MATTHEW REILLY AREA 7 (Area 7, 2001) Per John Schrooten, mio amico INTRODUZIONE E più grande rischio che l'America oggi ...
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MATTHEW REILLY AREA 7 (Area 7, 2001) Per John Schrooten, mio amico INTRODUZIONE E più grande rischio che l'America oggi affronta è che le sue forze armate non tollerino più l'incompetenza della sua leadership civile. GEORGE K. SUSKIND, servizi segreti della Difesa Da un discorso sulle forze armate tenuto davanti al sottocomitato della Camera dei Rappresentanti, 22 luglio 1996 La differenza tra una repubblica e un impero consiste nella lealtà del proprio esercito. GIULIO CESARE Non esiste al mondo ruolo paragonabile a quello del presidente degli Stati Uniti. D'un colpo, la persona che detiene questo titolo diventa il leader della quarta nazione più popolosa del mondo, il capo supremo delle sue forze armate, nonché l'amministratore delegato di quella che Harry Truman ha definito «la più grande azienda del mondo intero». L'utilizzo dell'espressione «amministratore delegato» ha reso inevitabili alcuni confronti con la struttura di un'azienda, che fino a un certo punto sono appropriati. Ma quale altro amministratore delegato possiede il diritto decisionale su un budget di due trilioni di dollari, il diritto di utilizzare l'82 divisione dell'Aeronautica per sottomettere altri alla sua volontà, e si porta dietro una ventiquattrore con la quale può scatenare una devastante guerra termonucleare contro i suoi concorrenti? Fra tutti i ruoli politici moderni, quello del presidente americano è unico, per la semplice ragione che egli è contemporaneamente capo del governo e capo dello Stato. La maggioranza delle nazioni
mantiene separate queste due funzioni. Nel Regno Unito, per esempio, il capo dello Stato è la regina; il capo del governo è il primo ministro. Questa separazione è il frutto di una storia di tiranni: re che portavano la corona e che allo stesso tempo governavano a loro piacimento. Negli Stati Uniti, l'uomo che governa il Paese ne è anche il simbolo. Ogni sua parola, ogni sua azione è il barometro della gloria della nazione, poiché la sua forza è la forza del popolo. L'opposizione di John F. Kennedy all'Unione Sovietica durante la crisi di Cuba, nel 1962. I nervi d'acciaio di Harry Truman al momento di sganciare la bomba atomica sul Giappone, nel 1945. Oppure il sorriso sicuro di sé di Ronald Reagan. La forza del presidente è la forza del popolo. Ma vi sono delle insidie in quest'ordine delle cose, poiché, se il presidente è la personificazione degli Stati Uniti, che cosa succede se la situazione degenera? L'assassinio di John F. Kennedy. Le dimissioni di Richard Nixon. L'umiliazione di William Jefferson Clinton. La morte di Kennedy è stata la morte dell'innocenza del Paese, le dimissioni di Nixon una stilettata nel cuore dell'ottimismo del Paese. E l'umiliazione di Clinton è stata un'umiliazione per tutto il Paese: ai summit per la pace, durante le conferenze stampa di tutto il mondo, la prima domanda che veniva fatta su Clinton era inevitabilmente incentrata sulla sua storia a sfondo sessuale, consumata in uno studio adiacente lo Studio Ovale della Casa Bianca. Sia nella morte sia nella disgrazia, nelle decisioni o nel coraggio, il presidente degli Stati Uniti è più di un semplice uomo. È un'istituzione, un simbolo, la personificazione della nazione che cammina e parla per essa. Sulle sue spalle pesano le speranze e i sogni di 276 milioni di persone... CALEB KATZ Sul discorso di C.B. Powell «La presidenza» (intervento tenuto presso la School of Politics, Harvard University, 26 febbraio 1999)
... Il corpo fu ritrovato nei boschi intorno all'isolata capanna di caccia del senatore, sul fiume Kuskokwim, in Alaska. A dire il vero, Jerry Woolf, al momento della sua morte, non era più senatore. Si era ritirato senza preavviso dal Congresso dieci mesi prima, tra lo stupore dei suoi colleghi, adducendo motivi di famiglia. Era ancora in vita quando lo trovarono; un miracolo, considerata la pallottola da caccia ad alta velocità che aveva nel petto. Woolf fu immediatamente trasportato in elicottero all'ospedale della contea di Blaine, a centocinquanta miglia di distanza, dove i medici del pronto soccorso tentarono invano di bloccare l'emorragia. Ma la ferita era troppo grave. Dopo quarantacinque minuti di rianimazione, l'ex senatore degli Stati Uniti Jeremiah K. Woolf morì. Semplice, vero? Un terribile incidente di caccia. Come tanti altri che avvengono ogni anno in questo Paese. È quello che il governo vorrebbe farvi credere. Considerate questo fatto: gli atti dell'ospedale della contea di Blaine dichiarano che, al pronto soccorso, un paziente di nome Jeremiah K. Woolf è stato dichiarato morto alle 16.35 del 6 febbraio 2001. Questa è l'unica testimonianza scritta dell'incidente reperibile all'ospedale. Tutte le altre copie degli esami su Woolf sono state confiscate dall'FBI. Ora considerate quest'altro fatto: nello stesso giorno, il 6 febbraio 2001, dall'altra parte del Paese, esattamente alle 21.35, la casa di Woolf nel centro di Washington fu distrutta da un'esplosione. La deflagrazione uccise la moglie e l'unica figlia. Più tardi gli investigatori avrebbero dichiarato che lo scoppio era stato causato da una fuga di gas. L'FBI crede che Woolf, in precedenza un giovane senatore impegnato contro il crimine organizzato, sia stato vittima di un'estorsione voluta dal racket: o ci lasci vivere in pace, oppure ti sterminiamo la famiglia. Fu senza dubbio una cortina di fumo governativa. Se Woolf era stato ricattato, be', allora bisogna chiedersi perché. Si era ritirato dal Senato dieci mesi prima. E se era davvero rimasto vittima di un classico incidente di caccia, perché allora le copie degli esami e delle procedure di rianimazione dell'ospedale
della contea di Blaine erano state confiscate dall'FBI? Che cosa è accaduto veramente a Jerry Woolf? Per ora non ci è dato saperlo. Ma considerate quest'ultimo fatto: per via del fuso orario, le ore 21.35 di Washington corrispondono alle 16.35 dell'Alaska. E così, alla fine della giostra, dopo tutte queste chiacchiere su incidenti di caccia, estorsioni della mafia e valvole del gas difettose, un fatto rimane: esattamente nel momento in cui il cuore dell'ex senatore degli Stati Uniti Jerry Woolf cessava di battere nella sala di rianimazione di un ospedale in Alaska, la sua casa, dall'altra parte del Paese, esplodeva in una gigantesca palla di fuoco... J.T. FARMER Coincidenza oppure assassinio coordinato? La morte del senatore Jeremiah Woolf (da: «The Conspiracy Theorist Monthly», diffusione: 152 copie, Delva Press, aprile 2001). PROLOGO ALA PRIGIONIERI SOTTO PROTEZIONE PENITENZIARIO FEDERALE DI LEAVENWORTH LEAVENWORTH, KANSAS 20 GENNAIO, ORE 12.00 Era stato il suo ultimo desiderio. Guardare alla televisione la cerimonia d'insediamento. È vero, aveva ritardato il viaggio a Terre Haute di un'ora, ma, come si dissero le autorità di Leavenworth, chi può negare l'ultimo desiderio di un condannato, se è ragionevole? La luce dell'apparecchio televisivo illuminava col suo riflesso tremolante i muri di cemento della cella. La voce che usciva dagli altoparlanti gracchiava: «... giuro solennemente...» «... giuro solennemente...» «... che svolgerò con coscienza il mio compito di presidente degli Stati Uniti...» «... che svolgerò con coscienza il mio compito di presidente degli Stari
Uniti...» Il condannato seguì le immagini televisive con grande concentrazione. E poi, benché gli rimanessero meno di due ore di vita, sul suo volto iniziò ad aprirsi un sorriso. Il numero sulla divisa della prigione era «T-77». Era un uomo di cinquantanove anni, con una faccia rotonda, la pelle invecchiata e i capelli neri, schiacciati. Nonostante l'età, era un uomo grande e forte, con un collo taurino e le spalle larghe. I suoi occhi intelligenti erano così scuri da risultare indecifrabili. Era nato a Baton Rouge, in Louisiana, e parlava con uno spiccato accento del Sud. Fino a poco tempo prima era stato «ospite» del braccio T, la sezione di Leavenworth riservata ai prigionieri che non sarebbero al sicuro se mescolati con gli altri. Da due settimane era stato spostato dal braccio T al Pretransito, chiamato da tutti «Sala partenze», una zona speciale riservata ai prigionieri che aspettavano di essere trasportati in aereo al penitenziario federale di Terre Haute, nello Stato dell'Indiana, per essere uccisi con un'iniezione letale. Usata come fortezza durante la Guerra Civile, oggi Leavenworth è una prigione federale di massima sicurezza. Accoglie soltanto i criminali colpevoli di aver infranto le leggi federali, una categoria d'individui che include criminali violenti, spie straniere e terroristi, boss della malavita organizzata e membri delle forze armate degli Stati Uniti che hanno venduto segreti, commesso reati o disertato. Allo stesso tempo, è probabilmente il penitenziario più brutale di tutto il Paese. Ma, come in tutte le prigioni del mondo, anche i suoi ospiti, uomini che hanno ucciso o violentato, hanno maturato col tempo un singolare senso della giustizia. Chi prima di finire in prigione ha ripetutamente violentato, viene violentato a sua volta ogni giorno. I disertori militari vengono picchiati regolarmente o, peggio, vengono marchiati a fuoco con la lettera «D» sulla fronte. Di certe spie straniere, come i quattro terroristi mediorientali condannati per l'attentato dinamitardo al World Trade Center del 1993, si dice che abbiano «perduto» alcune parti del loro corpo. Ma il trattamento di gran lunga più feroce è riservato a un tipo particolare di prigionieri: i traditori.
Pare che, nonostante tutti i crimini e le atrocità da loro commessi, i prigionieri di Leavenworth, tra i quali ci sono molti soldati congedati con disonore, continuino a nutrire un amore profondo per la loro patria. Di norma i traditori vengono uccisi entro il terzo giorno dall'arrivo nel penitenziario. William Anson Cole, l'ex analista della CIA che aveva venduto al governo della Cina informazioni su un'imminente missione della flotta americana contro il centro di lancio Xichang, il cuore delle operazioni spaziali cinesi (informazioni che portarono alla cattura, alla tortura e alla morte di tutti i sei uomini dei Navy SEAL), venne trovato morto nella cella due giorni dopo il suo arrivo alla prigione. Aveva il retto lacerato da ripetute violenze effettuate con una stecca da biliardo ed era stato strangolato come un maiale, usando una gamba del letto e un lenzuolo: una crudele parodia del metodo di strangolamento praticato dai cinesi con una canna di bambù. Ufficialmente il prigioniero T-77 era a Leavenworth per omicidio, più precisamente per essere stato il mandante dell'assassinio di due alti ufficiali della Marina militare americana, un delitto che negli Stati Uniti è punito con la condanna a morte. In ogni caso, il fatto che i due ufficiali della Marina uccisi per suo ordine fossero consiglieri dei capi di stato maggiore aveva costituito un'aggravante, che aveva ascritto il suo crimine al reato di alto tradimento. Questo, oltre alla sua alta carica militare, gli aveva guadagnato un posto nel braccio T. Ma nemmeno nel braccio T un uomo era considerato del tutto al sicuro. T-77, durante la sua breve permanenza in quel luogo, era stato picchiato più volte. In due occasioni era stato ferito in modo così grave da rendere necessarie due trasfusioni di sangue. Nella sua vita precedente, il suo nome era stato Charles Samson Russell, generale dell'Aeronautica degli Stati Uniti. Nome in codice: Caesar. Vantava un quoziente d'intelligenza pari a 182, un livello da genio e, come tale, era stato un brillante ufficiale. Metodico e tagliente come un rasoio, era stato un perfetto comandante. Ecco la ragione del suo nome in codice. Ma, soprattutto, era stato molto paziente, pensava Caesar mentre guardava la televisione. Il giudice capo della Corte suprema e il neoeletto presidente stavano terminando il loro duetto. Erano in piedi, nella grigia luce invernale lungo
il portico occidentale del Campidoglio. Il nuovo presidente aveva la mano appoggiata sulla Bibbia. «... e m'impegnerò al massimo delle mie capacità...» «... e m'impegnerò al massimo delle mie capacità...» «... per salvaguardare, proteggere e difendere la Costituzione degli Stati Uniti; che Dio mi assista.» «... per salvaguardare, proteggere e difendere la Costituzione degli Stati Uniti; che Dio mi assista.» Quindici anni, pensò Caesar. Aveva aspettato quindici anni. E ora, finalmente, era successo. Non era stato facile. Ricordava molte false partenze, come quella di un uomo che era arrivato a candidarsi vicepresidente per poi perdere clamorosamente le elezioni. Altri quattro erano arrivati alle primarie del New Hampshire, ma poi non erano riusciti a garantirsi l'appoggio del loro partito. E naturalmente c'era sempre qualcuno, come quel Woolf, che aveva smesso di fare politica ancora prima di cominciare a sfruttare davvero tutto il proprio potenziale per diventare presidente. Erano sprechi, ma niente di grave. Persino il senatore Woolf era servito a uno scopo. Ma ora... Ora era diverso... Adesso sapeva come agire... La sua teoria era nata da una constatazione estremamente semplice. Negli ultimi quarant'anni, tutti i presidenti americani, tranne due, prima di essere eletti erano stati o governatori di uno Stato o senatori federali. Kennedy, Johnson e Nixon erano stati tutti senatori, prima di diventare presidenti. Carter, Reagan e Clinton erano stati governatori. Facevano eccezione George Bush senior e Gerald Ford. Bush era stato membro della Camera dei Rappresentanti, non del Senato, e l'arrivo di Ford alla presidenza era stata tutta un'altra storia. Ma, come aveva scoperto il generale Russell, gli uomini influenti erano anche uomini dalla salute del tutto imprevedibile. I problemi legati allo stile di vita tipico dei politici - stress, viaggi frequenti, una cronica mancanza di esercizio fisico - alla fine presentavano spesso un conto salato da pagare. E se applicare una trasmittente al cuore di un presidente in carica era
praticamente impossibile, considerato il gruppo ristretto da cui arrivavano i presidenti degli Stati Uniti, ovvero i senatori e i governatori, inserire un tale dispositivo nel muscolo cardiaco di un uomo prima che diventasse presidente non era proprio impossibile. Le statistiche parlavano da sole. Il quarantadue per cento dei senatori degli Stati Uniti era stato sottoposto a un intervento chirurgico all'apparato urinario. I calcoli biliari erano un problema comune per uomini di mezz'età e con qualche chilo di troppo. Del rimanente cinquantotto per cento, solo quattro avevano evitato un qualsiasi intervento chirurgico nel corso della loro carriera. Operazioni ai reni e al fegato erano molto frequenti; vi era poi un buon numero di bypass al cuore - comodissimi per impiantare una trasmittente e non pochi problemi alla prostata. E poi c'era stato quell'uomo. A metà del secondo mandato come governatore di un vasto Stato del Sud-ovest, si era lamentato per dolori al petto e difficoltà respiratorie. Un primo esame di controllo, eseguito da un chirurgo dell'équipe in servizio alla base dell'Aeronautica alle porte di Houston, aveva evidenziato un'occlusione del polmone sinistro, anche in conseguenza delle troppe sigarette. Grazie a una innovativa procedura chirurgica che, facendo leva sulle nanotecnologie, utilizzava telecamere a fibra ottica e strumenti chirurgici diretti con minuscoli cavi, l'occlusione era stata eliminata e al governatore era stato consigliato di smettere di fumare. Quello che il governatore non sapeva era che, durante l'operazione, il chirurgo dell'Aeronautica aveva utilizzato anche un altro tipo di nanotecnologia: una microscopica trasmittente, grande come la capocchia di uno spillo, era stata applicata alla parete esterna del suo cuore. Di plastica riassorbibile - un materiale semiorganico che, col passare del tempo, si sarebbe parzialmente disperso nel tessuto esterno del cuore del governatore - la trasmittente avrebbe prima o poi assunto una forma distorta, quella di un innocuo grumo di sangue, evitando così di essere visibile con qualsiasi strumento di osservazione, come ad esempio i raggi X. Un oggetto più grande oppure di forma regolare sarebbe stato individuato nel corso del check-up cui vengono sottoposti tutti i neoeletti presidenti. Questo, ovviamente, doveva essere evitato. Come ultima precauzione, la trasmittente era stata inserita nel corpo del governatore prima di essere messa in funzione. Il sistema AXS-7 della Casa Bianca avrebbe captato immediatamente un segnale radio non autorizza-
to. L'attivazione sarebbe avvenuta in un secondo tempo, quando fosse arrivato il momento opportuno. I secondini vennero a prenderlo dieci minuti più tardi. Ammanettato e incatenato, il generale Charles «Caesar» Russell venne scortato dalla sua cella fino all'aereo che lo stava aspettando. Il viaggio verso l'Indiana non fu turbato da nessun incidente, proprio come il cupo tragitto fino alla stanza dell'iniezione. Come più tardi si lesse negli atti, il prigioniero aveva rifiutato l'estrema unzione. Era stato steso sul tavolo dell'iniezione, con le braccia allargate come un Cristo deposto, ogni arto stretto da usurate cinghie di cuoio. Non aveva proferito parola, non aveva manifestato nessun rimorso per i suoi crimini: non aveva detto nulla per tutto il rituale che aveva preceduto l'iniezione. Ciò era stato perfettamente coerente col comportamento tenuto da Russell dopo la condanna: la sua esecuzione non era stata ritardata semplicemente perché Russell non aveva obiettato né chiesto rinvìi. Secondo il tribunale militare che lo aveva condannato a morte, il suo crimine era così atroce che gli sarebbe stato permesso di lasciare la custodia federale solo da morto. I giudici avevano avuto ragione. Alle 15.37 del 20 gennaio, ebbe inizio la triste procedura. Cinquanta milligrammi di sodio tiopental per indurre l'incoscienza, seguiti da dieci milligrammi di pancuronio per arrestare la respirazione; infine, venti milligrammi di cloruro di potassio per fermare il cuore. Alle 15.40, il generale Charles Samson Russell venne dichiarato morto dal medico legale della contea di Terre Haute. Il generale non aveva parenti, quindi il suo corpo fu prelevato dalla prigione da alcuni uomini dell'Aeronautica degli Stati Uniti perché fosse immediatamente cremato. Alle 15.52, dodici minuti dopo la dichiarazione di morte, mentre il suo corpo veniva trasportato in un'ambulanza dell'Aeronautica lungo le strade di Terre Haute, nell'Indiana, due defibrillatori furono posizionati sul petto del cadavere e attivati. «Ora!» gridò uno degli uomini del personale medico. Il corpo privo di vita si contorse con violenza, mentre una potente ondata di corrente elettrica attraversava il suo sistema vascolare.
Accadde alla terza scossa. Sul monitor dell'elettrocardiogramma, su una parete dell'ambulanza, apparve una piccola tacca. Il battito cardiaco era ripreso. Pochi attimi dopo, il cuore pulsava regolarmente. Come Russell sapeva bene, la morte sarebbe sopraggiunta quando il cuore non fosse stato più in grado di pompare. La circolazione si sarebbe bloccata e l'ossigeno non sarebbe più arrivato alle cellule. L'atto di respirare avrebbe ossigenato il sangue, e il cuore avrebbe distribuito il sangue ossigenato in tutto il corpo. Era stato un apporto di sangue iperossigenato a tenere in vita l'uomo per quei cruciali dodici minuti, sangue che era stato addizionato biogeneticamente mediante cellule piene di ossigeno e che, durante quei dodici minuti, aveva continuato a rifornire di ossigeno il cervello e gli organi vitali di Russell, anche se il suo cuore aveva smesso di battere. Gli era stato procurato durante le due trasfusioni di cui aveva avuto bisogno dopo gli episodi di violenza avvenuti a Leavenworth. Il tribunale militare aveva detto che Russell non sarebbe mai uscito vivo dalla custodia federale. I giudici avevano avuto ragione. Mentre accadeva tutto questo, in una spoglia cella del carcere federale di Leavenworth il vecchio televisore era rimasto acceso. Sullo schermo, il neoeletto presidente, estatico e commosso, salutava la folla col braccio alzato. AEROPORTO INTERNAZIONALE O'HARE CHICAGO, ILLINOIS 3 LUGLIO (SEI MESI DOPO) La prima fu scoperta all'aeroporto O'Hare di Chicago, in un hangar vuoto all'estremità di una pista d'atterraggio abbandonata. Il consueto controllo mattutino, effettuato con un rilevatore elettromagnetico, aveva rilevato un debole segnale sospetto proveniente dall'hangar. L'hangar era completamente vuoto, tranne che per la testata missilistica. Si trovava proprio al centro della costruzione. A una certa distanza, sembrava un grosso cono argentato, alto circa un metro e mezzo, posizionato sopra un bancale. Da vicino la si poteva rico-
noscere più facilmente: si trattava di una testata di forma conica, di quelle che vengono inserite nei missili cruise. Dai lati uscivano fili che la collegavano a una piccola parabola satellitare. Attraverso una finestrella nel fianco della testata si poteva scorgere un liquido luminescente purpureo. Plasma. Plasma 240, un esplosivo liquido estremamente volatile. Ce n'era abbastanza per radere al suolo un'intera città. Dopo ulteriori accertamenti si stabilì che il segnale magnetico scoperto all'interno dell'hangar faceva parte di un sistema estremamente complesso di sensori che circondava la testata. Se qualcuno si fosse avvicinato a meno di quindici metri dalla bomba, una luce rossa d'allarme si sarebbe accesa, indicando che il dispositivo era innescato. Le ricerche effettuate sui contratti di locazione dell'hangar rivelarono che esso apparteneva all'Aeronautica militare degli Stati Uniti. Dai documenti di controllo dell'aeroporto risultò anche che nessun uomo del personale dell'Aeronautica metteva piede all'interno dell'hangar da almeno sei settimane. Il passo successivo fu una telefonata all'USA Transportation Command, alla Scott Air Force Base. Furono molto freddi. Non sapevano nulla di una testata al plasma piazzata in un hangar civile. Avrebbero consultato i responsabili e si sarebbero messi in contatto con l'aeroporto O'Hare non appena possibile. Fu allora che cominciarono ad arrivare rapporti da tutto il Paese. Testate dello stesso modello, circondate da sensori magnetici perché nessuno vi si avvicinasse e dotate di parabole satellitari pieghevoli puntate verso il cielo, erano state scoperte in hangar vuoti in tutti e tre gli aeroporti principali di New York: JFK, La Guardia e Newark. Poi arrivò una telefonata da Dulles, Washington. Poi dall'aeroporto di Los Angeles. San Francisco. San Diego. Boston. Philadelphia. St. Louis. Denver. Seattle. Detroit. Quattordici testate in quattordici aeroporti distribuiti negli Stati Uniti. Tutte le testate erano armate e impostate. Pronte a esplodere. Attendevano solo il segnale.
PRIMO CONFRONTO 3 LUGLIO, ORE 06.00
I tre elicotteri rombavano sull'arida pianura del deserto, rompendo il silenzio della mattina. Volavano in formazione serrata, come sempre, sfrecciando appena sopra i cespugli e sollevando un alto turbine di sabbia dietro di loro. Le fiancate, appena lucidate, scintillavano alla luce dell'alba. Per primo procedeva il gigantesco Sikorsky VH-60N, come d'abitudine scortato da due minacciosi Super Stallion CH-53E. Col suo tetto bianco e le fiancate verde scuro, il VH-60N è unico tra gli
elicotteri militari americani. Viene costruito per il governo degli Stati Uniti in una sezione distaccata, ad alta sicurezza, del sito Sikorsky, nel Connecticut. È un elicottero «non dislocabile», il che significa che la Marina militare degli Stati Uniti non lo impiega in nessuna missione, occupandosi solo della sua manutenzione. Ha un'unica funzione, e non esistono nemmeno modelli in replica in servizio operativo. Questo per una buona ragione: nessuno, tranne pochissimi ingegneri altamente qualificati e alti comandanti della Marina, conosce tutte le sue particolari potenzialità. Potrebbe sembrare un paradosso, ma, nonostante tutta questa segretezza, il VH-60N è senza dubbio l'elicottero più conosciuto nel mondo occidentale. Sui display di controllo del traffico aereo compare con la sigla HMX-1, cioè elicottero della Marina, squadrone uno; il suo nome ufficiale in codice radio è «Nighthawk». Ma, nel corso degli anni, l'elicottero che trasporta il presidente degli Stati Uniti su distanze corte o medie è diventato semplicemente Marine One. Conosciuto come M1 dai piloti, raramente viene visto in volo, e, quando capita, si tratta quasi sempre delle circostanze più banali: quando decolla dal prato a sud della Casa Bianca, oppure quando atterra a Camp David. Ma non quel giorno. Quel giorno stava sorvolando il deserto, trasportando il suo famoso passeggero da una remota base dell'Aeronautica a un'altra, entrambe situate nel desolato paesaggio dello Utah. Il capitano Shane M. Schofield indossava l'alta uniforme: cappello bianco, giacca blu navy con bottoni dorati, pantaloni blu con striscia rossa, stivali scintillanti, cintura di cuoio bianco con fondina bianca e pistola M9 placcata di nichel. Stava in piedi nella cabina di pilotaggio dell'elicottero presidenziale, dietro i due piloti, e guardava fuori attraverso il vetro frontale rinforzato. Alto un metro e ottanta, ben piantato e muscoloso, Schofield aveva un viso fine e attraente e folti capelli corvini. Sebbene non facessero parte dell'alta uniforme dei marine, Schofield portava anche occhiali da sole: un modello avvolgente con lenti a specchio antiriflesso che non lasciavano vedere gli occhi. Gli occhiali coprivano due grosse cicatrici molto vistose che tagliavano gli occhi in verticale. Se le era procurate in missione, ed erano anche la ragione del suo nome in codice: «Scarecrow», cioè spaventapasseri. La pianura deserta si estendeva davanti a lui a perdita d'occhio, un giallo
grigiastro contro il cielo mattutino. La polverosa distesa scorreva veloce sotto l'elicottero. In lontananza, Schofield vedeva crescere una bassa montagna: la loro destinazione. Era un grappolo di costruzioni addossate a una collina rocciosa, al termine di una lunga pista di decollo in cemento. Le piccole luci erano appena visibili. La costruzione principale sembrava un grande hangar, seminascosto nel fianco della montagna. Era l'Area 7 dell'Aeronautica degli Stati Uniti, un'area «riservata», cioè vietata ai più. Era la seconda base dell'Aeronautica che avrebbero visitato quel giorno. Il pilota dell'M1, il colonnello della Marina Michael «Gunman» Grier, stava parlando nel microfono incorporato del suo casco: «Squadra avanzata 2, qui Nighthawk One; siamo in fase di avvicinamento all'Area 7. Confermate, passo!» Non ci fu risposta. «Ripeto. Squadra avanzata 2, richiedo rapporto. Passo.» Ancora nessuna risposta. «Dev'essere il sistema d'interferenza radio», disse la copilota di Grier, il tenente colonnello Michelle Dallas. «Gli addetti radio della 8 mi avevano avvertito. Tutte queste basi sono classificate come Livello 7, quindi sono coperte ventiquattr'ore al giorno da una radiosfera generata da un satellite che permette solo trasmissioni a corto raggio, per evitare che dall'interno qualcuno faccia uscire informazioni con una trasmittente.» Durante quella mattina, il presidente aveva visitato l'Area 8, una base dell'aeronautica militare ugualmente isolata, a est dall'Area 7. Là, accompagnato dalla sua squadra di agenti dei servizi segreti, composta di nove uomini, aveva fatto un breve giro della base per ispezionare alcuni nuovi modelli di aerei dislocati in vari hangar. Mentre il presidente esaminava i velivoli, Schofield e gli altri tredici marine dell'equipaggio del Marine One e degli altri due elicotteri di scorta avevano aspettato fuori, vicino all'Air Force One, il massiccio Boeing 747 del presidente. Mentre aspettavano, alcuni di loro avevano iniziato a discutere sul perché non era stato permesso loro di entrare nell'hangar principale dell'Area 8. L'opinione generale, basata solamente su pettegolezzi senza fondamento, era che l'impianto ospitasse alcuni nuovi aerei top secret. Un soldato, un sergente di colore di nome Wendall «Elvis» Haynes, un
uomo dal sorriso largo e della voce tonante, disse di aver sentito che là dentro si trovava Aurora, il leggendario aereo spia per basse quote, capace di raggiungere una velocità di oltre Mach 9. L'aereo più veloce del mondo in servizio, il Blackbird SR-71, non superava la velocità di Mach 3. Altri avevano sostenuto che all'interno dell'hangar si trovasse un intero squadrone di F-44, caccia estremamente agili e dotati di ali wedge, a forma di cuneo, uno sviluppo delle ali triangolari dei cacciabombardieri B-2 Stealth. Altri ancora - forse impressionati dal lancio nello spazio di uno shuttle cinese avvenuto solo due giorni prima - avevano insinuato che l'Area 8 nascondesse l'X-38, uno shuttle poco ingombrante, costruito a scopi offensivi, che veniva lanciato da un Boeing 747 in volo. Progetto segreto curato dall'Aeronautica in collaborazione con la NASA, l'X-38 era considerato il primo velivolo spaziale da combattimento, uno shuttle da attacco. Schofield non aveva preso parte a quei discorsi. Non era difficile intuire che l'Area 8 aveva a che fare con lo sviluppo top secret di qualche velivolo, con ogni probabilità pensato per lo spazio. Lo si deduceva basandosi sui semplici fatti. Anche se gli ingegneri dell'Aeronautica si erano prodigati per tenere la cosa nascosta, la pista di decollo e di atterraggio era stata allungata rispetto alle dimensioni standard di almeno trecento metri in entrambe le direzioni, e poi coperta con un leggero strato di sabbia e qualche cespuglio secco. Era una pista di atterraggio, progettata per lanciare e ricevere aerei che richiedevano una pista ben più lunga del solito, come appunto gli shuttle, oppure... Proprio in quel momento, il presidente era uscito dall'hangar principale, e gli uomini avevano dovuto riprendere il loro lavoro. Inizialmente, il «Capo» voleva raggiungere l'Area 7 con l'Air Force One. Sarebbe stato più veloce che col Marine One, pur non trattandosi di un viaggio lungo. Ma c'era stato un problema: una perdita improvvisa al serbatoio dell'ala sinistra dell'Air Force One. Ecco perché il «Capo» si era imbarcato sul Marine One, un mezzo tenuto sempre pronto proprio per eventualità del genere. Ed ecco perché ora Schofield stava osservando l'Area 7, illuminata come un albero di Natale nella fioca luce del primo mattino. Mentre guardava il gruppo di hangar a distanza, fu colpito da uno strano
pensiero. Curioso... Nessuno dei suoi colleghi dell'HMX-1 conosceva storie sull'Area 7, nemmeno per sentito dire. Sembrava che nessuno sapesse quello che avveniva nell'Area 7. *** Stare a stretto contatto col presidente degli Stati Uniti era come vivere in un mondo a parte. Era elettrizzante e terribile al tempo stesso, pensò Schofield. Elettrizzante, perché ti trovavi vicino a un potente; terribile, perché quell'uomo era circondato da un gran numero di persone che tentavano di approfittare del suo potere. Infatti, nel pur breve periodo a bordo del Marine One, Schofield aveva osservato che vi erano sempre almeno tre gruppi di potere che miravano a ingraziarsi il presidente. E che erano in lotta fra loro. Anzitutto c'era il suo staff personale, di norma laureati di Harvard che si davano un sacco di arie, incaricati dal presidente di aiutarlo in una vasta gamma di faccende: dalla sicurezza nazionale alla politica interna, dalla gestione dei rapporti con la stampa all'organizzazione della sua vita politica. A quanto aveva visto Schofield, ogni membro dello staff personale del presidente, qualunque fosse il suo ramo, sembrava avere un solo pensiero e un unico scopo: far uscire per le strade il presidente, portarlo in giro e dunque avvicinarlo all'opinione pubblica. In netto contrasto con questo obiettivo, c'era un secondo gruppo che lottava per entrare nelle grazie del presidente: i suoi protettori, i servizi segreti degli Stati Uniti. Capeggiata dallo stoico e impassibile agente speciale Francis X. Cutler, un uomo tutto d'un pezzo, la squadra personale di agenti segreti del presidente era in antagonismo costante con lo staff della Casa Bianca. Cutler, ufficialmente conosciuto come «capo del servizio», ma dal presidente soltanto come Frank, era famoso per la sua freddezza nei momenti più impegnativi e per la sua totale intransigenza verso le richieste dei «leccapiedi» politici. Coi suoi occhi grigi e ravvicinati, Frank Cutler era capace di sostenere lo sguardo di qualsiasi membro dello staff presidenziale per poi cacciarlo con una sola parola: «No». Il terzo e ultimo gruppo che lottava per i favori del presidente era lo stesso equipaggio del Marine One.
Non solo era in balia dell'egocentrismo dei membri dello staff presidenziale - Schofield non aveva mai dimenticato il suo primo volo sul Marine One, quando il consulente di politica interna del presidente, un pomposo avvocato ventinovenne di New York, aveva ordinato a Schofield di portargli un cappuccino, e «di gran fretta!» - ma era spesso ai ferri corti anche col servizio segreto. Garantire la sicurezza del presidente era compito dei servizi segreti, ma quando si trovava a bordo dell'HMX-1, così almeno ragionavano i comandanti dei marine, il «Capo» doveva sempre essere insieme ad almeno sei marine degli Stati Uniti. Si era giunti così a un delicato compromesso. Quando il presidente si trovava a bordo del Marine One, la sua sicurezza era affidata al Corpo dei marine. Stando così le cose, solo alcuni membri scelti della squadra speciale, Frank Cutler e pochi altri, potevano salire a bordo con lui. Gli altri agenti segreti venivano imbarcati sui due elicotteri al seguito del Marine One. Non appena il presidente fosse sceso dal Marine One, la sua incolumità ritornava però sotto l'esclusiva responsabilità dei servizi segreti degli Stati Uniti. Gunman Grier parlava nel microfono del casco. «Nighthawk Three, questo è Nighthawk One. Vai a dare un'occhiata alla Squadra avanzata 2. La radiosfera ci sta fottendo le onde radio a lunga portata. Ricevo il loro segnale, ma non riesco a entrare in contatto vocale. Dovrebbero essere al tunnel d'ingresso. E, se riesci ad avvicinarti abbastanza, prova a entrare di nuovo in contatto con l'Area 8. Senti se hanno novità sull'Air Force One.» «Ricevuto, Nighthawk One», rispose una voce sulle onde corte. «Ci muoviamo.» Dalla sua posizione, dietro Grier e Dallas, Schofield vide l'elicottero alla sua destra, il Super Stallion, virare e allontanarsi dal gruppo, volando basso sul deserto. I due rimanenti elicotteri del 1° squadrone della Marina proseguirono sulla loro rotta. Da qualche parte, in una stanza buia, un uomo in uniforme blu sedeva davanti al monitor di un computer. Portava una cuffia con microfono e stava parlando a bassa voce. «... Inizio test segnale satellite primario... ora.»
Premette un pulsante sulla console. «Che diavolo...?» Dallas si toccò la cuffia del casco. «Che cosa succede?» chiese Grier. «Non lo so», rispose Dallas. Si mosse sul sedile. «Ho appena captato un picco sulla banda a microonde.» Guardò il display delle microonde e poi scosse la testa. «Strano. Sembra quasi che un segnale ci abbia appena investiti e poi sia rimbalzato via.» «Stamattina abbiamo già eseguito un controllo anticimice», disse Grier. «Due volte.» Venivano effettuati controlli rigorosi e regolari per scoprire microspie nascoste sul Marine One e sui passeggeri. Era praticamente impossibile collocare una trasmittente sull'elicottero del presidente. Dallas guardò lo schermo davanti a sé e scrollò le spalle. «Il segnale è troppo debole per essere un radiofaro. Quindi o è una stringa di dati informatici o sono parole in codice. Ma non ha inviato né preso alcuna informazione. È come se avessero solo fatto un controllo per vedere se ci siamo.» Lanciò uno sguardo interrogativo a Grier. Il pilota dell'elicottero presidenziale sbuffò. «Con ogni probabilità era solo un disturbo nella radiosfera, o un segnale a microonde deviato. Ma è meglio non correre rischi.» Si voltò verso Schofield. «Capitano, se non le dispiace, potrebbe effettuare un controllo del velivolo con la bacchetta magica?» «... Segnale di ritorno ricevuto», disse l'operatore alla console nella stanza buia. «Test del segnale primario concluso. L'apparecchio funziona. Ripeto. L'apparecchio funziona. Sto ritornando alla modalità di attesa. Fatto. Procedo col test del segnale secondario...» Schofield entrò nella cabina principale del Marine One. Passava un analizzatore di spettro digitale AXS-9 sulle pareti, sui sedili e sul pavimento, cercando un oggetto che stesse emettendo un segnale in uscita. Com'è facile immaginarsi, l'interno dell'elicottero presidenziale M1 è lussuoso. Con la sua spessa moquette marrone e i sedili ben distanziati, sembra la prima classe di un aereo passeggeri piuttosto che un velivolo militare. Dodici sedili di cuoio beige occupano buona parte della cabina. Ogni sedile ha ricamato il monogramma del presidente degli Stati Uniti, e la stessa
cosa vale per gli ampi braccioli, i bicchieri per lo scotch e le tazze da caffè, in caso qualcuno si dimentichi con chi sta viaggiando. Nella parte posteriore dell'area centrale, perennemente sorvegliata da un marine in alta uniforme, vi è una porta di mogano che conduce alla sezione di poppa dell'elicottero. L'ufficio privato del presidente. Piccolo ma elegantemente arredato e dotato di un sistema compatto di telefoni, fax, computer e televisori, l'ufficio del Marine One consente al presidente di monitorare gli avvenimenti del Paese da qualsiasi luogo. Proprio in fondo all'ufficio, dietro una piccola porta a pressione, c'è l'ultima trovata del Marine One, riservata ai casi di emergenza: una piccola unità d'espulsione per una sola persona, la via di fuga del presidente. Schofield mosse l'analizzatore di spettro sui sedili della parte centrale, alla ricerca di microspie. Li seduti stavano Frank Cutler e cinque dei suoi uomini dei servizi segreti. Guardavano fuori dai finestrini, ignorando il controllo di Schofield. Vi erano anche due consiglieri del presidente, il vicecapo dello staff e il direttore delle relazioni esterne; entrambi stavano sfogliando grossi raccoglitori. In piedi accanto ai due portelli della cabina principale stazionavano due enormi marine. Nella cabina centrale c'era anche un'altra persona. Un uomo massiccio, senza collo, vestito con l'uniforme verde oliva dell'Esercito degli Stati Uniti, sedeva silenzioso nel retro della cabina, sul sedile più vicino all'ufficio presidenziale. A guardarlo, coi suoi capelli color carota e i folti baffi arancione, non sembrava un personaggio importante e, a dire il vero, non lo era. Era un maresciallo di nome Carl Webster e seguiva il presidente ovunque andasse, non perché avesse una qualche abilità o conoscenza, ma per via di un oggetto estremamente importante ammanettato al suo polso destro: una ventiquattrore d'acciaio inossidabile che conteneva i codici e gli interruttori di attivazione dell'arsenale nucleare degli Stati Uniti, conosciuta come Football. Schofield finì il suo controllo, compreso un breve esame dell'ufficio presidenziale. Niente. Sull'elicottero non c'erano cimici. Ritornò nella cabina di pilotaggio proprio mentre Gunman Grier diceva
al microfono: «Ricevuto, Nighthawk Three, grazie. Continuate la vostra missione». Grier si voltò verso il copilota. «L'Air Force One è operativo. Era una perdita dovuta a una valvola. Rimarrà nell'Area 8. Porteremo indietro il 'Capo' dopo la nostra visitina all'Area 7. Scarecrow?» «Niente.» Schofield chiuse la porta. «L'elicottero è pulito.» Grier annuì. «Dev'essere stata la radiosfera. Grazie, Scarecrow.» Improvvisamente Grier si toccò il casco. Un altro messaggio in arrivo. Sospirò silenziosamente mentre la voce dall'altra parte continuava a borbottargli nell'orecchio. «Faremo del nostro meglio, colonnello», disse. «Ma non posso promettere nulla.» Disattivò il microfono e scosse la testa. «Era quello stronzo di Ramrod.» Si voltò verso Schofield e Dallas. «Signore e signori, il nostro stimatissimo ufficiale di collegamento della Casa Bianca ci ha chiesto di accelerare un po'. A quanto pare, il 'Capo' ha un appuntamento per il tè con un gruppo di signore a Washington cui non può mancare, e Hagerty è dell'opinione che non siamo abbastanza veloci per rispettare il programma.» Dallas fece una risatina. «Caro, vecchio Ramrod.» Quando si trattava di utilizzare il Marine One, tutte le comunicazioni tra i marine e la Casa Bianca passavano per un colonnello dei marine, designato come «ufficiale di collegamento della Casa Bianca», una posizione da tre anni occupata dal colonnello Rodney Hagerty. Sfortunatamente Hagerty, un quarantunenne alto e dinoccolato, con baffetti sottili e maniere estremamente affettate, era considerato da molti membri dell'HMX-1 il peggiore soldato del mondo: un arrivista, ma anche un freddo esperto delle manovre di palazzo, uno cui interessava di più farsi attaccare stellette e spalline sull'uniforme che non fare il marine. Ma, come capita spesso, gli alti quadri non si accorgevano di nulla e continuavano a promuoverlo. Persino Schofield non lo sopportava. Hagerty era un burocrate, e chiaramente godeva della sua fetta di potere. Sebbene il suo nome in codice fosse «Hot Rod», la rigidità con cui seguiva la procedura e il protocollo, anche quando era ovvio che non servissero a niente, gli aveva guadagnato tra i soldati il soprannome «Ramrod», Bacchetta. In quello stesso istante, il solitario Super Stallion Nighthawk Three stava atterrando in una nuvola di polvere sulla piana del deserto. A circa ottocento metri verso ovest, si trovava la bassa montagna rocciosa che accoglieva
l'Area 7. Quando gli pneumatici del grande elicottero toccarono terra, quattro marine in uniforme da combattimento saltarono fuori e corsero verso una piccola trincea scavata nel suolo duro come una roccia. L'uscita di emergenza dell'Area 7 si trovava all'interno della trincea. Era lo sbocco, ben occultato, di un lungo tunnel sotterraneo che garantiva una via di fuga dall'Area 7. Quel giorno avrebbe funzionato anche come uscita d'emergenza principale del complesso, nel caso poco probabile che il presidente incontrasse qualche problema all'interno dell'area. L'ufficiale in comando, il tenente Corbin «Colt» Hendricks, si avvicinò al polveroso varco. Tre dei suoi subordinati lo seguirono brandendo MP5/10, detti anche MP-10, una versione a 10 mm degli MP-5 Heckler & Koch. Nell'auricolare di Hendricks si udiva il regolare bip - pausa - bip, il segnale AC che significava «tutto a posto» da parte della Squadra avanzata 2. Il segnale AC non poteva trasmettere messaggi vocali, ma aveva comunque uno scopo ben preciso: se la Squadra avanzata 2 avesse dovuto incontrare qualche azione di disturbo o fosse incappata in un agguato, l'ufficiale in comando avrebbe semplicemente spento il segnale AC e tutto l'entourage del presidente avrebbe saputo di essere in pericolo. Era dunque una presenza amica anche in quel momento. Hendricks e la sua squadra arrivarono all'ingresso del tunnel. Vi guardarono dentro. «Merda!» sussurrò Hendricks. *** I due elicotteri presidenziali volavano verso l'Area riservata 7. «Dica un po', Scarecrow...» Gunman Grier si girò sul sedile per guardare Schofield. «Non vedo il suo harem.» Schofield abbozzò un sorriso verso il pilota dell'elicottero. «Oggi sono di servizio sul Nighthawk Two», rispose. Grier si riferiva ai due membri femminili dell'ex unità di Schofield, entrambe incluse nella formazione composta per quell'incarico del 1° squadrone della Marina: il sergente maggiore Elizabeth «Fox» Gant e il sergente artigliere Gena «Mother» Newman. In quanto ex comandante di un'unità di ricognizione dei marine, avere uno come Schofield a bordo del Marine One era un fatto eccezionale.
Lavorare sull'elicottero del presidente significa soprattutto seguire cerimoniali. Inoltre il tempo di permanenza a bordo dell'elicottero non entra nel computo delle ore di volo «effettivo», per questo molti marine tendono a evitare il servizio sull'M-1. Infatti, con poche eccezioni, la gran parte delle truppe assegnate a questo incarico sono composte da soldati relativamente giovani che non vogliono perdersi opportunità di carriera. Da questo punto di vista era sicuramente inusuale ospitare a bordo l'ex comandante di un'unità di ricognizione come Schofield, e Grier era ben contento di averlo con sé. Schofield gli era anche simpatico. Voci di corridoio ripetevano di continuo che era un comandante con un grande dono: si preoccupava dei suoi uomini, e di conseguenza otteneva da loro il massimo. Gli piacevano anche Mother e Gant. Ammirava il modo in cui lavoravano e la loro lealtà verso l'ex comandante. Definirle l'«harem» di Schofield era uno dei rari segni d'affetto di Grier, che di solito era un uomo tutto d'un pezzo. Schofield per parte sua era abituato a essere considerato un tipo «strano». Quella era la vera ragione per cui si trovava a bordo del Marine One. Circa diciotto mesi prima, era stato al comando di un'unità di ricognizione dei marine inviata in una remota base in Antartide per investigare sulla scoperta di un velivolo di possibile origine extraterrestre. Per farla breve: la missione era finita in un inferno. Solo quattro dei dodici marine, compreso lui, erano sopravvissuti all'incubo. Avevano dovuto difendere la base da due diverse potenze militari straniere. Vi erano stati anche infiltrati tra gli uomini della loro unità. Come ciliegina sulla torta, Schofield era stato dichiarato morto da alcuni membri corrotti della gerarchia dei marine che poi avevano deciso di rendere vera quella menzogna. Il suo ritorno negli Stati Uniti, vivo e vegeto, aveva ovviamente scatenato la morbosa curiosità dei media. Il suo volto era apparso su tutti i giornali del Paese. Ovunque andasse, anche dopo che le acque si erano calmate un po', fotografi e giornalisti cercavano di riprenderlo di nascosto o di fargli dire cose che non voleva neppure pensare. Era diventato un monumento in carne e ossa alla corruzione dei militari degli Stati Uniti: il bravo soldato condannato a morte da generali senza volto del suo stesso comando militare. La questione era diventata una bella patata bollente tra le mani dei mari-
ne: che fare di lui? Alla fine, la soluzione era stata piuttosto ingegnosa. Il modo migliore per nascondere Schofield dai media era proprio metterlo in prima fila, davanti alle telecamere del mondo intero; quello era l'unico posto dove in realtà i giornalisti non avrebbero potuto avvicinarlo. Sarebbe stato assegnato al Marine One. L'elicottero si trovava di stanza alla Marine Corps, Base di Quantico, in Virginia. In questo modo Schofield poteva vivere all'interno della base e ciò rendeva praticamente impossibile avvicinarlo. Avrebbe lavorato a bordo del VH-60N del presidente, un elicottero che veniva ripreso dalla televisione solo durante gli atterraggi sul prato davanti alla Casa Bianca e, anche in quei casi, a distanza di sicurezza. Una volta compiuto il trasferimento, Mother e Gant, membri della sfortunata missione, avevano ricevuto l'incarico di unirsi a Schofield. Il quarto sopravvissuto al disastro in Antartide, un soldato semplice di nome Rebound Simmons, dopo quella drammatica esperienza aveva deciso di lasciare i marine. Tutto questo era avvenuto un anno prima. In quei mesi, Schofield, persona dal carattere schivo e per nulla incline alle chiacchiere, si era fatto poche amicizie all'interno della Casa Bianca: di norma agenti dei servizi segreti o membri del personale domestico. Insomma, gente ordinaria. Coi suoi occhiali dalle lenti a specchio, suscitava tuttavia l'ammirazione dei nipoti del presidente. Perciò, con loro somma gioia, durante le visite ufficiali era stato spesso assegnato come accompagnatore del presidente e della sua famiglia. Schofield però non aveva mai scambiato nemmeno due parole in privato col presidente. L'Area 7 stava diventando sempre più grande a mano a mano che il Marine One vi si avvicinava. Schofield vide le massicce porte dell'enorme hangar aprirsi lentamente, mostrando l'interno, illuminato a giorno. Grier parlò nel microfono dei casco: «Nighthawk Two, qui è Nighthawk One. Iniziamo la discesa». Nel ventre del Nighthawk Two, il sergente Elizabeth «Fox» Gant sedeva sulla dura tela di uno sgabello pieghevole. Teneva un libro sulle ginocchia. Diversamente che nel Nighthawk One, nel Two il rumore dei rotori era assordante. E dato che il Nighthawk Two non era stato progettato per trasportare il presidente, l'interno del velivolo era mille volte più spartano. Niente soffici sedili con comodi braccioli, niente monogrammi.
Il sergente maggiore Libby Gant aveva ventotto anni da... be', da appena sei ore. Non era troppo alta, ma col suo fisico allenato, i capelli biondi tagliati corti e gli occhi celesti, nell'uniforme da combattimento - tuta mimetica, giubbotto antiproiettile e fucile MP-10 - era già un bel vedere. In alta uniforme, con giacca e pantaloni, era semplicemente uno spettacolo. Dal momento che stavano volando nello spazio aereo riservato all'Aeronautica, il clima a bordo del Nighthawk Two era molto rilassato. Non c'era bisogno di coordinare la rotta del Marine One con quella degli aerei civili, e così Gant, che nel tempo libero studiava per essere ammessa alla scuola ufficiali, ne approfittava per ripassare alcune materie. Stava arrivando al corso 9405, Comando tattico avanzato, quando una voce suadente la distolse dalla concentrazione. «Tanti auguri a te... tanti auguri a te... tanti auguri, sergente Ga-ant, tanti auguri a te.» Alzò lo sguardo dal libro, sospirando. Nicholas Tate III era scivolato sullo sgabello accanto al suo. Il consigliere presidenziale per gli affari interni era un bell'uomo con qualcosa di europeo: sopracciglia scure, pelle olivastra e un mento perfetto da fotomodello. Ed era pieno di sé. Quel giorno indossava un vestito di Armani da tremila dollari, «coordinato» a un profumo dello stesso stilista. Teneva in mano un pacchettino avvolto in un'elegante carta da regalo. Lo porse a Gant. «Sono ventotto, se non sbaglio», disse. «Esatto, signore», confermò Gant. «Per favore, chiamami Nick.» Fece un cenno con la testa verso il pacchetto. «Be', che cosa aspetti? Aprilo.» Con riluttanza, la donna apri il pacchetto. Conteneva una bella scatola color turchese chiaro. Fece scattare il coperchio, svelando un girocollo d'argento di rara bellezza. Era sottile, con le maglie scintillanti. Un diamante piccolo ma perfetto pendeva come una lacrima dal girocollo. «È di Tiffany», disse Tate. Gant alzò lo sguardo verso di lui. «Non mi è permesso portare gioielli quando indosso l'uniforme, signor Tate.»
«Lo so. Speravo che lo avresti indossato sabato prossimo, a cena da Nino.» Nino era un ristorante di Georgetown, molto in voga tra i VIP di Washington e sicuramente il più costoso della città. Gant sospirò. «Mi vedo già con qualcuno.» Era quasi vero. Solo il weekend precedente, dopo una partenza un po' a singhiozzo, lei e Shane Schofield erano usciti insieme per la prima volta. «Calma, calma», disse Tate. «Ne ho sentito parlare. Uscire una volta non significa avere una relazione.» Le cose si stavano mettendo male. Gant alzò il girocollo per guardarlo alla luce del finestrino. «Lo sa che assomiglia a un girocollo che ho visto una volta a Parigi?» «Sul serio?» Al suono della parola «Parigi», uno degli altri marine, seduto nei paraggi, girò un attimo la testa. Tate non se ne accorse. «Sì», disse Gant. «Eravamo là qualche mese fa col 'Capo', e mi sono presa una giornata di libera uscita, così...» «Porca miseria! Ma hai visto?!» Una fortissima voce femminile la interruppe a metà della frase. Il sergente Gena «Mother» Newman era comparsa accanto a lei nello stretto corridoio. «Ciao, Mother», disse Gant. «Come ti vanno le cose, festeggiata?» chiese Mother con un sorriso d'intesa. In passato avevano già usato altre volte il «codice Parigi». Quando una delle due donne veniva marcata un po' troppo da un ammiratore indesiderato, doveva infilare la parola «Parigi» nel discorso, e l'altra arrivava in suo soccorso. Un vecchio trucco. Con un'altezza che si aggirava intorno al metro e novanta e i quasi cento chili di peso, Mother non aveva spesso bisogno di ricorrere a quel trucco. Era quasi l'esatto contrario di Gant: fisico massiccio, carnagione scura, testa rasata a zero e un modo di fare schietto e diretto. Il «Mother» non derivava affatto da un suo comportamento femminile o materno. Era invece l'abbreviazione di motherfucker, un termine che descriveva alla perfezione il suo carattere. Combattente nata, fanatica di ogni tipo di armamento pesante e delle armi da fuoco, un anno prima era stata promossa al rispettabile grado di sergente artigliere. Ma non era tutto. Per via di un incontro ravvicinato con un'orca assassina, durante la disastrosa missione in Antartide, Mother aveva un'altra pe-
culiarità fisica. Una protesi al posto della gamba sinistra. L'incidente con l'orca l'aveva infatti privata dell'arto dal ginocchio in giù. Da parte sua, aveva ripagato l'orca con gli interessi: una pallottola dritta nel cervello. Ora Mother aveva al posto del piede e dello stinco sinistri una protesi di altissimo livello tecnologico che, esattamente come avevano promesso i produttori, le permetteva di muoversi con eccezionale naturalezza. Costruita in lega di titanio con articolazioni perfette e simulatori idraulici dei muscoli, funzionava grazie a recettori degli impulsi nervosi e un apparecchio per lo spostamento automatico del peso, ed era talmente sofisticata da richiedere un chip interno. Mother stava ammirando il girocollo scintillante. «Wow! Questo sì che è un bel gioiello!» esclamò. Si girò verso Nick Tate. «Quel cosino ti dev'essere costato un mucchio di soldi, bamboccio.» «Posso permettermelo», disse Tate freddamente. «Probabilmente costa più di quello che guadagno io in un anno.» «Probabilmente sì.» Mother lo ignorò. Si era girata verso Gant. «Scusa se ti rovino la festa, baby, ma il pilota mi ha detto di chiamarti. Ti vuole là davanti durante l'atterraggio.» «Ah, bene.» Gant si alzò e, nel farlo, restituì il girocollo a Tate. «Mi dispiace, Nicholas, ma non posso accettarlo. Sto veramente uscendo con un altro.» Colt Hendricks si era bloccato all'ingresso del tunnel che fungeva da uscita di emergenza. A bocca aperta, fissava qualcosa che fino a un attimo prima era rimasto nascosto nella trincea. Qualcosa di orribile. I corpi dei nove membri della Squadra avanzata 2 dei servizi segreti erano riversi sul pavimento sabbioso della trincea, contorti in posizioni innaturali e crivellati di pallottole. Il tipo di ferite indicava che erano state utilizzate munizioni particolari: proiettili a espansione, capaci di penetrare nelle membra con una forza devastante e letale. Ad alcuni degli agenti era stato sparato in faccia: le loro teste erano letteralmente esplose. C'era sangue dappertutto. Si stava ancora aggrumando nella sabbia. Hendricks riconobbe il comandante della squadra dei servizi segreti, Baker. Aveva la bocca aperta, gli occhi spalancati e un foro di pallottola in
fronte. Nella mano aperta teneva lo strumento per il segnale AC. L'imboscata doveva essere stata talmente inaspettata e veloce da non lasciargli il tempo di azionare l'interruttore. Dietro Baker, di fianco alla trincea, Hendricks vide una porta d'acciaio. Sembrava molto solida. Era l'uscita del tunnel di emergenza, ed era chiusa. Hendricks si voltò di scatto, estrasse la ricetrasmittente e cominciò a correre verso Nighthawk Three. «Nighthawk One!» Silenzio. «Maledizione! Nighthawk One! Qui è...» In quel momento, il deserto prese vita. Il terreno polveroso intorno a lui si aprì. La sabbia scivolò dai teloni, che erano coperture per agguato. D'un colpo ai lati di Hendricks una dozzina di uomini balzò fuori dalla sabbia, mitra spianati. Sparavano. Un secondo più tardi, una pallottola 9 mm, modello Silvertip, entrò da sinistra nel cervello di Hendricks. L'immediata espansione del proiettile gli fece esplodere la testa. Hendricks non aveva nemmeno visto l'uomo che gli aveva sparato. E non vide la squadra di neri fantasmi del deserto trucidare il resto della squadra con fredda e clinica efficienza. E non li vide nemmeno impossessarsi del suo elicottero e volare in direzione dell'Area 7. *** I due elicotteri presidenziali calarono uno accanto all'altro, atterrando in un turbinio di sabbia davanti all'imponente hangar principale. Le enormi porte gemelle si aprirono del tutto, lasciando vedere l'interno dell'hangar illuminato. Sopra si stagliava la massa scura della montagna nella quale era stato scavato il complesso. Non appena i due elicotteri toccarono terra, gli agenti dei servizi segreti saltarono giù dal Nighthawk Two, prendendo rapidamente posizione intorno al Marine One. Sulla pista accanto all'hangar si era raccolto un comitato di benvenuto. Nell'aria fresca del primo mattino, silenziose sagome nere stavano in piedi davanti alle luci dell'hangar. Due ufficiali dell'Aeronautica, un colonnello e un maggiore, erano alla testa del gruppo in attesa.
Dietro i due ufficiali c'erano quattro file di soldati armati, dieci per ogni fila. Indossavano la divisa da combattimento - uniformi, corazze e caschi neri - e tenevano rigidamente incrociati davanti al petto fucili d'assalto P90, di fabbricazione belga. Guardando attraverso il vetro della cabina del Marine One, Schofield riconobbe subito le loro mostrine. Erano membri di un'unità che raramente partecipava alle esercitazioni militari degli Stati Uniti, un'unità coperta da gran segretezza che a detta di molti veniva utilizzata solo nelle missioni ad altissimo rischio. Era l'élite tra le unità di fanteria dell'Aeronautica militare, il famoso 7° squadrone per le operazioni speciali. Di stanza nella Germania Ovest per quasi tutta la durata della Guerra Fredda, il suo compito ufficiale era all'epoca la difesa degli aeroporti degli Stati Uniti contro le unità Spetsnaz dei sovietici. L'elenco dei suoi risultati non ufficiali era invece ben più spettacolare: il prelievo di cinque specialisti sovietici in missili nucleari da una base segreta tra le montagne ucraine; l'assassinio del direttore operativo del KGB Vladimir Nakov, a Mosca, nel 1990, prima che potesse uccidere Michail Gorbaciov; e, infine, nel 1997, la liberazione dalla temuta prigione di Xiangi del capo della sezione dell'Estremo Oriente della CIA, Fred Conway. Ogni uomo dello squadrone portava una maschera da combattimento speciale, una maschera antigas ERG-6. Nera e rigida, somigliava alla parte inferiore di una maschera da hockey, coprendo la bocca e il naso di chi la indossava. Altri tre uomini si trovavano sulla pista di rullaggio, davanti alle file del 7° squadrone. Indossavano camici bianchi da laboratorio. Scienziati. Quando tutti gli uomini dei servizi segreti e dei marine furono in posizione, una scaletta automatica si apri sulla parte anteriore sinistra del Marine One. Due marine uscirono per primi dall'elicottero, mettendosi sull'attenti ai piedi della scaletta, schiene diritte e sguardo in avanti. Poco dopo uscì l'agente speciale Frank Cutler, mano sulla fondina, occhi vigili. I servizi segreti non si fidavano di nessuno. Nemmeno dell'Aeronautica degli Stati Uniti. Persino tra i suoi ranghi poteva esserci un soldato che intendeva sparare al presidente. Poi scese il presidente, seguito dal suo staff. Schofield e un caporale dei marine uscirono per ultimi. Come d'abitudine, i due piloti del Marine One, Gunman e Dallas, rima-
sero a bordo. Dovevano essere sempre pronti a partire velocemente. I due gruppi si studiarono a vicenda: il distaccamento della base e il presidente coi suoi uomini. La zona era spazzata da un forte vento. Era la prima avvisaglia di una tempesta di sabbia che sarebbe scoppiata più tardi. Un giovane capitano dell'Aeronautica accompagnò il presidente dal colonnello, che stava in piedi davanti alla sua formazione. Era un uomo dall'aspetto severo, con capelli e sopracciglia brizzolati. Mentre il presidente gli si avvicinava, fece un passo in avanti e salutò il suo comandante in capo. «Buongiorno, signor presidente. Sono il colonnello Jerome T. Harper del Comando medico chirurgico dell'Aeronautica degli Stati Uniti e comandante in capo dell'Area 7. Questo è il maggiore Kurt Logan, comandante del 7° squadrone, di stanza alla base. Le due squadre avanzate dei servizi segreti la stanno aspettando all'interno. Siamo onorati di averla tra noi, signore. Benvenuto nell'Area 7.» «Grazie, colonnello», rispose il presidente. «Il piacere è tutto mio. La prego, faccia strada.» *** Non appena il presidente, seguito dal suo entourage, fu scortato all'interno dell'enorme hangar principale, il maggiore al comando del distaccamento del 7° squadrone si avvicinò a Schofield. Kurt Logan era alto quasi un metro e novanta, aveva i capelli tagliati molto corti e la pelle butterata. Schofield lo aveva già incontrato, ma dubitava che quell'uomo si ricordasse di lui. Era stato durante un corso speciale di comando organizzato dalla Marina militare nei campi SEAL a Fort Lauderdale, nel 1997. Grazie a una combinazione di intelligenza tattica e di forza fisica, il silenzioso Logan si era qualificato primo, con oltre quaranta punti di vantaggio sul secondo. Sapeva giudicare in un attimo qualsiasi situazione di combattimento e, quando si trattava di attaccare il nemico, non conosceva compromessi. Schofield, all'epoca soltanto al comando di un'unità di ricognizione, si era classificato decimo su sedici partecipanti. A quanto pareva, Logan non era cambiato. Ogni suo atteggiamento mani incrociate dietro la schiena, sguardo dritto e fermo - faceva capire quanto l'uomo fosse duro e deciso, caratteristiche temprate dalle battaglie.
«Mi scusi, capitano», disse Logan. Parlava con un leggero accento strascicato del Sud. Allungò un foglio a Schofield. «La lista del nostro personale. Per gli atti.» Schofield prese la lista, e poi diede la sua a Logan. Era prassi durante le ispezioni presidenziali che ambedue le parti si scambiassero le liste del personale. Lo staff del presidente voleva sapere chi si trovava nelle basì che stavano ispezionando. E il personale delle basi voleva sapere chi accompagnava il presidente. Schofield diede un'occhiata alla lista dell'Area 7: una colonna di nomi che non gli dicevano nulla. AERONAUTICA DEGLI STATI UNITI AREA 7 PERSONALE DI STANZA CLASSIFICAZIONE: TOP SECRET NOME
UNITÀ
NOME
UNITÀ
A C B A E C B D E E A E B D A E
Frommer, S.N. Gale, A. Giggs, R.E. Golding, D.K. Goldman, W.E. Grayson, S.R. Hughes, R. Ingliss, W.A. Johnson, S.W. Jones, M. Kincaid, R. Littleton, S.O. Logan, K.W. McConnell, B.A. Messick, K. Milbourn, S.K.
E D B D A E A B D D B E A B E D
COMANDO Harper, J.T. 7° squadrone Alvarez, M.J. Arthurs, R.T. Atlock, F.D. Baines, A.W. Bennett, B. Biggs, H.M. Boland, C.S. Boyce, L.W. Calvert, E. T. Carney, L.E. Christian, F.C. Coleman, G.K. Coles, M. Crick, D.T. Crierce, T.W. Davis, A.M.
Dayton, A.M. Dillan, S.T. Doheny, F.G. Egan, R.R. Fraser, M.S. Fredericks, G.H. Sayles, M.T. Sommers, S.R. Stone, J.K.
E D A B C A B C C
Morton, I.N. Nance, G.F. Kystrom, J.J. Oliver, P.K. Price, A.L. Rawson, M.J. Taylor, A.S. Willis, L.S. Wolfson, H.T.
C D D E C C B C A
PERSONALE CIVILE Botha, G.W. Medico Franklin, H.S. Medico Shaw, D.E. Medico Poi Schofield notò qualcosa. Il numero di nomi sulla lista era superiore rispetto a quello degli uomini del 7° squadrone allineati sulla pista. C'erano quaranta uomini, là fuori sull'asfalto, ma in quell'elenco ne risultavano cinquanta. Dunque da qualche parte all'interno della base dovevano esserci altri dieci uomini. Mentre Schofield guardava la lista, Logan disse: «Capitano, se non le dispiace, vorremmo che spostasse...» «C'è qualche problema, maggiore?» chiese una voce dietro Schofield. «Lasci perdere il capitano Schofield. Sono io al comando qui.» Era Ramrod Hagerty, l'ufficiale di collegamento della Casa Bianca. Coi suoi baffetti all'inglese e i suoi modi non propriamente da veterano, Hagerty era l'esatto contrario di Logan. Prima di rispondergli, Logan guardò Hagerty dall'alto in basso. Quello che vide, ovviamente, non gli fece una grande impressione. «Pensavo che fosse il colonnello Grier a comandare il Marine One», disse Logan con freddezza. Chiaramente aveva ragione. «Be', sì, diciamo... tecnicamente», replicò Hagerty. «Ma, in quanto ufficiale di collegamento, qualsiasi questione che concerne lo spostamento di questi elicotteri deve prima ricevere la mia approvazione.» Logan scrutò Hagerty in un silenzio glaciale. Poi disse: «Stavo per chiedere al capitano se è d'accordo a trasportare i vostri elicotteri nell'hangar principale. Almeno fino a quando il presidente è qui alla base. Non vorremmo che i satelliti nemici scoprissero che il 'Capo' è qui in visita, vero?»
«No... no, ovviamente no», rispose Ramrod. «Schofield, si dia da fare.» «Sissignore», disse Schofield seccamente. Le gigantesche doppie porte dell'hangar si chiusero con un rumore sordo. I due elicotteri del 1° squadrone della Marina erano ora parcheggiati all'interno dell'hangar principale dell'Area 7, coi rotori e le code ripiegati. Sebbene fossero dimensioni considerevoli, nell'enorme hangar sembravano minuscoli. Harving aveva seguito le operazioni di spostamento degli elicotteri. Schofield invece stava al centro dell'hangar, guardandosi intorno in silenzio. Il resto del personale dei marine, della Casa Bianca e dei servizi segreti una ventina di persone, gente non abbastanza in alto nella gerarchia per accompagnare il presidente - stava raccolto in piccoli gruppi vicino agli elicotteri; altri bevevano caffè in uno dei due uffici dalle pareti di vetro ai lati delle porte principali. L'hangar aveva dimensioni stupefacenti. Era semplicemente gigantesco. Illuminato a giorno da bianchi fari alogeni, penetrava per almeno cento metri nella montagna. Un sistema di binari, montato sul soffitto, ne percorreva l'intera lunghezza. Due grosse casse di legno pendevano in quel momento dai binari, ai due lati dell'hangar. Di fronte alle doppie porte si trovava una costruzione. Benché fosse alta due piani, era inglobata nella struttura. Il secondo piano era racchiuso da vetrate inclinate che permettevano di guardare l'interno dell'hangar dall'alto. Sul lato nord dell'hangar c'era un piccolo ascensore per il personale. A parte gli elicotteri presidenziali, non vi erano altri velivoli. Alcuni mezzi da traino, larghi e dipinti di bianco, erano parcheggiati qua e là. Schofield ne aveva usati due per portare gli elicotteri all'interno. Ma l'oggetto di gran lunga più imponente dentro l'hangar era il massiccio montacarichi per gli aerei, situato al centro. Era un'enorme piattaforma quadrata, che assomigliava vagamente ai montacarichi idraulici delle portaerei. Lunga settanta metri, la piattaforma era abbastanza grande da trasportare un Boeing 707 AWACS, i famosi aerei radar, riconoscibili dal rotodome simile a un disco volante montato sul dorso.
Servita da un impianto idraulico non visibile, la piattaforma occupava quasi tutta l'area centrale dell'hangar. Come nei montacarichi delle portaerei, su un lato della piattaforma c'era una piccola sezione separabile, un montacarichi autonomo, capace di operare indipendentemente dalla piattaforma principale. Esso funzionava mediante un insieme di binari fissati alle pareti della piattaforma e non era collegato al sistema idraulico. Era, per così dire, un montacarichi nel montacarichi. Quel giorno il personale dell'Aeronautica dell'Area 7 sfoggiava tutti i suoi mezzi. In piedi sul bordo, Schofield vide il presidente, circondato da nove uomini dei servizi segreti e dagli uomini dell'Aeronautica, sulla piattaforma, che diventava a mano a mano più piccola mentre scendeva nella tromba di cemento armato. Nello stesso momento in cui Shane Schofield, al centro dell'hangar, guardava l'enorme tromba del montacarichi, qualcun altro stava osservando lui. L'uomo si trovava al buio, nella sala di controllo dell'Area 7, al secondo piano della costruzione interna sul lato est dell'hangar. Intorno a lui, quattro operatori radio parlavano a bassa voce nei microfoni: «... Unità Alpha, coprire la sala riunione del livello 3...» «... L'unità Echo informa che il gruppo di ricognizione del Nighthawk Three ha dovuto essere neutralizzato presso il tunnel dell'uscita di emergenza. Il gruppo aveva trovato i resti della 2° squadra avanzata. L'unità Echo sta sistemando proprio adesso il Nighthawk Three in uno degli hangar esterni. Ritorneranno all'hangar principale non appena finito...» «... Unità Bravo e Charlie, devono rimanere nell'hangar principale...» «... Unità Delta in posizione...» «... I servizi segreti stanno cercando di contattare la loro squadra avanzata al livello 6. Simulatore del segnale AC ancora in funzione...» Il maggiore Kurt Logan comparve accanto all'uomo che rimaneva in ombra. «Signore, il presidente e il suo staff sono appena arrivati al livello 4. Tutte le unità sono in posizione.» «Bene.» «Vuole che ci muoviamo ora?» «No. Lasci che continui il suo giro», disse l'uomo senza volto. «C'è ancora una cosa di cui dobbiamo occuparci prima di cominciare.» ***
«Buongiorno.» Schofield si girò e vide i volti sorridenti di Libby Gant e Mother. «Ciao, ragazze», le salutò. «Ralph è ancora arrabbiato con te», disse Mother. «Vuole la rivincita.» Ralph era il marito di Mother. Un uomo basso, con la faccia rotonda e sorridente, capace come pochi di sopportare il carattere eccentrico di Mother. Faceva il camionista, e aveva un camion tutto suo, un Mack a nove assi. Sulla fiancata, il camion recava il disegno di un cuore trafitto da una freccia con sopra la parola «Mother». Per la bassa statura e il sorriso pronto, Ralph era una specie di mascotte, benvoluto dalla comunità dei marine. Era anche l'orgoglioso proprietario di un nuovo barbecue e, durante la consueta grigliata della domenica a casa di Mother, aveva sfidato Schofield a basket in una gara di tiro. Schofield lo aveva fatto vincere, ma Ralph l'aveva capito benissimo. «Magari il prossimo fine settimana?» disse Schofield. «Ma dimmi di ieri. Com'è andata la visita per la gamba?» «È andata alla grande. Ho riacquisito appieno il movimento e riesco a correre veloce come prima. Credo che abbia fatto piacere ai medici. Maledizione, ho detto loro che la settimana scorsa al bowling ho fatto 275 punti, ma non sembravano impressionati. Comunque, siccome ora sono in parte una macchina, mi piacerebbe un nuovo nome in codice: Darth Vader.» Schofield rise. «Come vuoi, Darth.» Gant s'intromise, seria: «Hai avuto altri problemi con Ramrod?» «Il solito», disse Schofield. «Ah, già: tanti auguri!» Gant sorrise. «Grazie.» «Ho qualcosa per te.» Schofield rovistò nella tasca della giacca. «Niente di grandioso, ma...» Cercò nelle altre tasche. «Accidenti, non lo trovo. Forse l'ho lasciato sull'elicottero...» «Sta' tranquillo.» «Posso dartelo dopo?» «Nessun problema.» Mother si stava guardando intorno. «Che cazzo di posto è questo? Sembra Fort Knox.» «Peggio», disse Schofield. «Che vuoi dire?» «Guarda il pavimento, subito oltre le porte dell'hangar.» Mother e Gant obbedirono e videro una serie di buche quadrate che cor-
revano lungo una linea parallela alle porte. Ogni buca era larga e profonda almeno trenta centimetri. «Guardate anche in alto.» Dal soffitto dell'hangar spuntava una serie di protuberanze di metallo che parevano denti, della stessa misura dei buchi nel pavimento. «Porte blindate, mosse da pistoni», spiegò Schofield. «Un po' come quelle sulle portaerei classe Nimitz. Servono a dividere gli spazi di stivaggio in zone autonome, in caso d'incendio o esplosioni. Ma se ci fate caso, qui nell'hangar non ci sono altre porte blindate. Questa è l'unica, il che significa che è l'unica uscita.» «Mi spieghi cosa vuoi dire?» chiese Mother. «Voglio dire che le cose che avvengono in questa base sono più importanti di quanto possiamo immaginare», rispose Schofield. *** La vasta piattaforma si arrestò con uno scatto davanti a un'immensa porta d'acciaio, contrassegnata da un grande 4 dipinto di nero. Sopra le teste del presidente e del suo staff, la tromba del montacarichi sembrava rimpicciolirsi verso l'alto. Era come trovarsi sul fondo di un enorme tunnel verticale. Vista da là sotto, a più di cento metri di profondità, la luce artificiale dell'hangar era diventata un piccolo quadrato bianco in lontananza. Appena il montacarichi si era fermato, la massiccia porta d'acciaio aveva cominciato a sollevarsi. Il colonnello Jerome Harper stava guidando il gruppo parlando vivacemente. «Questo impianto è stato il quartier generale del NORAD, il Comando della Difesa aerea americana, prima che venisse trasferito in una nuova sede, sotto il monte Cheyenne, in Colorado, nel 1975. Il complesso è circondato da una parete esterna di titanio spessa sessanta centimetri, costruita sotto trenta metri di solido granito. Anche questo impianto, come quello del monte Cheyenne, è stato concepito per resistere all'attacco di un missile termonucleare.» Harper passò al presidente un foglio su cui era disegnata la sezione della struttura sotterranea. L'hangar era raffigurato nella parte alta del diagramma, il livello della superficie coperto dalla bassa montagna; vi si vedeva la tromba del montacarichi, che scendeva fino a raggiungere i vari piani della struttura, costrui-
ta nelle profondità del sottosuolo. «Il complesso si articola in sei livelli, di cui i primi due - livello 1 e 2 sono hangar per lo stivaggio di aerei simili a quelli che ha visto questa mattina nell'Area 8. Il 3 ospita i sistemi di comunicazione e gli alloggiamenti del personale, il livello 5 le celle di detenzione, mentre il 6 fa parte del sistema X-rail. Ogni livello può essere completamente isolato contro le radiazioni e le contaminazioni e tutta l'area, una volta isolata, può continuare a funzionare per almeno trenta giorni grazie a una fornitura autonoma di ossigeno. In una zona del livello 3 abbiamo abbondanti scorte di cibo, e al livello 1 nell'hangar principale abbiamo un serbatoio che contiene trecentossessanta milioni di litri d'acqua.» Il gruppo giunse all'inizio di un breve corridoio in salita, all'altra estremità del quale stava una porta massiccia, simile a quella dei caveau delle banche. Un soldato dell'Aeronautica si affrettò ad aprirla. «Il progetto Fortuna ci è stato assegnato quattro anni fa, dopo che il primo embrione capace di sopravvivere aveva raggiunto la maturità», spiegò Harper. «Ora, finalmente, siamo in condizione di usare la struttura.» Il presidente aspettò pazientemente mentre la porta di sicurezza, spessa un metro, veniva dischiusa. Frank Cutler e gli altri otto uomini della squadra personale del presidente stavano alle sue spalle, silenziosi, impassibili, quasi invisibili. A intervalli di tre minuti, Cutler controllava i segnali AC provenienti da entrambe le squadre avanzate. I segnali arrivarono forti e chiari. Poi, finalmente, la porta si aprì, e il presidente vide quello che si trovava al di là di essa. Rimase a bocca aperta, incredulo. «Mio... Dio...» *** «Scommetto un bel gruzzolo sulla superbomba», disse Elvis Haynes, appoggiandosi allo schienale del sedile. Elvis, Schofield, Gant e Mother se ne stavano seduti in uno dei due uffici chiusi da ampie vetrate che si trovavano accanto alle porte principali dell'hangar. Con loro c'erano i colonnelli Grier e Dallas, gli altri marine in servizio sugli elicotteri presidenziali e i tre rimanenti agenti dei servizi segreti. L'entourage del presidente si era accomodato o nell'altro ufficio, di fron-
te al loro, oppure era andato a sedersi sugli elicotteri, i quali, dicevano, erano più adatti al loro grado d'importanza rispetto agli spartani uffici dell'Aeronautica. Inoltre, aveva detto Nicholas Tate a Gant, invitandola a rimanere con lui sul Marine One, avevano un caffè migliore, più forte. Gant aveva seguito con Schofield e gli altri. Ramrod Hagerty era andato a sedersi con lo staff della Casa Bianca. «Non dire scemenze», ribatté Gus Gorman, un caporale basso e occhialuto. «Non c'è nessuna superbomba.» Gorman era un uomo magro e scattante, con un naso prominente e un collo sottile e rugoso. Nemmeno l'alta uniforme riusciva a farlo sembrare attraente. Era ben visto dalla truppa per la sua memoria quasi fotografica e il senso dell'umorismo: il suo nome in codice, «Brainiac», cioè cervellone, era un complimento, non un insulto. «Cazzate!» disse Elvis. «È stata fabbricata dalla DARPA negli anni '90, in collaborazione con la Marina...» «... Ma non sono mai riusciti a farla funzionare. Quel coso dipendeva da qualche strano principio che si trova solo nei meteoriti, e non sono mai riusciti a trovarne un campione attivo.» «Voi ragazzi credete proprio a tutto», commentò una voce bassa dall'altra parte dell'ufficio. Tutti si voltarono, incluso Schofield. A parlarne era stato un sergente, da poco tempo nell'unità. Un giovane dall'espressione intensa e dalle sopracciglia marcate, col naso adunco e con gli occhi marroni. Non parlava spesso e, quando lo faceva, era sempre un evento speciale per il team. Inizialmente, questa sua abitudine era stata scambiata per disprezzo verso di loro. Ma poi avevano scoperto che il sergente Buck Riley junior semplicemente non amava parlare a vanvera. Riley junior era figlio di un apprezzato sergente maggiore dei marine, Buck Riley senior, che era stato tra le conoscenze più strette di Schofield. Si erano conosciuti al fronte, quando Schofield si era trovato in un bel casino in Bosnia e Riley senior faceva parte della squadra di salvataggio. Erano diventati buoni amici e Riley senior era divenuto il fidato sergente maggiore di Schofield. Purtroppo aveva partecipato anche lui alla triste missione in Antartide, dove era stato assassinato in modo brutale da un nemico di cui Schofield, in base all'Officiai Secrets Act, non aveva nemmeno il diritto di pronunciare il nome. Il sergente Buck Riley junior, silenzioso ed estremamente serio, portava
con orgoglio il nome in codice di suo padre. Era conosciuto da tutti semplicemente come «Book II». Book II guardò Elvis e Brainiac. «Voi credete seriamente che la DARPA abbia costruito una bomba capace di distruggere un terzo della massa terrestre?» «Sì», rispose Elvis. «No», replicò Brainiac. «Bene, non l'hanno costruita. La superbomba è una leggenda metropolitana», spiegò Book II. «Creata appositamente per mantenere vive le teorie della cospirazione e rendere felici le vecchie mogli chiacchierone dei marine. Volete qualche altro esempio? L'FBI manda agenti sotto copertura nelle prigioni. L'Aeronautica tiene pronti cacciabombardieri nucleari negli hangar commerciali di ogni aeroporto chiave negli Stati Uniti, per usarli in caso di guerra. Alla USAMRMD hanno sviluppato una cura contro l'AIDS, ma non hanno mai avuto il permesso di metterla sul mercato. All'Aeronautica hanno ideato un sistema di propulsione magnetica che permette agli aerei di rimanere fermi a mezz'aria. L'industria che ha perso l'appalto per la costruzione del cacciabombardiere Stealth aveva proposto di costruire un aereo supersonico completamente invisibile, grazie a un meccanismo nucleare di frazionamento dell'aria, e l'hanno costruito ugualmente, anche se non avevano la commessa. Mai sentite queste cose?» «No», disse Elvis. «Però sono interessanti!» «E lei, capitano Schofield? Ne ha sentito parlare?» Schofield lo fissò negli occhi. «Avevo sentito parlare dell'ultimo caso, non degli altri.» Si voltò, disinteressandosi della discussione, lasciando vagare lo sguardo in giro. Si fermò. Mancava qualcuno. E poi capì chi. «Ragazzi, sapete dov'è il maresciallo Webster?» Il presidente degli Stati Uniti guardò attraverso il vetro inclinato, a bocca aperta. Dietro la finestra, al centro di una stanza simile a una sala dal soffitto altissimo, si trovava un cubo fatto di una sostanza trasparente, simile al vetro. Stava là nel centro della sala, leggermente più basso del soffitto e più stretto delle pareti: un cubo trasparente della misura di un salotto, delimita-
to su due lati da un'elegante struttura di osservazione a forma di L. Ma era stato quello che si trovava all'interno del cubo a catturare l'attenzione del presidente. Non riusciva a distogliere lo sguardo. «Il cubo è costruito in polifibre e possiede all'interno un sistema autonomo per l'apporto d'ossigeno. È a completa tenuta stagna», spiegò il colonnello Harper. «Se la sua integrità strutturale dovesse essere compromessa, la pressione dell'aria all'interno del cubo aumenterebbe automaticamente in modo tale da non permettere l'ingresso di aria esterna, scongiurando così qualsiasi rischio di contagio.» Harper fece un gesto verso uno dei tre scienziati che prima si trovavano sulla pista. «Signor presidente, posso presentarle il dottor Gunther Botha, il responsabile del progetto Fortuna?» Il presidente diede la mano a Botha. Era un uomo di cinquantotto anni, grasso, dalla faccia larga e con una calvizie incipiente. Quando parlava, aveva l'accento gutturale del Sud Africa: «È un piacere conoscerla, signor presidente». «Il dottor Botha viene...» «So da dove viene il dottore», interruppe il presidente con un filo di disapprovazione nella voce. «Ho letto il suo dossier giusto ieri.» Gunther Botha era stato membro del famigerato Medical Battalion delle forze armate del Sud Africa. Sebbene fossero in pochi a saperlo, il Sud Africa, nel corso degli anni '80, era stato la seconda nazione al mondo, dopo l'Unione Sovietica, nella creazione e nella produzione di armi biologiche, che venivano utilizzate principalmente contro la maggioranza di colore. Con la caduta dell'apartheid, Gunther Botha aveva improvvisamente perso il lavoro ed era anche finito sotto il tiro della Truth and Reconciliation Commission. L'averlo segretamente preso in servizio non era, per gli Stati Uniti, qualcosa di molto diverso da quanto fatto con gli scienziati nazisti dopo la Seconda guerra mondiale. Era pur sempre difficile trovare esperti nel campo in cui operava Botha. Il presidente ritornò a guardare attraverso il vetro di osservazione. «Dunque, questo è il vaccino...» osservò, guardando il cubo di vetro. «Sissignore, proprio così», confermò Botha. «È stato testato?» chiese il presidente, senza voltarsi. «Sì.» «Nella forma di siero idratato?» «Sì.» «Contro l'ultimo ceppo?»
