NICCI FRENCH L'OSPITE (The Safe House, 1998) A Pat e John Capitolo 1 La prima cosa che notò fu la porta. Era aperta. La ...
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NICCI FRENCH L'OSPITE (The Safe House, 1998) A Pat e John Capitolo 1 La prima cosa che notò fu la porta. Era aperta. La porta d'ingresso non veniva mai lasciata aperta, neanche l'estate precedente, quando faceva quel meraviglioso caldo e sembrava di essere a casa. Ora, invece, era socchiusa e oscillava leggermente verso l'interno. La mattina era così fredda che l'umidità dell'aria punse le guance butterate della signora Ferrer. Appoggiò la mano guantata sulla superficie bianca della porta e la spinse per verificare quel che vedevano i suoi occhi. «Signora Mackenzie?» Silenzio. La signora Ferrer alzò la voce e chiamò un'altra volta la padrona di casa, provando imbarazzo nel sentire le proprie parole risuonare, alte ed esitanti, nell'ampio ingresso. Entrò e sfregò a lungo i piedi sullo zerbino, come sempre. Si tolse i guanti e li tenne stretti nella mano sinistra. Avvertì un odore pesante e dolce, che le ricordò qualcosa. Un'aia? No, un luogo chiuso, forse un fienile. Tutte le mattine alle otto e mezza precise la signora Ferrer salutava la signora Mackenzie con un cenno del capo, le passava davanti ticchettando sul parquet lucido dell'ingresso, girava a destra e prendeva le scale per il seminterrato, dove si toglieva il cappotto e tirava fuori l'aspirapolvere dallo sgabuzzino. Poi passava un'ora in un anestetizzante ronzio. Su per le ampie scale principali, lungo i corridoi del primo piano, quelli del secondo, giù per le strette scale di servizio. Ma dov'era la signora Mackenzie? La signora Ferrer rimase incerta presso la porta, il cappotto di tweed color porridge abbottonato fino al collo, spostando il peso da un piede all'altro. C'era un televisore acceso. Il televisore non era mai acceso. Sfregò con cura la suola delle scarpe sullo zerbino. Abbassò gli occhi. Ma l'aveva già fatto, no? «Signora Mackenzie?» Dallo zerbino passò sul parquet; cera d'api, aceto e paraffina. Si spostò nella stanza accanto, che non veniva mai usata e non aveva praticamente bisogno dell'aspirapolvere, ma lei la passava lo stesso. Non c'era nessuno, naturalmente. Le tende erano tirate, la luce accesa. Andò nella sala adia-
cente, passando davanti alle scale. E appoggiò la mano sul pilastro sormontato da un'elaborata decorazione di legno scuro, una specie di ananas rostrato. Olio di lino bollito, non crudo. Nessuno. Il televisore era nel soggiorno. Fece un passo in avanti, sfiorando il muro con la mano come per reggersi. La libreria. Copertine rilegate in pelle, che richiedevano un misto di lanolina e olio di piede di bue in ugual misura. Forse chi stava guardando la televisione non l'aveva udita chiamare. E in quanto alla porta, forse era passato un fattorino per una consegna, o l'uomo che veniva a pulire i vetri l'aveva lasciata aperta. Rassicurata andò nel salotto principale, sul retro della casa. Immediatamente, pochi secondi dopo essere entrata, vomitò sul tappeto su cui passava l'aspirapolvere tutti i giorni feriali della settimana da diciotto mesi. Si piegò in due, ansimando. Frugò nella tasca del cappotto, trovò un fazzoletto e si pulì la bocca. Era sorpresa di sé, quasi imbarazzata. Da bambina suo zio l'aveva portata in un macello fuori Fuenteobejuna e le aveva sorriso, quando si era rifiutata di svenire alla vista del sangue e delle bestie squartate e soprattutto a tutto quel vapore che si sprigionava dalla pietra fredda del pavimento. Era quello l'odore che le era tornato alla mente. Non l'odore di fienile. C'erano schizzi di sangue su un'area molto estesa, dal soffitto alla parete opposta, come se il signor Mackenzie fosse esploso. Ma soprattutto c'erano delle pozze scure sul suo grembo e sul divano. C'era moltissimo sangue. Come faceva a essere di un solo uomo? Ciò che l'aveva fatta star male, forse, era la vista di quel pigiama così ordinario, così inglese, allacciato fino all'ultimo bottone. La testa del signor Mackenzie era piegata stupidamente indietro, tracciando un angolo impossibile. Il collo era tagliato quasi completamente e non c'era nulla a reggere la testa se non lo schienale del divano. Vide ossa e tendini e gli improbabili occhiali, ancora inutilmente sugli occhi. Il volto era molto bianco. E di un orribile e inaspettato colore bluastro. La signora Ferrer sapeva dov'era il telefono, ma in quel momento non se lo ricordava e dovette cercarlo. Lo trovò su un tavolino sul lato opposto della stanza, lontano da tutto quel sangue. Sapeva il numero per via di un programma televisivo. Nove nove nove. Rispose una voce femminile. «Pronto, c'è stato un orribile omicidio.» «Mi scusi?» «Un omicidio.» «Si calmi, signora, non pianga. Può parlare in inglese?»
«Sì, certo, mi dispiace. Il signor Mackenzie è morto. Assassinato.» Fu solo quando ebbe posato la cornetta che si ricordò anche della signora Mackenzie e salì al piano di sopra. Le ci volle un secondo per constatare quello che aveva temuto. La sua padrona era legata al letto. Sembrava quasi sommersa dal sangue, la camicia da notte impregnata e lucida contro il corpo scarno. Troppo magra, aveva sempre pensato in privato la signora Ferrer. E la ragazza? Sentì un peso al petto mentre saliva l'altra rampa di scale. Aprì la porta dell'unica camera della casa che non aveva il permesso di pulire. Non riuscì quasi a vedere nulla della persona legata al letto. Che cosa le avevano fatto? Nastro adesivo marrone lucido intorno al viso. Braccia spalancate, polsi legati agli angoli di metallo della rete, sottili strisce rosse sul davanti della camicia da notte. La signora Ferrer lanciò uno sguardo alla camera da letto di Finn Mackenzie. C'erano bottiglie buttate sul cassettone e sul pavimento. Le fotografie erano state strappate, i volti tagliati. Su una parete era stata scritta una parola che non capiva in un rosa scuro sbavato: PIGGIES. Si voltò improvvisamente. Aveva udito un rumore provenire dal letto. Un gorgoglio. Si avvicinò e toccò la ragazza sulla fronte, sopra il nastro adesivo che le copriva il volto. Era calda. Dall'esterno sentì il rumore di un'auto e poco dopo dei pesanti passi nell'ingresso. Corse giù per le scale e vide alcuni uomini in uniforme. Uno di essi alzò gli occhi su di lei. «È viva» ansimò la signora Ferrer. «È viva.» Capitolo 2 Mi guardai intorno. Non era campagna, era una terra desolata in cui erano stati gettati e poi abbandonati dei frammenti di paesaggio rurale: un albero, un cespuglio, un arbusto reso spoglio dall'inverno, un campo coperto di fango. Avrei voluto trovare qualche particolare geografico, una collina o un fiume, ma non vedevo nulla del genere. Mi sfilai un guanto con i denti per consultare la cartina ma mi cadde nell'erba fangosa. L'ampio foglio svolazzò selvaggiamente al vento, finché non lo richiusi a fisarmonica. Fissai le righe marrone chiaro, i puntini rossi e le lineette che segnavano strade, sentieri e mulattiere. Avevo seguito la linea puntinata per chilometri, ma non ero riuscita a raggiungere la diga marittima che mi avrebbe ricondotto al luogo da cui ero partita. Scrutai in lontananza. Era a chilometri di distanza, una sottile riga curva e grigia contro il cielo e l'acqua. Guardai di nuovo la cartina, che sembrò disintegrarsi sotto i miei occhi,
un codice indecifrabile di croci e linee, puntini e trattini. Sarei arrivata in ritardo a prendere Elsie. Odio essere in ritardo. Non lo sono mai. Sono sempre puntuale, sono quella che aspetta, che passeggia nervosamente sotto l'orologio, o che sta seduta in un bar davanti a una tazza di tè che si raffredda con un tic di impazienza all'occhio destro. E quando si tratta di Elsie non arrivo mai, proprio mai in ritardo. Questa camminata doveva durare esattamente tre ore e mezza. Girai la cartina: probabilmente non avevo visto la biforcazione del sentiero. Se avessi tagliato a sinistra, lungo la sottile linea nera, avrei evitato il promontorio di paludi e avrei incontrato la diga proprio prima che raggiungesse il piccolo villaggio dove avevo parcheggiato la macchina. Infilai la cartina, che si stava strappando lungo le piegature, nella tasca della giacca a vento e raccolsi il guanto. Infilai quelle dita fredde e fangose sulle mie dita intirizzite. Ripresi a camminare. I muscoli dei polpacci mi dolevano e il naso mi colava sul viso punto dal freddo. L'immenso cielo minacciava pioggia. A parte un uccello scuro che volò basso sopra di me, il lungo collo teso in avanti e le ali che sbattevano pesantemente nell'aria, ero completamente sola in quel paesaggio di terre paludose e verdognole e di mare grigiastro. Probabilmente apparteneva a una specie rara e interessante, ma io non conosco i nomi degli uccelli. Né degli alberi, tranne quelli ovvi come i salici e i platani che si trovano lungo tutte le strade di Londra, e le cui radici scalzano le case. Né dei fiori, eccetto di quelli comuni come i ranuncoli e le margherite, o quelli che si comprano dal fioraio il venerdì sera e si mettono nel vaso quando vengono gli amici: rose da natura morta, giaggioli, crisantemi, garofani. Ma non sapevo il nome delle pianticelle che mi graffiavano gli scarponi, mentre mi dirigevo verso un piccolo bosco che non sembrava avvicinarsi affatto. Quando stavo a Londra a volte mi sentivo oppressa dalle parole che mi circondavano: le insegne dei negozi, i numeri delle case, i nomi delle strade, i codici postali, i camioncini con la scritta PESCE FRESCO o CORRIERE AMICO, le scritte al neon che lampeggiavano nel cielo arancione. Ora non avevo più parole per ciò che mi stava intorno. Arrivai a una recinzione di filo spinato che separava la palude da quel che sembrava un campo coltivato. Abbassai con forza il filo con il pollice e lo scavalcai con una gamba. «Ha bisogno di aiuto?» La voce sembrava gentile. Mi voltai e una punta del filo spinato mi si impigliò nel cavallo dei jeans.
«No grazie.» Riuscii a far passare sopra il filo spinato anche l'altra gamba. Era un uomo di mezz'età con la barba, una giacca marrone imbottita e scarponi verdi. Era più piccolo di me. «Sono l'agricoltore.» «Se vado diritto per di qua, arrivo alla strada?» «Sono il proprietario di questo campo.» «Beh...» «Questa non è una strada pubblica. Lei sta entrando abusivamente. Nella mia terra.» «Oh.» «Deve andare in quella direzione.» Me la indicò gravemente. «E arriverà a un sentiero.» «Non potrei...» «No.» Mi sorrise, non in maniera antipatica. Aveva la camicia abbottonata in modo sbagliato al collo. «Pensavo che la campagna fosse un luogo in cui si potesse camminare liberamente.» «Vede il mio bosco laggiù?» continuò con severità. «I ragazzi di Lymne» lo pronunciò Lumney «hanno cominciato ad attraversarlo con le bici. Poi sono arrivate le moto. Spaventavano le mucche e distruggevano il sentiero. La scorsa primavera della gente ha attraversato il campo di un mio vicino con dei cani, che hanno ucciso tre dei suoi agnelli. E questo nonostante i cancelli fossero chiusi.» «Mi dispiace, ma...» «E Rod Wilson, proprio laggiù, mandava i vitelli a Ostenda. Hanno cominciato con il picchettaggio del porto a Goldswan Green. Poi, un paio di mesi fa, gli hanno bruciato il fienile. La prossima volta toccherà alla casa di qualcuno. Non è mai finita.» «D'accordo. Sa che cosa farò? Scavalcherò di nuovo questa recinzione e girerò intorno alla sua terra.» «Viene da Londra?» «Ci vivevo. Ho comprato Elm House dall'altra parte di Lymne. Sa, la casa senza olmi.» «Sono finalmente riusciti a venderla, eh?» «Sono venuta in campagna per fuggire dallo stress.» «Bene. Ci piacciono i londinesi. Spero che ripassi da queste parti.»
Gli amici avevano pensato che scherzassi quando avevo annunciato che sarei andata a lavorare all'ospedale di Stamford e mi sarei trasferita in campagna. Sono sempre vissuta a Londra, sono cresciuta lì, o almeno nelle sue tentacolari periferie, ci sono andata all'università, ho fatto i corsi propedeutici di medicina, ci ho lavorato. E come farai senza i ristoranti da asporto? Mi aveva chiesto uno di loro. E senza i cinema notturni, i negozi aperti ventiquattr'ore, le baby-sitter, i piatti pronti di Marks & Spencer, gli avversali a scacchi? E Danny, quando ero riuscita a trovare il coraggio di dirglielo, mi aveva guardato con occhi pieni di rabbia e dolore. «Che cos'hai, Sam? Voglia di dar valore al tempo con tua figlia in qualche stupido prato di villaggio? Pranzo domenicale e bulbi da piantare?» A dir la verità i bulbi mi erano venuti in mente. «O» aveva continuato «mi stai piantando? È questo che significa il tuo trasferimento, ed è per questo che non ti sei mai neppure presa la briga di dirmi che stavi facendo domanda per un lavoro al Polo Nord?» Avevo alzato le spalle, fredda e ostile, sapendo che mi stavo comportando male. «Non ho inoltrato io la domanda. Sono loro che mi hanno offerto il posto. E noi non viviamo insieme, Danny, ricordi? Hai voluto la tua libertà.» Aveva emesso una specie di lamento e aveva risposto: «Senti Sam, forse è arrivato il momento...». Ma l'avevo interrotto. Non volevo sentirgli dire né che dovevamo vivere insieme, né che ci dovevamo lasciare, anche se sapevo che presto avremmo dovuto prendere una decisione. Gli avevo appoggiato una mano sulla spalla che si era mantenuta ostilmente rigida. «È a solo un'ora e mezza. Puoi venire a trovarmi.» «A trovarti?» «A stare con me.» «Già, venire a stare con te.» E si era piegato in avanti, capelli scuri e barba lunga e odore di segatura e di sudore, e mi aveva trascinata verso di lui, afferrandomi per la cintura dei jeans. Me l'aveva slacciata e mi aveva spinta sul linoleum caldo della cucina, sotto a cui passava un tubo del riscaldamento, mettendomi le mani sotto la testa rapata, perché non la sbattessi cadendo. Se mi fossi messa a correre, forse sarei riuscita ad arrivare in tempo a prendere Elsie. Sulla diga il vento ululava e il cielo sembrava inghiottito
dall'acqua. Respiravo a scatti. Nella scarpa sinistra mi era entrata un po' di sabbia, che mi sfregava sotto il piede, ma non potevo fermarmi. Era solo il secondo giorno di scuola di Elsie. La maestra avrebbe pensato che fossi una madre snaturata. Case: finalmente comparvero delle case. Stile anni Trenta, squadrate, di mattoni rossi, come nei disegni dei bambini. Il fumo che usciva in volute perfette da un'ordinata fila di camini. E la macchina. Forse sarei riuscita ad arrivare puntuale. Elsie si dondolava sui piedi, dalla punta al tacco, dal tacco alla punta. I capelli biondi e lucidi che ondeggiavano. Indossava una giacchetta marrone su un vestito a quadretti rossi e arancioni e sulle gambe robuste la calzamaglia rosa a puntini, che le faceva delle pieghe intorno alle caviglie costantemente in movimento («Mi hai detto che potevo mettermi quello che volevo, e voglio questi vestiti» aveva proclamato con ferocia a colazione). Aveva il naso rosso e gli occhi assenti. «Sono in ritardo?» Abbracciai il suo corpicino caparbio. «C'era Mungo con me.» Guardai il parco giochi deserto. «Non vedo nessuno.» «Non adesso.» Quella sera, dopo aver messo Elsie a letto, mi sentii sola nella casa vicino al mare. Il buio di fuori così buio, il silenzio così spaventosamente intenso. Andai a sedermi presso il camino spento con Anatoly sulle ginocchia, e le sue fusa, mentre lo grattavo dietro le orecchie, sembrarono riempire la stanza. Rovistai nel frigo, e riuscii a trovare solo un pezzo di formaggio indurito, mezza mela, un quadretto di cioccolato al latte con nocciole e uvette. Chiamai Danny, ma mi rispose la voce rigida della segreteria telefonica e non lasciai messaggi. Accesi il televisore per sentire il telegiornale della sera. Una coppia di ricchi benestanti del luogo era stata brutalmente assassinata; li avevano sgozzati. Mostrarono una fotografia dei loro volti che sorridevano in maniera formale, quello di lui florido e grassoccio, quello di lei pallido, magro e riservato, poi un'immagine della loro grande casa in fondo a un viale di ghiaia. La loro figlia adolescente era stata aggredita, ma si era salvata e si trovava fuori pericolo all'ospedale di Stamford. Una foto scolastica sfocata, probabilmente vecchia di anni, una faccia felice, rotonda, grassoccia.
Poveretta. Un poliziotto grande e grosso disse qualcosa su indagini a trecentosessanta gradi, un politico locale espresse sdegno e rabbia e assicurò che si sarebbero presi dei provvedimenti. Mi domandai per un momento che ne sarebbe stato di quella ragazza all'ospedale, ora che il suo futuro era stato così violentato. Poi il telegiornale passò a parlare di un ostacolo nel processo di pace da qualche parte e non pensai più a lei. Capitolo 3 «Dopo di te.» «No, dopo di te.» «Per l'amor del Cielo, serviti tu.» Erano in fila per quattro intorno alla macchina del caffè, chi in uniforme chi in abiti civili, che si sbracciavano per lo zucchero e il latte. Avevano fretta. I posti a sedere nella sala conferenze, usata raramente, erano pochi e nessuno voleva essere in ritardo in questa occasione. «È un po' presto per una riunione sul caso, no?» «È il Boss che l'ha voluta.» «Direi che è un po' presto.» La sala conferenze si trovava nella nuova ala uffici della polizia di Stamford, tutta formica, tubi al neon e ronzio del sistema di riscaldamento. Il capo del Criminal Investigation Department, il sovrintendente Bill Day, aveva indetto la riunione per le 11,45 della mattina stessa in cui erano stati rinvenuti i corpi. Le tendine erano aperte e mostravano l'edificio di fronte adibito a uffici, sulle cui finestre si rifletteva un sereno cielo invernale. In un angolo c'erano un proiettore e un videoregistratore. Le sedie di plastica, impilate contro la parete, venivano man mano staccate e portate intorno al lungo tavolo. Il detective ispettore Frank «Rupert» Baird si fece strada tra la folla di funzionali, torreggiando sulla maggior parte di essi, e prese posto in fondo al tavolo. Ci sbatté sopra alcune cartelline di documenti e guardò l'orologio, giocherellando pensosamente con i baffi. Bill Day e un uomo in uniforme di grado elevato entrarono nella sala che, immediatamente, si fece silenziosa e attenta. Day andò a sedersi accanto a Rupert Baird, ma il tizio in uniforme rimase di proposito in piedi, a lato della porta, appoggiato con la schiena alla parete. Bill Day fu il primo a prendere la parola.
«Buongiorno, signori» disse. «E signore» aggiunse, cogliendo lo sguardo ironico della poliziotta MacAllister, all'estremità opposta del tavolo. «Non vi tratterremo a lungo. Questo è solo un incontro preliminare.» Fece una pausa, esaminando i volti delle persone sedute attorno al tavolo. «Dobbiamo far luce senza indugi su questo delitto.» Ci furono dei cenni di assenso. «Colgo anche l'occasione per presentarvi il sovrintendente capo Anthony Cavan, che molti di voi ancora non conoscono.» L'uomo in uniforme presso la porta fece un cenno alle teste che si erano voltate verso di lui. «Grazie Bill» disse. «Buongiorno a tutti. Sono qui per la conferenza stampa, e ci tengo a esprimervi tutto il mio incoraggiamento. Per il resto fate finta che non ci sia.» «Bene» continuò Bill Day con un sorriso appena accennato. «Ho chiesto al detective ispettore Baird di presiedere alla riunione. Rupert?» «Grazie» rispose Baird e sfogliò le carte che aveva davanti a sé con aria risoluta. «Lo scopo di questa riunione è mettere le cose in chiaro fin dall'inizio. Il CID di Stamford sarà sotto i riflettori della stampa. Cerchiamo di non fare la figura degli scemi. Ricordiamoci il caso Porter.» Tutti conoscevano il caso Porter, se non altro di fama: i servizi televisivi, l'appello, i libri, i prepensionamenti, le sostituzioni. L'atmosfera si raggelò ulteriormente. «Cercherò di coprire il terreno il più rapidamente possibile. Fate pure qualsiasi domanda vi venga in mente. Voglio che tutto sia perfettamente chiaro a tutti.» Inforcò gli occhiali e lanciò un'occhiata agli appunti. «I corpi sono stati trovati alle otto e mezza circa di questa mattina. Giovedì, 18 gennaio. Le vittime sono Leopold Victor Mackenzie e sua moglie, Elizabeth. Il signor Mackenzie era il presidente della Mackenzie & Carlow, un'azienda di medicinali, farmaci, questo genere di cose. La loro figlia, Fiona, è stata ricoverata presso l'ospedale di Stamford.» «Sopravvivrà?» «Non lo so. Ora si trova in isolamento, e non può ricevere visite. Il medico che la ha in cura ha insistito in questo senso e gli abbiamo dato ragione. Ci sono un paio di poliziotti di guardia.» «Ha parlato?» «No. Siamo stati chiamati dalla donna delle pulizie della famiglia, una certa signora Juana Ferrer, spagnola, poco dopo le otto e mezza. Il luogo è stato sigillato nel giro di dieci minuti. Al momento la signora Ferrer si trova qui, al piano di sotto.» «Ha visto qualcosa?»
«Sembra di no, è...» Baird si interruppe e volse gli occhi alla porta che si era aperta. Entrò un uomo di mezza età, ansimante, con i capelli spettinati, gli occhiali cerchiati di metallo e una valigia rigonfia. «Philip, grazie per essere riuscito a passare» disse Baird. «Qualcuno gli può dare una sedia?» «Non ho tempo, grazie. Sto arrivando dalla casa e devo andare subito a Farrow Street. Voglio accompagnare i corpi. Posso accordarvi solo un paio di minuti. In ogni caso non penso di potervi essere molto di aiuto in questo momento.» «Il dottor Philip Kale, il medico legale della sede centrale» spiegò Baird ai convenuti. «Che cosa ci puoi dire?» Il dottor Kale posò la borsa sul pavimento e aggrottò la fronte. «Come sapete, una delle mie responsabilità come medico legale è di non costruire teorie premature. Ma...» cominciò a contare sulle dita «... basandomi sull'esame dei corpi condotto sul posto, i due casi sembrano straordinariamente simili. Causa di morte: anossia anemica, dovuta alla ferita per incisione della gola, che alcuni di voi hanno visto. La ferita è stata provocata da una lama, probabilmente non seghettata, di almeno due centimetri di lunghezza. Potrebbe essere stato un coltello qualsiasi, da uno Stanley a un coltello da scalco. Si tratta con ogni probabilità di omicidio.» «Ci può indicare l'ora del decesso?» «Non con precisione. Dovete capire che tutto ciò che dico ora è ancora da confermare.» Fece una breve pausa. «Quando ho esaminato i corpi sulla scena del delitto, l'ipostasi era cominciata, ma non completamente sviluppata. Direi che le morti risalgono da più di due ore prima che i corpi fossero scoperti a non più di, diciamo, cinque o sei ore. Decisamente non più di sei.» «La figlia non avrebbe potuto sopravvivere cinque ore con la gola tagliata, no?» Il dottor Kale si interruppe per pensare. «Non l'ho vista. Probabilmente no.» «Non ci può dire nient'altro? Nient'altro sull'omicidio?» Il dottor Kale accennò un lievissimo sorriso. «La persona che maneggiava il coltello era destrorsa e non affetta da avversione al sangue. E ora devo andare. Le autopsie dovrebbero essere completate per la metà del pomeriggio. Riceverete una relazione.» Subito dopo la sua uscita si sollevò un mormorio, arrestato da Baird con
un colpetto delle nocche sul tavolo. «Gli agenti intervenuti sulla scena del crimine hanno niente da aggiungere?» Ci furono dei segni di diniego. «Io ho parlato con la donna delle pulizie.» A intervenire era stato il detective Chris Angeloglou. «Sì?» «Ha detto che l'altro ieri la signora Mackenzie aveva dato una festa in casa. Erano presenti duecento invitati. Cattiva notizia, mi dispiace.» «Cristo!» «Sì.» «Vuol dire che dobbiamo metterci in contatto con tutti. Abbiamo bisogno dell'elenco di chi c'era.» «Ci sto già lavorando.» «Bene. Non abbiamo ancora trovato segni di scasso. Ma è presto e in ogni modo la loro porta di ingresso si può aprire con una carta di credito, un righello di plastica, qualsiasi cosa. Un rapido esame dell'interno della casa ha mostrato che sono stati svuotati cassetti e armadi e sono stati fatti parecchi danni. Le fotografie sono state strappate e ridotte a pezzetti.» «Cercavano qualcosa?» «Non faremo ipotesi finché non avremo raccolto e confrontato tutte le informazioni. Non voglio che si cerchino prove per dimostrare una teoria. Voglio che si raccolgano tutti gli indizi. E poi che si cominci a pensare.» Abbassò gli occhi sugli appunti. «Che altro? C'è la scritta sulla parete, con il rossetto della signora Mackenzie. PIGGIES.» «Manson» disse il detective Angeloglou. «Che cos'è?» «Non è la stessa cosa che aveva scritto sul muro con il sangue la banda di Manson, quando hanno ucciso tutte quelle persone in California? Death to Pigs. È una canzone dei Beatles.» «Bene, Chris. Indaga, ma non ti eccitare troppo. Probabilmente è un vicolo cieco. Dunque, questi sono gli elementi che abbiamo; non molto. Concluderò fra un minuto. Se dopo passate un momento da Christine, vi darà una copia dell'ordine di servizio. In breve, bisognerà fare una ricerca a tappeto nella casa, andare a bussare a ogni porta della zona, andare a parlare alla Mackenzie & quel che è il nome dell'azienda, e interrogare la gente che ha partecipato alla festa. Abbiamo già inviato degli agenti alla stazione ferroviaria e abbiamo stabilito dei posti di blocco sulla Tyle in cerca di te-
stimoni. Spero che riusciremo a prendere quel bastardo nel giro di ventiquattr'ore. Se non sarà così, voglio un sacco di informazioni su cui lavorare. Domande?» «Avevano dei nemici?» «Questa è la ragione per cui stiamo facendo un'inchiesta.» «C'erano molti oggetti preziosi in casa?» «Andate a cercare. Siete dei poliziotti.» «Potrebbe essere molto semplice.» Le sopracciglia cespugliose di Baird si sollevarono fino a formare un angolo di quarantacinque gradi. Tutti si voltarono verso Pam MacAllister al fondo del tavolo. «Ci illumini, MacAllister.» «Se sopravvivrà, forse la figlia ci potrà riferire che cosa è accaduto.» «Certo» disse Baird seccamente. «Nel frattempo, finché non sarà in grado di essere interrogata, cerchiamo di fare i poliziotti. O le poliziotte. È quel che farò io, almeno, e lo consiglio anche a voi.» Pam MacAllister arrossì, ma non replicò. «Bene» disse Baird, raccogliendo le carte e alzandosi in piedi. «Se scoprite qualcosa di significativo, venite a trovarmi. Ma non fatemi perdere tempo.» Capitolo 4 «Tira su il finestrino.» «Ma ho troppo caldo.» «Si gela; ci prenderemo una polmonite. Tiralo su.» Elsie girò faticosamente la manovella. Il finestrino si alzò di un centimetro e si arrestò. «Non riesco.» Mi piegai sul suo corpicino arrabbiato. La macchina sbandò. «Possiamo mettere la mia cassetta? Quella dei vermi.» «Ti piace la scuola?» Silenzio. «Che cosa hai fatto ieri?» «Non so.» «Dimmi tre cose che hai fatto ieri.» «Ho giocato. E ho giocato. E ho giocato.» «Con chi hai giocato?» Chiesi allegramente. Impazientemente.
«Mungo. Posso mettere la mia cassetta?» «Il mangiacassette è rotto. Ci hai infilato delle monete.» «Non è giusto. Avevi promesso...» «Non avevo promesso.» «Se te lo dico io.» Eravamo sveglie già da tre ore e non erano neanche le nove. Elsie si era infilata nel mio letto prima delle sei, si era rannicchiata accanto a me tirandomi via il piumino nell'alba gelida, graffiandomi le gambe con le unghie dei piedi che mi ero dimenticata di tagliarle, mettendomi i piccoli piedi freddi contro la schiena, ficcandomi la testa sotto il braccio, baciandomi con la bocca calda, umida e arricciata, sollevandomi le palpebre con dita esperte, accendendo la luce del comodino, in modo che per un momento la stanza piena di scatole e valigie ancora da disfare da cui strabordavano vestiti spiegazzati era scomparsa in un abbacinamento doloroso. «Perché non puoi venire a prendermi? «Devo lavorare. E poi Linda ti piace.» «Non mi piacciono i suoi capelli. Perché devi lavorare? Perché non può lavorare il papà e tu stare a casa come le altre mamme?» Elsie non ha un papà. Perché dice cose del genere? «Verrò a prenderti da Linda il prima possibile, te lo prometto. Ti preparo io la cena.» Non badai alla faccia che fece alle mie parole. «E ti porto a scuola la mattina. Va bene?» Cercai di pensare a qualcosa di allegro. «Elsie, perché non facciamo il nostro gioco? Che cosa c'è in casa?» «Non lo so.» «Lo sai. Che cosa c'è in cucina?» Elsie chiuse gli occhi e aggrottò la fronte per lo sforzo. «Una palla gialla.» «Grande. E che cosa c'è in bagno?» «Una scatola di Coco Pops.» «Fantastico. E che cosa c'è nel letto di Elsie?» Ma l'avevo persa. Elsie stava fissando fuori del finestrino. Indicò una nuvola bassa, grigio scura. Accesi la radio. «... tempo molto freddo... forti venti... nord-orientali.» Significava dal nord-est o verso il nord-est? Ma che cosa importava? Girai la manopola: crepitii, jazz, crepitii, una stupida discussione, crepitii. La spensi e mi concentrai sul paesaggio. Era per questo che avevo lasciato Londra? Piatto, increspato, grigio, umido, con qua e là un fienile dall'aria industriale fatto di alluminio o di blocchi di scorie di coke. Non un bel posto per andare a nascondersi.
Quando stavo cercando di prendere una decisione riguardo al lavoro a Stamford, avevo stilato un elenco. Su un lato i pro e sull'altro i contro. Adoro gli elenchi, ogni giorno al lavoro ne faccio di lunghi, con le priorità segnate da asterischi di colori differenti. Sento di avere la vita sotto controllo, una volta che l'ho ridotta a un mezzo foglio di dimensioni A4, e adoro cancellare ordinatamente con una riga le cose che ho fatto. A volte metto in cima all'elenco qualche mansione già eseguita e la cancello, tanto per prendere slancio e affrontare quello che, invece, devo ancora fare. Quali erano stati i pro? Qualcosa del tipo: Campagna Casa più grande Più tempo da passare con Elsie Il lavoro che ho sempre desiderato Più soldi Tempo per finire il progetto Trauma Camminate Animaletto per Elsie (?) Scuola più piccola Risolvere la relazione con Danny Avventura e cambiamento Più tempo (questo ultimo punto era evidenziato da vari asterischi perché superava di gran lunga tutte le altre ragioni). Nei contro c'era solo: Lasciare Londra. Sono cresciuta in periferia e durante l'adolescenza quel che veramente volevo era essere al centro, nel cuore delle cose. Quando ero piccola e andavo a fare compere con mia madre in Oxford Street e lei sceglieva ancora i vestiti per me (gonne ragionevoli, magliette polo, jeans, sandali blu con fibbie discrete, cappotti pratici con i bottoni di ottone, calze spesse a coste che non stavano mai veramente su bene, ed esclamazioni tipo: «Oh, guarda come stai diventando alta!» di mia madre, mentre cercava di forzare il mio corpo allampanato in vestiti per bambine per bene), mi andavo a sedere in cima ai bus a due piani e osservavo la folla, la sporcizia, il caos, i ragazzi dalle capigliature bizzarre che passeggiavano molleggiati sui marciapiedi,
le coppie che si baciavano negli angoli, i negozi scintillanti, il disordine, il terrore e mi sembravano deliziosi. Dicevo sempre che sarei diventata una dottoressa e sarei andata a vivere al centro di Londra. Mentre Roberta vestiva le bambole e le portava a spasso, strette al petto, tubando, io le amputavo. Volevo diventare dottoressa perché non conoscevo nessuno che lo fosse, perché la metà delle mie compagne di classe voleva fare l'infermiera e perché mia madre, tutte le volte che glielo dicevo, sollevava le sopracciglia e alzava le spalle. Per me Londra significava stanchezza, partenze la mattina presto, ingorghi di traffico, stazioni radio che trasmettevano musica briosa su tutte le frequenze, vestiti sporchi, sterco di cane sui marciapiedi; significava essere chiamata «dottore» da persone che potevano avere l'età di mio padre; significava promozioni e soldi in banca che potevo spendere in orecchini vistosi e vestiti folli e scarpe a punta con grosse fibbie; significava sesso con sconosciuti in strani weekend che non riuscivo quasi più a ricordare, se non per la sensazione di euforia fisica di aver abbandonato Edgware, non il luogo reale, ma l'Edgware della mia mente con i suoi pranzi domenicali e le tre strade per andare in posti che non erano casa. Londra aveva significato avere Elsie e perdere suo padre. Aveva significato Danny. Era la geografia della mia educazione sentimentale. Mentre andavo a Stamford, dopo aver staccato le dita di Elsie dalla mia giacca, baciato le sue guance arrossate e promesso impulsivamente di andarla a prendere a scuola, improvvisamente sentii la mancanza di Londra come se essa fosse un amante, un distante oggetto di desiderio. Anche se, a dir la verità, la città mi aveva tradita dopo che era nata Elsie, era diventata una rete di parchi giochi e asili nido e baby-sitter e scuole materne. Un universo parallelo che non avevo mai notato, finché non ci ero capitata dentro, e che era fatto di lavoro durante tutta la settimana, e poi, il sabato e la domenica, di passeggiate spingendo il passeggino. Giurai vendetta. Questo è ciò che avevo sognato: avere tempo. Io da sola in casa senza la bambina, la tata, Danny, orari che mi ticchettavano in mente. Sentii un miagolio e delle zampette pizzicarmi la gamba. Aprii la scatola di cibo per gatti tenendola a distanza, riempii la ciotola di Anatoly e spinsi ciotola e gatto fuori della porta della cucina. Uno sbuffo d'aria mi alitò in faccia l'odore del tonno e coniglio in gelatina, provocandomi un accesso di tosse e ricordi di mal di mare. Come può una roba del genere piacere a qualcuno, anche se si tratta di un gatto? Lavai il piatto e la tazza da colazione di Elsie
e mi preparai una tazza di caffè solubile con dell'acqua non proprio bollente, per cui i granuli rimasero a galleggiare in superficie. Fuori la pioggia cadeva sul giardino già saturo d'acqua; i giacinti rosa di cui ero così entusiasta si erano piegati nel terreno melmoso e i petali gommosi sembravano sporchi. A parte il rumore della pioggia non si sentiva nulla, nemmeno il mare. Fui invasa da un senso di desolazione. Normalmente sarei stata al lavoro da due, forse tre o, in momenti di crisi, anche quattro ore, con il telefono che squillava, il vassoio delle carte da sbrigare che traboccava, la segretaria che mi portava una tazza di tè e io costernata dalla velocità con cui la mattina se ne andava. Accesi la radio: «Quattro bambini sono morti in un...», la spensi rapidamente. Avrei voluto ricevere una lettera; anche della posta pubblicitaria sarebbe stata meglio di niente. Decisi di mettermi al lavoro. Il disegno che Elsie mi aveva fatto la settimana precedente, quando mi ero lamentata degli spazi vuoti sulle pareti giallastre e scrostate del mio studio, mi guardava con aria accusatrice da sopra la scrivania, dove l'avevo appeso. Il locale era umido e freddo, così accesi la stufetta elettrica; mi scaldò la gamba sinistra e mi fece venir voglia di un sonnellino mattutino. Lo schermo del computer mandava una luce verdastra. Il cursore pulsava a un sano ritmo di sessanta battiti al minuto. Cliccai il mouse sull'hard disk e poi su una cartella vuota chiamata Libro. «Anche un viaggio di mille miglia deve cominciare con un passo» aveva detto qualche rompiscatole. Creai un file e lo chiamai Introduzione. Lo aprii e digitai di nuovo Introduzione. Fissai la parola immobile e pateticamente piccola in cima allo spazio vuoto, verde. Poi la evidenziai e la ingrandii, ne cambiai il carattere in modo che fosse più spesso e inclinato. Ecco, andava meglio, per lo meno sembrava più importante. Cercai di ricordare quel che avevo scritto nella proposta all'editore. Il mio cervello sembrava vuoto e logoro come lo schermo che avevo di fronte. Forse dovevo cominciare con il titolo. Come si può intitolare un libro sul trauma? Nella proposta l'avevo semplicemente chiamato Trauma, ma mi sembrava troppo scarno, una specie di guida per idioti, e invece volevo che fosse un'opera controversa, polemica e vitale, uno sguardo al modo in cui la parola trauma viene usata erroneamente, per cui coloro che ne sono affetti veramente rimangono invisibili, mentre coloro che amano sguazzare nelle disgrazie balzano in primo piano. Scrissi a caratteri maiuscoli, sopra Introduzione, le parole La ferita invisibile e le centrai. Sembrava un libro sulle mestruazioni. Passai sopra le lettere con un colpo di mouse e le can-
cellai. Dalla psicosi traumatica causata dalla guerra a quella culturale. No, non andava. Le vere vittime del trauma e coloro che se ne approfittano? Ma non era che uno dei fili del libro, non la struttura complessiva. Alla ricerca dell'anima. Sembrava il titolo di un trattato religioso. Sulle tracce del dolore. Puah. Gli anni del trauma? L'avrei tenuto per la mia autobiografia. Almeno il tempo stava passando. Per circa tre quarti d'ora battei dei titoli e li cancellai, finché alla fine mi ritrovai dove avevo cominciato. Introduzione. Preparai un bagno, lo riempii di oli costosi e rimasi nel calore scivoloso a leggere un libro sui possibili finali nel gioco degli scacchi e ad ascoltare il rumore della pioggia, finché le dita non mi si raggrinzirono. Poi mangiai due pezzi di pane tostato con sopra della pasta d'acciughe e i resti di una torta al formaggio, che era in frigo da giorni, coperta da un foglio di plastica trasparente; due biscotti al cioccolato e una fetta di melone molliccia. Ritornai al verde melanconico dello schermo del computer e scrissi con decisione: «Samantha Laschen è nata nel 1961 a Londra. È consulente di psichiatria, e dirige il nuovo reparto per i disturbi da stress postraumatico dell'ospedale di Stamford. Vive nella campagna dell'Essex con la figlia di cinque anni e il gatto e nel tempo libero ama giocare a scacchi». Cancellai la parte che si riferiva al gatto (troppo bizzarra). E quella sugli scacchi. Cancellai anche la mia età (troppo giovane per essere autorevole, troppo vecchia per essere precoce) e la parte su Londra e quella sull'Essex (noiose). Cancellai Elsie, non volevo usare mia figlia come un accessorio. Guardai ciò che era rimasto; forse noi dottori siamo troppo attaccati allo status. Sì, adesso mi piaceva: «Samantha Laschen è consulente di psichiatria». E perché non solo «Samantha Laschen»? Il minimalismo è sempre stato nel mio stile. Mi appoggiai allo schienale della sedia e chiusi gli occhi. «Non muoverti» disse una voce, mentre due mani calde e ruvide mi coprirono gli occhi. «Mmm» feci, e tirai indietro il capo. «Bendata da uno sconosciuto.» Avvertii delie labbra alla base della gola. Scivolai sulla sedia e sentii le tensioni del corpo sciogliersi. «Samantha Laschen è... Beh, questo è fuori discussione. Ma forse ci sono modi migliori di passare le giornate che scrivere tre parole, no?» «Come?» chiesi, ancora accecata e inerme con il viso nelle pieghe delle sue mani ruvide. Fece girare la sedia e quando aprii gli occhi il suo viso era a pochi cen-
timetri dal mio: occhi marrone scuro sotto sopracciglia scure e diritte, quasi nere; capelli aggrovigliati e un po' sporchi sopra una logora giacca di pelle; mento irsuto con la fossetta, odore di olio, trucioli, sapone. Non ci toccammo. Lui mi guardò in viso, io gli guardai le mani. «Non ti ho sentito arrivare. Pensavo che stessi costruendo un tetto.» «Fatto. Finito. Pagato. Quanto abbiamo prima che tu debba andare a prendere Elsie?» Guardai l'orologio. «Orca venti minuti.» «Allora dovranno bastare. Vieni qui.» «Mamma.» «Sì.» «Lucy ha detto che hai i capelli finti.» «Non voleva dire finti, probabilmente voleva dire tinti. Colorati.» «I capelli di sua mamma sono marroni.» «Sì, e allora...» «E anche i capelli della mamma di Mia sono marroni.» «Vorresti che anch'io avessi i capelli marroni?» «Sono molto rossi, mamma.» «Sì, hai ragione.» A volte prendeva anche a me un colpo quando mi capitava di vedermi allo specchio macchiettato del bagno la mattina ancora mezza intontita: faccia bianca, piccole rughe che cominciavano a spandersi intorno agli occhi e una massa di capelli cortissimi rosso fiammante su un collo ossuto. «Sembrano...» Guardava fuori dal finestrino, il corpo robusto che si protendeva fuori della cintura di sicurezza. «... come quel semaforo rosso.» Poi ci fu silenzio e quando mi voltai a guardarla era profondamente addormentata, il dito infantilmente in bocca, il capo piegato di lato. Mi sedetti su un lato del lettino di Elsie a leggerle un libro, di tanto in tanto indicando una parola, che lei compitava a fatica oppure cercava di indovinare a caso, facendo la matta. Danny era seduto sull'altro lato e faceva dei piccoli oggetti con la carta: un fiore spigoloso, un omino agile, un cane furbo. Elsie era seduta in mezzo a noi con la schiena diritta, gli occhi scintillanti e le guance arrossate, consapevolmente dolce e seria. Era come una vera famiglia. Il suo sguardo andava dall'uno all'altro, come volesse legarci. Il mio corpo ardeva al ricordo del breve incontro con Danny sul
pavimento polveroso dello studio e al pensiero della serata che ci aspettava. Mentre leggevo, sentivo lo sguardo di Danny su di me. L'aria tra di noi era densa. E quando Elsie cominciò a parlare più lentamente, e si fermò, e le si chiusero gli occhi, andammo nella mia camera da letto senza una parola, ci spogliammo a vicenda, toccandoci, e il solo rumore fu quello della pioggia di fuori o a volte un respiro più sonoro del normale, come un gemito. Sembrava che non ci vedessimo da settimane. Più tardi tirai fuori dal frigo una pizza e la misi in forno, e mentre la mangiavamo di fronte al fuoco che Danny aveva acceso, gli raccontai dei progressi all'ospedale, e dei primi giorni di scuola di Elsie, e dei tentativi di iniziare il libro, e dell'incontro con l'agricoltore. Danny mi raccontò degli amici che aveva visto a Londra e di come si stava sulle impalcature umide e tremolanti al freddo cane, e poi si mise a ridere e disse che mentre io progredivo nella professione, lui retrocedeva: aveva cominciato facendo l'attore, poi era passato a fare il falegname e ora eseguiva lavoretti qua e là, come costruire il tetto a una vecchia scorbutica. «No» mi fermò, prima che cominciassi a dire qualcosa sul fatto che il successo non si misura necessariamente dal lavoro. «Non parlare. Non devi preoccuparti. A te piace quel che fai e a me quel che faccio.» Quando il fuoco si spense, ritornammo al piano di sopra per le scale scricchiolanti, lanciammo un'occhiata a Elsie che dormiva coperta da piumino e peluche, ci sdraiammo sul letto e rimanemmo a guardarci negli occhi, assonnati e rilassanti. «Forse potremmo» disse lui. «Potremmo che cosa?» «Vivere insieme. E anche...» mi fregò la schiena con la mano, la voce leggera e come indifferente. «Potremmo anche pensare di fare un bambino.» «Forse» mormorai assonnata. «Forse.» Fu uno dei nostri giorni migliori. Capitolo 5 «Tutto bene?» «No.» «Allora ti rallegro io. Qualcosa da leggere?» Il detective Angeloglou gettò un opuscolo sulla scrivania di Rupert Baird. Baird lo prese e grugnì lanciando un'occhiata alla stampa sbiadita.
«"Rabbit Punch"? Che cos'è questa roba?» «Non sei abbonato? Abbiamo tutti i numeri di sotto. È la rivista dei CDA.» «CDA?» «Cavalieri dei Diritti degli Animali.» Baird gemette. Si diede qualche colpetto gentile ai capelli in cima alla testa, che coprivano, ma non nascondevano, il sottostante cranio pelato. «Davvero?» «Già. Sono quelli che hanno fatto irruzione nell'allevamento di visoni a Ness nel '92. Hanno liberato i visoni.» Angeloglou consultò i documenti che aveva in mano. «Hanno gettato le bombe incendiarie nel supermarket a Goldswan Green nel '93. Poi non hanno più fatto molto fino all'esplosione all'università, l'anno scorso. Sono anche stati coinvolti in alcune delle proteste più estremiste sulla carne, contro gli agricoltori e contro le compagnie di trasporto.» «Allora?» «Guarda qui.» Angeloglou aprì la rivista alle pagine centrali, su una rubrica dal titolo in inchiostro rosso che diceva: Macellai alla gogna. «È pertinente?» «È uno dei servizi che offrono ai lettori. Pubblicano il nome e l'indirizzo delle persone accusate di torturare gli animali. Guarda, c'è il professor Ronald Maxwell del Linnaeus Institute. Fa delle ricerche sul canto degli uccelli. Usa uccelli in gabbia. C'è il dottor Christopher Nicholson. Cuce le palpebre ai gattini. C'è Charles Patton, che dirige la pellicceria di famiglia. E anche Leo Mackenzie, presidente della Mackenzie & Carlow.» Baird prese la rivista. «Che cosa ha... di che cosa è accusato?» «Esperimenti su animali, dice qui.» «Santo Cielo. Ben fatto, Chris. Hai controllato?» «Sì. Nei laboratori di Fulton, l'azienda sta lavorando a un progetto finanziato in parte dal Ministero dell'Agricoltura. Si tratta di uno studio sullo stress degli animali da allevamento, mi è stato detto.» «Che cosa?» Angeloglou fece un largo sorriso. «Questo è il bello. Somministrano ai maiali delle scosse elettriche e li feriscono in diversi modi per analizzare le loro reazioni. Hai mai visto uccidere un maiale?»
«No.» «Gli tagliano la gola. Sangue dappertutto. Ci fanno il sanguinaccio.» «Mi fa schifo» disse Baird, sfogliando le pagine della rivista. «Non vedo la data. Sappiamo quando è uscito questo numero?» «"Rabbit Punch" non si compra dal giornalaio. La pubblicazione si potrebbe definire intermittente, e la distribuzione irregolare. Questa copia risale a sei settimane fa.» «Mackenzie era stato avvertito?» «Gliel'avevano detto» rispose Angeloglou. «Ma non era una novità. Pare fosse abituato a cose del genere.» Baird aggrottò la fronte per la concentrazione. «Ciò di cui abbiamo bisogno ora è qualche nome. Chi si è occupato degli animalisti? Mitchell, vero?» «Sì, ma ora è dentro fino al collo nelle West Midlands. Ho contattato telefonicamente Phil Carrier, che era il suo aiutante. Ha passato gli ultimi due mesi in giro tra fienili bruciati e carcasse di camion. Tirerà fuori dei nomi.» «Bene» disse Baird. «Muoviamoci rapidamente in quest'affare. Che notizie ci sono della ragazza Mackenzie?» «È tornata cosciente. Fuori pericolo.» «Può essere interrogata?» Angeloglou scosse il capo. «Non al momento. I medici dicono che è sotto shock. Non ha ancora detto niente. In ogni modo, è stata incappucciata, ricordi? Non ci conterei molto.» Fino al 1990 Melissa Hollingdale era stata professoressa di biologia in una scuola secondaria, fedina penale immacolata. Ora era una habitué delle centrali di polizia con un dossier che scorreva per parecchie pagine sullo schermo del computer. Chris Angeloglou rimase a osservarla da dietro lo specchio che lo nascondeva, colpito da quella donna impassibile sui trentacinque anni, con i capelli scuri e spessi legati dietro la nuca, senza trucco, la pelle pallida, liscia, pulita. Era vestita come se dovesse tenersi pronta a scappare: dolcevita screziato, jeans, scarpe da ginnastica. Le mani, che teneva appoggiate al tavolo a palma in giù, erano sorprendentemente delicate e bianche. Aspettava senza mostrare segni di impazienza. «Incominceremo con Melissa, allora?» Angeloglou si voltò. Era Baird.
«Dov'è Carrier?» «Fuori. Abbiamo avuto la comunicazione di una bomba in un allevamento di tacchini.» «Cristo.» «Dentro un pacco di Natale.» «Cristo. Un po' tardi, non ti pare?» «Ci raggiungerà più tardi.» Apparve un poliziotto con tre tazze di tè su un vassoio. Angeloglou ne prese una. I due detective si scambiarono un cenno con il capo ed entrarono nella stanza in cui si trovava la donna. «Grazie di essere venuta. Una tazza di tè?» «Non bevo tè.» «Sigaretta?» «Non fumo.» «Hai la documentazione, Chris? A che titolo si trova qui la signorina Hollingdale?» «È una coordinatrice dell'Alleanza Vivisezione ed Esportazione.» «Non ne ho mai sentito parlare» disse Hollingdale con voce calma. Angeloglou abbassò gli occhi sulla documentazione. «Da quanto tempo è fuori? Due mesi, vero? No, tre. Danneggiamento doloso, aggressione a pubblico ufficiale, rissa.» Melissa Hollingdale si permise un sorriso rassegnato. «Mi sono seduta davanti a un camion a Dovercourt. Che c'è di tanto strano?» «Qual è la sua attuale occupazione?» «Ho difficoltà a trovare un'occupazione. Il mio nome si trova su diverse liste nere.» «E secondo lei per quale ragione?» Nessuna risposta. «Tre giorni fa un uomo d'affari chiamato Leo Mackenzie e sua moglie sono stati assassinati nella loro casa a Castletown, alla periferia di Stamford. La loro figlia è in condizioni critiche all'ospedale.» «Sì?» «Non legge mai la rivista che si chiama "Rabbit Punch"?» «No.» «È una rivista underground pubblicata da un gruppo terrorista di animalisti. Nell'ultimo numero venivano citati il nome e l'indirizzo del signor Mackenzie. Sei settimane dopo hanno tagliato la gola a lui, a sua moglie e
a sua figlia. Che cosa dice di ciò?» Hollingdale scosse le spalle. «Cosa pensa di azioni di questo genere?» chiese Baird. «Mi ha portato qui per discutere dei diritti degli animali?» chiese Hollingdale con un sorriso sarcastico. «Sono contro ogni tipo di violenza su ogni tipo di creatura. È questo che vuole che dica?» «Condannerebbe un atto del genere?» «Non mi interessa fare dichiarazioni pubbliche.» «Dov'era la notte tra il 17 e il 18 gennaio?» Hollingdale rimase a lungo in silenzio. «Suppongo a letto, come tutti del resto.» «Non proprio tutti. Ha dei testimoni?» «Probabilmente potrei trovare una o due persone.» «Ne sono sicuro. A proposito, signorina Hollingdale» aggiunse Baird. «Come stanno i suoi figli?» Melissa Hollingdale sobbalzò, come in pena, e la sua espressione si indurì. «Nessuno me lo vuole dire. Lo farà lei?» «Mark Featherstone, o dovremmo chiamarla con il nome che si è scelto, Loki?» Loki era vestito con una tunica informe fatta da diversi stravaganti tessuti cuciti insieme, che portava sopra un paio di ampi calzoni di cotone bianco. Aveva i capelli rossi annodati in trecce spesse che gli cascavano sulla schiena ad angoli rigidi, come dei giganteschi scovolini. Odorava di patchouli e di sigarette. «Il suo nome fa rima con "hockey" o con "chokey"? Mi sembra che "chokey" sia più appropriato.» Angeloglou consultò la documentazione. «Violazione di domicilio. Furto e scasso. Aggressione. Pensavo che fosse contro la violenza.» Loki non disse nulla. «Lei è una persona intelligente, Loki. Ingegnere chimico. Ha conseguito un dottorato. Utile per fabbricare esplosivi, suppongo.» «Sono stati fatti saltare in aria quei due?» chiese Loki. «No, anche se i miei colleghi senza dubbio le faranno qualche domanda a proposito del pacco inviato alla polleria Marshall.» «È esploso?» «Fortunatamente no.»
«Bene, e allora?» fece Loki sprezzantemente. «Il signor Mackenzie e sua moglie sono stati sgozzati. Che cosa ne pensa?» Loki si mise a ridere. «Immagino che ci penserà due volte prima di torturare di nuovo gli animali.» «Razza di bastardo, che cosa pensa di ottenere ad assassinare le persone in questo modo?» «Volete una conferenza sulla teoria della violenza rivoluzionaria?» «Ci provi» disse Baird. «La tortura degli animali fa parte della nostra economia, della nostra cultura. Il problema non è diverso da quello che hanno dovuto affrontare gli schiavi o i coloni americani o, se è per questo, tutti i gruppi oppressi. Bisogna semplicemente rendere questa attività antieconomica, sgradevole.» «Anche se ciò comporta l'assassinio?» Loki si appoggiò allo schienale della sedia. «Le guerre di liberazione hanno il loro prezzo.» «Delinquente» disse Baird. «Dov'era la notte del 17 gennaio?» «A letto. Un sonno interrotto. Come quello dei Mackenzie.» «Farà meglio a sperare di avere un testimone.» Loki sorrise e scosse le spalle. «Chi lo spera?» «Mi permetta di leggerle un brano, professor Laroue» disse Baird con in mano un foglio dattiloscritto. «Mi scusi se non rendo giustizia allo stile: Tutti noi accettiamo dei limiti all'obbligo di ubbidire alla Ugge. In seguito all'Olocausto siamo divenuti consci del fatto che esistono momenti in cui siamo addirittura obbligati a violare la legge, a violare i limiti di ciò che normalmente considereremmo un comportamento accettabile. Prevedo che le generazioni future ci chiederanno ragione del nostro olocausto, l'olocausto degli animali, e ci chiederanno come abbiamo fatto a non intervenire, a non fare nulla. In Inghilterra viviamo con Auschwitz tutti i giorni. E non abbiamo scusanti, perché non possiamo invocare l'ignoranza. Li mangiamo a colazione. Ce ne vestiamo. Che cosa diremo loro? Forse le uniche persone che potranno tenere alta la testa saranno coloro che hanno agito, che hanno combattuto.
«Lo riconosce, professore?» Frank Laroue aveva i capelli così corti che sembravano una garza sul cranio. Aveva gli occhi di un azzurro molto chiaro con le pupille curiosamente piccole, tanto che sembrava perennemente abbagliato. Indossava un impeccabile abito rossiccio, una camicia bianca e scarpe di tela. Teneva una penna tra le dita, che faceva roteare ossessivamente e ogni tanto batteva sul tavolo. «Sì. Fa parte di un discorso che ho tenuto nel corso di un raduno pubblico lo scorso anno. Tra parentesi, non è mai stato pubblicato e mi piacerebbe sapere come avete fatto a procurarvene una copia.» «Beh, ci piace uscire la sera. Che cosa intendeva dire con quel passaggio?» «Che cosa significa tutto ciò? Le mie opinioni sulle nostre responsabilità verso gli animali sono note. Ho accettato di venire a rispondere a delle domande, ma non capisco che cosa volete.» «Ha mai scritto per "Rabbit Punch"?» «No.» Fece un mezzo sorriso, come di chi capisce l'antifona. «Potrebbero aver riportato cose che ho scritto o che ho detto, come anche altre riviste. Ma questa è tutta un'altra faccenda.» «Allora la legge?» «L'ho vista. E un campo che mi interessa.» Chris Angeloglou era appoggiato al muro. Baird si levò la giacca e la appese allo schienale della sedia sul lato opposto del tavolo a cui era seduto Laroue. Poi si sedette. «Il suo discorso è un chiaro incitamento alla violenza.» Laroue scosse il capo. «Sono un filosofo. Ho fatto un paragone.» «Lei dice che è nostro dovere prendere la difesa degli animali usando la violenza.» Ci fu una breve pausa. Poi Laroue rispose pazientemente: «Non lo dico soltanto. Io credo che, oggettivamente, sia un dovere di tutti agire». «Anche suo?» «Sì.» Sorrise. «Di conseguenza.» «"Rabbit Punch" crede la stessa cosa, non è vero?» «Che cosa intende dire?» «La rivista pubblica il nome e l'indirizzo di persone accusate di nuocere agli animali. Lo scopo di ciò è incoraggiare ad agire violentemente nei
confronti di costoro?» «O forse nei confronti delle loro proprietà.» «Nella sua conferenza lei non ha fatto questa distinzione.» «No.» Baird si piegò pesantemente sul tavolo. «Pensa che sia sbagliato uccidere Leo Mackenzie e la sua famiglia?» Colpetti sul tavolo con la penna. «Astrattamente parlando, no, non penso sia sbagliato. Potrei avere del tè o dell'acqua, o qualcosa da bere?» «E che dice delle vittime innocenti?» «L'innocenza è un termine difficile da definire.» «Professor Laroue, dov'era la notte del 17 gennaio?» «A casa, a letto con mia moglie.» Baird si voltò verso Angeloglou. «Passami la documentazione, per favore.» La aprì e sfogliò alcune pagine prima di trovare quel che cercava. «Sua moglie è Chantal Bernard Laroue, vero?» «Sì.» Baird fece scorrere il dito sulla pagina. «Sabotaggio della caccia, dell'ordine pubblico, ostruzione, c'è anche aggressione, qui.» «Buon per lei.» «Ma non necessariamente per lei, professor Laroue. Vuole parlare con il suo avvocato?» «No, signore.» «Detective ispettore.» «Detective ispettore.» Un sorriso gli apparve sul viso pallido e per la prima volta Laroue alzò gli occhi per incontrare lo sguardo di Baird. «Sono tutte sciocchezze. I discorsi e dov'ero la notte di chissà quando. Ora me ne vado. Se vuole parlarmi di nuovo, cerchi almeno di avere qualcosa da dirmi. Mi può aprire la porta, per favore?» Angeloglou lanciò uno sguardo a Baird. «Hai sentito quel che ha detto il signor professore?» disse Baird. «Aprigli la porta.» Sulla soglia Laroue si voltò e guardò in faccia i due detective: «Vinceremo, non dubitate». Paul Hardy non disse nulla. Si sedette con addosso il lungo cappotto di tela pesante, come se toglierselo fosse una concessione. Una volta o due si
passò la mano tra i capelli castani, ricciuti. Gettava sguardi a Baird e ad Angeloglou a turno, ma soprattutto guardava nel vuoto. Non rispondeva alle domande e non lasciava intendere di averle udite. «Ha sentito parlare dell'assassinio dei Mackenzie?» «Dove si trovava la notte del 17?» «Si rende conto che se verranno avanzate delle accuse, il suo silenzio potrà essere considerato una prova della sua colpevolezza?» Nulla. Dopo vari inutili minuti qualcuno bussò alla porta. Rispose Angeloglou. Era una giovane poliziotta. «C'è l'avvocato di Hardy» disse. «Fallo entrare.» Sian Spenser, una donna sui quarant'anni dalla mascella prominente, entrò ansimando con aria furente. «Voglio cinque minuti da sola con il mio cliente.» «Non è stato accusato di niente.» «Allora che cosa diavolo ci fa qui? Fuori. Subito.» Baird fece un profondo respiro e se ne andò, seguito da Angeloglou. Quando Spenser li fece rientrare, Hardy era seduto dando la schiena alla porta. «Il mio cliente non ha nulla da dire.» «Due persone sono state assassinate» disse Baird, alzando la voce. «Abbiamo prove che gli animalisti sono coinvolti. Il suo cliente è stato ritenuto colpevole di danneggiamenti colposi. È stato incredibilmente fortunato a non essere stato beccato con gli esplosivi. Vogliamo solo fargli qualche domanda.» «Signori» rispose Sian Spenser. «Voglio che il mio cliente sia fatto uscire da questo edificio nel giro di cinque minuti, altrimenti sarò costretta ad agire contro di voi.» «Detective Angeloglou.» «Signore?» «Metta agli atti che Paul Michael Hardy si è rifiutato di cooperare a quest'inchiesta.» «Avete finito?» chiese Spenser con un'espressione beffarda, quasi divertita, sul volto. «No, ma può portar via con sé questo pezzo di spazzatura.» Hardy si alzò e si diresse verso la porta. Si arrestò un momento davanti ad Angeloglou, come attraversato da un pensiero. «Come sta la ragazza?» chiese, poi se ne andò senza aspettare la rispo-
sta. Un'ora dopo Baird e Angeloglou erano nell'ufficio di Bill Day per fargli un rapporto. Bill Day era alla finestra e guardava fuori, nel buio. «Qualcosa di interessante?» chiese. «Niente di concreto, signore» rispose Angeloglou cautamente. «Non mi aspettavo nulla» aggiunse Baird. «Volevo soltanto studiare quella gente. Sentirne l'odore.» «E?» «E penso sia una strada che valga la pena percorrere.» «Che cosa abbiamo?» «Quasi niente. I riferimenti sulla rivista, il messaggio scritto sulla scena del delitto.» «Quasi niente?» fece Day sarcasticamente. «La scena del delitto?» Baird scosse il capo. «La situazione non è rosea. Un paio di giorni prima era stata data quell'enorme festa. Capelli e fibre dappertutto, un disastro totale. La camera della ragazza potrebbe essere meglio.» «Che ne è della ragazza?» chiese Day. «Si è arrivati da qualche parte con lei?» Baird scosse il capo. «Che cosa ne facciamo di lei?» «È pronta per essere dimessa.» «È un problema?» «C'è la possibilità, ovviamente solo una possibilità, che sia in pericolo.» «A causa di questi animalisti?» «A causa di chiunque sia stato.» «Non possono tenerla in ospedale per qualche giorno ancora?» «Potrebbero volerci dei mesi, non solo giorni.» «In che stato mentale è?» «Sotto shock. Stress da trauma, quel genere di cose.» Day grugnì. «Gesù, siamo passati per due guerre mondiali senza psicologi per lo stress. Senti, Rupert, non che la cosa mi piaccia, ma cercale un posto riservato. E mi raccomando, che la stampa non lo venga a sapere.» «Dove?» «Non ne ho la più pallida idea. Chiedi a Philip Kale, lui forse ha dei nomi.»
Baird e Angeloglou si voltarono per andarsene. «E, senti, Rupert?» «Sì?» «Trovami qualche dannata prova. Sto cominciando a diventare nervoso.» Capitolo 6 In sole due settimane ero riuscita a ricostruirmi una vita. Avevo una casa e un giardino. La casa era vecchia, aveva grandi finestre, una solida forma quadrata, sorgeva su quello che molto tempo prima doveva essere un molo e ora era una zona paludosa a poco meno di un chilometro dal mare. Nei primi frenetici giorni dopo aver comprato la casa, a novembre, avevo sparso la voce tramite l'agenzia immobiliare e nei negozi di Lymne, che cercavo una baby-sitter e l'avevo trovata. Linda era piccola, magra, pallida e dimostrava più dei vent'anni che aveva. Viveva a Lymne e anche se non brillava nei risultati scolastici, aveva i due requisiti che cercavo: la patente e un'aria calma. Quando Elsie l'aveva incontrata per la prima volta, era andata a sedersi sulle sue ginocchia senza una parola, e ciò per me era stato sufficiente. Mi ero anche messa d'accordo con la sua migliore amica, Sally, perché mi facesse le pulizie di casa due o tre volte la settimana. La scuola elementare più vicina, St. Gervase's, era a Brask, a cinque chilometri a nord dall'altra parte di Lymne, e andai a guardarla attraverso la cancellata. C'era un prato verde per giocare, dei murales vivacemente colorati e non vidi bambini in lacrime o lasciati a se stessi. Allora andai in segreteria a riempire i moduli di iscrizione ed Elsie fu ammessa seduta stante. Era sembrato tutto così semplice da essere quasi allarmante: una vita da adulta che sarebbe andata bene per il mio prossimo lavoro da adulta. A gennaio inoltrato, quando l'Inghilterra stava ricominciando a mettersi in moto dopo il periodo natalizio e Danny era stato da me per cinque giorni consecutivi e non dava segni di volersene andare, riempiendomi la casa di lattine di birra e il letto di calore, mi recai all'ospedale di Stamford per incontrare il vicepresidente del consiglio di amministrazione. Si chiamava Geoffrey Marsh, un uomo all'inarca della mia età, così inappuntabile da sembrare il presentatore di un telegiornale. E il suo ufficio era tanto grande ed elegante da sembrare uno studio televisivo. Mi sentii subito vestita in modo inadeguato, cosa che doveva esser stata messa in conto.
Geoffrey Marsh mi prese la mano - «Chiamami Geoff, Sam» - e mi disse che era immensamente contento del lavoro che stavo svolgendo nel mio reparto. Era convinto che sarebbe diventato un nuovo modello di gestione dei pazienti. Mi condusse su per le scale e lungo i corridoi e mi mostrò l'ala vuota che avrei riempito. Non c'era quasi nulla da vedere se non quanto fosse grande. Era al pianterreno, cosa che mi piacque. Fuori da una finestra vidi un pezzetto di verde, che avrei potuto usare. «Che cosa c'era qui una volta?» chiesi. Geoffrey scosse il capo come se fosse un dettaglio poco importante. «Ritorniamo nel mio ufficio. Dobbiamo fare qualche sessione di brain storming, Sam» mi disse. Usava il mio nome come un mantra. «Rispetto a che cosa?» «Al reparto.» «Hai letto la mia proposta? Pensavo che le questioni riguardo al personale e ai protocolli terapeutici fossero abbastanza chiare.» «L'ho letta la notte scorsa, Sam. Un punto di partenza affascinante, e ti assicuro che credo fermamente che questo reparto, e tu, renderete l'ospedale di Stamford famoso, e il mio obiettivo è che le cose vadano per il meglio.» «Avrò bisogno di allacciare i rapporti con i servizi sociali, naturalmente.» «Sì» disse Marsh, come se non avesse udito, o non avesse voluto udire. «Innanzitutto voglio che tu conosca il dirigente delle Risorse Umane e i manager che stanno lavorando al programma di espansione.» Eravamo di nuovo nel suo ufficio. «Voglio mostrarti la struttura fluida che ho in mente.» Disegnò un triangolo. «Ora a questo vertice...» Il telefono squillò e lui rispose accigliato. «Davvero?» fece guardandomi. «È per te. Una certa dottoressa Scott.» «La dottoressa Scott?» dissi incredula, prendendo il ricevitore. «Thelma, sei tu?... Come diavolo hai fatto a trovarmi?... Sì, naturalmente, se è importante. Vuoi che ci incontriamo a Stamford?... D'accordo, quando vuoi. Avrai occasione di vedere il mio nuovo stile di vita.» Le diedi l'indirizzo e le elaborate istruzioni per arrivarci, che sapevo a memoria: la terza uscita sulla rotatoria, dopo il passaggio a livello e il laghetto delle anatre senza anatre, e la salutai. Marsh era già a un altro telefono. «Temo di dovermene andare. È un'emergenza.» Lui annuì e mi fece un rapido cenno con la mano, per farmi capire che era occupato. «Ti telefono la prossima settima» gli dissi, e lui annuì di nuovo, ovviamente assorbito da qualcos'altro.
