Guillaume Musso Quando si ama non scende mai la notte traduzione di Laura Serra. - Milano : Rizzoli, 2008. Mark e Nicole Hathaway sono giovani, affermati, felici. Lui è un brillante psicologo, lei una talentuosa violinista. Vivono in una splendida casa di Brooklyn e hanno una figlia adorabile, Layla. Non ci sono nubi sul loro orizzonte. Ma un orribile giorno, Layla scompare misteriosamente da un centro commerciale di Los Angeles, dove la madre è in tournée. In pochi minuti si consuma una tragedia assurda, incomprensibile, che lascia Mark e Nicole in preda alla disperazione più profonda. Una disperazione che logora e annichilisce, e spinge Mark, dopo mesi di angoscianti ricerche, ad abbandonare casa, lavoro e Nicole per perdersi a sua volta nei bassifondi della città, con la sola compagnia del suo inestinguibile dolore. Ma cinque anni dopo, Nicole riesce a rintracciarlo: deve dargli una notizia sconvolgente, Layla è stata ritrovata nello stesso luogo da cui era scomparsa senza lasciare tracce. Stordito dalla gioia, Mark si precipita a Los Angeles per riportare a casa la sua bambina. È la realizzazione di un sogno che pareva impossibile: la felicità è di nuovo a portata di mano. A bordo del volo per New York, le storie di Mark e Layla si incrociano con quelle di Evie e Alyson, che fanno i conti con un passato ineluttabile come una condanna: Evie è affranta da un lutto che le toglie il respiro; Alyson è divorata da una colpa inconfessabile, che la schiaccia e la corrode. Unite da un solo destino, le loro vite si affacciano a un bivio inaspettato. Perché l'anima ha un altro sacrificio da compiere, un ultimo prezzo da pagare, prima di riuscire a liberarsi e ritrovare la voglia di amare. Quando si ama non scende mai la notte è una storia d'amore e di perdono che parla direttamente al cuore. Trasportandoci, come solo i romanzi di Guillaume Musso sanno fare, in un nuovo, indimenticabile viaggio lungo i sentieri dell'anima. GUILLAUME MUSSO è nato ad Antibes nel 1974. I suoi romanzi hanno venduto tre milioni di copie nella sola Francia, e sono tradotti in 27 lingue. In Italia sono usciti per Sonzogno L'uomo che credeva di non avere più tempo (2005), La donna che non poteva essere qui (2006) e Chi ama torna sempre indietro (2007), che hanno scalato le classifiche dei libri più venduti. In copertina: fotografia © Millennium/Sime progetto grafico di Francesca Leoneschi per Mucca Design www.rizzoli.eu ISBN 978-88-17-01998-9
x €18,00
Proprietà letteraria riservata © XO Éditions, 2007 All rights reserved © 2008 RCS Libri S.p.A., Milano ISBN 978-88-17-01998-9 Titolo originale dell'opera: PARCE QUE JE T'AIME Prima edizione: gennaio 2008 Seconda edizione: febbraio 2008 Realizzazione editoriale: Studio Editoriale Littera, Rescaldina (MI) Quando si ama non scende mai la notte 1 La notte in cui tutto ebbe inizio Dobbiamo abituarci all'idea: ai più importanti bivi della vita, non c'è segnaletica.
Ernest Hemingway Dicembre 2006 È la sera di Natale nel cuore di Manhattan... La neve cade incessante dalla mattina. Intirizzita, la «città che non dorme mai» gira al rallentatore, nonostante l'orgia di luminarie. Il traffico è stranamente scorrevole per un giorno di festa, ma lo strato di neve farinosa e i grossi mucchi ai lati della strada rendono difficile ogni spostamento. All'angolo tra Madison Avenue e la 36a, le limousine sfilano una dopo l'altra, e si fermano a scaricare i passeggeri davanti all'edificio in stile rinascimentale della Morgan Library, una delle istituzioni culturali più prestigiose di New York, che festeggia oggi il suo centenario. La scala d'ingresso è un turbinio di pellicce, gioielli, smoking e abiti lunghi. La folla confluisce verso un padiglione di vetro e acciaio di più recente costruzione, che proietta armoniosamente il palazzo nel Ventunesimo secolo. All'ultimo piano, un lungo corridoio conduce a una sala dove sono esposti i tesori della Morgan: una Bibbia di Gutenberg, alcuni manoscritti miniati medievali, disegni di Rembrandt, Leonardo da Vinci e Van Gogh, lettere di Voltaire e Einstein, e perfino il tovagliolo su cui Bob Dylan scrisse le parole di Blowin in the Wind. A poco a poco si fa silenzio e i ritardatari raggiungono i propri posti. Per la serata una parte della sala lettura è stata attrezzata per ospitare il concerto della violinista Nicole Hathaway, che esegue alcune sonate di Mozart e Brahms. La Hathaway entra in scena tra gli applausi. È una donna sui trent'anni, sofisticata, con un elegante chignon alla Grace Kelly che le dà un'aria da eroina hitchcockiana. Ha inciso il primo disco a sedici anni, suonato con le maggiori orchestre del mondo e ottenuto i riconoscimenti più prestigiosi. Cinque anni fa la sua vita è stata sconvolta da una tragedia di cui hanno parlato stampa e televisione, e da allora la sua celebrità ha superato i confini della cerchia degli appassionati di musica da camera. Nicole saluta il pubblico e sistema il violino sotto il mento. La sua bellezza classica si accorda alla perfezione con la sala piena di incisioni e manoscritti rinascimentali, come se quello fosse il suo habitat naturale. Con un attacco schietto e profondo, l'archetto entra immediatamente in sintonia con le corde. Intorno, ogni dettaglio è imbevuto di buongusto e raffinatezza. Fuori la neve continua a cadere nella notte fredda. A meno di cinquecento metri da lì, non lontano dalla Grand Central Station, la lastra di un tombino si solleva lentamente e ne emerge la testa irsuta di un uomo dallo sguardo vacuo e il viso sciupato. Dopo aver liberato il labrador nero che teneva in braccio, l'uomo si tira su a fatica e attraversa la strada barcollando, col rischio di farsi investire, in mezzo a un concerto di clacson. È debole e malconcio, perso nel suo cappotto logoro e sporco. Istintivamente la gente lo scansa e affretta il passo. Ha trentacinque anni, ma ne dimostra cinquanta. Una volta aveva un lavoro, una moglie, una figlia e una casa, ma è stato tanto tempo prima. Oggi quest'uomo è solo un fantasma di stracci che biascica parole incoerenti.
Che giorno è? Che ora è?
Non lo sa più. Nella sua testa tutto si confonde. Vede le luci della città sfocate davanti a sé. I fiocchi di neve portati dal vento gli feriscono il viso, ha i piedi ghiacciati, lo stomaco vuoto che urla di dolore, le ossa sul punto di rompersi. Sono già due anni che ha abbandonato la propria vita per rintanarsi nelle viscere della città. Come tanti altri, ha trovato riparo nei tunnel del metrò, nelle fogne e sui binari morti delle ferrovie. La politica di tolleranza zero dell'amministrazione cittadina ha ripulito scrupolosamente Manhattan, ma sotto i grattacieli sfavillanti pulsa una vita parallela: una New York di relitti umani che galleggiano nel dedalo di cunicoli, nicchie e cavità. Migliaia di talpe respinte nei bassifondi si nascondono dalla polizia nelle luride gallerie infestate dai ratti. L'uomo si fruga in tasca e tira fuori una bottiglia di liquore di infima qualità. Per dimenticare il freddo, la paura, la sporcizia. Per dimenticare la sua vita di un tempo. Ultimo colpo d'archetto di Nicole Hathaway. Per lo spazio di due battute - un silenzio che appartiene ancora a Mozart - la platea rimane con il fiato sospeso prima di sciogliersi in un applauso scrosciante. La violinista ringrazia con un inchino, riceve un mazzo di fiori e attraversa la sala fra sorrisi e complimenti. Nonostante l'entusiasmo, sente di non aver dato il massimo. Ha suonato con tecnica perfetta, energia, purezza di ghiaccio. Ma non con l'anima. Stringe meccanicamente qualche mano, si bagna le labbra di champagne e si guarda intorno inquieta. «Vuoi che rientriamo, cara?» Nicole si gira lentamente verso quella voce rassicurante. Eriq le sta davanti, sorseggiando un Martini. È il suo compagno da qualche mese: un avvocato, un uomo solido e premuroso, che ha saputo starle vicino in un momento difficile. «Sì, mi gira la testa. Portami a casa.» Avendo previsto la sua risposta, Eriq era già andato al guardaroba e, ora, le porge un cappotto di flanella grigia. Lei se lo infila e si stringe il bavero intorno al collo. Proprio mentre la festa comincia, i due scendono l'imponente scalone di marmo tenendosi per mano. «Ti chiamo un taxi» propone lui quando arrivano nell'atrio. «Io vado a prendere la mia auto in ufficio e ti raggiungo.» «Vengo con te. Saranno cinque minuti a piedi.» «Scherzi? C'è un tempo da lupi.» «Ho bisogno di camminare e respirare un po' d'aria fresca.» «Ma è pericoloso!» «Da quando in qua è pericoloso fare trecento metri a piedi? E poi ci sei tu.» «Come vuoi.» Raggiungono in silenzio la 5a Avenue. L'auto si trova a cento metri, dietro Bryant Park. Nelle belle giornate il Bryant è un'oasi di verde, ideale per passeggiate, picnic o partite a scacchi accanto alla fontana, ma di sera è buio e sinistro. «FUORI I SOLDI!» Nicole vede una lama, scintillante come un lampo. «FUORI I SOLDI, HO DETTO!» E un uomo senza età, con la testa rasata e una giacca a vento scura che gli arriva alle ginocchia. Il viso, segnato da una lunga cicatrice, incornicia due occhi animati dalla luce della follia. «FORZA, SBRIGATI!»
«Va bene, va bene» si affretta a dire Eriq, tirando fuori portafogli, orologio e cellulare. L'uomo afferra gli oggetti, poi si avvicina a Nicole per strapparle la borsa e l'astuccio con il violino. Lei serra forte gli occhi, e recita mentalmente l'alfabeto al contrario, come faceva da bambina quando aveva paura. ZYXWVU... È l'unica cosa che le viene in mente, l'unico sistema per neutralizzare il terrore in attesa che quel momento diventi un ricordo. TSRQPO... Ora se ne andrà, ha avuto quello che voleva. N M L K J I H... Se ne andrà. A che gli servirebbe ucciderci? G F E D C B A.. Ma quando Nicole riapre gli occhi, lo sconosciuto è sempre lì e ha il braccio alzato. Eriq vede la mano con il coltello abbassarsi, ma è paralizzato dalla paura. Lei guarda ipnotizzata la lama che sta per tagliarle la gola. È tutta qui, la sua vita? Che strano. Dicono che a volte, in punto di morte, si rivedano in rapida sequenza i momenti salienti della propria esistenza. Nicole, invece, ha solo un'immagine impressa nella mente: una spiaggia immensa, e due persone che la chiamano con la mano. Le distingue bene. La prima è il solo uomo che abbia mai amato e che non ha saputo trattenere. La seconda è sua figlia, che non ha saputo proteggere. Sono morta. No. Non ancora. Come mai? Qualcuno è sbucato fuori dal nulla. Un barbone. Lì per lì Nicole pensa a un altro teppista, poi capisce che il nuovo venuto sta tentando di proteggerla. Anzi, è lui che si becca una coltellata nella spalla. Benché ferito, si rialza, si lancia con rabbia contro l'aggressore, lo disarma e lo costringe a mollare il bottino. Per quanto sia più magro e più debole, il senzatetto prende il sopravvento nel corpo a corpo e, con l'aiuto del suo labrador nero, mette in fuga l'avversario. Ma la vittoria lo ha provato. Sfinito, crolla per terra, sbattendo la faccia sul marciapiedi ghiacciato. Nicole si inginocchia sulla neve, cercando di soccorrere l'uomo che le ha salvato la vita. Ci sono tracce di sangue. «Diamogli venti dollari e andiamo via» propone Eriq, raccogliendo il portafogli e il cellulare. Ora che il pericolo è passato, l'avvocato ha ritrovato la sua parlantina. Nicole lo guarda con disprezzo. «Non vedi che è ferito?» «Allora chiamo la polizia.» «Non è la polizia che bisogna chiamare, ma un'ambulanza.» Con qualche difficoltà, Nicole riesce a girare il corpo dello sconosciuto. Gli posa una mano sulla spalla sanguinante e gli guarda il viso dalla barba incolta. In un primo momento non lo riconosce, poi i suoi occhi incrociano quelli febbricitanti dell'uomo. Qualcosa in lei si spezza. Si sente invadere da un'ondata di calore, non sa ancora se è dolore o sollievo. Una fiamma che la ustiona o una speranza che sorge nella notte. Si china su di lui e avvicina il viso al suo come per difenderlo dalla neve. «Che cosa ti salta in mente?» chiede Eriq. «Lascia perdere la telefonata e va' a prendere l'auto.» «Perché?» «Quest'uomo... lo conosco.»
«Come?» «Aiutami a trasportarlo a casa» ordina lei senza far caso alla domanda. Eriq scuote la testa, poi sospira: «Insomma, si può sapere chi è questo tizio?». Con lo sguardo perso nel vuoto, Nicole lascia passare un lungo istante prima di rispondere: «È Mark, mio marito». 2 La scomparsa Non siamo mai così esposti alla sofferenza, come nel momento in cui amiamo. Sigmund Freud Brooklyn, dall'altro lato del fiume, in una piccola casa vittoriana ornata di torrette e doccioni... Un bel fuoco scoppiettava nel caminetto. Ancora svenuto, Mark Hathaway era sdraiato sul divano del salotto, con una pesante coperta avvolta intorno alle gambe. China su di lui, la dottoressa Susan Kingston finì di applicargli i punti di sutura alla spalla. «La ferita è superficiale» spiegò a Nicole, togliendosi i guanti. «Semmai sono le condizioni generali che mi preoccupano: ha una brutta bronchite e il corpo coperto di ematomi e geloni.» Poco prima, mentre era a tavola con i famigliari di fronte al tradizionale pudding natalizio, Susan aveva risposto alla telefonata della sua vicina, Nicole Hathaway, che la pregava di venire in soccorso di suo marito ferito. Benché stupita, non aveva esitato un istante. Lei e suo marito conoscevano bene Mark e Nicole. Prima della tragedia, le due coppie uscivano spesso insieme per provare i ristoranti italiani di Park Slope, andare a caccia di oggetti antichi nei negozi di antiquariato di Brooklyn Height o a correre a Prospect Park durante il weekend. Ormai quell'epoca pareva lontanissima, quasi irreale. Susan era sconcertata. «Sapevi che viveva per strada?» Nicole scosse la testa, incapace di parlare. Una mattina di due anni prima, suo marito le aveva annunciato che aveva deciso di andarsene: non riusciva più a vivere così, non ne aveva la forza. Nicole aveva fatto di tutto per trattenerlo, ma a volte tutto non basta. Da allora non aveva più avuto sue notìzie. «Gli ho somministrato sedativi e antibiotici» disse Susan, rimettendo i suoi strumenti nella valigetta. Nicole la accompagnò alla porta. «Ripasserò domattina ma...» la dottoressa si interruppe a metà, terrorizzata e imbarazzata da ciò che stava per dire. «Non lasciarlo andare in queste condizioni, altrimenti... morirà.» «Allora?» «Allora cosa?» «Che ne facciamo di tuo marito?» Eriq camminava su e giù per la cucina con un bicchiere di whisky in mano. Nicole lo guardò con un misto di fastidio e disgusto. Che cosa ci faceva insieme a quel tipo? Per quale motivo aveva lasciato che entrasse nella sua vita? «Vattene, per favore» disse. Eriq scosse la testa. «Non ci penso nemmeno ad abbandonarti in un momento come questo.» «Quando avevo un coltello puntato alla gola non ti sei fatto troppi problemi.» «Non ho avuto il tempo di...» Eriq cominciò, senza riuscire a finire la frase.
«Vattene» ripetè Nicole. «Se è veramente questo che vuoi... Ma ti chiamerò domani.» Contenta di essersene sbarazzata, Nicole tornò in soggiorno. Spense tutte le lampade e, senza far rumore, accostò una poltrona al divano per stare più vicina a Mark. Nella stanza, illuminata solo dal chiarore incerto del fuoco, regnava la calma. Esausta e disorientata, Nicole strinse la mano del marito e chiuse gli occhi. Erano stati così felici in quella casa. Quando, dieci anni prima, avevano trovato quella villetta di fine Ottocento con la facciata di arenaria scura e il giardino, erano impazziti di gioia. L'avevano comprata all'istante, anche per crescere Layla lontano dalla frenesia di Manhattan. Sugli scaffali della libreria, alcune foto incorniciavano la felicità di un tempo. Loro due, mano nella mano, si scambiavano uno sguardo complice. Vacanze romantiche alle Hawaii e nel Grand Canyon in motocicletta. Poi l'immagine di un'ecografia e, pochi mesi dopo, il faccino tondo di una neonata che festeggiava il suo primo Natale. Nelle ultime istantanee, la bambina era cresciuta e aveva perduto i primi denti. Posava orgogliosa davanti alle giraffe dello zoo del Bronx, si aggiustava il berrettino sulla neve del Montana e presentava all'obiettivo della macchina fotografica i suoi due pesci pagliaccio, Ernesto e Cappuccino. Il profumo dei giorni felici svaniti per sempre. Mark tossì nel sonno. Nicole fu scossa da un brivido. L'uomo che dormiva sul divano non aveva più niente a che vedere con quello che lei aveva sposato. Solo i diplomi e le onorificenze che tappezzavano la parete ricordavano lo psicologo di fama che era stato un tempo. Poiché era specialista in resilienza, la capacità dell'uomo di affrontare e superare le avversità della vita, la faa (Federal Aviation Administration) e l'FBI si rivolgevano a lui in occasione di catastrofi aeree e sequestri di persona. Dopo l'11 settembre Mark aveva fatto parte della squadra di psicologi incaricata di seguire le famiglie delle vittime e dei superstiti. Non si esce mai indenni da simili tragedie. Se non si muore, ci si sente sporchi e tormentati dal senso di colpa, divorati da un'angoscia sorda e straziati da una domanda che non avrà mai risposta: perché noi siamo sopravvissuti e gli altri no? Perché proprio noi, e non nostro figlio, nostra moglie, i nostri genitori? Oltre a fare lo psicologo, un tempo Mark collaborava con diverse riviste di divulgazione. Aveva contribuito a far conoscere al grande pubblico terapie come il gioco di ruolo e l'ipnosi, alle quali lavorava con il suo socio e amico d'infanzia Connor McCoy. Col tempo la sua fama era cresciuta, e Mark era diventato un ospite fisso dei talk show. E così, quasi senza accorgersene, Mark e Nicole erano diventati delle celebrità. In un numero sulle coppie più in vista di New York, «Vanity Fair» aveva dedicato loro un articolo di quattro pagine. Una vera consacrazione. Ma la favola di carta patinata si era infranta da un giorno all'altro. Un pomeriggio di marzo Layla, la loro bambina di cinque anni, era scomparsa. Si trovava in un centro commerciale di Orange County, a sud di Los Angeles, ed era stata vista per l'ultima volta davanti alla vetrina del Disney Store. La baby-sitter, una ragazza alla pari australiana, l'aveva lasciata sola qualche minuto, giusto il tempo di provare un paio di jeans nel negozio Diesel lì accanto. Quanto tempo era passato prima che notasse l'assenza della bambina? «Non più di cinque minuti» aveva dichiarato alla polizia. Vale a dire un'eternità. In cinque minuti può succedere di tutto. Le prime ore che seguono la scomparsa di un bambino sono cruciali: è allora che si hanno più probabilità di ritrovarlo. Già dopo due giorni le speranze si riducono drasticamente. Pioveva a dirotto, quel 23 marzo. Benché Layla fosse sparita in pieno giorno e in un posto affollato, gli inquirenti avevano faticato a
raccogliere testimonianze attendibili. Le immagini registrate dalle telecamere di sorveglianza non avevano fornito indizi di alcun genere, né era servita la deposizione della baby-sitter, colpevole di negligenza, ma non certo di rapimento. Erano passati i giorni... Per parecchie settimane, più di cento agenti, alcuni con i cani, o in elicottero, avevano setacciato la zona. Poi i mesi... La polizia era disorientata dalla mancanza di indizi. Non c'erano state richieste di riscatto, né erano emerse piste verosimili. Niente. E gli anni... La foto di Layla era stata affissa nelle stazioni, negli aeroporti e negli uffici postali. Ma la piccola era introvabile. Svanita nel nulla. Per Mark, la vita si era fermata quel 23 marzo 2002. La scomparsa della figlia lo aveva gettato nella disperazione più nera. Devastato da un terremoto interiore fatto di dolore e senso di colpa, si era allontanato dal lavoro, dalla moglie, da Connor. Aveva assunto i migliori investigatori privati perché riprendessero in mano l'indagine, questa volta senza trascurare alcun dettaglio. Senza esito. Allora aveva cominciato a indagare di persona. La ricerca, destinata al fallimento, era durata tre anni. Poi Mark era scomparso a sua volta, e non aveva più dato notizie di sé. Nicole, invece, non si era lasciata andare. All'inizio aveva provato una disperazione senza fondo, aggravata da un particolare senso di colpa: era stata lei a volere Layla con sé a Los Angeles, dove si trovava per una tournée, ed era stata lei ad assumere la baby-sitter. Poi si era buttata anima e corpo nella musica: aveva inciso un disco dietro l'altro e perfino accettato di parlare della sua tragedia ai giornali o in televisione, offrendosi come vittima consenziente del voyeurismo mediatico. Ogni qualvolta si sentiva sopraffatta dal dolore, allora prendeva una stanza in albergo e si rintanava sotto le coperte, come fosse in letargo, allontanandosi da tutto. Ciascuno sopravviveva come poteva. Un tizzone crepitò nel caminetto. Mark sussultò e aprì gli occhi. Si drizzò a sedere e per qualche secondo si chiese dove fosse e che cosa gli fosse capitato. Vedendo Nicole, riordinò a poco a poco le idee. «Sei ferita?» le domandò. «Grazie a te, no.» Per un istante lui sembrò ripiombare nel torpore, poi si alzò di scatto. «Resta sdraiato, ti prego. Devi riposare.» Come se non avesse sentito, Mark si avvicinò alla portafinestra. Dietro la parete di vetro, la strada scintillava, bianca e silenziosa. «Dove sono i miei vestiti?» «Li ho buttati, Mark. Erano sporchi e stracciati.» «E il cane?» «L'ho portato qui con noi, ma è scappato.» «Me ne vado» fece lui, avviandosi alla porta con passo malfermo. Nicole lo bloccò. «Senti, è notte, sei ferito ed esausto. Non ci vediamo da due anni. Dobbiamo parlare.» Gli tese le braccia, ma lui la respinse. Gli si aggrappò, ma lui si divincolò, urtando contro gli scaffali. Una cornice cadde e il vetro si ruppe.
Mark la raccolse: era una foto della figlia. Con gli occhi verdi ridenti e il sorriso sulle labbra, la bambina sprizzava felicità e gioia di vivere da tutti i pori. In quel momento qualcosa in lui cedette. Si accasciò, con la schiena appoggiata al muro, e scoppiò in lacrime. Nicole gli si strinse al petto e rimasero a lungo così, abbracciati e affranti, pelle morbida contro pelle rugosa, profumo di Guerlain contro odore di fogna. Tenendolo per mano, Nicole accompagnò il marito in bagno, aprì il miscelatore della doccia e si ritirò. Inebriato dall'odore dello shampoo, Mark restò quasi mezz'ora sotto il getto: poi si avvolse tutto gocciolante in un grande asciugamano e uscì nel corridoio. Aprì quello che era stato il suo armadio. Non degnò di uno sguardo gli abiti Armani, Boss, Zegna di una volta, reliquie di una vita che non era più la sua, ma si infilò un paio di boxer, dei jeans larghi, una maglia a maniche lunghe e un pullover pesante. Quindi scese le scale e raggiunse Nicole in cucina. Con la sua combinazione di legno, vetro e metallo, la stanza giocava su effetti di trasparenza. Lungo una parete correva un ampio piano di lavoro dalle linee essenziali, mentre al centro un'isola perfettamente attrezzata invitava a mettersi ai fornelli. Anni prima, in quella stanza aveva regnato l'atmosfera gioiosa delle prime colazioni in famiglia, delle merende a base di pancake e delle cenette romantiche. Ma era ormai molto tempo che nessuno vi cucinava più niente. «Ti ho preparato un'omelette e del pane tostato» disse Nicole versandogli il caffè fumante. Mark si sedette davanti al piatto, ma si alzò quasi subito. Gli tremavano le mani. Prima di toccare il cibo, aveva bisogno di bere. Sotto lo sguardo sbalordito di Nicole, stappò con frenesia la prima bottiglia di vino che gli capitò a tiro e ne scolò la metà con due lunghi sorsi. Placato, trangugiò l'omelette senza dire una parola, finché Nicole non gli rivolse una domanda. «Dove sei stato, Mark?» «In bagno» rispose lui, senza guardarla. «No, dove sei stato negli ultimi due anni?» «Giù.» «Giù?» «Nei tunnel del metrò, nelle fogne e nelle condutture, assieme ai barboni.» Con le lacrime agli occhi, Nicole scuoteva la testa. «Ma perché?» «Sai benissimo perché» alzò la voce. Lei gli si avvicinò e gli prese la mano. «Ma hai una moglie, una professione, degli amici.» Mark ritrasse la mano e si alzò da tavola. «Lasciami in pace!» «Spiegami una cosa» disse lei per trattenerlo, «che senso ha vivere così? Ti serve a qualcosa?» Mark le scoccò un'occhiata intensa. «Vivo così perché non posso più vivere in altro modo. Tu puoi, io no.» «Non cercare di farmi sentire in colpa.» «Non ti rimprovero niente. Rifatti pure una vita, se vuoi. Io non posso.» «Ma sei uno psicologo, Mark. Hai aiutato tanta gente a superare le peggiori catastrofi.» «Questo dolore io non voglio superarlo, perché è l'unica cosa che mi mantiene in vita. È tutto quello che mi resta di lei, capisci? Non passa minuto che non pensi a lei, che non mi chieda dove si trovi in questo momento e cosa le abbia fatto il suo rapitore.» «È morta, Mark» sentenziò freddamente Nicole. Era più di quanto Mark potesse sopportare. Alzò la mano verso la moglie e l'afferrò per la gola come se volesse strangolarla.
«Come puoi dire una cosa simile?» «Sono passati cinque anni!» gridò lei cercando di liberarsi dalla stretta. «Cinque anni senza il minimo indizio, cinque anni senza nessuna richiesta di riscatto!» «Una possibilità c'è sempre.» «No, Mark, è finita. Non è più lecito sperare. Layla non riapparirà all'improvviso. Non succederà mai, capisci? MAI!” «Zitta!» «Se mai ritroveranno qualcosa, sarà soltanto il suo cadavere.» «NO!» «Sì. E non credere di essere l'unico a soffrire. Come credi che mi senta io, che oltre a mia figlia ho perso anche mio marito?» Senza rispondere, Mark uscì dalla cucina. Nicole lo seguì, decisa a metterlo spalle al muro. «Non hai mai pensato che potremmo avere altri bambini? Non ti sei mai detto che, col tempo, la vita potrebbe tornare a sorriderci?» «Prima di avere altri figli, voglio ritrovare la mia Layla.» «Lascia che chiami Connor. Ti cerca dappertutto da due anni. Può aiutarti a risalire la china.» «Non è quello che voglio. Mia figlia soffre e io voglio soffrire con lei.» «Se continuerai a vivere in strada, morirai. È questo che vuoi? Fa' pure. Sparati un colpo in testa!» «Non voglio morire, perché voglio esserci il giorno in cui la ritroveremo.» Nicole aveva bisogno di aiuto. Prese il cellulare e compose il numero di Connor. Rispondi, Connor, rispondi! Da qualche parte, nella notte, diversi squilli suonarono a vuoto. Nicole capì che Connor non avrebbe risposto e che aveva perso la battaglia. Da sola non sarebbe riuscita a trattenere il marito. Mark tornò a coricarsi sul divano e dormì ancora qualche ora. Si alzò all'alba, prese una borsa sportiva dal guardaroba e vi infilò una coperta, una giacca a vento, qualche pacchetto di biscotti e diverse bottiglie di alcolici. Nicole aggiunse un cellulare e un caricabatteria. «Se tu decidessi di chiamare Connor, o se io dovessi avere bisogno di te...» Quando Mark aprì la porta aveva smesso di nevicare e le prime luci del giorno tingevano la città. Appena Mark posò il piede sulla coltre di neve, il labrador nero apparve come d'incanto da dietro un bidone della spazzatura e gli corse incontro. Mark gli grattò la testa, si alitò sulle mani, prese la borsa e partì in direzione del ponte di Brooklyn. Sulla soglia, Nicole guardò l'uomo della sua vita allontanarsi nel mattino. «Ho bisogno di te! Adesso!» gridò, in mezzo alla strada. Con l'aria di un pugile suonato, lui, che aveva percorso una decina di metri, si girò e allargò le braccia a significare che gli dispiaceva molto, ma non poteva farci niente. Poi scomparve dietro l'angolo. 3 Qualcuno che mi assomiglia La vita è una collana di paure. Bjórk La bambina che sognava un fusto di benzina e un fiammifero. Titolo di un romanzo di Stieg Larsson Lo studio del dottor Connor McCoy si trovava in una delle torri di vetro del prestigioso Time Warner Center, all'estremità ovest di Central Park.
Connor ne era molto fiero, perché ogni particolare era studiato in modo da mettere a proprio agio i pazienti e garantire loro le condizioni migliori per essere curati. Grazie al passaparola la clientela era aumentata esponenzialmente negli anni, anche se i suoi metodi eterodossi non erano approvati da tutti i colleghi. La notte di Natale, Connor era ancora in ufficio a studiare la cartella clinica di uno dei suoi pazienti. Soffocò uno sbadiglio e diede un'occhiata all'orologio. L'una e mezza. A casa non lo aspettava nessuno. Connor viveva soltanto per il lavoro e non aveva una compagna né una famiglia. Molto tempo prima aveva aperto il suo primo studio con Mark Hathaway, l'amico d'infanzia con cui aveva condiviso la passione per la psicologia. Erano cresciuti in un quartiere difficile di Chicago, e avevano conosciuto da vicino la sofferenza prima di dedicarsi ad alleviare quella degli altri con le loro terapie innovative. Insieme avevano raggiunto un successo strepitoso, fino a quando la vita di Mark era stata distrutta dalla scomparsa della figlia. Connor aveva fatto tutto il possibile per aiutarlo, riprendendo con lui l'indagine quando la polizia aveva gettato la spugna, ma non era bastato. Annientato dal dolore, Mark era sparito a sua volta. La fuga del socio aveva lasciato Connor nel più profondo sgomento. Non solo aveva perduto il suo migliore amico, ma aveva anche subito il più grande scacco professionale della sua carriera. Per scacciare i brutti ricordi, si alzò dalla poltrona e si versò un dito di whisky di puro malto. «Buon Natale» disse, alzando il bicchiere verso la propria immagine allo specchio. La stanza, circondata da vetrate, era immersa in una luce irreale e offriva una vista formidabile del parco. L'ambiente era sobrio ed essenziale. Su uno scaffale metallico due sculture di Alberto Giacometti e appeso alla parete un quadro monocromo di Robert Ryman: un quadrato bianco, semplice in apparenza, addirittura banale per chi non sapesse cogliere le infinite variazioni di luce che si ricreavano sulla tela. Intuire l'invisibile, vedere ciò che si nasconde dietro la superficie era l'essenza stessa della sua professione. Con il bicchiere in mano, Connor analizzò sullo schermo del computer una zona del cervello di un paziente evidenziata con le neuroimmagini funzionali. Sofferenza, amore, felicità o dolore: tutto accadeva all'interno di quella scatola magica. Il desiderio, la memoria, la paura, l'aggressività, il pensiero, il sonno dipendono in buona parte dal fatto che nell'organismo vengono liberati i neurotrasmettitori, le sostanze chimiche incaricate di far passare i messaggi da un neurone all'altro. Connor era stato un pioniere nell'analisi delle cause biologiche della depressione. Era stato lui a scoprire, insieme a un team di ricercatori, che un gene trasportatore più corto del normale predispone alla depressione e al suicidio. Gli individui dunque non nascono uguali e non affrontano ad armi pari le prove della vita. Connor, però, non aveva mai creduto ciecamente nel determinismo genetico. Convinto che lo psichismo e la biologia fossero strettamente legati, aveva sempre cercato di approfondire sia l'ambito psicologico sia quello neurologico. Era impossibile stabilire una gerarchia tra esperienza e corredo genetico. In ogni caso, questa era la sua convinzione: niente può essere stabilito in maniera definitiva. Il palazzo in cui si trovava lo studio ospitava un albergo a cinque stelle, diversi ristoranti e un locale jazz. Ogni rumore, ogni voce, ogni risata lontana, in quel momento, sembravano sottolineare la solitudine di Connor.
Salito in ascensore Connor aprì la borsa portadocumenti per verificare di non aver dimenticato in ufficio i dossier da studiare l'indomani. Stava preparando una seduta di gruppo, una terapia che, per essere efficace, andava predisposta con grande cura. Raggiunse il parcheggio sotterraneo, al quale si accedeva con un sistema di riconoscimento a scansione della retina. Seguì la procedura e raggiunse la sua scintillante Aston Martin. Posò la borsa sul sedile del passeggero e uscì dal garage che dava su Columbus Circle. Sotto la neve che continuava a cadere a grossi fiocchi, rendendo la strada sdrucciolevole, imboccò l'Avenue of the Americas in direzione di TriBeCa. Alla radio la voce dei Radiohead evocava un futuro incerto e disumanizzato nel quale l'uomo avrebbe perso ogni battaglia. Una musica in accordo con il suo stato d'animo, turbato da un malessere profondo. All’incrocio con Broadway, accelerò pericolosamente e per poco non uscì di strada. Gli capitava sempre più spesso di flirtare con il pericolo, un modo come un altro per sentirsi vivo. Si fermò a un semaforo rosso all'inizio del Greenwich Vìllage e, curvo sul volante, chiuse gli occhi per un istante. Devo riprendere il controllo. Fino a poco tempo prima, Connor si era illuso di aver superato per sempre, grazie al lavoro, le antiche paure. Aveva addirittura scritto un libro, Sopravvivere, per raccontare la propria storia e trasmettere un messaggio di speranza. Ma quando Mark lo aveva piantato in asso, aveva visto le sue certezze crollare ed era piombato in un abisso di disperazione, una solitudine distruttiva, un senso di colpa persistente. Lo squillo del cellulare, lo scosse dal torpore. Si stropicciò le palpebre e prese il telefonino dalla tasca della giacca. Lesse sul display il nome di chi lo chiamava: Nicole Hathaway Nicole? Non si parlavano più da quando lei aveva cominciato a uscire con quel coglione di avvocato. Sentì il cuore accelerare i battiti, perché sperava, senza crederci troppo, che Nicole avesse notizie di Mark. Stava per rispondere, ma di colpo la portiera dal lato del passeggero si aprì e una mano afferrò la sua borsa di pelle. Connor scese dall'auto e si lanciò all'inseguimento del ladro, o meglio della ladra. Nonostante i fiocchi di neve, distinse infatti i capelli lunghi di una ragazza che si stringeva al petto la refurtiva. Connor si mise a correre, sempre più forte, rischiando a ogni passo di cadere sul marciapiedi ricoperto di neve. Era ormai a due metri dalla ladra, quando lei attraversò la strada, rischiando di finire sotto una macchina. Piccola stronza! Senza pensarci due volte, la seguì: quei documenti erano la vita dei suoi pazienti, e per nulla al mondo poteva permettersi di perderli. Connor stava guadagnando terreno e, nell'istante in cui si rese conto che la fuggitiva era senza fiato, si lanciò avanti, le piombò addosso con tutto il peso e la immobilizzò, schiacciandole il viso nella neve e torcendole un braccio dietro la schiena. Dopo aver recuperato la borsa, si rialzò lentamente, costringendo anche la ragazza a rimettersi in piedi. «Lasciami!» protestò lei, divincolandosi. Ma Connor non mollò la presa e la trascinò sotto un lampione per guardarla in faccia. Era una ragazza sui quindici anni, esile e slanciata. Il colorito spento contrastava con i lunghi capelli neri, striati da mèches scarlatte. Un logoro cappotto di acrilico ricadeva su una gonna corta che lasciava intravedere un paio di calze a rete sovrapposte a un collant. «Lasciami!» ripetè. Lui la strinse ancora più forte. Che cosa ci faceva un'adolescente in giro da sola nel cuore della notte di Natale?
«Come ti chiami?» «Fanculo!» «Guarda che ti porto alla polizia!» «Stronzo!» La ragazza si dibatté con tanta forza che le cadde il portafogli dalla tasca. Con la mano libera, Connor lo raccolse e tirò fuori la carta d'identità: Evie Harper nata il 3 settembre 1991 «Che cosa ci fai in giro per la città alle due di notte, Evie?» «Ridammi il portafogli! Fatti gli affari tuoi!» «Da che pulpito!» replicò lui, lasciandola andare. Finalmente libera, Evie indietreggiò di qualche passo, ma non scappò, anzi, si mise a guardarlo con aria di sfida. Connor la scrutò. Tremava di freddo e aveva le palpebre cerchiate di nero, ma dietro il trucco pesante aveva due occhi chiari da bambina: spaventati e determinati allo stesso tempo. «Senti, ora ti riporto dai tuoi genitori.» «Non ce li ho, i genitori.» «Allora con chi vivi?» «Fanculo!» «Me l'hai già detto» sospirò Connor. «È tutto quello che hai imparato a scuola?» Provava un misto di irritazione e compassione. Quella ragazzina gli ricordava qualcuno, ma non sapeva dire chi. Sentiva nell'aria la sua sofferenza e la sua paura come se potesse toccarle. «Hai bisogno di soldi?» Nessuna risposta. «È per la droga, vero? Cerchi la dose, eh? Sei in astinenza?» «Non sono una tossica!» si ribellò la ragazza. «Vai a scuola da qualche parte?» «Che cazzo te ne fotte?» Connor le si avvicinò e tentò un approccio più pratico. «Senti, sono un medico e posso trovarti un posto per la notte.» «Mi vuoi salvare, eh?» «Ti voglio aiutare.» «Non voglio il tuo aiuto.» «Che cosa vuoi, allora?» «Grana: tutto qui.» «Grana per cosa?» «Cristo, cosa sei, un poliziotto?» Connor strappò il velcro del borsellino di Evie per vedere che cosa c'era dentro. Niente. Neanche una banconota. Neanche una monetina. Rimise a posto la carta d'identità e le restituì il portafogli, che lei afferrò con un gesto brusco. «Posso offrirti un pasto caldo?» «E io cosa dovrei farti, in cambio?» «Niente, Evie» rispose lui, scuotendo la testa. La ragazza lo guardò con sospetto. «E perché mi vorresti aiutare?» «Perché mi ricordi qualcuno.» Evie esitò, poi disse: «Io me ne vado». «Senti, poco più avanti, sulla 14a Strada, c'è una tavola calda, Alberto's» insistette Connor. «La vedi, laggiù?» Suo malgrado, Evie annuì. «Recupero l'auto e poi vado là a mangiare qualcosa. Alberto's è il re degli hamburger. Vedrai, è molto meglio di McDonald's.» «Non ci penso nemmeno, a raggiungerti.»
«In ogni caso io sarò lì, quindi se tra dieci minuti ti viene voglia di un bell'hamburger con pane croccante, cipolline, cetriolini e patate fritte, sai dove trovarmi.» Connor tornò senza fretta sui suoi passi, camminando al centro del marciapiedi. Aveva percorso una ventina di metri, quando si girò. La luce dei lampioni tingeva d'argento i fiocchi di neve che continuavano a scendere, dando alla strada un aspetto fiabesco. Evie non si era spostata di un millimetro. Connor fu di nuovo colpito dalla sua figura esile e dal suo pallore; sembrava che una parte di lei fosse già morta. «Non ci vengo» ribadì la ragazza. «Sta a te decidere» disse lui. Un quarto d'ora dopo, seduta a un tavolo della tavola calda, Evie divorava l'hamburger con l'appetito di chi non mangia da due giorni. Alberto's era un posto fuori dal tempo che, con i suoi sedili in similpelle e le sue cromature appannate, sapeva di New Jersey. Sulla parete dietro la cassa, le foto con dedica ricordavano le visite dei vari Jack Nicholson, Bruce Springsteen o Scarlett Johansson, in verità difficili da immaginare in quell'ambiente. Dal fondo della sala, un lamentoso stereo diffondeva le note di un vecchio disco di Eric Clapton per cinque o sei clienti solitari. Connor uscì a fumare una sigaretta e osservò la ragazza attraverso il vetro. Evie aveva appallottolato il cappotto, lo aveva posato sullo sgabello e si era aperta il gilet su una T-shirt nera con la scritta Kabbalists do it better. Al collo portava una catenina d'argento con una croce rovesciata e una stella a cinque punte. Aveva divorato l'hamburger con tale avidità che il ketchup le era colato dappertutto. Mentre la guardava pulirsi con un tovagliolo di carta, Connor si accorse che aveva un cerotto intorno ai polsi e tracce di autolesionismo sulle braccia. Dire che non stava bene era poco. I due dati più evidenti, come spesso accade, erano in apparenza contraddittori: era molto determinata, ma allo stesso tempo vicina al crollo. Come Mark, fin dalla giovinezza Connor aveva il dono di leggere nel cuore della gente. Mark... Pensando all'amico, si rabbuiò. Da bambini si erano giurati che avrebbero sempre fatto affidamento l'uno sull'altro. Con il passare degli anni avevano saputo affrontare e superare insieme i colpi che la vita gli aveva riservato; ma la scomparsa di Layla aveva scardinato ogni caposaldo e vanificato ogni promessa. Gettò il mozzicone nella neve. In quella strana notte di Natale aveva la sensazione di portare sulle spalle la stanchezza di tutto il mondo. Che cazzo ci faceva per strada, alle tre del mattino? Perché stava lì a congelarsi invece di andarsene a casa? Non poteva continuare così. Non poteva salvare l'intera umanità. L'abito di Madre Teresa era troppo pesante da portare. Forse era ora di prendersi una pausa, dimenticare i pazienti, lasciare Manhattan e cominciare una nuova vita. Rinascere. Per qualche secondo l'idea gli fluttuò nella mente come un euforizzante, finché non si sentì addosso gli occhi di Evie, dall'altra parte del vetro. Alzò la testa e, per la prima volta, si guardarono davvero. Allora capì chi gli ricordava quella ragazza. Se stesso. Sentiva che provavano lo stesso dolore. Lei lo teneva alto come una bandiera, mentre lui lo nascondeva dietro la maschera del medico. Ma appartenevano alla stessa famiglia, erano fatti della stessa pasta. Si decise a rientrare al calduccio del locale. La chitarra di Clapton aveva lasciato il posto a quella di Bob Dylan. Shelter from the Storm. Riparo dalla tempesta. Uno dei suoi pezzi preferiti, scritto nel 1975,
dopo la rottura di Dylan con la moglie Sara. Tutte le volte che Connor la sentiva gli veniva da pensare che il dolore va benissimo, se sai cosa farne. «Allora, com'era questo hamburger?» domandò sedendosi davanti a lei. «Niente male» ammise Evie bevendo un sorso di milk-shake. Connor si protese verso di lei. Se voleva darle una mano, doveva saperne di più. «Poco fa mi dicevi di avere bisogno di soldi.» «Lascia perdere.» «No, spiegami, la grana a cosa ti serve? Voglio capire.» «Non c'è niente da capire.» «Se la metti così...» Connor trasse un gran sospiro. Perché diavolo si metteva sempre in testa di voler salvare gente che non voleva essere aiutata? Contrariato, si alzò dal tavolo e, senza perdere di vista Evie, andò al bancone a ordinare una Corona. Inquieta, lei si girò verso la finestra rosicchiandosi le unghie dipinte di nero. Mentre pagava la birra, Connor guardò il contenuto del suo portafogli: tre biglietti da cento dollari che aveva ritirato da poco al bancomat. Per sentirsi tranquillo, aveva bisogno di portare sempre con sé diverse centinaia di dollari: un riflesso della sua antica povertà. Gli era venuta un'idea. Si alzò dallo sgabello e si avvicinò al sedile su cui Evie aveva posato le sue cose. «Facciamo un gioco» disse mettendo sul tavolo una banconota da cento dollari. «Come si chiama il tuo gioco? Corruzione di minorenne?» «Credevo volessi guadagnarti un po' di soldi.» La ragazza guardò la banconota con un misto di diffidenza e curiosità. Connor la copriva parzialmente con la mano e lei si accorse che gli mancava una falange dell'anulare. «Rispondi alla mia domanda e sono tuoi.» Lei esitò. Ma in fondo era una proposta che non si poteva rifiutare. «Spara.» «Perché hai bisogno di soldi?» chiese lui fissandola intensamente. Evie avvicinò la mano al biglietto verde. «Per comprarmi una pistola» rispose spavalda. Afferrò la banconota e se la infilò in tasca. Erano i soldi più facili che avesse mai guadagnato in vita sua. Connor rimase impietrito. La risposta lo aveva colto alla sprovvista. Gli tornarono in mente un'arma da fuoco che sparava e un urlo: un ricordo sepolto dal tempo, ma impossibile da cancellare. Tirò fuori altri cento dollari e li posò nello stesso punto del tavolo. «Perché hai bisogno di una pistola?» Stavolta Evie esitò più a lungo. Il suo primo istinto fu di mentire, ma capì che Connor l'avrebbe smascherata. In un certo senso quei soldi facili andavano guadagnati con una merce di scambio rara e preziosa: la verità. «Perché voglio uccidere un uomo.» La frase suonò come una sentenza. Connor scosse la testa. Tirò fuori altri cento dollari e fece a Evie l'ultima domanda. «Perché vuoi uccidere un uomo?» Stavolta la ragazza non aspettò nemmeno un istante. Si era già spinta troppo lontano per tornare sui suoi passi. Afferrò l'ultima banconota come chi raccoglie una vincita al poker. «Per vendicarmi.» Nella mente di Connor, tre parole, «una vendetta implacabile», affiorarono dal passato procurandogli un brivido lungo la schiena. «Vendicarti? Di chi, e perché?»