«L'abbiamo testato ieri pomeriggio contro il 9.1, non appena ci è arrivato.» «Signor presidente», propose il colonnello Harper. «Se lo desidera, possiamo darle una dimostrazione.» Una pausa. «Va bene», decìse il presidente. «Fatelo.» «Dov'è andato?» chiese Schofield, in piedi al centro dell'hangar dell'Area 7. Al suo fianco stava Libby Gant. Il maresciallo Carl Webster, l'uomo che aveva la responsabilità del Football, la ventiquattrore del presidente, non era né in uno degli elicotteri presidenziali né in uno dei due uffici dell'hangar. Dopo una rapida consultazione con gli agenti dei servizi segreti, fu appurato che non era neppure al seguito del gruppo del presidente. Il maresciallo Webster era sparito. Era un fatto preoccupante, poiché vi erano regole ben precise nel protocollo sui movimenti di Webster. Se non era col presidente, doveva essere perennemente nelle vicinanze del Marine One. «Hai dato un'occhiata al comitato di benvenuto, il famoso 7° squadrone?» chiese Gant, osservando i tre gruppi di soldati, armati di P-90, dislocati in vari punti dell'hangar. Le truppe dell'Aeronautica osservavano impassibili Schofield e Gant. «Mi sembrano abbastanza sicuri di sé», rispose Schofield. «Sono pompati», disse Gant. «Che cosa vuoi dire?» «Hai visto il bianco dei loro occhi? È giallastro.» «Steroidi?» Gant annuì. «Ecco perché hanno quell'aria poco socievole», commentò Schofield. «A Elvis non piacciono», spiegò Gant. «A quanto mi ha detto, ha sentito di 'movimenti razzisti' all'interno del loro gruppo. Avrai notato che non c'è un solo soldato di colore tra loro.» Era vero. A parte due soldati di origine asiatica, tutti gli uomini del 7° squadrone nell'hangar erano bianchi come le lenzuola nelle pubblicità dei detersivi. «Sì, in effetti l'ho sentito dire anch'io», ammise Schofield. Sebbene nessuno amasse parlarne, in alcune frange delle forze armate il razzismo, soprattutto contro i soldati di colore, era ancora un problema. Del resto, coi
loro brutali corsi per la selezione dei soldati, alcune unità come il 7° squadrone potevano facilmente esercitare sottili poteri discriminanti. Schofield accennò con la testa ai capi dei tre gruppi di dieci soldati, riconoscibili perché non imbracciavano i P-90. I loro mitra erano fissati in fondine dietro alla schiena. «Lo sai come chiamano i cinque comandanti del 7° squadrone durante le esercitazioni?» «Come?» «I 'Cinque serpenti'. In quanto capo della squadriglia, Kurt Logan comanda una formazione di dieci uomini, la prima, chiamata unità Alpha. Le altre quattro unità rispondono ad altrettanti capitani: McConnel, Willis, Stone e Carney. Sono in gamba. Le poche volte che sono intervenuti alle esercitazioni di combattimento si sono sempre classificati al primo posto. In un'occasione, una sola unità del 7° squadrone ha eliminato addirittura tre gruppi SEAL, e quella volta non c'era Logan.» «Perché li chiamano i Cinque serpenti?» chiese Gant. «Tutto è cominciato come una battuta, probabilmente per via di un po' di gelosia tra gli altri comandanti. Tre ragioni. La prima è che sul piano tattico si comportano come serpenti: attaccano velocemente, con la massima forza e senza pietà. La seconda, perché sono tutti individui estremamente freddi. Non si mescolano mai ai loro pari grado durante le esercitazioni. Fanno gruppo a sé.» «E la terza ragione?» «Perché i loro nomi in codice sono di serpenti velenosi.» «Che carino», mormorò Gant con una smorfia. Continuarono a camminare. Gant cambiò argomento. «Sai, mi sono proprio divertita, sabato sera.» Schofield la guardò. «Sul serio?» «Sul serio. Anche tu?» «Anch'io.» «Mi stavo chiedendo, sai, visto che tu non...» «Aspetta un momento», la interruppe Schofield. «Qualcosa non va!» «Che cosa?» Schofield lanciò rapide occhiate alle tre unità del 7° squadrone all'interno dell'hangar. Un'unità stava di guardia davanti all'ascensore. La seconda era accanto alla tromba dell'enorme montacarichi. La terza si trovava sul lato sud-est dell'hangar, davanti a una porta. Fu allora che Schofield lesse la scritta sulla porta dietro gli uomini della
terza unità del 7° squadrone. E improvvisamente capì. «Forza», disse, girandosi e tirando Gant verso gli uffici. «Veloce!» «I codici d'armamento sono stati inseriti, signore», disse Logan. «Il Football è pronto. Il maresciallo Webster è stato molto... gentile.» Gli operatori radio all'interno della sala di controllo snocciolavano l'elenco degli ordini eseguiti: «... Sistemi di chiusura d'emergenza pronti...» «... Accensione fornitura autonoma di ossigeno pronta...» «Maggiore Logan», avvertì uno di loro. «Continuo a ricevere i segnali del rivelatore termico all'esterno del settore 9, accanto all'uscita di emergenza.» «Misure?» «Come prima. I soggetti vanno dai trenta ai cinquanta centimetri. Non ne sono sicuro, signore, ma giurerei che si sono avvicinati dall'ultima volta che ho controllato.» Logan guardò l'immagine del satellite. Una zoomata in bianco e nero della zona a est del complesso principale segnalava ventiquattro macchie bianche e oblunghe, disposte in un largo semicerchio intorno all'uscita di sicurezza secondaria. «Dai trenta ai cinquanta centimetri?» Logan osservò l'immagine da vicino. «Troppo piccoli per essere uomini. Con ogni probabilità un branco di topi del deserto. Vedi se riesci a farmi avere un'immagine ingrandita dal satellite, tanto per essere sicuri. E tienili d'occhio.» L'uomo nell'ombra stava guardando Logan. «Dove si trova ora il presidente?» «Giù nel laboratorio, al livello 4.» «Contatti Harper. Luce verde. Gli dica che siamo pronti. Inizia la missione.» *** «Il soggetto uno non è stato immunizzato col vaccino», spiegò il dottor Gunther Botha con tono distaccato e scientifico. Il presidente era al buio, in un'altra zona del livello 4, e guardava due laboratori di sperimentazione illuminati a giorno. All'interno di ogni stanza vi era un uomo completamente nudo. Entrambi, in contrasto con la loro nudità, indossavano maschere antigas e avevano
diversi elettrodi applicati sul petto. «Il soggetto uno è un maschio di razza caucasica, altezza un metro e settanta, peso circa settantatré chili, età trentasei anni. Il soggetto indossa una maschera antigas e anticontagio di tipo standard. Rilasciate la sostanza!» Ci fu un leggero sibilo mentre una nebbiolina di minuscole particelle gialle veniva spruzzata nella stanza del primo soggetto. L'uomo era snello e dinoccolato. Si guardò intorno impaurito mentre il gas entrava nella cella a tenuta stagna. «Dove avete preso il virus?» chiese il presidente. «A Changchun», rispose Botha. Il presidente annuì. Changchun era una remota città della Manciuria settentrionale. Sebbene il governo cinese lo negasse, a Changchun si trovava il principale laboratorio cinese per la sperimentazione di armi biologiche. Giravano voci che i prigionieri politici e le spie straniere catturate venissero mandati all'impianto come cavie per verificare l'efficacia dei virus e dei gas nervini. L'uomo nudo si guardava ancora intorno nervosamente. «L'infezione secondaria avviene per passaggio attraverso gli orifizi della pelle e i follicoli piliferi o per mezzo di ferite aperte», spiegò Botha con calma. «Senza la somministrazione di un vaccino, la morte sopraggiunge all'incirca trenta minuti dopo il contatto. Per un gas nervino assunto indirettamente, si tratta di un tempo relativamente veloce. Ma...» Botha alzò un dito. «Se lo si paragona agli effetti di un'inalazione diretta, il risultato è davvero deludente». Premette il pulsante dell'interfono e si rivolse all'uomo nella stanza. «Vorrebbe gentilmente togliersi la maschera?» Per tutta risposta, l'uomo alzò il dito medio verso Botha. Botha sospirò e premette un pulsante su una vicina console. Il soggetto ricevette una forte scossa elettrica attraverso gli elettrodi che portava applicati sul petto. Si contorse per il dolore. «Le ho chiesto gentilmente di togliersi la maschera.» Il soggetto si tolse lentamente la maschera. Immediatamente - e con violenza - il virus agi. L'uomo si premette le mani sullo stomaco, tossendo. Un colpo di tosse secco e profondo. «Come le dicevo, è molto più efficace», ripeté Botha. L'uomo si piegò su se stesso, respirando con affanno. «L'irritazione gastrointestinale inizia approssimativamente dopo dieci
secondi dall'esposizione.» Improvvisamente, l'uomo vomitò un liquido verde-marrone sul pavimento della cella. «Liquefazione dello stomaco in trenta secondi...» L'uomo cadde in ginocchio, tentando di respirare. Un liquido denso gli usciva dalla bocca. Si appoggiò alla parete di vetro della cella, proprio davanti a Botha. «Liquefazione di fegato e reni in un minuto...» Il soggetto vomitò un liquido nero striato di sangue contro il vetro della cella. Poi cadde sul pavimento, tremando e in preda a violenti spasmi. «Collasso organico totale in novanta secondi. La morte sopraggiunge nel giro di due minuti.» Poco dopo, l'uomo nudo nella cella, in posizione fetale, non si mosse più. Il presidente guardava, tentando di non far notare la sua repulsione. Quel metodo di morte andava oltre ogni crudeltà, persino per un uomo come quello nella cella. Il presidente tentò di accettare la tremenda morte del soggetto alla luce di ciò che l'uomo aveva fatto in vita. Insieme a un amico, Leon Roy Hailey aveva torturato nove donne nel retro del suo furgone, ridendo loro in faccia mentre chiedevano pietà. I due uomini avevano registrato la mortale agonia delle donne su un video per poter in seguito guardarlo e godere dei loro atti selvaggi. Il presidente aveva visto le registrazioni. Sapeva anche che, per i suoi crimini, Leon Roy Hailey era stato condannato a 452 anni di reclusione. Non avrebbe mai potuto uscire vivo dalla prigione. E così, dopo cinque anni di brutale detenzione, lui - come tutti i soggetti destinati ai test dell'Area 7, condannati a ergastoli multipli - aveva accettato di sottoporsi agli esperimenti scientifici. «Al soggetto due», continuò Botha senza emozioni nella voce, «è stato somministrato il vaccino sotto forma di siero idratato. Il siero è stato mescolato ad acqua esattamente mezz'ora fa. Il soggetto è un maschio di razza caucasica, altezza superiore ai due metri, peso circa cento chili, età trentadue anni. Ora stiamo immettendo l'agente nella cella.» Di nuovo si udì il leggero sibilo, mentre la nebbiolina giallastra veniva spruzzata all'interno. L'uomo nella seconda stanza vide il gas entrare nella sua cella, ma, a differenza del soggetto uno, non reagì. Era molto più massiccio del primo uomo, aveva le spalle larghe e le braccia forti, con grossi bicipiti, mani e-
normi e una testa allungata che sembrava troppo piccola per la sua corporatura. Stava lì con la maschera antigas a fissare il vetro della cella di sperimentazione, come se la terribile morte non lo toccasse minimamente. Per ora nessuna tosse, nessuno spasmo. Dato che portava la maschera antigas, il virus non lo aveva ancora aggredito. Botha spinse il pulsante dell'interfono. «Vorrebbe gentilmente togliersi la maschera?» Il soggetto due obbedì all'ordine di Botha senza esitazioni. Si tolse la maschera. Il presidente vide l'uomo in faccia. Ebbe un sussulto. In passato aveva visto quella faccia molte volte, alla televisione e sui giornali. Era il volto diabolicamente tatuato di Lucifer James Leary, il serial killer conosciuto in tutto il Paese come il «Chirurgo di Phoenix». Era l'uomo che aveva ucciso trentadue autostoppisti, soprattutto giovani turisti ai quali aveva dato un passaggio sulla statale tra Las Vegas e Phoenix tra il 1991 e il 1998. Ogni volta, Leary aveva lasciato il suo marchio: un gioiello del malcapitato, di norma un anello o una collana, buttato sul ciglio della strada nel punto in cui la vittima era salita sulla sua auto. Era stato allontanato anni prima dalla facoltà di Medicina. Una volta condotte le vittime nella sua casa a Phoenix, amputava loro varie parti del corpo per poi mangiarle di fronte a loro. L'individuazione della casa da parte di agenti dell'FBI e le immagini della cantina insanguinata con due vittime ancora vive, ma già mutilate, avevano scioccato l'America. Persino ora Lucifer Leary aveva un'aria diabolica. L'intera metà sinistra della sua faccia era coperta da un tatuaggio nero che rappresentava le ferite lasciate da cinque artigli, un po' come se Freddy Krueger in persona, con le sue unghie a rasoio, avesse tentato di portargli via mezza faccia. I dettagli del tatuaggio erano impressionanti: pelle strappata, carne lacerata e sangue imitati per suscitare volutamente repulsione. In quel momento, Leary sorrise verso la finestra della sua cella, scoprendo due file di denti irregolari e giallastri. Solo allora il presidente si rese conto di una cosa: sebbene ormai si fosse tolto la maschera, Leary non sembrava essere colpito dal virus. «Come vede», spiegò Botha con orgoglio, «persino quando il virus viene inalato direttamente nei polmoni, il vaccino sotto forma di siero idratato previene perfettamente l'infezione. Il vaccino neutralizza il virus, limitando il rilascio della dietilpropanasi, che attacca l'enzima della pigmentazione
metaidrogenasi e la proteina DB del gruppo sanguigno...» «Si potrebbe spiegare con parole semplici?» chiese secco il presidente. «Quello che ha appena visto è un enorme salto in avanti nella guerra biotecnologica. Si tratta della prima arma biologica concepita geneticamente, un agente del tutto sintetico che mette fuori gioco le cure naturali. Inoltre ha un grado di efficacia mai sperimentato prima d'ora. È un virus sintetizzato completamente in laboratorio e, mi creda, è stato concepito in modo molto particolare. È qualcosa di paragonabile a una pallottola etica, pensata per uccidere solo certe razze, persone che possiedono peculiari caratteri etnici. In questo caso, il virus aggredisce soltanto persone che possiedono l'enzima metaidrogenasi e la proteina del sangue DB. Sono gli enzimi che determinano la pigmentazione bianca della razza caucasica. Signor presidente, lo stesso enzima che rende bianca la nostra pelle ci rende vulnerabili al virus. La cosa è straordinaria. Non so come i cinesi ci siano riusciti. Ma il governo del Sud Africa ha lavorato per anni allo sviluppo di un virus che rendesse sterili soltanto le persone di colore. Noi non ci siamo mai riusciti. Da quanto abbiamo capito sull'agente del virus, non sarà difficile adeguare la sua struttura genetica in modo che attacchi anche gli americani d'origine africana, dato che l'enzima della loro pigmentazione è una variante del metaidrogenasi...» «Morale?» interruppe il presidente. «La morale è facile da capire, signor presidente. Le uniche persone immuni a questo virus sono quelle di origine asiatica, poiché non possiedono affatto questo enzima. Per questo sono immuni all'agente, mentre gli americani, caucasici o africani, morirebbero. Signor presidente, le ho appena mostrato l'ultima arma biologica dei cinesi: lo xenovirus.» *** «Le sto dicendo che qui qualcosa non va!» disse Schofield. «Stronzate, capitano», ribatté Ramrod Hagerty con un gesto della mano. «Ha letto troppi fumetti.» «E Webster, che fine ha fatto? Non riesco a trovarlo da nessuna parte. Non può scomparire così, e lo sa.» «Sarà al cesso.» «Già controllato.» Schofield scosse la testa. «E il Nighthawk Three? Dove sono gli uomini? E perché Hendricks non si è fatto vivo?» Hagerty lo fissò, impassibile.
«Signore, con tutto il rispetto, vorrei che desse uno sguardo alle posizioni degli uomini del 7° squadrone.» Hagerty si girò sulla sedia. Lui, Schofield e Gant si trovavano nell'ufficio sud dell'hangar principale, col piccolo gruppo dello staff della Casa Bianca. Attraverso la finestra dell'ufficio, Hagerty diede un'occhiata casuale ai tre gruppi del 7° squadrone. «Sembra che stiano controllando tutti gli ingressi», commentò il colonnello. «Per impedirci di accedere ad aree che non dobbiamo vedere.» «Nossignore. Non è così. Guardi con attenzione. Il gruppo a nord controlla l'ascensore. Il secondo gruppo sorveglia il montacarichi per gli aerei. Fin qui, tutto bene. Ma dia uno sguardo al gruppo dall'altra parte, davanti agli uffici. È disposto davanti a una porta.» «Be', e allora?» «Signore, fanno la guardia a un ripostiglio!» Lo sguardo di Hagerty passò dalla faccia di Schofield ai gruppi di commando. Era vero. Un terzo gruppo stava davanti a una porta che recava la scritta DEPOSITO. «Molto bene, capitano. Bravo. Annoterò le sue osservazioni nel mio rapporto.» Hagerty finse di tornare ai suoi papiri. «Ma, signore...» «Ho detto che annoterò le sue osservazioni nel mio rapporto, capitano Schofield. Questo è tutto.» Schofield s'irrigidì. «Con tutto il rispetto, signore, lei ha mai dovuto affrontare un combattimento?» Hagerty per un attimo non si mosse, poi alzò lo sguardo. «Non credo di apprezzare il suo tono, capitano.» «Lei ha mai dovuto affrontare un combattimento?» «Sono stato in Arabia Saudita, durante la Desert Storm.» «In una unità operativa?» «No. Ero nel personale dell'ambasciata.» «Signore, se durante la sua carriera, avesse affrontato un combattimento, si accorgerebbe che questi tre gruppi non stanno occupando posizioni difensive. Sono su posizioni offensive. Direi di più: gli uomini sono distribuiti in modo da prendere con la forza questi due uffici...» «Stupidaggini!» Schofield prese il foglio di carta sul quale Hagerty stava scrivendo e disegnò rapidamente una mappa dell'hangar:
«Qui è dove si trovano adesso», Schofield batté l'indice sui tre punti neri del disegno. «Ma se si muovono così...» Schofield inserì alcune frecce nel disegno:
«... siamo in guai seri. Tutti i marine e gli agenti dei servizi segreti nell'ufficio nord si troveranno sotto attacco, mentre gli agenti della Casa Bianca qui nell'ufficio sud correranno logicamente dall'altra parte, col risultato di finire sotto il tiro della terza unità del 7° squadrone.» Hagerty osservò il diagramma di Schofield per un bel po'. Poi disse: «Si tratta di una delle storie più stupide che abbia mai sentito raccontare, capitano. Questi uomini sono al servizio degli Stati Uniti». «Santo cielo, ma non vuole proprio ascoltarmi...» «No, è lei che deve ascoltare me!» sibilò Hagerty. «Non pensi che io non sappia chi è lei. So tutto della Wilkes Ice Station. So che cos'è accaduto. Ma il fatto che lei sia stato un tempo una specie di eroe non le dà il permesso di sputare le sue merdose teorie di cospirazione e aspettarsi che io le creda. Sono stato in questo corpo per ventidue anni e sono arrivato nella posizione in cui mi trovo...» «... Facendo che cosa? Mettendo in ordine le matite?» lo interruppe Schofield.
Hagerty lo fissò con palese odio. La sua faccia era diventata paonazza. «Basta così, Schofield. Per la devozione che nutro per il corpo non le farò nessuna scenata proprio ora, ma sappia questo: quando saremo tornati a Quantico, non appena l'elicottero toccherà terra, lei sarà preso in custodia e giudicato davanti al tribunale militare per insubordinazione. Ora mi faccia il piacere di togliersi da qui!» Schofield scosse la testa esasperato e si alzò. «E questi, signore, sono gli uomini che hanno portato il virus», disse il colonnello Harper conducendo il presidente lungo le celle di sperimentazione del livello 4. Si fermarono davanti a una vasta camera di quarantena, lunga almeno dieci metri. Attraverso una piccola finestra ricavata sul fianco della camera rinforzata, il presidente vide quattro uomini seduti su divani a guardare la televisione. La stanza era inondata da una bluastra luce ultravioletta. Quegli uomini, notò il presidente, erano tutti asiatici. Non appena lo scorsero, due uomini scattarono sull'attenti. «Signor presidente, ecco il capitano Robert Wu e il tenente Chet Li del 7° squadrone...» In quel momento il cellulare di Harper squillò. Il colonnello si scusò e si appartò per rispondere. «È un piacere incontrarvi, signori», disse il presidente, che aveva fatto un passo in avanti. «Il vostro Paese ha nei vostri confronti un debito di riconoscenza.» «Grazie, signore.» «Grazie.» «Per quanto tempo dovete rimanere qui?» s'informò il presidente, ponendo le scontate domande di rito. «Ancora un paio d'ore, almeno credo, signore», rispose Wu. «Siamo tornati ieri col nuovo ceppo, ma dobbiamo stare qui dentro per ventiquattr'ore. La camera è bloccata da un meccanismo a tempo. Non può essere aperta prima delle 9.00. Solo allora saremo assolutamente sicuri di non portare altri virus con noi.» «Be', non sarò più qui alle 9.00», disse il presidente. «Ma statene certi: riceverete qualcosa da parte mia tra non molto.» «Grazie, signore.» «Grazie, signore.» Harper aveva finito di parlare al cellulare. «Con questo abbiamo termi-
nato la nostra visita, signor presidente», disse. «Se vuole seguirmi, ci sarebbe ancora un'ultima cosa che desidererei mostrarle.» Schofield e Gant erano all'interno del Marine One, dietro Brainiac, che era seduto alla console di comunicazione dell'elicottero, con le dita che correvano sulla tastiera. «Qualche notizia da parte del Nighthawk Three o dalle due squadre avanzate?» chiese Schofield. «Nada de nada, sul Nighthawk Three. Ricevo però i segnali AC dai team dei servizi segreti.» Schofield ragionò per un attimo. «Siamo connessi alla rete locale dell'Area 7 oppure no?» «Sissignore. Così il presidente può raccogliere informazioni sicure via terra.» «Bene, allora connettici al sistema delle telecamere interne. Ce la puoi fare?» «Certo che ce la posso fare!» Il presidente venne accompagnato su per una rampa di scale antincendio fino al livello 3, dove si trovavano gli alloggi del personale. Insieme coi nove uomini della squadra dei servizi segreti, fu condotto in un'ampia sala riunioni dal soffitto basso. Vi erano tavolini e divani, un angolo cottura e un televisore Panasonic con schermo gigante in bella mostra al centro della parete. «Se vuole aspettare un attimo qui, signor presidente, le manderò giù qualcuno tra un minuto», disse il colonnello Harper. Uscì dalla stanza, lasciando il presidente e la sua scorta. Una serie di monitor in bianco nero si accese nello scomparto riservato alle comunicazioni del Marine One. Ogni monitor inquadrava una griglia d'immagini, riprese dalle numerose telecamere di sicurezza nell'Area 7. «Siamo connessi», informò Brainiac. Riprese da diverse angolazioni, Schofield poté esaminare una serie di scale deserte - un luogo che ricordava vagamente una stazione della metropolitana - gli interni degli uffici dell'hangar principale, uno di questi animato dai marine e dagli agenti dei servizi segreti, e, in un'immagine sgranata in bianco e nero, l'interno di un ascensore...
Di fronte a quell'ultima inquadratura Schofield si sentì gelare. L'ascensore era occupato da dieci soldati del 7° squadrone in assetto da combattimento. E poi, improvvisamente, un movimento su uno degli altri monitor catturò il suo sguardo. Era una panoramica delle scale. Un gruppo di soldati del 7° squadrone si stava precipitando giù dalle scale. «Questa volta sarà dura!» mormorò Schofield. Schofield uscì dal Marine One, saltando direttamente sul pavimento dell'hangar, Gant e Brainiac incollati alle sue spalle. Sebbene niente fosse cambiato, l'hangar appariva improvvisamente diverso. Aveva assunto un'aria minacciosa. Pericolosa. Schofield vide i tre gruppi di soldati del 7° squadrone occupare le proprie posizioni; uno dei tre comandanti si stava portando una mano all'orecchio, come se stesse ricevendo un messaggio radio. «Rimanete qui», disse Schofield. «Okay», rispose Brainiac. «Ehi!» intervenne Gant, sottovoce. «Che c'è?» «Prova a toglierti dalla testa quello che stai pensando.» «Farò del mio meglio», rispose Schofield, uscendo dalla copertura del Marine One e attraversando a passi misurati il pavimento dell'hangar, verso l'ufficio sul lato nord. Non era arrivato nemmeno a metà strada quando tutto cominciò. D'un colpo e con un enorme fragore. Come il sipario che cala alla fine di uno spettacolo teatrale, la gigantesca porta di titanio cadde con un rumore di tuono proprio davanti all'ingresso principale dell'hangar, bloccandolo. L'estremità inferiore, munita di protuberanze simili a enormi denti metallici, andò a incastrarsi nei corrispondenti fori quadrati del pavimento. E mentre la lastra di titanio si arrestava con fragore, Schofield decise che non aveva più senso far finta di niente. Cominciò a scattare proprio mentre i due gruppi di soldati del 7° squadrone più vicini all'ufficio nord puntarono i loro P-90.
E l'aria intorno a Schofield si arroventò in un inferno di pallottole. *** Erano passati cinque minuti, e ancora nessuno li aveva raggiunti. Il presidente degli Stati Uniti non era affatto abituato ad aspettare qualcuno. Lui e la sua scorta erano in piedi nella sala riunioni del livello 3 e si guardavano intorno in silenzio. «Frank, vada a vedere che cosa sta succedendo!» ordinò il presidente. In quel momento, il televisore si accese. Il presidente e i suoi si voltarono verso l'apparecchio. «Che diavolo...?» esclamò qualcuno. Sullo schermo apparve la sigla giallo chiaro del sistema di programmazione di emergenza, lo speciale circuito a reti unificate in grado d'interrompere la normale programmazione televisiva in caso di crisi nazionale. Poi la sigla sparì, e al suo posto comparve una faccia. «Ma che diavolo...» Ora era il presidente a esprimere il suo stupore. La faccia sullo schermo era quella di un uomo che tutti credevano morto. Era il volto del generale Charles Samson Russell, nome in codice «Caesar». Su tutti i televisori dell'Area 7 - e, a quanto pareva, su tutti i televisori degli Stati Uniti - il massiccio volto di Charles Russell si mosse leggermente, mentre l'uomo iniziava a parlare. «Signor presidente. Cittadini americani. Benvenuti nell'Area 7. Sono il generale Charles Russell dell'Aeronautica militare degli Stati Uniti. Per troppo tempo sono stato costretto a vedere il nostro Paese divorarsi da sé. Ora basta.» Il tono della sua voce era misurato, la cantilena della Louisiana ben avvertibile. «I nostri rappresentanti federali e statali sono incapaci di governarci. La stampa non è più uno strumento capace di controllarne l'operato. Per chiunque abbia combattuto o sia morto per questo Paese è una situazione disastrosa. E non possiamo più permetterci che le cose si trascinino così!» Nella sala riunioni, il presidente fissava impietrito il televisore. «E così le propongo una sfida, signor presidente, una sfida per lei e per il sistema che incarna. Le è stata impiantata una trasmittente. Le è stata at-
taccata al tessuto esterno del cuore durante la sua operazione al polmone sinistro, quattro anni fa.» Frank Cutler si voltò di scatto a guardare il presidente, con un'espressione di puro terrore. «Ora farò partire il suo segnale», proseguì Caesar. Premette alcuni pulsanti su un piccolo apparecchio rosso che teneva in mano. Dalla parte superiore dell'apparecchio compatto usciva un'antenna corta e nera. Frank Cutler aveva già tirato fuori dalla tasca del suo cappotto un analizzatore di spettro, utilizzato per scoprire lo specchio di ampiezza di un segnale elettrico, e cominciò a passarlo davanti al corpo del presidente. Piedi e gambe... okay. Parte inferiore del tronco... okay. Torace... L'analizzatore di spettro impazzì. «La mia sfida, signor presidente, è molto semplice.» La voce di Russell echeggiava ovunque nella base sotterranea. «Come ben sa, almeno tre hangar di ogni aeroporto degli Stati Uniti sono riservati a bombardieri, caccia e arsenali dell'Aeronautica. Proprio in questo momento, all'interno di quattordici di questi hangar sono state posizionate altrettante testate al plasma di tipo 240. Tra questi aeroporti vi sono il John E Kennedy, il Newark e il La Guardia di New York, il Dulles a Washington, l'O'Hare a Chicago, il LAX a Los Angeles e altri aeroporti a San Francisco, San Diego, Seattle, Boston, Philadelphia e Detroit. Ogni testata al plasma, come lei sa bene, possiede un raggio di distruzione di ventidue chilometri e una forza esplosiva di novanta megaton. Tutte le testate sono armate.» Nella sala riunioni del livello 3 scese il silenzio. «L'unica cosa che eviterà la detonazione delle testate, signor presidente, è il battito del suo cuore», avvertì Charles Russell, abbozzando un freddo sorriso. *** Russell continuò: «Tutte le testate sono collegate a un satellite che si trova in orbita geostazionaria sopra questa base. Quel satellite, signor presidente, emette un segnale a microonde ad alta frequenza che viene ricevu-
to e poi rispedito dalla trasmittente che le abbiamo innestato sul cuore. «La trasmittente, una volta accesa, viene alimentata dall'energia cinetica. Se il suo cuore dovesse smettere di battere, l'apparecchio cesserà di funzionare, e il segnale satellitare non verrà rimandato indietro. E il satellite è stato programmato per inviare in questo caso il comando di detonazione alle bombe posizionate negli aeroporti. «Signor presidente, se il suo cuore dovesse fermarsi, l'America come la conosciamo oggi verrà distrutta. Se invece il suo cuore continuerà a pulsare, l'America continuerà a esistere. «Lei, signore, è il simbolo di una cultura che ha fallito: un uomo alla ricerca del potere per amore del potere, ma, come le persone che rappresenta, lei, vive tranquillo pensando che nessuno le chiederà mai di combattere per quel sistema che le ha dato il potere. «Be', lei ha vissuto troppo a lungo nella bambagia, signor presidente. Ora le chiediamo il conto. Ora le tocca combattere. «Io, d'altro canto, sono un combattente. Ho versato il mio sangue per questo Paese. Quanto sangue ha versato, lei? Quali sacrifici ha fatto? Nessuno. Lei è un vigliacco. «Ma poiché sono un onesto patriota, darò a lei e al sistema che rappresenta un'ultima possibilità di dimostrare quanto valete. Perché la gente di questa nazione ha bisogno di prove. Devono vederla inciampare, cadere, e tradire tutti per salvare la sua pelle. Hanno eletto lei per rappresentarli. Ora lei li rappresenterà sul serio, letteralmente. Se muore lei, loro moriranno insieme con lei. «Questa base è stata ormai completamente isolata. E del resto è stata concepita per resistere alla potenza di un'esplosione nucleare, dunque non vi è via d'uscita. Qui dentro, nell'Area 7, insieme con lei, si trova un distaccamento di cinquanta uomini selezionati, appartenenti alle migliori forze militari di questo Paese, il 7° squadrone per le operazioni speciali. A questi soldati è stato dato ordine di ucciderla, signor presidente. «Per non morire lei e la sua squadra dei servizi segreti dovrete affrontarli e combattere. Chi vince, guiderà il Paese. Chi perde, morirà. Naturalmente gli abitanti degli Stati Uniti devono essere informati sullo sviluppo di questa sfida», concluse Caesar. «Per questo, di ora in ora farò loro un resoconto, utilizzando il sistema di trasmissione di emergenza». Il presidente lanciò un'occhiata rapida alla più vicina telecamera interna. «Questo è ridicolo! È impossibile che lei abbia...» «Jeremiah K. Woolf, signor presidente», scandì Caesar Russell dallo
schermo gigante. Il presidente tacque immediatamente. Nessun altro parlò. «Dal suo silenzio posso desumere che ha esaminato il dossier dell'FBI.» Naturalmente il presidente aveva visto il dossier: gli strani avvenimenti legati alla morte dell'ex senatore avevano reso quella lettura necessaria. Nell'esatto momento in cui Jeremiah Woolf era morto in Alaska, la sua casa a Washington era esplosa. Nessun colpevole, per nessuno dei due incidenti, era mai stato scoperto. Era stata una coincidenza troppo strana per passare inosservata, ma in assenza di qualsiasi prova o spiegazione, alla fine i media avevano dovuto accettare la tesi della fatale coincidenza. Ma il presidente sapeva comunque qualcosa che non era mai stato reso pubblico: il livello elevato di globuli rossi e la bassa pressione arteriosa e alveolare riscontrati dall'autopsia indicavano un prolungato periodo d'iperventilazione prima che Woolf venisse ucciso. Prima di morire, l'ex senatore doveva essere stato sottoposto a un elevato stress psicofisico. In altre parole: quando qualcuno gli aveva sparato, l'ex senatore stava scappando. Stava fuggendo. Ora tutto ciò aveva un senso. Una trasmittente era stata impiantata anche sul cuore di Woolf... ... E poi, in Alaska, qualcuno gli aveva dato la caccia e infine lo aveva ucciso. Poi, quando il suo cuore si era fermato, la sua casa, a Washington, era esplosa. La voce di Caesar Russell lo distolse dai suoi pensieri. «Quando l'ex senatore Woolf si ritirò improvvisamente dal governo, mi ritrovai con una trasmittente diciamo... inutile, e così decisi di trasformarlo in una cavia. Chiamiamola un'utile prova generale di quello che succede oggi.» Il presidente scambiò un'occhiata con Frank Cutler. Caesar non aveva ancora finito. «Ah, già, nel caso in cui stesse pensando di fuggire dall'Area 7...» Sollevò un oggetto perché venisse inquadrato dalle telecamere. Era una ventiquattrore in acciaio inossidabile. La ventiquattrore del maresciallo Carl Webster. Le manette erano ancora agganciate alla maniglia della valigetta, solo che l'altra estremità delle manette non era più agganciata a niente. In compenso era coperta di sangue. Era il Football. Ed era aperto. Il presidente fissò il dispositivo di riconoscimento delle impronte della
mano che faceva parte della valigetta. Era un sistema che identificava l'impronta del presidente in modo che solo lui potesse attivare e disattivare l'arsenale termonucleare degli Stati Uniti. In qualche modo, Russell doveva essere riuscito a ricostruire il suo palmo e a inserire i codici d'innesco. Ma come aveva fatto a procurarsi una copia dell'impronta? «Oltre alla trasmittente impiantata sul suo cuore, signor presidente», disse Russell, «tutte le apparecchiature negli aeroporti sono state collegate a un timer regolato su novanta minuti. Lo può vedere qui, sullo schermo del Football. Soltanto applicando la sua mano sull'analizzatore, una volta ogni novanta minuti, farà ripartire il timer impedendo così che le testate al plasma esplodano. Dunque non le conviene pensare di svignarsela. Il Football, per sua informazione, resterà quassù nell'hangar principale. «È un grande giorno per la nazione, signor presidente, il giorno in cui si presenta il conto. Con l'alba di domani, il glorioso Quattro luglio, vedremo se ci saremo svegliati in una nazione nuova, un'America rinata. Buona fortuna, signor presidente, e che Dio abbia pietà della sua anima.» Proprio in quel momento, come su ordine di un invisibile regista, la porta principale della sala riunioni si spalancò e i soldati del 7° squadrone, guidati dal maggiore Kurt Logan, fecero irruzione nella stanza, sparando all'impazzata coi mitra P-90. La sfida era iniziata. SECONDO CONFRONTO 3 LUGLIO, ORE 07.00
L'hangar principale era diventato un campo di battaglia. Le pallottole scheggiavano il pavimento intorno ai piedi di Shane Schofield mentre correva verso la porta dell'ufficio a vetrate sul lato nord. «Marine, disperdersi!» gridò. In quel momento, la finestra dell'ufficio andò in frantumi. Schofield si buttò a terra, tra un turbinio di pallottole sibilanti, poi strisciò di lato, guadagnando la copertura dei due elicotteri presidenziali e dei mezzi coi quali erano stati trainati nell'hangar. Si guardò alle spalle, giusto in tempo per vedere due marine in alta uniforme gettarsi fuori dalla finestra dell'ufficio. Un attimo dopo, il piccolo edificio, centrato da un missile Predator, esplose in una palla di fuoco. Schegge di vetro volavano dappertutto. Schofield si era infilato sotto il Marine One, trovandosi in compagnia di Libby Gant e Brainiac. I colpi d'arma da fuoco fischiavano tutt'intorno a loro. Poi, con un effetto sinistro, il sistema di altoparlanti dell'hangar si accese, e una voce tonante augurò: «... Buona fortuna, signor presidente, e che Dio abbia pietà della sua anima». «Cazzo!» urlò Brainiac. «Per di qua!» ordinò Schofield, avanzando carponi sotto il grande elicottero. Aveva visto un'ampia griglia nel pavimento. Riuscì a sollevarla senza
problemi. Un pozzo d'aerazione dalle pareti di acciaio portava dritto giù nel buio. «Dai, andiamo!» Schofield doveva gridare per farsi sentire sopra il rumore assordante degli spari. Con un botto secco, un pannello di metallo della fusoliera del Marine One si ribaltò verso il pavimento, quasi decapitando Schofield. La testa e le spalle di un soldato apparvero dal varco aperto nell'elicottero e, in meno di un secondo, Schofield si ritrovò un M-16 puntato contro la fronte. «Cazzo! Sei tu!» Mother scivolò fuori attraverso l'uscita di sicurezza dell'elicottero, finendo accanto a loro sul pavimento. «Tanti auguri», disse, passando un mitra MP-10 a Gant. «Mi dispiace, Scarecrow, non ho niente per te. È tutto quello che ho trovato nel ripostiglio a bordo. Ci sono altre armi in un armadietto, ma le chiavi le tiene Gunman.» «Non preoccuparti», rispose Schofield. «La prima cosa da fare è uscire da qui e raggrupparci. Poi bisogna pensare a come fare fuori questi bastardi. Venite con me!» «Hai visto qualcosa di quella stronzata che hanno trasmesso in televisione?» domandò Mother, mentre si avvicinava allo sfiatatoio. Gant e Brainiac s'introdussero per primi nel pozzo, sostenendosi con le mani e puntando i piedi contro le pareti per non cadere. «No», rispose Schofield. «Ero troppo occupato a scansare le pallottole. Non ne ho avuto il tempo.» «Allora ho un sacco di cose da raccontarti», disse Mother, mentre sparivano nel condotto d'aerazione l'uno accanto all'altra. Il presidente degli Stati Uniti si muoveva più veloce di quanto non avesse mai fatto in vita sua. I suoi piedi quasi non toccavano il pavimento. Non appena la porta si era spalancata e il commando del 7° squadrone aveva fatto irruzione nella sala, i nove uomini della scorta del presidente erano entrati in azione. Quattro di loro avevano subito assunto una posizione difensiva. Si erano lanciati tra lui e gli aggressori, sbottonando le giacche sotto le quali tenevano pronte le mitragliette modello UZI. Le UZI ronzavano, sputando una feroce ondata di seicento pallottole al minuto contro il nemico che avanzava. Gli altri cinque elementi della scorta afferrarono brutalmente il presidente e lo trascinarono verso la più vicina uscita di sicurezza, riparandolo dalle pallottole coi loro stessi corpi nella folle corsa fuori dalla sala.
I soldati del 7° squadrone avevano raggiunto posizioni strategiche dietro divani, armadi e poltrone. Quando le porte dell'uscita di sicurezza si chiusero alle spalle del presidente, stavano massacrando l'ultimo dei quattro uomini del servizio di sicurezza. Il ronzio delle UZI era ormai cessato. Nella sala rimaneva soltanto il sordo rumore dei fucili d'assalto P-90. Le UZI potevano anche sparare seicento colpi al minuto, ma i P-90, costruiti nelle fabbriche FN di Herstal, in Belgio, in quei sessanta secondi rispondevano con novecento colpi. E con la loro impugnatura arrotondata, a protezione delle mani, e gli incredibili caricatori da cento colpi montati sulla canna, sembravano le armi di un film di fantascienza. «Giù per le scale! Veloci!» gridò Frank Cutler. Alle loro spalle udirono il rumore sordo di pallottole sparate contro la porta antincendio. «Verso l'altra uscita!» Il presidente e i membri della scorta si precipitarono giù per le scale, quattro gradini per volta, tenendosi alla ringhiera per svoltare più velocemente sui pianerottoli. Tutti stringevano in pugno un'arma: UZI, SIGSauer, quello che avevano. Doveva bastare. Il presidente non poteva fare altro che correre con loro, marcato stretto dalle sue guardie del corpo. «Squadra avanzata uno! Rispondete!» Cutler urlava nella sua trasmittente da polso, sempre correndo a rotta di collo. Nessuna risposta. «Squadra avanzata uno! Rispondete! Stiamo arrivando all'uscita 1 e dobbiamo sapere se è aperta!» Nessuna risposta. Sopra, nell'hangar principale, Book II era in mezzo a un inferno. Le pallottole rimbalzavano sul pavimento intorno a lui. Dall'alto piovevano frammenti di vetro. Lui ed Elvis si erano rifugiati dietro l'angolo esterno dell'ufficio, buttandosi a capofitto dalla finestra in frantami un attimo prima che il locale venisse distrutto dal missile Predator. Erano accovacciati nella strettoia tra il muro dell'ufficio e le porte blindate dell'hangar. I soldati delle tre unità del 7° squadrone erano ovunque e si muovevano con precisione e velocità, correndo verso gli elicotteri, saltando sopra i corpi dei marine morti, sempre coi fucili premuti contro la spalla e pronti a sparare contro qualsiasi cosa si muovesse. Dall'altra parte dell'hangar, Book vide il personale della Casa Bianca ri-
versarsi fuori dall'ufficio sul lato sud, una decina di uomini in tutto. Stavano urlando per il terrore, guardandosi intorno senza capire. Furono una facile preda per l'unità del 7° squadrone posizionata sul lato est dell'hangar. Le donne e gli uomini della Casa Bianca furono falciati in un attimo, investiti dall'ondata di fuoco nemico. I loro corpi si contorcevano e sussultavano, cadendo sul pavimento. Era una brutale carneficina. Improvvisamente Book II sentì un grido, alzò lo sguardo e vide Gunman Grier uscire di corsa dall'ufficio a nord, urlando di rabbia, con la Beretta alzata che sputava pallottole. Non fece in tempo ad avanzare di tre passi che il suo petto letteralmente esplose in potenti getti rossi. Due soldati del 7° squadrone lo avevano centrato contemporaneamente. La raffica violenta crivellò il corpo di Grier con una forza tale da tenerlo in piedi quando era già morto, poi lo spinse all'indietro e lo scaraventò contro il muro. Infine scivolò sul pavimento in una massa informe. «È un casino!» Elvis doveva gridare per farsi sentire tra il boato delle esplosioni e il fragore dei colpi di fucile. «Non c'è via d'uscita!» «Di là!» Book II indicò l'ascensore sul lato nord dell'hangar. «Mi sembra l'unica possibilità!» «Ma come arriviamo?» «Guidando!» gridò Book II, puntando col pollice una delle grosse macchine da traino ancora attaccate alla parte posteriore del Nighthawk Two, a circa dieci metri da loro. I quattro operatori radio all'interno della sala di controllo parlarono velocemente nelle cuffie. «... Unità Bravo, eliminate tutti gli avversari dentro l'ufficio nord...» «... L'unità Alpha sta inseguendo la squadra del presidente giù per le scale antincendio a est...» «... Unità Charlie, disimpegno dall'hangar principale. Ho visto quattro marine infilarsi nel tunnel d'aerazione principale...» «... Unità Delta, mantenete la posizione...» «Che vuol dire che hanno messo una trasmittente nel suo cuore?» chiese Schofield, mentre scendevano per il condotto di aerazione. Tenevano le gambe divaricate per spingere coi piedi contro le pareti di acciaio del tunnel e non cadere. Gant e Brainiac erano più in basso; scendevano il più velocemente pos-
sibile. Sotto di loro, il tunnel sembrava continuare all'infinito. «Se si ferma il suo cuore, esplodono le bombe che hanno messo negli aeroporti principali delle città più importanti», disse Mother. «Oh, Gesù!» esclamò Schofield. «E deve pure raggiungere il Football ogni novanta minuti per far ripartire un timer. Se non lo fa... boom!» «Ogni novanta minuti?» Schofield premette un pulsante sul suo vecchio orologio digitale per visualizzare la funzione cronometro. Per sicurezza, lasciò qualche minuto di margine, partendo da ottantacinque. Poi, d'un tratto, udì un rumore che proveniva dall'alto. Alzò la testa. Dappertutto sfrecciavano pallottole, che scheggiavano le pareti di metallo rimbalzando e ronzando come vespe arrabbiate. Sopra di loro, all'ingresso del tunnel, Schofield vide un P-90 puntato su di loro. Sparava all'impazzata. «Scarecrow, dai!» Era Gant, qualche metro sotto. Si era già infilata in un piccolo tunnel orizzontale che partiva dal pozzo di ventilazione. «Veloci!» «Forza, Mother! Vai!» gridò Schofield. Lui e Mother mollarono la presa contro le pareti del pozzo e si lasciarono scivolare nel buio. Caddero lungo il tunnel verticale, mentre intorno a loro sibilavano i proiettili e, all'altezza della conduttura orizzontale, frenarono la caduta premendo con tutta la forza i tacchi contro la parete. Mother riuscì a fermarsi proprio in corrispondenza del passaggio. Schofield, che stava scendendo al suo fianco, non riuscì a fermarsi in tempo, ma in qualche modo si aggrappò al bordo del tunnel orizzontale. Se l'avesse mancato, sarebbe precipitato per centinaia di metri. Mother entrò nel tunnel per prima, si girò e diede una mano a Schofield. In quel preciso istante, videro cadere una corda alle spalle di Schofield. Il 7° squadrone stava arrivando. Gant era già andata avanti, seguita a poca distanza da Brainiac. Il tunnel aveva le pareti rivestite di metallo e un diametro di circa un metro e mezzo. Dovevano correre con la testa e le spalle abbassate. Dopo una leggera curva, Gant vide in lontananza una luce e stava per accelerare il passo; ma poi intuì che qualcosa non andava. Cercò disperatamente di fermarsi, allargando le braccia per aggrapparsi alle pareti. Si fermò così all'improvviso che per poco Brainiac, arrivando da dietro, non le finì addosso. Sarebbe stata la loro fine: davanti a loro c'era il vuoto. «Cazzo!» sussurrò Brainiac.
«Perché vi siete fermati?» Mother e Schofield li avevano raggiunti e ora si trovavano dietro di loro. Il tunnel finiva dritto nella tromba dell'enorme montacarichi. «Merda!» esclamò Mother. Davanti a loro si apriva una gigantesca voragine, un buco profondo sessanta metri e largo altrettanto, con le pareti di nudo cemento armato. Proprio di fronte a loro, in mezzo alla parete di cemento, videro un'enorme porta d'acciaio col numero 1 scritto in nero. Sembrava l'ingresso di un hangar. Sotto di loro, quasi settanta metri più in basso, la piattaforma idraulica del montacarichi era ferma al livello 4. «È in momenti come questi che vorrei avere un Maghook», disse Schofield. Il Maghook era una fune dotata di un gancio e di un potentissimo magnete. Era un dispositivo in dotazione alle unità di ricognizione della Marina. «Ce n'è un paio di sopra, nel Nighthawk Two», disse Mother. «Non ci servirebbe», disse Gant. «Il Maghook è lungo al massimo cinquanta metri. Non abbastanza. Qui ci servirebbero almeno settanta metri.» «Meglio farci venire in mente qualcosa!» Brainiac si stava guardando alle spalle. Alla fine del tunnel orizzontale si sentiva il rumore degli uomini del 7° squadrone che si calavano nella conduttura principale. Schofield osservò le pareti dell'enorme tromba del montacarichi. Erano coperte di sporcizia e di grasso di macchina, ma c'era anche qualcos'altro. Lungo le pareti correva infatti una serie di sottili condotti rettangolari, piccole canaline orizzontali inserite nel cemento a intervalli regolari. Erano profondi una decina di centimetri e facevano il giro tutt'intorno alla tromba del montacarichi. Probabilmente erano stati previsti per far scorrere nelle pareti fili e flessibili senza ostacolare il movimento del montacarichi. In quel momento, però, non offrivano nessuna possibilità di fuga. Schofield si voltò. Aveva sentito il rumore di pesanti stivali sul metallo del tunnel. Gli inseguitori erano entrati nella conduttura. Gli uomini del 7° squadrone si muovevano rapidi lungo il tunnel, correndo piegati in avanti, coi fucili in mano. Erano in quattro, e indossavano la tenuta da combattimento: elmetti, maschere antigas, giubbotti antiproiettile. Non sapendo con sicurezza quale
delle varie condutture orizzontali avesse imboccato il gruppo di Schofield, gli altri uomini dello squadrone erano rimasti nel tunnel verticale e stavano scendendo per controllare le altre condutture. I due uomini in testa si erano appena lasciati alle spalle la curva del tunnel, quando si fermarono bruscamente. Avevano raggiunto la fine della conduttura orizzontale, il punto in cui essa finiva dritta dentro la tromba del montacarichi. Ma lì non c'era nessuno. *** Ogni volta che il presidente degli Stati Uniti visita un luogo, i servizi segreti stabiliscono con largo anticipo almeno tre vie d'uscita alternative da utilizzare in caso di emergenza. Nei grandi alberghi si tratta quasi sempre di un'entrata posteriore, di un'entrata di servizio, per esempio attraverso la cucina, e di una via d'uscita sul tetto, nel caso sia necessario allontanare il presidente con un elicottero. Per l'Area 7, i servizi segreti avevano mandato due squadre avanzate per esaminare le varie uscite di sicurezza e tenerle sotto controllo. L'uscita di sicurezza 1 era nel livello più basso dell'Area 7, il livello 6. Si trattava dello stesso tunnel dell'uscita di emergenza, lungo oltre settecento metri, che saliva in superficie nel deserto a una distanza di ottocento metri dalla bassa montagna che copriva l'Area 7. La prima squadra avanzata dei servizi segreti era al livello 6; la seconda squadra avanzata, invece, controllava lo sbocco esterno del tunnel. Il presidente e i cinque uomini della scorta stavano correndo giù per le scale antincendio, investiti dalle pallottole che sfrecciavano da tutte le parti sibilando, nella tromba delle scale. La prima unità del 7° squadrone, l'unità Alpha, guidata dal maggiore Kurt Logan, stava per raggiungerli. Arrivarono a una porta antincendio con la scritta LIVELLO 4, LABORATORI, ma continuarono a scendere di corsa. Ancora scale, un altro pianerottolo, un'altra porta. Su questa vi era una scritta più grossa: LIVELLO 5: AREA SPERIMENTAZIONE ANIMALI VIETATO L'ACCESSO USARE LA PORTA SOLO IN CASO DI EMERGENZA INGRESSO ATTRAVERSO GLI ASCENSORI
Passarono oltre. Arrivarono in fondo alle scale. C'era una porta con la scritta: LIVELLO 6: STAZIONE X-RAIL. Frank Cutler fu il primo a raggiungerla. Corse alla porta e la spalancò... Venne immediatamente investito da una violenta raffica di fucili automatici. La faccia e il petto di Cutler divennero una massa informe di sangue. Il capo della squadra fu scaraventato sul pianerottolo, e contemporaneamente crollò a terra anche l'uomo dietro di lui. Un altro agente, una giovane donna di nome Juliet Janson, si tuffò in avanti e chiuse la porta, ma prima gettò un'occhiata a quello che stava oltre la porta. Quello che vide era tremendo. Il livello più in basso nell'Area 7 era il 6. L'ampio spazio assomigliava molto a una stazione della metropolitana: c'era una piattaforma di media altezza, tra due file di binari a scartamento molto largo. Nella parete di cemento armato accanto ai binari del lato destro c'era la porta dell'uscita di emergenza, la loro meta. Sparsa sui binari del treno, proprio davanti a quella porta, e, peggio ancora, ben riparata dall'alta piattaforma della stazione, c'era un'intera unità di soldati del 7° squadrone, i fucili P-90 puntati contro la porta antincendio. A metà strada, Juliet Janson aveva scorto e riconosciuto i nove uomini della squadra avanzata 1, che giacevano a terra coi corpi crivellati dai proiettili. La porta antincendio si chiuse con un rumore sordo. L'agente speciale Juliet Janson saltò in piedi, gridando: «Forza! Su per le scale! Subito!» «... A tutte le unità: attenzione, l'unità Delta ha intercettato il nemico...» disse uno degli uomini nella sala di controllo. «Ripeto, l'unità Delta ha intercettato il nemico...» Shane Schofield tentò di non fare rumore. Cessò persino di respirare. Bastava che guardassero in giù. Si teneva con la punta delle dita a una delle canaline, scavata orizzontalmente nella parete della tromba del montacarichi, appena un metro sotto la conduttura all'interno della quale, chinati un po' in avanti per non battere la testa, stavano ora quattro uomini del 7° squadrone.
Accanto a Schofield, anche Mother, Gant e Brainiac stavano appesi alla piccola rientranza nella parete di cemento armato. Sopra, uno degli uomini del 7° squadrone stava parlando nel microfono del suo casco. «Charlie Sei, qui è Charlie Uno, non sono nella conduttura del livello 1. Torniamo indietro, passo.» Passi pesanti, poi più niente. Schofield tirò un gran respiro. «Dove andiamo ora?» chiese Brainiac. «Là», disse Schofield, facendo un cenno in direzione della gigantesca porta dell'hangar, proprio dall'altra parte della tromba del montacarichi. «Pronto?» Book II stava guardando Elvis. «Pronto!» gridò Elvis. Book II lanciò un ultimo sguardo al grande veicolo Volvo da traino attaccato alla coda del Nighthawk Two, a una decina di metri da loro. Con le sue ruote sovradimensionate, la carrozzeria ribassata e il piccolo abitacolo a due posti, aveva l'aspetto di uno scarafaggio. Non a caso, gli operatori degli aeroporti lo chiamavano proprio cosi. In quel momento, lo «scarafaggio» era parcheggiato verso l'esterno, in direzione delle porte in titanio che solo pochi minuti prima erano scese a chiudere l'hangar. Book II teneva una Beretta per mano. Una era la sua, l'altra l'aveva presa a un marine morto. Gridò a Elvis: «Tu prendi il volante! Io entro dall'altra parte!» «Va bene!» «Ora!» I due saltarono in piedi e uscirono di corsa allo scoperto, muovendo le gambe all'unisono. Quasi istantaneamente iniziarono a sparare loro dietro. Elvis balzò sul sedile dell'autista e chiuse freneticamente la portiera. Book II stava correndo dal lato del passeggero, ma le raffiche erano così violente che cambiò idea. Si buttò sul tetto piatto dello «scarafaggio» e urlò: «Vai!» Elvis spinse il pulsante di accensione. Il potente motore Volvo a 600 cavalli si accese ruggendo. Elvis ingranò la prima e schiacciò a fondo l'acceleratore. Il veicolo da traino si mosse facendo fischiare le gomme e puntando drit-
to verso la porta in titanio che bloccava l'hangar, tirandosi dietro il Nighthawk Two, l'enorme elicottero da trasporto CH-53E Super Stallion. Le due unità del 7° squadrone rimaste nell'hangar, venti uomini in tutto, corsero dietro allo «scarafaggio», sparando. Un'ondata di pallottole investì le fiancate del veicolo. Elvis sterzò con tutte le sue forze, e il veicolo fece un semicerchio. Ora puntava dritto verso l'ufficio sul lato sud. Sul tetto, Book II si alzò su un ginocchio e sparò contro i soldati del 7° squadrone che si stavano avvicinando. Non ebbe molto successo: gli aggressori erano semplicemente troppi. Era come attaccare una batteria di missili Patriot con una fionda. Così Book II tornò a rifugiarsi dietro l'abitacolo dello «scarafaggio», mentre le pallottole gli fischiavano sopra la testa. «Merda!» gridò Elvis dalla cabina di guida. Book II alzò lo sguardo. Un soldato del 7° squadrone era in piedi davanti a loro, accanto alla tromba del montacarichi centrale. Teneva sulla spalla sinistra un lanciarazzi anticarro modello Predator. Il soldato premette il grilletto. Ci fu una nuvola di fumo, e subito dopo un piccolo oggetto cilindrico uscì dalla canna del lanciarazzi, lasciandosi dietro una densa scia e dirigendosi verso di loro a velocità incredibile. Elvis fece l'unica cosa che gli venne in mente in quel momento. Sterzò violentemente a sinistra. Il massiccio veicolo da traino s'inclinò sulle due ruote laterali e per un attimo sembrò finire dritto nell'enorme apertura del montacarichi. Ma lo «scarafaggio» continuò a girare e girare, con le ruote che fischiavano. Poi, quasi inaspettatamente, ritornò a puntare verso nord, seguendo lo stretto passaggio tra il Marine One e l'apertura nel pavimento. Il Nighthawk Two non fu così fortunato. L'elicottero stava oscillando, trainato, coda in avanti, dallo «scarafaggio» in fuga, e l'inaspettato cambio di direzione di Elvis lo portò direttamente nella traiettoria del missile. Il Predator lo colpì, attraversando il vetro rinforzato della cabina di pilotaggio. Lo spettacolo fu impressionante. Tutta la sezione frontale del Super Stallion CH-53E esplose in una palla di fuoco, investendo l'area dietro l'elicottero con schegge di vetro e fram-
menti di metallo contorto. Al posto del vetro della cabina di pilotaggio, non rimaneva altro che una voragine incorniciata dal metallo squassato dall'esplosione. La detonazione aveva distrutto anche la ruota d'atterraggio sotto il muso dell'elicottero. La parte anteriore del velivolo o, meglio, quello che ne era rimasto, strisciava sul pavimento, sprigionando una cascata di scintille. «Elvis!» gridò Book II. «All'ascensore! Quello del personale!» I soldati del 7° squadrone si gettarono a terra mentre lo «scarafaggio», lanciato alla massima velocità, puntava dritto su di loro, trascinandosi dietro l'elicottero che sbandava in tutte le direzioni. Elvis vide le porte dell'ascensore alla sua destra e sterzò con violenza. Lo «scarafaggio» rispose al comando, svoltando verso destra, tagliando la curva e passando sull'angolo della tromba del montacarichi; per un attimo, Book II, aggrappato con tutte le sue forze al tetto del veicolo, si trovò con le gambe sospese nel vuoto. Tre secondi dopo lo «scarafaggio», e insieme a lui l'elicottero ormai distrutto, si fermò con le ruote bloccate proprio davanti alle porte dell'ascensore sul lato nord dell'hangar. Book II saltò giù dal tetto e spinse il bottone dell'ascensore. Elvis lo raggiunse mentre due uomini armati saltavano fuori da dietro il veicolo. Book II girò su se stesso, le pistole coi grilletti praticamente già premuti. «Un attimo!» disse uno degli uomini armati, alzando la canna della pistola. «Calma, sergente», aggiunse l'altro. «Siamo con voi!» Book II abbassò le pistole. Erano marine. Uno era Ashley Lewicky, un sergente dall'aspetto orrendo, con le sopracciglia che si toccavano sopra un naso adunco e un sorriso enorme. Di statura bassa e corporatura massiccia, il suo nome in codice era, ironicamente, «Love Machine». Essendo quasi della stessa età e dello stesso grado, lui ed Elvis si conoscevano da anni. Il secondo marine non poteva essere più diverso da Love Machine. Alto e di bell'aspetto, senza apparire effeminato, era un capitano ventinovenne di nome Tom Reeves. Essendo un ufficiale giovane e promettente, era stato promosso a capitano prima di molti tenenti con maggiore esperienza. Nonostante le sue capacità, gli uomini lo chiamavano «Calvin», in riferimento alla sua somiglianza con uno dei modelli di biancheria intima maschile di Calvin Klein.
«Cazzo, Elvis!» disse Love Machine. «Dove hai imparato a guidare?» «Voi due da dove diavolo arrivate?» chiese Elvis. «Tu che ne dici, idiota? Eravamo dentro il Nighthawk Two. Quando è incominciato questo inferno, ci siamo ritirati lì. E stavamo anche abbastanza bene, là dentro, finché voi non ci avete fatto centrare in pieno da un missile...» Una raffica improvvisa di pallottole colpì il muro sopra le loro teste. Gli uomini dell'unità Bravo del 7° squadrone si stavano avvicinando. «Spero che lei abbia un piano, visto che ci ha portati da questa parte, sergente», disse Calvin rivolto a Book II. Proprio nello stesso istante si udì il suono di un campanello e le porte metalliche dell'ascensore si aprirono. Per fortuna era vuoto. «L'idea è questa, signore», disse Book II. «Ottima idea!» esclamò Calvin, mentre saltavano nella cabina. Book II, il più vicino alla pulsantiera, schiacciò il tasto che chiudeva le porte dell'ascensore. Mentre si chiudevano, un proiettile entrò sibilando nell'ascensore, colpendone il fondo. «Cazzo! Sbrighiamoci!» gridò Elvis. Le porte scivolavano una verso l'altra con lentezza esasperante. Pesanti stivali calpestavano il tetto dello «scarafaggio» davanti all'ascensore. Un fucile automatico venne ricaricato. E nel momento stesso in cui le porte finalmente si chiusero, una tempesta di pallottole le colpì dall'esterno, facendo spuntare una miriade di piccole protuberanze nel metallo. *** Gli ci era voluto un bel po' di tempo. Muovendosi passo dopo passo, appesi per le dita alla stretta canalina nella tromba del montacarichi, erano finalmente arrivati all'enorme porta dell'hangar, proprio di fronte al tunnel. Tenendosi con una mano, Schofield riuscì a schiacciare un tasto inserito in una pulsantiera accanto alla porta dell'hangar. Immediatamente, la porta d'acciaio cominciò a scorrere verso l'alto. Schofield fu il primo ad arrampicarsi fuori della tromba del montacarichi. Controllò che non ci fossero soldati nemici, poi aiutò gli altri a salire. Quando furono tutti in piedi ebbero un attimo di tempo per dare un'occhiata all'area davanti a loro.
«Porca miseria!» Mother non ci poteva credere. Un hangar sotterraneo si estendeva a perdita d'occhio davanti a loro. Nella sala di controllo del livello terra, una serie di monitor in bianco e nero occupava tutta una parete. Sugli schermi scorrevano immagini riprese da varie angolazioni in tutte le zone dell'Area 7. Juliet Janson e il presidente correvano su per le scale. Book II, Calvin, Elvis e Love Machine, all'interno dell'ascensore, avevano appena fatto saltare la botola superiore della cabina e si stavano arrampicando verso l'alto. Schofield e gli altri erano appena apparsi all'ingresso dell'hangar sotterraneo. «... Okay, unità Charlie, li ho trovati. Livello 1, ingresso dell'hangar. Quattro marine, due uomini e due donne. Sono tutti vostri...» «... Unità Bravo, i vostri sono appena usciti dall'ascensore del personale attraverso la botola di manutenzione. Ora sono nella tromba. Sto sigillando tutte le porte della tromba dell'ascensore tranne la vostra. Okay, ora sono chiusi dentro. Fateli fuori...» «... Signore, l'unità Echo ha ripulito quello che rimaneva nell'hangar principale. Attendono nuovi ordini...» «Mandali in aiuto all'unità Charlie», disse Caesar Russell. Stava guardando il monitor sul quale era inquadrato Shane Schofield. «... Echo, qui sala di controllo, procedete verso l'hangar del livello 1 e raggiungete l'unità Charlie...» «... Unità Alpha, la squadra col presidente sta salendo le scale. Vi vengono dritti in braccio. Unità Delta, la porta antincendio del livello 6 è libera. Potete entrare nel vano delle scale e ingaggiare col nemico...» Era gigantesco. Un enorme hangar sotterraneo, all'incirca della stessa misura, se non più grande di quello al piano superiore, a livello terra. C'erano alcuni aerei. Un Boeing 707 AWACS dotato del caratteristico sistema di radar rotodome sul dorso della carlinga. Due bombardieri B2 Stealth dall'aspetto sinistro, col loro speciale strato di vernice nera che assorbe i segnali radar, il design avveniristico delle ali e i vetri della cabina di pilotaggio inarcati. E, di fronte ai due bombardieri Stealth, un Lockheed SR-71 Blackbird, l'aereo più veloce del mondo, con la carlinga allungata e le doppie turbine nella
sezione posteriore. Gli aerei che dominavano l'immenso hangar facevano sembrare Schofield e la sua squadra dei nani. «E ora che si fa?» chiese Mother. Schofield rimase in silenzio qualche istante. Stava fissando l'AWACS, pensieroso. Era parcheggiato come in attesa, il muso puntato verso la vasta tromba del montacarichi. Poi disse: «Scopriamo se quello che hanno detto sul cuore del presidente è vero». Le scale antincendio erano tutte un ronzio di pallottole. La scorta del presidente, ormai ridotta a tre uomini, guidava il suo protetto su per le scale. Erano armati con UZI, SIG-Sauer e una varietà di pistole estratte dalle fondine fissate alle caviglie. Un giovane agente di nome Julio Ramondo era alla testa del gruppo. Inondava di pallottole le scale sopra di loro con la sua UZI, correndo veloce nonostante una ferita alla spalla. L'agente speciale Juliet Janson, che aveva assunto il comando del gruppo, veniva subito dopo di lui. Proteggeva il presidente, che la seguiva a breve distanza. Il terzo e ultimo agente del gruppo. Copriva le spalle al presidente, sparando giù per le scale mentre salivano di corsa. A ventotto anni, Juliet Janson era la più giovane della scorta presidenziale, ma tutto questo ora non aveva più importanza. Laureata in Criminologia e Psicologia, correva i cento metri in 13,8 secondi ed era bravissima nell'uso delle armi da fuoco. Figlia di un imprenditore americano e di una thailandese che lavorava come lettrice all'università, Juliet era un esempio perfetto di eurasiatica: carnagione leggermente olivastra, pelle liscia, mento marcato, bellissimi occhi scuri a mandorla e capelli corvini, lunghi fino alle spalle. «Ramondo! Riesci a vederla?» gridò per farsi sentire sopra il rumore degli spari. Dopo il terribile tentativo di arrivare al livello 6 e la morte di Frank Cutler, il presidente e gli uomini della scorta erano finiti tra due unità del 7° squadrone. L'unità che li aveva aspettati al livello 6 li stava ora seguendo su per le scale, mentre quella che li aveva spinti a fuggire dalla sala riunioni del livello 3 si avvicinava dall'alto.
Correvano per salvarsi la pelle. Dovevano raggiungere uno dei livelli tra il 3 e il 6 prima di finire nel fuoco incrociato. «Sì, la vedo!» gridò Ramondo. «Forza!» Juliet Janson raggiunse il pianerottolo e corse vicino a Ramondo. Il presidente veniva subito dietro di lei. Sopra di loro potevano sentire i passi veloci dei soldati che scendevano le scale di corsa, mentre le pallottole squarciavano le pareti tutt'intorno a loro. Sulla porta c'era una scritta: LIVELLO 5: AREA SPERIMENTAZIONE ANIMALI VIETATO L'ACCESSO USARE LA PORTA SOLO IN CASO DI EMERGENZA INGRESSO ATTRAVERSO GLI ASCENSORI «Direi che questa può essere considerata un'emergenza», disse, facendo a pezzi il lucchetto della porta con tre rapidi colpi della sua SIG-Sauer. Spalancò la porta con un calcio ed entrò di corsa, tirandosi dietro il presidente. Book II stava guardando verso l'alto. Circa quindici metri più in alto, nella tromba dell'ascensore del personale, intravide le porte che davano sull'hangar a livello terra. Era in piedi sul tetto dell'ascensore - fermo a metà della tromba - con Calvin; Elvis e Love Machine. Poche luci fluorescenti, collocate a grande distanza l'una dall'altra, illuminavano la tromba di nudo cemento. «Perché dovevamo a tutti i costi uscire dall'ascensore?» chiese Elvis. «Telecamere», spiegò Book II «Meglio toglierci dal loro controllo.» «Ci stavano seguendo passo passo grazie alle telecamere interne», spiegò Calvin. «Signori, in qualità di ufficiale ci illumini, d'ora in poi assumerò io il comando.» «Allora ci illumini col suo piano di fuga», disse Love Machine. «Ora che si fa?» «Continuiamo a muoverci...» iniziò Calvin, ma fu tutto quello che riuscì a dire, poiché la porta della tromba dell'ascensore sopra le loro teste venne spalancata, e subito apparvero tre canne di fucili P-90, sputando accecanti vampate gialle. Una miriade di pallottole rimbalzò intorno a loro. Book II si abbassò d'istinto, girandosi, e vide una serie di cavi verticali
che sparivano dietro il fianco dell'ascensore. «I cavi!» gridò, aggrappandosi a essi. «Tutti giù! Ora!» Shane Schofield entrò di corsa nella cabina anteriore del Boeing AWACS parcheggiato nell'hangar al livello 1. «Brainiac!» «Tranquillo!» Brainiac spari di corsa nella cabina centrale dell'aereo. «Chiudi il portello!» ordinò Schofield a Mother, l'ultima a entrare. L'interno dell'AWACS era simile a quello di un qualsiasi aereo commerciale, solo che, per l'utilizzo militare, tutti i sedili erano stati tolti allo scopo di lasciare spazio ad ampie console di monitoraggio. Brainiac era già al lavoro. Luci e monitor si stavano accendendo mentre Schofield si lasciava cadere sul sedile accanto a lui. Mother e Gant, invece, corsero ai due portelli laterali e guardarono fuori. Brainiac cominciò a battere sui tasti della console. «Mother ha detto che si tratta di un segnale a microonde», disse Schofield. «Il satellite lo manda giù e poi il chip sul cuore del presidente lo rimanda al satellite.» Brainiac continuava a battere sui tasti. «Potrebbe essere. Solo un segnale a microonde può attraversare la radiosfera creata al di sopra di questa base, ma lo può fare soltanto se usa la frequenza della porta di sicurezza.» «La frequenza della porta di sicurezza?» Brainiac continuava a lavorare alla console. «La radiosfera sopra la base è come un ombrellone, uno sbarramento gigantesco fatto di energia elettromagnetica. Quello che fa l'ombrellone è bloccare tutti i segnali non autorizzati che tentano di entrare o di uscire dalla base. Ma, come in tutti i sistemi di interferenza, esiste una certa frequenza sulla quale le trasmissioni autorizzate possono viaggiare indisturbate. Questa frequenza si chiama 'porta di sicurezza', una larghezza di banda a microonde che riesce ad attraversare lo sbarramento della radiosfera senza essere deformata. Una specie di passaggio segreto in mezzo a un campo minato.» «E così il segnale del satellite entra dalla porta di sicurezza?» chiese Schofield. «È quello che credo», rispose Brainiac. «In questo momento sto utilizzando il rotodome, il sistema di radar dell'AWACS, per ricercare tutte le frequenze di microonde all'interno della base. Questi velivoli possiedono il miglior sistema del mondo per rilevare l'ampiezza delle onde, e dunque dovremmo fare abbastanza in fretta a... Bingo! L'ho beccato!»
Premette il tasto d'invio, e s'illuminò un altro schermo. «Ecco, lo vedi?» Brainiac puntò il dito contro lo schermo. «È una classica segnatura di rebounding. Il satellite manda un segnale di ricerca - le punte acute dalla parte positiva, all'incirca su 10 gigahertz - e poi, poco dopo, la trasmittente sulla terra, a quanto pare il presidente, fa rimbalzare indietro il segnale. Queste sono le punte acute in basso, sul lato negativo.»
Brainiac aveva preso la stampata del diagramma. Disegnò alcuni cerchietti intorno alle punte del segnale. «Cerca e rimanda», disse. «A parte le interferenze, il rebounding sembra ripetersi una volta ogni venticinque secondi. Capitano, quel maledetto generale non racconta frottole. C'è qualcosa qui nella base che risponde a un preciso segnale satellitare.» «Come facciamo a sapere che non si tratta di un radiofaro o qualcosa di simile?» chiese Schofield. «Questo è troppo irregolare.» Brainiac indicò il diagramma. «Non ripete la sequenza in modo esatto. Vedi che ogni tanto c'è un picco più piccolo degli altri tra i segnali di ricerca e di risposta?» Brainiac aveva messo l'indice sotto uno dei picchi medi del diagramma.
«Che significa tutto questo?» «Dalla segnatura si direbbe una interferenza. Significa che la sorgente del segnale si sta muovendo.» «Gesù!» disse Schofield. «Allora è vero.» «E la situazione sta peggiorando», s'intromise Gant dalla finestra all'interno del portello di sicurezza, sul lato sinistro della cabina. «Vuoi dare un'occhiata?»
Schofield corse al finestrino e guardò fuori. Si sentì raggelare il sangue. C'erano almeno venti uomini. Venti soldati del 7° squadrone stavano attraversando l'hangar, coi fucili d'assalto P-90 pronti a sparare e le maschere antigas ERG-6 sul volto. Stavano circondando l'AWACS. *** La prima cosa che sentirono fu l'odore. Un odore acre simile a quello degli zoo, un misto di escrementi e segatura. Juliet Janson guidò gli altri nel livello 5, trascinandosi dietro il presidente. Gli altri due agenti segreti li seguirono dopo aver sigillato la porta antincendio. Si trovarono in una stanza larga e buia, chiusa su tre lati da gabbie sinistre formate da sbarre di ferro inserite nelle pareti di cemento. Sul quarto lato della stanza si trovavano altre gabbie, che però avevano un aspetto più moderno: avevano pareti in fiberglass e contenevano un liquido opaco, quasi nero. Janson non riuscì a vedere che cosa contenevano, ma sembrava che qualcosa all'interno si muovesse. Un rumore improvviso la fece voltare. In una delle celle alla sua destra c'era qualcosa di molto grande. Nella luce bassa e diffusa della sala riuscì a vedere solo una grossa massa pelosa che si muoveva lentamente dietro le spesse sbarre nere. Dalla cella proveniva un rumore sinistro, come se qualcuno stesse grattando una lavagna con le unghie. Uno degli agenti si avvicinò, tentando di vedere che cosa ci fosse oltre le sbarre. «Non avvicinarti troppo», l'ammonì Janson. Troppo tardi. Un terribile ruggito fece vibrare la cella mentre un'indistinta massa di peli, dagli occhi scintillanti e coi denti lunghi e affilati, uscì di scatto dal buio della cella avventandosi verso l'agente. Quando l'animale tentò di afferrarlo, allungando una zampa da dietro le sbarre, l'uomo fece uno scatto all'indietro e cadde sulla schiena. Ora riuscivano a vederlo meglio. Era molto alto, più di due metri e mezzo, ed era ricoperto di pelliccia ne-
ra e ispida. Che cosa ci faceva in una cella nei sotterranei di una base dell'Aeronautica? Janson non riusciva a crederci. Era un orso. E non sembrava per niente felice. La sua pelliccia era arruffata e sporca, ed era cresciuta in modo irregolare. Le feci dell'animale si erano appiccicate ai peli delle zampe posteriori, facendo così sembrare il più grande carnivoro terrestre un mostro squilibrato uscito da un film dell'orrore. Le altre tre celle sul lato nord della sala contenevano altri orsi, quattro femmine e due cuccioli. «Gesù!» ansimò il presidente, ancora senza fiato. «Che diavolo sta succedendo qua dentro?» sussurrò Julio Ramondo. «Non m'interessa!» sbottò Janson bruscamente, trascinando il presidente verso una porta dall'aspetto robusto. «Qualsiasi cosa sia, non possiamo rimanere qui!» L'hangar del livello 1 era immerso nel silenzio. Il gigantesco AWACS si trovava al centro dell'immenso ambiente. Era circondato dai commando del 7° squadrone. «Non è esattamente la situazione che speravo», disse Schofield. «Come fanno a sapere sempre dove siamo?» domandò Mother. Gant lanciò un'occhiata a Schofield. «Immagino che un posto come questo sia ipercontrollato.» «Esattamente», rispose Schofield. «Di che cosa state parlando?» chiese Mother. «Videocamera», spiegò Schofield. «Videocamere per la sorveglianza. Da qualche parte in questo posto c'è qualcuno che sta guardando un mucchio di schermi e poi dice a questi bravi ragazzi dove ci trov...» Da qualche parte all'esterno dell'aereo ci fu un rumore, seguito poi da altri. Gant sbirciò dal finestrino dell'uscita di sicurezza. «Merda! Sono saliti sulle ali!» «Oh, Cristo!» esclamò Schofield. «Attaccheranno i portelli!» Lui e Gant si scambiarono un rapido sguardo. «Sono venuti a stanarci», disse. Erano come formiche sopra un modellino. Otto uomini del 7° squadrone, quattro per lato, camminavano sulle ali
del gigantesco Boeing 707. Il capitano Luther «Python» Willis, comandante della terza unità del 7° squadrone, l'unità Charlie, osservava i suoi uomini che avanzavano sulle ali dell'aereo. «Gli Avenger stanno per arrivare», lo informò il suo sergente maggiore. Python non disse nulla. Fece solo un freddo cenno col capo. Dentro l'AWACS, Schofield stava correndo lungo il corridoio centrale, controllando gli accessi al retro del Boeing 707. Gant e Brainiac coprivano i due portelli laterali. «Dietro non c'è nessuno!» gridò Schofield dalla sezione posteriore dell'aereo. C'erano due portelli di sicurezza, ma per fortuna erano già stati chiusi. «Fox...?» «Io ne ho quattro sull'ala sinistra!» rispose Gant. «Io quattro sull'ala destra!» disse Brainiac. «Mother...?» chiese Schofield. Nessuna risposta. «Mother?!» Schofield corse nella cabina principale. Non c'era traccia di Mother. Aveva il compito di controllare i portelli anteriori dell'aereo: la botola d'emergenza nel pavimento della cabina di pilotaggio e le due al di sopra dei sedili eiettabili dei piloti. Correndo, Schofield guardò attraverso i finestrini dell'aereo per vedere che cosa stessero facendo i soldati sull'ala sinistra. Non capiva che cosa avevano in mente. Non potevano entrare attraverso i portelli sulle ali. Anche con le sole pistole, Schofield e i suoi marine avrebbero potuto respingere un attacco di soldati in fila per uno davanti alla stretta portiera. In quel momento, dal finestrino del portello laterale del Boeing 707 Schofield vide gli Avenger. Erano due. Stavano entrando nell'hangar attraverso la rampa di accesso orientale. Il veicolo per la difesa aerea Avenger è una elaborazione del fuoristrada Humvee. Conserva l'impianto ampio dell'Humvee, ma, sulla parte posteriore, porta due grossi scomparti di forma quadrata, ciascuno dei quali contiene quattro missili Stinger terra-aria. Sulla parte inferiore dei lanciamissili sono montate due potenti mitragliatrici calibro 50. In sostanza, l'Avenger è un assassino di aerei estremamente mobile ed efficiente.
«Bene, almeno ora so che hanno in mente», disse Schofield ad alta voce. Stavano per far saltare una parte della fusoliera con gli Stinger per poi approfittare del fumo e della confusione per entrare senza problemi nel Boeing. Ottimo piano, pensò Schofield. Peccato che promettesse male per lui e i suoi tre marine. I due Avenger si allontanarono l'uno dall'altro attraversando l'hangar, uno diretto al fianco destro dell'AWACS, l'altro al fianco sinistro. Dopo qualche metro uscirono dal campo visivo di Schofield. Merda. Doveva fare qualcosa, e doveva farlo in fretta... Le due turbine sotto le ali dell'AWACS si accesero con un boato che, all'interno dell'hangar chiuso, doveva essere assordante. Schofield si girò di colpo. «Mother...» *** Gli Avenger si fermarono ai due lati dell'AWACS, facendo stridere le gomme sul cemento, proprio nel momento in cui il massiccio Boeing 707 iniziava a muoversi. Il rumore e l'aria calda delle sue turbine riempirono l'hangar. Con l'improvviso movimento dell'aereo, gli otto soldati sulle ali persero l'equilibrio. Schofield entrò correndo nella cabina di pilotaggio dell'AWACS. C'era Mother sul sedile del comandante. «Ciao, Scarecrow!» Doveva gridare per farsi sentire sopra il rumore assordante delle turbine. «Vieni a fare una giretto con me?» «Hai mai pilotato un aereo, Mother?» «L'ho visto fare a Kurt Russell in un film. Diavolo, non sarà poi così diverso da guidare il camion di Ralph...» Una grandinata di pallottole investì il vetro della cabina di pilotaggio, mandandolo in frantumi, e cospargendo di schegge Mother e Schofield. Per fortuna gli spari arrivavano dal basso e i proiettili andarono a conficcarsi nel tetto dell'abitacolo. Schofield vide uno degli Avenger fermarsi sulla sinistra dell'AWACS. I due lanciamissili si stavano sollevando preparandosi a sparare sulla cabina di pilotaggio. «Mother! Veloce! A sinistra!» gridò.
«Che cosa?» Voltare a sinistra significava entrare in rotta di collisione con l'Avenger. «Fallo e basta!» Schofield saltò sul sedile del copilota, accanto a Mother. Utilizzando i controlli direzionali a pedali, riuscì a far compiere all'aereo una stretta curva a sinistra. Diede subito un'accelerata, spingendo in avanti le grosse leve centrali che davano potenza ai motori. Il gigantesco aereo AWACS reagì prontamente. Prese velocità, muovendosi rapido all'interno dell'enorme hangar, virò a sinistra e puntò dritto sull'Avenger. Gli uomini del 7° squadrone ai comandi del lanciamissili videro che cosa stava accadendo. Rinunciarono a colpire l'aereo con gli Stinger e si lanciarono fuori dall'Humvee, un attimo prima che le enormi ruote anteriori del Boeing lo colpissero e ci salissero sopra, schiacciandolo come una lattina. «Grande!» gridò Mother, mentre l'aereo passava sui resti dell'Humvee. «Non è finita», disse Schofield. «Ce n'è rimasto un altro, là fuori. Fox! Dov'è l'altro Avenger?» Gant e Brainiac erano ancora nella cabina principale dell'AWACS a coprire i portelli sulle ah. Gant con la sua MP-10, Brainiac con la sua Beretta. «È dietro di noi, sulla sinistra!» gridò Gant. Dal suo finestrino vide l'Humvee vicino alla parete nord dell'hangar. Era girato verso l'aereo ed era pronto al tiro. Poi, senza preavviso, uno sbuffo di fumo uscì da uno dei tubi dell'Avenger. «Attenzione!» urlò. «Missile in arrivo!» Ci fu un'improvvisa, fortissima esplosione, e tutto l'aereo fu scosso con una violenza tale che, per un attimo, le ruote posteriori si alzarono dal pavimento per poi ricadere pesantemente sul cemento. Le sospensioni attutirono l'impatto, facendo rimbalzare il velivolo. Una nuvola di fumo invase la cabina centrale. Veniva dalla parte posteriore. «Ci hanno colpito la coda!» gridò Gant. Peggio. Il secondo Avenger aveva ridotto l'intera coda del 707 in una grossa voragine fumante. L'estremità della coda si era staccata, cadendo sul pavimento dell'hangar. L'AWACS continuò a girare in un ampio cerchio, rullando veloce sulle grosse ruote, mentre gli uomini del 7° squadrone sparavano a volontà.
L'aereo compì un arco di 180 gradi - la punta dell'ala destra andò a cozzare contro la fiancata del Blackbird SR-71 fermo - e si girò esattamente al contrario rispetto alla posizione iniziale, con la parte posteriore distrutta dal missile sotto il fuoco massiccio dei fucili nemici. Le pallottole crivellarono l'interno della cabina centrale, penetrando nel rivestimento del soffitto e delle pareti. Gant e Brainiac si buttarono a terra, investiti da una pioggia di frammenti di plastica e metallo. «Merda!» gridò Brainiac. «A Parris Island questo non ce l'hanno insegnato!» Anche Book II si stava muovendo velocemente. Scivolava giù per uno dei cavi verticali che correvano lungo il lato della tromba dell'ascensore. Calvin, Elvis e Love Machine lo seguivano a breve distanza. Avevano evitato il fuoco nemico che li aveva investiti sul tetto dell'ascensore. Adesso però dovevano trovare una via d'uscita dalla tromba prima che gli uomini del 7° squadrone si calassero e oltrepassassero l'ascensore, che per il momento faceva da barriera tra inseguiti e inseguitori. Book II si fermò all'altezza di una porta, contrassegnata da un grande 1 nero, ma sentì subito rumore di spari, raffiche di mitra e gomme che stridevano, e poi un boato che fece vibrare le porte di acciaio. «Meglio di no», disse Calvin. «Proviamo la prossima.» Continuarono la loro discesa. All'interno dell'hangar, Python osservò l'AWACS tracciare un grande cerchio nello sconfinato spazio dell'hangar. Quando parlò nel piccolo microfono della sua ricetrasmittente, dalla sua voce non trapelò nessuna emozione: «Avenger 2. Mirate alla cabina di pilotaggio. Due missili». All'interno dell'abitacolo dell'AWACS, Schofield stava azionando i pedali dello sterzo. «Mother!» gridò. «Torna nella cabina centrale e copri la parte posteriore. Sta' attenta che nessuno entri da lì! Mi occupo io di guidare!» Mother prese il suo M-16 e uscì dal retro. Quando fu uscita, il secondo Humvee entrò nel campo visivo di Schofield. Era sul lato nord, vicino al muro dell'hangar. Si stava girando, preparandosi a fare nuovamente fuoco.
Schofield azionò l'interfono dell'aereo. «Brainiac!» Attraverso gli altoparlanti la voce di Schofield riempì ogni angolo dell'aereo. «Contromisure elettroniche!» Dietro la cabina di pilotaggio, nella sezione centrale, Brainiac alzò la testa di scatto. «Già, cazzo, certo!» «Di che cosa sta parlando?» urlò Gant mentre Mother entrava di corsa nella cabina centrale. Ma Brainiac si era già tuffato dietro la prima console che aveva trovato. Ancora prima di sedersi stava già spingendo pulsanti e un attimo dopo cominciò a battere sulla tastiera in maniera febbrile. Gant sbirciò dal finestrino del portello. Fuori vide scorrere rapidamente la parete dell'hangar. Poi il secondo Humvee entrò nel suo campo visivo. Si accingeva a sparare un altro dei suoi missili. «Stanno per colpirci di nuovo!» esclamò. «Brainiac?» Schofield parlava attraverso gli altoparlanti. Aveva un tono interrogativo. Le dita di Brainiac volavano sulla tastiera. Sullo schermo apparve la scritta «Attivare interferenze MF». «Tutti a terra!» urlò Gant. Due nuvolette di fumo uscirono dal lanciamissili dell'Humvee. Nello stesso istante, Brainiac batté violentemente sul tasto d'invio. Una coppia di missili Stinger uscì dai tubi dell'Humvee, tracciando dietro di sé due scie di fumo. Puntavano dritti verso la sezione anteriore dell'AWACS, volando in perfetta formazione, uno accanto all'altro. E poi, d'un tratto, gli Stinger impazzirono. Le potenti contromisure antimissile dell'AWACS mandarono in tilt il sistema di puntamento degli Stinger. Era come se un'ondata invisibile, uscita dal sistema radar dell'AWACS, avesse travolto i missili. Questi risposero all'istante. Impazzirono. Ruppero la formazione di volo, allontanandosi l'uno dall'altro, uno virando a destra, l'altro a sinistra. Il mìssile sulla destra s'infilò a tutta velocità sotto la pancia del Boeing, mentre l'altro si alzò e ci passò sopra di una spanna. Dalla cabina di pilotaggio dell'AWACS, Schofield osservò stupito uno dei missili passargli sopra, per poi rallentare la sua corsa, virare e tornare indietro verso l'Humvee che lo aveva appena lanciato.
Un secondo dopo, il missile colpì il muro di cemento sopra l'Humvee, infilandosi a tutta velocità dentro un grande comparto costruito a qualche metro d'altezza nella parete dell'hangar. Il missile esplose, mandando in frantumi un'intera sezione della parete di cemento intorno alla zona dove prima si trovava il comparto. La grossa porta d'acciaio venne divelta e scaraventata attraverso l'hangar, e una pioggia di pezzi di cemento investì l'Humvee dal quale il missile era partito. Qualsiasi cosa ci fosse dentro il comparto, pensò Schofield, ora non c'era più. Ma un altro missile volava all'interno dell'hangar, del tutto fuori controllo. Girò di scatto dietro la coda divelta dell'AWACS, e continuò a volare, roteando sul suo asse sino a infrangersi contro la parete nord dell'hangar, esplodendo a qualche metro dalle porte dell'ascensore. Anche qui, una pioggia di pezzi di cemento si levò in aria investendo l'hangar. L'esplosione nella parete di cemento, però, fu seguita da qualcosa di inatteso. Un potentissimo getto d'acqua cominciò a fuoriuscire dal foro nella parete. Schofield osservava incredulo. «Che diavolo succede...?» Un'esplosione improvvisa scosse le pareti della tromba dell'ascensore. Book II, appeso ai cavi insieme agli altri uomini del suo gruppo, si trovava dietro le porte del livello 3. Avevano tentato di penetrare nel livello 2, ma le porte bloccate li avevano costretti a scendere ancora. Quando udì l'esplosione, Book II alzò lo sguardo. Quello che vide era tanto terrificante quanto inaspettato. Un'intera sezione della parete di cemento, all'altezza del livello 1, una quindicina di metri sopra di loro, era stata squarciata dall'esplosione. La tromba dell'ascensore fu invasa all'improvviso da una pioggia di macerie e pezzi di cemento. Subito dopo arrivò l'acqua. Un getto d'acqua scrosciava per la tromba dell'ascensore col rombo di una cascata. E in un attimo li avrebbe investiti. L'unica cosa che potevano fare era tenersi il più saldamente possibile ai cavi. Al primo impatto con la cascata d'acqua, Book II capì: la forza era
troppa. Stavano per essere spazzati via. «... A tutte le unità. Attenzione. Falla nei serbatoi d'acqua al livello 1. Ripeto: i serbatoi d'acqua al livello 1 sono stati colpiti...» «... L'acqua dei serbatoi sta invadendo la tromba dell'ascensore...» «Iniziare la chiusura stagna», disse Caesar Russell con calma. «Sigillate la tromba dell'ascensore. Lasciate che la riempia.» «Sissignore.» Love Machine fu il primo a cadere. Appena il muro d'acqua lo investì, mollò la presa sul cavo dell'ascensore e cadde nel vuoto, passando dietro le spalle di Book II. Precipitò velocemente, anche se a Book diede l'impressione di cadere al rallentatore, come in un drammatico incubo: occhi sgranati, bocca spalancata in un grido che venne ingoiato dal boato della cascata. E poi sparì nelle nere viscere della tromba dell'ascensore. «Maledizione!» imprecò Book II E poi fece l'unica cosa che gli venne in mente. «Sergente... nooo!» gridò Calvin, ma ormai era troppo tardi. Book II aveva allentato la presa sul cavo. Ora stava scivolando velocissimo per la tromba dell'ascensore, seguendo Love Machine nel buio. Book II cadeva nell'oscurità. Scivolò per un tempo infinito, mentre il calore provocato dall'attrito bruciava i guanti bianchi della sua alta uniforme. Poi, inaspettatamente, tra mille schizzi toccò l'acqua, acqua profonda, sul fondo della tromba. Quello che aveva sperato. La tromba dell'ascensore misurava circa quattro metri per quattro, e la quantità di acqua che usciva dalla folla al livello 1 era immensa; così aveva sperato che sul fondo si fosse accumulata acqua a sufficienza. Infatti Love Machine era lì, accanto a lui: annaspava e respirava con la bocca aperta, sputando acqua. Era vivo. «Tutto bene?» gridò Book II. «Sì!» Pochi attimi dopo, arrivarono in fondo alla tromba anche Calvin ed Elvis. La cascata continuava a scendere, alzando spruzzi d'acqua con un boato tremendo.
«Okay, Capitan Miracolo», disse Elvis a Calvin. «Il nostro bel posticino, qui, si sta riempiendo d'acqua. Ha qualche suggerimento?» Calvin si guardò intorno, cercando un'ispirazione. Book II invece aveva già visto qualcosa. Indicò una coppia di porte di ascensore, pochi metri al di sopra del livello dell'acqua. «Semplice!» disse. «Usciamo da lì!» «Porca puttana!» tuonò Brainiac, sbirciando fuori dal grande squarcio dove un tempo stava la coda dell'AWACS. Una specie di geyser d'acqua stava uscendo dal foro nella parete, accanto all'ascensore, inondando il pavimento dell'hangar. «Che diavolo sta succedendo?» «Un'altra giornata di caos e distruzione al fianco di Scarecrow», rispose Mother. «Ehi!» disse Gant, guardando dal finestrino. «Dove sono i soldati che erano sulle ali?» Mother e Brainiac si voltarono e guardarono le ali del Boeing. Erano vuote. Gli uomini del 7° squadrone che prima vi erano saliti sopra, non erano più lì. Nello stesso momento udirono sopra di loro un rumore di pesanti passi. *** L'aereo AWACS continuava a ruotare nell'hangar, con le ruote a mollo in un paio di centimetri d'acqua. Aveva compiuto un cerchio quasi completo. Ora puntava verso la vasta apertura nel pavimento: la tromba del montacarichi. Schofield continuò a pestare i pedali di guida, tentando di tenere sotto controllo il grande aereo. L'ingresso del montacarichi era di fronte a loro. Un sottile strato d'acqua precipitava nel vuoto, come una piccola cascata del Niagara. La piattaforma idraulica era quasi certamente il modo migliore per uscire da quel pasticcio, ma l'ultima volta che l'aveva vista era ferma a uno dei livelli inferiori. E poi, all'improvviso, qualcosa esplose sopra di lui, in una pioggia di scintille. Era una delle due botole del tetto che si aprivano quando veniva coman-
data l'espulsione del pilota. Non appena la botola sparì, una vera e propria grandinata di pallottole piombò nella cabina facendo a pezzi i comandi e gli strumenti di volo. Alla prima tempesta di fuoco seguì una seconda raffica di proiettili che colpirono il sedile vuoto del pilota, a sinistra della cabina: il sedile su cui Mother era seduta poco prima. In un attimo, l'imbottitura del sedile fu crivellata dalle pallottole. Schofield intuì quello che stava per succedere, e balzò fuori dal suo posto, gettandosi nel ristretto spazio davanti al sedile. Una frazione di secondo dopo, un paio di stivali da combattimento atterrò con un tonfo sul sedile del pilota: apparteneva a un soldato del 7° squadrone. Ancora prima di toccare il sedile, il soldato si era voltato col fucile d'assalto P-90 premuto contro la spalla, pensando che il nemico si nascondesse nella parte posteriore della cabina. Ma era vuota. Scattò e guardò in avanti, e poi verso il basso, dove con sorpresa vide Schofield, sdraiato con la schiena appoggiata a una console. Schofield era disarmato. Vide che il soldato con la maschera nera abbassava il fucile verso di lui e cominciava a premere il grilletto. Allungò la gamba di scatto. Non tentò di arrivare al soldato. Mirò a una leva che scorreva lungo il bordo inferiore del sedile del pilota, la leva dell'espulsione. Schofield fece centro. La leva scattò. E, con un rumore sordo, il sedile del pilota fu espulso attraverso la botola del tetto della cabina. Python Willis vide stupito uno dei suoi uomini, in piedi sul sedile di pilotaggio, schizzare come un razzo dalla cabina dell'AWACS, sfrecciando accanto ai suoi colleghi sul tetto dell'aereo. L'uomo colpì violentemente il soffitto di cemento. Si udì il rumore secco dell'osso del collo che si spezzava nell'impatto col soffitto, sovrastò persino il rumore delle turbine dell'AWACS, tanto fu violento. Nel frattempo, Schofield era passato con uno scatto felino nel retro della cabina, aveva preso la sua Beretta e, sdraiato sulla schiena nell'ingresso della cabina di pilotaggio, ora stava sparando in alto per far passare agli altri soldati la voglia di entrare nella cabina di pilotaggio. Pochi secondi, e il suo caricatore era vuoto. Schofield si alzò e diede u-
n'occhiata attraverso i vetri rotti sopra il muso dell'aereo. Vide che l'aereo stava andando dritto verso l'enorme apertura del montacarichi. «Oh, vedo che le cose si mettono bene», disse tra i denti. Tentò di farsi venire in mente una soluzione. L'aereo si stava dirigendo verso l'apertura del montacarichi. Gli uomini del 7° squadrone erano dappertutto, sulla carlinga dell'aereo e nell'hangar. E lui, Gant, Mother e Brainiac erano bloccati dentro il Boeing. C'era una soluzione? Semplice. Uscire dall'hangar. Ma non esiste una via d'uscita. Siamo bloccati all'interno dell'AWACS, e se usciamo siamo morti. Ma potremmo uscire dall'hangar continuando a stare sull'aereo... Schofield balzò nuovamente sul sedile del copilota, prendendo il controllo del grande Boeing 707 e tenendolo puntato verso il passaggio che lo avrebbe portato dritto nella tromba del montacarichi. «Che diavolo sta facendo?» ruggì Phyton. Il gigantesco AWACS stava acquistando velocità e rombava a tutta forza attraverso l'hangar, puntando dritto verso la tromba del montacarichi. I soldati sul tetto dell'aereo si resero conto che il velivolo stava accelerando. Guardarono in avanti, nella direzione in cui stavano puntando, e spalancarono gli occhi. «Non può fare sul serio...» disse Python, quasi senza voce, mentre davanti ai suoi occhi i primi uomini si gettavano dal tetto del Boeing. L'aereo accelerò ancora, continuando la sua folle corsa verso la voragine della tromba del montacarichi. Nella cabina di pilotaggio, Schofield si allacciò le cinture e accese l'interfono. «Signore e signori, è il capitano che vi parla. Trovatevi una sedia e legatevi ben stretti: tra poco ci alzeremo in volo.»
