TESS GERRITSEN ANESTESIA FATALE (Under The Knife, 1990) Prologo Il passato torna sempre a tormentarci. Dalla finestra de...
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TESS GERRITSEN ANESTESIA FATALE (Under The Knife, 1990) Prologo Il passato torna sempre a tormentarci. Dalla finestra del suo studio, il dottor Henry Tanaka guardava la pioggia che cadeva a scrosci sul parcheggio, chiedendosi perché, dopo tanti anni, la morte di una poveretta fosse tornata a distruggerlo. Vide un'infermiera correre verso la propria auto. Aveva l'uniforme bagnata. Un'altra persona sorpresa senza ombrello, pensò. Al mattino la giornata s'era presentata limpida e soleggiata, una tipica mattina di Honolulu. Ma alle tre del pomeriggio le nuvole avevano cominciato ad avanzare, scivolando sopra le vette dei monti Koolau. Adesso, mentre l'ultima impiegata della clinica s'affrettava verso casa, un violento acquazzone si stava abbattendo sulla città, inondando le strade di torrenti melmosi. Tanaka si voltò e guardò la lettera sullo scrittoio. Era stata spedita una settimana prima, ma come buona parte della corrispondenza era rimasta seppellita sotto le pile di referti e cataloghi di ditte farmaceutiche che s'accumulavano nel suo studio. Quando la segretaria gliela aveva fatta notare, il nome del mittente lo aveva allarmato: avvocato Joseph Kahanu. L'aveva aperta subito. A quel punto si lasciò cadere sulla poltrona e la rilesse. Egregio dottor Tanaka, nella qualità di legale del signor Charles Decker, con la presente sono a richiederle tutti i referti medici relativi alle cure ostetriche a cui è stata sottoposta la signorina Jennifer Brook, sua paziente all'epoca della morte... Jennifer Brook. Un nome che aveva sperato di dimenticare. Una profonda stanchezza s'impadronì di lui, lo sfinimento di chi si rende conto di non poter sfuggire ai propri fantasmi. Cercò di raccogliere le energie per tornare a casa, trascinarsi fuori, salire in macchina, invece rimase seduto, fissando le pareti dello studio. Il suo santuario. Lasciò scivolare lo sguardo sui diplomi incorniciati, sugli attestati, sulle fotografie. Dappertutto c'erano fotografie di neonati rugosi, di genitori felici. Quanti bambini
aveva aiutato a venire al mondo? Aveva perduto il conto da anni. Un rumore, in anticamera, attirò la sua attenzione: il rumore di una porta che si chiudeva. Si alzò e andò a guardare. «Peggy? Sei ancora qui?» La sala d'attesa era deserta. Fissò i divani e le poltrone rivestite di un allegro tessuto a fiori, le riviste ordinatamente impilate sul tavolino, la porta d'ingresso. Era aperta. Nel silenzio udì un clangore metallico. Proveniva da una delle sale visita. «Peggy?» Tanaka si avviò lungo il corridoio, raggiunse la prima stanza e guardò dentro. Accese la luce, illuminando un lavabo d'acciaio inossidabile, un lettino ginecologico, un armadietto. Spense la luce e procedette verso il locale successivo. Anche lì era tutto a posto: gli strumenti disposti con cura sul bancone, il lavabo ben pulito, le staffe del lettino ripiegate. Attraversò il corridoio, dirigendosi verso l'ultima sala. Stava per accendere la luce quando un istinto improvviso lo fece irrigidire: c'era qualcuno, lì dentro, una presenza maligna che lo stava aspettando, nel buio. Indietreggiò, spaventato, ma quando si girò per fuggire si rese conto che l'intruso era già alle sue spalle. Una lama gli trafisse il collo. Tanaka rientrò barcollando nella stanza e inciampò su un tavolino carico di strumenti. Cadde rovinosamente sul pavimento già allagato di sangue. Sentiva la vita abbandonarlo, eppure un ultimo barlume di lucidità lo spingeva ad accertare la gravità della sua ferita, ad analizzare le sue possibilità di sopravvivenza. Arteria recisa. Morte per dissanguamento in pochi minuti. Devo fermare il sangue... Il torpore si stava già impadronendo delle sue gambe. Aveva poco tempo. Trascinandosi sulle mani e le ginocchia, si avvicinò all'armadietto dove era custodita la garza. Nella penombra, il debole riflesso della luce sugli sportellini di vetro gli apparve come una guida, l'unica speranza di salvezza. Un'ombra oscurò la luce che proveniva dal corridoio. Capì che l'intruso s'era fermato sull'uscio, che lo stava guardando. Continuò ad avanzare. Con le ultime forze, riuscì ad alzarsi in piedi, ad aprire lo sportello dell'armadietto con uno strattone. Le confezioni sterili gli piovvero addosso. Ne prese una alla cieca, la strappò e premette con forza la garza sul collo. Non vide la lama sollevarsi ancora.
Mentre gli penetrava profondamente nella schiena, Tanaka cercò di gridare, ma dalla sua gola uscì soltanto un sospiro. Il suo ultimo respiro, prima di morire. Charlie Decker giaceva nudo sul letto duro. Aveva paura. Attraverso la finestra vedeva l'insegna a neon rossi del Victory Hotel. La t di Hotel mancava, e quel che restava gli faceva venire in mente la parola hole, buco. Una definizione molto più adatta per quel posto, un autentico buco, un oscuro recesso senza fondo dove precipitavano per sempre trionfi e gioie. Chiuse gli occhi, ma la luce rossa era sempre lì a tormentarlo, bucandogli le palpebre. Si girò dall'altra parte e mise il cuscino sopra il viso. L'odore del tessuto sudicio era soffocante. Gettò via il cuscino, si alzò e si avvicinò alla finestra. Guardò nel vicolo in basso. Sul marciapiede, una bionda dai capelli lunghi e radi, in minigonna, mercanteggiava con un tizio in una Chevy. Da qualche parte provenivano risate e il suono di un juke-box. Dal vicolo si innalzava il caratteristico puzzo di spazzatura. Charlie sentì montare la nausea, ma faceva troppo caldo per chiudere la finestra, troppo caldo per dormire, troppo caldo anche per respirare. Si avvicinò al tavolino e accese la luce, illuminando il titolo del giornale: Ucciso medico di Honolulu. Sentì il sudore colargli sul petto. Gettò il giornale sul pavimento, poi si sedette, prendendosi la testa fra le mani. Dal juke-box lontano adesso arrivava un'altra musica, un ritmo crescente di chitarre e percussioni. Sollevò lentamente la testa e fissò la foto di Jenny. Sorrideva, come sempre. Sfiorò l'immagine, sforzandosi di rammentare la sua pelle, ma gli anni avevano affievolito il ricordo. Alla fine prese un taccuino, trovò una pagina pulita e iniziò a scrivere. Mi dissero: "Ci vuole tempo... Tempo per guarire, per dimenticare". Ma io dissi: "Non si può guarire se si dimentica Ma solo ricordando Te. L'odore del mare sulla tua pelle;
Le tue piccole impronte perfette sulla sabbia. Nel ricordo non v'è fine. Tu giaci, ora e sempre, accanto al mare. Apri gli occhi. Mi tocchi. C'è il sole nelle tue dita. E io sono guarito. Sono guarito". 1 Con mano ferma, la dottoressa Kate Chesne iniettò duecento milligrammi di Pentothal nella vena della sua paziente. Mentre il liquido scendeva lentamente nella siringa, Kate mormorò: «Farà effetto presto, Ellen. Chiudi gli occhi. Lasciati andare...». «Non sento niente.» «Ci vorrà circa un minuto.» Kate strinse leggermente la spalla di Ellen. Un silenzioso gesto di rassicurazione, una di quelle cose che facevano sentire i pazienti al sicuro. Il tocco di una mano. Una voce serena. «Pensa di galleggiare» sussurrò. «Pensa al cielo, le nuvole...» Ellen sorrise sonnolenta. La luce implacabile della sala operatoria metteva crudamente in risalto ogni macchia, ogni più piccolo difetto della pelle sul suo viso. Nessuno, nemmeno Ellen O'Brien, poteva essere bello su un tavolo operatorio. «È buffo» mormorò, «non ho per niente paura.» «Non devi averne. Penserò io a tutto.» «So che lo farai.» Ellen allungò la mano e sfiorò quella di Kate. Per un breve istante le loro dita si intrecciarono. Il tocco caldo della sua pelle ricordò a Kate che non era solo un corpo, quello che giaceva davanti a lei, ma era anche una donna, un'amica. Le porte si aprirono ed entrò il chirurgo. Il dottor Guy Santini era un uomo imponente. La cuffia a fiori gli dava un aspetto vagamente ridicolo. «Come andiamo, Kate?» «Ho appena iniettato il Pentothal.» Guy si avvicinò e strinse la mano della paziente. «Ci sei ancora, Ellen?» Lei sorrise. «Nel bene e nel male, ma ti confesso che preferirei essere a Philadel-
phia.» Guy rise. «Ci andrai. Senza la cistifellea, però.» «Non so... mi ero affezionata a quella cosa.» Le palpebre di Ellen si abbassarono. «Ricorda Guy» bisbigliò, «niente cicatrice, me l'hai promesso.» «Davvero?» «Sì, l'hai fatto...» Guy strizzò l'occhio a Kate. «Non te l'ho detto? Le infermiere sono le pazienti peggiori. Sono tremendamente esigenti.» «Stia attento, dottore» lo ammonì una delle infermiere della sala operatoria. «Uno di questi giorni potremmo avere lei, su quel tavolo.» «Una prospettiva davvero terribile» replicò Guy. Kate guardò la sua paziente mentre perdeva lentamente conoscenza. «Ellen?» chiamò con dolcezza. Le sfiorò le palpebre con le dita. Nessuna reazione. Fece un cenno affermativo in direzione di Guy. «È andata.» «Oh, Katie, tesoro» mormorò lui, «sei così brava per essere una...» «Una ragazza, lo so.» «Bene, vediamo di cominciare lo spettacolo» continuò lui, avviandosi verso l'uscita per andare a lavarsi. «Le analisi sono a posto?» «Perfette.» «L'ECG?» «Lo ha fatto ieri sera. Normale.» Guy le lanciò uno sguardo di ammirazione dalla porta. «Con te intorno, Kate, un uomo non ha bisogno neanche di pensare. Ah, signore?» aggiunse, rivolto alle due infermiere che stavano sistemando gli strumenti. «Devo avvertirvi che il nostro interno è mancino.» Una delle due donne alzò la testa, d'un colpo interessata. «È carino?» chiese. «L'uomo dei sogni, Cindy» rispose Guy, facendole l'occhiolino. «Gli dirò che me lo hai chiesto» aggiunse con una risata e uscì. Cindy sospirò. «Come accidenti fa sua moglie a sopportarlo?» Nei dieci minuti che seguirono, ogni cosa procedette alla perfezione. Kate eseguì i suoi compiti con la consueta efficienza. Inserì il tubo endotracheale e lo collegò al respiratore. Regolò il flusso dell'ossigeno e aggiunse isoflurano e protossido d'azoto nelle giuste proporzioni. Per Ellen lei era il legame con la vita. Tutto quel che faceva, anche se ormai erano gesti au-
tomatici, doveva essere controllato due, anche tre volte. Se poi il paziente era una persona che conosceva e che le piaceva, era ancora più importante essere assolutamente sicura di ogni gesto. Si dice che il lavoro dell'anestesista sia composto per il novantanove per cento da noia e per l'un per cento da terrore folle. Era proprio quell'un per cento che Kate cercava in ogni modo di prevenire. Le complicazioni potevano presentarsi in una frazione di secondo. Quel giorno, però, era sicura che tutto sarebbe andato liscio. Ellen O'Brien aveva appena quarantuno anni. A parte i problemi alla cistifellea, era in perfetta salute. Guy rientrò in sala operatoria con le mani pulite e ancora gocciolanti. L'uomo dei sogni lo seguiva. Pur indossando scarpe con rialzo interno non arrivava al metro e settanta di altezza. I due indossarono con cura camice e guanti di lattice. Kate percorse con lo sguardo i volti dei membri dell'équipe mentre prendevano posto intorno al tavolo. A parte l'interno, le erano tutti familiari. C'era l'infermiera di sala, Ann Richter, i capelli biondi accuratamente infilati sotto la cuffia blu. Una imperturbabile professionista, che non mescolava mai lavoro e piacere. In sala operatoria, anche un'innocente battuta scherzosa suscitava la sua disapprovazione. Accanto a lei c'era Guy, un uomo semplice e affabile. I suoi occhi castani erano celati dagli spessi vetri degli occhiali. Difficile credere che un uomo dall'aspetto così impacciato potesse essere un chirurgo. Eppure, con un bisturi in mano sapeva fare miracoli. In ultimo Cindy, l'infermiera strumentista, una ninfa dagli occhi scuri e la risata facile. Aveva messo un nuovo ombretto, chiamato Malachite orientale, che le dava l'aspetto di un pesce tropicale. «Bell'ombretto, Cindy» osservò Guy, stendendo la mano. «Grazie dottor Santini» replicò lei, posandogli un bisturi sul palmo. «Mi piace molto più dell'altro, Fango spagnolo.» «Muschio spagnolo.» «Questo qui è davvero straordinario, non trova?» chiese all'interno che, saggiamente, tacque. «Già» proseguì Guy, «mi ricorda il mio colore preferito. Mi pare che si chiami Smacchiafacile.» L'interno ridacchiò e Cindy lo fulminò con un'occhiataccia. L'uomo dei sogni aveva appena detto addio a tutte le sue possibilità con lei. Guy eseguì la prima incisione. Una sottile linea scarlatta comparve sulla pelle dell'addome e l'interno la ripulì con una spugna. Le mani dei due me-
dici lavoravano in armonia, come quelle di un duo di pianisti. Dal suo posto accanto alla testa della paziente, Kate seguiva il loro procedere, senza mai distogliere l'attenzione dal battito cardiaco di Ellen. Stava andando tutto bene, nessuna crisi in vista. Erano i momenti in cui amava di più il proprio lavoro: quando sapeva di avere tutto sotto controllo. Si sentiva a suo agio fra tutti quegli strumenti d'acciaio inossidabile. Il sibilo dei ventilatori e il bip regolare del monitor cardiaco erano musica per le sue orecchie, la colonna sonora dell'esibizione che si svolgeva sul tavolo operatorio. Guy fece un'incisione più profonda, mettendo a nudo uno strato lucente di grasso sottocutaneo. «I muscoli mi sembrano piuttosto tesi, Kate» osservò. «Avremo dei problemi a divaricare.» «Vedrò quel che posso fare.» Si girò verso il suo carrello e aprì un cassettino con la targhetta succinilcolina. Somministrata per endovena, avrebbe rilassato i muscoli, consentendo a Guy di accedere più facilmente alla cavità addominale. Aggrottò la fronte. «Ann? C'è soltanto una fiala di succinilcolina. Me ne prendi un altro po', per favore?» «Strano» osservò Cindy. «Sono certa di aver rifornito il suo carrello ieri pomeriggio.» «Be', ce n'è una fiala sola.» Kate aspirò 5 ce della soluzione trasparente e la iniettò nel catetere venoso di Ellen. Avrebbe fatto effetto in un minuto. Si appoggiò all'indietro e attese. Il bisturi di Guy oltrepassò lo strato di grasso e cominciò a mettere a nudo un fascio di muscoli. «Sono ancora piuttosto tesi, Kate.» Lei guardò l'orologio sulla parete. «Sono passati tre minuti, dovresti già notare qualcosa.» «Non è cambiato niente.» «Okay, aumento la dose.» Kate aspirò altri 3 cc e li iniettò. «Avrò bisogno di un'altra fiala al più presto, Ann. Questa qui è quasi...» Un cicalino si attivò sul monitor cardiaco. Kate alzò di scatto gli occhi sullo schermo. Quel che vide la fece scattare, in preda al terrore. Il cuore di Ellen O'Brien si era fermato. La sala operatoria si trasformò immediatamente. L'attività si fece frenetica. L'interno salì su uno sgabello e iniziò il massaggio cardiaco, sospingendo tutto il proprio peso sul petto di Ellen.
Il proverbiale un per cento, il momento di terrore temuto da ogni anestesista. E anche il momento peggiore nella vita di Kate Chesne. Cercando di mantenere il controllo, iniettò una fiala dopo l'altra di adrenalina, prima nel catetere venoso poi direttamente nel cuore di Ellen. La sto perdendo, pensò. Buon Dio, la sto perdendo. Colse un breve fremito nell'oscilloscopio, un unico, flebile segno di vita. «Cardioversione, presto!» Guardò Ann, che stava in piedi accanto al defibrillatore. «Carica a duecento!» Ann non si mosse. Era come paralizzata, il viso livido. «Ann?» gridò Kate. «Carica a duecento!» Fu Cindy a precipitarsi alla macchina e accenderla. L'ago scattò a duecento. Guy afferrò le piastre, le posò sul petto di Ellen e rilasciò la scarica elettrica. Il corpo di Ellen sobbalzò e ricadde, come una marionetta a cui fossero stati tagliati d'un colpo tutti i fili. Kate provò un altro farmaco, poi ancora un altro, nel disperato tentativo di riportare un po' di vita al cuore. Senza risultato. Con gli occhi velati di lacrime, vide il segnale assottigliarsi sull'oscilloscopio. «È finita» mormorò Guy, facendo cenno di fermare il massaggio cardiaco. L'interno si scostò dal tavolo. Aveva il viso madido di sudore. «No.» Kate posò con forza le mani sul petto di Ellen. «Non è finita.» Iniziò a spingere ritmicamente, disperatamente. «Non è finita.» Si appoggiò con tutto il suo peso al torace. Il cuore andava massaggiato, il cervello alimentato. Doveva tenere Ellen in vita. Continuò a spingere, finché le braccia si indebolirono e iniziarono a tremare per lo sforzo. Vivi Ellen, ordinava silenziosamente, devi vivere. «Kate...» Guy le sfiorò il braccio. «Non possiamo rinunciare, non ancora.» «Kate.» La fece spostare, con gesto gentile ma fermo. «È finita» sussurrò. Qualcuno spense il monitor cardiaco. Il sibilo dell'allarme cessò di colpo e la sala precipitò nel silenzio. Kate si girò, lentamente. La stavano guardando, tutti. Si volse verso l'oscilloscopio. La linea era piatta. Un inserviente richiuse la lampo del sacco che avvolgeva il corpo di Ellen O'Brien. Kate sobbalzò. Odiava quel suono crudele, definitivo. C'era qualcosa di osceno nel chiudere in un sacco quel che fino a poco prima era
stato un corpo vivo, una donna. Distolse lo sguardo dalla lettiga, udì le sue ruote cigolanti percorrere il corridoio, il suono sempre più fievole. Rimase sola nella sala operatoria. Ricacciando le lacrime, si guardò intorno. Il pavimento era ingombro di garze insanguinate, fiale vuote. La morte in ospedale lasciava dietro di sé sempre la stessa desolazione. Presto sarebbero venuti a raccogliere e incenerire ogni cosa. Non sarebbe rimasta alcuna traccia della tragedia che si era appena svolta. Niente, a parte un corpo nella camera mortuaria. E domande. Moltissime domande. Dei genitori di Ellen. Dell'ospedale. Domande a cui Kate non sapeva come rispondere. Si sfilò stancamente la cuffia, provando un vago sollievo nel liberare i lunghi capelli castani. Aveva bisogno di stare un po' da sola, per pensare, per capire. Si girò per andarsene e vide Guy, in piedi nel vano della porta. Nell'istante in cui scorse il suo viso, si rese conto che c'era qualcosa che non andava. Silenziosamente, le porse la cartella di Ellen O'Brien. «L'elettrocardiogramma» borbottò, «mi avevi detto che era normale.» «Infatti lo era.» «Sarà meglio che tu dia un'altra occhiata.» Stupita, Kate aprì la cartella e cercò l'ECG, il tracciato elettrico del cuore di Ellen. La prima cosa che notò furono le sue iniziali, tracciate in cima al foglio, segno che l'aveva visto. Poi guardò il tracciato. Per un lungo istante fissò quei segni neri, incapace di credere ai propri occhi. Non si poteva sbagliare, perfino uno studente del terzo anno sarebbe stato in grado di formulare una diagnosi. «Ecco perché è morta, Kate.» «Ma non è possibile!» esclamò lei. «Non posso aver commesso un simile errore.» Guy non rispose. Distolse lo sguardo con un gesto più eloquente di qualunque parola. «Guy, tu mi conosci» protestò Kate. «Sai che non potrei mai...» «È tutto lì, nero su bianco. Per l'amor di Dio, ci sono le tue iniziali, su quel dannato foglio.» Si fissarono l'un l'altro, entrambi turbati dalla durezza del suo tono. «Mi dispiace» si scusò lui, dopo un po'. Si girò, passandosi una mano fra i capelli. «Signore, ha avuto un infarto. Un infarto. E noi l'abbiamo portata in chirurgia.» Si volse a guardare Kate, addolorato. «Immagino che questo significhi che l'abbiamo uccisa.»
«Un caso lampante di negligenza.» L'avvocato David Ransom chiuse il fascicolo con l'etichetta O'Brien Ellen e guardò i suoi clienti, seduti dall'altra parte della scrivania. Se avesse dovuto trovare una parola per definire Patrick e Mary O'Brien, avrebbe scelto "grigi". Capelli grigi, volti grigi, abiti grigi. Patrick indossava una smorta giacca di tweed resa informe dall'uso, Mary un abito con una confusa fantasia bianca e nera che sembrava disciogliersi in una triste monocromia. Patrick continuò a scuotere il capo. «Era la nostra unica bambina, avvocato Ransom. La nostra sola figlia. Era sempre così buona, sa? Non si lamentava mai, nemmeno da piccola. Se ne stava lì, nella sua culla, e sorrideva, come un angioletto. Come un piccolo, caro...» Si bloccò di colpo, il viso contratto in una smorfia di dolore. «Signor O'Brien» disse David, «mi rendo conto che non è sufficiente per consolarla, ma le garantisco che farò tutto quel che posso.» Patrick scosse la testa. «I soldi non ci interessano. Certo, non posso lavorare, per via della schiena, ma Ellie aveva un'assicurazione sulla vita e...» «A quanto ammonta la polizza?» «Cinquantamila» rispose Mary. «Era così cara, non faceva che preoccuparsi per noi.» La donna aveva un profilo acuminato. A differenza del marito, aveva finito le lacrime, non intendeva più piangere. Sedeva eretta, il suo intero corpo sembrava un monumento al dolore. David sapeva esattamente quel che stava passando. La sofferenza. La rabbia. Soprattutto la rabbia. La vedeva bruciare nei suoi occhi. Patrick cominciò a tirare su col naso. David prese una confezione di fazzoletti dal cassetto e gliela posò davanti, senza una parola. «Forse dovremmo discutere del caso in un altro momento» suggerì, «quando vi sentirete pronti tutti e due.» Mary sollevò di scatto il mento. «Siamo pronti adesso, avvocato. Ci chieda quel che vuole.» David guardò Patrick, che annuì debolmente. «Temo che possiate trovare le mie domande prive di tatto. Mi dispiace.» «Continui» disse Mary. «Procederò immediatamente con la causa, ma mi servono ulteriori in-
formazioni per poter fare una stima dei danni. Per esempio devo quantificare i mancati introiti, quello che vostra figlia avrebbe potuto guadagnare se non fosse morta prematuramente. Avete detto che era infermiera?» «In ostetricia. Assisteva le pazienti in travaglio e durante il parto.» «Sapete a quanto ammontava il suo stipendio?» «Dovrò controllare le buste paga.» «Aveva persone a carico?» «No.» «Si è mai sposata?» Mary scosse la testa, sospirando. «Era una figlia modello, avvocato Ransom, da quasi tutti i punti di vista. Era bella, intelligente. Ma quando si trattava di uomini tendeva a... commettere errori.» «Errori?» ripeté lui, corrugando la fronte. Mary scrollò le spalle. «Immagino che le cose vadano a questo modo, al giorno d'oggi. Quando una donna raggiunge una... certa età, ecco, tende a considerarsi fortunata per il semplice fatto di avere un uomo, chiunque sia.» Tacque, abbassando lo sguardo sulle dita strettamente intrecciate che teneva in grembo. David ebbe l'impressione d'aver toccato un argomento spinoso. Comunque, la vita sentimentale di Ellen O'Brien non gli importava. Non era rilevante, ai fini della causa. «Torniamo all'anamnesi di vostra figlia» mormorò, aprendo la cartella medica. «Qui dice che aveva quarantun anni ed era in ottima salute. Che voi sappiate, ha mai avuto problemi di cuore?» «Mai.» «S'è mai lamentata di dolori al petto? Fiato corto?» «Ellie era una nuotatrice, avvocato Ransom. Poteva camminare tutto il giorno senza alcun problema. Ecco perché non credo a questa storia dell'infarto.» «Eppure l'ECG era molto chiaro, signora O'Brien. Se fosse stata effettuata un'autopsia, forse avremmo potuto provarlo. Purtroppo, penso che adesso sia troppo tardi.» Mary lanciò un'occhiata al marito. «È stato Patrick a opporsi. Non riusciva a sopportare l'idea.» «Non l'avevano già tagliuzzata abbastanza?» sbottò lui. Dopo un lungo silenzio, Mary disse a bassa voce: «Spargeremo le ceneri in mare. Lei ha sempre amato il mare, fin da quando era bambina».
Si alzarono per andarsene. L'avvocato mormorò qualche parola di condoglianze, poi si strinsero le mani, suggellando il loro accordo. Sulla porta, Mary si fermò. «Voglio che sappia che non si tratta di soldi» tenne a precisare, «non ci importa niente del denaro. Quella gente ha rovinato la nostra vita, avvocato. Ci hanno portato via la nostra unica bambina. Prego Dio che non lo dimentichino mai.» David annuì. «Farò in modo che non possano dimenticare.» Quando i suoi clienti furono usciti, David si girò verso la finestra. Inspirò a fondo e poi espirò lentamente, cercando invano di allentare la stretta che gli attanagliava lo stomaco. Tutto quel dolore, quella rabbia, annebbiavano i suoi pensieri. Sei giorni prima, un dottore aveva commesso un terribile errore. Ellen O'Brien era morta, a quarantuno anni appena. Aveva solo tre anni più di me. Si sedette alla scrivania e aprì il fascicolo. Saltò il referto medico e andò a leggere i curriculum dei due dottori. Quello del dottor Guy Santini era eccellente. Quarantotto anni, laurea in chirurgia ad Harvard, era all'apice della carriera. L'elenco delle pubblicazioni occupava cinque pagine. Le sue ricerche si erano concentrate perlopiù sulla fisiologia epatica. Era stato citato in giudizio una volta, otto anni prima. Aveva vinto. Buon per lui. In ogni caso il suo obiettivo non era lui. Nel mirino di David c'era l'anestesista. Il curriculum della dottoressa Katharine Chesne era riassunto in tre pagine. I suoi studi erano notevoli: laurea in chimica all'università di Berkeley, laurea in medicina alla Johns Hopkins, specializzazione in anestesia e terapia intensiva all'università di San Francisco. Aveva appena trent'anni e poteva già vantare un significativo elenco di pubblicazioni. Era entrata a far parte dello staff di anestesisti del Mid Pac Hospital da meno di un anno. Non c'era una sua fotografia, ma David non aveva difficoltà a immaginarla: la classica dottoressa, con la pettinatura sciatta, il fisico informe, il viso da cavallo; anche se doveva ammettere che si trattava di un cavallo piuttosto dotato. David si appoggiò allo schienale della poltrona, accigliandosi. Quell'ottimo curriculum non era affatto compatibile con il profilo di un medico incompetente. Come aveva potuto commettere un errore così stupido? Chiuse la cartella. Qualunque fosse la ragione, i fatti erano incontrover-
tibili: la dottoressa Katharine Chesne aveva condannato la sua paziente a morire sul tavolo operatorio. Adesso doveva affrontare le conseguenze delle sue azioni, e lui si sarebbe impegnato al massimo per fargliela pagare. George Bettencourt detestava i dottori e ciò rendeva il suo lavoro di direttore generale del Mid Pac Hospital piuttosto difficile, perché era costretto a lavorare a stretto contatto con lo staff medico. Si era laureato in scienze commerciali e aveva conseguito un master in salute pubblica. Nei dieci anni in cui aveva diretto il Mid Pac era riuscito in quello che la vecchia amministrazione, guidata da medici, aveva invano tentato di fare: aveva risvegliato l'ospedale dalla sua condizione comatosa e l'aveva trasformato in un'azienda competitiva. Eppure, quegli pseudo dei in camice bianco non sapevano fare altro che criticarlo. Non riuscivano a comprendere che la loro superiore missione potesse essere misurata in termini di profitti e perdite. La dura realtà era che salvare vite non era diverso da vendere linoleum: era solo un lavoro. Bettencourt lo sapeva, i dottori no. Erano degli idioti, e gli idioti gli davano il mal di testa. I due seduti di fronte a lui, poi. Gli stavano dando un'emicrania come non ne aveva da anni. Il dottor Clarence Avery, l'anziano primario di anestesia, non era un problema. Quell'uomo era talmente timido da non saper affrontare neanche la propria ombra. Da quando sua moglie era stata colpita da un ictus, eseguiva il suo lavoro meccanicamente, come un sonnambulo. Poteva essere convinto a collaborare, specie se si trattava di difendere la reputazione dell'ospedale. No, era la donna a preoccupare Bettencourt. Era entrata a far parte dello staff da poco tempo e non la conosceva molto bene, ma nello stesso istante in cui era entrata nell'ufficio aveva sentito odore di guai. L'aveva intuito dallo sguardo nei suoi occhi, dall'espressione battagliera. Era una donna graziosa, benché i suoi capelli castani fossero piuttosto selvaggi. Probabilmente non metteva un po' di rossetto da mesi. I suoi intensi occhi verdi, però, erano sufficienti a far dimenticare ogni difetto. In fin dei conti era piuttosto attraente. Peccato che si fosse messa nei pasticci, adesso per lui era solo un problema. Poteva solo sperare che non peggiorasse le cose. Kate trasalì, quando Bettencourt lasciò cadere i documenti sulla scrivania davanti a lei. «La lettera è giunta al nostro ufficio legale questa mattina, dottoressa Chesne» annunciò. «È stata recapitata a mano da un fattorino. Penso che
dovrebbe leggerla.» Lei guardò l'intestazione, sentendosi mancare: Uehara & Ransom, avvocati. «È uno degli studi legali più affermati della città» spiegò Bettencourt. Vedendo la sua espressione sbigottita proseguì, impaziente: «Hanno citato in giudizio lei e l'ospedale, dottoressa Chesne. Per negligenza. David Ransom si sta occupando personalmente del caso». Kate aveva la gola asciutta. Alzò gli occhi su Bettencourt. «Ma come... come possono...» «Basta un avvocato. E un paziente morto.» «Ho già detto quel che è successo.» Kate si girò verso Avery. «Ricorda, la scorsa settimana, le ho spiegato...» «Clarence e io abbiamo riesaminato la cosa» la interruppe Bettencourt, «ma non è questo il punto.» «Allora qual è il punto?» Per un istante, lui sembrò preso alla sprovvista da quella domanda così diretta. Si lasciò sfuggire un rumoroso sospiro. «Il punto è: sembra che dovremo affrontare una causa milionaria. Come suoi datori di lavoro, siamo responsabili dei danni. Tuttavia, non si tratta solo del denaro.» Fece una pausa. «Dobbiamo preoccuparci anche della nostra reputazione.» A Kate sembrò che il tono di voce di Bettencourt si fosse fatto minaccioso. Sapeva già quel che l'aspettava, ma non sapeva cosa dire. Così rimase seduta con le mani strette in grembo, lo stomaco annodato, aspettando il colpo. «Questa azione legale si riflette negativamente su tutto l'ospedale» proseguì il direttore, «se finiremo in tribunale, sarà una pessima pubblicità per noi. La gente, i pazienti, leggeranno i giornali e si spaventeranno.» Abbassò lo sguardo sulla scrivania. «Mi rendo conto che la sua carriera finora è stata accettabile...» Lei alzò di scatto il viso. «Accettabile?» ripeté, incredula. Guardò Avery. Il primario conosceva la sua carriera, sapeva che era impeccabile. Clarence si agitò sulla sedia, distogliendo i chiari occhi azzurri per evitare il suo sguardo. «Be', in effetti» mormorò, «devo ammettere che il suo stato di servizio, finora almeno, è più che accettabile. Ecco...» Per l'amor del cielo, difendimi! «Non ci sono mai state lamentele» concluse Avery con voce fievole.
«In ogni caso» proseguì Bettencourt, «lei ci ha messo in una situazione piuttosto delicata, dottoressa. Pertanto riteniamo che sarebbe bene che il suo nome non venisse più associato a quello dell'ospedale.» Nel lungo silenzio che seguì, l'unico rumore fu la tosse nervosa del dottor Avery. «Le stiamo chiedendo di dimettersi» precisò Bettencourt. E così eccolo, il colpo che aspettava. Le venne addosso come un'onda gigante, lasciandola priva di forze. «E se mi rifiutassi?» chiese, pacata. «Mi creda dottoressa: le dimissioni inciderebbero assai meno sul suo curriculum di un...» «Un licenziamento?» «Vedo che ci capiamo» replicò lui, inclinando il capo da una parte. «No.» Kate alzò la testa. La fredda sicurezza negli occhi di Bettencourt la fece irrigidire. Non le era mai piaciuto quell'uomo e ora le piaceva meno che mai. «Lei non mi capisce affatto.» «È una donna intelligente, può esaminare le alternative. In ogni caso, non potremmo mai lasciarla entrare ancora in sala operatoria.» «Non è giusto» obiettò Avery. «Come dici?» chiese Bettencourt, corrugando la fronte. «Non puoi licenziarla così. È un medico. Ci sono delle strade da tentare, comitati...» «Conosco bene le strade di cui parli, Clarence! Speravo che la dottoressa Chesne avrebbe compreso la situazione e si sarebbe comportata di conseguenza.» Si girò verso di lei. «Sarebbe davvero la cosa più semplice. Il suo curriculum non subirebbe alcun danno, ci sarebbe scritto semplicemente che si è dimessa. Posso far preparare la lettera in un'ora. Tutto quel che serve è la sua...» S'interruppe, cogliendo lo sguardo negli occhi di Kate. Raramente lei si arrabbiava, di solito riusciva a tenere sotto controllo le emozioni, sicché la furia che sentiva montare in superficie era una cosa nuova, che la spaventava. Con voce terribilmente calma disse: «Risparmi la carta, signor Bettencourt». Lui strinse le mascelle con forza. «Bene, se è questa la sua decisione...» Guardò Avery. «Quand'è la prossima riunione della commissione di controllo qualità?» «Il prossimo martedì, ma...» «Metti all'ordine del giorno il caso O'Brien. La dottoressa Chesne dovrà presentarsi per un'audizione.» Tornò a guardare Kate. «Saranno i suoi pari
a giudicarla, mi sembra equo. Non trova anche lei?» Kate si morse la lingua. Se avesse detto quel che pensava davvero di Bettencourt si sarebbe giocata per sempre tutte le possibilità di continuare a lavorare al Mid Pac. O in qualunque altro posto. Se quell'uomo le avesse affibbiato l'etichetta di piantagrane, il suo curriculum non avrebbe avuto più alcun valore. Si separarono da persone civili. Sebbene la sua carriera fosse appena stata fatta a brandelli, Kate riuscì a ricambiare lo sguardo diretto di Bettencourt e a stringergli con fermezza la mano. Mantenne il contegno uscendo dall'ufficio e per tutto il tragitto lungo il corridoio. Ma dentro l'ascensore che la portava al piano inferiore, sembrò che qualcosa, dentro di lei, si rompesse. Quando le portine si riaprirono, tremava con violenza. Cominciò a camminare nella lobby, senza prestare attenzione ai rumori e alle attività, e all'improvviso quel che era successo la colpì, come un fulmine. Mi hanno citata. Lavoro da un anno appena, e mi hanno citata. Aveva sempre pensato che le citazioni, come le catastrofi della vita, accadessero soltanto agli altri. Mentre cercava di riprendere il controllo di sé, lo sguardo le cadde sull'elenco del telefono, appeso a uno scaffale con una catenella. Se solo sapessero i fatti, pensò, se potessi spiegare. Le ci vollero pochi secondi per trovare quel che cercava: Uehara & Ransom, avvocati. Avevano lo studio in Bishop Street. Strappò la pagina. Poi, trascinata da una nuova speranza, si affrettò verso l'uscita. 2 «L'avvocato Ransom non è disponibile.» La segretaria all'ingresso aveva i capelli grigi, occhi di ghiaccio e un viso che sembrava preso di peso da American Gothic. Le mancava solo il forcone. Incrociando le braccia, sfidò silenziosamente l'intrusa. «Ma io devo vederlo» insistette Kate. «Naturalmente» replicò la donna, asciutta. «Voglio soltanto spiegargli...» «Le ho già detto, dottoressa, che è in riunione con gli associati. Non può riceverla.» La pazienza di Kate si stava avvicinando pericolosamente al limite. Si chinò verso la donna, posando le mani sul tavolo. «Le riunioni non durano in eterno» disse, dissimulando a malapena la rabbia.
«Questa sì» sorrise la segretaria. Kate ricambiò il sorriso. «Bene, allora aspetterò.» «Sta perdendo il suo tempo, dottoressa. L'avvocato Ransom non incontra mai gli imputati. Adesso, se ne ha bisogno, sarò felice di farla accompagnare all'uscita» aggiunse seccata, cercando con lo sguardo qualcuno che l'aiutasse a liberarsi dell'importuna. In quel momento squillò il telefono. Afferrando la cornetta, sbottò: «Uehara & Ransom! Sì? Oh sì, signor Matheson!». Volse le spalle a Kate con gesto eloquente. «Mi lasci controllare, devo avere i suoi documenti proprio qui» proseguì. Delusa, Kate si guardò intorno nella sala d'attesa, con il divano in pelle, il delicato Ikebana di rami di salice, la stampa di Murashige alla parete. Ogni cosa esprimeva gusto squisito. Ed era tutto, indubbiamente, molto costoso. Era evidente che lo studio Uehara & Ransom doveva andare molto bene. Quei due facevano soldi a palate sul sangue e sul sudore dei medici, pensò disgustata. Alcune voci attirarono la sua attenzione. Girandosi, vide un gruppetto di giovani emergere da una sala conferenze in fondo al corridoio. Chi di loro era Ransom? Nessuno degli uomini sembrava abbastanza vecchio da poter essere il socio anziano dello studio. Guardò verso la scrivania della segretaria: la donna le volgeva ancora la schiena. Ora o mai più. Le ci volle solo una frazione di secondo per decidersi. Si avviò a passo svelto verso la sala conferenze. Sulla porta si fermò, osservando l'interno. La stanza era molto luminosa, e per un momento la luce l'abbagliò. Dentro era sistemata una lunga scrivania con due file di poltroncine ordinatamente allineate. La luce del sole entrava a fiotti dalle grandi finestre volte a sud, illuminando la testa e la schiena di un uomo biondo, seduto a un'estremità del tavolo. Non si accorse di lei. Era totalmente immerso nella lettura di un fascio di documenti che aveva davanti. Nella stanza non si udiva alcun rumore, a parte il fruscio della carta quando l'uomo voltava pagina.. Kate deglutì con forza e si raddrizzò sulla persona. «L'avvocato Ransom?» L'uomo sollevò lo sguardo su di lei. «Sì. Lei chi è?» «Io sono...» «Mi dispiace tanto, avvocato.» La voce furiosa della segretaria la interruppe. Prendendola per il braccio, sibilò fra i denti: «Le ho detto che non è disponibile. Adesso, mi segua, prego». «Voglio solo parlare con lui!»
«Vuole che chiami la sicurezza e la faccia buttare fuori?» Kate si divincolò dalla stretta. «Faccia pure.» «Non si permetta di...» «Qualcuno mi dice cosa diavolo succede, qui?» La voce di Ransom riecheggiò come un ruggito, nella grande sala. Entrambe le donne si zittirono di colpo. L'uomo lanciò a Kate un lungo sguardo fulminante. «Si può sapere chi è lei?» «Kate...» Si fermò, abbassando la voce a un livello più dignitoso. «Dottoressa Kate Chesne.» Silenzio. «Capisco.» L'avvocato abbassò lo sguardo sui suoi documenti. «L'accompagni fuori, signora Pierce.» «Voglio solo esporle i fatti» insistette Kate, resistendo con tutte le proprie forze alla segretaria che cercava di trascinarla via, «ma forse preferisce non conoscerli, vero? È così che agite voi avvocati?» Lui la ignorò deliberatamente. «Non le importa niente della verità, non è così? Non le interessa sapere quel che è veramente successo a Ellen O'Brien.» L'uomo alzò la testa di scatto, fissandola con durezza. «Va bene, signora Pierce. Ho cambiato idea: la dottoressa Chesne può restare.» La signora Pierce lo guardò incredula. «Ma... potrebbe essere violenta!» David continuava a fissare il viso arrossato di Kate. «Penso di potermela cavare. Può andare, signora Pierce.» La segretaria uscì borbottando fra sé e si chiuse la porta alle spalle. Per un po', nessuno dei due parlò. «Bene, dottoressa Chesne» disse infine David. «Devo ammettere che sono colpito. Oltrepassare la signora Pierce è un'impresa eroica.» Accennò alle poltroncine. «Si accomodi. A meno che non preferisca continuare a parlarmi gridando.» Per nulla tranquillizzata dalla fredda disinvoltura dei suoi modi, Kate si avvicinò. Il suo sguardo non la lasciava un istante. Per essere un uomo di così vasta reputazione era piuttosto giovane. Kate valutò che non doveva avere neanche quarant'anni. Era vestito elegantemente, con un abito grigio gessato e prezioso fermacravatta, proprio il tipo di abbigliamento che ci si poteva aspettare da un uomo nella sua posizione. La sua abbronzatura, tuttavia, e i capelli schiariti dal sole non si adattavano per nulla a quell'imma-
gine arcigna. È solo un surfista cresciuto, pensò Kate. Del surfista, in effetti, aveva il fisico: lunghe membra muscolose, spalle larghe. Il viso non era bello, per via del naso largo e del mento schiacciato, ma i tratti della sua fisionomia erano messi in secondo piano dagli occhi: erano azzurri, gelidi e penetranti, il tipo d'occhi a cui non sfugge nulla. Kate sentiva su di sé il loro sguardo. Dovette sforzarsi di non incrociare le braccia sul petto per proteggersi da quell'esame. «Sono qui per esporle i fatti, avvocato Ransom.» «I fatti dal suo punto di vista.» «I fatti veri.» «Non si disturbi.» David estrasse dalla propria valigetta il fascicolo relativo a Ellen O'Brien e lo posò deciso sul tavolo. «I fatti sono qui. C'è tutto quel che mi serve.» Sottinteso: Tutto quello che mi serve per impiccarti. «Non c'è tutto.» «Devo supporre che adesso lei mi fornirà ogni dettaglio mancante. Giusto?» Sorrise. La sua espressione era inequivocabilmente minacciosa. Aveva i denti bianchissimi, affilati. Kate ebbe la sensazione di fissare le fauci di uno squalo. Si protese in avanti, posando le mani sul tavolo. «Quel che intendo fornirle è la verità.» «Come no.» Appoggiandosi all'indietro allo schienale della poltrona, la osservò con espressione annoiata. «Mi dica una cosa: il suo avvocato è a conoscenza della sua visita qui?» «Avvocato? Io non ho un avvocato.» «Allora farà meglio a procurarsene uno alla svelta. Ne avrà molto bisogno, dottoressa.» «Non necessariamente. Questa storia è solo un equivoco, avvocato Ransom. Se mi lascerà esporre i fatti, sono sicura...» «Un momento.» Estrasse dalla valigetta un piccolo registratore. «E adesso cosa crede di fare?» chiese Kate. Lui accese l'apparecchio e lo fece scivolare verso di lei. «Non vorrei perdermi qualche dettaglio di vitale importanza. Parli pure, sono tutto orecchi.» Furibonda, Kate allungò una mano e lo spense. «Questa non è una deposizione. Metta via questo maledetto coso.» Per qualche istante si fronteggiarono silenziosamente. Poi lui prese il re-
gistratore e lo rimise nella valigetta. Kate dissimulò a fatica il senso di trionfo. «Bene, dove eravamo rimasti?» chiese David con ostentata affabilità. «Oh sì. Stava per raccontarmi quel che è veramente accaduto.» Si appoggiò all'indietro, in attesa. Lei esitò. Adesso che finalmente aveva la sua attenzione, non sapeva da che parte cominciare. «Io... sono una persona molto attenta, avvocato Ransom» esordì infine. «Faccio le cose con calma. Posso non essere il migliore dei medici, ma sono coscienziosa. Non commetto stupidi errori.» Lui inarcò un sopracciglio: quel che pensava di quest'ultima affermazione era evidente. Ignorando la sua espressione, Kate proseguì. «La sera in cui Ellen O'Brien è venuta in ospedale, è stato il dottor Santini a firmare l'ordine di ricovero, ma sono stata io a richiedere gli esami preanestesia. Ho controllato i risultati e ho letto l'ECG. Ho stampato io stessa la strisciata, perché era domenica e il tecnico era impegnato da un'altra parte. Non avevo fretta, mi sono presa tutto il tempo di cui avevo bisogno. Anzi di più, perché Ellen era un membro del nostro staff. Era una di noi ed era anche un'amica. Ricordo che mi sono seduta nella sua stanza a ricontrollare le analisi di laboratorio. Voleva sapere se era tutto nella norma.» «E lei le ha detto di sì.» «Sì, compreso l'ECG.» «Dunque è evidente che ha commesso un errore.» «Le ho appena detto, avvocato, che non commetto stupidi errori. E non è successo nemmeno quella sera.» «Ma la cartella mostra...» «La cartella è sbagliata.» «Ho il tracciato qui, nero su bianco. E mostra un infarto.» «Non è l'ECG che ho visto io.» Lui la guardò come se non avesse udito bene. «L'ECG che ho visto io era normale» ripeté lei. «Allora come è saltato fuori questo qui?» «Ce l'ha messo qualcuno, mi sembra evidente.» «Chi?» «Non lo so.» «Capisco.» Si girò. «Non vedo l'ora di vedere che impressione farà sulla corte» aggiunse fra sé.
«Avvocato Ransom, se avessi commesso un errore, sarei la prima ad ammetterlo.» «Sarebbe un'incredibile dimostrazione di onestà, da parte sua.» «Davvero pensa che m'inventerei una storia tanto assurda?» gli domandò. David scoppiò a ridere, facendola arrossire violentemente. «No» rispose, «sono certo che saprebbe escogitare qualcosa di assai più credibile.» Poi aggiunse, sarcastico: «La prego, sto morendo dalla voglia di sapere com'è potuto succedere questo pasticcio. Mi dica, come ha fatto l'ECG a finire in questa cartella medica?». «Come faccio a saperlo?» «Deve per forza avere una teoria.» «Non ce l'ho.» «Avanti, dottoressa, non mi deluda.» «Le ho detto che non ce l'ho.» «Allora tiri a indovinare.» «Forse qualcuno ce l'ha spedito dalla Starship Enterprise» sbottò lei. «Teoria interessante» commentò Ransom, impassibile. «Adesso però torniamo alla realtà. Che, nel caso specifico, consiste di un pezzo di carta.» Sfogliò il contenuto della cartella fino al maledetto ECG. «Mi spieghi questo.» «Le ho detto che non posso. Sono diventata matta nel tentativo di capirci qualcosa. Facciamo dozzine di ECG ogni giorno, al Mid Pac. Può essere stato l'errore di un impiegato, un errore nell'etichettatura del tracciato. Quella pagina è finita nella cartella sbagliata.» «Però lei ha scritto le sue iniziali su questo foglio.» «No, non l'ho fatto.» «C'è qualcun altro Dr. K. C.?» «Sono le mie iniziali. Ma non le ho scritte io.» «Cosa sta dicendo? Che qualcuno ha contraffatto le sue iniziali?» «Deve essere così. Voglio dire, credo che sia così.» Tacque, improvvisamente confusa. Respinse una ciocca di capelli che le era caduta sul viso. L'estrema calma di quell'uomo la innervosiva. Perché non reagiva, per l'amor di Dio? Perché se ne stava seduto lì, con quell'espressione di esasperante cortesia sulla faccia? «Bene» mormorò lui, finalmente. «Bene cosa?» «Da quanto tempo si è accorta che la gente si diverte a falsificare le sue
iniziali?» «Non mi faccia sembrare paranoica.» «Non ne ho bisogno. Ci riesce benissimo da sola.» Si stava prendendo gioco di lei, era evidente. La cosa peggiore era che non poteva biasimarlo. La sua storia sembrava veramente il vaneggiamento di una matta. «D'accordo» proseguì Ransom, «presumiamo per un momento che stia dicendo la verità.» «Ecco, facciamolo, per favore» sbottò Kate. «Riesco a immaginare solo due spiegazioni per uno scambio intenzionale del diagramma dell'ECG. O c'è qualcuno che sta cercando di distruggere la sua carriera...» «Ma è assurdo. Non ho nemici.» «Oppure qualcuno sta cercando di nascondere un omicidio.» Davanti all'espressione sbigottita di Kate, le labbra dell'avvocato si schiusero in un sorriso di superiorità. «Ma poiché questa seconda spiegazione sembra ovviamente assurda a entrambi, non posso fare altro che concludere che lei sta mentendo.» Si sporse in avanti. La sua voce assunse all'improvviso un tono dolce, quasi intimo. Lo squalo si stava facendo amichevole, segnale inequivocabile di pericolo. «Avanti, dottoressa, sia sincera. Cosa è successo in quella sala operatoria? Un errore con il bisturi? O nell'anestesia?» «Non è successo niente del genere.» «Troppo gas esilarante o poco ossigeno?» «Le ho già detto che non ci sono stati errori.» «Allora perché Ellen O'Brien è morta?» Kate lo fissò, sbalordita dalla violenza nella sua voce. E dal colore dei suoi occhi. Le sembrò che una scintilla si accendesse fra loro. Improvvisamente si rese conto di quanto fosse attraente quell'uomo. Troppo attraente. La sua reazione era pericolosa. Un'ondata di calore prese a montare dentro di lei, incendiandole il viso. «Non sa rispondere?» proseguì Ransom, riappoggiandosi allo schienale. Era evidente che si stava godendo la posizione di superiorità. «Allora le dirò io cosa è successo. La sera del 2 aprile, Ellen O'Brien è stata ricoverata al Mid Pac Hospital per un intervento di routine alla cistifellea. Nella qualità di sua anestesista, lei ha ordinato che venissero eseguiti tutti gli esami previsti, compreso l'ECG, che ha controllato prima di andar via. Forse era di fretta. Forse aveva un appuntamento galante. Qualunque sia stata la ra-
gione, è stata disattenta e ha commesso un errore fatale. Non ha notato le onde ST elevate, le onde T invertite. Così ha detto che era tutto normale e ha siglato il foglio. Poi è uscita, senza rendersi conto del fatto che la sua paziente aveva appena avuto un infarto.» «Non ha mai mostrato alcun sintomo. Niente dolori al petto.» «Però qui, nelle annotazioni delle infermiere, c'è scritto che...» Sfogliò la cartella. «Cito testualmente: La paziente lamenta disturbi addominali.» «Era la cistifellea.» «O era il suo cuore? Comunque sia, gli eventi successivi sono incontestabili. Lei e il dottor Santini avete portato la signorina O'Brien in chirurgia. È bastata un po' di anestesia perché il suo cuore indebolito cedesse. Così si è fermato e non siete stati in grado di farlo ripartire.» Fece una lunga pausa a effetto. I suoi occhi erano duri come diamanti. «Ecco, dottoressa Chesne. Ha appena perduto la sua paziente.» «Non è andata così. Mi ricordo quell'ECG. Era normale.» «Forse dovrebbe riprendere in mano i suoi libri di testo sull'argomento.» «Non ho bisogno di libri. So benissimo cosa è normale.» La sua voce riecheggiò stridula nella stanza. L'avvocato non sembrò impressionato. Aveva anzi un'espressione annoiata. «Non crede che sarebbe molto più facile ammettere che ha commesso un errore?» «Più facile per chi?» «Per tutti. Dovrebbe prendere in considerazione la possibilità di un accordo per evitare il tribunale. Sarebbe veloce, semplice e relativamente indolore.» «Un accordo? Sarebbe come ammettere un errore che non ho mai commesso.» «Vuole andare in tribunale?» scattò Ransom, improvvisamente impaziente. «Perfetto. Ma lasci che le dica come vanno queste cose. Quando difendo una causa, non conosco mezze misure. Se dovrò farla a brandelli, in quell'aula, lo farò senza pensarci due volte, e quando avrò finito, lei desidererà non essersi mai imbarcata in questa ridicola battaglia in difesa del suo onore. Diciamocelo, dottoressa: lei è messa peggio di una palla di neve all'inferno.» Kate avrebbe voluto afferrare quei baveri della giacca gessati. Avrebbe voluto gridare che il suo dolore per la morte di Ellen era stato ignorato, affogato in tutti quei discorsi di accordi e tribunali. All'improvviso, però, la
rabbia e la forza sembrarono abbandonarla. Si lasciò andare stancamente all'indietro contro lo schienale. «Vorrei poter ammettere di aver fatto un errore» mormorò. «Vorrei poter dire: "So di essere colpevole e pagherò per questo". Vorrei farlo davvero. Ho passato una settimana a domandarmi come sia potuto accadere. Ellen si fidava di me, e io l'ho lasciata morire. Se ci penso, vorrei non essere mai diventata medico. Piuttosto un'impiegata o una cameriera, qualunque cosa. Ma io amo il mio lavoro. Lei non ha idea di quanto sia stato difficile arrivare fin dove sono adesso, e quante rinunce io abbia dovuto fare. E ora sembra che perderò il mio posto.» Lasciò cadere la testa sul petto, sconfitta. «Mi domando se sarò mai più in grado di lavorare ancora.» David guardò il suo capo chino in silenzio, sforzandosi di ignorare le emozioni che sentiva risvegliarsi dentro di sé. Si era sempre considerato bravo a giudicare il carattere delle persone. Di solito riusciva a guardare un uomo negli occhi e dire se stava mentendo. Durante il breve discorso di Kate Chesne aveva osservato i suoi occhi, sempre, alla ricerca di un batter di ciglia, di un guizzo che gli rivelasse che quella donna stava mentendo spudoratamente. Ma i suoi occhi erano rimasti saldi, sinceri e bellissimi come una coppia di smeraldi. Quest'ultima considerazione si accodò alle sue riflessioni saltando fuori dal nulla, quasi contro la sua volontà, lasciandolo sbalordito. Per quanto cercasse di ignorarlo, d'un colpo si era reso conto di quanto fosse bella quella donna. Indossava un semplice abito verde, appena segnato alla vita, e gli era bastato uno sguardo per capire che c'erano delle morbide curve, sotto il tessuto. Il suo viso non era privo di difetti. Aveva la mascella leggermente squadrata e i capelli castani, lunghi fino alle spalle, erano una ridda di riccioli indomabili. La sua fronte era pronunciata, anche se i capelli la dissimulavano un po'. Insomma, non aveva un volto di classica bellezza. D'altra parte non era mai stato attratto da donne bellissime. Quei pensieri lo stizzirono. Non era più uno studentello fresco di laurea. Era troppo grande e intelligente per voler indugiare in quel genere di riflessioni molto maschili. Era arrabbiato con se stesso, ma anche con lei, per l'effetto che gli faceva. Con gesto deliberatamente scortese, consultò l'orologio da polso. Poi, chiudendo la valigetta con uno scatto, si alzò in piedi. «Devo andare a raccogliere una deposizione, e sono già in ritardo. Se vuole scusarmi...»