Ma Evie si era già rimessa il cappotto e annodata la sciarpa. «Mi spiace, ma sono due domande supplementari e tu non hai soldi per pagarle.» Vittima della sua stessa trappola, Connor la guardò uscire dalla tavola calda. «Aspetta!» gridò per trattenerla. La raggiunse in strada. La neve continuava a cadere fitta, stringendo la città nella sua morsa sorda e opprimente. «Non puoi andartene così. Fa freddo, è pericoloso. Ti troverò un posto per la notte.» Lei gli volse le spalle senza disturbarsi a rispondere. Come ultima risorsa, Connor le infilò in tasca il proprio biglietto da visita con l'indirizzo e il numero di telefono. «Nel caso cambiassi idea.» Ma sapeva che Evie non l'avrebbe cambiata. Mentre attraversava la strada, la ragazza si fermò di colpo e lo guardò in faccia: «La persona che ti ricordo, chi è?». Connor si era acceso un'altra sigaretta e il fumo azzurro pietrificato dal freddo gli incorniciava la testa come un'aureola. «Io.» Lei lo fissò stupita e turbata. Poi riprese a camminare. Presto Connor la perse di vista, ma rimase ancora parecchi secondi, forse minuti, inebetito, a guardare le sue orme sulla neve. No, non poteva salvare tutti. Ma qual era la speranza di vita di una ragazza di quindici anni smarrita, senza risorse, in una notte d'inverno a Manhattan? 4 La via della notte Quando ti guardi allo specchio e ti viene voglia di spaccarlo, non devi rompere lo specchio, ma sei tu che devi cambiare. Anonimo Connor parcheggiò in Broome Street e percorse a piedi i due isolati che lo dividevano da casa. Come il resto della città, Soho era trasfigurata dalla coltre di neve che cancellava le insegne di gallerie d'arte, ristoranti e botteghe. Arrivò davanti a un edifìcio con colonne e parapetti di ghisa. La facciata, ristrutturata di recente, era ornata da centinaia di lampadine, mentre sul marciapiedi un pupazzo di neve incompiuto aspettava senza più crederci un cappello, una carota per naso o una pipa. «Prendi questa, intanto, vecchio mio» disse Connor, annodandogli la sciarpa intorno al collo. Nell'atrio, ritirò la posta dalla cassetta e chiamò l'ascensore. Salì all'ultimo piano, dove si trovava il suo ampio loft dall'arredo spartano. All'interno non si sentiva odore di dolci o di tacchino al forno. Non c'era l'albero di Natale, e nemmeno la stanza dei bambini. Niente calore, niente vita. Connor aveva acquistato quell'appartamento cinque anni prima, solo per il suo valore di status symbol, ma non l'aveva mai veramente arredato. Troppo faticoso e troppo complicato; e soprattutto, non aveva nessuno con cui condividere il piacere di costruire una casa. Connor, che aveva consacrato la vita a sondare l'anima altrui, era rimasto un uomo chiuso e segreto. Amava le donne, ma fino a quel momento le sue storie non avevano mai avuto sviluppi seri. Anche quando sembrava andare a gonfie vele, veniva sempre il momento in cui la lei di turno gli rimproverava di essere inafferrabile. Come avrebbe potuto confessare che lui in una relazione amorosa non riusciva a trovare il grado di intimità che lo legava ai suoi pazienti?
Soffocando uno sbadiglio, aprì il frigo, dove trovò una bottiglia di chardonnay aperta. Si versò un bicchiere e andò in salotto. Bevve il vino d'un fiato e non resistette alla tentazione di concedersene un altro. Quella sera sentiva riaffiorare le antiche pulsioni autodistruttive. Aveva passato la vita a combatterle, ma sapeva che una simile lotta richiedeva una vigilanza continua. Si allentò la cravatta, si avvicinò alla portafinestra e si lasciò cadere sul divano. L'immagine di Evie, la strana ragazza che aveva tentato di rubargli la borsa portadocumenti, indugiava nella sua mente. Ripensò alla disperazione che le aveva letto negli occhi e rimpianse di non essere riuscito a fare qualcosa per lei. «Voglio uccidere un uomo.» «Voglio vendicarmi.» «Non fare una cazzata del genere» mormorò come se lei potesse sentirlo. «Qualunque cosa ti abbia fatto quell'uomo, non ucciderlo.» Proprio in quel momento il telefono squillò. Aggrottò la fronte: doveva essere Nicole. Si era dimenticato di richiamarla. Alzò la cornetta. Non era Nicole. Era una ragazza che con voce sconvolta si accusava di aver ucciso qualcuno. 5 Luce Nessuno può arrivare all'alba senza passare per la via della notte. Kahlil Gibran Tre mesi dopo... L'inverno sta finendo e inizia la primavera. Un'alba rosa pallido colora l'East Side, portando la promessa di un giorno di sole. Non lontano dalle sponde dell'East River, sorge la chiesa di Notre-Dame, una piccola parrocchia ispanica stretta tra un magazzino e un casermone anonimo. Nella canonica è stato allestito un centro di accoglienza per senzatetto. Benché la struttura lasci a desiderare (pavimento di mattonelle sbeccate, tramezzi traballanti, tubature dell'acqua difettose), il centro di accoglienza è apprezzato da chi vive in strada. Contrariamente a quanto accade nei centri ufficiali, per avere cibo, vestiti e un giaciglio decente per la notte, lì non c'è bisogno di rispondere a nessuna domanda. Nel dormitorio del seminterrato, una dozzina di barboni dormicchia ancora sulle brandine, mentre nella mensa al pianterreno i più mattinieri stanno consumando una colazione frugale. È una corte dei miracoli del Ventunesimo secolo: seduta a un tavolo, una donna ancora giovane ma già sdentata beve una tazza di caffè; al suo fianco, un russo grande e grosso, senza un braccio, spezzetta maldestramente un biscotto per farlo durare di più; accanto alla finestra un vecchio nero e scarno, indifferente al cibo, si raggomitola in un sacco a pelo ripetendo ossessivamente una litania. A un tratto la porta si apre ed entra un uomo con la barba folta e un cappotto nero addosso. Benché non abbia dormito lì, è un habitué di Notre-Dame. Da qualche tempo ha preso l'abitudine di venire a ricaricare il cellulare nel refettorio del centro. Curvo su se stesso, Mark Hathaway si trascina in un angolo della stanza, si accovaccia davanti a una presa elettrica e collega al caricabatteria un telefonino cromato. Dalla sera di Natale non ha più rivisto sua moglie. Adesso è di nuovo irriconoscibile. Con i capelli incolti, lo sguardo spento e il volto incrostato di sporcizia, ha abbandonato da tempo il mondo dei vivi e si muove in una nebbia perenne, ultima tappa prima dell'abisso.
«C'è un nuovo messaggio per lei.» Non ha reazioni sentendo la voce metallica della segreteria, finché a quella non ne segue un'altra. «Mark, sono io...» La riconosce: è sua moglie. Benché abbia la mente confusa, si accorge che Nicole parla tra i singhiozzi. «Richiamami, è urgente.» Un breve silenzio, poi: «Devo dirti una cosa». In quel momento, Mark ha la certezza che Nicole stia per annunciargli che Layla è stata trovata morta. All'improvviso ha la visione orribile di un orco, una bestia, una bambina che urla nella notte, ma... «Avevi...» Mark non riesce quasi a respirare. I battiti del cuore gli rimbombano nelle tempie. «... avevi ragione tu» continua Nicole. Di nuovo silenzio. Ora Mark non crede più a niente, non capisce più niente. «L'hanno trovata.» Chiude gli occhi, e trova la forza di mormorare una preghiera che non sa bene a chi rivolgere. «È viva, Mark. Layla è viva.» 6 Layla è viva Amare significa aver cura della solitudine dell'altro senza mai colmarla né conoscerla. Christian Bobin Mark non riascoltò nemmeno il messaggio. Layla era viva! Lasciò il centro di accoglienza e, correndo a perdifiato per Stanton Street, raggiunse Little Italy. Tentò più volte di fermare un taxi, ma nessuno accettò di caricarlo. Del resto non aveva un solo dollaro in tasca. Pazienza: per arrivare a Brooklyn avrebbe preso il metrò senza pagare il biglietto. In treno si lasciò cadere su un sedile e finalmente riprese a respirare. Aveva la vista annebbiata, ma non doveva crollare; non adesso. Doveva calmarsi e cercare di riprendersi. Anche se la testa sembrava sul punto di esplodergli e il cuore viaggiava a centosessanta battiti al minuto. TORNA IN TE. Devi tornare a essere quello di prima. Fallo per Layla. Layla è VIVA Tu l'hai sempre saputo. Chiuse gli occhi e si sforzò di riordinare le idee. È per questo che hai resistito all'impulso di farla finita. Per esserci quando Layla sarebbe tornata. Ora devi aiutarla. Devi essere forte PER LEI. Rimase a lungo così, riaprendo gli occhi solo per leggere i nomi delle fermate. Qualcosa emerse all'improvviso dal caos del suo cervello: un'intuizione, più che una vera e propria deduzione. La data. Controlla la data. Su un sedile davanti a lui era rimasta una copia del «New York Post» del mattino: sabato 24 marzo 2007. Il messaggio telefonico di Nicole risaliva alla sera prima. Layla, quindi, era stata trovata venerdì. Il 23 marzo 2007! La data si incise nel suo cuore come un marchio a fuoco. Era il 23 marzo 2002 che sua figlia era scomparsa. Cinque anni prima. Cinque anni esatti. Raggiunse la tranquilla stradina di Brooklyn dove sorgeva quella che era stata la sua casa. Vide da lontano un'auto della polizia parcheggiata in divieto di sosta.
Salì gli scalini due alla volta e bussò con foga alla porta, senza toccare il campanello. Nicole comparve sulla soglia, e il suo sguardo non nascondeva nulla: il dolore dell'assenza, la forza dell'affetto. L'abbraccio fu interrotto da un agente dell'FBI, nascosto alle spalle della donna. «Buongiorno, dottor Hathaway» disse, mostrandogli il distintivo. «Sono Frank Marshall, FBI, California. Credo si ricordi di me.» Mark lo guardò. Nicole doveva avergli detto tutto, perché non sembrava troppo stupito di trovarsi davanti un senzatetto. Era un tipo alla Ed Harris: tarchiato, capelli a spazzola, sguardo duro, ma un'aria da buono. Era stato lui a dirigere l'indagine sul rapimento. «Dov'è?» fece Mark. «Dov'è Layla?» Nicole aprì la bocca per parlare, ma Marshall rispose al posto suo. «Bisogna essere prudenti, dottore» disse avvicinandosi a un portatile posato sul tavolo del soggiorno. «Al momento non siamo sicuri al cento per cento che si tratti di vostra figlia. Stiamo effettuando un'analisi del dna che ci darà la risposta definitiva.» Schiacciò un tasto e sullo schermo apparve il viso di una ragazzina. «Questa foto è stata scattata ieri sera, poche ore dopo il ritrovamento di Layla.» Mark si chinò sul monitor. «È lei!» esclamò senza alcuna esitazione. «È nostra figlia.» «È quello che spero» disse Marshall. «Voglio vederla.» «Non si trova a New York.» «E dove, allora?» chiese, avvicinandosi all'agente. «In una clinica di Los Angeles, il Saint Francis Memorial Hospital.» «Come... come sta?» «Non siamo ancora in grado di stabilirlo. I medici stanno eseguendo tutte le analisi. È troppo presto per...» «È stata picchiata? Violentata?» «Francamente, non lo sappiamo.» «Come mai non sapete niente?» esplose Mark, che adesso era a pochi centimetri da Marshall e lo scrutava con aria minacciosa. «Si calmi» rispose l'altro, indietreggiando. «Le racconterò tutto per filo e per segno, come ho già fatto con sua moglie.» Nicole li accompagnò in cucina e preparò un caffè. I due si sedettero vicini, e Marshall tirò fuori di tasca un taccuino per essere sicuro di non tralasciare nessun dettaglio. «Una bambina di circa dieci anni è stata vista ieri pomeriggio, verso le cinque, nel centro commerciale Sun Shine Plaza a Orange County, Los Angeles.» Mark si prese la testa fra le mani. «L'età, la somiglianza, la voglia che aveva dalla nascita e la cicatrice sul mento fanno pensare che si tratti di vostra figlia» continuò il poliziotto. «Il centro commerciale» disse Mark con un sospiro. «È proprio là che...» «... è scomparsa, esattamente cinque anni fa» terminò Marshall per lui. «Stessa ora e stesso luogo, a cinque anni di distanza.» «Convengo con lei che non la si può certo definire una coincidenza.» «E lei che cosa vi ha detto?» «Proprio questo è il problema, dottor Hathaway: non ci ha detto niente.» Mark aggrottò la fronte. «Non ha detto una parola né a noi né al personale medico che da ieri sera si prende cura di lei» continuò l'agente. «Mutismo totale?» Mark aveva già cominciato a ragionare da professionista. Diverse volte, nel corso della carriera, aveva curato bambini affetti da mutismo di origine psicotica.
«Ho sentito abbastanza» disse, alzandosi di scatto. «Parto per Los Angeles. Vado a prendere mia figlia.» «Vi abbiamo prenotato dei posti per oggi o domani» annunciò Marshall alzandosi a sua volta. «Chiamatemi quando sarete pronti. Una delle nostre auto vi porterà all'aeroporto.» «Siamo già pronti» tagliò corto Mark. «Inutile aspettare.» Si fece un silenzio imbarazzato. Poi Nicole disse: «No». Mark si girò verso di lei, senza capire. Per tutta risposta, Nicole indicò con l'indice la portafinestra. Mark guardò la vetrata e vide la propria immagine riflessa: l'immagine di un estraneo magro e sporco, che aveva i capelli lunghi e arruffati, la barba ispida, la bocca ammaccata e gli occhi iniettati di sangue. Faceva paura. Pieno di vergogna, chinò la testa in segno di assenso. «Fortuna che i miei clienti non fanno tutti come lei» borbottò Jo Callahan, uno degli ultimi newyorchesi a possedere un tipico barbershop a Brooklyn. «Aspettare due anni tra un taglio e l'altro non è ragionevole, dottor Hathaway. E non parliamo della barba!» Il vecchio aveva impiegato un'ora intera a lavare, tagliare e rasare. Per mostrargli che aveva lavorato bene e permettergli di apprezzare la nuova pettinatura, gli accostò uno specchio ovale alla nuca. «La prossima volta non aspetterò così a lungo» promise Mark. Con dieci centimetri di capelli in meno e una rasatura fresca, stentò a riconoscersi. Dopo la seduta dal barbiere, fece un rapido giro in una boutique chic di Park Slope che aveva frequentato all'epoca in cui era un giovane ambizioso. Pantaloni di tela, una giacca di buon taglio, una polo alla moda con il coccodrillo argentato: era proprio vero che l'abito faceva il monaco. Il relitto umano era tornato un uomo rispettabile e persino attraente. Tornò a casa a piedi. In strada, la macchina della polizia non c'era più. Che liberazione, pensò. Stava per suonare, quando si ricordò che Nicole gli aveva lasciato le chiavi. Aprì la porta e percorse il corridoio. Le finestre erano aperte. Il soggiorno era pervaso da una luce primaverile e profumava di bergamotto e fiori d'arancio. Nello stereo un CD di Keith Jarrett riempiva la stanza di una pioggia di note cristalline. Era il Koln Concert, l'apoteosi di Jarrett, il più bel concerto improvvisato di tutti i tempi, il disco jazz che piaceva anche a chi non amava quel genere di musica. Mark fu sopraffatto dall'emozione. Quello era il primo regalo di Nicole. «Nicole!» chiamò. Nessuna risposta. Sua moglie doveva essere al primo piano. Salì le scale. «Nicole!» ripetè. Aprì la porta del bagno. Nessuno. Si fermò sulla soglia della camera da letto. Attaccata alla porta con una puntina da disegno, c'era una cartolina raffigurante un uomo avvinghiato a una donna il cui corpo, dalla cintola in giù, era tutto un ondeggiare di vaporosi veli. Mark riconobbe Il valzer, la scultura di Camille Claudel che avevano visto al Museo Rodin nel loro primo viaggio a Parigi. La musica di Jarrett, la passione di Camille Claudel. Due madeleines che lo riportavano a un passato lontano. Ma dov'era sua moglie? Perplesso, staccò la cartolina e trovò sul retro un messaggio scritto in fretta: Mark, amore mio, non preoccuparti per me. Sto bene, ma non posso partire per Los Angeles, in questo
momento. Credimi, la cosa che più m'importerebbe sarebbe proprio stare di nuovo con te e con la nostra bambina. Ma è impossibile. Questo viaggio lo devi fare da solo. Scusa, ma non posso dirti di più. In seguito capirai. Qualunque cosa accada infuturo, sappi che ti ho sempre amato e che ti amerò sempre. Nicole 7 Made in heaven Ciò che temevo venne, ma meno spaventoso, perché il lungo timore lo aveva quasi abbellito. Emily Dickinson Dodici ore dopo Saint Francis Memorial Hospital Los Angeles L'ascensore non finiva più di salire. Stretti al suo interno, Mark Hathaway e Frank Marshall si guardavano in cagnesco. Prima che arrivassero al piano, l'agente dell'FBi si decise a fare la domanda che aveva da un pezzo sulla punta della lingua. «Non trova strano che sua moglie non ci abbia accompagnati?» Mark non rispose, dando a Marshall la spiacevole impressione di avere parlato al vento. «Insomma» continuò il poliziotto, «sua figlia, che credeva morta, riappare e lei...» «Dove vuole arrivare?» lo interruppe Mark. Dopo un attimo di esitazione, l'altro disse: «Se sa qualcosa su sua moglie che noi non sappiamo, insomma, se ha dei sospetti, è meglio che ne parliamo. Ecco dove volevo arrivare». Mark lo ignorò e gli voltò addirittura le spalle. Preferiva dimenticare lo strano biglietto che gli aveva lasciato Nicole. Per il momento voleva pensare solo a sua figlia. «Ancora una cosa» aggiunse Marshall. «Per il bene dell'inchiesta, l'FBI ha ritenuto opportuno non rivelare che sua figlia è stata ritrovata. Non abbiamo comunicato la notizia alla stampa e vogliamo che per il momento i giornalisti non ficchino il naso nella faccenda.» «Perché?» «Abbiamo i nostri motivi.» «Non spiegatemi niente, mi raccomando» brontolò Mark. «Sempre questa vostra mania del segreto. Ma ormai la vicenda è conclusa e non potete impormi un bel niente.» Indispettito dal suo comportamento, Marshall premette il pulsante dell'arresto di emergenza, fermando l'ascensore tra due piani per avere il tempo di chiarire meglio la questione. «Sia ben chiaro, Hathaway: io le lascio riportare Layla a New York, ma lei deve collaborare.» «Vada al diavolo! E sblocchi l'ascensore!» «Esigo che sua figlia sia seguita quotidianamente da uno psicologo dell'FBI. E quando si deciderà a parlare, saremo noi a interrogarla.» Fu troppo. Mark afferrò l'agente federale per il bavero e lo inchiodò allo specchio dell'ascensore con una violenza che scosse tutta la cabina. «Lo psicologo sono io, capito? Mia figlia non vedrà nessun altro. Sono specialista proprio in questo genere di casi, e sono il migliore nel mio campo!» Marshall non tentò di divincolarsi. «Lei sarà anche il migliore» si limitò a dire, «ma, al momento, è solo un uomo violento e impulsivo che ha vissuto due anni in strada. Non è nelle condizioni di rassicurare una bambina in stato di shock, lo sa meglio di me.»
Mark si irrigidì, aumentando la stretta sul bavero dell'agente. «Lei non è stato capace di trovare mia figlia. Se oggi è riapparsa, non è certo per merito suo. Quindi non mi rompa le palle! Intendo assumere il controllo della situazione: voi non c'entrate più niente.» Lo lasciò andare e spinse il bottone che sbloccava l'ascensore. «Noi non c'entreremo più niente quando avremo acciuffato il rapitore di Layla» replicò Marshall. La porta scorrevole si apre su un lungo corridoio dalle pareti di vetro sferzate dalla pioggia e dal vento. È scesa la notte e le luci della «città degli angeli» si estendono a perdita d'occhio. La camera di Layla è in fondo al corridoio, a una quarantina di metri. Stanza 466. Quaranta metri. L'ospedale risuona del balletto di medici e infermieri, ma Mark non sente nulla. Chiuso in una bolla di silenzio, procede al rallentatore come se fosse sott'acqua. Forse sua figlia non lo riconoscerà, oppure si mostrerà aggressiva o ancora non riuscirà a spiccicare parola o... Trenta metri. Il tempo si allunga all'infinito. Perché ha paura? Eppure aveva ragione lui. Per cinque anni, contro ogni evidenza, ha rifiutato di credere che Layla fosse morta. Si lotta con la testa, non con i pugni: era una lezione che lui e Connor avevano imparato durante la loro infanzia a Chicago. Era stata quella convinzione a guidarli nella scelta della professione. E quando il dolore è troppo forte, ci si ripiega su se stessi finché la tempesta non passa. Prima o poi arriva il momento in cui appare una via d'uscita. Venti metri. Più si avvicina, più sente montare in petto, in forma concentrata, tutto ciò che ha sopportato negli ultimi tempi. Sono tanti, cinque anni passati in un abisso di disperazione, con tua figlia che soffre e tu che non puoi fare niente per lei. Dieci metri. Ancora pochi passi e l'incubo finirà. Non ha ancora raggiunto la stanza che la porta si socchiude. Lì per lì non vede che un'aureola di riccioli sopra un pigiama rosa troppo grande. Poi la bambina, guidata da un'infermiera, alza la testa a guardarlo. È proprio lei. È cresciuta, eppure gli sembra così piccola e fragile. Una bomba gli esplode nel cuore, ma per non spaventarla Mark reprime la voglia di correrle incontro e si limita a fare un cenno di saluto con la mano. Non andartene, Layla, non andartene! La bambina non si è mossa. Mark allora osa guardarla negli occhi. Milleottocentoventotto giorni dopo la sua scomparsa. Si era preparato a vedere una bambina stravolta e disorientata, invece nei suoi occhi non legge terrore né sofferenza. Anzi, sembra calma e posata. Abbozza addirittura un sorriso e, lasciando la mano dell'infermiera, gli corre incontro. Mark si china e la prende in braccio. «Va tutto bene, tesoro» dice, sollevandola. La abbraccia forte, ed è sopraffatto da un senso di immensa gratitudine. È un'emozione paragonabile a quella che ha provato quando la piccola è nata. «È tutto finito» le bisbiglia all'orecchio. «Finito.» Per sancire il ritorno alla normalità, fruga nella borsa e tira fuori un animaletto di peluche che ha prelevato dalla loro casa di New York. «Ti ho portato il tuo coniglio bianco. Te lo ricordi?» La bambina lo prende e se lo stringe al cuore.
«È tutto finito, tesoro» ripete Mark come per convincersene lui stesso. «Tutto finito. Torniamo a casa.» 8 Il terminal Anelare a un sogno irrealizzabile, recare dolore nelle partenze, bruciare di una febbre possibile, andare dove nessuno va. Jacques Brel Oggi 25 marzo 2007 - ore 8,00 Aeroporto internazionale di Los Angeles MARK Il taxi si fermò davanti al terminal 2, ma Mark non scese subito. Sulla strada per l'aeroporto, Layla si era addormentata appoggiata alla sua spalla e lui non voleva svegliarla bruscamente. Dopo la dimissione dall'ospedale, avevano passato la notte in un albergo in centro. Layla non aveva pronunciato una sola parola, ma sembrava serena e felice di vederlo. «Tornerai a parlare» promise Mark alla figlia addormentata. Ne era certo: bisognava solo che si sentisse protetta e coccolata. E lui avrebbe fatto di tutto perché riacquistasse fiducia. Attraverso i vetri oscurati della berlina, guardò con apprensione il caos che regnava nei dintorni dell'aeroporto. Detestava Los Angeles, il suo inquinamento, la sua superficialità e la sua violenza. Gli sembrava che fosse in grado di divorare ogni cosa: la natura quanto gli uomini. Nel bozzolo confortante dell'auto, si sentì al sicuro ancora per qualche secondo, cullato dalla purezza del violino che suonava nello stereo. È una musica che conosco, pensò. «Bello questo pezzo» disse. «Che cos'è?» «La Ciaccona di Bach» rispose il tassista porgendogli l'astuccio del CD. Mark guardò la foto ricercata al centro della copertina: una violinista con un abito leggero teneva il viso appoggiato a uno specchio, dando l'effetto di una creatura bicefala: sensuale e inquietante. Nicole Hathaway suona Bach Partite per violino solo Non ebbe il tempo di turbarsi, perché in quel momento Layla aprì gli occhi e sorrise, soffocando uno sbadiglio. «Mettiti il giubbotto. Andiamo a prendere l'aereo.» Nella sala partenze la tensione era al massimo. La scoperta, una settimana prima, di un complotto terroristico nel Regno Unito aveva seminato il panico ai due lati dell'Atlantico, provocando una serie di falsi allarmi. Il livello di vigilanza antiterrorismo era stato definito prima «critico», poi «elevato» e ogni giorno venivano cancellati numerosi voli. Mark verificò che il loro non fosse tra quelli e si avvicinò al banco del check-in. Sapeva che il numero sempre maggiore di perquisizioni e il controllo sempre più accurato dei bagagli allungava i tempi di imbarco e desiderava sbrigare al più presto le formalità. In mezzo alla folla tenne saldamente Layla per mano, come se pensasse di poterla perdere di nuovo. «Dottor Hathaway! Dottor Hathaway!» Mark si voltò, stupito che qualcuno lo chiamasse. A pochi metri da lui, un uomo che non aveva mai visto correva nella sua direzione. «Sono Michael Philips, dell'"Herald".» Mark corrugò la fronte. «Posso fare due o tre domande a sua figlia?» domandò il giornalista tirando fuori di tasca un registratore. «Non abbiamo niente da dirle» rispose Mark, stringendo Layla a sé e accelerando il passo. L'altro lo seguì e, cercando di apparire convincente, continuò: «Le offriamo settantacinquemila dollari per un'intervista e un servizio fotografico».
«Vada a farsi fottere» ringhiò Mark. Voltandosi, si accorse che Philips aveva tirato fuori il cellulare e lo stava usando per rubargli una foto. Deciso a proteggere Layla, lo afferrò per la gola e gli strinse la trachea finché non lo vide mollare il telefonino, che cadde in terra. Mark lo pestò con il tacco della scarpa. «Me la pagherà!» minacciò il reporter massaggiandosi il collo. Mark lo scrutò per qualche secondo, stupito della propria impulsività e della rapidità con cui si era svolta la lite. Mentre voltava le spalle per raggiungere il check-in, sentì il giornalista borbottare altre cose. «È nella merda fino al collo e non se ne rende nemmeno conto, Hathaway! Avrei potuto darle qualche informazione interessante. Lei non sa la verità né su sua moglie né su sua figlia.» EVIE La navetta proveniente da Union Station scaricò i passeggeri davanti al terminal 2. Tra loro c'era Evie, la quindicenne dal trucco gotico. Fu l'ultima a scendere. Ancora assonnata, entrò nella sala partenze e, con gli occhi gonfi, guardò i tabelloni per sapere l'orario di imbarco. La notte aveva dormito su una panchina ed era tutta indolenzita. Sentiva lo stomaco gorgogliare in continuazione e aveva l'impressione che le scricchiolasse ogni giuntura. Guardò con l'acquolina in bocca uno Starbucks che vendeva caffè e biscotti, ma non aveva più un dollaro in tasca. Affamata, frugò senza dare troppo nell'occhio nel bidone della spazzatura della caffetteria e trovò un fondo di spremuta d'arancia e un avanzo di brioche. Di lì a qualche ora sarebbe stata a New York. Dopo un contrattempo che l'aveva costretta a recarsi a Los Angeles, era in grado di raggiungere l'uomo che inseguiva. Aveva il suo indirizzo: una casa a nord di Manhattan. Appena lo avesse trovato, lo avrebbe ucciso. E forse, dopo, il dolore sarebbe stato meno forte. ALYSON Un suv massiccio e aggressivo si fermò stridendo al terzo livello del parcheggio sotterraneo del terminal 2. A bordo della Porsche Cayenne, da cui proveniva un miscuglio assordante di rap e R&B, una giovane donna di ventisei anni, Alyson Harrison: capelli corti color platino, jeans attillati Notify, cintura da cowboy, giacca di pelle aderente. Alyson spense il motore e abbassò il capo sul volante. Aveva il corpo tutto scosso da brividi. Doveva ritrovare la calma se voleva che la lasciassero imbarcare; e, per ritrovarla, non aveva che un modo. Frugò nella borsa Hermes, ne estrasse un piccolo portacipria in avorio, tirò due strisce di coca e si massaggiò le gengive con la polvere residua. Era l'unico sistema per non crollare. Senza cocaina si sentiva una merda, incapace di affrontare la vita. Da molti anni ormai aveva perso il conto di quanta ne consumava, ma non cessava mai di farle effetto. Anche stavolta, in meno di un minuto ritrovò la sua sicurezza e si sentì abbastanza forte da poter fronteggiare ogni situazione. Presto il senso di benessere si sarebbe trasformato in frustrazione e ipersensibilità. Nel frattempo, doveva trovare il coraggio di portare le chiappe su quell'aereo e rientrare a New York. Si tolse le lenti a contatto da miope e le sostituì con due lenti colorate, una rosa e una azzurra. Guardandosi nello specchietto retrovisore, si sistemò la frangia, fissandola con una molletta, poi, con i suoi tacchi altissimi, scese dal fuoristrada trascinandosi dietro un trolley. Quando i paparazzi si scatenarono, vide il suo riflesso congelato nel parabrezza di una berlina ferma. Il vetro le rimandava un'immagine crudele, ma vera. Quella di una bagascia cocainomane del valore di un miliardo di dollari.
Ecco, sono tutti e tre lì, a pochi metri di distanza, nel teatrino del terminal 2 dell'aeroporto di Los Angeles. Mark, Evie, Alyson. Non si conoscono, non si sono mai parlati, ma hanno già qualcosa in comune. Tutti e tre sono a un punto di svolta, hanno i nervi a fior di pelle, sono vicini al punto di saturazione. Tutti e tre hanno un passato doloroso. Tutti e tre sono stati sconvolti da un lutto. Tutti e tre si sentono a un tempo vittime e colpevoli. Ma saliranno sullo stesso aereo. E la loro vita cambierà. «Allora, io passo per primo e tu mi segui, eh, Layla?» Mark si tolse la giacca e la cintura e le posò sul nastro trasportatore, poi si lasciò esaminare dal metal detector. L'allarme non scattò. «Su, tocca a te» disse alla figlia. Tranquilla, la bambina lo raggiunse, ma il metal detector suonò al suo passaggio. «Vuota le tasche e togliti le scarpe!» ordinò l'agente di guardia. È tanto difficile usare un minimo di gentilezza?, pensò Mark fulminandolo con lo sguardo. Quella mattina, all'aeroporto, l'atmosfera era elettrica. La tensione era aggravata dalla nutrita presenza dei militari, che gestivano una parte dei controlli di sicurezza. Mark si inginocchiò davanti alla figlia per aiutarla a togliersi le scarpe. Le frugò le tasche, ma erano vuote. «Ora vai, tesoro.» Layla tornò sotto il rivelatore in calzini, ma fece scattare lo stesso l'allarme. Che strano: indossava solo un paio di jeans, una T-shirt e un giubbotto. «Il vostro metal detector è rotto.» Senza disturbarsi a rispondere, l'addetto alla sicurezza si avvicinò alla bambina. «Girati e alza le braccia» disse. Layla obbedì, e lui le esaminò tutto il corpo con il rivelatore manuale. L'apparecchio si attivò appena venne a trovarsi vicino alla nuca. «Che cosa significa?» fece Mark, spazientito. L'agente non fu in grado di rispondere. Ripetè la manovra ottenendo lo stesso effetto, e allora si decise a chiamare un collega per cambiare apparecchio. Ma anche quello si comportò come l'altro: tutto lasciava pensare che un oggetto metallico fosse stato impiantato sotto la pelle di Layla. Stupefatto, l'uomo si incollò il ricevitore all'orecchio, alzò gli occhi verso la telecamera di sorveglianza e si rivolse a un'interlocutrice invisibile. «Signora, abbiamo un problema.» Mark e figlia si trovavano adesso in un ufficio spoglio e squallido. Davanti a loro un'ispanica dall'aria severa, vestita con un tailleur pantaloni, stava esaminando il loro passaporto dandosi arie da Condoleezza Rice. «Mi spieghi una cosa, signor Hathaway: sua figlia ha subito di recente un intervento chirurgico?» «Non... non lo so» ammise lui. «Le hanno per caso inserito sotto la pelle della nuca un microchip o qualcosa del genere?» «Non ne ho idea.» La responsabile della sicurezza gli lanciò un'occhiata sprezzante.
«Come, non ne ha idea? È o non è sua figlia?» «È una storia lunga» fece lui stancamente. Condoleezza si girò allora verso Layla. «Ti fa male dietro la testa?» La bambina sostenne il suo sguardo senza battere ciglio, ma non rispose. «Cos'è, hai perso la lingua?» Esasperato, Mark si alzò dalla sedia. «Andiamocene» disse, prendendo Layla per mano. «Pazienza per l'aereo: noleggeremo un'auto.» «Lei da qui non si muove» sentenziò Condoleezza, indicando il militare che montava la guardia sulla soglia. «È quello che vedremo!» sbottò Mark. «Intanto ridatemi il passaporto. Non ho fatto niente di male.» La discussione stava diventando animata, quando squillò il telefono. «Sì?» fece la donna, premendo il bottone del vivavoce. «C'è l'agente Frank Marshall, dell'FBI» spiegò la sua segretaria. «Lo faccia richiamare più tardi.» «Dice che è urgente.» «Allora me lo passi» sbuffò Condoleezza, togliendo il vivavoce. La conversazione fu breve e punteggiata di «sì, signore» e «certo, signore». Poi Condoleezza riattaccò e, con aria contrariata, alzò gli occhi verso Mark e fece atto di contrizione. «Tutto a posto, dottor Hathaway» disse, restituendogli il passaporto. «Ci scusi per il disturbo. Auguro a lei e a sua figlia buon viaggio.» Seccato per quel controllo umiliante, Mark pensò che avevano diritto a una buona colazione. Al banco del Bon Café, una catena francese, ordinò due piatti abbondanti e si sedette con Layla a un tavolo vicino alla pianta della felicità. La bambina mangiò di gusto il suo croissant «alla parigina», accompagnandolo con una spremuta d'arancia. Lui sorseggiò un caffè lungo sfogliando distratto una copia di «USA Today». Quando Mark e Layla si alzarono, Evie prese con nonchalance il loro posto e consumò il resto della spremuta e lo yogurt, che non era nemmeno stato toccato. Ne approfittò anche per scorrere i titoli del giornale. Metà della prima pagina era occupata da un articolo corredato di una grande foto. RICHARD HARRISON SI SUICIDA Il fondatore del gruppo Green Cross, uno dei leader mondiali nel settore della grande distribuzione, è deceduto ieri a New York all'età di settantadue anni. Il tycoon è stato trovato a bordo della sua barca, immerso in una pozza di sangue: si era sparato in testa con un fucile da caccia. Ci risulta che abbia lasciato una lettera ai famigliari per spiegare le ragioni del suo gesto. Harrison, che due anni fa aveva rivelato pubblicamente di essere affetto dal morbo di Alzheimer, non sopportava più le menomazioni dovute alla malattia. Il funerale si svolgerà domani pomeriggio, a Manhattan. Richard Harrison posò la prima pietra del suo impero nel 1966, quando, in un paesino del Nebraska, aprì una piccola drogheria a prezzi ribassati, in grado di sbaragliare ogni concorrenza. Il successo fu immediato e, nel giro di pochissimo tempo, l'imprenditore aprì altri punti vendita, dapprima nel Nebraska, poi in tutto il Paese. Il marchio «Green Cross» ha continuato a espandersi negli Stati Uniti, tanto che oggi conta più di seicento ipermercati. Harrison, un uomo riservato, continuava a vivere in maniera modesta e abitava da trent'anni nella stessa casa. I soldi non lo avevano cambiato molto. Amava coltivare un'immagine da «uomo qualunque», non ostentando mai in alcun modo la ricchezza. Il suo stile di vita discreto e ascetico era agli antipodi di quello della figlia unica Alyson, ospite fissa delle riviste scandalistiche. Evie interruppe la lettura, distratta dal clamore che si era levato all'ingresso del terminal.
Braccata da uno stuolo di fotografi e abbagliata dai flash, Alyson Harrison era appena entrata nell'area. Esile come un fuscello, il viso nascosto per metà da enormi occhiali scuri, faceva fatica a trattenere la folla che la accerchiava e la tempestava di domande. FLASH - FLASH - FLASH Alyson! Da questa parte, Alyson! FLASH - FLASH Come l'ha presa, Alyson? FLASH Com'erano i rapporti con suo padre? Dicono che foste in rotta. E con la DROGA, ha chiuso? Alyson! FLASH - FLASH Che effetto fa ereditare un MILIARDO DI DOLLARI? C'è qualcuno nella sua vita in questo momento, Alyson? FLASH - FLASH Tornerà in ospedale? E la droga? Non ha risposto: HA DAVVERO CHIUSO CON LA DROGA? FLASH Le domande la colpirono come schiaffi. All'inizio l'interesse dei media la lusingava. In passato aveva creduto di poter mantenere il controllo della situazione e strumentalizzare la stampa a suo vantaggio. Poi la notorietà era divenuta celebrità e si era trovata in trappola. Ora non passava giorno che un fotografo o anche solo un signor nessuno armato di cellulare non tentasse di strapparle qualche frammento di intimità. FLASH-FLASH Alyson si portò una mano al viso per difendersi. I ricordi allora affiorarono dal passato alla velocità di un boomerang. FLASH... ...BACK 9 Alyson Primo flashback Otto anni prima L'EREDE DELL'IMPERO GREEN CROSS DÀ SCANDALO A TIMES SQUARE AP - 18 ottobre 1999. Ieri sera, appena è uscita dal ristorante alla moda in cui aveva festeggiato il suo diciannovesimo compleanno, Alyson Harrison ha attirato una piccola folla in Times Square. Visibilmente ubriaca, ha improvvisato un insipido strip-tease nel bel mezzo della piazza, tra le risate e i lazzi di un folto pubblico. Da quando ha abbandonato gli studi per «dedicarsi anima e corpo» alle serate mondane e allo shopping intensivo, la figlia del tycoon Richard Harrison fa regolarmente parlare di sé per le sue bizzarrie e il suo comportamento da bambina viziata. I CAPRICCI DI ALYSON AFP - 23 dicembre 1999. A Parigi, l'ereditiera ha scioccato il personale dell'hotel George V. Dopo aver vuotato le boutique degli Champs-Elysées, ha prenotato, oltre a una sontuosa suite, una seconda camera solo per pacchi e pacchetti. «C'erano almeno trenta scatole di scarpe, tutte di grandi marche» ha dichiarato una cameriera. STEVE E ALYSON: È AMORE Online - 14 gennaio 2000. La rete e-Muzic l'aveva già annunciato la settimana scorsa, ma adesso è ufficiale: il batterista del gruppo rock 6theGear e l'ereditiera dell'impero Green Cross stanno vivendo da due settimane una storia d'amore. Steve Glenn, trentun anni, è conosciuto per i modi da «bad boy» e la spiccata predilezione per l'alcol. Steve e Alyson sono un cocktail esplosivo che darà certo molto lavoro ai paparazzi. SCANDALO A COURCHEVEL AFP - 12 febbraio 2000. L'ereditiera Alyson Harrison alla fine non è comparsa, questo weekend, nella famosa stazione sciistica alpina dove aveva riservato due piste per suo uso esclusivo. «Non l'ha vista nessuno» dichiara un rappresentante del Comune che preferisce conservare l'anonimato. «Evidentemente si è spaventata per il cancan mediatico che le sue pretese hanno suscitato. Qui non amiamo i favoritismi.» LA MILIARDARIA CLEPTOMANE AP - 3 maggio 2000. Bisogna proprio dire che Alyson Harrison non ne azzecca una. La sulfurea bionda è stata arrestata ieri pomeriggio con
l'accusa di avere rubato vestiti per molte migliaia di dollari in una lussuosa boutique di Beverly Hills. Suo padre ha già annunciato che ricorrerà ai servigi di Jeffrey Wexler, uno dei principi del foro americano. ALYSON RILASCIATA AP - 8 giugno 2000 STEVE E ALYSON: È FINITA Online - 18 dicembre 2000 ALYSON ACCUSATA DI OMISSIONE DI SOCCORSO «The Telegraph» - 3 gennaio 2001. Essere miliardari non significa essere al di sopra della legge. Secondo il sito web QMZ.com, Alyson Harrison è scappata dopo un incidente stradale che per fortuna non ha causato vittime. L'infrazione sarebbe rimasta impunita se un passante non avesse segnalato il numero di targa alle autorità. Costretta a riconoscere le proprie responsabilità, la Harrison si è rivolta all'avvocato Jeffrey Wexler per arrivare a una risoluzione amichevole con il proprietario dell'auto danneggiata. ALYSON HA UN NUOVO FIDANZATO Online - 12 febbraio 2001. Dopo la fine della sua storia con il rocker Steve Glenn, l'ereditiera si è consolata tra le braccia di Austin Tyler, il protagonista della serie televisiva Pacific Palisade. ALYSON SI ROVINA PER ROXY AP - 6 marzo 2001. L'erede Green Cross spende e spande come una matta per vestire di tutto punto il suo... cane. Collare tempestato di diamanti, guardaroba disegnato dai più grandi stilisti, sedute da uno psicologo per cani: niente è considerato troppo per Roxy, il chinese crested dog che Alyson si trascina dappertutto. «So che, a differenza degli uomini, Roxy non mi lascerà mai» afferma per giustificare le sue spese. VIDEO PORNO DI ALYSON IN RETE Online - 20 luglio 2001. Quando le hanno rubato il cellulare in un locale notturno di Miami, l'ereditiera ha subito temuto che i ladri sfruttassero a loschi fini i dati contenuti in memoria. Oltre a un carnet di indirizzi di membri del jet set, il telefonino conteneva numerose foto e video personali. Uno di essi, un piccolo videoclip di due minuti in cui si vedeva Alyson impegnata con il suo ragazzo in un focoso amplesso, è appena stato diffuso in Internet. «Mi turba molto che la mia intimità sia mostrata in questo modo a tutti» dice l'ereditiera. «Me ne scuso con i miei amici e la mia famiglia.» Una volta passato il primo momento di imbarazzo, non ha impiegato molto a ritrovare la sua disinvoltura. «Fare l'amore è una cosa naturale» dichiara «e non ho niente di cui sentirmi in colpa.» ALYSON HARRISON LANCIA LA PROPRIA LINEA DI LINGERIE AP - 6 agosto 2001. Le sue creazioni saranno vendute solo ed esclusivamente nei grandi magazzini Green Cross. ALYSON DI NUOVO SINGLE? Online - 28 agosto 2001 ALYSON CONQUISTATA DALLA CABALA Reuters - 9 settembre 2001. Come molti attori hollywoodiani, la bionda ed eccentrica miliardaria si è dichiarata un'adepta della cabala, la religione ultimamente più in voga tra le celebrità. «Non mi separo mai dal mio braccialetto di filo rosso, che mi aiuta ad allontanare la sfortuna e mi permette di restare in contatto con la mia forza spirituale» proclama. UN PROFUMO DI NOME ALYSON AP - 29 settembre 2001. Stavolta è Alyson Harrison a lanciare un profumo con il suo nome. In collaborazione con una prestigiosa casa di prodotti di bellezza (di proprietà di suo padre!), la giovane ereditiera ha creato un profumo nei negozi a Natale. ALYSON, GIÀ UN NUOVO AMORE? Online - 28 ottobre 2001 ALYSON VORREBBE FARE L'ATTRICE Imdb.com. - 20 novembre 2001
DA UNO SPORTIVO ALL'ALTRO... Online - 5 dicembre 2001. Alyson Harrison nutre senza dubbio un grande interesse per lo sport. Dopo il calciatore Dave DeLuna, tocca adesso all'olimpionico di nuoto John Aldreen cadere nella rete della bionda ereditiera. IL PROFUMO DI ALYSON È UN FLOP AP - 8 gennaio 2002 ALYSON HARRISON ARRESTATA PER GUIDA IN STATO DI EBBREZZA Reuters - 12 gennaio 2002. Si è appreso da fonti interne alla polizia che, la notte tra sabato e domenica, la starlette e jet setter Alyson Harrison è stata arrestata a Los Angeles per guida in stato di ebbrezza. Due agenti in motocicletta avevano notato che un'auto stava sbandando pericolosamente lungo la strada e hanno arrestato la giovane donna alle due e un quarto, a Beverly Hills. La polizia non ci ha messo molto a trovare una bottiglia di tequila quasi vuota sul sedile del passeggero della macchina. Il test alcolemico ha dimostrato che la ventunenne Harrison aveva un tasso alcolico otto volte superiore al limite consentito. Toccherà adesso alla procura stabilire quando la donna dovrà comparire in tribunale per rispondere dell'infrazione. ALYSON CONDANNATA Reuters - 24 febbraio 2002. Alyson Harrison, che il 12 gennaio era stata fermata per aver superato i limiti di velocità, risultando inoltre positiva al test alcolemico, è stata condannata oggi a una multa di mille dollari e alla sospensione della patente per sei mesi. L'ereditiera dovrà anche seguire un corso sui pericoli della guida in stato di ebbrezza. 10 Sull'aereo Davanti a unaprova, l'uomo non ha che tre scelte: 1) combattere; 2) non fare niente; 3)fuggire. Henri Laborit Oggi 25 marzo 2007 -ore 10,00 Aeroporto internazionale di Los Angeles «Signore e signori, il capitano McCarthy e il suo equipaggio sono lieti di accogliervi sull'Airbus A380 diretto a Londra via New York. Vi preghiamo di raggiungere i vostri posti e di attendere il decollo. La Shangri-La Airlines vi augura buon viaggio.» Quando salì a bordo, Mark non potè fare a meno di stupirsi di quanto fosse grande l'Airbus, dotato di una fusoliera centrale a doppio ponte che accoglieva oltre cinquecento passeggeri. Per evitare gli ingorghi, si accedeva ai sedili tramite due passerelle che conducevano ciascuna a un livello diverso. Impiegò quasi dieci minuti a trovare i posti. Dopo alcuni ritardi di consegna, la compagnia di Singapore Shangri-La era stata la prima a sfruttare l'aerobus europeo e non aveva lesinato sulle spese per arredare l'interno. Con i suoi grandi oblò e i sedili ben distanziati, anche la classe economica era luminosa e confortevole. Mark e sua figlia avevano due posti fianco a fianco sul retro del ponte inferiore. Quando raggiunsero la loro fila, una ragazza di una quindicina d'anni dai capelli sporchi e decolorati sonnecchiava già nel sedile accanto all'oblò. Sulle ginocchia teneva un logoro zaino con un'etichetta: Evie Harper Layla si accomodò tra suo padre ed Evie. Indossava la T-shirt rosa con un'immagine di Alice nel paese delle meraviglie che Mark le aveva appena comprato al duty free. Follow the white rabbit, diceva la scritta sotto il muso di un coniglio con lo sguardo allucinato, che portava una redingote e si trascinava dietro un enorme orologio da panciotto.