Ritornai subito a casa. Il camioncino di Danny era ancora nel vialetto di accesso, ma lui non era in casa e la sua giacca di pelle non era appesa al gancio. Qualche minuto dopo Thelma comparve sulla sua vecchia e scoppiettante Morris. Sorrisi nel vederla procedere su per la stradina scuotendo il capo, come a cercare di capire dove ero andata a finire. Indossava dei jeans e un lungo cappotto di tweed. Thelma non riusciva mai a sembrare elegante, qualunque abito avesse addosso. Non la trovavo comica, però. Nessuno a cui avesse supervisionato la tesi la trovava comica. Aprii la porta e la abbracciai, cosa che richiese una certa abilità, poiché era una trentina di centimetri più bassa di me. «Vedo la casa» disse. «Ma dove sono gli olmi?» «Ti porto di dietro e ti mostro i tronconi. Questo è il primo posto in cui sono arrivati i coleotteri, quando sono sbarcati dalla nave dall'Olanda.» «Sono sbalordita. Campi verdi, silenzio, un giardino. Non vedo che fango.» «Carino, no?» Scrollò le spalle con aria dubbiosa e mi passò davanti, entrando in cucina. «Caffè?» disse. «Fa' come se fossi a casa tua.» «Come sta andando il libro?» «Bene.» «O male? Danny è ancora in giro?» «Sì.» Senza chiedere, aprì la credenza e prese un pacchetto di caffè macinato e dei biscotti. Riempì un bricco di cucchiaini di caffè, poi ci sparse sopra un pizzico di sale. «Un pizzico di sale» disse «è il mio segreto per un buon caffè.» «E qual è il segreto per cui sei qui?» «Sto facendo un lavoro per la polizia. Stiamo studiando la patologia neurologica dei ricordi d'infanzia. Cioè la capacità dei bambini piccoli di testimoniare nei processi penali.» Versò il caffè in due tazze con aria molto concentrata. «Uno dei vantaggi nell'essere un vip è che si ottengono gratuitamente i biglietti che prima non ci si sognava neanche di riuscire a comprare.» «Bene. Sei venuta a invitarmi all'opera?» «Un altro vantaggio è che la gente ti chiama per farti richieste strane. Ieri qualcuno mi ha chiesto qualcosa sui disturbi da stress postraumatico, di
cui non so pressoché nulla.» Scoppiai a ridere. «Beato il medico che sa di non sapere niente dello stress postraumatico.» «Non solo quello, riguarda un problema sorto a Stamford. E sono stata colpita dall'insolita coincidenza che la persona migliore che conosca in quel campo si sia da poco trasferita vicino a Stamford, così sono venuta a trovarti.» «Sono lusingata, Thelma. In cosa posso esserti utile?» Thelma sbocconcellò il biscotto e aggrottò la fronte. «Dovresti tenere i biscotti in una scatola di latta, Sam» disse. «Lasciati nel pacchetto aperto, diventano molli. Come questo.» Ma lo finì ugualmente. «Non se si mangia l'intero pacchetto in un giorno.» «Abbiamo una ragazza di diciannove anni i cui genitori sono stati assassinati. Anche lei è stata vittima dell'aggressione, ma è riuscita a sopravvivere.» «Usando le mie famose abilità forensi, penso di sapere di che caso si tratti: l'assassinio del miliardario dei farmaci e di sua moglie.» «Sì. Lo conoscevi?» «Penso di aver usato il suo shampoo qualche volta.» «Allora conosci i dettagli. La vita di Fiona Mackenzie non si trova in immediato pericolo. Ma lei quasi non parla. Non vuole vedere nessuno, né amici né conoscenti. Mi pare di capire che non abbia altri parenti in Inghilterra, ma non vuole vedere nessun amico di famiglia.» «Vuoi dire proprio nessuno? Non sono affari miei, ma dovrebbe essere incoraggiata a ripristinare qualche legame.» «Ha permesso al suo medico di visitarla. Penso sia tutto.» «È un inizio.» «Che cosa consiglieresti in un caso come il suo?» «Dai, Thelma, non posso credere che tu sia venuta fin qui da Londra per chiedermi consiglio su una paziente di cui ho letto nei giornali. Che cosa c'è sotto?» Thelma sorrise e si riempì di nuovo la tazza. «C'è un problema. La polizia pensa che possa essere ancora in pericolo da parte delle persone che hanno assassinato i suoi genitori e cercato di assassinare lei. Ha bisogno di stare in un posto ragionevolmente sicuro e io volevo un consiglio su quale possa essere la soluzione migliore per chi ha subito quel che ha subito lei.»
«Vuoi che la veda?» Thelma scosse il capo. «Questo colloquio non è ufficiale. Vorrei semplicemente sapere quello che pensi su questo argomento.» «Chi la sta curando? Colin Daun, suppongo.» «Sì.» «È bravo. Perché non lo domandi a lui?» «Lo sto chiedendo a te.» «Sai che cosa ne penso, Thelma. Dovrebbe stare in un ambiente familiare con la famiglia o degli amici.» «Non ha famiglia. La possibilità che stia presso amici è stata presa in considerazione, ma è teorica, perché ha rifiutato assolutamente l'idea.» «Beh, non credo che stare in ospedale a lungo le possa giovare molto.» «Non è una soluzione pratica, in ogni modo.» Thelma vuotò la tazza. «Questa casa è molto carina, Sam. Grande, vero? E tranquilla.» «No, Thelma.» «Non stavo dicendo...» «No.» «Aspetta un momento» continuò Thelma con tono più insistente. «Si tratta di una ragazza con parecchi guai. Lascia che ti racconti quel che so di lei, poi dirai di no.» Si appoggiò allo schienale per riordinare i pensieri. «Fiona Mackenzie ha diciannove anni. È brava a scuola, anche se non proprio brillante, e apparentemente è sempre stata desiderosa di compiacere gli altri e di conformarsi a loro. Una ragazza leggermente ansiosa, in altre parole. Mi sembra di capire che fosse dominata dal padre, che aveva una personalità assai forte. Fin dalla pubertà è stata un po' sovrappeso.» Ripensai al viso rotondo e sorridente della ragazza al telegiornale. «A diciassette anni ha avuto un esaurimento nervoso ed è stata ricoverata in uno spaventoso ospedale privato in Scozia per quasi sei mesi. Qui ha perso quasi la metà dei suoi chili ed è diventata anoressica, cosa che l'ha quasi uccisa.» «Da quanto tempo è fuori?» «È stata dimessa la scorsa estate, ha perso l'ultimo semestre di scuola e quindi non ha potuto sostenere l'esame di maturità; penso che avessero in programma di mandarla in una scuola di recupero quest'anno. Poi invece hanno deciso di mandarla in Sud America, per segnare una specie di nuovo inizio. È ritornata solo da un paio di settimane, forse meno. Sembra che le persone che hanno commesso quei delitti non si aspettassero di trovarla. Potrebbe essere il loro punto debole. Per questo potrebbe essere in pericolo
e ha bisogno di aiuto. Non sei interessata?» «Mi dispiace, Thelma, ma la risposta è no. Negli ultimi diciotto mesi ho visto Elsie solo nei weekend, e appena lei si addormentava, il sabato e la domenica, mi mettevo a lavorare fino alle due di notte. Ricordo solo emicranie e una nebbia dovuta alla fatica. Hai seriamente pensato che una giovane donna traumatizzata potesse venire a stare a casa mia, dove vive la mia bambina... e stare qui perché potrebbe essere in pericolo? Non è possibile.» Thelma chinò la testa in segno di assenso, anche se la conoscevo a sufficienza per sapere che non si era arresa. «Come sta la piccola Elsie?» «Arrabbiata, insubordinata. Tutto come al solito. Ha appena iniziato a frequentare la nuova scuola.» Ero preoccupata dallo sguardo interessato e predatore che apparve sul volto di Thelma quando menzionai Elsie e casa mia. Dovevo cambiare argomento. «La tua ricerca sembra interessante.» «Mmm» rispose, immersa nei suoi pensieri, rifiutando di essere distolta dal suo argomento in maniera così palese. «Ho visto lavori sul trauma nei bambini che potrebbero interessarti» continuai, caparbiamente. «Naturalmente sai che i bambini rivivono i traumi passati in giochi ripetitivi. Un'équipe nel Kent sta cercando di valutare gli effetti che questo ha sul ricordo dell'evento.» «Allora non si tratta della tua ricerca?» «No» risposi con una risata. «La summa delle mie ricerche sulla memoria infantile è un gioco che faccio con Elsie. Solo per divertimento, ma sono sempre stata interessata ai sistemi di organizzazione dei processi mentali e questo è uno dei più vecchi. Elsie e io abbiamo inventato l'immagine di una casa e sappiamo nella nostra mente com'è e ci ricordiamo delle cose, mettendole in posti diversi della casa e poi andandole a ripescare quando vogliamo ricordarcele.» Thelma sembrava dubbiosa. «Riesce a farlo?» «Sorprendentemente bene. Quando è di buon umore mettiamo qualcosa sulla porta, sullo zerbino, in cucina, sulle scale e così via e più tardi di solito riusciamo a ricordarcelo.» «Sembra difficile per una bambina di cinque anni.» «Non lo farei se non le piacesse. È fiera di saperlo fare.» «O contenta di ottenere la tua approvazione» disse Thelma. Si alzò in piedi, una creatura tozza e arruffata coperta di briciole. «Scusami, ma ora
devo andare. Se ci ripensi su quel che ti ho detto, per favore telefonami.» «D'accordo.» «Potresti mettere un promemoria sulla porta d'ingresso della casa immaginaria di Elsie.» Sentii di dover dire qualcosa. «Sai, quando sono diventata medico avevo il desiderio di fare del mondo un luogo più sano, razionale. Poi, quando ho cominciato a occuparmi delle vittime di un trauma, ho abbandonato l'idea di salvare il mondo e ho cominciato solamente a cercare di aiutare la gente ad affrontarlo.» «Non è cosa da poco» disse Thelma. La accompagnai alla porta e la osservai mentre si dirigeva verso la sua auto. Rimasi sulla soglia parecchi minuti, dopo che se ne fu andata. Era ridicolo, completamente fuori questione. Andai a meditarci sopra sdraiandomi sul divano. Capitolo 7 «Questa cotenna è un po' molliccia.» Danny sollevò una striscia marrone chiaro che sembrava fosse stata presa dalla suola di una scarpa invece che dalla schiena di un maiale. «Devi dar la colpa al supermercato. O al forno a microonde. Io ho semplicemente seguito le istruzioni sul pacchetto.» «Mi piace croccante. Sembra gomma da masticare.» «Grazie. Elsie, togli i piedi dal tavolo. Solo perché sei stata un giorno a casa da scuola non vuol dire che devi cominciare a copiare Danny e fare la sciattona. Passami la purea di mele, Danny. Dalla scatola» aggiunsi. «Tua madre non ti ha mai insegnato a cucinare?» «Prendi gli spinaci. Li ho cotti con il microonde direttamente nel sacchetto.» Feci scivolare due pezzi di cotenna biancastra nel mio piatto. «Fai un uccello» disse Elsie. «Aspetta» rispose Danny. «Solo un uccellino.» «D'accordo.» Danny strappò un angolo da una pagina di giornale e con pochi movimenti sorprendentemente abili delle grosse dita ruvide, dopo qualche secondo, appollaiato sul tavolo apparve un cosino con due zampette e un collo che poteva plausibilmente passare per un uccello. Elsie lanciò un urlo di
approvazione. Io ne fui colpita, come sempre. «Come mai gli uomini riescono sempre a fare di queste cose?» chiesi. «Io non sono mai riuscita a fare gli origami.» «Questi non sono origami. Sono solo gesti abitudinari per quando non ho di meglio da fare.» Era vero. Delle minuscole creature di carta stavano già infestando la casa come tarme. Elsie le stava collezionando. «Ora voglio un cucciolo» disse. «Aspetta» rispose Danny. «Possiamo dipingere dopo pranzo? Io non ne voglio più. Non mi piace. Posso avere del gelato per dolce?» «Mangiane ancora due forchettate. Dopo pranzo andiamo tutti a fare una passeggiata...» «Non voglio andare a fare una passeggiata!» La voce di Elsie aumentò di volume. «Sono stufa di andare a fare passeggiate. Mi fanno male le gambe. Ho la tosse.» Fece un colpo di tosse poco convincente. «Non una passeggiata» disse Danny velocemente. «Un'avventura. Andiamo a cercare conchiglie e faremo un...» L'ispirazione gli venne meno. «Una scatolina di conchiglie» finì senza molta convinzione. «Posso stare sulle tue spalle per l'avventura?» «Se cammini nel primo pezzetto.» «Grazie, Danny» gli dissi appena Elsie uscì dalla stanza per andare a cercare un sacchetto per le conchiglie. Lui scosse le spalle e si ficcò una forchettata di carne in bocca. Avevamo passato una gradevole notte e ora stavamo trascorrendo una giornata ragionevole, senza bisticci. Danny non aveva parlato di un prossimo lavoro o di dover ritornare a Londra. Parlava sempre di Londra come se fosse un appuntamento, non una città. E io non gli avevo chiesto niente. Andavamo più d'accordo. Dovevamo parlare, ma non subito. Mi stiracchiai, spinsi indietro il piatto; stanca, languida e a mio agio. «Mi farà bene uscire.» Ma non feci mai quella passeggiata perché, mentre stavo cercando di ficcare i piedi poco collaborativi di Elsie negli stivali rossi a forma di elefante, con lei che urlava dicendo che le facevo male, sentimmo fermarsi una macchina di fuori. Mi sollevai e sbirciai dalla finestra. Dal posto di guida scese un signore grande e grosso con un viso rubicondo che stava per atteggiare al sorriso. Dall'altro lato scese Thelma con addosso una tuta che le stava incredibilmente male. Mi voltai verso Danny.
«Forse sarebbe meglio che tu ed Elsie andiate da soli a fare la vostra avventura.» L'espressione di lui non cambiò. Prese Elsie per mano e la condusse fuori della porta della cucina, ignorando il suo unico strillo di protesta. «No.» «Signorina Laschen.» «Dottoressa Laschen.» «Mi scusi. Dottoressa Laschen, le assicuro che capisco la sua riluttanza, ma sarà una sistemazione assolutamente temporanea. Ha bisogno di un posto sicuro, anonimo e protetto, con una persona che capisca la sua situazione, e solo per un periodo breve.» Il detective ispettore Baird sfoderò un sorriso rassicurante. Era così grosso che quando entrò nel soggiorno, piegando il capo per passare sotto lo stipite della porta, e si appoggiò al caminetto, fece sembrare la casa fragile, quasi fosse un apparato scenico costruito di pannelli di tela. «Ho una figlia e un lavoro faticoso e...» «La dottoressa Scott mi ha riferito che il suo lavoro presso l'ospedale di Stamford non comincerà che tra qualche mese.» Lanciai uno sguardo velenoso a Thelma, che si era seduta con noncuranza al centro del divano, e stava accarezzando Anatoly con grande lentezza, apparentemente senza ascoltare quel che stavamo dicendo. Thelma alzò gli occhi. «Non hai niente da mettere sotto i denti con il tè a parte questi biscotti vecchi?» «Non è una soluzione possibile» dissi. L'ispettore Baird bevve un sorso di tè. Thelma si sollevò gli occhiali dal naso e io vidi il profondo segno rosso che vi avevano impresso. Si strofinò gli occhi. Nessuno dei due disse una parola. «Mi sono appena trasferita qui. Volevo trascorrere qualche mese in tranquillità.» La mia voce, troppo alta per l'indignazione, riempì la stanza silenziosa. Chiudi il becco, dissi a me stessa; tieni la bocca chiusa. Perché Danny ed Elsie non erano ancora tornati a casa? «Avere questi mesi liberi è importante per me. Mi dispiace per la ragazza, ma...» «Sì» disse Thelma. «Ha bisogno di aiuto.» Si ficcò un intero biscotto in bocca e prese a masticarlo vigorosamente. «Stavo dicendo che mi dispiace per lei; tuttavia non penso che...» La frase mi morì in gola e non riuscii a ricordare come avevo pensato di ter-
minarla. «Per quanto tempo avete detto?» «Non ne abbiamo parlato. E lei deve ancora decidere.» «Sì, certo. Ispettore Baird, per quanto tempo si tratterebbe?» «Non più di sei settimane, probabilmente molto meno.» Rimasi in silenzio a pensare furiosamente. «Se dovessi prendere la cosa in considerazione, come potrei essere sicura di non mettere a repentaglio la sicurezza di mia figlia? Voglio dire, se dovessi decidere di prenderla.» «Nessuno lo saprebbe» rispose Baird. «Assolutamente nessuno. È una delle precauzioni.» «Thelma?» Mi lanciò un'occhiata, un folletto venuto dal freddo. «È la tua specializzazione, vivi vicino. È stata una scelta ovvia.» «Se dovesse venire» dissi debolmente «quando arriverebbe?» Baird corrugò la fronte, come per ricordare l'ora di partenza di un treno pendolare. «Oh» rispose con indifferenza. «Pensavamo che domani mattina potesse andare bene. Diciamo verso le nove e mezza.» «Andare bene? Facciamo alle undici e mezza.» «D'accordo. Sarà il suo medico ad accompagnarla» disse Baird. «Bene, allora è tutto sistemato.» Thelma mi prese la mano uscendo. «Mi dispiace» disse, ma non era vero. «Me ne andrò prima che arrivi.» «Danny, non è necessario che te ne vada; pensavo solamente che non fosse una buona idea farti vedere in giro quando...» «Non dire stronzate, Sam. Quando hai preso la decisione di accogliere questa ragazza, hai pensato a me?» Mi guardò fisso. «No, vero? Avresti almeno potuto parlarmene prima di dire di sì, far finta che quel che ne pensavo ti importava. Il futuro di questa ragazza per te è più importante del nostro?» Avrei potuto dire che aveva ragione e che mi dispiaceva, solo che sapevo che non sarei ritornata sui miei passi a proposito della decisione di ospitare la ragazza. Avrei potuto supplicarlo. O arrabbiarmi. Invece cercai di conciliare le nostre divergenze nel solito vecchio modo. Gli gettai le braccia al collo, gli spinsi indietro i capelli, gli accarezzai le guance ispide e gli baciai l'angolo della bocca furiosa e cominciai a slacciargli i bottoni della
camicia. Ma Danny mi spinse via con rabbia. «Vuoi scopare perché non ci pensi, eh?» Si infilò le scarpe e prese la giacca che aveva appeso alla sedia. «Te ne vai?» «Così pare, no?» Si fermò sulla soglia. «Ciao, Sam, arrivederci. Forse.» Capitolo 8 La cosa più faticosa quando si ha un ospite, o in questo caso una pseudoospite, è dover riordinare e pulire casa. Fiona Mackenzie sarebbe arrivata a metà mattinata. Ciò mi dava un paio di ore, dopo aver portato Elsie a scuola, da dedicare a questa incombenza. Dovevo agire strategicamente. Pulire casa in modo significativo era poco realistico. Far ordine in modo serio era un'impresa ancor più disperata e avrei dovuto discuterne in dettaglio con Sally. Ma Sally era molto lenta e aveva una vita emotiva complicata e con lei tutti i discorsi si perdevano nei suoi labirinti mentali. Per il momento avevo solo il tempo di metter via un po' di roba in modo che si potesse entrare dalle porte, camminare lungo i corridoi, mettersi a sedere sulle sedie. Il piano del tavolo di cucina era quasi invisibile, ma bastò trasferire il piatto e la tazza di Elsie nel lavandino, rimettere la scatola dei suoi cereali nella credenza, buttare nel secchio della spazzatura le buste aperte che stavano lì da un paio di giorni, e una metà di esso fu sgombro e pronto per l'uso. Alzai leggermente la finestra a ghigliottina sopra il lavandino e aprii la porta che portava al giardino. Almeno la casa avrebbe avuto un certo odore di pulito. Feci un giretto per vedere se c'era altro da sistemare. Uno dei radiatori perdeva e un liquido rugginoso colava sul pavimento, così ci misi sotto una tazza. Diedi un'occhiata al bagno e mi venne anche in mente che avrei potuto pulirlo. Ma avrei avuto bisogno di candeggina o di uno di quei prodotti in flaconi con il beccuccio fatti apposta per raggiungere i punti reconditi del vaso. Mi limitai a far scorrere l'acqua. Per un giorno era sufficiente. Guardando da una finestra del primo piano vidi il prato striato dal sole e sentii cinguettare un uccello. Erano questi i vantaggi di andare a vivere in un pezzetto di campagna abbandonato da Dio. Era un'allodola? Un usignolo? O gli usignoli cantavano solo di notte? Un pettirosso? Un piccione? Ma i piccioni tubavano, non cinguettavano. Stavo esaurendo le mie conoscenze ornitologiche. Dovevo comprare un libro sul canto degli uccelli. O un CD o qualcosa del genere.
Era tutto un grosso errore. Ero curiosa, ma soprattutto irritata di essermi lasciata coinvolgere in una situazione che non ero in grado di controllare. Mi dispiaceva per Danny, anzi, a dire il vero stavo male. Sapevo che avrei dovuto chiamarlo e ammettere di avere torto. Mi preparai una tazza di caffè solubile e compilai un elenco mentale: per me era una distrazione; una perdita di tempo; un modo poco professionale di occuparmi di una persona che aveva bisogno di aiuto; avrebbe anche potuto essere pericoloso; non era una cosa positiva per Elsie; non mi piaceva l'idea che un'altra persona invadesse il mio spazio; e non mi piaceva l'idea di prendere impegni indefiniti, senza limiti precisi. Mi sentii sfruttata e irritata. Recuperai una busta usata dal secchio della spazzatura e compilai un vero elenco. Quando si avvicinarono le undici e mezza andai alla finestra che dava sul vialetto d'accesso. Un'altra mattina completamente persa. Cercai di convincermi che avrei dovuto assaporare quei momenti vuoti. Dopo anni senza avere un momento libero, potevo gironzolare da una camera all'altra senza neanche formulare un pensiero coerente. Infine udii una macchina fermarsi vicino alla porta d'ingresso. Guardai fuori della finestra, tenendomi abbastanza indietro da non essere vista. Era una vettura a quattro porte assolutamente anonima, a forma di cuneo come una fetta di formaggio del supermercato. Non aveva luci blu o strisce arancioni. Tre delle porte si aprirono simultaneamente. Baird e un altro uomo in completo scesero dai sedili anteriori. Dalla portiera posteriore uscì un uomo con un lungo cappotto color grigio antracite. Era molto alto e si raddrizzò con palese sollievo. Si guardò intorno brevemente, e notai un ciuffo di capelli lisci biondo scuro, un viso sottile e aquilino. Si piegò a guardare di nuovo dentro la macchina e io ripensai al modo in cui, solo un anno prima, avevo maledetto le cinghie del seggiolino di Elsie, la scomodità con cui dovevo estrarla dalla vecchia Fiat Vidi emergere una gamba in jeans e poi una giovane donna. Si intravedeva confusamente attraverso le irregolarità del vecchio vetro. Dei jeans, una giacca blu scuro, capelli scuri, pelle chiara, nient'altro. Udii un colpo alla porta e scesi al piano di sotto. Baird entrò in casa con un'aria possessiva, da zio, che mi ripugnò. Sospettai che quella faccenda non fosse idea sua, o che per lo meno io non fossi idea sua, ma che volesse dar mostra di portarla a termine come si deve. Si spostò di lato in modo da permettere agli altri di entrare. L'uomo con il cappotto lungo conduceva la ragazza per il braccio, gentilmente. «Il detective Angeloglou» disse Baird «e il dottor Daley.» Il dottore mi salutò con un cenno veloce. Non si era raso, ma non per questo aveva un
brutto aspetto. Si guardò intorno strizzando gli occhi. Sembrava sospettoso, cosa legittima. «E la signorina Fiona Mackenzie. Finn Mackenzie.» Le porsi la mano, ma lei non mi stava guardando e non la vide. Trasformai il gesto in un vago svolazzamento del braccio. Li invitai a procedere verso il divano e ci sedemmo, tutti un po' a disagio. Proposi un tè. Baird disse che l'avrebbe preparato Angeloglou. Angeloglou si alzò irritato. Andai con lui, lasciando il soggiorno dietro di noi in silenzio. «Sarà davvero una buona idea?» mormorai mentre sciacquavo delle tazze. Angeloglou si strinse nelle spalle. «Potrebbe venirne del bene» disse. «Non siamo riusciti a trovare nessun altro. Ma non lo dica a nessuno.» Quando ritornammo, nel soggiorno c'era ancora silenzio. Baird aveva preso una vecchia rivista dal pavimento e stava sfogliandola con aria assente. Il dottor Daley si era tolto il cappotto e aveva una camicia gialla piuttosto sorprendente, che avrebbe potuto essere di uno stilista italiano o provenire da un magazzino dell'Esercito della Salvezza. Era seduto accanto a Finn sul divano. Porsi loro due tazze di tè e Daley le prese entrambe e le posò sul tavolo. Si frugò nelle tasche dei pantaloni come se avesse perso qualcosa e non sapesse che cosa. «Posso fumare?» Aveva una voce profonda un po' innaturale, con un certo strascinamento languido. Mi ricordai di personaggi simili conosciuti alla scuola di medicina. Socialmente sicuro di sé in un modo in cui io non mi ero mai sentita. «Vado a prendere un portacenere» dissi. «O l'equivalente.» Immediatamente mi sentii più a mio agio con lui che con Baird o con Angeloglou. Doveva essere parecchio più alto di un metro e ottanta; il pacchetto di sigarette sembrava troppo piccolo tra le sue lunghissime dita. Si accese una sigaretta e quasi subito buttò la cenere nel piattino che gli avevo dato. Doveva avere sui quarantacinque anni, ma era difficile dargli un'età, perché aveva l'aria stanca e distratta. Aveva gli occhi grigi cerchiati di scuro e i capelli lisci leggermente unti. Il volto curiosamente carico, con sopracciglia selvagge, zigomi alti e una bocca grande e sardonica. Finn sembrava piccola e fragile e piuttosto insignificante accanto a lui. Il pallore del suo viso era accentuato dalla folta capigliatura e dagli abiti scuri. Probabilmente non mangiava da giorni; era emaciata, aveva gli zigomi sporgenti. Stava innaturalmente immobile, eccetto che per gli occhi che vagavano senza fermarsi su nulla. Aveva il collo bendato e con le dita della
mano destra se lo toccava costantemente. Devo dire che provai compassione per quella creatura così crudelmente ferita, ma mi sentii troppo compromessa e confusa per formulare un pensiero del genere. Era un ambiente assurdo per incontrare una nuova paziente, che poi non era veramente una paziente, no? Ma allora che cos'era esattamente? E io che cosa dovevo essere? La sua dottoressa? La sorella maggiore? La migliore amica? Un'informatrice? Una specie di psicologa legale dilettante in cerca di indizi? «Le piace vivere in campagna, dottoressa Laschen?» mi chiese Baird disinvoltamente. Lo ignorai. «Dottor Daley» dissi «penso che sarebbe una buona idea se andasse su con Finn a vedere quella che sarà la sua stanza. È la camera in fondo a sinistra, che dà sul giardino. Vada a darle un'occhiata e poi mi dica se ho dimenticato qualcosa.» Il dottor Daley guardò Baird con aria interrogativa. «Sì, ora» insistei. Daley condusse Finn fuori del soggiorno e li udii salire lentamente le scale. Mi volsi verso Baird e Angeloglou. «Se vuole possiamo uscire in giardino, in questa bella campagna che sto tanto tentando di farmi piacere. Possiamo portarci il tè di fuori.» Baird scosse il capo quando vide lo stato del giardino. «Lo so» ammisi dando un calcio a un oggetto rosa di plastica che doveva averci buttato Elsie. «Avevo l'idea di sistemarlo da me.» «Non quest'anno» disse Angeloglou. «No» dissi. «Sembra che abbia altre cose da fare. Senta, ispettore Baird...» «Mi chiami pure Rupert.» Scoppiai a ridere, non potei farne a meno. «Dice sul serio? Va bene, Rupert. Prima di iniziare ci sono alcuni dettagli che desidero chiarire.» Estrassi la vecchia busta dalla tasca dei jeans. «È ufficiale?» chiese. Scossi il capo. «Non mi importa un fico secco di ciò che è ufficiale e di quello che non lo è. Vi siete rivolti a me come a un'autorità sul trauma.» «Un'autorità sul trauma con una casa isolata in campagna vicino a Stamford.»
«Certo, bene, dovrei cominciare con il dire, anche se solo a voi due, che in base alle mie capacità professionali non considero questa situazione professionale.» «È conveniente.» «Non so per chi sia conveniente, ma Finn dovrebbe stare in un ambiente familiare con persone che conosce e di cui si fida.» «Le persone che conosce e di cui si fida sono morte. A parte ciò, si è assolutamente rifiutata di vedere chiunque conosca. Tranne il dottor Daley, naturalmente.» «Come sono sicura le avranno detto, si tratta di una reazione normale dopo aver passato quel che ha passato, e non è di per sé una ragione sufficiente per proiettarla in un ambiente completamente nuovo.» «E abbiamo motivi per credere che la sua vita possa essere in pericolo.» «D'accordo, non stiamo discutendo di ciò. Volevo semplicemente darle la mia oggettiva opinione medica.» Abbassai gli occhi sulla busta. «In secondo luogo, pensate che io debba avere una qualche parte informale nelle indagini, perché se così fosse...» «Niente affatto» rispose Baird con un tono suadente che mi fece infuriare. «Al contrario. Come sa, la signorina Mackenzie non ha saputo dire nulla sugli assassini e non ci aspettiamo assolutamente che lei cerchi di indurla a ricordare o a mostrarci indizi. La cosa potrebbe essere più dannosa che altro. In ogni caso mi pare di capire che non sia il suo stile terapeutico.» «Esatto.» «Se la signorina Mackenzie dovesse voler rilasciare una deposizione, la farà come qualsiasi altro cittadino. Mi chiami e saremo contenti di ascoltare quel che avrà da dire. Noi a nostra volta di quando in quando ci metteremo in contatto con voi nel corso delle indagini.» «Che cosa vi fa pensare che sia in pericolo?» Baird ebbe una sorta di finta reazione di stupore. «Ha visto la sua gola?» «Gli assassini, quando falliscono la prima volta, tornano a completare il lavoro iniziato?» «Si tratta di un caso insolito. Volevano uccidere tutta la famiglia.» «Baird, non sono interessata ai dettagli dell'inchiesta. Ma se si fida di me nell'accudire Finn, deve anche fidarsi nel darmi le informazioni rilevanti.» «Mi sembra giusto. Chris?» Angeloglou, sorpreso con un sorso di tè in bocca, si strozzò e sputacchiò.
«Scusate» disse. «È possibile che gli animalisti siano coinvolti. È uno dei filoni di indagine.» «Perché dovrebbero voler uccidere Finn?» «Per salvare dei maialini dall'essere feriti deliberatamente e poi curati con lozioni e pozioni. È colpevole per associazione familiare.» Fui colpita da un pensiero improvviso. «Quando ero all'università ho fatto parte di un gruppo di sabotatori della caccia. Per un periodo. Sono stata arrestata e ammonita.» «Lo sappiamo.» «E come fate a sapere che sia al sicuro con me?» «Ha fatto il giuramento di Ippocrate, no?» «I medici non sono più tenuti a formulare il giuramento di Ippocrate. Ormai è una leggenda.» «Oh» fece Baird sconcertato. «Allora, le chiediamo di non ucciderla, per favore. Le indagini stanno procedendo già abbastanza lentamente così.» Guardai di nuovo la busta. «Ho amici, una bambina, gente che viene in casa. Che cosa devo dir loro? A Danny, il mio... ragazzo, ho già detto chi è.» «La cosa migliore è far le cose semplici. Le storie complicate di solito vanno storte. Non potrebbe essere una studentessa che sta con lei? Che cosa ne dice?» Rimasi in silenzio abbastanza a lungo. Non sapevo come reagire. «Non mi interessano questi giochi di ruolo. Non sono in grado di gestirli e non penso che aiutino molto Finn.» «Questa è la ragione per cui cercheremo di mantenere le cose il più semplici possibili. Capisco che non sia la situazione ideale, ma altre sistemazioni probabilmente sarebbero peggiori.» «D'accordo, suppongo di aver già dato il mio assenso.» «Potrebbe esserle d'aiuto.» «Lo vorrei.» «E non deve cambiare molto il suo nome. La chiami Fiona Jones. Dovrebbe essere facile per tutti noi da ricordare.» «Va bene. Ma mi ascolti, Baird, mi riservo il diritto di interrompere questo accordo in qualsiasi momento. Se non le va bene, può portarsela via subito. Se in qualsiasi momento capissi che questa situazione non funziona per me, o per mia figlia, o anche per Finn, deve finire. Okay?» «Naturalmente. Ma andrà tutto bene. Abbiamo tutti molta fiducia in lei.» «Se è così, allora la vostra fiducia si ottiene troppo facilmente.»
Quando ritornammo dentro, chiesi al dottor Daley di aiutarmi a riportare le tazze in cucina. Volevo parlargli da sola. Non c'erano possibilità che Finn ci seguisse. Non sembrava che quella povera ragazza ferita fosse in grado di prendere iniziative. «Mi dispiace attirarla in cucina» dissi. «Avremmo dovuto parlare prima che Finn arrivasse, ma tutto sembra avvenire senza che io abbia alcun controllo. Cosa che non mi piace.» Il dottor Daley sorrise con gentilezza automatica. Mi avvicinai a lui e lo guardai in viso. «Come sta?» Lui ricambiò lo sguardo indagatore. Aveva occhi molto profondi, opachi. Cosa che mi piacque. Poi il suo volto si distese in un sorriso. «Non è stato un bel periodo» rispose. «Dorme la notte?» «Sto bene.» «Non deve cercare di colpirmi. Può serbare quello per i suoi superiori. A me gli uomini vulnerabili piacciono.» Si mise a ridere e poi rimase un momento in silenzio. Si accese una sigaretta. «Avrei potuto condurre questa cosa in modo migliore. E naturalmente mi dispiace» disse facendo un gesto vagamente aggraziato, come rivolto all'intera situazione in cui ci trovavamo. «Sto semplicemente ubbidendo a degli ordini.» Non commentai. Lui cominciò a parlare come se non sopportasse il silenzio. «Tra parentesi, volevo avere la possibilità di dirle che ho letto il suo articolo sul "British Medical Journal", L'invenzione di una sindrome, o come diavolo si chiamava, quello che ha suscitato tanto scalpore. Era splendido.» «Grazie, non pensavo che i dottori come lei lo avrebbero letto.» Il viso gli si accese leggermente e gli occhi rimpicciolirono. «Vuol dire un medico della mutua di provincia.» «No, non intendevo questo. Volevo dire un dottore che non ha la stessa specializzazione.» Fu un momento imbarazzante, ma poi Daley sorrise di nuovo. «Ne ricordo un passaggio a memoria: "Un dogma, basato su premesse non esaminate e prove non dimostrate". I terapeuti che si occupano dello stress devono aver avuto bisogno di una terapia dopo averlo letto.»
«Perché pensa che sia venuta qui, al Polo Nord, a metter su il mio reparto? Chi altri mi avrebbe preso? A proposito, intendo al Polo Nord nel modo più carino possibile.» «Va bene» disse il dottor Daley. Si arrotolò le maniche della camicia e prese le tazze. «Lei le lava e io le asciugo.» «No, le lava lei e poi le mette nello scolapiatti e si asciugheranno da sole. Come sta Finn?» «Beh, le lacerazioni superficiali...» «Non intendo quelle. Lei è il suo medico, che cosa pensa di lei?» «Dottoressa Laschen...» «Diamoci del tu.» «Se intendi il suo umore, il grado di shock, devo dire che non è di mia competenza.» «Ciò non ti impedisce di esprimere un'opinione. Che cosa ne pensi?» «Penso che sia profondamente traumatizzata da ciò che le è successo. Comprensibilmente, direi.» «Ha subito dei danni alla parola?» «Intendi in seguito alle ferite? In effetti ha subito dei danni: una paralisi minore della laringe e piccole lesioni alle corde vocali.» «Nessuno stridore respiratorio o disfonia.» Daley smise un momento di lavare. «È il tuo campo?» «Più un hobby. Un passo avanti rispetto alla collezione di francobolli. O un passo indietro.» «Forse dovresti scambiare una parola con il dottor Daun all'ospedale di Stamford» rispose ritornando alla tazza. «In ogni modo, ora è tutta tua.» «No» risposi. «È una tua paziente. Insisto. Tutta questa faccenda è già abbastanza irregolare così com'è. Io do una mano in modo informale e spero di riuscire ad aiutare. Ma mi pare di capire che tu sei il suo medico da anni, ed è assolutamente essenziale che tu debba rimanere al tuo posto ai suoi occhi. Non ti pare ragionevole?» «Certo. Farò qualsiasi cosa per aiutarla.» «Allora spero che tu venga a trovarla regolarmente. Sei il solo legame che abbia con il suo mondo di prima.» «Ecco, ho finito» disse, dopo aver lavato non solo le tazze, ma anche i piatti della mia colazione e della cena del giorno prima. «Devo dirti che avevo dei dubbi su questa sistemazione. Voglio dire, su come era stata pianificata. Ma visto come stanno le cose, non penso che Finn potrebbe es-
sere in mani migliori.» «Spero che tutti continuino a fornirmi appoggio anche quando le cose andranno storte.» «Perché dovrebbero andare storte?» fece Daley, ma ridendo, le sopracciglia alzate in una scura V capovolta. «L'unica cosa che voglio dire è che sono preoccupato che Finn sia così tagliata fuori dal suo ambiente normale, dalle persone che conosce.» «Anch'io la penso così.» «Tu lo sai meglio di me, ma se posso darti un consiglio, farei in modo che veda della gente. Ovviamente se lo desidera e se la polizia è d'accordo.» «Ce la prenderemo con comodo per un po', non ti pare?» «Sei tu la dottoressa» disse Daley. «Beh, anch'io sono dottore, ma quel che voglio dire è che tu sei il dottore.» «Non capisco cosa tu intenda dire» protestai. «Io sono un dottore e lo sei anche tu. Ed entrambi cercheremo di fare del nostro meglio in questa situazione stupida e tragica. Nel frattempo vorrei sapere quali medicine prende, che cosa ha avuto e anche il tuo numero di telefono. Non voglio essere costretta ad andare da Baird ogni volta che ho bisogno di un'informazione.» «È tutto nella mia borsa in macchina.» «Ancora una cosa. Questa situazione è ridicolmente vaga, per cui voglio essere ferma su una cosa. Lo dico a te e lo dirò a Baird, voglio che ci sia un limite di tempo a tutto ciò.» Daley sembrò preso alla sprovvista. «Che cosa vuoi dire?» «Se le cose andranno bene c'è il rischio che noi diventiamo per Finn un sostituto della famiglia. E questo non è bene. Che giorno è oggi? Il 25 gennaio, vero?» «Il 26.» «Dirò chiaramente a Finn che qualsiasi cosa succeda, comunque vadano le cose, questa sistemazione durerà fino alla metà di marzo, diciamo fino al 15 marzo, e non un giorno di più. D'accordo?» «Va bene. Sono sicuro che in ogni modo durerà molto meno.» «Bene, allora andiamo a raggiungere le signore?» «Tu pensi che sia uno scherzo, Sam. Aspetta finché non sarai invitata a cena dai vicini.» «Non vedo l'ora. Ho già pronta la cipria.»
Capitolo 9 Mi voltai a guardare la ragazza. Non l'avevo ancora osservata bene. Il suo pallido volto ovale, dietro la folta capigliatura castano scura, era assolutamente privo di espressione. Sotto le sopracciglia spesse, gli occhi marroni erano assenti. Era attraente, in altre circostanze avrebbe potuto essere molto carina, ma il suo era un viso da cui sembrava che ogni traccia di carattere fosse stata cancellata. «Ti mostro la casa» le dissi. «Anche se non ci vorrà molto.» Si chinò a prendere la piccola valigia che le era accanto, benché sembrasse troppo debole e indifferente per portare il minimo peso. «Te la porto io. Inizieremo con la tua camera da letto, che hai già visto.» Sobbalzò quando le toccai la mano con la mia sulla maniglia della valigia. «Hai le mani fredde. Alzerò il riscaldamento tra un minuto. Vieni per di qua.» Le feci strada sulle scale. Finn mi seguiva ubbidiente. Non aveva ancora detto una parola. «Di qui. Scusami per tutti questi scatoloni. Più tardi li porteremo in solaio.» Misi la valigia vicino al letto, dove rimase, desolatamente piccola nella stanza dal soffitto alto. «È un po' spoglia, temo.» Finn era in mezzo alla stanza e non guardava. Le braccia le pendevano lungo i fianchi, le dita pallide e inerti, come se non le appartenessero. Feci un vago gesto all'armadio e al piccolo cassettone che Danny mi aveva trovato in un villaggio vicino. «Puoi metterci la tua roba.» La condussi di nuovo nel corridoio. Sul pavimento notai un qualcosa di piccolo, bianco e spigoloso. Mi chinai a prenderlo delicatamente tra due dita. «E questo, Finn, è un uccellino di carta fatto dal mio ragazzo, Danny.» Era ancora il mio ragazzo o no? Rimandai il pensiero a più tardi. «Guarda, posso fargli sbattere le ali, più o meno. Carino, non credi? Dopo aver vissuto in questa casa per qualche giorno comincerai a trovare queste creaturine tra i vestiti, nei capelli, nel piatto, appiccicate a te. Si ficcano dappertutto. Ah, gli uomini!» Stavo praticamente parlando a me stessa. «Questa è la mia camera. E questa» camminava a un passo dietro di me e si fermava ogni volta che mi fermavo io «è la stanza della mia bambina, Elsie.» La porta era incastrata da un groviglio di Barbie dalle bionde
chiome, di astucci per le matite e di cavallini di plastica. «Elsie è il diminutivo di Elsie.» Guardai Finn che non rise. Beh, non avevo detto una gran spiritosaggine; ma fece un piccolo cenno con il capo, una sorta di contrazione convulsiva. Le vidi il collare intorno alla gola. Di sotto le mostrai il mio studio («assolutamente vietato a tutti»), il soggiorno, la cucina. Aprii la porta del frigorifero. «Sentiti libera di prendere quello che vuoi. Io non cucino, ma faccio la spesa.» Le indicai il tè e il caffè e lo spazio vuoto in cui sarebbe andata la lavatrice e le dissi di Linda e di Sally e della nostra organizzazione quotidiana. «E questo è più o meno tutto, oltre naturalmente al giardino» indicai fuori della finestra il sottobosco fradicio, i mucchi di foglie marce che non erano state rastrellate via, i bordi sfilacciati del prato rado, poco curato. Finn girò la testa, ma non riuscii a capire se vedesse qualcosa. Diedi un'altra scorsa al frigo e tirai fuori una confezione di minestrone. «Metto a scaldare del minestrone. Perché non vai a rinfrescarti in bagno e poi pranziamo insieme?» Rimase ferma, come arenata in cucina. «Di sopra» le dissi con tono incoraggiante, indicandole le scale e guardandola mentre si voltava lentamente e prendeva a salire gli scalini, ampi e poco profondi, uno alla volta e fermandosi tra l'uno e l'altro come una vecchia. A volte mi capita di vedere delle vittime di un trauma che non parlano per settimane, a volte le parole si riversano da esse come un grande fiume melmoso in piena, senza argini. Recentemente è venuto da me un uomo di mezz'età che aveva avuto la fortuna di sopravvivere a un incidente ferroviario. Per tutta la vita era stato riservato, abbottonato. Durante l'incidente se l'era fatta sotto (secondo le sue parole, pronunciate con labbra imbronciate) in stato di shock, una cosa che sembrava averlo colpito tanto profondamente quanto le morti a cui aveva assistito. In seguito, quando fu dimesso dall'ospedale, divenne incontinente con la parola. Mi disse che alla fermata degli autobus, nei negozi, sulla porta di casa, raccontava a tutti coloro che gli passavano vicino quel che gli era accaduto. Riviveva la scena continuamente, eppure non ne ricavava alcun sollievo. Era come grattare invano un prurito insopportabile. Finn avrebbe parlato a suo tempo; e quando avrebbe parlato, se avesse scelto di aprirsi con me, sarei stata ad ascoltarla. Nel frattempo aveva bisogno di una struttura in cui sentirsi al sicuro. La osservai mentre sollevava dei piccoli cucchiai di minestrone e se li portava attentamente alla bocca. Che cosa avrebbe detto se avesse parlato?
«Elsie ritorna a casa alle sei» feci. «Qualche volta prima; spesso vado io a prenderla a scuola. È contenta che tu sia qui con noi. Le dirò solamente quel che dirò anche agli altri: che sei una studentessa che starà con noi. Fiona Jones.» Finn si alzò, facendo stridere rumorosamente la sedia sulle mattonelle del pavimento della cucina troppo silenziosa, e portò il piatto, ancora mezzo pieno di minestrone, al lavandino. Lo lavò e lo mise nello scolapiatti tra tutti gli altri piatti, e poi tornò a sedersi al tavolo, di fronte a me, senza guardarmi. Mise le mani intorno alla tazza di tè che le avevo preparato e rabbrividì. Poi alzò gli occhi vellutati sui miei e mi guardò fisso. Era la prima volta che lo faceva e io ne fui inspiegabilmente sorpresa. Mi sembrava di riuscire a vederle dentro la testa. «Sei al sicuro, qui, Finn» le dissi. «Non devi dirmi niente a meno che tu non lo voglia; e non devi fare niente. Ma sei al sicuro.» La lancetta dei secondi dell'orologio della cucina, le cifre verdi luminose della radiosveglia, il profondo ticchettio dell'orologio a pendolo del nonno nell'ingresso, erano tutti d'accordo con me nel sottolineare che era un pomeriggio lungo e lento. Il tempo, che era sempre volato via nelle mie giornate, si era trasformato in un doloroso e lento ciondolamento. Preparai a Finn un bagno caldo, che riempii con i miei oli preferiti. Lei entrò nel bagno, si chiuse a chiave, ma ne uscì di nuovo con gli stessi vestiti addosso, meno di cinque minuti dopo. Le chiesi di aiutarmi a scegliere le tende per la sua camera e ci inginocchiammo davanti a pile di stoffe che tirai fuori da sotto il mio letto, dove le avevo riposte, e che lei guardava, man mano che le tiravo su, senza dire nulla. Allora scelsi io un pezzo di stoffa allegra, rosso, giallo e blu, un po' troppo grande per la finestrella quadrata, e lo appesi. Poi lasciai Finn nella camera da letto a disfare la valigia, pensando che volesse stare un po' da sola. Prima di andarmene, la vidi guardare nella valigia aperta i vestiti che erano ancora tutti ben impacchettati. Qualche minuto dopo venne di nuovo di sotto e rimase sulla soglia del mio studio dove stavo riordinando e riponendo delle cartelle di documenti. La condussi in giardino, sperando che i bulbi che il proprietario precedente doveva aver sicuramente piantato fossero spuntati in quel terreno negletto, ma tutto ciò che trovammo furono due o tre bucaneve in un vaso crepato. Ritornammo in casa e io accesi un fuoco (fatto per lo più con carbonella e fogli di giornale accartocciati), e lei si sedette nella mia unica poltrona a
fissare le fiamme erratiche. Io mi sedetti sul divano e cercai di risolvere i problemi di scacchi dei giornali della settimana precedente che avevo messo da parte. Anatoly entrò rumorosamente attraverso la sua porticina, spinse un paio di volte il muso umido contro le mie ginocchia piegate e poi si sdraiò tra di noi. Due donne e un gatto presso il fuoco: era quasi confortante. Fu allora che Finn parlò. Con voce bassa, roca. «Sanguino.» Le guardai con orrore il collo, ma ovviamente non intendeva quello. Aveva le sopracciglia corrugate in una sorta di stupore assente. «Va bene.» Mi alzai. «Tampax e assorbenti si trovano in bagno. Avrei dovuto mostrartelo prima. Vieni.» «Sanguino» ripeté, questa volta quasi in un sussurro. La presi per la mano sottile e gelata e la feci alzare. Era più piccola di me di parecchi centimetri e mi parve terribilmente giovane. Troppo giovane per sanguinare. «Questa» disse Elsie «è una spalla.» Immerse il sottile rettangolo di pane tostato nel liquido rosso dell'uovo e lo succhiò rumorosamente. Il rosso le colò sul mento come colla. «Hai le spalle?» Non aspettò la risposta; era come se il silenzio di Finn avesse sciolto le briglie alla sua lingua. «Oggi abbiamo mangiato crocchette di pollo e Alexander Cassell» lo pronunciò Alexxonder «si è messo le sue in tasca e si sono tutte spiaccicate.» Fece uno strillo di divertimento e poi succhiò di nuovo il pane tostato. «Finito. Vuoi venire a vedere il mio disegno?» Scivolò giù dalla sedia. «Per di qua. Mia mamma dice che disegno meglio di lei. Pensi che sia vero? Il mio colore preferito è il rosa e quello della mamma il nero, ma io odio il nero, solo che amo Anatoly che è tutto nero come una pantera. E il tuo colore preferito qual è?» Elsie non sembrava notare che Finn non rispondeva. Le mostrò il disegno della sua casa con un portone che arrivava fino al tetto e due finestre storte, le fece vedere come faceva le capriole, andando a sbattere contro le gambe della sedia, poi chiese di vedere un film e tutte e due guardarono La carica dei 101, Finn sulla sedia, Elsie sul tappeto, entrambe con gli occhi fissi sullo schermo pieno di cuccioli, Finn con occhi spenti ed Elsie avidi, e quando portai Elsie di sopra a fare il bagno («Perché devo sempre fare il bagno?») Finn rimase a fissare lo schermo vuoto. Le serate sarebbero state il momento peggiore, pensai: noi due sole per
ore, Finn seduta ad aspettare, ad aspettare nulla. Pensai al modo in cui mi guardava. Andai a frugare nel freezer: una bistecca e del pasticcio di fegato di Marks & Spencer, un pollo di Sainsbury, una confezione di lasagne (per due), una torta salata di spinaci e formaggio (per una persona). Tirai fuori le lasagne e le misi nel forno a microonde per scongelarle. Forse c'erano dei piselli surgelati. Mi chiesi dove fosse Danny; mi chiesi con chi fosse, se avesse cercato conforto e piacere altrove, portando la sua rabbia in un altro letto. Era con qualcun'altra in questo momento, mentre io curavo una povera muta? Stava accarezzando con le sue mani ruvide il corpo compiacente di un'altra? Per qualche secondo quel pensiero mi fece rimanere quasi senza fiato. Suppongo che avrebbe detto che gli ero stata infedele, alla mia maniera. Finn, seduta passivamente nella camera accanto, rappresentava una sorta di tradimento. Desiderai che fosse con me e che le lasagne e i piselli fossero per lui; poi avremmo guardato un film alla televisione e saremmo andati a letto insieme e ci saremmo stretti l'uno all'altra nel buio. Desiderai cancellare Finn e la stupida e affrettata decisione di accoglierla, e ritornare a due giorni prima. «Eccoci qua.» Portai il vassoio nel soggiorno, ma Finn non c'era. La chiamai, dapprima a bassa voce, poi con maggiore impazienza. Nessuna risposta. Alla fine andai a bussare alla sua camera e la aprii. Era sdraiata sul letto, completamente vestita. Aveva il pollice in bocca. La coprii con il piumino, e lei aprì gli occhi. Mi guardò con ostilità e poi voltò la testa verso il muro. E così si concluse il primo giorno di Finn a casa nostra. Più tardi, quando anch'io ero ormai a letto e fuori era buio come può esserlo solo in campagna, sentii un colpo provenire dalla sua camera. Poi un altro, più forte. Mi infilai la vestaglia e attraversando il corridoio gelido a passi felpati andai nella sua camera. Era profondamente addormentata, le mani che le coprivano il viso come se dovesse nascondersi da una macchina fotografica invadente. Ritornai nel mio letto caldo e non udii più nulla se non il grido di una civetta, il sibilo del vento e altri orribili rumori di campagna, fino al mattino. Capitolo 10 Finn era una presenza gelida in casa. La seguivo con la coda dell'occhio, sprofondata da una parte o da un'altra. In tutte le discussioni che avevamo fatto sulla sicurezza e sulla situazione in generale, non avevamo mai parla-
to di che cosa in effetti dovesse fare in casa mia ora dopo ora. I primi giorni in cui era da noi si svegliava presto; sentivo il rumore di piedi nudi sulle tavole del pavimento. All'ora di colazione bussavo alla porta della sua camera e le chiedevo se voleva che le portassi qualcosa. Non ricevevo risposta. Non la vedevo finché non ritornavo dall'aver portato Elsie a scuola. La trovavo seduta sul divano del soggiorno che guardava la televisione, programmi di giochi, confessioni pubbliche, telegiornali, soap opera australiane. Stava ferma, quasi immobile, se non per il continuo irrequieto giocherellare con la fasciatura del collo. Le porgevo il caffè, nero, senza zucchero, e lei teneva la tazza tra le mani come per trasferirne il calore a se stessa. Era il contatto umano più intimo che avevamo in tutta la giornata. Le portavo del pane tostato, ma mezz'ora dopo lo trovavo intatto, il burro rappreso. Quando incontravo Finn, le parlavo tranquillamente, con quello spirito con cui si parla a un paziente in coma profondo, senza sapere se lo si fa per il suo o per il nostro bene. C'è il caffè. Sta' attenta alle mani. Che bella giornata. Muoviti. Che cosa stai guardando? Le rare domande uscivano per errore e provocavano silenzi imbarazzanti. Imbarazzanti per me, che poi ero furibonda di sentirmi imbarazzata. Mi sentivo sconfitta non solo personalmente, ma anche professionalmente. Ero nel mio campo e mi comportavo in maniera assurda, oltre che inefficace. Ma era la situazione a essere disastrosa, non il mio comportamento. Accettare in casa una giovane severamente traumatizzata, introdurla nel contesto di una famiglia, era una norma contraria a qualsiasi procedura professionale. E mi mancava Danny in un modo che mi sorprendeva. Mentre andavo a prendere Elsie a scuola il pomeriggio del terzo giorno di mutismo di Finn, passai in rassegna mentalmente varie possibilità. Entrai nella classe di Elsie e la trovai impegnata nell'esecuzione di un quadro grande quasi come lei stessa. Stava osservandolo con concentrazione feroce e vi apponeva qualche ritocco finale con una matita nera. Mi inginocchiai presso di lei e guardai al di sopra della sua spalla. Aspirai l'odore della sua pelle morbida, sentii i capelli lanosi sfiorarmi la guancia. «Che bell'elefante» dissi. «È un cavallo» rispose con fermezza. «Sembra un elefante» protestai. «Ha la proboscide.» «Sembra un elefante» insistette «ma è un cavallo.» Non avevo intenzione di lasciar correre. «Io sembro una donna normale. Potrei essere un cavallo?»
Elsie mi guardò con un ritrovato interesse. «Sei un cavallo?» Sentii una fitta di rimorso per ciò che infliggevo a quel biondissimo folletto arrabbiato. Avrei dovuto fare qualcosa per lei. Dovevo fare qualcosa. Subito. Mi guardai intorno. «Con chi hai giocato, Elsie?» «Nessuno.» «No, davvero, con chi?» «Mungo.» «Eccetto Mungo.» «Nessuno.» «Dimmi una persona con cui hai giocato.» «Penelope.» Andai dalla maestra, la signorina Karlin, un sogno di maestra con un vestito lungo a fiori, gli occhiali cerchiati di metallo e i capelli accuratamente legati, e le chiesi di indicarmi chi fosse Penelope, e lei mi rispose che in classe, anzi in tutta la scuola, non c'era nessuna bambina con quel nome. Poteva mostrarmi una bambina con cui Elsie aveva giocato o a cui era stata vicina per più di due minuti? La signorina Karlin mi indicò una bambina dai capelli color topo che si chiamava Kirsty. Allora, camminando lentamente, andai a mettermi in agguato sul bordo della classe come un investigatore privato e quando una donna si avvicinò a Kirsty e cercò di infilarla dentro un. piccolo montgomery, la avvicinai. «Salve» le dissi spietatamente. «Sono contenta che Elsie, la mia bambina, là, sul pavimento, e Kirsty siano diventate buone amiche.» «Sì? Non lo...» «Kirsty deve venire a giocare a casa di Elsie.» «Ma, forse...» «Che ne dice di domani?» «Ma, Kirsty non è abituata...» «Andrà tutto bene, la signorina Karlin mi ha detto che sono inseparabili. Linda verrà a prenderle tutte e due e poi io riporterò Kirsty a casa. Mi da il suo indirizzo? O preferisce venire lei a riprenderla?» Risolta la vita sociale di Elsie, il resto della giornata non fu molto soddisfacente. Una volta arrivata a casa, tenni Elsie lontano da Finn il più possibile. Cenammo da sole insieme e poi la portai di sopra in camera sua. Le feci il bagno e mi sedetti sul bordo del suo letto a leggerle dei libri. «C'è Fing?»
«Finn.» «Fing.» «Finn.» «Fing.» «Fin-n-n-n-n-n.» «Fing-ng-ng-ng.» Cedetti. «Sì.» «Dov'è?» «Penso che stia dormendo» mentii. «Perché?» «È stanca.» «È malata?» «No. Ha solo bisogno di riposare.» E con ciò Elsie arrivò a un punto morto, almeno quel tanto che mi permise di attirare la sua attenzione su un altro argomento. La mattina successiva feci un misero tentativo di ritirarmi nel mio studio e fissare lo schermo del computer. Poi cliccai sul programma di scacchi. Pensai che tanto valeva fare una partitina veloce. Aprii con il pedone di re e il programma mi portò in una complicata variante della difesa siciliana. Senza pensarci molto, riuscii a piazzare i pedoni in una formazione favorevole e semplificai il gioco con una serie di scambi. La posizione del computer era perdente, ma mi ci volle una lunga e intricata serie di combinazioni per promuovere regina un pedone. Diedi una bella lezione alla macchina, ma persi anche un'ora buona. All'inferno. Era ora di lavorare. Tirai fuori dalla tasca un biglietto da visita e lo feci scorrere lungo gli interstizi della tastiera. Ne venne fuori un'incredibile quantità di polvere, batuffoli e capelli rimasti intrappolati di sotto, così cominciai ad affrontare il problema sistematicamente. Feci scorrere il biglietto da visita lungo la riga dei numeri, poi lungo la linea QWERTY, tra la QWERTY e la ASDF, tra la ASDF e la ZXCV. Alla fine avevo una montagnola di polvere grande abbastanza da riempire il cuscino di un ghiro. La soffiai via con forza e andò a cadere dietro la scrivania. L'idea stessa di lavorare era assurda. Odio i ragni. È un'idiosincrasia ridicola, perché razionalmente so che sono creature interessanti, ma non li sopporto. Mi sentivo come se avessi scorto con la coda dell'occhio un ragno nella stanza, che poi era andato a nascondersi. Sapevo che c'era e non riuscivo a pensare a nient'altro. Finn era in casa e mi sembrava che mi gi-
rasse rumorosamente nel cervello. Guardai il biglietto da visita, i cui angoli ora erano piegati e sudici. Era il biglietto che mi aveva dato Michael Daley. Feci il numero del suo studio. Non lo trovai e lasciai il mio nome. Meno di un minuto dopo mi richiamò. «Come stai?» mi chiese immediatamente. Gli descrissi il comportamento di Finn e gli espressi i miei dubbi sull'intera faccenda. Quando finii, ci fu un lungo silenzio. «Sei in linea?» «Sì» Daley cominciò a dire qualcosa, poi si interruppe. «Non so bene che cosa dire. Penso che tu sia stata messa in una posizione impossibile. E sono anche preoccupato per Finn. Fammi riflettere per un minuto.» «Per essere onesta, Michael, penso che sia una farsa. Non credo che faccia bene a nessuno.» «Probabilmente hai ragione. Dobbiamo parlarne.» «Ne stiamo parlando.» «Sì, certo, scusa. Posso venire a vederla?» «Quando?» «Subito.» «Non devi essere in studio?» «Ho finito e ho un'ora libera.» «Bene. Cristo, Michael, un medico che si offre spontaneamente di fare visite a domicilio. Dovremmo metterti su un piedistallo.» Daley arrivò dopo solamente un quarto d'ora. Era vestito da lavoro, con un abito scuro, una cravatta vivace e la giacca. Si era rasato e spazzolato i capelli, ma aveva un piacevole aspetto incongruente. La sua espressione era preoccupata, perfino turbata. «Posso vederla?» «Certamente, sta guardando la televisione. Sta' con lei quanto ti pare. Vuoi una tazza di tè o qualcosa?» «Dopo. Lasciami qualche minuto. Vorrei darle un'occhiata.» Daley scomparve nel soggiorno e chiuse la porta. Presi un giornale e mi misi ad aspettare. Sentivo la televisione attraverso la parete e nient'altro. Dopo un po' emerse con la stessa aria fosca di prima e mi raggiunse in cucina. «Prenderei volentieri quel tè, adesso» disse. Si passò la mano tra i capelli. Riempii il bollitore e inserii la spina. «Allora?»
«Non ha parlato neanche con me. Le ho dato un'occhiata veloce. Fisicamente sta bene. Come sai già.» «Non è questo il problema, no?» «No.» Mentre aspettavo che l'acqua bollisse, presi le tazze, trovai delle bustine di tè, posai rumorosamente sul tavolo i cucchiaini. «Un bollitore osservato ci mette circa tre minuti a bollire» dissi. Michael non rispose. Finalmente gli misi davanti due tazze di tè e mi sedetti di fronte a lui. «Non posso concederti la mia totale attenzione a lungo» dissi. «Linda sta per ritornare con Elsie e la nuova amichetta di Elsie, o almeno la surrogata di un'amichetta.» «Devo andarmene in ogni caso» disse Michael. «Senti, Sam, mi dispiace che ti sia capitato tutto ciò. Non sta funzionando. E non è colpa tua. Non fare nulla. Concedimi un giorno o poco di più. Chiamerò Baird e te la toglierò di dosso.» «Non è quel che intendevo» risposi a disagio. «Non è questione di togliermi nessuno di dosso.» «No, no, naturalmente. Sto parlando come medico di Finn. Non credo che questa sistemazione sia appropriata per lei. E in secondo luogo, e senza alcun collegamento, non va bene neanche per te. Ti chiamerò domani pomeriggio e ti farò sapere.» Appoggiò il capo a una mano e mi sorrise. «D'accordo?» «Mi dispiace, Michael» feci. «Odio aver la sensazione di essere impotente, ma questo...» Mi strinsi nelle spalle. «Certamente» rispose. La prima comparsa di Kirsty non fu promettente. Elsie mi passò davanti di corsa, seguita da Linda che trascinava per mano una bambina imbronciata. «Ciao, Kirsty» le dissi. «Voglio la mamma» rispose. «Vuoi una mela?» «No. Voglio andare a casa» disse Kirsty e cominciò a piangere; piangere veramente, con grosse lacrime che le scendevano sulle guance arrossate. La presi in braccio e la portai nel soggiorno. Fortunatamente Finn non c'era. Tenendola con il braccio sinistro, tirai fuori da sotto il divano una scatola di giocattoli e urlai a Linda di far scendere Elsie, se necessario con
la forza. C'erano bambole senza vestiti, vestiti senza bambole. «Vuoi vestire le bambole, Kirsty?» le chiesi. «No» rispose. Un'Elsie ugualmente arrabbiata fu trascinata nella stanza. «Elsie, ti piacerebbe aiutare Kirsty a vestire le bambole?» «No.» Nell'ingresso squillò il telefono. «Rispondi tu, Linda. Ti piacciono le bambole, no, Elsie? Perché non le mostri a Kirsty?» «Non voglio.» «Ma se siete amiche...» Quando Linda ritornò, stavano piangendo tutte e due. «E una certa Thelma per te.» «Cristo, dille di... no, è meglio che vada a rispondere nel mio studio. Non lasciare che nessuna delle due esca di qui.» Thelma chiamava per sapere come stava andando, e le descrissi la situazione il più velocemente che potei. Ciononostante non riuscii a riagganciare se non venti minuti dopo e uscii dallo studio aspettandomi urla e sangue sulle pareti, azioni legali da parte della madre di Kirsty, l'intervento dei servizi sociali dell'Essex, e un'inchiesta che sarebbe culminata con la mia radiazione totale dall'albo dei professionisti. Invece la prima cosa che udii fu una risatina tintinnante. Linda doveva essere una maga, pensai, ma quando voltai l'angolo vidi Linda in corridoio, in piedi vicino alla porta accostata. «Che cosa...» cominciai, ma lei si mise un dito sulle labbra e mi fece cenno di avvicinarmi con un sorriso. Mi avvicinai in punta di piedi e sbirciai attraverso la fessura. Ci fu un piccolo urlo di delizia che si trasformò in una risata gorgogliante. «Dove va?» «Non lo so.» Di chi era quella voce? Non poteva essere. «Fallo tu, fallo tu» insistettero due vocine. «Ma, penso che potrebbe essere nell'orecchio di Kirsty. Guardiamo? Sì, eccola lì?» Ci furono degli altri gridolini. «Fallo di nuovo, Fing. Fallo di nuovo.» Elsie e Kirsty erano inginocchiate sul tappeto. Molto lentamente sbirciai dal bordo della porta. Finn era seduta davanti a loro e teneva tra il pollice e
l'indice della mano sinistra una piccola palla gialla della scatola dei giocattoli. «Non penso di riuscire» disse e si fregò le mani, trasferendo la pallina dalla mano sinistra alla destra. «Ma forse possiamo prorare.» Tese in avanti la mano sinistra. «Potete soffiare?» Elsie e Kirsty soffiarono con la fronte aggrottata e le guance arrotondate. «Adesso dite la parola magica.» «Abracadabra.» Finn aprì il pugno sinistro. La pallina ovviamente non c'era più. Era una magia davvero semplice, ma le bambine rimasero senza fiato e scoppiarono in risatine e gridolini. Nessuna di loro ci vide e io mi ritirai in corridoio. «Non intromettiamoci» mormorai e ci allontanammo in punta di piedi. «Sono stupefatta» disse la madre di Kirsty due ore dopo sulla porta d'ingresso, in attesa di andarsene. «Non ho mai visto Kirsty così in casa d'altri.» «Già» dissi modestamente. «Abbiamo cercato di farla sentire a suo agio.» «Non so come abbiate fatto» disse la madre di Kirsty. «Vieni, Kirsty, su. Arrivederci Elsie, vuoi venire a giocare con Kirsty a casa nostra qualche volta?» «Non voglio andare via» disse Kirsty, di nuovo con le lacrime agli occhi. «Voglio stare con Fing.» «Chi è Fing?» chiese la madre di Kirsty. «Sei tu?» «No» dovetti ammettere. «È Fiona, una ragazza che sta da noi.» «Non voglio andare a casa» urlò Kirsty. La madre la prese e la portò fuori. Chiusi la porta dietro di lei. Le urla si allontanarono nella notte. Si udì sbattere la portiera di un'auto e ci fu silenzio. Mi chinai e strinsi a me Elsie. «Ti è piaciuto?» le dissi dolcemente all'orecchio. Annuì. Era raggiante. «Bene. Adesso corri di sopra e spogliati. Io vengo su tra un minuto e facciamo un bel bagno.» «Può venire Fing? Mi può leggere una storia?» «Vediamo. Ora va' su.» Osservai il suo piccolo corpo forte che saliva le scale. Mi voltai e tornai nel soggiorno. La televisione era accesa. Finn era seduta e la stava guardando. Mi sedetti vicino a lei, che non diede cenno di avermi notato.
Guardai lo schermo e cercai di capire di che programma si trattasse. Improvvisamente sentii la sua mano sulla mia. Mi voltai e vidi che mi stava guardando. «Sono stata una gran seccatura» disse. «Non importa» risposi. «Elsie mi ha fatto un regalo.» Non potei fare a meno di mettermi a ridere. «E che cosa sarebbe?» «Guarda» disse Finn presentandomi il pugno chiuso. Poi lentamente aprì le dita e dentro, accuratamente appollaiato sul palmo, c'era uno degli uccelli di carta di Danny. Quella sera telefonai a Danny. Provai alle dieci, alle undici, poi a mezzanotte, e lui rispose con la voce spessa, come se l'avessi svegliato. «Mi sei mancato.» Fece un grugnito. «Ti ho pensato in continuazione. E avevi ragione. Mi dispiace.» «Ah, Sammy, anche a me sei mancata. Non riesco a non pensare a te.» «Quando ritorni?» «Sto rifacendo la cucina a una coppia che sembra pensare che dormire sia un lusso e che i weekend non esistano. Dammi una settimana.» «Riuscirò ad aspettare una settimana?» «Ma dovremo parlare, Sam.» «Lo so.» «Ti amo, donna difficile.» Non risposi e lui disse gravemente: «È così difficile per te dirlo?». Capitolo 11 Ci mettemmo l'una accanto all'altra davanti al lungo specchio della mia camera da letto; sembravamo due streghe a convegno. Io indossavo una gonna nera che mi arrivava alle ginocchia, una camicia di seta grezza e l'impermeabile nero, e poi, un po' perplessa dal rosso dei miei capelli su tutto quel nero, li avevo coperti con un cappello a cloche anch'esso nero. Finn aveva il maglioncino a polo nero e le avevo prestato un camicione informe color carbone, da metterci sopra. Le arrivava ai polpacci, ma a dir la verità era toccante e graziosa avvolta da quelle pieghe color inchiostro. La sua testa mi arrivava a malapena alle spalle; sotto la frangia il viso era pal-
lido e le labbra sembravano leggermente gonfie. Improvvisamente, senza distogliere gli occhi dalla sua immagine riflessa, fece un piccolo e sconcertante movimento di danza, facendo sporgere dalla camicia avvolgente il fianco ossuto. Se le circostanze fossero state diverse, avrei fatto un risolino e un qualche commento ironico o di scherno. Invece rimasi in silenzio. Che cosa c'era da dire, dopo tutto? Nel riquadro dello specchio spuntava anche un ginocchio grassoccio di Elsie, che non era andata a scuola per un raffreddore che si manifestava in un teatrale tirar su col naso ogni venti minuti. Se mi fossi girata, cosa che non volevo ancora fare perché avvertivo che davanti allo specchio si stava compiendo per Finn un qualche sottile dramma, l'avrei vista seduta con le gambe piegate sotto il sedere, che si stava cingendo con le perline assai poco preziose che pescava da un cofanetto. Mi limitavo a sentire i suoi mormoni: «Questa sì che ti sta bene, sono così orgogliosa di te. Una piccola principessa». Fuori pioveva. La campagna si bagna più della città, quando piove. Forse perché c'è una maggior superficie esposta con tutte quelle foglie e fili d'erba. Ma sembrava che l'acqua fosse anche nell'aria, come se il terreno fradicio non riuscisse più ad assorbire altra umidità. Questo era il mio pezzetto di Inghilterra, indeciso se essere terra o mare. Un forte rumore di motore e uno schizzare di ciottoli segnalarono l'arrivo di una macchina. «Danny» dissi. Elsie scivolò giù dal mio letto sfatto, tirandosi dietro un guazzabuglio di piumini, fili di vetro colorato che le rimbalzavano sul collo, una corona di plastica rosa che le cadde dai capelli spettinati, e corse verso le scale. «Sei sicura di volerlo fare?» chiesi di nuovo a Finn. Lei annuì. «E sei sicura che vuoi che venga anch'io? Non potrò star seduta vicina a te, lo sai.» «Sì, certo.» Ero io a non esserne sicura. Sapevo che i funerali ci aiutano a prender coscienza che i nostri cari sono morti e non ritorneranno; sapevo che è ai funerali che si dice addio e si comincia a elaborare il lutto. Avevo assistito a molti funerali, a uno in particolare, in cui questo si era rivelato vero: il grande blocco di ghiaccio del dolore aveva cominciato a sciogliersi. Le parole familiari ti commuovono, i volti vicino a te, tutti con il medesimo sguardo gonfio di dolore, ti fanno sentire parte di una comunità, e la musica, i singhiozzi, la vista della bara e la consapevolezza di quel che c'è dentro, si mescolano in un sentimento che è l'inizio di un disgelo.