Aveva già attraversato metà della stanza quando lei lo richiamò. «Avvocato Ransom?» Lui si girò a guardarla, irritato. «Cosa c'è?» «So che la mia storia deve sembrarle pazzesca e suppongo che non ci sia alcuna ragione perché lei debba credermi. Ma le giuro che è la verità.» Lui si accorse del suo disperato bisogno di conferme, capì che stava cercando un segno che le dicesse che era riuscita a scalfire il suo scetticismo. Non aveva intenzione di concederle niente del genere. Non avrebbe mai ammesso che era riuscita a instillargli un dubbio, a mandare nel pallone il suo istinto per la verità con i suoi splendenti occhi verdi. «Quel che credo io non ha importanza» replicò, «dunque non perda tempo con me, dottoressa. Lo tenga per l'aula.» Le sue parole furono più fredde di quanto avesse voluto, e si accorse che lei ne era rimasta ferita. «Allora non c'è niente che io possa fare, niente che io possa dire.» «Assolutamente niente.» «Credevo che mi avrebbe ascoltato. Credevo che in qualche modo sarei riuscita a farle cambiare idea.» «Allora ha molto da imparare sugli avvocati. Buongiorno, dottoressa Chesne.» Si girò e si avviò verso la porta. «Ci vediamo in tribunale.» 3 Lei è messa peggio di una palla di neve all'inferno. Seduta a un tavolino della caffetteria dell'ospedale, Kate non riusciva a scacciare quella frase dalla mente. Quanto impiegava la neve a sciogliersi? O si disintegrava immediatamente, al calore delle fiamme? Quanto avrebbe resistito, lei, prima di cadere a pezzi sul banco dei testimoni? Era abituata a confrontarsi con questioni di vita o di morte. Quando si verificava una crisi, non stava a torcersi le mani, cercando di stabilire cosa andava fatto. Lo faceva e basta, automaticamente. Fra le mura sterili e sicure di una camera operatoria aveva tutto sotto controllo. Un'aula di tribunale, però, era un'altra cosa. Quello era il territorio di David Ransom e lì sarebbe stato lui ad avere tutto sotto controllo. Lei sarebbe stata vulnerabile come una paziente sul tavolo operatorio. Come poteva sperare di difendersi dall'attacco di un uomo che aveva costruito la
propria reputazione distruggendo le carriere dei medici? Non si era mai sentita minacciata dagli uomini, prima. Dopotutto aveva fatto tirocinio con loro, lavorato con loro. David Ransom era il primo uomo che l'avesse mai spaventata, e c'era riuscito senza alcuno sforzo. Se solo fosse stato basso o grasso o calvo. Se solo fosse riuscita a pensare a lui come a un essere umano, vulnerabile come tutti. Invece, il solo pensiero di quei suoi freddi occhi azzurri le faceva annodare lo stomaco per la paura. «Ho idea che potrebbe servirti un po' di compagnia» disse una voce familiare. Kate alzò gli occhi e vide Guy Santini, arruffato come sempre. La guardava attraverso le lenti dei suoi ridicoli occhiali. Lo salutò con un lieve cenno del capo. «Ciao.» Guy si sedette accanto a lei, facendo schioccare più volte la lingua in segno di disapprovazione. «Come va, Kate?» «Aparte il fatto che sono disoccupata?» chiese lei con una risatina sarcastica. «Sto magnificamente.» «Ho sentito che il vecchio ti ha sospesa dalla sala operatoria. Mi dispiace.» «Non posso biasimare Avery. Ha solo eseguito gli ordini.» «Di Bettencourt?» «Chi altri? Quell'uomo mi considera un problema finanziario.» Guy grugnì. «Ecco cosa succede quando mettono i commercialisti a dirigere una struttura. Non sanno parlare d'altro che di perdite e profitti. Se George Bettencourt potesse far soldi con i denti d'oro dei pazienti, batterebbe i reparti con le pinze in mano.» «E poi manderebbe il conto per gli interventi di chirurgia orale» aggiunse Kate, ma nessuno di loro rise: lo scherzo era troppo vicino alla realtà per essere divertente. «Se può consolarti, non sarai sola in aula. Sono stato citato anch'io.» «Oh Guy, mi dispiace.» Lui scrollò le spalle. «Non è così grave, a me è già successo. Credimi, è la prima volta che fa male.» «Cosa accadde?» «Mi portarono un uomo con la milza spappolata e non riuscii a salvarlo.» Scosse la testa. «Quando vidi la lettera dell'avvocato, mi sentii così
male che avrei voluto buttarmi dalla finestra. Susan era pronta a ricoverarmi al reparto psichiatrico. Ma sai una cosa? Sono sopravvissuto. E ci riuscirai anche tu, se terrai bene a mente che non stanno attaccando te, ma il lavoro che hai fatto.» «Non vedo la differenza.» «È proprio questo il problema, Kate. Non hai imparato a separare te stessa dal lavoro. Sappiamo entrambi quanto tempo gli dedichi. Accidenti, a volte ho l'impressione che tu viva qui dentro. Non sto dicendo che la dedizione sia un difetto, ma non devi esagerare.» Quel che le faceva più male era sapere che Guy stava dicendo la verità. Lavorava ogni giorno per ore e ore. Forse ne aveva bisogno: la distraeva dalla desolazione della sua vita privata. «Non sono del tutto sepolta dal lavoro» protestò. «Ho cominciato a uscire di nuovo.» «Era ora. Lui chi è?» «La settimana scorsa sono uscita con Elliot.» «Quello che lavora ai computer?» sospirò Guy. Elliot era alto un metro e ottantacinque per sessantuno chili. «Immagino che sia stato uno spasso.» «Be' è stato... divertente. Mi ha chiesto di salire da lui.» «Davvero?» «Così sono andata.» «Davvero?» «Voleva mostrarmi il suo impianto stereo.» Guy si protese verso di lei. «Cosa è successo?» «Abbiamo ascoltato i suoi CD nuovi e giocato con i giochi del computer.» «E...?» Kate sospirò. «Dopo otto partite di Zork sono tornata a casa.» Guy ricadde indietro sulla sedia, con una smorfia di disappunto. «Elliot Lafferty, l'ultimo degli amanti passionali. Kate, quello che ti serve è una di quelle agenzie per cuori solitari. Scriverò io l'annuncio per te. Giovane donna vivace e attraente, cerca...» «Papà!» Lo strillo felice soverchiò il chiasso della caffetteria. Guy si girò. Un bimbetto esile gli correva incontro. «Ecco il mio Wìll» rise. Si alzò in piedi e sollevò il figlio di cinque anni senza sforzo. Con un agile movimento delle braccia lo fece volare in alto. Il piccolo Will era così leggero che per un istante sembrò rimanere sospeso a mezz'aria, come un uccellino, prima di ricadere fra le braccia del padre.
«Ti stavo aspettando, piccolo» disse Guy, «perché ci avete messo tanto?» «Mamma è tornata a casa tardi.» «Di nuovo?» Will si accostò all'orecchio del padre e sussurrò, con aria confidenziale: «Adele era veramente arrabbiata. Doveva andare al cinema col suo ragazzo». «Oh oh. Di certo non è il caso che Adele si arrabbi con noi» osservò Guy. Guardò la moglie Susan che si stava avvicinando. «Ehi, stiamo già facendo impazzire la tata?» «Deve essere la luna piena» rise Susan, ravviando una ciocca di capelli rossi. «Tutti i miei pazienti sono usciti di senno. Non riuscivo a buttarli fuori dallo studio.» «Aveva giurato che avrebbe lavorato part-time» brontolò Guy, rivolto a Kate. «Prova a indovinare chi viene chiamato al pronto soccorso ogni notte?» «Quel che ti manca sono le camicie stirate.» Susan allungò il braccio e diede al marito un buffetto sulla guancia. Proprio il genere di gesto materno che ci si poteva aspettare da Susan Santini. Una volta Guy l'aveva chiamata "la mia chioccia". L'aveva inteso come un vezzeggiativo e le si adattava perfettamente. La bellezza di Susan non era nel viso lentigginoso e nemmeno nella sua figura abbastanza robusta. La sua bellezza era nel sorriso sereno e paziente che stava rivolgendo al figlio. Il bambino si aggrappava alle gambe del padre, saltellando. «Papà, fammi volare ancora.» «Mi hai preso per una rampa di lancio?» «Dai, ancora una volta.» «Più tardi, Will» intervenne Susan. «Dobbiamo andare a prendere la macchina di papà prima che chiuda il garage.» «Per favore.» «Hai sentito?» disse Guy. «Ha detto la parola magica.» Con un ruggito, afferrò il bambino urlante e lo lanciò in alto. Susan guardò Kate con aria sofferente. «Due bambini, ecco cosa ho. E uno di loro pesa centoventi chili.» «Ti ho sentito.» Guy stese un braccio e afferrò la moglie. «Per punizione guiderai tu fino a casa.» «Prepotente. Ti va di andare da McDonald's?» «Uffa. Conosco una a cui non va di cucinare, stasera.» Guy salutò Kate con la mano, iniziando a sospingere la sua famiglia ver-
so l'uscita. «Allora, cosa prenderai piccolo? Hamburger al formaggio?» chiese, allontanandosi. «Gelato» rispose Will. «Gelato. A questa possibilità non avevo pensato...» Kate rimase a guardare malinconicamente la famiglia Santini. Riusciva facilmente a immaginare come sarebbe andata la serata. Li vide seduti da McDonald's, i genitori che cercavano di convincere il piccolo Will a prendere un altro boccone. Poi il ritorno a casa, i pigiami, la fiaba della buonanotte. E infine quelle piccole braccia ossute avrebbero cinto il collo di papà per un ultimo bacio. Chi aspetta me, a casa?, pensò. Guy si girò per un ultimo saluto con la mano, poi lui e la sua famiglia scomparvero. Kate sospirò, invidiosa. Che uomo fortunato. Dopo aver lasciato l'ufficio, quella sera, David percorse Nuuanu Avenue e svoltò sul viale di terra battuta che si snodava attraverso il vecchio cimitero. Posteggiò l'auto all'ombra di un banano e si avviò a piedi attraverso il prato appena tosato. Oltrepassò le lapidi di marmo con gli angeli, le sepolture dei Dole, dei Bingham e dei Cook. Raggiunse una zona in cui c'erano solo delle targhe di bronzo sul terreno, una triste concessione alla modernità. Si fermò sotto un albero della pioggia, guardando una targa ai suoi piedi. Noah Ransom Sette anni Era un bel posto, in leggero declivio, con vista sulla città. C'era sempre una leggera brezza che a volte spirava dal mare, a volte dalla valle. Chiudendo gli occhi, riusciva a indovinare da dove provenisse, solo dall'odore. David non aveva scelto quel posto. Non ricordava chi avesse deciso che la tomba dovesse essere lì. Forse si era trattato semplicemente della disponibilità. Quando il tuo unico figlio muore, cosa t'importa della vista, della brezza o degli alberi della pioggia? Chinandosi, spazzò via con la mano alcune foglie secche che erano cadute sulla targa. Poi si alzò e rimase in piedi, in silenzio, accanto a suo figlio. Non fece caso al fruscio di una lunga gonna sull'erba e al battito di un bastone.
«Eccoti qui, David» disse una voce. Girandosi, vide una donna alta dai capelli color argento avanzare verso di lui. «Non dovresti essere qui fuori, mamma. Non con quella storta al piede.» Lei indicò con il bastone la casa di legno bianco al limitare del cimitero. «Ti ho visto dalla finestra della cucina. Ho pensato che fosse meglio venire a salutarti. Non posso aspettare in eterno che tu venga a farmi visita.» Lui la baciò sulle guance. «Mi dispiace. Ho avuto da fare. Ma stavo per venire, davvero.» «Come no.» Posò lo sguardo dei suoi occhi azzurri sulla tomba. Quella particolare tonalità di blu delle iridi era una delle tante cose che Jinx Ransom aveva in comune con il figlio. «Alcuni anniversari è meglio dimenticarli» osservò con dolcezza. Lui non rispose. «Sai, David, Noah ha sempre desiderato un fratellino. Forse sarebbe il momento che tu lo accontentassi.» David sorrise debolmente. «Cosa mi stai suggerendo, mamma?» «Solo quel che riesce naturale a tutti noi.» «Forse dovrei sposarmi, prima.» «Oh certo, certo.» Si fermò, poi chiese, speranzosa: «Hai qualcuna in mente?». «No.» Con un sospiro, lei lo prese sottobraccio. «Come pensavo. Be', vieni con me. Visto che non hai alcuna splendida fanciulla ad aspettarti, tanto vale che tu venga a prendere un caffè con la tua vecchia mamma.» Attraversarono insieme il prato in direzione della casa. L'erba era irregolare e Jinx procedeva lentamente, rifiutando di appoggiarsi al figlio. Non avrebbe dovuto camminare, ma non era mai stata il tipo da obbedire agli ordini di un medico. Si era slogata la caviglia giocando a tennis, non era il genere di donna che resta seduta a lungo. Passarono attraverso un varco nella siepe e salirono i gradini fino al portico della cucina. Gracie, la governante di mezz'età, li aspettava sull'uscio. «Eccoti» sospirò. Fissò David con i suoi piccoli occhi castani. «Non ho nessun controllo su questa donna. Nessuno.» Lui si strinse nelle spalle. «E chi ne ha?» borbottò. Jinx e David si sedettero al tavolo della cucina. Dappertutto c'erano
piante appese, una vera giungla di foglie ricadenti. Dal portico arrivava la brezza leggera della valle e dalla grande finestra si vedeva il cimitero. «È un vero peccato che abbiano potato l'albero della pioggia» osservò Jinx, guardando fuori. «Hanno dovuto farlo» replicò Gracie, versando il caffè nelle tazze. «L'erba non cresce bene all'ombra.» «Ma la vista non è così bella.» David spazzò via una fogliolina di felce. «A me non è mai importato niente della vista. Non riesco a capire come fai a guardare il cimitero tutto il giorno.» «A me piace» affermò Jinx. «Quando guardo fuori vedo tutti i miei vecchi amici. La signora Goto, sepolta vicino alla siepe, il signor Carvalho, vicino all'acacia e, sul declivio, il nostro Noah. Immagino che stiano tutti dormendo.» «Buon Dio, mamma.» «Il tuo problema, David, è che non hai ancora superato la paura della morte. Finché non lo farai, tu non riuscirai ad accettare la vita.» «Cosa suggerisci?» «Fai un secondo tentativo di diventare immortale: genera un altro figlio.» «Non ho intenzione di sposarmi di nuovo, mamma. Lascia perdere.» Come sempre, quando suo figlio diceva qualcosa di ridicolo, Jinx lo ignorò. «C'era quella giovane donna che hai conosciuto a Maui, l'anno scorso. Cosa le è successo?» «Si è sposata. Con un altro.» «Che peccato.» «Già, poveretto.» «Insomma, David» sbottò Jinx, esasperata, «quando crescerai?» David sorrise e bevve un sorso del caffè nero di Gracie. Immediatamente ebbe un conato. Ecco un'altra ragione per cui evitava di far visita alla madre. Non solo perché Jinx tendeva a riportargli alla memoria brutti ricordi, ma anche perché lo costringeva a bere l'orribile caffè di Gracie. «Allora, com'è andata la tua giornata, mamma?» chiese. «Le cose vanno sempre peggio.» «Ancora caffè, David?» domandò Gracie, avvicinando minacciosamente la caffettiera. «No» scattò lui, posando entrambe le mani sulla tazza. Le due donne lo
fissarono, sorprese. «Voglio dire no grazie, Gracie.» «Quale delicatezza» osservò Jinx. «C'è qualcosa che non va? Oltre alla tua vita sessuale, intendo.» «Sono solo un po' più indaffarato del solito. Hiro è ancora a letto con il mal di schiena.» «Non mi pare che il tuo lavoro ti piaccia più come un tempo. Penso che fossi molto più felice nell'ufficio del procuratore. Adesso prendi quel che fai terribilmente sul serio.» «È un lavoro serio.» «Citare in giudizio i dottori? È solo un modo di far soldi in fretta» commentò Jinx. «Il mio dottore è stato citato, una volta» osservò Gracie. «È stato orribile, il modo in cui l'hanno trattato, le cose che hanno detto di lui. Era un sant'uomo.» «Nessuno è santo, Gracie» puntualizzò David, «e i dottori meno degli altri.» Lasciò vagare lo sguardo fuori dalla finestra, e all'improvviso gli tornò in mente il caso O'Brien. Ci aveva pensato tutto il pomeriggio. O meglio, aveva pensato a lei, Kate Chesne, la bugiarda dagli occhi verdi. Era giunto alla conclusione che mentiva. Il caso sarebbe stato ancora più semplice di quel che aveva creduto. Sapeva esattamente quel che doveva fare, una volta che fosse stata seduta sul banco dei testimoni. Prima le domande semplici: nome, studi, tirocinio post laurea. Aveva l'abitudine di camminare in aula, descrivendo cerchi intorno all'imputato. Più le domande si facevano difficili, più i cerchi si stringevano. Al momento di parlare dell'omicidio, si sarebbe trovato a faccia a faccia con lei. L'avrebbe smascherata, fatta a pezzi. Inaspettatamente, pensando a quel che avrebbe dovuto fare per terminare il lavoro, per un istante si sentì a disagio. Ma era il suo lavoro e si era sempre vantato di farlo bene. Con uno sforzo, bevve un ultimo sorso di caffè e si alzò in piedi. «Devo andare» annunciò, chinandosi per scansare una felce pericolosamente bassa. «Ti chiamerò, mamma.» «Quando? L'anno prossimo?» sbuffò Jinx. David diede una pacca sulla spalla di Gracie e le mormorò all'orecchio: «Buona fortuna. Spero che non ti faccia impazzire». «Io? Farla impazzire? Non dire sciocchezze.» Gracie lo accompagnò alla porta e rimase sotto il portico, salutandolo con la mano. «Arrivederci David.»
Gracie rimase ferma un momento sull'uscio, guardando David allontanarsi attraverso il cimitero. Poi si girò verso Jinx. «È così infelice» osservò tristemente. «Se solo ce la facesse a dimenticare.» «Non dimenticherà» sospirò Jinx. «Da questo punto di vista, David è come suo padre. Porterà quel dolore dentro di sé fino all'ultimo giorno della sua vita.» 4 Il vento soffiava forte da nordest quando la lancia che trasportava gli intimi resti di Ellen O'Brien salpò verso il mare aperto. Le ceneri sarebbero state sparse fra le onde illuminate dalla luce del tramonto, carne e sangue sarebbero tornati agli elementi in modo pulito, naturale. Il pastore gettò una ghirlanda di fiori gialli in acqua. Vedendola galleggiare piano sull'acqua, Patrick O'Brien scoppiò in lacrime. Il suo pianto rìsuonò sulla banchina affollata e giunse fino a Kate. Si era messa discosta dagli altri, vicino alle barche da pesca ormeggiate. Non poteva fare a meno di chiedersi perché era venuta. Forse una forma crudele di penitenza? Un debole tentativo di dire al mondo che le spiaceva? Sapeva solo che una voce dentro di lei implorava perdono e l'aveva spinta fin lì. Erano venute anche altre persone dall'ospedale. Un gruppo di infermiere, strette le une alle altre per sostenersi nel dolore. Un paio di ostetriche, rigide nei loro abiti da passeggio. Clarence Avery, con i lunghi capelli bianchi scarmigliati. C'era perfino George Bettencourt. Stava in disparte, il suo viso era una maschera impenetrabile. Per questa gente, l'ospedale era più che un luogo di lavoro. Era un'altra casa, un'altra famiglia. I dottori e le infermiere si aiutavano gli uni con gli altri durante i parti e sul letto di morte. Ellen O'Brien aveva assistito alla nascita dei figli di molti dei presenti. Adesso loro erano venuti a dirle addio. Il riflesso del sole su una chioma bionda attirò l'attenzione di Kate verso l'estremità della banchina. Vide David Ransom che torreggiava sugli altri. Si stava ravviando i capelli scompigliati dal vento. Indossava una perfetta tenuta da funerale, abito grigio scuro, cravatta sobria, ma sebbene fosse circondato dal dolore, mostrava le stesse emozioni di un muro di pietra. Non sembrava neanche umano: chissà se gli capitava mai di ridere o piangere, di soffrire. Faceva mai l'amore?
Kate scosse la testa per ricacciare quell'ultimo, inadatto pensiero che si era fatto strada nella sua mente. Amore? Facile immaginare come dovesse essere fare l'amore con David Ransom. Nessuna condivisione, solo pretese. Di certo lui esigeva la resa assoluta, come in tribunale. I raggi del sole al tramonto ammantavano la sua figura con una luminosa, invincibile corazza. Che possibilità aveva di resistere a un uomo simile? Il vento soffiava sempre più forte dal mare, facendo sbattere le sagole delle barche a vela contro i pennoni e coprendo le parole del sacerdote. Quando la cerimonia terminò, Kate si rese conto di non essere capace di muoversi. Rimase a guardare gli altri andar via. Clarence Avery si fermò, sembrò sul punto di dire qualcosa ma cambiò idea e si allontanò. Mary e Patrick O'Brien non la degnarono di uno sguardo. David le passò accanto a passo veloce, ignorandola, come se fosse stata invisibile. Se l'aveva riconosciuta non lo diede a vedere. Quando finalmente trovò l'energia per muoversi, la banchina era deserta. I pennoni delle barche a vela sembravano tronchi di alberi avvizziti nella luce morente. I suoi passi contro il legno avevano un suono lugubre. Raggiunse la macchina sentendosi infinitamente stanca, come se avesse camminato per chilometri. Cominciò a cercare le chiavi, ma la borsa le sfuggì di mano. Uno strano senso di ineluttabilità si impadronì di lei. Rimase a guardare le sue cose che si spargevano sul marciapiede, paralizzata dalla sconfitta. Con gli occhi della mente si vide in piedi lì per tutta la notte, per tutta la settimana, raggelata e incapace di muoversi. Chissà se qualcuno se ne sarebbe accorto. David se ne accorse. Perfino mentre salutava e rimaneva a guardare i suoi clienti andar via, era consapevole della presenza di Kate Chesne da qualche parte sulla banchina, alle sue spalle. Si era meravigliato di vederla. Aveva pensato che si trattasse di una mossa calcolata, una dimostrazione pubblica di pentimento pensata per impressionare gli O'Brien. Ma quando si girò e la vide camminare da sola lungo la banchina, notò il modo in cui teneva curve le spalle, gli occhi bassi. Si rese conto che doveva aver fatto appello a tutto il proprio coraggio, per venire. Poi pensò che alcuni dottori avrebbero fatto di tutto, pur di evitare un'azione legale. Si girò e cominciò ad andare verso la macchina. Era a metà del parcheggio quando udì il suono di qualcosa che cadeva. Vide che Kate aveva perso la borsa. Per un istante che sembrò eterno, lei rimase immobile, con le
chiavi dell'auto in una mano. Aveva l'aria di una bambina confusa. Poi, piano, stancamente, si chinò a raccogliere le proprie cose. Non poté farne a meno: una forza invincibile sembrò trascinarlo verso di lei. Kate non si accorse di lui. La raggiunse, si accovacciò al suo fianco e raccolse alcune monetine; gliele porse. Lei sembrò mettere a fuoco il suo viso solo in quel momento. Si irrigidì. «M'è sembrato che avesse bisogno di aiuto» disse lui. «Oh.» «Credo che abbia preso tutto, adesso.» Si alzarono entrambi. Lui teneva ancora in mano le monetine, ma lei non sembrava accorgersene. Solo quando le mise il denaro in mano, riuscì a sussurrare, debolmente: «Grazie». Per un momento si fissarono l'un l'altro. «Non mi aspettavo di incontrarla qui» le confessò David. «Perché è venuta?» Kate fece spallucce. «È stato un errore, penso.» «È stato il suo avvocato a suggerirlo?» «Perché avrebbe dovuto farlo?» si stupì Kate. «Per dimostrare agli O'Brien il suo interessamento.» «È questo quel che pensa?» domandò lei, avvampando. «Che sto seguendo una specie di strategia?» «Non sarebbe la prima volta.» «E lei perché è qui, avvocato Ransom? È parte della sua strategia? Per dimostrare ai suoi clienti che le importa di loro?» «A me importa.» «Mentre pensa che io me n'infischi...» borbottò Kate. «Non ho detto questo.» «Lo ha sottinteso.» «Non deve prendere quel che dico in maniera così personale.» «Invece sì.» «Non dovrebbe. Per me è solo un lavoro.» Kate ricacciò indietro rabbiosamente una ciocca di capelli. «Qual è il suo lavoro? Diffamare la gente a pagamento?» «Io non attacco le persone, attacco i loro errori. Perfino i migliori dottori possono commetterne.» «Non c'è bisogno che me lo dica.» Girandosi, guardò verso il mare. Le ceneri di Ellen O'Brien erano là fuori, da qualche parte. «Fa parte della mia
vita, avvocato Ransom. Ogni giorno, in sala operatoria, so che se prendo la fiala sbagliata o agisco sulla leva sbagliata può costare la vita a qualcuno. Certo, troviamo la maniera di conviverci. Abbiamo i nostri scherzi macabri, il nostro umorismo patibolare. Riusciamo a ridere di cose terribili, ma lo facciamo per sopravvivere. Per la nostra sopravvivenza emotiva. Voi avvocati non avete idea. Voi e la vostra dannata professione. Non sapete com'è quando va tutto storto, quando perdiamo qualcuno.» «So com'è per le famiglie. Ogni volta che commettete un errore, qualcuno soffre.» «Immagino che lei non sbagli mai.» «Tutti sbagliano. La differenza è che voi seppellite i vostri errori.» «Non mi permetterà mai di dimenticare, vero?» Si girò verso di lui. Il tramonto tingeva il cielo d'arancione e accendeva di bagliori dorati i suoi capelli e il suo viso. All'improvviso David si chiese come sarebbe stato accarezzare quei riccioli arruffati dal vento, sfiorare quel viso con le labbra. Quel pensiero era saltato fuori dal nulla e adesso che s'era presentato non sapeva come liberarsene. Di certo era l'ultima cosa che avrebbe dovuto pensare, ma lei era così vicina che aveva solo due possibilità: allontanarsi o baciarla. Riuscì a restare saldo. A malapena. «Come le ho già spiegato, dottoressa Chesne, sto soltanto facendo il mio lavoro.» Lei scosse la testa e i capelli le svolazzarono intorno. «No, c'è più di questo. Io credo che lei stia perseguendo una specie di vendetta. Sta cercando di distruggere l'intera professione medica, non è così?» David fu preso alla sprovvista da quell'accusa. Si era avvicinata molto alla verità. In qualche modo aveva trovato la sua vecchia ferita e l'aveva riaperta con l'equivalente verbale di un bisturi. «Distruggere l'intera professione?» riuscì a ribattere. «Lasci che le dica una cosa, dottoressa: gli incompetenti come lei mi semplificano molto il compito.» La rabbia accese gli occhi di Kate, facendoli brillare come due fiamme. Per un istante, David pensò che l'avrebbe schiaffeggiato. Invece si girò, si sedette in macchina e chiuse con violenza la portiera. Mise in moto l'auto e uscì dal posteggio con tale velocità che David dovette balzare da una parte per non essere investito. Guardando la macchina allontanarsi, non poté fare a meno di pentirsi delle parole inutilmente brutali che le aveva detto. Ma
era stata una forma di autodifesa. La perversa attrazione che provava per lei stava per diventare troppo imperiosa. Doveva stroncarla subito. Quando si girò per andar via, un riflesso luminoso catturò la sua attenzione. Era una penna d'argento. Doveva essere rotolata sotto la macchina quando era caduta la borsa. La prese ed esaminò il nome inciso sopra: dottoressa Katharine Chesne. Per un po' rimase fermo, soppesando la penna e pensando alla sua proprietaria. Chiedendosi se anche lei sarebbe tornata a una casa vuota. D'un colpo, mentre se ne stava lì sulla banchina battuta dal vento, si rese conto di quanto si sentisse vuoto dentro. Un tempo quel senso di vuoto era stato una benedizione, perché lo aveva difeso dal dolore. Adesso avrebbe voluto ricominciare a provare qualcosa, qualunque cosa, solo per accertarsi di essere ancora vivo. Sapeva che le emozioni erano lì, rinchiuse da qualche parte, dentro di lui. Aveva sentito qualcosa muoversi debolmente, quando aveva guardato gli occhi brucianti di Kate Chesne. Non un'emozione violenta, giusto una vibrazione. Un lieve sussulto sul tracciato di un cuore malato. Il paziente non era morto, non ancora. Si accorse che le sue labbra si erano dischiuse in un sorriso. Gettò in aria la penna e la riprese al volo. Poi la fece scivolare nel taschino della giacca e raggiunse la sua auto. Il cane era profondamente anestetizzato. Aveva le zampe allargate, il bacino rasato e cosparso di tintura di iodio. Era un pastore tedesco, evidentemente ben nutrito e poco amato. Guy Santini detestava l'idea che una creatura tanto bella dovesse terminare sul tavolo del suo laboratorio, ma le cavie erano troppo poche di questi tempi e doveva usare tutto quello che il suo fornitore gli procurava. Si consolò pensando che gli animali non soffrivano. Dormivano profondamente per tutta la durata dell'intervento. Quando terminava, spegneva il respiratore e somministrava loro una dose letale di Pentothal. La morte sopraggiungeva senza dolore, una fine di certo migliore di quella che l'animale avrebbe potuto fare sulle strade. E ogni sacrificio aggiungeva dati alla sua ricerca, altri punti sui grafici, altri indizi che gli servivano a indagare i misteri della fisiologia epatica. Fece scorrere lo sguardo sugli strumenti ordinatamente allineati sul vassoio: il bisturi, le pinze, i cateteri. Sopra il tavolo, un indicatore di pressione attendeva di essere collegato. Era tutto pronto. Allungò una mano per prendere il bisturi.
Il cigolio della porta che si chiudeva lo bloccò. Sul pavimento lucido del laboratorio risuonarono dei passi. Alzò gli occhi e vide Ann Richter, in piedi dall'altra parte del tavolo. Si guardarono l'un l'altro in silenzio. «Vedo che neanche tu sei andata al funerale di Ellen» osservò Guy. «Avrei voluto. Ma ho avuto paura.» «Paura?» ripeté lui, corrugando la fronte. «E di cosa?» «Mi spiace Guy, non ho più scelta.» Silenziosamente gli porse una lettera. «È da parte dell'avvocato di Charlie Decker. Fanno domande su Jenny Brook.» «Cosa?» Guy sfilò i guanti e prese il foglio. Lo lesse in fretta, poi alzò gli occhi su di lei, allarmato. «Non glielo dirai, vero Ann? Non puoi...» «È un mandato di comparizione, Guy.» «Puoi mentire, per l'amor di Dio.» «Decker è uscito, Guy. Non lo sapevi, vero? È stato dimesso dall'ospedale un mese fa. Mi ha chiamata. Mi ha lasciato dei messaggi a casa. A volte ho l'impressione che mi stia seguendo.» «Non può farti del male.» «No?» Accennò con la testa al foglio che Guy stringeva in mano. «Henry ha ricevuto la stessa lettera. E anche Ellen. Proprio prima che lei...» Ann ammutolì, come se dare voce alle sue peggiori paure avesse potuto materializzarle. Solo allora Guy si avvide del suo aspetto prostrato: profonde ombre scure le segnavano gli occhi e sembrava che non pettinasse da giorni i capelli biondo cenere, di cui pure era sempre stata così orgogliosa. «Questa storia deve finire, Guy» mormorò, «non posso passare il resto della mia vita a guardarmi da Charlie Decker.» Lui appallottolò il foglio nel pugno e cominciò a camminare avanti e indietro. La sua agitazione si stava trasformando in panico. «Potresti lasciare le isole, giusto per un po' di tempo.» «Per quanto tempo, Guy? Un mese? Un anno?» «Il tempo necessario perché le acque si calmino. Ascolta, ti darò dei soldi.» Frugò nel portafogli e ne estrasse cinquanta dollari, tutto il contante che aveva. «Tieni. Ti prometto che te ne manderò ancora.» «Non ti sto chiedendo denaro.» «Avanti, prendili.» «Ti ho già detto...» «Cristo, prendili!» La sua voce disperata riecheggiò fra le pareti candide. «Per favore, Ann» aggiunse a voce più bassa, «te lo sto chiedendo da ami-
co. Per favore.» Lei guardò il denaro che lui stringeva in mano. Lentamente lo prese. «Parto stasera per San Francisco» annunciò. «Ho un fratello lì.» «Chiamami quando sarai arrivata. Ti manderò tutti i soldi di cui avrai bisogno. Ann? Lo farai per me, vero?» Lei guardava la parete, in silenzio. Guy avrebbe voluto rassicurarla, dirle che nulla poteva andare storto. Ma sapevano entrambi che era una bugia. La guardò allontanarsi verso la porta. Prima che uscisse le disse: «Grazie Ann». Lei non si girò. Si fermò un attimo sull'uscio, scrollò le spalle. Poi uscì. Ann camminava in fretta verso la fermata dell'autobus, stringendo nel pugno i soldi che Guy le aveva dato. Cinquanta dollari. Come se fossero sufficienti. Mille, un milione di dollari non sarebbero bastati. Salì sull'autobus a Waikiki e si sedette accanto al finestrino, lasciando vagare lo sguardo all'esterno, sugli isolati tutti uguali. Scese a Kalakaua e si affrettò verso casa. I gas di scarico le stringevano la gola, aveva l'impressione che i palazzi di cemento la schiacciassero. I marciapiedi erano affollati di turisti che le intralciavano il cammino, facendola sentire sempre peggio. Accelerò il passo. Dopo due isolati, la folla cominciò a diradarsi. Ann si fermò a un incrocio, aspettando il semaforo. In quell'istante, mentre stava ferma nella luce crepuscolare, ebbe la distinta sensazione che qualcuno la stesse seguendo. Si girò di scatto e scrutò la strada. Un uomo anziano camminava lentamente sul marciapiedi. Una coppia sospingeva una carrozzina. Alcune camicie colorate svolazzavano da uno stendibiancheria. Niente di strano. Perlomeno all'apparenza. Scattò il verde. Ann attraversò di corsa e continuò a correre fino a casa. Iniziò a fare i bagagli, gettando le proprie cose alla rinfusa in una valigia. L'aereo per San Francisco partiva a mezzanotte. Suo fratello l'avrebbe ospitata per un po', senza fare domande. Lui non si stupiva, sapeva che tutti nascondono qualcosa, fuggono da qualcosa. Non deve essere per forza così, le bisbigliò una vocina nella mente. Potresti andare alla polizia. E dire cosa? La verità su Jenny Brook? Distruggere una vita innocente? Cominciò a camminare avanti e indietro, sempre più agitata. Passando davanti allo specchio del soggiorno, colse il proprio riflesso. Aveva i capelli arruffati, il mascara le era colato sul viso. La paura aveva trasformato
il suo volto, rendendolo irriconoscibile. Basta una telefonata, una confessione. Un segreto svelato non è più pericoloso. Prese il telefono e compose con mano tremante il numero di Kate Chesne. Dopo quattro squilli le rispose una segreteria telefonica. Il suo cuore mancò un colpo per la delusione. Si schiarì la voce, ricacciando la paura. «Sono Ann Richter» annunciò. «Ho bisogno di parlarti. Si tratta di Ellen. So perché è morta.» Riappese, disponendosi ad aspettare. Passarono diverse ore prima che Kate ricevesse il messaggio. Dopo aver lasciato il porto, continuò ad andare in giro senza meta, cercando di rimandare il più possibile l'inevitabile ritorno alla casa vuota. Era venerdì. Decise di concedersi una cena fuori. Mangiò da sola in un piccolo ristorante alla moda vicino al mare. Tutti i presenti sembravano divertirsi un mondo. La bistecca era senza sapore e la mousse di cioccolato talmente stucchevole che a stento riuscì a mandarla giù. Lasciò una mancia esagerata, quasi volesse scusarsi per la mancanza d'appetito. Poi provò ad andare al cinema. Si ritrovò seduta fra un ragazzino irrequieto e una coppia che amoreggiava. Andò via a metà della proiezione. In seguito, non riuscì a ricordare neanche il titolo del film, solo che si trattava di una commedia e che non aveva riso neppure una volta. Arrivò a casa verso le dieci. Era già svestita a metà quando si accorse che la spia della segreteria telefonica stava lampeggiando. Pigiò il pulsante e andò verso l'armadio. «Pronto, dottoressa Chesne, qui è la Four East. Chiamo per avvisarla che lo zucchero nel sangue del signor Berg è a novantotto... Pronto, sono June, dell'ufficio del dottor Avery. Non dimentichi la riunione della commissione di controllo qualità martedì alle 16... Ciao, è la Windward Realty. Richiamaci: abbiamo dei titoli che riteniamo ti possano interessare...» L'ultimo messaggio risuonò mentre stava appendendo la gonna: «Sono Ann Richter. Ho bisogno di parlarti. Si tratta di Ellen. So perché è morta». La comunicazione si interruppe e il nastro del registratore iniziò a riavvolgersi. Kate si precipitò accanto alla segreteria e pigiò il pulsante per il riascolto. Il cuore le batteva all'impazzata mentre l'apparecchio ripeteva lentamente i messaggi. «Si tratta di Ellen. So perché è morta.» Kate afferrò l'elenco del telefono dal comodino e trovò numero e indi-
rizzo di Ann. Il suo telefono era occupato. Ritentò diverse volte, ma il segnale era sempre lo stesso. Sbatté giù la cornetta. Sapeva esattamente quel che doveva fare. Tornò di corsa all'armadio e riprese la gonna. Si rivestì in tutta fretta. Il traffico in direzione di Waikiki era intenso. Come sempre, le strade erano affollate da un bizzarro miscuglio di turisti, soldati in licenza, barboni. Si muovevano tutti nella luce surreale della città. Le palme proiettavano ombre sottili sugli edifici. Le strade di Waikiki erano il luogo in cui guardare e farsi guardare, ma quella sera Kate trovava spaventosa l'usuale stravaganza dei passanti. Tutta quella gente dall'aspetto livido per via della luce artificiale dei lampioni, i soldati che ciondolavano ubriachi accanto all'ingresso dei locali notturni. Un predicatore dagli occhi spiritati s'era fermato a un incrocio e agitava una Bibbia ammonendo: «La fine del mondo è vicina». Quando Kate si fermò al semaforo rosso, l'uomo si girò verso di lei e la fissò. Per un istante le sembrò di leggere in quegli occhi ardenti un messaggio diretto solo a lei. Quando scattò il verde, si slanciò attraverso l'incrocio. Alle sue spalle, il grido dell'uomo si confuse fra i rumori della città. Dieci minuti dopo, era già sui gradini che conducevano all'androne del palazzo di Ann. Era nervosissima. Quando raggiunse il portone, una giovane coppia ne uscì, così poté scivolare dentro senza citofonare. Chiamò l'ascensore e attese il suo arrivo appoggiandosi alla parete, sforzandosi di respirare a fondo. Non si sentiva alcun rumore. Entrò nell'ascensore. Il suo cuore si era calmato. La cabina si mosse verso l'alto, silenziosamente. Seguì con gli occhi le luci che si accendevano una dopo l'altra indicando il succedersi dei piani: terzo, quarto, quinto. Al settimo l'ascensore si fermò e le portine si aprirono scivolando dolcemente. Il pavimento del corridoio deserto era ricoperto da un tappeto verde sdrucito. Si avviò verso l'interno 710, con la strana sensazione di camminare in un sogno. Nulla sembrava reale. Né la carta da parati stinta, né la porta in fondo al corridoio. Solo quando la raggiunse, si accorse che era aperta. «Ann?» Nessuna risposta. Spinse leggermente la porta, spalancandola. Si irrigidì, senza capire, dapprincipio, cosa significasse la scena che le si presentava davanti agli occhi. Vide una sedia rovesciata, riviste sparse per terra, macchie rosse
sulle pareti. Poi il suo sguardo si spostò, seguendo la lunga traccia cremisi che zigzagava sul tappeto beige, e raggiunse inesorabilmente il corpo di Ann. Giaceva a faccia in giù in una pozza di sangue. Dalla cornetta del telefono che penzolava da un tavolo proveniva un debole segnale. Sembrava un allarme, come se quel freddo tono elettronico volesse dirle di muoversi, di fare qualcosa. Ma Kate era come paralizzata. Per qualche istante, il suo corpo si rifiutò di muoversi. Poi, un'improvvisa debolezza si impossessò di lei. Le gambe si piegarono sotto il suo peso, dovette appoggiarsi allo stipite della porta per non cadere. Anni di tirocinio medico, di lavoro con il sangue, non l'avevano preparata a questo. Il battito accelerato del cuore le risuonava nelle orecchie come un tamburo. Poi udì un altro rumore. Un respiro. E non era il suo. C'era qualcun altro nella stanza. Un movimento impercettibile attirò la sua attenzione verso lo specchio del soggiorno. Solo allora vide l'immagine riflessa dell'uomo. Era accovacciato dietro un armadio, a neanche tre metri da lei. I loro sguardi si incrociarono nello specchio nello stesso istante. In una frazione di secondo, incontrando il riflesso dei suoi occhi, Kate ebbe l'impressione di guardare in due pozzi neri e senza fondo, pronti a inghiottirla. Un abisso senza possibilità di scampo. Lui aprì la bocca, come per dire qualcosa, ma dalle sue labbra non uscirono parole, solo un sibilo innaturale, come l'ammonimento di una vipera sul punto di attaccare. Terrorizzata, Kate scattò in piedi e si girò per fuggire. Le sembrò di impiegarci un'eternità. Davanti a lei, il corridoio si allungava all'infinito. Sentila sua voce esplodere in un urlo selvaggio e rimbombare fra le pareti. Un suono irreale, come l'immagine del corridoio che scorreva attorno a lei. La porta che dava sulle scale era all'estremità opposta. Era la sua unica via di scampo, non aveva tempo di aspettare l'ascensore. Spalancò la porta, mandandola a sbattere con violenza contro la parete di cemento. Aveva percorso una rampa di scale quando udì la porta aprirsi e sbattere un'altra volta sopra la sua testa. Sentì ancora una volta quel sibilo, spaventoso come il soffio del demonio. Raggiunse il pianerottolo del sesto piano e afferrò la maniglia della porta. Era chiusa a chiave. Gridò e bussò. Qualcuno doveva sentirla. Qualcuno doveva rispondere alla sua richiesta di aiuto. I passi risuonavano senza sosta sopra di lei. Non poteva aspettare. Doveva continuare a correre.
Scese per un'altra rampa, saltando i gradini. Nell'impeto della corsa, cadde violentemente sul pianerottolo del quinto piano. Il dolore le saettò dalla caviglia su per tutta la gamba. Con gli occhi offuscati dalle lacrime, afferrò la maniglia della porta e tirò forte. Era chiusa. L'uomo era proprio dietro di lei. Corse giù per un'altra rampa e un'altra ancora. Le cadde la borsa, ma non aveva tempo di fermarsi a riprenderla. La caviglia le doleva terribilmente. Raggiunse il pianerottolo del terzo piano. Era chiuso anche lì? Erano tutte chiuse, quelle porte? E cosa c'era al pianterreno? Un posteggio? Un vicolo? Avrebbero trovato lì il suo corpo, l'indomani mattina? Afferrò la maniglia con la forza della disperazione. Era aperta, quasi non riusciva a crederci. La oltrepassò, inciampando, e si ritrovò in un garage. Non c'era tempo di pensare. Si slanciò alla cieca nel vasto ambiente semibuio. Si nascose dietro un'auto, nello stesso istante in cui udì la porta aprirsi ancora. Cercò di cogliere il rumore dei passi, ma non riusciva a sentire null'altro che il rombo del suo sangue nelle orecchie. Passarono alcuni secondi. Dov'era? Aveva rinunciato a trovarla? Si schiacciò ancora più forte contro l'automobile. L'acciaio le si conficcò nella coscia, ma non avvertì alcun dolore. Tutto il suo essere era concentrato sulla sopravvivenza. All'improvviso, un acciottolio di sassi risuonò come un colpo di pistola nel garage. Tentò invano di capire da dove provenisse quel suono. Vai via, pregò, buon Dio, fallo andar via. Il suono si spense, e il garage ripiombò nel silenzio. Lei però avvertiva la sua presenza, sentiva che si stava avvicinando. Le sembrava quasi di poter sentire la sua voce ripetere: Sto venendo a prenderti, sto venendo... Doveva sapere esattamente dove si trovava, se era vicino a lei. Aggrappandosi a una ruota, si sporse a guardare sotto il furgone: era lì, dall'altra parte dell'auto. Stava venendo verso di lei. Balzò in piedi e si mise a correre a tutta velocità fra le auto posteggiate, slanciandosi verso la rampa dell'uscita. Le sue gambe, irrigidite per essere state a lungo piegate, si rifiutavano di obbedire. Lo sentiva, proprio dietro di sé. La rampa sembrava senza fine. La spirale girava e girava, a ogni curva rischiava di inciampare e cadere. I passi dell'uomo si stavano avvicinando. I suoi polmoni sembravano sul punto di esplodere. Affrontò di slancio l'ennesima curva. Si accorse troppo tardi dei fari della macchina che veniva verso di lei. Per una frazione di secondo vide i volti di due persone oltre il parabrez-
za, un uomo e una donna a bocca aperta. Urtò con violenza il cofano e una luce intensa le esplose nella testa. Poi la luce scomparve e non vide più nulla. Neanche il buio. 5 «La stagione dei manghi è la peggiore, per le mie allergie.» Il sergente Brophy starnutì, tenendosi un fazzoletto umidiccio davanti al naso. Poi se lo soffiò vigorosamente e inalò con cautela, come se volesse verificare la presenza di altre ostruzioni nelle sue narici. Sembrava del tutto indifferente allo scempio che lo circondava, come se fosse abituato ad avere intorno cadaveri, pareti schizzate di sangue e agenti della Scientifica. Quando aveva uno dei suoi attacchi di allergia, Brophy dimenticava ogni cosa a parte la triste condizione delle sue cavità nasali. L'ispettore Francis "Pokie" Ah Ching s'era abituato al tirar su col naso del suo compagno. A volte gli tornava perfino utile. Sapeva sempre in quale stanza si trovasse: bastava che seguisse il suo naso. Il naso, sempre sprofondato in un fazzoletto, scomparve nella camera da letto della morta. Pokie tornò a concentrarsi sul taccuino dove stava annotando i vari elementi. Scriveva in fretta, utilizzando i caratteri stenografici che aveva sviluppato in ventisei anni di carriera in polizia, diciassette dei quali alla Omicidi. Su otto pagine aveva tracciato schizzi delle diverse stanze dell'appartamento, quattro solo per il soggiorno. Un'arte brutale ma efficace. Corpo là. Mobili rovesciati qui. Sangue dappertutto. Il medico legale, una donna dall'aspetto mascolino, il viso cosparso di lentiggini, che tutti conoscevano semplicemente come M.J., stava esaminando la stanza prima di passare al cadavere. Indossava jeans e scarpette da ginnastica, come sempre. Una tenuta poco consona a un dottore, ma nel suo ramo i pazienti non si lamentavano mai. Mentre camminava nella stanza, dettava le proprie osservazioni a un registratore. «Schizzi di sangue arterioso su tre pareti, ad un'altezza di un metro e venti, un metro e cinquanta circa... Chiazza consistente nella zona est del soggiorno, vicino al corpo... La vittima è una donna, bionda, età dai trenta ai quaranta, trovata prona, il braccio destro ripiegato sotto la testa, il braccio sinistro steso... nessuna ferita evidente sulla mano o sul braccio.» M.J. si accovacciò. «Emorragia petecchiale.» Corrugando la fronte, toccò libraccio nudo della vittima. «Significativo raffreddamento del corpo.» Spense il registratore e rimase in silenzio per un po'.
«Qualcosa che non va, M.J.?» chiese Pokie. «Cosa?» Alzò lo sguardo su di lui. «Oh, stavo solo pensando.» «Cosa puoi dirmi?» «Vediamo. Sembra che sia stata colpita da un'unica coltellata precisa alla carotide. La lama era molto affilata. L'assassino è stato rapidissimo: la vittima non ha avuto la possibilità di difendersi. Potrò essere più precisa quando l'avremo lavata, all'obitorio.» Si alzò in piedi e Pokie notò che le sue scarpe erano tutte sporche di sangue. Chissà quante scene del crimine avevano visitato quelle scarpe. Mai più di me, pensò. «Carotide recisa» disse, pensieroso. «Ti ricorda qualcosa?» «Ci ho pensato subito. Come si chiamava quel tizio assassinato qualche settimana fa?» «Tanaka. Gli hanno reciso la carotide.» «Proprio lui. Anche lì una faccenda sanguinosa, come questa.» Pokie rifletté un momento. «Tanaka era un dottore» osservò, «e questa...» Abbassò lo sguardo sul cadavere. «... È un'infermiera.» «Era un'infermiera.» «Una strana coincidenza.» M.J. chiuse con uno scatto la valigetta. «Ci sono tantissimi dottori e infermiere, in questa città. Solo perché questi due sono finiti sul mio tavolo, non significa che si conoscessero.» Un forte starnuto annunciò che Brophy era uscito dalla camera da letto. «Ho trovato un biglietto aereo per San Francisco. Partenza a mezzanotte.» Guardò l'orologio da polso. «L'ha appena perso.» Un biglietto aereo. Una valigia pronta. Così Ann Richter era sul punto di lasciare la città. Perché? Riflettendo sul quesito, Pokie fece un altro giro dell'appartarnento, ispezionando le camere una per una. Nella stanza da bagno trovò uno dei tecnici della Scientifica intento a esaminare minuziosamente lo scarico del lavandino. «Ci sono tracce di sangue qui dentro, signore» annunciò. «Pare che l'assassino si sia lavato le mani.» «Davvero? Non è un tipo che si scompone. Ci sono impronte?» «Qualcuna, qui e là. La maggior parte sono vecchie, probabilmente della vittima. Ce ne sono anche alcune fresche sulla maniglia della porta principale. Forse sono della testimone.»
Pokie annuì e tornò in soggiorno. Ecco il loro asso nella manica. Una testimone. Seppure stordita e dolorante era riuscita a dare l'allarme. Rovinando così il sonno di Pokie. Guardò Brophy. «Hai trovato la borsa della dottoressa Chesne?» «Non è nella tromba delle scale dove le è caduta. Qualcuno deve averla presa.» Pokie rimase in silenzio un momento. Pensò a tutte le cose che le donne tengono nella borsa: portafogli, patente, chiavi di casa. Chiuse il taccuino. «Sergente?» «Signore?» «Metti un piantone davanti alla porta della camera d'ospedale della dottoressa Chesne. Deve essere sorvegliata ventiquattro ore su ventiquattro. Da subito. Voglio anche un uomo nella lobby. E dovete rintracciare tutte le chiamate che le verranno fatte.» Brophy lo guardò, dubbioso. «E quanto dovrà durare questo dispiegamento di forze?» «Fintanto che resterà in ospedale. In questo momento è una preda facile.» «Davvero credi che quel tizio andrà a cercarla in ospedale?» «Non lo so» sospirò Pokie, «non so con cosa abbiamo a che fare. Ma ho due omicidi identici» aggiunse, infilando in tasca il taccuino. «E lei è la nostra unica testimone.» Phil Glickman si stava rendendo insopportabile, come sempre. Era sabato mattina, l'unico giorno della settimana in cui David poteva lavorare indisturbato, l'unico giorno in cui poteva tentare di assottigliare la pila di documenti che minacciava perennemente di seppellire la sua scrivania. Ma oggi, invece della solitudine, in ufficio aveva trovato Glickman. Il suo giovane associato era intelligente, aggressivo e abile, ma era anche incapace di tacere. David sospettava che parlasse perfino nel sonno. «Così ho detto: "Dottore, vuole dirmi che l'arteria auricolare posteriore si stacca prima di quella occipitale?". E lui, tutto confuso: "Perché, ho detto questo? No, certo che no, è l'esatto contrario". E l'ho fregato.» Glickman diede un pugno trionfante al palmo dell'altra mano. «Abbiamo appena ricevuto una proposta di accordo. Niente male, eh?» David annuì senza entusiasmo. Per un istante, Glickman sembrò deluso, poi si illuminò. «Come va col caso O'Brien? Sono pronti ad arrendersi?»
