NEAL BARRETT JR. ALDAIR IN ALBION (Aldair in Albion, 1977) NEAL BARRETT E LA FANTASY DEI «SEMIUMANI» Questo primo volume...
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NEAL BARRETT JR. ALDAIR IN ALBION (Aldair in Albion, 1977) NEAL BARRETT E LA FANTASY DEI «SEMIUMANI» Questo primo volume della tetralogia che Barrett ha dedicato a Aldair, serve ad inquadrare il contesto nel quale si svolgono le avventure che vedono come protagonista Aldair appunto ed i suoi compagni. Il pianeta è la Terra di un lontanissimo futuro, dalla quale però gli uomini sono scomparsi. Al loro posto invece, vediamo che a popolare i vari continenti sono delle razze di semiumani, ossia degli uomini che hanno umanizzate - le caratteristiche tipiche di diverse specie di animali che da sempre hanno abitato la Terra. La prima osservazione da fare è quella che tutte queste specie sono convinte di essere sin dalle origini la razza dominante del pianeta, tant'è che si attribuiscono il nome di uomini in perfetta buona fede. Il loro grado di civiltà è paragonabile a quello che è dato di riscontrare sulla Terra nel periodo dell'Impero Romano ed infatti, con una similitudine che non è casuale, constatiamo che i nomi dei vari popoli nei quali sono divisi, rispondono a quelli di Rhemiani, Tarconii, Venicii, Nicieani, Vikoniani, Stygiani, eccetera. La stessa organizzazione sociale nella quale sono inseriti, è molto simile all'Impero Romano al momento della sua massima espansione, ed infatti le Legioni Rhemiane hanno in pratica sottomesso tutto il pianeta, fatta eccezione per l'Impero Nicieano, e pochi altri popoli che comunque riconoscono e temono la potenza di Rhemia. Aldair, quando hanno inizio le avventure narrate in questo romanzo, è uno dei tanti abitanti di questo singolare contesto sociale che ci presenta l'autore, osserva rigidamente le regole che dominano la vita di ogni giorno e, soprattutto, obbedisce ai dettami che gli provengono dalla Vera Fede nella quale è stato allevato. D'un tratto però, in seguito ad un caso fortuito susseguente ad una palese ingiustizia di cui è stato prima spettatore e poi parte in causa, diventa un fuorilegge, braccato dalla sua gente, e costretto a fuggire per salvarsi la vita. In breve tempo, tutto quello in cui aveva sempre creduto viene ad essere completamente rovesciato, sino al punto che si trova ad avere come amici coloro che erano sempre stati dei feroci ed irriducibili nemici suoi e
della sua gente. In tal modo, da una fuga, hanno inizio le sue avventure che lo vedranno attraversare in pratica tutto il pianeta alla ricerca spasmodica di una risposta all'interrogativo proibito: «Chi, o che cosa, ha creato quelle immense città delle quali rimangono solo delle rovine?». Ma a questo interrogativo non è certo facile dare una risposta anche perché, gli stessi ostacoli che gli erano stati posti dai sacerdoti della sua gente quando era dovuto scappare precipitosamente, gli vengono opposti anche dai preti di Niciea dove è approdato dopo una serie di peripezie al seguito dell'Aghijr Tharrinn, fratello del Re, il quale sembra essere molto addentro a conoscenze tanto antiche quanto pericolose. In questo primo volume, il viaggio di Aldair si concluderà nell'Isola dei Morti, Albion, posto sacro e vietato a chiunque. Cosa troverà su questa isola è una sorpresa che non vi voglio anticipare, anche per non privarvi del piacere di scoprirla da voi. Neal Barrett è un autore estremamente interessante, e questa tetralogia nel campo dell'heroic fantasy ci rivela come sia altrettanto bravo in questo campo quanto lo è in quello della fantascienza dove volumi come Stress Pattern hanno ricevuto un plauso entusiastico da parte degli appassionati. Così come è caratteristica sua propria, anche nell'affrontare il tema della fantasia eroica - che nella sua eccezione più comune è assai disimpegnata - Barrett cura molto l'introspezione psicologica dei personaggi che vengono esaminati e raffigurati a tutto tondo. Ogni figura presente nel narrato è delineata tipologicamente con una cura oserei dire certosina, ma è proprio questo scendere sino alla radice dei sentimenti che ha valso all'autore tanti consensi anche da parte della critica specializzata americana che non è certo proclive ad attribuire meriti là dove non ci sono. Emblematica di questo approfondimento psicologico, è la frase che Barrett pone in bocca ad Aldair: «Questo è il peccato commesso contro di noi. Non ci hanno concesso un'anima che sia solo nostra...», mentre ancora più belle e profonde di significato sono le frasi poste a conclusione di questo primo volume del ciclo che comunque non riporto per non svelare quello che troverà il nostro protagonista sulla temuta isola di Albion. Il romanzo è scritto bene, e si vede che l'autore conosce il suo mestiere: la Terra del futuro che fa da sfondo alla vicenda è raffigurata minuziosamente sin nei minimi particolari, così come minuziosamente sono delineate le caratteristiche dei molti personaggi che vi si muovono. Ma non perdiamo altro tempo. Voltate pagina, e venite con me a Silium
per assistere alla passeggiata dalla quale avranno inizio le avventure di Aldair dei Venicii... Gianni Pilo PROLOGO «È mia convinzione che non sia nostro destino conoscere in anticipo ciò che la vita ha in serbo per noi da un momento all'altro, e credo che nello stabilire così il Creatore abbia dato prova di grande saggezza. Perché, se avessi visto in anticipo il giorno in cui il mio mondo avrebbe cominciato a cambiare, avrei certamente detto che quello era un giorno propizio per nuovi inizi. Non avrei certo potuto immaginare che invece da quel momento in poi il bianco sarebbe diventato nero, e il nero bianco. Né avrei potuto prevedere che il mio stesso popolo si sarebbe rivoltato contro di me, e che nemici e stranieri sarebbero stati i miei soli compagni. Non c'era nulla che potesse rivelarmi come ciò che fino ad allora avevo dato per certo si sarebbe rivelato falso, e che mi sarei ridotto a fidarmi soltanto di cose che non avevo mai né sognato né remotamente immaginato. Solo il Creatore aveva cognizione di ciò che sarebbe successo...» Aldair, già dei Venicii, a bordo del libero vascello Ahzir al'Rhaz UNO Non amo le città, come non le ama alcuno dei Venicii. Se non fosse per il legame d'onore che avevo stretto con la mia famiglia, me ne sarei andato da Silium senza neppure voltarmi indietro. Silium è una città di strade strette che oscurano il sole, e di piccole case addossate l'una all'altra. Respirare è impossibile, e l'acqua è disgustosa. Non è il luogo adatto per un uomo nato, come me, nelle ampie vallate degli Eubironi. Tuttavia, a molti piace il tipo di vita che si conduce qui, e non si sentirebbero a loro agio senza il puzzo dei loro consimili. Si tratta di gente stramba, a mio modo di vedere, che si sente inquieta e nervosa quando non è in presenza di amici. Quando una persona del genere si sente sola, ne cerca un'altra. Quando sono due, ne cercano una terza. E raggiungono il massimo della felicità quando tutte le persone che conoscono sono attruppate insieme in un locale il più piccolo possibile. Si tratta di un comporta-
mento al di fuori della mia comprensione. Andandomene da Silium, avrei tuttavia sentito la mancanza dell'Università e di Mastro Levitinus. Era stato per me un ottimo insegnante, studio all'Università, anche se non sono in grado di dire che cosa me ne farò delle nozioni che sto accumulando. Una volta ritornato al nord, riprenderò i miei doveri di uomo: questi li conosco già bene, e posso portarli a termine come qualsiasi altro. Per tenere i nostri nemici lontani dalle mura occorrono occhi acuti e frecce sicure: penso proprio che i predoni non si farebbero impressionare molto dalla mia conoscenza della storia e dalla capacità di fare le somme a mente. Tuttavia, è desiderio di mia madre e dei miei zii che io resti a Silium per imparare tutto ciò che posso. Secondo loro, questo porterà onore e rispetto al clan, e forse hanno ragione. Ieri era l'inizio della seconda settimana d'estate, e il calore che aveva arrostito la città dall'alba al tramonto aveva raggiunto l'apice nel pomeriggio. Era un calore umido, vischioso, che faceva sciogliere il midollo delle ossa: non c'era sufficiente refrigerio in tutta Silium per tenerlo lontano. Verso mezzanotte, tuttavia, si verificò un piccolo miracolo. Dal sud cominciarono a rotolare scure nubi di tempesta, e in breve rovesciarono su di noi le loro benedizioni. Fu una pioggia fitta, che durò per tutta la notte; appena prima dell'alba le nubi si allontanarono lasciando Silium a luccicare sotto i raggi del sole nascente. La pioggia aveva momentaneamente lavato la città, che appariva un po' meno tetra del solito. Dalla Porta Alta il mio sguardo, scivolando attraverso un mare di tetti appuntiti e di tegole gialle, riusciva a cogliere la bianca cupola di San Bellium e le guglie dell'Università. Al di là, si vedevano le torri di pietra e le mura che circondavano la città per proteggerla da nemici che ormai non esistevano più. Ancor più lontano, si stendeva il verde e il bruno dei prati e dei campi coltivati, ancora brillanti per l'umidità. Silium non è la Capitale dell'impero, e non è grande neppure come Culivia, che sorge in riva al mare e fa sfoggio di un porto. Tuttavia, chi come me viene da nord degli Eubironi, a portata di odore dagli stygiani, può essere scusato se pensa che Silium sia una città anche troppo grande per i suoi gusti. Dunque, come dicevo, il mattino era abbastanza bello, almeno per quanto potete aspettarvi da una città. Annunciava una giornata eccellente per concedersi una buona bevuta di birra e andare a nuotare nel fiume che scorre al di là delle porte. Oppure, semplicemente per curiosare nelle botteghe e scoprire cose interessanti che non mi sarei potuto permettere di
comprare. Ovviamente, non avrei fatto né l'una né l'altra, perché mi trovavo a Silium a spese dei miei, i quali non avevano certo fatto sacrifici solo per darmi modo di divertirmi. Perciò, lasciai alle mie spalle il Quartiere, girai attorno alla Porta Alta, e tagliai per la Via d'Oro, dove la strada svolta bruscamente e comincia a serpeggiare come un fiume contorto verso le mura grigie dell'Università. Era ancora presto, ma ero partito in anticipo di proposito, con l'obbiettivo di mettere qualcosa nel mio stomaco vuoto nella Via delle Taverne prima di entrare in classe. Studiare non è un'occupazione faticosa come quelle che in genere riempiono le giornate su al nord, ma noi Venicii siamo abituati a mangiar bene, e questa è un'usanza difficile da cancellare. Qualche mercante era già in istrada. Un apprendista assonnato strusciava la scopa davanti alla bottega del suo padrone, e dai forni veniva un buon profumo di pane appena cotto, che si mescolava all'odore della pioggia caduta di fresco. La moglie di un bottaio gridava qualcosa al marito dalla finestra, e l'uomo brontolava senza neppure alzare gli occhi dal suo lavoro. All'incrocio con la Via dei Contadini, due schiavi cygnani sudavano per spingere un carretto a mano su per la strada in salita. Il carro era carico di grosse balle di tessuto, e chiaramente pesava troppo per le loro forze. Il padrone, però, la pensava diversamente, e malediva ad alta voce gli schiavi, battendoli sulle gambe e sulle spalle con una verga. Gli schiavi gemevano rumorosamente. Uno di essi cominciò a tremare, roteando gli occhi acquosi. L'altro scosse stolidamente la testa e urinò lungo una gamba. Il padrone, pensai, è ancora più stupido di loro. Soltanto un idiota batte gli schiavi proprio sui muscoli che lavorano. Inoltre, le creature non erano ancora tosate, e si avvicinava ormai il pieno dell'estate. Ancora un mese, e quella pesante coltre di lana li avrebbe fatti morire soffocati. Dopo di che, l'imbecille con la frusta in mano si sarebbe messo a urlare che i cygnani preferiscono morire piuttosto che lavorare. Mio padre diceva che il padrone si riconosce dai suoi schiavi, e anch'io la penso così. Quel tizio lì aveva il muso corto e la testa piatta dei Belatovi, ed orecchie che gli pendevano lungo il collo. Il suo pelo corporeo era macchiato qua e là di nero, e ricoperto da una lercia tunica azzurrina. Anche quest'ultima lo segnalava come un Belatovi, dato che tutti i componenti di questa tribù un tempo erano mugnai, ed erano ancora orgogliosi di questo, anche se non capisco perché. Voltata la schiena allo spettacolo, mi incamminai di nuovo lungo la Via d'Oro, e mi venne in mente Mastro Theon. Due inverni fa, aveva scritto un
articolo affermando che anche gli schiavi, come gli uomini liberi, erano figli della Chiesa, ed avevano diritto alle benedizioni del Creatore ed al passaggio in Albion. Il documento fece venire le convulsioni ai Buoni Padri, e giunse sino a Rhemia stessa. Dalla città, a quanto si dice, venne subito un'acida lettera in cui si sottolineava a Mastro Theon la saggezza di attenersi alle questioni di erudizione secolare, lasciando gli argomenti religiosi a chi era in grado di comprenderli. E si aggiungeva che se avesse continuato a cacciare il muso dove non doveva, si sarebbe fatto in modo di accorciarglielo in maniera definitiva. La Chiesa era gelosa delle sue strade, e non era saggio porsi di traverso al suo cammino. So per certo che alcuni studiosi stanno ancora dibattendo le argomentazioni di Mastro Theon, ma sono sciocchi a farlo. Chi mai può dire se il Creatore elargisce davvero le proprie benedizioni a tutte le creature indistintamente? E che utile può venire dal dibattere i pro e i contro della schiavitù? È chiaro che il Creatore non ha solidi motivi per opporsi ad essa, dato che è un uso praticato universalmente e senza contrasti soprannaturali. Percorsa la Via d'Oro, arrivai rapidamente alla Piazza dei Ciabattini e imboccai la Via delle Taverne, preparandomi a una breve sosta lungo la strada. A metà della stretta Via della Pietra Verde c'è la bottega di Mastro Chelsium, sotto l'insegna dell'Orcio Riparato. E nella bottega c'era (almeno così speravo) la giovane figlia Illycia, già occupata con le faccende quotidiane. Per la verità, era più probabile che stesse dormendo ancora nella sua stanza al secondo piano: Illycia non ha molto in simpatia le prime ore del mattino. Tuttavia, è ancora bene sveglia molto dopo il calar del sole... quando uno studente dovrebbe leggere i suoi libri, o riguadagnare una notte di sonno. Ma, se non avessi pensato io ad occupare il suo tempo, sarebbe stato ben felice di farlo qualcun altro. Al riguardo non mi facevo alcuna illusione. Le femmine sono creature incostanti, per non dir peggio. Di fronte a una vetrina, mi fermai per specchiarmi. La mia figura non era male, ma nemmeno imponente. I miei abiti non erano più nuovi, ma ben tagliati. Mi segnalavano subito come un provinciale: ma io non mi vergogno del sangue dei Venicii. Indossavo braghe ampie fermate alle caviglie, secondo il costume del Nord, stivali di pelle di stygiano, e una blusa senza maniche. La blusa era intessuta a losanghe con i colori rosso e azzurro del mio Clan. Una spilla di bronzo recante un sigillo di smalto fermava intorno al collo un mantello di lana, e nella cintura era infilata una daga di ferro. Quando arrivai a Silium mi dissero che gli studenti non dovevano curarsi
delle armi, ma l'idea mi parve ridicola. Un'arma ben tagliente apre la pancia alla persona istruita come all'ignorante. Inoltre, la daga era un regalo di mio padre, e lui si sarebbe rivoltato nella tomba se l'avessi lasciata a casa per obbedire ai dettami delle moda. Mi alzai in punta dei piedi davanti allo specchio. Ma in verità non ne avevo bisogno: ero già di tutta la testa più alto della maggioranza degli abitanti del sud che mi circondavano, che peraltro la vita comoda aveva reso grassi e mollicci. Il mio corpo era coperto da un bel manto di pelo biancoargento. Qua e là si vedeva ancora la pelle rosea della gioventù, ma al riguardo non c'era nulla che potessi fare. I miei occhi erano ravvicinati, così come dovevano essere, al di sopra di un muso della lunghezza giusta. I lunghi peli sulle guance mi stavano crescendo folti come ci si deve aspettare da un uomo che conta diciassette estati, e non avevo bisogno (come fanno molti) di comprarmi peli d'orso posticci da applicarmi con la colla al posto di quelli che non c'erano. Alcuni studenti del terzo anno se ne adornano, per sembrare più virili di quanto non siano: ma si tratta più che altro di una moda goliardica. Diedi un'ultima occhiata a me stesso, mi tolsi una pagliuzza dall'orecchio, e mi inoltrai a passo atletico (almeno, così supponevo) lungo la Via della Pietra Verde. Di Illycia, ovviamente, non c'era nemmeno l'ombra. Da una finestra, una delle sue sorelle più giovani mi lanciò un'occhiata e fece una risatina. La cosa mi urtò i nervi, e mi allontanai rapidamente dalla sua vista. Una delle poche cose che mi piacciono di Silium è il Mercato. Anche noi al nord li abbiamo, naturalmente, come tutti i popoli civilizzati. Però, le povere fiere degli Eubironi sembrano una ben misera cosa al confronto del mercato di Silium. Da noi si tengono un solo giorno la settimana, e in genere le merci sono ordinarie e poco interessanti. La mattina è l'ora migliore per godersi lo spettacolo, quando il sole comincia a illuminare il giorno, e risuona più fresca ai sensi, la ricca collezione di suoni, odori e colori che anima il mercato. Grandi teloni color ambra, azzurro, arancione e bruno, riparano dal sole le merci esposte sui banchi. I venditori gridano a squarciagola per attirare l'attenzione di chi passa, e li ho visti più di una volta litigare sanguinosamente per conquistarsi un cliente ben vestito. In giro si può vedere gente d'ogni sorta: contadini dallo sguardo ebete accanto a schiavi pidocchiosi, ricchi mercanti a cavallo e Padri della Chie-
sa avvolti nelle loro tonache nere. L'odore delle spezie, del pane, dell'urina disseccata, si mescola con quello delle verdure fresche, del sudore dei cavalli e dei corpi non lavati. Onnipresente, poi, c'è la sporcizia che rimane dagli affari del giorno prima. Le immondizie invadono il mercato, e non basta certo una notte di pioggia per lavarle via. Quel giorno non avevo tempo per ammirare le nuove merci, per cui tagliai diritto attraverso il labirinto invece di percorrerne la viuzze. Ero molto irritato con me stesso. Il sole era già troppo alto, e temevo che la mia infelice commedia sotto le finestre di Illycia mi sarebbe costata la colazione mattutina; nel qual caso, mi sarei davvero meritato, per la mia stupidaggine, di cominciare la giornata a pancia vuota. All'estremità opposta della piazza si era radunata una piccola folla. Mi fermai, mormorando una bestemmia. L'assembramento non sembrava motivato da niente di preciso. Cittadini che non avevano nulla di meglio da fare bloccavano la strada per vedere quel che c'era da vedere. Mi feci largo attraverso la gente, tenendo una mano ben stretta attorno alla mia borsa. La curiosità è una delle caratteristiche principali degli abitanti di Silium. Malgrado i commerci e i rapporti con ogni parte del mondo, sono tutti curiosi come bambini. Si mettono in fila contro il muro per osservare due gatti che copulano, o le evoluzioni di una trottola. Ogni distrazione, per loro, è sorprendente. E poiché mi trovavo ormai immerso nella folla, senza possibilità di farmi strada se non molto lentamente, spinsi lo sguardo al di sopra della schiera di teste per vedere che cosa stava attirando l'attenzione generale. Guardai, e poi guardai di nuovo, stavolta sorpreso anch'io. Una volta tanto, c'era qualcosa degno d'attenzione. Una pattuglia rhemiana aveva catturato un guerriero stygiano. Era chiuso in una gabbia di ferro posta sopra un carretto; le sbarre erano così spesse che avrebbero fermato un esercito. Pensai che i Rhemiani lo stessero portando in parata attraverso le Province meridionali dell'Impero per mostrare la sollecitudine con cui il governo si prendeva cura della sicurezza dei cittadini. Al pensiero, mi venne da ridere. Quello stygiano doveva essere ubriaco o addormentato, per farsi catturare vivo dai Rhemiani. Gli Stygiani non erano una novità, per me. Sin dall'inizio dei ricordi della mia gente, essi calavano periodicamente, urlando, dalle foreste sulle pendici dei Lauvectii, ed erano nemici a sangue degli Eubironi. Tuttavia, nelle regioni meridionali come Silium erano uno spettacolo raro, e molto probabilmente in tutta quella folla io ero il solo ad averne già visto uno.
Quanto agli altri, non sembrava ricavassero molto piacere dallo spettacolo. La folla, in genere rumorosa e ciarliera, era stranamente silenziosa. Tutti guardavano senza dire nulla, e nessuno osava avvicinarsi troppo alla creatura. Quanto allo stygiano, non prestava attenzione ad alcuno. Per ciò che lo riguardava, avremmo anche potuto non esserci. Stava appoggiato contro una parete della gabbia, le braccia incrociate, gli occhi fissi verso un punto imprecisato al di là delle mura di Silium. Era enorme, anche per la sua razza. Il corpo lungo e agile era coperto da una folta pelliccia grigia, ma anche quell'ammasso di pelame non poteva nascondere le potenti masse muscolari che sì flettevano sotto la pelle. Gli abiti erano laceri; tuttavia, su una manica vidi una fascetta gialla. Si trattava dunque di un personaggio importante. Un capo o sotto-capo del suo Clan. I Rhemiani probabilmente non se ne erano accorti, o non gliene importava nulla. Anche la gente intorno, che non aveva mai avuto a che fare con gli Stygiani e non ne sapeva nulla, aveva tuttavia intuito la forza rabbiosa di quel bruto. Quanto a me, non mi facevo certamente ingannare dal suo atteggiamento in apparenza docile. Senza rendermene conto, ero arrivato ormai in prima fila fra gli spettatori, e potevo vederlo bene. Gli Stygiani sono furbi e astuti, oltre che ottimi combattenti. Sono pericolosi in qualsiasi ora del giorno, anche se il loro elemento abituale è la notte. Sono a loro agio in particolare nelle fitte foreste di querce dei Lauvectii, e quando si confondono fra i tronchi è impossibile individuarli. Qualcuno parlò dietro di me e la voce mi risvegliò dalle meditazioni. Ormai, ero a pochissima distanza dalla gabbia, e potevo sentire l'odore della creatura. Per qualche minuto, evidentemente, mi ero del tutto perso dietro i miei pensieri, dimenticando le cose che avevo da fare, la lezione che dovevo ascoltare, la pancia vuota che dovevo riempire. E a questo punto accadde un'altra cosa strana. Non so spiegare perché decisi di fare ciò che feci. Semplicemente, avanzai di un passo, e parlai direttamente allo stygiano nella sua lingua. «C'reef. Mahr a shinn, Stygyaar...» Le orecchie pelose della creatura si rizzarono. Si volse lentamente verso di me, e mi fissò al di là del suo muso appuntito. La folla all'intorno mi aveva sentito, naturalmente, e tutti si scostavano, lanciando grandi occhiate piene di meraviglia. Lo stygiano ghignò, scoprendo zanne affilate come rasoi, e una lunga lingua. «Bene», mi rispose. «L'arrosto viene a parlare direttamente con chi
se lo mangerà». «Non oggi», replicai. «Oggi mangerai ferro, guerriero». Lo stygiano rise, emettendo quel suono particolare che tante volte avevo udito risuonare lungo i margini della foresta. Sembrava un colpo di tosse più che una risata, ed era inconfondibile. «Giusto», mi fece. «Potrei fare proprio quello, e prima che il giorno termini». Mi fissò di nuovo, e mi accorsi che aveva notato i rozzi stivali fatti con la pelle dei suoi simili. «Tu parli la Vera Lingua. Dai vestiti, sembri uno del nord». «Degli Eubironi». «Ah...» «Aldair. Del Clan dei Venicii. Presso il fiume Rheinus». Lo stygiano annuì. «Conosco il luogo. Mi ricorderò di fare una visita ai Venicii appena possibile». «Ti daranno il benvenuto», dissi. «Ma vieni armato. E porta altri guerrieri. I Venicii hanno bisogno di molte buone pellicce per riscaldarsi nelle notti d'inverno». La faccia magra si rannuvolò per un momento, poi la bocca si aprì in un nuovo ghigno. «Ben detto, Aldair dei venicii. È probabile tuttavia che non avrai tu la mia pelliccia. I tuoi fratelli, qui, hanno già fatto dei progetti al riguardo». «Allora», suggerii, «forse andrai a impreziosire la parete di un salotto rhemiano. Oppure scalderai il pavimento di una stanza da letto». «Forse», annuì lo stygiano. La sua lunga coda frustò l'aria per scacciare una mosca. «Oppure, forse, il dio dei boschi e dei torrenti aprirà queste sbarre per me. Anche se non lo ha ancora fatto, poiché temo di essere troppo a sud perché le mie preghiere possano raggiungerlo. Sempre che gli dèi esistano», aggiunse con aria cupa, «e che ascoltino le preghiere». «Forse certi lo fanno», dissi. «Anche se secondo me gli dèi stygiani non sono fra questi». A questo punto mi fermai. Una delle sentinelle rhemiane di guardia alla gabbia aveva notato la conversazione. Girò rapidamente attorno al carretto, con un fiero cipiglio dipinto sul volto. «Tu», fece, puntandomi il dito. «Mi sbaglio, ragazzo, o stai tentando di parlare a questo mostro?» Aprii la bocca per rispondere, ma un solerte spettatore mi precedette. «Sicuro che gli ha parlato. E quell'orrore gli ha anche risposto!»
Il soldato fissò il cittadino, e poi me. «È vero?» Feci cenno di sì. «Ho parlato allo stygiano». «E perché?» «Non lo so», risposi onestamente. «L'ho fatto, e basta». Il soldato ruminò un istante sulla cosa. «E lui ti ha compreso?» «Certamente. Gli ho parlato nella sua lingua». Si alzò un sopracciglio. «E tu la conosci?» «Sì». L'uomo sì grattò il petto, meditando. Era basso, probabilmente un rhemiano puro sangue. Aveva il torace coperto da una corazza di bronzo dipinto, e un elmetto coperto di bassorilievi, in gran parte smozzicati. Una corta tunica gli arrivava sopra il ginocchio, ed era armato del robusto gladio dei soldati di fanteria. Era un veterano di molte guerre, perché potevo vedere che le gambe erano curve e coperte di cicatrici. «Non mi piace questa faccenda», disse alla fine. Si inclinò un poco l'elmetto sulla testa. «Non mi sembra una cosa corretta che i cittadini rhemiani parlino con le bestie». «Soldato», risposi, certo mentre parlavo di avere perso un'ottima occasione per tenere la bocca chiusa, «per i cittadini di Rhemia dovrebbe essere ancor meno corretto permettere che i loro cugini vengano fatti arrosto dalle bestie in questione nelle foreste dei Lauvectii. Eppure è proprio quello che succede». Gli occhi del militare si strinsero. «Che cosa vuoi dire con questo?» «Che siccome le Legioni rhemiane si fanno vedere piuttosto di rado al nord, gli Eubironi debbono difendersi da soli, e hanno imparato a farlo nel modo migliore». Il soldato si irrigidì, mentre un flusso di sangue gli saliva al volto. «Ascolta...» cominciò, poi cambiò idea. Intanto, un circolo di nullafacenti si era radunato all'intorno, nella convinzione che lo spettacolo da noi offerto fosse migliore della contemplazione del prigioniero in gabbia. «Tornate alle vostre faccende», gridò bruscamente il soldato agli spettatori, «sempre ammesso che abbiate qualcosa da fare!» Poi afferrò l'elsa della sua spada e mi fissò negli occhi. «Ascolta bene», mi fece. «Guai a te se fai rivedere il tuo muso qui in giro un'altra volta. Capito?» Non risposi, mi voltai e cominciai ad attraversare la folla, che mi fece largo immediatamente, come si conviene a una persona che parla con le bestie. Soltanto molto tempo dopo mi resi conto che il soldato aveva ragione. In
effetti, io avevo fatto una cosa assolutamente insolita, per quelle parti. E anche dopo essermi reso conto di questo non riuscii a capire perché lo avevo fatto. Di certo, mai prima nella mia vita avevo parlato a faccia a faccia con uno stygiano. Pochi lo hanno fatto, e sono tornati vivi per raccontarlo. Tuttavia, al nord tutti conosciamo la loro lingua, che è stata laboriosamente ricostruita attraverso gli anni, grazie ai pochi Stygiani che siamo riusciti a catturare vivi. Pensiamo sia saggio essere in grado in parlare ai nostri nemici, anche se l'occasione si presenta raramente. In genere, uccidiamo i loro razziatori non appena li vediamo, e togliamo loro la pelliccia... mentre gli Stygiani uccidono quanti più possibile dei nostri, e spesso arrostiscono e mangiano quelli che riescono a catturare. Questo genere di rapporti non sono i migliori per intavolare piacevoli conversazioni. Tuttavia, io avevo parlato a quel particolare stygiano. Perché? Non avevo nulla di speciale da dire a quella bestia. E dubito fortemente che essa avesse qualcosa da dirmi. Un pensiero improvviso mi fece scoppiare a ridere. Per il Creatore! Silium era dunque un posto tanto orribile che un Eubirone e uno Stygiano non trovavano nessuno per far conversazione, se non l'un l'altro? DUE A quel che si dice, tutti quanti dovremo pagare per i nostri peccati. Per il mio, io pagai due volte. In primo luogo, il mio stomaco rimase vuoto per tutto il giorno. Poi, dopo la lezione, Mastro Levitinus mi chiese di rimanere mentre gli altri se ne andavano. Dovevamo discutere - mi disse - circa la condotta di quegli studenti che erano troppo indaffarati per entrare in tempo in classe. Fu così che mi trovai seduto su uno scomodo sgabello in un'anticamera gelida fuori dell'appartamento del mio insegnante. E fu così che, mentre aspettavo, ebbi modo di ascoltare una conversazione che non era destinata alle mie orecchie. La porta non era ben chiusa, e le voci troppo alte per poter essere ignorate. Una, mi avvidi subito, era quella di Mastro Levitinus stesso. L'altra era quella di Flaviun Sellenus. Ed era quest'ultima voce - mi accorsi con sorpresa - che gridava di più. La cosa era sorprendente, perché Flaviun non era nulla più che uno studente, e il suo tono non era certo quello con cui un discepolo deve rivolgersi al suo maestro. Riuscii a cogliere soltanto alcuni frammenti del dialogo, perché non vol-
li mettermi espressamente ad origliare. Mastro Levitinus stava rimproverando Falviun per la scarsa attenzione durante le lezioni, per la deliberata violazione delle regole interne dell'Università, e per una dozzina di altre mancanze che ora non ricordo. Flaviun negava vivacemente ogni cosa, insisteva che era oggetto di una persecuzione per motivi che non conosceva, e gridava sempre di più. Levitinus ad un certo punto gli disse chiaramente che un'altra alzata d'ingegno da parte sua ne avrebbe determinato l'espulsione dall'Università. Ci fu uno scambio di battute aspre, e poi la porta si aprì bruscamente lasciando passare Flaviun Sellenus, che mi superò rapidamente, ma non tanto da non riconoscermi e da non manifestare sorpresa per la mia presenza. Inutile dirlo, dopo il litigio Mastro Livitinus sorvolò rapidamente sui miei peccati, al confronto men che veniali. Uscii dalla sua stanza pochi istanti dopo esserci entrato. Ma mi vergognavo di avergli causato anch'io un fastidio, sia pur minimo. Lo vidi molto scosso per il suo scontro con Flaviun, e potevo capirne la ragione. È triste ammetterlo, ma nell'Università c'erano studenti e studenti. Con ciò voglio dire che il denaro fa sentire la sua voce nei templi del sapere come nella piazza del mercato. Non era certo Mastro Levitinus a volere una situazione del genere, ma esisteva, e al riguardo non si poteva far nulla. Certamente, d'altra parte, una istituzione del genere non avrebbe potuto sopravvivere soltanto grazie a rette come quella che pagava Aldair dei Venicii. Chi aveva più denaro contribuiva in misura maggiore... e aveva maggiori privilegi, o almeno pensava di averne diritto. Fra questi, Flaviun Sellenus. Per quanto fosse piccolo, ignorante e presuntuoso, tuttavia era figlio di un mercante ricchissimo, e sfruttava appieno le relazioni del padre, nonché i vantaggi derivanti dalla piena cittadinanza rhemiana di cui godeva la sua famiglia. In realtà, era un provinciale come me. Ma l'oro fa splendere adeguatamente le foglie di qualsiasi albero genealogico. Cosicché, Mastro Levitinus aveva tutti i motivi per essere preoccupato a causa del suo alterco, anche se aveva detto a Flaviun molto meno di quanto questi si meritasse. Certo, la faccenda sarebbe stata molto meno spinosa se il litigio fosse avvenuto con uno come Aldair, con rame invece che argento nella borsa, e con alle spalle nessuna famiglia di cui valesse la pena di parlare. A questo punto, sarei potuto andare nella solita taverna degli studenti, la Penna d'Oca, a riempire il mio ventre esacerbato dall'astinenza. Ma ero certo che vi avrei trovato Flaviun Sellenus intento a raccontare a voce al-
tissima la propria sconcia versione su quanto era accaduto nello studio di Mastro Levitinus. E avrebbe trovato un folto e grato uditorio, perché offre vino generosamente a chiunque sia disposto ad ascoltarlo. Io, invece, non mi sentivo in grado di sopportare neppure il suono della sua voce. Perciò tornai verso il Quartiere seguendo la strada più lunga, mi fermai a mangiare in un posto dove non ero mai stato prima, e passai la notte a digerire il mio sbaglio. Non fu la migliore delle mie giornate. «La storia», diceva Mastro Levitinus, «non deve essere considerata semplicemente una cronaca del passato. Non è una registrazione di cose morte, come sembrano pensare alcuni di voi, o un arido resoconto di eventi accaduti tanto tempo fa. La storia è la vicenda vivente delle genti. Anche noi, in questo momento, stiamo facendo la storia». Si interruppe, e ci gratificò di un pallido sorriso. «E se voi, studenti di oggi, non vorrete che gli studenti del futuro si addormentino quando giungeranno al capitolo che vi riguarda, dovrete darvi da fare per renderlo interessante». Gli studenti risero approvando. Alcuni per abitudine, altri - come me perché avevano genuino rispetto per Mastro Levitinus. Era un ottimo insegnante, e sapeva davvero come infondere vita alla storia. Quando descriveva un'antica battaglia, si potevano sentir cozzare le armi e udire le grida dei vinti e dei vincitori. Grazie alle sue parole, la Lega Hermiana marciava di nuovo, e i Sovrani Dorati sedevano ancora sui loro troni. Le torri della città di Alticus splendevano nel sole, e i vagiti del nascente Impero Rhemiano scuotevano la terra. «Noi siamo andati molto avanti e abbiamo appreso molto», riprese a dire Levitinus. «Ma il nostro è soltanto un piccolo inizio». Allargò le corte braccia sulla cattedra. «Ciascuno di noi, nei pochi anni che restiamo sulla terra, potrà sperimentare soltanto un secondo del vastissimo arco della storia. Più di tanto, è al di là della nostra comprensione. Duecento anni? Cinquecento?» Levitinus scosse la testa. «Se, in realtà, non siamo in grado di immaginare pienamente intervalli di tempo di questo genere, come potremo impadronirci dell'intero arco della storia registrata: tremila anni?» Fece una pausa e ci fissò tutti negli occhi. «Eppure un intervallo di tempo del genere in realtà non è altro che la vita di trenta uomini poco più longevi della media...» Si fermò un attimo perché digerissimo l'affermazione. «Trenta uomini. Non poi tanti. In quest'aula, così piccola, siete di più. Così, è pur vero che, in un certo senso, la storia appartiene al passato. Ma non
dimenticate mai che la storia vive. Che tutti gli anni trascorsi non sono altro che un batter d'occhio del tempo. Che trenta uomini potrebbero raccontarvi tutte le cose successe...» «Mastro Levitinus?» Riconobbi la voce ancor prima di voltarmi a guardare. Flaviun Sellenus, naturalmente. Che cosa aveva in mente, adesso? Fare ammenda del suo comportamento del giorno prima? Avevo forti dubbi al riguardo. Mastro Levitinus esitò un attimo, poi gli diede il permesso di parlare. «Lei ha detto che la storia cominciò tremila anni fa, Maestro. Prima di ciò, dunque, si stendeva la Tenebra?» Fissai Levitinus. Il vecchio insegnante non si era fatto trarre in inganno dalla domanda. Era un quesito velenoso, ma lui lo sapeva bene. «Così ci dice la Chiesa», rispose pacatamente Levitinus. Flaviun fece mostra d'essere confuso (ma io, almeno, non mi feci turlupinare dalla sua domanda). «Io però non ho certo rivolto la domanda alla Chiesa, Maestro», disse. «Lo so, giovane studente. Questo l'ho capito». «Sappiamo che l'Uomo venne creato in Albion, che peccò agli occhi del Creatore, e venne esiliato nel mondo», fece Flaviun citando le Scritture. «È così», disse Levitinus. «L'Uomo in Albion, dunque, fa parte della Tenebra?» Levitinus rispose senza esitazione. «Questa è una domanda che va posta a un esponente della Chiesa, Flaviun Sellenus. Questa è un'Università, non un seminario teologico». Alcuni degli studenti risero. «Allora...» Flaviun, recitando la parte dello studente modello, fece finta di cercare le parole. «Allora, la teologia finisce, e la storia comincia, nel giorno - nell'ora, se vogliamo - in cui L'Uomo venne bandito da Albion...» Levitinus fissò il soffitto. «Dato che la Chiesa vive tuttora, direi che la teologia non terminò con quell'evento. La teologia e la storia si muovono attraverso le ere, fianco a fianco». Buona risposta, pensai. «Possiamo dunque cominciare a parlare di storia, dopo la Tenebra?» Chiese Flaviun. «Dal punto di vista della Chiesa, dopo di allora, non interpretiamo più le Scritture, ma registriamo fatti». «Penso di sì», disse Levitinus. Stava cercando di reprimere la sua irritazione. «Ma veniamo al punto, Flaviun. Immagino che lei abbia una domanda precisa in mente».
«Maestro», fece Flaviun in una scimmiottatura di rispetto, «perdoni la mia ignoranza. Io sto solo cercando di imparare». «Ne sono lieto», disse asciutto Levitinus. «Sfortunatamente, oggi ci è rimasto poco tempo per imparare qualcosa. L'apprendimento lo riprenderemo domani», e indicò la grossa clessidra sulla cattedra. «Una sola domanda, allora», fece Flaviun, «o forse due». E proseguì senza aspettare il permesso di Levitinus. «Innanzitutto, quale fu il primo evento dopo l'inizio della storia? E in secondo luogo, quando apparvero per la prima volta le fiamme azzurre su Albion?» Mi rizzai di scatto sul banco, mentre molti facevano lo stesso. Un silenzio carico di tensione scese sulla classe. Guardai Levitinus. Era pallido, palesemente sconvolto. Flaviun aveva teso la sua trappola con molta scaltrezza. Anche il vecchio insegnante non se ne era accorto. Flaviun sapeva bene che era proibita anche la sola menzione delle fiamme azzurre che un tempo circolavano su Albion. Gli stessi Padri della Chiesa ne parlavano fra di loro bisbigliando, se pure ne parlavano. Nominandole, Flaviun aveva commesso una grave eresia. Ma, in un certo senso, era senza colpa. Un Maestro è responsabile dei suoi discepoli, e Flaviun era riuscito a far pesare in pieno questa responsabilità sulle spalle del suo insegnante. Il meccanismo della trappola era semplice. Era proibito parlare delle fiamme azzurre. Ma il piccolo, infame mestatore, aveva spinto Levitinus ad ammettere che tutti gli eventi situati al di fuori della Tenebra appartenevano alla storia, e il Maestro non aveva posto limiti a questa affermazione. Di conseguenza, aveva in un certo senso autorizzato Flaviun a menzionare ciò che non doveva essere menzionato. Levitinus cercò di mantenere la calma. «Basta così per oggi», cominciò. «Quello che è stato detto qui non verrà più ripetuto. Né dentro né fuori di quest'aula. Noi...» «No, Mastro Levitinus, non finirà così!», gridò Flaviun. Era in piedi, gli occhi infiammati d'ira. «Io sono uno studente che paga, signore. Con tutto il rispetto, le ricordo che un maestro è obbligato a rispondere alle domande dei suoi allievi!» Levitinus divenne di brace. «Giovanotto, ti ricordo che...» «Lei ha ammesso o no che erano legittime tutte le discussioni relative ad eventi nel campo della storia?», lo interruppe Flaviun. «La tua domanda...» «La mia domanda era corretta. È stata posta sotto le istruzioni e la guida
di un maestro. Io ho chiesto delle fiamme azzurre, signore! Sull'isola di Albion! E vorrei una risposta!» «Non ne hai alcun diritto, Flaviun Sellenus!» La mascella di Levitinus tremava visibilmente. «Ne ho tutti i diritti, invece», rispose Flaviun con un sorrisetto malevolo. «È stato il mio stesso Maestro ad autorizzarmi a parlare di questo evento, che si è verificato in tempi storici. Ci sono molti testimoni in grado di confermarlo». Il cuore mi si fece di ghiaccio, a queste parole. Le pupille di Levitinus si dilatarono. Era così, dunque. Flaviun si era già messo d'accordo con i suoi testimoni. E su una materia del genere, c'era una sola istituzione che sarebbe stata interessata ad ascoltare testimonianze. «Ripeto la mia domanda», continuò Flaviun. «Quando vennero viste per la prima volta le fiamme azzurre su Albion, signore?» Levitinus lo fissò senza dir parola. «Sostiene forse che si tratta di una questione riguardante soltanto la Chiesa?», fece Flaviun. Poi scosse la testa: «No, signore. Lei stesso poco fa ha affermato che si tratta di una questione appartenente alla storia, perché si è verificata dopo le Tenebre. E nel caso non volesse rispondere a quella domanda, ne ho un'altra: perché le fiamme azzurre non circolano più su Albion? Perché, Mastro Levitinus? Non si son più viste fiamme azzurre da quanto tempo? Cento anni? Duecento anni?» Flaviun scoppiò a ridere. «Le vite di due uomini longevi, no? Il Creatore ci ha dunque dimenticati? Possiamo tornare ad Albion, signore? Di certo...» «Fuori di qui!», gridò Levitinus. Il suo volto era nero di rabbia. «Non sei più uno studente di questa Università!» «Lo sono ancora, signore», rispose Flaviun freddamente. Levitinus gli puntò contro un dito tremante. «Non in quest'aula, né in alcun'altra». «Parlavamo delle fiamme azzurre, Mastro Levitinus. Come Studioso Anziano, lei...» «Flaviun Sellenus». Le mani di Levitinus erano strette ai bordi della cattedra. «Non me ne importa un accidente delle tue fiamme azzurre. Né di quanti santi possano stare a testa in giù sulla... sulla punta di una penna. Né se ci sia più oro sull'altare di San Bellium o nelle tasche di tuo padre! Né... né...» Io guardavo, troppo pieno d'orrore per muovermi. Pochi momenti prima, Levitinus era stato un uomo severo e autorevole, un maestro che aveva fat-
to moltissimo per aprire la mia mente al mondo che mi circondava. Ora, stavo assistendo a qualcosa che non avrei mai più potuto dimenticare. Guardai negli occhi di Levitinus e lo vidi diventare improvvisamente vecchio, decrepito. Le forze che lo avevano sempre animato stavano fuggendo da lui, e lo lasciavano come un sacco vuoto che si affloscia sotto il suo stesso peso. Era come se solo in quel momento egli si fosse reso conto che qualcosa di terribile era successo. Che lui aveva perso il controllo del suo mondo, e di ciò che lo animava. Era sorpreso di ciò, eppure al contempo in un certo modo non lo era. E quando si alzò per uscire dall'aula, passando davanti a noi, non si volse né a destra né a sinistra. Aveva lasciato dietro di sé la sua grandezza e la sua anima, e non era nulla più che un vecchio avvolto in una tunica gualcita. «Flaviun. Flaviun Sellenus». Li avevo raggiunti nella taverna della Penna d'Oca. Attorno a Flaviun c'era un folto gruppo di studenti. Era nel favore di tutti: aveva abbattuto un gigante, ed era sopravvissuto per raccontare l'impresa. Sentendosi chiamare, sì volse verso di me, e atteggiò il volto a sorpresa. «Bene. Il nostro buon Mastro Mucchio di Fieno. Bevi un po' di vino con noi?» Mi lanciò un sorriso accattivante, e procedette a ispezionarmi con lo sguardo dalla testa ai piedi. Si comportava come se lo stupisse il solo fatto che io potessi camminare sulla terra. La cosa sembrò divertire molto gli altri studenti. «Flaviun», gli risposi, «non mi unirei con te neppure per bere un bicchier d'acqua nel deserto». «Ed io, mio caro, non ti inviterei a berlo», mi rispose girando gli occhi. Feci un passo verso di lui. «Sei un codardo», dissi. «Nulla di più e nulla di meno. Nella tua borsa non c'è oro sufficiente a farti raggiungere il peso di un uomo vero». «Ah, sì?» «Sei un codardo e un debole. Prova a rispondere a me delle tue azioni, se osi». Flaviun aggrottò la fronte. «Che cosa vuoi da me?» «Ti sfido. Rispondi a me con le armi di quello che hai fatto. Sempre che tu sappia distinguere la punta di una spada dall'elsa». Flaviun tirò indietro la testa e si mise a ridere. Gli studenti all'interno, però, guardavano senza mutare espressione. I sorrisi erano caduti loro dal volto, e si erano scostati da Sellenus.
Flaviun li fissò con occhi irritati. «Andiamo, andiamo», fece. «Non penserete che quest'idiota dica sul serio?» Poi gli passò un lampo di divertimento nello sguardo. «Bene, Mastro Aldair di dovunque tu sia. Vuoi soddisfazione?» Fece finta di mettersi in guardia, assumendo una posizione grottesca, e simulò il grido del guerriero. «In questo caso, scelgo come arma i forconi da letame a venti passi. Senza dubbio tu sei abituato a manovrarli!» Gli fui addosso prima che potesse fare una mossa. Gli diedi un violento manrovescio su una guancia, poi sull'altra. I colpi lo fecero barcollare. Vidi le lacrime spuntargli negli occhi, e le punte delle orecchie che si facevano rosse. «Questa è la mia sfida, piccola bestia», gli dissi. «Se ne hai il coraggio, raccoglila». Mi voltai e me ne andai senza girarmi indietro. Due Padri avvolti nelle loro tuniche brune mi sbarravano il passo, ma girai loro intorno senza guardarli. Un mercante mi si levò in fretta davanti, lanciandomi un insulto alle spalle. Non gli prestai attenzione. La rabbia mi accecava a tal punto che quasi non vedevo la strada sotto i miei stivali. Quel piccolo bastardo - pensavo - non l'aveva finita con le sue porcherie. Conoscevo bene la gente come lui. Un semplice assaggio del potere non era sufficiente. Aveva umiliato chi era migliore di lui, e non si sarebbe fermato lì. Però che altro poteva fare? Niente di serio, pensai. I tempi, in fondo, non erano barbari fino al punto che uno Studioso di fama dovesse preoccuparsi di uno studente vendicativo. Anche se quest'ultimo aveva molto oro nella borsa. La stessa Chiesa avrebbe riconosciuto che Flaviun aveva torto. Non avevo dubbi che le gerarchie ecclesiastiche sarebbero venute a conoscenza dell'incidente, se già non erano state informate. Camminavo automaticamente, un passo dopo l'altro. Speravo di poter essere certo delle mie conclusioni. Il sole era scivolato dietro le mura della città, e il Mercato era diviso nettamente in una zona d'ombra e una di luce. Lo stygiano era ancora nella sua gabbia d'acciaio. La sua presenza era ormai nota in tutta la città, e quasi tutti gli abitanti avevano potuto ammirare la Bestia del Nord. Di fronte alla gabbia rimanevano ormai pochi spettatori. Le guardie rhemiane della mattina erano state rimpiazzate da un trio di mercenari tarconiani. Erano bruti colossali, come tutti i Tarconii: due volte l'altezza e quattro volte il peso di qualsiasi altro guerriero imperiale. Erano buoni combattenti, ma più muscoli che cervello, e la gente come loro non mi piaceva troppo. Uno
rimase a fissarmi mentre gli passavo davanti; un mostro con la pelliccia nera e lucida, macchiata qua e là di bianco. Scosse le corna dipinte e fece tintinnare gli anelli che portava infilati nel naso. Mangiai poco, e non dormii per nulla. Nella mente non mi si presentò neppure una volta l'immagine di Illycia. Ad un certo punto della notte mi alzai, spalancai la finestra e mi sporsi dal balcone, scrutando nel buio del vicolo al di sotto. Non si vedeva nulla. Invece di avere stelle e fronde verdi da contemplare, non c'erano che mattoni e ciottoli bagnati In ore come quelle sentivo dolorosamente la mancanza di mia madre, dei miei amici e cugini, e della vita selvaggia negli Eubironi. La nostra non era un'esistenza facile, ma il pericolo e la violenza ti venivano incontro in forme ben note, facilmente riconoscibili per quello che erano... TRE Trovai Illycia che mi stava aspettando fuori della porta di casa, la mattina dopo. Più che sorpreso, ne fui stupefatto. In passato, ero sempre stato io a cercarla, giocando al gioco del corteggiamento che piace tanto alle donne. Per di più, trovarla alzata prima di mezzogiorno era certamente un evento straordinario. In un altro momento, la cosa mi avrebbe fatto un enorme piacere. Ma quella mattina la mia testa era piena di pensieri più gravi. «Vai in aula questa mattina, Aldair?», mi chiese, sorridendo e inclinando un po' la testa di lato. «Sono uno studente universitario», risposi. «È abbastanza logico che la mattina vada a sentire le lezioni, Illycia». Le sopracciglia si aggrottarono alla risposta brusca, e ne fui immediatamente dispiaciuto. «Scusami, Illycia», le dissi toccandole un braccio. Non ho dormito bene, e ho molte preoccupazioni». «Capisco, Aldair». «Vuoi fare un po' di strada con me, allora? A meno che tu non debba andare da un'altra parte». Il volto le si illuminò e il naso si tinse di rosa. Poi si riprese, e si diede un contegno. «Per la verità devo appunto fare qualche spesetta. Potrei accompagnarti fino al Mercato». «Bene», dissi. «Ne sarei tanto felice, Illycia».
Come al solito, sapeva tutto quello che era successo in città, e mi informò subito delle «cosa terribile» accaduta durante la notte. Feci finta di non averla già sentita raccontare tre volte prima di colazione: una dal vecchio che gestiva la mia locanda e due dalle cameriere. Una di queste era così scossa dall'evento che per poco non rovesciò sulla tavola il vassoio con i biscotti e il miele. Ogni volta la storia mi era stata raccontata in versioni diverse, e anche quella di Illycia conteneva alcuni arricchimenti. Dunque, durante la notte il guerriero stygiano era riuscito a scappare. Secondo una versione, aveva ucciso un soldato rhemiano. Secondo un'altra, ne aveva uccisi due e ferito un mercenario tarconiano. Si diceva poi che avesse mangiato un bambino, o addirittura divorato un'intera famiglia. Secondo alcune voci, un altro stygiano aveva scalato le mura per aiutarlo a fuggire. Da lì era nato il timore che dieci, venti, cento di quelle creature scorrazzassero libere per tutta Silium. La verità, io lo sapevo, doveva trovarsi nascosta sotto tutta questa massa di dicerie, ben celata alla vista. Probabilmente il mostro era davvero riuscito a scappare. E se per far ciò avesse dovuto ridurre al silenzio una guardia, non avrebbe avuto difficoltà a farlo. A parte questo, una volta fuggito non era certo suo desiderio attirare l'attenzione. Di sicuro, perciò, non aveva perso tempo a divorare metà dei bambini di Silium, o a smembrare la Legione rhemiana. «Mi sembra scandaloso», disse Illycia. «Che cosa?» «Beh, il fatto che lo abbiano lasciato andar via così...» «Nessuno lo ha lasciato andar via di proposito, Illycia». «Sai che cosa voglio dire...» «È scappato, semplicemente. E il fatto non mi sorprende troppo», la interruppi. «Qui nessuno sa niente degli Stygiani. Se i Rhemiani avessero perso un po' del loro tempo prezioso a studiare a fondo le province che si sono dimostrati così ansiosi di conquistare, oggi avrebbero un'idea più precisa di ciò che hanno contro. Ma ai Governatori rhemiani l'unica cosa che interessa sapere è se i raccolti sono stati buoni come quelli dell'anno passato. Non perdono tempo per contare i Venicii morti per difendere i loro stessi confini, né si chiedono se anche gli Stygiani hanno un cervello nel cranio, come chiunque altro». «Aldair!» Illycia aveva gli occhi spalancati, e dava rapide occhiate all'intorno. «Non devi parlare così...» «Perché no? È vero!»
«Sì... forse. Ma se qualcuno ti sentisse...» «Non ho detto nulla che già non si sappia», feci seccamente. Poi accelerai il passo verso la Porta Reale e il Mercato. Non c'era nulla da vedere nel posto dove durante la notte era accaduto il fattaccio. Anche la gabbia vuota dello stygiano era stata portata via. Tuttavia, quello era stato il teatro dell'evento, e sul luogo c'era un mucchio di gente intenta a raccontarsi l'un l'altro l'accaduto. «Mi vengono i brividi solo a pensarci», disse Illycia, e rabbrividì contro di me in modo molto convincente. Poi raggrinzì la punta del nasino. Quella piccola, tenera appendice era una delle caratteristiche più incantevoli di Illycia. Mi aveva fatto quasi diventare matto, quando la scorsi per la prima volta incontrandola nella strada. La seguii fino alla bottega del padre, e dovettero passare tre giorni prima che raccogliessi coraggio sufficiente per rivolgerle la parola. Oggi, a pensarci, mi sembra ridicolo, anche se probabilmente rifarei la stessa cosa. «Aldair», mi disse, come casualmente, «devi... devi proprio andare in aula, oggi?» Dal tono della voce mi resi conto che c'era qualcosa che non andava; mi fermai e la fissai. I suoi piccoli occhi neri erano diventati all'improvviso liquidi. Intorno ai lati della bocca c'era una curva molto particolare. Sentii che aveva luogo una certa, ben nota reazione fisica, e provai l'impulso di strangolarla sul posto. Non si era mai comportata così prima, e per cominciare sceglieva proprio quella mattina! Le donne sono sempre prontissime a capire quando gli uomini hanno le difese abbassate. Non lasciano mai nulla al caso. «Illycia», le feci. «Sai che non posso mancare alle lezioni». «Beh...» Alzò una spalla e si ispezionò le unghie. «Se non vuoi, Aldair...» «Lo sai che voglio. È tanto di quel tempo che aspetto di...» Aggrottò le sopracciglia. «Che cosa aspetti, Aldair?» «Niente», dissi. «Niente d'importante, Illycia». «Sono sorpresa che tu voglia andare a lezione», disse lei, guardando le mura della città. «Voglio dire... proprio stamattina». «Perché?» La scrutai attentamente. «Perché non dovrei andare?» «Lo sai. Dopo tutto quello che è successo ieri. All'Università». Mi fermai e la presi per le spalle, facendola voltare verso di me. «Era questo, dunque, il pensiero che ti frullava per la testa! Bene. Che si diceva in giro di quello che è successo, Illycia?»
«Non ne so molto». «Ci scommetto...» «Come?» «Niente. Che cosa hai sentito dire?» «Solo che Mastro... Mastro...» «Levitinus». «Che Mastro Levitinus ha detto certe cose contro la Chiesa». «Ma non è affatto vero, Illycia». «E poi che ha colpito uno studente quasi a morte, e ha parlato in una strana lingua!» Sospirai e scossi la testa. «Tutto sbagliato. Non è stata nemmeno colpa di Mastro Levitinus. Illycia, non devi credere a tutto quello che senti dire, anche se è interessante». Mi fissò con uno sguardo strano. «E tu pensi che io lo faccia?» «No. Certo che no». «Bene, stai certo che non lo faccio. Aldair...» «Sì...» «Raccontami. Voglio dire, riferiscimi quello che è realmente successo». Si morse il labbro nervosamente. «Tu c'eri, non è vero?» Certe volte io sono lento di comprendonio, ma alla fine le cose le capisco. Questa, dunque, era la spiegazione vera della mia improvvisa desiderabilità da parte di Illycia. Voleva un resoconto di prima mano da parte di un testimone oculare. «Devo andare, ora, Illycia», le risposi. «Farò tardi». «Aldair...» Staccai la sua mano dal mio braccio. «Sarai lieta di sapere, Illycia, che intendo recarmi da Mastro Levitinus subito dopo la lezione. Gli offrirò i miei servigi, se ne avrà bisogno. E lui sarà felice di apprendere che tu e gli altri concittadini siete preoccupati per la sua situazione». Illycia mi fissò, poi la punta rosata della sua lingua passò nervosamente sulle labbra strette. «Spero proprio che tu non vada da Mastro Levitinus, Aldair». «No? E perché mai?» «Ma davvero non sai ancora nulla, Aldair?» «Illycia...» «Mi fai male, Aldair! Insomma! È stato... preso... dalla Chiesa. Il tuo caro Mastro Levitinus è un eretico! Ha peccato contro il Creatore!» Le lasciai il braccio e mi buttai di corsa attraverso il Mercato.
«Aldair, ascoltami!» la sentii gridare dietro di me. «Hai davvero colpito Flaviun Sellenus? E poi... e poi hai inciso il Segno sulla sua schiena? Davvero?» Maledetti! Maledetti tutti! Lo avevo temuto, ma non mi sarei mai aspettato che Flaviun Sellenus sarebbe arrivato fino a quel punto. Il denaro, certo. Argento a sufficienza, a quel che sembrava, avrebbe comprato tutta la basilica di San Bellium e una intera Legione di Santi Padri! Mi fermai davanti all'ingresso dell'Università. Ora che ero lì, che cosa avrei dovuto fare? Entrare in aula? Sarebbe stata un'ipocrisia, con Mastro Levitinus che languiva in una cella da qualche parte. Andare alla Penna d'Oca? Lì sicuramente avrei trovato qualcuno in grado di raccontarmi le cose con maggiori dettagli. Ma... e se avessi incontrato di nuovo Flaviun? Stavolta, non sarei stato capace di trattenermi. Sicuramente gli avrei infilato una lama tra le costole, e mi avrebbero mandato a raggiungere Levitinus. Gli uffici della Facoltà, forse... «Giovane Studente Aldair...» Mi voltai, allarmato. E rimasi di sasso. Lo riconobbi immediatamente. Uno dei Padri dalla tunica di lino. Per poco non lo avevo travolto, dopo aver messo a terra Flaviun. «Aldair...» Il suo sorriso era rassicurante, e sentii il colore tornarmi sulle guance. Si era reso conto immediatamente della mia paura. «Perché quell'espressione allarmata, fratello?» Si fece più vicino a me e si fermò. «I tuoi giovani peccati sono dunque così gravi?» «Siamo tutti peccatori, Padre», risposi, e mi accorsi che la mia voce era strozzata. Il Padre rise. «Non citare le Scritture proprio a me, Aldair. Anche se il Creatore sa che me ne gioverei anch'io». «Padre. Non volevo...» «No, no, certo che no. Intanto, io sono Padre Tinius». Automaticamente, mi feci sul petto il segno del cerchio. «Sono... Sono onorato, Padre». Il volto di Tinius si fece serio. «Beh, non esserlo. Io sono un servo del Creatore, come te. E uno dei servi più umili, quanto a questo. Hai un momento da dedicarmi, Aldair?» Mi chiesi che cosa mai volesse la Chiesa da me. «Volentieri, Padre», risposi. «Ma ora ho lezione, e...» «Lo so, lo so», fece Tinius, con un gesto della mano. «Ma la lezione può aspettare, no? L'anima viene prima della mente, Aldair, e io non ti porterò
via molto tempo». Il Padre ammiccò verso di me, come se entrambi dividessimo un certo segreto. Poi cominciò a camminare rapidamente, e non potei far altro che seguirlo, anche se quella faccenda non mi piaceva affatto. Tinius non mi aveva detto come conosceva il mio nome, ma io sapevo già la risposta a quella domanda. Aveva assistito al mio scontro con Flaviun, rendendosi conto che all'origine c'era la situazione creatasi con Mastro Levitinus. Dietro tutto ciò c'era ancora una volta la mano di quel maledetto figlio di papà, ci avrei scommesso. San Bellium è una montagna di grigia pietra lavorata. I suoi altissimi soffitti a volta scompaiono nella penombra, e il suo interno è ancora più oppressivo dell'esterno. Non vi ero mai entrato prima, anche se non intendevo rivelare la cosa a Padre Tinius. La stanza nella quale mi condusse il religioso era piccola, ed arredata soltanto con una scrivania e due sedie. La luce vi penetrava attraverso una feritoia sulla parete, larga poco più del palmo di una mano. Soltanto i raggi di sole più vigorosi e determinati riuscivano a entrare, squarciando l'oscurità dell'ambiente. Era una stanza adattissima alla personalità e l'aspetto di Padre Tinius. Come molti altri della sua specie, sembrava che fosse nato nell'angolo più buio della Chiesa, dove era sempre vissuto e da dove esitava ad allontanarsi. Era un fatto, questo, che mi aveva sempre sconcertato: i Santi Padri che lodavano l'opera del Creatore sembravano evitare con odio la bellezza del suo giorno. Tinius era un uomo pallido e magro. Doveva essere ancora giovane, ma la pelliccia gli si stava già diradando. Il suo muso era così sottile che le vene erano chiaramente visibili sotto la pelle. Secondo l'uso degli ecclesiastici, si era strappato i peli dalle guance, il che aggiungeva pallore ai suoi lineamenti. I piccoli occhi rosa brillavano come fiammelle dalla cima del suo cranio, e sulle orecchie non c'era quasi peluria. Si accomodò su una delle sedie e mi rivolse un pigro sorriso. «Non ti farò perdere tempo. Aldair», mi disse. «Ti ho fatto venire qui per parlare del tuo docente. Mastro Levitinus. Tu sei un ragazzo intelligente, e senza dubbio l'avevi già capito». Non risposi né sì né no. Tinius sostenne il mio sguardo per un secondo. «Tu eri presente alla lezione di Mastro Levitinus ieri mattina». «Sì, Padre». «E sei informato, Aldair, che Mastro Levitinus è stato preso in custodia
dalla Chiesa?» Cercai di non rivelare le mie emozioni. «Sì, Padre. L'ho sentito dire». Preso in custodia pensai. Io avrei usato un'espressione diversa. «E che cos'altro hai sentito dire?» «Soltanto che Mastro Levitinus è stato accusato di eresia», risposi. «Ma si tratta di chiacchiere di strada, Padre. Io non so...» Tinius scosse la testa. «Una lingua sciolta è il peggior peccato». Sorrise. «So bene, Aldair, che per i nostri bravi concittadini Mastro Levitinus è ormai già squartato e bruciato. Ma non è affatto così, ovviamente. Siamo perfettamente consapevoli», aggiunse in tono solenne, «che certe persone dipingono la Chiesa come intenta a frugare sotto i letti e i tappeti alla ricerca di eretici. Ma non è così: ti assicuro che abbiamo cose ben più importanti da fare». Tinius si passò la mano sul mento in atteggiamento pensieroso, poi inclinò il busto verso di me. «Voglio dirti una cosa, giovane Aldair. I Padri sono mortali come ogni altro uomo, e soggetti agli stessi errori. Lo capisci, questo?» «Io... Sì, Padre». «E ti dirò ancora (ma solo per te, bada bene), che nella Chiesa stessa ci sono persone troppo... zelanti, diciamo così, le quali», alzò gli occhi al soffitto, poi li riportò su di me, «le quali sono propense a scorgere demoni là dove dimorano soltanto degli innocui folletti». Si interruppe per sorridere alle sue stesse parole. «Temo che questo sia quanto è successo nel caso di Mastro Levitinus. Ciò che abbiamo di fronte non è altro, a mio parere, che un modesto e sfortunato incidente gonfiato fino a fargli assumere proporzioni eccessive. Un incidente fra un maestro e il suo allievo. Un incidente nel quale, secondo me, Mastro Levitinus è del tutto privo di colpe». Al suono di queste parole mi raddrizzai su me stesso. «Sì», aggiunse Tinius annuendo con convinzione. «Io di tutta la vicenda so già molto più di quanto tu non immagini, giovane Aldair. Tu non sei il primo studente con il quale ho parlato questa mattina, e non sarai l'ultimo. E ti assicuro che sono perfettamente in grado di distinguere la realtà dalla fantasia, se capisci ciò che intendo dire». «Sì, Padre», risposi, «e ne sono molto sollevato». «Bene». Si appoggiò all'indietro e incrociò le dita. «Dunque... A quanto mi è stato riferito, Mastro Levitinus nel corso della lezione di ieri ha menzionato un certo argomento che la Chiesa considera sacro e del quale ha proibito la menzione. È vero?»
