalli, invece di essere costretti a viaggiare a piedi, avrebbero di certo raggiunto la Valle già da giorni, ma non era stato possibile ottenere delle cavalcature perché i contrabbandieri non ne avevano avute a sufficienza per loro e probabilmente la maggior parte di quelle presenti nelle campagne erano ormai state mangiate. Parric aveva avuto fiducia che lui sapesse prendersi cura dei ribelli, e invece stava combinando soltanto un grosso pasticcio. «Non sono adatto a queste cose» borbottò, sentendosi impotente. «Oh, Parric, perché hai voluto partire?» In preda alla disperazione, Vannor aveva lasciato la sua banda e si era
inerpicato in cima a questa collina nella speranza di portarsi al di sopra della nebbia che intasava il fondo della vallata come un profondo fiume grigio, ma non era servito a nulla perché anche da lassù non riusciva a scorgere niente. «Fional? Hargorn?» sussurrò, chiamando gli esploratori che lo avevano accompagnato, ma non ebbe risposta. Dannazione a loro... non li aveva forse avvertiti di rimanergli vicini? Poiché nella nebbia i suoni arrivavano lontano lui non osava chiamarli ad alta voce perché quelle colline pullulavano dei soldati di Angos, e se si erano perduti non ci sarebbe quindi stata la minima possibilità di rintracciarli in mezzo a quel buio caliginoso. Irritato per la loro stupidità e preoccupato per la loro sicurezza, il mercante si avviò per discendere la collina e tornare dai suoi uomini. Stava camminando ormai da qualche tempo quando si rese conto della spaventosa ed effettiva verità dei fatti: non erano i suoi esploratori ad essersi perduti... bensì lui! Aveva raggiunto il terreno pianeggiante ormai da tempo ed era certo di essere avviato nella direzione giusta, e tuttavia non si vedeva traccia dei ribelli né si udiva il minimo suono prodotto dalla loro presenza. Il cuore cominciò a martellargli nel petto e un rivolo di sudore freddo gli scivolò fra le scapole perché finché era stato certo di essere incamminato nella direzione giusta si era sentito tranquillo, mentre adesso... La nebbia soffocante gli vorticava intorno, confondendolo al di là di ogni speranza di poter ritrovare l'orientamento, e lui si sentì assalire dal panico: il terreno sotto i suoi piedi era davvero pianeggiante oppure si stava muovendo nella direzione sbagliata, con il risultato di andare a finire fra le braccia del nemico? Per qualche momento si arrestò, impegnato a combattere una disperata battaglia contro se stesso per trattenersi dallo spiccare la corsa alla cieca nell'oscurità per fuggire dalla paura che minacciava di consumarlo, e con uno sforzo riuscì a ritrovare il controllo. Ingiungendosi di stare calmo, cercò di stabilire cosa avrebbe fatto Parric in una situazione del genere, arrivando però alla poco confortante conclusione che lui avrebbe innanzitutto evitato di perdersi. Portandosi la borraccia alle labbra si concesse un lungo sorso d'acqua, desiderando che si trattasse invece del forte liquore che era solito bere a casa, e si chiese cosa doveva fare: doveva aspettare che la nebbia si alzasse o che giungesse l'alba, oppure doveva cercare di tornare sui propri passi nella speranza di imbattersi nei suoi uomini? Sapeva che la scelta più sensata sarebbe stata quella di rimanere dove si trovava, ma il freddo era intenso e l'inattività costringeva la sua mente a inutili fantasticherie. Ogni
volta che gli pareva di udire il minimo suono gli veniva infatti spontaneo chiedersi da che direzione era giunto e se si trattava della sua gente o del nemico, e più volte si trovò sul punto di precipitarsi verso la fonte di suoni illusori anche se il buon senso lo avvertiva che rischiava di perdersi in maniera ancor più assoluta su quella vasta distesa di brughiera. Alla fine, con i nervi tanto logorati da essere prossimi al punto di rottura, si arrese e decise che era meglio muoversi e cercare di tornare sui propri passi perché questo gli avrebbe almeno permesso di avvicinarsi maggiormente alla sua gente. Voltatosi con cura in modo da essere rivolto nella direzione da cui era giunto tornò quindi a incamminarsi nella nebbia e ben presto registrò un'inclinazione del terreno e una tensione dei muscoli delle gambe che non erano un'illusione: stava risalendo il fianco di una collina più erta di quella che aveva scalato in precedenza. Sgomento e disgustato di se stesso, si sedette pesantemente sull'erba e si prese la testa fra le mani, chiedendosi come poteva essere successa una cosa del genere nonostante tutta l'attenzione che aveva prestato nel muoversi... e infine giunse alla conclusione che tormentarsi non serviva a nulla e che forse sarebbe riuscito a pensare con maggiore chiarezza se prima avesse riposato un poco. Qualche tempo dopo si sollevò a sedere con un sussulto: la nebbia era ancora densa tutt'intorno a lui ma adesso era unita ad una tenue luce grigia che gli permetteva di scorgere l'erba gialla e avvizzita nel raggio di qualche metro tutt'intorno a sé. Poi sentì d'un tratto i tenui rumori che dovevano averlo riscosso dal sonno in cui era scivolato... il suono di un combattimento in corso sul pendio collinare in un punto che si trovava più in alto rispetto a lui. Con lo stomaco contratto per il timore per i suoi uomini, si issò in piedi e si mise a correre su per la salita con la spada in pugno. L'erto pendio parve estendersi all'infinito, ma al tempo stesso il fragore della battaglia in corso divenne sempre più nitido e infine riuscì a intravedere più avanti alcune vaghe sagome indistinte. La nebbia rendeva difficile valutare le distanze, e lui si venne a trovare in mezzo al groviglio di rami prima ancora di rendersene conto: alberi! Poiché in quella cupa brughiera c'era un solo posto dove fosse possibile trovare delle piante, questo significava che doveva essere ormai vicino al limitare della Valle... ma davanti a sé poteva ancora sentire il rumore del combattimento che non accennava a calare d'intensità. Sollevato un braccio a proteggersi il volto dall'intrico di rami, cominciò ad aprirsi un varco nella boscaglia, gettando al vento ogni cautela e avanzando rumorosamente nel sottobosco fino ad emergere in