Dietro, nella cabina principale, Gant e gli altri due marine si raccolsero al centro del corridoio. Attraverso la cabina dell'AWACS, videro l'enorme apertura del montacarichi avvicinarsi rapidamente. «Sta facendo veramente quello che penso?» chiese Gant a Mother. Mother deglutì, poi rispose. «Temo di sì.» Corsero ai primi sedili liberi che trovarono, allacciandosi febbrilmente le cinture di sicurezza. Il Boeing 707, ormai privo della sua sezione di coda, si avvicinò alla tromba del montacarichi, rombando sul cemento bagnato dell'hangar sotterraneo. E poi, prima che qualcuno potesse anche solo sperare di fermarlo, attraversò l'apertura dell'hangar, saltò nel vuoto e spari nella tromba del montacarichi. *** L'AWACS cadde col muso in avanti per la tromba del montacarichi come un gigantesco kamikaze. Cadde lungo la parete di cemento armato fino a schiantarsi sulla massiccia piattaforma idraulica ancorata al livello 4, oltre cinquanta metri sotto il livello 1. Quando il velivolo s'infranse sulla piattaforma con un rumore assordante, il muso del Boeing si accartocciò violentemente. I pezzi della carlinga volarono in tutte le direzioni, tagliando l'aria tra i sibili. Due delle turbine dell'aereo si staccarono e rimbalzarono via. L'aereo sembrò rimanere in quella posizione per un'eternità, appoggiato sulla parte anteriore. Poi, con un lamento metallico, come un enorme albero appena abbattuto, s'inclinò e s'accasciò sull'ala sinistra, spezzandole all'istante. Un attimo dopo, i resti del Boeing si schiantarono contro la piattaforma del montacarichi. Dentro l'AWACS, il mondo era inclinato di quarantacinque gradi a sinistra. Mother, Gant e Brainiac lottavano per liberarsi dalle cinture di sicurezza. Schofield uscì dalla cabina di pilotaggio. «Forza!» disse, aiutando Mother a togliersi le cinture. «Non possiamo
rimanere qui un attimo di più. Saranno qui a momenti!» «Dove andiamo?» chiese Gant alzandosi in piedi. «Dobbiamo trovare il presidente», rispose Schofield. «... Gesù! Ha appena fatto cadere l'aereo nella tromba del montacarichi...» «... Unità Charlie ed Echo, inseguiteli...» «... Il presidente è al livello 5, si avvicina all'area detentiva. Unità Delta, entrare nei laboratori degli animali...» «... Ricevuto, comandante unità Bravo. Sì, si trovano nell'acqua in fondo alla tromba dell'ascensore. Buona idea...» «Che cosa sta facendo Boa?» chiese Caesar Russell. Il capitano Bruno «Boa» McConnell era il comandante dell'unità Bravo, uno dei cinque «Serpenti». «Si trova sul tetto dell'ascensore del personale, signore. Sta per far scendere l'ascensore. Per annegare i bastardi. E se provano a passare ai lati dell'ascensore, li inchioda.» L'acqua saliva rapidamente. Book II e gli altri si tenevano a galla, a mano a mano che la tromba dell'ascensore si riempiva. L'acqua continuava a scendere. Non dava segno di diminuire d'intensità e, insieme al livello dell'acqua, salivano anche loro, avvicinandosi alle porte dell'ascensore. Improvvisamente, in mezzo al rumore dell'acqua che cadeva, udirono un suono secco e metallico seguito da un ronzio meccanico. Book II stava guardando verso l'alto quando, d'un colpo, la pioggia cessò. O, meglio, prese a scendere lungo i lati della tromba dell'ascensore, coprendo i cavi lungo la parete col suo flusso continuo. «Che succede?» gridò Love Machine. E poi Book II la vide. Vide un'ombra che scendeva nell'oscurità sopra di loro, un'ombra di forma quadrata, che si faceva sempre più grande e minacciosa a mano a mano che si avvicinava. «Che cos'è?» gridò Calvin. «Cazzo...» esclamò Book II. «L'ascensore...» L'ascensore scendeva nella tromba, col potente getto d'acqua che lo colpiva dall'alto. Il tetto bloccava il centro della tromba e deviava l'acqua sui
quattro lati, da cui defluiva lungo le pareti di cemento. Sporgendosi dal livello 1, due tiratori scelti del 7° squadrone tenevano i loro fucili coi mirini a infrarossi puntati verso il basso, pronti a sparare agli uomini che poco dopo sarebbero apparsi ai lati della tromba nel disperato tentativo di non annegare. «Grandioso», disse Book II a voce bassa. «Veramente grandioso.» O annegavano spinti sott'acqua dall'ascensore, oppure morivano arrampicandosi lungo i lati. Non avevano scampo. Buttò uno sguardo alle due porte, ormai solo settanta centimetri sopra il livello dell'acqua. Vi era dipinto sopra un grande 5. Il livello 5. Si chiese che cosa poteva esserci dietro quelle porte, ma poi si rese conto che non importava. Erano l'unica via di uscita. Con uno scatto, riuscì a sollevarsi e mettersi in piedi sulla soglia. Non era facile stare lì, per via della cascata d'acqua che lo investiva dall'alto. Come tutte le altre porte dell'ascensore, anche quelle erano state sigillate e a tenuta stagna. L'ascensore continuava nella sua discesa, lento ma inesorabile. L'acqua raggiunse la base della soglia, superandola velocemente. Calvin gli era accanto. «Come si fa ad aprire queste porte, sergente?» Book sapeva che ci doveva essere un meccanismo di rilascio da qualche parte, probabilmente non lontano. «Non riesco a vedere nessun meccanismo!» gridò. «Dev'essere nascosto nella parete!» L'ascensore era sempre più vicino. Ormai doveva essere all'altezza del livello 4, e continuava a scendere. L'acqua non smetteva di cadere. E poi Book vide uno spesso cavo isolato che correva lungo la parete di cemento per finire sott'acqua accanto a lui. «Ma certo!» urlò. Il meccanismo di rilascio d'emergenza non poteva essere all'altezza delle porte dell'ascensore. Doveva trovarsi sopra o sotto il pianerottolo, in modo da poter aprire le porte quando l'ascensore era fermo. Senza pensarci, Book II si riempì i polmoni d'aria e sparì sotto la superficie dell'acqua. Silenzio.
La quiete naturale del mondo subacqueo. Book II nuotò verso il basso, seguendo con le dita il cavo della parete. Dopo circa un metro, toccò qualcosa di solido. Una scatola d'acciaio, inserita in una cavità della parete. Riuscì ad aprirla subito. Stava cercando una leva, e invece ne trovò cinque, una accanto all'altra. Senza pensare, azionò la quinta. Immediatamente udì un rumore cupo, una porta pressurizzata che si apriva. Lasciò le leve e tornò in superficie. «... Book! Veloce! Dai!» Furono le prime parole che sentì. Era riemerso a un metro dalle porte dell'ascensore. Erano aperte. Vide subito Calvin ed Elvis, in piedi sul pianerottolo. Love Machine era inginocchiato, tenendosi a una delle porte, l'altra mano tesa verso di lui. Book II alzò lo sguardo. La base dell'ascensore si trovava a meno di un metro dalla sua testa, e stava scendendo velocemente... Prese la mano di Love Machine, che lo afferrò e lo tirò con tutte le sue forze oltre la soglia della porta. Elvis e Calvin gli presero l'altra mano. Con uno sforzo disperato, strapparono Book II all'acqua che continuava a riempire la tromba dell'ascensore. Una frazione di secondo dopo, l'ascensore raggiunse il piano e si fermò proprio davanti a loro. I quattro rimasero immobili. L'acqua continuava a salire intorno all'ascensore, ma ora aveva trovato una via d'uscita attraverso le porte aperte, e stava rapidamente invadendo il pavimento del livello 5. Book trattenne il respiro, aspettando che le porte dell'ascensore si aprissero. Nella peggiore delle ipotesi, un gruppo di uomini del 7° squadrone sarebbe uscito coi fucili puntati, pronto a fare fuoco. Ma quando le porte si aprirono, dietro non c'era nessuno. L'ascensore era vuoto. Per il momento erano salvi. Book II si voltò. Il livello dell'acqua cominciava a salire. Si trovavano in un'ampia anticamera con qualche scrivania di legno e un armadio con ante a vetri, pieno di fucili e attrezzature antisommossa. Videro anche due piccole celle. Sembrava l'ingresso di una prigione. «Ma che diavolo di posto è questo?» esclamo Book II.
*** Nello stesso momento, dall'altra parte del livello 5, Juliet Janson e il presidente degli Stati Uniti si trovavano in un inferno del tutto diverso. Juliet aveva pensato che la stanza con gli animali fosse un posto orribile. Lì era peggio. Avevano superato la porta blindata sul lato ovest della stanza degli animali, ed erano entrati in una zona ancora più terrificante. Si trovavano in un'ampia stanza dal soffitto basso. Era scarsamente illuminata: era accesa solo una delle tre delle luci, e numerose zone del vasto spazio rimanevano nella totale oscurità. Ma nemmeno la mancanza d'illuminazione riusciva a nascondere la vera natura di quel luogo. C'erano numerose celle. Celle di cemento armato, con muri spessi e nere sbarre anodizzate infilate nelle pareti divisorie. L'intera struttura appariva tutt'altro che moderna, e alla debole luce del livello 5 evocava vagamente una prigione medievale. Udirono un debole vociare e rauchi sussurri provenire dalle celle buie. Improvvisamente capirono chi le occupava. Non si trattava di animali, pensò Juliet con orrore. In quella orribile prigione c'erano esseri umani. I prigionieri avevano sentito la porta aprirsi, e Juliet, il presidente e gli altri due agenti entrare di corsa, e si erano precipitati verso le sbarre per vedere che cosa stesse succedendo. «Ciao, bambola!» gridò una faccia sdentata, mentre Juliet passava davanti a una delle celle con la SIG-Sauer in pugno, seguita dal presidente. Si voltò. «Ramondo!» gridò. «Sbarra la porta dietro di noi!» C'era una fila di armadietti d'acciaio lungo la parete accanto alla porta da cui erano entrati. Ramondo rovesciò i primi tre e li sistemò contro la porta. Udito il frastuono, i prigionieri cominciarono a gridare più forte. Come tutti gli ergastolani, captavano la paura dei nuovi arrivati e ne approfittavano. Alcuni urlavano oscenità, altri scuotevano le sbarre o ci battevano contro le scodelle o le tazze di latta, altri avevano cominciato a urlare più forte che potevano, riempiendo la sala di un fracasso assordante. Juliet avanzava in quell'incubo mantenendo un'espressione severa e determinata. Sulla sua destra, vide una rampa in leggera pendenza, chiusa da una ro-
busta cancellata. Sembrava condurre al livello superiore. Juliet si avvicinò. «Ehi, dolcezza, vuoi cavalcare... sulla mia asta?» Il presidente avanzava lentamente nel caos della prigione, guardandosi intorno, sbalordito. I prigionieri, con le divise blu, la barba incolta e lo sguardo folle, si sporgevano oltre le sbarre nel tentativo di afferrarlo. «Vecchietto, fammi vedere il tuo bel culetto morbido!» «Andiamo!» Juliet tirò indietro il presidente, allontanandolo dai prigionieri. Arrivati davanti alla porta della rampa, si resero conto che la serratura era troppo solida per farla saltare con una pallottola. «Curtis!» ordinò Juliet rivolgendosi al terzo membro della scorta. «La serratura!» L'agente speciale Curtis si inginocchiò davanti alla grata, mise la mano nella tasca del cappotto e ne estrasse un attrezzo da scasso dall'aspetto futuristico. Mentre Curtis armeggiava, Juliet Janson si guardò intorno. C'era una grande agitazione e un grande chiasso. Braccia protese verso il corridoio, facce contorte premute contro le sbarre e, soprattutto, urla incessanti. Nessuno dei prigionieri sembrava aver riconosciuto il presidente. Si divertivano solo a incutere paura a quegli insoliti visitatori. Improvvisamente si udì un rumore secco. Proveniva da qualche parte dietro di loro. Juliet si voltò di scatto, la pistola pronta. Dal buio emerse un marine, con l'uniforme totalmente fradicia. Stava correndo verso di lei, brandendo un fucile da caccia Remington. Dietro di lui, apparvero altri tre marine, anche loro bagnati dalla testa ai piedi. Il primo marine abbassò il fucile appena riconobbe Juliet e il presidente. «Tutto okay! Tutto sotto controllo!» disse Book II, puntando verso il pavimento il fucile che aveva preso dall'armadietto dell'anticamera. Calvin fece un passo in avanti. «Qual è la situazione, qui?» chiese. «Abbiamo già perso sei uomini», rispose Juliet. «Quei bastardi dell'Aeronautica ci stanno alle calcagna. Devono essere già nell'altra stanza, ma abbiamo sbarrato la porta.» Dietro di lei, l'agente speciale Curtis inserì l'attrezzo da scasso nella serratura della porta e spinse un bottone. Il congegno emise un sibilo acuto, simile al trapano di un dentista. Dopo
un attimo, la serratura scattò seccamente, e la porta si aprì. «Qual è il suo piano, agente Janson?» chiese Calvin. «Stare alla larga da quei bastardi», rispose Juliet. «Tanto per cominciare, prendiamo questa rampa e saliamo di sopra. Forza!» Gli agenti speciali Curtis e Ramondo corsero su per la rampa, seguiti da Calvin. Juliet spinse il presidente dietro di loro. Love Machine ed Elvis lo seguirono. Book II rimase indietro con Juliet per coprire le spalle del gruppo. Erano appena a metà rampa quando sentirono una voce staccarsi dal coro delle urla alle loro spalle. «... Non sono un prigioniero... sono uno scienziato!... Conosco questo posto... Posso aiutarvi!» Juliet e Book II si fermarono. Poi tornarono indietro di corsa. Ci volle un attimo per trovare l'uomo che aveva gridato. Era nella cella più vicina alla stanza degli animali. L'uomo stava in piedi dietro le sbarre, ma, nel caos che regnava nella sala, nessuno si era accorto che era diverso dagli altri prigionieri. Non indossava la divisa blu, bensì un camice da laboratorio, una camicia e persino la cravatta. Non aveva affatto l'aspetto di un pazzo o di un uomo pericoloso. Anzi. Era basso di statura, portava un paio di occhiali e aveva i capelli biondi e radi. Una persona del tutto fuori luogo in una cella. Juliet e Book II si fermarono davanti alla sua cella. «Chi è lei?» Juliet parlò forte per farsi sentire sopra le urla degli altri prigionieri. «Mi chiamo Herbert Franklin», rispose l'uomo. «Sono un medico, un immunologo. Fino a questa mattina ho lavorato al vaccino. Ma poi quelli dell'Aeronautica mi hanno rinchiuso qui dentro!» «Conosce bene questo posto?» gridò Book II Accanto a lui, Juliet lanciò un'occhiata alla pesante porta che divideva la sala dalla stanza con gli animali. Vibrava: qualcuno dall'altra parte stava tentando di abbatterla. «Certo!» rispose Franklin. «Che dici?» chiese Book II a Juliet. Ci pensò solo un attimo. Poi si voltò, gridando in direzione della rampa: «Curtis! Torna qui. C'è un'altra serratura da aprire.» Dopo meno di due minuti, tutti erano di nuovo lanciati lungo la rampa, ma con una persona in più.
Mentre correvano verso il piano superiore, nessuno di loro notò lo strato d'acqua che si stava estendendo velocemente nella sala e che già si era avvicinato alle celle più vicine alla rampa. *** Quando l'AWACS era precipitato nella tromba del montacarichi, la piattaforma era ferma al livello 4, esattamente allo stesso piano in cui il gruppo del presidente era stato lasciato un'ora prima. Ora i resti distrutti del Boeing 707 coprivano la piattaforma. C'erano lamiere di metallo dappertutto. Alcune ruote si erano staccate nell'impatto, mentre l'aereo si era accartocciato accasciandosi pesantemente su un lato. L'ala sinistra si era spezzata sotto il peso del velivolo. Per miracolo, il rotodome da nove metri dell'AWACS, simile a un disco volante, si era salvato. Shane Schofield uscì dall'aereo distrutto. Gant, Mother e Brainiac lo seguirono. Saltarono a grandi balzi tra i rottami sparpagliati in direzione della gigantesca porta d'acciaio, l'ingresso del livello 4. Una porta più piccola, inserita in quella principale, si aprì facilmente. Non era ancora del tutto aperta quando Schofield alzò la sua pistola e fece fuoco. La pallottola colpì una telecamera fissata in alto sulla parete, mandandola in mille pezzi. «Niente telecamere», disse entrando. «È grazie a quelle che conoscono ogni nostro movimento.» I quattro continuarono lungo un breve corridoio in salita, chiuso all'altra estremità da una robusta porta. Mother girò la valvola di apertura e la porta si aprì. Schofield varcò la soglia per primo, tenendo pronta la pistola. Si ritrovarono in una sorta di laboratorio. Lungo le pareti laterali c'era una fila di computer accesi. Oltre alle postazioni di lavoro con tastiere, monitor e contenitori in plastica trasparente, nella sala non c'era altro. Almeno era deserta. Bang! Uno sparo. Bang! Un altro sparo. Era Gant, che, seguendo l'esempio di Schofield, aveva appena messo KO due telecamere di videosorveglianza. Schofield si stava guardando intorno. Nella sala c'era qualcosa di molto strano: una parete di vetro inclinata verso l'esterno, proprio di fronte all'ingresso. Si avvicinò alla vetrata di osservazione per vedere che cosa c'era dall'altra parte. Si trovò a guardare dall'alto una stanza, al centro della qua-
le campeggiava un gigantesco cubo di vetro collocato in modo da non toccare né le pareti intorno né il soffitto. Il muro dall'altra parte del cubo, che a quanto pareva divideva il piano in due parti, non arrivava al soffitto, ma si fermava circa due metri più in basso. La sezione in alto era chiusa da una spessa vetrata. Dall'altra parte della vetrata, Schofield riuscì a intravedere una serie di rampe e passerelle sospese sopra qualcosa che rimaneva nascosto dal muro. Ma fu il cubo davanti a lui a catturare la sua attenzione. Aveva all'incirca le dimensioni di un ampio salotto. Un paragone abbastanza calzante, dato che il cubo conteneva proprio i mobili che normalmente si trovano in un salotto qualsiasi: un divano, un tavolo, delle sedie, un televisore con accanto una PlayStation 2 e un letto singolo con federa e lenzuola stampate. Sparsi per terra tra le pareti di vetro c'erano alcuni giocattoli. Macchinine. Una nave spaziale di Guerre Stellari, color giallo canarino. Qualche libro illustrato. Schofield scosse la testa. Aveva tutta l'aria di essere la cameretta di un bambino. In quell'istante, l'occupante del cubo di vetro uscì da un angolo riparato da una tenda, il bagno. Schofield non poteva crederci. «Che diavolo sta succedendo qui?» esclamò sottovoce. Dal lato rialzato del laboratorio, una rampa di scale scendeva verso il cubo. Schofield raggiunse il fondo delle scale. Gant gli stava accanto, mentre Mother e Brainiac erano rimasti di sopra, nella stanza d'osservazione. Schofield e Gant si avvicinarono lentamente al gigantesco cubo e ci guardarono dentro. L'occupante del cubo li aveva visti arrivare e, dopo un attimo di esitazione, si avvicinò a passi lenti alla parte della vetrata dove loro erano fermi. Arrivato a pochi centimetri del vetro, proprio di fronte a Schofield, iniziò a parlare, inclinando la testa di lato. «Buongiorno, signore.» Era un bambino. *** «... Signore, rilevo un totale oscuramento delle telecamere dei laboratori al livello 4. Hanno cominciato a sparare alle telecamere del circuito di sorveglianza...» «Mi stavo chiedendo perché non ci avessero ancora pensato», disse Caesar Russell. «Il presidente dove si trova?» «Al livello 5. Sta salendo la rampa verso il livello 4.»
«E i nostri uomini?» «L'unità Alpha è in posizione nell'area di decompressione al livello 4. L'unità Delta è stata bloccata nell'area sperimentazione animali al livello 5.» Caesar sorrise. Sebbene l'unità Delta fosse stata momentaneamente bloccata, la tattica che stava alla base dei movimenti degli uomini era quella giusta. Delta stava spingendo il presidente verso il punto in cui Alpha lo stava aspettando... «Ordini a Delta di far saltare la porta e togliere la via di fuga del presidente.» Non poteva avere più di sei anni. Aveva i capelli castani a caschetto con la frangia che gli arrivava quasi agli occhi. Indossava una maglietta di Disneyland e scarpe da tennis Converse. Il suo aspetto era esattamente quello di milioni di altri bambini americani della sua età. L'unica differenza era che lui viveva in un cubo di vetro all'interno di una base top secret dell'Aeronautica degli Stati Uniti. «Ciao», disse Schofield. Ci fu un attimo di silenzio. «Perché hai paura?» chiese il bambino. «Paura?» «Sì, hai paura. Di che cosa hai paura?» «Come fai a sapere che ho paura?» «Be', lo so, e basta.» Aveva una voce serena e chiara. E Schofield, per un attimo, ebbe l'impressione di essere in un sogno. Non sapeva come rispondere. «Come ti chiami?» chiese il bambino. «Shane. Ma quasi tutti mi chiamano Scarecrow.» «Scarecrow? Che nome buffo.» «E tu?» chiese Schofield. «Non hai un nome anche tu?» «Certo. Mi chiamo Kevin.» «E il tuo cognome?» «Che cos'è un cognome?» chiese il bambino. Schofield non sapeva di nuovo che dire. «Da dove vieni?» chiese dopo un attimo. «Vengo... da... da qui, credo. Non sono mai stato da nessun'altra parte.
Senti, vuoi sapere una cosa?» «Certo. Dimmi.» «Lo sapevi che una barretta di Mars dà ai bambini metà del fabbisogno quotidiano di glucosio, oltre a essere una gustosa merenda?» «Be', no, a dire il vero non lo sapevo», rispose Schofield. «E sapevi che i rettili sono talmente sensibili alle variazioni del campo magnetico terrestre che alcuni scienziati credono che possano prevedere i terremoti? Ah, già: e nessuno approfondisce le notizie come l'NBC.» Il ragazzino parlava con grande serietà. «Ma dici davvero?» Schofield scambiò un rapido sguardo con Gant. In quel momento, un forte rumore meccanico arrivò dall'altra parte del muro divisorio. Schofield e Gant balzarono indietro, girandosi verso il punto da cui era venuto il rumore: dietro la vetrata in alto, dall'altra parte del livello 4, le luci si erano improvvisamente spente. Il presidente degli Stati Uniti stava salendo con cautela la rampa che collegava il livello 5 al 4. Era attorniato da tre agenti del servizio segreto, da quattro marine e da un civile. In cima alla rampa si trovava una larga porta articolata in listelli metallici, simile ai portoni dei garage a serranda, a parte il fatto che quella si apriva arrotolandosi ai lati. Juliet Janson premette un interruttore accanto alla porta, e il meccanismo cominciò a sollevare la serranda metallica. Dall'altra parte regnava l'oscurità. «Il portone della rampa si sta aprendo...» Uno dei dieci soldati del 7° squadrone appostati all'interno dell'area di decompressione del livello 4 stava sussurrando dentro il minuscolo microfono montato nell'elmetto. Gli altri nove soldati dell'unità Alpha erano distribuiti in vari nascondigli intorno alla sezione est del piano, i fucili puntati verso rampa al centro della stanza. Con le maschere che gli coprivano la parte inferiore del volto e gli occhiali per la visione notturna, sembravano un gruppo di orribili insetti in attesa della preda. La porta orizzontale si aprì lentamente, e un fascio crescente di luce filtrò dalla stanza. Un altro fascio di luce filtrava attraverso le vetrate sulla parte superiore della parete divisoria che tagliava tutto il livello in due parti.
«Rimanete in posizione fino a quando non saranno usciti tutti», ordinò Kurt Logan dalla sua postazione. «Nessuno deve rimanere vivo.» I due agenti segreti Curtis e Ramondo furono i primi ad addentrarsi nella semioscurità, le UZI pronte a sparare. Poi toccò a Calvin e a Elvis. Il successivo fu il presidente, con Juliet Janson al suo fianco. Teneva in mano una piccola SIG-Sauer P-228, ma si vedeva che il presidente non si sentiva a suo agio con un'arma: era stata Juliet a insistere che ne avesse una anche lui. Dietro di loro, avanzava Herbert Franklin, lo scienziato, seguito da Book II e Love Machine, entrambi armati di fucili da caccia. Non appena vide l'oscurità dietro la porta, Book II sentì che qualcosa in quella sala non quadrava. Intorno a loro c'erano varie strutture appena visibili, ombre nel buio. A destra s'intravedeva una lunga camera esagonale. A sinistra, ancora più al buio, c'erano otto spazi delle dimensioni di cabine telefoniche. Nel debole riflesso di luce che filtrava dall'altra parte della parete, Book riuscì appena a intravedere una serie di passerelle sospese a circa sei metri da terra. Non appena Book II ebbe oltrepassato la soglia, il meccanismo della porta riprese a funzionare e le porte si chiusero dietro di lui, impedendo un'eventuale ritirata. Era stato Calvin a premere il pulsante di chiusura. Book II deglutì. Avrebbe preferito di gran lunga che la porta rimanesse aperta. Aveva con sé una potente torcia elettrica che aveva trovato in un armadietto nell'anticamera del livello 5. L'accese. Tenendola contro la canna del fucile, ne mosse lentamente il fascio di luce all'interno della sala. Calvin aveva assunto il comando del gruppo, dunque ora spettava a lui decidere quale strategia seguire. «Voi due», sussurrò a Curtis e Ramondo, «controllate dietro quelle cabine telefoniche, e controllate la porta che dà sulle scale. Elvis, Love Machine, Book II: controllate dietro la camera di decompressione, poi coprite l'altra porta.» Indicò loro la parete divisoria della sala. Poi si rivolse a Juliet: «Janson. Lei e io rimaniamo qui a coprire il Capo». Curtis e Ramondo sparirono tra quelle che sembravano cabine telefoniche, ma che in realtà erano piccoli laboratori, per riapparire pochi attimi dopo in fondo alla sala, accanto alla porta che dava sulla tromba delle scale.
«Non c'è nessuno», riferì Ramondo. Book II, Elvis e Love Machine sparirono nelle tenebre, dietro la camera di decompressione. C'era una striscia stretta e nuda di pavimento, e nient'altro. «Tutto a posto, qui», disse Book II. Lui e gli altri due marine erano riapparsi a fianco alla camera di decompressione. Ora stavano eseguendo la seconda parte dell'ordine, avvicinandosi alla porta nel muro divisorio. Calvin stava seguendo la tattica standard che si applicava in caso di ingaggio all'interno di un edificio: in assenza di tracce del nemico, mantenere il controllo degli ingressi e delle uscite per consolidare la propria posizione. Fu l'errore più grave che Calvin potesse commettere, non solo perché così limitò le loro possibilità di ritirata, ma perché, peggio ancora, era esattamente quello che Kurt Logan si era aspettato che facessero una volta arrivati nella sala. Il problema era che Calvin non sapeva che Kurt Logan era già all'interno della sala. Mentre Elvis e Love Machine si avvicinavano al muro divisorio, Book II spostò il cono di luce della torcia sulla camera di decompressione. Era incredibilmente grande. Raggiunta la fine della parete, Book II vide un oblò. Lo illuminò con la torcia per controllarlo. Quello che vide lo spaventò. Premuta contro il vetro dell'oblò c'era la faccia di un uomo, chiaramente di razza asiatica. L'uomo lo fissava con un largo sorriso. Book II non capì. L'uomo alzò un dito e lo puntò verso l'alto, verso il tetto della camera di decompressione. Book II segui la direzione del dito con la torcia, e si trovò davanti la faccia da insetto di un soldato del 7° squadrone con indosso la maschera antigas e gli occhiali per la visione notturna. La torcia elettrica salvò la vita a Book II. Anche se solo per un attimo, accecò l'uomo nascosto in cima alla camera di decompressione, che si scansò dal cono di luce mentre i suoi occhiali per la visione notturna ne amplificavano l'intensità di centocinquanta volte. Era l'attimo di cui Book II aveva bisogno. Il suo fucile sparò una lingua di fuoco verso l'alto, colpendo il soldato in
pieno volto. L'impatto fu talmente forte da scaraventare il soldato in aria e poi giù dal tetto della camera. Ma fu solo una mezza vittoria, perché, nello stesso momento, esplose una violenta sparatoria e un gran numero di sagome scure apparve sul tetto della camera di decompressione, mentre altre saltavano fuori dai piccoli laboratori simili a cabine del telefono. Un inferno investì il piccolo gruppo di marine rimasto nel centro della stanza. Dall'altra parte, accanto alla porta delle scale, Curtis e Ramondo furono presi in mezzo tra raffiche di P-90. Non ebbero il tempo di agire. I loro corpi furono scaraventati contro la parete, crivellati dalle pallottole. Al primo sparo, Juliet Janson aveva dato un brusco spintone al presidente, facendolo cadere a terra accanto alla camera di decompressione, mentre il primo sciame di pallottole sibilava sopra le loro teste. Calvin non fu così fortunato. Una delle raffiche di P-90 lo colpì in pieno alla nuca, sollevandolo per un attimo in punta di piedi per poi farlo cadere in ginocchio. Sul volto aveva un'espressione stupita, come se fosse consapevole di aver fallito, benché avesse fatto tutto alla perfezione. Un attimo dopo cadde a faccia in giù sul cemento, a pochi centimetri da dove Herbert Franklin stava sdraiato a terra, la testa tra le mani. I proiettili sibilavano nell'aria. Sparando con la mano libera, Juliet aiutò il presidente ad alzarsi e lo spinse verso i tavoli del laboratorio, vicino al muro divisorio. In quel momento, si accorse che un soldato del 7° squadrone era in piedi sul tetto della camera di decompressione. Teneva il fucile puntato, pronto a sparare. Stava mirando dritto alla testa del presidente. Rivolse la pistola verso il soldato, pur sapendo che ormai era troppo tardi. Improvvisamente, la testa del soldato esplose e l'uomo cadde dalla camera di compressione. Juliet si voltò per vedere chi aveva sparato, ma non vide nessuno. Book II, Elvis e Love Machine si lanciarono dietro uno dei tavoli del laboratorio proprio mentre il piano del tavolo veniva investito da una miriade di proiettili.
Risposero al fuoco, mirando ai tre soldati dell'Aeronautica appostati dietro le cabine. Ma non ci voleva molto a capire che le armi di fortuna che avevano a disposizione, fucili da caccia e pistole, non potevano resistere a lungo al massiccio fuoco delle mitragliatrici P-90. Gli scaffali e i tavoli operatori intorno a loro stavano andando in pezzi sotto la forza devastante delle pallottole. Elvis si era accovacciato dietro il tavolo, proprio accanto a Book II. «Merda!» gridò. «Qui siamo spacciati!» «Esatto!» replicò Book II. Aveva appena ricaricato il suo fucile da caccia e si stava affacciando al bordo del tavolo per sparare, quando accadde qualcosa di strano: vide che tutte e tre le ombre scure dei soldati dell'Aeronautica venivano colpite, in rapidissima successione, da qualcuno che doveva trovarsi dietro di loro. I soldati caddero a terra come sassi; le loro armi tacquero di colpo. Book II si trovò davanti agli occhi un campo di battaglia sgombro. «Che diavolo...?» Dalla sua postazione vicino alla porta delle scale, il capo dell'unità Alpha, Kurt Logan, vide ciò che stava succedendo. «Merda! C'è qualcun altro qui dentro!» gridò nel suo microfono. Schiumava di rabbia. «Qualche bastardo ci ha sotto tiro!» Logan stava ancora gridando nel microfono, quando il soldato al suo fianco fu colpito in pieno volto. Metà del suo viso esplose. C'erano schizzi di sangue e pezzi di cervello dappertutto. «Maledizione!» Logan aveva pensato di perdere al massimo un paio di uomini nella battaglia, e invece ne aveva già persi sei. «Unità Alpha! Ritirarsi! Tutti sulle scale, subito! Evacuazione di emergenza!» Aprì lui stesso la porta delle scale, proprio mentre una fila di pallottole colpiva la parete accanto alla sua testa, mancandolo di pochi centimetri. Gli uomini rimasti evacuarono la sala, guadagnando la protezione del pianerottolo a est, ma non prima di aver brutalmente sparato ai corpi dei compagni caduti, crivellandoli di colpi. Logan stesso colpì senza pietà il corpo dell'uomo del 7° squadrone che si trovava sul pavimento accanto a lui. Quando ebbe finito, si ritirò oltre la porta. Improvvisamente, la sala tornò silenziosa.
Book II era ancora inginocchiato dietro il tavolo del laboratorio, insieme a Elvis e Love Machine. L'aria era pregna del fumo e dell'odore acre delle esplosioni e della polvere da sparo. Silenzio. Un silenzio assordante. Juliet Janson e il presidente erano sdraiati sul pavimento, a poca distanza da Book e dagli altri, protetti da un altro tavolo. I loro corpi erano coperti di polvere e calcinacci. Quando Juliet udì il tonfo di un paio di stivali che atterravano con un colpo sordo sul tavolo, sopra le loro teste, lei aveva ancora la pistola alzata. Tutti scattarono in piedi e si trovarono faccia a faccia col capitano dei marine Shane M. Schofield, in alta uniforme e con una Beretta per mano. Sorrise. «Ciao a tutti», disse. *** Nel frattempo nei bar, negli uffici e nelle case di tutta l'America, la gente sedeva davanti al televisore. Le sequenze a disposizione erano così poche che la CNN e le televisioni di tutto il mondo non potevano fare altro che continuare a mandare in onda quei pochi minuti di filmato. Gli interventi degli esperti si susseguivano. Ovviamente anche le persone che lavoravano per il governo si stava mettendo in azione. Ma nessuno sapeva bene che cosa fare, perché il luogo esatto di quell'incubo era noto solo a una stretta cerchia di collaboratori del presidente. In ogni modo, entro pochi minuti sarebbero scoccate le 8.00 secondo il fuso orario delle Montagne Rocciose. La gente di tutto il mondo aspettava con ansia il prossimo notiziario. TERZO CONFRONTO 3 LUGLIO, ORE 08.00
La Divisione spaziale della Defense Intelligence Agency (DIA) si occupa di monitorare i programmi spaziali delle potenze straniere. L'ufficio della Divisione spaziale ha sede al Pentagono, al penultimo piano sotterraneo ed esattamente tre livelli sotto la famosa «stanza dei bottoni». In questi termini, lavorare alla Divisione spaziale poteva sembrare qualcosa di eccitante. Ma, come David Fairfax sapeva bene, le cose stavano diversamente. Per dirla in breve, si finiva alla Divisione spaziale per punizione, perché là non succedeva mai niente d'interessante. Erano quasi le dieci del mattino, fuso orario dell'East Coast, e Fairfax, del tutto ignaro di quanto stesse accadendo nel mondo, era chino sulla tastiera del suo computer. Stava tentando di decifrare una serie di chiamate telefoniche che la DIA aveva raccolto nel corso degli ultimi mesi. Chiunque avesse fatto quelle telefonate, aveva pensato bene di servirsi di un codice criptato estremamente sofisticato. Spettava a Fairfax il compito di decifrare quel codice. Buffo come cambiano i tempi, pensò. David Theodore Fairfax era un esperto di decriptazione di codici segreti. Di statura media, magro, con capelli castani spettinati e occhiali con la montatura di metallo sottile, non aveva affatto l'aspetto del genio. In realtà, con le sue T-shirt, i jeans e le scarpe da tennis, aveva piuttosto l'aria di un qualsiasi studentello universitario imbranato, e non di un tecnico altamente
qualificato che lavora per conto del governo. Era stata la sua brillante tesi di dottorato sui calcoli teorici non lineari che gli era valsa l'attenzione della Defense Intelligence Agency. La DIA stava lavorando a stretto contatto con l'NSA, uno dei maggiori centri americani per la raccolta e la decodifica dei segnali. Ma questo non vietava loro di mantenere un proprio team di analisti crittografici, un gruppo che non di rado controllava la stessa NSA, e Dave Fairfax ne faceva parte. Fairfax si era subito appassionato all'analisi crittografica. Gli piaceva la sfida che implicava, la battaglia tra due menti: una che spera di nascondere, l'altra che spera di scoprire. Fairfax aveva una massima: non esiste codice criptato che non possa essere decriptato. Non gli ci volle molto tempo per farsi notare. All'inizio degli anni '90, le autorità degli Stati Uniti si erano imbattute in un certo Phil Zimmerman. Nel 1991, Zimmerman aveva avuto la scellerata idea di rendere di dominio pubblico il suo programma informatico, un software generatore di codici criptati chiamato PGP, pubblicandolo su Internet. E questo aveva provocato un certo scompiglio presso il governo degli Stati Uniti, per la semplice ragione che non si sapeva decifrare i codici generati da tale software. Il PGP utilizzava un sistema, conosciuto come «public key system», che prevedeva la moltiplicazione di numeri primi estremamente elevati per ottenere la chiave fondamentale del codice. Nello specifico, «numeri primi estremamente elevati» significava numeri con più di centotrenta cifre. Un codice simile non poteva essere decifrato. All'epoca, si era affermato che tutti i supercomputer del mondo avrebbero dovuto lavorare per un tempo dodici volte superiore a quello in cui si era sviluppato il nostro universo era per controllare tutti i valori possibili contenuti in un singolo messaggio criptato col PGP. Il governo, ovviamente, era infuriato. Si era inoltre diffusa la voce che diversi gruppi terroristici e alcuni governi stranieri avevano cominciato a utilizzare il PGP per criptare i loro messaggi. Nel 1993, Zimmerman era stato accusato di aver esportato un'arma fuori dagli Stati Uniti. Poi, stranamente, dopo aver perseguito Zimmerman per tre anni di fila, nel 1996 l'ufficio del procuratore federale aveva lasciato cadere l'accusa. Le autorità avevano dichiarato che non c'erano più i presupposti né l'interesse per portare avanti l'accusa; così la faccenda era stata archiviata. Quello che il procuratore federale non aveva pubblicamente detto era che lui aveva ricevuto una telefonata dal direttore della DIA, e che ciò era
avvenuto la mattina stessa in cui, poco più tardi, il caso sarebbe stato chiuso. Il direttore l'aveva informato che erano finalmente riusciti a decifrare il PGP. C'è una regola cui si attengono tutti coloro che lavorano nel settore della criptografia: una volta che hai decifrato il codice del nemico, non devi farglielo sapere per nessun motivo. L'uomo che aveva decifrato il PGP era uno sconosciuto matematico di venticinque anni; il suo nome era David Fairfax. Si scoprì in seguito che il computer per calcoli teorici non lineari non era più un sogno irrealizzabile. La DIA costruì un prototipo che aveva l'unico ma chiarissimo scopo di decifrare il codice PGP. Il risultato dei primi calcoli non solo diede prova delle capacità illimitate del computer, ma dimostrò che poteva scomporre in fattori numeri estremamente grandi con relativa facilità. Non esiste codice criptato che non possa essere decriptato. Purtroppo, però, nessun analista crittografico passerà mai alla storia, per il semplice fatto che dovrà mantenere uno stretto riserbo anche sulle sue più grandi vittorie. E così, David Fairfax decifrò il PGP, ottenne un piccolo aumento e continuò a lavorare come prima. Tutto qui. E ora si trovava alla Divisione spaziale ad analizzare una serie di trasmissioni telefoniche non autorizzate che erano entrate e uscite da una qualche remota base dell'Aeronautica nello Utah. E pensare che i «pezzi grossi» quel giorno si trovavano in una stanza simile alla sua, proprio di fronte a lui, dall'altra parte della sala. Un'unità di crittografi della DIA e dell'NSA stava captando segnali inviati sulla Terra da uno space shuttle cinese, lanciato in orbita da Xichang qualche giorno prima. Cavolo, si disse Fairfax. Quello almeno è interessante. Meglio che stare qui a decifrare le telefonate provenienti da una stupida base dell'Aeronautica in mezzo al deserto. Le telefonate registrate apparivano sullo schermo del computer di Fairfax sotto forma di una cascata di numeri che rappresentava matematicamente una serie di conversazioni telefoniche intercettate e registrate durante gli ultimi due mesi. Fairfax osservava lo schermo. Indossava un paio di enormi cuffie dalle quali usciva un flusso d'interferenze.
Una cosa era certa: chiunque avesse fatto quelle telefonate, le aveva criptate molto bene. Fairfax se ne stava occupando ormai da due giorni. Provò con qualche vecchio algoritmo. Niente. Provò con alcuni di quelli più recenti. Niente. Sarebbe andato avanti così per tutto il mese, se fosse stato necessario. Decise di lanciare un programma che aveva sviluppato lui stesso per decifrare l'ultimo sistema di criptaggio dei segnali della Vodafone. «... Kan bevestig dat in-enting plaasvind...» Per qualche secondo una strana lingua gutturale gli si era materializzata nelle orecchie. Gli occhi di Fairfax scintillarono. Beccati! Applicò il programma su alcune delle altre telefonate registrate. E subito il rumore statico si trasformò in voci chiare e definite, anche se in una lingua straniera intervallata da alcune strane frasi in inglese. «... Toetse op laaste pogin word op die vier-en-twientigste verwag. Wat van die onttrekkings eenheid...?» «... Reccondo span is alreeds weggestuur...» «Voorbereidings onderweg. Vroeg oggend. Beste tyd vir onttrekking...» «... Everything is in place. Confirm that it's the third...» «... Onttrekking kan 'n probleem wees. Gestel ons gebruik die Hoeb land hier naby. Verstaan hy is 'n lid van Die Organisasie...» «... Sai die instruksies oorda...» «... Mission is a go...» «... Die Reccondos is gereed. Verwagte annkoms by beplande bestemming binne nege dae...» Osservando lo schermo, gli occhi di Fairfax brillavano di una luce soddisfatta. Non esiste codice criptato che non possa essere decriptato. Allungò la mano verso il telefono. *** Dopo il breve scontro a fuoco nell'area di decompressione, Schofield e gli altri si erano ritirati sull'altro lato del livello 4, nel laboratorio di osservazione che sovrastava il gigantesco cubo di vetro. Si erano chiusi le porte
alle spalle e avevano fatto saltare la pulsantiera di sicurezza con qualche colpo di pistola. Di tutti i luoghi che Schofield aveva visto fino ad allora nell'Area 7, quello era di certo il più facilmente difendibile. Giacché avevano bloccato l'ascensore del personale, rimanevano soltanto due ingressi: la breve rampa che conduceva al montacarichi per gli aerei e la porta che dava sulle scale che scendevano verso il cubo. Juliet Janson si lasciò cadere sul pavimento del laboratorio, esausta. Il presidente fece lo stesso. I marine - Book II, Elvis, Love Machine, Mother e Brainiac - si raccontarono brevemente le rispettive disavventure all'interno della tromba dell'ascensore e sull'aereo AWACS. L'ultimo che si era unito al gruppo, lo scienziato Herbert Franklin, era seduto in un angolo e fissava il vuoto. Schofield e Gant erano rimasti in piedi. Avevano qualche arma in più, presa ai soldati del 7° squadrone morti nell'area di decompressione: armi, qualche cuffia con ricetrasmittente, tre granate a base di RDX ad alto potenziale esplosivo e due Lock-Blaster, piccoli congegni esplosivi che servivano a far saltare le serrature. Gli uomini di Logan avevano comunque fatto piazza pulita. Le brutali raffiche sparate contro i loro compagni non avevano avuto lo scopo di uccidere eventuali feriti, ma di distruggere le armi che i soldati avevano con loro, per evitare che finissero nelle mani del nemico. Un solo fucile d'assalto P-90 si era salvato dalla distruzione. Tutti gli altri erano stati danneggiati dalle pallottole insieme alla maggior parte delle pistole semiautomatiche dei caduti. «Mother.» Schofield le lanciò il P-90. «Va' a controllare l'ingresso della rampa. Elvis, le scale che portano al cubo!» Mother ed Elvis partirono di corsa. In quella situazione qualsiasi altra persona sarebbe andata dritta dal presidente, ma Schofield non lo fece. Aveva già visto che non era stato ferito e, finché il suo cuore avesse continuato a battere, tutto sarebbe filato liscio. Schofield si avvicinò invece a Juliet Janson. «Mi aggiorni», fu tutto quello che disse. Janson guardò Schofield, ma scorse solo il proprio riflesso deformato nelle lenti argentate dei suoi occhiali. L'aveva visto prima, sempre vicino agli elicotteri del presidente, ma non si erano mai rivolti la parola. Ne aveva sentito parlare dagli altri agenti.
Sapeva che era «il tizio dell'Antartide», e poco altro. «Ci hanno attaccato nella sala del livello 3, subito dopo che è stato diramato il messaggio sul sistema di trasmissione d'emergenza», disse. «Da quel momento, li abbiamo avuti ininterrottamente alle calcagna. Abbiamo raggiunto le scale e siamo scesi per guadagnare l'uscita d'emergenza al livello 6, ma ci stavano già aspettando. Siamo risaliti per le scale, ma anche lì ci stavano aspettando. Siamo entrati nel livello 5 per poi salire le scale interno fino al 4. Ed erano di nuovo lì ad aspettarci.» «Perdite?» «Otto agenti della scorta del presidente. E l'intera squadra avanzata giù al livello 6. In totale diciassette uomini.» «Frank Cutler?» «Morto anche lui.» «Altro?» Janson fece un cenno con la testa verso l'uomo col camice. «Lo abbiamo trovato al livello 5, un attimo prima di finire nell'imboscata nella stanza di decompressione. Sostiene di essere uno scienziato che lavorava qui.» Schofield diede un'occhiata a Herbert Franklin. L'uomo era seduto all'angolo della stanza, silenzioso, la testa china in avanti. «E tu?» chiese Janson. Schofield si strinse nelle spalle. «Eravamo nell'hangar principale quando è scoppiato l'inferno. Attraverso una conduttura dell'aria siamo arrivati in uno degli hangar sotterranei, dove abbiamo distrutto un Humvee e poi siamo precipitati con un AWACS.» «Il solito», aggiunse Gant. «Come facevi a sapere che ci stavano tendendo un'imboscata?» volle sapere Janson. «Eravamo giù, accanto al cubo di vetro, quando nell'area di decompressione le luci si sono spente. Speravamo si trattasse di uno dei nostri che tentava di nascondersi dalle telecamere di sicurezza. Così abbiamo dato uno sguardo dalle passerelle sospese. C'erano delle persone che stavano preparando un'imboscata. Volevano beccarsi il 'primo premio'.» Accennò con la testa al presidente. «Così abbiamo pensato di fargli una sorpresa.» Dall'altra parte della stanza, Brainiac si era seduto accanto al presidente. «Signor presidente», lo salutò. «Salve», rispose il presidente.
«Come sta, signore?» «Be', diciamo che sono ancora vivo, il che non è male, se si tiene conto delle circostanze. Come ti chiami, soldato?» «Gorman, signore. Caporale Gus Gorman, ma tutti mi chiamano Brainiac.» «Brainiac?» «Esatto, signore.» Esitò un attimo. «Signore... se non le dispiace, mi stavo chiedendo, se la cosa non le arreca disturbo... vorrei farle una domanda.» «Certamente», disse il presidente. «Grazie. Okay. Lei, essendo il presidente e tutto il resto, dovrebbe sapere certe cose, giusto?» «Sì, presumo di sì.» «Ottimo! Perché ho sempre desiderato sapere questo: Puerto Rico è un protettorato degli Stati Uniti perché ha la più alta percentuale mondiale di avvistamenti di UFO?» «Prego?» «Be', mi sono sempre detto: nessuno sano di mente vorrebbe un posto del genere. Ci dev'essere un'altra ragione...» «Brainiac!» Schofield aveva osservato la scena dall'altra parte della stanza. «Lascia stare il presidente. Signore, sarebbe meglio se venisse qui. Sono quasi le 8.00, e Caesar farà il punto della situazione da un momento all'altro.» Il presidente si alzò e si avvicinò a Schofield, ma non prima di aver lanciato un'occhiata interrogativa a Brainiac. *** Alle ore 8.00 in punto, la faccia di Caesar Russell apparve su tutti gli schermi dell'Area 7. «Cittadini americani», iniziò. «La prima ora è passata, e il presidente è ancora vivo. Non si trova però in una situazione molto favorevole. La sua scorta personale è decimata. Otto dei nove uomini sono morti. Altre due unità dei servizi segreti, due squadre avanzate, una all'ultimo livello di quest'area, l'altra appostata a una delle uscite esterne, sono state eliminate. Con questo il numero delle loro perdite è salito a ventisei uomini. Ma ci sono invece morti tra i soldati del 7° squadrone. Detto questo, un piccolo gruppo di marine degli Stati Uniti - membri della squadra degli elicotteristi
del presidente, così eleganti nelle loro alte uniformi - è giunto in difes...» Proprio in quell'istante, senza il minimo preavviso, i televisori nell'Area 7 si spensero di colpo. Gli schermi si oscurarono. Contemporaneamente, si spensero tutte le luci del complesso, lasciando l'Area 7 nella più totale oscurità. Dentro il laboratorio del livello 4 tutti si guardarono intorno, allarmati per l'improvvisa interruzione dell'energia elettrica. «Cazzo!» esclamò Gant, guardando il soffitto. Un secondo dopo, i neon si riaccesero, lampeggiando. Anche il sistema di monitor interni riprese a funzionare. C'era sempre la faccia di Caesar in primo piano. «... che ci lascia con cinque unità del 7° squadrone contro una manciata di marine degli Stati Uniti. Questa è la situazione alle ore 8.00. Ci rivedremo per un altro aggiornamento alle 9.00.» Gli schermi si spensero. «Bugiardo!» disse Juliet Janson. «Quel figlio di puttana sta falsando la verità. La squadra avanzata al livello 6 era già morta quando siamo arrivati. Li hanno ammazzati prima che iniziasse tutto questo casino.» «Racconta balle anche sulle sue perdite», disse Brainiac. «Lurido bastardo!» «Che facciamo ora?» chiese Gant a Schofield. «Sono in schiacciante superiorità numerica, ci hanno circondato e possiedono armi a volontà. Inoltre hanno scelto il campo e giocano in casa.» Schofield stava pensando esattamente la stessa cosa. Il 7° squadrone li stava facendo correre come e dove voleva. Avevano tutti i vantaggi dalla loro parte, e soprattutto - Schofield diede un'occhiata all'alta uniforme che indossava - si erano preparati con largo anticipo. «Okay», disse, pensando a voce alta. «Conosci il tuo nemico.» «Cos'hai detto?» «Dobbiamo pareggiare, ma, per farlo, bisogna conoscere alcuni fatti. Regola numero uno: conosci il tuo nemico. Bene. Chi sono loro?» «Il 7° squadrone», rispose Janson. «La più temibile unità di fanteria dell'Aeronautica. I migliori in tutto il Paese. Ben addestrati, ben armati...» «Anche grazie agli steroidi», s'intromise Gant. «Più di semplici steroidi», disse un'altra voce. Tutti si voltarono. Era Herbert Franklin, lo scienziato.
«Lei chi è?» chiese Schofield. L'uomo per un attimo si fece ancora più piccolo. «Mi chiamo Herbie Franklin. Fino a stamattina ero un immunologo che lavorava sul progetto Fortuna. Poi però mi hanno chiuso in cella, poco prima del vostro arrivo.» «Che cosa intende con 'più di semplici steroidi'?» chiese Schofield. «Quello che volevo dire è che i soldati del 7° squadrone di stanza in questa base sono stati... rinforzati. Potenziati, aiutati a raggiungere risultati migliori. Vi siete mai chiesti perché quelli del 7° squadrone vincono a tutte le competizioni con altri gruppi militari? Vi sembra normale che siano in grado di continuare a combattere quando tutti gli altri svengono per la stanchezza?» «Be', sì...» Franklin continuò a parlare velocemente: «Steroidi anabolizzanti per rinforzare le fasce muscolari e incrementare la resistenza. Iniezioni di eritropoietina sintetica per aumentare l'ossigenazione del sangue». «Eritropoietina sintetica?» ripeté Gant. «Conosciuta anche come EPO», spiegò Herbie. «È un ormone che serve a stimolare la produzione di cellule ematiche da parte del midollo, aumentando l'afflusso di ossigeno nel sangue. Molti atleti che praticano sport di resistenza, soprattutto i ciclisti, lo usano da anni. Quelli del 7° squadrone sono più forti di voi, e possono correre per un giorno intero.» Herbie fissò Schofield dritto negli occhi. «Diamine, capitano, questi uomini erano già forti prima di arrivare qui, ma, da quando si trovano alla base, vengono trattati con farmaci potentissimi e combattono meglio e più a lungo di qualsiasi altro soldato.» «Va bene, va bene», disse Schofield. «Abbiamo afferrato il concetto.» In verità stava già pensando a tutt'altro. Pensava a un bambino di nome Kevin, che si trovava a soli quindici metri da lui e che viveva all'interno di un cubo di vetro. «Allora è questo che state facendo qui dentro. È questo il vero segreto della base? Produrre supersoldati?» «No.» Herbie lanciò un'occhiata al presidente. «Il potenziamento fisico dei soldati del 7° squadrone è soltanto un'obiettivo complementare, per avere uomini efficienti a guardia della base.» «Allora che diavolo succede qui dentro?» Herbie si voltò di nuovo per cercare il presidente con lo sguardo. Poi inspirò profondamente; stava per parlare, quando un'altra voce rispose per lui. «In questa base si trova il vaccino più importante mai sviluppato nella
storia degli Stati Uniti», disse la voce. Schofield si voltò. Era stato il presidente a parlare. Lo scrutò con attenzione. Il presidente indossava ancora il completo scuro e la cravatta. Con i suoi capelli grigi ben curati e la faccia rugosa, aveva l'aria dell'uomo d'affari di mezz'età, anche se si capiva che aveva sudato sette camicie durante l'ultima ora. «Un vaccino?» ripeté Schofield. «Sì, un vaccino. Un vaccino contro l'ultimo virus genetico prodotto in Cina. Un virus che attacca le persone di razza bianca attraverso l'enzima del DNA che determina la pigmentazione della pelle. Questo agente è conosciuto come xenovirus.» «E da dove viene questo vaccino?» s'informò Schofield. «Da un essere umano geneticamente modificato», rispose il presidente. «Cosa?!» «Una persona, capitano Schofield. Un essere umano che, ancora in stato embrionale, è stato modificato appositamente per resistere allo xenovirus, una persona il cui sangue può garantire la produzione di anticorpi per tutta la popolazione degli Stati Uniti. Una specie di vaccino umano. Il primo essere umano costruito a tavolino. Un bambino di nome Kevin.» *** Gli occhi di Schofield erano due strette fessure. Questo spiegava un mucchio di cose: la segretezza che aleggiava intorno alla base, la visita del presidente, e soprattutto l'esistenza di un bambino rinchiuso in un cubo di vetro. Ma Schofield era stupito soprattutto da un altro elemento. Il presidente conosceva il nome del ragazzino. «Un bambino è stato creato per essere usato come vaccino?» chiese. «Con tutto il rispetto, signore, ma questo non le ha creato qualche problema di coscienza?» Il presidente fece una smorfia. «Nel mio lavoro non c'è il bianco o il nero, capitano. Mi trovo immerso nel grigio. E in questo mondo grigio, io devo prendere le mie decisioni, decisioni spesso difficili. È vero, Kevin esisteva già prima che io diventassi presidente, ma non appena venni eletto fui informato di ogni cosa. Dovevo prendere io la decisione se continuare il progetto o lasciarlo cadere. E ho dovuto scegliere. Può anche non pia-
cermi, ma, di fronte a una minaccia come lo xenovirus, sono necessarie decisioni drastiche.» Calò il silenzio. Book II fu il primo a riprendere la parola. «A che cosa servono i prigionieri al piano di sotto?» «E anche gli animali», aggiunse Juliet. «Che cosa ne fanno?» Schofield non disse niente. Non era stato al livello 5, dunque non sapeva niente né degli uni né degli altri. Fu Herbie Franklin a rispondere: «Gli animali sono utilizzati per ambedue i progetti, sia per il vaccino, sia per il potenziamento fisico dei soldati del 7° squadrone. Gli orsi Kodiak servono per una peculiarità nelle tossine del loro sangue. Tutti gli orsi possiedono livelli estremamente alti di ossigeno nel sangue. Serve durante il letargo. L'idea di aumentare i livelli di ossigeno nel sangue dei soldati del 7° squadrone è nata dagli studi condotti su questi animali». «E che cosa c'è nelle celle di vetro, quelle che sembrano acquari?» chiese Janson. «Ho visto qualcosa muoversi là dentro.» Herbie aspettò un momento prima di rispondere. «C'è una rara specie di lucertole, il Varanus komodoensis, conosciuto anche come 'drago di Komodo'. Sono le lucertole più grandi al mondo, lunghe fino a quattro metri e grosse come un coccodrillo adulto. Ne abbiamo sei esemplari, qui alla base.» «A che cosa servono?» chiese Schofield. «Appartengono a una specie animale tra le più antiche della Terra. Vivono solo nelle isole centrali dell'Indonesia. Sono abili nuotatori, capaci di spostarsi da un'isola all'altra, ma sono altrettanto veloci sulla terraferma, in grado d'inseguire e di raggiungere un uomo in corsa. E sono immuni alle malattie. I loro linfonodi producono un siero antibatterico altamente concentrato che protegge questi animali da millenni.» Il presidente disse: «Siamo intervenuti sul sangue dei draghi di Komodo in modo da renderlo compatibile col sangue umano, formando così la base del sistema immunitario di Kevin. Poi abbiamo preso il plasma prodotto geneticamente da Kevin per creare un siero, il quale è destinato a essere immesso nelle tubature dell'acqua potabile degli Stati Uniti in soluzione idratata: così riusciremo a immunizzare allo xenovirus la maggior parte della popolazione». «Sta dicendo che qualcuno adultera l'acqua potabile di questo Paese?» Schofield era incredulo.
«E non sarebbe nemmeno la prima volta», rispose Herbie. «Nel 1989 è stato fatto contro la tossina del botulino, e nel 1990, a causa della crisi con l'Iraq, contro l'antrace. Gli americani non lo sanno, ma sono immuni a tutte le principali armi chimiche del mondo.» «E i prigionieri nella base?» chiese Book II. «Perché si trovano qui?» Herbie guardò il presidente, che annuì silenziosamente. Lo scienziato si strinse nelle spalle. «I prigionieri sono tutta un'altra storia. Il loro ruolo è semplice. Sono cavie umane su cui testare il vaccino.» «Cristo santo!» esclamò Gant, scorrendo la lista di prigionieri. Dopo aver spiegato a che cosa servivano quegli uomini, Herbie aveva cercato l'elenco dei loro nomi su uno dei computer del laboratorio. C'erano quarantadue prigionieri in tutto, ergastolani o condannati a morte che, in qualche modo, erano riusciti a non finire sulla sedia elettrica. «Feccia», disse Herbie, indicando la lista. Schofield conosceva molti di quei nomi. Sylvester McLean, l'assassino di bambini di Atlanta. Ronald Noonan, il panettiere di Houston che si era messo a sparare alla folla dal municipio. Lucifer Leary, il serial killer di Phoenix. Seth Grimshaw, il famigerato capo della Black League, un'organizzazione ultraviolenta di terroristi, convinta che il governo degli Stati Uniti volesse affidare la guida del Paese alle Nazioni Unite. «Seth Grimshaw?» chiese Gant. Si girò verso Juliet Janson. «Non era quel tizio che ha...?» «Sì», la interruppe Janson a voce bassa, dopo aver lanciato un'occhiata preoccupata verso il presidente, dall'altra parte del laboratorio. «In febbraio, subito dopo la cerimonia d'insediamento.» Gant sapeva di che cosa stava parlando Juliet Janson e capì che non era il caso di scendere nei dettagli. «Mi auguro solo che le sbarre delle celle siano molto robuste», disse. «Bene», esclamò Schofield. «Torniamo a noi. Siamo chiusi qua dentro. I cattivi vogliono far fuori il presidente, che ha una trasmittente impiantata sul cuore: se muore, quattordici tra le più importanti città statunitensi se ne andranno in fumo.» «E tutto sotto gli occhi della popolazione americana», aggiunse Janson. «Non necessariamente», s'intromise il presidente. «Non credo che Caesar sappia della direttiva LBJ.» «La direttiva LBJ?» chiese Schofield.
«È un meccanismo collegato al Sistema di trasmissione d'emergenza, l'EBS, di cui si è servito Caesar per la diretta televisiva. Ma solo il presidente degli Stati Uniti e il suo vice sanno della sua esistenza. Si tratta in sostanza di una valvola di sicurezza, inventata nel 1967 dal presidente Lyndon Johnson, che impedisce che l'EBS sia messo in funzione troppo in fretta.» «Come funziona?» «Inserisce un ritardo di quarantacinque minuti nella trasmissione attraverso l'EBS. La trasmissione avviene in diretta solo se il presidente inserisce un codice segreto nel sistema. In altre parole, tranne nei casi più urgenti, la direttiva LBJ evita che sia diramata via etere una notizia che può gettare nel panico la popolazione. Frappone un diaframma di quarantacinque minuti per calmare le acque. Ora, visto che sono le 8.09, la prima trasmissione di Caesar ormai è uscita di qui ed è stata vista in tutti gli Stati Uniti; ma, se trovassimo la scatola di trasmissione EBS all'interno dell'Area 7, potremmo bloccare tutte le trasmissioni successive.» Schofield stava pensando velocemente. «Per ora non è tra le nostre priorità. Possiamo farlo solo se capitiamo nel posto giusto al momento giusto.» Si rivolse a Herbie: «Ci parli dell'Area 7». Herbie annuì. «Che cosa c'è da sapere? È una fortezza. Prima era il quartier generale della NORAD. Quando la base viene sigillata, lo è per davvero. Ma penso che nessuno si sarebbe mai aspettato che fosse usata per tenere qualcuno dentro.» «Ma un ordine di chiusura totale deve avere una procedura di annullamento», disse Schofield. «Qualcosa che riapra le porte quando l'emergenza è cessata.» «La serratura a tempo», disse Herbie. «Cioè?» «Nel caso di una totale chiusura della base, si attiva un sistema di sicurezza controllato da un timer. Ogni volta che scatta l'ora piena, le persone rimaste vive all'interno della base hanno a disposizione una 'finestra temporale' di cinque minuti. Ma per utilizzarla devono prima immettere uno dei tre codici.» «Quali codici?» «Si ricordi», disse Herbie, «che questa base è stata ideata in previsione di un'eventuale guerra nucleare tra gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica. I codici riflettono questa concezione. Infatti ci sono tre possibili codici per il timer. Il primo codice prolunga semplicemente la chiusura delle porte: la
crisi nucleare continua e la base rimane chiusa e sigillata. Il secondo codice presuppone che la crisi sia finita, e dunque termina il blocco. Le porte blindate che danno all'esterno e tutte gli accessi si riaprono.» «E il terzo codice?» chiese Gant. «Il terzo codice è una via di mezzo tra i primi due. Permette di far uscire un eventuale messaggero. Insomma, autorizza l'apertura di singole porte per far uscire e rientrare singole persone.» Schofield stava ascoltando Herbie con grande interesse. «Che cosa succede se durante la finestra temporale non viene inserito nessun codice?» chiese. «Lei è un tipo sveglio, capitano. Vede, è proprio questo il punto. Se non viene inserito nessun codice, il timer avverte il computer dell'Area 7 che il nemico potrebbe essere penetrato nella base. Vi sarà ancora la possibilità d'inserire uno dei codici prima dello scoccare dell'ora successiva, ma se non viene inserito un codice nemmeno durante quella finestra temporale, il computer è programmato in modo da agire come se la base fosse occupata dal nemico. A quel punto, entra in azione il meccanismo di autodistruzione.» «Un meccanismo di autodistruzione!?» sbottò Brainiac. «Che diavolo significa?» «S'innesca una testata termonucleare di cento megaton, già bell'e pronta sotto l'Area 7.» «Cristo!» esclamò Brainiac. «L'avranno rimossa dopo il crollo dell'Unione Sovietica... spero», disse Gant. «Temo di no», rispose Herbie. «Quando la base fu trasformata in un centro di ricerca per le armi chimiche, le autorità militari competenti ritennero che il meccanismo di autodistruzione avesse ancora motivo di esistere. Se fosse avvenuto un incidente e un virus avesse invaso l'interno dell'Area 7, tutto il complesso, incluso il virus, sarebbe stato distrutto da un'esplosione termonucleare.» «Bene», disse Schofield. «Dunque, se vogliamo andarcene da qui, dobbiamo prima aspettare che scocchi l'ora piena per sfruttare la finestra temporale, poi trovare un computer collegato alla rete centrale della base, e infine inserire il codice corretto.» «Direi che ha riassunto perfettamente la situazione», commentò Herbie. «E quali sono i codici?» «Questo non lo so», rispose Herbie. «So come iniziare la procedura di
chiusura dell'impianto, ma non ho i mezzi per annullarla, una volta che la base è stata sigillata. Solo quelli dell'Aeronautica possono farlo...» «Mi scusi», disse Juliet Janson. «Ma non ci stiamo dimenticando qualcosa?» «Cioè?» chiese Brainiac. «Il Football», rispose Janson. «La ventiquattrore, su cui il presidente deve premere il palmo della mano ogni novanta minuti per evitare che le testate al plasma negli aeroporti saltino in aria». «Merda!» disse Schofield sotto voce. Se n'era completamente dimenticato. Guardò l'orologio. Erano le 8.12. Tutto era iniziato alle 7.00. Il che significava che dovevano fare in modo che il presidente mettesse la mano sul Football entro le 8.30. Si guardò intorno. «Qualcuno sa dove lo tengono?» chiese. «Russell ha detto che era nell'hangar principale, al livello terra», rispose il presidente. «Che dici?» Gant stava guardando Schofield. «Non mi sembra di avere scelta. In un modo o nell'altro dobbiamo fargli mettere la mano sopra.» «Non vorrai mica andare avanti così all'infinito?» «Certo che no», disse Schofield. «Prima o poi dovremo inventarci una soluzione definitiva. Ma fino ad allora preferisco occuparmi dei problemi a mano a mano che ci si presentano.» Janson sembrava agitata. «Sarebbe una follia portare il presidente al livello terra. Ci staranno già aspettando!» «È vero.» Schofield si alzò in piedi. «Non lo faremo. Porteremo il Football dal presidente.» *** «La prima cosa che dobbiamo fare», cominciò Schofield, «è occuparci di quelle telecamere di sicurezza. Finché continueranno a funzionare, saremo in svantaggio.» Si rivolse a Herbie Franklin. «Dove si trova la scatola di derivazione principale?» «Al livello 1, all'interno dell'hangar. Mi sembra che sia sul lato nord.» «Bene.» Schofield annuì. «Mother, Brainiac: voi due vi occuperete delle telecamere. Tagliate i fili, interrompete la corrente elettrica, fate quello che vi pare, ma spegnetemi le telecamere. Intesi?»
«Intesi», rispose Mother. «E portatevi dietro il dottor Franklin. Se ha mentito, sparategli.» «Okay.» Mother guardò Herbie con sospetto. Herbie deglutì. «Che facciamo noi?» chiese Juliet. Schofield fece cenno di seguirlo. Andò verso la breve rampa che portava verso la piattaforma del montacarichi. «Noi andiamo di sopra a giocare un po' a football.» «... Ricarica del sistema completata...» «Rapporto», richiese Caesar Russell. Dieci minuti prima, durante la seconda trasmissione EBS, nell'intera base si era verificato un inaspettato blocco dell'energia elettrica. Di conseguenza, tutti i sistemi interni si erano spenti. «... Confermo: l'alimentazione principale è stata interrotta», disse uno degli operatori radio. «Attualmente è in funzione l'alimentatore d'emergenza. Tutti i sistemi sono operativi.» «... Abbiamo perso l'immagine satellitare dell'uscita di sicurezza. Stiamo ristabilendo il contatto col satellite...» «Ricevuto. Il sistema principale di alimentazione è stato spento nella scatola di derivazione al livello 1 esattamente alle ore 8.00, dall'operatore 008-72...» «008-72?» Caesar si era avvicinato all'uomo che aveva appena parlato. «... Signore, non abbiamo contatto visivo. Tutte le telecamere sono fuori uso a causa dell'interruzione della rete principale di alimentazione...» Caesar sbottò: «A tutte le unità: rapporto immediato!» «... Qui è Alpha», rispose la voce di Kurt Logan. «Cambiare la frequenza di trasmissione. C'è la possibilità che il nemico abbia alcune delle nostre ricetrasmittenti...» «... Cambio frequenza completato», disse l'operatore capo. «Continui pure, comandante unità Alpha...» «... Siamo nell'hangar del livello 2. Ci stiamo dirigendo verso l'ascensore del personale per raggiungere gli altri nell'hangar principale. Abbiamo perso sei uomini...» «... Qui comandante dell'unità Bravo. Siamo nell'hangar principale in copertura del Football. Nessun ferito...» «... Qui comandante dell'unità Charlie. Stiamo attraversando la sala riunioni del livello 3 con l'unità Echo. Abbiamo un morto e due feriti a causa del casino che è successo con l'AWACS. Mi risulta che l'ultima volta i
nemici siano stati avvisati al livello 4. Ci stiamo preparando per un attacco congiunto attraverso i cunicoli di collegamento tra il livello 3 e 4. Prego informare...» «... Charlie, Echo, qui è sala di controllo. Abbiamo perso ogni contatto visivo nell'area del laboratorio al livello 4...» «Charlie ed Echo, attaccate!» interruppe Caesar Russell con decisione. «Stategli addosso. Non potranno fuggire in eterno.» «... Qui unità Delta. Siamo ancora al livello 5. Nessun ferito. Quando abbiamo abbattuto la porta antincendio al livello 5, i nemici erano già saliti al 4 passando per la rampa. Nell'area prigionieri del livello 5 l'acqua sta salendo rapidamente. Attendo ordini...» «... Delta, qui è Caesar», disse Russell freddamente. «Ritornate giù al livello 6 e coprite le uscite X-rail.» «... Ricevuto, signore. Affermativo...» Venti soldati del 7° squadrone percorrevano un corridoio degli alloggiamenti del livello 3. Il rumore dei loro stivali rimbombava. Erano gli uomini dell'unità Charlie ed Echo. Arrivati all'altezza di un tombino dalla chiusura pressurizzata, gli uomini si fermarono. Inserito un codice nel dispositivo del coperchio, il tombino liberò con un sibilo la pressione dell'aria e poté essere rimosso senza problemi, rivelando uno spazio angusto tra il soffitto del livello 4 e il pavimento del livello 3. Un'altra apertura circolare a pressione si trovava direttamente al di sotto dell'apertura del primo tombino. Era l'ingresso al livello 4. Uno dei soldati vi si calò. «Controllo, qui è il comandante dell'unità Charlie», disse Python Willis nel suo microfono incorporato nel casco. «Ci troviamo sopra il tombino che porta al laboratorio del livello 4. Ci prepariamo a entrare.» «Fatelo!» rispose la voce di Caesar. Python fece un cenno al soldato che si era infilato nello spazio sotto il pavimento. Il soldato rilasciò il meccanismo di pressione della valvola a tenuta stagna e il tombino cadde dentro il livello 4, colpendo il pavimento quasi tre metri sotto di loro. L'uomo saltò giù, seguito da altri tre soldati coi P-90 pronti a sparare. Niente: il laboratorio era vuoto. Improvvisamente ci fu un rumore meccanico, come un rombo. Proveni-
va da dietro una parete. I soldati del 7° squadrone si voltarono all'istante. Era il rumore della piattaforma idraulica del montacarichi. Si era messa in moto. I soldati dell'unità Charlie ed Echo scesero di corsa per la corta rampa che dal laboratorio portava al montacarichi. Arrivarono giusto in tempo per vedere il lato inferiore della gigantesca piattaforma muoversi lentamente verso l'alto, cioè verso l'hangar principale. Python Willis parlò nel microfono del casco. «Controllo, qui il comandante dell'unità Charlie. Si stanno spostando verso il Football.» *** Con un rombo, l'immensa piattaforma del montacarichi saliva lentamente tra le pareti di cemento, trasportando con sé i resti dell'AWACS distrutto. L'aereo giaceva inclinato, come un uccellino ferito, col muso più in basso della coda distrutta, le ali in parte staccate e spezzate. Un triste spettacolo. Il rotodome dell'aereo, ancora funzionante, sovrastava tutto il resto. Metro dopo metro, il montacarichi saliva tra le pareti imbrattate di grasso per motori. Quando la piattaforma passò davanti alla porta spalancata del livello 1, tre piccole sagome saltarono giù dalla piattaforma e s'infilarono velocemente nell'hangar sotterraneo. Erano Mother e Brainiac. Herbie Franklin li seguiva, respirando faticosamente. Si stavano dirigendo verso la scatola di derivazione principale. Franklin aveva detto che si trovava nell'hangar del livello 1. Ora dovevano disattivare il sistema interno di telecamere. L'hangar era deserto. Gli uomini del 7° squadrone erano spariti. Ad aspettarli nell'immenso spazio c'erano solo i due cacciabombardieri Stealth e il solitario Blackbird SR-71. Correndo lungo la parete sulla sinistra dell'hangar Mother controllò l'orologio. Ore 08.20. Dieci minuti ancora per portare il Football al presidente.
Mentre si muoveva lungo la parete di cemento, sempre all'erta contro eventuali imboscate da parte dei nemici, osservava il vasto comparto nella parete che aveva davanti a sé sul lato nord: la porta di acciaio era stata divelta e ora giaceva al centro dell'hangar. «Ah, già!» disse. «Che cosa?» chiese Herbie alle sue spalle. «Durante il nostro incontro coi soldati del 7° squadrone, ci hanno sparato contro un paio di missili Stinger. Uno ha colpito questa rientranza nella parete, e l'altro deve aver forato qualche cisterna per l'acqua all'interno della parete dall'altra parte, vicino all'ascensore del personale.» «Ah», fece Herbie. «Vediamo se è rimasto qualcosa», disse Mother. Al piano superiore, la piattaforma stava lentamente raggiungendo l'hangar principale. I resti dell'aereo AWACS furono i primi a comparire. Per prima, la parte posteriore dell'aereo, già distrutta e divelta dal missile... ... poi il rotodome ancora intatto... ... infine le ali spezzate... Ormai tutto quello che rimaneva dell'AWACS era visibile. La piattaforma aveva raggiunto il livello dell'hangar e si arrestò con un forte rumore metallico. Ci fu un lungo momento di silenzio. L'hangar del livello terra recava ancora i segni della battaglia che vi si era svolta nemmeno un'ora e mezzo prima. Il Marine One occupava il lato a ovest della piattaforma del montacarichi, mentre l'altro elicottero, il Nighthawk Two, quasi completamente distrutto, si trovava insieme col suo veicolo di traino sul lato settentrionale, proprio davanti all'ascensore del personale. Sul lato a est dell'AWACS, invece, c'era una sorpresa: dieci soldati del 7° squadrone, l'unità Bravo. Si erano posizionati tra la piattaforma e l'ufficio dalle vetrate inclinate, disposti a semicerchio dietro una barricata fatta di casse di legno e grandi contenitori di plastica. Su una sedia, al centro della barricata, c'era un oggetto familiare: una ventiquattrore di acciaio inossidabile, aperta; al suo interno, una serie di led verdi e rossi, una tastiera e il vetro di un analizzatore per le impronte della mano.
Il Football. Il capitano Bruno «Boa» McConnell, l'uomo dagli occhi grigi che comandava l'unità Bravo, fissava sospettoso quello che restava dell'AWACS sul montacarichi. Ancora silenzio. «Come vanno le cose laggiù?» La voce sussurrata di Schofield arrivò nell'auricolare di Mother. Un regalo di un agente dei servizi segreti morto. Sotto, al livello 1, Mother si trovava di fronte alla scatola di derivazione principale dell'impianto elettrico, tentando di capirci qualcosa. Oltre metà del pannello elettrico era andata completamente distrutta durante l'impatto del missile. Nell'altra metà, si vedeva un groviglio di fili e cavi elettrici fusi e bruciati, ma alcune zone erano state risparmiate. In quel momento, Herbie Franklin stava lavorando sulla tastiera di un terminale rimasto miracolosamente illeso. «Solo un attimo», disse Mother nel microfono fissato al suo polso. «Senti, segaossa, come stanno le cose?» Franklin fece una smorfia. «Non ha senso. Qualcuno è già stato qui, circa venti minuti fa, alle otto in punto. Hanno tagliato la linea centrale dell'impianto elettrico. Tutta la base in questo momento sta funzionando col sistema elettrico di emergenza...» «Riesci a far fuori le telecamere?» Mother fece un gesto verso il monitor del terminale. «Non è necessario. Sono state spente quando l'impianto elettrico centrale si è interrotto.» Herbie si era girato per guardare Mother. «Sono già fuori uso.» Nell'hangar principale, le porte dell'ascensore si stavano aprendo. Logan e gli altri tre sopravvissuti dell'unità Alpha uscirono dalla cabina. Raggiunsero Boa McConnell e la sua unità Bravo. «Che succede?» chiese Logan. «Niente», rispose Boa. «Per ora ancora niente.» «... Controllo, qui parla il comandante dell'unità Charlie.» La voce di Python Willis arrivò attraverso gli altoparlanti della stanza. «Qui sotto, al livello 4, non c'è nessuno.» «... Ricevuto, comandante unità Charlie. Conduca i suoi uomini nell'hangar principale. Utilizzate l'ascensore del personale. Unità Echo, rima-
nete là sotto. Caesar ordina di rastrellare i livelli inferiori. Siamo senza telecamere e abbiamo bisogno di una perlustrazione...» Al livello 1, Mother schiacciò il pulsante del microfono che aveva al polso. «Scarecrow, qui è Mother. Le telecamere sono fuori uso. Ripeto: le telecamere sono spente. Ci stiamo avvicinando alla tromba del montacarichi.» «Grazie, Mother.» «Okay, cominciano le danze», disse Schofield, voltandosi verso il presidente, Book II e Juliet. Si trovavano in un punto scarsamente illuminato. Guardò l'orologio. Ore 08.25.59. Ore 08.26.00. Sarebbe stata dura. «Fox, Elvis, Love Machine: pronti! Al mio via! Tre...» L'hangar principale era avvolto nel silenzio. «... Due...» Il Marine One si trovava a circa dieci metri dalla carcassa dell'AWACS. Luccicava sotto i riflettori dell'hangar. «... Uno...» Gli uomini dell'unità Bravo osservavano l'aereo distrutto. Tenevano i fucili pronti, le dita tese sui grilletti. «... Via!» Schofield schiacciò il pulsante di un piccolo congegno tascabile, un telecomando per far saltare una delle granate a base di RDX che aveva preso dai cadaveri del 7° squadrone, nella camera di decompressione. A parità di peso, l'esplosivo a base di RDX è all'incirca sei volte più potente del C4. Esplode con violenza e su un ampio raggio, cosa che lo rende estremamente devastante. Non appena ebbe schiacciato il pulsante, la carica di RDX nascosta nella cabina di pilotaggio dell'AWACS esplose, sventrando la fusoliera e investendo l'hangar di una pioggia mortale di vetro e frammenti di metallo. E poi tutto accadde rapidamente. ***
Gli uomini dell'unità Bravo si gettarono a terra all'esplosione della cabina di pilotaggio. Pezzi di metallo rovente sibilavano sulle loro teste o colpivano con rumori secchi la barricata che li proteggeva. Quando rialzarono le teste, videro tre ombre che uscivano dalla conduttura d'aria proprio sotto la pancia del Marine One. «Eccoli!» urlò Boa indicandoli. Un'ombra si allontanava di corsa dall'elicottero presidenziale, mentre le altre due si erano infilate dentro al Marine One attraverso un portello sul ventre del veicolo. Pochi attimi dopo, i motori del Marine One si accesero con un rombo. La parte terminale della coda, che era stata ripiegata dal pilota per agevolare la fase di traino, si aprì, insieme alle pale dei rotori. Appena aperte, cominciarono a girare, sebbene l'elicottero fosse ancora attaccato al veicolo da traino. I soldati cominciarono a sparare solo quando il primo marine, Love Machine, uscito da sotto l'elicottero, aveva già tolto l'aggancio che legava l'elicottero allo «scarafaggio» ed era saltato nel minuscolo abitacolo del veicolo da traino. «Che cavolo succede...?» esclamò Kurt Logan. Un attimo dopo, lo «scarafaggio» si mise in moto, allontanandosi dal Marine One e prendendo velocità. Sterzò. Adesso puntava dritto verso gli uomini del 7° squadrone riparati dietro le barricate a difesa del Football. «Aprite il fuoco!» urlò Logan a Boa e ai suoi uomini. «Subito!» Uno sbarramento di proiettili investì il veicolo da traino, facendo andare in mille pezzi il parabrezza. Dentro la cabina di guida, Love Machine si abbassò di lato. Le pallottole falciarono lo schienale del sedile sopra la sua faccia riempiendo l'abitacolo di pezzi di gommapiuma e brandelli di plastica. Lo «scarafaggio» avanzava velocemente, col motore che urlava. Love Machine era aggrappato al volante, ma la macchina sbandava a destra e a sinistra, investita dalle raffiche. Poi, d'un tratto, il Marine One si alzò in aria nell'hangar. Il rumore assordante dei suoi rotori copriva ogni cosa. Gant aveva assunto il controllo del velivolo, mentre Elvis stava azionando leve e interruttori. «Elvis! Dammi i missili!» gridò Gant. «Ma qualsiasi cosa tu faccia, non colpire il Football! Capito?»
Elvis premette il pulsante di sgancio. Un missile Hellfire uscì da un tubo di lancio montato sul fianco dell'elicottero presidenziale. Una sottile scia di fumo fendette l'aria, mentre il missile aumentava rapidamente velocità, puntando verso l'ufficio sul lato est dell'hangar. Il missile centrò perfettamente la piccola costruzione, proprio al di sopra dell'unità Bravo. L'intera parte centrale dell'ufficio esplose, investendo tutta la zona circostante di pezzi di vetro, plastica e cemento. Una sezione del secondo piano crollò, piegandosi su se stessa e rovesciandosi sul pavimento alle spalle dei soldati dell'unità Bravo, che si scansarono dalle macerie tuffandosi in avanti, lontano dall'edificio. Un istante dopo, dovettero disperdersi di nuovo per evitare un altro pericolo: lo «scarafaggio», guidato da Love Machine, stava piombando su di loro. Caos. Distruzione. Panico. Proprio quello che Schofield voleva. Schofield era all'interno dell'aereo AWACS distrutto. Stava osservando la confusione che regnava nell'hangar. Sul suo orologio i numeri cambiavano rapidamente: 08.27.50, 08.27.51... Due minuti ancora. «Okay, Book, andiamo!» Si voltò verso Juliet e il presidente. «Voi due state qui fino a quando non abbiamo verificato lo stato del Football. Se riusciamo a prenderlo, ve lo portiamo qui. Se non ce la facciamo, dovrete uscire allo scoperto.» E con queste parole, Schofield e Book II si scambiarono uno sguardo e uscirono correndo dal grosso squarcio nel retro dell'aereo. Proprio nello stesso momento, una mitragliatrice Vulcan a sei canne uscì dalla parte bassa del muso del Marine One e cominciò a sputare un'ondata devastante di fuoco. Gli uomini del 7° squadrone, già poco dispersi, si dovettero allontanare dal Football. Alcuni soldati si gettarono dietro le barricate, altri corsero verso la piattaforma per cercare rifugio tra i rottami dell'AWACS. Sparavano contro l'elicottero del presidente. Gant era seduta ai controlli del Marine One. Le pallottole del nemico scalfirono il parabrezza in lexan. Per fortuna, il grosso elicottero Sikorsky era stato costruito per resistere persino all'impatto dei missili, e le pallotto-
le non erano certo un problema. Accanto a lei, Elvis stava facendo piovere l'inferno sui soldati del 7° squadrone, quasi divertendosi dietro la mitragliatrice Vulcan. Schofield e Book II corsero in direzione est per poi virare velocemente verso i soldati del 7° squadrone rimasti intorno al Football. Si muovevano in sincronia, le pistole alzate, stranamente sparando contro lo «scarafaggio» di Love Machine, lanciato in piena corsa, e contro il Marine One. Sparavano contro i loro commilitoni perché indossavano entrambi la tuta nera, il giubbotto antiproiettile e la maschera antigas che avevano preso ai cadaveri dei nemici, nell'area di decompressione del livello 4. Era la loro copertura. Schofield e Book si muovevano lateralmente, puntando verso la barricata di protezione del Football continuando a sparare verso i propri uomini. Raggiunsero la barricata. Schofield riconobbe immediatamente la valigetta. Poi vide il cavo. «Maledizione!» La ventiquattrore del presidente era agganciata a una grossa vite ad asola, infilata nel cemento del pavimento, alla quale era stato attaccato un cavo metallico a sua volta fissato saldamente al manico della valigetta. Il cavo sembrava di titanio. Orologio. 08.28.59. 08.29.00... «Merda!» Schofield premette un pulsante sul microfono da polso. «Janson! Il Football è fissato al pavimento. Non possiamo rimuoverlo. Fa' uscire il presidente e portarlo qui! Subito!» La risposta arrivò immediata. «Okay!» «Fox! Love Machine! Ho bisogno di altri trenta secondi di caos! Dopo sapete che cosa dovete fare.» «Come vuoi, Scarecrow!» rispose la voce di Gant. Love Machine intervenne nella comunicazione: «Ricevuto, capo...!» Schofield si voltò. Dalle rovine dell'AWACS vide uscire Janson e il presidente, anche loro vestiti come soldati del 7° squadrone. Brandivano le pistole e sparavano con determinazione contro lo «scarafaggio» guidato da Love Machine. Juliet Janson sparava con la sua SIG-Sauer, tenendola saldamente con
entrambe le mani. Il presidente non era altrettanto fluido nei movimenti, ma, per non aver fatto il militare, non era poi così male. Il Marine One stava compiendo un ampio cerchio all'interno dell'hangar, attirando i colpi di fucile dei soldati, dispensando a sua volta un volume di fuoco incredibile. Lo «scarafaggio» aveva appena oltrepassato di lato la barricata. Sterzò bruscamente a sinistra, passando attraverso alcuni rottami dell'AWACS per poi sparire dietro la fusoliera dell'aereo. Dalla stanza di controllo al primo piano dell'hangar, Caesar Russell osservava il finimondo che regnava sotto di lui. Vide l'elicottero presidenziale compiere manovre ai limiti della follia, nel suo volo all'interno dell'hangar. Poi fissò lo «scarafaggio». Il veicolo s'infilava a tutta velocità tra le lamiere dell'AWACS, sulla piattaforma del montacarichi, per poi uscire dall'altra parte e proseguire nella sua corsa. Ritornò a concentrarsi sui suoi soldati. Ormai avevano perso il controllo della situazione e sparavano sull'elicottero all'impazzata. Erano addestrati per fermare un attacco ordinato, non per affrontare un simile inferno. «Cristo santo!» urlò Russell. «Dov'è Charlie?» «Sta ancora salendo con l'ascensore del personale, signore.» E poi, con la massima lucidità, Caesar si rese conto di quello che alcuni dei suoi soldati, giù nell'hangar, stavano facendo sotto i suoi occhi increduli... «No...» Caesar non riuscì a muoversi, né a parlare. Un uomo che sembrava far parte del 7° squadrone si era avvicinato al Football - circondato da pochi soldati dell'unità Bravo, tutti con le armi in pugno - e si stava togliendo velocemente un guanto di pelle nera; sotto lo sguardo attento degli altri tre impostori, vestiti con le tute da combattimento nere, stava per posare il palmo della mano sull'analizzatore all'interno della valigetta d'acciaio. Il cronometro dell'orologio di Schofield avanzava. 08.29.31. 08.29.32... Tra il rombo assordante dell'elicottero in volo e la cacofonia delle detonazioni, il presidente si avvicinò al Football. Schofield, Book II e Juliet Janson lo coprivano.