Esitai prima di rispondere. «Sì, Padre, in un certo senso è vero, ma...» Tinius alzò una mano. «So già quello che vorresti aggiungere, ragazzo. Lascia che sia io a condurre l'interrogatorio, Aldair.. Aspetta. Vedrai che ho capito perfettamente la situazione». «Sì, Padre». «Perfetto. Lo studente Flaviun Sellenus ha ammesso apertamente, dietro domanda specifica, di avere anche lui menzionato quel tale argomento. Ma ha aggiunto di averlo fatto soltanto dopo che Mastro Levitinus aveva affermato che esso ricadeva nel campo di interesse degli studi accademici. È così?» «Padre...» Non mi importava più di mantenere un contegno. «Flaviun è un mentitore e un codardo! Lui stesso ha fatto in modo che le cose sembrassero quelle che sono state riportate!» Tinius emise un sospiro e fece un gesto d'impazienza. «Per favore, Aldair!» Depose le mani a palme in giù sulla scrivania. «Mastro Levitinus ha effettivamente affermato - in un modo o nell'altro - che quel tale argomento ricadeva all'interno dei confini della storia?» «Sì, in un certo senso, ma...» «Bene. E ha detto?» - Tinius si fece il segno del cerchio - «cito: 'Non me ne importa un accidente delle tue fiamme azzurre. Né di quanti santi possano stare a testa in giù sulla punta di una penna', fine della citazione?» E mi fissò diritto negli occhi. Che cosa potevo rispondere? Senza dubbio altri testimoni gli avevano già confermato la cosa. «Sì, Padre», dissi a voce bassa. «Questa frase è stata pronunciata». Tinius scoppiò in una risata così improvvisa che sobbalzai sulla sedia. «Bene, ragazzo», fece. «Rilassati. Smettila di guardarmi così, per favore. Queste erano le domande che dovevo farti. Adesso, la parte ufficiale dell'interrogatorio è finita». Si appoggiò all'indietro e mi sorrise. «Ora sono molto ansioso di venire alla parte che conta, Aldair. Che cosa è successo realmente, in aula? Dimmelo così come tu l'hai visto e sentito». Nei suoi occhi c'era uno sguardo d'intesa che non era mai comparso prima, e sorrisi a me stesso. «Voglio sapere tutto», aggiunse Tinius. «In particolare la parte alla quale ho assistito anch'io, e che non posso negare mi sia piaciuta. Quando hai messo al posto suo quel riccone presuntuoso di Flaviun Sellenus!» Il sorriso scomparve all'improvviso dal suo volto. «Sarebbe ora», disse cupamente, «che certa gente imparasse che le benedizioni del Creatore non possono
essere comprate con una manciata d'oro!» QUATTRO Mancava ancora un'ora a mezzogiorno. Ma non me la sentivo di entrare in aula. L'assenza alle lezioni me l'avrebbero fatta pagare duramente, lo sapevo. Il vecchio Mastro Pelian non era comprensivo come Levitinus. Mi avrebbe costretto a copiare appunti fino a quando non mi sarebbero venuti i crampi alle mani. Nella sua libreria, conserva una serie di registri freschi e puliti proprio per questo. Gli studenti più ricchi, come Flaviun Sellenus, potevano sostituire questo tipo di lavoro assegnato per punizione con una multa. Ma io avevo troppo poco rame nella mia borsa. Fuori della caverna di San Bellium il sole sembrava più caldo e luminoso del solito. Mi fermai per un momento e mi lasciai avvolgere dai suoi raggi. Poi, fui colto dall'impulso improvviso di correre giù per i gradini di pietra e immergermi nella folla chiassosa del Mercato, perdendomi in quel mare di movimenti e colori. Laggiù c'era la vita, mentre nell'ammasso di pietre dietro di me sentivo soltanto la morte. Mi venne fatto di pensare che vivevamo in un mondo davvero strano. Lo stesso pensiero mi era venuto poco prima, davanti a Tinius. La Chiesa definiva se stessa come la luce che illumina l'anima umana, la sentinella della sua vita sulla terra. Eppure, per quanto potevo vedere io, dentro San Bellium non c'erano che tenebra e il gelo della morte. La gioia, il calore e l'allegria erano davanti a me, nel Mercato. Dove mercanti incarogniti litigavano ad alta voce per mezzo centesimo corroso, e le puttane di città vendevano merce che non si trovava sui banchi. Come poteva essere una cosa simile? Ecco una domanda, mi dissi, che non avrebbe trovato facile risposta né in chiesa, né in un'aula universitaria. Per un attimo, pensai di fare una capatina alla Penna d'Oca. Poi mi dissi che a quest'ora avrei trovato ben pochi studenti, e certamente nessuno di quelli che mi sarebbe piaciuto incontrare. Allora decisi di fare una passeggiata alla ricerca di Illycia. Quella mattina aveva risvegliato i miei desideri, e poi li aveva raffreddati altrettanto repentinamente. Ma succede sempre così con i sensi degli uomini: basta l'ammiccare di un occhio femminile e il corpo ci tradisce, spingendoci a dimenticare tutti i difetti di lei. Illycia aveva una lingua troppo sciolta e un'anima non precisamente sensibile. Ma in lei c'era molto calore e molta comprensione, sempre che non si provasse
ad andare troppo in fondo. Allontanandomi dalla chiesa, mi inoltrai fra i banchi del mercato affollati di gente che osservava le merci scadenti e i vegetali avvizziti. Pensavo. Avevo detto le cose giuste? Avevo risposto alle domande in modo da aiutare Mastro Levitinus? Decisi che avevo fatto del mio meglio, sempre che ciò contasse qualcosa. E Padre Tinius sembrava una persona abbastanza decente, per essere un ecclesiastico. Tutto sommato, mi aveva offerto la possibilità di parlare francamente, dicendo ciò che pensavo. Evidentemente, c'erano Padri buoni e Padri cattivi, come c'erano commercianti onesti, e ladri. D'altra parte, sapevo che quegli ecclesiastici che si erano spinti fino alle Province settentrionali erano di pasta più forte dei pallidi Padri di Silium. Rischiavano la loro vita come chiunque altro, e non chiedevano favori speciali. Quelli che non resistevano alla dura vita della frontiera, partivano presto per altri luoghi. Un teatrino di burattini stava dando spettacolo al centro del Mercato, e mi fermai un attimo ad osservare. La storia era molto semplice. Una pattuglia di eroici guerrieri rhemiani respingeva un esercito invasore che andava all'assalto delle mura di carta. I cittadini grati, compresa una vergine di piacevole aspetto, acclamavano i coraggiosi legionari. Uno dei nemici, notai, era un ridicolo stygiano mangiato dalle tarme: tutto faceva, fuorché paura. Magari fosse così davvero, mi dissi. Alla fine, soldati, vergine, mercanti si strinsero tutti la mano e fecero la riverenza al colto pubblico. Quello spettacolo, pensai, sembrava il riflesso della vita. Siamo sempre tutti appesi a un filo, e dobbiamo obbedire alla volontà di qualcun altro. Le Chiese fanno danzare la gente al loro ritmo solenne, e i Maestri cercano di insegnare monotone nozioni che nessuno metterà mai in pratica. Ciascuno è al contempo marionetta e burattinaio. Persino uno schiavo può gridare un ordine a un cavallo, o schiacciare una mosca, o tirare un calcio a un ciottolo per la strada. Non c'è dunque alcuno che sia veramente libero? Dovunque siamo, siamo sempre sotto l'ombra dell'ala di un padrone. Senza dubbio, questo è il vero ordinamento delle cose. Se il Creatore avesse avuto in mente un diverso disegno, non avrebbe fatto il mondo così com'è. Al di fuori delle porte della città, un contingente di soldati rhemiani stava facendo addestramento al tiro con l'arco. O, per meglio dire, faceva finta di farlo. Mi augurai sinceramente che quella gagliarda truppa di arcieri non dovesse mai incontrare un nemico più pericoloso di una lepre, o sa-
rebbero stati guai seri. Avrei voluto trasportarli per magia ai margini della foresta dei Lauvectii per un giorno: avrebbero visto che cosa voleva dire tirare sul serio con l'arco. I Rhemiani sono buoni soldati, nel senso che hanno un rigido senso della disciplina che li rende imbattibili quando i loro nemici si comportano nel modo dovuto. Quando si schierano in battaglia, non c'è modo di fermare il solido muro di scudi e spade che formano mentre avanzano. Però, non sanno distinguere la punta di una freccia dalla coda. Mi comprai una focaccia e un po' di miele da un venditore ambulante. C'era un'asta di schiavi poco più in là, ma la merce in vendita non sembrava di grande qualità: alcuni Cygnani stolidi e spauriti che sembravano a malapena forti abbastanza da mettere un piede avanti all'altro. Il sole si abbassava, allungando le ombre, e il grigio spettro di San Bellium scuriva ormai la piazza. Rabbrividii, e mi spostai alla luce. Era mai possibile sfuggire al gelido riflesso della Chiesa? Sembrava di no, e mi domandai se un pensiero come il mio fosse sufficiente per condannare un uomo alla dannazione eterna. Gli ecclesiastici ci ammoniscono da sempre che agli occhi del Creatore c'è poca differenza fra intenzioni e azioni. In tal caso, forse la mia anima non sarebbe mai ritornata ad Albion. Comunque, non sarebbe rimasta priva di compagnia. Quando ero ancora molto giovane, e avevo imparato da poco a camminare, in casa nostra viveva un uomo molto vecchio. Mio padre era ancora vivo, e più tardi appresi che il vecchio era il padre di mio padre. Aveva ben poco da fare oltre che bere birra d'orzo e parlare, e dedicava la maggior parte del suo tempo alle due cose. Una volta, ricordo, parlò di Albion. Ci disse di come nelle giornate chiare il suo profilo fosse visibile dal tetto di uno dei tanti templi che punteggiano la spiaggia. Per lui - dichiarò - sembrava un'isola come tutte le altre abitate degli uomini: e se c'erano anime vaganti sulle sue spiagge, la lontananza non poteva permettere di distinguerle. Tuttavia, aggiunse di avere scorto, un giorno, qualcosa di simile a una luce azzurra che risplendeva nel cielo al di sopra di Albion. Ammise però che quando le notti erano quiete e calde, e la birra fresca abbastanza, vedeva in cielo luci di ogni foggia e colore, azzurro compreso. Non udii più nulla sull'argomento, perché mio padre interruppe a questo punto i ricordi del vecchio, e mandò a letto me insieme con i miei fratelli e cugini. Un giorno o l'altro farò un viaggio fino alla costa, salirò sul tetto di un tempio e vedrò di persona se il vecchio aveva detto il vero. Forse Flaviun
Sellenus aveva ragione. Le luci misteriose non appaiono più da tempo agli uomini, e può darsi che ciò sia segno che il Creatore ha perdonato i nostri peccati. O forse è vero il contrario. Forse non manda più le fiamme azzurre a risplendere nel cielo perché è ormai totalmente disgustato dalla razza umana, e non vuole avere più nulla a che fare con noi. Decisione che non avrei potuto non comprendere. Un suono lacerò i miei pensieri, e mi girai attorno per vedere che cosa fosse. Da qualche parte qualcuno stava gridando, e scandagliai con gli occhi la piazza del Mercato per scoprire la fonte delle grida. Finalmente i miei occhi si posarono su San Bellium. Una morsa di gelo mi afferrò la base dello stomaco. Sulle scalinate della chiesa si era raccolta una folla di gente, che dalla strada arrivava fino all'alta facciata dell'edificio. Mi mossi attraverso la piazza, e cominciai a farmi largo fra la torma. «Che cosa è successo?», chiesi a uno dei presenti. L'uomo mi gratificò di una gomitata e un'occhiataccia. «E che ne so?», rispose. «Io sono lontano quanto te». «Pare ci sia una Dichiarazione», fece una donna dietro di noi. «Una Dichiarazione?» La donna vide la mia espressione interrogativa e aggiunse qualcos'altro, ma ormai la folla mi aveva spinto lontano da lei. Quando arrivai sul fronte dell'assembramento, potei vedere la Dichiarazione al di sopra delle teste di chi era ancora davanti a me. Una lunga pergamena giallastra attaccata con delle puntine su un battente del grande portale. Di nuovo la sensazione di gelo mi invase il ventre. Qualcuno mi tirò rudemente per la tunica. «Hai una bella faccia tosta, Aldair!» «Che cosa?» Mi girai, allontanando la mano che mi aveva afferrato il vestito. Riconobbi il volto che mi fissava furente d'ira trattenuta: era quello di uno studente che era stato abbastanza mio amico, e non apparteneva ai cortigiani di Flaviun. «Che cos'hai Dherius?», gli chiesi. «Fatti in là, voglio vedere che cosa sta succedendo». «Ah! Come se non sapesse già quello che c'è scritto su quel foglio!», sibilò un altro studente. «Certo che lo sa», ringhiò Dherius. «È lui che ha aiutato i Santi Padri a scriverlo!» Feci correre lo sguardo dall'uno all'altro. «Ma, Dherius...», cominciai a dire.
«Ma, Dherius...», mi scimmiottò lo studente. «Non fingere con noi, Aldair. Con Flaviun Sellenus hai messo su una bella commedia, ma la verità è scritta lì, nero su bianco, sulla Dichiarazione. È la tua mano che ha assassinato Mastro Levitinus. Il nome di Flaviun non compare su quel pezzo di carta: solo il tuo, Aldair dei Venicii». Li sentii mandarmi una serie di maledizioni, e mi resi conto che alle loro voci furenti se ne erano aggiunte altre, mentre alcune mani cominciavano a levarsi. Ma ormai avevo occhi soltanto per un'altra figura: la familiare immagine, magra e solenne, di un prete fermo di fronte alla porta principale, tetro come San Bellium stesso. E all'improvviso mi trovai solo, dopo aver scavalcato con un balzo la folla ferma sugli ultimi gradini, della scalinata. Solo con le mani strette attorno a un collo pallido e ossuto. Tinius cadde a terra insieme con me; le sue mani artigliarono l'aria e gli occhi gli si spalancarono per la sorpresa e il dolore. Le mie dita rafforzarono la stretta, finché non arrivarono a toccarsi l'un l'altra. La faccia davanti alla mia divenne scarlatta, ma non allentai la morsa. Poi all'improvviso il mio corpo si fece insensibile, e udii la mia stessa voce che gridava disperatamente. Il cielo oscillò. Qualcosa di duro mi penetrò nel fianco. Un soldato era chino sul corpo di Tinius, mentre un'altro si apprestava a darmi un secondo calcio nelle costole. «Lo conosco, questo dannato», gridò. Mi puntò un indice addosso e poi si rivolse alla folla. «Parla con gli Stygiani. Nella loro lingua!» Dalla folla si levò un mormorio cupo. «E quel diavolo gli ha anche risposto!», aggiunse il soldato. «Eretico!», gridò qualcuno, mentre la folla cominciava a ondeggiare. «Eretico!» «Eretico!» Sentii delle mani che mi afferravano le caviglie. Scalciai senza guardare, e udii un gemito di dolore abbastanza soddisfacente. Mi alzai in piedi, la spada in pugno e il dolore al fianco già dimenticato. Il rhemiano sollevò la sua lama. La sentii sibilare accanto a me, feci un passo di lato, affondai la mia spada e lo colsi nel ventre. Il soldato barcollò indietro, si piegò sulle ginocchia, e io mi voltai, cominciando a correre giù per le scale, con la spada levata. La folla mi si ritrasse davanti, aprendomi un varco. Per i buoni cittadini il divertimento è divertimento, ma nessuno di loro aveva voglia per questo di buscarsi un colpo di spada. Dietro di me sentii un clamore di voci e uno sferragliare di armature, ma
non mi voltai per guardare. Istintivamente - per un momento - mi misi a correre verso la mia abitazione. Poi mi fermai, e presi la direzione opposta, correndo a caso prima in una strada, poi in un'altra. Sapevano chi ero, e quindi la strada verso la mia stanza era di certo già bloccata. Potevo dare un addio definitivo ai miei poveri possedimenti. Dove andare, allora? Mi fermai in un cortile per riprendere fiato. In città non c'erano posti sicuri. Nessuno, a Silium, si sarebbe arrischiato a darmi un rifugio. Dunque, dovevo uscire dalle mura. Ma davanti a me c'erano ancora almeno quattro ore di luce, prima del tramonto. CINQUE Smettila di correre, mi dissi. Smettila di correre, e comincia a pensare. Il mio era precisamente il comportamento che porta le lepri in padella, quando sono inseguite dai cacciatori. Corrono a perdifiato, finché la paura, e non l'abilità degli inseguitori, le mette a terra. Perciò mi sedetti in un angolino coperto, e cominciai a pensare alla scena che doveva essersi svolta davanti a San Bellium dopo la mia fuga. I soldati rhemiani hanno modi particolari di fare le cose. Non sono migliori degli altri, ma hanno ordine, disciplina e addestramento. Sono tre fattori importanti, che hanno permesso a Rhemia di conquistare quasi tutto il mondo conosciuto. Perciò ero certo che da qualche parte, nei manuali d'istruzione dell'esercito rhemiano, dovesse esserci una procedura speciale per far cadere nella rete i fuggitivi come me. E doveva essere una procedura ordinata e sistematica. Perciò, i soldati dovevano essere partiti dalla piazza. Avevano suddiviso la città in quadrati. Stavano setacciando uno per uno questi quadrati, procedendo per cerchi sempre più ampi, mentre il fuggitivo vagava per la scacchiera. E, prima o poi... Naturalmente, una serie di pattuglie a cavallo stavano già facendo il giro delle mura per catturarmi, casomai fossi riuscito a raggiungerle o avessi tentato di discenderle. Anche se, probabilmente, non si aspettavano che sarei riuscito ad arrivarci. Su di loro avevo un certo vantaggio, e per ora ero al di fuori del cerchio entro il quale erano arrivate le ricerche. Però, se mi mettevo a correre, prima o poi sarei stato catturato. Se restavo dov'ero, mi avrebbero raggiunto lo stesso. Di certo, non avrebbero smesso di cercarmi prima di aver metodicamente rovesciato tutte le pietre di tutta Silium. Tornai sui miei passi. Il cuore aveva ripreso a battermi in modo ordinato.
Forse, avevo trovato la risposta al mio problema. Fuggire davanti ai Rhemiani era inutile. Nella fuga, c'era solo la morte. Se volevo la vita, l'avrei trovata dentro i loro ranghi. Non al di fuori del circolo che si allargava sempre di più, ma al suo interno. Le gemme azzurre e rosse dalla mia blusa non andavano bene. Averle addosso era come accendere un fuoco e gridare per segnalare la mia posizione. Rovesciato all'indentro, tuttavia, l'indumento mostrava al mondo un tessuto anonimo dallo scialbo colore grigio. Lo stesso ragionamento, ovviamente, si applicava al mio mantello. All'interno era di colore più scuro, e inoltre poteva essere appeso alle spalle in modo diverso da quello che usavo abitualmente. I pantaloni di stoffa grezza, stretti alle caviglie, costituivano un problema più grave. Vedendoli, ogni bambino di Silium si sarebbe reso conto che ero originario delle regioni settentrionali. Perciò me li levai, me li avvolsi intorno alla vita come una cintura, e alla fine risultavo rivestito di una passabile imitazione delle corte tuniche indossate dai Rhemiani. L'aspetto era decente, e inoltre lo spessore dei pantaloni intorno alla vita aggiungeva rotondità alla mia figura, facendomi sembrare più grasso di quanto in realtà non fossi. Gli stivali di pelle di stygiano erano il problema più serio. La cosa migliore sarebbe stata seppellirli in un vicolo. In tutta Silium non ce n'era un paio uguale. Tuttavia, non riuscii a farlo. Un uomo deve coltivare il proprio onore: altrimenti, che senso avrebbe la vita? Lo stygiano cui era appartenuta quella pelle lo avevo ucciso io stesso all'età di quattordici anni. Gli scorridori avevano rotto la resistenza dei difensori alle mura, ed erano entrati nel villaggio, sciamando fra le case. Io ero lì, con cinque tra fratelli e cugini più piccoli. Colsi il mostro in pieno petto proprio mentre varcava la soglia, e stava già pregustando tutta quella bella carne tenera davanti a lui. Erano dunque stivali di sangue. Il mio primo ucciso. E intorno allo stivale destro portavo la punta di freccia che aveva compiuto il lavoro, infilata in una fettuccia rossa e azzurra. No, quegli stivali non meritavano di finire seppelliti in una fogna meridionale. Perciò, me li levai e li portai appesi alle spalle, uno sotto ogni braccio, coperti dal mantello. Mi tolsi anche una calza e la nascosi sotto la cintura. Andare a piedi nudi poteva attirare l'attenzione, e provocare domande. Ma un piede nudo e uno no poteva sembrare frutto di uno stato di necessità. Almeno, così speravo. Tagliai una robusta canna da usare come bastone, e
sollevai un poco il mio piede "zoppo". Così forse non sembravo esattamente un nativo di Silium, ma portavo una rassomiglianza ancor più vaga con il fuggitivo Aldair dei Venicii. Dopo un ultimo, rapido esame del mio abbigliamento, uscii dal cortile deserto e imboccai nuovamente la strada, diretto verso il cerchio delle truppe rhemiane che mi stavano cercando. Non ho mai passato una giornata più lunga. Per il Creatore, pensai ad un certo momento: che anche il sole abbia deciso di mettersi contro di me? Sono certo che, per farmi dispetto, è rimasto in cielo almeno un'ora più del solito. Trascorsi tutto il pomeriggio a passeggiare in lungo e in largo per il Mercato, ispezionando ogni banco e ogni negozio. Tutto ciò, con il timore continuo di imbattermi in Flaviun Sellenus o in qualche altro collega di Università in grado di riconoscermi nonostante il sommario travestimento. Caduta la notte, mi parve inutile continuare a recitare la parte dello zoppo: una parte che l'indolenzimento dei muscoli dovuto alla lunga immobilità aveva portato dolorosamente alla mia condizione reale. Mi ritrovavo con il problema di nascondermi. Posti realmente sicuri non ce n'erano. Mi sistemai sulla tettoia di un negozio di fornaio, poco lontano dalla piazza. Da lì potevo scrutare l'andirivieni delle truppe rhemiane, e farmi un'idea del loro modo di procedere. Chiaramente, i soldati non erano più molto entusiasti della caccia all'eretico. La notte, dal loro punto di vista, poteva essere impiegata molto più utilmente ubriacandosi o andando a puttane. Non c'era gloria nell'infilare torce accese in buchi fetidi e ispezionare cantine ammuffite. I preti volevano questo Aldair: perché non passavano loro la notte in piedi a cercarlo? Non che mi illudessi di essere al sicuro. Lo zelo delle ricerche era molto diminuito, ma non per questo le ispezioni erano cessate. Ai soldati rhemiani non piacciono i civili che infilano spade nella pancia dei loro commilitoni. Io, immobile, osservavo l'ingresso del forno e cercavo di ignorare il profumo di pane che saliva fino a me. Quando le stelle furono alte, e la sentinella delle mura ebbe chiamato l'ora terza, scivolai dal tetto e, cercando di nascondermi fra le ombre, attraversai la piazza fino ad arrivare alle mura, abbastanza lontano dalla porta d'ingresso. Il muro era antico, maltrattato e corroso dal tempo, pieno di buchi e asperità che fornivano appoggi eccellenti a piedi agili come i miei. Era un muro che avrebbe tenuto a bada i nemici soltanto se munito di guardie, con armi e macchine da guerra. Ma
in tempo di pace non si poteva vigilare ogni palmo della sua struttura. Non ebbi difficoltà a discenderlo e, una volta fuori, mi buttai per i campi fin quando non raggiunsi una macchia di biancospini. Lì mi sdraiai a terra e mi avvolsi nel mantello. Lanciai uno sguardo alle luci gialle e lontane di Silium, e ai riverberi rossastri dei fuochi da campo delle truppe rhemiane fuori delle mura. Non avrei sentito la mancanza di quella città, e nessuno dei suoi abitanti si sarebbe addolorato gran che per la mia scomparsa. Il padrone della mia locanda avrebbe trovato rapidamente un nuovo ospite per la stanza che avevo lasciato (con il mio bagaglio dentro), imponendo affitti esosi ad un altro poveraccio. Illycia avrebbe trovato un altro caposcarico come me, ben felice di accarezzarle la doppia fila di morbidi capezzoli sul pancino rosa. E forse avrebbe tirato tanto la corda con qualche malcapitato da fargli perdere la testa fino a tirarle su a forza la coda, scoprendo altre delizie che io avevo soltanto sognato. Dopo di che, suo padre si sarebbe liberato, con comprensibile gioia, di un'altra figlia convolata a giuste nozze. Mi sarebbe mancato Mastro Levitinus. Silenziosamente, rivolsi il pensiero al mio insegnante, promettendo di non dimenticarlo. Senza dubbio pensai - la tua testa è ora infilata in una picca davanti all'ingresso di San Bellium. Ma giuro che se sarà in mio potere, un giorno ritornerò a Silium e sullo stesso posto di testa ne metterò un'altra... Seduto sotto l'ampia chioma di una quercia, aspettavo che i raggi del sole mattutino arrivassero fino a me. Ai miei piedi scorreva un fresco ruscelletto. Al di là, presso un filare di olmi, c'era la fattoria dalla quale avevo poco prima rubato la fetta di pane secco e le patate cotte, ancora coperte di cenere calda, che avevano costituito il mio pasto. Non rubavo mai molto. Sapevo bene che non vale la pena di rischiare per procurarsi più cibo. Inoltre, non volevo lasciare dietro di me una catena di indizi che i soldati avrebbero potuto risalire. Perciò, nei tre giorni successivi alla mia fuga da Silium, mi ero mantenuto leggero. Fino a questa mattina, almeno. Perché, nella scossa fattoria in cui avevo rubato pane e patate, avevo preso anche un arco da cacciatore con una faretra piena di frecce. Portandolo via, mi ero detto che forse il suo possesso per me avrebbe significato la vita, mentre il contadino avrebbe potuto facilmente farne a meno. Malgrado ciò pensai che se l'uomo certo non avrebbe sentito la mancanza di qualche patata e un po' di pane, la perdita dell'arco gli sarebbe invece pesata. Perciò, al suo posto lasciai mo-
nete sufficienti a ripagarlo, anche se il denaro mi sarebbe certamente stato utile al mio ritorno nel mondo civile. Forse, però, quel pagamento avrebbe convinto l'uomo a non denunciare il furto (anche se non potevo essere sicuro della cosa), evitando di far sospettare a qualcuno che ero passato di li. Comunque, misi da parte quanto avanzava del pane e delle patate, e mi alzai seguendo la corrente del ruscello che portava lontano dalla fattoria. Un giorno, vidi che la corrente si allargava e finiva per riversarsi in un fiume. Mi fermai sulla riva, e in meno di un'ora vidi passare nove battelli mercantili i quali tutti, eccetto due, scendevano lungo la corrente. Il fiume era azzurro e pigro, e in esso si rispecchiava il cielo. Lungo le sue rive crescevano fitte macchie di salici che piegavano le chiome fino a toccare l'acqua. La vista della corrente e delle barche mi fece prendere una decisione. Anche se conoscevo poco quella parte del paese, sapevo di aver camminato verso occidente, in direzione della costa. Si era trattato di una scelta puramente casuale. Decisi di trasformarla in una meta deliberata. La notte prima di quella in cui arrivai al fiume, corsi un rischio pericoloso ma necessario. Mi fermai a una taverna lontana dalla strada principale, mi feci versare un boccale di vino e portare carta e penna. Dopo di che buttai giù il resoconto di quanto mi era accaduto a Silium, pregando mia madre di perdonarmi per aver portato vergogna su di lei. Consegnai la lettera al locandiere, pagandogli una mancia perché il suo garzone la portasse il giorno dopo al villaggio più vicino. Sapevo che sarebbe arrivata a destinazione entro una settimana, perché il servizio postale organizzato dai Rhemiani è molto efficiente. Non pensavo che in seguito alla mia vicenda la mia famiglia avrebbe avuto particolari fastidi. Vivere in provincia comporta anche qualche vantaggio. La Gaullia, gli Eubironi, e Trientius fanno parte dell'Impero ormai da cent'anni, ma Rhemia non si è mai fatta sentire laggiù altro che con promesse non mantenute. Le sue Legioni hanno grossi problemi da affrontare molto più vicino a casa. I terribili Nicieani sono una minaccia costante, anche se in genere non abbandonano troppo facilmente le loro regioni sulle coste del Mar Meridionale. Inoltre, sorgono guai in continuazione lungo gli stessi confini di Rhemia, con le lotte intestine fra gli uomini politici, e con sacche di ribellione che ogni tanto esplodono e minacciano la sicurezza dell'Impero. Sempre lungo i confini, ci sono zone in cui si riesce a stento a controllare i Bataavi e a respingere i corsari Vikonen. Perciò, se i Rhemiani offrono poco aiuto alle Province lontane, d'altra parte non pongono neppure problemi. Forse, un giorno, un cavaliere arri-
verà dalle mie parti per chiedere dove abita un certo Aldair. Ma nessuna Legione si spingerà al suo seguito, così a nord. E se per caso lo facesse, i soldati presto desidererebbero di essere rimasti a casa. I Venicii hanno il costume di difendere i loro consanguinei. E non varrebbe la pena di rischiare una ribellione in piena regola per la testa di un ragazzo vagabondo. Rimasi per un po' a sonnecchiare, e quando mi svegliai il sole era già alto. Quando passò un lungo treno di barche che scendeva pigramente verso il mare, saltai sull'ultima chiatta e mi stesi sul dorso, cercando di riposare ancora un poco. Il carico era costituito quasi interamente da legname e vasellame. Nelle chiatte non c'era nessuno: l'equipaggio era tutto sulla barca di testa, l'unica munita di vela, troppo lontana perché qualcuno potesse accorgersi della presenza di un passeggero clandestino. Quando il sole fu vicino al tramonto, le barche vennero accostate a riva, e il battello di testa si staccò, continuando a discendere il fiume. Evidentemente, pensai, sarebbe venuto qualcuno a prendersi cura del carico, forse la mattina dopo. Notai che il fiume si stava allargando notevolmente, il che, in base alle mie nozioni di geografia, significava che ci stavamo avvicinando al mare. Mi pareva già di sentire l'odore del sale nell'aria (avevo sentito dire che l'odore salmastro è molto particolare), ma forse era soltanto la mia immaginazione. Al calar della notte, scesi a terra e cominciai a camminare lungo la riva del fiume. Davanti a me vedevo una serie di luci, che potevano essere quelle di un gruppo di barche ancorate in un porto. In tal caso doveva essere vicina una città, e lì sarebbe stato più difficile che in campagna rubare un po' di cibo. Inoltre, non c'è villaggio dell'Impero in cui non siano di stanza diversi soldati Rhemiani. Perciò, fame o no, decisi di aspettare che tutta la città dormisse. Alle banchine erano legate molte piccole imbarcazioni, che dondolavano lentamente nella risacca. Ne scelsi una, e mi sdraiai nel sottoponte, nascosto alla vista dalla spiaggia. Il cielo brillava di gelide stelle. Pensavo al futuro. Avrei mangiato qualcosa, avrei cercato di dormire... e poi? In realtà, non avevo alcuna idea di dove fossi. Sapevo soltanto che il mare doveva essere vicino. Mi chiesi se da quel punto della costa sarebbe stata visibile Albion. Doveva esserci un punto della riva dal quale l'Isola Tenebrosa era lontana soltanto poche leghe. Forse, quello in cui mi trovavo era lo stesso villaggio che mio nonno aveva visitato tanti anni prima.
Fissai per un attimo le stelle, poi chiusi gli occhi. E se davvero fossi riuscito a scorgere Albion - mi chiesi - che cosa avrei visto? Le anime dei morti? Il nonno aveva detto che l'isola era troppo lontana per poterle distinguere; ma io sono dotato di una vista eccellente. Oppure avrei visto le luci azzurre nel cielo? No. Non ci sono più luci azzurre. Aprii gli occhi, certo di essermi appisolato per un paio di minuti almeno. Cominciai a levarmi a sedere, ma m'immobilizzai subito. Qualcosa si muoveva lungo la spiaggia. Due forme. Tre. Scivolavano da un'ombra all'altra, come se fossero parte della notte stessa. Ed io sapevo che nessuna creatura al mondo è capace di muoversi in quel modo, se non gli Stygiani! «Per gli occhi del Creatore», mormorai, e strinsi la mano intorno all'elsa della mia spada. Che cosa mai potevano fare degli Stygiani lungo le più remote coste occidentali della Gaullia? SEI Feci un movimento quasi impercettibile. Senza rumore. Solo per sistemare meglio le mie gambe. Ma fu abbastanza. Una forma nera fu sopra di me, incredibilmente veloce, prima che la mia mano potesse estrarre la spada dall'elsa. Un alito caldissimo mi avvolse la faccia, e due occhi di brace bruciarono nei miei. La luce delle stelle si rifletté su una lunga lama affilata, diretta contro il mio petto. «Khairi, fermo!» La lama smise di scendere. «Fermarmi? E perché?» Cercai di muovermi. Un lungo braccio peloso inchiodò, senza sforzo apparente, le mie spalle alle tavole del ponte. Una seconda forma si stagliò accanto alla prima. «Ah, avevo visto bene. Fratello, io conosco questo individuo». Gli occhi del primo stygiano brillarono, mentre una morsa d'acciaio si strinse intorno alla mia gola. «Lo conoscerai meglio, Rheif, quando sarà scuoiato e macellato a dovere». «No». Lo sguardo dell'altro si abbassò su di me. Occhi di notte infissi in un muso grigio. Denti bianchi come fantasmi. «Porta sfortuna mangiare qualcuno con cui si è parlato, Khairi». «E allora non parlargli», grugnì Khairi.
La forma scura chiamata Rheif si chinò sulle ginocchia. «Bene, piccolo guerriero. Ci incontriamo di nuovo». «Hai un aspetto differente, stygiano», gli risposi. «Mi parevi più bello quando eri in gabbia». Rheif rise brevemente. «Mi risultava difficile muovermi bene fra le sbarre. I miei fratelli hanno fatto in modo che stessi più comodo». «Rheif», lo interruppe Khairi, «smettila di parlare, in modo che possa tagliargli la gola. Non abbiamo tempo da perdere in chiacchiere». «No». Rheif scosse la testa, gli occhi rossi sempre fissi su di me. «Mi è apparso in sogno. Vorrei sapere perché». «Sognare un arrosto è una cosa normale», disse Khairi. «Che c'è di strano?» «Non era un sogno che riguardava il cibo». «Ma questo è un bel pezzo di char'desh. Come altro vuoi che ti appaia in sogno?» «Forse hai ragione. Ma forse, invece si è trattato di un sogno divino». Khairi guardò prima me, con gli occhi pieni di meraviglia, poi Rheif. «Un sogno divino riguardante un arrosto?» «Khairi. Vai a far la guardia con Whoris». «Ma non c'è tempo...» «Khairi». Khairi emise un brontolio di disapprovazione. «E di questo che ne facciamo?» «Lascia stare quell'uomo. Dubiti che io sia capace di tenerlo a bada da solo?» Khairi sbarrò gli occhi. «Uomo? Lo hai chiamato uomo?» «Vai, fratello. Non aspetterai a lungo». Khairi scosse la testa pelosa e allentò la stretta, poi passò davanti a Rheif brontolando, e si diresse verso la riva. Mi sedetti, massaggiandomi il collo. «Spero che terrai le mani lontane da quel pezzetto di ferro che porti alla cintura, e che presumo sia un'arma», disse lo stygiano. «In questo momento non mi sento di spirito bellicoso», assicurai. «Stai pur tranquillo: sei perfettamente al sicuro». Lo stygiano alzò un sopracciglio. «Sono lieto di sentirlo. Avevo un forte timore che la mia vita fosse in pericolo». Fissò per un attimo le scure acque del fiume, poi riportò gli occhi su di me. «Che cosa stai facendo da queste parti, Venicii? Trovo il nostro nuovo
incontro una cosa molto strana». «E per me rivederti è una cosa più strana ancora. Questa non è certo la strada che porta alle foreste dei Lauvectii». «Non porta neppure verso gli Eubironi, però». Lasciò in sospeso la domanda. Non mi sembrò necessario rispondergli. Tanto, prima o poi mi avrebbero ucciso ugualmente. Ero sorpreso quanto lo stygiano chiamato Khairi che quest'altro avesse voluto parlarmi.... anche se forse non mi sarei dovuto stupire troppo. Perché un secondo incontro doveva essere considerato più strano del primo? «Ho lasciato le mura di Silium con una certa fretta», feci. «Non so se a quella brava gente sarebbe piaciuto di più avere la mia pelle o la tua». Lo stygiano mi rivolse uno sguardo interrogativo, e io gli raccontai brevemente quello che mi era successo, mettendolo a parte dei miei guai. Talvolta è difficile interpretare le espressioni di quelle creature. Tuttavia, quando ebbi finito di raccontare, scoppiò in una inequivocabile risata. «Dunque, siamo entrambi fuggiaschi cui stanno dando la caccia», esclamò, «e nessuno di noi due è particolarmente ansioso di incontrare i soldati rhemiani». «Così sembra». «E che cosa stavi facendo su questa barca, Venicii? Pensavi di rubarla?» «No», risposi. «Stavo solo dormendo. Troppo profondamente, a quel che sembra. Volevo aspettare che fosse notte fonda, e poi scendere in città per trovare un po' di cibo». «E poi?» «Un fuggiasco non è un viaggiatore come tutti gli altri, stygiano. Anche tu dovresti saperlo. Di rado è sicuro di quello che farà l'indomani». «Vero», annuì. Si grattò il muso e mi guardò con aria pensosa. «Venicii, sei capace di far andare questa barca dove vuoi tu? Conosci l'arte di navigare?» La sua domanda mi stupì. «E perché mai dovrei conoscerla?» Emise un sospiro. «Debbo ricordarti che sono io a fare le domande, e tu a dare le risposte?» «Non so niente di barche. Quando ero al Nord ho attraversato qualche fiumiciattolo da una riva all'altra. Ma questo è un tipo di barca del tutto diverso. Ha dei teloni di stoffa che servono a catturare il vento, e per adoperarli bisogna imparare una tecnica speciale, come per qualsiasi altra cosa.
Penso di poterla imparare, al bisogno. I Venicii riescono a fare tutto quello cui pongono mente. Tuttavia, non ho né il tempo né il desiderio di imparare il mestiere di navigante». Lo stygiano guardò al di sopra della mia testa, e annusò l'aria. «Tu no, forse», disse. «Ma io sì». Lo fissai per un momento. «Sì? E perché?» «Perché non ho voglia di finire scuoiato. Solo per questo». I suoi occhi scarlatti si appuntarono nei miei. «Ci sono Rhemiani tutto intorno, Venicii. Tanti. Troppi. Sfortunatamente, noi tre abbiamo provocato qualche apprensione nella zona. Sanno che siamo qui intorno. Non ci hanno cercato ancora lungo il fiume perché pensano che gli Stygiani temano l'acqua». «E non è vero?» «Sì, è vero. Ma più che di una paura, si tratta di una idiosincrasia. Che non è certo più forte dell'avversione a venire trasformati in scendiletti. Spero comunque che i Rhemiani non sospettino che potremmo navigare lungo il fiume». Scossi la testa a queste parole. «Anch'io, se me lo dicessero, non ci crederei». «Bene». Lo stygiano si produsse in un largo sorriso. «Allora lo faremo. E tu verrai con noi, Venicii». «Che cosa!», esclamai. «E perché?» «Perché potresti risultarmi utile». Mi guardò con aria divertita. «Preferisci forse morire? Subito? Khairi sarebbe felice di esaudire questo tuo desiderio». «Non ho molta fretta al riguardo», risposi, guardandolo fisso negli occhi. «Anche se non dubito che prima o poi mi ucciderete comunque». «Beh», mi rispose in tono allegro, «poi è sempre meglio che prima, non è vero?» «Rheif, non mi piace questa cosa», brontolò Whoris. «Non è naturale». «Calma fratello», fece Rheif sommessamente. «La tua voce si muove rapida sull'acqua. Non ci sono né alberi né colline per ostacolarla». «Né per nascondercisi dietro in caso di bisogno», aggiunse Whoris. «O per arrampicarcisi su nel caso l'acqua volesse sommergerci. Il che, senza dubbio, accadrà», disse Khairi. Rheif non rispose. Sedeva davanti ai due, che si trovavano ai remi ai lati della barca. Io ero a poppa, e manovravo il piccolo timone. Era la prima volta, da un quarto d'ora, che qualcuno parlava. Nessuno
aveva osato far altro che respirare mentre passavamo davanti alla città che Rheif aveva udito i soldati chiamare Erdantii. L'informazione confermava una cosa che avevo già sospettato, cioè che Rheif parlava rhemiano bene quanto me. I suoi catturatori certamente non lo avevano immaginato. Di sicuro non si trattava di uno stygiano come tutti gli altri. Le luci della città erano ormai ben dietro di noi, ma non c'era tempo per riposare. Lungo le rive si vedevano bagliori di torce che andavano e venivano, e di tanto in tanto giungeva il cozzo delle armature, e l'eco degli ordini scambiati nella notte. Non eravamo stati dimenticati. C'erano nubi verso sud e a occidente. Sino ad ora, la luna era stata così gentile da rimanere coperta dietro di esse. Speravo fortemente che continuasse a farlo. Avevamo già troppi nemici contro di noi, senza che nei loro ranghi si arruolassero anche gli elementi naturali. «Questo è un lavoro da schiavi», protestò Khairi. «Fai remare il char'desh, se proprio vuoi che qualcuno remi, Rheif. È più adatto di noi a lavori come questo». «L'arrosto, come dici tu, ha da fare», rispose Rheif pazientemente. «Sta manovrando l'arnese che serve per guidare la barca, in modo che possiamo restare sempre nel mezzo del fiume». «Non è stata una cosa saggia portarcelo appresso», fece Khairi. «E nemmeno una cosa decente. Hai visto i suoi stivali? Anch'io conosco i Venicii, e non certo per aver conversato con loro. Potrebbero essere fatti con la pelle di mio fratello. O di un mio cugino». «E tu, Khairi, potresti aver arrostito suo zio su nei Lauvectii», sospirò Rheif. «Così siete pari. Adesso stai zitto e rema». «Stygiano», dissi io, «so bene che la cosa per te sarà di nessuna importanza, data la dimestichezza che voialtri avete con l'acqua. Ma hai notato come le rive del fiume si allontanino sempre di più, e la corrente si faccia più turbolenta?» Rheif mi guardò senza dar segni di preoccupazione. «E allora?» fece. «È importante?» «Prova ad assaggiare l'acqua», gli risposi. «Perché?» «Prova». Lo fece. La sputò subito, e mi guardò con occhi grifagni. «È salata», disse, come se fosse colpa mia. «Già. È salata perché stiamo ormai uscendo dal fiume. È per questo che le rive si allontanano e le onde sono più alte. Siamo alla foce, e il fiume si
sta gettando in mare aperto». «In mare!» Khairi gemette e scosse la testa. «Zitto», fece Rheif. Si voltò verso di me e mi gettò un'occhiata severa. «Venicii, io non voglio che questa barca vada a finire nel mare». Risi. «E dove mai pensavi che finissero i fiumi, stygiano?» «Sapevo bene che doveva esserci un mare da qualche parte, ovviamente», rispose in tono meditabondo. «Solo, non immaginavo che fosse così vicino». Frugò la riva con occhi che vedevano anche di notte. «È un po' che non si vede segno dei Rhemiani. Né torce, né le loro grida da idioti, che ci hanno fatto capire dov'erano. Fai andare la barca più vicino a riva, verso destra. E poi seguita a costeggiare la terra. Se dovremo inoltrarci nel mare, per un certo tratto, lo faremo. Ma dovremo sempre sapere dove ci troviamo, ed essere in grado di arrivare a terra in qualsiasi momento». Scossi la testa. «Remare nel fiume è una cosa», spiegai. «Nel mare, a quanto ne so io, la faccenda è del tutto diversa. I tuoi fratelli ce la stanno già mettendo tutta. Quando saremo in mare, probabilmente non saranno neppure capaci di mantenere la giusta direzione». Rheif alzò il muso e annusò l'aria. «Si sta levando il vento. Quando saremo in mare, sarà senza dubbio più forte. In tal caso, Venicii, tu potrai alzare quella cosa di tessuto in cima al palo e catturare con essa la brezza, in modo che Khairi e Whoris non debbano più remare». E fece un gesto con la mano. Voleva dire: se hai qualche altro stupido problema, fammelo sapere e te lo risolverò in un batter d'occhio. Era pura follia, ovviamente. Ma è inutile mettersi a discutere con uno stygiano. Manovrai il timone e mi portai più vicino a riva. Per i due Stygiani, la fatica al remo risultò minore, ma non di molto. Whoris era abbastanza concentrato, ma Khairi brontolava continuamente. Nessuno negli Eubironi ci crederebbe mai se lo raccontassi, pensavo. In questo momento, su al nord, mia madre, i miei fratelli e i miei cugini stanno dormendo nei loro letti. E tutti, senza dubbio, sono convinti che il giovane Aldair sia immerso nei suoi studi a Silium. Invece, lui aveva attaccato un Padre della Chiesa; ferito e forse ucciso un soldato rhemiano sui gradini di San Bellium; è ricercato in tutta la regione per aggressione ed eresia... ed ora guida verso il mare una barca piena di guerrieri stygiani. Molto probabilmente, mi dissi, non era questo che il mio povero padre aveva sognato per suo figlio. «Siamo abbastanza vicini», fece Rheif. «Qui è buio come nelle foreste
dei Lauvectii». Sorrise. «Riesco appena a distinguere la riva, il che significa che i Rhemiani, se ci sono, non sono in grado di vedere nulla, dato che non hanno gli occhi degli Stygiani». Pochi istanti dopo, il mare reclamò i diritti del più forte sull'acqua del fiume, e dovetti avvicinarmi ancora di più alla terra, altrimenti Khairi e Whoris non sarebbero più stati in grado di remare. Davanti a noi, nel buio, si stagliava il profilo di un grande promontorio: un immenso dito di roccia che si spingeva a metà dell'estuario del fiume. E per la prima volta, potemmo scorgere le onde marine, crestate di spuma, che battevano contro la terra, «Bene, ecco una cosa che non mi sarei mai sognato di vedere», annunciò Rheif. Gli lanciai uno sguardo interrogativo. «Ed ora che si fa, capitano?» Rheif ricambiò lo sguardo con un ghigno. «Ora», disse, «dovrai catturare il vento con la tela. Finché i miei due prodi guerrieri ai remi sono ancora vivi». Come ho già detto, gli Stygiani sentono soltanto quello che vogliono sentire. «Ti ho già detto», spiegai pazientemente, «che non so nulla dell'arte del navigare». «Imparerai», rispose Rheif con voce cupa. «E in fretta. Se non ricordo male, mi hai anche detto che i Venicii riescono sempre a fare tutto quello cui pongono mente». «Rheif», interruppe Khairi. «Non mi sento bene. C'è qualcosa che non va». Rheif fece un gesto con la mano. «È che non ti piace il mare, fratello. Non piace neanche a me. Però, dovrai sopportarlo per un altro po'. E quando prenderemo terra, più a nord, i Rhemiani non avranno la più pallida idea di dove siamo finiti». «No». Khairi si voltò verso di lui e scosse la testa, in atteggiamento ostinato. «Non è il mare, Rheif. È qualcos'altro». Le sue narici erano dilatate, mentre le orecchie pendevano piatte lungo il cranio. «C'è qualcosa che non va. Sai che io i guai li avverto prima che vengano...» «Khairi...» «Rheif, guarda!» Whoris si era alzato a metà e stava puntando il dito. Io non vidi nulla, ma Rheif lanciò una bestemmia. «Ai remi, presto. Remate più in fretta che potete». «È impossibile andare più veloci», gemette Khairi. «Se almeno fossimo...» Qualcosa sibilò attraverso l'aria. Khairi emise un gemito, e io vidi un ra-
pido lampo argenteo mentre un giavellotto trapassava da parte a parte il corpo dello stygiano. Khairi si toccò il petto con un'espressione sorpresa, scivolò lentamente fuori della barca, e scomparve. Sulle acque del fiume echeggiarono grida selvagge, e la luna scelse proprio quel momento per fare capolino fra le nubi. Mi voltai e vidi che dietro di noi, vicine sin quasi a toccarci, c'erano due lunghe barche cariche di guerrieri. I loro remi tingevano di bianco il filo della corrente. SETTE «Tarconii!» grugnì Rheif, e balzò attraverso il ponte per prendere il posto di Khairi ai remi. Vidi che aveva ragione. Le corporature immense dei mercenari si stagliavano chiaramente sulla nave inseguitrice. I raggi della luna ricamavano strane figure sulle loro corazze, e facevano, scintillare la punta delle corna e le lame affilate delle loro armi. «È stato un colpo fortunato quello che ha ucciso il povero Khairi», gridò Rheif al di sopra della spalla. «Non sono così bravi col giavellotto!» «Sono bravi abbastanza», risposi, ma Rheif non mi udì. I Tarconii gridavano, battevano con le spade sugli scudi, ed erano sempre più vicini. Mi inchinai, mentre un'altra lancia mi sibilava sul capo. «Non riusciremo mai a fuggire, con questa specie di tartaruga di mare», gridai allo stygiano. «Questo è certo». «E allora moriremo provandoci», fece Rheif. «Oppure... Ehi, che stai facendo, Venicii?» Mi accorsi della sua espressione meravigliata, e gli risi in faccia. Mi ero chinato sul fondo della barca e avevo tirato fuori l'arco e le frecce. «Stai tranquillo, non sono destinate a te. Se avessi voluto, ti avrei potuto piantare dieci frecce nella schiena, mentre eri curvo sul remo! Purtroppo, attualmente c'è qualcuno che le merita più di te, anche se mi costa ammetterlo». Presi una freccia e tesi la corda dell'arco. Un altro giavellotto mi fischiò accanto e fini in acqua, a pochi palmi di distanza dal remo di Whoris. «Sei capace di colpire qualcosa con quel giocattolo?», chiese Rheif gravemente. «Come pensi che mi sia guadagnati i miei stivali, stygiano?» «Stai spingendo troppo, Venicii!» «E tu stai spingendo troppo poco. Il remo, voglio dire. Datti da fare, o ci prenderanno». Presi la mira, alzai un poco la freccia, e lasciai andare la corda. L'arco vibrò.
Un grido si levò dalla barca più vicina. Un'ombra enorme schiaffeggiò l'aria, scivolò lentamente lungo la fiancata, e scomparve in acqua. «Per gli dèi dei boschi!» Rheif guardava stupefatto al di sopra della propria spalla, la bocca spalancata. «Se non l'avessi visto io stesso non ci avrei creduto!» «Non sei tu che devi credere o non credere», risposi. «Sono i Tarconii che si devono convincere». Incoccai un'altra freccia. La prima barca aveva rallentato il suo ritmo, mentre i Tarconii stavano discutendo fra loro, evidentemente a proposito del mio colpo andato a segno. Chiaramente, erano privi di un ufficiale che prendesse decisioni rapide, e questa indubbiamente per noi era una fortuna. Se ci fosse stato un rhemiano a bordo, non avrebbe permesso che la velocità diminuisse, anche se fossi riuscito ad abbattere metà dei rematori. Scagliai un'altra freccia, e la udii distintamente colpire il legno, a un palmo dal bersaglio che avevo scelto. Per i Tarconii, tuttavia, era giunta comunque abbastanza vicina, perché tutti si abbassarono sotto la fiancata. Provai di nuovo, e udii la freccia tintinnare su un'armatura di metallo. «Cerca di colpire i rematori, se ci riesci», disse Rheif col fiato grosso. «Sono loro che finiranno per ucciderci, se continueranno a mantenere questo ritmo!» Scossi la testa. «Ci sono sei rematori per barca, tre su ogni lato. Poi c'è un uomo al timone, e solo due uomini che lanciano i giavellotti». Mirai, e vidi la freccia fare un arco al di sopra dell'acqua. Un tarconio gettò la sua arma e cadde sul fondo della barca. Risi nel vento. «Visto, stygiano? Adesso un rematore deve prendere il suo posto, e scommetto che non c'è nessuno a bordo che sia troppo ansioso di farlo». La seconda barca si era ormai affiancata alla prima. Due guerrieri scagliarono contemporaneamente il giavellotto. Il primo ci passò sopra e cadde in acqua. Il secondo si infilò con gran fracasso nella tavola di legno che mi separava dallo stygiano. Piovvero schegge tutto intorno, la barca vibrò, e pregai che la punta non fosse riuscita ad aprire una falla nello scafo. Feci partire due frecce in rapida successione. Nessuna delle due arrivò a segno, ma servirono a scoraggiare momentaneamente i mercenari. La terra ormai era lontana, e i marosi scuotevano la barca come un turacciolo. Rheif e Whoris perdevano tre lunghezze rispetto agli inseguitori per ognuna che ne percorrevano. Misurai la distanza fra la nostra barca e quelle dei Tarconii. Gli scafi dei mercenari, agili e sottili, sembravano sof-
frire il mare meno del nostro. Avevo già visto vascelli del genere. Non erano di origine rhemiana né tantomeno tarconiana. La loro forma era ricavata da quella delle navi dei Vikonen dell'estremo nord, che erano considerati i migliori marinai del mondo: pari, se non superiori, ai Nicieani del Mar Meridionale. Ed ora quelle navi stavano guadagnando terreno su di noi, accorciando le distanze ad ogni colpo di remo. «Le cose... sembrano diventate... stranamente quiete», ansimò Rheif. «Hanno imparato la lezione», risposi. «I guerrieri si tengono bassi e non ci perdono di vista. Lasciano che i rematori lavorino per loro. I Tarconii non sono famosi per la loro intelligenza, ma in questo caso hanno indovinato la tattica giusta. Aspetteranno di esserci sopra, prima di mostrare di nuovo il muso. E allora sarà la fine». Rheif non rispose, e per qualche istante potei sentire l'ansimare del respiro dello stygiano, e il debole sciabordio dei nostri remi contro la strapotenza del mare. Non avevamo alcuna speranza di tener lontani gli inseguitori. Ancora qualche minuto, e... «Ti sono rimaste delle frecce, Venicii?» «Quattro». «Non le sprecare, allora, quando sarà il momento». «Puoi contarci, stygiano». «Che razza di fine... per me», sospirò Rheif. «Faticare sul mare... come uno... schiavo, mentre un Venicii mi tiene i Tarconii lontani dalla schiena. Non è la morte da guerriero che avevo immaginato...» «Piantala con i peana mortuari, e rema», gli feci. «Non sei ancora cadavere». Rheif emise una risata cupa. «La tua follia è grande come la tua bravura di arciere, Venicii. Come ti chiami? Mi hai detto il tuo nome una volta, a Silium, ma... l'ho dimenticato». «Aldair». «Già, ricordo. Un nome strano, ma non per la tua gente, suppongo. Sai che non posso... pronunciarlo. Se lo facessi, e chiamassi per nome... un nemico... non sarebbe una cosa... decente». I Tarconii erano ormai vicinissimi. Potevo sentire lo scricchiolare delle tavole delle loro barche, e l'ansimare dei rematori. Con rabbia improvvisa, mi resi conto che non avevano fretta. Stavano semplicemente giocando con noi, in attesa di coglierci come un frutto maturo. «Non sarai disonorato a lungo, anche se pronunciassi il mio nome», risposi cupamente, e feci partire una freccia all'indirizzo di un tarconiano
troppo curioso. Il dardo si conficcò sul bordo della fiancata. «Non potete remare più in fretta?» «Per la verità, si fatica... un po' di meno», fece Rheif. «Per qualche ragione, lontano dalla riva il mare sembra più calmo. Ma non siamo certo in grado di gareggiare con le onde, Venicii, se è questo che intendi». «So bene che state facendo del Vostro meglio», risposi, e mi voltai per guardare gli inseguitori. «Venicii!» gridò Rheif. «Ti avevo detto che la nostra fine era vicina! Gli dèi del mare hanno deciso di non aspettare i Tarconii!» Mi girai, e per un istante il mio cuore cessò di battere, poi riprese a ritmo serrato. Lo stygiano aveva ragione. Un'immensa nube bianca e gelida stava scivolando verso di noi sul mare... una silenziosa coltre grigiastra che già inviava sottili tentacoli nella nostra direzione. Rheif si appoggiò al remo e cominciò a cantare la sua canzone di morte. La sua voce mi riportò in me. «Remate!» gridai. Mi chinai in avanti e tirai un pugno sulla schiena dello stygiano. «Accidenti a te, non fermarti proprio ora». «È inutile sfidare gli dèi», disse Rheif. Anche Whoris si era fermato. Immobile come una statua, aveva gli occhi fissi davanti a sé, e aspettava la morte. Dietro di noi, i Tarconii avevano ripreso in pieno l'attività. Una pioggia di giavellotti cominciò a cadere intorno alla barca. Rheif sobbalzò, e riprese a battere l'acqua con il remo. «Punta verso quella cosa», gli dissi. «Entriamoci dentro, e riusciremo a tornare a casa, stygiano». «Nella casa dei nostri antenati, vuoi dire...» «Quella cosa lì non ha nulla a che fare con gli dèi», risposi. «Non è altro che nebbia. La stessa che ristagna nelle valli fra le nostre montagne, o aleggia sulle paludi. Permette alle lepri di sfuggire ai cacciatori, amico mio, e anche a noi recherà lo stesso servizio!» Feci partire una freccia. Poi un'altra. La prima andò a segno, ed ebbi la soddisfazione di vedere un immenso tarconio, chiuso nella sua corazza a scaglie dorate, fissarmi stupito per un istante, e poi cadere in mare con un dardo infilato sotto l'occhio sinistro. La nebbia allungò le sue dita tentacolari per accoglierci, e quindi ci ingoiò, come fra due mascelle gelide. Goccioline gelate si appiccicarono alla mia faccia. Rheif, in perfetto silenzio, cambiò il ritmo della rematura non appena fummo fuori della vista degli inseguitori, ed io assecondai la virata
con il timone, piegando tutto a destra. Lasciai incoccata nell'arco la mia ultima freccia. Rheif e Whoris si appoggiarono ansimanti ai remi, e tutti rimanemmo ad ascoltare facendo meno rumore possibile. Era una sensazione stranissima. Come fluttuare in una grande nube, alta sulla terra. Vista e udito non servivano più a nulla. Niente era avvertibile, al di fuori del gelido respiro della nebbia che ci aveva avviluppati con le sue lunghe dita grigie. Dopo un po', lo stygiano si mosse verso di me, mi toccò lievemente, e puntò un dito. Osservai, e vidi una forma scura scivolare senza un suono attraverso il biancore. Una nave fantasma con una ciurma d'ombre. C'era, e poi non c'era più. Lasciai andare un respiro. Era passata così vicina che avrei potuto toccarla spingendo fuori il mio arco. Pochi secondi dopo, passò anche l'altra barca, più lontana e quasi invisibile. «Sarà bene che ci spingiamo quanto più possibile a nord», sussurrai. «Ma in silenzio. Potrebbero tornare indietro, e inoltre, se non facciamo nulla, la corrente finirà per riportarci a riva». Rheif annuì. Si voltò per toccare Whoris, ma si girò subito verso di me, con il volto cupo. «Whoris non c'è più,» mi annunciò. «Il suo remo è macchiato di sangue, e c'è sangue su tutto il banco. Molto sangue, Venicii. È stato colpito da un giavellotto, ma ha continuato a remare finché ha potuto, senza dirmi nulla». «Era un guerriero», feci, «ed è morto ridendo in faccia ai suoi nemici». È la frase con la quale i Venicii salutano i morti in battaglia. Rheif non lo sapeva, ma capì lo stesso che avevo onorato il gesto del fratello. «Grazie per quello che hai detto», fece alla fine. «Penso che non sia più vergogna per me chiamarti col tuo nome, ormai. Perché, malgrado ciò che c'è sempre stato fra le nostre due razze, sarà difficile per me d'ora in poi considerarti un nemico. Vieni, Aldair dei Venicii. Dovrai macchiarti nuovamente le mani di buon sangue stygiano, perché toccherà anche a te sederti al remo...» Dopo aver trascorso metà della notte in mare, compresi che non c'era alcuna speranza di capire dove ci trovavamo. Nel mezzo del nulla, è impossibile individuare le direzioni. È impossibile tener conto dei continui mutamenti della corrente che influenzavano la nostra rotta. Potevamo essere a miglia dalla costa, oppure a ridosso del bagnasciuga. «Per ora, non è importante sapere dove siamo», disse Rheif. «Nessuno
può vederci, e questa già è una fortuna insperata. Tuttavia, nella foresta la nebbia si alza nelle prime ore del mattino, ed è probabile che sul mare succeda la stessa cosa. Mi auguro che il sole-padre ci trovi in un posto opportuno, quando i suoi raggi denuderanno nuovamente le acque del mare...» Cercammo di dormire a turno, anche se dopo qualche ora dovemmo ammettere che nessuno dei due era riuscito a chiudere occhio. «Rheif», dissi alla fine. «Mi sembra di scorgere una certa luminosità in mezzo alla nebbia». Lo stygiano annuì. «Evidentemente, il sole l'ha toccata». Annusò l'aria, e raggrinzì la punta del naso. «C'è una brezza. Si sta appena levando». Strappò un pelo dal suo mantello e lo fece cadere. Scese verso il fondo della barca con una leggera angolatura rispetto alla verticale. «È ancora leggera», disse Rheif, «ma presto rinforzerà». Mi guardò, ed annuii. Durante tutta la notte non avevamo avuto segno dei Tarconii, ma questo non voleva dire che non potessero essere vicini. Se fossero stati in vista una volta levatasi la nebbia, non ci saremmo trovati in condizioni migliori della notte prima. Allora, in poco tempo ci avevano quasi raggiunti, e non c'era motivo per credere che ora saremmo riusciti a fuggire. Cercai di ingegnarmi come meglio potevo, nel massimo silenzio, con le tele e il sartiame che costituivano la velatura della barca: tutte cose che mi erano perfettamente sconosciute. Rheif era fermo a guardarmi. «È stata una lunga notte», disse. «Non me ne ricordo una più lunga». «Il giorno, invece, potrebbe essere considerevolmente più corto», feci io, «se non riusciremo ad imparare all'istante l'arte della navigazione. Sciaguratamente, ho paura che non avremo molto tempo per mettere alla prova la nostra abilità». Rheif emise una risatina tirata, e guardò verso il mare mentre io cercavo di capire le funzioni di un pezzo di corda che sembrava importante ma che, per quanto vedevo, non serviva a niente in particolare. «Abbiamo bisogno di una bandiera, Aldair», fece Rheif solennemente. «Non mi pare corretto alzare le vele senza averne una». Non alzai gli occhi dal mio lavoro. «Secondo me, la tua pelliccia andrebbe benissimo», dissi. «Prenderebbe il vento e garrirebbe in modo molto soddisfacente». «Non scherzare su cose del genere», fece Rheif nervosamente. «I Tarconii potrebbero sentirti». «Oh, sono certo che l'idea è già venuta anche a loro...» «Hmmmph. Sarebbe proprio una splendida vista. La mia pelliccia che si
agita al vento, e la tua dolce testolina rosa infilata in cima all'albero maestro. Proprio...» Lo interruppi. La nebbia stava scomparendo rapidamente. Dinanzi a noi apparve una larga chiazza di mare azzurro-verde. Poi un'altra. «Inutile parlare a bassa voce, ormai», feci. «Aiutami a mettere insieme questa maledetta roba. Ho lasciato per ultima la parte più rumorosa del lavoro». Malgrado ciò, mi mordevo la punta della lingua, mentre Rheif tirava le corde al modo che gli avevo detto, e gli anelli di ottone cigolavano salendo su per l'albero e spiegando la vela. «Non mi sembra un gran che», disse Rheif in tono cupo. «Pende giù come un sacco floscio». «Ancora per poco», lo rassicurai. «Si sta alzando il vento.» La nebbia si diradava ormai molto rapidamente, la luce aumentava, e intorno avevamo sempre più mare aperto. Presi posto a poppa della barca, cercando di far finta di sapere ciò che si doveva fare. All'improvviso, la cortina di nebbia si divise in due, e fece irrompere i raggi del sole. «Eccoli là!» gridò Rheif. Strinsi gli occhi nella luce, e scorsi i due vascelli dei Tarconii. Erano diverse centinaia di metri più a sud, l'uno vicino all'altro. Anche loro ci scorsero, e cominciarono a battere sugli scudi e a lanciare grida selvagge. «Aldair», disse Rheif solennemente, «fa' qualcosa». «Ci sto provando». Il gran telone grigio pendeva immobile, come biancheria appesa ad asciugare. C'era un po' di vento, ma la vela non faceva alcuno sforzo per catturarlo. I Tarconii si misero ai remi e cominciarono a battere l'acqua. «Non capisco che cosa sta succedendo», feci. «Forse non hai sistemato bene le vele». «Per forza, dato che non funzionano», risposi. «Vuoi provare tu?» «No, grazie», disse Rheif. «Gli Stygiani non sanno niente di quest'arte». «Mentre i Venicii, com'è noto, sono nati sull'acqua», risposi in tono cupo. «Non capisco...» Guardai verso il mare, e il mio stomaco si contorse. I Tarconii avevano già dimezzato la distanza che ci separava. «Pensi che sia meglio cominciare a remare?», suggerì Rheif. «Sarebbe inutile». Qualche giavellotto cominciò a cadere nei nostri paraggi. «Allora, abbiamo passato una lunga notte inutilmente».
