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MICHAEL MOORCOCK TEMPESTOSA (Stormbringer, 1977) A J.G. Ballard, il cui entusiasmo verso Elric m'incoraggiò a iniziare il presente libro, il mio primo romanzo di lunghezza normale; e a Jim Cawthorn, le cui illustrazioni basate su mie idee m'ispirarono a loro volta certe scene; e a Dave Britton, che conservò le riviste in cui apparve il racconto a puntate, e che gentilmente me le prestò cosicché io potei ripristinare questo romanzo nella forma e nella lunghezza originali. PROLOGO Venne un tempo in cui ci furono grandi sommovimenti sulla Terra e al disopra della Terra, il destino degli uomini e degli dèi venne forgiato sull'incudine del fato, si prepararono guerre mostruose e si idearono grandi imprese. E in quel tempo, che venne chiamato Epoca dei Regni Giovani, nacquero molti eroi. Il più grande di tutti fu un avventuriero perseguitato da una maledizione, possessore di una spada stregata che lui odiava. Era Elric di Melniboné, re delle rovine, signore di una razza dispersa che un tempo aveva governato il mondo antico. Elric, stregone e spadaccino, fratricida, devastatore della sua patria, albino dal volto eburneo, ultimo della sua stirpe. Elric, che era giunto a Karlaak nei pressi della Solitudine Piangente e aveva sposato una donna in cui aveva trovato un po' di pace, un po' di requie per il suo tormento. Elric, portatore di un destino più grande di quanto lui credesse, ora dimorava a Karlaak insieme a Zarozinia, sua sposa, e il suo sonno era turbato, i suoi sogni erano tenebrosi, in una cupa notte del mese dell'Anemone... LIBRO PRIMO IL RITORNO DEL DIO MORTO In cui, finalmente, Elric comincia ad avere la rivelazione del suo fato, mentre le forze della legge e del caos si schierano per la battaglia finale che deciderà il futuro del mondo del principe di Melniboné...
CAPITOLO PRIMO Sopra la pianura ondulata le grandi nubi ribollirono e il fulmine scrosciò, fendendo la tenebra della mezzanotte, spaccando in due gli alberi, e schiantando le chiome fronzute, che scricchiolarono e si spezzarono. La scura massa della foresta tremò, squassata, e ne uscirono furtivamente sei figure aggobbite, inumane, che si soffermarono a guardare, aldilà delle basse colline, i contorni di una città. Era una città dalle mura tozze e dalle guglie agili, dalle torri e dalle cupole eleganti: e aveva un nome che il condottiero di quegli esseri conosceva. Si chiamava Karlaak, e sorgeva nei pressi della Solitudine Piangente. Quella tempesta di malaugurio non aveva un'origine naturale. Ruggiva intorno alla città di Karlaak, mentre gli esseri varcavano furtivi le porte aperte e si avviavano nell'ombra verso il sontuoso palazzo di Elric. Il condottiero levò nella mano unghiuta un'ascia di ferro nero. Il gruppo si fermò, in silenzio, e guardò l'ampio palazzo, su una collina, circondato da giardini languidamente profumati. Il suolo tremò sotto la sferza della folgore e il tuono rombò nel cielo turbolento. «Il caos ci ha aiutati» grugnì il condottiero. «Vedete, già le guardie piombano nel sonno incantato facilitandoci l'ingresso. I signori del caos sono generosi con i loro servitori.» Diceva la verità. Una forza soprannaturale era intervenuta, e i guerrieri che sorvegliavano il palazzo di Elric erano crollati al suolo russando come se facessero eco al tuono. I servitori del caos si insinuarono oltre le guardie addormentate, entrando nel cortile principale e poi nel buio palazzo. Senza esitare salirono scalinate tortuose, procedettero silenziosi in oscuri corridoi, e giunsero davanti alla stanza dove giacevano Elric e la sua sposa, immersi in un sonno inquieto. Quando il condottiero posò la mano sulla porta, una voce gridò, dall'interno: «Cosa c'è? Quali esseri infernali turbano il mio riposo?» «Ci vede!» bisbigliò bruscamente uno degli esseri. «No» disse il condottiero. «Dorme; ma non è facile gettare un sonno incantato su uno stregone come questo Elric. Dovremo affrettarci a compiere la nostra missione, perché se si sveglia sarà ancora più difficile!» Girò la maniglia e sospinse la porta, levando alta l'ascia. Oltre il letto coperto di sete e di pellicce un lampo squarciò di nuovo la notte, rivelando l'eburneo volto dell'albino accanto a quello della sua bruna consorte. Nell'istante in cui entrarono, Elric si sollevò rigido sul letto e i suoi occhi
cremisi si spalancarono, fissandoli. Per un momento, quegli occhi rimasero vitrei; poi l'albino si svegliò gridando: «Sparite, creature dei miei sogni!» Il condottiero imprecò e si avventò; ma aveva ricevuto l'ordine di non uccidere quell'uomo. Alzò minacciosamente l'ascia. «Taci! Le tue guardie non possono aiutarti!» Elric balzò dal letto e afferrò il polso dell'essere, accostando la faccia al grugno zannuto. L'albinismo lo rendeva fisicamente debole, e solo la magia gli dava forza. Ma si mosse con tanta prontezza che riuscì a strappare l'ascia dalla mano dell'essere e lo colpì tra gli occhi con l'impugnatura. Quello arretrò, ringhiando, ma i suoi compagni si avventarono. Erano cinque, e i loro enormi muscoli guizzavano sotto i folti velli. Elric fendette il cranio del primo, mentre gli altri l'avvinghiavano. Il sangue e le cervella del mostro lo spruzzarono, e lui ansimò per il ribrezzo. Riuscì a svincolare il braccio, alzando e abbassando l'ascia a colpire la clavicola di un altro avversario. Ma poi si sentì abbrancare le gambe: cadde, confuso ma senza desistere dalla lotta. Poi qualcosa lo colpì con violenza alla testa, e il dolore divampò in lui. Tentò di rialzarsi, non ne fu capace e si accasciò riverso, privo di sensi. I tuoni e i fulmini sconvolgevano ancora la notte quando, con la testa doloranfe, rinvenne e si rialzò lentamente, aggrappandosi al letto. Si guardò intorno, stordito. Zarozinia non c'era più. Nella stanza, oltre a lui c'era soltanto il cadavere irrigidito del mostro che aveva ucciso. La sua bruna sposa giovinetta era stata rapita. Squassato da un brivido, andò alla porta e la spalancò chiamando le guardie: ma nessuno gli rispose. Tempestosa, la sua spada stregata, era appesa nell'armeria della città: avrebbe impiegato un certo tempo per andare a prenderla. Con la gola serrata dal furore e dalla sofferenza, si avviò di corsa per le gallerie e le scale, obnubilato dall'ansia, cercando di comprendere il significato della scomparsa della consorte. Sopra il palazzo il tuono scrosciava ancora, disperdendosi nella notte. Il palazzo sembrava deserto: Elric aveva la sensazione di essere completamente solo, abbandonato da tutti. Ma quando si precipitò fuori, nel cortile principale, e vide le guardie prive di sensi, comprese subito che quel sonno era innaturale. La certezza giunse mentre attraversava di corsa i giardini, varcava il portone e scendeva verso la città; ma dei rapitori di Zarozinia non c'era traccia.
Dov'erano andati? Levò gli occhi verso il cielo urlante: il volto eburneo era sfigurato dall'ira frustrata. Non aveva senso. Perché avevano preso lei? Sapeva di avere molti nemici, ma nessuno era in grado di assicurarsi un aiuto soprannaturale. Chi, oltre a lui, poteva compiere il potente sortilegio che faceva urlare i cieli e dormire una città? Corse ansimando come un lupo alla casa del nobile Voashoon, senatore anziano di Karlaak e padre di Zarozinia. Batté sulla porta con i pugni, furiosamente, urlando ai servi sbalorditi: «Aprite! Sono Elric. Presto!» La porta si spalancò: mentre Elric la varcava, il nobile Voashoon scese barcollando la scalinata, col volto offuscato e appesantito dal sonno. «Cos'è successo, Elric?» «Chiama i tuoi guerrieri. Zarozinia è stata rapita. Quelli che l'hanno portata via sono demoni e ormai saranno lontani: ma dobbiamo cercarli, nel caso che siano fuggiti per via di terra.» Il nobile Voashoon si scosse immediatamente e gridò secchi ordini ai servitori, interrompendosi solo per ascoltare il conciso racconto di Elric. «E devo andare nell'armeria» concluse l'albino. «Devo prendere Tempestosa!» «Ma avevi rinunciato a quella spada perché temevi il potere malefico che aveva su di te!» gli rammentò con voce pacata il nobile Voashoon. Elric replicò, impaziente: «Sì, ma avevo rinunciato alla spada per amore di Zarozinia. Devo riavere Tempestosa, se voglio riconquistarla. È una logica elementare. Presto, dammi la chiave.» Senza obiettare il nobile Voashoon andò a prendere la chiave e condusse Elric nell'armeria dov'erano custodite le armi e le armature dei suoi avi, in disuso da secoli. Elric avanzò a grandi passi in quel luogo polveroso, verso un'alcova buia che sembrava racchiudere qualcosa di vivo. Udì un gemito sommesso provenire dalla grande spada nera quando tese la mano bianca e sottile per afferrarla. Era pesante eppure perfettamente bilanciata: una spada a due mani di dimensioni prodigiose, con l'ampia guardia e la lama levigata, lunga un braccio e mezzo. Presso l'elsa erano incisi simboli mistici, e neppure Elric ne conosceva l'esatto significato. «Devo servirmi ancora di te, Tempestosa» disse, mentre si allacciava alla vita il fodero della spada. «Ormai devo concludere che siamo uniti indissolubilmente e che soltanto la morte potrà separarci.» Uscì dall'armeria e tornò nel cortile, dove le guardie erano già montate
in sella ai cavalli scalpitanti, in attesa dei suoi ordini. Si fermò e sguainò Tempestosa: lo strano fulgore nero della spada lo avvolse, e la sua faccia pallidissima, bianca come l'avorio, si levò verso i cavalieri. «Questa notte andrete a caccia di demoni. Battete la campagna, la foresta e la pianura, in cerca di coloro che ci hanno tolto la nostra principessa! Sebbene sia probabile che i rapitori abbiano usato mezzi soprannaturali per fuggire, non ne abbiamo la certezza. Perciò cercate... e cercate bene!» Cercarono per tutta quella notte di tempesta ma non trovarono tracce né degli esseri demoniaci né della sposa di Elric. E quando venne l'aurora, come una sbavatura di sangue nel cielo, gli uomini tornarono a Karlaak dove li attendeva Elric, saturo della vitalità stregata donatagli dalla spada. «Principe Elric, dobbiamo riprendere le ricerche e vedere se la luce del giorno ci rivela qualche indizio?» gridò uno dei cavalieri. «Non ti sente» mormorò un altro, poiché Elric non si mosse. Ma l'albino girò il volto straziato e disse cupamente: «Non cercate più. Ho avuto il tempo di riflettere: dovrò ritrovare la mia sposa con l'aiuto della magia. Andate. Non potete fare più nulla.» Poi li lasciò e tornò al palazzo, sapendo che c'era ancora un modo per scoprire dov'era stata condotta Zarozinia. Era un metodo che detestava, ma doveva servirsene. Appena rientrato ordinò seccamente a tutti di lasciare la sua camera, sbarrò la porta e abbassò lo sguardo sul corpo del demone. Era ancora sporco del sangue coagulato di quell'essere, ma l'ascia con cui l'aveva ucciso era stata portata via dai rapitori di Zarozinia. Preparò il cadavere, componendolo sul pavimento. Chiuse le imposte perché nella stanza non filtrasse neppure un po' di luce, e accese un braciere in un angolo: oscillò, sospeso alle catene, appena le canne intrise d'olio s'infiammarono. Elric andò a prendere una borsa da un cofano accanto alla finestra, ne tolse una manciata d'erbe secche, e con un gesto frettoloso le gettò sul braciere. La stanza cominciò a riempirsi di fumo maleodorante. Poi l'albino si accostò al corpo del demone e prese a recitare un incantesimo nell'antica lingua dei suoi antenati, gli imperatori-stregoni di Melniboné. La cantilena sembrava dissimile dalla favella umana, e i suoi toni salivano dal gemito più profondo allo strido più acuto. Il braciere gettava bagliori di luce rossa sul volto di Elric, e ombre grot-
tesche guizzavano nella stanza. Sul pavimento, il cadavere si scosse e la sua testa sfracellata si agitò da una parte e dall'altra. Elric sguainò la spada stregata e la puntò davanti a sé, tenendo le mani sull'elsa. «Alzati, essere senz'anima!» comandò. Lentamente, con movimenti sussultanti, il demone si levò, rigido, e puntò l'indice unghiuto verso Elric, fissando il vuoto con gli occhi vitrei. «Tutto questo» mormorò, «è preordinato. Non sperare di sottrarti al tuo fato, Elric di Melniboné. Tu ti sei servito del mio cadavere, e io sono una creatura del caos. I miei padroni mi vendicheranno.» «In che modo?» «Il tuo destino è già tracciato. Presto lo saprai.» «Dimmi, defunto: perché siete venuti a rapire mia moglie? Chi vi ha mandati? Dov'è stata condotta la mia sposa?» «Tre domande, principe Elric. E richiedono tre risposte. Tu sai che i morti resuscitati per sortilegio non possono dare risposte dirette.» «Sì. Lo so. Quindi rispondi come puoi.» «Allora ascolta bene, perché io posso dirtelo una volta soltanto: poi dovrò tornare nel regno sotterraneo, dove il mio essere potrà imputridire in pace. Ascolta:» «Oltre l'oceano ci sarà battaglia; e oltre la battaglia cadrà il sangue. Se il parente di Elric andrà con lui (con la gemella di ciò che lui porta) nel luogo dove, obliato dall'uomo, chi non dovrebbe vivere dimora, allora un patto può venir concluso, e la sposa di Elric sarà resa». Il demone ricadde sul pavimento e non si mosse più. Elric andò alla finestra e spalancò le imposte. Per quanto fosse abituato alle profezie enigmatiche, quella era difficile da interpretare. Mentre la luce del giorno penetrava nella stanza, le canne crepitavano e il fumo si dissolveva. Oltre l'oceano... C'erano molti oceani. Rinfoderò la spada e si buttò sul letto sfatto, ripensando all'enigma. Poi, dopo lunghi minuti di riflessione, rammentò qualcosa che aveva sentito dire da un viaggiatore giunto a Karlaak da Tarkesh, una nazione del continente occidentale, oltre il Mare Pallido.
Il viaggiatore gli aveva detto che si stava preparando un conflitto fra il sovrano di Dharijor e le altre nazioni occidentali. Dharijor aveva violato i trattati conclusi con i regni vicini, e ne aveva firmato un altro col teocrate di Pan Tang. Pan Tang era un'isola empia, dominata da un'aristocrazia tenebrosa di guerrieri-stregoni. Da là era venuto il vecchio nemico di Elric, Theleb K'aarna. La sua capitale, Hwamgaarl, era chiamata la Città delle Statue Urlanti, e fino a tempi recentissimi i suoi abitanti avevano avuto scarsi contatti con gli altri popoli del mondo. Jagreen Lern, il nuovo teocrate, era un uomo ambizioso. La sua alleanza con Dharijor poteva significare soltanto che cercava di acquisire maggior potere sulle nazioni dei Regni Giovani. Il viaggiatore aveva raccontato che la guerra poteva scoppiare da un momento all'altro, poiché era evidente che l'alleanza tra Dharijor e Pan Tang aveva carattere offensivo. Ora, mentre ritrovava quei ricordi, Elric collegò le informazioni a una notizia recente: la regina Yishana di Jharkor, un regno confinante con Dharijor, aveva assoldato Dyvim Slorm e i suoi mercenari imrryriani. E Dyvim Slorm era l'unico parente di Elric. Quindi, Jharkor si stava preparando a combattere Dharijor. I due fatti erano connessi troppo strettamente alla profezia perché si potesse ignorarli. E mentre ancora rifletteva, raccolse gli abiti e si preparò al viaggio. Non poteva far altro che recarsi al più presto a Jharkor, perché là era sicuro di trovare il suo parente. E se le indicazioni erano esatte, là ci sarebbe stata presto una battaglia. Eppure la prospettiva del viaggio, che avrebbe richiesto molti giorni, gli raggelava il cuore: per intere settimane non avrebbe saputo nulla della sua sposa. «Non c'è tempo» si disse, allacciandosi la nera giubba trapunta. «Adesso devo agire... e agire in fretta.» Sollevò la spada racchiusa nel fodero, e guardò nel vuoto. «Lo giuro per Arioch: coloro che hanno fatto questo, siano uomini o immortali, dovranno pentirsene. Ascoltami, Arioch! Questo è il mio giuramento!» Ma le sue parole non ebbero risposta: Elric intuì che Arioch, il suo demone patrono, non l'aveva udito... o forse aveva ascoltato il giuramento, ma senza curarsene. Poi uscì dalla stanza satura di un'atmosfera di morte, gridando che gli portassero il suo cavallo. CAPITOLO SECONDO
Dove il Deserto Sospirante finiva, ai confini di Ilmiora, tra le coste del continente orientale e le terre di Tarkesh, Dharijor e Shazar, si estendeva il Mare Pallido. Era un mare freddo e turbolento, ma le navi preferivano attraversarlo, andando da Ilmiora a Dharijor, per non affrontare i ben più inquietanti pericoli dello Stretto del Caos, sferzato da eterne tempeste e popolato da malefici esseri marini. Sul ponte di un veliero ilmioriano, Elric di Melniboné stava ritto, avviluppato nel mantello, e guardava cupo, rabbrividendo, il cielo coperto di nubi. Il capitano, un uomo robusto dai vivaci occhi azzurri, avanzò faticosamente lungo il ponte per raggiungerlo. Reggeva fra le mani una tazza di vino bollente. Si aggrappò alle sartie per non cadere e porse la tazza a Elric. «Grazie» disse riconoscente l'albino. Sorseggiò la bevanda ristoratrice. «Tra quanto attraccheremo a Banarva, capitano?» L'altro si rialzò il colletto della giubba di cuoio intorno al volto ispido. «Procediamo lentamente, ma dovremmo avvistare la penisola di Tarkesh prima del tramonto.» Banarva era uno dei principali centri commerciali di Tarkesh. Il capitano si appoggiò al parapetto. «Chissà per quanto ancora queste acque saranno accessibili alle navi, adesso che è scoppiata la guerra tra i regni dell'occidente. Già in passato Dharijor e Pan Tang erano famigerate per le loro imprese piratesche. Presto, ci scommetto, le estenderanno col pretesto della guerra.» Elric annuì, distrattamente: pensava ad altro. Quando sbarcò nella gelida sera al porto di Banarva, Elric vide ben presto le testimonianze della guerra che infuriava tra i Regni Giovani. Non sentiva parlare d'altro che di battaglie vinte e di guerrieri caduti. Da quelle dicerie confuse non riuscì a capire chiaramente come andasse la guerra: ma era certo che la battaglia decisiva non era stata ancora combattuta. I loquaci banarvani gli dissero che in tutto il continente occidentale gli eserciti erano in marcia. Da Myyrrhn, gli riferirono, giungevano in volo gli uomini alati. Da Jharkor, i Leopardi Bianchi della guardia personale della regina Yishana accorrevano verso Dharijor, mentre Dyvim Slorm e i suoi mercenari si spingevano verso nord per incontrarli. Dharijor era la più forte nazione dell'occidente e Pan Tang era un alleato
formidabile, più per i poteri occulti della sua gente che per la consistenza numerica. Subito dopo Dharijor, in ordine di potenza, veniva Jharkor, che però con i suoi alleati Tarkesh, Myyrrhn e Shazar non era forte quanto coloro che minacciavano la sicurezza dei Regni Giovani. Da anni Dharijor cercava l'occasione per intraprendere la sua politica di conquista, e la frettolosa alleanza contro quel regno era stata conclusa nel tentativo di fermarlo prima che si fosse preparato. Elric non sapeva se quello sforzo avrebbe avuto successo, e tutti coloro con cui parlava erano altrettanto incerti. Le vie di Banarva brulicavano di soldati e di convogli di salmerie. Il porto era pieno di navi da guerra, ed era difficile trovare alloggio poiché molte locande e case private erano state requisite dall'esercito. La stessa situazione si ripeteva in tutto il continente occidentale. Dovunque, gli uomini indossavano le armature, montavano sui pesanti cavalli da guerra, affilavano le armi e partivano sotto seriche bandiere colorate, per uccidere e depredare. Lì, senza dubbio, si disse Elric, avrebbe trovato la battaglia della profezia. Tentò di dimenticare lo smanioso desiderio di avere notizie di Zarozinia e puntò all'ovest i cupi occhi. Tempestosa gli pendeva al fianco come un'ancora, e lui la sfiorava di continuo, odiandola sebbene fosse quell'arma a donargli la vitalità. Trascorse la notte a Banarva; il mattino dopo noleggiò un buon cavallo e si lanciò al galoppo sulla prateria, diretto verso Jharkor. Elric cavalcava attraverso un mondo dilaniato dalla guerra, e i suoi occhi cremisi ardevano di collera alla vista di tante devastazioni insensate. Sebbene lui stesso fosse vissuto per anni grazie alla sua spada, e avesse ucciso, saccheggiato e distrutto, detestava la follia di conflitti come quello, in cui gli uomini si massacravano per le ragioni più nebulose. Non provava pietà per gli uccisi e non odiava gli uccisori: era troppo distante dagli uomini normali per curarsi molto di ciò che facevano. Tuttavia, in quel suo modo tormentato, era un idealista che, essendo privo di pace e di sicurezza, si risentiva dei tragici spettacoli di quella guerra. I suoi antenati, come lui sapeva, erano stati altrettanto remoti dall'umanità, eppure si erano compiaciuti dei conflitti tra gli uomini dei Regni Giovani, osservandoli con distacco, poiché si consideravano superiori a quel genere di attività e alla palude dei sentimenti e delle emozioni in cui si dibattevano quegli uomini nuovi. Per diecimila anni gli imperatori-stregoni di Melniboné avevano dominato il mondo: erano stati una razza priva di coscienza e di morale, e
non avevano avuto bisogno di pretesti per giustificare i loro atti di conquista e le loro tendenze malvage. Ma Elric, ultimo discendente diretto della stirpe imperiale, era diverso. Era capace di commettere crudeltà e di operare stregonerie malefiche, e aveva ben poca pietà; ma sapeva amare e odiare più violentemente dei suoi avi. E quelle forti passioni, forse, erano state la causa che l'aveva spinto a rompere con la sua patria e a viaggiare per il mondo, per confrontarsi con quegli uomini nuovi, poiché a Melniboné non poteva trovare nessuno che condividesse i suoi sentimenti. E a causa di quelle forze identiche e contrastanti, l'amore e l'odio, era tornato per vendicarsi di suo cugino Yyrkoon che aveva gettato Cymoril, la donna che Elric amava, in un sonno stregato, e aveva usurpato il trono di Melniboné, l'Isola del Drago, ultimo territorio del decaduto Impero Fulgido. Con l'aiuto di una flotta di scorridori del mare Elric aveva raso al suolo Imrryr, la Città Sognante, nella sua smania di vendetta, disperdendo per sempre la razza che l'aveva fondata; e adesso gli ultimi superstiti erano divenuti mercenari che vagavano per il mondo, vendendo i loro servigi a chi li pagava di più. Amore e odio: l'avevano spinto a uccidere Yyrkoon che meritava la morte, e involontariamente anche Cymoril che non la meritava. Amore e odio. Adesso ribollivano in lui, mentre l'acre fumo gli bruciava la gola, e incontrava gruppi di profughi che fuggivano senza meta dalla furia delle truppe dharijorane penetrate in quella parte di Tarkesh senza incontrare grande resistenza da parte degli eserciti di re Hilran di Tarkesh, che erano concentrati quasi tutti più a nord per prepararsi alla battaglia decisiva. Elric si stava avvicinando ormai alle Marche Occidentali, presso il confine di Jharkor. Là, in tempi migliori, erano vissuti boscaioli e contadini, ma adesso le foreste erano carbonizzate dagli incendi e i campi erano devastati. Procedendo senza perdere tempo, giunse in una delle foreste dove gli scheletri degli alberi levavano i freddi profili verso il grigio cielo turbinoso. Si assestò sulla testa il cappuccio del mantello, nascondendosi completamente il volto, mentre la pioggia cominciava a cadere improvvisa, battendo sugli alberi arsi e spazzando le pianure lontane, così che tutto il mondo appariva nero e grigio e il sibilo dell'acquazzone era un suono incessante e deprimente. Poi, mentre passava davanti a un tugurio diroccato che era una via di mezzo tra una casetta e una tana scavata nella terra, una voce gracchiante chiamò:
«Prìncipe Elric!» Stupito di essere stato riconosciuto, l'albino voltò la faccia in direzione della voce, spingendo all'indietro il cappuccio. Sulla soglia del tugurio apparve una figura cenciosa che gli fece cenno di avvicinarsi. Sconcertato, Elric guidò il cavallo da quella parte e vide che era un vecchio... o forse una vecchia. Era difficile capirlo. «Tu conosci il mio nome. Come mai?» «Sei una leggenda, in tutti i Regni Giovani. Chi non riconoscerebbe il tuo volto bianco e la spada che porti?» «Forse è vero: ma sono convinto che non mi hai riconosciuto per caso. Chi sei, e come conosci l'Alta Lingua di Melniboné?» Di proposito, Elric usò il volgare eloquio comune. «Dovresti sapere che quanti praticano le arti nere si servono dell'Alta Lingua di coloro che ne furono i maestri. Vuoi essere mio ospite per un po'?» Elric guardò il tugurio e scosse il capo. Anche nei momenti migliori, era molto schizzinoso. La figura cenciosa sorrise e fece un inchino beffardo; poi disse, tornando alla lingua comune: «Dunque il possente principe non si degna di onorare la mia povera casa. Ma non si domanda come mai il fuoco che ha devastato da poco questa foresta non mi ha fatto del male?» «Sì» replicò Elric, pensieroso. «È un enigma interessante.» La figura cenciosa avanzò di un passo verso di lui. «Meno di un mese fa sono venuti i soldati di Pan Tang. Cavalieri-diavoli, accompagnati dalle loro tigri da caccia. Hanno devastato i campi e incendiato le foreste, perché i profughi non potessero nutrirsi neppure di bacche e di selvaggina. Io ho vissuto in questa foresta per tutta la vita, operando semplici magie e profezie per sopperire alle mie esigenze; ma quando ho visto le muraglie di fiamme che stavano per inghiottirmi ho gridato il nome di un demone che conoscevo, un essere del caos che da tempo non osavo più chiamare. Ed è apparso. «"Salvami", ho gridato. "E cosa mi darai in cambio?", ha chiesto il demone. "Qualunque cosa", ho risposto. "Allora riferisci questo messaggio, per conto dei miei padroni", mi ha detto. "Quando il fratricida chiamato Elric di Melniboné passerà di qui, digli che c'è un parente che lui non ucciderà, e che lo troverà a Sequaloria. Se ama sua moglie, farà la sua parte. Se la farà bene, la moglie gli sarà resa". Perciò ho impresso il messaggio nella mia mente, e ora te lo riferisco secondo il mio giuramento». «Grazie» disse Elric. «E cos'avevi dato, a suo tempo, per il potere di e-
vocare quel demone?» «La mia anima, naturalmente. Ma era un'anima vecchia, senza un grande valore. L'inferno non può essere peggio di questa esistenza.» «E allora perché non hai lasciato che le fiamme ti divorassero, senza vendere la tua anima?» «Io voglio vivere» disse la figura cenciosa, sorridendo di nuovo. «Oh, la vita è bella. Forse la mia è squallida, ma io amo la vita intorno a me. Ma non voglio trattenerti, mio signore, perché pensieri più importanti ti assillano.» S'inchinò di nuovo, beffarda, mentre Elric proseguiva, perplesso ma incoraggiato. Sua moglie era ancora viva e illesa. Ma quale patto avrebbe dovuto accettare per riaverla? Lanciò il cavallo a un galoppo furioso, dirigendosi verso Sequaloria, oltre i confini di Jharkor. Dietro di lui, nella pioggia battente, risuonò una sghignazzata che era nel contempo sarcastica e dolorosa. Adesso aveva una meta meno vana, e procedeva a grande velocità, ma cautamente, evitando le bande degli invasori, fino a quando le aride pianure lasciarono il posto ai lussureggianti campi di grano della provincia di Sequaloria. Dopo un altro giorno di viaggio entrò nella piccola città murata di Sequaloria, che fino allora non era stata attaccata. Vi fervevano i preparativi per la guerra: e là Eric venne a sapere le notizie che gli stavano a cuore. I mercenari imrryriani, comandati di Dyvim Slorm, figlio di Dyvim Tvar e cugino di Elric, erano attesi a Sequaloria per il giorno seguente. C'era stata inimicizia tra Elric e gli imrryriani, perché l'albino li aveva costretti ad abbandonare le rovine della Città Sognante e a diventare mercenari. Ma quel tempo era passato, e già in due diverse occasioni Elric e gli imrryriani avevano combattuto a fianco a fianco. Era il loro comandante per diritto di nascita, e in quell'antica razza i vincoli della tradizione erano fortissimi. Elric pregò Arioch che Dyvim Slorm sapesse dove si trovava Zarozinia. A mezzodì, il giorno dopo, l'esercito mercenario entrò baldanzosamente in città. Elric andò ad attenderlo presso le porte. I guerrieri imrryriani apparivano stanchi per la lunga cavalcata, ed erano carichi di bottino perché, prima che Yishana li mandasse a chiamare, avevano saccheggiato Shazar, nei pressi delle Paludi delle Nebbie. Gli immryriani erano diversi da tutte le altre razze: volto scarno, occhi obliqui e zigomi alti. Erano pallidi e snelli, e i lunghi capelli morbidi spiovevano loro sulle spalle. Indossavano vesti e armature che non erano frutto di saccheggi ma tipicamente melnibo-
neane: stoffe lucenti d'oro, azzurro e verde, metalli lavorati e adorni di motivi delicati. Portavano lance dalla lunga punta e spade sottili. Stavano in sella con aria arrogante, consci della loro superiorità sui comuni mortali; e come Elric, erano disumani nella loro bellezza ultraterrena. L'albino spinse il cavallo incontro a Dyvim Slorm. Le sue vesti scure spiccavano per il contrasto col vivace abbigliamento degli imrryriani. Indossava una giubba di cuoio trapunto, nera e a collo alto, stretta in vita da una semplice cintura da cui pendevano un pugnale e Tempestosa. I capelli, di un candore latteo, erano trattenuti sulla fronte da un cerchio di bronzo nero, e anche le brache e gli stivali erano neri. Quel colore lugubre poneva in risalto la pelle eburnea e gli ardenti occhi cremisi. Dyvim Slorm s'inginocchiò sulla sella: non sembrava troppo sorpreso. «Cugino Elric. Dunque il presagio era vero.» «Quale presagio, Dyvim Slorm?» «Un falcone. L'uccello che ha il tuo stesso nome, se non ricordo male.» Per consuetudine, i melniboneani identificavano i figli con gli uccelli preferiti; e quello di Elric era un falcone. «Cosa ti ha detto, cugino?» chiese ansioso il principe. «Un messaggio sconcertante. Eravamo appena usciti dalle Paludi della Nebbia quando è venuto a posarsi sulla mia spalla e mi ha parlato con voce umana. Mi ha detto di venire a Sequaloria, perché vi avrei incontrato il mio re. Da Sequaloria dovremo viaggiare insieme, per unirci all'esercito di Yishana; e l'esito della battaglia deciderà dei nostri destini. Tu ci capisci qualcosa, cugino?» «Qualcosa, sì.» Elric aggrottò la fronte. «Ma vieni: ti ho fatto riservare una stanza alla locanda. Ti dirò tutto ciò che so, davanti alle coppe colme di vino... se riusciremo a trovare vino decente in questo villaggio dimenticato. Ho bisogno d'aiuto, cugino: tutto l'aiuto che potrò ottenere, perché Zarozinia è stata rapita da esseri soprannaturali e ho la sensazione che questo fatto e le guerre siano solo due elementi di un gioco più grande.» «Allora presto, alla locanda. Hai stuzzicato la mia curiosità. Questa storia diviene sempre più interessante. Prima falconi e profezie, adesso rapimenti e battaglie. Mi domando cos'altro dobbiamo aspettarci!» Con gli imrryriani che li seguivano in ordine sparso per le strade selciate di ciottoli - erano meno di cento guerrieri, ma induriti dalla vita di esuli Elric e Dyvim Slorm raggiunsero la locanda; e là, frettolosamente, Elric riferì tutto ciò che aveva appreso.
Prima di replicare, suo cugino bevve un sorso di vino e depose scrupolosamente la coppa sul tavolo, stringendo le labbra. «Me lo sento nelle ossa: noi siamo come marionette in una lotta tra gli dèi. Nonostante il nostro sangue e la nostra volontà, non possiamo vedere altro che pochi e sconnessi dettagli di quel conflitto ben più grande.» «Può darsi» concesse impaziente Elric. «Ma esservi stato coinvolto mi esaspera, ed esigo la liberazione di mia moglie. Non so perché noi due, insieme, dobbiamo concludere il patto per ottenere la sua restituzione, e non riesco a intuire cosa vogliono da noi quelli che l'hanno catturata. Ma se i presagi sono stati inviati da loro, sarà meglio che per il momento facciamo come ci viene detto, fino a quando avremo una visione più chiara della realtà. Forse allora potremo agire secondo il nostro volere.» «Saggia soluzione» fece Dyvim Slorm, annuendo. «Ci sto.» Sorrise lievemente e aggiunse: «Mi piaccia o no, immagino.» Elric domandò: «Dove si trova il grosso delle forze di Dharíjor e Pan Tang? Ho sentito dire che si stanno radunando.» «Si sono già radunate, e si avvicinano a noi. La battaglia imminente deciderà chi dovrà dominare le terre occidentali. Io sono impegnato con Yishana, non solo perché ci ha ingaggiati ma anche perché prevedo che se i subdoli signori di Pan Tang s'impadroniranno di queste nazioni imporranno la loro tirannia e costituiranno una minaccia per la sicurezza del mondo intero. È molto doloroso, per un melniboneano, dover considerare questi problemi.» Dyvim Slorm sorrise, ironicamente. «A parte questo, non ho nessuna simpatia per quei villani rifatti: cercano di emulare l'Impero Fulgido.» «Sì» disse Elric. «La loro è una cultura isolana, com'era la nostra. Sono incantatori e guerrieri come i nostri antenati. Ma la loro magia è ancora più malsana di quanto è mai stata la nostra. I nostri avi hanno commesso azioni spaventose, ma per loro erano naturali. Questi nuovi venuti, più umani di noi, pervertono la loro umanità, mentre noi non l'abbiamo mai posseduta nella stessa misura. Non ci sarà mai un altro Impero Fulgido, e il loro potere non potrà durare più di diecimila anni. Questa è un'epoca nuova, Dyvim Slorm, sotto più di un aspetto. Gli uomini vanno scoprendo nuovi mezzi per imbrigliare le energie naturali.» «La nostra sapienza è antica» riconobbe Dyvim Slorm. «Così antica che ha ben pochi rapporti con gli eventi attuali, credo. La nostra logica e la nostra conoscenza sono adatte al passato...» «Penso che tu abbia ragione» disse Elric, i cui sentimenti turbati non e-
rano adatti né al passato né al presente né al futuro. «Sì, è giusto che siamo esuli vaganti, perché in questo mondo non c'è posto per noi.» Bevvero in silenzio, cupamente, assorti in quei problemi filosofici. Tuttavia i pensieri di Elric erano sempre rivolti a Zarozinia, alla paura di ciò che poteva esserle accaduto. L'innocenza della giovane donna, la sua vulnerabilità e la sua giovinezza erano state per lui la salvezza, almeno in una certa misura. L'amore protettivo che nutriva per lei aveva contribuito a impedirgli di arrovellarsi troppo al pensiero del proprio destino tenebroso, e la presenza di lei aveva alleviato la sua malinconia. La strana profezia del demone morto aleggiava ancora nella sua memoria. Senza dubbio alludeva a una battaglia, e anche il falcone visto da Dyvim Slorm l'aveva annunciata. Doveva essere l'imminente battaglia tra le forze di Yishana e quelle di Sarosto di Dharijor e di Jagreen Lern di Pan Tang. Se voleva sperare di ritrovare Zarozinia, doveva andare con Dyvim Slorm e partecipare al combattimento. Anche se correva il rischio di essere ucciso, pensava che avrebbe fatto bene a ubbidire ai presagi... altrimenti avrebbe potuto perdere ogni possibilità di rivedere la sposa. Si rivolse al cugino. «Domani partirò con te, e parteciperò alla battaglia con la mia spada. In ogni caso, ho la sensazione che Yishana avrà bisogno di aiuto contro il teocrate e i suoi alleati.» Dyvim Slorm annuì. «Sarà in gioco non solo il nostro fato ma quello delle nazioni...» CAPITOLO TERZO Dieci uomini terribili guidavano i loro carri gialli giù da una montagna nera che vomitava fuoco azzurro e scarlatto e sussultava in uno spasimo di distruzione. Così, in tutto il globo, le forze della natura erano sovvertite e scatenate. Benché pochi se ne accorgessero, la Terra stava cambiando. I Dieci sapevano perché, e sapevano di Elric e del legame tra lui e la loro sapienza. La notte era di un porpora pallido, e il sole era librato come un disco sanguinoso sopra le montagne, poiché era estate avanzata. Nelle valli, le case bruciavano quando la lava fumante pioveva sui tetti di paglia. Sepiriz, sul primo carro, vide gli abitanti del villaggio che fuggivano disordinatamente, come formiche dopo la distruzione del formicaio. Si rivolse all'uomo dalla corazza azzurra che stava dietro di lui e sorrise, quasi con
allegria. «Guarda come fuggono» disse. «Guarda come fuggono, fratello. Oh, è splendido... Quali forze sono all'opera!» «È piacevole esserci svegliati in questo momento» replicò il fratello, gridando per farsi udire nel rombo del vulcano. Poi il sorriso si dileguò dal volto di Sepiriz, che socchiuse gli occhi. Sferzò i cavalli gemelli con una frusta di pelle di toro, e il sangue rigò i fianchi dei grandi stalloni neri, che galopparono ancor più veloci giù per il pendio scosceso. Nel villaggio, un uomo vide in distanza i Dieci. Urlò, esprimendo la sua paura in un avvertimento. «Il fuoco li ha stanati dalla montagna. Nascondetevi! Fuggite! Gli uomini del vulcano si sono svegliati, stanno arrivando. I Dieci si sono svegliati, come annunciava la profezia... È la fine del mondo!» Poi la montagna vomitò ancora lapilli ardenti e lava fiammeggiante, e l'uomo venne abbattuto, e urlò mentre bruciava e moriva. Morì invano, perché i Dieci non si curavano di lui né dei suoi simili. Sepiriz e i suoi fratelli attraversarono il villaggio: le ruote dei loro carri sferragliavano sulla strada dissestata, gli zoccoli dei cavalli scalpitavano. Dietro di loro, la montagna mugghiava. «A Nihrain!» gridò Sepiriz. «Affrettiamoci, fratelli, perché c'è molto da fare. Dobbiamo richiamare una spada dal limbo e trovare due uomini che la portino a Yanyaw!» Si sentiva invadere dalla gioia, mentre guardava la terra sussultare intorno a lui e udiva l'eruttare del fuoco e delle pietre. Il suo corpo nero e lucente rifletteva le fiamme che divoravano le case. I cavalli trainavano il sobbalzante carro a velocità folle; i loro zoccoli erano un movimento confuso, appena visibile sopra il terreno, e sembravano volare. E forse volavano veramente, perché si sapeva che i destrieri di Nihrain erano diversi dai comuni animali. Si lanciarono lungo una gola e salirono un sentiero di montagna, procedendo veloci verso l'Abisso di Nihrain, l'antica patria dei Dieci, che non vi facevano più ritorno da duemila anni. Sepiriz rise di nuovo. Lui e i suoi fratelli avevano una responsabilità terribile perché, sebbene non fossero devoti né agli uomini né agli dèi, erano i portavoce del fato e racchiudevano una spaventosa conoscenza nelle menti immortali. Avevano dormito per secoli nella cripta montana, vicino al cuore sopito del vulcano, poiché il freddo e il caldo più terribili non li infastidivano.
Ora l'eruzione li aveva destati, e avevano compreso che era venuto il loro momento: il momento che attendevano da millenni. Perciò Sepiriz cantava di gioia. Finalmente lui e i suoi fratelli potevano svolgere la loro funzione suprema. E la loro missione comprendeva due melniboneani, i soli superstiti della stirpe reale dell'Impero Fulgido. Sepiriz sapeva che erano vivi: dovevano esserlo, perché senza di loro il disegno del fato era impossibile. Ma sulla Terra, come Sepiriz sapeva, c'erano alcuni esseri tanto potenti da defraudare il fato. I loro servitori erano dovunque, soprattutto nella nuova razza degli uomini; ma anche vampiri e demoni erano i loro strumenti. E questo rendeva ancor più arduo il compito che si era scelto. Ma ora... a Nihrain! Alla città scavata nella roccia, per intessere i fili del destino in una rete più sottile. C'era ancora un po' di tempo, ma non molto; e il tempo, l'ignoto, era padrone di tutto... I padiglioni della regina Yishana e dei suoi alleati sorgevano fitti intorno a una serie di collinette boscose. Gli alberi, da lontano, li nascondevano, e non erano stati accesi i fuochi per non rivelare la loro posizione. Il grande esercito cercava di fare poco rumore. Gli esploratori andavano e venivano, riferendo le posizioni del nemico e tenendo gli occhi ben aperti per timore delle spie. Ma Elric e i suoi imrryriani passarono incontrastati, perché erano facilmente riconoscibili e si sapeva che i temuti mercenari di Melniboné avevano deciso di schierarsi con Yishana. Elric disse a Dyvim Slorm: «Sarà meglio che io vada a rendere omaggio alla regina Yishana, in ricordo del nostro vecchio legame; ma non voglio che sappia della scomparsa di mia moglie, altrimenti potrebbe cercare di ostacolarmi. Le diremo soltanto che sono venuto ad aiutarla per spirito d'amicizia.» Dyvim Slorm annuì; Elric lo lasciò a dirigere gli imrryriani che si accampavano, e si recò subito alla tenda di Yishana, dove la regina l'attendeva con impazienza. Quando entrò, vide che lei aveva gli occhi velati. Il volto pesante e sensuale cominciava a mostrare i segni dell'età, ma i lunghi capelli erano ancora neri e splendenti. I seni erano voluminosi, i fianchi più ampi di quanto lui ricordava. Stava su un seggio imbottito, e sul tavolo davanti a lei erano sparsi mappe, pergamene, calamai e penne. «Buongiorno, lupo» disse, con un mezzo sorriso ironico e provocante. «I
miei esploratori avevano riferito che eri in compagnia dei tuoi compatrioti. Mi compiaccio. Hai abbandonato la novella sposa per tornare a piaceri più raffinati?» «No» rispose lui. Si tolse il pesante mantello e lo gettò su una panca. «Buongiorno, Yishana. Non sei cambiata. Sospetto che Theleb K'aarna ti abbia dato le acque della vita eterna, prima che io lo uccidessi.» «Forse è così. Come va il tuo matrimonio?» «Bene» rispose Elric, mentre lei si avvicinava tanto da fargli sentire il calore del suo corpo. «Sono delusa.» Yishana sorrise ironicamente e scrollò le spalle. Erano stati amanti, sebbene Elric fosse stato indirettamente responsabile della morte del fratello della regina durante l'attacco contro Imrryr. La morte di Darmit di Jharkor l'aveva portata al trono; e poiché era una donna ambiziosa, non si era rattristata troppo. Ma Elric non aveva nessun desiderio di riallacciare la relazione. Passò subito a parlare della battaglia imminente. «Vedo che ti stai preparando per qualcosa di più impegnativo di una scaramuccia» disse. «Di quante forze disponi, e quali sono le tue probabilità di vittoria?» «Ci sono i miei Leopardi Bianchi» rispose la regina. «Cinquecento guerrieri scelti che corrono veloci come cavalli, sono forti come i felini di montagna e feroci come squali che hanno sentito l'odore del sangue: sono stati addestrati per uccidere, e non sanno far altro. Poi ci sono le altre truppe: fanteria e cavalleria, al comando di un'ottantina di nobili. I cavalieri migliori sono quelli di Shazar: abili combattenti, e disciplinati. Tarkesh ha inviato meno uomini, poiché mi risulta che il re Hilran ha dovuto difendere i suoi confini meridionali da un pesante attacco. Tuttavia ci sono circa mille fanti e duecento cavalieri di Tarkesh. In tutto possiamo mettere in campo seimila guerrieri ben addestrati. Combattono anche i servi della gleba e gli schiavi, ma naturalmente serviranno soltanto ad affrontare l'assalto iniziale e moriranno durante la prima parte della battaglia.» Elric annuì: quelle erano le comuni tattiche militari. «E i nemici?» «Noi abbiamo la superiorità numerica, ma loro hanno i Cavalieri Diavoli e le tigri da caccia. Hanno anche altre bestie, che tengono in gabbia: ma non possiamo sapere cosa sono, perché le gabbie sono coperte.» «Ho sentito dire che stanno giungendo in volo gli uomini di Myyrrhn. La posta in gioco dev'essere molto importante, per indurli a lasciare le loro
vette.» «Se perdiamo questa battaglia» replicò in tono grave Yishana, «il caos potrebbe facilmente invadere e dominare la Terra. Tutti gli oracoli, da qui a Shazar, ripetono la stessa cosa: Jagreen Lern è solo lo strumento di padroni soprannaturali, è aiutato dai signori del caos. Noi non ci battiamo solo per le nostre terre, Elric: combattiamo per il genere umano.» «Auguriamoci di vincere» disse lui. Elric si unì ai comandanti che passavano in rivista l'esercito. Dyvim Slorm era al suo fianco, alto nella sopravveste dorata, arrogante e sicuro. C'erano i duri veterani di molte campagne: gli uomini tozzi e bruni di Tarkesh, con robuste armature, e barbe e capelli neri e untuosi. Erano arrivati gli uomini alati di Myyrrhn, seminudi, con gli occhi assorti, il volto aquilino e le grandi ali ripiegate sul dorso: erano dignitosi e tranquilli, e parlavano di rado. C'erano gli ufficiali shazariani, con la giubba grigia marrone e nera e l'armatura bronzea color ruggine. Con loro stava il capitano dei Leopardi Bianchi di Yishana, un uomo dalle gambe lunghe e dal torace tozzo, con i capelli biondi annodati sulla nuca taurina e la corazza argentea che portava l'emblema di un leopardo, albino come Elric, rampante e ringhiante. Il momento della battaglia si avvicinava... Nell'alba grigia, i due eserciti avanzarono uno verso l'altro dalle estremità opposte di un'ampia valle fiancheggiata da basse colline boscose. L'armata di Pan Tang e di Jharkor salì dal fondovalle come una marea di metallo scuro. Elric, che non aveva ancora indossato l'armatura, l'osservava in sella al cavallo scalpitante. Dyvim Slorm, che gli stava al fianco, tese il braccio e disse: «Guarda: ecco i responsabili. Sarosto a sinistra e Jagreen Lern a destra.» I comandanti procedevano in testa al loro esercito, e le bandiere di seta scura frusciavano sopra i loro elmi. Il re Sarosto e il suo alleato: lo scarno e grifagno Jagreen Lern nella splendente armatura scarlatta che sembrava rovente e forse lo era. Sull'elmo portava il Cimiero del Tritone di Pan Tang, in ricordo del vantato legame di parentela col popolo del mare. L'armatura di Sarosto era di un giallo opaco e scuro, col blasone della Stella di Dharijor sormontata dalla Spada Bifida che era appartenuta all'antenato di Sarosto, Atarn, il Costruttore di Città. Dietro di loro venivano i Cavalieri Diavoli di Pan Tang, montati sui rettili esapodi che - così si diceva - erano stati creati per magia. Avevano il
volto olivastro e aguzzo e l'espressione introspettiva; portavano lunghe sciabole ricurve, snudate. Tra loro avanzavano più di cento tigri da caccia, addestrate come cani, con lunghe zanne e artigli che potevano dilaniare un uomo con un solo colpo. Alla retroguardia dell'esercito, Elric intravide appena le parti superiori delle misteriose gabbie su ruote, e si chiese quali strane bestie rinchiudevano. Poi Yishana gridò un ordine. Le frecce scagliate dagli arcieri formarono una nera nube tintinnante sopra di loro, quando Elric guidò la prima ondata della fanteria giù per il declivio, incontro all'esercito nemico. L'amareggiava il pensiero di essere costretto a rischiare la vita: ma se voleva scoprire dov'era Zarozinia, doveva recitare la parte assegnatagli e augurarsi di sopravvivere. Il grosso della cavalleria seguiva la fanteria, fiancheggiandola con l'ordine di accerchiare il nemico se appena possibile. Gli imrryriani dalla sopravveste sgargiante e gli shazariani dall'armatura bronzea erano da un lato. Dall'altro galoppavano i tarkeshiti con la corazza azzurra e il pennacchio rosso purpureo e bianco e le lunghe lance spianate, e i jharkoriani con gli spadoni sguainati. Al centro dell'avanguardia guidata da Elric venivano i Leopardi Bianchi, e la regina procedeva sotto la sua bandiera, dietro la prima falange, alla testa di un battaglione di cavalieri. Si avventarono giù per il declivio verso i nemici, le cui frecce volavano verso l'alto e poi ripiombavano cadendo con tonfi secchi sugli elmi o piantandosi nella carne. Le grida di guerra infransero il silenzio dell'alba, mentre i due eserciti si scontravano. Elric si trovò di fronte a Jagreen Lern, e il teocrate, ringhiando, parò il fendente di Tempestosa con lo scudo rosso-fiamma, che lo protesse validamente: senza dubbio era stato creato apposta per resistere alle armi incantate. Il volto di Jagreen Lern si contrasse in un sorriso maligno, quando riconobbe Elric. «Mi era stato detto che ti avrei trovato qui, Faccia Bianca. Ti conosco, Elric, e conosco il tuo fato maledetto!» «Troppi uomini sembrano conoscere il mio destino meglio di me» disse l'albino. «Ma forse, se ti uccido riuscirò a strapparti il segreto prima che tu muoia.» «Oh, no! Non è questo il piano dei miei padroni.» «Bene, forse è il mio!» Sferrò un altro colpo contro Jagreen Lern, ma ancora una volta Tempe-
stosa venne deviata e urlò di rabbia. La sentì muoversi nella mano, la sentì pulsare per il furore, perché normalmente quella lama forgiata nell'inferno poteva fendere il metallo meglio temprato. Nella destra guantata, Jagreen Lern stringeva un'enorme ascia: e l'avventò verso la testa indifesa del cavallo di Elric. Era strano, poiché era in posizione tale da poter colpire il principe. Questo tirò violentemente le redini, costringendo il cavallo a girare il muso, e sferrò un affondo verso lo stomaco di Jagreen Lern. La spada stregata urlò, senza riuscire a trapassare l'armatura. L'ascia mulinò di nuovo, e Elric rialzò Tempestosa per proteggersi. Ma sorprendentemente venne spinto all'indietro sulla sella dalla violenza del colpo, e riuscì a fatica a trattenere il cavallo perché un piede gli si sfilò dalla staffa. Jagreen Lern colpì ancora e spaccò il cranio del cavallo di Elric, che si accasciò sulle ginocchia, roteando gli occhi, e morì, mentre sangue e cervella sgorgavano dall'atroce ferita. Gettato a terra, Elric si alzò faticosamente e si preparò a parare il successivo colpo di Jagreen Lern. Ma restò sbalordito quando il re-stregone gli voltò le spalle e si addentrò nel folto della mischia. «Purtroppo non posso toglierti la vita, Faccia Bianca! Questa è la prerogativa di altri poteri. Se vivrai e se noi vinceremo... forse verrò a cercarti.» Troppo stordito per poter comprendere, Elric si guardò intorno disperatamente per cercare un altro cavallo, e vide un destriero dharijorano, con la testa e la parte anteriore del corpo protetti da un'ammaccata armatura nera, che correva, scosso, per allontanarsi dalla battaglia. Si lanciò, afferrò la briglia, fermò l'animale, mise il piede nella staffa e balzò sulla sella, scomodissima per un uomo che non portava armatura. Ritto sulle staffe, ritornò nella mischia. Si aprì un varco fra i nemici, uccidendo ora un Cavaliere Diavolo, ora una tigre da caccia che cercava di azzannarlo con i denti snudati, ora un comandante dharijorano dalla corazza colorata, ora due fanti che tentavano di trafiggerlo con le alabarde. Il suo cavallo s'impennò come un mostro: disperatamente, riuscì a spingerlo più vicino allo stendardo di Yishana, fino a quando poté scòrgere uno degli araldi. L'esercito della regina si batteva con valore, ma ormai la disciplina era inesistente. Era necessario raggrupparlo, per condurre un'azione più incisiva. «Richiama la cavalleria!» gridò Elric. «Richiama la cavalleria!» Il giovane araldo alzò la testa. Era attaccato da due Cavalieri Diavoli. In
quel momento di disattenzione venne trapassato dalla lama di uno dei due, e urlò, mentre gli avversari lo massacravano. Bestemmiando, Elric si avventò e colpì alla testa uno degli assalitori. L'uomo cadde dalla sella, nel fango. L'altro cavaliere si girò, incontrò la punta dell'ululante Tempestosa e morì urlando, mentre la spada stregata beveva la sua anima. L'araldo era morto in sella, straziato da innumerevoli ferite. Elric si tese e strappò il corno insanguinato appeso al collo del cadavere. Se lo portò alle labbra e suonò l'ordine di richiamare la cavalleria, e scorse alcuni cavalieri che già si voltavano. Poi vide lo stendardo inclinarsi e cadere, e comprese che il portabandiera era stato ucciso. Si sollevò sulle staffe e afferrò l'asta che reggeva il vessillo di Jharkor. Sostenendolo con una mano, e continuando a suonare il corno, tentò di richiamare le truppe. Lentamente, i resti dell'esercito si raccolsero intorno a lui. E allora Elric, assumendo il comando delle operazioni, fece la sola cosa che poteva, nella speranza di salvare l'esito della battaglia. Suonò con il corno una lunga nota lamentosa. E in risposta all'appello udì un pesante batter d'ali, mentre gli uomini di Myyrrhn s'involavano nell'aria. Quando i nemici se ne accorsero, aprirono gli sportelli delle gabbie misteriose. Elric si lasciò sfuggire un gemito di disperazione. Strida agghiaccianti precedettero l'apparizione dei gufi giganteschi - ritenuti estinti perfino in Myyrrhn, la terra della loro origine - che s'innalzavano volteggiando. I nemici si erano preparati a un eventuale attacco dall'alto e avevano portato lì - chissà come - gli antichissimi e tradizionali avversari degli uomini di Myyrrhn. Solo un po' sgomentati da quell'apparizione inaspettata, gli uomini di Myyrrhn, armati di lunghe lance, attaccarono i grandi rapaci. I guerrieri impegnati nei combattimenti al suolo furono investiti da una pioggia di sangue e piume. Corpi di uomini e di uccelli cominciarono a cadere dall'alto, schiacciando fanti e cavalieri. In quella confusione, Elric e i Leopardi Bianchi di Yishana si aprirono combattendo la strada in mezzo ai nemici per raggiungere Dyvim Slorm e i suoi imrryriani, i resti della cavalleria tarkeshita e un centinaio di shazariani superstiti. Guardando in alto, Elric vide che quasi tutti i grandi gufi era-
no stati annientati, ma pochi uomini di Myyrrhn erano usciti vivi dallo scontro aereo. Dopo aver fatto tutto il possibile contro i rapaci, adesso volteggiavano, preparandosi a lasciare il campo di battaglia. Evidentemente si erano resi conto che la situazione era disperata. Quando lo raggiunse, Elric gridò a Dyvim Slorm: «La battaglia è persa: ora qui regnano Sarosto e Jagreen Lern!» Dyvim Slorm soppesò nella mano la grande spada e rivolse a Elric un'occhiata d'assenso. «Se dobbiamo vivere per compiere il nostro destino, dovremmo allontanarci in fretta da qui!» esclamò. Non potevano fare nient'altro. «Per me la vita di Zarozinia è la cosa più importante!» gridò Elric. «Pensiamo a noi stessi!» Ma le forze nemiche erano come una morsa che stringeva Elric e i suoi uomini. L'albino aveva il volto coperto di sangue per un colpo alla fronte. Gli velava gli occhi, ed era costretto a tergerseli di continuo con la sinistra. Col braccio destro, indolenzito, brandiva Tempestosa sferrando intorno a sé fendenti e affondi, disperatamente, perché sebbene la terribile spada avesse vita e quasi intelligenza non bastava a donargli la vitalità di cui avrebbe avuto bisogno. In un certo senso Elric ne era lieto, perché odiava la Spada Nera benché dovesse dipendere da quell'arma per ritrovare l'energia. Tempestosa non si limitava a uccidere gli assalitori di Elric: beveva le loro anime, e trasmetteva un po' di quella forza vitale al monarca melniboneano... Le schiere dei nemici arretrarono e parvero aprirsi. Da quella breccia avanzarono a corsa animali dagli occhi fosforescenti, dalle rosse fauci zannute e dagli artigli acuminati. Le tigri da caccia di Pan Tang. I cavalli nitrivano disperatamente mentre le tigri balzavano e li dilaniavano, abbattendo uomini ed equini e squarciando la gola delle vittime. Le tigri levavano i musi insanguinati e si guardavano intorno in cerca di nuove prede. Terrorizzati, molti degli uomini che formavano lo sparuto contingente di Elric indietreggiarono urlando. Quasi tutti i cavalieri tarkeshiti ruppero le file e fuggirono, precipitando la rotta dei jharkoriani, trascinati via dai cavalli imbizzarriti e seguiti poco dopo dagli ultimi shazariani rimasti ancora in sella. Ben presto a fronteggiare le forze di Dharijor e di Pan Tang rimasero solo Elric, i suoi imrryriani e una quarantina di Leopardi Bianchi. Elric levò il corno e suonò la ritirata: poi girò lo stallone nero e lo lanciò
a corsa verso l'alto della valle, seguito dagli imrryriani. Ma i Leopardi Bianchi combatterono fino all'ultimo. Yishana aveva detto che non sapevano far altro che uccidere. Evidentemente sapevano anche morire. Elric e Dyvim Slorm guidarono gli imrryriani verso l'alto della valle: era un sollievo, per loro, che i Leopardi Bianchi coprissero la ritirata. Il melniboneano non aveva più visto Yishana da quando s'era scontrato con Jagreen Lern: e si chiedeva qual era stata la sorte della regina. Quando superarono un gomito della valle Elric comprese il piano di battaglia di Jagreen Lern e del suo alleato, perché un numeroso contingente di fanti e di cavalieri era riunito all'altra estremità della valle allo scopo di tagliare ogni eventuale ritirata del suo esercito. Senza riflettere, Elric spinse il cavallo su per le pendici dei colli, seguito dai suoi uomini, passando sotto i bassi rami delle betulle mentre i dharijorani accorrevano verso di loro, sparpagliandosi per bloccarli. Elric girò il cavallo: vide che i Leopardi Bianchi stavano ancora combattendo intorno allo stendardo di Jharkor e ritornò in quella direzione, senza abbandonare le colline. Superò i dossi, insieme a Dyvim Slorm e a un pugno di imrryriani, e poi tutti galopparono verso l'aperta campagna, mentre i cavalieri di Dharijor e di Pan Tang si buttavano all'inseguimento. Evidentemente avevano riconosciuto Elric e aspiravano a ucciderlo o a catturarlo. Più avanti Elric vide che i tarkeshiti, gli shazariani e i jharkoriani erano già fuggiti e avevano seguito lo stesso percorso. Ma non procedevano più in gruppo: si stavano disperdendo in lontananza. Elric e Dyvim Slorm fuggirono verso occidente, attraverso un territorio sconosciuto, mentre gli altri imrryriani, per distogliere dai loro comandanti l'attenzione del nemico, si diressero a nordest, verso Tarkesh, dove forse avrebbero trovato qualche giorno di sicurezza. La battaglia era finita. I servitori del male avevano vinto, e un'epoca di terrore era incominciata per i Regni Giovani dell'occidente. Qualche giorno dopo Elric, Dyvim Slorm, due imrryriani, un comandante tarkeshita che si chiamava Yedn-pad-Juizev, gravemente ferito al fianco, e un fante shazariano, Orozn, che si era impadronito di un cavallo per fuggire dal campo di battaglia, procedevano stancamente, al riparo dagli inseguitori, verso una catena di montagne che spiccavano nere contro il cielo rosso della sera. Non parlavano da diverse ore. Yedn-pad-Juizev era morente, e non po-
tevano far nulla per lui. Il tarkeshita lo sapeva e non si aspettava niente: si limitava a proseguire insieme a loro per non restare solo. Era molto alto per uno della sua razza, e il pennacchio scarlatto ondeggiava ancora sull'elmo di metallo azzurro ammaccato: la corazza era spezzata e macchiata di sangue, suo e altrui. La barba era nera e lucida di olio, il naso sembrava un picco sull'aspra faccia rocciosa da soldato, gli occhi erano quasi vitrei. Sopportava eroicamente il dolore. Sebbene fossero ansiosi di raggiungere la relativa sicurezza della catena montuosa, gli altri adattavano l'andatura alla sua, un po' per rispetto e un po' perché li sbalordiva vedere un uomo che si aggrappava così tenacemente alla vita. Venne la notte e una grande luna gialla si librò in cielo sopra le montagne. Il cielo era completamente sereno, e le stelle brillavano nitide. I guerrieri avrebbero preferito che fosse una notte buia e nuvolosa, perché allora avrebbero potuto cercare riparo tra le ombre. Ma era una notte chiara, e potevano solo augurarsi di raggiungere presto i monti... prima che le tigri da caccia di Pan Tang scoprissero le loro tracce e venissero a dilaniarli con i tremendi artigli. Elric era torvo e pensieroso. Per qualche tempo i vincitori sarebbero stati impegnati a consolidare l'impero appena conquistato. Forse tra loro sarebbero scoppiati dissidi, o forse no. Presto, comunque, sarebbero diventati ancora più potenti e avrebbero minacciato la sicurezza delle nazioni del continente meridionale e di quello orientale. Ma tutto questo, sebbene influisse sul fato del mondo intero, significava ben poco per. Elric, perché non riusciva ancora a vedere chiaramente la strada per ritrovare Zarozinia. Ricordava la profezia del demone morto: in parte si era avverata. Ma anche questo non voleva dir molto. Aveva la sensazione di essere sospinto incessantemente verso ovest, come se dovesse addentrarsi sempre più lontano, nelle terre semidisabitate aldilà di Jharkor. Era là che l'attendeva il suo destino? Erano là i carcerieri di Zarozinia? Oltre l'oceano ci sarà battaglia; e oltre la battaglia cadrà il sangue... Ebbene, il sangue era caduto oppure doveva ancora cadere? Qual era la «gemella» portata dal suo parente Dyvim Slorm? Chi era colui che non avrebbe dovuto vivere? Forse il segreto stava tra le montagne laggiù? Cavalcarono sotto la luna, e finalmente giunsero in una gola. Trovarono una grotta e si sdraiarono all'interno per riposare. Al mattino, Elric fu svegliato da un suono all'esterno della grotta. Sfode-
rò subito Tempestosa e si accostò furtivamente all'imboccatura della caverna. Ciò che vide l'indusse a rinfoderare la spada e a chiamare l'uomo malconcio che si stava avvicinando a cavallo. «Qui, araldo! Siamo amici!» Era uno degli araldi di Yishana. Aveva la sopravveste sbrindellata, l'armatura ammaccata. Era senza spada e senza elmo: un giovane stravolto dalla stanchezza e dalla disperazione. Alzò la testa e riconobbe Elric con un sospiro di sollievo. «Principe Elric... Dicevano che eri stato ucciso in combattimento.» «Sono lieto che lo dicano: sarà meno probabile che m'inseguano. Entra.» Intanto gli altri si erano svegliati. Tutti tranne uno. Yedn-pad-Juizev era morto nel sonno durante la notte. Orozn sbadigliò e indicò il cadavere. «Se non troveremo viveri in fretta, finirò col mangiare il nostro amico.» Guardò Elric come per attendere una risposta alla sua battuta, ma quando vide l'espressione dell'albino si ritrasse sul fondo della caverna, borbottando e prendendo a calci i sassi. Elric si appoggiò alla parete, vicino all'imboccatura della grotta. «Che notizie hai?» chiese. «Pessime, mio signore. Da Shazar a Tarkesh domina l'angoscia, e ferro e fuoco si abbattono sulle nazioni come un'empia tempesta. Siamo stati completamente sconfitti. Solo piccoli gruppi continuano una guerriglia disperata contro i nemici. Alcuni dei nostri parlano già di diventare banditi e di darsi ai saccheggi: sono tempi disperati, questi.» Elric annuì. «È quello che avviene quando gli alleati stranieri vengono sconfitti in territorio amico. E la regina Yishana?» «Ha avuto una triste sorte, mio signore. Si è battuta contro una dozzina di uomini prima di morire, dilaniata dalla violenza degli assalti. Sarosto ha preso la sua testa per ricordo e l'ha aggiunta agli altri trofei insieme alle mani di Karnarl, il suo fratellastro, che si era opposto all'alleanza con Pan Tang, e agli occhi di Penik di Nargesser, che in quella provincia aveva radunato un esercito per opporsi a lui. Il teocrate Jagreen Lern ha ordinato di torturare a morte i prigionieri e di appenderli in catene in tutto il territorio, come monito per quanti pensassero d'insorgere. Sono due esseri empi, mio signore!» Elric strinse le labbra nell'udire quelle parole. Ormai era chiaro che poteva soltanto proseguire verso occidente, perché se fosse tornato indietro i conquistatori l'avrebbero trovato presto. Si rivolse a Dyvim Slorm. L'imrryriano aveva la camicia lacera e il braccio sinistro incrostato di sangue. «Sembra che il nostro destino sia all'ovest» disse pacato.