«Tutto bene?» chiese Mark, senza aspettare realmente una risposta. La bambina lo guardò con dolcezza. Mark ebbe una stretta al cuore, ma riuscì a controllare l'emozione. Frugò in una borsa con il marchio di una libreria e tirò fuori un bloc-notes, una scatola di pennarelli e due libri: un album per bambini piccoli e il primo romanzo di Harry Potter. «Ne ho presi due perché... non so nemmeno se sai leggere» confessò deponendo i suoi acquisti sul tavolino pieghevole. «Cinque anni fa ero io a leggerti le favole prima che andassi a nanna, ti ricordi?» Bevve un sorso d'acqua minerale e continuò il suo monologo. «Sai, tesoro, non ho idea di che cosa ti è successo. Non so chi si sia occupato di te in tutto questo tempo. Immagino che tu abbia sofferto e abbia paura. Immagino anche che ti sia sentita sola: avrai pensato che la mamma e io ti avessimo abbandonato. Non è così, credimi. Non abbiamo smesso mai, neanche per un attimo, di pensare a te e avremmo dato chissà cosa per ritrovarti.» A bocca aperta, Layla lo fissò intenta, con lo sguardo penetrante. «Una volta mi domandasti che mestiere facevo e io ti risposi che ero un dottore, ma un dottore un po' speciale che curava le malattie dell'anima. Non è semplice da spiegare: le persone vengono da me quando soffrono internamente. E soffrono perché hanno subito delle prove che hanno lasciato loro delle ferite nel cuore.» Indugiò un attimo, come cercando le parole, poi proseguì: «Spesso queste persone si sentono colpevoli di qualcosa, anche se in realtà di colpe non ne hanno. Il mio mestiere è convincerle che possono rinascere dalla sofferenza. Nessuna ferita è irreparabile: possiamo trasformare ciascuna di esse in un elemento di forza. Non c'è niente di magico in questo, ma ci vuole tempo. Il dolore non scompare mai completamente, ma resta sepolto in fondo a noi e ci lascia tornare alla vita e proseguire per la nostra strada. So che non è una cosa facile da capire, ma tu sei una bambina intelligente». Fece una nuova pausa, poi concluse. «Se ti racconto questo, tesoro, è per dirti che farò di tutto per proteggerti e vegliare su di te, ma tu devi permettermi di aiutarti. Quando sarai pronta, bisognerà che tu mi parli, che mi racconti quello che hai vissuto. Posso capire tutto, sai, non perché sono medico, ma perché sono il tuo papà. È chiaro?» Per tutta risposta, Layla abbozzò un sorriso. Poi guardò i due libri e scelse Harry Potter. Sa leggere, pensò Mark, dopo averla osservata attentamente. Qualcuno le ha insegnato a farlo. Ma chi? Mentre lei voltava diligentemente le pagine del romanzo, si sforzò di mascherare l'angoscia. Nella sua mente si accavallavano mille interrogativi senza risposta. Chi aveva allevato sua figlia? Perché l'avevano liberata dopo cinque anni? Perché si era rinchiusa in quel mutismo inquietante? Come spiegare l'episodio del metal detector? Le avevano davvero inserito un corpo estraneo sottopelle? Sì, evidentemente lo avevano fatto, ma che tipo di congegno? Un microchip? Ma a che scopo? Per localizzarla e seguire le sue tracce? E Nicole, perché era scomparsa all'improvviso di scena, come se avesse avuto qualcosa da rimproverarsi? Per non parlare del giornalista che sapeva del ritrovamento di Layla benché l'FBI non avesse divulgato la notizia. Perché quel Philips lo aveva messo in guardia in quel modo? «Lei non sa la verità...» Nello stesso istante, sul ponte superiore, tutti avevano gli occhi incollati su Alyson Harrison, che era apparsa nella cabina di prima classe, uno spazio lussuoso con una sessantina di poltrone di design, regolabili con un telecomando. Una hostess elegante e affabile condusse Alyson al suo sedile. «La Shangri-La Airlines le dà il benvenuto, signorina. Il nostro personale è a sua disposizione e le augura buon viaggio.»
Con i grandi occhiali da sole incollati al naso, Alyson si lasciò cadere sulla poltrona. Ormai tendeva a provare costante disagio in pubblico. Non si sentiva sicura. Da qualche anno la sua esistenza era un infinito vagabondaggio fra gli eccessi, che la distruggeva ogni giorno di più, e il miliardo di dollari che aveva appena ereditato avrebbe solo peggiorato la situazione. Nella vita, le cose più preziose sono quelle che non hanno un prezzo. Alyson aveva impiegato molto tempo a capirlo. Troppo. «Un minuto al decollo. Assistenti di volo, prepararsi al decollo» annunciò il comandante. Con le sue cinquecentosessanta tonnellate e i suoi due ponti sovrapposti, l'Airbus sembrava più un transatlantico volante che un semplice aereo di linea. Come può un simile pachiderma sollevarsi in cielo?, si domandò Evie guardando dall'oblò. Era solo la seconda volta che volava e l'esperienza non le piaceva affatto. Si guardò intorno con ansia, ma nessuno sembrava preoccuparsi per il tempo che ci metteva l'apparecchio ad alzarsi in volo. Sarebbe stato veramente troppo stupido morire adesso, poco prima che la vendetta fosse compiuta. L'aereo rullò, rullò e continuò a rullare. C'è un problema, pensò Alyson. Questo cazzo di aggeggio dovrebbe essere già in cielo. Ma l'idea di un incidente non la spaventava. Dopotutto, la morte era forse la soluzione migliore: fine della sofferenza, della vergogna e del senso di colpa. Fine della paura che le rodeva l'anima senza tregua. Fine di tutto. Ci aveva già provato diverse volte, ma qualcosa era sempre andato storto: dose di farmaci insufficiente, vene tagliate nel senso sbagliato, soccorsi giunti troppo presto. Fino ad allora non era riuscita a morire. Fino ad allora. Mark sentì angosciato la pista vibrare sotto le venti ruote del carrello principale. Era una sua impressione o l'aereo ci stava impiegando un'eternità a decollare? Nella busta dello schienale davanti al suo, il dépliant tecnico del velivolo ricordava alla clientela che la potenza dei turboreattori era pari a quella di seimila auto. Se hai motori così potenti, cosa aspetti a volare? Al suo sguardo inquieto incrociò quello della ragazza seduta accanto all'oblò, all'estremità della fila. Non aveva più l’aria tranquilla. Solo Layla, seduta tra loro e immersa nella lettura, rimaneva indifferente a ciò che la circondava. Decolla, dai, decolla! Giunto in fondo alla pista, il gigante dell'aria sembrò esitare un attimo prima di staccare le sue cinquecentosessanta tonnellate dal suolo e strappare un «Ooohh!» di sollievo ai passeggeri. In un silenzio monacale, raggiunse in meno di sei minuti la prima quota di cinquemila metri. Mark si mosse sulla sedia. Aveva le mani tremanti e il sudore che gli imperlava la fronte e gli colava lungo la schiena. E una terribile emicrania: sembrava che gli stessero strizzando il cervello. Non beveva un goccio di vino o liquore da trentasei ore e cominciava a pesargli. La sera precedente, e poi quella mattina, gli era venuta la voglia irrefrenabile di vuotare il minibar della stanza d'albergo. Era riuscito a controllarsi, soprattutto per la gioia di avere riabbracciato sua figlia, ma ormai era un alcolizzato, e non poteva uscirne così, dall'oggi al domani. Nel corso della carriera professionale aveva seguito parecchi alcolisti che cercavano di ripulirsi e sapeva cosa lo aspettava: delirio, disorientamento, convulsioni, allucinazioni visive e uditive.
Al suo fianco, Layla alzò gli occhi dal libro e lo guardò incerta. Per fare bella figura, lui le strizzò l'occhio e le rivolse un sorriso rassicurante, ma qualcosa gli diceva che la figlia non si lasciava ingannare. «Si sente poco bene, signore?» Mark fissò la ragazzina dell'oblò: un po' donna un po' bambina, aveva i capelli sporchi e decolorati, una mise gotica ricercata e sgualcita, e nello sguardo la stanchezza di chi ne ha già passate parecchie. «No, no, sto bene» la tranquillizzò. «Come ti chiami?» Evie esitò a rispondere per la diffidenza che era ormai innata in lei. Ma qualcosa, in Mark, le ispirava fiducia. Il calore dello sguardo le ricordava quello del medico che aveva conosciuto tre mesi prima, la vigilia di Natale, e che non aveva dimenticato. Nel poco tempo in cui erano rimasti insieme lo aveva sentito stranamente vicino. Spesso, nei momenti di incertezza e solitudine, si scopriva a pensare a lui. Allora la paura allentava la sua morsa e le balenava la speranza confusa di una vita più serena. «Mi chiamo Evie» rispose. «Io sono Mark Hathaway e questa è mia figlia Layla.» «Ciao, Layla» disse Evie protendendosi verso di lei. «Non... non parla» spiegò Mark. Evie gli guardò le mani. «È la mancanza di alcol?» «Come?» «Sta per caso provando a smettere di bere? È per quello che trema?» «No. Perché dici così?» «Per via di mia madre: tremava come sta facendo lei.» «Vedi, è complicato» si giustificò lui. Fece una pausa e aggiunse: «Che ne è stato di tua madre?». «È morta.» «Ah. Mi dispiace.» Il segnale «Allacciarsi le cinture» si spense e i passeggeri furono liberi di alzarsi. «Se vuole andare a rinfrescarsi, guardo io sua figlia» si offrì Evie. «Grazie, ma sto bene così» rispose Mark, d'un tratto assalito a sua volta dalla diffidenza. «Credo che se non berrà al più presto qualcosa, starà molto male.» Mark cercò di affrontare il problema razionalmente. In effetti si sentiva sempre peggio. In poche ore aveva abbandonato la vita da senzatetto, ma adesso stentava a ritrovare gli antichi punti di riferimento. Soprattutto, prima di salire sull'aereo, aveva sottovalutato le conseguenze della rinuncia brutale all'alcol. Guardò sua figlia. Poteva fidarsi a lasciarla sola qualche minuto con quella Evie di cui non sapeva nulla? Come avrebbe reagito Layla? D'altronde, se voleva mettersi davvero nelle condizioni di aiutarla, doveva buttar giù al più presto un bicchierino e ritrovare il contegno. «Senti, tesoro, papà torna tra cinque minuti. Mi aspetti da brava qui, in compagnia di questa signorina?» Si girò verso Evie. «C'è un bar al centro del ponte superiore. Se hai qualche problema con Layla, vieni subito a cercarmi, per favore.» La ragazza annuì. Mark si alzò e si diresse per prima cosa alla toilette. Aveva la gola secca e i brividi di freddo, era disidratato e fradicio di sudore allo stesso tempo. Entrò nella piccola cabina di metallo, ceramica e specchi. Anche lì un grande oblò offriva una panoramica del cielo. La toilette era pulitissima, se si escludeva un elaborato graffito fatto con la bomboletta su buona parte della parete. Mark riconobbe le «tre scimmie della saggezza», che aveva visto nei templi buddisti durante un seminario
in Giappone. La prima scimmia si copriva gli occhi con le mani, la seconda le orecchie e la terza la bocca. Una frase riassumeva il significato dell'immagine: «Non vedere, non sentire, non dire niente». Secondo la tradizione, a chi seguiva quel precetto capitavano solo cose positive. Riflettendo sulla strana massima, si tolse l'orologio, si lavò le mani e si spruzzò l'acqua fredda sul viso, evitando di guardarsi allo specchio sopra il lavabo. Si asciugò le mani e uscì. Un istante dopo tornò dentro a recuperare l'orologio sulla mensola, e fece per andarsene, quando qualcosa lo indusse a fermarsi di colpo. Non è possibile! Sul muro, le tre scimmie erano scomparse ed erano state sostituite da un lungo fregio che aveva qualcosa di inquietante e morboso. Era un collage di simboli che aveva già incontrato nei suoi studi di psicologia: una clessidra, una falce e delle ossa, come a dire che il tempo passa, noi lo sprechiamo, la morte giunge improvvisa e torniamo alla polvere. Poi una passerella lunga e pericolosa: il ponte del giudizio, la difficoltà di passare nell'aldilà. Infine una scala, la scala della salvezza, simbolo universale dell'ascesa dell'anima, accanto alla quale attendeva un uomo dalla testa di sciacallo, Anubi, la guida dei morti. Sopra il disegno c'era una frase che pareva un mantra: NON C'È NIENTE DA TEMERE, SOLO DA CAPIRE. Rimase impietrito. Eppure non se l'era sognato! Ipnotizzato dal fregio, non riusciva ad andarsene dalla toilette. Quello che vedeva lo faceva soffrire, anche se non riusciva a valutarne bene il senso.
Dovette farsi violenza per uscire, ma appena ebbe richiuso la porta non potè trattenersi dal riaprirla. Scoprì un nuovo graffito al posto del precedente. Stavolta era un uccello fiammeggiante che spiegava le ali immense su tutta l'estensione della parete: la leggendaria fenice, che rinasceva dalle proprie ceneri. Sopra quel simbolo di resurrezione, una frase: UN UOMO PUÒ ESSERE DISTRUTTO, MA NON VINTO. Stavolta si preoccupò molto. Ecco che cos'è, sto delirando! Gli bruciava tutto il corpo. Non riusciva a frenare il tremito alle dita e a impedire al cuore di battere furiosamente. Doveva reidratarsi, prendere tranquillanti e vitamine, ma non aveva niente del genere sottomano. Non gli restava che la volontà. Chiuse gli occhi e lottò con le ultime forze per ricomporsi. Tutto quello che vedi è falso. Avviene solo nella tua mente. Non ci sono graffiti. Queste immagini sono le tue angosce e le tue paure, conseguenza di due anni di vita in strada. Non preoccuparti. Hai ritrovato Layla e presto rivedrai Nicole. Rimetterai insieme la tua famiglia e tutto tornerà come prima. Quando riaprì gli occhi, il muro era immacolato. «Allora, ha finito?» gridò spazientito qualcuno al di là della porta. Contento di avere riportato una piccola vittoria su se stesso, Mark si affrettò a uscire dalla toilette, e si ripromise di non mettervi più piede per tutto il resto del viaggio. Prendendo sul serio il ruolo di «sorella maggiore», Evie vegliava su Layla senza mai staccarle gli occhi di dosso. Senza mai proferire parola, la bambina aveva afferrato un pennarello e disegnava sul bloc-notes delle forme astratte come quelle che fanno i bambini molto piccoli. Evie la guardava commossa e incuriosita dal suo mutismo. Dieci minuti dopo che Mark si era allontanato, Layla alzò gli occhi dal disegno. Fu allora che si compì il miracolo. «Di che cosa è morta la tua mamma?» domandò.
11 Evie Primo flashback Due anni prima Prima serata di un giorno di ottobre Las Vegas, Nevada Un terreno abbandonato coperto di erbacce e rifiuti nella periferia di Las Vegas, lontano dai lustrini e dalle luci al neon della Strip, la strada più famosa della città. Su quel terreno una quarantina di roulotte scalcinate, quasi tutte con i vetri rotti, le pareti ammaccate e il tetto sfondato. L'anticamera della vita in strada per una popolazione eterogenea: operai a basso reddito e giocatori rovinati dal poker o dalla roulette, gente che pensava di trattenersi lì solo qualche giorno, «il tempo di rifarsi», ma che non si è mai liberata dall'inferno del gioco. In fondo al campo, una roulotte in condizioni vagamente migliori, sormontata da una tettoia di lamiera ondulata e contornata da un rudimentale recinto che le conferisce un'aria fasulla da villetta. Sotto la tettoia, un tavolo di formica sul quale sono posati un'enorme pila di libri, una vecchia radio sintonizzata su una stazione country e un piccolo acquario dove guizza un pesce rachitico. Seduta al tavolo, la tredicenne Evie mordicchia per un attimo la biro prima di scrivere in fretta l'ultimo paragrafo della scheda di lettura che deve consegnare al professore l'indomani. D'un tratto una voce proveniente da una roulotte attigua le dice: «Date prìsa, Evie, vamos a llegar tarde al trabajo (Sbrigati, Evie, se no arriviamo tardi al lavoro)». « Ya voy, Carmina, dame dos minutos (Arrivo, Carmina, dammi due minuti).» Evie entra nella roulotte, ne esce subito dopo con uno spazzolino in bocca e, lavandosi i denti, si affanna a rileggere il compito e a correggere qui e là gli ultimi errori. «Su, spicciati!» Miguel, capo della squadra di pulizie dell'albergo Oasis, non è un tipo accomodante. Evie ha dovuto supplicarlo perché si decidesse ad assumerla qualche notte a settimana nonostante la sua giovane età. Un lavoro ingrato, pagato in nero cinque dollari l'ora. La ragazza afferra la lattina mezza vuota posata sul tavolo, si sciacqua la bocca con un inedito misto di Coca light e dentifricio e sputa il tutto in una cassetta portafiori. Poi infila libri e quaderni nello zaino e torna dentro la roulotte a salutare la madre. «Allora io vado, mamma.» Teresa Harper è stesa sulla branda più bassa di un letto a castello. Ha trentaquattro anni, ma ne dimostra venti di più a causa dell'epatite cronica che la affligge da anni e che è degenerata prima in cirrosi, poi in cancro. Qualche mese prima, durante un'operazione, hanno asportato tre quarti del suo fegato gonfiato dal tumore, e Teresa sopporta sempre meno gli effetti collaterali della terapia: febbre, nausea, indolenzimento, estrema stanchezza. «Fa' attenzione, cara» dice, afferrando la mano della figlia. È quasi un anno che ha lasciato il lavoro, e le due donne riescono a vivere solo grazie ai soldi guadagnati da Evie e a un irrisorio sussidio statale. «Non ti preoccupare» risponde Evie, alzandosi. Chiude piano la porta e corre dalla sua vicina, Carmina, che lavora con lei. Sale sull'auto di Carmina, una vecchia Pontiac con i sedili sfondati e dalla marmitta scassata, fabbricata molto prima delle norme antinquinamento e che sputa fumo nero. Carmina è una messicana grassa e austera. Ha tre figli e un marito buono a nulla che è quasi sempre disoccupato. Siccome non ama parlare a vanvera, non apre bocca per tutto il tragitto, il che non spiace affatto a Evie. La ragazza chiude gli
occhi. È molto angosciata dalla notizia che ha appreso pochi giorni prima: il proprietario del parcheggio di caravan ha deciso di vendere il terreno a un immobiliarista che vuole costruirci un parco divertimenti. Non ha detto niente a sua madre per non farla preoccupare, ma si chiede che cosa sarà di loro se verranno cacciate da lì. Da tre anni, nonostante la malattia di Teresa e la precarietà della vita quotidiana, hanno ritrovato un minimo di respiro. Per Teresa gli anni Novanta sono stati un lungo corridoio buio: divideva spesso siringhe, cotone idrofilo e cannucce per sniffare con altri scoppiati, ed è stato così che si è presa l'epatite. All'epoca era braccata dai servizi sociali che volevano toglierle la figlia per darla in affido a una famiglia. Per non essere strappata alla madre, Evie aveva sviluppato presto eccezionali doti di autonomia e maturità. Era sempre stata lei la vera adulta della famiglia. Era a lei che Teresa, nei suoi momenti di lucidità, consegnava una parte della paga per evitare di buttarla in eroina. Era lei che faceva la spesa, pagava le fatture, risolveva i problemi con il vicinato. Era lei, insomma, che era diventata la madre di sua madre. «Siamo arrivate» dice Carmina, scuotendola. «Prendi le tue cose.» Evie apre gli occhi e raccoglie lo zaino dal sedile posteriore. L'auto procede veloce sul Las Vegas Boulevard. Ora è scesa definitivamente la notte. In un'orgia di luci al neon, gli alberghi dalle facciate sfavillanti competono in grandezza. Il profilo immenso dell'Oasis brilla di mille luci e inghiotte la vecchia Pontiac, che si ferma nel parcheggio sotterraneo per dipendenti. Con le sue tremila camere, le sue quattro piscine e il suo centro commerciale, l'albergo è faraonico. Tutto è smisurato: il giardino interno, che conta un migliaio di palme ed è attraversato da un piccolo fiume; la spiaggia di sabbia fine; lo zoo dove giocano leoni e tigri bianche; la riproduzione della banchisa, dove arranca un nutrito gruppo di pinguini obesi e, per finire, l'acquario con i delfini. Nelle stanze, dal marmo del pavimento al soffitto, l'arredamento ricercato segue i principi del feng shui e gli schermi al plasma sono presenti perfino in bagno. Per funzionare a dovere, questo grande meccanismo ha bisogno di migliaia di esseri invisibili: cameriere, lavavetri, addetti alla manutenzione. Evie fa parte degli invisibili. Ogni notte ha un incarico diverso. Stasera accompagna la squadra di Carmina, che deve pulire le scale di servizio, il che significa stare con la schiena curva e lo strofinaccio incollato alla mano per ore, in un palazzo di trenta piani. Le due del mattino Evie si concede una pausa di dieci minuti sul tetto dell'albergo. Da lì, a quasi cento metri d'altezza, domina Las Vegas e il fiume di luci che fluisce lungo la Strip. È nata in questa città, ma la detesta, e disprezza anche la fauna dei giocatori e degli sposi di cartone. Non ha mai capito che cosa ci trovi la gente in questo gigantesco paese dei balocchi in cui tutto è paccottiglia, finzione, specchio per le allodole. A Las Vegas non si può fare un passo senza imbattersi in una slotmachine. Ce ne sono dappertutto, nelle stazioni di servizio come nei supermercati, nei ristoranti come nei bar o nelle lavanderie automatiche. Mentre è quasi impossibile trovare un posto dove comprare libri. Sono proprio i libri, invece, che Evie ama più di ogni altra cosa; soprattutto romanzi e raccolte di poesia. È stata una delle sue professoresse a farle scoprire la letteratura, che da allora è divenuta il suo giardino segreto, il suo passaporto per l'altrove, un imprevisto mezzo per fuggire dalla mediocrità nella quale la vita l'aveva intrappolata. In uno dei numerosi banchi di pegno della città, ha trovato tanti romanzi d'occasione, a due dollari: Cent'anni di solitudine, L'urlo e la furia,
Delitto e castigo, Uomini e topi, Il giovane Holden, Cime tempestose, Il falò delle vanità. Gabriel Garcia Màrquez, William Faulkner, Fédor Dostoevskij, John Steinbeck, Jerome Salinger, Emily Bronte, Tom Wolfe, al prezzo di un pacchetto di patatine fritte. Le quattro del mattino Sfregare, sfregare, sfregare. Ora i suoi vestiti sono intrisi d'acqua sporca. Ha la schiena curva e casca dal sonno. Per resistere, pensa al futuro e a sua madre. Teresa è nella lista d'attesa per un trapianto di fegato, ma gli organi sono rari ed Evie teme che non sopravviva fino al momento in cui ne troveranno uno. Bisogna che resista, pensa angosciata. Bisogna che tenga duro ancora qualche mese. Al tempo stesso le sembra criminale aspettare la morte di qualcuno per la salvezza di sua madre. Le sei del mattino Evie prende la paga in contanti dalle mani del caporeparto e lascia l'albergo Oasis. Più avanti, sul viale, c'è una piccola caffetteria. Le piace sedersi un po' in disparte infondo alla sala, a uno dei tavoli che si affacciano sulla strada. Ha un'ora prima di prendere l'autobus che la porterà a scuola. Un'ora tutta per lei, il solo momento della giornata in cui si permette il lusso di fare quello che ama veramente: leggere e scrivere. Ordina una cioccolata calda e tira fuori dallo zaino un libro che la sta appassionando. L'ha trovato l'altra notte sul comodino di una camera dell'albergo, dov'era stato dimenticato da un cliente. Una volta tanto non è un romanzo o una raccolta di poesie, ma un saggio di un neuropsichiatra di New York. Un certo Connor McCoy. Il libro si intitola Sopravvivere. Ed è come se McCoy l'avesse scritto per lei. Parla proprio di quello che ha vissuto lei, della necessità di indurirsi per resistere al peggio, dell'armatura inviolabile che bisogna pazientemente costruirsi negli anni per evitare di naufragare. Ma Evie vi ha trovato anche un monito, un concetto che aveva già intuito ma non era riuscita a formulare con chiarezza: non bisogna difendersi troppo, altrimenti non si sente più niente. Il cuore diventa di ghiaccio, ci si trasforma in morti viventi e la vita perde il suo sapore. È per questo che cerca di coltivarsi il suo giardino interiore, un piccolo nucleo di speranza e leggerezza che custodisce in fondo al cuore e che sarà pronta a tirare fuori il giorno in cui... Ma quale sarà il suo futuro? Ama pensare che farà la scrittrice o la psichiatra per aiutare a sua volta chi soffre. Però ha la certezza matematica che non potrà studiare. L'università non è cosa per figlie di drogate che vivono in una roulotte e sono costrette a lavorare la notte per sbarcare il lunario. Beve un sorso di cioccolata calda e scarabocchia qualche parola su un taccuino con la spirale. Si sente sola. Le piacerebbe confidare i suoi pensieri a qualcuno che la capisse. Ma siccome non ha nessuno, scrive. Nell'ultima pagina di quel quaderno ha steso l'elenco delle dieci cose che vorrebbe vedere realizzarsi. Sa bene che ci sono poche probabilità che i suoi desideri siano un giorno esauditi, ma bisogna pur sognare qualche volta, altrimenti... N° 1: a mia madre viene trapiantato un fegato nuovo che la fa guarire. N° 2: troviamo un nuovo alloggio non troppo caro. N° 3: mia madre non tocca mai più né droga né alcol. N° 4: non mi viene mai, in nessun momento, la tentazione
di darmi alla droga o all'alcol. N° 5: facciamo qualche giorno di vacanza lontano da Las Vegas. N° 6: vado a studiare a New York. N° 7: un giorno vengo a sapere chi è il mio vero padre. N° 8: non dimentico mai che esistono anche cose belle nella vita. N° 9: un giorno incontro qualcuno che mi capisce. Per il numero 10 è più complicato. Aveva scritto qualcosa, ma l'ha cancellato. Però, a pensarci bene, potrebbe essere: N° 10: un giorno qualcuno si innamora di me. 12 Mark e Alyson Tutto è intessuto d'infanzia. Non siamo noi che diciamo le parole, sono le parole che dicono noi. Witold Gombrowicz Oggi Ore 11,45 Sull'aereo L'A380 proseguiva il suo volo a velocità regolare, fendendo le nuvole che incombevano sopra le Montagne Rocciose. Mark salì le imponenti scale che collegavano i due piani e arrivò al centro del ponte superiore, dove si trovava il Floridita, il lounge bar orgoglio della compagnia aerea. Musica rilassante, illuminazione raffinata, poltrone e divani di pelle: tutto contribuiva a creare un'atmosfera quieta e ovattata. Era facile dimenticare che ci si trovava su un aereo. Si sedette su uno degli sgabelli alti disposti a cerchio intorno al bancone, dietro il quale un nero baffuto sfoggiava una pettinatura africana come quella dei Jackson Five che faceva di lui un sosia quasi perfetto di Isaac, il barman della serie televisiva Love Boat. «Un doppio whisky senza ghiaccio.» Si sentiva già meglio. La prospettiva di bere bastava a calmarlo. Così, quando Isaac gli mise il bicchiere davanti, si concesse il lusso di rinviare il primo sorso di qualche secondo. Si guardò intorno. Sempre più passeggeri stavano affluendo al bar. Si era appena seduta accanto a lui una giovane donna piuttosto provocante. In attesa di ordinare, Alyson dondolò la testa al ritmo della musica, un misto di elettronica e bossa nova. «Che cosa desidera, signorina?» domandò il barman. «Un Daiquiri, per favore. Senza zucchero, ma con un goccio di spremuta di pompelmo.» Alyson si girò verso Mark e incrociò il suo sguardo. «Si chiama Hemingway's special» spiegò lui. «Come, scusi?» «Il cocktail che ha appena ordinato, il Daiquiri amaro, è stato inventato da Ernest Hemingway.» Vedendo che la giovane non rispondeva, si sentì in dovere di precisare: «Hemingway, lo scrittore». «Lo so chi è Hemingway, grazie!» «Mi scusi, non volevo offenderla» disse Mark. «No, è colpa mia, è che...» Sopraffatta dall'emozione, Alyson s'interruppe e voltò la testa dall'altra parte. Incuriosito, Mark la guardò meglio: capelli color platino, figura slanciata, aspetto da cali girl Quando la donna si chinò per prendere la borsa, notò l'inizio di un tatuaggio sul suo fondo schiena e riconobbe il simbolo buddista della ruota della legge:
«Che cos'ha, signorina, si sente male?» domandò. «No, no, sto benissimo» lo rassicurò lei. «È stato il suo riferimento a Hemingway: era lo scrittore preferito di mio padre.» Guardò Mark dritto negli occhi e si sentì stranamente bene. Quell'uomo emanava uno strano magnetismo, un misto di calore e umanità che le ispirò fiducia e la indusse a continuare il discorso. «È morto pochi giorni fa. Si è suicidato.» «Mi dispiace molto.» «Un colpo di fucile da caccia, come...» «Come Hemingway» terminò per lei Mark. Alyson annuì in silenzio. «Mi chiamo Mark Hathaway.» «Io Alyson Harrison.» Dopo un attimo di esitazione, Mark osò rivolgerle la domanda che si stava facendo già da un po': «Perché metà delle persone che stanno su questo aereo la guardano insistentemente, Alyson?». «In questi ultimi anni mi hanno visto molto sui giornali, anche se chiamarli giornali significa tributargli un onore eccessivo» confessò imbarazzata la giovane donna. «Che cosa intende dire?» «Scommetto che ha visto una mia foto su qualche tabloid. Sarebbe l'unico a non averla notata.» «Sono cinque anni che non apro un giornale» confessò Mark. «Veramente?» «Veramente.» Alyson lo guardò con curiosità. Lui restituì lo sguardo e capì che la ragazza aveva bisogno di confidarsi con qualcuno. «Allora, mi dica che cosa mi sono perso in questi cinque anni.» 13 Alyson Secondo flashback Cinque anni prima ALYSON HARRISON ARRESTATA A DUBAI PER POSSESSO DI DROGA AP -11 settembre 2002. La celebre ereditiera è stata arrestata all'aeroporto di Dubai e sarà giudicata la settimana prossima. Ha riconosciuto di avere addosso della cocaina per uso personale, ma ha affermato di non averne mai consumata nel territorio degli Emirati Arabi Uniti. Non è la prima volta che l'esuberante ereditiera fa parlare di sé e, finora, ai suoi piccoli guai con la legge aveva sempre posto rimedio il padre versando qualche migliaio di dollari; ma lo scandalo attuale, scoppiato al di fuori del territorio americano, potrebbe non avere lo stesso epilogo. Non dimentichiamo che Dubai, centro finanziario e turistico importante e in piena espansione, ha una delle leggi sulla droga più severe del mondo. ALYSON CONDANNATA A TRE ANNI DI CARCERE PER IL POSSESSO DI DUE GRAMMI DI COCAINA AP - 18 settembre 2002. Alyson Harrison, figlia del tycoon Richard, è stata condannata stamattina a tre anni di carcere, a Dubai. Il tribunale l'ha riconosciuta colpevole di avere introdotto e detenuto cocaina nel territorio degli Emirati Arabi Uniti. Bloomberg TV. Il potente magnate Richard Harrison, fondatore della catena di supermercati Green Cross, ha preso stamattina l'aereo per Dubai, dove dovrebbe... ULTIMO MINUTO. ALYSON GRAZIATA A DUBAI AP - 19 settembre 2002. Colpo di scena nell'affaire Harrison. Stamattina, poche ore dopo essere stata condannata a una pesante pena carceraria, Alyson Harrison è stata graziata dal governatore di Dubai.
Appena è stata data la notizia della concessione della grazia, la bionda ereditiera ha lasciato gli Emirati Arabi Uniti ed è tornata in America con il jet noleggiato dal padre. «Alyson, mi ascolti?» Sul jet, Richard Harrison è seduto sul sedile di fronte alla figlia. È un uomo di corporatura media, con occhiali da miope, un dolcevita, un paio di pantaloni di velluto e delle grosse scarpe. Da tempo si nasconde dietro un look anonimo, ma nel mondo degli affari è un uomo temibile e temuto. «Che cosa c'è che non va, tesoro?» La giovane donna, che si era rannicchiata sul sedile con il mento appoggiato alle ginocchia, ha un moto di ribellione. «Osi domandarmi che cosa c'è che non va, dopo quello che hai fatto?» «L'ho fatto per il tuo bene» risponde Harrison in tono stanco, «e, credimi, ne avrei fatto volentieri a meno.» «Avrei dovuto sbrogliarmela da sola.» Silenzio. «Indietro non si può tornare» continua Richard dopo un po', «ma tu devi riprendere in mano le redini della tua vita, perché non ci sarò sempre io a toglierti le castagne dal fuoco.» «Me ne frego. Tanto avrò i tuoi soldi.» Pur ferito, il padre non si scompone. «Piantala di drogarti e impegnati in qualcosa, in un progetto che per te abbia un senso. Potresti dirigere la fondazione creata da tua madre.» «Lascia stare la mamma!» «Cerco solo di aiutarti.» «Allora lasciami in pace!» Richard incassa il colpo senza battere ciglio. «Tutta questa aggressività verso te stessa e gli altri, tutta questa volontà di colpire e di essere cattiva... io so che non sei così. So che sei intelligente e sensibile, Alyson. È solo che attraversi un periodo difficile. Se ti ho fatto del male ti chiedo perdono, ma, ti prego, non lasciarti andare ancora, perché altrimenti non riuscirai più a riemergere.» Nessuna risposta. La mia sofferenza è la mia vendetta contro me stesso. Albert Cohen ALYSON SI DISINTOSSICA Online - 4 gennaio 2003. Alyson Harrison, l'ereditiera dell'impero Green Cross, oggi si è recata di sua spontanea volontà alla clinica Coolidge di Malibu per combattere la dipendenza dalla droga e dall'alcol. «La signorina Harrison ha deciso di prendere misure drastiche per tutelare la propria salute e quella della sua famiglia» ha detto il suo avvocato, Jeffrey Wexler, in un comunicato. ALYSON TORNA A BERE! Online - 14 agosto 2003. Alyson Harrison non è potuta salire su un aereo della United Airlines a causa del suo grave stato di ubriachezza. Mentre aspettava il volo per Los Angeles all'aeroporto di Miami, la giovane ha bevuto molti cocktail al bar ed è uscita dal locale barcollando. Il personale della compagnia aerea si è rifiutato di farla salire a bordo. «La signorina Harrison non ha detto niente di offensivo nei nostri confronti» precisa un dipendente della United Airlines. «Era solo ubriaca, come del resto ha riconosciuto lei stessa.» RICHARD HARRISON DONA TRE QUARTI DEL PATRIMONIO A ISTITUTI DI BENEFICENZA Reuters - 28 ottobre 2003. Il tycoon Richard Harrison ha appena annunciato di voler donare dieci miliardi di dollari a diverse istituzioni caritatevoli e umanitarie. La somma, che rappresenta circa i tre quarti del suo patrimonio, sarà distribuita tra diverse
organizzazioni, non ultima la Shania Foundation, che lui stesso fondò vent'anni fa con la prima moglie (deceduta nel 1994) e che oggi è diretta dalla sua attuale consorte, Stephanie Harrison. Febbraio 2004 Una camera da letto dai colori pastello in una nuova clinica per la disintossicazione le cui finestre danno sulle montagne innevate del Montana. Alyson sta facendo la valigia. Richard entra e la guarda con tristezza. «Ho appena parlato con il direttore. Non vuole più saperne di te. Dice che nuoci agli altri ospiti.» «Sono cazzate.» Richard cerca goffamente di aiutarla a piegare un pullover, ma lei glielo strappa di mano. Senza scomporsi, Harrison afferra la sua vecchia borsa di pelle e ne estrae un dépliant plastificato e un biglietto d'aereo. «Senti, mi hanno parlato di una nuova struttura in Svizzera. Non è esattamente una clinica, ma un posto dove potresti riposare...» «Ne ho fin sopra i capelli di tutti questi istituti, papà.» «Torna a casa, allora.» Senza disturbarsi a rispondere, Alyson va in bagno e accende il phon. Richard insiste, alzando la voce per coprire il rumore del phon. «Senti, Alyson» dice, staccando la spina dalla presa per farsi ascoltare. «C'è un nuovo medico che vorrei tu consultassi a New York City: il dottor Connor McCoy, un tipo abbastanza fuori dal coro, che sa il fatto suo. Sta sperimentando dei metodi innovativi e credo possa aiutarti.» «Sai una cosa, papà? Rientrerò a casa da sola, in taxi.» «Leggi almeno il suo saggio» propone lui, allungandole il libro del neuropsichiatra. Siccome la figlia non reagisce, le infila nella valigia Sopravvivere, il volume firmato da Connor McCoy. Aggiunge un biglietto da visita con l'indirizzo del medico, poi prende la sua borsa e si dirige verso la porta. Prima di andarsene, si gira di nuovo verso la figlia. «C'è un'ultima cosa. Preferisco tu la sappia prima da me che dalla stampa.» Alyson esce dal bagno. Capisce istintivamente che è una notizia importante. «Che cosa?» «Morirò presto.» RICHARD HARRISON HA IL MORBO DI ALZHEIMER CNN.com - 15 marzo 2004. Ieri mattina il magnate Richard Harrison, settantuno anni, ha annunciato tramite l'avvocato Jeffrey Wexler, suo portavoce, di essere affetto dal morbo di Alzheimer. «Richard è malato di Alzheimer» ha detto Wexler. «I primi segni si sono manifestati due anni fa. Fatta eccezione per qualche breve episodio, è pienamente consapevole di ciò che gli capita e continua ad alzarsi tutte le mattine per andare al lavoro.» Ricordiamo che questo disturbo neurodegenerativo è tuttora incurabile. Poiché la ricerca non ha ancora compiuto progressi importanti nel settore, tra quarantanni potrebbero essere colpiti dalla malattia quindici milioni di americani, contro i quattro e mezzo di oggi. 2005 Una notte d'autunno a Las Vegas. Irritato, Russel Malone, direttore dell'albergo Oasis, attraversa di corsa l'immensa hall di marmo e vetro e raggiunge gli ascensori, in fondo. Entra in una capsula trasparente che si solleva in aria, dominando dall'alto l'immenso atrio centrale, dove sono stati ricostruiti a grandezza naturale alcuni dei più celebri monumenti romani: la fontana di Trevi, l'arco di Tito e perfino un pezzo di Colosseo. L'ascensore arriva al trentesimo e ultimo piano, quello delle suite più lussuose, e si ferma
un attimo davanti all'appartamento affittato da Alyson Harrison. Diversi clienti hanno messo in allarme la reception, lamentandosi del baccano proveniente dalle stanze della giovane ereditiera. Già nel corridoio rimbomba una musica a tutto volume. Russel riconosce la voce di Kurt Cobain in The Man Who Sold the World, il pezzo di David Bowie che i Nirvana ripresero in occasione del mitico Unplugged in New York, registrato per mtv. Per una frazione di secondo ripensa agli anni di università e ajoana, sua amica di allora, che gli aveva regalato quel disco. Ma il suo ruolo e la sua responsabilità lo riportano presto alla realtà. «Signorina Harrison!» chiama, bussando alla porta. «Va tutto bene?» Poco prima ha provato varie volte a telefonarle nella suite, ma lei non ha mai alzato la cornetta. Siccome neanche adesso ottiene risposta, usa il passe-partout ed entra. «Signorina Harrison!» Ispeziona tutte le camere prima di decidersi ad aprire la porta del bagno. La stanza è satura di vapore. Con una certa apprensione, tira la tenda della doccia e si lascia sfuggire una bestemmia. Nella vasca da bagno c'è il corpo tremante di Alyson Harrison, con profondi tagli ai polsi e alle caviglie. Sul comodino della camera da letto è posato un libro che la giovane donna non si è concessa il tempo di aprire. Sopravvivere, di Connor McCoy. Giugno 2006 Il Nautilus è un albergo costruito sott'acqua, a quindici metri di profondità nel Mar dei Caraibi. È una meta di tendenza riservata a una ristretta cerchia di privilegiati: neoricchi, straricchi, star o pseudostar dello spettacolo e della moda. L'«hotel subacqueo» si distingue per il suo guscio trasparente, che permette a chiunque non soffra di claustrofobia di ammirare i fondali. Nel cuore della notte, due uomini completamente sbronzi escono dalla stanza 33 scambiandosi commenti sulla giovane donna addormentata sul letto. Alyson si sveglia qualche ora dopo, con il mal di testa. Corre a vomitare in bagno, poi si trascina di nuovo a letto e si lascia cadere sul materasso. In terra, una bottiglia vuota di tequila, due preservativi, tracce di cocaina. Piange. Non riesce a ricordarsi che cosa sia successo. Le è capitato spesso di pensare di aver toccato il fondo e che da lì si poteva solo risalire. Ma ogni volta si è rivelata un'illusione. Perché il fondo è molto più profondo di quanto si immagini. Novembre 2006 Un ponte sull'autostrada, nella Los Angeles notturna. Una passerella di cemento che sovrasta un groviglio di strade e superstrade, a qualche chilometro da uno svincolo autostradale. Alyson ha fermato il fuoristrada sulla corsia di emergenza, ha scavalcato la barriera di protezione e guarda il flusso di auto scorrere venti metri più in basso. Ha le mani aggrappate al reticolato e i tacchi alti che tremano sul sottile parapetto di cemento. Non è mai stata così vicina a farla finita. Da troppo tempo è prigioniera della sua vita, delle sue azioni, del suo passato. Da troppo tempo vive nell'angoscia di tutti gli istanti, nel disgusto di se stessa. Inferno è quando non c'è più speranza. Dunque stasera è la fine. Game over. È ora di chiudere la partita. L'urlo delle sirene fende la notte. Prima un'auto, poi due motociclette della polizia le si fermano accanto. Quattro agenti formano rapidi un semicerchio a cinque o sei metri da lei. Appena li vede avvicinarsi, Alyson urla e loro si bloccano. Sono lì, ma non possono fare niente. Se
lei volesse, potrebbe buttarsi in qualunque momento. Prova l'ebbrezza di avere ancora una scelta. «Non lo faccia, signorina!» È il più giovane degli agenti a parlare, un nero di appena vent'anni: ha l'aria fragile di Otis Redding, la sua stessa voce malinconica, i suoi stessi baffi da ragazzo. «A volte crediamo che sia l'unica soluzione, ma non è vero.» La sua voce ha l'accento della sincerità. Si ha quasi l'impressione che conosca per esperienza la disperazione. In effetti ha perso la sorella gemella, cinque anni prima. La ragazzina si è rinchiusa nell'auto di famiglia, ha collegato un tubo di gomma alla marmitta e se lo è infilato in bocca. È stato lui a scoprire il suo corpo aprendo la porta del garage. Nessuno aveva minimamente intuito i suoi propositi. «Ce n'è ancora, signorina» assicura l'agente, avvicinandosi ad Alyson. «Ce n'è ancora, di vita...» L'afferra per un braccio e lei si lascia trascinare via. Oggi Ore 13,00 Sull'aereo Terminato il suo racconto, Alyson abbassò gli occhi, stupefatta e imbarazzata di essersi confidata con un perfetto sconosciuto. Mark l'aveva ascoltata con rara attenzione. Mentre gli parlava, si era sentita protetta, come in una bolla. Erano bastati pochi minuti a Mark per recuperare i suoi automatismi da psicologo, prendere mentalmente appunti e provare a collegare l'esperienza di Alyson con quella di pazienti che aveva seguito in passato. Lui stesso aveva ritrovato un poco di serenità. Entrare in contatto con la gente e invertire il flusso della disperazione: ecco che cosa gli era sempre piaciuto. Arrestare la discesa dei pazienti e aiutarli a risalire lentamente verso la vita. Scoccò un'occhiata intensa alla giovane donna. A quello stadio, poteva farle una sola domanda: «Per quale motivo cerca di punirsi?». Alyson accusò il colpo e abbassò la testa, prova che Mark aveva colto nel segno. Era chiaro che le sue pulsioni autodistruttive avevano un'origine precisa. Lei aprì la bocca e, per un secondo, pensò davvero di confidargli il segreto e alleggerirsi del male che la rodeva da anni. Ma le parole le restarono bloccate in gola. Mark stava per riprendere il dialogo, quando l'aereo cominciò a sobbalzare. Isaac rovesciò il cocktail che stava per servire. Qualcuno gridò e le luci si spensero per qualche istante. «Signore e signori, stiamo attraversando una zona di turbolenza. Siete pregati di tornare ai vostri posti e allacciare le cinture di sicurezza.» Qualche avventore protestò, ma tutti si diressero ai loro sedili. «Bisogna che vada da mia figlia, nel ponte inferiore» spiegò Mark alzandosi dallo sgabello. «Capisco» disse Alyson. Si separarono così, senza aggiungere niente, sguardo dell'altro l'impegno a rivedersi presto.