David scosse la testa. «No, se conosco Kate Chesne.» «Cos'è, scema?» «Testarda. Moralista.» «Tipico dei camici bianchi.» David lasciò scorrere stancamente le dita fra i capelli. «Spero proprio di non doverla trascinare in tribunale.» «Sarebbe come sparare a un coniglio in gabbia. Facile.» «Troppo facile.» Glickman rise, girandosi per andar via. «Non ti ha mai dato fastidio, prima.» Perché diavolo mi infastidisce adesso?, si chiese David. Il caso O'Brien era semplicissimo. Doveva soltanto mettere insieme alcuni documenti, rilasciare qualche dichiarazione minacciosa e stendere la mano per prendere l'assegno. Avrebbe dovuto stappare una bottiglia di champagne, invece se ne stava immusonito sentendosi nauseato dall'intera faccenda. Si appoggiò all'indietro sulla poltrona, sbadigliando. Aveva passato una pessima notte a girarsi e rigirarsi nel letto, disturbato da sogni che non faceva da anni. C'era una donna. La vedeva stare in piedi immobile, in silenzio, in una stanza in penombra. La sua sagoma si stagliava contro la luce fioca che penetrava da una finestra. Dapprima aveva creduto che si trattasse della sua ex moglie, Linda, ma c'era stato qualcosa che non lo convinceva, qualcosa che non andava. La donna era ferma, come un cervo nella foresta. Lui si era avvicinato per spogliarla, ma le sue mani si muovevano goffamente e le aveva strappato un bottone nella concitazione. Lei era scoppiata a ridere, emettendo un suono gorgogliante che gli aveva fatto venire in mente il brandy. In quel momento si era accorto che non si trattava di Linda. Alzando gli occhi, aveva guardato diritto negli occhi verdi di Kate Chesne. Non si erano scambiati una parola, solo uno sguardo. E una carezza: lei gli aveva sfiorato il viso con le dita. Si era svegliato di soprassalto, accaldato per il desiderio. Aveva cercato di riaddormentarsi, ma il sogno si era ripresentato volta per volta. Perfino adesso, se chiudeva gli occhi, rivedeva il suo viso e il desiderio riprendeva a bruciare. Cercando di ritornare alla realtà, si alzò e andò alla finestra. Era troppo vecchio per queste sciocchezze. Troppo vecchio e troppo intelligente per
fantasticare di una relazione con la controparte. Diamine, donne attraenti entravano nel suo ufficio ogni giorno. E frequentemente gli lanciavano segnali inequivocabili. Lo guardavano inclinando appena il capo, mostravano appena una gamba. Lo divertivano, ma non lo tentavano. Portarsi a letto le clienti non faceva parte dei suoi servizi. Kate Chesne non aveva emesso alcuno di quei segnali. Al contrario: detestava apertamente gli avvocati quanto lui detestava i dottori. Allora perché, di tutte le donne che erano venute a trovarlo, era proprio lei a catturare i suoi pensieri? Infilò le dita nel taschino e prese la penna d'argento. D'un tratto gli venne in mente che quello non era il tipo di oggetto che una donna compra per sé. Forse era il regalo di un uomo, rifletté, meravigliato dell'improvvisa fitta di gelosia provocata da quel pensiero. Doveva restituirla. Il Mid Pac era a pochi isolati, poteva passare di lì e darle la penna mentre tornava a casa. Molti dottori avevano l'abitudine di fare un giro di visite il sabato mattina, era probabile che fosse lì. L'idea di vederla di nuovo lo emozionava e lo spaventava allo stesso tempo. Un po' come quando, da adolescente, aveva desiderato invitare fuori una ragazza senza trovare il coraggio di avvicinarla. Pessimo segno. Eppure non riusciva a smettere di pensarci. La penna gli bruciava fra le dita. La rimise nel taschino e iniziò a raccogliere le sue cose nella valigetta. Quindici minuti più tardi, entrò nella lobby dell'ospedale e raggiunse il telefono interno. La centralinista rispose subito. «Vorrei vedere la dottoressa Chesne» disse David. «È qui?» «La dottoressa Chesne?» ripeté la centralinista, esitando. «Sì, credo che sia in ospedale. Chi parla?» Stava per dare il suo nome, poi ci ripensò. Se Kate avesse saputo che si trattava di lui, non sarebbe mai venuta a rispondere al telefono. «Sono un amico» rispose. «Resti in linea.» La centralinista lo mise in attesa, inserendo una melodia insignificante. Il genere di musica che ci si poteva aspettare di sentire negli ascensori per l'inferno. David si rese conto di aver cominciato a tamburellare nervosamente sulla cupoletta in plastica della cabina telefonica. E di essere terribilmente ansioso di rivederla. Devo essere impazzito, si disse, riattaccando la cornetta, oppure ho un
disperato bisogno di compagnia femminile. O forse tutte e due le cose. Disgustato di se stesso, si girò per andar via. Due poliziotti dall'aspetto truce gli sbarravano la strada. «Le dispiace seguirci?» chiese uno di loro. «Sì» rispose David. «Vuole che glielo chieda in un altro modo?» replicò il poliziotto. David non poté fare a meno di ridere, incredulo. «Cosa ho fatto, ragazzi? Ho posteggiato in seconda fila? Ho offeso le vostre madri?» I due lo afferrarono saldamente per le braccia e lo sospinsero verso l'ala riservata agli uffici. «Sono in arresto o cosa?» chiese David. I poliziotti non risposero. «Ehi, dovreste leggermi i miei diritti.» Non lo fecero. «Okay, allora forse è il momento che io informi voi dei miei diritti.» Ancora nessuna risposta. Allora decise di usare l'ultima arma a sua disposizione. «Sono un avvocato.» «Buon per lei» fu la laconica risposta. «Sapete benissimo che non potete arrestarmi senza una valida accusa» protestò ancora David, mentre lo facevano entrare in una sala conferenze. «Stiamo solo eseguendo gli ordini.» «Gli ordini di chi?» «I miei ordini.» La voce che gli aveva risposto aveva un tono stranamente familiare. David si girò e si trovò davanti un viso che non aveva più visto da quando aveva smesso di lavorare nell'ufficio del procuratore. I lineamenti dell'ispettore della Omicidi Pokie Ah Ching riflettevano la tipica mescolanza di etnie delle isole: i suoi occhi avevano un taglio cinese, le mascelle pronunciate erano un'eredità portoghese, il colorito scuro decisamente polinesiano. Si era allargato considerevolmente, ma a parte questo non era cambiato molto da quando avevano smesso di lavorare insieme otto anni prima. Indossava perfino lo stesso abito dozzinale, anche se era evidente che i bottoni della giacca non si chiudevano da tempo. «Davy Ransom» grugnì Pokie. «Getto le reti e guarda un po' cosa piglio.» «Il pesce sbagliato, direi» replicò David, liberando il braccio con uno strattone. Pokie fece un cenno ai due poliziotti. «Questo qui è a posto.» I due agenti si ritirarono. Nel momento in cui la porta si chiuse alle loro
spalle, David scattò: «Si può sapere che diavolo succede?». Per tutta risposta, Pokie si avvicinò, soppesandolo con lo sguardo. «La libera professione deve renderti bene. Ti sei fatto un bel vestito nuovo. Scarpe costose. Italiane. Ti vanno bene le cose, eh, Davy?» «Non mi posso lamentare.» Pokie si appoggiò all'angolo del tavolo, incrociando le braccia sul petto. «Allora, cosa si prova a lavorare in un bell'ufficio nuovo? Ti mancano i cari, vecchi scarafaggi?» «Oh, certo.» «Sono stato promosso ispettore un mese dopo che sei partito.» «Congratulazioni.» «Però indosso sempre lo stesso vestito. Guido sempre la stessa macchina. E le scarpe?» Allungò una gamba, sollevando il piede. «Taiwan.» La pazienza di David era sul punto di esaurirsi. «Hai intenzione di dirmi cosa sta succedendo? O devo tirare a indovinare?» Pokie prese dalla tasca della giacca un pacchetto di sigarette, la stessa marca economica che fumava da sempre, e ne accese una. «Sei un amico di Kate Chesne?» «La conosco» rispose David, frastornato dal repentino cambio di argomento. «Bene?» «Abbiamo parlato qualche volta. Sono venuto a restituirle la sua penna.» «Così non sai che è stata portata al pronto soccorso, ieri sera? Traumatologia.» «Cosa?» «Niente di grave» spiegò Pokie. «Una lieve commozione cerebrale, qualche graffio. Sarà dimessa oggi.» La gola di David si era annodata, impedendogli di parlare. Rimase in silenzio, allibito, fissando Pokie che aspirava voluttuosamente la sigaretta. «È buffo» proseguì il poliziotto. «Ci sono dei casi che sembrano voler rimanere irrisolti per sempre. Niente indizi, nessuna maniera di venirne fuori. Poi, bang, un colpo di fortuna.» «Cosa le è successo?» volle sapere David. La sua voce era un bisbiglio rauco. «Si è trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato.» Esalò uno sbuffo di fumo. «Ieri sera è capitata nel bel mezzo di una scena davvero brutta.»
«Vuoi dire che è una testimone? Di cosa?» Pokie lo guardò un momento, impassibile, attraverso la cortina fumosa che li separava. «Omicidio.» Oltre la porta chiusa della sua stanza, Kate udiva i ben noti suoni dell'ospedale in piena attività. Il ronzio del sistema cercapersone, lo squillo dei telefoni. Per tutta la notte si era aggrappata a quei suoni, per non sentirsi sola. Adesso, però, un profondo sfinimento si stava impadronendo di lei. Si abbandonò fra le lenzuola già inondate di sole. Non sentì che qualcuno batteva alla porta, chiamando il suo nome. Fu lo spostamento d'aria a dirle che la porta era stata aperta. Qualcuno si stava avvicinando al suo letto. Con uno sforzo aprì gli occhi e vide David. Un sottile risentimento si impadronì di lei. Quell'uomo non aveva nessun diritto di invadere la sua privacy in quel momento, di avvicinarla mentre era così debole ed esposta. Sapeva cosa avrebbe dovuto dirgli, ma non aveva la forza di profferire neanche una parola. Nemmeno lui. Sembrava che avessero entrambi perso la voce. «Non è giusto, avvocato Ransom» mormorò lei, infine. «Colpire una ragazza quand'è già a terra.» Distolse lo sguardo da lui. «Sembra che lei abbia dimenticato il suo registratore. Non può raccogliere una deposizione senza quel coso. O forse lo nasconde in uno dei suoi...» «La smetta Kate, per favore.» Lei tacque. L'aveva chiamata col suo nome di battesimo. Una barriera invisibile si era appena dissolta, senza che ne comprendesse il perché. Quel che sapeva era che lui era lì, vicino a lei. Sentiva l'odore del suo dopobarba, il calore del suo sguardo. «Non sono venuto per colpirla. Immagino che non dovrei affatto essere qui» aggiunse con un sospiro, «ma quando ho saputo quel che era successo, non potevo pensare ad altro che...» Kate alzò lo sguardo su di lui. Si era ammutolito e la fissava. Per la prima volta non sembrava così ostile. Tuttavia era un nemico, doveva ricordarsene. Qualunque fosse la ragione che lo aveva spinto a venire da lei, non era cambiato nulla fra loro. Eppure, in quel momento, non si sentiva minacciata ma protetta. Non era solo per via della sua presenza fisica, di cui pure era intimamente consapevole, ma per la forza che emanava da lui. L'autorevolezza. Se solo fosse stato il suo avvocato, se solo fosse stato assunto per difenderla, non per accusarla. Doveva essere impossibile perdere
una battaglia, con David Ransom al proprio fianco. «A cosa pensava?» chiese. Lui si girò, imbarazzato, verso la porta. «Mi spiace. Avrei dovuto lasciarla dormire.» «Perché è venuto?» Lui si fermò. Rise, impacciato. «L'avevo quasi dimenticato. Sono venuto per riportarle questa. L'ha persa al molo.» Le posò la penna sul palmo della mano. Lei abbassò gli occhi meravigliata, non sulla penna ma sulle sue mani. Mani grandi, forti. Le immaginò fra i propri capelli. «Grazie» sussurrò. «Ha un valore sentimentale?» «Me l'ha regalata un uomo che...» Si schiarì la voce e distolse lo sguardo. «Grazie» ripeté. David sapeva che adesso era il momento di andare. Aveva fatto la sua buona azione quotidiana, doveva subito tagliare ogni spunto di conversazione fra loro. Invece, una forza misteriosa guidò la sua mano verso una sedia. La prese, l'avvicinò al letto e si sedette. I capelli di Kate erano sparsi sul cuscino. Sulla sua guancia c'era un brutto livido bluastro. Un'improvvisa rabbia si impadronì di lui, nei confronti di chi aveva cercato di farle del male. Un'emozione talmente forte e inaspettata da sorprenderlo. «Come si sente?» domandò, non sapendo cos'altro chiederle. Lei si strinse impercettibilmente nelle spalle. «Stanca. Dolorante. Fortunata a essere viva» concluse, con una debole risatina. Lui spostò lo sguardo al livido sulla guancia e Kate alzò la mano, quasi volesse nasconderlo, come se si vergognasse di quel segno di violenza. «Non sono esattamente al mio massimo, oggi» mormorò. «Ha un bell'aspetto, Kate. Davvero.» Era una cosa stupida da dire, ma l'intendeva sul serio. Era bellissima. Era viva. «Il livido scomparirà. Quel che importa è che sia salva» le fece notare lui. «Lo sono davvero?» Guardò verso la porta. «C'è stato un poliziotto seduto lì fuori per tutta la notte. L'ho sentito ridere con le infermiere. Continuo a chiedermi perché gli abbiano ordinato di farmi la guardia.»
«Sono sicuro che si tratti solo di una precauzione. Perché nessuno possa disturbarla.» Lei lo guardò corrugando la fronte. «Lei come ha fatto a entrare?» «Conosco l'ispettore Ah Ching. Abbiamo lavorato insieme, anni fa, quand'ero nell'ufficio del procuratore.» «Lei?» «Sì, ho compiuto il mio dovere civico» sorrise lui. «Mi sono fatto un'esperienza nel marciume. A uno stipendio da fame.» «Così ha parlato con Ah Ching? Le ha detto cosa è successo?» «Solo che lei è una testimone essenziale per il suo caso.» «Le ha detto che Ann Richter ha cercato di chiamarmi? Subito prima di essere assassinata. Ha lasciato un messaggio sulla mia segreteria telefonica.» «In merito a cosa?» «Ellen O'Brien.» «Non mi ha raccontato niente a questo proposito.» «Sapeva qualcosa a proposito della morte di Ellen, ma non ha avuto la possibilità di parlarmene.» «Cosa diceva il messaggio?» «Le sue esatte parole sono state: "So perché è morta".» David la fissò, lasciandosi trascinare, riluttante, sempre più in fondo a quegli incantevoli occhi verdi. «Potrebbe non significare nulla. Forse aveva intuito cos'era andato storto in chirurgia.» «Ha usato la parola perché. "So perché è morta." Significa che c'era una ragione, un... motivo, nella morte di Ellen.» «Omicidio sul tavolo operatorio?» Lui scosse la testa. «Ma via.» Lei si girò. «Avrei dovuto sapere che sarebbe stato scettico. Rovinerebbe la sua preziosa azione legale, non è vero? Scoprire che una paziente è stata assassinata.» «La polizia cosa pensa?» «Come faccio a saperlo?» replicò lei, demoralizzata. «Il suo amico Ah Ching non parla molto. Non fa altro che scarabocchiare sul suo taccuino. Forse ritiene che sia un dettaglio irrilevante. Forse non vuole sentire fatti che potrebbero confonderlo.» Spostò lo sguardo sulla porta. «Ma poi mi torna in mente la guardia, e non posso fare a meno di chiedermi se stia
succedendo qualcosa. Qualcosa di cui non vuole parlarmi.» Un'infermiera bussò alla porta ed entrò con i documenti per la dimissione. David rimase a guardare mentre Kate si alzava a sedere e li firmava diligentemente uno per uno. La penna le tremava fra le dita. Difficile credere che era la stessa donna che aveva fatto irruzione nel suo studio. Quel giorno era stato colpito dalla sua volontà di ferro, dalla sua determinazione. Adesso l'unica cosa che gli faceva impressione era la sua vulnerabilità. L'infermiera andò via e Kate si adagiò nuovamente sui cuscini. «Ha un posto dove andare?» le chiese. «I miei amici hanno un cottage che usano di rado. Mi hanno detto che è sulla spiaggia.» Sospirò, volgendo uno sguardo malinconico fuori dalla finestra. «Ho proprio bisogno di una spiaggia, adesso.» «Starà lì da sola? È sicuro?» Lei non rispose. Teneva lo sguardo fisso fuori dalla finestra. Lo metteva a disagio saperla da sola, in quel cottage, senza protezione. Con uno sforzo si impose di pensare che non era un suo problema, che sarebbe stata una follia lasciarsi coinvolgere da quella donna. Doveva essere la polizia a occuparsi di lei. Dopotutto, era una loro responsabilità. Si alzò per andar via. Lei rimase seduta sul letto, le braccia strette intorno al petto in un commovente gesto di autoprotezione. Mentre usciva dalla stanza, la udì mormorare: «Non credo che mi sentirò mai più al sicuro». 6 «La casa non è molto grande» spiegò Susan Santini, mentre percorreva in auto con Kate la sinuosa North Shore, «e nemmeno elegante. Solo un paio di camere da letto e una cucina piuttosto vecchia. Preistorica, direi. Però è accogliente, e si sente la risacca.» Lasciò la strada principale e si immise su un viottolo col fondo in terra battuta diretto verso il mare, attraverso un fitto boschetto di halekoa. Dietro l'auto si formò una densa nuvola di polvere rossastra. «Ultimamente siamo venuti così poco, qui. È un problema, visto che uno di noi due deve essere sempre reperibile. A volte Guy suggerisce di vendere, ma io non potrei mai. Ormai non si trovano più lembi di paradiso come questo.» Svoltò in un vialetto ricoperto di ghiaia. All'ombra di una fitta macchia alberata, il vecchio cottage di legno sembrava una casa di bambole abbandonata. Anni di sole e di vento avevano sbiadito il colore delle assi, e il tet-
to sembrava sul punto di crollare sotto il peso delle foglie cadute. Kate scese dalla macchina e rimase per un po' all'ombra degli alberi, ascoltando lo sciabordio delle onde sulla spiaggia. Il mare luccicava come una lastra di cristallo. «Eccoli là» disse Susan, indicando verso la spiaggia. Kate seguì il suo sguardo e vide William che saltellava felice fra gli alberi che orlavano la riva, ridendo. Si muoveva come un elfo, agitando le braccia e la testa. I calzoncini da bagno aderivano a malapena ai suoi fianchi esili. Sembrava una creatura fantastica, pronta a scomparire in un batter di ciglia. Accanto a lui c'era una giovane donna minuta. Sedeva su un asciugamano e sfogliava svogliatamente una rivista. «Quella è Adele» spiegò Susan abbassando la voce. «Abbiamo messo una dozzina di annunci e fatto ventuno colloqui, prima di trovarla, ma non credo che andrà bene. Il problema è che William si sta già affezionando a lei.» In quel momento, il bambino le vide. Si fermò di colpo. «Ciao mamma» salutò, agitando una mano. «Ciao tesoro» rispose Susan. Poi si rivolse a Kate. «Abbiamo dato aria alla casa per te. E dovrebbe esserci del caffè pronto.» Salirono i gradini che portavano al portico della cucina. La porta a zanzariera si aprì cigolando. All'interno aleggiava l'odore stantio tipico delle case vecchie. La luce del sole che entrava a fiotti dalla finestra brillava debolmente sul pavimento di linoleum ingiallito. Sul bancone ricoperto di piastrelle azzurre c'era un vasetto di violette africane. Una bizzarra collezione di disegni ornava le pareti: dinosauri verdi e azzurri, esili ometti rossi, animali di diverso colore e specie indefinibile, tutti firmati dall'artista: William. «La linea telefonica è collegata, in caso di emergenza» spiegò Susan, indicando un apparecchio appeso alla parete. «Ho rifornito il frigorifero. Solo le cose essenziali, in effetti. Guy ha detto che possiamo portarti la tua macchina domani, così potrai fare un po' di spesa decente.» Le mostrò dove erano sistemate pentole, padelle e stoviglie, poi, facendo cenno a Kate di seguirla, si diresse verso una delle camere da letto. Andò alla finestra e tirò da parte le tende di pizzo bianco. I suoi capelli rossi si accesero, alla luce del sole. «Guarda Kate. Ecco la vista che ti avevo promesso.» Lasciò scivolare lo sguardo sulla superficie delmare. «Sai, le persone non avrebbero bisogno di andare dallo psichiatra se potessero svegliarsi ogni mattina davanti a
una vista come questa. Se potessero stare sdraiati al sole, ascoltare le onde, gli uccelli.» Si girò e sorrise a Kate. «Che ne pensi?» Kate guardò il lustro pavimento di legno, le tende sottili, i minuscoli granelli di polvere che danzavano nella luce dorata. «Penso che mi piacerebbe restare per sempre» rispose con un sorriso. Udirono un rumore di passi nel portico. La porta a zanzariera si aprì e si richiuse con uno schianto. «Fine della pace e della tranquillità» sospirò Susan. Tornarono in cucina e trovarono il piccolo William intento a disporre sul tavolo una collezione di legnetti, canticchiando. C'era anche Adele, con le spalle nude e lucide di olio solare, che gli stava versando un bicchiere di succo di mela. Sul bancone giaceva una copia di Voglie, tutta sporca di sabbia. «Guarda mamma!» esclamò William, indicando orgoglioso il suo piccolo tesoro. «Santo cielo, che collezione» replicò la madre, adeguatamente impressionata. «Cosa farai con tutti quei legnetti?» «Non sono legnetti. Sono spade. Per ammazzare i mostri.» «I mostri? Ma tesoro, ti ho già detto che non esistono.» «Oh sì, invece.» «Papà li ha messi tutti in prigione, ricordi?» «Non tutti.» Il bambino posò con estrema precisione un altro bastoncino sul tavolo. «Si nascondono nei cespugli. Ne ho sentito uno, stanotte.» «Quali mostri, William?» chiese Susan con dolcezza. «Nei cespugli. Te l'ho detto, di notte.» «Oh. Ora capisco perché s'è infilato nel lettone, alle due di notte» disse Susan, sorridendo a Kate. Adele posò il bicchiere accanto a lui. «Ecco, William, il tuo... Ehi, cos'hai in tasca?» domandò, aggrottando le sopracciglia. «Niente.» «Si muoveva.» William la ignorò e bevve un sorso di succo di frutta. La sua tasca si mosse. «William Santini, consegnamelo» ordinò Adele, stendendo la mano. Il bambino volse uno sguardo supplichevole verso la madre, ma lei scosse la testa. Con un sospiro infilò la mano in tasca, ne estrasse il contenuto e lo lasciò cadere nella mano di Adele.
Lo strillo della ragazza spaventò tutti e più di ogni altro la lucertola. Il povero animale si slanciò verso la libertà, abbandonando la coda nel palmo di Adele. «Sta scappando!» gridò William. Tutti si lasciarono cadere sul pavimento, cercando freneticamente di riprendere lo sventurato rettile. Quando finalmente l'ebbero imprigionato sotto una tazza, erano senza fiato per le risate. Susan si sedette sul pavimento a gambe larghe. «Non ci posso credere» ansimò, appoggiandosi al frigorifero. «Tre donne adulte contro una minuscola lucertola. Siamo delle incapaci o cosa?» William le si avvicinò e per un istante rimase a guardare i suoi capelli arruffati e lucenti sotto il sole. Poi allungò una mano e prese una ciocca, lasciandola scivolare piano fra le dita. «La mia mamma» sussurrò. Lei sorrise. Prendendogli il viso fra le mani, lo baciò piano sulle labbra. «Il mio bambino.» «Non mi hai detto tutto» disse David. «Adesso voglio sapere cosa mi hai nascosto.» Pokie Ah Ching addentò il suo Big Mac e prese a masticare, con la concentrazione di un uomo che ha atteso troppo a lungo il proprio pranzo. Poi, ripulendosi uno sbaffo di salsa dalla guancia, chiese: «Cosa ti fa pensare che ti abbia nascosto qualcosa?». «Hai assegnato un mucchio di uomini a questo caso. L'agente fuori dalla sua stanza, la sorveglianza nella lobby. Stai cercando di prendere un pesce grosso.» «Già. Un assassino.» Pokie sfilò un sottaceto dal panino e lo gettò con disgusto sopra un mucchietto di tovaglioli. «Perché mi fai tutte queste domande? Pensavo che avessi lasciato l'ufficio del procuratore.» «Non ho lasciato la mia curiosità.» «Curiosità? Tutto qui?» «Kate è una mia arnica.» «Stronzate.» Pokie gli scoccò un'occhiata eloquente. «Pensi di essere il solo a fare domande? Sono un investigatore, Davy, e guarda caso so che quella donna non è tua amica. È imputata in una delle tue azioni legali. Da quando sei diventato amichevole con la controparte?» «Da quando ho cominciato a credere alla sua versione dei fatti su quel che è accaduto a Ellen O'Brien. Due giorni fa è venuta nel mio studio a
raccontarmi una storia ridicola. Nessun fatto concreto, sembrava il racconto di una persona paranoica. Poi questa infermiera, Ann Richter, viene ritrovata con la gola tagliata. E non posso fare a meno di chiedermi: la morte di Ellen O'Brien è stata semplice negligenza? O un omicidio?» «Omicidio?» Pokie scrollò le spalle e diede un altro morso al suo panino. «In quel caso sarebbe affar mio, non tuo.» «Ascoltami, ho messo in piedi un'azione legale per negligenza. Sarebbe terribilmente imbarazzante se dovesse saltar fuori che si è trattato di omicidio. Per non parlare della mia perdita di tempo. Prima di presentarmi a una giuria e fare la parte dell'idiota, voglio conoscere i fatti. Dimmi come stanno le cose, Pokie. In nome dei vecchi tempi.» «Non fare il sentimentale con me, Davy. Sei stato tu a mollare il lavoro. Immagino che lo stipendio che ti offrivano fosse troppo invitante. Io, invece, sono ancora qui.» Chiuse di schianto un cassetto. «Insieme con questo schifo che chiamano arredamento.» «Lascia che ti chiarisca una cosa. Non ho lasciato il lavoro per denaro.» «Allora perché?» «Una faccenda personale.» «Già. Con te è sempre tutto personale. Non ti sbottoni mai, vero?» «Stavamo parlando del caso.» Pokie si appoggiò all'indietro sulla sedia, scrutandolo. Dalla porta aperta del suo ufficio proveniva la solita confusione: gente che parlava ad alta voce, telefoni che squillavano, macchine per scrivere in piena attività. Un normale pomeriggio alla stazione di polizia. Infastidito, Pokie si alzò e andò a chiudere la porta. «D'accordo» sospirò, tornando a sedersi, «cosa vuoi sapere?» «Dettagli.» «Sii più preciso.» «Cos'ha di così importante l'omicidio di Ann Richter?» A quel punto Pokie rispose prendendo una cartella da una pila disordinata di documenti. La gettò sul tavolo, davanti a David. «Il verbale preliminare dell'autopsia di M.J. Dai un'occhiata.» Il verbale era composto da tre pagine, freddamente descrittive. Anche se David aveva lavorato per cinque anni come viceprocuratore e aveva letto dozzine di rapporti come quello, non poté fare a meno di rabbrividire, scorrendo i dettagli clinici della morte della donna. Carotide recisa con taglio netto da uno strumento affilato come un rasoio. Lacerazione sulla tempia destra dovuta probabilmente a un impatto
accidentale con un tavolino. Schizzi di sangue arterioso sulla parete... «A quanto vedo M.J. non ha perso il gusto di far rivoltare lo stomaco alla gente» osservò David, passando alla pagina seguente. Aggrottò la fronte. «Questo dato non ha senso. M.J. è sicura dell'ora della morte?» «Conosci M.J. Lei è sempre sicura. Si è basata sulle petecchie e sulla temperatura del fegato.» «Perché diavolo un assassino dovrebbe tagliare la gola a una donna e poi rimanere nell'appartamento per tre ore? Per godersi lo spettacolo?» «Per ripulire. Per rubare.» «Mancava qualcosa?» «No, è questo il problema. Soldi e gioielli erano tutti, lì, a portata di mano. L'assassino non ha toccato nulla.» «Aggressione sessuale?» «Nessuna traccia. Gli abiti della vittima erano intatti. Inoltre l'omicida è stato rapido ed efficiente. Se avesse voluto divertirsi, avrebbe perso un po' di tempo. L'avrebbe fatta strillare prima di ucciderla.» «Sicché hai un brutale omicidio e nessun movente. Cos'altro?» «Dai un'altra occhiata a quel rapporto. Leggi cosa ha scritto M.J. a proposito della ferita.» «"Carotide recisa da uno strumento affilato come un rasoio." E allora?» «Allora sono le stesse parole che ha scritto in un'altra autopsia due settimane fa. Solo che in quel caso la vittima era un uomo. Un medico specializzato in ostetricia, il dottor Henry Tanaka.» «Ann Richter era un'infermiera.» «Esatto. E ora viene il bello: prima di entrare a far parte dello staff della sala operatoria, faceva un secondo lavoro a ostetricia. È possibile che conoscesse Tanaka.» David ammutolì. Pensò a un'altra infermiera che lavorava nel reparto ostetricia. Un'infermiera che, come Ann Richter, era morta. «Parlami ancora di quel dottore» mormorò. Pokie prese un pacchetto di sigarette e un posacenere. «Ti dispiace?» «No, se continui a parlare.» «È da stamattina che muoio dalla voglia di fumare» brontolò Pokie. «Non posso accendermi neanche una sigaretta quando sono con Brophy. Non fa altro che lagnarsi di quel suo dannato naso.» Spense l'accendino e soffiò uno sbuffo di fumo. «Okay, eccoti la storia. Lo studio di Tanaka era a Liliha, hai presente quell'orribile palazzo di cemento? Una sera, due set-
timane fa, i suoi dipendenti sono andati via e lui è rimasto allo studio. Ha detto che aveva delle carte da sbrigare. Sua moglie ci ha riferito che tornava sempre a casa tardi. E non per via del lavoro.» «Un'amichetta?» «Cos'altro?» «La moglie ha saputo darti qualche nome?» «No. Immaginava che si trattasse di una delle infermiere della clinica. Comunque sia, intorno alle sette due custodi hanno trovato il suo cadavere in una delle sale visita. Abbiamo pensato che avesse sorpreso un tossicodipendente che si era introdotto per cercare droga. Mancavano delle sostanze da un armadietto.» «Narcotici?» «No, la roba buona era sottochiave in un ripostiglio sul retro. L'assassino ha preso sostanze senza valore, roba che per le strade non ti frutta un centesimo. Abbiamo pensato che fosse fatto o scemo. Però è stato abbastanza furbo da non lasciare impronte. Senza alcun indizio, il caso è finito su un binario morto. L'unica cosa che avevamo era la testimonianza di uno dei custodi. Ha dichiarato che, mentre stava arrivando, aveva visto una donna che attraversava di corsa il parcheggio. Pioveva ed era quasi buio, così non ha potuto vederla bene, però era sicuro che fosse bionda.» «È sicuro che fosse una donna?» «O magari un uomo con una parrucca?» rise Pokie. «Non ci avevo pensato. Certo, è possibile.» «Cosa avete ricavato da questa informazione?» «Non molto. Abbiamo chiesto in giro, ma non è saltato fuori alcun nome. Abbiamo cominciato a credere che la bionda misteriosa fosse una falsa pista. Poi è stata uccisa Ann Richter.» Si fermò, schiacciando la sigaretta nel posacenere. «Lei era bionda. Kate Chesne è la nostra prima vera traccia. Adesso perlomeno sappiamo che aspetto ha il nostro uomo. Abbiamo fatto fare un identikit, lo pubblicheremo sui giornali di lunedì. Forse potremo dargli un nome.» «Che genere di protezione avete offerto a Kate?» «È nascosta nei pressi di North Shore. Ho ordinato a una pattuglia di passare di lì di tanto in tanto.» «Tutto qui?» «Non la troverà nessuno, lassù.» «Un professionista potrebbe.» «Cosa dovrei fare? Darle una guardia del corpo?» Accennò a una pila di
documenti sulla scrivania. «Li vedi quelli? Sto nei cadaveri fino al collo. Devo considerarmi fortunato se passa un giorno senza che me ne presentino un altro.» «I professionisti non lasciano testimoni.» «Non sono sicuro che si tratti di un professionista. Inoltre, sai bene come vanno le cose, da queste parti. Guarda questa schifezza.» Diede un calcio alla scrivania. «Ha vent'anni ed è piena di termiti. Per non parlare di quel computer. Mi tocca ancora mandare le impronte digitali in California, per un'identificazione rapida.» Demoralizzato, cadde a sedere nella sua vecchia poltrona. «Ascolta Davy. Sono ragionevolmente certo che starà bene. Mi piacerebbe poterlo garantire, ma sai com'è.» Già, so com'è, pensò David. C'erano cose, nel lavoro della polizia, che non cambiavano. Troppe richieste e pochi soldi per farvi fronte. Cercò di convincersi che il suo era esclusivamente un interesse personale, nella sua qualità di avvocato della parte lesa. Doveva per forza fare tutte quelle domande, per non rischiare che il caso gli si sbriciolasse fra le mani. Eppure, l'immagine che si presentava con più insistenza nella sua mente era quella di Kate sola e indifesa, nel letto d'ospedale. Avrebbe voluto fidarsi di Pokie. Aveva lavorato con lui abbastanza a lungo da sapere che era un bravo poliziotto. Sapeva però che anche i migliori poliziotti possono sbagliare. Sfortunatamente avevano una cosa in comune con i dottori: seppellivano i loro errori. Il sole al tramonto scaldava la schiena di Kate. S'era assopita sulla spiaggia, il viso affondato fra le braccia. Le onde le lambivano i piedi, il vento scompaginava il libro che aveva abbandonato accanto a sé. L'unico suono in quel tratto di spiaggia deserta era prodotto dagli uccelli che s'azzuffavano e cantavano fra gli alberi. Il posto perfetto per nascondersi dal mondo intero. Per guarire. Cominciò a svegliarsi pian piano, infastidita dal vento che le scompigliava i capelli e da un vago languore. Non mangiava dall'ora di colazione, e il pomeriggio stava già volgendo al termine. Poi un'altra sensazione la svegliò del tutto. Non era più sola. Qualcuno la stava guardando. Era una sensazione così forte che quando si girò sulla schiena e alzò lo sguardo, non si sorprese affatto di vedere David. Indossava un paio di jeans e una vecchia camicia di cotone con le maniche arrotolate fin sul gomito per via del caldo. Il vento gli arruffava i capelli e le ciocche lucide catturavano gli ultimi bagliori del sole. Se ne stava
zitto, le mani affondate nelle tasche, e la guardava. Anche se il suo costume da bagno era abbastanza castigato, pure qualcosa negli occhi di David la fece sentire nuda, lì sulla sabbia. Un improvviso calore si impossessò di lei, più forte e profondo di quello del sole. «È una donna difficile da trovare.» «Se ti nascondi, la gente non dovrebbe essere in grado di trovarti.» David si guardò intorno sulla spiaggia solitaria. «Non mi sembra la migliore delle idee, starsene qui sdraiata all'aperto.» «Ha ragione.» Raccolse il libro e l'asciugamano e si alzò in piedi. «Non si sa mai chi si potrebbe incontrare. Ladri. Assassini.» Si girò per andar via. «O magari un avvocato o due.» «Devo parlarle, Kate.» «Ho un avvocato. Perché non parla con lui?» «Si tratta del caso O'Brien.» «Se lo tenga per l'aula» scattò lei. Si allontanò in fretta, lasciandolo solo sulla spiaggia. «Potremmo non vederci in tribunale!» gridò lui. «Che peccato.» Si affrettò a seguirla e quando arrivò al cottage le stava proprio alle calcagna. Lei superò i gradini con un salto ed entrò, lasciandogli sbattere la porta a zanzariera sul naso. «Ha sentito cosa ho detto?» gridò David da fuori. Kate si fermò, come se avesse compreso all'improvviso le sue parole. Si girò lentamente e lo fissò attraverso la rete. Lui aveva posato le mani sugli stipiti e la guardava a sua volta. «Potrei non essere in tribunale» mormorò. «Cosa intende dire?» «Sto pensando di abbandonare il caso.» «Perché?» «Mi lasci entrare e glielo dirò.» Senza distogliere lo sguardo da lui, Kate aprì la porta. «Si accomodi, avvocato.» David la seguì in cucina e rimase in piedi accanto al tavolo, guardandola in silenzio. La differenza di altezza fra loro era notevole e il fatto che lei fosse a piedi scalzi non faceva altro che metterla in risalto. Kate aveva dimenticato quanto fosse alto quell'uomo. Non lo aveva mai visto indossare qualcosa di diverso da un abito, e le piaceva di sicuro molto di più con i blue jeans. All'improvviso si rese conto che lei stessa non indossava quasi
nulla. Il suo sguardo la seguiva, mettendola a disagio. Ed eccitandola. Deglutì con forza. «Devo vestirmi. Mi scusi.» Si affrettò in camera da letto e prese la prima cosa che trovò, un leggero abito bianco. Rischiò di strapparlo nella fretta di indossarlo. Si fermò accanto alla porta, e contò lentamente fino a dieci, sperando di calmarsi, ma le sue mani non volevano saperne di smettere di tremare. Quando finalmente tornò in cucina, lo trovò ancora in piedi accanto al tavolo, intento a sfogliare il suo libro. «Un romanzo di guerra» spiegò lei. «Non è granché, ma mi serve per ammazzare il tempo. Una cosa di cui in questi giorni dispongo in abbondanza.» Accennò a una sedia. «Si sieda, avvocato. Preparo un po' di caffè.» Dovette concentrarsi a fondo per riempire d'acqua il bollitore e metterlo sul fuoco. Aveva difficoltà anche con le cose più semplici. Prima fece cadere i filtri nel lavello, poi versò i fondi di caffè sul bancone. «Lasci, faccio io» si offrì lui, avvicinandosi e sospingendola delicatamente da parte. Lei rimase a guardarlo mentre ripuliva il piano. La consapevolezza della sua vicinanza, della sua forza era quasi insopportabile. Quasi quanto l'inattesa ondata di desiderio sessuale. Andò a sedersi accanto al tavolo, sentendosi mancare le gambe. «A proposito» borbottò lui, oltre la spalla, «potremmo lasciar perdere l'"avvocato Ransom"? Io mi chiamo David.» «Oh sì, lo so» disse lei. La sua voce sembrava un ansito. Lui le si sedette di fronte e i loro occhi s'incontrarono. «Pochi giorni fa avresti voluto impiccarmi» osservò lei. «Cosa ti ha fatto cambiare idea?» Per tutta risposta, lui estrasse un foglio di carta dal taschino della camicia. Era la fotocopia di un articolo del quotidiano locale. «Questa notizia è stata pubblicata due settimane fa sullo Star-Bulletin.» Lei lesse il titolo corrugando la fronte: Ucciso medico di Honolulu. «E questo cosa c'entra?» «Conoscevi la vittima, Henry Tanaka?» «Era a ostetricia. Non ho mai lavorato con lui, però.» «Leggi la descrizione delle sue ferite.» Kate tornò a leggere l'articolo. «Dice che è stato colpito alla schiena e al collo.»
«Esatto. Le ferite sono state provocate da un oggetto molto tagliente. Il collo è stato colpito una sola volta, ed è stata recisa la carotide. Molto efficiente. E letale.» Kate cercò di deglutire, ma si rese conto che la gola le si era chiusa. «Anche Ann...» Lui annuì. «Stesso metodo, identico risultato.» «Come fai a saperlo?» «L'ispettore Ah Ching ha colto le somiglianze quasi subito. Ecco perché ha messo un poliziotto di guardia alla tua porta, in ospedale. Se questi omicidi sono collegati tra loro, c'è qualcosa di sistematico, di razionale, in questa storia.» «Razionale? L'omicidio di un medico? Un'infermiera? A me sembra più che altro opera di uno psicopatico.» «L'omicidio è una strana cosa. A volte non ha alcuna ragione, altre invece ha perfettamente senso.» «Non c'è un motivo ragionevole per uccidere qualcuno.» «Eppure succede tutti i giorni, e gli assassini sono persone verosimilmente in possesso delle loro facoltà. Si tratta sempre di motivi molto semplici: denaro, potere.» Fece una pausa. «Poi ci sono gli omicidi passionali. Pare che Henry Tanaka avesse una relazione con un'infermiera.» «Molti dottori hanno relazioni clandestine.» «Anche molte infermiere.» «Di quale infermiera stiamo parlando?» «Speravo che potessi dirmelo tu.» «Mi dispiace, non sono aggiornata sui pettegolezzi dell'ospedale.» «Anche se coinvolgono i tuoi pazienti?» «Intendi Ellen? Non credo che lo saprei. Di solito non ficco il naso nella vita privata dei miei pazienti, a meno che non sia rilevante per la loro salute.» «La vita privata di Ellen potrebbe essere stata molto importante per la sua salute.» «Be', era una bella donna. Sono sicura che ci fossero degli uomini nella sua vita.» Kate spostò nuovamente lo sguardo sull'articolo. «Cosa ha a che vedere tutto questo con Ann Richter?» «Forse niente. Forse tutto. Nelle ultime due settimane, sono morte tre persone dello staff del Mid Pac. Due sono state assassinate. Una ha avuto un inatteso attacco di cuore sul tavolo operatorio. Coincidenza?» «È un grande ospedale. Ci lavorano molte persone.»
«Ma queste tre si conoscevano. Hanno perfino lavorato insieme.» «Ma Ann era un'infermiera di sala operatoria.» «Aveva lavorato in ostetricia.» «Cosa?» «Otto anni fa, Ann Richter ha divorziato, una faccenda molto burrascosa. Si è ritrovata con una pila di conti da pagare. Aveva bisogno di soldi, in fretta, così ha preso un secondo lavoro come infermiera a ostetricia. Il turno di notte. Lo stesso a cui lavorava Ellen O'Brien. Si conoscevano senz'altro. Tanaka, Richter, O'Brien. E adesso sono tutti morti.» Il fischio del bollitore lacerò il silenzio, ma Kate era troppo frastornata per muoversi. David si alzò e tolse il bollitore dalla fiamma. Lo sentì prendere delle tazze e versare l'acqua. Il profumo di caffè la riportò alla realtà. «È strano» osservò. «Vedevo Ann Richter quasi ogni giorno, in sala operatoria. Parlavamo di libri che avevamo letto o di film che avevamo visto, ma non abbiamo mai parlato di noi. Lei era sempre così riservata, quasi inavvicinabile.» «Come ha reagito alla morte di Ellen?» Kate tacque, ricordando il viso livido di Ann quando tutto era andato storto in sala operatoria e la vita di Ellen era rimasta appesa a un filo. «Sembrava paralizzata, ma in effetti eravamo tutti sconvolti. Dopo è andata casa, si sentiva male. Non è più tornata al lavoro. È stata l'ultima volta in cui l'ho vista. Viva, intendo.» Lui lasciò scivolare una tazza di caffè verso di lei. «Doveva sapere qualcosa, qualcosa di pericoloso. Forse ne erano a conoscenza tutti e tre.» «Ma David, erano persone normali, che lavoravano in un ospedale.» «Possono succedere un mucchio di cose, in un ospedale. Furto di narcotici. Frodi assicurative. Relazioni illecite. Perfino omicidi.» «Se Ann sapeva qualcosa di pericoloso, perché non è andata alla polizia?» «Forse non poteva. Forse aveva paura di essere incriminata per qualcosa o magari proteggeva qualcuno.» Un segreto mortale, rifletté Kate. Tutte le vittime lo avevano condiviso? «Così pensi che Ellen sia stata uccisa?» azzardò. «Ecco perché sono qui. Voglio che me lo dica tu.» «Come potrei?» borbottò lei, scuotendo la testa, confusa. «Hai esperienza medica. Eri nella sala operatoria quando è successo. Come poteva essere fatto?»
«Ho già ripercorso i fatti migliaia di volte.» «Allora fallo ancora, Kate. Avanti, pensa. Cerca di convincermi che si è trattato di omicidio. Convincimi a lasciar perdere questo caso.» Era così deciso che le sembrò di non avere alternative. Doveva ricordare ogni dettaglio, ogni evento accaduto prima della tragedia in sala operatoria. Rammentò che tutto era andato liscio, l'anestesia, l'introduzione del tubo endotracheale. Aveva controllato tutto, sapeva che l'ossigeno era stato collegato correttamente. «Ebbene?» la esortò lui. «Non riesco a pensare a niente.» «Sì che puoi.» «Era un caso di routine.» «E l'intervento?» «Senza errori. Guy è di gran lunga il migliore chirurgo dell'ospedale. Comunque aveva appena cominciato. Non aveva neanche terminato di incidere la fascia muscolare, quando...» «Quando cosa?» «Ha detto che i muscoli addominali erano troppo tesi. Aveva difficoltà a divaricare l'incisione.» «Allora?» «Ho iniettato una dose di succinilcolina.» «Una procedura abituale, no?» Lei annuì. «Lo faccio spesso. Su Ellen però sembrava non avere effetto, così ho dovuto somministrare una seconda dose. Ricordo che chiesi ad Ann di passarmi un'altra fiala.» «Avevi una sola fiala?» «Di solito ne tengo un po' nel mio carrello, ma quella mattina ce n'era solo una nel cassetto.» «Poi cos'è successo?» «Sono trascorsi alcuni secondi, forse dieci, quindici. E poi... il suo cuore si è fermato.» Si scambiarono un lungo sguardo. Un'ultima lama di luce penetrava attraverso la finestra. Lui si protese verso di lei. «Se potessi provarlo...» «È impossibile: la fiala vuota è finita nell'inceneritore insieme a tutti gli altri rifiuti ospedalieri, e non c'è neanche un corpo su cui eseguire l'autopsia. È stato furbo, David. Chiunque sia l'assassino, sapeva esattamente quel che stava facendo.»
«Forse è anche troppo furbo.» «Cosa intendi dire?» «Si tratta evidentemente di una persona molto abile. Sapeva con precisione quali farmaci avresti somministrato in sala operatoria ed è riuscito a introdurre qualcosa di letale in una delle fiale. Chi ha accesso ai carrelli degli anestesisti?» «Li lasciamo in sala operatoria, penso che qualunque membro del personale potrebbe avvicinarsi. Dottori, infermiere, anche i custodi. Ma c'è sempre gente, in giro.» «E di notte? Durante i fine settimana?» «Se non ci sono interventi in programma, credo che si limitino a chiudere il reparto. Però c'è sempre un'infermiera di turno, per le emergenze.» «Dove sta?» «Non lo so. Vado in sala operatoria solo se devo seguire un caso, non ho idea di cosa accada in una notte tranquilla.» «Se non c'è nessuno di guardia, allora qualunque membro del personale poteva introdursi di nascosto in sala operatoria.» «Non è un membro del personale. Io ho visto l'assassino, David. L'uomo nell'appartamento di Ann era un estraneo.» «Potrebbe avere un complice, qualcuno dell'ospedale. Qualcuno che conosci, magari.» «Un complotto?» «Gli omicidi sono stati commessi in maniera sistematica. Come se il nostro assassino, o gli assassini, avesse una specie di lista. La domanda è: chi sarà il prossimo?»' Kate sobbalzò e lasciò cadere la tazza. Le sue mani tremavano violentemente. Ho visto il suo viso, pensò. Se quell'uomo ha una lista, c'è il mio nome sopra. Si alzò in piedi e si avvicinò alla porta aperta. Ormai si era fatto buio. Rimase a guardare la superficie del mare. Il vento si era placato e regnava uno strano silenzio, come se la notte stesse trattenendo il respiro. «È la fuori» mormorò, «e mi sta cercando. Non so nemmeno come si chiama.» Il tocco della mano di David sulla sua spalla la fece trasalire. Era in piedi dietro di lei, avvertiva il suo respiro fra i capelli. «Continuo a vedere i suoi occhi che mi fissano, attraverso lo specchio. Neri, enormi, come quelli dei bambini che muoiono di fame.» «Non può farti del male, Kate, non qui.» Il fiato di David le sfiorò il col-
lo facendola rabbrividire. Non di paura ma di eccitazione. Pur senza guardarlo, avvertiva il suo desiderio che ribolliva appena sotto la superficie. Poi si rese conto che non era più il suo fiato a sfiorarla, ma le sue labbra. Aveva affondato il viso fra i suoi capelli e le premeva la bocca avida sul collo. Le afferrò le spalle, come se temesse che potesse andar via. Ma lei non lo fece, non poteva. Lo desiderava, con tutta se stessa. Senza smettere di baciarla, David la girò verso di sé e nello stesso istante in cui si trovarono di fronte, le posò le labbra sulla bocca. Kate si sentiva precipitare in un pozzo profondo e senza fine. D'un tratto si trovò appoggiata alla parete della cucina. Lui la schiacciava con tutto il proprio corpo. Insinuò la lingua fra le sue labbra schiuse, esigendo la sua bocca. Kate non aveva dubbi che avrebbe preteso anche tutto il resto. Non scambiarono una parola. La stanza era piena soltanto dei loro ansiti di desiderio. Kate ne era così stordita che quasi non udì il telefono. Squillò a lungo, prima che lei registrasse quel suono, rendendosi conto di cosa si trattava. Le ci volle tutta la sua forza di volontà per resistere al desiderio e divincolarsi dalla stretta di David. «Il telefono.» «Lascialo suonare» replicò lui, facendo scivolare la bocca sul suo collo. Ma l'apparecchio continuava a squillare, imperioso, tormentandola. «David, per favore.» Borbottando il suo disappunto, lui si scostò. Si fissarono un momento, sbigottiti, incapaci di credere a quel che era appena avvenuto fra loro. Il telefono squillò ancora. Kate attraversò la cucina e prese la cornetta. Si schiarì la voce. «Pronto?» «Dottoressa Chesne?» Era un bisbiglio, a malapena udibile. «Sì?» «È sola?» «No, io... Chi parla?» Una pausa, così lunga e vuota che Kate udì il battito del proprio cuore fin nelle orecchie. Il terrore la stava prendendo alla gola. «Pronto? Chi parla?» ripeté. «Fai attenzione, Kate Chesne. La morte è tutt'intorno a noi.» 7 La cornetta le sfuggì dalle mani e cadde rumorosamente sul pavimento
di linoleum. Kate arretrò, terrorizzata, e andò a sbattere contro il bancone. «È lui» sussurrò. Poi, a voce più alta ripeté: «È lui». David si precipitò a prendere il telefono. «Chi parla? Pronto? Pronto?» Imprecando, sbatté la cornetta al suo posto e si girò verso di lei. «Cosa ha detto? Kate!» La scosse, afferrandola per le spalle. «Cosa ti ha detto?» «Ha detto di fare attenzione. La morte è intorno a noi...» «Dov'è la tua valigia?» scattò lui. «Cosa?» «La tua valigia.» «Nell'armadio della camera da letto.» Lui si girò e si precipitò nell'altra stanza. Kate lo seguì e lo vide prendere la valigia dallo scaffale. «Raccogli le tue cose» le ordinò. «Non puoi rimanere qui.» Lei non chiese dove stessero andando. Sapeva solo che doveva fuggire, che ogni minuto in più in quella casa aumentava il pericolo. Fece in fretta la valigia e quando ebbe finito si precipitarono fuori. David inserì la chiave nel quadro e per un istante Kate pensò che l'auto non sarebbe partita. Che come in un film dell'orrore sarebbe rimasta bloccata lì, condannata a morte certa. Invece il motore partì subito e David lanciò l'auto a tutta velocità per il vialetto polveroso, incurante dei rami degli alberi che colpivano il parabrezza. «Come ha fatto a trovarmi?» singhiozzò Kate. «Me lo stavo chiedendo anch'io» borbottò David, svoltando sulla statale e accelerando. Il motore della BMW emise un ruggito. «Nessuno sapeva che ero qui. Solo la polizia.» «Allora deve esserci stata una fuga di notizie. Oppure sei stata seguita» suggerì, lanciando uno sguardo nello specchietto retrovisore. «Seguita?» Kate si girò, ma vide soltanto la strada deserta, debolmente illuminata dai lampioni. «Chi ti ha portato al cottage?» «La mia amica Susan.» «Vi siete fermate a casa tua?» «No, siamo andate direttamente al cottage.» «E i vestiti? Come li hai avuti?» «La mia padrona di casa mi ha preparato la valigia e me l'ha portata in
ospedale.» «Forse ha tenuto d'occhio l'ingresso, in attesa che ti dimettessero.» «Ma non abbiamo visto nessuno.» «Certo che no. La gente non se ne accorge quasi mai. Di solito ci concentriamo su quel che abbiamo davanti, sul luogo in cui stiamo andando. Quanto al numero di telefono, potrebbe averlo trovato sull'elenco telefonico. C'è il nome dei Santini sulla cassetta della posta.» «Non ha senso. Se vuole uccidermi, perché non si è limitato a entrare e farlo? Perché mi ha minacciata con una telefonata?» «Non possiamo sapere cosa gli passa per la testa. Forse si diverte a spaventare le sue vittime. Forse vuole solo fare in modo che tu non collabori con la polizia.» «Ero sola. Avrebbe potuto farlo sulla spiaggia.» Cercò invano di non pensare a cosa sarebbe potuto accadere, ma continuava a rivedersi riversa in una pozza di sangue, sulla sabbia. Guardò le luci delle case, sulla collina. Luoghi sicuri, ma per lei irraggiungibili. Avrebbe trovato un posto in cui rifugiarsi? Chiuse gli occhi, lasciandosi andare contro il sedile della macchina. Avrebbe voluto non discenderne più, era l'unico luogo sicuro per lei, adesso. Cercò di concentrarsi sul rombo del motore, sulla strada, tutto, pur di ricacciare l'immagine sanguinosa dalla sua mente. BMW. La migliore delle automobili, non diceva forse così la pubblicità? Alta tecnologia tedesca, elegante e dalle prestazioni elevate. Esattamente il tipo di macchina che ci si poteva aspettare che David possedesse. «C'è un sacco di spazio. Puoi rimanere quanto vuoi.» «Come dici?» Disorientata, Kate si girò a guardarlo. Il suo profilo era un'ombra dura e affilata contro le luci della città. «Dico che puoi trattenerti quanto vuoi. Non è il Ritz, ma è più sicuro di un albergo.» «Non capisco. Dove stiamo andando?» Lui la guardò in tralice. «A casa mia.» «Eccoci» annunciò David, aprendo la porta principale. All'interno le luci erano spente, ma il chiarore della luna entrava a fiotti dalle grandi vetrate del soggiorno, riflettendosi sul pavimento di legno lucido e disegnando il profilo dei mobili. David la guidò verso un divano e la fece sedere. Poi andò rapidamente ad accendere tutte le lampade della
stanza. Kate lo sentì stappare una bottiglia, versare qualcosa. Quando tornò, le mise in mano un bicchiere. «Bevi.» «Cos'è?» «Whisky. Avanti, ti farà bene.» Lei bevve un sorso. Il sapore forte le fece venire le lacrime agli occhi. «Buonissimo...» tossì. «Sì, lo penso anch'io.» Si girò per uscire dalla stanza e nello stesso momento Kate si sentì sopraffare dalla paura. La stava lasciando sola. «David?» chiamò. Lui si rese subito conto del panico nella sua voce. Tornò a girarsi verso di lei. «Va tutto bene, Kate, non ho intenzione di lasciarti. Vado solo in cucina, qui accanto.» Le sfiorò il volto con una carezza, sorridendole. «Finisci il tuo drink.» Rimase a guardarlo mentre usciva, poi sentì che parlava al telefono con qualcuno. La polizia. Come se potessero fare qualcosa, ormai. Stringendo il bicchiere con entrambe le mani, bevve un altro sorso di whisky e ancora una volta i suoi occhi si colmarono di lacrime. Sbatté le palpebre, sforzandosi di mettere a fuoco la stanza. Era senza dubbio la casa di un uomo. I mobili erano semplici e pratici, sul pavimento di legno non c'era neanche un tappeto. Le grandi vetrate erano incorniciate da tendaggi bianchi. Da fuori proveniva il suono delle onde che s'infrangevano contro gli argini. La forza della Natura era così vicina, così spaventosa. Ma mai come la violenza dell'uomo. Quando ebbe finito di parlare al telefono, David si soffermò in cucina, cercando di riprendere un contegno. Kate era già abbastanza impaurita, non doveva mostrarle quanto lui stesso fosse agitato. Si passò una mano fra i capelli arruffati, inspirò a fondo e tornò in soggiorno. Era ancora seduta sul divano e stringeva il bicchiere di whisky semivuoto. Perlomeno le era tornato un po' di colorito sulle guance, anche se era ancora pallidissima. Aveva bisogno di un altro po' di liquore. Le prese il bicchiere, lo riempì fino all'orlo e glielo restituì. Le sue dita erano gelate. Sembrava così intontita, così vulnerabile. Avrebbe voluto prenderle le mani, riscaldarla fra le braccia, ridare un po' di vita alle sue membra gelate,
ma aveva paura di seguire quell'istinto, sapeva che avrebbe potuto risvegliare desideri irresistibili. Si girò e si versò a sua volta da bere. Adesso Kate aveva bisogno di essere protetta, rassicurata. Aveva bisogno di sapere che qualcuno si sarebbe preso cura di lei e che le cose si sarebbero aggiustate. Bevve un lungo sorso, poi posò il bicchiere. Doveva rimanere sobrio. «Ho chiamato la polizia» le annunciò. «Cosa hanno detto?» domando lei, atona. Lui si strinse nelle spalle. «Cosa potevano dire? Rimani dove sei. Non uscire da sola.» Guardò il bicchiere, corrugando la fronte. Diamine, si disse, e lo svuotò con un sorso. Prese la bottiglia e andò a sedersi accanto a lei sul divano. Sembrava che ci fosse un abisso di solitudine, fra loro. «I miei amici non sanno dove sono» mormorò Kate, facendo cenno di alzarsi. «Dovrei chiamarli.» «Non preoccuparti. Pokie li avviserà che sei al sicuro.» La vide abbandonarsi contro lo schienale del divano. Aveva l'aria esausta. «Dovresti mangiare qualcosa» suggerì. «Non ho fame.» «La mia domestica prepara un'ottima salsa per gli spaghetti.» Lei sollevò una spalla, come se non avesse la forza di stringerle entrambe. «Proprio così» proseguì lui con improvviso entusiasmo. «Una volta alla settimana la signora Feldman si impietosisce di un povero scapolo morto di fame e mi lascia una pentola di salsa in cucina. Ci mette un sacco di aglio e basilico fresco. E un goccio di vino.» Nessuna risposta. «Tutte le donne a cui l'ho servita dicono che sia un potente afrodisiaco.» Finalmente un sorriso, anche se piuttosto stentato. «La signora Feldman ti è di grande aiuto.» «Crede che io non mangi bene, anche se non so perché. Forse perché trova tante confezioni di surgelati nella spazzatura.» Un altro sorriso. Se continuava così, forse lui sarebbe riuscito a farla ridere, fra una settimana. Era davvero un pessimo umorista ma, in effetti, la situazione non era favorevole alle battute di spirito. Udì il ticchettio dell'orologio sulla mensola. I silenzi fra loro si facevano sempre più lunghi. All'improvviso una raffica di vento fece tremare le finestre e Kate si irrigidì.