«E allora affrettiamoci» replicò suo cugino, «perché sono ansioso di farla finita e di scoprire almeno se sopravviveremo o se periremo in questa impresa. Non abbiamo guadagnato nulla, nello scontro con i nemici: abbiamo solo perso tempo.» «Io ho guadagnato qualcosa» disse Elric, ripensando al duello con Jagreen Lern. «Ho acquisito la certezza che il teocrate è legato in qualche modo al rapimento di mia moglie: e se c'è invischiato, mi vendicherò a qualunque costo.» «Ora» concluse Dyvim Slorm, «affrettiamoci a proseguire verso ovest.» CAPITOLO QUARTO Quel giorno si addentrarono fra le montagne, evitando i pochi gruppi inviati dai vincitori per cercarli; ma i due imrryriani, rendendosi conto che i loro comandanti erano impegnati in chissà quale missione, preferirono lasciarli per avviarsi da un'altra parte. L'araldo era andato a sud per diffondere le tristi notizie, e perciò restavano solo Elric, Dyvim Slorm e Orozn. I due melniboneani non erano entusiasti della compagnia di Orozn, ma per il momento la sopportavano. Poi, il giorno dopo, Orozn scomparve; Elric e Dyvim Slorm si avventurarono fra i neri picchi, passando attraverso canaloni torreggianti e lungo stretti sentieri. Sui monti c'era la neve, candida sullo sfondo nero: ostruiva le gole e rendeva infidi e sdrucciolevoli i sentieri. Poi, una sera, giunsero in un luogo dove le montagne si aprivano in un'ampia valle; scesero a fatica i pendii. Le loro orme erano grandi segni neri sulla neve; il sudore dei cavalli esalava in vapore, il respiro si condensava in nuvolette bianche. Notarono un cavaliere che veniva verso di loro, attraverso il fondovalle. Poiché era solo, non poteva incutere loro paura: attesero che si avvicinasse. Con grande sorpresa videro che era Orozn, vestito a nuovo d'indumenti di pelle di lupo e di daino. Li salutò amichevolmente. «Sono venuto a cercarvi. Dovete aver seguito un percorso più difficile del mio.» «Da dove sei venuto?» chiese Elric; aveva il volto tirato, e gli zigomi spiccavano sulle guance scarne. Somigliava più che mai a un lupo, con quegli ardenti occhi rossi. L'angoscia per la sorte di Zarozinia l'assillava. «C'è un abitato, qui vicino. Venite, vi guiderò io.» Seguirono Orozn per un tratto; si stava avvicinando la notte e il sole ca-
lante macchiava di scarlatto i monti quando arrivarono dall'altra parte della valle, dove spiccavano qua e là alcune betulle e più in alto una piccola abetaia. Orozn li condusse nel boschetto. Si avventarono dall'oscurità, dodici uomini olivastri, invasati dall'odio... e da qualcosa d'altro. Brandivano le armi con le mani guantate di maglia di ferro. A giudicare dalle armature, erano uomini di Pan Tang. Dovevano aver catturato Orozn, inducendolo ad attirare in un'imboscata Elric e suo cugino. Elric girò il cavallo e lo fece impennare. «Orozn! Ci hai traditi!» Ma Orozn si stava allontanando a cavallo. Si voltò indietro, con la faccia pallida tormentata dal rimorso. Poi i suoi occhi si distolsero fulmineamente da Elric e da Dyvim Slorm; aggrottò la fronte, scese la collina ammantata di muschio e si perse nell'ululante oscurità della notte. Elric sguainò Tempestosa, strinse l'elsa, bloccò il colpo di una mazza a punte di bronzo, insinuò la lama sotto l'impugnatura e recise le dita dell'aggressore. Lui e Dyvim Slorm vennero ben presto circondati: ma continuò a combattere mentre Tempestosa cantava il suo stridulo e folle canto di morte. Ma Elric e Dyvim Slorm erano ancora indeboliti dalle recenti traversie. Neppure la malefica forza di Tempestosa bastava a rivitalizzare completamente le inerti vene di Elric, e la paura lo assaliva: non la paura degli aggressori, ma del pericolo di finire ucciso o catturato. E aveva la sensazione che quei guerrieri non conoscessero la parte del loro padrone nel compimento della profezia e non sapessero che lui non doveva morire in quel momento. E infatti, pensò mentre si dibatteva, stava per compiersi un grande errore... «Arioch!» gridò, nella sua paura, al dio-demone di Melniboné. «Arioch! Aiutami! Sangue e anime in cambio del tuo aiuto!» Ma l'incostante demone non lo soccorse. La lunga spada di Dyvim Slorm centrò un uomo alla gola e lo trapassò. Gli altri cavalieri di Pan Tang si scagliarono su di lui, ma vennero ricacciati dal vorticare della sua spada. Dyvim Slorm gridò: «Perché adoriamo un simile dio, quando così spesso decide per capriccio?» «Forse ritiene che sia venuta la nostra ora!» gridò di rimando Elric, mentre la sua spada stregata beveva la forza vitale di un altro avversario. Continuarono a battersi, sempre più sfiniti, fino a quando irruppe un
suono nuovo, più forte del clangore delle armi: un rumore di carri e di sommesse grida gementi. Poi si buttarono nella mischia uomini neri dai lineamenti bellissimi e dalla sottile bocca orgogliosa, i magnifici corpi seminudi mentre i mantelli di volpe bianca svolazzavano dalle loro spalle e i giavellotti venivano scagliati con terribile esattezza contro gli sbalorditi guerrieri di Pan Tang. Elric rinfoderò la spada e restò pronto a battersi o a fuggire. «Eccolo! Quello con la faccia bianca!» gridò un auriga nero quando lo scorse. I carri si arrestarono, mentre i maestosi cavalli scalpitavano e sbuffavano. Elric si avvicinò al comandante. «Ti ringrazio» disse, e per poco non cadde dalla sella per la debolezza. S'inchinò, mascherando in tal modo lo sfinimento. «Sembra che tu sappia chi sono: sei il terzo che da quando ho intrapreso questa ricerca mi riconosce senza che io possa dire altrettanto.» Il comandante si assestò il mantello di volpe intorno al petto nudo, e le sottili labbra si schiusero in un sorriso. «Il mio nome è Sepiriz, e presto mi conoscerai. Quanto a te, sappiamo di te da migliaia d'anni. Non sei Elric, l'ultimo re di Melniboné?» «È vero.» «E tu» continuò Sepiriz, rivolgendosi a Dyvim Slorm, «sei il cugino di Elric. Siete gli ultimi due rappresentanti della stirpe di Melniboné.» «Sì» disse Dyvim Slorm, con aria incuriosita. «Attendevamo che passaste di qui. C'era una profezia...» «Siete voi i rapitori di Zarozinia?» Elric portò la mano alla spada. Sepiriz scosse il capo. «No, ma possiamo dirti dov'è. Calmati. Sebbene io comprenda la sofferenza che ti tormenta, potrò spiegarti meglio quello che so se verrete con noi nel nostro dominio.» «Prima diteci chi siete» pretese Elric. Sepiriz sorrise lievemente. «Tu ci conosci, credo, o almeno sai chi siamo. C'era amicizia tra i tuoi antenati e il mio popolo, nei primi anni dell'Impero Fulgido.» Indugiò un momento prima di continuare: «Hai mai sentito, magari a Imrryr, le leggende dei Dieci della montagna? I Dieci che dormono nella montagna di fuoco?» «Molte volte.» Elric fece un profondo respiro. «Ora vi riconosco dalle descrizioni. Ma si dice che dormiate da secoli nella montagna di fuoco. Perché vagate così in queste valli?» «Un'eruzione ci ha scacciati dal nostro vulcano, sopito da duemila anni. Questi sconvolgimenti naturali avvengono in tutta la Terra, da qualche
tempo. Era venuta per noi l'ora di ridestarci. Eravamo servitori del fato, e la nostra missione è legata indissolubilmente al tuo destino. Ti portiamo un messaggio da parte di colui che tiene prigioniera Zarozinia... e un altro di diversa provenienza. E adesso vuoi tornare con noi all'Abisso di Nihrain e ascoltare quanto possiamo dirti?» Elric rifletté un istante, poi alzò l'eburneo volto e disse: «Ho fretta di vendicarmi, Sepiriz. Ma se quello che potete dirmi mi porterà più vicino al compimento della vendetta, vi seguirò.» «E allora vieni!» Il gigante nero tirò le redini del cavallo e fece girare il carro. Impiegarono un giorno e una notte per giungere all'Abisso di Nihrain, un enorme squarcio tra le montagne, un luogo evitato da tutti: aveva un significato soprannaturale per coloro che abitavano nei pressi di quei monti. I nihrain parlarono poco, durante il percorso, e alla fine giunsero sopra l'Abisso, guidando i carri per il ripido sentiero che si snodava nella tenebra. A mezzo miglio di profondità non penetrava neppure un raggio di luce: ma davanti a loro c'erano torce lingueggianti che rischiaravano in parte i contorni scolpiti di un affresco ultraterreno o rivelavano un'apertura nella roccia. Poi, mentre guidavano i cavalli ancora più giù, videro la maestosa città di Nihrain, che nessun estraneo aveva visitato da molti secoli. Adesso vi dimoravano gli ultimi dei nihrain: dieci uomini immortali di una razza ancor più antica di quella di Melniboné, che aveva ventimila anni di storia. Sopra di loro torreggiavano colonne immani intagliate epoche addietro nella roccia viva, statue gigantesche e ampie balconate e terrazze. C'erano finestre alte trenta braccia e scalinate curvilinee scavate nella parete dell'abisso. I Dieci guidarono i gialli carri oltre una porta massiccia, nelle caverne di Nihrain, interamente scolpite e ornate di strani simboli e di bassorilievi ancora più strani. Gli schiavi, ridestati da un sonno secolare per assistere i loro padroni, corsero loro incontro: e neanche quelli somigliavano alle razze umane che Elric conosceva. Sepiriz passò le redini a uno schiavo, mentre Elric e Dyvim Slorm smontavano guardandosi intorno abbagliati. Disse: «Adesso venite nel mio appartamento, e io vi riferirò quello che volete sapere... e quello che dovete fare.» Guidati da Sepiriz, i due cugini si avviarono impazienti lungo le gallerie ed entrarono in una grande camera piena di statue scure. Numerosi fuochi ardevano in ampie grate. Sepiriz si sedette e invitò gli ospiti ad accomo-
darsi in due seggi uguali, ricavati da blocchi d'ebano. Quando furono tutti assisi davanti a uno dei fuochi, Sepiriz fece un lungo respiro e girò lo sguardo sulla sala, forse rievocandone l'antica storia. Irritato da quella noncuranza, Elric disse, impaziente: «Perdonami, Sepiriz, ma avevi promesso di comunicarci il tuo messaggio.» «Sì» replicò Sepiriz. «Ma ho tante cose da dirvi che ho bisogno di un momento per riordinare i miei pensieri.» Si assestò sul seggio, prima di continuare. «Noi sappiamo dov'è tua moglie» dichiarò infine. «E sappiamo anche che è illesa. Non le verrà fatto del male, perché dovrà essere scambiata con qualcosa che tu possiedi.» «Allora raccontami tutto» disse cupamente Elric. «Noi eravamo amici dei tuoi antenati. Ed eravamo amici di quelli che erano stati soppiantati da loro, di quelli che avevano forgiato la tua spada.» Nonostante l'ansia, Elric era interessato. Per anni aveva tentato di sbarazzarsi della spada stregata, ma non c'era riuscito mai. Tutti i suoi sforzi erano stati vani: ne aveva ancora bisogno, anche se adesso traeva dai filtri quasi tutta la sua forza. «Vorresti sbarazzarti della tua spada, Elric?» chiese Sepiriz. «Sì. Lo sanno tutti.» «E allora ascolta. Noi sappiamo per chi e per cosa sono state forgiate questa spada e la sua gemella. Sono state fabbricate per uno scopo speciale e per uomini speciali. Solo i melniboneani possono portarle, e solo coloro che appartengono alla stirpe reale.» «La storia e la leggenda di Melniboné non fanno cenno a nessuno scopo speciale delle spade» disse Elric, tendendosi verso il suo interlocutore. «Certi segreti devono rimanere ben custoditi» replicò calmo Sepiriz. «Le spade erano state forgiate per annientare un gruppo di esseri potentissimi, tra i quali gli dèi morti.» «Gli dèi morti... Ma il loro stesso nome deve dirti che sono periti molto tempo fa.» «Sono periti, sì. Secondo i criteri umani, sono morti. Ma hanno scelto di morire, hanno scelto di sbarazzarsi della forma materiale e hanno scagliato la loro sostanza vitale nella tenebra dell'eternità, perché in quei giorni erano pieni di paure.» Elric non aveva un'idea di ciò che Sepiriz stava descrivendo, ma accettò quanto gli veniva detto e continuò ad ascoltare. «Uno di loro è ritornato» disse il nihrain.
«Perché?» «Per prendere, a qualunque costo, due cose che costituiscono un pericolo per lui e gli altri dèi: dovunque siano, possono essere ancora danneggiati da quelle due cose.» «E sono...?» «Hanno l'apparenza terrena di due spade, stregate e ornate di simboli: Luttuosa e Tempestosa.» «Questa!» Elric toccò la sua spada. «Perché gli dèi dovrebbero temerla? E l'altra è andata al limbo con mio cugino Yyrkoon quando l'ho ucciso, molti anni fa. È perduta.» «Non è vero. Noi l'abbiamo recuperata: faceva parte della missione assegnataci dal fato. L'abbiamo qui, a Nihrain. Le spade erano state forgiate per i tuoi antenati, che se ne sono serviti per cacciare gli dèi morti. Le avevano forgiate fabbri inumani, anche loro nemici degli dèi morti. Quei fabbri erano costretti a combattere il male con il male, sebbene non fossero votati al caos bensì alla legge. Hanno forgiato le spade per parecchie ragioni, una delle quali era di sbarazzare il mondo degli dèi morti!» «E le altre ragioni?» «In futuro le conoscerai, perché i nostri rapporti finiranno solo quando si sarà compiuto il destino. Siamo tenuti a non rivelare le altre ragioni prima che venga il momento. Tu hai un destino pericoloso, e io non l'invidio.» «Ma qual è il messaggio che devi comunicarmi?» chiese spazientito l'albino. «A causa degli sconvolgimenti creati da Jagreen Lern, uno degli dèi morti ha potuto ritornare sulla Terra, come ti ho detto. Ha radunato accoliti intorno a sé: sono stati loro a rapire tua moglie.» Elric si sentì invadere da una profonda disperazione. Avrebbe dovuto sfidare un potere così grande? «Perché...?» mormorò. «Darnizhaan sa che Zarozinia è importante, per te. Vuole scambiarla con le due spade. Noi, in questo caso, siamo soltanto messaggeri. La spada che custodiamo dobbiamo consegnarla a te o a Dyvim Slorm, se la chiederete, perché appartiene legittimamente alla stirpe reale. Le condizioni di Darnizhaan sono semplici. Manderà Zarozinia nel limbo se non gli consegnerai le spade che minacciano la sua esistenza. La morte di Zarozinia non sarebbe quella che noi conosciamo: sarebbe dolorosa ed eterna.» «E se accettassi lo scambio, cos'accadrebbe?» «Ritornerebbero tutti gli dèi morti. Solo il potere delle spade impedisce
loro di farlo.» «E cosa succederebbe se tornassero gli dèi morti?» «Anche senza il loro intervento, il caos minaccia di conquistare il pianeta: ma con la loro presenza diventerebbe assolutamente invincibile e la conquista sarebbe immediata. Il male dominerebbe il mondo. Il caos scaglierebbe questa Terra in un fetido inferno di terrore e di distruzione. Hai già visto ciò che sta accadendo, eppure Darnizhaan è ritornato da pochissimo tempo.» «Vuoi dire la sconfitta delle armate di Yishana e la vittoria di Jagreen Lern e di Sarosto?» «Precisamente. Jagreen Lern ha concluso un patto con il caos (tutti i signori del caos, non soltanto gli dèi morti) perché il caos teme i piani del fato per il futuro della Terra e intende ostacolarli acquisendo il dominio sul pianeta. I signori del caos sono già abbastanza potenti senza l'aiuto degli dèi morti. Darnizhaan va annientato.» «È una scelta impossibile, Sepiriz. Se cedo Tempestosa, probabilmente potrò sopravvivere grazie ai filtri. Ma se la cedo per riavere Zarozinia, il caos si scatenerà in tutta la sua potenza e io avrò la responsabilità di un delitto mostruoso.» «La scelta spetta a te soltanto.» Elric rifletté, ma non riuscì a trovare un modo per risolvere il dilemma. «Porta l'altra spada» disse infine. Sepiriz tornò poco dopo, portando una spada chiusa nel fodero che sembrava poco diversa da Tempestosa. «Dunque, Elric, la profezia è spiegata?» chiese, tenendo tra le mani Luttuosa. «Sì: è la gemella dell'arma che io cingo. Ma l'ultima parte... Dove dobbiamo andare?» «Te lo dirò tra un momento. Sebbene gli dèi morti e le potenze del caos sappiano che noi possediamo la spada gemella, non sanno chi serviamo. Il fato, come ti ho detto, è il nostro padrone, e il fato ha intessuto per questa Terra una trama che sarebbe difficile alterare. Ma si può alterarla, e noi abbiamo il compito di far sì che il fato non venga defraudato. Tu stai per subire una prova. La tua scelta e il conseguente risultato decideranno ciò che dovremo dirti quando tornerai a Nihrain.» «Volete che ritorni qui?» «Sì.»
«Dammi Luttuosa» disse prontamente Elric. Sepiriz gli porse la spada, e Elric restò ritto con una spada per mano come se le soppesasse. Le due lame gemettero, riconoscendosi a vicenda, e la loro energia fluì nel corpo dell'albino: gli sembrava di essere divenuto di fuoco, un fuoco solido come l'acciaio. «Ora che le stringo entrambe, ricordo che i loro poteri sono più grandi di quanto immaginavo. Unite, possiedono una qualità che forse potremo usare contro questo dio morto.» Aggrottò la fronte. «Ma ne riparleremo tra un momento.» Fissò Sepiriz. «Ora dimmi: dov'è Darnizhaan?» «La valle di Xanyaw, in Myyrrhn!» Elric porse Luttuosa a Dyvim Slorm, che la prese, incerto. «Qual è la tua scelta?» chiese Sepiriz. «Chissà?» rispose Elric, con amara gaiezza. «Forse c'è un modo di battere il dio morto... Ma ti dico questo, Sepiriz: se ne avrò la possibilità, costringerò quel dio a pentirsi di essere tornato, perché ha fatto l'unica cosa che poteva scatenare la mia collera. E la collera di Elric di Melniboné e la sua spada Tempestosa possono distruggere il mondo.» Sepiriz si alzò dal seggio, inarcando le sopracciglia. «E gli dèi, Elric? Possono distruggere anche gli dèi?» CAPITOLO QUINTO Elric cavalcava come un gigantesco spaventapasseri, scarno e rigido sulla groppa del massiccio stallone di Nihrain. Il suo volto torvo era atteggiato in una maschera che celava ogni emozione, e gli occhi cremisi ardevano come braci nelle orbite infossate. Il vento gli agitava i capelli, ma lui sedeva eretto in sella fissando davanti a sé e stringendo con la sottile mano l'elsa di Tempestosa. Talvolta Dyvim Slorm, che portava Luttuosa con fierezza e cautela, udiva la lama mugolare, rivolgendosi alla sorella, e la sentiva fremere al suo fianco. Solo più tardi cominciò a chiedersi in cosa poteva trasformarlo la spada, cosa gli poteva dare e cos'avrebbe preteso da lui. Da quel momento evitò il più possibile di toccare l'elsa di Luttuosa. Nei pressi del confine di Myyrrhn, furono assaliti da un branco di jharkoriani al servizio di Dharijor, con la livrea dei loro conquistatori. Erano bricconi ripugnanti, che avrebbero dovuto guardarsi dall'attraversare la strada a Elric. Diressero i cavalli verso i due cugini, sogghignando. I neri
pennacchi degli elmi ondeggiavano, le cinghie delle armature scricchiolavano, il metallo tintinnava. Il comandante, un bravaccio strabico con un'ascia alla cintura, fermò il cavallo di fronte a Elric. All'ordine del suo padrone, il destriero dell'albino si fermò. Senza mutare espressione, Elric sguainò Tempestosa con un gesto sobrio, felino. Dyvim Slorm l'imitò, fissando gli uomini che ridevano in silenzio. Si stupì della facilità con cui la lama balzò dal fodero. Poi, senza lanciare una sfida, Elric cominciò a combattere. Si batteva come un automa, impassibile, con sveltezza efficiente: fendette il coprispalla dell'avversario con un colpo che lo tranciò dal collo allo stomaco, in un movimento che strappò sia armatura sia carne, straziandolo cosicché un grande squarcio scarlatto apparve nel nero metallo e l'uomo pianse morendo lentamente e rovesciandosi per un momento sul cavallo prima di scivolare a terra con una gamba sollevata e il piede impigliato nella staffa. Tempestosa lanciò un gran ronzio metallico di piacere: Elric la roteò intorno a sé, massacrando con freddezza i cavalieri come se fossero disarmati e incatenati, senza che avessero possibilità di difendersi. Dyvim Slorm, che non era abituato a un'arma senziente come Luttuosa, cercava d'impugnarla come se fosse stata una spada normale: ma quella si muoveva nella sua mano, vibrando colpi più efficaci. Una bizzarra sensazione di potenza, sensuale e fredda, si riversò in lui: si accorse di gridare per l'esultanza, e comprese cos'erano stati in guerra i suoi antenati. Il combattimento si concluse rapidamente; lasciati al suolo i cadaveri privati dell'anima, giunsero ben presto nella terra di Myyrrhn. Adesso le due lame avevano bevuto sangue insieme. Elric riusciva a pensare e ad agire con maggior coerenza, ma non poteva dedicare l'attenzione a Dyvim Slorm e non chiedeva nulla al cugino, che gli cavalcava al fianco, frustrato perché non veniva richiesto il suo aiuto. Elric lasciò che la sua mente vagasse nel tempo, abbracciando passato presente e futuro in un unico disegno. E quel disegno l'insospettiva, perché ne diffidava. Per lui la vita era caotica, dominata dal caso, imprevedibile. Scorgervi un disegno era un trucco, un'illusione della mente. Sapeva ben poco, e non giudicava. Sapeva di portare una spada di cui aveva bisogno fisicamente e psicologicamente. Era un'immutabile ammissione di debolezza, una mancanza di fiducia in se stesso e nella filosofia della causa e dell'effetto. Elric si considerava realista.
Cavalcavano nella notte tenebrosa, investiti da un vento feroce. E quando si avvicinarono alla valle di Xanyaw, il cielo e la terra e l'aria si riempirono di una musica pulsante. Erano accordi melodiosi, pesanti, sensuali, che crescevano e diminuivano: e seguendo la musica vennero quelli dalla faccia bianca. Ognuno portava un cappuccio nero e una spada che in punta era divisa in tre uncini acuminati. Ognuno sorrideva di un ghigno fisso. La musica li seguì mentre correvano come dementi verso i due uomini, che trattennero i cavalli reprimendo l'impulso di voltarsi e di fuggire. Elric aveva visto molti orrori in vita sua, molte cose che avrebbero tolto il senno ad altri: ma quello spettacolo lo sconvolse più di tutti. Erano uomini, uomini normali a giudicare dal loro aspetto... ma invasati da uno spirito empio. Accingendosi a difendersi, Elric e Dyvim Slorm sguainarono le spade e attesero lo scontro, che però non ci fu. La musica e gli uomini li superarono, e si allontanarono dietro di loro nella direzione da cui erano arrivati. Dall'alto, all'improvviso, udirono un batter d'ali, uno strido dal cielo e un gemito orrendo. Due donne in fuga passarono accanto ai melniboneani: Elric, turbato, vide che appartenevano alla razza alata di Myyrrhn ma che non avevano ali. A differenza di una donna che l'albino ben ricordava, a queste le ali erano state amputate volutamente. Non parvero notare i due cavalieri e scomparvero correndo nella notte, con gli occhi vitrei e l'espressione folle. «Cosa sta succedendo, Elric?» gridò Dyvim Slorm, rinfoderando Luttuosa e cercando con l'altra mano di trattenere il cavallo che scalpitava. «Non so. Cos'accade in un luogo tornato sotto il dominio degli dèi morti?» Tutto era rumore e confusione: la notte era piena di movimento e di terrore. «Vieni!» Elric batté la spada contro la coscia del cavallo, lanciandolo in un galoppo furioso attraverso quella notte tremenda. Poi una risata possente li accolse mentre cavalcavano tra le colline scendendo nella valle di Xanyaw. La vallata era nera come la pece e carica di un'atmosfera di minaccia: perfino le colline sembravano senzienti. Rallentarono l'andatura quando si accorsero di aver perso l'orientamento; Elric dovette chiamare il cugino, che non vedeva, per assicurarsi che gli fosse ancora accanto. La risata echeggiante risuonò di nuovo nella tenebra, scuotendo il suolo. Sembrava che il pianeta ridesse ironicamente dei loro sforzi
per dominare la paura e avanzare attraverso la valle. Elric si chiese se era stato tradito e se quella era una trappola degli dèi morti. Quale prova aveva che Zarozinia fosse lì? Perché si era fidato di Sepiriz? Qualcosa gli guizzò contro la gamba, e lui portò la mano sull'elsa della spada, pronto a sguainarla. Ma poi, scaturendo dalla terra, si levò verso il buio cielo una figura enorme che sbarrava loro il cammino. Con le mani sui fianchi, circonfusa di luce aurea, con un muso scimmiesco stranamente fuso con un'altra forma che le conferiva dignità e grandiosità selvaggia, il corpo vivo e fremente di colori e di luci, le labbra ghignanti di gioia e di consapevolezza... Darnizhaan, il dio morto! «Elric!» «Darnizhaan!» gridò rabbiosamente Elric, alzando la testa per guardare in faccia il dio morto. Adesso non provava più paura. «Sono venuto a riprendere mia moglie!» Intorno ai piedi del dio morto apparvero accoliti dalle labbra tumide e dalla pallida faccia triangolare, con un berretto conico sulla testa e la follia negli occhi. Ridacchiavano e strillavano e rabbrividivano nella luce del bello e grottesco corpo di Darnizhaan. Si rivolsero farfugliando ai due cavalieri, beffandoli, ma non si allontanarono dai talloni del dio morto. Elric ringhiò. «Servi degenerati e miserabili» disse. «Meno miserabili di te, Elric di Melniboné» ribatté ridendo il dio morto. «Sei venuto per lo scambio o per lasciare a me l'anima di tua moglie, affinché possa trascorrere l'eternità morendo?» Elric non permise che l'odio trasparisse sul suo volto. «Vorrei ucciderti: è un istinto, per me. Ma...» Il dio morto sorrise, quasi con pietà. «Tu devi essere ucciso, Elric. Tu sei un anacronismo. Il tuo tempo è finito.» «Parla per te, Darnizhaan!» «Io potrei ucciderti.» «Ma non lo farai.» Sebbene odiasse appassionatamente quell'essere, Elric provava per lui un inquietante senso di cameratismo. Entrambi rappresentavano un'epoca finita: nessuno dei due faceva veramente parte della nuova Terra. «Allora ucciderò lei» disse il dio morto. «Questo posso farlo impunemente.» «Zarozinia! Dov'è?» Ancora una volta, la poderosa risata di Darnizhaan squassò la valle di
Xanyaw. «Oh, a che punto è arrivato il vecchio popolo? C'era un tempo in cui nessun uomo di Melniboné, soprattutto della stirpe reale, avrebbe ammesso di curarsi di un'altra anima mortale, specialmente se apparteneva alla razza delle bestie, la nuova razza dell'epoca che voi chiamate dei Regni Giovani. Come? Ti sei accoppiato con gli animali, re di Melniboné? Dov'è il tuo sangue, il tuo sangue fulgido e crudele? Dov'è la splendida malvagità? Dov'è il male, Elric?» Strane emozioni si agitarono in Elric mentre ricordava i suoi antenati, gli imperatori-stregoni dell'isola del Drago. Sapeva che il dio morto le ridestava volutamente in lui, e con uno sforzo rifiutò di lasciarsi dominare. «Quello è il passato» gridò. «Sulla Terra è venuto un tempo nuovo. Presto il nostro finirà... e il tuo è finito!» «No, Elric. Ricorda le mie parole, qualunque cosa accada. L'alba è finita e presto verrà spazzata via come una foglia morta dal vento del mattino. La storia della Terra non è neppure incominciata. Tu, i tuoi antenati, e perfino gli uomini delle nuove razze, non siete altro che un preludio alla storia. Verrete tutti dimenticati se comincerà la vera storia del mondo. Ma noi possiamo scongiurarlo: possiamo sopravvivere, conquistare la Terra e tenerla, contro i signori della legge, contro il fato stesso, contro l'equilibrio cosmico. Noi possiamo continuare a vivere, ma tu devi darmi le spade!» «Non ti capisco» disse Elric, con le labbra stirate sui denti. «Sono qui per lo scambio, o per liberare mia moglie combattendo.» «Tu non capisci» replicò sghignazzando il dio morto, «perché tutti noi, dèi e uomini, non siamo altro che ombre e recitiamo come marionette prima che incominci il vero dramma. Faresti meglio a non combattermi: schierati con me, invece, perché io conosco la verità. Abbiamo un destino comune. Nessuno di noi esiste. La vecchia schiatta (tu, io e i miei fratelli) è condannata, a meno che tu mi dia le spade. Non dobbiamo lottare tra noi. Condividi una rivelazione spaventosa, la rivelazione che ci ha fatti impazzire tutti. Non c'è nulla, Elric, né passato né presente né futuro. Noi non esistiamo!» Elric si affrettò a scuotere la testa. «Non posso capirti neppure adesso. E non vorrei capirti, anche se lo potessi. Io voglio solo la restituzione di mia moglie, non assurdità sconcertanti!» Darnizhaan rise di nuovo. «No! Non riavrai la donna, se noi non avremo le spade. Tu non ne conosci le proprietà. Non sono state create soltanto per annientarci o esiliarci: il loro destino è di distruggere il mondo qual è ora. Se le terrai ti addosserai la responsabilità di cancellare anche il tuo ricordo
per quelli che verranno dopo di te.» «Ne sarei lieto» disse Elric. Dyvim Slorm taceva, e non concordava completamente con Elric. Le argomentazioni del dio morto sembravano racchiudere la verità. Darnizhaan si scosse, e l'aurea luce danzò estendendosi per un momento. «Tieni le spade e sarà come se nessuno di noi fosse mai esistito» replicò, impaziente. «Così sia.» Il tono di Elric era ostinato. «Credi che io voglia continuare a vivere nel ricordo... il ricordo del male, della rovina e della distruzione? Il ricordo di un uomo dal sangue malaticcio nelle vene... un uomo chiamato Uccisore degli Amici, Uccisore di Donne e con molti altri nomi simili?» Darnizhaan riprese a parlare, incalzante, quasi atterrito. «Elric, sei stato raggirato! Chissà dove, hai ricevuto una coscienza. Devi unirti a noi. Sopravviveremo solo se i signori del caos potranno consolidare il loro regno. Altrimenti verremo annullati.» «Bene!» «Il limbo, Elric! Il limbo! Comprendi cosa significa?» «Non m'importa. Dov'è mia moglie?» Elric scacciò dalla mente la verità, scacciò il terrore che gli incutevano le parole del dio morto. Non poteva permettersi di ascoltare né di comprendere pienamente. Doveva salvare Zarozinia. «Ho portato le spade» disse, «e voglio che mi sia resa la mia consorte.» «Sta bene.» Il dio morto sorrise di sollievo. «Almeno, se terremo le spade lontano dalla Terra, nella loro vera forma, potremo conservare il potere sul mondo. Nelle tue mani potrebbero annientare non soltanto noi ma anche te, il tuo mondo, tutto ciò che tu rappresenti. Le bestie regnerebbero di nuovo sulla Terra per milioni di anni, prima che ricominciasse l'età dell'intelligenza. E sarebbe un'età più scialba di questa. Noi non vogliamo che ciò avvenga. Ma se tu avessi tenuto le spade, sarebbe accaduto quasi inevitabilmente!» «Oh, taci!» esclamò Elric. «Per essere un dio, tu parli troppo. Prendi le spade... e rendimi la mia sposa!» Al comando del dio morto, alcuni accoliti corsero via. Elric vide le loro figure luccicanti sparire nell'oscurità. Attese, nervosamente, fino a quando tornarono trasportando Zarozinia, che si dibatteva. La deposero al suolo: Elric scorse sul suo volto la vuota espressione dello stordimento. «Zarozinia!» La giovane donna girò intorno gli occhi, prima di vedere Elric. Fece per
avviarsi verso di lui, ma gli accoliti la trattennero ridacchiando. Darnizhaan tese due mani gigantesche, luminose. «Prima le spade.» Elric e Dyvim Slorm gliele misero nelle mani. Il dio morto si raddrizzò, stringendo i suoi tesori e prorompendo in una risata ruggente. Zarozinia, lasciata libera, corse a stringere la mano dello sposo, piangendo e tremando. Elric si chinò e le accarezzò i capelli, troppo turbato per parlare. Poi si rivolse a Dyvim Slorm, gridando: «Cugino, vediamo se il nostro piano è efficace...» Levò lo sguardo verso Tempestosa, che fremeva nella stretta di Darnizhaan. «Tempestosa! Kerana soliem, o'glara...» E Dyvim Slorm chiamò Luttuosa nell'Antica Lingua di Melniboné, la mistica favella magica che era stata usata per gettare incantesimi ed evocare demoni in tutti i ventimila anni della storia dell'isola del Drago. Insieme comandarono le spade, come se le stringessero in pugno, e limitandosi a gridare ordini iniziarono la loro opera. Quella era la qualità delle due spade, quando erano appaiate per una causa comune. Le lame si torsero nelle luminose mani di Darnizhaan. Il dio morto arretrò, vacillando, talvolta antropomorfo, talvolta bestiale, talvolta del tutto alieno. Ma era chiaramente inorridito. Le spade si svelsero dalle mani che le stringevano e puntarono su di lui. Darnizhaan lottò contro di loro nel tentativo di scacciarle mentre saettavano nell'aria uggiolando malignamente e trionfalmente e assalendolo con forza rabbiosa. Al comando di Elric, Tempestosa sferrò un fendente contro l'essere soprannaturale e Luttuosa ne seguì l'esempio. Poiché anche le spade stregate erano soprannaturali, Darnizhaan riceveva ferite spaventose ogni volta che lo colpivano. «Elric!» urlò. «Elric... Non sai quello che fai! Fermale! Fermale! Avresti dovuto ascoltare più attentamente quello che ti ho detto. Fermale!» Ma Elric, spinto dall'odio e dal furore, continuò a guidare le spade e le fece piombare nel corpo del dio morto, più e più volte, cosicché la sua figura cominciò a sbiadire e a vacillare e i fulgidi colori si offuscarono. Gli accoliti risalirono la valle, disperdendosi, convinti che il loro signore fosse spacciato. E anche Darnizhaan ne era convinto. Si avventò verso i due cavalieri, e poi il tessuto del suo essere cominciò a lacerarsi sotto l'assalto delle spade: spire della sostanza del suo corpo cominciarono a staccarsi e a fluttuare nell'aria, e vennero inghiottite dalla notte nera. Rabbiosamente, ferocemente, Elric guidò le spade mentre la voce di
Dyvim Slorm si mescolava alla sua in una gioia crudele al veder distruggere l'essere luminoso. «Sciocchi!» urlò Darnizhaan. «Annientando me, annientate voi stessi!» Ma Elric non l'ascoltò, e alla fine non rimase più nulla del dio morto, e le spade tornarono soddisfatte nelle mani dei loro padroni. Con un brivido improvviso, Elric rinfoderò Tempestosa. Poi smontò e aiutò la sposa giovinetta a salire in groppa al grande stallone; quindi balzò di nuovo in sella. Nella valle di Xanyaw c'era un immenso silenzio. CAPITOLO SESTO Tre persone, chine in sella per la stanchezza, raggiunsero diversi giorni dopo l'Abisso di Nihrain. Attraverso i sentieri tortuosi penetrarono nel buio cuore della città, e vennero accolti da Sepiriz, il cui volto aveva un'espressione grave sebbene le sue parole fossero incoraggianti. «Dunque ci sei riuscito, Elric» disse con un lieve sorriso. Elric si soffermò, dopo essere smontato e aver aiutato Zarozinia a scendere. Si girò verso Sepiriz. «Non sono del tutto soddisfatto di questa impresa» replicò cupamente, «anche se ho fatto ciò che dovevo fare per salvare mia moglie. Vorrei parlare con te in privato.» Il nero nihrain annuì. «Dopo aver mangiato» disse, «parleremo da soli.» Si avviarono stancamente per le gallerie e notarono che adesso, nella città, c'era più movimento, sebbene i nove fratelli di Sepiriz non si vedessero. Il nihrain spiegò la loro assenza mentre conduceva Elric e i suoi compagni verso la propria sala. «Quali servitori del fato, sono stati chiamati su un altro piano, dove potranno osservare i diversi futuri possibili della Terra e tenermi informato di quello che devo fare qui.» Entrarono nella sala e trovarono una tavola imbandita; e quando ebbero placato la fame, Dyvim Slorm e Zarozinia lasciarono soli gli altri due. Le fiamme divampavano nel grande focolare. Elric e Sepiriz restarono seduti a lungo senza parlare, aggobbiti sui loro seggi. Alla fine, senza preamboli, Elric riferì a Sepiriz ciò che era accaduto e ciò che rammentava delle parole del dio morto, e ammise che l'avevano turbato: anzi, gli avevano dato addirittura la sensazione che fossero vere. Quando lui ebbe terminato, Sepiriz annuì. «È così» disse. «Darnizhaan diceva la verità. O almeno quasi tutta la verità, così come lui l'intendeva.» «Vuoi dire che presto finiremo di esistere? Che sarà come se non aves-
simo mai respirato e pensato e combattuto?» «È probabile.» «Ma perché? Mi sembra ingiusto.» «Chi ti ha detto che il mondo è giusto?» Elric sorrise, trovando la conferma dei propri sospetti. «Sì: come immaginavo, non c'è giustizia.» «Ma ne esiste un certo tipo» disse Sepiriz. «Una giustizia che va strappata al caos dell'esistenza. L'uomo non è nato in un mondo di giustizia, ma può crearlo.» «D'accordo. Ma a cosa servono tutti i nostri sforzi se siamo condannati a morire insieme ai risultati delle nostre azioni?» «Non è assolutamente così. Qualcosa continuerà. Coloro che verranno dopo, erediteranno qualcosa da noi.» «E cosa?» «Una Terra libera dalle più potenti forze del caos.» «Intendi un mondo libero dalla stregoneria, immagino...» «Non del tutto libero: ma il caos e la stregoneria non domineranno il mondo futuro come dominano quello attuale.» «Allora vale davvero la pena di lottare, Sepiriz» disse Elric, quasi con sollievo. «Ma che parte hanno le spade nello schema delle cose?» «Hanno due funzioni. Una è di liberare questo mondo dalle dominanti fonti del male...» «Ma anche loro sono malefiche!» «Sì. È necessario un male possente, per combattere un male possente. Verrà giorno che le forze del bene potranno sopraffare quelle del male. Adesso non sono ancora abbastanza potenti. Come ti ho detto, è questo il fine per cui dobbiamo lottare.» «E qual è l'altra funzione delle spade?» «Il loro scopo finale: il tuo destino. Ormai posso dirtelo. Devo dirtelo, o lasciare che tu viva ignaro il tuo destino.» «Allora dimmelo» fece Elric, impaziente. «Il loro scopo supremo è di distruggere questo mondo.» Elric si alzò. «Ah no, Sepiriz. Questo non posso crederlo. Dovrò avere sulla coscienza un simile delitto?» «Non è un delitto: è nell'ordine delle cose. L'età dell'Impero Fulgido e perfino quella dei Regni Giovani stanno per finire. Il caos ha formato questa Terra e ha regnato per interi eoni. Gli uomini sono stati creati per porre fine a quel dominio.»