ma
ognuno
lesse
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14 La ruota della vita La ruota della vita girava così forte che nessuno poteva restare in piedi a lungo. E alla fine tornava sempre al punto di partenza. Stephen King Oggi Ore 13,15 Sull'aereo L'Airbus oscillava violentemente sopra un mare di nubi. Inquieto, Mark tornò di fretta al proprio sedile. Come aveva potuto lasciare sua figlia per più di un'ora? Per un istante fu assalito dal panico. E se avesse trovato il posto di Layla vuoto? Si fece largo a
gomitate. Mentre percorreva il corridoio, sentì la terra mancargli sotto i piedi. E se... Si fermò di colpo a pochi metri dal sedile. Layla non si era mossa. Aveva un pennarello in mano e il viso rivolto verso Evie, cui mostrava con orgoglio i suoi disegni. «Tutto bene?» «Benissimo» rispose Evie, sottolineando il concetto con un cenno di assenso. Mark si protese verso la figlia e guardò i disegni che aveva fatto in sua assenza. «Posso vedere?» chiese accarezzandole la testa. Sempre senza parlare, Layla ritrasse il braccio dal tavolino pieghevole per permettergli di prendere i foglietti. Aveva colorato parecchie pagine di bloc-notes. Nel corso della sua carriera, Mark aveva spesso utilizzato i disegni per aiutare i giovani pazienti a comunicare. Esaminando con attenzione quelli di sua figlia, provò un profondo sollievo: erano disegni dai colori vivi, pieni di farfalle, stelle e fiori. Benché non esercitasse più da anni, pensò che colori così armoniosi non potevano essere opera di una bambina che aveva subito un violento trauma. «Sono bellissimi, tesoro» la lodò. Stava per deporre i fogli sul tavolino, quando fu attratto da una forma geometrica ricorrente che in un primo momento aveva scambiato per un fiore o una stella. Il simbolo rappresentava la ruota della legge. La legge del destino umano, che nessuno può cambiare; la legge del ciclo perpetuo di nascita, morte, rinascita. Aveva visto quel cerchio poco prima, tatuato sul fondo schiena di Alyson. Con i suoi otto raggi che indicavano all'uomo la strada per liberarsi dalla sofferenza, il simbolo lo aveva sempre affascinato. «Perché hai disegnato questa, tesoro?» chiese, guardando Layla negli occhi. «Non lo so.» Mark rimase a bocca aperta per lo stupore. Layla gli aveva risposto! PARLAVA! Aveva capito bene o la mente aveva ricominciato a giocargli strani scherzi? «Stai bene, amore?» le domandò, temendo di non ottenere risposta. «Ho un po' di sonno, ma sto bene» rispose lei. Mark si sentì liberato da un peso, ma non sapeva bene come comportarsi. Avrebbe voluto farle mille domande, ma non voleva metterle pressione. «È grande questo aereo, eh?» disse la bambina sorridendo. «Sì» convenne Mark ricambiando il sorriso, «è il più grande del mondo.» «Va veloce?» «Velocissimo.» «Non si direbbe» osservò lei protendendosi verso Evie per guardare fuori dall'oblò. «Sì» riconobbe Mark. «Abbiamo l'impressione di essere fermi sopra le nubi, invece andiamo a quasi mille chilometri l'ora: l'apparente immobilità è un'illusione ottica.» «Un'illusione ottica?» «Vuol dire che a volte ci lasciamo ingannare dalle apparenze.» «Davvero?» Layla sembrò riflettere per un istante sull'osservazione del padre, poi cambiò argomento. «Posso mangiare un cremino?» «Va bene. Le hostess distribuiranno sicuramente i gelati appena saremo usciti dalla turbolenza.»
«Ne vorrei uno ricoperto di mandorle e cioccolata» disse Layla tutta seria. «Ottima scelta.» «Sono dell'Hàagen Dazs.» «Tu credi?» «Sì: li ho visti nella vetrina quando siamo saliti a bordo. E non era un'illusione ottica.» Gli sorrise, fiera della sua battuta. Mark si sentì rinascere. Stava ritrovando in sua figlia la bambina che aveva conosciuto: allegra, vitale, assennata. Si lasciò di nuovo prendere dalla speranza un po' folle che tutto tornasse come un tempo. Ma prima doveva capire le ragioni dell'improvviso defilarsi di Nicole e soprattutto chiarire le circostanze del sequestro. Sua figlia era ritornata di colpo loquace. Bisognava approfittarne per interrogarla, badando a non urtare la sua sensibilità. «Mi vuoi dire che cosa ti è successo, tesoro?» domandò pacato, protendendosi verso di lei. «Quello che mi è successo quando ero piccola?» Mark annuì. «Ormai non hai più niente da temere. Rivedrai la mamma, la tua casa, la tua camera, la tua scuola. Tutto tornerà a posto, ma prima bisogna che tu mi dica dove sei stata in tutti questi anni e soprattutto con chi.» Layla aprì la bocca come per rispondere a tono, poi ci ripensò e prese tempo. Quando finalmente si decise a parlare, fu per dire: «Devi chiederlo alla mamma». Mark si sentì gelare il sangue. «La mamma sa che cosa ti è successo?» Layla annuì. «No, ti sbagli.» «È la verità» proclamò la bambina, seccata che il padre mettesse in dubbio la sua parola. «Ne sei sicura?» «Sì» fece lei, senza esitare. «Hai visto la mamma in questi cinque anni?» «Certo, l'ho vista spesso.» «Come sarebbe, l'hai vista spesso?» Layla lo guardò con un'espressione dolce negli occhi scintillanti. Con una sola frase chiuse la conversazione: «Adesso vorrei dormire, papà». Mark impiegò qualche secondo prima di assentire. «D'accordo, amore, riposati.» Spinse il bottone per inclinare lo schienale e Layla si stese, chiuse gli occhi e si lasciò cullare dal ronzio dei motori. Mark era sopraffatto. Che credito doveva accordare alle parole della figlia? Nonostante l'apparente serenità, Layla era stata indubbiamente traumatizzata dal rapimento. Il suo discorso conteneva forse un fondo di verità, ma Mark si rifiutava di credere che Nicole potesse anche solo minimamente essere implicata nella vicenda. La bambina si addormentò a pugni chiusi. Mark le accarezzò i capelli, sistemandole una ciocca dietro un orecchio. Layla aveva la sua espressione e i lineamenti di Nicole. Tutti dicevano che aveva «il sorriso della mamma e lo sguardo del papà». Tuttavia Mark sapeva che non era vero. Per il semplice motivo che Layla non era sua figlia biologica. Quando l'aveva conosciuta, dieci anni prima, Nicole era incinta e usciva da una relazione con il direttore d'orchestra francese Daniel Grevin. Grevin, un uomo sui sessanta, colto, brillante, conosciuto e acclamato nel mondo intero, passava da una relazione extraconiugale all'altra, di solito con le musiciste che suonavano sotto la sua direzione. L'avventura con Nicole era durata poche settimane, ed era stata lei a troncare il rapporto.
Nicole aveva deciso di tenere il bambino, ma non aveva nemmeno avvertito Grevin. Il suo incontro con Mark aveva spazzato via ogni ostacolo. Mark aveva amato Layla fin da subito e l'aveva allevata come fosse stata figlia sua. Era stato lui a posare la mano sul ventre di Nicole per sentire la bambina scalciare, ed era stato lui a tenerle la mano al momento del parto. Aveva sentito il primo respiro della neonata, visto i suoi primi passi, ascoltato le sue prime parole. La felicità di essere padre gli aveva fatto dimenticare ben presto che Layla non era geneticamente sua figlia. Lui e Nicole non lo avevano rivelato a nessuno. Era il loro segreto. Il loro amore. La loro figlia. Non ne avevano parlato nemmeno con Connor e con gli inquirenti che avevano indagato sulla loro vita all'epoca in cui la bambina era stata rapita. Grevin era morto di infarto alla fine degli anni Novanta e, col tempo, il segreto si era alleggerito, fino a svanire. Perché è l'amore, non il sangue, che tesse i legami famigliari. Seduta accanto all'oblò, Evie non aveva perso una sola battuta del dialogo tra Mark e la figlia. Capiva che lui era molto provato, e intuiva che qualche anno prima doveva essere stato un tipo diverso. «Ti ringrazio di averla tenuta d'occhio.» «Si figuri.» «Credo che tu meriti qualche spiegazione.» Incuriosita, Evie si girò verso di lui e Mark le raccontò a grandi linee la sua storia dall'epoca in cui Layla era stata rapita a quando, cinque anni dopo, era misteriosamente riapparsa. «Vorrei sapere se mia figlia ti ha detto qualcosa mentre ero al bar. Ti ha parlato?» «Un po'.» «E che cosa ti ha detto?» «In realtà mi ha fatto un'unica domanda.» «Quale?» «Voleva sapere che cos'era successo a mia madre.» Mark la invitò a proseguire. «E che cosa le hai risposto?» 15 Evie Secondo flashback Qualche mese prima Las Vegas, Nevada È quasi mezzanotte. L'ex terreno da campeggio ha ceduto il posto alle prime strutture di un cantiere, ora completamente immerse nell'oscurità. Solo una decina di roulotte sono ancora sparse qua e là. Quella della «famiglia» Harper è illuminata con le candele. Stasera Evie non lavora. Sdraiata sul divano, sfoglia una vecchia rivista ascoltando in sordina la radio. La madre dorme al suo fianco. Accanto a lei, il comodino di compensato è zeppo di medicine. Evie soffoca uno sbadiglio e sta per mettersi a dormire, quando nella stanza risuona lo squillo del suo cellulare, che funziona con carta prepagata e che lei utilizza il meno possibile. «Pronto.» È l'ospedale. Il dottor Craig Davis, direttore dei trapianti epatici, le dà la buona notizia che c'è un fegato disponibile e la invita a ricoverare subito sua madre. Evie corre al capezzale della madre. «Mamma! Svegliati, mamma!» Teresa si alza a fatica. In poche parole, la figlia le spiega la situazione e la aiuta a prepararsi. Meno di cinque minuti dopo, le due donne sono davanti alla roulotte dei loro vicini. «Siamo noi, Carmina. Abbiamo bisogno della tua macchina. È urgente.»
Dopo un'attesa interminabile, la porta finalmente si apre, ma invece della loro amica si affaccia il marito, Rodrigo, che le accoglie con una raffica di insulti. « i Que cono pasa ? Està gente siempre jodiéndome ( Cosa volete ancora? Non avete ancora finito di scocciarci?).» Evie non si lascia impressionare e risponde per le rime al messicano: nel campo del turpiloquio non ha rivali, nemmeno in spagnolo! Dopo lo scambio di cortesie, Rodrigo cerca di rimediare accompagnandole in macchina. Così partono tutti e quattro a bordo della vecchia Pontiac Firebird del 1969. L'auto procede zigzagando e per dieci volte rischia di sfondare un marciapiedi o un guardrail. Dieci sono anche le birre che Rodrigo ha bevuto prima di mettersi al volante. Per fortuna, arrivano sani e salvi al parcheggio dell'ospedale. Ci sono sere, come questa, in cui la fortuna è dalla nostra parte. Purché duri. Quando Evie e Teresa entrano nell'atrio, il dottor Craig Davis le accoglie di persona all'accettazione. «Bisogna fare presto» annuncia, accompagnandole all'ascensore. Il centro biomedico che gestisce l'assegnazione degli organi ha telefonato all'ospedale solo a tarda sera. In pratica tutto è iniziato a metà pomeriggio, quando una coppia ha avuto un incidente motociclistico sulla strada di Apple Valley. I due portavano il casco e non andavano a forte velocità. L'uomo ne è uscito senza un graffio, mentre la moglie ha riportato un trauma cranico. L'ambulanza l'ha portata all'ospedale di San Bernardino, dove l'hanno ricoverata in rianimazione e hanno fatto di tutto per salvarla; ma era troppo tardi. I medici hanno annunciato subito che l'encefalogramma era piatto, ma non è stato facile convincere la famiglia a donare gli organi. Si vuole sempre credere al miracolo. Un dottore dell'ospedale ha cercato di spiegare al marito che in un caso del genere tutte le funzioni cerebrali sono distrutte per sempre, e l'altro ha ascoltato senza capire davvero. Stringeva la mano della moglie. La donna respirava artificialmente, ma respirava. Aveva la pelle calda e il suo cuore continuava a battere. Ma quella era solo un'illusione di vita. Il marito ha ceduto verso le nove di sera, quando ha capito che il solo modo di prolungare l'esistenza della moglie poteva essere quello di permetterle di vivere attraverso gli altri. Le équipe mediche hanno immediatamente prelevato cuore, polmoni, pancreas e li hanno inviati a destinazioni diverse: Los Angeles, San Diego, Santa Barbara. Il fegato è stato invece riposto in un contenitore refrigerato d'acciaio che è partito immediatamente in elicottero per Las Vegas. Teresa, la prima della lista d'attesa, aspettava quel fegato da ventiquattro mesi. La penuria di organi e il suo gruppo sanguigno avevano enormemente allungato i tempi. Ancora uno o due mesi e la malattia l'avrebbe uccisa. «Si è appena liberata una sala» spiega Craig Davis. «La possiamo operare tra un'ora, il tempo necessario a fare il bilancio preoperatorio.» «Vorrei tanto che mia figlia mi accompagnasse» dice Teresa. «Sua figlia può restare con lei finché non la porteremo in sala operatoria» acconsente il medico, conducendo la paziente in una camera singola. Un'infermiera preleva il sangue di Teresa, l'anestesista le parla e la rassicura: «Si sentirà come nuova». La sottopongono alla doccia preoperatoria al Betadine, e infine la lasciano ad aspettare. Per qualche minuto Evie rimane con la testa tra le nuvole. La paura angosciosa di perdere sua madre, che le rodeva l'anima da anni, a poco a poco prende il volo. Stasera vuole credere che tutto andrà bene. Ha sempre avuto fiducia nel trapianto. Da mesi segue i dibattiti e guarda i siti web per approfondire le sue conoscenze riguardo l'intervento. Certo, il trapianto non farà sparire miracolosamente l'epatite ed esiste
il rischio che il virus infetti il nuovo organo, ma le statistiche dicono che la percentuale di sopravvivenza a lungo termine è molto elevata. Nelle ultime settimane, Evie si è recata più volte nella piccola cappella di Riverside. In segreto. Per la prima volta in tanti anni, ha pregato. Che altro fare quando non c'è più scampo? Da piccola aveva trovato conforto nell'idea che un angelo custode vegliasse su di lei. Poi, crescendo, non aveva più creduto a niente: né agli angeli, né a Dio, né al karma. Da qualche tempo è tornata a porsi molte domande. Spesso ha l'impressione che una strana fatalità le stia incollata addosso, quasi che il suo passato e il suo avvenire siano già scritti nel grande libro del destino. È già passata un'ora dalla visita dell'anestesista. Poi un'ora e un quarto. Perché si va così per le lunghe? Evie ricomincia a tormentarsi. Il sollievo è durato poco. Quando finalmente il dottor Davis torna nella stanza, si capisce al volo che le notizie non sono buone. «Abbiamo i risultati delle sue analisi, Teresa» dice il medico con aria preoccupata. Costernata, Evie lo guarda agitare un foglio di carta davanti agli occhi di sua madre. «Ha bevuto alcol poco tempo fa» ringhia il dottore. «Eppure sapeva che in questo modo avrebbe invalidato il protocollo!» Per qualche istante la frase rimane sospesa nell'aria. Abbattuta, Evie si gira verso la madre. «Non ho bevuto, dottore!» giura stupefatta Teresa. «Abbiamo effettuato le analisi su due distinti campioni e ogni volta il risultato è stato positivo. Non ha rispettato l'accordo, Teresa: almeno sei mesi di rigorosa astinenza dall'alcol prima del trapianto. Si era impegnata.» «Non ho affatto bevuto» continua a difendersi lei. Ma Craig Davis non l'ascolta. «Chiami la prossima persona della lista» dice all'infermiera. «Non possiamo permetterci di sprecare l'organo.» «Non sono una bugiarda» proclama Teresa. Stavolta non si rivolge più al medico, ma a Evie. È sua figlia che cerca di convincere. Sa che la battaglia con Davis è persa in partenza. D'altronde la storia del trapianto non l'aveva mai persuasa. Sente che morirà presto, ma non vuole perdere la fiducia della figlia. «Ti giuro che non ho bevuto, tesoro» dice, alzandosi dal letto. Stizzita, Evie fa due passi indietro. «Questa frase me la sono sentita ripetere un centinaio di volte da quando avevo tre anni, mamma.» «Hai ragione, ma stavolta...» «Non ti credo più.» «Stavolta è vero.» «Perché hai rovinato tutto?» chiede Evie, in lacrime. «Tesoro...» mormora Teresa, tendendole la mano. Evie la respinge con violenza. «TI ODIO!» urla. E scappa via. Oggi Ore 13,45 Sull'aereo «TI ODIO!» terminò il racconto Evie. «Ecco le ultime parole che ho rivolto a mia madre.» «Non l'hai più rivista?» chiese Mark. «No. Mai più.»
Mark restò in silenzio per qualche istante. Dopo una breve tregua, l'aereo entrò di nuovo in una zona di turbolenze. Scosso da forze invisibili, il colosso dell'aria pareva avere preso freddo e battere i denti. «E dopo il mancato trapianto, che cosa è successo?» domandò Mark. «Dopo, lei è morta.» 16 Evie Terzo flashback Las Vegas, Nevada Il cimitero di Mountain View è sferzato dalla pioggia e dal vento. Hanno appena seppellito Teresa Harper. Il prete se n'è andato da tempo e il luogo è pressoché deserto. Solo Evie e Carmina sono raccolte in silenzio davanti alla fossa. Un lampo riga il cielo, subito seguito dal tuono. «Ti aspetto in macchina» dice Carmina mentre la violenza della pioggia raddoppia. Rimasta sola, Evie si inginocchia davanti alla tomba e si asciuga le lacrime di rabbia che le colano lungo le guance incavate. Non ha più rivisto la madre dopo la lite in ospedale, due mesi prima. Si sapeva che, senza il trapianto, Teresa sarebbe sopravvissuta solo qualche settimana. Certo, sono stati il cancro, l'alcol e la droga a ucciderla; ma Evie in quel momento si sente come se l'avesse ammazzata con le sue mani. Quando si decide finalmente a tornare al parcheggio, ha i vestiti fradici, batte i denti e trema dalla testa ai piedi. Al riparo di un ombrello, una donna la guarda avvicinarsi. Ha osservato da lontano la cerimonia. Indossa un impermeabile grigio e un tailleur, è pallida, fragile, ma bella. Apre il portabagagli di una berlina color antracite e tira fuori un asciugamano di spugna che porge a Evie quando questa le passa accanto. «Asciugati, altrimenti ti prendi una polmonite» le dice con un leggero accento italiano. Stupita, la ragazza accetta la salvietta e la protezione del grande ombrello. Tamponandosi il viso con l'asciugamano, scruta attentamente la donna e conclude che è troppo elegante per essere un'amica di sua madre. «Mi chiamo Meredith DeLeon» spiega la donna. Sembra esitare un attimo, poi aggiunge: «Sono stata io a uccidere tua madre». «Un anno fa mi diagnosticarono un cancro al fegato» comincia a raccontare. Le due donne sono sedute l'una di fronte all'altra, con due tazze di tè bollente davanti, all'Heaven Café, un bar sulla strada che conduce al cimitero. «La malattia era già in stadio avanzato e fu subito chiaro che solo un trapianto avrebbe potuto salvarmi. Purtroppo ho il gruppo sanguigno 0, per il quale la lista d'attesa è più lunga.» «Lo stesso di mia madre» dice Evie. Meredith annuisce e continua il racconto. «Due mesi fa ci ha telefonato il dottor Craig Davis, che io e mio marito Paul avevamo visto diverse volte. Ci ha spiegato che forse era disponibile un fegato compatibile, ma che c'era un problema.» «Un problema?» «Il problema era tua madre: era davanti a me nella lista d'attesa.» Evie sente un brivido gelido lungo la schiena, anche se la sua mente si rifiuta ancora di guardare in faccia l'orrore. «Craig Davis ci ha fatto capire chiaramente che se avessimo fatto uno sforzo finanziario, si sarebbe adoperato per togliere tua madre dalla lista dei candidati al trapianto.» Impietrita, Evie finalmente capisce: hanno manipolato le analisi del sangue della madre per far credere che avesse ripreso a bere. «NON SONO UNA BUGIARDA.»
« TI GIURO CHE NON HO BEVUTO, TESORO.» Sua madre diceva la verità e lei non le ha creduto nemmeno per un istante. Anche Meredith è stravolta, ma ha deciso di continuare la sua via crucis fino alla fine. «All'inizio ho rifiutato. Ma avevo aspettato così a lungo e gli organi erano così rari che... ho finito per accettare. Ero sempre costretta a letto e paralizzata dai dolori, già più morta che viva. Paul guadagna bene e, dopo qualche mercanteggiamento, si è accordato con Davis sulla somma di duecentomila dollari, ma fino alla fine mi ha lasciato libera di decidere ed è una scelta che non auguro a nessuno.» Per un istante la donna si perde nei suoi pensieri, come se stesse rivivendo quei penosi momenti. «Vorrei dirti che l'ho fatto per i miei figli, ma non sarebbe la verità. L'ho fatto perché avevo paura di morire: tutto qui.» Si è espressa con franchezza. Quella confessione desiderava farla fin da quando si è sottoposta all'operazione. «La vita ci mette a volte in situazioni dalle quali non possiamo uscire se non rinunciando ai nostri valori più preziosi» osserva, come fra sé. Evie chiude gli occhi. Meredith riprende la parola un'ultima volta. «Se vuoi andare alla polizia, ripeterò esattamente quello che ti ho detto e mi prenderò le mie responsabilità. Sta a te scegliere, adesso.» Si alza dal tavolo e, prima di uscire dal bar, dice: «Fa' quello che ritieni giusto». La vecchia Pontiac di Carmina si ferma davanti alla stazione delle corriere. Evie, che è scesa dalla macchina, sbatte la portiera e prende dal bagagliaio una valigetta e uno zaino. Il pullman Greyhound con destinazione New York non tarderà a partire. Vendendo le poche cose di sua madre, ha ricavato appena duecento dollari, che ha speso in un biglietto di sola andata per Manhattan. È là che lavora adesso Craig Davis. Lo ha cercato in un primo tempo a Las Vegas, ma poco dopo l'operazione il medico aveva lasciato il Nevada per la East Coast. «Sei sicura di voler partire?» le domanda Carmina. «Sì.» Per tutta la vita quella grassa messicana ha diffidato dei sentimenti. Alleva i suoi figli in modo spartano e si è costruita a poco a poco una corazza che la fa apparire impassibile in ogni circostanza. «Abbi cura di te» dice, dando a Evie un buffetto sulla guancia: per lei un grande segno di affetto. «Okay» risponde Evie salendo sul pullman. Le due donne sanno che non si rivedranno mai più. Carmina le porge le valigie e la saluta con un cenno della mano. Evie scoprirà solo più tardi i trecento dollari che l'amica le ha infilato nello zaino. Alla fine il pullman parte. Evie appoggia la testa al finestrino. È la prima volta che lascia Las Vegas. Tra qualche ora sarà a New York. E farà quello che è giusto. Ucciderà Craig Davis.
17 Losing my religion A volte il futuro abita in noi senza che lo sappiamo e le nostre parole, credendo di mentire, delineano una realtà prossima. Marcel Proust Oggi Ore 14,00 Sull'aereo «E dopo che cosa è successo?»
Evie si riscosse dallo stato di trance in cui era piombata raccontando la sua storia. «Che cosa è successo a New York?» domandò Mark. «Hai trovato l'assassino di tua madre?» «Io...» La ragazza s'interruppe. Stupita di essersi lasciata andare a una simile confessione, esitò ad aprirsi di più. Conosceva quell'uomo solo da poche ore. Come aveva potuto raccontargli i suoi segreti più intimi, lei che, di solito, non si confidava con nessuno? Con il suo sguardo, la sua presenza e la sua capacità di ascoltare, sembrava che Hathaway provasse per lei un'empatia che ora la turbava molto. Sentendosi in pericolo, Evie trovò una scusa per sottrarsi alla sua influenza. «Devo andare alla toilette» disse. Mark comprese che molto probabilmente aveva «perso il contatto» con lei. Si alzò dal sedile per farla passare e la guardò allontanarsi. La storia della ragazzina lo aveva colpito, riportandolo brutalmente alla propria infanzia. Scoccò un'occhiata a sua figlia, che, cullata dal respiro dei quattro motori, dormiva con i pugni chiusi e la testa rivolta verso l'oblò. L'aereo adesso era di nuovo stabile. Una spia verde, accendendosi, segnalò ai passeggeri che potevano usare il cellulare. Un relè GSM incorporato nella carlinga permetteva di fare e ricevere telefonate. Mark si stupì di vedere metà dei passeggeri correre a prendere il cellulare e comporre freneticamente il numero della loro segreteria. Trasse un sospiro profondo. In due anni, la cultura delle comunicazioni aveva indubbiamente raggiunto un nuovo stadio. Presto la gente si sarebbe fatta impiantare un auricolare permanente per continuare a telefonare nel sonno, sotto la doccia, o durante i rapporti sessuali. Non si era mai comunicato così tanto e ascoltato così poco. Imprecando contro la propria epoca, si ricordò di avere portato con sé il telefonino di Nicole e, siccome l'essere umano è un paradosso vivente, lo tirò fuori dalla giacca e fece proprio quello che pochi secondi prima aveva rimproverato agli altri. Il cellulare non conteneva messaggi, ma parecchie «chiamate senza risposta», tutte provenienti dallo stesso numero, che Mark non riconosceva. Da quando era partito, aveva tentato varie volte di chiamare sua moglie a New York, ma senza successo. A quanto pareva, Nicole non era tornata a casa e Mark non aveva idea di dove si trovasse. Provò tuttavia a chiamare il numero che appariva sul display. Uno squillo, due squilli. Poi scattò la segreteria telefonica. «Buongiorno, questa è la segreteria del numero...» Il messaggio si interruppe bruscamente. «Sei tu, Mark?» Riconobbe subito la voce della moglie. «Sì, sono io, Nicole.» «Come stai?» «Ma dove sei? Ero in ansia...» «Per... per un pezzo non potrò parlarti, amore.» Mark colse una profonda angoscia nella sua voce e, benché arrabbiato, ebbe subito l'istinto di rassicurarla sulle condizioni della bambina. «Sono accanto a Layla. Sta bene. E mi ha parlato.» Sentendosi nominare, la bambina si svegliò e si stropicciò gli occhi, sbadigliando. «Vuoi salutare la mamma?» chiese Mark porgendole il cellulare. «No» rispose lei. Mark insistette. «Dille almeno due parole, tesoro. Le farà piacere.» «NO!» ripetè decisa la bambina, respingendo il telefono.
Esterrefatto, Mark rimase a bocca aperta, finché non sentì Nicole dire: «Senti, ora devo riattaccare». Ma lui non era d'accordo. «Aspetta. Perché Layla non ti vuole parlare?» «Io so che cosa le è successo» confessò Nicole. Quelle parole suonarono a Mark come un'esplosione. «Ma che cosa stai dicendo?» le domandò con voce strozzata. In preda a un misto di furore e disperazione, serrò i pugni. «Sapevi che era viva?» «Mi dispiace tanto» si scusò lei. «Ma che succede? Mi vuoi dire la verità una buona volta?» «Non serbarmi rancore.» «Per poco non sono morto di dolore!» esplose lui. «In tutti questi anni mi hai visto precipitare nel gorgo e mi hai guardato andare alla deriva. E sapevi che Layla era viva?» «Non è come credi, Mark. Io...» «BASTA COSÌ» la interruppe una voce maschile sullo sfondo. «Chi ha parlato?» domandò Mark. «È complicato. Io...» «RIATTACCA, NICOLE!» ordinò la voce. «Chi c'è lì con te?» gridò Mark. «Non è come credi» disse Nicole. «RIATTACCA O ROVINERAI TUTTO!» «Ti amo» aggiunse semplicemente lei. Fine. Immobile, con lo sguardo perso nel vuoto, Mark stentava a riprendersi. Passarono dieci minuti. Provò varie volte a richiamare, ma cadeva sempre la linea. Sua moglie gli aveva mentito: una menzogna spaventosa, peggiore di un tradimento, peggiore di qualunque cosa. Per la prima volta gli si insinuò nella mente un dubbio terribile: conosceva davvero la donna che aveva sposato? Da due giorni stava accumulando domande senza risposte. Prima il giornalista che aveva scacciato in malo modo all'aeroporto, poi sua figlia, erano sembrati metterlo in guardia contro Nicole, ma lui non aveva colto questi avvertimenti. Ora non sapeva che fare. Sentiva uno sconvolgimento che gli paralizzava la mente, il cuore e il corpo intero. E pensare che fino a quarantott'ore prima viveva in strada, vagando stralunato e sempre sbronzo per i sotterranei della città. Preso dall'euforia di aver ritrovato Layla, aveva avuto la pretesa di emergere dall'abisso dell'alcolismo da solo. Lì per lì era riuscito a riprendere il controllo e a contenere gli effetti del delirium tremens, ma, ancora una volta, il mondo gli era crollato addosso e la sua fragile vittoria non aveva resistito al nuovo colpo del destino. Smarrito, si guardò le mani, che avevano ripreso a tremare. Sudava, respirava a fatica e aveva bisogno di muoversi. Sua figlia si era riaddormentata, aveva il respiro regolare e il viso illuminato dalla luce del sole. Quella scena bastò a calmarlo. Comprese allora che lei sola avrebbe potuto salvarlo. Aveva bisogno di lei come lei aveva bisogno di lui. Finché fosse rimasto con Layla, l'avrebbe protetta e Layla avrebbe fatto altrettanto con lui. China sulla tazza del gabinetto, Evie vomitava la misera colazione che aveva consumato qualche ora prima. Fin dalla mattina aveva provato una fastidiosa nausea che durante il viaggio era gradualmente aumentata. D'altronde negli ultimi tempi i disturbi fisici si erano moltiplicati: vertigini, mal di testa, ronzio alle orecchie. Si rialzò, si pulì la bocca e si rinfrescò il viso. Nello specchio vide una faccia spaventosa. Aveva un tremendo cerchio alla testa e il sangue le pulsava nelle tempie. L'atmosfera angusta e soffocante della toilette le faceva venire la claustrofobia. Doveva uscire subito di lì, altrimenti sarebbe svenuta. Nella sua testa, decine di immagini si scontrarono in
una frazione di secondo: ricordi, paure, qualche attimo di gioia subito svanito. Per un istante le parve addirittura di udire un mormorio. Stava per uscire, quando sentì sulla spalla un prurito che la costrinse a grattarsi attraverso la T-shirt. Invece di darle sollievo, il prurito si intensificò, trasformandosi in dolore. Continuò a grattarsi a sangue. Quando si sollevò la manica, si accorse di avere un segno viola dietro la spalla sinistra. Allora voltò la schiena verso lo specchio e vide che sulla pelle le era apparso un tatuaggio: 18 Sopravvivere I ricordi esistono, ma qualcuno li ha elettrificati e li ha collegati alle nostre ciglia: per questo crediamo che gli occhi ci brucino. Mathias Malzieu Oggi Ore 14,15 Sull'aereo A oltre dodicimila metri di quota, l'Airbus proseguiva sulla sua rotta per New York, sorvolando le pianure come un gigantesco uccello. Evie chiuse la porta della toilette, terrorizzata. Chi le aveva tatuato a sua insaputa sulla spalla quella merda di simbolo stranamente simile ai disegni della bambina seduta al suo fianco? Percorse con gambe malferme il corridoio, aprendosi a fatica un varco tra le hostess che distribuivano il pranzo e i passeggeri che si sgranchivano le gambe per scongiurare il pericolo della flebite o dell'embolia polmonare, le nuove «sindromi da classe economica» di cui i media parlavano in continuazione. Arrivata alla sua fila, si sedette stando attenta a non svegliare Layla. Ringraziò Mark per avere avuto la gentilezza di prendere il vassoio del pranzo anche per lei. «Qualcosa non va?» domandò lui notando il suo viso stravolto. «No, sono solo stanca» rispose Evie sapendo benissimo di apparire poco credibile. «Se posso fare qualcosa...» «Mi passa lo zaino, per favore?» Mark afferrò lo zaino che aveva fatto scivolare sotto il sedile. Quando lo sollevò, dalla cerniera lampo, che era rimasta mezza aperta, spuntò fuori un libro che cadde sul pavimento. Mark si chinò a raccoglierlo. Era un volume brossurato con la copertina logora e le pagine piene di orecchie. Evidentemente era stato letto e riletto. Sopravvivere, di Connor McCoy Qualche anno prima Connor aveva scritto quel saggio per esorcizzare i demoni del suo passato. Era un'opera eclettica, che coniugava il saggio di psicologia con le memorie d'infanzia. Basandosi sulla propria esperienza e sulle sedute terapeutiche più efficaci che avesse condotto, Connor dava ai lettori delle dritte per guarire dalle proprie paure, capire le proprie angosce e resistere alla sofferenza. Pubblicato da un piccolo editore, quasi in sordina, il libro si era affermato grazie al passaparola, conquistando un gran numero di estimatori. Mark lo restituì a Evie. Nella foto della quarta di copertina, Connor aveva quel curioso sorriso malinconico che Mark conosceva fin troppo bene. Erano stati così intimi. Prima della sua discesa agli inferi, avevano condiviso tutto. Perché non gli aveva telefonato per comunicargli che Layla era stata ritrovata? Come mai non gli era nemmeno venuto in mente? «È il mio libro preferito» spiegò Evie. «Lei lo conosce?» «Lo ha scritto il mio migliore amico.» «Il suo migliore amico? Lei è quel Mark di cui McCoy parla spesso?» «Sì. Vivevamo nello stesso quartiere, a Chicago, e siamo stati compagni di scuola.»
«Lo so.» «Perché dici che è il tuo libro preferito?» «Perché mi ha aiutato. È strano a dirsi, ma a volte ho l'impressione che sia stato scritto per me.» «È senza dubbio il più bel complimento che si possa fare a un autore.» «Ma mi sono sempre domandata...» «Che cosa?» «Quello che McCoy racconta nel suo saggio, è vero?» «È tutto vero» confermò Mark. Rimase un attimo in silenzio, poi aggiunse: «Ma non è tutta la verità». Evie aggrottò la fronte. «Che cosa intende dire?» «Ci sono due cose importanti che Connor non ha potuto raccontare.» «Perché?» Mark la guardò negli occhi. A volte era capace di giudicare una persona in una frazione di secondo, o per lo meno di capire se poteva fidarsene. È dei nostri, lo rassicurò una voce interiore. «Perché non ha potuto raccontare tutto?» insistette Evie. «Per non finire in prigione» rispose Mark. 19 Mark & Connor Primo flashback Novembre 1982 Periferia di Chicago Mark e Connor hanno dieci anni Il quartiere di Greenwood, nel South Side di Chicago, è un concentrato di miseria e violenza. Chilometri e chilometri di squallidi marciapiedi dissestati e terreni abbandonati usati come discariche. I negozi sono rari: qualche alimentari protetto da saracinesche di ferro, un supermercato, una banca, nessun ospedale. Solo i venditori di alcolici prosperano. È una Baghdad bombardata nel cuore dell'America. Quasi tutti sono neri, a Greenwood. E quasi tutti sono poveri. Da molto tempo, ormai, l'unica speranza di salvezza è la fuga da questo posto dove si può solo marcire. Il piccolo Mark Hathaway abita con il padre, che è custode di una scuola pubblica del ghetto. Quando chiede: «Perché la mamma ci ha lasciato?», suo padre risponde: «Perché non era felice». No, non era felice in quella scuola attrezzata come una fortezza. In effetti l'edificio somiglia a una base militare: le finestre sono murate, le porte sono blindate e i metal detector scattano tutte le mattine per le pistole e i coltelli a serramanico. La violenza delle gang è diffusa dappertutto. Per mantenere l'ordine sono state organizzate squadre di genitori o poliziotti in pensione, ma non è servito a niente. Molti bambini arrivano a scuola terrorizzati. La maggior parte ha già assistito a sparatorie o omicidi e soffre di disturbi nervosi post-traumatici. Sono le sette di una gelida sera autunnale. La scuola è deserta. In un'aula dell'ultimo piano si è appena accesa la luce. Mark, dieci anni, si avvicina alla piccola libreria a parete in fondo alla stanza. Per la verità, «libreria» è un termine poco adatto a definire lo scaffale di compensato su cui sono posate alcune decine di romanzi in edizione economica. Ogni sera, quando il padre comincia a bere, Mark va a finire i compiti in quella stanza dove può starsene tranquillo. Suo padre è alcolizzato, ma non violento. Dopo tre o quattro Budweiser, si limita a insultare Reagan, il Congresso, l'amministrazione comunale, i neri, gli orientali, i latinoamericani, la sua ex moglie e, alla fin fine, l'intera società, responsabile della sua miseria e della sua infelicità.