«È solo il vento» spiegò lui, «ti ci abituerai. A volte, quando ci sono i temporali, trema tutta la casa. Sembra quasi che si debba scoperchiare.» Alzò lo sguardo alle travi del soffitto. «Ha trent'anni. Probabilmente sarebbe stato meglio demolirla anni fa, ma quando l'abbiamo comprata riuscivamo a vedere soltanto le sue potenzialità.» «Abbiamo?» «Ero sposato, allora.» «Oh.» Si sollevò appena, come se si sforzasse di mostrare interesse. «Sei divorziato.» Lui annuì. «Siamo stati insieme un po' più di sette anni. Non male, di questi tempi.» Rise senza allegria. «Però, contrariamente ai vecchi cliché, non è stata la crisi del settimo anno a farla finita fra noi. Ci siamo allontanati pian piano. Tuttavia, Linda e io abbiamo ancora rapporti amichevoli, il che è più di quanto si possa dire per la maggioranza delle coppie divorziate. Mi piace perfino il suo nuovo marito. Un brav'uomo, molto innamorato, attento. A volte vorrei non essere...» S'interruppe, distogliendo lo sguardo. Si sentiva a disagio. Odiava parlare di sé, lo faceva sentire vulnerabile. Però stava ottenendo il suo scopo: la stava rianimando, la stava distraendo dalla paura. «Linda vive a Portland, adesso. Ho sentito che aspetta un bambino.» «Non avete avuto figli?» Una domanda del tutto naturale. Avrebbe voluto che non l'avesse posta. Annuì brevemente. «Un maschio.» «Oh. E quanti anni ha?» «È morto.» La sua voce era piatta, come se la morte di Noah fosse un argomento banale, come il tempo. Intuì la domanda già pronta sulle labbra di Kate, le parole piene di comprensione. Non voleva sentirle. Gli avevano detto talmente tante frasi affettuose che gli sarebbero bastate per il resto della sua vita. «Come vedi» si affrettò ad aggiungere, «sono uno scapolo di ritorno, per così dire. Mi piace, ritengo che alcuni uomini non siano fatti per il matrimonio. E poi è l'ideale per la carriera, perché non c'è niente che mi distragga dal lavoro. Difatti, di questi tempi va benissimo.» Dannazione, aveva ancora quelle domande negli occhi. Cercò di evitarle, cambiando di nuovo argomento. «E tu? Ti sei mai sposata?»
«No.» Kate abbassò lo sguardo, come se stesse considerando la possibilità di bere un altro sorso di whisky. «Ho vissuto con un uomo, per un po'. In effetti è per lui che sono venuta a Honolulu. Immagino che mi debba servire da insegnamento» aggiunse, con una risatina amara. «Cosa dovresti imparare?» «A non rincorrere uno stupido.» «A quanto pare vi siete lasciati malamente.» «A dire la verità è stata una rottura molto civile. Non dico che non abbia fatto male, perché ho sofferto.» Stringendosi nelle spalle, si decise a bere un altro goccio di liquore. «È difficile fare tutto contemporaneamente. Non potevo dargli quel che desiderava: la cena pronta in tavola, la mia completa attenzione.» «Era quello che si aspettava?» «Non è forse quello che si aspettano tutti gli uomini? Be', io non potevo soddisfare quell'idiota. Avevo un lavoro che richiedeva la mia disponibilità, a ogni ora. Non lo capiva.» «Ne è valsa la pena?» «Cosa vuoi dire?» «Hai sacrificato la tua vita sentimentale per la carriera.» Lei non rispose subito. «Una volta pensavo che ne fosse valsa la pena. Adesso ripenso a tutte le ore che ho speso in ospedale, a tutti i weekend rovinati. Pensavo di essere indispensabile, invece ho scoperto di essere semplicemente utile, come tutti. C'è voluta un'azione legale, perché lo capissi.» Lo guardò con amarezza, inclinando il bicchiere verso di lui. «Grazie per avermi aperto gli occhi.» «Perché te la prendi con me? Sono stato semplicemente assunto per fare un lavoro.» «Ti avranno dato un eccellente compenso, immagino.» «Il mio compenso dipende dall'esito del caso. Non vedrò un centesimo.» «Hai rinunciato al denaro? Solo perché pensi che stia dicendo la verità?» Scosse la testa, meravigliata. «Mi sorprende che la verità rivesta tutta questa importanza per te.» «Hai un bel modo di farmi apparire un pessimo soggetto, ma sì, la verità m'importa molto.» «Un avvocato con sani principi? Non pensavo che ne esistessero.» «Siamo una sottospecie riconosciuta.» Inavvertitamente il suo sguardo scivolò sulla scollatura del vestito leggero. Il ricordo di quel che era accaduto fra loro lo colpì con forza. Si girò in
fretta e afferrò la bottiglia di whisky. Non c'era nessun bicchiere a portata di mano, così bevve un sorso direttamente dalla bottiglia. Ecco bravo, pensò, ubriacati. Vediamo quante stupidaggini riuscirai a dire entro domattina. In effetti, stavano entrambi bevendo un po' troppo, ma probabilmente Kate ne aveva bisogno. Venti minuti prima era sconvolta, adesso perlomeno parlava. Era perfino riuscita a insultarlo. Doveva essere un buon segno. Lei guardò il proprio bicchiere. «Oddio, io detesto il whisky!» esclamò, vuotandolo in un sorso. «Vedo. Prendine un altro po'.» «Stai cercando di farmi ubriacare» replicò lei con un'occhiata sospettosa. «Cosa te lo fa pensare?» rise lui, porgendole la bottiglia. Lei la guardò un momento con espressione disgustata, poi si riempì il bicchiere. «Buon vecchio Jack Daniel's» sospirò. Richiuse la bottiglia con mano tremante. «Quando si dice ironia della sorte.» «Quale ironia?» «Era la marca preferita di mio padre. Giurava che fosse una medicina e trovava insopportabili le mie ramanzine. Se mi vedesse adesso, gli verrebbe un colpo.» Bevve un lungo sorso e fece una smorfia. «Forse aveva ragione. Una bevanda dal sapore così orribile deve per forza essere una medicina.» «Mi sembra di capire che non fosse un dottore.» «Era il suo sogno. Avrebbe voluto essere un medico di campagna, hai presente quelli che fanno nascere i bambini in cambio di qualche dozzina di uova? Le cose però non sono andate come voleva. Sono nata io e hanno avuto bisogno di soldi.» Sospirò. «Aveva un laboratorio di riparazioni a Sacramento. Era molto bravo. Mi piaceva starlo a guardare mentre lavorava, in cantina. Era capace di riparare qualsiasi cosa. Televisori, lavatrici. Ha perfino preso diciassette brevetti, tutti privi di valore. Tranne forse l'affettamele Handy Dandy.» Lo guardò, speranzosa. «Ne hai sentito parlare?» «No, mi spiace.» Lei scrollò le spalle. «Non ne ha sentito parlare nessuno.» «A cosa serve, esattamente?» «Un solo movimento del polso ed ecco: sei perfette fettine di mela.» David rimase in silenzio e lei sorrise, malinconica. «Vedo che sei rimasto impressionato.» «Sono impressionato sul serio. Dal fatto che tuo padre abbia messo al
mondo te. Deve essere stato contento quando sei diventata medico.» «Infatti. Quando mi sono laureata, mi disse che quello era il giorno più felice della sua vita.» Esitò. «Trovo molto triste che di tutti i giorni della sua vita, quello sia stato il più felice.» Si schiarì la voce. «Dopo la sua morte, mia madre ha venduto il laboratorio e ha sposato un importante funzionario di banca a San Francisco. Un uomo arrogante. Non ci sopportiamo.» Abbassò lo sguardo sul bicchiere, e aggiunse, con voce fievole: «A volte penso ancora a quel laboratorio. Mi manca la cantina, mi mancano le sue stupide, inutili invenzioni. Mi manca...». Il labbro inferiore prese a tremarle violentemente. Oh no, sta per piangere, pensò David. Sapeva come comportarsi quando i suoi dienti scoppiavano in lacrime. Porgeva loro la scatola dei fazzolettini di carta, dava una pacca sulle spalle e diceva che avrebbe fatto tutto quello che poteva. Ma questo era diverso. Non era nel suo ufficio ma nel soggiorno di casa, e la donna che stava per piangere non era una cliente ma una persona che gli piaceva molto. Proprio quando pensava che sarebbe scoppiata, lei riuscì a riprendere il controllo. Intravide appena qualche lacrima nei suoi occhi, poi Kate sbatté le palpebre e scomparvero. Grazie a Dio. Non avrebbe saputo come consolarla. Le prese il bicchiere e lo posò sul tavolino accanto al divano. «Penso che tu abbia bevuto abbastanza per stasera. Forza dottoressa, è ora di andare a nanna. Ti mostro la strada.» Stese la mano per prendere la sua, ma Kate si ritrasse. «Qualcosa non va?» «No. Solo che...» «Non dirmi che ti preoccupi delle apparenze. Che trovi sconveniente restare qui.» «Un po'. Non molto però. Voglio dire, considerando le circostanze...» Rise, imbarazzata. «La paura mette le cose in una prospettiva diversa. Cambia la percezione del decoro.» «Per non parlare della percezione dell'etica legale.» Lei lo guardò senza capire, così David proseguì: «Non lo ho mai fatto prima». «Cosa? Non hai mai portato una donna a casa tua?» «Be', in effetti nemmeno quello, da un po' di tempo a questa parte. Quel che intendevo dire, però, è che mi sono sempre imposto di non lasciarmi coinvolgere dai miei clienti. Né, a maggior ragione, dalla controparte.» «Allora sono un'eccezione.» «Sì, senza dubbio. Che tu ci creda o no, normalmente non metto le mani
addosso a tutte le donne che entrano nel mio studio.» «A quali donne metti le mani addosso?» volle sapere lei, incurvando le labbra in un leggero sorriso. Lui si avvicinò, attratto da invisibili fili di desiderio. «Solo a quelle con gli occhi verdi» rispose. Le sfiorò delicatamente una guancia. «E che abbiano qualche livido qui e là.» «Quest'ultima parte mi suona un po' da pervertito» mormorò lei di rimando. «No, non lo è.» La sua voce aveva un tono così intimo, che Kate rimase senza parole. Sapeva che si stava avventurando su di un terreno pericoloso. Quell'uomo aveva giurato di distruggerla. Poteva ancora farlo. Sto fraternizzando col nemico, pensò, mentre i loro visi si accostavano pericolosamente, tuttavia non riusciva a muoversi. Un senso di irrealtà s'impadronì di lei: non stava accadendo veramente, era solo una fantasia, dovuta al whisky. Le loro labbra si sfiorarono con dolcezza, come pregustando quel che entrambi sapevano che sarebbe accaduto. Kate sentì mille lingue di fuoco accendersi dentro di lei. Il Jack Daniel's non aveva mai avuto un sapore così buono. «Cosa direbbero all'Ordine degli Avvocati di questo?» bisbigliò. «Che è un oltraggio.» «Contrario all'etica.» «Una pazzia. E avrebbero ragione.» Scostandosi da lei, David cercò di riprendere il controllo di sé e, con suo disappunto, il buonsenso ebbe il sopravvento. Si alzò e, tenendola per le mani, fece alzare anche lei. «Quando scriverai il tuo reclamo all'Ordine, non dimenticare di aggiungere che mi dispiace per quel che ho fatto.» «Farebbe qualche differenza?» «Per loro no, ma spero che la faccia per te.» Rimasero in piedi davanti alla finestra, guardandosi in silenzio per un po'. «Credo proprio che sia ora di andare a letto» annunciò lui, con voce rauca. «Cosa?» Lui si schiarì la gola. «Intendo dire che sarebbe ora che tu vada nel tuo letto. E io nel mio.» «Oh.»
«Ameno che...» «A meno che?» «Che tu non voglia.» «Voglia cosa?» «Andare a letto.» Si guardarono, a disagio. Lei deglutì con forza. «Credo che farei meglio ad andare.» «Già.» David si girò, passandosi nervosamente una mano fra i capelli. «Lo credo anch'io.» «David?» «Sì?» «Davvero stai violando l'etica professionale, lasciandomi restare qui?» Lui si strinse nelle spalle «Date le circostanze, credo di essere ancora nei limiti, anche se a malapena. Perlomeno fintanto che non accade nulla fra noi.» Prese la bottiglia di whisky e la chiuse nell'armadietto con un gesto definitivo. «E non accadrà.» «Naturalmente no» convenne lei, in fretta. «Voglio dire, non ho bisogno di quel genere di complicazioni, nella mia vita. Di certo non adesso.» «Nemmeno io. Per il momento sembra che abbiamo bisogno l'uno dell'altro. Ti fornirò un posto sicuro in cui stare e tu mi aiuterai a capire cos'è successo veramente in quella sala operatoria. Un accordo utile. Ti chiedo solo una cosa.» «Di che si tratta?» «Discrezione assoluta. Non solo adesso, ma anche dopo che sarai andata via di qui. Questo genere di cose può solo danneggiare la nostra reputazione» le fece notare lui. «Capisco benissimo.» Inspirarono a fondo, simultaneamente. «Allora buonanotte» disse Kate, girandosi e avviandosi verso il corridoio. Aveva il corpo come di gomma. Poteva solo sperare di non cadere. «Kate?» Il cuore le balzò in petto. Si girò a guardarlo. «Sì?» «La tua camera è la seconda porta a destra.» «Oh. Grazie.» Il cuore che prima era così leggero divenne pesante come una pietra. Andò via, lasciandolo solo in soggiorno. La sua unica consolazione era che lui sembrava affranto quanto lei.
David rimase sveglio a lungo, dopo che Kate fu andata a letto. Non riusciva a smettere di pensare a lei. Al suo sapore, al suo corpo fra le sue braccia. Non capiva come aveva fatto a cacciarsi in quel pasticcio. Era già uno sbaglio farla dormire a casa sua, ma cercare di sedurla sul divano era stupidità pura. Anche se aveva desiderato farlo, con tutte le proprie forze. Dal modo in cui si era abbandonata, aveva compreso che non baciava un uomo da tempo. Fantastico. Si poteva immaginare qualcosa di più esplosivo di due persone adulte e in salute, costrette all'astinenza troppo a lungo, che si ritrovavano a dormire a meno di tre metri di distanza? Meglio non pensare a cosa avrebbe detto in proposito il suo vecchio professore di etica. In senso stretto, non poteva ancora considerarsi fuori dal caso O'Brien. Fino a quando non avesse consegnato ufficialmente la loro pratica a un altro studio, doveva comportarsi come loro avvocato, e l'etica professionale lo obbligava a tutelare i loro interessi. E pensare che aveva sempre separato la sua professione dalla vita privata con tanto scrupolo! Avrebbe dovuto evitare quel guaio, accompagnando Kate in albergo o da un'arnica. Dovunque, ma non a casa sua. Sarebbe stata la cosa giusta da fare, ma da quando l'aveva conosciuta, non riusciva a pensare lucidamente. Dopo quella telefonata, l'unica cosa che gli importava era proteggerla. Era un istinto primitivo e potente, che non riusciva a controllare ma che non gli piaceva. Così come non gli piaceva che lei suscitasse in lui delle reazioni fisiche così disdicevoli. Indispettito, si alzò dal divano e cominciò a spegnere le luci nella stanza. Non voleva essere il cavaliere di una donna, e d'altronde Kate Chesne non era il tipo di donna che aveva bisogno di un eroe. O di un uomo, in genere. Non che non gli piacessero le donne indipendenti, al contrario. Gli piaceva anche lei. Molto. Forse troppo. Sdraiata nel letto, Kate ascoltava i passi inquieti di David nella stanza accanto. Trattenne il respiro quando li udì avvicinarsi alla sua porta. Forse fu solo la sua immaginazione, ma le sembrò che si fermasse un momento, prima di proseguire verso la propria stanza da letto. Lo sentì muoversi ancora, aprire e chiudere cassetti, smuovere le grucce nell'armadio. Mio Dio, pensò, dorme nella stanza accanto a questa. Sentì che aveva aperto l'acqua della doccia. Chissà se era una doccia fredda. Nonostante cercasse di resistere, nella sua mente si formò l'immagine di David sotto la doccia. Immaginò le gocce di acqua saponata che
scivolavano sulla sua schiena, la peluria dorata e bagnata sul suo petto. Smettila. Subito. Si morse il labbro, talmente forte che per un istante l'immagine si confuse. Dannazione. Era lussuria, pura e semplice lussuria. Non aveva mai desiderato così tanto un uomo. Con Eric non si era mai sentita così. La sua relazione con lui era stata sempre dolorosamente distaccata, niente a che vedere con queste pulsioni animalesche. Anche quando si erano lasciati era stato tutto molto civile. Avevano discusso delle loro differenze, erano giunti alla conclusione che erano inconciliabili e avevano preso strade diverse. Allora le era sembrata una fine devastante, adesso invece si rendeva conto che quel che aveva sofferto di più era stato il suo orgoglio. Per molti mesi, aveva coltivato la segreta speranza che Eric tornasse da lei. Adesso riusciva a malapena a ricordare il suo viso. Non faceva altro che confondersi con l'immagine di un uomo sotto la doccia. Affondò la testa nel cuscino, sentendosi uno struzzo. Perché doveva capitare proprio a lei, che era considerata una donna brillante, equilibrata? Questa sua qualità era stata perfino inserita in un documento di valutazione del periodo di internato: la dottoressa Chesne è una professionista estremamente competente ed equilibrata. Equilibrata? Meglio dire scema, infatuata. O semplicemente idiota. Come poteva essere attratta dall'uomo che aveva minacciato di rovinarla in un tribunale? Aveva tante cose importanti di cui preoccuparsi. Questioni di vita o di morte, nel vero senso della parola. Stava per perdere il lavoro. La sua carriera stava andando a rotoli. Un assassino le dava la caccia. E invece stava lì a domandarsi quanta peluria avesse David Ransom sul petto. Correva, a perdifiato, giù per centinaia di gradini, nel buio sempre più fitto. Non sapeva cosa ci fosse in fondo alle scale, sapeva solo che c'era qualcosa proprio dietro di lei, qualcosa di terribile. Non osava guardarsi indietro. Non c'erano porte, né finestre, nessun'altra via di scampo. Correva senza far rumore, come in un film senza audio. Il silenzio era la cosa più spaventosa, perché nessuno l'avrebbe udita gridare. Kate si svegliò di soprassalto, con un singhiozzo, e si ritrovò a fissare un soffitto sconosciuto. Da qualche parte c'era un telefono che squillava. La luce del sole inondava la stanza e sentiva il rumore delle onde del mare che
si infrangevano sull'argine. Il telefono smise di suonare all'improvviso. Udì la voce di David mormorare qualcosa nella stanza accanto. Sono al sicuro, si disse. Nessuno può farmi del male. Non qui. Non in questa casa. Udì battere alla porta e si rizzò a sedere di scatto. «Kate?» La voce di David la raggiunse attraverso la porta chiusa. «Sì?» «Vestiti. Pokie ci vuole alla centrale di polizia.» «Adesso?» «Adesso.» Dalla sua voce capì che era qualcosa di urgente. Allarmata, si alzò e andò ad aprire la porta. «Perché? Cos'è accaduto?» Lui l'accarezzò per un breve istante con lo sguardo, poi si concentrò sul suo volto. «L'assassino. Sanno il suo nome.» 8 Pokie sospinse l'album con le foto segnaletiche verso Kate. «Vede qualcuno che conosce, dottoressa Chesne?» Kate osservò le foto. Un volto attirò subito la sua attenzione. Era un'immagine molto cruda. Il flash aveva messo in evidenza ogni ruga, ogni incavo del viso. L'uomo, tuttavia, teneva gli occhi bene aperti e fissava diritto davanti a sé. Aveva lo sguardo di un'anima persa. «È lui» sussurrò. «Ne è sicura?» «Ricordo i suoi occhi.» Deglutì con forza e distolse lo sguardo. Entrambi gli uomini la fissavano. Probabilmente temevano che svenisse o che le venisse una crisi isterica o qualcos'altro di egualmente ridicolo. Maleinon provava niente. Si sentiva stranamente distaccata, come se stesse guardando dall'esterno una classica scena nella centrale di polizia: la testimone che identifica senza ombra di dubbio il volto dell'assassino. «È il nostro uomo» borbottò Pokie, soddisfatto. Un sergente, un uomo pallido vestito in modo trasandato, le portò una tazza di caffè. Sembrava che avesse freddo: continuava a tirare su col naso. Lo vide tornare al suo posto e prendere dello spray nasale da un cassetto. Posò nuovamente lo sguardo sulla foto.
«Chi è?» chiese. «Un pazzoide» rispose Pokie. «Si chiama Charles Decker. La foto è stata scattata cinque anni fa, al momento del suo arresto.» «Con quale accusa?» «Aggressione. Ha buttato giù la porta di uno studio medico e ha cercato di strangolare un dottore davanti a tutti.» «Un dottore?» David alzò la testa. «Chi?» Pokie si appoggiò allo schienale della vecchia poltrona, che cigolò penosamente sotto il suo peso. «Indovina.» «Henry Tanaka.» Pokie rispose sfoderando un largo sorriso che mise a nudo i denti macchiati di nicotina. «Proprio lui. C'è voluto un po', ma alla fine siamo risaliti al suo nome.» «I verbali dell'arresto?» «Già. Avremmo dovuto esaminarli prima, ma al principio ci sono sfuggiti. Avevamo chiesto alla signora Tanaka se suo marito aveva dei nemici. Una domanda di routine. Lei ci ha fatto un elenco di nomi, ma sono risultati tutti puliti. Poi ci ha detto che qualche anno fa, suo marito era stato aggredito da un folle. Non ricordava il suo nome, e per quanto ne sapeva quel tipo era ancora rinchiuso nell'ospedale psichiatrico. Ci siamo messi a cercare nei rapporti e finalmente abbiamo trovato quel che ci interessava: Charles Decker. Questa mattina ho avuto i risultati dal laboratorio. Ricordate le impronte sulla maniglia di casa della Richter?» «Erano sue?» Pokie annuì. «E ora» aggiunse, accennando a Kate, «la nostra testimone lo ha identificato. Direi che abbiamo il nostro uomo.» «Qual era il movente?» «Ve l'ho detto. È matto.» «Come migliaia di altre persone. Perché questo qui è diventato un assassino?» «Ehi, non sono mica il suo strizzacervelli.» «Però lo sai, no?» «Solo un'ipotesi» replicò Pokie, stringendosi nelle spalle. «Quell'uomo ha attentato alla mia vita» intervenne Kate, «credo di avere il diritto di sapere qualcosa in più del suo nome.» «Ha ragione, Pokie» disse David. «Non lo troverai nei manuali della po-
lizia, ma credo che abbia il diritto di sapere chi è Charles Decker.» Con un sospiro, Pokie estrasse un taccuino da un cassetto della scrivania. «D'accordo» grugnì lui a quel punto, sfogliandolo, «vi dirò quel che ho finora, ma deve essere tutto ancora confermato. Decker, Charles Louis, maschio bianco nato a Cleveland trentanove anni fa. Genitori divorziati. Il fratello è stato ucciso a quindici anni in uno scontro fra bande. Un inizio fantastico. Una sorella sposata che vive in Florida.» «Avete parlato con lei?» «È lei che ci ha dato la maggior parte di queste informazioni. Allora, vediamo. Si è arruolato in Marina a ventidue anni ed è stato di base in diversi porti. San Diego, Bremerton. È stato trasferito qui a Pearl sei anni fa. Ha fatto il soldato della sanità a bordo della nave da guerra Cimarron...» «Soldato della sanità?» chiese Kate. «Assistente al chirurgo di bordo. Secondo i suoi superiori, Decker era un tipo solitario. Se ne stava più che altro per conto suo. Nessun disturbo psichico.» Sbuffò. «E poi dicono che i documenti militari sono precisi.» Passò alla pagina successiva. «Una carriera tutto sommato decorosa, ha ricevuto anche un paio di lodi. Sembrava che si sarebbe fatto strada. Poi, cinque anni fa, pare che si sia rotto qualcosa.» «Un esaurimento nervoso?» chiese David. «Peggio. È diventato pazzo. Per via di una donna.» «Vuoi dire una fidanzata?» «Già. L'aveva incontrata qui sulle isole. Ha chiesto il permesso per sposarsi e gli è stato concesso, ma poi lui e la nave sono partiti per una missione di sei mesi dalle parti di Subic Bay. Il suo vicino di branda ha riferito che Decker passava ogni momento libero a scrivere poesie per la fidanzata. Deve essere stato pazzo di lei.» Pokie scosse la testa, sospirando. «Comunque, quando la Cimarron è tornata a Pearl, la fidanzata non era ad aspettarlo sul molo insieme alle altre innamorate. Qui le cose si fanno confuse. Tutto quel che sappiamo è che Decker è sceso a terra senza permesso. Immagino che non ci abbia messo molto a capire cosa era successo.» «Aveva trovato un altro?» azzardò David. «No. Era morta.» Nell'ufficio calò il silenzio. Nella stanza accanto squillava un telefono. Le macchine per scrivere non si fermavano un momento. «Cosa le accadde?» chiese Kate. «Complicazioni durante il parto» spiegò Pokie, «ha avuto una specie di
colpo apoplettico in sala parto. È morta anche la bambina. Decker non aveva neanche mai saputo che era incinta.» Kate lasciò scivolare lo sguardo sulla foto di Charles Decker. Pensò a quel che doveva aver passato, quel giorno a Pearl Harbour. La nave che si avvicinava al molo affollato, le famiglie sorridenti. Per quanto tempo aveva cercato il volto della sua donna, fra quelle persone? Per quanto tempo, prima di capire che non c'era? Che non ci sarebbe mai più stata? «A quel punto l'uomo ha perso il senno» continuò Pokie. «Ha scoperto che Tanaka era il medico della ragazza. Il rapporto dice che si presentò alla clinica e si avventò su quel dottore per strangolarlo. C'è stata una baruffa, poi hanno chiamato la polizia. Decker è uscito il giorno seguente su cauzione. È andato dritto a comprarsi una pistola, ma non l'ha usata contro il dottore. Se l'è messa in bocca e ha tirato il grilletto.» Pokie chiuse il taccuino. L'ultimo atto, pensò Kate. Compra una pistola e fatti saltare il cervello. Doveva essere innamorato di quella donna. Quale modo migliore di provarlo che sacrificare se stesso? Però non era morto. Era vivo, e stava uccidendo delle persone. Pokie colse il suo sguardo interrogativo. «Era una pistola molto economica. Ha fatto cilecca. Gli ha trasformato la bocca in poltiglia, ma è sopravvissuto. A quel punto è rimasto per qualche mese in una struttura di riabilitazione, poi è stato trasferito all'ospedale psichiatrico. Dai loro referti risulta che ha recuperato tutte le funzioni, a parte la parola.» «È muto?» domandò David. «Non esattamente. Le sue corde vocali sono andate in brandelli durante le operazioni di rianimazione. Può muovere le labbra per formulare le parole, ma la sua voce è come un sibilo.» Un sibilo, pensò Kate. Il ricordo di quel suono innaturale, nella tromba delle scale di casa di Ann, sembrava l'eco di un incubo. Il sibilo di una vipera sul punto di attaccare. «Circa un mese fa» riprese Pokie, «Decker è stato dimesso. Doveva vedere uno strizzacervelli di nome Nemechek, ma non si è mai presentato al primo appuntamento.» «Ha parlato con Nemechek?» volle sapere Kate. «Solo per telefono. È a un convegno a Los Angeles, dovrebbe tornare martedì. Giura che il suo paziente è innocuo, ma credo che si stia parando il culo. Non fa una bella impressione quando il paziente che hai appena la-
sciato andare si mette a sgozzare la gente.» «Allora è questo il motivo: vendetta per una donna morta» osservò David. «È la nostra ipotesi.» «Perché è stata uccisa Ann Richter?» «Ricordate la donna bionda che i custodi videro attraversare di corsa il posteggio?» «Pensi che fosse lei?» «Pare che lei e Tanaka fossero, come posso dire... in ottimi rapporti.» «Significa quel che credo di capire?» «Diciamo che i vicini di casa di Ann Richter non hanno avuto alcuna difficoltà a riconoscere la foto di Tanaka. È stato visto nel suo appartamento più di una volta. Penso che la nostra infermiera sia andata a fargli visita, la sera in cui è stato ucciso, ma che abbia trovato qualcosa che l'ha terrorizzata a morte. O forse ha temuto che potessero accusarla di aver ucciso il suo amante, chi lo sa?» «Dunque era solo una testimone, come me» osservò Kate. «C'è una grossa differenza fra voi due» replicò Pokie. «Decker non può trovarla. In questo momento nessuno al di fuori di questo ufficio sa dove vive. Teniamo le cose a questo modo. Non ci sono problemi se rimane a casa tua, vero?» chiese, rivolto a David. «Può restare» rispose lui, impassibile. «Bene. E sarebbe meglio che non usasse la sua macchina.» «La mia macchina?» replicò Kate, accigliandosi. «Perché?» «Decker ha preso la sua borsa. Dentro c'erano le chiavi della sua macchina. Sa che lei guida un'Audi, la cercherà.» Cercherà me, pensò lei con un brivido. «Per quanto tempo?» sussurrò. «Cosa?» «Quanto ci vorrà perché questa storia finisca? Perché possa riavere la mia vita?» «Potrebbe volerci un po', per trovarlo» sospirò Pokie «ma tenga duro, dottoressa. Quel tizio non può nascondersi per sempre.» Kate pensò a tutti i luoghi in cui un uomo poteva nascondersi su quell'isola. I recessi di Chinatown, dove nessuno faceva domande. Le baracche dei pescatori di Sand Island. I vicoli di Waikiki. Da qualche parte, Decker stava piangendo la sua donna morta. C'era ancora una cosa, tuttavia, che non le era chiara.
«Ed Ellen O'Brien?» chiese, alzandosi per andar via. Pokie, che stava raccogliendo alcuni documenti dentro una cartella, alzò lo sguardo su di lei. «Cosa?» «Ha un legame con tutta questa storia?» Pokie abbassò gli occhi sulla foto di Charles Decker, poi chiuse la cartella. «No, nessun legame.» «Ma deve esserci un legame» protestò Kate, mentre uscivano dalla stazione di polizia. «Indizi che non ha trovato...» «O di cui non vuole parlarci» aggiunse David. Lei lo guardò, aggrottando le sopracciglia. «Perché non dovrebbe farlo? Credevo che foste amici.» «Ho mollato, ricordi?» «A sentire te, sembra che il lavoro in polizia sia una guerra.» «Per alcuni poliziotti lo è. Una guerra santa, per la precisione. Pokie ha moglie e quattro figli, ma non lo indovineresti mai, con tutte le ore e l'impegno che dedica al lavoro.» «Dunque pensi che sia un bravo poliziotto?» David si strinse nelle spalle. «È un cavallo da soma. Affidabile, ma non brillante. L'ho visto far casino altre volte, potrebbe sbagliarsi anche ora. Questa volta però devo dargli ragione: non vedo come Ellen O'Brien possa entrare in questa storia.» «Ma hai sentito quel che ha detto. Decker lavorava nell'ambiente sanitario, assisteva il chirurgo di bordo.» «Il profilo di Decker non si adatta a quel che è successo a Ellen, Kate. Uno psicopatico che imita Jack lo Squartatore non si mette a trafficare con fiale ed ECG. Ci vuole un atteggiamento mentale del tutto diverso.» «Come faccio a provare che Ellen O'Brien è stata uccisa? Non posso neanche essere certa che sia possibile.» David si fermò. «Okay» sospirò, «non possiamo provare nulla. Però possiamo provare a ricostruire la possibile pianificazione.» «Vuoi dire dell'omicidio?» Lui annuì. «Prendiamo uno come Decker. Un outsider. Uno che ne capisce un po' di medicina e chirurgia. Adesso dimmi, in dettaglio: come farebbe a entra-
re nell'ospedale e uccidere un paziente?» «Ecco, io immagino che lui...» Lasciò vagare lo sguardo lungo la strada. C'era un venditore di giornali, poco più avanti, che offriva l'edizione del mattino agli automobilisti di passaggio. «Oggi è domenica» osservò. «Ebbene?» «Ellen è stata ricoverata di domenica. Ricordo che ero nella sua stanza e le parlavo. Erano le otto di domenica sera.» Guardò l'orologio. «Mancano dieci ore. Potremmo ripercorrere passo passo...» «Aspetta un attimo, non ti seguo. Cosa dobbiamo fare, di preciso, in dieci ore?» Lei lo guardò. «Un omicidio» rispose. Il posteggio dei visitatori era semivuoto, quando David parcheggiò la BMW nelle vicinanze dell'ingresso dell'ospedale. Spense il motore e si rivolse a Kate. «Questa cosa non pròva niente, lo sai, vero?» . «Voglio solo vedere se è possibile.» «Le possibilità non hanno valore, in un tribunale.» «Non m'importa del tribunale, David, devo solo sapere se è possibile.» Guardò l'insegna rossa del pronto soccorso, poco distante. Sembrava un faro. C'era un'ambulanza, posteggiata davanti all'ingresso. L'autista sedeva su una panchina, fumando una sigaretta e ascoltando il gracchiare della radio d'emergenza. Domenica sera, tranquilla come sempre. L'orario delle visite era terminato. Nelle loro stanze, i pazienti stavano già scivolando nel sonno. Il viso di David emergeva appena dall'ombra. «Okay» sospirò, aprendo la portiera dell'auto, «facciamolo.» Le porte dell'ingresso principale erano chiuse. Entrarono nel pronto soccorso, attraversando la sala d'attesa. Un neonato strillava fra le braccia della madre, un anziano tossiva rumorosamente coprendosi la bocca con un fazzoletto e un ragazzino si premeva una borsa del ghiaccio contro il volto tumefatto. L'infermiera del triage parlava al telefono. Le passarono davanti e si diressero verso gli ascensori. «È così facile entrare?» «L'infermiera mi conosce.» «Ma se quasi non ti ha degnata di uno sguardo.» «Era troppo impegnata a guardare te.»
«Ragazzi, che fantasia.» Si fermò, guardandosi intorno. «Dov'è la sicurezza? Non dovrebbe esserci una guardia, qui?» «Starà facendo il suo giro.» «Vuoi dire che c'è una sola persona?» «Gli ospedali sono piuttosto noiosi» replicò lei, pigiando il pulsante dell'ascensore. «Inoltre è domenica.» Salirono al quarto piano e uscirono nel corridoio candido. Il linoleum rifletteva fiocamente la luce di una fila di brillanti lampadine. Contro la parete erano allineate alcune barelle con le ruote, come in attesa di un'invasione di feriti. Kate indicò una doppia porta a vetri con la scritta: Vietato l'ingresso. «Le sale operatorie sono da quella parte.» «Possiamo entrare?» Lei fece qualche passo in direzione delle porte e quelle si aprirono automaticamente. «Nessun problema.» All'interno, c'era un'unica lampada accesa sopra il bancone dell'accettazione. Una tazza di caffè tiepido attendeva il ritorno del suo proprietario. Kate indicò una grande lavagna dove era scritto il programma degli interventi del giorno seguente. «Tutti i casi di domani sono elencati lì sopra» spiegò. «Con un solo sguardo puoi vedere in quale sala operatoria è destinato il paziente, l'intervento previsto, i nomi del chirurgo e dell'anestesista.» «Ellen dov'era?» «Nella sala appena dietro l'angolo.» Lo guidò lungo un corridoio buio e aprì la porta della sala in questione. Le attrezzature di acciaio emergevano appena dall'ombra. Premette l'interruttore, accendendo le lampade. «Il carrello dell'anestesia è da quella parte.» David si avvicinò e aprì uno dei cassetti d'acciaio, svelando una serie di fiale. «Queste sostanze non dovrebbero stare sottochiave?» «Non hanno alcun valore commerciale, sulla strada. Nessuno si disturberebbe a rubarle. I narcotici, invece, li teniamo chiusi lì» aggiunse, indicando un armadietto pensile. Lui si guardò intorno. «Così questo è il tuo posto di lavoro. Sembra più il set di un film di fantascienza.»
«Spiritoso. Io mi sono sempre sentita come a casa, qui dentro.» Cominciò a camminare, sfiorando le attrezzature. «Forse perché sono figlia di un tuttofare. Gli aggeggi elettronici non mi spaventano, anzi mi piace avere a che fare con tutti quei bottoni e quadranti. Però mi rendo conto che molte persone possano sentirsi intimidite.» «E tu non sei mai stata intimidita?» Kate si girò e si accorse che David la stava fissando. Qualcosa, nell'intensità del suo sguardo, la fece ammutolire. «Non dalla sala operatoria» rispose. La stanza era talmente silenziosa, che Kate ebbe l'impressione di udire il battito del proprio cuore. Per un lungo istante si guardarono, come separati da un abisso invalicabile. Poi, all'improvviso, David spostò la propria attenzione sul carrello dell'anestesia. «Quanto ci vuole a manomettere una di queste fiale?» chiese. Il suo autocontrollo era ammirevole, pensò Kate, dato che riusciva perfino a parlare. Lei stava incontrando non poche difficoltà a farlo. «Bisognerebbe svuotare una di quelle fiale di succinilcolina. Penso che ci voglia meno di un minuto.» «Così facile?» «Già.» Spostò lo sguardo sul tavolo operatorio. «I nostri pazienti sono assolutamente indifesi, abbiamo il totale controllo delle loro vite. Non ci avevo mai pensato, fa davvero paura.» «Dunque uccidere qualcuno in sala operatoria non è così difficile.» «No, non direi.» «Cosa mi dici dello scambio di ECG? Come può esserci riuscito, il nostro assassino?» «Avrebbe dovuto impadronirsi della cartella della paziente, e le cartelle sono custodite nei reparti.» «Sembra difficile. I reparti brulicano di infermiere.» «È vero, tuttavia le infermiere sono sempre intimidite da un camice bianco, perfino al giorno d'oggi. Sono sicura che se ne indossassi uno potresti introdurti fin dentro la stanza delle infermiere senza che nessuno ti faccia domande.» «Proviamo?» «Vuoi dire adesso?» «Certo. Trovami un camice, ho sempre desiderato giocare al dottore.» Impiegarono un minuto appena a trovare un camice nello spogliatoio di chirurgia. Kate comprese subito che doveva essere di Guy Santini: era
macchiato di caffè sul davanti. Inoltre era una taglia 56. «Non sapevo che aveste assunto King Kong» borbottò David, infilando le braccia nelle larghe maniche. Abbottonò il camice e si raddrizzò in tutta la sua altezza. «Allora, cosa ne pensi? Si butteranno a terra dal ridere?» Lei fece un passo indietro e lo guardò con occhio critico. Il camice gli scivolava dalle spalle. Una parte del colletto era piegata verso l'alto. Tuttavia, era irresistibile. E intoccabile, purtroppo. Gli raddrizzò il colletto e bastò quel breve contatto perché il calore la inondasse. «Puoi andare» disse. «Sono così terribile?» Guardò le macchie di caffè. «Mi sembra di essere piuttosto trasandato.» Lei rise. «Il proprietario di questo camice è un tipo trasandato. Non ti preoccupare, andrà bene.» Mentre camminavano verso gli ascensori, aggiunse: «Ricordati però di pensare come un dottore. Devi assumere la giusta disposizione mentale: brillante, coscienzioso, partecipe». «Non dimenticare "modesto".» «Vai e conquistali, dottor Kildare» replicò lei, dandogli una pacca sulla spalla. Lui entrò nell'ascensore. «Non sparire, okay? Se qualcuno dovesse avere dei sospetti, avrò bisogno del tuo sostegno.» «Aspetterò in sala operatoria. Ah, David, un'ultima cosa.» «Dimmi.» «Attento a non essere negligente. Rischieresti di farti causa da solo.» Lui la salutò con un grugnito, mentre le portine dell'ascensore si chiudevano. Il reparto piombò nel silenzio. Era un test molto semplice. Se l'addetto alla sicurezza avesse fermato David, sarebbe bastata una sola parola di Kate per rimettere a posto le cose. Nulla poteva andare storto. Eppure, mentre percorreva il corridoio, Kate si sentiva sempre più a disagio. Entrò nella sala 5 e si sedette al suo solito posto, all'estremità del tavolo operatorio. Ripensò alle tante ore che aveva trascorso lì. Un mondo molto piccolo. Un mondo molto sicuro. Il suono di una porta che si richiudeva la fece trasalire. Perché David era tornato così presto? Aveva avuto dei problemi? Si alzò e andò nel corridoio. E si fermò. Qualcuno aveva aperto la porta della sala 7. La luce trapelava all'esterno.
Rimase in ascolto e udì un rumore come quello di qualcuno che fruga negli armadietti. Un cassetto venne aperto. C'era qualcuno che stava cercando qualcosa. Un'infermiera? O qualcun altro, qualcuno che non avrebbe dovuto essere lì? Guardò dall'altra parte del corridoio, la sua unica via di fuga. Il banco dell'accettazione era appena dietro l'angolo. Se fosse riuscita a oltrepassare non vista la porta della sala 7, avrebbe potuto uscire e chiedere aiuto. Doveva decidersi alla svelta: chiunque ci fosse, là dentro, poteva uscire da un momento all'altro. Se non si fosse mossa, sarebbe rimasta in trappola. Cominciò a camminare, senza far rumore. In quel momento, un armadietto si chiuse di schianto. Si girò, presa dal panico, e vide il dottor Clarence Avery, in piedi sull'uscio. Qualcosa gli sfuggì di mano e cadde. Il rumore di vetro infranto sembrò riecheggiare all'infinito nel corridoio. Lo guardò in viso: era mortalmente pallido. Subito la sua paura si trasformò in preoccupazione. Per un istante temette che gli sarebbe venuto un attacco di cuore. «Dottoressa Chesne» balbettò lui. «Io... io non mi aspettavo... voglio dire...» Abbassò lo sguardo. Ai suoi piedi, baluginavano minuscoli frammenti di vetro. «Che disastro ho combinato.» «Non è poi così terribile» disse Kate. «Lasci, l'aiuto a ripulire.» Accese le lampade del corridoio. Lui rimase immobile, sbattendo le palpebre nella luce improvvisa. Non lo aveva mai visto così. Appariva tanto vecchio e fragile. Afferrò una manciata di tovaglioli di carta dal dispenser accanto al lavabo e glieli porse, ma lui non si mosse, così si accovacciò ai suoi piedi e cominciò a raccogliere le schegge di vetro. Notò che indossava un calzino blu e uno bianco. Su uno dei frammenti era rimasta incollata l'etichetta. «È per la mia cagna» le spiegò lui, con un filo di voce. «Come dice?» «Il cloruro di potassio. È per la mia cagna. È molto malata.» Kate lo guardò senza espressione. «Mi dispiace» fu tutto quello che riuscì a dire. Lui chinò la testa. «Vorrei che si addormentasse in pace. Si è lamentata tutta la mattina. Non posso più sopportare di starla a sentire. È talmente vecchia, ha più di novant'anni, in età umana. Però mi sembra così crudele portarla dal veterinario, perché ci pensi lui. È un perfetto estraneo, la terrorizzerebbe.» Kate si drizzò in piedi. Avery restava immobile, stringendo i tovaglioli
di carta come se non sapesse che farsene. «Sono certa che il veterinario sarebbe molto delicato» disse, «non deve farlo lei.» «Ma sarebbe meglio se lo facessi io, non trovi? Se fossi io a dirle addio.» Lei annuì. Poi si girò verso il carrello, ne estrasse una fiala di cloruro di potassio e gliela diede. «Questa dovrebbe essere sufficiente, non crede?» «Non è molto grande» rispose lui, annuendo. Sospirò e si girò per andar via, ma subito tornò a rivolgersi a lei. «Mi sei sempre piaciuta, Kate. Sei l'unica che non sembra pronta a ridere alle mie spalle, l'unica a non fare commenti sulla mia età, a non invitarmi più o meno apertamente ad andare in pensione.» Scosse la testa, avvilito. «Ma forse hanno ragione, dopotutto. Farò quel che posso per te, alla riunione della commissione» aggiunse, girandosi. I suoi passi si allontanarono nel corridoio. Kate guardò le schegge di vetro nel cestino dei rifiuti, soffermandosi sulla sigla KCL. Cloruro di potassio, mormorò fra sé, accigliandosi. Se somministrato per endovena, era un veleno letale che provocava l'arresto cardiaco. Perfetto per sopprimere un cane, ma anche un essere umano. L'infermiera di turno al reparto 3B sedeva ingobbita alla sua scrivania, stringendo fra le mani un libro in edizione economica. Sulla copertina era disegnata una coppia seminuda, avvinghiata sotto il titolo stampato a caratteri scarlatti: La sposa lasciva. Voltò pagina, i suoi occhi si allargarono. Non notò David passarle davanti. Solo quando se lo ritrovò accanto alzò gli occhi. Arrossì violentemente e mise giù il libro. «Oh! Posso aiutarla, dottor...» «Smith» disse lui, scoccandole un sorriso smagliante. La ragazza lo guardava con occhi estasiati. Wow, pensò David, questo camice funziona. «Ho bisogno di consultare una cartella» annunciò. «Quale?» chiese lei in un ansito. «Stanza otto» rispose, guardando lo schedario con le cartelle. «A o B?» «B.» «La signora Loomis?» «Sì, è così che si chiama.» Lei si alzò e andò con passo leggero allo schedario. Mentre cercava, as-
sunse con noncuranza una posa provocante. Le ci volle molto tempo a trovare la cartella della stanza 8B, sebbene l'avesse proprio davanti agli occhi. David abbassò lo sguardo sul libro e dovette trattenersi dal ridere. «Eccola» cinguettò lei, porgendogli la cartella con entrambe le mani, come fosse un'offerta sacra. «Oh grazie, signora...» «Mann. Janet. Signorina.» «Sì.» Si schiarì la gola, si girò e andò a sedersi il più lontano possibile dalla signorina Mann. Il telefono squillò e a David sembrò di udire il sospiro rammaricato della donna mentre si girava per rispondere. «D'accordo.» Un altro sospiro. «Le porto subito giù.» Prese alcune provette con il tappo rosso da un carrello e uscì in fretta, lasciando David da solo. Dunque non ci vuole altro, pensò lui, aprendo la cartella. La povera signora Loomis all'8B era evidentemente un caso difficile, a giudicare dalla quantità di fogli nella sua anamnesi e dal lungo elenco di dottori che si erano occupati di lei. Erano stati consultati non solo un chirurgo e un anestesista, ma anche un internista, uno psichiatra, un dermatologo e un ginecologo. Pensò al vecchio detto sui troppi cuochi. Come il proverbiale brodo, anche questa povera signora non aveva alcuna possibilità. Un'infermiera gli passò accanto, sospingendo un carrello per le medicazioni. Un'altra infermiera entrò un momento per rispondere al telefono, poi se ne andò in fretta. Nessuna delle due donne gli prestò la minima attenzione. Sfogliò la cartella fino a raggiungere l'EGC. Avrebbe potuto sostituirlo con un altro nel giro di dieci secondi appena. E con tanti medici nel reparto, sei soltanto per la signora Loomis, nessuno ci avrebbe fatto caso. Per un omicidio bastava un camice bianco. 9 «Sei riuscita a dimostrare quel che volevi stasera, a proposito dell'omicidio in sala operatoria» disse David, posando due bicchieri di latte caldo sul tavolo della cucina. «Non direi» replicò Kate, fissando tetra il bicchiere fumante. «Non abbiamo dimostrato alcunché, solo che il cane del primario di anestesia è malato. Povero Avery. Devo averlo spaventato a morte.» «A me sembra che vi siate spaventati entrambi. A proposito, ha davvero
un cane?» «Non mentirebbe a me.» «Sto solo chiedendo. Non lo conosco.» Bevve un sorso di latte e sul labbro gli si formò un baffo candido. Sembrava stranamente fuori posto nella sua cucina bianca e pulita. Aveva la barba lunga e la camicia, che al mattino era fresca e ben stirata, era ormai tutta stropicciata. Kate abbassò lo sguardo sul bicchiere, imponendosi di non fissare la peluria che s'intravedeva dal colletto aperto. «Sono abbastanza sicura che abbia un cane» continuò, «mi sembra d'aver visto una foto sulla sua scrivania.» «Tiene una foto del cane nello studio?» «In realtà è una foto di sua moglie. Tiene in braccio un terrier marrone. Era molto bella.» «Sua moglie, vuoi dire.» «Sì. Ha avuto un ictus qualche mese fa, e il pover'uomo è stato costretto a farla ricoverare in una casa di cura. Da allora ha avuto serie difficoltà a eseguire i suoi compiti.» Bevve tristemente un po' di latte. «Scommetto che non potrebbe farlo.» «Fare cosa?» «Uccidere il cane. Alcune persone sono incapaci di far del male a una mosca.» «Mentre altre sono perfettamente capaci di uccidere.» «Pensi ancora che sia stato un omicidio?» domandò lei, alzando lo sguardo. Lui non rispose subito e il suo silenzio la spaventò: il suo unico alleato la stava abbandonando? «Non so cosa penso» sospirò infine David. «Finora mi sono lasciato guidare dall'istinto, e questo in un tribunale non ha alcun valore.» «Nemmeno a una riunione della commissione di controllo qualità» aggiunse lei, cupa. «La riunione è martedì?» «E non ho ancora idea di quel che devo andare a dire a quella gente.» «Non puoi ottenere un rinvio? Io disdirò tutti gli appuntamenti di domani, magari riusciamo a mettere insieme qualche prova.» «Ho già chiesto un rinvio, ma non mi è stato concesso. Comunque non sembra che ci sia alcuna prova da trovare. Abbiamo soltanto un paio di omicidi, senza alcun collegamento evidente con la morte di Ellen.» Lui si appoggiò allo schienale della sedia, accigliandosi.
«E se la polizia stesse seguendo una pista sbagliata? Se Charles Decker non c'entrasse nulla?» «Hanno trovato le sue impronte. E io l'ho visto lì.» «Però non l'hai visto uccidere.» «No, ma chi altri poteva avere un movente?» «Pensiamoci un momento.» David prese la saliera e la pose al centro del tavolo. «Sappiamo che Henry Tanaka era un uomo molto impegnato, e non mi riferisco al lavoro. Aveva una relazione.» Prese il macinapepe e lo mise accanto alla saliera. «Probabilmente con Ann Richter.» «D'accordo, ma Ellen cosa c'entra?» «Questa è la domanda da un milione di dollari.» Si sporse a prendere la zuccheriera. «Cosa diamine c'entra Ellen O'Brien?» «Un triangolo amoroso?» chiese Kate, aggrottando la fronte. «È una possibilità. Un uomo non deve limitarsi a un'amante sola, può averne anche una dozzina, e ciascuna di loro può a sua volta avere un amante geloso.» «Mi sembra una follia. Non riesco proprio a immaginare come siano possibili degli intrecci tanto complicati.» «Eppure succedono, e non soltanto negli ospedali.» «Anche negli studi legali, per esempio?» «Non sto dicendo che io abbia mai fatto cose del genere, ma siamo tutti esseri umani.» Lei non poté trattenersi dal sorridere. «È buffo. Quando ci siamo incontrati la prima volta non mi sei sembrato umano.» «No?» «Eri una minaccia, il nemico. Solo un altro dannato avvocato.» «La feccia della terra, insomma.» «Hai recitato bene la parte.» «Grazie tante» replicò lui con una smorfia. «Ma non è più così» si affrettò ad aggiungere Kate, «non posso più pensare a te soltanto come un altro avvocato, da quando...» La voce le si spense in gola. I loro sguardi si incontrarono. «Non da quando ti ho baciata» disse lui pacatamente. Un'ondata di calore le fece bruciare le guance. Si alzò di scatto, e prendendo il bicchiere si diresse verso il lavello. Sentiva lo sguardo di David incollato alla schiena. «È tutto così complicato» commentò con un sospiro.