«Ma i miei antenati adoravano le potenze del caos. Il mio demone patrono, Arioch, è un duca dell'inferno, uno dei primi signori del caos!» «Sì. Tu e i tuoi antenati non eravate uomini veri, ma una schiatta intermedia creata per uno scopo preciso. Tu comprendi il caos come nessun uomo vero potrebbe mai capirlo. Tu puoi dominare le forze del caos come gli uomini veri non potrebbero mai fare. E quale manifestazione del campione eterno, tu puoi indebolire le forze del caos perché ne conosci le qualità. E ciò che hai fatto le ha indebolite. Pur adorando i signori del caos, la tua razza è stata la prima a portare sulla Terra un certo ordine. I popoli dei Regni Giovani hanno ereditato questo ordine da voi, e l'hanno consolidato. Ma il caos è tuttora molto più forte. Le spade stregate Luttuosa e Tempestosa, quest'epoca più ordinata, la sapienza acquisita dalla tua razza e dalla mia: tutto contribuirà a creare la base per il vero inizio della storia dell'umanità. È una storia che comincerà solo tra molte migliaia di anni, e prima di evolversi di nuovo l'umanità potrà assumere una forma inferiore, diventare più bestiale: ma quando questo avverrà, potrà evolversi in un mondo privo delle più potenti forze del caos. Avrà una possibilità di lottare. Noi siamo tutti condannati, ma loro non lo saranno.» «Dunque è questo che intendeva Darnizhaan quando ha detto che siamo soltanto marionette e recitiamo la nostra parte prima che incominci il vero dramma...» Elric sospirò profondamente: il peso di quella tremenda responsabilità gli opprimeva l'anima. Non l'accoglieva con gioia, ma l'accettava. Sepiriz disse gentilmente: «È la tua funzione, Elric di Melniboné. Finora la tua vita è stata relativamente priva di significato. Tu hai sempre cercato uno scopo, non è vero?» «Sì» riconobbe Elric con un lieve sorriso. «L'inquietudine mi ha sempre dominato: soprattutto nel tempo trascorso tra il rapimento di Zarozinia e questo istante.» «È logico che sia così» disse Sepiriz, «perché tu hai uno scopo: lo scopo del fato. È questo destino che tu hai intuito in tutti i tuoi giorni di mortale. Tu, ultimo della stirpe reale di Melniboné, devi compiere il tuo destino in tempi molto vicini. Il mondo si va ottenebrando... La natura insorge e si ribella agli abusi dei signori del caos. Gli oceani ribollono e le foreste si squassano, la lava ardente sgorga da mille montagne, i venti urlano di furia e di tormento e i cieli sono pieni di movimento spaventoso. Sulla faccia della Terra i guerrieri sono impegnati in una guerra che deciderà la sorte del mondo, poiché è collegata ai conflitti tra gli dèi. Donne e bambini
muoiono su un milione di roghi funebri, in questo continente. E presto il conflitto si estenderà sulle altre masse continentali. Presto tutti gli uomini della Terra avranno scelto la fazione con cui schierarsi, e il caos potrebbe facilmente vincere. Vincerebbe, anzi, se non ci foste tu e la tua spada, Tempestosa.» «Tempestosa. Mi ha già portato abbastanza tempeste. Forse questa volta potrà placarne una. E se vincesse la legge?» «Se la legge vincesse (e anche questo significherà il declino e la morte per questo mondo) verremo tutti dimenticati. Ma se dovesse vincere il caos... allora la sciagura offuscherebbe l'aria, la sofferenza risuonerebbe nel vento e l'infelicità dominerebbe un mondo sconvolto, un mondo di magia e di odio e di malvagità. È necessario.» «E allora così sia» replicò pacatamente Elric. «E se dev'essere fatto... sia fatto.» «Presto gli eserciti si raduneranno per muovere contro la potenza di Pan Tang. Dovranno essere la nostra prima difesa. Poi faremo appello a te, per compiere il tuo destino.» «Sono disposto a fare la mia parte. Perché, indipendentemente da ogni altra considerazione, sono deciso a far pagare al teocrate gli insulti e le sofferenze che mi ha causato. Anche se forse non è stato lui a istigare il rapimento di Zarozinia, ha aiutato coloro che l'hanno compiuto: e per questo morirà di una lenta morte.» «E allora va': perché ogni momento sprecato gli permette di consolidare l'impero che ha appena conquistato.» «Addio» disse Elric, ansioso più che mai di lasciare Nihrain e di tornare verso terre a lui note. «So che c'incontreremo ancora, Sepiriz, ma mi auguro che sia in tempi più tranquilli.» I tre cavalcavano verso est, verso la costa di Tarkesh, dove speravano di trovare una nave che li portasse oltre il Mare Pallido fino a Ilmiora e da lì a Karlaak, nei pressi della Solitudine Piangente. Cavalcavano i magici destrieri nihrain, noncuranti del pericolo, attraverso un mondo devastato dalla guerra e infelice sotto l'oppressione del teocrate. Elric e Zarozinia si scambiavano molte occhiate, ma erano taciturni in quanto turbati dalla consapevolezza di qualcosa di cui non potevano parlare e che non osavano ammettere. Zarozinia sapeva che non avrebbero avuto molto tempo da trascorrere insieme, quando fossero tornati a Karlaak; vedeva che Elric era angosciato e si angosciava a sua volta, incapace di
comprendere la metamorfosi che si era compiuta nel suo consorte, conscia soltanto che la spada nera al suo fianco non sarebbe più tornata nell'armeria. E sentiva di averlo tradito, sebbene non fosse vero. Quando giunsero in cima a una collina e videro il fumo nero e denso che si levava sulle pianure di Toraunz, un tempo così belle e ora devastate, Dyvim Slorm, alle spalle di Elric e della sua sposa, gridò: «Cugino! Qualunque cosa avvenga, dobbiamo vendicarci del teocrate e del suo alleato.» Elric sporse le labbra. «Sì» disse; e guardò di nuovo Zarozinia, che teneva gli occhi bassi. Le terre occidentali, da Tarkesh a Myyrrhn, erano devastate dai servitori del caos. Sarebbe stato veramente quello il conflitto finale che doveva decidere se la legge o il caos avrebbe dominato il futuro? Le forze della legge erano deboli e disperse. Poteva essere quello, l'ultimo parossismo dei grandi signori del male sulla Terra? Una parte del fato del mondo veniva decisa tra gli eserciti. Le terre gemevano tra i tormenti del sanguinoso conflitto. Quali altre forze. Elric avrebbe dovuto combattere prima di realizzare il suo destino finale e di distruggere il mondo che conosceva? Cos'altro sarebbe accaduto prima che suonasse il corno del fato per annunciare la notte? Sepiriz, senza dubbio, l'avrebbe avvertito quando fosse giunto il momento. Ma intanto c'erano altri conti da regolare. Le terre dell'oriente dovevano prepararsi alla guerra. Era necessario rivolgersi ai signori del mare delle Città Purpuree per chiedere il loro aiuto, i re del sud dovevano unirsi per attaccare il continente occidentale. E ci voleva tempo, per fare tutto questo. Con una parte della mente, Elric era lieto che richiedesse tempo. Ma con una parte del proprio essere era restio a continuare nel suo destino opprimente, perché avrebbe significato la fine dell'età dei Regni Giovani, la morte del ricordo dell'età dell'Impero Fulgido, che i suoi antenati avevano dominato per diecimila anni. Finalmente avvistarono il mare che si estendeva turbolento fino all'orizzonte, a sfiorare un cielo ribollente. Elric udì le grida dei gabbiani e l'odore dell'acqua salmastra gli giunse alle narici. Con un grido selvaggio percosse il fianco del cavallo e scese al galoppo verso il mare...
LIBRO SECONDO I FRATELLI DELLA SPADA NERA In cui Luttuosa ritorna per contribuire a decidere un conflitto fra Elric e i signori del caos... CAPITOLO PRIMO Un giorno ci fu un raduno di re, capitani e condottieri nella pacifica città di Karlaak, in Ilmiora, nei pressi della Solitudine Piangente. Non vennero in grande pompa e con gesti solenni. Vennero cupi e solleciti, rispondendo alla convocazione di Elric, che dimorava ancora a Karlaak con la sua sposa Zarozinia. E si radunarono nella grande sala che un tempo era stata usata dai vecchi sovrani di Karlaak per preparare i piani di guerra. Elric, adesso, l'usava per lo stesso scopo. Illuminata dalle torce, una grande mappa colorata del mondo era spiegata dietro il podio su cui stava Elric. Mostrava i tre principali continenti: dell'est, dell'ovest e del sud. Quello occidentale, che comprendeva Jharkor, Dharijor, Shazar, Tarkesh, Myyrrhn e l'isola di Pan Tang, era ombreggiato di nero, perché ora tutte quelle terre formavano l'impero conquistato dall'alleanza tra Pan Tang e Dharijor, che minacciava la sicurezza dei nobili riuniti a convegno. Alcuni degli uomini in armatura che stavano davanti a Elric erano esuli dei territori occupati, ma erano pochi. Erano pochi anche i compatrioti imrryriani di Elric, che avevano combattuto nella battaglia di Sequaloria ed erano stati sconfitti insieme all'esercito che aveva cercato di opporsi alle forze dell'alleanza maledetta. Alla testa degli imrryriani c'era Dyvim Slorm, il cugino di Elric. Alla cintura, chiusa in un robusto fodero, portava la spada stregata, Luttuosa, gemella della spada di Elric. Era presente anche Montan, signore di Lormyr, insieme agli altri sovrani delle Terre Meridionali: Jerned di Filkhor, Hozel di Argimiliar e Kolthak di Pikarayd, adorni di ferro dipinto, di velluti, di lane e sete multicolori. I signori del mare dell'isola delle Città Purpuree erano abbigliati in modo meno vistoso, con elmi e corazze di semplice bronzo, giubbe, brache, stivali di cuoio naturale, e grandi spade al fianco. I loro volti erano quasi completamente nascosti dalle lunghe chiome e dalla folta barba ricciuta. E tutti quanti, re e signori del mare, tendevano a guardare Elric con so-
spetto, poiché anni prima aveva condotto i loro regali predecessori nell'incursione contro Imrryr... anche se quell'impresa aveva lasciato molti troni disponibili per coloro che adesso li occupavano. In un altro gruppo stavano i nobili di quella parte del continente orientale che si estendeva a ovest del Deserto Sospirante e della Solitudine Piangente. Oltre quei due territori desolati c'erano i regni di Eshmir, Changshai e Okara, ma non c'era nessun legame tra il mondo di Elric e il loro... tranne il piccolo uomo dai capelli rossi che gli stava accanto: il suo amico Maldiluna di Elwher, l'avventuriero orientale. Il reggente di Vilmir, zio del sovrano che aveva dieci mesi, capeggiava l'ultimo gruppo, formato dai senatori delle città-stato di Ilmiora, dall'Arciere Rosso, Rackhir, che rappresentava Tanelorn, e da vari principi-mercanti delle città sotto il protettorato di Vilmir. In quell'assemblea era rappresentata tutta la potenza del mondo. Ma sarebbe stata sufficiente, si chiese Elric, per spazzar via la minaccia delle Terre Occidentali? L'eburneo volto dell'albino era severo e i suoi occhi cremisi erano turbati, mentre si rivolgeva agli uomini che aveva convocato. «Come sapete, miei signori, difficilmente la minaccia di Pan Tang e Dharijor rimarrà limitata al continente occidentale ancora per molto tempo. Sebbene siano trascorsi appena due mesi dalla loro vittoria, stanno già radunando una grande flotta per schiacciare le forze di quei re che si affidano alle proprie navi per vivere e difendersi.» Guardò i signori del mare delle Città Purpuree e i re del continente meridionale. «Noi dell'oriente, a quanto sembra, non siamo considerati pericolosi per i loro piani immediati: se non ci uniamo ora, i nemici avranno maggiori possibilità di successo, sconfiggendo prima le forze navali del sud e poi le città dell'est. Dobbiamo concludere un'alleanza in grado di contrastarli.» «E come sai che sia questo il loro piano, Elric?» Era la voce di Hozel di Argimiliar, un uomo dal volto fiero che, si diceva, andava soggetto a crisi di pazzia, poiché era il discendente di una dozzina di unioni incestuose. «Spie, profughi... e fonti soprannaturali. Tutti hanno riferito le stesse cose.» «Anche senza bisogno d'informazioni, potremmo essere certi che questo è il loro piano» borbottò Kargan Occhiacuti, portavoce dei signori del mare. Guardò in faccia Hozel con un'espressione di disprezzo. «E Jagreen
Lern di Pan Tang potrebbe anche cercare alleati tra i meridionali. Ce ne sono alcuni che sarebbero disposti a capitolare di fronte a un conquistatore straniero, per non perdere la vita e i tesori facilmente guadagnati.» Hozel gli sorrise freddamente. «E ci sono alcuni che i sospetti animaleschi potrebbero indurre a muoversi contro il teocrate solo quando sarà troppo tardi.» Elric si affrettò a intervenire, poiché conosceva l'antico rancore esistente tra i duri signori del mare e i loro vicini: «Ma la cosa peggiore sarebbe se venissero aiutati da dissidi intestini nelle nostre file, fratelli. Hozel: sii certo che io dico la verità e che le mie informazioni sono esatte.» Montan, signore di Lormyr, che aveva capelli e volto e barba sfumati dello stesso grigio, disse in tono altezzoso: «Voi del nord e dell'est siete deboli. Noi del sud siamo forti. Perché dovremmo prestarvi le navi per difendere le vostre coste? Non sono d'accordo con la tua logica, Elric. Non sarebbe la prima volta che ha fuorviato uomini valorosi, portandoli a morte!» «Credevo che avessimo accettato di accantonare i vecchi dissidi!» ribatté Elric, sull'orlo della collera, perché provava ancora rimorso di ciò che aveva fatto. «Sì» aggiunse Kargan. «Un uomo che non sa dimenticare il passato non può fare piani per il futuro. Io dico che la logica di Elric è valida!» «Voi mercanti siete sempre stati troppo avventati con le vostre navi, e troppo creduli quando ascoltate una lingua suadente. Perciò adesso invidiate le nostre ricchezze.» Il giovane Jerned di Filkhor sorrise nella barbetta rada, fissando il pavimento. Kargan s'infuriò. ««Troppo onesti» è l'espressione che avresti dovuto usare, meridionale! I nostri antenati hanno scoperto troppo tardi che le grasse terre del sud li imbrogliavano. I loro avi depredavano le vostre coste, lo ricordi? Forse avremmo dovuto continuare a farlo! Invece abbiamo preso dimora stabile e ci siamo dati al commercio... e voi vi siete riempiti il ventre con i profitti del nostro sudore. Per gli dèi! Non mi fiderei della parola di un meridionale...» Elric fece per interrompere, ma venne interrotto a sua volta da Hozel che disse, spazientito: «La verità è questa: molto probabilmente il teocrate concentrerà i primi attacchi contro l'oriente. E per una ragione molto semplice: le terre dell'est sono deboli, mal difese. E sono più vicine alle coste, quindi più accessibili. Perché dovrebbe rischiare contro le terre del sud, che sono più forti, o tentare una traversata più pericolosa?»
«Perché» rispose freddamente Elric, «le sue navi saranno aiutate dalla magia, e la distanza non conterà nulla. Perché il sud è più ricco e gli fornirà metalli, viveri...» «Navi e uomini!» sibilò Kargan. «Dunque credete che stiamo già meditando un tradimento!» Hozel guardò prima Elric, poi Kargan. «Allora perché ci avete chiamati qui?» «Non ho detto questo» replicò precipitosamente Elric. «Kargan ha espresso il suo pensiero, non il mio. Calmatevi: dobbiamo essere uniti, altrimenti verremo travolti da eserciti superiori e da forze soprannaturali.» «Oh, no!» Hozel si rivolse agli altri monarchi del sud. «Che ne dite, fratelli miei? Dobbiamo prestare navi e guerrieri per difendere le loro coste?» «No, poiché ci disprezzano con tanta ingratitudine» mormorò Jerned. «Lasciamo che Jagreen Lern logori le sue energie contro di loro. Quando si rivolgerà al sud sarà indebolito, e noi saremo pronti a riceverlo!» «Siete pazzi!» esclamò Elric. «Schieratevi con noi, se no periremo tutti! Alle spalle del teocrate ci sono i signori del caos. Se realizzerà le sue ambizioni, non ci sarà semplicemente la conquista di un dominatore umano: tutti noi subiremo gli orrori dell'anarchia totale, sulla Terra e al disopra della Terra. Il genere umano è minacciato!» Hozel lo fissò e sorrise. «E allora che il genere umano si difenda da solo, invece di combattere agli ordini di un comandante inumano. È ben noto che i melniboneani non sono uomini veri.» «Sia come sia.» Elric abbassò la testa e tese la mano bianca e sottile a indicare Hozel. Il re rabbrividì e dovette fare uno sforzo per restare impassibile. «Ma io so ben altro, Hozel di Argimiliar. So che gli uomini dei Regni Giovani sono soltanto i primi abbozzi degli dèi: ombre che precedono la stirpe dei veri uomini, così come noi vi abbiamo preceduti. E so ben di più! So che se non sconfiggeremo Jagreen Lern e i suoi alleati soprannaturali gli uomini verranno spazzati via dalla bollente faccia di un pianeta impazzito, senza realizzare il loro destino!» Hozel deglutì e parlò con voce tremante. «Ho visto altri come te sulle piazze del mercato, Elric. Uomini che profetizzano ogni genere di mali che non si compiono mai, uomini dagli occhi folli come i tuoi. Ma in Argimiliar non li lasciamo vivere: li arrostiamo lentamente, fino a quando ammettono che i loro presagi sono fallaci. E forse ne avremo ancora la possibilità!» Girò sui tacchi e uscì di corsa dalla sala. Per un momento gli altri monarchi meridionali lo seguirono con gli occhi, indecisi.
Elric si affrettò a dire: «Non dategli ascolto, miei signori. Giuro sulla mia vita che ho detto la verità.» Jerned mormorò, quasi parlando a se stesso: «Questo potrebbe significare ben poco. Si dice che tu sia immortale.» Maldiluna si avvicinò all'amico e bisbigliò: «Non sono convinti, Elric. È evidente che non staranno dalla nostra parte.» Elric annuì e si rivolse ai nobili meridionali: «Sappiate questo: anche se rifiutate scioccamente la mia offerta di alleanza, verrà il giorno in cui vi pentirete della vostra decisione. Sono stato insultato nel mio palazzo, i miei amici sono stati insultati: e io vi maledico, per quegli sciocchi che siete. Ma quando verrà il momento in cui vi accorgerete dell'errore commesso, vi giuro che vi aiuteremo, se potremo. Ora andate!» Sconcertati, i meridionali uscirono in silenzio. Elric si rivolse a Kargan Occhiacuti. «Cos'hai deciso, signore del mare?» «Siamo con voi» rispose semplicemente Kargan. «Mio fratello, Smiorgan il Calvo, parlava bene di te: e io ricordo le sue parole, piuttosto che le dicerie seguite alla sua morte nella spedizione comandata da te.» Sorrise. «Inoltre, noi tutti siamo convinti che ogni decisione dei meridionali è sbagliata. Hai come alleate le Città Purpuree; e le nostre navi, sebbene siano meno numerose delle flotte del sud, sono abili e robuste e ben attrezzate per la guerra.» «Devo avvertirti che abbiamo poche possibilità, senza l'aiuto dei meridionali» disse in tono grave Elric. «Credo che sarebbero stati più d'intralcio che d'aiuto, con le loro furberie e le loro beghe» replicò Kargan. «Inoltre... tu non disponi della magia, per assisterci?» «Ho deciso di tentare domani» rispose Elric. «Io e Maldiluna lasceremo qui mio cugino Dyvim Slorm e andremo all'isola degli Incantatori, oltre Melniboné. Là, tra gli eremiti che praticano le arti bianche, potrò trovare un modo per mettermi in contatto con i signori della legge. Come sai, io sono vincolato al caos, sebbene lo combatta, e il mio dio-demone non intende aiutarmi, di questi tempi. Attualmente i sovrani bianchi sono deboli e sconfitti (come lo siamo noi sulla Terra) dalla crescente potenza dei Tenebrosi. È difficile mettersi in contatto con loro. Probabilmente gli eremiti potranno aiutarmi.» Kargan annuì. «Ammetto che sarebbe un sollievo, per noi delle Città Purpuree, sapere di non essere vincolati troppo strettamente agli spiriti delle tenebre.»
Elric aggrottò la fronte. «Sono d'accordo, naturalmente. Ma siamo così deboli che dovremo accettare qualunque aiuto, bianco o nero che sia. Presumo che ci sia una disputa tra i signori del caos, per decidere fino a che punto dovranno spingersi: ecco perché ancora adesso posso contare su un certo aiuto dal caos. La spada che porto al fianco, e quella di Dyvim Slorm, sono entrambe malefiche. Eppure sono state forgiate da creature del caos per porre fine alla dominazione dei signori, almeno su questa Terra. Come la mia fedeltà è divisa, lo è anche quella delle spade. Non abbiamo alleati soprannaturali su cui possiamo contare interamente.» «Mi dispiace per te» disse Kargan in tono burbero, e si vedeva che era sincero. Nessuno poteva invidiare la posizione e il destino di Elric. Organ, il cugino acquisito di Kargan, concluse: «Ora andremo a dormire. Hai piena fiducia nel tuo parente?» Elric guardò Dyvim Slorm e sorrise. «Piena fiducia: lui sa tutto ciò che so io, in questa faccenda. Può parlare a nome mio, poiché conosce i miei piani.» «Benissimo. Domani conferiremo con lui, e se non ti vedremo prima che tu parta fa' del tuo meglio all'isola degli Incantatori.» I signori del mare uscirono. Ora, per la prima volta, parlò il reggente di Vilmir, con voce chiara e serena. «Anche noi abbiamo fiducia in te e nel tuo parente, Elric. Vi conosciamo come guerrieri valorosi e abili strateghi. Vilmir lo sa bene, per le tue imprese in Bakshaan e in altri nostri territori. E noi abbiamo il buonsenso di dimenticare i vecchi conti.» Si rivolse ai principi-mercanti per chiedere la loro conferma, e quelli annuirono. «Bene» disse Elric. Si rivolse all'arciere dal volto aquilino, il suo vecchio amico Rackhir, la cui leggenda uguagliava quasi la sua. «Tu sei venuto come portavoce di Tanelorn. Non sarà la prima volta che combattiamo contro i signori del caos.» «È vero.» Rackhir annuì. «Recentemente abbiamo scongiurato un grave pericolo grazie all'aiuto dei sovrani grigi, ma il caos ha chiuso ai mortali le porte che conducono al loro regno. Possiamo offrirti solo la nostra lealtà di guerrieri.» «Ve ne saremo grati.» Elric camminava avanti e indietro sul podio. Non era necessario interpellare i senatori di Karlaak e delle altre città di Ilmiora perché avevano già accettato di appoggiarlo come potevano, prima ancora che venissero chiamati gli altri sovrani. E lo stesso valeva per il gruppo dei profughi dell'occidente, capeggiato
da Viri-Sek, il giovane alato di Myyrrhn, l'ultimo della sua stirpe poiché tutti gli altri membri della famiglia regnante erano stati sterminati dai servitori di Jagreen Lern. Oltre le mura di Karlaak si estendeva un mare di tende e di padiglioni, sovrastato dalle bandiere di molte nazioni che svettavano torpide nel vento umido e caldo. In quel momento, Elric lo sapeva, gli orgogliosi signori del sud stavano togliendo gli stendardi e smontando le tende, senza guardare gli esausti guerrieri di Shazar, Jharkor e Tarkesh che li fissavano perplessi. La vista di quei veterani avrebbe dovuto indurre i nobili meridionali ad allearsi con l'oriente: ma a quanto pareva, non era così. Elric sospirò e voltò le spalle agli altri per osservare la grande mappa del mondo, con le aree ombreggiate di scuro. «Per ora solo un continente è nero» disse sottovoce a Maldiluna. «Ma la marea tenebrosa dilaga più veloce e sempre più lontano, e presto potrebbe inghiottirci tutti.» «L'argineremo, o tenteremo di farlo, quando verrà» replicò Maldiluna, cercando di mostrarsi disinvolto. «Ma intanto tua moglie ha il diritto di trascorrere un po' di tempo con te, prima della nostra partenza. Andiamo a dormire, e speriamo che i nostri sogni siano lieti!» CAPITOLO SECONDO Due notti dopo, Elric e Maldiluna erano sul molo della città di Jadmar, mentre un vento freddo spirava dal mare. «Eccola» disse Elric, indicando un'imbarcazione che ondeggiava sull'acqua. «È piccola» osservò dubbioso Maldiluna. «Mi sembra appena in grado di tenere il mare.» «Resterà a galla nella tempesta più facilmente di un vascello più grande.» Elric scese la scaletta di ferro. «Inoltre» aggiunse, mentre Maldiluna posava cautamente il piede sul primo gradino, «si noterà meno, e non attireremo l'attenzione delle navi nemiche che incrociano in queste acque.» Spiccò un salto, e la barca dondolò violentemente. Si sporse, si afferrò a uno scalino e tenne ferma l'imbarcazione perché Maldiluna potesse scendere. Il piccolo orientale si passò una mano tra i rossi capelli e alzò gli occhi verso il cielo turbolento. «Brutto tempo, per questa stagione» commentò. «È difficile capire. Da
quando siamo partiti da Karlaak non abbiamo visto altro che tempeste di neve, temporali, grandine e venti caldissimi. E anche quello che abbiamo sentito dire è inquietante: pioggia di sangue a Bakshaan, sfere di metallo rovente cadute dal cielo nella zona occidentale di Vilmir, terremoti senza precedenti a Jadmar poche ore prima del nostro arrivo. Si direbbe che la natura sia impazzita.» «Non sei molto lontano dalla verità» replicò torvo Elric, slegando la cima d'ammarraggio. «Alza la vela: bordeggeremo nel vento.» «Cosa intendi dire?» Maldiluna cominciò a sciogliere la vela, che si gonfiò nascondendolo e smorzando la sua voce. «Le orde di Jagreen Lern non sono ancora arrivate in questa parte del mondo.» «Non è necessario. Ti ho detto che le forze della natura vengono sovvertite dal caos. Noi vediamo solo il riflusso di quello che sta accadendo in occidente. Se queste condizioni meteorologiche ti sembrano strane, resteresti inorridito nel vedere l'effetto che ha il caos sulle parti del mondo in cui domina!» «Mi domando se non ti sei addossato un peso troppo grande, in questa battaglia.» Maldiluna regolò la vela, che si gonfiò e spinse la barca tra i due lunghi muri frangiflutti, verso il mare aperto. Quando superarono i fari che lingueggiavano nel vento freddo, Elric strinse più forte il timone dirigendo verso sudest, oltre la penisola vilmiriana. In cielo, le stelle erano parzialmente oscurate dai brandelli sperduti delle nubi sospinte dal freddo soffio innaturale del vento. La spuma pungente gli spruzzava la faccia, ma l'albino non vi badava. Non aveva risposto a Maldiluna perché lui stesso dubitava di poter salvare il mondo dal caos. Maldiluna aveva imparato a interpretare gli umori dell'amico. Per anni avevano viaggiato insieme per il mondo, e avevano imparato a rispettarsi a vicenda. In tempi più recenti, da quando Elric si era stabilito a Karlaak, nella città di sua moglie, Maldiluna aveva continuato a viaggiare e aveva assunto il comando di una piccola armata di mercenari che pattugliava le marche meridionali di Pikarayd, ricacciando i barbari che popolavano l'entroterra. Aveva subito rinunciato al comando quando gli era giunto il messaggio di Elric; e adesso, mentre la piccola imbarcazione li portava verso un destino nebuloso e gravido di pericoli, assaporava l'abituale miscuglio d'eccitazione e di turbamento che aveva provato già una decina di volte, in passato, quando le loro avventure li avevano posti in conflitto con le ignote
forze soprannaturali strettamente legate al destino di Elric. L'orientale aveva finito con l'accettare che la sua sorte fosse vincolata a quella di Elric, e nella profondità del proprio essere sentiva che quando sarebbe giunta l'ora sarebbero morti insieme in un'impresa colossale. E quella morte era imminente?, si chiese, mentre governava la vela e rabbrividiva tra le raffiche di vento. Non ancora, forse: ma sentiva, fatalisticamente, che non era lontana, perché incombeva il tempo in cui le azioni degli uomini sarebbero state tenebrose, disperate e grandi, e forse non sarebbero state sufficienti a erigere un bastione contro l'assalto delle creature del caos. Elric non pensava a nulla: cercava di mantenere la propria mente serena e distesa. La sua missione per ottenere l'aiuto dei sovrani bianchi sarebbe forse risultata inutile, ma preferiva non pensarci fino a quando avesse saputo con certezza se quell'aiuto si poteva o non si poteva ottenere. L'alba affiorò all'orizzonte mostrando un'ondulata distesa di acqua grigia, senza terre in vista. Il vento era caduto, e l'aria era più calda. Banchi di nubi purpuree venate di zafferano e scarlatto riversavano nel cielo il fumo di una pira mostruosa. Ben presto i due amici presero a sudare sotto un sole cupo, e poiché non c'era vento la vela si muoveva appena; eppure l'oceano cominciava a gonfiarsi come se fosse sferzato dalla tempesta. Il mare si muoveva come un'entità vivente che si dibattesse in un sonno popolato da incubi. Maldiluna, sdraiato a prua, lanciò un'occhiata a Elric, che ricambiò lo sguardo scuotendo la testa e allentando la stretta quasi inconscia sul timone. Era inutile cercare di governare in simili condizioni. La barca veniva trascinata dalle onde impazzite, eppure l'acqua non vi entrava e gli spruzzi non li bagnavano. Era divenuto tutto irreale, onirico, e per lunghi istanti Elric ebbe la sensazione che anche se l'avesse desiderato non sarebbe stato in grado di parlare. Poi, dapprima da lontano, udirono un mormorio sommesso che crebbe e diventò uno strido lamentoso; e all'improvviso la barca venne scagliata sulle onde e poi giù nel vuoto. Sopra di loro l'acqua azzurra e argentea apparve per un momento come una muraglia metallica... e poi precipitò scrosciando verso di loro. Strappandosi ai suoi pensieri, Elric strinse il timone e gridò: «Aggrappati alla barca, Maldiluna! Aggrappati, o sei perduto!» La tiepida acqua piombò ruggendo su di loro, schiacciandoli come una mano gigantesca. La barca continuò a scendere, finché parve che i due sarebbero stati stritolati sul fondo. Poi vennero lanciati di nuovo verso l'alto,
e Elric, mentre intravedeva la superficie ribollente, scorse tre montagne che si ergevano eruttando fiamme e lava. La barca era quasi piena d'acqua, e i due cominciarono freneticamente a sgottare mentre l'imbarcazione roteava avanti e indietro trascinata sempre più vicino ai vulcani appena formati. Elric lasciò cadere la sassola e si buttò con tutto il proprio peso sul timone, per allontanare a forza la barca dalle montagne di fuoco. La barca reagì lentamente, ma cominciò ad andare alla deriva nella direzione opposta. Elric vide che Maldiluna, pallidissimo, cercava di scuotere la vela infradiciata. Alzò la testa per orientarsi, ma il sole sembrava scoppiato: vide solo un milione di frammenti di fiamma. «Questa è l'opera del caos, Maldiluna» gridò, «e credo che sia solo un assaggio di quello che può diventare!» «Devono conoscere il nostro piano, e cercano di fermarci!» Maldiluna si terse il sudore dagli occhi col dorso della mano. «Forse... ma non credo.» L'albino alzò di nuovo lo sguardo, e gli parve che il sole fosse tornato quasi normale. Si orientò, e scoprì che avevano deviato di parecchie miglia dalla rotta. Aveva deciso di navigare a sud di Melniboné, l'isola del Drago, e di evitare il mare del Drago che si estendeva al nord, poiché si sapeva che gli ultimi grandi mostri marini infestavano ancora quelle acque. Ma adesso era evidente che si trovavano a nord di Melniboné e venivano spinti costantemente ancora più a nord, verso Pan Tang. Non c'era possibilità di dirigere verso Melniboné. Elric si chiedeva se l'isola del Drago era sopravvissuta a quei terribili sconvolgimenti. Avrebbe dovuto dirigersi verso l'isola degli Incantatori, se poteva. Adesso l'oceano era un po' più calmo, ma l'acqua era quasi arrivata al punto d'ebollizione: ogni goccia che gli cadeva sulla pelle sembrava scottarlo. Sulla superficie si formavano continuamente bolle, ed era come se navigassero in un gigantesco calderone da streghe. Pesci morti ed esseri simili a rettili andavano alla deriva, fitti come alghe, e minacciavano di ostacolare il passaggio della barca. Ma il vento, sebbene forte, aveva cominciato a soffiare in un'unica direzione, e Maldiluna sogghignò di sollievo quando vide gonfiarsi la vela. Lentamente, sulle acque piene di morte, riuscirono a far rotta per nordovest, verso l'isola degli Incantatori, mentre nubi di vapore si formavano sull'oceano e offuscavano la visibilità.
Molte ore dopo si lasciarono indietro le acque surriscaldate e navigarono sotto il cielo sereno, sul mare calmo. Sonnecchiarono. In meno di un giorno avrebbero raggiunto l'isola degli Incantatori: ma adesso erano presi dalla reazione alla loro esperienza e si chiedevano, un po' storditi, come avevano potuto sopravvivere alla spaventosa tempesta. Elric aprì gli occhi di scatto. Era certo di non aver dormito a lungo, eppure il cielo era scuro e cadeva un'acquerugiola fredda. Quando le gocce gli toccavano la testa e il volto, scorrevano lente come gelatina viscosa. Qualcuna gli scivolò tra le labbra, e lui si affrettò a risputare quel sapore amaro. «Maldiluna» chiamò nella semioscurità. «Sai che ora è?» L'orientale rispose, con la voce appesantita dal sonno: «Non lo so, e giurerei che non è ancora notte.» Elric provò a sospingere il timone... e la barca non reagì. Guardò fuoribordo: sembrava che navigassero nel cielo. Un gas luminescente turbinava intorno allo scafo, ma non gli riusciva di vedere l'acqua. Rabbrividì. Avevano abbandonato i confini della Terra? Stavano veleggiando attraverso uno spaventoso mare soprannaturale? Imprecò contro se stesso perché si era addormentato: si sentiva impotente, più di quando aveva lottato contro la tempesta. La pesante pioggia gelatinosa batteva forte. Elric si tirò il cappuccio sui bianchi capelli ed estrasse dalla scarsella selce ed esca. Quella poca luce bastò appena a mostrargli gli occhi stravolti di Maldiluna. La faccia del piccolo orientale era contratta per la paura. Elric non aveva mai visto una simile espressione di spavento sul volto dell'amico, e comprese che, se non si dominava, anche il suo ne avrebbe assunta una molto simile. «Il nostro tempo è finito.» Maldiluna tremava. «Temo che siamo morti, Elric.» «Non dire sciocchezze, Maldiluna. Non ho mai sentito parlare di un aldilà come questo.» Ma tra sé Elric si domandava se le parole dell'amico erano vere. La nave sembrava muoversi veloce nel mare gassoso, e veniva sospinta o attirata verso una destinazione ignota. Eppure Elric avrebbe giurato che i signori del caos non sapevano nulla della sua barca. La piccola imbarcazione corse sempre più veloce; poi, con sollievo, i due udirono lo sciacquio delle onde intorno alla chiglia e sentirono il movimento beccheggiante dello scafo. Per un po' la pioggia viscosa continuò
a cadere, poi cessò anche quella. Maldiluna sospirò quando la tenebra lasciò lentamente posto alla luce e loro rividero attorno a sé un oceano normale. «Cos'era, allora?» osò chiedere. «Un'altra manifestazione della natura dilaniata» rispose Elric, sforzandosi di mostrarsi calmo. «Una distorsione nella barriera tra il regno degli uomini e il regno del caos, forse? Siamo stati fortunati, a sopravvivere. Siamo di nuovo fuori rotta.» Tese un braccio verso l'orizzonte. «E là si sta preparando una tempesta: naturale, questa volta.» «Posso accettare una tempesta naturale, per quanto sia pericolosa» mormorò Maldiluna; e cominciò in fretta a compiere i preparativi, imbrogliando la vela mentre il vento aumentava e il mare ribolliva. In un certo senso, Elric accolse con gioia la tempesta che li investì. Almeno ubbidiva alle leggi naturali, e la si poteva combattere con mezzi naturali e con l'esperienza di altri uragani del passato. La pioggia rinfrescò i loro volti, il vento agitò i loro capelli: lottarono contro la tempesta con gioia feroce, mentre la barca cavalcava le onde. Ma nonostante tutto, venivano spinti sempre più verso nordest... verso le coste conquistate di Shazar, quasi nella direzione opposta alla loro meta. La tempesta infuriò finché dalle loro menti svanirono tutti i pensieri del destino e del pericolo soprannaturale, i muscoli cominciarono a dolere e i due presero ad ansimare per la violenza delle onde fredde che li investivano. La barca ondeggiava, le mani erano piagate dalla stretta convulsa sul legno e sulle drizze: ma era come se il fato li avesse prescelti per farli vivere, o forse per destinarli a una morte meno pulita, perché continuarono a cavalcare le acque sconvolte. Poi, con orrore, Elric vide le rocce che incombevano davanti a loro, e Maldiluna riconoscendole gridò: «I Denti del Serpente!» I Denti del Serpente sorgevano vicino a Shazar e costituivano uno dei pericoli più temuti dai commercianti dell'occidente, che non usavano allontanarsi dalle coste. Elric e Maldiluna li avevano visti altre volte ma da lontano, e sebbene lottassero per condurre al largo l'imbarcazione sembrava che dovessero proprio finire contro quegli scogli dentati. Un'ondata sollevò la barca e poi la trascinò in basso. Elric si aggrappò alla fiancata e credette di udire il grido di Maldiluna tra il frastuono della tempesta, prima che venissero scagliati verso i Denti del Serpente.
«Addio!» E poi udì il terrificante rumore del fasciame spezzato, sentì il dolore delle rocce aguzze che laceravano il suo corpo, e si trovò sotto le onde. Lottò per risalire alla superficie a respirare un po' d'aria, dopodiché un'altra ondata l'afferrò facendogli strisciare il braccio contro gli scogli. Disperatamente, appesantito dalla spada stregata che gli dava vita, tentò di nuotare verso le torreggianti rupi di Shazar, benché sapesse che anche se fosse vissuto era arrivato in terra nemica e che ormai le possibilità di raggiungere i signori bianchi erano pressoché inesistenti. CAPITOLO TERZO Elric giaceva esausto sulla ghiaia fredda, e ascoltava il suono musicale della marea che si ritraeva sulle pietre. Un altro suono si aggiunse a quello della risacca, e lui lo riconobbe: lo scricchiolio di un paio di stivali. Qualcuno veniva nella sua direzione: e in Shazar, molto probabilmente, era un nemico. Elric rotolò su se stesso e fece per rialzarsi, attingendo alle ultime riserve del suo corpo sfinito. Con la destra aveva sguainato a mezzo Tempestosa prima di accorgersi che Maldiluna, piegato dalla stanchezza, gli stava davanti sogghignando. «Grazie agli dèi sei vivo!» Maldiluna si sedette sui ciottoli e si puntellò con le braccia, guardando il mare che si era calmato e i Denti del Serpente in lontananza. «Sì, siamo vivi» disse Elric, incupito, tornando a sedersi. «Ma non so per quanto lo resteremo, in questa terra devastata. Forse da qualche parte potremo trovare una nave... ma dovremo cercare una città o un paese, e siamo facilmente riconoscibili.» Maldiluna scosse il capo e rise. «Sempre pessimista, amico. Sii lieto d'aver salvato la vita, dico io.» «Questi piccoli colpi di fortuna sono inutili, in un simile conflitto» replicò Elric. «Adesso riposati, mentre io sto di guardia: poi mi darai il cambio. Non c'era tempo da perdere quando abbiamo intrapreso questa avventura, e adesso abbiamo perso parecchi giorni.» Maldiluna non ribatté: si addormentò subito e quando si svegliò, ristorato ma ancora dolorante, diede il cambio a Elric che dormì fino a quando la fulgida luna salì alta nel cielo limpido. Camminarono per tutta la notte: l'erba rada della costa lasciò il posto al suolo bagnato e annerito. Era come se un gigantesco incendio avesse infu-
riato sulla campagna, seguito da un acquazzone che aveva lasciato una palude di cenere. Ricordando le pianure erbose di quella parte di Shazar, Elric inorridì, incapace di comprendere se erano stati gli uomini o le creature del caos a causare quello sfacelo. Il meriggio si stava avvicinando con un accenno di strane perturbazioni nel cielo invaso da nubi colorate, quando videro una lunga fila di gente che si avvicinava. Si nascosero dietro un'altura e spiarono cautamente, mentre il gruppo si accostava. Non erano soldati nemici, ma donne sciupate e bambini magrissimi, uomini laceri e barcollanti e alcuni cavalieri malconci, evidentemente i resti di una banda di partigiani sconfitti che avevano cercato di resistere a Pan Tang. «Credo che qui troveremo amici» mormorò con sollievo Elric. «E forse anche qualche informazione utile.» Si alzarono e andarono incontro a quel gregge d'infelici. I cavalieri si affrettarono a raggrupparsi intorno agli altri e sguainarono le armi, ma prima che venisse lanciata una sfida qualcuno gridò: «Elric di Melniboné! Elric! Sei tornato a portarci l'annuncio della riscossa?» Elric non riconobbe la voce, ma sapeva che il proprio volto dalla pelle eburnea e dagli ardenti occhi cremisi era leggendario. «Sto solo cercando di salvarmi, amici» disse, con gaiezza mal simulata. «Abbiamo fatto naufragio sulle vostre coste mentre compivamo un viaggio che nelle nostre speranze doveva liberare le Terre Occidentali dal giogo di Jagreen Lern, ma se non troveremo un'altra nave avremo ben poche probabilità di riuscire.» «Dov'eravate diretti?» chiese il portavoce del gruppo. «Facevamo vela verso l'isola degli Incantatori, a sudovest, per invocare, se possibile, l'aiuto dei sovrani bianchi» rispose Maldiluna. «Allora andavate nella direzione sbagliata.» Elric raddrizzò le spalle e cercò di scrutare tra la folla per scorgere chi parlava. «Chi sei, tu, per dirci questo?» Ci fu un movimento nel gruppo, e un uomo curvo, di mezza età, appoggiato a un bastone, con lunghi baffi arricciati che ornavano il volto dalla pelle chiara, si fece avanti e si fermò. I cavalieri spostarono i cavalli in modo che Elric potesse vederlo. «Io sono chiamato Ohada il Veggente, un tempo famoso a Dioperda co-
me profeta. Ma Dioperda è stata rasa al suolo durante il sacco di Shazar, e io ho avuto la fortuna di scampare, insieme a questi pochi compagni, tutti provenienti da Dioperda, una delle ultime città cadute davanti al potere magico di Pan Tang. Ho un messaggio importante per te. È per te solo, e l'ho ricevuto da uno che conosci: uno che può aiutare te e indirettamente anche noi.» «Hai suscitato la mia curiosità e ridestato le mie speranze.» Elric fece un cenno. «Vieni, veggente: riferiscimi ciò che hai da dire, e auguriamoci che sia una buona novella.» Maldiluna indietreggiò di un passo quando il veggente si avvicinò. Insieme ai dioperdani, osservò incuriosito mentre Ohada mormorava il suo messaggio a Elric. L'albino dovette sforzarsi per afferrare le parole. «Ti porto il messaggio di un essere chiamato Sepiriz. Dice che ha fatto ciò che tu non hai potuto fare; ma c'è qualcosa che lui non può fare e che dovrai fare tu. Dice di andare alla città scolpita: là ti fornirà altre indicazioni.» «Sepiriz! Come si è messo in contatto con te?» «Sono chiaroveggente. Mi è apparso in sogno.» «Le tue parole potrebbero essere un tranello per condurmi nelle mani di Jagreen Lern.» «Sepiriz mi ha detto un'altra cosa: che ci saremmo incontrati proprio qui. E questo, Jagreen Lern poteva saperlo?» «È improbabile... Ma del resto, chi poteva saperlo?» Poi Elric rammentò che Sepiriz e i suoi fratelli, che l'avevano aiutato in precedenza, erano servitori del fato. E il fato aveva già avuto una parte importante in quella vicenda. Annuì. «Grazie, veggente.» Si rivolse a gran voce ai cavalieri. «Ci occorrono due cavalli, i migliori che avete!» «I nostri cavalli servono a noi» borbottò un cavaliere dall'armatura ammaccata. «Non abbiamo altro.» «Io e il mio compagno abbiamo bisogno di muoverci in fretta, se dobbiamo salvare la vostra terra. Non volete rischiare due cavalli contro la possibilità di vendicarvi dei vostri oppressori?» Il cavaliere smontò, imitato da un altro, e insieme condussero i loro destrieri a Elric e a Maldiluna. «Usali bene, Elric.» L'albino prese le redini e balzò in sella. «Lo farò» promise. «Quali sono
i vostri piani, ora?» «Combatteremo come potremo.» «Non sarebbe più prudente nascondervi tra le montagne o nelle Paludi della Nebbia?» «Se avessi assistito al terrore e alla depravazione dell'immondo governo di Jagreen Lern, non faresti una simile domanda» ribatté il cavaliere, con voce cavernosa. «Anche se non abbiamo speranza di sconfiggere un uomo i cui servitori possono trarre diluvi salmastri dal cielo, far discendere nubi verdi per annientare orrendamente i bambini indifesi, e comandare alla terra di sollevarsi come le acque dell'oceano, ci vendicheremo come potremo! Questa parte del continente è tranquilla, in confronto a ciò che accade altrove. Dovunque si compiono spaventosi mutamenti geologici. Non sapresti riconoscere una collina o una foresta, dieci miglia più a nord. E quelle che hai attraversato un giorno, l'indomani possono essere mutate o scomparse.» «Abbiamo assistito a qualcosa di molto simile durante il nostro viaggio per mare» fece Elric, annuendo. «Ti auguro una lunga vita di vendetta, amico. Anch'io ho conti da regolare con Jagreen Lern e il suo complice.» «Il suo complice? Vuoi dire il re Sarosto di Dharijor?» Un sorriso teso passò sullo scarno volto del cavaliere. «Non potrai vendicarti, di Sarosto: è stato assassinato poco dopo che le nostre forze sono state sconfitte nella battaglia di Sequaloria. Sebbene non ci siano prove, tutti sanno che è stato ucciso per ordine del teocrate, che adesso regna sull'intero continente.» Il cavaliere sospirò. «E chi può opporsi a lungo a capitani come quelli comandati da Jagreen Lern?» «Chi sono questi capitani?» «Ha chiamato a sé tutti i duchi dell'inferno. Non so se accetteranno ancora per molto la sua supremazia. Noi crediamo che la prossima volta toccherà a Jagreen Lern... e che l'inferno scatenato regnerà al suo posto.» «Mi auguro di no» disse a bassa voce Elric. «Perché non voglio essere privato della mia vendetta.» Il cavaliere scrollò le spalle. «Con alleati come i duchi dell'inferno, presto Jagreen Lern dominerà il mondo.» «Spero di trovare un mezzo per sbarazzarmi di quell'aristocrazia tenebrosa e di mantenere la promessa di uccidere Jagreen Lern» disse Elric; poi, con un cenno di ringraziamento al veggente e ai due cavalieri, girò il cavallo verso le montagne di Jharkor, seguito da Maldiluna.
Riposarono ben poco durante la pericolosa cavalcata verso la città montana di Sepiriz perché, come aveva detto il cavaliere, il suolo stesso sembrava vivo, e dovunque infuriava l'anarchia. Elric ricordò poco di quel viaggio tranne una sensazione di orrore assoluto, e il frastuono di empie strida, e colori tenebrosi: oro, rosso, azzurro, nero, e l'arancione fiammeggiante che era dovunque, il marchio del caos sulla Terra. Ma lungo il percorso riferì a Maldiluna il precedente incontro con Sepiriz, e accennò a quello che il signore di Nihrain gli aveva detto del suo destino: gli ultimi discendenti della stirpe reale di Melniboné, Elric e Dyvim Slorm, portavano le spade forgiate dal caos, predestinate a distruggere il regno del caos sulla Terra e a preparare il mondo alla morte e alla rinascita, in un'epoca in cui avrebbe dominato la legge. Maldiluna non replicò: decise comunque di restare al fianco di Elric quando fosse venuto il giorno decisivo, sia che avessero vinto o perso la guerra contro il caos. Nelle zone montuose presso Nihrain videro che il dominio del caos era meno totale che altrove. Sepiriz e i suoi nove fratelli neri, gli ultimi nihrain, esercitavano un certo controllo sulle forze che minacciavano di travolgerli. Tra gole ripide di torreggianti rocce nere, lungo infidi sentieri di montagna, giù per pendii scoscesi dove le pietre sembravano minacciare a ogni passo una frana, i due continuarono a procedere verso il cuore di quell'antico territorio. Erano le più vecchie montagne del mondo, e avevano racchiuso uno dei più antichi segreti della Terra: il dominio degli immortali nihrain che avevano regnato per secoli prima dell'avvento dei melniboneani, il cui Impero Fulgido era durato diecimila anni. E poi, finalmente, giunsero alla Città Scolpita di Nihrain, con i palazzi, i templi e le fortezze intagliati nel granito nero, nascosti nel profondo di una gola che forse era senza fondo. Virtualmente isolata da tutto, tranne il lieve riflesso filtrato della luce del sole, era rimasta immutata fin dai tempi più remoti. Guidarono i riluttanti cavalli giù per gli stretti sentieri finché giunsero a una porta immensa, ornata dalle figure scolpite di titani e di esseri semiumani: Maldiluna represse un'esclamazione e ammutolì, impressionato dal genio che era riuscito a realizzare quelle opere d'ingegneria ciclopica e di arte grandiosa.
Nelle grotte di Nihrain, scolpite a rilievi che rappresentavano scene delle leggende di quel popolo antichissimo, li attendeva Sepiriz, con un sorriso di benvenuto sul volto d'ebano. «Salve, Sepiriz.» Elric smontò e lasciò il cavallo agli schiavi, che lo condussero via. Maldiluna fece altrettanto, un po' incerto e sospettoso. «Sono stato informato esattamente.» Sepiriz posò le mani sulle spalle di Elric. «Ne sono lieto, perché avevo saputo che eravate diretti all'isola degli Incantatori per chiedere aiuto ai sovrani bianchi.» «È vero. Dunque è impossibile ottenerlo?» «Per ora sì. Anche noi stiamo cercando di metterci in contatto con loro, tramite gli eremiti-maghi delle isole, ma finora il caos ha ostacolato i nostri tentativi. Ma c'è una missione per te e per la tua spada, molto più vicina. Venite nella mia stanza a ristorarvi. Abbiamo vino che vi rianimerà; e quando avrete bevuto, ti dirò quale missione ha deciso per te il fato.» Elric posò la coppa e fece un profondo respiro: si sentiva rasserenato e rinvigorito. Indicò la fiasca del vino e disse: «Si potrebbe diventare facilmente schiavi di questa bevanda!» «Io lo sono già» replicò Maldiluna, sorridendo e riempiendosi di nuovo la coppa. Sepiriz scosse il capo. «Il vino di Nihrain ha una strana caratteristica: ha un sapore gradevole e ristora i deboli, ma appena uno ha ritrovato le forze si sente nauseato. Per questo ne abbiamo ancora nelle nostre cantine. Ma la scorta è scarsa: i vitigni da cui veniva ricavato sono scomparsi dalla Terra ormai da molto tempo.» «Una pozione magica» disse Maldiluna, posando la coppa sul tavolo. «Se così ti piace chiamarla. Io e Elric apparteniamo a un'epoca più antica, in cui la magia era normale e il caos regnava, anche se più tranquillamente che adesso. Forse voi dei Regni Giovani avete ragione di detestarlo, perché noi speriamo di preparare il mondo all'avvento della legge: e allora, forse, troveranno bevande simili con metodi più complessi, metodi che comprenderanno meglio.» «Ne dubito» replicò Maldiluna, ridendo. Elric sospirò. «Se non saremo più fortunati di quanto siamo stati finora, presto vedremo il caos scatenato sul mondo e la legge sconfitta per sempre» disse, cupo. «E non ci sarà fortuna per noi se la legge trionferà, eh?» Sepiriz si versò una coppa di vino: evidentemente anche lui doveva essere molto stanco.
«Cosa intendi dire?» chiese incuriosito Maldiluna. Sepiriz gli spiegò che lui e Elric, sebbene combattessero il caos, appartenevano a un mondo in cui il caos predominava. Nel mondo in cui speravano, il mondo dominato dalla legge, non ci sarebbe stato posto per quelli come loro. Maldiluna si voltò a scrutare Elric: adesso comprendeva meglio la poco invidiabile posizione dell'amico. «Sepiriz» fece l'albino, «avevi detto che c'è una missione per me e per la mia spada. Quale?» «Senza dubbio avrai già saputo che Jagreen Lern ha chiamato i duchi dell'inferno a capitanare i suoi uomini e a tenere sotto controllo le terre conquistate.» «Sì.» «Capisci cosa significa? Jagreen Lern è riuscito ad aprire una breccia nella barriera eretta dalla legge, che finora ha impedito alle creature del caos di dominare completamente il pianeta. Via via che il suo potere aumenta, lui allarga la breccia. Questo spiega come mai ha potuto radunare una schiera così poderosa della nobiltà dell'inferno mentre in passato era difficile portarne anche uno solo sul nostro piano. Tra loro c'è Arioch...» «Arioch!» Arioch era il patrono di Elric, il principale dio venerato dai suoi antenati. «Allora io sono ormai un reietto, senza protezione né della legge né del caos.» «La tua unica alleata soprannaturale è la tua spada» disse cupamente Sepiriz. «E forse i suoi fratelli.» «Quali fratelli? C'è solo una spada gemella, Luttuosa, e l'ha Dyvim Slorm.» «Ricordi quello che ti ho detto? Le spade gemelle sono soltanto le manifestazioni terrene delle loro entità soprannaturali» disse calmo il nihrain. «Sì.» «Bene, ora posso dirti che il vero essere di Tempestosa è collegato ad altre forze soprannaturali su un altro piano. So come evocarle: ma anche loro sono creature del caos, e quindi, per quanto ti riguarda, molto difficili da controllare. Potrebbero sfuggirti di mano... e addirittura rivoltarsi contro di te. Tempestosa, come hai scoperto in passato, è legata a te da vincoli ancora più forti di quelli che l'uniscono ai suoi fratelli; ma i suoi fratelli sono più numerosi, e Tempestosa potrebbe non essere in grado di proteggerti contro di loro.» «Perché non l'ho mai saputo?»
«Lo sapevi, in un certo senso. Ti ricordi quelle volte in cui hai chiesto aiuto e l'aiuto è giunto?» «Sì. Vuoi dire che a darmelo erano i fratelli di Tempestosa?» «Infatti. Sono già abituati a venire in tuo aiuto. Non sono ciò che tu e io definiremmo dotati d'intelligenza, benché siano senzienti, e perciò non sono vincolati al caos quanto i suoi servitori provvisti di ragione. Possono essere dominati, in una certa misura, da chi, come te, ha potere su una delle loro sorelle. Se ti occorre il loro aiuto, dovrai ricordare una formula magica che ti rivelerò più tardi.» «E qual è la mia missione?» «Annientare i duchi dell'inferno.» «Ma è impossibile! Costituiscono una delle più potenti fazioni dell'intero regno del caos!» «È vero. Ma tu possiedi una delle armi più potenti. Questa è la tua missione. Già si hanno indizi che i duchi-demoni hanno tolto a Jagreen Lern parte del suo potere. Il teocrate rifiuta ancora di rendersi conto che è solo una marionetta nelle mani del caos, e crede di poter dominare la potenza soprannaturale dei duchi. Ma è cosa certa che con simili amici Jagreen Lern potrà sconfiggere le Terre Meridionali sacrificando ben pochi uomini e pochi mezzi. Senza di loro potrebbe riuscirci... ma sarebbero necessari sforzi ben più grandi, e molto più tempo: perciò noi avremmo un certo respiro per prepararci a combatterlo, mentre assoggetta i regni del sud.» Elric non chiese a Sepiriz come mai era a conoscenza della decisione dei meridionali, che avevano scelto di combattere da soli contro Jagreen Lern. Era evidente che Sepiriz aveva molti poteri: e l'aveva dimostrato mettendosi in contatto con lui tramite il veggente. «Io ho giurato di aiutare le Terre Meridionali sebbene abbiano rifiutato di schierarsi al nostro fianco contro il teocrate» replicò con calma. «E manterrai il giuramento: annientando i duchi dell'inferno, se ci riuscirai.» «Annientare Arioch e Balan e Maluk...» Elric bisbigliò quei nomi, quasi temendo di evocarli. «Arioch è sempre stato un demone intrattabile» osservò Maldiluna. «Molte volte, in passato, ha rifiutato di aiutarti.» «Perché» disse Sepiriz, «già intuiva che tu e lui vi sareste scontrati in futuro.» Sebbene il vino gli avesse ristorato il corpo, Elric si sentiva indolenzito in vari modi. La tensione, nella sua anima, era vicina al punto di rottura.