Ma a questo funerale ci sarebbero stati poliziotti, giornalisti, fotografi e curiosi che avrebbero osservato Finn morbosamente. Finn avrebbe dovuto rivedere tutte le persone dalle quali si era nascosta dal giorno in cui aveva perso i genitori. Saremmo state accompagnate da poliziotti in borghese che l'avrebbero affiancata per tutta la cerimonia, guardie del corpo per una ragazza ancora in pericolo. La gente parla troppo facilmente di come affrontare la perdita di una persona cara, della necessità di rassegnarsi. Mi sembrava che Finn avesse più bisogno di protezione che di quel tipo di parole. La fuga è una comune strategia di ripiego messa in atto dalle persone che soffrono di depressione da stress postraumatico e Finn, senza dubbio, stava fuggendo. Ma una routine sicura e tranquillizzante poteva essere il modo migliore per cominciare il processo di guarigione. «L'hai deciso tu. Se in qualsiasi momento vorrai andartene, dimmelo. D'accordo?» «Ho solo bisogno di...» Non finì la frase. «Allora andiamo a conoscere Danny.» Mi guardò implorante. «Non ti morde mica. Almeno non in modo orribile.» Presi Finn per mano e la trascinai fuori della stanza. In seguito Danny avrebbe ricordato con divertimento il primo incontro con Finn sulle scale, vestita, come me, melodrammaticamente di nero, ma allora alzò gli occhi su di noi senza sorridere, i capelli sulle spalle. Neanche Finn sorrise, ma non fu esitante. Lasciò andare la mia mano e avanzammo l'una dietro l'altra, io facendo ticchettare le scarpe di pelle con la fibbia dietro di lei e lei camminando silenziosamente davanti con le scarpe da ballerina. Andò ad arrestarsi di fronte a lui, minuscola contro il corpo massiccio di Danny, e sollevò gli occhi. Ancora nessun sorriso da parte di nessuno dei due. «Sono Finn» disse con un mormorio da dietro la cortina serica dei capelli. Danny annuì. Le tese la mano, ma lei, invece di stringerla, appoggiò le sue dita sottili contro il palmo di lui, come una bambina che alla fine decide di fidarsi. Solo allora Danny mi rivolse lo sguardo. «Ciao, Sammy» disse con noncuranza, come se fosse stato via un'oretta e non quasi due settimane. «Sai che cosa sembri?» «Sono sicura che me lo dirai.» «Dopo, però.» Elsie uscì dalla cucina.
«C'è un signore che si chiama Mike.» «È ora di andare, Finn.» Danny piegò il capo e mi baciò sulle labbra. Io gli misi il dorso della mano contro la guancia e ve lo lasciai brevemente, e ci sorridemmo. Aspirai l'odore della sua pelle. Poi uscii con Finn nella pioggia. Daley scese dalla macchina. Aveva indosso un abito blu con il risvolto bianco sgualcito. Sembrava più un suonatore di jazz leggermente ubriaco che una persona vestita a lutto. Finn si fermò bruscamente, un piede nella macchina. «No.» Le posai la mano sulla schiena. «Finn?» Daley venne avanti. «Su, Finn» la incitò. «Sarà...» Lo interruppi. «Non sei obbligata a venire» le dissi. «Andate voi» disse Finn improvvisamente. «Andateci tu e Michael per me.» «Finn, devi venire, non lo pensi anche tu, Sam?» disse Daley. «Devi cominciare a vedere gente.» «Per favore, Sam. Per favore, va' tu per me.» Daley mi guardò. «Sam, non pensi che le faccia bene venire? Non può continuare a evitare di vedere le persone in questo modo.» Negli occhi di Finn apparve un guizzo di panico. Mi stavo bagnando e volevo andarmene dalla ghiaia fangosa e dalla pioggia scrosciante. Non potevamo costringerla. «È lei a dover decidere» dissi. Feci un cenno alle figure sulla soglia di casa, che si avvicinarono per sentire il cambiamento di programma. Gettai un ultimo sguardo a Finn, che veniva portata in casa, una figurina umida appoggiata mollemente a Danny, mentre Elsie saltellava dietro di loro e la pioggia continuava a cadere. Durante la cerimonia rimasi in silenzio e immobile, Daley rimase anche lui in silenzio, ma agitandosi irrequieto. Si passava le dita tra i capelli morbidi, si fregava il viso come a spazzar via le ombre scure sotto gli occhi che lo facevano sembrare dissoluto, spostava il peso da un piede all'altro. Alla fine gli misi una mano sul braccio per calmarlo.
«Hai bisogno di una vacanza» gli bisbigliai. Una signora anziana, seduta sul lato opposto al mio, un cappello a cupola piatta schiacciato sul capo, intonò Pane del Cielo con un intenso vibrato. Mossi le labbra e intanto mi guardai attorno. Cercavo di capire qualcosa del mondo di Finn e della sua famiglia. Finora per me Finn era stata una figura pateticamente isolata. Quel funerale mi sembrava irreale. Non avevo nessun legame con la coppia deceduta, ma solo con la loro figlia. Quasi non sapevo nemmeno che aspetto avessero, se non per la fotografia che avevo visto su tutti i giornali, una foto sfocata presa a un ballo di beneficenza, lui corpulento, lei magra, che sorridevano entrambi a un viso fuori campo, mentre ora la loro terribile morte li aveva scaraventati nella storia. Nutrimi finché sarò sazia. A volte mi chiedevo se la gente non sentisse odore di periferia in me, come i cani che pare sentano l'odore della paura. Io riuscivo a fiutare l'odore della ricchezza e della rispettabilità a un miglio di distanza, e qui lo sentivo. Gonne discrete e guanti neri, abiti di gabardine con scollature eleganti, calze nere trasparenti, scarpe basse (le mie fibbione brillavano vistosamente nell'aria ovattata della chiesa vittoriana), piccoli orecchini su un centinaio di lobi, trucco invisibile, anche se c'era, su volti di mezz'età; un lutto riservato, educato, una lacrima discreta qua e là, mazzi di fiori primaverili semplici e costosi e le due bare esposte platealmente sul catafalco. Una volta mi era capitato di dover organizzare un funerale e avevo dovuto sfogliare cataloghi e imparare la terminologia. Mi guardai intorno. In un banco davanti a me c'erano sette ragazze adolescenti; da dov'ero io i loro dolci profili si sovrapponevano come angeli su un biglietto natalizio dorato. Notai che si tenevano tutte per mano o si toccavano con i gomiti e di tanto in tanto si piegavano leggermente a mormorarsi qualcosa. Le compagne di scuola di Finn, pensai, e presi la decisione di andare a parlare con loro alla fine della cerimonia. Di fronte a me una signora grassoccia con un vestito lucido nero e un largo cappello piangeva in un ampio fazzoletto. Capii subito che era la donna delle pulizie che aveva trovato i corpi. Era la sola persona quel giorno che mostrasse un dolore crudo, rumoroso, non dignitoso. Che cosa ne sarebbe stato di lei? Ci inginocchiammo in silenzio per ricordare i cari deceduti, e una dozzina di ginocchia anziane scricchiolarono. Mi chiesi quali ricordi passassero per quelle teste, quali discorsi, litigi, piccoli incidenti affiorassero in quelle menti dall'implacabile profondità della morte. O stavano pensando di aver lasciato il forno acceso, o che vestito mettersi quella sera al concerto, o se sulle spalle ricoperte di nero si vedesse la forfora? Chi era stato vicino a
Finn, quale dei vecchi amici di famiglia l'aveva conosciuta durante la fanciullezza, l'aveva vista soffrire e poi diventare una giovane donna carina, il brutto anatroccolo che si trasformava in grazioso cigno? Chi erano i vaghi conoscenti venuti solo perché la coppia era stata sgozzata e alla porta della chiesa c'erano poliziotti e giornalisti? «Padre nostro» intonò il vicario. «Che sei nei Cieli» proseguimmo noi ubbidientemente. «Sia benedetto il tuo nome...» E la donna delle pulizie, come si chiamava?, continuava a singhiozzare. Ferrer, ecco il suo nome. Rimase indietro mentre la gente cominciava a defluire lungo il corridoio, e io, procedendo faticosamente controcorrente, mi avvicinai a lei. Era scarsamente visibile, piegata tra due banchi. Le andai più vicino e vidi che stava raccogliendo qualcosa dal pavimento e mettendoselo nella borsa. Cominciò a infilarsi il cappotto e rovesciò di nuovo la borsa. «Mi permetta di aiutarla» dissi. Mi piegai e tastai sotto il banco alla ricerca delle chiavi, del borsellino e delle monete e banconote che le erano cadute. «Viene al ricevimento?» Vidi il suo viso da vicino, la pelle pallida, gli occhi gonfi per il pianto. «Al ricevimento?» Sentii un colpetto sulla schiena, mi voltai e vidi l'ispettore Baird. Mi fece un cenno di saluto e un sorriso, poi si ricordò della situazione e si ricompose. «Conosce la signora Ferrer?» mi chiese. «Qualcuno ha fatto qualcosa per questa signora?» Baird si strinse nelle spalle. «Non so, penso che ritorni in Spagna tra qualche giorno.» «Come sta?» chiesi alla signora Ferrer. Non rispose. «Tutto bene» disse Baird con quella voce alta che gli inglesi usano quando parlano con gli stranieri. «La dottoressa Laschen. È un medico.» La signora Ferrer aveva l'aria ansiosa e distratta. «Dottore, medico.» La signora Ferrer mi ignorò e cominciò a parlare velocemente e incoerentemente a Baird. Aveva delle cose per la «piccola ragazza». Dov'era? Stava andando a casa e voleva portare le cose alla signorina Mackenzie. Dirle addio. Doveva salutarla, non poteva andarsene senza averla vista. Ricominciò a piangere, disperatamente. Notai che le tremavano le mani. Secondo il mio parere professionale era in uno stato di estrema confusione. Baird mi guardò nervosamente.
«Bene, signora Ferrer, se le dà a me, io poi a tempo debito...» Mi lanciò uno sguardo e mi fece cenno di andar via. «Non si preoccupi, dottoressa, accompagno io la signora Ferrer.» «Ha l'aria di essere una giocatrice di bridge. Venga a darci una mano.» Due donne, una con i capelli crespi castani e il naso imponente, l'altra più minuta e con i capelli perfettamente bianchi sotto un cappellino nero, mi attirarono nella conversazione. Quando avevo tredici anni, mia madre mi aveva costretto a fare un corso di bridge per propiziare un possibile avanzamento sociale. Avevo resistito due settimane, abbastanza per imparare a contare i punti delle carte e non molto di più. «Se apro due senza atout, che cosa significa per te, eh?» «Atout» dissi gravemente. «Sono le carte nere o le rosse?» Fecero una faccia sbalordita e io indietreggiai, tazza di tè in mano, un sorriso di scusa sulle labbra. Sul lato opposto della sala vidi Michael impegnato in una conversazione con un uomo quasi calvo. Mi chiesi chi si fosse occupato di organizzare tutto ciò, affittare la sala, preparare i panini, prendere a nolo il grosso bollitore da tè. Improvvisamente la mia attenzione fu attratta altrove. «Speravo di vedere Fiona, poverina. Qualcuno le ha parlato?» Rimasi immobile fingendo di sorseggiare dalla tazza ormai vuota. «No» venne la risposta. «Non penso. Ho sentito dire che è stata mandata all'estero a rimettersi in sesto. Mi pare che abbiano dei parenti in Canada o da quelle parti.» «Io ho sentito invece che è ancora in ospedale o in una clinica. Stava per morire, sai. Poverina. Una ragazza così gentile, fiduciosa. Come farà a superare un trauma del genere?» «Monica dice» la voce dietro di me si abbassò in un sussurro che voleva essere perfettamente udibile «che è stata, ehm, violentata.» «No, che cosa orribile.» Mi allontanai, contenta che a Finn fosse risparmiato tutto ciò. Il processo di elaborazione del lutto poteva aspettare. Baird era rimasto rispettosamente in un angolo con la signora Ferrer e li vidi avviarsi verso la porta. Colsi lo sguardo della signora Ferrer, e lei mi venne incontro, mi prese la mano e mormorò qualcosa che sembrava un ringraziamento. Cercai di dirle che l'avrei aiutata volentieri, se me lo avesse permesso, e che mi sarei fatta dare l'indirizzo da Baird e sarei andata a trovarla. Lei annuì ma non riuscii a capire se avesse afferrato ciò che le avevo detto. Mi lasciò la mano e si
voltò. «Come sta la signora delle pulizie?» chiese una voce dietro di me. Michael Daley. «Non sei dottore anche tu?» «Anche lei è una delle mie pazienti. L'ho presa per fare un favore ai Mackenzie.» Daley si voltò e la seguì con uno sguardo aggrottato mentre usciva, prima di rivolgersi di nuovo a me. «Sa chi sei?» «Baird ci ha presentato, ma non credo che sappia del legame tra me e Finn.» «Che cosa voleva?» «Aiuto, mi pare di capire, e anche urgentemente. E vuole dare a Finn alcune cose. E vederla, prima di ritornare in Spagna.» Daley sorseggiò pensosamente lo sherry. «Mi sembra giusto. E poi penso che a Finn farebbe bene vedere una persona conosciuta.» «Non so se è prudente, ma d'altro canto sarebbe una presenza non minacciosa.» «Andrà bene.» Ci fu una pausa. Daley fece un mezzo sorriso. «Ci sono un paio di persone che dovrei almeno salutare. Verrò a prenderti prima di uscire.» Accalcate in un angolo della sala c'erano le ragazze che avevo notato in chiesa. Mi avvicinai, attirai lo sguardo di una di loro e mi introdussi nella cerchia. «Siete amiche di Finn?» Una ragazza alta con i capelli scuri che le arrivavano alle spalle e le lentiggini sul naso impertinente mi guardò sospettosamente e poi guardò le amiche e mi tese la mano. Chi ero? «Compagne di scuola» rispose. «Io sono Jenny.» Volevo scoprire qualcosa di Finn dalle persone che la conoscevano, ma ora non sapevo che cosa dire. «Conoscevo suo padre. Per lavoro.» Mi fecero un cenno con il capo, senza curiosità. Aspettavano che continuassi. «Com'era, Finn?» chiesi. «Com'era?» ripeté una ragazza bionda con i capelli corti e il naso affilato. «Simpatica.» Si guardò intorno in cerca di conferma. Le ragazze annuirono. «Era simpatica» disse un'altra ragazza. «Sono andata a visitarla all'ospe-
dale. Non mi hanno permesso di vederla. Mi sembra abbastanza stupido.» «Credo...» «Pronta per andare?» Mi voltai con un sobbalzo e vidi Michael. Mi infilò un braccio sotto il gomito e fece un cenno di saluto alle ragazze. Loro gli sorrisero in un modo assai diverso da come avevano sorriso a me. Il parcheggio della piccola chiesa parrocchiale di Monkeness era vicino alla diga e ci sedemmo lì per qualche minuto. Io a rosicchiare un pezzo di torta alle noci che avevo preso da un vassoio prima di uscire e Michael a fumare una sigaretta. Gli ci vollero parecchi fiammiferi per accenderla e poi dovette chinarsi e ripararsi contro il muro. «Finn andava d'accordo con i genitori?» Michael si strinse nelle spalle. «Erano in confidenza? Litigavano? Cerca di aiutarmi, Michael, devo vivere con questa ragazza.» Aspirò profondamente la sigaretta e fece un gesto di impotenza. «Credo che le fossero abbastanza vicini.» «Michael, ci dovevano essere dei problemi. È stata ricoverata per depressione e anoressia. Tu eri il suo medico.» «Sì, è vero» rispose distogliendo gli occhi da me e guardando vagamente il mare. «Era un'adolescente, è un periodo difficile per la maggior parte di noi, quindi...» Si strinse nelle spalle e non finì la frase. «È stato difficile per te che eri amico dei suoi genitori?» Daley si voltò e mi fissò con gli occhi scuri stanchi. «È stato molto difficile per me che ero amico di Leo e di Liz. La polizia ti ha detto cosa hanno fatto loro?» «Qualcosa. Mi dispiace.» Salimmo in macchina e partimmo. La campagna era grigia, squallida, indistinta. Sapevo che era il mio umore. Ero stata a un funerale e non avevo provato dolore. Avevo continuato a rimuginare incessantemente e vanamente. Guardai fuori del finestrino. Città di morte. «Con Finn non funziona e non sono particolarmente fiera di me stessa oggi.» Michael si voltò. «Perché e perché?» «Penso che Finn volesse dirmi qualcosa pregandomi di andare al funerale dei suoi genitori e io non ho fatto altro che andare in giro a curiosare e cercare di scoprire che tipo di persona era.»
Michael apparve sorpreso. «Perché?» «Non riesco a vedere un paziente nel vuoto. Ho bisogno di un contesto.» «Che cosa hai saputo?» «Niente se non quel che sapevo già: che quel che sappiamo dei nostri amici, anche di quelli intimi, è stranamente vago. Simpatica, ho saputo che Finn è simpatica.» Mi mise una mano sul braccio, poi la spostò per cambiare marcia, e ce la posò nuovamente. «Avresti dovuto chiederlo a me. Se vuoi, ti presento delle persone che conoscevano bene la famiglia.» «Mi piacerebbe, Michael.» Si voltò e mi fece un sorriso malizioso. «Sarà il tuo biglietto d'ingresso nella società rurale, Sam.» «Non mi vorranno, Michael. Provengo da una bassa classe sociale.» Si mise a ridere. «Sono sicuro che nel tuo caso faranno un'eccezione.» Capitolo 12 «Pensa che io sia un fannullone. Perché dovrei essere gentile con lei?» «Sei un fannullone. Cerca almeno di non essere un cafone totale. Oppure va' a fare una lunga passeggiata e non stare qui.» Ero al lavandino e Danny mi mise le mani intorno alla vita e mi diede un morso sulla spalla. «Ho fame e sono contento di essere qui.» «Sto lavando i piatti» dissi con rabbia. Danny mi dava sui nervi quel giorno, proprio come il precedente. Gli ultimi due giorni non erano andati bene, anche se, dopo che eravamo ritornati dal funerale e ne avevamo parlato a lungo con Finn, e Michael Daley era rimasto per un drink (Danny lo guardava in cagnesco come se avessi passato la giornata a letto con lui anziché a un funerale, e Michael era stranamente nervoso nei suoi confronti), e dopo che avevamo messo a letto Elsie, avevamo avuto un incontro appassionato. Lui aveva ciondolato secondo il suo solito, alzandosi tardi, facendo colazioni enormi mentre Sally gli puliva intorno, andando a letto alle ore piccole e venendomi vicino con l'alito che sapeva di birra, e ciò mi aveva irritato. Non si era particolarmente interessato a Finn, anche se non era stato proprio maleducato, e anche ciò mi aveva irritato. Aveva lasciato
i piatti nel lavandino senza lavarli, i vestiti sporchi in un angolo della mia camera, mi aveva quasi svuotato il frigo senza rimetterci dentro niente, e io mi ero irritata della mia insofferenza. Non volevo che Danny fosse Danny? «Non puoi preparare la tavola o fare qualcosa?» mi lamentai. «Preparare la tavola? Che si tiri fuori lei le posate dal cassetto. Non verrà qui se non tra un quarto d'ora. Perché non andiamo di sopra?» Mi mise le mani sotto la camicia. Lo spinsi via con le mani insaponate. «Elsie e Finn sono qui vicino.» «A metà del puzzle.» «È bello averla in casa, no?» Danny mi lasciò andare e si sedette pesantemente al tavolo di cucina. «Davvero?» «Che cosa c'è che non va?» «Oh, Cristo» si passò le mani nei capelli. «Non ho voglia di parlare della tua paziente.» Presi cinque forchette dal secchiello di plastica sul lavandino e le posai rumorosamente sul tavolo di fronte a lui. «La quiche è nel frigo. Mettila a scaldare. Il gelato è nel freezer. Penso che tu sia geloso di lei.» «E perché sarei geloso?» Ora Danny aveva le braccia incrociate sul petto e mi guardava in cagnesco. «Perché a me piace e piace a Elsie e tu non ti senti più il re del castello quando ti degni di venire a trovarci in campagna, questa è la ragione.» «E sai che cosa penso, Sam? Penso che tu abbia smesso di tenere separato il lavoro dalla vita privata. E qui sei nei guai. Riflettici, ora che siamo in argomento: prima di tutto devo competere per il tuo amore con un uomo morto, e poi con una ragazzina malata. Come farò mai a vincere?» Ci fu un forte colpo alla porta d'ingresso. Una volta tanto fui contenta che Roberta fosse arrivata puntuale. A volte non sono molto gentile con Roberta perché mi spaventa il miscuglio di emozioni contrastanti che provo per lei. Non voglio sapere se sia infelice. Quando eravamo ragazzine, Roberta era quella carina e io quella intelligente. Lei non ha mai avuto alcuna possibilità. Indossava vestitini rosa e aveva una fila di bambole sulla mensola della camera da letto; io portavo i calzoni (anche se, con mio disgusto, avevano una fascetta sotto il piede ed erano senza tasche) e leggevo sotto le coperte con la pila. Lei si dipingeva le unghie ben curate con smalto color perla (io me le mangiavo),
lei si metteva dei maglioncini carini e si strappava le sopracciglia. Quando cominciò a crescerle il seno fece con mamma un viaggio speciale da Stacey's per comprare dei piccoli reggiseni carini e delle mutandine da abbinare. Quando le vennero le mestruazioni, gli assorbenti e le macchie di sangue furono circondati da un senso di mistero e di fascino. Era una ragazzina insicura che entrò nella maturità in modo coraggioso e spaventato, come se fosse la sua terribile vocazione. Quando lavoravo settantadue ore a settimana, compreso il weekend, come giovane medico all'ospedale del Sussex, lei faceva la mamma a Chigwell, e mentre io invecchiavo diventando magra e macilenta, lei diventava grassoccia e appassiva. Suo marito la chiamava Bobsie e una volta mi disse che mia sorella faceva le migliori focaccine da tè dell'Essex. Ma poi, che cosa pensava quando mi guardava? Vedeva una dottoressa di successo o una madre sciupata e non sposata con i capelli vistosamente rossi, che stava con un ragazzo volgare che andava e veniva, e che non sapeva neanche fare una quiche quando sua sorella veniva a pranzo? «E ti piace stare con Sam, Fiona?» «Sì.» Finn non aveva quasi toccato cibo. Una volta anoressiche, si è sempre anoressiche, come gli alcolisti e i fumatori. Si era seduta con un mezzo sorriso ansioso sul viso, mentre Danny era stravaccato e faceva lo scemo, io ero di cattivo umore e Bobbie faceva osservazioni brillanti sul fatto che avremmo dovuto vederci più spesso. «Ti piace la vita di campagna o preferisci la città?» Bobbie, che era un'ansiosa in società, sembrava stesse parlando a una bambina di sei anni. «Non sono sicura...» «Zietta.» Elsie aveva voluto sedersi così vicino a Roberta che le era quasi sulle ginocchia. I suoi piccoli gomiti colpivano mia sorella ogni volta che si metteva un cucchiaino di gelato alla stracciatella nella bocca golosa e sporca. «Sì, Elsie.» «Indovina che cosa farò da grande?» Questo era il tipo di conversazione che Bobbie riusciva a sostenere. Distolse il viso dai tre volti adulti allineati davanti a lei. «Vediamo. Il dottore come la mamma?» «Noooo!» «L'infermiera?» «No.»
«La ballerina? «No. Rinunci? La mamma, come te.» «Davvero, cara, è bellissimo.» Danny sorrise e si mise altro gelato nel piatto, e poi lo risucchiò rumorosamente. Gli lanciai uno sguardo furente. «Sei il suo modello, Roberta» fece. Bobbie sorrise incerta. Non la stavamo trattando molto bene, pensai. «Sparecchio» disse, mettendo rumorosamente i piatti uno sull'altro. «Io metto su il bollitore» feci «e poi magari andiamo tutti a fare una passeggiata.» «Io non vengo» disse Danny. «Rimango a casa a riposare, mi sa. È quel che faccio meglio, vero Sammy?» Finn seguì Roberta e me in cucina, portando un paio di bicchieri come scusa. Si voltò verso mia sorella, che stava lavando i piatti vigorosamente. «Dove hai preso quel maglione?» chiese. «È carino e ti sta bene.» Mi fermai in mezzo alla stanza, bollitore in mano. Bobbie sorrise con soddisfazione leggermente imbarazzata. «In un negozietto vicino a noi, a dir la verità. Pensavo che mi facesse troppo grassa.» «Niente affatto» replicò Finn. Fui pervasa da emozioni contrastanti: stupore alla disinvoltura di Finn, vergogna verso di me che trascuravo Bobbie, un'ondata di tenerezza verso mia sorella, che era felice per un complimento tanto banale. Ma poi udii Bobbie chiedere a Finn che cosa stesse studiando. Ci fu un colpo alla porta, un mormorio di voci, e Danny apparve sulla soglia della cucina. «Un certo Baird» disse. «Fallo accomodare. E puoi accompagnare gli altri in soggiorno?» «Mi sembra di essere un fottuto maggiordomo» rispose Danny, lanciando uno sguardo a Roberta. «Voglio dire, un dannato maggiordomo.» Baird entrò in cucina e cominciò a giocherellare con una tazza sul tavolo. «Vuole che ci metta dentro del caffè per lei?» «No, grazie. Il suo aspiratore ha bisogno di essere riparato. Dovrebbe eliminare gli odori della cucina. Potrei dare un'occhiata se vuole. Smontarlo.» Mi sedetti davanti a lui. «Che novità ci sono?» «Passavo di qui.»
«Nessuno passa per caso da Elm House.» «Il dottor Daley dice che la signorina Mackenzie ha mostrato segni di miglioramento.» «Leggermente.» «Non ha detto nulla sul delitto?» «Baird, è successo qualcosa?» «Tutto a posto» rispose formalmente. «Volevo solo vedere come stavate.» «Stiamo bene.» Si alzò in piedi come per andare. «Volevo anche chiederle» continuò come se avesse avuto un ripensamento «di tenere gli occhi aperti in caso notasse qualcosa di insolito.» «Naturalmente.» «Non che debba succedere niente, ma se nota qualcosa di insolito, o se la signorina Mackenzie dice qualcosa, faccia il 999 e chieda di essere messa in contatto con l'estensione 2243 della sede centrale della polizia di Stamford. È il modo più veloce di mettersi in contatto con me in qualsiasi momento, giorno o notte.» «Ma naturalmente non dovrò usare quel numero, perché mi ha spiegato che non corriamo pericoli e che non devo preoccuparmi di nulla.» «Assolutamente. Ed è ancora così, anche se a quest'ora sinceramente speravamo già di aver catturato qualcuno. Questa è l'unica porta che dà sull'esterno oltre a quella d'ingresso?» Afferrò la maniglia e la verificò. Non sembrava molto solida. «Devo far mettere delle sbarre?» «Naturalmente no.» «Baird, non sarebbe utile se mi dicesse da chi dovremmo guardarci?» «Non deve guardarsi da nessuno.» «Ha un sospetto, un identikit o qualcosa del genere?» «Stiamo seguendo varie piste.» «Senta, qui non succederà nulla. Nessuno è interessato a Finn e nessuno sa che si trova qui.» «Questo sì che è lo spirito giusto.» «Per l'amor del Cielo, c'è stato quell'incendio al parcheggio di camion lunedì scorso. Quanti camion che trasportano carne sono andati distrutti? Quaranta?» «Trentaquattro camion hanno subito danni di vario genere.» «Allora non dovrebbe essere fuori a dar la caccia agli animalisti invece
di preoccuparsi di me?» «Credo che alcuni miei colleghi stiano seguendo una pista in quella direzione. A dir la verità...» La frase si perse nel nulla. «Sospettate di qualcuno? Perché è qui?» «Solo una scappata. Me ne andrò ora. Ci manterremo in contatto.» «Vuole vedere Finn?» «Meglio di no. Non voglio innervosirla.» Lo accompagnai alla macchina. Un pensiero mi attraversò la mente. «Ha notizie della signora Ferrer?» «No.» «Voleva vedere Finn, portarle della roba, e pensavo che per Finn potesse essere utile vederla.» «Non credo sia una gran bell'idea al momento.» «Pensavo di andare io a vederla. Sono preoccupata che nessuno le abbia dato una mano. Inoltre mi piacerebbe parlarle della famiglia, di Finn. Potrebbe darmi il suo indirizzo?» Baird rimase in silenzio e tornò a guardare la casa, apparentemente sprofondato nei suoi pensieri. Si strofinò gli occhi. «Ci penserò.» Ci stringemmo la mano e per una frazione di secondo lui me la trattenne. Ebbi l'impressione che volesse dire ancora qualcosa, ma rimase in silenzio e mi fece solo un cenno di saluto. Quando mi voltai per rientrare in casa vidi il volto pallido di Finn alla finestra. Non mi sarei fatta scoraggiare così facilmente. E qualsiasi cosa mi trattenesse per qualche minuto ancora dal ritornare da Danny e Roberto non mi dispiaceva. Sollevai il ricevitore e telefonai a Michael Daley. Capitolo 13 «Come te la stai cavando?» mi chiese Daley. «Con chi?» Si mise a ridere. «Non so da dove cominciare. Con Finn. Con la bambina. Con la vita in campagna. Con un nuovo lavoro importante.» «Bene.» Michael mi stava accompagnando lungo la circonvallazione che portava a Castletown, la zona di Stamford dove viveva la signora Ferrer. Dapprima non si era mostrato convinto, ma poi gli avevo detto che dopo aver in-
contrato la signora Ferrer mi sentivo in parte responsabile di lei. Ero preoccupata dello stato d'animo in cui l'avevo trovata. Inoltre, se voleva vedere Finn la cosa poteva essere positiva per entrambe e volevo incoraggiarla. La signora delle pulizie mi era sembrata abbastanza decisa a rintracciare Finn e a dirle addio. E poi volevo parlarle. E non al telefono. Dopo l'incontro al funerale sapevo che ci sarebbe voluta molta pazienza, e che avrei dovuto ricorrere al linguaggio gestuale per stabilire un contatto con lei che fosse minimamente significativo. «Dammi solo il suo indirizzo e andrò a trovarla domani mattina.» «Penso che di mattina lavori. Se riesci ad aspettare fino al pomeriggio, ti ci accompagno io. Dopo tutto sono il suo medico. Potrebbe essere una visita a domicilio.» Mentre eravamo per strada, Michael mi indicava i resti di fortificazioni romane, le tracce di un assedio durante la guerra civile, un terrapieno antico, ma poi ci lasciammo dietro i siti interessanti e procedemmo tra campi da gioco di scuole, piccoli appezzamenti di terreno, rotatorie, centri commerciali, benzinai, su cui non c'era niente da dire. «Come te la stai cavando?» «Bene» rispose Daley un po' bruscamente. «Perché me lo chiedi?» «Per gentilezza.» «Non c'è bisogno che tu faccia la gentile con me.» «Non mi hai visto quando non sono gentile.» «Saprei come comportarmi.» Michael non distolse lo sguardo dalla strada e non riuscii a vedere l'espressione dei suoi occhi. «Ti dispiace che sia qui?» gli chiesi. «In macchina?» «Qui, sulla scena. In fondo sei tu il dottore di Finn.» «Ti ho già detto di no.» «Sarebbe naturale.» Eravamo di nuovo in una zona residenziale con case a schiera. «Se qui svoltassimo a sinistra, arriveremmo alla vecchia casa dei Mackenzie. E invece gireremo a destra nella parte meno chic di Castletown. Siamo simili, credo, tu e io.» Sorrisi alle sue evidenti lusinghe. «In che modo?» «Ci piacciono le sfide.» «Tu che cosa sfidi?»
«Quando ero bambino, avevo paura delle altezze. Vicino alla mia scuola c'era una specie di torre, un monumento costruito da un vecchio duca eccentrico. C'erano centosettanta gradini e quando si era in cima, sembrava quasi di cadere. Mi imposi di salirci su una volta alla settimana per tutto un semestre.» «E sei guarito dalla paura dell'altezza?» «No. Ma poi sarebbe diventato noioso. Il mio lavoro è solo un lavoro. Se non ci fossero persone come la signora Ferrer, naturalmente. Ma la mia vera vita si svolge in gran parte al di fuori. Mi impongo di fare cose. Di andare in deltaplano. Andare a cavallo. Sei mai andata in barca a vela?» «No, odio l'acqua.» «Non puoi vivere qui e non andare in barca a vela. Devi venire sulla mia barca.» «Beh...» «Questa macchina è un altro esempio. Sai niente di macchine?» «A me non sembra che siamo uguali. Io non faccio mai cose di cui ho paura.» «Dovrebbe essere da queste parti.» «Qui? Ma possiamo parcheggiare?» «Fidati. Sono un medico. Ho l'adesivo di riconoscimento sul finestrino. Sto facendo una visita.» «Vive da Woolsworths?» Eravamo in una strada piena di negozi. La signora Ferrer viveva in una di quelle camere che non si notano, un portone tra negozi che portava a un primo piano che non si sospettava ci fosse. Il portone sulla strada si apriva su delle scale ricoperte da una moquette grigia con cui si arrivava a un pianerottolo con due porte. Una aveva la targhetta di un dentista, l'altra niente. «Dovrebbe essere questa» disse Daley. «Almeno è comoda per la spesa.» Non c'erano né campanello né batacchio. Daley picchiò sulla porta con le nocche. Aspettammo in silenzio, a disagio. Nulla. Bussò di nuovo. Ancora niente. «Forse è al lavoro» dissi. Daley abbassò la maniglia della porta. Si aprì. «Non credo che dovremmo entrare» suggerii. «La radio è accesa.» «Probabilmente si è dimenticata di spegnerla quando è uscita. «Forse non ci sente. Andiamo su a vedere.»
C'erano degli altri scalini, questa volta senza moquette. Quando giunsi in cima il mio volto fu colpito da una vampata di aria calda soffocante. Michael fece una smorfia. «C'è qualcosa che non va con il riscaldamento elettrico?» chiesi. «Forse questo caldo le ricorda la Spagna.» «Signora Ferrer!» chiamai. «Salve. Dov'è la radio?» Michael me la indicò davanti, nella minuscola e squallida cucina. «Cerco la stufetta elettrica» disse. Entrai in cucina, dove la musica rimbombava con suono metallico. Trovai la radio vicino al lavandino, spinsi dei tasti senza esito e allora tolsi la spina dal muro. Sentii un urlo, e dapprima pensai fosse un ultimo rigurgito della radio, poi capii che si trattava del mio nome gridato da Michael: «Sam! Sam!». Corsi nell'altra stanza e mi trovai davanti a una scena complicata e strana. A ripensarci, anche pochi minuti dopo, non riuscivo a ricordare come l'avessi inquadrata mentalmente. Vidi una donna stesa sul letto con tutti i vestiti addosso, una sottana grigia, un golf di nylon dai colori brillanti. Ma senza testa. Sì, c'era una testa, ma era nascosta da qualcosa e Michael stava freneticamente cercando di togliere quella cosa, di strapparla. Era plastica, un sacchetto come quelli in cui si mette la frutta al supermercato. Michael stava spingendo le dita nella bocca della donna e poi spingeva con forza il suo petto e faceva delle cose con le sue braccia. Io mi guardai attorno in cerca di un telefono. Eccolo. Feci un numero. «Per favore un'ambulanza. Che cosa? Dove siamo? Michael, dove siamo?» «Quinnan Street.» «Quinnan Street. Vicino a Woolworths. Sopra, penso. E anche la polizia.» Come si chiamava? Rupert. Rupert come? «Chiami l'ispettore Baird della sede centrale della polizia di Stamford.» Posai il ricevitore e mi guardai intorno. Michael era seduto ora, immobile, e nascondeva quasi tutto il corpo della signora Ferrer. Potevo vederne solo gli occhi aperti, i capelli grigi in disordine. Michael si alzò e mi passò davanti. Udii l'acqua scorrere in cucina. Mi avvicinai al corpo e mi ci sedetti accanto. Le toccai i capelli e cercai di metterglieli un po' a posto, solo che non mi ricordavo da che parte avesse la riga. Chi era rimasto a saperlo? «Mi dispiace» dissi forte a me stessa, a lei. «Mi dispiace davvero.» L'ambulanza arrivò nel giro di cinque minuti, un uomo e una donna in
camice verde entrarono veloci, poi rallentarono e si fermarono dopo un breve esame del corpo. Si guardarono attorno come se si fossero svegliati da un sogno e ci avessero notati per la prima volta. Mentre ci stavamo presentando, arrivarono su dalle scale due poliziotti. Chiesi di Baird e uno di loro parlò in una radio. Sussurrai a Daley, sentendomi in colpa quasi fossi una cospiratrice. «Come è morta?» Ma conoscevo la risposta. Lui era come intontito. «Soffocata.» Avvertii un dolore allo stomaco che saliva dall'esofago e si stava trasformando in un feroce mal di testa. Non riuscivo a pensare con lucidità e volevo solo uscire, anche se sapevo che probabilmente dovevo restare. Mi sentii sollevata qualche minuto dopo alla vista di Baird, che era entrato nella stanza e praticamente l'aveva riempita. Era con un uomo dall'aria distratta, arruffata, che mi fu presentato come il dottor Kale, il medico legale. Con un cenno Baird mi passò davanti e rimase un momento in silenzio accanto al corpo. Poi si voltò verso di me. «Che cosa ci fa lei qui?» mi chiese con tono controllato. «Ero preoccupata per lei. L'ho incontrata una volta e mi sembrava che stesse invocando aiuto. Ma sono arrivata troppo tardi, a quanto pare» risposi. «Non deve rimproverarsi. Non era solo un'invocazione di aiuto. Aveva realmente intenzione di morire... È stato mosso il corpo?» «No. Michael ha tentato di rianimarla.» «La morte è recente?» «Non ne ho idea. È difficile dirlo con questo caldo.» Baird scosse il capo. «Orribile» disse. «Sì» risposi. «Non c'è bisogno che lei stia qui. Nessuno di voi due.» «Penso che dovremmo dirlo a Finn.» «Vorrei farlo io, se siete d'accordo.» Era Michael. «Dopo tutto sono il suo medico.» «Certamente.» Ritornammo a Elm House ma non direttamente. Michael mi condusse al suo studio, dove avevo lasciato la macchina. Poi uscii da Stamford guidando accodata a lui e per tutto il tragitto pensai a una donna che arrivava
dove era stato commesso un delitto, che vedeva sangue e sofferenza, e che trovava tutto troppo pesante da sopportare e non aveva nessuno che la aiutasse, e al fatto che io l'avevo capito ma ero arrivata troppo tardi. Trovammo Finn in cucina con Elsie che tracciava lettere dell'alfabeto. Senza una parola presi Finn ed Elsie per mano e le condussi fuori dove Michael stava aspettando. Tenni Elsie stretta tra le braccia e parlottai con lei della sua giornata a scuola, nello stesso tempo guardando Michael e Finn che camminavano in direzione del mare. Vedevo le loro sagome e dietro di loro le canne arrossate dal sole al tramonto, anche se erano solo le quattro del pomeriggio. Continuavano a parlare e a volte si piegavano l'uno verso l'altra. Infine ritornarono verso di noi e io misi giù Elsie e, sempre senza parlare, Finn mi cadde nelle braccia e mi strinse forte contro di sé, tanto che sentii il suo respiro sul collo. Sentii Elsie che mi tirava da un lato e ci mettemmo tutte a ridere ed entrammo in casa, al riparo dal vento. Capitolo 14 «Sono una tua paziente?» Mi sentii come una madre a cui viene chiesto come nascono i bambini e che ha già pensato quali risposte dare. Per un momento mi sentii divisa tra il desiderio di rassicurare e la responsabilità di essere chiara. «No. Se sei paziente di qualcuno, lo sei del dottor Daley. Ma non devi pensare a te stessa come a una paziente.» «Non sto parlando di me, ma di te.» «Che cosa intendi dire?» «Non so che cosa ci faccio in casa tua. Mi nascondo? Sto fuggendo da qualcosa? Sono una pensionante? Un'amica? Una persona malata?» Eravamo sedute in una specie di bistrò vicino al vecchio porto di Goldswan Green, sulla costa a una mezz'ora di distanza da casa. Era quasi vuoto in quel freddo venerdì di febbraio. Io avevo davanti un piatto di pasta e Finn giocherellava con la forchetta in un'insalata che aveva ordinato come piatto unico. Inforcò una foglia di un tipo di lattuga amara che io trovavo immangiabile e le fece fare un giro nel piatto. «Sei un po' di tutto quel che hai detto, penso. Eccetto una persona malata.» «Mi sento malata. Mi sento sempre malata.» «Sì.» «Tu sei l'esperta, Sam» disse Finn, spingendo l'insalata intorno al piatto.
«Come dovrei sentirmi?» «Finn, da professionista non dico mai alla gente come deve o non deve sentirsi. Ma in questo caso farò un'eccezione.» L'espressione di Finn si fece allarmata. «Che cosa intendi?» «Parlando da autorità nel campo dei disturbi da stress postraumatico ti consiglio vivamente di smetterla di giocare con l'insalata e di raschiare la forchetta sul piatto, perché mi stai dando sui nervi.» Finn abbassò gli occhi di scatto e poi si rilassò e fece un mezzo sorriso. «E inoltre» continuai «potresti prenderne un po' dal piatto e mettertela in bocca.» Finn si strinse nelle spalle, si ficcò l'intera grossa foglia in bocca e la masticò. Provai un senso di sardonico trionfo. «Ecco» feci. «Non è stato tanto difficile, no?» «Ho fame» disse Finn, come se stesse esaminando il comportamento di una creatura esotica. «Eccellente.» «Forse potrei ordinare una porzione della pasta che stai mangiando tu.» «Prendi la mia.» Le spinsi il piatto davanti e lei ci si immerse, quasi eccitata dalla novità di ciò che stava facendo. Per parecchi minuti nessuna di noi parlò. Per me era sufficiente vederla mangiare. «Forse ne ho mangiata troppa, tutta in una volta» disse Finn quando i due piatti furono puliti. «Non era poi tanta. Quel che io avevo dimenticato di mangiare, più che altro. Vuoi il caffè?» «Sì, con il latte.» «Bene, Finn. Qualche altra proteina e calcio. Cominciamo a rafforzarti.» Si mise a ridere, poi si interruppe. «Perché l'ha fatto?» «Chi? La signora Ferrer?» Mi strinsi nelle spalle, poi decisi di rischiare una risposta. «Voleva venire a trovarti, sai? Sarebbe ritornata in Spagna, ma prima voleva vederti.» Mi ritornò alla mente il suo forte desiderio di vedere la «piccola ragazza», poi ripensai a lei che giaceva morta sul letto con quel suo allegro maglione. Il viso di Finn si annuvolò. Sembrava che stesse guardando qualche luogo remoto oltre me. «Mi sarebbe piaciuto, penso che mi avrebbe fatto piacere se lo avesse
fatto. Avrei voluto incontrarla. È stato l'orrore di quel che ha visto, suppongo.» «Qualcosa deve essere stato» dissi in modo assente. «Hai l'aria sospettosa.» «Non intendevo.» «Pensi che sia stata una stupida? Con quel falò?» Quel caotico sabato pomeriggio Danny se ne era andato poco dopo Rupert e Bobbie, aveva preso la valigia e la sacca, ignorato sia Michael che Finn e fatto a me un brusco cenno di saluto. Quando avevo cercato di trattenerlo («So che non è il momento ideale, ma parliamone più tardi»), mi aveva risposto fiaccamente che erano tre giorni che aspettava di parlarmi e che io ero stata irritante e ostile, e non mi ero ancora resa conto che il mio «più tardi» non arrivava mai e che in ogni caso aveva molto da fare a Londra. Al che gli avevo sibilato puerilmente che si stava comportando da bambino. E lui se ne era andato. Stava diventando un'abitudine. Né Finn né Michael dissero nulla ed Elsie sembrò quasi non notare che non era più con noi. Quanto a me, la morte della signora Ferrer e il pensiero costantemente concentrato su Finn, avevano fatto passare Danny in secondo piano. Poi, la domenica mattina successiva, era comparso improvvisamente Michael Daley. Io ero in giardino e stavo accatastando assi, bastoni e vecchi rami per fare un falò, quando la sua Audi si era fermata nel vialetto d'accesso. Lui non era venuto da me, ma aveva tirato fuori dal sedile posteriore una dozzina o più di sacchetti di plastica. Ci stava facendo la spesa? Non eravamo così fortunate. Aveva portato dei vestiti di Finn che la polizia aveva dato il permesso di riprendere. «Dove dovrei mettere tutta questa roba?» gli chiesi mentre trasbordavamo i sacchetti nel corridoio di casa. «Pensavo potesse rappresentare un passo verso il ritorno alla normalità» rispose Daley. «In effetti stavo cominciando a chiedermi per quanto tempo Finn dovesse continuare a girare con i miei jeans arrotolati.» «Mi dispiace, ma non posso rimanere» disse Daley. «Portale i miei ossequi.» «Ossequi? Non ho mai capito che cosa fossero.» «Pensa a qualcosa.» «Ma stai bene?» «Che cosa vuoi dire?»
«Hai perso un'altra paziente.» «È uno scherzo?» chiese e non disse altro. Se ne andò senza nemmeno salutare Finn. La chiamai. «Guarda che cosa ha portato il dottor Daley.» Ne fu visibilmente allarmata. Prese una camicetta di velluto marrone da uno dei sacchetti e la sollevò. «Ho del lavoro da fare fuori» dissi. «Sto bruciando più o meno tutto quel che si riesce a spostare nel giardino. Tu puoi rimanere a rovistare tra le tue cose, se vuoi.» Annuì ma non disse nulla. La lasciai e quando mi voltai indietro, prima di chiudere la porta d'ingresso, la vidi inginocchiata sul pavimento con la camicetta di velluto premuta sulla guancia, come una bambina persa. Per me il giardinaggio sarebbe sempre stato un mistero, ma adoravo fare i falò. Era piovuto e l'intera faccenda era resa più complicata, ma ciò non faceva che aumentare la soddisfazione finale. Avevo accartocciato dei giornali e ne avevo fatto delle palle che avevo inserito in vari punti sul lato di sopravvento della pila di schifezze. Le accesi ed esse crepitarono, fecero una fiammata e si spensero. Guardai nel capanno degli attrezzi e trovai una scatola quasi vuota di carbonella e una bottiglia di benzina che non aveva più odore di benzina. Avvolsi intorno all'intera scatola dei fogli di giornale e la spinsi profondamente in mezzo alla pila di spazzatura. La cosparsi di quel che era rimasto della benzina. Avevo creato un piccolo congegno incendiario e non sapevo se avrebbe dato fuoco alla pila di spazzatura o se semplicemente sarebbe esploso. Accesi un fiammifero e glielo gettai in cima. Ci fu un tonfo sordo, come se un sacco d'allenamento per il pugilato fosse caduto su un pavimento di cemento. Poi si levò una fiammata gialla, si udirono dei crepitii e fui spinta indietro da un cuscino soffice e invisibile di calore contro le guance e la fronte. Provai la consueta eccitazione nel passare dallo stadio in cui il fuoco non prende a quello in cui non si riesce a fermarlo. Cominciai ad alimentare le fiamme con pezzi di legno che trovavo in giardino. C'erano i resti di una palizzata vecchia e grigia e una pila di assi vetuste vicino ai muri sul retro della casa, che cominciarono subito a crepitare nel cuore del calore, facendo volare in aria scintille. Sentii una presenza al mio fianco. Era Finn, il riflesso delle fiamme che le danzava negli occhi. «Bel falò, eh?» dissi. «Sarei potuta diventare una piromane. Anzi, sono una piromane. Non mi vedo a svaligiare una banca o a uccidere qualcuno, ma provo piacere a dar fuoco a qualcosa di grosso e guardarlo mentre bru-
cia. Ma mi devo accontentare di questo fuoco.» Finn mi si accostò e mi mise una mano sulla spalla. Mi sussurrò qualcosa, sfiorandomi l'orecchio con le labbra. Quando ebbe finito arretrò, ma mi rimase vicino. Le vedevo la peluria dorata sulle guance. «Ne sei sicura?» le chiesi. Annuì. «Non preferiresti darli all'Esercito della Salvezza o a qualche associazione del genere?» Scosse il capo. «Non voglio che nessun'altra se li metta.» «Fa' quel che ritieni giusto allora.» Ritornò in casa e un minuto dopo emerse con una bracciata di gonne, vestiti e camicie. Mi passò davanti e la gettò nel fuoco. I tessuti dai colori vivaci si gonfiarono e presero fuoco. Fece un viaggio dopo l'altro. Tra le sue cose ce n'erano di molto belle, gli abiti che doveva essersi comprata dopo aver perso peso, e Finn deve aver sorpreso sul mio viso un'espressione desiderosa, perché interruppe uno dei suoi viaggi per gettarmi sulla testa un cappello floscio e mettermi al collo una sciarpa di cachemire color prugna. Il cappello mi andava perfettamente. «Considerali un acconto per l'affitto» mi disse con un sorriso. Non tenne niente per sé. Quando ebbe buttato tutto, rimanemmo a contemplare il fuoco insieme, osservando i frammenti di nastri e fiocchi che venivano consumati, e io mi sentii leggermente male, come dopo una di quelle gare a chi mangia di più. «Allora adesso che cosa facciamo?» chiese alla fine Finn. «Penso che domani ti porterò a far compere.» «Mi dispiace Sam» disse Finn, sorseggiando l'ultimo goccio di caffè. «Oh, è amaro. Buono. So che sono stata melodrammatica, a bruciare tutto in quel modo. Ma sentivo che dovevo farlo.» «Non c'è bisogno che mi spieghi.» «Sì, lo desidero. È difficile, per me, metterlo in parole, ma quel che provo è una cosa del genere. In un certo senso mi sento contaminata da quelle persone che hanno cercato di... lo sai che cosa hanno fatto. Mi hanno spezzato e cambiato la vita completamente. Capisci che cosa voglio dire? Ci fa piacere pensare che la nostra vita sia su una buona strada. Ma io ho sentito, sento che la direzione ora è stata stabilita da persone che ci odiavano. Dovevo togliermi di dosso tutto e rinascere. Rifarmi. Capisci quello che vo-
glio dire?» «Assolutamente» le risposi con uno studiato tono di comprensione. «Ma sei abituata a farlo, no?» «In che senso?» «Hai sofferto di anoressia, al punto da essere in pericolo di vita. Ma sei riuscita a superarla. Sei capace di reagire e questa è un'ottima cosa.» Feci una breve pausa, chiedendomi quanto potessi procedere su quella strada. «Sai, è buffo. La prima volta che ti ho visto è stata in una vecchia foto; eri grassottella e allegra. Ed eccoti qua, una persona differente, sicura, viva.» La guardai. La mano le tremava a tal punto che dovette posare il coltello. «Odiavo quella ragazzina. La grassa Fiona Mackenzie. Non sento di avere nulla in comune con lei. Mi sono costruita una nuova vita, o almeno lo pensavo. Ma ora mi è difficile accettare le cose belle. Averti conosciuto e aver conosciuto Elsie e tutto ciò. A volte penso che ho conosciuto te ed Elsie tramite... loro. Non so se dovrei parlare di questo. Dovrei parlarne?» Continuavo a provare sentimenti diversi e avevo abbastanza paura di dire cose differenti in momenti differenti. Se avessi discusso il suo caso con un collega avremmo preso in considerazione le diverse opzioni terapeutiche e le varie e molto disputate possibilità di successo di ciascuna. Con uno o due dei miei amici più fidati avrei osservato che nella cura dei disturbi da stress postraumatico eravamo ancora fermi ai tempi medioevali, all'età della superstizione, degli umori, delle febbri malariche e dei salassi. Finn mi guardava cercando quella sorta di autorità che la gente si aspetta dai medici. E io conoscevo abbastanza bene l'argomento da avere meno sicurezze di coloro che lo conoscevano meno. Quasi tutto ciò che la gente pensava di sapere sul trauma e sulla sua cura era sbagliato. La verità pare sia che parlare dell'esperienza faccia star meglio alcuni, peggio altri e lasci indifferenti altri ancora. Non è ciò che piace sentirsi dire dai dottori. Feci un profondo respiro e puntai su quel tanto di verità che potevamo affrontare. «Non so, Finn. Vorrei darti una risposta facile e farti sentire meglio, ma non posso. Voglio che tu sappia che puoi dirmi qualsiasi cosa. D'altra parte, non sono la polizia. Non ti sto dietro per trovare indizi. E non lo dirò mai abbastanza: non sono il tuo medico. Non abbiamo programmi di cure. E se non sarò fedele alla mia grande e nobile professione per un momento, non sarà del tutto negativo.» Allungai un braccio sul tavolo e presi la mano di Finn. «A volte penso che i dottori trovino particolarmente difficile accettare la sofferenza. Hai avuto un'esperienza terribile, indicibile. Tutto ciò
che posso dire è che il dolore diminuirà con il passare del tempo. Probabilmente sarà meglio quando quei bastardi saranno stati presi. D'altro canto, se hai dei sintomi fisici specifici, devi parlarne con me o con il dottor Daley e lui se ne occuperà. D'accordo?» «Più o meno.» «Mi sembra accettabile.» «Sam?» «Sì?» «Sono di impiccio, vero?» «Nella mia vita tutto è sempre stato di impiccio a tutto il resto. Ma ho deciso che tu sei una delle cose belle e questo è quel che conta.» «Non sentirti in dovere di essere carina, Sam. Intanto ti sto impedendo di scrivere il libro.» «Stavo impedendomelo da sola e anche molto bene già da prima che tu arrivassi.» «Di che parla?» «Beh, sai, del trauma, di dò che faccio...» «No, davvero, di che parla?» Socchiusi gli occhi con finta incredulità. Chiamai la cameriera e ordinai altri due caffè. «D'accordo, Finn, l'hai voluto tu. La base del libro è la definizione dello stress postraumatico come malattia. Ci si chiede sempre se una patologia, voglio dire, una particolare malattia, esista veramente prima che sia stata identificata e le sia stato dato un nome latino. Bobbie, strano a dirsi, una volta mi ha fatto una buona domanda. Mi ha chiesto se gli uomini dell'età della pietra soffrivano di stress postraumatico dopo aver lottato con un dinosauro. Le ho subito risposto che non c'erano dinosauri nell'età della pietra, ma la sua domanda ha continuato a ronzarmi per la testa. Sappiamo che gli uomini di Neanderthal hanno subito delle fratture ossee, ma dopo eventi terribili facevano dei brutti sogni, avevano reazioni nevrotiche, mostravano segni di voler fuggire dal dolore?» «E qual è la risposta?» «Chi lo sa. Quel che intendo fare è scrivere una breve storia del disturbo, di come sia stato accostato erroneamente ad altri traumi fisici, e poi analizzerò le incredibili incongruenze delle diagnosi e delle cure attuali in Inghilterra.» «Mi studierai?» «No. E adesso andiamo a spendere un po' di soldi.»
Passammo un paio d'ore di delirio trascinandoci avanti e indietro per l'affollato centro commerciale pedonale di Goldswan Green. Io mi provai un assurdo cappellino con la veletta, che sarebbe stato bene con un vestito nero, calze nere e semplici scarpe nere, tutte cose che non possedevo. Mi comprai, invece, un gilet di velluto blu scuro e feci un pensierino su un paio di orecchini ad anello, finché non mi venne in mente che lo scopo della spedizione era equipaggiare Finn e rivolsi l'attenzione a lei. Trovammo un grande negozio con un po' di tutto e acquistammo indumenti per rivestire Finn da capo a piedi: calze, mutande, reggiseni, magliette, due paia di jeans, uno nero, l'altro blu. La mia tendenza sarebbe stata afferrare frettolosamente le cose quasi a caso e fui impressionata dalla gravità e dalla precisione di Finn. Nelle sue scelte non c'era nulla di frivolo o allegro. Sceglieva i vestiti con la precisione di una persona che si prepara a scalare una montagna, quando anche un mezzo chilo in più può essere di impiccio. Mentre girovagavamo per il negozio notai che una donna ci stava osservando. Mi chiesi se fosse perché stavamo spendendo così abbondantemente e poi non ci pensai più finché non sentii una voce dietro di me. «Sei Sam, non è vero?» Mi voltai con la spiacevole sensazione di non sapere chi fosse la signora che mi si rivolgeva. Mi era familiare, ma non riuscii a collocarla subito. «Salve...» «Sono Lucy, Lucy Myers.» «Salve...» «Di Bart's.» Allora mi ricordai di lei. Christian Society. Occhiali, che non portava più. Era in pediatria. «Lucy, come stai? Mi spiace non averti riconosciuta subito, devono essere stati gli occhiali. L'assenza di occhiali.» «Neanch'io ero proprio sicura fossi tu, Sam, per i capelli. Sono veramente... veramente...» Lucy cercò la parola giusta. «Audaci» disse disperatamente. «Voglio dire, interessanti. Ma so tutto di te. Sei venuta all'ospedale di Stamford.» «Già. Ci lavori anche tu?» «Sì, da anni. Sono nata qui.» «Oh.» Ci fu una pausa. Lucy guardava con aria di attesa Finn. «Oh» feci. «Ti presento Fiona. Fiona Jones. Stiamo lavorando insieme.»
Si salutarono con un cenno del capo. Non avevo voglia di prolungare quell'incontro. «Senti, Sam, mi ha fatto molto piacere incontrarti. Quando sei in ospedale, dobbiamo, ehm...» «Sì.» «Beh, devo procedere con le mie compere.» «Sì.» Lucy si voltò. «Non sei stata molto carina con lei» mi sussurrò Finn mentre ispezionavamo delle giacchette di lana. «Non eravamo amiche, eravamo solo dello stesso anno. Non ho assolutamente intenzione di andare a gettarmi nelle sue braccia come se fossimo amiche del cuore qui, nel mezzo del nulla.» Finn ridacchiò. «Qui voglio vedere le persone solo su appuntamento» aggiunsi. Brandii una giacchetta grigia e gliela diedi. «Ti ordino di comprarla.» «Comprala per te.» «Se lo dici tu.» Ero a letto con gli occhi aperti nel buio. Due giorni dopo sarebbe stato San Valentino. Danny sarebbe venuto con una rosa rossa e un sorriso sarcastico, una parola di rabbia e uno sguardo gentile? Sarebbe mai più ritornato o l'avevo perduto, per noncuranza, senza averlo voluto, solo perché non avevo guardato dalla sua parte? Gli avrei scritto l'indomani, promisi a me stessa; avrei di nuovo aggiustato le cose; e dopo aver preso quella decisione mi addormentai. Capitolo 15 Il mercoledì, quando mi trascinai giù per le scale fredde avvolta nella vestaglia di Danny, che aveva dimenticato nella fretta di andarsene, vidi una lettera sullo zerbino davanti alla porta. Era troppo presto perché il postino fosse già passato e il SAM scritto con una biro blu sulla busta proveniva chiaramente dalla mano di Elsie e non da quella di Danny. Dopo aver alzato il termostato e attaccato il bollitore, infilai un dito sotto la ripiegatura incollata della busta. Dentro c'era un cuore di carta crespa rosa attaccato a un foglio bianco e sotto c'era scritto, in lettere inclinate tracciate da Elsie, ma che erano state chiaramente dettate, una a una, da Finn: «Buon San Va-
lentino. Ti vogliamo bene». Il «noi» mi diede fastidio, ma allo stesso tempo mi commosse. In un momento di debolezza avevo permesso a Elsie di rimanere a casa per un altro dei suoi raffreddori non molto seri ed eravamo sedute, tutte e tre, al tavolo di cucina a mangiare Rice Krispies e pane tostato. Da Danny non era arrivato nulla, né cartoline, né telefonate, nessun segnale che stesse pensando a me. Desiderai non avergli mandato la lettera piuttosto cruda che gli avevo spedito il giorno prima. Insomma, ma in ogni caso a chi importava di San Valentino? A me. Gironzolammo per casa tutta la mattina, senza far nulla di speciale. Finn diede un'occhiata alle lettere che Angeloglou le aveva portato il giorno precedente: lettere che gli amici le avevano scritto e che avevano dato alla polizia perché le fossero consegnate. Formavano un pacchetto piuttosto voluminoso, che lei si era posata con fare un po' misterioso sulle ginocchia. La osservai attentamente per vedere se era turbata, ma sembrava stranamente impassibile. Sembrava che le lettere non la interessassero affatto. Dopo un po' le rimise tutte insieme e le portò in camera sua. E non ne parlò mai con me, né la vidi più guardarle. Finn era rimasta affascinata dall'argomento «trauma», dal suo stesso caso forse, e le parlai degli inizi, degli incidenti ferroviari e dello shock provocato dalle bombe, di come i dottori della Prima guerra mondiale pensassero fosse causato dall'impatto dei colpi di artiglieria. Ero divertita dall'interesse di Finn e anche leggermente preoccupata che nelle sue condizioni questa curiosità non fosse del tutto sana. Avevamo in programma di andare a fare una passeggiata appena fosse spiovuto. Ma non spiovve. Anzi, la pioggia divenne sempre più scrosciante e guardando attraverso le finestre, sembrava di stare dietro una cascata. «È come vivere su un'arca» dissi e naturalmente Elsie chiese che cosa fosse un'arca. Dove dovevo cominciare? «È una storia. Tanto tempo fa Dio, dopo aver creato il mondo, pensò che le cose non stessero andando troppo bene e che la gente si stesse comportando male. Allora decise di far piovere e piovere e piovere per coprire tutto il mondo e uccidere tutti...» Mi interruppi e lanciai uno sguardo ansioso a Finn, che era allungata sul divano. Mi sembrò di essere stata insensibile nei suoi confronti. Come l'aveva presa? Finn non mi stava guardando. Stava guardando Elsie. Scivolò rotolando sul pavimento e si trascinò dove era seduta Elsie, vicino alla scatola dei giocattoli.
«Ma non uccise tutti» continuò Finn. «C'era un uomo che si chiamava Noè e c'erano sua moglie e i suoi bambini, e Dio li amava. Così Dio disse a Noè di costruire una grande barca e di farci salire tutti gli animali che trovava. Come i cani e i gatti.» «E i leoni» fece Elsie. «E i panda. E gli squali.» «No, gli squali no» disse Finn. «Gli squali non avevano problemi. Se la cavavano nell'acqua. Ma gli altri, la famiglia e gli animali, rimasero sull'arca. E pioveva e pioveva e tutto il mondo era coperto dall'acqua, ma loro rimasero al sicuro e all'asciutto.» «Aveva un tetto?» «Sì. Era come una casa su una barca. E alla fine, quando l'acqua si ritirò, Dio promise di non fare mai più una cosa del genere, e sai che cosa fece come simbolo della sua promessa?» «No» disse Elsie a bocca spalancata. «Guarda, te lo faccio vedere. Dove sono i pennarelli?» Finn frugò nella scatola dei giocattoli e trovò delle penne e un blocco di carta. «Vediamo se indovini quello che sto disegnando.» Tracciò una curva cremisi. Poi una linea gialla accanto. Poi una blu. «Lo so» disse Elsie. «È un arcobaleno.» «Giusto. È quel che Dio mise in cielo per sigillare la promessa che ciò non sarebbe mai più accaduto.» «Si può vedere un arcobaleno? Adesso?» «Forse più tardi. Se esce il sole.» Il sole non uscì. Facemmo un pranzo freddo: del buon pane fresco, comprato ancora da cuocere al supermercato. Rimossi la pellicola di plastica da una fetta di formaggio. Dei pomodori da un pacchetto. Aprii un vasetto di sottaceti. Della pasta di semi di girasole. Finn e io dividemmo una grande bottiglia di birra belga. Elsie chiacchierava ma né io né Finn parlammo molto. Birra e formaggio e la pioggia sul tetto. A me bastava. Andai a prendere dei pezzi di legno dal capanno degli attrezzi di fianco alla casa e feci un fuoco nel camino del soggiorno. Quando si sprigionarono le fiamme presi la scacchiera e gli scacchi e li appoggiai sul tappeto. Rifeci una vecchia partita che Karpov aveva giocato contro Kasparov in un campionato, mentre Finn ed Elsie erano sull'altro lato del caminetto. Elsie stava disegnando con feroce concentrazione mentre Finn le raccontava quel che sembrava una storia a voce bassa, con aria cospiratrice. Di tanto in tanto Elsie le rispondeva qualcosa sussurrando.
Abbassai gli occhi sulla scacchiera e mi persi nelle ragnatele strategiche di Karpov, che trasformava il più piccolo dei vantaggi in un attacco irresistibile, e nei balzi impulsivi di Kasparov che diventavano terribili complicazioni, sicura che sarebbe riuscito a emergere. Feci delle variazioni, così mi ci volle molto per finire la partita. Dopo un po', non so bene quanto, udii un tintinnio di scodelle e un aroma caldo e familiare accanto a me. Finn mi si era inginocchiata vicino con un vassoio. Aveva fatto il tè e tostato il pane e preparato un paio di focaccine calde per Elsie. «Come farò a ritornare in un ufficio?» dissi. «Non capisco come tu riesca a immergerti in quel modo in una partita» disse Finn. «Stai rifacendo una partita che qualcun altro ha già giocato?» «Sì. È come osservare un pensiero in azione.» Finn arricciò il naso. «Non mi sembra molto divertente.» «Non penso che divertente sia la parola giusta. Chi ha detto che la vita debba essere divertente? Conosci le mosse?» «Che cosa intendi?» «Che l'alfiere si muove diagonalmente, che il re si muove di una casella per volta e così via.» «Sì, almeno quelle le so.» «Allora guarda qui.» Rimisi velocemente i pezzi nelle loro posizioni iniziali e cominciai a giocare una partita che sapevo a memoria. «Chi vince?» chiese Finn. «I neri. Era un ragazzino di tredici anni.» «Un tuo amico?» Scoppiai a ridere. «No. Bobby Fischer.» «Non ne ho mai sentito parlare.» «È diventato campione del mondo. In ogni modo il suo avversario era troppo sicuro e ha trascurato di valutare come Fischer stava sviluppando il gioco.» Giocai la diciassettesima mossa del bianco. «Guarda la scacchiera. Che cosa vedi?» Finn ci meditò su per più di un minuto con quella grave concentrazione che le era tipica e che mi colpiva tanto. «Mi sembra che i bianchi siano in una posizione migliore.» «Molto bene. Perché?»
«Sia la regina nera che il cavallo sono minacciati. Non può salvarli entrambi. Allora come hanno vinto i neri?» Allungai una mano e mossi l'alfiere lungo la scacchiera. Guardai divertita l'espressione perplessa di Finn. «Quella mossa non serve a nulla, no?» «Sì che serve. Adoro questa posizione.» «Perché?» «I bianchi hanno a disposizione diverse possibilità. Possono prendere la regina o il cavallo. Possono scambiare gli alfieri. Possono non fare nulla e cercare di rafforzare le difese. Qualsiasi cosa scelgano, perderanno in un modo completamente diverso. Dai, prova.» Finn guardò per un momento e poi prese l'alfiere nero. In sole quattro mosse il cavallo diede un meraviglioso scacco matto al re. «Stupendo» disse Finn. «Come ha fatto a prevedere tutto ciò nella sua mente?» «Non lo so. Mi fa male solo a pensarci.» «Non è il mio gioco, però. I pezzi sono tutti allo scoperto. Il mio gioco è il poker. Tutto quel bluffare, quel tener nascosto.» «Non farlo sapere a Danny, altrimenti ti terrà sveglia tutta la notte. In ogni caso, questa è la bellezza del gioco. Degli scacchi, intendo. Due persone sono sedute una di fronte all'altra davanti alla scacchiera. Tutti i pezzi sono in piena vista e si manipolano, si raggirano, si tendono trappole e trabocchetti. Non ci sono nascondigli. Aspetta un momento.» Presi un libro vicino alla scacchiera e andai alla conclusione. «Senti che cosa dice: "Sulla scacchiera le menzogne e l'ipocrisia non sopravvivono a lungo. La combinazione creativa scopre la presunzione della menzogna; la mossa spietata che culmina con lo scacco matto contraddice ogni ipocrisia".» Finn fece una smorfia quasi civettuola. «Mi fa piuttosto paura. Non vorrei essere messa a nudo.» «Lo so. Abbiamo bisogno dei nostri piccoli inganni e delle nostre strategie. Nella vera vita, voglio dire, qualunque cosa essa sia. Gli scacchi sono un mondo differente, dove tutto ciò viene eliminato. Nella partita che ti ho appena mostrato un ragazzino ha indotto un maestro di scacchi adulto a distruggersi sotto gli occhi di tutti.» Vidi che non mi seguiva più. «Una volta o l'altra dobbiamo fare una partita. Ma non oggi.» «Decisamente no» rispose Finn con fermezza. «Non voglio essere alla tua mercé, almeno non più di quanto non lo sia già. Ancora tè?» «Voglio giocare io a scacchi.»
Era Elsie, che aveva finito o abbandonato il disegno. «D'accordo. Come si chiama questo pezzo?» «Non lo so.» «Come fai a ricordarti tutte quelle partite?» mi chiese Finn. «Perché mi interessano.» «Io non ho nessuna memoria.» «Non ci credo. Lascia che ti mostri una cosa. Scegli sette od otto oggetti della stanza e dicci quali sono.» Dopo che Finn l'ebbe fatto, le chiedemmo di uscire per un paio di minuti e poi la richiamammo. Si riaccovacciò a terra con Elsie e me. «Bene, Elsie, quali erano?» Elsie chiuse gli occhi e arricciò la fronte e il nasino rotondo. «Erano un pezzo degli scacchi... e una scodella... e una lampada... e il quadro di una pecora e un pennarello rosa e un pennarello giallo... e le scarpe di Fing e l'orologio di mamma.» «Bravissima» esclamai. «È notevole per una bambina di cinque anni, vero?» disse Finn. «Come ha fatto?» «Si allena» risposi. «Secoli fa la memoria era un'arte che si imparava. Si costruiva una casa mentale e si mettevano le cose in posti differenti di questa casa, e quando le si voleva ricordare, si entrava nella casa e si recuperavano.» «Tu ce l'hai, Elsie?» le chiese Finn. «Sì, ho la mia casa speciale» rispose Elsie. «Allora, dov'era il pezzo di scacchi?» «Sulla porta di ingresso.» «E la tazza?» «Sullo zerbino.» «Come hanno fatto a pensare a una cosa del genere?» chiese Finn. «C'è una vecchia storia, una sorta di mito. Nella Grecia antica un poeta stava recitando a un banchetto. Prima della fine della festa il poeta fu chiamato fuori e qualche minuto dopo la sala del banchetto crollò e tutti morirono. I cadaveri erano così malridotti da essere irriconoscibili perfino dai parenti stretti, venuti a seppellirli. Ma il poeta fu in grado di identificarli, ricordando dove erano seduti. Il poeta ricordava tutti gli ospiti perché li aveva visti in un posto particolare e comprese che quello poteva essere un mezzo per ricordare qualsiasi cosa.» Il viso di Finn si fece pensoso.