«Cosa? Il fatto che sono un essere umano?» «Il fatto che lo siamo entrambi.» Pur senza guardarlo, sentiva l'attrazione, l'elettricità fra loro. Lavò lentamente il bicchiere, due volte, poi lo posò sul tavolo, con gesto misurato. Lui la guardava, vagamente divertito. «Hai ragione, essere umani è davvero fastidioso. Si finisce schiavi di inopportune necessità biologiche» osservò. Necessità biologiche. Una definizione del tutto inadeguata della tempesta ormonale che la sconvolgeva. Evitando il suo sguardo malizioso, Kate si concentrò sulla saliera. Pensò a Henry Tanaka, ai triangoli amorosi che s'allargavano. Quelle morti erano dovute semplicemente a un eccesso di lussuria e gelosia? «Hai ragione» convenne, sfiorando pensierosa la saliera, «essere umani comporta un mucchio di complicazioni. Perfino l'omicidio.» Lui rimase in silenzio, fissando il piano del tavolo. «Non posso credere che non ci abbiamo pensato prima» borbottò alla fine. «A cosa?» Sospinse il bicchiere vuoto verso la zuccheriera. «Non abbiamo a che fare con un triangolo. È un quadrato.» «Devo dire che la tua conoscenza della geometria è stupefacente» osservò lei. «Henry Tanaka avrebbe potuto avere una seconda amante: Ellen O'Brien.» «Siamo sempre al triangolo.» «Ma abbiamo dimenticato qualcuno. Una persona molto importante» replicò lui, battendo con le dita sul bicchiere vuoto. Lei rifletté un istante, guardando gli oggetti sul tavolo. «Mio Dio. La signora Tanaka.» «Esatto.» «Non ho mai neanche pensato a sua moglie.» «È arrivato il momento di farlo.» La donna giapponese che aprì la porta dello studio aveva un rossetto scarlatto e una cipria troppo chiara per il suo colorito. Sembrava appena fuggita da una residenza di geishe. «Dunque non siete della polizia?» chiese. «Non proprio» rispose David, «ma abbiamo delle domande da farle.»
«Non parlo con i giornalisti» replicò la donna. Fece per chiudere la porta. «Non siamo giornalisti, signora Tanaka. Io sono l'avvocato Ransom e questa è la dottoressa Kate Chesne.» «Allora cosa volete?» «Stiamo cercando di raccogliere informazioni su un altro omicidio, collegato alla morte di suo marito.» Un improvviso interesse si accese negli occhi della donna. «State parlando di quell'infermiera, vero? Quella Richter.» «Sì.» «Cosa sapete di lei?» «Le diremo tutto quel che sappiamo, se ci fa entrare.» Lei esitò, combattuta fra la curiosità e la cautela. La curiosità vinse. Aprì la porta e fece loro cenno di entrare nella sala d'attesa. Era alta, per essere giapponese, perfino più alta di Kate. Indossava un semplice abito blu, tacchi alti e orecchini d'oro a forma di conchiglia. I suoi capelli erano nerissimi, a parte una ciocca bianca alla tempia destra. Mari Tanaka era una donna molto bella. «Scusate il disordine» borbottò, indicando con un gesto circolare la stanza impeccabile, «ma c'è stata così tanta confusione. Tante cose di cui occuparsi.» Guardò i divani vuoti, come chiedendosi dove fossero finite tutte le pazienti. Sul tavolino c'era una pila di riviste, in un angolo una cassettina di giocattoli per intrattenere i bambini. Gli unici segni della tragedia che aveva colpito lo studio erano un biglietto di condoglianze e un vaso di gigli bianchi, donati da una paziente addolorata. Oltre un vetro, dall'altra parte del banco dell'accettazione, c'era un ufficio in cui sedevano due donne, circondate da cataste di cartelle. «Ci sono così tante pazienti da assegnare ad altri medici» sospirò la signora Tanaka, «e tante fatture in sospeso. Non avevo idea che sarebbe stato così caotico. Ho sempre lasciato che Henry si occupasse di tutto, e adesso che non c'è più...» Si lasciò cadere su un divano, sconfortata. «Suppongo che sappiate di mio marito e quella donna.» David annuì. «E lei?» «Sì. Voglio dire, non sapevo il suo nome, ma sapevo che doveva esserci qualcuna. Buffo, no? Si dice sempre che la moglie sia l'ultima a sapere certe cose.» Guardò le due donne sedute dietro il vetro. «Sono sicura che loro lo sapessero. E il personale dell'ospedale, anche quello doveva esserne a
conoscenza. Io ero l'unica a non saperlo. La moglie ingenua.» Alzò gli occhi. «Ha detto che mi avrebbe parlato di questa donna, Ann Richter. Cosa sa di lei?» «Abbiamo lavorato insieme» intervenne Kate. La signora Tanaka spostò lo sguardo su di lei. «Davvero? Io non l'ho mai nemmeno incontrata. Com'era? Era bella?» Kate esitò. Sapeva che quella donna stava cercando informazioni con cui tormentarsi. Mari Tanaka sembrava consumata da un bizzarro desiderio di autopunirsi. «Ann era una donna attraente» rispose. «Intelligente?» Kate annuì. «Era una brava infermiera.» «Anch'io lo ero.» Distolse lo sguardo, mordendosi il labbro. «Mi hanno detto che era bionda. A Henry piacevano le bionde. Ironico, vero? Gli piaceva l'unica caratteristica che non potevo avere.» Guardò David con improvvisa ostilità. «Immagino che a lei piacciano le donne orientali.» «Una bella donna è una bella donna» replicò lui, impassibile, «non faccio discriminazioni.» La signora Tanaka sbatté le palpebre per ricacciare le lacrime. «Henry sì, invece.» «Ci sono state altre donne?» chiese Kate, con tutta la gentilezza di cui era capace. «Penso di sì» rispose lei, stringendosi nelle spalle. «Era un uomo, no?» «Ha mai sentito il nome Ellen O'Brien?» «Aveva una... relazione con mio marito?» «Speravamo che potesse dircelo lei.» La signora Tanaka scosse la testa. «Non ha mai fatto nessun nome. Io, d'altronde, non gli ho mai chiesto niente.» «Perché?» chiese Kate. «Non volevo che mi mentisse.» Qualcosa, nel modo in cui lo disse, diede senso a quell'affermazione paradossale. «La polizia le ha detto che c'è un sospettato?» volle sapere David. «Intende Charles Decker? Il sergente Brophy è venuto qui ieri pomeriggio. Mi ha mostrato una foto di quell'uomo.» «Lo ha riconosciuto?» «Non l'avevo mai visto prima, avvocato Ransom, non conoscevo nean-
che il suo nome. Sapevo soltanto che mio marito era stato aggredito da uno psicopatico, cinque anni fa, e che la polizia lo aveva rilasciato il giorno dopo.» «Ma suo marito si rifiutò di sporgere denuncia» osservò David. «Cosa?» «È per questo motivo che Decker fu rilasciato così in fretta. A quanto pare, suo marito desiderava lasciar cadere la cosa.» «Non me lo ha mai detto.» «Cosa le raccontò?» «Quasi niente. Ma c'erano molte cose di cui non parlavamo mai. È così che siamo riusciti a rimanere insieme tanto tempo: evitando di toccare determinati argomenti. Era una specie di accordo. Lui non mi chiedeva come spendevo i soldi. Io non gli chiedevo delle donne.» «Sicché non sa nient'altro di Charles Decker?» «No. Ma forse Peggy può aiutarvi.» «Peggy?» Fece un cenno verso l'ufficio. «La nostra segretaria. Era qui quando successe.» Peggy era un'amazzone bionda, sulla quarantina. Indossava pantaloni bianchi aderenti. Preferì rimanere in piedi, sebbene le avessero detto di sedersi. O forse non voleva condividere lo stesso divano con Mari Tanaka. «Se ricordo quell'uomo?» chiese. «Non potrò mai dimenticarlo. Stavo ripulendo una delle sale visita quando l'ho udito urlare. Sono uscita e l'ho trovato proprio qui, nella sala d'attesa. Aveva le mani intorno al collo di Henry, voglio dire, del dottore, e non la smetteva di gridare.» «Inveiva contro di lui?» «No. Ripeteva qualcosa del tipo: "Cosa le hai fatto?".» «Diceva proprio così? Ne è sicura?» «Assolutamente.» «E a chi si riferiva? Una delle pazienti?» «Sì. Il dottore era così addolorato per quel caso. Era una donna tanto carina. Morirono sia lei sia la sua creatura.» «Come si chiamava?» «Jenny... Mi lasci pensare. Jenny qualcosa. Brook. Ecco, mi pare che si chiamasse Jenny Brook.» «Cosa ha fatto quando ha visto che stava aggredendo il dottore?» «Mi sono avventata contro di lui per liberare il dottor Tanaka, naturalmente. Stringeva forte, ma in qualche modo ci sono riuscita. Le donne non
sono del tutto incapaci, sa?» «Sì, lo so.» «Be', comunque poi è crollato.» «Il dottore?» «No, quel tizio. Si è rifugiato in quell'angolo laggiù, vicino al tavolino, ed è rimasto lì. Non la smetteva di piangere. Era ancora lì quando è arrivata la polizia. Qualche giorno dopo, abbiamo saputo che si era sparato. In bocca.» Tacque, fissando il pavimento, come se ancora vi vedesse un'ombra spettrale dell'uomo. «È strano, ma non ho potuto fare a meno di provare pena per lui. Piangeva come un bambino. Penso che anche Henry fosse dispiaciuto per lui.» «Signora Tanaka?» L'altra impiegata si affacciò sull'uscio dell'ufficio. «C'è una telefonata per lei. È il suo commercialista, glielo passo di là.» La signora Tanaka si alzò in piedi. «Non c'è altro che possiamo dirvi» borbottò, «e dobbiamo tornare al lavoro.» Scoccò un'occhiata eloquente a Peggy e si allontanò, salutando con un cenno della testa. «Ci ha dato due settimane di preavviso» brontolò Peggy, «e si aspetta che le lasciamo lo studio in ordine. Non mi meraviglia che Henry non volesse fra i piedi quella strega.» Si girò per tornare nel suo ufficio. «Peggy?» la bloccò Kate. «Vorrei farle un'altra domanda, se non le spiace. Quando una delle vostre pazienti muore, per quanto tempo conservate la cartella medica?» «Cinque anni. Più a lungo se si tratta di una morte collegata a un intervento ostetrico. Casomai dovesse essere intrapresa un'azione legale per negligenza.» «Dunque avete ancora la cartella di Jenny Brook?» «Sono sicura di sì.» Entrò nell'ufficio e aprì uno schedario. Scorse la lettera B due volte. Poi controllò la J. Delusa, chiuse il cassetto. «Non capisco. Dovrebbe essere qui.» David e Kate si scambiarono un'occhiata. «Non la trova?» chiese Kate. «Be', qui non c'è, e io sono molto scrupolosa con queste cose. Non mi si può accusare di trascuratezza.» Si girò verso l'altra impiegata, come se si aspettasse un'opinione discorde. La donna rimase zitta.
«Sta dicendo che qualcuno l'ha presa?» chiese David. «Per forza. Ma non capisco perché dovrebbe averlo fatto. I cinque anni sono passati a malapena.» «A chi si riferisce?» Peggy guardò David come se fosse un idiota. «Al dottor Tanaka, naturalmente.» «Jennifer Brook.» L'impiegata dell'archivio dell'ospedale digitò il nome sulla tastiera del computer. «Con la e finale o senza?» «Non lo so» rispose Kate. «Altre iniziali nel nome?» «Non lo so.» «Data di nascita?» Kate e David si guardarono. «Non la conosciamo» disse Kate. La donna si girò a guardarli da sopra le lenti degli occhiali dalla montatura di corno. «Immagino che non conosciate il numero della cartella medica» borbottò. I due scossero la testa. «Come temevo.» L'impiegata tornò a girarsi verso il terminale e pigiò un tasto. Dopo qualche secondo, sullo schermo apparvero due cognomi, un Brooke e un Brook, entrambi col nome di battesimo Jennifer. «È una di queste?» Uno sguardo alle date di nascita rivelò che una aveva cinquantasette anni e l'altra quindici. «No» sospirò Kate. «C'era da aspettarselo.» L'impiegata sospirò e cancellò i dati dallo schermo. «Dottoressa Chesne» proseguì, con ostentata pazienza, «perché le serve questa particolare cartella medica?» «Stiamo seguendo un progetto di ricerca» spiegò Kate. «Il dottor Jones e io...» «Dottor Jones?» L'impiegata guardò David. «Non ricordo un dottor Jones, nel nostro personale.» «È dell'università...» «Dell'Arizona» intervenne David con un sorriso. «Proviene tutto dall'ufficio di Avery. Si tratta di una morte di parto e...» «Morte?» ripeté l'impiegata. «Intende dire che la paziente è deceduta?»
«Sì.» «Be', allora non c'è da meravigliarsi. Teniamo quei file in un altro posto.» Dal suo tono di voce, quell'altro posto doveva trovarsi su Marte. Si alzò riluttante dalla sedia. «Ci vorrà un po'. Dovrete aspettare.» Si girò e si avviò a passo strascicato verso una porta che evidentemente immetteva nell'archivio delle cartelle dei pazienti deceduti. «Perché ho l'impressione che non la rivedremo mai più?» mormorò David. Kate si appoggiò stancamente al bancone. «Per fortuna non ti ha chiesto le credenziali. Potrei mettermi in grossi guai se si venisse a sapere che ho mostrato documenti dell'ospedale al nemico.» «Chi, io?» «Sei tu l'avvocato, no?» «Io sono solo il povero, vecchio dottor Jones dell'Arizona.» Si guardò intorno nella stanza. A un tavolo, un dottore leggeva sbadigliando. Un'impiegata dall'aria annoiata passava fra i tavoli raccogliendo i fascicoli e impilandoli in precario equilibrio su un carrello. «Un posto pieno di vita, devo dire. Quando comincia il ballo?» Si girarono entrambi udendo un suono di passi. L'impiegata dagli occhiali cerchiati di corno riemerse dalla stanza, a mani vuote. «La cartella non c'è» annunciò. Kate e David la fissarono, sbalorditi. «Cosa vuol dire che non c'è?» chiese Kate. «Dovrebbe essere lì. Ma non c'è.» «È stata consegnata a qualcuno?» chiese David. «Non diamo mai gli originali, dottor Jones» replicò la donna, guardandolo con freddezza da sopra le lenti. «La gente li perde sempre.» «Oh certo, naturalmente.» L'impiegata si sedette davanti al computer e digitò un comando. «Vedete? Ecco la voce d'archivio. Dovrebbe essere in quella stanza. Tutto quello che posso dire è che deve essere stata messa fuori posto. Il che significa che probabilmente non la vedremo più» aggiunse fra sé. Stava per cancellare tutto, ma David la fermò. «Un momento. Cos'è questa annotazione?» chiese, indicando un codice. «È la richiesta di una copia della cartella.» «Significa che qualcuno ha fatto richiesta di una copia?» L'impiegata esalò un sonoro sospiro.
«Sì» rispose, «significa questo.» «E chi l'ha richiesta?» Lei spostò il cursore e pigiò un tasto. Un nome e un indirizzo comparvero sullo schermo. «Joseph Kahanu, avvocato, Alakea Street. Data della richiesta: 2 marzo.» «È meno di un mese fa» osservò David, accigliandosi. «Direi di sì, dottore.» «Un avvocato. Perché diavolo dovrebbe interessarsi a una morte avvenuta cinque anni fa?» La donna lo guardò da sopra gli occhiali. «Me lo dica lei.» La vernice sulle pareti del corridoio era scrostata. Il passaggio di migliaia di piedi aveva scavato un solco nel centro del tappeto. All'esterno dell'ufficio era appeso un cartello: Joseph Kahanu, avvocato. Specializzato in casi di divorzio, custodia minori, testamenti, incidenti, assicurazioni, guida in stato di ubriachezza e lesioni personali. «Che posto fantastico» sussurrò David. «I ratti devono essere più numerosi dei clienti.» Bussò alla porta. Un corpulento uomo hawaiano, piuttosto malvestito, venne ad aprire. «Lei deve essere David Ransom» disse con voce brusca. David annuì. «E questa è la dottoressa Chesne.» L'uomo guardò Kate per un istante, poi si fece da parte e indicò due sedie sgangherate. «Entrate.» L'ufficio era soffocante. Un ventilatore ondeggiava cigolando, spostando l'aria calda da una parte all'altra. C'era un'unica finestra, semiaperta e velata di polvere, che dava su un vicolo. Con un solo sguardo, Kate colse tutti i segni di un'attività difficoltosa: la vecchia macchina per scrivere, le scatole di cartone stipate di documenti, l'arredamento di seconda mano. C'era a malapena posto per la scrivania. Kahanu aveva un'aria accaldata. Probabilmente aveva indossato la giacca a esclusivo beneficio dei visitatori.
«Non ho ancora chiamato la polizia» annunciò, accomodandosi su una poltrona girevole dall'aspetto poco affidabile. «Come mai?» «Di solito non faccio la spia ai miei clienti. Non so lei.» «Decker è ricercato per omicidio.» Kahanu scosse la testa. «Si tratta di un errore.» «Glielo ha detto Decker?» «Non sono riuscito a mettermi in contatto con lui.» «Forse è giunto il momento che la polizia lo trovi per lei.» «Mi ascolti bene» scattò Kahanu, «sappiamo tutti e due che non siamo allo stesso livello, Ransom. Mi dicono che lei abbia uno studio di prim'ordine in Bishop Street. Un paio di dozzine di associati leccapiedi. Probabilmente passa i suoi fine settimana sui campi da golf a blandire questo o quel giudice. Io» proseguì, abbracciando la stanza con un gesto circolare, «ho pochi clienti e perlopiù dimenticano spesso di pagarmi, ma sono i miei clienti e non mi piace mettermi contro di loro.» «Lei saprà che due persone sono state uccise.» «Non hanno prove che sia stato lui.» «La polizia dice di sì. Secondo loro Charles Decker è un uomo pericoloso, un uomo malato che ha bisogno di aiuto.» «È così che chiamano la prigione, adesso? Aiuto?» Estrasse un fazzoletto da una tasca e si deterse la fronte con aria schifata, come se stesse cercando di guadagnare tempo per pensare. «Immagino di non avere più scelta, ormai» borbottò. «Prima o poi la polizia verrà a bussare alla mia porta.» Ripiegò con cura il fazzoletto e lo rimise in tasca. Poi aprì un cassetto, prese una cartellina e la gettò sulla scrivania. «Ecco la copia che mi ha chiesto. A quanto pare non è l'unico a desiderarla.» David prese l'incartamento, accigliandosi. «Perché? Qualcun altro è forse venuto a chiedergliela?» «No. Però qualcuno è venuto a ficcare il naso nel mio ufficio.» «Quando?» «La settimana scorsa. Ha sparso le mie carte dappertutto. Non ha rubato niente, e c'erano perfino cinquanta dollari in cassa. Allora non ho capito cosa cercasse, ma questa mattina, quando mi ha parlato delle cartelle scomparse, ho pensato che forse gli interessavano queste carte.» «Ma non le ha trovate.» «La sera in cui è entrato qui, le avevo portate a casa con me.»
«È l'unica copia che ha?» «No, ne ho fatto delle altre poco fa. Per sicurezza.» «Posso dare un'occhiata?» chiese Kate. David esitò un momento, poi le porse la cartella. «Sei tu il dottore.» Kate guardò per un attimo il nome sulla copertina: Jennifer Brook. Poi aprì il fascicolo e cominciò a leggere. Nelle prime pagine era registrato un normale ricovero ostetrico. La paziente, una giovane donna in salute di ventotto anni, alla trentaseiesima settimana di gestazione, era stata ricoverata al Mid Pac Hospital al principio del travaglio. L'anamnesi e gli esami fisici erano stati eseguiti dal dottor Tanaka e non presentavano alcunché degno di nota. Il battito cardiaco del feto era normale, così come tutte le analisi del sangue. Kate girò pagina e lesse la relazione di quanto accaduto in sala parto. Le cose avevano cominciato ad andare storte. Molto storte. La grafia ordinata dell'infermiera si andava trasformando via via in frenetici scarabocchi. Le frasi divennero brevi, slegate. La morte di una giovane donna era racchiusa in poche, fredde parole in gergo medico. Crisi generalizzate... non risponde a Valium e Dilantin... chiamato pronto soccorso per assistenza... la respirazione è irregolare... la respirazione è cessata... niente polso... inizia massaggio cardiaco... il battito cardiaco del feto è udibile ma rallenta... ancora niente polso... il dottor Vaughn del pronto soccorso presta assistenza con taglio cesareo d'urgenza. Neonata viva... La relazione a quel punto si riduceva a una serie di frasi smozzicate, del tutto illeggibili. Alla pagina seguente un'ultima annotazione, scritta con mano ferma. Rianimazione sospesa. Ora del decesso 01,30. «È morta per emorragia cerebrale. Aveva solo ventotto anni» spiegò Kahanu. «E la neonata?» volle sapere Kate. «È morta un'ora dopo la madre.» «Kate» intervenne David, toccandole il braccio, «guarda in fondo alla pagina. I nomi delle persone di turno.»
Lei abbassò lo sguardo. Leggendo, sentì le sue mani farsi di ghiaccio. Henry Tanaka, medico Ann Richter, infermiera Ellen O'Brien, infermiera «Manca un nome» notò. «C'era anche il dottor Vaughn del pronto soccorso. Forse lui potrebbe dirci...» «Non può» replicò Kahanu, «ha avuto un incidente, poco tempo dopo la morte di Jennifer Brook. È stato uno scontro frontale.» «Vuol dire che è morto?» Kahanu annuì. «Sono tutti morti.» Kate rimise il referto sulla scrivania. C'era qualcosa di pericoloso in quei documenti, qualcosa di malvagio. Rimase a guardare la cartella senza osare toccarla, come temendo che potesse in qualche modo contagiarla. «Quattro settimane fa, Charlie Decker è venuto nel mio studio» riprese Kahanu, lasciando vagare lo sguardo fuori dalla finestra. «Non so perché mi abbia scelto. Forse gli sono sembrato conveniente, magari non poteva permettersi nessun altro. Voleva un parere legale sulla possibilità di intraprendere una causa per negligenza.» «Per questo caso?» intervenne David. «Jenny Brook è morta cinque anni fa e Decker non è un suo parente. Sa bene quanto me che la richiesta sarebbe stata rigettata.» «Ha pagato per i miei servizi, avvocato Ransom. In contanti.» In contanti: le parole magiche per un avvocato che a stento riusciva a sopravvivere. «Ho fatto quel che mi ha chiesto. Ho richiesto il referto e ho contattato il dottore e le due infermiere che si erano occupati di Jenny Brook. Ma non hanno mai risposto alla mia lettera.» «Non hanno vissuto abbastanza» commentò David. «Decker li ha raggiunti per primo.» «Perché avrebbe dovuto?» «Vendetta. Hanno ucciso la donna che lui amava, così lui ha ucciso loro.» «Il mio cliente non ha ucciso nessuno.» «Il suo cliente aveva un movente, Kahanu, e lei gli ha procurato nomi e indirizzi.» «Lei non ha mai incontrato Decker. Io sì, e non è un uomo violento.»
«Un assassino può avere un aspetto sorprendentemente banale. Io li affrontati in tribunale...» «Io invece li difendo» scattò Kahanu. «Io mi occupo della feccia che nessuno osa toccare. Riconosco un assassino, quando lo vedo. C'è qualcosa di diverso in loro, nei loro occhi. È come se mancasse qualcosa, non so cosa. L'anima, forse. Charlie Decker non era così.» Kate si sporse in avanti. «E com'era, avvocato Kahanu?» domandò. L'uomo sembrò riflettere un momento, lo sguardo perso oltre la finestra sporca. «Era davvero una persona comune, normale. Né alto né basso. Pelle e ossa, come se non mangiasse correttamente. Mi ha fatto pena, sembrava un uomo distrutto. Non ha detto molto, mi scriveva le cose. Credo che gli faccia male usare la voce. Ha qualcosa che non va nella gola e riesce a malapena a bisbigliare. Sedeva sulla sedia dove adesso sta lei, dottoressa Chesne. Mi ha spiegato di non avere molto denaro, poi ha preso il portafogli e ha cominciato a contare dei biglietti da venti dollari. Dal modo in cui me li ha consegnati, ho capito che era tutto quel che aveva.» Kahanu scosse la testa. «Non riesco a capire perché abbia voluto farlo. La donna è morta, la bambina pure. Rivangare il passato non le riporterà indietro.» «Sa dove trovarlo?» chiese David. «Ha una casella postale» rispose Kahanu. «Ho già controllato: non ritira la posta da tre giorni.» «Ha il suo indirizzo, un numero di telefono?» «Non me li ha mai dati. Non so dove sia, deve essere la polizia a trovarlo. È il loro lavoro, no?» Si scostò dalla scrivania. «Non so altro. Se avete bisogno di ulteriori informazioni, dovrete rivolgervi a Decker.» «Che però è scomparso» osservò David. «O morto» replicò Kahanu, tetro. 10 Nei quarantotto anni in cui aveva fatto il custode del cimitero, Ben Hoomalu aveva assistito a tanti episodi bizzarri. I suoi amici dicevano che non poteva aspettarsi altro, visto che se ne stava in mezzo ai morti tutto il giorno, ma in realtà erano i vivi che combinavano guai. Adolescenti lascivi che s'appartano fra le lapidi, la vedova sorpresa a scarabocchiare oscenità sulla bella pietra tombale di marmo del marito, l'anziano che tenta di sep-
pellire l'amato barboncino accanto all'amata moglie. I comportamenti strambi erano comuni, in un cimitero. E ora ecco quella macchina, un'altra volta. Da una settimana, quella Ford grigia con i vetri oscurati entrava tutti i giorni dai cancelli. A volte si presentava al mattino presto, altre nel tardo pomeriggio. Si fermava accanto all'Arco dell'Eterna Consolazione e rimaneva lì, per un'ora o due. Il conducente non scendeva mai, anche questo era strano. Chi viene a trovare una persona amata non dovrebbe perlomeno scendere a dare un'occhiata alla tomba? Certe persone si comportano in maniera incomprensibile. Ben prese le cesoie e cominciò a potare un cespuglio di ibisco. Gli piaceva il suono ritmico delle lame nel silenzio del pomeriggio. Una vecchia Chevy entrò nel cimitero e si fermò. Ne scese un uomo alto e sottile, che salutò Ben con la mano. Lui sorrise e rispose al saluto. L'uomo, che portava un mazzo di margherite, si avviò verso la tomba della donna. Ben smise di lavorare un momento e rimase a guardare mentre l'uomo eseguiva il suo solito rituale. Prima toglieva i fiori ormai secchi della sua visita precedente, raccogliendo meticolosamente tutte le foglie e i rametti. Poi, dopo aver sistemato i fiori freschi accanto alla tomba, si sedeva sull'erba. Ben sapeva che sarebbe rimasto a lungo, come sempre. Ogni visita si svolgeva esattamente allo stesso modo. Era un modo per trovare conforto. Quando l'uomo si alzò per andar via, Ben aveva finito di potare l'ibisco e aveva cominciato a lavorare sulla buganvillea. Rimase a guardarlo mentre risaliva in macchina e metteva in moto. Una strana tristezza si impadronì di lui. Non sapeva nemmeno come si chiamasse quell'uomo, solo che la donna seppellita lì era ancora molto amata. Posò le cesoie e si avvicinò alla tomba ornata con le margherite. L'erba era schiacciata dove l'uomo si era seduto. Udì il rombo di un'altra auto che veniva messa in moto. Girandosi, vide che la Ford grigia stava seguendo lentamente la Chevy. E questo cosa poteva significare? Quante cose strane. Guardò il nome inciso sulla lapide: Jennifer Brook, 28 anni. Una foglia morta si era posata tremolando sulla pietra tombale. Una donna così giovane, che peccato. «Prosciutto e pane di segale senza maionese e una chiamata sulla quattro» annunciò il sergente Brophy, lasciando cadere un sacchetto di carta marrone sulla scrivania. Pokie, dovendo scegliere fra un sandwich e una telefonata in attesa, scel-
se il sandwich. Dopotutto, doveva fissare delle priorità e uno stomaco brontolante era una delle cose più importanti di cui occuparsi. Accennò al telefono. «Chi è?» «Ransom.» «Un'altra volta?» «Vuole che apriamo un'indagine sul caso O'Brien.» «Perché continua a romperci le scatole con questa storia?» «Credo che abbia qualcosa con quella... con quella...» All'improvviso il viso di Brophy si contorse in una smorfia. Riuscì a prendere il fazzoletto appena in tempo per contenere un esplosivo starnuto. «Dottoressa. Hai presente, fiori e cuori.» «Davy?» Pokie scoppiò a ridere, rischiando di strozzarsi con un boccone del sandwich. «Agli uomini come Davy non interessano fiori e cuori. Pensano di essere troppo intelligenti per queste cretinate romantiche.» «Nessun uomo è abbastanza intelligente» brontolò Brophy. Bussarono alla porta. Un uomo in uniforme fece capolino. «Ispettore? La vogliono ai piani alti.» «Il capo?» «Ha l'ufficio pieno di giornalisti, chiedono di quella ragazza scomparsa. Vuole che vada subito da lui.» Pokie guardò malinconicamente il sandwich. Purtroppo, nell'ideale lista delle priorità, una convocazione dal capo stava più o meno allo stesso livello della respirazione. Sospirando, lasciò il sandwich sul tavolo e infilò la giacca. «E Ransom?» chiese Brophy, accennando al telefono. «Digli che lo richiamo io.» «Quando?» «L'anno prossimo» grugnì Pokie, uscendo. «Se è fortunato» aggiunse fra sé. David salì in macchina imprecando a bassa voce. Chiuse con violenza la portiera. «Ci hanno appena scaricato» annunciò. Kate lo fissò incredula. «Ma hanno visto la cartella di Jenny Brook, hanno parlato con Kahanu.» «Dicono che non ci sono prove sufficienti per aprire un'indagine per omicidio. Per quello che ne sanno, Ellen è morta per la negligenza dei me-
dici. Fine della discussione.» «Allora dobbiamo cavarcela da soli.» «Sbagliato. Ci ritiriamo.» Avviò il motore e si immise nel traffico. «Le cose si stanno facendo troppo pericolose.» «Sono state pericolose fin dal principio. Perché adesso hai paura?» «D'accordo, lo ammetto: finora non ero sicuro di crederti.» «Pensavi che stessi mentendo?» «C'era sempre un dubbio che mi rodeva, in fondo. Adesso però ho sentito di referti medici rubati, di gente che si introduce nello studio di un avvocato. Sta succedendo qualcosa di strano, Kate. Non si tratta dell'azione di uno psicopatico. È troppo ragionato, troppo metodico. Ed è tutto collegato a Jenny Brook. C'è qualcosa di pericoloso nel suo referto, qualcosa che il nostro assassino vuole tenere nascosto.» «Ma l'abbiamo letto dozzine di volte, David. È solo un referto medico.» «Allora ci sfugge qualcosa, e abbiamo bisogno che Charlie Decker ci dica di cosa si tratta. Dobbiamo aspettare che la polizia lo trovi.» Charlie Decker, pensò Kate. Sarebbe stato la sua condanna o la sua salvezza? Si sforzò di rammentare il suo viso. Finora il ricordo dei suoi lineamenti era stato annebbiato dalla paura. Ogni volta che aveva ripensato al viso nello specchio, aveva sentito il terrore impadronirsi di lei. Anche adesso era così, ma si sforzò di ignorare la paura e di concentrarsi su quel viso e i suoi profondi occhi stanchi. Gli occhi di un assassino? Non ne era più tanto sicura. Posò lo sguardo sul referto medico di Jenny Brook che le giaceva in grembo. L'indizio per comprendere la pazzia di Decker era lì dentro? «Cercherò di vedere Pokie domani» continuò David, «e di convincerlo a cambiare idea sul caso O'Brien.» «E se non ci riesci?» «So essere molto convincente.» «Vorrà altre prove.» «Allora deve essere lui a trovarle. Penso che ci siamo già spinti molto avanti, in questa faccenda, è ora che facciamo un passo indietro.» «Ma non posso farlo, David, la mia carriera è a rischio.» «Che mi dici della tua vita?» «La mia carriera è la mia vita.» «C'è molta differenza, invece.» «Non mi aspetto che tu capisca. Questa non è la tua battaglia.» Invece capiva. E la cocciutaggine che riconosceva nella voce di Kate lo
preoccupava. Gli ricordava uno di quegli antichi guerrieri che preferivano infilzarsi con la propria spada, piuttosto che accettare una sconfitta. «Ti sbagli sul fatto che non sia la mia battaglia.» «Non rischi niente.» «Non dimenticare che mi sono ritirato dal caso. Un caso potenzialmente molto redditizio.» «Be', mi spiace costarti tanto.» «Pensi che il problema siano i soldi? Ti sbagli: non me ne frega niente. Sto mettendo in gioco la mia reputazione, credendo alla tua storia pazzesca. Un omicidio sul tavolo operatorio. Se non sarà provato farò la figura dell'idiota, quindi non venirmi a dire che non ho niente da perdere.» Aveva cominciato a gridare, senza riuscire a trattenersi. Poteva accusarlo di qualsiasi cosa e non avrebbe battuto ciglio, ma non sopportava che lo accusasse di scarso interessamento. Strinse forte lo sterzo e tornò a guardare la strada. «La cosa peggiore è che sono uno schifoso bugiardo» sbottò, «e gli O'Brien ne sanno qualcosa.» «Vuoi dire che non gli hai confessato la verità?» «Che la loro figlia è stata assassinata? Certo che no. Ho scelto la via più facile, ho detto che avevo un conflitto d'interessi. Una bella scusa evasiva. Ho pensato che non si sarebbero infuriati troppo, visto che li ho indirizzati a un ottimo studio.» «Cosa hai fatto?» «Ero il loro avvocato, Kate, devo proteggere i loro interessi.» «Naturalmente.» «Non è stato facile, sai. Non mi piace imbrogliare i dienti, nessuno di loro, mai. Hanno già abbastanza tragedie nella loro vita. Il minimo che io possa fare è assicurarmi che abbiano giustizia. Mi fa arrabbiare da morire, quando non posso mantenere una promessa, lo capisci, vero?» «Sì, capisco perfettamente.» Dal tono ferito della sua voce, tuttavia, era evidente che non capiva affatto, e questo lo indispettiva, perché aveva sperato che invece avrebbe compreso. Entrò nel vialetto davanti alla casa e posteggiò la macchina nel garage. Kate non si mosse. Rimasero fermi a lungo, nell'ombra afosa del garage, in silenzio. «Ti ho messo in una situazione difficile, vero?» disse infine Kate. La sua voce era inespressiva, estranea.
David fece cenno di sì con la testa. «Mi dispiace.» «Dimenticalo, d'accordo?» Scese dall'auto e andò ad aprirle la portiera. Lei rimase .seduta, rigida come una statua. «Allora? Pensi di entrare?» «Solo per fare i bagagli.» Lo sgomento gli pulsò nel petto. Cercò di ignorarlo. «Te ne vai?» «Apprezzo quel che hai fatto per me» rispose lei, «ti sei messo in una situazione difficile per colpa mia, non avresti dovuto. Forse, all'inizio, avevamo bisogno l'uno dell'altro, ma è evidente che questo accordo non è più nel tuo interesse. E nemmeno nel mio, se è per questo.» «Capisco» mormorò lui, anche se in realtà non capiva affatto. In effetti, a suo avviso Kate si stava comportando in modo infantile. «E dove pensi di andare?» «Abiterò dai miei amici.» «Ottimo, mettiamo in pericolo anche loro.» «Allora mi sistemerò in albergo.» «Dimentichi che la tua borsa è stata rubata. Non hai denaro, carte di credito. Niente di niente.» «Non al momento, ma...» «Hai in mente di chiedermi un prestito?» «Non ho bisogno del tuo aiuto» scattò lei, «non ho mai avuto bisogno dell'aiuto di un uomo.» Per un attimo, David considerò la possibilità di ricorrere alla forza bruta, ma con quella donna orgogliosa probabilmente non avrebbe funzionato. «Fai un po' come ti pare» replicò. Si girò ed entrò in casa. David rimase in cucina mentre Kate preparava la valigia. Non riusciva a smettere di camminare avanti e indietro, come una belva in gabbia, sentendosi sempre più a disagio. Afferrò una confezione di latte dal frigorifero e ne bevve un lungo sorso direttamente dal cartone. Dovrei ordinarle di rimanere, pensò. Sì, è esattamente quel che dovrei fare. Rimise a posto il latte, chiuse con forza lo sportello del frigorifero e si precipitò in camera sua. Appena prima di entrare, però, cambiò idea. Non era la cosa migliore da fare, sapeva esattamente come avrebbe reagito Kate se fosse entrato lì dentro e avesse cominciato a darle degli ordini. Non si poteva comandare una donna come lei. Si fermò sulla soglia e rimase a guardarla mentre ripiegava con cura un vestito e lo riponeva nella valigia. La finestra alle sue spalle incorniciava la
luce del crepuscolo. Teneva i capelli dietro le orecchie e sulla sua guancia era evidente il livido che si era procurata fuggendo da Decker. David sentì un nodo in gola. Nonostante il suo orgoglio e il suo spirito indipendente, era vulnerabile. Era solo una donna e poteva essere ferita, come chiunque altro. Lei lo notò nel vano della porta e si fermò, con una camicia da notte in mano. «Ho quasi finito» annunciò, posando con gesto eloquente la camicia da notte sugli altri vestiti. Lui non poté fare a meno di fissare la morbida seta color pesca. «Hai già chiamato un taxi?» proseguì, girandosi verso il cassettone. «No.» «Be', io avrò finito fra un minuto. Puoi chiamarlo adesso?» «Non ho intenzione di farlo.» Lei si volse a guardarlo. «Cosa?» «Ho detto che non chiamerò un taxi.» Per un istante, sembrò stupita delle sue parole, ma si riprese subito. «Bene, allora lo farò da sola» replicò con calma. Fece per uscire dalla stanza, ma lui l'afferrò per un braccio. «Kate, non farlo. Penso che dovresti restare.» «Perché?» «Perché non saresti al sicuro, là fuori.» «Il mondo non è mai stato sicuro, eppure finora me la sono cavata.» «Sì certo, sei una donna dura. Cosa accadrà quando Decker ti troverà?» Lei liberò il braccio con uno strattone. «Non hai niente di meglio di cui preoccuparti?» «Per esempio?» «Il tuo senso etico. Non voglio certo rovinare la tua preziosa reputazione.» «Posso preoccuparmi da solo della mia reputazione, grazie.» «Perfetto» replicò lei, fissandolo rabbiosamente, «allora penso che sia giunto il momento che io mi preoccupi della mia.» A David sembrò di avvertire fisicamente il calore che si sprigionava fra loro. Quel che accadde dopo fu inatteso, come una combustione spontanea. I loro sguardi si saldarono. Negli occhi di Kate, David lesse sorpresa. E desiderio. A dispetto della sua ostentata spavalderia, era desiderio quel che brillava in quelle profonde iridi verdi. «Al diavolo» mormorò, «le nostre reputazioni sono già distrutte.»
Si abbandonò all'impulso che per tutto il giorno aveva combattuto con la sua forza di volontà. L'attirò fra le braccia e la baciò a lungo, avidamente. Lei gli si oppose senza convinzione, solo un momento, prima di lasciarsi andare. La sentì rispondere, stringersi a lui. Era perfetto, assolutamente perfetto. Lei lasciò scivolare le braccia intorno a lui, schiudendo le labbra e arrendendosi all'urgenza di quel bacio sempre più profondo. Il suo gemito accese in David una passione prepotente. Lo stesso fuoco avvolgeva Kate. Lo sentì armeggiare con i bottoni del vestito, ma le sue dita sembravano impacciate come quelle di un adolescente alle prime armi. Alla fine si arrese e le sfilò l'abito dalla testa, lasciandolo cadere sul pavimento. Il reggiseno di pizzo svanì come d'incanto e la mano di David si chiuse sul suo seno e sul capezzolo inturgidito. Ambedue compresero in quell'istante di non poter più tornare indietro. A tentoni, Kate cercò i bottoni della camicia di David, cercando di slacciarli, sempre più frenetica. Lui si affrettò ad aiutarla, e Kate affondò le dita nella soffice peluria del suo petto. Senza smettere di toccarsi, spogliarsi, baciarsi, raggiunsero la camera. Il letto scricchiolò con forza quando David si lasciò cadere sopra con Kate, intrappolandola col proprio peso. Non ci furono preliminari. Non potevano aspettare. David le premette con forza le labbra sulla bocca e affondò dentro di lei, con tale impeto da strapparle un grido. Subito si fermò. «Ti ho fatto male?» «No... oh no.» Un solo sguardo gli rivelò che non era dolore a farla gemere, ma piacere per quel che lui le stava facendo. Lei cercò di muoversi, ma lui la bloccava. Kate si rese conto di aver sempre saputo che, prima o poi, lui avrebbe preteso questo da lei. Anche quando la voce del buonsenso le aveva detto che non era possibile, lo aveva saputo. Ma non poteva aspettare, adesso si muoveva con lui, rispondendo a ogni suo colpo. David lasciò che Kate lo conducesse fino al limite, poi, quando si rese conto che era inevitabile, si arrese. Freneticamente riprese il controllo e condusse entrambi al massimo del piacere. Vi precipitarono insieme, ricadendo deboli e senza fiato. Passò un'eternità, scandita dai loro respiri. Il sudore gli imperlava la schiena, gocciolando sul ventre nudo di lei. Fuori, si sentivano le onde abbattersi violentemente contro l'argine. «Adesso so cosa si prova a essere divorati» sussurrò lei. «È quel che ho fatto?»
«Sì.» Ridacchiando, lui le sfiorò il lobo dell'orecchio con le labbra. «A me sembra che ci sia ancora qualcosa da mangiare, qui.» Lei chiuse gli occhi, abbandonandosi ai fremiti di piacere provocati da quel contatto. «Non avrei mai immaginato che fossi così.» «Così come?» «Ardente.» «E cosa ti aspettavi?» «Ghiaccio» rise lei, «ma non avrei potuto sbagliarmi di più.» Lui le prese una ciocca di capelli e la fece scorrere piano fra le dita. «So di poter apparire gelido, è una caratteristica di famiglia. Di mio padre, per la precisione. Lui era severissimo. Deve essere stato terribile affrontarlo in tribunale.» «Anche lui era avvocato?» «Un giudice. È morto quattro anni fa. È caduto riverso sul suo scranno nel bel mezzo di una sentenza. Esattamente la maniera in cui avrebbe voluto andarsene. Lo chiamavano Tutti-dentro Ransom...» «Era un tipo rigoroso?» «Rigorosissimo. Al contrario di mia madre, che è assolutamente anarchica.» «Deve essere stata una coppia incandescente» rise lei. «Infatti» replicò David, sfiorandole le labbra con le dita, «quasi come noi. Non ho mai capito il rapporto che c'era fra loro. Non aveva senso, per me, ma l'alchimia fra i miei genitori era quasi visibile. Le scintille. È questo che ricordo di loro, tutte quelle scintille che volavano per casa.» «Dunque erano felici?» «Oh sì. Esausti, forse. Insoddisfatti, tanto. Ma di certo erano felici.» La luce del crepuscolo si stava spegnendo. Silenziosamente, lui le accarezzò il corpo, esplorando piano la sua pelle. «Sei bella» bisbigliò, «non avrei mai immaginato...» «Cosa?» «Che sarei finito a letto con una dottoressa che odia gli avvocati. Quando si dice strani compagni di letto.» «Io mi sento come un topolino che fa la corte a un gatto» rise lei. «Vuoi dire che hai ancora paura di me?» «Un poco. Tanto.» «Perché?»
«Non riesco a evitare del tutto la sensazione che tu sia il nemico.» «Se io sono il nemico» replicò lui, sfiorandole l'orecchio con la bocca, «allora uno di noi si è appena arreso.» «Non sai pensare ad altro?» «Da quando ti ho incontrata, sì.» «E prima di incontrarmi?» «La vita era tanto, tanto triste.» «Mi riesce difficile crederlo.» «Non sto dicendo che sono stato casto, ma sono un uomo cauto, forse troppo. Ho qualche difficoltà ad avvicinare le persone.» «A me sembra che ti sia riuscito abbastanza bene, stasera.» «Intendo da un punto di vista emotivo. Sono fatto così. Ci sono troppe cose che possono andar male e io non sono bravo ad affrontarle.» Lei studiò il suo viso, così vicino. «Cos'è andato storto nel tuo matrimonio, David?» «Oh, il mio matrimonio.» Si girò sulla schiena, con un sospiro. «Niente di preciso, in realtà. Penso che il mio divorzio sia solo un'ulteriore dimostrazione di quanto io sia uno stupido insensibile. Linda si lamentava del fatto che non ero capace di mostrare i miei sentimenti. Diceva che ero freddo, come mio padre e io le rispondevo che erano stronzate. Adesso penso che avesse ragione.» «Io penso che sia un tuo atteggiamento, che tu ti nasconda dietro una maschera di freddezza.» Si sollevò su un fianco, per guardarlo bene. «Ci sono tanti modi di dimostrare il proprio affetto.» «Da quando sei un'esperta psicanalista?» «Da quando mi sono lasciata coinvolgere da un uomo molto complesso.» Lui le spinse una ciocca di capelli dietro l'orecchio, fermando lo sguardo sul livido sulla guancia. «Sta già sbiadendo» osservò, «ma ogni volta che vedo quel livido mi arrabbio.» «Una volta mi hai detto che ti eccitava.» «Quel che suscita davvero in me è un istinto di protezione. Deve essere qualche antico istinto maschile, un'eredità dell'epoca in cui dovevamo tenere a distanza gli altri cavernicoli dalle nostre proprietà.» «Così antico?» «Antico come questo» replicò David, facendo scivolare la mano lungo il suo fianco con gesto possessivo.
«Non sono così sicura che in questo momento tu ti senta "protettivo".» «Hai ragione» rise lui, dandole un affettuoso colpetto sul sedere, «in effetti in questo momento mi sento morire di fame. Scaldiamo un po' della salsa della signora Feldman, apriamo una bottiglia di vino e poi...» L'attirò a sé. «E poi?» sussurrò lei. «Poi ti farò quel che gli avvocati fanno ai medici.» «David!» strillò lei. «Ehi, stavo scherzando» protestò lui, alzando le braccia per difendersi mentre lei faceva l'atto di colpirlo, «ma credo che tu abbia capito cosa intendevo.» L'attirò fuori dal letto e la prese fra le braccia. «Avanti, vieni, e smettila con quell'aria voluttuosa, altrimenti non usciremo mai da qui. Ci troveranno a letto, morti di fame.» Lei gli scoccò un'occhiata birichina. «Non sarebbe la maniera peggiore di andarsene.» Il suono delle onde risvegliò Kate. Si allungò pigramente verso David, ma la sua mano trovò soltanto un cuscino vuoto riscaldato dal sole. Aprì gli occhi e si accorse di essere sola nel grande letto gualcito. «David?» chiamò, avvertendo un acuto senso di abbandono. Nessuna risposta. La casa era silenziosa. Si sedette sul letto e si guardò intorno nella stanza illuminata dalla luce. I ricordi di quella notte le affiorarono nella mente. La bottiglia di vino. I sussurri maliziosi. Le lenzuola aggrovigliate. Notò che i vestiti che entrambi avevano gettato sul pavimento erano stati raccolti. I pantaloni di David erano appesi sulla porta dell'armadio, la sua biancheria intima era posata su una sedia. Immaginarlo mentre la raccoglieva la fece arrossire. Ridendo fra sé, si strinse intorno un lenzuolo. Aveva ancora il suo odore. Ma lui dov'era? «David?» Si alzò e andò in bagno. Era vuoto. Sull'attaccapanni era appeso un asciugamani umido. Entrò nel soggiorno, mondato dalla luce del sole che entrava a fiotti dalle finestre. Sul tavolino c'era ancora la bottiglia di vino, muta testimonianza dell'ebbrezza della sera precedente. Si sentiva ancora inebriata. Guardò in cucina. Non era neanche lì. Tornò in soggiorno e chiamò forte il suo nome. L'intera casa sembrò riecheggiare di solitudine. Cominciò a camminare nel corridoio, aprendo le porte e guardando in
ogni stanza. Aveva la strana sensazione di esplorare una casa abbandonata, come se non fosse l'abitazione di un essere umano vivo e reale, ma una conchiglia, una grotta. Un inspiegabile impulso la sospinse fino all'armadio, dove rimase per un po', sfiorando i suoi vestiti, ma non le servì a sentirlo più vicino. Tornò nel corridoio e aprì la porta dello studio. C'erano scaffali pieni di libri, mobili di quercia, lampade di ottone, tutto pulitissimo. Una stanza senza anima. Raggiunse l'ultima porta in fondo al corridoio. Stava ficcando il naso nella casa di David, ma sentiva così tanto la sua mancanza. Aveva bisogno di un segno tangibile della sua personalità. Quando aprì la porta, una zaffata di aria stantia la investì: l'odore di un posto che era stato chiuso troppo a lungo. Era una camera da letto. La camera di un bambino. Un mobile di prismi accanto alla finestra rifletteva la luce in decine di piccoli arcobaleni. Rimase pietrificata sulla soglia, guardando le striscioline di luce colorata danzare sulla carta da parati con i cavallini azzurri, sugli scaffali carichi di giocattoli, sul copriletto a fiori. Poi si mosse, quasi contro la sua volontà, come se una mano invisibile l'attirasse all'interno. La mano, però, si dissolse all'improvviso, lasciandola sola in quella stanza dolorosamente vuota. Per un po' rimase ferma, vergognosa di aver disturbato la santità di quel locale, poi si avvicinò al cassettone, dove una pila di libri sembrava aspettare il ritorno del proprietario. Aprì una copertina e rimase a fissare il nome sulla prima pagina: Noah Ransom. «Mi dispiace» sussurrò, sentendo le lacrime pungerle le palpebre, «mi dispiace tanto.» Si girò e uscì di corsa, chiudendosi la porta alle spalle. Tornò in cucina e si sedette con una tazza di caffè in mano, leggendo e rileggendo il biglietto che aveva finalmente scovato sul bancone, insieme a un mazzo di chiavi. Mi sono fatto dare un passaggio da Glichnan. La macchina è tua oggi. Ci vediamo stasera. Non era esattamente il biglietto di un amante, pensò. Non una parola affettuosa, e nemmeno una firma. Freddo e pratico, come la cucina, come tutto in quella casa. Ecco David, un uomo di ghiaccio, signore di una casa senz'anima. Avevano appena condiviso una notte di passione. Lei si sentiva frastornata. Lui lasciava brevi messaggi impersonali sul bancone della cucina.
Il modo in cui aveva suddiviso la sua vita in scomparti era incredibile. Aveva rinchiuso le sue emozioni in spazi precisi e ben definiti, così come aveva fatto con la stanza del figlio. Ma lei non ci riusciva. Sentiva già la sua mancanza. Forse era perfino innamorata di lui. Era pazzesco e illogico, e Kate non era abituata a fare cose pazzesche e illogiche. Infastidita, si alzò di scatto e lavò la tazza. Dannazione, aveva cose assai più importanti di cui preoccuparsi. La riunione della commissione era fissata per il pomeriggio, la sua carriera era in bilico. Era il momento meno adatto per struggersi per un uomo. Si girò e prese il referto ospedaliero di Jenny Brook, che era rimasto sul tavolo della cucina. Un documento triste, misterioso. Lo sfogliò lentamente, chiedendosi cosa potesse esserci di così pericoloso, lì dentro. Eppure era accaduto qualcosa di terribile, la notte in cui Jenny Brook aveva partorito, qualcosa che aveva attraversato gli anni per raggiungere e distruggere tutti quelli menzionati su quei fogli. Madre e figlia. Dottori e infermiere. Erano tutti morti. Solo Charles Decker sapeva perché, e anche lui era un rompicapo. La polizia aveva detto che era un maniaco. Un mostro che sgozzava la gente. Kahanu aveva spiegato che era un uomo innocuo, un'anima in pena, una persona distrutta. Un uomo con due volti. Chiuse la cartella e rimase a fissarne la copertina. Una cartella con due copertine. Un uomo con due volti. Si raddrizzò. Adesso capiva, certo. Jekyll e Hyde. «La personalità multipla è un fenomeno raro, ma nella letteratura psichiatrica è molto ben descritto.» Susan Santini fece girare la poltrona e prese un libro dallo scaffale alle sue spalle. Tornò a volgersi verso la scrivania e scorse l'indice, alla ricerca delle pagine che le interessavano. I suoi capelli rossi, solitamente scompigliati, erano pettinati all'indietro e raccolti in una crocchia. Sulla parete erano appesi numerosi diplomi medici e psichiatrici, a testimonianza del fatto che Susan Santini non era soltanto la moglie di Guy. Era anche una valida professionista, affermata e rispettata. «Ecco qua» disse, sporgendosi in avanti. «"Da Eva a Sibilla. Una raccol-
ta di casi clinici''. Si tratta di un argomento davvero affascinante.» «Ti è mai capitato di avere pazienti con questo disturbo?» «Mi piacerebbe. Una volta, quando lavoravo con i tribunali, avevo creduto di sì, ma poi venne fuori che quel mascalzone stava solo recitando, per evitare una condanna per omicidio. Passava da una personalità all'altra in un battere di ciglia. Una recitazione eccellente.» «Ma è possibile che una persona abbia due personalità del tutto diverse?» «La psiche umana è composta da tante parti, anche in conflitto fra loro. Si può parlare di Io ed Es, di impulso e controllo. Pensa ai comportamenti violenti, per esempio. La maggior parte di noi riesce a controllare i propri impulsi violenti, ma ci sono persone che non ci riescono. Il motivo? Abusi subiti durante l'infanzia? Anomalie nel cervello? Di qualunque cosa si tratti, quelle persone sono come bombe che camminano. Se sono troppo sotto pressione perdono il controllo. La cosa spaventosa è che sono intorno a noi, ma non li riconosciamo fino a quando qualcosa dentro di loro, una specie di diga interna, esplode. E si mostra la parte violenta.» «Pensi che Charlie Decker potrebbe essere una di queste bombe che camminano?» Susan si appoggiò allo schienale della poltrona, pensierosa. «È una domanda difficile, Kate. Mi hai detto che viene da una situazione familiare difficile, che è stato arrestato per aggressione cinque anni fa, ma non ha una vera storia di violenza alle spalle. L'unica volta che ha usato una pistola, l'ha puntata contro se stesso. Forse uno stress molto forte, una crisi...» «Be', gli è successo.» «Intendi dire questo?» Susan fece un cenno verso il referto medico di Jenny Brook. «La polizia ritiene che la morte della fidanzata abbia scatenato in lui una specie di furia omicida che l'ha indotto a uccidere le persone che considera responsabili.» «Sembra strano, ma l'amore è una delle cause più frequenti dei comportamenti violenti. Pensa ai tanti crimini passionali, ai consorti gelosi, agli amanti respinti.» «Amore e violenza: le due facce della stessa moneta.» «Esattamente.» Susan porse a Kate il referto. «La mia però è soltanto un'ipotesi, dovrei parlare con questo Decker, prima di poter formulare un giudizio preciso. La polizia è sulle sue tracce?»