Combattere il dio-demone che i suoi antenati avevano adorato per millenni... L'antico sangue era ancora forte, in lui, le antiche fedeltà non si erano del tutto offuscate. Sepiriz si alzò e strinse la spalla dell'albino, fissando gli occhi neri in quelli cremisi e ardenti. «Ti sei votato a questa missione, ricordalo.» Elric si raddrizzò e annuì distrattamente. «Sì: e anche se avessi saputo questo prima d'impegnarmi, l'avrei fatto. Ma...» «Che cosa?» «Non ho molta fiducia nella mia capacità di riuscirci.» Il nero nihrain non disse nulla. Più tardi lasciò Elric ai suoi pensieri, e ritornò portando una tavoletta bianca su cui erano incisi antichi simboli. La porse all'albino, che la prese senza pronunciare parola. «Impara a memoria l'incantesimo» disse a bassa voce Sepiriz. «E poi distruggi la tavoletta. Ma ricorda: usalo solo in caso di estrema necessità perché, come ti ho detto, i fratelli di Tempestosa potrebbero rifiutare di aiutarti.» Con uno sforzo, Elric dominò l'emozione. Per lungo tempo dopo che Maldiluna fu andato a riposare studiò l'incantesimo, imparando non solo la pronuncia ma anche le tortuosità logiche che doveva comprendere e lo stato d'animo in cui doveva porsi per assicurarsi che fosse efficace. Quando lui e Sepiriz furono soddisfatti, Elric si lasciò condurre da uno schiavo alla sua stanza da letto: ma faticò ad addormentarsi e trascorse la notte in un tormento irrequieto finché uno schiavo venuto a svegliarlo all'indomani mattina lo trovò già vestito e pronto a partire per Pan Tang, dov'erano radunati i duchi dell'inferno. CAPITOLO QUARTO Attraverso le terre devastate dell'occidente cavalcavano Elric e Maldiluna, in groppa ai poderosi destrieri di Nihrain che sembravano non aver bisogno di riposo e non avevano paura di nulla. I cavalli di Nihrain erano un dono speciale, poiché avevano altri poteri oltre alla forza e alla resistenza soprannaturali. Sepiriz aveva spiegato che in realtà quegli stalloni non esistevano interamente sul piano terrestre, e che i loro zoccoli non toccavano il suolo nel senso stretto della parola ma toccavano la sostanza dell'altro
piano. E questo conferiva loro la capacità di galoppare apparentemente nell'aria... o sull'acqua. Dovunque si vedevano scene di terrore. A un certo punto videro da lontano uno spettacolo spaventoso, una folla scatenata e diabolica che distruggeva un villaggio eretto intorno a un castello. Anche il castello era in fiamme, e all'orizzonte una montagna vomitava fumo e fuoco. Sebbene i saccheggiatori avessero forme umane, erano creature degenerate che versavano il sangue e lo bevevano con uguale abbandono. E li comandava, senza partecipare all'orgia, qualcosa che sembrava un cadavere, sullo scheletro vivente di un cavallo, parato di vesti vivaci, con una spada fiammeggiante in pugno e un elmo aureo sul capo. Elric e Maldiluna aggirarono il villaggio e se ne allontanarono al galoppo, passando tra nebbie che avevano aspetto e odore di sangue, oltre fiumi ostruiti da cadaveri, oltre foreste fruscianti che parevano inseguirli, sotto cieli spesso invasi da orrende forme alate che trasportavano fardelli ancor più orrendi. Talvolta incontravano gruppi di guerrieri, molti dei quali portavano le armature e le insegne delle nazioni sconfitte ma erano chiaramente venduti al caos. Loro li combattevano o li evitavano, a seconda delle circostanze; e quando finalmente raggiunsero le scogliere di Jharkor e videro il mare che li avrebbe portati all'isola di Pan Tang erano consapevoli di aver attraversato una terra che era diventata alla lettera un inferno. Senza fermarsi spinsero i cavalli sull'acqua, verso l'isola maledetta di Pan Tang, dove Jagreen Lern e i suoi terribili alleati si preparavano a salpare con la loro colossale flotta per schiantare la potenza navale dei meridionali prima d'invadere le loro terre. «Elric!» chiamò Maldiluna nel vento lamentoso. «Non dovremmo procedere con maggiore prudenza?» «Prudenza? Che bisogno c'è, quando i duchi dell'inferno sanno sicuramente che il loro servo traditore sta arrivando per combatterli?» Maldiluna strinse le labbra, turbato, perché Elric era in preda a una furia quasi demenziale. E lo tranquillizzava ben poco il pensiero che Sepiriz aveva stregato le sue due lame, quella corta e la sciabola, con uno dei pochi incantesimi bianchi di cui disponeva. Ormai si scorgevano le tetre scogliere di Pan Tang, minacciose e sferzate dagli spruzzi, e il mare gemeva intorno all'isola come se fosse preda dei tormenti inflitti dal caos alla natura.
E intorno all'isola aleggiava una bizzarra oscurità, mutevole e cangiante. Si addentrarono in quell'oscurità quando i destrieri di Nihrain salirono la ripida spiaggia rocciosa di Pan Tang, un luogo che era sempre stato dominato dai sacerdoti neri, da una tenebrosa teocrazia che aveva cercato di emulare i leggendari re-stregoni dell'Impero Fulgido di Melniboné. Ma Elric, ultimo di quella stirpe e ormai senza regno e con ben pochi sudditi, sapeva che le arti magiche erano state un patrimonio naturale e legittimo dei suoi avi, mentre gli esseri umani di Pan Tang si erano pervertiti adorando un'empia gerarchia che non comprendevano. Sepiriz aveva indicato loro il percorso; attraversarono la terra turbolenta, verso la capitale: Hwangaarl, la Città delle Statue Urlanti. Pan Tang era un'isola di ossidiana verde e lucente che irradiava riflessi bizzarri, una roccia che sembrava viva. Ben presto scorsero in lontananza le mura di Hwangaarl. Quando si avvicinarono, parve levarsi dal suolo un esercito di spadaccini incappucciati di nero che cantilenavano un'orrida litania. Elric non aveva tempo da perdere con costoro. Li aveva riconosciuti: erano un distaccamento dei sacerdoti-guerrieri di Jagreen Lern. «Su, destriero!» esclamò, e il cavallo di Nihrain balzò nell'aria, superando i sacerdoti con un salto fantastico. Maldiluna lo imitò, ridendo beffardo mentre insieme al compagno avanzava tuonando verso Hwangaarl. Per un tratto la strada era sgombra, perché evidentemente Jagreen Lern aveva calcolato che il distaccamento di sacerdoti-guerrieri sarebbe riuscito a trattenere i due almeno per un certo tempo. Ma quando arrivarono a meno di un miglio dalla Città delle Statue Urlanti, il suolo cominciò a rombare e a lacerarsi in lunghi crepacci. Ma i cavalli di Nihrain non avevano bisogno del terreno per procedere. Il cielo parve squassarsi e sollevarsi, la tenebra fu percorsa da striature di luminoso ebano, e dai crepacci del suolo scaturirono forme orrende. Leoni dalla testa d'avvoltoio, alti cinque braccia, si aggiravano famelici, muovendo verso di loro e facendo frusciare le criniere piumate. Maldiluna si sentì invadere dallo sgomento quando Elric rise, e pensò che il suo amico era impazzito. Ma Elric conosceva quel branco demoniaco, poiché erano stati i suoi antenati a crearlo una decina di secoli addietro. Evidentemente Jagreen Lern aveva scoperto quel branco in agguato ai confini tra il caos e la Terra e se ne era servito senza sapere come fosse stato creato.
Parole antichissime presero forma sulle pallide labbra di Elric: il tono con cui si rivolse alle belve mostruose era quasi di affetto. I leoni-avvoltoi smisero di avanzare verso di lui e si guardarono intorno, incerti, divisi nelle loro fedeltà. Le code piumate si agitarono sferzanti, gli artigli uscirono e rientrarono dalle guaine delle zampe, squarciando la roccia con enormi scalfitture. Approfittando di quell'incertezza, Elric e Maldiluna spinsero al passo i destrieri in mezzo ai mostri e uscirono dall'altra parte del branco proprio nell'istante in cui una voce cantilenante ma carica d'ira risuonò dal cielo, ordinando nell'Alta Lingua di Melniboné: «Annientateli!» Un leone-avvoltoio balzò incerto verso di loro. Poi un altro lo seguì, e un altro ancora, finché l'intero branco si scatenò per catturarli. «Più svelto!» mormorò Elric al cavallo di Nihrain: ma il destriero riusciva appena a mantenere le distanze. Non c'era altro da fare che voltarsi per fronteggiarli. Dai profondi recessi della memoria, Elric trasse il ricordo di un incantesimo che aveva appreso nell'infanzia. Suo padre gli aveva trasmesso tutti gli antichi incantesimi di Melniboné, avvertendolo che in quei tempi molti erano virtualmente inutili. Ma ce n'era uno, l'incantesimo per evocare i leoni dalla testa d'avvoltoio; e un altro... Adesso lo ricordava! L'incantesimo per rimandarli nel regno del caos. Sarebbe servito a qualcosa? Si frugò nella mente e cercò le parole mentre le belve si avventavano verso di lui. Creature! Marik di Melniboné vi formò con la sostanza della follia informe! Se volete restar quali ora siete, andate o la magia vi annienterà! I mostri si fermarono; disperatamente, Elric ripeté l'incantesimo, temendo di aver compiuto un piccolo errore con la mente o con le parole. Maldiluna, che aveva arrestato il cavallo al suo fianco, non osava esprimere le proprie paure, perché sapeva che non doveva disturbare l'albino mentre operava i suoi sortilegi. Rimase a guardare, trepidante, mentre il primo dei mostri lanciava un ruggito. Ma Elric udì con sollievo quel suono: significava che le belve avevano compreso la minaccia ed erano ancora obbligate a ubbidire all'incantesimo.
Lentamente, quasi con riluttanza, si trascinarono a una a una verso i crepacci e scomparvero. Madido di sudore, Elric disse trionfante: «Finora la fortuna è con noi! Jagreen Lern aveva sottovalutato i miei poteri, oppure con i suoi non poteva evocare nient'altro! E questo conferma, forse, che è il caos a servirsi di lui, non viceversa!» «Non tentare la fortuna parlandone» replicò cauto Maldiluna. «A quanto mi hai detto, queste sono cose da poco in confronto a ciò che dovremo affrontare tra breve.» Elric lanciò uno sguardo incollerito all'amico e annuì seccamente. Preferiva non pensare alla missione che l'attendeva. Si avvicinarono alle ciclopiche mura di Hwangaarl. A intervalli, lungo i bastioni inclinati verso l'esterno per ostacolare gli eventuali assalitori, videro le statue urlanti: ex uomini e donne, che Jagreen Lern e i suoi antenati avevano trasformato in pietra lasciando loro la vita e la capacità di parlare. Parlavano poco ma urlavano molto: le loro tremende grida scuotevano la città come le voci dei dannati... ed erano veramente dannati. Quelle ondate di suono sconvolgente inorridirono perfino Elric, che pure era abituato a molti orrori. Poi un altro rumore si fuse con le urla quando la poderosa saracinesca della porta principale di Hwangaarl salì cigolando e ne uscì un esercito di uomini armati. «Evidentemente i poteri stregoneschi di Jagreen Lern sono esauriti, per il momento, e i duchi dell'inferno non si degnano di unirsi a lui per combattere due mortali!» esclamò Elric, posando la destra sull'elsa della nera spada che gli pendeva al fianco. Maldiluna era ammutolito. Senza una parola sguainò le sue due lame incantate, conscio di dover combattere e vincere le proprie paure prima di scontrarsi con gli uomini che correvano verso di lui. Con un ululato selvaggio che sommerse le urla delle statue, Tempestosa uscì dal fodero nella stretta di Elric, pregustando le anime che avrebbe bevuto e l'energia che avrebbe trasmesso al suo padrone per saturarlo di una tenebrosa vitalità rubata. Elric rabbrividì al contatto della spada contro il palmo della mano sudaticcia. Ma gridò ai soldati che avanzavano: «Guardate, sciacalli! Guardate la spada! Forgiata dal caos per sconfiggere il caos! Venite, lasciate che beva
le vostre anime e versi il vostro sangue! Vi aspettiamo!» Non attese oltre: seguito da Maldiluna, spronò il cavallo di Nihrain tra le file dei nemici, falciandoli con uno slancio che gli ricordava la feroce gioia di un tempo. Era così legato simbioticamente alla spada infernale che adesso lo invase una famelica gioia di uccidere, l'esultanza della lama che rubava le anime e trasfondeva nelle sue fiacche vene una turbinosa ed empia vitalità. Sebbene fossero più di cento i guerrieri che bloccavano il percorso verso la porta ancora aperta, si aprì un varco sanguinoso; e Maldiluna, contagiato dalla sua furia, massacrava tutti gli avversari che cercavano di attaccarlo. Sebbene fossero rotti a ogni orrore, ben presto i soldati non trovarono più il coraggio di avvicinarsi all'urlante spada stregata che splendeva di un fulgore strano, di una luce nera che trapassava la tenebra. Ridendo nel suo folle trionfo, Elric provava la gioia crudele che dovevano aver conosciuto i suoi antenati quando avevano conquistato il mondo costringendolo a prosternarsi davanti all'Impero Fulgido. Il caos combatteva veramente il caos: ma era il caos di un tipo più antico e più puro, venuto a distruggere gli arrivisti depravati che si credevano potenti come i sovrani-draghi di Melniboné! Una breccia sanguinosa si era aperta nei ranghi nemici, e i due avanzarono finché la porta fu davanti a loro, spalancata come le fauci di un mostro. Senza fermarsi, Elric la varcò ridendo; e la gente fuggì a nascondersi quando lui entrò, nel suo bizzarro trionfo, nella Città delle Statue Urlanti. «E adesso?» domandò Maldiluna, ansimando. Ora non aveva più paura. «Al tempio-palazzo del teocrate, naturalmente. È là che senza dubbio ci attendono Arioch e gli altri duchi dell'inferno!» Galopparono per le echeggianti vie della città, fieri e terribili come se fossero seguiti da un fedele esercito. Gli scuri edifici torreggiavano intorno a loro, ma nessuno osava sbirciare dalle finestre. Pan Tang aveva deciso di dominare il mondo, e forse poteva ancora riuscirvi: ma in quel momento i suoi abitanti erano completamente demoralizzati dalla vista di due uomini che da soli espugnavano la loro capitale. Arrestarono i cavalli quando giunsero nell'immensa piazza e videro l'immane sepolcro bronzeo che oscillava al centro, appeso alle catene. Più oltre s'innalzava il palazzo di Jagreen Lern, tutto colonne e torri, minaccio-
samente silenzioso. Anche le statue avevano smesso di urlare, e gli zoccoli dei cavalli non facevano rumore mentre Elric e Maldiluna si avvicinavano al sepolcro. La spada stregata, arrossata di sangue, era ancora stretta nel pugno di Elric: la levò in un fendente poderoso contro le catene che reggevano il sepolcro, l'oggetto più sacro di quel luogo empio. La lama soprannaturale morse il metallo e tranciò gli anelli. Lo schianto con cui il sepolcro cadde e si sfasciò venne ingigantito mille volte dal silenzio: echeggiò in tutta Hawngaarl, e gli abitanti ancora vivi compresero cosa significava. «Così io ti sfido, Jagreen Lern!» gridò Elric, sapendo che anche quelle parole sarebbero state udite da tutti. «Sono venuto a saldare il conto come avevo promesso! Vieni, burattino!» Indugiò: neppure il suo trionfo bastava a reprimere completamente l'inquietudine per ciò che stava per dire. «Vieni! Porta con te i duchi dell'inferno...» Maldiluna deglutì, osservando a occhi sbarrati il volto contratto di Elric. L'albino continuò: «Porta Arioch, e Balan, e Maluk! Porta gli orgogliosi principi del caos, perché sono venuto a rimandarli per sempre nel loro regno!» Il silenzio seguì la sua sfida: Elric udì gli echi spegnersi negli angoli più remoti della città. Poi, dall'interno del palazzo, udì un movimento. Il cuore gli batté contro le costole, come se volesse spezzare le ossa e balzargli pulsante dal petto a prova della sua mortalità. Udì uno scalpitio di zoccoli mostruosi, e passi misurati che dovevano essere di un uomo. I suoi occhi si girarono verso i grandi battenti aurei della porta del palazzo, seminascosti dall'ombra delle colonne. La porta cominciò a schiudersi in silenzio. Poi una figura, che sembrava più piccola al confronto dei giganteschi battenti, uscì e si fermò, guardando Elric con una collera terribile che sfolgorava negli occhi. L'armatura scarlatta sembrava rovente. Il braccio sinistro portava uno scudo dello stesso metallo, e la destra stringeva una spada d'acciaio. Jagreen Lern disse, con voce tremula di rabbia: «Dunque, re Elric, hai mantenuto una parte della tua promessa, dopotutto.»
«E intendo mantenerla fino in fondo» replicò Elric, improvvisamente calmo. «Fatti avanti, teocrate. Ci scontreremo lealmente a singolar tenzone.» Jagreen Lern proruppe in una risata cavernosa. «Lealmente? Con quella spada? Una volta l'ho incontrata e non sono perito; ma adesso arde del sangue e delle anime di venti dei miei sacerdotiguerrieri più valorosi, e non sarò tanto sciocco. No: affronta quelli che hai sfidato.» Il teocrate si scostò. I battenti si spalancarono: e se Elric si era aspettato di veder apparire figure gigantesche, restò deluso. I duchi avevano assunto forme umane. Ma da loro s'irradiava una potenza che saturava l'aria. Senza badare a Jagreen Lern, si fermarono sull'ultimo gradino della scalinata. Elric vide quei bellissimi volti sorridenti e rabbrividì di nuovo, perché su quei volti c'erano tanto amore, tanto orgoglio e tanta fiducia che per un istante l'invase l'impulso di balzare dal cavallo e di gettarsi ai loro piedi supplicandoli di perdonarlo per essere diventato ciò che era. «Ebbene, Elric» disse a bassa voce Arioch, che stava alla testa del gruppo. «Sei disposto a pentirti e a tornare a noi?» La voce era bellissima, argentina, e Elric accennò quasi a smontare. Ma poi si coprì gli orecchi con le mani, mentre la nera spada pendeva dal suo polso appesa al cinghiolo, e gridò: «No! No! Devo fare ciò che devo! Il tuo tempo, come il mio, è finito!» «Non parlare così, Elric» replicò in tono suadente Balan, e le sue parole oltrepassarono la barriera e sussurrarono nella mente dell'albino. «Il caos non è mai stato così potente sulla Terra, neppure nei giorni primordiali. Noi ti faremo grande: faremo di te un signore del caos, nostro pari! Ti doneremo l'immortalità, Elric. Se continuerai a comportarti così scioccamente, troverai soltanto la morte e nessuno ti ricorderà.» «Lo so! E non vorrei essere ricordato in un mondo governato dalla legge!» Maluk rise sommessamente. «Questo non avverrà mai. Noi blocchiamo ogni mossa che la legge compie per portare aiuto alla Terra.» «Ed è per questo che dovete essere annientati!» gridò Elric. «Noi siamo immortali: niente può ucciderci» disse Arioch, e nella sua voce c'era una sfumatura d'impazienza. «Allora vi ricaccerò nel caos, in modo che non abbiate mai più potere
sulla Terra!» Elric strinse di nuovo in pugno la spada, che fremette gemendo fievole come se fosse insicura quanto lui. «Guarda!» Balan scese qualche gradino. «Guarda: anche la tua fida spada sa che diciamo la verità.» «Voi dite un tipo di verità» intervenne Maldiluna, con voce tremante, stupito della propria audacia. «Ma io ricordo una verità più grande, una legge che dovrebbe vincolare il caos e la legge: la legge dell'equilibrio. Lo spirito supremo tiene quell'equilibrio sulla Terra, e la guerra tra caos e legge dovrebbe conservarlo. Qualche volta un piatto della bilancia pende da una parte, qualche volta dall'altra... e così si creano le epoche della Terra. Ma uno squilibrio così immane è iniquo. Nella vostra lotta, forse voi del caos l'avete dimenticato!» «L'abbiamo dimenticato per una buona ragione, mortale. L'equilibrio si è alterato in nostro favore e non lo si può più ristabilire. È il nostro trionfo!» Elric di Melniboné approfittò di quella breve pausa per raccogliere i pensieri. Sentendo rinnovarsi la sua forza, Tempestosa reagì ronzando fiduciosa. Anche i duchi dell'inferno lo sentirono, e si scambiarono occhiate. Il bellissimo volto di Arioch balenò di collera e il suo pseudocorpo scese la scalinata, verso Elric, seguito dagli altri duchi. Il destriero di Elric indietreggiò di qualche passo. Una folgore di fuoco vivo apparve nella mano di Arioch, che la scagliò verso l'albino. Elric avvertì un dolore gelido nel petto e barcollò sulla sella. «Il tuo corpo non è importante, Elric. Ma pensa a un colpo uguale contro la tua anima!» urlò Arioch, abbandonando la maschera della pazienza. Elric rovesciò all'indietro la testa e rise. Arioch si era tradito. Se avesse conservato la calma avrebbe avuto un vantaggio; ma adesso aveva rivelato il suo turbamento, nonostante tutto ciò che aveva detto in contrario. «Arioch, tu mi hai aiutato più volte. Te ne pentirai!» «Ho ancora tempo per porre rimedio alla mia follia, mortale insolente!» Un'altra folgore saettò verso di lui, ma Elric levò Tempestosa e vide con sollievo che la lama faceva deviare quell'arma infernale. Ma contro una simile potenza erano senza dubbio spacciati, a meno che potessero invocare un aiuto soprannaturale. Ma Elric non osava chiamare i fratelli della Spada Nera. Non ancora. Doveva pensare a qualche altro mezzo. Mentre arretrava davanti alle folgori, e Maldiluna alle sue spalle bisbi-
gliava inutili incantesimi, Elric ripensò ai leoni-avvoltoi che aveva ricacciato nel caos. Forse poteva richiamarli, per uno scopo diverso. L'incantesimo era chiaro nel suo ricordo, adesso: bastava mutare appena lo stato mentale e le parole. Con calma, mentre si muoveva meccanicamente per deviare le folgori dei duchi, i cui lineamenti erano mutati in modo orribile conservando la loro bellezza ma assumendo un aspetto sempre più malevolo, proferì l'incantesimo. Creature! Marik di Melniboné vi formò con la sostanza della follia informe! Se volete vivere, aiutatemi ora, venite, o la magia vi annienterà! Dalle ondeggianti ombre della piazza apparvero le belve rostrate. Elric gridò ai duchi dell'inferno: «Le armi mortali non possono farvi nulla! Ma queste sono bestie del vostro piano: assaporate la loro ferocia.» E ordinò ai leoni-avvoltoi di attaccare. Sbigottiti, Arioch e i suoi compagni arretrarono verso la gradinata, lanciando a loro volta ordini ai giganteschi animali: ma quelli continuarono ad avanzare, accelerando. Elric vide Arioch urlare, furiosamente: poi sembrò schiantarsi e risorgere in una forma nuova e meno riconoscibile, mentre le belve attaccavano. All'improvviso tutto divenne un turbine di colori, di suoni e di materia. Dietro i demoni, Elric vide Jagreen Lern che rientrava precipitosamente nel palazzo. Augurandosi che gli esseri da lui evocati tenessero impegnati i duchi, Elric spinse il cavallo intorno a quella massa ribollente e salì la scalinata al galoppo. I due amici varcarono la soglia, e intravidero il teocrate che fuggiva impaurito. «I tuoi alleati erano meno forti di quanto credevi, Jagreen Lern» urlò Elric, inseguendo il nemico. «Sciocco presuntuoso, credevi che la tua scienza uguagliasse quella di un melniboneano!» Jagreen Lern cominciò a salire una scala a chiocciola, faticosamente, troppo atterrito per voltarsi indietro. Elric rise di nuovo e fermò il cavallo, guardando il nemico in fuga. «Duchi! Duchi!» singhiozzava Jagreen Lern, mentre saliva. «Non abbandonatemi!»
Maldiluna mormorò: «Quelle belve non riusciranno a sconfiggere l'aristocrazia dell'inferno, vero?» Elric scosse il capo. «Immagino di no: ma se ucciderò Jagreen Lern, almeno porrò fine alle sue conquiste e alle sue evocazioni dei demoni.» Spronò il destriero di Nihrain su per la scalinata inseguendo il teocrate, che sentendolo arrivare si rifugiò precipitosamente in una stanza. Elric udì il tonfo di una sbarra e il cigolio di un catenaccio. Raggiunse la porta, l'abbatté con un colpo di spada ed entrò in una piccola camera. Jagreen Lern era scomparso. Elric smontò, corse a una porticina in fondo alla stanza e la demolì. Vide una stretta scala a chiocciola che saliva nella torre. Ora poteva vendicarsi, pensò mentre raggiungeva un'altra porta in cima alla scala e alzava la spada per abbatterla. Nonostante il tremendo fendente, la porta resse. «Maledizione! È protetta da un sortilegio!» imprecò Elric. Stava per sferrare un altro colpo quando udì dal basso il richiamo incalzante di Maldiluna. «Elric! Elric! I duchi hanno sconfitto le belve. Stanno rientrando nel palazzo!» Era costretto a lasciare Jagreen Lern, per il momento. Scese di corsa la scala, attraversò la camera, e si precipitò giù per la gradinata. Nell'atrio vide le sagome fluenti dell'empia trinità. A metà della scalinata, Maldiluna stava tremando. «Tempestosa» disse Elric, «è tempo di evocare i tuoi fratelli.» La spada gli fremette in pugno, come se assentisse. Elric prese a cantilenare l'incantesimo che torturava la mente e la gola, la formula insegnatagli da Sepiriz. Tempestosa gemette in un lugubre contrappunto mentre i duchi, sfiniti dalla battaglia, mutavano forma e cominciavano ad avanzare minacciosi. Poi, nell'aria intorno a lui, Elric vide apparire forme indistinte che erano per metà sul suo piano e per metà sul piano del caos. Le vide fremere e all'improvviso parve che l'aria si riempisse di un milione di spade, ognuna delle quali era gemella di Tempestosa. D'istinto, Elric allentò la stretta sull'impugnatura della spada, e Tempestosa si lanciò verso le altre. Si librò nell'aria, davanti a loro, e quelle parvero riconoscerla. «Guidale, Tempestosa! Guidale contro i duchi dell'inferno, altrimenti il tuo padrone perirà e tu non berrai mai più anime umane!»
Il mare di spade frusciò e proruppe in un terribile gemito. I duchi dell'inferno si avventarono verso l'albino, il quale arretrò di fronte all'ondata di odio maligno che s'irradiava dalle loro forme contorte. Abbassò lo sguardo e vide Maldiluna accasciato sulla sella: era impossibile capire se era morto o svenuto. Poi le spade si avventarono contro i duchi dell'inferno: Elric si sentì girare la testa alla vista di un milione di spade che affondavano nella sostanza dei loro esseri. L'empio frastuono della battaglia gli assalì gli orecchi, lo spaventoso spettacolo dello scontro gli obnubilò la vista. Privato della vitalità di Tempestosa si sentiva debole, sfinito. Gli tremavano le ginocchia, e non poteva far nulla per aiutare i fratelli della spada che assalivano i duchi dell'inferno. Crollò, consapevole che se avesse assistito ancora a lungo a quell'orrore avrebbe perso completamente la ragione. Fu con sollievo che sentì la propria mente offuscarsi: e svenne, senza sapere chi avrebbe vinto. CAPITOLO QUINTO Era completamente intorpidito, e braccia e schiena gli dolevano orribilmente. Il battito del sangue ai polsi era una sofferenza. Aprì gli occhi. Di fronte a lui, incatenato al muro, vide Maldiluna. Una fiamma cupa guizzava al centro di quel luogo. Sentì una fitta al ginocchio nudo: abbassò lo sguardo e vide Jagreen Lern. Il teocrate gli sputò addosso. «Dunque» disse Elric con voce cavernosa, «ho fallito. E tu hai trionfato, dopotutto.» Jagreen Lern non aveva l'aria trionfante. I suoi occhi ardevano di furore. «Oh, come ti punirò!» disse. «Punirmi? Allora...?» Elric sentì il cuore battergli più forte. «Il tuo ultimo incantesimo è riuscito» disse torvo il teocrate, girando la testa per fissare il braciere. «I tuoi alleati e i miei sono svaniti, e tutti i miei tentativi di rimettermi in contatto con i duchi sono risultati vani. Hai realizzato la tua minaccia... o l'hanno fatta i tuoi servi: li hai ricacciati per sempre nel caos!» «La mia spada...?» Il teocrate sorrise rabbiosamente. «È la mia unica soddisfazione. La tua spada è svanita insieme ai suoi fratelli. Adesso sei debole e indifeso, Elric.
Posso torturarti e mutilarti fino alla fine dei miei giorni.» Elric si sentì stordito da quelle rivelazioni. Una parte della sua mente si rallegrava della sconfitta dei duchi dell'inferno, ma un'altra lamentava la perdita della spada. Come gli aveva ricordato Jagreen Lern, senza Tempestosa era meno che un uomo, perché l'albinismo lo rendeva debole. Già la vista gli si era offuscata e le sue membra non reagivano. Jagreen Lern levò lo sguardo verso di lui. «Goditi i giorni relativamente indolori che ti restano, Elric: ma ti lascio immaginare quello che ho in serbo per te. Devo andare a impartire ai miei uomini gli ordini per i preparativi della flotta, che presto salperà contro il sud. Non perderò tempo con torture grossolane, adesso, perché provvederò a ideare i tormenti più raffinati. Impiegherai lunghi anni a morire, ti giuro!» Uscì dalla cella; e mentre la porta sbatteva, Elric udì la sua voce che dava ordini alle guardie. «Tenete acceso il braciere. Fateli sudare come anime dannate nell'inferno. Dategli da mangiare quanto basta per tenerli in vita, ogni tre giorni. Presto grideranno per chiedere acqua. Dategliene l'indispensabile perché non muoiano. Meritano ben peggio, e mi occuperò di loro quando avrò avuto il tempo di pensarci.» Il giorno dopo incominciò il vero tormento. I loro corpi stillarono l'ultimo sudore. Avevano la lingua gonfia, e mentre gemevano per la sofferenza sapevano che quella terribile tortura non era nulla in confronto a ciò che dovevano aspettarsi. Il fisico indebolito di Elric non reagiva ai suoi sforzi disperati, e a poco a poco la sua mente s'intorpidì: la sofferenza divenne costante, abituale, e il tempo cessò di esistere. Infine, nello stordimento doloroso, riconobbe una voce. La voce di Jagreen Lern, satura di odio. C'erano altri, nella stanza. Si sentì afferrare dalle loro mani e all'improvviso ebbe l'impressione di essere leggero: lo stavano portando di peso fuori dalla cella. Udiva frasi sconnesse, ma non riusciva a ricavare il senso delle parole del teocrate. Lo portarono in un luogo buio che ondeggiava, ferendogli il petto ustionato. Più tardi udì la voce di Maldiluna, e si sforzò di ascoltarne le parole. «Elric! Cosa succede? Giurerei che siamo a bordo di una nave!»
Ma Elric borbottò qualcosa, apatico. Il suo organismo anomalo s'indeboliva più rapidamente di quanto avrebbe fatto quello di un uomo normale. Pensò a Zarozinia, che non avrebbe rivisto mai più. Sapeva che non sarebbe vissuto abbastanza da poter apprendere se alla fine aveva vinto la legge o il caos, o se le Terre Meridionali avevano resistito al teocrate. Poi anche quei pensieri si dileguarono dalla sua mente. Portarono cibo e acqua, e cominciò a riprendersi. A un certo punto aprì gli occhi e vide il sorriso contratto di Jagreen Lern. «Grazie agli dèi» disse il teocrate. «Temevamo di averti perduto. Sei molto delicato, amico mio. Devi rimanere vivo un po' più a lungo. Per dar l'avvio al mio divertimento, ho deciso di farti navigare a bordo della mia ammiraglia. Ora stiamo attraversando il mare dei Draghi, e la nostra flotta è protetta da incantesimi contro i mostri che infestano queste acque.» Aggrottò la fronte. «A causa tua, non ci servono i sortilegi che ci avrebbero portati indenni attraverso le acque dilaniate dal caos. Sono ridiventate quasi normali, per il momento. Ma presto tutto cambierà.» Per un attimo Elric ritrovò la fierezza e fissò l'avversario, troppo debole per esprimere con la voce l'odio che provava. Jagreen Lern rise sommessamente, e scostò con la punta dello stivale la bianca testa del principe di Melniboné. «Credo di poter preparare un filtro che ti darà un po' più di vitalità.» Il cibo aveva sapore ripugnante, e fu necessario introdurlo a forza tra le labbra di Elric; ma dopo un po' l'albino riuscì a sollevarsi a sedere e guardò il corpo abbandonato di Maldiluna. Evidentemente il piccolo orientale aveva ceduto alla tortura. Con grande stupore Elric si accorse di non essere incatenato: si trascinò verso Maldiluna, dolorosamente, e lo scosse per la spalla. L'altro gemette, ma non reagì. Apparve un raggio di luce fioca: Elric alzò gli occhi e vide che la botola del boccaporto era stata aperta. Jagreen Lern lo guardava dall'alto. «Vedo che il filtro ha avuto effetto. Vieni, Elric, aspira il profumo ristoratore del mare, senti il calore del sole. Non siamo molto lontani dalle coste di Argimiliar, e i nostri ricognitori hanno segnalato una grande flotta che viene verso di noi.» Elric imprecò. «Per Arioch, spero che vi mandino tutti a picco!» Jagreen Lern sporse beffardamente le labbra. «Per chi? Per Arioch? Non ricordi cos'è accaduto nel mio palazzo? Arioch non può più essere invocato. Né da te... né da me. A questo hanno provveduto i tuoi fetidi sortilegi.»
Si girò verso un luogotenente. «Legatelo e portatelo sul ponte. Sapete cosa fare.» Due guerrieri si calarono nella stiva, afferrarono Elric, gi legarono braccia e gambe e lo issarono sul ponte. L'albino represse un grido quando il bagliore del sole gli investì gli occhi. «Sorreggetelo, in modo che possa vedere tutto» ordinò Jagreen Lern. I guerrieri eseguirono: Elric venne rimesso in piedi e vide l'enorme ammiraglia nera del teocrate con i serici baldacchini che garrivano nella costante brezza d'occidente, le tre file di rematori e l'alto albero maestro d'ebano con la vela rossocupa. Aldilà del parapetto vide una grande flotta che procedeva nella scia dell'ammiraglia. Oltre ai vascelli di Pan Tang e di Dharijor ce n'erano molti di Jharkor, Shazar e Tarkesh: ma su ognuna delle vele scarlatte era dipinto il tritone, l'emblema di Pan Tang. Elric si sentì invadere da un profondo avvilimento, perché sapeva che le Terre Meridionali, per quanto forti, non erano in grado di mettere in mare una flotta come quella. «Siamo partiti solo da tre giorni» disse Jagreen Lern. «Ma grazie a un vento magico, siamo quasi arrivati a destinazione. Una nave inviata in ricognizione ha appena riferito che la marina lormyriana, informata della nostra superiorità navale, sta venendo a unirsi a noi. Una mossa saggia da parte del re Montan: per il momento, almeno. Mi servirò di lui, per ora; e quando non mi sarà più utile lo farò uccidere da quel traditore che è.» «Perché mi dici tutto questo?» bisbigliò Elric, stringendo i denti per dominare il dolore che gli causava ogni minimo movimento. «Perché voglio che tu assista alla sconfitta del sud. Voglio che tu sappia che quanto hai tentato di scongiurare si compirà ugualmente. Quando avremo sottomesso il sud e avremo saccheggiato i suoi tesori, conquisteremo l'isola delle Città Purpuree e procederemo per devastare Vilmir e Ilmiora. Non sarà difficile, non pensi?» Elric non rispose, e il teocrate si rivolse ai suoi uomini con un cenno impaziente. «Legatelo all'albero maestro, in modo che possa vedere la battaglia. Lo proteggerò con un incantesimo perché non voglio che una freccia lo uccida per caso, privandomi della vendetta.» Elric venne legato all'albero, ma se ne accorse appena: era semisvenuto, e teneva la testa ripiegata sulla spalla destra. La flotta continuò ad avanzare, certa della vittoria.
Verso la metà del pomeriggio, il grido del timoniere strappò Elric al torpore. «Vele a sudest! La flotta lormyriana si avvicina!» Pieno di rabbia impotente, Elric vide allinearsi con le altre cinquanta navi a due alberi, dalle vele colorate che contrastavano col cupo scarlatto di quelle dei vascelli di Jagreen Lern. Lormyr, sebbene fosse un regno più piccolo di Argimiliar, aveva una marina più numerosa. Elric calcolò che il tradimento del re Montan era costato al sud più di un quarto della sua potenza. Ormai sapeva che non c'era più speranza per le Terre Meridionali, e che la certezza di vittoria del teocrate era fondata. Scese la notte, e l'immensa flotta rimase all'ancora. Una guardia venne a far inghiottire a Elric un intruglio che conteneva un'altra dose del filtro vitalizzante. E quando lui si riprese, la sua collera crebbe; e per due volte Jagreen Lern si fermò accanto all'albero per farsi beffe di lui. «Poco dopo l'alba incontreremo la flotta meridionale» disse il teocrate con un sorriso. «E prima di mezzogiorno i suoi resti sanguinosi galleggeranno dietro di noi, mentre procederemo per imporre il nostro dominio alle nazioni che tanto stoltamente si sono affidate alla loro marina per difendersi.» Elric ricordò quanto aveva detto ai re delle Terre Meridionali: li aveva avvertiti di ciò che probabilmente sarebbe accaduto se avessero cercato di opporsi da soli al teocrate. Rimpianse di non essersi sbagliato. Con la sconfitta del sud, la conquista dell'oriente sarebbe divenuta inevitabile. E quando Jagreen Lern si fosse impadronito del mondo, il caos avrebbe dominato e la Terra si sarebbe ritrasformata nella sostanza informe da cui era stata plasmata milioni di anni prima. Per tutta la notte senza luna Elric si arrovellò, raccogliendo i pensieri e facendo appello a tutte le forze per elaborare un piano che era soltanto un'ombra in fondo alla sua mente. CAPITOLO SESTO Lo svegliò lo sferragliare delle ancore. Tremando nella scialba luce del sole, vide all'orizzonte la flotta meridionale avanzare nella sua vana eleganza pomposa verso le navi di Jagreen Lern.
I re meridionali erano incredibilmente coraggiosi, pensò, oppure non si rendevano conto della forza del nemico. Sotto di lui, sul ponte anteriore dell'ammiraglia, stava una grande catapulta, e gli schiavi stavano già caricando una gigantesca sfera di pece ardente. Di solito, come lui sapeva, le catapulte costituivano un impaccio, perché erano troppo grandi per essere ricaricate facilmente, ed erano svantaggiate in confronto alle macchine da guerra più leggere. Ma evidentemente gli ingegneri di Jagreen Lern non erano sciocchi: Elric notò altri meccanismi montati sulla grande catapulta, e capì che servivano a ricaricarla in fretta. Il vento era caduto, e solo cinquecento paia di braccia facevano avanzare la galea del teocrate. Sul ponte, in schiere ordinate, i guerrieri presero posto accanto alle grandi piattaforme d'abbordaggio che sarebbero state calate sulle navi nemiche, bloccandole e formando un ponte tra i vascelli. Elric era costretto ad ammettere che Jagreen Lern si era dimostrato lungimirante. Non si era affidato del tutto all'aiuto soprannaturale. Lui non aveva mai visto navi meglio equipaggiate. La flotta meridionale, pensò, era spacciata. Combattere contro Jagreen Lern non era un gesto di coraggio: era una pazzia. Ma Jagreen Lern aveva commesso uno sbaglio. Roso dal desiderio di vendetta, aveva restituito a Elric la vitalità per qualche ora, e quella vitalità si estendeva dal fisico alla mente. Tempestosa era scomparsa. Con la sua spada, lui era pressoché invincibile tra gli uomini; senza, era impotente. Non c'era nulla da fare. Quindi doveva recuperarla. Ma come? Era tornata al piano del caos insieme ai suoi fratelli, probabilmente trascinata dalla loro forza irresistibile. Doveva ristabilire il contatto. Non osava chiamare l'intera orda di spade con l'incantesimo: sarebbe stato un provocare la provvidenza. Udì all'improvviso lo scatto e il rombo della catapulta gigante che scagliava il primo proiettile. La pece ardente descrisse un arco sopra l'oceano e cadde poco lontano, facendo ribollire il mare intorno a sè mentre sprofondava spegnendosi. Rapidamente, la macchina da guerra venne ricaricata e un'altra sfera di pece venne sistemata con i forconi per un nuovo lancio. Jagreen Lern alzò la testa verso di lui e rise. «Il mio piacere durerà poco: non sono abbastanza numerosi per ingaggiare una battaglia decente. Guardarli perire, Elric!» Elric tacque, fingendosi stordito e spaventato.
La seconda sfera ardente colpì una delle prime navi: Elric vide minuscole figure che correvano cercando disperatamente di spegnere le fiamme: ma dopo meno di un minuto la nave divampava, ridotta a una massa di fuoco, mentre gli uomini si buttavano in mare, incapaci di salvare il loro vascello. L'aria intorno a lui risuonava del ruggito delle sfere fiammeggianti: ormai vicini, i meridionali rispondevano con le loro macchine da guerra più leggere, finché parve che il cielo fosse invaso da mille comete e il calore uguagliò quello che Elric aveva conosciuto nella camera di tortura. Un fumo nero cominciò a diffondersi, mentre i bronzei rostri degli arieti sfondavano il fasciame trapassando le navi come pesci infilzati dalle fiocine. Le rauche urla dei combattenti presero a risuonare dovunque, e Elric udì il clangore del ferro quando i primi guerrieri si scontrarono. Ma ormai udiva quei suoni solo vagamente: si stava concentrando. Infine si sentì pronto: e sapendo che con ogni probabilità nessun orecchio umano avrebbe udito la sua voce nel frastuono della battaglia, chiamò in tono disperato e sofferente: «Tempestosa!» La sua mente fece eco al grido: gli sembrò di vedere aldilà degli scontri turbolenti, aldilà dell'oceano, aldilà della Terra stessa, un luogo di ombre e di orrore. E là si muoveva qualcosa. Si muovevano molte cose. «Tempestosa!» Dal ponte inferiore salì un'imprecazione: Elric vide Jagreen Lern tendere il braccio per indicarlo. «Imbavagliate lo stregone.» Il teocrate lo fissò negli occhi e poi si morse le labbra, riflettendo per un istante prima di aggiungere: «E se questo non basta a farlo tacere... uccidetelo!» Il luogotenente cominciò ad arrampicarsi sull'albero maestro per raggiungere Elric. «Tempestosa! Il tuo padrone perisce!» Elric si dibatté tra le funi che lo legavano, ma non riusciva quasi a muoversi. «Tempestosa!» Per tutta la vita aveva odiato la spada che tanto contava per lui. E adesso la chiamava, come un innamorato chiama la sua promessa sposa. Il guerriero gli afferrò un piede e lo scosse. «Taci! Hai sentito il mio padrone.» Elric abbassò gli occhi stralunati verso il luogotenente, che rabbrividì e sguainò la spada, aggrappandosi all'albero con una mano sola e preparan-
dosi a trafiggerlo. «Tempestosa!» singulto Elric. Doveva vivere. Senza di lui, il caos avrebbe dominato il mondo. Il luogotenente si avventò contro l'albino... ma la sua lama non lo toccò. Allora Elric rammentò, con improvviso divertimento, che Jagreen Lern l'aveva circondato di un incantesimo protettivo. La magia del teocrate aveva salvato il suo peggior nemico. «Tempestosa!» Il guerriero lanciò un grido soffocato, e la spada gli cadde dalle dita. Parve afferrare qualcosa d'invisibile che gli trafiggeva la gola, e Elric vide le sue dita cadere recise e il sangue sprizzare dai moncherini. Poi, lentamente, qualcosa si materializzò, e con infinito sollievo l'albino vide che era una spada: la sua spada stregata, che trafiggeva il guerriero e ne succhiava l'anima. Il luogotenente cadde, ma Tempestosa si librò nell'aria e poi si girò per tagliare le funi che stringevano le mani di Elric e si annidò con orrido affetto nella destra del suo padrone. Subito l'energia vitale rubata al guerriero cominciò a fluire nel corpo di Elric, e le fitte dolorose svanirono. Prontamente l'albino si aggrappò alle sartie e tranciò le altre corde, restando appeso a una drizza con una mano. «E adesso, Jagreen Lern, vedremo finalmente a chi spetterà vendicarsi.» Sollevò la botola del boccaporto e guardò la figura accasciata del suo amico. Evidentemente Maldiluna era stato abbandonato lì a morire di fame. Un ratto corse via all'apparire della luce. Elric scese con un balzo nella stiva e vide con orrore che i ratti avevano già cominciato a rosicchiare il braccio destro di Maldiluna. Si caricò l'amico sulle spalle e sentì che il cuore batteva ancora, debolmente. Risalì sul ponte. Non sapeva come assicurare protezione all'amico senza rinunciare a vendicarsi di Jagreen Lern. Si mosse verso la passerella d'abbordaggio che il teocrate doveva aver attraversato. In quel momento, tre guerrieri si avventarono verso di lui. Uno urlò: «L'albino! Si è liberato!» Elric l'abbatté con un colpo che richiese solo un guizzo del polso. La Spada Nera fece il resto. Gli altri indietreggiarono, ricordando come Elric era entrato a Hwangaarl. Un'energia nuova affluì in lui. Per ogni uomo che uccideva, la sua forza aumentava: una forza rubata, ma necessaria se voleva sopravvivere e vin-
cere la battaglia per la legge. Corse, per nulla infastidito dal fardello che portava sulla spalla; attraversò la piattaforma d'abbordaggio e scese sul ponte della nave meridionale. Vide lo stendardo di Argimiliar e intorno un gruppo di uomini capeggiato dal re Hozel, cupo in volto nella consapevolezza della fine imminente. Sarebbe stata una fine meritata, pensò torvo Elric: ma quando Hozel fosse morto, sarebbe stata un'altra vittoria per il caos. Poi udì un grido diverso: per un momento credette di essere stato riconosciuto, ma uno degli uomini di Hozel tendeva il braccio verso nord e gridava qualcosa d'incomprensibile. Elric guardò in quella direzione e vide le orgogliose vele delle Città Purpuree. Erano dipinte a colori gai, e alcune erano addirittura ricamate, perché i signori del mare si concedevano, come unico lusso, la sontuosa decorazione delle loro navi. Ma erano arrivati tardi. Anche se avessero incominciato a combattere insieme ai vascelli meridionali, difficilmente avrebbero potuto cambiare le sorti della battaglia. In quel momento, guardandosi intorno, Jagreen Lern scorse Elric e urlò un ordine ai suoi uomini: quelli si mossero, cauti e riluttanti, avvicinandosi all'albino in un ampio semicerchio. Elric imprecò contro i valorosi signori del mare che avevano aggiunto un altro fattore alla sua indecisione. Roteò minacciosamente la spada stregata, avanzando verso gli atterriti guerrieri di Pan Tang. Quelli arretrarono: alcuni gemettero, quando la lama li colpì. Adesso la via era libera per arrivare a Jagreen Lern. Ma le navi della Città Purpurea si stavano avvicinando, già a tiro delle catapulte. Elric guardò in faccia Jagreen Lern e ringhiò: «Non so se la mia spada ha la forza di trapassare la tua armatura ardente con un sol colpo, e io ho tempo per un colpo solo. Per ora ti lascio, teocrate: ma ricorda che anche se conquisterai tutto il mondo, comprese le terre sconosciute dell'oriente, prima o poi la mia spada berrà la tua nera anima.» Lasciò cadere fuoribordo Maldiluna, ancora privo di sensi, e si tuffò nel mare inquieto. Si affrettò ad afferrare il corpo dell'amico, e prese a nuotare con energia sovrumana verso il primo vascello dei signori del mare, la nave di Kargan. E Jagreen Lern e i suoi uomini videro la loro ammiraglia avvolta dalle fiamme. Elric aveva fatto bene il suo lavoro.