Si tolse il guanto, lanciò un'ultima rapida occhiata intorno, s'inchinò davanti alla valigetta e posò il palmo della mano sull'analizzatore. Il cronometro sul timer della ventiquattrore indicava 00.24. Ci fu un leggerissimo bip all'interno della valigetta, e il led del timer passò da 00.23 a 90.00. Il conto alla rovescia era ricominciato. Schofield sollevò il presidente di peso. Era fatta, non c'era tempo da perdere. Poi attivò il microfono al polso. «Fox, Elvis, Love Machine: fuori di qua. Ci vediamo sotto. Mother, la piattaforma! Ora!» Cominciarono a correre insieme a Juliet e Book II «Ricordatevi di sparare per aria!» gridò. Mother era in piedi in mezzo all'enorme porta dell'hangar, al livello 1. Stava guardando verso l'alto. Sessanta metri sopra di lei, riusciva vagamente a scorgere nell'oscurità della tromba del montacarichi la parte inferiore della piattaforma, oltre la quale sentiva i rumori della battaglia. Spinse il pulsante di chiamata, e subito si udì un forte rumore metallico. Il montacarichi cominciò lentamente a scendere. Sopra, nell'hangar principale, qualche attimo prima, i resti dell'AWACS avevano improvvisamente cominciato a sparire verso il basso. Qualcuno aveva richiamato il montacarichi. Schofield, Book II, Juliet e il presidente corsero verso la piattaforma, sempre fingendo di sparare al Marine One, come se fossero soldati del 7° squadrone. Nella sala controllo dell'hangar, Caesar, con le mani tremanti di rabbia, riuscì finalmente a strappare il microfono dall'asticella che lo sosteneva. «Boa! Logan! Il presidente è qui! È andato dritto al Football, ha fatto scattare l'analizzatore e ora sta correndo verso il montacarichi. Cristo santissimo, indossa una delle nostre maledette uniformi!» Nell'hangar principale, Kurt Logan si voltò di scatto. Li riconobbe subito: quattro soldati del 7° squadrone che proprio in quel momento stavano saltando giù sulla piattaforma del montacarichi. Ormai avevano smesso di sparare al Marine One. «La piattaforma!» gridò Logan. «Unità Bravo! Correte alla piattaforma! Alpha, tirami giù quell'elicottero, poi fate fuori anche quel cazzo di 'scara-
faggio'!» Il Marine One si stava abbassando al suolo. Ormai il suo compito era finito. Gant riportò il grande elicottero nel punto esatto in cui l'aveva preso, sopra l'apertura della conduttura d'aria nel pavimento vicino all'estremità ovest della piattaforma. Con l'aiuto di Elvis era riuscita a metterlo giù proprio sopra la conduttura. Non appena ebbe toccato terra, Gant saltò su dal sedile del pilota e corse verso la botola sul fondo dell'elicottero, mentre Elvis raggiungeva la porta posteriore di sinistra e la apriva in attesa di Love Machine. Ma Love Machine era in un mare di guai. Lo «scarafaggio» non era a prova di pallottole come il Marine One, e il fuoco impazzito dei soldati del 7° squadrone era tutt'altro che uno scherzo. Le gomme del veicolo da traino stridettero, un'altra raffica lo investì. C'erano pezzi di vetro che volavano dappertutto. Doveva assolutamente tornare al Marine One. Il suo problema principale era però un altro: aveva appena fatto compiere un'altra curva allo «scarafaggio» per passare ancora una volta in mezzo ai soldati del 7° squadrone, dal lato est della piattaforma, quando gli era giunta nell'auricolare la voce di Schofield. Ora si trovava dalla parte opposta della piattaforma, rispetto al Marine One, e stava viaggiando a tutta velocità verso nord, poiché la piattaforma era sparita nella tromba del montacarichi e non ci poteva passare sopra col suo veicolo. Doveva per forza aggirarla. Altre pallottole colpirono il mezzo da traino. Tre soldati del 7° squadrone apparvero dal nulla di fronte a lui, investendo lo «scarafaggio» con violente raffiche. Le pallottole crivellarono la cabina di guida. Due proiettili centrarono la spalla sinistra di Love Machine, facendo schizzare sangue dappertutto. Love Machine ruggì. Un'altra raffica colpì entrambe le gomme anteriori, che scoppiarono quasi contemporaneamente. Love Machine perse il controllo del veicolo, che finì di traverso, scivolò pericolosamente verso il bordo della tromba del montacarichi ed evitò per
un pelo di cadere sulla piattaforma, che in quel momento si trovava quattro metri sotto il livello dell'hangar. Il veicolo superò l'angolo nord-ovest dell'ampia apertura nel pavimento, oltrepassò i soldati del 7° squadrone che lo avevano sconquassato di pallottole, e poi si schiantò violentemente contro la carcassa del Nighthawk Two, che si trovava vicino alla parete nord dell'hangar, finendo così esattamente dove Book II l'aveva lasciato novanta minuti prima. Dalla sua posizione all'interno del Marine One, Elvis vide il veicolo da traino guidato da Love Machine piombare sul Nighthawk Two e infilarsi nella carlinga dell'elicottero con uno schianto fortissimo. Poi vide tre soldati del 7° squadrone correre verso lo «scarafaggio». «Oh, no...» sussurrò. Nel frattempo, Schofield, Book II, Juliet e il presidente, con indosso ancora le tute nere del 7° squadrone, stavano combattendo la loro battaglia. Scendendo all'interno della tromba, la piattaforma del montacarichi si era trasformata in una sorta di grande arena quadrangolare, circondata da alte pareti di cemento. Oltre al presidente e alla sua scorta, sul montacarichi c'erano sette uomini dell'unità Bravo, che stavano setacciando la piattaforma alla ricerca dei nemici. Schofield si muoveva coi suoi lungo il lato est della piattaforma. Era lui a fare strada tra i rottami dell'aereo, attento ai movimenti del nemico ma anche a qualcos'altro. Schofield stava cercando qualcosa sul pavimento, qualcosa di preciso, che non doveva essere molto lontano... Eccola. Era proprio dove l'aveva lasciata: la punta dell'ala. Schofield corse verso il grosso pezzo di lamiera. Era appoggiato a terra, nell'angolo della piattaforma tra le pareti a nord e a est della tromba. Con l'aiuto di Book II, riuscì ad alzarlo e a scostarlo. Sotto, nel pavimento della piattaforma, apparve un'apertura. Era un quadrato largo meno di tre metri. Per varie ragioni di praticità, gli ingegneri avevano voluto inserire nella piattaforma un piccolo ascensore che funzionasse autonomamente. In quel momento, il vano dell'ascensore si trovava all'incirca cinque metri sotto di loro. Era fermo, e li stava aspettando. Schofield sperava che i soldati del 7° squadrone non sapessero della sua
esistenza, o che almeno non ricordassero dove fosse. Ecco perché vi aveva messo sopra un pezzo d'ala. Era la loro unica via di fuga. «Love Machine! Sei vivo?» gridò Elvis nel suo microfono dalla cabina di pilotaggio del Marine One. «Cazzo, sì!» «Puoi muoverti?» «Lascia perdere. Vattene da qui! Sono spacciato, mi hanno colpito, e devo essermi anche rotto una caviglia!» «Noi non lasciamo nessuno indietro!» Un'altra voce si era aggiunta con decisione, interrompendo il loro dialogo. Era Schofield. «Elvis. Tu e Fox sgombrate il campo. Sono più vicino a Love Machine di voi. Me ne occupo io. Love Machine, tieniti pronto. Vengo a prenderti.» Sulla piattaforma del montacarichi in discesa, Schofield alzò la testa, guardando in alto. «Che c'è?» chiese Book II «Vado a prendere Love Machine», disse, mentre osservava rapidamente la parte più alta della fusoliera dell'AWACS. L'aereo aveva il muso schiacciato sulla piattaforma e la coda che puntava in alto, ancora quasi al livello del pavimento dell'hangar. Ma scendeva ogni secondo di più. Pochi attimi, e anche le parti più in alto sarebbero scomparse sotto il livello dell'hangar. «Portate giù il presidente», ordinò Schofield a Book II e Juliet. «Che pensa di fare?» chiese Juliet. «Vado a prendere un mio soldato», rispose Schofield. «Ci vediamo sotto.» E s'infilò di corsa dentro la giungla di metallo e rottami. Book II e Juliet rimasero un attimo a osservarlo. Poi si calarono attraverso l'apertura nella piattaforma per raggiungere il piccolo ascensore che li aspettava di sotto. Schofield correva. Risaliva la ripida ala sinistra dell'aereo AWACS distrutto. Raggiunse il punto più alto dell'ala; senza rallentare nemmeno un istante, utilizzò alcune crepe nel fianco della fusoliera per arrampicarsi in cima all'aereo. Due soldati dell'unità Bravo lo videro. Erano appostati sulla piat-
taforma sotto il punto in cui Schofield stava correndo. Gridarono. I fucili d'assalto P-90 cominciarono a sparare. Ma Schofield non si fermò. Continuò a correre con passi rapidi e leggeri, quasi come in una danza, salendo lungo il tetto inclinato dell'aereo verso la coda che stava scendendo sotto il pavimento dell'hangar. Raggiunta la parte più alta del tetto dell'aereo, Schofield si diede un ultimo slancio e si gettò in avanti. Ce la fece per pochi centimetri. Atterrò di pancia, scivolando sul pavimento, con la faccia a terra, ma almeno era fuori dal tiro dei fucili. A una decina di metri da lui, c'era lo «scarafaggio» accartocciato e fumante. Nello stesso momento, tre soldati del 7° squadrone raggiungevano la portiera del veicolo. Quando la canna di un fucile d'assalto P-90 apparve a pochi centimetri dalla sua faccia, Love Machine sospirò. I lineamenti del soldato del 7° squadrone erano parzialmente nascosti dalla maschera antigas, ma gli occhi dell'uomo erano chiaramente visibili. Love Machine vi lesse una grande soddisfazione. Chiuse gli occhi. Era la fine. Bam! No, non era finita. Confuso, Love Machine riaprì gli occhi. Davanti a lui, c'era sempre lo stesso soldato, ma ora gli mancava buona parte del volto. L'uomo rimase ancora un attimo in piedi, poi scivolò lentamente di lato. Gli altri due soldati si girarono. Immediatamente dopo furono falciati dal violento fuoco di una pistola semiautomatica. Vennero scaraventati fuori dal campo visivo di Love Machine e, al loro posto, con suo stupore, apparve Scarecrow, con indosso un'uniforme nera del 7° squadrone dell'Aeronautica. «Forza», disse. «È ora di andarcene.» *** Book II atterrò sul pavimento antisdrucciolo del piccolo ascensore, accanto a Juliet e al presidente. Erano pochi metri sotto la piattaforma del montacarichi, che continuava la sua lenta discesa. Erano al buio. La piattaforma bloccava quasi completamente il passaggio della luce. Juliet azionò una leva della piccola console inserita nel pianale dell'a-
scensore, il quale immediatamente cominciò a scendere. A differenza della piattaforma, il piccolo ascensore scorreva su binari inseriti nella parete e si muoveva più rapidamente. Si stavano allontanando. Schofield stava tirando fuori Love Machine dallo «scarafaggio». Nel farlo, gli cadde lo sguardo all'interno dell'abitacolo sventrato del Nighthawk Two. C'erano armi disseminate ovunque. Dovevano essere state scaraventate fuori dall'armadietto del Nighthawk Two quando la cabina di pilotaggio era stata colpita dal missile. C'erano due MP-10, qualche granata, una massiccia pistola semiautomatica calibro 44 «Desert Eagle» e, con somma gioia di Schofield, due armi che sembravano pistole, ancora nelle loro custodie di cuoio nero. Con le loro canne corte e tozze, assomigliavano a mitragliatrici, ma dalla punta uscivano uncini disposti intorno a un grosso bulbo magnetico. Era il famoso Maghook Armalite MH-12, un congegno che sparava una corda alla cui estremità erano fissati ganci e un magnete ad altissima potenza, pensato per aderire alle superfici metalliche. «Grande...» fece Schofield. Prese i due Maghook e ne diede uno a Love Machine. Poi afferrò una delle MP-10 e infine s'infilò nella cintura la grossa pistola Desert Eagle. In quell'attimo le porte del vicino ascensore del personale cominciarono ad aprirsi... Dentro c'erano dieci soldati del 7° squadrone in pieno assetto di guerra. Python Willis e gli uomini dell'unità Charlie. Gli occhi di Python s'illuminarono vedendo Schofield a pochi passi da lui, vestito come uno dei suoi. Gli uomini di Python alzarono i loro P-90. «Oh, merda!» esclamò Schofield, e diede una spinta a Love Machine, cacciandolo nuovamente dentro l'abitacolo dello «scarafaggio». Un secondo dopo anche lui si tuffava nel veicolo, atterrando al posto di guida, con la testa bassa. Una raffica di piombo piovve sul veicolo. Schofield inserì la retromarcia sperando con tutto il cuore che il veicolo riuscisse ancora a muoversi, poi spinse l'acceleratore fino in fondo. Lo «scarafaggio» si mosse. Con le gomme posteriori che stridevano e fumavano, balzò all'indietro, uscendo dal ventre squarciato del Nighthawk Two tra le scintille provocate dall'impatto delle pallottole contro la carrozzeria.
Il veicolo si allontanò dall'ascensore, evitando per un pelo di precipitare nella tromba del montacarichi. Puntava dritto verso la barricata ormai abbandonata sul lato est della tromba. Schofield osò alzare la testa e si girò sul sedile per vedere dove stesse andando, ma quando notò la barricata ormai era troppo tardi. Schiacciò disperatamente il pedale dei freni. Le tre tonnellate del veicolo persero immediatamente aderenza, il mezzo compì un frenetico giro su se stesso e urtò violentemente la barricata. Fu come il colpo di un'enorme mazza da baseball. L'impatto fece volare le casse di legno e i contenitori di plastica come birilli. Qualche metro più avanti, lo «scarafaggio» riuscì a fermarsi. Nell'abitacolo, Schofield fu sbalzato in avanti. Quando guardò fuori dal veicolo, fu sorpreso di scoprire che, proprio vicino alla sua portiera, a meno di un metro da lui, c'era la sedia su cui si trovava la ventiquattrore del presidente, il Football. Cazzo! La valigetta era ancora saldamente ancorata al pavimento dell'hangar. Quel cavo di titanio pareva davvero indistruttibile. La ventiquattrore era stata abbandonata laggiù dopo che il presidente era riuscito a far ripartire il timer. I soldati del 7° squadrone avevano pensato che l'unico obiettivo del presidente una volta azionato il timer fosse scappare dall'hangar a gambe levate. Per quello il Football si trovava ancora là, incustodito. Schofield sapeva cogliere le occasioni al volo. Uscì con un balzo dall'abitacolo dello «scarafaggio», cadendo in ginocchio accanto alla ventiquattrore. Gli uomini dell'unità Charlie correvano attraverso l'hangar tartassando la parte alta del veicolo da traino con una pioggia di piombo rovente. Riparato dal Volvo, Schofield estrasse dalla tasca uno dei piccoli congegni esplosivi per l'apertura delle serrature che aveva trovato sul cadavere di un soldato del 7° squadrone. Lo attaccò all'asola di metallo che fissava la valigetta al pavimento, spinse la levetta di azionamento e si buttò a terra. Uno... Due... Tre... L'esplosione non fece un gran botto. Con un rumore secco, la spessa asola di metallo si spaccò all'altezza del pavimento e il Football, col cavo di titanio ancora attaccato, fu libero. Schofield prese la ventiquattrore e saltò nell'abitacolo del veicolo un attimo prima che i soldati del 7° squadrone lo raggiungessero.
Due soldati saltarono sulla parte posteriore del veicolo nel preciso istante in cui Schofield ingranò la marcia e premette con forza l'acceleratore. Lo «scarafaggio» balzò in avanti, e uno dei due soldati fu scaraventato all'indietro e cadde gambe all'aria. L'altro soldato reagì più in fretta. Gettò il suo P-90 per avere le mani libere e riuscì ad aggrapparsi al tetto del veicolo in fuga. Con le gomme che stridevano e il motore che rombava, Schofield sterzò verso il lato sud dell'enorme tromba del montacarichi. Vide il Marine One, fermo alla sua destra accanto alla tromba del montacarichi, coi rotori che ancora in movimento. Voleva fermarsi accanto all'elicottero, entrare di corsa e poi saltare giù attraverso la botola nella carlinga, infilandosi nella conduttura di ventilazione per poi sparire nei sotterranei. Ma le sue speranze svanirono di colpo. Tre soldati vestiti di nero uscirono da dietro l'elicottero presidenziale, i fucili puntati. Erano pronti a sparare, lo stavano aspettando. Ma, per qualche strana ragione, non sparavano. Perché non gli sparavano...? Con un rumore secco e del tutto inaspettato, il piccolo vetro posteriore dell'abitacolo, proprio dietro la testa di Schofield, andò in frantumi. Schofield e Love Machine furono investiti da una pioggia di schegge, e contemporaneamente due mani guantate di nero apparvero ai lati della testa di Schofield. Una delle mani impugnava un coltello da combattimento. Il soldato del 7° squadrone dietro l'abitacolo dello «scarafaggio» teneva la testa al di sopra del tetto e tentava di sgozzare Schofield. Con un riflesso fulmineo, Schofield riuscì a bloccare la mano che impugnava l'arma. Il soldato gli afferrò la faccia con l'altra mano, centrando gli occhi. Nel frattempo il veicolo aveva continuato ad avanzare in direzione del Marine One. Il Volvo, con le gomme anteriori a terra, proseguì la sua folle corsa, scivolando e sbandando a tutta velocità sul pavimento dell'hangar. Continuando a lottare col soldato alle sue spalle, Schofield vide il Marine One davanti a loro, col rotore di coda che girava vorticosamente, un cerchio lucente a due metri dal pavimento, pochi centimetri più in alto del tetto della Volvo... Schofield non perse un solo attimo. Sterzò bruscamente a sinistra, facendo slittare lo «scarafaggio» di lato. Il Volvo sbandò in direzione del rotore di coda del Marine One. Il cerchio
mulinante delle pale del rotore passò a pochi centimetri sopra il tetto dello «scarafaggio». Schofield udì un urlo di terrore, ma fu molto breve, interrotto dalle pale che tranciarono di netto la testa del soldato. Una cascata di sangue si riversò nell'abitacolo. I tre soldati dell'unità Alpha in piedi vicino al Marine One si buttarono a terra per evitare di finire investiti dallo «scarafaggio» che stava passando sotto la coda dell'elicottero. Il veicolo ricomparve dall'altra parte e si fermò col muso puntato dritto verso l'ampia apertura della tromba del montacarichi. Schofield vide la voragine dentro la quale stava sprofondando l'enorme piattaforma idraulica e vide il rotodome dell'AWACS circa tre metri al di sotto dell'hangar. Spinse l'acceleratore. Love Machine aveva capito. «Lei è completamente matto, capitano!» «Si fa quello che si può», rispose Schofield. «Tieniti forte!» Lo «scarafaggio» fece un balzo in avanti con le ruote posteriori che stridevano sul cemento. La velocità è tutto, pensò Schofield mentre il Volvo accelerava: aveva bisogno di parecchio slancio perché il veicolo potesse raggiungere il suo obiettivo. Lo «scarafaggio» sfrecciò verso il bordo della tromba del montacarichi, investito da una rabbiosa pioggia di pallottole. Schofield non lasciò il volante un solo secondo. Nemmeno quando il veicolo oltrepassò il pavimento di cemento e fu catapultato nell'aria... *** Lo «scarafaggio» stava volando col muso in alto e le ruote che giravano nel vuoto. Quando cominciò a scendere, la parte anteriore si abbassò velocemente. La piattaforma del montacarichi era già scesa circa dieci metri sotto il livello dell'hangar, ma la fusoliera dell'AWACS, e soprattutto il suo rotodome ancora funzionante, riducevano la caduta dello «scarafaggio» a poco più di tre metri. Il veicolo da traino atterrò con un rumore assordante proprio in cima al rotodome dell'aereo, che era inclinato verso il basso.
La base di titanio del rotodome resistette all'impatto. Ma la struttura che lo sosteneva non fece lo stesso. I tubi di sostegno si piegarono all'istante e la fusoliera dell'aereo sotto il rotodome si schiacciò. Sotto il peso del Volvo, il corpo cilindrico dell'AWACS si accartocciò come una gigantesca lattina di alluminio, assorbendo contemporaneamente anche parte dell'impatto. Il rotodome sprofondò dentro la fusoliera, permettendo al veicolo di scivolare giù dall'altra parte dell'aereo e di continuare a rotolare rimbalzando violentemente sull'ala sinistra, che giaceva distrutta sulla piattaforma. Schofield e Love Machine furono sbattuti da una parte all'altra dell'abitacolo, mentre il Volvo continuava la sua corsa in avanti, speronando pezzi di metallo e rimbalzando da destra a sinistra. In qualche modo Schofield riuscì a premere il pedale del freno. Lo «scarafaggio» fece un giro su se stesso per poi fermarsi contro la parete più lontana della tromba del montacarichi, a pochi passi dall'apertura quadrata nella piattaforma che normalmente ospitava il piccolo ascensore. Ancora prima che lo «scarafaggio» si fosse fermato del tutto, Schofield stava già tirando fuori dall'abitacolo Love Machine. Nello stesso istante, i primi soldati del 7° squadrone apparvero tra i resti dell'AWACS e cominciarono a sparare. Erano veloci. Ma non abbastanza per Schofield. Non poterono fare altro che osservare stupiti Schofield che passava il Football a Love Machine, si caricava il soldato ferito sulle spalle e poi, senza batter ciglio, spariva nel buio dell'apertura. Come una coppia di paracadutisti in caduta libera, Schofield e Love Machine stavano precipitando nell'immensa tromba del montacarichi. Sembravano due formiche nere in confronto alla sua smisurata grandezza. Come gli era stato ordinato, Love Machine rimase aggrappato con tutte le sue forze alle spalle di Schofield e al Football, ma non riuscì a trattenere l'urlo di terrore mentre precipitavano lungo la grigia parete di cemento. Durante la caduta Schofield guardò in basso e vide un quadrato di luce che usciva dall'hangar al livello 1, illuminando la minuscola piattaforma dell'ascensore, ferma una sessantina di metri sotto di loro. Schofield liberò dalla custodia il suo nuovo Maghook e aprì il gancio in cima alla canna.
Non poteva spararlo in alto, contro il lato inferiore della piattaforma. Il Maghook aveva soltanto una cinquantina di metri di corda. Non sarebbero bastati. No, doveva aspettare ancora, e poi... La vide all'ultimo: una piccola trave metallica, fissata lateralmente sulla parete della tromba. Conteneva una serie di spessi cavi, legati insieme, che correvano lungo l'angolo della tromba del montacarichi. Era l'unica possibilità che avevano. Il Maghook si ancorò alla trave. Schofield e Love Machine continuarono a cadere nel vuoto, mentre la corda del Maghook si srotolava rapidamente oscillando nell'aria. Sotto, la piccola piattaforma dell'ascensore secondario si stava avvicinando a velocità spaventosa. Precipitavano sempre più veloci. All'improvviso, sentirono uno scossone. Si fermarono a meno di un metro dalla piattaforma illuminata dell'ascensore. Erano proprio davanti alla massiccia porta d'ingresso dell'hangar al livello 1. Schofield rilasciò un pulsante nero. Era una specie di grilletto che avviava il meccanismo di bloccaggio che fermava la corda. L'aveva azionato al momento giusto. Schofield e Love Machine si calarono per l'ultimo metro. Quando finalmente toccarono terra, scoprirono di avere compagnia. Book II, Juliet e il presidente erano accorsi alle porte dell'hangar. Dietro di loro stavano arrivando Mother, Brainiac ed Herbie Franklin. «Se qualcuno scherza sul 'fare un salto da qualcuno'», disse Mother, «gli taglio la gola con le mie mani». *** «Dobbiamo muoverci», disse Schofield. Aveva riavvolto la corda del Maghook. Il gigantesco montacarichi col suo carico di soldati del 7° squadrone continuava a scendere lentamente verso di loro. Il gruppo attraversò l'hangar sotterraneo in direzione della rampa d'accesso per veicoli, sul lato opposto rispetto al montacarichi. Book II e Mother sostenevano Love Machine. Juliet Janson correva di fianco a Schofield. «Ora che facciamo?» «Abbiamo il presidente», disse. «E abbiamo il Football. Dato che questo
era l'unico motivo per cui il presidente poteva essere costretto a rimanere qui, direi che è ora di lasciare la festa e darsela a gambe. Dobbiamo però trovare un terminale collegato alla rete della base. Utilizzeremo il computer per aprirci un'uscita durante la prossima finestra temporale, e tanti saluti a tutti.» Avevano raggiunto il passaggio per i veicoli, una rampa che scendeva in un vasto cerchio. «Dottor Franklin, dov'è il più vicino computer collegato alla rete? Dobbiamo aprire una delle uscite durante la prossima finestra temporale.» «Ce ne sono due su questo livello», rispose Herbie. «Uno nell'officina dell'hangar, l'altro nella scatola di derivazione.» «Sono troppo vicini!» disse Schofield. «Da un secondo all'altro i soldati del 7° squadrone saranno qui.» «Allora il più vicino è al livello 4, nell'area di decompressione.» «Andiamo lì!» La voce di una donna parlò tra le interferenze nell'auricolare di Schofield. «Scarecrow, qui Fox. Siamo in fondo alla conduttura di ventilazione. Cosa vuoi che facciamo?» «Riuscite ad attraversare il pozzo in fondo alla tromba del montacarichi?» «Penso di sì.» «C'incontriamo nel laboratorio del livello 4», disse Schofield nel microfono fissato al polso. «Ricevuto. Ah, già, Scarecrow... abbiamo appena incontrato un paio di nuovi amici.» «Fantastico», rispose Schofield. «A dopo.» Corsero giù per la rampa che portava al livello 2. A un certo punto videro un'apertura che collegava la rampa con le scale d'emergenza. Presero le scale e scesero a tutta velocità fino a raggiungere una pesante porta antincendio, dietro la quale si trovava l'area di decompressione del livello 4. Si fermarono. Brainiac abbassò la maniglia. La porta era aperta. Schofield era preoccupato. Era tra quelle che avevano bloccato poco prima. Ora si apriva di nuovo. Fece segno con la mano di muoversi con la massima cautela. Brainiac annuì. Spalancò velocemente la porta, senza fare rumore. Book II e Mother fe-
cero irruzione, le armi puntate. Non c'era bisogno di sparare. I cadaveri dei soldati del 7° squadrone giacevano disseminati sul pavimento, esattamente come li avevano lasciati prima, ma per il resto l'area di decompressione era vuota. Juliet entrò col presidente, scavalcando con cura i corpi a terra. Poi toccò a Schofield, che teneva Love Machine sulle spalle. Sulla loro destra, all'interno di una rientranza nella parete e quasi nascosti dietro le cabine di sperimentazione, c'erano due computer. «Dottor Franklin, tocca a lei», disse Schofield. «Brainiac, va' con lui. Scoprite che cosa bisogna fare per uscire da questa trappola, Book, prendi con te Love Machine. Mother, va' nel laboratorio e cerca qualcosa per aiutare Love Machine. Magari trovi un kit di pronto soccorso.» Mother corse verso la porta del laboratorio. Book II aiutò Love Machine a sdraiarsi per terra: il suo volto era una maschera di dolore. Book andò a chiudere la porta dietro di loro. «Che diavolo...?» disse, fissando la porta. «Che c'è?» Schofield si era fermato subito. «Guarda la serratura.» Schofield la osservò da vicino. Il chiavistello era stato tagliato di netto. La linea di taglio era talmente perfetta che poteva essere stata fatta soltanto da un attrezzo a raggi laser, e non con uno strumento meccanico. Schofield stava pensando. Dopo la battaglia, qualcuno era passato di là. «Scarecrow!» chiamò una voce dietro di lui. Era Mother. Era sulla soglia della porta che si apriva sulla parte ovest del livello 4. Accanto a lei c'era Libby Gant, che era appena arrivata nel laboratorio. «Scarecrow, è meglio che tu venga a dare un'occhiata», disse Mother. Schofield attraversò la stanza e andò alla porta dove Mother e Gant lo stavano aspettando. Prima di oltrepassarla controllò la serratura. Anche lì qualcuno aveva utilizzato uno strumento laser. «Che c'è?» Con sua sorpresa, si trovò faccia a faccia col colonnello Hot Rod Hagerty e con Nicholas Tate III, il viscido consigliere del presidente. Erano loro due i nuovi 'amici' di cui Gant aveva parlato.
Gant stava indicando l'area alle sue spalle, la camera dagli alti soffitti che conteneva il grosso cubo di vetro. Schofield guardò nella stanza... ... e sentì una stretta al cuore. Sembrava che il cubo fosse stato colpito da una bomba. Le quattro pareti erano in frantumi. Intere sezioni di vetro erano cadute nella camera da letto, i giocattoli giacevano sparsi, i mobili erano stati rovesciati. Di Kevin non c'era traccia. «Sembra che abbiano portato via parecchie cose dal laboratorio», disse Gant. «Qui è tutto sottosopra.» Schofield osservò la devastazione, mordendosi le labbra. Non aveva nessuna voglia di dirlo. Non avrebbe nemmeno voluto pensarci. Ma ora non aveva più scelta. «Non siamo soli.» La lingua era l'afrikaans, la lingua dei bianchi che avevano governato il Sud Africa fino al 1994, ma che da allora non era più la lingua ufficiale del Paese. Dopo essersi consultato coi due specialisti in lingue africane della DIA, Dave Fairfax si era fatto tradurre tutte le registazioni dalle conversazioni telefoniche. Ora erano pronte per essere presentate al direttore. Sorridendo diede un altro sguardo alle trascrizioni: TRACCIA TRAS. SICURE COMM-SAT E/13A-2 DIA-SPACEDIV-PENT-WASHINGTON DC OPERATORE: T16-009 FONTE: USAF-SA(R)07 29 MAGGIO VOCE 1: 13 GIUGNO VOCE 1:
ORE 22.10.56
TRADUZIONE
Kan bevestig dat in-enting plaasvind. ORE 18.01.38 Toetse op laaste pogin word op die vier-en-twientigste verwag. Wat van die onttrekkings eenheid?
Posso confermare che il vaccino è funzionante. TRADUZIONE Test sull'ultimo ceppo atteso per il 3. Come va con l'unità d'estrazione?
VOCE 2:
Reccondo span is alreeds weggestuur. ORE 14.45.36 Voorbereidings onderweg. Vroeg oggend. Beste tyd vir onttrekking.
La squadra Reccondo è stata inviata. 15 GIUGNO TRADUZIONE VOCE 1: I preparativi sono in corso. Primo mattino. Momento ottimale per l'estrazione. 16 GIUGNO ORE 19.56.09 TRADUZIONE VOCE 3: Everything is in place. Tutto a posto. Confimi that it's the third. Conferma per il 3. 21 GIUGNO ORE 07.22.13 TRADUZIONE VOCE 1: Onttrekking L'estrazione è kan 'n probleem il problema maggiore. wees. Gestel ons Il piano prevede gebruik die Hoeb l'utilizzo del vicino land hier naby. terreno di Hoeb. Verstaan hy is Membro di Die 'n lid van Die Organisasie. Organisasie. VOCE 2: Sai die instruksies oorda. Passerò gli ordini. 22 GIUGNO ORE 20.21.59 TRADUZIONE VOCE 3: Mission is a go. Missione avviata. 23 GIUGNO ORE 01.18.22 TRADUZIONE VOCE 1: Die Reccondos I Reccondo sono is gereed. Verwagte in posizione. Tempo annkoms by beplande di arrivo stimato: bestemming binne nege nove giorni. dae. «Questa faccenda è un vero schifo, amico mio», disse uno dei due esperti di lingue africane mentre s'infilava la giacca. Stava per andarsene. Era un uomo di statura bassa di nome Lew Alvy. «Mi riferisco alle unità Reccondo. Die Organisasie. Gesù!» «Che vuoi dire?» chiese Fairfax. «Chi sono?» Alvy si guardò intorno, prima di rispondere. «I Reccondo», disse poi, «sono il peggio del peggio in fatto di unità scelte. Sono i commando di ricognizione del Sud Africa. Prima di Mandela, erano la squadra più utilizzata per eliminare gli avversari del regime dei
bianchi. Erano specializzati in spedizioni oltre frontiera, attacchi o attentati contro i capi della resistenza nera... Erano addestrati per essere invisibili, una specie di unità fantasma. Non lasciavano tracce, ci si accorgeva del loro passaggio per via delle gole tagliate... Sono dei duri, quei bastardi. Una volta in Zimbabwe, così ho sentito dire, una squadra di Reccondo è rimasta a tendere un'imboscata per ben diciannove giorni di fila, senza mai muoversi, nascondendosi nella sterpaglia sotto teloni termoriflettenti, fino a che non è arrivata la loro preda. Passava di lì, pensando che tutto fosse sotto controllo, e... zac! Morto! Qualcuno sostiene che negli anni '80 rafforzassero i loro ranghi arruolando mercenari della guerra in Angola, ma la cosa perse importanza con Mandela, nel 1994. L'unità fu immediatamente smantellata, viste le loro precedenti missioni. E sono diventati dei mercenari, uno squadrone della morte a noleggio.» «Oh, cazzo!» esclamò Fairfax, colpito. «E Die Organisasie? Chi sono?» Alvy annuì: «In parte mito, in parte realtà. Nessuno lo sa con sicurezza. Alla MI-5 hanno un dossier che parla di loro, e anche alla CIA. È un'organizzazione clandestina di bianchi sudafricani esiliati che sta lavorando per il rovesciamento dell'attuale governo; sperano di far ripiombare il Sud Africa nei brutti giorni del passato. Sono razzisti bastardi, e ricchi sfondati. Sono anche conosciuti sotto il nome di Terza Forza, altre volte come Spider Network. L'anno scorso erano sulle liste dell'Interpol in quanto organizzazione terroristica attiva». Alvy salutò Fairfax e lasciò l'ufficio. Che diavolo c'entravano un'organizzazione di estrema destra e un'unità scelta sudafricana con una remota base dell'Aeronautica degli Stati Uniti? *** Ovviamente Hot Rod Hagerty e Nicholas Tate III si precipitarono subito dal presidente. Elvis, invece, si affrettò a raggiungere l'altra parte del laboratorio per controllare come stesse il suo commilitone ferito, Love Machine. Schofield era in piedi nel centro dell'area di decompressione del livello 4 con Gant al suo fianco. Gant fece un leggero cenno col mento verso Hagerty e Tate: «Li abbiamo trovati dentro il Marine One. Si erano infilati tutti e due dentro la capsula di salvataggio del presidente. Un gran bel nascondiglio». «Hagerty assumerà il comando», disse Schofield.
«Effettivamente è lui l'ufficiale più alto in grado tra noi», rispose Gant. «Non ha mai affrontato una sparatoria.» «Merda!» A pochi passi sulla loro sinistra, accanto alle cabine per gli esperimenti, Brainiac ed Herbie Franklin sedevano davanti a un terminale. Era stato lo scienziato a imprecare. Schofield si avvicinò. «Che succede?» chiese. «È strano», rispose Herbie, senza distogliere lo sguardo dallo schermo. «Dia un'occhiata qui.» Indicò una tabella: S.A. (R) 07-A SECURITY ACCESS LOG 7-3-010229027 ORA
AZIONE
OPERATORE
06.30.00
Verifica del sistema Comando di chiusura Verifica del sistema
070-67
07.30.00
Verifica del sistema
070-67
07.37.56
ALLARME: guasto sistema elettrico ausiliario
Sistema
07.38.00
ALLARME: capacità sistema elettrico ausiliario al 50%
Sistema
06.58.34 07.00.00
105-02 070-67
RISPOSTA DEL SISTEMA Tutti i sistemi sono operativi Chiusura effettuata Tutti i sistemi sono operativi (modalità chiusura) Tutti i sistemi sono operativi (modalità chiusura) Malfunzionamento terminale 1-A2. nessuna risposta dai sistemi: TRACS, AUX SYS-1, RAD COMSPHERE, MBN, EXT FAN Terminale 1-A2 non risponde
08.00.15
08.00.18
08.00.19
08.01.02
08.04.34
08.04.55
08.18.00
08.21.30
Interruzione corrente principale (da terminale 3-A1) Attivazione sistema elettrico ausiliario ALLARME: sistema corrente ausiliario operativo. Protocollo bassa energia elettrica attivato Ordine speciale rilascio chiusura effettuato (terminale 3-A1) Ordine speciale rilascio chiusura effettuato (terminale 3-A1) Ordine speciale rilascio chiusura effettuato (terminale 3-A1) ALLARME: capacità sistema corrente ausiliario al 35% Comando chiusura sistema telecamere sicurezza
0008-72
Corrente principa interrotta
Sistema ausiliario
Sistema corrente ausiliario attivato
Sistema ausiliario
Protocollo bassa energia in funzione: sistemi non essenziali disabilitati
008-72
Porta 003-V aperta
008-72
Porta 062-W aperta
008-72
Porta 100-W aperta
Sistema ausiliario
Terminale 1-A2 non risponde
008-93
Errore di sistema: sistema telecamere sicurezza disattivato per protocollo bassa ener-
(terminale 1A1)
gia
«Okay», disse Herbie. «All'inizio tutto quadra. Un operatore ha effettuato dei controlli di sistema. È stato sicuramente uno degli operatori che si trova sopra, nell'hangar principale al livello terra. Poi arriva l'ordine di chiusura alle 6.58, ordine dato dall'operatore numero 105-02. Dev'essere qualcuno molto in alto. Un prefisso con un numero alto, come il 105, indica il grado di colonnello o uno ancor più alto. Potrebbe essere stato il colonnello Harper. Ma poi, alle 7.37, dev'essere successo qualcosa al livello 1. A quell'ora quasi metà dell'energia ausiliaria della base è andata in fumo.» «Il missile ha colpito la scatola di derivazione», disse Schofield, ricordandosi lo scontro con gli Humvee. Il tono della sua voce lo faceva sembrare qualcosa di normale. «Benissimo», rispose Herbie. «Potrebbe essere una spiegazione. Quella scatola in effetti contiene i generatori per l'energia d'emergenza. Le conseguenze poco fortunate di quel missile, invece, si sono verificate più tardi.» Indicò la stringa corrispondente alle ore 08.00.15. «Qualcuno ha ordinato l'interruzione del sistema elettrico principale. Era questa la ragione per cui non riuscivo a spegnere le telecamere, prima. Vede, qui, quella delle 8.21 è la registrazione del mio intervento sul sistema del computer. Sono l'operatore 008-93. Il problema è che qualcun altro, l'operatore numero 008-72, aveva già spento le telecamere interrompendo l'alimentazione principale. Non appena qualcuno spegne l'energia principale, il sistema devia sull'energia ausiliaria. Ora, a causa del suo missile, questo posto sta girando con metà dell'energia che servirebbe e, come può vedere, sta diminuendo in fretta. Ma... quando si accende l'alimentatore d'emergenza, il sistema spegne automaticamente tutto quello che consuma inutilmente energia, per esempio l'illuminazione superflua e il sistema di telecamere di sicurezza. È questo il protocollo di bassa energia cui viene fatto più volte cenno.» «Dunque, spegnendo il sistema elettrico principale, l'operatore 'misterioso' ha eliminato automaticamente anche le telecamere di sorveglianza...» Schofield stava pensando ad alta voce. «Sì.» «Non voleva essere visto...» «Non solo», aggiunse Herbie. «Vede quello che ha fatto dopo? Ha inserito tre codici di rilascio della chiusura per altrettante porte: uno alle 8.01 e
due alle 8.04. Significa che le ha aperte tutte e tre.» «Durante la finestra temporale di cinque minuti.» Schofield annuì. «Esatto.» «Quali porte ha aperto?» «Solo un attimo, lo scoprirò subito.» Herbie si mise a scrivere e a introdurre codici. «Dunque, la prima porta è la 003-V» Sullo schermo apparve un diagramma dell'Area 7. «Eccola. Si tratta del tunnel dell'uscita di emergenza.» «E le altre due?» «062-W e 100-W...» disse Herbie, avvicinando la testa allo schermo per vedere meglio. «La porta 062-W significa porta 62-ovest. Ma questo vorrebbe dire che fa parte di...» «Di che cosa?» chiese Schofield. «62-ovest è una porta che sigilla il tunnel degli X-rail, giù al livello 6.» «E l'altra porta? La 100-ovest?» «Quella si trova alla fine del tunnel degli X-rail, dall'altra parte, vicino al lago Powell. È a circa sessanta chilometri da qui. La porta 100-ovest è l'uscita di sicurezza che si apre sul lago.» «Perché ha aperto quelle tre porte?» s'intromise Brainiac. «Suppongo che abbia aperto l'uscita del tunnel di sicurezza per far entrare i suoi compagni, perché gli dessero una mano a portare via il bottino», spiegò Schofield. «E le altre due porte?» «Le ha aperte così che chiunque possa uscire.» «Ma perché togliere l'energia elettrica?» Anche Gant sembrava interessata. «Semplicemente per spegnere le telecamere del sistema di sicurezza interna», spiegò Schofield. «Chiunque sia stato, non voleva essere visto dal personale della base.» «Essere visto mentre faceva che cosa?» chiese Brainiac. Schofield e Gant si scambiarono una rapida occhiata. «Mentre prendeva il bambino», disse Schofield. Poi si voltò verso Herbie. «Ce la fa a scoprire chi è l'operatore 008-72?» «Nessun problema.» Herbie era già al lavoro sulla tastiera. Non gli ci volle molto. «Beccato!» disse. Sullo schermo apparve una lista. Schofield cominciò a leggere velocemente fino ad arrivare alla riga che gli interessava:
008-72 BOTHA, GUNTHER W. «Chi è Gunther Botha?» chiese a Herbie. «Un figlio di puttana», disse una voce alle loro spalle. Era il presidente, che si era avvicinato alla postazione del computer. «Botha...!» disse disgustato. «Avrei dovuto immaginarlo.» «È uno scienziato sudafricano. Lavorava sul vaccino.» Il presidente fece una smorfia. «Fai un patto col diavolo, e poi il diavolo torna a morderti le chiappe.» «Ma perché mai avrebbe voluto portarsi via il bambino?» «Lo xenovirus ammazza sia i bianchi sia i neri, capitano», disse il presidente. «Gli unici a non essere attaccati dal virus sono le persone di origini asiatiche. Quel bambino, invece, è stato strutturato geneticamente in modo da essere un vaccino, sia per bianchi sia per neri. Ma se si somministrasse il vaccino soltanto ai bianchi, solo i bianchi sopravvivrebbero a un attacco dello xenovirus. E se Botha sta lavorando per chi penso io...» «Che vogliamo fare, dunque?» chiese Herbie. «Recuperiamo il bambino», disse Schofield senza nemmeno pensarci due volte. «E poi...» «No, capitano, non lo faremo!» Rod Hagerty era rimasto in disparte, ma ora apparve all'improvviso accanto al presidente. «Lei starà qui e proteggerà il presidente.» «Ma...» «Forse le è sfuggito, ma se muore il presidente, anche l'America muore. Un bambino può aspettare. Credo sia il momento per lei di rendersi conto di quali sono le sue priorità, capitano Schofield.» «Non possiamo lasciarlo...» «Certo che possiamo, e lo faremo.» La faccia di Hagerty stava diventando rossa. «Nel caso se ne fosse scordato, capitano, sono un suo superiore e le ordino di ascoltarmi. Il governo degli Stati Uniti mi paga perché io pensi anche per lei. E dunque, lei penserà questo: il suo paese è più importante della vita di un bambino.» Nel volto di Schofield non si mosse un muscolo. «Non vorrei vivere in un paese che lascia morire un ragazzino...» Gli occhi di Hagerty scintillarono. «D'ora in avanti, lei farà quello che le dirò io, e se io le dico...» Il presidente era sul punto d'intervenire e, quando Schofield, fissandolo
dritto negli occhi, disse ad Hagerty: «Nossignore. Io non le obbedirò. Perché se lei avesse avuto la pazienza di sentire quello che stavo per dire, avrebbe sentito questo: seguiamo il bambino, e portiamo il presidente con noi. Perché, nel caso in cui lei non ci avesse fatto caso, quel Botha, e chiunque sia con lui, ha aperto un'uscita da questo posto! Ci hanno dato una via d'uscita». Hagerty rimase in silenzio, digrignando i denti. «Ora, se non le dispiace», continuò Schofield, «e naturalmente se nessun altro ha idee migliori, che ne direste se ce ne andassimo il prima possibile da questa base?» *** Sopra, nella sala di controllo nell'hangar principale, i quattro operatori radio di Caesar Russell stavano lavorando con la massima concentrazione. «... Senza l'alimentazione principale, le telecamere sono fuori servizio. Tutti i sistemi stanno funzionando grazie al sistema d'energia ausiliaria...» «... Signore, qualcuno ha appena inserito i codici di rilascio della porta della stazione X-rail a ovest...» «Chi?» chiese Russell con tono secco. L'operatore al computer guardò lo schermo, poi si voltò. «Sembra che sia il professor Botha, signore.» «Botha...» disse Russell a bassa voce. «Assolutamente prevedibile.» «Signore», disse un altro operatore. «Si riscontra del movimento nella stazione X-rail. Qualcuno si sta muovendo in direzione ovest, verso il canyon...» «Guarda guarda. Gunther, non potevi proprio farne a meno, vero? Stai tentando di scappare col bambino, eh?» Caesar parlava tra sé e sé. Poi disse ad alta voce: «Quanto tempo impiega il treno X-rail da qui al lago?» «Fa duecentocinquanta chilometri all'ora per sessanta chilometri di binari. All'incirca quattordici minuti, signore.» «Manda giù l'unità Bravo al livello 6, sull'altro treno, in modo che segua Botha sull'X-rail. Poi mandami fuori l'unità Charlie con gli AH-77 per tagliargli la strada al lago. Così lo prendiamo tra due fuochi. Forza! Veloce! Anche se Gunther non lo sa, abbiamo bisogno del bambino. Se non ce lo riprendiamo, sarà stato tutto inutile.» Schofield, Mother, Gant e Book II scesero le scale a tutta velocità.
Schofield teneva la Desert Eagle in pugno. Il Football penzolava al suo fianco, assicurato a un gancio della tuta da combattimento. Dietro di loro venivano il presidente e Juliet, lo scienziato Herbie, Hot Rod Hagerty e Nicholas Tate. Seguivano Elvis e Brainiac, con Love Machine tra loro. Arrivati alla porta del livello 6, videro il corpo di Frank Cutler che giaceva riverso in una pozza di sangue. «Stia attento!» disse Juliet a Schofield, mentre questi girava la maniglia. «Era qui che ci hanno aspettato la prima volta.» Schofield annuì. Aprì la porta senza fare rumore, rimanendo dietro lo stipite. Non vi fu nessuno sparo. Nessun colpo di fucile. Nessuna pallottola fischiò nel pianerottolo. Mother, la prima a sbirciare oltre la porta, esclamò: «Cristo santo!» *** L'enorme montacarichi scendeva lentamente nella tromba di cemento. Sulla piattaforma, tra le lamiere divelte dell'aereo AWACS, i soldati dell'unità Bravo stavano aspettando di arrivare al livello più basso della base, il 6, per dare la caccia a Gunther Botha e al bambino. Ai lati della piattaforma, le pareti coperte di grasso scivolavano lentamente verso l'alto. Oltrepassarono il livello 3; raggiunsero il 4. Poi la piattaforma sprofondò nell'acqua. All'altezza del livello 5, dove si trovava la zona di detenzione, la piattaforma colpì la grande massa d'acqua che nel frattempo si era accumulata nella tromba del montacarichi. Tonnellate d'acqua si riversarono ai lati della piattaforma, uscendo lungo le pareti, convergendo verso il centro e sommergendo la parti più basse dell'aereo e i detriti più piccoli. «Cristo!» esclamò il capo dell'unità Bravo, Boa McConnell, quando all'improvviso si ritrovò immerso fino alla vita. Accese la sua ricetrasmittente. «... Unità Bravo comunica allagamento del livello 5. La tromba del montacarichi si sta riempiendo. Gli unici accessi rimasti per il livello 6 sono le scale antincendio a est e la conduttura dell'aerazione a ovest. Bravo si diri-
ge verso la conduttura d'aerazione...» «... Signore, ci è tornata l'immagine satellitare della zona intorno all'uscita d'emergenza.» Una fotografia stava uscendo da una stampante. Uno degli operatori la prese e controllò il codice dell'ora impresso in cima. «È un'immagine ripresa dieci minuti fa. Ce ne sta arrivando proprio ora una più recente... Che cazzo...?» «Che succede?» Caesar Russell raggiunse l'operatore, togliendogli il foglio di mano. Russell si ricordava l'immagine ripresa dal satellite qualche tempo prima: i ventiquattro piccoli oggetti che erano stati captati con una ripresa a banda infrarossa, distribuiti a cerchio intorno all'uscita di emergenza esterna della base. Caesar strizzò gli occhi. L'immagine ingrandita inquadrava con estrema nitidezza alcuni di questi oggetti. Non erano affatto roditori, come aveva pensato prima. Erano le punte di stivali militari. Spuntavano da teloni termoriflettenti. La seconda immagine stava arrivando. Caesar si affrettò a prenderla dalla stampante. Era stata appena ripresa. L'inquadratura era esattamente la stessa: l'uscita di emergenza, all'esterno della base. Tutt'intorno, un deserto di sabbia, terra e rocce. Ma in quell'immagine non c'era più traccia degli stivali. La zona intorno all'uscita di emergenza era sgombra. «Mmm, molto, molto furbo, Gunther», disse Caesar a bassa voce. «Ti sei portato dietro i Reccondo...» *** C'erano corpi dappertutto. Cristo, pensò Schofield. Sembra che quaggiù ci sia stata una guerra! Non era lontano dalla verità. Il livello 6 era simile a una stazione della metropolitana. Vi era una banchina centrale sopraelevata con binari che correvano ai lati. Come nelle stazioni metropolitane, alle estremità del lungo ambiente due tunnel si aprivano nell'oscurità. Solo che tre delle quattro imboccature erano chiuse da pesanti porte di sicurezza di acciaio grigio. Sulla banchina centrale giacevano nove corpi, tutti in abiti civili. Erano i nove componenti della prima squadra avanzata dei servizi segreti.
I corpi erano sparsi per la piattaforma, in varie posture, in un lago di sangue, le giacche crivellate da una quantità impressionante di pallottole. Dietro di loro vi era un secondo gruppo di corpi, una decina in tutto, nelle uniformi nere da combattimento. Uomini del 7° squadrone. Tutti morti. Tre di loro erano sdraiati con le braccia distese sulla banchina, con enormi fori irregolari nel petto, ferite causate dall'uscita delle pallottole: erano stati colpiti alle spalle mentre si arrampicavano sulla banchina dai binari di destra. L'espansione dei gas contenuti nelle pallottole aveva fatto esplodere loro il costato. Altri uomini del 7° squadrone erano riversi sui binari. Schofield osservò che tre di loro erano stati colpiti in fronte con estrema precisione. Quattro soldati invece non erano morti a causa di ferite da arma da fuoco. Erano a terra, accasciati accanto a una delle porte d'acciaio del lato destro. Era l'ingresso del tunnel di emergenza. Le loro gole erano state tagliate da orecchio a orecchio. Sono stati i primi a morire, pensò Schofield, quando i loro assassini gli sono arrivati alle spalle dall'uscita di emergenza. Schofield avanzò fino alla banchina. La stazione sotterranea era vuota. Fu in quel momento che li vide. Erano fermi ai due lati della banchina centrale, uno per binario: treni Xrail. «Grandioso!» esclamò sottovoce. Gli X-rail, chiamati anche railcars, sono un sistema di treni sotterranei ad altissima velocità utilizzato dall'esercito degli Stati Uniti per il trasporto di uomini e materiale. Si muovono a una velocità tale da richiedere quattro binari per garantirne la stabilità: due fissati a terra e due al soffitto. A Schofield davano l'impressione di essere molto potenti e veloci. Erano lunghi una ventina di metri, all'incirca come le carrozze della metropolitana, ma con le loro curve sinuose e i musi appuntiti erano chiaramente progettati con lo scopo di tagliare l'aria a tutta velocità. Il loro design richiamava il più famoso il treno ad alta velocità del mondo, il giapponese Bullet Train: muso affusolato, fasce laterali con leggere curve aerodinamiche e una coppia di alettoni che sporgono dalla coda. Il treno X-rail alla sinistra di Schofield era formato da due vagoni collegati tra loro da un passaggio estensibile, a fisarmonica. I due vagoni erano
messi coda contro coda, e i musi arrotondati dalle motrici che puntavano in direzioni opposte. Erano verniciati di un colore bianco scintillante, che li faceva sembrare shuttle spaziali. Solo vedendo i bracci Schofield capì perché quel sistema di treni era stato chiamato X-rail. Dalla parte anteriore e da quella posteriore di ogni motrice, curvati all'indietro come le ali di un uccello, sporgevano quattro lunghi bracci. Guardando di fronte un treno X-rail, questi quattro bracci erano disposti esattamente a forma di «X». Quelli inferiori erano collegati ai binari che correvano per terra, quelli superiori ai binari fissati al soffitto. I bracci, sia sopra che sotto, erano affusolati come le ali di un aereo in modo da ridurre al minimo l'attrito con l'aria. Un altro X-rail, di dimensioni ridotte, era fermo a ridosso della porta di sicurezza. Si trattava di una motrice in miniatura, appena un terzo della lunghezza dei treni accanto alla banchina. Non era altro che un abitacolo per due persone. «Un veicolo per la manutenzione», disse Herbie. «È decisamente più veloce dei treni, ma ci stanno solo due persone.» «Perché non li usano per la metropolitana di New York?» si chiese Elvis ad alta voce. «Quella porta è aperta», disse Brainiac, indicando il tunnel sul lato alla loro sinistra. In effetti, si trattava dell'unico tunnel che non era sigillato da una massiccia porta di sicurezza. «La porta 62-ovest», spiegò Herbie Franklin. «È da lì che sono usciti.» «Ed è esattamente quello che faremo noi», disse Schofield, muovendosi. Uscirono allo scoperto e corsero in direzione della doppia motrice X-rail che aspettava a metà della banchina. Accanto alla portiera della prima motrice si trovava un pulsante. Schofield lo premette, e con un lieve rumore si aprirono tutte le porte del treno, due per ogni motrice. Schofield montò all'interno della prima motrice, col Football appeso al fianco. Fece segno agli altri di salire in fretta. Book II entrò per primo, correndo subito verso la cabina di pilotaggio, seguito a breve distanza da Herbie. Il presidente e Juliet entrarono nella motrice posteriore, affiancati da Gant e Mother e seguiti da Hagerty e Tate, quest'ultimo sempre preoccupato di stare il più vicino possibile al presidente. Elvis e Brainiac, che trasportavano Love Machine, stavano ancora attra-
versando la piattaforma. «Elvis! Brainiac! Forza, veloci!» Schofield si voltò per guardare l'interno del treno. Era una via di mezzo tra una carrozza della metropolitana e un camion. Verso il fondo c'erano alcune file di sedili per i passeggeri, mentre nella parte anteriore si trovava un vasto spazio per lo stivaggio di materiale. Schofield vide il presidente, in fondo al treno e non lontano dalla porta posteriore, buttarsi esausto su un sedile. Accadde in quel momento. Senza il minimo preavviso. Un momento prima, Schofield stava guardando il presidente seduto, quasi accasciato, sul sedile del treno, e un attimo dopo tutte le vetrate rivolte verso la banchina esplosero sotto il fuoco rabbioso di raffiche di fucili automatici, schizzando minuscole schegge di vetro all'interno delle due carrozze. Seguirono altri colpi di fucile, forti, incessanti, col rumore assordante che rimbombava dappertutto. L'impatto delle pallottole contro il treno Xrail era talmente violento che le due motrici vibravano. Schofield si era abbassato d'istinto, riparandosi gli occhi. Poi si voltò per sbirciare dal finestrino ormai privo del vetro e vide un gruppo di soldati del 7° squadrone apparire di corsa dall'uscita del condotto di aerazione sul lato ovest della banchina. Brandivano i fucili P-90 e un paio di mitragliatrici a sei canne. Erano queste ultime a investire il treno X-rail con una quantità incredibile di pallottole, facendone vibrare le fiancate. «Tutto bene?» gridò Schofield a Juliet e al presidente. La sua voce si sentiva appena nel baccano tremendo delle armi. Il presidente era sdraiato sul pavimento della motrice, faccia in giù. Fece debolmente segno di sì. «State giù!» urlò Schofield. In quell'istante la motrice X-rail cominciò a vibrare. Si erano accesi i motori. Schofield si voltò un attimo. Book II e Herbie erano seduti sui sedili dell'abitacolo del treno, schiacciando pulsanti, girando rotelle, spingendo leve. Il sistema di alimentazione della motrice cominciò a ronzare, i motori a scaldarsi. «Forza! Andiamo!» disse tra sé e sé Schofield preoccupato. «Dai, forza!»
Improvvisamente una voce gracchiante esplose nel suo auricolare: «Ehi, aspettateci!» Era Elvis. Elvis, Brainiac e Love Machine erano ancora sulla banchina. Dovendo trasportare Love Machine, erano rimasti indietro e non ce l'avevano fatta a raggiungere i due vagoni dell'X-rail prima che i soldati del 7° squadrone apparissero dall'altra parte della stazione sotterranea. Si trovavano nei guai, accovacciati per terra al riparo di un pilone di cemento armato, a nemmeno quattro metri dalla porta della motrice posteriore. Intorno a loro si era scatenato un inferno di pallottole. «Dobbiamo muoverci!» urlò Elvis. «Preparatevi...! Ora!» Uscirono correndo da dietro il pilone. Come uno sciame di vespe le pallottole sfrecciarono intorno a loro, colpendo il piloni della banchina e facendo volare pezzi di cemento in tutte le direzioni. Due pallottole colpirono la spalla sinistra di Elvis trapassandola. «Love Machine!» gridò. «Non mollare!» Raggiunsero la porta posteriore e spinsero Love Machine all'interno; la sua testa sbatté a sinistra, colpendo la spalla di Elvis in una posizione del tutto innaturale. «Cazzo!» Brainiac aveva visto tutto. «No!» Elvis si voltò. La testa di Love Machine pendeva in avanti inerte. Uno spesso rivolo di sangue e materia cerebrale usciva da un foro sulla nuca. Love Machine era morto. Elvis raggelò, incurante delle proprie ferite. «Dai, forza!» disse Brainiac. «Mettiamolo dentro, il treno sta per partire.» Elvis non rispose. Continuava a fissare Love Machine, appoggiato mollemente contro la sua spalla. «Elvis...!» «Va'!» disse Elvis piano. Fece scivolare il corpo di Love Machine sulla banchina accanto alla porta del treno, mentre le pallottole continuavano a sibilargli intorno. Poi guardò Brainiac dritto negli occhi. «Va'! Ora!» «Che diavolo vuoi fare?» gridò Brainiac. «Rimango qui col mio amico.» Brainiac vide la tristezza negli occhi di Elvis; poi lo vide lanciare un'occhiata assassina ai soldati del 7° squadrone che si stavano avvicinando al
treno. Brainiac aveva capito. «Sta' attento, Elvis», disse piano. «Scordatelo» rispose Elvis. *** «Brainiac!» gridò Schofield, pistola in pugno. Tentava di vedere quello che succedeva in fondo al treno senza prendersi una pallottola in piena testa. «Che diavolo succede là dietro?» «Abbiamo perduto Love Machine, signore. Ed Elvis ha appena... oh, cazzo!» urlò Brainiac. Nello stesso istante, nella stazione sotterranea si udirono quasi contemporaneamente due rumori sordi. Schofield si voltò appena in tempo per vedere due granate, grosse come palle da baseball, ma nere, volare verso di lui e il treno X-rail. Due soldati del 7° squadrone avevano sparato coi lanciagranate M-203. Le due granate entrarono passando attraverso i finestrini privi di vetri, una all'altezza di Schofield, l'altra verso il fondo del vagone, non lontano da Gant, Mother e il presidente. La granata vicina a Schofield colpì la parete del vagone, rimbalzò e si fermò quasi al centro del pavimento, a circa tre metri da lui. Schofield non perse tempo. Si buttò verso la granata, scivolando col petto sul pavimento del vagone, e le diede un colpo con la mano, facendola sparire fuori dalle porte aperte del treno. Schofield non si fermò. Scivolò in avanti, finendo dietro la parete del treno. La granata esplose. Una grossa lingua di fuoco eruppe per una frazione di secondo attraverso le portiere aperte. Dall'altra parte del treno, Gant e Mother non furono altrettanto fortunate. L'altra granata era atterrata tra i sedili nella parte posteriore del vagone. Non c'era modo di raggiungerla prima che esplodesse. «Di qua!» Gant saltò in piedi, tirò brutalmente il presidente fuori dal sedile e lo trascinò verso il passaggio che collegava le due motrici X-rail. La porta a vetri del loro vagone si aprì velocemente. Gant diede uno spintone al presidente, che venne catapultato in avanti, mentre Mother, Juliet, Hot Rod e Tate oltrepassarono di corsa la porta. Mentre la seconda porta a vetri si apriva, la prima cominciò a chiudersi. Gant e il presidente si buttarono in avanti, dentro la motrice anteriore,
seguiti dagli altri, e finirono a faccia in giù sul pavimento proprio quando la granata nel vagone posteriore deflagrò mandando in frantumi la prima porta a vetri ma incrinando solamente la seconda. La seconda detonazione fece volare Schofield per terra. Carponi, l'uomo parlò al microfono della ricetrasmittente: «Fox! Mother! Tutto a posto?» La voce di Gant rispose subito: «Siamo sempre qui, e il presidente è con noi. Siamo nel secondo vagone, ora». «Brainiac!» disse Schofield. «Sei sul treno?» «Sissignore. Sono in fondo alla seconda carrozza.» «Book!» gridò Schofield. «Hai scoperto come si fa a guidare questo maledetto treno?» «Credo di sì.» «Allora che aspetti?!» Un attimo dopo l'X-rail cominciò a muoversi in avanti, in direzione dei soldati del 7° squadrone. «Signore.» Era Brainiac. «Devo informarla che abbiamo perso Love Machine...» «Merda!» rispose Schofield turbato. «... e stiamo per perdere anche Elvis.» «Che cosa?» sbottò Schofield, incredulo e allo stesso tempo terrificato. Non ci fu tempo per discutere ulteriormente, poiché proprio in quel momento altri tre rumori tristemente familiari risuonarono all'esterno del treno. Tre granate sfrecciavano attraverso la stazione sotterranea, tracciando sottili scie di fumo. Erano dirette contro il treno, che aveva appena cominciato a muoversi. Una dopo l'altra, in rapidissima successione, entrarono attraverso i vetri rotti nella seconda carrozza del treno X-rail. La carrozza dove si trovava il presidente. «Oh Cristo santo!» fu il grido di Mother attraverso l'auricolare. Il treno X-rail a doppia motrice cominciò a prendere velocità, dirigendosi verso il tunnel. Nella seconda carrozza, Gant non riusciva a credere a ciò che stava accadendo. Tre granate! Tutte nel suo vagone.
In una frazione di secondo valutò le sue opinioni. Se rimaniamo qui, moriremo di sicuro. Se usciamo, dovremo vedercela col 7° squadrone. In tal caso la morte è probabile, ma non sicura. «Non possiamo restare qui!» gridò. «Fuori! Fuori!» Lei e Juliet afferrarono il presidente per la giacca e lo trascinarono di peso verso la porta del treno. Corsero senza esitazioni verso la porta aperta e si lanciarono fuori dal treno in movimento. Atterrarono sulla banchina di cemento rotolando di lato. Hot Rod Hagerty e Nicholas Tate HI uscirono dopo di loro, atterrando goffamente. Un attimo dopo Mother, per non perdere tempo dietro ai due, uscì al volo da uno dei finestrini accanto alla porta. Compì un perfetto salto mortale, e atterrò sulla banchina con una capriola, per poi finire in piedi e col fucile spianato. In quel momento le tre granate esplosero, quasi all'unisono, nella seconda motrice. Tre lampi di luce accecante uscirono dai finestrini del vagone, spezzando i bracci come fossero fiammiferi e sventrando le pareti della motrice in vari punti. Le fiamme si dilatarono sopra le loro teste, mentre tentavano di guadagnare la protezione dei pilastri di cemento della stazione sotterranea per sottrarsi alle pallottole dei soldati del 7° squadrone. L'intero X-rail fu scosso dalla triplice esplosione, ma rimase sui binari, prendendo sempre più velocità a mano a mano che avanzava. Nella motrice di testa, Schofield per poco non finì a terra per l'onda d'urto delle esplosioni. Quando riacquistò l'equilibrio, riuscì a guardarsi alle spalle. Quello che vide lo fece inorridire. Il presidente, tra Gant, Mother e Juliet, si buttava dietro la banchina di cemento per uscire dalla linea del fuoco nemico. Il presidente era sceso dal treno! Il treno accelerò ancora. Ora si stava avvicinando all'uscita ovest della stazione, passando accanto agli uomini del 7° squadrone appostati su quel lato. Alcuni si trovavano proprio a fianco al treno in movimento, ma nessuno s'interessò di Schofield e della sua motrice. Avevano occhi solo per il presidente. Schofield dovette prendere una decisione. E velocemente. Saltare giù dal treno e stare col presidente, sulle cui spalle gravava il destino del Pae-
se. Oppure proseguire e raggiungere il bambino... Per un attimo, mentre il treno X-rail stava per imboccare il tunnel, Schofield se lo vide davanti agli occhi, e improvvisamente fu certo che il presidente se la sarebbe cavata, e che almeno sarebbe riuscito a fuggire dalla stazione del livello 6. Schofield sapeva che Gant e Mother sarebbero state d'accordo con lui. Aveva deciso. Doveva trovare Kevin. Nemmeno un secondo dopo, la motrice entrò nel tunnel. L'ultima cosa che Schofield vide furono i soldati del 7° squadrone che lentamente si avvicinavano al presidente e alla sua piccola scorta. Poi non ci fu altro che il muro nero e impenetrabile del tunnel. Gant abbassò la testa. Frammenti di cemento e pallottole volavano dappertutto. Erano spacciati. Il 7° squadrone li aveva in pugno. Non c'era via d'uscita, non potevano fuggire. Erano bloccati in mezzo alla banchina di cemento, in inferiorità numerica, con meno armi e, soprattutto, senza un briciolo di fortuna. E poi vide Elvis. Stava camminando come un robot, non come un uomo. Era uscito da dietro i piloni e avanzava verso gli uomini del 7° squadrone, incurante della battaglia che lo circondava. Non aveva armi, camminava tenendo le mani rabbiosamente chiuse lungo i fianchi. Il suo volto era privo di emozioni, lo sguardo fisso in avanti, la bocca una sottile linea dura. Elvis, a quanto pareva, stava compiendo una missione tutta sua. «Gesù!» borbottò Gant. «Stammi bene, Elvis!» Si voltò verso gli altri. «Preparatevi. Stiamo per muoverci.» «Che cosa?!» sbottò Hagerty. «E come?!» «Elvis ci sta facendo un bel regalo. Ci darà un po' di tempo, vedrà. Tieniti pronto a scattare.» Il sergente dei marine Wendall «Elvis» Haynes andò incontro agli uomini del 7° squadrone. Ormai camminava addirittura tra loro e il gruppo del presidente. Gli uomini del 7° squadrone rallentarono, leggermente stupiti dallo strano comportamento di Elvis, che continuava ad avanzare pur essendo com-
pletamente disarmato. Adesso si trovava a una ventina di metri dai soldati e alla stessa distanza dal presidente. Sembrava calmo. I soldati del 7° squadrone non udirono il tantra che Elvis stava ripetendo sottovoce: «Avete ucciso il mio amico, avete ucciso il mio amico, avete ucciso il mio amico...» Con una rapida mossa, un uomo del 7° squadrone alzò il suo P-90 e fece partire una breve raffica. Numerose pallottole colpirono il petto di Elvis, che cadde lungo disteso all'indietro. Solo quando lo raggiunsero, i soldati udirono le parole di Elvis, ormai un debole rantolo: «Avete ucciso il mio amico...» E poi videro che la sua grande mano destra si stava aprendo, svelando, quasi un giocattolo nel suo palmo, una granata RDX ad alto potere esplosivo. «Avete ucciso il mio...» Elvis esalò il suo ultimo respiro. La sua mano si aprì completamente, rilasciando così il meccanismo della granata. Tra l'orrore degli uomini dell'unità Bravo riuniti intorno a lui, la granata RDX deflagrò in tutta la sua devastante potenza. *** Il treno X-rail sfrecciava nel tunnel. Grazie alla forma affusolata e alla punta aerodinamica della motrice, avanzava a quasi trecento chilometri orari, nonostante mancassero i finestrini e le pareti fossero danneggiate da migliaia di fori di pallottola. Procedeva quasi senza rumore e con una stabilità sorprendente. L'assenza di vibrazioni era dovuta al fatto che il veicolo non possedeva un motore, bensì un sistema di propulsione dell'ultima generazione, sviluppato per rimpiazzare le ormai obsolete catapulte a vapore delle portaerei della Marina militare. La propulsione magnetica richiedeva poche parti mobili, garantendo allo stesso tempo una velocità fenomenale, cosa che la rendeva molto apprezzata tra gli ingegneri, che ben sapevano che più parti mobili possiede un meccanismo, più probabilità ha di rompersi. Book II era seduto ai comandi nella cabina di pilotaggio, Herbie gli stava accanto. La cabina era l'unica parte delle due motrici a non aver subito danni ai finestrini. «Merda!» Era Schofield, alle loro spalle. «Qualcosa che non va?» chiese Book II.
«È questa che non va!» esclamò Schofield, battendo la mano sulla ventiquattrore Samsonite al suo fianco, fissata alla tuta di combattimento. «Il Football! Maledizione! È successo tutto troppo in fretta. Non ci ho proprio pensato quando il presidente è saltato giù dal treno. Che ore sono?» Erano le 8.55. «Grandioso», disse. «Abbiamo giusto un'ora per riportarla al presidente.» «Vuole che torniamo indietro ora?» Schofield stette un attimo a soppesare i mille pensieri che gli balenavano in testa. Disse con aria decisa: «No. Non voglio lasciare solo quel bambino. Torneremo in tempo». «Be', e come la mettiamo con la salvezza del Paese?» chiese Book II. Schofield sorrise. «In tutta la mia vita non ho mai mancato un appuntamento, e non ho intenzione di cominciare proprio oggi.» Si rivolse a Herbie. «Bene, Herbie, mi dica qualcosa su questa linea di treni X-rail. Dove porta?» «Diciamo che non rientra nelle cose di cui mi occupavo», disse Herbie. «Ma ci sono salito, qualche volta. A quanto ne so, ci sono due linee. Una si dirige verso ovest, fino al lago Powell. L'altra punta verso est e collega l'Area 7 con l'Area 8.» Poi Herbie spiegò che si trovavano sulla linea diretta a ovest, lunga circa settanta chilometri. Schofield in passato aveva già sentito parlare del lago Powell. In realtà, non era un vero lago, ma un vasto labirinto di quasi trecento chilometri, un intreccio di contorti canyon pieni d'acqua. Situato sulla frontiera tra Utah e Arizona, il lago Powell, anni prima, era stato un luogo molto simile al Grand Canyon, chiamato Glen Canyon: un'ampia regione di vallate, gole e canyon scavati nel corso dei millenni dal potente fiume Colorado, lo stesso che, più a valle, diede vita anche al Grand Canyon. Ma nel 1963, il governo degli Stati Uniti vi fece costruire una diga per la produzione di energia elettrica, trasformando il Glen Canyon in uno dei più grandi bacini idrici del mondo. La diga, oltre a creare il lago, diede vita a un paesaggio di spettacolare bellezza. Ora piatte montagne gialle e svettanti formazioni rocciose si ergevano maestose fuori dalle acque blu del lago e tra le gole e i canyon, là dove un tempo c'erano soltanto sentieri di sabbia e polvere, scorrevano numerosi
torrenti. Una specie di via di mezzo tra il Grand Canyon e Venezia. Come avviene per tutti i progetti importanti, anche la costruzione della diga aveva suscitato voci di protesta. Gli ambientalisti sostenevano che la diga avrebbe alzato il livello di fango, danneggiando l'ecosistema di una varietà di rospo lunga due centimetri. Il pericolo per l'ecosistema sembrò poca cosa al proprietario di un piccolo distributore di benzina con annessa tavola calda, che avrebbe visto il suo locale finire sotto trenta metri d'acqua. Fu generosamente risarcito dal governo. Con le sue novantatré gole, il lago Powell divenne nel giro di poco tempo una meta ambita dai turisti che trascorrevano le vacanze nelle case galleggianti. Ma i tempi erano cambiati e l'attività turistica si era lentamente esaurita. Ora il lago Powell era un luogo silenzioso, un labirinto un po' spettrale di canyon e gole, alcune strettissime. «Questo tunnel del treno X-rail raggiunge il lago in un'area sotterranea», spiegò Herbie. «La linea fu costruita per due ragioni. Innanzitutto, permise di mantenere segreta la costruzione delle Aree 7 e 8. Tutti i materiali furono trasportati sul lago con zattere motorizzate, e poi caricati sui treni X-rail perché li portassero sul luogo di costruzione. Ancora oggi, lo usiamo di tanto in tanto come una comoda uscita secondaria, per certe forniture o per la consegna dei prigionieri.» «Bene», disse Schofield. «E la seconda ragione?» «Serve anche come uscita di sicurezza in caso d'emergenza», disse Herbie. Schofield guardò in avanti, oltre il parabrezza. Le rotaie dell'X-rail stavano scorrendo a una velocità incredibile. Il largo tunnel curvava nell'oscurità davanti a loro. Il rumore della porta della cabina fece sobbalzare Schofield. Si voltò di scatto, la pistola alzata, pronto a sparare. Brainiac, in piedi sulla porta d'ingresso, alzò lentamente le mani con un sorriso: «Ehi, ehi! Sono solo io!» Schofield abbassò la pistola. «La prossima volta che entri, bussa!» «Ci può scommettere, capo.» Brainiac si accomodò su un sedile vuoto. «Da dove sbuchi?» «Ero nella seconda carrozza. Sono stato separato dagli altri quando le granate sono entrate nel treno. Mi sono buttato nello scompartimento per lo stoccaggio delle merci proprio un attimo prima dell'esplosione.» «Sono contento che tu sia qui», disse Schofield. «Abbiamo bisogno di
tutto l'aiuto possibile.» Si girò verso Herbie. «C'è modo di avere le telemetrie degli altri treni del sistema?» «Penso di sì», rispose Herbie. «Ma mi ci vorrà qualche istante.» Schiacciò alcuni tasti sulla console di guida. Sul cruscotto si accese il monitor del computer. In pochi secondi Herbie riuscì a far comparire uno schema del sistema X-rail.
Schofield vide che la linea che portava dall'Area 7 al lago Powell non era retta, ma presentava qualche leggera curva. Sul percorso visualizzato nel monitor erano accesi due punti rossi lampeggianti che si muovevano lungo la linea dei binari. «I punti lampeggianti sono due treni X-rail», spiegò Herbie. «Quello più vicino all'Area 7 siamo noi. L'altro treno deve aver lasciato la base all'incirca dieci minuti prima di noi.» Schofield osservò il primo puntino lampeggiante. Quando raggiunse l'area sotterranea del lago Powell, il puntino sul monitor si fermò. Schofield si rilassò sul sedile. «Visto che abbiamo dieci minuti, vorrei sapere di più su questo Botha. Chi è?» Non appena la granata di Elvis esplose, Gant, Mother e Juliet saltarono in piedi, sparando all'impazzata per coprire il presidente. Corsero verso le scale antincendio con cui erano scesi nella stazione sotterranea. L'esplosione della granata RDX di Elvis aveva ucciso all'istante cinque uomini del 7° squadrone. Le loro membra insanguinate erano sparse sui binari ai due lati della banchina di cemento. Gli altri cinque uomini dell'unità Bravo si erano trovati a una certa distanza dall'esplosione, ma l'onda d'urto li aveva scaraventati a terra.
Ora correvano freneticamente in tutte le direzioni, alcuni lungo i binari dell'X-rail, altri buttandosi giù dalla banchina, cercando disperatamente di ripararsi dal fuoco impetuoso di Gant e degli altri. Il gruppo di Gant raggiunse le scale antincendio; la donna entrò per prima, seguita dal presidente; Mother, Juliet, Hagerty e Tate varcarono la soglia subito dopo. Avevano tutti il fiatone e il cuore che batteva all'impazzata. Corsero su per le scale e raggiunsero la porta antincendio del livello 5. Gant stava per aprire la porta, la mano già appoggiata sulla maniglia, quando d'un tratto la ritrasse. Piccoli getti d'acqua uscivano dal telaio della massiccia porta, facendosi strada attraverso la guarnizione di gomma. Erano più forti in basso, mentre perdevano intensità verso la parte alta della porta. Dalla fessura superiore non usciva nulla. Dall'altra parte doveva esserci un'enorme massa d'acqua che non vedeva l'ora di essere liberata. Sarebbe bastato girare la maniglia per scatenare l'inferno. Improvvisamente Gant e gli altri udirono un suono terrificante provenire da dietro la porta, il suono più orribile che avessero mai sentito in tutta la loro vita. Erano grida di dolore e di disperazione... lamenti di animali intrappolati. «Oh no! Gli orsi!» Juliet Janson era sbiancata. Erano tutti fermi davanti alla porta. «Non credo sia il caso di entrarci.» «Direi proprio di no», disse Gant. Continuarono a salire le scale di corsa e raggiunsero il livello 4. Dopo aver controllato l'area di decompressione che si trovava dietro la porta, Gant fece segno che potevano proseguire. I sei si avvicinarono alla porta, esausti per la corsa. «Benvenuti a tutti!» disse all'improvviso una forte voce proveniente dall'alto. Tutti alzarono la testa di scatto. Gant si ritrovò a puntare la canna della sua pistola contro uno schermo televisivo appeso alla parete. Si era appena acceso. Sullo schermo c'era la faccia sorridente di Caesar. «Cittadini americani, ora sono le 9.04, e dunque è venuto il momento di un nuovo aggiornamento.» Caesar continuò in tono compiaciuto. «... I vostri stupidi marine, del tutto inadeguati, non sono ancora riusciti
a ferire uno dei miei soldati. Non fanno altro che correre e scappare. L'ultima volta che 'sua altezza' è stato avvistato stava tentando disperatamente di raggiungere l'uscita. Si trovava al livello più basso della base. Mi hanno appena informato che c'è stato uno scontro a fuoco nella zona in questione, ma sto aspettando ancora un resoconto dettagliato...» Per quanto importava a Gant, Caesar poteva blaterare finché voleva. Qualsiasi cosa dicesse, qualsiasi bugia inventasse, non cambiava la loro situazione. Sicuramente non era il caso di perdere tempo a starlo a sentire. Così, mentre Caesar continuava a parlare e gli altri ascoltavano, Gant andò a controllare la porta a scivolo che conduceva giù al livello 5. Riuscì a sentire qualche debole rumore provenire dall'altra parte. Dopo un attimo capì che erano urla umane. Spinse il bottone accanto alla porta, che si aprì lateralmente. I prigionieri del livello 5 dovevano averne sentito il rumore, perché d'un tratto le loro grida si fecero più forti. Gant si chinò in avanti per sbirciare. «Santo cielo!» La prima cosa che vide fu l'acqua. La rampa a un certo punto spariva sotto il livello dell'acqua. Mentre la voce di Caesar continuava a rimbombare alle sue spalle, Gant scese giù per la rampa, ma dopo pochi passi fu nell'acqua fino alle caviglie. Si dovette abbassare. Lo spettacolo era sconvolgente. L'intero livello era allagato. L'acqua doveva essere più o meno a un metro e mezzo d'altezza. Tutta la sala era al buio, e questo fatto rendeva la zona di detenzione ancora più spettrale e sinistra. L'acqua, nera come la pece, si estendeva davanti a lei. Aveva invaso ogni singola cella, passando attraverso le sbarre, tra le quali sbucavano i volti disperati dei prigionieri. Gant non aveva mai visto espressioni di terrore come quelle. I prigionieri l'avevano vista. Urla, grida, voci, singhiozzi, suppliche. I prigionieri si attaccavano alle sbarre delle celle, gridando più forte che potevano. Sapevano che quelle celle sarebbero presto diventate la loro tomba. Gant non aveva ancora visto l'area di detenzione. Aveva solo sentito il presidente che ne parlava durante la descrizione dello xenovirus e del suo vaccino, Kevin. «Meglio andarsene!» Juliet era scesa e si era fermata alle spalle di Gant.
Il notiziario di Caesar doveva essere finito, ma tra le urla non era possibile esserne sicuri. «Questi uomini moriranno affogati...» esclamò Gant, ma Janson le mise una mano sulla spalla e la costrinse a girarsi e a risalire al livello 4. «Credimi, morire affogati è ancora una morte fin troppo dolce per uomini come questi», disse l'agente dei servizi segreti. «Forza. Dobbiamo trovare un buco dove infilarci e barricarci dentro. Non so te, ma io non sto più in piedi e ho bisogno di un attimo di tregua.» Azionò il comando di chiusura, e la porta orizzontale si chiuse, tagliando le urla dei prigionieri. Il presidente, Mother, Hot Rod e Tate seguirono Gant e Juliet verso ovest. Nessuno di loro aveva notato la camera di decompressione. Sebbene da una certa distanza potesse sembrare normale, sarebbe bastato avvicinarsi e guardare più da vicino per notare che il timer della serratura di sicurezza aveva terminato il tempo di chiusura. Ora la serratura era aperta. E la camera di decompressione era vuota. Erano le 9.06. *** «... Comandante unità Bravo, a rapporto...» Uno degli operatori radio stava parlando nel suo microfono. «... Controllo, qui comandante unità Bravo. Abbiamo subito gravi perdite sulla banchina della stazione X-rail. Cinque morti, due feriti. Un nemico aveva una granata RDX e si è messo a fare il kamikaze...» «... Che ne è del presidente?» lo interruppe l'operatore radio. «Il presidente si trova ancora all'interno della base. Ripeto: il presidente è ancora all'interno della base. L'abbiamo visto imboccare le scale antincendio. Alcuni marine della scorta sono partiti con una motrice X-rail...» «... E il Football?» «Non è più col presidente. Uno dei miei uomini giura di averlo visto addosso a quello Schofield...» «... Grazie, comandante unità Bravo. Porti i suoi feriti nell'hangar principale per farli medicare. Ordineremo all'unità Echo di allagare i piani inferiori per eliminare il presidente...»
«Gunther Botha era un colonnello del Medical Batallion sudafricano», raccontò Herbie. Il treno continuava a sfrecciare all'interno del tunnel. «I Meds», disse Schofield con aria schifata. «Ne ha sentito parlare?» «Sì. Non un bel gruppo con cui avere a che fare. Era un'unità biomedica offensiva, una sottodivisione specializzata dei Reccondo. Truppe scelte che si servivano di armi biologiche.» «Proprio così», disse Herbie. «Vede, prima di Mandela, i sudafricani erano i leader mondiali nella guerra chimica e batteriologica. E agli statunitensi stavano simpatici. Si è mai chiesto perché noi americani non abbiamo mai fatto un granché per combattere l'apartheid? Sa chi ci ha fornito su un piatto d'argento il fasciitis necrofagus dei russi, quell'insetto che si nutre di carne umana? I sudafricani. Ma, per quanto fossero bravi, una cosa non sono mai riusciti a farla. Erano anni che tentavano di sviluppare un virus che uccidesse i neri e lasciasse vivi i bianchi, però non ce la facevano. Botha era uno dei capi della ricerca, e pare che fosse sul punto di risolvere il problema quando il regime dell'apartheid crollò. Come si venne poi a sapere, la ricerca di Botha poteva essere utilizzata per un altro progetto su cui si stava lavorando negli Stati Uniti: un vaccino contro lo xenovirus, ossia un virus che fa distinzione tra le cosiddette 'razze'.» «Così fu portato qui», disse Schofield. «Esatto.» «E ora scopriamo improvvisamente che il professor Botha non è poi così affidabile come si credeva.» «Proprio così.» Schofield stava pensando. «Tra l'altro non sta lavorando da solo», disse dopo un po'. «Come fa a saperlo?» «Tutti quei soldati morti del 7° squadrone che abbiamo visto al nostro arrivo al livello 6... Non ho mai incontrato Gunther Botha di persona, ma sono sicuro che non riuscirebbe a sterminare un'intera unità del 7° squadrone da solo. Si ricordi che Botha ha aperto tre porte, le due porte del sistema X-rail e l'uscita di emergenza del livello 6. Ha fatto entrare una squadra attraverso quell'uscita di sicurezza. Sono stati loro a far fuori gli uomini del 7° squadrone al livello 6. A giudicare dalle ferite nelle loro schiene e dalle gole tagliate, direi a occhio e croce che gli amici di Botha hanno teso un agguato ai soldati del 7° squadrone.» Schofield si mordicchiò le labbra, pensando. «Ma questo non mi dice ancora ciò che vorrei
sapere.» «Sarebbe a dire?» Schofield alzò lo sguardo. «Se Botha ci sta giocando, vorrei sapere con chi è in combutta.» «Averlo con noi era un rischio fin dall'inizio», disse il presidente. «Ma senza di lui non ce l'avremmo fatta.» Il presidente e i suoi uomini erano seduti nel laboratorio di osservazione, al di sopra della stanza cosparsa dalle schegge del cubo distrutto. Dovevano riprendere fiato. Poco prima, quando erano arrivati, si erano imbattuti in una scena inquietante: sul pavimento del laboratorio c'era un grande tombino circolare. Gli uomini del 7° squadrone erano passati di là. E questo forse significava che per un po' non sarebbero tornati. Era un buon posto in cui nascondersi e riposarsi un po'. Libby Gant era l'unica rimasta in piedi, visibilmente scossa. Guardava pensierosa il cubo distrutto. Da quando era finito l'ultimo «notiziario» di Caesar, la base era avvolta in uno strano silenzio, quasi come se i soldati del 7° squadrone avessero smesso di setacciare i vari piani alla ricerca febbrile del presidente. Era difficile pensare che si stessero riposando anche loro. A Gant quella calma non piaceva. Voleva dire che stava succedendo qualcosa. Aveva approfittato di quei momenti per chiedere al presidente qualche informazione su Gunther Botha, l'uomo che aveva appena rapito Kevin. «Nessuno al mondo conosceva i virus 'razziali' come Botha. Ne sapeva di più di tutti i nostri scienziati messi insieme», spiegò il presidente. «Chiaramente eravamo a conoscenza del suo passato poco pulito.» «Col regime dell'apartheid?» «Sì, ma non solo. Quello che temevamo maggiormente erano i suoi collegamenti con un gruppo chiamato Die Organisasie, l'Organizzazione. Si tratta di un gruppo sotterraneo di cui fanno parte ex ministri negli anni dell'apartheid, ricchi possidenti sudafricani, ex soldati delle truppe scelte delle forze armate del Sud Africa e leader di movimenti militaristici che erano fuggiti dal Paese dopo il crollo della dittatura dei bianchi, sapendo benissimo che il nuovo governo li avrebbe accusati e processati per i loro crimini. Questo almeno è ciò che la maggior parte della nostra intelligence e dei servizi segreti crede: Die Organisasie vuole soltanto riprendersi il Sud A-
frica. Ma non ne siamo del tutto sicuri.» «Che cosa vuol dire con questo?» chiese Gant. Il presidente sospirò. «Pensate a cosa c'è in gioco. Nella storia dell'umanità non sono mai esistite armi biologiche capaci di agire solo su un preciso gruppo etnico. Sono un'arma micidiale in grado di distruggere una parte della popolazione senza provocare nessun danno all'altra. Le nostre paure su Die Organisasie non riguardano soltanto quello che sarebbero capaci di fare alla Repubblica del Sud Africa. A spaventarci è quello che potrebbero fare all'intero continente africano.» «Ossia?» «Die Organisasie è un'organizzazione razzista. I suoi membri credono in modo assoluto che i bianchi siano geneticamente superiori ai neri. Sono convinti che i neri dovrebbero essere schiavi dei bianchi. Non odiano solo i neri del Sud Africa: odiano tutti i neri del mondo. Ora, se Die Organisasie possedesse lo xenovirus e il vaccino, potrebbe infettare l'intero continente africano, fornendo l'antidoto solo a quei gruppi di bianchi che appoggiano la loro politica. I neri dell'Africa morirebbero tutti, e il resto del mondo non potrebbe fare mente per aiutarli senza il vaccino dello xenovirus. Vi ricordate quando Gheddafi, nel 1999, propose di unificare l'Africa? Non era mai successo prima. Parlò della creazione degli Stati Uniti d'Africa, ma tutti lo considerarono uno scherzo. Gheddafi non sarebbe stato capace di realizzare una cosa simile. Ci sono troppi problemi legati alle varie tribù che bisognerebbe risolvere prima di unire l'intero continente africano. Ma un'organizzazione in possesso dello xenovirus e del suo antidoto potrebbe governare l'Africa col pugno di ferro. Porrebbe trasformare l'Africa, ricca di risorse e con una forza lavoro di miliardi di neri, in un impero privato.» Il treno X-rail sfrecciava nel tunnel. Erano passati dieci minuti, e Schofield cominciava a sentirsi ansioso. In poco tempo sarebbero arrivati nella stazione per il carico delle merci, accanto al lago, e non sapeva che cosa sarebbe accaduto. C'era ancora una domanda sull'Area 7 che continuava ad assillarlo. «Herbie, come hanno fatto quelli dell'Aeronautica a procurarsi lo xenovirus?» «Bella domanda», disse Herbie, annuendo. «Ci è voluto un po' di tempo, ma alla fine siamo riusciti a corrompere due lavoratori cinesi del laboratorio di armi biologiche di Changchun. Per un biglietto di sola andata in
America e un assegno di venti milioni di dollari a testa, hanno accettato di portare alcune fiale del virus fuori dalla Cina.» «I due nella camera di decompressione», disse Schofield. Si ricordava bene le facce asiatiche che aveva visto al livello 4. «Esatto.» «Ma c'erano quattro uomini dentro la camera.» «Giusto», disse Herbie. «Ma capirà bene che in Cina il chimico di un laboratorio top secret del governo non può semplicemente alzarsi dalla scrivania e lasciare il Paese. È un po' più complicato. Dovevamo farli uscire. Gli altri due nella stanza erano i soldati del 7° squadrone che li hanno portati fuori dalla Cina. Sono due ufficiali di origine cinese, Robert Wu e Chet Li. Wu e Li avevano fatto parte dell'unità Echo, una delle cinque unità del 7° squadrone di stanza all'Area 7. Ecco perché sono stati sc...» Schofield aveva alzato la mano e si era avvicinato al parabrezza. «Mi scusi, dottor Franklin», disse. «Ma temo che per il momento basti così. Ho la strana sensazione che la situazione sta per movimentarsi un po'.» Indicò il tunnel davanti a loro. In fondo al buio del tunnel, proprio in mezzo alle pareti di cemento che scorrevano veloci ai lati del treno, era apparso un piccolo punto luminoso che si faceva sempre più grande. Erano le luci al neon della stazione per il carico delle merci. Erano arrivati al capolinea. *** «Non entrare!» disse Schofield a Book. «Potrebbero aspettarci all'interno. Fermati nel tunnel. Il resto del percorso lo faremo a piedi.» Il treno X-rail semidistrutto rallentò e si fermò nel buio del tunnel, a circa cento metri dalla banchina di carico e scarico merci. Schofield saltò giù, la Desert Eagle in una mano, il Football appeso alla tuta, e corse lungo la banchina di cemento a fianco dei binari. Brainiac, Book II ed Herbie lo seguivano a breve distanza. Corsero nel tunnel in direzione della luce con le armi spianate. Schofield raggiunse per primo la fine del tunnel. Sbirciò oltre l'angolo. Una luce lo abbagliò. Si trovò di fronte a una gigantesca caverna scavata nella roccia e trasformata in una moderna zona di carico e scarico merci. Alcune parti della caverna erano di nuda roccia, altre erano superfici di
cemento perfettamente lisce. Due file di binari si allungavano su ciascun lato di una lunga banchina centrale. I binari dal lato di Schofield erano vuoti, mentre i binari dall'altra parte erano occupati da un treno X-rail, quello su cui era arrivato Botha. Non c'era nessun rumore. Nessun movimento. Alcuni montacarichi di acciaio nero scorrevano lungo le guide fissate alle pareti, dai binari fino a un vasto bacino d'acqua all'estremità opposta dell'enorme caverna rocciosa. L'acqua era di un turchese acceso, anche per via dei minerali di cui il lago Powell era ricco. Il bacino spariva a ovest, infilandosi in una nera galleria. Schofield immaginò che portasse fuori, al lago. Tre case galleggianti e un paio di strani motoscafi ad alta velocità color sabbia erano attraccati al molo della caverna, oscillando dolcemente sull'acqua. Osservando l'immensa area di scarico sotterranea, Schofield notò anche un'altra cosa. Era vuota. Completamente vuota. Deserta. Schofield uscì con cautela da dietro la parete del tunnel e salì sulla banchina centrale tra i binari dei treni X-rail. Nell'immenso spazio della caverna sembrava una formica. E poi la vide. Era sull'altro lato della banchina, non lontano dal molo. A prima vista sembrava una di quelle bizzarre esposizioni di merci in offerta speciale nei supermercati: una piccola piramide di barili gialli da venticinque litri, alta poco più di un metro e mezzo. Davanti alla piramide c'era una tozza valigia Samsonite nera. Era aperta. Mentre si avvicinava, Schofield riuscì a leggere la scritta sui barilotti. «Oh, cazzo!» disse. AFX-708: CARICA ESPLOSIVA Si trattava di una miscela ad altissimo potenziale, utilizzata nelle famose bombe BLU-109 che, durante la Guerra del Golfo, avevano sventrato i bunker di Saddam Hussein. La punta dura e resistente delle 109 s'infilava nella terra fino a entrare nel cemento armato e poi la testata AFX-708 esplodeva facendo saltare il bunker dall'interno. Con Book II, Brainiac ed Herbie alle spalle, Schofield guardò nella valigia aperta, poggiata per terra davanti alla piramide di barilotti di AFX.