Non risposi nulla. «Ti rimane soltanto una freccia?» chiese Rheif. «Sì». «Temo che non sarà sufficiente», annunciò lo stygiano. Lo guardai, e scossi la testa. La spuma si alzava intorno alle fiancate delle barche alla nostra caccia, mentre la vela continuava a pendere inerte. Lasciai cadere le corde, e afferrai l'arco. Bene, ormai siamo alla fine, pensai. E una fine vale l'altra, quando la conclusione è la morte. Dietro di me, lo stygiano aveva tratto dalla cintura una lunga spada dall'aspetto terribile. Incoccai la mia ultima freccia, e attesi. E, all'improvviso, i Tarconii smisero di battere sugli scudi. Le due barche rallentarono, poi si fermarono del tutto. Rivolsi a Rheif uno sguardo interrogativo. Lui mi fissò, e scosse la testa. Non si sentivano più grida sul mare. Poi i timonieri invertirono la rotta, e i rematori ripresero a battere l'acqua. I due vascelli sembravano fare a gara per vedere chi si allontanava più in fretta. «C'è qualcosa di molto strano in tutto ciò», fece Rheif. «Mi pare difficile che la nostra vista abbia instillato un tale terrore nei loro cuori». «Qualcosa però l'ha fatto», risposi io. Come Rheif, ero più che meravigliato per l'improvvisa fuga dei Tarconii. Alzai lo sguardo e fissai la vela, che continuava a pendere inerte, senza far nulla. La brezza la faceva oscillare lievemente, come una camicia bagnata. Abbassai lo sguardo e lo spinsi verso il banco di nebbia, lontano alla nostra destra. Il sole lo aveva ormai quasi del tutto cancellato, e... Sbarrai gli occhi, e mi afferrai alla fiancata. Una lama gelida mi si piantò alla base della spina dorsale. Non c'era bisogno che qualcuno mi dicesse il nome di ciò su cui si erano posati i miei occhi. Rupi grigie ricoperte di fogliame nero e smorto. Il sole alto nel cielo, ma nessuna luce che riuscisse a toccare la desolata linea della spiaggia... Albion, certamente. E distante non più di una lega... OTTO «Ecco la risposta, dunque», feci, incapace di staccare gli occhi da quel panorama desolato. «I Tarconii ci hanno lasciati andare perché non volevano offendere i morti». Rheif studiò l'isola oscura. «Ho sentito parlare di questa Albion. Non mi
sembra un posto piacevole, anche se diversamente da te io non ne ho paura». Mi voltai a guardarlo. «Non è vergogna temere Albion, Rheif. Non è la stessa cosa della paura in battaglia, e non fa perdere l'onore. Inoltre, è meglio che tu non irrida il Creatore mentre siamo così vicino al suo regno: Senza dubbio ha un udito piuttosto fine». Rheif aggrottò le sopracciglia, e si massaggiò la folta pelliccia grigia sopra il petto. «Aldair», disse alla fine, «non voglio essere irrispettoso: ma quella è l'isola dei tuoi morti, non dei miei». «Come?», lo fissai. «Che cosa vuoi dire?» «Semplicemente», rispose Rheif tirando su col naso, «che è molto difficile che ci siano anime di Stygiani a razzolare su quella spiaggia». Certe volte, gli Stygiani sanno essere molto irritanti. Senza considerare i loro altri innumerevoli difetti, basterebbe questo a farne nemici di sangue degli Eubironi. «In un certo senso, hai ragione», risposi. «Gli Stygiani sono idolatri, e quindi esiliati da Albion. Alcuni però dicono che il Creatore è misericordioso, ed occasionalmente permette a qualche pagano particolarmente meritevole di calpestare le sue spiagge. Non è però una cosa a cui credano in molti. Anzi, come opinione è piuttosto impopolare. Per parte mia, io non la condivido affatto!» Rheif sorrise, mostrando i denti. «Io non intendevo dire che noi ci sentiamo esiliati da qualcosa, Aldair. Volevo solo dire che gli Stygiani defunti non si sognerebbero mai di dividere l'aldilà con il char'desh. Sarebbe ridicolo e indecente». Sentii il sangue salirmi alla faccia. Conoscevo il termine, ovviamente. Khairi, l'amico di Rheif, l'aveva usato spesso il giorno prima. Non è una traduzione del termine che indica la mia razza, o i Venicii, o qualche altra cosa del genere. Significa semplicemente carne da fare arrosto. «Vedo che ti sei offeso», sospirò Rheif. Allargò le lunghe braccia. «Non dovevi». «No. So che non intendevi offendermi». «E poi, quello che ho detto è logico, Aldair». «No che non è logico. C'è un solo Creatore. È lui il responsabile della nascita di tutte le creature». «Allora, ha fatto anche gli Stygiani?» «Naturalmente». «In questo caso, spiegami perché li ha esiliati da Albion».
«Come...?» Lo fissai, sconvolto. «Ho detto...» «Ho sentito benissimo quello che hai detto. E c'è una semplice, logica risposta. Gli Stygiani sono pagani idolatri. Non sono figli della Chiesa». «Ma se fossimo figli della Chiesa, le nostre anime passerebbero in Albion?» «Certo». Rheif ghignò e scosse la testa. «Aldair. Dimmi la verità. Che cosa pensi che farebbero i tuoi Buoni Padri se io entrassi in quella bella cattedrale di San Bellium, che potevo ammirare così bene dalla mia gabbia, e dicessi che non voglio più essere 'idolatra'? Che voglio unirmi ai fedeli che vedo entrare ogni mattina per la funzione? E supponi che io porti con me un centinaio di guerrieri, femmine e cuccioli?» Fissai Rheif, sempre più sconvolto dalla sue parole. Un'orda di Stygiani dentro San Bellium? Era quanto meno un pensiero terrificante. Anzi, osceno. Tutti sapevano che gli Stygiani non hanno alcun desiderio di unirsi alla Chiesa. E poi, capivo bene quello che Rheif stava cercando di fare. Aveva preso le mie parole, e le aveva ritorte contro di me: un gioco nel quale gli Stygiani sono maestri. Siccome io avevo detto che il Creatore ha dato vita a tutte le cose, lui ne ha dedotto che tutte le anime, indistintamente, avevano diritto al passaggio in Albion. Un ottimo sillogismo: se non fosse per il fatto che, ovviamente, non tutte le anime hanno lo stesso peso di fronte al Creatore. Era la stessa argomentazione che aveva messo in pericolo il collo di Mastro Theon. Ma non aveva senso discutere di religione con uno stygiano, che in proposito non ne sa nulla. Chiaramente, io non condividevo tutti gli insegnamenti della Chiesa; ma ci sono alcune verità fondamentali che persino un individuo accusato di eresia può condividere con i Buoni Padri. «Risparmiati di pensarci su», fece Rheif. «Stai pur tranquillo che non ho alcuna intenzione di marciare su Silium per incontrarvi il tuo Creatore». «Ci ragioneremo meglio inseguito», gli promisi, anche se non avevo alcuna intenzione di tornare sull'argomento. «Non ce ne sarà alcun bisogno», mi assicurò. «Vedi, temo che gli Stygiani e... la tua gente non andranno mai d'accordo, neppure dopo morti. Anche nell'aldilà continueranno a combattersi, proprio come ora». «No. Non ci sono battaglie in Albion». Rheif torse il naso e spalancò un occhio color della brace. «Niente battaglie? E la gente che cosa fa?»
«Ci sono altre cose da fare, oltre alla lotta». Rheif lanciò un'occhiata sospettosa ad Albion. «Non per gli Stygiani, sicuramente». «Per esempio, c'è lo sport del remo», suggerii. «Non mi diverte molto», rispose Rheif cupamente. «Forse il Creatore mette a disposizione degli sportivi trapassati delle piccole barche...» Rheif mi lanciò uno sguardo di disgusto e mi voltò le spalle. Per un po', il mare continuò a portarci pericolosamente vicini alle coste di Albion. Rheif non si curava troppo della cosa; al punto che si sdraiò sul tetto della piccola cabina di cui era munita l'imbarcazione, e cominciò a sonnecchiare al sole. Io ero scandalizzato dal suo atteggiamento. Lo stygiano, tuttavia, ribatté che, siccome tutto dipende dalla volontà del Creatore, le nostre azioni contavano ben poco. E se il Creatore aveva deciso di farci naufragare contro le scogliere della sua isola, c'era poco da fare; né io né lui saremmo stati in grado di opporci alla sua volontà. In un certo senso, aveva ragione. Remare, in acque così turbolente, sarebbe stato inutile. Le correnti erano capricciose e senza dubbio indifferenti alla nostra sorte, e ci spingevano di qua e di là senza ragione. Così, l'unica cosa che potessi fare era tentare ancora una volta di sciogliere l'enigma costituito dall'intrico di corde e teli, e impadronirmi dell'arte della navigazione prima che Albion ci attirasse a sé, o un'onda più alta delle altre ci facesse rovesciare colandoci a picco. L'ombra dell'isola tenebrosa mi metteva pesantemente a disagio, ed ero ansioso di allontanarmi. Certe volte, mi sembrava di udire i gemiti delle anime dei morti portati dal vento. Tuttavia, l'arte della vela continuava ad eludermi. Non riuscivo a immaginare perché l'armamentario di bordo fosse disposto nel modo in cui era. Supponiamo - mi chiesi - che uno non voglia andare nella direzione in cui soffia il vento. Deve rinunciare al suo proposito? Deve aspettare che soffi un vento che vada nella direzione giusta per portarlo a destinazione? Chiaramente - decisi - non poteva essere così. Ben poche persone si dedicherebbero a un'arte così poco affidabile. Di certo c'era qualcosa che mi sfuggiva. Una volta, in seguito a una serie di miei tentativi pressoché a casaccio, la grande vela balzò in vita e si gonfiò improvvisamente d'aria. La lunga sbarra orizzontale che reggeva la vela alla base dell'albero ruotò improvvisamente intorno a un'estremità e spazzò via Rheif dal tetto della cabina, fa-
cendolo quasi cadere in acqua, la barca sobbalzò, e si inclinò paurosamente. All'ultimo momento, liberai la corda giusta e il battello si rimise diritto. Ancora un attimo e ci saremmo rovesciati in mare. Rheif, pallido sotto la pelliccia e coperto di spruzzi d'acqua salata, mi avvertì solennemente di sperare che io non facessi di nuovo niente di simile. Alla fine, una corrente più rapida delle altre afferrò la barca e cominciò a portarla lontano da Albion. Poco prima del tramonto, l'isola tenebrosa era soltanto un'ombra scura sull'orizzonte occidentale. Dopo un po' ci ritrovammo verso la costa dalla quale eravamo partiti, e non appena fu buio, ci parve di scorgere terra e di vedere le deboli luci di una città, o di un'altra barca. «Ho una gran sete, Aldair», mi annunciò Rheif. Il sole era scomparso, e le prime stelle occhieggiavano nel cielo verso oriente. «Non ne dubito», dissi. «E ho anche molta fame». Lo guardai. «Mi piacerebbe una bella lepre, Aldair, o un galletto arrosto», aggiunse sobriamente. «In mare non troverai né l'una né l'altro», lo informai. «Perché non cerchi di prendere un pesce? Sarebbe una cosa utile». Rheif guardò con scarso interesse le acque nere come l'inchiostro. «Mai preso un pesce fino ad ora». «Mi sembra il momento migliore per cominciare». L'idea crebbe a poco a poco nella mente di Rheif, e alla fine parve interessarlo. Trovò una corda sottile sul fondo della barca, e mi chiese di piegare la punta della mia ultima freccia, in modo da trasformarla in un amo. Protestai vivacemente, affermando che in futuro avremmo potuto rimpiangere quell'ultima freccia. Alla fine, accettai di sacrificare al suo posto il fermaglio che allacciava il mio mantello. «Impossibile prendere pesci», annunciò a questo punto Rheif. «Non abbiamo esca, e mi risulta che i pesci la considerino un accessorio indispensabile». «Non guardare me», feci. «Dubito che i pesci ti gradirebbero. Inoltre, sei troppo grosso per la bisogna». Dopo varie lamentazioni, si fabbricò un'esca finta con un ciuffo dei propri peli e un filo di tessuto tolto dalla giacca. Me la mostrò, e sembrava molto orgoglioso della sua abilità. Più tardi qualcosa abboccò all'a-
mo, ma quando lo stygiano cercò di portare a bordo la preda, tirò troppo forte e la lenza improvvisata si spezzò in due. «Che schifo di corda», mormorò. «Doveva essere un pesce grossissimo, Aldair. Ne sono sicuro dal modo in cui tirava». «Non lo sapremo mai, risposi». La brezza notturna era lieve, e ciò mi convinse a riprovare la difficilissima arte della vela. Inizialmente Rheif si oppose con tutte le forze, ma finì per convincersi quando gli ricordai che la nostra unica speranza di trovare del cibo stava nel ritorno sulla terraferma. Stavolta fui molto più cauto, ricordandomi l'incidente che mi aveva indotto a desistere. Ricordavo anche un'altra cosa. Quando quella brezza improvvisa per poco non ci aveva rovesciati presso Albion, il vento non soffiava dalle nostre spalle. Veniva da destra, da sud-est, ci aveva colti e fatti girare in circolo, spingendoci quasi contro il vento stesso. Era una considerazione interessante: il vento poteva essere fatto lavorare per noi, se si trovava il modo di indurlo a collaborare, invece di lottargli contro. Mentre Rheif dormiva, cominciai con pazienza a fare esperimenti, provando prima una cosa, e poi un'altra. Imparai che l'arte della vela consisteva essenzialmente nell'abilità di catturare il vento ad una certa angolatura particolare, manovrando nel contempo il piccolo timone sul retro della barca. Anche quando il vento non soffiava esattamente da dietro, ci si poteva muovere nella direzione voluta semplicemente facendo un percorso a zig zag sull'acqua, invece di voler proseguire per forza in linea retta. Quando la prima consistente brezza mattutina cominciò a gonfiare la nostra vela, quasi mi dimenticai di essere stanco, assetato e affamato. Cominciai a dirigere la barca rapidamente sul mare e, osservando le onde verdi trasformarsi in spuma sotto la mia chiglia, provai una sensazione di libertà quale non avevo mai provato prima. Lì nel mare aperto - pensavo - un uomo poteva finalmente troncare gli infiniti legami che ineluttabilmente lo legavano agli altri. Pensai ai burattini di legno sulla piazza del Mercato, a Silium, e risi. Non tirerete mai più i miei fili, burattinai! Non mi importa più nulla di voi, chiunque siate, compreso l'Altissimo Padre della Chiesa e l'Imperatore. Aldair dei Venicii è libero, ha la sua barca con una vela che cattura il vento... in qualsiasi direzione soffi! «Penso che ora vorrai essere chiamato capitano», disse Rheif, quando si
svegliò e vide quello che ero riuscito a fare. «Mi sembra giusto. Quanto meno, dovresti chiamarmi Mastro delle Vele». Rheif cominciò a brontolare fra sé. «A questo punto, non può capitarmi niente di peggio. Mi è già successo tutto. I miei fratelli sono morti, sono arrivato al punto di chiamare un Venicii per nome, e il mio prigioniero è Mastro delle Vele. Che altro potrebbe succedermi?» Mi guardò con la bocca spalancata. «Dove giudichi opportuno concludere il nostro viaggio? Sempre che sia una domanda lecita per un semplice passeggero». «Pensavo di andare verso sud. Là, in lontananza, puoi vedere la costa. Dopo Albion, naturalmente, c'è solo il Termine del Mondo, che ormai non deve essere lontano. Ma a sud potremo prendere terra senza pericoli, durante la notte, e cercare cibo e acqua». Rheif mi guardò. «Siamo entrambi nativi del nord, Aldair. E tu ci stai portando sempre più lontano da casa. Che cosa può esserci di buono, per noi, al sud?» «In primo luogo», spiegai, «l'assenza di soldati rhemiani e di vascelli tarconiani. Le coste settentrionali sono piene di città, porti e navi. Il fiume lungo il quale siamo discesi non è grande, e ci avvisterebbero facilmente. E poi, anche se riuscissimo a prendere terra da qualche parte senza essere visti, dubito che riusciremo a farci strada per tutto il continente, o quasi, fino alle province settentrionali, e più oltre ancora, fino alle tue terre. Io potrei, forse. Ma da queste parti non hanno mai visto uno stygiano, anche se ne hanno sentito parlare. Dubito che saresti il benvenuto». Rheif rimase in silenzio per un lungo momento. Scrutò la linea di costa, in lontananza, si grattò accuratamente, poi mi diede uno sguardo imbarazzato. «Quello che hai detto è veramente straordinario, Aldair», fece in tono solenne. «Perché mai un Venicii dovrebbe preoccuparsi se uno stygiano riesce o no a tornare a casa?» «Hai ragione», ammisi, «ho detto veramente una cosa fuori dell'ordinario». «Siamo sempre stati nemici». «Vero». «Non abbiamo nulla in comune». «Non è vero. Per esempio, noi dividiamo la fame, la sete e una taglia sulle nostre teste». «Tuttavia», ragionò Rheif, «malgrado il fatto che il nostro sangue dovrebbe ribollire al solo pensiero, è possibile che siamo temporaneamente
utili l'uno all'altro». «Temo che sarà così per un bel pezzo. Non credo che rivedremo le nostre case molto presto, Rheif. E, parlando per me, anche se intendo tornare al nord prima o poi, attualmente non ho molta fretta di farmici vedere». Rheif apparve sorpreso. «No? E che cosa vorresti fare, invece?» «Cogliere l'occasione che il destino mi offre, e vedere ciò che c'è da vedere». «Andando a sud». «Sì. Per il momento, almeno». Rheif sprofondò nel silenzio, e io mi concentrai sulle onde. Pensavo al nord dov'era la mia casa, e al sud, dov'erano le terre che non avevo mai visto prima. Strano, mi dissi. Il mio successo nell'impadronirmi dell'arte della vela mi aveva fatto nascere nel cervello sogni di libertà: ma in effetti, l'idea di avventurarmi così lontano da casa sorprendeva me almeno quanto Rheif. Il pensiero mi era venuto solo un istante prima di manifestarlo ad alta voce. Non era poi un desiderio così fuori del comune, in fondo. Di certo, non era la prima volta che il mare aveva acceso la fantasia e lo spirito di avventura di un giovane. Più tardi, però, mi sdraiai sul fondo della barca e mi misi a guardare le stelle. Erano bianche e fredde, come milioni di schegge di ghiaccio incastonate nel cielo nero. Ed un altro pensiero si affacciò alla mia mente. Scivolò nella mia coscienza silenzioso come un uccello notturno che torna al suo nido, e mi rizzai in piedi, meravigliato che fosse lì, chiaro e netto. Un giorno, diceva il pensiero, alzerò nuovamente la vela verso Albion. Di più: nella mia mente, vidi con lucidità me stesso mentre camminavo sulla spiaggia proibita. Quel pensiero mi procurò un brivido di gelo, e tramutò il mio sangue in ghiaccio. Perché mai avrei dovuto fare una cosa simile? Nessun uomo sano di mente avrebbe mai desiderato di metter piede, da vivo, in un posto simile! Eppure, io sapevo con ferrea certezza che sarebbe stato così. E mi chiesi se, in fondo, ero davvero riuscito a sfuggire all'invisibile burattinaio. Se davvero, nella trama dell'esistenza, non c'era ancora un filo destinato a me, e a me soltanto. Perché persino i nostri pensieri, talvolta, si presentano alla mente senza che noi li abbiamo chiamati né sollecitati, e ci incatenano a un destino che, da soli, non avremmo mai voluto tracciare per noi stessi...
NOVE Quando uscii dalla macchia di vegetazione che copriva la bassa collinetta, scorsi la debole luce del fuoco schermato con cura; mi fermai un istante al riparo, quindi uscii all'aperto. «Mi pareva avessimo deciso che accendere un fuoco non sarebbe stato prudente». Rheif mi fissò, con gli occhi resi ancor più rossi dai bagliori delle fiamme. «È vero, non è prudente», ammise. Si tolse qualcosa che era rimasto incastrato fra i denti aguzzi, e si pulì il muso con il dorso della mano. «Tuttavia», aggiunse facendomi segno di sedere, «non è cosa degna di persone civili mangiare la carne cruda. Solo i barbari lo fanno. Ti ho messo da parte una lepre arrosto. È ancora calda. Tu che cos'hai?» Lasciai cadere il mio bottino, e frugai allegramente fra le braci, dove la lepre era conservata, avvolta in foghe d'alloro. La carne emanava un buon profumo, e dopo il primo boccone, il mio stomaco cominciò gradevolmente a liberarsi della sensazione di vuoto. La mia razza non ama la carne quanto gli Stygiani, che di rado mangiano altro, se pure lo fanno. Noi ci nutriamo soprattutto di frumento, verdure e frutta, e preferiamo queste cose. Tuttavia, un buon arrosto di lepre, pollo o pesce ci è gradito nelle occasioni speciali. Divorai la carne calda fino all'osso, e non chiesi allo stygiano come aveva fatto a catturare due bei leprotti grassi, al buio e senza armi né trappole. Non ero troppo sicuro di volerlo sapere. «Io non ho trovato gran che», gli dissi indicando il mio bottino. «Qui intorno non ci sono molti posti dove rubare. Sull'altro lato della collina c'è una fattoria, ma è deserta. Per l'esattezza, l'hanno bruciata. Ho portato via due otri. Se ci andiamo piano ciascuno potrà fornirci acqua per due giorni». Allungai la mano. «Ho anche colto una manciata di cipolle selvatiche. Non sono male. Ero così affamato che ne ho mangiate un paio mentre erano ancora attaccate a terra. E intanto tu facevi festa su una lepre arrosto». Rheif guardò con aria sbigottita le cipolle, e poi voltò il naso dall'altra parte. «Piante», disse. «Voialtri mangiate sempre piante e cose che nascono dal fango. Non è cibo adatto per uno come te, Aldair». Lo ignorai, e cominciai con ostentazione a mangiare alternativamente un
po' di lepre e un po' di cipolle. «Stavo pensando ad una cosa», fece lo stygiano mentre attizzava il fuoco. «Io non condivido la tua grande passione per l'acqua, e mi pare che se per caso la barca si rovesciasse mentre viaggiamo per mare, moriremmo in uno dei modi più sgradevoli che io riesca ad immaginare». «Vero». «Invece, sulla terra, saremo sempre sicuri di aver suolo ben saldo sotto le scarpe». «E molti nemici sulla nostra strada», aggiunsi. «Senza dubbio. Ma uno stygiano sa come affrontare i suoi nemici, sulla terra». «Rheif», feci, chinandomi verso di lui, «che cosa stai cercando di dirmi? Che non vuoi continuare il nostro viaggio? Che vuoi tentare di arrivare al nord a piedi?» Scossi la testa. «Così, non riusciremmo mai a raggiungere le nostre case». «Questo non puoi affermarlo con sicurezza». «Devi comunque ammettere che è molto improbabile che ci riusciamo. È una cosa che sai anche tu». «Ma a me le barche non piacciono», fece Rheif, ostinato. «Davvero? Debbo ricordarti che è la tua barca? Che sei stato tu ad avere per primo l'idea di trasformarci in marinai? Io mi ero sdraiato sul ponte solo per dormire, quando tu mi hai catturato». Rheif fece un gesto d'impazienza. «Sai anche tu che io avevo intenzione soltanto di procurarmi un mezzo di fuga momentaneo, e nulla di più. Non mi è mai venuto in mente di praticare l'arte marinara come professione stabile». «Ma noi stiamo facendo proprio quello che volevi tu», feci io. «Siamo in fuga». «Sì. Nella direzione sbagliata». Scossi la testa; mi allontanai dal fuoco e mi avvolsi nel mantello fino alle orecchie. «Ciascuno deve fare ciò che gli piace di più», dissi sbadigliando. «Frugherò castelli e ville in cerca della tua pelliccia, quando tornerò dall'aver visto il mondo. Ma non ti annoierò con il racconto delle mie avventure, dato che dubito ti interesserebbero, nella tua nuova veste di scendiletto». Rheif rimase in silenzio. Ma qualche tempo più tardi mi svegliò, e mi chiese che genere di cose potevamo aspettarci di vedere, in giro per il mondo.
«Rheif», risposi con la voce impastata di sonno, «come posso saperlo? Non ci sono ancora stato». «Sì, ma tu hai studiato all'Università», insistette lui. «Devi aver imparato qualcosa, su quanto c'è nel mondo». «È vero. Ho imparato una cosa. Ho imparato che è meglio accontentarsi di quello che si ha, senza andare alla ricerca di nuove conoscenze». Rheif abbassò la mascella in segno di delusione. «Va bene», gli feci, alzandomi a sedere. «C'era una mappa, ricordo, nello studio di Mastro Pelian. A nessuno era permesso di toccarla, ma si poteva osservarla a una certa distanza, e prendere appunti». «E allora?» «Per la maggior parte, segnava i confini dell'Impero Rhemiano. In rosso. Buona parte del mondo è rossa». «Stygia no», fece Rheif cupamente. «No. Stygia no. E c'erano altre aree ancora non conquistate». Chiusi per un attimo gli occhi, cercando di ricordare. «C'è una grande estensione di territorio, proprio a sud della zona in cui ci troviamo ora. È la terra natale dei Tarconii. Ci gireremo attorno, e poi ci dirigeremo verso est, attraverso lo stretto passaggio che divide questo continente da quello che si trova sotto di esso. Poi, saremo nel Mar Meridionale». «E che cosa c'è nel Mar Meridionale». «Sulle sue coste settentrionali», gli dissi, «ci sono le terre in cui siamo ora, e le regioni che conosciamo». «E a sud? Tu hai parlato di un altro...» «Continente? È una terra oscura, e ne so molto poco. So che appartiene ai Nicieani, che sembra siano un'altra razza, diversa da te, da me, dai Tarconii o dagli schiavi Cygnani. Pare che la loro pelle sia verde e brillante, e scagliosa come un'armatura. Vivono in una regione piena di sabbia e priva d'acqua, e non possono essere conquistati, neppure dalle Legioni rhemiane. Tutto ciò potrebbe essere vero, ma potrebbe anche non esserlo. C'erano poche informazioni su Niciea sulla mappa, e io non ho mai parlato con nessuno che abbia mai realmente visto un nicieano. Può darsi che quanti hanno avuto a che fare con questa razza non abbiano piacere a parlarne». Rheif mi fissò, con gli occhi rossi che brillavano nei riflessi del fuoco. «Aldair», disse alla fine, «ora capisco che cosa intendevi parlando di cercare l'avventura e vedere cose nuove in paesi nuovi. Tu vuoi che noi navighiamo al di là di un lembo di terra nel quale vivono i Tarconii, di cui certo conservi un vivido ricordo. Poi vuoi dirigerti, nella nostra piccola
barca, nel Mar Meridionale (sempre che a quel punto siamo ancora vivi): un mare che su una sponda è governato dai Rhemiani, e dall'altra da certe terribili creature verdi con la pelle simile a scaglie corazzate». Scosse la testa. «Ho sentito parlare di queste creature anch'io, e non sono del tutto sicuro che esistano. Penso di no, ma non ho il minimo desiderio di accertarmene». Mi lanciò un'occhiata di disgusto, e si girò verso il fuoco. «Se non sarò più qui domattina, parti pure sulla tua barca senza aspettarmi, Aldair...» Nei quattro giorni successivi la costa rimase identica, e fummo favoriti da mare calmo e venti propizi. Io mi divertivo, mentre Rheif brontolava che di giorno in giorno ci allontanavamo dalle foreste del nord e dai ruscelli gelati che le attraversavano, e che - secondo lui - erano le uniche distese d'acqua adatte a un uomo. Non avemmo alcun problema per trovare posti in cui accamparci di notte. Le poche città costiere che avvistammo nella nostra rotta erano piccole, e facilmente superabili. Qualche volta incrociammo alcuni battelli, in gran parte dediti alla pesca lungo le coste. Una volta incrociammo addirittura una flotta di tozzi e panciuti pescherecci. Ciascuno alzava larghe vele gialle con dipinte su le figure di diversi pesci. A Rheif non piaceva l'idea di incontrare altri vascelli, ma gli assicurai che fino a quando ci tenevamo abbastanza lontani da impedire di distinguere chi c'era a bordo della nostra barca, eravamo al sicuro. Il quinto giorno superammo uno degli alti promontori rocciosi che apparivano con una certa frequenza su quel tratto di costa. Non era differente dagli altri, ma subito dopo la sua punta ci si parò alla vista una bianca città scintillante. Era grande all'incirca quanto Silium, ma molto più bella di quel conglomerato di vicoli, cortili e catapecchie che avevo abbandonato senza rimpianti. Le verdi pendici di una collina che si alzava subito dietro il porto erano punteggiate di ville rosa, gialle e azzurre. Sui tetti coperti di tegole rosse spuntavano ciuffi di fiori multicolori. Malgrado la bellezza della città, un particolare gelò il nostro interesse. Chiaramente, in giro c'erano numerosi soldati rhemiani. I loro vessilli dorati si agitavano nella brezza, e tra i molti vascelli ancorati nel porto c'erano due enormi navi da guerra rhemiane: terrificanti forme scure con tanti banchi di remi che non riuscii a contarli. Sul ponte di ciascuna di esse si levavano alte torri di legno irte di macchine da guerra. Dalla prua spuntava un ariete scolpito in forma di squalo, e dalle fiancate potevo vedere i mec-
canismi di potenti catapulte e di baliste cariche di proiettili. Col cuore in gola, ci affrettammo a superare il porto. Una delle grandi navi alzò le vele rosso sangue e si mosse poderosamente dietro di noi. Non mi guardai indietro, mentre manovravo le vele, ma potevo quasi sentire l'ombra tenebrosa del mostro alle nostre spalle, e il canto ritmico degli schiavi ai remi. Rheif si era rifugiato nella minuscola cabina della nostra barca, e soltanto quando l'inseguimento ebbe termine uscì fuori a sgranchirsi le gambe. Né io né lui parlammo del porto e della città bianca. Con una sensazione di gelo, tuttavia, dovemmo accettare il fatto che non era semplice sfuggire al lungo braccio della giustizia rhemiana. Anche lì, su quella costa che né io né lui avevamo mai sentito nominare, i Rhemiani avevano costruito una città più bella di qualsiasi altra avessimo mai visto. La costa cominciò a piegare verso nord-ovest, e durante il giorno ebbi cura di mantenere la barca quanto più in alto mare possibile. Decisi che ci trovavamo all'inizio della grande penisola che si gettava attraverso il Mar Meridionale, e che era la terra dei mercenari tarconii. Di certo, era uh posto da evitare. I Tarconii sono una razza molto strana, dotata di un temperamento complesso e mutevole. Un popolo in gran misura cupo e taciturno, che si preoccupa soltanto di ciò che lo riguarda direttamente. Finché rimasero soli, avevano badato alla loro terra, e non si erano avventurati oltre. Ma la loro statura gigantesca e la forza immensa ne facevano dei grandi soldati. Sotto guida esperta, nessuno riusciva a resistere al loro impeto: neppure le Legioni rhemiane, come i Rhemiani stessi ben sapevano. Se non fossero stati così pigri e corti d'ingegno, avrebbero scalzato i loro stessi padroni dal dominio dell'Impero. Ma, in realtà, non erano più intelligenti degli schiavi Cygnani, e non avevano alcun istinto di conquista. Di conseguenza, i Rhemiani avevano cominciato ad allevarli come si fa con i bimbi piccoli, e a circondarli di cose luccicanti: armature decorate, medaglie lucenti, pompose decorazioni. Ad alcuni dei loro capi più importanti avevano anche concesso la cittadinanza, che spetta di diritto soltanto a chi nasce già come cittadino rhemiano. La cosa aveva scandalizzato alcuni cittadini benpensanti: ma i Reggitori dell'Impero sapevano bene ciò che facevano. Un buon soldato deve sempre prestare la massima cura alle sue armi, e di conseguenza i Tarconii, arma dell'Impero, ricevevano il massimo delle attenzioni. DIECI
Alla fine la costa, sempre più aspra, cominciò nuovamente a piegare verso sud, e io assicurai Rheif che non dovevamo essere lontani dagli stretti che conducono al Mar Meridionale. Dentro di me, tuttavia, non ero così fiducioso. Evidentemente, il mondo doveva essere molto più grande di quanto avevo immaginato. O, in alternativa, la mappa di Mastro Pelian non era del tutto accurata. Erano passati ben sette giorni da quando avevamo oltrepassato la città bianca, e soltanto ora superavamo la grande gibbosità della penisola dei Tarconii. Sulla mappa, tutta questa distanza era rappresentata da un tratto non più lungo dello spessore di un dito! Rheif, dal canto suo, mi preoccupava. Stava diventando un compagno di viaggio sempre meno piacevole. Rimaneva da solo a prua, scrutando le onde. Quando, qualche rara volta, parlava, lo faceva a monosillabi, e la sua voce era una specie di sordo ringhio che nasceva dal fondo della gola. Talvolta, quando eravamo accampati, sentivo lo sguardo dello stygiano su di me, e una notte mi girai di scatto, per incontrare i suoi occhi di brace che si fissarono nei miei. Quella volta mi girai subito, facendo finta di niente. Ma il sonno non venne facilmente. I pensieri di Rheif mi erano abbastanza chiari. E presumo che non avrebbero dovuto sorprendermi. In verità, eravamo due compagni molto strani e male assortiti. La nostra era un'amicizia davvero bizzarra: due nemici naturali, legati solo dall'avere un avversario in comune. Quanto poteva essere sicuro un legame come questo? I risentimenti ancestrali per il momento erano sopiti, ma da un momento all'altro potevano infiammarsi di nuovo, all'improvviso. Nel tempo sufficiente per estrarre una spada. E gli Stygiani non osservano le regole dell'onore, in battaglia. Se la cosa fosse successa, non avrei avuto preavviso. Anche se ci trovavamo di fronte alle terre dei Tarconii, sulle spiagge non avvistammo alcuna di queste creature. Decisi che le loro città dovevano essere tutte edificate nell'entroterra. C'erano ben poche attrattive su una costa così accidentata e squallida, e i Tarconii, probabilmente, da soli non erano in grado di costruire porti. Le barche che, al nord, ci avevano inseguiti fin quasi ad Albion, erano di fabbricazione rhemiana. I Tarconii erano stati istruiti per poterle manovrare, ma la loro progettazione e costruzione era impresa ben al di là delle capacità dei loro cervelli. Tuttavia, usammo sempre la massima prudenza quando, alla notte, ci accampavamo su quelle spiagge.
L'umore di Rheif migliorò molto due giorni più tardi, anche se per un motivo che quasi mi fece star male. Avevo portato a riva la barca su un tratto di costa coperto di ciottoli, e avevo cominciato a preparare l'accampamento. La spiaggia aveva ben poco da offrire, e in verità era uno dei posti peggiori su cui eravamo sbarcati finora. Non c'era possibilità di nascondere o mimetizzare la barca e noi stessi: chiunque fosse capitato di lì, ci avrebbe notati immediatamente. Tuttavia, gli occhi acuti di Rheif avevano colto una traccia di verde tra le rupi scure che precipitavano verso il mare, e aveva proposto di prender terra nei paraggi. Dove c'era verde doveva esserci acqua, e la possibilità consistente di rinnovare le nostre riserve faceva dimenticare il pericolo, peraltro infinitesimale, che qualcuno ci avvistasse. Non potei che dargli ragione. La nostra scorta d'acqua era ormai terminata. E anche il cibo, se è per questo, era finito. La manciata di semi e bacche che, negli ultimi giorni, avevo trangugiato, mi aveva portato ben pochi benefici oltre a quello di ricordarmi dolorosamente che possedevo uno stomaco, e che il medesimo si stava rimpicciolendo fin quasi a scomparire. Tenni per me, tuttavia, queste penose argomentazioni. Il cibo era un soggetto che non ardivo trattare con Rheif, per comprensibili motivi. Avvistammo una sorgente a metà di un dirupo, in un posto molto difficile da raggiungere. Caddi due volte durante l'arrampicata, per fortuna atterrando su un mucchio di alghe secche. Rheif invece salì agevolmente, dedicandomi una risatina sardonica ogni volta che mi vedeva a terra, coperto di lividi e graffi, con le mie tozze gambe allargate. Si offerse di riempire anche il mio otre e di portarmelo giù, ma sarei morto di sete prima di accettare una cosa simile. Ero deciso a portare a termine l'arrampicata, e lo feci. L'acqua era buona. Aveva un lieve sapore metallico, ma era fresca e frizzante. Riempii entrambi gli otri, dopo aver mandato un insulto mentale allo stygiano, che se ne stava andando a spasso per la cima della rupe, lasciandomi solo a fare il lavoro. Mentre gli otri si riempivano, mi chiedevo come avrei potuto ridiscendere sulla spiaggia senza rompermi l'osso del collo. Un sassolino mi colpì sulla spalla, e alzai gli occhi, per vedere Rheif che mi rivolgeva alcuni gesti eccitati. Lo stomaco mi si strinse in un nodo. Era successo quello che temevamo, mi dissi. Eravamo capitati proprio al centro di una tana di Tarconii. Serrando i denti, mi arrampicai vicino allo stygiano muovendomi con il
massimo silenzio che mi era possibile, e feci anch'io capolino da dietro il masso sotto il quale era acquattato. Ciò che vidi mi rassicurò e, nel medesimo tempo, mi sorprese. «Schiavi», dissi. «Schiavi fuggiti, senza dubbio, visto che si trovano così lontani da qualsiasi città o consesso civile». Rheif osservava in silenzio i Cygnani, e non diceva nulla. Si trattava, in verità, di una miserabile compagnia. Dovevano essere una dozzina, e avevano pagato ben cara la loro libertà. Erano magri e sporchi, e avevano tentato di tosarsi da soli la pelliccia invernale usando pietre affilate. I loro sforzi avevano lasciato macchie sanguinolente sulla loro epidermide, e piaghe che non si sarebbero rimarginate tanto facilmente. Il loro unico riparo era costituito da una serie di corte gallerie scavate sul fianco della collina, al di sotto della macchia di vegetazione che ne ornava il lato nascosto rispetto al mare. «Non ci daranno fastidio», dissi. «Di questo possiamo essere più che certi». Cominciai a ridiscendere lungo la rupe, e poco dopo mi seguì anche lo stygiano. Dopo il tramonto, trovai fra gli scogli qualche crostaceo. Sapevano di pesce ed erano morti da qualche tempo, ma mangiai tutti quelli che riuscii a vedere. Rheif era sdraiato sulla spiaggia, e mi guardava. Non faceva alcun tentativo di trovare qualcosa da mettere sotto i denti. Non appena fu buio, si girò su un fianco e si addormentò. Poiché le notti ormai erano molto calde, non avevamo acceso alcun fuoco, tanto più che non avremmo avuto nulla da cuocere. La notte era scesa da tre ore, quando aprii un occhio e vidi Rheif scomparire nell'ombra della rupe. Pochi istanti dopo ricomparve sulla cima: una figura magra e coperta di pelliccia, che avanzava curva nelle tenebre. Cercai di rimanere sveglio, ma prima che fosse mattina chiusi nuovamente gli occhi. All'alba, Rheif era di umore straordinariamente allegro. Lodò la mia perizia di marinaio, la mia abilità di arciere, e un gran numero di altre qualità che non avevo mai saputo di possedere. Non feci alcun tentativo di farmi confessare da lui i motivi della sua improvvisa allegria. Non potevo condannarlo per quel che aveva fatto. Se fossi stato uno stygiano, senza dubbio mi sarei comportato nello stesso modo. Ma non lo sono, per cui adesso era il mio turno di mostrarmi scostante e malinconico....
«Il suo aspetto non mi piace per niente», disse Rheif in tono nervoso. «Non mi sembra una cosa piacevole». «Non lo è», ammisi. La scura massa di nubi di cui stavamo parlando era appena rotolata fuori dall'orlo dell'orizzonte, e subito io avevo diretto la barca verso la riva. Ma la tempesta si muoveva ad una velocità allarmante. Già aveva cancellato il sole, lasciandoci immersi in una calma grigia e gelida, come sul fondo di una coppa opaca e dagli orli incredibilmente alti. Rheif mi diede un'occhiata interrogativa. «La costa non è molto lontana». «No. Ma la tempesta lo è ancora di meno», risposi. Poi mi voltai e mi concentrai sulle manovre. I venti soffiavano in raffiche brevi e variabili nell'intensità e nella direzione, che mi confondevano e rendevano difficile reggere il timone. Era difficile che una delle raffiche si mantenesse abbastanza costante da riempire la vela. In basso, ad oriente, venne il rombo di un tuono, che rotolò attraverso il cielo per un intero minuto. Il suo fragore era così distinto che mi parve quasi di poterne seguire il percorso lungo l'orizzonte. Subito dopo, la pioggia cominciò a chiazzare le onde con gocce dense e pesanti. Lampi accecanti cancellarono la volta celeste, mentre i venti cominciarono a soffiare con un'intensità sempre più allarmante. Ammainai la vela, e mi misi ai remi accanto a Rheif. Ce la facemmo per un pelo. Sono sicuro che, se fossimo stati di soli venti metri più al largo, non saremmo mai riusciti a raggiungere la riva. La tempesta imperversò per tutto il resto della giornata, prima della notte ci fu un momento di calma, poi gli elementi si scatenarono di nuovo, e fino all'alba fecero udire il loro lugubre ululato. La caverna nella quale ci eravamo rifugiati era abbastanza lontana dalla spiaggia, e per fortuna era coperta da una superficie di sabbia soffice e asciutta. Tuttavia, così forte era l'impeto dei venti che di tanto in tanto gelide dita di pioggia venivano a raggiungerci anche nell'angolo più profondo del nostro riparo. L'umidità faceva puzzare la pelliccia di Rheif ancor più del solito: cosa che non avrei mai creduto possibile. Ma sopportai anche questo, non avendo scelta. Inoltre, c'era un'altra preoccupazione che realmente mi metteva a disagio: avevamo portato la barca abbastanza addentro fra le rocce per ripararla dalla furia della tempesta? Non sarebbe stato molto consolante se,
dopo tutto il nostro viaggio, fossimo finiti come naufraghi sulle spiagge dei Tarconii. «Non ho mai visto niente di simile», annunciò Rheif. «Anche al nord ci sono tempeste», gli ricordai. Scosse la testa con convinzione. «Non come questa, di certo. Non mi ricordo mai di essermi dovuto rifugiare in una grotta per evitare di essere travolto da onde più alte della mia testa». «Si dà il caso, stygiano, che tra le foreste dei Lauvectii non ci siano mari di alcun genere. Perché si dia la presenza di onde, i mari risultano indispensabili». Rheif mi rivolse un'occhiata feroce, e si asciugò l'umidità dal muso. «Non credere che non lo sappia, Venicii. Non sono poi così ignorante, anche se non ho frequentato con successo un'università rinomata, non ho guardato con attenzione una mappa su un muro, e non ho imparato a contare sulle dita di tutte e due le mani». Dopo di che, mi voltò le spalle e si mise a fissare la tempesta. Per tutta la notte, fu questa la sola conversazione che ci scambiammo; e probabilmente fu molto meglio così. Non c'era nulla da fare, se non attendere che venisse il mattino. Cercai di dormire, senza riuscirci. Passai il tempo soprattutto pensando al cibo. Alla luce dei lampi, studiai le pareti della caverna. La natura vi aveva tracciato disegni affascinanti. Sottili fasce orizzontali di colori diversi, nero, arancione e giallo, che correvano lungo la volta come la trama di una coperta di lana. Le fasce erano perfettamente orizzontali, tanto da sembrar tracciate da un arcano pittore con l'aiuto di un regolo. Per passare il tempo, cominciai a contarle, notai quante volte si presentava ogni singolo colore, e affaticai oltre il lecito la mia vista. Comunque, la cosa mi aiutò a far passare più in fretta quelle ore gelide... All'alba, il cielo era grigio come il piombo. La tempesta si era allontanata da circa un'ora, ma eravamo ancora sotto la sua ombra. Stiracchiammo i nostri muscoli intorpiditi, e cercammo di riportare un po' di vita nelle nostre membra livide. Rhief volse uno sguardo all'interno sulla spiaggia e annusò con aria disgustata. «C'è un puzzo orribile dappertutto», annunciò. La ragione la scoprimmo subito. La spiaggia era coperta di vegetali scuri e intricati e di mucchi di materiale viscido e verdastro tratto dal fondo del mare. Il tutto attirava stormi di mosche e di altri insetti.
Mentre Rheif sacramentava sul puzzo, io corsi a controllare la barca. Era intatta, ma sepolta sotto mucchi di porcherie immonde e fetide. Ci sarebbe voluta almeno mezza giornata per ripulirla e rimetterla in ordine in modo tale da riprendere il mare. Non me la sentivo ancora di cominciare un lavoro del genere. Invece, cominciai a passeggiare lungo la spiaggia, studiando gli strani oggetti che la tempesta aveva gettato a riva. Decisi che, sotto le onde, doveva aprirsi un mondo diverso, pauroso e affascinante. Dietro la nostra spiaggia si stendeva una colossale cortina di rupi mangiate dagli elementi: un aspetto comune della costa, da quelle parti. In genere quelle formazioni erano abbastanza regolari, e si stendevano a perdita d'occhio. In quel punto, tuttavia, una piccola sezione si era spostata in avanti e si allungava sin quasi a toccare il mare. Le girai intorno, aspettandomi di vedere una spiaggia simile a quella su cui ci trovavamo. Invece, mi trovai di fronte a un muro di roccia: ma una roccia completamente diversa da quella che avevo alle spalle. Era alta quanto la mia testa, e pur essendo in molti tratti logora e scavata, nel suo aspetto generale appariva stranamente levigata. Ne grattai la superficie, e vidi che le mie dita stavano scoprendo una linea regolare: un solco diritto, orizzontale, poco profondo. Scrostai un altro po' di fango, e misi alla luce un altro solco. Poi mi alzai in punta dei piedi e scrutai al di là del muro di roccia. Vidi che c'era una distesa di altre mura simili; alcune più alte, alcune più basse, altre ridotte a semplici rughe di pietra sopra la spiaggia. La scoperta mi riempì di una strana, inattesa eccitazione. Avevo già incontrato formazioni del genere, al nord; ma laggiù sono difficili da trovare, e tutt'altro che comuni. Non avrei mai immaginato che potesse essercene un gruppo così folto come quello che avevo davanti. Rheif non manifestò emozioni particolari. «È soltanto un posto dove un tempo sorgeva una città», disse. «Se ne accorgerebbe anche un bambino». «Ma chiunque non sia un bambino si accorgerebbe in più di molte altre cose», ribattei, in tono seccato. Trovavo il suo atteggiamento molto irritante. «Hai mai visto un muro di mattoni fatto in questo modo?» aggiunsi, dando un calcio alla base del muro. «Le porzioni che se ne vedono sono straordinariamente lisce e ben costruite, Rheif». «Vero», ammise. «Ma non riesco a capire i motivi di tanto perfezionismo. Le levigature eccessive sono superflue...» «E sono sempre identici...» Stavo parlando a me stesso, senza prestare più attenzione allo stygiano. «Tutti assolutamente identici».
Girovagai un poco fra le rovine, cercando di immaginare, con gli occhi della mente, come poteva essere stata la città di cui vedevo le testimonianze. Quei mattoni mi affascinavano. Erano tutti così uguali l'uno all'altro. Solo un re potrebbe richiedere, per i suoi palazzi, una tale perfezione. Mi trovavo dunque tra le rovine di una reggia? Di certo la città era molto antica. Tanto quanto bastava per incutere spavento, pensai. Povero Mastro Levitinus. Quanti dei suoi ipotetici centenari avrebbero dovuto dipanare la loro vita per arrivare a chi eresse questi edifici? E chi mai visse e morì fra queste mura? Certo non i Tarconii, che oggi dichiaravano di possedere queste terre. A meno che i Tarconii non fossero stati grandemente civili un tempo, subendo poi una singolare degenerazione. Non era soltanto l'età di quel posto che mi incuriosiva. Potevo vedere che la città era stata costruita in un modo insolito, che non avevo mai conosciuto prima. Almeno, così mi sembrava. Cercai di ricostruire la forma e l'aspetto di ambienti e stanze dove non c'erano più né gli uni né le altre. Provai a risistemare cortili e strade là dove avrebbero dovuto essere. Non riuscii a ricavare alcun ordine. A quanto pareva, non c'era nulla che fosse là dove a lume di logica avrebbe dovuto essere. Era come se... Mi fermai. Un'ombra passò sopra la mia testa, e guardai in alto. Sull'orlo della rupe, colsi il lampo di un movimento. Qualcosa era apparso per un attimo, si era fermato, si era agitato un istante, e poi era scomparso alla mia vista con un piccolo grido. Con la coda dell'occhio, scorsi un'ombra colorata, poi qualcosa colpì la striscia di sabbia proprio davanti a me. Una pioggia di sabbia e pietriccio scese dall'orlo del dirupo. Poi vidi che Rheif mi aveva superato di un balzo, e stava correndo in avanti, con un sorriso cupo sul muso grigio e una luce inquietante negli occhi. UNDICI Non era difficile leggere nei pensieri dello stygiano. Il destino gli aveva gettato l'arrosto direttamente nella padella. Qualunque cosa fosse il bocconcino appena avvistato, si trovava momentaneamente privo di sensi sull'orlo della rupe; era sufficiente arrampicarsi fin lì, e prenderlo prima che tornasse in sé.
Desiderai fervidamente di essere da qualche altra parte... Rheif era già arrivato in cima. Aveva scalato la parete rapido come un uccello; i suoi piedi avevano smosso soltanto la ghiaia più sottile. In alto, si fermò un istante per osservare la sua preda, poi superò d'un balzo la breve distanza che lo separava da essa, e si chinò per scrutarla meglio. Rimase fermo un attimo, poi si voltò in basso verso di me, rivolgendomi una specie di ghigno. Quindi il ghigno scomparve, e lui balzò in piedi, mentre il ciglio della rupe cominciava a sgretolarsi e franare sotto il suo peso. Rheif artigliò l'aria. Le sue dita trovarono uno spuntone di solida roccia, e si aggrapparono. Lo stygiano rimase lì, a penzolare nel vuoto, con il suo pranzo stretto sotto l'altro braccio. La cima della rupe era ormai fuori portata. Il salto fino alla spiaggia era tale da non far prevedere un esito senza danni piuttosto gravi. «Aldair», gridò lo stygiano, «hai intenzione di fare qualcosa per aiutarmi, o preferisci stare lì a guardare?» «Per il momento resto qui», risposi. «Non so esattamente che cosa posso fare». La preda di Rheif stava tornando in vita. Emetteva gridolini e altri piccoli suoni dall'eco insolito e inquietante. Non potevo vedere bene di che cosa si trattava, dato che era in parte coperta dal corpo dello stygiano. Ciò che vedevo, tuttavia, mi turbò alquanto. «Non posso resistere ancora a lungo», fece Rheif. «Sarebbe il caso che tu venissi qui sotto, prendessi al volo questa cosa, e mi restituissi l'uso dell'altro braccio. Aldair... sei ancora lì?» «Ci sono». «E allora perché a me sembra che tu sia da un'altra parte?». Non risposi. Adesso potevo vedere meglio la preda di Rheif. Era del tutto sveglia. Si dibatteva. Era verde. Verde? Già, verde. Un colore del tutto inatteso, mi dissi. Che evocava qualche ricordo. Ebbi l'impulso di dire subito a Rheif una certa cosa. Mi avvicinai alla base della rupe. Tre suoni ronzanti mi ferirono i timpani. Zip-zip-zip. Come api inferocite. Tre frecce si conficcarono nel terreno, tracciando una piccola cancellata a due centimetri dai miei alluci. In un certo senso, la cosa mi procurò sollievo. Ora non avevo più dubbi:
sapevo esattamente che cosa conveniva fare. Rimasi immobile come una statua, e non feci assolutamente nulla. I tre arcieri comparsi all'improvviso in cima alla rupe erano versioni ingigantite della cosa che Rheif stringeva sotto il braccio. Verdi, enormi e spaventosi. Non era necessario averli visti prima per capire immediatamente che erano Nicieani. «Le nostre avventure sono pervenute ad una triste fine, Aldair». Rheif mi gratificò di una triste occhiata rossiccia, e scosse la testa con fare filosofico. «Siamo ancora vivi», gli ricordai. Feci passare un dito sotto il collare di ferro che mi stringeva la gola. «E se avessero voluto ucciderci, non si sarebbero presi la briga di regalarci questo anellino». Un lato del muso di Rheif si torse in atteggiamento di disgusto. «Per te forse questa è vita», sibilò. «Per uno stygiano, la morte è infinitamente più desiderabile della schiavitù». «Sono convinto che se tu menzionassi tale desiderio a una di quelle creature», gli suggerii, «non resterebbe a lungo inascoltato». «Talvolta sono tentato di farlo. Ma non sarebbe una cosa onorevole. Io sono un guerriero stygiano, un capo fra la mia gente. Non sarebbe decente per me, Aldair, chiedere un favore a questi mostri, che chiaramente appartengono all'ordine più infimo delle creature viventi». Non risposi. Per essere creature d'infimo ordine, i Nicieani sembravano cavarsela piuttosto bene. Ciò che avevo potuto vedere mi aveva impressionato non poco. L'accampamento era posto in una valletta asciutta e ben delimitata. Era circondato da torrette di pietra vigilate, ed era in vista del mare. All'intorno, in un ordine che mi sfuggiva, erano piantate circa venti tende bianche. Separata dalle altre c'era una tenda più grande, delle dimensioni di una villetta di campagna. Il suo tessuto era ricamato in modo molto fine, e la struttura era assai elaborata. Da un lato, sotto uno dei due pennoni, si levava persino una ciminiera di ottone. Su ogni palo, garrivano al vento bandiere verdi ornate di occhi d'oro. Il colore di fondo della tenda era verde pallido, e il motivo ornamentale più diffuso erano gli stessi occhi d'oro ricamati sulle bandiere. Chiaramente, quella tenda (seppure si poteva chiamarla così), era destinata a un personaggio di alto rango. La cosa sarebbe apparsa palesemente, anche senza la vista, intorno ad essa, giorno e notte, di dodici arcieri nicie-
ani in alta uniforme. Fino ad allora, tra i personaggi che avevo visto nell'accampamento, non ne avevo scorto nessuno identificabile come il titolare di quel padiglione superlativo. È pur vero che, magari, lo avevo visto già dieci volte e non lo avevo riconosciuto. Ai miei occhi, quelle creature ributtanti sembravano tutte uguali. Ne vidi due entrare in una delle tende più piccole, inchinandosi per oltrepassare la bassa apertura. Indossavano comuni tuniche nicieane avvolte intorno alle loro viscide forme verdastre. Le tuniche erano munite di cappucci, che potevano essere sollevati per riparare dal sole le teste piatte. Soltanto due volte avevamo potuto vedere da vicino i Necieani. La prima volta quando eravamo stati catturati e portati al campo per essere perquisiti e muniti di collare. E la seconda volta quando una guardia aveva portato un secchio d'acqua e una ciotola di cibo presso l'alta roccia che ci forniva un po' d'ombra. Il pensiero mi procura vergogna, ma è inutile nasconderlo: i Nicieani mi mettevano addosso una paura tremenda. Erano creature che nessuno sognerebbe mai, neppure negli incubi più terrificanti... cose che si stentava a credere generate dalla nostra stessa Terra. I loro volti piatti, privi d'espressione, apparivano terribili proprio per la loro mancanza di lineamenti veri e propri. Avevano, sì, occhi, orecchie, un naso e una bocca, ma se ne fossero stati privi sarebbe stato lo stesso. Gli occhi erano scuri e senza palpebre, come piccole sferette nere lucenti, e il naso e la bocca erano nulla più che due fori e un taglio. Per di più puzzavano. Al confronto, Rheif era un mazzo di rose. Comunque, era qualcosa di diverso. Gli Stygiani puzzano perché sono Stygiani e temono l'acqua (anzi, hanno una idiosincrasia per essa, direbbe Rheif). Per i Nicieani la cosa è differente. Il loro è un odore dolciastro, secco, polveroso. È come se avessero trascorso tutta la loro esistenza in buchi sotto la roccia. «Aldair, che cosa pensi che sia questa roba?» Rheif puntò un dito sospettoso alla ciotola di cibo messa a terra fra di noi. «Sono ormai sul punto di morire di fame, ma non credo che riuscirò comunque a portare alla bocca una sola goccia di questa broda». Annusai, con cautela. Era una specie di minestrone grigiastro, denso e pieno di grumi neri. Presi un ramoscello, lo intinsi nella ciotola, mescolai un po', e tirai fuori un pezzetto di materiale pescato nel mucchio. Lo misi sotto il naso di Rheif.