una radura dove i suoni prodotti dallo scontro in corso echeggiarono d'un tratto più forti che mai. «Fermati Vannor... traditore e fuorilegge!» ingiunse una voce aspra, e quando si arrestò abbassando il braccio che gli bloccava la visuale, Vannor vide emergere dagli alberi un cerchio di mercenari dalla barba lunga e dagli occhi duri, tutti con le armi spianate. «Lascia cadere la spada» ingiunse Angos, avanzando in mezzo al cerchio con un'espressione insensibile e divertita sul volto. «Come ribelle vali davvero poco, stolto» aggiunse con un sogghigno. «Non hai mai avuto la minima speranza di successo.» La spada scivolò quasi di sua iniziativa dalla mano intorpidita di Vannor in reazione all'angosciosa realizzazione di essere venuto meno alla sua gente... Parric aveva fatto male a fidarsi di lui. Nella foresta intanto i suoni prodotti dalla battaglia si affievolirono fino a cessare, poi i ribelli vennero sospinti ad uno ad uno nella radura... meno numerosi di quanto lo fossero stati in precedenza, come il mercante notò con un senso di sgomento. Tutti avevano le mani legate dietro la schiena e furono costretti a inginocchiarsi a terra sotto minaccia di una spada puntata, e nello scrutare in volto i demoralizzati prigionieri per controllare chi fosse sopravvissuto, Vannor scorse d'un tratto in mezzo agli altri un viso la cui presenza lo fece raggelare per l'orrore: priva di mantello, con i capelli neri che le ricadevano arruffati sulla faccia sporca e ammaccata, Dulsina era in ginocchio accanto agli altri ribelli. Un colpo in pieno volto inflitto da un pugno coperto da un guanto di maglia di ferro fece improvvisamente crollare al suolo Vannor, che attraverso le lacrime che salirono a velargli lo sguardo vide Angos ergersi su di lui con un sorriso malvagio sulle labbra. «L'Arcimago vuole te e Parric vivi perché veniate interrogati, e se sopravviverete ha già progettato per voi una bella esecuzione capitale pubblica» disse, poi lasciò vagare lo sguardo freddo sui ribelli prigionieri e aggiunse: «Come, Parric non è con voi? Quell'ometto vi ha abbandonati oppure si è nascosto altrove? Non importa» proseguì, scrollando le spalle. «Se sai dove si trova te lo faremo dire, altrimenti lo troveremo lo stesso, non temere. Non credo comunque che ci si debba prendere la briga di riportare indietro questa marmaglia, con la quale non vale neppure la pena di correre il rischio di rovinare una buona lama d'acciaio. Arcieri...» La voce del mercenario venne soffocata da un fragoroso battito di zoccoli, poi Vannor vide Angos sussultare e irrigidirsi mentre il suo torace e-
splodeva in una pioggia di sangue come se fosse stato trapassato da una spada... senza però che davanti a lui ci fosse nessuno! Il corpo di Angos venne quindi sollevato in aria e mandato ad atterrare in un mucchio scomposto a parecchi metri di distanza, e al tempo stesso fra gli altri mercenari esplose un pandemonio: prima che uno solo di essi potesse incoccare una freccia o sollevare la spada gli alberi che circondavano la radura si animarono improvvisamente... viticci e radici si protesero in avanti per serrare i soldati in un abbraccio letale, rami sinuosi strapparono loro gli occhi o lacerarono il ventre, spargendo al suolo sangue e interiora, poi le urla di agonia dei morenti e il crepitare delle ossa spezzate venne sovrastato dal selvaggio canto di morte dei lupi, che fecero irruzione nella radura in una ribollente massa grigia. Tutto finì in pochi secondi, ma Vannor seguì l'orribile strage in ogni dettaglio e comprese di aver visto quanto bastava per avere in seguito incubi per mesi a venire. Quando poi i lupi conclusero la loro opera sanguinosa la calma gelida provocata dallo shock abbandonò il mercante che crollò in ginocchio e si piegò su se stesso, vomitando e gemendo di terrore. Dopo qualche tempo Vannor infine riaprì gli occhi ed ebbe conferma di ciò che il suo cervello intorpidito aveva cercato di dirgli per parecchi minuti: i lupi e gli alberi avevano saputo con esattezza chi colpire! Adesso infatti i resti insanguinati di Angos e dei suoi uomini, che erano stati abbattuti dal primo all'ultimo, erano sparsi per tutta la radura mentre in uno spazio sgombro i prigionieri ancora legati e terrorizzaci erano stretti in un gruppo sgomento e tremante... e del tutto illeso! Accanto ad essi era fermo il più grosso dei lupi, ora solo perché il resto dei suoi compagni era scomparso di nuovo nella foresta: rizzando con aria interrogativa gli orecchi in direzione di Vannor, la belva uggiolò... e agitò la coda! Scuotendo il capo per l'incredulità, il mercante si avvicinò al lupo con la mano protesa, e quando accorciò la distanza esistente fra loro esso indietreggiò continuando ad agitare furiosamente la coda, in modo da permettergli di raccogliere una daga dal mucchio di armi sparse per tutta la radura e di procedere a liberare i compagni dopo averla pulita dal sangue. «Nessuno faccia del male al lupo!» avvertì in tono sommesso. «Fargli del male?» borbottò qualcuno, in tono incredulo. «Nessuno oserà neppure avvicinarsi a quel dannato animale!» Dai ribelli si levò un coro di risatine nervose, e il loro coraggio diede a Vannor la forza di assumere di nuovo il controllo della situazione. «Tu hai delle spiegazioni da darmi» affermò in tono severo, issando in
piedi Dulsina, poi fissò con occhi roventi i suoi uomini e proseguì: «In effetti deve essere stata necessaria una cospirazione per permetterle di rimanere nascosta durante la marcia, quindi voi tutti mi dovrete fornire delle spiegazioni.» I ribelli si girarono di comune accordo a fissare Hargorn, che scrollò le spalle con rassegnazione. «Ecco, Parric mi ha incaricato di aiutarti a gestire le cose nel modo giusto, e dal momento che avevi intenzione di organizzare un campo permanente senza neppure avere un cuoco e un quartiermastro... non potevo certo permetterti di commettere un errore del genere, non trovi?» dichiarò con un sorriso. Fortunatamente per Hargorn e per Dulsina in quel momento un urgente uggiolare distolse da loro l'attenzione di Vannor, che nel guardarsi intorno vide il lupo che sedeva in paziente attesa al limitare opposto della radura: al di là di esso gli alberi si erano in qualche modo spostati per creare un sentiero sgombro attraverso la foresta e adesso il lupo si alzò di scatto per imboccarlo di corsa e poi fermarsi per guardare indietro da sopra la spalla verso Vannor, che guardò a sua volta i ribelli e scrollò le spalle. «Non so cosa ne pensiate voi» disse, «ma io ho l'impressione che ci stiano dando il benvenuto.» Mentre gli stanchi ribelli seguivano il lupo verso il rifugio offerto dalla Valle, D'arvan richiuse il varco fra gli alberi alle loro spalle, nascondendo ogni traccia del loro passaggio e della carneficina avvenuta nella radura. Intanto Maya stava sfregando il corno nell'erba per pulirlo dal sangue di Angos, e nel seguire con occhio malinconico la figura del suo vecchio amico Hargorn che si allontanava emise un lieve nitrito. Ben sapendo che avrebbe voluto andare con i suoi antichi compagni e comprendendo ciò che lei stava provando, D'arvan passò un braccio intorno al suo lucido dorso, desiderando che gli uomini potessero vederlo, che gli fosse possibile parlare con loro e avvertirli che adesso erano al sicuro, perché sentiva la mancanza di una compagnia umana. La foresta si stava infatti rivelando un luogo solitario per il suo guardiano, e le cose dovevano essere ancora peggiori per Maya. «Ebbene, amore mio» disse all'unicorno, «Hellorin ci ha detto di dare rifugio ai nemici dell'Arcimago, e non riesco a immaginare alleati migliori dei nostri vecchi amici della guarnigione. Con il tempo ne verranno altri, e anche se per adesso questo non è certo granché come esercito, se non altro è un inizio.»