Anche quello sarebbe servito a distogliere l'attenzione dalla flotta di Kargan. Confidando nella celebrata abilità marinaresca dei signori del mare, Elric si avviò a nuoto direttamente sulla rotta del primo galeone, gridando il nome di Kargan. La nave virò leggermente: Elric vide le facce barbute che si sporgevano dal parapetto, vide le funi gettate prontamente verso di lui, e ne afferrò una lasciandosi issare col suo fardello finché venne tirato a bordo. Kargan lo guardò sbalordito. «Elric! Ti credevamo morto... e adesso vedo che hai avuto una sorte ancora peggiore!» Elric sputò una boccata d'acqua salmastra e disse, incalzante: «Ordina alla flotta di tornare indietro, Kargan! Riportala indietro. Non c'è speranza di salvare i meridionali: sono spacciati. Dobbiamo conservare le nostre forze per batterci più avanti.» Dopo un attimo d'esitazione Kargan impartì l'ordine, che venne prontamente trasmesso alle altre sessanta navi. Mentre i vascelli delle Città Purpuree viravano per allontanarsi, Elric vide che pochissime navi meridionali erano rimaste a galla. Per più di un miglio le acque ardevano, e il crepitare delle galee che affondavano bruciando si mescolava alle urla degli uomini che annegavano. «Ora che la potenza marittima del sud è stata schiacciata» disse Kargan, osservando il medico che stava curando Maldiluna, «quei regni non resisteranno a lungo contro le orde di Pan Tang. Come noi, i meridionali contavano troppo sulle loro navi. Ho compreso che dobbiamo rafforzare le nostre difese a terra, se vogliamo avere qualche speranza.» «D'ora innanzi useremo la vostra isola come quartier generale» replicò Elric. «La fortificheremo interamente e ci terremo in contatto con quello che avverrà al sud. Come sta il mio amico, medico?» Il medico alzò la testa. «Non sono ferite ricevute in battaglia. Le lesioni sono gravi, ma sopravviverà. Dovrebbe guarire perfettamente, con un mese di riposo.» «L'avrà» promise Elric. Strinse la spada stregata e si chiese quali altre missioni li attendevano prima dell'ultima grande battaglia tra la legge e il caos. Ben presto il caos avrebbe regnato su metà del mondo, nonostante il colpo tremendo che lui gli aveva inferto ricacciando i duchi dell'inferno sul
loro piano: e maggiore era la potenza che acquisiva Jagreen Lern, più grande sarebbe divenuta la minaccia del caos. Sospirò e guardò verso nord. Due giorni dopo ritornarono all'isola delle Città Purpuree: la flotta rimase nel grande porto di Utkel, poiché era più prudente tenerla a portata di mano senza disperderla. La notte seguente Elric parlò con i signori del mare e inviò messaggeri a Vilmir e Ilmiora: verso il mattino, si sentì bussare discretamente alla porta della sala. Kargan si alzò per andare ad aprire, e fissò sbalordito l'uomo alto e nero che stava sulla soglia. «Sepiriz!» gridò Elric. «Come sei venuto qui?» «A cavallo» rispose il gigante, sorridendo. «E tu conosci la potenza degli stalloni di Nihrain. Sono venuto ad avvertirti. Siamo finalmente riusciti a metterci in contatto con i sovrani bianchi: ma per ora possono far poco. È necessario aprire una strada fino al loro piano, attraverso le barricate che il caos ha eretto contro di loro. Le navi di Jagreen Lern hanno vomitato il contenuto sulle coste meridionali, e i suoi guerrieri avanzano nell'entroterra. Ormai non possiamo far nulla per impedire la sua conquista. Quando l'avrà consolidata, e la sua potenza sarà cresciuta, sarà in grado di evocare nuovi alleati dal caos.» «E allora qual è la mia prossima missione?» chiese a bassa voce Elric. «Non so ancora bene. Ma non è per questo, che sono venuto. Il periodo che la tua spada ha trascorso insieme ai fratelli l'ha rafforzata. Hai notato con quanta rapidità, adesso, riversa energia nel tuo corpo?» Elric annuì. «È un'energia acquisita maleficamente, ed è malvagia. La forza della spada continuerà ad aumentare, e anche la tua. Ma poiché quello che satura il tuo essere è un potere generato dal caos, dovrai lottare ancor più duramente per dominare l'energia dentro di te.» Elric sospirò e strinse il braccio di Sepiriz. «Grazie dell'avvertimento, amico: ma quando ho sconfitto i duchi dell'inferno, ai quali un tempo avevo giurato fedeltà, non speravo di scampare con qualche ferita di poco conto. Sappilo, Sepiriz.» Si rivolse ai signori del mare. «E sappiatelo tutti voi.» Sguainò la spada gemente e la levò alta, facendola sfolgorare in tutta la sua spaventosa potenza. «Questa lama è stata forgiata dal caos per sconfiggere il caos, e questo è
anche il mio destino. Anche se il mondo si trasmuterà in gas ribollente, ormai vivrò. Giuro per l'equilibrio del cosmo che la legge trionferà e che sulla Terra verrà la nuova epoca.» Stupiti da quel giuramento, i signori del mare si scambiarono occhiate. Sepiriz sorrise. «Speriamolo, Elric» disse. «Speriamolo.» LIBRO TERZO IL RITORNO DEL DIO MORTO Tredici volte tredici i gradini della tana del gigante triste: e là c'è lo Scudo del Caos. Sette volte sette sono gli ontani, dodici volte dodici i guerrieri che vede, ma là c'è lo Scudo del Caos. E l'eroe sfiderà il gigante triste e impugnerà una spada rossa per lo scudo in un luttuoso giorno di vittoria. La Cronaca della Spada Nera CAPITOLO PRIMO Sul mondo era scesa l'ombra dell'anarchia. Né gli uomini né gli dèi né ciò che governava gli uni e gli altri potevano leggere chiaramente nel futuro e vedere il fato della Terra mentre le forze del caos accrescevano la loro potenza per mezzo delle macchinazioni dei loro servitori umani. Dai monti delle Terre Occidentali, attraverso l'oceano turbolento fino alla pianura del continente meridionale, il caos imponeva adesso la sua dominazione mostruosa. Tormentati, infelici, incapaci di sperare nella liberazione dall'influenza nefasta e corrosiva del caos, i resti delle razze umane fuggivano nei due continenti già caduti nelle mani dei servitori umani del disordine, guidati dal perverso teocrate di Pan Tang, Jagreen Lern, assetato di potere, aquilino e imponente nella rovente armatura scarlatta, che comandava avvoltoi umani ed esseri soprannaturali e ampliava continuamente i suoi tenebrosi confini. Su tutta la superficie della Terra imperversavano la devastazione e l'angoscia, eccettuati il continente orientale, scarsamente popolato e già mi-
nacciato, e l'isola delle Città Purpuree, che adesso si preparava a resistere all'assalto iniziale di Jagreen Lern. Presto la violenta marea del caos avrebbe sommerso il mondo, se non fosse stata chiamata qualche forza grandissima per arrestarla. Amaramente, cupamente, i pochi che ancora resistevano a Jagreen Lern, al comando di Elric di Melniboné, parlavano di strategia e di tattica, nella piena consapevolezza che sarebbe stato necessario ben di più per sconfiggere le empie orde del teocrate. Disperatamente, Elric tentava di servirsi dell'antica magia dei suoi imperiali antenati per stabilire un contatto con i sovrani bianchi della legge: ma non era abituato a cercare un simile aiuto, e del resto le forze del caos erano ormai così potenti che quelle della legge non potevano più accedere facilmente alla Terra come si era verificato un tempo. Mentre si preparavano all'imminente conflitto, Elric e i suoi alleati si sentivano l'anima oppressa, dominata dalla sensazione che i loro sforzi fossero vani. E nella mente di Elric c'era l'onnipresente consapevolezza che, anche se avesse sconfitto il caos, la sua vittoria avrebbe distrutto il mondo che conosceva, lasciandolo al dominio delle forze della legge... e in quel mondo nuovo non ci sarebbe stato posto per lo stregone albino. Aldilà del piano terrestre, nei loro reami confinanti, i signori del caos e della legge assistevano alla lotta: e neppure loro conoscevano interamente il destino di Elric. Il caos trionfava. Il caos bloccava i tentativi della legge ogni volta che le sue forze cercavano di passare attraverso il dominio dell'avversario, che ora costituiva l'unica strada di accesso alla Terra. E i signori della legge condividevano la frustrazione di Elric. E se il caos e la legge osservavano la Terra e il suo conflitto, da chi erano osservati? Perché caos e legge erano soltanto i pesi gemelli di una bilancia, e la mano che la reggeva, sebbene raramente intervenisse nella loro lotta e ancor più raramente nell'esistenza degli umani, aveva raggiunto l'eccezionale decisione di mutare lo status quo. Quale dei due pesi sarebbe disceso? Quale sarebbe salito? Gli uomini potevano decidere l'esito della battaglia? Potevano deciderlo i signori? Oppure soltanto la mano cosmica poteva plasmare lo schema della Terra, rimodellandone la sostanza, cambiandone i fattori spirituali e avviandola su una strada diversa, su una nuova rotta del destino? Forse tutto avrebbe esercitato la sua influenza, prima che venisse l'esito
decisivo. Il grande zodiaco che influiva sull'universo e sulle sue epoche aveva completato i dodici cicli, che presto sarebbero cominciati di nuovo. La ruota avrebbe ripreso a girare: e quando si fosse arrestata di nuovo, quale simbolo si sarebbe trovato in posizione di predominio, e quanto sarebbe mutato? Grandi sommovimenti, sulla Terra e oltre la Terra; grandi destini venivano forgiati, grandi imprese venivano decise; e, prodigiosamente, era forse possibile che nonostante i signori dei mondi superni, nonostante la mano cosmica, nonostante le miriadi di esseri soprannaturali che sciamavano nell'universo, fosse l'uomo a decidere? O addirittura... un uomo? Un uomo, una spada, un destino? Elric di Melniboné stava curvo in sella, e guardava i guerrieri aggirarsi intorno a lui nella piazza della città di Bakshaan. Lì, anni prima, aveva guidato un assedio contro il principale mercante della comunità, ne aveva raggirati altri e se n'era andato carico di ricchezze: ma tutti i rancori verso di lui erano stati dimenticati, scacciati dalla minaccia della guerra e dalla consapevolezza che solo il comando di Elric poteva salvare la città. Le mura venivano innalzate e allargate, i guerrieri venivano addestrati a usare sconosciuti ordigni bellici. Bakshaan, che era stata una pigra città mercantile, era diventata una roccaforte funzionale, pronta alla battaglia. Per un mese Elric aveva viaggiato in lungo e in largo nei regni orientali di Ilmiora e Vilmir, sovrintendendo ai preparativi, trasformando la forza delle due nazioni in un'efficiente macchina da guerra. Ora studiava le pergamene consegnategli dai luogotenenti e ricordando le astuzie tattiche degli antenati comunicava le proprie decisioni. Il sole tramontò e pesanti nubi nere si ammassarono contro l'azzurro cielo metallico, estendendosi all'orizzonte. Elric sciolse i lacci del mantello e si avvolse più strettamente nelle pieghe, per ripararsi dal freddo. Poi, mentre scrutava in silenzio il cielo a occidente, aggrottò la fronte nel veder apparire qualcosa che sembrava una lampeggiante stella d'oro che sfrecciava veloce verso di lui. Sempre preoccupato di veder sopravvenire le avanguardie del caos, si girò sulla sella e gridò: «Tutti gli uomini ai loro posti! Attenti alla sfera dorata!» Il globo si avvicinò rapidamente fino a librarsi sopra la città: tutti gli
uomini lo fissavano sbalorditi, stringendo le armi. Mentre calava la nera notte, e le nubi non lasciavano filtrare i raggi della luna, la sfera cominciò a scendere verso le guglie di Bakshaan, irradiando una strana luminescenza pulsante. Elric sguainò Tempestosa, che emise un suono lamentoso e sommesso mentre un fuoco nero lingueggiava lungo la lama. Il globo toccò il selciato della piazza... ed esplose in un milione di frammenti che rifulsero per un momento prima di svanire. Elric rise, sollevato, e rinfoderò Tempestosa, quando vide colui che stava al posto della sfera aurea. «Sepiriz, amico mio! Hai scelto uno strano mezzo di trasporto per venire qui dalla gola di Nihrain.» Il veggente dal volto nero sorrise, e i suoi aguzzi denti candidi balenarono. «Ho così pochi carri di questo tipo che devo usarli solo quando è indispensabile. Vengo a portarti notizie... molte notizie.» «Mi auguro che siano buone, perché di brutte ne abbiamo già avute abbastanza.» «Non sono tutte buone. Dove possiamo parlare in privato?» «Il mio quartier generale è in quel palazzo.» Elric indicò una casa riccamente decorata sull'altro lato della piazza. Elric versò vino giallo all'ospite. Kelos il mercante, che era il proprietario della casa, non aveva accettato con entusiasmo la requisizione; e anche per questo, Elric approfittava maliziosamente di tutto ciò che vi trovava di meglio. Sepiriz prese la coppa e sorseggiò il vino. «Siete riusciti a mettervi in contatto con i sovrani bianchi?» chiese Elric. «Sì.» «Grazie agli dèi! Sono disposti ad aiutarci?» «Sono sempre stati disposti a farlo... ma non hanno ancora aperto una breccia sufficientemente ampia nella barriera che il caos ha eretto intorno al pianeta. Tuttavia, il fatto che io sia riuscito finalmente a entrare in contatto con loro è un presagio migliore di quelli che abbiamo avuti negli ultimi mesi.» «Allora sono davvero buone notizie» disse gaiamente Elric. «Non del tutto. La flotta di Jagreen Lern ha alzato di nuovo le vele e si dirige verso il continente orientale, con migliaia di navi e alleati soprannaturali.» «Me l'aspettavo, Sepiriz. Comunque, qui il mio lavoro è terminato. Rag-
giungerò subito l'isola delle Città Purpuree, perché devo guidare la flotta contro Jagreen Lern.» «Le vostre possibilità di vittoria sono pressoché inesistenti, Elric» l'avverti Sepiriz in tono grave. «Non hai sentito parlare delle navi dell'inferno?» «Ne ho sentito parlare: non navigano negli abissi del mare, prendendo a bordo come membri dell'equipaggio i marinai morti?» «Sì. Sono creazioni del caos, e assai più grandi della più grande nave da guerra dei mortali. Non potreste mai opporvi con successo, neppure se non aveste da combattere anche contro la flotta del teocrate.» «Mi rendo conto che sarà una lotta dura, Sepiriz... ma cos'altro possiamo fare? In questa mia spada ho un'arma contro il caos.» «Non basta: non hai ancora una protezione contro il caos. E di questo, che sono venuto a parlarti: di un'arma difensiva che ti aiuterà nella tua guerra, anche se prima dovrai strapparla all'attuale possessore.» «E chi la possiede?» «Un gigante che rimugina, eternamente infelice, in un grande castello all'orlo del mondo, aldilà del Deserto Sospirante. Si chiama Mordaga: un tempo era un dio, ma è stato reso mortale per i peccati commessi contro gli altri dèi moltissimo tempo fa.» «È mortale? E ha vissuto tanto a lungo?» «È mortale, sì, sebbene la durata della sua vita sia considerevolmente più lunga di quella di un uomo normale. È ossessionato dalla certezza di dover morire un giorno. È questo, che lo rattrista.» «E l'arma?» «Non è esattamente un'arma ma uno scudo. Uno scudo con una funzione. Mordaga se l'era forgiato quando aveva scatenato una rivolta nel regno degli dèi cercando d'impadronirsi del potere e addirittura di strappare la bilancia cosmica a colui che la regge. Per questo è stato bandito sulla Terra e gli è stato annunciato che un giorno morirà, ucciso dalla spada di un mortale. Lo scudo, come puoi immaginare, è inattaccabile dalle forze del caos.» «Com'è possibile?» chiese incuriosito Elric. «Le forze del caos, se sono abbastanza potenti, possono annientare qualunque difesa formata dalla materia che ubbidisce alla legge; nessun oggetto basato sui principi dell'ordine può resistere a lungo alle devastazioni del caos. Tempestosa ti ha dimostrato che l'unica arma efficace contro il caos è stata forgiata dal caos. E lo stesso si può dire di quello scudo. È altrettanto
di natura caotica, e perciò non ha nulla di organizzato che possa essere distrutto da quelle forze. Oppone il caos al caos, e perciò le energie ostili vengono sovvertite.» «Capisco. Se avessi avuto un simile scudo, forse le cose sarebbero andate meglio per tutti noi.» «Non potevo parlartene. Come ti ho già detto, io sono soltanto il servitore del fato e non posso agire senza il consenso dei miei padroni. Ho la sensazione che vogliano vedere il caos spazzare il mondo prima di rimanere sconfitto, se mai lo sarà, affinché possa mutare completamente la natura del nostro pianeta prima dell'inizio del nuovo ciclo. Cambierà; ma se in futuro sarà governato dalla legge o dal caos... questo è nelle tue mani!» «Sto cominciando ad abituarmi a questo fardello, amico mio. Come potrò riconoscere lo scudo?» «Dal simbolo del caos, le otto frecce che s'irradiano dall'umbone. È uno scudo rotondo, pesantissimo, come si addice a un gigante. Ma con la vitalità che tu ricevi dalla tua spada stregata avrai la forza d'imbracciarlo, non temere. Ma prima dovrai avere il coraggio di strapparlo al suo detentore attuale. Mordaga conosce la profezia: gli è stata annunciata dagli altri dèi quando l'hanno scacciato.» «E anche tu la conosci?» «Sì. Nella nostra lingua è una semplice strofa:» L'orgoglio di Mordaga, la sorte di Mordaga, il fato di Mordaga, è di morire come gli uomini, ucciso dagli uomini, quattro uomini del destino. «Quattro uomini? Chi sono gli altri tre?» «Li conoscerai quando verrà per te il momento di cercare lo scudo del caos. Cosa farai, ora? Ti recherai all'isola delle Città Purpuree? O in cerca dello scudo?» «Vorrei avere il tempo di mettermi a cercarlo, ma non è possibile. Devo andare a preparare i miei uomini, scudo o non scudo.» «Sarete sconfitti.» «Vedremo, Sepiriz.» «Sta bene, Elric. Poiché ben poca parte del tuo destino è nelle tue mani, dobbiamo lasciarti il diritto di prendere una decisione di tanto in tanto.» Sepiriz sorrise, comprensivo.
«Il fato è generoso» commentò ironicamente Elric. E si alzò. «Mi metterò subito in viaggio, perché non c'è tempo da perdere.» CAPITOLO SECONDO Con i capelli bianchi come il latte che sventolavano nell'aria e gli occhi rossi sfolgoranti, Elric spingeva il suo stallone nella fredda oscurità della notte attraverso una terra inquieta che attendeva con trepidazione l'attacco di Jagreen Lern, perché poteva significare non soltanto la morte ma l'asservimento delle anime al caos. Già gli stendardi di una decina di monarchi occidentali e meridionali garrivano accanto a quello di Jagreen Lern, poiché i re dei territori conquistati preferivano la sua supremazia alla morte... e sottomettevano i loro sudditi al suo potere, e quelli diventavano esseri che marciavano storditi, schiavi nell'anima, mentre le loro donne e i loro figli morivano, o venivano torturati e uccisi sugli altari insanguinati di Pan Tang, dove i sacerdoti levavano invocazioni ai signori del caos e i signori del caos - sempre pronti a rafforzare il proprio potere sulla Terra - rispondevano fornendo appoggio. E non soltanto le entità, ma la stessa sostanza del loro strano cosmo penetrava nel mondo della Terra: e dove loro dominavano, la terra ondeggiava come il mare e il mare fluiva come lava e le montagne mutavano forma e dagli alberi sbocciavano fiori orrendi quali nessuno aveva mai visto. In tutti i territori conquistati da Jagreen Lern si manifestava l'influenza deformatrice del caos. Gli spiriti della natura erano costretti, fra i tormenti, a diventare ciò che non dovevano essere; aria, fuoco, acqua e terra divenivano instabili, perché il teocrate e i suoi alleati non manomettevano soltanto le vite e le anime degli uomini ma gli stessi elementi costitutivi del pianeta. E non c'era nessuno che fosse abbastanza potente per punirli dei loro delitti. Nessuno. Sospinto da quell'amara certezza, Elric procedeva veloce, cercando di raggiungere l'isola delle Città Purpuree prima che la sua flotta, disperatamente inadeguata, salpasse per combattere il caos. Due giorni dopo arrivò al porto di Uhaio, all'estremità della più piccola fra le penisole di Vilmir, e s'imbarcò subito per l'isola delle Città Purpuree, dove sbarcò e procedette a cavallo nell'entroterra, verso l'antica fortezza di Ma-ha-kil-agra, che aveva resistito a tutti gli assedi ed era considerata la rocca più inespugnabile di tutte le terre ancora libere dal caos. Il suo nome
apparteneva a una lingua più antica di tutte quelle note a coloro che vivevano nell'epoca dei Regni Giovani. Soltanto Elric sapeva cosa significava. La fortezza era stata costruita molto prima che le razze del suo tempo prendessero il potere, prima ancora che i suoi antenati incominciassero a conquistare il mondo. Ma-ha-kil-agra: il Forte della Sera, dove molto tempo addietro una razza solitaria era venuta a morire. Quando Elric entrò nel cortile, Maldiluna l'orientale uscì di corsa dalla porta di una torre. «Elric! Attendevamo il tuo arrivo, perché il tempo stringe e dobbiamo imbarcarci per affrontare il nemico. Abbiamo inviato spie per valutare la consistenza della flotta di Jagreen Lern. Solo quattro uomini hanno fatto ritorno: e sono tutti impazziti. Il quinto è appena tornato, ma...» «Ma cosa?» «Lo vedrai tu stesso. È stato... mutato, Elric.» «Mutato! Mutato! Mostramelo. Conducimi da lui.» Elric salutò con un brusco cenno gli altri capitani che erano usciti ad accoglierlo. Passò davanti a loro e seguì Maldiluna nei corridoi di pietra della fortezza, fiocamente illuminati da torce di canna. Maldiluna entrò in un'anticamera e si fermò davanti a una porta, passandosi le dita tra i folti capelli rossi. «È lì dentro. Vuoi parlargli da solo? Io preferirei non rivederlo!» «Sta bene.» Elric aprì la porta, chiedendosi in che modo poteva essere mutata la spia. Seduto al semplice tavolo di legno, stava un relitto umano. Alzò gli occhi. Come aveva detto Maldiluna... era stato mutato. Elric provò pietà per quell'uomo, ma non si sentì inorridito o nauseato come Maldiluna perché nell'esercizio della magia aveva visto esseri ben più spaventosi. Sembrava quasi che tutta una parte del corpo di quell'uomo fosse divenuta viscosa e poi si fosse consolidata a casaccio. Metà della testa, una spalla, il braccio, la gamba, erano simili a filamenti di carne come code di ratto, grumi di materia come bubboni gonfi, stranamente screziati. L'uomo tese la mano indenne, e alcuni filamenti sussultarono e si agitarono all'unisono. Elric parlò, sommessamente: «Quale magia ha operato una simile metamorfosi?» Una specie di risata si levò dalla faccia sghemba. «Sono entrato nel regno del caos, mio signore. E il caos mi ha fatto questo, mi ha mutato come puoi vedere. I confini sono stati allargati. Io non lo
sapevo. Li ho varcati prima di rendermene conto. L'area del caos si amplia!» L'uomo si tese, e la voce tremante divenne quasi un urlo. «E col caos veleggiano le flotte di Jagreen Lern: grandi ondate di navi da guerra, squadre di mezzi d'invasione, migliaia di trasporti, vascelli muniti di grandi macchine belliche, barche incendiarie... Navi di ogni genere, che inalberano una quantità di stendardi. I re del sud rimasti in vita hanno giurato fedeltà al teocrate, che ha usato tutte le loro e le proprie risorse per schierare quell'orda marina! Via via che lui procede, estende l'area del caos: e quindi, sebbene avanzi più lentamente del normale, quando giungerà qui... il caos sarà con lui. Ho visto navi che non possono essere di costruzione umana, colossali come castelli... e ognuna sembra un'abbagliante combinazione di tutti i colori!» «Allora è proprio riuscito a trovare altri alleati soprannaturali» commentò pensieroso Elric. «Sono le navi dell'inferno di cui ha parlato Sepiriz...» «Sì; e anche se noi battessimo i vascelli naturali» disse in tono isterico il messaggero, «non potremmo sconfiggere le navi del caos e la sostanza del caos che ribolle intorno a loro e che mi ha trasformato in ciò che vedi! Ribolle, muta, cambia continuamente. È tutto quello che so, oltre al fatto che Jagreen Lern e i suoi alleati umani ne sono immuni. Quando la metamorfosi ha cominciato a operarsi nel mio corpo sono fuggito all'isola del Drago di Melniboné, che sembra aver resistito al processo ed è l'unica terra sicura in tutte le acque del mondo. Il mio corpo è guarito, rapidamente, e ho corso il rischio di riprendere la navigazione per tornare qui.» «Sei stato coraggioso» disse Elric, cupamente. «Ti prometto che sarai ricompensato.» «Io voglio una sola ricompensa, mio signore.» «Quale?» «La morte. Non posso più vivere, con l'orrore del mio corpo che rispecchia l'orrore della mia mente.» «Provvederò» promise Elric. Rimase pensieroso per qualche secondo, prima di rivolgere un cenno di saluto alla spia e di uscire dalla stanza. Maldiluna l'attendeva. «Si mette male, per noi» gli disse a bassa voce. Elric sospirò. «Sì: forse avrei dovuto andare prima a cercare lo scudo del caos.» «Cos'è?» Elric riferì ciò che gli aveva detto Sepiriz. «Una difesa simile ci sarebbe utile» ammise l'orientale. «Ma... dobbiamo
salpare domattina. I tuoi capitani ti aspettano nella sala delle riunioni.» «Fra poco sarò da loro» gli assicurò Elric. «Prima voglio andare nella mia stanza, a riordinare i miei pensieri. Di' che li raggiungerò appena avrò finito.» Entrato nella propria stanza, Elric chiuse a chiave la porta, pensando ancora alle informazioni riferite dalla spia. Sapeva che senza un aiuto soprannaturale nessuna flotta normale, per quanto imponente e dotata di equipaggi coraggiosi, avrebbe potuto resistere a Jagreen Lern. E lui aveva una flotta relativamente modesta, nessuna entità soprannaturale come alleata, nessun mezzo per combattere le devastatrici forze del caos. Se almeno avesse avuto lo scudo... Ma era inutile rammaricarsi della decisione che aveva preso. Se avesse cercato lo scudo ora, non avrebbe potuto partecipare alla battaglia. Per settimane aveva consultato i testi magici che ingombravano la sua stanza in forma di rotoli, tavolette, libri e lastre di metalli preziosi incisi con simboli antichissimi. Gli spiriti elementari l'avevano aiutato in passato: ma adesso erano sconvolti dal caos, e quasi tutti si erano indeboliti. Si sganciò dalla cintura la spada infernale e la gettò sul letto, tra sete e pellicce. Ripensò amaramente ai tempi in cui si era arreso alla disperazione: eppure quegli episodi, adesso, sembravano liete avventure in confronto alla missione che l'ossessionava. Sebbene fosse stanchissimo decise di non assorbire l'energia rubata di Tempestosa, perché quella sensazione così simile all'estasi era sfumata di rimorso: il senso di colpa che l'aveva sempre dominato fin da bambino, da quando si era accorto per la prima volta che l'espressione sul remoto volto di suo padre non era d'amore ma di delusione per aver generato un debole, un pallido albino che non poteva far nulla senza l'aiuto dei filtri e della magia. Sospirò e andò alla finestra: guardò oltre le basse colline, verso il mare. Parlò a voce alta, forse inconsciamente, sperando che lo sfogo di quelle parole attenuasse la tensione interiore. «Non voglio questa responsabilità» disse. «Quando ho combattuto il dio morto ha detto che uomini e dèi sono ombre e recitano come marionette il prologo prima che incominci la vera storia della Terra e che gli uomini si trovino a essere padroni del loro fato. Poi Sepiriz mi ha detto che devo ribellarmi al caos e contribuire ad annientare il mondo che conosco, altrimenti la storia non ricomincerà mai. Quindi sono io colui che dev'essere straziato e temprato per compiere il destino: io non devo conoscere la pace, devo combattere senza tregua uomini e dèi e la sostanza del caos, devo
causare la morte di quest'epoca perché in un lontano albore uomini che sanno ben poco della magia e dei signori dei mondi superni possano esistere in un mondo dove le maggiori forze del caos non abbiano più accesso, dove la giustizia possa esistere come realtà e non come un mero concetto delle menti dei filosofi.» Si passò le dita sugli occhi cremisi. «Perciò il fato trasforma Elric in un martire, affinché la legge possa governare il mondo. Gli dona una spada malefica che annienta amici e nemici e succhia la loro anima per dargli la forza necessaria. Mi vincola al male e al caos perché io possa distruggere il male e il caos... ma non fa di me uno sciocco facile da convincere, una volonterosa vittima sacrificale. No, fa di me Elric di Melniboné e mi sommerge d'infelicità...» «Il mio signore parla da solo a voce alta... e i suoi pensieri sono cupi. Confidali a me, invece, perché io possa aiutarti a sopportarli.» Riconoscendo quella voce dolce, e tuttavia sorpreso, Elric si girò e vide sua moglie Zarozinia, con le braccia tese e un'espressione di profonda pietà sul volto. Mosse un passo verso di lei prima di fermarsi e di chiederle, irosamente: «Perché sei venuta qui? Perché? Ti avevo detto di rimanere nel palazzo di tuo padre a Karlaak fino a quando sarà tutto finito... se mai finirà!» «Se mai finirà...» ripeté lei, lasciando ricadere le braccia e scrollando le spalle. Sebbene fosse poco più di una bambina, con le labbra rosse e tumide e i lunghi capelli neri, aveva il portamento di una principessa, e sembrava più adulta. «Non farmi quella domanda» disse Elric, cinicamente. «Qui non ce la poniamo mai. Ma rispondi alla mia: come sei venuta qui, e perché?» Sapeva quale sarebbe stata la risposta: ma parlava solo per sottolineare la propria collera, scaturita dall'orrore al pensiero che Zarozinia fosse venuta tanto vicino al pericolo... il pericolo da cui già l'aveva salvata una volta. «Sono venuta con mio cugino Opluk e i suoi duemila uomini» disse lei, alzando la testa con aria di sfida, «quando ha raggiunto i difensori di Uhaio. Sono venuta per stare vicino a mio marito in un momento in cui può aver bisogno del mio conforto. Gli dèi sanno se ne ha necessità!» Elric prese a camminare avanti e indietro, agitato. «Io ti amo, ti amo così tanto che sarei a Karlaak con te, se avessi un pretesto per farlo. Ma non l'ho... Tu conosci il mio ruolo, il mio destino, la mia condanna. Con la tua presenza mi arrechi tristezza, non aiuto. Se questa guerra avrà una conclusione lieta, allora c'incontreremo ancora, in letizia, e non nell'angoscia co-
me adesso!» Le andò accanto e la prese tra le braccia. «Oh, Zarozinia, sarebbe meglio se non ci fossimo mai incontrati, se non ci fossimo sposati. In questo momento possiamo soltanto farci male a vicenda. La nostra felicità è stata così breve...» «Se sei convinto che io ti faccia male, così è» disse lei, sommessamente. «Ma se vuoi conforto, io sono qui per confortare il mio signore.» Elric cedette, con un sospiro. «Le tue sono parole d'affetto, mia cara, ma pronunciate in tempi terribili. Per ora ho accantonato l'amore. Cerca di fare altrettanto, e così entrambi ci libereremo da complicazioni inutili.» Senza mostrarsi incollerita, Zarozinia si scostò lentamente e con un lieve sorriso venato d'ironia indicò il letto su cui stava Tempestosa. «Vedo che l'altra tua amante divide ancora il tuo letto» disse. «E adesso non dovrai più abbandonarla, perché il nero signore di Nihrain ti ha offerto un pretesto per tenerla sempre al tuo fianco. Il destino... È questa, la parola giusta? Il destino! Ah, quante cose hanno fatto gli uomini in nome del destino! E cos'è il destino, Elric? Sai rispondermi?» Elric scosse il capo. «Dato che mi rivolgi questa domanda per malizia, non tenterò neppure di rispondere.» Zarozinia gridò: «Oh, Elric! Ho viaggiato per tanti giorni, pur di rivederti, pensando che mi avresti accolta a braccia aperte. E ora mi parli incollerito!» «Spaventato!» ribatté lui. «È paura, non collera. Temo per te, come temo per la sorte del mondo! Accompagnami alla nave, domattina, e poi affrettati a tornare a Karlaak. Ti supplico.» «Se tu lo vuoi.» Zarozinia tornò nella stanzetta adiacente alla camera principale. CAPITOLO TERZO «Noi parliamo solo di sconfitta!» ruggì Kargan delle Città Purpuree, battendo il pugno sul tavolo. La sua barba sembrò rizzarsi per il furore. All'alba, quasi tutti i capitani erano a dormire, esausti. Kargan, Maldiluna, Dyvim Slorm - il cugino di Elric - e il rubicondo Dralab di Tarkesh erano rimasti a discutere. Elric replicò, con molta calma: «Noi parliamo di sconfitta, Kargan, perché dobbiamo essere preparati a tale eventualità. Sembra probabile, no? Se la sconfitta apparirà imminente, dovremo fuggire dai nostri nemici conser-
vando le forze per un altro attacco contro Jagreen Lern. Non avremmo la possibilità di combattere un'altra grande battaglia, perciò dobbiamo sfruttare la conoscenza delle correnti, dei venti e del terreno per tendergli imboscate in mare e in terra. Così, forse, potremo demoralizzare i suoi guerrieri e ucciderne più di quanti loro possano uccidere dei nostri.» «Sì, capisco la tua logica» borbottò riluttante Kargan, turbato da quei discorsi perché, se la battaglia fosse stata perduta, sarebbe stata la fine anche per l'isola delle Città Purpuree, il principale bastione dei regni di Vilmir e di Ilmiora. Maldiluna cambiò posizione, con un grugnito. «E se ci respingono, allora dovremo arretrare, piegandoci per non spezzarci, e tornare all'attacco da altre direzioni, per confonderli. Sono convinto che dovremmo muoverci più rapidamente di quanto possiamo, perché saremo stanchi e avremo poche provviste...» Sogghignò, fiaccamente. «Ah, perdonate il mio pessimismo. Inopportuno, temo.» «No» disse Elric. «Dobbiamo affrontare la realtà, se no ci faremo cogliere di sorpresa. Hai ragione. E per consentire un ripiegamento ordinato, ho già mandato distaccamenti nel Deserto Sospirante e nella Solitudine Piangente, a seppellire ingenti quantitativi di viveri, frecce, lance e altre armi. Se saremo costretti a ritirarci fino a quei territori sterili, probabilmente ce la passeremo meglio di Jagreen Lern, calcolando che impieghi un certo tempo per estendere l'area del caos e che i suoi alleati dei mondi superni non dispongano di forze schiaccianti.» «Parlavi di realismo...» commentò Dyvim Slorm, sporgendo le labbra e inarcando un sopracciglio. «Sì: ma ci sono cose cui non possiamo neppure pensare, perché se già all'inizio verremo completamente sommersi dal caos non avremo più bisogno di far piani. Quindi li prepariamo per l'altra eventualità, capisci?» Kargan esalò un respiro e si alzò da tavola. «Non c'è altro da discutere» disse. «Andrò a letto. Dobbiamo essere pronti a salpare domani, con la marea di mezzogiorno.» Gli altri assentirono, scostarono le sedie e uscirono dalla sala. Rimasta vuota, l'ampia stanza sprofondò nel silenzio, rotto solo dallo sfrigolio delle lampade e dal fruscio delle mappe e delle carte smosse dal caldo vento. Era mattina inoltrata quando Elric si alzò e trovò Zarozinia già pronta, vestita di una gonna e di un corpetto di stoffa d'oro, con un lungo mantello argenteo foderato di nero che scendeva dalle spalle al pavimento.
Elric si lavò, si rase e mangiò il piatto di frutti insaporiti d'erbe che lei gli porse. «Perché ti sei abbigliata così sontuosamente?» le chiese. «Per salutarti al porto» rispose Zarozinia. «Se stanotte hai detto la verità, allora faresti meglio a indossare il rosso funebre.» Elric sorrise; poi, calmatosi, la strinse a sé. La tenne abbracciata, disperatamente, poi si scostò, le passò la mano sotto il mento e le alzò il volto per guardarla. «In questi tempi tragici» continuò, «c'è poco tempo per le schermaglie d'amore e le parole dolci. L'amore dev'essere profondo e forte, e manifestarsi nelle nostre azioni. Non chiedermi parole cortesi, Zarozinia, ma ricorda le notti in cui l'unica tempesta era quella dei nostri sensi.» Aveva indossato i paramenti da guerra dei sovrani di Melniboné: una corazza di lucente metallo nero, una giubba di velluto nero dal collo alto, brache di pelle nera coperte fino al ginocchio dagli stivali. Dalle spalle gli pendeva un mantello rossocupo, e al dito portava l'anello dei re, la rarissima pietra Actorios montata in argento. I lunghi capelli candidi gli scendevano sciolti sulle spalle, trattenuti sulla fronte da un cerchio bronzeo dove brillavano altre preziose pietre talismaniche: peryx, mio e otredos dorata. Tempestosa era nel fodero, al suo fianco sinistro, e a destra stava un pugnale dall'elsa d'ebano. Sul tavolo, fra i volumi aperti, era posato un elmo nero, intarsiato di antichi simboli, che saliva in una punta acuminata e altissima. Sopra le fessure per gli occhi c'era un minuscolo drago ad ali spiegate e a fauci spalancate, per ricordare che oltre a essere i sovrani dell'Impero Fulgido gli antenati di Elric erano stati anche i signori dei draghi. Elric ne era il comandante supremo, sebbene adesso solo suo cugino Dyvim Slorm conoscesse il linguaggio dei draghi e i relativi incantesimi: gli altri erano periti in vari modi dopo il sacco di Imrryr, avvenuto anni prima, quando Elric, rinnegando la patria, aveva guidato l'attacco contro la Città Sognante. Prese l'elmo e lo calzò, coprendosi la metà superiore del volto: solo gli occhi cremisi brillavano nell'ombra. Non abbassò i paraguance, lasciandoli per il momento apèrti ai lati dell'elmo. Notando il silenzio di Zarozinia le disse, col cuore già pesante: «Vieni, amor mio, andiamo al porto a sbalordire i nostri alleati semicivili con la nostra eleganza. Non temere: sopravviverò alla battaglia di oggi... perché il fato non ha ancora finito con me, e mi protegge con la premura di una madre affinché io possa assistere ad altre sciagure, fino al giorno in cui tutto
sarà terminato per sempre.» Lasciarono insieme il Forte della Sera, cavalcando i magici destrieri di Nihrain, e scesero al porto, dove gli altri signori del mare e i capitani erano già radunati sotto il fulgido sole. Erano tutti abbigliati con splendore marziale, sebbene nessuno uguagliasse Elric. Antiche memorie razziali si ridestarono in molti, quando lo videro, e si sentirono turbati, temendolo senza sapere perché: i loro antenati avevano avuto ogni motivo di paventare gli Imperatori Fulgidi ai tempi in cui Melniboné dominava il mondo e un uomo bardato come Elric comandava un milione di guerrieri incantati. Ora solo pochi imrryriani lo salutarono mentre avanzava lungo il molo, guardando le navi all'ancora, con le bandiere multicolori e le insegne araldiche levate orgogliose nella brezza. Dyvim Slorm portava un elmo foggiato in modo da raffigurare una testa di drago, con le scaglie rosse verdi e argentee. La corazza era laccata di giallo, sebbene gli altri suoi indumenti fossero neri come quelli di Elric. Al fianco portava la spada gemella di Tempestosa, Luttuosa. Quando Elric si accostò, Dyvim Slorm girò verso il mare aperto la testa pesantemente corazzata. Nelle acque calme e nel cielo sereno, nulla preannunciava la vicinanza del caos. «Almeno avremo tempo buono, mentre andremo incontro a Jagreen Lern» disse Dyvim Slorm. «Una piccola soddisfazione.» Elric sorrise lievemente. «Si è saputo quanto sono numerosi?» «Prima di morire, la spia tornata ieri ha detto che c'erano almeno quattromila navi da guerra, diecimila trasporti... e venti navi del caos. Dovremo tenerle d'occhio, perché non abbiamo un'idea dei loro poteri.» Elric annuì. La loro flotta era formata da cinquemila navi da guerra, molte munite di catapulte e altri pesanti ordigni bellici. I trasporti, sebbene contribuissero a conferire al nemico una schiacciante superiorità numerica, dovevano essere lenti e poco manovrabili, scarsamente utili in una battaglia navale. Inoltre, se tutto andava bene, sarebbe stato possibile liquidarli in seguito, perché ovviamente dovevano costituire la retroguardia della flotta da guerra di Jagreen Lern. Quindi, nonostante la potenza numerica su cui poteva contare il teocrate, in condizioni normali avrebbero avuto buone probabilità di vincere lo scontro. Il fattore inquietante era la presenza delle navi soprannaturali. La descrizione fornita dalla spia era vaga. Elric aveva bisogno d'informazioni
più obbiettive, e difficilmente avrebbe potuto averne prima che le due flotte si scontrassero. Nella camicia aveva riposto il manoscritto su pelle di belva di un'invocazione straordinariamente potente, usata per chiamare il re del mare. Aveva già tentato di usarla, senza successo, ma sperava che in mare aperto le probabilità migliorassero, soprattutto perché il re del mare doveva essersi sdegnato delle perturbazioni che Jagreen Lern e i suoi occulti alleati stavano apportando nell'equilibrio della natura. Già una volta, molto tempo addietro, il re del mare l'aveva aiutato: e aveva predetto che Elric l'avrebbe chiamato ancora. Kargan, il quale portava l'armatura marina robusta e leggera, tipica della sua gente, che gli dava l'aspetto di un coccodrillo dal muso peloso, tese il braccio mentre numerose barche si staccavano dalle navi e si dirigevano verso il molo. «Ecco le barche che vengono a prenderci, miei signori!» I capitani si mossero, seri in volto, come se ognuno di loro riflettesse su qualche problema personale o scrutasse nel profondo del proprio cuore... forse cercando di raggiungere la paura che vi stava annidata, di raggiungerla e di strapparla via per gettarla lontano. Provavano tutti una trepidazione più grande di quella consueta nell'imminenza di una battaglia: perché, come Elric, non potevano prevedere di cosa fossero capaci le navi del caos. Erano una schiera di disperati: sapevano che oltre l'orizzonte poteva attenderli qualcosa peggiore della morte. Elric strinse il braccio di Zarozinía. «Addio.» «Arrivederci, Elric. Che tutti gli dèi benevoli rimasti sulla Terra ti proteggano.» «Riserva le tue preghiere per i miei compagni» replicò lui, a bassa voce. «Perché saranno in grado meno di me di affrontare ciò che ci aspetta.» Maldiluna gridò: «Dalle un bacio, Elric, e vieni a bordo. Dille che torneremo vittoriosi!» Elric non avrebbe mai accettato una simile familiarità da qualcuno che non fosse Maldiluna: neppure da suo cugino Dyvim Slorm. Ma la prese bonariamente, mormorando a Zarozinia: «Ecco, vedi, il piccolo Maldiluna è fiducioso. Di solito è pieno di atroci presentimenti!» Lei non disse nulla: gli sfiorò le labbra con un bacio, gli strinse per un istante la mano e poi lo seguì con lo sguardo mentre lui scendeva dal molo
nella barca tenuta ferma da Maldiluna e Kargan. I remi s'immersero tra gli spruzzi, portando i capitani verso l'ammiraglia, la Dìlaniatrice. Elric era ritto a prua e guardava davanti a sé. Si voltò una sola volta, quando la barca si accostò alla nave e lui cominciò ad arrampicarsi per la scala di corda, verso il ponte. Sulla tolda, Elric guardava il movimento delle schiene dei guerrieri chini sui remi per accentuare lo slancio del vento leggero che gonfiava la grande vela purpurea facendola incurvare in un'onda elegante. L'isola delle Città Purpuree era ormai sparita all'orizzonte, e c'era solo l'acqua verde e lucente intorno alla flotta spiegata dietro l'ammiraglia: le navi più lontane sembravano minuscole come ninnoli. La flotta si stava già disponendo nelle cinque squadre che avrebbero costituito la formazione di battaglia. Ogni squadra era comandata da un esperto signore del mare delle Città Purpuree, perché quasi tutti gli altri capitani erano uomini della terraferma e sebbene avessero imparato presto avevano scarsa esperienza delle tattiche navali. Maldiluna avanzò a passi malfermi sul ponte per raggiungere l'amico. «Come hai dormito, stanotte?» chiese a Elric. «Abbastanza bene, a parte gli incubi.» «Ah, allora li hai condivisi con tutti noi. È stato difficile addormentarsi, e i nostri sonni sono stati inquieti. Visioni di mostri e demoni hanno popolato i miei sogni.» Elric annuì, ma senza prestare molta attenzione all'orientale. Gli elementi del caos racchiusi nei loro esseri si stavano evidentemente ridestando all'avvicinarsi delle orde infernali. Si augurava che fossero abbastanza forti da resistere nella realtà com'erano sopravvissuti ai sogni. «Perturbazione a prua!» Era il grido sconcertato e angosciato della vedetta. Elric si fece portavoce con le mani e inclinò la testa all'indietro. «Che tipo di perturbazione?» «Non ho mai visto niente di simile, mio signore... Non saprei descriverla.» Elric si rivolse a Maldiluna. «Trasmetti l'ordine alla flotta: rallentare l'andatura a un rullo di tamburo su quattro, e i comandanti di squadra si tengano pronti a ricevere gli ordini finali per la battaglia.» Si diresse verso l'albero maestro e prese ad arrampicarsi verso il posto di vedetta. S'inerpicò fino a quando fu molto in alto, sopra il ponte. La vedetta si aggrappò all'esterno della coffa, dove c'era spazio per uno soltanto.
«È il nemico, mio signore?» chiese, mentre Elric prendeva il suo posto. L'albino guardò verso l'orizzonte e scorse una specie di tenebra abbagliante: di tanto in tanto lanciava nell'aria sbuffi di una sostanza che aleggiava per qualche attimo prima di riaffondare nella massa. Fumosa, indefinibile, si avvicinava gradualmente, serpeggiando sopra il mare. «È il nemico» rispose a bassa voce Elric. Rimase per qualche tempo in coffa, osservando la sostanza del caos che si dibatteva in lontananza come un mostro amorfo nelle convulsioni dell'agonia. Ma non erano convulsioni d'agonia, o almeno non per il caos. Da quell'altezza Elric poteva vedere chiaramente anche la flotta, che si era ordinata nelle varie squadre e formava un cuneo nero lungo un miglio e largo quasi due. La sua nave precedeva di poco tutte le altre, ben visibile ai comandanti di squadra. Elric si sporse per gridare a Kargan, che vide passare sotto l'albero: «Pronti per avanzare, Kargan!» Il signore del mare annuì senza rallentare. Conosceva bene il piano di battaglia, come del resto tutti gli altri, perché ne avevano parlato a lungo. La squadra di testa, al comando di Elric, era formata dalle navi da battaglia più pesanti, che avrebbero investito il centro della flotta nemica e avrebbero cercato di disgregarla, mirando in particolare alla nave di Jagreen Lern. Se poi fosse stato possibile uccìdere o catturare il teocrate, la vittoria sarebbe diventata più probabile. La sostanza scura, adesso, era più vicina: Elric riusciva a distinguere le vele dei primi vascelli, disposti uno dietro l'altro. Poi, quando giunsero ancora più vicini, si accorse che ai lati di quella formazione c'erano grandi sagome scintillanti, così enormi da far sfigurare perfino la colossale ammiraglia di Jagreen Lern. Le navi del caos! Elric le riconobbe grazie alla sua conoscenza delle tradizioni occulte. Erano le navi che normalmente, si diceva, navigavano nel profondo degli oceani, prendendo come equipaggio i marinai annegati, e capitanate da esseri che non erano mai stati umani. Era una flotta proveniente dalle parti più abissali e tenebrose dell'immenso regno sottomarino, che fin dall'inizio del tempo erano state disputate tra gli spiriti elementari dell'acqua, al comando del re Straasha, e i signori del caos, i quali rivendicavano gli abissi marini quale loro principale proprietà sulla Terra. Secondo le leggende, un tempo il caos aveva governato il mare, e la legge la terraferma. Questo spiegava forse la paura che molti esseri umani provavano per gli oceani, e
l'attrazione subita invece da altri. Ma sebbene gli spiriti elementari fossero riusciti a conquistare le parti meno profonde dei mari, i signori del caos avevano conservato gli abissi grazie alla flotta dei morti. Le navi non erano di fabbricazione terrena, e i loro comandanti non erano originari della Terra: ma gli equipaggi erano stati umani, un tempo, e adesso erano indistruttibili. Quando si avvicinarono, Elric ebbe la certezza che si trattava veramente di quelle navi. L'insegna del caos sfolgorava sulle vele: otto frecce d'ambra che s'irradiavano dal mozzo centrale, per simboleggiare che il caos conteneva tutte le possibilità mentre la legge, con l'andar del tempo, avrebbe distrutto ogni possibilità, portando alla stagnazione eterna. L'insegna della legge era un'unica freccia puntata verso l'alto, a indicare ordine e direzione. Elric sapeva che in realtà il vero araldo della stagnazione era il caos, perché sebbene mutasse continuamente non progrediva mai. Ma in cuor suo provava una nostalgia per quella condizione, perché era stato fedele ai signori del caos e fin dagli inizi la sua gente aveva operato per realizzarne i fini. Ma adesso il caos doveva far guerra al caos: Elric doveva ribellarsi a coloro cui un tempo era stato fedele, usando armi forgiate da forze caotiche per sconfiggere quelle stesse forze nel tempo della trasformazione. Scese dalla coffa, si calò lungo l'albero maestro e atterrò con un salto sul ponte mentre si avvicinava Dyvim Slorm. Riferì rapidamente al cugino ciò che aveva visto. Dyvim Slorm si stupì. «Ma la flotta dei morti non sale mai alla superficie, tranne...» E spalancò gli occhi. Elric scrollò le spalle. «Così dice la leggenda: la flotta dei morti salirà dagli abissi quando verrà la lotta finale, quando il caos sarà diviso, quando la legge sarà debole e l'umanità dovrà prendere posizione nella battaglia che avrà come esito una Terra nuova, dominata dal caos totale o da una legge quasi totale. Quando Sepiriz ce l'ha detto, ho rammentato una cosa. Poi, studiando i miei manoscritti, ho trovato la conferma.» «Questa, dunque, è la battaglia finale?» «Potrebbe esserlo» rispose l'albino. «Certo sarà una delle ultime, quando si dovrà decidere per tutta l'eternità se dovrà regnare la legge o il caos.» «Se verremo sconfitti, allora regnerà indubbiamente il caos.» «Forse; ma ricorda che la lotta non verrà decisa soltanto dalle battaglie.»
«Così ha detto Sepiriz: ma se oggi verremo battuti, avremo ben poche possibilità di accertare la verità di quell'affermazione.» Dyvim Slorm strinse l'impugnatura di Luttuosa. «Qualcuno dovrà brandire queste armi, le spade del destino, quando verrà il momento del duello decisivo. I nostri alleati diventano sempre meno numerosi, Elric.» «Sì. Ma spero che possiamo evocarne altri. Straasha, il re degli elementari dell'acqua, ha sempre combattuto contro la flotta dei morti... ed è fratello di Graoll e di Misha, i signori del vento. Forse, per mezzo di Straasha, potrò evocare i suoi parenti ultraterreni. In questo modo, almeno, avremo maggiori possibilità.» «Io conosco solo un frammento dell'incantesimo per chiamare il re dell'acqua» disse Dyvim Slorm. «Io lo conosco tutto. Ora dovrò affrettarmi a meditare, perché le flotte si scontreranno fra due ore al massimo, e allora non avrò più tempo per evocare gli spiriti: dovrò aver cura del mio, perché qualche creatura del caos non me lo strappi.» Elric andò a prua della nave, si sporse dal parapetto e fissò le profondità dell'oceano, isolando la mente e contemplando l'antica sapienza che vi stava racchiusa. Come ipnotizzato, perse il contatto con la sua personalità e cominciò a identificarsi col turbinante oceano. Involontariamente le antiche parole cominciarono a prender forma nella sua gola e le labbra si mossero nell'incantesimo che i suoi antenati avevano appreso quando erano alleati di tutti gli spiriti elementari della Terra, legati da un impegno di aiuto reciproco, molto tempo addietro, agli albori dell'Impero Fulgido, più di diecimila anni prima. Acqua del mare, tu ci hai dato vita, sei stata il nostro latte e nostra madre nei giorni quando il cielo era coperto: e l'ultima sarai, tu che sei prima. Re del mare, antenato del mio sangue, chiedo il tuo aiuto, si, chiedo il tuo aiuto: sangue è il tuo sale, il nostro sangue è sale, e il sangue tuo è sangue anche dell'uomo. Straasha, eterno re ed eterno mare,
chiedo il tuo aiuto, sì, chiedo il tuo aiuto: perché i nemici tuoi, nemici miei, voglion toglierci il fato e il nostro mare. La formula che Elric stava pronunciando era soltanto un'espressione vocale dell'invocazione vera, prodotta mentalmente e lanciata nel profondo dei verdescuri corridoi del mare finché trovò Straasha nel suo regno di costruzioni curvilinee dai colori del corallo, che solo parzialmente si trovavano nel mare terrestre e in parte stavano nel piano su cui gli spiriti elementari trascorrevano quasi tutta la loro esistenza immortale. Straasha sapeva che le navi dell'inferno erano salite alla superficie, e si era rallegrato che adesso il suo dominio ne fosse liberato; ma l'invocazione di Elric ridestò la sua memoria. Ricordò il popolo di Melniboné, per il quale un tempo tutti gli elementari provavano un sentimento di cameratismo; ricordò l'antica invocazione e si sentì vincolato a rispondere, benché sapesse che i suoi sudditi erano gravemente indeboliti dagli effetti prodotti dal caos in altre parti del mondo. Non ne avevano sofferto soltanto gli umani: ne avevano risentito gravemente anche gli spiriti elementari della natura. Si scosse, e l'acqua e la sostanza dell'altro piano si perturbarono. Chiamò alcuni dei suoi seguaci e cominciò a salire verso il regno dell'aria. Elric, semicosciente, comprese che la sua invocazione era stata ascoltata. Attese, disteso a prua. Infine le acque si gonfiarono e si aprirono, e apparve un colosso verde, con la barba e i capelli turchesi, la pelle verdepallida che sembrava fatta di mare, e una voce che aveva il suono delle onde. Ancora una volta Straasha risponde alla tua chiamata, mortale. I nostri destini sono legati. Come posso aiutarti e aiutando te aiutare me stesso? Nel faticoso linguaggio degli elementari, Elric rispose spiegando al re l'imminente battaglia e il suo significato. Dunque il momento è giunto! Temo di non poterti dare un grande aiuto, perché il mio popolo soffre terribilmente per le devastazioni del comune nemico. Cercheremo di aiutarti, se potremo. È tutto ciò che prometto. Il re del mare sprofondò nell'acqua; Elric lo guardò scomparire con una straziante delusione. Chiuso nei suoi cupi pensieri, lasciò la prua e andò nella cabina di comando a informare i suoi capitani. Quelli accolsero la notizia con inquietudine, perché soltanto Dyvim Slorm era abituato ai contatti col soprannaturale. Maldiluna aveva sempre
dubitato che Elric fosse in grado di dominare gli irrefrenabili spiriti elementari suoi amici, mentre Kargan borbottò che Straasha poteva essere alleato del popolo di Elric ma era stato spesso nemico della sua gente. Adesso tutti e quattro, comunque, potevano fare i loro piani con maggior ottimismo e affrontare con più fiducia lo scontro imminente. CAPITOLO QUARTO La flotta di Jagreen Lern avanzava, e nella sua scia aleggiava la vorticosa sostanza del caos. Elric diede l'ordine, e i rematori s'impegnarono con lena raddoppiata, lanciando la Dilaniatrice verso i nemici. Fino a quel momento gli alleati elementari non erano apparsi, ma non poteva permettersi di attenderli. Mentre la Dilaniatrice cavalcava le onde spumeggianti, Elric sguainò la spada, abbassò i paraguance dell'elmo per proteggersi il volto e lanciò l'antichissimo e ululante grido di battaglia di Melniboné, un grido carico di malvagità gioiosa. La voce incantata di Tempestosa si associò alla sua, lanciando un canto pulsante, pregustando il sangue e le anime che presto avrebbe divorato. L'ammiraglia di Jagreen Lern, adesso, si trovava dietro tre file di galeoni; più indietro venivano le navi dei morti. Il ferreo ariete della Dilaniatrice si piantò nel fasciame della prima nave nemica, e i rematori si piegarono sui banchi arretrando e virando per sfondare la chiglia di un'altra nave al disotto della linea di galleggiamento. Piogge di frecce grandinarono dalla nave ferita e tintinnarono sul ponte e sulle corazze. Parecchi rematori si accasciarono sui banchi. Elric e i suoi tre compagni impartivano ordini ai loro uomini dal ponte, e all'improvviso videro le sfere di fuoco verde che piombavano dal cielo. «Prepararsi a spegnere il fuoco!» gridò Kargan: gli uomini assegnati a quel compito corsero verso le tinozze contenenti un liquido speciale che Elric aveva insegnato loro a preparare. Lo sparsero sui ponti e lo spruzzarono sulle vele: quando le sfere di fuoco caddero, si spensero quasi subito. «Non impegnatevi a meno di esservi costretti» gridò Elric ai marinai. «Continuate a dirigervi verso l'ammiraglia. Se la prenderemo, ci saremo assicurati un buon vantaggio!» «Dove sono i tuoi alleati, Elric?» chiese in tono sardonico Kargan, rabbrividendo nel vedere la sostanza del caos che in lontananza si muoveva all'improvviso e protendeva nel cielo tentacoli neri.
«Verranno, non temere» rispose Elric; ma non ne era molto sicuro. Erano ormai nel folto della flotta nemica, seguiti dalle navi della loro squadra. Le macchine da guerra dei signori del mare continuavano a scagliare una grandine di fuoco e di pesanti pietre. Soltanto pochi vascelli di Elric sfondarono la prima fila delle navi nemiche e avanzarono nel mare aperto, verso l'ammiraglia di Jagreen Lern. Prontamente, le navi nemiche virarono per proteggere l'ammiraglia; e le scintillanti navi dei morti, muovendosi con velocità incredibile per le loro proporzioni enormi, circondarono il vascello del teocrate. Gridando sull'acqua, Kargan ordinò ai resti della sua squadra di disporsi in una nuova formazione. Maldiluna scosse il capo, sbalordito. «Com'è possibile che navi tanto grandi restino a galla?» chiese a Elric. Elric rispose: «È improbabile che ci restino, in realtà.» Mentre la loro ammiraglia si portava nella nuova posizione, fissò le venti immense navi che facevano sembrare piccole tutte le altre. Sembravano coperte da una specie di scintillante umidità, corrusca di tutti i colori dello spettro: era difficile vedere i suoi contorni e le buie figure che si muovevano sui giganteschi ponti. Spire di sostanza nera cominciarono ad aleggiare a pelo dell'acqua; e Dyvim Slorm, dal ponte inferiore, tese il braccio e gridò: «Guardate! Ecco il caos. Dove sono Straasha e i suoi sudditi?» Elric scosse il capo, turbato. Si era aspettato che l'aiuto giungesse, ormai. «Non possiamo attendere. Dobbiamo attaccare!» La voce di Kargan era più stridula del solito. Invaso da uno slancio d'amarezza, Elric sorrise. «E allora avanti. Attacchiamo!» La squadra, velocemente, fece rotta verso le inquietanti navi dei morti. Maldiluna borbottò: «Stiamo andando incontro alla nostra fine, Elric. Nessuno si avvicinerebbe volentieri a quelle navi. Solo i morti ne vengono attirati, e non vanno certo con letizia!» Ma Elric non replicò. Uno strano silenzio scese sulle acque, e lo scroscio dei remi divenne più intenso. La flotta dei morti li attendeva, impassibile, come se i suoi equipaggi non avessero bisogno di prepararsi alla battaglia. Elric strinse più forte Tempestosa. La spada sembrò rispondere alle pul-
sazioni del suo sangue, muovendosi nella mano a ogni battito del cuore quasi vi fosse collegata da vene e arterie. Ormai erano così vicini alle navi del caos che potevano distinguere meglio le figure affollate sui grandi ponti. Pieno di orrore, Elric ebbe la sensazione di riconoscere alcuni degli esangui volti dei morti, e involontariamente chiamò il re del mare. «Straasha!» Le acque si gonfiarono, spumeggiarono come se tentassero di sollevarsi, ma poi ricaddero. Straasha aveva udito... ma gli era difficile lottare contro le forze del caos. «Straasha!» Fu inutile: le acque si mossero appena. Elric si sentì invadere da una cupa disperazione. Gridò a Kargan: «Non possiamo attenderci aiuto. Guida la nave intorno alla flotta del caos: cercheremo di raggiungere da tergo l'ammiraglia di Jagreen Lern.» Sotto l'esperta direzione di Kargan la nave virò per evitare le navi dell'inferno, aggirandole in un ampio semicerchio. Gli spruzzi piovvero sul volto di Elric e inondarono i ponti. L'albino stentava a vedere qualcosa mentre superavano le navi del caos, che adesso stavano impegnando altri vascelli e mutavano la natura del loro fasciame, mandandolo in frantumi mentre gli sventurati uomini dell'equipaggio annegavano o assumevano orride forme aliene. Gli giunsero le disperate grida degli sconfitti e il tuono trionfante della musica della flotta del caos, che avanzava per distruggere le navi degli orientali. La Dilaniatrice ondeggiava violentemente, ed era difficile governarla: ma infine aggirarono la flotta infernale, puntando da tergo verso l'ammiraglia di Jagreen Lern. Elric, che poco tempo prima era stato prigioniero a bordo, la riconobbe immediatamente. Sfiorarono con l'ariete il vascello del teocrate, ma vennero sospinti fuori rotta e dovettero riprendere a manovrare. Dai ponti nemici cadde una tintinnante pioggia di frecce. Anche i loro arcieri tirarono, mentre sulla cresta di un'enorme onda si portavano a fianco dell'ammiraglia e scagliavano i grappini d'abbordaggio. Alcuni ressero, trascinandoli verso il vascello del teocrate, mentre gli uomini di Pan Tang cercavano di recidere le cime. Vennero lanciati altri grappini, e poi una piattaforma d'abbordaggio scese dall'imbracatura e cadde con un tonfo sul ponte, subito seguita da un'altra.