«Memoria e morte» disse. «Io non avrei il coraggio di vagare nella casa della mia mente. Avrei paura di quel che potrei trovarci.» «Io no» disse Elsie orgogliosamente. «La mia casa è sicura.» Rimasi alzata fino a tardi. E niente Danny. Capitolo 16 La sera successiva andai a quel che Michael Daley aveva definito un'occasione sociale quando mi aveva invitata ad accompagnarlo. «Volevi che ti introducessi nella società locale» disse, e io dovetti stare al gioco e accettare. Tirai giù degli abiti dalle stampelle e li gettai sul letto. C'era un vestito lungo color ruggine con la vita alta che mi piaceva, ma mi sembrò troppo cupo. Scartai un paio di minigonne nere, il delicato vestito blu con il collo morbido e le maniche a tre quarti che non buttavo mai via e non mettevo mai, i pantaloni larghi di seta che avevano cominciato a somigliare a un pigiama e alla fine mi misi un top di voile nero e una gonna di raso che mi arrivava ai polpacci. Tirai fuori le mie scarpe preferite, nere, basse (sovrasto la maggior parte degli uomini anche così) e con delle vistose fibbie d'argento e mi infilai ai lobi degli orecchini dai colori stridenti. Poi mi esaminai allo specchio: non avevo un'aria molto rispettabile. Mi passai sulle labbra un colpo di rossetto, intonato ai capelli, e nient'altro. Presi dalla parte alta del guardaroba il cappello che mi aveva regalato Finn e me lo ficcai in testa. Avrei voluto fosse Danny a portarmi a quel party; senza di lui mi sentivo abbastanza persa. Dov'era Danny? Avevo inghiottito l'orgoglio e avevo cercato di telefonargli, ma non mi aveva mai risposto, non mi aveva risposto neppure la sua voce sulla segreteria telefonica che mi diceva che non era in casa e che mi avrebbe richiamato non appena possibile. Elsie era già addormentata nel nido del suo piumino. Mi inginocchiai accanto a lei e aspirai il suo aroma pulito: il suo fiato sapeva di fieno e i capelli di trifoglio. La sfiorai inavvertitamente sulla spalla con il cappello e lei fece una smorfia nel sonno e si rannicchiò su un lato, mormorando qualcosa di incomprensibile. I suoi disegni erano appesi dappertutto per la camera e aumentavano ogni giorno. Arcobaleni, uomini con braccia e gambe che spuntavano da teste enormi con occhi storti; animali con cinque zampe; macchie di colori violenti. Finn aveva scritto ordinatamente su o-
gni disegno il nome di Elsie e la data in cui l'aveva fatto. A volte c'era un titolo: degli scarabocchi violacei in cui svolazzavano occhi e mani si chiamavano Mamma al lavoro. Pensai che se fossi morta, Elsie non avrebbe avuto di me un ricordo realistico. Quando per Finn sarebbe arrivato il momento di andarsene, avrebbe sentito la sua mancanza, ma l'avrebbe superata velocemente. Quando entrai, Linda e Finn si voltarono dal divano su cui erano sedute e dove stavano mangiando pop-corn e bevendo Coca-Cola davanti alla televisione. Finn si era risolutamente opposta alle mie reiterate proposte di rimettersi in contatto con i vecchi amici, e tra le due era nata un'amicizia poco probabile, cameratesca e consolatoria. «Vado. Che cosa state guardando?» «Linda ha portato la videocassetta di Balla coi lupi. Sei carina.» Finn mi sorrise dolcemente e si mise in bocca una manciata di pop-corn. Sembrava completamente a suo agio; si era tolta le scarpe e si era accovacciata con addosso una pesante giacca di lana; si era fatta le trecce e sembrava una pre-adolescente. Cercai di immaginarmela grassa, ma non ci riuscii. Kevin Costner completamente nudo, le natiche bianche brillavano in modo attraente. «Che attore irritante» dissi con petulanza. Linda si voltò verso di me scioccata. «È bellissimo.» Di fuori si udì un suono di clacson. Presi il cappotto. «Sarà Michael. Non starò fuori molto, Linda. Prendi quel che vuoi. Finn, ci vediamo domani mattina.» E uscii. Passai dall'aria fredda della notte al calduccio dell'interno della macchina di Michael, incontrando il suo sguardo di ammirazione, stringendomi nel cappotto, abbandonandomi sullo schienale. Adoro essere accompagnata, probabilmente perché non mi capita quasi mai. Michael guidava con decisione e la sua grande macchina scivolava agilmente lungo le stradine anguste. Aveva un cappotto blu scuro sopra un abito scuro e appariva più elegante e rispettabile del solito. Avvertì i miei occhi su di sé e si girò, incrociò il mio sguardo, sorrise. «A che cosa stai pensando, Sam?» Parlai prima che il cervello mi fermasse. «Mi stavo chiedendo come mai non ti sia sposato, non abbia bambini.» Si accigliò. «Mi sembri mia madre. La mia vita è come la desidero. Ecco, siamo
quasi arrivati.» Eravamo a Castletown con i suoi leoni di pietra sui pilastri delle cancellate e i suoi parchi. «Arriveremo tra un paio di minuti.» Mi sedetti un poco più diritta e spinsi indietro una ciocca di capelli che era sfuggita dal cappello. «Quante persone ci saranno?» «Una trentina. Ci sarà un buffet. Laura è una delle consulenti più sopportabili del tuo ospedale. Suo marito, Gordon, lavora a Londra, nella City. Sono molto ricchi. Ci saranno un paio di altri medici.» Michael sorrise con un pizzico di sarcasmo. «Uno spaccato di società di provincia.» Lasciò la strada e si fermò all'inizio del vialetto di accesso. La casa di fronte era spaventosamente imponente. Ero vestita in modo adeguato? «È il tipo di casa in cui immagino vivessero i genitori di Finn» dissi. «È a due passi» rispose Michael e si fece serio per un momento. Scese dalla macchina e venne dalla mia parte ad aprirmi la portiera. Un gesto che Danny non avrebbe fatto. «Laura e Gordon erano molto amici di Leo e di Liz. E ci saranno anche altri amici, suppongo.» «Ricordati, Michael, che io non la conosco.» «Non conosci Finn» fece Michael con un sorriso cospiratore. «Cercherò di ricordarlo.» Mi prese per il gomito e mi condusse lungo un vialetto contornato di rododendri. Fuori della casa georgiana, il cui portico era illuminato da una lampada, c'era una Mercedes. Dietro le tende sottili scorgevo le sagome di gruppi di invitati, udivo il tintinnare dei bicchieri, il ronzio di voci e risate di persone a loro agio. Avrei dovuto mettermi il delicato vestito blu, dopo tutto, e passarmi sulle labbra un rossetto rosa. Michael annusò l'aria con ostentazione. «Ne senti l'odore?» mi chiese. «Di che cosa?» «Dei soldi. È nell'aria. Dappertutto. E noi non possiamo che annusarlo.» Per un momento sembrò amaro. «Non hai mai la sensazione che persone come Laura e Gordon siano all'interno e che noi siamo fuori con i nasi schiacciati contro il vetro?» «Se suoni, forse faranno entrare anche noi.» «Hai rovinato la mia immagine.» Batté un colpo con il pesante batacchio di bronzo e quasi immediatamente una bella signora con riccioli grigio ferro e una gonna di taffettà lunga fino ai piedi venne ad aprire la porta. L'ingresso dietro di lei era ampio e le pareti erano coperte di quadri.
«Michael!» Lo baciò tre volte sulle guance, alla moda francese. «E lei deve essere la dottoressa Laschen. Io sono Laura.» «Samantha» risposi. Aveva una stretta energica. «Grazie di avermi invitato.» «Siamo ansiosi di averla all'ospedale. Non ci vuole più molto, vero?» Ma non aspettò la risposta. Probabilmente non si doveva parlare di lavoro. E non potevo parlare di Finn. Non mi rimaneva molto di interessante di cui parlare. La sala era piena di gente disposta in gruppetti esclusivi, con in mano bicchieri di vino color ambra. Gli uomini erano tutti in scuro; loro corrono dei rischi solo nella scelta della cravatta. Le donne quasi tutte in lungo con lobi e dita coperti di gioielli raffinati. Michael era sorprendentemente a suo agio. Irruppe in un crocchio di quattro persone e disse affabilmente: «Salve, Bill». Un uomo con una fascia di seta avvolta intorno alla vita gli strinse la mano con calore. «Karen, Penny, Judith, vero? Posso presentarvi una nuova vicina? Samantha Laschen, dottoressa. È venuta per assumere la direzione di un nuovo reparto all'ospedale di Stamford.» Ci fu un mormorio di moderato interesse. «Un reparto per i traumatizzati. Pazienti che soffrono di disturbi dopo un incidente, questo genere di cose, vero?» Borbottai qualche sciocchezza. Minimizzare l'industria del trauma era compito mio. Non ero particolarmente entusiasta che lo facesse uno stupido dilettante. Ma queste persone erano dei professionisti della vita sociale. Dopo meno di mezz'ora avevo parlato di giardinaggio con Bill, della vita di campagna paragonata a quella di città con un signore rotondo di cui non scoprii mai il nome. Una donna con un'alta crocchia che si chiamava Bridget mi parlò delle ultime attività degli animalisti. Cani presi da laboratori di ricerca, sabotaggi all'università, vandalismi contro veicoli di agricoltori. «A dir la verità io non mangio carne» mi confessò. «Una volta ho letto un articolo che diceva che i vitelli sono così deboli che non riescono neanche a reggersi in piedi, poverini. E tra l'altro la carne non mi piace poi tanto. Ma queste sono cose diverse. Il fatto è che quelle sono persone di città che non capiscono le tradizioni rurali.» «Come costringere i cani a fumare sigarette?» Mi voltai a destra per vedere chi aveva parlato. Un uomo giovane dall'aspetto malinconico con i capelli tagliati molto corti e gli occhi straordinariamente chiari mi fece un cenno e si allontanò verso un vassoio con i drink. «Non gli badi» disse Bridget «Vuol solo dar fastidio.»
Fui fatta passare con abilità da un gruppo all'altro, mentre donne dalle gonne nere e dalle camicette bianche mi versavano vino nel bicchiere o mi porgevano minuscole tartine con un gamberetto ricurvo nel mezzo o un pezzetto di salmone coperto da qualche filo di aneto, finché non mi ritrovai di nuovo accanto a Laura. «Samantha, le presento mio marito Gordon. Gordon. Samantha Laschen. Ricordi, l'amica di Michael. E Cleo.» Cleo era più alta di me ed era grossa. Aveva un vestito rosso e i capelli, che dovevano esser stati biondi, ora erano di un grigio rugginoso, e le pendevano sciolti lungo il volto anziano e intelligente. «Stavamo parlando di Leo e Liz.» Atteggiai il viso a un'espressione di moderato interesse e mi chiesi se avevo della maionese sul mento. Me lo strofinai, come sovrappensiero. Niente. O me l'ero sparsa dappertutto? «Dovresti ricordare. Leo e Liz Mackenzie, la coppia che è stata assassinata in casa lo scorso mese.» «L'ho letto» dissi. «E la loro figlia, naturalmente, Fiona. Ragazza deliziosa. Lei è sopravvissuta, è stata per un po' all'ospedale di Stamford. Era gravemente ferita e sotto shock, ho sentito dire. Una cosa terribile.» «Già» feci. «Erano nostri amici, quasi vicini di casa. Giocavamo a bridge con loro il primo giovedì del mese. Leo aveva una memoria prodigiosa con le carte.» «Che perdita» disse Gordon, annuendo vigorosamente e atteggiando il volto all'espressione di dolore di routine. Dovevano aver già recitato quella parte di ricordo mescolato a shock. «Che cosa è successo a Fiona?» La domanda venne da Cleo che era riuscita a entrare in possesso di un piatto e si stava servendo di asparagi avvolti nel bacon da un vassoio offerto da una cameriera. «Nessuno sa dove sia al momento. È scomparsa.» «Michael lo saprà, naturalmente.» Gordon si rivolse a me. «È il suo medico curante. Ma è una tomba.» «Com'era Fiona?» Benedissi Cleo che faceva le domande che non osavo fare io, e allo stesso tempo notai che parlavano della ragazza come se fosse morta. «Deliziosa. Aveva i suoi problemi di peso, naturalmente, poveretta. Donald» Laura trattenne per un braccio un uomo cadaverico e lo spinse nella nostra cerchia. «Cleo chiedeva che tipo fosse Fiona. Era amica di tua fi-
glia, vero?» «Fiona?» Corrugò la fronte. Un pezzo di asparago scivolò fuori dal suo involucro di bacon mentre me lo portavo alla bocca e atterrò ai miei piedi. «Fiona Mackenzie, i cui genitori sono stati...» «Ah, Finn.» Ci pensò su un momento. «Abbastanza carina, non rumorosa come tante altre, o sfacciata. Sophie non l'ha più vista da quando se ne è andata, naturalmente, però penso che le abbia mandato una lettera tramite la polizia.» Cercai di cavargli qualcosa di più specifico. «Un'età difficile» dissi. «Ragazzi, feste e cose del genere.» Gettai il mio commento nella conversazione e poi chiusi la bocca con fermezza, come se non avessi parlato. «Ragazzi? Oh, non mi pare che avesse niente del genere. No, come ho detto era molto carina e gentile; un po' succube di Leo, ho sempre pensato. Una cara ragazza.» E ciò fu tutto. Cominciammo la cena alle nove e mezza. Selvaggina e rucola, tortelli ripieni di pesce, spiedini di pollo, una quantità di formaggi diversi dall'aspetto favoloso su un grande piatto di legno, una montagna di mandarini in una fruttiera. Bevvi e mangiai e annuii e sorrisi e per tutto il tempo continuavo a pensare che Finn doveva esser stata in quella casa, e come aveva fatto a venire da quel tipo di mondo dagli alti soffitti ed essersi adattata tanto bene al mio? Mi sedetti su una poltrona gialla, il piatto appoggiato sulle ginocchia, e per un momento fui sopraffatta dall'angoscia che ben conoscevo di non appartenere, non appartenere a quell'ambiente da cui ero voluta fuggire da sempre, e neanche (mi sentii pervadere da un'ondata di panico) alla mia casa, dove una ragazza giovane con i capelli soffici stava badando a mia figlia, cantandole ninnenanne che solo le mamme dovrebbero cantare ai loro bambini. Se fossi stata da sola mi sarei avvolta le braccia intorno al corpo e mi sarei dondolata, l'usuale moto compulsivo per far fronte al dolore al quale spesso ricorrono i miei pazienti. Volevo Elsie e volevo Danny e loro erano tutto ciò che volevo. «Va' a farti fottere, Danny, non rimarrò seduta a piangere e lamentarmi» mormorai tra i denti. «Arancia meccanica?» «Che cosa?» Mi voltai con un sobbalzo, risvegliata dal mio sogno a occhi aperti. Era il tizio con i capelli cortissimi. «I tuoi abiti. In questa sala sembri un personaggio di Arancia meccanica.»
«Non l'ho mai visto.» «Era un complimento. Sembri uno di quei personaggi che fanno irruzione nella casa di persone assolutamente rispettabili e le scuotono un po'.» Esaminai la sala. «Pensi che questa gente abbia bisogno di essere scossa?» Si mise a ridere. «Chiamami pure un liberale guastafeste, ma dopo una serata come questa comincio a pensare che i Khmer Rossi avessero ragione: radere al suolo le città, uccidere tutti quelli che portavano gli occhiali, internare tutti gli altri nei campi e metterli a lavorare la terra.» «Anche tu porti gli occhiali.» «Non sempre.» Ci scambiammo uno sguardo. Dopo averlo conosciuto da trenta secondi potevo dire che era l'uomo più attraente che avessi incontrato dopo aver lasciato Londra. Sollevò il bicchiere in una specie di brindisi ironico, mettendo in mostra l'anello nuziale. Pazienza. «Sei amica di Michael Daley?» «Non siamo proprio amici.» «Il dottore che caccia.» «Che cosa?» «Avrai sentito parlare del dottore volante. E del dottore della radio. E della monaca che canta. Michael Daley è il dottore che caccia.» «Che vuoi dire?» «Quel che ho detto. Cavalca cavalli che corrono dietro ad animali selvatici e a volte li cattura e li squarta. E i cacciatori trionfanti si impiastrano l'un l'altro la faccia con le interiora. Un'altra di quelle tradizioni rurali su cui ti è stata tenuta una lezione.» «Non sapevo questo di Michael. Per qualche ragione non riesco a immaginare che sia un cacciatore.» «A proposito, sono Frank.» «E io...» «So chi sei. Sei la dottoressa Samantha Laschen. Ho letto alcuni dei tuoi articoli molto interessanti sulla costruzione della malattia. E so che stai per metter su un nuovo reparto all'ospedale di Stamford. Sul trauma. La nuova potenziale mucca da mungere dell'amministrazione di Stamford.» «Non è proprio questo lo scopo» dissi con quanta più durezza riuscii a esprimere senza cambiare espressione. I modi ambiguamente indagatori e ironici di Frank mi attraevano e mi indisponevano allo stesso tempo.
«Allora, Sam, dobbiamo andare a prendere un aperitivo in qualche posto vero uno di questi giorni, così potremo discutere di come la funzione e lo scopo di una cosa quale il tuo reparto possano essere differenti da quel che appaiono di primo acchito.» «Mi sembra un po' astratto.» «Come sta andando il reparto?» «Comincerò in estate.» «Allora che cosa stai facendo ora?» «Sto scrivendo un libro e mi occupo di cose varie.» «Cose?» Frank prese non un bicchiere ma un'intera bottiglia di vino bianco da un vassoio che passava e riempì i nostri due bicchieri. Gettai un altro sguardo meditabondo alla sua fede sentendo crescere in me un senso di inquietudine che era solo un altro modo di essere infelice. Lui mi guardò con occhi socchiusi, pensosi. «Sei un paradosso, sai. Sei in casa di Laura e Gordon Sims, ma non sei, grazie al Cielo, un membro del loro circolo di giocatori di bridge e di cacciatori. Arrivi al party con Michael Daley e dici di non essere sua amica. È tutto molto misterioso. Perché un'esperta di stress da trauma...?» «Salve, professore.» Frank si girò. «Oh, ecco il dottore che caccia. Stavo parlando con la dottoressa Laschen dei suoi hobby.» «E le ha accennato ai suoi di hobby?» Mi voltai verso Michael e fui sorpresa di vedere che avesse la mascella tesa per l'ira. Mi lanciò uno sguardo. «Devo spiegarti, Sam, che Frank Laroue è uno dei teorici che stanno dietro tutti gli incendi dei fienili e le proteste per la carne e le irruzioni nei laboratori.» Frank fece un ironico inchino con la testa. «Mi lusinga, dottore, ma non credo che gli attivisti abbiano bisogno di istruzioni da un umile professore come me. È molto più efficace lei piuttosto.» «Che cosa intende?» Frank mi strizzò l'occhio. «Non dovrebbe essere così modesto riguardo alle sue attività ricreative, dottor Daley. Mi permetta di illustrarle. Lei fa il consulente di un comitato segreto informale composto di accademici e poliziotti e altri risoluti citta-
dini, che ha il compito di controllare le azioni e le pubblicazioni di persone come me, interessate ai problemi dell'ecologia, e di molestarci di tanto in tanto pour décourager les autres. Giusto?» Michael non rispose. «Temo sia ora di andare, Sam.» Michael mi prese il braccio, cosa che di per sé mi avrebbe tentato a resistere e rimanere, ma cedetti alla pressione. «Arrivederci» mi disse Frank a voce bassa quando gli passai davanti. «È vero quel che Frank ha detto di te?» gli chiesi quando fummo in macchina. Michael mise in moto l'auto e partimmo. «Sì, vado a caccia. E sì, faccio il consulente di un comitato che controlla le attività di quei terroristi.» Ci fu un lungo silenzio mentre lasciavamo Stamford. «È un problema?» aggiunse infine. «Non lo so. La cosa mi lascia in qualche modo l'amaro in bocca. Avresti dovuto dirmelo.» «Lo so. Mi dispiace.» «Mi sembra tutto così infantile. Spiarsi l'un l'altro.» Michael sterzò bruscamente e frenò fermandosi. Girò la chiave, la macchina sussultò e restò in silenzio. Udivo il dolce sciabordio del mare, di sotto. Si voltò verso di me. Potevo solo vedere la sua sagoma, non l'espressione. «Non è infantile. Ricordi Chris Woodeson, il ricercatore di scienze del comportamento?» «Sì, conosco l'episodio.» «Sappiamo tutti che gli scienziati del comportamento mettono i ratti nei labirinti, no? Ma qualcuno gli ha mandato una bomba in un pacchetto che gli è scoppiata in faccia e l'ha accecato. Ha tre bambini, lo sai?» «Sì, lo so.» «Frank Laroue può essere affascinante, ma gioca con le idee e a volte altre persone le mettono in pratica e lui non si assume la responsabilità.» «Sì, ma...» «Mi dispiace, avrei dovuto dirtelo prima. Baird mi ha pregato di non parlartene, ma te lo dirò ugualmente. C'è una rivista edita dagli animalisti, è illegale e clandestina e pubblica l'indirizzo delle persone che secondo loro torturerebbero gli animali. Ciò diventa un ovvio incitamento alla violenza nei loro confronti. In dicembre è uscito un numero con l'indirizzo di Leo Mackenzie, il miliardario dell'azienda farmaceutica.» «Per l'amor del Cielo, Michael, perché non mi hai informata? Baird ha
parlato degli animalisti solo in modo vago, come di una possibilità; non ha mai accennato a una connessione diretta.» «Non è stata una mia decisione.» Non riuscivo a vedere la sua espressione. Era pentito? Orgoglioso? «Se lo sapevate, non riesco a capire come abbiate fatto a pensare che fosse una buona idea ficcare Finn in mezzo al deserto insieme a me e a Elsie.» «Non l'avremmo presa in considerazione se non avessimo pensato che fosse una soluzione sicura.» «E facile per te dirlo.» «Forse dovrei dirti che la prima persona a parlarmi di questo numero della rivista è stato Paul Carrier, uno dei detective che indagano sugli animalisti. Non mi aveva telefonato per avvertirmi che c'era l'indirizzo di Leo.» «No? E per quale ragione allora? Il mio indirizzo, presumibilmente. È proprio ciò di cui ho bisogno.» «No, avevano pubblicato il mio: nome e indirizzo.» «Il tuo?» Mi sentii pervadere dall'imbarazzo. «Dio, mi dispiace.» «Non importa.» «E che cosa fai al riguardo?» Michael accese il motore e ci rimettemmo in moto. «Chiudo la porta di casa con due giri di chiave, e questo è praticamente tutto. Non preoccuparti, sono forte.» «Tutta quella caccia.» «Faccio anche altre cose. Devo farti vedere la barca. Dobbiamo farci un giro di un'intera giornata. Andarcene da tutto questo.» Mormorai qualcosa. «Che programmi hai per sabato?» Mormorai qualcos'altro. «Verrò a prenderti dopo colazione.» Quella notte non riuscii a dormire. Mi infilai la vestaglia, quella di Danny, carica del suo odore nelle pieghe di spugna, e mi sedetti accanto alla finestra della mia camera ad ascoltare il mare. Probabilmente piansi. Se Danny fosse entrato nella stanza in quel momento l'avrei spinto sul letto senza una parola. E l'avrei svestito lentamente e baciato teneramente e avrei coperto la sua nudità con il mio corpo, aprendo la vestaglia e affondando in lui, attirandolo a me, guardandolo in viso per tutto il tempo. Gli
avrei chiesto di portarci via, di vivere con noi, di sposarmi, di darmi un bambino. Mi addormentai all'alba. Capitolo 17 «Una mucca da mungere?» Geoff Marsh sembrava divertito, quasi lusingato dalla definizione. «È quel che mi ha detto il tizio.» «Non dovresti prestar fede a tutto ciò che ti dice uno sconosciuto a una festa. Chi era?» «Un certo Frank Laroue, un professore.» Geoff Marsh fece un sorriso sornione, come se la sapesse lunga. «Lo conosci?» «Certo che lo conosco. Laroue probabilmente crede che tutta la medicina occidentale sia un complotto capitalista per mantenere i lavoratori in cattiva salute, ma in questo caso non ha tutti i torti. Lo stress postraumatico è un'area in crescita, senza dubbio.» Era il lunedì dopo il party e Geoff e io stavamo facendo una colazione di lavoro con caffè e croissant. Avevo maliziosamente nominato Laroue a Geoff ed ero sorpresa che l'avesse preso seriamente. «Non ci possono essere molti investimenti in questo campo» dissi. Marsh scosse il capo vigorosamente e inghiottì un boccone di croissant. «E invece sì, anche se la cosa ti stupisce. Hai visto la scorsa settimana la sentenza sul trauma subito dai pompieri di Northwick? Hai visto i danni e i costi? Cinque milioni e rotti?» «È andata bene ai pompieri.» «È andata bene a noi. Sospetto che d'ora in avanti le società di assicurazione insisteranno su una polizza preventiva di assistenza in casi di stress postraumatico che li tuteli contro cause future. E noi abbiamo la possibilità di essere i primi sul mercato a fornire questo tipo di assistenza.» «Pensavo che lo scopo di questo reparto fosse quello di soddisfare un bisogno terapeutico e non di proteggere gli investimenti delle società di assicurazione.» «Tutt'e due le cose, Sam. E tu dovresti essere orgogliosa di questo potenziale. Dopo tutto il reparto è il tuo bambino.» «A volte mi sembra che il mio bambino non stia crescendo come progettavo io.» Geoff finì il caffè e il suo viso assunse un'espressione sentenziosa.
«Beh, devi pur permettere ai tuoi figli di prendere la loro strada.» «Grazie, dottor Spock» risposi acidamente. «Il bambino deve ancora nascere.» Geoff si alzò e si pulì le labbra con un tovagliolo. «Sam, voglio mostrarti una cosa. Vieni qua.» Mi condusse a una finestra del suo spazioso ufficio d'angolo e mi indicò un punto del terreno dell'ospedale in cui alcuni uomini con degli elmetti arancioni stavano sconsolatamente intorno a una baracca di cantiere. «Ci stiamo espandendo» disse. «Stamford si sta espandendo. Siamo nel posto giusto. Vicini a Londra, vicini all'Europa, vicini al verde. Ho un sogno, Sam. Immagina che quest'azienda ospedaliera possa realizzare le sue potenzialità in pieno ed essere quotata in Borsa. Potremmo diventare la Microsoft della sanità.» Seguii il suo sguardo inorridita. «Suppongo che ora mi chiederai di trasformare i sassi in pane. Sfortunatamente non posso stare tutti i quaranta giorni qui nel deserto perché devo ritornare a lavorare al mio cosiddetto libro.» Geoff sembrò confuso. «Di che cosa stai parlando, Sam?» «Niente, Geoff. Ci vediamo la prossima settimana, di ritorno nel mondo reale.» «Questo è il mondo reale, Sam.» Mentre percorrevo la strada di ritorno che ora conoscevo bene, pensai tristemente che forse aveva ragione e poi pensai al resto del mio mondo, a Elsie, Danny, Finn, al mio libro e mi sentii ancor peggio. Elsie era a scuola, Danny era Dio sa dove e quando arrivai a casa Finn era seduta sul divano con una rivista in mano che non leggeva. Lanciai uno sguardo angosciato al mio posto di lavoro, poi feci un profondo respiro e andai da lei. «Passeggiata?» suggerii. Ci incamminammo in silenzio, girando a sinistra e procedendo parallelamente al mare per più di un chilometro, poi svoltammo bruscamente di nuovo a sinistra. Camminavamo lungo il bordo di un campo arato con dei solchi così larghi da sembrare quasi canali. Davanti a noi non c'erano nient'altro che file sottili di alberi diritti quasi fossero uno steccato, una difesa contro il vento, immaginai. Ero sprofondata nei miei pensieri. Era il 19 febbraio. Finn era da noi da quattro settimane. Ne rimanevano ancora due, forse tre, prima che la cosa finisse. Ma per Elsie una sistemazione temporanea era diventata la vita.
Adorava trovarci di sotto tutte e due la mattina (Finn con la mia vecchia vestaglia, io con i vestiti da casa) sedute al tavolo della cucina a bere il caffè chiacchierando. Adorava che la accompagnassi a scuola tutte le mattine e rimanessi sulla porta della classe con gli altri genitori e poi la baciassi velocemente sulla guancia fredda quando suonava la campanella e le dicessi: «Verrò a prenderti questo pomeriggio». E ogni giorno, quando la campanella suonava di nuovo, alle tre e quaranta, usciva di corsa con il cappotto e la cartelletta di cartone e di solito un foglio di carta con delle macchie colorate sopra, e vedevo che era molto contenta di essere come gli altri bambini. Stavo perfino attenta a mettermi vestiti meno eccentrici quando andavo a prenderla. Cercavo di chiacchierare con le altre mamme su shampoo antipidocchi e vendite di beneficenza della scuola. Per un po' anch'io desiderai che ci fondessimo nello scenario. All'ora del tè Finn preparava a Elsie il pane tostato con il miele; era diventato una specie di rito. All'ora della nanna entrava in punta di piedi nella stanza di Elsie e le augurava la buona notte, mentre io le leggevo delle fiabe. Mi resi conto a un certo punto che ci faceva sentire una vera famiglia, invece che una madre e una figlia, in un modo che Danny non era mai riuscito a fare. Ma mi resi anche conto che a Danny non avevo mai permesso di farlo. Ma anche per Finn come pure per me era un'esistenza falsa, da favola. Presto lei sarebbe dovuta ritornare al suo mondo popolato da amici e avvocati, voti agli esami, impegni, feste, competizione, sesso, università, incertezze e sofferenze. Raggiungemmo una chiesetta austera, poco più grande di una scatola, con una sola finestra sulle mura grigie e un cartello fuori che diceva che risaliva al Diciottesimo secolo, che in seguito era stata usata come fienile, stalla e, secondo la tradizione locale, come ripostiglio per le botti di vino di contrabbando, e di non gettare spazzatura, per favore. Chiesi a Finn apertamente se avesse pensato a quel che avrebbe fatto. Lei si strinse nelle spalle, diede un calcio a un sasso sul sentiero, affondò le mani ancor più profondamente nelle tasche. «Non puoi stare qui, lo sai. Il mio lavoro inizia tra un paio di mesi. E poi la tua vita non è qui.» Borbottò qualcosa. «Che cosa?» Le lanciai un'occhiata, aveva la faccia piegata contro il vento, imbronciata. «Ho detto» rispose con rabbia «che la mia vita non è da nessuna parte.» «Senti, Finn...»
«Non voglio parlarne, d'accordo? E tu non sei mia madre.» «A proposito» dissi nella maniera più prosaica possibile, urtata dal tono della sua voce «domani a pranzo verrà mia madre.» Finn alzò gli occhi. Non aveva più segni di collera in viso. «Com'è? Ti somiglia?» «Non credo.» Mi fermai e sorrisi. «O forse sì, più di quanto mi faccia piacere credere. A me sembra che assomigli di più a Bobbie. Molto rispettabile. E assai poco contenta che io non sia sposata. Lo trova imbarazzante davanti alle sue amiche.» «Vorrebbe che ti sposassi con Danny?» «Mio Dio, no.» «Ritornerà presto Danny?» Scrollai le spalle e ci riavviammo, riprendendo il grande, lento cerchio che ci avrebbe riportate a casa. «Sam? Chi era il padre di Elsie?» «Un uomo simpatico» risposi seccamente. Poi mi addolcii e mi stupii di raccontare a Finn ciò che non avevo detto quasi a nessun altro. «È morto pochi mesi prima che Elsie nascesse. Si è ucciso.» Finn non disse niente. Era l'unica risposta sensata. Vidi un'opportunità. «Tu, Finn, non parli mai del tuo passato. Lo capisco. Ma dimmi almeno una cosa. Una cosa che è stata importante per te, una persona, un'esperienza. Una cosa qualsiasi.» Finn continuò a camminare senza dar segni di avermi udita. Temetti di averla contrariata. Dopo un centinaio di metri parlò, sempre camminando, sempre guardando diritto davanti a sé. «Hai saputo di come ho passato l'anno scorso?» «Mi hanno detto che hai viaggiato in Sud America.» «Sì. Ora tutto mi sembra così vago e lontano che non riesco quasi più a distinguere un Paese dall'altro. È stato un periodo strano per me, una specie di convalescenza e di rinascita. Ma mi ricordo una cosa. Sono stata in Perú e sono stata a Machu Picchu, che era un luogo importante per l'impero inca. Se ci si va quando c'è la luna piena, si pagano sette dollari per un boleto nocturno e si può visitare il sito di notte. Io sono andata a vedere l'Intihuatana, l'unico calendario di pietra che non è stato distrutto dagli spagnoli, e sono rimasta là, al chiaro di luna, a pensare alla luce e al modo in cui gli imperi decadono e muoiono come le persone. L'impero inca è scomparso. Come pure quello spagnolo. Pensavo che tutto ciò che era rimasto erano quelle rovine, e quella bellissima luce.»
Non avevo mai sentito Finn parlare in quel modo prima e ne fui profondamente commossa. «Finn, è meraviglioso. Perché me l'hai voluto raccontare proprio ora?» «Me l'hai chiesto tu» rispose e io sentii una gelida punta di rifiuto nei miei confronti, o forse era solo il vento che soffiava gelido dal Mare del Nord. Quando arrivammo in vista della casa, Finn mi chiese; «Che cosa le farai per pranzo?». «Che cosa farò loro. Viene anche mio padre. Non lo so, andrò al supermercato a comprare qualcosa di già pronto.» «Posso cucinare io?» «Cucinare, tu?» «Sì. Mi piacerebbe. E potremmo invitare anche il dottor Daley?» Mi sorpresi a notare in me un briciolo di risentimento per il fatto che Finn continuasse a essere affezionata a Michael Daley, Era comprensibile. Lui rappresentava un legame con la normalità, era bello, era il dottore di famiglia. E tuttavia, perversamente, la mia vanità avrebbe voluto che Finn dipendesse solamente da me, anche nel momento in cui mi riproponevo con decisione che se ne andasse nel giro di un paio di settimane. «Gli telefonerò.» «E Danny?» «Forse Danny no, questa volta.» Per un momento ebbi davanti agli occhi il volto notturno di Danny, tenero e ispido e senza l'abituale ironia del giorno, il volto che speravo mostrasse solamente a me, e sentii un doloroso fremito di desiderio. Non sapevo nemmeno dove fosse. Non sapevo se fosse a Londra o da un'altra parte. Che cosa diavolo stavo facendo, in ogni modo, in quella palude desolata ad aiutare una ragazza traumatizzata e nel frattempo perdere il mio uomo? Questo senso di disagio mi perseguitò per tutta la giornata come una nube oscura e non si dissipò neanche quando andai a prendere Elsie a scuola. Anche lei era di malumore e cercai di rallegrarla raccontandole che avevo visto con Finn una chiesa che nei tempi antichi era stata un ripostiglio segreto dei pirati, dove tenevano i tesori che sbarcavano dalle loro navi. «Che tesori?» «Corone d'oro e collane di perle e orecchini d'argento. Li seppellivano e poi tracciavano una mappa e la firmavano con il sangue.» Ritornammo a casa ed Elsie decise di disegnare la sua mappa del tesoro.
Finn e io ci sedemmo in cucina con le tazze del caffè mentre Elsie si accovacciò sul tavolo, la fronte aggrottata, un pezzetto di lingua che le sporgeva da un angolo della bocca, e usò praticamente tutti i colori della sua scatola di pennarelli. Il telefono suonò e Linda andò a rispondere. «È per te» gridò dal piano di sopra. «Chi è?» «Non so.» Sbuffai e andai a prendere la telefonata in soggiorno. «La dottoressa Laschen?» «Sì, chi parla?» «Frank Laroue. Mi ha fatto piacere conoscerti sabato e speravo che ci potessimo incontrare di nuovo.» «Una bella idea» risposi con calma, mentre venivo assalita dal panico. «Che cosa proponi?» «Potresti invitarmi a prendere il tè nella tua nuova casa? Mi piace vedere le case della gente.» «E tua moglie?» «Mia moglie è via.» «Mi dispiace, ma casa mia non è in condizioni da poter essere vista in questo momento. Che ne diresti di un drink in città?» Ci accordammo su una data e un luogo e riappesi il ricevitore prima di cambiare idea. Mi chiesi se farne parola a Michael Daley, ma scartai subito l'idea. Dovevo andare a fare un giro sulla sua barca e ciò bastava. Dovevo a me stessa un po' di svago, e che Danny andasse a quel paese. «Siamo come tre pirati, non ti pare, Elsie?» disse Finn quando ritornai in cucina. «Mamma, io e te.» «Sì» fece Elsie. «È finita?» «Sì.» Mi misi a ridere. «Allora, firmiamo tutte e tre la mappa del tesoro, tu, io e Finn?» Gli occhi di Elsie si illuminarono. «Dai» rispose con entusiasmo. «Allora troviamo il pennarello rosso.» «No» disse Elsie, «Con il sangue. Dobbiamo firmare con il sangue.» «Elsie!» feci aspramente, lanciando uno sguardo preoccupato a Finn. Finn si alzò e se ne andò. «Elsie, non devi dire queste cose.» Finn ritornò in cucina e si sedette accanto a me.
«Guarda» disse. Teneva un ago tra il pollice e l'indice. Sorrideva. «Non importa, Sam. Sto meglio. Non sono ancora completamente a posto, ma sto meglio. Guarda, Elsie, è facile.» Si punse la punta del pollice sinistro, poi si piegò in avanti e fece cadere una goccia rossa sulla mappa di Elsie. Con la cruna dell'ago tracciò approssimativamente una «F». «Ora tocca a te, Sam.» «No, io odio gli aghi.» «Ma se fai la dottoressa!» «È per questo che lo sono diventata, per pungere gli altri.» «Dammi la mano» disse Finn con fermezza. «Non ti preoccupare, ho preso un altro ago per te.» Le diedi con riluttanza la mano sinistra e mi ritrassi quando mi punse la punta del pollice. Poi spremette una goccia del mio sangue sul foglio. «Suppongo di dover scrivere Samantha» borbottai. «Basterà una "S"» rispose Finn ridacchiando. «Ora tocca a Elsie» disse Finn. «Io uso il sangue di mamma» rispose lei con decisione. Finn fece cadere un'altra goccia dal mio pollice ed Elsie la sparse in una macchia che sembrava un lampone calpestato. Contemplai il mio pollice. «Fa male» dissi. «Fammi vedere» fece Finn. Mi prese la mano e guardò il pollice. C'era un puntino rosso e lei si chinò e lo leccò con la punta della lingua, guardandomi con i suoi grandi occhi scuri. «Ecco, ora siamo sorelle di sangue.» Capitolo 18 «Sam, Sam, svegliati.» Un sussurro vicino all'orecchio mi fece uscire bruscamente dalla matassa intricata dei sogni e affiorare davanti a un volto pallido, un lamento terrorizzato. Mi alzai a sedere e lanciai un'occhiata ai numeri verde pallido della radiosveglia. «Finn, sono le tre del mattino.» «Ho sentito qualcosa fuori. C'è qualcuno là fuori.» Aggrottai la fronte incredula, ma poi anch'io udii qualcosa. Uno scricchiolio. Mi alzai, completamente sveglia, nella notte fredda e nera come pece. Presi Finn per mano e andai di corsa, lungo il corridoio, nella camera di Elsie. La presi, piumino, orsacchiotto e tutto, e la portai in camera mia
con il pollice ancora in bocca e un braccio che penzolava. La depositai sul letto, dove brontolò qualcosa, si arrotolò nel piumino con l'orsacchiotto e riprese a dormire. Sollevai il telefono. Nove nove nove. «Pronto, in che cosa posso esserle utile?» Non riuscivo a ricordare il numero che Baird mi aveva dato. Mi veniva da gridare per la frustrazione. «Chiamo da Elm House, vicino a Lymne. C'è un intruso. Abbiamo bisogno della polizia. Per favore avverta l'ispettore Baird della sede centrale di Stamford. Sono Samantha Laschen.» Mio Dio, volle che le ripetessi il nome lettera per lettera. Perché non mi chiamavo Smith o Brown? Quando ebbe finito, riappesi il ricevitore. Pensai al rapporto dell'autopsia dei Mackenzie e mi sentii la pelle come coperta di insetti striscianti. Finn era stretta a me. Qual era la cosa migliore da fare? Mi ronzavano per la mente diverse possibilità. Barricarci nella stanza da letto? Andare di sotto da sola e cercare di ostacolare l'intruso finché non arrivava la polizia? Improvvisamente capii che l'unica persona di cui mi importava era Elsie. Non era lei ad averlo chiesto, nulla di ciò che stava succedendo era sua responsabilità. Sarebbe stata più sicura se fossi riuscita a separarla da Finn? «Finn, vieni con me» le sibilai. Avevo la vaga idea di prendere un'arma da qualche parte, ma poi, troppo presto perché fossero arrivate in seguito alla mia chiamata, udii delle automobili, il rumore di ghiaia che scricchiolava sotto le ruote, vidi dei fasci di luci. Guardai fuori della finestra. C'erano delle macchine della polizia, delle sagome scure che si muovevano, un cane. Andai da Finn e la tenni stretta, mormorandole qualcosa nei capelli. «Tutto bene, ora, Finn. Sei al sicuro. C'è la polizia. Sei stata brava, molto brava. Ora puoi rilassarti.» Ci furono dei colpi alla porta. Guardai fuori della finestra. Sul vialetto d'accesso c'era un gruppo di poliziotti in uniforme e un secondo gruppo era poco più lontano. E stava arrivando un'altra macchina. Corsi giù per le scale, infilandomi una vestaglia, e aprii la porta. «Tutto bene?» mi chiese il poliziotto alla porta. «Sì.» «Dov'è Fiona Mackenzie?» «Di sopra, con mia figlia.» «Possiamo entrare?» «Certo.» L'uomo si guardò intorno.
«Andate a controllare il primo piano» ordinò. Due poliziotti, uno dei quali donna, mi passarono davanti sfiorandomi e salirono le scale di corsa, sbattendo rumorosamente i piedi sul legno. «Che cosa sta succedendo?» «Abbia pazienza un minuto» disse il primo poliziotto. Un altro gli si avvicinò di corsa e gli bisbigliò qualcosa all'orecchio. «Abbiamo acciuffato un uomo. Dice che la conosce. Può venire a identificarlo?» «Sì.» «Vuole vestirsi?» «Non importa.» «Venga di qua, allora. È seduto in macchina là fuori.» Il cuore mi batteva quasi dolorosamente mentre mi avvicinavo alla macchina e poi non potei fare a meno di scoppiare a ridere. Immobilizzato fermamente tra due poliziotti c'era un Danny tutto arruffato. «Tutto bene» dissi. «E un amico. Un caro amico.» I poliziotti lo lasciarono andare con una certa riluttanza. Vidi che uno di loro si teneva un fazzoletto sul naso. «Molto bene, signore» fece l'altro. «Fossi in lei in futuro eviterei di nascondermi nei giardini altrui in piena notte.» Danny non rispose. Guardò sia loro sia me in cagnesco e si incamminò verso la casa. Lo raggiunsi alla porta di ingresso. «Che avevi in mente?» «Il mio fottuto camioncino si è rotto al villaggio, così sono venuto a piedi. Qualcuno mi ha afferrato e io gli ho mollato un pugno.» «Sono contenta che tu sia venuto, oh, mio Dio, quanto sono contenta» dissi e gli misi le braccia intorno alla vita. «E mi dispiace.» Il petto mi si sollevò in una risata più simile a un singhiozzo. Sulla ghiaia dietro di me udii un altro scricchiolio. Mi voltai e vidi una macchina senza insegne della polizia arrivare e fermarsi. La portiera si aprì e ne emerse una figura imponente. Baird. Venne verso di noi incespicando. Si fermò ed esaminò Danny con occhi annebbiati. «Che fottuto acquazzone» disse ed entrò in casa passandomi davanti. «Ho bisogno di un fottuto caffè.» «I suoi uomini sono arrivati a una velocità incredibile» dissi. Baird era seduto al tavolo con la testa tra le mani. Danny era in piedi in un angolo dall'altra parte della cucina con un bicchiere di whisky in una mano, e la bottiglia, da cui ogni tanto attingeva, nell'altra. «Si trovavano già in zona» rispose Baird.
«Perché?» «Ho saputo che ha conosciuto Frank Laroue.» «Gliel'ha detto Daley?» «Lo riteniamo un soggetto pericoloso. E ora l'ha contattata.» Ebbi un momento di confusione. «Che cosa...? Mi avete messo il telefono sotto controllo?» «È una precauzione ordinaria.» «Maledizione» fece Danny e uscì. «Che cosa sa?» chiese Baird. «Che cosa so io? Perché non mi avete messo al corrente di tutto ciò? Laroue è sospettato?» Baird aggrottò le sopracciglia e lanciò un'occhiata all'orologio. «Diavolo, penso che sia probabile che gli assassinii dei Mackenzie siano collegati all'ondata di terrorismo che ha colpito la regione di Essex intorno a Stamford. Temevamo una qualche azione contro Fiona Mackenzie. Per favore, faccia le mie scuse al suo amico.» Si alzò per andarsene. «Per sua informazione, domani...» Si arrestò e fece un debole sorriso. «Anzi, oggi prenderà il via un'operazione condotta da un mio collega, Carrier, che implicherà degli arresti nella contea. Tra gli arrestati ci sarà Frank Laroue, che sarà accusato di cospirazione e incitamento alla violenza.» «Mio Dio! Allora penso che dovrò rimandare l'aperitivo che dovevamo prendere insieme.» «Non è stata una decisione particolarmente prudente» disse Baird. «A ogni modo sono convinto che ora lei non corra più alcun pericolo.» «E se non sono stati gli animalisti a uccidere i Mackenzie?» «In tal caso gli assassini erano probabilmente dei ladri.» «Che cosa hanno rubato?» «Qualcosa deve essere andato storto. Sono stati disturbati. Comunque sia, ora non corre più pericoli.» «No, non credo. I miei genitori vengono a pranzo oggi.» Alle dieci di mattina ci fu un timido colpo alla porta. Mi trovai davanti un giovanotto magro, quasi un ragazzino, con i capelli legati in una coda di cavallo, un sorriso nervosamente adorante sulle labbra e un sacchetto in mano. Quando mi vide il sorriso svanì. «La signorina Fiona voleva della verdura» mi disse e mi spinse il sacchetto in mano. «Veri ortaggi, che cosa succederà poi?» chiese Danny. «Un vero pranzo,
per caso?» Finn ed Elsie uscirono dalla cucina. Avevano entrambe le maniche arrotolate ed Elsie aveva uno strofinaccio legato in vita a mo' di grembiule. «Perché non andate a farvi una passeggiata prima che tua madre arrivi?» propose Finn. Era quella la ragazza che solo un paio di settimane prima non riusciva a mettere insieme due parole di seguito? Indossava i nuovi jeans blu scuri e una camicia bianca di cotone, i capelli scuri pettinati all'indietro e legati con un nastro di velluto. Il viso era abbronzato per le passeggiate al vento e arrossato dal calore del forno. Aveva l'aspetto pulito e giovane e dolce con quelle membra flessuose, le spalle magre e forti; sapevo che se le fossi andata vicino avrei sentito profumo di sapone e borotalco. Mi fece sentire vecchia e appassita. Venne avanti e mi prese il sacchetto dalle mani, sbirciandoci dentro. «Patate» disse. «E spinaci. Proprio quello che ci voleva, eh, Elsie?» «Chi era quel ragazzo?» chiesi. «Roy, il figlio di Judith» rispose gaiamente. Conosceva molta più gente locale di me. Fece una risatina. «Penso che sia un po' innamorato di me» aggiunse e arrossì dalla radice dei capelli alla gola, su cui la cicatrice stava scomparendo. Danny le lanciò un'occhiata mentre si allontanava. «Ha un bell'aspetto.» «Tu e quel ragazzo con la coda di cavallo» feci io. Danny non rise. Fuori il cielo era di un celeste brillante, e benché qualche giorno prima avesse nevicato, una spruzzata di piccoli fiocchi malefici lungo i solchi rossi dei campi, l'aria era tiepida. Avevo spento il riscaldamento e aperto le finestre. Nel giardino, tra le erbacce e gli arbusti, si vedeva luccicare una fila di giunchiglie e di tulipani ancora chiusi. «Allora, ci facciamo questa passeggiata?» chiese Danny. «Quando arrivano i tuoi genitori?» «Abbiamo due ore buone. Possiamo attraversare Stone-on-Sea e arrivare sulla costa per di là.» In realtà, per via della diga, Stone-on-Sea già da molto non era più sul mare, ma stava in mezzo a una zona paludosa e desolata cosparsa di strani moli circondati dalla terra. L'aria era così tiepida che non c'era neanche bisogno della giacca. Attraverso la finestra della cucina vedevo Finn piegata sopra qualcosa, la fronte aggrottata per la concentrazione. Elsie non si vedeva. Danny mi spinse vi-
cino a sé e camminammo a lungo in silenzio, con i passi in sincronia. Poi parlò. «Sam, ti devo parlare di una cosa.» «Che cosa?» Il suo tono era insolitamente serio e fui invasa da un'inspiegabile paura. «Ha a che fare con Finn, naturalmente, e anche con te ed Elsie. Oh, diavolo, non so, vieni qui.» Si fermò, mi spinse contro di lui e sprofondò il viso nel mio collo. «Che cosa c'è, Danny? Dimmi, avremmo dovuto parlare tanto tempo fa. Per favore, parlami.» «No, aspetta» mormorò. «I corpi comunicano meglio.» Insinuai le mani sotto il suo maglione e la camicia e sentii la sua schiena calda e forte sotto le dita. Con il viso che ancora mi strusciava contro, le guance ispide che mi facevano il solletico, mi sciolse la cintura dai jeans come un cieco e fece scivolare una mano nei miei calzoni, afferrandomi le natiche. Il respiro mi si fece ansimante. «Non qui, Danny.» «Perché? Non c'è nessuno che ci vede.» Intorno a noi in ogni direzione c'erano solo terre paludose, punteggiate da tronconi d'albero e barche arrugginite, abbandonate da quando il mare era stato addomesticato dalla diga. Danny mi slacciò il reggiseno con mano esperta. Gli tirai indietro il capo prendendolo per i capelli lunghi, non del tutto puliti, e vidi che aveva il volto contratto da un'espressione di concentrata inquietudine. «Non essere ansioso, amore mio» dissi, e gli slacciai i pantaloni e gli permisi di tirar giù i miei e lui si spinse dentro di me disperatamente. Rimanemmo così, aggrovigliati insieme, io con jeans e mutande attorcigliati intorno alle caviglie, in un grande spazio vuoto sotto un sole tiepido. E io pensai a come dovevo apparire poco dignitosa e sperai che nessun agricoltore decidesse di passare da quelle parti e mi chiesi che cosa avrebbe detto mia madre. «Grande, Finn» fece Danny con la bocca piena e io vidi mia madre lanciargli un'occhiata di leggero disgusto. Finn ci aveva servito cosciotto di agnello arrosto steccato con aglio e rosmarino, patate con panna acida e burro, spinaci tagliati grossolanamente, e si era perfino ricordata di comprare la salsa di menta al supermercato. Mio padre, vestito sportivamente, secondo lui, cioè con giacca di tweed,
pantaloni grigi e il primo bottone della camicia ben stirata sbottonato, e con una riga nei capelli grigi, che andavano diradandosi, simile a una strada rosa, si era presentato con due bottiglie di vino. Mia madre mangiava in modo elegante, pulendosi le labbra dopo ogni boccone e bevendo il vino a piccoli sorsi. Finn non mangiò quasi nulla, ma rimase seduta al tavolo con gli occhi che le brillavano e un sorriso nervoso sulle labbra. Al suo fianco da una parte c'era Danny, che stava facendo del suo meglio per comportarsi bene, ma era piuttosto taciturno, pensai. Dall'altra Michael Daley, deciso a essere vivace e ad affascinare tutti. Era arrivato con un grosso mazzo di rose gialle (per me), di anemoni (per Finn, che li aveva stretti a sé come una timida sposa), una bottiglia di vino e strette di mano vigorose per tutti. Ascoltò con attenzione mia madre che raccontava le disavventure per arrivare, chiese a mio padre rispettosamente che strada avessero fatto, sollevò Elsie e se la prese sulle spalle, si chinava con aria comprensiva verso Finn ogni volta che lei gli rivolgeva la parola, i capelli biondo scuro che gli cadevano sugli occhi. Non era melenso; solo ardentemente desideroso di piacere. Si girava sulla sedia come una banderuola a ogni osservazione. Passava la verdura, si alzava per andare ad aiutare Finn in cucina. Era pieno di una strana energia nervosa. Con una certa apprensione, mi ritrovai a pensare che si fosse innamorato di Finn, e poi che si fosse innamorato di me. E valutai la mia reazione a tale eventualità. Lanciai un'occhiata ai due uomini ai lati della ragazza: uno scuro, rozzo e meraviglioso; l'altro più chiaro ed enigmatico. E vedevo quale dei due piaceva a mia madre a ogni boccone che masticava con cura. Tra gli uomini c'era una strana tensione; erano in competizione, ma non riuscivo a capire bene per che cosa. Danny produceva di continuo origami, piegando pezzetti del tovagliolo in forma di fiori e barchette. Alle mele al forno (riempite di uvetta e miele da Elsie, che ormai si era ritirata nella sua camera, dicendo che andava a fare un disegno) mia madre disse, con la voce che aveva quando faceva finta di essere interessata: «E come va il lavoro, Samantha?». Mormorai qualcosa sul fatto che ero in una fase di attesa e l'argomento si sarebbe esaurito lì (vidi, infatti, Michael prepararsi a intervenire galantemente per rompere il silenzio che sapeva sarebbe arrivato), quando mio padre fece un colpetto di tosse per attirare l'attenzione e posò il tovagliolo. Ci voltammo tutti verso di lui. «Quando ero prigioniero in Giappone...» cominciò, ed ebbi un tuffo al cuore. Avevo sentito quel discorso altre volte «... ho visto morire molti
uomini. Morivano come mosche.» Fece una pausa; aspettammo con l'automatico rispetto delle persone che devono chinare il capo davanti a una tragedia. «Ne ho visti più di chiunque di voi ne vedrà mai e sicuramente più di qualunque dei vostri preziosi pazienti.» Lanciai un'occhiata a Finn, ma aveva il capo chino e stava dando la caccia a un'uvetta con la forchetta. «Poi sono ritornato a casa e ho ripreso la mia vita nel punto in cui l'avevo lasciata. Ma mi ricordo tutto.» Si appoggiò la mano al petto, sopra il tweed. «Ma ho messo da parte quelle esperienze. Tutto questo parlare di trauma e di stress e di vittime, non è un bene, serve solo ad aprire vecchie ferite. Meglio lasciar stare le cose in pace. Non nego che tu abbia dei buoni motivi, Samantha. Ma voi giovani pensate di aver diritto alla felicità. E invece dovete imparare a sopportare. Trauma!» Sghignazzò. «Non è che una delle stupide invenzioni moderne.» Prese il bicchiere di vino e bevve un sorso, gli occhi che mandavano scintille da sopra il bordo. Mia madre aveva uno sguardo ansioso. «Beh...» cominciò Michael con un tono comprensivo. «Papà» feci io con una voce lamentosa che riconobbi appartenere all'infanzia. Ma la voce di Finn si intromise, dolce e chiara. «Da quel che capisco, signor Laschen, trauma è un termine abusato. Viene usato spesso quando si intende solo parlare di dolore o shock o lutto. Il vero trauma è una cosa differente. Non si riesce a superarlo da soli, si ha bisogno di aiuto.» I suoi occhi incontrarono i miei per un attimo e io le feci un breve sorriso. La stanza cadde stranamente in silenzio. «Alcune persone traumatizzate trovano la vita letteralmente impossibile da sopportare. Non sono dei deboli o dei codardi o degli stupidi; sono feriti e devono guarire. I medici curano le ferite del corpo, ma esistono ferite che non si vedono, anche se ci sono ugualmente. Solo perché lei ha sofferto senza lamentarsi, pensa che anche gli altri debbano riuscire a farlo.» Nessuno parlò. «Penso che Sam aiuti le persone. Non a trovare la felicità, ma a recuperare la capacità di vivere.» Michael si chinò verso di lei e le prese la forchetta, che Finn stava ancora facendo girare nel piatto. Le mise un braccio sulle spalle e lei si appoggiò a lui con gratitudine. «Finn e io andiamo a preparare il caffè per tutti» disse e la condusse fuori della sala da pranzo. Mia madre raccolse rumorosamente i piatti.
«Le ragazze adolescenti sono sempre molto appassionate» disse con tono comprensivo. Lanciai un'occhiata a mio padre. «Sai qual è il problema?» fece lui. «No» risposi. «La tua porta non si chiude bene. Scommetto che sono i cardini. Dopo le darò un'occhiata. Hai della carta carbone per caso?» «Carta carbone? A cosa ti serve?» «Per passarla sulla cornice, vedere dove sfrega. Non c'è nulla come la carta carbone per metterlo in evidenza.» Capitolo 19 Un'estate, quando avevo dieci anni, andammo in vacanza a Filey Bay, sulla costa orientale. Non ci sono mai più tornata da allora e tutto ciò che ricordo di quel luogo sono le dune di sabbia e un vento feroce e sporco, che soffiava sul lungomare facendo rotolare rumorosamente i barattoli lasciati sui marciapiedi e sollevando da terra cartacce che sembravano dei piccoli aquiloni sfilacciati. E mi ricordo anche che mio padre mi aveva portata sul pedalò. Le mie gambe non arrivavano quasi ai pedali e mi dovevo sedere in avanti, mentre lui era seduto dietro, con le gambe che pedalavano avanti e indietro, magre e bianchissime negli insoliti pantaloncini. A un certo punto avevo guardato l'acqua e non avevo visto più il fondo, ma solo un marrone grigiastro insondabile. Come se fosse appena successo, riprovai il senso di panico che mi prese allora e che penetrò in tutti i recessi della mia mente. Allora mi ero messa a urlare, afferrando mio padre sbalordito per un braccio e mia madre che ci aspettava sulla spiaggia pensò che fosse successo qualcosa di terribile, anche se la nostra barchetta rossa galleggiava tranquillamente a pochi metri di distanza. Non ero a mio agio nell'acqua e, benché sapessi nuotare, cercavo di evitare di starci. Quando portavo Elsie in piscina tendevo a stare dove l'acqua mi arrivava alle ginocchia e la guardavo sguazzare da lì. Il mare per me non era un luogo di piacere, né un gigantesco parco dei divertimenti, ma una spaventosa estensione che risucchiava barche, corpi, rifiuti radioattivi e sterco. A volte, specialmente di sera, quando gli strati di grigio del mare si fondono con quelli del cielo, rimanevo a guardare le acque scintillanti e immaginavo l'altro mondo, quello sott'acqua, nascosto sotto la superficie, e mi venivano le vertigini.
Allora perché avevo accettato l'invito in barca di Michael Daley? Quando mi aveva telefonato per metterci d'accordo, gli avevo risposto con la voce che facevo quando ero entusiasta, che non ne vedevo l'ora. Mi piaceva far credere di essere coraggiosa, intrepida. Non urlavo per la paura da quando ero bambina. «Che cosa devo portare?» gli chiesi. «Niente. Ho una muta che dovrebbe andarti bene e un giubbotto salvagente, naturalmente. Ricorda di mettere i guanti.» «Muta?» «Sai quella tuta di gomma che si mettono i sommozzatori, ti starà bene. Se dovessimo capovolgerci in questo periodo dell'anno geleresti.» «Capovolgerci?» «Il telefono ha un'eco o sei tu?» «Non riuscirò mai a infilarmi lì dentro.» Stavo davanti a qualcosa che sembrava una serie di tubi digerenti neri e verde chiaro. «Devi prima toglierti i vestiti.» Eravamo nel mio soggiorno. Danny era andato a Stamford a comprare della vernice, Finn era andata al negozio d'angolo a comprare latte e pane ed Elsie era a scuola. Michael aveva già indosso la sua tuta da subacqueo, sotto a un impermeabile giallo. Sembrava lungo e stretto, e leggermente assurdo, come un astronauta senza nave spaziale, o un pesce fuor d'acqua. «Oh.» «Mettiti un costume sotto.» «Giusto. Penso che andrò a mettermelo in camera da letto. Prenditi una tazza di caffè.» Di sopra mi svestii, mi misi il costume da bagno e cominciai a infilare le gambe nei tubi di spessa gomma nera. Dio, quanto erano stretti. Mi si avvolsero elasticamente intorno alle cosce e li tirai sui fianchi. Mi sembrava di soffocare. La parte peggiore fu infilare le braccia nelle maniche; mi sembrava che il mio corpo non riuscisse più a raddrizzarsi tanto la gomma era tesa. La cerniera lampo era dietro, ma io non riuscivo a raggiungerla. A dir la verità, non riuscivo quasi ad alzare le braccia. «Tutto bene?» mi gridò Michael. «Sì.» «Hai bisogno di aiuto?» «Sì.»
Venne su e vidi entrambi nello specchio: due viandanti lunari dalle gambe lunghe. «Avevo ragione, ti sta bene» disse e io spinsi in dentro la pancia con un po' di imbarazzo mentre mi tirava su la cerniera lampo, il metallo freddo e le sue dita calde che mi scorrevano lungo la spina dorsale. Il suo respiro mi sfiorò i capelli. «Mettiti gli stivali» mi diede un paio di begli stivali di gomma «e poi possiamo andare.» Il vento soffiava folate gelide sulla spiaggia di ciottoli dove si trovava la barca di Michael, allineata insieme ad altre. Michael aveva un capanno degli attrezzi in cui teneva le vele e le corde di scorta, mentre la barca stava all'aperto in qualsiasi stagione. Dalle barche spoglie proveniva uno strano mormorio, come nei boschi nelle gelide notti invernali: tutte quelle corde («sartie» diceva Michael) che sbatacchiavano. Le piccole onde increspavano di bianco l'acqua color ardesia. Michael piegò il capo all'indietro. «Mmm. Tempo adatto per andare in barca a vela.» Non mi piacque il suo tono. In lontananza, sull'estuario, vedevo un'unica vela bianca inclinata in modo allarmante; sembrava quasi schizzare fuori dall'acqua. Non c'era nessun altro in giro. L'orizzonte si perdeva in un grigiore caliginoso. Era uno di quei giorni in cui il sole non splende mai veramente; un'umida foschia aleggiava sull'acqua. Michael tolse lo spesso telone verde impermeabile dalla barca (che si chiamava Belladonna, mi disse, perché aveva lo spinnaker nero; non gli chiesi che cosa fosse lo spinnaker). Poi tirò fuori dal fondo della barca un giubbotto salvagente. «Indossalo. Io devo armare la barca.» Tirò fuori da una sacca di nylon un'ampia vela color ruggine e cominciò a infilare dentro a delle tasche nel tessuto dei lunghi listelli piatti. «Stecche» spiegò. «Le vele sbatterebbero dappertutto senza di esse.» Poi agganciò un filo metallico alla base dell'albero e lo fissò alla cima della vela, e assicurò saldamente la parte inferiore della stessa agli anelli del boma, termine che conoscevo anch'io. «È la vela maestra» disse. «Non la apriremo finché non saremo in acqua.» Allacciò l'altra vela a un altro filo di ferro che sganciò dall'albero. Attaccò il bordo esterno allo strallo di trinchetto con tanti piccoli ganci e depositò la vela sul ponte. Poi fece passare una lunga corda attraverso un buco al-
la base del triangolo e ne trascinò i capi lungo i lati della barca, inserendoli nelle maniglie e poi legandoli con un nodo a forma di otto, in modo da impedir loro di sciogliersi. Alla fine tirò fuori una piccola bandiera nera, la fissò a un filo assicurato all'albero maestro e la tirò su finché con uno strattone non si mise al suo posto, in cima. «Bene, spingiamola in acqua.» Fui colpita dalla sua aria autorevole. Aveva le mani forti, precise, era completamente concentrato nel lavoro. Pensai che doveva essere un bravo dottore e mi chiesi quante delle sue pazienti si fossero innamorate di lui. Insieme spingemmo Belladonna, che si trovava ancora sullo scivolo, sul bordo dell'acqua, dove Michael la fece scivolare nelle onde basse mentre io tenevo la corda. «Non preoccuparti se ti bagni» mi urlò mentre saliva sulla barca e cominciava a fissare il timone e a raccogliere la vela che sbatteva. «Starai più calda una volta che avrai un po' d'acqua tra la tuta e la pelle.» «Bene» dissi con voce tremolante ed entrai in mare, il cavo nelle mani blu, che mi bruciavano dove non erano insensibili. Mi ero dimenticata i guanti. «Quando?» urlai. «Che cosa?» «Quando starò più calda? Mi sento il ghiaccio scorrere lungo il corpo, dottor Daley.» Si mise a ridere, i denti bianchi regolari che brillavano, le vele che gli si arrotolavano intorno furiosamente. Improvvisamente, quando le vele furono issate sull'albero, la barca smise di sobbalzare e si tese pronta per salpare; non sembrava più un aquilone che si contorceva, ma piuttosto un cane desideroso di correre. «Spingi un po' in fuori il suo muso» mi gridò Michael. «Ecco, così. E adesso salta dentro. Ho detto di saltare dentro, non di buttarti.» Caddi sul fondo della barca, e presi a dimenarmi come un pesce fuor d'acqua, sbattendo un ginocchio. La barca si inclinò immediatamente e dell'acqua entrò dal fianco. Il mio viso era a circa quindici centimetri sopra il livello del mare. «Vieni dalla mia parte» mi disse Michael, che non sembrava particolarmente allarmato. «Siediti qui, vicino a me e metti le dita dei piedi sotto quella cinghia. In questo modo, anche se ti sporgi in fuori, non cadrai in acqua.» Teneva la barra del timone con una mano e con l'altra spingeva giù la deriva e manovrava la corda attaccata alla vela piccola. Le vele si tesero e
io sentii la barca perdere l'andatura indolente e acquistare velocità. A dir la verità prese fin troppa velocità per i miei gusti. «Bene, Sam, mentre siamo su questa bordata e il vento è abbastanza moderato...» «Moderato!» protestai. «Non aumenterà finché non gireremo intorno alla punta e non usciremo in mare aperto.» «Oh.» «Tutto quel che devi ricordare è che usiamo il vento perché ci porti dove vogliamo andare. A volte soffierà dai lati, e questo si chiama bordeggiare, a volte da dietro, e si dice navigare. E a volte ci soffierà quasi contro...» «E ciò si chiama andare a fondo, immagino» gracchiai. Mi fece un largo sorriso. «Il tuo unico compito è tenere questo fiocco» mi gettò in grembo la corda attaccata alla vela piccola «e controllarlo. Più andiamo controvento, più devi tendere la vela. Quando abbiamo il vento in poppa, devi lasciarla andare. Quando grido "Vira di bordo" devi solo mollare la vela e poi tirarla nell'altro senso. Io baderò a tutto il resto. D'accordo?» «D'accordo.» «Ci sono dei guanti di riserva a prua.» Mi piegai per prenderli, e la barca si inclinò di nuovo. «Buttati indietro; no, Sam, buttati indietro, così teniamo la barca diritta. Sam, indietro.» Mi spinsi indietro e mi sentii come sospesa sull'acqua, tenuta solamente dalle fragili dita dei piedi. Avevo le mani contorte dal freddo, la schiena che mi doleva, la testa fuori della barca, e se facevo ruotare gli occhi vedevo l'acqua pericolosamente lontana di sotto. La deriva era sollevata; se guardavo in avanti, vedevo che entrava acqua dall'altro lato della barca. Chiusi gli occhi. «Quando dico "Vira di bordo" lascia andare la corda e sbattere la vela. Poi spostati velocemente sull'altro lato. Capito?» «No. Se mi muovo, la barca andrà a fondo.» «Si capovolgerà.» «Chiamalo capovolgersi o come diavolo vuoi; io dico andare a fondo.» «Non preoccuparti, Sam, non ci capovolgeremo; non c'è così tanto vento.» Non mi piacque il suo tono condiscendente. «D'accordo, andiamo!» gridai e slegai la corda dalla galloccia. La vela sbatté furiosamente, la barca prese velocità, il rumore era assordante. Mi
lanciai nel mezzo della barca e inciampai nella deriva. Michael fece virare la barra del timone e con calma si portò sull'altro lato, spingendomi in giù la testa mentre compiva questa manovra. Il boma mi passò proprio sopra; Michael tirò la sua scotta, poi la mia. Il rumore si calmò, lo sbattere delle vele cessò, la barca rimase ferma e tranquilla sulla superficie grigia. Andava raggiungerlo. Avevo le mani irrigidite dal freddo, altrimenti avrebbero tremato. «La prossima volta, perché non aspetti che ti dica di virare?» disse mitemente. «Mi dispiace.» «Presto ti impratichirai. Non è bello?» La barca viaggiava diritta ora, e correva con le vele gonfie e tese. «Siediti comoda e rilassati. Guarda, c'è un airone. Lo vedo spesso quando vado in barca. Laggiù» mi indicò degli scogli che affioravano in distanza nell'acqua scura «c'è Needle Point, dove si incontrano due correnti. Un tratto piuttosto pericoloso, soprattutto nelle maree di primavera.» «Non ci andremo, vero?» gli chiesi nervosamente. «Penso» rispose gravemente, mettendo in ordine la vela «che lo serberemo per la prossima volta.» Per alcuni minuti, finché Belladonna mantenne quella rotta e io non dovetti far altro che rimanere seduta a guardare l'acqua che scorreva di sotto e il profilo fermo di Michael, i suoi capelli biondi umidi tirati indietro sulla fronte alta e calma, quasi mi divertii. Le onde sciabordavano sotto di noi a un ritmo regolare, un dito di sole uscì dal cielo color piombo. Dietro di noi passò un'altra barca a vela e i due marinai alzarono le mani calzate di guanti in un saluto cameratesco, e io riuscii perfino a rispondere con un gesto della mano, un sorriso allegro stampato sul volto. Scambiammo anche due parole, una specie di conversazione. «Non ti piace essere nelle mani di qualcun altro, vero?» «A dir la verità non ci sono molte mani di cui mi fidi» risposi. «Spero che tu ti fidi delle mie.» Stava facendo il galante? Non era un buon momento. «Sto cercando.» «Devi essere una donna difficile con cui vivere, dottoressa Laschen. Danny ti trova difficile?» Non risposi; un vento umido mi pungeva le guance e il mare grigio ci galoppava sotto. «Anche se sembra abbastanza capace di badare a se stesso, di protegger-
si. Un ragazzo di mondo, direi.» Se non avessi avuto la mente fissa sulla costa lontana e sul beccheggiare della barca, l'espressione «ragazzo di mondo» mi sarebbe parsa stonata. Data la situazione, mi limitai ad annuire e a giocherellare con il nodo fradicio della mia corda, che mi giaceva pigramente sulle ginocchia. Poi Michael tirò la barra del timone verso di sé finché il vento non ci fu dietro, tirò su la deriva con un movimento calmo, lasciò andare la sua vela che si aprì come un fiore lussureggiante, rigoglioso, e mi disse di tirare la mia vela in modo che si gonfiasse di vento sull'altro lato. «Ora un poco di bordeggio, penso» disse. «Mettiti dall'altra parte; i nostri pesi devono controbilanciarsi.» La prua della barca si sollevò e procedemmo tagliando le onde. «Sta' attenta, Sam. Se il vento cambia dovremo cambiare posizione.» «No, non dirmelo. Dimmi solo come si fa a non farlo accadere.» Michael era concentrato, di tanto in tanto lanciava un'occhiata alla bandiera per controllare la direzione del vento, oppure dava una sistematina alle vele. La barca rollava in maniera orrenda; ci sollevavamo e cadevamo con un movimento che produceva nelle mie viscere degli strani movimenti. La lingua cominciava a sembrarmi come ghiaiosa e troppo grossa per la bocca. «Ehi, Michael.» «Mmm.» «Non puoi far smettere alla barca di rollare? Mi sento un po'...» «Il vento sta cambiando. Dobbiamo spostarci. Lascia sventolare la tua vela.» Successe in un secondo. Per un attimo sembrammo immobilizzarci nell'acqua mentre le vele pendevano flosce. Poi guardai con orrore il boma venirci addosso. La barca sbandò violentemente. Sentii lo stomaco ballare e mi alzai, pensando solo che dovevo arrivare al bordo della barca prima di vomitare. «Abbassati, Sam» mi disse Michael. Il boma mi colpì proprio sopra l'orecchio con una tale forza che per un momento vidi nero. Mi precipitai dall'altra parte della barca, ed esso ritornò indietro. Questa volta non mi colpì (ero già abbassata), ma andò a colpire Michael che si era alzato per venirmi in aiuto. Finimmo seduti sul fondo coperto d'acqua della barca come due grossi bacherozzi neri, il boma che ci passava sopra, entrambe le vele sciolte e libere. Mi sentivo molto più al sicuro non vedendo quel che stava succedendo.