Gli occhi dello stygiano si spalancarono. Fece un salto indietro, come di fronte a uno spettro. «Per tutti gli dèi... che cos'è? È proprio quello che sembra?» «Temo di sì», feci. «È la gamba di un insetto. Uno scarafaggio, forse, o una cavalletta». Guardai Rheif. «Quella roba lì dev'essere principalmente una zuppa di insetti». «E.... e questo è quello che mangiano». «Evidentemente. O è quello che danno da mangiare agli schiavi. Per la verità, sono abbastanza certo che la mangino anche loro. Puzzano proprio come questa brodaglia». Gli occhi di Rheif ruotarono per lo sconforto. «In tal caso, per noi è proprio finita, Aldair. In breve, moriremo di fame. Prima è, meglio è, per quanto mi riguarda». Infilai un dito nella zuppa e mi feci forza fino al punto di farmene cadere una goccia sulla lingua. «Non è troppo cattiva», dissi. Il mio stomaco brontolò, a disagio. «Sempre, naturalmente, che ci si dimentichi della materia prima». Rheif voltò la testa. «Non sarà cattiva per te. I Venicii, del resto, mangiano radici, bacche, vegetali e altra spazzatura del genere. Ma non è adatta a uno stygiano». Incrociò le braccia pelose e guardò con occhi malevoli la tenda verde. «Scegli pure la vita, se preferisci, Aldair. Mangia molti grassi scarafaggi e diventa un robusto e felice schiavo nicieano». Fermai un dito a metà strada della mia bocca. «Un momento», feci. «Queste considerazioni sei pregato di tenertele per te, Rheif. E non dimenticare che è stato il tuo insaziabile appetito a portarci in questa situazione!» Rheif apparve profondamente scosso. «Aldair. Come potevo sapere che quella cosa sulla rupe era uno dei loro bambini? Tutto poteva sembrarmi, fuori che il bambino di qualcuno!» «Spero che loro ci credano», feci. «Quanto a me, ti ricordo che sono un Venicio, e nei miei riguardi puoi risparmiarti le proteste di innocenza e di rispetto per gli infanti di qualsiasi genere». «Le storie che raccontate su di noi al nord sono falsate da grossolane esagerazioni», ribatté Rheif. «Gli Stygiani mangiano molto raramente i Venicii». «Solo perché molto raramente ci facciamo catturare dormendo», aggiunsi. Quel pomeriggio, due soldati avvolti in complicate uniformi da cerimo-
nia ci presero e ci condussero al limitare del campo. Sopra una lastra di pietra era stata sistemata una grossa tinozza di legno. La tinozza era piena d'acqua, e da essa si sprigionava una nube di vapore. Rheif mi guardò terrorizzato. «Aldair, senza dubbio vogliono annegarci!» Cercai di soffocare la risata. «Non credo», dissi. «Non sarà così semplice». Con una spada alle reni, Rheif entrò nella tinozza, e ululò orribilmente al contatto dell'acqua sulla pelle. Dapprincipio rifiutò sdegnosamente il rozzo pezzo di sapone che gli veniva offerto, e lo prese soltanto quando un soldato gli passò la lama della spada sotto la gola. Io aspettai il mio turno, e mi feci il bagno senza protestare. Era un lusso davvero inatteso. Rheif ispezionò con occhi sospettosi la tunica bianca che gli era stata consegnata al posto delle sue vesti. «Non potrò più tornare al nord», disse. «Se i miei fratelli mi vedessero così, mi scaccerebbero dal Clan e mi lapiderebbero». «Penso di no», gli risposi. «Anzi, secondo me, diventeresti il più prezioso fra i guerrieri, perché i tuoi nemici non potrebbero più avvertire la tua presenza via olfatto, se non nel momento preciso in cui salti loro addosso...» Di certo, ragionai, il bagno e i vestiti nuovi non potevano essere un trattamento riservato a tutti gli schiavi appena catturati. Per qualche motivo, eravamo oggetto di speciali attenzioni. Fra le altre cose, non eravamo stati confusi con gli altri schiavi del campo, e per di più non eravamo stati posti al lavoro. Da un lato la cosa portava vantaggi, ma dall'altro mi preoccupava. Quando uno schiavo è troppo ben trattato, sa che all'orizzonte c'è qualche guaio per lui. Ne fui certo quando vennero a prenderci per condurci davanti alla grande tenda verde, dove ci fu detto di aspettare finché non fossimo stati chiamati. Ci venne concesso di stare in piedi o di sedere per terra, a nostra scelta, ma dietro raccomandazione di rimanere comunque puliti e presentabili. Dopo un poco apparve un soldato. Ci squadrò per qualche istante, tornò dentro, poi riemerse e ci parlò. «Fra poco sarete nell'aura dell'Aghiir», sibilò in un passabile rhemiano. «Vi rivolgerete all'Aghiir dandogli del 'Signore'... Ciò, naturalmente, se l'Aghiir vi concederà di rivolgergli la parola. In
tal caso, vi renderà noto il suo desiderio. In caso contrario, non dirà nulla». Ci fissò di nuovo con gli occhi come palline nere, poi ci spinse all'interno della tenda, davanti a sé. La vista era troppo imponente per essere valutata con un solo sguardo. Ai miei occhi, la tenda dell'Aghiir appariva come il magazzino di un mercante impazzito. Il terreno era coperto di tappeti intessuti nei colori più diversi e sgargianti. Lampade di ogni forma e dimensione pendevano da catene di bronzo, argento e oro, e mandavano raggi di luce da pannelli di vetro colorato. Sedie e tavoli di ogni foggia, pesantemente intagliati, erano sparsi nell'ambiente in nessun ordine particolare, e paraventi di lacca erano disposti qua e là per dividere lo spazio in piccole stanze isolate e corridoi che portavano chissà dove. L'aria era resa pesante dall'odore denso e dolciastro dei Nicieani, e dai fumi di un incenso che bruciava in turiboli istoriati. Un nicieano che somigliava a tutti gli altri Nicieani, sedeva su una sedia finemente scolpita e poggiava i piedi su una pila di cuscini colorati. Indossava una tunica verde ricamata con occhi d'oro. Ci studiò, prima l'uno e poi l'altro, quindi portò lo sguardo sul soldato che ci aveva introdotti. «Quale dei due è quello che ha salvato mio nipote?» «Il più alto, Signore», rispose il soldato. «La creatura con la pelliccia più folta». La mascella di Rheif cadde per la sorpresa, ma lo stygiano si riprese subito, e si drizzò sulle spalle, cercando di assumere un atteggiamento solenne. «Qual è il tuo nome?», chiese il nicieano, accompagnando la domanda con un pigro gesto rivolto a Rheif per invitarlo a rispondere. «Rheif. Rheif di Stygia, Signore». «Inginocchiati, dunque, Rheif». Gli occhi dello stygiano si accesero d'ira repressa e ruotarono all'intorno. Sentii che ingoiava e stringeva i denti. Tuttavia fece come gli era stato ordinato. Il nicieano si tolse dal collo una pesante collana d'oro. Alla sua base pendeva una pietra rosso sangue, più grande di un uovo di gallina. Intorno all'allacciatura c'erano altre pietre, più piccole. Allacciò la catena attorno al collo di Rheif, poi gli disse di alzarsi in piedi. Quindi, senza più posare lo sguardo su Rheif, si rivolse al soldato. «E con quale arto», chiese, «ha toccato il piccolo Dhar'jeem?» Il soldato si inchinò. «In verità, con entrambi, Signore. Colui che è
chiamato Rheif ha usato entrambi gli arti per salvare il Personaggio. Anche se più tardi ne ha impiegato uno soltanto per aggrapparsi al costone roccioso». L'Aghiir rivolse uno sguardo al soldato e lo congedò con un gesto. «Non importa», sospirò. «Non sarebbe giusto rimuovere entrambi gli arti superiori ad uno schiavo che ci ha reso un prezioso servizio. E non sarebbe neppure una cosa pratica». Girò gli occhi, come ricordandosi all'improvviso che Rheif era ancora presente. «Non c'è motivo perché non sia tu stesso a decidere», fece. «Dimmi, schiavo: qual è l'arto che usi di meno?» DODICI Qualche tempo dopo il nostro incontro, appresi che il nicieano nella tenda verde era davvero un altissimo personaggio: per l'esattezza, il fratello dell'Imperatore di tutti i Nicieani. A me e a Rheif vennero assegnati altri vestiti e una tenda solo per noi. Potevamo anche mangiare da soli, senza essere obbligati a mescolarci con gli altri schiavi. «Siamo stati fortunatissimi», dissi a Rheif. «Evidentemente ci hanno assegnati al seguito della Casa Reale. Almeno, questo è quanto mi è parso di aver capito parlando con i soldati. Parlano tutti il rhemiano in maniera pessima». «Tu, forse, sarai fortunatissimo», fece Rheif in tono tetro. «Tu hai ancora tutte e due le braccia, con la prospettiva di conservarle anche per il futuro. Mentre io fra poco ne perderò uno, sia pure a mia scelta per graziosa concessione dell'Aghiir. Dopo di che non sarò più utile a nessuno. Gli Stygiani non hanno alcuna compassione per gli storpi. Ed è giusto, perché sono di peso al Clan». Si toccò la catena d'oro che ornava il suo collo peloso, e scosse la testa con aria di meraviglia. «Non capisco il modo di fare di questi Nicieani, Aldair. Prima mi ricompensano in modo principesco per il servizio reso alla loro gente. Poi mi comunicano che dovrò perdere un braccio proprio per il gesto compiuto in loro favore. Questa collana è bellissima ed ha certamente un valore incalcolabile: ma non certo pari a quello di una delle mie braccia, almeno per me». Eravamo sdraiati all'ombra della nostra tenda, guardando i Nicieani che
si muovevano attraverso il campo, intenti ad occupazioni spesso inesplicabili. Alle parole di Rheif, tuttavia, mi alzai e fissai lo stygiano. «E quale servizio mai hai reso ai Nicieani?» gli chiesi. «Non mi sembra di ricordare una circostanza del genere». Rheif mi guardò con aria di sorpresa. «È strano che proprio tu me lo chieda, Aldair, dato che sei stato testimone oculare del mio atto eroico. Tu stesso mi hai visto salvare da sicura morte il nipote dell'Aghiir, che a prezzo della mia vita ho raccolto mentre stava per precipitare dal ciglio di una rupe. Quel bimbo, sai, un giorno erediterà l'Impero». Scossi la testa, trovando difficile credere alle mie stesse orecchie. Naturalmente, avevo dimenticato la straordinaria facilità con cui gli Stygiani ricordano soltanto le cose che vogliono ricordare, cancellando tutte le altre. «Rheif», feci, «è stata una bella fortuna che tu non abbia potuto portare a termine il... salvataggio del Principe. Perdere un braccio certamente non è una bella cosa: ma è sempre meglio che andare in giro più corto di tutta la testa...» Più tardi, quella stessa mattina, un manipolo di arcieri si portò a passo di marcia al centro del campo, e al comando di un ufficiale si fermò sull'attenti. L'ufficiale piantò una bandiera verde nel terreno, e si mise anche lui sugli attenti davanti alla truppa schierata. Pochi istanti dopo, all'intorno si era radunata una piccola folla, composta da Nicieani che non avevano incarichi particolari da eseguire, e da qualche schiavo che coglieva l'occasione per fare una pausa nel suo lavoro. Tutti si erano fermati in circolo attorno agli arcieri immobili, e presto all'interno di questo circolo marciò un altro manipolo di soldati. Dopo uno scambio di saluti militari, i nuovi venuti se ne andarono, lasciando indietro tre di loro. L'ufficiale al comando della truppa schierata rivolse alcune parole separatamente a ciascuno dei tre militari, quindi ricambiò i loro saluti, e si mise di lato. I tre soldati si tolsero tuniche, mostrine e decorazioni, e deposero ordinatamente il tutto per terra al loro fianco. Poi si inginocchiarono, toccarono il suolo con la fronte e allargarono le braccia. L'ufficiale estrasse una lunga spada ricurva, si portò accanto a loro e, a turno, tagliò a ciascuno la testa. Badò a farlo nella posizione migliore: ma nonostante la sua cautela, dai colli tagliati sprizzarono imponenti colonne di sangue che si riversarono sulla sabbia proiettando schizzi all'intorno, alcuni dei quali andarono a macchiare la tunica dell'ufficiale.
Successivamente, apprendemmo che i tre sfortunati erano gli arcieri che ci avevano presi prigionieri. Erano membri del corpo di guardia della Casa Reale, e il giovane Principe era affidato alla loro sorveglianza, quando era scappato via fino ad arrivare al ciglio della rupe sul quale Rheif lo aveva «salvato». Un soldato mi spiegò che l'Aghiir, il cui nome era Tharrin, li aveva perdonati per la loro negligenza, in considerazione dei grandi servigi che precedentemente avevano compiuto per la Casa Reale. Tuttavia la legge nicieana prevede in casi del genere la rimozione di un membro, come alternativa alla pena di morte (nella quale i nicieani non credono). Un comitato riunitosi appositamente per valutare il caso, aveva deciso che la parte del corpo che i tre avrebbero dovuto perdere era la testa, in quanto sede della ragione, cioè della facoltà il cui uso, nella circostanza in oggetto, era senza dubbio venuto meno ai tre militari. A me e a Rheif non erano stati assegnati compiti particolari, per cui ci ritrovavamo spesso senza niente da fare. Occasionalmente, lavoravamo nel campo insieme con gli altri schiavi assegnati alla Casa Reale. Nel gruppo c'erano individui di tutte le razze: soldati rhemiani catturati in battaglia, cittadini vari provenienti da ogni angolo dell'Impero, ed anche Cygnani e Tarconii. Questi ultimi, essendo creature dalla forza immensa, erano tenuti sempre avvinti da pesanti catene e guardati a vista; tanto che non potei fare a meno di pensare che non valeva certo la pena di tenerli schiavi. Parlai ad alcuni dei nostri compagni di prigionia, e scoprii che non erano del tutto scontenti del loro destino. Tutti, certo, avrebbero preferito la libertà, ma furono ugualmente concordi nel giudicare i Nicieani come padroni non troppo severi, eccetto che nei casi di ribellione o di indisciplina. L'Alto Signore Tharrin, in particolare, era un padrone giusto e generoso. Appresi anche che i Nicieani non mettevano in schiavitù i membri della loro stessa razza, come invece, talvolta, facevano i rhemiani. Pochi giorni dopo aver assistito alla cerimonia del perdono e dell'esecuzione dei tre arcieri, Rheif ed io venimmo condotti in una tenda accanto al grande padiglione verde. Lì, uno schiavo di nome Linius, che un tempo era stato ufficiale rhemiano ci interrogò a lungo a proposito della nostra vita, le nostre famiglie, il nostro ambiente e così via. Volle che gli riferissimo nei minimi particolari soprattutto le circostanze in seguito alle quali ci trovavamo là dove eravamo stati catturati. Uno scriba stenografava tutte le risposte all'interrogatorio. Sembrava capace di scrivere con la stessa velocità con la quale noi parlavamo. Tutto ciò mi parve molto strano.
A chi mai poteva interessare - mi chiesi - da dove proveniva uno schiavo, o quali pensieri gli giravano per la testa? In seguito, tuttavia, appresi che i Nicieani non sempre ragionano alla stessa maniera delle altre razze dotate di intelligenza. Una mattina, poco dopo l'alba, venne a prendermi un arciere che mi condusse fuori del campo, sino alla collina che sorgeva ad una estremità della valletta entro la quale erano state erette le tende. Sul fianco dell'altura erano stati faticosamente intagliati dei gradini nella viva roccia, per cui l'ascesa fu rapida e facile. Quel lavoro mi parve un'inutile perdita di tempo, anche se i Nicieani avevano a disposizione un gran numero di schiavi. Persino le Legioni rhemiane non avrebbero richiesto un'opera del genere: e sì che erano famose per la capacità di erigere una completa postazione difensiva al termine di un'intera giornata di marcia. Qualsiasi cosa quelle creature stessero facendo lì, su quel tratto desolato del territorio tarconio, di certo la loro permanenza era solo provvisoria, per cui il lavoro di intaglio sul fianco della collina mi sembrava inesplicabile. Trovai la risposta non appena giunto in cima. Quando fui in vetta e mi guardai intorno, venni travolto dalla meraviglia. Le rovine che mi avevano tanto stupito sulla spiaggia, impallidivano di fronte allo spettacolo che avevo davanti agli occhi. Davanti a me, infatti, si stendeva un'intera città. Il sole del mattino ne abbracciava i muri diroccati e le guglie in rovina, accendendo tutto di fiamme rossastre. Per un momento, mi sembrò di essere stato trasportato indietro nel tempo, e di assistere al rogo funebre di quel luogo antichissimo. La sensazione però svanì subito, e lasciò il posto a un brivido di gelo. Più di cento schiavi stavano lavorando fra le rovine, portando alla luce nuovi livelli della città. Quasi tutti operavano sotto la guida di ufficiali nicieani, ma alcuni di essi erano diventati sufficientemente esperti in un certo tipo di lavoro da ricevere il comando di una squadra, e guidare essi stessi l'attività dei compagni. A coordinare il tutto era l'Alto Signore Tharrin in persona, e per la seconda volta mi trovai alla sua presenza. Mentre l'arciere ed io ci avvicinavamo, vidi che il nicieano mi fissava negli occhi. «Mi hanno riferito», fece quando fui di fronte a lui, «che nutrì un certo interesse per questo genere di cose. È vero?» Aprii la bocca, ma le parole stentavano a uscirne fuori. Finalmente, riuscii a tornare in me e a rispondere. «Sì, Signore», feci. «È vero».
Ecco un altro mistero, mi dissi. Perché mai il fratello dell'Imperatore dei Nicieani si interessa a quello che io penso? L'Alto Signore Tharrin lavorava sotto una larga tenda, per tre lati aperta al soffio dei venti. Tutt'intorno c'erano confortevoli cuscini, e alcuni schiavi erano pronti a recargli bibite gelate ad ogni suo cenno. Malgrado ciò, la tenda era in effetti il quartier generale di un cantiere. Carte e disegni erano stesi su tavolini di legno, ed erano tenuti fermi da sassi e mattoni tratti dalle mura della città sepolta. In un lato, c'erano pile di sacchi di tela grezza, ciascuno recante un'etichetta su cui erano vergati i minuti caratteri della scrittura nicieana. Su altri tavolini erano sistemati oggetti e reperti di ogni forma e dimensione, ancora incrostati di terra. La loro vista mi lasciò affascinato, ma non riuscii a identificare alcuno di quei manufatti. Al centro della tenda, c'era un grande modello in scala delle rovine. Il plastico era sistemato su un tavolo eretto evidentemente solo a quello scopo, ed occupava quasi un terzo dello spazio disponibile. «Ti interessa, ciò che vedi?» Alzai lo sguardo, meravigliato, e vidi gli occhi dell'Alto Signore Tharrin che si fissarono nei miei. «Mio Signore, non ho mai visto nulla di simile», risposi, dimenticando per un attimo la soggezione che mi ispirava la figura del nicieano. «Quel plastico è eseguito in modo meraviglioso: sembra quasi di vedere piccole figure che si aggirano tra gli edifici!» Il nicieano sembrò compiaciuto dell'osservazione. La sua bocca simile a un taglio si curvò in un mezzo sorriso. «È accurato sotto tutti i punti di vista», disse, dirigendosi verso il tavolo. «Guarda. Le sezioni colorate in bianco indicano lo stato delle rovine nel momento in cui le abbiamo portate alla luce. E poi» dicendo così strinse una sezione del modello e la sollevò in alto «qui sotto è rappresentato ciò che abbiamo scoperto scavando ancora più a fondo». Mi chinai sul tavolo e vidi che, sotto la sezione che il nicieano aveva rimosso, c'era un altro livello del plastico. Si vedevano i resti di una stanza, e quanto rimaneva di un corridoio. Quest'area più profonda della prima era dipinta in arancione. «E ora», fece Tharrin, «c'è un altro pezzo da aggiungere a questo gioco a incastro. Il bianco è ciò che vediamo, l'arancione ciò che abbiamo scoperto, e il nero ciò che non sappiamo, e siamo costretti a immaginarci». Dicendo questo, prese da sotto il tavolo un pezzo di legno nero sagomato in modo particolare, e lo appoggiò alla sezione bianca, che aveva rimesso al suo posto. Il pezzo si incastrò perfettamente. Cercai di immaginare il tutto
in un colore solo. Unendo mentalmente l'arancione al bianco, e aggiungendo il tutto al nero, si formò l'immagine di un piccolo edificio. «Mi accorgo che hai capito», fece Tharrin. «Naturalmente, la porzione che abbiamo ricostruito in nero è soltanto frutto di congetture». Tolse il pezzo nero e lo mise da parte. «È difficile capire com'erano questi edifici in base all'esame di quanto ne è rimasto. Ma abbiamo almeno la soddisfazione di provarci». Di nuovo mi guardò, e i suoi occhi si fissarono nei miei. «Questo modello», disse, «sarà posto sotto la tua responsabilità. Ti chiami Aldair, non è vero? Puoi mantenere il tuo nome. È soddisfacente. Studierai il plastico fino a quando lo conoscerai bene quanto lo conosco io. Mi accompagnerai fra le rovine e prenderai appunti. Non impiegherai molto tempo per apprendere a parlare e a scrivere la lingua dei Nicieani. Non è una serie di zampe di gallina, quali appaiono ai barbari: scoprirai che è una lingua semplice e armoniosa». L'Alto Signore Tharrin si allacciò le mani dietro la schiena e si volse verso le rovine. «Questo lavoro ti sarà di soddisfazione per il resto della tua vita, credo, e sarà degno delle tue capacità. Ho sempre considerato un delitto sprecare l'intelligenza di un uomo, che sia libero o schiavo». Si volse verso di me, e ancora una volta mi puntò gli occhi addosso. «Dunque, Aldair», fece, «è ora che tu ti metta al lavoro, non ti sembra?» TREDICI Mi immersi subito nel lavoro, e ne rimasi affascinato. Tharrin lavorava per ore e ore, spesso fino a notte fonda, quando un problema particolarmente difficile impegnava la sua mente. Ma lo schiavo non era da meno del padrone. Se talvolta gli occhi mi si appesantivano, e sentivo il cervello avvolto da ragnatele, facevo del mio meglio per nascondere la stanchezza. Il nicieano riteneva che il sonno fosse un'abitudine deplorevole, che comportava la perdita di ore preziose. C'erano tante cose da fare, diceva sempre, e tanto poco tempo per farle. «Dormiremo tutti a sazietà nel Mondo di Poi», aggiungeva certe volte, «anche se ti assicuro che io non intendo sperperare la vita eterna in un modo così idiota. E nessuno di quelli che lavorano con me dovrà aspettarselo». Quest'ultima affermazione in un certo senso mi divertì, anche se non permisi ad alcun sorriso di affiorare alle mie labbra. L'Alto Signore Thar-
rin, nobile di sangue, dava per scontato che tutti i membri della sua Casa, dipendenti, collaboratori e schiavi, lo avrebbero accompagnato nell'aldilà. Non lo sfiorava pure il pensiero che, forse, le cose sarebbero potute andare diversamente. In un lampo, passarono due mesi. Le giornate si erano fatte più brevi, e dopo il tramonto aveva cominciato a soffiare dal mare un venticello gelido. Tharrin risentì molto del cambiamento di clima, e così gli altri Niceiani. Questa razza non tollera le basse temperature, e appresi che presto la spedizione avrebbe fatto ritorno in patria, per riprendere il lavoro la primavera successiva. Sul posto, a vigilare le rovine, sarebbe rimasta una guarnigione militare, e a quanto si diceva molti dei suoi membri ogni anno morivano in seguito al clima troppo rigido, prima del ritorno delle navi. La disciplina nel campo era perfetta, perché i membri della guarnigione sarebbero stati scelti dagli ufficiali fra i soldati meno solerti e più riottosi. Quanto a me, scoprii che il mio più grande nemico era l'impazienza. Ero assorto nell'enigma rappresentato dalle rovine, e spesso attraversavo crisi di nervosismo per l'esasperante lentezza con cui procedevano i lavori. Rimasi sbigottito quando appresi che Tharrin si dedicava a questo compito già da sette anni, e che preventivava almeno altre dieci stagioni di lavoro prima di poter acquisire qualche conoscenza definitiva sulla misteriosa città. Il fatto che lui stesso fosse ormai in età avanzata non preoccupava il nicieano. In qualche modo, era certo che avrebbe completato il suo progetto di scavo. Questo era il suo desiderio: e chi mai poteva mettersi contro la sua volontà? Vedevo molto di rado Rheif, ormai. Le poche ore che, di tanto in tanto, passavamo insieme erano per me le meno piacevoli, perché lo stygiano era caduto in preda della più profonda fra le depressioni. Una creatura come lui si incontrava di rado fuori delle sue foreste native, e nel campo nicieano rappresentava una vera curiosità. Ironicamente, il giovane Principe Dhar'jeem era rimasto totalmente incantato da Rheif. Il bimbo gridava di gioia ogni volta che il suo «salvatore» era presente, e piangeva di preoccupazione quando non lo sapeva vicino. Di conseguenza lo stygiano venne nominato, con suo grande orrore, accompagnatore permanente del Principe. Mi preoccupavo di celare con ogni cura il mio pazzo divertimento ogni volta che vedevo Rheif uscire dal padiglione reale con in groppa il piccolo nicieano che gridava di gioia. Le piccole mani di Dhar'jeem afferravano i lunghi peli che crescevano attorno alle mascelle irte di denti dello stygia-
no, e la sua corta coda verde frustava l'aria mentre Rheif galoppava cupamente all'intorno finché il piccolo non si stancava del gioco. Per di più, lo stygiano aveva deciso che la fonte ed origine di tutte le sue sventure ero io. «Ecco dove ci ha portato la tua smania di vagabondare», mi accusò apertamente una volta facendo gli occhi feroci. «Se avessimo abbandonato la barca quando io te lo suggerii, a quest'ora saremmo già a casa». Poi sospirò e annusò l'aria. «Sono certo che ormai la prima neve ha coperto le foreste dei Lauvectii. Alla mattina gli alberi sono gelati, e le sponde dei torrenti sono orlate di ghiaccio. Come vorrei rivedere di nuovo queste cose». «Rheif», cercai di rassicurarlo, «non rimarremo in eterno schiavi dei Nicieani». Alzò un sopracciglio e fece mostra della più grande sorpresa. «Cosa? Non riesco a credere di aver sentito bene, Aldair. Di certo non vorrai tornare fra i Venicii? Lo sanno tutti che tu sei perfettamente felice di essere lo schiavo personale di Tharrin, di mangiare la sua zuppa di scarafaggi, di annusargli i calcagni e riempire di pietre i suoi sacchi!» Sentii il sangue montarmi alla testa. «Ascolta, stygiano», gli feci, «io sono uno schiavo come te, e faccio quello che i Nicieani mi dicono di fare. E lo faccio perché voglio restare vivo, finché è possibile. Inoltre, succede che io abbia interesse a sapere com'era il mondo prima di diventare lo schifo che è, e finché rimango schiavo non c'è nulla di male se riempio le mie giornate con un'occupazione che trovo utile. Non ho certo scelto la schiavitù come una professione. E non appena se ne presenterà la minima occasione, stai pur certo che mi libererò di questo maledetto collare di ferro il più rapidamente possibile!» Vidi che Rheif era rimasto colpito dal mio sfogo. Si grattò la testa con aria meditabonda, ma non osò guardarmi negli occhi. «E poi», aggiunsi con una punta di cattiveria, «io sono impegnato in un lavoro importante, e non faccio la balia asciutta per gli infanti nicieani...» Forse quest'ultima osservazione non era necessaria. Ma non lo era neanche l'osservazione sul mio comportamento che fece Rheif in risposta. Per più di una settimana, queste furono le uniche parole che ci scambiammo. Dall'incarico di Rheif nei confronti di Dhar'jeem era comunque venuta una cosa favorevole. Persino lo stygiano era stato costretto ad ammetterlo. Le leggi nicieane sono ineluttabili e le sentenze, una volta pronunciate, debbono essere eseguite ad ogni costo. E questo valeva anche per Rheif,
condannato a perdere un arto perché, pur non essendone autorizzato, avevo osato toccare la sacra persona del Principe. La cosa, al punto in cui si era arrivati, sembrava ridicola: ma la legge è legge. La sentenza riguardante Rheif non poteva essere annullata né riveduta, neppure dallo stesso Tharrin. Tuttavia, scoprimmo che anche il rigido codice penale nicieano tollerava alcune flessibilità, come capita in tutti i paesi, quando lo desiderano coloro che fanno le leggi. Rheif doveva perdere un arto: ma non c'era alcun codicillo, della legge che statuisse in quale punto l'arto in questione dovesse essere separato dal resto del corpo. Rheif, che attendeva con terrore l'evento, era certo che il punto prescelto sarebbe stato all'altezza del gomito o della spalla. L'Alto Signore Tharrin, tuttavia, vedendo che il nipotino aveva preso in grande simpatia lo stygiano, decise che non valeva la pena di rischiare una serie di bizze infantili all'interno del padiglione reale. Per cui, dopo aver fissato il giorno in cui la sentenza doveva essere eseguita, stabilì che il punto di separazione dell'arto dello stygiano dal resto del corpo dovesse essere misurato all'altezza dell'ultima falange del dito mignolo della mano sinistra. Dopo di che la macchina della giustizia si mosse celermente, e la sentenza venne eseguita con il massimo dello scrupolo e della cura. La ferita, di rara perfezione chirurgica, venne fascinata ogni giorno dal medico personale di Tharrin. Rheif dichiarò, dal canto suo, che non sentiva in maniera particolare la mancanza dell'ultimo centimetro del suo dito mignolo, dato che fino ad allora non lo aveva trovato di grande utilità. Si vantò con me di aver tratto, tutto sommato, il vantaggio maggiore dallo scambio, aggiungendo che era frequente per gli Stygiani avere la meglio su altre razze per quanto riguardava le trattative commerciali. La catena d'oro ornata di gemme sfavillanti che portava al collo poteva non valere un intero braccio: ma di certo valeva molto di più di un inutilissimo pezzettino di carne tolto alla sua mano sinistra... «Aldair», annunciò un giorno Tharrin; «partiremo da qui entro la prossima settimana, o al più tardi la settimana seguente. Darai ordine a mio nome che gli scavi in corso vengano portati a termine il più presto possibile, e che tutte le aree in cui si svolgono i lavori vengano sigillate con la massima cura per proteggerle dagli agenti atmosferici». Mentre l'Alto Signore pronunciava queste parole, si avvolgeva intorno alle spalle un pesante mantello, e chinava la testa per evitare un soffio di
vento gelido. Nella tenda che fungeva da quartier generale veniva tenuto acceso notte e giorno un gran fuoco. Io non ne sentivo la necessità, ma i Nicieani sono creature a sangue freddo, e risentivano in modo estremamente negativo di temperature che Rheif ed io trovavamo invece stuzzicanti. Mi rendevo conto, inoltre, che il clima e le lunghe ore di lavoro avevano chiesto un prezzo non indifferente al fisico di Tharrin. Anche se la sua salute era buona, tuttavia l'età da tempo non era più giovane. Si stancava facilmente, e spesso diventava irritabile e impaziente. Per di più, era un uomo orgoglioso e incredibilmente ostinato, specie nei riguardi di se stesso: per cui non avrebbe ammesso mai, in alcun modo, di avere dei limiti. Malgrado ciò, pur lamentandosi del fatto che le giornate più corte e la minor luce rallentavano il lavoro, mi resi conto che in segreto accoglieva con sollievo l'idea della prossima partenza sulle acque calde del Mar Meridionale. «Ci daremo da fare», aggiunse, «in modo da non sprecare neppure un'ora nei prossimi giorni. C'è moltissimo lavoro da compiere, sia dentro che fuori». Stavamo serrando la tenda alla fine di una giornata faticosa, e il nicieano passava pigramente le mani sulle carte e i disegni che coprivano il suo tavolo. Poi, all'improvviso, come se fosse stato colto da un impulso che lui stesso non si aspettava, allungò la mano verso la sua caraffa di vino e ne versò due coppe: una per sé e l'altra per me. Fui profondamente toccato da questo gesto, perché non è certo cosa comune per un padrone versar da bere al proprio schiavo. Alzò il liquido ambrato e lo guardò alla fiamma della lampada, poi volse gli occhi su di me. «Ti sei comportato molto bene, Aldair. Hai fatto più di quanto mi aspettassi». «Ti sono grato di pensarlo, mio Signore». Il nicieano rise sottovoce. «Non devi essermi grato. Non hai fatto il lavoro per compiacere me, anche se io ne sono soddisfatto lo stesso. Hai lavorato con passione perché sei contento di ciò che fai, come lo sono io». Fece una pausa. «Non è vero?» «Mio Signore, ammetto senza difficoltà di essere molto curioso». «Delle cose che riguardano l'antichità e la storia?» «Sì, mio Signore». «E anche delle cose di natura religiosa, forse?» «In... in una certa misura, Signore». Tharrin sorrise. «E questa grande
curiosità ti ha portato alla condizione di schiavo, non è vero?» L'osservazione mi stupì, e il nicieano si accorse del mio imbarazzo. «Aldair, sai bene che io conosco la tua storia, così come l'hai raccontata a Linius. Ed anche se il mio meritevole luogotenente è un po' troppo pignolo e non sa giudicare l'esatto valore delle cose, tuttavia sa bene come condurre un interrogatorio. Tu sei stato scelto per questo lavoro al mio fianco perché, in base all'interrogatorio di Linius, ho visto che non soltanto sai dare le giuste risposte, ma ti poni anche le domande corrette. Non sono in molti ad avere questa capacità. In particolare fra i membri del tuo popolo, credo. I Rhemiani non incoraggiano le novità nel campo del pensiero, a meno che esse non servano ad allargare i confini del loro Impero». Si interruppe un attimo e scosse la testa. «Ma questo non ha niente a che fare con te, né con le circostanze che ti hanno portato qui. Scherzavo soltanto a metà, Aldair, quando dicevo che la sete di conoscenza ha finito per metterti al collo un anello di ferro. È una battuta di cattivo gusto, lo ammetto, ma in essa c'è della verità: perché né la storia né la religione trattano l'uomo con benevolenza. Il male e la menzogna hanno sempre aleggiato attorno a questi alti pinnacoli del sapere, e tu non sei il primo ad esserne caduto vittima». Si interruppe ancora per bere un sorso di vino. «Dimmi: credi ancora nella tua Chiesa, dopo il male che ti è venuto attraverso di essa?» «Mio Signore», risposi con franchezza, «io credo che il mondo sia nato grazie all'opera di un Creatore. Ma non sono più certo che la Chiesa serva sempre la volontà del Creatore, o parli in suo nome.» Tharrin annuì. «Ben detto. C'è ancora speranza per te, come avevo immaginato. E la storia, Aldair? Ti incuriosisce sempre? È un soggetto caro ad entrambi, ma che è ormai così strettamente intrecciato con le necessità del presente, da rendere quasi impossibile scoprire le verità del passato». «L'obbiettivo giustifica gli sforzi, a mio modo di vedere», cominciai a dire. Poi mi accorsi che la foga della conversazione mi attirava su terreni insicuri, e mi fermai. «Mio Signore», dissi, «non possiedo ancora conoscenze sufficienti per affermare una cosa piuttosto che un'altra». Tharrin fece un gesto con la mano. «Non vergognarti mai delle tue opinioni». «Anche se non ho prove per sostenerle, mio Signore?» Tharrin rise e versò dell'altro vino. «Una circostanza del genere non è mai stata di ostacolo né agli ecclesiastici né agli studiosi, Aldair. Perché dovrebbe trattenere un uomo che cerca sinceramente la verità?»
Ci pensai su un momento. La verità, a quanto pareva, non era tenuta in gran conto dalla maggioranza delle persone. Spesso, era un ostacolo pericoloso sulla strada del potere, della ricchezza e di altre cose care al cuore degli uomini. «Forse, Signore», dissi, «perché la verità non può essere trovata in questo mondo...» «E dove vorresti trovarla? Su un altro?» «Forse, Signore, è l'ultimo dono concesso ai morti». Tharrin mi fissò «La tua Chiesa ti insegna questo, Aldair?» «No, per quanto io sappia, Signore. Almeno, non l'ho sentito dire da alcun ecclesiastico. Ma mi sembra una cosa ragionevole, non è vero? Mi sembra che nella Vita di Poi debba esserci la verità. Altrimenti, a che servirebbe morire e condurre la nostra anima ad Albion, per trovare che anche lì ci sono nuove cose ignote da ricercare?» Tharrin rimase silenzioso, con l'ombra di un sorriso che gli piegava la bocca. Rigirava una pietra fra le dita, e la fissava come se stesse meditando. Poi sbatté le palpebre e alzò gli occhi verso gli ultimi raggi del tramonto. «L'isola di Albion, certo», disse infine, sempre guardando il sole morente. «Tu credi, come tutta la tua gente, che le sue spiagge accolgano le anime dei morti?» Annuii, ricordando con un brivido quelle coste grigie e gelide. «Penso di sì, Signore». Tharrin alzò gli occhi. «Anche in Niciea conosciamo l'isola di Albion. Ti stupisce? È un luogo sacro anche per noi, ma in un modo alquanto differente». Scosse la testa, con un gesto che non gli avevo mai visto fare, e che sembrava esprimere qualcosa a mezzo tra divertimento e rassegnazione. «Temo che la tua isola così settentrionale sia un po' troppo fredda perché noi Nicieani possiamo considerarla un paradiso, Aldair. Secondo i nostri insegnamenti religiosi, chi muore nella benedizione di Al Wajir è liberato dal peso delle sofferenze legate alla carne e viene trasportato nel Mondo di Poi in un luogo caldo e assolato... Un luogo molto simile a Niciea, sospetto, ma senza tasse né balzelli. I peccatori, invece, sono dannati alla sofferenza perpetua nel gelo di Albion». Rimasi stupefatto alla rivelazione, e Therrin sorrise, stringendosi addosso il mantello. «Il paradiso per un uomo è l'inferno per un altro, non è vero?» fece. «E a questo punto, che cosa mi dici del tuo concetto di verità, Aldair? C'è forse una verità per la tua razza e una diversa per la mia? E una terza, diversa
ancora dalle altre due, per il tuo amico stygiano?» Si chinò in avanti, scostando la coppa del vino. «No. In questo mondo, forse, di verità ce n'è poca, come dici tu, ma non credo che si debba per forza morire per trovarne una fetta consistente. Là fuori», e indicò con un gesto le rovine, «c'è la verità più concreta e inconfutabile che potrai mai reperire in questa vita». L'affermazione mi diede da pensare, e Tharrin si accorse della mia espressione meditabonda. «La Terra nasconde i suoi segreti, Aldair, e gli anni li coprono con un mantello che è difficile da sollevare, come hai visto. Ma quando riesci a metterlo da parte, ciò che trovi è certo e reale. Le ere passate si mostrano nude e senza vergogna agli occhi di chi sappia come guardarle. E sulla loro verità nessuno storico è ancora intervenuto per correggere il passato e abbellire il tessuto del presente. Né si sono affollati i preti per tingere gli anni dei loro colori, in modo che le loro divinità ne traggano vantaggio». Mentre ascoltavo Tharrin, i miei occhi erano fissi sulle rovine della grande città. Era come se la vedessi ora per la prima volta, con i raggi del tramonto che mandavano dal cielo ombre sanguigne a ricoprirla. «Leggo nei tuoi pensieri», disse il nicieano. «Non è impresa difficile, perché rispecchiano i miei. Ti chiedi com'era ai tempi del suo splendore, e quali creature ne calpestavano le vie...» «E quali pensieri passavano nella loro mente», aggiunsi. «Sì, mio Signore: più giro intorno a questi enigmi, più la mia testa si gonfia di meraviglia. Anche se ho già visto ciò che il tempo può fare alla pietra, non è facile superare con l'immaginazione un abisso di così tanti anni». Fissai il nicieano. «Quanti, mio Signore? È possibile dirlo? Quando è stata eretta quella città? All'inizio della vita, forse? Subito dopo la Tenebra?» La testa di Tharrin si alzò di scatto. «Come? Che vuoi dire?» Il colore di un momento prima era scomparso, e la sua voce era gelida di disprezzo. «Che puoi saperne tu della Tenebra», fece, guardandomi fisso, «e dell'inizio della vita?» «Mio Signore...» Che cosa poteva aver provocato quell'improvviso accesso di collera? «Io... io pensavo... Siccome quelle rovine sono così antiche, almeno a quanto mi sembra, io credevo che risalissero indietro di tremila anni nel tempo... Voglio dire, di tutto il corso della storia, fino a quando l'uomo emerse dalla Tenebra...» Tharrin scoppiò in una risata roca. «Qualsiasi cosa dicano gli idioti che allignano nella tua Chiesa, come in qualsiasi altra», fece, «essi non sanno nulla di come sono trascorse le ere
sulla Terra. Vedi: delle creature viventi hanno camminato su quelle strade almeno cinquemila anni prima di quella Tenebra di cui tu vai cianciando. Questo, Aldair, io lo so per certo!» QUATTORDICI Anche il volto privo di lineamenti di un nicieano tradisce le emozioni a un altro membro della stessa razza, o a chi abbia imparato a comprendere queste creature. Mi accorsi subito che l'Alto Signore Tharrin aveva detto più di quanto volesse dire, perché il colore aveva quasi del tutto abbandonato la sua faccia, lasciandola di un pallore livido. Rigido come una pietra, il nicieano rimase a fissarmi per qualche istante, poi allungò un braccio e mi afferrò in una morsa violenta. «Non dirai ad alcuno una sola parola della nostra conversazione, Aldair», mi fece cupamente. «Non una sola parola, capisci! Pena la tua vita!» «Mio Signore...» Il nicieano recuperò di colpo il suo equilibrio. La luce selvaggia nei suoi occhi neri si spense, e fissò le dita che ancora artigliavano il bavero del mio mantello. Si allontanò da me di scatto, come se la mia carne si fosse trasformata in ferro incandescente, e corse fuori della tenda senza una parola, lasciandomi nella semi-oscurità della sera, che si faceva sempre più tenebrosa. Ovviamente, quella notte non trovai riposo. Il volto dell'Aghiir Tharrin era sempre davanti a me. Potendo, avrei volentieri cancellato quell'incidente dai miei ricordi. Tentai di esorcizzarlo, convincendomi che tutto era dovuto al sovraffaticamento del nicieano, logorato dalle lunghe ore di lavoro. Mi dissi, poi, che i suoi anni di studio dedicati alle ricerche sul passato avevano influito in modo negativo sulla sua ragione. Che cos'altro avrei potuto pensare? Che in un momento di spossatezza, un padrone aveva rivelato al suo schiavo che il mondo era edificato su fondamenta menzognere? E quale poteva essere il motivo di una tale rivelazione? Alla fine, verso l'alba, decisi di non pensare più all'accaduto. Cosa, però, più facile a dirsi che a farsi. Non è troppo difficile ignorare ciò che un uomo dice con le parole. Più difficile è però, talvolta, metter da parte ciò che dice con gli occhi.
Il mattino dopo, l'arciere che quotidianamente mi accompagnava sul luogo degli scavi non comparve. La sua presenza non era ormai altro che una formalità, dato che abitualmente andavo su e giù per il campo eseguendo gli ordini di Tharrin. Tuttavia, giudicai inopportuno muovermi senza attenderlo. Aspettai per mezz'ora senza che venisse nessuno. Allora mi decisi a muovermi da solo e mi diressi verso il padiglione reale per prendere ordini. Le guardie, ovviamente, non mi fecero passare, ma ormai mi conoscevano e una di esse entrò dentro per chiedere informazioni. Poco dopo il luogotenente rhemiano di Tharrin, Linius, fece capolino dalla tenda e mi disse bruscamente che il suo padrone non stava bene in salute, e che io avrei dovuto portare avanti il lavoro in vece sua e agendo per suo nome, facendo tutto ciò che era necessario fare per chiudere le operazioni nel modo dovuto. Linius aggiunse che tutta la spedizione da quel momento era in attesa dei comodi dello schiavo venuto dal nord, per cui era sperabile che avrei portato a termine il mio incarico con la massima celerità possibile, non essendoci alcun motivo per rimanere un giorno di più in quel territorio desolato. Gli assicurai che avrei fatto del mio meglio. Parlando, sorridevo a me stesso, al pensiero che Linius era da tanto tempo al servizio di Tharrin che ormai si considerava anche lui un nicieano. I Nicieani erano freddi, e anche Linius era freddo. Il massimo desiderio di quella povera creatura era un bel rivestimento di scaglie verdi sulla pancia: dopo di che sarebbe stato compiutamente felice. Le scaglie, e una lunga coda diritta invece di una coda corta e arricciata. Non mi sorprese la notizia che Tharrin si era messo a letto. Aveva preteso troppo da se stesso, e malgrado la sua convinzione di essere immune alle debolezze che affliggono i comuni mortali, non era meno vulnerabile di chiunque altro. Mi chiedevo, tuttavia, quanto l'incidente dell'altra notte avesse contribuito al suo collasso. In misura notevole, decisi. Quando un uomo è sotto stress, non sempre le sue facoltà mentali funzionano come dovrebbero. Il ragionamento mi sembrava logico, e per il momento tranquillizzò in parte le mie apprensioni, fornendo una spiegazione logica all'accaduto. Scoprii dubito che le mie preoccupazioni dovevano avere un diverso obiettivo. Anche se ormai conoscevo praticamente tutte le operazioni che
venivano portate avanti fra le rovine, le colossali dimensioni della responsabilità che mi era stata affidata non mi apparvero chiare fin quando non entrai sotto la tenda-cantiere. Avevo visto già centinaia di volte tutto quello che conteneva, ma ora ogni cosa mi sembrava totalmente estranea. Fissai le centinaia di mappe e disegni, le pietre e i manufatti etichettati con cura, il complicato plastico sul tavolo, che la sera prima avrei potuto smontare e rimontare ad occhi chiusi. Tutto mi appariva ignoto, e complicato oltre ogni definizione! Per gli occhi del Creatore! - mi dissi. - Non riuscirò mai a mettere ordine in questo intrico! Prima maledissi Tharrin, poi mi affrettai a pregare il cielo per una sua pronta e completa guarigione. Il lavoro procedeva a passo di lumaca. Mi soffermavo a controllare e ricontrollare ogni cosa, e poi controllavo di nuovo. Ero in quattro posti contemporaneamente, e mai dove c'era bisogno di me. Alla fine del mio secondo giorno come Maestro delle Rovine (così mi aveva battezzato Rheif), ero già sicuro di aver commesso almeno dodici errori gravissimi, ciascuno dei quali era suscettibile di farmi perdere la testa. Gli ufficiali nicieani, dal canto loro, avevano avvertito il mio terrore e la mia insicurezza, e persino gli schiavi addetti agli scavi ghignavano alle mie spalle. Tutto ciò mi faceva inferocire, ma non potevo dar loro torto. Fra l'altro, al ritmo con il quale procedevano i lavori sotto la mia supervisione, non saremmo potuti partire se non ad inverno inoltrato. Perciò, ad un certo punto mi fermai, raccolsi le idee ed esaminai il problema con la massima freddezza possibile. La risposta era relativamente semplice. Io esitavo perché, ogni volta, mi ponevo la medesima domanda: Che cosa farebbe Tharrin in questo caso? Come farebbe imballare questo reperto, come catalogherebbe quest'altro? Approverebbe o no il modo in cui ho protetto il quadrante meridionale contro le intemperie? Naturalmente, poiché non c'era Tharrin in giro che potesse rispondermi, mi trovavo da solo, io Aldair, di fronte a tutte le mie esitazioni, i miei problemi, le mie domande senza risposta. E dovevo risolverli, che mi piacesse o no. Perciò, con un gigantesco sforzo di volontà, cominciai a pensare con la mia testa, e a decidere senza chiedermi che cosa Tharrin avrebbe voluto che facessi. E il lavoro cominciò ad andare avanti più rapidamente.... Il quarto giorno venni chiamato nel punto più profondo dello scavo, per
esaminare l'incastellatura protettiva eretta a difesa di un arco che appariva particolarmente delicato. In quel punto i lavori di recupero erano appena all'inizio, e non ci misi molto tempo per studiare gli scavi esplorativi. La procedura seguita era ormai ben collaudata. Veniva dapprima praticato un foro di piccolo diametro nel terreno; se veniva alla luce qualcosa di promettente, il foro veniva gradualmente allargato. In quel punto era stato scoperto un muro ben conservato: una parete larga circa tre metri di solido materiale grigio, di origine chiaramente non naturale, ma che pareva formata grazie a un procedimento di fusione a blocchi. Non appena vidi il muro, il suo aspetto mi parve stranamente familiare, anche se non lo avevo mai visto prima. Passò qualche tempo prima che mi rendessi conto che non era il muro in sé a suscitare i miei ricordi ma le striature che lo ornavano. Avevo già visto un segno del genere in precedenza: una serie di strette fasce orizzontali di diversi colori. C'erano fasce molto simili nella caverna sulla spiaggia nella quale io e Rheif avevamo trovato rifugio durante la tempesta. Per tutta una lunga miserabile notte, le avevo esaminate alla luce intermittente dei lampi, cercando di dimenticare i gelidi e umidi spruzzi di pioggia che mi stavano inzuppando fino all'osso. Non so dire perché questa seconda apparizione di uno schema a fasce orizzontali colpì tanto il mio interesse. Forse fu grazie ad una delle osservazioni di Tharrin, secondo cui chiunque, con una pala e un piccone, può tirar fuori oggetti da sotto terra: ma soltanto chi esamina con intelligenza è in grado di legare ciò che vede in un certo momento a ciò che aveva visto prima, traendone delle conclusioni. È questo - mi aveva spiegato il nicieano - il modo in cui viene messo assieme il gioco a incastro del passato. Così, non appena ebbi qualche momento libero, presi un rotolo di pergamena e annotai meticolosamente la larghezza, la successione e i colori delle bande orizzontali comparse sul muro appena portato alla luce; più tardi, feci lo stesso con le bande che si vedevano nella caverna. E nei pomeriggi, quando per qualche istante lasciavo da parte il noioso lavoro di catalogatura dei reperti, tiravo fuori i due rotoli di pergamena e li studiavo alla luce della lampada, cercando di trarre un significato da ciò che avevo visto, e tracciavo appunti e osservazioni su foglietti di carta. Sono sicuro che, per tutto il tempo, sul fondo della mia mente si agitava un'idea che non osavo far salire alla coscienza. E quando finalmente compresi appieno ciò che avevo fra le mani, un brivido gelato corse lungo la
mia spina dorsale, e mi sentii come se un peso immenso mi avesse inchiodato alla sedia. Per poco non cedetti all'impulso di gettare tutto nel fuoco, lì e allora. Ma mi accorsi che non ci sarei riuscito, come non sarei riuscito a impormi di non respirare. Avevo trovato qualcosa. Da solo. Avevo tratto qualcosa dal nulla. O il nulla da qualcosa, aggiunsi cupamente. Nella fredda luce del giorno, già non potevo credere che i miei appunti avessero un significato. O, quanto meno, un significato fuori dell'ordinario. Era meglio però, se volevo mantenere la testa attaccata alle spalle, che portassi avanti i compiti che mi erano stati affidati. Quindi misi da parte i miei appunti e mi ripromisi di bruciarli tutti, fino all'ultimo foglietto, prima di salpare alla volta di Niciea. Otto giorni dopo aver ricevuto l'incarico, feci avvertire l'Aghiir Tharrin che gli scavi erano stati messi al sicuro per l'inverno, e che tutti i reperti erano stati imballati e catalogati. Inoltre, che la sistemazione nelle stive delle navi degli oggetti che avremmo portato con noi era stata condotta a termine, e i carichi erano stati controllati. L'Aghiir mi fece sapere che il semplice annuncio del completamento dei lavori non era sufficiente. Un resoconto completo e particolareggiato del lavoro svolto dallo schiavo Aldair doveva essergli consegnato prima dell'alba del giorno seguente. Evidentemente, pensai, l'Alto Signore Tharrin è sulla via della completa guarigione. Costrinsi i miei occhi a rimanere aperti per un'altra notte, portando a termine l'ultimo compito... anche se non so quali sciocchezze potevo aver buttato giù sulla pergamena nelle ultime ore prima dell'alba. In anticipo sui raggi dell'aurora, esaminai ciò che restava nella tendacantiere e la disposizione dei pochi oggetti rimasti. E, mentre ero solo, bruciai le carte che contenevano ciò che avevo battezzato le Divagazioni Mentali di Aldair. Quando anche questa operazione fu terminata, emisi un profondo sospiro di sollievo. Pochi istanti più tardi, apparve il luogotenente Linius, che non cercò neppure di dissimulare il suo disappunto alla constatazione che avevo portato a termine in tempo utile anche l'ultimo incarico. Gli consegnai il fascio di fogli che contenevano il mio rapporto e lo vidi dirigersi verso il padiglione reale. Poi mi misi a sedere sotto una roccia presso la cima del dirupo. Sentivo che la mia schiena era accarezzata dai raggi del sole nascente, e pochi istanti più tardi ero immerso in un sonno profondo...
Andavo alla deriva... ero solo su una piccola barca... una nebbia gelida mi avviluppava in densi tentacoli grigi... la nebbia si diradava all'improvviso, ma non c'era il sole a darmi il benvenuto... il cielo era nero, e scure nubi di tempesta formavano una minacciosa cortina verde all'orizzonte... il rombo del tuono percorreva il mare come l'eco di immensi tamburi lontani... un'onda orlata di spuma sollevò in alto la barca, e davanti a me si stagliò il malinconico profilo di Albion... Conoscevo la paura, ma la sensazione che provavo ora aveva un nome indefinibile... qualcosa di orrendo e terribile era presso di me, ma si teneva costantemente nascosto al mio sguardo... le anime, forse?... le ombre dei morti...? Camminavo sulle spiagge di Albion... ma i miei piedi non avvertivano la sabbia, le mie orecchie non percepivano alcun suono... i miei occhi sembravano velati da lenti del peggior vetro, e lo scuro mondo all'intorno sembrava ondeggiare davanti a me... Un'immensa città sorse, e disparve... e per quanto non avessi potuto vederla chiaramente, né sapere quale potesse essere il suo aspetto di fronte alla luce del mondo, tuttavia ero certo che essa era stata riscaldata dai raggi del sole molto prima che le rovine ritrovate sulle spiagge dei Tarconii avessero cominciato ad andare in polvere... Il gelo orrendo mi mordeva le ossa, e sentivo sulla mia carne il soffio degli anni che passavano... corsi, ma sulle spiagge di Albion i miei piedi erano di ghiaccio... volti che non potevo distinguere si chinavano su di me e mi guardavano cose che non voglio ricordare... voci che mi chiamavano con un nome che non voglio udire... Quando mi svegliai il sole era già basso sull'orizzonte, e nell'aria si avvertiva il fresco del pomeriggio. Avevo dormito per tutto il giorno senza che alcuno mi disturbasse: anche se, forse, avrei preferito essere destato. Rabbrividii, mi alzai in piedi, mi avvolsi nel mantello, e cercai di scacciare dalla mia mente le ultime ombre di quell'incubo orrendo. Il sudore della paura era ancora sulla mia pelle, come un velo funebre. All'intorno c'erano ben poche cose che potessero testimoniare che i nicieani in quel luogo avevano posto un imponente accampamento. Le tende erano scomparse. Alcuni materiali dall'aspetto insolito erano ancora sparsi qua e là. Vidi che la guarnigione invernale si era già acquartierata all'altra estremità della valle, lontano dai commilitoni pronti per partire. Le due navi nicieane oscillavano pigramente nella baia: grossi bestioni
verdi che sembravano fatti a immagine dei loro costruttori, lucenti di scaglie dipinte da prua a poppa, assetati di mare. Proprio mentre guardavo, vele di smeraldo ornate di occhi d'oro fiorirono nel vento alla luce del sole morente. Mi voltai un'ultima volta verso le rovine dei Tarconii, prima di scendere giù dal dirupo. Lasciai che i miei occhi vagassero per qualche istante lungo i passaggi che mi erano ormai familiari, le mura diroccate, le colonne troncate a metà. Avevo studiato quella città fino a conoscerla come nessun altro. Ma, ora, non mi sembrava più la stessa. QUINDICI Dopo tre giorni di mare, la monotona costa dei Tarconii era ancora visibile alla nostra destra, ma i marinai mi informarono che non sarebbe passato ancora molto tempo prima del passaggio attraverso gli stretti che conducevano nel Mar Meridionale. Dopo di che, entro cinque giorni avremmo raggiunto il porto della città reale di Chaarduz. Era un nome, questo, che avevo sentito pronunciare molte volte nel campo nicieano. Una volta incontrammo una nave rhemiana diretta a nord. La sua vista mi allarmò, perché ricordavo gli immensi vascelli neri all'ancora nel bianco porticciolo che io e Rheif avevamo attraversato. Questa nave tuttavia incrociò a una rispettabile distanza; potemmo ugualmente vedere, però, che era piena di guerrieri, e che i suoi ponti erano irti di terribili macchine da guerra. Potei quasi figurarmi l'immenso ariete che sporgeva dalla prua mentre fracassava la fiancata del vascello nicieano, spaccando il fasciame come un coltello penetra in un melone. I marinai si divertirono molto alle mie paure. Non avevo bisogno di preoccuparmi - mi assicurarono - perché Niciea non nutriva altro che disprezzo per quelle immense vasche da bagno per elefanti. I Rhemiani, inoltre, temevano il mare, e non mandavano mai le loro navi lontano dalla costa. Erano come ragazzini che spingevano sul fiume barchette-giocattolo legate con lo spago. Inoltre, quei tozzi navigli erano quasi immanovrabili: le agili navi nicieane avrebbero potuto girare loro intorno più volte, prima che potessero modificare la velatura in modo da compiere una virata. Infine - mi dissero ancora - i Rhemiani non possedevano il segreto della piccola lancetta di metallo che punta sempre al nord, e permette ai naviganti di sapere sempre dove si trovano, anche se le nubi velano le stelle.
Io rimasi dubbioso alla notizia di questa lancetta magica che conosce da sola le direzioni, ma tenni per me le mie perplessità. Tuttavia, mi dissi, quello che mi avevano raccontato dei Rhemiani poteva ragionevolmente corrispondere al vero. Di certo, le agili navi nicieane sembravano nate per il mare, e passai molte ore ad osservare i marinai mentre svolgevano il loro lavoro. La loro abilità mi meravigliava moltissimo, perché mi accorsi che avevano trovato sistemi estremamente ingegnosi per manovrare le vele, in modo che fossero sempre pronte a raccogliere il minimo alito di vento. Studiai ciò che facevano, e posi molte domande. I Nicieani erano orgogliosi delle loro capacità, al punto da perdere tempo persino con uno schiavo, spiegandogli i numerosi e diversi motivi per cui i loro vascelli erano superiori a qualsiasi altro. Nel nostro quarto giorno di navigazione l'Alto Signore Tharrin mi chiamò alla sua presenza. Rimasi esterrefatto dall'aspetto del nicieano. Lo trovai curvo su un braciere di bronzo in un angolo della sua cabina: una figura rinsecchita, che quasi si perdeva nelle stoffe che l'avvolgevano. Anche il mantello di broccato che gli copriva le spalle sembrava un peso troppo grande per un fisico tanto esile. Di solito, la pelle scagliosa dei Nicieani è ben tesa sullo scheletro, mostrando solo qua e là qualche osso prominente. La pelle di Tharrin pendeva invece floscia, e mostrava pieghe ripetute attorno agli occhi e di traverso alla gola. «Mi stai fissando, Aldair», fece il nicieano in tono burbero. «Non è un atteggiamento educato». «Mio Signore...» «Ti risparmierò una bugia. Ho l'aspetto di chi è sull'orlo della tomba». «La malattia non è stata di poco conto...» Tharrin sorrise amaro. «Non sei di consolazione per gli infermi, Aldair. È un bene che tu non abbia scelto la professione di medico. Fra l'altro, la tua espressione in questo momento manderebbe nel Mondo di Poi anche una persona che scoppia di salute». Aprii la bocca per parlare. Con un gesto, l'Aghiir mi impose il silenzio. «Siediti, smettila di penzolare come un'anima in pena e di chiederti che cosa devi dire a consolazione del tuo padrone. Non puoi far nulla per consolarmi. Il caldo sole di Niciea mi scalderà le ossa e mi restituirà la salute: nient'altro può farlo. Io...»
Si fermò all'improvviso, fissandomi con uno sguardo strano, come se non fosse del tutto sicuro di chi io fossi. «C'è qualcosa che non va, mio Signore?» gli chiesi. Sostenne il mio sguardo per un altro momento, poi abbassò gli occhi e si scrutò il dorso delle mani. «Sto qui a lamentarmi della mia salute, Aldair, perché c'è un'altra cosa che devo dirti, e non so come fare a dirtela». Alzò di nuovo gli occhi. «Un padrone», proseguì, «non ha il diritto di esigere da uno schiavo la piena fedeltà. Tuttavia, è proprio ciò che sto per chiederti, Aldair. Rispondimi. E pensaci bene prima di rispondere. Puoi darmi ciò che ti chiedo? Non è una cosa che posso pretendere, né che posso forzarti a darmi. È impossibile mettere un collare di ferro intorno alla mente di un uomo. E anche se fosse possibile, dopo, l'uomo non ci sarebbe più utile». Gli risposi immediatamente, perché invero non avevo alcuna esitazione nel concedergli ciò che mi chiedeva. «Sì, mio Signore. Hai la mia fedeltà». «Pensaci bene. Mi hai risposto così non perché questo è ciò che io voglio sentirmi dire, ma perché davvero...» Scosse la testa, e si colpì con un pugno il palmo dell'altra mano. «No, vedo che sei sincero. Ti faccio torto, dubitando di te». Fissò la scrivania, poi portò gli occhi nuovamente su di me. «Certe volte, però, la fedeltà deve essere messa a prova. Ti dico che la tua lo verrà fino all'estremo limite. Accetti ancora?» «Sì, mio Signore». Annuì brevemente. «Dunque, ho scelto bene». Si volse verso la porta della cabina. «Linius!» La porta si aprì immediatamente. Un po' troppo, a quel che sembrava, secondo il giudizio dell'Aghiir Tharrin. «Sei molto rapido, luogotenente», fece in tono cupo. «Per servirti, mio Signore». Linius piegò la testa fino a terra. «Fai attenzione a come mi servi», avvertì Tharrin. Fece un gesto verso di me. «Hai certe istruzioni riguardanti lo schiavo Aldair», disse. «Mio Signore...» «Bada che queste istruzioni vengano eseguite come le hai ricevute, alla lettera. Mi capisci, Linius? Qualsiasi... indebita iniziativa... che tu possa escogitare per servire meglio i miei interessi, non verrà tollerata». Linius rimase in silenzio. Guardai prima l'uno, poi l'altro.