Quando l'albero abbattuto e privato del fogliame fu infine pronto era ormai il tramonto, e Parric rimase a guardare dalla spiaggia sferzata dalla pioggia mentre esso veniva rimorchiato da alcune barche a remi fino alla nave danneggiata. «Con questo abbiamo finito» dichiarò Idris, che appariva estremamente sollevato di poter lasciare quel luogo desolato. «Adesso salperemo, Parric, e porteremo avanti le riparazioni durante il viaggio.» «Ma di certo potete rimanere fino a quando avrete issato al suo posto il nuovo albero di maestra» protestò il comandante di cavalleria. «Neppure per idea, amico. Yanis ci ha detto di portarvi al sud e lo abbiamo fatto, però non intendo restare qui fino all'arrivo di quei dannati Signori dei Cavalli, quindi da questo momento dovrete cavarvela da soli. Inoltre» proseguì, sputando nella sabbia, «in questo periodo dell'anno non mi era mai capitato di vedere tempeste del genere, e devo pensare innanzitutto al mio equipaggio. No, intendo tornare di corsa a casa e sono grato di essere in grado di farlo.» «Ma tu conosci questi popoli...» «Chi te lo ha detto?» lo interruppe Idris, inarcando le sopracciglia per lo stupore. «Noi commerciamo con i Khazalim, che vivono più a sud, e non conosciamo affatto questi popoli, anche se ho sentito dire che sono una massa di selvaggi!» Parric trasse un profondo respiro, contò fino a dieci, poi esplose in una violenta imprecazione e afferrò il capitano per la gola. «Allora perché diavolo non ci hai portato dai Khazalim?» ringhiò. Idris si divincolò a fatica e si affrettò a indietreggiare, scoccando a Parric un'occhiata velenosa nell'assestarsi il giustacuore. «Perché non intendo spingermi più a sud con questo clima» rispose, «e non intendo trasportare di un altro metro quella dannata Maga. È stata un vero tormento per tutto il tragitto fino a qui e per poco non ha spinto il mio equipaggio ad ammutinarsi con i suoi ordini e le sue lamentele, senza contare che soggetti del genere portano sfortuna... pensa alle tempeste che abbiamo incontrato, se hai qualche dubbio al riguardo. Mi dispiace, amico, ma lei è affar tuo... e ti auguro buona fortuna con lei.» Con quelle parole il capitano salì sull'ultima barca e i suoi uomini si misero ai remi, lottando contro la risacca per allontanarsi dalla riva su cui Parric stava ancora ribollendo d'ira impotente. «Parric» chiamò Sangra, interrompendo la sfilza di sentite imprecazioni
del cavalleggero e prendendolo per un braccio in modo da allontanarlo dagli altri. «Imprecare non ci servirà a nulla, tesoro. Dobbiamo portare al coperto le provviste che ci hanno lasciato ed Elewin ha bisogno del fuoco, perché è in brutte condizioni.» Parric annuì, sapendo che la guerriera aveva ragione: durante l'interminabile susseguirsi di tempeste il vecchio era quasi morto per il freddo e per il mal di mare, e Meiriel si era rifiutata di aiutarlo, sostenendo altezzosamente che non era affar suo sprecare il proprio potere con dei semplici Mortali. Trovarono una sporgenza di roccia, troppo poco profonda per poter essere definita una grotta, che si protendeva fra le rocce della baia e mandarono dentro Meiriel ed Elewin, poi Sangra cominciò a trasportare le provviste sotto quel rifugio mentre Parric raccoglieva un po' di legna da ardere. Nel guardare quel mucchio di rami bagnati il cavalleggero si rese però conto che nessun mortale sarebbe riuscito ad usarli per accendere un fuoco, e al tempo stesso si accorse che Elewin era davvero in condizioni disperate, raggomitolato in fondo al riparo e devastato dalla tosse. Nel vedere il suo volto grigiastro e le labbra esangui Parric avvertì un senso di allarme e memore dei talenti di Aurian suggerì a Meiriel di usare la propria magia per accendere il fuoco. «Io non posso usare la Magia del Fuoco» dichiarò però lei, fissandolo come se fosse stato uno scarafaggio. «Sono una guaritrice, non una Maga del Fuoco.» Qualcosa cedette nell'animo di Parric, che scattò in avanti e afferrò la Maga, torcendole un braccio dietro la schiena e usando la mano libera per estrarre il coltello, che premette contro la pelle bianca e nuda del suo collo. «Se sei una dannata guaritrice, allora fa' il tuo lavoro» ingiunse. «Guarisci subito Elewin... altrimenti taglierò la tua inutile gola!» «Parric... non ti muovere!» L'avvertimento di Sangra, pronunciato in tono quieto, indusse il cavalleggero a sollevare lo sguardo: parecchi sconosciuti ostruivano l'ingresso della grotta e non c'era dubbio che si trattasse di guerrieri. Sia gli uomini che le donne portavano i capelli lunghi e raccolti in una treccia intricata perché non fossero s'intralcio in battaglia, e per quanto fossero di piccola statura erano muscolosi e armati di spade di ragguardevoli dimensioni; per tutti l'abbigliamento era formato da giustacuore e calzoni di pieghevole cuoio e tutti gli uomini erano rasati in volto. Infine una delle donne venne avanti e pronunciò alcune parole in una lingua fluente e musicale.
«Questa è la goccia che fa traboccare il vaso» borbottò Parric. «Non capisco una sola parola di quello che dicono.» Poi sentì il coltello muoversi contro la gola di Meiriel quando lei scoppiò in un'aspra risata. «Io la capisco» dichiarò la Maga, in tono trionfante. «Ti ha detto di mettere già quell'arma, Parric. Ha detto che siamo loro prigionieri.» CAPITOLO TRENTASETTESIMO A CONFRONTO CON LO SPETTRO Il cavallo incespicò e proiettò Aurian in avanti con tanta violenza da farla quasi volare al di sopra del suo collo, ma lei reagì in fretta gettando il proprio peso all'indietro sulla sella e tirando le redini per aiutare la cavalcatura incespicante a ritrovare l'equilibrio. Mormorando parole d'incoraggiamento batté quindi un colpetto sul collo dello stanco stallone e contrasse poi il volto in una smorfia quando la mano da lei ritratta risultò coperta di polvere e di sudore: anche se si era coraggiosamente ripresa nel sentire il suono della sua voce, era chiaro che la povera bestia era ormai al limite delle forze. Nel fare questa constatazione, la Maga spinse lo sguardo davanti a sé, verso il punto in cui una linea di lontani picchi montani contrassegnava il limitare del deserto, e imprecò sommessamente perché per quanto avessero viaggiato per tutta la notte e l'alba fosse ormai prossima a sorgere, quei picchi innevati non sembravano essersi minimamente avvicinati e lei stava cominciando a chiedersi se sarebbero riusciti a mettersi al sicuro prima che i cavalli infine cedessero. Quella era la terza notte di viaggio da che avevano lasciato l'ultima oasi, e avevano mantenuto la massima velocità possibile considerate le spaventose condizioni in cui erano ridotti dal caldo e dalla sete: infatti erano stati in grado di trasportare con loro poca acqua, e avevano dovuto mantenere un'andatura più lenta di quanto avrebbero voluto per non consumare le energie di Shia e delle loro cavalcature. In tutto questo c'era una sola consolazione, e cioè il fatto che adesso il cielo era coperto da basse e rigonfie nubi di un intenso colore giallo che nascondevano il sole e permettevano loro di viaggiare anche per una parte della giornata, per quanto fossero comunque costretti a trovare un riparo verso mezzogiorno, quando l'intensità della luce arrivava al suo massimo; sfortunatamente però, come rifletté Aurian nel guardare con un brivido il cielo minaccioso, quelle nubi promettevano anche l'avvicinarsi delle tempeste.