Dentro la valigia c'era un timer. 00.19... 00.18... 00.17... «Cristo!» imprecò Schofield sottovoce. Poi si voltò di scatto verso gli altri. «Signori! Via!» Diciassette secondi dopo, un'esplosione inimmaginabile deflagrò all'interno della caverna. Il gruppo di barilotti di AFX-708 detonò formando una palla devastante di incandescente luce bianca che si estese radialmente in tutte le direzioni. Le pareti di pietra e cemento armato della caverna si spaccarono sotto l'impatto dell'esplosione, collassando verso l'esterno in un milione di frammenti. In una frazione di secondo, un'intera parete laterale fu disintegrata. Il treno X-rail di Gunther Botha, non lontano dal luogo dell'esplosione, sparì semplicemente nel nulla. Schofield non vide niente. Quando i barilotti esplosero, lui e gli altri non si trovavano più nell'area di scarico. Erano fuori. QUARTO CONFRONTO 3 LUGLIO, ORE 09.12
Il calore li colpì come un pugno in piena faccia. Il caldo soffocante del deserto era dappertutto. Nell'aria. Sulle pietre. Contro la pelle. Li soffocava e avviluppava come se fossero finiti dritti in un enorme forno. Era ancora più terribile, dopo essere stati all'aria fresca dei sotterranei dell'Area 7 e del tunnel dell'X-rail. Fuori, era il sole del deserto a farla da padrone. Shane Schofield sfrecciava sull'acqua lungo uno stretto canyon. Avanzava attraverso il vento caldo a folle velocità, le mani sui controlli di un fuoribordo dall'aspetto insolito, ma estremamente veloce. Con lui sulla barca c'era Book II, mentre a breve distanza, su un'altra imbarcazione, viaggiavano Brainiac ed Herbie. Fra gli addetti ai lavori, l'imbarcazione di Schofield era nota con la sigla PCR-2 - «Patrolcraft, river, two man» - ma tutti la chiamavano semplicemente biscafo. Era una piccola imbarcazione da fiume con propulsori a reazione, costruita dalla Lockheed Shipbuilding Company per conto della Marina militare statunitense. Il biscafo era noto soprattutto per il suo aspetto insolito. A vederlo sembrava che qualcuno avesse collegato due piccoli scafi a forma di proiettile con un'asse sottile lungo poco più di due metri, e montato un motore a reazione su ogni scafo, creando così una barca simile a un catamarano. La parte superiore dei due scafi era aperta e munita di potenti motori Yamaha da duecento cavalli. Tutto questo rendeva il biscafo un fuoribordo estremamente veloce ma allo stesso tempo stabile. Il biscafo di Schofield era dipinto nei colori classici della verniciatura mimetica del deserto: macchie marroni su uno sfondo giallo sabbia. Avanzava sull'acqua a una velocità incredibile, lasciando dietro di sé due lunghe scie. Schofield si trovava nello scafo di sinistra, ai comandi, mentre Book era nella postazione di destra, seduto dietro una mitragliatrice da 7,62 mm, un'arma che incuteva paura solo a vederla. Il sole irradiava un calore incredibile. C'erano già quaranta gradi all'ombra. «Ragazzi, come sta andando?» chiese Schofield nel suo microfono da polso. Poi si girò un attimo per guardare l'altro biscafo, a poca distanza dietro di loro, con Brainiac ai comandi ed Herbie seduto dietro la mitragliatrice. La voce di Brainiac arrivò un secondo dopo: «Tutto bene, tranne che il nostro scienziato ha la faccia un po' verde...»
Stavano percorrendo a gran velocità uno stretto canyon che si snodava tra due pareti lisce e verticali in direzione sud, puntando verso il bacino più ampio di tutto il sistema del lago Powell. Come aveva previsto, il canale che partiva dalla stazione X-rail li aveva portati al lago Powell attraverso una stretta e sinuosa galleria. Nel punto in cui questa galleria sfociava nel lago, un grande portone di acciaio era stato mimetizzato così perfettamente da sembrare una liscia parete di pietra. Per loro fortuna l'avevano trovato aperto. Chi poco prima era passato di lì non si era nemmeno preso la briga di richiuderlo. Era stata una fortuna enorme: non appena Schofield e i suoi uomini erano usciti dalla galleria sotterranea e avevano svoltato nel canyon, l'intera parete di roccia alle loro spalle era stata letteralmente disintegrata dalla tremenda detonazione. I due biscafi compirono una larga curva, seguendo il canyon che serpeggiava tra le pareti. Visto dall'alto, il canyon assomigliava a una pista delle macchine da corsa dei videogiochi: una serie infinita di curve, angoli e strettoie. Ma non era quello il problema. Il vero problema apparve quando cominciarono a incontrare le diramazioni del lago Powell. Infatti tutto il sistema dei canyon non era altro che un casuale labirinto di canali naturali e insenature circondati da altissime pareti spioventi. Giunsero all'intersezione arrivando da nord-ovest. All'inizio Schofield non seppe cosa fare. Rallentò. Due canali d'acqua si dipartivano davanti a lui, sparendo dalla vista tra pareti di roccia. Era difficile dire quale dei due canyon avesse imboccato Botha. Schofield non sapeva nemmeno se Botha seguisse un piano e, in caso affermativo, quale. All'ultimo momento vide le onde. O, meglio, scorse delle minuscole increspature che si infrangevano contro le pareti laterali. Questo impercettibile moto ondoso era presente soltanto in uno dei due canyon, quello di sinistra, ed era durato un attimo solo. Ma Schofield l'aveva notato: una debole traccia di una barca passata di là poco prima. Schofield spinse l'acceleratore a fondo, puntando verso sud. Mentre seguiva le curve del canyon, ogni tanto lanciava un'occhiata in alto. Le pareti lisce del canyon salivano per settanta, ottanta metri. Sulle loro creste, Schofield vide turbinare nuvole di sabbia. Lassù soffiava un vento tremendo.
Una tempesta di sabbia. La tempesta di sabbia che era stata annunciata per la mattinata, e che i membri della delegazione presidenziale avevano sperato di evitare, anticipando la visita al primo mattino. Le previsioni si erano avverate, ma per fortuna sul pelo dell'acqua, grazie alla protezione del canyon, la tempesta si avvertiva poco; si stavano muovendo in una specie di oasi meteorologica al di sotto delle cime rocciose del lago Powell. Ma era una calma solo apparente, Schofield lo sapeva bene. Infatti, uscendo da una stretta curva, si trovò proiettato in uno spazio ampio e circolare, come l'enorme bocca di un cratere. Nel centro del lago si ergeva una mesa, una montagna ripida ma dalla cima appiattita. Sebbene il cratere fosse circondato da pareti, era tuttavia troppo ampio per offrire protezione dalla tempesta di sabbia. Sbuffi e nuvole di rena venivano trascinati sul lago aperto, formando vortici gialli e impedendo di vedere chiaramente l'altra sponda del lago. Schofield riuscì a vederle attraverso il turbinio di sabbia. Erano lontane, e stavano per sparire a destra della montagna in mezzo al lago. Cinque barche. Una grossa imbarcazione bianca, che sembrava un aliscafo, e quattro scattanti e veloci biscafi, dipinti anch'essi con vernice mimetica. Schofield notò con orrore che dal lago circolare si diramavano almeno sei o sette canyon laterali. Quel luogo offriva una moltitudine di vie di fuga. Accelerò al massimo, facendo balzare il biscafo tra le vorticanti nuvole di sabbia che turbinavano sul lago. Puntò verso il lato sinistro della montagna al centro del cratere, sperando di cogliere di sorpresa i sudafricani dall'altra parte della mesa centrale. Il suo biscafo sfrecciò sull'acqua a velocità incredibile, spinto dalle potenti turbine. Il biscafo di Brainiac ed Herbie lo seguiva di lato, lasciando a sua volta dietro di sé una scia d'acqua mentre sobbalzava attraverso una cortina di sabbia. Superato il versante meridionale della montagna, videro le cinque barche sudafricane entrare in un largo canyon che spariva tra le ripide pareti occidentali del lago. Le inseguirono. I sudafricani dovevano averli visti, poiché proprio in quell'istante due dei loro biscafi si allontanarono dall'aliscafo, compiendo un arco di 180
gradi per puntare dritti verso l'imbarcazione di Schofield. Le loro mitragliatrici cominciarono a ruggire. Ma poi, del tutto inaspettatamente, il biscafo sudafricano sulla sinistra fu scaraventato in alto, fuori dall'acqua, dove esplose, disintegrandosi in un enorme fungo di fumo nero e creando una serie di onde concentriche sulla superficie dell'acqua. Un attimo dopo, la zona circostante fu investita da una pioggia di pezzi di vetroresina. L'altro biscafo cambiò improvvisamente direzione, riprendendo la sua rotta precedente, e abbandonò il campo lanciandosi all'inseguimento delle altre imbarcazioni sudafricane. Schofield si voltò. «Che diavolo...!?» Con un rumore assordante, tre elicotteri neri apparvero da dietro la cortina di nuvole di sabbia, si abbassarono vorticosamente ed entrarono nell'aria più calma sopra il lago. Le forti correnti d'aria inclinavano i velivoli che però non persero velocità, sorvolarono Schofield e i suoi e si diedero immediatamente all'inseguimento delle imbarcazioni sudafricane, che nel frattempo erano sparite dentro il canyon a ovest. In poco tempo gli elicotteri raggiunsero lo stretto ingresso del canyon e vi s'infilarono senza rallentare. Schofield non poteva credere ai suoi occhi. L'impressione che gli avevano fatto gli elicotteri era semplicemente terrificante: agili, cattivi e veloci. Non aveva mai visto niente di simile, prima di allora. Erano neri come canne di fucile e sembravano un incrocio tra un elicottero d'attacco e un caccia modernissimo. Avevano un normale rotore, ma allo stesso tempo erano provvisti di un paio di ali leggermente angolate verso il basso. Erano AH-77 Penetrator, elicotteri d'attacco di media grandezza. Si trattava di un nuovo modello: un ibrido tra elicottero e caccia che combinava la capacità di volare a punto fisso, tipica degli elicotteri, con la velocità di un vero e proprio caccia. Con la loro verniciatura scura per l'assorbimento dei raggi radar, sembravano tre pescecani alati. I tre Penetrator erano spariti a tutta velocità dentro lo stretto canyon, seguendo le imbarcazioni dei sudafricani e ignorando del tutto Schofield e i suoi. Per un istante uno strano pensiero balenò in testa a Schofield. Che diavolo ci fanno qui quelli dell'Aeronautica? Non erano a caccia del presi-
dente? Come mai questo interesse per Kevin? Era comunque diventato un inseguimento a tre. «Signore!» Era la voce di Brainiac. «Che facciamo?» Schofield rifletté. Era il momento di prendere una decisione. Una gran quantità di pensieri gli attraversava la mente: Kevin, Botha, l'Aeronautica, il presidente e l'implacabile conto alla rovescia del Football, che prima o poi lo avrebbe costretto a rinunciare all'inseguimento e a tornare sui suoi passi... Prese una decisione. «Seguiamoli!» disse. *** Con un rombo, il biscafo di Schofield entrò nel canyon all'inseguimento dei sudafricani e dei Penetrator, seguito dal biscafo di Brainiac ed Herbie. Era un canyon ventoso e pieno di curve strette, ma per fortuna abbastanza ben protetto dalla tempesta di sabbia. Dopo un centinaio di metri, il canyon si divise in due strette vallate, una a sinistra, l'altra a destra. Nessuno di loro poteva sapere che nel lago Powell spesso i canyon si biforcavano per poi ricongiungersi... Schofield osservò che davanti a lui i tre elicotteri si stavano separando: uno virava a sinistra e due viravano a destra, il che significava che le quattro imbarcazioni sudafricane avevano fatto altrettanto. «Brainiac!» gridò. «Va' a sinistra. Noi andiamo a destra! Ricordati, c'interessa solo il bambino. Lo prendiamo e poi ce ne andiamo!» «Ricevuto, Scarecrow.» I due biscafi si separarono, puntando ognuno verso un canyon diverso. Per Schofield fu come finire in mezzo a uno spettacolo pirotecnico: un susseguirsi di pallottole e di missili che esplodevano contro le pareti del canyon, scagliando frammenti di roccia in tutte le direzioni. I due elicotteri erano all'incirca ottanta metri davanti a lui. Inseguivano l'aliscafo e uno dei biscafi. Gli elicotteri si mantenevano al di sotto delle cime del canyon, perché la tempesta di sabbia impediva loro di salire più in alto. Volavano a zigzag, seguendo i repentini cambi di direzione del canyon mentre sbandavano sotto la furia del vento carico di sabbia. I cannoni Vulcan eruttavano fiumi di pallottole. Da sotto le loro ali partivano missili aria-terra diretti verso le due imbarcazioni sudafricane, ma
continuavano a colpire le pareti del canyon o la superficie dell'acqua. Dal canto loro, i sudafricani non si facevano pregare. Gli uomini nel biscafo erano ben preparati. Disponevano di un lanciamissili Stinger. Mentre un uomo guidava il biscafo, l'altro si sistemò il lanciamissili sulla spalla e fece fuoco contro gli elicotteri. Probabilmente i Penetrator possedevano un efficace sistema di contromisure, perché lo Stinger volò tra repentini cambiamenti di direzione e avvitandosi vorticosamente. Mancò il bersaglio ed esplose contro le pareti del canyon, facendo schizzare enormi pezzi di roccia in tutte le direzioni. Schofield dovette continuamente sterzare per evitare di essere investito dalla pioggia di detriti. Improvvisamente Schofield vide cadere da una botola sotto uno degli elicotteri un oggetto lungo e bianco. Un piccolo paracadute controllò la caduta dell'oggetto fino all'impatto con l'acqua. Un attimo dopo, l'acqua prese a ribollire; poi una striscia di bollicine accelerò nell'acqua, seguendo il biscafo sudafricano. Era un siluro. Cinque secondi appena, e il biscafo in fuga fu colpito. La forza dell'impatto fu talmente violenta da scaraventare l'imbarcazione fuori dall'acqua. Il biscafo mantenne la sua folle velocità, roteando nell'aria e rimbalzando sulla superficie per poi schiantarsi, con la parte superiore in avanti, contro la parete di roccia del canyon, dove finì in una palla di fuoco. Schofield stava spingendo al massimo. Riusciva a guadagnare lentamente terreno. Ora era a soli cinquanta metri. Ma non bastava. E poi, inaspettatamente, il canyon svoltò a sinistra, incontrandosi nuovamente col canyon gemello che avevano imboccato Brainiac ed Herbie sulle tracce degli altri due biscafi: in quel punto le due valli s'intersecavano, formando un incrocio. E successe il finimondo. L'aliscafo bianco dei sudafricani entrò nell'incrocio nel momento esatto in cui dall'altra parte arrivava un altro biscafo. Le imbarcazioni erano lanciate a tutta velocità. L'aliscafo e il biscafo virarono all'istante per evitare lo scontro. Le due imbarcazioni frenarono, mettendosi di traverso, alzando due alte scie d'acqua e perdendo di colpo tutto lo slancio. Il secondo biscafo, proveniente dal canyon di Brainiac, non aveva nes-
suna possibilità di decelerare. Entrò nell'incrocio con la velocità di un proiettile, passando per miracolo tra le due barche che si erano appena fermate, decollando sulle onde e compiendo una serie di lunghi balzi per sparire un attimo dopo nel canyon sul lato opposto, in direzione ovest. I tre Penetrator dell'Aeronautica, due provenienti dal canyon di Schofield e uno dall'altro, finirono anch'essi in quel groviglio. Uno riuscì a frenare in tempo, mentre gli altri due s'incrociarono nell'aria evitandosi per pochi millimetri, e si fermarono ben oltre il punto in cui le due barche ferme galleggiavano sulle acque dell'incrocio. Era quello che Schofield aveva sperato. Ora poteva raggiungerli. Il biscafo di Brainiac distava ancora almeno ottanta metri dall'incrocio. Nella confusione che aveva di fronte, scorse l'aliscafo che stava per ripartire, mentre il biscafo sudafricano era ancora fermo in mezzo all'incrocio. Brainiac si concentrò sull'aliscafo, che stava girando su se stesso e si preparava a riprendere la fuga lungo il canyon a sud. Brainiac puntò dritto verso l'imbarcazione. Schofield arrivò all'intersezione proprio quando l'aliscafo stava accelerando verso sud e il biscafo di Brainiac imboccava lo stretto canyon, lanciato nel suo inseguimento. «Seguo l'aliscafo, signore!» «Va'!» gridò Schofield. Anche Mi stava per lanciarsi all'inseguimento della grossa imbarcazione quando, con la coda dell'occhio, s'accorse di un movimento alla sua destra. Si voltò e guardò nel lungo canyon profondamente incassato tra le pareti a ovest. Vide un biscafo dei sudafricani infilarsi in quel canyon. Era quello che aveva attraversato l'incrocio senza fermarsi. Poi, un attimo dopo, il biscafo sparì. Doveva aver virato per imboccare una vallata laterale. E Schofield capì. Il bambino non si trovava sull'aliscafo. Era a bordo del biscafo. Di quel biscafo. «Oh, no...» sussurrò Schofield, che si era rigirato in tempo per vedere il biscafo di Brainiac sparire dietro una curva del canyon a sud, all'insegui-
mento dell'aliscafo. «Brainiac...» Il biscafo color sabbia di Brainiac era lanciato alla massima velocità. Si era avvicinato in poco tempo all'aliscafo sudafricano e infine l'aveva raggiunto. Le due imbarcazioni sfrecciavano una accanto all'altra nel canyon mentre i due Penetrator dell'Aeronautica militare continuavano a sparare dall'alto. A differenza di prima, ora miravano a tutte e due le barche. «Brainiac, puoi... se... tir...?» La voce di Schofield nell'auricolare di Brainiac era disturbata e, nel fracasso di motori, pallottole ed esplosioni il giovane marine non riuscì a capire una parola. Brainiac fece segno a Herbie di prendere lui il controllo del biscafo. I due mezzi erano affiancati. Brainiac si alzò dal sedile. L'aliscafo gli correva accanto, coi grossi pattini di prua che fendevano la superficie dell'acqua. Brainiac non riuscì a guardare all'interno. L'imbarcazione aveva vetri a specchio. Respirò profondamente e saltò, superando il piccolo spazio tra le due barche. Atterrò in piedi sulla stretta passerella laterale dell'aliscafo. «... niac... via... scapp..!» La voce di Schofield era un miscuglio frammentario e incomprensibile di rumori e fruscii. Brainiac si era aggrappato al corrimano intorno alla cabina dell'aliscafo. Non era del tutto sicuro di quello che sarebbe successo. Sicuramente avrebbe incontrato resistenza, forse si sarebbe spalancata una delle porte laterali e qualcuno avrebbe fatto fuoco. Qualcosa doveva accadere. Invece non accadde nulla. Meglio così, si disse Brainiac. Si lanciò in avanti sulla coperta di prua, atterrando con una capriola, la pistola in mano. Colpì il parabrezza dell'aliscafo, che andò in frantumi. Poi guardò dentro la cabina dell'imbarcazione. Non capì. La cabina dell'aliscafo era vuota. Brainiac entrò e vide che i controlli di guida si stavano muovendo da soli, azionati da qualche mezzo di navigazione computerizzato o forse grazie a un sistema di anti-impedenza che faceva sì che l'imbarcazione andasse avanti evitando di avvicinarsi troppo a qualsiasi oggetto, che fossero le pareti di roccia o altre imbarcazioni. Poi, all'improvviso, chiara e limpida, la voce di Schofield esplose nell'auricolare di Brainiac: «Cristo, Brainiac! Esci subito! È una trappola!» Ma nello stesso momento, con un orrore indescrivibile, Brainiac udì un
fischio acuto simile al rumore di una sveglia elettronica. Era l'ultima cosa che avrebbe sentito nella sua vita. Un attimo dopo, l'intera imbarcazione saltò in aria, i vetri della cabina esplosero in una cascata di schegge e un'enorme palla di fuoco si sollevò sull'acqua disintegrando l'aliscafo. La forza dell'esplosione fu tale che anche il biscafo di Herbie fu rovesciato. La piccola barca decollò, compì numerose giravolte nell'aria, più volte tra gli schizzi, rimbalzando per poi schiantarsi a velocità folle contro una parete del canyon. *** Più indietro, all'incrocio dei due canyon, Schofield stava per partire all'inseguimento del biscafo sudafricano che prima era fuggito a tutta velocità, quando, dal nulla, una lunga scia di spruzzi d'acqua increspò la superficie del lago, passando accanto alla sua imbarcazione. Era il quarto e ultimo biscafo sudafricano. Gli stavano sparando con la mitragliatrice. Il biscafo si stava dirigendo verso est, ritornando nel canyon da cui era arrivato. Ancora prima che Schofield potesse pensare di rispondere al fuoco, due linee parallele di pallottole fecero danzare l'acqua intorno a lui. Le pallottole erano molto più grosse di quelle del biscafo sudafricano, ed erano talmente vicine a Schofield che gli schizzi gli bagnarono il volto. Il fuoco di sbarramento stavolta proveniva dal terzo elicottero Penetrator, che volteggiava nell'aria sopra l'intersezione dei due canyon, alla ricerca di Kevin. Il nero cannone Vulcan a sei canne ruggì, sputando una lunga lingua di fiamme gialle in direzione di Schofield, il quale spinse l'acceleratore, sterzando contemporaneamente a sinistra e allontanandosi dalla scia di pallottole del Penetrator, ma anche dal biscafo che doveva trasportare Kevin. Seguì l'altro biscafo sudafricano, verso est, in direzione dell'ampio lago centrale sovrastato dalla mesa. Col muso abbassato, il Penetrator prese a inseguire Schofield, con le turbine a tutta forza. Il biscafo di Schofield quasi volava sul pelo dell'acqua, coi suoi due scafi che toccavano appena la superficie del lago. Seguiva il biscafo sudafricano che sfrecciava davanti a lui. La scura sagoma da pescecane del Penetrator stava alle costole delle imbarcazioni. «Qualche idea?» gridò Book II dalla sua postazione alla mitragliatrice. «Certo!» rispose Schofield. «Non morire!»
Il Penetrator apri il fuoco, e altre due linee parallele di geyser fecero schizzare l'acqua tutt'intorno al biscafo. Schofield virò a con violenza tale da sollevare lo scafo di sinistra sopra il livello dell'acqua, proprio mentre una scia di pallottole passava sotto di esso. Un attimo dopo, due siluri caddero dalla parte inferiore dell'elicottero. Schofield se ne accorse subito. «Merda...» Uno dopo l'altro, i due siluri finirono in acqua e, un secondo dopo, due identiche strisce di bollicine si allungarono sotto la superficie del lago, alla ricerca dei due biscafi lanciati nel canyon. Uno dei siluri cominciò immediatamente a inseguire la barca di Schofield, che sterzò a destra, mirando dritto verso una grossa pietra liscia che affiorava di poco sopra il pelo dell'acqua, non lontano dalla parete del canyon. Aveva una forma che ricordava proprio un trampolino per lo sci nautico... Il siluro si avvicinava rapidamente. Il biscafo di Schofield era lanciato alla massima velocità. Book II capì che cosa aveva in mente: la pietra... Nell'esatto momento in cui il siluro stava per raggiungere una delle due turbine, il biscafo toccò la rampa di pietra e uscì dall'acqua, mentre i due scafi arrotondati grattavano sulla roccia. Con un acuto stridio di metallo, l'imbarcazione decollò dalla rampa improvvisata, librandosi nell'aria come un grosso pesce. Nel frattempo, la torpedo colpì la base della pietra, frantumandola in una nube di polvere e fuoco. Il biscafo atterrò con un tonfo sull'acqua e continuò la sua corsa senza rallentare un istante. Schofield si voltò in tempo per vedere il biscafo sudafricano sterzare e dirigersi verso un tunnel semicircolare scavato nella parete sinistra del canyon. Lo seguì, mentre il secondo siluro continuava la sua corsa con la stessa determinazione di un coccodrillo che insegue la sua preda. Il biscafo sudafricano spari nel tunnel. Un secondo dopo, anche l'imbarcazione a doppio scafo di Schofield sfrecciò nell'oscurità del tunnel. Il siluro entrò dietro di loro. ***
Coi fari accesi, i due biscafi saettavano dentro lo stretto tunnel a quasi centocinquanta chilometri all'ora. Le pareti scure e umide del passaggio sotterraneo scorrevano così veloci da sembrare ancora più vicine di quanto non fossero realmente. Schofield era concentratissimo. Il tunnel era largo sei o sette metri e aveva una sezione vagamente cilindrica, con le pareti che curvavano all'altezza dell'acqua. A una settantina di metri di distanza, Schofield vide un piccolo punto di luce: l'uscita. Improvvisamente Book II gridò: «Ci sta raggiungendo!» «Chi?» «L'altro siluro!» Schofield si voltò. In effetti il siluro si stava avvicinando a gran velocità. Ritornò a guardare le due scie di vapore lasciate dalle turbine del biscafo. Maledizione! I biscafi erano larghi quattro metri, e non c'era modo di sorpassarsi all'interno del tunnel. Schofield si portò sulla sinistra, ma il biscafo sudafricano gli si parò davanti. Tentò sulla destra. Stesso risultato. «Che facciamo?» gridò Book II. «Non ne ho la min...» Schofield s'interruppe. «Tieniti forte!» «Cosa?» «Tieniti forte, e basta!» Il siluro scivolava sotto la superficie dell'acqua come un serpente luminoso, avvicinandosi ogni secondo di più alla poppa del biscafo di Schofield. Schofield accelerò, avvicinandosi a sua volta al biscafo sudafricano che correva davanti a lui. Ora le due imbarcazioni stavano procedendo a folle velocità in uno spazio minuscolo, divise da pochi centimetri. Schofield vide il pilota sudafricano girarsi. «Salve!» Schofield fece un cenno di saluto con la mano. «Arrivederci!» E, proprio mentre il siluro spariva sotto la poppa della sua barca, Schofield premette l'acceleratore al massimo e poi sterzò bruscamente a destra. Il biscafo virò all'istante. Lo scafo di destra perse aderenza e uscì dall'acqua, finendo contro la parete di roccia. L'intero biscafo si sollevò in alto, correndo per un attimo quasi ad angolo retto rispetto alla superficie. Il siluro non si accorse di nulla. Superato il suo obiettivo originario, colpì l'unica altra imbarcazione a motore: il biscafo sudafricano. L'esplosione all'interno del tunnel fu impressionante.
Il biscafo sudafricano si disintegrò in mille pezzi, sospinti da una gigantesca palla di fuoco che riempì completamente lo stretto passaggio nella roccia. Sfrecciando a gran velocità, Schofield riuscì a far scendere il suo biscafo dalla parete laterale, rimbalzando sulle onde e passando attraverso una pioggia di relitti e un muro di fiamme, per raggiungere, del tutto inaspettatamente, la fine del tunnel. Uscirono all'aria aperta, ritrovandosi sulle ampie acque di un canyon immerso nella luce del giorno. *** Schofield smise di accelerare e lasciò che il biscafo si fermasse al centro del nuovo canyon. Lui e Book II erano completamente fradici. Si guardarono intorno, tentando di orientarsi e rendendosi conto quasi subito che non erano in un canyon sconosciuto, bensì nello stesso che avevano imboccato quando si erano separati dalla barca di Brainiac. Schofield si rese conto che si trovavano a poche centinaia di metri dalla biforcazione da cui erano passati poco prima. Accelerò di nuovo e cominciò a virare per lanciarsi all'inseguimento dell'imbarcazione dei sudafricani con Kevin a bordo, quando sentì uno strano rumore sordo alla sua destra. Si voltò di scatto. Mezzo nascosto dalla parete verticale del canyon c'era un altro elicottero... il quarto. Era sospeso a venti metri dall'acqua, proprio sull'incrocio dei due stretti canyon. Osservandolo, Schofield capì subito che non era un Penetrator. Era troppo massiccio e la fusoliera non era per niente slanciata. Vedendolo così, in volo stazionario, gli venne in mente di quale modello si trattava. Era un Super Stallion CH-53E, un potente elicottero per trasporti pesanti, abbastanza simile ai due che di norma accompagnavano il Marine One. Il Super Stallion era rinomato per la sua robustezza e la sua forza; con la rampa posteriore abbassabile, poteva ospitare cinquantacinque soldati armati fino ai denti e portarli dritti all'inferno e ritorno. Gli uomini dell'Aeronautica dovevano essersi portati il Super Stallion per riaccompagnare il bambino, una volta compiuta la missione. I Penetrator, infatti, avevano posto solo per un equipaggio di tre uomini. A giudicare da come stava fermo a mezz'aria sopra l'intersezione dei due canyon, Schofield intuì che l'elicottero fosse più di un semplice mezzo di trasporto per un prigioniero: probabilmente serviva da supporto logistico
alla missione. Schofield sterzò per nascondersi dietro la parete e iniziò ad avvicinarsi alla posizione del Super Stallion. «Che sta facendo?» chiese Book II «Il bambino è nell'altra direzione!» «Lo so», rispose Schofield. «Ma, da come la vedo io, non ce la faremo mai a prendere Kevin se continuiamo a rincorrerlo sull'acqua. Forse è venuto il momento di prendere il volo...» Nell'abitacolo del Super Stallion, i tre soldati del 7° squadrone indossavano le cuffie. Uno era ai comandi, mentre gli altri due parlavano animatamente dentro i loro microfoni, urlando per farsi sentire oltre il frastuono dei rotori. Anche loro erano alla ricerca del biscafo sudafricano fuggito dopo aver rischiato la collisione nell'incrocio dei canyon. «... Penetrator One, qui è Looking Glass», disse uno dei soldati. «C'è un canyon alla vostra destra. Imboccatelo. Potrebbero essere andati da quella parte.» «Penetrator Two, ritornate a nord e date un'occhiata al canyon sulla vostra sinistra...» Sugli schermi dei due uomini, una mappa geografica rappresentava il sistema di canyon del lago Powell.
I tre punti illuminati sulla sinistra, P-1, P-2 e P-3, indicavano la posizione dei tre Penetrator alla ricerca del biscafo sudafricano. Il punto stazionario non lontano dal cratere centrale, L-G, rappresentava l'elicottero Super Stallion, il cui nome in codice era «Looking Glass». La linea nera indicava il percorso compiuto durante la caccia. Mentre i due operatori radio continuavano a dare istruzioni, il pilota
scrutava il canyon al di là del parabrezza bombato dell'elicottero. Fra il rombo delle pale dei rotori, le voci degli operatori e le riposte che s'incrociavano nelle loro cuffie, nessuno dei tre udì il sordo rumore del Maghook che aveva colpito la parte inferiore del potente elicottero. Dopo essersi avvicinato all'elicottero da dietro, il biscafo si trovava ora proprio sotto il Super Stallion, strattonato dalla forte pressione creata dai rotori. Una sottile corda collegava il biscafo alla parte inferiore del Super Stallion, che fluttuava a una ventina di metri d'altezza. Era la corda di kevlar del Maghook di Schofield. E poi, all'improvviso, un uomo schizzò verso l'elicottero, tirato in alto dall'avvitatore interno del Maghook. Era Schofield. In un attimo era già appeso alla parte inferiore della carlinga del Super Stallion, a venti metri d'altezza sopra il lago e proprio vicino all'ingresso della botola d'emergenza sul fondo dell'elicottero. Il rumore dei rotori era assordante. La corrente discendente dei rotori era fortissima, gli premeva la tuta nera del 7° squadrone contro il corpo e faceva oscillare il Football appeso alla sua cintura. I Super Stallion possiedono un meccanismo retrattile per le ruote d'atterraggio, così Schofield si aggrappò a uno dei fori per l'aggancio dei cavi, poi spinse un bottone del Maghook, facendolo scendere fino a Book II. Pochi secondi, e Book II gli fu accanto. Schofield allungò la mano verso la leva di rilascio della botola d'emergenza. «Sei pronto?» gridò. Book II annuì. Poi, con un gesto deciso, Schofield girò la leva, e la botola di emergenza si aprì. La prima cosa di cui gli uomini all'interno del Super Stallion si accorsero fu il vento. Una violenta folata attraversò la cabina posteriore del Super Stallion, e un attimo dopo Schofield entrò dalla botola nella carlinga, seguito da Book II. Attraverso la botola si accedeva allo scompartimento posteriore per il trasporto delle truppe, un ampio spazio separato dalla cabina di pilotaggio da una piccola porta d'acciaio.
I due operatori radio nello scompartimento si voltarono di scatto, esterrefatti, ricordandosi solo allora delle loro pistole. Ma Schofield e Book II si mossero veloci, con le armi in pugno e agendo quasi all'unisono. Un colpo di Schofield, e il primo operatore radio cadde a terra. Un colpo di Book, e anche il secondo fu eliminato. Il pilota dell'elicottero si era accorto di quello che stava avvenendo alle sue spalle. Si rese conto che cercare di estrarre la pistola non sarebbe servito a niente. Spinse con violenza la cloche del Super Stallion, e l'elicottero si tuffò in avanti. Book II perse immediatamente l'equilibrio e cadde. Schofield, che stava già correndo in avanti per raggiungere l'abitacolo, si gettò sul pavimento e scivolò rapidamente verso il portello aperto della cabina di pilotaggio, con la testa in avanti. Il pilota tentò di chiudere il portello dell'abitacolo con un calcio, ma Schofield fu più veloce di lui. Entrò dal portello in scivolata, si girò sulla schiena con un colpo di reni e, con un tempismo perfetto, si fermò sulla soglia con una mano che teneva aperta la porta e l'altra che stringeva la Desert Eagle calibro 44, puntata sul naso del pilota. «Non costringermi a farlo», disse, sempre sdraiato sul pavimento, scrutando il pilota sopra la canna della pistola, l'indice pronto a premere il grilletto. Il pilota non si mosse più. Aveva la bocca aperta. Era visibilmente indeciso sul da farsi. Fissò prima Schofield, sdraiato per terra ai suoi piedi, poi la canna dell'arma puntata dritta in fronte. «Non costringermi a farlo!» ripeté Schofield. Il pilota decise di provarci lo stesso. La sua mano scartò verso la fondina della pistola. Schofield lo colpì dritto in mezzo agli occhi. «Maledizione!» esclamò, mentre tirava il pilota morto giù dal suo sedile e prendeva i controlli dell'elicottero. «Ti avevo avvertito, stronzo!» *** Accompagnato dal rombo dei potenti motori, il Super Stallion di Schofield e Book II sorvolava lo stretto canyon, beccheggiando a ogni curva.
Era diretto verso l'incrocio tra i due canyon dove poco prima le imbarcazioni dei sudafricani avevano evitato per un soffio di scontrarsi. Schofield aveva ancora nella mente il biscafo sudafricano che era entrato nel canyon a ovest per poi sparire subito a destra, imboccando un canyon laterale più stretto. Con l'aiuto della mappa del lago Powell sui computer di bordo, ora Schofield sapeva che quel canyon, dopo una lunga serie di curve e strettoie, sfociava in un altro lago simile a un cratere, anche questo con una piccola mesa al centro. Doveva essere quella la meta del biscafo. Che cosa ci sarà ad aspettarli in quel cratere? si chiese Schofield. Perché i sudafricani vi si stavano dirigendo? Il Super Stallion sfrecciava tra due strette pareti verticali, diretto all'incrocio dei due canyon; stava uscendo da una lunga curva, quando si trovò faccia a faccia con uno dei Penetrator dell'Aeronautica. Schofield diede uno strattone alla cloche, riuscendo prima a rallentare e poi a fermare nell'aria il Super Stallion, nel giro di poche decine di metri. Il Penetrator era fermo a mezz'aria nel centro dell'incrocio delle due gole e stava compiendo una lenta virata nel controllare i quattro corsi d'acqua che serpeggiavano nei rispettivi canyon. Sembrava veramente un pescecane gigante, pronto ad aggredire la sua preda. Il Penetrator li aveva visti all'istante. «Looking Glass, qui Penetrator Three.» La voce di uno degli uomini del Penetrator arrivò a Schofield amplificata dall'interfono. «Avete ricevuto le prime immagini in tempo reale dal satellite?» Schofield trattenne il respiro. Merda. «Book, veloce! Controllo armamenti!» Il Penetrator aveva continuato a virare lentamente a mezz'aria. Ora guardava dritto verso di loro, e si fermò in quella posizione. «Looking Glass! State ascoltando?» «Abbiamo una mitragliatrice Gatling montata sul muso», disse Book II. «E basta.» «Nient'altro?» I due elicotteri si trovavano uno di fronte all'altro, sospesi sopra l'incrocio dei canyon come due enormi aquile. Nemmeno trenta metri li dividevano. «Niente.»
«Looking Glass.» La voce sull'interfono stava diventando più cauta. «Prego corrispondere immediatamente il vostro codice d'identificazione.» Schofield poté ammirare fin troppo bene i missili appesi sotto le ali inclinate del Penetrator. Sembravano Sidewinder. Sidewinder... Schofield stava pensando febbrilmente. Poi, di colpo, attivò il microfono. «Elicottero Penetrator, qui parla il capitano Schofield, Corpo dei marine degli Stati Uniti d'America, distaccamento presidenziale. Questo elicottero è ora sotto il mio comando. Ho una cosa da dirvi.» «E sarebbe?» «Abbattetemi», disse Schofield senza la minima emozione nella voce. Silenzio. Poi: «Okay...» «Ma che diavolo sta facendo?» chiese Book II esterrefatto. Schofield non rispose. Teneva lo sguardo incollato alle ali del Penetrator. Un attimo dopo, accompagnato da un bagliore di luce, un Sidewinder AIM-9M uscì da sotto l'ala sinistra del Penetrator. «Oh, cazzo...» sibilò Book II. Schofield si trovava esattamente di fronte al missile lanciato e, da quella posizione, poté osservare la punta arrotondata e il disegno a forma di stella degli stabilizzatori del razzo; vide anche la traccia di fumo che il missile si lasciava dietro mentre puntava dritto contro il Super Stallion. «Che sta facendo?!» gridò Book II «Pensa di stare qui mentre...» A quel punto Schofield fece una cosa strana. Col dito indice sulla cloche spinse il grilletto della Gatling. Col Sidewinder che volava dritto verso di loro, ormai a meno di due secondi dall'impatto, la Gatling sul muso del Super Stallion si svegliò, cominciando a sputare una linea di pallottole traccianti che brillavano di una luce arancione. Schofield diresse la linea di pallottole, quasi come se fosse un raggio laser, sul Sidewinder, ormai a una decina di metri dall'elicottero. Colpì la punta arrotondata del missile, che esplose a mezz'aria a meno di cinque metri dal parabrezza. «Cristo...!» gridò Book II. Ma Schofield aveva appena cominciato. Ora che si era tolto dai piedi il missile Sidewinder, diresse la fila di pal-
lottole traccianti leggermente più in alto, verso il Penetrator. Erano vicini, e riuscì a vedere i due piloti muoversi nel tentativo di lanciare un altro missile. Ma era troppo tardi. Le pallottole traccianti - una fila velocissima e continua di pallottole colpirono il parabrezza del Penetrator, incrinandolo. Una delle pallottole di Schofield attraversò l'abitacolo del Penetrator e un istante dopo da uno dei serbatoi dell'elicottero uscì una fiammata. L'intero elicottero esplose all'improvviso, trasformandosi in un'enorme sfera di fuoco luminosa. Nel giro di pochi secondi, il velivolo scomparve avvolto nelle fiamme, e cadde nell'acqua al centro dell'incrocio dei due canyon. Il Penetrator stava ancora cadendo, ma già Schofield accelerava il suo Super Stallion in direzione ovest, seguendo il corso d'acqua che lo avrebbe portato nel canyon in cui il biscafo era sparito precedentemente. «Ma come diavolo ha fatto?» chiese Book II «Cosa?» «Non sapevo che si potessero abbattere i missili con le pallottole traccianti.» «Non tutti. Solo i Sidewinder», rispose Schofield. «I Sidewinder utilizzano un sistema a infrarossi per agganciarsi al loro obiettivo. Ma, per riuscirci, il meccanismo di puntamento del missile deve permettere il passaggio delle radiazioni infrarosse. Questo significa che per costruire i Sidewinder devono essere impiegati materiali diversi dall'acciaio e, infatti, il meccanismo di puntamento di un Sidewinder è di una materia plastica trasparente ed estremamente fragile. È il punto debole di questi missili.» «Lo ha colpito nel suo punto debole?» «Direi proprio di sì.» «Strategia un po' rischiosa, non le pare?» «Lo avevo esattamente di fronte a me. Non capita a molti di poter ammirare un Sidewinder che ti arriva dritto in faccia. Valeva la pena provarci.» «Corre spesso rischi del genere?» chiese Book. Schofield si voltò a fissarlo. Prima di rispondere scrutò il giovane sergente seduto accanto a lui. «Tento di non farlo», disse. «Ma qualche volta è... inevitabile.» Nel frattempo erano giunti all'ingresso dello stretto canyon in cui era fuggito il biscafo sudafricano. Era avvolto nell'ombra e decisamente più stretto di quanto Schofield pensasse. Le lame dei rotori del Super Stallion passavano a malapena tra le
alte pareti di pietra. Il gigantesco elicottero prosegui rombando nello stretto canyon, volando nell'ombra prima di essere investito di colpo dalla luce brillante del sole. Quando uscì dal canyon, si ritrovò al di sopra di un lago a forma di cratere, circondato da pareti verticali di nuda roccia alte più di cento metri. Sul lato nord del lago c'era una piccola mesa. Come già era successo nell'altro cratere, la tempesta di sabbia in corso sopra il lago Powell era riuscita anche lì a invadere la distesa d'acqua. La sabbia spinta dal vento scendeva sul lago come una strana turbinante pioggia asciutta, che tamburellava sul parabrezza dell'elicottero. «Riesci a vedere qualcosa?» gridò Schofield. «Di là!» Book II indicò alla loro sinistra, al lato esterno della parete verticale della mesa. Un canyon particolarmente ampio si apriva verso ovest, defluendo dal piccolo lago circolare. Schofield vide il minuscolo biscafo che oscillava sulle onde provocate dalla tempesta di sabbia. Era il biscafo sudafricano. Ed era solo. Il Super Stallion di Schofield sorvolò rapidamente la superficie del lago. Procedeva a bassa quota, accompagnato dal forte rumore dei rotori. Mentre si avvicinava, Schofield non perse di vista il biscafo per un solo istante. Sembrava che l'imbarcazione fosse ferma, come se si trovasse all'ancora, a venti metri circa dal punto in cui la parete di roccia verticale s'inabissava nelle acque. Schofield rallentò il Super Stallion, fermandolo a bassa quota, a una trentina di metri dal biscafo. L'elicottero beccheggiava sotto la spinta delle folate cariche di sabbia. Non si riusciva a vedere quasi niente. Schofield osservò il biscafo più da vicino e scorse una corda che scompariva nell'acqua. Il biscafo era all'ancora. D'un tratto Schofield vide un movimento. Attraverso il velo di sabbia turbinante, notò un uomo basso e calvo, in maniche di camicia, alzarsi in piedi nello scafo di sinistra, quello riservato al pilota. Era Gunther Botha. Botha doveva essere piegato o chino nello scafo, intento a fare qualcosa,
quando l'elicottero di Schofield si era avvicinato con la copertura della ruggente tempesta di sabbia. Ma nello scafo di destra Schofield vide qualcun altro. Era la piccola sagoma di Kevin, minuscolo e del tutto fuori posto seduto dietro la potente mitragliatrice del biscafo. Schofield tirò un respiro di sollievo. L'aveva trovato. La voce di Schofield uscì forte e chiara dagli altoparlanti esterni del Super Stallion. «Dottor Gunther Botha, qui sono i marine degli Stati Uniti. Lei è in stato d'arresto! Ci consegni immediatamente il bambino e non opponga resistenza!» Botha non diede segno di essere troppo preoccupato. Con un movimento veloce gettò qualcosa di quadrato e metallico fuori dall'imbarcazione. L'oggetto colpì la superficie del lago e andò a fondo, sparendo alla vista in un attimo. Che diavolo sta facendo? pensò Schofield. Poi, dalla sua postazione nella cabina di pilotaggio del Super Stallion, disse a Book: «Apri la rampa di carico. Poi voglio che ci fai fare un giro di 180 gradi, in modo che la coda dell'elicottero punti verso il biscafo». Il Super Stallion compì un lento giro su se stesso mentre la rampa di carico si apriva. La parte posteriore del grosso elicottero era adesso rivolta verso il biscafo. Volava ad appena tre metri dalla superficie dell'acqua. Schofield era in piedi sulla rampa aperta, la Desert Eagle in una mano e un microfono nell'altra. Milioni di granelli di sabbia turbinavano nel vento. Portò il microfono alla bocca. «Il bambino, Botha!» tuonò la sua voce amplificata. Nemmeno allora Botha sembrò preoccuparsene molto. Kevin invece si era girato sul suo sedile e aveva visto Schofield in piedi sulla rampa di carico del Super Stallion. Un largo sorriso era apparso sulle sue labbra. Fece un breve cenno di saluto con la mano, come solo i bambini sanno fare. Schofield rispose al saluto. Era preoccupato. Doveva sforzarsi di capire quello che Botha aveva in mente, anche perché ora riusciva a vedere meglio il virologo. Botha portava sulle spalle bombole da sub, sopra la camicia a maniche
corte. In quel momento gettò una maschera da sub anche a Kevin, gesticolando per far capire al ragazzo di mettersela. Schofield non capì. Attrezzatura da sub?! Qualsiasi cosa Botha avesse in mente, era giunto il momento di fermarlo. Schofield alzò la sua pistola. Stava per sparare un colpo di avvertimento per guadagnare l'attenzione di Botha, quando improvvisamente si udì un rumore forte e sordo. Proveniva da vicino, da qualche parte sopra di lui, e all'improvviso Schofield vide il rotore di coda del suo Super Stallion andare in mille pezzi, staccandosi dall'elicottero. Come il ramo di un albero che si spezza, la parte terminale dell'elicottero si ruppe e cadde nell'acqua. Istantaneamente il Super Stallion cominciò a girare su se stesso, virando di lato e allontanandosi dal biscafo. Senza i rotori di coda, l'elicottero era del tutto ingovernabile. Dopo qualche piroetta, cominciò a cadere. Nell'abitacolo, Book II tentò disperatamente di controllare la caduta dell'elicottero, ma era impossibile. Il Super Stallion s'impennò a mezz'aria, poi precipitò muso in avanti verso la superficie del lago. Nello scompartimento posteriore, Schofield era stato scaraventato indietro, urtando la parete laterale. Riuscì per puro caso ad aggrapparsi a uno dei sedili ribaltabili della stiva. Il Super Stallion cadde nel lago. Un enorme schizzo d'acqua si alzò in aria, il muso del grosso elicottero s'inabissò nel lago, sparendo sott'acqua per una decina di secondi prima che la spinta dell'aria al suo interno non lo facesse riaffiorare lentamente. Book II d'istinto aveva schiacciato il pulsante d'arresto dei motori ancora prima di toccare il lago. Le pale dei rotori si stavano fermando. L'acqua entrava nella stiva posteriore, ma non ancora dalla rampa posteriore, poiché l'elicottero era stato ideato in modo da rimanere a galla sul pelo dell'acqua in caso di atterraggio in mare; l'acqua entrava invece a fiotti attraverso la botola di accesso che Schofield e Book II avevano aperto qualche minuto prima per entrare nell'elicottero. Un Super Stallion è concepito in modo da stare a galla per un breve periodo dopo un atterraggio di fortuna in acqua, ma con la botola d'accesso aperta non aveva la minima spinta di galleggiamento. Stava affondando. In fretta. Schofield entrò nell'abitacolo. «Che cazzo è stato? Che cosa ci ha colpito?»
Book II, seduto sul sedile del pilota, indicò il parabrezza. «Credo proprio che siano stati loro.» Schofield guardò fuori dal vetro parzialmente oscurato dalle nuvole di sabbia turbinante. Sospesi a mezz'aria di fronte al loro elicottero abbattuto, pochi metri sopra il biscafo ancorato sulle acque agitate del lago, stazionavano i due Penetrator. *** Il Super Stallion affondava velocemente. L'acqua entrava gorgogliando dalla botola d'accesso, allagando velocemente la stiva posteriore e inabissando la coda dell'elicottero. A ogni centimetro d'acqua che entrava nella stiva, l'elicottero si abbassava un altro poco. Dopo un minuto scarso, la rampa di carico posteriore toccò la superficie del lago. Da quel momento, l'acqua entrò anche attraverso la grossa apertura posteriore. Davanti, nella cabina di pilotaggio, Schofield e Book II avevano ormai l'acqua alle caviglie. D'un tratto l'intero elicottero s'inclinò all'indietro, sollevando il muso. «Qualche altra idea rischiosa?» Book II si aggrappava al sedile del pilota per non cadere. «Nemmeno una.» Il Super Stallion continuava ad affondare, ora col muso in aria e la coda in acqua. Schofield, col Football sempre attaccato alla cintura, guardava fuori dal parabrezza. Vide che uno dei due Penetrator si era ulteriormente avvicinato al biscafo di Gunther Botha, rimanendo in volo stazionario davanti all'imbarcazione. Sembrava un gigantesco avvoltoio. Schofield vide che Botha, in piedi nello scafo di sinistra, stava guardando il Penetrator. Alzò le braccia e cominciò a muoverle nell'aria, come un essere piccolo e patetico che tenta di calmare un dio avvoltoio pronto a divorarlo. Senza preavviso, un missile Stinger uscì da sotto l'ala sinistra del Penetrator, lasciandosi dietro una scia di fumo bianco. Il missile colpì lo scafo di Botha, facendolo esplodere. Un attimo prima Botha era lì a gesticolare, un attimo dopo era sparito
nel nulla. Al suo posto c'era solo un grosso geyser di schizzi d'acqua. Per fortuna l'altro scafo, quello in cui si trovava Kevin, era rimasto intatto, tagliato via di netto dallo scafo di Botha. Lo scafo di Kevin rollava inerme sotto lo sguardo freddo dei due Penetrator. Nell'abitacolo del Super Stallion, Schofield era sbiancato. Avevano appena ucciso Botha! Cristo santo! Il Super Stallion di Schofield era affondato per tre quarti. Tutta la parte posteriore era sparita sotto il pelo dell'acqua. Solo il parabrezza bombato e una delle lame del rotore spuntavano ancora dal lago. L'acqua cominciava a lambire l'esterno del parabrezza. Tutta la stiva posteriore era piena del liquido verde scuro che cercava di farsi strada attraverso l'abitacolo e di divorare l'intero elicottero. Il Super Stallion affondò ancora un po'. Attraverso le onde verdi e trasparenti che battevano contro il parabrezza, Schofield vide che uno dei Penetrator si era posizionato esattamente sopra il biscafo dimezzato. Stavano calando una fune di salvataggio per Kevin. «Maledizione!» esclamò, quasi gridando. Ma il Super Stallion continuava ad affondare e l'ultima cosa che Schofield riuscì a vedere, prima che il parabrezza sparisse sott'acqua, fu l'immagine di Kevin che veniva issato sul Penetrator, dove qualcuno lo aiutò a entrare nel retro dell'abitacolo. Poi il parabrezza fu completamente sommerso e Schofield non vide nient'altro che le verdi acque del lago Powell. Gli equipaggi dei due Penetrator dell'Aeronautica militare sapevano benissimo chi c'era all'interno del Super Stallion. Negli ultimi minuti le comunicazioni inviate al Looking Glass sulla frequenza riservata erano rimaste senza risposta. Era stato grazie a un segnale di frequenza del Super Stallion che erano riusciti a rintracciare il velivolo e si erano trovati Botha e il bambino serviti su un piatto d'argento. I due Penetrator rimasero sospesi sopra il lago Powell, a breve distanza dal Super Stallion che affondava. All'interno del primo Penetrator c'era Python, il comandante dell'unità Charlie. Stava guardando soddisfatto l'elicottero di Schofield che spariva nel lago. Voleva essere più che sicuro che nessuno riemergesse.
L'abitacolo del Super Stallion s'inabissò, seguito dalla punta delle pale del rotore, l'ultima parte dell'elicottero che per qualche attimo rimase ancora visibile. Una miriade di bollicine salì in superficie mentre le ultime particelle d'aria all'interno dell'elicottero lasciarono il posto all'acqua. I due Penetrator rimasero in attesa. Il Super Stallion era sparito nelle profondità verde scuro del lago. Python Willis aspettò ancora. Avrebbe aspettato fino a che l'ultima bolla fosse salita in superficie, fino a che non fosse stato assolutamente certo che nessuna sacca d'aria fosse rimasta all'interno dell'elicottero. Dopo alcuni minuti, la superficie del lago si calmò. I due Penetrator rimasero ancora là ad aspettare. Volarono altri dieci minuti sul posto, per essere sicuri che nessuno riapparisse dalle profondità del lago. Se fosse successo, erano pronti a finire il lavoro con la mitragliatrice. Ma la superficie del lago rimase immobile. Infine Python decise che avevano aspettato abbastanza. I due Penetrator virarono e sparirono in direzione dell'Area 7. Nessuno avrebbe potuto resistere così a lungo sott'acqua, nemmeno all'interno di una sacca d'aria. L'aria della sacca si sarebbe esaurita già da tempo. Shane Schofield e l'altro soldato che era con lui erano morti. Non c'erano dubbi. *** Gant, Mother, Juliet e il presidente si trovavano ancora al livello 4, nel laboratorio d'osservazione parzialmente oscurato. Con loro c'erano Hagerty e Tate. «Dobbiamo muoverci», disse Gant «Che cosa pensi di fare?» chiese Mother. «Già, che cosa pensa di fare, sergente Gant?», chiese Hot Rod in tono di sfida. «Non dovremmo rimanere qui», rispose Gant. «Ma è un ottimo nascondiglio.» «Dobbiamo continuare a muoverci. Se ci stanno cercando e noi rimaniamo sempre nello stesso posto, prima o poi ci troveranno. Dovremo muoverci almeno ogni venti minuti.»
«E dove, di grazia, le hanno insegnato questa tecnica?» chiese Hagerty con aria di sufficienza. «Si trova nel manuale d'addestramento della scuola per ufficiali», disse Gant. «Tecniche standard di elusione. Lei certamente l'avrà letto nel corso della sua carriera. E qualcos'altro che vorrei controllare...» Hagerty era diventato rosso in faccia. «Non permetto che un sergente mi si rivolga in questo modo...» «Sì, lo permetterà!» Mother si avvicinò a Hagerty. Era ben più alta di lui e lo guardò dall'alto in basso. Fece un cenno a Gant. «Perché questa pollastrella è molto più furba e intelligente di lei. E, per sua informazione, non sarà sergente molto a lungo. Diventerà ben presto un'ufficiale. E le dico un'altra cosa: metterei in qualsiasi momento la mia vita nelle mani di Gant, però mai nelle sue.» Il volto di Hagerty si contrasse in una smorfia. «Questo è tropp...» «Colonnello Hagerty», disse il presidente facendo un passo in avanti. «Il sergente Gant mi ha salvato la vita ben due volte, questa mattina. In ambedue le occasioni è stata decisiva e ha mantenuto la mente fredda quando tanti al suo posto avrebbero perso il controllo della situazione. Mi affido con fiducia al suo giudizio.» «Si è appena messo in ottime mani, signore, ci può scommettere le chiappe!» esclamò Mother annuendo. «Sergente Gant», disse il presidente. «Che cos'ha in mente?» Gant fece il suo più bel sorriso, e gli occhi color del cielo scintillarono. «Stavo pensando di fare qualcosa in merito a quella trasmittente che ha sul cuore, signore.» *** Nella sua spoglia stanzetta senza finestre al penultimo piano sotterraneo del Pentagono, Dave Fairfax era ancora immerso nel lavoro di decodifica delle registrazioni telefoniche in uscita dall'Area 7, la base segreta dell'Aeronautica degli Stati Uniti. Avendo decriptato tutti i messaggi in afrikaans in ingresso e in uscita, Fairfax era più che contento del risultato raggiunto. C'era, però, qualcosa che non quadrava. I due messaggi in inglese trovati in mezzo a tutti gli altri messaggi in afrikaans continuavano a frullargli per la testa. Così Fairfax ascoltò nuovamente la registrazione dei due messaggi, fa-
cendo molta attenzione. 16 GIUGNO VOCE 3:
22 GIUGNO VOCE 3:
ORE 19.56.09 Everything is in place. Confirm that it's the third. ORE 20.21.59 Mission is a go.
TRADUZIONE Tutto a posto. Conferma per il 3. TRADUZIONE Missione avviata.
Una cosa era certa. Nei due messaggi era sempre la stessa voce a parlare. La voce di un uomo. Americano, con l'accento del Sud. Parlava lentamente. Fairfax si spinse gli occhiali sul naso e cominciò a lavorare sulla tastiera. Apri un programma di analisi vocale. Voleva confrontare la traccia digitale della voce registrata con le tracce di tutte le altre voci contenute nei file della DIA, ossia con ogni voce che la DIA avesse mai registrato di nascosto. Una serie velocissima di diagrammi cominciò a scorrere sul monitor del computer, mentre il programma confrontava la traccia del messaggio e le migliaia di tracce registrate nel computer dell'agenzia. Alla fine della ricerca suonò un segnale acustico e sullo schermo apparve: 6 RICORRENZE VISUALIZZARE LE RICORRENZE? «Grazie per la cortesia», pensò Fairfax, premendo il tasto «invio» Sullo schermo apparvero sei file: N. 1. 2. 3. 4. 5. 6.
DATA 29/05 07/06 16/06 22/06 02/07 03/07
DIVISIONE SPACEDIV-01 SPACEDIV-01 SPACEDIV-02 SPACEDIV-02 SPACEDIV-01 SPACEDIV-01
SORGENTE FILE SAT-SORV (FILE 034-77A) SAT-SORV (FILE 034-77A) USAF-SA(R)07 (FILE 009-21D) USAF-SA(R)07 (FILE 009-21D) SAT-SORV (FILE 034-77A) SAT-SORV (FILE 034-77A)
Okay, pensò Fairfax. Molto meglio.
Tralasciò le ricorrenze numero 3 e 4. Erano proprio i messaggi che aveva appena fatto girare. La sigla SPACEDIV-02 designava la sezione dell'agenzia in cui Fairfax lavorava, la sezione 2. Gli altri quattro messaggi provenivano invece dalla sezione 1, l'unità principale della Divisione spaziale, situata sullo stesso pianerottolo, proprio di fronte all'ufficio di Fairfax. Il file della sorgente della sezione 1, SAT-SORV, stava per «sorveglianza satellitare». La sezione 1, a quanto pareva, si era data all'ascolto di trasmissioni satellitari. Fairfax cliccò sulla prima ricorrenza. Fairfax fece una smorfia. Anche i messaggi in afrikaans avevano parlato di un vaccino. E di un test conclusosi con successo. 29 MAGGIO ORE 13.12.00 INTERCETTAZIONE SATELLITARE VOCE 1: Hanno effettuato il test stamattina. Il vaccino è operativo contro tutti i ceppi precedenti. Ora hanno solo bisogno di un campione dell'ultima versione. Cliccò sulla ricorrenza successiva: 07 GIUGNO ORE 23.47.33 INTERCETTAZIONE SATELLITARE VOCE 1: La squadra per il prelievo del virus è partita per Changchun. Si tratta del capitano Robert Wu e del tenente Chet Li. Sono entrambi uomini affidabili. Come concordato, il prezzo per la fornitura del vaccino sarà di centoventi milioni di dollari, dieci milioni per ciascuno dei dodici uomini coinvolti. Changchun, pensò Fairfax. L'impianto cinese per la produzione di armi biologiche. E centoventi milioni di dollari da dividere tra dodici uomini. La faccenda cominciava a farsi interessante. La successiva: 02 LUGLIO ORE 02.21.57 INTERCETTAZIONE SATELLITARE (TRADUZIONE DAL CINESE) VOCE 1: Ricevuto, Yellow Star. Ci saremo. Che significa questo? Fairfax era perplesso.
Yellow Star? Ma quello non...? Cliccò sull'ultima ricorrenza: 03 LUGLIO ORE 04.04.42 INTERCETTAZIONE SATELLITARE VOCE 1: Wu e Li sono tornati all'Area 7 col virus. I vostri uomini sono con loro. L'intera somma è stata versata. Nomi degli uomini che dovranno essere estratti: Bennett, Calvert, Coleman, Dayton, Frommer, Grayson, Littleton, Messick, Oliver e io. Fairfax stava leggendo i nomi dell'ultimo messaggio, quando all'improvviso la porta del suo ufficio sotterraneo si spalancò e il suo capo, un burocrate dinoccolato di nome Eugene Wisher, entrò quasi di corsa, seguito da alcuni militari armati. Wisher era incaricato dell'ascolto dei messaggi provenienti dallo shuttle cinese appena lanciato in orbita. «Fairfax!» tuonò. «Che diavolo sta combinando?» Fairfax deglutì, guardando con aria spaventata le mitragliatrici dei soldati. «Be'... non... non capisco di che cosa stia parlando...» «Perché si è intromesso nelle trasmissioni che stiamo captando nell'ambito della nostra operazione?» «La vostra operazione?» ripeté Fairfax, disorientato. «Sì, la nostra operazione. Come mai sta scaricando dal server interno informazioni di massima segretezza e che riguardano le operazioni della sezione 1?» Fairfax non disse niente, perso com'era nei suoi pensieri. Il suo superiore continuava a urlargli in faccia, ma lui non lo sentiva più. Perché di colpo era diventato tutto estremamente chiaro. «Oh, Cristo...» disse Fairfax sotto voce. *** Ci vollero un po' di spiegazioni - sotto la minaccia delle armi -, ma dopo cinque minuti Dave Fairfax si ritrovò nella sala operazioni di fronte al suo ufficio ad affrontare due vicedirettori della DIA. Nella stanza c'erano monitor accesi dappertutto. Diversi tecnici operavano su più di una dozzina di console; tutto quel lavoro verteva sull'ascolto dei messaggi dello shuttle appena lanciato in orbita, lo Yellow Star.
«Ho bisogno di una lista del personale dell'Area 7», ordinò il venticinquenne Fairfax ai due alti funzionari della DIA in piedi di fronte a lui. E la lista arrivò subito. Fairfax la scorse in fretta. AERONAUTICA DEGLI STATI UNITI AREA 7 PERSONALE DI STANZA CLASSIFICAZIONE: TOP SECRET NOME
UNITÀ
NOME
UNITÀ
A C B A E C B D E E A E B D A E E D A B C A
Golding, D.K. Goldman, W.E. Grayson, S.R. Hughes, R. Ingliss, W.A. Johnson, S.W. Jones, M. Kincaid, R. Littleton, S.O. Logan, K.W. McConnell, B.A. Messick, K. Milbourn, S.K. Morton, I.N. Nance, G.F. Nystrom, J.J. Oliver, P.K. Price, A.L. Rawson, M.J. Sayles, M.T. D Sommers, S.R. Stone, J.K.
D A E A B D D B E A B E D C D D E C c B c c
COMANDO Harper, J. T. 7° SQUADRONE Alvarez, M.J. Arthurs, R.T. Atlock, F.D. Baines, A.W. Bennett, B. Biggs, N.M. Boland, C.S. Boyce, L.W. Calvert, E.T. Carney, L.E. Christian, F.C. Coleman, G.K. Coles, M. Crick, D.T. Crierce, T.W. Davis, A.M. Dayton, A.M. Dillan, S.T. Doheny, F.G. Egan, R.R. Fraser, M.S. Fredericks, G.H.
Frommer, S.N. Gale, A. Giggs, R.E.
E D B
STAFF CIVILE Botha, G.W. Franklin, H.S. Shaw, D.E.
Medico Medico Medico
Taylor, A.S. Willis, L.S. Wolfson, H.T.
B C A
Fairfax prese una stampata dell'ultimo messaggio che aveva scaricato poco prima. 03 LUGLIO ORE 04.04.42 INTERCETTAZIONE SATELLITARE VOCE 1: Wu e Li sono tornati all'Area 7 col virus. I vostri uomini sono con loro. L'intera somma è stata versata. Nomi degli uomini che dovranno essere estratti: Bennett, Calvert, Coleman, Dayton, Frommer, Grayson, Littleton, Messick, Oliver e io. «Okay.» Fairfax impugnò un evidenziatore rosa. «Bennett, Calvert, Coleman...» Cominciò a evidenziare sulla lista i nomi dei soldati citati nel messaggio. Una volta finito, la lista appariva così: AERONAUTICA DEGLI STATI UNITI AREA 7 PERSONALE DI STANZA CLASSIFICAZIONE: TOP SECRET NOME
UNITÀ
NOME
UNITÀ
A C B
Golding, D.K. Goldman, W.E. Grayson, S.R.
D A E
COMANDO Harper, J. T. 7° SQUADRONE Alvarez, M.J. Arthurs, R.T. Atlock, F.D.
Baines, A.W. Bennett, B. Biggs, N.M. Boland, C.S. Boyce, L.W. Calvert, E.T. Carney, L.E. Christian, F.C. Coleman, G.K. Coles, M. Crick, D.T. Crierce, T.W. Davis, A.M. Dayton, A.M. Dillan, S.T. Doheny, F.G. Egan, R.R. Fraser, M.S. Fredericks, G.H. Frommer, S.N. Gale, A. Giggs, R.E.
A E C B D E E A E B D A E E D A B C A E D B
STAFF CIVILE Botha, G.W. Franklin, H.S. Shaw, D.E.
Medico Medico Medico
Hughes, R. Ingliss, W.A. Johnson, S.W. Jones, M. Kincaid, R. Littleton, S.O. Logan, K.W. McConnell, B.A. Messick, K. Milbourn, S.K. Morton, I.N. Nance, G.F. Nystrom, J.J. Oliver, P.K. Price, A.L. Rawson, M.J. Sayles, M.T. D Sommers, S.R. Stone, J.K. Taylor, A.S. Willis, L.S. Wolfson, H.T.
A B D D B E A B E D C D D E C c B c c B C A
«Capite che cosa ci dice questa lista?» chiese Fairfax. Tutti gli uomini elencati nella trasmissione intercettata facevano parte dell'unità chiamata «E», o, nell'alfabeto militare, «Echo». «L'unico uomo della E non elencato», disse Fairfax, «è questo Carney, L.E. Presumo che sia lui la persona che parla nell'intercettazione.» Fairfax si rivolse ai due capi della DIA. «C'è un'unità traditrice che è stata in contatto col governo cinese e il suo nuovo shuttle. Sono coinvolti tutti gli uomini dell'unità Echo.» ***
«... Unità Echo, a rapporto...» «... Qui parla il comandante dell'unità Echo», rispose la voce del capitano Lee «Cobra» Carney. Cobra possedeva la tipica cantilena strascicata degli Stati del Sud: misurata, fredda, pericolosa. «Siamo negli alloggiamenti del livello 3. Abbiamo appena controllato i due livelli sotterranei degli hangar. Ora stiamo per scendere di un piano.» «... Ricevuto, comandante unità Echo...» «Signore.» Un altro degli operatori radio si era girato verso Caesar Russell. «L'unità Charlie è appena tornata dal lago. Sono fuori col bambino.» «Bene. Perdite?» «Cinque.» «Accettabile. Botha?» chiese Caesar. «Morto.» «Meglio ancora. Fateli entrare dalla 'porta alta'.» Gant e gli altri si affrettarono a raggiungere la scala antincendio sul lato est del livello 4. «So che non è precisamente il momento adatto», disse Mother camminando accanto a Gant, «ma è un po' che volevo chiederti che cos'è successo tra te e Scarecrow sabato scorso. Non ne hai ancora parlato.» Gant abbozzò un sorriso. «Non è per farti gli affari degli altri, eh, Mother?» «Be', cavolo, certo che sì! È quello che m'interessa. Le vecchie mogliettine come me si eccitano quando sentono parlare degli esercizi di ginnastica sessuale di belle pollastre come te. Era solo... per sapere, ecco.» Gant continuò a sorridere, ma era un sorriso un po' amaro. «Non è andata proprio come avrei voluto.» «Che cosa vuoi dire?» Continuando a camminare veloce con la pistola in pugno, Gant si strinse nelle spalle. «Non mi ha baciata, se è quello che vuoi sapere. Abbiamo mangiato in un piccolo ristorante tranquillo, poi abbiamo passeggiato lungo il fiume Potomac, chiacchierando. Dio mio, abbiamo parlato tutta la sera. E poi, quando mi ha riaccompagnata a casa, be', speravo che mi avrebbe baciata, ma... niente. Siamo rimasti sulla porta come due imbranati. Ci siamo detti che ci saremmo rivisti presto... e basta.» Mother era affranta. «Cristo, Scarecrow! Lo prenderei a calci in culo...»
«Ti prego, Mother», la interruppe Gant. «Non dirgli nulla di questa conversazione!» Mother digrignò i denti. «Mmm, se insisti...» «Sì. Preferisco non pensarci nemmeno. Abbiamo del lavoro che ci aspetta.» Aprì la porta antincendio di qualche centimetro, l'arma in mano. Le scale erano buie e silenziose. Vuote. «Via libera», sussurrò Gant. Spalancò la porta e avanzò di qualche gradino. Mother era già in posizione accanto a lei, avevano entrambe le armi alzate e pronte. Arrivarono al pianerottolo del livello 3, davanti alla porta che dava sugli alloggiamenti. Non c'era nessuno. Questa storia mi puzza, pensò Gant. Non c'erano soldati di guardia sul pianerottolo, e nemmeno una sentinella più in alto per impedire loro di salire di un altro piano. Molto strano, pensò. Se fosse stata lei la responsabile delle forze nemiche, avrebbe fatto perlustrare ogni singolo piano alla ricerca del presidente e, soprattutto, avrebbe fatto bloccare le scale. Ovviamente, il 7° squadrone operava in modo del tutto diverso. Con le scale sgombre, Gant e il suo gruppo salirono senza indugi, raggiungendo in poco tempo l'hangar del livello 2. Quell'hangar, risparmiato dalla distruzione avvenuta nel corso della giornata, era praticamente identico a quello del livello 1, con la sola differenza che la collezione di aerei nell'hangar del livello 2 era molto meno varia. Sopra c'erano i bombardieri Stealth e i Blackbird SR-71, laggiù solo due AWACS per la sorveglianza aerea. Ed erano proprio quello che Gant stava cercando. Nemmeno due minuti dopo, la donna si trovava all'interno della stiva inferiore di uno degli AWACS, e stava svitando un pesante pannello di piombo incassato nel pavimento. Sotto il pannello era collocato uno scomparto contenente vari congegni elettronici, nel cui centro, fissata saldamente, c'era una piccola unità arancione fluorescente. Era grande come una scatola da scarpe e sembrava di un materiale estremamente resistente.
«Che cos'è?» Juliet Janson era alle spalle di Gant. Il presidente rispose al posto di Gant. «È il registratore di volo. La famosa scatola nera.» «Non è molto nera», osservò Hagerty in tono strafottente. «Non lo sono mai», disse Gant. Stava staccando la piccola unità arancione dai suoi agganci. «Sono conosciute con quel nome, ma sono quasi sempre di questo colore. Serve a trovarle più facilmente tra i relitti dopo che un aereo è precipitato. Ma normalmente non è grazie al loro colore che vengono ritrovate.» «Infatti.» Il presidente annuì. «E come?» chiese Hagerty. «Non si è mai chiesto come fanno a trovare sempre così in fretta la scatola nera dopo un incidente aereo?» chiese Gant. «Quando un aereo precipita, ci sono pezzi sparpagliati per centinaia e centinaia di metri, ma di solito riescono a individuare il registratore di volo in poco tempo.» «È vero...» «E questo perché le scatole nere possiedono una trasmittente dotata di una batteria propria che emette un segnale a microonde estremamente potente, in modo da essere rintracciata subito.» «E che cosa pensa di fare con la scatola nera?» chiese Hagerty. Gant alzò la testa e chiamò verso la botola aperta: «Mother!» «Sì?» giunse dall'alto la voce di Mother. «Hai trovato il segnale?» «Dammi solo altri due secondi!» Gant lanciò un'occhiata a Hagerty. «Falsificherò il segnale che proviene dal cuore del presidente.» Nella cabina centrale dell'AWACS, Mother era seduta davanti a un computer. Sullo schermo c'era il diagramma del segnale a microonde che entrava nell'Area 7 dal satellite geostazionario a bassa quota. Era la stessa videata che Brainiac era riuscito a visualizzare nell'altro AWACS. Si vedeva la traccia regolare che si ripeteva a intervalli di venticinque secondi.
Gant salì in cabina e appoggiò la scatola arancione sulla console accanto a Mother. Inserì un cavo nella presa sul lato della scatola, collegandola al terminale di Mother. Su un piccolo schermo a cristalli liquidi sopra la scatola nera apparve immediatamente il diagramma. «Okay», disse Gant a Mother, «vedi questa curva in alto? Fa' m modo che diventi il segnale della frequenza di ricerca della scatola nera. Quando i soccorritori cercano la scatola nera, utilizzano una trasmittente radio per emettere un segnale a microonde prestabilito, chiamato anche frequenza di ricerca. Quando la trasmittente della scatola nera riceve questo segnale, manda a sua volta un segnale di ritorno e così può essere rintracciata.» «Okay», disse Mother. Lavorava febbrilmente sulla tastiera. «Fatto.» «Benissimo. Ora imposta nella scatola nera questo segnale di risposta, la parte bassa della curva, come segnale di ritorno.» «Dammi un minuto.» «Il segnale della scatola nera sarà abbastanza forte da arrivare fino al satellite?» chiese il presidente. «Dovrebbe farcela. Hanno usato segnali a microonde per parlare con Armstrong quando era sulla Luna, e al SETI li usano per mandare messaggi nello spazio profondo.» Gant sorrise. «Non contano le misure, ma la qualità del segnale.» «Bene, credo di esserci riuscita», disse Mother. Si rivolse a Gant. «E ora, grande capo, spiega anche a me che cosa ho appena fatto!» «Mother, se hai fatto quello che ti ho chiesto, attivando la trasmittente all'interno della scatola nera, replicheremo il segnale emesso dalla trasmittente sul cuore del presidente.» «E ora?» chiese il presidente preoccupato. «Sì...» disse Hagerty. «Basterà accenderla...» «No, per nessun motivo. Se l'accendiamo, il satellite riceverà due segnali identici, e questo potrebbe bastare a far esplodere le bombe. Non possiamo correre questo rischio. No, per ora diciamo che abbiamo fatto il lavoro preparatorio. Ora inizia la parte del lavoro duro. Dobbiamo sostituire il segnale della scatola nera con quello del presidente.»
«E come possiamo farlo?» chiese Hagerty. «Non mi dirà che vuole effettuare un intervento a cuore aperto sul presidente degli Stati Uniti col suo coltello!?» «Le sembro McGyver?» disse Gant. «Certo che no. La mia teoria è questa: in qualche modo Caesar Russell è riuscito a impiantare la trasmittente sul cuore del presidente...» «Sì, l'ha fatto durante un'operazione che ho subito qualche anno fa», la interruppe il presidente. «Immagino però che non l'abbia mai attivata prima di oggi», riprese Gant. «L'impianto di sicurezza della Casa Bianca avrebbe captato un segnale non autorizzato non appena fosse entrata in funzione.» «Allora...» disse Hagerty. «Allora, da qualche parte, qui nel complesso, Caesar Russell deve avere un'unità che accende e spegne la trasmittente sul cuore del presidente. Immagino che quell'unità, probabilmente una semplice unità portatile con un tasto per l'attivazione e uno per la disattivazione, si trovi nella stanza in cui si trova Russell.» «Ha ragione», s'intromise il presidente, ricordandosi di un piccolo dispositivo che Russell aveva acceso proprio all'inizio della sfida. «Lo teneva in mano quando è apparso in televisione. È rosso, portatile, con un'antenna corta e nera.» «Benissimo. È quello.» Gant annuì. «Ora non ci rimane altro che trovare il centro di comando.» Si rivolse a Juliet. «I tuoi uomini hanno controllato questo posto. Qualche idea?» «Nell'hangar principale. Nella costruzione a due piani c'è una sala di controllo.» «Allora sappiamo dove siamo diretti», disse Gant. «Quello che faremo ora è semplice. Prima, c'impossessiamo della sala di controllo di Caesar Russell. Poi, tra un segnale e l'altro del satellite, usiamo il dispositivo per fermare la trasmittente sul cuore del presidente e, un attimo dopo, attiviamo la scatola nera.» Lanciò al presidente un sorriso sardonico. «Come le dicevo: semplice.» *** I cinque membri superstiti dell'unità Charlie percorrevano velocemente un basso tunnel di cemento, chini in avanti. Kevin correva insieme a loro; era l'unico a non dover abbassare la testa.
L'unità Charlie era appena rientrata dal lago Powell, dopo aver ucciso Botha, preso Kevin e affondato l'elicottero di Schofield. Avevano lasciato i due Penetrator all'esterno e si stavano inoltrando nell'Area 7 attraverso un ingresso che collegava la parte principale del complesso a uno degli hangar esterni. Quel passaggio era conosciuto nella base come «porta alta». Il tunnel sbucava nella sezione posteriore della tromba dell'ascensore per il personale, al livello 1, attraverso una porta di titanio spessa trenta centimetri. L'unità Charlie arrivò alla pesante porta luccicante. Python digitò il codice per l'apertura d'emergenza. La «porta alta» era un ingresso speciale all'Area 7: gli alti ufficiali più fidati possedevano il codice per l'apertura d'emergenza e potevano utilizzarla in qualsiasi momento, persino durante la chiusura totale della base. La spessa porta di titanio si aprì senza fare rumore. Python s'irrigidì. Vide che il tetto dell'ascensore del personale era a pochi centimetri sotto i suoi piedi, fermo. In piedi, sul tetto proprio di fronte a lui, c'erano Cobra Carney e altri quattro membri dell'unità Echo. L'altra metà degli uomini dell'unità Echo - così vide Python attraverso la botola d'apertura dell'ascensore - si trovava all'interno della cabina. «Cristo, Cobra!» disse Python. «Mi hai fatto prendere un bello spavento. Non m'aspettavo di trovarvi qui...» «Caesar ci ha detto di venirvi incontro», disse Cobra con voce piatta. «Voleva essere sicuro che foste rientrati senza problemi.» Python diede una spinta a Kevin, facendolo cadere sul tetto dell'ascensore. «Abbiamo perso cinque uomini, ma lo abbiamo preso.» «Bene», disse Cobra. «Ottimo.» In quel momento, Python sbirciò dentro la cabina dell'ascensore e si rese conto che, insieme agli uomini dell'unità Echo, c'erano altri quattro uomini. Quattro asiatici. Python non capì. Erano i quattro uomini rinchiusi dentro la camera di decompressione, i due soldati del 7° squadrone, il capitano Robert Wu e il tenente Chet Li, e i due cinesi del laboratorio. Gli stessi che avevano portato l'ultimo ceppo dello xenovirus nell'Area 7. «Cobra, che cavolo sta succedendo qui?» chiese Python, alzando la testa
di colpo. «Mi dispiace, Python», disse Cobra. E contemporaneamente fece un cenno con la testa ai suoi uomini. In un attimo, i quattro soldati dell'unità Echo sul tetto dell'ascensore alzarono i loro P-90 e aprirono il fuoco contro l'unità Charlie. Python Willis fu colpito da un'infinità di pallottole. La faccia e il petto gli vennero letteralmente spappolati dall'impatto dei proiettili. Anche i quattro uomini dell'unità Charlie dietro di lui caddero come marionette alle quali fossero stati tagliati i fili. Un attimo dopo, l'unica persona rimasta in piedi in quel lato del tetto era Kevin, esterrefatto e impaurito. Cobra Carney fece un passo in avanti, prendendo il bambino per un braccio. «Sorridi, piccolo. Ora sei in buona compagnia.» *** La sala di controllo dell'hangar principale era silenziosa. Boa McConnell e gli altri quattro membri sopravvissuti dell'unità Bravo erano seduti in un angolo. Avevano un aspetto malconcio. Due degli uomini di Boa erano feriti gravemente. Il colonnello Jerome T. Harper, ufficialmente il comandante dell'Area 7, ma in realtà un semplice galoppino di Caesar Russell, si stava occupando delle loro ferite. Un'altra figura sedeva in fondo alla stanza, nascosta nel buio. Era rimasta nella sala di controllo per tutta la mattina, senza dire una parola. Si limitava a osservare in silenzio. Anche il maggiore Kurt Logan e ciò che rimaneva dell'unità Alpha si trovavano nella sala di controllo. Logan era in piedi accanto a Caesar, sussurrando sommessamente. La sua unità Alpha era in condizioni soltanto un po' migliori rispetto all'unità Bravo: dei suoi dieci uomini, lui incluso, ne erano rimasti solo quattro. In ogni caso, Caesar sembrava del tutto indifferente alle perdite subite. «Qualche notizia dall'unità Echo?» «Cobra informa che sono al livello 4. Nessun segno del presidente, per ora...» «Merda!» Era la voce di uno degli operatori radio. Il suo monitor si era appena spento. Senza preavviso. Senza nemmeno un messaggio di errore. «Che diavolo succede?» chiese l'operatore capo.
«Cazzo!» gridò un altro operatore, quando anche il suo computer si spense di colpo. Era come se un virus avesse colpito la sala di controllo. Tutt'intorno, uno dopo l'altro, i monitor divennero neri. «... Collasso dei sistemi di ventilazione...» «... Sistema di raffreddamento acqua disinserito...» «Che sta succedendo?» chiese Caesar Russell. Era calmo. «... Corrente elettrica nell'hangar in rapida diminuzione...» «L'alimentazione del complesso sta collassando completamente», disse l'operatore capo, rivolto a Russell. «Ma non so per quale motivo...» Sul suo monitor era apparsa una videata: S.A. (R) 07-A SECURITY ACCESS LOG 7-3-010223077
ORA
AZIONE
OPERATORE
06.30.00
Verifica del sistema Comando di chiusura Verifica del sistema
070-67
07.30.00
Verifica del sistema
070-67
07.37.56
ALLARME: guasto sistema elettrico ausiliario
Sistema
07.38.00
ALLARME: capacità si-
Sistema
06.58.34 07.00.00
105-02 070-67
RISPOSTA DEL SISTEMA Tutti i sistemi sono operativi Chiusura effettuata Tutti i sistemi sono operativi (modalità chiusura) Tutti i sistemi sono operativi (modalità chiusura) Malfunzionamento terminale 1-A2. nessuna risposta dai sistemi: TRACS, AUX SYS-1, RAD COM-SPHERE, MBN, EXT FAN Terminale 1-A2 non risponde
08.00.15
08.00.18
08.00.19
08.01.02
08.04.34
08.04.55
08.18.00
stema elettrico ausiliario al 50% Interruzione corrente principale (da terminale 3A1) Attivazione sistema elettrico ausiliario ALLARME: sistema corrente ausiliario operativo. Protocollo bassa energia elettrica attivato Ordine speciale rilascio chiusura effettuato (terminale 3-A1) Ordine speciale rilascio chiusura effettuato (terminale 3-A1) Ordine speciale rilascio chiusura effettuato (terminale 3-A1) ALLARME: capacità sistema corren-
0008-72
Corrente principa interrotta
Sistema ausiliario
Sistema corrente ausiliario attivato
Sistema ausiliario
Protocollo bassa energia in funzione: sistemi non essenziali disabilitati
008-72
Porta 003-V aperta
008-72
Porta 062-W aperta
008-72
Porta 100-W aperta
Sistema ausiliario
Terminale 1-A2 non risponde
08.21.30
08.38.00
08.58.00
09.04.43
09.08.00
09.18.00
09.28.00
te ausiliario al 35% Comando chiusura sistema telecamere sicurezza (terminale 1-A1) ALLARME: capacità sistema elettrico ausiliario al 25% Capacità sistema elettrico ausiliario al 15% Ordine speciale rilascio chiusura effettuato (terminale 3-A2) ALLARME: Capacità sistema elettrico ausiliario al 10% ALLARME: Capacità sistema elettrico ausiliario al 05% ALLARME: Capacità sistema elettrico ausiliario al 00%
008-93
Errore di sistema: sistema telecamere sicurezza disattivato per protocollo bassa energia
Sistema ausiliario
Terminale 1-A2 non risponde
Sistema ausiliario
Terminale 1-A2 non risponde
077-01E
Porta 62-E aperta
Sistema ausiliario
Iniziare riavvio sistema del sistema?
Sistema ausiliario
Iniziare riavvio sistema del sistema?
Sistema ausiliario
Inizio chiusura sistema
«Gesù! Stiamo andando a corrente ausiliaria dalle otto di stamattina'» esclamò l'operatore capo. Il colonnello Harper si fece avanti. «Sarebbe dovuta bastare per almeno tre ore, il tempo sufficiente per spegnere e far ripartire tutto il sistema d'alimentazione principale.» Mentre parlavano, Caesar Russell guardò lo schermo del computer. Era attratto in particolare da un rapporto del sistemaORA
AZIONE
OPERATORE
09.04.43
Ordine speciale rilascio chiusura effettuato (terminale 3-A2)
077-01E
RISPOSTA DEL SISTEMA PORTA 62-E APERTA
Il prefisso «77» indicava un membro del 7° squadrone. La «E» stava per unità Echo, e «01» per il suo comandante, Cobra Le palpebre di Caesar si socchiusero. Il rapporto era chiaro: durante l'ultima finestra temporale, Cobra Carney aveva aperto la porta 62-E, il portone di sicurezza dell'X-rail al livello 6. Jerome Harper e l'operatore radio stavano ancora dibattendo la situazione dell'energia elettrica. «Avrebbe dovuto, sì...» disse l'operatore, «ma, a quanto pare, il sistema era già a capacità dimezzata quando si è inserito, ed è per questo che ha tenuto soltanto un'ora e mezzo...» Anche il monitor dell'operatore capo si spense. Era l'ultimo che ancora funzionava. E poi, d'un tratto, anche le luci del soffitto della sala di controllo smisero di funzionare. Erano al buio. Caesar si voltò di scatto per guardare fuori dalla finestra nell'enorme hangar del pianterreno. Vide le lunghe file di alogene che attraversavano l'hangar spegnersi in sequenza, una dopo l'altra. L'hangar e tutto quello che conteneva - il Marine One, gli «scarafaggi» distrutti, i resti del Nighthawk Two esploso, il sistema di carrucole e gru - erano immersi nella notte più buia. «Tutti i sistemi sono spenti», disse qualcuno nella sala di controllo. «L'intera base è senza energia elettrica.»
Giù al livello 2, all'interno dell'aereo AWACS, Libby Gant e gli altri si stavano preparando a salire nell'hangar principale per trovare la sala di controllo di Caesar Russell e prenderla con la forza, quando, senza il minimo preavviso, tutte le luci dell'hangar si spensero. Di colpo si ritrovarono al buio. Buio pesto. Gant accese la torcia elettrica attaccata alla canna del suo MP-10. Per un attimo, il sottile raggio le illuminò il viso. «La corrente!» sussurrò Mother. «Perché mai avrebbero dovuto togliere la corrente?» «Sì... non ha molto senso», disse Juliet. «Aiuta più noi che loro.» «Magari non è stata una scelta», ipotizzò Gant. «Per noi cambia qualcosa?» chiese il presidente. «No. I nostri piani non cambiano», rispose Gant dopo un po'. «Continueremo a dirigerci verso la sala di controllo. Quello che dovremo tentare di scoprire, invece, è che cosa implichi per la base.» In quel momento, da qualche parte nelle viscere del complesso sotterraneo, si udì un grido, un grido selvaggio, umano ma allo stesso tempo quasi animalesco, l'urlo agghiacciante di uno squilibrato. «Santo cielo!» disse Gant. «I prigionieri. Sono usciti!» QUINTO CONFRONTO 3 LUGLIO, ORE 09.30
Circa dieci minuti prima che si spegnessero le luci nell'Area 7, il grosso elicottero CH-53E Super Stallion stava affondando lentamente nelle acque verdi del lago Powell. Era uno spettacolo incredibile L'elicottero s'inabissò con la coda o, meglio, con quello che ne era rimasto, imbarcando tonnellate di acqua attraverso la rampa di carico spalancata. Sullo sfondo verde dell'acqua, era come se il Super Stallion si muovesse al rallentatore. Miriadi di bollicine si fecero strada verso la superficie dell'acqua tra gli sguardi compiaciuti dagli uomini nei due elicotteri Penetrator, sospesi a pochi metri sul pelo d'acqua. Shane Schofield e Buck Riley junior, all'interno dell'elicottero, sparirono negli abissi, guardando in silenzio oltre il parabrezza. Videro la superficie dell'acqua, ormai una quindicina di metri sopra di loro, farsi sempre più lontana. Oltre la lente deformante dell'acqua, riuscivano ancora a scorgere le due scure sagome degli elicotteri d'attacco Penetrator, che attendevano, se mai avessero osato salire in superficie. Il paesaggio bizzarro e straordinario del lago scivolava accanto a loro: pareti di roccia, spuntoni e massi enormi sul fondo del canyon, tra i quali, ancora visibile, si snodava la vecchia strada statale, sommersa da anni. Tutto quanto era soffuso di una pallida e irreale luce verde. Book II si rivolse a Schofield: «Se ha in mente qualche altro magico
piano per uscire da questa situazione, forse sarebbe l'ora di metterlo in atto». «Mi dispiace», rispose Schofield. «Non so che fare.» Dietro di loro o, meglio, sotto i loro piedi, l'acqua penetrava attraverso la rampa di carico e da ogni altra apertura della fusoliera. Per fortuna, l'abitacolo dell'elicottero era a tenuta stagna, e così, alla profondità di venticinque metri, l'elicottero raggiunse il punto di equilibrio. All'interno della cabina di pilotaggio si formò una bolla d'aria, un po' come in un bicchiere immerso al contrario nell'acqua della vasca da bagno. L'elicottero continuò a scendere per poi toccare il fondo del lago, a trenta metri di profondità. L'impatto sollevò una nube di finissima sabbia tutt'intorno al Super Stallion, che poggiava su un grande masso con l'abitacolo rivolto verso l'alto. «Non abbiamo molto tempo», disse Schofield. «Quest'aria non durerà a lungo.» «Che facciamo?» chiese Book II «Se rimaniamo qui dentro, siamo morti. Se risaliamo in superficie, pure.» «Ci dev'essere qualcosa...» mormorò Schofield, quasi come se parlasse a se stesso. «Che cosa?» «Ci dev'essere un motivo...» «Ma di che cosa sta parlando?» disse Book II rabbioso. «Un motivo per cosa?!» Schofield si voltò verso di lui. «Botha si è fermato proprio qui. In questo posto. Non si è fermato a caso. Ha ancorato il biscafo in questo preciso punto del lago...» E poi Schofield lo vide. «Quel bastardo era davvero scaltro!» esclamò. Stava fissando qualcosa oltre la spalla di Book II, fuori nella penombra verde di quel mondo subacqueo. Book II si voltò, e lo vide subito. «Dio mio...» sussurrò. Davanti a loro, parzialmente oscurata dalla sabbia alzata dall'impatto dell'elicottero, sorgeva una costruzione, non un masso, o una pietra, ma una vera e propria costruzione, che sembrava del tutto fuori posto nel mondo subacqueo del lago Powell. Schofield e Book videro una tettoia, un piccolo ufficio con le vetrate ancora intatte e l'ampio portone di un garage. E sotto la tettoia due vecchie pompe di benzina. Era una stazione di servizio.