Mark sfiora a uno a uno i romanzi allineati sullo scaffale finché non arriva a quello che cerca: Il buio oltre la siepe, di Harper Lee. Ne ha già lette duecento pagine, ma gli piace così tanto che si impone di leggerne solo un capitolo a sera per prolungare il piacere. È la storia di un avvocato che alleva da solo i suoi due figli in una cittadina dell'Alabama negli anni Trenta, all'epoca della Grande depressione. La vita scorre tranquilla fino al giorno in cui è nominato d'ufficio difensore di un nero che è stato ingiustamente accusato di violenza sessuale. Nonostante l'intolleranza e i pregiudizi dei concittadini, tenterà di far trionfare la verità. Mark si siede a un banco, tira fuori da un sacchetto di carta un panino al burro di arachidi e si immerge nella lettura. Il libro è un vero e proprio balsamo per il suo cuore, perché gli dà motivo di sperare che, a volte, l'intelligenza e l'integrità trionfino sulla violenza e la stupidità. L'intelligenza... Da qualche tempo ha capito che non gli manca, anche se i suoi voti scolastici sono appena nella media. Bisogna dire che nella sua classe non sono molto amati gli allievi bravi, ai quali gli altri spaccano regolarmente la faccia durante la ricreazione. Così Mark ha deciso di nascondere le proprie capacità, far fìnta di seguire il branco e coltivare i suoi interessi per conto proprio. All'improvviso, nel silenzio dell'aula, sente un rumore sordo. Alza la testa preoccupato. Che sia una conduttura? O un topo? Il rumore si ripete. Proviene dal ripostiglio in cui il professore tiene il materiale da disegno. Combattuto tra la paura e la curiosità, Mark esita qualche istante prima di aprire la porta scorrevole e scoprire un ragazzo della sua età rannicchiato in fondo al ripostiglio. Diffidente, il ragazzo esce dal rifugio e si precipita all'uscita. La paura regna sovrana in quella scuola e spesso si è costretti ad ascoltarla prima ancora di parlare. Tuttavia, arrivato quasi alla porta, l'intruso si gira e per un istante i due bambini si guardano con stupore. «Che cosa ci facevi lì?» domanda Mark. Anche se non gli ha mai parlato, lo conosce di vista: è un alunno strano e solitario, con un'aria da extraterrestre. Si chiama Connor. «Dormivo» risponde l'altro. È una versione aggiornata di Huckleberry Finn: magro, con i capelli incolti e i vestiti troppo piccoli. Quando l'altro sta per lasciare la stanza, Mark gli chiede: «Hai fame?». Ha già quell'intuito che gli fa indovinare le esigenze degli altri. «Un po'» ammette Connor, fermandosi. In realtà è dalla mattina che non mette qualcosa sotto i denti. L'ultima delle famiglie a cui è stato dato in affido gli rende la vita dura: gli infliggono continue umiliazioni e privazioni, per «insegnargli la vita». Solo che Connor la vita la conosce già. Abbandonato dai genitori alla nascita, sballottato di famiglia in famiglia, ha vissuto di tutto e subito. Ma le mortificazioni gli scorrono addosso senza toccarlo. Per difendersi, ha preso l'abitudine di rifugiarsi in un mondo interiore di cui è il solo ad avere la chiave. «Tieni» dice Mark, porgendogli metà del suo panino. Sconcertato, Connor esita un attimo. Non ha mai potuto contare che su se stesso, e non sa nemmeno cosa sia un gesto d'affetto. Ma guarda Mark negli occhi e allora succede qualcosa: scatta in lui una muta riconoscenza, la promessa di un'amicizia. Prende metà panino e si siede contro il muro al suo fianco. Nello spazio di un istante, sono ridiventati bambini come gli altri. 1982, 1983, 1984... Per la vita e per la morte... Mark e Connor si ritrovano ormai ogni sera in quell'aula. Fuori ci sono caos, droga, auto in fiamme, gang che si sparano e pistole che passano da una mano all'altra. Loro si sono creati una piccola oasi di pace in cui
non provano la paura che rode l'anima. Con il passare delle settimane e dei mesi, imparano a conoscersi e a fidarsi l'uno dell'altro. Mark è intuitivo, perseverante ed empatico, ma è anche il più fragile e il più influenzabile. Connor è calmo e riflessivo, ma anche introverso e tormentato da un desiderio di assoluto. Hanno deciso di restare uniti nelle avversità. Fanno i compiti, leggono, ascoltano musica, parlano e ridono insieme. Per la prima volta da quando sono nati, scoprono che la vita non è solo sofferenza e solitudine. Per la prima volta da quando sono nati, capiscono che le relazioni umane non si basano solo su rapporti di forza. Ora, qualunque cosa succeda, sanno di poter contare l'uno sull'altro. Insieme non si lasceranno mai annientare. Febbraio 1984 Sono le sei del mattino a Chicago e il cielo si sta già tingendo d'azzurro. Come spesso accade, è il freddo a svegliare Connor. Dorme in sala da pranzo, senza lenzuola, su un materasso buttato per terra. Si alza, va in cucina, si lava la faccia nel lavandino e lascia l'appartamento prima che gli altri si sveglino. La città è fredda come cristallo. Per andare a scuola dovrebbe prendere la metropolitana soprelevata, ma hanno chiuso la stazione nella speranza di arginare la criminalità. È una delle caratteristiche di Greenwood, dove i mezzi pubblici non circolano più a meno che non siano scortati dalla polizia. Così Connor percorre le strade a piedi, raccogliendo lungo il tragitto delle lattine di alluminio vuote che rivende poi per qualche spicciolo. La sera, con altri coetanei, gironzola a volte intorno alle stazioni di servizio del South Side, offrendosi di versare la benzina nel serbatoio dei clienti, lucidare le auto o lavare i parabrezza in cambio di qualche dollaro. Col tempo ha imparato a capire come funziona il quartiere, a familiarizzare con la sua violenza, la sua ingiustizia e le sue regole segrete. Ma conoscere non vuol dire accettare. Quando arriva sulla 61a Strada, il sole si è appena levato e illumina Hyde Park. È un posto strano. È sempre ghetto, ma è vicino alla prestigiosa università di Chicago, con i suoi trentamila dollari di tasse annue e i suoi allievi di buona famiglia. Il Terzo Mondo e il «tempio del sapere», separati solo da poche centinaia di metri. Ogni volta che attraversa quella strada, Connor guarda, a ovest, verso il campus. Perché la vita è così diversa ai due lati della barriera? Perché è così ovattata per alcuni e così dura per altri? C'è un senso in tutto questo? C'è una logica, o un Dio che ci mette alla prova? Connor non ne ha la più pallida idea. L'unica certezza è che un giorno lui ce la farà, un giorno lui passerà «dall'altra parte». Un giorno, con Mark, lascerà il quartiere. Ma per andare dove? E per fare cosa? È ancora tutto confuso, ma, nella sua testa, affiora già un accenno di risposta: aiutare le persone come lui. Agosto 1986 Mark e Connor hanno quattordici anni «Venti pari!» Su un campo di cemento, con il petto lucido di sudore, Mark e Connor stanno giocando a basket uno contro uno. L'enorme stereo portatile gracchia Living in America, l'ultimo successo di James Brown. Connor tenta un tiro forzato fuori equilibrio. La palla gira un paio di volte sul cerchio metallico, rimane un istante in bilico, come indecisa, e poi esce. Mark fa suo il rimbalzo, schiaccia il canestro della vittoria e festeggia con una danza sioux. «Ti ho lasciato vincere» fa Connor.
«Ma va'! Non hai visto che schiacciata alla Magic Johnson?» ribatte l'amico. Esausti, i due ragazzi siedono fianco a fianco contro il reticolato e bevono una bottiglia di Coca-Cola calda e sgasata. Restano un attimo in silenzio, poi si mettono a parlare del loro argomento preferito: come lasciare il ghetto. Da qualche tempo è diventata la loro ossessione. Nel South Side non c'è futuro, non ci sono prospettive: l'unica ambizione realistica è la fuga. Mark e Connor sognano di vincere una borsa di studio per entrare in un college del centro. Hanno buoni voti, che però non bastano a compensare la cattiva reputazione della loro scuola. Presto hanno capito che non devono aspettarsi niente dalle istituzioni. Sono i soldi che contano. E l'unica attività che permette di guadagnarli è lo spaccio. Nel quartiere, la droga è dappertutto. Il potere, gli affari, le relazioni sociali dipendono totalmente dal narcotraffico. Tutti hanno almeno un parente o un amico consumatore o spacciatore. E la droga è sempre seguita dai suoi quattro fedeli cavalieri dell'Apocalisse: violenza, paura, malattia e morte. Anche i poliziotti partecipano attivamente al traffico, conservando una parte delle dosi sequestrate per consumarla di persona o rivenderla. Mark e Connor sanno che uno spacciatore può guadagnare parecchie migliaia di dollari la settimana. Alcuni loro compagni di scuola hanno già smesso di frequentare per entrare nel giro. «Perché non facciamo anche noi così?» propone Mark. «Così come?» domanda Connor, corrugando la fronte. «Sai benissimo cosa voglio dire. Siamo intelligenti e in gamba. Potremmo sfruttare il sistema. Jargo ci ha già proposto di lavorare per lui. Sai quanti soldi tira su?» «Non ho nessuna voglia di ritrovarmi infognato nella droga» brontola Connor, irritato. «Ti sto proponendo di fare lo spacciatore, non il consumatore. Se ci va bene, in due anni possiamo mettere via i soldi per l'università. In fondo è per una buona causa.» «Credo che non sia una buona idea.» «Non saremmo certo i primi. Sai che cosa faceva il padre di John Fitzgerald Kennedy durante il proibizionismo? Importava alcol illegalmente. È così che ha fatto fortuna. È grazie a quel commercio che suo figlio è diventato presidente degli Stati Uniti ed è grazie a quel commercio che abbiamo avuto i diritti civili.» «Stai facendo una gran confusione.» Stavolta è Mark ad arrabbiarsi. «Trovami un altro sistema per uscire da questa situazione, allora. In quale altra maniera possiamo pagarci gli studi? Se non ce ne andremo di qua, tra dieci anni saremo al cimitero o in galera.» «Non ho soluzioni miracolose» ammette Connor, «ma se rinunciamo a...» A un tratto la sua voce si incrina in una sorta di timidezza. Inghiotte la saliva e termina la frase guardando l'amico negli occhi. «Se rinunciamo ai nostri valori, rinunciamo a tutto.» Mark vorrebbe rispondere, invece stringe i pugni, si volta verso il reticolato e lo colpisce con tutte le sue forze. Pieno di rabbia e vergogna, si pente di aver avuto quell'idea. Connor gli posa una mano sulla spalla. «Non farti il sangue amaro» dice con tutta la convinzione che riesce a trovare. «Vedrai che un giorno avremo la nostra chance. Non so come, non so quando, ma ti prometto che usciremo da questa merda.» 13 ottobre 1987 Ore 19,36 Seduto alla turca con un libro sulle ginocchia e le mani sulle orecchie, Connor tenta di astrarsi dal caos che lo circonda. Ma non c'è niente da
fare, è impossibile concentrarsi, con la televisione in fondo al soggiorno che nessuno ascolta ma nessuno spegne, la musica nelle stanze, le grida di bambini che si picchiano e si insultano. Non è certo il posto adatto per fare i compiti. Non è certo un angolino tranquillo. L'aula dove andava con Mark dopo le lezioni è diventata inaccessibile da quando un guardiano notturno troppo zelante si è messo in testa di cacciarli. Irritato, lascia l'appartamento sbattendo la porta. Scende nel vano scala, ma lì non può fermarsi: è il territorio di un gruppo di spacciatori. Alla fine si ferma nel locale spazzatura, dove sono allineati diversi bidoni metallici. È un posto buio e freddo. Ispeziona ciascun contenitore e si siede su quello più decente. Sospirando, apre il libro e tira fuori di tasca la biro. È assurdo ridursi così, ma Connor ha giurato di lottare con tutte le sue forze per continuare gli studi. Magari un giorno la ruota della fortuna girerà. Presto si lascia prendere dal libro che gli ha consigliato un professore, Storia popolare degli Stati Uniti: indiani, schiavi, disertori della Guerra di secessione, operai tessili, insomma la storia parallela delle masse nascoste dietro i nomi dei grandi personaggi e le date delle grandi battaglie. Assorbito dalla lettura, non sente i passi che si avvicinano. Quando alza la testa, vede due tipi che conosce vagamente, due bulli del quartiere, che lo guardano strafottenti. «ALLORA, SI SGUAZZA NELLA SPAZZATURA, BRUTTO FROCIO?» Connor si alza di scatto e tenta di scappare, ma è troppo tardi. Lo sollevano di peso e lo buttano dentro il bidone. «LO SAI CHE COSA NE FACCIAMO, NOI, DELLA SPAZZATURA?» domanda uno dei due, guardandolo da sopra. Il ragazzo cerca di rimettersi in piedi e si tocca il naso, che ha cominciato a sanguinare. «LA BRUCIAMO!» Uno dei due ha in mano un fusto di benzina. Connor non fa in tempo a chiedere aiuto che se la ritrova sul torace e sulle gambe. «TI SERVE DA ACCENDERE?» grida uno dei due, accendendo un fiammifero. Terrorizzato, Connor si illude ancora che vogliano solo fargli paura, anche se sa benissimo che per feccia del genere la vita umana non ha nessun valore. Il fiammifero piove davvero su di lui e la benzina prende subito fuoco. Connor vede il proprio corpo accendersi come una torcia e il coperchio del bidone richiudersi sopra la sua testa. Tossendo per il fumo, si dibatte e tenta disperatamente di uscire dalla gabbia di metallo. Alla fine riesce a rovesciare il contenitore e a liberarsi, ma ha ancora il corpo divorato dalle fiamme. Straziato dal dolore, corre alla cieca, arriva nel cortile dello stabile e si rotola in terra per spegnere le fiamme. A poco a poco gli si appanna la vista. La ruota della fortuna ha girato, ma non nella direzione che sperava lui. In una frazione di secondo, si accorge che niente sarà mai più come prima. Poi perde conoscenza. Ha quindici anni. Voleva solo fare i compiti. 20 Mark & Connor Secondo flashback 13 ottobre 1987 Ore 21,18 Con i lampeggianti che girano e la sirena che urla, l'ambulanza si infila a tutta velocità nel parcheggio del pronto soccorso del Chicago Presbyterian Hospital. Connor, privo di sensi sulla barella, viene immediatamente lavato con acqua tiepida in modo tale che le aree ustionate del corpo si
raffreddino. I brandelli carbonizzati dei vestiti gli aderiscono alla pelle e occorre un'anestesia locale per staccarli. Dopo averlo intubato, i medici del pronto soccorso gli praticano una fleboclisi e lo mandano al reparto grandi ustionati. A prendersi cura di lui è la dottoressa Loreena Mc-Cormick ed è lei che procede a una prima prognosi. Il cinquanta per cento della superficie corporea è ustionato: le braccia, le gambe e il torace non sono altro che orrende piaghe. Neanche la base del collo e la mano destra sono state risparmiate. Il viso è miracolosamente intatto. Loreena e la sua équipe collegano Connor al respiratore artificiale e gli somministrano una dose massiccia di sedativi prima di iniziare i trattamenti locali a base di bagni antisettici e pomate antibatteriche. Poi coprono le ustioni con compresse sterili che vengono continuamente rinnovate nel corso della notte, per garantire la massima umidificazione e disinfezione. Trasformato in una mummia piena di stecche e fleboclisi, Connor riposa in coma farmacologico nella quiete irreale dell'ospedale. Al suo capezzale, Loreena McCormick lo guarda in silenzio. Quel ragazzo potrebbe essere suo figlio. Benché il suo turno sia finito da un pezzo, non si decide a lasciare la camera. Il mondo di oggi le sembra sempre più ostile, barbaro e disumano. Ha appena compiuto quarantaquattro anni e sa che ormai non sarà più madre. La colpa è della carriera, degli amori mancati, ma anche di una paura che non è mai riuscita a superare: quella di non saper difendere un eventuale figlio da una società impazzita. È persa nei suoi pensieri, quando la porta si apre di colpo e nella stanza irrompe un ragazzino seguito da un agente della sicurezza. «Lasciatemelo vedere, è mio amico!» grida Mark mentre la guardia, un colosso nero che pesa il triplo di lui, lo afferra per il collo. Loreena interviene e convince l'uomo a lasciar andare il ragazzo. «È mio amico!» ripete Mark avvicinandosi al letto di Connor. «Dove sono i suoi genitori?» gli domanda Loreena. «Li conosci?» «Non ha genitori.» Loreena gli si avvicina. «Sono la dottoressa McCormick» spiega. «Sono io che ho in cura il tuo amico.» «Morirà?» chiede Mark con le lacrime agli occhi. Lei si avvicina ancora di più, quasi assorbendo l'espressione di supplica dei suoi occhi. «Morirà?» ripete Mark. «Mi dica la verità, per favore.» «Le sue condizioni sono critiche» ammette la dottoressa. Lascia passare qualche secondo, poi aggiunge: «Ma non è escluso che si salvi». Con un gesto della mano, invita Mark a sedersi su una sedia. «Vuoi sapere la verità? Eccola: il tuo amico ha oltre la metà del corpo ustionata. Per due giorni lo manterremo in coma farmacologico. Significa che è addormentato e non soffre. È giovane e in buona salute, non ha ustioni polmonari e non ha inalato gas tossici. Questa è la buona notizia.» «E la cattiva?» «Il guaio è che le ustioni rischiano di infettarsi. Quando è bruciata, la pelle non ci protegge più dai batteri. L'organismo, quindi, perde i mezzi per difendersi dagli attacchi dei germi. Il tuo amico rischia che le ustioni degenerino in setticemia, una...» «Un'infezione del sangue, lo so» terminò per lei Mark. «Bisognerà quindi aver pazienza e pregare.» «Non credo in Dio» dice Mark. «Lei sì?» Loreena lo guarda sconcertata. «Io... non lo so più.» «Però credo in lei» proclama Mark. «Lo salvi, la prego.» Nella testa di Connor Tra la vita... ... e la morte
Volo. No, cado. Una caduta libera verso il cielo che dura un'eternità. Sono leggero. Me ne vado. Scivolo su un tappeto ovattato. Nuoto in un bagno di luce. Sto bene. Vedo tutto. Comprendo tutto. Comprendo che tutto è già scritto. Che tutto ha un senso: il Bene, il Male, il Dolore. Sto bene. Ma so che non durerà. E so che dimenticherò tutto. 15 ottobre 1987 Adesso che le ore critiche sono passate, Loreena McCormick si industria ad asportare il più in fretta possibile tutti i tessuti necrotici. È ancora difficile valutare con un buon grado di sicurezza la profondità delle ustioni. Al momento le condizioni cliniche del paziente sono stabili, ma i rischi infettivi e respiratori restano elevati. Col bisturi, Loreena pratica sul torace e sul collo di Connor delle incisioni di drenaggio per decomprimere la circolazione locale ed evitare che le ustioni diventino più profonde. Quindi preleva l'equivalente di due centimetri quadrati di pelle dalla base di un gluteo. Invierà il campione a un laboratorio di Boston che, da due anni, ha trovato il modo di coltivare cellule a partire da un piccolo campione di cute. È una tecnica sperimentale, ma intende ricorrervi, anche se le cure dureranno anni e le conseguenze resteranno pesanti. Decide infine di ridurre la dose di sedativi, perché Connor riprenda gradualmente conoscenza. Nella testa di Connor Tra la morte... ... e la vita Volo sempre, ma meno forte, meno veloce. A poco a poco il mio corpo diventa pesante come piombo. Lascio l'alta quota per ritrovare le mie sensazioni umane. Ho di nuovo paura. Di soffrire. Di morire. Intorno a me, le nubi perdono candore per trasformarsi in un bruciante, asfissiante vapore purpureo. Ho male dappertutto. Sono in fiamme. Adesso tutto è rosso, tutto è lava, tutto si fonde. Tutto è triste. Fine del viaggio. Apro gli occhi e... 16 ottobre 1987 Quando apre gli occhi, Connor è nella serra immensa e luminosa del reparto grandi ustionati. Ha in testa un rumore sordo e confuso. Prova a muoversi, ma capisce subito che non è il caso. Allora china la testa e vede il suo corpo coperto di bende. «Ciao, vecchio mio» gli dice Mark. «Benvenuto, Connor» lo accoglie Loreena. «Come ti senti?» Il ragazzo la guarda, apre la bocca, ma non riesce a rispondere. «Non preoccuparti, ci prenderemo cura di te» lo rassicura Mark. 17 ottobre 1987 Con l'aiuto di un'infermiera, Loreena toglie una delle bende che coprono il torace del giovane paziente. È stato Connor stesso a chiedere di «vedere». Voleva fare l'uomo, affrontare la realtà, ma ora vorrebbe chiudere gli occhi per sempre. È diventato un mostro, un «Elephant Man» putrefatto. Gli viene da piangere. Non vede scampo. Come potrebbe mai guarire da una cosa simile? «È normale che tu abbia paura» lo rassicura Loreena. Connor non sa che cosa pensare della dottoressa, la quale a volte ha modi bruschi e dice le cose senza tanti riguardi. Ma Mark sembra avere fiducia in lei. «È dei nostri» gli ha assicurato. «Ti spiegherò le cose come stanno” prosegue Loreena sedendosi al suo fianco. «Abbiamo innestato pelle di origine animale sulle ustioni più profonde.» «Pelle animale?»
«Sì: pelle di maiale, è la procedura corrente. Il tuo sistema immunitario la rigetterà, ma per qualche tempo fungerà da medicazione biologica, scongiurando il pericolo di infezioni.» «E dopo?» «Dopo tenteremo innesti di pelle umana.» «Da chi la prenderete?» «Da te. Si chiama autotrapianto. Con un bisturi preleverò una sezione di cute dalle aree del tuo corpo che sono state risparmiate e la innesterò sulle lesioni.» «Non basterà» protesta Connor. «Sono ustionato dappertutto.» «Devi avere fiducia in me» dice Loreena. «Come posso avere fiducia in lei, se non mi dice la verità?» «Hai ragione, non basterà» ammette la dottoressa. «Ecco perché abbiamo inviato un campione delle tue cellule cutanee a un laboratorio di Boston, che le coltiverà per ricavare una porzione più grande di pelle. Capisci?» «Capisco che morirò.» Novembre 1987 Primo innesto. Un dolore terribile che non è alleviato nemmeno dai calmanti. Connor ha il braccio destro chiuso in una stecca e il collo imprigionato in una minerva. Mark va a trovarlo tutti i giorni. Gli legge Il conte di Montecrìsto, di Alexandre Dumas. La vendetta implacabile di un uomo che era rimasto imprigionato ingiustamente per quindici anni. La vendetta implacabile... Natale 1987 Connor è magro da far paura. Si possono perdere quindici chili in due mesi? Loreena gli spiega che, a dispetto di un apporto calorico importante, nei grandi ustionati il catabolismo subisce un forte incremento che sfianca l'organismo e lo rende vulnerabile alle infezioni. Il 25 dicembre sono costretti ad amputargli una falange della mano destra. Buon Natale! Gennaio 1988 Dall'epoca dell'aggressione, la polizia è venuta a interrogare Connor una sola volta. Il ragazzo ha raccontato tutto, fatto i nomi e dato gli indirizzi, ma non è successo niente. Mark ha condotto una sua indagine personale: i due spacciatori continuano i loro loschi affari nel quartiere, senza nemmeno mostrarsi un po' più discreti del solito. Nella mente di Connor si fa strada un'idea. L'idea di una vendetta implacabile. Febbraio 1988 A volte gli innesti non prendono. Rimane la carne viva. Bisogna ricominciare tutto da capo. Siccome il braccio destro è inutilizzabile, Connor è costretto a servirsi della mano sinistra per scrivere. Per esercitarsi, disegna schizzi e ritratti su un bloc-notes per ore di seguito. Raffigura sempre lo stesso volto. Un volto che gli infonde un senso di calma. Un volto femminile che spunta da chissà dove. Una donna che non conosce ancora. Primavera - estate 1988 Gli innesti succedono agli innesti e, a poco a poco, la pelle si ricostruisce, trasformandosi in un groviglio di cicatrici che bisogna comprimere con un tessuto elastico. Da qualche tempo Connor ha ripreso la scuola, iscrivendosi a un corso per corrispondenza proposto ai giovani ricoverati in ospedale. È l'unica cosa che lo conforta, a parte la presenza costante di Mark.
Autunno 1988 Le ustioni alle gambe lo costringono a restare ancora a letto. È già un anno che si rode per la rabbia furiosa. Neanche un giorno senza dolore. Neanche una notte senza incubi. Una sola certezza: non si esce indenni da un simile viaggio. Non se ne esce migliori. Non se ne esce più forti. Dicembre 1988 È la mattina di Natale. Loreena McCormick apre la porta della camera di Connor. Dopo più di un anno, per la prima volta il letto è vuoto. Ieri il ragazzo è stato trasferito in un centro di riabilitazione dall'altra parte della città, ma non è stata lei a dimetterlo. Loreena rimane per parecchi minuti immobile nella luce fredda e azzurrastra della stanza. A volte, quando uno dei suoi pazienti lascia il reparto, avverte un gran vuoto dentro. Sul cuscino, Connor ha lasciato una busta indirizzata a lei. In un primo tempo aveva scritto «dottoressa McCormick», poi ha cancellato la dicitura troppo formale per scrivere semplicemente: Loreena Loreena infila la busta nella tasca del camice. L'aprirà più tardi, a casa. Il cassetto del comodino trabocca di fogli. Li esamina. Decine di disegni che raffigurano ossessivamente lo stesso viso: quello di una giovane donna che lei non conosce. Fissa a lungo quei fogli. Poi decide di riporli tra la documentazione medica di Connor. Un giorno, forse, ne saprà di più. Giugno 1989 Connor prende il diploma di scuola superiore. Lascia il centro di riabilitazione ed entra in un pensionato per giovani. Per sei mesi si è sottoposto a massaggi e sedute di chinesiterapia per recuperare la mobilità degli arti. Il collo e il torace sono rossi e viola. Le cicatrici in fase di retrazione, che gli impedivano di fare tanti movimenti, lo hanno obbligato a reimparare anche i gesti più semplici, come camminare, mangiare, sedersi, scrivere. Ma altre cicatrici invisibili gli sfregiano l'anima. Per la prima volta dopo un anno e mezzo, esce in strada e ha paura di tutto: le auto, le persone, la vita. Il minimo rumore lo fa trasalire. Tutto è troppo veloce. Tutto è solo aggressività. Per mettere a tacere il dolore, si convince che c'è un solo mezzo: una vendetta implacabile. Ottobre 1989 Non ci ha messo molto a trovarli: i due spacciatori hanno impiantato il loro covo in uno stabile abbandonato dietro la ferrovia. Connor li ha seguiti per parecchi giorni, prendendo nota delle loro abitudini e raccogliendo informazioni. In due anni sono saliti nella gerarchia del crimine. Non sono più mezze tacche, ma veri e propri capobanda che controllano buona parte dello spaccio di eroina nel quartiere sud. Siccome è raro che si spostino da soli, Connor ha atteso il momento buono per agire. E il momento buono è stasera. Li ha visti uscire barcollando dal bar, visibilmente ubriachi: nel parcheggio si sono scontrati con una vecchia Mustang color ruggine. Lui ha scelto di fare la strada a piedi per sentire di più le proprie ferite. Quando alla fine arriva davanti allo stabile fatiscente, sono le due di notte. Entra nell'atrio buio, dal quale sono state divelte le cassette delle lettere. Nell'oscurità, sale le scale. Non ha più paura. Arriva davanti alla porta, che vibra per il volume della musica
nell'appartamento. La abbatte con un calcio, un gesto che ha ripetuto centinaia di volte durante il programma di riabilitazione. Seduti su un divano sfondato, i due spacciatori lo guardano sbalorditi. Sono ubriachi marci e drogati. Connor fa un passo avanti. È un misero appartamento immerso in una luce tra il verde e il giallastro. Su una cassa da imballaggio che funge da tavolino, sono visibili delle siringhe, un sacchetto di cocaina e una pistola dal calcio argentato posata su una valigetta aperta piena di dollari. Uno dei due allunga la mano verso l'arma, ma Connor ha già rovesciato la cassa e afferrato il revolver. Lo punta sui due, pronto a fare fuoco. Gli spacciatori lo guardano scuotendo la testa. «E tu chi cazzo sei?» urla uno di loro. «Chi sono?» Connor rimane impietrito. Quella scena se l'era immaginata decine di volte, ma mai si era figurato che i suoi aggressori non lo riconoscessero nemmeno. Infila la mano nella tasca del giubbotto e ne estrae due paia di manette che ha comprato per cinquanta dollari. «Ammanettatevi al radiatore» ordina. «Aspetta, parliamo...» Uno sparo gli fa interrompere la frase. L'uomo si tocca la coscia e si accorge che è insanguinata. «Ammanettatevi al radiatore» ripete Connor. I due obbediscono, ammanettandosi a un radiatore di ghisa che non funziona più da tempo. Chi sono? Connor spegne lo stereo. Chi sono? Si toglie il giubbotto e si sbottona la camicia. Ora è a torso nudo davanti ai suoi aggressori e mostra loro le ustioni come in un rituale primitivo. Chi sono? Nei loro occhi non balena la comprensione. Nei loro sguardi solo lo stupore e il terrore. Connor esce nel corridoio, prende il fusto di benzina che ha portato con sé e torna nella stanza. Chi sono io? Adesso i ruoli si sono invertiti. La vittima diventa il carnefice e il carnefice la vittima. Il Bene diventa il Male; il Male diventa il Bene. Chi sono io?, si domanda ancora una volta Connor, spandendo la benzina sui suoi aguzzini. Urlano, ma lui nemmeno li sente. Sono altre le grida che, nella sua testa, esplodono come un'eco: «ALLORA, SI SGUAZZA NELLA SPAZZATURA, BRUTTO FROCIO? LO SAI CHE COSA NE FACCIAMO, NOI, DELLA SPAZZATURA ? LA BRUCIAMO!». Chi sono io?, si ripete, accendendo un fiammifero. Nel momento in cui la fiamma esplode, ripensa a quello che ha detto a Mark in passato: «Se rinunciamo ai nostri valori, rinunciamo a tutto». La stessa notte Ore 5,00 Una Mustang color ruggine accosta al marciapiedi, vicino a una scuola pubblica. Connor scende dall'auto, raccoglie un pugno di ghiaia e la lancia contro una delle finestre dell'appartamento del custode. Dopo pochi secondi si affaccia Mark. «Sei matto? Ti rendi conto di che ora è?» «Vestiti, Mark, e porta con te portafogli, soldi e documenti.» «Per fare cosa?»
«Non discutere.» Mark raggiunge l'amico cinque minuti dopo. «Che cos'è successo?» gli domanda. «Hai una faccia tremenda.» «Sali» ordina Connor indicando la Mustang. «Ma di chi è questa bagnarola?» «Sbrigati. Ti spiegherò strada facendo.» Connor si mette al volante e corre verso il Loop. Dopo cinque minuti si gira verso Mark e gli domanda: «Ti ricordi quello che ti dissi, che un giorno ce l'avremmo fatta a uscire da questa fogna e studiare all'università?». «Certo che me lo ricordo.» «Bene, la tua chance è questa sera» dice Connor porgendogli la valigia di metallo che ha preso dall'appartamento degli spacciatori. Mark la apre ed emette un fischio. «Che cosa sono tutti questi soldi?» «Sono i soldi che serviranno a pagarti gli studi.» «Ma...» «Senti, non abbiamo tempo, quindi non complicare le cose.» Connor tira fuori dalla tasca un biglietto ferroviario. «Ti porto alla Grand Central Station. Alle sei e un quarto c'è un treno per New York. Portati dietro il denaro e non rimettere mai più piede qui, capito?» «E tu quando mi raggiungi?» «Mai» risponde Connor entrando nel parcheggio sotterraneo della stazione. Ore 6,00 I due ragazzi siedono fianco a fianco nell'abitacolo della macchina, ferma in un parcheggio a pagamento. Connor ha appena terminato il suo racconto e l'altro è sconvolto. «Bisogna che tu vada» gli dice guardando l'orologio. «Il treno sta per partire.» «Ma tu che cosa farai?» chiede sgomento Mark. «Mi costituisco» dice Connor scendendo dalla Mustang. Mark scende a sua volta e sbarra il passo all'amico. «Io non parto senza di te.» «Piantala con queste lagne» protesta Connor. «Non potrei mai farla franca, non ho scampo: ho lasciato impronte dappertutto. La polizia impiegherebbe meno di due ore a rintracciarmi.» «Non è così scontato, Mark: il fuoco distrugge tutto. E poi quei due chi mai li rimpiangerà? Nessuno. La polizia penserà a un regolamento di conti tra gang: tutto qui.» Arrivano sulla banchina. Nonostante l'ora, numerosi viaggiatori sono già accalcati presso i binari. «Su, forza» dice Connor. «Buona fortuna, vecchio mio.» «Vieni con me!» lo supplica Mark salendo in carrozza. «Abbiamo sempre detto che saremmo partiti insieme.» Vorrebbe aggiungere qualcosa, ma la sua voce è coperta dal fischio acuto che annuncia la partenza del treno. Connor non gli lascia riprendere il discorso. «Bisogna che tu sia forte, Mark. Puoi iniziare una nuova vita, ma per me è troppo tardi: non ho più la forza di fare niente, non sono più niente.» «Passerà, ti aiuterò io. Abbiamo affrontato le cose insieme. È insieme che ce la siamo sempre cavata.» Il capostazione verifica che le porte siano tutte chiuse. Connor fa qualche passo sulla banchina. All'improvviso sente riaffiorare la paura accumulata. Nella sua mente tutto è in fiamme. I suoni si deformano, poi sfumano. All'improvviso cala un silenzio assoluto. Connor vacilla, quindi si affloscia.
Mark è già sceso sulla banchina. Si china sull'amico, lo afferra per le ascelle e, con uno sforzo supremo, lo trascina all'interno della carrozza. Dopo un ultimo fischio, il treno parte sferragliando. Quando lasciò la stazione, la locomotiva fu illuminata dai primi raggi del sole. Mark guardò dal finestrino una luce arancione striata di porpora penetrare attraverso le nubi. Si sarebbe ricordato per tutta la vita il colore del cielo di quella mattina. La mattina in cui erano partiti insieme. 21 Al di là delle nubi Siamo come le noci, bisogna spaccarci per scoprirci. Kahlil Gibran Oggi Ore 15,00 Sull'aereo Lontano. Molto lontano, sotto il velivolo, una spessa coltre di nubi nascondeva il paesaggio, isolando ancora di più il superjumbo dalla terra degli uomini. Mark non si pentiva di essersi confidato fino a quel punto. Il viaggio nella sua infanzia gli aveva permesso di dimenticare per un attimo il tradimento di Nicole e gli aveva fatto bene. Forte di questo senso di liberazione, valutò meglio, con distacco, la strada percorsa. A quindici anni di distanza erano esplose due bombe, una nella vita di Connor, l'altra nella sua. La prima bomba aveva quasi ucciso Connor, facendone un criminale; la seconda, il rapimento di Layla, aveva innescato in Mark un processo di autodistruzione che lo aveva condotto alle soglie della morte. I due amici erano sopravvissuti alle rispettive ordalie solo perché avevano lottato e avevano avuto un pizzico di fortuna. Evie aveva ascoltato affascinata il racconto di Mark. Ritrovava nell'infanzia di Connor un'eco della propria. In età ancor più giovanile della sua, Connor aveva dovuto affrontare gli stessi interrogativi che lei si poneva oggi. Come sopravvivere al dolore? La vendetta è la migliore risposta a un oltraggio? Si protese verso l'oblò e guardando il mare di nubi le sembrò di avvicinarsi all'infinito. Allora chiuse gli occhi e si immerse a sua volta nei ricordi. 22 Evie Quarto flashback Notte di Natale 2006 Ore 2,30 New York L'aria era fredda e pungente. Tutta intirizzita, Evie si trascinava per il Greenwich Village. A digiuno dalla mattina, sentiva la pancia brontolare. Le facevano male i muscoli e le articolazioni, e ogni suo alito si trasformava immediatamente in vapore. Era a New York da tre settimane, i suoi magri risparmi si erano sciolti come neve al sole e ora non aveva più neanche un dollaro. All'inizio aveva soggiornato in un misero albergo di Harlem, poi in un ostello di Amsterdam Avenue, ma quella sera non sapeva dove andare. Doveva restare ancora una decina di giorni, il tempo necessario a uccidere Craig Davis. Si era recata all'ospedale dove adesso lavorava l'assassino di sua madre, ma le avevano detto che Davis era partito per l'Europa per trascorrere le vacanze natalizie con la sua famiglia. Sarebbe tornato solo la prima settimana di gennaio. Non importava. Evie avrebbe aspettato fino ad allora. Revenge is a dish best savoured cold. Nei palazzi borghesi da cui era circondata, il cenone stava finendo. Dalle finestre arrivava l'eco dell'atmosfera di festa: musica, risate. Sulla 6a Avenue si imbatté in un'insegna luminosa con la scritta: respirate lo spirito del natale. Più lontano, un altro cartello diceva: stasera tutto È possibile! Evie alzò gli occhi al cielo. La famiglia, le tradizioni, i sogni non avevano mai avuto spazio nella sua vita
quotidiana. Quanto al preteso «spirito del Natale», era una cazzata che si vedeva soltanto nei vecchi film; non era mai esistito sul serio o, se era esistito, era morto da un pezzo e aveva ceduto il posto a un'insaziabile frenesia consumistica. Un'Aston Martin metallizzata nuova di pacca le sfrecciò accanto per poi fermarsi a un semaforo pochi metri più avanti. Quando arrivò alla sua altezza, Evie vide una borsa portadocumenti di pelle posata con noncuranza sul sedile del passeggero. Indietreggiò di qualche passo, per non farsi notare. Curvo sul volante, un uomo dall'aria affaticata si stava stropicciando le palpebre. Evie esitò. Non aveva mai rubato, ma in quel caso sembrava molto facile: bastava aprire la portiera, afferrare la borsa e fuggire a gambe levate. L'Aston Martin valeva un sacco di soldi, e la borsa di pelle rivestita della famosa tela «Monogramma» con le iniziali LV, non era certo un'imitazione: senza dubbio conteneva parecchie centinaia di dollari in contanti. Senza contare i begli spiccioli che avrebbe ricavato rivendendola. Avrebbe avuto di che vivere per almeno due settimane. Il tempo necessario per compiere la sua vendetta. A bordo dell'auto, il guidatore aveva appena afferrato il cellulare per rispondere a una telefonata. In meno di un secondo, Evie aprì la portiera, afferrò il bottino e scappò. Dopo cinquanta metri si girò e rimase di stucco: pensava che il derubato avrebbe rinunciato quasi subito a inseguirla, invece era ancora abbastanza giovane e correva veloce. Razza di idiota! La neve continuava a cadere a grossi fiocchi e il terreno era scivoloso. Quando Evie comprese che l'uomo l'avrebbe raggiunta, tentò il tutto per tutto e attraversò di colpo la strada, col rischio di farsi investire da un'auto. Ma non ci fu niente da fare: lui la rincorse e in pochi secondi si gettò su di lei, inchiodandola al marciapiedi. Evie sbatté la testa, ma il colpo fu attutito dalla neve. «Ridammela!» gridò l'uomo, torcendole il braccio dietro la schiena. Ore 2,37 «Lasciami!» protestò Evie, divincolandosi. L'uomo aveva recuperato la borsa, ma continuava a stringerle forte il braccio. La trascinò sotto la luce di un lampione, il che le permise di guardarlo bene. Era un tipo alto, bruno e snello, con il viso stanco e gli abiti eleganti. Se non fosse stato per lo sguardo cupo e la fronte corrugata, che tradivano preoccupazione, sarebbe sembrato un modello uscito dall'ultimo catalogo di Hugo Boss. Forse lo aveva già visto da qualche parte. Ma dove? «Come ti chiami?» domandò lui. «Fanculo!» lo insultò lei. Ore 2,40 «Senti, sono un medico e posso trovarti un posto per la notte.» «Mi vuoi salvare, eh?» «Ti voglio aiutare.» «Non voglio il tuo aiuto.» Ore 2,42 «Posso offrirti un pasto caldo?» Ore 2,43 «Io me ne vado.» Ore 3,01 Seduta su un sedile in similpelle, Evie finiva il suo hamburger guardando, attraverso il vetro, l'uomo che fumava una sigaretta in strada. Aveva detto di essere un medico, ma diceva la verità? Assicurava di volerla aiutare, ma era sincero? Era ormai abituata a fidarsi così poco della gente, che tutto, nel comportamento dello sconosciuto, la sconcertava. Aveva troppa paura di rimanere delusa. «Allora, com'era questo hamburger?» domandò lui tornando dentro.
Ore 3,14 «Aspetta!» gridò l'uomo, per trattenerla. «Non puoi andartene così. Fa freddo, è pericoloso. Ti troverò un posto per la notte.» Lei lo guardò avvicinarsi, ma scosse la testa e gli volse le spalle senza disturbarsi a rispondere. «Nel caso cambiassi idea» disse lui, frugandosi in tasca e tirando fuori il suo biglietto da visita. Ma sapeva che Evie non l'avrebbe cambiata. Ore 3,45 Si sono lasciati da mezz'ora ed Evie comincia a pentirsi della sua decisione. Ha talmente freddo che si sente le ossa scricchiolare. L'emicrania, fin dall'infanzia sua nemica giurata, si è ricordata di lei con tale violenza che le viene la nausea ed è costretta a fermarsi in mezzo al marciapiedi. Si sente troppo debole per continuare a camminare. Ha dato un'occhiata alle case intorno. Alcune hanno un guardiano notturno che sorveglia la situazione dall'atrio; altre, come quella davanti alla quale si trova, sono protette da un codice di accesso. In molti appartamenti, gli ultimi ospiti se ne stanno andando; o almeno così accade al numero 37 di Fenweet Street, dove tre coppie parecchio sbronze stanno lasciando insieme il Paradiso Building. Evie tiene loro aperta la porta e, nella confusione, riesce a entrare senza destare sospetti. Finge di chiamare l'ascensore e, quando il gruppo si è allontanato a sufficienza, cerca un angolo dove dormire qualche ora. Trova uno spazio nascosto vicino alla porta che conduce alle cantine. Non è caldo, ma è meglio che niente. Si siede con la schiena al muro, si stringe nel cappotto e chiude gli occhi, pensando all'uomo che ha incrociato sulla sua strada. Appena gli ha parlato, ha avvertito nei suoi confronti uno strano senso di familiarità, come se lo conoscesse da tempo. L'uomo non ha detto il proprio nome, ma d'un tratto a Evie viene in mente che le ha lasciato il biglietto da visita. Allora si fruga in tasca, lo estrae e lo avvicina agli occhi. Nonostante la scarsa illuminazione, riesce a decifrare il nome e rimane di stucco. Lo sconosciuto è Connor McCoy! Si rialza, accende la luce delle scale e tira fuori dalla borsa il libro che ha trovato una notte in una stanza dell'albergo Oasis di Las Vegas, e che da allora si è sempre portata dietro come un talismano capace di difenderla dalla cattiva sorte. Sopravvivere, di Connor McCoy Guarda la foto dell'autore nella quarta di copertina e vede che corrisponde effettivamente al misterioso interlocutore di poco prima. Solo allora capisce perché il suo viso le fosse parso familiare. Che idiota! Si è lasciata scappare la sola persona al mondo che sognava di conoscere. Su, forza, deve sbrigarsi. Raccoglie le sue cose, decisa a ritrovarlo. Vede una macchina della polizia arrivare con i lampeggianti e la sirena. Capisce subito che sono venuti per lei. I condomini evidentemente hanno sentito dei rumori e avvertito la polizia. E, privilegio dei quartieri ricchi, la polizia di New York non ha esitato a mandare sul posto una pattuglia. Due agenti scendono dall'auto armati fino ai denti, come se dovessero arrestare Bin Laden. «Eccola!» esclama uno dei due puntando la torcia contro l'ingresso del palazzo. Compongono il codice di sicurezza ed entrano nell'atrio tenendo la mano sulla pistola. «Su, signorina, ci segua senza fare storie.» 23 La parola d'ordine La conoscenza dei segreti altrui è un potere inebriante.