Elric corse verso la piattaforma più vicina, in cerca di Jagreen Lern; dietro di lui c'erano Kargan e una schiera di guerrieri. Tempestosa bevve una decina di vite e una decina di anime prima che Elric raggiungesse il ponte principale. Là stava un comandante bardato di splendide vesti e circondato da un gruppo di ufficiali. Ma il teocrate non c'era. Elric si arrampicò per la scaletta, tranciando alla cintola un guerriero che cercava di bloccarlo. Urlò agli ufficiali: «Dov'è il vostro maledetto teocrate? Dov'è Jagreen Lern?» Il comandante era impallidito, perché in passato aveva visto ciò che potevano fare l'albino e la sua spada infernale. «Non è qui, Elric. Lo giuro.» «Cosa? Dovrà sfuggirmi ancora? So che menti!» Elric avanzò verso gli ufficiali, che indietreggiarono con le spade spianate. «Il nostro teocrate non ha bisogno di proteggersi con le menzogne, maledetto!» ringhiò un giovane luogotenente, più ardimentoso degli altri. «Forse no» gridò Elric con una risata furibonda, mentre si avventava verso di lui roteando Tempestosa. «Ma almeno avrò la tua vita prima di mettere alla prova la verità delle tue parole. Io e la mia spada abbiamo bisogno di energia... e la tua anima dovrebbe servire come antipasto, prima che io prenda quella di Jagreen Lern!» L'uomo levò la spada per bloccare il fendente di Tempestosa. La lama stregata tranciò il metallo con un grido di trionfo, scattò all'indietro e si piantò nel fianco dell'ufficiale. Quello si lasciò sfuggire un grido soffocato ma restò in piedi, a mani contratte. «No!» gemette. «Oh, non l'anima! No!» I suoi occhi si spalancarono, sgorgando lacrime e colmandosi di follia per un istante, prima che Tempestosa si saziasse e Elric la ritraesse. Non provava nessuna pietà per quell'uomo. «La tua anima sarebbe sprofondata comunque nell'inferno» disse, quasi gaiamente. «Ma adesso, almeno, l'ho utilizzata.» Due ufficiali scavalcarono il parapetto, cercando di sottrarsi alla stessa sorte. Elric mozzò la mano a uno di loro, e quello cadde urlando sul ( ponte mentre la mano stringeva ancora il parapetto. Poi trafisse il ventre dell'altro, che restò lì infilzato balbettando parole di supplica nel tentativo di scongiurare l'inevitabile. Un'ardente vitalità pervase l'albino: si avventò sul gruppo degli ufficiali come se volasse, e falciò membra come steli di fiori finché si trovò di fron-
te al comandante. Quello disse, con voce debole e opaca: «Mi arrendo. Non prendere la mia anima.» «Dov'è Jagreen Lern?» Il comandante indicò in lontananza, dove la flotta del caos stava sbaragliando le navi degli orientali. «Là! Naviga insieme al signore del caos Pyaray, cui appartiene quella flotta. Non potrai raggiungerlo, perché un uomo che non sia protetto o già morto si trasformerebbe in carne liquida e fluente se si avvicinasse a quelle navi.» «Quel dannato figlio dell'inferno mi è sfuggito ancora una volta» sibilò Elric. «Ecco il pagamento per l'informazione...» Senza pietà per uno di coloro che avevano devastato e asservito due continenti, Elric trapassò con la lama la corazza arabescata e con tutta l'antica malevolenza dei suoi antenati stregoni sfiorò delicatamente il cuore dell'uomo prima di finirlo. Si guardò intorno cercando Kargan, ma non lo vide. E poi si accorse che la flotta del caos stava tornando indietro. In un primo istante pensò che Straasha fosse venuto finalmente ad aiutarlo, ma poi notò che i resti della sua armata navale erano in fuga. Jagreen Lern aveva vinto. I loro piani, le loro formazioni, il loro coraggio... non erano bastati a resistere alle orrende distorsioni del caos. E adesso la terribile flotta puntava verso le due ammiraglie, agganciate l'una all'altra dai grappini. Era impossibile disincagliarne una prima che arrivassero le navi dei morti. Elric gridò a Dyvim Slorm e a Maldiluna, che vide correre verso di lui dall'altra estremità del ponte: «In mare! In mare, se volete salvarvi! E allontanatevi a nuoto più che potete: sta arrivando la flotta del caos!» I due lo guardarono, sbalorditi, e poi compresero. Uomini di entrambe le fazioni si stavano già buttando nelle onde insanguinate. Elric rinfoderò la spada e si tuffò. Il mare era freddo, nonostante tutto quel sangue: Elric soffocò un grido mentre prendeva a nuotare verso la rossa testa di Maldiluna che scorgeva in lontananza, accanto alla chioma color miele di Dyvim Slorm. Si voltò, una volta sola, e vide il fasciame delle due navi che all'appressarsi delle navi dell'inferno cominciava a sciogliersi e contorcersi assumendo strane forme. Era una fortuna essersi tuffati in tempo. Raggiunse i due amici.
«Per ora l'abbiamo scampata» disse Maldiluna, sputando acqua salmastra. «E adesso, Elric? Dobbiamo raggiungere a nuoto le Città Purpuree?» La faceta ironia di Maldiluna non sembrava sminuita dalla sconfitta della loro flotta e dall'avanzata del caos. L'isola era troppo lontana. Poi, sulla sinistra, videro l'acqua spumeggiare e modellarsi in una forma che Elric riconobbe. «Straasha!» Non ho potuto aiutarti. Non ho potuto aiutarti. Ho tentato, ma il mio vecchio nemico era troppo forte. Perdonami. In compenso, lascia che porti te e i tuoi amici nella mia terra, per salvarvi dal caos. «Ma noi non possiamo respirare sott'acqua!» Non sarà necessario. «Sta bene.» Affidandosi alla promessa dello spirito elementare si lasciarono trascinare sott'acqua nei freschi e verdi abissi del mare, dove non filtrava più la luce del sole e tutto era tenebra: ma continuavano a vivere, mentre in condizioni normali l'enorme pressione li avrebbe stritolati. Ebbero la sensazione di viaggiare per miglia e miglia attraverso le misteriose grotte subacquee, finché giunsero in un luogo pieno di costruzioni tondeggianti, color corallo, che parevano andare alla deriva in una pigra corrente. Elric lo riconobbe da una descrizione contenuta in uno dei suoi testi di magia. Era il dominio del re del mare, Straasha. Lo spirito elementare li condusse all'edificio più grande: e una parte sembrò dissolversi per fornire l'accesso. Seguirono tortuosi corridoi di un rosa delicato, leggermente ombrosi e non più immersi nell'acqua. Ormai si trovavano sul piano degli spiriti elementari. Giunsero in un'immensa grotta rotonda. Con uno strano fruscio, il re del mare si diresse a un grande trono di giada lattea e vi si sedette, appoggiando la verde testa sul pugno altrettanto verde. «Elric, ancora una volta mi rammarico di non averti potuto aiutare. Quello che posso fare, adesso, è di ordinare ad alcuni dei miei sudditi di riportarti nella tua terra, quando avrai riposato qui per un po'. Sembra che siamo tutti impotenti contro la nuova forza acquisita dal caos.» Elric annuì. «Nulla può resistere alla sua influenza nefasta... a meno che sia lo scudo del caos.» Straasha raddrizzò le spalle. «Lo scudo del caos. Ah, sì. Appartiene a un dio esule, non è vero? Ma il suo castello è virtualmente inespugnabile.»
«Perché?» «Sorge sulla vetta più alta di una montagna solitaria, dove si giunge salendo centotrentanove gradini. La scala è fiancheggiata da quarantanove ontani antichissimi, dai quali dovrai guardarti. E ha una scorta di centoquarantaquattro guerrieri.» «Mi guarderò dai guerrieri, senza dubbio. Ma perché anche dagli ontani?» «Ogni albero racchiude l'anima di uno dei seguaci di Mordaga: è stata la loro punizione. Sono alberi malefici, sempre pronti a togliere la vita a chiunque si avventuri nel loro dominio.» «Una missione difficile, prendere lo scudo» mormorò Elric. «Ma devo averlo, perché senza lo scudo il disegno del fato verrebbe frustrato per sempre e invece con lo scudo potrei vendicarmi di colui che comanda la flotta del caos... e di Jagreen Lern, che naviga con lui.» «Uccidi Pyaray, signore della flotta dell'inferno, e senza la sua guida la flotta stessa perirà. La sua forza vitale è racchiusa in un cristallo azzurro situato sulla testa: colpirlo con un'arma speciale è l'unico modo per ucciderlo.» «Ti ringrazio di questa informazione» disse riconoscente Elric. «Perché ne avrò bisogno, quando verrà il momento.» «Cosa intendi fare, Elric?» chiese Dyvim Slorm. «Dimenticare tutto il resto, per ora, e cercare lo scudo del gigante triste. Devo farlo: perché se non l'avrò, ogni battaglia che combatteremo non sarà altro che la ripetizione di quella appena perduta.» «Verrò con te» promise Maldiluna. «Anch'io» disse Dyvim Slorm. «Avremo bisogno di un quarto, se dobbiamo adempiere la profezia» replicò Elric. «Chissà che fine ha fatto Kargan.» Maldiluna abbassò gli occhi. «Non hai visto?» «Visto cosa?» «A bordo dell'ammiraglia di Jagreen Lern, mentre seminavi morte intorno a te per cercare di raggiungere il ponte di comando. Non sai cos'hai fatto, o meglio cos'ha fatto la tua spada maledetta?» Elric si sentì improvvisamente sfinito. «No. L'ho... l'ho ucciso?» «Sì.» «Per gli dèi!» L'albino prese a camminare avanti e indietro, battendo il pugno sul palmo dell'altra mano. «Questa lama infernale esige ancora il suo tributoper i servigi che mi rende. Beve ancora le anime dei miei amici.
È un miracolo che voi due siate vivi!» «È straordinario, l'ammetto» disse in tono convinto Maldiluna. «Sono molto addolorato. Kargan era un buon amico.» «Elric» si affrettò a dire Maldiluna. «Tu sai che la morte di Kargan non è stata colpa tua. Era destino.» «Sì: ma io devo essere sempre il carnefice del destino? Non oso ricordare i nomi dei buoni amici e dei fedeli alleati cui la mia spada ha rubato l'anima. La odio già perché deve bere anime per darmi vitalità... ma non sopporto che mostri questa oscena predilezione per i miei umici. Ho quasi intenzione di avventurarmi nel cuore del caos, per sacrificare me stesso e Tempestosa. La colpa è mia, indirettamente, perché se non fossi tanto debole da dover portare una simile spada, oggi molti dei miei amici sarebbero ancora vivi.» «Eppure la finalità fondamentale della spada sembra nobile disse Maldiluna, perplesso.» Oh, non riesco a capire... Un paradosso dopo l'altro. Gli dèi sono pazzi o forse sono così sottili e tortuosi che noi non possiamo comprendere il loro pensiero? «In momenti come questi è difficile ricordare uno scopo più grande» riconobbe Dyvim Slorm. «Non abbiamo tempo per riflettere e dobbiamo combattere sempre nuove battaglie, dimenticando spesso perché ci battiamo.» «È davvero uno scopo più grande?» fece Elric, con un sorriso amaro. «Se noi siamo i balocchi degli dèi, gli dèi sono forse come bambini?» «Questi interrogativi non hanno importanza, adesso» osservò Straasha dal suo trono. «E almeno» disse Maldiluna a Elric, «le generazioni future ringrazieranno Tempestosa, se realizzerà il suo destino.» «Se Sepiriz non s'inganna» ribatté Elric, «le generazioni future non sapranno niente di noi, spade e uomini insieme!» «Forse a livello conscio, ma nel profondo dell'anima si ricorderanno di noi. Le nostre imprese verranno attribuite a eroi con altri nomi, ecco tutto.» «Io chiedo solo che il mondo mi dimentichi» sospirò Elric. Quasi spazientito da quella discussione inutile, il re del mare si alzò dal trono e disse: «Venite; provvederò a farvi trasportare sulla terraferma, se non avete obiezioni a viaggiare nello stesso modo in cui siete venuti qui.» «Nessuna obiezione» replicò Elric.
CAPITOLO QUINTO Salirono, esausti e vacillanti, sulla spiaggia dell'isola delle Città Purpuree; Elric si voltò verso il re del mare, che era rimasto in acqua. «Ti ringrazio ancora di averci salvati, sovrano del mare» disse rispettosamente. «E grazie per avermi parlato dello scudo del gigante triste. Forse, così facendo, ci hai dato la possibilità di scacciare il caos dall'oceano... e anche dalla terraferma.» Aaah. Il re del mare annuì. Eppure, se riuscirai nel tuo intento e il mare rimarrà incontaminato, significherà la fine per entrambi, non è vero? «È vero.» E allora così sia, perché io sono stanco della mia lunga esistenza. Ma ora devo ritornare alla mia gente e sperare di resistere al caos ancora per qualche tempo. Addio. Il re del mare sprofondò tra le onde e svanì. Quando raggiunsero la Fortezza della Sera, gli araldi accorsero ad aiutarli. «Com'è andata la battaglia? Dov'è la flotta?» chiese a Maldiluna uno di loro. «I superstiti non sono ancora ritornati?» «I superstiti? Ma allora...?» «Siamo stati sconfitti,» disse Elric in tono cupo. «Mia moglie è ancora qui?» «No. È partita poco dopo che la flotta è salpata, e si è diretta verso Karlaak.» «Bene. Almeno avremo il tempo di erigere nuove difese contro il caos, prima che si estenda tanto lontano. Ora abbiamo bisogno di cibo e vino. Dobbiamo ideare un nuovo piano di battaglia.» «Un piano di battaglia, mio signore? E con cosa dovremo combattere?» «Vedremo» disse Elric. «Vedremo.» Più tardi, mentre guardavano i malconci resti della flotta rientrare nel porto, Maldiluna li contò, disperato. «Troppo pochi. È stata una giornata nera.» Dietro di loro, nel cortile, squillò una tromba. «Sta arrivando qualcuno dal continente» disse Dyvim Slorm. Scesero insieme nel cortile, in tempo per vedere un arciere vestito di scarlatto che smontava da cavallo. Il suo volto scarno sembrava scolpito
nell'osso. Barcollava per la stanchezza. Elric lo fissò, sorpreso. «Rackhir! Tu avevi il comando della costa ilmiorana. Perché sei qui?» «Siamo stati respinti. Il teocrate aveva messo in mare due flotte, non una. L'altra è arrivata attraverso il Mare Pallido e ci ha colti alla sprovvista. Ha schiantato le nostre difese. Il caos è avanzato, e noi siamo stati costretti alla fuga. Il nemico si è attestato a meno di cento miglia da Bakshaan e marcia attraverso la campagna... se si può parlare di marcia. In realtà fluisce. Presumibilmente prevede di ricongiungersi all'esercito che il teocrate intende far sbarcare qui.» «Aaahh, siamo battuti...» La voce di Maldiluna era poco più di un sospiro. «Dobbiamo avere quello scudo, Elric» disse Dyvim Slorm. Elric aggrottò la fronte, angosciato. «Qualunque mossa tenteremo contro il caos sarà condannata all'insuccesso, se non avremo quella difesa. Tu, Rackhir, sarai il quarto uomo della profezia.» «Quale profezia?» «Te lo spiegherò più tardi. Te la senti di partire con noi?» «Lasciami dormire due ore, e sarò pronto.» «Bene. Due ore. Preparatevi, amici miei, perché andremo a prendere lo scudo del gigante triste!» Solo tre giorni dopo incontrarono i primi superstiti, molti dei quali erano sfigurati dal caos: si trascinavano lungo una strada bianca che portava a Jadmar, una città ancora libera. Dai profughi vennero a sapere che erano caduti metà di Ilmiora, varie parti di Vilmir e il piccolo regno indipendente di Org. Il caos stringeva la morsa, e la sua ombra si estendeva sempre più rapidamente con l'accrescersi delle sue conquiste. Fu un sollievo per Elric e i suoi compagni giungere finalmente a Karlaak e scoprire che non era stata ancora attaccata. Ma i rapporti segnalavano che le armate del caos erano a meno di duecento miglia e avanzavano in quella direzione. Zarozinia accolse Elric con gioia sfumata d'angoscia. «Dicevano che eri morto, ucciso nella battaglia navale.» Elric la strinse a sé. «Non posso trattenermi a lungo» disse. «Ho una missione da compiere oltre il Deserto Sospirante.» «Lo so.»
«Lo sai? E come?» «Sepiriz è stato qui. Ha lasciato un dono per te, nelle scuderie. Quattro destrieri di Nihrain.» «Un dono utilissimo. Ci porteranno più velocemente di qualunque altro cavallo. Ma basterà? Esito a lasciarti qui, mentre il caos si avvicina.» «Devi lasciarmi. Se ci accorgeremo che qui tutto è perduto, fuggiremo nella Solitudine Piangente. Neppure Jagreen Lern potrà provare molto interesse per quella terra desolata.» «Promettimi che lo farai.» «Lo prometto.» Un po' rasserenato, Elric la prese per mano. «Ho trascorso il periodo più pacifico della mia vita in questo palazzo» disse. «Lascia che io passi quest'ultima notte con te, e forse ritroveremo un po' della pace di un tempo... prima che io parta per raggiungere la tana del gigante triste.» Fecero l'amore, ma quando si addormentarono i loro sogni si popolarono di portenti così tenebrosi che ognuno svegliò l'altro con i propri gemiti; e giacquero a fianco a fianco, tenendosi avvinti, fino all'alba. Allora Elric si alzò, baciò Zarozinia, le tenne stretta la mano e poi scese nelle scuderie, dove trovò gli amici che l'attendevano... insieme a un quarto. Era Sepiriz. «Sepiriz, ti ringrazio del tuo dono. Probabilmente questi cavalli ci permetteranno di arrivare in tempo. Ma perché sei qui, ora?» «Perché posso rendervi un altro piccolo servigio prima dell'inizio del viaggio» rispose il veggente nero. «Tutti voi, tranne Maldiluna, avete armi dotate di un potere speciale. Elric e Dyvim Slorm hanno le spade stregate; Rackhir le frecce della legge, che l'incantatore Lamsar gli ha dato al tempo dell'assedio di Tanelorn; ma l'arma di Maldiluna ha solo l'abilità di colui che la porta.» «Preferisco così» ribatté Maldiluna. «Ho visto cosa può fare un'arma stregata.» «Non posso darti nulla che sia potente e malvagio quanto Tempestosa» disse Sepiriz. «Ma ho un incantesimo per la tua spada: il contatto con i sovrani bianchi mi permette di usarlo. Dammi la tua lama.» Con una certa riluttanza l'orientale sfoderò la spada ricurva e la porse al nihrain, che si tolse dalla veste un piccolo bulino e mormorando un incantesimo incise diversi simboli sulla spada, presso l'elsa. Poi la rese a Maldiluna. «Ecco. Adesso la spada ha la benedizione della legge, e scoprirai che
riuscirà meglio a resistere alle forze del caos.» Elric intervenne, impaziente: «Ora dobbiamo partire, Sepiriz. Il tempo fugge.» «Allora partite. Ma guardatevi dalle pattuglie dei guerrieri di Jagreen Lern. Non credo che le incontrerete durante l'andata... ma state attenti quando sarete di ritorno.» Montarono sui magici destrieri di Nihrain che avevano aiutato Elric più di una volta, e si allontanarono da Karlaak nei pressi della Solitudine Piangente. Si allontanarono forse per sempre. Poco dopo si addentrarono nella Solitudine Piangente, perché quella era la via più breve per arrivare al Deserto Sospirante. Rackhir era il solo che conosceva bene quel territorio, e faceva da guida ai compagni. I destrieri di Nihrain, che galoppavano sul suolo del loro piano ultraterreno, sembravano letteralmente volare: i loro zoccoli non toccavano l'umida erba della Solitudine Piangente. Procedevano a velocità incredibile, e Rackhir si tenne aggrappato convulsamente alle redini finché si abituò a quell'andatura. In quel luogo di piogge eterne era difficile vedere a grande distanza, e l'acquerugiola li spruzzava in faccia e negli occhi quando cercavano di scorgere in lontananza l'alta catena di montagne che cingeva il bordo della Solitudine Piangente separandola dal Deserto Sospirante. E poi, finalmente, dopo un giorno di viaggio, scorsero le alte vette con le sommità perdute tra le nubi, e ben presto, grazie alla prodigiosa velocità degli stalloni di Nihrain, attraversarono le profonde gole e la pioggia cessò. La sera del secondo giorno la brezza divenne tiepida, e poi calda e aspra quando lasciarono le montagne e sentirono gli ardenti e furiosi raggi del sole: erano giunti al limitare del Deserto Sospirante. Il vento frusciava di continuo sulle sabbie e le rocce nude, e il suo sospiro dava il nome al deserto. I quattro si ripararono la faccia e gli occhi col cappuccio, perché la sabbia pungente era dovunque. Riposavano solo per poche ore alla volta. Guidati da Rackhir, lasciavano che i cavalli li portassero a una velocità dieci volte superiore a quella dei comuni destrieri, addentrandosi nel cuore dell'immenso deserto. Parlavano poco, perché era difficile sentire le parole nel sospiro del vento: ognuno si era chiuso in se stesso, immerso nei propri pensieri.
Da molto tempo Elric era sprofondato in una specie di trance, e lasciava che il suo stallone lo portasse attraverso il deserto. Aveva lottato contro il tumulto dei pensieri e delle emozioni, accorgendosi che era difficile - come già molte altre volte - conservare un'impressione oggettiva della situazione. Il suo passato era stato troppo inquieto e morboso perché ora lui potesse vedere chiaramente. Era sempre stato schiavo dei sentimenti malinconici, delle debolezze fisiche, e del sangue che gli scorreva nelle vene. Vedeva la vita non già come un disegno coerente ma come una successione di eventi casuali. Per tutta la sua esistenza si era sforzato di riordinare i pensieri e se necessario di accettare la natura caotica delle cose e d'imparare a coesistere: ma, eccettuati i momenti di più intensa crisi personale, era riuscito raramente a pensare con coerenza per una certa durata di tempo. Forse a causa della sua esistenza di fuorilegge, dell'albinismo, della dipendenza dalla spada che gli dava forza, era ossessionato dalla consapevolezza del proprio destino. Si chiese: cos'era il pensiero? cos'era il sentimento? cos'era l'autocontrollo? E valeva la pena di realizzarlo? Forse era meglio vivere secondo l'istinto, piuttosto che teorizzare e sbagliare; meglio rimanere una marionetta degli dèi, lasciandosi manovrare a loro piacere, piuttosto che cercare di dominare il proprio fato, scontrandosi con il volere dei signori dei mondi superni, e perire. Così rifletteva mentre cavalcava nelle brucianti raffiche del vento, lottando contro i rischi della natura. E qual era la differenza tra i rischi terreni e quelli dei pensieri e dei sentimenti incontrollati? Gli uni e gli altri erano molto simili. Ma i suoi avi, sebbene avessero dominato il mondo per diecimila anni, erano vissuti sotto un'altra stella. Non erano stati veri uomini, e neppure veri esponenti delle razze antiche divenute umane. Erano una varietà intermedia, e di questo Elric si rendeva vagamente conto: era conscio di essere l'ultimo di una stirpe endogamica che, senza il minimo sforzo, aveva usato la magia donata dal caos come gli altri usavano le loro capacità terrene: per comodità. La sua razza era appartenuta al caos, e non aveva avuto bisogno dell'autocontrollo e delle autorestrizioni delle razze nuove, emerse con l'epoca dei Regni Giovani; e perfino costoro, secondo il veggente Sepiriz, non erano i veri uomini che un giorno sarebbero vissuti sulla Terra, quando l'ordine e il progresso sarebbero divenuti la regola e il caos avreb-
be esercitato raramente la sua influenza... se Elric avesse trionfato distruggendo il mondo che conosceva. Questo pensiero accresceva la sua cupezza, perché non aveva altro destino che la morte, altro scopo che quello voluto dal fato. Perché opporsi, perché tentare di aguzzare l'ingegno, quando era poco più di una vittima sull'altare del destino? Aspirò una profonda boccata d'aria secca e caldissima e l'espulse dai polmoni ardenti, sputando la sabbia che era riuscita a penetrargli nella bocca e nelle narici. Dyvim Slorm condivideva lo stato d'animo di Elric, in una certa misura, sebbene i suoi sentimenti fossero meno forti. Aveva vissuto un'esistenza più ordinata di quella di Elric, anche se erano dello stesso sangue. Mentre Elric aveva posto in discussione le tradizioni del proprio popolo, e addirittura aveva rinunciato al regno per esplorare le terre nuove dei Regni Giovani e comparare il loro modo di vita col suo, Dyvim Slorm non si era mai posto simili problemi. Aveva conosciuto una profonda amarezza quando Elric, rinnegando la patria, aveva raso al suolo Imrryr, la Città Sognante, ultima roccaforte dell'antica razza di Melniboné; e anche un profondo trauma quando lui stesso e gli ultimi imrryriani superstiti erano stati costretti ad avventurarsi nel mondo e a guadagnarsi da vivere come mercenari di re arrivisti e di popoli spregevoli. Dyvim Slorm, che non si era mai posto problemi di quel genere, non se li poneva neppure adesso; ma si sentiva inquieto. Maldiluna era meno assorto nei propri pensieri. Da quando, molti anni prima, aveva incontrato Elric e insieme avevano combattuto contro i Dharzi, aveva sempre provato per l'amico una viva simpatia, addirittura una profonda immedesimazione. Quando Elric sprofondava in uno di quei cupi stati d'animo, Maldiluna si tormentava solo perché non poteva aiutarlo. Molte volte aveva cercato il modo di strappare Elric alla depressione, ma aveva imparato che era impossibile. Benché gaio e ottimista per natura, adesso si sentiva dominato dalla minaccia che gravava su di loro. Neanche Rackhir, che pure aveva una mentalità più serena e filosofica dei suoi compagni, era in grado di afferrare in pieno i sottintesi di quella missione. Aveva sperato di trascorrere il resto dei suoi giorni in meditazione e contemplazione, nella pacifica città di Tanelorn, che esercitava una strana influenza rasserenante su quanti vi abitavano. Ma era stato impossibile ignorare l'appello a combattere contro il caos; e con riluttanza, Rackhir si era buttato sulle spalle la faretra con le frecce della legge e aveva impu-
gnato di nuovo l'arco per lasciare Tanelorn con una piccola schiera di compagni fedeli, desiderosi di seguirlo e di offrire i loro servigi a Elric. Scrutando attraverso l'aria piena di sabbia vide qualcosa torreggiare in lontananza: una montagna isolata che si ergeva dal deserto, come se vi fosse stata collocata con mezzi soprannaturali. Tese il braccio. «Elric! Là! Dev'essere il castello di Mordaga!» Elric si scosse e seguì con gli occhi la direzione indicata da Rackhir. «Sì» sospirò. «Siamo arrivati. Adesso fermiamoci e riposiamo per recuperare le forze, prima di percorrere l'ultimo tratto.» Fermarono i cavalli e smontarono, stirandosi le membra indolenzite e sgranchendosi le gambe per riattivare la circolazione. Innalzarono la tenda per ripararsi dalla sabbia portata dal vento e consumarono il pasto in un'atmosfera di cameratismo creata dalla consapevolezza che forse, dopo aver raggiunto la montagna, non avrebbero mai più rivisto un essere vivente. CAPITOLO SESTO La scala saliva tortuosa intorno alla montagna. Lassù in alto potevano scorgere il luccichio delle mura; e nel punto dove i gradini s'incurvavano e scomparivano per la prima volta, videro un ontano. Sembrava un albero normale, ma per loro era un simbolo: il loro antagonista iniziale. Come avrebbe combattuto? Quale influenza avrebbe esercitato su di loro? Elric posò un piede sul primo scalino. Era alto, adatto al passo di un gigante. Cominciò a salire, seguito dagli altri tre. Quando giunse al decimo gradino, sguainò Tempestosa e sentì che fremeva e gli trasmetteva energia. La salita divenne immediatamente più agevole. Quando fu più vicino all'ontano, l'udì frusciare e vide il movimento dei rami. Sì, certo era senziente. Era ormai a pochi passi dall'albero quando udì Dyvim Slorm gridare: «Per gli dèi! Le foglie... Guardate le foglie!» Le verdi foglie, con le nervature che sembravano pulsare nel sole, presero a staccarsi dai rami e a fluttuare verso i quattro. Una si posò sulla mano nuda di Elric. Lui cercò di gettarla via, ma la foglia aderiva. Altre si posarono su ulteriori parti del suo corpo. Adesso venivano come un'onda verde, e lui avvertiva una strana sensazione pungente sulla mano. Con un'imprecazione strappò via la foglia, e inorridì nel vede-
re che lasciava minuscole punture rosse. Scosso dalla nausea, si strappò le altre dal volto e colpì la massa volante con la spada stregata. Appena la lama le toccava avvizzivano, ma venivano immediatamente sostituite da altre foglie. Elric comprese, per istinto, che succhiavano non solo il sangue delle sue vene ma anche la forza della sua anima: si stava già indebolendo. Dietro di lui i suoi compagni, alle prese con la stessa situazione, lanciavano grida di orrore. Le foglie erano guidate, e l'albino sapeva da dove provenivano gli ordini: dall'albero. Salì i gradini che ancora lo separavano dall'ontano, combattendo contro le foglie che gli sciamavano intorno come locuste. Con torva decisione cominciò a colpire il tronco, che lanciò un gemito rabbioso e tese i rami per afferrarlo. Elric li tranciò, e affondò Tempestosa nell'albero. Zolle di terra volarono verso l'alto mentre le radici si dibattevano convulsamente. L'albero urlò, e prese a inclinarsi verso di lui come se, morendo, cercasse di ucciderlo. Elric tirò a sé Tempestosa, che stava succhiando con avidità l'energia vitale dell'albero senziente: ma non riuscì a svellerla, e si scostò con un balzo mentre l'ontano cadeva di schianto sui gradini, sfiorandolo. Un ramo gli sferzò il volto, facendolo sanguinare. Elric barcollò, soffocando un grido, e sentì la forza vitale che gli defluiva dalle vene. Mentre barcollava verso l'albero caduto, vide che il legno era già morto e che le foglie rimaste si erano incartapecorite. «Presto» ansimò, mentre gli altri tre lo raggiungevano. «Spostatelo. La mia spada è lì sotto, e senza Tempestosa sono spacciato!» I tre si misero prontamente al lavoro e fecero rotolare l'albero divenuto stranamente leggero, così che Elric poté stringere con la mano esausta l'elsa di Tempestosa. La lama era ancora confitta nel tronco. E in quell'attimo per poco non urlò, investito da una sensazione di forza immane. L'energia lo saturò, pulsò in lui, facendolo sentire quasi un dio. Rise, come invasato da un demone, e gli altri lo fissarono sgomenti. «Venite, amici. Seguitemi. Adesso posso annientare un milione di alberi come questo!» Salì a balzi i gradini, mentre un altro sciame di foglie veniva verso di lui. Incurante dei morsi, si avventò direttamente verso l'ontano, puntando la spada al centro del tronco. E l'albero urlò. «Dyvim Slorm!» gridò Elric, ebbro di energia vitale. «Fa' come me: lascia che la tua spada beva qualche anima come questa, e saremo invincibili!»
«Non è un'energia molto gradevole» disse Rackhir, scrollandosi da dosso le foglie morte mentre Elric ritraeva la spada e correva verso il terzo ontano. Gli alberi erano più fitti, là, e chinavano i rami per raggiungerlo, incombendo su di lui, cercando di dilaniarlo. Con minore spontaneità, Dyvim Slorm imitò il suo metodo per spacciare gli alberi senzienti: ben presto si sentì saturato a sua volta dalle anime rubate ai demoni prigionieri nei tronchi degli ontani, e il suo grido di folle esultanza si unì a quello di Elric mentre attaccavano un albero dopo l'altro come boscaioli infernali. Ogni vittoria dava loro nuove energie: Maldiluna e Rackhir si guardarono sbalorditi e quasi spaventati nel vedere la terribile metamorfosi che si compiva nei loro amici. Ma era innegabile che il loro metodo era efficace, contro gli ontani. Ben presto poterono voltarsi indietro a guardare la distesa di tronchi caduti e anneriti sul fianco della montagna. Tutto l'antico ed empio fervore dei sovrani di Melniboné divampava sui volti dei due cugini mentre cantavano antichi inni di battaglia e le spade gemelle si univano al canto, elevando un'inquietante melodia di tenebrosa malevolenza. Con le labbra socchiuse sui denti candidi, gli occhi cremisi sfolgoranti di un fuoco terribile, i capelli lattei che si agitavano nel vento ardente, Elric levò la spada al cielo e si voltò verso i compagni. «Ora, amici, vedrete in che modo gli antichi di Melniboné hanno vinto uomini e demoni e dominato il mondo per diecimila anni!» Maldiluna pensò che Elric meritava pienamente il soprannome di Lupo, acquisito in occidente ormai da molto tempo. Tutta la potenza del caos racchiusa in lui aveva conquistato la supremazia. L'orientale si accorse che Elric non era più diviso tra due fedeltà: non c'erano conflitti, in lui. Il sangue dei suoi avi lo dominava, e lui appariva quale dovevano essere apparsi loro stessi, molti secoli addietro, quando le altre razze dell'umanità fuggivano al loro cospetto temendone la magnificenza e la malvagità. Anche Dyvim Slorm sembrava invasato, e Maldiluna elevò una preghiera agli dèi benigni rimasti nell'universo, ringraziandoli perché Elric era suo alleato e non suo nemico. Ormai erano vicini alla vetta: Elric e suo cugino procedevano a balzi sovrumani. I gradini finivano all'imboccatura di una galleria buia, e i due si avventarono nell'oscurità ridendo e chiamandosi a vicenda. Maldiluna e Rackhir li seguirono, meno spediti, e l'Arciere Rosso incoccò una freccia.
Elric scrutò nella tenebra, stordito dall'energia che sembrava erompere da ogni poro del suo corpo. Udì lo sferragliare di armati che si avvicinavano, e comprese che quei guerrieri erano umani. Sebbene fossero poco meno di centocinquanta, non lo intimorivano. Quando il primo gruppo si scagliò contro di lui, bloccò facilmente i colpi e li abbatté. Ogni anima rubata modificava solo di pochissimo la vitalità che già lo pervadeva. Spalla a spalla, i due cugini massacravano i guerrieri come se fossero stati altrettanti bambini. Maldiluna e Rackhir sopraggiunsero, e guardarono inorriditi la scena mentre il sangue rendeva viscido il pavimento della galleria. Quando Elric e Dyvim Slorm superarono i primi caduti e attaccarono gli altri, il fetore della morte in quel luogo angusto divenne insopportabile. Rackhir gemette. «Sebbene siano nemici, e servitori di coloro che combattiamo, non sopporto un simile massacro. Qui non c'è bisogno di noi, amico Maldiluna. Quelli sono due demoni, non uomini!» «Sì» sospirò Maldiluna. Tornarono alla luce del sole e videro il castello, con i guerrieri superstiti che si riorganizzavano mentre Elric e Dyvim Slorm avanzavano minacciosi, con gioia malevola. L'aria echeggiò di grida e del clangore dell'acciaio. Rackhir mirò con una freccia a uno dei guerrieri e la scagliò, centrandolo all'occhio sinistro. «Farò in modo che alcuni abbiano una morte più pulita» mormorò, incoccando un'altra freccia. Mentre Elric e suo cugino scomparivano tra le file dei nemici, altri, forse intuendo che Rackhir e Maldiluna rappresentavano un pericolo minore, si avventarono su di loro. Maldiluna si trovò impegnato da tre guerrieri e scoprì che la sua spada sembrava straordinariamente leggera e irradiava una nota dolce e limpida quando si scontrava con le armi dei nemici, deviandole senza difficoltà. La spada non gli trasmetteva energia ma non si smussava, e le ben più pesanti armi degli avversari non bastavano a vincerla. Rackhir aveva scagliato tutte le sue frecce, in un atto di misericordia. Attaccò i nemici con la spada e ne uccise due, colpendo da tergo il terzo avversario di Maldiluna con un affondo dal basso in alto che penetrò nel fianco e nel cuore. Poi, disgustati, avanzarono nel folto della mischia e videro che il suolo era già coperto d'innumerevoli cadaveri. Rackhir gridò: «Basta! Elric, lascia che siamo noi a finirli. Non è necessario prendere le loro anime. Possiamo ucciderli con mezzi più naturali!» Ma Elric rise e continuò la strage.
Quando lui ebbe finito un ennesimo guerriero senza che ce ne fossero altri nelle immediate vicinanze, Rackhir l'afferrò per il braccio. «Elric...» Tempestosa si girò nella mano dell'albino, ululando sazia e soddisfatta, e piombò in un rabbioso fendente verso Rackhir. Vedendo il fato che l'attendeva, l'Arciere Rosso, con un singulto, tentò di evitare il colpo. Ma la lama lo centrò alla scapola e affondò fino allo sterno. «Elric!» urlò Rackhir. «Non la mìa anima!» E così morì l'eroe Rackhir, l'Arciere Rosso, famoso nelle Terre Orientali, ucciso da una lama infida, dall'amico cui aveva salvato la vita molto tempo addietro, quando si erano incontrati nei pressi della città di Ameeron. Allora Elric comprese: cercò di svellere la spada, ma ormai era troppo tardi. Ancora una volta aveva ucciso involontariamente uno di coloro che gli erano cari, mentre era in potere della spada stregata. «Oh, Rackhir!» gridò, inginocchiandosi accanto al cadavere e stringendolo tra le braccia. L'energia rubata pulsava ancora in lui, ma l'angoscia era troppo grande e le impediva di dominarlo. Le lacrime scorsero sul tormentato volto di Elric, e un gemito gli squassò il corpo. «Ancora» mormorò. «Ancora. Non finirà mai?» Dietro di lui, i due compagni rimasti stavano ai lati opposti del campo di battaglia. Dyvim Slorm non uccideva più, ma solo perché non gli restavano più avversari. Ansimava, guardandosi intorno sbalordito. Maldiluna fissava Elric con orrore e pietà, perché ne conosceva bene il fato e sapeva che la vita di un amico era il prezzo che Tempestosa esigeva per fornire energia all'albino. «Rackhir! Non c'è mai stato un eroe più mite, un uomo più desideroso di pace e di ordine!» Elric si rialzò voltandosi a guardare l'enorme castello di granito e di pietre azzurre, chiuso in un silenzio enigmatico come in attesa della sua prossima mossa. Sui bastioni della torre più alta distinse una figura che poteva essere solo un gigante. «Giuro per la tua anima rubata, Rackhir, che quanto tu volevi avverrà, anche se sarò io, una creatura del caos, a realizzarlo. La legge trionferà e il caos sarà respinto! Armato della spada e dello scudo forgiati dal caos, se sarà necessario combatterò tutti i demoni dell'inferno. Il caos è stato la causa indiretta della tua morte. E il caos sarà punito. Ma prima dobbiamo prendere lo scudo.»
Dyvim Slorm, che non si era reso conto dell'accaduto, gridò esultante al cugino: «Elric, adesso andiamo a far visita al gigante triste!» Maldiluna, avvicinandosi a guardare il corpo straziato di Rackhir, mormorò: «Sì, Elric, il caos è la vera causa. Parteciperò volentieri alla vendetta purché» (e rabbrividì) «la tua spada infernale mi risparmi.» Insieme varcarono la porta spalancata del castello di Mordaga, e si trovarono in una sala arredata con splendore barbarico. «Mordaga!» gridò Elric. «Siamo venuti a compiere una profezia! Ti attendiamo.» Aspettarono, impazienti, finché una figura enorme varcò la grande arcata in fondo alla sala. Mordaga era alto quanto due uomini, ma aveva le spalle leggermente curve. Aveva una lunga chioma, scura e ricciuta, e indossava un camice azzurrocupo stretto da una cintura. I piedi erano calzati di semplici sandali di cuoio. Gli occhi neri erano colmi di un'angoscia quale Maldiluna aveva visto soltanto negli occhi di Elric. Il gigante triste imbracciava uno scudo rotondo con le otto frecce ambrate del caos. Era bellissimo, di un verde argenteo. Mordaga non aveva altre armi. «Conosco la profezia» disse, con una voce che sembrava il ruggito di un vento solitario. «Tuttavia cerco ancora di scongiurarla. Prenderai lo scudo e mi lascerai in pace, umano? Non voglio la morte.» Elric provò un senso di solidarietà nei confronti dell'infelice Mordaga, e comprese ciò che doveva provare in quel momento il dio caduto. «La profezia dice morte» rispose, a bassa voce. «Prendi lo scudo.» Mordaga lo sfilò dal possente braccio e lo porse a Elric. «Prendi lo scudo, e cambia il fato per questa volta.» Elric annuì. «Lo farò.» Con un sospiro immane, il gigante depose sul pavimento lo scudo del caos. «Da migliaia di anni vivo nell'ombra della profezia» disse, raddrizzandosi. «Ora, anche se morirò di vecchiaia, morirò in pace, sebbene un tempo non lo credessi: perciò accoglierò con gioia la morte dopo tutto questo tempo.» «Forse non è così che morirai, ora che hai perso la protezione dello scudo» l'avvertì Elric. «Perché il caos si avvicina e ti sommergerà come sommerge ogni cosa, a meno che io possa arrestarlo. Ma almeno, sembra, l'affronterai in uno stato d'animo più filosofico.»
«Addio e grazie» disse il gigante. Si voltò e tornò pesantemente verso l'arcata da cui era entrato. Quando Mordaga scomparve, Maldiluna scattò e lo inseguì prima che Elric e Dyvim Slorm potessero gridare o trattenerlo. Poi udirono un urlo che parve echeggiare nell'eternità, un tonfo che scosse la sala, e infine un suono di passi. Maldiluna ricomparve sulla soglia, stringendo la spada insanguinata. Incapace di comprendere quell'azione inspiegabile, Elric tacque, fissando l'orientale che si avvicinava. «È stato un assassinio» disse semplicemente Maldiluna. «L'ammetto. L'ho colpito alla schiena prima che se ne accorgesse. È stata una fine rapida e pulita, ed è morto mentre era felice. E inoltre è stata una fine migliore di quella che i suoi servitori avevano cercato d'infliggerci. È stato un assassinio: ma necessario, secondo me.» «Perché?» chiese Elric, ancora sbigottito. Cupamente, Maldiluna continuò: «Doveva perire come aveva decretato il fato. Ormai, Elric, noi siamo servitori del fato, e contrastarlo in un piccolo particolare significa ostacolarlo. Ma è stato soprattutto l'inizio della mia vendetta. Se Mordaga non si fosse circondato di una simile orda, Rackhir non sarebbe morto.» Elric scosse il capo. «La colpa è stata mia, Maldiluna. Il gigante non doveva perire per il delitto della mia spada.» «Qualcuno doveva perire» ribatté con fermezza Maldiluna. «E poiché la profezia annunciava la fine di Mordaga, toccava a lui. Chi altro, qui, avrei potuto uccidere?» L'albino girò la testa. «Vorrei che fossi stato io» sospirò. Guardò il grande scudo rotondo con le frecce d'ambra cangiante e il misterioso colore verde-argento. Lo raccolse senza difficoltà e l'imbracciò: in pratica ne era protetto dal mento alle caviglie. «Venite: affrettiamoci a lasciare questo luogo di morte e d'infelicità. Le terre d'Ilmiora e di Vilmir attendono il nostro aiuto, se non sono già state travolte dal caos!» CAPITOLO SETTIMO Tra le montagne che separavano il Deserto Sospirante dalla Solitudine Piangente, appresero per la prima volta la sorte degli ultimi Regni Giovani. S'imbatterono in un gruppo di sei guerrieri sfiniti, guidati dal nobile Voa-
shoon, il padre di Zarozinia. «Cos'è accaduto?» chiese ansioso Elric. «Dov'è Zarozinia?» «Il nostro continente è caduto in preda al caos, Elric. Quanto a Zarozinia, non so se è morta o perduta o se è stata presa prigioniera.» «Non l'hai cercata?» chiese Elric, in tono d'accusa. Il vecchio scrollò le spalle. «Figlio mio, ho visto tali orrori in questi ultimi giorni che sono incapace di qualunque sentimento. Non desidero altro che una rapida liberazione da questa vita. I giorni dell'umanità sulla Terra sono finiti. Non procedere oltre, perché anche la Solitudine Piangente comincia a mutare davanti alla marea del caos. Non c'è più speranza.» «Non c'è più speranza? No! Siamo ancora vivi, forse anche Zarozinia è viva. Non hai saputo nulla della sua sorte?» «Solo una diceria: Jagreen Lern l'avrebbe presa a bordo dell'ammiraglia del caos.» «Dunque è in mare?» «No: quei vascelli maledetti veleggiano sulla terra come sul mare, ammesso che ormai sia possibile fare una distinzione. Sono state quelle navi ad attaccare Karlaak, con un'immane orda di uomini a cavallo e di fanti. Regna la confusione: là non troverai altro che la morte, figlio mio.» «Vedremo. Finalmente ho una difesa contro il caos, e la mia spada e il mio destriero di Nihrain.» Elric si girò sulla sella, rivolgendosi ai compagni. «Ebbene, amici, rimarrete qui col nobile Voashoon o mi accompagnerete nel cuore del caos?» «Verremo con te» rispose Maldiluna, parlando anche per Dyvim Slorm. «Ti abbiamo seguito finora, e le nostre sorti sono comunque legate alla tua. Non possiamo far altro.» «Bene. Addio, nobile Voashoon. Se vuoi renderti utile, attraversa la Solitudine Piangente e raggiungi Eshmir e i Regni Sconosciuti, dove si trova la patria di Maldiluna. Informali di ciò che possono attendersi, anche se ormai probabilmente sarà impossibile salvarli.» «Tenterò» disse Voashoon, con voce stanca. «E spero di arrivarci prima del caos.» Poi Elric e i suoi compagni ripartirono, cavalcando incontro alle orde del caos: tre uomini contro le forze scatenate delle tenebre, tre uomini irriducibili che avevano seguito la strada segnata dal destino e che adesso ritenevano inconcepibile fuggire. Era necessario recitare gli ultimi atti, sia che l'esito fosse una notte urlante o una giornata serena.
Ben presto scorsero i primi segni del caos, nel luogo dove un tempo si stendeva una lussureggiante prateria. Adesso era una palude giallastra di roccia fusa, che sebbene fredda ondeggiava come dotata di volontà propria. I cavalli di Nihrain, poiché non galoppavano sul piano della Terra, l'attraversarono con relativa facilità; e per la prima volta si rivelò il potere dello scudo del caos perché, mentre i tre passavano, la gialla roccia liquida mutava e ridiventava temporaneamente erba. A un certo punto incontrarono una povera cosa che aveva ancora arti riconoscibili e bocca in grado di parlare. Da quella sventurata creatura appresero che Karlaak non esisteva più: era stata trasformata in un nulla ardente, e là le forze umane e soprannaturali del caos si erano accampate dopo aver compiuto la loro opera. L'infelice parlò anche di qualcosa che aveva per Elric un interesse particolare. Si diceva che Melniboné, l'isola del Drago, fosse l'unico luogo dove il caos non aveva potuto estendere la sua influenza. «Se, quando avremo compiuto la nostra missione, potremo raggiungere Melniboné» disse Elric ai due amici, mentre proseguivano, «forse riusciremo a resistere fino a quando i sovrani bianchi potranno aiutarci. E ci sono i draghi addormentati nelle grotte: sarebbero utili contro Jagreen Lern, se potessimo destarli.» «A cosa serve combattere, ormai?» replicò rassegnato Dyvim Slorm. «Jagreen Lern ha vinto, Elric. Noi non abbiamo adempiuto al nostro destino. Il nostro ruolo è terminato, e il caos regna.» «Davvero? Ma noi dobbiamo ancora combatterlo, e mettere alla prova la sua forza contro la nostra. Solo allora decideremo qual è stato l'esito.» Dyvim Slorm lo guardò dubbioso, ma non disse nulla. E poi, infine, giunsero al campo del caos. Nessun incubo mortale potrebbe raffigurare una visione tanto terribile. Le torreggianti navi dell'inferno dominavano il campo, mentre i tre osservavano da lontano, inorriditi. Fiamme multicolori sembravano guizzare ovunque, demoni di ogni tipo si mescolavano agli umani, i duchi dell'inferno - di una bellezza malefica - conferivano con i re - dalla faccia smagrita - che si erano alleati con Jagreen Lern e forse se ne pentivano già. Spesso il suolo si gonfiava ed eruttava, e gli esseri umani che avevano la sventura di trovarsi in quell'area s'inabissavano rimanendo totalmente trasformati oppure venivano deformati in modo atroce. Il frastuono era spaventoso: una mescolanza di voci umane, ruggenti suoni del caos, ululanti
risate di diavoli, e spesso le urla torturate di un'anima umana che forse pagava la sua scelta con la follia. C'era un fetore disgustoso di putredine, di sangue e di maleficio. Le navi dell'inferno si muovevano lentamente in mezzo all'orda che si stendeva per miglia e miglia, costellata dai grandi padiglioni dei re, con le seriche bandiere fluttuanti: una pompa meschina in confronto alla potenza del caos. Molti esseri umani quasi non si distinguevano dalle creature del caos, perché l'influenza malefica aveva mutato il loro aspetto. Elric mormorò agli amici, mentre attendevano in sella: «È evidente che l'influsso devastatore diventa più forte tra le schiere umane. E continuerà così fino a quando anche Jagreen Lern e gli altri condottieri umani perderanno ogni sembianza d'umanità e diventeranno parte della ribollente sostanza del caos. E sarà la fine del genere umano: scomparirà per sempre. Voi state guardando ciò che resta dell'umanità, a parte noi tre. Ben presto non si distinguerà più da tutto il resto. Questa Terra instabile è oppressa dai signori del caos, o lo sarà ben presto. La stanno assorbendo a poco a poco nel loro regno, nel loro piano. Prima la riplasmeranno, e poi la ruberanno interamente: diverrà un grumo d'argilla che potranno modellare in forme grottesche.» «E noi cerchiamo d'impedirlo?» disse disperato Maldiluna. «Non possiamo, Elric.» «Dobbiamo continuare la lotta, fino a quando saremo sconfitti. Ricordo ciò che ha detto Straasha, il re del mare: se Pyaray, il comandante delle navi dell'inferno, verrà ucciso, i vascelli cesseranno di esistere. Io intendo farne la prova. E non ho dimenticato che la mia sposa potrebbe essere prigioniera sulla sua nave, e che Jagreen Lern è là. Ho tre buoni motivi per tentare.» «No, Elric! Sarebbe peggio di un suicidio!» «Non vi ho chiesto di accompagnarmi.» «Se tu andrai, verremo con te: ma non mi va.» «No. Se un uomo solo non può riuscire, non potranno riuscirci neppure tre. Andrò solo. Attendetemi qui. E se non farò ritorno cercate di raggiungere Melniboné.» «Ma Elric...!» gridò Maldiluna: e poi restò a guardare mentre Elric, imbracciando il pulsante scudo del caos, spronava il destriero di Nihrain verso il campo. Protetto contro l'influenza del caos, Elric fu avvistato da un distaccamento di guerrieri mentre si avvicinava alla nave che era la sua meta. Lo
riconobbero e galopparono verso di lui, urlando. Elric rise loro in faccia, quasi impazzito per ciò che vedeva e udiva intorno a sé. «Ecco il cibo di cui ha bisogno la mia spada prima di banchettare in quella nave!» gridò, tranciando la testa del primo avversario come se fosse stata un ranuncolo. Al sicuro dietro il grande scudo rotondo, falciava furiosamente gli avversari. Da quando Tempestosa aveva ucciso i demoni prigionieri nei tronchi degli ontani, la vitalità che gli trasmetteva era quasi illimitata; eppure ogni anima che Elric rubava ai guerrieri di Jagreen Lern era una nuova frazione di vendetta. Contro gli umani era invincibile. Fendette dalla testa all'inguine un guerriero dalla pesante corazza, tranciò la sella e schiantò la spina dorsale del cavallo. Poi all'improvviso gli altri guerrieri indietreggiarono. Elric si sentì invadere da strane sensazioni: comprese di trovarsi nell'area su cui si esercitava l'influsso della nave del caos e di esserne protetto dallo scudo. Adesso era parzialmente al difuori del piano terrestre, ed esisteva tra quel mondo e il mondo del caos. Smontò dallo stallone di Nihrain e gli ordinò di attenderlo. C'erano molte funi che pendevano dalle enormi fiancate della nave: inorridito, Elric vide che altre figure si stavano arrampicando... e riconobbe molti uomini che aveva conosciuto a Karlaak. La nave del caos continuava a reclutare tra i morti il suo equipaggio. Si unì a quella macabra schiera e s'inerpicò con gli altri sulla fiancata della grande nave scintillante, mimetizzandosi in mezzo a loro. Raggiunse il parapetto e lo scavalcò, sputando bile mentre penetrava in una strana oscurità e arrivava al primo dei ponti che salivano come gradini verso il più alto, dove si scorgevano due figure: un uomo e qualcosa che sembrava un'enorme piovra rosso-sangue. Il primo era indubbiamente Jagreen Lern. Il secondo era Pyaray, poiché quella - come Elric sapeva - era la forma che assumeva quando si manifestava sulla Terra. Contrariamente a quanto era avvenuto mentre osservava le navi da lontano, Elric si accorse che la luce era cupa e ombrosa, satura di fili in movimento: una rete di rossi, azzurri, gialli, verdi e porpora, che quando lui avanzava cedevano e si riallacciavano dopo il suo passaggio. Veniva urtato di continuo dai cadaveri semoventi, e si sforzava di non guardarli in faccia perché aveva già riconosciuto molti degli scorridori del mare da lui abbandonati vari anni prima, durante la fuga da Imrryr. Salì verso il ponte più alto: e fino a quel momento, notò. Jagreen Lern e Pyaray sembravano ignari della sua presenza. Presumibilmente si ritene-
vano al sicuro da ogni attacco, adesso che avevano conquistato tutto il mondo conosciuto. Sogghignò maliziosamente e continuò a salire, stringendo con forza lo scudo perché sapeva che se l'avesse perso il suo corpo si sarebbe mutato in una forma aliena o si sarebbe dissolto fluendo nella sostanza del caos. Ormai aveva dimenticato tutto tranne il suo scopo fondamentale: uccidere Pyaray. Doveva raggiungere il ponte più alto e liquidare per primo il signore del caos; poi uccidere Jagreen Lern, e infine, se era davvero lì, salvare Zarozinia e condurla al sicuro. Su per i ponti tenebrosi, tra le reti di strani colori, Elric saliva, con i candidi capelli che sventolavano dietro di lui, in contrasto con l'oscurità che lo circondava. Quando giunse al penultimo ponte, sentì un tocco lieve sulla spalla: guardò e vide, con orrore, che uno dei tentacoli rosso-sangue di Pyaray l'aveva trovato. Arretrò, vacillando, e alzò lo scudo. La punta del tentacolo sfiorò l'arma e sussultò improvvisamente: l'intero tentacolo si raggrinzì. Dall'alto, dove stava il signore del caos, venne un terribile ruggito urlante. «Cos'è? Cos'è? Cos'è?» Elric gridò, trionfalmente, nel vedere l'effetto del suo scudo: «Sono Elric di Melniboné! Sono venuto ad annientarti, grande signore!» Un altro tentacolo piombò verso di lui, cercando di attorcersi oltre lo scudo per afferrarlo. Poi ne venne un altro, poi un altro ancora. Elric ne falciò uno, tranciandone la punta; vide un secondo toccare lo scudo, ritrarsi e raggrinzirsi; poi evitò il terzo per girare intorno al ponte e salire rapidamente la scaletta che portava in cima. Là vide Jagreen Lern, con gli occhi sbarrati. Il teocrate portava la solita armatura scarlatta; imbracciava uno scudo e con la stessa mano stringeva un'ascia, mentre nella destra impugnava uno spadone. Abbassò lo sguardo sulle proprie armi, chiaramente conscio che sarebbero state inutili contro quella di Elric. «Più tardi penserò anche a te, teocrate!» promise torvo l'albino. «Sei pazzo, Elric! Ormai sei spacciato, qualunque cosa tu faccia!» Probabilmente era vero, ma a Elric non importava. «Fatti da parte, canaglia» replicò mentre, con lo scudo levato, si avvicinava guardingo al tentacolato signore del caos. «Tu hai ucciso molti miei cugini, Elric» disse il mostro, a voce bassa. «E hai costretto molti duchi dell'inferno nel loro dominio, cosicché non possono più ritornare sulla Terra. E la pagherai. Ma almeno io non ti sottova-
luto, contrariamente a ciò che avevano fatto loro.» Un tentacolo si alzò e ripiombò cercando d'insinuarsi oltre l'orlo dello scudo per stringergli la gola. Elric arretrò di un passo e bloccò con lo scudo il tentativo. Allora una rete di tentacoli cominciò a snodarsi da ogni parte, incurvandosi intorno allo scudo il cui tocco era morte. L'albino si scostò, evitando a fatica i tentacoli e sferrando fendenti con Tempestosa. E mentre combatteva, ricordò l'ultimo messaggio di Straasha: Colpisci il cristallo alla sommità della testa. Là stanno la sua vita e la sua anima. Vide il radioso cristallo azzurro che in un primo momento aveva scambiato per uno dei tanti occhi di Pyaray. Avanzò verso le radici dei tentacoli, senza potersi proteggere le spalle: ma non c'era altro da fare. E in quel momento le gigantesche fauci del mostro si spalancarono e i tentacoli cominciarono a trascinarlo avanti. Tese lo scudo verso l'enorme bocca ed ebbe la gioia feroce di vederne scaturire una sostanza giallastra e gelatinosa, mentre il signore del caos urlava di dolore. Posò un piede sul troncone di un tentacolo e s'inerpicò sulla viscida pelle del signore del caos: ogni volta che lo toccava con lo scudo lo feriva, e Pyaray cominciò a dibattersi spaventosamente. Poi Elric si trovò al disopra del fulgente cristallo-anima. Per un istante indugiò, e poi affondò nella gemma la punta di Tempestosa. Una pulsazione immane s'irradiò dal cuore dell'entità, che lanciò un urlo spaventoso; e poi anche Elric urlò, mentre Tempestosa beveva l'anima di un signore dell'inferno e trasfondeva in lui quella straripante vitalità. Era troppo forte. Elric venne scagliato indietro. Scivolò sul viscido dorso, cadde dal ponte e piombò su uno sottostante, quasi trenta braccia più in basso. Atterrò con uno schianto che avrebbe potuto sfracellargli le ossa: ma grazie alla vitalità rubata, rimase indenne. Si alzò, pronto ad arrampicarsi di nuovo per raggiungere Jagreen Lern. Il teocrate si affacciò al parapetto e urlò: «Troverai un dono per te in quella cabina, Elric!» Indeciso tra l'impulso d'inseguire il teocrate e l'istinto di esplorare la cabina, Elric si voltò e aprì la porta. Dall'interno gli giunse un singhiozzo terribile. «Zarozinia!» gridò. Si precipitò nella buia cabina, e la vide. L'incantevole corpo era spaventosamente mutato, e adesso sembrava quello di un verme bianco. Restava solo la testa, la bellissima testa.