Una stazione di servizio subacquea. *** La stazione di servizio si trovava alla base della parete rocciosa, nel punto in cui l'enorme cratere circolare incontrava un ampio canyon che si estendeva verso ovest. Fu allora che Schofield si ricordò di aver letto qualcosa in merito alla storia di quel posto. Era la stazione di servizio - costruita verso il 1950 sulle rovine di un'antica stazione commerciale - che era stata sommersa nel 1963, quando era stata costruita la diga sul fiume Colorado che aveva dato origine al lago Powell. «Muoviamoci», disse. «Prima che l'ossigeno qui dentro si esaurisca.» «Muoverci... dove?!» chiese Book II, incredulo. «Verso la stazione di servizio?» «Certo», rispose Schofield. Guardò l'orologio. Ore 09.26. Trentaquattro minuti per riportare il Football al presidente. «Tutte le stazioni di servizio sono dotate di pompe dell'aria per il gonfiaggio delle gomme», disse. «È pur sempre aria e possiamo respirarla fino a quando i Penetrator se ne saranno andati. È probabile che il proprietario della stazione sia partito lasciando tutto com'era. Tanto il governo gli aveva pagato un bell'indennizzo.» «E questo sarebbe il magico piano di fuga? L'aria rimasta in quei serbatoi ha almeno quarant'anni. Potrebbe essere contaminata da chissà quale sostanza!» «Se i serbatoi sono a tenuta stagna, l'aria potrebbe essere ancora buona», disse Schofield. «E poi non abbiamo altra scelta. Vado io per primo. Se trovo un serbatoio che contiene ancora dell'aria, ti faccio segno di raggiungermi.» «E se non lo trova?» Schofield tolse il gancio che legava il Football alla sua cintura e passò la ventiquattrore a Book II. «In tal caso dovrai inventarti un piano di fuga migliore», disse. Il Super Stallion giaceva sul fondo del lago Powell, immerso in un mon-
do silenzioso. Un'improvvisa fila di bolle d'aria fuoriuscì dalla porta della stiva mentre Shane Schofield, ancora con la tuta da combattimento nera del 7° squadrone, uscì dall'elicottero e cominciò a nuotare. Dopo qualche metro si fermò di colpo. Qualcosa aveva attratto la sua attenzione. Era lì, sul fondo del lago, appena a un metro da lui. Un piccolo contenitore Samsonite ad alta resistenza, chiaramente concepito per proteggere il suo contenuto dagli impatti o dai colpi, grande come due videocassette affiancate. Era appoggiato sul fondo del lago, assicurato con una piccola ancora di metallo. Era quello l'oggetto che Gunther Botha aveva buttato nel lago quando Schofield e Book II lo avevano sorpreso sul biscafo. Con due bracciate, Schofield raggiunse la valigetta. Tagliò il filo dell'ancora col suo coltello e attaccò la maniglia al moschettone della sua cintura. Per aprirla c'era tempo. Ora aveva ben altro da fare. Ripartì verso la stazione di servizio, nuotando con lunghe e forti bracciate. Non gli ci volle molto per raggiungere il distributore e ben presto si ritrovò davanti alla spettrale costruzione. I polmoni cominciavano a dolergli. Doveva trovare l'aria, e anche in fretta... Eccolo! Accanto alla porta aperta dell'ufficio c'era un piccolo tubo nero, collegato a una bombola d'aria compressa. Schofield si avvicinò. Raggiunse il tubo, lo afferrò e abbassò col pollice la valvola di rilascio. Dall'apertura del tubo uscirono due o tre misere bollicine. Non promette bene, pensò Schofield. Ma poi, con un improvviso, forte getto, una gran quantità di grosse bolle d'aria schizzò verso l'alto. Schofield si mise velocemente il tubo in bocca e, senza pensarci due volte, aspirò l'aria rimasta là dentro quarant'anni. La prima boccata gli andò di traverso e cominciò a tossire. L'aria aveva un gusto amaro, ripugnante. Ma quasi subito divenne più pulita, e lui riuscì a respirare regolarmente. Era ancora utilizzabile. Schofield fece segno a Book II, alzando il pollice. Mentre Book II lo raggiungeva, Schofield srotolò con cautela il tubo dell'aria per potersi spostare nell'ufficio alle sue spalle. Le bolle d'aria che u-
scivano dalla sua bocca a ogni respiro sarebbero così rimaste intrappolate sotto il soffitto dell'ufficio, invece di salire in superficie. Era meglio non far capire agli uomini dei Penetrator che laggiù c'era qualcuno che continuava a respirare. Mentre si guardava intorno, Schofield pensava a Gunther Botha. Il piano di fuga dello scienziato sudafricano non poteva essere stato semplicemente quello di raggiungere una stazione di servizio in fondo al lago. Che cosa avrebbe fatto, poi? Ci doveva essere dell'altro... Schofield osservò il garage accanto all'ufficio. Era a poca distanza dalla montagna, non sembrava ci fosse niente di strano nell'edificio. Raggiunse la piccola finestra sul retro e guardò fuori: nella parete di roccia dietro l'ufficio vide un ampio portone, fatto di assi di legno. Il portone chiudeva un'apertura scavata nella montagna. Grossi tronchi squadrati fungevano da telaio. Due stretti binari sparivano sotto le assi del portone. Una miniera. Ora il piano di Botha cominciava a diventare comprensibile... Trenta secondi dopo, Book II entrò nuotando nell'ufficio, attaccandosi subito al tubo dell'aria compressa. Respirava velocemente. Alcuni minuti dopo - i due uomini si passavano il tubo d'aria a intervalli regolari - Schofield, posizionato all'ingresso dell'ufficio per poter guardare verso l'alto, si accorse di un movimento sulla superficie del lago. Vide le sagome nere dei due Penetrator spostarsi di lato per poi sparire nel nulla. Se n'erano andati. Indicò a Book II quello che aveva scoperto dietro la stazione di servizio. Si spiegò a gesti: Io esco. Tu aspetta qui. Book annuì. Schofield accese la piccola torcia elettrica montata sulla canna della sua pistola Desert Eagle, prese un'ultima boccata d'aria e uscì dall'ufficio, nuotando verso l'ingresso della miniera ai piedi della parete rocciosa. Ancor prima di raggiungere il portone, vide che tre o quattro delle assi, già malridotte per la lunga permanenza nell'acqua, erano state divelte di recente per creare un passaggio. Schofield entrò. Il buio nella miniera era impenetrabile. Lo stretto fascio di luce della torcia scivolò sopra pareti di roccia, tronchi di supporto e travi di sostegno. Sul pavimento scorrevano i binari che
scomparivano nell'oscurità. Schofield nuotò veloce, guidato dalla sua luce. Doveva stare attento ai tempi. Molto presto sarebbe arrivato al punto di dover prendere la decisione se tornare indietro da Book per rifornirsi di aria o se andare avanti nella speranza di raggiungere entro breve una parte della miniera che non fosse allagata. Lo incoraggiava il fatto che lo scienziato non sarebbe arrivato fin là se non avesse avuto in mente qualcosa... Schofield giunse a un bivio. Un piccolo tunnel verticale saliva, mentre il tunnel principale della miniera proseguiva dritto. Raggiunse l'ingresso del tunnel verticale. Su un lato scorreva una serie di pioli metallici. Dopo pochi metri, la scala spariva nel buio. Probabilmente era un passaggio tra i vari livelli della miniera. Schofield non aveva quasi più aria nei polmoni. Fece un rapido calcolo. In quel punto il lago doveva essere profondo più o meno trenta metri. Dunque, trenta metri più in alto, il tunnel sarebbe sbucato all'aria aperta, sempre se non era franato o sbarrato da una porta. Era l'unica possibilità. Tornò indietro a prendere Book II Due minuti dopo era già di nuovo al portone della miniera, in compagnia di Book II e del Football. S'infilarono subito nel tunnel verticale e cominciarono a salire, usando i gradini per spingersi in alto il più in fretta possibile. Il tunnel era a sezione rotonda e molto stretto. Ogni tre metri circa si apriva un passaggio che dava su un altro tunnel. Schofield era davanti a Book, e si muoveva con grande velocità, tentando di calcolare i metri che si lasciavano alle spalle. C'era un piolo di ferro ogni trenta centimetri circa. Dopo cinquanta gradini, i suoi polmoni sembrarono sul punto di esplodere. A settanta, sentì la bile salirgli in gola. A novanta, non avevano ancora raggiunto una zona priva di acqua. Schofield cominciò a pensare di avere sbagliato tutto, che infilarsi là dentro fosse stato un errore fatale e che lui e Book sarebbero morti nella miniera. Si sentiva mancare...
Poi, quando ormai Schofield aveva perso ogni speranza, e senza alcun preavviso, la sua testa sbucò fuori dall'acqua. L'aria era fresca e meravigliosa. Ebbe l'accortezza di farsi da parte per permettere anche a Book II di passargli a fianco. Book uscì, e per un po' tutti e due rimasero lì aggrappati ai pioli, boccheggiando e respirando, annaspando per riempirsi i polmoni d'aria. Il tunnel continuava verso l'alto. Appena si furono ripresi, ricominciarono a salire. Quando raggiunsero una porta laterale, Schofield uscì dal tunnel verticale. Fece luce dietro di sé in modo che Book II potesse vedere dove metteva i piedi. Solo quando Book gli fu accanto si voltò per vedere dove fossero sbucati. Si ritrovarono in un vasto ambiente scavato nella terra, un tempo probabilmente utilizzato come ufficio dalla società mineraria. Ma ormai era stato adibito a un uso diverso, che non aveva niente a che fare con una vecchia miniera... Un lato intero della grande stanza era stipato di scatoloni per l'approvvigionamento: cibo, acqua, fornelli a gas, latte in polvere... centinaia di scatoloni. Lungo le pareti qualcuno aveva disposto una dozzina di letti pieghevoli. In un angolo si trovava un tavolo con una pila di patenti di guida e passaporti falsi. È un accampamento, pensò Schofield. Il loro campo base. C'era cibo a sufficienza per molte settimane, forse mesi interi, scorte che avrebbero permesso a Botha e ai suoi uomini di rimanere laggiù abbastanza a lungo perché il governo degli Stati Uniti smettesse di rastrellare il lago Powell alla ricerca di chi si era impossessato dello xenovirus e del suo prezioso vaccino: Kevin. Poi, una volta calmate le acque, Botha e la sua squadra avrebbero lasciato il campo base per tornare nel loro paese e fare quello che avevano in mente. Schofield guardò gli scatoloni. Chiunque avesse preparato quel campo aveva lavorato a lungo, già solo per portarvi tutti gli approvvigionamenti. «Porca miseria!» Anche Book II non riusciva a raccapezzarsi. «Questo sì che si chiama curare ogni dettaglio!» Schofield guardò l'orologio. Ore 09.31. «Forza. Abbiamo ventinove minuti per portare la valigetta al presiden-
te», disse. «Proviamo a raggiungere la superficie e vediamo se c'è un modo per raggiungere l'Area 7.» *** Schofield e Book II salivano il più in fretta possibile, seguendo di nuovo il tunnel verticale. Schofield con la valigetta di Botha, Book II col Football. Un minuto dopo raggiunsero la cima della scala, uscendo dal tunnel per ritrovarsi in un vasto edificio di alluminio. Due file di binari a scartamento ridotto correvano parallele a una parete per per sparire sotto terra. Ai lati dei binari erano parcheggiati alcuni vecchi vagoni arrugginiti e una grande varietà di attrezzi da miniera, il tutto coperto da uno spesso strato di polvere e ragnatele. Schofield e Book raggiunsero l'uscita dell'edificio e spalancarono la porta con un calcio. La luce accecante del sole e le fortissime folate di vento carico di sabbia li sferzarono in piena faccia. La tempesta non si era ancora placata. Schofield e Book II corsero fuori e si ritrovarono in cima a una gigantesca e piatta penisola che s'inoltrava nel lago Powell. Sembravano due minuscole formiche, in confronto alla grandiosità del paesaggio dello Utah. Sulla penisola c'era un'altra costruzione: una piccola fattoria affiancata da un fienile. Stava a circa cinquanta metri dalla miniera. Schofield e Book corsero verso la costruzione attraversando la fitta cortina di sabbia. Vicino al cancello c'era una buca delle lettere contrassegnata da un nome: HOEG. Schofield sfrecciò oltre, nel cortile. Raggiunse il lato della fattoria, fermandosi sotto la prima finestra. Stava per sbirciare dentro, quando la parete vicina alla sua testa esplose sotto l'impatto di una raffica di pallottole di arma automatica. Si voltò di scatto e vide che un uomo in tuta blu era spuntato da dietro l'angolo della fattoria. Brandiva un fucile d'assalto AK-47. Un altro colpo d'arma da fuoco risuonò al di sopra dei rumori della tempesta, e l'agricoltore cadde a terra, morto. Book II apparve al fianco di Schofield, con la pistola M-9 ancora fumante.
«Che cazzo sta succedendo qui?» urlò. «Ho l'idea che, se mai usciremo vivi da questa storia, scopriremo che il signor Hoeg era un buon amico di Botha», rispose Schofield. «Forza!» Corsero verso il grosso fienile. Schofield spalancò il portone, sperando di trovare un mezzo di trasporto. «Be', un po' di fortuna ogni tanto non guasta», disse. «Grazie, Signore!» Davanti ai suoi occhi increduli, scintillante come una macchina nuova nella vetrina di un concessionario, c'era un bellissimo biplano colore verde mela, di quelli che gli agricoltori della zona usavano per i trattamenti antiparassitari dei campi. Tre minuti dopo, Schofield e Book sfrecciavano nel cielo, alti sopra i sinuosi canyon del lago Powell. Ore 09.43. Questa volta sarà dura, pensò Schofield. L'aereo era un Tiger Moth, un vecchio biplano della seconda guerra mondiale ancora molto diffuso da quelle parti. Aveva due ali parallele, una sopra e una sotto la fusoliera, collegate tra loro da asticelle di rinforzo e tiranti di ferro incrociati. Due ruote per l'atterraggio e il decollo spuntavano dalla parte anteriore dell'aereo, un po' come le lunghe zampe di una zanzara, mentre alla coda era stato applicato un congegno per l'irrorazione dei liquidi antiparassitari. Come la maggior parte dei biplani, possedeva due posti. Il pilota era seduto dietro, il copilota davanti. Era un buon aereo, molto curato e in perfetto stato. Il signor Hoeg, oltre a essere una maledetta spia, doveva essere anche un patito di aerei. «Quali sono i suoi piani?» chiese Book, parlando nel microfono del suo casco. «Entreremo nella base viaggiando con l'X-rail?» «Non questa volta», rispose Schofield. «Non abbiamo abbastanza tempo. Andiamo dritti all'Area 7 e tentiamo il tunnel dell'uscita di sicurezza.» *** Il cuore di Dave Fairfax batteva come un tamburo. Quello sì che era un giorno memorabile. Dopo aver ascoltato il rapporto di Dave Fairfax sulla situazione all'Area 7 e sull'unità spia che tramava al suo interno, il vicedirettore della DIA, nonché responsabile della sorveglianza dello shuttle cinese, aveva ordinato
che, intorno alle Aree 7 e 8, fosse estesa una zona di controllo dei segnali larga centocinquanta chilometri. D'ora in avanti, ogni segnale in uscita dalle due basi sarebbe stato catturato dai satelliti di sorveglianza della DIA. Il vicedirettore, impressionato dal lavoro svolto, aveva lasciato carta bianca a Fairfax per il seguito delle operazioni. «Faccia qualsiasi cosa che ritenga necessaria, giovanotto», aveva detto. «Venga a rapporto direttamente da me, d'ora in avanti.» Fairfax però non era ancora convinto. Magari era solo per lo stato di agitazione, ma qualcosa continuava a non quadrare. Le tessere del puzzle non combaciavano. I cinesi avevano mandato uno shuttle nello spazio, dal quale comunicavano con un'unità americana traditrice di stanza in una base dell'Aeronautica, l'Area 7. Fin lì, tutto chiaro. Dunque c'era qualcosa in quella base che i cinesi volevano. Fairfax intuì che si trattasse del vaccino di cui parlavano i vari messaggi che era riuscito a decriptare. Okay. E lo shuttle era il mezzo migliore per le comunicazione dirette con la Terra. No. Non era vero. Per comunicare con la Terra, i cinesi avrebbero potuto utilizzare qualsiasi satellite e nello spazio ne avevano una dozzina. Non c'era bisogno di uno shuttle per farlo. E se lo shuttle servisse a un altro scopo...? Fairfax si rivolse a uno degli uomini di collegamento con l'Aeronautica, convocati dalla DIA: «Di quali mezzi dispone l'Aeronautica all'Area 7?» L'altro si strinse nelle spalle. «Un paio di bombardieri Stealth, un Blackbird SR-71, qualche AWACS. A parte questo, l'area serve per la ricerca e la produzione di armi biologiche.» «E che mi dice dell'altro complesso, l'Area 8?» «L'Area 8 non c'entra con questa storia.» «Ascolti, si tratta di informazioni che devo avere. Mi creda, a questo punto non esistono più segreti!» L'uomo esitò, prima di parlare. Poi si decise. «L'Area 8 ospita due prototipi funzionanti dello shuttle X-38, un apparecchio concepito per distruggere i satelliti in orbita intorno alla Terra, una versione più maneggevole dello shuttle tradizionale, che può essere lanciato ad alta quota da un Boeing 747.» «Per distruggere i satelliti?»
«Esattamente. Lo shuttle X-38 è dotato di missili a zero gravità AMRAAM, fissati sotto le ali. È progettato per un lancio rapido e per missioni a distanza medio-breve. Raggiunge un'orbita terrestre bassa, fa esplodere i satelliti spia o le stazioni spaziali del nemico e poi torna a casa.» «Quante persone può trasportare?» chiese Fairfax. L'ufficiale fece una smorfia. «Tre posti per l'equipaggio, ma forse dieci o dodici si potrebbero sistemare nella stiva delle armi. Non di più. Come mai me lo chiede?» Ora i pensieri di Fairfax stavano volando. «Non è possibile...» disse sotto voce. «Non è possibile!» Corse a prendere la stampata delle telefonate decriptate. Era l'ultimo messaggio che aveva decodificato, lo stesso che gli aveva permesso di capire che l'unità Echo era quella traditrice: 03 LUGLIO ORE 04.04.42 INTERCETTAZIONE SATELLITARE VOCE 1: Wu e Li sono tornati all'Area 7 col virus. I vostri uomini sono con loro. L'intera somma è stata versata. Nomi degli uomini che dovranno essere estratti: Bennett, Calvert, Coleman, Dayton, Frommer, Grayson, Littleton, Messick, Oliver e io. Nomi degli uomini che dovranno essere estratti. «Estratti...» ripeté ad alta voce. «Che cos'ha in mente?» L'uomo dell'Aeronautica lo aveva seguito. Ma Fairfax era sprofondato nei suoi pensieri. Di colpo vedeva tutto con molta chiarezza. «Se volesse far uscire un vaccino top secret da una base speciale dell'Aeronautica, situata nel bel mezzo del deserto degli Stati Uniti, come farebbe? Non potrebbe farlo uscire con un aereo, perché le distanze sono enormi. Verrebbe abbattuto ancora prima di raggiungere la California. Lo stesso discorso vale per un trasporto via terra: non arriverebbe nemmeno alla frontiera. Via mare? Stesso problema. Ma questi bastardi cinesi l'hanno pensata bene.» «Di che cosa sta parlando?» «Non riuscirebbero a far uscire qualcosa dagli Stati Uniti né andando a nord, né a sud, né a est né a ovest», disse Fairfax. «L'unica strada è verso l'alto. Nello spazio.» ***
Schofield guardò l'orologio. Ore 09.47. Avevano ancora tredici minuti per portare il Football al presidente. Lui e Book II erano in volo da alcuni minuti: stavano sorvolando il deserto nel loro biplano verde, viaggiando alla velocità massima, duecentocinquanta chilometri all'ora. Davanti a loro, in lontananza, riuscirono a intravedere la bassa montagna, la pista d'atterraggio e il piccolo gruppo di costruzioni dell'Area 7. Subito dopo il decollo, Schofield aveva aperto il contenitore Samsonite trovato sul fondo del lago Powell. All'interno c'erano dodici fiale di vetro, ognuna inserita in una sede imbottita di gommapiuma. Tutte le fiale contenevano uno strano liquido blu ed erano etichettate: VACCINO ENDOVASCOLARE DOSE: 55 ML TESTATA CONTRO CEPPO V.9.1 CERTIFICATO: 03 LUGLIO, ORE 05 24 33 Schofield sgranò gli occhi. Era un kit da campo per vaccinazione. Dosi monouso del vaccino prodotto dal sangue geneticamente modificato di Kevin, da iniettare con una siringa. Prodotto quella stessa mattina. Il capolavoro di Gunther Botha: l'antidoto dell'ultimo ceppo dello xenovirus. Schofield s'infilò sei delle dodici piccole fiale di vetro nella tasca laterale della sua tuta. Potevano tornargli utili. Poi diede un colpetto sulla spalla a Book II e gli porse le altre sei. «Nel caso ti venisse l'influenza», disse. Book II, seduto nella postazione anteriore del biplano, era rimasto silenzioso per tutto il tragitto, lo sguardo fisso davanti a sé. Prese le fiale del vaccino che Schofield gli aveva offerto e le infilò nelle tasche. Poi continuò a guardare in avanti senza parlare. «Come mai ce l'hai con me?» chiese Schofield improvvisamente, parlando nel suo microfono. Book s'irrigidì. Un minuto dopo, la voce bassa e fredda del giovane sergente arrivò nell'auricolare del casco di Schofield: «C'è qualcosa che volevo chiederle da
molto tempo, sergente». «Che cosa?» «Mio padre è stato in quella missione nell'Antartico insieme a lei. Ma non è mai tornato indietro. Com'è morto?» Schofield non rispose subito. Il padre di Book II, Buck Riley senior, era morto in modo atroce durante la tremenda missione alla stazione antartica, la Ice Station Wilkes. Un comandante senza scrupoli della SAS britannica di nome Trevor Barnaby lo aveva gettato, vivo, in una piscina piena di feroci orche assassine. «È caduto nelle mani del nemico. E lo hanno ucciso.» «Come?» «Non credo che vorresti davvero saperlo.» «Come?» ripeté Book, gelido. Schofield chiuse gli occhi. «Lo hanno appeso a testa in giù su una vasca piena di orche assassine, poi lo hanno calato.» «I marine non ti dicono mai niente.» La voce di Book II era più morbida, il suono metallico era dovuto alla trasmissione radio. «Si limitano a mandarti una lettera, dicendoti che tuo padre è stato un bravo patriota e t'informano che è stato ucciso sul campo. Lei sa, capitano, che cos'è successo alla mia famiglia quando mio padre è morto?» Schofield si morse il labbro. «No, non lo so.» «All'epoca mia madre abitava alla base di Camp Lejeune, nella Carolina del Nord. Io invece ero al campo d'addestramento di Parris Island. Lei sa che cosa succede alla moglie di un marine quando suo marito viene ucciso in battaglia?» Schofield lo sapeva, ma non disse nulla. «La costringono a lasciare la base», continuò Book II. «Sembra che le mogli degli altri soldati non vedano molto di buon occhio le fresche vedove. Potrebbero rubare i loro mariti. Così mia madre, appena perso il suo, fu costretta a lasciare la sua casa e la base. Tentò di ricominciare da capo, di essere forte, ma non funzionò. Tre mesi dopo aver lasciato la base, la trovarono nel bagno del suo nuovo appartamento, che era grande come una scatola da scarpe. Aveva ingoiato tutto il contenuto di una bottiglietta di sonnifero.» Book II si voltò a guardare Schofield dritto negli occhi. «Per questa ragione prima le ho chiesto delle sue strategie rischiose. Questo non è un gioco, lei lo sa bene. Quando qualcuno muore, ci sono delle conseguenze. Mio padre è morto, e mia madre si è suicidata perché
non riusciva a vivere senza di lui. Volevo solo essere sicuro che mio padre non fosse morto in una delle sue brillanti manovre tattiche.» Schofield non rispose. Book senior non aveva mai legato coi suoi commilitoni. Aveva sempre preferito trascorrere il tempo libero con la famiglia. Certo, qualche volta Schofield aveva incontrato Paula Riley ai pranzi o alle cene di rappresentanza, ma non avevano mai veramente avuto modo di scambiare più di due parole. Aveva saputo che si era suicidata, e si ricordò che in quel momento aveva rimpianto di non avere fatto di più per lei. «Tuo padre è stato il miglior uomo che abbia mai conosciuto», disse Schofield, infine. «È morto per salvare una vita umana. Una bambina è caduta da un idroscivolante, e lui si è tuffato per salvarla. È così che lo hanno catturato. Poi l'hanno riportato alla stazione antartica e l'hanno ucciso. Ho tentato di tornare indietro per salvarlo, ma... non ce l'ho fatta.» «Ma non mi ha detto di non aver mai mancato un appuntamento importante?» Schofield non disse nulla. «Mi ha parlato di lei, sa?», disse Book II «Diceva sempre che lei era uno dei migliori comandanti per i quali avesse prestato servizio. Mi disse che la considerava come un figlio, come me. Non voglio scusarmi per essere freddo nei suoi confronti, capitano. Dovevo però farmi un'idea di lei e decidere con la mia testa.» «E che cosa hai deciso?» «Ci sto ancora pensando.» Il biplano cominciò a scendere verso l'immensa distesa del deserto. *** Ore 09.51. Il biplano Tiger Moth verde toccò la superficie del deserto, alzando nuvole di polvere e sabbia. Non appena il biplano si fu fermato, Schofield e Book II saltarono fuori, Schofield col Football e la pistola Desert Eagle, Book con due M-9 cromate. Schizzarono verso la trincea dove si nascondeva l'ingresso del tunnel di emergenza. C'erano corpi dappertutto, parzialmente nascosti dalla sabbia accumulata dalla tempesta. Nove uomini dei servizi segreti, in borghese. Tutti morti. I membri della
squadra avanzata 2. Quattro marine morti giacevano poco distante. Tutti in alta uniforme. Colt Hendricks e gli uomini del Nighthawk Three, venuti per controllare l'uscita di emergenza della base. Cristo! pensò Schofield. Lui e Book II dovettero saltare sopra i corpi straziati per raggiungere l'ingresso del tunnel. Tutti questi morti, e non è ancora finita! Ore 09.52. Schofield e Book raggiunsero di corsa l'ingresso del tunnel. La porta era rimasta aperta dopo il passaggio dei Reccondo. Entrarono nel tunnel stretto e buio, dove furono accolti dall'ombra e dalla frescura dell'Area 7. Giunsero a un tunnel verticale che spariva verso il basso, nell'oscurità. Su un lato del tunnel era fissata una scala metallica. Schofield l'afferrò e si lasciò scivolare verso il basso per centocinquanta metri. Book lo segui. Non c'erano luci, così durante la discesa utilizzò la piccola torcia elettrica montata sulla canna della Desert Eagle. Book, che aveva solo due pistole di ordinanza, non possedeva alcuna torcia. Ore 09.53. Arrivarono in fondo al tunnel. Di fronte a loro, un altro tunnel, abbastanza largo per una persona, scendeva dolcemente sparendo poi nel buio. Corsero nel tunnel. Mentre correva, Schofield parlò nel microfono da polso dei servizi segreti: «Fox! Fox! Mi puoi sentire? Siamo tornati! Siamo all'interno del complesso!» Nessuna risposta. Forse i microfoni dei servizi segreti non erano concepiti per resistere a lunghe nuotate subacquee. Ore 09.54. Dopo alcune centinaia di metri sbucarono dalla porta di emergenza al livello 6, ritrovandosi sui binari nord della stazione dei treni X-rail. La stazione sotterranea era avvolta dalla più totale e terribile oscurità. Facendo danzare il raggio di luce della sua torcia, Schofield scoprì un numero impressionante di cadaveri sparsi ovunque. Il centro della banchina era distrutto nel punto esatto in cui era esplosa la granata RDX di Elvis. «Le scale!» disse, puntando la luce contro la porta delle scale antincendio, sulla loro sinistra. Si arrampicarono sulla banchina e corsero in quella direzione.
«Fox! Fox! Mi ricevi?» Interferenze. Raggiunsero la porta. Schofield l'aprì e udì subito il rumore di una dozzina di paia di stivali da combattimento che scendevano la scala di corsa, ogni secondo più forte. «Veloce. Di qui!» disse sottovoce, uscendo in punta di piedi dalla porta. Saltarono giù dalla banchina sul lato sud e si tuffarono dietro il piccolo veicolo di manutenzione X-rail, fermo sui binari. Schofield spense la torcia elettrica e un secondo dopo la porta delle scale antincendio si aprì dall'interno. Cobra e gli uomini dell'unità Echo uscirono di corsa, ciascuno con una torcia in mano. I raggi delle luci ballavano nell'oscurità come bianche dita sottili. Schofield notò subito Kevin. Era circondato da quattro uomini dai tratti asiatici. «Che diavolo sta succedendo?» sussurrò Book II. Schofield osservò i quattro uomini: erano gli stessi soldati che aveva visto all'interno della camera di decompressione, quelli che avevano portato lo xenovirus dalla Cina. Nella sua mente un vortice di pensieri. Che cosa stava succedendo? Kevin era stato appena riportato alla base dai Penetrator. E ora lo spostavano nuovamente. Perché Caesar lo faceva portare in un altro posto? Perché fosse più al sicuro? Ma c'era un'altra questione alla quale Schofield non trovava una risposta: Perché Caesar Russell s'interessava di Kevin? Non stava dando la caccia al presidente? Cobra e i suoi uomini saltarono sui binari. Sapevano esattamente quello che facevano. Fu solo grazie alle luci delle torce elettriche dei soldati dell'unità Echo che Schofield vide che le porte di sicurezza del tunnel X-rail dall'altra parte della banchina erano aperte. Erano le porte del tunnel che portava all'Area 8. Cobra e i suoi uomini, insieme a Kevin e ai quattro asiatici, sparirono correndo nel tunnel est, guardandosi le spalle. Perché mai si guardano le spalle...? si chiese Schofield. Quando lo stesso Cobra, prima di entrare nel tunnel, lanciò indietro un ultimo sguardo ansioso, Schofield comprese. Quegli uomini stavano... rubando Kevin. E stavano fuggendo da Caesar.
Sopra, nell'hangar del livello 2, immerso nell'oscurità, Gant guardò nervosamente l'orologio. Ore 09.55. Entro cinque minuti il presidente avrebbe dovuto mettere il palmo della mano sull'analizzatore di impronte del Football. Ancora nessuna notizia da parte di Scarecrow. Merda! Se non fosse tornato in fretta, lo spettacolo sarebbe finito molto male. Gant e Mother, con Juliet, il presidente, Hagerty e Tate, avevano lasciato l'aereo AWACS del livello 2 e avevano attraversato l'hangar sotterraneo, orientandosi con le torce montate sulle canne delle loro pistole. Ora erano in piedi ai bordi dell'enorme tromba del montacarichi. Gant si era portata dietro la scatola nera dell'AWACS. Il suo piano era di raggiungere il centro di comando di Caesar Russell, un livello sopra di loro. Ma se entro cinque Schofield non fosse arrivato col Football, il piano sarebbe diventato pura accademia. Sull'Area 7 regnava un terribile silenzio. Tra il silenzio e la totale oscurità nella quale il complesso era avvolto, l'atmosfera dell'Area 7 era davvero terrificante. Per un attimo, a Gant era parso di sentire qualcosa nell'auricolare: «... ox? ... vi?» Anche Juliet si era messa la mano sull'orecchio. «Hai sentito?» E poi, così inaspettatamente da far sobbalzare tutti, un colpo d'arma da fuoco echeggiò verso l'alto dalla tromba del montacarichi. Forte come un tuono. Era il colpo di un fucile a pompa. Ma quello che seguì subito dopo era mille volte più impressionante. Una risata. Una risata folle, che salì dalla tromba del montacarichi, tagliando l'aria come un colpo d'ascia. «Ciaaaooo! Ciaaaooo a tuttiii! Stiamo per venirvi a preeendere!» Poi sentirono un uomo ululare come un lupo. Persino Mother dovette deglutire, prima di riuscire a parlare. «I prigionieri...» «Devono aver trovato l'armadietto delle armi, giù nell'ingresso», disse Juliet. Di colpo un forte rumore, un clangore meccanico, si alzò dalla tromba
del montacarichi. Gant guardò giù. La gigantesca piattaforma si trovava in fondo alla tromba, al livello 5, coi resti distrutti dell'AWACS sparpagliati e in parte sommersi nell'acqua. In vari punti della piattaforma Gant vide delle torce accese, almeno una ventina, che si muovevano qua e là, tremolanti. I prigionieri evasi. «Quanti ne vedi?» chiese Juliet. «Non so esattamente», rispose Gant. «Trentacinque, quaranta. Perché? Quanti ce ne sono in tutto?» «Quarantadue.» «Oh, fantastico!» Con uno scatto improvviso e un rumore sordo, la piattaforma del montacarichi emerse dalla pozza d'acqua. «Pensavo che senza energia elettrica...» Mother non finì la frase. Juliet scosse la testa. «Possiede un motore idraulico autonomo, proprio in caso di black-out come questo.» Il montacarichi saliva lentamente nella tromba. «Dai, togliamoci da qui!» Gant spinse il presidente dietro le ruote di un AWACS. Lei, Mother e Juliet spensero le torce elettriche. Sembrava la scena di un film dell'orrore. Gli uomini tenevano torce accese sopra la testa, pistole e fucili a pompa nelle mani libere, ululavano come animali e ridevano a squarciagola. I prigionieri del livello 5. Una buona parte di loro era a torso nudo. La pelle scintillava umida alla luce delle torce. Alcuni si erano legati dei bandana sulla fronte o intorno ai bicipiti. Avevano i pantaloni zuppi dell'acqua che stava allagando il livello 5. Il montacarichi passò oltre, uscendo dal campo visivo di Gant. La donna uscì dal suo nascondiglio e osservò la parte inferiore della piattaforma, che continuava a salire fino a fermarsi al piano terra, con un sordo clangore. Caesar Russell attraversò con passo deciso la sala di controllo. Aveva appena visto risalire la piattaforma per aerei col suo carico di prigionieri urlanti e armati. Gli uomini erano saltati dalla piattaforma per correre nell'hangar principale ancora prima che la piattaforma si fosse fermata. «Prendete i portatili», ordinò Caesar con calma. «Dite a Charlie di aspet-
tare alla 'porta alta' e di preparare l'evacuazione verso la postazione di comando secondaria. Noi li raggiungeremo. Dov'è Echo?» «Non riesco a entrare in contatto radio, signore», replicò l'operatore più vicino a Russell. «Non importa. Faremo contatti più tardi. Andiamo.» Tutti si mossero. Logan e i suoi tre uomini dell'unità Alpha, Boa McConnell e i suoi quattro uomini dell'unità Bravo. Caesar estrasse una chiave da un mazzo che teneva in tasca e apri una piccola porta a pressione nel lato nord della stanza. Si aprì davanti a lui un tunnel in leggera pendenza di cemento. Poche centinaia di metri e avrebbero incrociato il passaggio per la «porta alta». I tre uomini Alpha uscirono per primi. Entrarono nel tunnel con armi in pugno. Caesar entrò dopo di loro, seguito da Logan. Il colonnello Jerome Harper non fece in tempo. Nello stesso istante in cui Logan sparì nel passaggio sotterraneo, la porta principale dalla parte opposta della sala controllo si aprì facendo passare cinque prigionieri armati di fucile a pompa. Il primo colpo di fucile fece esplodere un'intera console della sala. Nel passaggio, Logan si fermò e si voltò per vedere chi era entrato nella sala di controllo. Capì subito che gli altri non ce l'avrebbero mai fatta a fuggire nel tunnel, e con una rapida occhiata a Harper prese una decisione: chiuse la porta a pressione, sbarrando l'unica via di fuga per Harper e gli uomini dell'Aeronautica rimasti all'interno della sala di controllo. Si lasciò dietro undici uomini: Harper, Boa McConnell, i quattro soldati dell'unità Bravo, i quattro operatori radio e, infine, l'uomo rimasto seduto nell'ombra a osservare gli eventi della mattinata. Tutti chiusi nella sala di controllo, alla mercé degli assassini. *** Al livello 6, nella stazione X-rail, Schofield e Book II uscirono di corsa da dietro il veicolo per la manutenzione, saltarono sulla banchina e sfrecciarono verso le scale antincendio. Ore 09.56. Schofield non era ancora sul primo gradino che già sentì un colpo di fucile e delle urla provenire dall'alto. Si fermò, poi tornò indietro. Uscì nuovamente dalla porta, chiudendosela alle spalle.
«Ora è ufficiale», disse. «Siamo arrivati all'inferno.» «Abbiamo circa tre minuti minuti per trovare il presidente», disse Book II. «Lo so, lo so.» Schofield si guardò intorno. «In qualche modo dobbiamo entrare nel complesso e salire.» Fissò qualcosa nel buio totale che avvolgeva la stazione. «Forza, di qua!» Cominciò a correre giù per la banchina. «Dove andiamo?» Book II lo stava seguendo, correndo dietro di lui. «C'è un'altra via per salire nell'Area 7. I soldati del 7° squadrone l'hanno usata prima: il condotto d'aerazione dall'altra parte della banchina.» Ore 09.57. I due raggiunsero l'ingresso del condotto d'aerazione. Schofield tentò di nuovo di contattare Gant. Forse la ricetrasmittente non era del tutto inutilizzabile, anche se rimasta a lungo sott'acqua. «Fox! Fox! Mi ricevi?» Fruscii. Nient'altro. Entrarono nel condotto d'aerazione e cominciarono a correre. Il rumore dei loro stivali rimbombava. Arrivarono alla base del condotto verticale. Saliva per quasi centocinquanta metri. «Cristo!» esclamò Book II, guardando in alto. Il condotto spariva nel nero infinito. Ore 09.58. Schofield disse: «Saliamo nel condotto d'aerazione. Poi usiamo i condotti laterali per raggiungere la tromba del montacarichi e attraversiamo la piattaforma. Una volta là, li troveremo in qualche modo». Schofield alzò il Maghook e premette il grilletto senza attivare il magnete. La punta sfrecciò sibilando verso l'alto. Solo dopo qualche secondo, Schofield attivò la carica magnetica, e con un rumore metallico il magnete si attaccò alla parete verticale. Ore 09.58.20. Schofield si fece trasportare in alto per primo, sparendo nel condotto. Book lo seguì un attimo dopo. Ore 09.58.40. Appena raggiunsero l'ultimo condotto verticale, si fermarono e vi entrarono, rilasciando il magnete del Maghook. Corsero dentro il condotto, Schofield col Football nella mano libera.
Ore 09.58.50. Raggiunsero l'enorme tromba del montacarichi. Si apriva davanti a loro come un'infinita distesa nera. Si vedeva solo la luce di qualche torcia in cima alla tromba del montacarichi. La piattaforma, per quello che si vedeva al buio, sembrava all'ultima fermata, all'hangar del livello terra. Schofield e Book II erano fermi all'imboccatura del condotto d'aerazione al livello 3. Schofield riprovò col microfono, portandolo alle labbra. «Fox! Fox! Dove sei?» «Ehi!» Una voce femminile e molto familiare echeggiò nella tromba del montacarichi. Schofield alzò la testa, indirizzando la torcia elettrica verso l'alto. Vide un piccolo puntino chiaro: il raggio di un'altra torcia elettrica montata sulla canna di una pistola. Arrivava dalla parte opposta della tromba del montacarichi, un piano più in alto. Era all'ingresso dell'hangar del livello 2. E al di sopra del puntino di luce, appena visibile, Schofield riconobbe la faccia ansiosa di Libby Gant. Ore 09.59.00. *** «Fox!» «Scarecrow!» All'improvviso la voce di Gant arrivò forte e chiara nell'auricolare di Schofield. Probabilmente l'acqua aveva danneggiato solo la portata della ricetrasmittente, non il funzionamento. «Cristo!» disse Schofield. «Credevo che la piattaforma fosse qua!» «I prigionieri l'hanno utilizzata per salire nell'hangar principale», rispose Gant Ore 09.59.05. Ore 09.59.06. «Maledizione, Scarecrow. Che cosa facciamo? Abbiamo appena un minuto!» Schofield stava pensando esattamente la stessa cosa. Sessanta secondi. Non abbastanza per scendere in fondo alla tromba, attraversarla a nuoto e ritornare su dall'altra parte. E nemmeno per arrampicarsi dall'altra parte della tromba passando lungo il bordo appesi per le mani. Non serviva
nemmeno il Maghook. La tromba era troppo larga. Cazzo! pensò. Cazzo, cazzo, cazzo. «Che ne diresti di fare il 'ponte Harbour'?» Nell'auricolare di Schofield si era intromessa la voce di Mother. Il «ponte Harbour» era una leggenda che circolava tra i soldati. Due persone sparavano il loro Maghook con carica opposta in modo che i due magneti si agganciassero tra loro a mezz'aria. Aveva preso il nome dal ponte Harbour di Sydney, il famoso monumento che fu costruito partendo dai due lati opposti del porto di Sydney, due archi separati che s'incontravano a metà strada. Schofield aveva visto qualche marine tentare di compiere quel trucco. Nessuno c'era mai riuscito. «No», disse. «Il 'ponte Harbour' è impossibile. Non ho mai visto nessuno riuscire ad agganciare un altro Maghook a mezz'aria, ma, forse...» Ore 09.59.09. Ore 09.59.10. Lanciò un'occhiata al presidente e a Gant, in piedi davanti all'hangar del livello 2. Valutò la distanza. Più in alto, in cima alla tromba e nella quasi totale oscurità, s'intravedeva appena la parte inferiore della piattaforma del montacarichi. Il suggerimento di Mother gli aveva comunque dato un'idea. Forse, con due Maghook... «Fox! Veloce!» disse. «Dove si trova l'ascensore di servizio?» «Dove l'abbiamo lasciato: sotto, al livello 3», rispose Gant. «Scendi al livello 3. Prendilo e portalo su fino a una trentina di metri dalla piattaforma del montacarichi. Corri! Veloce!» Gant sapeva che non c'era tempo da perdere. Afferrò il presidente per un braccio e si allontanò. Ore 09.59.14. Ore 09.59.15. Schofield si voltò, superò Book II e tornò indietro correndo a perdifiato nel condotto d'aerazione orizzontale. Raggiunto il condotto verticale, non perse un solo istante. Sparò il Maghook verso l'alto. Aspettò un po' prima di azionare il magnete. Doveva essere sicuro che il Maghook avesse srotolato tutti i suoi cinquanta metri di cavo. Quando lo attivò, il potente magnete scattò di lato, attaccandosi alla più vicina parete di metallo.
Ore 09.59.22. Ore 09.59.23. Schofield schizzò su per il condotto d'aerazione. Questa volta si lasciò Book II alle spalle. Non c'era più tempo per far calare il Maghook. Book avrebbe dovuto arrangiarsi da solo. Soprattutto perché il Maghook gli serviva ancora. Schofield sfrecciava in alto. Le quattro pareti d'acciaio del condotto gli scivolavano accanto. Fermò il meccanismo di avvolgimento solo quando raggiunse un altro condotto orizzontale. Mancavano ancora circa trenta metri per raggiungere l'hangar principale. Corse dentro il condotto orizzontale. Ore 09.59.29. Ore 09.59.30. Raggiunse di nuovo la tromba del montacarichi. Ora la parte inferiore della gigantesca piattaforma era più vicina, a circa trenta metri da lui. Riuscì a sentire i colpi d'arma da fuoco e le urla di scherno dei prigionieri. Ma non ebbe il tempo di chiedersi che cosa stesse succedendo nell'hangar principale. Ore 09.59.34. Ore 09.59.35. Grazie al sottile raggio di luce della torcia elettrica montata sulla pistola, Schofield vide salire il piccolo ascensore, dall'altra parte della vasta tromba del montacarichi. Sopra riuscì a scorgere le piccole sagome di Gant, Juliet, Mother e del presidente. Ore 09.59.37. Ore 09.59.38. Quando l'ascensore arrivò alla sua altezza, Schofield gridò: «Bene! Ferma!» L'ascensore si arrestò di scatto dall'altra parte della tromba, larga più di sessanta metri. Si trovava in diagonale rispetto a Schofield. Ore 09.59.40. «Bene, Fox», disse Schofield nel microfono della radio. «Voglio che tu agganci il Maghook alla parte inferiore della piattaforma...» «Ma la corda non è abbastanza lunga per permetterci di pendolare dall'altra parte della tro...» «Lo so. Ma due Maghook ce la faranno», disse Schofield. «Mira a un punto della piattaforma all'incirca a un quarto tra te e me. Io farò la stessa cosa da qui.»
Ore 09.59.42. Schofield lanciò il Maghook. Con un forte rumore sordo il gancio volò in alto. La testa magnetica del gancio si fissò contro la parte inferiore della piattaforma. Ore 09.59.43. Un rumore quasi identico arrivò dall'alto, ma dall'altra parte della tromba. Gant aveva agganciato il suo Maghook. Ore 09.59.45. Ore 09.59.46. Schofield tenne il Maghook con una sola mano. Poi aprì il Football, scoprendo così il timer all'interno che segnava il conto alla rovescia: 00:00:12... 00:00:11. Teneva il Football per la maniglia, ma aperto. «Okay, Fox», disse nel microfono. «Passa il Maghook al presidente. Abbiamo dieci secondi, il che significa: un solo tentativo.» «Ma state scherzando, vero?!» esclamò Mother. Dall'altra parte della tromba del montacarichi, Gant aveva passato il Maghook al presidente. «Buona fortuna, signore.» Il presidente e Schofield si trovavano l'uno di fronte all'altro ai due estremi dell'enorme tromba del montacarichi, tenendo ciascuno il Maghook in una mano. Sembravano una coppia di trapezisti pronti a dare spettacolo. Ore 09.59.52. Ore 09.59.53. «Adesso!» gridò Schofield. Saltarono. Si lanciarono nel vuoto. Due minuscole figure appese a fili quasi invisibili. Sembravano veramente due trapezisti, l'uno lanciato verso l'altro in perfetta armonia, pronti a incontrarsi a mezz'aria. Schofield con la ventiquattrore aperta, il presidente con la mano destra tesa in avanti. Ore 09.59.54. Ore 09.59.55. Schofield raggiunse il punto più basso del suo arco e cominciò a risalire. Nella quasi totale oscurità, vide il presidente venirgli incontro, con uno sguardo di puro terrore, aggrappato con la mano sinistra al cavo e con la destra protesa. Ore 09.59.56. Ore 09.59.57.
Si avvicinavano l'uno all'altro, salendo entrambi contemporaneamente: avevano quasi raggiunto il limite delle rispettive parabole. Ore 09.59.58. Su un baratro di oltre cento metri, volando nell'oscurità, i due s'incontrarono. La mano protesa del presidente colpì l'analizzatore d'impronte all'interno del Football... Il timer ripartì istantaneamente da zero. 00:00:01 diventò 90:00:00, e l'orologio ricominciò il conto alla rovescia. Schofield e il presidente, stavano tornando indietro oscillando nella direzione da cui provenivano. Il presidente tornò al piccolo ascensore, dove fu accolto dai sorrisi di Gant, Mother e Juliet. Dall'altra parte della tromba, Schofield riuscì raggiungere l'apertura del condotto d'aerazione. Atterrò dolcemente sul bordo del condotto, tirando un sospiro di sollievo, il Football di acciaio inossidabile ancora aperto nell'altra mano. Ce l'avevano fatta. Almeno per i prossimi novanta minuti. Ora lui e Book dovevano trovare il modo di arrivare dall'altra parte e raggiungere il presidente. Dopo aver riavvolto il Maghook, Schofield si voltò per tornare dove aveva lasciato Book II Tre uomini gli sbarrarono il passo. Indossavano jeans ed erano senza maglietta: avevano petto e braccia coperti di tatuaggi. Ma soprattutto brandivano fucili Ruger. «Alza le mani al cielo, amico», disse uno dei prigionieri. *** Caesar Russell correva nel basso tunnel di cemento dell'uscita di emergenza. I tre superstiti dell'unità Alpha correvano davanti a lui; Kurt Logan gli stava dietro. Avevano da poco lasciato Harper e gli altri nella sala di controllo, in balia dei prigionieri fuggiti dalle celle. Si dirigevano verso il punto dell'uscita di emergenza in cui si trovava la «porta alta». Dopo una curva, giunsero a una pesante porta d'acciaio. Russell digitò il codice di sicurezza e la porta si aprì. Si ritrovarono nel tunnel d'uscita della «porta alta».
A destra c'era la libertà, la «porta alta», oltre la quale si trovavano gli hangar esterni dell'Area 7. A sinistra, dietro una curva, c'era l'ascensore. Caesar si fermò di colpo. Aveva visto la punta di uno stivale da combattimento sbucare da dietro l'angolo che portava all'ascensore. Lo stivale di un soldato del 7° squadrone. Un soldato sdraiato nel tunnel. Caesar si avvicinò. Lo stivale apparteneva al corpo crivellato di pallottole di Python Willis, l'ufficiale in comando dell'unità Charlie, la stessa unità del 7° squadrone che aveva appena riportato Kevin nell'Area 7. La faccia di Caesar si fece scura. L'unità Charlie era stata eliminata. I corpi dei soldati erano a terra, davanti ai suoi occhi. Di Kevin nessuna traccia. Caesar notò un segno sulla parete accanto alla mano di Python Willis. Era un simbolo scarabocchiato col sangue, l'ultimo gesto del comandante dell'unità Charlie. Un'unica lettera maiuscola: «E». Caesar fissò la lettera, mordendosi le labbra. Logan gli stava a fianco. «Che significa tutto questo?» «Raggiungiamo la postazione di comando secondaria», disse Caesar con tono aspro. «E quando saremo lì, voglio che tu scopra che cos'è successo all'unità Echo.» Shane Schofield uscì dal condotto d'aerazione sotto il Marine One, fiancheggiato dai quattro prigionieri armati. Non teneva più il Football. Lo reggeva uno dei prigionieri come fosse un giocattolo prezioso. Mentre usciva da sotto il Marine One, Schofield udì delle urla e uno scroscio di applausi. Poi, all'improvviso, un colpo di fucile. Si levò un gran vociare di approvazione. Poi un altro colpo d'arma da fuoco, seguito di nuovo da grida e applausi. Schofield non era affatto tranquillo. Che diavolo stava succedendo? Appena si scostò dal Marine One, vide una trentina di prigionieri, le schiene rivolte verso di lui, raggruppati intorno alla piattaforma del montacarichi. Dopo che era stato catturato nel condotto del piano sottostante, qualcuno aveva azionato la massiccia piattaforma, che ora si trovava qualche metro sotto il livello dell'hangar principale, a formare una sorta di arena quadrata.
I prigionieri erano affollati ai bordi della piattaforma, intenti a guardare sotto di loro come gli spettatori di un combattimento tra galli, agitando i pugni, gridando e urlando insulti. Un individuo magro e piccolo stava gridando: «Corri, ometto, corri! Ha ha ha!» Era il gruppo di persone più terrificanti che Schofield avesse mai visto. Le loro facce erano coperte di cicatrici e tatuaggi. Ogni prigioniero aveva aggiunto qualche tocco personale alla propria uniforme; qualcuno aveva strappato le maniche per farne dei bandana, altri portavano la camicia aperta, altri erano a torso nudo. Dopo essere stato scortato al bordo dell'arena, Schofield guardò in basso. Tra i detriti e le lamiere dell'aereo, disseminati sull'intera piattaforma, c'erano due soldati nell'uniforme blu dell'Aeronautica militare; a giudicare dall'abbigliamento si trattava d'impiegati amministrativi, forse operatori radio. Correvano come animali in gabbia in preda al panico. Cinque robusti prigionieri erano sulla piattaforma, i fucili in mano, e davano spietatamente la caccia ai militari, muovendosi agili tra le rovine dell'AWACS. Schofield vide i cadaveri di due operatori radio, distesi in un lago di sangue su due lati opposti dell'arena. Lo scoppio di euforia che aveva udito poco prima era stato senz'altro causato dalla loro morte. Nello stesso istante, e con un orrore indescrivibile, Schofield si accorse che un nuovo gruppo di prigionieri veniva scortato nell'hangar. Tra i prigionieri, Schofield riconobbe Gant, Mother, Juliet e... il presidente degli Stati Uniti d'America. «Qualcuno mi dica che sto sognando...» sussurrò Schofield. *** Sotto, nel buio pesto dell'hangar al livello 1, Nicholas Tate III continuava a lanciare occhiate nervose alla tromba del montacarichi. Il presidente e le tre donne della sua scorta non erano risaliti col piccolo ascensore. Tate era molto preoccupato. «Crede che i prigionieri li abbiano catturati?» chiese a Hot Rod Hagerty. Sentivano le urla, le grida e i colpi di fucile che provenivano dall'hangar principale. Era un po' come trovarsi all'esterno di uno stadio mentre si gioca una partita di calcio. «Spero proprio di no!» sussurrò Hagerty. Tate continuava a guardare in alto. Mille pensieri gli balenavano in men-
te, ma era preoccupato più che altro per la propria incolumità. Rimase in silenzio per un po'. «Che cosa pensa che dovremmo fare?» chiese infine Tate, senza girarsi verso il suo interlocutore. Non ci fu risposta. Tate corrugò la fronte, voltandosi. «Ho detto...» S'immobilizzò. Hagerty non c'era più. Davanti ai suoi occhi l'hangar del livello 1 era sommerso nell'oscurità. L'unica presenza che riusciva a intuire erano le nere sagome dei giganteschi aerei. Tate assunse un'espressione terrorizzata. Hagerty era sparito! Si era dissolto nel nulla, silenziosamente, in meno di un minuto. Come se in un attimo la sua esistenza fosse stata cancellata con un colpo di spugna. Un sentimento di paura indescrivibile s'impadronì di Nicholas Tate. Ora era solo, là sotto, in un complesso sigillato dal mondo esterno, che per di più pullulava di soldati dell'Aeronautica traditori e dei peggiori criminali che l'umanità avesse mai conosciuto. Mentre si guardava intorno, qualcosa attirò il suo sguardo. C'era un leggero riflesso di luce sul pavimento dell'hangar, a pochi passi da lui, non lontano da dove aveva visto Hagerty in piedi per l'ultima volta. Andò verso l'oggetto, s'inchinò e lo raccolse. Era un anello. L'anello d'oro di un ufficiale. L'anello dell'accademia frequentata da Hagerty, quella di Annapolis. Gli ultimi due operatori radio non sopravvissero molto a lungo. Quando nell'arena i fucili ebbero sparato gli ultimi colpi, Schofield e Gant furono presi a spintoni e finirono con gli altri della squadra del presidente. «Ciao Shane», disse Gant. «Ciao», rispose Schofield Dopo che Schofield e il presidente avevano compiuto il loro numero da trapezisti, nemmeno a Gant e ai suoi era andata molto meglio. Non appena il presidente era atterrato sul piccolo ascensore, questo aveva cominciato a salire fino a raggiungere l'hangar principale. Non c'era stato modo di fermarlo. Una volta raggiunto l'hangar, si erano ritrovati nel peggiore di tutti gli
incubi. I prigionieri, ex cavie per i test del vaccino di Gunther Botha, avevano assunto il controllo del livello terra. Anche se non c'era stato modo di nascondere le armi durante la veloce risalita verso la piattaforma, Gant era almeno riuscita a disfarsi del Maghook, che ora pendeva sul lato inferiore del piccolo ascensore. Sfortuna volle che Gant, sbucando dall'apertura all'angolo della piattaforma, tenesse ancora in mano la scatola nera dell'AWACS. Non era il caso di far capire ai prigionieri l'importanza di quell'oggetto; quindi Gant l'aveva furtivamente posato sul pavimento del piccolo ascensore prima che questo terminasse la sua salita. Poi, passando sulla piattaforma grande, Gant aveva fatto finta d'inciampare, dando così un calcio alla scatola nera e facendola scivolare sul pavimento dell'hangar, dove si era fermata a pochi passi dalla piattaforma del montacarichi. Per il momento lo spettacolo era finito, e i prigionieri, raggruppati intorno alla piattaforma, rivolsero la loro attenzione al presidente e alla sua scorta. Un prigioniero si fece avanti tenendo il suo fucile con studiata noncuranza. Era un individuo dall'aspetto insolito. Era ben oltre la cinquantina e, a giudicare dalla disinvoltura con cui camminava, si era guadagnato il rispetto del gruppo. Sebbene in cima al cranio fosse completamente pelato, si era fatto crescere i pochi capelli brizzolati oltre le spalle. Il naso lungo e ricurvo, la pelle grigiastra e le guance magrissime e incavate gli conferivano un aspetto quasi gotico. «'Venga nel mio cortile', disse il ragno alla mosca», recitò l'uomo fermandosi a un passo dal presidente. Aveva una voce soffice e vellutata che però celava la minacciosità delle sue parole. «Buongiorno, signor presidente», aggiunse. «Gentile da parte sua venirci a trovare. Si ricorda di me?» Il presidente non rispose. «Certo che si ricorda», disse il prigioniero. «Sono un 18-84. In un modo o nell'altro ha incontrato tutti e nove gli uomini che durante la sua presidenza sono stati condannati in base all'articolo 18, parte prima, comma 84 del codice penale degli Stati Uniti. Qualora non se lo ricordasse, è la parte del codice penale che punisce i cittadini americani che tentano di assassinare il loro presidente. Grimshaw, Seth Grimshaw», continuò l'uomo, porgendogli la mano. «Ci siamo visti a febbraio, due settimane dopo la sua e-
lezione a presidente, mentre stava uscendo dall'albergo Buonaventure di Los Angeles passando per le cucine. Sono io che ho tentato di ficcarle una pallottola nel cranio.» Il presidente non rispose. «Complimenti per come è riuscito a tenere nascosta la faccenda», disse Grimshaw. «Sono rimasto molto impressionato. Anche infastidito, in verità, perché la gente come me vive di pubblicità. Ma la capisco: non è saggio gettare nel panico la nazione, vero? Meglio che le masse ignoranti non sappiano nulla degli attentati alla sua persona. Com'è già che si dice? Beata ignoranza.» Il presidente non rispose. Grimshaw squadrò il presidente dalla testa ai piedi, soffermandosi con sguardo divertito sulla tuta nera da combattimento. Anche Juliet e Schofield indossavano ancora le tute da combattimento del 7° squadrone, mentre Gant e Mother erano rimaste tutto il tempo con le loro alte uniformi dei marine. Grimshaw fece un sorriso sottile e soddisfatto. Andò dal prigioniero che teneva il Football e gli tolse la ventiquattrore argentata dalle mani. L'apri, e il suo sguardo passò dal display alla faccia del presidente. «Tutto mi fa pensare che i miei soci e io siamo usciti dalla prigione in tempo per imbatterci in qualcosa di estremamente interessante. Mi pare di capire che si tratti di una variante del gioco del gatto e il topo, a giudicare dai suoi vestiti e da come poco tempo fa ha attraversato furtivamente il livello di detenzione.» Fece schioccare la lingua, scuotendo la testa. «Devo proprio dire, signor presidente, che non aveva un'aria molto presidenziale. Per niente.» Le palpebre di Grimshaw si socchiusero. «Ma chi sono io per interrompere un tale spettacolo? Il presidente e le sue fedeli guardie del corpo contro la traditrice lobby militare e industriale.» Grimshaw si voltò. «Goliath, porta qui gli altri.» Subito un prigioniero dalla corporatura imponente uscì dal gruppo alle spalle di Grimshaw e si diresse verso la costruzione interna all'hangar. Era un gigante con bicipiti che sembravano tronchi d'albero e una testa squadrata che faceva venire subito in mente il mostro di Frankenstein. Nel centro della sua fronte c'era una larga e piatta protuberanza. Schofield sapeva che cosa significava: gli era stata inserita una piastra d'acciaio nella scatola cranica. In uno dei suoi massicci pugni, Goliath stringeva un fucile d'assalto P-90, nell'altro, il Maghook di Schofield.
Ritornò poco dopo, seguito dai sette uomini dell'Aeronautica che erano stati catturati poco prima coi quattro sfortunati operatori radio: il colonnello Jerome T. Harper, Boa McConnell e i suoi quattro uomini dell'unità Bravo, due dei quali gravemente feriti, e infine l'individuo solitario che, sempre nell'ombra, aveva osservato gli eventi dalla finestra. Schofield lo riconobbe subito. Anche il presidente. «Webster...!» esclamò con voce incredula. Il maresciallo Carl Webster, l'uomo incaricato di occuparsi del Football, era tra gli uomini dell'Aeronautica. Aveva un'espressione infelice. Sotto le folte sopracciglia, i suoi occhi si muovevano a scatti come quelli di qualcuno che sta cercando disperatamente una via di scampo. «Ma guarda il fottutissimo bastardo!» disse Mother. «Sei stato tu a dare il Football a Russell... Gli hai venduto il presidente!» Webster non rispose. Schofield lo osservò. Si era chiesto se quella mattina Webster fosse stato ucciso dagli uomini del 7° squadrone. Russell aveva avuto bisogno del Football, più di qualsiasi altra cosa, per lanciare la sua sfida al presidente, e Schofield si era posto più di una volta la domanda su come avesse fatto a togliere la ventiquattrore a Webster. Ormai era ovvio che non c'era stata nessuna violenza. Il sangue sulle manette della valigetta era stato chiaramente messo lì solo per ingannare Schofield. A quanto pareva, Webster era stato comprato ben prima dell'arrivo del presidente all'Area 7. «Calma, calma, ragazzi miei», disse Seth Grimshaw, facendo dondolare il Football. «Risparmiate le vostre forze. Tra pochissimo potrete regolare tutti i vostri conti in sospeso.» Si rivolse al colonnello dell'Aeronautica Harper: «Ma prima ho una domanda che mi preme: dove si trova l'uscita della base?» «Non c'è uscita.» Harper tentò di bluffare. «La base è sigillata. Nessuno può uscirne.» Grimshaw alzò la canna del suo fucile, puntandola dritta in faccia ad Harper e giocando sul grilletto con l'indice. «Forse non ho formulato la domanda abbastanza chiaramente?» Senza batter ciglio, Grimshaw spostò la mira del fucile e sparò ai due soldati feriti dell'unità Bravo, in piedi accanto ad Harper. Il rosone di pallettoni uccise gli uomini ancor prima che toccassero terra. Grimshaw si rivolse di nuovo ad Harper. Una delle sue sopracciglia s'inarcò verso l'alto. «Allora?»
Il volto di Harper era sbiancato. Indicò l'ascensore con un rapido cenno del capo. «Nella tromba dell'ascensore del personale c'è una porta, la 'porta alta'. Conduce all'esterno della base. Codice numerico 5564771.» «Grazie mille, colonnello, è molto gentile», disse Grimshaw. «Bene, bene, ora vogliamo che voi bambini finiate quello che avete iniziato. Di certo vi renderete conto che nessuno di voi uscirà vivo da questo posto. Ma, come dimostrazione della mia benevolenza, vi concederò un ultimo favore, sebbene ammetto che sarà più per il nostro divertimento personale che non per il vostro. Vi darò un'ultima possibilità di ammazzarvi l'un l'altro. Cinque contro cinque. Giù, nell'arena della morte. Così il vincitore morirà sapendo almeno quale delle fazioni ha vinto questa guerra civile improvvisata.» Si rivolse a Goliath. «Fa' scendere quelli dell'Aeronautica da questa parte. Il gruppo del presidente partirà dall'altra parte.» Schofield e gli altri furono scortati fino all'estremità est della piattaforma. I cinque uomini dell'Aeronautica, Jerome Harper, Boa, i due superstiti dell'unità Bravo e il traditore, Webster, aspettavano in piedi sul lato opposto. I due gruppi erano separati da circa sessanta metri. «Che la battaglia abbia inizio!» disse Grimshaw con un largo sorriso. «All'ultimo sangue.» *** Schofield saltò giù nell'arena e si ritrovò davanti a un ammasso contorto di pezzi di metallo: quello che rimaneva dell'AWACS distrutto. I resti delle ali ancora bagnate del Boeing 747 erano sparsi sulla piattaforma. Le gigantesche turbine torreggiavano a testa in giù nel groviglio di metallo. Al centro dell'arena si trovava la parte più grande dell'aereo distrutto: la fusoliera di forma cilindrica che giaceva di traverso, come un enorme uccello morto. E il buio totale dell'hangar non migliorava le cose. L'unica luce che scendeva sulla macabra scena era il bagliore delle torce dei prigionieri, che creava lunghe ombre in una scura foresta di lamiere contorte tra cui non si riusciva a vedere più in là di pochi metri. Che diavolo abbiamo fatto per finire in questa situazione? pensò Schofield. Lui e gli altri si trovavano sul lato est dell'arena, con le spalle alla parete
di duro cemento della tromba del montacarichi. Non sapevano che cosa fare. Di colpo, un proiettile di fucile colpì il muro, appena una spanna sopra la testa di Schofield. Seth Grimshaw era in piedi sul bordo. «Inizierete subito ad attaccarvi! Altrimenti vi elimineremo noi da quassù!» «Oh, Cristo!» disse Juliet Janson. Schofield affrontò il suo gruppo. «Okay, non c'è tempo, dunque ascoltatemi bene. Non solo dobbiamo sopravvivere a questa merda, ma dopo dobbiamo pure uscire vivi dalla piattaforma.» «L'ascensore più piccolo!» Gant indicò con un cenno del capo l'angolo nord-est dell'arena, dove la piccola piattaforma, a livello con quella enorme del montacarichi, era occupata da cinque prigionieri armati fino ai denti. «Ci serve un diversivo», disse Schofield. «Qualcosa che...» Un pezzo tagliente di metallo per poco non gli tagliò la testa. Schofield lo vide arrivare all'ultimo momento e si abbassò con un riflesso fulmineo. Si voltò di scatto, cercando di capire da dove fosse arrivato il proiettile, e vide uscire dall'oscurità due soldati dell'unità Bravo: ciascuno brandiva un pezzo di metallo lungo e tagliente, una specie di spada improvvisata. Ormai erano addosso a Schofield. «Allontanatevi!» gridò. Il primo degli uomini lo raggiunse, tentando di colpirlo violentemente con un fendente. Schofield fece un balzo in avanti e bloccò il colpo afferrando il polso dell'uomo. A un metro da lui, Gant aveva ingaggiato un combattimento corpo a corpo con l'altro attaccante. «Andatevene!» gridò Schofield a Mother, Juliet e al presidente. «Via di qui!» In un baleno Juliet e il presidente sparirono nell'oscurità. Solo Mother era rimasta indietro. Schofield la vide con la coda dell'occhio. «Va'! Difendi il presidente!» I prigionieri gridavano e urlavano di gioia ed eccitazione mentre sul lato est dell'arena Schofield lottava con un soldato del 7° squadrone, mentre dietro di lui Gant era alle prese con un altro. Il presidente e Juliet, seguiti a breve distanza da Mother, attraversarono il caos di metallo nel buio quasi totale. Si dirigevano verso il piccolo ascensore del personale nell'angolo nord-est dell'arena.
Dall'alto i prigionieri notarono qualcosa che sfuggiva a Juliet, al presidente e a Mother. Tre figure si avvicinavano da sinistra, correndo veloci lungo il muro nord della piattaforma: Jerome Harper, Carl Webster e, alla guida del piccolo gruppo d'assalto, il capitano Boa McConnell. Schofield e Gant combattevano schiena contro schiena contro i propri avversari. Gant aveva raccolto da terra un pezzo di tubo metallico, col quale si difendeva dai fendenti del soldato dell'unità Bravo. Il soldato stringeva il pezzo di metallo lungo e tagliente con entrambe le mani, incalzandola con colpi che Gant faticava a parare. «Come te la cavi?» chiese Schofield tra una schivata e l'altra. «Una... vera... meraviglia!» rispose Gant, digrignando i denti per lo sforzo. «Dobbiamo raggiungere il presidente.» «Lo so», disse Gant. «Ma prima... ti... devo... salvare... il culo!» Lanciò un'occhiata rapidissima sopra la spalla e sorrise a Schofield, ma nello stesso istante vide che l'uomo dell'Aeronautica stava menando un altro violento colpo. Gridò: «Scarecrow! Giù!» Schofield abbassò quasi d'istinto la testa. La spada del suo avversario colpì a vuoto, e l'uomo perse l'equilibrio per una frazione di secondo, avvicinandosi a Gant. Gant non aspettava di meglio. Dimenticandosi per un istante del proprio avversario, la donna fece roteare il suo pezzo di metallo, compiendo un cerchio perfetto. Il rumore del pesante metallo sulla testa del soldato fu orribile. L'uomo cadde a terra mentre Gant, piroettando con eleganza, si voltava in tempo per bloccare un fendente del suo avversario. «Vai, Scarecrow!» gridò Gant. «Raggiungi il presidente!» Lanciando un'occhiata velocissima alla donna, Schofield spari nel buio tra i pezzi dell'aereo distrutto. Una ventina di metri più a nord, Juliet Janson e il presidente correvano veloci, alla ricerca di una via d'uscita. Si dirigevano verso l'angolo, nordest, non sapendo che tre uomini venivano verso di loro da sinistra. La prima ad essere aggredita fu Juliet. Due ombre uscirono dall'oscurità, spuntando all'improvviso da dietro la coda dell'aereo. Erano Boa McConnell e il maresciallo Carl Webster. Si
buttarono contro Juliet, mandandola lunga distesa per terra. Il presidente si fermò all'istante, voltandosi in tempo per vedere Juliet cadere. A poca distanza stava il colonnello Jerome Harper, in piedi tra le rovine dell'AWACS. Osservava la scena. Il presidente corse indietro per aiutare Juliet, quando, come un enorme uccello predatore che si lancia sulla preda, apparve Mother, testa in avanti. Caricò Boa McConnel con tale violenza che per poco non gli spezzò l'osso del collo. Il comandante del 7° squadrone fu scaraventato lontano e rimase a terra, immobile. Carl Webster si ritrovò completamente spiazzato. Quando si voltò per vedere che cosa fosse successo, Mother gli diede un violentissimo pugno in piena faccia. Sebbene fosse un uomo massiccio, Webster perse l'equilibrio, barcollò indietro, inciampò sul corpo di Juliet e finì sulla schiena, in mezzo ai detriti. Ma si alzò in un attimo, raccogliendo un lungo e affilato pezzo di metallo, e tornò all'attacco di Mother. Mother ringhiò. Webster partì alla carica. Lo scontro che seguì fu di una brutalità inaudita. Non potevano essere meglio appaiati, entrambi esperti nel corpo a corpo, alti più di un metro e ottanta e sopra i cento chili. Webster ruggì tentando di colpire Mother con la sua spada di fortuna. La donna si abbassò e raccolse il primo pezzo di metallo che riuscì a trovare: un flap dell'ala dell'AWACS. Pur con quello scudo improvvisato, però, perdeva terreno sotto la forza dei colpi del suo avversario. Mother arretrò quasi danzando, evitando d'inciampare sui detriti. Riuscì a raccogliere un pezzo di metallo dalla forma simile a quella di una spada e tentò di contraccambiare i fendenti di Webster, che però non aveva ancora perso il suo slancio. Con una finta, l'uomo riuscì a colpirla. La spada s'infilò profondamente nella spalla di Mother. Il braccio della donna si coprì di sangue in un attimo. Con un ruggito di dolore, Mother lasciò cadere lo «scudo» e si oppose ai colpi di Webster con la sola «spada». Maledizione, le sarebbe bastato che si scoprisse una sola volta. «Perché hai tradito il presidente?» gridò arretrando. «Viene un momento nella vita in cui un uomo deve prendere una decisione!» rispose il maresciallo dell'Esercito ansimando tra un colpo e l'altro. «Deve scegliere da che parte stare. Io ho combattuto per questo Paese. Ho
amici che ci hanno lasciato la pelle, solo per rimanere fottuti più tardi, una volta morti, perdendo l'onore per colpa di politici come lui! Così, quando mi è stata offerta l'opportunità, ho deciso che non avrei sprecato altro tempo a stare a guardare mentre un altro di questi filibustieri teste di cazzo rovina il nostro Paese.» Webster vibrò un altro fendente, di lato. Mother saltò indietro, evitando il colpo, e finì coi piedi sulla punta dell'ala dell'AWACS. Ora era più in alto di Webster. Ma, sotto il suo peso, l'ala si mosse e la donna per poco non perse l'equilibrio: Webster ne approfittò. Colpì di lato, e stavolta mirò dritto alle gambe di Mother. Era un colpo troppo veloce per Mother, ancora in equilibrio precario. Il pezzo di metallo colpì la gamba di Mother, fra il ginocchio e il piede... Tutto il braccio di Webster vibrò per il contraccolpo. L'uomo rimase esterrefatto, bianco in faccia. «Che..?» Mother sorrise. Webster aveva colpito la protesi... la gamba in lega di titanio. Con l'avversario in preda alla confusione, Mother sfruttò la sua unica occasione. Vibrò un colpo preciso e rapidissimo. Una fontana di sangue schizzò dalla carotide recisa di netto. Webster lasciò cadere la spada e portò le mani alla gola, guardando incredulo il sangue che scorreva a fiotti. Sebbene fosse ancora in piedi, Webster era già un uomo morto. Cadde in avanti con un'espressione piena di orrore, atterrando faccia in giù in un lago di sangue. *** Il gruppo di prigionieri urlava divertito. Nel frattempo Seth Grimshaw e i suoi compagni si erano lentamente spostati, girando intorno all'arena, visto che i combattimenti più spettacolari si stavano svolgendo sul lato nord. Qualcuno di loro faceva il tifo per il presidente, gridando a squarciagola come fossero tifosi americani alle Olimpiadi: «U-S-A! U-S-A!» Sul lato est dell'arena Gant stava ancora combattendo con tenacia. Il soldato dell'unità Bravo brandiva il suo lungo e tagliente frammento di acciaio, mentre Gant si difendeva col suo tubo, parando i colpi dell'avver-
sario. Combattevano tra i resti dell'aereo distrutto, scambiandosi violenti fendenti, ma il soldato del 7° squadrone guadagnava inesorabilmente terreno. Ormai era convinto di trovarsi in vantaggio, e un sorriso si allargava sulla sua faccia mentre continuava a menare colpi sempre più violenti. Gant intuì che l'avversario avrebbe ben presto esaurito le forze. E così continuò ad arretrare, per fargli credere di essere costretta a stare sulla difensiva. Quando il suo avversario, affaticato, menò un colpo particolarmente goffo, Gant, veloce come un mimine, si abbassò per schivarlo. Mentre la spada le passava sopra la testa, lei scattò in avanti e colpì di punta il pomo d'Adamo del soldato, conficcandoglielo nella trachea. Gli occhi dell'uomo si allargarono increduli. Rimase in piedi ancora qualche attimo, annaspando disperatamente. Poi, dopo un ultimo sguardo intontito a Gant, si accasciò al suolo. Il gruppo di prigionieri rimase stranamente silenzioso. Erano stupiti per la rapidità fulminea del colpo mortale di Gant. Solo dopo un po' urlarono in segno di approvazione, coprendo Gant di grida e fischi e ballando coi pugni alzati. «Niente male, baby!» «Questa sì che è una donna!» Sul lato nord dell'arena, il presidente si era lasciato cadere in ginocchio accanto a Juliet Janson. L'aiutò a rialzarsi, ma, non appena furono in piedi, un altro imprevisto cambiò di colpo la situazione. A pochi metri da loro, accanto a una delle turbine dell'AWACS, era apparso il colonnello Jerome T. Harper. Alla sua sinistra, ancora disteso sulla piattaforma, Boa McConnell si stava lentamente riprendendo dopo la gran botta ricevuta da Mother. Dall'alto i prigionieri continuavano a gridare. «Forza, signor presidente! Vogliamo vedere un po' di sangue sulle tue mani! Ammazza quel bastardo!» «Fanculo, Harper!» «U-S-A! U-S-A!» Harper sapeva benissimo come stavano le cose. Ormai tutti i suoi uomini erano morti o fuori combattimento, e i prigionieri avevano il controllo della base. Eppure sembrava stranamente sicuro e tranquillo, come se avesse ancora un asso nella manica.
In effetti, Harper estrasse qualcosa dalla tasca. A giudicare dall'aspetto, sì trattava di una granata high-tech, un piccolo contenitore cilindrico a pressione con un beccuccio in cima e una finestrella trasparente su un lato. Il presidente era abbastanza vicino ad Harper per riuscire a vedere l'oggetto distintamente, e ne vide il contenuto. Era un liquido giallo senape. Oh Gesù! pensò. Era una granata biologica. Una granata biologica cinese. Una granata piena di xenovirus. Un sorriso malvagio apparve sul viso di Harper. «Speravo di non essere costretto a usarlo», disse. «Per fortuna, come tutti gli altri uomini dell'Aeronautica di questa base, sono stato immunizzato contro lo xenovirus. Purtroppo questo non vale per lei, presidente, e nemmeno per i suoi bravi marine.» E poi, senza batter ciglio, Harper strappò l'innesco della granata. *** Quando Harper lo vide era ormai troppo tardi. Mentre innescava la granata, notò soltanto un confuso movimento tra i detriti alla sua sinistra. Un attimo dopo, Shane Schofield era accanto a lui, uscito come un fulmine dall'oscurità. Roteava un lungo e pesante tubo di metallo come fosse una mazza da baseball. Il tubo colpì il polso di Harper, facendogli schizzare dalla mano la granata biologica. Il piccolo cilindro partì dritto verso l'alto, veloce come un razzo. La granata stava volteggiando in aria. Volava come al rallentatore, roteando sopra il lato nord dell'arena. Schofield la guardava volare, gli occhi sgranati. I prigionieri la guardavano a bocca aperta. Il presidente la guardava col terrore nel cuore. Harper invece aveva un sorriso diabolico sulle labbra. Uno...
Due... Tre... In quel momento, al culmine della parabola, una decina di metri sopra il lato nord della piattaforma, la granata piena di xenovirus esplose. Alla luce delle torce dei prigionieri, l'esplosione fu un bello spettacolo. Sembrava lo scoppio di un fuoco d'artificio, solo che la granata, anziché espandersi in aria disegnando mille tracce scintillanti, liberò una serie di getti di piccole particelle gialle. Si espandevano verso l'esterno come un gigantesco ombrello trasparente. Ogni particella rifletteva il riverbero arancione delle torce. E poi, con movimento lentissimo e incantevole, la nube si riversò sulla piattaforma. Le particelle dello xenovirus cadevano come leggeri fiocchi di neve. Dato che l'esplosione della granata era avvenuta al di sopra del pavimento dell'hangar, la nebbiolina gialla colpì per primi i prigionieri ammassati intorno alla piattaforma. La loro reazione fu improvvisa quanto violenta. Quasi tutti i prigionieri toccati dalla pioggia si piegarono in avanti, come colpiti allo stomaco, tossendo e vomitando. Alcuni caddero in ginocchio, dimenandosi in preda a violente convulsioni. Nemmeno un minuto dopo, i prigionieri si contorcevano a terra agonizzanti, urlando mentre le loro budella si scioglievano. Tutti tranne due. Uno era Seth Grimshaw. L'altro era Goliath. I due rimasero in piedi sul bordo della piattaforma, assolutamente incuranti della nebbia gialla e dei compagni morenti. Il pomeriggio del giorno precedente, Grimshaw e Goliath erano stati i primi esseri umani sui quali era stato testato il vaccino. Nel loro sangue scorreva il «vaccino Kevin». Erano immuni. La nebbiolina gialla continuava a scendere nel buio. Era arrivata a cinque metri dal livello della piattaforma e a un metro e mezzo dal pavimento dell'hangar: niente poteva fermarne la lenta discesa. Gant, nella parte orientale dell'arena, aveva visto tutto. Aveva visto la granata esplodere e lo spettacolo del virus che si librava nell'aria, sopra l'arena. Non bisognava essere uno scienziato per capire che cosa stesse acca-
dendo. Avevano usato un agente biologico. Lo xenovirus. «Via!» Gant girò i tacchi. Si trovava accanto al muro est dell'arena, a più di tre metri dal livello dell'hangar. Non perse un secondo. Indossava ancora l'alta uniforme, e dunque non aveva una maschera antigas: quindi non aveva certo intenzione di rimanere nell'arena. Le particelle erano a quattro metri da lei. Continuavano a scendere... Gant spinse una delle gomme divelte dell'AWACS contro la parete di cemento, ci saltò sopra e si issò fuori dall'arena, arrampicandosi sul pavimento dell'hangar. Rotolò via dal bordo della tromba del montacarichi, facendo molta attenzione a stare il più in basso possibile, al di sotto dello strato di particelle dello xenovirus. A meno di venti metri da lei c'era l'edificio che al piano superiore ospitava la stanza di controllo. La stanza di controllo, pensò. Il centro di comando di Caesar Russell. Con la testa abbassata, Gant corse verso la costruzione e due piani. La sottile pioggia gialla continuava a scendere. Ormai aveva raggiunto il livello dell'hangar ed era entrato all'interno dell'arena. Schofield si guardò intorno, angosciato. Dopo l'esplosione della granata e la successiva morte dei prigionieri, che, cadendo a terra, avevano perso le torce, sull'arena era calato un buio quasi totale. Schofield aveva perso le tracce di Jerome Harper. Subito dopo l'esplosione, Harper era sparito tra i detriti dell'aereo. A Schofield non piaceva affatto saperlo in circolazione. Ma al momento aveva ben altre preoccupazioni. La nebbiolina era a meno di tre metri dal pavimento dell'arena, e continuava a scendere inesorabile. Schofield guardò il presidente e Juliet. Indossavano ancora le uniformi del 7° squadrone, che avevano in dotazione maschere antigas ERG-6. Non se le erano ancora infilate. «Capitano! La sua maschera antigas! La metta!» gridò il presidente dan-
do l'esempio. «Se inala direttamente il virus, morirà in pochi secondi! Con la maschera abbiamo più tempo!» Schofield s'infilò la maschera. Juliet invece se la tolse e la buttò a Mother, di ritorno dal suo scontro con Webster. A differenza dei tre, Mother indossava ancora l'alta uniforme e non aveva nessuna maschera in dotazione. «E lei?» le gridò. Juliet puntò l'indice contro il proprio viso. «Sangue asiatico, ricorda? Non mi fa nulla. Ma ucciderà lei, se non se la mette subito.» «Grazie!» disse Mother mettendosi la maschera sulla faccia. «Veloci!» disse Schofield. «Per di qua!» Corse in mezzo ai rottami dell'AWACS, puntando all'angolo nord-est, dove si trovava la piattaforma dell'ascensore di servizio. Gli altri lo seguivano di corsa. Alcuni secondi più tardi, Schofield raggiunse il piccolo ascensore ancorato nell'angolo della piattaforma. In un angolo giaceva una torcia accesa. Doveva essere sfuggita di mano a un prigioniero. Schofield la raccolse e si voltò in tempo per vedersi raggiungere dal presidente e da Mother. Qualcuno mancava all'appello... Juliet Janson. Juliet era distesa sulla piattaforma accanto alla massiccia sagoma della fusoliera dell'AWACS. Proprio mentre stava per seguire Schofield e gli altri, una mano era uscita dal nulla e le aveva afferrato la caviglia, facendola cadere. Era Boa McConnell, che, rimasto intontito a causa del colpo ricevuto da Mother, era però abbastanza lucido da riconoscere uno dei suoi nemici. Juliet tentò disperatamente di liberarsi dalla presa, mentre Boa estraeva il lungo coltello K-Bar dalla fondina nello stivale e lo sollevava pronto a colpire la gamba della donna. Improvvisamente la testa dell'uomo esplose come un palloncino pieno d'acqua. La violenza dell'impatto lo sbatté contro la piattaforma, mentre il coltello volava via. Il colpo era arrivato dall'alto. Juliet si allontanò carponi dal cadavere di McConnell, guardandosi intorno nel buio dell'arena per capire chi aveva sparato. Qualcuno, sul lato sud dell'arena, stava agitando una torcia accesa, da
destra a sinistra: «Janson! Agente Janson!» Finalmente Juliet riuscì a vedere di chi si trattava. Un uomo. Indossava l'uniforme del 7° squadrone, e stringeva in mano una pistola placcata di nickel. Era Book II «Janson! Dove sei?» Schofield parlò nel microfono, in piedi sull'ascensore per il personale. La voce di Book II era forte e chiara: «Scarecrow, sono Book. Janson è con me. Voi allontanatevi da qui!» «Grazie Book. Fox, sei viva?» Nessuna risposta. Schofield sentì una stretta al cuore. E poi, un attimo dopo: «Ci sono, Scarecrow». Riprese fiato. «Dove sei?» «Dentro la costruzione sul lato est dell'hangar. Tu porta via il presidente. Non preoccuparti per me.» «Okay», disse Schofield. «Ascolta, devo andare all'Area 8. Quei bastardi hanno portato Kevin lì. Il presidente viene con me. L'appuntamento sarà quando... oh, cazzo!» «Che c'è?» «Il Football è ancora nell'hangar, da qualche parte. L'ultima volta che l'ho visto era nelle mani di Grimshaw.» «Me ne occupo io», disse Gant. «Tu intanto porta fuori il presidente. Ci vediamo all'Area 8 appena possibile.» «Grazie», disse Schofield. «Ehm... Fox...» «Sì?» «Stai attenta, mi raccomando.» Dall'altra parte ci fu un attimo di silenzio. Poi: «Anche tu, Scarecrow». E con questo, Schofield premette un pulsante e l'ascensore cominciò a scendere con lui, Mother e il presidente. Durante la discesa, Mother toccò il braccio di Schofield, parlando attraverso la maschera antigas. «Area 8?» Schofield ricambiò lo sguardo. «Esatto.» Un'immagine continuava a tornargli alla mente: gli uomini del 7° squadrone, giù al livello 6, che portavano Kevin nel tunnel X-rail, diretti all'A-
rea 8. Kevin... Quel povero bambino era al centro di tutta la vicenda. Schofield guardò Mother. «Voglio scoprire che cosa c'è sotto a tutta questa storia. Ma per riuscirci mi servono due cose.» «Quali?» Indicò il presidente: «Innanzitutto, lui». «E poi?» «Kevin», disse Schofield con fermezza. «Per questo dobbiamo andare all'Area 8. E in fretta.» *** Abbagliati dalla sole del deserto, Caesar Russell, Kurt Logan e i tre superstiti dell'unità Alpha attraversarono di corsa la pista di atterraggio dell'Area 7, diretti verso la torre di controllo, alta quattro piani, che si trovava a un centinaio di metri dal complesso principale dell'Area 7. Dopo essere sbucati all'interno di un piccolo hangar secondario, si erano fatti strada verso la torre che aveva le stesse funzioni della sala di controllo all'interno dell'hangar principale. Entrarono nella torre di controllo, una replica della stanza all'interno dell'hangar principale, e cominciarono ad accendere i computer e i macchinari. Un gruppo di monitor prese a ronzare, mentre sulle console si accendeva una quantità di luci e led. «Individuate l'esatta posizione degli uomini dell'unità Echo!» ordinò Caesar. Non ci volle molto tempo per trovarli. Ogni membro del 7° squadrone aveva una piccola trasmittente impiantata sotto la pelle del polso. «Sono sui binari dell'X-rail. Stanno arrivando in questo momento all'Area 8.» «Prendiamo i Penetrator», ordinò Caesar. «Dobbiamo raggiungerli subito.» Nel livello 1 della base, Nicholas Tate III era in preda a uno stato di puro terrore. Dopo la misteriosa e inaspettata sparizione di Hagerty, non sapeva più che cosa fare. Con una piccola torcia elettrica in mano, si avvicinò alla parte posteriore
dell'hangar, in cerca di Hot Rod. A una ventina di metri dalla rampa d'accesso, Tate si fermò di colpo. Qualcuno stava uscendo dalla rampa ed entrando nell'hangar. Era una scena del tutto surreale, e la mente offuscata di Tate non riuscì a trovarvi nulla di logico. Quella che stava uscendo dalla rampa era... una famiglia di orsi: un enorme maschio, una femmina più piccola e tre cuccioli, che cominciarono subito a scorrazzare per l'hangar, camminando a quattro zampe e annusando l'aria intrisa di odori. Tate per poco non svenne per la paura. Si voltò e corse verso la tromba del montacarichi. Il piccolo ascensore che trasportava Schofield, Mother e il presidente scendeva nella tromba del montacarichi in un'oscurità quasi totale. L'unica luce era il bagliore arancione della torcia di Schofield. Mentre scendevano, Schofield estrasse dalla tasca della tuta due fiale con l'antidoto allo xenovirus. Parlando attraverso la maschera antigas, si rivolse al presidente: «Quanto tempo ci rimane prima di morire?» «Dopo una mezz'ora cominciano i primi sintomi», spiegò il presidente. «Nel nostro caso il virus è entrato nel corpo attraverso la pelle, e l'infezione dermatologica è molto più lenta di quella per inalazione. Con quell'antidoto riusciremo comunque a neutralizzare il virus.» Schofield diede una fiala a Mother, una al presidente e ne tenne una terza per sé. «Per prima cosa dobbiamo trovare delle siringhe. Solo dopo partiremo per l'Area 8.» Il piccolo ascensore era arrivato al livello 1. S'imbatterono subito in Tate, che corse loro incontro uscendo dal buio che avvolgeva l'hangar. Senza fermarsi, Tate saltò sulla piattaforma dell'ascensore con gli occhi sgranati per la paura. «Non... non penso sia il caso di andare di là!» disse. «Muoviamoci!» «Che cosa c'è di là?» chiese Schofield. «Orsi!» disse Tate, quasi gridando. Schofield lanciò un'occhiata al presidente. Tate era palesemente fuori di senno. «Dov'è Ramrod?» chiese Mother. «Sparito», rispose Tate. «Così, di colpo! Un attimo prima era dietro di me, e un secondo dopo non c'era più. Ho trovato solo questo.» Aveva tirato fuori dalla tasca l'anello di Hagerty.