Quasi che quel pensiero avesse indotto all'azione la forza infida degli elementi, Aurian avvertì un alito di vento rovente che venne ad agitarle le vesti e serrò inconsciamente le mani intorno alle redini nel guardare in direzione di Anvar... e sebbene il suo volto fosse nascosto dagli strati di veli si accorse che si era irrigidito per il senso di allarme destato in lui dalla luce crescente. Adesso il vento si stava facendo sempre più violento e spingeva le nuvole rigonfie nel cielo ad una velocità incredibile, riducendo a brandelli le loro masse uniformi e torreggianti fino a far apparire chiazze di cielo limpido, il cui chiarore costrinse Aurian a socchiudere gli occhi per difenderli dal bagliore della sabbia che stava aumentando d'intensità più in fretta della luce solare stessa. Il timore che adesso le serrava lo stomaco la indusse a mordersi un labbro mentre pensava che ormai il vento era troppo forte per trovare un rifugio... e che sottili nuvole di scintillante polvere di gemme si stavano già muovendo lungo il suolo del deserto, lasciando presagire un imminente peggioramento della situazione. «Corri!» gridò Anvar, ma Aurian non ebbe bisogno del suo avvertimento e spronò di sua iniziativa il cavallo in direzione della sicurezza offerta dal limitare del deserto, costringendolo a muoversi alla massima velocità consentita dalle sue gambe stanche. Non fu sufficiente. Si trovavano ancora a circa una lega dalla fine del deserto quando le nubi si assottigliarono e si dissolsero, permettendo l'affiorare dell'accecante disco solare. Aurian serrò le mani sugli occhi per escludere quel doloroso bagliore mentre la sofferenza di Shia le trapassava la mente, e al tempo stesso i cavalli presero a nitrire e a tentare di scartare e di impennarsi per fuggire lontano dalla fonte di tanto tormento. Cieca e disorientata, la Maga lottò con le redini nel disperato tentativo di controllare la propria cavalcatura impazzita e si sentì trapassare dal terrore di aver perso Anvar fino a quando il suo cavallo andò a sbattere contro quello che lei montava, catapultandola quasi giù di sella. Pervasi dalla paura i cavalli si lanciarono al galoppo tenendosi uno vicino all'altro in virtù dell'istinto di mandria, e Aurian si aggrappò con forza alle redini cercando al tempo stesso di mantenere il contatto con Shia e di guidare la cieca fuga della sua amica; attraverso il proprio legame con il felino poteva percepire Anvar che stava facendo la stessa cosa, e dentro di sé pregò che stessero fuggendo nella direzione giusta. Poi il bagliore incandescente scomparve misericordiosamente, soffocato di colpo come se non fosse mai esistito, e i cavalli si arrestarono incespi-
cando, con le zampe tremanti: a mano a mano che gli accecanti riflessi che ancora le danzavano negli occhi si dissolsero gradualmente, Aurian vide che Anvar era vicino a lei e stava fissando qualcosa da sopra la spalla con espressione inorridita. Adesso il vento rovente li stava aggredendo a folate successive, agitando i vestiti e sferzandoli con pungenti vortici di sabbia aguzza... e alle loro spalle grandi nuvole nere stavano avanzando da sudest in modo tale da oscurare il sole e da allargarsi sul deserto da un orizzonte all'altro, guadagnando terreno a vista d'occhio. «Una tempesta di sabbia!» stridette Aurian. «Correte!» La fuga riprese precipitosa: comprendendo per istinto cosa c'era alle loro spalle, i cavalli sfoggiarono riserve di energia e di velocità che lasciarono Aurian stupita, e Shia corse accanto a loro pur tenendosi alla larga dagli zoccoli martellanti: adesso che era in gioco la sua vita anche lei stava attingendo alle ultime energie, ma per quanto tempo ancora avrebbe potuto mantenere quell'andatura massacrante? E per quanto avrebbero resistito i cavalli? Potevano sperare di battere in velocità il vento stesso? Festoni di sabbia presero a vorticare loro intorno, cominciando a lacerare le vesti di Aurian e a causarle abrasioni alla pelle del viso nell'insinuarsi sotto i veli che lo coprivano. Il dolore agì come sprone per i cavalli e per i cavalieri, rendendo più rapida la loro fuga, e ben presto Aurian cominciò a intravedere a tratti la via verso la salvezza che appariva e scompariva in lontananza attraverso le mutevoli cortine di sabbia... una profonda gola che si addentrava fra alcune alture sulla cui sommità crescevano degli alberi: benedetti alberi dalle radici piantate in profondità nel terreno, lacerati e devastati dalla vicinanza del deserto ma sufficienti a ripararli dalla forza letale della tempesta. La distanza era però ancora eccessiva, lei se ne rese conto mentre il vento le strappava via i frammenti di velo che ancora le proteggevano il volto rigato di sangue e la sabbia soffocante le si insinuava nel naso e nella bocca, costringendola a chiudere gli occhi davanti alla visione della salvezza che si parava poco più avanti. Al tempo stesso avvertì la crescente malizia della Maga del Clima che si celava dietro il potere della tempesta, e comprese che Eliseth aveva vinto. Anvar percepì, più che vederlo, l'inizio di cedimento da parte di Aurian e tirò le redini con tutte le sue forze per far arrestare la cavalcatura impazzita, guardandosi selvaggiamente intorno alla ricerca dei suoi amici: di Shia non c'era più nessuna traccia e lui non riusciva neppure a raggiungere la sua mente, ma nel girarsi sulla sella sbirciando fra i veli laceri non ebbe
difficoltà a scorgere la Maga che si proteggeva gli occhi con le mani e si serviva delle ginocchia per guidare il cavallo con un'abilità che era frutto degli insegnamenti di Parric. Quello che lei stava montando non era però un cavallo da guerra del settentrione, abituato a simili metodi, e Anvar comprese che fra non molto il povero animale in preda al terrore avrebbe perso ogni parvenza di controllo e disarcionato il suo cavaliere. Nonostante la mente annebbiata dalla sofferenza causata dalla polvere di gemme che gli lacerava la pelle attraverso le vesti ridotte a brandelli, Anvar non ebbe difficoltà a percepire il senso di trionfo di Eliseth. che destò in lui un'ira incontenibile e devastante simile a quella che aveva provato soltanto la notte in cui aveva sottratto a Miathan i propri poteri. Adesso Aurian era impotente a contrastare quell'attacco, quindi qualsiasi tentativo per difendere entrambi sarebbe dovuto giungere da lui: presa una decisione improvvisa, balzò di sella e gettò le redini del suo cavallo recalcitrante ad Aurian, costringendola ad abbassare le mani lacere e sanguinanti dal volto per afferrarle. Ignorando la sua esclamazione di stupore affilò quindi la propria ira alimentandola con la paura che si agitava dentro di lui, e brandendola come una spada protese la propria consapevolezza come Aurian gli aveva insegnato a fare, scagliando il proprio potere contro la violenza della tempesta. Pace. All'interno della bolla creata dallo schermo di Anvar scese una quiete improvvisa e benedetta, anche se la tempesta si stava ancora scagliando con tutte le proprie forze contro la tremolante e trasparente barriera che circondava lui stesso e i suoi amici. Accanto a sé vide Aurian lottare per trattenere i cavalli terrorizzati e fissarlo al tempo stesso con un'espressione stupefatta negli occhi lacrimanti; poco lontano, il terreno sussultò e Shia ne emerse, scrollandosi per liberare il pelo dalla sabbia e starnutendo violentemente: se non altro il felino aveva avuto il buon senso di acquattarsi al suolo e di seppellirsi con la sabbia per trovare una certa protezione dalla forza devastante della tempesta. Poi Anvar non ebbe il tempo di vedere altro perché Eliseth scagliò contro di lui tutto il proprio potere in preda ad un'ira densa di frustrazione, in quanto da lontano aveva percepito la sua magia. Lo schermo si lacerò sotto la violenza di quel colpo e la tempesta tornò ad infierire su di loro, ma Anvar si oppose al tempo stesso ad Eliseth con cupa determinazione, ponendosi a confronto con il nucleo della sua volontà, e nel sentirla ritrarsi sconvolta quando si rese conto della sua identità approfittò di quel momento di esitazione per riasserire il proprio potere, al-