Inorridito, per poco Elric non lasciò cadere lo scudo. «È stato Jagreen Lern a far questo?» La testa annuì. «Lui e il suo alleato.» Elric, in preda alla nausea, si costrinse a guardarla. «Dovrà pagare un altro conto tremendo» mormorò. E poi il corpo di verme guizzò e s'infilzò sulla sua spada. «Ecco!» gridò la testa. «Prendi in te la mia anima, Elric, poiché ormai sono inutile a me stessa e a te! Porta la mia anima con la tua, e saremo insieme per sempre.» Elric tentò di svellere la spada assetata, ma era impossibile. E a differenza di tutte le altre sensazioni che ne aveva ricevuto, questa fu quasi dolce, calda e gentile: l'anima della sua sposa fluì nella sua, e lui pianse. «Oh, Zarozinia!» singhiozzò. «Oh, amor mio!» E così Zarozinia morì, e la sua anima si fuse con l'anima di lui, così come aveva fatto anni prima l'anima del suo primo amore, Cymoril. Elric non guardò l'orrendo corpo di verme, non guardò il volto di lei: lentamente, uscì dalla cabina. Ma il ponte si stava disintegrando. Jagreen Lern, evidentemente, era riuscito a fuggire; e nel suo stato d'animo, Elric non si sentiva pronto a inseguirlo. Aiutato dalla spada e dallo scudo, balzò dalla nave sul suolo pulsante e corse verso il destriero di Nihrain. Poi, mentre le lacrime gli scorrevano ancora sull'eburneo volto, galoppò lasciandosi alle spalle le navi dell'inferno che si schiantavano. Almeno non avrebbero più minacciato il mondo, e il caos aveva subito un duro colpo. Adesso restavano da liquidare soltanto le orde, e non sarebbe stato facile. Raggiunse i suoi amici in silenzio; e senza dir nulla li guidò sul terreno tremante verso Melniboné, l'isola dei suoi antenati, dove si sarebbe tentata l'ultima resistenza contro il caos e si sarebbe combattuta l'ultima battaglia, e il suo destino si sarebbe compiuto. E mentre cavalcava gli sembrava di udire nella mente la voce di Zarozinia che sussurrava parole di conforto. Singhiozzando, si allontanò al galoppo dal campo del caos. LIBRO QUARTO LA FINE DEL PRINCIPE DANNATO Poiché solo la mente dell'uomo è libera di esplorare l'immensità dell'infinito cosmico, di trascendere la coscienza normale, di vagare negli anfratti segreti del cervello, dove si fondono passato
e futuro... E l'universo e l'individualità sono connessi, e l'uno rispecchia l'altro, e ognuno contiene l'altro. La Cronaca della Spada Nera CAPITOLO PRIMO La Città Sognante non sognava più, circonfusa del suo splendore. Le torri diroccate di Imrryr erano gusci anneriti, brandelli di muratura che spiccavano netti e scuri contro il cielo cupo. Un tempo la vendetta di Elric aveva portato il fuoco sulla città, e il fuoco aveva portato la rovina. Striature di nubi, come fumi fuligginosi, frusciavano sul sole pulsante, e le urlanti acque chiazzate di rosso, oltre Imrryr, erano contaminate dall'ombra e sembravano acquietarsi come ammutolite dalle cicatrici nere che si muovevano sulla loro turbolenza minacciosa. Sulle rovine, un uomo guardava le onde. Era un uomo alto, con le spalle ampie e i fianchi snelli, le sopracciglia oblique, gli orecchi appuntiti e privi di lobo, gli zigomi alti e i cupi occhi cremisi in un ascetico volto eburneo. Era vestito di nero: la giubba trapunta e il mantello pesante dal colletto alto sottolineavano il pallore della sua carnagione d'albino. Il vento, caldo e capriccioso, giocava con il mantello, lo agitava, e passava oltre ululando fra le torri abbattute. Elric udiva quell'ululato, e la sua memoria era pervasa dalle melodie dolci, maliziose e malinconiche della vecchia Melniboné. E rammentava l'altra musica creata dai suoi antenati quando torturavano elegantemente gli schiavi, scegliendoli secondo il tono delle loro urla per trasformarli negli strumenti di empie sinfonie. Perduto in quei ricordi, trovava qualcosa di simile all'oblio e si rammaricava di aver dubitato del codice di Melniboné: se l'avesse accettato, la sua mente non sarebbe stata dilaniata. Sorrise, amaramente. Una figura apparve, sotto di lui, e salì sulle pietre cadute per mettersi al suo fianco. Era un uomo piccolo, dai capelli rossi, dalla bocca larga e dagli occhi che un tempo erano stati vivaci e allegri. «Tu guardi a est, Elric» mormorò Maldiluna. «Guardi qualcosa d'irrimediabile.» Elric posò la sottile mano sulla spalla dell'amico. «Dove altro potrei guardare, Maldiluna, quando il mondo geme sotto il tallone del caos? Cosa vorresti che facessi? che guardassi verso un futuro di speranza e di letizia, verso una vecchiaia vissuta in pace mentre i bambini giocano intorno ai
miei piedi?» Rise, sommessamente. Non era una risata piacevole, per Maldiluna. «Sepiriz ha parlato dell'aiuto dei sovrani bianchi. Deve arrivare presto. Dobbiamo attendere con pazienza.» L'orientale si voltò a guardare il cupo sole immobile, socchiudendo gli occhi, e poi, con un'espressione introspettiva, abbassò lo sguardo sulle macerie. Elric tacque per un momento, osservando le onde. Poi scrollò le spalle. «Perché recriminare? È inutile. Io non posso agire di mia volontà. Qualunque sia il fato che mi attende, non può essere mutato. Spero che gli uomini che verranno dopo di noi sappiano fare buon uso della capacità di dominare il proprio destino. Io non la possiedo.» Si toccò il mento e poi si guardò la mano, osservando le unghie, le nocche, i muscoli e le vene che spiccavano sulla pelle bianca. Poi si passò la mano tra le seriche ciocche dei capelli bianchi, inalò un profondo respiro e lo esalò. «Logica! Il mondo invoca la logica! Io non la possiedo, eppure eccomi qui, con la mente, il cuore e le viscere di un uomo, ma formato dall'accostamento casuale di certi elementi. Il mondo ha bisogno di logica. Eppure tutta la logica del mondo non vale quanto un'intuizione fortunata. Gli uomini si preoccupano d'intessere una ragnatela di pensieri meticolosi... mentre altri, senza pensare, intessono una trama casuale e ottengono lo stesso risultato. E addio ai pensieri dei saggi.» «Ah!» Maldiluna ammiccò, tentando di scherzare. «Così parla l'avventuriero scatenato e cinico. Ma non siamo tutti cinici e scatenati, Elric. Altri uomini scelgono altre vie... e raggiungono conclusioni diverse dalle tue.» «Io percorro una via preordinata. Vieni, andiamo alle grotte dei draghi e vediamo cos'ha fatto Dyvim Slorm per svegliare i nostri amici rettili.» Insieme scesero faticosamente dalle rovine e si avviarono lungo i canaloni in rovina che un tempo erano stati le incantevoli vie di Imrryr; uscirono dalla città e seguirono una pista d'erba che si snodava tra le ginestre spinose, disturbando uno stormo di grossi corvi. Gli uccelli s'involarono nell'aria tranne uno, il re, che rimase in equilibrio su un arbusto - alzando dignitosamente il manto di penne scarruffate - a fissare i due uomini con cauto disprezzo. Scesero tra le rocce dentate, verso l'imboccatura spalancata delle grotte dei draghi, giù per la ripida scala, nell'oscurità alleviata dalle torce, nel calore umido e nell'odore dei corpi scagliosi dei rettili. Entrarono nella prima caverna dove giacevano le grandi forme prostrate dei draghi addormentati, con le ali coriacee che si levavano nell'ombra, le scaglie nere e verdi che
brillavano fiocamente, le zampe unghiute ripiegate, il muso sottile aggricciato anche nel sonno a rivelare i lunghi denti eburnei simili a stalattiti. Le rosse narici dilatate gemevano nel torpido sonno. L'odore della pelle e dell'alito dei rettili era inconfondibile, e suscitava in Maldiluna i ricordi ereditati dai suoi avi, la vaga impressione di un tempo in cui i draghi e i loro signori volavano sul mondo da loro dominato, col veleno infiammabile che stillava dalle fauci dei mostri e incendiava le campagne su cui planavano noncuranti. Elric notava appena quell'odore, cui era abituato; attraversò la prima e la seconda caverna finché trovò Dyvim Slorm, che si aggirava con una torcia in una mano e una pergamena nell'altra e imprecava. Alzò la testa quando sentì i loro passi. Allargò le braccia e gridò, con una voce che echeggiò nelle grotte: «Niente! Non un fremito, non un guizzo di palpebra. Non c'è modo di svegliarli. Non si desteranno se non quando avranno dormito un numero d'anni sufficiente. Oh, se non li avessimo usati nelle ultime due occasioni! Ne abbiamo un bisogno disperato, adesso!» «Né tu né io sapevamo ciò che sappiamo ora. I rimorsi sono mutili, perché non servono a nulla.» Elric girò lo sguardo sulle immense forme scure. Là, un po' isolato dagli altri, giaceva il drago guida: Elric lo riconobbe, con un sentimento simile all'affetto. Era Zannadifuoco, il più vecchio, che aveva cinquemila anni e tuttavia era ancora giovane. Ma dormiva come gli altri. Elric gli si accostò: accarezzò le scaglie simili a metallo, passò la mano sull'eburnea levigatezza delle grandi zanne anteriori, sentì l'alito caldo, e sorrise. Udì Tempestosa mormorare al suo fianco, e batté la mano sulla spada. «È un'anima che non puoi prendere. I draghi sono indistruttibili. Sopravviveranno anche se il mondo sprofonderà nel nulla.» In un altro angolo della caverna, Dyvim Slorm disse: «Non so cos'altro potrei fare, per il momento. Torniamo alla torre di D'a'rputna e riposiamoci.» Elric annuì; insieme, i tre uomini riattraversarono le grotte e risalirono alla luce del sole. «Dunque» commentò Dyvim Slorm, «non è ancora venuta la notte. Il sole è in quella posizione da tredici giorni, da quando abbiamo lasciato il campo del caos e tra mille pericoli ci siamo diretti a Melniboné. Quanto è grande il potere del caos, se può arrestare il corso del sole?» «Potrebbe anche non essere stato il caos, per quanto ne sappiamo noi» osservò Maldiluna. «Sebbene sia probabile, naturalmente. Il tempo si è
fermato. Il tempo attende. Ma attende cosa? Altra confusione, altro disordine? Oppure l'influsso del grande equilibrio che ristabilirà l'ordine e si vendicherà delle forze che hanno contrastato la sua volontà? Oppure attende noi, tre mortali alla deriva, che sono isolati da ciò che accade a tutti gli uomini e aspettano il tempo come il tempo aspetta noi?» «Forse è il sole, ad attenderci» concesse Elric. «Non è forse nostro destino preparare il mondo a un nuovo corso? Se è così, provo un po' meno la sensazione di essere una semplice pedina. E se non faremo nulla? Il sole resterà per sempre dov'è ora?» Si fermarono per un momento a osservare il pulsante disco rosso che inondava le vie di luce scarlatta, a guardare le nere nubi che volavano nel cielo. Dove andavano? Da dove venivano? Sembravano animate da uno scopo. Era possibile che non fossero neppure nubi bensì spiriti del caos impegnati in missioni tenebrose. Elric borbottò tra sé, consapevole dell'inutilità di quelle ipotesi. Poi si avviò verso la torre di D'a'rputna, dove anni prima aveva cercato la sua amata, sua cugina Cymoril, e poi l'aveva perduta a causa della furiosa sete della spada che portava al fianco. La torre era sopravvissuta alle fiamme, sebbene i colori che un tempo l'ornavano fossero anneriti dal fuoco. Elric lasciò gli amici e andò nella propria stanza: si buttò sul soffice letto melniboneano, senza spogliarsi, e si addormentò quasi immediatamente. CAPITOLO SECONDO Elric dormiva e sognava; e sebbene fosse conscio dell'irrealtà delle sue visioni, tentò inutilmente di risvegliarsi. Ben presto rinunciò e lasciò che il sogno prendesse forma e l'attirasse nei suoi paesaggi luminosi... Vide Imrryr quale era stata molti secoli prima. Imrryr, la stessa città da lui. conosciuta prima di guidare l'incursione che l'aveva distrutta. Era la stessa, eppure diversa: più vivida, come se fosse stata appena edificata. E anche i colori della campagna circostante erano più ricchi, il sole di un arancione più scuro, il cielo afoso e di un azzurro intenso. Da allora, pensò, anche i colori del mondo erano sbiaditi via via che il pianeta invecchiava... Gente e animali si muovevano per le risplendenti vie: alti e bizzarri melniboneani, uomini e donne, che camminavano con l'eleganza di tigri orgogliose; schiavi dalla faccia dura e dagli occhi stoici e rassegnati; cavalli
con le zampe lunghissime, di una razza ormai estinta, piccoli mastodonti che trainavano carri sfarzosi. La brezza portava misteriosi profumi e suoni smorzati di attività: tutto in sordina, poiché i melniboneani odiavano il rumore quanto amavano l'armonia. Bandiere di seta pesante garrivano sulle scintillanti torri di lapislazzuli, giada, avorio, cristallo e granito rosso. Elric si mosse nel sonno, smaniando per il desiderio di essere là fra i suoi antenati, il popolo aureo che aveva dominato il vecchio mondo. Galee mostruose passavano nel labirinto d'acqua che con duceva al porto interno di Imrryr: recavano il meglio del bottino del mondo, le tasse raccolte in ogni parte dell'Impero Fulgido. E nell'azzurro cielo i draghi volavano pigramente verso le caverne che li ospitavano a migliaia, mentre adesso ne restavano un centinaio scarso. Nella torre più alta, la torre di B'all'nezbett, la torre dei re, gli antenati di Elric avevano studiato la magia, compiuto esperimenti maliziosi, si erano abbandonati ai loro appetiti sensuali: non nello spirito decadente degli uomini dei Regni Giovani, ma secondo i loro istinti innati. Elric sapeva di vedere lo spettro di una città ormai morta. Gli parve di passare attraverso gli splendidi muri della torre e di vedere i suoi avi imperiali abbandonarsi alle conversazioni ispirate dalle droghe, pigramente sadici, divertendosi con donne-demoni, torturando, studiando il metabolismo e la psicologia delle razze asservite, immergendosi nelle scienze mistiche, assorbendo una sapienza che pochi uomini dei tempi successivi avrebbero potuto conoscere senza perdere la ragione. Ma era evidente che doveva essere un sogno, o la visione di un aldilà popolato dai morti di tutte le epoche, perché c'erano imperatori di generazioni diverse. Elric li riconobbe dai ritratti: Rondar IV, dai riccioli neri, il dodicesimo imperatore; il maestoso Elric I, dagli occhi acuti, ottantesimo imperatore; Kahan VII, circonfuso d'orrore, trecentoventinovesimo imperatore. E c'erano una decina e oltre dei più potenti e saggi tra i suoi quattrocentoventisette antenati, compresa Terhali, l'Imperatrice Verde, che aveva governato l'Impero Fulgido dall'anno 8406 dopo la fondazione fino al 9011. La sua longevità, e la pelle e la chioma dal colore verde, l'avevano resa famosa. Era stata una maga potentissima, perfino secondo i criteri melniboneani. Ed era anche ritenuta figlia dell'unione tra l'imperatore Iuntric X e una demonessa. Elric, che li vedeva tutti come da un angolo buio della grande sala, notò che la porta di lucente cristallo nero si apriva per lasciar passare un altro imperatore. Trasalì e tentò nuovamente di svegliarsi, ma invano. L'uomo
era suo padre, Sadric LXXXVI, un uomo alto dalle palpebre pesanti e roso dalla tristezza. Attraversò la folla come se non la vedesse. Si avviò direttamente verso Elric e si fermò a due passi da lui. Era un uomo dal volto cupo, profondamente deluso dal figlio albino. Aveva il naso lungo e affilato, gli zigomi alti, e le spalle leggermente curve a causa della statura eccezionale. Accarezzò con le mani sottili e inanellate il sottile velluto rosso della veste. Poi parlò nel nitido sussurro che - come Elric ricordava - aveva sempre usato. «Figlio mio, anche tu sei morto? Pensavo di essere qui solo da un momento fuggevole, eppure ti vedo mutato dagli anni e oppresso da un peso imposto dal tempo e dal fato. Come sei morto? In combattimento contro la lama di un signorotto straniero? O in questa torre, nel tuo letto d'avorio? E cosa fa Imrryr, adesso? Sogna ancora nel declino del passato splendore? La stirpe continua, come deve: non ti chiederò se hai provveduto ad adempiere questa parte del tuo dovere. Un maschio, naturalmente: nato da Cymoril, che tu amavi e che era la causa dell'odio di tuo cugino Yyrkoon.» «Padre...» Il vecchio alzò una mano quasi trasparente. «C'è un'altra domanda che devo rivolgerti. Un interrogativo che turba quanti trascorrono la loro immortalità in questa città spettrale. Alcuni tra noi hanno notato che talvolta Imrryr sbiadisce e i suoi colori si affievoliscono, quasi fosse sul punto di sparire. Molti nostri compagni sono passati addirittura oltre la morte e forse nell'inesistenza, anche se rabbrividisco al solo pensiero. Perfino qui, nella regione atemporale della morte, si manifestano mutamenti inauditi, e quelli di noi che hanno osato formulare l'interrogativo e cercare la risposta temono che un evento tumultuoso sia avvenuto nel mondo dei vivi. Un evento così grande che influisce perfino su di noi e minaccia di estinguere le nostre anime. Una leggenda dice che fino a quando la Città Sognante vivrà i nostri spettri potranno dimorare nel suo splendore di un tempo. È questo l'annuncio che ci porti? È questo il tuo messaggio? Perché, osservandoti meglio, vedo che vivi ancora e che questo è solo il tuo corpo astrale, libero per un poco di vagare nel reame dei morti.» «Padre...» Ma già la visione svaniva; già si stava ritirando lungo i muggenti meandri del cosmo, attraverso piani d'esistenza ignoti agli uomini viventi, lontano, lontano... «Padre!» chiamò Elric, e la sua voce echeggiò: ma non c'era nessuno che potesse rispondergli. E almeno in un certo senso ne fu lieto: come avrebbe potuto rispondere allo spirito infelice e rivelargli la verità delle sue intui-
zioni, ammettere le colpe di cui si era macchiato contro la città avita, contro lo stesso sangue dei suoi antenati? Tutto era nebbia e angoscia e gemiti mentre gli echi rimbombavano nei suoi orecchi e sembravano assumere indipendenza, distorcendo la parola in parole più strane: «P-a-a-a-ad-r-r-ee-e-e... A-a-a-a-a-... A-a-a-a-aah-a-a-a-a... R-a-a-a... Da-a-ra-va-ar-a-a...!» E ancora, sebbene si sforzasse con tutto il proprio essere, non riusciva a scuotersi dal sonno, e sentiva il proprio spirito trascinato in altri spazi fumosi e indeterminati, attraverso chiazze di colore che trascendevano l'iride terrena e le concezioni della sua mente. Nella nebbia cominciò a prendere forma un volto enorme. «Sepiriz!» Elric riconobbe le fattezze del suo mentore. Ma il nero nihrain, disincarnato, non sembrava udirlo. «Sepiriz... Tu sei morto?» Il volto sbiadì, poi riapparve quasi subito insieme all'alta figura del nihrain. «Elric, finalmente ti ho trovato. Nel tuo corpo astrale, vedo. Grazie al fato, perché temevo di non essere riuscito a chiamarti. Ora dobbiamo affrettarci. È stata aperta una breccia nelle difese del caos, e andremo a conferire con i signori della legge!» «Dove siamo?» «In nessun luogo, per ora. Stiamo viaggiando verso i mondi superni. Vieni, affrettati: ti farò da guida.» Giù, giù, attraverso abissi di soffice lana che avvolgevano e cullavano, attraverso canaloni tagliati tra sfolgoranti montagne di luce, in caverne dall'oscurità infinita dove i loro corpi risplendevano e Elric sentiva che il buio nulla si estendeva in tutte le direzioni. E poi sembrò che fossero su un pianoro sconfinato, assolutamente piatto, e interrotto solo da costruzioni geometriche verdi e azzurre. L'aria iridiscente era pervasa da guizzanti schemi di energia che intessevano forme delicate. E c'erano anche cose dalle forme umane: avevano assunto quell'aspetto per gli uomini che stavano per incontrare. I sovrani bianchi dei mondi superni, nemici del caos, erano meravigliosamente belli, e i loro corpi avevano una tale simmetria che non potevano essere terreni. Solo la legge poteva creare una tale perfezione; e quella perfezione, pensò Elric, sconfiggeva il progresso. Era più evidente che mai: le due forze gemelle erano complementari, e se l'una avesse acquisito la supremazia assoluta sull'altra, per il cosmo sarebbe venuta l'entropia o la stagnazione. Anche se la legge poteva dominare la Terra il caos doveva essere presente, e viceversa.
I signori della legge erano pronti alla guerra. L'avevano dimostrato scegliendo paramenti terrestri. Uno sfolgorio di sete e metalli - o gli equivalenti di quel piano - brillava sui loro corpi perfetti. Avevano al fianco armi affilate, e i bellissimi volti ardevano di decisione. Il più alto si fece avanti di un passo. «Dunque, Sepiriz, hai condotto qui l'uomo il cui destino è di aiutarci. Salve, Elric di Melniboné. Sebbene tu sia figlio del caos, abbiamo buoni motivi di porgerti il benvenuto. Mi riconosci? Io sono colui che la tua mitologia terrena chiama Donblas il Giustiziere.» Immobile, Elric disse: «Ti riconosco, mio signore Donblas. Ma porti un appellativo errato, temo, perché la giustizia non è presente nel mondo.» «Tu parli del tuo reame come se costituisse tutti i reami.» Donblas sorrise senza rancore, sebbene evidentemente non fosse abituato a tanta insolenza da parte di un mortale. Elric restò impassibile. I suoi antenati erano stati nemici di Donblas e di tutti i confratelli di questo, e gli sembrava ancora difficile considerare come alleato un sovrano bianco. «Ora vedo come sei riuscito a sfidare i nostri avversari» continuò Donblas in tono d'approvazione. «E ammetto che la giustizia non si può trovare sulla Terra, di questi tempi. Ma io sono chiamato anche Creatore di Giustizia, e sono deciso a crearla quando le condizioni muteranno sul vostro piano.» Elric non guardò direttamente Donblas, perché la vista di tanta bellezza era inquietante. «E allora mettiamoci all'opera, mio signore, e cambiamo il mondo al più presto possibile. Portiamo la giustizia al nostro reame straziato.» «Qui, mortale, è impossibile affrettarsi!» Fu un altro sovrano bianco, a parlare: la sopravveste giallochiara ondeggiava sopra l'acciaio lucente della corazza e degli schinieri, ornata dalla freccia della legge. «Credevo che fosse stata aperta la breccia per raggiungere la Terra» ribatté Elric, aggrottando la fronte. «Credevo che il vostro aspetto marziale annunciasse che eravate pronti a far guerra al caos.» «Siamo pronti alla guerra, ma non è possibile cominciarla prima che venga la chiamata dal vostro reame.» «Da noi! La Terra non ha forse invocato urlando il vostro aiuto? Non abbiamo operato magie e incantesimi per invocarvi? Di quale altra chiamata avete bisogno?» «Di quella preordinata» rispose in tono fermo Donblas. «Quella preordinata? Per gli dèi! Oh... Perdonatemi, miei signori. Dunque mi viene chiesto di compiere un'altra missione?»
«Un'ultima grande missione, Elric» disse gentilmente Sepiriz. «Come ti ho detto, il caos blocca i sovrani bianchi nei loro tentativi di accedere al nostro mondo. È necessario suonare tre volte il corno del fato prima che l'opera si compia. Il primo segnale desterà i draghi di Imrryr, il secondo permetterà ai sovrani bianchi di penetrare sul piano terrestre, il terzo...» S'interruppe. «Sì, il terzo?» chiese spazientito Elric. «Il terzo annuncerà la fine del nostro mondo.» «E dove si trova il corno prodigioso?» «In uno tra i tanti reami» disse Sepiriz. «Uno strumento così potente non può essere fabbricato sul nostro piano, perciò è stato necessario foggiarlo dove la logica vince la magia. E là che dovrai recarti per trovare il corno del fato.» «E come potrò compiere un simile viaggio?» Ancora una volta, il sovrano Donblas parlò serenamente. «Te ne daremo il mezzo. Armati della spada e dello scudo del caos, perché ti saranno d'aiuto anche se non saranno potenti come nel tuo mondo. Poi sali sul punto più alto della torre di B'all'nezbett, a Imrryr, e muovi un passo nel vuoto. Non precipiterai, a meno che il poco potere che ancora possediamo sulla Terra ci abbandoni.» «Parole consolanti, mio signore Donblas. Sta bene: farò come tu ordini, se non altro per soddisfare la mia curiosità.» Donblas scrollò le spalle. «Quello è solo uno tra molti mondi: quasi un'ombra, come il tuo. Ma forse non lo approverai. Noterai la nitidezza dei suoi contorni: e questo indicherà che il tempo non vi ha esercitato una vera influenza, che la sua struttura non è stata sfumata da molti eventi. Tuttavia permettimi di augurarti buon viaggio, mortale, perché mi sei simpatico... e ho anche motivo di esserti grato. Sebbene tu appartenga al caos, hai in te molte delle qualità che noi della legge ammiriamo. Ora va': torna al tuo corpo mortale e preparati all'impresa che ti attende.» Elric s'inchinò e guardò Sepiriz. Il nero nihrain indietreggiò di tre passi e sparì nell'aria fulgida. Elric lo seguì. I loro corpi astrali riattraversarono le miriadi di piani dell'universo soprannaturale, provando sensazioni estranee alla mente fisica: e poi, all'improvviso, Elric si sentì pesante e aprì gli occhi, scoprendo che era nel suo letto, nella torre di D'a'rputna. Nella luce fioca, filtrata attraverso la pesante tenda che copriva la feritoia, vide il rotondo scudo del caos, col simbolo a otto frecce che pulsava lentamente, quasi all'unisono col sole, e accanto
l'empia spada stregata, Tempestosa, appoggiata alla parete come se fosse già pronta al viaggio nel mondo ipotetico di un possibile futuro. Poi Elric dormì di nuovo, di un sonno più naturale, e fu tormentato da incubi più naturali, così che alla fine urlò nel sonno e si svegliò: vide Maldiluna ritto accanto al letto, con un'espressione triste e preoccupata sul magro volto. «Cosa c'è, Elric? Cos'è che turba il tuo sonno?» Elric rabbrividì. «Nulla. Lasciami, Maldiluna. Ti raggiungerò appena mi sarò alzato.» «Devi aver gridato per qualche ragione. Forse un sogno profetico?» «Sì, profetico. Mi è apparsa la visione del mio sangue scialbo, sparso da una mano che era la mia. Che significato ha un simile sogno? Rispondimi, amico mio; oppure, se non puoi, lasciami solo fino a che questi pensieri si saranno dissolti.» «Su, alzati. Cerca l'oblio nell'azione. La candela del quattordicesimo giorno sta per consumarsi, e Dyvim Slorm attende i tuoi consigli.» L'albino si alzò con uno sforzo, gettando giù dal letto le gambe tremanti. Si sentiva indebolito, privo di energia. Maldiluna l'aiutò. «Scaccia il malumore e aiutaci a risolvere i nostri dubbi» disse, con una gaiezza simulata che tradiva le sue paure. «Sì.» Elric si raddrizzò. «Passami la mia spada. Ho bisogno della sua forza rubata.» Riluttante, Maldiluna andò alla parete dov'era appoggiata l'arma malefica, la prese per il fodero e la sollevò a fatica, poiché era molto pesante. Rabbrividì quando gli parve che ridesse sommessamente di lui, e la porse all'amico. Grato, Elric impugnò l'elsa e fece per sguainare la spada; poi si fermò. «È meglio che tu lasci questa stanza, prima che io liberi la lama.» Maldiluna comprese immediatamente e se ne andò: non desiderava affidare la propria vita al capriccio della spada infernale... o del suo amico. Quando l'orientale fu uscito Elric sfoderò la grande spada, e subito si sentì scorrere nei nervi il fremito della sua vitalità soprannaturale. Eppure era appena sufficiente: e comprese che se la lama non si fosse nutrita presto della sostanza vitale di un altro, avrebbe cercato le anime dei due ultimi amici che gli restavano. La rinfoderò, pensieroso, e l'agganciò alla cintura; poi uscì per raggiungere Maldiluna nel maestoso corridoio. In silenzio scesero la tortuosa scala marmorea della torre e giunsero al piano intermedio, dove c'era la sala principale. Dyvim Slorm era seduto a un tavolo su cui stava una bottiglia di vecchio vino melniboneano: teneva tra le mani una grande ciotola d'argento. La sua spada, Luttuosa, era sul ta-
volo accanto alla bottiglia. Avevano trovato la riserva dei vini delle cantine segrete della torre, sfuggite alle ricerche degli scorridori che Elric aveva guidato contro Imrryr quando lui e suo cugino avevano combattuto in opposte fazioni. La ciotola era colma del miscuglio di erbe aromatiche e miele e orzo con cui i loro antenati avevano avuto l'abitudine di nutrirsi nei momenti di necessità. Dyvim Slorm stava fissando cupamente la mistura, ma alzò la testa quando gli altri due si avvicinarono e gli si sedettero di fronte. Sorrise, rassegnato. «Temo di aver fatto tutto il possibile per svegliare i nostri amici dormienti. Non posso fare di più, e loro dormono ancora.» Elric ricordò i particolari della visione; e quasi temendo che fosse stata solo il frutto della sua immaginazione, creata per alimentare una fantasia di speranza dove in realtà non si poteva più sperare, disse: «Dimentica i draghi, almeno per un po'. Questa notte ho abbandonato il mio corpo, o almeno credo, e ho visitato luoghi oltre la Terra, e sono giunto al piano dei sovrani bianchi: loro mi hanno detto che potrei destare i draghi suonando un corno. Intendo seguire le loro istruzioni e andare a cercarlo.» Dyvim Slorm depose la ciotola sul tavolo. «Ti accompagneremo, naturalmente.» «Non ce n'è bisogno, e del resto è impossibile. Dovrò andare solo. Attendete il mio ritorno, e se non tornerò... ebbene, dovrete decidere se trascorrere imprigionati su quest'isola gli anni che vi rimangono o se andare a combattere il caos.» «Sono convinto che il tempo si sia veramente fermato, e se rimarremo qui vivremo in eterno e ci annoieremo» intervenne Maldiluna. «Se non tornerai io andrò nei regni conquistati, per portare con me nel limbo qualche nemico.» «Come vuoi» disse Elric. «Ma attendetemi fino a quando avrete esaurito la pazienza, perché non so per quanto resterò assente.» Si alzò, e i due amici lo guardarono un po' sgomenti come se fino a quell'attimo non avessero compreso appieno il significato delle sue parole. «Allora buona fortuna, amico mio» disse Maldiluna. «La mia fortuna dipenderà da quello che troverò» replicò sorridendo Elric. «Ma grazie, Maldiluna. E buona fortuna a te, mio buon cugino. Non ti tormentare: forse riusciremo a destare i draghi!» «Sì» disse Dyvim Slorm, con un improvviso guizzo di vitalità. «Li desteremo! E il loro veleno fiammeggiante pioverà sulla sozzura portata dal caos e la consumerà! Quel giorno deve venire, o io non sono più un profe-
ta!» Contagiato da quell'entusiasmo inaspettato, Elric si sentì accrescere la fiducia. Salutò gli amici, sorrise, e uscì, risalendo la scala marmorea per andare a prendere lo scudo del caos. Scese alla porta della torre, la varcò, e si avviò per le strade in rovina, verso il rudere schiantato dalla magia che era stato il teatro della sua vendetta spaventosa e del suo delitto involontario: la torre di B'all'nezbett. CAPITOLO TERZO Mentre Elric stava davanti al diruto portale della torre si sentiva assalito dai prorompenti pensieri che gli turbinavano nella mente aprendo brecce nella sua certezza e minacciando di rimandarlo a raggiungere rassegnato i suoi compagni. Ma li combatté, li represse, li dimenticò, aggrappandosi al ricordo della promessa dei sovrani bianchi, ed entrò nel buio guscio che nell'interno annerito conservava ancora l'odore del legno e della stoffa bruciata. La torre, che era stata il rogo funebre della sua amata Cymoril e di Yyrkoon, era sventrata. Restava soltanto la scala di pietra: e scrutando nell'oscurità da cui filtrava obliquo qualche raggio di sole, Elric notò che alla sommità era crollata. Non osava pensare, perché il pensiero poteva impedirgli di agire. Posò un piede sul primo gradino e cominciò l'ascesa. In quel momento, un lieve suono gli giunse all'orecchio: o forse proveniva dalla sua mente. Tuttavia penetrava nella coscienza e risuonava come un'orchestra lontana, occupata a intonarsi. Via via che lui saliva, il suono diventava più intenso, ritmico eppure discordante, finché, quando Elric raggiunse l'ultimo gradino ancora intatto, lo sentì tuonare in tutto il suo essere, producendo una sensazione sordamente dolorosa. Si fermò e guardò la base della torre. La paura l'assali. Si chiese se Donblas aveva inteso dire che lui doveva raggiungere il luogo più alto cui poteva salire agevolmente o la punta della torre, che era sei braccia più in alto. Decise che era meglio prendere alla lettera le parole del sovrano bianco: si buttò sulle spalle lo scudo del caos, tese le braccia verso l'alto e insinuò le dita in una crepa del muro, che adesso s'inclinava lievemente verso l'interno. Si issò, con le gambe penzoloni, cercando un appiglio con i piedi. Aveva sempre sofferto di vertigini, e si sentiva turbato dalla sensazione che provava quando guardava giù, verso il pavimento coperto di macerie,
ventiquattro braccia più sotto; ma continuò ad arrampicarsi, agevolato dalle crepe nel muro della torre. Nonostante i suoi timori, non cadde; e finalmente raggiunse il tetto pericolante, insinuandosi attraverso uno squarcio e strisciando sulla pendenza esterna. Lentamente s'inerpicò fino a quando fu nel punto più alto della torre. E poi, senza esitare, mosse un passo nel vuoto, sopra le devastate strade di Imrryr. La musica discordante cessò, e la sostituì una nota ruggente. Onde vorticose, rosse e nere, si avventarono su di lui: poi lui le superò, di slancio, e si trovò in piedi sul suolo solido, sotto un piccolo sole scialbo, e sentì l'odore dell'erba. Notò che, mentre il mondo antico visto nel sogno gli era parso più colorato del suo, questo conteneva meno colore, sebbene sembrasse dotato di contorni più nitidi e precisi. E la brezza che spirava sul suo volto era più fredda. Si avviò sull'erba verso una fitta foresta dalle fronde basse, che stava poco lontana. Raggiunse il limitare della foresta ma non vi si addentrò: l'aggirò fino a quando incontrò un ruscello che si perdeva in lontananza. Notò, incuriosito, che l'acqua limpida sembrava immobile. Era gelata, ma non da un processo naturale a lui noto. Aveva tutte le caratteristiche di un ruscello in estate... eppure non scorreva. Sentendo che quel fenomeno contrastava stranamente col resto dello scenario, imbracciò lo scudo del caos, sguainò la spada pulsante e cominciò a seguire il fiumicello. L'erba cedette il posto alla ginestra spinosa e ai sassi: qua e là c'erano ciuffi di felci, di una varietà che non aveva mai visto. Gli parve di sentire più avanti il chioccolio dell'acqua, ma il ruscello era ancora ghiacciato. Quando passò davanti a una roccia più alta delle altre, sentì una voce scendere verso di lui. «Elric!» Alzò la testa. Sulla roccia stava un giovane gnomo, con una lunga barba bruna che gli scendeva fino alla cintura. Stringeva una lancia, la sua unica arma, e portava brache e giubbotto rossicci, con un berretto verde sul capo: i grossi piedi erano scalzi. Gli occhi sembravano di quarzo ed erano duri, aspri e ironici. «È il mio nome» ribatté Elric, sorpreso. «Eppure, com'è possibile che tu mi conosca?» «Neppure io appartengo a questo mondo... almeno, non esattamente. Non esisto nel tempo che tu conosci, ma vago qua e là nei mondi-ombra creati dagli dèi. Tale è la mia natura. In cambio della mia esistenza, talvol-
ta gli dèi mi usano come messaggero. Mi chiamo Jermays il Deforme: sono incompiuto come questi mondi.» Lo gnomo scese dalla roccia e si fermò accanto a Elric, levando la testa verso di lui. «Qual è lo scopo della tua presenza qui?» chiese l'albino. «Mi pare che tu cerchi il corno del fato.» «È vero. Sai dove si trova?» «Sì» disse il giovane gnomo con un sorriso sardonico. «È sepolto col cadavere vivente di un eroe di questo reame, un guerriero che chiamano Roland. Forse è un'altra incarnazione del Campione Eterno.» «Un nome strano.» «Non più di quanto sembri strano il tuo ad altri orecchi. Roland, a parte il fatto che la sua vita non è stata oppressa dallo stesso destino tenebroso, è il tuo equivalente in questo regno. È morto in una valle non lontana da qui, tradito da un compagno. Aveva con sé il corno, e l'ha suonato prima di morire. Dicono che gli echi risuonino ancora nella valle e che risuoneranno per sempre, sebbene Roland sia perito molti anni orsano. Il vero scopo del corno qui è sconosciuto... ed era ignoto allo stesso Roland. È chiamato Olifant, e insieme alla sua spada magica, Durandana, è stato sepolto con lui in quel tumulo mostruoso che vedi laggiù.» Lo gnomo tese il braccio indicando qualcosa che poco prima Elric aveva scambiato per una collinetta. «E cosa devo fare per prendere il corno?» chiese Elric. Lo gnomo sogghignò e rispose con un accenno di malizia nella voce. «Devi mettere alla prova la tua spada contro quella di Roland, Durandana. La sua è stata consacrata dalle forze della luce, mentre la tua l'hanno forgiata le forze delle tenebre. Dovrebbe essere uno scontro interessante.» «Hai detto che è morto: allora come può battersi con me?» «Lui porta il corno appeso al collo con una catenella. Se cercherai di prenderlo lo difenderà, destandosi dal sonno immortale che in questo mondo sembra la sorte comune di molti eroi.» Elric sorrise. «Mi pare che siano a corto di eroi, se devono conservarli in questo modo.» «Può darsi» replicò noncurante lo gnomo, «perché ce ne sono almeno una decina che dormono soltanto in questo territorio. Dovrebbero ridestarsi solo quando c'è un disperato bisogno di loro: tuttavia so che sono accadute molte cose spiacevoli e che loro hanno continuato a dormire. Forse attendono la fine del loro mondo, che gli dèi potrebbero distruggere se lo giudicassero inadatto: in tal caso si batterebbero per impedirlo. Questa è solo
una mia ipotesi, e non so se sia esatta. Forse le leggende nascono da una vaga conoscenza del fato del Campione Eterno.» Lo gnomo s'inchinò cinicamente e salutò Elric alzando la lancia. «Addio, Elric di Melniboné. Quando vorrai ritornare, io sarò qui a guidarti. E dovrai tornare, vivo o morto, perché, come probabilmente saprai, la tua presenza, il tuo stesso aspetto fisico, contraddicono questo ambiente. Solo una cosa si integra, qui...» «Che cosa?» «La tua spada.» «La mia spada! Strano: avrei pensato che fosse proprio l'ultima cosa.» Elric scacciò dalla mente un'idea che cercava d'imporsi. Non aveva tempo per le ipotesi. «Non mi piace star qui» commentò, mentre lo gnomo si arrampicava sulle rocce. Guardò il grande tumulo e si avviò da quella parte. Vide che il ruscello scorreva in modo naturale, ed ebbe la sensazione che, sebbene la legge dominasse quel mondo, in una certa misura fosse ancora sottoposto all'influsso del caos. Il tumulo era cinto da gigantesche lastre di pietra, prive di ornamenti. Oltre la recinzione c'erano ulivi dai cui rami pendevano gemme opache, e tra le fronde Elric scorse un'alta entrata ad arco, bloccata da battenti di bronzo a borchie d'oro. «Sebbene tu sia forte, Tempestosa» disse alla spada, «dubito che lo sia abbastanza per combattere in questo mondo continuando a darmi vitalità. Proviamo.» Avanzò verso la porta, levò il braccio e sferrò un poderoso colpo con la spada stregata. Il metallo echeggiò, e comparve un'intaccatura. Elric colpì di nuovo, stavolta stringendo l'elsa con entrambe le mani, ma alla sua destra risuonò una voce. «Quale demone osa disturbare il riposo di Roland?» «Chi parla la lingua di Melniboné?» ribatté prontamente Elric. «Io parlo la lingua dei demoni, perché percepisco ciò che sei. Non conosco questo Maldiboné, e sono esperta di antichi misteri.» «Una vanteria ardita, per una donna» disse Elric, che non aveva ancora visto la sua interlocutrice. Poi lei apparve dietro il tumulo, e si fermò a guardarlo con ardenti occhi verdi. Aveva un volto ovale, bellissimo, pallido quasi quanto quello dell'albino, sebbene la sua chioma fosse nera come il giaietto. «Come ti chiami?» chiese Elric. «E sei nativa di questo mondo?» «Io sono chiamata Vivian, e sono un'incantatrice, ma piuttosto terrena. Il
tuo padrone conosce il nome di Vivian, che un tempo ha amato Roland, sebbene lui fosse troppo retto per accondiscendere, dato che lei è immortale e strega.» La donna rise, gaiamente. «Perciò conosco bene i demoni come te, e non ti temo. Vattene! O devo chiamare l'arcivescovo Turpin per esorcizzarti?» «Alcune delle tue parole» disse cerimoniosamente Elric, «mi sono sconosciute, e il linguaggio del mio popolo è divenuto molto confuso. Sei la custode della tomba di questo eroe?» «Una custode autoeletta, sì. Ora vattene!» E Vivian indicò le lastre di pietra. «Non posso. Il cadavere che riposa là dentro ha qualcosa di prezioso per me. Noi lo chiamiamo corno del fato, ma voi lo conoscete sotto un altro nome.» «Olifant! Ma è uno strumento benedetto. Nessun demone oserebbe toccarlo. Perfino io...» «Non sono un demone. Sono abbastanza umano, lo giuro. Ora fatti da parte. Questa dannata porta resiste troppo bene ai miei sforzi.» «Sì» disse pensierosa Vivian. «Potresti essere un uomo, sia pure incredibile. Ma la faccia e i capelli bianchi, gli occhi cremisi, la lingua che parli...» «Sono uno stregone, ma non un demone. Ti prego, fatti da parte.» La donna lo scrutò con attenzione, e quello sguardo lo turbò. La prese per la spalla. Lei sembrava reale, e tuttavia, inspiegabilmente, aveva una scarsa presenza. Era come se fosse lontanissima. Si fissarono, entrambi incuriositi, entrambi inquieti. Elric bisbigliò: «Come puoi conoscere la mia lingua? Questo mondo è un mio sogno o un sogno degli dèi? Mi sembra quasi intangibile. Perché?» Vivian lo udì. «Tu dici così di noi? E tu non sei spettrale? Sembri un'apparizione venuta dal passato!» «Dal passato! Ah... E tu appartieni al futuro che ancora non ha preso forma. Forse questo può guidarci a una conclusione?» Lei non rispose, e disse improvvisamente: «Straniero, non riuscirai mai ad abbattere questa porta. Se potrai toccare l'Olifant, dimostrerai di essere un mortale nonostante il tuo aspetto. Devi aver bisogno del corno per una missione molto importante.» Elric sorrise. «Sì, perché se non lo riporterò da dove è venuto tu non esisterai!» Vivian aggrottò la fronte. «Intuizioni! Intuizioni! Mi sento sull'orlo di
una scoperta, eppure non riesco ad afferrarne il perché: e questo è inconsueto, per Vivian. Ecco...» Si tolse dalla veste una grossa chiave e gliela porse. «Questa apre la tomba di Roland. È l'unica. Ho dovuto uccidere per procurarmela, ma spesso penetro nell'oscurità della tomba per guardare il suo volto e mi struggo dal desiderio di farlo rivivere e di tenerlo con me per sempre, nell'isola che mi è patria. Prendi il corno! Desta Roland... E quando ti avrà ucciso verrà da me e accetterà la mia offerta di vita eterna pur di non giacere più in quel luogo freddo. Va'... va' a farti uccidere da Roland!» Elric prese la chiave. «Ti ringrazio, dama Vivian. Se fosse possibile convincere qualcuno che in verità non esiste ancora, ti direi che se Roland mi uccidesse sarebbe per te molto peggio che se io riuscissi a uccidere lui.» Inserì la grossa chiave nella serratura, e la girò senza fatica. I battenti si spalancarono, e Elric vide davanti a sé un lungo corridoio basso e tortuoso. Senza esitare, avanzò verso una luce fioca che si scorgeva appena nell'oscurità fredda e nebulosa. Eppure, mentre procedeva, aveva la sensazione di muoversi in un sogno ancor meno reale di quello della notte prima. Entrò nella camera funebre, illuminata da alte candele disposte intorno alla bara. Vi giaceva un uomo rivestito di un'armatura rozza e strana: stringeva al petto una spada enorme, grande quasi quanto Tempestosa, e sull'elsa, appeso al collo da una catena d'argento, c'era il corno del fato, l'Olifant! Nella luce delle candele, il volto dell'uomo era strano: vecchio e tuttavia giovanile, con la fronte liscia e i lineamenti senza rughe. Elric si passò Tempestosa nella mano sinistra e tese la destra per prendere il corno. Non tentò neppure di muoversi cautamente, e lo strappò dal collo di Roland. Dalla gola dell'eroe uscì un gran ruggito. Immediatamente si sollevò a sedere, stringendo a due mani la spada e gettando le gambe giù dalla bara. Spalancò gli occhi quando vide Elric che impugnava il corno, e si avventò verso di lui; la spada, Durandana, piombò sibilando per colpirlo alla testa. Elric alzò lo scudo e parò il colpo, infdò il corno nella giubba, e arretrando si passò di nuovo Tempestosa nella destra. Roland, adesso, stava urlando qualcosa in una lingua completamente sconosciuta a Elric. Lui non si sforzò neppure di comprendere, poiché quella voce furibonda bastava a dirgli che il cavaliere non stava proponendo una pacifica trattativa. Continuò a difendersi senza attaccare Roland, arretrando passo passo per il lungo corridoio, verso l'ingresso del tumulo. Ogni volta che Durandana colpiva lo
scudo del caos, spada e scudo emettevano note folli, intensissime. L'eroe continuava implacabilmente a incalzare Elric, e la sua grande spada roteava e colpiva talvolta lo scudo e talvolta Tempestosa, con forza fantastica. Poi si ritrovarono alla luce del sole, e per un attimo Roland sembrò abbacinato. Elric intravide Vivian che li osservava ansiosa, poiché sembrava che Roland stesse per avere la meglio. Tuttavia, nella luce del giorno e senza più possibilità di evitare il cavaliere, Elric reagì con tutta l'energia che aveva conservato fino a quel momento. Tenendo alto lo scudo e roteando la spada passò all'attacco, sorprendendo Roland che evidentemente non era abituato a quel comportamento da parte di un avversario. Tempestosa ringhiò, intaccando l'armatura di ferro mediocremente forgiata, fissata da grossi chiodi deformi e ornata sul petto da una croce dipinta in rosso scuro, un'insegna poco adatta a un eroe così famoso. Ma i poteri di Durandana erano inequivocabili: sebbene sembrasse forgiata rozzamente come l'armatura, non si smussava e minacciava di fendere a ogni colpo lo scudo del caos. Elric si sentiva il braccio sinistro intorpidito dai colpi e il destro dolorante. Donblas, il sovrano bianco, non aveva mentito quando aveva detto che in quel mondo la forza delle armi di Elric si sarebbe sminuita. Roland indugiò, gridando, ma Elric non l'ascoltò: approfittò di quell'istante per avventarsi a premere lo scudo contro il corpo dell'avversario. Il cavaliere barcollò, e la sua spada lanciò una nota acutissima. Elric sferrò un colpo in un varco tra l'elmo e la gorgera di Roland. La testa balzò dalle spalle e rotolò via, grottescamente, ma dalla vena giugulare non sprizzò neppure una stilla di sangue. Gli occhi rimasero spalancati, fissi su Elric. Vivian urlò, e gridò qualcosa nella stessa lingua che aveva usato Roland. Elric indietreggiò, cupo in volto. «Oh, la sua leggenda, la sua leggenda!» gridò l'incantatrice. «La sola speranza di questo popolo è che un giorno Roland ritorni ad aiutarlo. E adesso l'hai ucciso! Demonio!» «Forse sarò invasato» disse quietamente Elric, mentre lei singhiozzava accanto al corpo senza testa. «Ma sono stati gli dèi a ordinarmi di compiere questa impresa. Ora prenderò congedo da questo mondo scialbo.» «Non sei pentito del delitto commesso?» «No, mia signora, perché è solo uno dei tanti atti del genere che, come mi è stato detto, serviranno a realizzare un grande scopo. Anche se talvolta dubito che questo basti a consolarmi, non ti riguarda. Sappi, comunque, che mi è stato detto che il fato di quelli come il tuo Roland e me è di non
morire mai ma rinascere sempre. Addio.» Elric si allontanò; attraversò l'uliveto e superò la cinta di pietre, e il corno del fato era freddo contro il suo cuore. Seguì il fiume verso l'alta roccia, dove vide una figura minuscola. Quando la raggiunse alzò gli occhi verso il giovane gnomo, Jermays il Deforme, estrasse dalla giubba il corno e lo mostrò. Jermays rise. «Dunque Roland è morto e tu hai lasciato un frammento di leggenda in questo mondo, se sopravviverà. Bene; devo riaccompagnarti?» «Sì, e affrettati.» Jermays sgattaiolò giù dalle rocce e si fermò accanto all'albino. «Mmm» fece, pensieroso. «Quel corno potrebbe procurarci molti fastidi. È meglio che tu lo riponga nella giubba e lo tenga coperto con lo scudo.» Elric ubbidì e seguì il nano lungo le rive del fiume stranamente gelato. Sembrava che dovesse scorrere, ma restava immobile. Jermays vi balzò in mezzo e - incredibilmente - cominciò a sprofondare. «Presto! Seguimi!» Elric lo seguì e per un momento restò sull'acqua gelata, poi cominciò a sprofondare a sua volta. Sebbene il ruscello fosse molto basso, continuarono ad affondare finché ogni somiglianza con l'acqua sparì e si trovarono in una tenebra che divenne tiepida e carica di pesanti profumi. Jermays gli tirò la manica. «Di qua!» Sfrecciarono via, perpendicolarmente, guizzando da una parte all'altra, verso l'alto e verso il basso, in un labirinto che evidentemente solo Jermays poteva vedere. Contro il petto di Elric il corno parve sollevarsi, e lui lo tenne fermo premendolo con lo scudo. Poi sbatté le palpebre e si ritrovò alla luce, a fissare il grande sole rosso pulsante nel cielo azzurrocupo. I suoi piedi erano posati su qualcosa di solido: si guardò intorno e vide che era la torre di B'all'nezbett. Ancora per qualche istante il corno si mosse quasi fosse vivo, come un uccello prigioniero; poi si acquietò. Elric si calò sul tetto e cominciò a scendere, finché giunse alla breccia da cui era passato in precedenza. Poi all'improvviso alzò gli occhi, udendo un suono nell'aria. E là, con i piedi piantati nel vuoto, stava Jermays il Deforme, e sogghignava. «Io andrò altrove, perché questo mondo non mi piace per niente.» Ridacchiò. «Addio, campione. Ricordami ai signori dei mondi superni: ricordagli lo gnomo incompiuto... E di' che, quanto prima miglioreranno la loro memoria o i loro poteri creativi, tanto prima io sarò felice.» Elric replicò: «Forse dovresti accontentarti della tua sorte, Jermays. Anche la stabilità ha i suoi svantaggi.»