Di certo, avevo concesso volontariamente la mia fedeltà, e non avevo rimpianti. Ma tutta la vicenda aveva eccitato la mia curiosità. Non mi rendevo conto degli eventi, ma capivo che c'erano in gioco questioni di grande importanza. L'Aghiir Tharrin, di certo, non perdeva il suo tempo dietro semplici trivialità. Presto scoprii che avevo ragione. Scoprii anche che la fedeltà è una cosa che può concedersi inizialmente con fiducia, ma in seguito con rimpianto. Linius mi condusse direttamente dalla cabina del suo padrone al ponte principale della nave, dove il Capitano degli arcieri mi strappò di dosso la tunica e cominciò a frustarmi fino a quando non persi i sensi. La frusta lavorò - così mi venne detto - finché il sangue sgorgato dalle prime ferite non raggiunse le mie ginocchia: questo, a quanto sembra, è ciò che prescrive la legge nicieana in tali circostanze. Chi me lo disse, aggiunse che, in questo caso, essere di bassa statura è un vantaggio: e non potei dargli torto. Non ricordo la fine dell'operazione, comunque. Prima che il capitano finisse la sua opera avevo già perso i sensi, come ho detto, e quando mi risvegliai mi ritrovai disteso a pancia in giù nell'infermeria della nave, dove Mastro Pharrios, medico personale dell'Aghiir, stava ricoprendo le mie ferite con pezze di lino bianco imbevute di balsami emollienti. La mia schiena era un arcipelago di spasimi. Pharrios, tuttavia, mi assicurò che la fustigazione non era stata violenta: anzi, il Capitano degli arcieri era stato attento ad applicare la frusta solo lì dove avrebbe fatto meno danno. Per la prima volta da quando avevo lasciato la cabina di Tharrin, ebbi un istante per raccogliere le idee. Il mio primo sentimento fu la meraviglia, la sorpresa. Poi la rabbia spazzò via ogni altro sentimento dalla mia mente, e attenuò persino il dolore della carne. Non avevo mai provato un odio così grande. Avevo concesso la mia fedeltà all'Aghiir Tharrin, e lui mi aveva tradito, prima ancora che nelle sue orecchie si spegnesse l'eco delle sue parole! Giurai che avrei ucciso il nicieano. Anche a costo della vita. Prima o poi, ne avrei avuto la possibilità. Non subito, forse. Ma avrei saputo aspettare fino a cogliere l'occasione giusta... L'occasione si presentò molto prima di quanto immaginavo: meno di un'ora dopo, infatti, ero nuovamente alla presenza dell'Alto Signore Tharrin.
Lo fissai diritto negli occhi, e non dissi nulla. Il mio volto era, all'improvviso, rosso di vergogna. Che cosa avevo sperato di leggere negli occhi del nicieano? Dispiacere? Rimorso? No, quel mostro scaglioso aveva per me soltanto disprezzo! E mi aveva fatto condurre davanti a lui proprio per mostrarmi apertamente quel disprezzo. Uno schiavo non poteva osare di levar la mano sul suo padrone, non è vero? Lo si poteva battere fino alla morte, e da parte sua non ci sarebbe stato neppure un gesto di reazione. Bene, ecco uno schiavo che non avrebbe esitato, al momento giusto, a ricordarsi di essere stato un uomo libero! Tharrin distolse gli occhi da me, e si voltò verso Linius. «Lasciaci, luogotenente», fece. Linius mostrò sorpresa. «Mio Signore?» Gli occhi del nicieano divennero gelidi. «Dovrò ripetere per due volte un ordine a uno schiavo?» A Linius la cosa non parve opportuna. Conosceva il suo padrone, e leggeva bene nella sua mente. Quando fu uscito, Tharrin si appoggiò all'indietro e mi fissò senza espressione. «Bene, hai la tua possibilità, Aldair. Te l'ho concessa». Sapevo bene ciò che intendeva dire. Ma non mi mossi. «Perché esiti?» chiese. «Vedo un'ombra di sangue nei tuoi occhi. Di certo è il mio sangue». «Ho del sangue anche sulla schiena», risposi gelido. «Lo so. Uccideresti il tuo padrone, per questo?» Sentii che nuovamente il volto mi si faceva di fiamma. «Tu... Tu hai richiesto la mia fedeltà!» «E tu me la neghi!» Il pugno di Tharrin batté violentemente sulla scrivania, per sottolineare queste parole. «Io la nego?» «Sì, la neghi, Aldair! Ti avevo avvertito che la tua fedeltà sarebbe stata messa a dura prova!» «È stata una prova indegna!» «No». Tharrin scosse la testa. «Sei tu che non hai il coraggio di considerarla per ciò che è». Lottai per tenere ferme le mani. «C'è... una cosa... che si chiama... onore». Sentii che la mia voce tremava. «Io sono nato con un onore. Non sono una cosa... da frustare... a piacimento!»
«Uno schiavo non ha onore», disse gelido Tharrin. Incrociò le mani davanti a sé. «L'onore c'era, Alto Signore, prima della schiavitù. Non mi può essere tolto facilmente come la libertà». Tharrin alzò il mento, con espressione interrogativa. «Dunque», fece, «tu non approvi l'istituto della schiavitù...» «È una degradazione. L'uomo non è stato creato per...» «Allora, fra i Venicii, non avete schiavi?» «Noi...» Mi morsi le labbra. «Non è la stessa cosa». Tharrin annuì. «Sì, certo. Quando lo schiavo sei tu, invece che un altro». «I nostri schiavi sono Cygnani», dissi, senza gradire troppo la piega che stava prendendo la conversazione. «Loro sono sempre stati schiavi. Sono nati per questo. Non conoscono altra condizione». «E se ti dicessi che Niciea è convinta che i cittadini dell'Impero Rhemiano sono tutti nati per essere schiavi...» «Ma non è... non è la stessa cosa!» «Mio Signore!» aggiunse seccamente Tharrin. «Stai dimenticando come devi rivolgerti a me». Di nuovo, lottai per rimanere fermo. Che cosa mi tratteneva dallo stringere fra le dita quella gola sottile e scagliosa? «Aldair...» «Sì». Ingoiai bile. «Mio Signore...» «Dunque». Tharrin si chinò verso di me. «Forse, a questo punto, possiamo tirare qualche conclusione. Innanzitutto, la tua principale obiezione contro la schiavitù sta nel fatto di essere uno schiavo, non di possederne tu stesso, o i tuoi simili. Altre conclusioni evidenti sono che qualsiasi creatura sulla Terra, nobile o plebeo, può, in seguito alle circostanze, diventare schiavo o padrone nel corso della sua esistenza... o entrambe le cose. Che non c'è alcuna legge naturale che marchi una certa creatura col sigillo di schiavo o di padrone. Che solo il potere di una creatura sulle altre determina chi deve servire e chi deve essere servito. Sarebbe bene che tu ricordassi sempre queste conclusioni...» Non riuscivo quasi a credere alle mie orecchie. Che cosa stava dicendo l'Aghiir di Niciea? E quanti schiavi possedeva quella degna persona? Mille? Duemila? Tre volte tanti? «Mio Signore Tharrin...» Un gesto del nicieano mi impose il silenzio. «Non parleremo più di questo», disse in tono meditabondo. «Non è un argomento di cui ti devi occu-
pare, anche se spero non dimenticherai mai ciò che ti ho detto». Sentii che le mie mascelle si irrigidivano. «Mio Signore, è un argomento...» «.... che non verrà più trattato». Tharrin infilò le mani sotto un fascio di carte sulla scrivania, strinse qualcosa fra le dita, e l'alzò per mostrarmelo. Guardai l'oggetto, poi le mie mani corsero alla mia gola. Il collare di schiavo che mi stringeva il collo non c'era più! Era davanti ai miei occhi, tra le mani del niecieano! «Non mi pare che tu ne abbia sentito molto la mancanza», disse asciuttamente Tharrin. «Ti è stato tolto mentre il mio eccellente medico si stava prendendo cura delle tue... necessità. No, non parlare, Aldair. Adesso tocca a me parlare, e a te ascoltare. Un momento fa ti ho detto che tu mi hai negato la tua fedeltà. Non era così. Non me l'hai negata. Né pensi di essere stato tradito. Non te ne sei reso conto tu stesso? Non sei riuscito ad aggredirmi, proprio perché, nel profondo, non eri convinto che ci fosse ragione sufficiente per farlo». Tharrin fece una pausa, poi scosse stancamente la testa. «La fustigazione era un rituale che doveva essere eseguito. Ci sono regole che anche i governanti non possono eludere, Aldair. Nessuno schiavo nicieano può riguadagnare la libertà se non attraverso la frusta. Questa è la legge». Aggrottò la fronte, e mi fissò con aria severa. «Ma, forse, un giorno non mi ringrazierai più per averti tolto il collare di ferro». «Mio Signore», risposi, «non posso credere che accadrà mai una cosa simile». Tharrin mi rivolse un sorriso tirato. «Ciò che puoi o non puoi credere non cambierà la sostanza delle cose», disse. «Ci sono dei fatti che devi conoscere». Mi fece cenno di avvicinarmi, e lo feci, senza capire. Da una piega della tunica trasse una sciarpa verde ornata di occhi d'oro. Rapidamente, mi strinse il tessuto intorno al collo, quindi si piegò un po' indietro per osservarmi. Quel gesto sembrò sollevargli un grande peso dalle spalle. Nel suo corpo devastato non era ancora tornata la forza di un tempo, ma gli occhi brillavano di una fiera determinazione. «Hai scambiato il tuo collare con un altro, Aldair. Il ferro con la seta. In tutta sincerità, avrei dovuto lasciare a te la scelta definitiva al riguardo: perché, ora, tu sei legato a me molto più strettamente di quanto non possa esserlo qualsiasi schiavo».
Mi fece cenno di sedere, ma non mi lasciò tempo di formulare le domande che mi urgevano sulla lingua. «Ciò che è fatto, è fatto», sospirò. «Non ho nulla da rimproverarmi, e del resto le mie azioni non avevano scelta. Ti ho rivelato un segreto che finora ho condiviso con un'altra sola persona. Un segreto terribile ed enormemente pericoloso, Aldair. Perché l'ho fatto, non lo so io stesso: ma c'è una ragione per tutte le cose. Di ciò, ho una convinzione profonda. Un giorno, forse, su tutti questi argomenti saprò di più e capirò di più. Oggi, so soltanto che quel che è successo, è successo. Ho raccontato a uno schiavo che conoscevo appena una verità che fino ad oggi avevo vigilato con la mia stessa vita: che le rovine dei Tarconii sono molto più antiche di quanto dovrebbero essere...» Scosse la testa e si chinò in avanti, stringendosi ancora di più il mantello intorno alla magra figura. «Non ti rendi ben conto di ciò che questo significa... per ora. Un giorno capirai. Sappi, tuttavia, mio ex schiavo, che ormai siamo legati in modo indissolubile. Legati come pochi uomini possono esserlo. Ciò che io ho fatto è più che sufficiente per tenerci insieme. Ed ora, c'è un'altra cosa...» Se all'improvviso la nave mi si fosse aperta sotto i piedi, facendomi precipitare negli abissi, non avrei potuto provare una meraviglia più grande. L'Aghiir Tharrin aveva infilato una mano in un cassetto della sua scrivania, e ne aveva tratto un fascio di fogli di pergamene, che ora stava agitando sotto i miei occhi. Conoscevo bene quei fogli, ovviamente. Erano i miei appunti, le mie annotazioni sparse... Gli stessi fogli che avevo bruciato con le mie mani nella tenda-cantiere, prima della partenza... SEDICI Per un momento, la cabina di Tharrin rimase avvolta nel silenzio. Il tempo sembrava sospeso. Avvertivo distintamente il battito del mio cuore, il ritmo affannoso del respiro. Era come se fossi una terza persona, e stessi osservando la scena da una certa distanza. Ero parte dell'azione, e allo stesso tempo non lo ero. «Mio Signore», dissi infine, «ci sono molte cose che non capisco». Il nicieano mi fissò con i neri occhi sporgenti. «Non mi aspetto che tu capisca. Neppure quando ti avrò detto le altre cose che devi sapere. Gran
parte di quello che so, non intendo rivelartelo. Anzi, saranno più le cose che rimarranno nascoste di quelle che ti rivelerò: ma c'è un motivo per questo. Per ora, ti chiederò solo di accettare quello che ti dico senza dubitarne. Questo, e la tua fedeltà. Come già ti ho detto, Aldair, non ti ho fatto un favore rimpiazzando il tuo collare di ferro con una sciarpa di seta». Si interruppe per un momento. «Imparerai presto il significato di quella sciarpa nicieana. Significa più di quanto tu credi. Ma, adesso, voglio da te la conferma della tua fedeltà. Io posso comandare al tuo corpo, ma non alla tua mente». «Sì, mio Signore, hai la mia fedeltà». Ancora una volta, fui sorpreso dalla rapidità della mia stessa risposta. «Il tuo stato di schiavitù è ormai alle tue spalle. Interamente». «Sì, mio Signore». «E le sue cicatrici sono sulla tua schiena. Non sono stato io a procurartele materialmente: ma è come se la mia stessa mano avesse stretto la frusta. Questo non potrà essere facilmente dimenticato. O perdonato». Fissai il nicieano negli occhi. Occhi gelidi. Lontani dal mio mondo. Occhi che nascondevano pensieri quali io non avrei mai potuto immaginare né penetrare. La sua pelle lucida era coperta di scaglie, come la cotta di maglia d'un bizzarro guerriero. Quella pelle non aveva mai conosciuto alcun vero calore; tuttavia negli occhi di Tharrin c'era un fuoco che temperava il gelo della sua apparenza. E, da quegli occhi, qualcosa si era distaccato e mi aveva colpito, parlandomi... di che cosa? Non avrei saputo dirlo io stesso. «Mio Signore», feci, «ero venuto deciso a ucciderti per quello che mi avevi fatto. Hai portato su di me la vergogna: e questo non potevo sopportarlo. La gente del nord è piena d'orgoglio. Ora, il dolore sulla mia schiena non è diminuito, ma la vergogna è scomparsa. Non so dirti perché questo sia accaduto. Ma ti confermo che hai la mia fedeltà, e che te la concedo liberamente». Il nicieano mi studiò per un lungo istante. «Ti ringrazio per questo», disse infine. «Sappi che la sciarpa che porti al collo lega me quanto te. E io non sono uso a considerare con leggerezza tali legami». Si interruppe di nuovo, quindi frugò fra le sue carte fino a tirar fuori il voluminoso rapporto che avevo preparato in conclusione del lavoro di scavo sulla costa dei Tarconii. «E ora, Aldair», fece, «parleremo di questa lama affilata che tu stesso
hai posto di traverso alle nostre gole». Sorrise debolmente e fece un gesto per troncare sul nascere la mia domanda. «In superficie, questo è un rapporto modello, frutto di un ottimo lavoro. Sembra che tu abbia delle intuizioni straordinarie su una scienza di cui presumibilmente conosci molto poco. Qua e là ti confondi, e in altri casi sorvoli con giovanile noncuranza su contraddizioni evidenti: ma anche quando sbagli, non lo fai mai per pura superficialità. La tua catalogazione è eccellente, e la sintesi di un anno di lavoro è ottima». L'Aghiir Tharrin emise un sospiro e scosse la testa. «Purtroppo, il Creatore non ha voluto che i tuoi meriti si fermassero qui...» Mise da parte il rapporto e prese in mano il fascio di appunti che ero sicuro di aver bruciato. «Veniamo a questo, ora. 'Teoria per calcolare l'età delle rovine dei Tarconii',» disse leggendo l'intestazione della prima pagina. «Come sei pervenuto a concepire... questo?» «Sono soltanto deduzioni logiche, mio Signore». «Logiche?» «Certo. I sali minerali e i depositi metallici a quanto sembra si stratificano sulla pietra in una serie di fasce regolari, disegnando uno schema simmetrico, che sembra quasi tracciato di proposito. Una guardia che da diversi anni segue le spedizioni mi ha detto che in questa regione le stagioni delle piogge sono altamente prevedibili. La stagione delle tempeste arriva con precisione inaudita. La tempesta che aveva gettato me e Rheif sulla spiaggia, secondo la guardia, era un'anomalia: un fenomeno mai verificatosi in tutti gli anni precedenti. Mi sono ricordato, dopo aver visto una serie di stratificazioni regolari nello scavo, di aver già osservato una formazione identica nella caverna in cui io e lo stygiano avevamo trovato riparo...» «E che rapporto c'è fra le stratificazioni nello scavo e quelle nella caverna?», chiese Tharrin, anche se avevo già affrontato l'argomento nei miei appunti. «In entrambi i casi lo schema era uguale», spiegai, «come se le stagioni delle piogge, susseguendosi l'una dopo l'altra, avessero lasciato una specie di firma del loro passaggio. Ci sono segni identici nelle rovine, rimaste esposte per secoli all'azione delle intemperie, e sottoposte allo stesso tipo di sedimentazione. Ovviamente, la caverna sulla spiaggia è molto più antica delle rovine. E questo ha reso più semplici le osservazioni. Paragonando gli appunti presi nei due luoghi, ho potuto vedere fino a quale altezza delle stratificazioni le fasce nella grotta si susseguivano da sole, e in quale punto
cominciavano a correre contemporaneamente a quelle delle rovine. Questo mi ha permesso di fare delle utili comparazioni». «Delle utili comparazioni», ripeté Tharrin. Le sue dita sottili continuavano a tamburellare sulla scrivania. «Continua». «Non c'è molto altro da dire, mio Signore. Per avere un'idea degli anni trascorsi, dovevo solo stabilire quanto tempo aveva impiegato ciascuna fascia delle stratificazioni ad accumularsi. Ovviamente, ho preso come base la valutazione cronologica che tu stesso mi hai fornito. Secondo le mie valutazioni, ogni fascia ha impiegato circa duecento anni per stratificarsi. Le variazioni delle piogge all'interno dello schema complessivo determinano la separazione tra fascia e fascia. Evidentemente, ci sono dei fenomeni periodici che a intervalli regolari alterano il clima. Facendo i conti, ho visto che, in realtà, le rovine debbono essere antiche di circa ottomila anni». Tharrin sostenne il mio sguardo. «Quanto facilmente siamo disfatti...» «Mio Signore», protestai, «io non intendevo in alcun modo contestare la valutazione dell'antichità delle rovine che tu mi avevi dato. Nella mia mente non c'era alcuna presunzione del genere. Dimostrare implica dubitare, ed io sono ben consapevole della mia ignoranza di questi argomenti. I calcoli che ho fatto erano nulla più che una divagazione mentale. Tu non mi hai parlato delle prove in base alle quali avevi anche tu stabilito un'età analoga per le rovine. E naturalmente io non ti ho chiesto nulla. Ma ero certo che il tuo metodo fosse... analogo al mio». «Ti sei sbagliato», fece seccamente Tharrin. «Mio Signore...» Sentivo che la mia mente girava a vuoto. Erano accadute troppe cose, e troppo in fretta, perché potessi comprenderle. Ero stato dannato, lodato, frustato e sollevato ad una condizione di preminenza che per i Nicieani significava evidentemente molto, ma che a me non diceva nulla. Le mie divagazioni mentali erano diventate all'improvviso questione di vita o di morte. Erano state bruciate... ma esistevano ancora. L'Aghiir era seriamente preoccupato, ma non potevo capire perché. «Mio Signore», dissi, «so che non avrei dovuto sprecare il mio, anzi il tuo, tempo in una cosa del genere. Dopo che tu mi dicesti che questo argomento non doveva più essere discusso, non avrei dovuto permettergli di affacciarsi ancora ai miei pensieri. Ma vorrei dire una cosa a mia discolpa. Quegli appunti non erano destinati né a te né ad alcun altro. Io stesso li ho distrutti, o almeno così pensavo, e nessuno più di me può essere rimasto sorpreso nel vederli! Capisco, però, ciò che può essere successo. Ero pieno di sonno, quando decisi di bruciarli. Questo, evidentemente, mi ha reso di-
sattento. Ho dato alle fiamme fogli senza importanza, e inserito le mie divagazioni nel rapporto che avevo appena finito di preparare per te. Se ti sono apparse presuntuose, se ti hanno offeso, io...» «Maledizione, Aldair», esplose Tharrin. «Smettila di uggiolare come uno schiavo! Non hai capito ancora nulla del problema. In gioco, ormai, c'è ben più di una presunta offesa nei miei confronti. Quello che tu hai fatto, sia pure inconsapevolmente, ragazzo mio, mette in pericolo le nostre vite. E anche altre, oltre alle nostre!» Rimasi stupefatto a queste parole. «Ma», feci, «qualunque sia il pericolo, mio Signore, non può ancora essersi concretizzato. Il mio rapporto è ancora nelle tue mani, e così i miei appunti...» Un gesto dell'Aghiir mi troncò le parole. «Sì», fece il nicieano. «Nelle mie mani, e in quelle di qualcun altro». La verità mi colpì all'improvviso. «Linius?» «Linius. Il mio ottimo, fedele luogotenente Linius. È lui la lama posta di traverso alle nostre gole. Lui e i suoi padroni. E anche se sono lieto del fatto che tu non abbia posto deliberatamente quast'arma nelle sue mani, il risultato è lo stesso». Tharrin si massaggiò il palmo delle mani, con aria pensosa, quindi mi fissò negli occhi. «Tu pensi che la Chiesa dei Rhemiani sia oppressiva, Aldair. Ma non conosci lo sterminato potere che hanno in pugno i preti di Niciea. È vero: mio fratello governa, e tutti obbediscono ai suoi ordini. Fino ad oggi ha tenuto efficacemente a bada i preti, e così ha fatto nostro padre, e il padre di nostro padre. Ma i preti sono sempre più avidi di potere. Tengono i cittadini continuamente sull'orlo del terrore, e frugano senza sosta in cerca dei germi dell'eresia». I suoi occhi si fecero ancor più scuri. «Particolarmente, fra i membri della Casa Reale». Sentii un morso gelido che mi afferrava alla schiena. Cominciavo a capire l'enormità di ciò che avevo fatto... e perché l'Aghiir Tharrin avesse deciso di legarmi a sé. «Linius, dunque», feci. «Linius e quei preti...» Tharrin annuì. «E adesso, che cosa posso fare per liberare tanto me che te da questa minaccia? Oh, certo, posso far tacere Linius per sempre. Ma come posso essere sicuro che, qui a bordo, non ci sia già qualcuno che sa? La forza dei preti sta proprio nelle migliaia di occhi e di orecchi comprati dal loro oro. Da tempo conoscevo Linius per quello che era. E ho preferito avere un traditore certo accanto a me, piuttosto che mille sconosciuti».
Da uno degli oblò piovve un raggio di sole, che disegnò un circolo giallo-dorato sulla scrivania di Tharrin. Seguendo il beccheggio della nave, il circolo oscillava. Attraversava le dita ossute del nicieano, le pergamene ingiallite, quindi tornava indietro per disegnare un arco simmetrico in senso opposto. «Vedi come la luce del sole dà vita alle cose morte?» disse Tharrin. «Ti rendi conto, Aldair, di ciò che significano queste tue carte? Inutile illudersi. Linius ha avuto il tempo necessario per leggerle e copiare ciò che riteneva opportuno. Ed è una persona alla quale non sfugge mai niente, neppure le cose di più infimo valore». Scosse cupamente la testa. «Sai che cosa hai fatto, Aldair? Hai dimostrato la falsità delle Sacre Scritture nicieane, oltre che di quelle del tuo popolo. E questo, in seguito a quelle tue 'divagazioni mentali', alle tue 'deduzioni logiche'. Non c'è mai stato nulla di più sconvolgente di questo. Come potrai facilmente immaginare, i capi religiosi presteranno ben poca attenzione alla tua logica. Agli occhi dei preti, le tue deduzioni non provano nulla. Anzi, provano che tu, io e la Casa Reale di Niciea siamo in combutta con le forze del male e dell'eresia...» Non riuscivo quasi a credere a ciò che diceva l'Aghiir Tharrin. Tuttavia, non potevo dubitarne. Mi sembrava inconcepibile che un giovanotto nato fra i Venicii potesse far vacillare un impero con poche frasi vergate in fretta... mentre tutte le Legioni di Rhemia non osavano affrontare le forze di Niciea. Eppure, quando ricordavo il grigio spettro di San Bellium, il cuore gelido di Padre Tinius... «Mio Signore», dissi all'improvviso. «Io non posso annullare ciò che ho fatto di male, anche se accetterei qualsiasi cosa, se necessario. Ma la conoscenza non è forse un'arma più potente della paura? Se i preti di Niciea sanno come usare quest'arma, perché non ritorcerla contro di loro? A nessuno piace vivere nella paura, mio Signore: né ai Nicieani né ai Rhemiani. Il mondo non è come sembra. Cinquemila anni di storia ci sono stati nascosti. Anni che sono scomparsi, o sono stati spinti nel buio, per ragioni che non riesco ad immaginare. Se quel passato potesse venire alla luce grazie alle prove di cui tu disponi, e con l'aiuto delle mie scoperte...» Tharrin si irrigidì sulla sedia. Per un momento sembrò impallidire sotto la sua pelle verde. «Aldair», fece con voce roca, «tu non sai ciò che dici. Non capisci. La storia non deve venire alla luce. Non ancora». «Mio Signore?» «E di quali 'prove' da parte mia stai parlando?»
Scosse la testa. «Non esistono prove, Aldair. Soltanto le tue 'divagazioni'. Io non possiedo prove, e non ne ho bisogno. Io so. So, semplicemente. E di conseguenza, so anche che nulla potrebbe essere più mortale, per il mondo, di quello che so. O, peggio ancora, di quello che posso immaginare sulla base di quello che so...» DICIASSETTE Non fu una cosa semplice, ma riuscii ugualmente a confinare la mia conversazione con Tharrin in un angolo della mente. Ciò non vuol dire che l'argomento non fosse continuamente nei miei pensieri. Erano state spalancate porte che non avrebbero mai più potuto essere richiuse. Era come se tutti gli eventi della mia vita fossero stati registrati su uno spettrale foglio di pergamena. Quel foglio era ormai finito, ed era stato sigillato per sempre. Una nuova pergamena era stata preparata, e le prime lettere su di essa erano state vergate nel momento in cui avevo lasciato la cabina del nicieano. E, per quanto non fosse un'idea razionale, ero certo che se avessi permesso alle poche conoscenze che possedevo di piantare radici troppo profonde nella mia mente, i preti di Niciea sarebbero stati in grado di estrarre quei pensieri dal mio cervello, ed io avrei di nuovo esposto l'Aghiir Tharrin ad un pericolo gravissimo. Avevo timore di pensare a ciò che conoscevo, ed ero terrorizzato all'idea di ragionare su ciò che non conoscevo. Anche se non comprendevo appieno il significato del mio nuovo stato sociale, gli altri me lo resero subito chiaro. Tutti, a bordo del vascello nicieano, mi guardavano con nuovi occhi. Era come se il vecchio Aldair fosse morto, per far nascere al suo posto una nuova creatura. Tutti, schiavi e uomini liberi, mi trattavano con deferenza. Spesso, mentre passavo, udivo la parola rhadaz'meh, e in seguito appresi che significava «mano del padrone». Potevo nuovamente portare armi; anzi, la cosa mi era richiesta esplicitamente. Portavo perciò una delle strane spade ricurve dei Nicieani, una lama di ottima qualità con un fodero di cuoio e di tela variopinta. Era di un metallo più leggero del ferro e più forte del bronzo, temperato con un procedimento sconosciuto al resto del mondo. Mi meravigliai per la sua affilatura incredibilmente tagliente che, secondo le assicurazioni dei Nicieani, poteva penetrare nelle corazze dei Rhemiani e dei Tarconii come una falce
nel grano maturo. Non dubitavo che è l'affermazione fosse vera. La mia rozza tunica da schiavo venne sostituita da nuove vesti di lino. Sulla manica destra portavo una banda trasversale verde, sulla quale era ricamato un occhio d'oro. Intorno al collo mi venne posta una pesante collana d'oro ornata di pietre verdi, e l'Aghiir Tharrin mi fece dono di un anello d'argento stranamente istoriato, che s'era tolto da un suo stesso dito. Era troppo largo per me, ma l'Orefice Reale lo restrinse fino alla mia misura. Su una cosa insistetti: non volli indossare gli stivali nicieani, ma pretesi che mi restituissero i miei. Potevo anche essere il rhadaz'meh dell'Aghiir Tharrin: ma ero anche e tutt'ora un uomo del nord. Nessuno fece obiezioni sulla straordinaria e subitanea promozione di cui aveva beneficiato uno schiavo come me. Se l'Aghiir Tharrin, fratello dell'Azhaar stesso, avesse voluto ungere col sacro crisma uno dei gabbiani pidocchiosi che seguivano la nave: bene, era un privilegio reale, e nessuno sarebbe stato tanto ardito o tanto sciocco da esprimere parere contrario. I nobili che seguivano Tharrin notarono per la prima volta la mia esistenza. Alcuni erano con me educati in modo freddo e distaccato; altri invece mi dimostrarono un'esagerata amicizia, come se ci fossimo conosciuti da molti anni. Questi ultimi erano quelli di cui mi fidavo di meno. Mi ero, ovviamente, guadagnato l'odio eterno del luogotenente Linius: ma questo non era un fatto nuovo né insolito. Non ci eravamo mai stati simpatici, e la mia promozione ad un rango superiore a quello dell'agente dei preti nicieani servì soltanto a infiammare un odio che Linius durava evidente fatica a trattenere. Il giorno dopo aver riguadagnato la libertà, cercai lo stygiano. Lo trovai nel sottoponte ombreggiato riservato al seguito della Casa Reale. «Questo umilissimo schiavo è onorato della tua presenza, giovane signore», disse Rheif in tono solenne, ma senza dissimulare il lampo di ironia che gli accendeva gli occhi di brace. «Sii più riguardoso», lo ammonii, «o non ti concederò di versarmi il vino e di servirmi le frittelle al miele». Rheif rise, ma mi accorsi che una strana ruga solcava verticalmente la sua fronte. «Sul serio, Aldair», mi fece, «che cosa significava tutto questo? Io sono del tutto incapace di comprendere queste creature. Prima ti frustano fino a scorticarti la pelle dalla schiena, poi ti vedo trascinare per i piedi sulle tavole del ponte. È finita per lui!, mi dico. E invece, eccoti davanti a me conciato come un principe!»
«Non esagerare». «Mica tanto, Aldair, se pensi che poco fa eri poco più di uno scarafaggio, che è la condizione di quanti indossano questo abominevole collare». Volsi gli occhi al mare. «Che cosa dice la gente di me, Rheif? Dalle chiacchiere della ciurma potremmo imparare qualcosa di utile». Lo stygiano atteggiò il volto a meraviglia. «Vuoi dire che anche tu non ti rendi conto di quello che sta succedendo?», fece, e scosse la testa, grattandosi con la mano pelosa il muso grigio. «Secondo me, Aldair, queste creature sono tutte preda della follia. Ci si stupisce del fatto che dividano lo stesso pianeta con esseri razionali come gli Stygiani... e come il tuo popolo, naturalmente». Il giovane Dhar'jeem giocava sul ponte poco lontano, legato a Rheif da una lunga catenella d'oro. Quando il bimbo andava troppo lontano, o si avvicinava pericolosamente alle fiancate, Rheif tirava cupamente la catena e lo faceva riavvicinare a sé. Al Principe il gioco sembrava piacere molto, e lo ripeteva di continuo, con gridolini di gioia e grande vergogna dello stygiano. «Nessuno degli altri schiavi si è mostrato troppo ansioso di dividere con me i suoi pensieri», fece Rheif con un ghigno. «Mi accusano di guardarli con occhi affamati, il che non è del tutto incomprensibile da parte di uno stygiano che si nutre di zuppa di cimici da più tempo di quanto non gli faccia piacere ricordare. Tuttavia, ho udito alcune cose. Per esempio, che l'unico scopo nella vita dell'Aghiir Tharrin consiste nel mettere insieme vecchie pietre, e che tu, fra tutti gli schiavi, sei stato abbastanza furbo da capirlo subito e da fargli credere che condividevi lo stesso interesse. Alcuni degli schiavi che lavoravano alle rovine sono molto arrabbiati per questo, dato che col tempo hanno acquisito una certa conoscenza dell'argomento. Sono inferociti con loro stessi, perché non hanno pensato a portare a termine lo stesso piano che a te è riuscito perfettamente». In un certo senso, queste informazioni mi diedero sollievo. Era esattamente il tipo di storia che desideravo fosse divulgata in giro, e creduta. In essa c'era una quota di verità sufficiente a favorirne l'accettazione. Mi resi conto, tuttavia, che l'opinione dei nobili e degli schiavi non contava nulla. Se Linius aveva avuto davvero l'opportunità di leggere e di copiare le mie tragiche annotazioni, i preti di Niciea avrebbero capito senza incertezze i motivi per cui uno schiavo era diventato rhadaz'meh dell'Aghiir Tharrin. «Dunque», fece Rheif in tono meditabondo, «vorrei sapere che cosa significa per te la tua nuova condizione sociale, Aldair. Quali pensieri si agi-
tano nella tua mente?» Sapevo ciò che realmente intendeva chiedermi. «Vuoi sapere se mi sono legato all'Aghiir Tharrin? Sì, Rheif... In un certo senso l'ho fatto. Anche se la cosa non è avvenuta intenzionalmente, come tu ben sai. Tuttavia, la mia condizione potrà essere utile a entrambi nel futuro... anche se di ciò non parlerò ad alcuno, se non a te». «Mi sta già servendo bene, se è per questo», fece Rheif con voce cupa. «Così, almeno, credono queste creature. Tutti sanno che noi due siamo compagni, e di conseguenza attualmente mi viene concessa una razione più abbondante di zuppa di cimici. È più carnosa, con meno zampe d'insetto che galleggiano nella brodaglia, e a quanto ho capito questo è segno di particolare favore». Sorrisi di fronte al suo sconforto. «Forse, in futuro, ci saranno benefici più grandi. Due schiavi hanno ben poche libertà di rivedere le loro case, Rheif. Uno schiavo e un uomo libero potrebbero trovare la cosa meno difficile». Lo stygiano rizzò le spalle, e i suoi occhi scarlatti brillarono. Volse lo sguardo sul mare, girandolo istintivamente verso il lontanissimo nord. «Non ho dimenticato la mia patria, Aldair», disse con una gelida determinazione nella voce. «E sono molto felice di sentire che anche tu ricordi ancora la tua...» Le onde verdi mutarono colore in un blu scintillante, e le snelle navi nicieane solcarono la spuma attraverso gli stretti che conducevano al Mar Meridionale. Un'enorme sentinella di pietra sorvegliava quelle acque. La montagna tenebrosa era butterata da rocce, caverne, costoni e strutture artificiali che sporgevano dalle sue ruvide pendici come protuberanze sulla pelle di una bestia immonda. Era una fortezza rhemiana, e nel porto che si apriva sotto di essa si potevano vedere all'ancora numerose navi dalle vele rossosangue. Ai Nicieani, tuttavia, la fortezza non fece grande impressione. Passarono sotto la sua mole, a così poca distanza da essere sfiorati dalla sua ombra. Non era stato un puro atto di coraggio. Uno dei marinai mi disse che la loro rotta li lasciava bene al di là della portata di tiro delle catapulte che armavano la fortezza: il pilota che guidava le navi aveva già fatto il percorso più volte, e conosceva bene le distanze. Le tozze navi rhemiane non tentarono neppure di inseguirci. Avrebbero
fatto la figura della tartaruga che insegue un delfino, e questo lo sapevano bene tanto i Nicieani quanto i Rhemiani. Poche ore più tardi, quattro navi da guerra di Niciea ci vennero incontro per scortarci e formare un convoglio che avrebbe proseguito in formazione per il resto del viaggio. Erano più grandi delle due navi della spedizione dell'Aghiir Tharrin, e quasi altrettanto veloci. Erano bene armate, e dipinte su tutta la chiglia con un motivo a scaglie verdi e oro. Quelle navi, mi dissero, erano chiamate «assassini del mare», e potevano tenere testa a qualsiasi naviglio rhemiano. Prima di prendere terra, avevo un compito da portare a termine. Tharrin voleva conservare l'originale del rapporto relativo ai ritrovamenti della spedizione, per cui doveva esserne approntata una copia da consegnare agli studiosi di Niciea. Questa copia doveva essere abbreviata e adattata in modo particolare, e io dovetti aiutare Tharrin nel lavoro. «Adesso», fece infine l'Aghiir, «è un documento abbastanza innocuo. Almeno spero. Tutto ciò che, nel corso degli anni, ho scoperto di davvero importante, è chiuso nella mia memoria, e non può essere affidato alla carta. L'Università mi tributerà le consuete cerimonie e benemerenze, a prescindere da quello che c'è scritto su questi fogli». Rise amaramente. «E che altro potrebbero fare? Io sono il fratello del Re, e ho un discreto potere anche da parte mia». Chiuse il rapporto e lo mise di lato, «Però, si guarderanno bene dal leggerlo, Aldair: stanne sicuro. Sono un branco di idioti, per la maggior parte, che hanno ottenuto la cattedra grazie al denaro o alle raccomandazioni. C'è ancora qualche saggio, fra loro: ma sono tanto pochi da non contare nulla». Al solito, nella mia testa turbinavano infinite domande. Sapevo bene, ormai, che non era opportuno manifestare i miei interrogativi: ma la curiosità restava viva ugualmente. Comunque, l'Aghiir mi lasciava ben poco tempo per abbandonarmi a meditazioni pericolose. C'era molto da fare prima di entrare in porto; e, ad essere sinceri, io ero contento della possibilità di lavorare. All'alba di due giorni dopo, le vele dei vascelli nicilani vennero ammainate e gli schiavi addetti ai remi - che in genere avevano poco da fare su quei veloci scorridori delle onde - presero posto ai banchi e ci guidarono nell'azzurro porto di Chaarduz. Io ero già desto da molto prima, dell'alba. Dritto sul ponte di maestra, vidi le dita dell'aurora tingere di rosa le candide torri e le cupole sacre del cuore dell'Impero Nicieano.
DICIOTTO Il porto brulicava di attività. Gli schiavi si davano da fare per scaricare le navi della spedizione, anche se dopo tanti mesi lontano da casa a bordo c'era rimasto ben poco. La maggior parte del carico era costituita dai manufatti e dai reperti raccolti fra le rovine dei Tarconii. E poiché la cura e salvaguardia di questo materiale era mia responsabilità, fui occupato fino al mattino. Vedendo il numero relativamente limitato di casse e sacchi nelle stive, gli schiavi si illusero momentaneamente che per quel giorno la loro fatica sarebbe stata lieve. Ma dopo aver sollevato un paio di quei colli, ed avere scoperto che quasi tutti erano pieni di pietre, cominciarono a levarsi le lamentazioni. La frusta dei vigilanti fischiò più di una volta, quel giorno. La nave fu scaricata prima che il mattino si trasformasse in mezzogiorno, ma la spedizione reale non sbarcò che a pomeriggio inoltrato. La ragione dell'attesa la scoprii soltanto più tardi. Una scorta di cavalieri in scintillanti armature e mantelli ricamati ci attendeva già schierata sulla banchina, quando la nave era entrata nel porto; e prima ancora che gli ormeggi fossero ben fissati, l'ufficiale che la comandava (chiaramente di alto grado) era già balzato a bordo e si era presentato a Tharrin, chiudendosi con lui nella sua cabina. Quando i due Nicieani emersero, il sole sfolgorante aveva trasformato tanto la terra quanto il mare in un'incandescente lastra d'ottone, ed aveva quasi abbrustolito tutti coloro che erano a bordo. Tharrin non parlò a nessuno dopo l'incontro, ma era chiaro che l'ufficiale gli aveva recato cattive notizie. Il volto dell'Aghiir era teso, e le forze che aveva riguadagnato durante l'ultima parte del viaggio sembravano di nuovo scomparse. Più tardi seppi che non tutte le cose andavano per il verso giusto nella Capitale, e che c'erano problemi anche in altre parti del territorio. Il Re non era venuto ad accogliere il fratello, come ci si attendeva, perché aveva dovuto partire di corsa nove giorni prima, quando alcune tribù ribelli, che per diversi anni avevano mantenuto la pace (con poche trasgressioni di scarso conto), erano all'improvviso uscite dal deserto in grandi orde selvagge, saccheggiando i villaggi bruciando i raccolti, massacrando le popolazioni. Per di più, si era verificato un incidente di cattivo auspicio, che aveva gettato un'ombra cupa sulla missione del Re. Mentre l'esercito lasciava la città (così mi raccontarono), un grande uccello grigio era caduto morto dal
cielo, precipitando a soli pochi passi dal sovrano. La cavalcatura del Re si era spaventata, e per poco non lo aveva disarcionato. Subito, per Chaarduz avevano cominciato a correre infinite voci. Si diceva che l'uccello era di una razza mai vista prima, che non aveva occhi e che era privo di sangue. In realtà, un volatile era davvero caduto dal cielo, ma non era di genere ignoto, ed era provvisto tanto di occhi quanto di sangue. Ma, come mi disse un ufficiale nicieano, al popolo non interessa la verità su un argomento, dato che la menzogna è sempre molto più interessante. Se le chiacchiere erano il teatro degli oziosi - aggiunse - non c'era al mondo palcoscenico più grande per tale rappresentazione della città di Chaarduz. Fui lieto di lasciare la nave e di attraversare la capitale per trovarmi, alla fine, nella villa di Tharrin. Anche nella luce incerta del crepuscolo, la maestosità della casa del mio padrone mi strabiliò. Occupava un'intera collina, sormontante la città e il porto. A prima vista, pensai che si trattasse del palazzo reale, e che l'Aghiir ne occupasse soltanto una parte. Ma non era così. La reggia copriva diverse colline circostanti, e in alcuni punti toccava la proprietà di Tharrin, come quelle degli altri membri della famiglia reale. Tutto il complesso era cintato da un alto muro comune, che offriva protezione e intimità ai membri della corte. Gran parte delle proprietà reali erano coperte di giardini ornati di fontane e di altre decorazioni che deliziavano grandemente l'occhio. Il palazzo, con le ville circostanti, era in se stesso una città, in cui lavoravano più di tremila fra schiavi, soldati, artigiani, giardinieri e operai di ogni sorta: tutti per servire poco più di tre dozzine di membri della famiglia reale. I Nicieani sono strane creature, e i loro modi sono spesso bizzarri. Ma presto scoprii che le differenze erano soltanto superficiali: nelle questioni di fondo, non sono diversi da tutte le altre razze. In tutto il mondo esistono i poveri. Anzi: i poveri costituiscono la maggioranza del mondo. Essi esistono, a quanto sembra, soltanto per far fronte alle esigenze della famiglia reale di Niciea, dei Reggitori dell'Impero Rhemiano, e di coloro cui questi potenti concedono limitate porzioni di dominio e ricchezza. È sempre stato così - ragionavo - ed era impossibile immaginare un diverso modo di vivere. C'erano i padroni, e c'erano quanti li servivano: uomini liberi e schiavi. Questo, a quel che sembrava, era l'ordine delle cose. Come per i burattini di legno nel mercato di Silium, così era col mondo. Mai prima avevo messo in dubbio o contestato questo stato di cose. Ma, d'altra parte, mai prima ero stato schiavo. E una condizione
del genere, anche se vissuta per un breve periodo, finisce col dare a un uomo una diversa prospettiva delle cose. Nella casa dell'Aghiir Tharrin le donne abitavano un'ala a parte, secondo il costume nicieano. Avevano le loro stanze, e non si vedevano mai. Poco dopo il mio arrivo, appresi un fatto al quale non avrei mai creduto: le femmine nicieane non danno alla luce i figli con un parto normale, ma depongono uova, come gli uccelli. Uno schiavo rhemiano mi informò che questo era un argomento che non veniva mai menzionato, neppure fra gli stessi Nicieani. A quanto pareva, c'era una specie di proibizione religiosa o di tabù legato al processo della nascita, anche se non capivo che cosa mai potesse giustificarlo. Comunque, udii più di una battuta chiaramente oscena, in cui le uova e la loro fecondazione giocavano un ruolo significativo. Con la mia sorpresa e piacere, anche Rheif venne alloggiato nella villa di Tharrin. È infatti costume della nobiltà nicieana allevare i bambini in famiglie diverse da quella dei genitori. Lo stesso Tharrin mi disse che questa tradizione era antica quanto Niciea, e risaliva al periodo in cui la nazione era governata da famiglie rivali, che per salvaguardare le alleanze stabilite si scambiavano i figli come ostaggi. «Forse», aggiunse l'Aghiir in tono divertito, «in questo senso la tradizione non ha perduto del tutto il suo valore. Anche se il regno è ormai riunito sotto una sola famiglia, ci sono molti cugini e nipoti che non esiterebbero a dire qualche parola di troppo nella corte, se mio fratello non fosse il tutore dei loro figli...» Il Re aveva un solo erede, il giovane Dhar'jeem, ma anche se avesse avuto un secondo figlio, ugualmente lo avrebbe affidato alla casa del fratello, e a nessun'altra. Tharrin non aveva alcuna ambizione nei confronti del trono, e il Re sarebbe stato davvero sciocco se avesse agito in modo da alimentare in qualche parente meno devoto indebiti sogni di potere. Anche se Rheif ed io eravamo alloggiati nello stesso edificio, la proprietà era talmente larga e le nostre mansioni così pressanti che dovettero passare due mesi prima che potessimo incontrarci per un breve momento. Mi parve di vedere lo stygiano in forma e in buona salute, e glielo dissi. Ma gli Stygiani hanno in sommo spregio soprattutto due cose nella vita: l'acqua e i complimenti. «Non hai bisogno di fingere con me», mi rispose Rheif in tono amaro. «Dovrebbe esserti chiaro che ho ormai poco da vivere su questo mondo.
La mia salute sta declinando, Aldair. Il giovane Principe è un nemico più grande di qualsiasi altro io abbia mai affrontato in battaglia, e di certo prima o poi avrà la meglio su di me...» Non potei fare a meno di ridere. «L'arrosto divora chi voleva mangiarselo», dissi, «tanto per adattare una frase che udii per la prima volta sulla piazza del Mercato di Silium, quando un certo stygiano chiuso in gabbia...» «Aldair...» Rheif si guardò con occhio preoccupato alle spalle. «Mi ricordo bene di quando fu pronunciata quella frase. Non è necessario puntualizzare con me, o con qualsiasi altro, che la mia relazione con il Principe Dhar'jeem è cominciata in un modo ben diverso da quello poi riferito dai testimoni oculari. Anche se ti confesserò che l'Aghiir Tharrin - temo si è reso conto benissimo sin dall'inizio di quanto in realtà successe in cima a quella rupe, e ritenga che attualmente io sia punito in modo esemplare per il crimine di aver avuto fame. Che, dal mio punto di vista, non è per nulla un crimine». I miei doveri mi tenevano molto occupato, e a stento mi accorgevo del passare dei giorni. Spesso lavoravo fino a notte fonda, quando gli appunti cominciavano a ballarmi davanti agli occhi, e mi addormentavo chino sulla mia scrivania, lasciando che l'olio della lampada bruciasse fino a consumarsi. Lo scavo dei resti di antiche città - appresi - era soltanto una parte della scienza in cui mi ero gettato. La chiave per penetrare nei segreti di una città morta si trova spesso non nelle sue strutture maggiori, ma in infiniti piccoli reperti, note e informazioni raccolti col passare degli anni. Vedevo di rado l'Aghiir Tharrin. Per quanto il mio padrone proclamasse la sua mancanza di interesse per «la politica e gli affari», dedicava ben poco tempo alle ricerche e quasi sempre era occupato in altre faccende. Quali queste faccende potessero essere, potevo solo immaginarlo, anche se sapevo che spesso il nicieano si ritirava per lungo tempo nel suo appartamento privato, e lasciava la villa in strane ore notturne. Quali occupazioni potevano indurre un uomo ad abbandonare il suo letto nel cuore della notte? Non potevo saperlo, e non era affar mio: ma conoscevo l'Aghiir Tharrin, e trovavo difficile mascherare la mia curiosità. Di tanto in tanto, mi arrivavano delle voci. Le chiacchiere sono sempre state di casa nelle corti reali. Appresi che il Re era tornato e che i ribelli erano stati sconfitti, ma non senza gravissime perdite per le forze reali e per
il prestigio dello stesso sovrano. Si diceva che presto i ribelli avrebbero alzato nuovamente la testa. Seppi che il Re era furibondo nei confronti del clero, perché i sacerdoti dai pulpiti si erano dilungati in interpretazioni funeste del presagio derivante dall'uccello morto, insinuando che l'accaduto doveva essere considerato come una profezia o un avvertimento inviato dagli dèi: e infatti l'esercito aveva sofferto perdite gravissime per mano dei ribelli. I preti aggiungevano poi pienamente l'assicurazione di levare sincere e solerti preghiere perché al supremo reggitore di Niciea venisse inviato un presagio più propizio. Queste insinuazioni spargevano veleno tra il popolo, che è sempre pronto a interpretare in modo negativo le parole ambigue: e il risultato era un'ulteriore perdita di prestigio da parte del sovrano. Venne una notte in cui mi trovai di fronte a un problema particolarmente difficile riguardante la correlazione tra dati già raccolti in precedenza con informazioni ricavate dall'ultima campagna di scavi. Poiché nel mio studio non disponevo di tutte le registrazioni sull'argomento, mi recai in un altro locale adibito alla raccolta dei documenti, situato in un'ala diversa della villa e poco frequentato. Tharrin lo aveva pomposamente battezzato «biblioteca», ma in realtà era una specie di deposito di sgombero destinato a quel materiale per cui non avevamo trovato una collocazione ben precisa, e che tuttavia non ci pareva il caso di distruggere. C'ero già stato una sola volta, insieme con Tharrin, ma non mi parve ci fosse nulla in contrario ad andarci nuovamente da solo. Il nicieano mi aveva concesso piena libertà nel portare avanti le mie mansioni, e del resto la chiave di bronzo della «biblioteca» pendeva incustodita in una bacheca dello studio. Così, aprii la porta massiccia, spinsi la lampada davanti a me e vidi l'Aghiir Tharrin seduto nella penombra. Tharrin e un'altra figura. Mi fermai. Notai l'espressione stupita sul volto dell'Aghiir, e subito indietreggiai nuovamente verso il corridoio. «Aldair!» La voce del nicieano era secca, imperativa, ma non alta abbastanza da poter essere udita all'esterno. «Avvicinati, presto, ragazzo, e chiudi quella porta dietro di te!» «Mio Signore», cominciai, «io...» «Lo so che non sapevi niente. Sono stato io a darti quella chiave e l'autorità per usarla. È stata la mia mente ad oscurarsi». Diede uno sguardo al suo compagno, poi di nuovo a me. Non potei reprimere un moto di sorpre-
sa. Per il Creatore! Un cygnano! Uno schiavo, seduto a suo piacimento accanto all'Aghiir Tharrin! E, per di più, con indosso una veste da uomo libero! Il cygnano colse la mia espressione, e volse gli scuri, placidi occhi verso il nicieano. «È sorpreso di vedermi, Signore. Forse tanto quanto lo sono io di vedere lui...» Il suo sguardo rimase puntato su Tharrin, così come, del resto, la sua implicita domanda. L'Aghiir lasciò che un lieve sorriso gli piegasse gli angoli della bocca. «Un compagno di schiavitù, Aldair... Un ex schiavo, come te». Poi parlò al cygnano. «Stai pur tranquillo, amico mio», disse. «Aldair è la persona di cui ti ho parlato». Il cygnano annuì. Era un po' più grasso degli altri della sua razza. Il pelo era tosato al vivo per il caldo clima di Niciea, e intorno al collo portava una catena d'oro di semplice fattura, ma molto massiccia. Trovai difficile fronteggiare il suo sguardo. Maledizione, mi chiesi, ma di che genere di cygnano si tratta? Dai suoi occhi era assente l'espressione docile cui ero abituato... anzi, dubitavo che mai ci fosse stata. Al suo posto, era presente una sensazione indefinibile... «Aldair», fece Tharrin interrompendo i miei pensieri. «Non affollare di altri interrogativi la tua mente già abbastanza curiosa. Ora hai un altro segreto da custodire... E questo è altrettanto mortale del primo». Si passò stancamente la mano sul volto e alzò il capo in rassegnazione. «Per il Creatore, Aldair... Finirai per coinvolgerci tutti...» DICIANNOVE Non ero troppo ansioso di incontrare i preti di Niciea. Ma, come mi aveva spiegato l'Aghiir Tharrin, ben difficilmente la cosa avrebbe potuto essere evitata. «È una trappola, ovviamente», aveva aggiunto in tono cupo. «Ed anche ben congegnata. Mi aspettavo che il tuo nome sarebbe stato portato alla loro attenzione. Linius ha svolto bene il suo lavoro. È per questo che ti hanno dato il Qua'shar, la nostra Sacra Scrittura, ordinandoti di studiarne i principi. I preti non si aspettano certo che tu la conosca già a menadito... Ma non è questo l'obiettivo della tua convocazione al Tempio». Il nicieano mi aveva poi detto che questo era uno dei tanti sistemi usati dal clero per acquisire potere e stringere la morsa sul popolo. Ufficialmente, Aastar il Creatore parlava ai sacerdoti in sogno, e pronunciava i nomi di
persone che dovevano essere onorate con «speciali benedizioni e istruzioni». Queste persone potevano essere nobili, uomini liberi o schiavi: ma sempre, a quel che sembrava, individui in possesso di informazioni di particolare valore o in grado di svolgere speciali mansioni. «Come, per esempio, quella di spiare la Casa Reale», aveva aggiunto l'Aghiir. «Sono sicuro che è stato così che il mio fedele luogotenente Linius è andato ad aggiungersi ai loro ranghi. Tramite la paura, le lusinghe o l'odore dell'oro... il mezzo non ha importanza. Stai attento a quegli individui, Aldair. Non ho bisogno di ricordarti che non nutrono speciale amicizia nei confronti della mia famiglia». «Si renderanno conto», avevo risposto, «che non so nulla di interessante. Su questo non avranno dubbi». «Non farai niente del genere!», era esploso Tharrin, stringendomi il braccio in una morsa. «Sappi, mio giovane amico, che non si tratta di persone di cui ci si può prendere gioco facilmente. Sono maestri dell'inganno e dell'astuzia, e se cercherai di gareggiare con loro su questo terreno, ti faranno a pezzi!» Poi aveva tratto un sospiro, riprendendo a parlare in modo meno concitato. «Lo so che tu cerchi solo di servirmi, Aldair; ma sta attento a come lo fai. I preti mi conoscono, e sanno che non includerei mai uno sciocco nel mio seguito. Non pretendere d'esserlo. Loro non sperano di apprendere molte cose da te, ma non si lasceranno sfuggire l'opportunità e tenteranno fino all'ultimo. Attraverso Linius sanno già molte cose di te. Non sorprenderti per le cose che ti faranno capire». Il niceiano aveva fatto una pausa, passandosi le lunghe dita sul volto. «Ricorda, inoltre, che quel traditore ha passato loro un'arma da usare contro di noi. Può darsi che la mettano in gioco subito, e può darsi che no. Ma loro conoscono la parte che hai avuto in questa vicenda, e cercheranno un modo per usarti contro di me». Dopo un sorriso, aveva ripreso a parlare. «Ma so che non ne troveranno nessuno, Aldair. Non è questo che mi preoccupa. Vedi, i preti hanno anch'essi un punto debole: non sanno che la lealtà e l'amicizia possono essere fondate su una moneta che vale più dell'oro...» Continuai a ripassare mentalmente le parole dell'Aghiir. Aveva ragione, ovviamente. Recitare la parte dello sciocco inconsapevole non avrebbe avuto altro risultato che focalizzare ulteriormente l'attenzione su di me e sul mio padrone. Sarei stato naturale, perciò... non ostentatamente furbo. Coo-
perativo, ma non ansioso di parlare. Tuttavia, dormii molto poco la notte prima del mio appuntamento al Tempio. La mattina, la mia mente era piena di cose che avrei dovuto accuratamente evitare... ed ero convinto che sarei caduto in tutte le trappole. Un cavallo mi aspettava nel cortile. Era un animale alto e slanciato, nero come il carbone e scintillante al pari della seta nel sole del mattino. Pensai che era una splendida creatura, ma sul suo dorso mi sentivo ridicolo. Ero sicuro che chiunque mi guardasse, rideva alla vista delle mie gambe corte e tozze, che arrivavano a malapena a metà dei fianchi della mia cavalcatura. Avrei preferito uno dei piccoli e pelosi pony dei Venicii, che potevano essere guidati con una leggerissima pressione del ginocchio o con un movimento del corpo, lasciando le mani libere per usare l'arco. Tuttavia, quella bestia era un regalo dell'Aghiir, un onore concessomi, e poco potevo fare se non arrampicarmi sulla schiena del gigante come se stessi scalando una piccola collina, e sperare per il meglio. La strada che dalla villa conduceva al cancello esterno si snodava tra alti cedri piantati generazioni prima per dare ombra ai viaggiatori reali. Gli alberi riempivano l'aria del loro caratteristico odore pungente, e il sole filtrava tra le loro fronde, cospargendo sul terreno monete di luce dorata. Mi stavo godendo la passeggiata, quando un suono improvviso ruppe il silenzio. Mi rizzai all'erta sulla sella; la mia cavalcatura soffiò nervosamente, batté il terreno con le zampe, e scartò di traverso alla strada. Tirai le redini e mi curvai a mormorare qualche parola tranquillizzante nell'orecchio dell'animale. Di nuovo il rumore. Più forte, stavolta. Come una grande bestia in preda alle sofferenze più atroci. Il mio cavallo balzò in avanti, ma stavolta ero pronto. Portai l'animale via dalla strada conducendolo attraverso gli alberi fino alla radura adiacente. Il sole era alto, e sotto i suoi raggi dovetti stringere gli occhi. Rallentando il cavallo, aguzzai l'orecchio. Subito dopo una macchia d'alberi, la radura lasciava il posto a un tratto di terreno roccioso. Lì era stata costruita una grande ruota, orizzontalmente al terreno. L'asse si infiggeva nel suolo, e al cerchione erano incatenati una ventina di schiavi. Sapevo che lo scopo di quell'apparecchiatura era di trarre acqua fresca dai pozzi, portandola sino alla villa in cima alla collina. Prestai poca attenzione, però, alla ruota in se stessa. La fonte del rumore che mi aveva disturbato si trovava alla mia destra. Uno schiavo era stato incatenato fra due pali, e i vigilanti nicieani lo stavano frustando con selvaggia ferocia. La pelliccia sulla schiena era stata ormai squarciata e la
carne viva era aperta ai raggi del sole. Non mi sorprese che le grida di dolore di quella creatura avessero fatto tremare gli alberi dalle radici alle foghe. Non era uno schiavo ordinario, ma una creatura ancor più lontana da casa di quanto non lo fossimo io e Rheif. Avevo già incontrato prima dei Vikoniani, nei porti del nord. Esseri grandi e tarchiati, con ampio torace, muso corto e grosse pellicce color cinnamomo che li proteggevano dal gelo pungente delle loro isole. Si spingevano sui nostri mari con le loro navi sottili per commerciare con i Venicii, e per la maggior parte mantenevano relazioni pacifiche, perché conveniva loro farlo. La loro vera vocazione, tuttavia, non era il commercio. Erano scorridori del mare, pirati dall'audacia inaudita, ed è così che preferivano vivere. I Rhemiani davano loro la caccia di tanto in tanto, quando le città costiere cercavano aiuto, e le navi esitavano a prendere il mare per paura. Ma i Vikoniani non li temevano troppo, e non scappavano davanti a loro se non quando era assolutamente necessario. Fermai il cavallo e rimasi ad osservare la scena. Il mio sguardo si appuntò su uno dei tormentatori del vikoniano. Era l'ottimo luogotenente Linius, e non fui sorpreso di trovare anche la sua mano sulla frusta. Portai avanti il cavallo, vincendone la sua resistenza, dopo che aveva percepito l'odore del vikoniano. A nessun animale piace la vicinanza di quelle creature. Linius mi vide, e la sua faccia si rannuvolò. Ma si riprese subito, sfoderando un sorriso di maniera. Guardai il vikoniano, che mi ricambiò un'occhiata d'odio e con un ringhio profondo e gutturale. «Che cosa succede, Linius?» «Oh, si tratta di uno schiavo dell'Aghiir Tharrin», rispose il rhemiano. Batté il manico della frusta sul palmo della mano e sorrise di nuovo. «Non ritiene necessario che i Nicieani abbiano acqua fresca. Lo stiamo convincendo che la sua idea è del tutto sconveniente». «Ti riuscirà difficile convincerlo quando sarà morto, Linius». Il sorriso del rhemiano si allargò ulteriormente. Ma gli occhi tradivano i suoi veri sentimenti. «Se sceglierà di non lavorare», rispose, «allora per lui sarà davvero la morte. Ma questa è una libera scelta che si offre ad ogni schiavo». «Ti prendo in parola per questo», feci, «dato che con la schiavitù hai molta maggiore dimestichezza di quanta non ne abbia io». Linius si irrigidì. «Io faccio il mio lavoro», disse bruscamente. «Che consiste nell'assicurarmi che gli ordini del mio padrone vengano eseguiti con cura».