lontanando la bufera dai suoi amici. Eliseth tornò allora a colpire come una vipera, ma questa volta Anvar la stava aspettando e il suo schermo tremò ma resistette. A quel punto la battaglia ebbe inizio sul serio e in maniera letale, mentre i due contendenti si confrontavano in una lotta disperata e alla pari, arrivando ad una situazione di stallo in quanto Eliseth era incapace di penetrare lo scudo e Anvar era costretto a conservare una posizione difensiva, troppo concentrato a mantenere integra quella fragile barriera per poter contrattaccare. Adesso l'aria intorno allo schermo stava crepitando e ronzando, tinta ora di rosso e ora di azzurro per le tensioni create da quello scontro di magia e solcata da getti di scintille incandescenti. Ben presto Anvar perse la nozione del tempo in mezzo all'infuriare di quella letale battaglia, perché per quanto fossero trascorsi soltanto minuti o forse ore gli sembrava di essere impegnato da sempre in questo scontro interminabile mentre la malizia di Eliseth cominciava a logorare le sue forze e a stancarlo. Quello era un gioco nuovo per lui, non era abituato a combattere servendosi della magia, ma sebbene il volto gli si contraesse per la tensione e le ginocchia cominciassero a piegarglisi sotto la pressione incessante della volontà di Eliseth, serrò i denti e continuò a resistere perché sapeva che se avesse ceduto proprio adesso sarebbe stata la fine per tutti. La mano che gli stava scuotendo con urgenza un braccio risultò una sgradita interferenza nella sua concentrazione e il suo schermo tremolò, accasciandosi minacciosamente verso l'interno sotto la pressione della tempesta mentre Aurian prendeva a gridargli all'orecchio con voce resa acuta dalla tensione accumulata nel cercare di attirare la sua attenzione. «Lascia cadere lo schermo, Anvar! Lascialo cadere e colpisci finché ne hai la forza!» «È troppo tardi!» replicò lui, scuotendo il capo con aria disperata. «Prendi... usa questo!» ribatté Aurian, borbottando un'imprecazione, e gli mise in mano qualcosa. Subito Anvar sentì un dirompente formicolio che gli si spargeva per tutto il corpo e gli scorreva nelle vene come fuoco liquido, e nel rendersi conto che aveva adesso in mano il Bastone della Terra si sforzò di controllare il suo potere nuovo e ribelle mentre lasciava cadere lo schermo e colpiva. Comprese all'istante di aver fallito: Aria e Acqua, gli elementi della Magia del Clima, erano estranei al Bastone, con la conseguenza che in questo campo il suo potere era limitato, e al tempo stesso l'inesperienza aveva portato Anvar ad usarlo goffamente e senza la letale precisione che Aurian avrebbe potuto ottenere. Il punto focale del suo potere era debole e privo di
coordinazione, e cominciò a dissiparsi prima di arrivare al bersaglio, lasciando entrambi esposti ad un attacco. «Morto e sepolto, Anvar! Scuoiato, morto e sepolto senza lasciare traccia!» esclamò Eliseth, deridendo il Mago con la sua stridente risata nel tornare a colpirlo con la piena violenza della tempesta fino a farlo crollare in ginocchio sanguinante e semi-soffocato, devastato dalle laceranti volute di polvere aguzza. Una mano... lo afferrò... gli si aggrappò alla manica... trovò il suo polso e quindi le dita ancora serrate intorno al Bastone. La mano si chiuse sulla sua, accentuando la presa delle sue dita intorno al legno intagliato, poi il tocco della mente di Aurian giunse simile a una benedizione... non un'intrusione ma una domanda esitante, più gentile e intima di qualsiasi carezza fisica. Anche se la Maga aveva perso il proprio potere, adesso le loro menti erano unite attraverso il bastone, che Anvar aveva intagliato e che lei aveva pervaso di magia, e questo creava un'intimità senza pari che permise ad Anvar d'intuire senza dubbi di sorta ciò che Aurian cercava: fiducioso, le cedette quindi i propri poteri, porgendoglieli e mettendoli nelle sue mani. «Adesso!» esclamò, senza sapere se aveva gridato quella parola ad alta voce o soltanto nella sua mente. Subito Aurian s'impadronì della sua magia, l'intrecciò con il potere del bastone e la usò per forgiare uno scudo, agendo con tanta forza che la sabbia che si trovava sotto i loro piedi venne risucchiata lontano, lasciandoli in ginocchio in un piccolo cratere allorché la forza della tempesta smise nuovamente di sferzarli. Molto lontano da lì, in Nexis, Eliseth barcollò all'indietro allorché la propria magia andò a infrangersi contro un solido muro di potere e rimbalzò a colpirla con un impatto quasi fisico. L'edificio in cui si trovava tremò come per una scossa di terremoto e lei venne scagliata sul pavimento, andando a sbattere contro il grande tavolo coperto di mappe e picchiando la testa nel crollare al suolo. «Eliseth! Cosa sta succedendo? Ho potuto avvertire la magia fin dall'interno della Torre dei Maghi» esclamò Bragar, aiutando la Maga stordita a rialzarsi in piedi e levando il proprio schermo a formare un muro di fiamma intorno ad entrambi in modo da proteggerli dal contraccolpo magico ancora in corso. «Aurian!» annaspò Eliseth, per una volta contenta di vedere il Mago del Fuoco. «Mi ha attaccata!» mentì quindi, per evitare di far sapere a Bragar
che lei stava disobbedendo agli ordini di Miathan, in quanto aveva bisogno del suo aiuto e sapeva che era troppo vigliacco per unirsi ad una manifesta ribellione contro l'Arcimago. «Cosa? Ma come?» replicò Bragar, con la consueta espressione perplessa. «L'Arcimago ha detto che ha perduto i suoi poteri...» «Si è sbagliato!» ritorse Eliseth, che stava già riordinando la propria mente confusa e stava cominciando a formare un piano: da sola avrebbe potuto sconfiggere Anvar, ma lui ed Aurian insieme erano un nemico troppo potente. Se però avesse potuto separarli... il solo modo per riuscirci era quello di sfruttare l'unico anello debole che era sempre esistito nelle difese di Aurian, ma Eliseth non era pronta a correre il rischio di esporsi di nuovo al potere dei due rinnegati, non ora che aveva a disposizione il povero, malleabile Bragar che lo avrebbe fatto al suo posto. Girandosi verso il Mago del Fuoco, gli rivolse quindi il suo più seducente sorriso. «Ti chiedo scusa, Bragar, non volevo essere brusca e sono terribilmente contenta che tu sia qui, perché adesso sei il solo che mi possa aiutare.» «Non ti preoccupare, Eliseth, ti proteggerò io» esclamò Bragar. Ridacchiando interiormente per la sua stupidita, la Maga del Clima procedette ad esporgli il proprio piano. «Sono pronto» dichiarò subito Bragar, mentre Eliseth contemplava con soddisfazione la robusta barriera di fiamma che lui stava mantenendo con tutte le sue forze e pensava che se pure il suo piano fosse fallito lei sarebbe stata almeno protetta dalle conseguenze di quel fallimento. Al riparo dietro lo schermo della magia di Bragar tornò quindi a concentrare la propria volontà su Aurian e ad intessere un'illusione che doveva costituire un'esca irresistibile. La mente di Aurian e quella di Anvar erano ancora unite attraverso le loro mani strette intorno al Bastone, un tocco da cui traevano entrambe conforto e forza. Non osando abbandonare la presa neppure per un secondo, Aurian si servì della mano libera per pulirsi il volto dal sangue e dalla sabbia, fissando la tempesta che imperversava ancora al di là dello schermo, anche se adesso il suo impeto sembrava essersi fatto meno violento. «Non l'abbiamo distrutta, vero?» chiese mentalmente Anvar, e il suo pensiero si formò nella mente di Aurian con la stessa nitidezza che avrebbe avuto se lui si fosse espresso ad alta voce. «No» rispose lei, «L'abbiamo scossa... ma tornerà.» Immersi in quella silenziosa comunione mentale, presero quindi in esa-