«Non lo so, non vogliono dirmi nulla. La maggior parte delle informazioni che ho le ho trovate da sola.» «Stai scherzando. Non dovrebbe essere il loro lavoro?» Kate sospirò. «È proprio questo il problema. Per loro è solo un lavoro, un'altra pratica da archiviare.» L'interfono ronzò brevemente. «Dottoressa Santini?» disse la segretaria. «Il suo appuntamento delle tre la sta aspettando.» Kate gettò uno sguardo all'orologio. «Mi dispiace. Ti sto sottraendo ai tuoi pazienti.» «Sai che sono sempre contenta di aiutarti» replicò Susan, alzandosi e accompagnandola alla porta. Si fermò, sfiorando il braccio di Kate. «Il posto dove stai, sei certa che sia sicuro?» Kate si girò e lesse la preoccupazione negli occhi di Susan. «Penso di sì, perché?» «Detesto spaventarti» rispose lei, dopo una breve esitazione, «ma penso che tu debba saperlo. Se hai ragione e questo Decker soffre di sdoppiamento della personalità, allora hai a che fare con una mente molto instabile. Una persona del tutto imprevedibile. In un istante può trasformarsi da uomo in mostro. Per favore, fai molta, molta attenzione.» Kate aveva la gola secca. «Davvero pensi che sia così pericoloso?» Susan annuì. «Estremamente pericoloso.» 11 Si sentiva come davanti a un plotone d'esecuzione. L'avevano fatta sedere da una parte di un lungo tavolo da riunioni e dall'altra si erano sistemati in sei, cinque uomini e una donna, tutti medici. Nessuno di loro sorrideva. Clarence Avery non c'era, sebbene le avesse promesso che sarebbe stato presente. L'unico viso amico era quello di Guy Santini, ma lui era stato convocato solo come testimone. Sedeva un po' discosto e aveva l'aria di essere nervoso quanto lei. I membri della commissione le ponevano le loro domande in modo garbato ma insistente e accoglievano le sue risposte con espressione impassibile. A dispetto dell'aria condizionata, Kate si sentiva il volto in fiamme. «Così ha esaminato di persona l'ECG, dottoressa Chesne?»
«Sì, dottor Newhouse.» «E poi ha compilato il referto.» «Esatto.» «Ha mostrato il tracciato a un altro medico?» «Nossignore.» «Nemmeno al dottor Santini?» Lei guardò Guy che sedeva ingobbito sulla sua sedia con aria infelice. «Il controllo dell'ECG era una mia responsabilità, non del dottor Santini. Lui si fidava del mio giudizio.» Quante volte dovrò ancora ripetere questa storia?, si chiese. Quante volte dovrò rispondere alle stesse dannate domande? «Dottor Santini? Ha qualche commento da fare?» Guy alzò lo sguardo, riluttante. «Quel che dice la dottoressa Chesne è vero. Mi fidavo del suo giudizio.» Si fermò, poi aggiunse, con enfasi: «Ed è ancora così». Grazie Guy, pensò Kate. I loro sguardi si incontrarono e lui le sorrise debolmente. «Torniamo agli eventi che si sono verificati durante l'intervento, dottoressa Chesne» riprese il dottor Newhouse. «Ha detto di aver iniettato una dose di routine di Pentothal.» Ripercorsero l'incubo, analizzando minutamente la morte di Ellen O'Brien, sezionandola come un cadavere sul tavolo dell'autopsia. Quando ebbero terminato le domande, le concessero una dichiarazione finale. «So che la mia storia sembra incredibile, e so anche che non posso provarla. Non ancora, perlomeno» disse, con voce ferma, «ma so che ho dato a Ellen la migliore assistenza possibile. La relazione mostra che ho commesso un terribile errore e la mia paziente è morta. Ma l'ho uccisa? Non credo. Non lo credo affatto.» La sua voce si spense. Non c'era nient'altro da aggiungere. Così mormorò un semplice: «Grazie» e lasciò la stanza. Impiegarono venti minuti a prendere una decisione. La invitarono a rientrare, e mentre si riaccomodava notò che altre due persone si erano sedute al tavolo: George Bettencourt e l'avvocato dell'ospedale. Bettencourt ostentava una fredda soddisfazione. Prima ancora che parlassero, Kate capì qual era la loro decisione. Il dottor Newhouse, presidente della commissione, emise il verdetto. «Sappiamo che il suo ricordo dell'accaduto non coincide con quanto riportato nella relazione, dottoressa Chesne. Tuttavia, temo che dovremo at-
tenerci a quest'ultima, ed essa mostra, in maniera incontestabile, che l'assistenza da lei prestata alla paziente Ellen O'Brien è stata al di sotto dello standard richiesto.» Sentendo le ultime parole, Kate non poté trattenere una smorfia, come se l'avessero appena insultata nel peggior modo possibile. Il dottor Newhouse sospirò e tolse gli occhiali, con un gesto stanco che sembrava portare tutto il peso del mondo. «Lei è nuova nel nostro staff, dottoressa Chesne» proseguì, «è stata con noi per meno di un anno. Questo caso sfortunato, dopo così poco tempo, ci preoccupa parecchio. Siamo molto spiacenti, ma sulla base di quanto abbiamo udito, ci vediamo costretti a deferirla alla commissione disciplinare. I suoi membri sapranno decidere quali azioni intraprendere in merito alla sua posizione qui al Mid Pac. Fino a quel momento...» Si interruppe e lanciò uno sguardo a Bettencourt. «Non abbiamo alcuna obiezione in merito alla sua sospensione già decisa dall'amministrazione.» E così è finita. È stato stupido sperare che sarebbe andata diversamente, rifletté lei. Le diedero l'opportunità di replicare, ma Kate aveva perso la voce. Era già tanto riuscire a rimanere calma, senza scoppiare a piangere davanti a quelle persone che avevano appena distrutto la sua vita. Rimase seduta mentre i membri della commissione uscivano, incapace di muoversi e perfino di alzare la testa. «Mi dispiace, Kate» mormorò Guy, avvicinandosi. Le rimase accanto per un momento, poi, non sapendo cos'altro dire, se ne andò anche lui. Chiamarono il suo nome per ben due volte, prima che riuscisse finalmente a scuotersi. Bettencourt e l'avvocato erano in piedi di fronte a lei. «Crediamo che sia giunto il momento di parlare, dottoressa Chesne» esordì l'avvocato. Lei corrugò la fronte, confusa. «Parlare? E di che?» «Un accordo.» «Non è un po' prematuro?» chiese Kate, irrigidendosi. «Direi invece che è troppo tardi.» «Non capisco.» «Un giornalista è venuto nel mio ufficio, qualche ora fa. Sembra che sia saltata fuori tutta la storia. Evidentemente gli O'Brien hanno dato ai giornali la loro versione dei fatti. Temo che lei sarà processata e condannata sulla stampa.»
«Ma l'azione legale è stata intrapresa solo la settimana scorsa.» «Dobbiamo distogliere l'attenzione da questa faccenda il prima possibile e la maniera migliore per farlo è trovare un'intesa rapida e molto riservata. L'unica cosa di cui abbiamo bisogno è che lei sia d'accordo. Intendo iniziare a trattare per mezzo milione, ma ovviamente loro spingeranno per ottenere di più.» Mezzo milione di dollari, pensò Kate. Era indecente quantificare il valore di una vita in dollari. «No» disse. L'avvocato sbatté le palpebre, stupito. «Come scusi?» «Sto ancora cercando di ricostruire come si sono svolti davvero i fatti. Sono sicura che quando arriveremo in tribunale sarò in grado di provare...» «Questo caso non andrà in tribunale. Troveremo un accordo, dottoressa, con il suo consenso o senza.» «Allora troverò un avvocato che rappresenti me, non l'ospedale.» I due uomini si scambiarono un'occhiata. «Temo che lei non si renda conto di cosa significhi andare in tribunale» riprese l'avvocato. Il suo tono adesso era decisamente sgradevole. «Con ogni probabilità il dottor Santini non sarà incriminato, il che significa che lei sarà l'unica imputata a soffrire su quel banco. Crocifiggeranno lei, sui giornali. Conosco il loro avvocato, David Ransom. L'ho visto fare a pezzi gli imputati, in tribunale. Mi creda, non è un'esperienza da fare.» «L'avvocato Ransom non si occupa più del caso» annunciò lei. «Cosa?» «Si è ritirato.» «E questa diceria da dove salta fuori?» sbuffò l'avvocato. «Me lo ha detto lui.» «Mi sta dicendo che ha parlato con lui?» Ci sono perfino andata a letto, pensò lei, arrossendo. «La settimana scorsa» rispose. «Sono andata nel suo studio, gli ho parlato degli elettrocardiogrammi.» «Buon Dio.» L'avvocato si girò e lasciò cadere la matita nella valigetta. «Siamo fritti, signori.» «Perché?» «Userà questa storia pazzesca per aumentare la richiesta.» «Ma lui mi ha creduto, ecco perché si è ritirato.» «Non è possibile che le abbia creduto. Lo conosco bene.»
Anch'io, avrebbe voluto gridare Kate, ma non sarebbe servito a nulla. Non sarebbe mai riuscita a convincerli. Così si limitò a scuotere la testa. «Non voglio trovare un accordo.» L'avvocato chiuse la valigetta con uno scatto rabbioso e si girò verso Bettencourt. «George?» Kate rivolse la propria attenzione al direttore amministrativo. Bettencourt la guardava con espressione melliflua. Niente ostilità né rabbia. Solo quella faccia da giocatore di poker. «Sono preoccupato per il suo futuro, dottoressa Chesne» mormorò. Anch'io, avrebbe voluto ribattere lei. «Temo che sia assai probabile che la commissione disciplinare giudichi questo caso con severità. Nel qual caso è verosimile che consiglieranno il suo licenziamento. Sarebbe un vero peccato avere una simile macchia sul suo curriculum. Le sarebbe pressoché impossibile trovare un altro lavoro. Dovunque.» Fece una pausa a effetto, per rendere quelle parole ancora più efficaci. «Ecco perché le sto offrendo questa alternativa, dottoressa. Ritengo che sia assai preferibile a un licenziamento in tronco.» Kate abbassò lo sguardo sul foglio di carta che le stava porgendo. Era una lettera di dimissioni, già datata, con uno spazio bianco per la sua firma. «Nel suo curriculum comparirà soltanto che lei si è dimessa. Nessun pronunciamento sgradevole della commissione disciplinare, nessuna lettera di licenziamento. Potrebbe trovare un altro lavoro, nonostante la causa, per quanto non in questa città.» Prese una penna e gliela porse. «La firmi. È la cosa migliore da fare.» Non riusciva a distogliere lo sguardo dal foglio. Avevano organizzato tutto in maniera così efficiente e pulita. Mancava solo la sua firma, la sua resa. «Stiamo aspettando, dottoressa Chesne» la esortò Bettencourt. «Avanti, firmi.» Kate si alzò in piedi e prese la lettera. Fissandolo diritto negli occhi, la lacerò. «Ecco le mie dimissioni» sibilò. Poi si girò e uscì. Solo quando oltrepassò le stanze dell'amministrazione si rese conto di quel che aveva appena fatto: aveva appena bruciato tutti i ponti. Non poteva più tornare indietro, ma solo combattere, sino alla fine. Arrivata a metà del corridoio, rallentò e si fermò. Avrebbe voluto pian-
gere, ma non poteva. Rimase immobile, lo sguardo fisso davanti a sé, guardando l'ultima segretaria che s'affrettava verso l'ascensore. Erano le sei meno dieci, era rimasto soltanto un custode che stava passando l'aspirapolvere sul tappeto. Quando girò l'angolo, il rumore pian piano si spense, lasciando solo un profondo silenzio. In fondo al corridoio, l'ufficio di Clarence Avery era illuminato. Non la sorprese che fosse ancora al lavoro, rimaneva spesso fino a tardi. Però non riusciva a capire perché mai non fosse venuto alla sua audizione, come aveva promesso. Adesso aveva bisogno del suo sostegno, più che mai. Si avvicinò alla porta aperta e guardò dentro. C'era soltanto la sua segretaria, intenta a sistemare dei documenti sulla scrivania. La donna alzò lo sguardo. «Oh, dottoressa Chesne.» «Il dottor Avery è ancora qui?» «Non ha saputo?» «Saputo cosa?» La segretaria sfiorò con uno sguardo triste la foto sulla scrivania. «Sua moglie è morta ieri notte, nella casa di cura. Non è venuto in ospedale, oggi.» Kate si appoggiò allo stipite, sentendosi mancare. «Sua moglie?» «Sì, è stata una cosa inaspettata. Pensano che si sia trattato di un attacco di cuore, ma... si sente bene?» «Come?» «Si sente bene? Non ha un bell'aspetto.» «No, io... io sto bene.» Kate tornò nel corridoio. «Sto bene» ripeté, avviandosi verso l'ascensore. Si sentiva intontita. Un'immagine continuava a ripresentarsi nella sua mente: schegge di vetro ai piedi di Clarence Avery. Vorrei che si addormentasse in pace. Sarebbe meglio se lo facessi io, se fossi io a dirle addio. Non trovi? Le porte dell'ascensore si aprirono scivolando silenziosamente. Nel momento stesso in cui si ritrovò nella lobby, Kate avvertì acutamente l'impulso di fuggire, di trovare un posto sicuro. Di trovare David. Uscì nel posteggio, sospinta da un impulso irresistibile. Non poteva aspettare, doveva vederlo subito. Se faceva in fretta, forse poteva raggiungerlo allo studio. Il solo pensiero di rivedere il suo viso la colmò di una tale nostalgia che si mise a correre. Corse fino alla macchina. Doveva arrivare in pieno centro. Il traffico dell'ora di punta affollava le
strade che s'incuneavano fra i grattacieli di vetro e acciaio. Kate si sentiva come un pesce controcorrente. Per ogni minuto che passava il bisogno di vederlo cresceva sempre più e con esso il timore di non trovarlo, che il suo ufficio fosse ormai vuoto. Le sembrava che nulla fosse più importante che raggiungerlo, per rifugiarsi al sicuro fra le sue braccia. Ti prego, fai che sia lì, pregava. Fai che sia ancora lì. «Una spiegazione, avvocato Ransom. È tutto quello che le chiedo. Una settimana fa ha detto che le possibilità di vittoria erano eccellenti. Adesso si è ritirato dal caso. Voglio sapere perché.» David incrociò lo sguardo di Mary O'Brien, sentendosi sempre più a disagio. Non sapeva cosa dirle. Non intendeva rivelarle la verità e cioè che aveva una relazione con la controparte, ma le doveva una spiegazione, e dallo sguardo di quella donna era evidente che non si sarebbe accontentata di una storiella qualunque. Scoccò un'occhiata irritata a Phil Glickman, che si agitava sulla poltrona, facendola scricchiolare penosamente. Cercò di ammonirlo con gli occhi. Glickman sapeva già la verità e stava scoppiando dalla voglia di svelarla. Mary O'Brien stava ancora aspettando. «Come le ho già detto, signora, ho scoperto un conflitto d'interessi» borbottò. Una risposta evasiva ma non del tutto disonesta. «Non capisco cosa significhi» replicò lei, impaziente. «Mi sta dicendo che lavora per l'ospedale?» «Non esattamente.» «Allora cosa vuol dire?» «Si tratta di una faccenda strettamente confidenziale. Non posso parlarne.» Cambiando argomento, aggiunse: «Sto affidando il suo caso a Sullivan & March. Si tratta di uno studio legale eccellente. Saranno felici di assumere la sua difesa, se non ha nulla in contrario». «Lei non ha risposto alla mia domanda.» La signora O'Brien si sporse verso di lui, guardandolo con occhi scintillanti, le mani ossute intrecciate sul piano del tavolo. «Mi dispiace, signora, ma non posso offrirle la necessaria obiettività. Non ho altra scelta che rinunciare al caso.» Si congedarono in maniera assai diversa dalla prima volta, stringendosi le mani con freddezza. Poi lui e Glickman accompagnarono la signora alla porta. «Mi aspetto che non ci siano ritardi, a causa di questo contrattempo»
borbottò lei. «Non dovrebbero essercene. Tutto il lavoro preliminare è già stato svolto» rispose David. S'accigliò, vedendo l'espressione agitata della sua segretaria, all'estremità del corridoio. «Pensa ancora che tenteranno di accordarsi?» «È impossibile da prevedere...» Esitò, distratto dalla segretaria che adesso sembrava in preda al panico. «Prima ci ha detto che avrebbero cercato un accordo.» Di colpo ansioso di sbarazzarsi di lei, la guidò deciso verso l'ingresso. «Non si preoccupi, signora O'Brien. Penso di poterle garantire che la controparte sta discutendo un accordo in questo...» Si bloccò di colpo. Per un momento pensò che non sarebbe mai più stato in grado di muoversi. Kate era di fronte a lui. Il suo sguardo incredulo si spostò da lui a Mary O'Brien. «Oh mio Dio...» ansimò Glickman. Sembrava la scena di una soap opera: i protagonisti sbalorditi che si fissano l'un l'altro. «Posso spiegare tutto» sbottò David. «Ne dubito» replicò Mary O'Brien. Senza una parola, Kate si girò e uscì dalla stanza. Lo schianto della porta che si chiudeva scosse David dalla paralisi. Nell'istante in cui usciva di corsa sentì la voce indignata di Mary O'Brien: «Conflitto d'interesse? Adesso capisco cosa intendeva». Kate stava entrando nell'ascensore. Cercò di raggiungerla, incespicando, ma prima che potesse tirarla fuori dalla cabina le portine si chiusero. «Maledizione!» gridò, sferrando un pugno alla parete. L'altro ascensore impiegò un'eternità ad arrivare. Per tutta la durata della discesa, venti piani, non fece altro che camminare avanti e indietro nella calma come una belva in gabbia, borbottando imprecazioni che non usava da anni. Quando arrivò al pianterreno, Kate non si vedeva da nessuna parte. Si precipitò all'esterno e scese di corsa gli scalini fino al marciapiedi. Guardandosi intorno, la vide a poco meno di un isolato di distanza che camminava verso un autobus fermo. David si fece strada faticosamente fra i pedoni e l'afferrò per un braccio, tirandola verso di sé nel momento in cui stava salendo sul mezzo. «Lasciami» protestò lei.
«Dove diavolo pensi di andare?» «Oh scusa, quasi dimenticavo.» Infilò una mano in tasca, estrasse le chiavi della sua macchina e gliele gettò contro. «Devo fare attenzione che non mi accusi d'aver rubato la tua preziosa BMW.» L'autobus partì, e Kate lo guardò per un istante, delusa. Poi liberò il braccio con uno strattone e se ne andò come una furia. David la seguì. «Dammi la possibilità di spiegare.» «Cosa hai raccontato alla tua cliente? Che otterrà facilmente il suo accordo, ora che tieni in pugno la stupida dottoressa?» «Quel che è successo fra me e te non ha niente a che vedere con questo caso.» «Invece sì. Per tutto il tempo hai sperato che accettassi un accordo.» «Ti ho soltanto invitato a pensarci.» «Sì certo.» Si girò verso di lui. «Ve lo insegnano alla facoltà di legge? Quando tutto il resto non funziona, portatevi a letto la controparte?» Fu la goccia che fece traboccare il vaso. David l'afferrò per il braccio e la trascinò dentro un pub. Una volta all'interno si fece strada fra la gente assiepata accanto al bancone del bar e raggiunse un angolo tranquillo in fondo al locale. La spinse a sedere senza tante cerimonie sulla panca di legno poi si sedette a sua volta di fronte a lei. Dalla sua espressione era evidente che non l'avrebbe lasciata andar via prima di aver finito di spiegare. «Prima di tutto...» cominciò. «Buonasera» cinguettò una voce. «Adesso che c'è?» scattò lui, all'indirizzo della sbigottita cameriera, venuta a prendere l'ordinazione. La donna sembrò restringersi nella divisa verde foglia. «Ecco, voi... desiderate qualcosa?» «Ci porti due birre.» «Subito signore.» Lanciando un'occhiata compassionevole a Kate, la cameriera si girò frettolosamente e si allontanò. Per un lungo istante, Kate e David si fissarono con ostilità. «Okay, ricominciamo» sospirò infine lui, passandosi una mano fra i capelli scarmigliati. «Da dove? Prima o dopo che la tua cliente è saltata fuori dal tuo studio?» «Ti ha mai detto nessuno che il tuo tempismo fa schifo?» «Oh no, qui ti sbagli. Il mio tempismo è eccellente. Cos'è che le hai det-
to? "Non si preoccupi, stanno lavorando a un accordo"?» «Stavo cercando di buttarla fuori.» «Come ha reagito quando ha scoperto che stai con un piede in due staffe?» «Non sto con un piede in due staffe.» «Tu come lo chiameresti lavorare per lei e venire a letto con me?» «Per essere una donna intelligente, hai non poche difficoltà a comprendere un fatto molto semplice: mi sono ritirato dal caso. Per sempre. Di mia volontà. La O'Brien è venuta nel mio studio per chiedermi spiegazioni.» «Le hai detto di noi?» «Credi che sia impazzito? Pensi che potrei andare in giro a sbandierare ai quatto venti che mi sono portato a letto la controparte?» Le sue parole la colpirono come uno schiaffo. Aveva creduto che il loro rapporto fosse stato qualcosa di più di un semplice sfogo ormonale. Un'unione di anime, forse. Per David, però, la loro relazione era solo una complicazione. Adesso aveva una cliente infuriata, era stato costretto a ritirarsi dal caso e aveva dovuto ammettere una relazione illecita che aveva fatto di tutto per nascondere. La gente nasconde soltanto quello di cui si vergogna. «L'avventura di un fine settimana. È stato questo per te?» chiese. «Non intendevo dire ciò.» «Non preoccuparti, David» replicò lei, alzandosi con gesto altero, «non intendo continuare a metterti in imbarazzo. Questo scheletro sarà ben felice di tornarsene nell'armadio.» «Siediti.» La sua voce era bassa, ma il tono talmente deciso da bloccarla. «Per favore» aggiunse, «per favore.» Kate si sedette, lentamente. Guardarono in silenzio la cameriera che era tornata con le birre. «Non sei un'avventura, Kate» mormorò David, quando la donna se ne fu andata, «e non sono affari degli O'Brien quel che faccio nel fine settimana. Né durante la settimana. Mi sono ritirato da altri casi, è già capitato, ma le mie motivazioni erano sempre perfettamente logiche, comprensibili, potevo spiegarle senza difficoltà. Questa volta, invece...» Scosse la testa, con un risolino imbarazzato. «Non dovrei arrossire, alla mia età.» Kate fissava il bicchiere. Odiava la birra. Odiava le discussioni. E soprattutto odiava quella tensione fra loro. «Mi spiace se sono saltata alle conclusioni» ammise di malavoglia, «temo di non essermi mai fidata degli avvocati.» «Allora siamo pari» sbuffò lui, «io non mi sono mai fidato dei dottori.»
«Così siamo una coppia male assortita. Altre novità?» Un altro silenzio, lungo e penoso, si frappose fra loro. «Non ci conosciamo affatto» disse Kate, infine. «A letto sì, ma non è il posto migliore per conoscersi. Anche se ci abbiamo provato.» Lei alzò lo sguardo e vide una bizzarra piega all'angolo della sua bocca, l'abbozzo di un sorriso. Una ciocca di capelli gli ricadeva sulla fronte. Il colletto della camicia era aperto e aveva allargato la cravatta, che adesso pendeva tutta storta. Non lo aveva mai visto così arruffato... e attraente. «Avrai dei guai, David? Che succederà se gli O'Brien presenteranno una lamentela all'Ordine degli Avvocati?» «Non sono preoccupato. La cosa peggiore che può succedermi è essere radiato. Messo in prigione. Magari spedito sulla sedia elettrica.» «David.» «Oh, hai ragione, dimenticavo. Le Hawaii non hanno la sedia elettrica.» Notò che lei non stava ridendo. «D'accordo, è uno scherzo idiota.» Prese il bicchiere e stava per bere un sorso quando si avvide della sua espressione imbronciata. «Oh, l'avevo quasi scordato: com'è andata l'audizione?» «Nessuna sorpresa.» «Significa che è andata male?» «È il meno che si possa dire. Hanno stabilito che il mio lavoro è stato al di sotto degli standard. Una maniera educata per dire che come medico faccio schifo.» Il suo silenzio le disse più di mille parole di quanto fosse dispiaciuto per lei. Meravigliata, vide la mano di David chiudersi gentilmente sulle sue. «È buffo. Non ho mai voluto essere nient'altro che un medico, e adesso che sto perdendo il lavoro, mi rendo conto di non saper fare nulla di diverso. Non so battere a macchina, non so scrivere sotto dettatura. Per l'amor di Dio, non so neanche cucinare.» «Sono mancanze gravi. Potresti ritrovarti a chiedere l'elemosina per strada.» Un altro stupido scherzo, ma questa volta Kate riuscì a sorridere, debolmente. «Mi prometti di gettare qualche monetina nel mio cappello?» «Farò di meglio. Ti invito a cena.» Lei scosse la testa. «Grazie, ma non ho fame.» «Faresti meglio ad accettare l'offerta» replicò lui, stringendole le mani, «non puoi sapere da dove verrà il tuo prossimo pasto.»
Lei alzò la testa, e i loro sguardi si incontrarono. Gli occhi di David, che le erano sembrati così gelidi, adesso erano caldi come un giorno di sole. «Tutto quel che desidero è tornare a casa con te, David. Voglio che tu mi tenga stretta. Non necessariamente in quest'ordine.» Lui si alzò e si lasciò scivolare sulla panca accanto a lei. L'attirò fra le braccia e la strinse a lungo. Era proprio quel di cui Kate aveva bisogno, l'abbraccio di un amico. Si irrigidirono entrambi, udendo la cameriera schiarirsi la voce. «Il tempismo di questa donna è assolutamente incredibile» borbottò David, scostandosi. «Qualcos'altro?» chiese la cameriera. «Sì» rispose David sorridendo a denti stretti, «se non le spiace.» «Cosa, signore?» «Un po' di privacy.» Kate si lasciò convincere ad andare a cena. Quando più tardi si avviarono verso il posteggio, si sentiva molto meglio, appena un po' stordita dal vino. Si strinse a David. Aveva voglia di cantare, di ridere. Stava andando a casa con lui. Si sedette sul sedile in pelle della BMW, lasciandosi avvolgere dal senso di sicurezza che le ispirava la sua auto. Lì dentro niente e nessuno poteva farle del male. Percorsero la Pali Highway, attraversarono il tunnel nelle Koolau Mountains e discesero la strada tortuosa dall'altra parte della cresta. Kate si rilassò, sentendosi al sicuro, fino a quando David guardò nello specchietto retrovisore e imprecò. Kate si girò verso di lui con uno sguardo interrogativo. Il suo viso era illuminato dal riverbero dei fari alle loro spalle. «David?» Lui non rispose e Kate si accorse che stava accelerando. «David, c'è qualcosa che non va?» «Quella macchina, dietro di noi.» «Ebbene?» «Credo che ci stia seguendo.» 12 Kate si girò e vide una coppia di fari in lontananza. «Ne sei sicuro?» «Ci ho fatto caso perché ha una delle luci di posizione fulminata. L'ho
vista lasciare il posteggio dietro di noi. Ci sta alle costole da allora.» «Questo non significa che ci stia seguendo.» «Facciamo un piccolo esperimento.» Sollevò il piede dal pedale dell'acceleratore. «Perché stai rallentando?» si allarmò lei. «Per vedere cosa fa.» Via via che il cuore di Kate aumentava sempre più i battiti, la BMW perdeva velocità. Attesero che l'altra auto li superasse, ma non avvenne. I fari rimasero a distanza, come se una forza invisibile li tenesse lontani. «Un vero furbacchione» osservò David. «Si mantiene a una distanza sufficiente da impedirmi di leggere la targa.» «C'è una traversa. Giriamo, per favore.» David sterzò bruscamente e si immise nella strada laterale. Alberi soffocati da rampicanti saettavano da una parte e dall'altra. I loro rami s'intrecciavano fra loro sopra la strada, formando un tunnel, dal quale l'acqua gocciolava sull'auto. Kate si girò e vide i fari, sempre dietro di loro, come fantasmi che li perseguitavano. «È lui» sussurrò. Non riusciva a dire il suo nome, come se temesse che, al solo pronunciarlo, potesse sprigionare una sconosciuta forza malefica. «Maledizione, avrei dovuto saperlo» borbottò David. «Cosa?» «Teneva d'occhio l'ospedale. È l'unico modo in cui può averti rintracciata.» Doveva essere proprio dietro di me, pensò lei, angosciata per quel che sarebbe potuto accadere. E non sapevo nemmeno che fosse lì. «Ho intenzione di seminarlo. Tieniti forte.» La violenta sterzata dell'auto le fece perdere l'equilibrio. Non poteva fare altro che tenersi stretta, la situazione era in mano a David, adesso. Si inoltrarono in una zona residenziale, passando fra le case illuminate immerse nel verde. David svoltava e risvoltava agli incroci, a velocità pazzesca. Poi, all'improvviso, si infilò nel vialetto di un'abitazione e si fermò di botto in un garage. Spense i fari e l'attirò giù sul sedile, coprendola col proprio corpo. Kate rimase immobile, schiacciata fra la leva del cambio e il petto di David, in ascolto. Sentiva il suo cuore battere contro di lei, i suoi respiri rapidi e irregolari. Perlomeno lui era in grado di respirare; lei osava a stento farlo. Sempre più terrorizzata, vide il bagliore dei fari aumentare nello specchietto retrovisore e sentì il rombo del motore di un'auto che si avvicinava
lungo la strada. Le braccia di David la strinsero più forte. Per quel che sembrò un'eternità rimasero così, senza muoversi, in attesa, in ascolto, mentre il rumore della macchina si allontanava. Solo quando la strada fu nuovamente immersa nel più profondo silenzio, alzarono appena la testa per sbirciare dal lunotto. La strada era buia. L'auto non c'era più. «E adesso?» bisbigliò lei. «Adesso ce ne andiamo, mentre possiamo ancora farlo...» borbottò lui. David girò la chiave nel quadro. Il rombo del motore sembrò assordante. Uscì lentamente dal garage a marcia indietro, tenendo i fari spenti. Kate continuava a guardarsi alle spalle, quasi aspettandosi di vedere ricomparire i fari della macchina del loro inseguitore dietro gli alberi. Solo quando raggiunsero la statale riuscì finalmente a sospirare di sollievo. Si avvide che David aveva ripreso la direzione di Honolulu. «Dove stiamo andando?» chiese, allarmata. «Non possiamo tornare a casa mia, non adesso.» «Ma l'abbiamo seminato.» «Se ti ha seguita dall'ospedale è arrivato diritto al mio studio. Da me. Sfortunatamente, sono sull'elenco del telefono, con indirizzo e tutto.» Kate si lasciò ricadere sul sedile, sgomenta. Entrarono nel Pali Tunnel. Le luci che si susseguivano sopra le loro teste la frastornavano. Adesso dove vado?, si chiese. Quanto ci vorrà perché mi trovi? Avrò il tempo di fuggire, di chiedere aiuto? Riemersero dal tunnel e si ritrovarono nell'oscurità. «È la mia ultima risorsa» spiegò David, «ma è l'unico posto che mi viene in mente. Non sarai sola e sarai al sicuro.» Esitò, poi aggiunse, con curioso umorismo: «Basta che tu non beva il caffè». Lei si girò a guardarlo, disorientata. «Dove mi porti?» «Da mia madre.» La porta si aprì, svelando una donna minuta dai capelli grigi. Indossava un accappatoio logoro e un paio di ciabatte rosa a forma di coniglio. Per un istante rimase ferma sulla soglia, fissandoli con sorpresa. Poi batté le mani e strillò: «Mio Dio, David! Che bello da parte tua venirci a trovare. Però avresti dovuto perlomeno avvisarci. Siamo tutte e due in pigiama, come due vecchie...». «Sei fantastica Gracie» l'interruppe David, passandole accanto e trasci-
nandosi dietro Kate. Chiuse in fretta la porta a chiave e sbirciò fuori dalla finestra, scostando appena le tende. «Mia madre è sveglia?» chiese. «Oh, be', lei è...» Gracie fece un gesto vago in direzione della porta che si apriva sull'ingresso. Da un'altra stanza li raggiunse una voce querula. «Per l'amor del cielo, Gracie, liberati di loro, chiunque essi siano. È il tuo turno e ti conviene inventarti qualcosa di buono, ho appena fatto punteggio triplo.» «Mi sta battendo un'altra volta» si lagnò Gracie. «Dunque è di buonumore?» «Non saprei dirlo. Non l'ho mai vista di buonumore.» «Preparati» borbottò David, guidando Kate attraverso l'ingresso. «Mamma?» chiamò con voce fin troppo affabile. Entrarono in un ampio soggiorno arredato in toni malva e mogano. Una donna con i capelli candidi dalle sfumature turchine sedeva volgendo loro le spalle. Teneva il piede fasciato sollevato e appoggiato su un'ottomana rivestita di velluto. Sul tavolo accanto a lei c'era il tabellone dello Scrabble, con le caselle fitte di tesserine incrociate. «Non ci posso credere» disse, «devo avere un'allucinazione.» Si girò e guardò David, stringendo gli occhi. «Incredibile, mio figlio viene a trovarmi. Per caso è la fine del mondo?» «Che piacere vederti, mamma» replicò lui, asciutto. Poi, inspirando a fondo come un uomo che prende coraggio, aggiunse: «Abbiamo bisogno del tuo aiuto». Gli occhi della donna, acuti e lucenti come cristalli, si spostarono su Kate e poi sul braccio che David le teneva attorno alle spalle. Le sue labbra si incurvarono lentamente in un sorriso malizioso. Gettando lo sguardo al cielo, mormorò: «Alleluia». «Non mi dici mai niente, David» si lamentò Jinx Ransom. Si erano sistemati nella cucina invasa da felci, entrambi con una tazza di cioccolata calda. Non condividevano quel rito da quando David era bambino. Quanto poco ci vuole per tornare all'infanzia, pensò lui. Un sorso di cioccolata, uno sguardo di disapprovazione della madre e subito tutti i sensi di colpa filiale riaffioravano in lui. Cara, vecchia Jinx, sapeva esattamente come far sentire giovane un uomo. Con lei, aveva sempre l'impressione di non avere più di sei anni. «C'è una donna nella tua vita» continuò lei, «e me la tieni nascosta. Come se ti vergognassi di lei. O di me. O magari di tutte e due.»
«Non c'è niente da dire. Non la conosco da tanto.» «Ti vergogni di ammettere di essere umano, nevvero?» «Non mi psicanalizzare, mamma.» «Ti ho cambiato i pannolini. Ti ho visto con le ginocchia scorticate. Ti ho perfino visto romperti il braccio su quel dannato skateboard. Non piangevi quasi mai, David, e non lo fai nemmeno adesso. Deve essere un gene che hai ereditato da tuo padre. Le emozioni sono lì dentro, da qualche parte, ma non le fai certo vedere. Perfino quando Noah è morto...» «Non voglio parlare di Noah.» «Lo vedi? Quel bambino è morto già da qualche anno e ancora non sopporti di sentir pronunciare il suo nome.» «Vai al punto, mamma.» «Kate.» «Ebbene?» «Le tenevi la mano.» Lui si strinse nelle spalle. «Ha una bella mano.» «Sei già stato a letto con lei?» David sputò con violenza la cioccolata, spruzzandola dappertutto. «Mamma!» «Non c'è niente di cui vergognarsi, la gente lo fa continuamente. È la natura, anche se a volte ho pensato che tu ti ritenga immune da questo genere di cose. Stasera, però, ho visto uno sguardo particolare nei tuoi occhi.» Scostando una felce, David si avvicinò al lavello, prese un tovagliolo di carta e cominciò a ripulirsi la camicia. «Ho ragione?» insistette Jinx. «Temo che avrò bisogno di una camicia pulita per domani» borbottò lui, senza rispondere. «Questa è rovinata.» «Prendi una di quelle di tuo padre. Allora, ho ragione?» David alzò lo sguardo su di lei. «A che proposito, mamma?» chiese in modo assente. Jinx alzò il braccio in un gesto minaccioso. «Lo sapevo che era un errore avere un figlio solo.» Udirono un forte botto dal piano superiore. David guardò il soffitto. «Che accidenti sta facendo Gracie?» «Sta prendendo qualcosa da mettersi per Kate.» David rabbrividì. Conoscendo i gusti di Gracie in fatto d'abbigliamento, Kate sarebbe scesa dabbasso avvolta da capo a piedi in una disgustosa tonalità di rosa. E con ciabattine a forma di coniglio a completare il tutto. A
dire la verità, quel che indossava non gli importava niente. Voleva semplicemente che si sbrigasse a venir giù. Erano separati da appena quindici minuti e già sentiva la sua mancanza. Le emozioni che si agitavano in lui lo innervosivano. Lo facevano sentire debole, indifeso e fin troppo... umano. Si girò, sentendo cigolare gli scalini. Vide che si trattava solo di Gracie. «Quella è cioccolata calda, Jinx?» volle sapere la donna. «Lo sai che non digerisci il latte. Dovresti bere del tè, piuttosto.» «Non voglio tè.» «Invece sì.» «No.» «Dov'è Kate?» chiese David, interrompendo il battibecco. «Sta arrivando» rispose Gracie. «Si è fermata nella tua vecchia stanza a guardare i modellini d'aereo.» Rivolgendosi a Jinx aggiunse, ridacchiando: «Le ho detto che sono la prova che David è stato bambino, una volta». «Non è mai stato bambino» brontolò Jinx. «Quando è nato era già un adulto. In versione miniaturizzata, beninteso. Forse ringiovanirà col passare degli armi. Lo vedremo sciogliersi e diventare un vero bambino.» «Come te, mamma?» Gracie mise il bollitore sul fuoco, con un sospiro felice. «È così bello avere compagnia, vero?» Trasalì, sentendo suonare il telefono. «Sono già passate le dieci, chi può essere a quest'ora?» David scattò in piedi. «Rispondo io.» Afferrò la cornetta. «Pronto?» La voce trionfante di Pokie lo raggiunse. «Ho novità per te.» «Hai rintracciato la macchina?» «Dimentica la macchina. L'abbiamo preso.» «Decker?» «Ho bisogno che la dottoressa Chesne venga qui a identificarlo. Fra mezz'ora, okay?» David alzò gli occhi e vide Kate in piedi sulla soglia della cucina che lo guardava, interrogativa. Con un sorriso, le mostrò il pollice alzato. «Veniamo subito» si affrettò a comunicare a Pokie, «dov'è, alla centrale?» Una pausa. «No, non è alla centrale.» «Dove allora?» «All'obitorio.»
«Spero che non siate facilmente impressionabili.» Il medico legale, una donna assurdamente allegra di nome M.J., estrasse uno dei cassetti d'acciaio che si aprì scivolando senza rumore. Kate si strinse a David mentre M.J. faceva scorrere la zip che chiudeva il grande sacco di plastica. Nella luce livida dell'obitorio, il viso del cadavere sembrava finto. Non era un uomo, ma una specie di maschera di cera, un'imitazione della vita. «Lo hanno trovato dei tizi con uno yacht. Galleggiava a faccia in giù nel porto» spiegò Pokie. Kate avvertì la tensione del braccio di David intorno alla sua vita. Si sforzò di esaminare i lineamenti gonfi del morto. Per quanto fossero stravolti, gli occhi aperti erano riconoscibili. Perfino nella morte sembravano colmi di tormento. Annuendo, bisbigliò: «È lui». Pokie sorrise, una reazione che, in quella stanza da incubo, le apparve surreale. «Bingo» grugnì. M.J. fece scorrere una mano guantata sulla testa del morto. «Sembra che abbia una frattura cranica qui» osservò. Poi aprì un po' di più il sacco di plastica, rivelando il torso nudo dell'uomo. «E a quanto pare è rimasto in acqua per un bel po'.» Nauseata, Kate si girò e nascose il viso contro la spalla di David. «Per l'amor di Dio» brontolò lui, «vuoi coprirlo, per favore?» M.J. fece scorrere la lampo e spinse il cassetto, chiudendolo. «Cos'è, non hai più lo stomaco di ferro d'una volta, Davy? Se ricordo bene, sopportavi di peggio.» «Non frequento più tanto i cadaveri» replicò lui, allontanando Kate dalla parete a cassetti. «Forza, usciamo di qui.» L'ufficio del medico legale era una stanza allegra, con tanto di piante ricadenti e poster di vecchi film, un contesto che strideva decisamente con l'orribile lavoro della sua occupante. Pokie versò del caffè dalla macchinetta automatica e ne porse una tazza prima a Kate e poi a David. Poi si sedette di fronte a loro con un sospiro di soddisfazione. «Così la faccenda è risolta. Niente processo, niente scocciature. Solo un comodo cadavere. È un peccato che la giustizia non sia sempre così semplice.» «Com'è morto?» volle sapere Kate, fissando il caffè nella tazza. Pokie si strinse nelle spalle.
«A volte succede. Un tizio beve un po' troppo, cade dal molo e sbatte la testa contro le rocce. Troviamo morti annegati in continuazione. Perlopiù vagabondi.» Lanciò uno sguardo a M.J. «Tu cosa ne pensi?» «Non posso escludere niente, al momento» bofonchiò lei. Si era seduta alla scrivania e stava divorando la sua cena. Kate notò che si trattava di un sandwich con carne, gocciolante di ketchup. Per un istante temette di vomitare. «Quando un corpo rimane nell'acqua per così tanto tempo, l'anatomia ne risulta stravolta. Potrò dirti qualcosa di più dopo l'autopsia.» «Quanto a lungo è stato in acqua?» chiese David. «Un giorno, più o meno.» «Un giorno?» Incredulo, guardò Pokie. «Allora chi diavolo c'era nella macchina che ci ha seguito, stasera?» «Ho idea che tu l'abbia immaginata» sorrise Pokie. «Ti sto dicendo che c'era una macchina.» «Ci sono un sacco di macchine, per le strade, e i fari sembrano tutti più o meno uguali.» «Be', di certo non era quel tizio nel cassetto» intervenne M.J., appallottolando l'incarto del sandwich. Addentò con entusiasmo una mela rossa. «Per quanto ne so, i morti non guidano.» «Quando saprai la causa della morte?» domandò David. «Devo ancora fare le radiografie del cranio. Lo apro stanotte e verifico la presenza di acqua nei polmoni. Così sapremo se è annegato.» Morse la mela. «Ma solo quando avrò finito di cenare. Nel frattempo...» Girò sulla sedia, prese una scatola di cartone da uno scaffale e lo posò sulla scrivania. «I suoi effetti personali.» Cominciò a estrarre metodicamente gli oggetti. Erano sigillati in buste di plastica, uno per uno. «Un pettine tascabile di plastica, nero. Sigarette, Winston, un pacchetto mezzo vuoto. Scatola di fiammiferi, senza marca. Portafogli da uomo, vinile marrone, con quattordici dollari. Diverse tessere... e queste.» Lasciò cadere fragorosamente il mazzo di chiavi sulla scrivania. C'era una targhetta di plastica, con una scritta a lettere rosse: Victory Hotel. Kate raccolse le chiavi. «Victory Hotel. È il posto in cui alloggiava?» Pokie annuì. «Abbiamo controllato. Una vera fogna. C'erano ratti dappertutto. Sappiamo che è stato lì sabato sera, ma è stata l'ultima volta in cui è stato visto. Vivo, perlomeno.»
Kate posò le chiavi. Non riusciva a distogliere gli occhi da quelle beffarde lettere rosse. Pensò al viso nello specchio, al tormento nei suoi occhi e si sentì travolgere dalla pena. Pena per i sogni distrutti di un uomo. Chi eri, Charlie Decker? Un pazzo? Un assassino? I frammenti della sua vita, su quel tavolo, erano così banali. Pokie le sorrise. «Be', adesso è tutto finito, dottoressa. Il nostro uomo è morto. Pare che possa andare a casa.» Kate guardò David, ma lui fissava un punto lontano. «Già» mormorò, «posso tornare a casa.» Seduta nella macchina di David, Kate guardava le luci dei lampioni che scorrevano accanto a loro. Chi eri, Charlie Decker? Non riusciva a smettere di pensare a lui, alle sue sofferenze, al dolore dell'uomo senza voce. Come tutti gli altri, anche lui era stato una vittima. E adesso era un comodo cadavere. «È troppo semplice, David.» Lui la guardò. «Che cosa?» «Il modo in cui sono andate le cose. Troppo semplice, pulito.» Fissò il buio, ripensando all'immagine riflessa di Charlie Decker. «L'ho vista nei suoi occhi. Era proprio lì, davanti a me, ma io ero troppo spaventata per capire.» «Cosa?» «La paura. Era terrorizzato. Lui sapeva qualcosa, qualcosa di terribile, che lo ha ucciso. Come ha ucciso gli altri.» «Stai dicendo che è una vittima pure lui? Allora perché ti ha minacciata? Perché ha chiamato il cottage?» «Forse non era una minaccia, forse mi stava mettendo in guardia verso qualcun altro.» «Ma le prove...» «Quali prove? Qualche impronta su una maniglia? Un cadavere con una perizia psichiatrica?» «E una testimone. Tu l'hai visto, nell'appartamento di Ann.» «E se fosse stato lui, il vero testimone? Un uomo nel posto sbagliato al momento sbagliato. Quattro persone, David, collegate fra loro soltanto da una donna morta. Se solo sapessimo perché Jenny Brook era così importante...» mormorò. «Sfortunatamente, i morti, non parlano.»
Forse sì. «Il Victory Hotel» proruppe lei. «Dov'è?» «Kate, quell'uomo è morto. Le risposte sono morte con lui. Dimentichiamo questa storia.» «Ma c'è ancora una possibilità.» «Hai sentito Pokie. Il caso è chiuso.» «Per me no.» «Per l'amor di Dio, Kate. Non fartene un'ossessione» scattò David. Stringendo il volante, respirò a fondo, per riprendere la calma. Quando riprese a parlare, il suo tono era pacato. «Ascolta, so quanto significa per te poter riabilitare il tuo nome, ma alla lunga potrebbe non valerne la pena. Se cerchi vendetta, temo che non l'otterrai. Non in un tribunale, perlomeno.» «Non puoi sapere cosa penserà la giuria.» «Prevedere i pensieri di una giuria è il mio lavoro. Ho guadagnato molti soldi sugli errori dei dottori, e lo ho fatto in una città dove gli avvocati riescono a malapena a pagare l'affitto. Non sono più intelligente degli altri, solo scelgo accuratamente i casi di cui occuparmi e non ho paura di sporcarmi le mani. Quando finisco con loro, gli imputati sono distrutti, per tutta la vita.» «Una professione davvero simpatica.» «Te lo sto dicendo perché non voglio che accada a te. Ecco perché vorrei che accettassi un accordo. Lascia morire la cosa, con discrezione, prima che il tuo nome venga infangato definitivamente.» «È questo che fanno nell'ufficio del procuratore? "Dichiarati colpevole e troveremo un accordo"?» «Non c'è niente di male, in un accordo.» «Tu lo faresti, se fossi in me?» Una lunga pausa. «Sì, lo farei.» «Allora significa che siamo molto diversi.» Fissò lo sguardo sulla strada, davanti a sé. «Io non posso lasciar morire questa cosa, non senza combattere.» «Allora perderai.» Non era un'opinione, era una sentenza, definitiva come il colpo di martello del giudice in un'aula di tribunale. «Immagino che gli avvocati non si imbarchino mai in cause perse.» «Non questo avvocato.» «È buffo. I medici, invece, lo fanno tutto il tempo. Cerchiamo di combattere contro un infarto, un cancro. Non facciamo accordi col nemico.» «È esattamente così che mi guadagno da vivere: smascherando l'arro-
ganza dei dottori» replicò lui. Era un colpo basso e si pentì di quelle parole nello stesso istante in cui le disse. Ma Kate era in cerca di guai e doveva fermarla. Eppure, non si aspettava che gli sarebbero salite alle labbra parole così brutali. Un'altra prova di quanto fossero alte le barriere che li dividevano. Arrivarono a casa sua e andarono in camera da letto come due estranei. Kate prese la valigia e fece le mosse di riempirla, ma lui la fermò. «Fallo domani» disse soltanto, rimettendo la valigia nell'armadio. Nient'altro. Non riusciva a confessarle che voleva che restasse, che aveva bisogno che restasse. Si limitò a chiudere la porta dell'armadio. Poi si girò verso di lei e le sfilò la giacca. Le prese il viso fra le mani e la baciò. Aveva le labbra gelate. La prese fra le braccia e la strinse, scaldandola. Fecero l'amore, certo. Un'ultima volta. Lui era lì, lei era lì, il letto era lì. Amore fra le macerie. No, non amore. Desiderio. Bisogno. Una cosa diversa, disperata, insoddisfacente. Dopo, David giacque accanto a lei nel buio, ascoltando il suo respiro. Dormiva profondamente, esausta. Anche lui avrebbe dovuto dormire, ma non ci riusciva. Era troppo impegnato a pensare a tutte le buone ragioni che aveva per non innamorarsi. Non gli piaceva innamorarsi, lo rendeva troppo vulnerabile. Dalla morte di Noah, lui aveva evitato di lasciarsi coinvolgere da qualunque sentimento. A volte si era sentito come un robot, la sua vita scorreva su binari sicuri, guidata dal pilota automatico. Respirava, mangiava, solo per necessità, sorrideva solo se le circostanze lo richiedevano. Quando Linda l'aveva lasciato, se n'era accorto a malapena. Il loro divorzio era stato una goccia in un oceano di sofferenza. L'aveva amata, ma non nella maniera totale e incondizionata in cui aveva amato suo figlio. Per David, l'amore si misurava in base al dolore per la perdita. E ora ecco quella donna, accanto a lui. Guardò i suoi capelli sparsi sul cuscino, il suo volto nella penombra. Cercò di ricordare l'ultima volta in cui c'era stata una donna, nel suo letto. Era passato tanto tempo, lei era bionda. Non riusciva a rammentarne il nome. Non aveva significato niente, per lui. Ma Kate? Il suo nome l'avrebbe ricordato, e avrebbe ricordato quel momento, il modo in cui dormiva, raggomitolata come un cucciolo, il calore che sembrava emanare da lei. Avrebbe ricordato. Si alzò dal letto e uscì nel corridoio. Una strana forza sembrò attirarlo
verso la stanza di Noah. Entrò e rimase fermo un momento, nella pallida luce lunare che entrava dalla finestra. Evitava quella stanza da tanto tempo. Odiava vedere il lettino vuoto. Ricordava ancora com'era una volta, quando entrava in punta di piedi per vedere suo figlio dormire. Come per un curioso istinto, Noah si svegliava sempre, in quel preciso istante. Nel buio, si scambiavano sempre le stesse parole. Papà, sei tu? Sì, Noah, sono io. Dormi. Prima abbracciami. Per favore. Buonanotte. Attento alle cimici. Si sedette sul bordo del letto, riascoltando l'eco del passato, ricordando quanto l'amore facesse soffrire. Alla fine tornò da Kate, si sdraiò sul letto accanto a lei e si addormentò. Si svegliò prima dell'alba. Si infilò sotto la doccia e si strofinò con decisione, per cancellare ogni traccia del loro amplesso. Si sentiva un uomo nuovo. Si vestì come per andare al lavoro, indossando ogni singolo indumento come un'armatura. Poi si sedette in cucina e bevve una tazza di caffè. Adesso che Decker era morto, non c'era più alcuna ragione perché Kate rimanesse da lui. Aveva fatto il suo dovere: l'aveva protetta, da vero cavaliere. Era stato chiaro fin dall'inizio che non sarebbe durata per sempre. Non l'aveva mai illusa, la sua coscienza era pulita. Era giunto il momento che se ne tornasse a casa, lo sapevano entrambi. Sarebbe stato un bene: qualche giorno, qualche settimana di separazione gli avrebbero consentito di pensare più chiaramente. Forse avrebbe potuto rendersi conto che era stata tutta una pazzia, una momentanea follia ormonale. O forse si stava solo prendendo in giro. Non poteva fare a meno di preoccuparsi per quel che poteva accaderle se avesse continuato a scavare nel passato di Charlie Decker. Sapeva che lo avrebbe fatto. La sera precedente non le aveva detto la verità: che pensava che avesse ragione, che doveva esserci qualcosa di più, in quella storia, della vendetta di un pazzo. Quattro persone erano morte. Kate non voleva essere la quinta. Si alzò in piedi e lavò la tazza. Poi tornò nella camera da letto e si sedette ai piedi del letto, a distanza di sicurezza, guardandola. Una donna così bella, testarda, indipendente. Aveva sempre pensato che gli piacessero le donne indipendenti, adesso non ne era più così sicuro. Si sorprese a pensare che sarebbe stato bello che Decker fosse ancora vivo: Kate avrebbe avu-
to ancora bisogno di lui. Eppure poteva avere ancora bisogno di lui. Avevano condiviso due notti di passione, le doveva almeno un ultimo favore. La toccò con delicatezza. «Kate?» Lei sollevò lentamente le palpebre e lo guardò. Avrebbe tanto voluto baciarle quei bellissimi occhi verdi, ma decise che era meglio di no. «Vuoi ancora andare al Victory Hotel?» 13 La signora Tubbs, direttrice del Victory Hotel, somigliava curiosamente a una rana, con due fessure al posto degli occhi. Nonostante il caldo, indossava un frusto maglione grigio sopra l'abito a fiori. Da un buco nella calza emergeva un alluce incredibilmente grande e gonfio. «Charlie?» ripeté, guardando David e Kate da dietro la porta semiaperta. «Sì, viveva qui.» Nella stanza alle sue spalle, il televisore era acceso a tutto volume, su un programma a quiz. Un uomo urlò: «Ritardato! Questa la sapevo anch'io!». La donna si volse e strillò a sua volta: «Ebbie! Abbassa quel coso, non vedi che sto parlando con delle persone?». Tornò a girarsi verso David e Kate. «Charlie non vive più qui, si è ammazzato. È venuta la polizia.» «Lo sappiamo. Vorremmo vedere la sua stanza» replicò Kate. «Per quale motivo?» «Stiamo cercando delle informazioni.» «Siete della polizia?» «No, ma...» «Non posso farvi salire, senza un mandato. La polizia mi ha già combinato un sacco di casini. Hanno fatto innervosire tutti quanti, nel palazzo. Inoltre, ho delle disposizioni. Non può salire nessuno.» Dal suo tono, sembrava che glielo avesse ordinato Dio onnipotente in persona. Per dare più forza alle sue parole, spinse la porta per chiuderla. Quando David la bloccò, assunse un'aria offesa. «Penso che le potrebbe servire un maglione nuovo, signora Tubbs» osservò lui, pacato. La porta si apri di qualche centimetro. La donna lo guardò attraverso lo spiraglio. «Mi servono molte cose nuove» replicò. Dall'appartamento, udirono un sonoro rutto. «Soprattutto un marito nuovo.»