Schofield non capì. Al presidente invece riuscì una rapida associazione d'idee. «Gesù!» esclamò. «Mi sa che Ramrod è spacciato sul serio.» «Spacciato...?» Mother non riusciva a seguire il ragionamento. «Qui nella base c'è un assassino noto per l'abitudine di lasciare un gioiello delle sue vittime nel luogo in cui le rapisce», spiegò il presidente. «Si tratta di Lucifer Leary, un serial killer.» «Il 'Chirurgo di Phoenix'...?» sussurrò Schofield. Quel nome gli aveva riportato alla mente gli orribili fatti di cui avevano parlato tutti i telegiornali del paese. «Fantastico!» disse Mother con sarcasmo. «Ci mancava solo questo. Un altro pazzo schizofrenico che si aggira in questo posto di merda!» Il presidente si rivolse a Schofield. «Capitano, non abbiamo tempo per occuparci anche di questo. Se Caesar Russell mette le mani sul bambino...» Schofield si mordicchiò il labbro. Non gli piaceva l'idea di lasciarsi un uomo alle spalle, nemmeno Ramrod Hagerty. «Capitano», insistette il presidente con fare deciso. «Le ho già detto stamattina che qualche volta svolgere il mio lavoro implica decisioni molto difficili... e ora ne prenderò un'altra. Se il colonnello Hagerty è ancora vivo, dovrà vedersela da solo. Non abbiamo un momento da perdere per cercarlo all'interno della base. Qui c'è in ballo qualcosa di molto più importante: dobbiamo recuperare quel bambino.» Proseguirono la discesa fino al livello 2, al secondo hangar sotterraneo. Lo attraversarono di corsa, accompagnati anche da Nicholas Tate. Per fortuna in quell'hangar non c'erano orsi. Arrivarono in un baleno alle scale antincendio e cominciarono a scendere, guidati solo dalla torcia tenuta da Schofield. Essendo usciti dall'arena, nessuno di loro possedeva armi o torce elettriche. Raggiunsero il fondo delle scale antincendio, dove li aspettava la porta d'accesso al livello 6. Schofield l'aprì con cautela. La stazione X-rail del livello 6 era immersa nell'oscurità. Nessun rumore. Nessun segno di vita. Schofield uscì per primo sulla banchina. Era disseminata di ombre nere, i corpi delle vittime dei tre combattimenti che avevano avuto luogo in tre momenti diversi della mattinata. La banchina recava i segni della devasta-
zione causata dalla granata RDX fatta esplodere da Elvis. Schofield e Mother corsero avanti per controllare alcuni cadaveri. Erano uomini dell'unità Bravo cui nessuno aveva portato via le armi. Presero un fucile d'assalto P-90 a testa e qualche pistola SIG-Sauer. Schofield ebbe un colpo di fortuna: nelle tasche dell'uniforme di uno dei soldati trovò un kit di primo soccorso che conteneva quattro aghi ipodermici. Perfetto. Lanciò una SIG-Sauer al presidente, ma non ne diede nessuna a Tate, ancora troppo scosso per usare un'arma. «Di qua!» disse. Corsero lungo la banchina in direzione della motrice X-rail parcheggiata sui binari settentrionali della stazione sotterranea, pronta per partire verso l'Area 8. *** Sopra, nell'hangar principale dell'Area 7, Book II aveva indossato la maschera antigas ERG-6 e stava aiutando Juliet Janson a uscire dalla tromba del montacarichi. Nell'aria intorno a loro aleggiava ancora un velo trasparente di minuscole particelle di xenovirus. Con l'aiuto di Book, Juliet uscì dall'arena improvvisata e vide Seth Grimshaw e il gigantesco Goliath entrare nell'ascensore per il personale. Le porte si stavano chiudendo. Grimshaw aveva con sé il Football. «Di là!» gridò Juliet. «Vogliono raggiungere l'uscita. Quel tipo dell'Aeronautica, Harper, gli ha dato il codice d'accesso.» «Tu conosci quel codice?» chiese Book II «Certo che sì. Ero lì quando Harper glielo ha detto.» Libby Gant era sola. Si trovava in un corridoio buio dell'edificio sul lato est dell'hangar, alla base delle scale che salivano nell'oscurità. Era disarmata, ma viva. Nell'hangar c'era lo xenovirus, e lei non aveva una maschera antigas. Okay, pensò. In un posto come questo, certamente ci saranno... E in effetti, in un armadio trovò quello che stava cercando: tute di protezione, ampie e di colore giallo canarino, con elmetto di plastica e ossigeno inclusi. Nello stesso scomparto trovò pure una potente torcia elettrica. Una gra-
ditissima sorpresa. Gant febbrilmente aprì il pacco della tuta e la indossò, mise l'elmetto, tirò su la cerniera a tenuta stagna e azionò la fornitura di ossigeno. Immediatamente la tuta si gonfiò e Gant cominciò a sentire il proprio respiro sibilare nelle orecchie. Con quella era al sicuro dallo xenovirus. Ma rimaneva qualcos'altro da fare. Non si era dimenticata il piano d'azione: andare nella sala di controllo di Caesar Russell e mettere le mani sul telecomando della trasmittente innestata sul cuore del presidente. Poi avrebbe preso la scatola nera dell'AWACS, già preparata per trasmettere lo stesso segnale... La scatola nera! A quanto sapeva, era rimasta sulla piattaforma, nell'hangar principale. Gant decise che prima avrebbe fatto una visita alla sala di controllo per cercare il telecomando, e poi si sarebbe dedicata alla scatola nera. Aiutata dalla torcia elettrica, salì le scale e raggiunse la porta della sala di controllo. La porta era socchiusa. L'aprì del tutto, molto lentamente. La sala di controllo era sottosopra. Sembrava che fosse stata teatro di una tremenda battaglia. Le pareti della sala erano devastate dalle pallottole. Le finestre che davano sull'hangar principale erano in frantumi. Anche i monitor sulle console portavano i segni del violento scontro a fuoco. Soltanto pochi schermi erano ancora rimasti intatti, ma erano comunque neri e inutilizzabili per la mancanza di corrente elettrica. Gant entrò nella sala di controllo, scavalcando due soldati del 7° squadrone riversi a terra in un lago di sangue. Non avevano armi. Probabilmente le avevano prese i prigionieri dopo aver fatto irruzione nella stanza. Attraverso la visiera della tuta pressurizzata, Gant si guardò intorno alla ricerca del telecomando. Eccolo! Era appoggiato su uno dei monitor della console centrale, esattamente come lo aveva descritto il presidente; un piccolo congegno rosso con un'antenna corta e spessa. Gant lo prese, osservandolo bene. Assomigliava vagamente a un telefonino.
Aveva due interruttori. Sotto ciascuno di essi era attaccato un pezzo di scotch su cui stava scritto «1» e «2». Gant rimase sconcertata. Perché mai Caesar ne aveva avuto bisogno? Scacciò quel pensiero e mise il telecomando nel taschino della tuta. Mentre era accanto alla console, diede un'occhiata dalla finestra. Forse sarebbe riuscita a scorgere la scatola nera. L'enorme hangar era immerso nel buio; solo nelle vicinanze della tromba del montacarichi c'erano alcuni deboli bagliori: le torce lasciate cadere dai prigionieri. Sull'arena aleggiava ancora un velo di xenovirus. Non c'era alcun movimento. L'hangar era disseminato di oggetti scuri: i corpi degli uomini uccisi, il Marine One, lo «scarafaggio» distrutto, un elicottero gravemente danneggiato, i resti della barricata dell'unità Bravo. La torcia elettrica di Gant era molto potente, e dopo qualche secondo di ricerca tra corpi, rottami e pezzi di aereo, Gant riuscì a individuare la scatola nera dell'AWACS. Perfetto... Gant stava per andarsene quando all'improvviso scorse un debole riflesso azzurro all'interno della sala di controllo. Prima non ci aveva fatto caso. Si fermò. Considerato l'arresto del sistema elettrico, era strano che non tutti i monitor della sala di controllo fossero spenti. Si avvicinò. Nascosto sotto una lastra di cartongesso, caduta dal soffitto durante la sparatoria, un monitor funzionava ancora. Gant non capiva. La corrente elettrica dell'intera Area 7 era stata interrotta. Quel monitor doveva dipendere da una sorgente elettrica autonoma. In altre parole, doveva trattarsi di un monitor molto importante. Gant rimosse la lastra che copriva il monitor. Scorse rapidamente le pa-
role sullo schermo: PROTOCOLLO DI CHIUSURA S.A.(R) 7-A ARCHIVIO SISTEMA 7-3-468201103 ORA 06.58
08.01
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10.05
AZIONE CHIUSURA AUTORIZZATA INSERITO CODICE DI AVVIO CHIUSURA AUTORIZZATA INSERITO CODICE DI PROLUNGAMENTO CHIUSURA AUTORIZZATA INSERITO CODICE DI PROLUNGAMENTO NESSUN CODICE INSERITO
RISPOSTA DEL SISTEMA PROTOCOLLO DI CHIUSURA ATTIVATO CONTINUA PROTOCOLLO DI CHIUSURA CONTINUA PROTOCOLLO DI CHIUSURA AUTODISTRUZIONE DELLA BASE INNESCATA ********************ATTENZIONE********************** PROTOCOLLO DI EMERGENZA ATTIVATO. SE NON SI DIGITA UN CODICE DI PROLUNGAMENTO OPPURE UN CODICE DI ANNULLAMENTO ENTRO LE ORE 11.05, VERRA' ATTIVATA LA PROCEDURA DI AUTODISTRUZIONE DELLA BASE.DURATA DELLA SEQUENZA DI AUTODISTRUZIONE: 10.00 MINUTI ********************ATTENZIONE**********************
Gli occhi di Gant si spalancarono. Sequenza di autodistruzione della base... Ecco perché questo monitor funziona con un sistema elettrico autonomo! Per una qualche ragione, forse per l'inaspettato irrompere dei prigionieri, gli uomini di Caesar Russell non erano riusciti a digitare l'appropriato codice di estensione durante la finestra temporale delle 10.00. Se a quel punto nessuno avesse inserito un codice di rientro dell'autodistruzione prima delle 11.05, la sequenza di autodistruzione dell'Area 7 avrebbe avuto inizio. Una procedura di soli dieci minuti che sarebbe culminata con l'esplosione di una testata termonucleare di cento megaton sotto
l'Area 7. «Cristo santo!» esclamò Gant. Guardò l'ora. Erano le 10.15. Doveva correre. Ma un pesante tubo metallico la colpì sulla nuca. Gant cadde a terra svenuta. Non vide il suo assalitore. Non vide l'uomo che se la caricò sulle spalle e la portò fuori dalla sala di controllo. *** Il treno X-rail sfrecciava nel tunnel a una velocità spaventosa. Non sarebbe stato un viaggio lungo. A trecento chilometri all'ora, avrebbero percorso i trenta chilometri necessari in sei minuti. Schofield non sapeva esattamente dove l'unità Echo stesse portando Kevin, ma se non altro era certo che fossero passati di là. Era sempre meglio di niente. Dopo aver innescato il pilota automatico della motrice X-rail, Schofield tornò nella cabina e si sedette accanto a Mother e al presidente. Nick Tate sedeva appartato dall'altra parte della carrozza: osservava i pulsanti del suo cellulare con la massima concentrazione. Non era ancora del tutto in sé. Schofield estrasse dalla tasca la confezione di siringhe e l'antidoto dello xenovirus e si vaccinò. Mother e il presidente fecero lo stesso. Mentre s'infilava l'ago nel braccio, Schofield alzò lo sguardo verso il presidente. «Ora che abbiamo un attimo di tempo, potrebbe per cortesia raccontarmi tutto quello che succede veramente nella base?» Il presidente tentennò. «Potrebbe iniziare spiegando perché un generale dell'Aeronautica la vuole ammazzare sotto gli occhi di tutta la nazione. Poi potrebbe dirmi perché lo stesso uomo è così interessato a mettere le mani su un bambino geneticamente modificato, immune a un potente virus etnico.» Il presidente, che aveva ascoltato a testa china, guardò Schofield. Annuì. Prese a parlare: «Tecnicamente Caesar Russell non è più un generale dell'Aeronautica. Tecnicamente è morto. Il 20 gennaio di quest'anno, lo stesso giorno in cui si è svolta la mia cerimonia di insediamento, Charles Samson Russell è stato ucciso da un'iniezione letale nel penitenziario di
Terre Haute, in seguito alla sua condanna a morte per alto tradimento. Quello che Russell vuole è la stessa identica cosa che voleva già prima dell'esecuzione: cambiare radicalmente questo paese. Per sempre. Ci sono due cose che deve fare prima di riuscire nel suo intento: uccidermi pubblicamente, se possibile in modo umiliante; e conservare il controllo del vaccino contro lo xenovirus. Per comprendere le ragioni di questa follia bisogna conoscere il passato di Russell, in particolare i suoi legami con una società clandestina dell'Aeronautica conosciuta come Broderhood, la Fratellanza». «La ascolto», disse Schofield, cauto. Il presidente si sporse verso di lui. «Durante gli ultimi trent'anni, diverse commissioni per il controllo delle forze armate hanno indagato sull'esistenza di organizzazioni segrete con interessi del tutto inaccettabili.» «Per esempio?» «Negli anni '80 fu scoperto un gruppo clandestino interno delle forze armate, chiamato Bitch Killers. I suoi membri non accettavano l'ingresso delle donne nell'Esercito, e si comportarono di conseguenza. Più di diciotto crimini a sfondo sessuale furono attribuiti a esponenti di questa organizzazione, anche se è sempre stato difficile provarne l'appartenenza, e ancora oggi non si sa quanti militari ne facessero parte. Come spesso capita con le società segrete, non c'è una prova tangibile della loro esistenza. I membri si riconoscono tra loro per mezzo di segnali particolari: un certo tipo di sguardo, un modo di salutare, una provocazione a scapito di un non membro.» Schofield ascoltava in silenzio. Nella sua carriera non era mai stato avvicinato da esponenti di un gruppo segreto, però ne aveva sentito parlare. Erano versioni più violente delle confraternite goliardiche, piccoli gruppi che si riconoscevano dal modo in cui si davano la mano e avevano codici propri e cerimonie d'iniziazione, spesso raccapriccianti. Gli ufficiali entravano a farne parte in posti come West Point e Annapolis, mentre per i militari di leva l'occasione poteva presentarsi in un qualsiasi campo d'addestramento degli Stati Uniti. «Si organizzano per varie ragioni: alcuni hanno una matrice religiosa, per esempio i gruppi antisemiti come la vecchia Jewboy League nella Marina, altri sessista, come appunto i Bitch Killers. La formazione di società segrete in occupazioni ad alto rischio professionale non è una novità. Persino il Dipartimento di polizia di Los Angeles nasconde tra i suoi ranghi alcuni gruppi segreti. Per il livello di violenza, le peggiori sono sempre sta-
te le società razziste. Nella Marina c'era l'Ordine dell'America bianca, nell'Esercito la Morte nera. Nell'Aeronautica c'era appunto la Fratellanza. Tutte e tre erano particolarmente ostili verso gli americani di colore. Il punto è che si pensava che fossero state debellate alla fine degli anni '80, grazie a un intervento del Dipartimento della difesa. Da allora non ci sono notizie su un rigurgito di elementi razzisti né nell'Esercito, né nella Marina, ma di recente è stato scoperto che la Fratellanza è viva e vegeta e che uno dei suoi esponenti di spicco è proprio il generale Charles 'Caesar' Russell.» Schofield non disse nulla. Il presidente si mise seduto più comodo. «Charles Russell è stato processato e condannato per avere ordinato l'assassinio di due ammiragli della Marina, consiglieri dei capi di stato maggiore riuniti. Come si scoprì, Russell si era messo in contatto con loro poco dopo l'annuncio della mia candidatura a presidente. Chiese loro di partecipare a un piano che li avrebbe resi ricchi e avrebbe cambiato per sempre il volto dell'America. Non svelò i dettagli, ma disse loro che io sarei stato rimosso dalla carica di presidente e che il piano avrebbe liberato l'America da una certa 'spazzatura umana' indesiderata. I due ammiragli gli risposero picche e così Caesar li fece eliminare. Quello che non sapeva era che uno dei due ammiragli aveva registrato di nascosto l'offerta di Caesar, per poi passarla all'FBI e ai servizi segreti. Russell fu arrestato e processato per assassinio e alto tradimento. Trattandosi di un processo militare, si svolse subito dopo l'arresto e a porte chiuse. La parte del dibattito sulla 'spazzatura umana' andò per le lunghe. Furono presentate diverse prove dell'appartenenza di Russell alla Fratellanza, formata in prevalenza da alti ufficiali dell'Aeronautica provenienti dagli Stati del Sud, che si battevano per impedire agli ufficiali di colore di raggiungere gradi elevati. Il fatto che il procuratore militare fosse di colore non giocò a favore di Russel, ma in ogni caso non si andò mai a fondo della questione. In base alla registrazione, Russell fu giudicato colpevole e condannato a morte. Non fece nemmeno appello, e dunque la sua esecuzione avvenne in tempi brevissimi, nel gennaio di quest'anno. Fine della storia. O, almeno, così credevamo...» Schofield pesò le parole: «Ho come l'impressione che lei fosse al corrente dei piani di Caesar, anche se durante il processo non è venuto fuori nulla in proposito». Il presidente annui. «Negli ultimi dieci anni, Charles Russell è stato al comando di quasi tutte tra le maggiori basi dell'Aeronautica degli Stati Uniti, dalla Florida al
Nevada. È stato alla 20a di Warren, nel Wyoming, il centro missili balistici intercontinentali. Alla Air Force Base Falcon, in Colorado, dove si controlla l'attività dei satelliti di difesa e delle missioni spaziali. Qui all'Area 7, ovviamente. Miseria, è stato persino un anno all'AFSOC, il Comando operazioni speciali dell'Aeronautica, a Hurlbut Fields, in Florida, alla guida delle migliori squadre speciali operative, tra cui, ovviamente, il 7° squadrone. Possedeva leali seguaci in tutte queste basi, alti ufficiali che dovevano a lui la posizione, un gruppo piccolo ma potente formato dai comandanti delle basi in cui è stato. Molti di loro, così almeno pensiamo ora, sono membri della Fratellanza. Russell sa anche quello che c'è all'interno di quasi tutte le nostre basi segrete. Sapeva dello sviluppo dello xenovirus fin dall'inizio del progetto, conosceva il suo potenziale e sapeva che stavamo creando un essere umano geneticamente modificato che fosse immune al virus. Il fatto è che Russell è molto furbo. Ha pensato a tutte le porte che si spalancherebbero per l'unica persona al mondo in possesso di un virus etnico altamente letale e del suo vaccino. A giudicare dalla trasmittente sul mio cuore, ha pianificato questa rivoluzione da un bel po', ma solo con lo xenovirus i suoi piani si sono perfezionati.» «Come mai?» «Perché Caesar Russell vorrebbe riportare l'America all'epoca precedente alla Guerra Civile», disse il presidente. Ci fu un attimo silenzio. «Avete fatto caso alla città in cui ha piazzato le sue bombe al plasma? Quattordici bombe in quattordici aeroporti distribuiti per il paese? Col cavolo! Non sono dappertutto. Sono solo nelle città del Nord: New York, Washington, Chicago, Los Angeles, San Francisco, Seattle. Il posto più a sud è St. Louis. Niente bombe ad Atlanta, a Houston, a Miami. Niente al di sotto della linea Tennessee-Kentucky.» «Perché quelle città?» chiese Schofield. «Perché rappresentano il Nord, i liberali, i bellocci degli Stati Uniti che amano chiacchierare, non producono niente e consumano tutto. Caesar vuole un'America senza il Nord. Con lo xenovirus e con l'antidoto nelle sue mani, quello che rimarrà della nazione sarà alla sua mercé. Ogni uomo, ogni donna e bambino - bianchi e neri - dovrà ringraziare lui per essere in vita, lui e il suo vaccino.» Il presidente si strofinò il viso. «Immagino che i primi a essere eliminati saranno i neri. Basterà somministrare il vaccino solo agli americani bianchi. Considerando le tendenze
razziste di Caesar, presumo che la 'spazzatura umana' cui si riferiva fosse la popolazione di colore. Ma ricordatevi di quanto ho detto prima: per raggiungere ciò che vuole, deve avere Kevin in suo potere e me morto. Nessuna rivoluzione - almeno nessuna vera rivoluzione - può avere successo senza la distruzione e l'umiliazione del regime precedente. Pensate all'esecuzione di Luigi XVI e Maria Antonietta in Francia, all'incarcerazione dello zar in Russia, durante la Rivoluzione, e alla nazificazione della Germania negli anni '30. Tutti possono ammazzare un presidente, basta essere molto determinati. Un rivoluzionario, invece, lo deve fare sotto gli occhi del popolo che vuole governare; lo fa per dimostrare che il sistema è senza valore e non merita alcun rispetto. Caesar Russell non lo sta facendo di fronte all'America, ma di fronte agli elementi più estremi dell'America, i poveri, gli arrabbiati, i disillusi, i razzisti, i peggiori bianchi, le milizie antifederaliste, insomma, quella parte del Paese, soprattutto quella degli Stati del Sud, alla quale non importerebbe nulla se i ricconi liberali di New York, Chicago e San Francisco venissero spazzati via dalla faccia della terra.» «Ma il Paese sarebbe decimato», disse Schofield. «Perché mai vorrebbe governare un paese distrutto?» «È vero dal suo punto di vista, ma Caesar la vede diversamente. Per lui il Paese non sarebbe affatto distrutto. Sarebbe solo purificato, rinnovato, ripulito. Sarebbe un nuovo inizio. Le città del Sud sarebbero illese. Il Midwest sarebbe in gran parte intatto, capace di fornire sostentamento.» Schofield rifletté. «Che cosa ne sarebbe delle altre forze armate? Che ne farebbe di loro?» «Come lei sa bene, capitano, l'Aeronautica degli Stati Uniti riceve più fondi di Marina ed Esercito messi insieme. È vero, gli uomini dell'Aeronautica sono solo 385.000, ma possiedono più missili e potenziale d'attacco delle altre forze armate. Se, con l'aiuto della Fratellanza e grazie ai vari posti di comando che ha coperto in precedenza, Caesar avesse solo un quinto degli uomini dell'Aeronautica dalla sua, potrebbe far alzare in volo i suoi bombardieri e distruggere ogni installazione militare importante del paese e tutte le basi dell'Aeronautica che non si sono alleate con lui, il tutto prima che le forze leali al governo possano anche solo iniziare una controffensiva degna di questo nome. Coi suoi cacciabombardieri Stealth, i caccia e un arsenale di missili nucleari superiore a quelli di tutti gli altri stati del mondo, solo l'Aeronautica di Caesar sarebbe capace di fronteggiare un attacco da parte di potenze straniere. Capitano, non si faccia illusioni. Per
Caesar, uno scenario del genere sarebbe perfetto: l'America ritornerebbe a essere isolata dal mondo, completamente autosufficiente e governata da un regime bianco come il latte. Come prima della Guerra Civile.» «Figlio di puttana!» esclamò Mother indignata. Schofield stava ancora pensando. «Bene. Però cosa succede se Russell non ce la fa? Sicuramente non è uno che accetti il fallimento senza batter ciglio. Non me lo immagino disarmare le testate esplosive e dire: 'Signori, scusate, mi sono sbagliato. Avete vinto!' e arrendersi.» «No», rispose il presidente con aria grave. «Sono molto preoccupato anch'io. Se per miracolo riuscissimo a uscire vivi da tutto questo, vorrei proprio sapere quale altra sorpresa ci riserverà Caesar.» *** Dopo aver scostato a forza le porte dell'ascensore, Book II e Juliet uscirono nel corridoio laterale e raggiunsero la «porta alta», l'uscita di sicurezza della base. Juliet digitò il numero che aveva sentito dire ad Harper: 5564771. Con un sibilo, la pesante porta di titanio si apri. Corsero lungo il corridoio di cemento, ciascuno stringendo in mano una delle pistole di Book II. Dopo una quarantina di metri, raggiunsero un'altra porta. Juliet l'apri con cautela. Del tutto inaspettatamente trovarono un normalissimo hangar. Raggi di sole entravano dalle porte spalancate. L'hangar era completamente vuoto: né aerei, né macchine, né... Goliath doveva averli aspettati dietro alla porta. Appena Juliet fece un passo, sentì la fredda canna di un fucile P-90 contro la tempia. «Poco cauta, la piccola», disse Goliath con voce ironica. «Sei morta.» Premette il grilletto proprio nel momento in cui Book Ji, rimasto un passo indietro, scattò in avanti: con un gesto fulmineo diede un colpo secco all'otturatore del P-90, facendo volare fuori la pallottola che era nel caricatore. Click! Il fucile contro la testa di Juliet non fece fuoco. «Che...?» Goliath, sorpreso, si girò verso Book II. Poi tutto accadde molto rapidamente. Con un solo movimento, Juliet afferrò la canna del P-90 di Goliath mentre alzava la propria pistola, ma nello stesso momento l'altra mano di Go-
liath, chiusa a pugno intorno al Maghook di Schofield, la colpì in piena faccia. La forza del pugno scaraventò Juliet indietro, ma lei non mollò la presa e strappò di mano a Goliath il P-90. Juliet cadde violentemente a terra e il P-90 scivolò lontano da lei. Book alzò la sua Beretta, ma non abbastanza velocemente. Goliath riuscì a fermargli la mano che teneva la pistola: adesso erano in due a stringere la stessa arma. Senza sforzo, Goliath attirò Book II verso di sé, quasi fino a toccargli la faccia col mento, e aumentò la pressione sulle dita di Book. La Beretta cominciò a sparare in aria con un ritmo regolare. Mentre la pistola faceva fuoco, Goliath piegò indietro la mano di Book, spostando la canna verso la faccia del marine. Ancora pochi attimi, e avrebbe puntato dritto alla testa di Book. Era una specie di braccio di ferro. Book II tentò con tutte le sue forze di fermare il movimento della pistola, ma non ci riuscì. La pistola puntò contro il braccio sinistro di Book. Il bicipite sinistro di Book esplose, schizzando sangue sul lato sinistro del suo volto. Book lanciò un urlo di dolore e per un attimo allentò la presa. Goliath non aspettava di meglio. Quasi senza sforzo piegò ulteriormente la mano di Book, e di colpo la canna puntò dritto in mezzo agli occhi del suo avversario... Click! Il caricatore era vuoto. «Meglio così!» disse Goliath con un sorriso. «Ora possiamo affrontarci alla pari.» Buttò via la pistola e, sempre con una sola mano, afferrò Book per il collo, sollevandolo da terra e sbattendolo contro il muro. I piedi di Book penzolavano a venti centimetri dal pavimento. Tentò invano di fare resistenza, col braccio sinistro inutilizzabile e dolorante. Riuscì a colpire Goliath sulla fronte con un debole destro. L'uomo non sembrò nemmeno accorgersene: il pugno di Book rimbalzò dolorosamente indietro. Goliath fece una risata divertita. «Piastra di acciaio. Ho la testa dura.» Goliath alzò il Maghook che teneva ancora nell'altra mano, puntandolo dritto agli occhi di Book. «Che mi dici di te, soldatino? Quanto è dura la tua? Credi che questo aggeggio ti spaccherà l'osso della fronte? Che ne diresti se provassimo...?»
Spinse il freddo bulbo magnetico del Maghook contro il naso di Book II. Book, sempre sollevato di peso per il collo, prese il Maghook con due mani e, nonostante il dolore lancinante al braccio sinistro, riuscì a spingerlo indietro, verso Goliath, almeno per un po'. Ma, con suo orrore, Goliath cominciò a respingerlo senza la minima fatica. Stava per vincere anche quello scontro. Book ebbe un'illuminazione. «E perché no?!» disse, allungò la mano destra e premette il bottone contrassegnato con una «M»: la potente carica magnetica del bulbo entrò in funzione con effetti immediati. Le luci del Maghook si accesero e la punta ormai carica cercò la più vicina superficie metallica. La trovò a pochi centimetri: era nella fronte di Goliath. Con uno scatto violento il Maghook si attaccò alla fronte del gigante con un clangore metallico. Colpì con forza, come se fosse stato risucchiato dalla pelle stessa del prigioniero. Goliath gridò di rabbia e tentò di staccarsi il Maghook dalla fronte, mollando la presa su Book, che finì per terra, ma si rialzò subito, nonostante un dolore lancinante al bicipite sinistro. Sanguinava copiosamente. Goliath lottava col Maghook, barcollando nel vano tentativo di staccarsi il magnete dalla fronte. Book II si teneva a breve distanza, pronto a intervenire. Quando Goliath finì con la schiena al muro, la mano destra di Book scattò in avanti, afferrò la maniglia del Maghook e premette il grilletto senza pietà. Il Maghook liberò la sua carica ad alta pressione, facendo brutalmente scattare all'indietro la testa di Goliath, che colpì il muro alle sue spalle con estrema violenza, creando un cratere grande quasi come un pallone da basket. Per il contraccolpo Book fu scaraventato alcuni metri nella direzione opposta. Il suo destino era stato comunque molto migliore di quello di Goliath, che scivolò lentamente a terra, con gli occhi sgranati e il cranio spaccato, lasciando sui mattoni una disgustosa striscia di sangue e materia cerebrale. Mentre Book era ancora alle prese con Goliath, Juliet si era faticosamente alzata da terra e aveva raggiunto la sua pistola, rimasta sul pavimento. Non si era ancora ripresa dal pugno, ma doveva fare in fretta. Quando finalmente recuperò la pistola e si alzò, si accorse di essere osservata. Si fermò di colpo.
Seth Grimshaw era lì, a meno di venti metri da lei. Era rimasto anche lui all'interno dell'hangar. «Mi ricordo di te», disse, avvicinandosi di un passo. In una mano teneva il Football, nell'altra il fucile P-90, la canna puntata dritta su di lei. Janson non rispose. Si limitò a fissarlo. «Tu eri all'hotel Buonaventure quando ho tentato di fare fuori il presidente. Sei una delle stronze dei servizi segreti, una di quelle che pensano che buttarsi tra una pallottola e un presidente corrotto sia un'azione onorevole.» Juliet non replicò. Teneva la Beretta in mano, ma aveva il braccio disteso e la canna puntava al pavimento. Grimshaw invece teneva il fucile puntato contro di lei. E non intendeva perdere altro tempo. Sorrise. «Prova a schivare questa!» disse, e premette il grilletto del suo P-90. Janson era fredda come un pezzo di ghiaccio. Aveva una possibilità e lo sapeva. Come tutti i membri dei servizi segreti, era una tiratrice esperta. Grimshaw, come quasi tutti i criminali, sparava tenendo l'arma all'altezza delle anche. Ai servizi segreti avevano condotto una serie di ricerche sulle probabilità di successo in un incontro a fuoco del genere. In base a quello che aveva imparato alla scuola di addestramento, era molto probabile che le prime tre pallottole di Grimshaw la mancassero. Calcolando il tempo necessario per alzare la propria pistola, Janson avrebbe invece dovuto colpirlo con la prima pallottola. O la va o la spacca! si disse. O la va o la spacca... E così, quando Grimshaw premette il grilletto, lei stava già reagendo. Alzò la pistola e sparò, esattamente nel tempo impiegato dalle prime tre pallottole per uscire dalla canna del P-90 di Grimshaw. Ma le probabilità sono solo probabilità. Entrambi furono scaraventati a terra. Caddero come in un'immagine perfettamente speculare, finendo sul pavimento schizzato di sangue. Janson era distesa sulla schiena. Respirava affannosamente mentre guardava il soffitto sopra di lei. Nella sua spalla sinistra, il foro lasciato dal proiettile si stava riempiendo di sangue.
Grimshaw invece non si muoveva. Stava a terra, immobile. Juliet non poteva saperlo, ma la sua unica pallottola aveva colpito Grimshaw esattamente all'attaccatura del naso, creando un piccolo foro alla base della sua fronte. Il foro d'uscita che aveva sulla nuca era invece grosso più del doppio. Seth Grimshaw era morto. Accanto a lui, sul pavimento dell'hangar, c'era il Football. *** L'X-rail sfrecciava nel tunnel. Dopo la conversazione col presidente, Schofield era tornato nella cabina di pilotaggio della motrice. Sarebbero arrivati all'Area 8 nel giro di due o tre minuti, e lui voleva prendersi un attimo di respiro. Con un lieve sibilo, la porta dello scompartimento si aprì. Era Mother. «Come ti butta?» chiese, lasciandosi cadere sul sedile accanto a Schofield. «A dire la verità», rispose Schofield, «quando mi sono svegliato, questa mattina, non mi sarei aspettato niente di tutto questo.» «Scarecrow, perché non l'hai baciata?» chiese Mother all'improvviso. «Che cosa...? Baciare... chi?» «Fox. L'hai portata fuori a mangiare e poi l'hai riaccompagnata a casa. Perché non l'hai baciata?» Schofield fece un profondo sospiro, prima di parlare. «Non credo che ti farebbero entrare nel corpo diplomatico, Mother.» «'Fanculo. Se muoio oggi, non voglio morire senza saperlo. Perché non l'hai baciata? Lei ci sperava.» «Ah sì? Te l'ha detto lei?» «Allora, perché non l'hai fatto?» «Perché...» Schofield fece una pausa. «Forse... perché avevo paura.» «Scarecrow, che cazzo stai dicendo? Tu? Paura? Ma di che cosa? Quella ragazza è pazza di te!» «Anch'io sono pazzo di lei. Lo sono da un sacco di tempo. Ti ricordi quando ha preso servizio nell'unità e il comitato di selezione ha organizzato quella grigliata alla base, alle Hawaii? L'avevo capito già allora, non appena l'ho vista, ma mi sono sempre detto che non si sarebbe mai interessata a me... non... non con queste cose...» Si toccò le due cicatrici verticali che gli scorrevano sulle palpebre e fece una risata strozzata. «Non ho parlato
molto durante quella cena. Credo persino che lei mi abbia beccato a fissare il vuoto, a un certo punto. Chissà se sapeva che stavo proprio pensando a lei...» «Scarecrow», disse Mother, «sappiamo entrambi che Fox riesce a vedere aldilà dei tuoi occhi.» «Vedi, questo è il punto», disse Schofield dopo un attimo. «Lo so benissimo. Solo non riesco a capire che cosa mi abbia preso l'ultimo week-end. Finalmente stavamo uscendo insieme e tutto filava liscio come l'olio. Qualsiasi cosa facessimo era perfetta. Poi siamo arrivati davanti a casa sua, e di colpo ho temuto di rovinare tutto facendo la cosa sbagliata... e così, be', mi sono bloccato, sono diventato un pezzo di ghiaccio.» Mother, che fino a quel momento aveva ascoltato con l'aria di chi la sa lunga, improvvisamente scoppiò in una risata. «Meno male che tu lo trovi divertente», disse Schofield. Mother continuò a ridere, dandogli una pacca sulla spalla. «Sai, Scarecrow: è bello scoprire che anche tu sei solo un essere umano. Puoi buttarti giù dagli iceberg o dentro la tromba di un montacarichi, ma quando si tratta di baciare una ragazza, ti blocchi. Sei incredibile!» «Grazie», disse Schofield. Mother si alzò. «Promettimi solo una cosa», disse con dolcezza. «La prossima volta che vedi Fox, voglio che tu dia un bacio a quella cazzo di ragazza! Chiaro?» *** Mentre Schofield, Mother e il presidente si avvicinavano all'Area 8 percorrendo il tunnel dell'X-rail, Caesar Russell e i rimanenti quattro uomini del 7° squadrone attraversavano il deserto nella stessa direzione, a bordo di due elicotteri d'attacco Penetrator. Avevano pochi minuti di vantaggio rispetto al treno di Schofield. Davanti ai due elicotteri si ergeva il gruppetto di edifici dell'Area 8, circondato dalla sabbia rovente del deserto. L'Area 8 era una sorta di versione ridotta dell'Area 7: due hangar simili a grossi scatoloni e una torre di controllo a tre piani accanto alla pista di decollo nascosta dalla sabbia, che Schofield aveva già notato prima, quella mattina. Mentre i Penetrator erano ancora in fase di avvicinamento, Caesar si accorse che le gigantesche porte di uno dei due hangar si stavano aprendo.
Ci volle un bel po' perché si aprissero del tutto, ma quello che vide all'interno dell'hangar era assolutamente spettacolare. Era uno dei velivoli più strani che Caesar avesse mai visto. A dire il vero, erano due aerei in uno. Il primo era un massiccio jumbo jet Boeing 747 col suo muso imperioso e le ali da cigno. Ma fu soprattutto l'altro aereo, quello più piccolo, ad attrarre l'attenzione di Caesar. Aveva un aspetto straordinario. I colori erano quelli di tutti gli shuttle della NASA: quasi completamente bianco, con la bandiera americana e la scritta UNITED STATES sui fianchi, e il muso e la parte inferiore della fusoliera neri. Ma non era un comune shuttle. Era l'X-38, uno dei due minishuttle costruiti dagli Stati Uniti per distruggere i satelliti e, in caso di necessità, le stazioni spaziali di altre nazioni. La forma ricordava quella di altri shuttle: a delta, con ali piatte e triangolari, un'alta coda aerodinamica e tre reattori conici nella parte posteriore; quel modello, però, era molto più piccolo e compatto. Mentre l'Atlantis e gli altri shuttle erano velivoli pesanti, a lungo raggio, progettati per trasportare nello spazio ingombranti satelliti, quella era una sorta di versione sportiva, costruita per scopi offensivi. Quattro missili AMRAAM a gravità zero erano agganciati alle ali, accanto a due enormi razzi vettori di forma cilindrica Pegasus II, posti sotto la fusoliera dello shuttle e riempiti di ossigeno liquido. Quello che molti non sanno è che la maggior parte dei voli spaziali si basa su una tecnologia sviluppata alla fine degli anni '60. I razzi vettori di Satura V e di Titan II erano già impiegati a quell'epoca, durante la «corsa allo spazio» tra Stati Uniti e Unione Sovietica. L'X-38, invece, lanciato in volo da un Boeing 747 e con razzi vettori Pegasus II, è il veicolo spaziale del XXI secolo. Il Boeing 747 da cui viene lanciato è stato concepito appositamente per questo scopo ed è provvisto di nuovi, potentissimi motori Pratt & Whitney, di sistemi di pressurizzazione rafforzati e di una più efficace protezione dalle radiazioni. Può volare a un'altezza di ventimila metri, settemila metri in più di un comune jumbo, e da qui può lanciare in orbita l'X-38, facendo risparmiare allo shuttle un terzo del carburante del primo stadio. A quel punto entrano in funzione i razzi Pegasus II. Estremamente più potenti dei Titan III, questi razzi forniscono allo shut-
tle una spinta sufficiente a raggiungere l'orbita terrestre e, una volta esauriti, vengono sganciati. L'X-38, ormai in orbita stazionaria a trecento chilometri sopra la terra, può muoversi liberamente nello spazio, distruggere satelliti nemici e poi tornare a terra, il tutto in completa autonomia. Caesar Russell osservò il minishuttle. Era magnifico. Si rivolse a Kurt Logan. «Non dobbiamo permettere allo shuttle di...» Non ebbe il tempo di finire la frase. Da dietro il Boeing 747 cinque missili Stinger uscirono dall'ombra dell'hangar e disegnarono un ampio arco intorno alle ali del jumbo, per poi virare bruscamente e puntare dritto verso i due Penetrator di Caesar. L'unità Echo li aveva visti. La stazione sotterranea X-rail dell'Area 8 era identica a quella dell'Area 7: due binari ai lati di una lunga banchina centrale e un ascensore nella parete nord. Dopo poco più di sei minuti di viaggio, il treno X-rail di Schofield raggiunse la stazione illuminata dalle luci fluorescenti dell'Area 8. La motrice aerodinamica si fermò al centro della banchina. Le porte si aprirono e Schofield, Mother e il presidente degli Stati Uniti corsero fuori, diretti verso l'ascensore sul lato nord. Li seguiva, con l'aria confusa e il cellulare premuto all'orecchio, Nicholas Tate III. Schofield schiacciò il bottone per chiamare l'ascensore. Mentre attendeva l'arrivo della cabina, osservò Tate. L'uomo era evidentemente uscito di senno. Ma sembrava che stesse davvero parlando al cellulare con qualcuno. «No!» disse Tate, irritato. «Voglio sapere chi è lei. Si è intromesso nella mia conversazione col mio agente finanziario. S'identifichi!» «Che diavolo sta facendo?» chiese Schofield. Tate lo guardò irritato, rispondendo con grande serietà: «Sto parlando col mio agente finanziario. Considerato come stanno andando le cose, credo sia il caso di vendere i miei titoli. Appena usciti dal tunnel l'ho chiamato, ma un attimo fa una testa di cazzo si è intromesso nella mia telefonata». Schofield gli strappò il cellulare di mano. «Ehi!» protestò Tate. «Qui parla il capitano Shane M. Schofield, Corpo dei marine degli Stati Uniti, scorta presidenziale, matricola 358-6279. Con chi parlo?»
Una voce gli rispose: «Qui è Dave Fairfax dell'agenzia DIA. Le parlo da una stazione di monitoraggio di Washington. Stiamo intercettando tutte le trasmissioni in uscita dalle due basi dell'Aeronutica nel deserto dello Utah. Crediamo che ci sia un'unità ribelle in una delle basi e che la vita del presidente sia in pericolo. Mi sono appena intromesso nella telefonata del suo amico». «Mi creda, non sa la metà di quello che sta succedendo qui, signor Fairfax», disse Schofield. «Il presidente è al sicuro?» «Si trova qui con me.» Schofield tenne il cellulare davanti alla bocca del presidente, che non perse un attimo: «Qui parla il presidente degli Stati Uniti d'America. Sono scortato dal capitano Schofield». Schofield si era già rimesso il cellulare all'orecchio. «Stiamo inseguendo l'unità ribelle di cui parlava. Mi dica tutto quello che sa di loro...» In quel momento, l'ascensore arrivò, annunciato da uno scampanellio. «Un attimo!» disse Schofield nella cornetta. Alzò il P-90 mentre le porte cominciavano ad aprirsi. Dentro la cabina c'era un macello: le pareti erano imbrattate di sangue; riversi sul pavimento c'erano i cadaveri di tre soldati dell'Aeronautica, con ogni probabilità avieri di stanza nell'Area 8. «Si direbbe che siamo sulla pista giusta», disse Mother. Entrarono nell'ascensore. Tate rimase indietro, deciso a non esporsi a ulteriori pericoli. Il presidente invece non volle sentire ragioni: «Vengo con voi!» «Ma signore...» tentò di dissuaderlo Schofield. «Capitano, se muoio oggi come rappresentante di questo paese, non voglio farlo da vigliacco, nascosto in un angolo, aspettando che mi vengano a prendere per uccidermi. È ora di affrontare la situazione. E poi credo che anche lei abbia bisogno di aiuto.» Schofield annuì. «Come desidera, signore. Ma mi stia vicino e spari prendendo bene la mira.» Le porte dell'ascensore si richiusero. Schofield spinse il pulsante per il piano terra. Poi riprese la conversazione telefonica. «Bene, signor Fairfax. In poche parole, mi dica tutto quello che sa sull'unità ribelle qui alla base.» ***
Nel suo ufficio sotterraneo a Washington, David Fairfax era seduto con la schiena dritta contro lo schienale della sedia. Gli avvenimenti stavano prendendo un aspetto decisamente chiaro e concreto. Per prima cosa era riuscito a intercettare quella telefonata. Aveva deciso d'inserirsi nella conversazione e gli era andata bene: era riuscito a mettersi in contatto con questo Schofield, un marine della scorta del presidente. Non appena ne aveva sentito il nome, Fairfax aveva inserito la matricola di Schofield nel suo computer. La sua completa storia militare, inclusi i dettagli sull'attuale incarico, erano sullo schermo di fronte a lui. «Okay», disse Fairfax nel microfono della cuffia che indossava. «Come le dicevo, sono della DIA, e recentemente ho decodificato una serie di trasmissioni non autorizzate in uscita da quelle basi aeree. Per prima cosa pensiamo che ci sia una squadra di Reccondo che agisce nella...» «Lasci perdere i Reccondo. Sono già morti», lo interruppe Schofield. «Mi parli invece dell'unità ribelle!» «Ah, capisco... okay», rispose Fairfax. «Per quanto ne sappiamo, si tratta di una delle unità del 7° squadrone di stanza nell'Area 7. Nome in codice Echo...» Nell'Area 8, l'ascensore saliva velocemente mentre la voce di Fairfax giungeva a Schofield attraverso il cellulare: «Pensiamo che questa unità stia aiutando alcuni agenti cinesi nel tentativo di rubare un vaccino biologico sviluppato nell'Area 7». «Ha qualche idea su come possano far uscire il vaccino dall'America?» «Be'... sì... in verità, un'idea ce l'ho», rispose Fairfax. «Ma forse non mi crederà...» «Ormai credo a quasi tutto, signor Fairfax. Provi a dirmelo.» «Okay. Credo che stiano per mettere il vaccino su uno shuttle di ultima generazione che si trova nell'Area 8. Si tratta di uno shuttle costruito a scopo offensivo. Lo porteranno in un'orbita a bassa quota dove s'incontrerà con lo shuttle cinese lanciato una settimana fa. Gli uomini cambieranno shuttle per atterrare infine all'interno del territorio cinese, da dove non potremo riprenderci il vaccino.» «Figli di puttana!» disse Schofield. «So che le sembrerà una follia, ma...» «Ma è l'unico modo per far uscire qualcosa dagli Stati Uniti», interruppe Schofield. «Tutte le altre vie verrebbero facilmente bloccate. Ma nello
spazio, noi non possiamo seguirli. Avrebbero completato la loro missione prima che noi si riesca a far partire uno shuttle da Cape Canaveral.» «Esatto.» «Grazie, signor Fairfax. Si metta in contatto con la Marina e l'Esercito. Devono mobilitare qualsiasi unità capace di alzarsi in volo: Harrier, elicotteri, ogni velivolo in loro possesso, e mandarli direttamente alle Aree 7 e 8. Ma non l'Aeronautica. Ripeto: non l'Aeronautica. Fino a contrordine, consideri tutto il personale dell'Aeronautica come sospetto.» Mentre parlava, Schofield osservò i numeri dei piani che a mano a mano s'illuminavano mentre l'ascensore saliva. «Ora la devo lasciare», disse Schofield. «Abbiamo da fare.» «Che cosa pensa di fare? Che ne sarà del presidente?» Il numero 1 si spense: si accese PT, il piano terra. Schofield sentì rumore di spari provenire da dietro le porte dell'ascensore, che si stava fermando. «Stiamo cercando di recuperare il vaccino», disse. «Ci sentiamo dopo.» E riattaccò. Un attimo dopo, le porte dell'ascensore si aprirono... SESTO CONFRONTO 3 LUGLIO, ORE 10.23 Schofield e gli altri si trovarono proiettati in un altro mondo. Nell'hangar principale dell'Area 8 era in corso una feroce battaglia. Il pavimento vibrava sotto le esplosioni, mentre le pallottole sfrecciavano da una parte all'altra. Dalle gigantesche porte spalancate dell'hangar entrava l'accecante luce del sole. A cinquanta metri dall'ascensore, un Boeing 747, puntato verso il deserto, ostruiva quasi del tutto l'uscita. «Bastardi!» disse Schofield. Aveva visto la sagoma aerodinamica dello shuttle montato sopra il Boeing. Raffiche di mitra provenivano da dietro una delle due porte scorrevoli dell'hangar. Cinque soldati del 7° squadrone erano appostati dietro la porta dell'hangar e sparavano all'impazzata contro qualcosa che si trovava all'esterno. «Per di qua!» disse Schofield. Uscirono dall'ascensore di corsa. Girarono intorno a un Humvee e passarono tra due veicoli da traino; finalmente riuscirono a vedere ciò che era rimasto nascosto aldilà delle porte dell'hangar: due neri elicotteri Penetrator, pochi metri al di sopra della pista di atterrag-
gio dell'Area 8, bloccavano l'uscita al Boeing 747. Le mitragliatrici a sei canne Vulcan sui musi dei due Penetrator rovesciavano una pioggia di pallottole sugli uomini dell'unità Echo all'interno dell'hangar, tenendoli inchiodati dietro la porta. Non c'era modo di attraversare i venti metri che li dividevano dalla scaletta d'imbarco sul fianco del Boeing. Numerosi missili uscirono dalle corte ali dei Penetrator, diretti contro il 747. Ma il jumbo doveva possedere le più moderne contromisure difensive elettromagnetiche, perché i missili non si avvicinarono nemmeno all'aereo, impazzirono appena lanciati, cominciando a volteggiare in aria e a cambiare repentinamente direzione, prima di finire sulla pista asfaltata prospiciente l'hangar, detonando in una fontana di cemento e sabbia. Persino le pallottole traccianti degli elicotteri venivano allontanate dal jumbo. Era come se un enorme scudo elettromagnetico lo proteggesse da ogni minaccia. Dalla sua posizione dietro lo «scarafaggio», Schofield riconobbe due degli uomini seduti all'interno dell'elicottero: Caesar Russell e Kurt Logan. Ho l'impressione che Caesar non sia molto soddisfatto dell'unità Echo, pensò. Caesar e Logan dovevano essere arrivati sul posto da poco, e avevano impedito all'ultimo momento agli uomini dell'unità Echo di salire sull'aereo e scappare con Kevin. Kevin... Schofield si guardò intorno. Non lo vedeva da nessuna parte. Doveva essere già a bordo... In quel momento il grande 747 si mosse in avanti. Le quattro massicce turbine spazzavano l'aria all'interno dell'hangar, facendo volare tutto quello che trovavano. L'aereo uscì dall'hangar, puntando dritto contro gli elicotteri Penetrator. La scaletta d'imbarco si rovesciò e volò indietro, investita dall'aria di una turbina. Era un'ottima tattica. I Penetrator sapevano bene di non avere nessuna possibilità contro il pesante jumbo 747 in movimento, così si allontanarono in direzioni opposte, sgombrando la rotta dell'aereo. Fu allora che Schofield vide un uomo dell'unità Echo in piedi vicino al portello laterale del jumbo, ancora aperto. Gesticolò verso gli uomini rimasti bloccati nell'hangar e poi calò una scala di corda dal portello. La scalet-
ta dondolava nel vento alzato dalle turbine. Nello stesso istante ci fu del movimento accanto all'ingresso dell'hangar. Schofield vide i cinque uomini dell'unità Echo, finora nascosti dietro la porta, correre verso un Humvee parcheggiato non lontano dallo «scarafaggio» dietro al quale era nascosto. Volevano salire a bordo del 747 mentre era in movimento. Ma non appena gli uomini iniziarono a correre, una quantità incredibile di pallottole traccianti partì dai due Penetrator all'esterno dell'hangar, crivellando il cemento sotto i piedi degli uomini. Due soldati caddero, colpiti da una moltitudine di pallottole. Gli altri tre raggiunsero il veicolo, vi saltarono dentro e misero in moto. L'Humvee parti di scatto, compiendo un ampio cerchio. Un missile entrò sibilando attraverso le porte aperte dell'hangar, puntando dritto verso il veicolo. L'Humvee non aveva scampo. Il missile lo colpì al centro del cofano con una tale violenza da spostare all'indietro la pesante jeep prima ancora di esplodere all'interno dell'abitacolo. Pezzi di metallo volarono in tutte le direzioni. «Per la miseria!» esclamò Mother. «Veloci! Seguitemi!» ordinò Schofield. «Che facciamo?» gridò il presidente. Schofield indicò il jumbo che usciva dall'hangar. «Facciamo un giretto!». Come in quasi tutte le basi aeree del deserto, la pista di decollo dell'Area 8 era più o meno a forma di «L», col braccio più corto che terminava davanti agli hangar principali. Gli aerei decollavano e atterravano sulla pista più lunga, ma per raggiungerla dovevano prima transitare sul braccio corto. Mentre la pista principale era lunga più di cinque chilometri, quella corta misurava all'incirca quattrocento metri. Il 747 argentato, col bianco shuttle X-38 caricato sopra, cominciò a muoversi lungo la pista laterale, affiancato dai due Penetrator. Scintillava sotto il sole brutale del deserto, mentre le turbine e i rotori alzavano grandi nuvole di sabbia. Era già a metà della pista più corta, quando un veicolo uscì a tutta velocità dall'hangar alle sue spalle. Assomigliava a un mattone dotato di ruote. Era uno «scarafaggio», un veicolo largo e piatto adibito al traino degli aerei all'interno e all'esterno
dell'hangar. Era all'inseguimento dell'enorme Boeing. Nello stretto abitacolo dello «scarafaggio», Mother era al volante. Schofield e il presidente erano schiacciati sul sedile del passeggero. «Forza, Mother, muoviti!» la incitò Schofield. «Dobbiamo raggiungerlo prima che arrivi alla pista di decollo. Una volta lì comincerà ad accelerare, e allora non ci sarà più niente da fare!» Mother inserì la terza, la marcia più alta che c'era. Il motore V8 ruggì e lo «scarafaggio» balzò in avanti. Sfrecciò sulla pista attraverso turbini di sabbia, avvicinandosi lentamente al 747. I Penetrator aprirono il fuoco, ma Schofield abbassò il finestrino del passeggero e fece partire due raffiche dai fucili P-90, il suo e quello di Mother, colpendo il cannone Vulcan nel muso di uno dei due Penetrator e costringendolo a virare. L'altro Penetrator continuava a sparare. Scintille schizzavano intorno allo «scarafaggio» lanciato a massima velocità. «Mother! Portaci sotto l'aereo! Lì saremo al riparo dalle mitragliatrici!» La donna schiacciò fino in fondo il pedale dell'acceleratore, e lo «scarafaggio» alla fine riuscì a infilarsi sotto l'immensa coda dell'aereo. Era un po' come entrare in un'enorme bolla d'aria. Subito le pallottole del secondo Penetrator smisero di piovere sullo «scarafaggio» e sull'asfalto intorno a lui. La protezione elettromagnetica del Boeing funzionava anche per loro. Lo «scarafaggio» avanzò al di sotto della fusoliera del 747, sorpassando lateralmente uno dei due gruppi di ruote dell'aereo. Poi s'infilò sotto l'ala sinistra del 747, col motore che urlava al massimo dei giri. L'asfalto nero sembrava volare sotto le sue ruote, mentre si avvicinava sempre di più alla scaletta di corda che svolazzava sulla sinistra del velivolo. Lo «scarafaggio» raggiunse la scala... ... Ma proprio in quel momento il Boeing 747 virò a destra. «Maledizione!» gridò Mother, mentre lo «scarafaggio» usciva dalla protezione del jumbo e si ritrovava nell'accecante luce del sole. «Sta per imboccare la pista di decollo!» gridò Schofield. Come un uccello lento e gigantesco, il 747 virò, raddrizzandosi solo quando si fu allineato con la pista di decollo. «Facci arrivare a quella scala, Mother!» urlò Schofield. Mother accelerò e sterzò a destra con tutte le sue forze per riportare il veicolo verso la scaletta che oscillava sul fianco sinistro del 747. Ma uno dei Penetrator sorpassò l'aereo dalla parte opposta e aprì il fuoco sullo
«scarafaggio». La mitragliatrice sputò una fila devastante di pallottole traccianti che rimbalzarono sull'asfalto davanti al veicolo. Diversi proiettili colpirono il parabrezza, mandandolo in frantumi, ma molti altri si infilarono sotto il paraurti anteriore del veicolo in movimento. Rimbalzando, tre proiettili colpirono il piantone dello sterzo. Il risultato fu istantaneo: il volante impazzì. Lo «scarafaggio» cominciò a sbandare violentemente da destra a sinistra, perdendo l'aderenza delle ruote posteriori tra lo stridio delle gomme e le urla di Mother, che combatteva con tutte le sue forze per mantenere il controllo del mezzo. Nel frattempo il 747 aveva terminato la virata e aveva imboccato la pista di decollo. In lontananza, il lungo nastro nero della pista scompariva tra i riflessi argentei dell'aria rovente del deserto. «Mother!» urlò Schofield. «Lo so! Lo so!» gridò Mother. «Sali sul tetto della macchina; io vi porterò sotto la scaletta. Non dimenticarti il presidente!» «E tu?» «Tra una decina di secondi quel Boeing partirà come un razzo, e tu devi essere a bordo, altrimenti quel bambino è perduto! Io devo rimanere alla guida di questa merda di veicolo, altrimenti dà il giro!» «Ma quei Penetrator ti uccideranno, una volta che il Boeing sarà decollato!» «Ecco perché ti devi portare anche il presidente!» gridò Mother. «Non preoccuparti per me, Scarecrow. Per farmi fuori ci vuole ben altro che qualche fottuto soldato dell'Aeronautica!» Schofield non era affatto convinto. Ma vedeva la determinazione negli occhi di Mother, e sapeva che avrebbe continuato a guidare lo «scarafaggio» fino alla morte, fino a quando lui e il presidente non fossero saliti a bordo dell'aereo. Si rivolse al presidente. «Forza, signore. Venga con me.» Lo «scarafaggio» correva a fianco del 747, e dunque si trovava di nuovo protetto dalla difesa elettromagnetica. Si avvicinò faticosamente al portello anteriore sinistro, quello da cui pendeva la scala di corda. Le minuscole figure di Schofield e del presidente, con l'uniforme nera da combattimento, si arrampicarono sul tetto del veicolo da traino. Gli occhiali protettivi in dotazione al 7° squadrone si rivelarono utili per proteggere
gli occhi dalla sabbia sollevata dai rotori dei Penetrator e dalle ruote anteriori del Boeing. Sotto, nell'abitacolo dello «scarafaggio», Mother continuava a combattere con lo sterzo danneggiato, tentando con tutte le sue forze di mantenere il veicolo accostato al 747. Sul tetto, lottando contro le violente raffiche di vento, Schofield cercava di afferrare la scaletta che oscillava a pochi centimetri dalla sua mano. Un rombo assordante si levò al cielo. Le quattro turbine del 747 stavano accelerando. Schofield sentì il sangue gelarsi nelle vene. L'aereo stava cominciando la sua corsa lungo la pista di decollo. Da un momento all'altro il Boeing avrebbe accelerato, lasciandosi lo «scarafaggio» alle spalle. La scaletta continuava a dondolare nel vento. L'aria era piena del frastuono delle turbine; c'era sabbia ovunque. Schofield urlò al presidente: «Io salto sulla scaletta; lei si aggrappi a me!» «Che cosa?!» «Lo capirà da solo!» E con queste parole, Schofield prese una breve rincorsa sul tetto dello «scarafaggio» e si buttò verso la scaletta, con le braccia protese... Riuscì ad afferrare l'ultimo piolo. «Mi segua!» gridò. Dapprima il presidente scosse la testa, ma poi si fece coraggio, prese la rincorsa e saltò. Nello stesso istante il pilota del Boeing 747 diede la massima potenza ai quattro reattori. Il presidente finì contro la schiena di Schofield e si aggrappò disperatamente a lui per non cadere, mentre Schofield si teneva con tutte le sue forze. Lo «scarafaggio» guidato da Mother perdeva rapidamente terreno. In pochi secondi l'aereo aveva raggiunto i centocinquanta chilometri all'ora, ma Schofield e il presidente erano ancora aggrappati alla scaletta. Schofield aveva la testa voltata all'indietro. Vide con orrore che uno dei Penetrator lanciava un missile contro lo «scarafaggio», rimasto ormai senza la protezione del Boeing. Il missile colpì il fianco del veicolo ed esplose con tale violenza da far balzare in alto la parte posteriore.
La forza dell'impatto fece sbandare lo «scarafaggio», che uscì a piena velocità dalla pista, finì nella sabbia, alzando una nuvola di polvere, si mise di traverso e decappottò violentemente - una, due, tre volte - prima di finire la sua folle corsa sotto una pioggia di sabbia. Schofield, appeso sotto il portello del Boeing in decollo, poté soltanto pregare che Mother fosse morta sul colpo. *** Ma in quel momento aveva altro da fare. Il 747 continuava ad accelerare sulla pista di decollo, con due minuscole figure appese alla scaletta che oscillava dal portello anteriore sinistro. La velocità del Boeing aumentava, ma il peso dell'X-38 lo rendeva più lento di altri aerei dello stesso modello. Non per niente avevano dovuto allungare la pista. Per i due uomini appesi fuori dall'aereo, il vento stava diventando troppo forte. «Prima lei!» gridò Schofield. «Passi sopra di me e salga la scaletta!» Il presidente obbedì. Con la pista che sfrecciava sotto di loro, si arrampicò sulla schiena di Schofield, aggrappandosi alla sua uniforme, e da lì salì sulla scaletta. Schofield lo seguì, lottando con tutte le sue forze contro il vento. Poi, d'un tratto, non appena raggiunsero il portello, la pista di decollo sotto di loro si allontanò fino a scomparire. Il Boeing era decollato. Schofield deglutì. L'elicottero di Caesar Russell atterrò dolcemente sulla pista. In lontananza, il gigantesco Boeing 747 saliva nel cielo. Lo «scarafaggio» distrutto si trovava a una ventina di metri dalla pista di decollo. Appena Caesar saltò sull'asfalto, si fermò per guardare la sagoma dell'aereo che si allontanava. Kurt Logan invece raggiunse lo «scarafaggio» che giaceva capovolto nella sabbia, circondato da pneumatici, lamiere e detriti. Della cabina di guida non era rimasto niente. La violenza dell'impatto l'aveva piegata e schiacciata, fino a farla sparire nella carrozzeria. Il parabrezza di vetro antiproiettile giaceva in frantumi a pochi metri di distanza. Ci volle un po' perché Logan riuscisse a individuare il corpo di Mother.
Giaceva supina nella sabbia, sbalzata dall'abitacolo ad alcuni metri dallo «scarafaggio». Logan ne vide solo il busto e gli arti; la testa di Mother doveva essere stata recisa durante l'impatto, e ora probabilmente era da qualche parte sotto il veicolo. Anche l'arto inferiore sinistro era stato reciso poco al di sotto del ginocchio. Logan aveva visto abbastanza. Tornò da Russell, rimasto a guardare in direzione dell'aereo ormai svanito. «L'unità Echo ha il ragazzino», disse Logan. «E i marine hanno il presidente.» «Sì», disse Caesar, senza girarsi. «Sì. Purtroppo dobbiamo mettere in atto il piano alternativo. Torniamo all'Area 7.» Il presidente s'issò nell'aereo con le ultime forze che gli rimanevano e si accasciò sul pavimento. Era esausto. Pochi secondi dopo entrò Schofield, anche lui provato dalla fatica. Riuscì a rimanere eretto giusto il tempo per chiudersi dietro il portello, e poi crollò anche lui, con la schiena contro una parete. Erano troppo stanchi persino per togliersi gli occhiali. Fu una fortuna, poiché uno dei due piloti del 747, un soldato dell'unità Echo, scese velocemente le scale che portavano al piano superiore del jumbo. Indossava un'ampia tuta arancione, un nuovo modello di tuta pressurizzata che Schofield aveva già visto in precedenza. Le tute pressurizzate erano obbligatorie su tutti voli che raggiungevano grandi altitudini. Anche se voluminose all'esterno, all'interno erano piuttosto comode, con guaine elasticizzate che aderivano agli arti per evitare squilibri nella pressione sanguigna in caso di assenza di gravità. Intorno al collo della tuta c'era una ghiera di metallo su cui agganciare il casco da astronauta, mentre sul fianco si trovava un sistema di aggancio rapido per le unità di ossigeno. «Bene, ce l'avete fatta», disse il pilota, annuendo soddisfatto. Non riusciva a vedere i loro volti, nascosti dietro agli occhiali. «Scusatemi, ma non è stato possibile aspettare ulteriormente. Ordini di Cobra. Forza ragazzi, qui sotto siamo rimasti solo Coleman e io. Gli altri sono già saliti nello shutt...» Schofield, che si era alzato mentre il soldato si stava ancora avvicinando, lo colpì con un gancio secco alla mascella; l'uomo andò lungo disteso per terra. «Scuse non accettate!» disse Schofield. Poi, rivolto al presidente: «A-
spetti qui». «Okay.» Il 747 continuava a salire a un angolo di quasi 45 gradi. Con quell'inclinazione non era facile muoversi all'interno dell'aereo. Schofield imbracciò il P-90 e corse per le scale fino al piano superiore. Doveva raggiungere la cabina. Ora sapeva che sul Boeing c'era solo altro soldato, Coleman. Lo incontrò proprio mentre l'uomo stava uscendo dalla cabina di pilotaggio. Schofield lo colpì col calcio del fucile: anche Coleman era fuori combattimento. Entrò nella cabina di pilotaggio e si guardò intorno. Sperava di poter prendere i comandi e di riportare l'aereo a terra. Niente da fare. Lo schermo nell'abitacolo rivelò che l'aereo stava volando col pilota automatico, diretto a un'altitudine di ventimila metri. A quell'altezza il Boeing avrebbe lanciato lo shuttle. Al fondo dello schermo stava scritto: PILOTA AUTOMATICO INSERITO PER DISINSERIRE PILOTA AUTOMATICO O PER CAMBIARE ROTTA, DIGITARE IL CODICE AUTORIZZAZIONE Codice di autorizzazione? pensò Schofield. Merda! Senza il codice non poteva disinserire il pilota automatico e riportare l'aereo a terra. Che cosa poteva fare? Si guardò intorno, alla disperata ricerca di qualcosa che potesse essergli utile. Alla fine fu il corpo esanime di Coleman, il pilota, a fargli venire l'idea. Schofield ritornò dal presidente con Coleman sulle spalle. Fece un cenno con la testa verso l'altro uomo rimasto a terra. «Si metta la sua tuta», ordinò, lasciando cadere Coleman accanto all'altro soldato. Cominciò a togliergli la tuta arancione. Qualche minuto dopo, Schofield e il presidente avevano indossato le tute pressurizzate e infilato le pistole SIG-Sauer nelle larghe tasche laterali. «Dove andiamo?» s'informò il presidente. Aveva notato lo sguardo deciso di Schofield. Non prometteva niente di buono.
«Dove non siamo mai stati prima d'ora», disse Schofield. L'X-38 era collegato al jumbo tramite una mezza dozzina di rinforzi di titanio. L'unico passaggio tra i due velivoli era un tunnel collocato a metà del jumbo 747. Schofield e il presidente dovevano entrare nello shuttle passando da lì. In alto, alla fine del tunnel, c'era un'apertura nella parte inferiore dello shuttle. Si erano fermati nella cabina di pilotaggio il tempo necessario per prendere alcuni oggetti che sicuramente dovevano servire ai piloti dell'unità Echo: due piccoli contenitori d'aria, simili a quelli che gli astronauti usano nelle loro missioni, e due caschi sferici ricoperti di uno strato riflettente dorato. I caschi si fissarono senza difficoltà alla ghiera delle tute pressurizzate, all'altezza del collo. Le visiere dorate riflettenti - una misura di protezione contro l'enorme quantità di radiazioni ultraviolette presenti nell'atmosfera a quote elevate nascondevano completamente i loro volti. Si erano fermati sotto l'ingresso del tunnel, un passaggio stretto e verticale che scompariva oltre il soffitto dell'aereo, attraversato da una sottile scala d'acciaio. Schofield sbirciò in alto. In cima al tunnel, quasi trenta metri sopra la sua testa, riuscì a vedere uno scorcio del soffitto illuminato dello shuttle X-38. Si voltò verso il presidente e gli fece cenno di seguirlo Salirono lentamente. Le tute spaziali e le unità di ossigeno erano pesanti e ingombranti. Ci volle del tempo perché arrivassero in cima. Quando Schofield fece capolino dalla botola circolare, rimase esterrefatto. Lo scompartimento posteriore dello shuttle sembrava l'interno di un pullman ipertecnologico dell'ultima generazione. Era uno spazio abbastanza ristretto, progettato per poter contenere di tutto: uomini, armi, piccoli satelliti. Lungo le pareti bianche c'erano le prese per l'ossigeno, alcuni display e i meccanismi d'ancoraggio. In quel momento lo scompartimento era allestito in modo da trasportare solo persone: una dozzina di massicci sedili, tutti rivolti in avanti, era allineata su due file. Seduti sui sedili, con le cinture allacciate, Schofield vide gli uomini dell'unità Echo e i loro alleati, le spie cinesi. Erano in cinque. Indossavano le tute pressurizzate arancione coi caschi
dorati e piccole bandiere degli Stati Uniti cucite sulle spalle. Che ironia, pensò Schofield. Erano pronti per partire verso l'orbita terrestre. Attraverso il portello aperto sul lato anteriore dello scompartimento, Schofield lanciò un'occhiata all'interno della cabina di pilotaggio dello shuttle, dove sedevano i tre uomini dell'equipaggio. Davanti a loro si vedeva uno squarcio di cielo. Schofield era rimasto immobile, per metà fuori e per metà dentro la botola. Sentiva l'adrenalina scorrergli nelle vene. Sapeva che le visiere dorate avrebbero evitato che lui e il presidente fossero riconosciuti, ma temeva che, uscendo dalla botola, qualcuno si potesse accorgere che era un impostore. Alcuni sedili a ridosso della cabina di pilotaggio erano rimasti liberi, probabilmente riservati ai due piloti del 747 e ai cinque uomini dell'unità Echo morti nell'hangar. Schofield uscì dalla botola con estrema lentezza. Era meglio non dare nell'occhio. Nessuno dei presenti lo notò. Si guardò intorno alla ricerca di Kevin, ma non riuscì a individuarlo. Poi si accorse con sollievo che uno dei cinque astronauti seduti nello scompartimento sembrava indossare una tuta che non era della sua taglia: le maniche e le gambe dei pantaloni penzolavano. Sembravano vuote: dentro la tuta doveva esserci qualcuno di troppo piccolo. Kevin! Invece di arrotolare le maniche e le gambe dei pantaloni per permettere al bambino d'infilare le mani nei guanti e i piedi nella parte finale della tuta, gli uomini dell'unità Echo avevano fatto aderire le guaine interne agli arti di Kevin. Era goffo, ma almeno non avrebbe avuto problemi in assenza di gravità. Schofield si spostò dalla botola. Come uscirò da questa situazione? si domandò. Perché non prendermi semplicemente Kevin, e, prima che gli altri riescano a sganciarsi le cinture, scendere nel 747 e... «Ehi, Coleman.» Uno dei piloti dello shuttle, la faccia nascosta dalla visiera del casco, era uscito dalla cabina di pilotaggio e si stava avvicinando a Schofield. Gli toccò il braccio. La sua voce metallica giunse al casco di Schofield tramite un interfono.
«Siete rimasti solo voi due? Che cos'è successo agli altri?» Schofield scosse la testa, a mo' di scusa. «Ho capito», disse l'astronauta senza volto dopo un attimo di silenzio. Si girò, indicando i due sedili più vicini alla cabina di pilotaggio. «Sedetevi e allacciatevi le cinture.» Poi tornò nella cabina, parlando nel suo intercom: «A tutto il personale, prepararsi al distacco. Fra trenta secondi». Il massiccio portello che divideva la cabina dallo scompartimento si chiuse dietro il pilota, e Schofield si ritrovò in piedi a fissare la botola nel pavimento vicino a lui. Cristo santo! Ormai non c'era più niente da fare. Sarebbero finiti in orbita. *** Schofield, seguito dal presidente, raggiunse uno dei due sedili vuoti dietro la cabina di pilotaggio. Nel farlo, osservò gli uomini dell'unità Echo per capire come fossero allacciati alle prese d'ossigeno e come avessero assicurato le cinture di sicurezza. Giunto al suo sedile, Schofield fissò un tubo secondario del suo dispenser d'aria a un foro inserito nel bracciolo del sedile. Il presidente fece lo stesso. Erano seduti uno accanto all'altro, divisi dal corridoio. Schofield ebbe il tempo di guardarsi intorno. Dall'altra parte del corridoio, dietro il sedile del presidente, la piccola sagoma di Kevin quasi spariva dentro l'enorme tuta pressurizzata. Kevin gli fece un gesto di saluto. Fu un rapido movimento della mano; mentre Kevin lo salutava, per un attimo il guanto vuoto della sua tuta fluttuò nell'aria. Schofield era incredulo. Non era possibile. Indossava il casco con la visiera riflettente. Kevin non poteva vedere il suo volto. Come diavolo fa a sapere che sono io?! Com'era possibile? Schofield decise di non preoccuparsene. Forse Kevin aveva salutato tutti gli astronauti. Osservò il presidente, che aveva appena finito di allacciarsi le cinture di sicurezza e ora, appoggiato contro lo schienale, stava prendendo un respiro
profondo. Schofield immaginava come dovesse sentirsi. All'improvviso, si alzò una voce nell'interfono del suo casco. «Pronti all'accensione dei razzi...» «Ci avviciniamo ad altezza lancio...» «Rilascio del tunnel. Tre... due... uno... via.» Da sotto i piedi di Schofield s'innalzò un rombo, e immediatamente lo shuttle si spostò verso l'alto, come liberato. «Tunnel scollegato... Distacco dal velivolo di lancio avvenuto...» Si udì una breve risata, e poi la voce di Cobra che diceva: «Bruciamolo». «Certo, signore. Preparare razzi Pegasus... Accensione in tre...» Da sotto lo shuttle cominciò a sentirsi un nuovo rumore. «... Due...» Schofield non capiva che cosa stava succedendo. «... Uno... via.» Fu come se qualcuno avesse attivato un enorme lanciafiamme. Quando i razzi Pegasus dell'X-38 entrarono in funzione, lo shuttle era poco sopra il Boeing 747.I giganteschi razzi puntavano verso il jumbo. Dai due razzi gemelli montati sullo shuttle uscirono due lunghissime lingue scintillanti di fuoco che investirono il 747 all'altezza del tunnel, squarciando all'istante la parte superiore della fusoliera. L'impatto col fuoco dei razzi fu tremendo. In un attimo il Boeing 747 si spaccò in due pezzi. Subito dopo, il combustibile contenuto nelle ali prese fuoco e il gigantesco aereo esplose nell'aria, riempiendo il cielo di un'enorme nuvola di fuoco e scagliando migliaia di frammenti di metallo in tutte le direzioni. Schofield non aveva visto la deflagrazione del 747. Era in un mondo tutto nuovo. Il boato dei razzi vettori era il rumore più forte che avesse mai udito. Era così violento da impedire persino il respiro; era mille volte superiore al boato della turbina di un caccia in fase di decollo. Lo shuttle s'inclinò puntando verso l'alto e cominciò ad accelerare. Schofield si ritrovò schiacciato contro lo schienale del suo sedile. Lo shuttle vibrava. Schofield si sentì appiattire le guance, premere il volto. Digrignò i denti. A parte il portello dell'abitacolo, che era stato chiuso, l'unico collega-
mento tra la cabina di pilotaggio e lo scompartimento dove si trovava Schofield era un piccolo ma spessissimo vetro inserito nella parete divisoria. Fu attraverso quel vetro che Schofield poté guardare oltre la cabina di pilotaggio dello shuttle, e vedere il cielo che si tingeva di porpora mentre salivano nell'atmosfera. Per qualche minuto procedettero in quel modo, spinti in alto dai potenti razzi, poi, quasi inintelligibile a causa del rombo dei razzi, si udì di nuovo la voce di uno dei piloti: «Prepararsi al distacco dei razzi e al passaggio ai propulsori interni...» «Ricevuto.» «Pronti al distacco dei razzi. Tre... due... uno... ora!» Lo shuttle vibrò violentemente, mentre i due enormi razzi si sganciarono dalla fusoliera. Schofield lanciò un'occhiata al presidente. Si teneva aggrappato ai braccioli con ambo le mani. Era un buon segno. Almeno non era svenuto. Lo shuttle X-38 continuò a salire. Le vibrazioni erano sparite e il volo era più silenzioso. Schofield ne approfittò per guardarsi di nuovo intorno. Accanto al portello della cabina di pilotaggio c'erano un display numerico e un meccanismo di bloccaggio, probabilmente per casi di emergenza come la perdita di pressione interna. Schofield aveva già esaminato la sua tuta da astronauta. Aveva una piccola radio cucita sulla manica sinistra che serviva a sintonizzare la ricetrasmittente nel casco. In quel momento indicava che era sintonizzato sul canale 5. Schofield guardò il presidente indicando l'unità sulla manica e poi alzò tre dita per segnalare di sintonizzarsi sul canale 3. Il presidente capì. Poco dopo, Schofield disse sottovoce: «Mi sente?» «Sì. Che piani ha?» «Per ora non facciamo niente. Aspetto che mi si presenti un'occasione per prendere il controllo dello shuttle.» Lo shuttle continuava ad alzarsi. A mano a mano che saliva, la visuale fuori della cabina di pilotaggio cambiava. Il cielo, prima coperto di nuvole purpuree, si fece nero e minaccioso. Poi, di colpo, come se si fosse strappato un velo davanti allo shuttle,
Schofield si ritrovò a guardare intere galassie e, in basso, scintillante come un opale contro il cielo nero, l'immensa curva della Terra, schiacciata all'estremità. Era uno spettacolo mozzafiato. Non erano ancora molto in alto: si trovavano più o meno sul confine tra spazio e atmosfera esterna, a un'altitudine di circa trecento chilometri. La Terra - curva, massiccia e stupenda - riempiva quasi tre quarti del campo visivo di Schofield, che fissava rapito i riflessi turchese del pianeta. Alzò lo sguardo verso le stelle. Lassù tutto era limpido. Ma poi vide che una delle stelle si stava muovendo. Non ci poteva credere. Doveva essersi sbagliato. Invece era proprio così: una stella si stava muovendo. Non era una stella. Era uno shuttle, simile per forma e dimensioni ai modelli americani. Avanzava senza sforzo nell'assenza di gravità, e veniva dritto verso di loro. La bandiera rossa e gialla sulla coda era inconfondibile. Era lo shuttle cinese. Schofield sintonizzò l'intercom della tuta sul canale 5. Sentì la voce di Cobra: «Yellow Star, qui è Fleeing Eagle, siamo in contatto visivo. Abbiamo ridotto la spinta dei reattori per entrare in orbita di arresto. Potete iniziare l'operazione di avvicinamento fra trenta secondi». Il portello della cabina di pilotaggio si aprì; ne uscirono due piloti dello shuttle. Schofield alzò la testa, interessato. Ora che si trovavano in un'orbita bassa, potevano muoversi all'interno dello scompartimento dello shuttle. Si trovavano in assenza di gravità, e per spostarsi dovevano usare le maniglie fissate al soffitto. I due piloti indossavano i caschi dorati e avevano i dispenser con l'ossigeno attaccati ai lati delle tute. Superarono Schofield e il presidente, e si diressero verso il fondo della cabina per preparare l'attracco dello shuttle cinese. Altri due soldati seduti alle spalle di Schofield si slacciarono le cinture di sicurezza, probabilmente per dare una mano ai piloti. Schofield intuì di avere una buona occasione. Sintonizzò la ricetrasmittente sul canale 3. «Bene», disse al presidente. «Mi segua!» Senza dare nell'occhio, Schofield riagganciò il tubo dell'aria alla sua uni-
tà di ossigeno e si tolse le cinture di sicurezza. Il presidente fece altrettanto. Una volta libero dalle cinture, Schofield sentì l'effetto dell'assenza di gravità. Si affrettò ad afferrare una delle maniglie fissate al soffitto e, prima che gli altri uomini potessero fermarlo o chiedergli che cosa stesse facendo, si avvicinò a Kevin e cominciò a collegargli il dispenser di ossigeno e a togliergli le cinture di sicurezza. Due uomini dell'unita Echo, i volti invisibili dietro le visiere, si voltarono verso di lui. Schofield indicò a Kevin la cabina di pilotaggio e gli fece un gesto d'invito: vuoi vederla? Kevin annuì. Gli uomini dell'unità Echo tornarono a farsi i fatti loro. Col presidente che lo seguiva aggrappandosi alle maniglie sul soffitto, Schofield condusse Kevin nella cabina di pilotaggio. La visuale da là era ancora più spettacolare. Attraverso il vetro panoramico, la Terra era meravigliosa, curva nello sfondo dello spazio nero come un'enorme lente convessa color acquamarina. L'ultimo pilota rimasto nella cabina si era girato. Attraverso il canale 5, Schofield disse: «Volevamo solo goderci questo spettacolo!» Tentò di cambiare il tono della voce mentre parlava. «Niente male, vero? Fate solo attenzione a tenere abbassate le visiere. Le radiazioni sono tremende, e il sole vi potrebbe accecare in un istante.» Schofield fece sedere Kevin sul sedile vuoto del copilota. Poi, sintonizzandosi nuovamente sul canale 3, si girò verso il presidente. «Gli slacci le cinture e le usi per legargli le braccia. Io mi occupo del tubo dell'ossigeno.» «Come? Quando?» «Direi... adesso!» disse Schofield. All'improvviso si sporse verso il pilota e aprì con violenza la visiera dorata del suo casco. Il pilota gridò di dolore mentre la luce accecante del sole gli colpiva gli occhi. Al di sotto della visiera dorata c'era un vetro trasparente convesso che non offriva nessuna protezione contro le radiazioni dello spazio profondo. Schofield gli strappò il tubo dell'ossigeno dall'aggancio nella parete, mentre il presidente, dopo avergli slacciato le cinture, le usò per legargli le
braccia contro il sedile. Privo di ossigeno e legato alla propria sedia, il pilota cominciava a boccheggiare alla ricerca disperata di aria. Schofield si lanciò verso il portello della cabina di pilotaggio e premette un interruttore accanto al passaggio aperto. La porta si chiuse velocemente. Il presidente lo stava guardando: «Che sta...?» Ma Schofield non aveva ancora finito. Sapeva di avere pochi secondi prima che qualcuno riaprisse il portello. Accanto all'apertura c'era un interruttore simile a quello che Schofield aveva visto prima, seduto nello scompartimento. Lo raggiunse. A parte i tasti numerici e la leva di apertura e chiusura, vi era un pulsante lungo e rettangolare, di colore rosso. Era protetto da una scatoletta di plastica trasparente su cui c'era scritto: USARE SOLO IN CASO DI EMERGENZA BLOCCAGGIO DI SICUREZZA ABITACOLO Con un gesto frenetico, Schofield aprì la scatoletta di plastica e schiacciò il grosso pulsante rosso. Immediatamente, con un forte rumore, i cinque perni della porta a tenuta stagna furono spinti nelle loro sedi all'interno della parete di titanio: ora l'abitacolo era sigillato come il caveau di una banca. Nemmeno un secondo dopo, dall'altra parte Schofield sentì i colpi degli uomini dell'unità Echo che battevano sulla porta. Dietro la finestrella inserita nella spessa parete divisoria apparvero caschi dorati e pugni alzati. Ma a Schofield non importava. Ora lo shuttle era sotto il suo controllo. Si sporse sopra il sedile del copilota su cui sedeva Kevin. Davanti a lui si estendevano la Terra e una miriade di stelle. Ma fu un'altra cosa ad attrarre la sua attenzione. La console di pilotaggio dell'X-38 aveva un'infinità di piccole leve, luci, pulsanti, display e monitor. Era simile a quella di un jumbo... ma molto più complessa. Il presidente si era seduto al posto del navigatore, dietro a quello del pi-
lota. Teneva Kevin sulle ginocchia. «E ora che si fa, capitano?» chiese. «Non mi dica che sa come si manovra uno shuttle.» «In effetti, no», ammise Schofield. Girò la testa e lanciò un'occhiata al pilota legato al sedile, che annaspava. «Ma lui sì.» Schofield estrasse la SIG-Sauer dalla tasca e mise la canna contro la visiera del pilota. Il presidente riagganciò il tubo dell'ossigeno dell'uomo, mentre Schofield sintonizzava il suo interfono sul canale 3. «Ho bisogno di lei per ritornare sulla Terra», disse al pilota. «Va' a farti fottere...» «Hmmm», disse Schofield, facendo un cenno al presidente, il quale sganciò immediatamente il tubo dell'ossigeno del pilota. L'uomo ricominciò a boccheggiare alla disperata ricerca di ossigeno. Schofield fece un altro tentativo. «Glielo dico in un altro modo: o mi spiega come riportare questo coso nello Utah o lo faccio senza il suo aiuto e, per quel che ne so, potremmo prendere fuoco al rientro nell'atmosfera o sfracellarci contro una maledetta montagna. In entrambi i casi moriremo. Dunque, per come la vedo io, o mi dice come si fa o morirà standosene lì seduto.» Il presidente riattaccò nuovamente il tubo dell'ossigeno. La faccia del pilota stava diventando violacea. «Okay...» disse, respirando affannosamente. «Okay...» «Così va meglio.» Schofield annuì soddisfatto. «Allora, la prima cosa che mi serve è...» S'interruppe: sul grande display trasparente inserito nel parabrezza di fronte ai sedili dei piloti erano apparse delle scritte in verde. FLEEING EAGLE, QUI PARLA YELLOW STAR AVETE ALTERATO POSIZIONE RIALLINEARSI CON ROTTA TRE-ZERO-ZERO Schofield fissò le lettere verdi sul display trasparente: sembravano sospese in aria sullo sfondo dello spazio stellato. Poi, oltre il display, Schofield vide lo shuttle cinese. Era molto più vicino, ora, all'incirca a trecento metri da loro, e continuava ad avvicinarsi velocemente, scivolando nello spazio vuoto senza sforzo. FLEEING EAGLE, PREGO CONFERMATE
«Prego confermate...» ripeté Schofield, facendo scorrere lo sguardo sopra i numerosi interruttori e controlli della console di pilotaggio. Riuscì a individuare la sezione degli armamenti di bordo, che per fortuna era simile a quella di altri aerei. «Eccoti la tua conferma!» Trovò una scatoletta. L'aprì: all'interno c'erano due pulsanti rossi che recavano la scritta LANCIO MISSILI. «Questo è per Mother», disse, schiacciando entrambi i pulsanti. I due shuttle - il piccolo shuttle X-38 e il più grande shuttle cinese - volavano nello spazio al di sopra dell'atmosfera terrestre rivolti l'uno verso l'altro, con la parte inferiore illuminata dal brillante riflesso della Terra. Poi, tutto a un tratto, due piccole dita bianche uscirono dalle ali dell'X38. Erano missili a gravità zero AMRAAM. Si staccarono con uno scatto dagli agganci posti sotto le ali e avanzarono nello spazio vuoto tra i due shuttle. Non c'era niente che lo shuttle cinese potesse fare. I due missili AMRAAM colpirono lo shuttle nello stesso momento, uno al centro, l'altro sulla parte anteriore. Lo shuttle si spaccò in due. Poi lo shuttle cinese fu avvolto da un'accecante luce bianca ed esplose in un milione di pezzi che continuarono il loro volo in tutte le direzioni. Lo Yellow Star non sarebbe mai più tornato sulla Terra. *** Gli uomini dell'unità Echo stavano ancora colpendo il portello a tenuta stagna quando Schofield, aiutato dalle istruzioni del pilota, inserì la procedura automatica di rientro nell'atmosfera. Non c'era niente che gli uomini dell'unità Echo potessero fare. Il portello di titanio che sigillava la cabina era spesso otto centimetri. E non sarebbe servito a nulla sparare contro la finestrella inserita nella parete divisoria, spessa dodici centimetri. E così, quando l'X-38 iniziò la sua discesa dall'orbita stazionaria e si preparò ad entrare nell'atmosfera accendendo gli scudi termici che lo proteggevano dalle altissime temperature, gli uomini si sedettero, si allacciarono le cinture di sicurezza e attesero pazienti. Lo shuttle scendeva velocemente. Durante il rientro nell'atmosfera,
Schofield osservò le stelle che sbiadivano a poco a poco, sostituite da un'aura purpurea che di colpo si trasformò a sua volta in un brillante cielo azzurro. Fuori dall'atmosfera, la rotta dell'X-38 si era spostata verso est, e ora lo shuttle si trovava all'incirca sopra il centro del Colorado. Guardando in basso, verso ovest, Schofield vide le montagne del colore dell'acciaio e le verdi vallate attraversate dal fiume Colorado e, oltre le montagne, l'inizio del dorato deserto dello Utah. Guardò l'orologio. Erano le 10.36. Non erano rimasti in orbita a lungo. Dodici minuti scarsi, per la precisione. Ora, alla velocità supersonica con la quale scendevano, sarebbero ritornati nello Utah in poco più di due minuti. D'un tratto, il display sul vetro della cabina di pilotaggio si accese. RILEVATO RADIOFARO AEROPORTO IDENTIFICATO: AERONAUTICA STATI UNITI AREA 08 ACQUISIZIONE ROTTA AEROPORTO
DEGLI
L'Area 8, pensò Schofield. No. Non aveva nessuna voglia di ritornarci. Per quanto gli riguardava, ormai era convinto che l'unico modo per porre fine una volta per tutte a quella sfida era allontanarsi dalle due basi aeree col presidente e il Football. Ma, per poterlo fare, dovevano prima impossessarsi del Football. L'ultima volta che l'aveva visto era nell'Area 7, nelle mani di Seth Grimshaw. E il conto alla rovescia del timer doveva essere interrotto entro le 11.30. Schofield si rivolse al pilota catturato. «Dobbiamo andare all'Area 7.» L'X-38 scendeva rapidamente, sfrecciando verso ovest sull'arido deserto dello Utah. Quando furono nei pressi dell'Area 8, Schofield escluse il pilota automatico. Manovrando lo shuttle come un aereo normale, lo fece passare oltre la base dell'Aeronautica. In meno di un minuto avevano percorso trenta chilometri in direzione
dell'Area 7. Schofield vide la bassa montagna, il gruppo di edifici e la lunga pista di atterraggio. In lontananza, all'orizzonte, per un attimo riuscì a scorgere la distesa del lago Powell coi suoi canyon e le sue vallate. Schofield si diresse verso la pista di atterraggio, volando basso sopra gli edifici dell'Area 7. La pista si estendeva sull'asse est-ovest, dunque era perfettamente in linea con la direzione in cui stava procedendo lo shuttle. L'X-38 sorvolò l'Area 7, facendo vibrare i muri degli edifici, e toccò terra proprio all'inizio del lungo nastro di asfalto. Solo che lo shuttle volava veloce... molto veloce. Per questo Schofield non vide i due neri elicotteri Penetrator fermi accanto agli hangar dell'Area 7. Non vide nemmeno che uno di essi accendeva i motori e si alzava in volo nel momento stesso in cui le ruote dello shuttle toccavano la pista di atterraggio. L'X-38 percorreva la pista di atterraggio a folle velocità, con le gomme fumanti. Schofield rilasciò il paracadute di frenaggio. Solo allora il mezzo cominciò a rallentare. Quando infine lo shuttle ebbe perso tutta la sua velocità, Schofield azionò alcuni comandi, preparandosi a riportarlo all'interno dell'hangar principale. Non ebbe nemmeno il tempo di completare la manovra. Appena l'X-38 si fu fermato, Schofield vide il Penetrator abbassarsi davanti allo shuttle e rimanere sospeso a mezz'aria come un nero uccello del malaugurio. Lo shuttle e l'elicottero si affrontarono come due pistoleri nel Far West: lo shuttle sulla pista, l'elicottero Penetrator di fronte a lui, in aria. Nella cabina di pilotaggio, Schofield sì tolse il casco. Anche il presidente se lo stava togliendo. «Merda!» esclamò il presidente. «Che cosa facciamo adesso?» Il portello a tenuta stagna dell'abitacolo riprese a vibrare. Gli uomini dell'unità Echo si erano alzati e stavano tentando d'irrompere nell'abitacolo. Dalla radio uscì la voce del pilota del Penetrator, uno degli uomini del 7° squadrone di Caesar Russell. «X-38, qui Penetrator dell'Aeronautica. V'informiamo che siamo pronti
a lanciare un missile. L'unica possibilità che avete è quella di far uscire il bambino.» Schofield guardò Kevin, pensando velocemente. Non era certo una bella situazione: il Penetrator, gli uomini dell'unità Echo, un missile programmato per colpirli... Ma poi Schofield vide lo scomparto seminascosto dal sedile di Kevin. «Signore, potrebbe aiutare Kevin a togliersi la tuta spaziale?» disse al presidente. Questi non perse tempo. Schofield, nel frattempo, trovò il pulsante per le trasmissioni radio. «Penetrator, quali sono i vostri piani una volta ottenuto il bambino?» Mentre parlava, Schofield era saltato sul sedile e si era inginocchiato davanti allo scomparto su cui campeggiava la scritta KIT DI SOPRAVVIVENZA. Lo aprì. Alle sue spalle, gli uomini dell'unità Echo continuavano a battere contro la porta. «Se voi ci date il bambino», riprese la voce del pilota dell'elicottero, «vi lasceremo andare via.» «Sì, come no!» mormorò Schofield. Stava frugando febbrilmente nello scomparto del kit di sopravvivenza. «Maledizione!» sussurrò. «Ci dev'essere! Ce n'è sempre uno, in questi posti!» Nel microfono, invece, disse qualcos'altro: «E se non lasciassimo andare il bambino?» «Saremo costretti a uccidervi tutti.» Mentre il pilota stava ancora rispondendo, Schofield trovò quello che stava cercando: un tubo cilindrico, lungo all'incirca mezzo metro, che sembrava quasi... Lo afferrò e si alzò, finendo col volto proprio davanti alla finestrella nella parete divisoria tra la cabina di pilotaggio e lo scompartimento passeggeri dello shuttle. Dall'altra parte dello spesso vetro, puntata contro la sua fronte, c'era la pistola di un uomo della Echo. Con un lampo di luce bianca e un rumore cupo, la pistola fece fuoco. Schofield chiuse gli occhi, aspettandosi che la pallottola passasse attraverso il vetro e lo colpisse in piena fronte. Ma il vetro era troppo spesso. La pallottola lasciò un minuscolo graffio e rimbalzò via. Schofield esalò un respiro profondo e corse verso il suo sedile. «Penetrator», disse, saltando sul sedile e allacciandosi febbrilmente le
cinture di sicurezza. «Va bene, va bene. Accettiamo. Ascoltate, però. Ho qui anche il presidente.» Mentre parlava, a gesti fece capire al presidente di togliersi le cinture. «Il presidente...?!» «Esatto. Ve lo mando fuori insieme al bambino. Sono certo che la cosa non vi disturberà. Però voglio la vostra parola d'onore: se li mando fuori tutti e due, voi non lancerete il missile?» «Tranquillo.» «Okay.» Schofield si rivolse a Kevin e al presidente. «Quando aprirò la botola, voglio che voi due vi allontaniate il più veloce possibile da questo shuttle. Chiaro?» «Chiaro», disse Kevin. «Chiaro», disse il presidente. «Ma che ne sarà di lei?» Schofield azionò la levetta per il rilascio della botola. Con un rumore secco una piccola parte del soffitto dello shuttle, proprio sopra il pilota legato al sedile, fu catapultata in aria, lontano dallo shuttle. Sopra di loro si era aperto uno scorcio di cielo azzurro. «Allontanatevi quanto più potete dallo shuttle», disse Schofield serio. «Vi raggiungerò in un minuto. Prima devo far saltare l'elicottero.» Nel calore tremolante del deserto, le due minuscole figure di Kevin e del presidente emersero dalla botola dello shuttle, e scesero rapidamente lungo la scaletta di fibra sintetica che si era srotolata dall'apertura del portello. Il presidente indossava ancora la tuta spaziale arancione; si era solo tolto il casco. Kevin invece era senza tuta e senza casco, vestito come un qualsiasi bambino della sua età. Il Penetrator era sospeso davanti a loro, con le pale dei rotori che fendevano l'aria. Finalmente i loro piedi toccarono l'asfalto bollente della pista d'atterraggio; e allora cominciarono a correre. Nel frattempo, nella cabina di pilotaggio dello shuttle, Schofield si era messo il tubo metallico sulle ginocchia. Ora aspettava che il presidente e Kevin si fossero allontanati a sufficienza dallo shuttle. Improvvisamente una cascata di scintille arancione esplose dalla porta alle sue spalle. «Che...?» Gli uomini dell'unità Echo stavano utilizzando una fiamma ossidrica per
aprirsi un varco nel portello a tenuta stagna. Devo aspettare che il presidente e il bambino siano abbastanza lontani... E poi gli giunse la voce del pilota del Penetrator: «Grazie, X-38. Mi dispiace doverla deludere, ma ho l'ordine di fare fuoco. Addio». Non appena il pilota finì di parlare, un missile Sidewinder uscì da sotto l'ala destra del Penetrator, lasciandosi dietro una scia di fumo chiaro. Si diresse verso il basso, puntando dritto contro il vetro della cabina di pilotaggio. Dietro Schofield, le scintille continuavano a cadere attraverso il foro nel portello. 'Fanculo, pensò Schofield. È venuto il momento di lasciare questo posto. Diede una manata alla leva di sganciamento automatico a lato del sedile. Come un fuoco d'artificio che vola verso il cielo, Shane Schofield fu catapultato al di sopra dello shuttle, con una traiettoria perfettamente verticale. Il missile del Penetrator colpì lo shuttle al di sotto di Schofield, facendolo esplodere con tutto il suo carico, uomini dell'unità Echo compresi. Schofield stava raggiungendo il culmine del suo volo. I piloti dell'elicottero lo osservavano con aria incredula. Solo allora, i tre uomini dell'equipaggio notarono che Schofield stringeva il tubo metallico del kit di sopravvivenza trovato nello shuttle. Purtroppo per loro non si trattava di un tubo qualsiasi. Era un lanciamissili. Un lanciamissili compatto M-72, a colpo singolo, in dotazione nell'evenienza che gli astronauti atterrino in territorio nemico e avessero bisogno di un'arma leggera ma ad alto potenziale. Al culmine della sua traiettoria, decine di metri sopra la palla di fuoco dello shuttle disintegrato, Schofield premette il grilletto del lanciamissili. Una testata esplosiva lunga e sottile uscì immediatamente dall'apertura dell'M-72 e sfrecciò nell'aria a velocità sorprendente, puntando dritto sulla cabina di pilotaggio del Penetrator. Il missile infranse il parabrezza rinforzato dell'elicottero, penetrò nell'abitacolo ed esplose con violenza inaudita. Il Penetrator si disintegrò letteralmente e precipitò in un ammasso di rottami in fiamme, lasciandosi dietro una spessa scia di fumo nero per poi schiantarsi sull'asfalto della pista di atterraggio.