me le alternative a loro disposizione: dovevano rischiare di lasciar cadere lo schermo per colpire Eliseth prima che avesse il tempo di riprendersi oppure dovevano mantenerlo per il tempo che avrebbero impiegato a raggiungere il limitare del deserto? Sarebbe stata una lunga camminata, perché i cavalli erano fuggiti e dovevano di certo essere ormai morti.. Alla fine fu Shia a risolvere la questione, perché si accoccolò al suolo e si coprì gli occhi con le grandi zampe, incapace di agire in qualsiasi modo sotto l'imperversare dello scontro magico che infuriava all'interno dello schermo. Comprendendo che il felino non sarebbe mai riuscito a muoversi, Aurian incontrò lo sguardo di Anvar e in quel momento entrambi arrivarono ad una decisione presa con totale armonia mentale. Avrebbero combattuto. Aurian si alzò in piedi barcollando e continuando ad aggrapparsi con forza alla mano con cui Anvar stringeva il bastone, e ancora una volta prese in sé il potere grezzo di Anvar e quello del Bastone della Terra, combinandoli con la forza della propria volontà esperta, sorretta e rinforzata dalla vicinanza della mano di lui. Abbandonato lo schermo, si preparò quindi a colpire... E s'immobilizzò nel vedere una figura emergere attraverso le mobili cortine di sabbia e avanzare verso di lei... la figura familiare e spettrale del suo amore perduto. Forral la stava chiamando: incantata da quell'apparizione, Aurian lasciò andare la presa sul bastone e sulla mano di Anvar, recidendo il contatto, poi prese ad avanzare come una sonnambula in direzione dello spettro del guerriero assassinato, inconsapevole di aver abbandonato gli altri alla mercé della tempesta. Riparandosi gli occhi con le mani per proteggerli dalla sabbia pungente e sbirciando fra le dita, vide la figura spostarsi in modo da tenersi appena fuori della sua portata e invitarla a seguirla in mezzo alla tempesta, proprio come aveva fatto a Dhiammara. «Forral» chiamò, con voce che era poco più di un sussurro, muovendo un passo esitante in avanti e poi un altro ancora... Di colpo avvertì, più che vedere, il ripristinarsi dello schermo per opera di Anvar, che la raggiunse con un'imprecazione inarticolata mentre la sabbia tornava a depositarsi tutt'intorno a loro, afferrandola per una spalla con mano rude e tirandola indietro per poi spostarsi in modo da bloccarle la strada e da impedirle di vedere ancora la forma spettrale di Forral. «No!» gridò a quest'ultima. «Non puoi averla!» «Lasciami andare!» stridette Aurian. «Forral... aspetta!» Al tempo stesso prese a lottare con Anvar, con il risultato che lo schermo tremolò ancora pur resistendo... ma per quanto fosse gravato dallo
sforzo di mantenere in essere la loro unica difesa, Anvar continuò a trattenerla. «Hai avuto la tua occasione!» urlò allo spettro. «Aurian appartiene al mondo dei vivi! Vattene di qui e lasciaci in pace!» «Aurian, no!» stridette al tempo stesso la voce mentale di Shia, pervasa di angoscia. Con la coda dell'occhio la Maga vide il grosso felino lottare disperatamente per sollevarsi e ricadere al suolo sconfitto, ma sotto la pressione dell'incanto di Eliseth neppure questo riuscì a commuoverla. «Lasciami andare, dannazione a te!» inveì contro Anvar, colpendolo con violenza al volto. Un istante più tardi lui le afferrò il polso con tanta forza da strapparle un sussulto di dolore, fissandola con occhi roventi nel viso segnato dall'impronta della sua mano e contorto in un'espressione tesa e angosciata. «Questa è la seconda volta che mi colpisci per averti salvato la vita. Credevo che l'avessimo fatta finita con queste assurdità» ringhiò. «Tu non capisci!» urlò Aurian. «Io lo amo!» «Non capisco?» ribatté Anvar, i cui lineamenti erano adesso contorti in una maschera torturata a causa della tensione di combattere la battaglia su due fronti, mantenendo lo schermo sempre più fragile da un lato e trattenendo la Maga che si dibatteva dall'altro. «Forral è morto» disse quindi, con una brutale franchezza di fronte alla quale Aurian sussultò, pervasa da un impeto di odio nei suoi confronti ma impossibilitata a sfuggirgli a causa della morsa con cui lui le bloccava il polso mentre la percuoteva con quell'intollerabile e implacabile verità. «Lui è morto, sciocca, ma tu sei viva... e così pure il tuo bambino. Non hai il diritto di privare quella creatura della possibilità di vivere, una cosa del genere è del tutto sbagliata, e tu lo sai» insistette, poi la guardò dritta negli occhi e concluse: «Capisco ciò che provi perché ti amo... e se fossi al posto di Forral ti amerei troppo per voler uccidere te e il nostro bambino.» La sua brutale franchezza colpì Aurian come se lui avesse ricambiato il suo schiaffo. Incapace di negare la verità di quelle parole, lei poté soltanto infierire in pari misura sui suoi sentimenti. «È di questo che si tratta, vero?» ribatté con amarezza. «Mi vuoi per te... non t'importa di altro. Ebbene, io non ti amo, Anvar, ti odio! Qualsiasi cosa succeda, non ti amerò mai finché avrò vita!» Le sue parole echeggiarono nello sconvolto silenzio che fece seguito ad esse. Per un istante Anvar sussultò come se gli fosse stato inflitto un colpo mortale, poi imprecò e le lasciò andare il polso, scagliandola quasi lontano
da sé. «Va' allora, se questo ti può rendere felice. Segui il tuo prezioso Forral incontro alla morte, uccidi tuo figlio, se esso non significa nulla per te, rifuggi dalle responsabilità e abbandona i tuoi amici.» Poi le volse le spalle come per esprimere il suo disprezzo, ma Aurian vide la curva accasciata delle sue spalle e comprese che stava piangendo, e nel riportare lo sguardo sulla sagoma invitante di Forral vide il suo volto di colpo eclissato dall'immagine di quello di Anvar... scorse l'espressione ferita nei suoi occhi azzurri, il segno illividito dove lei lo aveva schiaffeggiato, e comprese all'improvviso che se avesse seguito Forral nella morte avrebbe sentito la mancanza di quel volto e della presenza fedele e amorevole di Anvar al di là di ogni possibilità di sopportazione. Al tempo stesso però amava Forral, e scegliere un altro a suo svantaggio le sembrava un tradimento inconcepibile. Per un momento ancora esitò, incapace di muovere quell'ultimo passo cruciale. Sapeva che Anvar l'amava e che se fosse andata con Forral lo avrebbe condannato a patire la stessa angoscia che lei aveva provato quando lo spadaccino era morto; allorché gli aveva salvato la vita nel recinto degli schiavi le loro anime si erano toccate e Anvar si era aggrappato alla sua mano come se lei fosse stata la sua unica ancora esistenziale. Sara lo aveva già tradito... come poteva ora lei tradirlo a sua volta? Di certo dopo tutto quello che avevano patito insieme gli doveva molto più di questo. Con il volto inondato di lacrime e con la sensazione che il cuore le si stesse lacerando, squadrò infine le spalle e fronteggiò il fantasma di Forral. «Mi dispiace!» gridò. «Non posso venire con te!» Nel momento stesso in cui il suo grido angosciato echeggiò nell'aria la sagoma dello spettro tremolò e scomparve mentre Aurian si lasciava cadere sulla sabbia, devastata dall'angoscia. Il suo abbattimento durò però soltanto un attimo, perché in quella situazione non aveva il tempo per piangere: all'improvviso si sentì invadere da una nuova ondata di forza, da un senso di libertà e di maturità del tutto nuovo. Aveva fatto la sua scelta, aveva optato per la vita a dispetto della morte, per il futuro piuttosto che per il passato, e adesso era votata a vivere quel futuro, qualsiasi cosa esso potesse riservarle. «Alzati, dannazione a te» ingiunse a se stessa. «Anvar ha bisogno del tuo aiuto!» Intanto Anvar continuava a tenere le spalle rivolte verso di lei, incapace di guardarla andare incontro alla morte, e anche se aveva gli occhi accecati