«Stai ferma» mi ordinò Michael. «Ma...» Alzò una mano e con molta gentilezza, molta attenzione, mi riagganciò un orecchino che si era slacciato. «Chi altri si metterebbe degli orecchini con dei pendenti così assurdi in barca a vela? Stai bene?» A dir la verità improvvisamente e senza una ragione mi sentivo perfettamente serena. La nausea si stava calmando, il battito cardiaco anche; solo la testa era gonfia e dolorante. La barca stava ancora rollando, ma con le vele flosce il vento non aveva più presa. Michael era una presenza solida accanto a me, così sicuro di sé. Ne vedevo le guance ispide, la curva rigonfia del labbro superiore, le pupille larghe negli occhi grigi. «Non ti metterei in pericolo, Sam» mi disse dolcemente, fissandomi. Riuscii a fargli un sorriso. «Al nostro prossimo appuntamento, Michael, sarà meglio andare a vedere un film.» Capitolo 20 Sulla via del ritorno rimanemmo in silenzio. Ero di malumore perché sentivo di averlo deluso, e io odio deludere la gente. Temevo che gli avrei risposto male e siccome non volevo dir nulla di cui poi mi sarei pentita, era meglio che non parlassi. Lui mise su una cassetta di musica classica e io feci finta di ascoltarla attentamente. Il cielo si stava scurendo e mentre percorrevamo le intricate stradine lungo la costa, lanciavo occhiate interessate agli interni illuminati delle case che superavamo. L'oscurità nascondeva la stranezza del paesaggio e lo faceva apparire quasi rassicurante, quasi come un paesaggio normale. Quando arrivammo, sentii che il vulcano che avevo in petto si era spento. Feci un profondo respiro. «Non credo di essere un gran marinaio.» «Ti sei comportata benissimo.» «Già. E Nelson stava male tutte le volte che era in mare. Ma sei stato molto gentile a portarmi in barca.» Michael rimase in silenzio con un mezzo sorriso sul viso, e io, per riempire il vuoto, balbettai: «Facciamo un altro tentativo. Sono sicura che andrà meglio.» Perché diavolo avevo detto una cosa del genere? Ma Michael sembrava contento.
«Mi piacerebbe molto» rispose. «Vedrai che presto virerò, bordeggerò e navigherò come nessun altro.» Si mise a ridere. Scendemmo dalla macchina e mentre ci dirigevamo verso la casa, Michael mi teneva il braccio. Era buio e attraverso la finestra intravidi segni di movimento all'interno. Andai a vedere. Il fuoco era acceso. Danny era seduto nella poltrona a un lato del caminetto. Mi voltava la schiena e ne vedevo solamente la nuca e la bottiglia di birra che teneva in equilibrio sul bracciolo con la mano destra. Ma sapevo che espressione doveva avere. Doveva fissare le fiamme con aria sognante. Elsie era in pigiama, i capelli lavati e pettinati, il viso rosso e chiazzato per l'eccitazione e il riflesso del fuoco. Stava impilando i suoi mattoncini di legno. Non riuscivo a sentire, ma vedevo che le sue labbra si muovevano in un chiacchiericcio costante rivolto a Finn che le stava allungata accanto. Anche lei mi dava la schiena, così non riuscivo a vedere se le rispondesse. Probabilmente stava in silenzio, gli occhi semichiusi. Pensai che Elsie soddisfacesse il bisogno di relax di Finn, e di infanzia. Stavano insieme come due ragazzine, in un modo che io non sarei mai riuscita a fare. Era una scena deliziosa, tanto che provai una dolorosa fitta di esclusione, o era senso di colpa per essere stata assente? Sentii una mano sulla spalla. Michael. «Che meraviglioso gruppo di famiglia» dissi con un accenno di ironia. Michael ci mise un po' a rispondere. Rimase a guardare, come affascinato, la scena accanto al caminetto, con visibile soddisfazione. «Sei tu, sai» disse infine. «Che cosa intendi?» «Quando ho parlato per la prima volta con la polizia e abbiamo chiesto intorno, tutti dicevano che eri meravigliosa. E lo sei stata. Non riesco a credere a quel che hai fatto per Finn.» Gli lanciai uno sguardo di disapprovazione e lo spinsi indietro in modo semigiocoso. «Non ho bisogno dei tuoi complimenti, dottor Daley. Inoltre non le ho fatto assolutamente nulla. Ha fatto tutto da sé.» «Ti sottovaluti.» «Non mi sono mai sottovalutata in vita mia.» «Ti sbagli. Come medico generico penso spesso a come doveva essere il mio lavoro cento anni fa, quando non c'erano antibiotici, non c'era l'insulina, ma solo morfina, digitale e un paio di altre cosette. Un dottore non aveva quasi nulla nella sua borsa che potesse cambiare il corso di una ma-
lattia. Più che un dottore era un guaritore, si sedeva presso il paziente e lo aiutava con la sua presenza, magari semplicemente tenendogli la mano.» Michael ora aveva il viso a soli pochi centimetri dal mio, e parlava quasi sussurrando. «Tu sei una donna testarda. Sei arrogante. Colta. Sai essere aspra con tutti noi. Ma possiedi quella capacità, la capacità di guarire.» Non risposi. Michael alzò la mano e mi sfiorò i capelli con un dito. Mi avrebbe baciata, là fuori, con Danny a pochi metri di distanza? E che cosa avrei fatto io? In ciò che doveva esser stato meno di un secondo immaginai una relazione con Michael, noi due nudi insieme, e poi i problemi, le angosce, i tradimenti. Gli presi la mano in modo amichevole, da sorella. «Grazie per il complimento, Michael, anche se è sbagliato. Vieni a bere qualcosa. Un grog o quel che piace a voi marinai.» Sorrise e scosse il capo. «Devo ritornare e star fuori da queste cose. Buona notte, donna intelligente.» Entrai in casa sentendomi circonfusa da quella luminosità che si prova quando si è lusingati. Aprii la porta del soggiorno e tre teste, con tre espressioni diverse, si voltarono verso di me. Danny con un accenno di sorriso ironico. Mi stava rimproverando per qualcosa? Elsie con il volto luminosissimo, come se il fuoco fosse dentro di lei. Finn come un gatto appisolato sul mio tappetino accanto al focolare, che apre un occhio e si volta appena. Sentii un brivido di inquietudine. «Guarda, mamma, guarda» disse Elsie, come se fossi sempre stata lì. «Incredibile. Che cos'è?» «Un segreto. Indovina.» «Una casa.» «No.» «Una barca.» «No.» «Uno zoo.» «Non è uno zoo. È un segreto.» «Allora, avete passato una bella giornata?» «Sono uscita con Danny e Fing.» Guardai con una certa ansia gli adulti. «Abbiamo costruito un castello di sabbia» intervenne Finn. «Con dei sassi e delle lattine.» «Grazie, Finn» dissi. Andai a sedermi sulla poltrona e baciai Danny sulla testa arrabbiata. «E grazie anche a te.»
«Vado in città domani» disse Danny. «Lavoro?» «No.» Fu un momento imbarazzante, senza possibilità di sviluppi soddisfacenti con Finn ed Elsie dietro di noi. «Tutto bene?» mormorai. «Perché non dovrebbe?» rispose Danny con quel tono di voce normale che trovavo così difficile da decifrare. «Non so» dissi. Ci fu un silenzio leggermente spiacevole, durante il quale vidi Finn ed Elsie scambiarsi dei sorrisetti. «Che cosa c'è?» «Chiedi a Elsie che cosa c'è appeso alla porta» disse Finn. «Che cosa c'è appeso alla porta della tua casa sicura, Elsie?» Elsie era così eccitata che sembrava un palloncino troppo gonfio, che se fosse sfuggito di mano sarebbe andato a svolazzare all'impazzata per la stanza. «C'è una paletta sulla porta.» «E chiedi a Elsie che cosa c'è sullo zerbino.» «Che cosa c'è sullo zerbino, Elsie?» «Un castello di sabbia» rispose Elsie con un urlo. «Un castello di sabbia sullo zerbino? Che buffo.» «E chiedi a Elsie che cosa c'è nel letto di mamma.» «Che cosa c'è nel letto di mamma?» «Un abbraccione.» Ed Elsie mi corse incontro e mi gettò le braccia al collo. La leggera pressione sulle spalle mi fece quasi piangere. Lanciai a Finn un «grazie» con le labbra al di sopra delle spalle di Elsie. Elsie voleva che fosse Finn a metterla a letto, ma io non volli essere defraudata di ciò, insistei e portai su di peso il corpicino di Elsie che si dimenava, promettendole che Finn sarebbe andata a darle il bacio della buona notte e a raccontarle una storia. Dopo essermi sfilata la tuta bagnata ed essermi messa un paio di jeans e una maglietta, le lavai i denti e poi un po' di cattivo umore le lessi un libro di scioglilingua. «Posso avere Fing ora?» «Prima dammi il bacio della buona notte.» Con un sorriso spinse in avanti le labbra, poi fui inviata di sotto a chiamare Finn, che mi scivolò accanto per mantenere il suo appuntamento con Elsie. Danny era ancora in poltrona, ma vidi che aveva una nuova bottiglia
di birra. Notai che di bottiglie vuote ce n'erano tre ai piedi della poltrona. «Dammene un sorso» gli dissi e lui mi porse la bottiglia. «Che c'è?» «È ora che ritorni a Londra, tutto qui.» «D'accordo.» Ci fu un altro silenzio e di nuovo non piacevole. Mi sedetti sul pavimento ai suoi piedi e mi appoggiai contro di lui, le sue ginocchia contro le mie spalle. Presi un sorso dalla bottiglia e poi gliela ripassai. «Che cosa pensi di Finn?» gli chiesi. «Che intendi?» «Come ti sembra?» «Non sono un dottore, dottoressa.» «Sei un essere umano.» «Grazie, Sam.» «Hai passato la giornata con lei, Danny. Dimmi che cosa ne pensi.» «Ragazza interessante.» «Ragazza interessante e disturbata.» «Sei tu la dottoressa.» «La trovi attraente?» Danny aggrottò la fronte. «Di che cosa diavolo stai parlando?» «Quando Michael mi ha riportato, abbiamo guardato dentro casa. Ho visto Finn sdraiata sul pavimento davanti al fuoco. Ho pensato che, se fossi stata un uomo, l'avrei trovata molto attraente. Una creatura meravigliosa e seducente.» «Ma non sei un uomo.» Ci fu silenzio. Mi misi in ascolto dei passi di Finn sulle scale. Poi udii la risatina lontana di Elsie. Finn ci avrebbe lasciati soli per qualche minuto ancora. «Danny, ti crea dei problemi?» «Chi?» «Finn, questa situazione.» Sentii la mano di Danny sui capelli. Improvvisamente li afferrò e mi tirò indietro la testa. Sentii le sue labbra contro le mie, il sapore della sua lingua. La sua mano sinistra mi scorse su per il ventre. Lo desiderai acutamente. Lui si fermò e si tirò indietro. Mi fece un sorriso sardonico. «Sai che non ti direi mai come devi vivere la tua vita, Sam. Ma...» «Shhh.» Ci furono dei passi fuori e poi Finn entrò e si mise a sedere vicino a noi
sul tappetino davanti al focolare. «Elsie è quasi addormentata. Ho preparato un paio di insalate» disse. «E del pane con l'aglio. Non pensavo che voleste mangiare molto. Spero che vada bene.» «Non avevi altri piani culinari, vero, Sam?» mi chiese Danny sarcasticamente. Finn ridacchiò. «Mi sembra ottimo» risposi. Danny bevette un altro paio di bottiglie di birra. Finn bevve acqua. Le insalate erano croccanti e colorate. Si potevano quasi prendere per quelle che si comprano nei vassoi di plastica da Marks & Spencer. Parlai un po' della giornata in barca. Finn fece un paio di domande. Danny non disse quasi nulla. Dopo ritornammo con le tazze di caffè in soggiorno, dove il fuoco era ormai ridotto a pochi tizzoni. Danny bevve un'altra birra. Io misi dei pezzetti di legno sui tizzoni e soffiai finché le fiamme non ripresero ad ardere. Il vento faceva sbattere i vetri delle finestre e la pioggia ci scrosciava contro. «È una di quelle notti in cui è perfetto stare davanti a un fuoco» dissi. «Smettila con queste stronzate, Sam» rispose Danny. «Che cosa vuoi dire?» «Parli come una stupida pubblicità.» Andò alla finestra. «Non è da te, Sam. Che cosa stai facendo qui? Qui fuori non ci sono che alberi e fango e paludi e pioggia e poi il mare. Non ci vivono persone reali, qui, ma solo tangheri tutti ben vestiti che vanno a caccia.» «Smettila, Danny» risposi, lanciando uno sguardo a Finn che sembrava scioccata. «Perché? E tu che ne pensi, Finn? Ti piace vivere in questo posto?» Finn sembrava in preda al panico. «Non lo so» balbettò. «Devo sparecchiare. Vado in cucina.» Si precipitò fuori del soggiorno e io mi rivolsi a Danny incollerita. «Che stupido buffone» sibilai. «Che cosa stai cercando di fare?» Lui si strinse nelle spalle. «La campagna mi rompe le scatole. Tutta questa situazione mi rompe le scatole.» «Che ti salta in mente di dire queste cose davanti a Finn. Che cos'hai? Ce l'hai con Finn, o con Michael? Sei geloso?» Danny sollevò la bottiglia e la scolò.
«Vado a letto» disse e uscì. Sfogliai una rivista per alcuni minuti finché Finn non mi raggiunse. «Mi dispiace, ma Danny a volte è strano.» «Non importa» rispose Finn. «Mi piace Danny. Mi piace il modo in cui dice le cose. Mi piacciono le sue difficoltà. Ho sempre avuto un debole per gli uomini tenebrosi.» «Io no.» Finn sorrise e si sedette accanto a me sul tappeto di fronte al fuoco. Si premette vicino a me, tanto che sentii il profumo della sua pelle tiepida, morbida. «Hai un ragazzo?» le chiesi. «Sai che cosa odio di tutto questo, di ciò che mi è capitato?» «Che cosa?» «L'idea che quel che ho sofferto mi abbia resa una creatura delicata, fragile e che tutti si preoccupino di dire qualcosa di sbagliato quando sono a portata d'orecchi. No, non avevo un ragazzo. Quando ero grassa nessuno si interessava a me, naturalmente, e probabilmente neanch'io ero interessata. O ero terrorizzata. Forse essere grassa significava questo per me. Dopo che ho perso un bel po' di chili, ma non ero ancora uno stecco, allora a volte ho fatto sesso con dei ragazzi. Soprattutto in Sud America; faceva parte dell'avventura. Beh» fece un risolino aspro, improbabile «la mamma diceva sempre che ero troppo giovane per legarmi. Sei scioccata?» A dir la verità sì, lo ero. «No, naturalmente no. Temo che sia io sia tutto questo» e feci un gesto verso ciò che ci circondava «ti sembriamo un po' troppo seri, poco avventurosi.» «Ma no, Sam.» Finn si voltò a guardarmi. Mi diede una carezza su una guancia, e un bacio con grande delicatezza. Ebbi la tentazione di tirarmi indietro, ma mi trattenni. «Non credo che tu sia troppo seria.» Ritornò a sedersi. «Una volta ero, anzi, sono ancora, una che agisce di impulso. Quando Danny parlava della campagna, in un certo senso ero d'accordo. Ma allo stesso tempo per me non è noiosa. Ho un pensiero fisso che non riesco a far andar via. Là fuori nel buio ci sono persone che mi mettono del nastro adesivo sul viso e mi tagliano la gola e che lo faranno di nuovo se ne avranno la possibilità.» «Non succederà, Finn.» «Ma non è solo questo, Sam. C'è dell'altro: rivedo continuamente una scena. Non so se è un sogno. Immagino questa casa a notte fonda. Fuori la
luce di una pila, una finestra che si alza. Uno scricchiolio sulle scale. Mi sveglio con il nastro adesivo sulla bocca, una lama alla gola. Poi vanno nella tua camera. Poi in quella di Elsie...» «Finn, smettila» le dissi quasi urlando. «Non devi dirlo. Non hai nessun diritto di dire una cosa del genere.» Sentii un sapore acido al fondo della gola. Avevo voglia di vomitare. «Chi stai cercando di proteggere?» chiese Finn. «Te stessa o me?» «Me stessa, una volta tanto.» «Allora sai che cosa significa.» Ero incollerita. «Lo sapevo da prima, Finn. Non mi piace quel che hai detto di Elsie. Lasciala fuori da questa faccenda.» «Non vedo l'ora che li prendano, Sam.» C'era qualcosa di minacciosamente teatrale in tutto ciò. «Tutti noi lo vogliamo.» «Vorrei aiutare. Continuo a pensarci, cerco di ricordare qualcosa, qualunque cosa che possa aiutare la polizia. Un odore, una voce. Non so.» Avevo la mente annebbiata dal vino, dal calore del fuoco, dall'ora tarda. Mi sforzai di pensare con lucidità. Stava cercando di dirmi qualcosa? «Finn, c'è qualcosa che mi nascondi, qualcosa che non hai detto alla polizia?» «Non mi pare. A meno che...» «Ti è capitato qualcos'altro quella sera? Hai raccontato tutto alla polizia?» «Perché ci dovrebbe essere qualcos'altro? Mi piacerebbe che ci fosse stato. Forse c'è stato qualcos'altro che non riesco ad ammettere. Forse sono codarda. Sam, vorrei essere d'aiuto. Puoi fare qualcosa per me?» Mi mise le braccia intorno alla vita e mi tenne così stretta che sentivo il battito del suo cuore. Mi abbracciava con disperazione. Era una cosa che mi faceva accapponare la pelle, che non mi piaceva affatto, come essere sedotta da una persona che non si può rifiutare. La abbracciai come una madre che conforta un bambino, ma allo stesso tempo mi vedevo metterle le braccia al collo, e mi chiedevo che cosa stavo facendo. Avevo dei dubbi sul mio ruolo come dottoressa di Finn, dubbi sul mio ruolo come amica, e ora mi chiedeva di diventare una specie di detective psicologica, una sorta di amica del cuore. «Sam, Sam» gemette «mi sento così sola e impotente.» Se si trattava di una crisi, avrei voluto sentirmi un po' più padrona della situazione, un po'
meno manipolata. «Smettila e calmati. Smettila!» La allontanai. Aveva gli occhi gonfi e umidi, stava ansimando. «Ascoltami, siamo qui per aiutarti. Sei al sicuro. Non ti succederà nulla. D'accordo? Inoltre succede spesso che ci sia un certo grado di perdita di memoria associato a un trauma emotivo e fisico, ed è rimediabile. Ma ora, a tarda notte, quando siamo stanche e tese, non è il momento per parlarne. Si può fare qualcosa, ma non credo di essere la persona giusta. Per molte ragioni. Soprattutto ci sono degli aiuti terapeutici che non puoi ottenere né da me né da questo ambiente. Dobbiamo pensarci. Io ti considero... Si tratta di una faccenda troppo clinica. Per me sei una cara amica. Dobbiamo pensarci, ma non ora. E neppure domani. Ora vai a dormire.» «Sì, Sam» rispose con una voce fragile, trattenuta. «Ora.» Annuì, bevette un ultimo sorso di caffè e lasciò la stanza senza un'altra parola. Quando se ne fu andata, tirai un grande sospiro. Che cosa avevo portato in casa mia? E ora Elsie la adorava più di chiunque altro al mondo. Che cosa stavo facendo a tutti? Salii di sopra. Lasciai cadere i vestiti e mi infilai tra le lenzuola nella camera da letto buia e avvertii il calore del corpo di Danny. Gli feci scorrere le mani sul corpo. Avevo un forte bisogno di lui. Si voltò e mi afferrò vigorosamente. Mi baciò con passione, i suoi denti mi mordicchiarono le labbra. Sentii le sue mani maneggiare ruvidamente il mio corpo. Gli morsicai una spalla per trattenermi dall'urlare per un piacere che era quasi paura. Mi bloccò i polsi sopra la testa con una delle sue grandi mani e con l'altra mi tastò, come se dovesse esplorarmi da capo. «Non muoverti» mi disse mentre mi dimenavo nella sua stretta. «Stai immobile.» E quando mi penetrò sentii che mi stava scopando con tutta la passione e la rabbia repressa, trattenuta nel corso della serata. Non disse il mio nome, ma mi guardò con fermezza e io chiusi gli occhi per sfuggirgli. Dopo mi sentii ammaccata, ferita. Il respiro di Danny era lento e regolare e pensai che si fosse addormentato. Quando parlò, lo fece con la voce assonnata, strascicata di chi è mezzo addormentato e non riesce quasi ad articolare i pensieri. «Hai guardato Finn? Veramente guardato? Da grande dottoressa quale sei.» Cominciai a rispondere, ma lui continuò a parlare come se io non fossi lì e stesse semplicemente pensando ad alta voce. «O è sempre e solo Sam ed Elsie e la casa e la campagna e una nuova amica?» Si voltò facen-
do scricchiolare il letto e io sentii il suo respiro sulla guancia. «L'hai guardata, Sam? Qual è la parola che usi tu? Oggettivamente. Scientificamente.» «Ma ne sei ossessionato, Danny?» Mi venne un pensiero orribile. «Allora si tratta di questo, ci stai pensando, ti stai innamorando di lei.» Ero senza fiato, il cuore mi batteva furiosamente, ne sentivo il battito nelle orecchie. «Non capisci proprio, eh?» Lo sentii voltarsi dall'altra parte. «'notte, Danny.» «'notte, Sam.» Quando mi svegliai, la mattina dopo, Danny non c'era già più. Capitolo 21 «Posso entrare?» «Solo se non cerchi di dare una mano» rispose Finn. «Non c'è pericolo.» La mia cucina sembrava il laboratorio di uno scienziato pazzo, vapore e calore e rumori e ronzii misteriosi. Ogni elemento era in funzione. Sulla stufa sfrigolava una padella e su una casseruola il coperchio tremolava spinto in su dal vapore che cercava di fuoriuscire. In una ciotola piena d'acqua c'erano delle foglie a macerare o qualcosa del genere. I petti di pollo erano nel forno. Finn stava tagliando molto velocemente qualcosa su un tagliere, rat-a-tat-tat, come il rullo di un tamburo militare. «Ciò che non capisco» dissi «è come tu riesca a fare tutto contemporaneamente. Quando io cerco di cucinare, faccio una cosa dopo l'altra e anche così sbaglio tutto.» Quella sera attendevamo un paio di amici per cena. Normalmente avrei comprato qualcosa di già pronto o ficcato dei piatti precotti nel microonde, ma Finn mi disse di lasciar fare tutto a lei, che avrebbe preparato una cenetta semplice. Dopo aver portato Elsie a scuola, avevamo percorso una trentina di chilometri passando attraverso villaggi, davanti a negozi di antiquariato e scuole di equitazione, e dopo un tratto lungo la costa eravamo arrivate a un supermercato che era molto simile a quello in cui di solito mi recavo tornando a casa dal lavoro quando vivevo a Londra. Comprai dei surgelati, sacchetti per la spazzatura, detersivi, mentre Finn si avviò verso il reparto alimentare: petti di pollo, funghi e riso in scatoline costose, ro-
smarino, aglio, olio d'oliva, verdura, vino rosso e bianco. Man mano che il carrello si riempiva, io cercavo di scoraggiarla. «Sarah e Clyde sono come me. Hanno vissuto di cibi precotti per tutta la vita. Ormai hanno le papille gustative atrofizzate e non si accorgeranno della differenza.» «Godi la vita finché puoi» rispose Finn. «Perché la morte dura a lungo.» Dovetti fare un notevole sforzo per non boccheggiare. «È appunto per questo che non bado a ciò che mangio.» «Vergognati, Sam. Sei un medico.» Finn stava diventando imperiosa in maniera allarmante e io stavo diventando passiva, come un'ospite in casa mia. Mi venne in mente, prima di scacciare velocemente il pensiero, che, nelle ultime settimane, da quando lei si era ripresa e aveva cominciato a rifiorire, io avevo cominciato a perdere il controllo sulla mia vita. Elsie sembrava quasi innamorata di Finn, Danny se ne era di nuovo andato, il reparto era diventato il sogno capitalista di un altro, il mio libro continuava a rimanere da scrivere. Nel pomeriggio la cucina sembrava un pronto soccorso. Lavorai un po', poi giocai con Elsie e infine la misi a letto, e quando ritornai, un paio di ore dopo, senza che in apparenza fosse cambiato molto, la situazione era meno caotica, la cucina era diventata un reparto di terapia intensiva. Qualche fischio e qualche bolla, ma solo pochi momenti occasionali di attività, un rimescolamento qui, una fiutata là. Sarah e Clyde arrivarono, poco dopo le sette, ansimanti e virtuosi nelle tute fluorescenti da ciclisti. Avevano preso il treno fino a Stamford e poi erano venuti in bici. Andarono di sopra a fare un bagno e ritornarono giù in jeans e ampie camicie. Questo fu l'autentico miracolo. Mentre di solito, anche se la cena consisteva solamente di pizze in scatole di cartone consegnate a domicilio e di confezioni di birra da sei, io mi affannavo a correre avanti e indietro presa dal panico, quella sera c'era un'atmosfera serena. Sul tavolo, vicino alle olive e a stuzzichini con salame e formaggio che Finn aveva messo insieme, c'erano due bottiglie di vino aperte. La tavola era apparecchiata e l'aria era pervasa dalla piacevole fragranza delle pietanze, ma non sembrava che la cosa fosse costata fatica ad alcuno. Finn non aveva il viso arrossato e non si precipitava in cucina ogni due secondi a rimediare a qualche inconveniente. Mesceva il vino tranquilla, senza essere pomposa. Si era messa un paio di pantaloni chiari e una camicetta nero fumo e si era legata i capelli. Diavolo, ero ammirata.
Forse ero diventata amica di Sarah e Clyde non solo perché avevamo fatto il tirocinio insieme, ma anche perché erano alti e magri come me. Sarah ora aveva qualche ruga intorno agli occhi e i suoi bei capelli ondulati erano grigi. Clyde aveva ancora l'aspetto scultoreo e longilineo, alla Clark Kent, di quando faceva canoa all'università, ma era diventato più magro, e il prominente pomo d'Adamo sembrava più imponente. Eravamo tutti alti e ci guardavamo dallo stesso livello. Clyde e Sarah erano medici generici e lavoravano insieme a Tower Hamlets. Quando avevano un weekend libero mettevano le bici su un treno, si lasciavano Londra alle spalle e prima della domenica sera percorrevano circa trecento chilometri, facendo sosta qua e là in case di amici. Io ero la prima tappa di quel loro weekend. «E domani staremo da Helen, sai, Farlowe.» «Dove vive?» «Blakeney. North Norfolk.» «Gesù. Vi sarete guadagnati la cena domani sera.» «Questo è il bello.» Bevemmo l'aperitivo fuori, nel parco, come chiamavo il mio povero giardino trascurato. Sarah sapeva riconoscere gli uccelli dal canto e Clyde mi diceva il nome delle piante del giardino, alcune delle quali, tra le più belle, scoprii di aver strappato in un impeto di entusiasmo e gettato nel mucchio della composta, scambiandole per erbacce. Poi Finn ci chiamò e ci servì dell'eccellente riso con funghi, seguito da un pollo cucinato con olio d'oliva, aglio e rosmarino, patate novelle e fagiolini. «A differenza di me» spiegai a Finn seduta dalla parte opposta del tavolo «Sarah e Clyde sono rimasti a Londra a fare un vero lavoro.» «Non dovresti sottovalutarti, Sam» disse lei con sentimento. Sarah si mise a ridere. «Non preoccuparti, Fiona» fece. «La modestia e la riservatezza inglesi non sono il punto forte di Sam.» «In ogni modo non si tratta di modestia» dissi. «L'autodenigrazione è un modo per costringere gli altri a dire quanto siamo meravigliosi. E un modo per ottenere complimenti.» Finn scosse il capo con un sorriso pensoso. «Non lo credo. Non credo che la maggior parte della gente sia in grado di dare un giudizio indipendente sugli altri. È troppo faticoso. La gente di solito accetta la valutazione che diamo di noi stessi. Se diciamo di essere bravi, di solito siamo creduti. E così anche se siamo modesti e non lo diciamo.»
Il fervido discorso di Finn fu seguito da un silenzio cupo rotto da Clyde. «E tu che cosa fai? E non fare la modesta.» «Sto scrivendo una tesi» rispose Finn. «Su che cosa?» «Ha a che fare con la storia della scienza.» «In che modo?» «Non penso che vogliate veramente sapere del mio lavoro.» «Sì, invece» insistette Sarah con calore. «Ricordati, ora abbiamo tutti il permesso di vantarci.» Finn mi lanciò un'occhiata dall'altra parte del tavolo. Io cercai di pensare a qualcosa per fermare quel disastro, ma tutto ciò che mi veniva in mente mi sembrava potesse solo peggiorare la situazione. Ci fu una lunga pausa mentre Finn si allungava a prendere il vino, si riempiva il bicchiere e beveva un sorso. «Volete veramente saperlo?» «Siamo molto impazienti» disse Clyde. «Beh, l'avete voluto voi. Sto scrivendo una tesi sulla tassonomia dei disordini mentali, usando i disturbi dovuti a stress postraumatico come soggetto principale.» «Che cosa significa in parole povere?» Finn mi fece un impercettibile cenno con gli occhi prima di rispondere. «Fondamentalmente la questione che mi affascina è quanto una certa patologia esista prima che le sia dato un nome. È stata scoperta, identificata o inventata? Ci sono sempre state gambe rotte e tumori. Ma l'uomo di Neanderthal soffriva di disturbi dovuti a stress postraumatico dopo una battaglia con coltelli di pietra e asce?» «Dopo la Prima guerra mondiale sono stati accertati casi di shock da bombardamento, no?» disse Clyde. «Sì, ma sapete da dove deriva il termine?» «No.» «Si pensava che lo scoppio delle bombe causasse danni fisici alle fibre nervose intorno alla spina dorsale. La prima volta che quella condizione fu trattata come una malattia fu in seguito a un incidente ferroviario, quando si scoprì che i sopravvissuti presentavano dei sintomi da shock ma non lesioni fisiche. Si pensò che lo shock fosse causato dall'impatto fisico. Quando sintomi simili furono osservati nelle trincee, si pensò fossero causati dalle onde d'urto dovute alle granate. E furono trattati come ferite. Forse i soldati stavano solo esprimendo una reazione naturale alla follia del
combattimento in trincea. Ma poi persone che avevano il potere di farlo, chiamarono quelle forme di comportamento sintomi e disturbi e le curarono in ambito medico.» «Pensi che si tratti di un'invenzione?» «E quel che sta investigando Sam.» «Come vi siete conosciute?» «Una persona del mio dipartimento era a conoscenza della ricerca che Sam sta compiendo. Io ho studiato statistica e Sam aveva una camera libera e mi è parsa una buona idea venire a stare qui per un po'. Sono molto fortunata. Credo che Sam con il suo lavoro arriverà a una ridefinizione dell'argomento e a una classificazione sistematica. Sono fortunata di poterla seguire per un po'.» Sarah mi lanciò un'occhiata. «Da come la descrive Fiona, la tua ricerca sembra affascinante. A proposito, come sta andando?» Ci fu silenzio. «Sam?» «Che cosa?» «Come sta andando la tua ricerca?» «Scusa, ero lontana mille miglia. Bene, sta andando bene.» «E per di più Fiona sa anche cucinare.» «Già» risposi debolmente. Non avrei assolutamente permesso che Finn lavasse i piatti. La mandai in soggiorno con Clyde e cominciai a lavare mentre Sarah asciugava. «Come sta andando il libro?» «Non dico niente» risposi. «Va bene, quando l'avrai scritto, vuoi che gli dia un'occhiata?» «Sarebbe bello, solo che probabilmente dovrai aspettare molto.» «E come sta Danny?» «Non lo so veramente» risposi e con orrore sentii le lacrime pizzicarmi le palpebre. «Tutto bene tra voi due?» Mi strinsi nelle spalle, non fidandomi della voce. Sarah mi lanciò un'occhiata, poi asciugò meticolosamente un cucchiaio e lo mise nel cassetto. «Fiona è una bella scoperta» disse. «Già» risposi un po' tetramente. «Ti idolatra.» «Non credo.» «Ma sì. La osservavo durante la cena. Ti guarda continuamente. Ripete
come un'eco le tue espressioni, i tuoi gesti. Ogni volta che apre bocca ti lancia uno sguardo, per una frazione di secondo, come se avesse bisogno di controllare la tua reazione.» «Mi fai accapponare la pelle.» «Non intendevo questo.» «In ogni modo succede, no?, tra insegnante e discepolo. Come quando i pazienti si affezionano al proprio medico. Sarà solo per un breve periodo.» Sarah sollevò un sopracciglio. «Davvero? Pensavo che ti stesse aiutando nel progetto.» «Sì, per il momento, ma non è una sistemazione permanente.» «Mi chiedo come farai senza di lei.» Sarah e Clyde volevano ripartire all'alba, così dopo il caffè e due chiacchiere sul lavoro, andarono a dormire. Finn si sdraiò per terra con un libro. «Sei stata straordinaria.» «Che cosa?» «Mi è venuto quasi un colpo quando Clyde ha cominciato a farti domande sulla tua ricerca.» Finn posò il libro e si mise a sedere, le ginocchia tirate su contro il petto. «Mi sentivo male per te. Ho cercato di pensare a qualcosa di convincente. Spero di non aver fatto male.» «Fatto male? Mi hai fatto venir voglia di leggere la tua tesi. Non riesco a credere che tu abbia assorbito così tanto. Sei una ragazza straordinaria, Finn. Una donna straordinaria.» «Non sono io, Sam, sei tu. Io sono solo interessata a te e al tuo lavoro. Quando Clyde mi ha chiesto che cosa facevo, per un secondo mi è venuto il panico. Poi, sai che cosa ho fatto? Ho immaginato di essere te e ho cercato di dire quello che avresti detto tu.» Mi misi a ridere. «Mi piacerebbe essere così brava a essere me stessa come lo sei tu» dissi. Mi voltai per andarmene, ma Finn continuò a parlare. «Voglio che tutto questo continui.» «Che cosa vuoi dire?» «Mi piace molto. Non sorridere. Mi piace davvero. Mi piaci tu e mi piace stare con Elsie e badare a lei. Penso che Danny sia meraviglioso. E Michael... mi ha salvato la vita. Non sarei nulla senza di lui. Non so che cosa potrei mai fare per ripagarlo di ciò che ha fatto per me.» Sollevò gli occhi
su di me, quasi implorando. «Voglio stare qui, per sempre.» Era un momento che aspettavo ed ero sollevata che fosse arrivato. Mi inginocchiai accanto a lei. «Finn, non è possibile. Hai la tua vita. Devi ritornarci, e presto. Guardati, puoi fare qualsiasi cosa. Puoi farcela.» Gli occhi di Finn si riempirono di lacrime. «Mi sento al sicuro qui, in questa casa» disse. «Ho paura di quello che c'è fuori.» Capitolo 22 Ho conosciuto Danny a un party, anche se di regola alle feste non socializzo mai con nessuno eccetto le persone che conosco già. La serata era in quel piacevole stadio in cui si è alticci, gli ospiti se ne sono quasi tutti andati, i padroni di casa portano i bicchieri in cucina o svuotano i portacenere traboccanti, i pochi ospiti rimasti sono completamente a loro agio, e la musica è dolce e lenta. La spinta a mettersi in mostra non c'è più, non si deve più essere brillanti, sorridere, si sa che la serata è alla fine e si ha voglia che duri ancora un poco. Danny attraversò la stanza con gli occhi su di me. Mi ricordo di aver sperato che non fosse stupido, come se un uomo così bello non potesse essere anche intelligente, se la vita dividesse le cose equamente. Prima che mi rivolgesse anche solo una parola, sapevo che avremmo avuto una relazione. Mi disse il suo nome e mi chiese il mio. Mi disse che era un attore senza successo e un falegname di buon successo, e io gli risposi che ero dottoressa. Poi mi disse molto semplicemente che gli sarebbe piaciuto rivedermi e io gli risposi che sarebbe piaciuto anche a me. Quando ritornai al mio appartamento, dopo aver pagato la baby-sitter, buttato via le scarpe con un calcio, dato un'occhiata a Elsie che dormiva, andai ad ascoltare i messaggi sulla segreteria telefonica, e sentii la sua voce, che mi invitava a cena per la sera successiva. Doveva avermi telefonato appena avevo lasciato il party. Danny non faceva giochetti. Andava e veniva e a volte non lo sentivo per giorni e non sapevo neppure dove fosse. Ma era sempre stato schietto con me. Litigavamo e poi facevamo la pace, gridavamo e ci scusavamo. Non era ambiguo. Non se ne andava per darmi una lezione. Non ritardava a telefonarmi solo per farsi desiderare o farmi soffrire. Per giorni aspettai che Danny mi chiamasse, controllavo la segreteria telefonica tutte le volte che ritornavo a casa. Verificavo che Elsie avesse ri-
messo a posto bene la cornetta del telefono. Quando il telefono squillava ero nervosa come un'adolescente, aspettavo il secondo o il terzo squillo prima di rispondere, ma non era mai Danny. La sera rimanevo sveglia a lungo dopo che Finn era andata a dormire, perché speravo che lui arrivasse, con perfetta noncuranza, come se non se ne fosse mai andato. Mi svegliavo al buio e pensavo che fosse accanto a me. Sentivo il corpo contratto per la speranza. Dormivo sonni leggeri come una piuma e mi svegliavo a ogni rumore, una macchina sulla strada lontana, il vento tra gli alberi, il grido snervante della civetta. Non c'era mai risposta quando lo chiamavo al suo appartamento e non inseriva più la segreteria telefonica. Dopo una settimana circa chiamai il suo miglior amico, Ronan, e gli chiesi, il più casualmente possibile, se avesse visto Danny di recente. «Avete di nuovo litigato, Sam?» mi chiese allegramente. Poi: «No, non l'ho visto. Pensavo fosse da te». Lo ringraziai e stavo già per riappendere il ricevitore quando Ronan aggiunse: «Visto che parliamo di Dan, ti dirò che ultimamente sono un po' preoccupato per lui. Sta bene?». «Perché? Che vuoi dire?» «È solo che è un po', non so, cupo. Pensieroso. Sai che cosa voglio dire?» «Mamma?» «Sì, amore.» «Quando ritorna Danny?» «Non lo so, Elsie. Ha da fare. Perché, ti manca?» «Mi ha promesso di portarmi al teatro dei burattini e poi voglio fargli vedere come so fare le capriole adesso.» «Quando verrà, sarà molto orgoglioso di come fai le capriole. Vieni qui e dammi un abbraccione, un abbraccio da orso.» «Oh, mi fai male, mamma. Non devi stringermi così forte. Io sono piccola.» «Sam.» «Mmm.» «Danny ritornerà presto?» «Non lo so. Per l'amor del Cielo, Finn, non metterti anche tu a chiedermi di Danny. Verrà quando ne avrà voglia, suppongo.» «Stai bene?»
«Sì, naturalmente. Dannazione, vado a fare una passeggiata.» «Vuoi che io...» «Da sola.» «Sam, tuo padre e io ci chiedevamo se tu ed Elsie e Danny voleste venire a passare da noi la prossima domenica. Volevamo, ehm, conoscere meglio il tuo ragazzo.» «Mamma, ci piacerebbe, è gentile da parte tua, ti ringrazio, ma posso richiamarti per confermare? Ora non è un buon momento.» «Oh» il familiare tono stizzito di orgoglio ferito mi fece provare una fitta di nostalgia assai poco familiare e poco ben accetta «d'accordo, allora, cara.» Non un buon momento. Girai per il supermercato come una furia, la testa che mi doleva dopo una mattinata lunga e deprìmente passata a intervistare segretarie all'ospedale. Piselli surgelati. Bagnoschiuma con il personaggio di un cartone animato che non riconoscevo sulla bottìglia. Bastoncini di pesce. Pasta di tre colori. Bustine di tè. Biscotti digestivi e gallette appiccicatìcce. Che Danny andasse a farsi friggere. Pane con aglio. Margarina di olio semi di girasole. Pane scuro affettato. Burro di arachidi. Lo desideravo e che cosa dovevo fare? Oh, che cosa dovevo fare? Ali di pollo all'orientale. Mele verdi croccanti, che venivano da Cape Town, ma andava bene così. Tre scatole di zuppa: lenticchie e spinaci e pastinaca al curry, da fare nel microonde. Gelato alla crema. Crostata di noci americane, surgelata, semplicemente da mettere in forno. Birra belga. Non sarei mai dovuta venire in campagna e non sarei mai dovuta prendere Finn. Formaggio cheddar, mozzarella. Cibo per gatti al sapore di coniglio, pollo e salmone, con il muso grasso di un gatto che faceva le fusa sulla scatoletta. Patatine. Noci. Una cena pronta per una persona. Quando arrivai a casa la porta era chiusa a chiave. Entrai e chiamai Finn di sopra, ma non rispose nessuno. Scaricai la spesa, ficcai le cibarie dentro il freezer già strapieno, riempii il bollitore, accesi la radio poi la spensi. Poi feci un profondo respiro e andai nel mio studio a controllare la segreteria telefonica. L'occhiolino verde non stava lampeggiando: nessuno mi aveva chiamato. Ma sulla scrivania c'era una busta con il mio nome scritto sopra. E, ap-
poggiai la mano sulla superficie di legno per un momento, la scrittura era quella di Danny. Era stato qui, era venuto mentre ero fuori e aveva lasciato una nota in modo da non dovermelo dire a voce. Presi la busta e la rivoltai, la tenni in mano per un momento. C'erano due fogli. Il primo era suo. La carta era stazzonata e macchiata. C'erano poche parole, visibilmente scritte in fretta, senza attenzione, ma inequivocabilmente sue. Sam Addio. Mi dispiace. Io Danny Tutto qui. Il suo apparente tentativo di giustificazione era finito nel nulla e lui non si era dato la pena di portarlo a termine. Il respiro mi sollevò il petto e poi mi svuotò. La scrivania era ruvida sotto la mia mano. Posai attentamente la lettera di Danny. Le mani mi tremavano. Poi diedi un'occhiata all'altro foglio, una foresta di occhielli blu e di sottolineature. Cara Sam - come era diventata intima tutto a un tratto. Forse si sentiva quasi una sorella, dopo essere fuggita con il mio amante - è una follia, lo so. Non riuscivamo a vivere l'uno senza l'altra. - Com'era commovente, pensai, l'amore come è descritto nelle riviste; l'amore come un uragano, un destino, una follia. - Mi dispiace farti del male, mi dispiace tanto. Con affetto, Finn. Rimisi il patetico scarabocchio di Danny e la lettera di Finn nella busta e la posai dove l'avevo trovata. Danny e Finn, Danny e Finn. Presi la fotografia di Danny, schiena rivolta alla macchina fotografica e viso girato verso di essa, colto di sorpresa, e la misi con cura nel cassetto della scrivania. Corsi nella camera di Finn. Il letto era fatto e aveva un asciugamano ordinatamente piegato sopra. Scesi rumorosamente le scale. Una delle giacche di Finn, quella blu scuro, mancava. Era uno stupido scherzo che non riuscivo a capire? No. Se ne erano proprio andati. Lo dissi forte come se fosse il solo modo in cui riuscissi ad assimilare quel che era successo. «Se ne sono andati. Finn.» Mi costrinsi a dirlo. «Danny.» Guardai l'orologio. Dopo due ore Elsie sarebbe ritornata. Il ricordo del suo corpicino avvolto intorno a quello sottile di Finn, del suo viso pallido e grave piegato verso quello sorridente di Finn, delle capriole che faceva tutte le sere per farle vedere a Danny, mi paralizzò per un momento. La bile mi salì in gola. Andai al lavandino della cucina, mi schizzai sul viso dell'acqua fredda e bevvi due bicchieri. Poi ritornai al mio studio, presi il telefono e premetti il
tasto tre volte. «Polizia di Stamford 2243.» Ci fu una pausa. «L'ispettore capo Frank Baird, per favore. Subito.» Baird arrivò dopo meno di mezz'ora insieme ad Angeloglou. Avevano entrambi l'aria agitata, solenne. Non riuscivano quasi a guardarmi in viso. La mia mente irrequieta si fissò su quanto fossero diversi l'uno dall'altro. Baird grande e grosso, il vestito stretto sotto le braccia, i capelli rossi, la testa grossa. Angeloglou più ordinato, la cravatta ben annodata al collo, i capelli folti, ricciuti e scuri. Come faceva a pettinarli? Sembravano più cauti nei miei confronti. Mi ero trasformata da una dottoressa a una donna piantata da un uomo. E anche se non lo dicevano, entrambi chiaramente pensavano che Danny fosse poco meno di un criminale a esser scappato con Finn. Non avevo molto da dire, la storia era abbastanza semplice. Qualsiasi sciocco poteva capirla. Angeloglou annotò qualcosa su un taccuino, lessero le lettere che i due si erano lasciati dietro e andammo insieme nella camera di Finn a guardare nell'armadio. Tra gli attaccapanni vuoti era rimasta una camicia; niente biancheria; niente scarpe; nulla. La camera era stata lasciata in ordine, un fazzoletto di carta accartocciato nel cestino della cartastraccia e il piumino ben ripiegato sul letto. Ero piuttosto acida con Baird, ero certa che capisse. Poco prima di andarsene si fermò sulla soglia, rigirandosi la fede al grosso dito, rosso per l'imbarazzo. «Signorina Laschen...» «Dottoressa Laschen.» «Dottoressa Laschen, sono...» «Non dica niente. Ma grazie comunque.» Avevo ancora trenta minuti prima che arrivasse Elsie. Misi in ordine la cucina, pulii il tavolo e spalancai la finestra, perché fuori era una mite giornata primaverile. Raccolsi quattro tulipani arancioni dal giardino e li misi in soggiorno. Corsi di sopra nella camera di Elsie e riordinai il suo letto, mettendole l'orsacchiotto spelacchiato sul cuscino. Poi andai in cucina a cercare qualcosa per la sua cena Gli spaghetti di Sonic il porcospino, che adorava. E avevo comprato il gelato al supermercato. Mi lavai i denti in bagno e guardai il volto che mi fissava allo specchio. Mi sorrisi e obbedientemente il mio volto rispose con un sorriso. Elsie mangiò i suoi spaghetti e il gelato e si fece il bagno con il bagnoschiuma nel flacone a forma di Pocahontas. Poi facemmo un gioco di sciarade piuttosto sconsolatamente e le lessi tre storie. Infine lei mi chiese:
«Dov'è Fing?». Che cosa avevo deciso di dirle? «In questo momento non c'è.» No, non era questo. «Finn se n'è andata, cara. Poteva rimanere qui solo per un breve periodo. Deve vivere la sua vita.» «Ma non mi ha neanche salutato.» «Ha chiesto a me di farlo» mentii. «Ti manda un bacio.» Baciai Elsie sulla fronte perplessa e sui capelli morbidi e lucidi. «E un abbraccio.» La abbracciai, sentendo le sue spalle ostinate sotto le mie mani nervose. «Ma dov'è andata?» «Ma, a dir la verità» dissi con vivacità «è andata a stare con Danny per un po'. Carino, non ti pare?» «Ma Danny è nostro.» «Amore mio, solo noi due siamo l'una dell'altra.» «Mamma... mi stringi troppo.» Dopo che Elsie si fu addormentata, mi feci un lungo bagno. Mentre giacevo nell'acqua calda pensavo a Danny e a Finn. Li immaginai insieme, il corpo liscio e giovane di lei avvolto da quello forte di lui; ciocche di capelli scuri sul petto di lui; il tenero seno. Immaginai le loro gambe, quelle di lei pallide e quelle di lui pelose e muscolose, intrecciate sul mio letto; i forti piedi di Danny, il secondo dito molto più lungo dell'alluce, avvinghiate sotto gli acquiescenti polpacci di lei. L'aveva guardata con la stessa aria grave con cui guardava me? Ovviamente. Si amavano, no? L'aveva detto Finn. Dovevano esserselo detto. Come avevo fatto a non vedere? Perfino ora non riuscivo veramente a vedere; quando ripensavo alle settimane passate era come se un'oscurità calasse improvvisamente sul filo dei giorni. Avevano scopato in questa casa, soffocando i sospiri? Probabilmente sì, proprio qui, nel luogo che avevo aperto loro con fiducia. Ero proprio cieca. Eravamo seduti tutti e tre insieme e io che pensavo di essere al centro di quel mondo, invece ne ero fuori, esclusa, mentre loro si scambiavano sguardi, si inviavano vibrazioni elettriche attraverso l'atmosfera, si toccavano i piedi sotto la tavola, si mandavano messaggi tra le righe. Aveva grugnito quando era venuto dentro di lei, aveva emesso quel lacerante suono di dolore? Li immaginavo, lui che si alzava da sopra di lei, sudato, la schiena tesa, lei che sorrideva al volto aggrottato, affaticato di lui. Mi lavai vigorosamente e mi massaggiai lo shampoo sulla testa. Anche se ero stanca, mi sentivo terribilmente sveglia. Alla fine mi guardai allo specchio, gli
spettrali capelli rossi schiacciati sul cranio, mi toccai le piccole borse sotto gli occhi, mi passai una mano sulla pelle secca del volto. Sembravo una vecchia cornacchia. Poi mi infilai una tuta e accesi un fuoco, accartocciando dei fogli di giornale, gettando tra i pezzi di legno delle buste vuote, il cartone dei rotoli della carta igienica e le scatole di cereali, finché le fiamme non divamparono con un rapido calore che presto si sarebbe attenuato. Ci fu un colpo alla porta. «Sam.» Sulla soglia c'era Michael Daley con le braccia aperte in una posa teatrale, tragica, ridicola. Che si aspettava che facessi? Che mi ci gettassi dentro? Il suo aspetto era in sintonia con il mio. Pallido e scioccato. «Beh, Michael, che sorpresa. Qual buon vento ti porta qui?» dissi sardonicamente. «Sam, non essere fredda con me. Ho appena passato un'ora con quel poliziotto, Baird. Mi dispiace, non ci posso credere, ma mi dispiace tanto. E mi sento responsabile. Voglio sapere se c'è qualcosa, qualsiasi cosa, che possa fare. Sto per andare a Londra, ma dovevo vederti.» Con orrore sentii le lacrime salirmi agli occhi. Se avessi cominciato a piangere, non avrei più smesso. Mio Dio, non volevo che Michael Daley mi vedesse piangere. Dovevo concentrarmi. «Che c'è a Londra?» «Niente di importante. Prendo l'aereo per Belfast per un congresso. Una questione di finanziamenti. Un incubo. Mi dispiace...» La sua voce svanì nel nulla. Mi voltai per rientrare in casa e poi sentii le sue mani sulle spalle, che mi tenevano con forza. Sapeva di sigarette e di vino. Aveva le pupille dilatate. «Non c'è bisogno che tu faccia la coraggiosa con me, Sam.» «Sì, invece» gli risposi aspramente, scrollandomelo di dosso. Ma mi prese il mento in una mano e con l'altra seguì il percorso di una lacrima. Ci fissammo per un lungo momento. Che cosa voleva da me? «Buona notte, Michael» dissi e chiusi la porta.
Capitolo 23 Io non venivo lasciata, lasciavo. Non mi facevo umiliare. Quello succedeva agli altri. Quando ero adolescente ero sempre io che mi sedevo con il
ragazzo di turno e lo guardavo negli occhi, o quando non volevo scocciature gli telefonavo, e gli dicevo che era tempo che smettessimo di vederci e tutto il resto. Toccava a loro, ai miei ragazzi, i miei ex ragazzi, arrossire e sentirsi offesi e rifiutati. E non soffrivo mai di insonnia. Anche nei momenti peggiori, o almeno finché non mi ero trasferita in campagna, dormivo indisturbata. Ma a metà della notte dopo quel che era successo, dopo che Danny e Finn se n'erano andati, mi ritrovai sveglia, la pelle che mi pizzicava, la mente che continuava a lavorare come un motore elettrico lasciato acceso a ronzare vanamente, fino a incepparsi. Sentii una pressione familiare contro il braccio destro. Non era Danny. Era Elsie, che era montata silenziosamente sul mio letto e si era subito riaddormentata. Doveva essere salita senza svegliarmi. La baciai sui capelli e sul naso. Con un angolo del piumino le asciugai la fronte, dove era caduta una mia lacrima calda. Guardai verso la finestra. Le tende erano scure. Non riuscivo a vedere l'orologio. E non riuscivo neanche a vedere l'ora sulla radiosveglia, ma non volevo muovermi per non svegliare Elsie, che non si sarebbe più riaddormentata. Mi sarebbe piaciuto prendere un bisturi e colpire Danny, ferirlo lentamente, ripetutamente. Non riuscivo a credere che mi avesse fatto questo. Avrei voluto scovarlo, dovunque fosse, e chiedergli se si rendeva conto di quel che aveva fatto a Elsie, che contava tanto su di lui. E si rendeva conto di quel che aveva fatto a me? Lo rivolevo, disperatamente. Volevo spiegargli che se fosse ritornato avremmo potuto aggiustare le cose. Avremmo risolto i problemi. Sarei tornata a Londra, ci saremmo potuti sposare, qualsiasi cosa purché potesse essere di nuovo come prima. E Finn. Mi sarebbe piaciuto prendere il suo bel visino e riempirlo di pugni. No. Calpestarlo. Triturarlo. L'avevo ospitata in casa mia, le avevo permesso di accedere ai recessi più intimi della mia vita, le avevo rivelato segreti che non avevo mostrato a nessun altro, le avevo affidato Elsie. Le ero stata più vicina di quanto fossi stata con mia sorella e lei se ne era fregata e mi aveva distrutto la vita. Poi mi vennero in mente i dettagli dell'autopsia dei suoi genitori, fatta dal dottor Kale, e la fasciatura attorno al collo quando l'avevo vista la prima volta, spaventata e silenziosa sul mio divano. Mi era sembrata un pezzo di porcellana che poteva cadere e infrangersi. L'avevo vista tornare a essere dolce e umana, e questo era ciò che aveva fatto. O non era che un altro sintomo? L'urlo di una ragazza triste e sola che chiede aiuto? E Danny, non si stava comportando nella maniera tipica dell'uomo debole? Non aveva fatto quel che fanno di solito gli uomini
quando sono lusingati dalle attenzioni di una bella ragazza? Le lacrime mi scorrevano ai lati del viso. Perfino le orecchie erano bagnate. Dopo un'ora di lacrime e singhiozzi caddi in una fredda quiete e riuscii a osservare le mie reazioni con oggettività, o almeno così credevo. Sentivo il dolore a strati. Il nocciolo era costituito dal tradimento di Finn e dall'abbandono da parte di Danny di me ed Elsie. Mi sentivo scottata da ciò, annientata, ma poi questa sensazione si affievolì e riflettei su altre cose. Sul senso di fallimento professionale. Avevo continuato a ripetere che Finn non era mia paziente, avevo fatto resistenza a quella stupida sistemazione. Ma anche tenendo conto di ciò, era stato un disastro totale. Mi era stata affidata la vittima traumatizzata di un'aggressione omicida e la faccenda era finita non con la guarigione, ma in un'assurda farsa. Lei era scappata con il mio uomo. Mi vantavo di essere una persona indipendente, che non si curava di quel che gli altri pensavano di me, ma ora non potevo fare a meno di pensarci. Pensai a Chris Madison a Newcastle e a Paul Mastronarde a Londra, che l'avrebbero trovata una cosa divertente e che avrebbero raccontato agli altri che naturalmente era terribile, ma che, a essere sinceri, me lo meritavo, ero sempre così arrogante. Pensai a Thelma, che aveva avuto l'idea. Pensai a Baird, che era sembrato dubbioso nei miei confronti fin dall'inizio e alla marmaglia della centrale di polizia. Si sarebbero fatti tutti una bella risata. Poi, mio Dio, pensai ai miei genitori e a Bobbie. Non sapevo che cosa fosse peggio: il misto di shock, vergogna e disapprovazione che sarebbe stata la prima reazione della famiglia, o la compassione che sarebbe venuta in seguito, le braccia aperte offerte a Samantha, la figliola prodiga. Ci fu una frazione di secondo in cui provai il desiderio di dormire e non svegliarmi più, piuttosto che affrontare le cose orrende che il giorno mi riserbava. Sarebbe stato così spiacevole e noioso che non ne avevo la forza. Ipoglicemia, naturalmente. La crisi metabolica caratteristica della prima mattinata, superata dall'attività e dal nutrimento. Le tende ora erano grigie ed Elsie si stava muovendo sul mio braccio. Poi aprì gli occhi e si drizzò a sedere come una molla. Il braccio mi si era addormentato. Me lo sfregai vigorosamente e la vita ricominciò a circolare. Che il mondo andasse a farsi fottere. Sarei sopravvissuta e non mi sarei curata di quel che pensavano gli altri. Non mi sarei fatta vedere debole da nessuno. Presi Elsie sotto le ascelle, la lanciai in alto e la lasciai cadere. Ruzzolò sulla coperta con un grido di terrore e piacere. «Ancora, mamma. Fallo un'altra volta.»
Il giorno successivo feci della colazione di noi ragazze un'avventura. Uova con bacon, pane tostato e marmellata e un pompelmo, ed Elsie mangiò la sua metà ed eccitatissima rubò degli spicchi dalla mia. Mi feci il caffè. Alle otto e mezza la portai a scuola. «Che cosa sembra quell'albero?» «Un uomo con i capelli verdi e la barba verde. Che cosa sembra quell'albero?» «L'avevo già detto io albero.» «No, l'ho detto io, l'ho detto io.» «D'accordo, Elsie. Sembra... con questo vento sembra una nuvola verde.» «No, non è vero.» «Sì.» «No.» «Sì.» «No.» Il gioco finì così, con quell'alternarsi di sì e no in un crescendo di risate. Al ritorno le nuvole erano ben definite, gli edifici si stagliavano più chiaramente contro il cielo. Mi sentivo risoluta. Avrei badato a Elsie e avrei lavorato. Tutto il resto era superfluo. Mi preparai dell'altro caffè e andai nello studio. Eliminai dal computer tutto ciò che avevo scritto fino ad allora. Non era che spazzatura, l'inutile prodotto di un'attività svolta senza entusiasmo. Aprii un file per riguardare delle cifre e poi lo chiusi e cominciai a scrivere. Avevo tutto in testa in ogni modo. Avrei controllato i dati in seguito. Scrissi per quasi due ore senza alzare gli occhi dallo schermo. Le frasi mi scorrevano senza inciampi dalle dita e capivo che erano buone. Come Dio che crea il mondo. Poco prima delle undici udii aprirsi la porta di ingresso. Sally. Ora di rifare il caffè. Mentre il bollitore era sul fuoco, le feci un breve resoconto della situazione. Con voce ferma, senza che le mani mi tremassero, senza arrossire. A lei non importò molto e a me non importava quel che ne pensasse. Sam Laschen era di nuovo padrona di sé. Sally cominciò a pulire e io ritornai nello studio. All'ora di pranzo feci una pausa di cinque minuti. In frigo trovai una mezza porzione di lasagne precotte. Le mangiai fredde. L'era del cibo ben cucinato era passata. Dopo un'altra ora avevo finito un capitolo. Cliccai un paio di volte con il mouse. Quattromilacinquecento parole. Di questo passo il libro sarebbe stato finito nel giro di un paio di settimane. Andai al classificatore dove tenevo le car-
telle di documenti ed estrassi due buste di dati. Li scorsi molto rapidamente, più che altro per rinfrescare la memoria. Mi ci vollero solo pochi minuti e poi li riposi di nuovo nel classificatore. Aprii un nuovo file: Secondo Capitolo. Definizioni di guarigione. Colsi con la coda dell'occhio un movimento di fuori. Una macchina. Ne scesero Baird e Angeloglou. Per un momento una parte di me pensò che si trattasse di una specie di ricordo o di un'allucinazione. Questo era successo ieri. Stavo rivivendo un sogno orribile? Non poteva succedere di nuovo. Ci fu un colpo alla porta. Doveva essere una faccenda di routine, un modulo da firmare o qualcosa del genere. Quando aprii la porta, si scambiarono uno sguardo di sottecchi. «Sì?» feci. «Pensavamo che forse aveva saputo qualcosa» disse Baird. «Danny non ha chiamato e se maledettamente lo facesse...» I due poliziotti si scambiarono di nuovo uno sguardo. Che cosa succedeva? «Non intendevamo questo. Possiamo entrare?» chiese Baird cercando in modo tetro di sembrare indifferente. Non c'era nulla dei consueti sorrisi e ammicchi. Baird aveva l'aria di uno che fa finta di fare il poliziotto. Sulla fronte aveva delle gocce di sudore anche se faceva freddo e umido. «Che cosa succede?» «Per favore, Sam.» Li feci entrare e si sedettero l'uno accanto all'altro sul divano come Stanlio e Ollio. Baird si accarezzava il dorso irsuto della mano sinistra con le dita della destra. Uno che sta per incominciare un discorso. Angeloglou stava in silenzio, evitando di guardarmi in viso. Gli zigomi accentuati dalla tensione della mascella. «Per favore, si sieda» disse Baird. «Ho una cattiva notizia.» Stava ancora accarezzandosi la mano, i cui peli erano di un incredibile rosso, ancor più intenso di quello dei capelli. Non riuscivo a staccar loro gli occhi di dosso. «Ieri sera è stata trovata una macchina bruciata dalle parti di Bayle Street, lungo la costa a circa trenta chilometri da qua. Siamo riusciti rapidamente a stabilire che si trattava del camioncino Renault intestato a Daniel Rees.» «Cristo. Ha avuto un incidente...?» «Nella macchina c'erano due corpi carbonizzati. Deceduti. Il fuoco li ha resi irriconoscibili e le analisi per l'identificazione non sono state completate. Ma si deve preparare a pensare che quasi certamente si tratta dei corpi
del signor Rees e della signorina Mackenzie.» Cercai di fermare quel momento, di afferrare lo shock e la confusione come se fossero un prezioso stato mentale. Non avrebbe mai potuto essere peggio di così. «Dottoressa Laschen, ha sentito ciò che ho detto?» Baird parlava dolcemente, come a un bambino seduto sulle sue ginocchia. Annuii. In modo non molto accentuato. Nulla di isterico o esagerato. «Ha sentito ciò che ho detto?» «Sì, certo. Grazie per essere venuti a dirmelo. Non vi tratterrò ancora.» Chris Angeloglou si piegò in avanti. «Non c'è niente che lei voglia chiederci? Niente che voglia dire?» «Mi dispiace» dissi guardando l'orologio. «Il problema è che è quasi l'ora che vada a prendere... ehm... mia figlia.» «Non può andarci Linda?» «Linda? Non so...» Mentre Baird parlava ero assolutamente cosciente di quel che stava accadendo. Avevo udito le informazioni e nello stesso tempo osservato con interesse professionale il modo in cui lui mi aveva comunicato quella notizia dolorosa. E avevo anche valutato la mia reazione con lucidità. Sentivo le lacrime scorrermi sul viso e mi resi conto che piangevo ed ero scossa dai singhiozzi. Continuai a piangere finché non mi sentii quasi soffocare da tutto quel dolore e quello strazio. Sentii una mano sulla spalla e poi una tazza di tè contro le labbra e fui sorpresa che fosse passato tanto tempo da aver permesso loro di preparare il tè e servirlo. Ne bevvi qualche sorso scottandomi la bocca. Cercai di parlare senza successo. Feci qualche profondo respiro e tentai di nuovo. «Hanno avuto un incidente?» chiesi. Baird scosse il capo. «Che cosa?» chiesi con una specie di gracidio. «Vicino alla macchina è stato trovato un messaggio.» «Che cosa significa?» «Era indirizzato a lei.» «A me?» ripetei per inerzia. «Il messaggio è stato scritto dalla signorina Mackenzie. Dice che dopo aver capito quel che avevano fatto, a lei soprattutto, sentivano che non c'era più ragione di vivere e avevano deciso di morire insieme.» «Si sono suicidati?» chiesi stupidamente. «Queste sono le prime supposizioni.»
«È ridicolo.» I due rimasero in silenzio. «Non avete sentito quel che ho detto? È ridicolo e impossibile. Danny non si sarebbe mai e poi mai ucciso. In nessuna circostanza. Era... Come l'hanno fatto?» Guardai Baird. Aveva un paio di guanti in mano e li stava torcendo con forza, come se li stesse strizzando. «Vuole veramente...?» «Sì.» «La macchina è stata incendiata con uno straccio inserito nel serbatoio di benzina. Sembra che si siano sparati, ognuno con un singolo colpo in testa. Sulla scena è stata trovata una pistola.» «Una pistola? E come se la sono procurata?» Rupert deglutì a fatica e cambiò posizione. «La pistola era intestata a Leopold Mackenzie» mormorò a bassa voce. Mi ci volle un momento per capire quel che avevo sentito, poi fui quasi accecata dall'ira. «Mi sta dicendo che Finn era entrata in possesso della pistola di suo padre?» Baird si strinse nelle spalle imbarazzato. «E che l'aveva portata in questa casa? Non eravate a conoscenza del fatto che Mackenzie possedeva una pistola e che risultava mancante?» «No» rispose Baird. «È una situazione difficile per noi e so che deve essere difficile per lei.» «Non mi faccia la predica, Baird, con della psicologia preconfezionata.» «Non intendevo...» mi disse dolcemente. «Volevo dire che deve essere difficile per lei.» Sussultai. «Che cosa vuole dire?» «Voglio dire che questo succeda di nuovo, una seconda volta.» Ricaddi nella sedia, infelice e sconfitta. «Bastardi. Avete fatto ricerche su di me, vero?» Capitolo 24 «So contare fino a cento.» «No! Fammi sentire.» «Uno, due, tre, saltane un po', novantanove, cento.» Ridacchiai con apprezzamento, mani sul volante, occhi sulla strada, occhiali scuri per coprire gli occhi iniettati di sangue. «E senti. Non mi hai fatto niente, faccia di serpente.»
«Chi lo dice?» «Noi.» «E diciamo anche, non mi hai fatto male, faccia di maiale.» «Ma dai! Chi l'ha detto?» «Joshua, che mi ama e mi bacia sullo scivolo quando la signorina non lo guarda e ci sposeremo quando saremo grandi.» «Ecco» dissi vivacemente. «Siamo arrivati a casa di Kirsty.» Kirsty, calze bianche ben tirate su alle ginocchia cicciottelle, vestito blu con un fresco colletto bianco, cappottino rosso che si trascinava dietro, vivace fermaglio sui lucidi capelli castani, venne alla porta. «Non c'è Fing?» chiese quando vide me ed Elsie. Dietro di lei la signora Langley mi faceva segno con la bocca, che non le aveva detto niente. «Fing è...» cominciò Elsie con aria di importanza. «Non oggi, Kirsty, ma ci divertiremo lo stesso. Dov'è la tua borsa del nuoto? Salta in macchina su. Come sei elegante, dai, monta» blaterai, come se parlando velocemente e senza fermarmi potessi cancellare la sua domanda, rimpiazzarla con pensieri sull'acqua clorata seguita da patatine, e un pomeriggio passato nell'oscurità calda del vecchio cinema, con i sedili ribaltabili di velluto spelacchiato e il pop-corn sul pavimento, e dove i personaggi dei cartoni animati si picchiavano e schiacciavano e si gettavano nell'olio bollente e poi ritornavano di nuovo a essere vispi e allegri come prima. La signora Langley si chinò sul mio finestrino con un'espressione di comprensione invadente, e posò la mano morbida sulla mia mano callosa che stringeva il volante. Si limava le unghie, pensai. «Se c'è qualcosa che posso...» «Grazie. Riporterò Kirsty a casa nel pomeriggio.» Ritirai la mano e girai la chiavetta dell'accensione. «Vi siete allacciate le cinture, ragazze?» «Sì» risposero in coro, sedute composte l'una accanto all'altra, due paia di piedi che ciondolavano nelle scarpe di vernice, due facce bramose. «Bene, andiamo.» Kirsty ed Elsie sgambettarono in acqua dignitosamente, protette da salvagente e braccioli, tanto che quasi non si bagnavano il torso, i visi arrossati per l'orgoglio di essere tanto coraggiose. «Guardami» disse Kirsty e ficcò naso e mento nell'acqua per un nanosecondo e poi rialzò il capo trionfalmente con una ciocca di capelli che le gocciolava davanti. «Sono capace di mettere la testa sott'acqua. Scommetto che tu non hai il coraggio.»