Infine, il paracadute del sedile a espulsione si aprì e Schofield toccò terra non lontano dai due rottami in fiamme dello shuttle e del Penetrator. Il presidente e Kevin lo raggiunsero di corsa. «Fichissimo!» gridò Kevin, raggiante. «Hai ragione», disse il presidente. «Ricordami di non puntare mai un'arma carica contro il capitano.» Schofield si sganciò il paracadute guardandosi alle spalle, verso gli edifici dell'Area 7. L'Area 7... Era strano, ma il suo primo pensiero non fu il Football, e nemmeno il futuro del paese. La prima cosa cui pensò fu Libby Gant. L'aveva vista per l'ultima volta durante il combattimento nell'arena, poco dopo che la granata biologica lanciata dal colonnello Harper detonasse. Poi si erano separati. All'improvviso, notò il secondo l'elicottero, quello di Caesar e Logan, fermo all'esterno dell'hangar principale. «Caesar è tornato all'Area 7...» pensò Schofield ad alta voce. «Perché?» In quel momento vide emergere dalla sala di controllo dell'aeroporto una figura che sbracciava. Era Book II Schofield, Kevin e il presidente incontrarono Book II a poca distanza dalla torre di controllo. Book II era pallido, e stava in piedi a stento. Aveva il braccio sinistro fasciato, tenuto piegato sul petto da una benda legata dietro il collo. «Scarecrow!» disse. Era evidente che soffriva molto. «Deve venire a vedere. Subito!» *** Mentre salivano le scale della torre di controllo, Schofield chiese: «Quando è tornato Caesar?» «Sono arrivati qui pochi minuti prima di voi. Quando siete atterrati con lo shuttle stavano correndo tutti verso la 'porta alta'. Io mi stavo occupando di Janson, nella torre di controllo, e abbiamo visto quello che è successo sulla pista. Caesar e Logan hanno assistito alla scena dall'ingresso dell'hangar, ma quando lei ha spedito dritto all'inferno i loro uomini, sono entrati di corsa nell'area.» «Chissà per quale ragione Caesar è tornato alla base...» Schofield stava valutando ogni possibilità. A un tratto guardò Book II «Notizie di Gant?»
«No», rispose Book II. «Pensavo fosse con lei.» «Siamo stati divisi quando è esplosa la granata con lo xenovirus. Dev'essere ancora all'interno del complesso.» Giunsero in cima alla torre. Juliet Janson era accasciata su una sedia, la spalla fasciata da una benda. Era molto pallida. Accanto a lei c'era il Football. «Che cos'è che dovrei vedere?» chiese Schofield, rivolto a Book. «Questo», disse Book, indicando il monitor di un computer sul quale era scritto: PROTOCOLLO DI CHIUSURA S.A. (R) 7-A SISTEMA SICUREZZA 7-3-468201103 *******************ATTENZIONE********************* ****** PROTOCOLLO DI EMERGENZA ATTIVATO. SE NON SI DIGITA UN CODICE DI PROLUNGAMENTO OPPURE UN CODICE DI ANNULLAMENTO ENTRO LE ORE 11.05, VERRÀ ATTIVATA LA' PROCEDURA DI AUTODISTRUZIONE DELLA BASE. DURATA DELLA SEQUENZA DI AUTODISTRUZIONE: 10.00 MINUTI *******************ATTENZIONE********************* ****** Schofield guardò l'orologio. Erano le 10.43. Ancora ventidue minuti, e poi il meccanismo di autodistruzione dell'area si sarebbe attivato. E non c'erano notizie di Gant... Merda! «C'è ancora una cosa», disse Book II. «Siamo riusciti a riaccendere i generatori di corrente, ma lavorano solo al minimo. Qualche sistema funziona: alcune parti del sistema di illuminazione, poche linee di comunicazione e il sistema interno di trasmissione audio-video...» «E...?» «Dia un'occhiata.» Book II premette un pulsante, e uno dei monitor della console si accese immediatamente.
Sullo schermo c'era l'immagine della sala di controllo all'interno dell'hangar. In piedi, nella sala distrutta, c'era Caesar Russell. Guardava direttamente nella telecamera, come aveva già fatto più volte durante la mattinata. Russell stava sorridendo. Quando prese a parlare, la sua voce risuonò negli altoparlanti della torre di controllo. «I miei saluti a lei, signor presidente, e a tutti gli americani. So che è un po' presto per il mio resoconto e che non è ancora scoccata l'ora piena, ma purtroppo, ho perso la mia piccola sfida e credo che nessuno di voi se la prenderà per l'orario sbagliato. I miei uomini sono morti, e la mia causa è perduta. Potrei lodare il presidente e le sue agguerrite guardie del corpo, ma non è nel mio stile. Vi lascio tutti con un piccolo commento: questo paese non sarà mai più lo stesso, non dopo questa giornata...» Caesar fece una cosa che raggelò il sangue di Schofield. Si aprì la giacca dell'uniforme da combattimento, denudandosi il petto. Schofield sentì una stretta alla gola. «No...!» Sul petto di Russell si vedeva una lunga cicatrice verticale, proprio sopra il cuore. Evidentemente in passato aveva subito un intervento. Caesar fece un sorriso diabolico, folle. «Provate ad uccidermi!» disse. «Provateci!» «Che diavolo sta dicendo?» chiese il presidente, girandosi verso Schofield. «Non capisco.» Schofield era ammutolito. Lui aveva capito. Estrasse dal taschino il pezzo di carta che Brainiac aveva stampato quando ancora erano nell'AWACS, all'inizio di quella tragica mattina; Schofield aveva voluto la prova che Caesar avesse fatto impiantare una trasmittente sul cuore del presidente. Schofield aprì il foglio. C'erano i cerchietti che aveva tracciato Brainiac:
Si ricordava ancora le parole esatte che Brainiac aveva usato per spiega-
re. «È una classica segnatura di rebounding. Il satellite manda un segnale di ricerca - le punte acute dalla parte positiva, all'incirca sui 10 gigahertz - e poi, poco dopo, la trasmittente sulla Terra, a quanto pare il presidente, fa rimbalzare indietro il segnale. Queste sono le punte acute in basso, sul lato negativo. Cerca e rimanda. A parte le interferenze, il rebounding sembra ripetersi una volta ogni venticinque secondi.» «A parte le interferenze...» ripeté Schofield, fissando il pezzo di carta col diagramma. «Peccato però che non sia un'interferenza. Sono due segnali distinti...» Prese una biro dalla console e collegò i quattro cerchi in due gruppi.
«Questo grafico indica due segnali separati», spiegò. «Il primo e il terzo. Il secondo e il quarto.» «Che cosa sta dicendo, Schofield?» chiese il presidente. «Quello che dico, signor presidente, è che non è solo lei ad avere una trasmittente impiantata sul cuore, in questa base aerea. Anche Caesar ne ha una. È il suo asso nella manica, la sua ultima chance: anche se ha perso la battaglia, ha comunque vinto la guerra. Se Caesar muore, le testate collocate negli aeroporti saltano in aria lo stesso.» «Ma quel pazzo si trova dentro l'area!» disse Book II, il volto pallido per il dolore. «Esattamente tra venti minuti inizierà la procedura di autodistruzione dell'area...» «Lo so», rispose Schofield. «E lui morirà nell'esplosione. Il che significa che dovrò fare qualcosa che non avrei mai pensato di dover fare: devo rientrare nell'Area 7 e salvare Caesar.» SETTIMO CONFRONTO 3 LUGLIO, ORE 10.45
Schofield stava raccogliendo tutte le armi a disposizione. Con Book II e Juliet feriti, Schofield sapeva di non avere scelta: doveva rientrare nell'Area 7 da solo. Si fece dare il Maghook di Book e lo infilò nella custodia che portava dietro la schiena. Nel P-90 che Seth Grimshaw aveva portato fuori dal complesso rimanevano solo una quarantina di pallottole, ma era sempre meglio che rimanere senza fucile. Mise una pistola M-9 di Book e la sua Desert Eagle nelle fondine laterali della tuta. Infine cambiò il microfono da polso e l'auricolare, danneggiati dall'acqua, con quelli perfettamente funzionanti di Juliet. Book e Juliet sarebbero rimasti nella torre di controllo, armati di un P90, a guardia del presidente, di Kevin e del Football, aspettando l'arrivo dei marine e dell'Esercito. Schofield prese il cellulare di Nicholas Tate e computò un numero a caso. Un attimo dopo sentì la voce di Dave Fairfax, che s'inseriva nelle chiamate in uscita dall'area. «Signor Fairfax, avrei bisogno di un favore.» «Quale?» «Ho bisogno dei codici di autorizzazione per bloccare la procedura di autodistruzione dell'Area 7. Immagino che non li tengano sul comodino, tra le pagine di un libro. Credo che le toccherà trovare il coordinamento militare locale e tentare di convincerlo a darci quei codici.»
«Quanto tempo ho?» chiese Fairfax. «Le rimangono esattamente diciannove minuti.» «Mi darò da fare.» Fairfax riattaccò. Mentre Schofield inseriva un caricatore nel P-90, un'ombra gli si materializzò accanto: era Kevin. «Credo che lei sia ancora viva», disse senza preamboli. Schofield guardò il bambino, tentando di capire a che cosa si riferisse. «Come facevi a sapere che pensavo a lei?» «Non so come. Semplicemente lo sapevo. Sapevo che il dottor Botha diceva bugie agli uomini dell'Aeronautica. Ho capito subito che tu eri una persona buona. Non riesco a capire esattamente tutto quello che la gente pensa, ma sento quello... quello che sentono. Tu in questo momento stavi pensando a qualcuno a cui vuoi bene, qualcuno che è ancora in questo posto.» «Ti è capitato anche sullo shuttle, quando mi hai riconosciuto?» «Sì.» Schofield aveva caricato il fucile. «C'è qualcosa d'importante che vuoi dirmi prima che io entri?» «L'ho vista una sola volta, quando voi due eravate fuori dalla stanza di vetro. Di lei so una sola cosa: tu le piaci davvero. Devi fare tutto quello che puoi per salvarla.» Sul volto di Schofield si apri l'ombra di un sorriso. «Grazie.» E con questo corse fuori dalla torre di controllo. Quando arrivò alla «porta alta», non ebbe fortuna. Era chiusa. Probabilmente Caesar aveva cambiato manualmente il codice. Non rimaneva tempo per passare anche quel compito a Fairfax. Rimaneva solo l'altra opzione: il tunnel dell'uscita di emergenza. Schofield corse verso il Penetrator abbandonato da Caesar. Erano le 10.48. Due minuti più tardi l'elicottero di Caesar, con Schofield ai comandi, atterrò accanto all'ingresso dell'uscita di emergenza sollevando una nube di sabbia. Non era stato difficile trovare l'uscita di emergenza. Era bastato usare come punto di riferimento il biplano verde di Hoeg, rimasto là. Schofield saltò giù dall'elicottero ancora prima che i rotori si fossero fermati e iniziò a correre verso il tunnel di emergenza. Saltò nella trincea scavata nella terra. Con sollievo vide che la grande porta d'acciaio era aperta. In un attimo Schofield era sparito sotto terra.
Alle 10.51 Schofield aveva raggiunto il livello 6. La stazione X-rail era immersa in un buio impenetrabile. Solo il sottile fascio di luce della torcia elettrica, montata sulla canna del P-90, illuminava i corpi dei soldati morti ammassati sulla banchina, uccisi nei precedenti scontri a fuoco. L'Aeronautica contro i servizi segreti... I sudafricani contro l'Aeronautica... I marine contro l'Aeronautica... Cristo santo... Kevin aveva senza dubbio colpito nel centro. Oltre a dover salvare Caesar Russell, Schofield aveva un motivo «personale» per ritornare all'interno della base: voleva trovare Libby Gant. Non aveva idea di che cosa le fosse successo dopo lo scoppio della granata di xenovirus nell'hangar principale, ma una voce continuava a dirgli che era ancora viva. Portò il microfono alla bocca. «Fox. Fox. Mi senti? Qui è Scarecrow. Sono tornato dentro. Mi senti?» In un luogo buio, da qualche parte nell'Area 7, Libby Gant si mosse. Una voce era entrata nel suo sogno. «... senti?» Era rimasta priva di conoscenza per quasi un'ora e non aveva la minima idea di ciò che le era successo né di dove si trovasse. L'ultimo ricordo che aveva era quello della sala di controllo. Aveva scoperto qualcosa di importante, ma poi, di colpo... il nulla. Mentre usciva faticosamente dal suo sogno, si rese conto che indossava ancora la tuta pressurizzata gialla. Non aveva più il casco, però. Solo allora si accorse del dolore alle spalle. Gant spalancò gli occhi e sentì una mano ghiacciata afferrarle la spina dorsale. Era legata su due travi d'acciaio incrociate in modo da formare una grossa «X». I suoi polsi erano bloccati in alto, sopra la sua testa, fissati alle travi con nastro adesivo, mentre altri giri di nastro tenevano il suo collo stretto contro l'incrocio delle travi. Anche le caviglie erano legate con nastro adesivo. Gant iniziò a respirare affannosamente. Che diavolo stava succedendo? Era prigioniera di qualcuno.
Legata a quella specie di croce, inerme, con gli occhi sgranati per il terrore, Gant cominciò a riprendere lentamente il controllo dei suoi sensi. Dopo un po' riuscì a guardarsi intorno e cercò di capire dove si trovasse. La prima cosa che notò fu che mancava la corrente elettrica. Solo tre piccoli falò illuminavano la zona più vicina a lei; il resto dello spazio era avvolto nell'ombra. Ci volle un bel po' prima che si rendesse conto di non essere sola, e non fu una scoperta piacevole. A farle compagnia il colonnello Hagerty, seduto alla sua destra con gli occhi chiusi e la testa che penzolava in avanti, legato a un'altra «croce». Ogni tanto emetteva un debole gemito. Gant era sempre più preoccupata. Si diede un'altra occhiata intorno. Si trovava sotto qualcosa di sporgente, una balconata o una galleria. Nello spazio aperto di fronte a lei riusciva a intravedere una struttura quadrata, leggermente rialzata, simile a un palcoscenico. Dappertutto c'erano giocattoli e una grande quantità di schegge di vetro. Sembrava che in precedenza quella parte rialzata fosse stata circondata da pareti di vetro, ora in gran parte distrutte. Ma non era un palcoscenico: i palcoscenici non sono circondati da vetrate. Finalmente Gant capì. Era la parte del laboratorio dove quella mattina avevano scoperto il cubo di vetro di Kevin. Gant si trovava sotto il laboratorio di osservazione. Improvvisamente ebbe un tuffo al cuore: c'era una terza persona nella stanza. Era Jerome Harper, il colonnello dell'Aeronautica. O, meglio, quello che ne rimaneva. Stava alla sinistra di Gant. Aveva le braccia legate a una traversa sopra la sua testa. La testa gli penzolava, trattenuta solo dal nastro adesivo che aveva intorno al collo. Ma fu la parte inferiore del suo corpo a gettare Gant nel panico. Quel corpo non aveva più le gambe. Erano state tagliate via. Gli era stato tranciato via tutto, dalla vita in giù - come fosse la carcassa di un animale in un mattatoio - e ora, in corrispondenza del taglio, non rimaneva altro che un ammasso di carne sanguinante. Era la cosa più disgustosa che Gant avesse mai visto. Di colpo si rese conto della situazione in cui era finita. Era nelle mani di un mostro. Un individuo che fino a quella mattina era
stato prigioniero all'Area 7. Lucifer Leary. Il «Chirurgo di Phoenix». Il serial killer che aveva massacrato decine di autostoppisti sulla statale tra Las Vegas e Phoenix; l'ex studente di medicina che rapiva le sue vittime, se le portava a casa e poi mangiava parti del loro corpo aspettando che morissero. Gant continuava a guardarsi intorno, terrorizzata. Leary era un uomo imponente. Si ricordò che era quasi alto due metri e che aveva un tatuaggio sulla faccia. Per fortuna in quel momento non era nei paraggi. A parte Harper, Hagerty e lei, l'area di osservazione era completamente vuota. E questo rendeva l'atmosfera ancora più inquietante. *** Schofield puntò verso le scale sul lato est del livello 6. Doveva raggiungere la sala di controllo dell'hangar principale e digitare i codici per evitare l'attivazione della sequenza di autodistruzione. Prima delle 11.05. Se non ci fosse riuscito, avrebbe dovuto catturare Caesar e portarlo fuori dell'area prima che la testata termonucleare esplodesse. C'era ancora molto da fare. Aprì la porta delle scale e si trovò di fronte a un enorme orso nero: era eretto sulle zampe posteriori, pronto ad artigliarlo. Schofield scattò indietro e si lanciò giù dalla banchina dell'X-rail. Tutti gli orsi, cuccioli e adulti, uscirono correndo in fila indiana dalla porta sulle scale. Nicholas Tate III non aveva avuto un'allucinazione. C'erano veramente degli orsi liberi nell'area. Il maschio adulto fiutò l'aria un attimo, poi cominciò a correre in direzione ovest, verso l'altro capo della stazione sotterranea. Gli altri animali lo stavano seguendo. Non appena si allontanarono di qualche metro, Schofield saltò sulla banchina e varcò di corsa la porta rimasta aperta sul vano scale. Dave Fairfax digitava sui tasti del computer alla massima velocità. Dopo nemmeno cinque minuti di lavoro il computer aveva già trovato il codice di annullamento della procedura di autodistruzione dell'Area 7. Non era
niente male, come risultato, visto il poco tempo che aveva avuto a disposizione. C'era solo un problema. Il codice era composto da 640 milioni di numeri. Fairfax ritornò al lavoro. Ore 10.52. Schofield salì le scale a due gradini alla volta, guidato solo dal sottile fascio di luce della torcia elettrica. Mentre correva, fece un altro tentativo di raggiungere Gant via radio. «Fox, qui è Scarecrow. Riesci a sentirmi?» Non poteva gridare e dunque sussurrava nel microfono. «Ripeto, Fox, sono Scarecrow...» Nessuna risposta. Attraverso la guarnizione della porta antincendio del livello 5, continuavano a fuoriuscire rivoli d'acqua. Schofield proseguì. Al livello 4 la porta antincendio era spalancata, ma Schofield non si fermò. Continuò a salire le scale di corsa. Dall'altra parte del livello 4, Gant udì di nuovo quella voce. Aveva un suono metallico e sembrava arrivare da molto lontano: «...peto, Fox, sono Scarecrow...» Scarecrow... La voce usciva dall'auricolare di Gant, che le era caduto dall'orecchio e penzolava un po' più in basso. Doveva esserle sfuggito quando era stata aggredita ed era svenuta. Con difficoltà, Gant riuscì a sollevare la testa fino a vedersi il polso sinistro, fissato sopra la sua testa col nastro adesivo. Aveva ancora il microfono al polso, ma non c'era modo di avvicinarlo alla bocca, e purtroppo quel tipo di microfono funzionava solo da una breve distanza. Iniziò a picchiettare sul microfono col dito. Schofield era arrivato alla porta antincendio dietro la quale si trovava il livello 2; si fermò di colpo. Aveva sentito uno strano rumore nell'auricolare. Qualcuno batteva contro il microfono: tic-tic-tiiic. Tìc-tiiic-tic... Corti segnali intercalati da segnali più lunghi. Codice Morse. Dicevano «F-O-X. F-O-X...» «Fox, sei tu? Un segnale per no, due per sì.»
Tic-tic. «Stai bene?» Tic. «Dove sei? Batti il numero del piano.» Tic-tic-tic-tic. Ore 10.53. Schofield entrò dalla porta antincendio del livello 4, tenendo il fucile puntato in avanti e illuminando la stanza con la torcia elettrica. Era buio. Quella parte del quarto piano era completamente deserta. La camera di decompressione era vuota, così come le zone adibite agli esperimenti é le passerelle sospese. La porta a scivolo inserita nel pavimento, che conduceva al reparto prigionieri del livello 5, era aperta. L'acqua nel livello 5 era salita considerevolmente nelle ultime ore. Ormai il liquido nero lambiva il pavimento del laboratorio. Aveva raggiunto il suolo del livello 4, tanto che la botola ora sembrava una piccola piscina rettangolare. Il livello 5 era completamente allagato. Schofield passò accanto alla piscina. Qualcosa si mosse nell'acqua nera, veloce. Schofield si voltò di scatto, illuminando l'acqua con la torcia, ma, qualsiasi cosa fosse, era già sparita. La situazione era davvero critica: il complesso era immerso nel buio, gli orsi vagavano per le scale, Caesar e Logan si trovavano chissà dove, l'acqua aveva invaso il livello 5, per non parlare della possibilità d'incontrare altri prigionieri. Arrivò alla parete che divideva il livello 4 in due sezioni, aprì la porta e con la torcia esaminò l'interno della stanza. La vide immediatamente, nel lato più lontano, oltre i resti del cubo di vetro in cui Kevin era vissuto sino a quel giorno. Era appoggiata contro una croce di tubi d'acciaio. *** Schofield attraversò la stanza in un attimo e si lasciò cadere in ginocchio davanti a Gant, buttando a terra il suo P-90. Le prese la testa tra le mani e la baciò dolcemente sulle labbra. Gant rimase un po' confusa, poi si riscosse e rispose al bacio.
Ma subito Schofield s'accorse dei due uomini ai lati di Gant. Prima vide Hagerty, svenuto, legato con le braccia allargate. Poi il colonnello Harper, la cruda carne rossa del suo basso ventre, la parte terminale della spina dorsale esposta. «Santo cielo!» esclamò, quasi senza voce. «Dai!» disse Gant. «Non abbiamo molto tempo. Tra poco sarà di ritorno.» «Chi?» Schofield aveva cominciato a slegare il nastro che le stringeva il collo. «Lucifer Leary.» «Oh merda!» Schofield iniziò a lavorare freneticamente. Finalmente il nastro adesivo venne via, e l'uomo iniziò a liberarle uno dei polsi... Un forte rumore riecheggiò nella stanza buia. Schofield e Gant alzarono la testa, spaventati. «Il montacarichi...» disse Schofield. «Dev'essere ridisceso», sussurrò Gant. «Dai, veloce!» Schofield tentò con dita febbrili di liberare il polso sinistro di Gant, ma il nastro era molto stretto e non si riusciva a individuare il lembo finale. Stava perdendo troppo tempo... Si alzò e corse verso i resti del cubo di vetro, per trovare una scheggia di vetro con cui tagliare il nastro adesivo. Si lasciò cadere in ginocchio tra i pezzi di vetro, cercando un frammento che avesse le dimensioni adatte e che fosse tagliente; ne trovò uno. Proprio in quell'attimo, Gant gridò «Scarecrow!» Lui balzò in piedi e si girò. Si trovò di fronte a un uomo molto più alto di lui, massiccio e dalle spalle possenti. Schofield raggelò. L'uomo era a meno di un metro, completamente immobile, e lo scrutava in silenzio. L'oscurità ne occultava il volto. Schofield non l'aveva nemmeno sentito arrivare. «Lo sai perché la donnola non ruba mai dal nido dell'alligatore?» chiese l'uomo. Schofield non riusciva nemmeno a vedere la bocca che si muoveva, tanto era buio. Deglutì ma non rispose. «Perché non sa quando torna l'alligatore», concluse l'uomo e fece un passo in avanti, entrando nel fascio di luce di un falò. Era la faccia più diabolica e terrificante che Schofield avesse mai visto. Era di dimensioni impressionanti, come il resto del corpo, e aveva tutto il lato sinistro coperto da un terribile tatuaggio che rappresentava i cinque
solchi lasciati dagli artigli di una bestia feroce. Era di corporatura gigantesca, alto due metri, con spalle massicce e muscolose e gambe poderose come due tronchi d'albero. Superava Schofield di una ventina di centimetri. Indossava i jeans che facevano parte della divisa dei detenuti e una camicia azzurra alla quale erano state strappate le maniche. Dai suoi occhi non trapelava alcun sentimento umano: erano due vuote orbite nere. Fissavano Schofield. Poi Leary sorrise minaccioso, lasciando vedere due file di denti gialli e guasti. L'effetto fu quasi ipnotico. Schofield lanciò un rapido sguardo prima a Gant, poi al suo P-90, rimasto sul pavimento proprio accanto a lei. Con un movimento fulmineo ed estrasse le due pistole dalle fondine. Ma le pistole non erano ancora puntate che Leary, con la rapidità di un serpente a sonagli, scattò in avanti e chiuse i polsi di Schofield nella morsa delle sue enormi mani. Poi cominciò a stringere. Mai in tutta la sua vita Schofield aveva sentito un dolore così lancinante. Cadde in ginocchio nel giro di pochi secondi, digrignando i denti, mentre Leary continuava a stritolargli i polsi con forza sovrumana. La circolazione del sangue nelle mani di Schofield si era fermata, le dita stavano diventando rosse e gonfie, come sul punto di esplodere. Dovette lasciar andare le pistole. Caddero sul pavimento, e Leary le allontanò con un calcio. Poi il gigante lo afferrò per il collo, lo alzò senza sforzo e lo scaraventò lontano, in mezzo ai resti del cubo di vetro. Schofield atterrò violentemente sulla schiena e scivolò indietro attraverso frammenti di vetro fino a colpire con la nuca il lato della parete di vetro rimasto intatto. Il vetro esplose, Schofield cadde dal bordo della parte rialzata e fini immobile sul pavimento, investito da una pioggia di vetri. Lucifer lo seguì facendo il giro del palco. I vetri scricchiolavano sotto i suoi piedi. Schofield tentò disperatamente di rialzarsi, ma Leary lo raggiunse in un attimo. Il killer lo sollevò di peso dal pavimento, tenendolo per l'uniforme da combattimento, e lo colpì in piena faccia con la mano libera. Gant non poteva fare altro che rimanere a terra a guardare, le mani legate e il P-90 di Schofield a pochi centimetri da lei sul pavimento. Lucifer colpì di nuovo e poi mollò improvvisamente la presa.
Schofield atterrò sulla schiena e rimase immobile in mezzo alle schegge di vetro. Prima ancora che potesse cominciare a muoversi, Lucifer si abbassò di nuovo, lo sollevò in aria e lo scaraventò attraverso la porta del livello 4. Schofield rimase sul pavimento dell'area di decompressione, insanguinato e senza fiato. Lucifer lo seguì con calma. Un calcio violento e Schofield rotolò fino al bordo della botola piena d'acqua. Proprio in quel momento, inaspettatamente, la testa gigantesca di un rettile uscì dall'acqua, con le fauci spalancate, mirando alla testa di Schofield. Con un riflesso condizionato, Schofield riuscì a sottrarre la testa, tirandola indietro. Due file di denti aguzzi si chiusero con un rumore secco a pochi millimetri dalla sua faccia. Gesù! Un drago di Komodo. La più grossa lucertola del mondo, capace di divorare un uomo adulto in brevissimo tempo. Il presidente aveva accennato al fatto che nella base aerea se ne trovavano alcuni esemplari, rinchiusi nelle gabbie del livello 5, dove fino a poco prima stavano anche gli orsi Kodiak. Erano stati usati per il progetto del vaccino. Le chiusure elettriche delle gabbie dovevano essersi aperte dopo l'interruzione dell'alimentazione. Quando vide il drago di Komodo, Lucifer si fermò con un sorriso diabolico sulla faccia. Prese Schofield e lo sollevò nuovamente senza la minima fatica. Un attimo dopo lo teneva sospeso sopra quella piscina infestata di rettili. Mentre si dimenava e scalciava nel tentativo disperato di liberarsi della presa di Lucifer, Schofield vide i corpi scuri di almeno due rettili contorcersi nell'acqua sotto di sé. Lucifer lasciò cadere Schofield. Schofield spari nell'acqua in un'esplosione di schizzi. Lucifer fece un rapido passo e spinse il pulsante di chiusura sulla parete. La botola di metallo cominciò istantaneamente a scorrere sull'acqua. Schofield non era nemmeno riapparso in superficie che si era già chiusa del tutto. Sigillata. Quando sentì battere sotto la porta chiusa, Lucifer fece una risata gutturale. Il rumore dell'acqua che si agitava sotto la botola aumentò di colpo. Schofield se la stava vedendo molto da vicino coi due draghi.
Sempre sorridendo, Lucifer girò i tacchi e ritornò dall'altra parte del livello 4. Ora si sarebbe preso il piacere di mutilare la bella soldatessa. *** Gant aveva l'orrore negli occhi quando Lucifer Leary tornò nel laboratorio di osservazione. No. Lucifer non poteva averlo ucciso... No... Il gigantesco assassino attraversò con assoluta calma la vasta stanza, la testa inclinata in avanti, gli occhi puntati dritti su Gant. S'inginocchiò davanti a lei e mise la faccia a pochi millimetri dalla sua. Aveva un alito tremendo, puzzava di carne umana. Lucifer toccò i capelli di Gant. «Che peccato, che peccato!» disse canticchiando in falsetto. «Il tuo cavaliere con l'armatura scintillante non era poi così bravo come credeva. Ci ha lasciati soli soletti. Finalmente è venuta il momento di... conoscerci meglio.» «Non direi proprio», disse una voce rabbiosa dietro a Lucifer. Il gigante si voltò di scatto. E là, sulla soglia dell'area di decompressione, bagnato fradicio, c'era Shane Schofield. «Se ti sei messo in testa di toccarla anche solo con un dito, devi prima togliermi di mezzo», disse con aria minacciosa. Lucifer emise un urlo rabbioso e con un movimento rapidissimo raccolse il P-90 di Schofield da terra. Lasciò partire una raffica di colpi. Ma Schofield si era spostato di un passo, sparendo dietro la parete divisoria crivellata dalle pallottole di Lucifer. Pochi secondi dopo il caricatore del P-90 era vuoto. Lucifer scaraventò il fucile per terra e attraversò di corsa l'area di osservazione. In un attimo raggiunse la zona di decompressione. La botola era di nuovo aperta. Si potevano scorgere le due sagome dei draghi di Komodo che nuotavano in superficie. Per qualche strana ragione, non avevano ucciso Schofield. Lucifer lo vide, accanto alla camera di decompressione e a destra della piscina, e gli corse incontro. Lasciò partire subito un violento colpo distendendo tutto il braccio destro, ma Schofield scansò il pugno spostandosi
di lato. Ora era più calmo di prima, più concentrato, e non era più impaurito. Aveva studiato l'avversario. Lucifer si girò e sferrò un altro pugno. Di nuovo colpì a vuoto. Schofield, stavolta, lo ripagò con un secco colpo in piena faccia. Gli ruppe il naso. Lucifer sembrò più sorpreso che dolorante. Toccò il sangue che gli usciva dal naso come se fosse una sostanza sconosciuta, come se nessun altro uomo l'avesse ferito prima d'allora. Poi Schofield lo raggiunse con un gancio potentissimo, e per la prima volta il gigante barcollò leggermente. Schofield non perse tempo e lo colpì di nuovo, più forte ancora. Lucifer arretrò con passo incerto. E Schofield lo colpì ancora. E ancora. Il colpo più violento che Schofield avesse mai tirato in tutta la sua vita. Stavolta Lucifer barcollò fino al bordo della botola. Stava per girarsi, ma in quel preciso istante Schofield gli infilò un altro destro diritto sul naso, facendogli perdere l'equilibrio. Lucifer cadde all'indietro... dentro la piscina coi draghi di Komodo. Quando Schofield, dopo qualche attimo, riuscì a vedere qualcosa tra la schiuma e le onde, i Komodo erano già all'attacco di Lucifer. Lo spinsero sotto l'acqua in un turbinio di pelle scura, unghie e denti aguzzi, in mezzo al quale si agitavano le mani e i piedi di Lucifer. Nella stanza risuonarono le urla strazianti dell'uomo. Poi, di colpo, il silenzio. La piscina si tinse di rosso e le gambe di Lucifer smisero di muoversi, mentre i rettili si buttavano sull'enorme corpo inerme. Schofield osservò la scena con disgusto, ma poi si disse che se mai qualcuno meritava una morte così orribile, quell'uomo era proprio Lucifer Leary. Aveva visto abbastanza. Spinse il pulsante e la botola si chiuse su quell'orripilante spettacolo. Schofield corse da Gant. Ore 10.59. Un minuto dopo Gant era libera, in piedi accanto a Schofield, intento a tagliare il nastro adesivo che legava Hot Rod Hagerty alla croce. «Questo compleanno sarà davvero indimenticabile», disse Gant. Ma poi si fece seria e indicò l'area di decompressione. «Che cos'è successo là dentro? Pensavo che Leary...»
«Quel bastardo mi ha buttato in una piscina piena di draghi di Komodo», disse Schofield. «E come hai fatto a uscirne?» Schofield estrasse il suo Maghook dalla fondina. «Sembra che i rettili siano eccezionalmente sensibili alla carica magnetica. L'ho saputo stamattina da un ragazzino di nome Kevin. Così ho acceso il mio Maghook e loro si sono allontanati. Poi ho aperto la porta usando la leva in basso e sono tornato da te. Peccato che Lucifer non avesse un bulbo ad alta carica magnetica, quando è toccato a lui finire nella piscina.» «Bella questa», disse Gant. «Proprio bella. Ma dove sono il presidente e Kevin?» «Al sicuro. Fuori dal complesso.» «Ma allora perché sei qui?» Schofield guardò l'orologio. Erano esattamente le 11.00. «Per due ragioni. Primo perché tra esattamente cinque minuti si attiverà la sequenza di autodistruzione della base. Altri dieci minuti e questa maledetta baracca diventerà una nuvola di polvere radioattiva. Non possiamo permettere che questo accada con Caesar Russell ancora all'interno della base. Dunque, o evitiamo che la bomba esploda, oppure portiamo Caesar Russell fuori prima dello scoppio.» «Aspetta un attimo!» esclamò Gant. «Che vuoi dire? Dobbiamo salvare la vita a Caesar?» «A quanto sembra, il nostro ospite ha avuto la geniale idea di farsi impiantare anche lui una trasmittente sul cuore. Se muore, il paese salta in aria.» «Che figlio di puttana!» disse Gant. «E la seconda ragione?» Schofield arrossì. «Dovevo trovarti.» Il volto di Gant s'illuminò, ma, come se niente fosse, disse: «Di questo possiamo parlare anche dopo». «Forse non hai tutti i torti», rispose Schofield. Aveva giusto finito di liberare Hagerty dal nastro adesivo. Era evidente che l'uomo non era del tutto in sé. «Che ne diresti se discutiamo questo argomento durante un altro appuntamento?» Gant fece un delizioso sorriso. «Ci puoi scommettere.» ***
Ore 11.01. Schofield e Gant stavano salendo col piccolo ascensore del montacarichi. Ora avevano a disposizione soltanto le pistole di Schofield: Gant la M-9, Schofield la sua Desert Eagle. Schofield aveva mandato Hagerty giù al livello 6 perché fuggisse attraverso l'uscita di sicurezza della base. Quando aveva visto il cadavere terribilmente mutilato del colonnello Harper, Hagerty aveva evitato qualsiasi discussione. Era più che contento di lasciare l'Area 7 il prima possibile. «Non so se riusciremo a fermare il sistema di autodistruzione», disse Gant mentre Schofield le praticava l'iniezione di vaccino prima di tornare nell'hangar conlaminato di xenovirus. «Dobbiamo digitare i codici entro le 11.05, e non ne conosciamo nemmeno uno.» «Ci stavo lavorando», disse Schofield prendendo il cellulare dal taschino. Richiamò l'ultimo numero e la voce di Fairfax rispose in meno di un secondo. «Eccomi, capitano Schofield.» «Signor Fairfax, come stiamo andando?» «Il codice per interrompere la procedura di autodistruzione è 10502», rispose Fairfax. «Me lo sono procurato a modo mio, passando dalla porta di servizio, con un codice di sorgente. È il numero di operatore di una delle teste calde là dentro, un colonnello dell'Aeronautica di nome Harper.» «Credo che non gli serva più», disse Schofield. «La ringrazio, signor Fairfax. Se ne esco vivo, prima o poi le offro una birra.» Rimise il cellulare nel taschino. «Okay. E ora spegniamo questa bomba nucleare a orologeria. Poi ci manca solo Caesar. Vivo.» Continuavano a salire nell'oscurità della tromba. Sopra le loro teste intravedevano l'immensa apertura dell'hangar del livello terra, leggermente illuminata dal riflesso arancione dei fuochi. Lucifer Leary aveva utilizzato la piattaforma per scendere al livello 4. Arrivati alla tromba del montacarichi, passando per il laboratorio di osservazione, Schofield e Gant se l'erano trovata davanti. Sulla piattaforma c'erano non meno di quindici corpi - prigionieri, soldati, marine e membri dello staff della Casa Bianca - cadaveri che Leary aveva ammassato per qualche insano proposito.
Mentre salivano, Gant mise la mano sotto la piattaforma del piccolo ascensore e tirò fuori il suo Maghook, che era rimasto lì attaccato. «Preparati», disse Schofield. Stavano arrivando nell'hangar principale. Era una visione apocalittica. Svariati fuochi accesi illuminavano l'enorme spazio col loro bagliore rosso e arancione. C'erano cadaveri dappertutto. E i relitti di elicotteri esplosi, i veicoli da traino distrutti, i resti sparpagliati delle barricate dell'unità Bravo. Non era stato risparmiato niente. Le finestre della sala di controllo erano tutte in frantumi. Persino una delle gigantesche casse di legno appese al soffitto era stata trafitta da un pezzo di rotore del Nighthawk Two. Per quanto potesse sembrare strano, in mezzo al pandemonio che si era scatenato nell'hangar un solo oggetto non era stato toccato dalla distruzione. Il Marine One. Era ancora lì, sul lato ovest della tromba del montacarichi, salvo per miracolo. Quando l'ascensore si fermò nell'hangar, Schofield e Gant si guardarono intorno con grande attenzione. Ore 11.01. «Il computer che esegue il programma di autodistruzione è nella sala di controllo», disse Gant. «È lì che dobbiamo andare», rispose Schofield, già pronto a scattare. «Aspetta un attimo!» disse Gant a un tratto. Stava guardando tra le macerie, alla ricerca di qualcosa. «Non abbiamo tempo da perdere», rispose Schofield. «Allora vai tu», disse lei. «Chiamami se hai bisogno di aiuto. Devo sbrigare una cosa prima di raggiungerti.» «Va bene.» Schofield era già partito verso l'ufficio interno dell'hangar. Gant si era lasciata cadere in ginocchio, e frugava tra i corpi e i detriti ammassati vicino alla piattaforma dell'ascensore. Schofield entrò di corsa al piano terra dell'ufficio, con la Desert Eagle in pugno. Arrivò alle scale e salì. Per la prima volta in quella maledetta mattina, sentiva di avere il controllo della situazione. Aveva il codice per interrom-
pere la chiusura della base: doveva solo inserirlo nel computer e disarmare la bomba atomica. Poi avrebbe avuto tutto il tempo per trovare Caesar, ormai rimasto solo; bisognava evitare però che il bastardo si suicidasse, portarlo fuori dall'Area 7 e consegnarlo nelle mani della giustizia... Ore 11.03. Schofield raggiunse la sala di controllo e aprì la porta socchiusa. Quello che vide lo colse di sorpresa. Nel centro della stanza devastata, seduto su una sedia girevole e con un largo sorriso sulle labbra, stava Caesar Russell. Sembrava che lo stesse aspettando. *** «Mi aspettavo che sarebbe tornato», disse Caesar. Non era armato. «Sa, capitano. Un uomo come lei in un paese come questo è sprecato. Lei è una persona intelligente, coraggiosa, e farà sempre tutto il possibile per vincere, anche azioni del tutto illogiche e bizzarre come quella che sta per fare ora: salvarmi. I suoi sforzi non saranno mai apprezzati dagli stolti che governano la nazione.» Fece un lungo sospiro. «Questa è la ragione per cui mi dispiace enormemente che lei debba morire.» In quel momento, Schofield sentì la canna di una pistola contro la tempia. Si voltò lentamente. Era il maggiore Kurt Logan. Stringeva in mano una SIG-Sauer, che ora mirava al centro della fronte di Schofield. Ore 11.04. «Venga avanti», disse Caesar. «La prego.» Logan prese la Desert Eagle di Schofield e lo condusse nella sala controllo. «Venga a vedere la condanna a morte di tutta l'America.» Caesar indicò con un gesto della mano uno schermo illuminato, posto dietro alle sue spalle. Era come quello che Schofield aveva visto all'esterno, nella torre di controllo della pista di atterraggio. C'era una scritta. PROTOCOLLO DI CHIUSURA S.A.(R) 7-A
SISTEMA SICUREZZA 7-3-468201103 **********************ATTENZIONE****************** ****** PROTOCOLLO DI EMERGENZA ATTIVATO. SE NON SI DIGITA UN CODICE DI PROLUNGAMENTO OPPURE UN CODICE DI ANNULLAMENTO ENTRO LE ORE 11.05 VERRA' ATTIVATA LA PROCEDURA DI AUTO DISTRUZIONE DELLA BASE. DURATA DELLA SEQUENZA DI AUTODISTRUZIONE: 10.00 MINUTI ***********************ATTENZIONE***************** ****** In basso a destra dello schermo Schofield vide un cronometro che segnava anche i secondi. 11.04.29. 11.04.30. 11.04.31. «Tic-tac, tic-tac», disse Caesar. «Dev'essere frustrante per uno come lei, capitano. Nessun piano astuto, nessuno shuttle, nessuna via d'uscita segreta. Una volta che si è attivata la sequenza di autodistruzione, niente e nessuno potrà fermarla. Io morirò, lei morirà, e insieme a noi morirà l'America.» L'orologio sullo schermo continuava il suo inesorabile conteggio. Schofield non poteva far altro che guardare. 11.04.56. 11.04.57. Schofield strinse i pugni per la rabbia e la frustrazione. E pensare che aveva il codice! Lo conosceva! Ma non era in grado di utilizzarlo. E dove diavolo era finita Gant? Che cosa stava facendo? 11.04.58. 11.04.59. 11.05.00. «Pronti, partenza, via!» Caesar stava sorridendo. «Merda...» sussurrò Schofield. Il computer emise un lungo bip.
PROTOCOLLO DI CHIUSURA S.A.(R) 7-A SEQUENZA AUTODISTRUZIONE DELLA BASE ATTIVATA. 10.00 MINUTI ALL'ESPLOSIONE. Sullo schermo iniziò il conto alla rovescia. 10.00. 9.59. 9.58. Istantaneamente una gran quantità di luci intermittenti rosse si accese nell'hangar, nella sala di controllo, all'interno della tromba del montacarichi, dappertutto. Una voce registrata giunse da tutti gli altoparlanti della base. «Attenzione! Dieci minuti all'autodistruzione...» E proprio mentre i due erano illuminati dalle stroboscopiche luci rosse, Kurt Logan distolse per un secondo lo sguardo per guardare l'hangar. Schofield colse l'occasione al volo. Si gettò contro Logan e lo spinse indietro mandandolo a sbattere contro la console di un computer. Logan tentò di puntare di nuovo la pistola contro di lui, ma Schofield gli afferrò il polso e lo sbatté con tutte le sue forze contro la console. Logan lasciò cadere la pistola. Caesar stava lì, sulla sedia, rilassato, con un largo sorriso soddisfatto sulle labbra mentre osservava compiaciuto i due uomini che lottavano. Schofield e Logan si affrontavano sotto la luce a intermittenza, erano come due immagini speculari, due soldati scelti che avevano imparato il loro mestiere sullo stesso manuale e che si scambiavano colpi identici utilizzando identiche contromosse. Schofield, però, era esausto dopo il suo incontro con Lucifer e, quando lasciò partire un pugno largo e prevedibile, Logan, che non aspettava di meglio, lo schivò, pronto a punirlo senza pietà. Il maggiore scattò in avanti e lo prese per i fianchi, sollevandolo da terra e spingendolo verso una delle finestre rotte della sala controllo. Schofield si ritrovò scaraventato, schiena in avanti, dalla finestra della sala. Chiuse gli occhi, attendendo l'impatto tremendo, dieci metri sotto di lui. Ma quell'impatto non ci fu. Il volo fu molto più breve del previsto. Atterrò di schiena su qualcosa di duro e ruvido, che cominciò a oscillare. Spalancò gli occhi.
Era finito su una delle enormi gru di legno appese al sistema di rotaie che scorrevano lungo il soffitto dell'hangar. La gru sulla quale era finito era ferma a poca distanza dalla sala di controllo, leggermente spostata sulla sinistra per non ostruire la vista a chi si trovava all'interno della sala. Un triangolo di spesse catene collegava la massiccia gru alla rotaia sul soffitto, più due metri sopra Schofield. Le catene erano tenute insieme da un meccanismo a molla costituito da un grosso moschettone metallico simile agli anelli che chiudono le collane. Attaccato al meccanismo circolare c'era un piccolo congegno che permetteva di guidare la gru manualmente, una scatoletta con soli tre pulsanti per muovere avanti e indietro la gru lungo le rotaie. Di colpo la gru beccheggiò violentemente. Schofield alzò la testa. Logan non era tipo da perdere tempo. Era saltato sulla gru. Voleva finire il lavoro che aveva iniziato. Giù sul pavimento dell'hangar Libby Grant aveva appena trovato quello che cercava, quando sentì un rumore di vetri che andavano in frantumi. Alzò la testa e vide Schofield uscire di schiena da una delle finestre della sala di controllo e finire per miracolo sopra una delle gru di legno appese al soffitto. Un attimo dopo Kurt Logan balzava dalla finestra e lo raggiungeva. «No!» sussurrò Gant. Estrasse la sua pistola, ma di colpo una raffica di spari provenienti dall'alto colpì il pavimento intorno a lei. Gant si tuffò istintivamente a terra, riparandosi dietro due cadaveri. Sporse la testa e vide Caesar Russell appoggiato a uno dei davanzali della sala di controllo, con un P-90 nelle mani. «No, no, no!» gridò. «Voglio che sia un incontro leale!» «Attenzione! Nove minuti all 'autodistruzione...» Logan si era inginocchiato accanto a Schofield e ora lo stava colpendo in faccia con violenza. «Capitano, per colpa sua questa mattina è diventata molto più faticosa del previsto!» Nella luce rossa, la faccia di Logan luccicava al colmo dell'ira. Colpì di nuovo. La nuca di Schofield sbatté contro il legno della gru. Dal naso gli usci-
vano fiotti di sangue. Logan afferrò il congegno per manovrare la gru, appeso accanto a lui. Spinse un pulsante. Con uno strattone e un clangore metallico, la gru cominciò a muoversi dondolando attraverso l'hangar, in direzione della tromba del montacarichi. Doveva dipendere da un impianto elettrico autonomo. Mentre la gru viaggiava sopra l'hangar, Logan continuava a colpire Schofield, sottolineando ognuno dei suoi terribili colpi con parole rabbiose: «Sa, ricordo...» Pugno. «... le nostre esercitazioni annuali, quando facevamo fuori voi signorinelle ...» Pugno. «... era troppo facile beccare voi marine, siete una disgrazia...» Pugno. «... per il Paese, per la bandiera e persino per quelle maledette puttane delle vostre madri.» Pugno. Schofield non riusciva quasi più a tenere gli occhi aperti. Gesù, Logan lo stava massacrando... Di colpo la gru curvò, sopra la tromba del montacarichi. Sotto la gru si apriva una voragine profonda più di cento metri. Quando fu nel centro dell'immensa buca, Logan spinse un altro pulsante sul quadro di manovra. La gru si arrestò. «Attenzione! Otto minuti all 'autodistruzione...» Schofield si voltò, nel tentativo di guardare di sotto. Vide le pareti verticali della tromba, il cemento liscio illuminato dalle luci rosse, che si perdeva sparendo nel buio. «Arrivederci, capitano Schofield», disse Logan. Aveva alzato Schofield in piedi, afferrandolo per la tuta, e ora lo teneva in equilibrio sul bordo della gru, come un pupazzo. Schofield era a pezzi, esausto, sanguinante. Non poteva resistere al suo avversario. Stava a malapena in piedi. Sotto di lui sbadigliava l'enorme tromba del montacarichi. Schofield pensò al Maghook che aveva ancora dietro la schiena, ma quando vide che il soffitto era fatto di fibre di vetro capì che sarebbe stato inutile.
Non aveva abbastanza energia per combattere. Senza pistole. Senza Maghook. Senza sedile eiettabile. A quel punto, sapeva era che Logan ad avere tutti gli assi nella manica. Logan stava per spingerlo giù dalla gru, quando Schofield s'accorse di Gant - un'ombra tra luci rosse intermittenti - che si nascondeva dietro due cadaveri sul bordo est della tromba del montacarichi. Schofield guardò Logan dritto negli occhi e cominciò a sorridere. Portò il palmo della mano alla bocca. Schofield fissò Logan dritto nelle pupille e disse nel microfono dei servizi segreti: «Il 'ponte Harbour', Gant. Tu sarai negativo». Logan non capì... «Cosa?» E prima che Logan potesse anche solo pensare di fare qualcosa, con l'ultimo grammo di forza rimastogli, Schofield alzò la mano e staccò il meccanismo a molla che fissava la gru alle guide del soffitto. Con risultati immediati. In un movimento quasi al rallentatore, accentuato dalla luce rossa, la gru che reggeva Logan e Schofield precipitò, trascinando i due uomini nel vuoto... Schofield, Logan e la gru stavano cadendo nella tromba del montacarichi. *** Schofield stava cadendo. Per prima cosa vide passare accanto a sé l'hangar, illuminato di rosso; sparì subito verso l'alto, e l'immagine fu sostituita dal bordo di cemento della tromba del montacarichi. Da quel momento vide le nude pareti che gli sfrecciavano intorno. Il quadrato illuminato in cima alla tromba diventa sempre più piccolo. Logan gli volava di fianco, con uno sguardo di assoluto terrore. Probabilmente non riusciva a capire il senso dell'ultima mossa di Schofield. Schofield pregò che Gant lo avesse sentito. E, mentre fendeva l'aria, estrasse velocemente il suo Maghook, accese il magnete con la carica positiva e poi guardò in alto con un'unica speranza nel cuore. Gant aveva sentito. Ora era sdraiata a pancia in giù sul bordo della tromba, puntando il suo
Maghook a carica negativa verso il basso. «Scarecrow», disse nel suo microfono, «spara per primo. Il colpo decisivo spetta a me.» Mentre cadeva nella tromba del montacarichi, Schofield fece partire il suo Maghook a carica positiva verso l'alto. Il bulbo volò verso l'alto, con una traiettoria perfettamente verticale, trascinandosi dietro nell'aria la sua corda leggera. Kurt Logan, cadendo affianco a Schofield, capì improvvisamente quello che stava tentando. «No...!» gridò. «Dai, Fox!» sussurrò Schofield. «Non lasciarmi morire!» Gli occhi di Libby Gant erano due strette fessure, mentre guardava sopra la canna del suo Maghook, puntato in basso. Nonostante tutti gli elementi di disturbo intorno a lei, le luci, le sirene, la voce registrata diffusa dagli altoparlanti, Gant riuscì a scorgere il Maghook di Schofield: un piccolo punto luminoso che stava risalendo dalla nera tromba del montacarichi, venendo verso di lei. «Niente è impossibile...» sussurrò. Poi, con assoluta freddezza, schiacciò il grilletto del suo Maghook. Il bulbo magnetico uscì sibilando dalla canna ed entrò nella tromba. Il Maghook di Schofield volava verso l'alto. Il Maghook di Gant volava verso il basso. Schofield stava cadendo, a poca distanza da Logan e dalla gru. Gant lasciò che tutto il cavo si estendesse. «Dai, forza!» Essendo di carica opposta, bastava che passassero vicini l'uno all'altro per... Clang! I due Maghook si scontrarono a mezz'aria. Il «ponte Harbour». Le loro potentissime cariche si saldarono insieme. Sopra, nell'hangar, Gant agganciò velocemente l'eiettore a un tubo di metallo che scorreva lungo la tromba del montacarichi. Due Maghook uniti insieme misuravano cento metri. Una caduta libera di cento metri voleva dire uno strappo terrificante. Quando vide che i due Maghook si erano agganciati in aria, Schofield, che
continuava a precipitare, si diede un giro di corda intorno alle spalle e al petto. Poi afferrò saldamente la corda preparandosi all'impatto. Sarebbe stato terribile. Fu terribile. Con un tremendo contraccolpo, le due corde dei Maghook si tesero e Schofield fu strattonato verso l'alto, come un paracadutista nel momento in cui apre il suo paracadute, mentre sotto di lui Kurt Logan e la gru continuarono la loro caduta ancora un secondo per poi colpire con violenza la piattaforma per aerei in fondo alla tromba. La gru di legno esplose in mille schegge. Logan fece una fine simile. Atterrò con terribile violenza, urlando, sui detriti dell'AWACS rimasti sulla piattaforma. La sua testa si staccò dalle spalle quando il collo si schiantò su un pezzo di ala che puntava verso l'alto. Il resto del suo corpo, a causa del tremendo impatto, si spiaccicò come un pomodoro. Schofield, dopo essere stato sbalzato in alto dalle due corde congiunte dei Maghook, sbatté pesantemente contro una delle pareti della tromba, rimbalzò indietro e rimase appeso accanto al nudo cemento, venticinque metri sopra la piattaforma, ansimante e con un dolore terribile alle spalle e alle braccia. Ma vivo. *** I due Maghook sollevarono Schofield velocemente. «Attenzione! Sei minuti all'autodistruzione...» Erano le 11.09 quando Gant issò Schofield sul pavimento dell'hangar. «Non avevi detto che era impossibile fare il 'ponte Harbour'?» chiese con aria noncurante. «Credimi, è stato un modo molto bello di dimostrarmi che avevo torto», rispose Schofield. Gant sorrise. «L'ho fatto solo perché volevo un altro...» Una raffica di colpi tuonò nell'aria. Le pallottole sibilarono colpendo sia Gant sia Schofield. Una ferita irregolare da arma da fuoco si aprì sul piede destro di Gant. La pallottola le mandò in frantumi la caviglia, mentre altre due trapassavano la spalla sinistra di Schofield. Una nuova raffica li investì, passando così vicina al volto di Schofield che l'uomo poté avvertire lo spostamento
d'aria sulla pelle. I due marine si lasciarono cadere, i denti serrati per il dolore. Caesar Russell, una maschera di pura pazzia, uscì dal vicino ufficio interno dell'hangar e corse verso di loro sparando all'impazzata col suo P-90. Schofield era ferito, ma almeno poteva muoversi. Spinse Gant dietro i resti di una delle barricate dell'unità Bravo. Poi prese la Beretta di Gant e uscì di scatto dall'altra parte della barricata, correndo attraverso l'hangar illuminato solo dai flash rossi. Si diresse verso il relitto del Nighthawk Two, accanto all'ascensore del personale. Era un tentativo disperato di attirare i colpi di Caesar su di sé, distogliendolo da Gant. Il massiccio Super Stallion della Marina era parcheggiato non lontano dalle porte dell'ascensore, ammaccato e crivellato dalle pallottole e con l'intera sezione dell'abitacolo distrutta dall'esplosione. Le pallottole di Caesar lo inseguivano, ma nella luce intermittente era difficile prendere bene la mira. Schofield raggiunse il Super Stallion e si tuffò all'interno dell'abitacolo. Un attimo dopo, le pareti interne dell'elicottero furono investite da una raffica. «Vieni qui, eroe!» gridò Caesar. «Che hai? Non puoi rispondere al fuoco? Di che cos'hai paura? Dai, forza, trovati una pistola e sparami!» Ma purtroppo Schofield non poteva farlo. Cristo! pensò. Era la peggiore di tutte le situazioni. Si trovava sotto il fuoco di un uomo al quale non poteva sparare. «Fox!» gridò nel suo microfono. «Sei a posto?» La voce gli arrivò debole nell'auricolare: «Sì...» «Dobbiamo prenderlo e portarlo fuori di qui!» gridò Schofield. «Hai qualche suggerimento?» La risposta di Gant fu coperta dalla voce metallica registrata: «Attenzione! Cinque minuti all'autodistruzione...» Attraverso il finestrino di un portello, Schofield vide Caesar che si avvicinava all'elicottero distrutto, sparando col P-90. «Ti piace questo, eroe?» urlò il generale dell'Aeronautica. «Ti piace?» Dentro l'abitacolo aperto, le pallottole di Caesar spaccavano e scuotevano le pareti e gli strumenti di navigazione. Schofield, la pistola in pugno, stringeva i denti. I due fori nella spalla avevano cominciato a bruciargli terribilmente, ma l'adrenalina lo sosteneva ancora.
Attraverso il vetro rotto del portello del Super Stallion, riuscì a vedere Caesar, ormai in preda alla follia, che sparava all'impazzata contro l'elicottero, correndogli intorno per avvicinarsi all'abitacolo. Ancora pochi secondi e l'avrebbe raggiunto... Poi la voce di Gant esplose nell'auricolare. «Scarecrow! Preparati! Forse gli puoi sparare! Credo che ci sia un modo...» «Ma non posso sparagli!» urlò Schofield. «Sì! Dammi solo un secondo!» Gant era china sull'oggetto che aveva cercato: la scatola nera che aveva estratto dall'AWACS, al livello 2, un'ora e mezzo prima, la stessa scatola nera che aveva nascosto quando era arrivata nell'hangar col presidente. Gant infilò la mano nel taschino della sua tuta pressurizzata e tirò fuori la piccola unità rossa con l'antenna corta e nera. Era l'unità di accensione e spegnimento di Russell, coi suoi interruttori contrassegnati con 1 e 2. Ora Gant aveva capito perché erano due. Quel congegno non serviva solo ad attivare e disattivare la trasmittente sul cuore del presidente. Svolgeva la stessa funzione per la trasmittente sul cuore di Caesar. Caesar aveva quasi raggiunto l'abitacolo dell'elicottero. Teneva il P-90 spianato. Ancora qualche secondo e avrebbe potuto guardare dentro e trovarsi faccia a faccia con Schofield. «Sto arrivando!» gridò con voce rauca ed esaltata. Schofield si era lasciato cadere sul pavimento del Super Stallion, rannicchiato contro la parete esterna, da dove riusciva a guardare attraverso alcuni fori nella fusoliera. Era in trappola. «Fox!» disse piano nel microfono. «Qualsiasi cosa tu stia facendo, ti prego, falla in fretta...» Gant stava sudando. La caviglia le doleva, ma doveva concentrarsi... «Attenzione! Quattro minuti all'autodistruzione...» La donna fece apparire il diagramma sullo schermo a cristalli liquidi della scatola nera. Poi accese l'unità di attivazione e disattivazione.
La domanda era: quale dei due interruttori controllava il trasmettitore sul cuore del presidente, e quale quello di Caesar? L'1 o il 2? Caesar avrebbe sicuramente scelto di essere il numero 1. Spense l'interruttore contrassegnato col numero 1. Era quello del segnale a microonde di Caesar. Non appena l'ebbe fatto, accese il segnale a microonde della scatola nera, utilizzandolo per sostituire quello che secondo lui proveniva da Caesar. Se non aveva sbagliato nulla, il satellite non sarebbe stato in grado di capire che gli stava giungendo un nuovo segnale. Un piccolo LED verde in cima alla scatola nera iniziò ad accendersi a intermittenza. Gant avvicinò la bocca al microfono sul polso. «Scarecrow! Ho appena disinserito il suo segnale radio. Adesso puoi farlo fuori, quel bastardo!» Non appena Gant ebbe finito la frase, Caesar entrò nel campo visivo di Schofield. Il generale dell'Aeronautica sorrise vedendo che Schofield, rannicchiato sul fondo della cabina di pilotaggio del Super Stallion, stava alzando la sua pistola per difendersi. Caesar sorrise e alzò l'indice in segno di ammonimento. «No, no, no, capitano. Non ha il diritto di farlo. Si ricordi: non si spara allo zio Caesar.» «No?» chiese Schofield. «No.» «Ah», sospirò Schofield. E, con un rapido movimento, puntò la pistola e colpì Caesar in pieno petto. Un rivolo di sangue uscì dal foro. Premette il grilletto altre tre volte. Caesar indietreggiò a ogni pallottola. Aveva gli occhi spalancati e sul volto un'espressione d'incredulità. Lasciò cadere il fucile d'assalto e poi finì a terra, cadendo poco elegantemente sul fondoschiena. Schofield si alzò, uscì dall'elicottero e corse da Caesar, sdraiato sul pavimento. Allontanò il P-90 dal generale con un calcio. Caesar era ancora vivo. Un rivolo di sangue gli usciva dal lato della bocca. Era ridotto a una visione patetica, solo l'ombra dell'uomo che era stato poco prima. Schofield lo fissò dall'alto.
«Ma... ma...» balbettò Caesar, col sangue che ora gli usciva copiosamente dalla bocca. «Non... non può uccidermi...!» «Detto tra noi, potrei farlo», rispose Schofield. «Ma credo che la lascerò qui al suo destino.» E corse da Gant. *** «Attenzione! Tre minuti all'autodistruzione...» Schofield corse con Gant tra le braccia fino al piccolo ascensore. La sua caviglia destra era stata messa fuori uso dalla pallottola di Caesar, e lei non poteva fare nemmeno un passo da sola. Ma questo non significava che non potesse essere d'aiuto. Mentre Schofield la portava in braccio, lei teneva tra le sue mani la più importante scatola nera del mondo. Il loro scopo, più che salvare la propria vita, era quello di far uscire il congegno dall'Area 7 prima che fosse distrutto dallo scoppio della bomba nucleare. Se il suo segnale fosse stato interrotto, tutto quello per cui si erano battuti non sarebbe servito a nulla. «Okay, furbacchione», disse Gant. «Come facciamo a uscire da questa trappola nucleare a sette piani?» Schofield spinse l'interruttore del piccolo ascensore. Cominciarono a scendere giù nella tromba. Schofield guardò l'orologio 11.12.30. 11.12.31. «Be', non possiamo uscire per la porta alta», disse. «Caesar ha cambiato il codice, e quel tizio che lavora alla DIA ha impiegato dieci minuti per crackare i codici dei militari. Non mi convince nemmeno il condotto d'aerazione. Non faremmo in tempo. Book II e io ci abbiamo messo un minuto buono per scendere quel tunnel. Non riesco a pensare come noi due potremmo salirlo in meno di venti minuti. Nel frattempo l'uscita di emergenza sarebbe diventata una nube di vapore nucleare. «Allora che cosa facciamo?» «C'è un modo», disse Schofield. «Ma dobbiamo muoverci!» 11.12.49. 11.12.50. Schofield fermò l'ascensore al livello 2 e con Gant nelle braccia corse attraverso l'hangar, puntando alle scale dall'altra parte.
«Attenzione! Due minuti all 'autodistruzione...» Raggiunsero le scale. 11.13.20. Schofield scese le scale, con Gant nelle braccia, tre scalini alla volta. Superarono il livello 3. 11.13.32. Livello 4, il piano del terrore. 11.13.41. Livello 5, ormai sommerso. 11.13.50. Schofield aprì la porta del livello 6 con un calcio. «Attenzione! Due minuti all'autodistruzione...» Vide immediatamente quello che stava cercando. Il piccolo mezzo X-rail per la manutenzione era parcheggiato accanto alla porta delle scale, sui binari che portavano al lago Powell. Era rimasto là per tutta la mattina. Schofield si ricordò quello che Herbie Franklin aveva detto a proposito del veicolo di manutenzione. Era più piccolo delle altri motrici X-rail, ma anche più veloce. Era costituito da un abitacolo con spazio sufficiente a due persone, e basta. «Attenzione! Quarantacinque secondi all'autodistruzione...» Schofield aprì la portiera del veicolo, spinse dentro Gant e poi entrò dietro di lei. «Trenta secondi...» Schofield schiacciò il pulsante nero con la scritta «START» sulla console del veicolo. Il motore compatto dell'X-rail si accese. «Venti secondi... diciannove... diciotto...» Guardò i binari di fronte. Si estendevano a perdita d'occhio nel buio interrotto solo da flash di luci rosse, quattro binari paralleli che convergevano in un unico punto in lontananza. «Vai!» disse Gant. Schofield schiacciò l'acceleratore. «Quindici...» Il piccolo veicolo X-rail fece un balzo in avanti, accelerò con un rombo e attraversò la stazione sotterranea. «.Quattordici...» L'accelerazione era tale da spingere Schofield contro lo schienale. In un
attimo avevano raggiunto la velocità di settantacinque chilometri all'ora. «Tredici...» L'X-rail accelerò ancora. I quattro binari, due sopra e due sotto, gli volavano incontro a crescente velocità. «Dodici... undici...» Poi, sollevando una folata d'aria, la motrice entrò nel tunnel che l'avrebbe portato al lago Powell. L'Area 7 era ormai alle loro spalle. 230 chilometri all'ora. «Dieci...» 350 chilometri all'ora. Questa velocità corrispondeva a più di cento metri al secondo. In dieci secondi sarebbero stati a un chilometro abbondante di distanza dall'Area 7. «Nove... otto...» Schofield sperava che un chilometro fosse abbastanza. «Sette... sei...» Avrebbe voluto spingere il piccolo mezzo ancora più veloce. «Cinque... quattro...» Gant gemette dal dolore. «Tre... due...» Il piccolo veicolo sfrecciava nel tunnel, allontanandosi dall'Area 7, vibrando sui binari, lanciato alla massima velocità. «Uno... «...Autodistruzione dell'area attivata.» *** Fu come la fine dell'universo. Il colossale ruggito dell'esplosione nucleare all'interno dell'Area 7 fu assolutamente mostruoso. Per essere una struttura progettata durante la Guerra fredda allo scopo di resistere a un attacco diretto, aveva un bell'armamento nucleare. La testata W-88 era situata all'interno delle mura del livello 2, all'incirca al centro della base. Quando esplose, tutto il complesso sotterraneo si accese come una gigantesca lampadina e un calore bianco invase l'intera struttura, passando attraverso pareti e pavimenti con forza irrefrenabile e irresistibile. Tutto quello che si trovava all'interno dell'area fu distrutto in una frazione di secondo: aerei, camere di sperimentazione, la tromba del montacari-
chi, tutto... compreso il corpo insanguinato di Caesar Russell. Dalla sua posizione sul pavimento dell'hangar principale, l'ultima cosa che Caesar vide fu un flash accecante di luce bianca, seguito dal più intenso calore che avesse mai sentito. E poi, più niente. Le mura esterne di titanio, spesse sessanta centimetri, riuscirono comunque a contenere in larga parte l'esplosione. L'onda d'urto fece tremare la terra e la sabbia nel raggio di alcuni chilometri intorno alla base aerea, propagandosi in cerchi concentrici come le onde di una pietra lanciata in uno stagno. La prima cosa a esplodere fu l'uscita di emergenza. Le sue strette mura di cemento furono assalite dall'onda distruttiva dello scoppio meno di un secondo dopo l'esplosione, polverizzandosi all'istante. Se Gant e Schofield si fossero trovati all'interno, i loro corpi sarebbero addirittura svaniti. Fu allora che si verificò la parte più spettacolare dell'esplosione. Dal momento che l'intera base aerea era diventata un'enorme cavità, lo strato di granito soprastante collassò. Senza preavviso, un cerchio largo ottocento metri di terra intorno al complesso cominciò a smottare, e le costruzioni dell'Area 7, l'hangar principale, la torre di controllo della pista di decollo e gli altri hangar, furono ingoiati dalla terra, fino a che rimase dell'Area 7 solo un gigantesco cratere, largo quasi un chilometro, nel centro del deserto. Dalla sua postazione a bordo di un Super Stallion dei marine, arrivato una decina di minuti prima alla base aerea, il presidente poté osservare l'Area 7 crollare su se stessa e scomparire. Accanto a lui, Book II, Juliet Janson e Kevin non riuscivano a distogliere gli occhi dalla fine spettacolare dell'Area 7. Giù, nel tunnel X-rail, non era ancora finita. Quando la bomba nucleare era esplosa, la piccola motrice di manutenzione stava avanzando alla massima velocità. Schofield e Gant sentirono il rumore dell'esplosione. Sentirono che la terra cominciava a tremare. Schofield guardò fuori dal vetro posteriore del biposto. «Cristo santo!» esclamò. Dietro di loro una cascata di pietre si avvicinava alla motrice. Il soffitto del tunnel stava crollando, andando in pezzi sotto l'effetto dell'onda sismica che si espandeva in cerchi concentrici dall'Area 7.
Era molto più veloce di loro. Il veicolo X-rail sfrecciava nel tunnel a trecentocinquanta chilometri all'ora. La frana dietro di loro invece avanzava a quasi quattrocento chilometri all'ora. Era come se il tunnel fosse diventato un'immensa bestia feroce che tentava di divorare la motrice X-rail. Un pezzo di cemento grosso come una palla da baseball colpì il tetto della motrice. Poi una tempesta assordante di pezzi di cemento si abbatté su di loro. No! Pensò Schofield. Non adesso! Non all'ultimo momento! I primi pezzi investirono il parabrezza, frantumandolo. C'erano pezzi di cemento e schegge di vetro dappertutto. I pezzi che piovevano sull'abitacolo diventavano sempre più grossi. Tutta la motrice cominciò a vibrare violentemente, come se stesse per deragliare... Ma poi, all'improvviso, il veicolo uscì dalla pioggia mortale e riprese a sfrecciare senza essere più investito dalla pioggia micidiale. Schofield si voltò. Alle loro spalle, la frana di cemento e roccia era rimasta indietro, sparendo poco dopo dietro una curva del tunnel, come un mostro affamato che smettesse d'inseguire la sua preda. L'onda sismica dell'esplosione aveva perso la forza necessaria a distruggere il tunnel. Ce l'avevano fatta. Per un pelo. E mentre il veicolo X-rail continuava a scorrere veloce nel tunnel, Schofield si accasciò sul sedile e tirò un lungo e profondo respiro di sollievo. *** Quando Schofield e Gant arrivarono all'Area 7 a bordo del Marine CH53E, che li aveva prelevati dal canyon accanto alla stazione X-rail del lago Powell, trovarono un enorme spiegamento di elicotteri dell'Esercito e dei marine. Sembravano uno sciame d'insetti, piccoli punti scuri sospesi nel cielo sopra il deserto, tutti a distanza di sicurezza dall'Area 7 per non rischiare una contaminazione radioattiva. Il presidente era a bordo di un elicottero, circondato da altri cinque Super Stallion. Fino a quando non gli fosse stata tolta la trasmittente dal cuo-
re, i marine sarebbero rimasti al suo fianco. Dal preciso momento in cui era decollato dall'Area 7, aveva dato disposizione affinché tutti gli aerei dell'Aeronautica degli Stati Uniti continentali rimanessero a terra fino a nuovo ordine. Schofield e Gant, con la loro preziosa scatola nera, furono condotti dal presidente, che si trovava in compagnia di Book II, Juliet e Kevin all'Area 8, resa sicura da due unità di ricognizione dei marine venti minuti prima. Durante la ricognizione dell'Area 8, i marine avevano trovato solo cadaveri. A parte Nicholas Tate III, che vagava in stato confusionale dicendo di dover parlare col suo agente finanziario. Gant fu adagiata su una barella e un medico dei marine cominciò subito a occuparsi della sua caviglia. A Schofield fu praticata una fasciatura temporanea per le ferite alla spalla e gli fu somministrata una dose di codeina contro il dolore. «Sono contento che ne sia uscito vivo, capitano», disse il presidente quando Schofield lo raggiunse, dopo la medicazione. «Immagino che Caesar invece non abbia avuto fortuna.» «Temo proprio che non ce l'abbia fatta, signore», rispose Schofield. Alzò la scatola nera con la sua luce verde a intermittenza. «Ma Caesar è qui insieme a noi... almeno il suo spirito.» Il presidente sorrise. «I marine che hanno setacciato la base mi dicono di aver fatto una scoperta che la renderà felice, capitano.» Schofield non capì. «Di che cosa parla, signore?» «Di me, bellissimo uomo!» disse Mother quasi gridando dalla gioia mentre sbucava da dietro il presidente. Schofield sorrise. «Ce l'hai fatta!» L'ultima cosa che aveva visto di Mother era lo «scarafaggio» che si ribaltava sulla pista di decollo. «Sono indistruttibile, ci puoi scommettere il culo!» esclamò Mother. «Quando il missile ha colpito lo «scarafaggio», sapevo che non sarei andata molto lontano. E sapevo anche che Caesar e i suoi amiconi non mi avrebbero trattata molto bene se mi avessero trovata in vita. Così, quando lo «scarafaggio» è uscito dalla pista e ha alzato un gran polverone, sono uscita dall'abitacolo, ho fatto in tempo a staccarmi la gamba finta e a scavare un piccolo buco in cui nascondere la testa. Niente male come effetto! Così ho giocato alla morta fino a quando Caesar e i suoi elicotteri sono partiti.» «Ti sei tolta la gamba finta per aumentare l'effetto.» Schofield era im-
pressionato. «Niente male!» «L'ho pensato anch'io.» Mother sorrise, ma poi divenne seria e puntò il mento prominente contro Schofield. «E che mi dici di te? L'ultima volta che ti ho visto eri col presidente e stavate per uscire dall'atmosfera. Ce l'hai fatta un'altra volta, vero?» «Sembrerebbe di sì», disse Schofield. «Ma parlando di cose importanti», sussurrò Mother con aria di cospirazione. «Hai fatto come ti ho detto con la piccola?» Inclinò la testa verso Gant con gesto teatrale. «L'hai baciata sì o no, quella benedetta ragazza?» Schofield dovette lottare per non scoppiare a ridere. Lanciò un'occhiata a Gant. «Sai che cosa ti dico, Mother? Penso proprio di averlo fatto.» Poco dopo, Schofield e il presidente erano soli. «Quali reazioni ci sono state nel resto del Paese?» domandò Schofield. «Hanno tutti seguito la faccenda inchiodati ai teleschermi?» Il presidente sorrise. «Strano che me lo chieda. Mentre lei non c'era, abbiamo esaminato l'archivio dei sistemi dell'Area 7 e abbiamo trovato questo.» Mise una stampa davanti a Schofield, indicando una voce. ORA
AZIONE
OPERATORE
07.37.56
ALLARME: guasto sistema elettrico ausiliario
Sistema
RISPOSTA DEL SISTEMA Guasto localizzato terminale 1-A2. nessuna risposta dai sistemi TRACS, AUX SYS-1, RAD COMSPHERE, MBN, EXT FAN
Il presidente disse: «Si ricorda che questa mattina era andata distrutta una scatola di derivazione in uno degli hangar sotterranei? Intorno alle 7.37?» «Sì...» «Be', a quanto sembra, questa scatola di derivazione era importante. Tra
le altre cose conteneva i controlli per il sistema elettrico ausiliario della base e della radiosfera. Conteneva anche un sistema chiamato MBN. Lei sa per cosa sta questa sigla?» «No...» «Sta per Military Broadcast Network, ossia il vecchio nome che indicava il sistema televisivo di emergenza. A quanto siamo riusciti a capire, il cavo che porta le trasmissioni fuori dalla base è andato distrutto. E visto che l'altro protocollo non è mai stato iniziato, le trasmissioni di Caesar sono state ritardate di quarantacinque minuti.» «Ma il sistema è stato distrutto alle 7.37...» disse Schofield. Il presidente sorrise. «Giusto. Il che significa che Caesar non ha trasmesso niente. Stava parlando semplicemente alle persone dentro l'Area 8.» Schofield ci pensò su, poi disse: «Dunque nessuno nel Paese sa che cosa è successo». Il presidente annuì. «Sembra che la gente di questo Paese abbia passato la giornata a preoccuparsi per un dramma ben diverso dal nostro, che ha coinvolto un'attrice tra le più pagate di Hollywood e il suo fidanzato. A quanto pare, la sfortunata coppia è rimasta intrappolata sulle Alpi svizzere tutto il giorno, tagliata via dal mondo da una slavina mentre stava camminando illegalmente su un terreno di proprietà dell'Esercito svizzero. Purtroppo la loro guida è stata uccisa dalla slavina, ma a quanto pare la coppia di superstar è già stata tratta in salvo e gode di ottima salute. Se ho capito bene, la CNN ha dato il massimo rilievo a questa storia per tutta la giornata, mandando in onda aggiornamenti ogni ora. È l'evento più importante dall'incidente di Diana, almeno stando a quanto mi dicono.» Schofield dovette trattenersi per non mettersi a ridere. «Dunque nessuno sa nulla.» «Esatto», rispose il presidente. «E così sarà anche in futuro.» *** Esattamente sei ore più tardi, il secondo shuttle X-38 dell'Area 8 fu lanciato da un Boeing 747 in volo. La sua missione era la distruzione di un satellite spia illegale che si trovava in orbita geostazionaria sopra lo Utah meridionale. In base a quanto dichiararono i piloti, sembrava che il satellite in que-
stione stesse trasmettendo e ricevendo un particolare segnale a microonde verso e da un preciso punto nel deserto dello Utah. Ma ai piloti non importava granché che cosa stesse facendo il satellite. Avevano ordini da eseguire, e questi ordini furono eseguiti alla lettera. Così il satellite fu distrutto. Con la distruzione del satellite, gli esplosivi del tipo 240 al plasma installati negli aeroporti persero il loro collegamento col cuore del presidente. Rimaneva il problema dei sensori di avvicinamento, ma sarebbe stato risolto di lì a poco. Nelle ore successive, tutte le quattordici bombe sarebbero state disarmate, smantellate e poi portate in laboratorio per le analisi. Oltre al disarmo delle bombe al plasma, la distruzione del satellite permise anche la rimozione della trasmittente sul cuore del presidente. L'operazione fu eseguita da un noto chirurgo civile dell'ospedale universitario Johns Hopkins, sotto l'occhio vigile di altri tre specialisti d'interventi di quel genere e di una squadra armata di uomini dei servizi segreti e dei marine. Mai prima d'allora un chirurgo era stato più attento - o più nervoso - durante un intervento. Si utilizzò un quantitativo limitato di anestetico e, anche se il popolo americano non lo venne mai a sapere, per ventotto minuti il vicepresidente fu alla guida degli Stati Uniti d'America. Qualche tempo dopo fu istituita una commissione d'inchiesta incaricata di condurre un'indagine sul ruolo dell'Aeronautica nella faccenda dell'Area 7. A seguito dell'inchiesta, furono accusati di alto tradimento diciotto alti ufficiali dell'Aeronautica al comando di una dozzina di basi aeree nel sudovest degli Stati Uniti, nonché novantanove altri militari di stanza in quelle basi. Si scoprì che tutti gli uomini legati agli eventi dell'Area 7 prestavano o avevano prestato servizio al Comando delle operazioni speciali dell'Aeronautica, a Hurlbut Fields, in Florida, oppure nella 14a o' nella 20a di stanza alla Warren Air Force Base, nel Wyoming, e alla Falcon Air Force Base, nel Colorado. Tutti quanti erano stati sotto il comando diretto di Charles «Caesar» Russell.
Considerato il numero di quasi quattrocentomila uomini e donne attualmente in servizio, centodiciassette traditori non erano un gruppo molto numeroso e corrispondevano all'incirca a una dozzina di persone per ogni base. Solo considerando la tipologia degli aerei e dei compiti speciali di quelle basi, si capiva che quel gruppo sarebbe stato sufficiente a portare a compimento i piani di Caesar. Come si scoprì durante il processo, cinque dei membri dell'Aeronautica coinvolti nei piani erano chirurghi che avevano eseguito interventi su diversi membri del Congresso, tra cui il senatore degli Stati Uniti ed ex candidato alla presidenza, Jeremiah K. Woolf. In base al materiale raccolto durante il processo, tutte le persone coinvolte nell'incidente furono sospettate di far parte di una società segreta razzista che agiva all'interno dell'Aeronautica degli Stati Uniti, conosciuta come Fratellanza. A tutti gli imputati fu comminato l'ergastolo, da scontare in una prigione militare non specificata, senza possibilità di appello e di sconti di pena per buona condotta. Sfortunatamente, l'aereo che li stava portando alla prigione segreta precipitò durante il volo, senza lasciare superstiti. Il rapporto finale della commissione d'inchiesta sollevò ai capi di stato maggiore riuniti la questione dei «gruppi segreti con finalità asociali» all'interno delle forze armate. Sebbene il rapporto sottolineasse che la maggior parte di queste società segrete era stata debellata dopo le operazioni avvenute negli anni '80, si raccomandava che fosse avviata una nuova inchiesta. I capi di stato maggiore riuniti non ritennero fondati questi dubbi, e non fu istituito nessuna ulteriore commissione. Nei successivi sei mesi, ci fu una serie di avvistamenti non confermati di una famiglia di orsi Kodiak nella zona del lago Powell, segnalati da turisti in visita al versante nord-est del lago. Gli ufficiali dei servizi di protezione per gli animali e della protezione civile fecero qualche indagine, ma gli orsi non furono mai trovati. *** Due settimane dopo si tenne una riunione in una stanza sotterranea della Casa Bianca. C'erano nove persone.
Il presidente degli Stati Uniti. Il capitano Shane Schofield, il braccio ancora fasciato. Il sergente Elizabeth Gant, con le stampelle per via della caviglia rotta. Il sergente Gena «Mother» Newman, accompagnata dal marito camionista, Ralph. Il sergente Buck Riley junior, il braccio bendato. L'agente dei servizi segreti degli Stati Uniti Juliet Janson. David Fairfax, della DIA, con l'unico paio di scarpe buone che possedeva. E un bambino di nome Kevin. Il presidente conferì a Schofield e alla sua squadra di marine la medaglia all'onore del Congresso «Classified», cioè segreta, per il valore dimostrato sul campo. Era una medaglia di cui non avrebbero dovuto parlare a nessuno. E comunque erano tutti concordi che era meglio così. Mentre gli altri si fermarono a cena nella sala da pranzo della Casa Bianca, in compagnia del presidente e della sua famiglia, Schofield e Gant si congedarono da tutti e andarono a mangiare in una sala riservata. Era il loro secondo appuntamento. Un tavolo con una candela accesa si trovava al centro di un salone dalle pareti di legno pregiato. Presero posto e cenarono. Loro due soli. Nella sala da pranzo personale del presidente, al primo piano della Casa Bianca, con vista sul monumento di Washington. «Dia loro qualsiasi cosa desiderino», aveva detto il presidente al suo cuoco personale. «Pago io, non si preoccupi.» A lume di candela, parlarono fino a notte fonda. Quando ebbero terminato il dessert, Schofield si mise la mano in tasca. «Sai», disse, «volevo già dartelo il giorno del tuo compleanno, ma poi... non ne ho avuto l'occasione.» Estrasse un pezzo di cartone stropicciato. Era piccolo, all'incirca della misura di un biglietto di auguri. «Che cos'è?» chiese Gant. «Il tuo regalo di compleanno», disse Schofield, triste. «È stato nella tasca dei miei pantaloni tutto il giorno, me lo sono portato con me ogni volta che cambiavo uniforme, così temo che sia un po'... be',... rovinato.»
Lo diede a Gant. Lei lo guardò e sorrise. Era una fotografia. La fotografia di un gruppo di persone in piedi su una meravigliosa spiaggia delle Hawaii. Tutti indossavano pantaloncini e camice hawaiiane dai colori sgargianti. E, sul bordo esterno del gruppo, uno accanto all'altro, c'erano Gant e Schofield. Il sorriso di Gant era un po' sforzato, e quello di Schofield un po' triste, dietro le sue lenti a specchio. Gant si ricordava quel giorno come fosse stato ieri. Era stata la grigliata che avevano organizzato sulla spiaggia vicino a Pearl Harbor, per festeggiare l'ingresso della donna nell'unità di ricognizione di Schofield. «È stato lì che ci siamo conosciuti», disse Schofield. «Sì», rispose Gant. «Non l'ho mai dimenticata», disse lui. Gant sorrise. «È il più bel regalo di compleanno che abbia mai ricevuto.» Poi si alzò dalla sedia, si sporse sul tavolo e lo baciò sulle labbra. Dopo la loro cena uscirono dall'edificio. Fuori dalla Casa Bianca c'era ad aspettarli la limousine presidenziale. Era scortata da quattro Humvee della Marina, da sei macchine della polizia e da quattro moto apripista. Gant inarcò le sopracciglia. «Ah, già», disse Schofield, schiarendosi la gola. «C'era un'altra cosa che volevo dirti.» «Che sarebbe...?» Schofield aprì la portiera della limousine... ... e sul sedile posteriore, immerso nel sonno, c'era Kevin. «Ha bisogno di un posto dove stare, almeno fino a quando non gli troveranno una nuova casa.» Schofield si strinse nelle spalle. «Ho detto che l'avrei tenuto volentieri con me per tutto il tempo necessario. Così il governo ha fornito una scorta un po' più imponente del solito.» Gant scosse la testa, sorridendo felice. «Dai», disse. «Andiamo a casa.» RINGRAZIAMENTI
Sarò breve. I miei sinceri ringraziamenti vanno ancora una volta a: Natalie Freer, che deve assistere da vicino alle mie eccentricità creative. La sua pazienza e la sua generosità non conoscono limiti. Mio fratello Stephen Reilly, scrittore, critico costruttivo e creativo, e buon amico; e sua moglie Rebecca Ryan, dato che formano un tutt'uno. I miei meravigliosi genitori, Ray e Denise Reilly, per avermi incoraggiato a inventare situazioni sempre nuove per i miei pupazzetti di Star Wars, quando ero bambino; la mia creatività è tutta merito loro. I miei grandi amici John Schrooten, Nik e Simon Kozlina, tutto il clan dei Kay (soprattutto Don, che in Tempio mi ha rimpicciolito all'altezza dei gatti) e Paul Whyte per avermi accompagnato in un viaggio straordinario nello Utah durante le ricerche per questo libro. Una menzione speciale va a due amici americani: al capitano Paul M. Woods, Esercito degli Stati Uniti, e al sergente in pensione Kris Hankinson, Corpo dei marine degli Stati Uniti, che con generosità mi hanno dedicato il loro tempo per assistermi nei dettagli militari di questo libro. Qualsiasi errore è solo mio, ed è stato compiuto nonostante le loro obiezioni. E, infine, un altro ringraziamento a tutti quelli della Pan Mcmillan e a Thomas Dunne Books. Questo è il nostro quarto libro, ma la magia c'è ancora. Grazie a Cate Paterson, Jane Novak, Sabrina Rowell, Paul Kenny e Peter Wolverton. E, naturalmente, come sempre, ai rappresentanti delle vendite per le infinite ore spese per i viaggi tra le varie librerie. E a chiunque conosca uno scrittore, perché non sottovaluti mai l'importanza dell'incoraggiamento che gli può dare. FINE