Michael Connelly Oggi Ore 16,00 Sull'aereo Molti passeggeri del volo 714 sonnecchiavano tranquilli, digerendo il risotto ai funghi e la crèpe alle mele candite del vassoio del pranzo. Altri guardavano i film o ascoltavano la musica proposti dalla compagnia aerea. Con gli occhi chiusi e il respiro regolare, Evie aveva raggiunto Layla nel mondo dei sogni. Ansioso di atterrare, Mark si agitava sulla sua poltrona, lanciando occhiate inquiete all'orologio. Un senso di urgenza si era impadronito di lui. Non vedeva l'ora di arrivare a New York per capire che cosa si celasse dietro lo strano comportamento di Nicole. Doveva affrontare la questione una volta per tutte. Subito. Si spostò con il busto verso il corridoio. Due file più avanti, un dirigente d'azienda, stressato e incravattato, stava controllando su Internet l'andamento della Borsa. Seguendo un'ispirazione improvvisa, Mark si alzò e percorse il corridoio tenendo nella mano sinistra il bicchiere di spremuta d'arancia che Evie aveva appena iniziato. Arrivato a fianco dell'uomo d'affari, fece fìnta di inciampare e gli versò tutto il succo sulla camicia e i pantaloni. «PERCHÉ NON FA PIÙ ATTENZIONE?» gridò quello guardando le macchie. «Oh scusi, scusi tanto.» Estrasse di tasca un fazzolettino di carta e, invece di pulirgli la camicia, sparse ancora di più le macchie di succo d'arancia, producendo un alone enorme. «Lasci stare!» sbottò l'uomo, ansioso di liberarsi di un soccorritore così maldestro. «Vado a lavarmi in bagno.» Si alzò dal sedile, asciugò con cura le poche gocce cadute sulla tastiera del portatile e mise quest'ultimo nel comparto bagagli. Poi si diresse alla toilette borbottando: «Porca puttana. Un vestito di Kenzo da mille dollari... la riunione con i giapponesi... le stock option...». Mark finse di proseguire, quindi tornò sui suoi passi. Per difendersi dai raggi del sole, quasi tutti i passeggeri avevano tirato le tende, e l'aereo era immerso in una penombra propizia a chi voleva fare la siesta o vedere un film. Mark aprì il comparto bagagli, prese il computer e lo portò al suo posto. Lanciò un'occhiata in fondo all'aereo. C'era la fila alla toilette: con un po' di fortuna, sarebbe passata una decina di minuti prima che l'uomo d'affari si accorgesse del furto. Estrasse il portatile dalla custodia e l'aprì con cautela. Aveva letto in un dépliant che su quel volo si poteva navigare in Internet a banda larga senza fili. La pagina web si aprì su Google. Digitò: «Risalire a un indirizzo a partire da un numero telefonico», e cliccò su uno dei siti proposti dal motore di ricerca. Nella finestra scrisse il numero da cui lo aveva chiamato Nicole: Connor McCoy, psicologo Time Warner Center 10, Columbus Circle New York 100119 Era il numero del nuovo ambulatorio di Connor! La voce che aveva ordinato a Nicole di riattaccare era quella del suo migliore amico, adesso ne era certo. Come mai non lo aveva riconosciuto subito? E che cosa ci faceva lì sua moglie? Per qualche istante rimase incerto su come proseguire la sua ricerca. Forse non era la cosa più corretta del mondo, ma si risolse a controllare la posta elettronica della moglie, di cui ricordava l'indirizzo:
[email protected]. Solo che non conosceva la password. In tutti
gli anni della loro convivenza, non era mai stato geloso. Il loro rapporto si basava sulla fiducia e non si era mai divertito a frugarle nella borsa o a cercare di decifrare gli appuntamenti segnati nella sua agenda. Forse avrebbe dovuto farlo. Non era un grande esperto di informatica, ma sapeva che un software di «crackage» gli avrebbe permesso di accedere alla casella hotmail. Purtroppo non ne aveva nessuno sottomano. Non aveva che il cervello a disposizione, e non era sufficiente. Nemmeno il più acuto psicoterapeuta sarebbe mai riuscito a indovinare una password, basandosi su una semplice analisi psicologica. Non in cinque minuti, in ogni caso. Tuttavia si rifiutò di abbandonare la partita senza fare almeno qualche tentativo. Che password sceglievano di solito le persone? Una risposta di buonsenso era: il proprio nome o cognome, oppure il nome del coniuge, dei figli, del cane o del gatto. Provò dunque in rapida successione: nicole hathaway layla mark pyewacket (il loro siamese). Senza successo. Provò allora con i numeri. 6.06.74 (data di nascita di Nicole) 19.08.72 (sua data di nascita) 15.05.96 (data del loro primo incontro) 10.09.96 (data del loro matrimonio) 11.01.97 (data di nascita di Layla) Mise le barre al posto dei punti. Per sicurezza provò anche a scrivere gli anni con quattro cifre anziché con due. Inutilmente. E adesso? Immise altri dati a mano a mano che gli venivano in mente: numeri di telefono, targhe automobilistiche, tessere della previdenza sociale. Provò anche la taglia, il numero di scarpe e il peso di sua moglie. E anche: Il suo colore preferito? rosso Il suo romanzo preferito? il-principe-delle-maree ilprincipe. delle, maree ilprincipedellemaree Il suo film preferito? una-tomba-per-le-lucciole una. tomba.per. le. lucciole unatombaperlelucciole Ma non ci fu niente da fare. Allora chiuse gli occhi. Gli apparve l'immagine di Nicole che, raggiante, veniva applaudita dopo un concerto. violino Subito dopo digitò il nome dei suoi compositori preferiti o di quelli di cui aveva inciso o eseguito concerti: Mozart Bach Beethoven Mendelssohn Shostakovich Brahms Barber Stravinskij. No, era una falsa pista. Cambia strategia, pensò. Adesso aveva l'impressione che il cervello corresse a cento all'ora. Partendo dal
presupposto che una password rivelasse la parte più profonda della personalità di un soggetto, si disse che la Nicole che conosceva lui ne avrebbe scelta una carica di valore affettivo, un codice che rimandasse ai suoi legami famigliari o alla sua storia d'amore con lui. Ma sua moglie era anche una persona prudente. Anni prima un hacker aveva tentato di attingere al loro conto in banca attraverso Internet. Era probabile che, per rendere più sicura la password, avesse scelto una combinazione di lettere, numeri o simboli. E magari anche qualcosa di abbastanza lungo, come, all'epoca, aveva raccomandato loro l'impiegato di banca. Ecco che cosa doveva cercare: una parola difficile da indovinare, ma facile da ricordare. Il modo più semplice per costruire un simile codice era usare una frase chiave, come un proverbio o i versi di una poesia o di una canzone. No, era pronto a scommettere che sua moglie avesse scelto qualcosa di più personale. Ma cosa? Esisteva una frase che condensasse l'essenza del loro amore? All'improvviso sentì che stava perdendo il filo del ragionamento. Una terribile emicrania gli stava scavando solchi nelle tempie. Nella sua testa tutto cominciò a confondersi: numeri, lettere, codici, messaggi, ricordi. Chiuse gli occhi per ritrovare la concentrazione, e allora il volto di Nicole si aprì un varco nella sua mente annebbiata. Nel contempo fu assalito da una serie di immagini, come se una forza sconosciuta gli mitragliasse il cervello con centinaia di flash tanto potenti quanto fuggevoli: primo incontro, primo bacio, prima volta che avevano fatto l'amore, prima lite, prime vacanze da innamorati... Parigi, Francia. Una sera d'estate. Un appartamentino nell'ile de la Cité. Un ristorante sulla terrazza. Una cena a lume di candela. Una domanda di matrimonio. Accanto, dei platani. Su un tronco, una scritta e una data incise con il temperino. Una coppia di innamorati che li ha preceduti di qualche anno. Mark e Nicole restano un attimo in silenzio davanti alla scritta. Poi si ripromettono di farsene incidere una uguale all'interno delle loro fedi. Mark si toccò con la mano destra la vera che portava all'anulare dell'altra mano. Quell'anello aveva resistito a tutto, alla separazione come alla vita in strada. Se la tolse a fatica e lesse la scritta incisa all'interno: Quando si ama, non scende mai la notte. Una lacrima gli rigò la guancia e cadde sulla tastiera. Comprese allora di avere trovato la password. Siccome la frase era troppo lunga per lo spazio consentito, scrisse solo la prima lettera di ciascuna parola: qsansmln Ma la combinazione risultava scorretta. Logico: andava aggiunta una data. Esitò un attimo, poi pensò che la più probabile era quella del loro incontro: qsansmln 150596 Stavolta il sito accettò la password. La pagina si aprì sulla casella postale di Nicole Hathaway. C'erano molti messaggi. La maggior parte proveniva dall'agente di Nicole, Sonja, che le organizzava le trasferte e le gestiva l'agenda degli impegni. Un buon terzo era rappresentato da spam: Free viagra, Enlargeyourpenis, Give money for the tsunami, e altri fìnti siti di beneficenza che avevano l'unico scopo di succhiare quattrini. Lettere di
ammiratori che si complimentavano con lei, qualche rara critica. Lei è molto meno brava di Anne-Sophie Mutter: Le case discografiche non l'hanno scelta per il suo talento, ma per il suo culo, o ancora: Se fossi in lei mi vergognerei di speculare sulla scomparsa di mia figlia. Niente di nuovo sotto il sole. Nicole aveva già ricevuto quel genere di messaggi due anni prima. Mark cercò posta proveniente da Connor, ma non ce n'era. Tuttavia fu attratto da un messaggio con un video in allegato. Mittente nascosto, niente oggetto e nessun testo di accompagnamento. Mark avvicinò il viso allo schermo. La finestra di visualizzazione era piccola e l'immagine in bianco e nero di cattiva qualità. Comprese subito che era il filmato di una telecamera di sorveglianza. Quando vide comparire sullo schermo il viso di Layla, sentì il sangue raggelarsi e il mondo si fermò intorno a lui. 24 La buona vita Si passa la parte migliore della vita prima a dire «È troppo presto», poi a dire «È troppo tardi». Gustave Flaubert Oggi Ore 16,20 Sull'aereo Con gli occhi luccicanti, Mark teneva lo sguardo incollato allo schermo. Davanti a lui il filmato si svolgeva come al rallentatore. Non ci aveva messo molto a capire che la scena era stata girata il giorno del rapimento di Layla. Riconobbe subito la felpa con il cappuccio e il piccolo Shrek di peluche che le aveva comprato la settimana prima. Era stupefatto, perché la polizia gli aveva sempre ripetuto che le telecamere di sorveglianza non avevano ripreso alcuna immagine di sua figlia. Le immagini diventavano sempre più sgranate e discontinue. Non riuscì nemmeno a identificare lo sfondo, ma Layla si trovava senza dubbio all'esterno del negozio. Non potè fare a meno di girarsi verso la figlia, che continuava a dormire il sonno dei giusti sul sedile accanto al suo. Si chinò addirittura su di lei per assicurarsi che respirasse normalmente, tanto temeva di perderla di nuovo. Tranquillizzato, tornò al «suo» portatile per constatare che la sequenza video, nominalmente della durata di due minuti e dieci secondi, si era arrestata dopo un minuto e mezzo. In un primo tempo pensò a un errore tecnico e premette più volte il pulsante play, riavviando l'intero filmato, ma non ci fu niente da fare: l'immagine si bloccava sempre quaranta secondi prima della fine. Combattuto tra la collera e il dispetto, trasse un lungo sospiro. Che cosa era accaduto in quei quaranta secondi? Sembrava che il destino si volesse accanire sui suoi nervi. «EHI, PREGO, NON FACCIA COMPLIMENTI, TANTO È IL MIO PORTATILE!» Mark alzò la testa di scatto, come se fosse stato svegliato all'improvviso. Con un gesto brusco, il signor Spremuta d'Arancia gli strappò di mano il computer. «L'ho solo preso in prestito» tentò di giustificarsi Mark. «Prestito? Ma non dica cazzate!» «Volevo solo verificare che tutto funzionasse» spiegò Mark tornando a recitare il ruolo dell'idiota. «Temevo di averlo danneggiato quando le ho rovesciato addosso la spremuta e ho pensato che, se così fosse stato, avrei...» Ma l'uomo d'affari non era un fesso. «Ah, ma non finisce qui. Io la denuncio, così le passerà la voglia di rompere le scatole» lo interruppe guardandosi intorno alla ricerca di testimoni. Un'hostess intervenne per calmare le acque. D'istinto Mark capì che aveva tutto l'interesse a restare calmo e dare il meno possibile nell'occhio. Sovreccitato, l'altro insistette con le rimostranze.
«Desidero segnalare questo incidente al comandante» ripetè diverse volte all'hostess. «Benissimo, signore, non mancheremo di informarlo» promise lei. Con quelle parole, lo riaccompagnò al suo posto e gli rivolse un sorriso forzato che in pratica voleva dire «torna a sederti, bello, e piantala di sbraitare. L'incidente è definitivamente chiuso». «Papà, e il cremino?» La piccola lite aveva svegliato Evie e Layla. Mark si girò verso di loro e riuscì quasi subito a mettere da parte nervosismo e interrogativi per mostrarsi sereno e pacifico. «Allora, ragazze, ce lo vogliamo mangiare, questo gelato?» disse battendo le mani. «Sì, sì!» esclamò Layla tutta contenta. Mark la prese per mano e fece segno a Evie di seguirli. Il gruppetto salì al centro del ponte superiore e cercò un tavolo libero al Floridita. Adesso il locale dove Mark si era seduto poco tempo prima somigliava più a una sala da tè che a un lounge bar. Per servire la nutrita clientela, il barman Isaac era stato affiancato da due aiutanti. In un clima gioviale, i tre preparavano a gran velocità sia cocktail sia gigantesche coppe di gelato. Quando si liberò un tavolo, Layla fu la prima a sedersi. Prese la lista dei dessert come se fosse il Santo Graal e passò in rassegna con l'acquolina in bocca le foto della coppa cioccolato e panna, della banana split e del nutrito seguito di sofisticate bombe caloriche. Divertiti dal suo comportamento, Mark ed Evie la raggiunsero. Mark si guardò attentamente intorno, ma Alyson Harrison era sparita. Ordinarono un Frozen hot chocolate che Isaac portò loro di persona, con tre cucchiaini e tre cannucce. Posata sul tavolo, l'enorme ciotola di vetro, grande quanto la sfera di un pesce rosso, conteneva dieci palle di gelato, tutte al cioccolato, ma di vari generi, immerse in una crema al cacao e sormontate da una montagna di panna montata. «Mangia piano» disse Mark, quando Layla si gettò con avidità sulla coppa. «Non te la ruba nessuno.» Infilando la cannuccia in bocca e il naso nella panna, la bambina risucchiò il cioccolato fuso. Evie la prese un po' in giro, poi cominciò anche lei a mangiare. Per la prima volta Mark la vide sorridere. Il racconto della sua vita e del suo desiderio di vendetta l'aveva molto colpito. Gli dispiaceva di non aver saputo la fine della storia, ma qualcosa gli diceva che Evie avrebbe ripreso le sue confessioni prima che l'aereo atterrasse. Quel viaggio era stato ricco di incontri e sorprese. Buone e cattive. Assaporando il gelato, Evie guardava Mark e Layla: lei che non aveva mai avuto una vera famiglia, si commuoveva di fronte a quell'uomo solido e fragile allo stesso tempo, che stava cercando, dopo cinque anni di blackout, di recuperare con la figlia il rapporto complice e affettuoso di prima. Isaac, intanto, aveva aumentato il volume della musica. L'atmosfera era piacevole. Evie prese un cucchiaino di quel meraviglioso cioccolato fuso e chiuse gli occhi per gustarlo meglio. Sempre a occhi chiusi, scosse la testa seguendo il sax di John Coltrane, serena come non era mai stata. Di nuovo si accorse di come i suoi pensieri si concentrassero su Connor, che ora sentiva ancora più vicino. All'età che aveva lei adesso, lui non aveva gettato la spugna, ma aveva avuto il coraggio di agire. Aveva lavato l'offesa, rendendo occhio per occhio e dente per dente; poi aveva trovato la forza di diventare uno dei medici più all'avanguardia del Paese. Una bella vittoria sulla vita. Ma la vendetta aveva placato il suo dolore? Fu quello che chiese a Mark appena riaprì gli occhi.
25 Mark & Connor Terzo flashback 1989-1995: The freshman years - Gli anni universitari Mark e Connor sbarcano a Manhattan un pomeriggio piovoso di ottobre. Hanno diciassette anni. Quante volte hanno sognato New York, ripetendosi, dai bassifondi di Chicago, parole magiche come Central Park, Washington Square, World Trade Center e Statua della Libertà! Quello che si presenta ai loro occhi è però completamente diverso da ciò che hanno visto nei film. Appena scendono dal treno, sono colpiti dal grigiore del cielo, che dà alla città un'aria triste e glaciale. Ma il freddo è nel loro cuore. Sono due ragazzi in fuga, che non hanno idea di come sarà il domani. Forse la polizia li rintraccerà e forse la loro avventura finirà prima del previsto in una squallida cella. Intanto bisogna sopravvivere. È Mark ad assumere il comando delle operazioni. È venuto il momento di dimostrare che è davvero intelligente e in gamba come ha sempre creduto di essere. Deciso a lottare con le unghie e coi denti, trascinando un Connor smarrito e depresso, trova un appartamentino vicino al campus della New York University. Poi spende tutte le sue energie per superare gli ostacoli burocratici che impediscono l'iscrizione all'università. Per fortuna non hanno limitazioni materiali: grazie ai soldi sottratti agli spacciatori, potranno pagare l'affitto e una parte degli studi. Dopo un mese ottengono finalmente la tessera studentesca che tanto desideravano, e si gettano a capofitto nello studio. Sanno esattamente che cosa vogliono: ottenere il dottorato in psicologia per aprire un giorno uno studio tutto loro. Le tre di notte. Connor entra in bagno, accende la luce e si chiude la porta alle spalle per non svegliare Mark che dorme nella stanza accanto. Fruga nel cassetto del mobile che funge da armadietto dei medicinali, afferra un tubetto e tira fuori due compresse che ingoia con un po' d'acqua. Sono la quinta e la sesta pillola della giornata. Il foglietto illustrativo raccomanda di non superare le quattro, ma Connor sta troppo male. Frastornato e inebetito, si guarda per qualche istante allo specchio e gli sembra di vedere la faccia di uno sconosciuto. Alla luce smorta della lampadina, si sbottona la giacca del pigiama, si denuda il torace deturpato dalle cicatrici e lo contempla con un misto di attrazione e disgusto. Da qualche tempo si è reso conto che conserverà tutta la vita quel corpo martoriato. Mentre le mani e il torace hanno perso in buona parte la sensibilità, le gambe gli procurano dolori terribili e lo costringono a dipendere dagli analgesici. Al dolore fisico si aggiungono problemi costanti di sonno. Credeva di essersi sbarazzato degli spacciatori, ma continua a sognarli ogni notte. Credeva che la vendetta potesse chiudere per sempre una pagina della sua vita, ma la vecchia sofferenza ha ceduto il posto al dolore ancora più grande di vivere nella pelle di un assassino. Tornando a coricarsi, quella notte capisce con terrore che porterà sempre, per il resto della vita, l'angoscioso peso di un senso di colpa senza riscatto. Una sera vede Mark entrare nella sua stanza e porgergli il telefono. «Pronto» dice. All'altro capo del filo c'è la voce rassicurante di Loreena McCormick, che Mark ha avuto l'idea di chiamare a Chicago. La dottoressa si commuove sentendolo e gli consiglia di rivolgersi a un suo collega di New York per continuare la riabilitazione. Non si esce mai dalle difficoltà da soli.
Connor si rimette in sesto a poco a poco. Ogni volta che può, evita di prendere gli analgesici e li sostituisce con bagni, massaggi e applicazioni di calore. Grazie a Mark e ai consigli di Loreena, riacquista una certa fiducia in sé, ma teme sempre la reazione della gente. La faccia è stata risparmiata dalle ustioni, ma questa fortuna è un'arma a doppio taglio, perché il suo viso attraente fa a pugni con un corpo ripugnante. Con le ragazze Connor prova sempre la stessa paura: all'inizio riesce a sedurle, ma ha sempre l'impressione di «ingannarle sulla merce». Convinto che finiranno per respingerlo, solo di rado va oltre i primi abbracci e, quando lo fa, si affretta a essere «quello che lascia» anziché «quello che è lasciato». Gli anni passano. Connor soffre sempre d'insonnia, ma cerca di farne un punto di forza. Per sfuggire agli spacciatori che lo perseguitano nel sonno, passa la notte a studiare e divora tutti i manuali di psicologia. La sua tenacia nello studio e la passione colpiscono molto i professori. Uno di loro, un luminare della psichiatria, lo prende come assistente e se lo porta dietro dappertutto. In pochi anni, Connor fa così esperienze nelle prigioni, negli ospedali e nelle scuole per portatori di handicap. Ovunque vada, non lascia indifferente nessuno. Con quello che ha subito, è diventato molto sensibile alla sofferenza altrui e tende a mantenersi a sua volta in uno stato di fragilità emotiva per poter sentire e comprendere meglio i pazienti. Sa che questa strategia può essere rischiosa, ma si tratta di un prezzo che è disposto a pagare. Presto, però, capisce che, se il segreto dell'animo umano si trova nel cervello, occorre integrare gli studi psicologici con quelli neurologici. E con la tenacia che lo contraddistingue si lancia senza risparmio in questa direzione, sempre animato dallo stesso obiettivo: comprendere il funzionamento del cervello, sondare i meandri del pensiero, esplorare la centrale dei sogni e dell'inconscio. 1996-2001: The golden years - L'età dell'oro La donna della mia vita 15 maggio 1996 Una mattina di primavera, Mark entra in una farmacia dalle parti di Washington Square, sussurra un «buongiorno» e si mette in fila con gli altri clienti. Vuole comprare una confezione di aspirina nella speranza che gli passi il cerchio alla testa causato dai bagordi. Il giorno prima, i New York Knicks hanno finalmente vinto una partita contro i Bulls di Michael Jordan, restituendo suspense agli eventi sportivi di fine stagione. Mark era tra il pubblico. Un posto pagato una fortuna al mercato nero, ma ne valeva la pena. Per festeggiare la vittoria aveva trascorso tutta la notte a gozzovigliare. Ha ventiquattro anni e la vita gli sorride: neolaureato, ha trovato da poco un impiego come psicologo in un centro di rieducazione. Gli anni di miseria e difficoltà di Chicago sono ormai alle spalle. Adora il suo lavoro, la sua vita, Manhattan. Immerso nella lettura del «New York Times», non ha notato la giovane donna che è in coda davanti a lui. Con l'astuccio del violino in mano, Nicole è intenta a guardare la scena che si svolge sotto ai suoi occhi. La prima della fila ha un bambino in braccio e ha chiesto una confezione di latte in polvere e un pacco di pannolini. Ha il viso stanco e stringe una banconota da dieci dollari nella mano contratta. «Sono quattordici dollari e novantacinque» dice la farmacista. La donna ha un attimo di esitazione. È chiaro che non aveva previsto di dover sborsare quella somma. Preoccupata, fruga nel borsellino, sperando, senza crederci troppo, di trovare i dollari mancanti. «Allora, questi soldi?» brontola la farmacista con un sospiro. «Arrivo, arrivo» si scusa la cliente riempiendo il bancone di cartacce e monetine. Nella fila, tutti intuiscono che non ne ha abbastanza per pagare. Alcuni si spazientiscono, altri la compiangono in silenzio. A quel punto si fa avanti Nicole.
«Credo le siano caduti questi» dice chinandosi e allungando alla donna una banconota da venti dollari. L'altra la guarda sbalordita e lascia passare parecchi secondi prima di prendere i soldi che le permetteranno di salvare la faccia. «Grazie» risponde, abbassando gli occhi. «Signorina!» Sul marciapiedi, Mark corre dietro a Nicole per cercare di raggiungerla. A che filo sono appese le cose? È bastato che alzasse gli occhi dal giornale e incrociasse lo sguardo della sconosciuta perché provasse una fitta al ventre e il cuore prendesse a battergli all'impazzata. Ha avuto subito chiaro un obiettivo: non lasciar allontanare quella ragazza senza conoscere almeno il suo nome. «Signorina!» «Sì?» domanda Nicole girandosi. «Buongiorno» balbetta lui riprendendo fiato. Non si sente più le gambe e ha le mani umidicce. Di' qualcosa, Mark. Non restare lì impalato come un cretino. «Mi... mi chiamo Mark Hathaway. Ero dietro di lei in farmacia e ho visto come ha aiutato quella donna.» «Che cosa vuole che sia» fa lei con una scrollata di spalle. «E del quartiere?» «A lei che importa, scusi?» replica diffidente Nicole. «Be', ecco, posso offrirle un caffè?» «Neanche per sogno» risponde lei, riprendendo a camminare. «La prego» insiste Mark sbarrandole il passo. «Ma se non la conosco nemmeno!» «Ragione di più per accettare: ne approfittiamo per conoscerci.» «Con me perde il suo tempo.» «Accettando un caffè non si compromette di certo.» «No, grazie. E poi sono già abbastanza nervosa senza bisogno della caffeina.» «Allora prenda una cioccolata calda, che è anche afrodisiaca.» «Ma guarda un po' che cosa va a inventarsi» sospira la donna, alzando la mano per chiamare un taxi. «Non è un'invenzione. Presso gli aztechi, il re Montezuma beveva cinquanta tazze di cioccolata al giorno prima di onorare le donne del suo harem.» «E crede di essere spiritoso?» Un taxi si ferma davanti al marciapiedi e Nicole vi sale senza indugio. «Mi dia almeno il suo numero di telefono» la supplica Mark. «È nell'elenco telefonico» risponde perfida lei. «Ma non so nemmeno il suo nome.» «Anche quello è nell'elenco» dice Nicole sbattendo la portiera. Il taxi parte. Mark gli corre dietro per qualche metro, mentre gli automobilisti che arrivano nell'altro senso protestano suonando il clacson. Stizzito, resta un attimo immobile sul marciapiedi. Si sente suonato come un pugile dopo un ko. È strano, ma ha la certezza di essersi lasciato scappare la donna della sua vita e si maledice per essersi comportato come un quindicenne. Non c'è da stupirsi che mi abbia snobbato: ha visto un pietoso pagliaccio, un adolescente invecchiato capace solo di fare battute penose. Lui che crede ai segni del destino, lui che confida nella fortuna, impreca per non aver avuto il tempo di mostrarle chi era veramente. Peggio: non è nemmeno riuscito a sapere il suo nome, perdendo così ogni speranza di ritrovarla. Non ha mai osato dirlo a nessuno, nemmeno a Connor, ma fin da piccolo ha sempre creduto che un angelo custode vegliasse su di lui, avvertendolo
quando stava per verificarsi un avvenimento importante. Invece oggi nessuno lo ha aiutato a cogliere la buona occasione. Stronzo di un angelo custode, perché non mi hai aiutato?, si infuria in cuor suo. «Ehi, guarda dove metti i piedi!» gli grida un tizio con i roller che corre nella sua direzione. Mark si scosta, ma non abbastanza in fretta da evitare lo scontro e finisce a gambe all'aria sul marciapiedi. «Ti sei fatto male?» domanda il tizio tendendogli la mano per aiutarlo a rialzarsi. Mentre si rimette in piedi, Mark vede un palo a ridosso del viale. Sul palo è affisso un cartellone. Sul cartellone c'è un volto. Sotto l'immagine c'è l'annuncio di uno spettacolo: Nicole Copland al Carnegie Hall Concerti per violino di Prokofiev - Stravinskij Boston Symphony Orchestra Giovedì 18 maggio Grazie, angelo custode. «Che te ne pare?» Dall'alto dell'ultimo palco dell'auditorium, Mark e Connor ascoltano l'orchestra e la solista eseguire il concerto di Prokofiev. La prestigiosa sala da concerto vibra al ritmo delle cangianti linee melodiche di quel pezzo riservato ai più grandi virtuosi del violino. «Allora, che te ne pare?» chiede di nuovo Mark. Un coro di furibondi «Sstt!» di disapprovazione sale verso il palco dei due amici. «Non c'è dubbio che suona bene» sussurra Connor. «Che ne sai, tu, di musica classica?» «Niente» ammette Connor. «In ogni caso, è davvero una bella donna.» «Pensi che abbia qualcuno?» «Una donna così, per forza.» «Pensi che io abbia una possibilità?» «Devo essere sincero?» «Assolutamente.» «Sarà dura, vecchio mio» dice Connor. «SSSSTTTT!» Ore 22,57 NICOLE (brusca): Non si faccia illusioni, ho accettato il suo invito soltanto per evitare di andare a cena con i miei colleghi. Mark (divertito): L'ho capito benissimo. Sono seduti l'uno di fronte all'altra a un tavolino sotto la cupola stellata del bar del Mansfield Hotel. La sala è rivestita di mogano e brilla di migliaia di lampadine simili a stelle, che creano un 'atmosfera intima e accogliente. Il barman porta loro le consumazioni con aria solenne: un cocktail del colore delle violette per Nicole e una Corona per Mark. Nicole (un po' meno brusca): Così dunque è psicologo? Ore 23,08 Nicole (ironica): Parla molto d'amore per essere uno psicologo. MARK (convinto): Perché l'amore è la sola cosa interessante della vita. Nicole (dubbiosa): Un'idea discutibile. Mark: Provi a immaginare la vita senza: sarebbe terribilmente noiosa. Se non altro, l'amore fa passare il tempo. Nicole (rassegnata): E il tempo fa passare l'amore. Lui la guarda. Ha il viso fine, le guance leggermente incavate. E qualcosa di triste e irresistibile nello sguardo. Ore 23,12 MARK (con nonchalance): Immagino ci sia qualcuno nella
sua vita, vero? esattamente?
Nicole:
Non
esattamente.
Mark
(con
interesse):
Non
NICOLE (con un sorriso): Diciamo che in questo momento dormo con il mio violino. Mark: Spero sia affettuoso. Nicole (sorseggiando il suo cocktail): È un costosissimo Guarneri. MARK: Un italiano. NICOLE: Un po' canaglia, ma molto romantico. Gli faccio in continuazione la corte e lui la fa a me. Lo guarda, sorride e si scosta una ciocca dal viso. Non lo sa ancora, ma sta per innamorarsi. Ore 23,24 Mark: Ci rivediamo? NICOLE (di colpo più distaccata): Non credo. Mark stringe gli occhi, la guarda intensamente e vede passarle un 'ombra sul viso. La sua bocca ha appena detto «Non credo», ma i suoi occhi dicono «Lo spero». MARK: C'è qualcosa che la preoccupa? Nicole (esitante): Poco fa, quando mi ha chiesto se c'era qualcuno nella mia vita, le ho mentito. MARK: Ha qualcuno? Nicole: Sì. mark: Una donna come lei, non mi stupisco. Silenzio. NICOLE (prendendo qualcosa dalla borsa) : Eccolo. Mark pensa in un primo tempo che stia per mostrargli la foto di un uomo. Invece Nicole gli fa vedere un test di gravidanza nella sua capsula di plastica. Lui si sente autorizzato a guardarne il risultato. È positivo. MARK (con un sorriso dolce e sereno): «Eccolo» se è un maschio, ma «eccola» se è una femmina. Silenzio. NICOLE: Allora è sicuro di voler sempre uscire con me? MARK: Più che mai. È una femmina! Layla è arrivata l’11 gennaio 1997 alle 15. Pesa 2,990 kg ed è lunga 48,5 cm. La nostra gioia è infinita! Mark e Nicole Hathaway 10 Greene Street Brooklyn, NT, 11238-6050 The Family Man 10 settembre 2001 Mark e Nicole festeggiano i cinque anni di matrimonio e per l'occasione hanno invitato qualche amico a una festa con barbecue in giardino. È una bella serata di fine estate, con un'atmosfera molto «American life» a cui fanno da sottofondo Marvin Gaye, Léonard Cohen e Johnny Cash. Con un forchettone in mano dietro il braciere, Mark insegna a Layla la scienza e i pericoli della cottura alla brace. «Ecco, questa è per te» dice, posando una coscia di pollo cotta a puntino sul piatto di carta della bambina. «Vado a metterci il ketchup» risponde lei attraversando di corsa il prato. Mark si accorge che Connor se ne sta in disparte con lo sguardo vacuo e distratto e, dopo aver abbandonato il barbecue, gli si avvicina. «Prova ad assaggiare questo nettare» gli dice, porgendogli un bicchiere di vino. «Che cos'è?» «Chàteau Cheval Blanc 1995, un Saint-Émilion grand cru.»
Mark è neofita dell'enologia e mostra l'entusiasmo dei dilettanti. «Guarda che bei riflessi rubino. E che tannini dolci ed eleganti. Poi gli aromi, li senti? Ribes nero, liquirizia, fragola, ciliegia succosa.» «Ciliegia succosa, ne sei sicuro? Fammelo gustare» dice Connor ridendo. «Alla tua salute, vecchio mio.» «Alla tua» risponde Mark. Due anni prima si sono messi in proprio e il loro studio ha un enorme successo. Connor è un professionista eccezionale, ma anche un ricercatore originale, sempre in cerca di nuove terapie. Il suo metodo per smettere di fumare con l'ipnosi fa furore a Manhattan e assicura al loro studio un introito costante. Forte di quel successo, Connor ha adattato la tecnica alla cura di altri disturbi, come l'alcolismo, le depressioni, l'ansia cronica e le fobie. Mark, invece, si occupa più del lato «relazioni pubbliche», e presto i mass media si sono innamorati di quel giovane psicologo dal fisico prestante e l'eloquio rassicurante. «Ti ricordi quando, da ragazzi, allungavamo le bottigliette di Coca-Cola con l'acqua per farle durare di più?» chiede Connor. «Certo, e il risultato era disgustoso» replica Mark. «Non più disgustoso del tuo chàteau-come-cazzo-si-chiama.» «Ti rendi conto di quanta strada abbiamo fatto? Nonostante gli ostacoli, siamo riusciti ad avere successo.» «Non lo so» fa Connor, pensieroso. «Come, non lo sai?» «A volte ho l'impressione di non avere mai abbandonato Chicago.» «È per i tuoi incubi?» «È qualcosa di più profondo. Se tu sapessi fino a che punto sono pentito di avere ucciso quei due.» «Erano due spacciatori...» «Può darsi, ma sono diventato come loro. E la cosa più terribile è che ho approfittato dei loro soldi. Sono sicuro che saremmo potuti uscire dalla fogna in un altro modo.» «No» ribatte secco Mark. «Sai benissimo che senza quei soldi saremmo ancora laggiù. Era il prezzo da pagare, anche se mi dispiace che sia toccato a te portare il fardello. Senti, Connor, tutto questo è passato. Pensa al futuro.» «Per me è come se fosse ieri.» «Abbiamo già percorso il tratto più difficile. Ormai non può più succederci niente.» Layla interrompe la loro conversazione e si getta tra le braccia del padre. «Tieni una fetta di torta, papà. Mi fai fare l'aeroplano?» Mark stringe la figlia tra le braccia, ma continua a guardare Connor negli occhi. «Ormai non può più capitarci niente» ripete, come a volersene convincere lui stesso. «Può capitarci tutto» ribatte Connor. «No. Siamo più saldi e più forti, oggi.» «Al contrario, abbiamo tutto da perdere.» Mark riflette un istante, poi dice: «Dovresti fare come me: sposarti e avere dei figli». «Non credo. Quando si ama, si diventa vulnerabili.» «No, si diventa più forti» assicura Mark. Ma Connor non si lascia convincere. «Quando hai paura di perdere le persone che ami, diventi vulnerabile. Sei fragile: ti possono colpire facilmente, per esempio prendendosela con i tuoi cari. E io non posso permettermi di sentirmi debole.» «Perché?» «Perché il passato mi riafferrerebbe» dice Connor vuotando il bicchiere. Mark vorrebbe replicare, ma Layla lo trascina nei suoi giochi.
«Allora, papà, mi fai fare l'aeroplano?» 2001-2006: The darkness years - Gli anni bui Dov'eravate, voi, quella mattina? L'indomani, 11 settembre 2001 «Su, Layla, prendi la cartella, altrimenti tu farai tardi a scuola e io al lavoro.» «Ma ho sonno!» «Eh già, tesoro, perché saresti dovuta andare a dormire prima ieri sera, come ti aveva detto il papà.» «Ma volevo stare alla festa.» «Lo so. Su, forza, mettiti il giubbotto e va' a salutare la mamma.» Mentre la figlia sale al primo piano, Mark spegne il computer portatile, lo infila nella custodia e beve il resto della spremuta d'arancia. «Ciao, amore!» «A stasera!» gli risponde Nicole, mentre Layla scende le scale alla velocità della luce. Ed ecco che padre e figlia escono di casa in questa mattina di sole, a Brooklyn. «Dov'è la macchina?» chiede Layla camminando lungo il marciapiedi. «Più lontano, ciccia. Dai, che ti porto in braccio.» «Sono troppo pesante» ride lei. «Troppo pesante? Lo vedrai!» Mark la solleva con un braccio solo e prende la cartella con l'altra mano. «Non sapevi che ero Muscolman, eh?» «Chi è Muscolman?» «L'uomo più forte dell'universo.» «E sei tu?» «Certo. Combatto le forze del Male con una formula magica: in grazia del cranio ancestrale, posseggo la forza onnipotente». «Sul serio?» domanda incredula lei. «Quasi, tesoro. Quasi.» Mentre corre sul marciapiedi con la figlia in braccio, Mark ripensa a quello che gli ha detto Connor il giorno prima. È un periodo in cui il suo amico non è affatto felice. Diversamente da lui, non trova serenità nel successo che ottiene sul lavoro. È sempre tormentato dal passato, roso dai rimorsi e convinto che un giorno il pericolo tornerà a insidiarlo. «Ecco la macchina» dice Layla. «Posso aprirla con il telecomando?» Mentre guarda la figlia aprire a distanza le portiere, Mark si domanda da dove potrebbe arrivare il pericolo. L'aria è dolce e il cielo non gli è mai parso così azzurro. Prima di sedersi al volante, dà un'occhiata all'orologio: sono le otto e quarantasei. Dopo meno di un minuto, il primo aereo colpirà la torre nord. Dopo meno di un minuto, New York perderà tutte le sue certezze. 26 marzo 2002 Notizie lampo - cnn/us «Dopo tre giorni di ricerche, ancora nessuna notizia di Layla Hathaway, la bambina di cinque anni scomparsa venerdì in un centro commerciale di Orange County. «Layla è figlia della violinista Nicole Copland e dello psicologo newyorchese Mark Hathaway. Rifiutandosi di seguire i consigli dell'FBI, Hathaway ha deciso di parlare davanti alle nostre telecamere per rivolgere un appello agli eventuali rapitori della figlia.» Mark appare sullo schermo. È livido, sconvolto, con gli occhi cerchiati.
«Vorrei pregare quelli che mi hanno strappato mia figlia di non farle del male. Chiedetemi un riscatto e lo pagherò. Chiedetemi quello che volete e obbedirò. Ma non fate del male a mia figlia, vi scongiuro.» Per tutto c'è un tempo, c'è un momento per ogni cosa sotto il cielo: un tempo per nascere e un tempo per morire [...]; un tempo per uccidere e un tempo per guarire; un tempo per demolire e un tempo per costruire; un tempo per piangere e un tempo per ridere [...]; un tempo per strappare e un tempo per cucire; un tempo per tacere e un tempo per parlare; un tempo per amare e un tempo per odiare. [...] Ecclesiaste, 3 10 gennaio 2005 «Me ne vado, Connor.» Mark è appena entrato nell'ufficio dell'amico. Da qualche mese hanno trasferito lo studio nel nuovissimo palazzo del Time Warner Center. Un trasloco previsto da tempo, ma al quale Mark non ha partecipato. Da quando, tre anni prima, Layla è scomparsa, non si è più recato al lavoro e si è dedicato esclusivamente alla ricerca della figlia. «Te ne vai, dove?» «Non lo so. In ogni caso, puoi togliere il mio nome dalla targa. Se vuoi rilevare la mia parte, parlane con Nicole: non farà storie.» «Cerca di riprendere il controllo, vecchio mio» risponde Connor abbracciandolo. «Quello che stai passando è terribile, ma non sei solo. Hai una moglie che ti ama, e poi ci sono io. Oggi abbiamo più bisogno che mai di essere uniti.» «Lo so» dice Mark staccandosi dall'abbraccio, «ma non posso più fingere: è al di sopra delle mie forze.» Connor non si dà per vinto. «Abbiamo sempre superato tutto insieme, per la vita e per la morte, non ti ricordi? Lascia che ti aiuti come tu hai fatto con me.» Ma Mark resta sordo al suo invito. Allora, come cercando di convincere se stesso, Connor dice: «Alla fine, nonostante tutto, si sopravvive. Non si dimentica mai e il dolore resta sempre nascosto in fondo al cuore, ma si sopravvive. È quello che ho sempre fatto in tutti questi anni e insegnerò a farlo anche a te». Ma Mark non lo ascolta. Disperato, Connor tenta di metterlo in guardia per l'ultima volta. «Non fare sciocchezze: se ti lascerai troppo andare, non ti risolleverai più.» Scrollando le spalle, Mark si dirige alla porta. E già altrove. «Se non torno con mia figlia, preferisco non tornare.» 26 La nostra vendetta sarà il perdono La nostra vendetta sarà il perdono. Tomas Borge Vivete bene. È la migliore delle vendette. Talmud Oggi Ore 17,10 Sull'aereo «Non ne voglio più» sbuffò Layla, appoggiando il cucchiaino. Mark, Evie e Layla erano sempre seduti al tavolo del Floridita. La bambina guardava con dispetto gli avanzi dell'enorme gelato che non era riuscita a finire. Suo padre le scompigliò teneramente i capelli, poi guardò dall'oblò. Sotto di loro si stendeva un infinito tappeto di nubi. Le confidenze che aveva appena fatto a Evie lo avevano riportato al lontano passato e lo avevano indotto a rievocare molti eventi dimenticati da cui riusciva a trarre una sola conclusione: «Non devi fare come Connor. Non devi rovinarti la vita cercando la vendetta». L'adolescente gli lanciò un'occhiata scettica. «Credo che lei non possa capire.»
«Sì che capisco» ribatté Mark. «Capisco benissimo la tua sofferenza, perché mi ricorda la mia. Soffri, com'è inevitabile che sia. Quello che è stato fatto a tua madre è criminale ed è normale che tu sia accecata dalla collera.» «E dall'odio» aggiunse Evie, con gli occhi lucidi. Mark le posò una mano sulla spalla. «La rabbia può servire, purché la si trasformi in una forza positiva.» «Cazzate da psicologi» ribatté la ragazzina. Mark rifletté un attimo sull'argomento, prima di rispondere. «Ti assicuro che la vendetta non estinguerà il tuo dolore, e non sto parlando da psicologo.» «Se ci fosse Connor...» «Se ci fosse Connor, ti direbbe che al male subito non si rimedia così. Lo ha sperimentato sulla propria pelle.» «Ma a quell'uomo» balbettò Evie con voce carica di dolore, «a quel Craig Davis, vorrei rendere dieci, cento volte il male che mi ha procurato.» «Se lo uccidessi, l'omicidio non ti renderebbe tua madre e ti perseguiterebbe tutta la vita. Niente sarebbe più come prima.» Le versò un bicchiere d'acqua. Evie si bagnò le labbra, poi confidò con voce rotta: «Io e mia madre siamo sempre state disprezzate e umiliate da tipi come lui». «Lo immagino.» «Non voglio più lasciarmi umiliare.» «Hai ragione, ma ci sono mezzi diversi dalla vendetta per evitarlo.» «Che cosa dovrei fare, secondo lei?» Mark si fermò un istante, consapevole della reazione ostile che avrebbe provocato. «Perdonare.» «No, non voglio perdonare!» si ribellò lei. «Non voglio dimenticare!» «Perdonare non vuol dire dimenticare, e nemmeno giustificare o assolvere» spiegò lui pacatamente. «La vendetta alimenta l'odio, mentre il perdono ce ne libera.» Anche Evie esitò un attimo prima di rispondere con voce tremante. «E se le avessero ammazzato la figlia, avrebbe perdonato?» «Non so se ne sarei stato capace» ammise Mark senza cercare di eludere la domanda, «ma sono sicuro che ci avrei almeno provato.» Guardò Layla: stava giocherellando con gli ombrellini di carta che decoravano il gelato. «Credo che perdonare sia la cosa più difficile del mondo» continuò, «quella che, in ogni caso, richiede la forza maggiore.» Fece una pausa, poi proseguì calmo: «Ma è per te stessa che devi perdonare, Evie. Per liberarti del passato e avere finalmente la possibilità di vivere una vita normale». Evie alzò le spalle. «Per me è già tutto finito. Non ho niente: né famiglia, né soldi, né prospettive.» «Per la miseria, ma hai tutta la vita davanti!” sbottò Mark. «Non cercare assurde scuse per non fare progressi!» «Ma quell'uomo è un assassino!» urlò lei, quasi strozzandosi. Mark giunse allora alla conclusione che gli girava in testa fin dall'inizio. «Sai, Evie, credo che dietro quel Craig Davis, la vera persona che cerchi di punire...» L'adolescente aspettò che finisse di parlare. «... la vera persona che cerchi di uccidere, sei tu.» «No!» gridò lei, trattenendo a stento le lacrime. Senza lasciarle il tempo di assorbire il colpo, Mark rincarò la dose.