Elsie mi guardò per un momento, la mia piccola ansiosa e imbranata, e io pensai che si mettesse a piangere. Poi immerse la testa nell'acqua della piscina, faticando goffamente con quel salvagente arancione brillante. «Anch'io l'ho fatto» disse. «L'ho fatto, mamma, hai visto?» Avrei voluto abbracciarla. «Siete i miei due pesciolini. Volete che faccia lo squalo?» Sotto quell'acqua verde e densa mi sentivo come senza peso e mezza cieca e cercai di distinguere le gambe luminose che si agitavano e di afferrare le caviglie guizzanti. Fortunatamente le piastrelle erano a pochi centimetri dal mio corpo sommerso. Udii le ragazzine strillare e ridere, mentre goffamente mi muovevo sotto di loro. Non sono un pesce, l'acqua non è il mio elemento. Sono a mio agio solo sulla terraferma. Nello spogliatoio una ragazza diede una gomitata a una sua amica per attirare la sua attenzione, mentre io infilavo gilet sopra teste bagnate, forzavo piedi recalcitranti nelle scarpe e allacciavo cinturini rigidi. Mi indicò con gli occhi. Crocchette di pollo, patatine e ghiaccioli rosa shocking a pranzo. Poi al cinema pop-corn dolce e salato e aranciata in un enorme bicchiere di carta con due cannucce a strisce che uscivano dalla cima. Mentre le bambine mi tenevano la mano, una per parte, guardando il cartone animato io fissavo lo spazio indistinto oltre lo schermo. Avevano le dita appiccicose, la testa incassata tra le spalle. L'aria intorno a noi sapeva di chiuso, di viziato. Cercai di sintonizzare il mio respiro con il loro, ma non ci riuscii. Mi usciva in sbuffi asimmetrici, irregolari dai polmoni doloranti. Mi misi gli occhiali scuri non appena uscimmo nel foyer. «Mamma.» «Sì, amore mio.» Kirsty era stata riportata sana e salva da sua madre e noi stavamo ritornando a casa attraverso una foschia lattiginosa. «Sai che nel video» ma Elsie diceva ancora «vidjo», una reminiscenza del linguaggio da piccoli, l'ultima fragile foglia marrone appesa all'albero «del Leone, la strega e l'armadio?» «Si.» «Quando è ucciso dalla strega cattiva e sta lì, steso, con i topi?» «Sì.» «E poi ritorna a vivere, no? Beh...» «No. Danny e Finn non torneranno più a vivere. Ci mancheranno e li
penseremo e parleremo di loro fra di noi. Tu devi parlarmene tutte le volte che vuoi e loro non saranno morti qui.» Misi una mano contro il cuore che mi batteva rumorosamente. «Ma non li rivedremo più.» «Ma dove sono? Sono in paradiso adesso?» Pezzi di carne carbonizzata, crani con occhi bruciati che sorridevano allegramente, lineamenti che scorrevano in un fiume spettrale tra i volti perduti, poveri arti, poveri su una barella di metallo in un frigorifero a pochi chilometri da noi. «Non lo so, tesoro. Ma ora sono in pace.» «Mamma?» «Sì.» «Sono stata coraggiosa a mettere la testa sott'acqua?» «Sei stata molto coraggiosa. Sono fiera di te.» «Coraggiosa come un leone?» «Anche di più!» Mentre ci avvicinavamo a casa, davanti a noi nella nebbia apparve come lo sfolgorio di una festa. Un gregge di luci bianche; una mandria di macchine. Ci fermammo e io toccai la punta del naso di Elsie con l'indice. «Bip» dissi. «Cercheremo di schivare questi uomini maleducati con le videocamere e i registratori. Metti la testa sulla mia spalla e vediamo se riesco ad arrivare alla porta prima che tu conti fino a cento.» «Uno, due, tre, saltane un po', cento.» «Tuo padre e io pensiamo che tu debba venire a stare da noi per qualche giorno. Finché questo baccano non si placa.» «Mamma, è...» mi fermai a cercare quel che dovevo dire «gentile da parte tua, ma va tutto bene. Dobbiamo stare qui.» I miei genitori erano arrivati poco dopo di noi. Erano entrati in casa marciando come due gendarmi, destra-sinistra, mento in su, occhi fissi in avanti. Ero grata della loro capacità di recupero. Sapevo quanto dovessero odiare tutto ciò. Avevano portato una torta di frutta in una grande scatola di latta color marrone rossiccio, un mazzo di fiori avvolti nel cellophane, degli Smarties e un libro da colorare per Elsie, che odia i libri da colorare, ma adora gli Smarties. Se li portò in cucina per mangiarli meticolosamente, colore per colore, lasciando per ultimi gli arancioni. Mio padre preparò il fuoco nel caminetto. Mise sulla carbonella una catasta ordinata di ramoscelli e sopra quattro ciocchi. Mia madre preparò il tè con aria affaccendata e mi depose di fronte, rumorosamente, un pezzo di torta di frut-
ta. «Almeno permettici di rimanere qui, allora.» «Non avrò problemi.» «Non puoi fare tutto da sola.» Qualcosa nel tono di voce di mia madre mi fece alzare gli occhi su di lei. Dietro gli occhiali i suoi occhi nuotavano; le labbra erano tese nello sforzo di tenere a bada le emozioni. Quando era stata l'ultima volta che l'avevo vista piangere? Mi chinai in avanti e la toccai sul ginocchio, sotto la spessa sottana di lana, goffamente. Quando era stata l'ultima volta che l'avevo toccata, a parte quei rigidi baci sulla guancia? «Lascia stare, Joan. Non vedi che Samantha è tutta scombussolata?» «No! No, non la vedo scombussolata, e questo è quel che mi preoccupa, Bill. Dovrebbe essere turbata; dovrebbe essere... prostrata. La sua amica ho sempre pensato che fosse una furbacchiona quella lì, te l'ho detto il giorno che l'abbiamo incontrata - e il suo ragazzo che scappano insieme e si uccidono in macchina ed è su tutti i giornali e tutto il resto...» Fece un gesto vago verso la finestra, al mondo di fuori. «E Samantha sta qui seduta, fredda, come se niente fosse accaduto, quando ciò che voglio, l'unica cosa che voglio, è aiutarla.» Fece una pausa e forse mi sarei chinata ad abbracciarla allora, ma il suo volto si contrasse e lei disse un'ultima cosa, la cosa che doveva essersi ripromessa di non dire: «E non è la prima volta che una cosa del genere accade a Samantha». «Joan...» «Non importa, papà» dissi, ed ero sincera. Ciò che mia madre aveva detto mi aveva provocato un dolore così intenso da essere quasi un piacere, contorto e acuto. «Elsie non dovrebbe stare qui» disse mia madre. «Dovrebbe venir via con noi.» Si alzò per metà, come se stesse per andarsene subito con mia figlia. «No» risposi. «Elsie sta con me.» Come se fosse stata chiamata, Elsie apparve in soggiorno, sgranocchiando gli ultimi Smarties. La presi sulle ginocchia e appoggiai il mento sulla sua testa. Ci fu un colpo alla porta. «Chi è?» chiesi. «Io... Michael.» Lo feci entrare, chiudendo rapidamente la porta dietro di lui. Si tolse il cappotto e vidi che aveva dei vecchi jeans e una camicia di cotone blu sbiadita, ma per il resto aveva un aspetto rilassato, solido.
«Ho portato del salmone affumicato, del pane nero e una bottiglia di Sancerre. Pensavo che potevamo... oh, buona sera, signora Laschen, signor Laschen.» «Stanno per andare, Michael» dissi. «Ma Samantha, siamo appena...» Mio padre fece dei segni insistenti a mia madre e la prese per un braccio. Li aiutai a rimettersi i soprabiti in silenzio e li accompagnai alla porta. Mia madre si voltò indietro, verso Michael e me. Non so che cosa mi inquietò maggiormente, se la sua perplessità o la sua approvazione. Quella notte trovai Elsie nel mio letto. Mentre mi infilavo sotto le lenzuola, si voltò, mi avvolse un braccio intorno al collo come un tentacolo, appoggiò il viso alla mia spalla, sospirò. Poi, con la miracolosa facilità che hanno i bambini, chiuse di nuovo gli occhi e riaffondò nel sonno. Io rimasi sveglia a lungo. Fuori non c'era la luna ed era profondamente buio. Tutti erano andati a casa; non udivo nulla se non il vento tra gli alberi e il debole strido di un uccello verso il mare. Se mettevo la mano sul petto di Elsie, le sentivo battere il cuore. Sentivo il suo respiro caldo contro il collo. Di tanto in tanto mormorava qualche parola indistinta. Michael non era rimasto a lungo quella sera. Aveva aperto la bottiglia di vino e me ne aveva versato un bicchiere, che avevo scolato senza neanche sentirne il sapore, come se fosse schnapps da bere in un solo sorso. Aveva spalmato il burro sulle fette di pane e le aveva coperte con il salmone affumicato, ma io non ne avevo rosicchiato che una minima parte, perché mi faceva pensare a carne umana cruda. Non avevamo parlato molto. Mi aveva raccontato un paio di cose sul congresso di Belfast, che pensava mi potessero interessare. Non avevo detto nulla, ma avevo continuato a fissare le braci morenti del fuoco che aveva fatto mio padre. Anatoly aveva avvolto il corpo nero intorno alle nostre gambe, facendo le fusa rumorosamente. «Sembra irreale, impossibile, non è vero?» aveva detto. «Conoscevo Finn da anni, anni.» Non avevo risposto nulla. Ero incapace anche solo di annuire. «Bene» si era alzato e si era infilato il cappotto. «Me ne vado, Sam. Pensi che riuscirai a dormire? Posso darti qualcosa, se vuoi.» Gli avevo fatto cenno di andare. Quando era uscito, avevo salito le scale. Avevo tenuto Elsie contro di me e avevo fissato a occhi spalancati e asciutti l'oscurità silenziosa.
Capitolo 25 «Una brutta faccenda, questi suicidi.» «Me la cavo.» «Brutta per noi, voglio dire.» «Non capisco che cosa intendi.» Geoff Marsh si toccò il nodo della cravatta come per accertarsi che fosse al centro del colletto. Quell'appuntamento era stato fissato quindici giorni prima per discutere delle nuove possibili fonti di finanziamento che si erano presentate. Avevamo sbrigato la faccenda sorseggiando una tazza di caffè. Mi ero alzata per andarmene, ma lui mi aveva fatto segno di tornare a sedermi e aveva assunto un'aria preoccupata. «Non potevano succedere in un momento peggiore» continuò. Mandai giù una rispostaccia e non dissi nulla. «Avresti dovuto dircelo, Sam.» «Che cosa avrei dovuto dirvi, Geoff?» Geoff prese un taccuino e abbassò gli occhi su degli appunti con aria di efficienza burocratica. «Eri tecnicamente legata a noi, Sam» disse dopo una pausa. Fece quella scrollata di spalle di impotenza che avevo imparato a conoscere bene. Era il suo modo di mostrarsi vittima dell'implacabile sistema politico ed economico che gli legava crudelmente le mani. Continuò: «L'ultima cosa che voglio fare è prendere provvedimenti in merito, ma avresti dovuto dirci che eri impegnata in un lavoro delicato che avrebbe avuto ripercussioni sul nostro progetto». Avrei dovuto lavorare con quell'uomo a lungo, così mi era difficile pensare alla risposta giusta da dargli. Feci un respiro profondo. «Pensavo di essere una cittadina coscienziosa. La polizia mi ha chiesto aiuto. Hanno insistito sulla riservatezza. Non ne ho parlato nemmeno con la mia famiglia.» Geoff piazzò le mani delicatamente sulla scrivania, così ampia da essere poco elegante. Mi sentivo come una scolaretta nell'ufficio del direttore. «Sarà sui giornali» continuò aggrottando la fronte. «È già sui dannati giornali» risposi. «Il giardinetto davanti a casa mia è una specie di piazza.» «Già, ma finora non si è fatta menzione di, beh...» Geoff fece un gesto vago. «Di noi, di tutto questo, questo reparto.» «Perché dovrebbero menzionarlo?»
Geoff si alzò e andò alla finestra a guardare fuori. Io cercai di pensare a un modo di porre termine a quel faticoso colloquio. Dopo un paio di minuti di silenzio non riuscii più a sopportarlo. «Geoff, c'è altro? Ho cose da fare.» Geoff si voltò improvvisamente, come se si fosse dimenticato che ero nell'ufficio. «Sam, ti dispiace se sarò assolutamente franco con te?» «Coraggio» risposi seccamente «continua. Non preoccuparti dei miei sentimenti.» Congiunse le mani con gravità. «L'intero argomento dei disturbi da stress postraumatico è ancora controverso. Me l'hai detto anche tu diverse volte. Stiamo creando un nuovo reparto su questa sindrome e nello stesso tempo non ti voglio dire quanti reparti ho chiuso nei due mesi passati. E il Rapporto Linden, sai, su quella ragazzina fotogenica di sei anni che è morta a Birmingham dopo che l'abbiamo mandata via, uscirà tra un paio di settimane. Aspetto solo che qualche brillante giornalista metta quei fatti insieme alla tua roba...» «Che cosa vuoi dire con la mia roba?» Il volto di Geoff si era fatto più rosso e duro. «Dato che sono davanti all'abisso, te lo dirò. Abbiamo scelto te per sovrintendere il progetto più grande del mio regno... della mia carica, come tu voglia chiamarla. Sir Reginald Lennox della mia commissione dice che i disordini da stress postraumatico sono una scusa per ragazzini gracilini e viziati, per usare la sua espressione, ma noi abbiamo incaricato la famosa dottoressa Samantha Laschen di prendere le nostre parti. E circa un mese prima di rivestire l'incarico, lei mostra al mondo quel che è capace di fare con una donna traumatizzata che assiste a casa propria. Un giornalista irresponsabile potrebbe far notare che il risultato del metodo di cura personale della dottoressa Laschen è stato che la paziente si è innamorata del fidanzato della dottoressa, che i due sono fuggiti insieme e si sono poi suicidati.» Geoff fece una pausa. «E questo resoconto sarebbe, ovviamente, molto ingiusto. Ma se qualcuno dovesse scriverlo, sarebbe veramente difficile sostenere che Fiona Mackenzie sia stata uno dei tuoi grandi successi medici.» «Fiona Mackenzie non era in cura presso di me. Non era mia paziente. È venuta a stare da me perché aveva bisogno di un rifugio sicuro e temporaneo. E poi, a dir la verità, io stessa non condividevo quell'idea.» Stavo piagnucolando e accampando scuse e la cosa non mi piaceva affat-
to. Geoff non sembrava particolarmente colpito. «È una distinzione sottile» fece dubbiosamente. «Che cosa c'è, Geoff? Se devi dire qualcosa, sputa il rospo.» «Sto cercando di salvarti, Sam, e di salvare il reparto.» «Salvarmi? Di che cosa stai parlando?» «Sam, non sto esprimendo un parere personale, sto solo presentando dei fatti pertinenti. Se nella tua posizione sarai coinvolta in uno scandalo pubblico, di cui parlano i media, le cose diventeranno imbarazzanti per tutti.» «Non voglio essere bellicosa, ma mi stai minacciando, per caso? Vuoi che rassegni le dimissioni?» «No, assolutamente no, non in questo momento. Questo è il tuo progetto, Sam, e sei tu che devi occupartene, con il nostro sostegno.» «E?» «Forse dovremmo prendere in considerazione una strategia di contenimento.» «Tipo?» «È ciò che speravo avremmo potuto discutere, ma mi è venuto ora in mente che potrebbe essere opportuna un'intervista ragionevole con il giornalista giusto, una sorta di attacco preventivo.» «No, assolutamente no.» «Sam, pensaci, non dire subito di no.» «No.» «Pensaci.» «No. E ora devo andare. Devo parlare con dei dottori. Non dimentichiamo che la ragione di questo progetto è fornire un servizio medico.» Geoff attraversò con me l'ampio ufficio e mi accompagnò alla porta. «Ti invidio, Sam.» «È difficile da credere.» «La gente viene da te con dei sintomi e tu li aiuti e questo è tutto. Io devo discutere con i dottori e poi con i politici e poi con i burocrati e infine devo ricominciare la catena.» Mi voltai di nuovo verso l'ufficio e lanciai un'occhiata all'arazzo messicano, al divano, alla scrivania che aveva le dimensioni pressappoco di Ayers Rock, il punto panoramico su pantani e paludi, o quel che erano, tra Stamford e il mare. «Però qualche ricompensa la ottieni» dissi. Ci stringemmo la mano. «Devo poter guardare in faccia il consiglio di amministrazione senza
troppo imbarazzo. Per favore, non fare nulla che mi metta in imbarazzo. E qualora lo facessi, avvertimi prima.» Quando arrivai a casa, mi ci vollero quindici minuti per ascoltare tutti i messaggi sulla segreteria telefonica. Persi il conto dei diversi giornali i cui rappresentanti mi lasciavano il numero di telefono, e dei diversi eufemismi che usavano, le offerte di accordi, simpatia, compensi per potermi consultare. Sepolti tra questi c'erano i messaggi di mia madre, impacciata dalla sequenza di bip dovuti ai messaggi precedenti, di Michael Daley, di Linda, che avrebbe fatto tardi, e di Rupert Baird, che mi chiedeva se potevamo scambiare due parole sugli effetti personali di Finn. Gli effetti personali di Finn. L'idea mi irritò e poi mi fece sentire molto triste. Che cosa si doveva fare con le sue poche cose? Presumibilmente non avevano alcun significato ai fini delle indagini. Non erano prova di nulla se non di due vite sprecate e di rovine emotive. I nostri beni dovrebbero passare da una generazione all'altra, ma non riuscivo proprio a pensare a chi dare le poche cose di Finn. Mi chiesi che cosa ne sarebbe stato della sua intatta eredità. Ebbene, anche se c'era ben poco da fare, meglio farlo subito. Presi una scatola di cartone dalla cucina e andai di corsa su per le scale nella stanza che avevo deliberatamente evitato fino ad allora, la stanza di Finn. Nonostante tutto provai un senso di colpa ad aprire la porta ed entrare. Era pateticamente spoglia, come se non fosse occupata da mesi. Per la prima volta mi resi conto che Finn non aveva accumulato nulla di quella paccottiglia che si appiccica a tutti noi nel corso della vita. Tranne qualche romanzo in edizione economica su uno scaffale, non c'era in vista un solo oggetto personale, nemmeno una matita. Il letto era fatto con cura, il tappeto diritto, le superfici spoglie. C'era odore di chiuso e andai di corsa ad aprire la finestra. Nell'armadio c'erano solo stampelle. Guardai i libri: dei gialli, Bleak House, The Woman in White, un libro di poesia di Anne Sexton, una guida logora del Sud America. La tirai fuori e la lanciai fuori della porta, sul pianerottolo. Mi venne voglia di scappare in Sud America. Scappare in un posto qualsiasi. Il resto dei libri li misi nella scatola, e mentre lo facevo dalle pagine di uno di questi cadde sul pavimento una busta bianca. La raccolsi e stavo per rimetterla dentro, quando vidi quel che c'era scritto sopra e mi fermai. In grossi caratteri infantili a stampatello c'era scritto: IL MIO TESTAMENTO. Finn, che era così spaventata della morte e ci pensava tanto, aveva fatto testamento.
Ebbi l'improvvisa, spaventosa convinzione che impulsivamente avesse lasciato tutto a me e che ciò sarebbe stato un ulteriore scandalo pubblico. Lentamente girai la busta. Non era chiusa. La linguetta era stata semplicemente inserita nella busta senza essere incollata, come si fa con i biglietti di auguri. Sapevo che quel che stavo facendo era sbagliato, forse illegale, ma l'aprii e aprii il foglio che c'era dentro. Era un modulo blu con un'intestazione che diceva «Fate il vostro testamento» ed era stato compilato scrupolosamente. Sotto la casella contrassegnata da «Testamento di» c'era scritto: «Fiona Mackenzie, 3 Wilkinson Crescent, Stamford, Essex». Nella casella contrassegnata con «Esecutore testamentario», c'era scritto: «Michael Daley, 14 Alice Road, Cumberton, Essex». Nella casella contrassegnata con «Lascio tutto ciò che possiedo a», c'era scritto: «Michael Daley, 14 Alice Road, Cumberton, Essex». Era firmato e datato lunedì 4 marzo 1996. Finn aveva anche scritto di voler essere cremata. Al fondo c'erano due caselle contrassegnate con «Firma e indirizzo dei testimoni alla stesura del presente testamento». Di seguito c'erano la firma e l'indirizzo di Linda Parris, 22 Lam Road, Lymne; e di Sally Cole, 3b Primrose Villas, Lymne. Finn era completamente impazzita. E non solo lei, anche la mia fottuta baby-sitter e la mia fottuta donna delle pulizie l'avevano seguita nella folle cospirazione. Mi girava la testa e dovetti andare a sedermi sul letto un momento. Ma di che cospirazione si trattava infine? Era da folli disporre della propria ricchezza dopo la morte? Ci sono vecchie signore che lasciano miliardi ai loro gatti, perché Finn non avrebbe dovuto lasciare tutto a Michael Daley? Ma pensando al suo ruolo piuttosto vano in tutta la faccenda, come dottore di Finn e come dottore della signora Ferrer, mi sentii assalire dall'ira. Chi sapeva di questo testamento? L'idea che le ricchezze della famiglia Mackenzie andassero a Michael Daley improvvisamente mi sembrò insopportabile. Non sarebbe forse stato giusto distruggere quel testamento? In ogni caso, non era illegale che l'esecutore fosse anche il beneficiario del testamento? Quindi il testamento non avrebbe avuto alcun valore. Mentre riflettevo su queste cose, vidi che c'era un altro pezzetto di carta nella busta. Non era molto più grande di un biglietto da visita. Sopra c'era scritto nell'inconfondibile scrittura di Finn: «Un'altra copia di questo testamento è in possesso dell'esecutore, Michael Daley.» Firmato: «Fiona Mackenzie». Rabbrividii e mi sentii come se Finn fosse entrata nella stanza e mi avesse sorpresa mentre frugavo tra le sue cose. Arrossii finché mi sentii pizzicare le guance.
Rimisi entrambi i fogli accuratamente nella busta e la riposi nella scatola. Poi dissi ad alta voce, anche se ero sola: «Che maledetto pasticcio». Capitolo 26 Non credo in Dio, non mi pare di averci mai creduto, anche se ho un ricordo vago e, sospetto, non del tutto genuino di me inginocchiata accanto al letto come Winnie the Pooh a recitare «Padre Nostro che sei nei Cieli, sia santificato il Tuo nome». E mi ricordo di essere stata terrorizzata, da molto piccola, da quella preghiera che dice: «Se dovessi morire prima di mattina, Signore, ti prego, prendi la mia anima». Giacevo con la camicia da notte che mi arrivava alle ginocchia, fronzoli ai polsini e bottoni a forma di conchiglie bianche allacciati fino al collo, strizzando gli occhi nell'oscurità, mentre Bobbie respirava con regolarità nel letto all'altro capo della stanza, e cercavo di tener lontano il murodel sonno. E ho sempre odiato l'idea della divinità capricciosa che ascolta l'appello di aiuto di alcuni e non di altri. Ma quando mi svegliai alla luce grigia di quella mattina di marzo, sul bordo del letto quasi interamente occupato da una Elsie spaparanzata, mi trovai con mia vergogna a mormorare: «Per favore, Dio, Dio caro, fa' che ciò non sia vero». La mattina, in effetti, è difficile. Non come la notte, naturalmente, quando il tempo è come un grande fiume in piena che ha perso il suo impeto e giace inerte in pozze stagnanti poco profonde. I miei pazienti spesso mi parlano dei terrori notturni. E mi parlano anche del terrore di svegliarsi dai sogni e trovarsi davanti una giornata poco promettente. Rimasi supina per qualche minuto, finché l'ondata di panico non si fu calmata e il respiro non ridivenne regolare. Elsie si agitò accanto a me, mi strappò il piumino da sopra e ci si avvolse come una creatura in ibernazione, lasciando di fuori solo la punta della testa. Gliela accarezzai e anche questa scomparve. Udivo i rumori della giornata di fuori: un cane che abbaiava, un gallo che cantava, macchine che cambiavano marcia alla curva stretta. I giornalisti se n'erano andati dalla mia porta, i giornali non parlavano più di quella storia, il telefono non squillava più ogni due o tre minuti, non ricevevo più domande premurose o curiose. Questa era la mia vita. Così saltai giù dal letto e, silenziosamente per non svegliare Elsie, mi misi un vestito corto di lana, calzamaglie a coste e un paio di scarponcini alla caviglia, infilando metodicamente i lacci nei piccoli occhielli e notan-
do, mentre lo facevo, che le mani non mi tremavano più. Mi misi degli orecchini a pendaglio e mi spazzolai i capelli. Non dovevo andare da nessuna parte, ma sapevo che se avessi girato per casa in calze sfilacciate non avrei fatto che aumentare il mio sconforto. Thelma una volta mi aveva detto che accade spesso che siano i sentimenti a seguire il comportamento, e non il contrario: se ci si comporta in modo coraggioso, ci si sente coraggiosi; se ci si comporta in modo generoso, si dimenticano le meschinità. Così adesso avrei affrontato il mondo non come una persona in preda al panico, e forse la nausea mi sarebbe passata. Diedi da mangiare ad Anatoly, bevvi una tazza di caffè bollente e feci la lista della spesa prima che Elsie si svegliasse e arrivasse barcollando in cucina. Si preparò una tazza colma di Honey Nut Loops, che dovetti finire io, e poi una tazza di muesli, da cui trasse le uvette con il cucchiaio e lasciò il resto della poltiglia beige a me. «Voglio un insetto stecco in un barattolo» disse. «D'accordo.» Sarei riuscita a occuparmi della pulizia della dimora di un insetto stecco. Mi guardò sorpresa. Forse aveva fatto una richiesta troppo modesta, un grave errore tattico. «Voglio un criceto.» «Ci penserò.» «Voglio un criceto.» «Il problema con gli animali» dissi «è che hanno bisogno di essere puliti e nutriti e dopo i primi giorni tu ti stuferai e chi lo farà? E poi gli animali muoiono.» Mi pentii di quel che avevo detto non appena l'avevo detto, ma Elsie non batté ciglio. «Voglio due criceti, così se uno muore, avrò ancora l'altro.» «Elsie...» «O un cane.» Improvvisamente la porticina della cassetta della posta si alzò e delle lettere scivolarono sul pavimento. «Vado a prenderle io.» Elsie scivolò giù dal tavolo e andò a raccogliere una pila di buste più numerose del solito. Misi da parte quelle marroni delle bollette. Dopo averle scrutate sospettosamente, misi da un'altra parte quelle sottili e bianche con il mio nome scritto formalmente a macchina e il francobollo sull'angolo. Quasi sicuramente provenivano da giornali o programmi televisivi. Aprii quelle scritte a mano e gettai loro un'occhiata veloce: «Cara Sam,
se c'è qualcosa che posso fare...»; «Cara Sam, so che ultimamente ci siamo perse di vista, ma ho saputo...». E c'era una busta di cui non sapevo che fare. Era indirizzata a Daniel Rees in caratteri a stampatello di biro blu. Avrei dovuto mandarla ai suoi genitori. La sollevai e la guardai controluce, come se contenesse la chiave di un mistero. La linguetta era sollevata in un angolo. Infilai il dito sotto il lembo staccato e la aprii un poco di più. Poi del tutto. Gentile signor Rees, La ringrazio di essersi rivolto a noi questa mattina per prenotare il suo weekend in Italia. Con questa lettera le confermo la prenotazione dell'albergo a Roma, due giorni a mezza pensione, il weekend del 1819 maggio prossimi. Le manderemo quanto prima le informazioni dettagliate sul volo e i biglietti aerei a nome del signor D. Rees e della dottoressa S. Laschen. Cordiali saluti, Miss Sarah Kelly Globe Travel Ripiegai la lettera e la infilai di nuovo nella busta. A Roma con Danny. Innamorati a passeggiare mano nella mano in maglietta. Sotto le lenzuola inamidate di una camera d'albergo con un ventilatore che faceva girare l'aria calda. Pasta e vino rosso e rovine antiche imponenti. Chiese fresche e fontane. Non ero mai stata a Roma. «Di chi era quella lettera, mamma?» «Oh, nessuno.» Perché aveva cambiato idea così repentinamente? Che cosa avevo fatto, o non fatto, da fargli rinunciare a Roma con me e scegliere di andare a morire in una macchina bruciata con una ragazza problematica? Ritirai fuori la lettera. «La ringrazio di essersi rivolto a noi questa mattina...» Era datata l'8 marzo 1996. Il giorno in cui era successo, il giorno in cui era scappato con Finn. Sentii un grumo di dolore raccogliersi sopra gli occhi, pronto a esplodere. «Faremo di nuovo tardi per la scuola, mamma?» «Che cosa? No! Assolutamente no, oggi arriveremo in orario. Dai, sbrighiamoci.» «Ho solo firmato dove mi ha detto di farlo.»
«Ma, Sally, come hai potuto non guardare? Era il suo testamento e lei era una ragazza piena di problemi.» «Mi dispiace.» Sally continuò a pulire il forno. E quello fu tutto. «Volevo parlartene, Linda, prima che Elsie ritornasse.» «Mi ha detto che non era niente.» Gli occhi di Linda si riempirono di lacrime. «Una formalità.» «Ma l'hai letto?» Si strinse nelle spalle e scosse la testa. Perché non erano delle curiosone come me? La casa di Michael non era grande, ma era molto carina, nel senso di elegante, alla moda. Il piano di sotto era costituito da un unico locale con delle portefinestre nella cucina ordinata che portavano a un cortile pavimentato nel quale c'era una piccola fontana conica. Mi guardai attorno: scaffali pieni di libri, tappeti vivaci su pavimenti austeri, disegni in bianco e nero dal tratto tormentato su serene pareti bianche, piante in vaso verdi e carnose, rastrelliere piene di bottiglie di vino, fotografie di barche e scogliere e mai di persone. Come faceva un medico generico a permettersi quello stile? Beh, per lo meno stava vivendo all'altezza dello status che avrebbe presto acquisito. Ci sedemmo a un lungo tavolo fratino e sorseggiammo del caffè serio da tazze con manici delicati. «Sei stata fortunata a trovarmi. Sono in reperibilità e potrei essere chiamato da un momento all'altro» disse. Poi mi prese la mano tra le sue. Notai che aveva le unghie lunghe e curate. «Tutto bene, Sam?» Come se fossi una paziente. Mi tirai indietro. «Vuoi dire che c'è qualcosa che non va?» chiese. «Senti, è una faccenda orribile, orribile per te e per me. Dobbiamo cercare di aiutarci a superarla.» «Ho letto il testamento di Finn.» Sollevò le sopracciglia. «Te l'ha mostrato?» Scossi il capo e lui sospirò. «Allora è per questo che sei qui?» «Michael, sai che cosa c'è nel suo testamento? Ne hai una copia.» Sospirò. «So di essere l'esecutore. Me l'ha chiesto lei.» «Vuoi dire che non hai nessun'idea?» Guardò l'orologio. «Ti ha lasciato tutto?» mi chiese con un sorriso.
«No. Ha lasciato tutto a te.» L'espressione sul suo volto si gelò. Si alzò e andò alla portafinestra rivolgendomi la schiena. «Allora?» domandai. Si guardò intorno. «A me?» Si passò le dita nei capelli. «Perché avrebbe dovuto?» «Ma non è valido, vero?» Sul volto di Michael passò un'espressione beffarda. «Non so che cosa dire. È tutto così...» «Poco etico» dissi. «Ambiguo.» «Che cosa?» Michael alzò gli occhi, come se avesse sentito solo allora. «Perché avrebbe fatto una cosa del genere? Che cosa aveva in mente?» «La accetterai?» «Che cosa? Sta succedendo tutto così all'improvviso.» Ci fu un bip e Michael si portò la mano alla tasca della giacca. «Mi dispiace, devo fuggire» disse. «Sono stupefatto, Sam.» Poi sorrise. «A sabato.» Lo guardai perplessa. «In barca, ricordi? Ci farà bene. Per mettere le cose in prospettiva. E potremo fare una bella chiacchierata.» Mi ero dimenticata di quell'appuntamento: andare in barca a vela era proprio quello che mi ci voleva. «Mi farà bene» dissi cupamente. Presi Elsie sulle ginocchia e la strinsi come un gioiello prezioso; temevo di spezzarla con la potenza del mio amore. Mi sentivo forte, viva, euforica per il dolore e la rabbia. Sentivo il sangue scorrermi nelle vene, il cuore battere forte; mi sentivo pulita, elastica, instancabile. «Danny» le chiesi cautamente, con indifferenza «ti ha mai detto niente di Finn?» Si strinse nelle spalle. «E Finn?» Le accarezzai i capelli serici e mi chiesi quali segreti si celassero nella sua bella testolina. «Non ti ha mai detto niente di Danny?» «No.» Si agitò sulle mie ginocchia. «Danny mi faceva domande su Finn.» «Oh.» Elsie mi guardò con occhi spalancati, curiosi. «E ha detto che sei la mamma migliore del mondo.» «Davvero?» «Lo sei davvero?»
Dopo che Elsie si fu addormentata, andai in giro per la casa scostando tende, guardando sotto i letti, frugando negli angoli. Alla fine avevo raccolto e messo davanti a me, sul tavolo della cucina, un serraglio malandato formato da sei animaletti di carta: tre uccellini, due specie di cani, un esserino indefinibile. Li guardai ed essi mi guardarono di rimando. Capitolo 27 Aveva gli occhi scuri e le sopracciglia folte che quasi si toccavano in mezzo alla fronte. I capelli invece erano più chiari e fini, e la pelle del viso era già coperta di lentiggini, anche se era solo primavera. Danny aveva la pelle chiara, ma sempre uniforme. E al sole diventava di un morbido color caramello, delizioso. Me ne ricordavo il profumo, e il leggero umidore, quando era stato al sole. Non avevo mai conosciuto nessuno della famiglia di Danny. Mi aveva detto che vivevano nel West Country, che suo padre aveva un'impresa di costruzioni e che aveva un fratello e una sorella e basta. Stavo lavorando al libro (ora stava procedendo molto rapidamente, l'avrei finito entro poche settimane), quando il telefono squillò. Lasciai che fosse la segreteria telefonica a occuparsi di rispondere. «Pronto, dottoressa Laschen. Sono... mi chiamo Isobel Hyde. Non ci siamo mai conosciute, ma sono la sorella di Danny e...» Ebbi un brivido e provai una sorta di repulsione. Che cosa diavolo voleva da me? Sollevai il telefono. «Salve, sono Sam Laschen. Mi stavo nascondendo dietro la segreteria telefonica.» Ci scambiammo qualche battuta imbarazzante e incerta, perché lei temeva che io pensassi che volesse semplicemente riprendersi le cose che Danny aveva lasciato da me e io non sapevo che cosa volesse. Le dissi che Danny non aveva lasciato nulla di prezioso, ma che naturalmente poteva riavere le sue cose e lei rispose che non era quella la ragione per cui aveva telefonato, che era a Londra per qualche giorno e si chiedeva se sarebbe potuta venire a trovarmi. Non so perché, forse per un istinto irrazionale, non me la sentii di invitarla a casa. Già fin troppa gente aveva visto dove vivevo e non capivo per quale mostruoso motivo una persona volesse vedere il luogo in cui il fratello morto aveva vissuto con una donna che aveva poi abbandonato. A dire la verità, non capivo che cosa diavolo volesse, così le dissi che sarei andata a prenderla alla stazione di Stamford il giorno
successivo e che saremmo andate a parlare in un caffè. «Come faremo a riconoscerci?» chiese. «Probabilmente ti riconoscerò io, comunque io sono alta e ho i capelli molto corti e molto rossi. Non troverai per strada nessuna persona di buon senso conciata così.» Mi misi quasi a piangere quando scese dal treno, e non riuscii a parlare. Le strinsi la mano e la condussi in un caffè di fronte alla stazione. Ci sedemmo e cominciammo a giocherellare con le tazze. «Da dove vieni?» «Al momento viviamo a Bristol.» «In quale zona?» «Conosci Bristol?» «Non veramente» confessai. «Allora non ha molto senso entrare nei particolari, non ti pare?» Notai che anche lei era dotata del fascino indolente di Danny. Doveva essere una caratteristica di famiglia. «Non ho portato le cose di Danny» dissi. «C'erano un paio di camicie, delle mutande, uno spazzolino da denti, un rasoio, quel genere di oggetti. Non mi è mai sembrato il tipo da avere molte cose. Posso mandartele, se vuoi.» «No.» Ci fu un silenzio che dovetti interrompere io. «Sono contenta di incontrarti, Isobel. Ma è anche strano. Gli somigli così tanto. Ma Danny non parlava mai della famiglia. Forse non pensava che io fossi il genere di donna che si porta a casa dalla mamma. Se ne è andato in un modo orribile. E io non capisco bene a che cosa serva questo nostro incontro, anche se naturalmente sono profondamente addolorata per tutti voi.» Ci fu di nuovo silenzio e cominciai a sentirmi leggermente allarmata. Che cosa dovevo fare con quella donna che mi fissava con gli occhi di Danny? «Non lo capisco bene neanch'io» rispose alla fine. «Potrebbe sembrare stupido, ma desideravo incontrarti, guardarti. Lo desideravo da molto tempo e ho pensato che ora forse non sarebbe più potuto accadere.» «È comprensibile, date le circostanze. Voglio dire, non aver più l'occasione di incontrarci.» «La famiglia è in condizioni pietose.» «Non mi sorprende.»
Non mi ero permessa di pensare ai genitori di Danny. Isobel abbassò lo sguardo sul caffè, ma poi sollevò di nuovo i suoi grandi occhi scuri dalle palpebre pesanti e mi guardò. Provai un fremito di desiderio e strinsi i denti con forza, dolorosamente. «Verrai al funerale?» «No.» «Lo immaginavamo.» Fui colpita da un pensiero orribile. «Non sei per caso venuta a chiedermi di non venire?» «No, naturalmente no. Non devi pensarlo.» Isobel sembrò cercare di raccogliere il coraggio per fare un grosso salto. «Isobel» le dissi «c'è qualcosa che vuoi dirmi, perché altrimenti...» «Sì» mi interruppe. «Non sono brava a trovare le parole giuste, ma ciò che volevo dire è che Danny aveva avuto un mucchio di donne prima di te, a decine.» «Beh, grazie, Isobel, di essere venuta fin qui in treno solo per dirmi una cosa del genere.» «Non intendevo questo. Lui era così, lo sapevi, ed è sempre piaciuto alle donne. Ma quel che volevo dire è che tu eri differente. Eri differente per lui.» Improvvisamente sentii di essere in pericolo di perdere il controllo emotivo. «È quello che pensavo, Isobel. Ma non è così che è andata, no? Ho fatto la fine di tutte le altre, lasciata e dimenticata.» «Sì, lo so e non so che cosa dire se non che non ci potevo credere. Non riuscivo proprio a crederci. E non ci credo.» Spinsi da parte la mia tazza di caffè. Volevo portare quell'incontro a una conclusione. «No, ma è successo, qualsiasi cosa ti dica il tuo istinto. È stato un impulso gentile venire a dirmelo, e tuttavia non porta a niente di buono. Che cosa dovrei pensare di ciò che mi dici? A essere onesta, sto cercando di gettarmi tutto questo dietro le spalle e andare avanti.» Isobel sembrava scoraggiata. «Beh, volevo darti una cosa, ma forse non la vorrai.» Frugò nella borsa e ne trasse un plico di fotocopie. Vidi immediatamente che la vigorosa scrittura era quella di Danny. «Che cosa sono?» «Danny mi scriveva, più o meno due lettere all'anno. Questa è una copia
dell'ultima lettera. So che deve essere stato terribile quando ti ha lasciato. E poi le morti. E credo che sia stata anche un'umiliazione pubblica.» «Sì.» «Non vorrei essere insensibile. Pensavo solamente che questa lettera potesse esserti un po' di conforto.» Espressi una cupa gratitudine senza saper bene come reagire. Però presi la lettera, cautamente, come se potesse farmi male. La riaccompagnai al treno e la salutai con la mano, sapendo che non l'avrei più rivista. Ebbi la mezza tentazione di buttar via la lettera in fotocopia senza leggerla. Un'ora dopo ero alla centrale della polizia di Stamford, sezione omicidi. Una poliziotta mi portò una tazza di tè e mi fece sedere alla scrivania di Angeloglou. Appesa allo schienale della sedia vuota davanti a me, c'era una giacca, sulla scrivania la foto di una donna e di un bambino paffuto. Presi a giocherellare con le penne, finché Angeloglou non apparve. Quando arrivò, mi mise una mano sulla spalla con un gesto rassicurante di calcolata spontaneità. «Sam, tutto bene?» «Sì.» «Temo che Rupert sia occupato.» «Come stanno andando le indagini?» «Benone. Le retate della scorsa settimana sono state fruttuose. Abbiamo raccolto delle notizie interessanti.» «Sugli assassini?» «Non esattamente.» Emisi un sospiro. «Allora non ci sono svolte rilevanti. Guardi questa lettera. È stata scritta da Danny a sua sorella solo un paio di settimane prima di morire.» Chris la prese e fece una smorfia. «Non si preoccupi, deve leggere soltanto le ultime due pagine.» Si chinò sul bordo della scrivania e diede loro una scorsa. «Ebbene?» fece, quando ebbe finito. «È la lettera di uno che sta per fuggire con un'altra donna?» Chris si strinse nelle spalle. «Ha letto quel che dice» insistetti. «"Non ho mai incontrato nessuna donna come lei; non desidero più nessun'altra; voglio solo sposarla e passare il resto della mia vita con lei; amo la sua bambina; la mia sola preoccupazione è che lei mi voglia."» «Già» fece Chris a disagio.
«E poi c'è questa.» Gli mostrai la lettera dell'agenzia di viaggi. La osservò con un mezzo sorriso. «Le sembra logico decidere di scappare con un'altra il giorno stesso in cui si va a prenotare un viaggio del genere?» Chris sorrise, non senza gentilezza. «Non lo so. Forse lo sa meglio lei. Danny era un tipo impulsivo?» «Beh, in un certo senso...» «Il tipo di uomo che potrebbe semplicemente alzarsi una mattina e andarsene...» «Sì, ma non avrebbe fatto quel...» dissi senza molta convinzione. «C'è altro?» mi chiese gentilmente Angeloglou. «No, eccetto che...» Mi sentivo disperata. «Eccetto per l'intera faccenda. Ci ha riflettuto su?» «Su che cosa?» «Questa ragazza scrive un testamento...» «Come fa a sapere del testamento, Sam? D'accordo, non me lo dica, non voglio saperlo.» «Scrive il testamento e poco dopo muore. Non è strano?» Angeloglou rimase un momento sovrappensiero. «Finn le ha mai parlato della morte?» «Sì, naturalmente.» «Ha mai fatto cenno al suicidio?» Ci pensai un momento e deglutii con fatica. «Sì.» «Allora» disse Chris. «A che cosa voleva alludere?» «Non ha mai pensato che potrebbero essere stati assassinati?» «Per l'amor del Cielo, e da chi poi?» «Chi guadagna una montagna di soldi dalla morte di Finn?» «Si tratta di un'accusa seria?» «Di una segnalazione seria.» Chris si mise a ridere. «D'accordo» disse. «Cedo. Posso tenere questi fogli?» Annuii. «Per compassione di tutti, lei compresa, farò questa piccola inchiesta il più discretamente possibile. La chiamerò domani. E ora, dottoressa, vada a casa e si prenda una pillola o beva qualcosa o si metta davanti alla televisione o faccia tutte e tre le cose insieme.» Ma non mi chiamò il giorno seguente. Mi telefonò alle sette di quella se-
ra stessa. «Ho fatto delle indagini sul suo sospetto.» «Sì?» «Mettiamo alcune cose in chiaro. La macchina ancora in fiamme è stata trovata poco prima delle sei di sera del 9 marzo.» «Sì.» «Il giorno 8 il dottor Michael Daley si è recato in aereo a Belfast per partecipare a un congresso. Il suo intervento si è tenuto il 9 e ha fatto ritorno a Londra quella sera tardi. Le basta?» «Sì. A dir la verità lo sapevo. Mi dispiace. Sono stata una sciocca.» «Nessun problema. Dottoressa Laschen?» «Sì?» «Siamo mortificati per averla invischiata in questa faccenda. Faremmo qualsiasi cosa per aiutarla.» «Grazie.» «Lei è l'esperta in traumi e a noi spetta compiere le indagini, pertanto noi cercheremo di compierle al meglio e lei si impegni a elaborare il suo lutto.» «Mi sembra giusto.» Capitolo 28 Sei anni prima l'uomo che amavo, il padre della mia bambina che non era ancora nata, si uccise. Naturalmente tutti mi avevano detto che non dovevo, neanche per un minuto, sentirmi in colpa. Me lo ero detto anch'io, con tutta l'autorità di medico di cui ero stata capace. Soffriva di depressione. L'aveva già tentato in precedenza. Si crede di poter salvare gli altri ma si finisce sempre con il salvare solo se stessi. E la vita continua. Una settimana prima l'uomo che amavo, l'unico altro uomo che avessi veramente amato, si era ucciso. Le parole di consolazione degli amici, le esortazioni a non sentirmi in colpa, apparivano leggermente affannate. I funerali di Danny si sarebbero tenuti il giorno successivo, ma io non ci sarei andata. Era morto nelle braccia di un'altra donna, no? Mi aveva lasciato. Al pensiero di Danny e Finn insieme mi sentivo furiosa, scombussolata; disperata, ma anche quasi eccitata. Per un momento la gelosia e una sorta di desiderio impotente mi provocarono la nausea. «Sally, esco» dissi qualche minuto dopo. «Ritornerò dopo che te ne sarai
andata. Ti lascio i soldi sul caminetto. Grazie per tutto quel che fai per rendere la casa più bella.» «Non vai al lavoro?» Sally lanciò un'occhiata ai miei jeans sbiaditi, laceri su un ginocchio, e alla giacchetta di pelle logora. «Vado in barca.» Fece una smorfia. Di disapprovazione? «Che bello!» commentò. I due medici di Finn, quello che avrebbe dovuto proteggerla, e quello che sarebbe stato l'unico beneficiario del suo testamento, non ebbero molto da dirsi nel breve tragitto da casa al mare. Michael sembrava preoccupato e io guardavo fuori del finestrino senza vedere niente. Quando la macchina si arrestò, Michael si voltò verso di me. «Ti sei dimenticata di metterti la muta» disse. Era in un borsone ai miei piedi. «Ti sei dimenticato di dirmi che dovevo mettermela.» Continuammo in silenzio. Io cercavo il mare. La giornata era troppo grigia. La macchina prese una stradina stretta tra alte siepi. Gli lanciai un'occhiata interrogativa. «Ho spostato la barca più vicino al capanno.» Sembrava di procedere in una galleria e mi sentii sollevata quando uscimmo di nuovo all'aperto. Vidi alcune barche. Quando l'auto si fermò, le sentii sibilare al vento. C'erano delle capanne di legno con la vernice scrostata. Una di queste era abbandonata e scoperchiata. Non c'era nessuno in giro. «Ti puoi cambiare in macchina» disse Michael vivacemente. «Voglio una cabina» replicai con tono imbronciato. «Qual è la tua?» «Non ho molta voglia di andare ad aprirla. Sarebbe meglio la macchina, se non ti spiace.» «Sì, mi spiace.» Michael uscì goffamente dalla macchina. Aveva già indosso la muta, grande, liscia, nera. «D'accordo» rispose sgarbato. «Per di qua.» Mi condusse a un capanno di legno stagionato con le doppie porte che si affacciavano sul mare e mi diede un mazzo di chiavi. «La porta sarà un po' dura da aprire» disse. «Non la utilizzo dalla scorsa primavera. Ci sono dei giubbotti salvagente appesi a un gancio.» Andò alla barca camminando sull'erba gialla e ruvida e sui ciottoli della spiaggia. «Stai vicino all'entrata o rischi di farti male o di tirarti addosso qualcosa.»
Osservai la costa. Nessuno in vista, e non c'era da stupirsi: il cielo era di tutte le sfumature dell'ardesia e l'acqua era frustata dal vento. Le onde erano increspate di spuma bianca. Non riuscivo quasi a vedermi i piedi e il vento mi soffiava gelido sul viso. Ficcai la chiave nella serratura e la girai con difficoltà, quindi aprii una delle due porte con una spinta. Dentro c'era un gran guazzabuglio di oggetti: giubbotti salvagente gialli e arancioni appesi a un grosso gancio sulla parete alla mia sinistra, due canne da pesca appoggiate alla parete opposta, diversi sacchetti di nylon che, quando li tastai con il piede curioso, rivelarono contenere delle vele. In fondo c'era un windsurf. E poi secchielli, sessole, scatole di chiodi e ganci e piccoli aggeggi che non conoscevo, delle bottiglie vuote di birra, un vecchio telone impermeabile verde, dei barattoli di vernice, carta vetrata, una scatola di attrezzi, un piede di porco, una scopa. Un odore pesante di olio, sale, dolciastro, marciume, putredine. Ci doveva essere un topo morto là dentro. Appoggiai la muta su una panca di legno grezzo e cominciai a svestirmi, tremando nell'aria gelida, stagnante. Poi mi infilai la gomma scomoda, che mi si avvolse intorno agli arti inesorabilmente. Mio Dio, che cosa ci facevo quaggiù? Avevo lasciato cadere gli stivali di gomma vicino alla porta, così riattraversai la capanna saltellando cautamente per andare a riprenderli, cercando di non pestare con i piedi nudi delle schegge di legno o della sporcizia, poi tornai alla panca. Mi ci risedetti e mi strofinai la pianta dei piedi per pulirli. Qualcosa, una specie di bastoncino di paglia, mi si era infilato tra due dita. Le allargai per toglierlo. Un pezzetto di carta rosa piegato in una strana forma: quattro gambe, un musetto e una buffa codina. Lo rigirai tra le dita, un cugino delle sei creature che stavano sul mio tavolo di cucina. Se l'era portato dietro Michael? Gli si era appiccicato ai vestiti? «Non la uso dalla scorsa primavera.» La primavera scorsa io e Danny stavamo battibeccando a Londra. Danny era stato qui. Fui assalita da un'agitazione febbrile. Sapevo di dover rimanere lucida, ma gli oggetti della capanna cominciarono a girarmi intorno, dandomi le vertigini. Avevo lo stomaco sottosopra e tutti i peli che mi pizzicavano contro l'interno della guaina di gomma. In un angolo della mente distinguevo un barlume e cercai di farmi strada per raggiungerlo, ma tutto ciò di cui ero sicura fino ad allora, mi appariva confuso. Danny era stato qui. «Ricordati il giubbotto salvagente, Sam.» Mi voltai verso la porta dov'era Michael, una sagoma contro il grigio del cielo. Chiusi il pugno intorno alla creaturina di carta. Michael venne verso
di me. «Ti aiuto» disse. Mi tirò su la cerniera lampo di dietro così bruscamente da farmi annaspare. Ero conscia della sua cospicua presenza fisica. «E ora gli stivali.» Si inginocchiò davanti a me. Mi sedetti e lui mi prese i piedi a turno e gentilmente li fece scivolare negli stivali. Alzò gli occhi con un sorriso. «La scarpetta ti calza a pennello, Cenerentola» disse. Danny era stato qui. Prese un giubbotto salvagente dal gancio e me lo infilò dalle spalle. «E infine i guanti.» Abbassai gli occhi sul pugno chiuso. Presi i guanti con la mano sinistra. «Me li metto tra un minuto.» «Bene. Siamo pronti.» Mi posò una mano gentilmente sulla schiena e mi condusse alla barca. Quando fummo a bordo mi lanciò uno sguardo che non riuscii a decifrare per via del vento che ci soffiava in faccia. «Adesso divertiamoci un po'.» C'ero già stata, su quella barca; la corda bagnata che mi faceva male alle mani quando la tendevo, la barca che si impennava impetuosamente al vento, le vele che fendevano le raffiche, l'acqua grigio ferro che entrava dai lati, gli strani stridi degli uccelli marini mentre correvamo solitali verso il mare aperto, i bruschi comandi, gli spostamenti disperati da un lato all'altro, i minuti silenziosi sporta all'infuori contro il violento inclinarsi della barca. Danny era stato in quella capanna. Cercai di trovare una spiegazione innocente, logica. Ci era stato durante una passeggiata con Michael? Non era stata usata dalla primavera scorsa. L'aveva detto Michael. Avevo ancora la piccola creatura di carta chiusa nel pugno gelato. Virammo bruscamente verso il mare aperto e lo spruzzo mi colpì in viso, così se avessi pianto lui non se ne sarebbe accorto. E non me ne sarei accorta neanch'io. Nella mente mi passavano delle immagini: Finn appena arrivata a casa mia, pallida e muta; Danny che la fissava dal lato opposto del tavolo, e l'espressione che ricordavo chiaramente non era di desiderio, ma di malcontento; Danny con Elsie sulle ginocchia, chino su di lei, capelli scuri aggrovigliati a capelli chiari. Cercai di seguire dei fili di pensiero. Danny era stato là. Danny non era scappato con Finn. Danny non si era suicidato. «Sei silenziosa, Sam. Stai cominciando a imparare?» «Forse.» In quel momento fummo colpiti da una raffica di vento e la barca si impennò tanto da essere quasi verticale. Mi sporsi in fuori.
«Eccoci qui, abbiamo quasi circumnavigato la punta.» Michael sembrava completamente calmo. «Poi non dovremo più navigare stringendo il vento. Pronta per...» E virammo, con una sferzata netta del boma e uno schiocco delle vele, nel mare aperto, il vento di fianco. Mi guardai indietro e non riuscii più a scorgere la spiaggia da dove eravamo partiti. Si era persa nella nebbia e nella luce grigiastra. «Sei stata brava.» «Grazie.» «Cominci a star meglio, Sam?» Mi strinsi nelle spalle e risposi con un mormorio indifferente. «Come?» «Non sto male» dissi. Mi guardò da vicino. Poi si voltò. Teneva la barra del timone e la corda della vela maestra con una mano e giocherellava con qualcosa con l'altra. Mi guardai attorno. Mi venne accanto. «Che cos'hai trovato, Sam?» Provai un senso di freddo metallico allo stomaco. «Niente» risposi. Molto velocemente, prima che potessi muovermi, mi afferrò il polso destro e mi aprì le dita. Era forte. Mi prese l'animaletto di carta. «Senz'altro» disse «ti è rimasto impigliato ai vestiti.» «Sì» risposi. Fece una risatina spettrale e scosse il capo. «E invece sfortunatamente no» disse. «Tira il fiocco, Sam. Bordeggeremo un po'.» Il vento stava di nuovo soffiando forte; mi colpì la guancia sinistra. Michael tirò la barra del timone e lasciò che la vela maestra si gonfiasse. Avevamo superato senza problemi la punta e ci stavamo dirigendo verso la costa, verso gli aguzzi spuntoni di roccia che mi aveva indicato la volta scorsa. Mi voltai e lo guardai. Il suo strano volto appariva più bello nel vento, tra gli spruzzi d'acqua. La nebbia nella mia mente si stava lentamente dissolvendo. Finn era stata uccisa. Danny era stato ucciso e io stavo per essere uccisa. Dovevo parlare. «Hai ucciso Finn.» Michael mi guardò con un mezzo sorriso, ma non disse nulla. Aveva le pupille dilatate, notai una strana eccitazione scorrergli sotto la superficie composta. Non mi aveva detto che gli piacevano le sfide? «Adesso possiamo correre un po'. Lascia andare il fiocco.»
Ubbidientemente svolsi la corda e la vela piccola si riempì di vento. La barca si sollevò sulla prua; l'acqua ribolliva sotto di noi. «E Danny l'ha scoperto. Non è così? Così hai ucciso anche lui, inscenando il suicidio. E quel biglietto, quell'orribile biglietto.» Michael alzò le spalle modestamente. «Sfortunatamente un certo grado di coercizione è stato necessario per ottenerla. Ma trascuri di apprezzare la scena nella sua interezza, Sam.» «E poi...» Non mi importava più di nulla, nemmeno della mia vita, dovevo solo sapere. «Tu e Finn avete ucciso i suoi genitori insieme, suppongo.» Belladonna ci stava portando verso correnti infide: vidi il modo in cui Michael stava calcolando a quanta distanza fossimo, con lo sguardo esperto del marinaio. Guardai l'acqua. Morte per annegamento. «Qualcosa del genere» rispose con indifferenza e sorrise di nuovo come se gli fosse venuta in mente una barzelletta. I denti e gli occhi grigi gli luccicavano, i capelli erano spazzati indietro dal vento e dagli spruzzi: era bellissimo, terribile, bramoso. E allora pensai a Elsie. Pensai alla sensazione del suo corpo contro il mio; riuscivo quasi a sentire le sue piccole braccia forti intorno a me. Mi ricordai com'era quella mattina quando l'avevo lasciata a scuola, con le calze rosse e il vestito a pois, le gambe solide e le lentiggini. Rividi il luccichio dei suoi capelli. Il viso concentrato, la punta rosea della lingua che le spuntava fuori dalla bocca quando dipingeva. Non sarei morta qui e non avrei lasciato mia figlia orfana. Feci girare la corda tra le dita. «Perché allora uccidere Finn?» Si mise a ridere a quel punto; tirò indietro il capo e scoppiò in una risata fragorosa, come se gli avessi raccontato una barzelletta divertentissima. «Per i soldi, naturalmente. Ma non riesci ancora a vedere la scena nella sua splendida interezza.» Poi la barca si inclinò violentemente, come se il vento avesse improvvisamente cambiato direzione. Le vele sbatterono e il boma vacillò. Senza che Michael mi dicesse nulla, tesi il fiocco, mentre lui tirava la vela maestra, e la barca si mise a correre verso il violento gorgo. Vidi la chiazza brillante del mulinello, l'affioramento di rocce che si stava avvicinando, le punte e le balze che si stavano mettendo a fuoco. Il vento si alzò improvvisamente e io potei solo urlare. «Needle Point?» chiesi. Annuì. «Mi ucciderai.»
Ma parlai troppo piano perché mi sentisse, immerso com'era nel compito di guidare la barca. Guardai sul fondo. Una sessola. Una lunga sbarra di metallo. Una vela di riserva riposta a prua. Un rotolo di corda. Un paio di remi. La barca ora sembrava un cavallo imbizzarrito che continua a sbattere il muso nella mangiatoia del mare. Poi si fermò, all'improvviso, e non sentii più il vento, anche se tutt'intorno vedevo il mare agitato. Le vele si afflosciarono. Eravamo nell'occhio del gorgo. Guardai Michael, che stava osservandomi. Scosse il capo, come deluso. «È così irritante e inutile» disse. «Come quella dannata donna delle pulizie.» «La signora Ferrer? Tu...?» Michael si voltò. Si guardava intorno, cercando di valutare da dove sarebbe arrivato il vento. Non disse nulla e ci sedemmo l'una accanto all'altro, io e l'uomo che mi avrebbe ucciso, in quel momento di bonaccia. Per un istante Michael sembrò quasi imbarazzato dallo strano iato. Poi il vento ci colpì da dietro e la barca sobbalzò. Le vele fecero un forte schiocco, come un colpo di fucile, e la barca si impennò sulla prua, sollevandosi tanto dall'acqua che fui gettata sul fondo. Per un momento pensai che stesse facendo una capriola all'indietro sopra di noi. Guardai in su, vidi le mie gambe che si agitavano, il viso di Michael che mi guardava in mezzo alla tempesta, bello e gentile. «Mi dispiace, Sam» disse, piegandosi verso di me come in un inchino. Aveva la spranga in mano. Mi alzai, sessola in mano, e mi lanciai sul boma, che spinsi verso Michael. Ma Michael si abbassò. Gli gettai la sessola in testa e mi misi a colpirlo selvaggiamente a calci. Grugnì e lasciò andare il timone e la spranga. Ora l'acqua stava entrando a fiotti e il boma oscillava da una parte all'altra. Michael mi abbrancò per la vita e mi scaraventò di nuovo sul fondo della barca. Il suo viso era a pochi centimetri dal mio; un filo di sangue gli colava sulla fronte. Gli vidi il viso coperto da una traccia di barba, da sudore e schizzi. Sollevai il ginocchio da sotto la gabbia del suo corpo teso e lo colpii con forza all'inguine, poi, mentre lui sussultava spasmodicamente, morsi il pezzo di carne che mi trovai più vicino. Il naso. Cacciò un urlo e si mise a colpirmi con i pugni alla mascella, al collo, al seno, allo stomaco. Mi ficcò un dito in un occhio, così che per un momento vidi rosso per il dolore. Sentivo il suo respiro e i colpi che mi piovevano sul corpo, sulla mascella, sulle costole. Michael si sollevò, piantò le ginocchia sulle mie braccia allargate e mi
mise le mani intorno al collo. Io gli sputai sul viso contorto, il mio sangue sul suo sangue. Ero arrivata alla fine. Sarei stata strozzata e gettata in mare come un'esca. Cominciò a stringere, lentamente e con concentrazione. Dietro la sua testa vidi la sagoma enorme di Needle Point che ci sovrastava, nascondendo il cielo. Mi impennai sotto il corpo di Michael. Dovevo vivere. Dovevo assolutamente vivere. Pensai che se fossi riuscita a pronunciare il nome di Elsie forte sarei sopravvissuta. Aprii la bocca e sentii la lingua scivolare in fuori, gli occhi ruotare indietro. Se riuscivo a dire il nome di Elsie ce l'avrei fatta, anche se il mondo era diventato nero. Ci fu un urto sotto lo scafo, un rumore di legno che sfrega sulla roccia. Michael fu scaraventato via da me. Tutt'intorno onde e rocce nere. Mi sollevai sulle ginocchia, afferrai la spranga e mentre Michael si rialzava sulla barca gliela gettai contro con tutta la forza che riuscii a raccogliere e lo vidi cadere. Ma non bastava. Mi guardai attorno, disperatamente, avidamente. La barra del timone. La tirai con forza verso di me. Il boma girò violentemente e lo colpì all'improvviso. Il suo corpo cadde in mare. «Elsie» dissi. «Elsie, sto tornando a casa.» Poi la barca andò a infrangersi contro le rocce e l'acqua si chiuse sopra di me. Capitolo 29 Da principio fui vagamente consapevole di un movimento. Sapevo di essermene andata, di essermi persa in un luogo senza tempo, oscuro. Sbattei le palpebre. Vidi un volto. Ricaddi con sollievo nell'oscurità. Nei tentativi successivi (non avrei saputo dire quanto tempo dopo) la luce divenne più facile da sopportare e le sagome che si muovevano attorno al mio letto divennero più chiare, ma non riuscivo ancora a capire che cosa fossero. Cominciai ad associare a quelle figure dei volti immaginali. Danny, Finn, mio padre, Michael. Ma era tutto troppo faticoso. Un giorno la luce sembrò più grigia e sopportabile. Udii dei passi e sentii un colpetto contro il letto. Aprii gli occhi e tutto mi fu chiaro. Ero di nuovo io e sopra di me c'era Geoff Marsh che mi guardava con un'espressione interrogativa. «Maledizione» dissi. «Sì» rispose lui, guardando la porta piuttosto a disagio. «Tua madre è andata un momento al bar. Le ho assicurato che nel frattempo ti sarei rimasto io accanto; ho lasciato l'ufficio e sono sceso in reparto a vedere come stavi. Forse dovrei chiamare un medico. Come stai, Sam?»
Mormorai qualcosa. «Eh?» «Benone.» Geoff tirò una sedia vicino al letto e si sedette accanto a me. Poi all'improvviso sorrise. Si mise quasi a ridere. Corrugai il viso perplessa. Ma quel piccolo movimento mi fece fremere di dolore. «Stavo pensando al nostro ultimo incontro. Te lo ricordi?» Annuii lentamente e dolorosamente. «Ti eri detta d'accordo di mantenere un profilo basso. Di evitare la pubblicità.» Parlare mi sembrò uno sforzo troppo grande. «Almeno i media non si interesseranno più dello stress postraumatico» continuò Geoff allegramente. «Incidenti di barca, salvataggi miracolosi. Penso che il reparto sia al sicuro dai riflettori.» Raccolsi tutte le mie forze e afferrai la manica di Geoff. «Michael.» «Che cosa?» «Daley. Dov'è?» Mi feci forza. «Dov'è Michael Daley?» Improvvisamente Geoff prese un'aria spaventata, sfuggente. Gli strinsi più forte la manica. «È qui? Devi dirmelo.» «Non te l'hanno detto? Non eri cosciente, a dir la verità.» «Che cosa?» «Penso che tu debba parlare con un dottore.» «Che cosa?» Stavo urlando. «D'accordo, Sam» sibilò Geoff. «Per l'amor del Cielo, non fare una scenata. Te lo dirò. Daley è morto. È affogato. Hanno trovato il corpo solo ieri. Era impensabile che si salvasse. Non so come hai fatto tu a raggiungere la riva. E poi ci sono volute ore prima che ti trovassero. Tra lo shock e il freddo sei fortunata a essere viva.» Cercò di svincolarsi dalla mia stretta. «Puoi lasciarmi ora?» «Baird. Chiamami Baird.» «Chi è Baird?» «Il detective. Della polizia di Stamford, sezione omicidi.» «Penso che sia meglio chiamare un medico prima. E tua madre è qui da giorni.» Ero quasi al limite delle forze. Cercai di gridare, ma riuscii solo a emet-
tere un mormorio roco. «Baird. Subito.» Fui svegliata da un mormorio di voci. Aprii gli occhi. Rupert Baird stava parlando a un uomo di mezz'età con un vestito a righine. Quando si accorse che mi ero svegliata, venne a sedersi sul bordo del letto e mi rivolse un sorriso quasi maligno. «Salve, sono il dottor Frank Greenberg. Quando è arrivata non vedevo l'ora di incontrarla, ma non mi aspettavo che avremmo fatto conoscenza in queste circostanze.» Mi misi quasi a ridere e nel farlo capii che ero più forte, più resistente. «Mi dispiace di presentarmi in modo così drammatico» risposi. «È questo il modo in cui di solito arriva nei posti nuovi?» «Non sapevo di essere arrivata.» «Ebbene, sì. Infatti il suo reparto sarà proprio in fondo a questo corridoio. La potremo portare a dare un'occhiata in sedia a rotelle tra un giorno o due, se continuerà a migliorare.» «Mi sento meglio, penso.» «Bene. Sarà sorpresa di sapere che è stata portata qui in condizioni molto critiche.» «Che sintomi?» «Ovvi segni di vasocostrizione periferica. Un cocktail di sintomi da esposizione alle intemperie e shock. È stata estremamente fortunata. Come può vedere, era sul punto di un acuto collasso circolatorio.» «Come hanno fatto a trovarmi?» «Un uomo stava camminando lungo la spiaggia con il cane e il cellulare.» Baird si fece avanti. «Posso dirle una parola?» Il dottor Greenberg si volse verso di me. «È d'accordo?» «Sì.» «Non più di cinque minuti.» Annuii. Il dottor Greenberg mi porse la mano. «È stato un piacere conoscerla, dottoressa Laschen. Verrò di nuovo a farle visita domani mattina.» Baird si avvicinò e cercò goffamente un posto per sedersi. La sedia di plastica era nell'angolo opposto. Valutò se sedersi sul letto nel posto lasciato libero dal dottor Greenberg.
«Si sieda» gli dissi e lui si sistemò molto scomodamente proprio sul bordo. Aveva un aspetto piuttosto malconcio. «Sono contento che lei stia bene. Questo è un caso maledetto, vero?» Mi prese la mano con la destra, goffamente. «In un secondo momento dovremo rivolgerle un paio di domande di routine, ma non ora...» «È stato Michael.» «Che cosa vuole dire?» «Sono stata nel suo capanno sulla spiaggia e sul pavimento ho trovato uno di quegli animaletti di carta che faceva Danny.» Baird fece un sospiro rassegnato e cercò di assumere un'aria comprensiva. «Sì, già, ma di per sé la cosa non prova...» «Michael me l'ha detto. Ha cercato di uccidermi sulla barca. Ecco quello che è successo. Lui e Finn hanno ucciso i genitori di Finn. Ha ucciso anche la signora Ferrer. E poi ha ucciso Finn. E Danny.» Baird rispose con una smorfia ironica e sorrise con gli occhi. «Non mi crede.» «Certo che le credo. Un poliziotto cinico potrebbe dire che è passata attraverso un'esperienza terribile, ha sofferto una commozione cerebrale e che... ehm...» «Potrei essermi immaginata tutto?» «Sto solo procedendo con i piedi di piombo. Devo immaginare quel che certi rigoristi mi potrebbero dire se mi retrocedessero a far di nuovo servizio per strada. Se ha qualche elemento concreto da offrirci saremo più che contenti di approfondirlo.» Mi ero sollevata a sedere, ma ricaddi esausta sul cuscino. «Non mi importa quel che farà. Ora io so, e ciò mi basta. Perché non va' a dare un'occhiata al capanno sulla spiaggia di Michael? Penso che sia lì che abbia messo il corpo di Danny. E che gli abbia fatto scrivere la lettera prima del suicidio. E che gli abbia sparato.» Baird rimase a lungo in silenzio. Non riuscivo a vederlo in viso. «D'accordo» rispose. «Andremo a dare un'occhiata. Credo che i miei cinque minuti siano terminati e c'è una persona più importante di me che desidera vederla subito.» «Per l'amor del Cielo, se si tratta di Geoff Marsh o di qualche altro fottuto manager, gli dica di andare al diavolo.» Baird sorrise. «Mi dispiace, ma temo sia una persona troppo importante perché le pos-
sa dare degli ordini.» «Chi è? Un membro della famiglia reale forse?» «Più o meno.» Baird andò alla porta e parlò a qualcuno di fuori che non potevo vedere. «Puoi entrare adesso.» Guardai con ansia e un viso familiare, coperto di lentiggini, apparve circa a un metro al di sotto del punto in cui me l'aspettavo. Delle scarpe ticchettanti attraversarono il pavimento di corsa ed Elsie saltò sul letto e mi balzò addosso. La strinsi così forte da riuscire a contarle le vertebre sulla schiena. Avevo persino paura di farle male tanta era l'urgenza del mio abbraccio. «Oh, Elsie, adesso mi farai tu da infermiera.» Lei si divincolò liberandosi dalla mia stretta. «Non sono la tua infermiera» mi rispose con fermezza. «Allora mi farai da dottoressa.» «Non sono la tua dottoressa. Possiamo uscire e andare a giocare?» «Non adesso, amore mio.» Mi guardò con occhi socchiusi, sospettosi. «Non sei malata» annunciò, quasi con sfida. «È vero, non sono malata. Sono un po' stanca, ma tra un paio di giorni potremo di nuovo andare a correre e giocare.» «Ho visto un cammello.» «Dove?» «Un cammello grosso.» Vidi mia madre sulla soglia, che faceva finta di niente. Le feci cenno di avvicinarsi e ci abbracciammo come non avevamo fatto da anni. Poi lei cominciò a sussurrare qualcosa su Elsie con una tal aria di segretezza che Elsie immediatamente cominciò a fare domande. Scoppiai a piangere, senza riuscire a nasconderlo e mia madre condusse Elsie fuori della stanza e io rimasi di nuovo sola. Improvvisamente mi tornò alla mente Danny. Non il Danny del passato, ma il Danny di cui non avrei mai saputo nulla. Lo immaginai dietro la canna di una pistola costretto a scrivermi un messaggio, e pensai a quel che doveva aver provato. Doveva essere morto pensando di avermi tradita e che io non avrei mai saputo la verità. Fin da adolescente il pensiero della mia morte, della mia scomparsa nell'oblio, mi faceva venir le vertigini. Ora l'idea della morte di Danny era più terribile ancora e non era solo un pensiero, ma una sensazione fisica, un pizzicore sulla pelle e al fondo degli occhi, un ronzio nelle orecchie, e mi rendeva fredda e implacabile.