«Vedo che lo fai con molto piacere». «Io faccio ciò che mi viene richiesto, Aldair. L'Aghiir Tharrin assegna i miei compiti, ed io li eseguo». «È stato dunque l'Aghiir a ordinarti di frustare gli schiavi fino a quando non sono più in grado di lavorare? È stato lui a ordinarti questo?» Il pugno di Linius si strinse sulla frusta. «Aldair, questa non è cosa che ti riguardi». «Non chiamarmi per nome», lo corressi. «Dimentichi qual è il tuo posto». «E tu dimentichi il tuo!», si infiammò Linius. «Sei stato uno schiavo tu stesso». «Lo sono stato. Ma oggi sono un uomo libero. Tu, no». «Io sono il luogotenente dell'Aghiir Tharrin», fece Linius con la voce gonfia d'ira, e lanciò occhiate ai presenti. Stava perdendo autorità e prestigio davanti ai loro occhi, e lo sapeva. «Sei il luogotenente», dissi, «e sei lo schiavo». Linius apri la bocca per parlare, ma poi si morse le labbra. «Che cosa hai detto, schiavo?», chiesi. «Io... io non ho detto nulla». «Forse quell'altro schiavo ora ha idee diverse sul suo lavoro, Linius. Perché non te ne accerti? In questo modo, potrai servire meglio il tuo padrone». Non guardai più il rhemiano, ma spronai il cavallo, spingendolo quanto più vicino possibile al vikoniano. Poi mi fermai, mi chinai sul collo della cavalcatura, e feci finta di parlare all'orecchio della bestia per tranquillizzarla. «Stai attento», mormorai invece nella lingua dei Vikoniani. «Non dar segno di capire le mie parole, pirata del mare, ma ascoltami bene. Il rhemiano godrebbe nell'ucciderti. E lo farà, se ti rifiuterai di lavorare. Questo non è il tuo giorno, ma il suo. Cerca di restare vivo, e forse prima o poi sentirai ancora il ghiaccio sulla tua pelliccia». Poi mi mossi, dirigendomi nuovamente verso la strada ombreggiata dai cedri. Avrei fatto tardi al mio appuntamento con i sacerdoti, ma ormai non potevo far nulla per rimediare. Sentii gli occhi di Linius fissi sulla mia nuca fino a quando gli alberi non si richiusero dietro di me. «Dunque, come è andata?» Tharrin mi guardava da sopra la punta delle dita.
«Bene, penso, mio Signore. Ho seguito il tuo saggio consiglio». «I nomi dei preti che ti hanno interrogato. Li ricordi?» «Sì, mio Signore. Mi sarebbe stato difficile dimenticarli. Uno il peggiore dei due, si chiamava Rhazish. L'altro, non altrettanto cattivo, si chiamava Chamrin». Tharrin non disse nulla. Mi fece ripetere due volte il racconto del mio colloquio, ponendomi di tanto in tanto qualche domanda. «Non hanno spinto a fondo», disse infine. «E tu sei stato abile nelle risposte. È stato un primo tentativo, ed è possibile che tu venga chiamato di nuovo». Scrollò le spalle. «Se accadrà, ci prepareremo. Parlami adesso di quell'altra faccenda. Con Linius. Voglio sentirla da te, anche se so già quello che è successo». Fui certo di fissarlo bene negli occhi. «Mio Signore», dissi, «non era mia intenzione celartela. Solo, non ho avuto il tempo di parlarne». Tharrin fece un gesto, come a cancellar via le mie scuse. «Lo so, lo so, Aldair. Non ti rimprovero per questo. Linius si sta spingendo troppo in là. Sta cercando delle prove di forza, e questo significa che c'è qualcosa nell'aria, non ti sembra?» Aggrottò la fronte. «È come se... si esponesse di fronte ai miei occhi. E non oserebbe farlo se non avesse qualche buona ragione per credere che non sarà punito per questo». Si batté un pugno sul palmo della mano. «E avrebbe ragione, se non fossimo più in grado di amministrare le punizioni...» Mi rizzai sulla sedia e lo fissai. Tharrin scosse le spalle. «È un codardo, Aldair. Qualsiasi cosa si stia preparando, non la sta preparando lui. Non guardarti contro il nemico che fa rumore, ragazzo, ma bada all'assassino silenzioso che scivola nella notte per infilarti una lama nella schiena». «Di che si tratta, allora?» «E chi può saperlo? Il fratello di un re ha più nemici che amici». «Se potessi rimanere per pochi momenti solo con Linius, lui finirebbe con l'essere felice di dirmi tutto quello che c'è nel suo cuore...» Tharrin scosse la testa. «Se la tortura fosse una risposta, l'avrei già fatta eseguire. No. Lui ha già mostrato la mano, e senza volere ci ha dato un avvertimento. Dobbiamo essergli grati per questo». Si volse verso di me e mi gratificò di un sorriso amaro. «Abbiamo avuto una conversazione, una volta, sulla nave. Te ne ricordi? Parlammo della schiavitù, concludendo che la sua accettazione dipende in
grande misura da chi è lo schiavo, e chi è il padrone». «La ricordo bene, mio Signore». «E in effetti le tue azioni lo confermano, Aldair...» Quella notte ci furono disordini in città. Una processione religiosa organizzata dai preti - a quanto sembrava in osservanza di qualche oscuro evento menzionato nel Qua'shar - si snodò attraverso le strade. I cittadini meno rispettabili di Chaarduz presero vantaggio dall'evento, e prima che la notte fosse finita la processione si trasformò in una rivolta. Alcune persone vennero uccise: si trattava soprattutto di gente che non aveva preso parte alle festività. Molti negozi vennero saccheggiati e dati alle fiamme. Al mattino, i quartieri occidentali della città erano in rovina. Tharrin notò che i preti, come Linius, cominciavano a ingaggiare prove di forza. Altre, certamente, ne sarebbero seguite. La notte seguente cavalcai con il nicieano verso una località segreta fuori della città, quasi ai margini del Grande Deserto. Altre figure nascoste da mantelli arrivarono in silenzio, e anche se i loro volti erano coperti, la maestosità del portamento e l'eccellenza delle cavalcature ne tradiva l'origine. Sospettai che fra di essi vi fosse lo stesso sovrano, ma non osai chiederlo. Avvertii che dietro quell'incontro c'erano eventi di grande importanza. Certo, sarebbe stato molto più facile tenere la riunione nel palazzo. Ma, chiaramente, nella stessa corte imperiale c'era qualcuno non degno di completa fiducia. Due giorni dopo l'incontro, il Re proclamò una giornata di festa nazionale, motivandola con la ricorrenza di un oscuro e lontano avvenimento della storia nicieana. Il sovrano apparve alla testa di una imponente e variopinta parata che percorse tutta la città, mentre da grandi sacchi tolti alle Casse del Tesoro nicieano veniva tratta una pioggia di monete che ricadevano sul popolo assiepato nelle strade. Nei parchi pubblici ci furono distribuzioni gratuite di cibo e bibite, e venne reso noto che tutto ciò era un dono personale del Re ai sudditi. I cittadini inneggiarono al loro nobile reggitore con voce altrettanto alta di quella che avevano usato per i sacerdoti, e per il momento la città tornò in pace. Nessuno, tuttavia, credeva che la quiete sarebbe durata a lungo. Il Re era riuscito a guadagnare un po' di tempo, ma nulla di più. Il popolo di Chaarduz è noto per avere la memoria corta: e una volta consumati tutti i cibi e le bevande, e spese tutte le monete, sarebbe tornato preda dell'inquietudine.
Ciascun cittadino sarebbe stato pronto ad ascoltare chiunque si offrisse per distrarlo da una vita monotona, o si dichiarasse intenzionato a riempirne la pancia vuota. VENTI Mancava ancora un'ora all'alba quando Tharrin mandò nel mio alloggio Mehzaar, Capitano della sua guardia personale, perché mi conducesse nei suoi quartieri. Ne fui sorpreso e preoccupato, perché non era mai accaduta prima una cosa del genere. Inoltre, il fatto che avesse incaricato Mehzaar invece di un semplice schiavo, indicava che in gioco c'erano cose importanti. Ebbi la conferma non appena entrai nel piccolo studio dell'Aghiir. Il volto di Tharrin era cupo alla luce dell'unica candela poggiata sulla sua scrivania. «Siediti, Aldair», disse. «C'è del vino davanti a te. Versalo per entrambi». Non attese che i bicchieri fossero colmi per venire al dunque. «Fuori del cancello principale c'è una delegazione di preti. Mehzaar ritiene che uno di essi sia Ch'saam, terzo nella gerarchia ecclesiastica dopo Bhurzal stesso. In vista c'è anche un distaccamento delle guardie armate del tempio, gli Huizim. Si tratta di una compagnia molto imponente, e dovresti esserne lusingato, Aldair, perché sono tutti qui per vedere te». Mi feci cadere una goccia di vino sulla tunica. «Me?» Tharrin fece un gesto stanco. «Te, nel corpo», disse. «Ma me, ovviamente, nello spirito. Non sono ancora pronti per venire a prendere il fratello del Re, ma è come se mi stessero dicendo che prima o poi intendono farlo. Questo», e srotolò sul tavolo una lunga pergamena, «la dice lunga al riguardo. È firmata da Bhurzal in persona, ed è piena di significati reconditi. In buona parte si tratta di vaneggiamenti in linguaggio religioso, ma nella sua essenza dice che un certo Aldair dei Venicii, rhadaz'meh dell'Aghiir Tharrin, è nuovamente richiesto» - Tharrin alzò un sopracciglio privo di peli - «'richiesto', capisci? Significa, Aldair, che ti vogliono di nuovo. Permanentemente, stavolta. Dovrai testimoniare contro di me per qualunque eresia essi abbiano in mente. E poi, immagino, trangugerai una qualche pozione che segretamente avevi indosso e morirai, lasciando una nota per confessare il rimorso che provi nell'essere stato complice dei miei crimini» Il volto del nicieano si rannuvolò.
«Bene, stavolta sono andati troppo in là». Il suo pugno si abbatté sul tavolo. «Non lo permetterò! E, per il Creatore, nemmeno il Re!» Si volse verso di me e scosse la testa. «È stata una sciocchezza mandarti la prima volta», disse cupamente. «Ma non avevo idea di fino a quale punto avrebbero osato spingersi...» Si alzò in piedi e camminò a grandi passi fino all'altro lato della stanza. «Avrebbero potuto prenderti allora. Ma non erano pronti, e devono aver pensato che comunque avrebbero potuto reclamarti quando lo avessero desiderato». Le sue labbra si piegarono in un ghigno di determinazione. «Bene: non ti avranno. Che siano maledetti!» Tharrin sollevò la coppa di vino e la bevve d'un fiato, poi me la puntò contro. «Vai nelle tue stanze e restaci fino a quando non ti manderò a chiamare. E non andare con nessuno che non sia Mehzaar in persona. Sta cominciando, Aldair. Come aveva detto Nhidaaj. Sta cominciando...» Non conoscevo il nome che aveva pronunciato, ma qualcosa nel suo suono, e nel modo in cui Tharrin l'aveva detto, portarono nella mia mente l'immagine dello schiavo cygnano, che non era uno schiavo. Tornai nel mio alloggio come mi era stato ordinato, e fino al giorno dopo vidi soltanto Mehzaar. Il Capitano tuttavia mi tenne bene informato. Nella città stavano accadendo molte cose. Lo stesso Bhurzal aveva mandato emissari al Re chiedendogli di imporre all'Aghiir di consegnarmi al clero per nuovi «onori e istruzioni». A quanto assicuravano i preti, ero richiesto soltanto per questioni religiose, che non avevano nulla a che fare con gli interessi dei reggitori dell'Impero Nicieano. Di conseguenza, il fratello del Re non aveva alcun diritto di interferire. Si diceva che il Re avesse esercitato pressioni insistenti sul fratello, convinto che il clero si sarebbe acquietato se la richiesta fosse stata esaudita. Il sovrano non voleva creare nuovi problemi, dato che la situazione era già molto pesante. Tharrin, tuttavia, era rimasto sulle sue posizioni, affermando - secondo Mehzaar - che se io fossi stato consegnato ai preti, la cosa avrebbe recato danno anziché aiuto alla famiglia reale. Il Re alla fine si era convinto, poiché aveva molta fiducia nel giudizio del fratello. C'erano anche altre storie. Infinite voci correvano per la città. Si diceva che il Creatore stesso era stato visto davanti ai cancelli del palazzo, a mezzanotte, e aveva puntato un dito accusatore verso gli appartamenti reali. Una sentinella nicieana l'aveva fissato in volto ed era diventata di pietra... Si diceva anche che il Re
era diventato pazzo, e aveva ordinato che tutte le chiese fossero bruciate e tutti i preti senza testa; secondo i preti era un presagio che annunciava la morte del raccolto ancor prima della mietitura, e carestia per tutto l'anno seguente... I racconti del genere si moltiplicavano, e secondo l'acido commento di Mehzaar, pareva che la gente credesse a tutti. Io sapevo, tuttavia, che pur se gran parte di queste storie erano parto della fantasia, c'era un motivo per la loro origine. La paura era in agguato nelle strade di Chaarduz, e avremmo visto cose molto più terrificanti dei topi senza testa, prima che la settimana fosse finita. Nessun membro della famiglia reale si allontanava ormai più dai padiglioni vigilati, e anche gli schiavi che indossavano la verde livrea nicieana avevano timore di farsi vedere per le strade. Nel tardo mattino seguente, alle guardie del Re venne fatto pervenire un proclama. Affermava che un soldato che aveva preso parte alla spedizione nel territorio dei Tarconii aveva confessato ai preti del Tempio di avere assistito a riti demoniaci celebrati a mezzanotte nelle parti più profonde della città sepolta. Impegnati in questi riti, e confusi insieme in modo vergognoso e immenzionabile, erano Aldair, rhadaz'meh dell'Aghiir Tharrin, l'Aghiir stesso, e un barbaro stygiano di nome Rheif. Quest'ultimo, che era stato nominato guardiano del giovane Principe Dhar'jeem, era stato visto divorare il fanciullo e sostituirlo con un demonio. Questo demonio, che aveva assunto la fattezze del figlio del Re, avrebbe un giorno governato Niciea, trascinando all'inferno chiunque avesse seguito il suo dominio. «Dunque ci siamo», annunciò in tono gelido Tharrin. «Sono usciti allo scoperto e si sono dichiarati contro il Re.... anche se ben pochi nella canaglia radunata qui sotto se ne rende conto, o se ne cura». Avevo fatto osservare a Tharrin che a quanto pareva Bhurzal aveva impiegato ogni arma a sua disposizione, eccetto quella che più temevamo. «Per la verità, non mi attendevo che l'avrebbe usata», mi aveva risposto il nicieano. «O, quanto meno, non direttamente. Il pericolo per noi, Aldair, non sta nel fatto che possano rendere pubblici i tuoi appunti, quanto nel fatto che i preti sanno che essi esistono. Stai pur certo che, in quanto sta succedendo, le tue annotazioni hanno giocato una parte. Ma lascia tempo a Bhurzal... È un pazzo, ma non uno sciocco. Userà qualsiasi arma nella sua lotta contro la famiglia reale. Anche quella che sai... ma forse non necessa-
riamente nel modo che ti aspetti». Tharrin si interruppe e fissò il vino nella coppa. «Mi ha fatto sapere che ha delle prove in mano. E me lo ha dimostrato». «Che significa, mio Signore?» Ero sbalordito per questa ultima osservazione. «Quel proclama, Aldair». Il nicieano sorrise amaramente. «Vedi, è una specie di piccolo gioco di doppi sensi. C'è di tutto: riti demoniaci in una città ancestrale... pratiche immenzionabili... Sappiamo bene qual è l'argomento 'immenzionabile' per questi preti, non è vero, Aldair? E lo sa anche Bhurzal. In un certo senso, lui ed io ragioniamo in modo molto simile. Nessuno di noi due intende rivelare al pubblico la consapevolezza di una 'storia perduta' del mondo. Ma per farlo abbiamo ragioni differenti. Molto differenti...» Avrei voluto approfondire la questione, ma sapevo bene che era meglio non porre domande a Tharrin, quando si toccavano certi argomenti. Tuttavia, non potevo fare a meno di considerare gli eventi con meraviglia. Da quelle mie note, prese rubando le ore al sonno sulla costiera dei Tarconii, erano sorti eventi straordinari. Grazie ad essi, ero stato elevato a un rango considerevole. Adesso, invece, alla luce delle ultime vicende, sembrava che la questione non fosse poi così importante. Ma non potevo dimenticare che Tharrin era entrato in contrasto con lo stesso sovrano per strapparmi alle mani di Bhurzal. Lo aveva fatto soltanto perché provava affetto per me? Perché onorava il legame fra un padrone e il suo rhadaz'meh? Forse. Ma non potevo dimenticare neppure che il nicieano una volta mi aveva detto chiaramente che, in materia di città sepolte e anni perduti, sapeva molto di più di quanto avesse intenzione di rivelare. Certamente, di questo ero convinto. Più tardi, quello stesso giorno, incontrai nuovamente Tharrin, stavolta di ritorno da un colloquio con il re. «Dobbiamo aspettarci il peggio, Aldair», mi disse cupamente, «e tutto ciò che il peggio porta con sé. Quando le cose precipiteranno, non potremo fare altro che maledire noi stessi. Noi, la Casa Reale di niciea. E anche i reggitori dell'Impero Rhemiano. Perché ciò che oggi sta accadendo nel nostro paese, potrebbe facilmente stritolare anche quel tuo mondo al di là del Mar Meridionale». Queste parole mi diedero da pensare. Avevo visto i sistemi usati dai preti di Chaarduz per creare disordine e portare sull'orlo della rivolta la grande
città. Ma da qui a... Tharrin percepì i miei interrogativi. «Soffiano i venti del cambiamento, Aldair», disse in tono enigmatico. E mi lasciò a meditare su quest'altra sentenza. L'Aghiir e i nobili sembravano sempre impegnati in qualche incontro, anche se non so dire che cosa uscisse mai dai loro conciliaboli. Mentre discutevano, tuttavia, i preti eccitarono un'altra rivolta diffondendo la voce che era stato avvelenato il grano custodito nei depositi pubblici. Prima che l'esercito potesse ristabilire l'ordine, le riserve di frumento di tre mesi erano state bruciate e gettate in mare. Questa azione - da loro stessi effettuata - suscitò un tale furore nei rivoltosi, che appiccarono il fuoco a tre navi da guerra ancorate nel porto. Un forte vento dal mare sollevò pezzetti di legno e di tela in fiamme e li portò fino a Chaarduz, dando vita a dozzine di piccoli incendi in zone diverse e molto distanti dalla città. Da un balcone della villa di Tharrin, Rheif ed io osservammo lo spettacolo nelle ultime ore del pomeriggio. Nessuno dei due aveva molto da dire. Io avevo avuto una notte faticosa, ed ero assai incerto sul destino che mi avrebbe portato l'alba dell'indomani. «Aldair», fece infine lo stygiano. «Che cosa ne sarà di noi?» «Come puoi pensare che io sappia rispondere a una simile domanda?» gli chiesi. «Fa caldo, qui, Aldair. Anche di notte non c'è vento. E quando c'è, anch'esso è incandescente. Al nord, invece, in questa stagione di sicuro è già caduta molta neve. Un bel manto di neve, con orme di lepre che lo chiazzano qua e là. Te lo immagini?» «Certo. Me lo immagino». «E bei gufi grassi che aspettano solo di essere buttati giù dagli alberi con una sassata precisa. E...» «Rheif», lo interruppi, «si sta facendo tardi. È tempo di andare a dormire. Domani, forse, potremmo rimpiangere di non aver riposato quando ci era possibile...» «È già domani», annunciò lo stygiano. «E se tu avessi avuto sonno, Aldair, non ti sarebbe venuto il desiderio di salire fino a questo balcone per vedere Chaarduz che brucia. Anche se devo ammettere che si tratta di uno dei più splendidi incendi che io abbia mai avuto occasione di ammirare...» VENTUNO
Come aveva notato Tharrin, l'Alto Sacerdote Bhurzal era un uomo astuto, che conosceva l'umore del popolo. Molte persone erano perite negli incendi che avevano parzialmente distrutto i depositi reali di grano e devastato numerosi edifici presso il porto. A mezzogiorno la piazza di fronte al Tempio era un mare di verdi facce irate. Un grande grido di rabbia sorgeva dai cittadini di Chaarduz, e molti agitavano laceri stracci gialli: il colore della morte, segno di lutto portato dai parenti di una vittima. Anche se i morti non superavano il centinaio, presto i vessilli gialli furono migliaia, finché sembrava che ogni singola persona, in città, dovesse lamentare la perdita di qualcuno. Così contagioso fu questo comportamento che, presto, le mogli cominciarono a levare alti lamenti per il marito defunto; il quale marito, a sua volta, piangeva sulla memoria dell'amata consorte, con cui mai più avrebbe diviso il letto coniugale. Bhurzal sapeva che se, per un impulso improvviso, quella folla avesse deciso di avanzare, avrebbe sgretolato il Tempio pietra su pietra, calpestando chiunque si fosse messo sul suo cammino. Di conseguenza, indossò una gialla tunica di morte, e si presentò alla torma. Alzò le braccia al cielo, e l'ampia tunica si aprì attorno alla sua magra figura, mentre i suoi occhi terribili sembravano fissare ciascuno degli astanti. La folla si immobilizzò e trattenne il respiro, perché ben di rado Bhurzal si faceva vedere alla gente comune. Quando fu sicuro di aver catturato l'attenzione di tutti, cominciò a parlare. Disse che quanti erano morti la notte precedente si erano guadagnati un posto speciale alla destra di Aastar il Creatore, perché, invero, avevano sacrificato la vita per Lui. Chaarduz ululò la sua approvazione a queste parole, ma Bhurzal aveva molte altre cose da dire, e alzò la mano imponendo il silenzio. Nessuna di quelle anime benedette - spiegò - poteva ancora entrare nella gloria del Mondo di Poi. Per loro, la strada era sbarrata. Erano stati commessi atti impuri contro il Creatore, e le porte del regno dei beati erano serrate. E non si sarebbero più riaperte, se non quando questi atti - e i demoni che li avevano perpetrati - fossero stati sottoposti al debito esorcismo purificatore. La gente non aveva bisogno di ulteriori delucidazioni. Conoscevano l'identità dei demoni in questione, anche se Bhurzal si era guardato bene dal nominarli. Come un sol corpo, la turba distolse la sua ira dal Tempio, e si diresse
verso il grande muro che circondava le residenze reali... «Non agirà», esplose Tharrin. «Non fa mai nulla. Nemmeno ora che quel maniaco ha dichiarato che suo figlio è un demonio, e ha sollevato il popolo contro di lui!» I suoi consiglieri, i nobili e gli alti ufficiali non dissero nulla. Rimasero a guardarsi le mani, o sbatterono le palpebre alla luce del sole che penetrava sotto il portico, fissando le torri di Chaarduz. Molti di loro, notai, avevano le tuniche macchiate dal proprio sangue. Nessuno, però, pensava che quelle ferite fossero degne d'onore. Se le erano procurate respingendo il loro stesso popolo che quella mattina aveva dato l'assalto alle mura, lasciando sotto di esse più di cinquecento tra morti e feriti. Quel giorno, c'era pianto da entrambi i lati del muro. «Tharrin», disse infine un cugino anziano: «forse il Re pensa che non ci sia nulla che lui possa fare. Oggi mi ha detto: 'Come posso chiamare me stesso sovrano, e padre di Niciea, se uccido i miei figli?'» «Dimentica che i suoi cosiddetti 'figli' hanno dato l'assalto al palazzo per massacrare il suo figlio vero», rispose Tharrin. Strinse l'impugnatura della spada ricurva che portava al fianco, e i suoi occhi scuri si mossero in circolo, fulminando i presenti. «Io non intendo incitare all'eccidio dei Nicieani. È quel nido di traditori che si nascondono nel Tempio, che vorrei passare a fil di spada». Mi accorsi che molti trattenevano il respiro a queste parole, e diversi consiglieri si scambiarono occhiate attraverso la stanza. «Toglieresti la vita a un prete?», chiese il cugino che aveva già parlato. «Sì, visto che lui vorrebbe togliere a me la mia», fece Tharrin. «E a te la tua, se è per questo». «Io non ho intenzione di dannare la mia anima», rispose l'uomo. «In tal caso, mio Signore, presto avrai modo di compiere la tua scelta». A parlare era stato un ufficiale anziano e coperto di cicatrici, che per più di metà della sua vita aveva servito Niciea. Il nobile cugino arrossì, e si volse verso il militare. «Non hai diritto di parlare in questo modo, Dhaarim!» «Io ho combattuto e combatterò per te, mio Signore», rispose Dhaarim. «Ho il diritto di morire sulle mura, tenendo lontana dalla tua gola la canaglia eccitata dai preti...» «Basta così», interruppe Tharrin. Si era alzato di scatto dalla sua sedia dietro la scrivania, e con quel movimento aveva rovesciato la coppa di
denso vino scuro che stava bevendo. Vidi il liquido cremisi allargarsi sul ripiano di legno, scivolare oltre l'orlo del tavolo, e spargersi sulle pietre del pavimento. «Non siamo qui per questionare tra noi. Né per condannare le parole del Qua'shar, che tutti consideriamo sacre. Ma io vi ricordo, signori, che non è il nostro Creatore che sta sollevando il popolo contro il suo Re, e ci definisce dèmoni ed eretici. Sono creature terrene, che stanno compiendo delitti infami nel nome di Aastar. E agiscono per la loro gloria, non per la Sua!» Gran parte dei presenti approvò con cenni vigorosi queste parole, e molti proclamarono a voce il loro consenso. Tuttavia, anche se tutti convennero che qualcosa doveva esser fatto, che un'azione doveva essere intrapresa senza indugio per allontanare il disastro, tuttavia la riunione finì senza nessuna decisione concreta. Perché nessuno dei presenti aveva l'autorità del Re, e nessuno poteva trasformare in fatti le proprie parole. Ebbi ben poco tempo per meditare sul mio destino. L'immediato mi diede tanto da fare da non consentirmi di pensare al futuro. L'assalto alle mura aveva insegnato una triste lezione: anche con un esercito a disposizione, la famiglia reale era pericolosamente vulnerabile. Una turba di cittadini disarmati poteva, se numerosa, sfondare le difese dei soldati. E, una volta svanita la forza militare, nulla avrebbe impedito alla folla di accanirsi sul palazzo reale e sui possedimenti all'intorno, fino a ridurli ad un cumulo di rovine. Dietro le mura, il terrore era quasi uno spettro visibile. Ed io pensai che era strano come, fra tutti i nemici da cui deve guardarsi un impero, quello che si trovava all'interno dei suoi confini era l'unico a possedere veramente le chiavi della distruzione. Molti di noi sapevano che il pericolo era in agguato all'interno stesso delle mura. Perché i preti avevano fatto bene il loro lavoro, ed avevano gettato la scomunica su tutti quegli ufficiali e soldati che osavano levare le mani sul popolo o sui sacerdoti di Aastar. Alcuni avevano già disertato, e si temeva che molti altri si preparassero a tradire, rimanendo in silenzio nei loro ranghi, ma pronti al momento opportuno a seguire gli ordini di Bhurzal. La famiglia reale, in tal caso, avrebbe dovuto guardarsi anche dai potenziali assassini che dimoravano sotto il suo tetto. Tharrin stava trasformando la sua villa in una fortezza, e io lo aiutavo nel lavoro. Molti nobili, tuttavia, erano troppo orgogliosi per prendere analoghe precauzioni. Non era onorevole mostrare paura, dicevano: special-
mente contro la canaglia in armi. Io sapevo, tuttavia, che questa paura si annidava nel profondo dei loro cuori. Tharrin non aveva nessuna simpatia per loro, e apertamente li definiva sciocchi. Quella notte, nuovamente le strade furono in balia della folla. Ci furono nuovi incendi, e l'esercito non poté impedire altro che una piccola parte delle distruzioni. Molti ufficiali e soldati fedeli al Re vennero uccisi dalle guardie del tempio, gli Huizim dalla tunica nera. Ufficialmente, quelle truppe avevano l'incarico di difendere gli edifici sacri: ma si sapeva che i compiti loro assegnati erano molto più vasti. Ad un certo momento, durante i disordini, il luogotenente Linius scomparve. Quando Tharrin seppe la cosa, espresse il suo disappunto per non aver fatto in tempo a sgozzare personalmente quel demonio. Quanto a me, lo avrei volentieri sostituito nella bisogna, perché quel traditore aveva compiuto una dose più che abbondante di misfatti. Tre eventi importanti si verificarono quel giorno, prima del tramonto del sole. Ciascuno di essi lasciò un segno nella storia di Niciea. All'alba, Bhurzal mostrò la sua forza lanciando una formale proscrizione contro il Re e tutti i membri della sua famiglia, accusati di eresia e di numerosi altri crimini. Qualsiasi cittadino, soldato o schiavo che avesse portato un nobile di fronte alla «giustizia» avrebbe ricevuto un compenso soprannaturale equivalente a qualcosa di molto prossimo alla santità. E - aveva aggiunto Bhurzal - ci sarebbero state anche considerevoli ricompense «terrene». A questo punto, il Re non aveva altra scelta che l'azione. Dichiarò la chiusura dei templi e promulgò sentenza di morte contro tutti gli ecclesiastici che avessero continuato a seguire le direttive di Bhurzal. Alcuni preti obbedirono, e chiesero rifugio negli appartamenti reali. Riferirono che Bhurzal era ormai del tutto impazzito - se mai era stato sano - e che molti dei suoi seguaci, anche i più prossimi, avevano paura di lui. Le azioni del Re produssero un inatteso beneficio. I cittadini fedeli alla sua autorità, e che fino ad allora avevano temuto di agire, uscirono allo scoperto e cominciarono a combattere al fianco dell'esercito imperiale. Le notizie più gravi, tuttavia, dovevano ancora venire. Ci giunsero per bocca di un corriere il cui cavallo morì sotto la sella appena giunto nel cortile. Al sud, i ribelli si erano sollevati di nuovo. Stavolta, non si trattava di poche tribù isolate. L'intero deserto, a quel che sembrava, si era ribellato sotto la guida di un solo capo, Fhazir dello Sha'fel.
Tharrin mi disse che si trattava di un ambizioso capitano in cerca di potere. Una bestia in sembianze d'uomo. «Ormai, non c'è più speranza», concluse tristemente il niceano. «Bhurzal ha giocato le sue carte Questo era ciò che stava aspettando. Ora, è arrivato». Rimasi più che stupefatto a queste parole. «Ma, mio Signore», feci, «è certo che sia opera dei preti? Non riesco a credere che...». Tharrin mi interruppe con uno stanco gesto della mano. «Ogni dubbio è impossibile, Aldair», disse. «Te lo garantisco. Saremmo dei pazzi, se ci illudessimo del contrario. Le forze di Fhazir sono state comprate con l'oro del Tempio. E tu hai appena appreso una cosa che lo stesso Bhurzal non vuole, o non può, ammettere nemmeno con se stesso: che facendo ciò ha consegnato a quel mostro le chiavi di Chaarduz, e ci vorrà il diavolo in persona per costringerlo a restituirle...». Mehzaar, il Capitano delle guardie di Tharrin, mi diede un quadro esatto della situazione più tardi quello stesso giorno, quando ci incontrammo sotto le mura. Io stavo cercando di insegnare, senza troppa fortuna, la nobile arte del tiro con l'arco a un gruppo di civili fedeli alla famiglia reale. «È difficile riconoscere la città», mi disse il nicieano, grattandosi le scaglie al di sotto del suo elmo da guerra di bronzo. «Io ci sono nato, Aldair, e ne conosco tutte le strade, tutti i vicoli, a palmo a palmo. Ma ora, certe zone sono interamente scomparse, cancellate del tutto. La gente è diventata selvaggia. I vicini sono l'uno contro l'altro, gli amici di tutta una vita si scannano a vicenda». Si appoggiò al muro e alzò gli occhi verso la villa in cima alla collina. «Una parte della popolazione, come sai, si è ribellata alle imposizioni del clero. Ma è troppo tardi, e sono troppo pochi: non riusciranno a impedire ciò che sta per succedere. Sanno che hanno messo in gioco le loro vite per nulla: perché se l'esercito non riuscirà a fermare Fhazir, lui ucciderà tutti, e raderà al suolo ciò che resta della capitale». Il Re lasciò nuovamente la città per affrontare le forze ribelli, e ben poco ordine rimase a Chaarduz. I soldati che non erano partiti per affrontare Fhazir - ed erano pochi quelli che il Re aveva potuto lasciare dietro di sé presiedevano ormai le mura delle residenze reali. Non potevamo inviare pattuglie a percorrere la città. Ormai, per le strade spadroneggiavano i teppisti, e gli Huizim. E anche quegli assassini dalle tuniche nere, apprendemmo, avevano il loro da fare.
«Devo ammettere che quando tu ti imbarchi per un'avventura, non fai le cose a metà», disse Rheif. I suoi occhi di brace avevano di nuovo un barbaglio che parlava di terre lontane, e lo avvisai che se mi avesse descritto di nuovo le distese innevate al nord, le tracce di lepre, e i gufi sui rami, non gli avrei più rivolto la parola per tutto il resto della mia vita. Mi ribatté che tale minaccia era risibile, data l'esiguità della vita che rimaneva a entrambi. Più tardi, quello stesso giorno, mi trovavo sulle mura con Tharrin, quando un messaggero lo avvertì che la sua presenza era richiesta urgentemente nella villa. Cavalcai con lui, perché, come rhadaz'meh, ero ormai sempre al suo fianco. Fui sorpreso quanto l'Aghiir nel vedere Nhidaaj il cygnano che ci aspettava nel cortile. Nhidaaj parve leggere l'espressione sul volto del suo padrone. «Ormai», disse in tono grave, «c'è ben poca necessità di mantenere segrete certe cose. In ogni caso, l'informazione che porto non lo resterà ancora molto a lungo». Il cygnano parlò rapidamente, e le sue parole cancellarono il colore dal volto di Tharrin. Lo schiavo che non era uno schiavo aveva molti occhi ed orecchi a Niciea. Una persona degna di fede, che era appena ritornata dal deserto, gli aveva riferito che il Re era caduto in una trappola. C'erano, è vero, forze ribelli al sud: ma erano soltanto esche destinate a far uscire l'esercito da Chaarduz. Il vero attacco sarebbe venuto dall'est. Diecimila guerriglieri si avvicinavano rapidamente seguendo la costa, guidati da Fhazir dello Sha'fel. Tutto ciò, mentre il Re dava la caccia ai fantasmi nel deserto... VENTIDUE «Laggiù», disse Mehzaar puntando il dito. «Quella duna che ha la forma dell'ala di un uccello, proprio davanti a quella cresta». Seguii la mano del nicieano, ma non vidi nulla. Né mi pareva impossibile vedere altro che il nulla in quell'immensa distesa piena di sabbia. Guardai Mehzaar. Era immobile come una pietra accanto a me. Solo i suoi occhi, neri come l'agata, erano visibili tra le pieghe della divisa da deserto. Il sole era lontano alla nostra destra, già all'orizzonte. La sabbia era ancora calda sotto di noi, ma una leggera brezza pomeridiana cominciava a sollevare mulinelli sulla cima delle dune più alte.
«Sono lì», aggiunse Mehzaar senza voltarsi. «Sono quattro. Forse più indietro ce n'è un altro, rimasto a guardia dei cavalli». «Come puoi essere sicuro che siano uomini di Fhazir? Non potrebbero essere viaggiatori dispersi, mercanti?». «Sono uomini di Fahzir», disse semplicemente il nicieano. I suoi occhi scuri catturarono per un momento il mio sguardo. «Fhazir non è uno sciocco. Sa che non può far muovere diecimila uomini lungo la costa fino alla città senza essere visto. E sa che noi avremmo fatto proprio ciò che stiamo facendo: mandare pattuglie ad avvertire il Re perché torni indietro in tempo». Si sfregò pensieroso la mano sul mento. «È per questo che gli uomini sono lì. Per fermarci». «Il deserto è grande», dissi. «Potremmo aggirarli, senza farci vedere». Il nicieano sorrise stancamente. «Questo, Aldair, è proprio ciò che loro vorrebbero che facessimo. In questo modo perderemmo tempo, dissiperemo le nostre magre forze, consumeremmo l'acqua ed i cavalli. E poi, naturalmente, incontreremmo altre pattuglie, dopo di questa». Scosse la testa, e guardò all'indietro, sopra la sua spalla, i dieci guerrieri nicieani che in perfetto silenzio montavano a cavallo dietro di noi. «Avrai modo di usare per il meglio quel tuo arco di cui sei tanto fiero, amico mio. Fa' in modo di non sprecarne le frecce...». I cavalieri di Fhazir ci videro subito, perché Mehzaar non aveva fatto alcun tentativo di celare l'attacco. Ci dirigemmo verso il nemico, sulla sabbia compatta, divisi in due colonne: lancieri a destra, arcieri a sinistra. Gli uomini di Fahzir aspettarono finché non fummo quasi loro addosso. Poi si lanciarono urlando giù per la duna, con le lunghe tuniche che ondeggiavano nel vento, le armi scintillanti negli ultimi raggi del sole al tramonto. Mehzaar fece fermare le colonne con un gesto della mano. I ribelli piegarono verso sinistra, poi si gettarono di corsa verso le nostre forze, nell'intento di assalirci di fianco. Cercavano di evitare gli arcieri, ovviamente; ma Mehzaar non si lasciò sorprendere. I soldati nicieani rimasero piantati nel terreno, aspettando l'assalto senza muoversi. Quando i ribelli furono a non più di trenta metri di distanza, il Capitano fece un nuovo segnale. Le due colonne si voltarono verso sinistra, e i lancieri si misero rapidamente di Iato, lasciando il posto agli arcieri. Gli archi vibrarono, scagliando dardi verso un bersaglio ormai
abbastanza vicino. Tre ribelli caddero sulla sabbia. I lancieri diedero di sprone ai cavalli, passarono davanti agli arcieri, e rapidamente ebbero ragione degli ultimi due guerriglieri rimasti. In pochi minuti, era tutto finito. «Prendete la loro acqua e le armi, e recuperate le frecce», ordinò Mehzaar. «Lasciate stare i cavalli. Non abbiamo tempo di andarli a cercare...» Quella notte non ci furono altri incontri. Cavalcammo rapidamente, approfittando delle ore più fresche. Durante il giorno, con i raggi del sole cocenti sulle nostre teste, non avremmo potuto mantenere quell'andatura. All'alba, un'altra pattuglia di ribelli ci avvistò, e stavolta le cose non furono altrettanto facili. I guerriglieri a cavallo erano dodici, e ci assalirono da tutte le direzioni, offrendo un bersaglio difficile per gli arcieri. Arrivarono loro addosso rapidamente, obbligandoli a estrarre le spade. In qualche modo, mi accorsi del pericolo un secondo o due prima degli altri, e allontanai il mio cavallo dalla mischia in cerca di spazio. Davanti a me si parò un ribelle seminudo. Incrociai la sua lama ricurva con la mia. Il cozzo dell'acciaio sull'acciaio mi intorpidì le dita fino all'osso, e il colpo per poco non mi fece cadere a terra. Era molto più forte di me, e lo sapeva. Nel braccio del mio nemico c'erano forza e peso sufficienti a dividermi in due con un sol colpo, se mi fossi lasciato toccare. La sua lama mi fischiò di nuovo all'orecchio, e io piantai gli speroni nella pancia del mio cavallo. La bestia scattò in avanti, e presto fra me e il ribelle ci fu una larga striscia di sabbia. Il guerrigliero era sempre dietro di me, ma non mi voltai a guardarlo. In pochi secondi avevo compiuto un semicerchio attorno al nucleo della battaglia. Non aspettai più a lungo. Tirando selvaggiamente le redini, feci fermare l'animale, e nello stesso tempo lo feci voltare su se stesso. Molto prima che il movimento fosse finito, nelle mie mani c'era già un arco con la freccia incoccata. Negli occhi dell'uomo di Fhazir ci fu appena il tempo per un lampo di sorpresa, prima che il mio dardo gli si piantasse al centro del petto. Un altro cavaliere ribelle si staccò dal mucchio, lasciando a terra un soldato nicieano. Trassi una nuova freccia e lo inchiodai alla sua sella; quindi mi misi a trottare in circolo alla ricerca di altri bersagli. La lotta finì soltanto quando tutti gli uomini di Fhazir furono morti. «Sono buoni combattenti», disse Mehzaar, «anche se in gran parte senza disciplina. In genere, non lottano fino all'ultimo sangue: la loro tattica con-
siste nell'uccidere e ritirarsi». Scosse la testa cupamente. «Ma questi sono diversi, Aldair. Non fuggono dopo aver vibrato il colpo, perché Fhazir ha dato loro un compito particolare. Non ci sarebbe onore per loro se tornassero indietro vivi, senza aver prima ucciso l'ultimo di noi. Se lo facessero, ci penserebbe Fhazir stesso a farli morire di mille morti». Mi fissò negli occhi con uno sguardo inquisitivo. «Questo è ciò che abbiamo di fronte. Forse rimpiangerai, rhadaz'meh, che l'Aghiir Tharrin ti abbia scelto per questo privilegio». «Mehzaar», gli risposi, «io non rimpiango nulla». Il Capitano annuì e si guardò le mani. «Non intendevo dubitare di te. Gli uomini sanno che tu sei qui per ordine speciale dell'Aghiir, e lo so anch'io. E so che tu puoi comportarti come vuoi. Tre dei nemici sono stati uccisi da te, e uno solo è stato eliminato con una freccia. La prossima volta, anche i miei arcieri saranno così intelligenti da allontanarsi in tempo dal campo di battaglia, come hai fatto tu. Anche se non ti confesseranno mai di aver preso l'insegnamento da te». Mi guardò, e sorrise alla mia espressione. «Sì», aggiunse, «quando ti hanno visto fuggire, hanno pensato che tu fossi un codardo. Ma ora si vergognano di aver dubitato di te. Se avessi avuto fra i miei un altro 'codardo' come te, avrei più uomini in sella, ora...» Due soldati nicieani erano stati uccisi nello scontro, e altri due feriti. Questi ultimi, ovviamente, per Mehzaar contavano quanto i morti. C'era poco che si potesse fare per loro, e li lasciammo nel deserto con un otre d'acqua. Lo rifiutarono, e per costringerli ad accettarlo Mehzaar dovette dire loro che era un ordine. Lasciammo loro anche i cavalli, perché avevamo catturato quelli dei ribelli. Sapevamo, naturalmente, che non avremmo rivisto mai più quei nostri compagni. I guerriglieri sarebbero stati loro addosso non appena noi fossimo stati fuori di vista. Intorno a mezzogiorno incontrammo altri quattro ribelli, e ne avemmo ragione rapidamente. Mehzaar aveva cambiato l'ordine di marcia, in modo che una specie di mezzaluna protettiva formata dagli arcieri vigilava i fianchi dei lancieri che avanzavano. Un'ora più tardi, fummo assaliti di nuovo. Stavolta, i cavalieri erano otto. Erano guerrieri feroci, pronti a uccidere e preparati a morire. Quando la battaglia fu terminata, solo cinque guerrieri nicieani rimanevano in sella. Lo stesso Mehzaar era stato seriamente ferito. Lungo la sua coscia correva un profondo squarcio. La carne verde era aperta, e il Capitano aveva perso molto sangue. Con il volto grigio come il
piombo, il nicieano risalì a cavallo, e partimmo nuovamente. Il sole era senza pietà. Se ci avessero assaliti un'altra volta, ero certo che non sarei riuscito neppure a sollevare il mio arco. Non sudavo più, e sapevo che questo era un brutto segno. La mia pelle bruciava, e non era più protetta da alcun umidore. Non riuscivo a vedere bene, e mi sembrava che dietro ogni duna si nascondessero orde di ribelli. Dopo aver visto i primi caduti nei nostri ranghi, avevo cominciato a dare quasi per scontato che non sarei tornato vivo da questa avventura. Questa consapevolezza non mi recava timore, ma soltanto rabbia. E per tutti gli altri Nicieani era lo stesso. Ma perché mai, mi chiesi, ero così pronto a gettare via la mia vita? Soltanto uno sciocco non si sarebbe reso conto, sin dall'inizio, che eravamo morti, che Fhazir poteva giocare con noi come il gatto col topo, mandandoci incontro tante pattuglie quante voleva. Fino ad allora si era soltanto divertito. Non importava se la nostra spedizione, invece che di un pugno di uomini, fosse stata composta di cinquanta, cento soldati. Nessuno di noi sarebbe mai riuscito a raggiungere il Re. E nessuno se lo aspettava... Sentii gli occhi di Mehzaar su di me. «Vedo che hai capito, Mastro Arciere». «Ho capito. E tu lo sapevi fin dall'inizio». «Lo sapevo. E lo sapeva anche il mio Signore Tharrin». «Ma tu sei qui ugualmente». «Sono qui», disse con voce stanca. «Anche l'impossibile deve essere tentato, rhadaz'meh. E la nostra era un'impresa impossibile, ma non si poteva non compierla». Mi rendevo conto. Ma questo non rendeva certo la morte più facile. «Tu non sei un nicieano, anche se sei legato al mio Signore», fece Mehzaar. «Non sarebbe un disonore per te, se tu tornassi. Anzi, se lo facessi ci renderesti un servizio. Devono essere avvertiti, al Palazzo, che il Re non verrà». «E che vantaggio porterebbe questa consapevolezza, Mehzaar? Nessuno, e tu lo sai bene». Mehzaar rise, finché un accesso di tosse non lo costrinse a smettere. «Uomo del nord», disse poi, «ti ho offerto la vita soltanto perché sapevo che non l'avresti accettata. Ho avuto modo di conoscerti bene». «Ti ringrazio per queste parole». «Hai servito bene il tuo Signore», disse, e si chiuse nel silenzio. Non lo guardai, perché sapevo che il dolore della sua ferita gli faceva torcere il
volto. Non è decoroso fissare un guerriero in tali condizioni. Il sole di bronzo brillava ancora come una fornace che consumava tutto, schiacciandoci contro la sabbia. L'aria incandescente serrava i polmoni e rendeva penoso ogni singolo respiro. Sorrisi stancamente a me stesso. Non è certo il panorama innevato del nord, che Rheif nomina sempre. Non ci sono turbinii di ghiaccioli sui cespugli... né tracce di lepre da seguire... Udii un lieve suono dietro di me, l'inizio di un sospiro, e mi voltai in tempo per vedere Mehzaar che scivolava giù dalla sella. Smontai immediatamente per soccorrerlo, ma due soldati mi avevano preceduto. Era chiaro che per il Capitano dell'esercito di Niciea non c'era più nulla da fare. Più tardi, nel pomeriggio, uno dei cavalli crollò ai piedi di una duna. Il cavaliere ci seguì a piedi per un tratto, ma una volta, quando mi girai, non lo vidi più. Il sole stava per tramontare, e pensai che sarebbe stato più piacevole morire nel fresco della notte piuttosto che sotto il sole ardente. Giurai, perciò, che avrei tenuto duro. Mi sarei aggrappato alla vita, finché non avrei visto le prime stelle brillare, e sentito il primo alito delle brezze notturne. Non sarebbe andata così male, in fondo. Se fosse stata già notte. Se non ci fosse il sole, quel sole di bronzo... Il mio cavallo si fermò all'improvviso, e così facendo mi distolse dalle mie meditazioni. Dietro di me, era rimasto un solo nicieano. Il cielo era arancione, il deserto una distesa cremisi. Il soldato puntò una mano, e io aguzzai gli occhi nella direzione indicata. Il terreno si sollevava verso la cresta di un'alta duna. Sull'orlo, si allineavano i cavalieri di Fhazir, l'uno accanto all'altro, a perdita d'occhio. Scossi la testa e sbattei le palpebre. Dovevano essere duecento guerrieri. O due volte tanti. Non mi fermai a contarli. Mentre guardavamo, un guerriero si staccò dagli altri e scese lungo il fianco della duna verso di noi, lasciando dietro di sé una lieve nube di sabbia. «Forse viene a dirci che vogliono arrendersi», feci. Ma il nicieano non parve apprezzare la mia battuta. Il cavaliere si fermò a una ventina di metri da noi, fece impennare il suo cavallo, gettò qualcosa a terra, quindi tornò sul ciglio della duna, cavalcando con grande effetto. Guardai il nicieano, e il soldato smontò, raccolse l'oggetto e me lo porse. Era un otre d'acqua, pieno fino al limite. «Difficile da credere», dissi.
«Non del tutto», fece il nicieano. Mi prese l'otre, tolse il tappo e annusò il contenuto. «Orina di cavallo», disse, e guardò con disprezzo verso la collina. «Sono uomini di Fhazir, sicuramente...» VENTITRÉ La pattuglia nicieana mi trovò poco fuori della città. Ero a piedi: già tre cavalli mi erano morti sotto le gambe, l'ultimo più di un giorno prima. Io stesso ero più morto che vivo: bruciato e incartapecorito dal sole, ben diverso dal sano giovane delle Province settentrionali che ero stato non molto tempo prima. Tuttavia non potevo lamentarmi: ero vivo, mentre tutta la mia strada era segnata dalle ossa dei miei compagni, che avevo lasciato dietro di me. Fu un caso fortunato l'aver incontrato soldati fedeli al Re, perché la capitale e le sue vie di accesso erano diventate più pericolose dello stesso deserto. C'erano pochi ingressi sicuri, noti soltanto a chi aveva combattuto nella battaglia per la città. Gran parte delle strade erano chiuse, o bloccate dalle rovine. Nei quartieri occidentali divampavano ancora gli incendi, e il porto era inutilizzabile. L'aria stessa era ormai permanentemente avvelenata dal sentore della morte. Alcuni dicevano che l'esercito di Fhazir era a meno di un giorno di marcia dalla città. Secondo altri i ribelli si aggiravano già fra le case, ma pochi credevano che ciò fosse vero. Tutta la zona a est del Palazzo Reale era stata abbandonata, e nessuno osava avventurarvisi, salvo i razziatori e le bande di disertori. Questi uomini erano un pericolo per tutti, perché non prestavano obbedienza a nessuno. Erano stati corrotti dai preti attraverso la promessa dell'oro e il timore della dannazione: ma anche i preti, ormai, erano fuorilegge, e non potevano più garantire protezione a nessuno. Il Re, ovviamente, aveva messo una taglia sulle loro teste. Appena dentro le mura reali trovai una figura familiare: Dhaarim, l'anziano ufficiale che aveva presenziato alle tante inutili riunioni sotto il portico dell'Aghiir Tharrin. Era seduto su un monticello di detriti, e si stava togliendo un sasso dallo stivale. Il muro, un tempo candido, alle sue spalle, era annerito dal fumo e vidi che quella barriera tante volte definita inattaccabile aveva ormai ampi squarci in diversi punti. Soldati e schiavi lavoravano per riparare i danni prima della notte, perché Dhaarim si attendeva presto nuovi guai. «Fhazir avrà una bella delusione, dopo aver fatto tanta strada per arriva-
re fin qui», mi fece in tono amaro. «La buona gente di Chaarduz ha praticamente fatto a pezzi la città, e c'è ben poco ormai che possa far gola persino a un predone del deserto». Mi studiò per un istante soprappensiero, poi emise un breve sospiro. «Inutile che ti faccia domande, vero, ragazzo? Il tuo silenzio parla da solo. Non sei riuscito a raggiungere il Re». «Signore, a quel che ho capito, non siamo neppure riusciti ad avvicinarci a lui». Dhaarim bestemmiò e si asciugò il palmo delle mani sulla tunica. «Avrei dovuto mandare un contingente più forte. Forse più d'uno. Se un uomo, da solo...» «Non sarebbe servito a nulla», l'interruppi. «Né un uomo, né mille». Gli raccontai rapidamente quello che era accaduto. Mi ascoltò, e vidi che mentre parlavo la sua espressione si faceva sempre più desolata. «Mehzaar era un bravo soldato». «Lo era, Signore. Ha dato una straordinaria prova di sé». Dhaarim alzò gli occhi. «E gli altri?» «Tutti morti. Tutti uomini pieni di coraggio. Uno è rimasto con me sin quasi alla città. L'altra notte, abbiamo riposato insieme. Questa mattina, era scomparso. C'era rimasta ben poca acqua da dividere, ma non ha portato via l'otre con sé. Si chiamava Thareesh, ed era un arciere, come me». Dhaarim annuì, dopo l'incontro sul ciglio della duna, non ci hanno più dato fastidio», feci, «anche se sentivamo che ci erano sempre intorno. Ho il sospetto che ci abbiano lasciato vivere soltanto perché portassimo cattive notizie a Chaarduz». Guardai Dhaarim, poi girai gli occhi all'intorno. «Signore», dissi, «dove posso trovare l'Aghiir Tharrin? Vorrei fare il mio rapporto. Anche se non gli porto le notizie che sperava, tuttavia deve sapere quello che è accaduto». Dhaarim mi fissò, con gli occhi velati. «Già, ragazzo», fece. «Ovviamente tu non sai ancora». «Che cosa? Che cosa non so?» Ma la mia era una domanda inutile. Avevo già capito, Dhaarim mi tese la sua vecchia mano. La allontanai. Non volevo toccarla. «Ha combattuto accanto a me sulle mura, l'altra notte», disse l'ufficiale. «Lì. Proprio sopra di te. Non dovrei dirlo, Aldair, ma i cittadini di Niciea avevano ben pochi nobili che si preoccupassero se le loro pance erano piene o vuote. È molto triste che abbiano ucciso proprio quello che, fra tutti, li amava di più...»
Non piansi per l'Aghiir Tharrin. L'uomo che era stato mio padrone e mio amico aveva lasciato un vuoto nel mio cuore. E non desideravo riempire quel vuoto... Ero talmente stanco che non persi tempo neppure a liberarmi degli stracci fetidi che avevo indossato nel deserto. Mi gettai sul mio letto e dormii fin dopo il tramonto del sole. Le tubature che portavano l'acqua alle residenze reali erano state tagliate, ma la mossa era stata prevista in anticipo, e prima di rimanere a secco, tutti i recipienti in grado di contenere acqua erano stati riempiti fino all'orlo. Una provvista più che sufficiente, pensai cupamente, per il tempo che ci rimaneva a disposizione. Mi lavai, e indossai i vestiti che portavo prima di diventare schiavo dei Nicieani, e che non avevo portato più da allora. Mi sentii bene con indosso di nuovo la mia tunica a losanghe rosse e blu, il mantello e i pantaloni stretti alle caviglie. Quale che fosse il mio destino pensai - l'avrei affrontato come un venicii; anche se era altamente improbabile che qualcuno, così lontano dalla mia patria, avrebbe riconosciuto il mio abito per quello che era, o avrebbe avuto interesse per la mia provenienza. Rheif sogghignò nel vedermi perché anche lui era ridiventato un guerriero. Tharrin, prima di salire sulle mura, aveva restituito agli schiavi la libertà, e molti si erano schierati al suo fianco di loro volontà e avevano combattuto con lui. Più di ogni altro elogio che si possa tributare all'Aghiir, conta il fatto che ben pochi, pur avendone ormai pieno diritto, lo abbandonarono nel momento dell'estremo bisogno. Tuttavia, in verità, poche altre scelte avevano, dato che avventurarsi fuori dalle mura reali era rischioso quanto rimanere a difenderle. «La battaglia è una grande livella», feci allo Stygiano. «Anche il nobile non vale nulla più di uno schiavo a Chaarduz, oggi: tutti finiremo ugualmente sgozzati da Fhazir». Rheif fece gli occhiacci. «I tuoi eccellenti nobili sono stati nobili fino all'ultimo, Aldair. Tu non ne sai nulla, perché si tratta di cose accadute durante la tua assenza. Quei membri della famiglia reale che non hanno bevuto il veleno in coppe d'argento hanno cercato di farsi strada tra la folla comprando la salvezza con l'oro. Il danaro è stato accettato, ma ho forti dubbi poi che il popolo abbia osservato la sua parte dell'accordo». «Temo che tu abbia ragione», ammisi.
Dai piani superiori della villa si poteva spingere lo sguardo al di là delle mura che difendevano le residenze reali. Era una bella fortuna, pensai, che i cittadini di Chaarduz non potessero vedere ciò che vedevo io in quel momento: vale a dire che ben pochi soldati rimanevano a presidio dei diversi caposaldi. Dhaarim stava facendo del suo meglio, ma era un'impresa senza speranza. Inoltre, gran parte dei soldati non vedeva più ragione di rischiare la vita per difendere palazzi vuoti e sale piene soltanto di mobili e arredi. E chi poteva negare che avessero ragione? Quasi tutti quegli uomini sarebbero stati pronti a dare la vita per il Re in battaglia. Ma tutti sapevamo che quanto ci attendeva era un ben diverso tipo di lotta. «Che ne sarà di noi, adesso?» fece Rheif, dando voce a una domanda che aleggiava in entrambe le nostre menti. «Ti confesserò che non sono oltremodo ansioso di morire per Niciea». «Neppure io. Ma che cosa possiamo fare, Rheif? Non c'è alcun posto dove andare, o almeno nessuno che io conosca. Inutile dire che non sopravviveremmo a lungo nelle strade di Chaarduz». Rheif si grattò il muso con aria pensosa. «Tu sei riuscito a entrare nella città, dal deserto. Quindi si può anche uscirne». «Sono entrato con la scorta di soldati che conoscevano i passaggi», gli ricordai. «Probabilmente, le strade che ho seguito ormai sono state chiuse. No, non c'è speranza per noi nella città. E fuori c'è il deserto. Ho provato a lottare contro il sole, e non voglio provarci di nuovo. A oriente c'è Fhazir con i suoi ribelli. A nord, il mare. Che cosa preferisci, Rheif? «Le mie preferenze sono tutte per i freddi venti di Stygia. Ma comincio a dubitare di poterli mai più sentire sulla mia pelle...» Il sole era tramontato quando un soldato mi raggiunse presso le mura per dirmi che era urgente che io ritornassi nella villa. Gli chiesi perché, sapendo bene che nell'edificio non era rimasto nessuno che potesse desiderare di vedermi. Il soldato non volle aggiungere nulla, ripetendomi soltanto che dovevo seguirlo. Mi portò in un'ala dell'edificio che non avevo mai visitato. Dal cortile centrale si apriva una specie di lungo corridoio, senza porte né finestre, che si snodava interminabilmente e infine terminava bruscamente davanti ad un portone massiccio, chiaramente destinato a tenere all'esterno gli estranei. Il portone si aprì su di un piccolo patio circolare. Al suo centro, c'era una fontana rivestita di maioliche policrome, all'uso nicieano. La fontana
era silenziosa, ma la sua vasca era piena di acqua chiara. Il cortiletto era pavimentato di pietre rosa e coperto da un verde pergolato che si intrecciava con le strutture architettoniche, dando frescura e riparando alla vista. Era ormai quasi sera, ma potevo immaginare l'aspetto del luogo nella piena luce del giorno, quando i raggi del sole filtravano tra le fronde e proiettavano all'intorno silenziose ombre verdi. Il portone si chiuse piano dietro di me, e rimasi solo. Mi sedetti su una panchina di pietra presso la fontana, e mi chiesi perché mai ero stato condotto fin lì. Ero stranamente contento, tuttavia, come se stessi assorbendo in me una parte della pace che aleggiava in quel luogo. Era difficile immaginare che al di fuori di quel santuario c'erano soltanto morte e violenza. «È bello qui, non è vero?» Mi volsi al suono della voce, e mi alzai di scatto dalla panchina. «No. Siediti, per favore. Io sono Shamma, Aldair. Tu non mi conosci, ma io conosco te. Sono la moglie del tuo Signore, l'Aghiir Tharrin». «Mia Signora...» «Questo è sempre stato uno dei miei luoghi favoriti. Anche lui veniva qui... pur se non tanto spesso quanto avrebbe desiderato. Diceva che in questo rifugio aveva l'impressione che il nostro mondo fosse molto vicino ad un altro mondo, diverso. Che se avessimo potuto accordare la nostra mente ad un diverso ritmo dell'esistenza, avremmo potuto trovare un passaggio segreto che ci avrebbe condotto in quei territori che si vedono soltanto nei sogni. Non provi anche tu la stessa sensazione?» «Mia Signora, in verità, la provo», le dissi. Ed era vero. C'era qualcosa, in quel luogo, che è impossibile a descriversi. Un silenzio che non era silenzio. Se mai nel mondo esiste la magia - mi dissi - certo questo è uno dei posti in cui la si può trovare. Dalla voce di Lady Shamma, sapevo che doveva trovarsi da qualche parte dietro di me, nascosta da una delle inferriate ricoperte di rampicanti che ornavano il patio. Ma non mi voltai per vederla. «Devi sapere», mi disse, «che sto rompendo molte tradizioni assai radicate, parlandoti così. Un comportamento del genere è proibito dalle nostre Sacre Scritture... Anche se, in tutta franchezza, ho sempre rimpianto che fosse così. Gli uomini sono dunque così differenti dalle donne?» Rise piano, di un riso toccato dall'amarezza. «Ma tante cose stanno ormai cambiando, oggi. Tutto il mondo sta cambiando, Aldair». «Lo diceva anche l'Aghiir Tharrin», le risposi. «Davvero? Sì, sono certa di sì. Era una questione sempre viva nella sua
mente». Rimase in silenzio per un istante, poi riprese a parlare. «Aveva un alto concetto di te, Aldair». «Ed io... mia Signora, io... io rimpiango di non averlo potuto conoscere meglio. È stato più che un padrone per me. È stato un amico, che mi ha aperto gli occhi sul mondo che non avevo mai conosciuto prima. Mia Signora, posso permettermi di dirti che condivido il tuo dolore? Che se mai qualcosa...» «Ti prego», mi interruppe lei piano. «Non c'è più nulla da dire. Lui se ne è andato, ma non del tutto. Ed io ho appreso la sopportazione, Aldair. A Niciea, è una cosa che le donne imparano molto presto». Tacque, e per un momento pensai che se ne fosse andata. Mi parve di sentire delle grida fuori della villa, presso le mura. «Ora», disse infine, «ascoltami, Aldair. Il tempo è poco, e ho molte cose da dirti. Sappi che l'Aghiir Tharrin riponeva grande fiducia in te. Più grande di quanto tu stesso immagini. Con te ha diviso molte cose. Ti ha rivelato segreti. E altre cose non ti ha detto, pregandoti semplicemente di aver fede in lui. Io so, dato che lui ti ha scelto, che sei degno della sua fiducia. So che tu sei ancora il suo rhadaz'meh, anche se lui non è più qui ad esigere la tua lealtà». «Mia Signora», le dissi, «di ciò, sii certa». «Ascoltami, dunque», fece. «C'è una nave. È in mare, ora, ma non è lontana. Era stata fatta salpare da Chaarduz dal tuo Signore, quando presagì l'avvento della rovina. La nave è per te, Aldair. È partita nel giorno in cui iniziasti la tua spedizione nel deserto, con l'istruzione di attendere il tuo ritorno». Una breve risata interruppe le parole di Lady Shamma. «È quasi buio, ormai, ma non ho bisogno della luce per leggere la tua espressione, Aldair. Sì, l'Aghiir sapeva che saresti ritornato. Non ti avrebbe mai fatto partire in una tale missione, se non ne fosse stato certo. Sapeva, con sicurezza, che non sarebbe stato tuo destino perire tra le sabbie...» La sera era calda, ma nel vento avvertii un brivido improvviso. «Mia Signora», chiesi, «come poteva mai esserne certo?» «Sappi che lo era, Aldair. Non posso dirti più di questo. Tu salperai con quella nave. Prenderai con te lo stygiano, il figlio del Re... e un altro compagno. Quest'ultimo non mi è noto: ma questo è quanto l'Aghiir mi ha detto di riferirti. La guardia che ti ha condotto qui si chiama Khyliir. Conosce la tua missione, e ti farà da guida. E, Aldair», - la sua voce scese quasi ad un sussurro - «ora vengo alla parte più importante della tua missione. C'è un pacchetto. Proprio sotto la panchina su cui sei seduto. Prendilo, ti pre-
go». Mi chinai, e la mia mano toccò un soffice involto di cuoio. Era cucito con cura, e ricoperto da una sostanza lucida e cerea. «L'ho preso, mia Signora». «Ti viene affidato dall'Aghiir Tharrin. Dovrai darlo ad un'altra persona, e solo a quella». «A chi, mia Signora?» «Lo saprai». Rimasi per un attimo sconcertato. «Mia Signora, lo saprò, forse, ma non riesco a immaginare come. Forse l'Aghiir mi ha dato un indizio? Ho avrebbe voluto dirmi qualcosa, ma non me l'ha detta?» «No», rispose lei. «Se ci fossero state cose da dire, le avrebbe dette». «E la nave? Dove ci porterà, mia Signora?» Lady Shamma rimase in silenzio per un lungo momento. «Ho diviso la vita con lui, Aldair. I nostri giorni e le nostre notti si sono intrecciati insieme come un filo di un solo colore. Ma questo è un segreto che non ha voluto dividere neppure con me...» VENTIQUATTRO Lo trovai presso il quartiere degli schiavi. Nell'ombra della sera, la sua grande mole pelosa quasi faceva piegare il tronco dell'albero cui era appoggiato. Mi fermai a una certa distanza da lui, perché sono un uomo del nord, e so bene che non è prudente avvicinarsi troppo a un vikoniano senza avvisarlo prima della tua presenza. «Ci conosciamo già?», ringhiò il gigante. La sua grande testa piatta si alzò un poco, e il naso corto annusò l'aria. «Sì, forse sì». «Ci siamo già incontrati», feci io. «Quella volta, non eri altrettanto a tuo agio, se ricordo bene». Il vikoniano emise un suono cupo con la gola. «Sei tu, dunque. Ma non sei un rhemiano, come quell'altro». «No. Sono un venicii». Annuì. «Gente astuta nel commercio, e difficile da imbrogliare. Che cosa fai in questo posto miserabile, venicii?» «Potrei chiederti la stessa cosa, e lo farò. Ma ora non c'è tempo. Una volta, ti dissi che per noi poteva venire un giorno migliore. Forse, è oggi. Parto stanotte con una nave, e vorrei averti con me. Non posso dirti nulla più di questo, e devo avere la tua risposta subito, sia che tu accetti, sia che
rifiuti». Gli occhi della creatura si strinsero. «Prendi il mare? Hai una nave?» Scosse la grande testa e si grattò lo stomaco. «Non ho bisogno di tempo per risponderti. Qui non c'è altro che la morte, e non ho alcuna intenzione di restare fermo ad aspettarla». «Potresti incontrarla sul mare». Mi diede uno sguardo fra il sorpreso e l'ironico. «E pensi che la cosa mi spaventi, venicii? Io sono nato per questo...» Il pensiero mi colpì qualche tempo più tardi, e mi procurò un brivido di gelo. «Prenderai con te lo stygiano, il figlio del Re... e un altro compagno...» Era per questo che avevo cercato il vikoniano? O era stato un impulso nato per intero nella mia mente? C'erano troppe cose ancora non spiegate. Questa era una delle tante. Sotto terra, l'aria era fredda e puzzava d'antico. Nel buio riuscivo a vedere soltanto il bagliore delle torce, e l'ombra scura del soldato che Lady Shamma aveva chiamato Khyliir. Il passaggio che avevamo imboccato cominciava alla base del muro di cinta stesso, e per un tratto seguiva il perimetro della struttura, poi scendeva in basso. Mentre camminavamo, sentivo di trovarmi sotto le strade di Chaarduz. Rheif era dietro di me. Fra le braccia stringeva il giovane Principe, bene avvolto in coperte per difenderlo dal gelo della notte. Dietro ancora veniva il gigantesco vikoniano, la cui mole era di non poco impaccio nei punti più stretti della galleria, o alle curve più ripide. «Fermatevi», disse piano Khyliir. Io ero dietro di lui, e sentii il suo braccio che si poggiava sulla mia spalla. «Fra pochi istanti usciremo fuori del tunnel, e non posso sapere che cosa ci aspetta all'aperto. Nulla, spero; ma dobbiamo essere certi. Oltre l'uscita ci sono delle rocce, e la spiaggia. Non possiamo rischiare di tenere la torcia accesa». Annuii nel buio, e la torcia del soldato sibilò e si spense sul fondo umido della galleria. La notte era calda e immobile, ma dal mare cominciava a levarsi una leggera brezza. Il vikoniano annusò l'aria salmastra ed emise un ringhio di soddisfazione. Rheif cullò un poco Dhar'jeem, che stava cominciando ad agitarsi, ed io silenziosamente pregai il Creatore che concedesse al bimbo un sonno profondo.