«Temo che in questo non potrò aiutarla.» «Nessuno può farlo. A parte, forse, il buon Dio.» «Che mostra la propria provvidenza in maniera inaspettata» proseguì David, sfoderando un sorriso abbagliante. La signora Tubbs lo fissava, in attesa del miracolo. David fece scivolare due biglietti da venti dollari nella grassa mano della donna. «Il padrone dell'albergo mi ucciderà, se lo scopre» borbottò lei, fissando il denaro. «Non accadrà.» «Mi paga a malapena per mandare avanti questo posto schifoso. E devo pure pagare il silenzio degli ispettori della sanità.» Senza una parola, David le mise in mano un altro biglietto da venti. «Ma lei non è un ispettore, giusto?» Ripiegò i biglietti e li infilò nella scollatura. «Non ho mai visto un ispettore vestito come lei» aggiunse, uscendo nel corridoio e chiudendosi la porta alle spalle. Non indossava scarpe né ciabatte. Guidò David e Kate verso le scale. Dovettero salire una rampa appena, ma sembrava che ogni gradino fosse un'agonia, per lei. Quando raggiunsero il pianerottolo, il suo respiro era come un rantolo. Si ritrovarono in un corridoio. Il pavimento era coperto da un tappeto marrone che forse, un tempo, era stato giallo. La signora Tubbs si fermò davanti alla 203 e si mise a cercare le chiavi in tasca. «Charlie è stato qui per circa un mese» spiegò ansimando. «Una persona tranquilla, non ha mai dato problemi. Non come gli altri.» All'altra estremità del corridoio si aprì una porta. Due testoline si sporsero. «È tornato Charlie?» chiese la bambina. «Vi ho già spiegato che Charlie se n'è andato per sempre» replicò la signora Tubbs. «Sì, ma quando torna?» «Cos'è, siete sordi, voi due? Com'è che non siete a scuola?» «Gabe è malato» spiegò la bambina. Per confermare le sue parole, il piccolo Gabe si asciugò il naso con il dorso della mano. «Dov'è vostra madre?» La bambina si strinse nelle spalle. «Al lavoro.» «Già, e vi lascia qui ad appiccare incendi.» I due bambini scossero la testa, con aria seria. «Ci ha portato via i fiammiferi» disse Gabe.
La signora Tubbs aprì la porta. «Ecco fatto» mormorò, spingendola. Nell'istante in cui la porta si aprì, un esserino marrone si dileguò in un angolo buio. Nella stanza ristagnava puzza di fumo di sigarette e di sporcizia. La luce penetrava a fatica attraverso una tenda macchiata. La signora Tubbs entrò e la tirò da una parte, rivelando una finestra dai vetri luridi. Il sole inondò la stanza. «Date pure un'occhiata in giro» disse, mettendosi in un angolo, «ma non prendete niente.» Era facile intuire perché non desiderava le visite degli ispettori della sanità. Accanto a un cestino per i rifiuti era posata una trappola per topi, momentaneamente vuota. Dal soffitto pendeva un'unica lampadina, appesa al suo filo elettrico. Su un fornello, in un angolo, giaceva abbandonata una padella, incrostata da uno spesso strato di grasso. A parte l'unica finestra, non v'era aerazione nella stanza, e di certo facendo da mangiare l'ambiente si riempiva di fumo. Kate lasciò scorrere lo sguardo sul letto sfatto, il portacenere colmo di cicche, il tavolo ingombro di fogli di carta, soffermandosi infine su uno di essi, ricoperto di una scrittura fitta e disordinata. Otto son stati fantastici Nove magnifici E adesso hai dieci anni! Buon compleanno Jocelyn, Il meglio deve ancora venire. «Chi è Jocelyn?» chiese. «La mocciosa della 210. La madre non c'è mai, è sempre fuori a lavorare. O perlomeno così dice. Quei due hanno quasi bruciato la casa, il mese scorso. Li avrei buttati fuori tutti, e tre, ma mi pagano sempre, in contanti.» «Quanto costa l'affitto?» volle sapere David. «Quattrocento dollari.» «Sta scherzando.» «Ehi, guardi che questo è un ottimo posto. Vicino alla fermata degli autobus, acqua ed elettricità gratis.» In quel momento, uno scarafaggio attraversò in fretta il pavimento. «E accettiamo animali.» Kate alzò lo sguardo dai fogli di carta. «Che tipo era, signora Tubbs?»
«Charlie?» La donna scrollò le spalle. «Cosa posso dire? Se ne stava per i fatti suoi, non faceva chiasso, non accendeva la radio a tutto volume come fanno altri. Non s'è mai lamentato di niente. A stento sapevamo che fosse qui. Davvero un ottimo inquilino.» In un posto come quello, l'inquilino ideale era un cadavere. La signora Tubbs si sedette e rimase a guardare mentre esaminavano la stanza. La loro ispezione svelò qualche camicia stropicciata nell'armadio, una dozzina di barattoli di zuppa pronta nell'armadietto sotto il lavello, calzini e biancheria da uomo pulita nel cassetto. Poca roba, nessun indizio sulla personalità del proprietario. Alla fine Kate si avvicinò alla finestra e guardò dabbasso, il vicolo ingombro di vetri rotti. Oltre una rete metallica c'era un edificio inagibile, con i muri sbiechi, come se un gigante l'avesse calpestato. Tutt'intorno un panorama desolante di bottiglie rotte, auto abbandonate, ubriachi che sedevano scomposti sui marciapiedi. Era proprio il fondo, il genere di luogo dal quale non si poteva cadere più in basso. Anzi no, c'era un ultimo posto in cui si poteva cadere: nella tomba. «Kate?» David stava frugando nel comodino. «Pillole» disse, mostrandole un flaconcino, «prescritte dal dottor Nemechek, ospedale psichiatrico.» «Era il suo dottore.» «Guarda, ho trovato anche questa.» Estrasse una piccola fotografia incorniciata. Nello stesso istante in cui vide la foto, Kate comprese di chi si trattava. La prese in mano e l'accostò alla finestra, per vederla meglio. Era solo una fotografia, un'immagine stampata su carta, ma la giovane donna che sorrideva all'obiettivo aveva il fulgore dell'eternità, negli occhi. Erano grandi, castani e intensi, ridenti, appena stretti per difendersi dalla luce del sole. Alle sue spalle, l'orizzonte celeste si fondeva col mare. Una ciocca di capelli neri era sfuggita alla pettinatura e le ricadeva sulla guancia. Indossava un semplice costume da bagno bianco e anche se aveva assunto una posizione volutamente sensuale, inginocchiandosi nella sabbia, c'era una sorta di dolce goffaggine in lei, come una bambina che gioca a fare l'adulta con i vestiti della mamma. Kate sfilò la foto dalla cornice. Era consunta, segno che per anni era stata sfiorata con affetto. Dietro c'era un breve messaggio scritto a mano: Finché tornerai da me. Jenny. «Jenny» mormorò Kate dolcemente.
Rimase immobile a lungo, fissando le parole scritte da quella donna morta da tanto tempo. Pensò alla solitudine di quella stanza, ai barattoli di zuppa impilati, ai calzini e alla biancheria nel cassetto. Charlie Decker aveva posseduto pochissime cose, e l'unica che aveva tenuto con cura, custodendola per anni, era quella foto sbiadita di una donna con l'eternità negli occhi. Difficile credere che tanta forza potesse spegnersi, perfino in una tomba. Si girò verso la signora Tubbs. «Cosa farà delle sue cose, adesso che è morto?» «Penso che dovrò venderle. Mi doveva ancora una settimana d'affitto, devo recuperare i miei soldi, in qualche modo. Qui dentro, però, non c'è niente di valore, a parte, forse, quel che lei tiene in mano.» Kate riguardò il viso sorridente di Jenny Brook. «Già. È molto bella, vero?» «No, non intendo la foto.» «Cosa, allora?» «La cornice.» La signora Tubbs si avvicinò alla finestra e chiuse le tende con gesto deciso. «È d'argento.» Jocelyn e suo fratello stavano appesi come scimmiette sulla rete metallica. Quando David e Kate uscirono dal Victory Hotel, si lasciarono cadere a terra, fissandoli con attenzione, come se si aspettassero che facessero qualcosa di eccezionale. La bambina, se davvero aveva dieci anni era piuttosto piccola per la sua età. Indossava un vestitino sformato, dal quale spuntavano gambe sottilissime. Aveva i piedi nudi e sudici. Il maschietto, circa sei anni e ugualmente lurido, si teneva stretto alla gonna della sorella. «È morto, vero?» chiese Jocelyn. Kate annuì tristemente e la bambina si appoggiò alla rete, concentrandosi su una macchia del vestito. «Lo sapevo» mormorò. «Stupidi adulti, non ci dicono mai la verità, nessuno di loro.» «Cosa vi hanno detto di Charlie?» chiese Kate. «Soltanto che se n'era andato. Non mi ha dato il mio regalo.» «Per il compleanno?» Jocelyn si guardò il busto piatto. «Ho dieci anni» dichiarò. «E io ne ho sette» aggiunse suo fratello, come seguendo un copione prestabilito.
«Voi due e Charlie dovevate essere buoni amici» osservò David. La bambina alzò gli occhi, e vedendo il suo sorriso arrossì violentemente. Riabbassò lo sguardo e cominciò a seguire una spaccatura del marciapiedi con un alluce. «Charlie non aveva amici. E nemmeno io. A parte Gabe, qui, ma lui è solo mio fratello.» Il piccolo Gabe sorrise e si asciugò il naso nella gonna della sorella. «Nessuno conosceva bene Charlie?» chiese David. «A parte voi, intendo.» Jocelyn si succhiò un labbro, pensierosa. «Be', potete provare da Maloney. In fondo alla strada.» «Chi è Maloney?» «Non è nessuno.» «Se non è nessuno, come fa a conoscere Charlie?» «Non è una persona. È un posto.» «Oh certo» replicò David, guardando negli occhi la bambina. «Che stupido che sono.» «Cosa ci fate voi due qui dentro un'altra volta? Forza, andate via, prima di farmi perdere la licenza.» Jocelyn e Gabe attraversarono di corsa la sala e si arrampicarono su due sgabelli davanti al bancone del bar. «Ci sono delle persone che vogliono vederti, Sam» annunciò Jocelyn. «C'è un cartello, lì fuori, che dice che bisogna avere ventuno anni, per entrare. Voi li avete compiuti?» «Io ho sette anni» ribatté Gabe. «Posso avere un'oliva?» Borbottando, il barista immerse una mano in un contenitore e lasciò cadere una mezza dozzina di olive sul bancone. «Okay, adesso sparite prima che qualcuno...» Alzò di scatto la testa e vide David e Kate che si avvicinavano attraverso la penombra del locale. Dalla sua espressione era evidente che raramente si presentavano al Maloney clienti facoltosi. «Non è colpa mia» proruppe, «questi due mocciosi sono entrati correndo. Stavo per buttarli fuori.» «Non sono ispettori» lo rassicurò Jocelyn in tono sprezzante, mettendo in bocca un'oliva. Evidentemente, tutti in quel quartiere vivevano nel timore dei più diversi ispettori.
«Abbiamo bisogno di qualche informazione su uno dei suoi clienti, Charlie Decker» spiegò David. Sam scrutò i suoi vestiti. Quel che pensava era evidente: Bel vestito, cravatta di seta. Tutto molto costoso. «È morto» grugnì. «Lo sappiamo.» «Io non parlo male dei morti.» Una lunga pausa eloquente. «Volete ordinare?» David si sedette su uno sgabello, sospirando. «D'accordo. Due birre.» «È tutto?» «E due succhi di ananas» aggiunse Jocelyn. «Fa dodici dollari.» «Economico» osservò David, facendo scivolare un biglietto da venti sul bancone. «Più la mancia.» I bambini lasciarono cadere le olive rimaste nei loro bicchieri e cominciarono a bere. «Ci parli di Charlie» lo invitò Kate. «Be', di solito si sedeva laggiù» rispose Sam, accennando a un angolo scuro del locale. David e Kate si sporsero in avanti, in attesa. Silenzio. «E...?» lo esortò David. «Si sedeva lì.» «E cosa faceva?» «Beveva. Soprattutto whisky. Liscio. A volte gli facevo un drink di mia invenzione, il Four Sam, se aveva voglia di qualcosa di diverso. Ne prendeva uno ogni tanto, una volta alla settimana, all'incirca. Ma perlopiù beveva whisky. Liscio.» Un altro silenzio. La parlantina gli si era inceppata, aveva bisogno di una spinta. «Vorrei provare io un Four Sam» annunciò Kate. «Non vuole la sua birra?» «La beva lei.» «Grazie, ma io non tocco quella roba.» Si concentrò su uno shaker, versandovi dentro gin, club soda e succo di limone. «Cinque dollari» disse, spingendo il bicchiere verso Kate. «Allora, le piace?»
Lei bevve un sorso. Posò il bicchiere, boccheggiando. «Ha un gusto interessante» ansimò. «Già, è quello che dicono tutti.» «Stavamo parlando di Charlie» gli ricordò David. «Oh sì, Charlie.» La lingua gli si era sciolta. «Allora vediamo, veniva quasi tutte le sere. Penso che gli piacesse la compagnia, anche se non poteva parlare molto, con quella gola rovinata. Si sedeva laggiù e beveva uno o due bicchieri.» «Whisky. Liscio» mormorò David. «Sì, esatto. Si controllava, non s'è mai ubriacato. È stato un cliente assiduo per circa un mese, poi, qualche giorno fa, ha smesso di venire. Un vero peccato. Odio perdere clienti come lui.» «Sa perché non è più venuto?» «A quanto pare la polizia lo stava cercando. Dicevano che aveva ucciso delle persone.» «Lei cosa ne pensa?» «Charlie?» Sam rise. «Nemmeno per sogno.» Jocelyn porse a Sam il bicchiere vuoto. «Posso averne un altro?» Sam colmò altri due bicchieri e li porse ai bambini. «Otto dollari» annunciò rivolgendosi a David che, rassegnato, estrasse il portafogli. «Hai dimenticato le olive» protestò Gabe. «Quelle sono gratis.» Non era completamente senza cuore. «Charlie le ha mai parlato di Jenny Brook?» chiese Kate. «Come le ho detto, non parlava molto. Il vecchio Charlie se ne stava seduto laggiù e scriveva le sue poesie. Scriveva e scriveva per ore sulla stessa poesia per farla venire bene, poi s'infuriava e la gettava via. Quando se ne andava, il pavimento era pieno di cartacce.» Kate scosse la testa, meravigliata. «Non avrei mai creduto che fosse un poeta.» «Sono tutti poeti, al giorno d'oggi. Charlie, però, faceva sul serio. L'ultimo giorno che è venuto qui, non aveva i soldi per pagare, così ha tirato fuori una delle sue poesie e me l'ha data. Ha detto che un giorno avrebbe avuto un valore. E io sono un tipo sentimentale.» Estrasse uno strofinaccio lurido e cominciò a passarlo sul bancone. «Ce l'ha ancora, quella poesia?» domandò Kate.
«È quella là, appesa al muro.» Era un foglio a righe, incollato alla parete con qualche pezzetto di nastro adesivo. Nella luce fioca del bar, le parole erano appena leggibili. Ma io dissi: "Non si può guarire se si dimentica Ma solo ricordando Te. L'odore del mare sulla tua pelle; Le tue piccole impronte perfette sulla sabbia. Nel ricordo non v'è fine. Tu giaci, ora e sempre, accanto al mare. Apri gli occhi. E mi tocchi. C'è il sole nelle tue dita. E io sono guarito. Sono guarito". «Allora, pensate che sia bella?» chiese Sam. «Per forza, se l'ha scritta Charlie» disse Jocelyn. Sam scrollò le spalle. «Non significa niente.» «A quanto pare siamo finiti in un vicolo cieco» commentò David, quando poco dopo uscirono alla luce del sole. Poteva ben dirlo anche della loro relazione. Se ne stava ritto in piedi, le mani affondate nelle tasche, e osservava un ubriaco stravaccato nel vano di un portone. Lungo il bordo del marciapiede erano sparse schegge di vetro. Dall'altra parte della strada, su una pensilina, una scritta a lettere rosse annunciava la proiezione di un film hard. Se solo le avesse sorriso, le avesse lanciato uno sguardo, qualsiasi cosa che indicasse che non era ancora finita, fra loro. Ma non lo fece. Se ne stava lì, con le mani in tasca. Senza bisogno di dirlo, Kate si rese conto che non era solo Charlie Decker, a essere morto. Attraversarono un vicolo, calpestando un tappeto di vetri rotti. «Ci sono tante cose in sospeso» osservò Kate. «Non riesco a capire come sia possibile che la polizia chiuda il caso.» «Nel lavoro della polizia ci sono sempre cose in sospeso, faccende dubbie.»
«Non lo trovi triste, che un uomo muoia senza lasciarsi nulla alle spalle?» Si guardò alle spalle, verso il Victory Hotel. «Niente che possa dire chi o cosa fosse.» «Si potrebbe dire la stessa cosa di ognuno di noi. Solo chi scrive grandi libri o costruisce edifici imponenti viene ricordato. Cosa resta di tutti gli altri? Niente.» «Solo i figli.» Per un momento lui rimase in silenzio. Poi borbottò: «Solo se si è fortunati». «Però sappiamo una cosa di lui» continuò Kate, seguendo con lo sguardo le crepe nel marciapiede. «L'amava. Jenny.» Ripensò al viso della foto. Una donna indimenticabile. Perfino cinque anni dopo la sua morte, Jenny Brook era riuscita a influenzare le vite di quattro persone: l'uomo che l'aveva amata e i tre che l'avevano vista morire. Era come un tragico legame fra le loro morti. Chissà com'era essere amata così come era stata amata Jenny Brook? Quale fascino aveva, quella donna? Qualunque cosa fosse, di certo io non ce l'ho. «Sarà bello tornare a casa» proseguì, senza convinzione. «Sì?» «Sono abituata a stare per i fatti miei.» Lui si strinse nelle spalle. «Anch'io.» Si erano entrambi rifugiati nel proprio angolo. C'era così poco tempo, pensò Kate desolata, e lo stavano sprecando parlandosi come due estranei. Quando si era svegliata, al mattino, lo aveva trovato lavato, sbarbato e vestito di tutto punto nel suo abito più severo. Durante la colazione avevano parlato di tutto tranne che dell'argomento che le stava più a cuore. Avrebbe potuto fare la prima mossa. Per tutto il tempo, mentre faceva la valigia, David avrebbe potuto chiederle di restare. E lei lo avrebbe fatto. Ma non aveva detto nulla. Grazie a Dio era sempre stata brava a mantenere una facciata dignitosa. Mai una lacrima, né una reazione isterica. Lo aveva riconosciuto perfino Eric. Sei sempre stata così comprensiva, le aveva detto, mentre usciva dalla porta. Bene, era stata comprensiva anche questa volta. Il tragitto fino a casa fu fin troppo breve. Guardando David di sottecchi, Kate ripensò al giorno in cui si erano incontrati. Sembrava fosse passata un'eternità, e adesso aveva esattamente lo stesso aspetto austero e inavvi-
cinabile. Si fermarono davanti a casa sua. Lui le portò su la valigia, con aria sbrigativa. Aveva il passo di un uomo che va di fretta. «Vuoi entrare a prendere una tazza di caffè?» lo invitò lei, pur sapendo già quale sarebbe stata la risposta scontata. «Non posso. Non adesso. Ti chiamerò.» Le ultime parole famose. Capiva perfettamente, del resto. Era parte del rituale. Lui gettò un rapido sguardo all'orologio. È ora di andare, pensò lei, per tutti e due. Infilò la chiave nella toppa e aprì. Spinse la porta, spalancandola. Si bloccò sulla soglia, incapace di credere ai propri occhi. Buon Dio, pensò. Perché sta accadendo tutto questo? Perché adesso? Fece un passo all'indietro, mentre lo sgomento si impadroniva di lei e avvertì la presa salda di David sul suo braccio. Le sembrava che la stanza oscillasse davanti ai suoi occhi. Con uno sforzo, mise nuovamente a fuoco la parete. Sulla carta da parati a fiori, qualcuno aveva scritto: Bada agli affari tuoi con una bomboletta rossa. Sotto aveva tracciato un teschio con due ossa incrociate, simbolo di morte. 14 «Niente da fare, Davy. Il caso è chiuso.» Pokie Ah Ching non smise di camminare attraverso l'ufficio affollato, incurante del caffè che a ogni passo traboccava dal bicchiere di plastica. Oltrepassò un sergente che discuteva al telefono, impiegati che correvano avanti e indietro con fasci di carte in mano, un ubriaco che imprecava all'indirizzo di due ufficiali di polizia dall'aria stanca. Si muoveva serenamente, come una nave da guerra in acque tempestose. «Ma non capisci? È un avvertimento.» «Probabilmente l'ha lasciato Charlie Decker.» «La vicina di casa di Kate è stata a dare un'occhiata alla casa martedì mattina. Il messaggio è stato lasciato più tardi, quando Decker era già morto.» «Allora è lo scherzo di un ragazzino.» «Perché mai un ragazzino dovrebbe fare una cosa simile?» «Tu li capisci, i ragazzini? Io no. Maledizione, io non riesco a capire neanche i miei figli.» Pokie si infilò nella sua stanza e andò a sedersi. «Come
ti ho detto, Davy, ho da fare.» David si appoggiò alla scrivania, sporgendosi verso di lui. «Ieri sera ti ho detto che qualcuno ci ha seguiti. Tu hai risposto che me l'ero immaginato.» «Lo penso ancora.» «Poi salta fuori che Decker è all'obitorio. Un piccolo, comodo incidente.» «Adesso mi dirai che è tutta una cospirazione, vero? Mi pare già di sentirne l'odore.» «Il tuo senso dell'odorato è incredibile.» Pokie mise giù il bicchiere di caffè, facendolo traboccare sui documenti che ingombravano il tavolo. «Okay» sospirò, «ti do un minuto per parlarmi della tua teoria. Poi ti butto fuori.» David prese una sedia e si sedette. «Quattro morti: Tanaka. Richter. Decker. E O'Brien.» «La morte sul tavolo operatorio non rientra nella mia giurisdizione.» «Ma l'omicidio sì. C'è qualcuno dietro questa faccenda, Pokie, qualcuno che è riuscito a far fuori quattro persone in due settimane. Qualcuno molto furbo, riservato ed esperto in medicina. E molto, molto spaventato.» «Di cosa avrebbe paura?» «Kate Chesne. Forse ha fatto troppe domande, forse sa qualcosa, senza neanche rendersene conto. Ha innervosito il nostro assassino, tanto da spingerlo a scriverle un avvertimento sul muro.» «E immagino che tu abbia già una lista di sospetti.» «A cominciare dal primario di anestesia. Hai già verificato la storia della moglie?» «È morta martedì notte nella casa di cura. Cause naturali.» «Sicuro. Guarda caso ha tirato le cuoia proprio dopo che lui ha lasciato l'ospedale con le tasche piene di fiale di sostanze letali.» «Una coincidenza.» «Quell'uomo vive solo. Non c'è nessuno a verificare quel che fa.» «Un emulo geriatrico di Jack lo Squartatore?» rise Pokie sarcastico. «Ce lo vedo proprio, il vecchio.» «Non ci vuole molta forza a tagliare la gola di qualcuno.» «E quale sarebbe il suo movente? Perché mai dovrebbe accanirsi contro i membri del suo stesso staff?» «Non lo so» ammise David, abbattuto, «però ha qualcosa a che vedere
con Jenny Brook.» Da quando aveva posato gli occhi sulla sua foto, era stato incapace di togliersi quella donna dalla mente. Qualcosa nella sua morte, nei freddi dettagli del referto, continuava a ripresentarsi, come un brano musicale ripetuto, ancora e ancora. Crisi incontrollabile. Una bambina, nata viva. Madre e figlia, due scintille d'umanità spente nella luce accecante di una sala operatoria. Perché, dopo cinque anni, le loro morti minacciavano Kate Chesne? In quel momento entrò il sergente Brophy. Aveva gli occhi rossi e tirava su col naso. Posò un fascicolo sulla scrivania di Pokie. «Qui c'è il rapporto che stavi aspettando. Ah, e abbiamo un altro avvistamento di quella ragazza, la Sasaki.» «Ancora?» sbuffò Pokie. «A quanto siamo arrivati, quarantatré?» «Quarantaquattro. Stavolta è al Burger King.» «Ma perché li vedono sempre nei fast food?» «Forse è seduta lì con Jimmy Hoffa e...» Brophy starnutì. «Elvis.» Soffiò il naso per ben tre volte, producendo dei sonori strombazzamenti che, all'aperto, avrebbero richiamato uno stormo di oche. «Allergia» spiegò, come se fosse una giustificazione più accettabile di un comune raffreddore. Guardò fuori dalla finestra, alla causa dei suoi guai: un albero di mango, carico di fiori. «Ci sono troppi di quei dannati alberi, qui intorno» borbottò, uscendo. «L'idea di paradiso di Brophy è una scatola di cemento con l'aria condizionata» rise Pokie. Poi prese il fascicolo con un sospiro rassegnato. «Adesso, Davy, ho del lavoro da fare.» «Riaprirai il caso?» «Ci penserò.» «E quanto ad Avery? Se fossi in te, io...» «Ti ho detto che ci penserò.» Aprì la cartellina con gesto eloquente: il loro incontro era finito. David si alzò. Era come parlare con un muro. Era quasi alla porta, quando Pokie lo richiamò. «Aspetta, Davy.» David si fermò, colpito dal tono brusco del poliziotto. «Sì?» «Dov'è Kate adesso?»
«L'ho portata da mia madre. Non volevo lasciarla sola.» «Dunque è al sicuro.» «Se si può considerare sicuro stare con mia madre. Perché?» Pokie gli porse il rapporto. «Questo è appena arrivato dall'ufficio di M.J. È l'autopsia di Decker. Non è annegato.» «Cosa?» David prese il rapporto e cercò con lo sguardo le conclusioni. La radiografia del cranio mostra una frattura provocata da un colpo letale alla testa. Causa della morte: ematoma epidurale. A quel punto Pokie si appoggiò stancamente alla poltrona, imprecando. «Quell'uomo è morto ore prima di cadere in acqua.» «Vendetta?» Jinx addentò un biscottino allo zenzero appena sfornato. «È un motivo ragionevole, per un omicidio. Se, ovviamente, esiste un motivo ragionevole per uccidere.» Lei e Kate si erano sedute sotto il portico che s'affacciava sul cimitero. L'aria del pomeriggio era immobile, non si muoveva una foglia. Basse nuvole incombevano immote sulla valle. L'unica creatura in movimento era Gracie, che stava uscendo dalla cucina con un vassoio carico di tazze e cucchiaini. La donna si fermò un momento, guardando il cielo. «Pioverà» annunciò con assoluta certezza. «Charlie Decker era un poeta» disse Kate. «Amava i bambini, e cosa ancora più importante, i bambini amavano lui. Non crede che loro lo avrebbero capito? Che si sarebbero resi conto se era pericoloso?» «Sciocchezze. I bambini sono stupidi come tutti noi. Quanto all'amore per la poesia, non significa niente. Ha avuto cinque anni per rimuginare sulla sua perdita, è un tempo sufficiente per trasformare un'ossessione in violenza.» «Ma quelli che lo hanno conosciuto hanno detto tutti che non era un uomo violento.» «Siamo tutti violenti, soprattutto quando si tratta delle persone che amiamo. Amore e odio sono intimamente legati fra loro.» «Ha una visione piuttosto severa della natura umana.» «Però è realistica. Mio marito era un magistrato. Mio figlio ha lavorato con il procuratore. Ho sentito le loro storie, e credimi, la realtà è molto peggiore di quel che possiamo immaginare.» Kate lasciò vagare lo sguardo sul prato in leggero declivio, con le tar-
ghette di bronzo come impronte, sull'erba. «Perché David ha lasciato quell'incarico?» «Non te lo ha detto?» «Ha accennato agli stipendi da fame. Io credo però che i soldi non siano tanto importanti per lui.» «A David non importa niente del denaro» intervenne Gracie. Teneva lo sguardo fisso su un biscotto spezzato, come se fosse indecisa se mangiarlo o gettarlo agli uccelli. «Allora perché ha lasciato quell'ufficio?» «Tu sei stata una sorpresa per me, Kate» le confidò Jinx, guardandola con i suoi intensi occhi azzurri. «È molto raro che David porti una donna da me. Poi, quando ho saputo che sei un medico, be'...» «A David non piacciono molto i dottori» spiegò Gracie. «Direi che è più di una semplice antipatia, cara.» «Hai ragione» convenne Gracie, dopo una breve riflessione, «suppongo che sia più corretto dire che li odia.» Jinx prese il bastone e si alzò in piedi. «Vieni, Kate. C'è qualcosa che credo dovresti vedere.» Si incamminarono piano, attraversarono l'apertura nella siepe e raggiunsero un punto ombroso sotto l'albero della pioggia. Gli insetti si muovevano come particelle di polvere nell'aria senza vento. Ai loro piedi, un mazzolino di fiori si stava avvizzendo su una lapide. Noah Ransom Sette anni «Mio nipote» spiegò Jinx. Una foglia si staccò dall'albero e cadde sull'erba. «Deve essere stato terribile per David perdere il suo unico figlio» mormorò Kate. «È terribile per chiunque. Ma soprattutto per David.» Jinx sospinse da una parte la foglia con il bastone. «Lascia che ti parli di mio figlio. C'è una cosa in cui somiglia molto a suo padre: non ama facilmente. Tiene sotto controllo i suoi sentimenti come un avaro che fa la guardia a un tesoro inestimabile. Ma, quando si innamora, lo fa con tutto se stesso, non può più tornare indietro. Ecco perché è stato così duro per lui, perdere Noah. Quel bambino era la persona più preziosa dell'universo per lui, e non riesce ancora ad accettare che se ne sia andato. Forse è per questo che ha tanti pro-
blemi con te.» Si girò a guardare Kate. «Sai com'è morto?» «Ha detto che si è trattato di meningite.» «Una meningite batterica. Una malattia curabile, giusto?» «Se presa in tempo.» «Se. È questa la parola che tormenta David.» Abbassò lo sguardo sui fiori appassiti. «Era fuori città, a un convegno, a Chicago, quando Noah si ammalò. Dapprima Linda non se ne preoccupò. Sai come sono i bambini, si raffreddano in continuazione. La febbre però non gli passava e a un certo punto Noah cominciò a lamentarsi del mal di testa. Il suo pediatra era in vacanza, così Linda lo portò da un altro medico, nello stesso edificio. Sono rimasti in sala d'attesa per due ore e infine il dottore ha visto Noah per cinque minuti appena. E li ha mandati a casa.» Kate fissò la tomba, sapendo, temendo, il seguito della storia. «Quella notte, Linda chiamò il dottore per ben tre volte. Doveva aver intuito che c'era qualcosa che non andava, ma ottenne solo rimproveri. Il dottore le disse che era soltanto una madre ansiosa, che avrebbe dovuto non esagerare, quello era un semplice raffreddore. Quando finalmente si decise a portare Noah al pronto soccorso, il bambino delirava. Non faceva altro che chiedere di suo padre. I medici dell'ospedale fecero il possibile, ma...» Jinx si strinse nelle spalle. «Non è stato facile per loro. Linda si sentiva in colpa. E David si è chiuso in se stesso. Si è ritirato nel suo guscio, rifiutandosi di venir fuori, neanche per lei. Non mi sorprende che lo abbia lasciato. Più tardi si seppe che quel dottore era un alcolista e che era stato radiato dall'Ordine, in California. A quel punto, David ne ha fatto una crociata personale. Oh sì, ha rovinato definitivamente quel medico, ma si è impegnato così tanto da dimenticarsi di vivere, e ha distrutto il suo matrimonio. È stato allora che ha lasciato l'ufficio del procuratore. Ha fatto molti soldi nelle cause contro i medici, ma non lo fa per il denaro. Nella sua mente, continuerà a crocifiggere quel dottore. Quello che ha ucciso Noah.» Ecco perché non abbiamo mai avuto una possibilità, pensò Kate. Sono sempre stata una nemica. Una persona che avrebbe voluto distruggere. Jinx si incamminò lentamente verso casa. Kate rimase a lungo all'ombra del vecchio albero, pensando a Noah Ransom, sette anni. A quale forza avesse l'amore per un figlio, a quanto potesse essere ossessivo. Avrebbe mai potuto competere con la memoria di quel figlio? Sarebbe mai riuscita a sfuggire al biasimo per la sua morte? Per tutti quegli anni, David aveva coltivato quel dolore e l'aveva usato come una mistica sorgente di forza per combattere la stessa battaglia, an-
cora e ancora. Così come Charlie Decker aveva usato il suo dolore per sopravvivere a cinque anni di ospedale psichiatrico. Cinque anni in un ospedale. Si accigliò, ripensando alle pillole nel suo comodino. Haldol, un farmaco utilizzato dagli psicotici. Era davvero pazzo? Si girò verso la casa e vide che il portico era vuoto. Jinx e Gracie erano rientrate. L'aria era così pesante che la sentiva come una coperta sulle spalle. Si stava avvicinando una tempesta. Se partiva subito, forse poteva raggiungere l'ospedale prima che si mettesse a piovere. Il dottor Nemechek era un uomo magro e dinoccolato, con gli occhi stanchi e la bocca sporgente. Sotto il camice troppo ampio appeso alle spalle esili, la sua camicia era spiegazzata. Sembrava che avesse dormito con i vestiti indosso. La portò a camminare nel giardino dell'ospedale. Tutt'intorno a loro, i pazienti vestiti di bianco vagavano senza scopo come fiocchi di tarassaco sospinti sull'erba. Ogni tanto, il dottor Nemechek si fermava per dare una pacca sulla spalla a uno di loro o mormorare qualche parola di saluto. Come sta, signora Solti? Benissimo, dottore. Perché non è venuta alla terapia di gruppo? Oh, è il mio solito problema, tutti quei vermi nei piedi. Capisco. Be' buon pomeriggio, signora Solti. Buon pomeriggio, dottore. Il dottor Nemechek si fermò e si guardò intorno nel suo regno di menti malate. «Charlie Decker non è mai stato al suo posto, qui. Gliel'ho detto, che non era un malato mentale, ma il tribunale aveva interpellato un cosiddetto esperto dal continente. Così è stato ricoverato.» Scosse la testa. «I tribunali guardano solo alle loro prove, è questo il problema. Io invece guardo la persona.» «E cosa vedeva quando guardava Charlie?» «Era introverso, molto depresso. A volte, forse, delirante.» «Dunque aveva problemi mentali.» «Ma non era un criminale.» Nemechek si girò verso di lei, come se volesse assicurarsi che comprendesse appieno il suo punto di vista. «Le malattie mentali possono essere pericolose, ma possono anche essere soltanto un disturbo innocuo, una specie di scudo per difendersi dal dolore. Per Charlie era esattamente questo: uno scudo. La sua fissazione lo teneva in vita, ecco perché non ho mai cercato di eliminarla. Ho sempre ritenuto che se gli avessi tolto il suo scudo, sarebbe morto.»
«La polizia dice che era un assassino.» «Assurdo.» «Perché?» «Era una persona profondamente buona. Avrebbe cambiato strada, pur di non calpestare un grillo.» «Forse uccidere delle persone era più facile.» «Non aveva ragione di uccidere nessuno.» «Che mi dice di Jenny Brook? Non era una ragione sufficiente?» «La fissazione di Charlie non aveva niente a che vedere con Jenny. Aveva accettato la sua morte come un fatto inevitabile.» «E allora di che si trattava?» si meravigliò Kate. «Della loro bambina. Uno dei dottori gli aveva detto che era nata viva, e Charlie ne aveva fatto una malattia. Era fissato con la figlia scomparsa. Ogni anno, ad agosto, teneva una festa di compleanno per lei. Ricordo che ci disse: "Mia figlia ha cinque anni, adesso". Voleva trovarla, farla crescere come una principessa, darle vestiti e bambole e tutte quelle cose che piacciono alle bambine. Io però sapevo che non l'avrebbe mai veramente cercata. Era terrorizzato all'idea di scoprire la verità e cioè che la bambina era morta.» Le prime gocce di pioggia cominciarono a cadere. Alzarono entrambi lo sguardo verso il cielo. Il vento si era sollevato e aveva ammassato le nuvole. Sul prato, le infermiere riunivano i pazienti per farli rientrare. «È possibile che avesse ragione?» chiese Kate. «Che la bambina sia ancora viva?» «Assolutamente no, dottoressa Chesne. La bambina è morta. Negli ultimi cinque anni è esistita unicamente nella mente di Charlie Decker.» La bambina è morta. Mentre percorreva la statale verso la casa di Jinx, Kate continuava a ripensare alle parole del dottor Nemechek. La bambina è morta. È esistita unicamente nella mente di Charlie Decker. Se la bambina fosse vissuta, come sarebbe stata adesso? Avrebbe avuto i capelli neri del padre? Avrebbe avuto lo sguardo della madre? Il viso di Jenny Brook prese forma nella sua mente, un sorriso sbarazzino sotto il cielo azzurro di un giorno d'estate. In quel momento, la nebbia si addensò sulla strada. Kate strinse gli occhi, concentrandosi sulla guida. L'immagine di Jenny Brook si dissolse. Al suo posto, adesso c'era un viso
più piccolo, incorniciato fra gli alberi sulla spiaggia. Uno squarcio si aprì fra le nuvole e la nebbia sparì. La verità le apparve, come il raggio di sole che in quell'istante colpì la strada. Come aveva fatto a non vederlo prima? La creatura di Jenny Brook era ancora viva. E aveva cinque anni. «Dove diavolo è?» brontolò David, sbattendo giù la cornetta del telefono. «Nemechek ha detto che è andata via dall'ospedale alle cinque. Dovrebbe essere a casa, ormai.» Lanciò un'occhiata irritata a Glickman, che stava affondando una coppia di bastoncini in una confezione di cibo cinese. «Questo caso si fa sempre più confuso ogni volta che ne sento parlare» bofonchiò questi, masticando un boccone. «È cominciato come un semplice caso di negligenza e adesso è un caso di omicidio. Anzi omicidi. Cosa deve ancora succedere?» «Vorrei tanto saperlo» sospirò David. Girò con la poltrona verso la finestra, cercando di ignorare il profumo allettante della cena di Glickman. Nel cielo, le nuvole si stavano ammassando, sempre più grigie. Era piuttosto tardi. Di solito, a quell'ora, si preparava per andare a casa. Ma aveva bisogno di pensare, e quel posto, accanto alla finestra dello studio, era quello in cui gli riusciva meglio. «Che modo di uccidere, poi: tagliare la gola a qualcuno» riprese Glickman. «Voglio dire, pensa a tutto quel sangue. Ci vogliono nervi saldi.» «Oppure bisogna essere disperati.» «Inoltre non è facile. Bisogna avvicinarsi molto, per tagliare un'arteria.» Fece un gesto eloquente con una bacchetta. «Ci sono tanti modi più facili.» «Sembra che tu ci abbia riflettuto su.» «Non lo facciamo forse tutti? Credo che tutti abbiano qualche fantasia inconfessabile. Fare la posta all'amante della moglie. Farla pagare al bullo che ti ha pestato. Tutti abbiamo qualcuno che vorremmo eliminare. E non è neanche tanto difficile» aggiunse, ingollando un altro boccone di pasta cinese. «Con un pizzico di astuzia si può fare un lavoro pulito. Con il veleno, per esempio. Qualcosa che uccida in fretta e che non lasci tracce nel sangue. Il delitto perfetto.» «A parte una cosa.» «Quale?» «Dove sta la soddisfazione se la tua vittima non soffre?»
«Un problema» ammise Glickman. «Però puoi farla soffrire spaventandola: avvertimenti, minacce.» David cambiò posizione, a disagio, ricordando il teschio rosso sangue sulla parete di casa di Kate. Guardò le nuvole basse sull'orizzonte, stringendo gli occhi. Per ogni momento che passava, aumentava in lui la sensazione che dovesse succedere qualcosa di terribile. Si alzò in piedi e iniziò a infilare documenti nella valigetta. Era inutile rimanere lì. Poteva preoccuparsi allo stesso modo anche a casa di sua madre. «Sai, c'è una cosa, in tutta questa faccenda, che non riesco a capire» disse Glickman, terminando la cena. «Di che si tratta?» «Quell'ECG. Tanaka e Richter sono stati uccisi nel modo più sanguinario possibile. Perché l'assassino ha cambiato il suo modo di procedere perché sembrasse che Ellen O'Brien fosse morta per un attacco di cuore?» «Se c'è una cosa che ho imparato nell'ufficio del procuratore» borbottò David, chiudendo la valigetta con uno scatto, «è che l'omicidio non deve per forza avere senso.» «A me sembra che l'assassino si sia creato un sacco di problemi per trasferire la colpa su Kate Chesne.» David aveva già raggiunto la porta. Si fermò all'improvviso. «Cosa hai detto?» «Che si è creato un sacco di problemi per dare la colpa...» «No, hai detto "trasferire". Ha "trasferito" la colpa.» «Forse sì, e allora?» «Chi viene accusato quando un paziente muore inaspettatamente in sala operatoria?» «Di solito la colpa è...» Glickman si interruppe. «Oh mio Dio, perché non ci ho pensato prima?» David aveva già afferrato il telefono. Mentre componeva il numero della polizia, continuava a maledirsi per essere stato così cieco. L'assassino era stato accanto a loro tutto il tempo. Li aveva osservati. Aveva atteso. Sapeva che Kate stava cercando delle risposte e che si stava avvicinando alla verità. Adesso aveva paura. Abbastanza da scarabocchiare un avvertimento sul muro di Kate. Abbastanza da seguire una macchina lungo una statale buia. Forse aveva abbastanza paura da uccidere ancora.
Alle cinque e mezzo la maggior parte degli impiegati dell'archivio dell'ospedale era già andata via. L'unica impiegata rimasta prese la richiesta di Kate con un gesto infastidito e andò al computer per rintracciare la cartella che le serviva. Si accigliò, guardando i dati che erano comparsi sullo schermo. «Questa paziente è morta» osservò. «Lo so» replicò Kate, ripensando alle difficoltà della volta precedente in cui aveva cercato una cartella nell'archivio dei pazienti deceduti. «Il referto è conservato in un archivio separato.» «Me ne rendo conto. Potrebbe prenderlo?» «Potrebbe volerci un po' per trovarlo. Perché non torna domani?» A stento Kate resistette al desiderio di afferrare la donna per il vestito e scuoterla. «Ne ho bisogno adesso» insistette. E avrebbe voluto aggiungere che era una questione di vita o di morte. L'impiegata guardò l'orologio, battendo con la matita sulla scrivania. Poi si alzò con spaventosa lentezza e disparve nell'archivio. Passarono quindici minuti prima che ritornasse con la cartella. Kate andò a sedersi a un tavolo d'angolo e fissò il nome scritto sulla copertina: Brook, neonata. Quella povera bambina non aveva mai avuto neanche un nome. Nella cartella c'erano pochissimi fogli: la carta intestata dell'ospedale, il certificato di morte e una breve relazione della breve vita della piccola. Era stata dichiarata morta il 17 agosto alle 2 antimeridiane, un'ora dopo la nascita. Causa della morte anossia cerebrale: il minuscolo cervello non aveva ricevuto sufficiente ossigeno. Il certificato di morte era firmato dal dottor Henry Tanaka. Poi Kate si concentrò sulla copia del referto medico di Jenny Brook che aveva portato con sé. Aveva già letto quelle pagine tante volte. Adesso le esaminò una riga dopo l'altra, soffermandosi sul significato di ciascuna frase. Donna di 28 anni, alla trentaseiesima settimana di gestazione, ricoverata dal pronto soccorso nelle prime fasi del travaglio... Una relazione di routine. Nessuna sorpresa, nessuna avvisaglia del disastro che sarebbe accaduto. Giunta alla fine della prima pagina si soffermò su una breve annotazione: A causa di familiarità alla spina bifida, è stata eseguita una amniocentesi alla diciottesima settimana di gestazione, che non ha rivelato anomalie.
Amniocentesi. Al principio della gestazione, del liquido era stato prelevato dal ventre di Jenny Brook per un'analisi. In questo modo sarebbe stato possibile individuare malformazioni del feto. E indicarne anche il sesso. Il risultato dell'amniocentesi non era allegato al referto dell'ospedale. Non era strano, probabilmente era stato inserito nella cartella del day hospital di Jenny Brook. Che era opportunamente sparita dallo studio del dottor Tanaka. Kate richiuse la cartella. Si alzò, in preda a una subitanea frenesia, e tornò dall'impiegata dell'archivio. «Mi serve un altro referto» disse. «Non un'altra paziente deceduta, spero.» «No, questa persona è ancora viva.» «Nome?» «William Santini.» L'impiegata trovò la cartella in un momento. Quando finalmente Kate la ebbe fra le mani, si rese conto di aver quasi paura di aprirla, di vedere quel che già sapeva. Esitò, accanto al bancone, chiedendosi se davvero voleva sapere. Aprì la cartella. La prima cosa era un certificato di nascita. Nome: William Santini. Data di nascita: 17 agosto Ora: 03,00 17 agosto, la medesima data. Ma non proprio la stessa ora. William Santini aveva visto la luce esattamente un'ora dopo la morte della piccola Brook. Due neonati. Uno vivo, una morta. C'era mai stato un movente migliore per un omicidio? «Non dirmi che hai ancora dei referti da compilare» disse una voce familiare. Kate girò la testa di scatto. Guy Santini era appena entrato. Chiuse la cartella, rendendosi conto nello stesso istante che il nome era scritto a grandi lettere nere sulla copertina. Terrorizzata, strinse la cartella al petto, atteggiando le labbra a un sorriso. «Sto solo sbrigando le ultime carte» mormorò. Deglutì con forza e aggiunse, in tono cordiale: «Sei rimasto fino a tardi, oggi». «Sono rimasto a piedi un'altra volta. La macchina è in officina e Susan deve venire a prendermi.» Gettò uno sguardo verso la postazione dell'im-
piegata, che si era momentaneamente allontanata. «Non c'è nessuno, qui?» «C'era un'impiegata un attimo fa» borbottò Kate, arretrando verso l'uscita. «Avrai sentito della moglie di Avery. Una vera benedizione, considerando il suo...» Alzò lo sguardo e lei si irrigidì. Era a pochi centimetri dalla porta. «Qualcosa che non va?» chiese, accigliandosi. «No, solo... adesso devo proprio andare.» Si girò e stava per uscire di corsa quando l'impiegata la richiamò: «Dottoressa Chesne!». «Sì?» Kate si girò e vide che la donna la guardava con aria di rimprovero da dietro uno scaffale. «La cartella. Non può portarla fuori di qui.» Kate abbassò lo sguardo sulla cartella che stringeva ancora al petto, cercando di farsi venire in mente qualcosa. Non osava restituire la cartella mentre Guy se ne stava lì, in piedi accanto al bancone. Avrebbe visto il nome. Ma non poteva neanche restare lì come un'idiota. La stavano guardando tutti e due, in attesa che dicesse qualcosa. «Se non ha ancora finito, posso tenergliela in evidenza» aggiunse l'impiegata, tornando al suo posto. «No. Voglio dire...» Guy rise. «Cosa c'è lì dentro, segreti di stato?» Kate si rese conto che stava stringendo la cartella come se temesse che qualcuno potesse strappargliela. Con il cuore che le batteva come un tamburo, si avvicinò e posò la cartella a faccia in giù sul bancone. «Non ho ancora finito» disse. «Allora gliela tengo io.» L'impiegata si allungò verso il bancone e per un istante sembrò che avrebbe preso e girato la cartella, svelando il nome del paziente. Invece afferrò la lista di referti che Guy aveva appena posato sul bancone. «Perché non si siede, dottor Santini?» gli propose. «Le porterò io i referti.» Poi si girò e disparve nell'archivio. Devo andarmene immediatamente, pensò Kate. Ci volle tutto il suo autocontrollo per trattenersi dal balzare fuori dalla porta. Sentiva lo sguardo di Guy incollato alla schiena mentre si muoveva con passo deciso verso l'uscita. Solo quando raggiunse il corridoio e udì la
porta chiudersi alle sue spalle, si rese conto di quel che aveva appena scoperto. Guy Santini era un collega. Un amico. Era anche un assassino. E lei era l'unica a saperlo. Guy fissò a lungo la porta attraverso la quale Kate se n'era andata. Conosceva Kate Chesne da quasi un anno e non l'aveva mai vista così agitata. Si volse e si avviò verso un tavolo ad angolo per aspettare. Era il suo posto preferito, gli dava una sensazione di privacy nella stanza vasta e impersonale. Evidentemente piaceva anche a qualcun altro. C'erano ancora due cartelle, sul tavolo, che aspettavano di essere rimesse a posto. Prese una sedia e stava per spingerle da parte quando il suo sguardo cadde sulla copertina. Si sentì mancare le gambe. Cadde lentamente a sedere, fissando il nome. Brook, neonata. Deceduta. Buon Dio, pensò, non può essere la stessa. Aprì la cartella, cercando il nome della madre sul certificato di morte. Il panico saettò in lui. Madre: Brook, Jennifer. La stessa donna. La stessa neonata. Doveva pensare, doveva mantenere la calma. Non c'era nulla di cui preoccuparsi, nessuno poteva collegarlo a Jenny Brook o alla bambina. Le quattro persone coinvolte nella tragedia di cinque anni prima erano morte, non c'era ragione che qualcuno mettesse il naso in quella vecchia storia. O si? Si alzò di scatto e tornò al bancone. La cartella che Kate aveva posato con tanta riluttanza era ancora lì, a faccia in giù. La girò. Il nome di suo figlio. Kate Chesne sapeva. Aveva capito. Doveva essere fermata. «Ecco qua» annunciò l'impiegata, riemergendo dagli scaffali con un fascio di referti medici fra le braccia. «Penso di aver preso...» Sibloccò, stupita. «Dove va? Dottor Santini!» Guy non rispose. Aveva troppa fretta. Uscendo dall'ascensore, Kate si trovò nella lobby illuminata e rassicurante dell'ospedale. Alcuni visitatori erano fermi vicino alle porte e guar-
davano l'acquazzone che si stava abbattendo di fuori. Un addetto alla sicurezza si era fermato vicino al box informazioni e chiacchierava con una bella volontaria. Kate si affrettò a raggiungere le cabine telefoniche. Sulla prima un cartello segnalava che l'apparecchio era fuori servizio, nell'altra c'era un uomo che stava inserendo una moneta nella fessura. Kate si piantò alle sue spalle, in attesa. Il vento scuoteva le finestre e il parcheggio si intravedeva appena sotto la pioggia battente. Si sorprese a pregare che l'ispettore Ah Ching fosse al suo posto. Anche se, in quel momento, non era la sua voce quella che avrebbe voluto sentire, ma quella di David. L'uomo continuava a parlare al telefono. Guardandosi intorno, Kate notò allarmata che la guardia era scomparsa. La volontaria stava chiudendo il suo box informazioni. La sala si stava svuotando troppo rapidamente. Non voleva rimanere sola. Non lì, non con quello che aveva appena scoperto. Uscì di corsa dall'ospedale. Aveva posteggiato l'auto di Jinx al margine del parcheggio. Il temporale si era trasformato in una violenta tempesta tropicale di acqua e vento. Quando raggiunse la macchina, i suoi abiti erano fradici. Le ci volle qualche secondo per trovare la chiave e poi per aprire la portiera. Era così concentrata che non si avvide dell'ombra che si stava avvicinando a lei. Nel momento in cui si sistemò sul sedile della macchina, l'ombra la raggiunse. Una mano le afferrò il braccio. Alzò gli occhi e vide Guy Santini torreggiare sopra di lei. 15 «Spostati» le ordinò. «Guy, il mio braccio.» «Ti ho detto di spostarti.» Disperata, Kate si guardò intorno, sperando di vedere qualcuno che potesse sentirla urlare. Ma il parcheggio era deserto. L'unico suono era quello della pioggia che batteva sul tetto dell'auto. La fuga era impossibile. Guy le bloccava la strada e non ce l'avrebbe mai fatta a raggiungere l'altra portiera. Prima che potesse decidere cosa fare, Guy la spinse da parte e si sedette al posto del guidatore, chiudendo con forza la portiera. La luce grigia che penetrava attraverso i finestrini si rifletteva sul suo viso, dandogli un bagliore acquoso. «Le chiavi, Kate» ordinò. Le chiavi erano cadute accanto a lei sul sedile. Kate non si mosse.