«Sì, invece. Ti rimproveri di avere dubitato delle parole di tua madre. Ti senti responsabile di quello che le è successo ed è questo che non riesci a sopportare.» «Non è vero» si difese la ragazza, ma le lacrime che avevano cominciato a rigarle il viso la smentivano. «Non credere che le cose sarebbero state diverse» la fece ragionare Mark. «Tu non hai colpa.» Evie adesso era scossa dai singhiozzi. «Perché non le ho creduto? Perché?» «Su, su, coraggio» disse Mark, circondandole le spalle con un braccio. «Mi aveva sempre mentito, ma quella volta no, non mentiva.» «Su, su, coraggio.» Senza più ritegno, Evie si lasciò andare e gli seppellì la testa contro la spalla. Mark aveva liberato qualcosa che si annidava nei profondi recessi della sua psiche, qualcosa di cui Evie non si era resa conto fino a quel momento. Per un minuto nessuno parlò, poi Layla bisbigliò: «Perché Evie piange, papà?». «Perché soffre.» «Per la sua mamma?» Mark annuì in silenzio e allora anche Layla abbracciò Evie. «Non essere triste» le disse la bimba accarezzandole i capelli. Piano piano i singhiozzi si placarono, e Mark le porse un fazzoletto. «Papà, mi scappa la pipì» annunciò all'improvviso Layla con voce da bambina piccola. «Ti accompagno io» si offrì Evie. Mark annuì e si diedero appuntamento più tardi ai loro posti. Mentre pagava, le guardò allontanarsi. Si tenevano per mano come due sorelle. Stava per andarsene dal Floridita dopo aver lasciato a Isaac una mancia proporzionale alle dimensioni della coppa di gelato, quando la rivide. Sola, seduta nel retro della sala, Alyson Harrison stava finendo la sua seconda coppa di Dom Pérignon. «Pink Champagne» constatò Mark, avvicinandosi al suo tavolo. Alyson si tolse gli occhiali da sole e alzò gli occhi per guardarlo. «Ora non mi dirà mica che era la bevanda preferita di Hemingway? Io semmai avrei detto il whisky.» «In ogni caso, era la bevanda preferita di Cary Grant e Deborah Kerr in Un amore splendido.» Con un gesto, Alyson lo invitò a sedersi. In fondo sperava che sarebbe tornato. Quell'uomo, il cui viso non le era nuovo, possedeva uno strano magnetismo che non aveva nulla a che vedere con il fascino o la seduzione. La tregua non era durata, ma quando si era confidata con lui, qualche ora prima, si era sentita liberata dal senso di terrore che da tempo la perseguitava. «Come mai ho l'impressione di conoscerla?» chiese. «Un approccio vecchio stile, ma sempre efficace.» «No, parlo sul serio.» Mark decise di essere sincero. «Diciamo che ho avuto il mio quarto d'ora di celebrità, qualche anno fa.» «In che campo?» «La psicologia. C'è stato un periodo in cui comparivo molto sulla cnn e su MSNBC. Ero lo psicologo di turno, quello che rassicura i telespettatori dopo ogni avvenimento tragico: il massacro di Columbine, l'11 settembre, le buste di antrace.» «E non esercita più?» «No, ho smesso.» «Come mai?» «A causa, ovviamente, di un avvenimento tragico. Solo che questa volta ero il diretto interessato. In occasioni del genere si capisce che tutti
i consigli che si danno agli altri contano ben poco quando ci si trova in mezzo.» Un'ombra gli passò sul viso. Alyson ardeva dal desiderio di saperne di più, ma seguì un silenzio che la fece ripiombare nelle sue angosce. Aveva mal di testa, ma si versò un'altra coppa di champagne e la bevve d'un fiato, in modo compulsivo. Stava per versarne un'altra, quando Mark la trattenne con la mano. «Se venisse trasportata a braccio dalla scaletta dell'aereo a causa della sbronza, temo che i suoi amici paparazzi si divertirebbero da matti. Non faccia loro un simile regalo.» Alyson scrollò le spalle. «Umiliazione più, umiliazione meno.» «Perché si accanisce tanto contro se stessa?» «Perché è l'unica libertà che mi resta» rispose lei con gli occhi lucidi. «Perché la mia vita non vale più niente.» «So che un uomo non dovrebbe mai chiederlo a una donna, ma quanti anni ha, Alyson? Ventiquattro, venticinque?» «Ventisei.» «Come si può dire che la propria vita non vale più niente quando si hanno solo ventisei anni?» «È un mio problema.» Mark la provocò di proposito. «Non speri che la incoraggi nella sua autocommiserazione. Ha tutto quello che si può desiderare al mondo: ricchezza, gioventù, senza dubbio anche la salute. Dice che la sua vita non vale più niente? E allora la cambi. Faccia altre cose con altre persone. Può anche ripartire da zero: con i suoi soldi, può comprarsi una faccia nuova, un nuovo nome, una nuova esistenza.» «Non ci si può rifare la vita: la si può solo continuare. Lo sanno tutti, caro il mio psicologo.» «Stamattina le avevo rivolto una domanda, ma non mi ha risposto.» «Non me la ricordo più» fece lei, imbarazzata. «Volevo sapere per quale motivo cercava di punirsi.» All'inizio Alyson non rispose. Poi fu presa dall'irresistibile urgenza di spiattellare tutto a quell'uomo che conosceva solo da poche ore. Il bisogno di liberarsi del segreto che la tormentava era troppo forte. Certo, avrebbero potuto esserci conseguenze terribili, come la prigione e il disonore, ma, a ben riflettere, erano anni che la sua vita era una prigione. Quanto al disonore... Appena incrociò lo sguardo della giovane donna, Mark capì che glielo avrebbe detto. «Perché ho ucciso un bambino» rispose Alyson. 27 Alyson Terzo flashback Primavera del 2002 Beverly Hills, California Sono le due del pomeriggio. Nella camera da letto di una sontuosa villa in stile mediterraneo, Alyson apre un occhio e lo richiude subito dopo. La sera prima ha organizzato una festa per il compleanno del fidanzato di turno. C'era tutta Beverly Hills, e lei si è addormentata all'alba, piena di alcol e di nausea. Quando si decide finalmente a guardare l'ora, impreca per la rabbia e salta giù dal letto. Cazzo! Ha promesso di partecipare all'inaugurazione di una nuova palestra per vip a Huntington Beach ed è in ritardo. Si dirige in bagno, ma il risveglio è difficile: ha un terribile cerchio alla testa, bruciori di stomaco, la gola secca e le palpebre incollate. In questo momento si pente di ogni vodka e tequila che ha bevuto la sera prima con il sorriso
sulle labbra. In pochi anni è diventata un'habitué del mal di testa da sbornia. Ogni volta giura che non si ubriacherà più, ma i buoni propositi non durano molto. Dopo essersi rinfrescata, si trascina in cucina, dove Graziella, la vecchia governante portoricana, si sta affaccendando a riordinare dopo i bagordi della sera. «Perché non mi hai svegliato?» la rimprovera Alyson. «Non mi avevi detto di farlo.» «Ma che cosa aspettavi? Sono le due!» La domestica ispanica tira fuori un tegame dal forno e lo posa sul tavolo. «Tieni, ti ho preparato i pancake che ti piacciono tanto.» Ma Alyson li respinge con rabbia. «Burro e zucchero, sei matta? Non ho nessuna voglia di diventare grassa come te!» Graziella incassa senza battere ciglio. Da più di vent'anni è al servizio di Richard Harrison e ha visto nascere Alyson. In passato si intendevano bene. La ragazza le raccontava le sue giornate, i suoi segreti e le sue preoccupazioni. Ma da qualche tempo i loro rapporti si sono raffreddati. Di pessimo umore, Alyson si mette nel piatto qualche fiocco d'avena che innaffia con spremuta d'arancia. «Ho mal di pancia» brontola, aprendo la portafinestra. La cucina si affaccia su una splendida pool house al cui interno c'è una grande piscina a forma di chitarra. Alyson si siede un attimo fuori, su una sedia di tek, ma è costretta a rientrare perché comincia a piovere. Adesso ci si mette anche il tempo! Di nuovo in cucina, cerca due compresse effervescenti e le fa sciogliere in un bicchier d'acqua. «Faresti meglio a prendere il paracetamolo» osserva Graziella. «L'aspirina ti aumenta i bruciori di stomaco.” «Che ne sai, tu?» ribatte Alyson. «Mica sei un medico! Sei solo una donna di servizio!» Dopo quell'insulto, esce dalla cucina e va a chiudersi in bagno, dove si infligge una doccia fredda che anziché calmarla la distrugge. In camera da letto, dopo essersi infilata jeans attillati Blue Cult e sandali italiani Ferragamo, butta per aria l'intero guardaroba per cercare una maglietta. «Dove l'hai messa?» urla piombando in cucina. «Che cosa?» «La mia T-shirt.» «Ne hai centinaia.» «Quella rosa di Stella McCartney.» «Se non la trovi, sarà in stireria.» «Ma ti avevo detto di lavarla.» «Non mi hai detto proprio niente. E piantala con questi capricci, Aly. Hai ventidue anni, non dodici.» «Non permetterti di parlarmi così.» «Ti parlo come farebbe tua madre se fosse viva.» «Ma tu non sei mia madre, sei la mia domestica.» «Sarò anche la tua domestica, ma ti conosco da quando sei nata. E ti dico che stai diventando insopportabile. Sembri una bambina viziata, superficiale ed egoista. Non hai ancora capito che la ricchezza non dà soltanto dei diritti, ma anche dei doveri. No, tu dei doveri te ne freghi. Non hai nessun progetto, stai buttando la tua vita. Perciò sì, sono solo la tua domestica, una poveraccia che non vuoi nemmeno ascoltare, ma questo non mi impedisce di vergognarmi di te, bambina mia.» Offesa dalla verità che l'anziana donna le sbatte in faccia, Alyson prende dal tavolo la ciotola dei cereali e, senza calcolare la portata del suo gesto, gliela scaglia addosso.
Graziella è vecchia, ma ha buoni riflessi e schiva per un pelo il proiettile, che si rompe contro il muro. Per qualche secondo le due donne si guardano sgomente, paralizzate dalla violenza e dalla repentinità del gesto. Poi Alyson cede per prima e fugge di casa, rifugiandosi sulla sua auto, un fuoristrada rosso fiammante. Tremante, con gli occhi appannati, gira la chiave nel cruscotto e si allontana. Perché l'ho fatto? Una pioggia torrenziale si sta abbattendo sulle case allineate e sui loro giardini fioriti e perfettamente curati. La jeep Wrangler corre a tutta velocità lungo le vie fiancheggiate da palme e sicomori. Perché mi sono comportata in questo modo orribile?, si domanda Alyson con gli occhi pieni di lacrime. Tutto quello che le ha detto Graziella è vero. Da qualche tempo si comporta come una stupida. L'alcol e la cocaina le hanno fatto ormai perdere il controllo e a volte non sa quello che fa. Mentre la pioggia s'infittisce, Alyson si lascia alle spalle il mondo dorato di Beverly Hills e si addentra nell'arabesco di strade californiane. Prende meccanicamente la direzione di Huntington Beach, ma sa già che non si presenterà all'inaugurazione. Sopraffatta dalla vergogna, tenta di riordinare le idee. Bisogna che cambi al più presto, altrimenti finirà per fare un passo falso e commettere qualcosa di irreparabile. Rallentando, si asciuga le lacrime. Il temporale diventa così violento che i tergicristalli non bastano a liberare la visuale. Alyson cerca di tranquillizzarsi: è giovane e non ha perso che qualche anno. Può ancora rimettersi in carreggiata, riprendere gli studi, smettere di frequentare amici che non sono amici e di scegliere fidanzati idioti e sbruffoni. Le raffiche di vento fanno ondeggiare lajeep. Sull'autostrada, i cartelli invitano alla prudenza. Rincuorata, decide di tornare a casa, scusarsi con Graziella e ringraziarla di averle aperto gli occhi. Passerà il pomeriggio con lei e l'aiuterà a preparare la cena, come faceva quando era piccola. Stasera darà la buona notizia a suo padre. È una fortuna che questa settimana Richard sia a Los Angeles. Papà ha sempre avuto grandi piani per il suo futuro, ma Alyson si è allontanata da lui per sfida e per cocciutaggine. Che importa... tornerà a essere fiero di sua figlia. Ansiosa di attuare i suoi buoni propositi, zigzaga tra le auto per imboccare la prima uscita. L'autostrada è vicina a un'area di parcheggi e centri commerciali. Alyson stringe gli occhi per leggere i cartelli in mezzo alla cortina di pioggia. A dire la verità, il senso dell'orientamento non è mai stato il suo forte. Si lascia sfuggire l'uscita che voleva prendere e si ritrova sulla rampa di accesso a un parcheggio scoperto. Unita a un vento furioso, la pioggia torrenziale fa davvero impressione. Le torna in mente il film Magnolia, che termina con una misteriosa e inquietante pioggia di rospi. Diverse auto si sono fermate sul ciglio della strada per aspettare che il temporale si plachi, ma lei ha fretta di arrivare a casa. D'un tratto sente suonare il cellulare, che è dentro la borsa ai piedi del sedile del passeggero. Si china per prendere il telefonino, vuole solo guardare il nome sul display, ma... L'URTO È VIOLENTO E INATTESO. Alyson si rialza, terrorizzata. Ha colpito qualcosa. Il cordone del marciapiedi? Un animale? Preme il pedale del freno e apre la portiera. In tre secondi i battiti del cuore sono raddoppiati. Appena scende dalla
jeep, le sue peggiori paure trovano conferma: non ha investito una cosa, ma una persona. Un bambino. «Come ti senti? Stai bene?» Si precipita dal bambino e inorridisce vedendo che è immobile. Ha un corpicino esile, minuto. In terra e sugli abiti non ci sono tracce di sangue, ma la posizione della testa fa temere che abbia urtato una delle fioriere di cemento che si trovano ai lati della strada. Sconvolta, Alyson si guarda intorno, cercando disperatamente soccorso. «Aiuto! Aiutatemi!» Ma la zona è deserta. Tra lampi e tuoni, la pioggia scende più torrenziale che mai e le strade sono vuote. Non farti prendere dal panico. Non farti prendere dal panico. Torna in macchina, afferra il cellulare e compone il 911 del pronto soccorso, ma non riesce a ottenere la comunicazione, senza dubbio a causa del maltempo. Prova una seconda e poi una terza volta, sempre senza successo. Sferzata dalla pioggia torrenziale, decide di portare di persona il bambino all'ospedale. Lo solleva con ogni precauzione e lo trasporta sullajeep. «Te la caverai» dice. «Tieni duro.» Riparte e, nonostante il panico, riesce a raggiungere l'autostrada. Il General Hospital, in direzione est rispetto al centro, non è molto lontano. «Non morire, ti prego!» Alyson gronda pioggia e lacrime. Non crede in Dio, ma lo implora. Ti prego, fa' che si salvi. Fa' che si salvi. Sulla strada tutto è buio e deformato dalla pioggia. Sono le tre del pomeriggio, ma sembra notte fonda. Non punirmi attraverso lui. Arriva al parcheggio del pronto soccorso, ma l'accesso principale è bloccato da due autopompe. Invece di aspettare che abbiano finito, preferisce seguire le insegne luminose che indicano il parcheggio in fondo. Fermata la jeep, apre la portiera, gira intorno al fuoristrada e prende il bambino in braccio, ma quando lo solleva si rende conto della terribile verità: è già morto. Lancia un grido tremendo, poi, come in preda a delirio, lo stringe forte a sé. Passa un lungo momento prima che si decida a chiudere le portiere. Inebetita, non sapendo che fare, piomba in uno stato di prostrazione. Alla fine, come per un riflesso condizionato, compone il numero di suo padre. Mezz'ora dopo La pioggia è cessata e il parcheggio è avvolto da una nebbia umida. Un enorme 4x4 Hummer dai vetri oscurati entra nel recinto del General Hospital. Richard Harrison è il primo a scendere, seguito da Curtis, un afroamericano gigantesco che è la guardia del corpo e il «manovale» di Harrison. Nel corso della sua ascesa sociale, il tycoon ha avuto cura di circondarsi di un ristretto numero di persone che gli devono tutto e che sarebbero pronte a dare la vita per lui. Curtis è una di queste. I due vedono Alyson seduta su un muretto con la testa tra le braccia incrociate. Completamente fradicia e livida, trema e batte i denti e sembra in preda a un delirio. In una mano stringe convulsamente il braccialetto d'argento del bambino, che è caduto sul pavimento dell'auto. Richard si china su di lei, le tocca il viso e sente che brucia per la febbre. «Portala a casa, se ne occuperà Graziella» dice a Curtis. «Chiama il dottor Jenkins, se le cose si aggravano, e tieni l'aereo pronto a partire.»
Mentre Curtis avvolge Alyson in una coperta e la conduce sul 4x4, Richard apre la portiera della jeep della figlia, vede il cadavere del bambino e richiude in fretta. «E il resto?» domanda Curtis. «Del resto mi occupo io» risponde il tycoon. Deserto di Mojave California orientale Richard Harrison era da tre ore al volante del fuoristrada di sua figlia. Aveva lasciato la megalopoli tentacolare per inoltrarsi nel deserto. Un viaggio al fondo dell'orrore, in compagnia di un piccolo cadavere che, sul sedile del passeggero, era avvolto nel sudario di una coperta scozzese. Nemmeno nei suoi peggiori incubi Richard aveva immaginato di affrontare una simile prova. Non bastavano il Vietnam, dov'era stato giovane ufficiale nel 1965; il cancro di sua moglie, di cui aveva seguito tutti gli stadi; la guerra che combatteva ogni giorno nel mondo degli affari. Da adolescente, per dominare i coetanei, aveva cercato sempre di prevedere gli avvenimenti, proiettando le sue peggiori paure nella speranza di vincerle. Diventando adulto si era indurito, ma aveva conservato quell'abitudine. Negli ultimi anni si era quindi preparato alla malattia e alla morte, e si sentiva capace di affrontarle con coraggio. Ma mai avrebbe potuto immaginare questo: seppellire con le proprie mani un bambino ucciso dalla figlia, e si chiedeva se sarebbe stato capace di farlo davvero. Da quando aveva imboccato la strada, si era fermato più volte per vomitare e adesso teneva i finestrini aperti tanto l'aria gli sembrava irrespirabile. Si sentiva soffocare e pensava di essere sull'orlo di un infarto, ma non poteva piantare in asso sua figlia, che alcune settimane prima era stata condannata a tre mesi di sospensione della patente per guida in stato di ebbrezza. Se l'avessero beccata adesso, sarebbe stata condannata a parecchi anni di carcere e lui, nonostante tutte le sue conoscenze, non avrebbe potuto farci niente. Cercò di convincersi che poteva ancora salvare la situazione e risparmiarle la prigione. Poco dopo Palm Springs, si era fermato in un negozio di utensili a comprare una zappa e un badile. Aveva pagato in contanti, tenendo la testa bassa in modo da non essere inquadrato dalla telecamera di sorveglianza, ed era quasi sicuro di non essere stato riconosciuto da nessuno. Era uno degli uomini più ricchi del Paese, ma, a parte la stampa economica, i giornali non si occupavano di lui come si occupavano di Bill Gates o Warren Buffett e, per fortuna, l'oca che lo aveva servito alla cassa leggeva senza dubbio più «TV Guide» che «Business Week». Per Alyson, invece, il discorso era diverso: con i suoi eccessi aveva conquistato grande notorietà presso i lettori di giornali scandalistici... cioè tutti gli abitanti di Los Angeles. D'altra parte, nonostante quello che lei gli aveva detto per telefono, Richard stentava a credere che nessun testimone avesse assistito all'incidente e temeva che la polizia non ci mettesse molto a risalire a lei. Bisognava agire in fretta. Per un'altra ora, la jeep continuò ad attraversare montagne e pianure sassose dove crescevano solo cactus. Quando scese la notte, Harrison raggiunse una distesa selvaggia, non lontana dalla frontiera con il Nevada. Abbandonò la strada principale e si spinse in un terreno arido, disseminato di ciottoli polverosi e rocce frastagliate. Là scorse un'area appartata dove il suolo era arido e pieno di crepe, ma ombreggiato da una yucca. Gli parve adatta e fermò la jeep con i fanali accesi. Erano le sette di sera quando diede il primo colpo di vanga. Erano le dieci quando depose il corpo nella tomba. Era mezzanotte quando rovesciò nella fossa l'ultimo pugno di terra. All'una disse una preghiera per il bambino defunto, poi si rimise al volante e percorse la strada in senso inverso.
Alle tre, Curtis lo aspettava in una zona desolata per appiccare il fuoco alla jeep e abbandonarne la carcassa. Alle sei, Richard tornò a Beverly Hills e portò la figlia all'aeroporto. Due ore dopo, il jet privato decollò con Alyson a bordo, diretto in Svizzera. Richard rimase negli Stati Uniti ad attendere il seguito. Il primo giorno non successe niente, e nemmeno il secondo, il terzo e il quarto. Dopo una settimana, capì che la polizia non sarebbe mai risalita a loro e che Alyson non correva più pericolo. Ma si poteva cancellare un simile evento dalla memoria e illudersi che non fosse mai successo? 28 La vita davanti a te Il futuro è il presente che creerà il nostro passato. André Malraux Oggi Ore 18,00 Sull'aereo «Signore e signori, vi informiamo che l'aereo sta per atterrare a New York. Siete pregati di tornare ai vostri posti, rialzare lo schienale del sedile e allacciare le cinture di sicurezza.» L'annuncio del comandante mise bruscamente fine al racconto di Alyson. Come svegliandosi da un brutto sogno, la giovane alzò gli occhi e si guardò intorno. Il Floridita aveva cominciato a svuotarsi e due hostess stavano invitando gli ultimi clienti a tornare ai loro posti. «Ciò che ho fatto è imperdonabile» disse, asciugandosi gli occhi circondati da un alone di mascara. «E il peggio è che ho lasciato a mio padre il compito di sistemare ogni cosa. Dopo l'incidente sono rimasta parecchi mesi in Svizzera, passando dalla cura per la disintossicazione alla cura per la depressione. Quando sono tornata, ci siamo comportati come se niente fosse accaduto.» Mark era turbato, ma cercò ugualmente le parole giuste per scuoterla. «Niente è imperdonabile, ma nella vita ci sono cose che non possiamo cambiare. Se anche si infliggesse tutte le sofferenze del mondo, non riporterebbe in vita quel bambino.» «Non è una consolazione.» «No, e non mi interessa consolarla. Deve assumersi le sue responsabilità e correre il rischio di soffrire ancora di più. Ma la sua vita non è finita. Ci sono tante cose che può fare: può aiutare altri bambini e impegnarsi in azioni sociali o umanitarie. E non solo con i suoi soldi. Sta a lei decidere, ma non resti prigioniera del passato. E poi, forse non capiamo tutto...» Lasciò la frase in sospeso. Pensò a sua figlia, che aveva miracolosamente ritrovato, e alla propria sofferenza. Alyson gli rivolse uno sguardo interrogativo, invitandolo a proseguire. «Forse la sofferenza non è inutile... apre la via ad altre cose» suggerì lui. «Forse il senso generale ci sfugge.» L'ereditiera abbassò gli occhi. «Che senso può mai avere la morte di un bambino?» chiese. Mark aprì la bocca per parlare, ma non trovò niente da dire. «Dovete tornare ai vostri posti» disse un'hostess, invitandoli con fermezza a lasciare il tavolo. Continuando a guardare Alyson negli occhi, Mark si alzò come un automa. Avrebbe voluto proseguire il discorso, convincerla a non trascinarsi dietro come una catena quel tragico incidente, esortarla a costruirsi un avvenire senza cancellare il passato. Di lì a poco l'aereo si mise a beccheggiare e iniziò la discesa verso le nubi. L'hostess accompagnò il passeggero alla scala che conduceva al ponte principale.
Nella fretta, Mark si dimenticò il portafogli sul tavolo del Floridita. Quando Alyson se ne accorse, lui se n'era già andato. La ragazza guardò l'oggetto, notò che la pelle era consunta, ma resistette alla tentazione di aprirlo. Se lo infilò in tasca e si ripromise di restituirglielo in seguito. Quasi un impegno a rivederlo. Nello stesso istante, a Manhattan, Connor diede un'occhiata all'orologio digitale appeso al muro del suo ufficio, nella clinica Mozart. Lì curava i casi più gravi, che non poteva risolvere nel proprio studio. Fra meno di un'ora avrebbe rivisto Mark, e aspettava quel momento con un misto di impazienza e apprensione. A pochi metri da lui c'era Nicole. Seduta nel fondo di un divano dalle linee essenziali, si era tolta le scarpe e aveva ripiegato le gambe sotto di sé. Connor si accorse che tremava e le portò una coperta. Lei lo ringraziò con lo sguardo. Connor le posò la mano sulla spalla e per un attimo rimasero in silenzio. Il sole che stava tramontando su Battery Park diffondeva nella stanza una luce calda color tè, che contrastava con i toni glaciali della clinica. «Come credi che reagirà quando saprà la verità?» chiese infine Nicole. Connor si pose a sua volta la domanda. L'amicizia che lo legava a Mark avrebbe resistito a quello che stava per accadere? Per convincersi che nulla avrebbe potuto scalfirla, ripensò alla terribile notte di Natale in cui tre creature alla deriva avevano finito per convergere verso di lui. 29 La notte in cui tutto ebbe inizio (seguito) Se non sai dove stai andando, ricordati del posto da cui provieni. Proverbio africano Notte di Natale 2006, nel cuore di Manhattan... Ore 3,30 connor & alyson La neve brilla sotto i lampioni di Soho. Dopo avere parcheggiato l'Aston Martin, Connor torna nel suo appartamento, un loft freddo e impersonale quasi come un albergo. Quando preme l'interruttore, si accende solo una nuda lampadina che pende dal soffitto: sembra che l'appartamento sia ancora in via di sistemazione. Con aria distratta, attraversa il soggiorno in parquet, dove stazionano ancora alcuni scatoloni che non ha mai avuto il tempo di aprire. Anche la cucina è spoglia. Gli armadi a muro sono vuoti e le lastre in vetroceramica nuove fiammanti. Prende una bottiglia di chardonnay nel frigorifero metallizzato, se ne versa un bicchiere e torna in soggiorno. La stanza è gelida, e l'impianto di riscaldamento diffonde solo aria fredda. Per scaldarsi, beve d'un fiato il vino e si riempie un altro bicchiere. Forse non avrebbe dovuto portarsi dietro la bottiglia. Come spesso gli accade, quando non è nel suo ambiente professionale avverte un baratro dentro a sé, un baratro che niente potrà mai colmare: nessuna persona, nessun oggetto, nessuna droga. Così la sua vita privata è il riflesso del suo appartamento: disperatamente vuota. Si slaccia la cravatta e si dirige alla portafinestra. Giù, sul marciapiedi, vede il pupazzo di neve a cui ha donato la sciarpa: è solo come lui. Alza il bicchiere alla salute di quel compagno di sventura, poi si lascia cadere sul divano e accende meccanicamente il grande schermo piatto appeso al muro. Toglie l'audio e si mette a fare zapping. Su una rete di cinema vede spezzoni di vecchi film sulla notte di Natale: La vita è meravigliosa, Miracolo nella 341 Strada... Secondo la credenza popolare, questa è una notte particolare, una notte in cui può succedere di tutto. Come no! Chiude gli occhi. Continua a rivedere il viso di Evie, quella ragazza strana e triste che ha tentato di rubargli la borsa portadocumenti; passerà la notte al freddo, con le sue paure. Lui ha capito che era vicina al crollo, consumata dal peso del suo odio, ma non ha saputo aiutarla.
In quel momento squilla il telefono. Corruga la fronte. Dev'essere Nicole, che si è dimenticato di richiamare. Guarda il display e legge: numero riservato. «Pronto?» «Lei è... Connor McCoy?» «Sì.» «So che è tardi e che la disturbo, ma...» È una giovane donna, chiaramente angosciata. «È stato mio padre a consigliarmi di rivolgermi a lei. Ha detto che lei era il solo capace di aiutarmi.» Ogni parola è soffocata da un singhiozzo. «Che cosa le è successo?» domanda Connor. «Ho ucciso qualcuno.» Connor rimane scioccato. All'altro capo del filo sente solo sospiri e singhiozzi. «Si calmi. Prima di tutto, posso sapere il suo nome?» «Mi chiamo Alyson Harrison.» Connor si avvicina alla finestra. Dal vetro vede, in strada, una giovane donna appoggiata al cofano di un'auto. «Dove si trova, Alyson?» Sola in mezzo alla tempesta di neve, la donna alza gli occhi verso la finestra dell'ultimo piano e incrocia lo sguardo di Connor nel momento in cui gli risponde: «Proprio qui, sotto casa sua». Un 'ora dopo La stanza è in penombra. Alyson si è addormentata sul divano del soggiorno. Il cattivo funzionamento della caldaia ha costretto Connor ad accendere il caminetto e adesso nella stanza scoppietta un bel fuoco. In piedi accanto alla portafinestra, lo psicologo guarda perplesso la nuova paziente. Sa chi è. Ha visto la sua foto su giornali e riviste. Ha sentito parlare delle sue stravaganze e non ignora che il suo nome è per lo più sinonimo di scandalo e paparazzi. Ma la giovane con cui ha appena parlato non gli è parsa né arrogante né viziata. Smarrita, schiava di un passato che la schiaccia, è venuta umilmente a chiedergli aiuto. Per quasi un'ora gli ha raccontato la sua terribile storia: l'incidente d'auto, il bambino morto, suo padre che ha fatto sparire il cadavere, la rimozione dell'accaduto, l'impossibilità di «vivere con quel peso», la spirale dell'autodistruzione e i tentativi di suicidio. In un modo o nell'altro vorrebbe che l'incubo finisse, anche se teme che non esista una via d'uscita da quell'inferno. Stasera era pronta ad andare a costituirsi, ma non ne ha avuto il coraggio. Come ultima risorsa, si è rivolta a Connor, seguendo il vecchio consiglio del padre e decidendo di mettere il suo destino nelle mani di un medico. Connor aggiunge un ceppo al caminetto e attizza il fuoco. Qualche mese dopo la pubblicazione del suo libro, aveva ricevuto un biglietto da Richard Harrison. Il tycoon era rimasto impressionato e desiderava incontrarlo. Connor poi non aveva dato seguito alla cosa e se n'era pentito quando, qualche mese dopo, il magnate, al culmine del suo strabiliante successo, aveva annunciato di soffrire del morbo di Alzheimer. «Il bambino che ho investito» gli ha confidato Alyson poco prima, concludendo il suo racconto, «torna tutte le notti a ossessionarmi.» A quelle parole Connor è leggermente trasalito, perché, ascoltandola, gli è parso di sentire un'eco della propria sofferenza. È stato allora che ha promesso di aiutarla. Le ha fatto prendere un ansiolitico e l'ha invitata a passare la notte da lui. L'indomani parleranno di nuove terapie, ma intanto deve riposare. Rassicurata dalle sue parole, Alyson si è stesa accanto al fuoco e alla fine si è addormentata, avvolta in una coperta.
Ore 4,45 Connor & Evie Assorto nei suoi pensieri, Connor sta per accendere una sigaretta, quando squilla di nuovo il telefono. Stupito di quella seconda chiamata notturna, alza il ricevitore immediatamente, perché Alyson non si svegli. «Dottor Connor McCoy?» «Sono io.» «È la polizia.» La accusiamo dell'omicidio di due uomini commesso a Chicago nel 1989. «Sono il tenente Dave Donovan, del 14° distretto.» La accusiamo di ospitare sotto il suo tetto un'assassina. «Scusi se la disturbo in piena notte, dottore.» «Che cosa posso fare per lei, tenente?» «Due nostri uomini hanno appena arrestato una minorenne che occupava abusivamente l'atrio di uno stabile del Village. Dice che sua madre è morta e che non ha famiglia a New York.» «Evie Harper?» «Sì, è proprio il nome che ci ha dato. Sostiene di essere sua paziente.» «È... è vero» mente Connor. «Come sta?» «Era in ipotermia, ma adesso sta meglio. Sarebbe mio dovere contattare i servizi sociali, ma ho preferito avvertire prima lei.» «Arrivo» promette Connor, e riattacca. Prova anzi una sorta di euforia all'idea di aver ritrovato Evie. E se stanotte fosse davvero la notte in cui tutto può succedere? «ATTENTO, JEREMY, ATTENTO!» Connor si gira di scatto verso il divano. In preda a incubi angosciosi, Alyson lotta contro un nemico invisibile. Connor le si inginocchia accanto e la sveglia dolcemente. «Devo assentarmi un attimo» spiega. «Ma tornerà?» domanda la giovane, emergendo dal sonno. «Appena possibile» promette lui. Va in cucina e le prepara un infuso. «Si chiamava Jeremy, il bambino che ha investito?» «È tutto ciò che so di lui» risponde Alyson. «Era il nome inciso nel suo braccialetto.» «Il suo braccialetto?» «Sì. Portava un braccialettino di cui si è rotta la chiusura. L'ho trovato nella mia auto.» Per dimostrare che dice la verità, Alyson fruga nella borsa, tira fuori un braccialetto a maglia piatta e lo posa sul tavolino. Connor torna in soggiorno e le porge una tazza fumante. Quando prende in mano il braccialetto, è sconvolto e deve compiere uno sforzo sovrumano per nascondere il suo turbamento. Infila il cappotto, dice un vago «A presto» ed esce dall'appartamento. Solo quando entra in ascensore lascia libero sfogo al dolore. Perché ha capito chi è Jeremy. Commissariato del 14° distretto «Ecco quello che mi ha chiesto» dice Connor, porgendo all'ufficiale il modulo che ha compilato sotto i suoi occhi e con cui si assume la responsabilità medica di Evie. Mentre il poliziotto legge attentamente il documento, Connor cammina su e giù per l'atrio. Nella notte di Natale, al commissariato ferve l'attività: da ogni parte spuntano agenti che scortano emarginati, ubriaconi, vittime di incidenti stradali. Connor detesta quel posto, come del resto tutto ciò che è anche solo minimamente connesso con la polizia. Da quando ha visto I miserabili a Broadway, si sente uno Jean Valjean che teme continuamente il ritorno di Javert. Nel profondo dell'anima è convinto che un giorno o l'altro si scoprirà chi è stato a uccidere i due spacciatori, e lui finirà la propria vita tra le mura di una prigione.
«Bene» esclama finalmente il tenente, mettendo il modulo in archivio. Solleva il ricevitore, mormora poche parole, poi, con la delicatezza di un tenutario di bordello, gli annuncia: «Le portiamo la ragazza». «Troppo gentile» risponde Connor, ma aspetta ancora una decina di minuti prima che arrivi Evie. «Ciao» le dice quando finalmente la vede. «Salve» risponde lei, facendo qualche passo nella sua direzione. È sporca, indebolita e fatica a tenere gli occhi aperti. Il freddo, la mancanza di sonno e il soggiorno in cella l'hanno duramente provata. «Andiamo?» propone lui, prendendole lo zaino. Procedono in silenzio nel confortevole abitacolo dell'Aston Martin, mentre la città bianca e metallica scorre sotto i loro occhi. I pochi fiocchi che continuano a cadere sul parabrezza sono subito eliminati dai tergicristalli. «Grazie di essere venuto. Mi dispiace di averla svegliata nel cuore della notte.» «Hai fatto bene» risponde Connor. «Ero preoccupato per te.» Benché le strade siano deserte, la neve induce alla prudenza. Connor rallenta all'incrocio con Houston Street e prende la direzione sud. «In ogni caso non dormo mai molto» spiega. «Lo so» dice Evie. Connor corruga la fronte mentre, in Lafayette Street, attraversa Nolita e Little Italy. «Come sarebbe, lo sai?» «È scritto nel libro.» «Quale libro?» «Il suo» risponde la ragazza, tirando fuori dallo zaino la sua vecchia copia di Sopravvivere. Sconcertato, Connor scuote la testa e, per la prima volta, nota un lampo di malizia nel viso di lei. Non un vero sorriso, ma almeno un abbozzo. Evie guarda dal finestrino. Non è ancora giorno, ma si intuisce che la notte è quasi alla fine. L'auto sta percorrendo le strade strette di Lower Manhattan. Soverchiata dalle pareti verticali dei grattacieli, si infila in un canyon di vetro e acciaio, entrando in Church Street e raggiungendo l'area di Ground Zero. «Dove andiamo?» «Alla clinica Mozart. È lì che lavoro, quando non sono nel mio studio.» «Non voglio andare in ospedale» protesta la ragazza. Bastano pochi secondi perché senta riaffiorare in sé la diffidenza, e con essa la paura che qualcuno le impedisca di attuare quella vendetta che rappresenta per lei l'unico obiettivo. «Devi riposarti e farti curare» dice Connor con un tono che non ammette repliche. Ma Evie non vuole saperne. «Mi faccia scendere» brontola afferrando la maniglia interna della portiera. «Avrei dovuto lasciarti in carcere» sospira Connor, senza però fermarsi. All'improvviso, mentre l'auto è lanciata a gran velocità, la ragazza apre la portiera e si slaccia la cintura di sicurezza. Connor frena di colpo davanti a Trinity Church. Furioso, scende dalla macchina, la aggira e afferra Evie per il bavero. «Vuoi suicidarti?» esplode, trascinandola fuori dall'auto. Stupita dalla sua collera, lei chiude gli occhi e gira la testa dall'altra parte, come se temesse di ricevere un pugno.
«Ma guardati, Cristo!» urla Connor. «Hai una faccia! Sei sfinita, sciupata, sei vecchia!» Evie si guarda nel finestrino, ma abbassa subito gli occhi tanto la infastidisce l'immagine che vede. «Se vuoi morire» prosegue Connor, «contìnua così, sei partita con il piede giusto. Non conosci New York. Se ti abbandono non durerai una settimana. In sei giorni sarai morta o farai la puttana a quindici dollari la marchetta. È così che vuoi finire?» Per la rabbia dà un pugno al cofano dell'Aston Martin, mentre Evie, sgomenta, sente lacrime brucianti colarle lungo le guance. Cala il silenzio. Restano lì a guardarsi nell'alba gelida, all'ombra delle torri scomparse. Sono affranti, spossati e svuotati di ogni emozione. Poi, lentamente, Connor torna a sedersi al volante, mette in moto e lascia girare il motore. Evie rimane immobile, pallida e inespressiva, come un fantasma. «Non durerai una settimana» ripete lui. Connor ingrana una marcia più bassa e l'Aston Martin abbandona il dedalo di strade buie di Wall Street per raggiungere le rive dell'Hudson. Poi si immette in Battery Park City. Sulle porte dell'oceano, il lussuoso complesso sorge sull'altura fatta con la terra che fu estratta quando costruirono il World Trade Center. Con la tessera magnetica accede al parcheggio e si ferma al livello più basso. Scende dall'auto e attraversa il parcheggio senza rivolgere la parola a Evie, che lo segue a qualche metro di distanza. Raggiungono in silenzio l'ascensore, che porta direttamente nell'atrio della clinica Mozart, una costruzione ultramoderna che occupa due piani del Financial Center. Connor discute un attimo con la responsabile di turno all'accettazione e compila di persona il modulo di entrata di Evie, mentre un'infermiera accompagna la ragazza nella sua stanza. Venti minuti dopo Connor apre piano la porta della camera. Benché non sia accesa nessuna lampada, l'ambiente è pervaso dalla luce blu notte che sale dalla città. Evie, che indossa il pigiama della clinica, è stesa sul letto e ha l'ago della fleboclisi in un braccio e lo sguardo perso nel vuoto. «Come va?» domanda Connor. Nessuna risposta. Nel tentativo di riavviare un dialogo, lui le manifesta pacatamente tutte le parole che ha nel cuore. «Immagino che tu non abbia mai ricevuto molto sostegno o comprensione e che, per difenderti, ti sia costruita una corazza.» Evie non batte ciglio, ma Connor sente il suo respiro. «Hai ragione. È così che si sopravvive, e per un pezzo io sono stato come te: non davo fiducia a nessuno.» Sentendo lo sguardo di Connor su di sé, la ragazza chiude gli occhi. «Ma restare nell'isolamento e nella solitudine non risolverà i tuoi problemi.» Va alla finestra. Continua a parlare e contempla il porto di North Cove, che accoglie come uno scrigno una cinquantina di barche le cui luci in testa d'albero oscillano nel buio che sta cedendo il posto all'alba. «Nella mia professione, è raro che faccia promesse» spiega con sincerità. «Le certezze non esistono quando si entra nel mondo delle emozioni e delle paure. Non posso mai garantire a un paziente che starà meglio dopo avermi consultato.» A un tratto la porta della stanza si apre e un'infermiera dice: «Una chiamata per lei al centralino, dottor McCoy. Pare sia urgente».
Connor torna accanto a Evie, che ha sempre gli occhi chiusi ma ha ripreso a respirare normalmente, e, benché sembri addormentata, conclude la sua strana professione di fede. «Posso solo prometterti che farò tutto il possibile per aiutarti. Ma se vuoi che ci sia una possibilità, devi darmi fiducia.» Si china su di lei e mormora, a mo' di commiato: «Senza fiducia, non posso fare niente». Ore 7,00 Connor e Mark Connor afferra il ricevitore che la receptionist gli porge. All'altro capo del filo, una voce femminile familiare. «Sono Nicole, Connor.» «Volevo proprio chiamarti» si giustifica lui. Ma lei tronca le cerimonie. «Bisogna che mi aiuti, si tratta di Mark.» «È tornato?» «Sì, ma...» La voce di Nicole si spezza. «Vìveva in strada, capisci? Per tutto questo tempo ha vissuto con i senzatetto. Bisogna fare qualcosa, non sta affatto bene: è allo stremo delle forze e fa fatica a respirare.» «Calmati e spiegami tutto.» Con la voce rotta dai singhiozzi, Nicole gli racconta che, dopo averla salvata da un'aggressione, Mark ha accettato di passare la notte da lei. Benché fosse ferito, se n'è voluto andare alle prime luci dell'alba con il suo labrador. Impotente, Nicole lo ha guardato incamminarsi nella mattina gelida e ha provato la terribile paura di perdere per la seconda volta l'uomo che ama. È rimasta immobile sul marciapiedi, finché non ha visto il labrador tornare abbaiando da lei. Lo ha seguito per un paio di isolati. Mark non era andato lontano. Steso a braccia aperte nella neve, aveva perso conoscenza e non sentiva nemmeno il suo cane abbaiare. «Se non interveniamo subito, morirà» dice Nicole. «Restagli accanto» risponde Connor. «Vi mando un'ambulanza il più presto possibile.» La notte di Natale sta finendo. Nonostante il freddo, Connor esce nello spiazzo davanti alla clinica per aspettare l'ambulanza. Dietro di lui si levano le torri di vetro e granito del Financial Center. Per scaldarsi nell'aria del mattino, fa qualche passo lungo il viale che fiancheggia il fiume. Ha vissuto una notte insolita, durante la quale tre anime ferite hanno finito per convergere verso di lui. Alyson, Evie e Mark. Tre creature sull'orlo dell'abisso, ma ancora vive. Quella mattina si sente oppresso da una pesante responsabilità. Riuscirà ad aiutarli? E come? Pensieroso, si accende una sigaretta e guarda le motovedette della polizia che pattugliano il porto. Tira un vento forte che sospinge le nubi verso ponente. Sarà una bella giornata. Connor alza la testa. In alto, attraverso uno squarcio nelle nuvole, vede un aereo che si lascia dietro una scia bianca. E in quel momento gli viene un'idea. 30 Apri gli occhi Living is easy with eyes closed... John Lennon Resterà sempre la paura. Un uomo può distruggere tutto dentro di sé: amore, fede, odio e perfino dubbio. Ma finché si aggrappa alla vita, non può distruggere la paura. Joseph Conrad
Oggi Ore 18,30 Sull'aereo L'aereo, in fase di atterraggio, continuava a scendere verso la distesa di nubi a pecorelle, proiettando la sua ombra immensa su di esse. Mark tornò a sedersi accanto a Layla ed Evie, che pareva sonnecchiare nel suo angolo. «Ti sei allacciata la cintura?» domandò alla figlia. Layla scosse la testa. «Arriviamo tra poco» le disse dandole un buffetto sulla guancia. «Sei contenta di tornare a casa?» Lei lo guardò teneramente, ma non rispose. Mark non insistette e girò la testa verso l'oblò. Le grosse nubi filamentose avevano avvolto l'aereo come in un sudario umido e buio. Simile a un insetto preso in trappola, l'Airbus pareva dibattersi tra tele di ragni celesti. Alla fine Layla ruppe il silenzio con una frase sibillina. «Ti ho visto, sai, quando eri nel nero.» «Nel nero?» «Nel tunnel» precisò lei guardandolo con tristezza. «Il tunnel del metrò.» Il tunnel, il nero, il metrò... Fu colto dal panico: come poteva sua figlia sapere di quei due anni dannati? Chi le aveva parlato della sua discesa agli inferi? Nicole? Il suo rapitore? «Sono triste quando vai nel tunnel» continuò Layla. «Non tornarci più, papà.» «Ma come sai che...» balbettò Mark. «Perché ti ho visto» ripetè lei. «Mi hai visto? Ma dov'eri?» «Lassù» rispose, indicando il soffitto. Sconcertato, il padre alzò la testa per cercare l'invisibile «lassù». «Non bere più, ti prego» lo supplicò Layla. «E torna a vivere con la mamma.» Turbato, Mark tentò di giustificare il suo comportamento. «Me n'ero andato perché non riuscivo a sopportare la situazione. Ero... ero così in ansia per te. Senza di te la vita non aveva senso.» In pochi secondi, Mark aveva perduto le sue certezze e vagava nella nebbia. Guardò Layla, che, raggomitolata nella sua poltrona, pareva molto piccola. Gli sfuggivano troppi dati fondamentali, doveva sapere la verità, a costo di urtare la sensibilità della bambina. «Bisogna che mi spieghi una cosa, tesoro» disse, protendendosi verso di lei. «Che cosa?» «Perché non vuoi parlare con la mamma?» Lei si concesse un istante di riflessione. Poi, giudicando forse che il momento era arrivato, confessò con dolcezza: «Perché lei lo sa già». «Sa già che cosa?» «Che sono morta» rispose. Nello stesso momento, sul ponte superiore, Alyson Harrison guardò dall'oblò le nubi che a poco a poco si disperdevano, lasciando intravedere scorci di oceano. Con il viso contratto, stringeva nella mano il portafogli di pelle lucida che Mark aveva dimenticato sul tavolo del Floridita. Perché provava la voglia irresistibile di guardarne il contenuto? Non era una semplice curiosità: era un bisogno vitale, un'esigenza profonda, come se una voce le sussurrasse all'orecchio che la sua vita dipendeva da quello. Non c'era granché, dentro: due carte di credito, qualche dollaro, la patente, una tessera professionale e una foto di Mark e sua moglie.