Dal terreno roccioso potemmo vedere le torce accese nel porto e, più indietro, una macchia rosso-sangue sormontata da una nube nera, che ci diceva come la città fosse ancora in fiamme. Da oriente, venivano suoni inconsueti: grida concitate e il cozzo del metallo sul metallo. Scambiai uno sguardo con Rheif. Dunque, Fhazir era arrivato. Non poteva essere alcun altro. Era nella città, e quei rumori lontani rappresentavano i rintocchi funebri per Chaarduz. Khyliir si mosse davanti a me. «C'è un rischio», mi sussurrò, «ma non può essere evitato». Mise una mano sotto il mantello e ne trasse una piccola candela, che accese. La più misera delle falene avrebbe trascurato con sdegno una fiammella così esigua, ma a me parve come il sole che si affaccia all'orizzonte. Il vikoniano emise un ringhio cupo. Khyliir guardò prima lui, poi me. «Devo dare il segnale una volta soltanto», spiegò. «Una volta potrebbe essere troppo», disse il gigante del nord, «se quei diavoli hanno anche solo mezzo occhio fra tutti...» Scossi la testa all'indirizzo della creatura, e il vikoniano tacque. Khyliir nascose la fiammella a intermittenza con la mano. Uno... uno... tre... uno... Poi strinse lo stoppino con le dita e rimanemmo circondati dal buio. «E ora?» chiese Rheif. «Ora aspettiamo». Fu proprio lo stygiano, con i suoi occhi acuti abituati alla notte, che dopo aver atteso quella che ci parve mezza eternità scorse per primo la macchia scura di un battello che si avvicinava alla spiaggia. C'erano due uomini ai remi, che non fecero alcun tentativo di portare a riva la barca, ma ne fermarono il corso, e attesero. Khyliir mi rivolse un rapido sguardo, e scomparve nelle tenebre, silenzioso com'era venuto. Avevo sempre pensato che sarebbe rimasto con noi, e mi chiesi a quale destino sarebbe andato incontro, nella città morente. Ma non c'era più tempo per le domande, e senza parlare andammo incontro alla barca che ci aspettava oscillando piano sulle onde. Issata la lancia a bordo, il vascello nicieano non perse tempo ad osservare la fine di Chaarduz. Alzate le vele nere, drizzò la prora verso est. Avrei voluto rimanere sul ponte, perché stavo subendo nuovamente il fascino del mare. Un uomo dell'equipaggio, tuttavia, ci condusse di sotto e ci fece entrare in una piccola cabina. La stanza mi ricordava quella che l'Aghiir Tharrin aveva occupato nella sua nave al ritorno dal territorio dei
Tarconii. Da allora, mi sembrava fosse trascorso un secolo. Una lampada ad olio di vetro colorato pendeva dal soffitto, e gli oblò erano pesantemente schermati, perché la nave non doveva rivelare la sua presenza con alcuna luce a bordo. «Ah, finalmente siamo in mare!», esclamò il vikoniano. Il gigante aveva adocchiato immediatamente il cibo e il vino serviti per noi sul tavolo, e le sue mani enormi erano già strette intorno a quantità considerevoli di entrambi. «Mi auguro ce ne sia abbastanza per i tuoi bisogni», gli fece Rheif. «Quanto a noi, non abbiamo molto appetito, né abbiamo le ossa gelate dopo quella piacevole passeggiata lungo gallerie ammuffite». Il vikoniano si fermò, con i baffi gocciolanti di vino, e diede un'occhiata inquisitiva a Rheif. «Non avevo mai visto uno stygiano prima d'ora». Disse. «Almeno, con ancora la sua pelle addosso. Sei una strana creatura, e dall'odore del tuo alito direi che non mangi troppo». «Lo faccio», rispose Rheif con un sorriso che gli scoprì tutti i denti, «soltanto quando posso». Fece scostare la grande creatura e sedette anche lui a tavola, poggiando il giovane Principe sulle sue ginocchia. Il nicieano si era svegliato, e si stava divertendo come un matto a tirare i ciuffi di pelliccia che spuntavano dal torace di Rheif. Risi, e mi unii a loro. Avevamo quasi finito tutto ciò che si trovava sulla tavola, quando dietro di noi si aprì la porta della cabina. Mi voltai, e i miei occhi incontrarono il placido sguardo scuro del cygnano che non era uno schiavo. Per qualche ragione, non fui troppo sorpreso di trovarlo lì. «Spero siate tutti comodi», disse sorridendo. Sostenni il suo sguardo per un momento. «Sapevo che ci saremmo incontrati di nuovo», dissi. «E anch'io, Aldair, ne ero convinto». Gli occhi neri, che brillavano in fondo alla curva del muso carnoso, passarono da me agli altri. «Il mio nome è Nhidaaj. Conosco te, Rheif, ed ho sentito molte cose che ti riguardano. Non ho mai conosciuto, però, il vostro compagno». «Neanche noi», ringhiò Rheif. «È stato troppo occupato a riempirsi il ventre per dirci come si chiama». Il vikoniano rise fragorosamente. «Io non so chi tu sia, signore, né perché io mi trovi a bordo. Ma non sono infelice di trovarmi qui. Io sono Si-
gnar di Haldring, e vengo dalla Vikonea cinta di ghiacci. Se in questo viaggio c'è bisogno di qualcuno che sappia combattere e tenere il mare, sono a vostra disposizione, perché in queste due cose eccello sopra ogni altro». «Hai dimenticato il mangiare e il bere», disse Rheif. Il cygnano sorrise e si sedette al tavolo. «C'è abbondanza di cibo a bordo, e non soffriremo la fame... anche con appetiti formidabili come quello del nostro amico». «Nhidaaj», chiesi, «puoi dirci dove stiamo andando? Poche cose finora mi sono state rivelate, come certamente saprai. Siamo lieti comunque», mi affrettai ad aggiungere, «che l'Aghiir Tharrin ci abbia concesso una possibilità di sopravvivere. Pochi altri a Chaarduz hanno avuto altrettanto, temo». Il cygnano mi guardò con aria pensosa. «Devo chiedere a tutti voi di trattenere ancora per un poco la curiosità», disse infine. «Vi assicuro che c'è un serio motivo per questo». Diedi uno sguardo a Signar e a Rheif. «Va bene», risposi. «Non esitiamo a concedere la nostra fiducia a un amico dell'Aghiir». È vero - pensavo intanto. - Ma non per questo cesseremo di chiederci quale sia la nostra meta. «Bene», disse il cygnano alzandosi. «Il marinaio che vi ha portati qui vi condurrà alle vostre cabine. Parleremo di nuovo domani mattina. Rheif: se vuoi, puoi affidare a me il piccolo Dhar'jeem, ora». Lo stygiano mi rivolse un'occhiata interrogativa, e io annuii. Avevo fiducia istintiva nel cygnano. Un uomo impara prima o poi aggiudicare gli altri, e negli occhi di quella creatura non riuscivo leggere alcuna doppiezza. Rheif gli porse il piccolo, e subito il giovane Principe immerse le dita nella nuova pelliccia pelosa che lo aveva accolto. «Vedi», disse Nhidaaj allo stygiano, per rassicurarlo, «lui mi conosce. Siamo vecchi amici, Dhar'jeem ed io». E sia io che Rheif potevamo vedere che era proprio così. Tuttavia, Rheif mi scoccò ugualmente un'occhiata interrogativa nel corridoio. «Va tutto bene», gli dissi. «Ci si può fidare di lui. Non posso dire nulla di più». Rheif aggrottò le sopracciglia e scoprì i denti. «Lo so che ci si può fidare di lui, Aldair. So leggere negli occhi della
gente bene quanto te. Però, nessuno mi dice mai nulla», si lamentò. «Mi mantenete sempre all'oscuro». «Non più di quanto lo sia io». «Non posso crederci», fece. «È impossibile conoscere meno del proprio fato di Rheif lo Stygiano. Non so neppure dove mi trovo». «Sei sul Mar Meridionale. A oriente di Chaarduz». Rheif fece gli occhiacci. «Non sono un ignorante, Aldair». «Certe volte me lo chiedo...» «Non chiedertelo: te lo assicuro. Ma i nomi 'Mar Meridionale' e 'Chaarduz' non significano niente per me. Tutto ciò che so è che non ci sono più nel cielo le stelle del nord, e non troverò mai impronte di lepre sul ponte di una nave. Non ci sono foreste, né laghetti ghiacciati con le rive coperte di neve, né...» Successe tutto in un lampo. Il marinaio che ci guidava scivolò dietro una paratia, e scomparve. Al suo posto, si parò davanti a noi una nuova figura. «Linius!» La parola mi si strozzò nella gola. Il rhemiano mi fissò per un istante e sorrise. «Aldair», disse, in tono gentile, «ho qualcosa per te...» Per una frazione di secondo vidi la balestra al suo fianco. Poi l'arma vibrò, e partì un colpo. Rheif era già davanti a me: una magra forma grigia, rapida come il fulmine. Gridai. Lo stygiano si irrigidì, poi parve accartocciarsi come un foglio di pergamena. La mia spada lampeggiò. Un braccio grande quanto una piccola quercia mi spinse di lato, e mentre cercavo di rimanere in piedi alzai lo sguardo e incontrai gli occhi di Linius. Sul suo volto vidi dipingersi un terrore indescrivibile. Sospeso da terra, cominciò a scalciare freneticamente, appeso all'estremità del braccio possente di Signar, che con la mano gli stringeva la gola. Poi le dita del gigante cominciarono a chiudersi, e non credo che si siano fermate, prima di incontrare il palmo della mano... VENTICINQUE Il vascello nicieano solcava le acque azzurre, lasciandosi dietro una lunga scia di spuma bianca. All'orizzonte, verso ovest, si profilavano tempeste, ma nessuna toccò la nave. Anzi, servirono a produrre venti robusti che gonfiarono le nostre vele verdi.
Per i marinai, questo era un segno di buon auspicio. Quando da un grande evento di distruzione nasce una circostanza favorevole - dicevano - ciò significava che il Creatore Aastar aveva preso la parola per ripetere ai suoi figli le parole del Qua'shar così come erano state scritte: là dove si leggeva che nel suo occhio d'oro non brillavano in verità né il male né il bene, ma soltanto il puro riflesso verde dell'eternità. Non feci commenti al riguardo, perché per il momento non mi sembrava che i fatti confermassero i presagi. Altri potevano fissare una distesa d'acqua e trovarvi la verità. Io vedevo soltanto una gran distesa di niente. Forse avrei dovuto essere già grato al destino. Rheif era ancora vivo. Per tre giorni e tre notti era stato sull'orlo della morte, ma ora Nhidaaj mi assicurava che era molto migliorato, anche se doveva passare ancora molto tempo prima di poter dire con certezza quale sarebbe stato il futuro dello stygiano. La ferita in se stessa non era seria. Il dardo era penetrato fra spalla e petto, ma non aveva reciso alcuna delle grandi vene che, secondo Nhidaaj, fanno affluire il sangue in tutto il corpo. Il pericolo, diceva il cygnano, non veniva dalla ferita, ma dal fatto che la punta dell'arma era infetta. Molti medici - mi aveva spiegato - non conoscono bene l'argomento: era tuttavia certo che nelle cose immonde, nel suolo, persino nell'aria, vi sono entità che provocano un addensamento di veleni nel corpo. Nhidaaj era una continua fonte di meraviglie. Non avevo neppure sospettato che fosse un medico fino a quando non lo vidi curvo sul corpo di Rheif. Né l'avrei mai creduto, se non avessi visto con i miei occhi la sua abilità. È difficile spezzare pregiudizi durati tutta una vita. Nella mia esperienza, avevo sempre considerato i Cygnani come creature indolenti, prive di intelligenza, capaci di eseguire soltanto i compiti più semplici. Come poteva entrare Nhidaaj in questo quadro? Sembrava un cygnano: lungo pelo bianco e arricciato dalla testa ai piedi, scuri occhi placidi, volto quasi privo d'espressione. Eppure, era diverso da tutti quelli della sua razza che avevo conosciuti. Nei suoi occhi c'era una luce che non avevo mai scorto prima nei Cygnani... né in qualsiasi altra creatura, se è per questo. Dietro quel volto placido ardevano fiamme, e tutto, in Nhidaaj, sembrava riverberare quella forza nascosta. Non aveva bisogno di incutere timore per esercitare il comando. La sua sola presenza era sufficiente a conferirgli autorità. I Nicieani a bordo avevano grande rispetto per quello schiavo che non era uno schiavo. E anche se tutti sapevano che la nave aveva preso il mare per ordine di Lady Shamma, era chiaro che re-
sponsabile del viaggio era Nhidaaj. Era lui che dava ordini alla ciurma, e controllava la rotta sulle carte... anche se nessuno poteva affermare di aver mai udito un ordine partire dalla sua viva voce. Ogni volta che andavo a trovare Rheif avevo cura di stamparmi un bel sorriso sulla faccia, anche se era doloroso vedere il mio vecchio amico nelle condizioni in cui si trovava ora. Il suo corpo snello e possente, tutto legamenti e muscoli, sembrava essersi ripiegato su se stesso. La pelliccia grigia aveva perso la lucentezza e pendeva in larghe pieghe attorno alle ossa robuste. Gli occhi rossi erano opachi, e sembrava non vedessero più nulla. «Ti trovo bene», mentii. «Senza dubbio fra un po' tornerai a cacciare le lepri fra le nevi del nord». «Non sei molto bravo a raccontare favole, Aldair», fece lui in tono amaro. «So di essere vicino alla morte, perché neppure il pensiero di un leprotto arrosto mi fa tornare l'appetito. Questo è un bruttissimo segno per uno stygiano». «Non significa nulla», lo rassicurai. «Nhidaaj stesso mi ha detto poco fa che non si aspetta che tu abbia grande interesse per il cibo, finché sei in convalescenza». «Può darsi», sospirò Rheif. «Ma non importa: tanto, quel poco cibo che potrei anche riuscire a mettermi nello stomaco mi verrebbe sicuramente sottratto dal nostro bravo Signar, qui presente, prima ancora di poterlo portare alla bocca. Questa specie di grosso bue, Aldair, sarebbe capace di strappare il boccone alla madre morente, ne sono sicuro». «Per il cielo, tu menti!», esplose Signar. L'enorme vikoniano si era mezzo sollevato dal suo sedile. Rheif ghignò debolmente, e io risi con lui. Signar fece gesti minacciosi all'indirizzo di entrambi, quindi ripiombò giù sul robusto scranno che si portava dietro per la nave, dato che non c'erano altre sedie o sgabelli abbastanza solidi da sostenere la sua mole. La porta della cabina si aprì, e Nhidaaj ci chiese di uscire nel corridoio, avvertendoci che il suo paziente era ancora troppo debole per sopportare la presenza di visitatori frivoli e rumorosi come noi. Rheif ghignò dietro le spalle del cygnano. «Non mi pare che stia affatto bene», borbottò Signar, «malgrado quello che dice Nhidaaj». «A me sembra che stia meglio», ribattei. «Anzi, per l'esattezza molto meglio».
Il vikoniano mi guardò, tirò su col naso e cambiò argomento. «Bisogna dire la verità», fece guardando il sartiame e annusando l'aria. «Questi Nicieani costruiscono buone navi e le fanno correre bene. Ma non possono ancora reggere il confronto con i Vikoniani, ovviamente». «Sarebbero certamente lieti di sentirlo», risposi. «No», fece volgendosi verso di me. «Lo affermo come un tributo, Aldair. Noi Vikoniani non siamo abituati a elogiare alla leggera, ma siamo essenzialmente un popolo onesto. O, almeno, onesto quanto è necessario. E, sopra ogni altra cosa, ammiriamo una bella nave e un buon marinaio». Si interruppe, guardando le grandi vele verdi gonfie di vento. «Non ho mai avuto contesa con un nicieano, ma scommetto che saprebbero metter su un buon combattimento. Nave contro nave, voglio dire. Sono troppo piccoli e magri per una battaglia a corpo a corpo, o...» Si fermò all'improvviso, scosse la testa e mi poggiò una mano sulla spalla. «So che sei un suo grande amico. L'ho capito. Prima, non intendevo dire che... che non ce la farà. Io non sono un medico. Sono del tutto ignorante di queste cose. E dovrei tenere la bocca chiusa il più a lungo possibile». Non riuscii a guardarlo negli occhi. «Deve cavarsela, Signar». Mi afferrai al parapetto e fissai le acque azzurre. «Io... non... permetterò... che... muoia!» «Gli Stygiani sono duri e difficili da uccidere», fece Signar. «Questo è ben noto». «Ha preso lui il colpo che Linius aveva destinato a me. Può negarlo finché vuole. Io so che è così». Guardai il vikoniano, senza vederlo bene attraverso gli occhi velati. «Sai che cosa ha detto, Signar? 'Aldair, è colpa tua se nella spalla ho un buco tanto grande da farci passare una quercia. Se non ti fossi fermato come un coniglio in mezzo al corridoio, non sarei inciampato sui tuoi maledetti piedi'». Signar rise e si grattò il mento. «Gli Stygiani sono famosi per essere grandi bugiardi». «Lo sono. E sono anche furbi, e astuti, e spesso cadono in crisi di umor nero durante le quali è impossibile vivergli vicino. Si lamentano per tutto quello che gli capita e sono rissosi per natura. Per di più sono nemici naturali dei Venicii, sin dall'inizio del tempo. Sono sicuro che Rheif ha arrostito più di una volta qualche mio lontano cugino. D'altra parte, senza dubbio gli stivali che indosso sono fatti con la pelle tolta alla schiena di un suo parente».
Fissai nuovamente il mare. «E questo stygiano, Signar, è l'unico vero amico che io abbia mai avuto». Mi battei un pugno sul palmo della mano. «Maledetto Linius! Malgrado tutte le precauzioni prese dall'Aghiir, la notizia di questa nave deve aver raggiunto anche le sue piccole orecchie di traditore...» «Non tradirà più nessuno». «No, ma ha già fatto bene il suo lavoro, Signar...» Quanto siamo sciocchi, pensai più tardi. Arranchiamo lungo la nostra strada nel nostro piccolo angolo di mondo, e chiudiamo gli occhi di fronte a tutto quello che succede al di là della nostra porta di casa. Eppure, il mondo è tanto grande. Una montagna e una vergine possono essere viste attraverso infiniti occhi diversi. Un guerriero stygiano osserva il levarsi del giorno, e vede lo stesso sole che riscalda un nobile rhemiano o rende incandescenti le scaglie verdi di un nicieano. E ciascuna di queste creature vede la verità secondo il proprio modo, e trova falsi tutti gli altri. Come è possibile, questo? Ha ragione uno solo, e torto gli altri? Ci sono molte verità, tutte autentiche? O forse una sola verità, più grande di tutte le altre... Se ciò è vero, dove potrebbe mai trovarsi questa verità? Forse è una pretesa eccessiva, quella di una verità unica, adatta a tutte le creature. Il Creatore non ci ha resi tutti uguali. E senza dubbio sapeva ciò che faceva. Perché, allora, un uomo si aspetta che tutti gli altri uomini debbano ragionare come lui? Più ci pensavo, più l'idea di una verità unica mi sembrava improbabile. Una parte dei miei interrogativi trovarono risposta il pomeriggio seguente, nella cabina di Nhidaaj il cygnano... «Ecco», fece puntando un dito in un punto presso il margine orientale della sua carta geografica. «Questa è Xandropolis, la nostra destinazione. Col vento favorevole, Aldair, dovremmo essere in porto prima della prossima notte». La mappa di Nhidaaj era ben diversa da quella che pendeva alla parete dello studio di Mastro Pelian, a Silium. Le terre erano ben disegnate, e le città situate nel posto giusto. Una rete di linee sottili la percorreva da un angolo all'altro, ed esse - mi venne spiegato - usate insieme con le indicazioni della lancetta magica che puntava sempre verso il nord, aiutavano a capire in ogni momento dove si trovava la nave. Vicino alle rotte più frequentate c'erano anche numeri che indicavano la profondità delle acque,
determinata calando sul fondo corde annodate a intervalli regolari. In questo modo i marinai potevano prendere il largo nelle ore di marea favorevole senza incappare nelle secche. «Xandropolis è un posto straordinario», mi disse il cygnano che non era schiavo ma medico, versandomi una coppa di vino. «È il punto più lontano cui siano arrivate le conquiste tanto dell'Impero di Niciea, quanto di quello di Rhemia. Tuttavia, nessuna delle due razze lo trova di grande interesse. È troppo distante dalle due capitali per poter essere difeso, tuttavia entrambi gli Imperi lo rivendicano, pur se nessuno intende sostenere le spese militari necessarie per tradurre in fatti la rivendicazione». Nhidaaj sogghignò. «Vi si trovano tutte le razze, anche se non si mescolano fra loro, e si incontrano soltanto per i commerci. I quali hanno luogo lungo un muro dipinto che si snoda attraverso tutta la città». Il cygnano sospirò e scosse la testa. «È un'immagine della follia umana, Aldair. Non c'è un posto simile, credo, in tutto il mondo». Non feci commenti, ma continuai a fissare il vino rosso all'interno della mia coppa. La mia faccia si ricompose tra gli ondeggiamenti del liquido, ed emerse per guardarmi: un muso troppo lungo, e due occhi pieni d'amarezza. «Nhidaaj». Mentre parlavo, continuavo a tenere gli occhi nella coppa. «Certamente, non stiamo andando a Xandropolis per aprire commerci con i Rhemiani o con i Nicieani». «No. Certo che no, Aldair». «Posso sapere, allora, che cosa ci andiamo a fare?» Nhidaaj mi guardò con aria pensierosa. Alla fine, si alzò e fece qualche passo sino all'altro lato della cabina. «Aldair. Hai fiducia in me?» «Eri un amico dell'Aghiir Tharrin...» «No». Si volse di scatto e mi fronteggiò. «No». Scosse la testa. «Ho chiesto se hai fiducia in me. E non perché ero amico di qualcun altro». Alzai gli occhi, lo fissai nei suoi, tornai ad abbassare la testa. «Sì», risposi. «Ho fiducia in te. Per te stesso». Ma nella mia mente c'erano anche altri pensieri. «Però», aggiunsi, «la fiducia deve funzionare nei due sensi. Io ho fatto tutto ciò che mi è stato chiesto. Non sono un ingrato. Né lo sono i miei compagni. Tuttavia, in piena onestà, avremmo anche potuto trovare il modo di fuggire da Chaarduz in qualche altra maniera. E magari, se lo avessimo fatto, Rheif ora non sarebbe così vicino alla morte...» «Aldair». Il cygnano si sedette vicino a me e poggiò una mano sul tavo-
lo. «Aldair. Quello che dici è giusto. Tuttavia, ti chiedo di nuovo di aver fiducia ancora per un po'. Un po', non molto». «Comunque, quale altra scelta avrei?» «Ogni uomo ha le sue scelte». «Non sempre è così a quanto pare». «Sembra. Ma non è vero». Risi. In modo molto amaro, evidentemente, perché Nhidaaj mi fissò con uno sguardo strano. «Mi è venuta in mente una cosa che Rheif dice sempre», spiegai. «E che cosa sarebbe?» «Si lamenta: 'Nessuno mi dice niente. Tutti mi tengono all'oscuro di ogni cosa'. È vero, Nhidaaj». «Sì. Sì, è vero, Aldair. O, almeno, in gran parte vero». «Ci sono molte cose che l'Aghiir Tharrin non mi ha dette». «E molte altre che ti ha rivelate». «Ma è molto più quello che mi ha taciuto di quello che ha voluto dirmi», insistetti. «Anche questo è vero. Ciò che sai è molto meno di ciò che non sai». «E tu non puoi... o non vuoi... aggiungere nulla di nuovo». «Soltanto molto poco, Aldair». Gli voltai le spalle. «Avrò fiducia in te», dissi. «D'accordo. Ma...» «Aldair». Mi girai a guardarlo. «Tu non capisci...» «No». Scossi la testa. «Certe volte, proprio non capisco». «Sappi, allora, che posso dirti molto poco perché io stesso so molto poco». Lo fissai. «Nhidaaj», dissi. «Ma tu e l'Aghiir Tharrin...» «....conoscevamo molte cose che a te sono ancora ignote». «È vero. E allora...» Il cygnano alzò un braccio. «Quello che saprai, Aldair, non ti potrà venire da me. Né il tuo Signore poteva dirti più di ciò che ti ha detto. Qualcun altro, ti parlerà...» VENTISEI Come Nhidaaj aveva promesso, la nave nicieana giunse a destinazione prima del termine della notte seguente. Per me, tuttavia, fu come se non
fosse arrivata da alcuna parte. Il capitano gettò l'ancora in una baia oscura, e il vascello, come alla partenza da Chaarduz, era privo di luci di qualsiasi genere. Se la favolosa Xandropolis era da quelle parti, di certo non se ne vedeva traccia. «Come hai rilevato tu stesso», mi spiegò Nhidaaj, «non siamo qui per portare merce al mercato. È più saggio non richiamare l'attenzione su di noi». Altro non volle aggiungere. Probabilmente aveva ragione, dato che eravamo a bordo di una nave imperiale, e non c'era modo di sapere chi comandasse ora a Chaarduz: se il Re tornato dal deserto, o Fhazir. E anche se dubitavo che notizie su quanto era accaduto potessero pervenire in quel remoto angolo del mondo in meno tempo di quanto ne avevamo messo noi col nostro veloce battello, era comunque inutile contraddire il cygnano, o rivolgergli altre domande. Tutto ciò faceva parte del mio nuovo modello di vita, pensai amaramente. Molte cose che non avrei mai desiderato sapere mi erano invece spaventosamente chiare. Sapevo che cosa voleva dire essere inseguiti da navi rhemiane e vascelli tarconii. Che cosa significava essere schiavi. Avevo conosciuto la sete nel deserto. Visto morire i compagni migliori. Nessuna di queste preziose esperienze mi era stata negata. Ma mi era proibito conoscere i misteri delle città morte, o i segreti che i nobili nicieani dividevano con i medici cygnani. Il mio ruolo, che mi piacesse o no, era abbastanza chiaro. Nhidaaj mi avrebbe tenuto per mano, e mostrato quale piede dovevo mettere davanti all'altro. E se avessi fatto bene le mie addizioni, forse in premio mi avrebbero dato una ciambella. E ciò sarebbe accaduto, senza dubbio, dopo la consegna da parte mia del misterioso pacchetto che custodivo all'ancor più misterioso personaggio che lo aspettava. Nhidaaj non aveva mai menzionato questo argomento, ma ero sicuro che era a conoscenza della mia missione. Inoltre, mi era stato promesso che il personaggio sconosciuto che dovevo incontrare (chissà dove, chissà quando), avrebbe risposto a quegli interrogativi cui né l'Aghiir Tharrin né Nhidaaj avevano voluto rispondere. Ci avrei creduto, decisi, quando l'avessi visto succedere. Poi ebbi un attimo di pentimento. Stai esagerando, Aldair, mi dissi. Le cose non vanno così male come pensi. Sembrano andar male. Tu hai ricevuto onori e fiducia. E né l'Aghiir Tharrin né Nhidaaj ti hanno certo trattato come un bambino. Lady Shamma ti ha affidato qualcosa che certamente è di somma importanza, e per farlo ha rotto una tradizione secolare. E se ci
sono cose che ancora non sai, di certo c'è anche un motivo valido per tenerti all'oscuro. Non è vero? Senza dubbio. Ma era proprio necessario - continuavo a chiedermi - tutto quel mistero? Era indispensabile, o erano gli uomini a renderlo tale? A mezzanotte, una brezza calda spirò verso terra e il quarto di luna che pendeva in cielo venne velato da un banco di nubi. Soltanto Nhidaaj ed io sbarcammo sulla spiaggia. Il nicieano aveva però con sé il piccolo Dhar'jeem. Mi meravigliai della cosa, perché mi sembrava un gesto pericoloso, per noi come per il fanciullo. Dove eravamo diretti, e dove doveva essere condotto l'erede al trono di Niciea? Il cygnano non me lo disse, e io non glielo chiesi. Desiderai avere al fianco il gigantesco Signar, su quella spiaggia oscura, ma evidentemente la cosa non era possibile. Mi consolai pensando che il vikoniano avrebbe almeno badato a che nulla di male accadesse a Rheif. Quanto tempo saremmo stati via, e che cosa sarebbe successo se lo stygiano avesse avuto un peggioramento? Lo avevo chiesto al cygnano, che aveva risposto soltanto alla seconda parte della domanda, assicurandomi che Rheif non sarebbe peggiorato. Non potevo far altro che crederci. Le due figure che ci vennero incontro sulla spiaggia erano avvolte in mantelli neri. Parlarono poco, e solo in sussurri, a Nhidaaj. Dalle loro forme slanciate, supposi che fossero Nicieani. Ci diedero vesti e cavalli. Nella notte, nessuno avrebbe saputo trovare la differenza fra noi e quattro predoni da strada. Lasciata la spiaggia, ci dirigemmo verso sud. Mentre galoppavo, vidi verso oriente un fioco grappolo di luci. Questo, pensai, probabilmente sarà tutto quello che vedrò della fantastica Xandropolis. Il terreno all'intorno era fertile. Passammo davanti a una fitta macchia di palme, simili a quelle che avevo visto a Chaarduz. La brezza leggera ne faceva frusciare i rami come fogli di carta. All'intorno si vedevano anche campi di cotone. I fiocchi, pronti per essere colti, sembravano piccoli fantasmi fosforescenti nelle tenebre. Una volta avvertii un denso profumo di olivo, e capii che eravamo passati vicino al frantoio di una fattoria. Finii per sonnecchiare sulla sella. Un venticello gelido, spazzando l'aria, mi fece riprendere in pieno i sensi. Vidi che la terra era diventata arida. Il suolo sotto gli zoccoli del cavallo era duro e asciutto, solcato da una ragna-
tela di spaccature. I cavalli trovavano difficile l'andatura, e anche se sceglievamo accuratamente la strada, inciampavano con frequenza. Qualche tempo dopo le nubi si diradarono e la luna illuminò il panorama desolato. Rimasi sorpreso, perché mi accorsi che davanti a noi i raggi lunari si riflettevano su una distesa d'acqua. Eppure, il mare lo avevamo lasciato alle nostre spalle. «Non è lo stesso mare», mi spiegò Nhidaaj. «È un altro, più piccolo». Dopo qualche istante, aggiunse che quel mare oggi era chiamato Memphir, anche se in altre epoche aveva portato un nome diverso. Una volta era stato sia un mare che un fiume, ma il mare aveva ingoiato il fiume, il cui nome si era perduto. Se tutto ciò era successo tanto tempo fa, mi chiesi, come faceva il cygnano a conoscere quegli eventi? Ma mi pentii del pensiero nel momento stesso in cui si manifestò nella mia mente. D'altra parte, a bordo della nave, Nhidaaj mi aveva informato che quella terra era incredibilmente antica. Più antica, persino, delle rovine dei Tarconii. Non avevo perso il fascino per quel genere di cose. Solo che non potevo trattenere il respiro per sempre, in attesa di risposte che non venivano mai. Il mio cervello era pieno fino all'orlo di domande, e non poteva contenerne più. Forse, pensai, mi mancava la pazienza: ingrediente indispensabile per condurre una vita da studioso. La curiosità c'era, sicuramente. Avevo diviso l'eccitazione della scoperta con l'Aghiir Tharrin, ma dubitavo di poter eguagliare la diligenza, la meticolosità e la dedizione al lavoro del nicieano. E quelle qualità - mi aveva detto lui stesso più di una volta - erano più preziose di qualsiasi altra. Il tempo sapeva conservare bene i suoi segreti, e non li porgeva certo con un sorriso, soltanto perché un giovane dei Venicii era impaziente di trovare delle risposte. Nhidaaj ci fece fermare poco prima dell'alba, mentre il sole stava già versando argento fuso sul mare, a oriente, e tingeva il terreno di un bianco accecante. Dormimmo in una capanna di mattoni rosa modellati con fango e paglia. La capanna era all'ombra di due palme che riparavano dai raggi del sole ma non dal calore dell'aria. Il muro di mattoni rese tuttavia la giornata sopportabile. Quando mi svegliai era pomeriggio inoltrato. Avevo la gola secca e la schiena ardente. Andai dietro la capanna per rinfrescarmi il capo con un po' d'acqua, e vidi che due dei cavalli mancavano. Corsi a svegliare Nhida-
aj per dargli la notizia, ma lui mi sorrise e mi informò che le nostre due guide se ne erano già andate durante la notte. Perché? Ancora una volta, il cygnano non mi rispose. Mangiammo pane duro e datteri freschi. Il vino era aspro, e aveva un lieve sentore d'olio. «È ancora molto lontano», chiesi infine, «il posto dove dobbiamo andare?» «No». Nhidaaj si asciugò il mento peloso. «Cavalcheremo ancora solo per parte della notte». E quando il sole fu rosso-sangue sul filo dell'orizzonte, montammo a cavallo e partimmo. Le bestie erano riluttanti, e dovetti spronare più volte il mio cavallo nelle costole, per costringerlo a incamminarsi. Nhidaaj ci condusse verso est, in direzione del mare di bronzo; viaggiando, seguivamo le nostre stesse lunghe ombre che si distendevano sul terreno spaccato. L'acqua splendeva di un color arancione sanguigno, come le fiamme di un incendio. Il cielo era rosso, striato da lunghi fiocchi di nubi che andavano verso occidente. Nhidaaj ci fece fermare quando c'era ancora un po' di luce. Scrutò il mare per un momento, poi mi toccò il braccio. «Lì», fece, puntando la mano verso la distesa d'acqua. «Se guardi, vedrai qualcosa». Attesi che i miei occhi si abituassero ai riflessi, poi vidi ciò che il cygnano stava indicando. Due forme scure, lontane. Piccole isole, pensai in un primo momento. Poi vidi che le loro proporzioni erano troppo regolari. Dissi a Nhidaaj che vedevo due forme, ma non potevo immaginare che cosa fossero. «Ciò che vedi», mi spiegò, «è circa un terzo di quello che giace sotto le onde. Sono strutture fatte di pietra, di forma triangolare, ma la cui base ha quattro lati come un quadrato». Mi guardò. «Sono le cose più grandi che ci siano sulla Terra, Aldair. E le più antiche». Cercai di figurarmi la parte nascosta sotto il mare. Dovevano essere immense, di sicuro. Non riuscivo a immaginare come cose del genere potessero essere state costruite. «Sono più antiche delle rovine dei Tarconii, dunque», feci. «Quanto più antiche?» Nhidaaj esitò. «Forse due volte più antiche. O ancora di più». Lo guardai meravigliato.
«Due volte più antiche?» Già una volta Tharrin aveva raddoppiato per me l'estensione della storia. Ora Nhidaaj, con un'osservazione quasi casuale, aveva fatto lo stesso. Ma c'era, dunque, un inizio del mondo? «E a che cosa servivano? Lo sai?» «No. Non di sicuro, almeno». Questa osservazione generò un'altra domanda. «Dunque hai un'ipotesi, Nhidaaj...» Il cygnano scrollò le spalle. «Niente più che un'ipotesi. E anche piuttosto fantastica». Sorrise, poi si volse verso il suo cavallo, e puntò nuovamente verso sud. Io diedi un'ultima occhiata alle forme nell'acqua, ma nel cielo non c'era più luce, e non vidi nulla. VENTISETTE Molte cose dovrebbero essere raccontate... Mi chiedo tuttavia se davvero sia meglio che io le narri così come sono successe, o se non sia preferibile dimenticarle. D'altronde, non sono neppure certo di ciò che è realmente accaduto, e di ciò che invece appartiene al mondo delle visioni e del sogno. Probabilmente, i due livelli si compenetrano. La stranezza di quanto avvenne ancora mi sconvolge. Ma alla luce di quanto è accaduto dopo, ho compreso che i miei vuoti di memoria non sono un puro incidente. È meglio, dunque, che io riferisca ciò che è successo, e ciò che mi è parso succedesse, senza fare troppi sforzi per distinguere fra le due cose... Proseguimmo verso sud-ovest. La notte era oscura, senza luna; ma in quelle regioni le stelle sono fitte e luminose. Viaggiare dopo il tramonto è il modo migliore per conoscere il deserto, come posso testimoniare dopo la mia spedizione da Chaarduz verso il nulla, in cerca del Re. Mi chiedevo, quella notte, che cosa fosse mai successo all'Imperatore di Niciea e alla sua capitale. Senza dubbio, Fhazier aveva saccheggiato la città e l'aveva rasa al suolo. Certamente, come era costume dei barbari e dei predatori di ogni parte del mondo, aveva portato via ogni minima cosa lucente e scintillante, o che avesse una parvenza di valore, e aveva distrutto tutto ciò che non poteva trasportare o capire. Non mi aspettavo certo di rivedere mai più intatte le mura rosate della villa di Tharrin. Né i giardini ben curati e le fontane chiocciolanti. Fra tutte
quelle meraviglie, ciò che mi feriva di più era il ricordo del verde patio con la fontana rivestita di maiolica, in cui avevo udito la voce di Lady Shamma. Senza dubbio la magia era svanita ormai da quel luogo. Fhazir non aveva certamente tollerato che il tempo, tra quelle fronde verdi, si fermasse per guardarsi intorno... Forse - pensavo - il Re era riuscito a radunare forze sufficienti per riconquistare il suo trono. O forse no. In ogni caso, per il momento il suo erede Dhar'jeem era al sicuro. Cavalcava davanti a me, placidamente addormentato fra le braccia di Nhidaaj, inconsapevole delle sciagure che incombevano sul regno del padre. Che forse, ormai, era già diventato il suo regno. Andammo avanti per non più di un'ora, prima che Nhidaaj desse di nuovo segno di fermarci. Scesi da cavallo, mi grattai, mi guardai intorno e mi chiesi dove eravamo arrivati. Quel posto mi sembrava l'immagine della desolazione. Un pozzo pieno di sabbia. Una palma e una capanna di fango. Ben poche differenze dal luogo che avevamo lasciato poco prima. È a questo punto che, nella mia mente, gli eventi cominciarono a snodarsi in modo disordinato. Accaddero delle cose. O, almeno, così mi parve. Quando tornai dall'aver abbeverato i cavalli, vidi che Nhidaaj aveva acceso un piccolo fuoco. Un fuoco? pensai. E per quale motivo? Avevamo cavalcato soltanto per un'ora, o poco più. Né noi né i cavalli avevamo ancora bisogno di riposare. Non è troppo faticoso cavalcare attraverso il deserto, di notte. Non posi domande. Bevvi la coppa di vino che mi venne offerta. Forse ne bevvi più d'una. Era un vino secco, con un profumo vagamente muschiato. Migliore della maggior parte dei vini nicieani, che in genere sono troppo dolci. Oggi, ripensandoci, sono sicuro che nella mia coppa non c'era soltanto vino... Che fuoco strano.
Mai visto uno simile. Certe volte, le sue fiamme brillano di un alone giallastro. Altre volte, sono ornate di striature verdi, o diramano tentacoli dell'azzurro più lucente che io abbia mai ammirato. È come se uno scrigno di gioielli si sia trasformato all'improvviso in un nido di fiamme... C'è una città che sta bruciando in quel fuoco. È una vista atroce, ed è un tormento per me sostenerla... La città è stata divorata dalle fiamme. Non ne rimangono che le ceneri... Ma un'altra città è sorta, più grande e maestosa della prima... Nel cuore della seconda città, spunta un sole mai visto. È un sole bianco, accecante, terribile. E questa volta, non ci sono ceneri. Il fuoco s'è spento. Una scintilla dell'incendio ha acceso la torcia, e la sua luce proietta ombre scure sulle pareti. Le pareti sono asciutte e corrose, e emanano un disgustoso tanfo d'insetti. Gli affreschi sono tracciati in colori sbiaditi dal tempo. Qualche colore è svanito del tutto, ma una traccia, come l'eco di un ricordo, si aggrappa ancora alla parete corrosa. Macchie rosso bruno, sabbia, nero fuliggine. I gradini portano verso il basso. Sempre più giù. Al centro, sono scavati profondamente, logorati da un'eternità di passi. L'aria ha un forte odore di polvere. Le cose sulle pareti hanno teste come quelle di creature d'incubo. Una ha un becco appuntito e affilato, e gli occhi crudeli di un uccello da preda. Camminano rigide, come divinità cieche. Ti aspettavo da tanto tempo, Aldair... Chi sei? Ti conosco? Credo di no. Ma io ti conosco bene... È buio. Non riesco a vederti. C'è una lampada. Toccala con la tua torcia... Fiamme rosse.
Luci che danzano su una polla d'ambra. Profumo di ciannamomo. C'è una sedia. Un trono, in verità. Incrostato d'oro e gemme azzurre, con i braccioli intagliati in forma di artigli d'uccello. La creatura che mi sta parlando siede su di esso. Si trova al di là della fiamma scarlatta, ed è avvolta in un mantello grigio come l'ombra. Sotto il cappuccio, gli occhi sono dilatati, animati da lampi verdi e gialli. Le pupille scure sono appuntite come semi di melone. Il naso è piatto, e le orecchie sono nere e sottili come lame. Il manto è liscio come l'acqua. Chi sei? Sei diverso da qualsiasi altra creatura che conosco. Noi siamo pochi. E tu non ci hai mai visto perché non è nostra abitudine mescolarci alle cose del mondo, Aldair... Tu vivi... qui? In questo luogo? Qui. E in altri luoghi. Quali altri luoghi? Non abbiamo molto tempo, Aldair... Tempo per che cosa? Per dire tutte le cose che vorresti conoscere... Non capisco. Tutti mi dicono che io devo sapere certe cose, e poi nessuno me le rivela. Non so mai nulla di completo. Solo parti di cose, sfaccettature di eventi... Questo non è dovuto ad alcuna volontà di ingannarti, amico mio. Di questo puoi essere certo... Va bene, d'accordo. Ma... Gli uomini desiderano che tutti i segreti siano loro rivelati, e cadono preda dell'ira e dell'impazienza quando qualcuno conserva delle conoscenze che essi stessi vorrebbero avere. Tuttavia, quando ottengono certe conoscenze prima di essere abbastanza maturi per riceverle, levano alte grida contro coloro che gliele hanno concesse, e sostengono che ciò che è stato loro rivelato sono bugie, e nient'altro che bugie... Dunque, anche se dicono di volere la verità, in effetti non la desiderano? Non è affatto alla verità, che aspirano. Vogliono soltanto il loro comodo. Ti ricordi quando nel tuo animo salì l'ira contro il suo Signore Tharrin, perché egli non voleva usare le sue conoscenze per combattere i preti
di Niciea? Io pensavo... ...che la verità potesse liberare il popolo dalla paura. È una nobile idea, Aldair. Ma pensi ancora che sia così? Che se anche alla gente venisse rivelato che sono stati sottratti al mondo millenni di storia, e che il nostro passato non è quello che sembra... pensi davvero che questa rivelazione metterebbe fine alla paura? No. Io ti dico che ci sono verità che il popolo non è ancora pronto ad ascoltare. Non ancora... Ed io potrò conoscerle, queste verità? Sì, Aldair. Tu sì... E sarai tu a dirmele? No. Perché non sono io il tuo maestro... E chi, allora? Nhidaaj? Un altro? Io sono il maestro di Nhidaaj. Il suo Signore. Proprio come Nhidaaj è stato il maestro dell'Aghiir Tharrin. Ma non sarà lui il tuo maestro. Né lo è stato il nicieano... Che cosa hai detto? Che il cygnano è stato... il Maestro... del mio Signore? Dell'Aghiir Tharrin? La parola maestro ha significati diversi da quelli che tu le attribuisci, Aldair... Ma.... Ascoltami. Per te non accadrà come è accaduto per l'Aghiir Tharrin. A te non verrà insegnato cosi come è stato fatto con altri. Per certuni, andava bene. Per altri, no... E tu sei fra questi ultimi. Ancora! Devo apprendere cose mai udite prima, ma non ho un maestro. Devo imparare, ma con cautela. Posso conoscere delle cose, ma non per intero. Solo in parte, non è vero? È sempre stato così... Tu hai grande ansia di accollarti il tuo fardello, Aldair. Ma sai, in verità, verso che cosa tende il tuo desiderio? Io... Io credo che nessun uomo debba aver paura della verità, quale che essa possa essere. Può darsi che sia saggio, per un uomo, temere ciò che non può comprendere... Come posso avere una paura simile? Io non so ancora nulla! Di che cosa dovrei aver paura? Presto saprai... E tu come fai a sapere che io saprò? E anche se mi verranno... insegnate... delle cose, come farò a sapere che sono vere? Non so neppure se è ve-
ro ciò che vedo! Capisco... Perfetto. E allora, che senso ha il mio agitarmi, il mio essere in cerca perenne di qualcosa?... In seguito, mi dissero che ero tornato alla nave da solo. Non ricordo il mio viaggio di ritorno, ma è certo che il cygnano non era più con noi, e neppure il Principe Dhar'jeem. Non avevo dubbi sulla sicurezza dell'erede al trono di Niciea. Se un giorno qualcuno ricostituirà l'impero, certamente sarà lui. E sono sicuro che governerà il suo popolo con saggezza. Nessuno me lo disse, ma non avevo dubbi che in quel momento Nhidaaj stava curando l'educazione di un nuovo discepolo. Se era così, Niciea non avrebbe potuto averne altro che bene. Non avevo più con me il pacchetto che mi era stato affidato da Lady Shamma. Ma ero certo che si trovava nelle mani di chi lo attendeva. Al suo posto, avevo un altro pacchetto. Più grande del primo, conteneva una immensa fortuna in pietre preziose. C'erano solo gemme di ogni forma e dimensione, e ciascuna di esse era tagliata e polita nel più squisito dei modi. C'erano zaffiri il cui colore avrebbe fatto arrossire di vergogna le acque del mare; rubini rossi come il sangue; diamanti la cui luce era gelida come quella dei cristalli di ghiaccio. C'erano anche molti smeraldi, dato che quella gemma era la preferita dai Nicieani, per il suo colore verde. Nelle loro terre, aveva valore più di ogni altra. Nel pacchetto c'era un'altra cosa. Una pergamena coperta di fitta scrittura, che affermava come un certo Aldair, della stirpe dei Venicii, era stato designato quale unico proprietario di una certa nave, il cui aspetto era descritto con grande minuzia e precisione. Il documento era firmato e sigillato dell'Aghiir Tharrin e, a conferma e testimonianza, era apposta la firma di Lady Shamma. Non so per quale motivo mi era stato regalato un tale tesoro, né perché mi era stata affidata una bella e veloce nave nicieana. Né so perché mai ero stato condotto nel deserto per bere vino drogato e parlare con creature ignote che non mostravano mai la loro faccia al mondo. Che cosa mai dovevo cercare? Che cosa dovevo fare? La creatura con gli occhi gialli mi aveva preannunciato che un giorno
avrei saputo... Ma quando, quando? Il capitano della mia nave mi disse che sarebbe rimasto ai miei comandi per tutto il tempo che avessi avuto bisogno di lui, nel nome dell'Aghiir Tharrin. Era un uomo d'onore e un abile marinaio, ma mi accorsi che, al di là delle sue parole, ciò che desiderava era qualcos'altro. Gli chiesi allora, di dirmi onestamente che cosa voleva fare. Mi spiegò che fino a quando Niciea era nelle mani dei ribelli, si considerava obbligato a difendere il suo Re e, se possibile, ad aiutarlo a porre ordine nel paese. Rispettai il suo desiderio. La notte scorsa salpammo per una baia a lui conosciuta, non lontana da Chaarduz. Dopo aver gettato l'ancora, lui e una parte della ciurma ci lasciarono. Nominai Signar Capitano, con sua grande gioia. Mi disse che ci sono posti in cui si poteva reclutare una buona ciurma, e i marinai nicieani rimasti con noi accettarono di governare la nave fino a quando non avessimo assoldato i loro sostituti, in cambio di un passaggio verso casa. Avevo detto loro che avremmo fatto rotta verso il nord, fuori del Mar Meridionale, e sapevano che avremmo trovato un clima poco adatto alla loro struttura fisica. Così, partimmo. Ma che cosa avremmo fatto, dopo aver superato la grande fortezza di roccia dei Rhemiani, ed aver circumnavigato la terra dei Tarconii? Non so dirlo, ma di una cosa ero certo: troppe cose mi erano accadute, in troppo poco tempo. Di volta in volta ero stato studente, eretico, fuorilegge, schiavo e rhadaz'meh del fratello di un imperatore. Ora ero proprietario di una splendida nave, e ricco al di là di ogni speranza. Non ero più la stessa persona di un tempo. E non ero sicuro di quello che ero, e che sarei stato. Sapevo che avrei dovuto cercare, e trovare. Ma che cosa, che cosa? VENTOTTO
Ancora una volta attraversammo senza incidenti gli stretti, e entrammo nel Grande Oceano. Fino a quando il passaggio non fu compiuto, tuttavia, rimasi in preda all'ansia. Sapevo bene che avremmo potuto facilmente battere in velocità le tozze navi rhemiane; ma non avrei mai osato affrontare una di esse in battaglia, perché avevo ben pochi uomini da mettere alle armi. Inoltre, i Rhemiani sapevano che erano scoppiati gravi disordini a Niciea, e temevo che avessero intenzione di trarre vantaggio dalla cosa in ogni circostanza possibile. «Stai tranquillo», mi rassicurava Signar. «Loro, in ogni caso, non possono sapere quale sia la nostra forza, o la nostra debolezza. E io starò attento a non fornire il minimo indizio». Non mi disse nulla di più, ma mentre parlava occhieggiava con disprezzo la grande rupe-fortezza che incombeva su di noi, e mormorava qualche segreta maledizione nel profondo del suo enorme petto. Non gli posi altre domande. Un Capitano deve essere libero di governare la sua nave come meglio ritiene. Altrimenti, che Capitano sarebbe? Il vikoniano non mi deluse. Quando passammo sotto l'ombra della montagna, ogni uomo era al posto di combattimento. La ciurma addetta alle manovre si muoveva intorno come uno sciame d'api: ciascuno fisso al suo compito, e pronto ad eseguire gli ordini. Signar aveva dato strane disposizioni. L'equipaggio passava e ripassava sul ponte, e ad ogni passaggio cambiava divisa e copricapo, trasportando oggetti da un punto all'altro della nave. Se avessi osservato quell'andirivieni dagli spalti della fortezza rhemiana, di certo avrei avuto l'impressione che la nostra nave fosse carica di uomini. La ciurma si divertiva a queste manovre, e sarebbe andata avanti all'infinito, se Signar non l'avesse richiamata all'ordine con uno o due dei suoi possenti ringhi. Il vikoniano non aveva trascurato di mostrare ai nemici la potenza del nostro armamento: ogni scudo, corazza, spada o arma di qualsiasi genere era stata posta bene in vista sul ponte. Fuori del Mar Meridionale, le acque divennero più agitate e il vento più freddo, dato che ormai andavamo incontro al pieno dell'autunno. La nave si dirigeva verso nord tagliando i marosi. Si arrampicava sulla cresta di onde mostruose, quindi precipitava nell'avvallamento fra un'onda e l'altra.
Sul fondo di quelle depressioni, non c'era altro che acqua: immense pareti liquide che ci circondavano da ogni parte, più alte del nostro albero maestro. Tuttavia, Signar e l'equipaggio erano tutt'altro che spaventati. Per conto mio, mi accontentavo di stare accanto all'oblò della mia cabina, e fissare la scura linea della terra, lontana verso l'orizzonte. Verso occidente non c'era altro che il vuoto più spaventoso, che si allungava sino all'infinito. E, al di là di esso, un enorme punto interrogativo. Mi chiedevo che cosa potesse esserci al di là dell'ultimo limite dell'infinito. Qualcosa di incognito? O l'oceano continuava a estendersi per leghe e leghe, oltre l'inconoscibile? «A quel che dicono, l'oceano precipita nel nulla», mi spiegò una volta Signar. «Presso il termine del mondo c'è un immenso banco di nebbia, che nasce dall'abisso. Questa nebbia è velenosa, e chi la respira muore, ma laggiù Vhinaar canta le sue canzoni e attira i marinai con la dolcezza della sua voce. Chi l'ascolta dimentica che l'aria è irrespirabile, e si dirige entro la foschia, verso l'Orlo del Mondo. Inutile dire che nessuno di essi si mostrerà più di nuovo, se non nelle Sale di Rhagnir». «Rhagnir?» «È una parola vikoniana. I Rhemiani hanno un termine analogo. Lo dicono: Inferno». Signar scosse le spalle. «Una parola vale l'altra», aggiunse. Fissai le acque grigie. «E tu credi a questa leggenda?» gli chiesi. «Sei convinto che una nave, continuando a viaggiare verso occidente, precipiti nel Rhagnir?» Signar riempì il suo immenso torace di aria marina. «Io sono un uomo che pensa secondo due menti, Aldair. È certo che conviene preoccuparsi delle cose che riguardano gli Dèi, e non è saggio irridere ai loro avvertimenti. Ho conosciuto uomini che avevano soltanto disprezzo per Rhagnir: ma nessuno di loro solca più i mari. Tuttavia, un vero uomo può contemporaneamente onorare gli Dèi e mantenere l'indipendenza del proprio pensiero. Personalmente, non credo che al mondo ci sia un posto in cui un vikoniano non possa arrivare se munito di una nave solida e bene equipaggiata. Che siano i mari ghiacciati del nord, o il Grande Oceano stesso». Signar parlava con convinzione e vero coraggio, ma io mi accorsi che di tanto in tanto lanciava uno sguardo preoccupato dietro le spalle: come per
assicurarsi che qualche dio maligno non stesse lì intorno ad ascoltare quello che diceva. Facemmo una fermata sulla costa dei Tarconii, presso il desolato luogo delle rovine, dove Tharrin aveva lasciato una guarnigione in attesa della primavera. Ritenni che l'Aghiir non avrebbe avuto niente in contrario: lui non sarebbe mai tornato su quelle spiagge, e non c'era motivo di lasciare tanti uomini da soli a fronteggiare un'inutile morte. I Nicieani furono più che contenti di imbarcarsi con noi, anche quando appresero che avremmo fatto vela per il nord, e che sarebbe trascorso molto tempo prima che tornassero a vedere il sole della loro patria. Rheif mi sembrava molto migliorato, e non mi vergognavo di dire che per questo alzai più di una volta le mie lodi al Creatore. Più di una volta si univa a noi sul ponte, e rifiutava altezzosamente le mani di quanti desideravano sorreggerlo. Non che non ne avesse bisogno: ma gli Stygiani hanno un orgoglio più duro del diamante, e contro di esso non c'era nulla da fare. «Stai ridiventando il solito vecchio mostro», gli dissi una mattina. «E non vedo come la cosa possa consolarti». Mi gratificò di un ghigno ironico. «Soltanto un venicii insulterebbe così un uomo ferito, che non è in grado di lottare», mi fece. Poi il ghigno si spense, e i suoi lineamenti presero una piega di stanchezza. «In verità, Aldair, io ormai sono poco più di uno scendiletto, pronto per essere steso a terra. Manca soltanto la concia, la rimozione di qualche scheggia d'osso, e di un po' di carne». Cercai di sorridere alle sue parole, come facevo sempre. Ma nel mio animo non potevo sopprimere un'ombra di inquietudine. Parlare lo stancava tremendamente: il che, per uno stygiano, era una cosa del tutto fuori dell'ordinario. Perciò, il più delle volte, lo lasciavo solo sul ponte, dando l'incarico ad un marinaio di sorvegliarlo e di provvedere a qualsiasi sua necessità. Lo stygiano sedeva per ore in perfetta immobilità, con gli occhi costantemente puntati verso nord. Potevo immaginare benissimo i suoi pensieri. Che, del resto, non erano molto diversi dai miei... Perdemmo di vista la costa soltanto una volta, quando arrivammo in prossimità del porto rhemiano presso la città con le ville bianche e rosa arrampicate sulla collina. Non potevo dimenticare la nostra avventura in quello stesso posto,
quando l'immensa nave rhemiana, issante bandiere rosso-sangue, ci inseguì per ore e ore, mentre Rheif era sdraiato sul fondo della nostra piccola barca, e si rifiutava di guardare al di là delle fiancate. Mi sembrava di ricordare un evento lontanissimo, accaduto in un'altra vita, diversa da quella presente. Signar mi disse di conoscere quel porto, e che il suo nome era Camelium. Un tempo, era oggetto di continue scorrerie da parte dei Vikoniani: ma questo molto tempo fa, quando suo nonno era giovane. A quell'epoca i Rhemiani non avevano ancora conquistato la Gaullia, ed erano confinati nella Penisola Rhemiana e nelle terre prospicienti le coste orientali del Mar Meridionale. «Non ci spingiamo più tanto a sud», si lamentò Signar, scuotendo la testa. «Le cose non vanno bene come un tempo, per i Vikoniani. Anno dopo anno, i Rhemiani hanno portato le loro Legioni sempre più a nord. Noi non li temiamo, stai pur certo: ma sono numerosi come le mosche, e dovunque volti gli occhi, sei sicuro di trovarceli!» «Questa è per l'appunto la forza di Rhemia», risposi. «Là dove arrivano le Legioni, presto seguono funzionari e mercanti, e, con essi, i costumi e il modo di vivere dei Rhemiani. Dopo una o due generazioni, i bambini del posto parlano rhemiano, e dimenticano la loro lingua nativa». Signar mormorò una bestemmia. «È vero», disse. «Hanno rubato tutto il mondo, e nessuno è riuscito a fermarli. Ma lascia che uno di essi scorga un vikoniano con una cipolla che non gli appartiene, e vedrai una testa pelosa rotolare in mezzo alla strada!» Era il tramonto di un giorno grigio e gelido. Nubi color piombo incombevano pesanti sul cielo. Signar condusse la nave all'ancora in una baia che sembrava abbastanza protetta. La cosa non era di generale gradimento, dato che eravamo vicinissimi alle coste della Gaullia, densamente popolate: ma avevamo finito le riserve d'acqua, e non c'era altro modo per procurarcela che scendere a terra e cercare una sorgente. Il vento traeva suoni lamentosi fischiando attorno al sartiame; ma all'interno della cabina che un tempo era stata occupata da Nhidaaj faceva abbastanza caldo. Un braciere di ferro teneva lontano il gelo della notte, e proiettava un riflesso rosso cupo sulle scure pareti di legno. Le nostre coppe di rame erano piene di vino, e contro le fiancate si sentiva l'urto ritmico della risacca. Signar era stato a lungo silenzioso, stringendo la sua coppa nell'immensa
mano pelosa. Alla fine, tuttavia, i suoi occhi smisero di fissare i carboni ardenti e si alzarono per incontrare i miei. Sapevo già, molto prima che alzasse la testa, che nella sua mente stava frullando qualcosa. Parlare è un'impresa insolita e importante per i Vikoniani, e prima di affrontarla, meditano e pensano a lungo sulle parole che intendono pronunciare. «Ci sono alcune cose che debbono essere dette, Aldair», cominciò. «Mi pare che questo sia un momento buono come qualsiasi altro». Rheif sollevò la testa e guardò prima lui, poi me, ma non disse nulla. «Signar», gli risposi, «fra leali compagni non ci sono momenti migliori o peggiori per parlare». Il vikoniano annuì, e si guardò le mani. «È vero, Aldair», fece. «Ascoltami. Stiamo costantemente facendo vela verso il nord. Questo significa che ogni giorno che passa corriamo di più il rischio di essere avvistati. In acque come queste non può esserci nulla di più insolito di una nave nicieana, a parte il kraken o il serpente di mare. Fino ad ora siamo stati fortunati, anche se ho forti dubbi che la nostra presenza non sia stata ancora segnalata. Per quel che ne sappiamo, una nave da guerra rhemiana potrebbe già essere alla nostra caccia. Puoi esser certo che i Rhemiani sarebbero molto curiosi di sapere che cosa facciamo da queste parti, così lontano dal Mar Meridionale». Si interruppe per grattarsi il muso corto con la mano tozza e pelosa. «Ciò che voglio dire, Aldair, è che è tempo di assegnare al nostro viaggio una destinazione precisa...» «...Una destinazione precisa...» Qualcosa di strano mi stava succedendo, anche se non sapevo dire che cosa fosse. Ascoltavo le parole di Signar. Ma non le udivo. Lui parlava. Ma le sue parole non erano parole che io conoscessi. Qualcosa... «Aldair». Alzai gli occhi. C'era una creatura, davanti a me. Cercai con tutte le mie forze di ricordarne il nome. «Aldair. C'è qualcosa che non va?» «No», risposi. «Va tutto bene». Ma non era vero. «...Una destinazione precisa...»