dalle lacrime stava tenendo saldamente in pugno il Bastone della Terra, usando il suo potere per creare uno schermo contro l'attacco di Eliseth, mentre si sforzava di non pensare a ciò che stava succedendo alle sue spalle perché era consapevole della necessità di concentrarsi per difendersi dalla tempesta. Il cuore però lo tradì e con l'occhio della mente lui si sorprese a vedere come sarebbe andata a finire: Aurian avrebbe attraversato lo schermo e si sarebbe addentrata nella tempesta, abbracciando la morte nella sua stolta ricerca di un sogno svanito, e ben presto di lei non sarebbe rimasto più nulla tranne poche ossa scarnificate dall'attrito della sabbia. Per quanto lottasse per controllare la propria angoscia, sentì la sua volontà che s'indeboliva: se Aurian l'odiava, a cosa serviva continuare quella battaglia? Sarebbe stato così facile gettare via il bastone, lasciar cadere lo scudo e seguire Aurian al di là dell'estremo confine, così come l'aveva seguita per tanto tempo. A poco a poco anche l'ultimo brandello di speranza lo abbandonò, il bastone gli scivolò dalle dita... E venne afferrato da una mano che parve scaturire dal nulla... una mano forte e capace, con il palmo ampio e le dita affusolate, segnata dalle vecchie cicatrici bianche lasciate da molte battaglie. Una mano che poteva elargire la morte o il risanamento. Anvar si sentì avviluppare da un impeto di gioia simile ad una silenziosa esplosione di luce: il volto di Aurian era teso, tormentato e rigato di lacrime, ma lei lo stava fronteggiando senza esitazioni, con il mento sollevato in quel suo gesto deciso che lui conosceva tanto bene. Esultante, Anvar posò la propria mano su quella di lei e sentì una scossa di energia allorché la volontà di entrambi si fuse con il potere del bastone. «Adesso eliminiamo quella cagna!» esclamò Aurian, con un rapido e teso sorriso di complicità, e nonostante le lacrime di sollievo che gli colmavano gli occhi Anvar si trovò a rispondere a quel sorriso nel metterle di nuovo a disposizione le proprie riserve di potere. Impadronendosene, Aurian lasciò cadere lo schermo e attaccò. Il colpo che sferrarono insieme ricevette nuova forza dalla possente arma costituita dalla volontà congiunta di entrambi, forgiata con il dolore condiviso e con il nuovo senso di determinazione presente nella mente di Aurian. Abbinato al potere del bastone, questo fu sufficiente, e quando il loro colpo arrivò al bersaglio Anvar avvertì la distante eco di agonia che contrassegnava la morte di un Mago. Al tempo stesso il suo schermo si fece più luminoso e denso, offrendo ora una sicura protezione contro la letale tempesta di sabbia senza però che ce ne fosse più bisogno perché essa era
svanita. In alto le stelle scintillavano nel cielo limpido rischiarato verso ovest dalla gloria di uno splendido tramonto, e nel guardare con stupore verso l'alto Anvar si rese conto che la lotta finalmente conclusa era durata ore, addirittura un intero giorno. Nel frattempo Miathan si era trovato in trance lontano dal corpo, impegnato a riposare in previsione della notte imminente, durante la quale avrebbe eseguito ulteriori atti di sacrificio al fine di incrementare il suo potere; nelle prossime settimane avrebbe infatti trascorso molto tempo fuori del proprio corpo, impegnato ad occupare la forma del suo nuovo alleato meridionale al fine di mettere in moto gli eventi che avrebbero portato alla cattura di Aurian. Certo della propria autorità, lui non si era reso conto neppure lontanamente che Eliseth avrebbe potuto cercare di frustrare i suoi piani. L'attacco finale contro Eliseth ebbe però l'effetto di riportare bruscamente l'Arcimago nel proprio corpo quando il letto cominciò a tremare sotto di esso. Disorientato dall'improvvisa transizione nella realtà corporea, Miathan si alzò in piedi barcollando e incespicando a causa del pavimento che continuava a sussultare e a tremare... poi sentì uno scoppio assordante accompagnato da un'esplosione di luce accecante che proveniva dal cortile e che infranse le finestre della sua stanza, ricoprendolo con una pioggia di vetri rotti. Con gli orecchi che vibravano ancora, Miathan si liberò dalle schegge di vetro e si diresse con cautela verso la finestra, le cui tende si agitavano selvaggiamente, ridotte ad un mucchio di brandelli fumanti, e nello spingerle di lato per guardare fuori si lasciò sfuggire un sussulto di sgomento di fronte a tanta devastazione. Ciò che stava vedendo era impossibile! Cosa poteva essere successo mentre lui era lontano dal corpo? Il cortile risultò pervaso da soffocanti nuvole di sabbia scintillante, al punto che l'Arcimago incontrò una notevole difficoltà a farsi largo all'interno del guscio annerito della cupola infranta: aprendosi a fatica un varco fra le macerie arrivò infine alle rovine della camera interna dove trovò Eliseth inginocchiata accanto ad un cadavere contorto e annerito che era a stento riconoscibile per quello di Bragar. Il fetore di carne bruciata che pervadeva la stanza era tale che Miathan fu costretto a soffocare un conato di vomito. «Aurian» sussurrò Eliseth, che appariva scossa ma illesa. A quanto pareva Bragar aveva assorbito la piena potenza della scarica, sacrificandosi al
fine di ripararla. Per un momento Miathan si chiese come avesse fatto Eliseth ad indurre quello stolto a fare una cosa del genere, poi accantonò ogni pensiero relativo al defunto Mago del Fuoco... che del resto era sempre stato un idiota... allorché si rese conto che Eliseth gli aveva apertamente disobbedito ed aveva attentato alla vita di Aurian. Tremante di rabbia, Miathan rivolse il proprio sguardo minaccioso verso la tremante Maga del Clima e avanzò con lentezza verso di lei, con i pugni serrati lungo i fianchi per l'ira. «Che cosa hai fatto?» ringhiò. «Che cosa hai fatto?» Aurian lasciò andare il bastone e crollò in ginocchio, tremante per lo sfinimento e per la reazione all'impiego della magia. «Ce l'abbiamo fatta» mormorò Anvar, accasciandosi accanto a lei, ancora incapace di credere a quanto era accaduto. «L'abbiamo uccisa.» «Ho sentito la fitta di morte» annuì Aurian, esangue in volto, poi cominciò a barcollare e a tremare violentemente, e quando Anvar la sorresse sollevò verso di lui il viso sconvolto, mormorando: «Sto bene, Anvar. Io...» «Aurian, dopo tutto quello che hai appena passato... dopo tutte le cose orribili che ti ho detto... non osare scusarti con me» la rimproverò con gentilezza Anvar. «Ma io...» insistette Aurian, con voce soffocata da un torrente di devastanti singhiozzi. «Ah, tesoro» mormorò Anvar, stringendola fra le braccia e accarezzandole i capelli mentre lei continuava a piangere. «Mia cara, coraggiosa Signora.» La grandiosità della decisione di Aurian lo riempiva ancora di reverenziale meraviglia, perché lei era stata costretta ad una scelta crudele e praticamente impossibile, ma l'aveva compiuta con coraggio e... se la conosceva bene... con assoluta onestà, e avendo preso quella decisione, adesso vi si sarebbe attenuta. Fin dalla notte in cui erano fuggiti da Nexis, quando lei lo aveva rimproverato per averle salvato la vita, Anvar era stato tormentato dal timore che Aurian potesse scegliere di seguire il suo uomo nella morte, ma adesso quel bivio fatale era stato raggiunto e la crisi superata: Aurian aveva scelto la vita contro la morte... aveva deciso di restare con lui invece di seguire Forral, e per quanto stesse condividendo il suo dolore Anvar sentì il proprio spirito sollevarsi in un improvviso canto di gioia interiore. Senza dubbio avevano davanti a loro una strada molto lunga di cui questo era soltanto l'inizio... del resto Forral era morto da appena sei mesi e