Jermays scrollò le spalle e scomparve. Lentamente, esausto, Elric scese lungo il muro screpolato e con immenso sollievo toccò il primo gradino, poi scese barcollando gli altri e corse alla torre di D'ar'putna con l'annuncio del trionfo. CAPITOLO QUARTO Pensosi, i tre uomini lasciarono la città e scesero alle grotte dei draghi. Il corno del fato era appeso al collo di Elric con una nuova catena d'argento. L'albino era vestito di cuoio nero, con la testa scoperta e cinta solo dal cerchietto d'oro che gli tratteneva i capelli. Con Tempestosa al fianco e lo scudo del caos sul dorso, guidò i compagni nelle caverne finché giunse davanti alla mole dormiente di Zannadifuoco, il comandante dei draghi. Gli parve che i propri polmoni non avessero capacità sufficiente, quando inalò l'aria e afferrò il corno. Poi lanciò un'occhiata agli amici, che lo fissavano ansiosi; allargò le gambe e soffiò nel corno con tutte le forze. La nota echeggiò, profonda e sonora; e mentre quella riverberava nelle caverne, Elric si sentì defluire la vitalità. Divenne sempre più debole finché crollò in ginocchio, col corno ancora accostato alle labbra, mentre la nota si affievoliva e la sua vista si offuscava; poi si accasciò bocconi, e il corno batté rumorosamente sulla roccia. Maldiluna si precipitò al suo fianco, e represse un grido quando vide il grande drago muoversi e un enorme occhio freddo come i deserti del nord guardarlo fissamente. Dyvim Slorm gridò, giubilante: «Zannadifuoco! Fratello Zannadifuoco, sei sveglio!» Tutt'intorno anche gli altri draghi si scossero, scrollando le ali e tendendo l'agile collo ed ergendo la cresta cornea. Maldiluna si sentì ancora più piccolo, mentre i draghi si destavano. Cominciò a provare una certa agitazione, e si chiese in che modo avrebbero reagito quelle bestie colossali alla presenza di qualcuno che non era un padrone dei draghi. Poi si ricordò dell'albino, e s'inginocchiò accanto a lui toccandogli la spalla. «Elric! Sei vivo?» Elric gemette e tentò di girarsi sul dorso. Maldiluna l'aiutò a sedersi. «Sono debole, Maldiluna: così debole che non posso alzarmi. Il corno mi ha sottratto tutta l'energia.» «Sguaina la spada: ti darà ciò che ti occorre.» Elric scosse il capo. «Seguirò il tuo consiglio, sebbene dubiti che questa
volta tu abbia ragione. L'eroe che ho ucciso doveva essere privo d'anima, o forse la sua anima era ben difesa, perché da lui non ho acquisito nulla.» Mosse le mani a tentoni e strinse l'elsa di Tempestosa. Con uno sforzo immane l'estrasse dal fodero, e sentì un lieve flusso abbandonare l'arma e riversarsi in lui: ma non era abbastanza per consentirgli di muoversi agevolmente. Si alzò, e avanzò vacillando verso Zannadifuoco. Il mostro lo riconobbe e fece frusciare le ali in segno di saluto: i duri occhi solenni parvero riscaldarsi un poco. Quando Elric si mosse per battergli la mano sul collo, barcollò e cadde su un ginocchio, rialzandosi a fatica. Un tempo erano stati gli schiavi a sellare i draghi: ma adesso dovevano provvedere loro stessi. Andarono al deposito e scelsero le selle di cui avevano bisogno, perché ciascuna era stata costruita su misura per ogni animale. Elric stentava a reggere il peso della sella di Zannadifuoco, lavorata in legno, acciaio, gemme e metalli preziosi. Fu costretto a trascinarsela dietro. Gli altri due, per non metterlo in imbarazzo, finsero di non accorgersi dei suoi sforzi impotenti e si diedero da fare con le loro selle. I draghi dovevano aver compreso che Maldiluna era un amico, perché non reagirono quando si avvicinò cautamente per sistemare sul rettile assegnatogli l'alta sella con le staffe d'argento e il pungolo simile a una lancia, ornato del vessillo di una famiglia nobile di Melniboné ormai estinta. Quando i due ebbero terminato di sellare il proprio drago andarono ad aiutare Elric, che stentava a reggersi per la debolezza e si teneva appoggiato allo scaglioso dorso di Zannadifuoco. Mentre legavano le cinghie, Dyvim Slorm chiese: «Avrai abbastanza forza per guidarci?» Elric sospirò. «Sì... Ne ho abbastanza, credo. Ma so che non me ne resterà per la battaglia. Dev'esserci un mezzo per riacquistare vitalità.» «E le erbe che usavi un tempo?» «Quelle che avevo hanno perduto le loro proprietà; e non è possibile trovarne altre fresche, ora che il caos ha deformato piante, rocce e oceano col suo spaventoso influsso.» Lasciando a Maldiluna il compito di sellare Zannadifuoco, Dyvim Slorm si allontanò; tornò portando una coppa di liquido che sperava servisse a rianimare Elric. L'albino bevve e rese la coppa; poi tese le braccia ad afferrare il pomolo e si issò in sella. «Porta le cinghie» ordinò. «Le cinghie?» Dyvim Slorm aggrottò la fronte. «Sì. Se non mi legherò alla sella, probabilmente precipiterò al suolo prima che abbiamo percorso in volo un miglio.» Elric si sedette sull'alta sella e strinse il pungolo che portava il suo ga-
gliardetto azzurro/verde/argento, lo strinse nella mano guantata e attese che gli altri portassero le cinghie e lo legassero saldamente. Sorrise, e scosse le redini del drago. «Avanti, Zannadifuoco, guida i tuoi fratelli e le tue sorelle.» Con le ali piegate e la testa china, il drago prese a camminare sinuosamente verso l'uscita. Dietro di lui, su due rettili quasi altrettanto enormi, venivano Dyvim Slorm e Maldiluna, torvi e preoccupati per la sicurezza di Elric. Mentre Zannadifuoco procedeva con andatura ondeggiante attraverso le caverne, i suoi compagni si avviarono, finché giunsero tutti alla grande imboccatura dell'ultima grotta, affacciata sul convulso mare. Il sole era ancora immobile, gonfio e scarlatto, e sembrava pulsare allo stesso ritmo delle onde. Lanciando un grido che era per metà un sibilo e per metà un urlo, Elric batté il pungolo sul collo di Zannadifuoco. «In volo, Zannadifuoco! In volo, per Melniboné e per la vendetta!» Quasi percepisse la stranezza che invadeva il mondo, il drago esitò sull'orlo del cornicione, squassando la testa e sbuffando. Poi, quando si lanciò nell'aria, cominciò a battere le ali, spiegandole in tutta la loro fantastica ampiezza e muovendole con una lenta eleganza che tuttavia gli fece acquistare subito una velocità prodigiosa. Su, su, sotto il sole gonfio, su nell'aria calda e turbolenta, verso l'est dove attendevano gli accampamenti dell'inferno. E nella scia di Zannadifuoco venivano i due draghi che portavano Maldiluna e Dyvim Slorm: anche il cugino di Elric aveva un corno, quello usato per comandare i draghi. Altri novantacinque rettili, maschi e femmine, oscuravano il cielo azzurrocupo: erano verdi, rossi e oro, con le scaglie che tintinnavano e balenavano, le ali che battevano all'unisono creando un rullo di mille tamburi mentre i draghi sorvolavano le immonde acque, con le fauci spalancate e gli occhi gelidi. Sebbene Elric scorgesse sotto di sé, con gli occhi velati, un'incredibile ricchezza di colori, erano tutti tenebrosi e mutavano costantemente, passando da un'estremità all'altra di uno spettro scurissimo. Laggiù non c'era più acqua: era un liquido formato da sostanze naturali e soprannaturali, reali e astratte. Sofferenza, nostalgia, infelicità e ilarità si scorgevano come frammenti tangibili in quella marea turbolenta; e c'erano passioni e frustrazioni, e brani di carne vivente che talora salivano gorgogliando alla superficie. Indebolito com'era, Elric si sentì nauseato alla vista di quel fluido: levò gli occhi cremisi verso l'alto, verso l'oriente, mentre i draghi procedevano velocissimi sulla rotta prestabilita.
Ben presto sorvolarono quello che un tempo era stato l'avamposto del continente orientale, la più grande delle penisole vilmiriane. Ma adesso era mutata, irriconoscibile, ed enormi colonne di nebbia scura s'innalzavano nell'aria: i tre furono costretti a guidare in mezzo a loro i draghi. La lava scorreva ribollendo sul lontano suolo, forme ripugnanti svolazzavano nell'aria, e si scorgevano bestie mostruose e gruppi di bizzarri cavalieri su cavalli scheletrici, che alzavano lo sguardo nell'udire il battito delle ali dei draghi e si precipitavano atterriti verso gli accampamenti. Il mondo sembrava un cadavere al quale fosse ridata la vita nella putredine tramite i vermi che se ne nutrivano. Non restavano più esseri umani, eccettuati i tre in sella ai draghi. Elric sapeva che Jagreen Lern e i suoi alleati terreni avevano rinnegato la loro umanità e non potevano più rivendicare affinità con la specie che le loro orde avevano cancellato dal mondo. I comandanti potevano conservare la forma umana, i sovrani tenebrosi potevano assumerla, ma le loro anime erano deformate quanto si erano deformati i corpi dei loro seguaci per l'influenza del caos. E le buie potenze del caos aleggiavano sul mondo: eppure nel suo cuore si addentrava la schiera dei draghi, mentre Elric vacillava sulla sella, trattenuto soltanto dalle cinghie che gli impedivano di precipitare. Dalle terre che sorvolavano sembrava levarsi un grido di dolore via via che la natura veniva sfidata e i suoi componenti erano forzati ad assumere forme aliene. Continuarono a volare verso quella che un tempo era stata Karlaak nei pressi della Solitudine Piangente e che adesso era il campo del caos. Poi udirono scendere dall'alto un urlo gracchiante e videro innumerevoli sagome nere piombare verso di loro. Elric non ebbe neppure la forza di gridare: batté fiaccamente sul collo di Zannadifuoco e lo fece virare per sfuggire al pericolo. I due compagni seguirono il suo esempio e Dyvim Slorm suonò il corno, ordinando ai draghi di non impegnare gli attaccanti; ma alcuni dei rettili della retroguardia si mossero troppo tardi e furono costretti a voltarsi e a battersi con quei fantasmi neri. Elric si girò a guardare e per qualche secondo li vide profilati contro il cielo, mostri immani dalle mascelle di capodoglio, presi nella lotta accanita contro i draghi che schizzavano verso di loro il veleno fiammeggiante e li dilaniavano con zanne e artigli, sbattendo le ali per non perdere quota: ma poi un'altra ondata di nebbia verdecupa si diffuse oscurandogli la visuale, e non vide la sorte toccata a quella decina di draghi. Elric segnalò a Zannadifuoco di volare basso sopra un piccolo esercito di
cavalieri in fuga attraverso il territorio tormentato, con lo stendardo del caos che sventolava sulla lancia del comandante. I draghi scesero e lanciarono il veleno: cavalcature e cavalieri urlarono, bruciarono e perirono, e le ceneri furono assorbite dal suolo mutevole. Qua e là, adesso, si scorgeva qualche castello gigantesco, appena eretto per magia: forse il premio per un re traditore che aveva aiutato Jagreen Lern o forse una fortezza dei capitani del caos, che dopo la vittoria si erano stabiliti sulla Terra. Scesero in picchiata, schizzando il veleno e lasciando i castelli ad ardere tra vampe innaturali, mentre il fumo si mescolava ai brandelli di nebbia. E finalmente Elric vide il campo del caos: una città costruita di recente allo stesso modo dei castelli, col simbolo del caos librato nel cielo. Eppure non provava un senso di esaltazione ma soltanto di angoscia: così indebolito, non avrebbe avuto la forza di sostenere lo scontro col suo nemico Jagreen Lern. Cosa poteva fare? Come poteva trovare l'energia? Perché, anche se non avesse preso parte ai combattimenti, doveva avere la vitalità necessaria per suonare il corno una seconda volta e chiamare sulla Terra i sovrani bianchi. La città sembrava stranamente silenziosa, come se attendesse qualcosa o si stesse preparando. C'era un'atmosfera di minaccia: Elric, prima che Zannadifuoco ne sorvolasse il perimetro, gli ordinò di aggirarla. Dyvim Slorm, Maldiluna e gli altri draghi seguirono il suo esempio, e Dyvim Slorm gli gridò: «E adesso, Elric? Non mi aspettavo di trovare qui così presto una città!» «Neppure io. Ma guarda...» Elric indicò, tendendo a fatica la mano tremante. «Ecco là lo stendardo col tritone di Jagreen Lern. E là...» Indicò verso sinistra e verso destra. «Gli stendardi di una ventina di duchi dell'inferno! Eppure non vedo altri vessilli umani.» Maldiluna gridò: «I castelli che abbiamo distrutto. Immagino che Jagreen Lern abbia già spartito queste terre devastate e le abbia assegnate ai suoi mercenari. Come possiamo sapere quanto tempo è trascorso in realtà, sufficiente per realizzare tutto questo?» «E vero.» Elric annuì, alzando gli occhi verso il sole immoto. Si piegò in avanti, semisvenuto, e si raddrizzò respirando pesantemente. Lo scudo del caos era un peso enorme sul suo braccio, ma lui lo teneva cautamente davanti a sé. Poi agì d'impulso: pungolò Zannadifuoco, e il drago accelerò, sfrecciò verso la città, tuffandosi verso il castello di Jagreen Lern. Nulla venne a intercettare il suo volo: fece posare il grande rettile alato
fra le torrette della fortezza. Il silenzio regnava assoluto. Si guardò intorno, sconcertato, ma vide solo i maestosi edifici di pietra scura, che sembravano sciogliersi sotto le zampe di Zannadifuoco. Le cinghie gli impedivano di smontare, ma vide quanto bastava per avere la certezza che la città era stata abbandonata. Dov'era l'orda dell'inferno? Dov'era Jagreen Lern? Dyvim Slorm e Maldiluna lo raggiunsero, mentre gli altri draghi volteggiavano nel cielo. Gli artigli stridettero sulla roccia, le ali sferzarono l'aria: si posarono girando intorno la poderosa testa e scarruffando le scaglie, irrequieti, perché quando si ridestavano preferivano l'aria alla terra. Dyvim Slorm si fermò solo il tempo sufficiente per borbottare: «Esplorerò la città.» Poi riprese il volo, a bassa quota fra i castelli, finché udirono il suo grido e lo videro piombare in picchiata e scomparire. Poi ci fu un urlo: ma non poterono vedere cosa l'avesse causato. Una pausa, e poi il drago di Dyvim Slorm risalì sbattendo le ali, e videro che davanti alla sella si stava dibattendo un prigioniero. Il grande rettile si posò. L'essere catturato da Dyvim Slorm somigliava a un umano ma era deforme e orrendo, col labbro inferiore prognato, la fronte bassa, il mento sfuggente: enormi denti tozzi e irregolari sporgevano dalla bocca, e le braccia nude erano coperte di peli. «Dove sono i tuoi padroni?» chiese Dyvim Slorm. L'essere non sembrava impaurito: rise. «Avevano previsto la vostra venuta, e poiché la città limita i movimenti hanno radunato gli eserciti su un pianoro che hanno creato cinque miglia a nordest.» Rivolse a Elric gli occhi dilatati. «Jagreen Lern ti manda i suoi saluti, e dice che ha prevenuto il tuo sciocco tentativo.» Elric scrollò le spalle. Dyvim Slorm sguainò Luttuosa e abbatté l'essere, che morì sghignazzando: la ragione l'aveva abbandonato insieme alla paura. Il melniboneano rabbrividì quando la sostanza vitale di quel relitto si fuse con la sua, trasmettendogli energia. Poi imprecò e guardò Elric con un'espressione di rammarico. «Sono stato precipitoso: avrei dovuto darlo a te.» Elric non replicò, e si limitò a bisbigliare con voce spenta: «Al loro campo di battaglia. Presto!» Risalirono per raggiungere gli altri draghi, in un turbine d'aria, e puntarono verso nordest. Fu con sbalordimento che avvistarono l'orda di Jagreen Lern, poiché era
impossibile comprendere come avesse potuto raggrupparsi con tanta rapidità. Sembrava che tutti i demoni e tutti i guerrieri della Terra fossero accorsi a combattere sotto lo stendardo del teocrate. L'esercito si stendeva come una lebbra immonda sulla pianura ondulata, e intorno le nubi diventavano più scure sebbene folgori di origine soprannaturale fiorissero urlando nel cielo. I draghi si avventarono in quel frastuono turbolento, e i tre amici riconobbero l'armata al comando di Jagreen Lern quando scorsero la sua bandiera. Altre divisioni erano comandate da duchi dell'inferno: Malohin, Zhortra, Xiombarg e altri. Elric notò anche i tre più potenti signori del caos, che torreggiavano su tutti gli altri: Chardros il Mietitore, dalla grande testa e dalla falce ricurva; Mabelode il Senza Volto con la faccia sempre in ombra comunque la si guardasse; e Slortar il Vecchio, esile e bellissimo, considerato il più anziano degli dèi. Era un esercito contro il quale mille incantatori esperti avrebbero faticato a difendersi: pensare di attaccarlo sembrava una pazzia. Elric non perse tempo a riflettere, poiché si era votato al suo piano ed era deciso a realizzarlo anche se, nelle condizioni in cui era ridotto, avrebbe finito inevitabilmente con l'annientare se stesso se avesse continuato. Avevano il vantaggio di attaccare dall'alto: ma questo avrebbe avuto valore solo finché fosse durato il veleno dei draghi. Appena fosse finito, sarebbero stati costretti ad avvicinarsi. In quel momento Elric avrebbe avuto bisogno di un'immane energia... e non ne aveva. I draghi si avventarono in picchiata, lanciando getti di veleno incendiario tra le schiere del caos. Normalmente, nessun esercito poteva resistere a un simile attacco: ma, protette dalla stregoneria, le armate del caos riuscivano a deviare gran parte del veleno fiammeggiante, che sembrava spandersi su uno scudo invisibile prima di dissiparsi. Tuttavia qualche spruzzo colpiva il bersaglio, e centinaia di guerrieri morivano tra le vampe. Più e più volte i draghi si risollevarono in volo e si tuffarono sui nemici. Elric vacillava semisvenuto in sella, e la coscienza di quanto stava accadendo si offuscava sempre più a ogni nuovo attacco. La sua vista affievolita era ulteriormente ostacolata dal fetido fumo che aveva cominciato a innalzarsi dal campo di battaglia. Enormi lance scagliate dall'orda salivano con apparente lentezza: lance del caos simili a fulmini ambrati che colpivano i draghi, e i grandi rettili alati mugghiavano e precipitavano morti al suolo. Zannadifuoco portò Elric sempre più vici-
no, fino a sorvolare la divisione comandata personalmente da Jagreen Lern. L'albino intravide il teocrate in groppa a un ripugnante cavallo glabro: agitava la spada, scosso da un'ilarità convulsa e beffarda. Udì vagamente la voce del suo nemico che saliva verso di lui. «Addio, Elric: è il nostro ultimo incontro, perché oggi scenderai nel limbo!» Elric fece virare Zannadifuoco e gli mormorò all'orecchio: «Quello, fratello drago: quello!» Con un ruggito, Zannadifuoco schizzò il veleno contro il teocrate. Elric pensò che Jagreen Lern sarebbe morto sicuramente tra le fiamme: ma appena il veleno lo sfiorava veniva ributtato indietro, e qualche goccia colpiva i seguaci dello stregone incendiando loro il corpo e le vesti. Jagreen Lern continuò a ridere e scagliò una lancia ambrata apparsa all'improvviso nella sua mano. La lancia volò verso Elric, che riuscì a deviarla alzando faticosamente lo scudo del caos. La violenza del colpo contro lo scudo fu tale che lui venne ributtato all'indietro e una delle cinghie che lo trattenevano si spezzò: Elric cadde verso sinistra, ma l'altra resse e gli salvò la vita. Si rannicchiò dietro la protezione dello scudo, mentre veniva bersagliato da armi soprannaturali. Anche Zannadifuoco era avvolto dall'immenso potere dello scudo del caos: ma per quanto tempo quell'arma avrebbe resistito all'assalto? Gli parve di essere costretto a usare lo scudo per un tempo interminabile prima che le ali di Zannadifuoco crepitassero nell'aria e lui si sentisse trascinato in alto, in alto, precipitosamente, al disopra dell'orda. Stava morendo. Di attimo in attimo la vitalità l'abbandonava, come se fosse stato un vecchio in punto di morte. «Non posso morire» mormorò. «Non devo morire. Non c'è una soluzione al dilemma?» Zannadifuoco parve udirlo. Scese verso il suolo, fino a sfiorare con lo scaglioso ventre le lance dell'orda. Poi si posò sul terreno instabile e attese, ad ali ripiegate, mentre alcuni guerrieri sospingevano verso di lui le cavalcature. Elric ansimò: «Cos'hai fatto, Zannadifuoco? Non posso più fidarmi di nessuno? Mi hai consegnato nelle mani dei nemici!» Con uno sforzo immane sguainò la spada mentre la prima lancia centrava il suo scudo e il cavaliere passava oltre, ghignando perché avvertiva la sua debolezza. Altri avanzarono, su entrambi i lati. Sfinito com'era, Elric cercò di sferrare un fendente, e all'improvviso Tempestosa prese l'iniziati-
va assestando la mira. La lama trapassò il braccio del cavaliere e si bloccò, nutrendosi avidamente della sua sostanza vitale. Subito Elric sentì ritornare un po' di forza, e comprese che il drago e la spada lo stavano aiutando a riconquistare l'energia necessaria. Ma la lama la teneva in gran parte per sé. E c'era un motivo preciso, come Elric scoprì subito, perché Tempestosa continuò a guidare il suo braccio. Molti altri cavalieri vennero uccisi in quel modo: Elric sogghignò, mentre si sentiva riaffluire la vitalità. La vista gli si schiarì, le sue reazioni ridivennero normali, e ritrovò fiducia in se stesso. Portò l'attacco contro il resto della divisione, mentre Zannadifuoco avanzava sul terreno con una velocità che sembrava smentire la sua enorme mole. I guerrieri si dispersero fuggendo per raggiungere il grosso dell'esercito: ma Elric non se ne curò, poiché aveva assorbito le anime di una decina di avversari e gli bastavano. «In volo, Zannadifuoco! In volo, e cerchiamo nemici più potenti!» Zannadifuoco spiegò docile le ali, le agitò innalzandosi dal suolo, e prese a planare sopra l'orda, a bassa quota. Al centro della divisione del duca Xiombarg, Elric atterrò di nuovo, smontò da Zannadifuoco, e sostenuto dall'energia soprannaturale si avventò tra le file dei guerrieri demoniaci, falciandoli, invulnerabile a tutto ciò che non fosse il più forte attacco del caos. La vitalità cresceva, e con la vitalità la folle ebbrezza della battaglia. Si aprì un varco sanguinoso tra quelle schiere, finché vide il duca Xiombarg nella sua sembianza terrena: una donna snella dalla chioma scura. Elric sapeva che quella fragile figura nascondeva la forza tremenda di Xiombarg: ma senza esitare balzò verso il duca dell'inferno, che stava in groppa a un essere dal corpo di toro e dalla testa di leone, e si piantò davanti a lui. La femminea voce di Xiombarg risuonò dolce all'orecchio di Elric. «Mortale, tu hai sfidato molti duchi dell'inferno e ne hai banditi altri nei mondi superni. Ora ti chiamano uccisore di dèi, ho sentito dire. Sei in grado di uccidere anche me?» «Sai bene che nessun mortale può uccidere un signore dei mondi superni, sia che appartenga alla legge o al caos: ma se è dotato di potere sufficiente, può distruggerne le sembianze terrene e rimandarlo sul suo piano cosicché non ne ritorni mai più.» «E tu puoi far questo a me?» «Vediamo!» Elric si scagliò verso il sovrano tenebroso. Xiombarg era armato con un'ascia a lungo manico che irradiava uno splendore blu-notte. Mentre la sua cavalcatura s'impennava, vibrò un colpo
d'ascia verso l'indifesa testa di Elric. L'albino rialzò fulmineamente lo scudo e parò il fendente. Un urlo metallico scaturì dalle armi, in una pioggia di enormi scintille. Elric avanzò, mirando a una delle femminee gambe di Xiombarg. Una luce scese dai fianchi e protesse la gamba: Tempestosa si arrestò di colpo, squassando il braccio di Elric. Ancora una volta Elric tentò di trapassare le difese di Xiombarg. E intanto udiva la risata del sovrano tenebroso, modulata dolcemente e tuttavia orribile come quella di una megera. «La tua parodia della forma e della bellezza umane comincia a venir meno, mio signore!» gridò, arretrando un momento per raccogliere le forze. Già il volto di fanciulla si contraeva e mutava mentre il duca dell'inferno, sconcertato dal potere di Elric, spronava la cavalcatura verso l'albino. Elric schivò e colpì di nuovo. Questa volta Tempestosa pulsò nella sua mano, trapassando le difese di Xiombarg, e il sovrano tenebroso gemette reagendo con un altro colpo d'ascia che Elric riuscì a bloccare a malapena. Poi girò la cavalcatura, roteando l'ascia intorno alla testa e scagliandola verso la fronte di Elric. L'albino si piegò fulmineamente e levò lo scudo: l'ascia lo sfiorò e cadde sul terreno. Si buttò all'inseguimento di Xiombarg, che stava girando di nuovo il destriero. Dal nulla il duca dell'inferno trasse un'altra arma, un enorme spadone a due mani con la lama larga il triplo di quella di Tempestosa. Sembrava incongrua nelle sue minute e delicate mani di fanciulla. E quelle dimensioni, pensò Elric, erano un'indicazione della sua potenza. Indietreggiò, guardingo, e notò distrattamente che una gamba del sovrano tenebroso era scomparsa ed era stata sostituita da una mandibola d'insetto. Se riusciva ad annientare il resto del camuffamento di Xiombarg, sarebbe riuscito a bandirlo. La risata di Xiombarg, adesso, non era più dolce e aveva un tono squilibrato. La testa leonina ruggì all'unisono con quella del padrone, mentre la cavalcatura caricava Elric. La mostruosa spada si levò e si abbatté sullo scudo del caos. Elric cadde riverso, e sentì il suolo fremere e scuotersi sotto di lui: ma lo scudo era ancora intero. Vide gli zoccoli taurini piombargli addosso, e si rannicchiò sotto lo scudo lasciando libero solo il braccio che reggeva la spada. Mentre la bestia tempestava, cercando di schiacciarlo con gli zoccoli, lui vibrò un affondo dal basso in alto, verso il ventre. In un primo momento la spada si arrestò, e poi penetrò attraverso l'ostacolo e assorbì la forza vitale. L'energia dell'immonda bestia si trasfuse dalla spada
all'uomo: Elric si sentì sconvolto da quella strana qualità insensata, perché l'essenza di un animale era diversa da quella di una creatura intelligente. Rotolò via, liberandosi dal peso dell'animale, e balzò in piedi mentre il toro-leone si accasciava scaraventando al suolo la forma ancora terrena di Xiombarg. Istantaneamente il sovrano tenebroso fu in piedi, sbilanciato dalla gamba umana e da quella aliena. Zoppiconi, venne svelto verso Elric, roteando l'immane spada in un movimento che avrebbe tagliato in due l'albino. Ma Elric, saturo dell'energia sottratta alla cavalcatura di Xiombarg, spiccò un salto indietro e colpì la spada con Tempestosa. Le due lame si scontrarono, ma nessuna cedette. Tempestosa urlò di collera, perché non era abituata a incontrare una simile resistenza. Elric insinuò l'orlo dello scudo sotto la lama e la forzò verso l'alto. Per un istante la guardia di Xiombarg restò aperta: e l'albino approfittò di quel momento, affondando Tempestosa nel petto del duca dell'inferno con tutte le forze. Xiombarg gemette, e subito la sua forma terrena cominciò a dissolversi mentre la spada di Elric ne risucchiava l'energia. Elric sapeva che era soltanto una frazione della forza vitale di Xiombarg su quel piano, perché la maggior parte dell'anima del sovrano tenebroso era ancora nei mondi superni: neppure il più potente tra gli dèi minori poteva evocare il potere necessario per trasportarsi interamente sulla Terra. Se Elric avesse assorbito ogni frammento dell'anima di Xiombarg, il suo corpo non avrebbe potuto racchiuderla e sarebbe esploso. E comunque l'energia che fluiva in lui dalla ferita era tanto più immensa di qualunque anima umana che ancora una volta si sentì trasformato nel ricettacolo di una forza superiore. Xiombarg mutò. Divenne una guizzante spira di luce colorata che prese a disperdersi e svanì, mentre il duca dell'inferno, furibondo, veniva ricacciato nel suo piano. Elric alzò gli occhi e vide con orrore che erano sopravvissuti soltanto pochi draghi. Uno stava svolazzando pesantemente e scendeva verso terra: portava sul dorso un cavaliere. Da lontano non poté vedere quale fosse dei suoi due amici. Prese a correre verso il punto in cui il drago cadeva. Udì lo schianto, un bizzarro ululato, un grido gorgogliante, e poi più nulla. Si aprì la strada combattendo tra i guerrieri del caos, senza che nessuno potesse resistergli, finché raggiunse il drago caduto. C'era un corpo sfracellato, al suolo, ma non c'era traccia della spada stregata. Luttuosa era scom-
parsa. Era il corpo di Dyvim Slorm, l'ultimo dei suoi parenti. Non c'era tempo per l'angoscia. Elric e Maldiluna e i draghi rimasti, poco meno di una ventina, non potevano vincere le forze di Jagreen Lern, che erano state appena scalfite dall'attacco. Ritto accanto al corpo del cugino, Elric si portò alle labbra il corno del fato, fece una profonda inspirazione, e suonò. La nota chiara e malinconica del corno echeggiò sul campo di battaglia e parve diffondersi in tutte le direzioni, attraverso tutte le dimensioni del cosmo, attraverso tutte le miriadi di piani d'esistenza, attraverso tutta l'eternità, fino ai limiti dell'universo e ai confini del tempo. Impiegò lunghi momenti a svanire; e quando infine si spense, sul mondo scese un silenzio assoluto e i milioni di esseri si fermarono in un'atmosfera d'attesa. E poi vennero i sovrani bianchi. CAPITOLO QUINTO Fu come se un sole enorme, migliaia di volte più grande di quello della Terra, avesse inviato un raggio di luce pulsante attraverso il cosmo, sfidando le fragili barriere del tempo e dello spazio, per colpire quel nero e immane campo di battaglia. E lungo quel raggio, apparendo sul sentiero aperto dal bizzarro potere del corno, avanzavano i signori della legge, nelle loro forme terrene così belle da sfidare la ragione di Elric, perché la sua mente stentava ad assorbire quella visione. A differenza dei signori del caos non cavalcavano bestie mostruose ma procedevano senza destrieri, magnifici nelle armature specchianti e nelle sopravvesti fluenti che portavano per emblema la freccia della legge. Alla loro testa veniva Donblad il Giustiziere, con un sorriso sulle labbra perfette. Nella destra stringeva una spada sottile, una spada diritta e affilata, simile a un raggio di luce. Allora Elric si mosse rapido, accorse verso Zannadifuoco che l'attendeva, e lanciò il grande rettile nell'aria gemente. Zannadifuoco si muoveva con minore agilità; ma Elric non sapeva se era solo stanco o appesantito dall'influsso della legge, dato che in fin dei conti era una creazione del caos. Poi Elric si trovò in alto a fianco di Maldiluna, e guardandosi intorno vide che i draghi superstiti si stavano dirigendo di nuovo verso occidente. Rimanevano soltanto le loro due cavalcature. Forse gli ultimi draghi ave-
vano intuito che la loro parte era conclusa e tornavano alle grotte per riaddormentarsi. Elric e Maldiluna si scambiarono un'occhiata ma non dissero nulla, perché la scena sotto di loro era troppo sconvolgente per parlarne. Una luce bianca e abbacinante si irradiò dai signori della legge, il raggio che aveva fatto loro da ponte sbiadì: e loro cominciarono ad avanzare verso il luogo dove si erano riuniti, pronti per lo scontro decisivo, Chardros il Mietitore, Mabelode il Senza Volto, Slortar il Vecchio e gli altri signori del caos. Via via che i sovrani bianchi passavano in mezzo agli altri abitatori dell'inferno e agli uomini corrotti che erano i loro alleati, quegli esseri arretravano urlando e cadevano, colpiti dal fulgore. La feccia veniva travolta e annullata senza difficoltà... ma la vera forza, i duchi dell'inferno e Jagreen Lern, doveva ancora essere affrontata. Sebbene in quella fase i signori della legge fossero appena di poco più alti degli esseri umani, parevano dominarli con la loro imponenza; e perfino Elric, lassù nel cielo, aveva la sensazione di essere una figura minuscola, poco più grande di una mosca. Non era tanto per la loro statura quanto per il senso d'immensità da cui sembravano circonfusi. Zannadifuoco batteva stancamente le ali, volteggiando sopra la scena. Tutt'intorno, adesso, i colori tenebrosi erano pieni di nubi dalle sfumature più luminose e più dolci. I signori della legge raggiunsero il luogo dov'erano radunati i loro antichi nemici, e Elric sentì giungere fino a lui la voce di Donblas. «Voi del caos avete sfidato l'editto dell'equilibrio cosmico e avete cercato di conquistare il dominio completo di questo pianeta. Il destino non ve lo consente, perché la vita della Terra è finita e dovrà risorgere in una forma nuova su cui la vostra influenza sarà debole.» Una voce soave e beffarda uscì dalle schiere del caos. Era la voce di Slortar il Vecchio. «Tu presumi troppo, fratello. Il fato della Terra non è ancora stato deciso definitivamente. Dal nostro scontro sortirà tale decisione: null'altro. Se vinceremo noi, regnerà il caos. Se voi riuscirete a bandirci, allora la legge, finora priva di possibilità, acquisirà la supremazia. Ma vinceremo noi, a dispetto del fato!» «E allora avanti!» replicò Donblas. Elric vide i fulgidi signori della legge avanzare verso i tenebrosi avversari. Il cielo stesso tremò, quando si scontrarono. L'aria urlò e la terra parve sussultare. Gli esseri inferiori rimasti ancora in vita si dispersero, allonta-
nandosi dal luogo del conflitto, e un suono che pareva emanare da un milione di arpe pulsanti, ognuna dal tono sottilmente variato, cominciò a irradiarsi dagli dèi combattenti. Elric vide Jagreen Lern lasciare i ranghi dei duchi dell'inferno allontanandosi a cavallo nella sua fiammeggiante armatura scarlatta. Forse si rendeva conto che la sua insolenza sarebbe stata presto ricompensata dalla morte. Allora il principe di Melniboné fece discendere in picchiata Zannadifuoco e sguainò Tempestosa, chiamando a gran voce il nome del teocrate e urlando sfide. Jagreen Lern alzò gli occhi, ma questa volta non rise. Affrettò l'andatura fino a quando vide verso cosa si stava dirigendo: Elric l'aveva già notato. Più avanti, la terra si era mutata in un gas nero e purpureo che danzava frenetico come se cercasse di liberarsi dall'atmosfera. Jagreen Lern trattenne il cavallo, si sfilò dalla cintura l'ascia da combattimento e alzò lo scudo rosso-fiamma, creato - come quello di Elric - per resistere alle armi incantate. Il drago sfrecciò verso il suolo, mozzando il respiro di Elric con la velocità della discesa. Si posò a terra a poche braccia dal punto dove Jagreen Lern stava in sella al suo orribile cavallo e attendeva filosoficamente l'attacco di Elric. Forse intuiva che il loro duello avrebbe rispecchiato la battaglia più grande, che l'esito dell'uno si sarebbe riflesso nell'esito dell'altra. Comunque non si abbandonò alle solite vanterie arroganti ma attese in silenzio. Senza chiedersi se il suo gesto avrebbe costituito un vantaggio per Jagreen Lern, Elric smontò e parlò a Zannadifuoco in un mormorio sommesso. «Ora torna indietro, Zannadifuoco. Torna con i tuoi fratelli. Qualunque cosa avvenga, che io vinca o perda, la tua parte è finita.» Mentre Zannadifuoco girava l'enorme testa per guardare in faccia Elric, un altro drago scese e atterrò poco lontano. Anche Maldiluna smontò e prese ad avanzare tra la nebbia nera e purpurea. Elric gli gridò: «Questa volta non voglio aiuto, Maldiluna!» «Non te lo darò. Ma sarà un piacere, per me, vederti prendere la sua vita e la sua anima!» Elric guardò Jagreen Lern, che era rimasto impassibile. Zannadifuoco batté le ali e s'innalzò nel cielo. Ben presto scomparve, seguito dall'altro drago. Non sarebbe tornato mai più.
Elric avanzò cauto verso il teocrate, con lo scudo alto e la spada spianata. Poi, con immenso stupore, vide Jagreen Lern scendere dalla grottesca cavalcatura, e percuoterle il posteriore per farla allontanare al galoppo; poi rimase ad attendere, leggermente piegato in una posizione che sottolineava il suo portamento a spalle alte. La lunga faccia scura era tesa e gli occhi seguivano fissamente l'albino. Un incostante sorriso d'anticipazione fremeva sulle sue labbra, e i suoi occhi lampeggiavano. Elric si fermò appena fuori portata dalla spada. «Jagreen Lern, sei pronto a pagare i crimini che hai commesso contro il mondo e me?» «Pagare? Crimini? Mi sorprende, Elric, perché vedo che hai completamente assorbito la mentalità capziosa dei tuoi nuovi alleati. Nelle mie conquiste ho giudicato necessario eliminare alcuni dei tuoi amici che tentavano di ostacolarmi. Ma era prevedibile. Ho fatto ciò che dovevo e volevo: e se ho fallito non ho rimpianti, perché il rimpianto è un sentimento da sciocchi e comunque inutile. Quanto è accaduto a tua moglie non è stato per mia responsabilità diretta. Che soddisfazione avrai, se mi uccidi?» Elric scosse il capo. «Le mie prospettive sono cambiate davvero, Jagreen Lern. Noi di Melniboné non siamo mai stati una schiatta vendicativa, ma adesso io voglio vendetta!» «Ah, ora ti capisco!» Jagreen Lern cambiò posizione e alzò l'ascia in un movimento difensivo. «Sono pronto.» Elric si avventò, e Tempestosa urlò fendendo l'aria per abbattersi sullo scudo scarlatto, una volta, due volte. L'albino sferrò tre colpi prima che l'ascia di Jagreen Lern cercasse di insinuarsi nella sua difesa, e l'arrestò con un movimento guizzante dello scudo del caos. L'ascia riuscì solo a scalfirgli il braccio, presso la spalla. Il suo scudo cozzò contro lo scudo di Jagreen Lern: Elric cercò di premere con tutto il peso per spingere all'indietro il teocrate, mentre sferrava affondi oltre l'orlo cercando di penetrare nella guardia dell'avversario. Per qualche istante restarono bloccati in quella posizione, mentre intorno a loro risuonava la musica della battaglia e il terreno pareva sprofondare sotto i loro piedi, tra colonne di colori che eruttavano fiorendo come piante magiche. Poi Jagreen Lern balzò indietro, avventando verso Elric un colpo fulmineo. L'albino si buttò in avanti, schivò cercando di colpire la gamba del teocrate al ginocchio... e non riuscì. Dall'alto, l'ascia piombò sibilando: Elric si gettò a lato per evitarla. Sbilanciato dalla violenza del colpo, Jagreen Lern barcollò; Elric si rialzò fulmineo e sferrò un calcio alle reni del teocrate. Quello cadde lungo disteso, lasciando la presa dell'ascia e dello
scudo, come se cercasse di fare molte cose contemporaneamente senza riuscirvi. Elric piantò il piede sul collo del teocrate e lo tenne bloccato, mentre Tempestosa incombeva avida sopra il nemico prono. Jagreen Lern si girò pesantemente e guardò Elric. Era impallidito, e parlò con gli occhi fissi sulla nera spada infernale. «Finiscimi. In tutta l'eternità non c'è più posto per la mia anima. Devo andare al limbo. Finiscimi!» Elric stava per consentire a Tempestosa d'immergersi nella gola del teocrate sconfitto ma poi trattenne l'arma, a fatica. La spada stregata mormorò di frustrazione, scuotendosi nella sua mano. «No» disse lentamente Elric. «Non voglio niente che sia tuo. Non contaminerò il mio essere nutrendomi della tua anima. Maldiluna!» Il suo amico sopraggiunse di corsa. «Maldiluna, dammi la tua spada.» Senza dir nulla, il piccolo orientale ubbidì. Elric rinfoderò la riluttante Tempestosa, dicendole: «Ecco: è la prima volta che t'impedisco di nutrirti. E adesso cosa farai?» Poi prese la spada di Maldiluna e sferrò un fendente alla guancia di Jagreen Lern, squarciandola con un taglio lungo e profondo che cominciò lentamente a riempirsi di sangue. Il teocrate urlò. «No, Elric! Uccidimi!» Con un sorriso assente, Elric gli squarciò l'altra guancia. Il volto sfigurato e sanguinante, Jagreen Lern invocava la morte; ma Elric continuò a sorridere con quel sorriso vago e semiconscio, e disse in tono tranquillo: «Hai cercato d'imitare gli imperatori di Melniboné, non è vero? Ti sei fatto beffe di Elric, l'hai torturato e hai rapito la sua sposa. Hai trasformato il suo corpo in una forma infernale, come hai trasformato il resto del mondo. Hai ucciso gli amici di Elric e l'hai sfidato con la tua insolenza. Ma tu non sei niente: sei una pedina, più di quanto lo sia mai stato Elric. Ora, piccolo uomo, saprai come si divertivano quelli di Melniboné con gli arrivisti insubordinati, quando governavano il mondo!» Jagreen Lern impiegò un'ora a morire, e solo perché Maldiluna implorò Elric di finirlo in fretta. Elric rese all'amico la spada contaminata, dopo averla pulita con un brandello di stoffa che aveva fatto parte della veste del teocrate. Abbassò lo sguardo sul cadavere mutilato e lo smosse col piede, poi girò gli occhi verso lo scontro dei signori dei mondi superni. Era tremendamente indebolito dalla battaglia e dallo sforzo compiuto per rinfoderare la riluttante Tempestosa: ma dimenticò tutto mentre guardava sbalordito la ciclopica lotta.
I signori della legge e quelli del caos erano divenuti enormi e nebulosi, e continuavano a battersi in forma umana. Sembravano giganti solo parzialmente reali, e combattevano dovunque: sulla terra e nell'aria. Lontano, al limite dell'orizzonte, vide Donblas il Giustiziere battersi con Chardros il Mietitore: i loro contorni baluginavano e si estendevano, e la spada sottile guizzava, la grande falce roteava. Senza poter partecipare al combattimento e senza comprendere chi stava vincendo, Elric e Maldiluna continuarono ad assistere mentre l'intensità della battaglia cresceva e insieme aumentava la lenta dissoluzione delle manifestazioni terrene degli dèi. La lotta non si svolgeva più soltanto sulla Terra ma pareva infuriare in tutti i piani del cosmo: quasi all'unisono con quella metamorfosi, la Terra sembrava perdere la sua forma, finché Elric e Maldiluna si trovarono alla deriva fra i vortici d'aria, di fuoco, di terra e d'acqua. La Terra si dissolveva... eppure i signori dei mondi superni continuavano a battersi. Restava solo la sostanza della Terra, ma era informe. Gli elementi esistevano ancora, ma la loro nuova forma non era decisa. La battaglia continuava. I vincitori avrebbero avuto il privilegio di ricreare la Terra. CAPITOLO SESTO Infine, benché Elric non comprendesse come, la tenebra turbolenta lasciò il posto alla luce: echeggiò un ruggito cosmico di odio e di frustrazione... e lui seppe che i signori del caos erano stati sconfitti e banditi. Dopo la vittoria dei signori della legge il piano del fato si era compiuto, sebbene fosse ancora necessario l'ultimo squillo del corno per portarlo alla conclusione voluta. Elric si accorse che non gli restava la forza di suonare il corno per la terza volta. Intorno ai due amici, il mondo assumeva di nuovo una forma distinta. Si trovarono su una pianura rocciosa, e in lontananza sorgevano le sottili vette di nuove montagne, purpuree sullo sfondo di un cielo pastoso. Poi la Terra prese a muoversi. Ruotò sempre più veloce, e il giorno lasciò il posto alla notte con incredibile rapidità e quindi cominciò a rallentare finché il sole fu di nuovo quasi fermo nel cielo, muovendosi con l'antico ritmo abituale. Il mutamento si era compiuto. Adesso regnava la legge, eppure i signori
della legge se n'erano andati senza ringraziare. E sebbene la legge governasse, non poteva progredire se non quando il corno avesse suonato per l'ultima volta. «Dunque è finita» mormorò Maldiluna. «È sparito tutto... Elwher, la mia patria, Karlaak presso la Solitudine Piangente, Bakshaan, perfino la Città Sognante e l'isola di Melniboné. Non esistono più, non è possibile ritrovarle. E questo è il mondo nuovo plasmato dalla legge. È molto simile a quello vecchio.» Anche Elric si sentì invadere dalla nostalgia, sapendo che tutti i luoghi a lui noti e gli stessi continenti erano spariti, sostituiti da altri diversi. Era come aver perduto l'infanzia, e forse era proprio così: l'infanzia della Terra era finita. Scacciò quel pensiero e sorrise. «Dovrei suonare il corno per l'ultima volta, se deve avere inizio la nuova vita della Terra. Ma non ne ho la forza. Chissà: forse il fato dovrà rimanere incompiuto, dopotutto.» Maldiluna lo guardò stranamente. «Spero di no, amico.» Elric sospirò. «Io e te siamo rimasti soli, Maldiluna. È giusto che i titanici eventi cui abbiamo assistito non abbiano scalfito la nostra amicizia e non ci abbiano separati. Sei l'unico amico la cui compagnia non mi abbia deluso, l'unico in cui ho avuto fiducia.» Maldiluna sorrise: era l'ombra del suo vecchio sogghigno baldanzoso. «E quando abbiamo vissuto qualche avventura, di solito io ne ho tratto vantaggio, anche se per te non era così. È stata un'amicizia complementare. Non saprò mai perché ho scelto di dividere il tuo destino. Forse non è stata opera mia ma del fato, perché c'è un ultimo gesto d'amicizia che posso compiere...» Elric stava per interrogarlo, quando dietro di lui si levò una voce sommessa. «Porto due messaggi. Uno di ringraziamento da parte dei signori della legge... e un altro di un'entità più potente.» «Sepiriz!» Elric si voltò di scatto verso il suo mentore. «Ebbene, sei soddisfatto della mia opera?» «Sì, immensamente.» Il volto di Sepiriz era triste: fissò Elric con un'espressione di profonda pietà. «Sei riuscito in tutto tranne l'ultimo atto: suonare per la terza volta il corno del fato. Grazie a te il mondo conoscerà il progresso, e la sua nuova popolazione avrà la possibilità di avanzare gradualmente verso un nuovo stato dell'essere.» «Ma che significato ha tutto questo?» chiese Elric. «Non l'ho mai com-
preso interamente.» «E chi ne è capace? Chi può sapere perché esiste l'equilibrio cosmico, perché esistono il fato e i signori dei mondi superni? Perché deve sempre esserci un campione per combattere simili battaglie? Sembra che esista un numero infinito di spazi e di tempi e di possibilità. Forse c'è un numero infinito di esseri, uno al disopra dell'altro, che vedono lo scopo finale, sebbene, nell'infinito, possa anche non esistere un simile scopo. Forse tutto è ciclico, e questo stesso evento si ripeterà molte volte finché l'universo si dissolverà come si è dissolto il mondo che conoscevamo. Un significato, Elric? Non cercarlo, perché ciò può portare alla pazzia.» «Nessun significato, nessun disegno. Allora perché ho sofferto tutto questo?» «Forse anche gli dèi cercano un significato e un disegno, e questo è solo un tentativo per trovarli. Guarda...» Sepiriz mosse le mani per indicare la Terra appena formata. «Tutto questo è nuovo, modellato secondo logica. Forse sarà la logica a governare i nuovi umani, forse interverrà un fattore che la distruggerà. Gli dèi compiono esperimenti, l'equilibrio cosmico guida il destino della Terra, gli uomini lottano e attribuiscono agli dèi la conoscenza delle cause delle loro lotte... ma gli dèi le conoscono?» «Sei venuto a turbarmi ancora di più, quando avevo sperato di trovare consolazione» sospirò Elric. «Ho perduto la mia sposa e il mondo, e non so perché.» «Sì. Ti vedrò ancora?» «No, perché in realtà siamo morti entrambi. La nostra epoca è finita.» Sepiriz parve contorcersi nell'aria e scomparve. Rimase un silenzio freddo. Infine i pensieri di Elric furono interrotti da Maldiluna. «Devi suonare il corno, Elric. Può significare nulla o moltissimo... ma devi suonarlo, e farla finita per sempre.» «Com'è possibile? Mi resta a malapena la forza di reggermi in piedi.» «Ho deciso io ciò che dovrai fare. Uccidimi con Tempestosa. Prendi la mia anima e la mia vitalità... e avrai l'energia sufficiente per suonare il corno.» «Ucciderti, Maldiluna! L'unico rimasto... il mio solo, vero amico! Tu deliri!» «No. Devi uccidermi, perché non c'è altro da fare. Inoltre qui non c'è posto per noi, e moriremmo comunque molto presto. Mi hai detto che Zaro-
zinia ti ha dato la sua anima: ebbene, prendi anche la mia.» «Non posso.» Maldiluna si avvicinò e afferrò l'elsa di Tempestosa, sguainandola a mezzo. «No, Maldiluna!» Ma la spada balzò dal fodero di propria iniziativa. Elric colpì la mano di Maldiluna per scostarla, e strinse l'impugnatura. Ma non riuscì a fermare Tempestosa. La spada si sollevò, trascinandogli il braccio e bilanciandosi per sferrare il colpo. Maldiluna stava con le braccia abbandonate lungo i fianchi e il volto inespressivo, sebbene Elric avesse la sensazione di scorgere un barlume di paura negli occhi. Lottò per dominare la spada, ma sapeva che era impossibile. «Lascia che compia la sua opera, Elric.» La lama si avventò e trapassò il cuore di Maldiluna. Il sangue sgorgò, ricoprendola. Gli occhi si offuscarono, si colmarono d'orrore. «Ah, no... io... non... mi... aspettavo... questo!» Impietrito, Elric non riuscì a svellere la spada dal cuore dell'amico. L'energia di Maldiluna prese a rifluire lungo la lama e a riversarsi nel suo corpo: eppure, anche quando tutta la vitalità del piccolo orientale fu assorbita, Elric rimase a fissare il cadavere finché le lacrime scorsero dai suoi occhi cremisi e un gran singulto lo squassò. Poi la lama uscì dal corpo di Maldiluna. Elric la scagliò lontana, e Tempestosa non rimbalzò sul suolo pietroso: atterrò come un corpo umano. Poi parve muoversi verso di lui: Elric ebbe il sospetto che lo stesse spiando. Prese il corno e se l'accostò alle labbra. Soffiò, per annunciare la notte della nuova Terra. La notte che avrebbe preceduto la nuova alba. E sebbene la nota del corno fosse trionfante, Elric non lo era. Con la testa rovesciata all'indietro mentre quel suono continuava a echeggiare, si sentiva pervaso da una solitudine infinita e da un'infinita angoscia. E quando la nota si attenuò, passando dal trionfo a un riverbero morente che sembrava esprimere un'ombra dell'infelicità di Elric, un immane profilo incominciò a formarsi nel cielo, quasi fosse stato evocato dal corno. Era il contorno di una mano gigantesca che reggeva una bilancia: e mentre Elric la guardava, la bilancia prese a raddrizzarsi finché i due piatti furono in perfetto equilibrio. E quella visione alleviò l'angoscia di Elric, mentre lui allentava la stretta
sul corno del fato. «È qualcosa, almeno» disse. «E anche se è solo un'illusione, è rassicurante.» Girò la testa e vide la spada abbandonare il suolo, roteare nell'aria e poi precipitarsi verso di lui. «Tempestosa!» gridò, e poi la spada infernale lo colpì al petto. Lui sentì il gelido tocco della lama contro il cuore, tese le dita per afferrarla, sentì tutto il corpo contrarsi, sentì la spada risucchiargli l'anima dal profondo dell'essere, sentì tutta la sua personalità aspirata nell'arma infernale. Con quella lama aveva ucciso amici e innamorate, aveva rubato le loro anime per alimentare la propria forza declinante. Era come se la spada si fosse sempre servita di lui per quello scopo, come se lui fosse stato soltanto una manifestazione di Tempestosa e adesso venisse riassorbito nella lama che non era mai stata una vera spada. E mentre moriva pianse ancora, perché sapeva che la frazione dell'anima della spada che era la sua anima non avrebbe mai conosciuto riposo ma sarebbe stata condannata all'immortalità e alla lotta eterna. Elric di Melniboné, ultimo degli Imperatori Fulgidi, lanciò un grido; e poi il suo corpo si accasciò accanto al cadavere del suo compagno come un guscio prostrato e giacque sotto l'immane bilancia che aleggiava ancora nel cielo. Poi la forma di Tempestosa prese a mutare, fremendo e turbinando, finché fu ritta sopra il corpo dell'albino. L'entità che era Tempestosa, ultima manifestazione del caos che sarebbe rimasta in quel nuovo mondo nel corso della sua evoluzione, abbassò lo sguardo sul cadavere di Elric di Melniboné e sorrise. «Addio, amico. Io ero mille volte più malefico di te.» E poi lasciò la Terra con un balzo e sfrecciò verso l'alto, e con voce selvaggia rise beffardamente della bilancia cosmica, saturando l'universo della sua empia gioia. FINE