Mia madre si trasferì a casa mia per badare a Elsie. La sua partecipazione ai problemi era teatrale. «Suppongo che la casa contenga ricordi poco allegri per te» mi disse. «Ce la fai a ritornarci?» «La casa ha Elsie. Non ha dei brutti ricordi per me.» Dopo un paio di giorni mi sentii abbastanza in forze da lasciare l'ospedale e dopo altri due giorni fui in grado di far salire mia madre su un treno a Stamford e di liberarmi del suo aiuto. Tutto andava bene, se non per il fatto che non avevo ricevuto alcuna notizia da Baird e non dovevo soffermarmi a pensare ad alcune cose, perché se l'avessi fatto, non sapevo dove sarei andata a finire. Una settimana abbondante dopo che avevo parlato con Baird, mi telefonò Chris Angeloglou e mi chiese se potevo recarmi alla sede della polizia. Gli chiesi il motivo e lui rispose che volevano una deposizione, ma anche che avrei saputo qualcosa che mi avrebbe fatto piacere. Potevo passare quel pomeriggio stesso? Fui condotta in una stanza riservata con Chris e Rupert. Erano molto gentili e sorridenti con me. Mi fecero accomodare, mi portarono un tè con biscotti, accesero il registratore e mi chiesero di raccontar loro gli eventi del giorno della morte di Michael. Tra le loro domande e le mie risposte, le aggiunte e le parentesi, mi ci volle quasi un'ora e mezza, ma alla fine sembrarono soddisfatti. «Eccellente» commentò Baird, dopo aver spento il registratore. «Allora mi credete?» «Naturalmente. Aspetti un momento. Phil Kale doveva iniziare il turno alle tre e mezza. Vado a vedere se è in giro.» Rupert si alzò e uscì. Chris sbadigliò e si stropicciò gli occhi. «Ha l'aria che dovrei aver io» gli dissi. «Tutta colpa sua» rispose Chris con un sorriso. «Abbiamo lavorato sodo dopo la sua imbeccata. Vedrà che sarà contenta.» «Bene. Ho bisogno di sentirmi contenta.» Baird ritornò con il signore distratto e arruffato che ricordavo di aver incontrato il giorno in cui avevamo trovato la signora Ferrer morta. Ora aveva gli occhiali cerchiati di metallo tenuti insieme da un pezzo di nastro adesivo e una giacca di velluto a coste del tipo che avevo visto l'ultima volta addosso a parecchi dei miei professori alla fine degli anni Settanta. Chris portò una sedia vicino a noi e l'uomo ci si sedette. «Il dottor Philip Kale, il nostro medico legale. E la dottoressa Sam La-
schen, la nostra eroina.» Ci stringemmo la mano, cosa che provocò la caduta sul pavimento di parecchie cartelle di documenti. «L'ispettore, detective Baird, mi ha appena detto che lei ha rilasciato una deposizione riguardo alla confessione di Daley.» «Sì.» «Bene. Posso rimanere solamente un minuto. Hanno appena ripescato da un canale una di quelle signore che aiutano i bambini ad attraversare la strada. Posso solo dire che quel che ha raccontato alla polizia sembra essere confermato dall'autopsia. Mio Dio, da dove dovrei cominciare?» «Ha esaminato il capanno sulla spiaggia di Michael?» chiesi. «Sì» rispose Kale. «C'erano abbondanti tracce di sangue. Abbiamo fatto una serie di esami sierologici. Abbiamo anche trovato fibre e capelli, che abbiamo analizzato. Li abbiamo paragonati a campioni di capelli del signor Rees e ad altri trovati nella casa dei Mackenzie. Stiamo ancora aspettando i risultati dei test del DNA, ma so già quello che ci diranno. Per periodi indeterminati e in momenti indeterminati, i corpi di Daniel Rees e di Fiona Mackenzie sono stati tenuti nel capanno di Michael Daley. Questo è confermato anche dagli esami post mortem sui corpi bruciati. C'era assenza di iperemia, nessuna reazione proteinica positiva, e molti altri segni che indicano che le due persone in oggetto erano già morte quando la macchina ha preso fuoco.» «Allora anche il corpo di Finn, voglio dire di Fiona, è stato nel capanno?» «Tracce di capelli e di tessuti appartenenti a Fiona Mackenzie sono stati trovati attaccati a un telo in un angolo in fondo alla capanna. Supponiamo, con quasi certezza, che sia stato usato per avvolgere il suo corpo. E ora devo andare al canale.» «E che cosa ci dice della signora Ferrer?» Kale scosse il capo. «Penso che lei non abbia capito bene. Sono andato a riguardare il mio rapporto, ma non ho trovato nulla che possa far pensare che sia stata uccisa.» «Perché avrebbe dovuto ucciderla?» chiese Baird. «Non lo so» risposi in maniera assente. Kale mi porse la mano. «Ben fatto, dottoressa Laschen.» «Ben fatto?»
«È il suo grande successo.» «Non è un successo.» Ci stringemmo la mano e Philip Kale se ne andò. Angeloglou e Baird sorridevano come scolaretti che celano un segreto. «Perché avete quell'aria allegra?» chiesi. «Terremo una conferenza stampa domani mattina» rispose Baird. «Riveleremo le nostre scoperte e annunceremo che i casi dell'assassinio di Leopold ed Elizabeth Mackenzie, e di Fiona Mackenzie e Daniel Rees sono chiusi. Non ci saranno ulteriori indagini. Le daremo anche pieno credito per il suo contributo e l'eroismo dimostrato nell'affrontare Michael Daley. Sarà segnalata per qualche forma di onorificenza al valore civile. Ciò dovrebbe sistemare le cose con l'ospedale. Saranno tutti contenti.» «Non esageriamo.» «Non voglio essere insensibile dopo tutto quel che ha passato» disse Baird. «Ma date le circostanze questa non può che essere la conclusione migliore.» «Mi dispiace, devo pensarci su. Sapete come furono commessi gli assassinii dei genitori?» «Dovrebbe parlare con Kale di queste cose. Sembrerebbe che Daley e la ragazza abbiano legato e ucciso i genitori a notte fonda. Poi Fiona ha permesso a Daley di legarla. Quando la donna delle pulizie è arrivata, Daley ha usato un bisturi e le ha fatto un'incisione non molto profonda sul collo, poi è fuggito per le scale sul retro, che portano in giardino. Pensavamo che la presenza di relativamente poco sangue sulla scena dell'aggressione a Fiona Mackenzie fosse dovuta alla drastica diminuzione della pressione sanguigna dovuta allo shock. E invece la ragione era che la ferita le era stata inferta solo pochi minuti prima. Tutto bene? Non ha l'aria molto allegra.» «Continuo a ripensare alla faccenda, a cercare di sbrogliarla» risposi. «Era tutta una finzione. Finn ha aiutato a tagliare la gola ai suoi genitori e poi ha permesso che le fosse tagliata la gola. Non c'è nulla nel suo passato che faccia pensare a una predisposizione a questo tipo di azioni?» Chris sembrò perplesso. «Vuol dire se abbia ucciso qualcun altro prima?» «No, non intendo questo. Ci sono prove di un conflitto grave con i genitori? O di instabilità mentale?» «C'erano diciotto milioni di sterline. Temo che ci siano un mucchio di persone che taglierebbero la gola ai genitori per molto meno. E abbiamo
accertato presso la banca che il dottor Daley viveva molto al di sopra dei suoi mezzi. Era seriamente indebitato.» «E che ne è dell'altra questione. Dei legami con gli animalisti?» «Daley era informato delle loro azioni perché faceva parte di un comitato che controllava gli animalisti. Gli hanno offerto un'opportunità perfetta per sviare i sospetti. È tutto molto semplice.» Mi costrinsi a concentrarmi con la stessa intensità di quando risolvevo i problemi di matematica a scuola, arricciando il naso e la fronte e pensando con tale forza che quasi provavo dolore. «No, non lo è» risposi. «Potrebbe essere vero, ma non è molto semplice. Perché Finn avrebbe fatto testamento in favore di Michael Daley? Era comodo solo per lui, no?» «Forse volevano sposarsi.» «Oh, per l'amor del Cielo. E c'è un'altra cosa.» «Che cosa?» «Si ricorderà che avevo sollevato dei sospetti su Michael Daley qualche tempo fa e lei mi ha dimostrato che lui non poteva essere coinvolto nell'incendio della macchina. Da quel che capisco, non ci sono prove che lui sia stato sulla scena del delitto dei Mackenzie e lei mi ha detto che era a Belfast quando la macchina è bruciata.» I due uomini si scambiarono un'occhiata impacciata. O era un ammicco? Baird aprì le mani in un gesto di resa. «Dottoressa Laschen, ha ragione, ci siamo sbagliati. Che cosa vuole che facciamo, vuole che ci gettiamo ai suoi piedi? Lo ammetto, ci sono ancora uno o due punti poco chiari, e faremo del nostro meglio per chiarirli, ma nella vita reale le cose non sono mai del tutto nette. Sappiamo che cosa è stato fatto e sappiamo da chi. Probabilmente non sapremo mai esattamente come.» «Avrebbe emesso un ordine di arresto se Michael Daley fosse riuscito a raggiungere la riva?» Baird alzò un dito in segno di ammonizione ipocrita. «Basta, dottoressa. Quel che è successo va bene a tutti. Noi abbiamo un risultato. Lei diventerà un'eroina famosa come Boadicea e... ehm... come...» Lanciò un'occhiata ad Angeloglou in cerca di aiuto. «Edith Cavell» si offrì Angeloglou brillantemente. «È stata condannata a morte.» «Florence Nightingale, allora. Quel che importa è che sia finita e che noi tutti possiamo ritornare alla vita di sempre. Tra qualche mese ci incontre-
remo per un aperitivo e ci faremo una risata su tutto ciò.» «La Croce di George» dissi. «Che cosa?» «Ho sempre desiderato la Croce di George come medaglia.» «Non è stata così coraggiosa. Se fosse annegata, allora avrebbe avuto la Croce di George.» Mi alzai per andarmene. «Se fossi annegata, non avrebbe mai saputo che eroina meravigliosa sono. Arrivederci in televisione, Baird.» Capitolo 30 Facevo tantissime cose contemporaneamente. Provavo moltissimi sentimenti contemporaneamente. Era la prima volta nella mia vita in cui mi sembrava bello essere assorbita da tutte quelle occupazioni noiose che si notano solo quando non vengono fatte, come tenere in ordine la casa, fare il bucato, badare a quel che Elsie si metteva addosso, star dietro a Sally perché facesse qualcosa di più che lavare il pavimento della cucina, raddrizzare la pila di carte sul tavolo della cucina e buttar via la spazzatura. Una volta alla settimana Elsie usciva e andava a casa di Kirsty a subire le sue prepotenze e una volta alla settimana Kirsty veniva da noi a subire le prepotenze di Elsie. Trovai a Elsie un'altra amica, Susie, una bambina magra, dall'aspetto anemico, con dei fiocchi nei capelli biondi e un urlo che sembrava un trapano elettrico. Per i pomeriggi in cui Elsie era da sola comprai dei grandi libri colorati, e verso sera contavamo le banane in ogni grappolo e raggruppavamo gli animali a seconda delle dimensioni, di quante zampe avessero, se avessero o no le ali o se vivessero in acqua o sulla terra. Tutta quella zoologia era un modo per insegnarle la matematica. Completai un capitolo dopo l'altro del libro, come una talpa. La mia routine non cambiava praticamente mai. Accompagnavo Elsie a scuola. Scrivevo. Mangiavo un panino fatto con ciò che mi capitava per le mani e che non avesse nessuna parte marcia che non fosse facilmente asportabile. Andavo a fare una rapida passeggiata al mare quando la marea era alta. Stavo a guardarla e pensavo a cose complicate. Ritornavo a casa. Scrivevo. Continuavo a rimuginare pensieri e a costruire strutture più o meno plausibili dai relitti che riuscivo a raccogliere. Ce n'erano di semplici e di complicate. Il movente degli omicidi era l'eredità di Finn, un sacco di sol-
di, e forse anche qualche forma di odio. Il delitto era stato pensato e commesso da Michael Daley con una ragazzina che era sempre stata coccolata e che non aveva mai mostrato, almeno a quanto dicevano i rapporti, segni della più pallida ribellione adolescenziale. Ma naturalmente noi psicologi abbiamo sempre una risposta per questo. Segni di ribellione? Nulla di più comune. Niente segni di ribellione? Tanto meglio, saranno stati repressi, inespressi e fatti scaturire all'improvviso. Nulla di più comune. L'atto stesso era stato abbastanza semplice. Il delitto presumibilmente era già stato organizzato quando Michael, tramite il suo lavoro al comitato di controllo degli animalisti, aveva saputo delle minacce contro Leo Mackenzie. Era stata un'opportunità da non lasciarsi sfuggire. L'unica accortezza doveva essere quella di commettere i delitti in modo che sembrassero opera di animalisti particolarmente assatanati, e ciò spiegava gli imbavagliamenti, le gole tagliate, le scritte sul muro. Avevo conosciuto Leo e Liz Mackenzie solo attraverso un paio di fotografie sfocate sui giornali e dalle scarse e poco significative cose che Finn aveva detto su di loro. A pensarci mi veniva il magone. Non mi sembravano persone reali. Ciò che mi sembrava reale, un'enorme macchia nel reticolo dei miei pensieri logici, era la figura di Danny con una pistola contro la tempia. Aveva pianto e implorato o era stato coraggioso e silenzioso? Che cosa stavo facendo io nel momento in cui lui aveva capito che non c'era più speranza, che non sarebbe riuscito a negoziare la possibilità di non essere ucciso? Probabilmente ero arrabbiata con me stessa, o rimuginavo sulla mia triste sorte. E Michael aveva ucciso anche Finn, la sua complice. Pensai alla garrula lettera che mi aveva scritto e continuavo a non capire come avesse fatto a produrre un tale fiotto di parole con una pistola puntata alla testa. Ma dopo tutto la conoscevo assai poco. Continuavo a tormentarmi, a rigirare in testa tutti i dettagli che ricordavo di Finn in casa mia, come quando non si riesce a smettere di tormentare con la lingua un dente che duole. Ogni volta che lo si tocca si provocano ondate di dolore e nausea e tuttavia non si riesce a resistere. Finn imbambolata sul mio divano. Finn in camera sua. I miei sforzi brillanti per cercare di convincerla a ritornare a una vita normale, usando anche mia figlia. Finn che gettava nel fuoco i suoi vestiti. Le chiacchierate in giardino. Le bevute di vino e le risate. Quando le avevo parlato di scacchi. Quando le avevo permesso di badare a me. Era stata una forma di autotortura. E poi aver dato fiducia a Michael Daley che mi faceva i complimenti su come ero brava con Finn. Mio Dio, mio Dio, mio Dio. Ero stata lo zimbello all'interno di una fitta trama che era cominciata nel
sangue in una periferia di Stamford, era continuata con una messa in scena in casa mia ed era finita tra le fiamme su una strada solitaria della costa dell'Essex. Poi c'era la signora Ferrer. Che cosa c'entrava lei in tutta la faccenda? Michael aveva veramente detto di averla uccisa o avevo capito male in un momento in cui ero sconvolta perché temevo per la mia vita? Passai in rassegna tutto ciò che la signora Ferrer potesse aver scoperto. Forse come donna delle pulizie era incappata in un qualche indizio nella casa e ne aveva parlato all'uomo di cui si fidava, il suo dottore? Ma che cosa poteva essere? Improvvisamente un pomeriggio piovoso di primavera, mentre guardavo attraverso la pioggia grigia le barche veleggiare al sole a un chilometro e mezzo di distanza, in mezzo all'estuario, mi feci la domanda alla quale cercavo sempre di aiutare i miei pazienti a rispondere: «Perché io?». Pensai a come ero stata coinvolta in quel piano delittuoso e a come avevo interpretato bene la parte, io con la mia competenza unica, il mio acume, la mia abilità di diagnosi. «Ma non era mia paziente» mormorai a me stessa, come imbarazzata che un gabbiano o le canne mi sentissero piagnucolare. Che cosa avrei dato perché il piano fosse stato eseguito senza di me o che fosse stata scelta un'altra persona, che qualcun altro ne avesse avuto la vita distrutta, l'amante ucciso! «Perché io? Perché io?» E poi mi ritrovai a farmi la domanda essenziale. «Perché? Perché?» Affrontai la questione come se fosse un problema di scacchi. Se si è in vantaggio di un alfiere, non ci si getta in una carneficina complicata. Si semplifica. Il movente di Michael Daley e di Finn Mackenzie era disgustoso, ma semplice. Allora perché il loro delitto era stato così complicato? Ritornai di nuovo con la mente all'evento. Non riuscivo a capire per quale ragione Finn avesse dovuto essere presente all'assassinio, con tutto il rischio aggiuntivo che questo comportava per Michael Daley. Avrebbe potuto stare da un'altra parte, con un alibi perfetto, e non avrebbe dovuto farsi tagliare la gola, né ci sarebbe stato bisogno della lunga, dettagliata, rischiosa messa in scena che aveva tirato in ballo anche me ed Elsie e il povero Danny e la povera, triste signora Ferrer, se effettivamente era stata coinvolta. E poi perché Finn avrebbe dovuto cambiare il testamento così all'improvviso, lasciando tutto all'uomo che l'avrebbe assassinata? Che si fosse suicidata, dopo tutto? O Michael l'aveva uccisa perché aveva deciso
d'un tratto che metà eredità non gli bastava? Nessuna delle versioni sembrava aver senso. Cercai di costruire uno scenario in cui Michael aveva ucciso i Mackenzie e costretto Finn a essere complice minacciando di uccidere anche lei, ma non mi sembrava funzionare. Quel pomeriggio non lavorai. Continuai a camminare nel vento e nella pioggia finché non vidi che era ora di correre a casa da Elsie. Quando arrivai al vialetto di ingresso ero senza fiato e avevo un dolore acuto al petto, e vidi che la macchina era già tornata. Corsi dentro, presi il mio piccolo fagotto e me lo strinsi al petto, seppellendo il viso nei suoi capelli. Lei si staccò da me e andò a prendere un disegno incomprensibile che aveva fatto a scuola. Tirammo fuori i colori, ricoprimmo il tavolo della cucina con dei giornali e dipingemmo altri quadri. Facemmo tre puzzle, giochi enigmistici, poi giocammo a nascondino per tutta la casa. Elsie fece il bagno e leggemmo due libri interi. Di tanto in tanto mi fermavo e le indicavo una parola, «mucca», «palla», «sole», perché la leggesse, e lei doveva guardare le figure in cima alla pagina per avere un'idea e poi compitare. Lo faceva in modo molto elaborato, e io ero affascinata dalla sua complicata messinscena più di quanto lo sarei stata se fosse stata capace di leggere. Dopo il bagno strinsi il suo corpo nudo, grassottello e forte e sfregai il viso contro i suoi capelli che avevano un profumo dolce («Stai cercando pidocchi?» mi chiese) e improvvisamente mi resi conto di due cose: che avevo passato quasi tre ore senza rimuginare su cose orribili, umiliazioni e tradimenti. E che Elsie non mi chiedeva più di Finn e neppure di Danny. Nei momenti più neri a volte mi sembrava che le pareti di casa fossero ricoperte da una melma lasciata dalle persone che ci avevano abitato, ma Elsie era andata avanti. La tenni stretta e sentii che almeno lei non era stata contagiata dal male. Le gracchiai un paio di canzoni e la lasciai. Anche se erano da poco passate le otto, mi preparai una tazza di un tipo di caffè istantaneo riservato formalmente a Linda, ci versai sopra un bel po' di latte e andai a letto. Elsie era sopravvissuta a questo orrore nel modo in cui i bambini sembra siano stati programmati a fare e io ebbi l'impulso improvviso di portarla via, di andare in un luogo sicuro, lontano dalla paura e dal pericolo. Non ero mai fuggita. Da adolescente avevo abbassato il capo e lavorato senza fermarmi. Avevo continuato a lavorare da studentessa di medicina, e poi da dottoressa, e sempre più sodo. Non c'era mai stata una luce alla fine del tunnel. Solo un esame dopo l'altro o un premio o una borsa di studio o un lavoro che nessuno pensava sarei riuscita a ottenere. Cibo, divertimenti, sesso e le altre cose di cui è fatta la vita erano stati de-
gli optional da acchiappare solo sporadicamente lungo il percorso. Mi venne in mente una cosa che mi fece sorridere con amarezza. Me ne ero dimenticata. Finn a un certo punto aveva lasciato tutto, aveva fatto le valigie ed era partita per il Sud America, o dove diavolo era andata. Aveva contaminato anche la mia idea di salvezza e purezza. Mi ricordai dell'unico oggetto di Finn che mi ero tenuta. Attraversai di corsa la camera gelida, afferrai la guida spessa e ritornai di volata a letto, tirandomi sopra le coperte. Guardai il libro attentamente per la prima volta. La vera America Latina: la guida intelligente. Emisi un grugnito. Le migliori guide del mondo, cinque milioni di copie vendute. Altro grugnito. In effetti era proprio un andar via da tutto. Nondimeno cominciai a fantasticare di prendermi uno o due anni di libertà e girare per il Sud America, io ed Elsie da sole. C'erano degli ostacoli pratici: il mio reparto stava per aprire, non avevo soldi, non sapevo una parola di spagnolo. Ma i bambini sono bravi nelle lingue. Elsie l'avrebbe subito imparato e sarebbe stata la mia interprete. Il Perú. Tutti dicevano che era bellissimo. Sfogliai il libro finché non arrivai a un paragrafo, nella sezione dedicata al Perú, intitolato Problemi: Per i centri urbani del Perú bisogna circolare con circospezione. I turisti vengono derubati regolarmente: i borsellini sfilati dalle tasche, le borse strappate di mano. La specialità locale è tagliare con il rasoio borse e tasche. Pullulano gli imbroglioni e i poliziotti corrotti. Grugnii di nuovo. Elsie e io sapevamo cavarcela in quelle situazioni. Dov'era andata Finn? Mic qualcosa. Guardai nell'indice. Machu Picchu. Andai a vedere che cosa diceva: «Il sito archeologico più famoso e sublime del Sud America». Potevo prendermi un anno sabbatico e andare in giro ed Elsie avrebbe avuto il vantaggio di imparare bene lo spagnolo. Gli occhi vagarono sulla pagina finché non si fermarono su un passo che mi suonò familiare: Se siete tanto fortunati da trovarvi sul luogo durante la luna piena, vi conviene visitare il Machu Picchu di notte. (Sette dollari per un boleto nocturno.) Osservate l'Intihuatana, l'unico calendario di pietra che non è stato distrutto dagli spagnoli, contemplate gli effetti della luce e meditate sul destino degli imperi. L'impero inca è scomparso. L'impero spagnolo anche. Non rimangono che rovine, frammenti. E la luce.
Eccola lì, la grande esperienza trascendentale di Finn, sgraffignata da una guida turistica di quart'ordine. Ripensai agli occhi luccicanti di Finn, al tremito della sua voce mentre mi descriveva la scena. Mi sembrò la sconfitta finale. C'era ancora un pezzettino vano in me, un angolo della mia psiche, che sperava di aver ottenuto qualcosa con Finn. Nonostante la perfidia e il tradimento, credevo di esserle piaciuta un poco, così come l'amore per Elsie. Ora sapevo che anche nelle cose meno importanti, non si era data la pena di offrirmi un sentimento sincero. Era tutto falso, assolutamente tutto. Capitolo 31 «Hai pensato di parlare a qualcuno di quello che è successo? Voglio dire, sai...» Sarah era seduta al mio tavolo di cucina e stava preparando dei panini. Aveva portato formaggio cremoso, prosciutto, pomodori, avocado - cibo vero - e li stava mettendo a strati tra spesse fette di pane bianco. Era una delle poche persone che sopportavo di aver vicino. Era diretta e parlava delle emozioni in modo oggettivo, come una matematica di fronte a un problema. Il sole entrava dalle finestre e avevamo il pomeriggio per noi prima che Elsie rientrasse da scuola e Sarah tornasse a Londra. «Vuoi dire» bevvi un sorso di birra «andare a parlare con un esperto di stress da trauma?» «Voglio dire» rispose Sarah con calma «che deve essere difficile superare quel che ti è successo.» Guardai fisso l'occhio storto di metallo della lattina di birra. «Il problema» dissi alla fine «è che ci sono tante componenti diverse. Rabbia, sensi di colpa, incredulità, lutto.» «Mmm, certo. Ti manca molto?» Sognavo spesso Danny. Di solito erano bei sogni, in cui non lo perdevo, ma semmai lo ritrovavo. In uno ero a una fermata dell'autobus e lo vedevo venire verso di me; apriva le braccia e io scivolavo nel loro cerchio e mi sentivo ritornare a casa. Era stata una sensazione tanto fisica - il suo cuore che batteva contro il mio, l'incavo tiepido del suo collo - che quando mi ero svegliata, mi ero voltata nell'enorme letto per abbracciarlo. In un'altra occasione parlavo con qualcuno che non sapeva che fosse morto e piangevo, e improvvisamente il viso dello sconosciuto diventava il viso di Danny
e mi sorrideva. Mi svegliavo con le lacrime che mi scorrevano sul volto. Tutte le mattine lo perdevo di nuovo. La mia carne lo desiderava dolorosamente, non tanto per passione quanto per solitudine. Il mio corpo malato di nostalgia lo richiamava in vita: il modo in cui mi prendeva la nuca nella mano, in cui mi accarezzava i capezzoli con le dita ruvide, il suo corpo piegato contro le mie curve a letto. A volte prendevo Elsie e la abbracciavo stretta finché non si metteva a urlare e si divincolava per liberarsi. Il mio amore per lei improvvisamente fu troppo forte ed esigente. Troppo spesso tiravo fuori la lettera che aveva scritto a sua sorella. Non la leggevo, ma fissavo la scrittura ardita, nera, e lasciavo che le frasi affiorassero. Di lui avevo solo un paio di foto; di solito era sempre lui a stare dietro la macchina fotografica e a riprendermi. Non ricordavo più chi le avesse fatte. Ce n'era anche una in cui era sdraiato sulla schiena e teneva Elsie sulle gambe sollevate. Aveva il viso sfocato ed esposto al sole, una macchia di luce al posto degli occhi; Elsie aveva la bocca spalancata in una sorta di piacere delizioso e timoroso al tempo stesso. Quasi sempre dava la schiena all'obiettivo della macchina fotografica, si nascondeva. Volevo una foto in cui mi guardasse in faccia, come la lucida foto pubblicitaria di una star del cinema, perché avevo una terribile paura di dimenticare il suo volto. Solo nei sogni lo rivedevo con chiarezza. «Sì» risposi a Sarah, prendendo un panino che grondava pomodoro e portandomelo alla bocca «sì, mi manca.» Masticai un momento e poi aggiunsi: «Non so come dargli una giusta dimensione nella memoria. Capisci quel che voglio dire?». «E lei?» «Vuoi dire Finn? Mio Dio, è complicato. Prima di tutto mi ero molto affezionata a lei; era diventata parte della famiglia. Poi l'ho odiata; mi ha fatto star male per l'odio e l'umiliazione. E poi è morta ed è come se ciò avesse bloccato tutte le mie emozioni al punto in cui erano. Non so che cosa provo per lei. Mi sento in alto mare.» Quell'immagine mi fece rabbrividire, ricordandomi le acque scure. Rividi Michael Daley sulla barca che si stava sfasciando, rividi al rallentatore la spranga di metallo con cui l'avevo colpito, il boma che gli si scaraventava addosso, il corpo lungo che cadeva in acqua. «I poliziotti continuano a dire quanto siano soddisfatti che tutto si sia chiarito e non si preoccupano dei particolari che non quadrano. Ma a me danno fastidio. Anzi, mi tormentano. Ci sono cose che non capisco co-
me...» Mi fermai improvvisamente. «Facciamo una partita a scacchi. Sono secoli che non gioco.» Misi la scacchiera sul tavolo, aprii il coperchio della scatola di legno scuro e presi due pedoni dalla testa liscia. Li nascosi nei pugni e li porsi a Sarah perché ne scegliesse uno. «Bianchi» dissi e disponemmo i pezzi sui loro riquadri. Luccicarono arditamente ai loro posti sotto i raggi del sole. Di fuori un uccellino cinguettò, non il grido solitario di un uccello marino, che mi dava i brividi lungo la schiena, ma il cinguettìo socievole e casalingo di un passero inglese sul ramo di un alberello le cui foglie stavano per spuntare. Più tardi, dopo che Sarah era ripartita per Londra e io ero andata a prendere Elsie e l'avevo sistemata con Linda, feci un giro al supermercato. Ci ero stata solo pochi giorni prima e gli scaffali e il frigo di casa erano straripanti di cibarie varie. Ma andare su e giù per i corridoi familiari con il carrello, prendere oggetti solidi e confortanti che erano sempre allo stesso posto, mi calmava. Mi piaceva paragonare i prezzi dei fagioli stufati, del detersivo, del burro di noccioline. Stavo indugiando sopra il banco di dolciumi surgelati, chiedendomi se prendere un'altra torta di noci americane o una torta al limone, quando mi sentii chiamare. «Sam?» Presi entrambe le torte e mi voltai. «Beh, salve, ehm...» mi ero di nuovo dimenticata il suo nome, come l'altra volta che ci eravamo incontrate. Il ricordo della spedizione al centro commerciale con Finn mi riaffiorò brevemente e dolorosamente alla mente. Era il giorno in cui avevo creduto avesse cominciato ad aprirsi con me. Ora sapevo che era stato solo parte del complotto. «Lucy» mi suggerì. «Lucy Myers.» «Certo. Mi dispiace, ero sovrappensiero.» Misi le torte in bilico sul carrello traboccante. «Come stai?» «Piuttosto come stai tu?» rispose ansiosamente. «Avrai vissuto un periodo difficile. L'ho letto sui giornali, beh, l'abbiamo letto tutti. Ti abbiamo ammirata molto. Sei stata così coraggiosa. All'ospedale non si fa che parlare di ciò che hai fatto.» «Fantastico» risposi. «Già.» Spostò il suo carrello contro il mio, intrappolandomi accanto al banco dei surgelati, e trasformandosi in una carceriera raggiante. Nel suo
carrello scorsi cibo per cani, acqua minerale, porri, deodorante, carta da cucina e sacchetti per la spazzatura. Improvvisamente mi sentii quasi male e furtivamente rimisi a posto la torta al limone. «Non posso credere che tu sia così famosa ora. La gente ti fermerà per strada e cose del genere.» «A volte.» Rimisi nel banco anche la torta di noci. «Sei quasi annegata. Che cosa orribile.» «Già.» Dovevo ricordarmi di prendere il cibo per gatti per Anatoly. «E sai la cosa incredibile?» «No.» Si aprì un varco tra i carrelli e mi venne così vicino che le vidi i cerchietti delle lenti a contatto. «Io la conoscevo.» «Chi?» Mi fece un cenno con il capo, felice di avere una parte in quel delizioso dramma. «Conoscevo Fiona Mackenzie. Non è strano, conoscere te e anche lei?» «Ma...» «È vero. Mia madre e sua madre erano amiche. Sono stata anche la sua baby-sitter quando era piccola.» Lucy fece una risatina come se aver fatto la baby-sitter a una bambina che poi aveva sgozzato i genitori ed era finita carbonizzata in una macchina fosse la notizia più interessante del mondo. «Non la vedevo da qualche anno, forse tre anni. Era venuta al matrimonio di mia sorella con i suoi genitori. Era...» «Aspetta, Lucy.» Parlai lentamente, come se non capisse bene l'inglese. «Tu l'hai incontrata.» «È quel che ti stavo dicendo, Sam.» «No, voglio dire che l'hai incontrata con me. L'ultima volta che ci siamo viste, a Goldswan Green, ero con una ragazza, ricordi?» «Certo.» «Finn. Fiona Mackenzie.» «Era Fiona? Era così magra che non l'ho riconosciuta. Ma ho saputo del suo problema.» Annuii. «Anoressia» dissi. Mi guardò, il viso rotondo aggrottato, quando un signore grasso, con la pancia che straboccava fuori della cintura e il sudore che gli faceva un alone sotto le ascelle, lanciò il carrello contro i nostri. «Attente a dove vi fermate» abbaiò. «Stia attento lei a dove va» lo rimbeccai a mia volta, poi tomai a guarda-
re Lucy. Non l'avrei lasciata andare adesso. Finalmente avevo sottomano una persona che aveva veramente conosciuto Fiona Mackenzie. «Dimmi di lei.» «Vuoi che te la descriva? Beh, era» allargò un poco le mani, come per afferrare un pallone da spiaggia «piuttosto rotonda, direi, ma carina. Sì» Lucy mi guardò come se mi avesse dato una chiave di lettura di Finn «molto carina.» Sollevai le sopracciglia. «Carina?» «Sì. Molto tranquilla. Una che non si faceva notare. Forse un po' timida.» «Allora era carina e timida?» «Sì.» Lucy aveva l'aria di stare per scoppiare in lacrime. Come faceva questa donna a fare il giro di visite in reparto? «È stato tanto tempo fa.» «Com'era allora? Come si vestiva?» «Beh, non saprei veramente. Niente di esagerato. Aveva sempre un aspetto carino, anche se era grassoccia. Portava i capelli lunghi e sciolti. Senti, Sam, è stato un piacere incontrarti, ma...» «Scusami, Lucy, devi continuare la spesa. A presto.» «Sarà un piacere.» La nota ansiosa di amicizia ritornò nella sua voce ora che ci stavamo separando. «Ma Sam, aspetta, e il carrello?» «Ho cambiato idea» le dissi camminando velocemente a mani vuote lungo il corridoio verso l'uscita. «Non avevo bisogno di niente, dopo tutto.» La casa era perfettamente in silenzio. Di sopra Elsie dormiva pulita nel pigiamino stirato. Andai a sedermi sul divano con Anatoly sulle ginocchia, una sola lampada accesa a illuminare la stanza. La mia mente tornò a una sera passata con Danny, pochi giorni dopo che mi ero trasferita, quando ancora la casa era sommersa da scatoloni e mensole vuote. Lui aveva noleggiato una videocassetta e aveva preso del cibo indiano che aveva appoggiato per terra, su un giornale. Ci eravamo messi a sedere a gambe incrociate sul pavimento e avevamo visto il film e io avevo riso tanto da avere le lacrime agli occhi. Danny mi aveva stretto a sé, spingendo via i contenitori di alluminio con gli intrugli di carne rosso scuro e di verdure dall'aspetto sinistro, e mi aveva detto che mi amava e io avevo continuato a ridere e piangere nello stesso tempo. E non gli avevo risposto. Non gli avevo mai detto che lo amavo. Né allora, né in seguito. Così ora, seduta nella semioscurità, con la sua vestaglia addosso e il gatto sulle ginocchia,
glielo dissi. Glielo ripetei più volte, come se in quell'oscurità e in quel silenzio lui mi sentisse, come se ripetendolo tante volte potessi riportarlo indietro. E poi presi un cuscino, me lo schiacciai contro il viso e piansi, scaricando il mio cuore in un quadrato rigonfio di velluto a fiori. E dopo di ciò pensai a Finn. Era rimasta nella mia casa per quasi due mesi e non aveva quasi lasciato tracce. Aveva bruciato tutti i suoi vestiti vecchi e aveva portato via i pochi nuovi che aveva. Non aveva lasciato frammenti della sua vita. Mi guardai intorno per la camera in penombra: le superfici erano ingombre di cose che avevo accumulato nell'ultimo paio di mesi. Il traballante vaso di creta che Elsie aveva fatto per me a scuola, la pesca di papier-maché che mi aveva regalato Sarah quel giorno, una ciotola di vetro che avevo comprato a Goldswan Green perché mi era piaciuto il suo puro blu cobalto, il gatto di ebano, un elenco di cose da fare, un portacandele di legno, un mazzo di anemoni morenti, una scatola di tamponi, una pila di riviste, una pila di libri, una tazza di peltro contenente delle penne. Invece la sua camera era sempre sembrata la stanza di un albergo, e lei vi era entrata e uscita senza turbarne l'anonimato. Che cosa sapevo di quella ragazza che era vissuta sotto il mio tetto per due mesi, aveva condiviso con me i pasti e affascinato mia figlia? Non molto, anche se mi accorsi, mentre ci pensavo, che lei aveva estratto un bel po' di informazioni da me. Le avevo perfino parlato del padre di Elsie. Che cosa aveva detto di lei Lucy? E le compagne di scuola che avevo incontrato al funerale dei suoi genitori? «Dolce» e «carina». E gli amici di famiglia? L'avevano definita «deliziosa», quell'espressione condiscendente che non significa quasi niente. A me sembrava memorabile, con la sua radiosità da ragazza pulita. La morte di solito fissa le persone, le blocca nel punto in cui la vita finisce. Ma la morte sembrava aver dissolto Finn, averla dispersa come una nuvola. Capitolo 32 I giorni e le notti cominciarono a ritornare normali, scorrendo senza incidenti, scivolando l'uno nell'altro. Sarebbe stata un'esagerazione definire il risultato felicità, ma era sopportabile e per il momento bastava. Vi furono avvenimenti, naturalmente. Dopo un altro mese di caparbio lavoro completai il libro. La stampante sputò fuori una pila di fogli soddisfacentemente alta, che mandai a Sarah per una scorsa e un po' di incoraggiamento. Elsie fece progressi sul fronte lettura. Cominciai a sospettare che se una parola
nei suoi libri di lettura era molto corta, come «gatto» o «cane», se aveva un po' di tempo ed era di buon umore, riuscisse a decifrarla senza l'aiuto della figura sopra il testo. E si fece una terza amichetta: Vanda, che si chiamava, in realtà, Miranda. La invitai, o meglio fu Elsie a invitarla, io mi limitai a confermare l'invito, a passare la notte da noi. E il mio reparto stava per aprire. Erano stati assunti due medici e un infermiere specializzato, che stavano per arrivare. Passai molte ore in ufficio a parlare di dettagli sulla paga e i contributi, partecipai a riunioni sulle norme interne per l'esercizio della professione a Stamford e andai con Geoff Marsh a fare un giro delle agenzie di assicurazioni a discutere il tipo di protezione che offrivamo alle vittime del pollo gommoso e dell'acqua minerale. Dopo solo una settimana di trattamento con la famosa pozione della dottoressa Laschen si è al sicuro da tutte le cause legali. Mi sentivo un prodotto commerciabile, avrei voluto anch'io possedere un pezzo di me stessa. Pensavo a Danny, ma non continuamente. Non era più in ogni stanza della mia casa. A volte mi capitava di aprire una porta, un armadio e di trovarmelo davanti in uno stupido dettaglio, un oggetto, un ricordo, ma tutto qui. A volte mi svegliavo la notte e piangevo, e andava bene, ma il tormento ossessivo, vano, sulla vita che avremmo potuto avere insieme, l'amarezza dell'essermelo visto strappato via da un folle malvagio, erano praticamente scomparsi. L'attenzione della stampa si stava allentando. Gli articoli sull'inattendibilità dell'industria del trauma si erano trasformati in analisi sulla natura del coraggio femminile. Il mio eroismo aveva rimpiazzato il mio fallimento, ma non ero più interessata al secondo di quanto lo fossi al primo. Ci furono inviti a farmi fotografare nel giardino, a discutere della mia infanzia, dei miei maestri, a rispondere a questionali, ad andare alla radio a trasmettere i miei dischi preferiti. Mi fu offerta l'opportunità di parlare a uno psichiatra alla radio su quel che avevo provato quando la persona che amavo era stata assassinata e poi ero stata quasi uccisa io stessa. Come maggior esperta inglese, almeno per il momento, di guarigione da un trauma mentale, decisi che espormi in quel modo non sarebbe stato utile. Così, nonostante l'irritazione non sempre trattenuta di Geoff Marsh, dissi di no a tutti. Ci fu però un giorno che non si confuse con tutti gli altri. Fu quello in cui Miranda venne a passare la notte con Elsie e io promisi loro una festa di mezzanotte. A colazione Elsie aveva ordinato focaccine, lecca-lecca, piccoli salsicciotti arrotolati in carta argentata, formaggio fresco, bastonci-
ni di cioccolato, e mentre le pulivo la bocca e le spazzolavo capelli e denti, calcolavo quando andare al supermercato tra una riunione e l'altra. Stavamo uscendo dalla porta in una corsa disperata quando mi accorsi che stava piovendo a dirotto. Gettai via la giacca, afferrai un impermeabile e mi misi un cappello in testa. «Mettiti l'impermeabile» dissi a Elsie. Lei mi guardò e cominciò a ridacchiare. «Non ho tempo per i giochetti. Mettiti l'impermeabile.» «Sei buffa, mamma» mi disse tra le risate. Con un sospiro di esasperazione mi voltai verso lo specchio. E cominciai anch'io a ridere. Non potei farne a meno. Ero proprio buffa. «Sembri Hardy Hardy» mi disse Elsie. Intendeva Stantio e Ollio. Si ricordava di una scena di una loro comica in cui si erano scambiati i cappelli. Il cappello era troppo piccolo per me e mi stava appollaiato in maniera precaria in cima alla testa. Che diavolo era? Me lo tolsi e lo esaminai. Era di Finn. Lo tirai da una parte, afferrai il mio e andammo di corsa alla macchina. «Era buffo quel cappello, mamma.» «Sì era di... ehm...» Beh, perché no? «Era di Finn.» «Anche questo era di Fing» mi disse, indicando il cappello floscio che mi calzava bene. Mi fermai bruscamente e lo guardai. «Già. E vero. Era...» «Mamma, mi sto bagnando.» «Scusa.» Corsi intorno alla macchina, la feci montare sul sedile davanti e le allacciai la cintura di sicurezza, poi ritornai sull'altro lato e mi sedetti accanto a lei. Ero bagnata fradicia. «Sai di cane, mamma.» Giocammo alle belle statuine e a un gioco complicato le cui regole non avevo capito bene, ma che faceva morire dal ridere Elsie e Miranda. Fecero la loro festa segreta di mezzanotte alle otto e un quarto e poi io arrivai vestita da fantasma con uno spazzolino da denti a raccontar loro una storia. Andai a cercare un libro, ma Elsie mi disse: «No, raccontala tu, senza leggerla, mamma» sapendo che conoscevo una storia sola. Così si stesero e si misero ad attendere che mi ricordassi gli avvenimenti principali di Cappuccetto Rosso. La nonna era morta? Beh, nella mia versione non lo sa-
rebbe. Sorvolai un po' sui dettagli e raggiunsi il punto culminante. «Avanti, Cappuccetto Rosso» dissi con voce roca. «Ciao, nonna» continuai con una vocina da bambina. «Ma che orecchie grandi hai, nonna.» «Per sentirti meglio, cara» risposi con la voce roca. Sentii dei risolini provenire dal letto. «E che occhi grandi hai, nonna» dissi con la voce da bambina. «Per sentirti meglio» risposi con la voce roca che mi fece tossire. Altri risolini. «E che bocca grande hai, nonna» feci con voce stridula. Mi interruppi un momento e guardai i loro occhi spalancati in attesa. «Per mangiarti meglio.» Saltai sul letto e avvolsi le bambine fra le braccia e diedi loro dei piccoli morsi con le labbra. Loro urlarono, risero e si dimenarono sotto di me. Dopo che ci fummo ricomposte, ritornai a parlare con quel che mi era rimasto della voce normale. «Allora, chi c'era nel letto, Miranda?» «La nonna» rispose Miranda ridendo. «No, Miranda, non era la nonna. Chi c'era nel letto, Elsie?» «La nonna» rispose Elsie e tutte e due scoppiarono a ridere come forsennate, rotolando e saltando sul letto. «Se ha gli occhi da lupo e le orecchie da lupo e la bocca da lupo, allora che cos'è?» «Una nonna» urlò Elsie e di nuovo si misero a ridere. «Siete due lupacchiotti terribili» dissi «ed è ora di dormire.» Le abbracciai e baciai e andai di sotto, dove la lampada stava dondolando sul suo cordoncino a causa dei salti che facevano sul letto. Nel frigorifero c'era una bottiglia di un vecchio vino bianco e me ne versai un mezzo bicchiere. Avevo bisogno di un momento per pensare. C'era qualcosa che mi ronzava nei recessi della mente e volevo afferrarlo. Se sapeva che gli stavo dando la caccia, mi sarebbe sfuggito. Avrei dovuto coglierlo di sorpresa. Cominciai a borbottare tra me e me. «Se ha occhi da lupo e orecchie da lupo e bocca da lupo, allora è un lupo.» Bevvi un sorso di vino. «Ma se non ha gli occhi da lupo e non ha le orecchie da lupo e non ha la bocca da lupo e non ulula alla luna, allora che cos'è?» Trovai un pezzo di carta e una penna e cominciai a scrivere. Feci un elenco e poi cominciai a sottolineare e cerchiare e unire le voci con delle righe. Lasciai cadere la penna. Pensai a Geoff Marsh e alla sua strategia a
medio termine, pensai a Elsie e alla mia nuova vita pacifica, pensai all'assenza della stampa e alla fine e inevitabilmente pensai a Danny. In una tasca della borsa tra pezzetti di biglietti, matrici di assegni, il tesserino dell'ospedale e stupidaggini varie che avrei dovuto buttar via, c'era un pezzetto di carta con il numero di telefono di casa di Chris Angeloglou. Me l'aveva dato l'ultima volta che ci eravamo visti, dicendo che in qualsiasi momento avessi avuto voglia di parlare, dovevo sentirmi libera di chiamarlo. Sospettavo che avesse intenzione di mettere in atto un intervento terapeutico piuttosto invadente e avevo risposto con un sorrisetto secco. Mio Dio. La polizia era stufa marcia di me. Tutti, la famiglia, l'ospedale, tutti, volevano solamente che questi orribili avvenimenti fossero dimenticati. Se non ci avessi più pensato, non ci sarebbero più stati problemi, che altrimenti avrebbero interferito con il mio lavoro, mi avrebbero scosso i nervi e avrebbero sollevato vecchi ricordi in Elsie, facendole solo del male. Inoltre, se avessi telefonato a Chris Angeloglou ora, dopo tutto quello che era successo, avrebbe probabilmente immaginato che volevo proporgli di uscire con me. Ma quando avevo sedici anni, avevo fatto un giuramento molto stupido a me stessa. Alla fine della vita sono le cose che non si sono fatte, non quelle che si sono fatte, che si rimpiangono. Così, di fronte alla scelta tra l'azione e l'inazione, avevo promesso a me stessa che avrei sempre scelto l'azione. I risultati spesso sì erano rivelati disastrosì e non ero ottimista. Sollevai il telefono e composi il numero. «Pronto, posso parlare con Chris Angeloglou, per favore? Oh, Chris, buona sera. Telefonavo per... Mi chiedevo se potevamo andare a bere qualcosa da qualche parte. C'era una cosa di cui volevo parlare... No, non posso la sera. Che ne dice dell'ora di pranzo? Bene... è quello in piazza? Bene, a presto.» Rimisi giù il telefono. «Stupida, stupida, stupida» dissi a me stessa per consolarmi. Capitolo 33 Un manager con un vestito dagli strani risvolti stava cercando di spiegarmi la differenza filosofica tra i letti di ospedale come concetto contabile e i letti d'ospedale come oggetti fisici in cui la gente giace, e quando l'avevo quasi afferrata mi resi conto che stavo facendo tardi. Cercai di chiamare Chris Angeloglou, ma era già uscito. Gestii una riunione al telefono e un'altra mentre camminavo lungo un corridoio dell'ospedale. E dovetti an-
che tagliar corto e andare di corsa alla macchina. Mi fermai a prendere una medicina per Elsie (come se ci fosse una medicina in grado di curare la mancanza di associata alla bricconaggine cronica) e girai per il parcheggio dell'ospedale, rimanendo bloccata a lungo dietro macchine che manovravano per introdursi in spazi minuscoli, mentre visibilmente ce n'erano di enormi poco più avanti. Quando arrivai sbuffando al Queen Anne ero in ritardo di quasi mezz'ora. Individuai immediatamente Chris seduto in un angolo in fondo. Mi avvicinai e notai che aveva fatto una complicata costruzione di fiammiferi. Mi sedetti pesantemente facendogli una cascata di scuse e naturalmente la costruzione crollò. Insistei a pagare i drink e senza chiedere il suo parere andai al bar e ordinai istericamente due grossi gin and tonic, tutti i tipi di patatine che avevano e un pacchetto di cotenne croccanti. «Non bevo» fece Chris. «Nemmeno io, a dir la verità, ma pensavo che per questa volta...» «Io non bevo veramente.» «Che cosa è, mussulmano o qualcosa del genere?» «Un ex alcolista.» «Davvero?» «Già.» «Bene, posso offrirle un bicchiere di acqua minerale?» «Ne ho già bevuti tre.» «Mi dispiace davvero tanto. So quanto è occupato. Sono stata trattenuta e ho cercato di telefonarle, ma era fuori. E ora sto balbettando.» Per un momento nessuno di noi parlò e io cercai di valutare quanto Chris fosse seccato e se ciò potesse avere dei vantaggi. Bevve un sorso d'acqua e cercò di farmi un sorriso comprensivo. «Ha un aspetto migliore.» «Migliore di che cosa?» «Eravamo preoccupati per lei. E ci sentivamo anche un po' in colpa.» «Non c'era nulla di cui preoccuparsi. Non mi sono neanche presa un raffreddore dopo quel tuffo.» Si accese una sigaretta. «Le dà fastidio?» Scossi il capo. «Non pensavo a questo» continuò. «A che cosa pensava?» «È stato difficile per lei sotto vari punti di vista. Eravamo dispiaciuti.» «È stato peggio per altre persone.» «Vuol dire le vittime degli assassinii?» Angeloglou fece un risolino con
un certo sforzo. «Sì, beh, ora è tutto nel passato. Questo nuovo lavoro le farà bene. Noi stiamo cercando quella ragazza, la Kendall. Probabilmente l'ha vista in televisione.» Scossi il capo. «Non guardo la televisione.» «Dovrebbe. Ci sono anche cose interessanti. Soprattutto programmi americani...» Non finì la frase e socchiuse gli occhi. Poi mi sorrise in maniera interrogativa. Era il momento di spiegare perché l'avevo voluto vedere. «Senta, qual è la sua versione di quel che è successo?» L'interesse sul suo viso scemò alquanto, in un certo senso si spense. Aveva un bel viso, scuro, con gli zigomi pronunciati, la mascella forte su cui passava a volte le dita come sorpreso dalla sua fermezza. Era troppo curato per me. Troppo azzimato. Si aspettava che gli dicessi che desideravo conoscerlo meglio, ma che mi ero trattenuta finché il caso era aperto. Ma ora, che ne pensava di andare a cena insieme e vedere quel che sarebbe successo? Dopo tutto ero una professionista e una di quelle tipe femministe e avevo degli strani capelli, tutte cose che probabilmente significavano che ero sessualmente intraprendente. Invece ero ancora lì che mi tormentavo nevroticamente sul caso. «Sam, Sam, Sam» disse, come se stesse confortando un bambino che si era svegliato di notte. «Non deve fare così, sa?» «Non devo fare nulla. Non è questo il punto.» «Ha avuto delle orribili esperienze. È stata traumatizzata...» «Non mi parli di traumi.» «E poi è diventata una grande eroina, noi riconosciamo i suoi meriti e le siamo grati. Ma è finita. So che l'esperta è lei e che non dovrei dirle queste cose, ma non deve pensarci più.» «Mi risponda. Mi dica che cosa è successo.» Aspirò alla sigaretta in maniera quasi brutale. «Non mi interessa continuare a parlare di questo caso. Tutte le persone coinvolte sono morte. Non è andato particolarmente bene per nessuno.» Feci un grugnito sarcastico. «Ma l'abbiamo chiuso e non voglio più pensarci.» Presi un lungo sorso da uno dei due gin and tonic. Poi feci un profondo respiro e dissi, più o meno onestamente: «Mi ascolti per cinque minuti e poi, se non le interessa, non ne parleremo mai più». «Questa è la cosa più promettente che mi ha detto finora.»
Cercai di metter ordine in qualche modo nei miei pensieri. «Crede che Finn e Michael abbiano ucciso i Mackenzie e che poi Michael abbia tagliato la gola a Finn, anche se per Finn sarebbe stato facile essere da un'altra parte con un alibi?» Chris si accese un'altra sigaretta. «Per l'amor del Cielo, abbiamo già discusso di questo. Non devo tentare di spiegarle il comportamento di questi assassini. Forse hanno voluto commettere gli omicidi insieme. Sono persone malate, dei maledetti psicotici, chi sa che cosa è passato loro per la testa. Magari erano dei sadomaso e la messinscena del delitto ha procurato loro piacere.» «C'è il delitto della signora Ferrer.» «La signora Ferrer è morta perché si è infilata sulla testa un sacchetto di plastica. Si è trattato chiaramente di un suicidio.» «Forse. Ma resta ancora aperto l'assassinio di Danny e di Finn. È stato proprio lei a dimostrarmi che non poteva essere stato compiuto da Michael.» «Non riesco a credere di essere qui ad ascoltare queste sciocchezze. Ci rifletta su un momento. Ha fatto una deposizione in cui ha dichiarato che Michael Daley ha ammesso di essere stato l'autore degli assassinii. I reperti trovati nel suo capanno confermano senza dubbi la sua deposizione. Non ha senso dubitare che Daley e Fiona Mackenzie abbiano ucciso i Mackenzie e che in seguito Daley, con o senza Fiona Mackenzie, abbia ucciso Danny Rees, e infine abbia ucciso Fiona Mackenzie, liberandosi così di tutti i legami con il delitto. Se fosse riuscito nel piano e assassinato anche lei, in barca, probabilmente ce l'avrebbe fatta.» «Riesce a pensare a una ragione per cui Finn improvvisamente abbia fatto testamento in favore di Michael Daley?» A quel punto Chris prese a guardarmi con un'espressione vicina al disprezzo. «Non me ne importa un accidente. A volte i pazienti si innamorano del dottore, no?» Fece una pausa prima di riprendere con crudele determinazione. «Si sa che le donne si comportano in maniera irrazionale in momenti di grande stress. Forse era traumatizzata, forse stava per avere le mestruazioni. Mi dispiace, ma i casi di solito si chiudono in questo modo. Se abbiamo il colpevole e non troppi punti oscuri, ci accontentiamo. È per questo che voleva vedermi?» «Pensavo che le sarebbe interessato sapere di un paio di cose buffe che mi sono capitate negli ultimi giorni.»
«Sta bene, Sam?» «Un paio di mesi fa stavo facendo compere con Finn e abbiamo incontrato per caso una tizia che ha frequentato la mia stessa università.» «Affascinante. Penso che i suoi cinque minuti siano terminati...» «Aspetti. L'ho incontrata di nuovo martedì.» «La saluti da parte mia se le capita di rivederla» mi disse Chris alzandosi dalla sedia. «Si sieda» gli feci aspramente. Angeloglou si accigliò e vidi che era indeciso se ignorarmi e andarsene, o rimanere, ma alla fine fece un sospiro e si rimise a sedere. «Aveva letto di me sui giornali. Mi ha detto che era una strana coincidenza perché era un'amica di famiglia dei Mackenzie. Tuttavia quando ci eravamo incontrate la prima volta non aveva riconosciuto Finn.» Il volto di Chris rimase impassibile, come in attesa della battuta finale. «E ciò che cosa dovrebbe significare?» chiese. «Non pensa che sia strano?» Sbottò a ridere sgradevolmente. «Fiona non era dimagrita molto?» «Sì.» «Non cercava di evitare di incontrare le persone a tu per tu?» «Sì.» «Allora forse la sua amica non l'ha vista bene, forse non aveva gli occhiali.» «E poi, quando leggevo la guida di Finn sul Sud America, per caso ho trovato un passaggio che diceva la stessa cosa, con le stesse parole, che mi aveva raccontato lei sul suo viaggio. Come se si fosse studiata a memoria la guida.» Angeloglou si stava facendo schioccare le nocche con un'espressione di noia e quasi di disprezzo sul viso. Non si diede la pena di rispondere. «E ieri mi è successa un'altra cosa buffa. Mi stavo precipitando fuori di casa e ho afferrato un cappello a caso che mi era troppo piccolo. Mi copriva solo il cocuzzolo. Elsie si è messa a ridere.» «Suppongo che si dovesse essere presenti per apprezzare la situazione.» «Vede questo cappello?» Presi il cappello dalla tavola e me lo misi in testa. «Mi va bene, vero? Ebbene, era di Finn.» «Si sarà ristretto in lavatrice, no? Bene, sono molto contento che lei abbia voluto comunicarmi queste esperienze.» «Lei mette i cappelli in lavatrice, vero? Ciò spiega un paio di cose. Ha
fatto scienze a scuola?» «Anche questo è di fondamentale importanza per l'indagine, suppongo. Sì, ho fatto scienze a scuola, ma scommetto che non ero bravo come lei.» «Anch'io ci scommetto. Senta, so che la realtà è complicata, la gente si comporta in maniera illogica, le prove sono ambigue. Ma...» Scolai il gin and tonic e sbattei il bicchiere sul tavolo con tanta forza che la gente si voltò a guardare e Chris mutò posizione, a disagio. «Spero che lei non abbia intenzione di tornare a casa in macchina.» «Ma» ripetei «questa faccenda non è solo complicata, è impossibile. Fino alle scoperte nel capanno di Michael era possibile che Finn e Danny fossero scappati insieme e poi si fossero suicidati. Poteva essere poco probabile e non da Danny e sicuramente molto traumatico per me personalmente, ma era possibile. Ora, poteva essere probabile e sicuramente era da Michael uccidere Finn e Danny e inscenare un suicidio, ma è totalmente impossibile.» Feci una pausa. Chris non rispose. «Non le pare?» Picchiettò la sigaretta. «Forse. Ma Michael è morto. Finn è morta. Non sappiamo quel che è successo.» Non so se fu il gin and tonic a stomaco vuoto o la rabbia, ma mi sentii come se il ronzio del bar mi fosse entrato in testa come uno scampanellio. Improvvisamente fui in preda all'ira. «Per l'amor del Cielo, faccia finta solo per un momento di non essere un poliziotto, faccia finta di essere una normale persona intelligente a cui importa ciò che è veramente accaduto. Voglio dire, non si preoccupi che ci siano altri poliziotti a origliare. Non deve fare il grande davanti ai ragazzi.» «Che arrogante...» Con un ovvio sforzo Chris si fermò. «D'accordo, la sto ad ascoltare. Mi interessa veramente sapere. Se siamo così stupidi, ci dica dove abbiamo sbagliato. Ma prima di iniziare, vorrei aggiungere che sta rischiando di diventare seriamente imbarazzante. Nei confronti dei suoi impiegati, nei nostri confronti, nei suoi, in quelli di sua figlia. È questo ciò che vuole? Essere conosciuta come una pazza furiosa? Ma continui, la ascolto.» Per un momento presi seriamente in considerazione la possibilità di afferrare il portacenere dal tavolo e spaccarglielo in testa. Poi mi calmai e pensai di gettargli addosso solo i resti del secondo gin and tonic. Contai per un bel po'. «Pensavo di farle un favore» dissi.
«Allora me lo faccia, un favore.» Mi sentii sul punto di scoppiare. «Non le farò un favore, ma forse la posso aiutare a pensare con la sua testa.» «Devo andare.» «Solo un minuto. La macchina bruciata è stata trovata il 9 marzo. Qual era la prima teoria? Che si fossero uccisi dando fuoco alla macchina con uno straccio ficcato nel serbatoio di benzina, nel bocchettone, o quel che era.» «Sì.» «Ma dal momento che nel capanno sono state trovate tracce dei corpi sia di Finn che di Danny, è chiaro che erano già morti quando la macchina ha preso fuoco, no?» «Già.» «E Michael non avrebbe potuto dar fuoco alla macchina, giusto?» «Senta, come le ho detto, ci sono dei punti oscuri, delle incongruenze. Ma cerchi di capire.» Parlava molto lentamente, come se l'inglese fosse la mia seconda lingua. «Sappiamo con certezza che è stato Michael Daley a uccidere Danny Rees e Fiona Mackenzie, d'accordo? Non abbiamo ancora accertato esattamente come, d'accordo? Era un uomo intelligente. Ma lo scopriremo, e quando l'avremo scoperto la informeremo, d'accordo?» Il volto gli si contraeva per lo sforzo di rimanere calmo. Gli risposi parlando a mia volta molto lentamente. «Michael era a Belfast quel giorno, vero?» «Sì.» «Allora qual è l'unica altra possibilità?» «Ci sono varie altre possibilità.» «Tipo?» Chris si strinse nelle spalle. «Molte. Qualche tipo di congegno incendiario, per esempio.» «Sono state trovate prove di un congegno del genere?» «No.» «La macchina sarebbe dovuta rimanere là con i corpi morti per due giorni interi. Non è possibile. E che senso avrebbe avuto in fondo? Perché prendersi tutto quel disturbo per darle fuoco?» «Era uno psicopatico.» «Mi segua per un momento, Chris, e la smetta di parlare a vanvera. Non dovrà rispondere di quel che dice e non la metterò più in imbarazzo, ma mi
dica solamente come ha fatto a dar fuoco alla macchina.» Chris borbottò qualcosa. «Mi scusi, non ho sentito.» Si accese un'altra sigaretta, spegnendo il fiammifero con una lentezza assurda e mettendolo nel portacenere prima di rispondere. «È possibile che Michael Daley avesse una specie di collaboratore.» «No, si sbaglia. È impossibile che non abbia avuto un collaboratore.» Chris guardò l'orologio e si alzò. «Devo andare.» «La accompagno.» Mentre andavamo verso la centrale di polizia rimase in silenzio e imbronciato. Solo quando raggiungemmo i gradini dell'entrata principale si voltò a guardarmi. «Allora pensa» disse con calma «che dovremmo riaprire il caso e cercare di identificare il misterioso complice?» «No» risposi. «Perché no?» «Perché so chi è.» «Chi?» «Finn» dissi, godendo di vederlo annaspare per l'incredulità. «In un certo senso.» «Che cosa intende? Di che diavolo sta parlando?» «Lo scopra lei, è il suo lavoro.» Scosse il capo. «È... è...» Sembrò completamente perso. Gli porsi la mano. «Mi dispiace essere arrivata in ritardo. Mi terrò in contatto.» La strinse come se temesse di prendere la scossa. «È... è... libera stasera?» «No» risposi e lo lasciai sui gradini. Capitolo 34 Sentii dei passi avvicinarsi alla porta e vidi un'ombra attraverso il vetro smerigliato. Raddrizzai la schiena sotto quel portico che intimidiva e assunsi un'espressione gentile e speranzosa sul viso. Fui attraversata dal pensiero di quanto ero trasandata. La porta si aprì di qualche centimetro e ne sporse il viso di una donna. Era ancora in vestaglia e si era truccata solo a
metà; un occhio a posto, mascara e tutto il resto, l'altro ancora spoglio e vulnerabile. «Laura» dissi attraverso la fessura. «Mi dispiace disturbarti senza preavviso... Mi chiedevo se fosse possibile parlarti per due minuti.» Sul suo volto l'espressione di gentilezza irritata che aveva assunto nei confronti dell'estranea venuta a disturbarla al momento sbagliato si trasformò in sorpresa e, pensai, in un vago spavento. «Sono Sam Laschen» continuai. La porta si aprì maggiormente sull'ampio ingresso dal parquet lucido, che sapeva di soldi e buon gusto e donna delle pulizie tutti i giorni. «Ma cara, naturalmente, sei venuta a una festa con...» Allarme e interesse passarono l'uno dopo l'altro sul suo viso. «Michael Daley. Sì. Mi dispiace capitare così all'improvviso, ma c'è una cosa che vorrei assolutamente sapere e mi chiedevo se tu potevi aiutarmi. Posso ritornare in un altro momento se preferisci.» Mi guardò con gli occhi socchiusi. Potevo essere l'argomento dei pettegolezzi per tutto un anno o una pazza pericolosa? L'idea dei pettegolezzi prevalse. «No, oggi non devo andare all'ospedale se non più tardi. Stavo giusto dicendo a Gordon ieri... Entra.» Seguii quella signora solida coperta di ciniglia nella sala in cui qualche mese prima avevo mangiato asparagi e bevuto vino bianco. «Vado a mettermi qualcosa addosso. Ti faccio un caffè? Un tè?» «Caffè, grazie.» «Non ci metterò più di cinque minuti» disse e mentre saliva le scale la sentii chiamare con urgenza «Gordon. Gordon!» Mentre era via, tirai fuori il cellulare di cui mi aveva dotato l'ospedale e che usavo ancora con una certa circospezione, e composi un numero. «Sì, pronto, potrei parlare con Philip Kale? No, rimarrò in attesa.» Dissi il mio nome e dopo pochi secondi Kale venne al telefono. «Dottoressa Laschen?» Era ovviamente stupito e, come sempre, di fretta. «Sì, senta, mi chiedevo se poteva dirmi qual era il gruppo sanguigno di Finn, Fiona Mackenzie. Dal suo rapporto dell'autopsia.» «Il suo gruppo sanguigno? Sì, naturalmente. La richiamo fra poco.» La prospettiva di un telefono cellulare che mi suonava in tasca mi innervosiva. «No. Sono in giro tutto il giorno» risposi. «La chiamerò io. Tra un'ora? Grazie mille.» Udii provenire dalla cucina il rumore del macinacaffè, il tintinnare delle tazzine. Digitai un altro numero.
«Pronto? L'ospedale? Sì, mi potrebbe passare Margaret Lessing dell'ufficio personale? Maggie? Sono Sam.» «Sam!» La sua voce risuonò tintinnante. «Ciao, che cosa stai combinando?» «Di tutto e di niente. Potresti farmi un piacere? Vorrei dare una scorsa alla cartella clinica di Fiona Mackenzie, quando era ricoverata per l'aggressione. Potresti tirarmela fuori?» Ci fu un momento di esitazione. «Non vedo perché no.» «Grazie Maggie. Vengo più tardi?» «Dammi un colpo di telefono prima.» «Perfetto. A presto.» Laura era più a suo agio, ora. Il viso era meno titubante sotto i lucidi riccioli grigi. Si era messa un vestito grigioverde che le arrivava alle ginocchia, aveva truccato l'altro occhio e si era messa il rossetto. Posò sul tavolo tra di noi un vassoio con una caffettiera, due tazzine di porcellana con i cucchiaini d'argento sul piattino, un bricco delicato con il latte, zollette di zucchero di un marroncino chiaro e di un bianco intenso. Pensai alla bottiglia di latte e al barattolo di marmellata sul mio tavolo di cucina, agli scatoloni ancora da svuotare sul pavimento nudo del mio studio. Non avrei mai avuto quello stile. Grazie al Cielo. «Come stai? Ti abbiamo tutti tanto ammirata.» Laura mi versò il caffè fumante e io vi aggiunsi un goccio di latte. «Bene, grazie.» Bevvi un sorso. «Volevo parlare a qualcuno che avesse conosciuto Finn.» Laura sembrò lusingata. Mi posò una mano forte e curata sul ginocchio ricoperto di jeans. «Quel che hai passato è terribile. Voglio dire che è stato sconvolgente anche per persone come noi, che siamo rimaste ai margini, e...» «Parlami di Finn.» Bevve un sorso di caffè e si abbandonò contro lo schienale, visibilmente incerta. Avrebbe desiderato fossi stata io a parlare. «Non la conoscevo molto bene. Era una ragazza gentile, carina, che probabilmente soffriva a scuola, come succede alle ragazze sovrappeso.» Laura sollevò le sopracciglia guardandomi. «E poi si è ammalata seriamente e se ne è andata, si è allontanata da tutti coloro che la conoscevano. È stato terribile per Leo e Liz. Ma si è rimessa in sesto. Liz mi aveva detto che Finn era felice come non lo era mai stata. Completamente trasformata. Ve-
devano il viaggio in Sud America come un nuovo inizio, l'ingresso nell'età adulta.» Non funzionava. Non volevo diagnosi dilettantesche da Laura. Volevo informazioni, fatti che avrei potuto elaborare in seguito. «Non hai delle sue foto per caso? Tutte quelle che c'erano in casa sono state distrutte.» «Non mi pare. Frequentavamo i genitori, più che lei. Ma aspetta un minuto.» Uscì per riapparire con un libro rosso, spesso e quadrato, e cominciò a sfogliare le pagine di fotografie colorate inserite nei fogli di plastica trasparente, scuotendo il capo. Mi passarono davanti visi sconosciuti, case anonime, colline, spiagge, gruppi di persone. «Ecco, questa era una festa in giardino a cui siamo andati con Liz e Leo. Doveva esserci anche Fiona, ma non la vedo.» I genitori Mackenzie, i cui volti sfocati erano stati sulla prima pagina di tutti i giornali qualche mese prima, erano su un prato ben tenuto e sorridevano alla macchina fotografica. Lei era magra sotto un cappello di paglia dalla tesa larga, lui sembrava accaldato e a disagio in giacca e cravatta. A sinistra si intravedevano un braccio nudo, il guizzo di un vestito a fiori e un accenno di capelli scuri. Misi un dito sul braccio, come se potessi toccarne la carne. «Questa doveva essere Finn.» Andai a sedermi su una panchina in una piazza. Una madre stava dando la spinta al suo bambino sull'unica altalena in un brandello di verde. «Il dottor Kale, per favore» dissi al telefono. Rispose quasi subito. «Buongiorno, dottoressa Laschen. Sì, ce l'ho qui, davanti a me. Vediamo. Ecco, il sangue di Fiona Mackenzie era di gruppo 0, come quello di circa la metà della popolazione dell'Europa occidentale e degli Stati Uniti. Era questo che voleva sapere?» All'ospedale Maggie sembrava affannata. «Scusami, Sam, ma devi darmi ancora un po' di tempo. Questi dannati computer, qualcuno deve aver fatto degli errori nel registrare i dati e c'è una gran confusione. Potrebbero andar bene i documenti al momento del ricovero?» «Sì.» «Richiamami.»