«Dammi quelle fottute chiavi!» D'un colpo le vide nella luce incerta e le afferrò. Con gesto brusco mise in moto la macchina. Nello stesso istante, Kate si slanciò contro di lui. Con la disperazione di un animale in trappola voleva graffiargli il viso, ma all'ultimo istante un'intima repulsione per la violenza la fece esitare. Appena una frazione di secondo, abbastanza, però, perché lui reagisse. Schivandola, le afferrò il polso e lo girò con tale forza da farla ricadere contro il sedile. «Se dovrò farlo, ti giuro che ti romperò il braccio» l'ammonì con voce ferma. Innestò la retromarcia, sgommò all'indietro, poi pigiò l'acceleratore e slanciò l'auto fuori dal parcheggio. «Dove vuoi portarmi?» chiese lei. «Da qualche parte. Dovunque. Devo parlare con te e tu mi ascolterai.» «Di che cosa?» «Sai benissimo di che cosa.» Si stavano avvicinando a un incrocio. Kate fissava la strada, in attesa. Se solo fosse riuscita a buttarsi fuori... Ma lui anticipò le sue intenzioni. Afferrandole il braccio, l'attirò verso di sé e oltrepassò l'incrocio a tutta velocità, nell'istante in cui il semaforo passava al rosso. Era l'ultimo semaforo prima dell'autostrada. L'auto accelerò. Disperata, Kate vide il tachimetro sfiorare i cento all'ora. Aveva perso l'occasione. Se avesse tentato di gettarsi adesso si sarebbe di certo rotta l'osso del collo. Guy sapeva bene quanto lei che non avrebbe mai fatto una cosa così azzardata. Le lasciò il braccio. «Non erano affari tuoi, Kate» mormorò, fissando la strada, «non avevi nessun diritto di ficcare il naso. Nessun diritto.» «Ellen era una mia paziente. Una nostra paziente.» «Questo non ti dà il diritto di distruggere la mia vita.» «Che mi dici della sua vita? E di quella di Ann? Sono morte, Guy!» «E il passato è morto con loro. Lascia le cose come stanno.» «Mio Dio, pensavo di conoscerti. Pensavo che fossimo amici.» «Devo proteggere mio figlio. E Susan. Pensi che potrei mai permettere che vengano distrutti?» «Non ti toglieranno mai il bambino, non dopo cinque anni. Qualunque tribunale ti affiderebbe la custodia.» «Credi forse che mi preoccupi di questo? Lo so che potremmo tenerlo, che nessun giudice al mondo me lo porterebbe via, magari per affidarlo a
qualche pazzo come Decker. No, io penso a Susan.» La strada era bagnata, pericolosa. Guy stringeva il volante con entrambe le mani. Se Kate lo avesse colpito adesso, avrebbe perso il controllo dell'auto e sarebbero rimasti uccisi entrambi. Doveva aspettare che si presentasse un'altra occasione per fuggire. «Non capisco» replicò lei, scrutando la strada nella speranza di vedere un blocco del traffico, una macchina in panne, qualsiasi cosa che potesse rallentare la loro andatura. «Cosa significa che sei preoccupato per Susan?» «Lei non sa niente. Crede che William sia suo.» «Come può non sapere?» ribatté Kate, incredula. «Gliel'ho tenuto nascosto. Per cinque anni è stato il mio segreto. Era sotto anestesia quando è nata nostra figlia. È stato un incubo. Le corsa in ospedale, la paura, il taglio cesareo d'emergenza. Era la terza volta, Kate, la nostra ultima possibilità. Ed è nata morta.» Si fermò e si schiarì la gola. Quando parlò, la sua voce era ancora colma di sofferenza. «Non sapevo cosa fare, cosa dire a Susan. Stava dormendo serenamente, felice, e io tenevo fra le braccia la nostra bambina morta.» «Così hai preso il bambino di Jenny Brook.» Lui si passò una mano sul viso. «È stata la volontà di Dio, non capisci? La volontà di Dio. In quel momento ho pensato che fosse così. La donna era appena morta e aveva lasciato il suo bambino, un neonato perfetto. Lo sentivo piangere nella stanza accanto. Non c'era nessuno a consolarlo, nessuno che lo amasse. Nessuno aveva notizie di suo padre. Sembrava che non ci fosse alcun parente, nessuno che potesse occuparsi di lui. E c'era Susan, che si stava già svegliando. Non capisci? La verità l'avrebbe uccisa. Dio ci ha dato quel bambino, è stato come se Lui stesso avesse stabilito che le cose dovevano andare così. Lo abbiamo pensato tutti. Ann. Ellen. Solo Tanaka...» «Lui non era d'accordo?» «Al principio no. Abbiamo litigato. Solo quando Susan ha aperto gli occhi e ha chiesto di suo figlio si è arreso. Così Ellen ha portato il bambino nella stanza e lo ha adagiato fra le braccia di Susan. E la mia Susan... lei lo ha guardato e poi, poi si è messa a piangere.» Guy si asciugò il viso con una manica. «Allora abbiamo compreso di aver fatto la cosa giusta.» Kate riusciva a immaginare quel momento. La decisione era stata saggia, degna di Salomone, suggellata dallo spettacolo commovente di un neonato fra le braccia della sua mamma. Eppure quella decisione aveva causato la
morte di quattro persone. Presto sarebbero state cinque. All'improvviso la macchina rallentò. Speranzosa, Kate guardò la strada. Il traffico si stava intensificando. Davanti a loro intravedeva la galleria di Pali. Sapeva che c'era un telefono d'emergenza, da qualche parte vicino all'ingresso. Se Guy avesse rallentato un altro po', se lei fosse riuscita ad aprire la portiera, forse poteva gettarsi fuori dall'auto prima che lui riuscisse a fermarla. Non ne ebbe l'opportunità. Invece di proseguire verso la galleria, Guy sterzò e imboccò una traversa fiancheggiata da una fitta vegetazione. Oltrepassarono un cartello con la scritta: Punto panoramico di Pali. La destinazione finale, pensò lei. A strapiombo sulla valle, quello sperone roccioso era il punto da cui gli amanti suicidi suggellavano il loro amore, dal quale anticamente venivano gettati nel vuoto i guerrieri nemici. Il posto ideale per un omicidio. Con la forza della disperazione si aggrappò alla portiera per aprirla, ma Guy l'afferrò e la tirò indietro. Allora si girò e si scagliò su di lui, stringendo i pugni. Guy perse il controllo e l'auto scartò, proseguendo la sua corsa fra gli alberi. I rami percuotevano violentemente il parabrezza, ma a Kate non importava che andassero a sbattere. Voleva soltanto fuggire. La forza superiore di Guy decise lo scontro. La respinse con tutto il suo peso e riprese il volante, sterzando a sinistra un attimo prima che finissero contro un albero. Riportò l'auto sulla strada. Kate, riversa sul sedile, ormai non poteva fare altro che aspettare che giungessero a destinazione. Dopo poche centinaia di metri Guy si fermò e spense il motore. Per un lungo istante rimase seduto immobile, come raccogliendo il coraggio necessario a eseguire il suo compito. L'acquazzone si era trasformato in una pioggerellina sottile. Oltre il punto di osservazione, il panorama era nascosto da banchi di nebbia. «Perché mi hai aggredito a quel modo? Potevamo ammazzarci» borbottò Guy. Lei chinò il capo. Si sentiva stanca, schiacciata dall'ineluttabilità del suo destino. «Tanto mi ammazzerai comunque» sussurrò, «come hai fatto con gli altri.» «Cosa?» Lei lo guardò in viso, cercandovi qualche segno di rimorso. Se solo fosse riuscita a trovare in lui un ultimo briciolo di umanità.
«È stato facile?» chiese. «Tagliare la gola di Ann? Guardarla morire dissanguata?» «Vuoi dire... davvero pensi... Oh mio Dio.» Si prese il viso fra le mani. E scoppiò a ridere. Dapprima piano, poi sempre più forte, fino a quando il suo corpo fu scosso da qualcosa che faceva pensare più a una serie di singhiozzi che a una risata. Non notò i fari che si stavano avvicinando nella nebbia. Kate invece si girò e vide che un'altra macchina stava risalendo la strada. Era la sua occasione per fuggire e chiedere aiuto, eppure non lo fece. In quell'istante comprese che Guy non aveva inteso farle del male. Era incapace di uccidere. Senza dire nulla, lui spalancò la portiera e scese dall'auto. Si avvicinò al punto panoramico e si fermò presso il muretto, la testa e la schiena chine, come se stesse pregando. Kate scese a sua volta e gli si avvicinò. Senza una parola, allungò una mano e gli sfiorò il braccio. Le sembrò quasi di avvertire il dolore e lo smarrimento, che lo tormentavano. «Allora non li hai uccisi» mormorò. Lui alzò la testa, inspirando a fondo. «Farei quasi tutto per poter tenere mio figlio. Ma uccidere?» Scosse il capo. «No, buon Dio, no. Ammetto di aver pensato di uccidere Decker, chi mai ne avrebbe sentito la mancanza? Non era niente, solo un rifiuto umano. E sembrava una soluzione così semplice, forse l'unica. Non voleva rinunciare, continuava a tormentare la gente per avere delle risposte. Voleva sapere dove fosse sua figlia.» «Come faceva a sapere che era viva?» «C'era un altro dottore in sala parto.» «Vuoi dire il dottor Vaughn?» «Decker parlò con lui e venne a sapere una parte della verità.» «Poi Vaughn è morto in un incidente d'auto.» Guy annuì. «A quel punto ho creduto che tutto si fosse aggiustato, che fosse finita, ma poi Decker è stato dimesso dall'ospedale. Prima o poi qualcuno avrebbe parlato. Tanaka era pronto a farlo; Ann era terrorizzata. Le diedi dei soldi, perché lasciasse le isole. Purtroppo non ha fatto in tempo: Decker l'ha raggiunta prima che potesse andarsene.» «Ma questo non ha senso, Guy. Perché Decker avrebbe dovuto uccidere le uniche persone che avrebbero potuto dargli delle risposte?» «Era psicotico.» «Anche gli psicotici hanno una loro logica.»
«Deve essere stato lui per forza. Non c'era nessun altro...» Da qualche parte nella nebbia udirono un secco scatto metallico. Si irrigidirono, mentre dei passi si avvicinavano lentamente. Dall'oscurità emerse una figura, come vapore che andava via via prendendo forma. Finalmente si fermò dinanzi a loro. Perfino nella scarsa luce del crepuscolo i capelli rossi di Susan Santini sembravano risplendere come una fiamma. Lo sguardo di Kate, però, era puntato sulla pistola che la donna stringeva in mano. «Spostati, Guy» ordinò Susan a bassa voce. Guy era troppo sbalordito per muoversi o parlare. Riusciva soltanto a fissare la moglie. «Sei stata tu» mormorò Kate, attonita. «Sei stata tu. Non Decker.» Lo sguardo di Susan si spostò lentamente su Kate. Attraverso il velo di foschia che si frapponeva fra loro, il suo viso era sfocato e informe come quello di un fantasma. «Tu non capisci, vero? Ma tu non hai mai avuto un figlio, Kate, non hai mai avuto paura che qualcuno potesse fargli del male o portartelo via. È il più grande timore di una madre. È il mio più grande timore.» «Mio Dio, Susan» sussurrò Guy. La sua voce era un gemito. «Ti rendi conto di quel che hai fatto?» «Tu non l'avresti fatto, così ho dovuto occuparmene io. In tutti questi anni non ho mai saputo di William. Avresti dovuto dirmelo, Guy. Ho dovuto saperlo da Tanaka.» «Hai ucciso quattro persone, Susan.» «Non quattro. Solo tre. Non ho ucciso Ellen.» Susan guardò Kate. «L'ha fatto lei.» Kate la fissò sbigottita. «Cosa vuoi dire?» «Non c'era succinilcolina, nella fiala. Era cloruro di potassio. Hai dato a Ellen una dose letale.» Il suo sguardo tornò sul marito. «Non volevo che ti dessero la colpa, tesoro. Non potevo sopportare che ti facessero soffrire, come l'altra volta in cui ti hanno citato in giudizio. Così ho scambiato gli ECG e ci ho scritto sopra le iniziali di Kate.» «Così da far ricadere la colpa su di me» concluse lei. Annuendo, Susan alzò la pistola. «Esatto Kate, ti sei presa la colpa, mi dispiace. Adesso spostati Guy, per favore. Devo farlo, per amore di William.» «No, Susan.»
Lei lo guardò, incredula. «Me lo porteranno via, non capisci? Mi porteranno via il mio bambino.» «Non lo permetterò, te lo prometto.» Susan scosse la testa. «È troppo tardi, Guy. Ho ucciso gli altri. Ormai lei è l'unica a sapere.» «Anch'io so» proruppe Guy. «Ucciderai pure me?» «Tu non lo dirai. Sei mio marito.» «Susan, dammi la pistola.» Guy si mosse lentamente in avanti, tendendole la mano. Abbassò la voce, e le parlò in modo gentile, confidenziale. «Ti prego, tesoro, non accadrà nulla. Mi occuperò io di tutto. Dai a me quell'arma.» Lei fece un passo indietro e quasi perse l'equilibrio sul terreno sconnesso. Guy si irrigidì, vedendo che la pistola puntava proprio nella sua direzione. «Non vorrai farmi del male, Susan.» «Ti prego, Guy...» Lui fece un altro passo in avanti. «Non è così?» «Ti amo» gemette lei. «Allora dammi la pistola. Sì tesoro, dalla a me.» La distanza fra loro diminuiva lentamente. La mano di Guy si protese verso di lei, cercando di convincerla con la promessa di calore e salvezza. La moglie lo guardò con rimpianto, come se sapesse, in fondo al cuore, che quella promessa era per sempre al di là della sua portata. La pistola era a pochi centimetri dalla mano di Guy e Susan rimaneva immobile, come paralizzata dall'inevitabilità della sconfitta. Guy, percependo infine di aver vinto, le si accostò, prese la pistola per la canna e cercò di togliergliela di mano. Ma la moglie non intendeva lasciarla. In quel momento, dentro di lei, si accese un'ultima scintilla di resistenza. Cercò di strappargli la pistola. «Lasciala!» strillò. «Dammela» insistette Guy, lottando per controllare l'arma. «Susan, dammela.» Lo sparo li immobilizzò entrambi. Si guardarono l'un l'altro, sgomenti. Nessuno di loro voleva credere a quel che era appena successo. Poi Guy ricadde all'indietro, stringendosi una gamba. «No!» Il grido di Susan riecheggiò spettrale nella foschia. Si girò verso Kate. Nei suoi occhi c'era la disperazione. E stringeva ancora la pistola.
Kate si mise a correre. Si slanciò nella foschia alla cieca, disperatamente. Udì lo sparo. Una pallottola le sibilò accanto e si conficcò a terra accanto a lei. Non c'era tempo per orientarsi, per cercare di tornare sulla strada. Continuò a correre, sperando che la nebbia l'avrebbe nascosta allo sguardo di Susan. Improvvisamente si accorse che il terreno era in salinta. Oltre i banchi di nebbia scorse la parete a picco della montagna davanti a lei, cosparsa di radi cespugli. Si girò e comprese all'istante di non poter più tornare indietro, verso la strada: Susan era alle sue spalle. L'unica via di scampo era a sinistra, lungo i resti sgretolati dell'originario passo montano, la vecchia strada di Pali. Era abbandonata da molto tempo e non aveva idea di quanto potesse portarla lontano, visto che era crollata in più parti, rovinando giù per il ripido pendio. I passi si avvicinavano in fretta, non aveva altra scelta che tentare. Oltrepassò il basso muretto di cemento e si ritrovò a scivolare giù per una scarpata fangosa. Cercò di rallentare la caduta aggrappandosi a rami e arbusti e infine atterrò, graffiata e senza fiato, su una lastra pavimentata. La vecchia strada di Pali. Da qualche parte sopra di lei, invisibile fra le nubi, udì frusciare i cespugli. «Non puoi fuggire, Kate» disse la voce senza volto di Susan. Sembrava che provenisse da tutte le direzioni. «La vecchia strada non arriva lontano. Un passo falso e precipiterai nel burrone. Farai meglio a stare attenta.» Attenta... Attenta... L'ammonimento riecheggiò fra le pareti di roccia, disperdendosi in spaventosi frammenti sonori. Il tramestio fra i cespugli si fece più distinto: Susan stava scendendo. Avanzava con cautela, risoluta. La sua vittima era in trappola, e lei lo sapeva. In trappola però non significa impotente. Kate si alzò in piedi e cominciò a correre. La vecchia strada era piena di fenditure e buche. In alcuni punti si era squarciata sotto la pressione delle radici degli alberi. Strinse gli occhi, sforzandosi di vedere attraverso la nebbia, ma non riusciva a spingere lo sguardo oltre pochi metri. La luce del giorno stava scemando in fretta e presto le avrebbe impedito del tutto di vedere qualcosa. Allo stesso tempo, però, l'avrebbe nascosta. Ma dove poteva nascondersi? Sulla destra, si innalzava una parete di roccia verticale; a sinistra, oltre il ciglio della strada, si apriva un abisso. Non aveva scelta: doveva continuare a correre. Inciampò su un masso e cadde rovinosamente ma si rialzò subito, incu-
rante del dolore che le bruciava le ginocchia. Mentre correva, il suo pensiero si slanciava verso l'ignoto davanti a lei: avrebbe trovato una barriera insormontabile, alla fine della strada? O semplicemente un precipizio? In entrambi i casi non avrebbe avuto scampo. Soltanto una pallottola e un salto nel vuoto. Quanto tempo sarebbe passato, prima che trovassero il suo corpo? Una folata di vento spazzò la strada. Per un momento, la foschia si diradò. Alla sua destra Kate vide la parete scoscesa della montagna, coperta di fitta vegetazione. A circa metà altezza, seminascosta fra le piante, c'era l'imboccatura di una grotta. Se fosse riuscita a raggiungerla e a dissimularne l'ingresso con i cespugli prima che Susan passasse, poteva nascondersi lì dentro fino all'arrivo dei soccorsi. Ammesso e non concesso che fossero arrivati. Si fece strada faticosamente attraverso gli arbusti e cominciò ad arrampicarsi, sul terreno reso fangoso dalla pioggia, aggrappandosi a radici e rami. Pur frenetica, cercava di muoversi con cautela, per evitare di far staccare un masso che, cadendo sulla strada, avrebbe attirato l'attenzione di Susan. L'avrebbe scorta subito, sospesa a mezz'aria come una mosca su un muro. Le sarebbe bastata una sola pallottola per farla finita. Un suono di passi la fece irrigidire. Susan si stava avvicinando. Kate si schiacciò disperatamente contro la parete di roccia, cercando di fondersi con i cespugli. I passi rallentarono, si fermarono. In quel momento, il vento sospinse un banco di nebbia contro la montagna, avvolgendo Kate in una nube argentea. I passi ripresero, lentamente. Solo quando il suono disparve, Kate trovò il coraggio di riprendere l'arrampicata. Quando finalmente raggiunse la grotta, le sue mani sembravano artigli. Con le ultime forze si trascinò all'interno dell'antro fangoso. Si abbandonò per terra, cercando di riprendere fiato. Dal soffitto sporgevano le radici degli alberi gocciolanti di umidità. Alcune stille le caddero sul viso. Sentì un fruscio nell'ombra, un movimento, e qualcosa le passò sul braccio. Uno scarafaggio. Non aveva la forza di cacciarlo. Esausta e tremante, si strinse le gambe al petto, raggomitolandosi come un cucciolo nel fango. Il vento si stava alzando, spazzando via le nuvole dal passo e diradando sempre più la nebbia. Doveva resistere fino al calare della notte, il buio era la sua unica opportunità. Chiuse gli occhi e nella sua mente si formò l'immagine di David. Se solo avesse potuto sentire la sua silenziosa richiesta d'aiuto. Ma lui non poteva
aiutarla, nessuno poteva farlo. Chissà come avrebbe reagito alla notizia della sua morte. Avrebbe provato dolore o avrebbe ignorato la cosa, considerandola semplicemente la tragica fine di una relazione destinata a fallire? Pensare alla sua indifferenza era quel che le faceva più male. Si nascose il viso fra le braccia. Lacrime calde si mescolarono con l'acqua gelida sulle sue guance. Non si era mai sentita così sola, così abbandonata. D'un colpo le sembrò che non avesse più alcuna importanza vivere o morire, ma solo che a qualcuno importasse di lei. Io sono l'unica a cui importa. Una nuova, disperata forza si risvegliò in lei. Stese le braccia e le gambe e guardò fuori, la nebbia che si stava pian piano dissolvendo. La rabbia si impossessò di lei, al pensiero che qualcuno voleva ucciderla e che l'uomo che amava non era lì per aiutarla. Se voglio salvarmi, devo farlo da sola. I passi adesso si avvicinavano lentamente lungo la strada e Kate comprese che l'oscurità sarebbe arrivata troppo tardi per salvarla. Oltre gli arbusti che orlavano l'imboccatura della grotta, intravide in lontananza la cima ammantata di verde di una montagna. La nebbia si era diradata, non era più invisibile. «Sei lassù, vero?» La voce di Susan si alzò dalla strada, talmente fredda che Kate rabbrividì. «Mi eri quasi sfuggita. Ma non è stata una buona idea, le caverne hanno un brutto difetto, ormai l'avrai capito anche tu: sono vicoli ciechi.» Alcuni sassi rotolarono giù dalla parete di rocaa e caddero rumorosamente sulla strada. Si sta arrampicando, pensò Kate, sta venendo a uccidermi. L'unica via di fuga era attraverso l'imboccatura della grotta. Diritta nella linea di tiro di Susan. Udì un ramoscello spezzarsi e altri massi rotolare giù. Susan si stava avvicinando, lei non aveva altra scelta: o fuggiva adesso o sarebbe stata in trappola come un sorcio. Frugò nel fango con le mani e trovò un sasso della dimensione di un pugno. Non era molto, contro una pistola, ma era tutto quel che aveva. Sporse la testa con cautela: Susan era già a metà strada. I loro occhi si incontrarono ed entrambe vi lessero la disperazione: una stava lottando per la propria vita, l'altra per il suo bambino. Non potevano esserci compromessi, nessuna resa, a parte la morte. Susan mirò, puntando la canna della pistola alla testa della sua preda. Kate scagliò la pietra.
Sibilando nell'aria, il sasso andò a colpire la spalla di Susan. Gridando, la donna scivolò giù di qualche metro, prima di riuscire ad aggrapparsi a un ramo. Rimase immobile per alcuni istanti. Kate ne approfittò per slanciarsi fuori dalla grotta e riprendere l'arrampicata verso la cima della montagna. Mentre saliva, aggrappandosi agli arbusti, una parte di lei era consapevole che quella salita era impossibile, che la parete era troppo ripida, i cespugli troppo rinsecchiti per sostenere il suo peso. Ma le sue braccia e le sue gambe sembravano spinte da una loro volontà, guidate non dalla logica ma dall'istinto di sopravvivenza. Le sue maniche erano ormai ridotte a brandelli, e aveva braccia e mani ricoperte di graffi ma era troppo terrorizzata per provare dolore. Una pallottola si schiantò contro un masso accanto a lei e una pioggia di schegge le cadde sul viso. La mira di Susan non era perfetta, fortunatamente: non poteva tenersi aggrappata alla montagna e sparare con precisione allo stesso tempo. Kate alzò il viso e si trovò davanti una sporgenza rocciosa ricoperta di arbusti rampicanti. Era abbastanza forte da issarsi lì sopra? I rampicanti erano abbastanza robusti da sostenere il suo peso? La parete era troppo ripida e lei era così stanca... Un altro sparo, tanto vicino che udì il sibilo della pallottola vicino alla guancia. Freneticamente, afferrò un rampicante e cominciò a issarsi sulla sporgenza. Raschiò la roccia più volte con i piedi, prima di riuscire a trovare un appoggio solido. Si tirò su, un centimetro dopo l'altro, incurante di scorticarsi le ginocchia. In alto, vedeva le nuvole correre in cielo, come una lontana promessa di libertà. Quante pallottole erano rimaste? Ne bastava una. Ogni centimetro era un'agonia. Era stremata e dolorante. Se una pallottola l'avesse colpita, forse se ne sarebbe accorta a malapena. Quando alla fine raggiunse la sporgenza, era troppo esausta per tirare un sospiro di sollievo. Si lasciò rotolare su una cengia sottile, poco più di un sasso lisciato dalla pioggia e reso viscido dai licheni. Nessun letto era mai stato così comodo. Avrebbe voluto rimanere lì per sempre, chiudere gli occhi e dormire, ma non c'era tempo di riposare, di dar modo alle sue membra di riprendersi da quella spossatezza. Susan era proprio dietro di lei. Si alzò in piedi, con le gambe tremanti per la fatica, sulla sporgenza battuta dal vento. Una delle sue scarpe le era scivolata dal piede e a ogni passo le spine e le asperità della roccia le martoriavano la carne. Da lì però la
salita sembrava più semplice. C'erano soltanto pochi metri fino alla cima della montagna. Non ci arrivò mai. Un ultimo sparo riecheggiò fra le rocce. Non provò dolore, ma sorpresa. La pallottola le penetrò nella spalla con un colpo sordo. Vide il cielo girare vorticosamente, sopra la sua testa. Per un istante vacillò, debole come una canna al vento. Poi capì che stava cadendo all'indietro, rotolando sempre più giù, verso l'oblio. Fu un cespuglio di halekoa, una di quelle piante che affondano le radici testarde nel suolo delle Hawaii, a salvare la sua vita. Le si attorcigliò fra le gambe, rallentando la sua caduta ed evitando che precipitasse oltre il ciglio della sporgenza rocciosa. Rimase sdraiata a occhi chiusi, cercando di rendersi conto di dove si trovasse. A un tratto le sembrò di udire degli strilli, in lontananza, come il pianto di un bambino. Si avvicinavano. Quell'allucinazione la riportò alla coscienza. Aprì gli occhi e fissò la plumbea monocromia del cielo mentre il pianto si trasformava pian piano nella sirena delle macchine della polizia. Stavano venendo ad aiutarla. A salvarla. Un'ombra si mosse nel suo campo visivo. Si sforzò di mettere a fuoco la figura che torreggiava su di lei. Sullo sfondo del cielo cupo, il viso di Susan Santini era poco più che una sagoma nera cinta da una massa di capelli arruffati dal vento. Non disse nulla. Puntò lentamente la pistola contro la testa di Kate e per un istante rimase immobile, la gonna svolazzante, stringendo la pistola con entrambe le mani. Una folata di vento la investì, facendola traballare pericolosamente sulla roccia scivolosa. Le sirene si spensero e dalla valle provennero le grida di uomini. Kate si alzò faticosamente a sedere. Aveva la pistola puntata diritta in faccia. Con calma, riuscì a dire: «Non hai più alcuna ragione di uccidermi, Susan». «Tu sai di William.» «Anche loro lo sapranno» replicò Kate, accennando debolmente alle voci lontane che si stavano avvicinando. «No, a meno che tu non glielo dica.» «Chi ti dice che non l'abbia già fatto?» La pistola tremò. «No!» gridò Susan, e per la prima volta c'era una nota di panico nella sua voce. «Non puoi averlo fatto. Non ne eri sicura.» «Hai bisogno di aiuto, Susan. Penserò io a fartelo avere. Tutto l'aiuto di cui hai bisogno.»
La pistola minacciava ancora la sua testa. Appena un fremito del dito, uno scatto del cane e l'intero mondo di Kate sarebbe andato in frantumi. Fissò il foro nero all'estremità della canna, chiedendosi se avrebbe provato dolore. Era incredibile che riuscisse a fronteggiare la morte con tale calma. Ma aveva combattuto per rimanere viva e aveva perso. Poteva solo aspettare la fine, ormai. Poi, il vento le portò una voce che chiamava il suo nome. Un'altra allucinazione, pensò. Deve essere... Ma eccola, un'altra volta: la voce di David, che la chiamava, ancora e ancora. Voleva vivere. Voleva dirgli tutte le cose che gli aveva taciuto per troppo orgoglio. Che la vita è troppo preziosa per sprecarla rimanendo ancorati ai tormenti del passato. Che se solo gliene avesse dato l'opportunità, lei avrebbe potuto aiutarlo a dimenticare il dolore che aveva sofferto. «Ti prego Susan» bisbigliò, «mettila giù.» Susan si mosse appena, ma la pistola era ancora salda fra le sue mani. Sembrava concentrata sulle voci che s'appressavano lungo la vecchia strada di Pali. «Non capisci?» insistette Kate. «Se mi uccidi distruggerai l'ultima possibilità che hai di tenere tuo figlio.» Parve che quelle parole fiaccassero di colpo tutta la forza di Susan. Pian piano, con un movimento quasi impercettibile, lasciò cadere l'arma. Per un po' rimase ferma, in silenzio, a capo chino. Poi si girò e guardò oltre la sporgenza, la strada in basso. «È troppo tardi ormai» mormorò, così piano che la sua voce soverchiò a malapena il cupo sibilo del vento. «Lo ho già perduto.» Un coro di grida, dabbasso, lasciò intendere che le avevano viste. Susan guardò il gruppo di uomini che si era radunato sotto di loro. I suoi capelli si agitavano nel vento, come fiamme. «È meglio così» proseguì. «Avrà solo bei ricordi di me. È così che deve essere l'infanzia, sai. Solo bei ricordi.» Forse fu una folata di vento improvvisa, a farle perdere l'equilibrio, Kate non si rese conto esattamente di quel che accadde. Susan era in piedi, sull'orlo della sporgenza rocciosa. Un attimo dopo era scomparsa. Cadde senza far rumore, senza un grido. Kate, invece, singhiozzava. Si abbandonò sulla roccia fredda, sentendosi venir meno. Pianse, per la donna che era appena morta, per le altre quattro persone che avevano perso la vita. Troppe morti, troppo dolore. E tutto in
nome dell'amore. 16 David fu il primo a raggiungerla sullo sperone a oltre venti metri d'altezza. Giaceva incosciente e tremante in una pozza di sangue. Guidato dal panico, e non dalla logica, si tolse la giacca e la ricoprì. Aveva solo un pensiero in mente: Non puoi morire. Non ti lascerò morire. Mi senti Kate? Non puoi morire. La prese fra le braccia e il suo sangue gli inzuppò la camicia. Continuava a ripetere il suo nome, come se così facendo potesse in qualche modo trattenere la sua anima, evitare che si allontanasse per sempre oltre la sua portata. Udì a malapena i richiami degli uomini che stavano tentando di recuperarli e le sirene dell'ambulanza. La sua attenzione era concentrata sul respiro di Kate e sul battito del suo cuore. Era così fredda, inerte. Se solo avesse potuto scaldarla. Lo aveva già desiderato una volta, quando aveva tenuto il suo unico figlio, morente, fra le braccia. Non questa volta, pregò, stringendola più forte, non prenderti anche lei. Continuò a pregare mentre la trasportavano giù per la montagna. Un'ambulanza era in attesa, e i paramedici si affollarono tutt'attorno per accogliere la ferita, sospingendolo da una parte. Rimase lì, spettatore impotente di una battaglia che non poteva combattere. Vide l'ambulanza allontanarsi nel buio a sirene spiegate. Immaginò il pronto soccorso, le luci abbaglianti, il personale vestito di bianco. Non sopportava il pensiero di Kate, inerme, al centro di tutta quella confusione. Eppure era la sua unica possibilità. Una mano gli batté amichevolmente sulla spalla. «Stai bene, Davy?» chiese Pokie. «Sì» rispose lui con un profondo sospiro. «Si riprenderà. Per certe cose ho la sfera di cristallo.» Si girò, udendo uno starnuto. Il sergente Brophy si stava avvicinando, il viso seminascosto da un enorme fazzoletto. «Hanno recuperato il corpo» annunciò, «era rimasto impigliato in tutti quei... quei...» Si soffiò il naso. «Cespugli. Collo spezzato. Vuoi dare un'occhiata prima che la portino all'obitorio?» «Non importa» grugnì Pokie, «ti credo sulla parola.» Mentre si avviavano verso la macchina, chiese: «Come l'ha presa il dottor Santini?».
«È strano» rispose Brophy, «quando gli ho detto di sua moglie, sembrava che se lo aspettasse.» Pokie lanciò uno sguardo al corpo di Susan Santini nascosto sotto il lenzuolo. Lo stavano caricando su un'ambulanza. «Forse è così. Forse ha sempre saputo cosa stava succedendo, ma non voleva ammetterlo. Nemmeno a se stesso.» Brophy aprì la portiera. «Dove andiamo?» «All'ospedale. E sbrigati.» Pokie accennò a David. «Quest'uomo ha una lunga attesa, davanti a sé.» Passarono quattro ore, prima che permettessero a David di vederla. Quattro ore, trascorse a camminare avanti e indietro nella sala d'attesa del quarto piano, con lo stesso titolo del National Enquirer sotto gli occhi: Testa di donna innestata su corpo di babbuino. C'era solo un'altra persona nella stanza, un uomo dal viso cavallino che se ne stava stravaccato sotto il cartello: Vietato Fumare, fumando accanitamente. Schiacciava una sigaretta e ne prendeva un'altra. «Si sta facendo tardi» diceva. Tutta qui, la loro conversazione. Poche parole, pronunciate con voce atona. Non disse chi stava aspettando, non parlò mai di paura. Era tutta lì, nei suoi occhi. Alle 11 di sera, l'uomo fu chiamato nella sala postoperatoria e David rimase solo. Si fermò accanto alla finestra, ascoltando le sirene di un'ambulanza che si avvicinava, e guardò l'orologio, per la centesima volta. Era sotto i ferri da tre ore. Quanto ci voleva a estrarre un proiettile? Era accaduto qualcosa? A mezzanotte, finalmente si presentò un'infermiera. «Lei è il signor Ransom?» Lui si girò di scatto, mentre il cuore aumentava i suoi battiti. «Sì.» «Ho pensato che avrebbe voluto essere informato. La dottoressa Chesne è uscita dalla sala operatoria.» «Sta... sta bene?» «È andato tutto bene.» Il suo sospiro di sollievo fu così profondo che per un istante si sentì vacillare. Grazie, pensò, grazie. «Se vuole andare a casa, la chiameremo quando...» «Devo vederla.»
«È ancora incosciente.» «Devo vederla.» «Mi dispiace, ma permettiamo soltanto ai familiari di...» Si interruppe, vedendo lo sguardo intimidatorio negli occhi di David. Si schiarì la gola. «Solo cinque minuti, signor Ransom. Non uno di più. Ha capito?» Certo che capiva. E non gliene importava niente. La oltrepassò ed entrò nella sala di risveglio. Kate giaceva sull'ultima barella, semisommersa da tubicini di plastica. La sua figura piccola e pallida sembrava sparire sotto le luci accese. Solo una tenda bianca e floscia la separava dagli altri pazienti. David si fermò ai piedi del lettino, timoroso di avvicinarsi, senza osare toccarla per paura che una delle sue fragili membra potesse spezzarsi. Alla sua mente si presentò l'immagine di una principessa addormentata in una teca di vetro, nel profondo di un bosco: intoccabile, irraggiungibile. Un monitor cardiaco scandiva il ritmo forte e tranquillo del suo cuore. Era musica per le sue orecchie. Il cuore di Kate. Rimase in piedi, immobile, guardando le infermiere che sistemavano tubicini, regolando i fluidi e l'ossigeno. Un dottore venne a esaminare i polmoni di Kate. David si sentiva inutile. Era un ostacolo per tutti. Sapeva di dover andar via, che avrebbe fatto meglio a lasciarli liberi di fare il loro lavoro, ma c'era qualcosa che gli impediva di muoversi. Una delle infermiere indicò l'orologio e disse severamente: «Non possiamo lavorare, con lei qui. Deve andar via, adesso». Ma non lo fece. Non voleva. Non prima di essere sicuro che sarebbe andato tutto bene. «Si sta svegliando.» La luce di una dozzina di soli bruciava attraverso le sue palpebre. Dal vuoto, intorno a lei, le giungevano voci, vagamente familiari. Aprì gli occhi. La prima cosa che vide fu una luce abbagliante e inesorabile, diritta sul suo viso. Poi, pian piano, riuscì a mettere a fuoco il volto di una donna sorridente. Le sembrò di conoscerla, di averla già vista prima, in un passato remoto. Si concentrò sulla targhetta col nome: infermiera Julie Sanders. Julie, adesso ricordava. «Mi sente, dottoressa Chesne?» Kate fece un debole tentativo di annuire. «Si trova nella sala postoperatoria. Sente dolore?» Kate non lo sapeva. I suoi sensi si stavano risvegliando uno alla volta e
non riusciva ancora a provare dolore. Le ci volle qualche momento per registrare tutti i segnali che stavano giungendo al suo cervello. Avvertì il soffio dell'ossigeno nelle narici e udì il bip del monitor cardiaco provenire da qualche parte sopra il suo letto. Ma dolore? No. Si sentiva soltanto tremendamente vuota ed esausta. Voleva dormire. Altri volti si erano riuniti intorno al letto. Un'altra infermiera, con uno stetoscopio intorno al collo, il dottor Tam, arcigno come sempre. Poi sentì una voce che la chiamava. «Kate?» Si girò e vide il viso di David. Si stagliava nero contro le luci, aveva l'aria smarrita e stanca. Meravigliata, sollevò la mano per toccarlo, ma si rese conto che il suo polso era bloccato da una miriade di tubicini di plastica. Troppo debole per superare quell'ostacolo, lasciò ricadere la mano. Fu allora che lui la prese, con gentilezza, come se temesse che potesse rompersi. «Stai bene» sussurrò, baciandole il palmo, «grazie a Dio stai bene.» «Non ricordo...» «Sei stata operata» disse lui, accennando un debole sorriso. «Un intervento di tre ore, per estrarre la pallottola. Mi è sembrato un'eternità.» Allora ricordò: il vento, la montagna e Susan, che scompariva come un fantasma. «È morta?» Lui annuì. «Non c'è stato niente da fare.» «E Guy?» «Non potrà camminare, per un po'. Non so proprio come abbia fatto a raggiungere quel telefono, ma ce l'ha fatta.» Kate rimase in silenzio per qualche istante, ripensando a Guy, alla sua vita distrutta. «Mi ha salvato la vita. E adesso ha perso ogni cosa.» «Ha sempre suo figlio.» Sì, pensò lei, William sarebbe sempre stato il figlio di Guy. Sarebbero stati legati, non dal sangue, ma da qualcosa di assai più profondo: l'amore. Alla fine di tutta quella tragedia, almeno una cosa si era salvata. «Signor Ransom, adesso deve proprio andare» disse il dottor Tam. David annuì e si chinò a baciare Kate. Il tocco delle sue labbra fu rude e goffo. Se le avesse detto che l'amava, se le avesse detto qualunque cosa, forse quel bacio le avrebbe dato un po' di gioia. Invece lui si scostò, troppo in fretta.
Intorno a lei, cose e persone avevano assunto contorni sfocati. Il dottor Tam cominciò a farle una serie di domande a cui lei era troppo intontita per rispondere. Le infermiere si affaccendavano intorno al suo letto, cambiando le flebo, staccando fili, rimboccandole le lenzuola. Le fecero un'iniezione contro il dolore. Nel giro di pochi minuti, una sonnolenza invincibile si impadronì di lei. Cercò di rimanere sveglia, mentre la portavano fuori dalla sala postoperatoria. Doveva dire a David una cosa importante, una cosa che non poteva aspettare. Ma c'erano così tante persone intorno, e la sua voce si confondeva con quella degli altri. Pensò che forse questa era l'ultima occasione che aveva per confessargli che lo amava. Tuttavia, pur sul punto di perdere conoscenza, un ultimo briciolo d'orgoglio le chiuse la bocca. Si lasciò andare, silenziosamente. David rimase nella stanza d'ospedale di Kate fin quasi all'alba. Si sedette accanto al suo letto, tenendole la mano, accarezzandole i capelli. Di tanto in tanto pronunciava il suo nome, quasi sperando che si sarebbe svegliata. Ma qualunque cosa fosse, l'antidolorifico che le avevano dato doveva essere potentissimo, perché Kate si mosse a malapena, per tutta la notte. Gli sarebbe bastato che lo chiamasse nel sonno, anche una sola volta, che pronunciasse anche solo la prima sillaba del suo nome. Se avesse saputo che lei aveva bisogno di lui, avrebbe potuto confessarle quanto aveva bisogno di lei. Non era il genere di cose che un uomo poteva dire alla leggera. Non lui, perlomeno. Era messo peggio del povero Charlie Decker che, benché muto, sapeva esprimersi attraverso la poesia. Il tragitto in auto fino a casa gli sembrò interminabile. Non appena entrò in casa chiamò l'ospedale per verificare le condizioni di Kate. «Stabile» fu tutto quello che gli dissero, ma era sufficiente. Poi chiamò un fioraio e ordinò un mazzo di rose per lei. Poiché non sapeva cosa scriverle, disse all'impiegato di scrivere semplicemente: David sul biglietto. Si preparò del caffè e del pane tostato, e mangiò con foga. Non si era reso conto di quanto fosse affamato. Poi si gettò sul divano, così com'era, sporco, esausto e con la barba lunga. Cercò di farsi venire in mente tutti i motivi per cui non poteva innamorarsi. Si era rifatto una vita tranquilla, comoda. Lasciò vagare lo sguardo sul pavimento lucido, le tende, i libri ordinatamente allineati nella libreria. D'un colpo si rese conto di quanto fosse sterile tutto questo. La sua non era la casa di un uomo vivo, ma un guscio. Lui stesso era solo un guscio.
Che diamine, si disse. Probabilmente lei non lo voleva neanche. La loro relazione era nata in una situazione di necessità. Lei aveva avuto paura e lui era stato lì ad aiutarla. Presto si sarebbe rimessa e avrebbe ripreso le redini della sua vita, della sua carriera. Non era possibile tenere a bada a lungo una donna come Kate. L'ammirava e la desiderava. Ma l'amava? Sperava di no, perché sapeva, meglio di chiunque altro, che l'amore non era altro che un travestimento del dolore. Il dottor Clarence Avery si fermò sulla soglia della stanza di Kate e chiese il permesso di entrare. Teneva in mano un mazzo di orrendi garofani tinti di verde, agitandolo verso di lei come se non avesse alcuna idea di cosa dovesse farci. I gambi erano ancora avvolti nel cellophane del supermercato, con la targhetta del prezzo. «Questi sono per te» annunciò, casomai non l'avesse capito. «Mi auguro che tu non sia allergica ai garofani. O ad altre cose.» «Non lo sono. Grazie.» «Non c'è di che, davvero. Volevo solo...» Il suo sguardo si posò sulla dozzina di rose rosse che stavano in un vaso di porcellana sul comodino. «Ma vedo che hai già ricevuto dei fiori. Rose.» Guardò tristemente i suoi garofani verdi, con la stessa espressione di una persona che osserva un animale morto. «Preferisco i garofani» dichiarò lei. «Potrebbe metterli in acqua per me? Mi sembra d'aver visto un vaso sotto il lavabo.» «Certo.» Si accostò al lavabo. Quando si chinò, Kate si accorse che, come al solito, aveva i pantaloni stropicciati e i calzini spaiati. Immersi nel vaso troppo grande, i garofani assunsero un aspetto commovente. Nonostante tutto li apprezzava, specie perché le erano stati recapitati di persona, non come le rose. Gliele avevano lasciate mentre dormiva e sul biglietto c'era scritto soltanto: David. Lui non l'aveva chiamata, né era venuto a farle visita. Probabilmente, si era detta, riteneva che fosse giunto il momento di rompere. Per tutta la mattina era stata combattuta fra il desiderio di distruggere i fiori e stringerli a sé. Stringere al petto delle spine: quale appropriata metafora. «Qui» disse, «metta i garofani accanto a me, dove possa sentirne il profumo.» Con gesto brusco spinse da parte le rose, un movimento che le strappò una smorfia di dolore. L'incisione chirurgica era stata richiusa con dozzine di punti e aveva dovuto prendere una dose massiccia di antidolorifico per
attenuare il dolore. Si riappoggiò cautamente ai cuscini. Il dottor Avery rimase un momento in silenzio, osservando i fiori avvizziti, contento che il suo regalo avesse guadagnato un posto d'onore. Poi si schiarì la voce. «Kate, voglio dirti subito che non sono qui a titolo esclusivamente personale.» «No?» «No. Devo parlarti anche della tua posizione qui al Mid Pac.» «Così è stata presa una decisione.» «Dopo che sono venute fuori tutte le nuove prove, ecco...» Si strinse appena nelle spalle. «Avrei dovuto prendere prima le tue parti, mi dispiace di non averlo fatto. Io credo di essere stato... mi dispiace.» Si guardò il camice sporco d'inchiostro, spostandosi nervosamente da un piede all'altro. «Non so perché sono rimasto attaccato a questo dannato direttore, l'unica cosa che ci ho guadagnato è stata l'ulcera. Comunque, sono qui per dire che ti offriamo di riprendere il tuo lavoro. Sul tuo curriculum non verrà annotato nulla, soltanto che è stata promossa un'azione legale contro di te, successivamente annullata. Che è quel che accadrà. Perlomeno è quel che mi hanno detto.» «Il mio lavoro» mormorò lei. «Non lo so.» Con un sospiro si girò verso la finestra. «Non sono sicura di volerlo indietro. Sa, dottor Avery, sto pensando di trasferirmi.» «In un altro ospedale?» «In un'altra città» replicò lei, sorridendogli. «Non è così sorprendente, non trova? Ho avuto un bel po' di tempo per pensare, in questi giorni, e mi sono detta che forse non appartengo a questo posto. Forse dovrei andar via da tutto questo... oceano.» Via da David. «Santo cielo.» «Troverete un'altra persona, devono esserci centinaia di dottori pronti a trasferirsi in paradiso.» «Non si tratta di questo. Sono semplicemente sorpreso. Dopo tutto l'impegno dell'avvocato Ransom, credevo che di certo...» «L'avvocato Ransom? Cosa intende dire?» «Ha telefonato personalmente a tutti i membri del consiglio d'amministrazione dell'ospedale.» Un gesto d'addio, si disse lei. Dovrei essergli grata almeno per questo. «Devo ammettere che è stata una sorpresa» proseguì Avery. «Un avvocato come lui che chiede, esige, che un dottore venga reinsediato al suo
posto di lavoro. Questa mattina, però, quando ha presentato le prove in possesso della polizia e abbiamo ascoltato la dichiarazione del dottor Santini, ci sono voluti solo cinque minuti per prendere una decisione.» Aggrottò la fronte. «L'avvocato Ransom ci ha fatto intendere che rivolevi il lavoro.» «Forse prima sì» replicò lei, fissando le rose e chiedendosi come mai non si sentisse per nulla contenta, «ma le cose cambiano, no?» «Penso di sì.» Avery si schiarì nuovamente la gola, strisciando i piedi ancor di più. «Il tuo lavoro ti aspetta, se lo vuoi ancora. E di certo avremo bisogno di te, soprattutto dopo che sarò andato in pensione.» Lei alzò gli occhi su di lui, sorpresa. «Va in pensione?» «Ho sessantaquattro anni, direi che è arrivato il momento. Non ho visitato granché del paese, non ne ho mai avuto il tempo. Mia moglie e io ci eravamo ripromessi di viaggiare un po', non appena mi fossi messo in pensione. Barb avrebbe voluto che stessi bene e mi divertissi, non credi?» Rate sorrise. «Sono sicura di sì.» Il dottor Avery guardò i garofani appassiti «Sono belli, vero?» Uscì dalla stanza, ridacchiando. «Sì, sì, molto meglio delle rose, secondo me. Molto meglio.» Kate si girò a sua volta verso i fiori. Rose rosse. Garofani verdi. Un accostamento assurdo. Proprio come lei e David. Pioveva fitto, quando David andò a trovarla, nel tardo pomeriggio. Lei se ne stava seduta da sola nel solarium, guardando il cortile oltre i vetri bagnati. L'infermiera le aveva appena lavato e spazzolato i capelli e si stavano già formando i soliti ricci da ragazzina che Kate aveva sempre odiato. Non lo sentì entrare nella stanza. Solo quando pronunciò il suo nome si girò e lo vide, in piedi accanto a lei. Aveva i capelli umidi e il vestito imperlato di gocce d'acqua. Sembrava stanco, quasi quanto lei. Avrebbe voluto che si avvicinasse e la prendesse fra le braccia, ma non lo fece. Si limitò a chinarsi e a darle un bacio formale sulla fronte, drizzandosi subito. «Ti sei alzata, vedo. Devi sentirti meglio» commentò. Lei riuscì a sorridere. «Non è da me poltrire tutto il giorno.» «Ti ho portato questi.» Le porse una piccola scatola di cioccolatini avvolta nella stagnola. «Non ero sicuro che ti lasciassero mangiare qualcosa, ma magari più tardi...» Lei guardò la scatola posata sul suo grembo.
«Grazie» mormorò, «anche per le rose.» Poi si girò e riprese a fissare la pioggia. Ci fu un lungo silenzio, come se entrambi avessero esaurito gli argomenti di conversazione. La pioggia scivolava giù lungo i vetri del solarium, proiettando un fioco arcobaleno sulle mani di Kate. «Ho appena parlato con Avery» disse David infine, «ho sentito che ti ridaranno il lavoro.» «Sì, me l'ha detto. Immagino che io debba ringraziarti.» «Per cosa?» «Per il lavoro. Avery ha detto che hai fatto un bel po' di telefonate.» «Solo qualcuna, niente di particolare, davvero.» Inspirò a fondo e proseguì, con ostentata allegria: «Dovresti tornare in sala operatoria in poco tempo. E con un bell'aumento, mi auguro. Deve essere una bella sensazione». «Non sono sicura che accetterò.» «Cosa? Perché mai non dovresti?» Lei si strinse nelle spalle. «Ho pensato di cercare altre possibilità, da qualche altra parte.» «Invece del Mid Pac?» «Invece delle Hawaii.» Lui non disse nulla, sicché Kate aggiunse: «Non c'è nulla a trattenermi qui». Un altro lungo silenzio. Poi lui chiese, a bassa voce: «Nulla?». Lei non rispose. David la guardò, seduta così tranquilla e silenziosa nella poltrona, e capì che, anche se avesse atteso fino al giorno del giudizio, lei sarebbe rimasta così. Che bella coppia, si disse. Ci consideriamo due adulti brillanti e non sappiamo spiccicare una parola. Un'infermiera comparve sulla soglia. «Dottoressa Chesne? Vuole tornare nella sua stanza?» «Sì» rispose Kate, «vorrei dormire.» «Sembra stanca.» L'infermiera guardò David. «Sarà meglio che vada, signore.» «No» replicò David, drizzandosi all'improvviso in tutta la propria altezza. «Come prego?» «Non intendo andarmene. Non ancora. Devo prima terminare di rendermi ridicolo. Può lasciarci soli?» «Ma signore...» «Per favore.»
L'infermiera esitò ma poi, comprendendo che doveva esserci una situazione in sospeso, se ne andò Kate lo guardò, con gli occhi colmi di incertezza e, forse, timore. David allungò una mano e le sfibrò con dolcezza il viso. «Ripeti ancora una volta quel che hai appena detto: che non c'è niente che ti trattenga qui.» «È così. Quel che voglio dire...» «Dimmi la vera ragione per cui vuoi partire.» Lei tacque, ma lui lesse la risposta nei suoi occhi. «Santo cielo» sbottò meravigliato, «sei ancora più vigliacca di me.» «Vigliacca?» «Esatto. Come me.» Si girò, affondò le mani nelle tasche e cominciò a camminare nervosamente avanti e indietro. «Non avevo intenzione di dirti queste cose, non ancora, perlomeno. Ma tu parli di partire, così, a quanto pare, non ho scelta.» Si fermò e guardò fuori dalla finestra. All'esterno, sembrava che il mondo fosse diventato d'argento. «D'accordo» proseguì con un sospiro, «visto che non intendi dirlo, dovrò farlo io. Non è facile per me, non lo è mai stato. Dopo la morte di Noah, pensavo di aver imparato a reprimere i miei sentimenti. Finora c'ero riuscito. Poi ho incontrato te.» Scosse la testa, con un risolino. «Oddio, vorrei avere una delle poesie di Charlie Decker sottomano. Potrei citare qualche verso e sperare di farmi capire. Il povero, vecchio Charlie sapeva esprimersi meglio di me, una dote che gli invidio.» La guardò, un mezzo sorriso sulle labbra. «Non l'ho ancora detto, vero? Ma ti sei fatta un'idea.» «Vigliacco» mormorò lei. Ridendo, le si avvicinò e le prese il volto fra le mani, sollevandolo verso di sé. «D'accordo. Ti amo. Amo la tua testardaggine e il tuo orgoglio. Il tuo spirito indipendente. Non volevo innamorarmi, pensavo di cavarmela benissimo da solo, ma adesso che è successo, non riesco a immaginare come potrei non amarti.» Si scostò, offrendole l'opportunità di tirarsi indietro, ma Kate non lo fece. Rimase assolutamente immobile. Aveva l'impressione che la gola le si fosse annodata. Stringeva la piccola scatola di dolciumi, cercando di convincersi che non stava sognando, che David era reale. «Non sarà facile, lo sai» proseguì lui. «Cosa?» «Vivere con me. Ci saranno giorni in cui vorrai torcermi il collo o grida-
re, fare qualunque cosa perché ti dica: "Ti amo". Ma solo perché non lo dico non significa che non sia così. Perché ti amo.» Sospirò. «Bene, penso che sia tutto qui. Mi auguro che tu mi stessi ascoltando, perché non credo che sarei capace di ripetermi. E mi sono dimenticato il registratore, questa volta.» «Ti stavo ascoltando.» «E...?» Non osava distogliere lo sguardo dal suo viso. «Posso avere un verdetto? O la giuria è ancora riunita?» «La giuria» sussurrò lei, «è in stato di shock. E ha estremo bisogno della respirazione bocca a bocca.» Se aveva inteso rianimarla, il suo bacio ottenne esattamente l'effetto opposto. Quando si chinò su di lei, la stanza cominciò a girarle intorno, ogni muscolo del suo collo sembrò afflosciarsi all'improvviso. Kate abbandonò il capo sulla spalliera della poltrona. «Allora, compagna di vigliaccheria» mormorò lui, sfiorandole le labbra con le proprie, «è il tuo turno.» «Ti amo» disse lei con voce fievole. «Era il verdetto che speravo.» Kate pensò che volesse baciarla ancora, ma all'improvviso lui si drizzò, accigliandosi. «Sei terribilmente pallida. Dovrei chiamare l'infermiera, forse hai bisogno di ossigeno.» Lei lo cinse con le braccia. «Chi ha bisogno di ossigeno?» bisbigliò, un attimo prima che le loro labbra si unissero. Epilogo La neonata in visita alla casa si faceva sentire con altissimi strilli indignati dalla camera da letto al piano superiore. Jinx fece capolino dalla porta. «Cos'ha Emma adesso, in nome del cielo?» Gracie alzò lo sguardo dalla bambina urlante. «È tutto così nuovo per me, Jinx» bofonchiò, tenendo le labbra strette intorno a una piccola spilla di sicurezza rosa, «temo di aver perso il mio tocco speciale per i bambini.» «Tocco speciale? Quando mai hai avuto a che fare con dei bambini, tu?» «Già, hai ragione.» Gracie sospirò e si tolse la spilla di bocca. «Ho paura
di non averlo mai avuto, un tocco speciale. Questo spiega perché sto facendo tutti questi pasticci.» «Mia cara, con i bambini ci vuole pratica, ecco tutto. È come suonare il piano, bisogna esercitarsi con le scale, su e giù, ogni giorno.» Gracie scosse la testa. «Il piano è più facile.» Rassegnata, rimise la spilla fra le labbra. «E poi questi pannolini sono impossibili. Non riesco a capire come sia possibile infilare una spilla in mezzo a tutta questa carta e plastica.» Jinx scoppiò a ridere, così sonoramente che Gracie arrossì con violenza, offesa. «Si può sapere cosa ho detto di così divertente?» «Cara, non l'hai capito?» Jinx si accostò e sfilò la pellicola protettiva dagli adesivi. «Non c'è bisogno di spille, è la grande comodità dei pannolini usa e getta.» La piccola Emma riprese a urlare con rinnovata forza. Jinx la guardò sbigottita. «Vedi?» disse Gracie, arricciando il naso. «Non piacciono neanche a lei.» Una foglia si staccò dall'albero della pioggia e cadde accanto al mazzolino di margherite fresche. I raggi del sole che penetravano fra i rami creavano chiazze luminose sull'erba e illuminavano i capelli biondi di David. Quante volte era stato lì, a soffrire da solo all'ombra di quell'albero? Quante volte aveva cercato un silenzioso contatto con suo figlio? Tutte le altre visite si confondevano nella sua mente in un unico, tetro ricordo. Quel giorno, invece, sorrideva e nella sua mente riusciva a percepire il sorriso anche nella voce di Noah. Sei tu, papà? Sì, Noah, sono io. Hai una sorella. Ho sempre desiderato una sorella. Si succhia le stesse due dita che succhiavi tu. Davvero? E sorride, ogni volta che entro nella stanza. Lo facevo anch'io. Ricordi? Sì, ricordo. E non dimenticherai, vero, papà? Promettimi che non dimenticherai. No, non dimenticherò. Te lo giuro, Noah, non dimenticherò mai. David si girò e, attraverso le lacrime, vide Kate un po' discosta. Non c'e-
ra bisogno di parole, fra loro. Solo uno sguardo, e una mano tesa. Insieme si allontanarono da quel piccolo angolo triste. Quando emersero dall'ombra dell'albero, David si fermò di colpo e la prese fra le braccia. Lei gli sfiorò il viso e lui avvertì il calore del sole sulle sue dita. Era guarito. Era guarito. FINE