Guardai Rheif. Rheif distolse gli occhi. Guardai Signar. Sì, Signar. Ricordavo. «Io... Dove vorresti che ci dirigessimo, Signar? Verso nord? Verso... casa?» Sembrava una domanda innocente. Ma Signar mi rivolse un lungo, penetrante sguardo interrogativo. «Aldair, come tu sai, io sono un vikoniano. Quando mi trovo sul mare, non posso essere altro che felice. Perciò, non è giusto che sia io a rispondere alla tua domanda sulla nostra destinazione. L'unica cosa che non desidero, per il mio futuro, è la cattura da parte dei Rhemiani. Non te l'ho mai detto, ma fu così che divenni schiavo dei Nicieani. Scappai dai remi di una nave da guerra rhemiana sulle coste del Mar Meridionale, e nuotai a riva fino agli stretti. Scoprii però che una costa non è migliore dell'altra, e non ci volle molto prima che io mi trovassi nuovamente nell'infelice condizione dello schiavo... solo che, stavolta, i miei padroni erano i Nicieani». Sì, pensai. Ti capisco, Signor. L'immagine si presentò terribilmente chiara nella mia mente. Un uomo che solleva, stanco, gli stivali nel fango delle paludi del nord. Che cosa c'è di sbagliato in me...? «Tutti noi abbiamo conosciuto il... il sapore della schiavitù» dissi, come parlando con la bocca di un altro. «Sì. Tutti noi...» «Aldair...» «E poi...» Qualcosa. «E poi noi abbiamo soltanto uomini liberi su questa nave. Soltanto uomini... liberi. Quando arriveremo a...» «...Vhiborg», terminò Signar. «Vhiborg. Non ci saranno più schiavi». «Hai parlato come un vero vikoniano, Aldair». Andava meglio. I miei pensieri cominciavano a schiarirsi. «E poi», feci, «si può fare in modo da rendere meno visibile la nave. Meno colorata. Senza ridurne... la manovrabilità...» «Certo. Si potrebbe ridipingerla, per esempio». «E poi le vele. Hai già menzionato le vele, mi sembra...» «E non soltanto quelle», fece Signar. «La chiglia ha un rivestimento adatto alle acque dei mari caldi. Al nord, invece...»
Rheif scoppiò a ridere. Una risata cupa, cavernosa, che si spezzò in una serie di colpi di tosse. Tutti e due tacemmo, e lo fissammo in volto. La sua figura, un tempo possente, era distrutta; la pelle pendeva come un sacco vuoto appeso alle ossa. Ma dal profondo delle orbite, gli occhi dello stygiano ardevano ancora come rosse braci nella notte. «Siete entrambi ottimi cacciatori», ci disse in tono irridente. «Avete preparato un grande festino, e già acceso i fuochi per il banchetto. Vi manca soltanto la selvaggina da cucinare!» «Rheif!» fece Signar, in tono aspro. Lo stygiano lo fissò col suo sguardo inflessibile. «Non ho paura di te, vikoniano», disse. «Non è questo il momento. Verrà... più tardi... forse. Ma non ora...» «No. Io parlerò. Ora». Signar chinò gli occhi e si guardò le palme delle mani. Scrutai prima l'uno, poi l'altro. Nessuno dei due volle sostenere il mio sguardo. «Rheif. Signar», feci. «Di qualsiasi cosa si tratti, devo saperla. Come ho detto, fra compagni leali non c'è nulla che debba essere passato sotto silenzio». Signar mi fissò con occhi addolorati. «È questo che siamo, Aldair?» chiese. «Leali compagni?» Le sue parole mi sbalordirono. «Ne dubiti, Signar?» gli risposi. «Mi poni davvero una simile domanda?» Il vikoniano si agitò a disagio sul suo sgabello. «Un tempo», mi fece, «non te l'avrei certo posta...» «E ora? Perché?» «Aldair. Ascoltami. Tu non riesci a vederti. Ma i tuoi amici ti vedono, e pensano. Ci siamo accorti che un cambiamento è sceso su di te. Non sei più quello che eri un tempo. Ti conoscevo per un uomo franco e leale. Né Rheif né io pensiamo che...» «Aspetta». Mi alzai in piedi e li fronteggiai entrambi. «C'è qualcosa nella tua mente, vikoniano... e nella tua, Rheif... qualcosa contro di me. Vi assicuro che io sono Aldair. Quello di sempre. Sono lo stesso Aldair dei Venicii che è approdato sulle coste dei Tarconii con te, Rheif. E ha diviso con te la zuppa di scarafaggi degli schiavi nicieani. Sono lo stesso Aldair che ti ha trovato presso la ruota dell'Aghiir Tharrin, Signar, mentre digrignavi i
denti sotto la frusta di Linius». Allargai le braccia. «Che cosa avete contro di me? Mi è spuntata un'altra coda? Il mio muso è cresciuto di un palmo? Ditemelo, in modo che possa sapere ciò che pensate di me!» «Aldair», fece il vikoniano, «noi sappiamo bene...» «Vieni al dunque, Signar. Per favore». «Come vuoi». Il vikoniano alzò gli occhi. «Siamo salpati da Chaarduz per compiere una missione di qualche genere. Al riguardo, non abbiamo posto domande. Siamo riusciti ad uscire dalla città con la pelle ancora attaccata al corpo: e questo è stato già abbastanza. Poi ti abbiamo visto partire verso il deserto con Nhidaaj e il giovane Principe. Sei tornato da solo. Non ti abbiamo fatto domande. Non ti abbiamo chiesto neppure come mai uno splendido vascello, che già faceva parte della flotta nicieana, ora appartenga a te. Né in seguito a quali circostanze tu ti ritrovi ricco al di là dei sogni di qualsiasi uomo. Tutte queste sono circostanze piuttosto insolite. Ma su di esse non ti abbiamo chiesto nulla, Aldair». «Ci sono... ci sono cose che io stesso non comprendo, Signar». Il vikoniano annuì. Senza troppa convinzione. «Se mi sono mostrato un amico meno leale di quanto volevo», dissi, «non è stata mia intenzione. Io...» «Aldair». Signar scosse la testa enorme con fare interrogativo. «Tu non sai ancora ciò che sto per dirti, non è vero? Se tu non ci parli spesso, o non ci guardi nemmeno, questa per noi non è un'offesa. Certe volte, gli occhi di un uomo sono puntati su qualche cosa di lontano, che soltanto lui può vedere, e che non può comunicare agli altri. Questa è una cosa che capisco. Ma, mio caro amico, ciò che abita nella tua mente ha ormai preso possesso di te. Ti ha reso cieco di fronte ai pericoli che corriamo. Ciò che voglio dire, che io e Rheif stiamo da tempo cercando di dirti, è che tu non sei Aldair. Sei un estraneo che ha preso il suo posto. Noi non ti conosciamo. Ci stai portando a nord, verso Vhiborg. E poi? Dove ci porterai, Aldair? Non ce lo hai mai detto. Non ci dici mai nulla. Forse presumi che noi conosciamo già le tue intenzioni. Ma non è così. Che cosa potrò dire alla ciurma che ingaggerò? Che diventeranno pirati? Mercanti? Pescatori? O dovrò dire che un ricco ex-schiavo ha acquistato una bella nave, e desidera portarla attraverso i mari per il proprio divertimento... anche se non si degna di comunicare neppure al proprio Capitano dove vuole andare e che cosa vuole fare?» «Signar...»
Di nuovo, eravamo allo stesso punto. Volevo parlare. Ma non potevo. Signar aveva torto, e desideravo dirglielo. Io ero preoccupato per le stesse cose di cui il vikoniano mi aveva fatto l'elenco. Io avevo a cuore il destino dei miei compagni, del mio equipaggio... Tuttavia... Era proprio vero... o no? Un brivido improvviso mi fece tremare tutto il corpo, e mi afferrai ai braccioli della sedia fino a farmi dolere le dita. Perché, all'improvviso, avevo capito che Signar aveva ragione. Io non ero me stesso, ma un altro. Che cosa c'era di sbagliato in me? Che cosa c'era di sbagliato in me? Di nuovo, un velo si sollevò lentamente dal mio cervello. Sì. C'erano cose che potevo condividere con i miei compagni. Cose che non dovevo sopportare io da solo. Cose che non capivo, che non avevo ancora scoperto, che erano molto al di là della mia comprensione. Vai... cerca... trova, Aldair... Trova CHE COSA? Per gli occhi del Creatore, che cosa si pretendeva da me? E poi: Pace. Silenzio... ....Silenzio che si rovescia su di me, come il caldo, confortevole abbraccio di un'onda marina.... Una porta si era chiusa. Adesso si apriva di nuovo, e potevo vedere... qualcosa. «Aldair...» Lo scuro volto di Signar sopra di me. E Rheif: «Sta bene, vikoniano. Lascialo stare». Signar si volse verso di lui: «Sta bene, dici? Ma lo vedi? Guarda che faccia che ha...» «Lo vedo». «E allora...»
«Adesso, lui sa, Signar». «Che cosa, sa?» «Sa. Sa dove sta andando...» Da qualche parte, da molto lontano, guardai Rheif. La sua voce non era più la sua. Per un momento, era appartenuta a un altro. E per un breve, fugace secondo, vidi qualcosa nei suoi occhi. Un attimo: poi scomparve. Ma non provavo più paura. La porta era aperta. E Rheif aveva ragione. Adesso, a quanto pareva, sapevo dove stavo andando. E mi rendevo conto di averlo sempre saputo... VENTINOVE È facile capire perché i Rhemiani non sono mai riusciti a chiudere il porto di Vhiborg. Innanzitutto, il posto è difficile da raggiungere, perché non si trova sulla costa ma diverse miglia nell'entroterra. Ci si arriva seguendo un canale profondo e stretto, affiancato da alte rupi che lo rendono estremamente difendibile. Poi, è molto a nord, lontano dalle grandi vie di comunicazione. Proprio per questi motivi, tuttavia, costituisce un punto di riferimento ideale per i Vikoniani, anche se fra le sue strutture brulicano individui di tutte le razze: disertori rhemiani, mercenari tarconii, ed anche una piccola colonia di Stygiani, che Rheif incontrò con immaginabile piacere. Avevamo molte cose da fare, e dovevamo farle in fretta, perché la stagione era ormai avanzata. Molti marinai che frequentano questo porto preferiscono non prendere il largo durante i mesi invernali, quando le acque sono più tumultuose e le rive sono coperte di ghiaccio. Si tratta di un comportamento ragionevole - mi diceva Signar - e certamente non potevo negarlo. Ma il fatto non mi consolava. Dovevo partire al più presto: lo dissi al vikoniano, e lui non mi fece domande. Perciò, facemmo i rifornimenti, reclutammo gli uomini di cui avevamo bisogno, e apportammo allo scafo le modifiche richieste da Signar. Mantenni tutti gli impegni che avevo preso con i Nicieani rimasti fra noi. Erano stati leali e avevano obbedito senza discutere; una gelida morte all'estremo nord non sarebbe stata la giusta ricompensa per il loro comportamento.
Guadagnarsi un passaggio verso il sud fu per loro più facile di quanto avessimo immaginato. I corsari sono pronti ad ascoltare racconti di terre lontane quanto lo sono a bere coppe di vino; le descrizioni dei ricchi porti sulle coste meridionali narrate dai Nicieani trovarono orecchie aperte e spiriti pronti. Entro una settimana, due vascelli discesero il canale, diretti verso il mare aperto. Su ciascuna nave c'era metà del mio equipaggio nicieano, e sono sicuro che benedicevano ogni lega che li portava più vicini al loro ardente sole meridionale. Intanto, Signar aveva operato meraviglie sulla nostra nave. Aveva introdotto alcune delle strutture più importanti della marineria vikoniana nel progetto base realizzato dai Nicieani. Il nostro vascello era adesso più forte e più veloce. Nessun'altra imbarcazione al mondo - mi assicurò Signar - avrebbe potuto raggiungerci, e, se pure ci avesse raggiunti, non avrebbe potuto danneggiarci. Non avemmo difficoltà a reclutare un equipaggio, perché praticamente tutti i marinai di Vhiborg desideravano salpare con noi. Devo dire che non assistetti a nessuno degli eventi che ebbero luogo a Vhiborg. Non mi mostrai mai sul ponte, ma rimasi chiuso nella mia cabina finché non fummo di nuovo sul mare aperto. Scelsi questo comportamento perché non mi sentivo più adatto alla compagnia degli uomini. Signar aveva ragione: mi era successo qualcosa. Non ero più me stesso. Sono Aldair. Ma un Aldair cambiato. Sono parte di qualche cosa che si stende fra uno ieri dimenticato e un domani inconoscibile. Sono un anello di una catena che non conosco. Un anello come l'Aghiir Tharrin, Nhidaaj, e la creatura con gli occhi gialli, che non si confonde con il resto del mondo. E che cos'altro diventerò? A quali eventi dovrò assistere? Che cosa devo cercare? Non so dirlo. So solo che devo andare avanti per la mia strada. E che non posso interrompere la mia ricerca più di quanto non possa arrestare i battiti del mio cuore. Il compito che mi è stato affidato mi rende fastidiosa, e talvolta paurosa, la compagnia degli altri uomini. Certe volte, mi sembra che persino Rheif e Signar parlino in lingue che non comprendo. Talvolta, mi pare che qualcosa della magia che aleggiava nel giardino di Lady Shamma abbia preso il mare insieme con me. Spesso ho la sensazio-
ne che il tempo non mi tenga più legato a questo mondo. Strani pensieri si aprono facilmente la via nel mio cervello: e sono pensieri che non appartengono a me. Infinite volte, mi sveglio in preda a sogni che non capisco. Chi sono? Che cosa mi sta succedendo? Sono domande che non ho mai posto a nessuno. Io sono soltanto Aldair dei Venicii. Vengo da un angolino insignificante della Gaullia, che non ha mai rivestito interesse per alcuno. Solo che, oggi, non sono più l'Aldair di un tempo... «Dobbiamo dir loro qualcosa», ringhiò Signar. «E presto. Una ciurma ha i suoi diritti, Aldair». Lo guardai. Signar. Il vikoniano. Candidi gabbiani tracciavano cerchi aerei in un cielo grigio. «Che cosa vuoi che gli dica?» chiesi. Signar si morse un labbro. «Se davvero gli dici dove stai andando», fece, «non ti seguiranno più». «E se non dico nulla, alla fine mi abbandoneranno lo stesso. Il dilemma è cornuto, Signar. Ma la risposta è semplice. Non dirò nulla». Signar scosse la grande testa pelosa. «I marinai non sono sciocchi, Aldair, anche se tu sembri pensare il contrario. Hanno occhi, sanno leggere le onde e le correnti. Fra poco, sapranno anche loro. E sono gente superstiziosa, di questo puoi esser sicuro. Non appena avranno capito dove li stai portando, non seguiranno più alcun ordine: né tuo, né mio». Guardai il vikoniano con sorpresa. «Certo, Aldair. Non obbediranno neppure a me. Ma io non li abbandonerò. Sono un marinaio come loro, in fondo. Ricordi?» «No. Tu non sei come loro». «E invece sì. Sono più duro di tutti, più furbo di tutti, come deve essere un capo. Ma sono come loro. Non vedo dèi e dèmoni spuntare sotto ogni onda: ma non arriverò mai al punto di ingannarli deliberatamente». «...Dove stiamo andando...» «Non chiederò loro di seguirmi fino a... a quel posto», risposi a Signar, «Andrò oltre, amico mio». Il vikoniano mi rivolse uno sguardo sbigottito. «E dove hai intenzione di andare, allora? Potremmo dir loro questo, almeno».
«... Dove stiamo andando...» Mi avvolsi il mantello attorno al corpo per difendermi dal gelo, e fissai il mare. «Non lo so, amico mio. Non lo so...» Passò un lungo istante, quindi il vikoniano emise un lungo respiro. «Devi farlo per forza, Aldair?» «Sì...» «Ti credo. E so che lo farai. Non permetterò che né questa nave ne questo equipaggio ti impediscano di fare fino in fondo quello che devi, amico mio». Si allontanò senza guardarmi. Capivo il suo spirito. Ma già sapevo che... TRENTA ...la mia cronaca sta per finire; e, finendo, si avvicina al suo inizio. Perché ora so di aver appena cominciato il lavoro che mi è stato affidato. Ho aperto una porta, e ho visto ciò che c'era al di là. Ho acquisito nuove conoscenze. E ho appreso che la conoscenza è più preziosa dell'oro zecchino, e più mortale delle Legioni di Rhemia. Fra tutte le cose del mondo, è quella che deve essere pesata con la cura maggiore, e divisa con la massima saggezza. Tre creature soltanto hanno letto ciò che è vergato su questi fogli. Una è Signar il Vikoniano. Un'altra è Thareesh, un arciere di Niciea che ancora vive, anche se l'avevo dato per morto nel deserto. L'ultima è Rhalgorn, consanguineo di Rheif lo Stygiano, che brandisce una spada antica quanto la storia, e possiede il dono della seconda vista. Ma queste figure appartengono ad un'altra vicenda, che deve ancora cominciare. Mentre non ho neppure finito quella che sto raccontando... Era già un'ora dopo l'alba, ma c'era poca luce sull'acqua. Il cielo di piombo nascondeva il sole e incombeva sul mare gelido. Era una di quelle mattine in cui ogni suono sembra soffocarsi sul nascere, e un uomo ha la tentazione di camminare con passi pesanti per sentire il rumore dei suoi stivali. Solo grazie al coraggio di Signar il nostro vascello si era avventurato su quelle acque. Che cosa avesse detto la ciurma, non lo so. So soltanto che
anche se tutti temevano l'isola più della morte stessa, e sentivano il suo gelo attorno ai loro cuori, tuttavia temevano di più il vikoniano. Così, ancora una volta mi trovai ai remi di una piccola barca al largo delle cupe scogliere di Albion. E, ancora una volta, non ero solo. Perché un uomo si aspettava così poco dai suoi amici? Forse perché conosce se stesso troppo bene, e non riesce a capire per quale motivo qualcun altro debba sacrificarsi per lui. Avevo appena accostato i remi agli scalmi, quando una figura alta e scarna scese lungo la fiancata e salì sulla mia barca. Non dissi nulla. Lo stygiano mi guardò con aria solenne, e si strinse un mantello intorno alle spalle. «Senza dubbio», fece, «se quella tetra isola che tanto brami è davvero popolata soltanto dalle anime dei morti, la selvaggina sarà ancora abbondante, e ci saranno belle lepri grasse, pronte per essere prese». Non riuscii a guardarlo negli occhi. «Sì», risposi. «Certamente è così, Rheif...» Alzai gli occhi per guardare il vikoniano appoggiato alla fiancata. Sapevo ciò che stava pensando. Persino la semplice discesa fino alla mia barca aveva affaticato oltremisura lo stygiano. E tutti e due sapevamo che non aveva più grande interesse per i leprotti, perché il dardo di Linius aveva liberato un veleno nel suo corpo, e il suo stomaco non era in grado di trattenere più neppure il vino annacquato. I miglioramenti mostrati durante il tragitto verso il nord erano stati effimeri. Signar ed io lo sapevamo bene, anche se non ne parlavamo mai. Anche Rheif lo sapeva. Ma lui era uno stygiano, e in vita e in morte i membri della sua razza sono creature incredibilmente ostinate. Perciò non lo guardai, ma mi accigliai e mi morsi a sangue un labbro. Rimasi taciturno, come se fosse grande fatica manovrare i remi nell'acqua di quel mare, che era calmo come uno stagno. Mi concentrai sulla voga, e in questo modo impedii alle lacrime di salirmi fino agli occhi. Nel tardo pomeriggio le nubi si divisero, e il sole autunnale temperò il gelo. Avevamo preso terra presso la foce di un piccolo fiume. La sua corrente non era forte, per cui decisi di risalirne il corso fino all'entroterra. Il fiume era stato un suggerimento di Signar. Non volevo avere nulla a
che fare con le scogliere minacciose che Rheif ed io avevamo visto presso le coste dell'isola durante la nostra fuga dai Tarconii. Perciò il vikoniano ci trovò un approdo meno difficile, proprio a nord del punto in cui il canale fra Albion e la Gaullia si restringe. Per un po' ci muovemmo tra fitti ciuffi di vegetazione. L'acqua era cupa, e l'odore di legno marcio era molto forte. La nostra barca tagliava con la prora banchi di canne palustri, che si dividevano come grano sotto la falce. Tutto intorno si vedeva una grande abbondanza di pesci e di uccelli. Grandi stormi di aironi dalle lunghe gambe aspettavano quasi che fossimo loro addosso, prima di spalancare le ali e prendere il volo. Le paludi attorno alla foce finirono, e il fiume si restrinse. Remai sotto l'ombra di grandi querce, cariche di fogliame rosso e dorato. Le chiome degli alberi immensi si aprivano sopra le nostre teste, e attraverso di esse i raggi del sole mandavano sottili lame di luce a riflettersi nell'acqua. Su entrambe le rive la foresta era piena di selvaggina. Era così densa di vita che, ovunque poggiassimo lo sguardo, coglievamo un movimento. Quelle creature non avevano più timore di noi di quanto ne avessero i grandi stormi di uccelli marini. Si vedevano scoiattoli, castori, otarie a profusione. E tanti di quei leprotti grassi quanti Rheif avrebbe potuto sognarne in un'intera vita di cacciatore. C'erano caprioli, daini dagli occhi rotondi, e grandi cervi dalle immense corna ramificate. La loro vista mi rallegrava, perché questo genere di selvaggina era divenuta scarsa in Gaullia negli ultimi tempi, anche nelle regioni più a nord. E anche se la mia gente non consuma carne e solo carne, come gli Stygiani e i Vikoniani, tuttavia un bell'arrosto di cervo nelle occasioni festive è sempre uno spettacolo invitante. Prima del tramonto, portai a riva il piccolo scafo e accesi un fuoco. Non volevo che Rheif sentisse freddo, e nell'aria correva un brivido di gelo. Soltanto allora cominciai a rivolgere seriamente le mie attenzioni alla cacciagione. In quel luogo non c'era bisogno di accorgimenti particolari per fare un buon bottino, e dopo essermi mosso di pochi passi dal campo, grazie al mio arco e alle frecce uccisi un capriolo e varie lepri. Scuoiai rapidamente le mie prede. Misi ad arrostire le lepri, ed esposi al fuoco la carne del capriolo, perché si affumicasse. Né io né Rheif avevamo parlato molto durante il giorno. Lo stygiano non era più di temperamento ciarliero, ed io avevo il mio daffare per ma-
novrare la barca. Mi ringraziò per le lepri, e disse che erano deliziose. Ma ne mangiò appena un boccone. La cosa mi rattristò, perché di ogni altro cibo, la lepre arrosto era il suo favorito. Ma la toccò appena, limitandosi poi a guardare la carne con occhi tristi, come quelli di un vecchio che vede passare una bella fanciulla, e si ricorda di gioie che ormai non può più condividere. Se all'intorno c'erano dèmoni e anime di trapassati, per quel giorno non si fecero vedere, e neppure durante la notte. Strano, pensai. Sul mare e nel porto di Vhiborg ero pieno di tremende paure. Ero diventato una persona diversa. Differente dai miei compagni. I miei stessi pensieri sembravano appartenere a un altro Aldair. Ma, sopra ogni cosa, ero un figlio della mia gente, e la Chiesa mi aveva instillato un sacro, insopprimibile terrore di questo luogo. Tuttavia, nel momento stesso in cui poggiammo il piede su Albion, i miei terrori svanirono. Come potevano ancora sussistere! mi chiesi. Infatti ormai, nel mio cuore non c'era che pace. Ero di nuovo me stesso. Mi trovavo sull'isola in cui nessun uomo osava avventurarsi, e avevo visto che era un luogo bellissimo, pieno di foreste e di selvaggina d'ogni sorta. Per quale motivo ero arrivato fin qui, dunque? Per un momento, mi chiesi se non ero stato un gigantesco sciocco. Forse, la strana creatura che avevo visto nel deserto e che mi aveva spinto verso Albion, era soltanto un sogno. Un frutto della mia immaginazione. Sapevo, tuttavia, che non poteva essere così. Continuammo a risalire il fiume per tutto il secondo giorno e parte del terzo. Intorno a noi continuava a snodarsi il medesimo scenario. Le acque ci portarono prima stabilmente verso sud, poi piegarono verso occidente. Gli alberi si diradarono, e le sponde del fiume si fecero più alte. Non avevo la minima idea di dove ci stessimo dirigendo, ma sapevo che il canale che divide la Gaullia da Albion si trovava nella direzione del nostro viaggio, e mi sembrava che la nostra destinazione fosse quella giusta. Se si doveva credere alle leggende, in quei cieli un tempo brillavano luci azzurre. Speravo di non vederle, e speravo di non incontrare gli spiriti che si diceva dimorassero in quei luoghi. «Non hai paura di questo posto, vero?», mi chiese Rheif, mentre camminavamo dopo aver lasciato la barca.
«No», gli risposi. «Non ne ho paura. Anche se forse dovrei. Ma anche se questo posto appartiene davvero ai morti, Rheif, evidentemente essi non si interessano gran che alle faccende dei vivi». Guardai lo stygiano. «A te questa terra incute timore?» Rheif sogghignò prima di rispondermi. «Niente mi fa più paura, Rheif. In qualche modo, sono oltre ogni timore». Non risposi, e mi misi a guardare all'intorno, come se qualcosa nella macchia di biancospini che avevamo davanti mi interessasse molto. «Ti dirò questo, tuttavia», continuò Rheif. «Di me ormai non è più rimasto quasi nulla, ma sono ancora uno stygiano. E tu sai che noi possediamo dei sensi che non sono stati concessi alle altre razze. Io ho udito i passi degli elfi dei boschi nel profondo dei lauvectii, e queste creature camminano in modo più leggero dei ragni. Una volta sentii una musica strana emergere da una polla d'acqua, e in fondo ad essa vidi un singolo occhio nero, anche se nessun altro dei guerrieri che erano con me riuscì a discernere alcuna di queste cose. Ebbi una grande paura, quella volta, perché ero certo di trovarmi in presenza di uno spirito di qualche sorta. Ti dico questo per farti capire che gli Stygiani non soltanto riescono a percepire la lepre che trema in fondo a un cespuglio, o a contare le penne di un falco che circola alto nel cielo. Essi riescono ad avvertire anche la presenza di qualsiasi creatura senza carne, di qualsiasi spirito o demonio che si aggiri nei paraggi. Ed io non ho visto né percepito alcuna di queste creature su quest'isola, Aldair, anche se su di essa abitano molti più esseri vivi di quanto tu possa immaginare. Animali che tu non puoi sperare di scorgere con i tuoi sensi limitati, anche se di ciò non hai colpa». Dopo aver detto questo, Rheif si appoggiò pesantemente contro un albero, come se fosse esausto per lo sforzo. Era da molto tempo che non faceva un discorso così lungo. Dopo averlo ascoltato, anche se non avevo alcuna paura per gli spiriti di Albion, tuttavia sobbalzavo ad ogni lepre che ci attraversava di corsa il cammino. Le parole di Rheif non avevano calmato le mie inquietudini e i miei dubbi, perché gli Stygiani sono grandi bugiardi, e sono sicuro che Rheif era davvero convinto che io gli credessi, quando diceva di poter contare le penne di un falco in volo. Più tardi, nel pomeriggio, arrivammo ad una grande rupe coperta d'erba. Si sollevava appena al di sopra della cima degli alberi, e non era troppo ripida; potevo vedere, tuttavia, che si stendeva per miglia e miglia, e non poteva essere evitata.
La scalammo lentamente, e Rheif non mi parve troppo esausto per lo sforzo, anche se ad un certo punto si appoggiò ad un grande albero e dichiarò solennemente che quello era un ottimo posto per riposare qualche minuto. Mi spostai verso l'orlo della rupe e guardai giù. Vidi l'addensarsi della foresta... e le ossa bianche di una città morta che spuntavano tra il fogliame rosso e oro. Era stata una grande città. Molte migliaia di persone dovevano averci vissuto, perché i suoi resti si allargavano a perdita d'occhio. Grazie all'Aghiir Tharrin avevo acquistato una certa conoscenza di queste cose, e sapevo che c'era molto più da vedere di quanto l'occhio non riuscisse a cogliere. E molte altre cose si erano perdute col tempo. Il calore, il gelo e l'insulto degli anni aveva chiesto il loro prezzo. Anche la pietra più dura, prima o poi diventa polvere. Qualcosa, tuttavia, si poteva intuire. Alcune delle grandi dita scheletriche che si levavano verso il cielo erano ancora due volte più alte delle querce giganti che crescevano ai loro piedi. La loro imponenza mi strabiliò. Se quella città era antica quanto le rovine dei Tarconii, molti dei suoi edifici, ai loro tempi dovevano essere quattro o cinque volte più alti di quanto oggi non apparissero! Non riuscivo ad immaginare l'aspetto di un posto del genere, ma doveva essere di certo la città più imponente che fosse mai sorta sul nostro pianeta! All'interno della città si spingeva una lingua di terra piatta, che scompariva verso sud-ovest. Era a non più di un giorno di cammino da noi, e si snodava pigramente fra le rovine, come un fiume che si dirige verso il mare. Forse un tempo lo era stato davvero, e quello che vedevo era soltanto il suo letto disseccato. Rimasi fermo a guardare quella strana conformazione fino a che il sole non discese oltre l'orlo dell'occidente. Desideravo grandemente di avere al fianco l'Aghiir Tharrin, con cui confrontare le mie opinioni. E poi, come si sarebbe meravigliato anche lui, a quella vista! E quante cose i suoi occhi esperti avrebbero saputo leggervi. Dietro di me, Rheif annusò l'aria col naso grigio. «È questo che sei venuto a cercare, Aldair?» «Non lo so», gli risposi onestamente. «Di certo, non è quello che mi aspettavo di trovare». Rheif emise un profondo sospiro.
Ti dirò una cosa», fece poi. «Io non so nulla dei fatti del passato, al contrario di te. Ma sono certo che coloro che hanno ammucchiato tante case l'una in cima all'altra, non sono sicuramente le anime dei morti». Il sole scomparve, e un brivido di gelo percorse la cima della grande rupe. Rheif aveva parlato per entrambi, e aveva posto un problema che mi fece star sveglio per gran parte della notte. Non erano state le anime dei morti a costruire la città sepolta lungo la costiera dei Tarconii, e neppure le due antichissime strutture che spuntavano dal mare presso Xandropolis. E se non erano stati i morti, chi mai aveva realizzato quelle meraviglie? TRENTUNO Quella mattina, discesi la rupe e mi inoltrai nella città. Dissi a Rheif che, pure se mi sarebbe piaciuto godere della sua compagnia anche per quel giorno, tuttavia sarebbe stato meglio se lui fosse rimasto vicino al nostro campo, tenendo gli occhi aperti: eravamo in una terra strana, e tutto poteva succedere. Aggiunsi che se avessi avuto bisogno di lui, glielo avrei segnalato con una freccia fumogena. Lo stygiano riconobbe che il mio consiglio era saggio, e promise che sarebbe stato attento a scorgere un mio eventuale segnale di soccorso. Entrambi dicemmo queste cose come se fossero state vere; ma sapevamo tutti e due che a Rheif ormai rimaneva a malapena la forza sufficiente per tenere ritto il suo magro corpo. Gli lasciai cibo ed acqua a portata di mano, e andai incontro al mio destino. Mentre scendevo, potevo sentire sulla nuca gli occhi del mio amico. Ma non mi voltai a guardarlo. C'è poco che io possa dire della città. Un'intera vita di lavoro non sarebbe bastata per rivelarne i segreti, coperti e custoditi dal tempo. La terra gelida e le radici delle querce giganti vigilavano la tomba in cui era sepolta una vita lontanissima da noi. Camminai sotto alberi silenti, aprendomi la strada tra le felci ancora umide per la rugiada del mattino. Seguii una linea di pietre squadrate e regolari, che finivano per scomparire sotto una collinetta erbosa; immaginai che un tempo segnalassero una grande via di comunicazione, che i miei stivali calpestavano senza riconoscere. Verso mezzogiorno raggiunsi la riva di una palude d'acqua salmastra. Al suo centro si vedeva spuntare una struttura in rovina, che emergeva appena
dalle acque. La studiai per qualche minuto, poi mi allontanai rapidamente. Non mi piaceva l'odore che aleggiava in quel luogo. Sapevo, poi, che le zone in cui ristagnano le acque esalano miasmi che diffondono febbri perniciose. Tornai nella foresta. Mi riposai, e mi misi a pensare. Là dove secondo i Buoni Padri della Chiesa dovevano albergare le anime dei morti, c'erano soltanto le ossa sbiancate di un passato ignoto. Un'importante scoperta, la mia. L'Aghiir Tharrin ne avrebbe convenuto. E così Nhidaaj. E la creatura con gli occhi gialli? Che cosa ne avrebbe pensato? Mi aveva forse spinto fino ad Albion proprio per farmi scoprire questo? E poi, era stata proprio quella creatura, a spingermi a sbarcare sull'Isola dei Morti? All'improvviso provai ira e vergogna verso me stesso. Dove mai avevo tratto l'idea che mi fosse stata assegnata una parte misteriosa da recitare in un dramma oscuro e segreto? Tutto ciò che mi era capitato ultimamente si intonava col sapore del vino drogato nella mia coppa, e col fulgore di occhi gialli che scrutavano dall'ombra di un cappuccio nero... Sei destinato a una ricerca, Aldair... Ci sono molte cose che devi fare, Aldair... Bene, chiunque tirasse le fila di tutto ciò, aveva sprecato i suoi «terribili segreti», con Aldair dei Venicii. Avevo scoperto una città morta. Sapevo che il Mondo di Poi, se pure esisteva, di certo non si trovata ad Albion, che era un'isola come tutte le altre. Sapevo che il mondo reale è molto più antico di quanto non sostenessero i Buoni Padri e i preti di Niciea. L'uomo aveva perduto una parte del suo passato. Era una meraviglia così grande, questa consapevolezza? Se Silium e Culivia e Rhemia stessa crollassero in rovina un giorno, non sorgerebbero forse altre città per prendere il loro posto? All'improvviso, mi sentii molto stanco. La mia patria, il mio posto, erano nel paese dei Venicii. Il mio destino vero era quello di assolvere le mie mansioni di uomo, là dove gli uomini erano sempre troppo pochi. Vagare per il mondo alla ricerca di strane avventure non mi avrebbe procurato alcun vantaggio. Tuttavia, decisi, doveva esserci una qualche risposta a tutti i «tenebrosi segreti». È nella natura dell'uomo la ricerca della conoscenza. E, se nessu-
na conoscenza vera può venire alla luce, la tendenza naturale spinge a credere che vi sia comunque una conoscenza di qualsiasi genere. Così, i Buoni Padri e i preti di Niciea avevano finito per assumere una statura superiore alle loro stesse figure, perché conoscevano «cose segrete», proibite agli uomini comuni. E l'Aghiir Tharrin, Nhidaaj e il suo misterioso amico? I loro segreti, semplicemente, erano diversi dai segreti degli altri. In tutto ciò, non c'era nulla per me. Io non avevo alcun desiderio di aggiungere una nuova religione o una nuova società segreta a quelle che già infestavano il mondo. Non ero mai diventato un altro Aldair... Ero soltanto un Aldair ormai convinto che nel mondo ci fosse qualcosa di più rispetto a quello che si vedeva in superficie... Una scintilla di colore mi catturò l'occhio, e colsi il volo rapido e nervoso di un piccolo uccello rosso nel fogliame al di sopra della mia testa. Era poco più grande di una cavalletta, e tuttavia sembrava che considerasse l'immensa quercia interamente sua. Lo guardai muoversi da un ramo all'altro in brevi voli ondeggianti. Fece diversi viaggi fino a terra, circondando il tronco per poi sparire nell'intrico dei rami. Seguii per un po' il suo lavoro, poi mi dimenticai di lui e mi misi a studiare la porzione di rovine presso le quali cresceva il grande albero. Era un manufatto dall'aspetto strano, piuttosto circolare che squadrato, come molte altre delle strutture che avevo visto. Avvicinandomi per esaminarlo meglio, vidi che era qualcosa di davvero insolito. Rotondo, più largo di un uomo, alto quasi la metà. Era cavo, come un tubo, e verso la cima si piegava ad angolo retto. Non era fatto di pietra, ma della sostanza grigia e resistente che tante volte avevo osservato fra le rovine dei Tarconii. Era un materiale straordinariamente solido. Sulla struttura, che avevo davanti, gli anni avevano lasciato soltanto scarse tracce. Girai attorno all'oggetto, chiedendomi che cosa potesse essere. Trovai un'apertura, vi infilai la testa, e scrutai nel buio. Subito mi ritrassi, con un grido di sorpresa. Un soffio d'aria calda s'era innalzato dalla cavità centrale per venire incontro alla mia faccia! Non mi ero potuto sbagliare. Un brivido mi corse lungo la schiena. Aria calda? Avevo già deciso che quell'oggetto doveva essere un camino di
qualche sorta. Una struttura del genere, connessa a condutture sotterranee, avrebbe dovuto trarre aria fredda dal profondo della città. Ma non aria calda. Come poteva esserci aria calda, lì sotto? Trovai degli scalini di ferro infissi all'interno del tubo. Non esitai. Se lo avessi fatto, non sarei diventato ciò che sono. Raccolsi diversi rami secchi che intendevo usare come torce, mi infilai nel tubo misterioso, e cominciai a scendere. Passò molto tempo prima che i miei stivali toccassero di nuovo il terreno solido. Questo era strano, pensai. Il livello del suolo non poteva essere così basso. Poi mi ricordai delle rovine dei Tarconii. Alcuni ambienti erano stati costruiti sotto la superficie. Quei luoghi in genere erano invasi dall'acqua, e raramente vi si trovava qualcosa di interessante. Ma quella in cui mi trovavo era una struttura sotterranea tutta particolare. Avevo misurato la distanza fra un gradino e l'altro, e contato i gradini. Ero sceso a più di trenta metri sotto terra. Una striscia del mio mantello mi servì da esca. L'avvolsi intorno all'estremità di un ramo e l'accesi con il mio acciarino. La base del tubo era ingombra di detriti e di foghe. Lo strato di depositi poteva essere spesso un metro, come cinquanta: impossibile dirlo. Molto probabilmente, tuttavia, doveva essere piuttosto alto. Nel corso dei secoli, si accumula una quantità incredibile di materiale. Quanti secoli? Cinquanta? Sessanta? Di più ancora? Davanti a me c'era una porta rotonda, attraversata da sottili aperture. Era grande abbastanza da farvi passare un uomo. L'aria calda veniva da lì. Un tempo, doveva essere munita di una maniglia di ferro, ma al suo posto c'era oggi soltanto una macchia di ruggine. Infilai la lama della spada fra porta e stipite, e feci forza. Si aprì senza difficoltà. Sentii che il soffio d'aria calda si faceva più forte. Mi inoltrai nello stretto passaggio, avanzando per una ventina di metri. Alla fine, trovai un'altra porta, di materiale simile alla pietra. L'aprii e, stavolta, trovai un passaggio in discesa. Lo percorsi per una decina di metri. La torcia era prossima a spegnersi, e subito ne accesi un'altra. Decisi, a questo punto, di non spingermi troppo in avanti nella mia esplorazione. L'idea di dover trovare la strada del ritorno al buio non era di mio gradimento. Mi trovavo in una stanza non troppo grande. Tutto all'intorno c'erano aperture dalle quali entrava aria. La stanza era pulita. Sul pavimento, non
una traccia di polvere. Non riuscivo a capire come ciò potesse essere. Sembrava quasi che gli abitanti di quel luogo se ne fossero andati non più tardi del giorno prima! Quel pensiero - mi dissi - avrebbe dovuto mettermi molto a disagio. C'era una porta di metallo, ancora intatta. Era dipinta di grigio, come il resto della stanza. Si aprì facilmente, senza il minimo cigolio. Mi fermai, trattenni il respiro, afferrai l'elsa della spada che portavo alla cintola. Davanti a me, fisso sul mio volto, brillava un occhio rosso-sangue. Attesi, con il cuore in tumulto, finché vidi che l'occhio non si muoveva, né mutava l'intensità del suo lucore. Studiai la cosa con cautela. Non era un occhio, ma una specie di piccolo sole fisso nella parete proprio davanti alla porta. Lo osservai per lunghi momenti, e ne rimasi stupefatto. Era più brillante di qualsiasi gemma, e ardeva senza il più lieve palpito. Era come un fuoco profondo e freddo, incredibilmente stabile, che bruciava senza mai consumarsi. In tutto il mondo, non c'era una lampada simile. All'improvviso, sentii freddo di nuovo. Forse - pensai - i Buoni Padri avevano ragione. Chi altri, se non il Creatore stesso, poteva aver dato origine a una cosa del genere? Passai di corsa davanti al sole rosso, ed entrai in una sala vuota. Non c'era nulla: soltanto un altro sole rosso infisso nella volta, davanti alla porta, e una stretta scalinata che portava verso l'alto. Alla fine dei gradini trovai una porta che si apriva nel buio. La luce della mia torcia era soltanto un breve circolo di chiarore intorno a me, e non potevo vedere nulla. Feci un passo. Poi un altro. E rimasi di gelo, immobile. Sentii la mia voce che gridava di paura. Perché, all'improvviso, la stanza si era riempita di luce. E in vista non c'erano torce né candele, e neppure i piccoli soli rossi. Ma c'era la luce, ed era... lì. Buio. Poi luce. E, in quella luce, il mio vecchio mondo morì. Non potrà mai più essere lo stesso. Né io sarò mai più di nuovo Aldair dei Venicii. D'ora in poi, sarò qualcun altro. E nessuna creatura sulla Terra sarà più ciò che era prima...
EPILOGO Ci ho pensato molto. Ho meditato a lungo su ciò che dovevo dire, e sul modo migliore di raccontarlo a quanti leggeranno le mie parole. Un anno fa, alla fine degli eventi che ho descritto, decisi che avrei narrato ogni cosa nei minimi dettagli, anche se ciò avrebbe comportato l'ingresso delle mie personali emozioni nel racconto. Ora sto finendo questa cronistoria sul ponte della mia nave, molto a sud del territorio dei Tarconii, oltre gli stretti del Mar Meridionale. La piccola baia in cui siamo ancorati è rigogliosa di piante verdi e di cespugli intrecciati. È la stessa regione in cui si trovano Chaarduz e l'Impero Nicieano: ma quei luoghi sono molto a nord est rispetto a noi, e per quel che ci riguarda potrebbero essere in un altro mondo. Mi sento come in un osservatorio isolato nel tempo e nello spazio, da cui posso analizzare meglio gli eventi dell'anno appena trascorso. So che molte delle cose che potrei narrare non sarebbero capite. So anche che la paura, la solitudine, il dolore che ho provato e provo non possono essere comunicati ad alcuno. Chi leggerà queste pagine proverà delle emozioni, che saranno sue: non potrà mai condividere i miei sentimenti. È per questo che ho raccontato, e racconterò, soltanto ciò che ho visto. Ciò che ho sentito, ciò che ho provato e provo, non si rifletterà nei miei scritti. E, anche così avrò molto da raccontare... Quando la luce mi avvolse d'improvviso, vidi che mi trovavo in una sala immensa, che sembrava non avere fine. Sotto i miei stivali, il pavimento era nero, duro, scintillante. A destra e a sinistra, le pareti erano traforate da finestre grigie che parevano aprirsi sul nulla. Alla più lontana estremità della sala, c'erano scaffali del vetro più trasparente che avessi mai visto, e all'interno di essi c'erano cose disposte evidentemente perché potessero essere studiate. Come nella stanza più piccola da cui venivo, non c'era polvere. Come una cosa del genere potesse essere, non so dirlo. Le finestre grigie non davano sul vuoto. Quando mi fermavo davanti ad una di esse, mi apparivano figure straordinarie. Non erano le immagini che si possono ammirare in un quadro. Si muo-
vevano, parlavano, emettevano suoni, ed erano rappresentazioni fedeli di cose accadute in tempi remoti. Man mano che le finestre prendevano vita, vidi rinascere piccoli pezzi di storia. Era come se spiassi da dietro le spalle di qualcuno che era testimone diretto degli eventi. Non so come sia stato possibile realizzare un simile miracolo: ma era una cosa tremenda e meravigliosa insieme. Riferirò soltanto di alcune delle scene cui assistetti, perché davanti ai miei occhi trascorsero infinite immagini. Vidi battaglie combattute in età lontanissime da guerrieri primitivi che non portavano armatura e usavano armi rudimentali. Vidi popolazioni che vivevano presso il mare in rozze capanne di fango. Vidi piccoli villaggi trasformarsi in grandi fortezze di pietra. Quei luoghi erano vigilati da uomini ricoperti di vesti lacere, che si difendevano con scudi di legno e cuoio. Poi sorsero centinaia di presidii di pietra, ciascuno dei quali dominava su una fetta di territorio, confinante con analoghi territori tutto intorno. Quei piccoli regni mutavano spesso il Signore. Alla fine, riconobbi i rossi pennoni della Lega Hectanica, e la Prima Confederazione delle Tribù. Sotto il dominio dei Vertiginiani, quell'alleanza fu il seme da cui sorse l'Impero Rhemiano. Poi vidi altre scene, che figuravano l'origine delle genti nicieane e vikoniane. La migrazione degli Stygiani verso est. La riduzione dei Cygnani nel ruolo di schiavi. La vita semplice dei Tarconii. Alcune delle finestre grigie non presero vita, e quindi non possono raccontare le storie che celavano. La voce che accompagnava le vicende parlava in lingua rhemiana, ma con uno strano accento, e una pronunzia che non avevo mai udito prima. A metà della sala, vidi le prime immagini delle creature... Ho detto all'inizio che avrei cercato di lasciare le mie emozioni fuori da questa cronaca. Cercherò di attenermi al mio proposito, raccontando semplicemente ciò che ho visto. Ma non sarà una cosa facile. Erano creature quali mai nessuno uomo ha osservato. Alte. Quasi senza peli. Alcune con la pelle rosea, altre nera. Anche un cygnano con il vello appena tosato, non sarebbe apparso così nudo e ripugnante! I loro volti erano quasi privi di lineamenti. Per naso avevano una piccola escrescenza carnosa di forma triangolare. Gli occhi erano accostati l'uno
all'altro. Per bocca, una specie di taglio rossastro. Orecchie piccole, e aderenti al cranio. Da dove veniva quell'orribile razza? Dov'era andata? Non conoscevo la risposta a queste domande, ma presto capii che erano stati loro a costruire quel posto miracoloso. Che la città sepolta nella foresta di Albion era loro. Molte delle finestre grigie mostravano immagini difficili da comprendere. Le creature viaggiavano a bordo di strane macchine: alcune aderenti al terreno, altre libere nel cielo. Entravano e uscivano da edifici così alti che la mente non riesce a concepirli. Facevano centinaia di cose il cui significato era impossibile da penetrare. ....E poi, all'improvviso, ricordai. Avevo già visto quelle immagini, in un sogno che non era stato un sogno. Immagini delineate su pareti polverose, in un luogo in cui avevo parlato con una creatura dagli occhi risplendenti di pagliuzze gialle. Vengo ora ad una parte della mia storia che è difficile da riferire. Perciò, mi limiterò a trascrivere le parole così come mi vengono in mente, sperando di essere capito. Ancora una volta (anzi, più di prima) non mi sarà facile mantenere la mia promessa di lasciar fuori i miei sentimenti, e di non colorare troppo queste carte con le mie emozioni. In una finestra, vidi le creature portare a terra le loro macchine alate, e depositare grandi file di piccole capsule scintillanti in pozzi sotto la terra. Dove ciò accadesse, non lo so. Poteva essere una località qualsiasi della Gaullia, o più a sud, nel cuore dell'Impero Rhemiano. Per un lungo periodo le capsule rimasero lì, mentre le creature andavano e venivano intorno ad esse, osservandole e studiandole. Poi, come se fosse stato dato un occulto segnale, le capsule si aprirono da sole. All'interno c'erano corpi nudi. Immobili, come morti. E quegli esseri silenziosi erano creature come me... I corpi si sollevarono. Uscirono dalle loro bare lucenti. Sembravano semi-addormentati, non consapevoli di dove si trovassero. Girarono intorno, senza far nulla, fino a che le creature senza peli non aprirono altri contenitori depositati dalle macchine volanti. All'interno c'erano abiti e armi primitivi, e diversi altri utensili adatti ad una razza appena nata. La voce parlò, affermando che quello era un inizio. Parlò di «unità» che
venivano depositate sulla collina come prima fase di un'operazione più vasta. Da quelle parole, compresi che altre imprese del genere venivano condotte altrove. Quando le creature senza peli se ne andarono a bordo delle macchine volanti, i corpi presero rapidamente vita. Si radunarono sulla loro collina solitaria, indossarono le loro vesti lacere, strinsero al petto le armi primitive. Si fissarono l'un l'altro per lunghi momenti, poi finalmente uno del gruppo fece un gesto eccitato verso un'altra direzione. L'immagine scivolò rapidamente attraverso l'aria per mostrare ciò che veniva indicato da quel gesto: un altro gruppo, su una collina uguale. (Più tardi, appresi che questa era la spiegazione delle luci azzurre che si vedevano su Albion. Si trattava di macchine volanti progettate allo scopo di riprendere immagini dall'alto e di trasmetterle da un punto all'altro. Evidentemente, alcune di queste macchine hanno continuato a funzionare da sole a lungo, anche dopo la fine dei loro padroni). I due gruppi si studiarono, e parlarono fra loro. Alla fine, ciascuno risalì le pendici della propria collina, e si nascose nei boschi, lontano dalla vista dell'altro. Il mio cuore gridò di vergogna, per questo. Perché sapevo di aver assistito all'origine del mio mondo... C'erano altre immagini. Feci forza su me stesso e le guardai. Vidi molte cose che non avrei mai voluto sapere. Vidi come la mia razza era stata «creata» dalle creature senza peli. Come nelle nostre menti erano stati instillati concetti e comportamenti, con sistemi che non riuscivo a immaginare. Non descriverò lo spettacolo di cose simili a me prigioniere in tubi di vetro e metallo. Ma, nei miei sogni, sarò perseguitato in eterno da quelle scene. Ci fu altro. Molto altro. Molto di più di quanto possa raccontare ora. Dirò invece delle bacheche di vetro poste lungo l'estremità più lontana della sala, e che (come appresi) rappresentavano l'inizio, e non la fine dello spettacolo. In quelle bacheche trasparenti c'erano animali che sembravano vivi, ma non lo erano. Erano come immobilizzati in un atteggiamento simile alla vita. O forse erano imitazioni degli animali veri, eseguite tanto bene da sem-
brare reali. Non so dirlo. Si poteva girare attorno alle bacheche, ed esaminare gli animali da ogni lato. C'era una creatura pelosa ferma a quattro zampe davanti a un fiume. Era immobile, nell'atto di trarre dall'acqua un pesce multicolore. Tanto l'acqua che il pesce sembravano reali, e così la foresta che faceva da sfondo alla scena. Un'altra bacheca mostrava due animali snelli e pelosi accovacciati davanti a una scura foresta invernale. Una creatura dilaniava i resti di un'altra della sua stessa specie, mentre la seconda alzava il muso grigio come se stesse ululando verso il cielo. Persino il suo respiro gelato sembrava reale. C'erano piccole creature verdi con lunghe code e pelli scagliose, immobili su una roccia riscaldata dal sole... E poi animali ricoperti da un pelo bianco e lanoso, con occhi scuri e naso roseo.... Grandi bestie dal mantello pezzato e lunghe corna che ruminavano placide fra l'erba alta. E, alla fine, mi trovai di fronte a me stesso. Un animale grasso, dal corpo rotondo, con piccoli piedi muniti di unghie e una coda ricurva. Lungo muso. Orecchie pendenti. Stavo rosicchiando un po' di grano dietro una staccionata. Vicino a me c'era una femmina stesa a terra, che allattava i suoi cuccioli. Sotto ogni bacheca c'era un nome. Non c'era scritto né «Vikoniani», né «Stygiani», né «Nicieani». Non chiamavano quegli animali che camminavano a quattro zampe né Cygnani, né Tarconii, né Rhemiani. Avevano altri nomi. Ma non li riporterò qui... Basti dire che nessuna delle razze che popolano la Terra sono uomini di differenti stirpi, come abbiamo sempre pensato di noi stessi. Siamo creature... artificiali. Siamo derivate da animali, e ci sono state concesse, non so come, mani adatte a stringere strumenti al posto di artigli e zoccoli. I nostri creatori ci hanno messi in movimento perché ripetessimo i loro trionfi e le loro follie. Non capisco quale divertimento possano aver tratto da questo. Ora so che cosa veramente significa il termine «uomo». E non voglio più essere chiamato con quel nome. Venne fatta questa cosa terribile.
Venimmo creati per riempire le ore oziose degli uomini. È una verità, questa, che non può essere mutata né negata. Perché venne fatto tutto questo, è una cosa che non so comprendere interamente. Ma ciò che ho appreso grazie alle finestre grigie mi ha condotto a risposte che forse non sono troppo lontane dalla verità. So che, in un certo momento della sua storia, l'uomo finì per diffondersi su tutte le terre e su tutti i mari. I territori che noi oggi occupiamo, un tempo erano i suoi. E così le terre che non abbiamo ancora raggiunto, e la cui esistenza neppure sospettiamo. So che, con il trascorrere dei secoli, il numero degli uomini decrebbe, e il tempo seppellì le loro città. Se essi abbiano scelto deliberatamente di autodistruggersi, o di ridurre il loro numero in qualche modo, questo non lo so. Ma so che vissero fino alla loro vecchiaia, e quelli che rimasero si riunirono alla fine in Albion. Perché fecero ciò che fecero? Forse, stanchi della loro stessa vita, sognarono di crearne un'altra, e di divenire simili agli dèi. Forse l'odio, o la vergogna per ciò che erano diventati, li spinse a creare una caricatura della loro razza, e ad ispirare una commedia ridicola tratta dalla loro storia. Se è così, questo fu il loro più grande peccato. Mutarci, trasformarci in parodie di loro stessi, non fu sufficiente. Non se ne sono accontentati. Hanno voluto plasmarci a loro immagine in ogni modo, instillando precisi schemi mentali nei nostri cervelli... Capite l'immenso orrore racchiuso in questa considerazione? Siamo come un cavallo portato su un campo d'erba verde, ma legato a una lunga corda, fissata a un palo. Possiamo andare dove vogliamo: ma solo fino al limite della corda, e non oltre. Stiamo rivivendo le loro vite, ripetendo la loro storia. Non abbiamo nulla che sia realmente nostro. Questo è il peccato commesso contro di noi. Non ci hanno concesso un'anima, che sia solo nostra... Nella città sepolta c'erano altre grandi sale nascoste sotto terra. Alcune erano intatte, altre avevano ceduto al tempo ed erano ridotte in polvere.
Non le esplorai tutte, ma so che erano piene di cose straordinarie: tutte le meraviglie del passato dell'Uomo. Lasciai tutti quei tesori nella polvere, e portai via soltanto due cose. La prima è un gioiello antichissimo che ora è sospeso sul mio petto. È d'oro, finemente cesellato, e tempestato di gemme. Rappresenta l'immagine di una bestia tremenda, reale o di fantasia. Ha il corpo a scaglie come un nicieano, le ali di un uccello, la testa di una creatura che mi ricorda l'essere che incontrai nel deserto presso Xandropolis. Le sue zampe anteriori sono munite di artigli, quelle posteriori di zoccoli bipartiti. Ha la testa munita di corna, e un alito di fiamma realizzato con un getto di rubini. È davvero una bestia possente: e poiché anch'io sono un animale, ne porto l'immagine con orgoglio. Ho fatto dipingere la sua figura sulle vele della mia nave, e sugli scudi dei miei guerrieri. L'altra cosa che ho sottratto ad Albion è una grande spada; anche questa, incrostata di gemme. L'impugnatura è d'oro, modellata nella forma dell'animale da cui sono discesi gli Stygiani. Volevo donarla a Rheif, ma lui non è mai riuscito a vederla. Oggi, pende dalla cintura di Rhalgorn, che è della sua stessa stirpe. E il buon Rheif - un nemico che è divenuto il migliore dei compagni giace sepolto nel suolo di Albion, su una collina che domina la vista di una città morta. Quante volte ho desiderato di aver potuto tornare in tempo per vederlo un'ultima volta, prima che i suoi occhi si chiudessero nel grande sonno! Ma non penso che sarebbe stato possibile. Sono convinto che Rheif abbia aspettato, prima di morire, fino al momento stesso in cui sono scomparso alla sua vista. Gli Stygiani sono una razza orgogliosa e ostinata, come ho avuto modo di apprendere bene. Comunque, lui è con me ovunque io vada, perché il nome Ahzir al'Rhaz, dipinto sulla prora della mia nave, significa, in nicieano, «il viaggiatore dell'estremo nord». Conosco molte cose che non conoscevo prima. Ho compreso le radici vere della paura che colse l'Aghiir Tharrin quando seppe che il segreto da lui trovato fra le rovine dei Tarconii era finito nelle mani dei suoi nemici. Tharrin non stava proteggendo il popolo di Niciea, né se stesso: ma altre persone impegnate nella missione cui aveva dedicato la vita.
Io so che ci sono altre persone. Ne ho incontrate alcune, e quando siamo l'uno di fronte all'altro, ci riconosciamo a vicenda. So che cosa voleva da me la creatura incontrata nel deserto. È un compito che incombe come una lama sulla mia mente, e spesso mi chiedo perché proprio io sia stato scelto per portarlo a termine. Forse non vedrò la fine della mia missione: ma, comunque, deve essere portata avanti. Il destino dell'Uomo è stato mantenuto in vita dalle bestie che lui ha creato. È un destino terribile, così come l'ho visto io: noi siamo incatenati ai suoi trionfi e alle sue tragedie, perché questo è lo schema che è stato impresso nelle nostre anime. Questa catena dev'essere spezzata. Se, al di sopra dell'Uomo, c'è un Creatore, dobbiamo trovarlo. E, attraverso Lui, dobbiamo trovare noi stessi. Quale che sia il nostro destino, dev'essere nostro, e di nessun altro. Nel corpo, siamo bestie: così per noi ha deciso il fato. Ma non abbiamo bisogno del cuore degli uomini... FINE