Aurian avrebbe continuato a piangere la sua perdita per qualche tempo ancora, persistendo a lottare con tutta la forza della sua natura caparbia contro l'impulso ad amare qualcun altro. Questa era però una battaglia che Anvar era intenzionato a vincere, e adesso possedeva una forza e una determinazione pari all'indomita volontà di Aurian. Mia carissima Signora, pensò, sorridendo fra sé, quanto sono indebitato con te! Prima mi hai aiutato a diventare un mago e adesso hai fatto di me anche un guerriero. Un giorno ti ripagherò di tutto, lo prometto, rendendoti di nuovo felice. «Sai cosa farei se fossimo a Nexis?» mormorò quindi, accentuando la stretta delle proprie braccia intorno alla Maga in lacrime. «Ti porterei a fare il giro delle taverne della città fino a farti ubriacare come non ti è mai successo in tutta la tua vita.» Aurian sollevò su di lui uno sguardo pieno di gratitudine e deglutì a fatica, lottando per ritrovare la voce. «La strada fino a Nexis è molto lunga» disse infine. «Ce la faremo» garantì Anvar. «E chi può dirlo... magari lungo la strada troveremo qualche taverna da visitare!» «In quel caso accetterò senza esitazione la tua offerta» garantì con aria contrita Aurian. e Anvar fu lieto di quel riaffiorare di un barlume del suo antico spirito, poi sospirò scherzosamente nel vederla asciugarsi come al solito la faccia con una manica. «Sai» la stuzzicò, «non credo che riuscirò mai a farti perdere questa disgustosa abitudine.» E ridacchiò quando lei lo fissò con occhi roventi, sul punto di ribattere con parole taglienti. «Razza di...» ringhiò Aurian, ma poi le labbra le si contrassero in un sorriso e all'improvviso gli gettò le braccia al collo, stringendolo con forza. «Caro Anvar» mormorò. «Grazie.» In quel momento Shia, di cui entrambi si erano dimenticati nel fervore della battaglia, strisciò fino a loro e adagiò la testa sul grembo di Aurian. «Hai conseguito una bella vittoria, amica mia. Sono lieta che tu sia rimasta» le sentì dire Anvar. «Lo siamo entrambi» aggiunse lui, in tono sommesso. «Amici miei» sussurrò Aurian, protendendosi ad accarezzare il felino, poi fece scorrere lo sguardo da Shia ad Anvar e infine trasse un profondo respiro e disse: «Sapete... anch'io sono contenta di essere rimasta.» I suoi capelli erano arruffati e pieni di sabbia, il volto era sporco, chiaz-
zato di lacrime e coperto di abrasioni prodotte dalla sabbia scintillante, gli abiti erano una massa di stracci laceri... ma mentre la teneva fra le braccia Anvar ebbe l'impressione che lei non fosse mai stata tanto bella. In quel momento c'erano molte cose che avrebbe voluto dirle, ma erano cose che potevano attendere il futuro... quel futuro che Aurian, più o meno consapevolmente, gli aveva infine concesso. Allorché l'alba cominciò a riversare il proprio chiarore sulla sabbia scintillante, Aurian sollevò lo sguardo dai propri piedi che ormai si trascinavano e scoprì che erano infine arrivati al limitare del deserto. Rallentati dalla stanchezza, i due Maghi e Shia avevano camminato per tutta la notte, pregando di riuscire ad arrivare al sicuro prima del sorgere del sole, e adesso Aurian si sentì il cuore all'improvviso più lieve, anche se era dolorante e stanca e nonostante la perdurante tristezza che le velava lo spirito. Mi dispiace, Forral, ma non potevo venire con te, non ancora, pensò. Non ti ho creduto quando hai detto che sarebbe stato sbagliato gettare via la mia vita sulla spinta del dolore, ma avevi ragione tu, amore mio, avevi ragione tu. Nella vita non ci sono soltanto il dolore e la vendetta, ci sono anche l'amicizia e la speranza, e una nuova vita che faccia seguito alla morte... e se il fato sarà clemente forse vivrò abbastanza a lungo da vedere tuo figlio occupare nel mondo il posto che gli spetta. D'un tratto si arrestò bruscamente, barcollando per lo stupore, chiedendosi come facesse ad essere certa che si trattava di un maschio. Quando si rese conto che ne era effettivamente sicura rivolse i propri pensieri dentro se stessa e questa volta non incontrò soltanto una scintilla di vita ma anche una mente... piccola, non ancora formata, infantile, ma comunque la mente di una persona: quella di suo figlio. Per la prima volta lui si accorse di lei... la riconobbe... e i suoi minuscoli pensieri a stento focalizzati si protesero verso i suoi con fiducia e con assoluto amore. «Anvar!» stridette Aurian, con la mente ora pervasa da un'eccitazione incontenibile che non poteva fare a meno di condividere con il suo più caro amico, e quando Anvar si girò verso di lei lo raggiunse di corsa come se avesse avuto le ali al pari di Raven, abbracciandolo e ridendo della sua espressione stupita mentre le parole le si affastellavano sulle labbra nella sua ansia di comunicare quella buona notizia: «Anvar, è un maschio! L'ho avvertito! Lui mi conosce! E mi ama!» «Davvero? Ne sei certa? Oh, Aurian!» esclamò Anvar, sollevandola da terra e facendola girare su se stessa fino a darle le vertigini, mentre gli oc-
chi azzurri gli scintillavano nel volto trasfigurato dalla gioia. All'improvviso, quasi a prendere parte a quel festeggiamento, un grido di esultanza echeggiò sull'altura che li sovrastava, là dove il limitare della foresta incontrava il deserto. Sbattendo le palpebre per ricacciare indietro lacrime di gioia, Anvar sollevò lo sguardo e vide Yazour, fermo con le braccia intorno alle spalle di Nereni e di Eliizar; accanto a loro spiccava la forma massiccia di Bohan, sul cui volto apparve un ampio sorriso allorché Shia risalì a grandi balzi il pendio per andargli incontro. «Grazie, Anvar, per avermi fatta rimanere» mormorò intanto Aurian, incontrando lo sguardo di lui. Per tutta risposta Anvar sfoggiò quel raro e meraviglioso sorriso che aveva sempre il potere di toccarle il cuore, poi Aurian si protese a prenderlo per mano e insieme si avviarono incontro ai loro amici. Miathan, che si era rinchiuso a rimuginare nella sua torre, scagliò lontano da sé il cristallo con una ringhiante imprecazione, desiderando di non aver mai deciso di spiare Aurian proprio in quel momento. Come osava essere felice e trarre gioia dal marmocchio bastardo di quel dannato spadaccino? E per di più con quell'altro abominevole mezzosangue che lui stesso aveva generato! Ma presto si sarebbe vendicato anche di lui. «Vediamo quanto sarà grande la tua gioia, Aurian, quando darai alla luce il mostro che porti dentro di te» borbottò. «Una volta che avrò finito con la mia vendetta, il pensiero della morte sarà la sola cosa che ti darà gioia.» Continuando a borbottare fra sé, andò quindi a recuperare il cristallo, che era rotolato nel focolare scheggiando e sfregiando il marmo sottostante, e si consolò pensando che non tutto era perduto perché aveva ancora un paio di armi a sua disposizione e la ribellione di Eliseth non aveva interferito eccessivamente con i suoi piani. L'attesa avrebbe reso la vendetta ancora più dolce... e questa volta non avrebbe fallito! FINE