Alyson guardò affascinata Nicole: possedeva l'eleganza che lei aveva sempre sognato di avere, ma non avrebbe avuto mai. Stava per richiudere, quando notò un'altra fotografia incollata dietro quella. Ritraeva una bambina di circa cinque anni, con il naso all'insù e un sorriso birichino. La tenuta sportiva, i capelli corti e il berretto da baseball le davano un'aria da maschiaccio. Teneva le mani sotto il mento e si distingueva bene, al polso sinistro, un braccialetto d'argento con inciso il nome «Jeremy». Un lampo le attraversò il cervello. Ora capiva tutto: il bambino che aveva investito era... la figlia di Mark! La paura, la pioggia e la tenuta da baseball l'avevano indotta a credere che si trattasse di un maschio, e la prima impressione era stata confermata dal nome inciso sul braccialetto. Avrebbe appreso in seguito che il braccialetto apparteneva a un cugino di Layla, che glielo aveva regalato quando gli si era ingrossato il polso e non aveva più potuto indossarlo. Profondamente angosciata, si alzò di scatto e, nonostante le grida di rimbrotto dell'hostess, si precipitò verso la scala che conduceva al ponte principale. «Perché... perché dici che sei morta?» domandò Mark, sbalordito dalla risposta della figlia. «Perché è la verità» rispose lei. «Ma è impossibile: sei qui.» Layla alzò le spalle come a dire che la questione non si poteva spiegare, ma solo accettare. «Da quanto tempo saresti morta?» chiese il padre, compiendo uno sforzo su se stesso. «Fin dall'inizio» rispose calma lei. «Da quando fui investita dall'auto.» «L'auto?» «La jeep» spiegò la bambina. «Non... non ti hanno rapito?» «No, è stato un incidente. Ero uscita dal negozio per giocare e mi sono persa a causa del temporale.» In preda al più totale sgomento, Mark ebbe una reazione imprevista. «Ma perché sei uscita?» la sgridò. «Ti avevamo ripetuto mille volte di non allontanarti mai, nei negozi. Pioveva, era pericoloso.» «È divertente camminare sotto la pioggia.» Mark sapeva in fondo al cuore che sua figlia gli stava dicendo la verità, anche se lui non era ancora pronto ad accettarla. «Sono morta, ma non devi essere triste» fece Layla, prendendolo per mano. «Come puoi pretendere che non sia triste?» replicò lui con la voce di un bambino capriccioso. «A volte le cose accadono perché devono accadere.» Mark capiva adesso che c'era poco tempo e che, qualunque cosa avesse fatto, la situazione gli sarebbe alla fine sfuggita di mano. Allora strinse la figlia tra le braccia come se quella stretta potesse ancora strapparla alle grinfie della morte. «A volte le cose accadono solo perché è ora che accadano» aggiunse Layla con una voce fievole che fu in parte coperta dal rumore dei motori. «No!» gridò Mark in un estremo impeto di ribellione. La sua esclamazione si confuse con le grida che provenivano dal retro del velivolo. Si voltò e vide Alyson correre verso di lui. Quando arrivò a un metro di distanza, la giovane si fermò di colpo. «Il bambino che ho investito...» cominciò con voce rotta dall'angoscia. Poi lasciò andare la foto che stringeva in mano e quella volteggiò in aria per posarsi ai piedi di Mark. «Credevo fosse un maschio, invece era... sua figlia.» Nello stesso istante Mark e Alyson si voltarono verso il sedile di Layla. La bambina non c'era più. Non solo.
Le hostess, gli steward, i seicento passeggeri, insomma tutti quanti sembravano essersi volatilizzati. L'immenso A380 era vuoto. In mezzo al cielo, su quell'aereo di oltre cinquecento tonnellate, non restavano che tre persone: Mark, Alyson, Evie. 31 Come prima Prendi la pillola blu, e la storia finisce qui. Ti svegli nel tuo letto e puoi credere a quello che vuoi credere. Prendi la pillola rossa, stai nella terra delle meraviglie e ti mostro quanto è profonda la tana del Bianconiglio. Dialogo dal film Matrix Oggi Sull'aereo «Che cosa...» Alyson avrebbe voluto urlare, ma il grido le si strozzò in gola. Evie sbarrò gli occhi, colta da un terrore incontrollabile. È impossibile! Mark fissò le centinaia di sedili vuoti. Percorse il corridoio centrale, seguito dalle due ragazze. Sui tavolini non c'erano più abiti, borse, libri o giornali. Lungo il tragitto Alyson aprì gli scomparti dei bagagli, ma erano tutti vuoti. «Layla!» gemette Mark. «Layla!» Ma il suo grido disperato restò senza risposta. Alyson ed Evie si guardarono cercando conforto l'una nell'altra. Non è reale, pensò Evie per tranquillizzarsi, ma l'incubo appariva così vero che cedette a una paura violenta e incontrollabile e scoppiò in lacrime. «E i piloti, che ne è stato dei piloti?» domandò Mark. In apparenza l'aereo era stabile e continuava senza problemi l'operazione di atterraggio a New York, ma c'era ancora qualcuno ai comandi o no? Accompagnato dalle due ragazze, salì di corsa le scale che portavano al ponte superiore. La prima classe e la business class erano deserte come il resto dell'aereo. Entrò per primo nella zona di servizio, una sala funzionale che dava accesso alla cabina di pilotaggio situata tra i due piani. Siccome la porta di accesso non era chiusa a chiave, la aprì con apprensione. Le barre di comando, nell'immenso abitacolo simili a grossi joystick, erano circondate da otto monitor di controllo. Ma il sedile del pilota e del copilota erano vuoti. Alyson ed Evie raggiunsero Mark nella cabina. Terrorizzati, i tre si avvicinarono al parabrezza. L'aereo volava basso. Era uscito dalle nubi e si stava avvicinando a Manhattan. Si era appena fatto giorno e, nonostante l'orrore della situazione, gli ultimi passeggeri del volo 714 non poterono fare a meno di ammirare lo spettacolo che si presentava ai loro occhi. La luce tingeva il cielo di riflessi ramati e su quel radioso fondo dorato si stagliavano i contorni del grattacielo più famoso del mondo. Ma la cosa più sconcertante, nel paesaggio che si stendeva sotto di loro, era la presenza delle due torri del World Trade Center, che parevano bucare il cielo. Come prima. Prima che Mark perdesse sua figlia. Prima che Alyson investisse Layla. Prima che Evie perdesse sua madre. Era così strano essere tornati indietro nel tempo e rivedere la «vecchia» New York.
Guidato da una forza invisibile, l'aereo aveva rallentato. Con la leggerezza di un aliante sfiorò le torri gemelle, e la sua fusoliera bianca si rifletté nei vetri delle facciate. Mark, Alyson ed Evie stavano vicini, le loro braccia, mani e spalle si toccavano. Avevano paura e non volevano affrontare una simile prova da soli. Che stava succedendo? Ognuno di loro cercò una spiegazione razionale. Era un sogno? Erano gli effetti allucinogeni di un'overdose di alcol o cocaina? No. Lo strano viaggio aveva rievocato le loro sofferenze più profonde. Avevano fronteggiato i propri demoni, riattraversando i momenti decisivi della loro esistenza; e avevano provato, tutti e tre, a considerare con distacco la strada percorsa e a mettere ordine nella loro vita, come se stessero preparandosi a un passaggio... la morte? La morte. Era quella la vera meta del viaggio? Il volo dell'Airbus era forse una sorta di purgatorio, un momento di espiazione prima del grande salto? Forse sì, forse era davvero così. Sopra l'East River, l'aereo virò, tornando verso il sud dell'isola. Ora volava a poche decine di metri dal suolo. La città pareva deserta e immobile. Il superjumbo superò Battery Park e sorvolò la baia di New York fino a Ellis Island e alla Statua della Libertà. Pochi istanti prima che il velivolo si schiantasse, Alyson afferrò Mark per un braccio e gli sussurrò: «Mi dispiace tanto». Lui annuì. Nel suo sguardo annebbiato, la compassione vinse l'odio. Il suo ultimo gesto fu di voltarsi verso Evie. Vedendo il panico negli occhi della ragazza, le prese la mano e la rassicurò. «Non avere paura.» L'aereo urtò con violenza la superficie dell'acqua. Ci fu un breve grido. Poi l'azzurro. Il nero. E dopo? E dopo... La verità Per trovare la felicità, bisogna rischiare l'infelicità. Se si vuole essere felici, non si deve cercare di sottrarsi a tutti i costi all'infelicità. Bisogna semmai cercare in che modo, e grazie a chi, la si può vincere. Boris Cyrulnik Oggi Ore 19,00 Clinica Mozart Tre corpi. Mark, Alyson, Evie. Tre corpi distesi fianco a fianco in una stanza d'ospedale. Tre corpi collocati ciascuno in un reparto insonorizzato a forma di bozzolo. Tre teste con un casco munito di elettrodi collegati a un computer. In piedi, dietro una console, Connor e Nicole attendono con ansia che i tre pazienti escano dallo stato ipnotico in cui si trovano da molte ore. Non c'è mai stato nessun volo 714. Non c'è mai stato nessun incidente aereo. L'incontro tra Mark, Evie e Alyson durante il viaggio era lo scenario di una terapia di gruppo basata sull'ipnosi, una sorta di gioco di ruolo terapeutico ideato da Connor per curare le tre persone che, in quella famosa notte di Natale, erano venute a chiedergli aiuto. Connor e Nicole non avevano ritenuto opportuno dire a Mark che Layla era morta. L'ex psicologo era talmente fragile e confuso che la rivelazione avrebbe potuto spingerlo al suicidio o alla follia. Per comunicargli la terribile notizia, Connor aveva ideato quella messinscena, che avrebbe dovuto indurre anche Evie a rinunciare ai suoi propositi di vendetta e convincere Alyson ad assumersi la responsabilità di aver ucciso Layla.
Nicole guardò inquieta suo marito. Mentre, pochi minuti prima, il suo corpo pareva immerso in un placido sonno, adesso era scosso da piccoli movimenti che annunciavano l'imminente uscita dalla trance ipnotica. Nello stesso istante, Evie mosse la testa e Alyson allungò un braccio. Intuendo che il risveglio dal «coma» era vicino, Connor esaminò i monitor distribuiti in semicerchio intorno a lui. L'ospedale era dotato delle apparecchiature tecnologiche più avanzate in materia di risonanza magnetica, il che permetteva ai neurologi di seguire in tempo reale l'attività cerebrale dei pazienti. Per tutta la durata dell'esperimento, Connor aveva osservato gli schermi. Durante una seduta di ipnosi, l'attività cerebrale è in genere molto intensa, perché l'allentamento dei meccanismi inibitori favorisce la produzione di immagini mentali e rende i soggetti più vulnerabili alle emozioni. Sulla console di visualizzazione, Connor notò un aumento di attività del lobo frontale, l'area preposta al controllo delle funzioni esecutive, e questo indicava che i soggetti stavano gradualmente riprendendo controllo del corpo. A poco a poco, i tre emersero dal letargo. «Ho bisogno di voi» annunciò premendo il bottone dell'interfono. Quasi subito, due infermiere accorsero per assistere i pazienti nella fase del risveglio e aiutarli a liberarsi della fleboclisi che da diverse ore diffondeva nel loro organismo una soluzione a base di un potente psicotropo allucinogeno, la dimetiltriptamina o dmt. Mark fu il primo ad aprire gli occhi e a togliersi il casco. Provò ad alzarsi, ma vacillò e fu costretto a sedersi. Nella sua mente c'era un guazzabuglio di immagini e sensazioni che si formavano e scontravano a velocità pazzesca: l'emozione di ritrovare la figlia, la gioia di saperla viva, la paura premonitrice al momento del decollo, la crisi di astinenza da alcol, lo strano incontro con Alyson e le commoventi confessioni di Evie. «Come ti senti?» gli chiese Connor. Mark avrebbe voluto rispondere, ma, ancora assonnato, si portò le mani alla testa. I ricordi continuavano a esplodergli come lampi nella mente: frammenti della sua infanzia con Connor, immagini della sua storia con Nicole, il faccino sorridente di Layla davanti al suo enorme gelato, e il suo viso mesto quando gli aveva confidato di essere morta. Connor gli si avvicinò e gli posò una mano sulla spalla. «Andrà tutto bene, vecchio mio, andrà tutto bene.» Sostenuta da Nicole e da un'infermiera, Alyson si alzò a stento. Si tolse il casco e si afferrò le ginocchia per non crollare. Le girava la testa e faticava a respirare. L'ipnosi era stata spossante e le occorse un lungo momento per riprendere contatto con la realtà. Evie distese le braccia, le gambe e il collo. Mentre le toglievano la siringa della fleboclisi, si sentì oppressa da una grande pesantezza, seguita da una breve catalessi. Strizzò più volte gli occhi, stentando a distinguere le figure che le turbinavano intorno. Il suo primo riflesso fu di guardarsi la spalla con la coda dell'occhio: il tatuaggio, come quello di Alyson, era scomparso. Connor tornò alla console per aumentare progressivamente la luce della stanza, che fino a quel momento era rimasta immersa nella quasi totale oscurità. Ricamato sulla tasca del suo camice, fu visibile a tutti il simbolo della clinica: Clinica Mozart Connor aveva vinto la scommessa? Era ancora troppo presto per dirlo. In ogni caso, si era spinto all'estrema frontiera delle sue conoscenze, condensando in quell'esperimento le lezioni apprese nell'intera carriera. L'ipnosi lo aveva sempre affascinato. Da anni la utilizzava per curare tabagismo, alcolismo, depressione, emicrania, insonnia, bulimia e anoressia. Era una tecnica che permetteva di aggirare i blocchi e bypassare i processi psicologici di difesa. Soprattutto, quando era in stato di trance ipnotica, il paziente accedeva, assieme al terapeuta, alla cassaforte dell'inconscio, dove sono immagazzinati gli innumerevoli
dati che governano la vita di ciascun essere umano, riuscendo a far riaffiorare ricordi dimenticati e a far vivere sogni a occhi aperti come se fossero reali. Per guidare Mark, Alyson ed Evie sulla strada della guarigione, Connor aveva elaborato uno scenario simile a quello di un gioco di ruolo. Con il corpo «disattivato» e la mente collegata a una sorta di realtà virtuale, avevano dovuto affrontare i loro demoni e le loro paure più profonde. Per molte ore Connor li aveva guidati, dando con voce pacata suggerimenti per meglio orientarli sulla strada del lutto, dell'accettazione e del perdono. L'ipnosi aveva così svolto il ruolo di acceleratore della cura, permettendo alla psiche di realizzare in poche ore processi che avrebbero richiesto forse anni seguendo la cura classica. Per acuire lo stato di trance profonda, Connor aveva messo a punto un casco che, esponendo la corteccia temporale a un intenso campo magnetico, confondeva la coscienza dei pazienti. Combinato con la dmt, il casco provocava forti allucinazioni e aiutava a far emergere i ricordi dell'infanzia e dei traumi rimossi. Ormai completamente svegli, Mark, Alyson ed Evie si lanciarono sguardi incerti. Da Natale, Connor aveva con loro colloqui individuali ed era stato attento a non farli mai incontrare. Era dunque la prima volta che i tre si vedevano nella «vita reale» e, anche se non osarono rivolgersi la parola, sapevano di essere uniti da un legame indissolubile. Fisicamente si sentivano ancora in uno stato anormale: erano allo stremo delle forze, come se avessero corso per ore senza riprendere fiato. Ma era soprattutto nella psiche che l'evoluzione era stata più rilevante. Avevano l'impressione che, come l'hard disk di un computer, il loro cervello fosse stato riprogrammato, deframmentato, purgato di tutti i file infetti. Ma quanto sarebbe durato questo sollievo? Dopo aver lasciato la clinica, si ritrovarono tutti sul piazzale di Battery Park City. Sferzato da un forte vento, il lungofiume era stato preso d'assalto da jogger, venditori ambulanti e appassionati di rollerblade. Il sole stava tramontando, ma in cielo si vedeva ancora un bagliore elettrico che esaltava il colore primaverile dei prati, dove i bambini giocavano a pallone e a frisbee. Un po' in disparte, Connor guardò Mark, Alyson ed Evie e si chiese che cosa riservasse loro l'avvenire. Era difficile prevederlo. Dopo essere usciti dallo stato ipnotico, i pazienti si sentivano quasi sempre più liberi e leggeri, ma i risultati a lungo termine non erano garantiti. Connor aveva avuto malati che credeva di aver guarito e che invece si erano inspiegabilmente suicidati. Altri, invece, considerati «casi disperati» da alcuni suoi colleghi, conducevano a tutt'oggi una vita equilibrata e felice. Sarebbe stato così anche per Alyson? L'ereditiera era appena salita su un taxi. Dal finestrino, Connor la vide indicare una direzione al tassista e discutere con lui per qualche istante. Alla fine il taxi partì. Un attimo prima che l'auto si immettesse nel traffico, la giovane scambiò con il neurologo uno sguardo breve, ma intenso. L'ultima immagine che Connor ebbe di lei fu quella della sua mano appoggiata al finestrino, in segno di saluto. Quando Nicole si fu allontanata per andare a prendere la macchina, Mark e Connor rimasero in silenzio fianco a fianco, con gli occhi persi nel vuoto. «Se tu sapessi come sembrava tutto vero.» Connor lo capiva perfettamente. «Layla era così reale, così viva...» continuò l'altro con voce tremante. «È l'unico modo per aiutarti che mi sia venuto in mente» spiegò Connor. «Quando sei tornato, a Natale, non eri in grado di sopportare la notizia della morte di tua figlia. Saresti morto anche tu.»
«È vero» ammise Mark. Guardò lontano, dalle parti della Statua della Libertà e di Ellis Island, e aggiunse: «Ti ringrazio di avermi permesso di parlarle un'ultima volta. È stato importante». Connor lo guardò e vide le lacrime scivolargli silenziose lungo le guance e il collo. Si abbracciarono. «Stava bene, sai» disse Mark. «Sembrava felice, lassù.» Lassù... La parola fece loro uno strano effetto. Ancora una volta restarono in silenzio, meditando sul senso di quel termine: quel «lassù» era solo il prodotto di una psiche sotto ipnosi o si trattava di un vero aldilà? La berlina di Nicole si accostò al marciapiedi. La donna abbassò il finestrino e, con un tono distaccato che mal mascherava una certa inquietudine, domandò al marito: «Dove vuoi andare?». Senza esitare, Mark le salì accanto e rispose: «A casa». Ormai il sole era scomparso. Ancora dieci minuti e il rosa delle torri di Battery Park sarebbe sfumato nel bruno e nel grigio. Connor raggiunse Evie vicino ai parapetti che circondavano la serra del wintergarden. Benché l'area fosse stata danneggiata dagli attentati, non restavano più tracce visibili dell'11 settembre. Tuttavia Ground Zero era vicinissimo e si coglieva ancora nell'aria un eccesso di morte, di vento, di vita. Seduta a gambe incrociate su una delle panchine che fiancheggiavano il fiume, la ragazza stava guardando, senza vederle, le eleganti barche a vela allineate a North Cove. «Allora, come ti senti?» le domandò appoggiandosi alla ringhiera. «Bene» rispose Evie in tono neutro. Senza staccare gli occhi da lei, Connor si accese una sigaretta e aspirò nervosamente una boccata. Avrebbe tanto voluto che la terapia avesse successo e che Evie rinunciasse per sempre a vendicarsi dell'assassino della madre. «La ucciderà» disse lei dopo un istante. «Che cosa mi ucciderà?» «Il fumo.» Connor alzò le spalle. «Sono tante le cose che uccidono.» «Non ha paura di morire?» Lui rifletté un attimo, soffiando volute di fumo. «Mi fa più paura vivere» confessò, stupito dalla sua stessa sincerità. Tuttavia gettò il mozzicone nel fiume e resistette alla tentazione di accendersene un'altra. Nelle ultime settimane non aveva dormito molto. Ogni notte aveva lavorato indefessamente e con accanimento da perfezionista, per mettere a punto la terapia di gruppo. Adesso la stanchezza accumulata si faceva sentire in maniera imprevista, prostrandogli il fisico e annebbiandogli la mente. Ma non aveva affatto terminato la sua «missione». Doveva ancora assicurarsi che Evie non assassinasse Craig Davis. E non vedeva che un modo per impedirlo; un modo violento e insolito che non insegnavano alla facoltà di medicina. D'altronde lui non era un medico come gli altri. Era perfettamente consapevole che il suo successo, i suoi soldi, la sua auto lussuosa, il suo appartamento da due milioni di dollari non valevano niente. Non aveva mai fatto parte della piccola cricca degli psicologi newyorchesi. Non era il suo mondo. Il suo mondo era quello dei quartieri degradati di Chicago, il mondo dell'infanzia devastata, della violenza e della paura. Dopo un ultimo istante di esitazione, si avvicinò alla ragazza, si sedette accanto a lei sulla panchina ed estrasse dalla tasca del cappotto una pistola con il calcio argentato. Era l'arma che aveva preso vent'anni prima nell'appartamento degli spacciatori. Una prova schiacciante di cui non si era mai disfatto, come
se un sesto senso gli avesse detto che un giorno o l'altro ne avrebbe avuto ancora bisogno. Evie non batté ciglio. Come Connor, proveniva da un mondo di fragore e lotta, il mondo in cui il peggio capitava più spesso del meglio. «L'ho rintracciato» annunciò Connor. «Chi?» chiese lei guardandolo negli occhi. «Craig Davis, l'assassino di tua madre.» Connor vide Evie trasalire leggermente e i suoi occhi illuminarsi all'improvviso. «Abita in un piccolo stabile dietro la cattedrale di St. John the Divine. Da una settimana ci vado tutte le sere. Conosco il numero del suo appartamento, il codice del portone d'ingresso, i suoi orari di lavoro e il negozio in cui va a fare la spesa.» D'istinto, la ragazza comprese che le diceva la verità, ma non sospettò neanche per un attimo che cosa stesse per aggiungere. «Se me lo chiedi, sono pronto a ucciderlo» disse Connor indicando la pistola con un cenno. Evie rimase a bocca aperta. «Se vuoi veramente vendicarti» continuò il neurologo, «puoi farlo subito. Non hai che da dire una parola e, nel giro di un'ora, Craig Davis non sarà più al mondo.» Faceva sul serio. «Adesso tocca a te decidere.» Passò forse un minuto prima che Evie si alzasse a sua volta e lo raggiungesse accanto al parapetto. Dolcemente, senza dire una parola, gli sfilò la pistola, ultima testimonianza del dramma che aveva segnato la sua vita. Con un misto di fascino e repulsione, la guardò per qualche secondo, poi la gettò con tutte le sue forze nelle acque fredde dell'Hudson. Davanti al ventaglio di grattacieli illuminati, il molo era quasi deserto. Per un pezzo rimasero lì immobili in silenzio, soli e a un tempo insieme. Poi si alzò un vento improvviso ed Evie rabbrividì. Mentre tornavano alla clinica, Connor le coprì le spalle con il suo cappotto. Si scambiarono uno sguardo rasserenato e Connor comprese che l'aveva salvata. E che lei aveva salvato lui. Epilogo 1 La vita dopo... Mark e Alyson Mark non riprese mai a lavorare nello studio di Connor. Due mesi dopo la terapia, diventò «psichiatra di strada» per un'associazione di assistenza ai senzatetto. Durante il giorno percorreva la città, parlando con centinaia di barboni e cercando di allontanarli dall'alcol e dalla strada. Si impegnò anima e corpo nella nuova battaglia e conseguì vari successi. La discesa agli inferi lo aveva trasformato: il giovane psicologo ambizioso e sicuro di sé aveva ceduto il posto a un uomo più vulnerabile, ma più completo e più saggio. Spesso gli capitava di vedere Layla dietro l'angolo di una via, o seduta sui gradini di una scala o sull'altalena di un parco giochi. Aveva lo stesso viso bello, serio e sereno che gli aveva mostrato sull'aereo. Non parlava, ma gli faceva un piccolo cenno di saluto con la mano, a cui lui rispondeva con un gesto altrettanto discreto. Lo rassicurava sapere che lo seguiva e vegliava su di lui come l'angelo custode della sua infanzia. Non ne parlò né a Connor né a Nicole, perché si rendeva conto che le apparizioni si verificavano solo nella sua testa, ma non gli importava: quell'immagine faceva parte dell'equilibrio che si era costruito. Una mattina di settembre, accendendo la radio, apprese che Alyson Harrison era morta in un incidente di elicottero in Amazzonia. La giovane, che dirigeva una delle fondazioni create dal padre, negli ultimi
mesi si era molto impegnata nella lotta contro la distruzione delle grandi foreste pluviali. Occorsero diverse settimane per localizzare i resti dell'elicottero, ma non furono mai trovati né il corpo del pilota brasiliano né quello della ricca ereditiera. In novembre, Mark ricevette da Lhassa una cartolina che raffigurava una ruota della legge davanti all'ingresso di un monastero tibetano. La cartolina non era firmata, ma capì subito che era di Alyson. Dietro era scritto: Penso spesso a lei. Forse aveva ragione; forse possiamo davvero rifarci la vita e non limitarci a continuarla. Comunque sia, è la speranza a cui intendo aggrapparmi. Nel frattempo volevo farle pervenire una cosa. Ho trovato questi appunti su un taccuino di mio padre. Mi auguro che li abbia conservati con l'intento di consegnarglieli, un giorno. Seguivano tre parole: latitudine, longitudine, altitudine, accompagnate da una serie di cifre che Mark contemplò per un pezzo con perplessità, prima di capirne il significato. Erano le coordinate gps del posto in cui era sepolta Layla. Un sabato di dicembre, Mark e Nicole attraversarono in auto le montagne e le pianure rocciose del deserto di Mojave. Nelle prime ore di un pomeriggio senza sole, arrivarono in una distesa selvaggia non lontano dai confini del Nevada. Come aveva suggerito il navigatore gps, abbandonarono la strada principale per inoltrarsi in una zona di ciottoli polverosi e rocce frastagliate. In mezzo a quella terra arida, videro una piccola area appartata e screpolata dal sole, ma parzialmente ombreggiata da una yucca. Capirono subito che la tomba era lì. Scesero dall'auto e, mano nella mano, si avvicinarono al luogo in cui era sepolta la loro bambina. Sei anni dopo la morte, poterono finalmente dirle addio. Poi il turbine della vita riprese a girare. Un giorno Mark ricominciò a parlare del domani. Con il tempo, le apparizioni Non che non pensasse più a Riusciva a ricordarsi di lei Una sera Nicole gli annunciò Ebbero un primo figlio e poi Passarono gli anni.
di Layla si fecero più rare. sua figlia, ma lo faceva in un altro modo. senza soffrire orribilmente. che era incinta. un secondo, tre anni dopo.
Un tardo pomeriggio di luglio, dieci anni dopo l'inizio di questa storia, ci fu uno strano incontro all'aeroporto di Heathrow. Quell'estate, Mark e Nicole si erano concessi una lunga vacanza per far scoprire ai loro figli, Theo di otto anni e Sam di cinque, le meraviglie del vecchio continente. Dopo aver visitato Atene, Firenze, Parigi e Londra, la famigliola si accingeva a volare verso Lisbona. «Forza, Sammy» disse Mark prendendo in braccio il bambino, mentre Nicole teneva per mano Theo. Così, in gruppo, salirono sulla scala mobile che portava all'area di imbarco. Una coppia stava scendendo in senso inverso. L'uomo, un sudamericano, si mangiava con gli occhi la moglie e la figlia, una bella bambina meticcia dalla pelle bronzea. Quando le due famiglie arrivarono alla stessa altezza, Mark incrociò per un attimo lo sguardo della donna ed ebbe la certezza che si trattasse di Alyson Harrison. Fisicamente aveva subito una metamorfosi: la bionda spigolosa dal corpo filiforme e l'aria sofisticata era divenuta una donna bruna, radiosa, placida e rotonda. Solo gli occhi erano rimasti identici.
Si era spesso chiesto che ne fosse stato di lei. Pochi mesi dopo la sua presunta morte, aveva letto sul giornale che, dopo la tragica scomparsa della figliastra, la vedova di Richard Harrison aveva ripreso in mano le redini dell'impero Green Cross. Nient'altro. Con quell'ultima notizia Alyson si era congedata dalla stampa, proprio lei che, per anni, aveva occupato le prime pagine dei tabloid di tutto il mondo. Interrogandosi sui sentimenti che provava a quel punto nei suoi confronti, Mark aveva constatato di non sentire nessun rancore e, anzi, si era augurato che lei avesse trovato la pace. Quando la incrociò sulla scala, intuì che si era rifatta una vita e che, sotto mentite spoglie, viveva con il pilota di elicottero che l'aveva aiutata a simulare la morte. Era finalmente felice. Anche Alyson lo aveva riconosciuto. Non si scambiarono che uno sguardo, ma ognuno vide negli occhi dell'altro il riflesso di quello che provava. Epilogo 2 La loro storia... Evie & Connor Chicago Evie uscì di corsa dall'ospedale e saltò sul taxi che la stava aspettando da venti minuti. Diede al tassista l'indirizzo di un ristorante su Magnificent Mile, poi si tolse il camice bianco e cominciò a cambiarsi d'abito sul sedile posteriore. Erano passati dieci anni dal suo primo incontro con Connor. L'adolescente ipersensibile era divenuta una bella ragazza di venticinque anni. Due mesi prima, si era laureata in medicina e quella settimana iniziava il primo anno di tirocinio al reparto grandi ustionati del Chicago Presbyterian Hospital, l'ospedale dove, tanto tempo prima, Connor era stato curato dalle gravissime bruciature in tutto il corpo. Una coincidenza che non era davvero tale. Evie aveva fatto di tutto per ottenere quel posto. Si era voluta trasferire nella città dove Connor era nato e dove aveva trascorso l'infanzia. Voleva ripercorrere i suoi passi, vedere quello che aveva vissuto, soffrire quello che aveva passato, fino a confondersi con lui. Per festeggiare la laurea, lo aveva invitato al ristorante. Un modo per ringraziarlo di tutto quello che aveva fatto per lei negli ultimi dieci anni: essere stato sempre presente, averle pagato gli studi e averla accolta nella «famiglia» che formava con Mark e Nicole. E poi aveva una confessione da fargli. Una cosa che le pesava sul cuore da molto tempo. Due giorni prima, in occasione di una visita guidata per il nuovo personale, aveva incontrato la direttrice dell'ospedale, Loreena McCormick. Pur senza averla mai vista, Evie sapeva chi era. Connor le aveva parlato di lei e di quanto era stata sollecita in occasione del suo ricovero. «È grazie a lei che sono ancora al mondo» le aveva confessato in un momento di abbandono. Evie era curiosa di incontrarla. Ma era rimasta interdetta quando la direttrice, che in teoria non avrebbe dovuto conoscerla, l'aveva guardata con insistenza inquietante. Si era stupita ancora di più l'indomani, quando aveva ricevuto dalla McCormick un'e-mail contenente solo il numero di fascicolo di un misterioso paziente. Evie aveva guardato on line, ma il fascicolo era troppo vecchio per essere consultato elettronicamente. Così, dopo il suo turno, si era recata nel cuore della notte nell'archivio cartaceo, al terzo piano sotterraneo. Per ore aveva percorso i corridoi formati dagli scaffali pieni di faldoni, prima di trovare il dossier segnalatole dalla dottoressa.
Il dossier di Connor. Lo aveva aperto con mani tremanti. In mezzo alle radiografie e ai resoconti delle operazioni, aveva trovato decine di disegni fatti da Connor durante il ricovero. Con un nodo alla gola aveva guardato i primi schizzi e poi quelli successivi. Era sempre lo stesso volto di donna, disegnato con linee molto morbide. Quel viso era suo. Aveva deciso di considerarlo un segno del destino. Un segno che doveva darle il coraggio di confessare il proprio amore. Le radici del suo attaccamento erano profonde. Dopo la seduta di ipnosi, Connor si era sentito responsabile di Evie, tanto simile al ragazzo che era stato lui. «Evie è dei nostri» aveva riconosciuto Mark durante la terapia, ed era vero: avevano affrontato le stesse prove, subito le stesse umiliazioni. Fin dall'inizio erano stati vicini e l'affetto di Connor per lei non aveva fatto che aumentare nel corso degli anni. Da parte sua, Evie non aveva altro che lui al mondo. Accettando il suo aiuto, gli aveva affidato la propria vita ed egli era diventato tutto per lei. Le era tornata spesso in mente la lista che aveva scritto in fondo al diario quando viveva a Las Vegas. Pochi dei suoi desideri si erano realizzati. Sua madre non aveva trovato un fegato nuovo, e non erano andate in vacanza insieme, ma era riuscita a partire per New York e aveva incontrato una persona che la capiva. Quanto all'ultimo desiderio, che un giorno qualcuno si innamorasse di lei, voleva una cosa sola: che quel qualcuno fosse Connor. Connor arrivò per primo al ristorante. Lasciò al guardiano la BMW coupé che aveva noleggiato all'aeroporto e prese l'ascensore per la terrazza panoramica che dominava il fiume Chicago. Lo condussero a un tavolo illuminato dal sole, da dove poteva contemplare a piacere la selva di grattacieli che gli si stendeva davanti. Era la prima volta che rimetteva piede nella città che lo aveva visto nascere e che aveva lasciato trent'anni prima in circostanze drammatiche. Se n'era andato come un esule, tornava come un conquistatore. Gli ultimi dieci anni erano stati di grande successo. I suoi esperimenti nel campo della terapia ipnotica erano attualmente riconosciuti da colleghi e insegnanti nelle facoltà di medicina. Con quel metodo aveva curato centinaia di persone e ricevuto per due anni di fila il titolo di «Best Doctor in America». Sul fronte famiglia, era il padrino dei figli di Mark, che vedeva quasi ogni giorno. Anche se non lavoravano più insieme, i due erano rimasti amici. Mark era l'unica persona a cui avesse osato confidare il segreto che lo tormentava da quasi due anni e che gli causava un continuo conflitto interiore. A bordo del taxi, Evie si tolse le scarpe da ginnastica e se ne infilò un paio elegante. Frugò nella borsa e tirò fuori un piccolo astuccio del trucco. Un po' di cipria, un tocco di eye-liner e il gioco era fatto. Voleva essere bella, come nei disegni di Connor. E lui? Che reazione avrebbe avuto di fronte alle sue confessioni? Non ne aveva la più pallida idea, ma non poteva più nascondere i propri sentimenti, che, diventando sempre più forti, rischiavano di soffocarla. Spesso si domandava che cosa ne sarebbe stato di lei se non avesse incrociato sulla sua strada quel neurologo, la famosa sera di Natale in cui aveva tentato di rubargli la borsa portadocumenti. Dove sarebbe stata, adesso? In prigione? Al cimitero? A fare la cameriera in un motel di terza categoria? A volte il successo nella vita dipende da piccole cose: un incontro, una decisione, la fortuna, un filo... In tutti quegli anni, aveva sempre cercato di fare colpo su di lui e ottenere la sua approvazione. Tutto quello che faceva, lo faceva per lui. Perché era solo con lui che si sentiva davvero se stessa. Connor era la
sua parte mancante. Sapeva tutto di lei e lei sapeva tutto di lui. Evie intuiva i suoi conflitti, le sue pecche, le sue paure. Soprattutto, quando pensava al futuro, era sempre lui che vedeva al suo fianco ed era certa che nessun altro potesse essere il padre dei suoi figli. Connor guardò l'orologio e bevve un sorso di acqua minerale. Perché era venuto? Perché si infliggeva una simile sofferenza? Aveva instaurato per lungo tempo una forte complicità con Evie, ma di recente si era allontanato da lei, accettando sempre più inviti a tenere conferenze all'estero ed evitando di risponderle al telefono. Il motivo era semplice: la amava, e non riusciva più a nascondersi dietro l'amicizia. Amava tutto di lei: la voce, i gesti, il sorriso, la pelle liscia; e lei sapeva tutto di lui. Quando stava con lei, Connor sentiva risvegliarsi quello che aveva sepolto nei più lontani recessi dell'anima: la speranza, la voglia di aprirsi agli altri, la fiducia nel futuro. In quanto neurologo, sapeva bene che l'innamoramento era solo un processo biologico di ormoni e neurotrasmettitori, ma questo non risolveva il problema: doveva fuggire. Anche se fosse riuscito a conquistare il cuore di Evie, la possibilità di perderla, un giorno, bastava a farlo rinunciare all'idea di confessare i suoi sentimenti più intimi. Aveva compiuto trentacinque anni, ed era al culmine della carriera e della popolarità. Adesso era ancora attraente e affascinante, ma domani? Di lì a dieci, quindici, vent'anni? Si alzò di scatto. Che cazzo ci faceva in quel ristorante per turisti ad aspettare una donna che non avrebbe mai potuto amare? Buttò una banconota sul tavolo, abbandonò la terrazza e chiamò l'ascensore per scendere. Il taxi si fermò davanti al ristorante. Evie attraversò la sala principale e chiamò l'ascensore per salire alla terrazza. Le due cabine si incrociarono senza che i due se ne rendessero conto. Da che cosa dipende che due amori non si incontrino? Una manciata di secondi, un'esitazione, la sfortuna, un filo... Connor tornò all'auto e, confuso, decise di andare all'aeroporto. Stava per imboccare l'autostrada, quando, seguendo un impulso improvviso e rischioso, fece dietrofront e si diresse verso il quartiere della sua infanzia. In vent'anni, ben poche cose erano cambiate a Greenwood. Il processo di imborghesimento che aveva toccato una parte del South Side non aveva raggiunto i casermoni fatiscenti della città della sua infanzia. Parcheggiò il coupé nuovo fiammante al centro di un parcheggio. Alla sua epoca, un'auto come quella sarebbe stata rubata o bruciata in meno di un quarto d'ora. Sarebbe durata di più, oggi? No, a giudicare dagli sguardi e dai commenti di un gruppo di ragazzi. Passò loro davanti senza modificare l'itinerario. Una palla da basket rotolò ai suoi piedi. Si chinò per raccoglierla e la lanciò a due bambini che giocavano uno contro uno sullo stesso Campetto che lui e Mark avevano calpestato tante volte. Con una certa apprensione, entrò nell'atrio della sua vecchia casa. Una parte delle cassette della posta era stata divelta. Su quelle rimanenti, ritrovò alcuni nomi che in passato gli erano stati familiari, ma non quello dell'ultima famiglia a cui era stato affidato. Nel sottoscala, un bambino stava facendo i compiti. Ce n'è sempre uno, pensò, salutandolo con un cenno. Imboccò la scala che conduceva al locale della spazzatura. Scese lentamente, con passo malfermo, tenendosi al corrimano di cemento. Perché lo faceva? Che cosa cercava in quel palazzo freddo e buio dove gli era stata strappata la giovinezza? «ALLORA, SI SGUAZZA NELLA SPAZZATURA, BRUTTO FROCIO? LO SAI CHE COSA NE FACCIAMO, NOI, DELLA SPAZZATURA?»
Si girò di scatto, ma non c'era nessuno. Erano passati vent'anni da quella tragica sera, ma, nella sua psiche, la ferita era ancora aperta. Arrivato sulla soglia del locale, schiacciò l'interruttore. La stanza rimase buia, come se la lampadina fulminata non fosse stata cambiata in tutto quel tempo. Esitò a entrare. Che cosa cercava di dimostrare a se stesso? Che non aveva più paura? Che era in grado di affrontare i propri demoni? Con apprensione, entrò ugualmente nella stanza e si chiuse la porta di metallo alle spalle. «LA BRUCIAMO!» gridò una voce nella sua testa. Adesso era solo al buio, circondato dalle tenebre. Tremava e il sudore gli colava lungo la schiena. Udì un rumore e, nonostante l'oscurità, gli sembrò di distinguere un fantomatico ragazzo di quindici anni. Il cuore accelerò i battiti. Fece qualche passo nella sua direzione e si vide identico a com'era in passato: pallido, magro, con i vestiti troppo piccoli. Il bambino che era stato lo guardava come un visitatore atteso a lungo. Connor sentì risvegliarsi quel terrore ancestrale che non l'aveva mai abbandonato e che gli aveva così spesso rovinato la vita. «Non devi più aver paura» gli sussurrò il ragazzo. «Ma è per te che ho paura» rispose lui. L'altro lo guardò con un'aria rassicurante. «Adesso per me va tutto bene.» Connor posò una mano sulla spalla del ragazzo che era stato, poi chiuse gli occhi e lasciò che la paura defluisse pian piano. E scomparì. Quando uscì dallo stabile, Evie lo aspettava vicino alla macchina. Non ci aveva messo molto a trovarlo. In fondo al cuore aveva sempre sospettato che tutto sarebbe finito lì, ai piedi dei casermoni di un'infanzia da cui non ci si può staccare. Fiduciosa, gli andò incontro. Adesso sapeva che sarebbe andato tutto bene. Perché, quando si ama, non scende mai la notte. Detto tra noi Care lettrici, cari lettori, da quattro libri, ormai, mi rendete onore e accordate fiducia, seguendomi attraverso i miei personaggi e i miei mondi. Molti di voi mi hanno scritto per dirmi quanto amino le mie storie, che sono divenute le loro. Ho letto ognuna delle vostre lettere e ognuno dei vostri messaggi. A volte, quando ho firmato copie dei miei romanzi in occasione di una presentazione, ci siamo anche visti: qualche commento toccante ma per forza di cose fugace, qualche parola scambiata troppo in fretta. Dopo ogni incontro ho sempre avuto l'impressione di non avervi detto la cosa fondamentale. Grazie. Grazie di fare vivere i miei romanzi. Grazie di farli esistere e conoscere, e di difenderli. Perché ormai è la vostra lettura a dare senso alle mie parole. Ma senza dubbio, voi lo sapevate già. A presto, tra una pagina e l'altra. Guillaume 6 marzo 2007 Le frasi misteriose che appaiono sul muro a pagina 83 appartengono rispettivamente a Marie Curie («Non c'è niente da temere, solo da capire»), e a Ernest Hemingway («Un uomo può essere distrutto, ma non vinto»). «All'ombra delle torri scomparse», l'espressione che ho usato nel capitolo 29, è un riferimento a L'ombra delle torri, l'album a fumetti che Art Spiegelman ha scritto dopo la tragedia dell'11 settembre. Indice
1. La notte in cui tutto ebbe inizio 2. La scomparsa 3. Qualcuno che mi assomiglia 4. La via della notte 5. Luce 6. Layla è viva 7. Made in heaven 8. Il terminal 9. Alyson - Primo flashback 10. Sull'aereo 11. Evie - Primo flashback 12. Mark & Alyson 13. 14. 15. 16.
Alyson - Secondo flashback La ruota della vita Evie - Secondo flashback Evie - Terzo flashback
17. 18. 19. 20. 21.
Losing my religion Sopravvivere Mark & Connor - Primo flashback Mark & Connor - Secondo flashback Al di là delle nubi
22. Evie - Quarto flashback 23. La parola d'ordine 24. La buona vita 173 25. Mark & Connor - Terzo flashback 177 26. La nostra vendetta sarà il perdono 195 27. Alyson - Terzo flashback 203 28. La vita davanti a te 213 29. La notte in cui tutto ebbe inizio (seguito) 30. Apri gli occhi 229 31. Come prima 235 32. La verità 239 Epilogo 1. La vita dopo... - Mark & Alyson 249 Epilogo 2. La loro storia... - Evie & Connor 253 Detto tra 261 Finito di stampare nel mese di febbraio 2008 presso il Nuovo Istituto Italiano d'Arti Grafiche - Bergamo Printed in Italy
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