«Donald Helman? Buongiorno, spero di non disturbarla. Sono Sam Laschen e ci siamo conosciuti a una festa da Laura e Gor... Sì, giusto. È stata Laura a darmi il suo numero. Lei aveva detto che sua figlia era amica di Finn e mi chiedevo se potevo parlarle. Oh, quando sarà di ritorno? Beh, in questo caso... Ho conosciuto una compagna di scuola di Finn. Si chiama Jenny, mi pare. Non è che per caso sa qual è il suo cognome? Glaister. Grazie mille.» Jenny Glaister era a casa per le vacanze di Pasqua. La grande casa dei genitori, circondata dal giardino, era a circa trenta chilometri da Stamford e lei mi venne incontro sul vialetto d'accesso di ghiaia. Era una giornata grigia e piuttosto fredda, ma lei aveva addosso solo una gonnellina di seta dai colori vivaci e una camicia sottile. Mi ricordai la sua disinvoltura e sicurezza ai funerali. Era perplessa, ma sembrava interessata a me. Lo erano tutti, a tutti interessava la donna di cui avevano letto sui giornali, almeno quel tanto da farmi accomodare in casa per qualche minuto. Preparò il tè e poi mi si sedette davanti, il volto ovale sulle mani senza anelli. «Per essere onesti» disse «Finn non era veramente una del nostro gruppo. Voglio dire che lo era e non lo era.» Si mordicchiò il labbro inferiore e poi aggiunse: «A scuola era impacciata. Un po' goffa. Quando si è... ammalata ed è andata via, ci siamo sentite un po' in colpa. Abbiamo pensato che forse non l'avevamo aiutata a inserirsi tra di noi. Voglio dire che forse è diventata anoressica perché voleva essere una di noi. L'ho vista brevemente quando è ritornata dal Sud America e quasi non la riconoscevo, nessuna di noi la riconosceva: era magra e abbronzata e aveva tutti quei vestiti nuovi favolosi e sembrava sicura di sé, meno ansiosa di ottenere la nostra approvazione. Eravamo un po' in soggezione, come se fosse un'estranea. Era molto diversa dalla Finn grassottella che ci veniva dietro». Cercai di spingerla a dire qualcosa di più specifico. Fece un notevole sforzo. «Qualche settimana fa avrei detto che era intelligente, carina. Questo genere di cose. E leale» aggiunse. «Avrei detto che Finn era leale: una persona di cui ci si poteva fidare, su cui si poteva contare. Faceva sempre i compiti e arrivava in orario ed era, beh, affidabile. Lei ha passato tanto tempo con Finn alla fine. Le sembra che queste cose abbiano senso?» «Non hai delle fotografie?» Rovistammo in una scatola di fotografie in cui c'era soprattutto Jenny, sempre molto carina, a cavallo, al mare, con la famiglia, mentre suonava il
violoncello, riceveva un premio a scuola, sciava. Ma niente Finn. «Potrebbe provare a scuola» mi suggerì. «Ci dovrebbe essere una sua foto. Il semestre non è ancora terminato e la segretaria, Ruth Plomer, la aiuterà. È gentilissima.» Perché non ci avevo pensato? Così andai a Grey Hall, che non era un edificio grigio ma rosso e imponente e si ergeva un poco discosto dalla strada, al di là di splendidi prati verdi. Sui campi da gioco vidi un'orda di ragazze in pantaloncini grigi e magliette bianche che manovravano bastoni da lacrosse con una signora alta che urlava verso di loro. Dentro fui accolta dall'odore di gommalacca, verdura, olio di lino e femminilità. Dietro le porte chiuse erano in corso le lezioni. Non era così che mi ricordavo il liceo di Elmore Hill. Una donna in grembiule mi condusse lungo un corridoio alla segreteria. Ruth Plomer, occhi luccicanti e naso a becco d'uccello, era seduta in mezzo a cartelline, cestini e pile di moduli. Ascoltò attentamente la mia richiesta, poi annuì. «A essere sincera, dottoressa Laschen, la stampa è venuta qui a chiedere fotografie, commenti, interviste, ma noi abbiamo sempre rifiutato.» Fece una pausa e io rimasi in silenzio. Lei si arrese e proseguì. «Vuole solo vedere una fotografia? Non vuole portarla via? Non vuole parlare a nessuno?» «Sì, vorrei vedere com'era prima che la conoscessi.» Sembrò perplessa, apparentemente intenta a dibattere tra sé e sé se cedere o meno alla mia richiesta. Alla fine accondiscese. «Non penso che ci sia niente di male. Non abbiamo ritratti individuali, ma solo foto di gruppo. Quando è stato il suo ultimo anno?» «Mi pare che formalmente abbia lasciato la scuola nell'estate del '95, ma è stata ammalata per quasi tutto quell'anno accademico. Forse potrei guardare la foto dell'anno prima.» «Aspetti qui, vado a vedere quel che posso fare.» Lasciò l'ufficio e la sentii allontanarsi e ritornare. Aveva in mano un rotolo di carta che spiegò sulla scrivania traboccante. Mi chinai e presi a esaminare le file di volti di ragazze in cerca di Finn. La signorina Plomer inforcò gli occhiali. «Qui c'è il 1994. E qui abbiamo l'elenco dei nomi delle ragazze. Vediamo, ecco, è nella terza fila in fondo. Eccola lì.» Un'unghia curata toccò un viso a sinistra. Capelli scuri, lineamenti leggermente sfocati: doveva esser-
si mossa mentre scattavano la foto, proprio come aveva fatto con me. Presi il rotolo e lo portai alla luce, esaminandolo con attenzione. Ma sembrava recedere dal mio sguardo. Non avrei mai detto che era Finn. Ma non avrei potuto riconoscere nessuno in quella foto. «Maggie, ciao, sono di nuovo io, Sam. L'hai trovata?» «No, c'è un problema con i documenti di ammissione. Qualcuno deve averli tirati fuori e sto cercando di capire chi sia stato. Richiama.» Era affannata e irritata e aveva fretta di staccarsi dal telefono. Tutto sparito. Che cosa fare adesso? Dov'era, oh, dov'era? Aprii il bagagliaio della macchina. Disegni di Elsie, dozzine e dozzine, accatastati. Alcuni si erano appiccicati insieme, perché il colore doveva essere stato ancora umido. Alcuni avevano ancora agli angoli il nastro adesivo con cui erano stati attaccati alle pareti. Mostri verdi e rossi con tre gambe, margherite gialle con il gambo diritto e due foglie, una per lato, macchie violente di viola, facce con occhi storti, animali indeterminati, paesaggi, righe blu ondeggianti che attraversavano lo spesso foglio bianco. Arcobaleni con i colori che sbavavano l'uno nell'altro, lune e stelle che gocciolavano giallo in tenebrose notti nere. Presi ogni disegno e lo esaminai davanti e dietro. Vi si trovavano tracce della presenza di Finn: qualche titolo, scritto ordinatamente, qualche data, il disegno, visibilmente fatto da un adulto, di un cane vicino a quello di un bambino, vari schizzi affrettati di cavalli, alberi, barche a vela, ovviamente fatti da Finn. Ma non riuscii a trovare ciò di cui avevo bisogno. Ero in un vicolo cieco. Andai in camera di Elsie e aprii i cassetti. Mi apparvero bambole con arti rosa e vestiti sgargianti, animali di stoffa, scatolette con niente dentro, perle di colori primari, nastri di seta, intere armate di quelle cosine di plastica che vengono sempre messe nei sacchetti delle feste. Nel suo album da disegno c'erano parecchi disegni, ma non quello che volevo. Sotto il letto c'erano una pantofola, tre calze scompagnate e Anatoly che dormiva. Salii su una sedia e tirai giù da sopra l'armadio una pila disordinata di carta ripiegata. In cima, a matita, c'era scritto il nome di Elsie parecchie volte, in lettere grandi e tremolanti. Sotto c'era la mappa del tesoro. Finalmente. Saltai giù dalla sedia e la distesi delicatamente sul pavimento, esaminando le macchie di colore e le lettere di un rosso rugginoso. Una «S» e una «E». E poi una «F»: firmata con il suo sangue.
Sollevai la carta molto attentamente, come se fosse un sogno che svanisce non appena si cerca di afferrarlo. Nel mio studio al piano di sotto c'era una pila di buste, feci scivolare dentro una di queste la mappa con le firme di sangue e la sigillai. Poi presi le chiavi della macchina e corsi fuori. Ce l'avevo, ora. «Di nuovo lei.» Mi ero seduta, ma Chris rimase in piedi, le mani sui fianchi, a guardarmi dall'alto in basso. «L'ho trovata.» «Trovato che cosa?» Presi la busta, ancora sigillata, e gliela misi sulla scrivania. «Qui dentro» dissi, parlando molto lentamente, come se fosse scemo, o se lo fossi io «qui dentro c'è un disegno.» «Un disegno. Che bello.» «Un disegno» continuai «fatto da Elsie.» «Senta» Chris si chinò verso di me e notai che era diventato piuttosto rosso. «Le auguro ogni bene, veramente, ma torni a casa da sua figlia e mi lasci in pace.» «È un gioco di bambini. Finn e io abbiamo firmato con le nostre iniziali, ognuna con il proprio sangue.» Spalancò la bocca e io pensai che volesse ruggire, ma non ne venne fuori alcun suono. «Lo consegni a Kale per farglielo esaminare.» Si sedette pesantemente. «È matta. E diventata completamente matta.» «E voglio una ricevuta. Non voglio che vada perduto.» Angeloglou mi fissò a lungo. «Intende dire che vuole un documento che testifichi il suo comportamento? Bene» gridò e cominciò a rovistare febbrilmente sulla scrivania. Non trovò ciò che cercava e attraversò l'ufficio come una furia, ritornando con un modulo. Lo sbatté sul tavolo e prese una penna con decisione. «Nome?» ruggì. Capitolo 35 «Io prendo...» feci scorrere il dito sul menù scritto a mano «sgombro affumicato e insalata. E tu?» «Crocchette di pollo e patatine fritte» disse Elsie con fermezza. «E aranciata. Poi gelato al cioccolato per dolce.»
«D'accordo» risposi tranquillamente. Elsie sembrò presa alla sprovvista. «Sarah?» «Formaggi e sottaceti, grazie.» «E da bere? Vuoi una birra con gazzosa o qualcosa del genere?» «Perfetto.» Andai a ordinare da un barista che sembrava incinto di dieci mesi, presi i biglietti e le bevande e andammo a sederci fuori a un tavolino instabile di legno in una meravigliosa giornata primaverile, senza però toglierci i cappotti. «Posso andare sull'altalena?» chiese Elsie e si allontanò di corsa senza aspettare la risposta. Sarah e io la guardammo mentre cercava di salire su un'altalena e la scuoteva violentemente avanti e indietro, come se ciò servisse a innescare il dondolio. «Mi sembra che stia bene» commentò Sarah. «Sì.» Un bambino con una maglietta a righe montò sull'altalena vicina a quella di Elsie e i due si scambiarono uno sguardo sospettoso. «Buffo, no?» «I bambini hanno una grande capacità di recupero.» Sorseggiammo le bibite con il sole sulla nuca e rimanemmo per un po' in silenzio. «Dai, Sarah, non tenermi sulle spine. Che cosa pensi del libro? Parla chiaro, mi raccomando. Non dici niente perché è orribile?» «Lo sai anche tu che è un buon lavoro.» Mi mise un braccio intorno alle spalle e io quasi scoppiai a piangere. Era tanto che nessuno, a parte Elsie, mi abbracciava. «Congratulazioni. Lo dico veramente.» Sorrise. «Ed è incredibilmente controverso, naturalmente. Sono stupefatta di come tu sia riuscita a scrivere una cosa del genere in così poco tempo, e con tutto quel che è successo. O forse è proprio per quello. È molto bello.» «Ma?» «Ci sono delle piccole cose che ho scritto in margine.» «Dico veramente: ma?» «Non c'è un ma. C'è una domanda.» «Sputa il rospo.» «Non è proprio una domanda, ma un commento.» Fece una pausa, prese il bicchiere e fece scorrere il pollice intomo al bordo. «Sembra il riepilogo di una carriera, non l'inizio.» «Ho l'abitudine di bruciarmi i ponti alle spalle.» Sarah si mise a ridere.
«Già, ma questa volta bruci i ponti davanti a te. Tutti quegli attacchi ai manager degli ospedali e ai consulenti pomposi e a quei, come si chiamano, quei progettisti di trauma...» Il bambino ora stava spingendo Elsie sull'altalena. Ogni volta che lei andava in alto, le gambette robuste puntate verso il cielo e la testa gettata esageratamente indietro, il cuore mi batteva ansiosamente. Il pranzo arrivò. Il mio sgombro giaceva arancione ed enorme tra poche foglie di insalata dall'aspetto esausto. Il pranzo di Elsie era completamente beige. «Hai fatto la scelta migliore» dissi a Sarah e chiamai Elsie, che arrivò di corsa. Dopo il pranzo, che Elsie divorò fino all'ultima patatina e all'ultima goccia di gelato, andammo a fare una passeggiata fino alla vecchia chiesa, che avevo già visitato una volta, e parlammo del Sud America e del padre di Elsie. «Ti piace questo posto?» mi chiese Sarah, mentre camminavamo sotto il cielo enorme, accanto al mare di un blu amichevole, con il terreno spugnoso sotto i piedi e gli uccelli che ci volteggiavano sopra la testa. Mi guardai intorno. In questi luoghi Danny aveva fatto l'amore con me mentre io continuavo a guardarmi attorno ansiosamente per paura di veder spuntare un trattore. In questi luoghi Finn aveva ripreso vigore e mi aveva indotto a confidarmi con lei. In questi luoghi ero quasi morta. Rabbrividii. Non sembrava che progredissimo; per quanto camminassimo il paesaggio rimaneva immutato. Avremmo potuto camminare per tutto il giorno e l'orizzonte si sarebbe semplicemente allontanato. Avevo sempre pensato che dire di una persona che diventava viola per la rabbia fosse una metafora o un'iperbole, ma Geoff Marsh divenne veramente viola. L'arteria del collo gli prese a pulsare visibilmente e gli chiesi se stesse bene, ma lui mi fece cenno di sedermi davanti alla sua scrivania e si sedette a sua volta. Quando parlò, lo fece con calma forzata. «Come va?» «Vuoi dire il reparto?» «Sì.» «Stanno dando l'ultima mano di vernice. E posando la moquette. La nostra reception ha un aspetto molto aziendale.» «Lo dici come se fosse un difetto.» «Suppongo di essere interessata al reparto principalmente in quanto am-
biente terapeutico.» «Ciò è plausibile. Ma l'esistenza del reparto e il suo ruolo nella nostra economia interna dipendono dal suo successo in quanto generatore di fondi e quindi dalla possibilità di convincere studi medici e compagnie di assicurazione a investire in un programma di trattamento del trauma per certe categorie di loro pazienti. Bambini vittime di abusi e vigili del fuoco che hanno paura del fuoco non spenderanno un soldo per il tuo prezioso ambiente terapeutico.» Contai fino a dieci e poi ancora. Quando parlai, lo feci anch'io con calma esagerata. «Geoff, se non ti conoscessi bene e non ti volessi bene, potrei pensare che tu stia cercando di insultarmi. Mi hai convocato perché ti facessi una lezione sui principi dei disturbi da stress postraumatico?» Geoff si alzò in piedi, girò intorno alla scrivania e si sedette su un angolo, in una posizione che probabilmente gli era stata insegnata in un corso di training per dirigenti. «Ho appena dato una sanzione disciplinare ufficiale a Margaret Lessing. È fortunata che non l'abbia licenziata.» «Che cosa vuoi dire con "licenziata"? Di che cosa stai parlando?» «Questa amministrazione ha norme molto rigorose sulla privacy, che Margaret Lessing ha violato. Mi sembra di capire che l'ha fatto seguendo tue precise istruzioni.» «Che cos'è questa storia della privacy? Venderesti copie dei tuoi documenti al colonnello Gheddafi se ti pagasse. A che gioco giochi?» «Senti, come sei stata tu a mettere in chiaro, Fiona Mackenzie non era una tua paziente. È stato molto scorretto da parte tua chiedere la sua cartella clinica.» «Sono un medico di questo ospedale e ho il diritto di chiedere la cartella clinica di chi mi pare.» «Se leggi il tuo contratto, vedrai che i tuoi cosiddetti diritti sono limitati da termini contrattuali ben definiti.» «Sono un dottore e farò ciò che penso sia giusto fare. E tra parentesi, e per curiosità, da quando in qua hai cominciato a esaminare le domande di cartelle cliniche?» Vidi un attimo di indecisione nell'espressione di Geoff e capii la verità. «Questo non ha nulla a che fare con l'etica. Mi stavi spiando, non è vero?» «La cartella di una ragazza morta ti serviva per un corso sul trattamento?»
Feci un profondo respiro. «No.» «Ti serviva in quanto medico?» «Sì, indirettamente.» «Indirettamente» ripeté Geoff sarcasticamente. «Non è forse che nonostante i miei avvertimenti tu, di tua iniziativa, stia conducendo una qualche indagine privata su questo caso? Un caso, dovrei aggiungere, che è stato chiuso?» «Proprio così.» «E?» «E che cosa? Non sono tenuta a risponderti.» «Sì, invece, devi rispondermi. Non riesco a crederci. Più per fortuna che per altro sembra che siamo riusciti a scampare a una cattiva pubblicità e questo tragico caso è stato chiuso. Quando ho saputo che tu stavi ancora ficcandoci il naso dentro, il mio primo pensiero è stato che tu avessi un esaurimento nervoso. Per essere franco, non so se tu abbia bisogno di cure mediche o di un'azione disciplinare.» Feci quasi un balzo sulla sedia e lo guardai fisso, così da vicino da sentire il suo respiro sul viso. «Che cosa hai detto, Geofl?» «Mi hai sentito.» Allungai una mano e lo afferrai per il nodo della cravatta, il pugno premuto contro la sua gola. Emise un gridolino. «Bastardo pomposo» dissi e lo lasciai. Feci un passo indietro e riflettei per un secondo. Non avevo dubbi e sentii un immediato senso di sollievo. «Stai cercando di spingermi a rassegnare le dimissioni.» Geoff non disse niente e abbassò gli occhi sul pavimento. «Lo farò in ogni caso.» Alzò gli occhi bruscamente, ansiosamente. Era ciò che si era prefisso, ma non me ne importava. «Divergenze professionali. È questa l'espressione, non è vero?» Gli occhi di Geoff ebbero un cauto guizzo. Lo stavo mettendo in trappola in qualche modo? «Stenderò un verbale a tale scopo» disse. «Probabilmente ce l'hai già nel cassetto.» Mi voltai per andarmene, poi mi ricordai di una cosa. «Potresti farmi un favore?» Fu sorpreso. Doveva essersi immaginato lacrime o un pugno in faccia, ma non questo.
«Che cosa?» «Ritira la sanzione disciplinare nei confronti di Margaret Lessing. Io so badare a me stessa, ma lei è più vulnerabile.» «Prenderò in considerazione la cosa.» «Ha funzionato, dopo tutto.» «Non essere amara, Sam. Se fossi stata nei miei panni, non penso che avresti agito molto diversamente da me.» «Me ne andrò immediatamente.» «Probabilmente è la cosa migliore.» «La cartella clinica di Fiona Mackenzie non è ancora saltata fuori?» Geoff si accigliò. «Sembra che sia andata persa» rispose. «La troveremo.» Scossi il capo. «Non credo. Penso che non si ritroverà.» Un pensiero mi attraversò la mente e mi fece sorridere. «Ma non importa. Al suo posto ho un disegno di mia figlia di cinque anni.» Mentre chiudevo la porta, l'ultima cosa che vidi fu Geoff con la bocca spalancata come un pesce fuor d'acqua. Capitolo 36 L'agente immobiliare dimostrava quattordici anni. «Splendida» furono le prime parole che disse quando attraversò la soglia di casa. «Proprio splendida e facilmente vendibile.» Gli mostrai il piano di sopra, che dichiarò anch'esso splendido e vendibile. «Non ho veramente mai affrontato il giardino» feci. Scosse il capo. «Una sfida per l'amante dei giardini intraprendente» disse. «Sembra un po' scoraggiante.» «Sto scherzando. Modi di dire da agente immobiliare.» «Come può vedere, siamo a due passi dal mare.» «Un punto a suo favore. È una cosa che piace, la vista sul mare.» «Beh, non esattamente.» «Sto scherzando. Di nuovo un modo di dire da agente immobiliare.» «Bene. Non so che altro dirle. C'è il solaio e un capanno per gli attrezzi in giardino. Ma lei si è occupato della vendita l'anno scorso e avrà probabilmente tutti i dati in archivio.»
«Già. Ma volevo venire comunque a dare un'occhiata. Annusare l'aria, l'atmosfera.» «Mi deve fare una stima.» «Sì, dottoressa Laschen. Si ricorda quanto l'ha pagata?» «Novantacinquemila sterline.» Sollevò le sopracciglia. «Avevo fretta.» «Una cifra interessante.» «Vuol dire che era troppo alta? Sarebbe stato bello se me lo avesse detto un anno fa, quando mi ha mostrato la casa.» «Il mercato immobiliare nell'Essex orientale è fiacco al momento. Molto fiacco.» «È un problema?» «Un'opportunità» disse e mi porse la mano. «È stato un piacere incontrarla, dottoressa Laschen. Le faccio un colpo di telefono questo pomeriggio con la stima. Dobbiamo lanciarla sul mercato in modo aggressivo. Sono sicuro che avrò già qualcuno a cui mostrare la casa la prossima settimana.» «Non ci sarò. Mia figlia e io ritorneremo a Londra sabato.» «Ci servono solo le chiavi e un suo numero di telefono. Ha fretta di andarsene? Problemi? Non le piace la campagna?» «Troppa violenza.» Fece una risatina incerta. «Sta scherzando, vero?» «Sì, sto scherzando.» Quella settimana trascorse, affaccendata tra mille incombenze. Mi sedetti con Elsie e le chiesi se le sarebbe piaciuto ritornare a Londra dai suoi vecchi amici. «No» rispose allegramente. Lasciai la cosa in sospeso. Per il resto si trattò di procedere semplicemente un passo dopo l'altro seguendo un elenco: parlare a Linda e Sally, che ormai erano a prova di shock, e pagarle invece di dar loro il preavviso; avvertire i vari servizi di gas, luce e telefono; tirar fuori gli scatoloni dalla soffitta e metterci dentro le cose che mi sembrava di avervi appena tolto. Passai troppo tempo al telefono. Quando non stavo cercando di parlare con qualcuno, venivo contattata da giornalisti e medici. Dissi di no a tutti i giornalisti e a quasi tutti i dottori. Pian piano alcuni dei «forse» divennero dei «probabilmente» e alla fine della settimana avevo un contratto temporaneo come consulente nel dipartimento di psicologia del SL Clementine a
Shoreditch. Ricevetti una telefonata da Thelma che mi chiedeva che cosa diavolo stesse succedendo e da Sarah che mi diceva che avevo fatto la cosa giusta; mi informava inoltre che un suo amico era andato a stare in America per un anno e mi chiedeva se fossi interessata a subaffittare il suo appartamento in Stoke Newington, a solo un paio di isolati dal parco. Le risposi di sì. L'unico inconveniente era che si trovava vicino al campo da calcio dell'Arsenal e che a sabati alterni e di tanto in tanto per tutto il weekend era invaso dagli sportivi, se poteva darmi fastidio. Non me ne importava. Negli intervalli continuavo a telefonare a Chris Angeloglou. Aspettavano i risultati delle analisi di laboratorio. Chris era fuori, come anche l'ispettore Baird. Non potevano mettermi in contatto con loro. Erano in riunione. Erano in tribunale. Erano andati a casa. Il venerdì mattina, il giorno prima della partenza, telefonai alla sede della polizia di Stamford ancora una volta e parlai con un assistente. Sfortunatamente il detective Angeloglou e l'ispettore Baird non erano disponibili. Bene, risposi, volevo solo lasciare un messaggio. Aveva un pezzo di carta? Volevo avvertire Angeloglou e Baird che stavo per rilasciare un'intervista a una testata giornalistica nazionale in cui avrei raccontato l'intera storia dell'omicidio dei Mackenzie così come la vedevo io e inoltre avrei pubblicamente accusato la polizia di non aver voluto riaprire il caso. Grazie. Misi giù il telefono e cominciai a contare. Uno, due, tre... Al ventisette il telefono squillò. «Dottoressa Laschen?» «Baird, come sta?» «Che cosa vuole?» «Voglio sapere che cosa state facendo.» «Pensa che sia costruttivo fare minacce insensate?» «Sì, e le dirò quello che voglio. Voglio un incontro alla sede della polizia.» Ci fu una lunga pausa. «Baird, è in linea?» «Naturalmente. Saremmo contenti di vederla. Stavo proprio per chiamarla io stesso.» «Oltre a lei e ad Angeloglou, voglio che ci sia Philip Kale.» «D'accordo.» «E chi era incaricato del caso.» «Io.» «Voglio parlare con il suonatore d'organetto, non con la sua scimmia.» «Non so se il suonatore d'organetto sia disponibile.»
«Sarà meglio che lo sia.» «Nient'altro?» «Chieda a Kale di portare il rapporto sull'autopsia dei Mackenzie.» «Vedrò quel che posso fare e le ritelefonerò.» «Non importa che mi ritelefoni. Verrò a mezzogiorno.» «Non c'è abbastanza tempo.» «C'è tutto il tempo necessario.» Non appena diedi il mio nome al bancone all'ingresso, una giovane poliziotta mi accompagnò rapidamente attraverso l'edificio conducendomi in una saletta vuota. Quando ritornò con il caffè, con lei c'erano Angeloglou e Baird. Mi fecero un cenno di saluto e si misero a sedere. Sembrava che fosse il mio ufficio, non il loro. «Dove sono gli altri?» Baird guardò Angeloglou con aria interrogativa. «Kale è al telefono» disse Chris. «Sarà qui tra un minuto. Val è andata a chiamare il sovrintendente.» Baird si voltò verso di me. «Soddisfatta?» mi chiese con un accento, piuttosto marcato, di sarcasmo. «Non è un gioco.» Ci fu un colpo alla porta ed entrò un uomo. Era di mezz'età, quasi calvo, visibilmente importante. Mi tese la mano. «Dottoressa Laschen» disse. «Desideravo tanto conoscerla. Sono Bill Day. Sono a capo della sezione omicidi di Stamford. Penso che le dobbiamo le nostre scuse.» Gli strinsi la mano. «Come stavo spiegando all'ispettore Baird qui presente, non sto conducendo una campagna personale e non sono interessata a ottenere dei riconoscimenti. Mi interessa catturare un assassino.» «Beh, dovrebbe essere il nostro lavoro» disse Day con una risata che si trasformò in una specie di tosse. «Questa è la ragione per cui sono qui.» «Bene, bene» disse Day. «Rupert mi ha riferito che lei desiderava che fossi presente a questo incontro e mi pare comprensibile. Sfortunatamente sono scappato da una riunione molto importante e devo ritornarci. Ma le posso assicurare che avrà la nostra completa cooperazione. Se per qualsiasi motivo non fosse soddisfatta voglio che mi contatti personalmente. Eccole il mio... ehm...» Si rovistò nelle tasche e ne tirò fuori un biglietto da visita
leggermente spiegazzato e me lo diede. «Ora la lascio nelle capaci mani di Rupert. È stato un piacere fare la sua conoscenza, dottoressa Laschen.» Ci stringemmo di nuovo la mano e Day scivolò via, andando quasi a sbattere contro Philip Kale. Ci rimettemmo tutti a sedere. «Allora?» fece Rupert. «Chi comincia?» «Ero tentata di venire con un avvocato» dissi. «Perché? Ha intenzione di confessare?» chiese allegramente Rupert. «No, pensavo che la presenza di un testimone indipendente a questo incontro sarebbe stata opportuna.» «Non sarà necessario. Siamo tutti dalla stessa parte. Ora, per quale motivo voleva vederci?» «Gesù, che cos'è questa messinscena? D'accordo, se insistete.» Presi la borsa e ci rovistai dentro finché non trovai il modulo blu. «La scorsa settimana ho consegnato una prova che secondo il mio parere giustificava la riapertura del caso di omicidio dei Mackenzie. Ricevuta numero SD4071/A. Avevo chiesto che venisse analizzato il sangue su un disegno. È stato fatto?» «Sì» rispose Kale. «Di che gruppo era?» Kale non guardò neanche gli appunti. «Il gruppo sanguigno derivato dall'iniziale di Finn sul disegno era di tipo A fattore RH positivo.» «E non ha dubbi sull'identità del corpo nella macchina bruciata?» «L'esame dell'impronta dei denti non lascia dubbi. Il dato è ulteriormente confermato dalle indagini compiute dal detective Angeloglou, che è venuto a conoscenza del fatto che negli ultimi due anni Fiona Mackenzie era una donatrice di sangue.» Kale si concesse un sorrisetto. «Gruppo sanguigno 0.» «Solo per curiosità» chiesi «qual era il gruppo sanguigno dei genitori?» Kale rovistò nelle sue carte. «Leopold Mackenzie era B.» Rovistò un altro po'. «E sua moglie A. Carino.» Feci quella che dovette somigliare molto a una risataccia da strega. Angeloglou apparve perplesso. «Allora se solo avessimo controllato, sarebbe stato evidente che non poteva esser figlia loro» disse. Non riuscii a trattenere un sospiro irato. «No, Chris» rispose Kale. «Se un genitore è A e l'altro B, i figli possono
essere di uno qualsiasi dei quattro gruppi sanguigni fondamentali. Cosa che Michael Daley doveva sapere.» Ci fu un silenzio prolungato. Io stavo tremando per l'eccitazione e dovevo sforzarmi per mantenermi calma. Non volevo parlare perché non ero sicura di riuscire a trattenere un «Ve l'avevo detto» espresso in qualche modo. Philip Kale cominciò a mettere in ordine le sue carte con ostentazione. Angeloglou e Baird apparivano a disagio. Alla fine Baird borbottò qualcosa. «Come?» chiesi. «Perché non abbiamo fatto analizzare il suo sangue sulla scena del delitto?» «Le sole tracce sulla scena erano quelle dei genitori» rispose Kale. «Non ho pensato che il suo gruppo sanguigno potesse essere importante.» «E stata sulla mia maledettissima auto» disse Baird. «Sono stati entrambi nella mia maledettissima auto. Probabilmente faranno demolire questa sede della polizia e ci faranno un parco e nomineranno Chris e me custodi. E in virtù delle sue doti scientifiche» queste ultime parole furono pronunciate con particolare perfidia «Phil potrebbe fare l'uomo che con uno di quei bastoni appuntiti va a raccogliere la spazzatura.» Angeloglou borbottò appena un'oscenità, che riuscii a leggergli sulle labbra dall'altra parte della stanza. Si sforzava con grande pena di evitare il mio sguardo. Avevo le braccia incrociate, misi la mano destra sotto il braccio sinistro e mi pizzicai con forza per evitare di far affiorare un sorriso di trionfo. «Qual è la vostra visione dei fatti ora?» chiesi con un tono studiatamente pacato, cercando di non mettere troppo l'accento sull'«ora». Rupert stava tracciando una griglia di quadrati e triangoli che si intrecciavano su un foglio di carta bianca sul tavolo. Poi li anneriva con dei tratteggi. Non alzò gli occhi per parlare. «Michael Daley aveva due obiettivi» disse. «Assassinare tutta la famiglia Mackenzie e ottenerne il denaro. Il primo non aveva senso senza il secondo. Il secondo non avrebbe potuto aver luogo senza il primo. Perciò ha escogitato un espediente, così semplice ed evidente che nessuno di noi ci ha pensato. Aveva una complice che somigliava un po' a Finn. Bastava che la somiglianza fosse approssimativa, poiché essa non avrebbe mai incontrato nessuno che conosceva la vera Finn. E come suo medico sapeva meglio di chiunque altro che l'aspetto di Finn era cambiato drasticamente. Tutte le fotografie che sarebbero state pubblicate dopo gli omicidi sarebbe-
ro state vecchie e avrebbero ritratto una Finn grassoccia, pre-anoressia. La complice - la chiamerò X - aveva i capelli scuri e aveva all'incirca la stessa corporatura di Finn, forse era solo un po' più piccola, ma ciò era meglio in un certo senso. Michael teneva d'occhio le azioni degli animalisti, così sapeva delle minacce ai Mackenzie. È difficile ora stabilirlo con esattezza, ma è presumibile che la vera Finn sia stata rapita, uccisa e tenuta nel capanno sulla spiaggia il giorno o la sera del 17 gennaio. I suoi genitori furono assassinati la mattina presto del giorno successivo. Fiona Mackenzie era una ragazza ragionevolmente socievole, abituata a viaggiare. I Mackenzie non si sarebbero allarmati se fosse tornata a casa tardi. Michael deve aver usato le chiavi di Finn per entrare in casa. Ha ucciso i due Mackenzie, poi Finn, voglio dire X, si è messa la camicia da notte di Finn e quando la donna delle pulizie è arrivata, Michael le ha prodotto l'incisione sulla gola. Aveva il volto nascosto dal nastro adesivo così non fu notato che la ragazza trovata nella camera da letto di Finn, vestita con la camicia di Finn, simile in apparenza a Finn, non fosse Finn. Questa è la situazione in cui ci siamo trovati.» «Ma perché avrebbero dovuto escogitare un piano così rischioso?» chiese Angeloglou, scuotendo il capo. «Come potevano pensare di farla franca?» «Ci sono persone disposte a correre un bel po' di rischi per, quanto era, 18 milioni di sterline o qualcosa del genere? In ogni caso, se si ha il coraggio di tentare, era poi così rischioso? La ragazza è evidentemente in pericolo, perciò viene portata al sicuro. Naturalmente deve rifiutarsi di vedere chiunque conoscesse Fiona Mackenzie, ma non ci sono parenti stretti, e poi si tratta di una reazione comprensibile da parte di una ragazza traumatizzata, non è vero, dottoressa Laschen?» «Credo che quella sia stata l'opinione professionale che espressi a quel tempo» dissi con tono lugubre. «E poi la questione dell'identità non viene mai messa in questione perché c'è il fidato medico di famiglia a portata di mano che parla con lei e offre informazioni mediche come il suo gruppo sanguigno, prese da una versione falsa della cartella clinica di Finn.» «E la cartella clinica di Finn, cioè di X, all'ospedale è andata persa» aggiunsi. «Daley avrebbe potuto avere accesso a quella cartella?» chiese Baird. «Io vi ho avuto accesso, o meglio, l'avrei avuto se Daley non fosse arrivato per primo.»
«X doveva solamente fare la parte di Finn quel tanto che le permettesse di scrivere un testamento lasciando tutto a Daley. L'unica abilità richiesta era quella rudimentale di riprodurre la firma di Fiona Mackenzie. Ci fu un intoppo. La donna delle pulizie della famiglia espresse il desiderio di vedere Fiona prima di ritornare in Spagna. Questo avrebbe rovinato tutto.» «Così la signora Ferrer è stata assassinata» intervenni io. «Michael è andato a soffocarla e poi è venuto a prendermi. E i segni di lotta, le tracce lasciate da lui si sarebbero potuti spiegare con il fatto che aveva tentato di rianimarla.» Rupert si mosse a disagio sulla sedia e continuò. «Poi dovevano solo inscenare un suicidio, usando il corpo della vera Fiona Mackenzie. Questa è la ragione per cui era così importante dar fuoco alla macchina. Daley non aveva bisogno di un alibi per l'omicidio dei Mackenzie perché non era un sospettato. Ma si è premurato di essere fuori del paese quando X ha portato la macchina di Danny sulla costa e le ha dato fuoco.» «Era un piano perfetto» dissi ammirata, nonostante tutto. «Il suicidio di una persona già morta e un alibi creato da una persona della cui esistenza nessuno è a conoscenza. Se ci fossero stati dei sospetti, potevano fare tutte le analisi che volevano sul corpo di Finn. E il povero Danny, Danny...» «Rees deve essere capitato sulla scena quando Finn stava andandosene, il giorno in cui lei era fuori.» Abbassai gli occhi sul caffè. Era velato, freddo. Mi sentii bruciare per la vergogna. «L'ho tenuta a casa mia, con mia figlia e il mio fidanzato. Danny è stato ucciso. Ho dedicato la mia vita professionale all'analisi degli stati psicologici e sono stata manovrata come un burattino da questa ragazzina. Ha finto di essere traumatizzata, di essermi amica... tutto. Più ci penso, peggio sto. Non è voluta andare al funerale e io l'ho interpretato come un sintomo. Ha voluto distruggere tutti i vestiti della vera Finn e io l'ho interpretato come un gesto terapeutico. È sempre stata vaga sul suo passato e io l'ho considerato uno stadio necessario. Mi ha confidato di non sentire nessun legame con la Finn di prima, la Finn grassa e io ho pensato che fosse un segno della sua capacità di recupero.» Rupert finalmente alzò gli occhi dai suoi scarabocchi. «Non se la prenda, lei è una dottoressa, non una detective. La vita va avanti come va, perché la maggior parte di noi presume che le persone con cui ha a che fare non siano degli psicopatici o degli imbroglioni.» Lanciò
uno sguardo a Chris. «Eravamo noi, sfortunatamente, a dover fare i detective.» «Ma che cosa sarebbe dovuto succedere?» chiesi. «Che cosa intende?» «Dopo il falso suicidio di Finn.» «Tutto molto semplice» disse Chris. «Daley prende i soldi. Poi, fra un anno o due, sarebbero iniziate a circolare delle voci sul fatto che il povero dottor Daley fosse stato vittima della febbre del gioco d'azzardo, o che avesse perso grosse cifre nelle corse dei cavalli o qualcosa del genere. E invece i soldi sarebbero serviti per pagare...» Chris allargò le braccia in segno di sconfitta «X.» «Avete idea di chi possa essere questa ragazza?» chiesi. «Una paziente? Una vecchia amica? Un'ex fidanzata?» Nessuno rispose. «Potrebbe avere dei precedenti penali» azzardai. «Chi può saperlo?» disse Rupert con voce atona. «Abbiamo solo un legame con lei.» «E quale sarebbe?» «Lei.» «Che cosa sta dicendo?» «Lei l'ha conosciuta meglio di chiunque altro.» «È matto? Non la conoscevo affatto.» «Tutto quel che le chiediamo» disse Chris «è di cercare di ripensarci su. Non deve dirci nulla ora. Cerchi solo di ricordare qualcosa, qualsiasi cosa abbia detto o fatto che ci possa offrire un indizio sulla sua vera identità.» «Le posso rispondere subito. Per giorni e giorni ho passato mentalmente in rassegna tutto quel che mi ha detto, tutte le conversazioni di cui mi ricordo. Era tutto falso. Che cosa posso dirvi? Sapeva cucinare. Sapeva fare dei trucchetti di magia. Ma più ci penso, più lei diventa un niente. Tutto ciò che ha detto, ciò che ha fatto, era solo polvere che mi gettava negli occhi. Quando passo oltre lei non c'è. Temo di non potervi essere d'aiuto. Allora, che cosa pensate di fare ora?» Rupert si alzò, si stiracchiò e toccò con una mano i pannelli di polistirene del soffitto. «Faremo un'indagine.» «Quando annuncerete la riapertura del caso?» Fui io a immaginarmelo o lo vidi fare un respiro profondo, indurendosi per quel che stava per dire?
«Non lo annunceremo.» «Perché no?» Rupert si schiarì la gola. «In seguito a una deliberazione ad alto livello abbiamo deciso che potremmo conseguire risultati migliori se l'assassina non saprà che la stiamo cercando. Ha perso i soldi. Potrebbe commettere un errore.» «Chi potrebbe fare un errore? Come farete ad accorgervene?» Baird borbottò qualcosa. «Senta» dissi seccamente. «È un modo di seppellire il caso?» Sembrò scioccato. «Assolutamente no, quest'accusa non è degna di lei, ma so che è stata sotto stress. È semplicemente il modo più efficace di agire e sono fiducioso che porterà a dei risultati. Ora penso che abbiamo esplorato tutto quel che di utile c'era da esplorare. Quando andrà a Londra?» «Domani.» «Ci farà avere il suo indirizzo, vero?» «Sì.» «Bene. Se le capita qualcosa, qualsiasi cosa succeda, si metta in contatto con noi.» Mi porse la mano. «Le siamo molto grati per il modo in cui ha permesso che venissimo a conoscenza della verità su questi tragici eventi.» Gli strinsi la mano. «Sono contenta della sua gratitudine. E se mai sospettassi che questo caso sia stato insabbiato...» «Si fidi di noi» mi interruppe Baird. «Si fidi di noi.» Emersi, sbattendo gli occhi, sull'aerea pedonale ai margini della piazza del mercato e andai a scontrarmi con una signora anziana, capovolgendo il suo carrello della spesa. Mentre raccoglievo cipolle e carote da terra, mi sentii come un bambino che si sveglia da un sogno ed è stupito di trovare che il mondo va avanti inalterato. E tuttavia mi sembrava di essere ancora nel mio sogno oscuro. C'erano ancora posti in cui dovevo andare. Capitolo 37 Fu un weekend di scatoloni, con una bambina interessata, un gatto disturbato, un grosso furgone, traslocatori galanti, tazzoni di tè, accordi, mazzi di chiavi, e lo spazio che avevo affittato per immagazzinare le mie cose, tenendone il cinque per cento circa per l'appartamento temporaneo. In mezzo al trambusto c'erano due cose che veramente dovevo fare. Pri-
ma di tutto avevo un fascio di richieste di interviste; le passai rapidamente in rassegna, chiamai per avere un consiglio un paio di amici che leggevano i giornali, poi il lunedì mattina telefonai a Sally Yates del «Participant». Nel giro di un'ora era seduta davanti a me con una tazza di caffè, un taccuino e una penna sollevata a mezz'aria nella cucina di un uomo andato a lavorare in America per un anno. La Yates era grassoccia, arruffata, comprensiva, affabile e tra una parola e l'altra lasciava dei lunghi silenzi che avrei dovuto riempire presumibilmente con delle confidenze sulla mia vita privata. Credeva di darla a bere a una psicologa? Avevo abbastanza esperienza di interviste a persone vulnerabili da riuscire a fare una buona imitazione della donna che soffre nobilmente. Non ero brava come Finn, come X, ma non ero male. Avevo deciso con cura quali circostanze intime offrire: sul dolore causato dalla perdita di una persona amata, sul delitto e sulla paura fisica, sull'angoscia e l'ironia che una specialista del trauma fosse lei stessa vittima di un trauma: «C'è una massima in medicina secondo la quale si prende sempre la malattia in cui ci si specializza» dissi, ma con un sorriso triste e la voce tremolante, come se stessi per versare una lacrima. Poi, alla fine, arrivò la dichiarazione per la quale avevo organizzato l'intera faccenda dell'intervista. «Allora, adesso che è sfuggita a tutto...» fece Sally Yates con comprensione, lasciando cadere la frase in modo che io potessi riprenderne il filo. «Ma, Sally» dissi «da medico e da donna mi domando se si possa veramente sfuggire alle esperienze limitandosi a scappare via.» Feci una lunga pausa, apparentemente troppo turbata per poter parlare senza perdere il controllo. Sally allungò una mano sopra il tavolo da cucina e la mise sulla mia. Fingendo di fare un grosso sforzo, continuai a parlare: «È stata una tragedia personale e, per quel che riguarda il nuovo reparto sui disturbi da stress postraumatico, un fallimento professionale, e al centro della questione c'erano persone che non erano quel che sembravano». «Vuol dire il dottor Michael Daley?» mi chiese Sally, la fronte solcata dalla preoccupazione. «No» risposi e quando lei mi rivolse uno sguardo interrogativo feci un gesto che significava che non potevo continuare. Sul pianerottolo ci salutammo e io la abbracciai. «Congratulazioni» le dissi. «Mi ha indotto a dire cose che non volevo dire.» Le guance le si arrossarono per il piacere, che soppresse rapidamente. «È stato straordinario incontrarla» mi disse, stringendomi la mano ancor
più vigorosamente di come avevo fatto io. Il giornale era chiaramente molto ansioso di pubblicare la mia intervista, perché dopo meno di due ore arrivò un fotografo. Il giovanotto fu deluso che mia figlia non ci fosse e allora mi piazzò vicino a un vaso di fiori. Li guardai con sentimento, chiedendomi che fiori fossero. Il giorno dopo fui premiata da una grande foto e un titolo che diceva: «Sam Laschen: eroismo femminile e un mistero ancora aperto». Non particolarmente originale, ma Baird e la sua allegra brigata l'avrebbero preso come un avvertimento. La prossima volta sarei stata meno misteriosa. Avevo una seconda incombenza, più grande e dolorosa, da compiere. Un'amica mi aveva offerto i servigi della sua baby-sitter in caso di emergenza. Questa era un'emergenza. Portai Elsie all'angolo in una caotica casa a schiera in cui stavano un adolescente spagnolo e una bambina di cinque anni dalle sopracciglia cespugliose. Elsie entrò di corsa e non si voltò neanche a dirmi ciao. Montai sulla macchina e mi diressi a ovest. Avrei viaggiato in direzione opposta al traffico sia all'andata che al ritorno. Trovai facilmente la chiesa di Saint Anne, sul lato dell'Avonmouth di Bristol. Attraversai i cancelli ed entrai nel cimitero verde e tranquillo con il mio mazzo di fiori primaverili. Individuai subito la tomba di Danny: tra tutte le lapidi grigie coperte di muschio, i cui nomi erano scarsamente decifrabili, la sua lastra di marmo rosa screziato era visibilmente nuova. Qualcuno aveva portato dei fiori. Guardai le lettere nere: «Daniel Rees, figlio e fratello amato». Feci una smorfia. Ciò mi escludeva completamente. «1956-1996»: non era arrivato alla festa di compleanno di cui avevamo parlato. Io sarei diventata vecchia, il mio viso sarebbe cambiato, mi sarebbero venute le rughe, il mio corpo avrebbe subito i dolori e le fragilità dell'età, si sarebbe curvato e avrebbe sofferto, e lui sarebbe sempre rimasto giovane, forte e bello nei miei ricordi. Abbassai gli occhi sui due metri di brutto marmo rosa e rabbrividii. Là sotto il suo bellissimo corpo, che avevo stretto al mio quando era caldo e pieno di desiderio, era carbonizzato e stava marcendo. Il suo volto, le labbra che mi avevano esplorato e la bocca che mi aveva sorriso e gli occhi che mi avevano guardato intensamente, stavano diventando polvere. Mi sedetti accanto alla lapide, misi una mano sul marmo come se fosse un fianco morbido, la accarezzai. «So che non puoi sentirmi, Danny» dissi nell'aria immobile e silenziosa. Pronunciare il suo nome forte mi fece male al cuore. «So che non sei né
qua né in nessun altro luogo. Ma avevo bisogno di venire qui.» Mi guardai attorno. Non c'era nessuno nel recinto della chiesa. Non si sentiva nemmeno il cinguettio di un uccello. Solo le macchine sulla strada principale, a un paio di centinaia di metri di distanza, disturbavano il silenzio. Così mi tolsi la giacca, posai la borsa, tolsi i fiori da sopra la lapide e mi ci stesi sopra, appoggiando la guancia al marmo freddo. Mi allungai sopra Danny come a volte facevo ancora nei sogni. Piansi senza ritegno, compatendomi, in un impeto di dolore, là sulla tomba, versando lacrime salate sulla pietra. Piansi per il mio destino. Mi concessi di ricordare il nostro primo incontro, la prima volta che eravamo andati a letto insieme, le uscite con Elsie, solo noi tre, senza sapere quanto eravamo fortunati. Pensai alla sua morte. Sapevo che mi sarei ripresa; che un giorno o l'altro avrei probabilmente incontrato un'altra persona e il processo dell'innamoramento si sarebbe rimesso in moto, ma ora mi sentivo fredda e sola fino all'osso. Il vento attraversò il cimitero con un sospiro; tutte quelle ossa morte che giacevano sotto le lapidi. Così mi rialzai in piedi a fatica. Quando ricominciai a parlare mi sentii assurdamente goffa, come se stessi recitando la parte di una vedova in gramaglie in una recita di dilettanti un po' enfatica: «Allora, questo è tutto. Questo è il mio addio». Tuttavia non riuscivo a smettere di dirlo, per quanto fosse melodrammatico. Non riuscivo a pensare che era l'ultima volta che lo dicevo. «Addio addio addio addio addio.» Poi mi rimisi la giacca, presi la borsa, ricollocai i due mazzi di fiori sulla lastra di marmo, uscii dal cimitero e non mi voltai mai indietro a guardare attraverso le sbarre del cancello il luogo in cui Danny giaceva. Se avessi guidato abbastanza velocemente, sarei ritornata in tempo per mettere a letto Elsie e cantarle una canzone prima che si addormentasse. Capitolo 38 Mentre salivo le scale, con cartelle di documenti sotto un braccio e due sacchetti contenenti la cena per quella sera nell'altra mano, squillò il telefono. Inciampai su Anatoly, imprecai, lasciai cadere a terra i sacchetti e presi il telefono proprio mentre la segreteria telefonica cominciava a rispondere. «Un momento» dissi ansimando sulla mia voce registrata «si interromperà tra un momento.» «Sam, sono Miriam. Volevo solo confermare per stasera. Va sempre be-
ne per te?» «Certo. Il film inizia alle otto e mezza e ho detto alle altre di incontrarci fuori del cinema alle otto e venti. Ho preso qualcosa di pronto da mangiare dopo, a casa mia. Sono contenta di rivedervi.» Scaricai il cibo nel frigorifero. Elsie e Sophie sarebbero probabilmente tornate dal parco non prima di un'ora. Si sarebbero stupite di trovarmi a casa. Andai nella mia camera da letto (anche se personalmente pensavo che «scatola da letto» sarebbe stato un termine più adatto per descrivere lo spazio in cui dovevo schiacciarmi per arrivare al letto singolo, passando davanti a un piccolo cassettone), raccolsi la montagna di vestiti sporchi ammucchiati nell'angolo e la sbattei in lavatrice. Sul tavolo di cucina c'era una pila di bollette, nel lavandino una pila di piatti, pile di libri e CD in torri storte erano accatastate lungo tutti i battiscopa. Il secchio della spazzatura era traboccante. La porta della camera di Elsie si apriva su una scena di incredibile caos. Le piante che vari amici mi avevano regalato quando mi ero trasferita qui stavano appassendo nei vasi. Le bagnai senza grande attenzione, canticchiando uno degli assurdi motivetti di Elsie, facendo degli elenchi mentali. Telefonare all'agenzia di viaggi. Telefonare alla banca. Ricordarsi di parlare con la maestra di Elsie. Telefonare all'agenzia immobiliare l'indomani mattina. Comprare un regalo per il quarantesimo compleanno di Olivia. Vedere il rapporto del disastro ferroviario di Harrogate. Scrivere l'articolo promesso a «Lancet». Far venire qualcuno a mettere una porticina per Anatoly. La chiave girò nella serratura e Sophie entrò in casa barcollando, portando il cestino da picnic di Elsie e la sua corda per saltare. «Salve» feci, mentre scorrevo le lettere sparpagliate sul tavolo cercando la nota della compagnia dei traghetti. «Siete ritornate presto. Ma dov'è Elsie?» «È successa una cosa straordinaria!» Lasciò cadere il suo carico sul tavolo e si sedette, grassoccia e lucida nei pantaloni stretti di finta pelle di leopardo e la maglietta attillata e brillante. «Abbiamo incontrato tua sorella proprio mentre stavamo entrando al parco di Clissold. Elsie sembrava molto contenta di vederla e le si è gettata tra le braccia. Tua sorella mi ha detto che l'avrebbe riportata a casa lei tra non molto. Le ho viste entrare nel parco mano nella mano. Bobbie, si chiama così vero? andava a comprarle un gelato.» «Non sapevo che sarebbe venuta» dissi sorpresa. «Ha detto che cosa è venuta a fare?»
«Sì. Ha detto che suo marito l'aveva lasciata mentre andava a una riunione, e lei era andata a scegliere delle tende in quel negozio di stoffe molto elegante che c'è a Church Street. In ogni modo te lo dirà lei stessa più tardi. Vuoi che ti prepari una tazza di tè?» «Fare tutto questo viaggio per delle tende. Solo mia sorella ne è capace. Bene, allora visto che abbiamo tempo e non abbiamo bambini tra i piedi, mettiamo a posto i libri e i CD. Voglio ordinarli alfabeticamente.» Arrivammo alla G e io ero coperta di polvere e sudore, quando suonò il telefono. Era mia sorella. «Bobbie, che bella sorpresa. Dove siete? Quando venite a casa?» «Che cosa?» Bobbie sembrava piuttosto stupefatta. «Vuoi che vi venga incontro al parco?» «Che parco? Che cosa stai dicendo, Sam? Ti ho chiamato per sapere se la mamma ti aveva telefonato, è...» «Aspetta un momento.» La bocca mi era diventata stranamente secca. «Da dove mi stai chiamando, Bobbie?» «Ma da casa, naturalmente.» «Non sei con Elsie?» «Certo che non sono con Elsie, non ho idea di che cosa...» Ma a quel punto l'avevo già lasciata. Avevo sbattuto giù il telefono sul suo stupore, avevo urlato a Sophie di telefonare alla polizia immediatamente e di dir loro che Elsie era stata rapita, e mi ero precipitata giù di corsa per le scale, due gradini alla volta, il cuore che mi batteva in petto. «Ti prego, fa' che non sia in pericolo. Che non sia in pericolo.» Uscii dal portone e scattai, i piedi dolenti sull'asfalto bollente. Di corsa per la strada, passando davanti a signore anziane e giovani con carrozzelle e giovanotti con grandi cani. Attraverso la lunga fila di persone che ritornavano a casa dal lavoro. Attraverso la strada mentre i clacson strombettavano e i guidatori tiravano giù i finestrini per maledirmi. Attraverso i cancelli di ferro del parco di Clissold, oltre il ponticello e le anatre grasse, i cervi che fiutavano l'alto steccato con i musi di velluto, lungo il viale dei castagni. Correvo e mi guardavo intorno, gli occhi che passavano da una figuretta all'altra. Così tanti bambini, ma non la mia. Entrai a precipizio nella zona dei giochi. Bambini e bambine con giacchette vivaci che si dondolavano, scivolavano, saltavano, si arrampicavano. Mi fermai tra l'altalena e la vasca della sabbia, dove il mese scorso il guardiano del parco aveva trovato delle siringhe usate, e mi guardai con angoscia intorno.
«Elsie!» gridai. «Elsie!» Non c'era, anche se la vedevo in ogni bambino e la sentivo in ogni urlo. Guardai verso il laghetto, turchese e deserto, poi corsi al caffè, ai laghi più grandi in fondo al parco dove andavamo sempre a dare il pane alle oche e alle litigiose anatre canadesi. Diedi un'occhiata sopra lo steccato, dove c'erano briciole e varie altre sozzure, come se dovessi vedere il suo corpicino affiorare sotto l'acqua oleosa. Poi cominciai a correre verso l'altro lato del parco. «Elsie!» chiamavo a intervalli «Elsie, tesoro, dove sei?» Ma non mi aspettavo una risposta e non ne ricevevo alcuna. Cominciai a fermare le persone, una donna con una bambina pressappoco della sua età, un gruppo di adolescenti sullo skateboard, una coppia di anziani per mano. «Avete visto una bambina??» chiedevo. «Con un soprabito blu scuro e i capelli biondi? Con una donna?» Un signore forse l'aveva vista. Fece un cenno vago con la mano verso il cerchio di cespugli di rose dietro di noi. Un bambino per mano alla mamma a cui mi avvicinai, disse di aver visto una bambina in blu seduta su una panchina, «Quella panchina là» disse, indicando un sedile vuoto. Non c'era. Chiusi gli occhi e fui percorsa da pensieri da incubo: Elsie trascinata via urlante; Elsie spinta in una macchina e portata via; Elsie ferita; Elsie che continuava a chiamarmi. Ma ciò non serviva a nulla. Ritornai barcollando ai cancelli del parco, il fianco che mi doleva, la paura che mi mordeva lo stomaco come un acido. Di tanto in tanto la chiamavo e la gente si spostava per farmi passare, una pazza. Andai di corsa al cimitero che si trovava vicino al parco di Clissold, perché se qualcuno aveva brutte intenzioni, quello era il posto giusto. I rovi mi strapparono i vestiti. Inciampai su vecchie lapidi, vidi delle coppie, dei gruppi di adolescenti, nessun bambino. Chiamai e urlai, ma sapevo che era inutile perché il luogo era immenso e pieno di angoli reconditi, e anche se Elsie era da qualche parte non era possibile trovarla. Così ritornai a casa, sperando che fosse ritornata e mi stesse aspettando, sentendo lo stomaco diventare acqua. Ma non c'era. C'era Sophie, il volto spaventato e confuso. E due poliziotti. Uno di essi, una donna, era al telefono. Raccontai affannosamente quel che era successo, che nel parco non c'era mia sorella, ma avevano già avuto una spiegazione frammentaria da Sophie. «È colpa mia» diceva Sophie, e udii un briciolo di isteria nella sua voce di solito poco espressiva. «È tutta colpa mia.» «No» risposi stancamente. «Come potevi saperlo?»
«Elsie sembrava così contenta di andar via con lei. Non capisco. Di solito non è espansiva con gli estranei.» «Non si trattava di un'estranea.» No, non avevo una fotografia di Elsie. Per lo meno non qui. E mentre mi imbarcavo in una descrizione dettagliata di mia figlia, suonò il campanello. Scesi di nuovo di corsa le scale, aprii la porta. E i miei occhi scivolarono dal volto sorridente di un altro poliziotto in uniforme a quello di una bambina con un soprabito blu che stava leccando la fine di un ghiacciolo arancione. Caddi sulle ginocchia e per un momento pensai che stavo per vomitare sulle scarpe lucide del poliziotto. Misi le braccia intorno al corpo di Elsie e nascosi il volto sulla sua pancia morbida. «Attenta al ghiacciolo» fece lei con una nota di preoccupazione. Mi rimisi in piedi e la presi in braccio. Il poliziotto mi sorrise. «Una signorina l'ha trovata che girava per il parco e me l'ha consegnata» disse. «E questa ragazzina intelligente si ricordava l'indirizzo di casa.» Diede un buffetto a Elsie sotto il mento. «La tenga d'occhio la prossima volta» aggiunse. Sollevò gli occhi sugli altri due poliziotti che stavano scendendo le scale. «La bambina che si era persa.» I poliziotti annuirono. La donna mi passò davanti e cominciò a parlare nella radio, annullando qualche disposizione. L'altro sollevò un sopracciglio stanco al suo collega. Un'altra mamma folle. «Beh, non esattamente...» cominciai a dire e poi rinunciai. «Com'era la donna che l'ha trovata?» Il poliziotto si strinse nelle spalle. «Giovane. Le ho detto che forse lei voleva ringraziarla personalmente, ma mi ha risposto che non ne valeva la pena.» Ringraziai con effusione e riuscii a chiudere la porta e a rimanere da sola con mia figlia. «Elsie» dissi. «Con chi sei stata?» Lei mi guardò, la bocca arancione. «Hai detto una bugia» mi disse. «È di nuovo viva. Lo sapevo che sarebbe ritornata.» Capitolo 39 Cancellai il cinema e il resto. Volevo stare da sola con Elsie a casa e darle esattamente quello che voleva. Budino di riso con su uno sciroppo dorato a forma di cavallino. «È un cavallo» insistei. «Guarda, ha la coda e le orecchie a punta.»
Fu uno sforzo sovrumano, ma riuscii a essere normale. «E come stava Finn?» «Bene» rispose Elsie sbadatamente, impegnata a fare delle spirali nello sciroppo dorato sul budino con il cucchiaio. «Bello, Elsie. Ma che ne dici di mangiarne anche un po'? Bene. Che cosa avete fatto tu e Finn?» «Abbiamo visto le galline.» Manovrai Elsie nella vasca da bagno e feci delle bolle con le dita. «È una bolla gigantesca, mamma.» «Vuoi che provi a farne una ancora più grossa? Di che cosa avete parlato tu e Finn?» «Abbiamo parlato, parlato e parlato.» «Ecco due bolle piccoline. Di che cosa avete parlato?» «Abbiamo parlato della nostra casa.» «Bene.» «Posso dormire nel tuo letto, mamma?» La portai nel mio letto e assaporai il suo caldo umidore attraverso la camicia con gratitudine. Mi disse di togliermi i vestiti e io me li tolsi e ci ficcammo sotto le lenzuola insieme. Trovai una spazzola sul comodino e ci spazzolammo a vicenda i capelli. Cantammo delle canzoni e io le insegnai la morra cinese, quel gioco in cui con la mano si fanno il sasso, la carta o le forbici. Il sasso vince le forbici, le forbici vincono la carta e la carta vince il sasso. Tutte le volte che lo facevamo, lei aspettava che io mostrassi la mia mossa e poi prendeva la sua decisione in modo da poter vincere e io l'accusavo di imbrogliare e ci mettevamo a ridere. Fu un momento di intensa felicità e dovetti trattenermi dal correre fuori della stanza e urlare. Avrei potuto farlo, ma non riuscivo a sopportare l'idea di lasciare Elsie da sola neanche per un minuto. «Quando possiamo vedere di nuovo Fing?» chiese tutt'a un tratto. Non seppi che cosa rispondere. «È buffo che abbiate parlato della nostra casa con... con Finn» dissi. «Forse è perché avete fatto dei giochi bellissimi là insieme.» «No» rispose Elsie con fermezza. Non potei fare a meno di sorriderle. «Perché no?» «Non era quella casa, mamma.» «Che cosa vuoi dire?» «Era la nostra casa sicura.»
«Che bello!» Strinsi di nuovo Elsie contro di me. «Ahi, mi fai male.» «Scusa, amore mio. E ha messo delle cose nella casa sicura?» «Sì» disse Elsie, che aveva cominciato a esaminarmi un sopracciglio. «C'è un pelo bianco.» Provai un senso vertiginoso di nausea, come se stessi fissando un abisso oscuro. «Sì, lo so. Buffo, no?» Senza disturbare Elsie, cercai dietro di me la penna e il taccuino che avevo visto vicino al telefono sul comodino. «Andiamo nella casa sicura?» «Di che colore è il tuo occhio?» «Ahi!» urlai mentre un dito interessato si infilava nel mio occhio sinistro. «Scusa mamma.» «Blu.» «E il mio?» «Blu. Elsie, andiamo a dare un'occhiata nella casa sicura? Elsie?» «D'accordo» rispose come un'adolescente aggressiva. «Bene, cara, chiudi gli occhi. Così. Camminiamo per il vialetto. Che cosa c'è sulla porta?» «Foglie rotonde.» «Foglie rotonde? Buffo. Apriamo la porta e vediamo che cosa c'è sullo zerbino.» «C'è un bicchiere di latte.» Lo annotai. «Un bicchiere di latte sullo zerbino?» dissi con il mio miglior tono da maestra d'asilo. «Che strano! Superiamo con attenzione il bicchiere di latte senza rovesciarlo, e andiamo in cucina. Che cosa c'è in cucina?» «Un tamburo.» «Un tamburo in cucina? Che casa di matti! Andiamo a vedere che cosa c'è sopra il televisore. Che cosa c'è sopra il televisore?» «Una pera.» «Carino. Ti piacciono le pere, no? Ma non assaggiamo ancora la pera. Non toccarla. Ti ho visto che la toccavi.» Elsie si mise a ridacchiare. «Andiamo di sopra. Che cosa c'è sulle scale?» «Un tamburo.» «Un altro tamburo? Sei sicura?» «Sì, mamma» rispose impazientemente.
«D'accordo. Che bel gioco, non è vero? Ora mi chiedo che cosa ci sarà in bagno?» «Un anello.» «Che cosa buffa, un anello in bagno. Forse ti è caduto dal dito quando facevi gli schizzi nella vasca?» «Non facevo gli schizzi!» urlò Elsie. «Adesso usciamo dal bagno e andiamo nel letto di Elsie. Che cosa c'è nel letto?» Elsie si mise a ridere. «C'è un cigno.» «Un cigno nel letto? Come farà a dormire Elsie se c'è un cigno nel suo letto?» Gli occhi di Elsie cominciarono a sbattere, la testa a ciondolare. Si sarebbe addormentata in un secondo. «Adesso andiamo nella camera da letto di mamma. Chi c'è nel letto di mamma?» La voce di Elsie uscì in un soffio. «La mamma è nel letto di mamma» disse dolcemente. «Ed Elsie è nelle braccia di mamma. E hanno gli occhi chiusi.» «Bellissimo» dissi. Ma vidi che Elsie dormiva già. Mi piegai a scostarle i capelli dal viso. Paul, il misterioso proprietario dell'appartamento, aveva una scrivania in un angolo della camera da letto e io ci andai in punta di piedi e mi sedetti con il taccuino. Mi massaggiai leggermente il collo con la punta delle dita e sentii la carotide battere. Dovevano essere circa 120 battiti al minuto. Oggi l'assassina del mio amante aveva rapito mia figlia. Perché non l'aveva uccisa o non le aveva fatto del male? Dovetti correre in bagno. Non vomitai, ma ci andai vicino. Feci qualche respiro profondo. Ritornai alla scrivania, accesi la piccola lampada ed esaminai gli appunti. L'assassina, X, aveva preso mia figlia, rischiando di essere catturata, e tutto ciò per fare con lei uno degli sciocchi giochini mentali che facevamo insieme a lei nella mia casa in campagna. Quando Elsie mi aveva detto quello che avevano fatto, mi aspettavo qualcosa di tremendo, e invece avevo una raccolta di stupidi oggetti: foglie rotonde, un bicchiere di latte, un tamburo, una pera, un altro tamburo, un anello, un cigno e poi Elsie e io nel mio letto con gli occhi chiusi. Che cos'erano le foglie rotonde? Feci uno schizzo. Presi la prima lettera di ogni cosa e ci giocai invano. Cercai di trovare qualche legame tra gli oggetti e il luogo in cui erano stati messi. C'era qualcosa di deliberatamente paradossale nel cigno su un letto, nel bicchiere di latte sullo zerbino? Forse questa donna senza nome aveva messo nella mente di mia figlia degli oggetti a caso perché voleva dimo-
strare il suo potere? Lasciai il pezzo di carta scarabocchiato e ritornai a letto accanto a Elsie, accanto al suono del suo respiro, all'espansione e contrazione del suo petto. Proprio quando pensavo che avrei passato una notte insonne e mi chiedevo come avrei fatto a superare il giorno dopo, fui svegliata da Elsie che mi apriva le palpebre. Emisi un gemito. «Che cosa succede oggi, Elsie?» «Non so.» Era il primo giorno alla sua nuova scuola. Al telefono mia madre mi aveva disapprovato. Elsie non era un mobile che si poteva portare fuori da Londra e poi riportare in città quando si voleva. Aveva bisogno di stabilità e di una casa. Sì, sapevo che cosa voleva dire. Che aveva bisogno di un padre e di fratelli e sorelle e, preferibilmente, di una madre il più possibile diversa da me. Fui allegra e vivace con mia madre al telefono e scoppiai a piangere non appena riattaccò. Ero arrabbiata e depressa, poi mi sentii meglio. La scuola elementare era obbligata ad accettare Elsie come alunna perché l'appartamento in cui stavamo praticamente guardava sul suo giardino. Mi venne mal di stomaco quando Elsie, in un vestitino giallo nuovo, con i capelli pettinati e legati con un nastro, attraversò la strada con me per andare alla sua nuova scuola. Vidi arrivare dei bambini e salutarsi. Come avrebbe fatto Elsie a sopravvivere? Andammo verso di loro, una signora di mezz'età sorrise a Elsie e la bambina le lanciò un'occhiata furente. Ci condusse nella classe, che si trovava in una dépendance. La maestra era giovane, con capelli scuri e modi calmi che immediatamente le invidiai. Ci venne incontro e abbracciò Elsie. «Ciao, Elsie. Vuoi che la mamma rimanga qui per un po'?» «No» rispose Elsie con il volto annuvolato. «Bene, allora salutala con un bell'abbraccio.» La strinsi e sentii le sue manine dietro il collo. «Tutto bene?» le chiesi. Lei annuì. «Elsie, perché le foglie sono rotonde?» Sorrise. «Avevamo le foglie rotonde sulla porta.» «Quando?» «Per Babbo Natale.» Foglie rotonde. Voleva dire una ghirlanda. Non riuscii a parlare. La ba-
ciai sulla fronte e mi precipitai di corsa fuori dell'aula e giù per il corridoio. Un'emergenza, urlai a una maestra disapprovante. Attraversai la strada sempre di corsa e salii all'appartamento. Avevo un dolore al petto e un cattivo gusto in bocca. Non ero in forma. Quasi tutto quel che possedevo era in un magazzino, ma avevo un paio di scatoloni pieni di libri di Elsie. Ne rovesciai uno sul pavimento e rovistai tra i libri. Non c'era. Rovesciai l'altro. Ecco. Il libro illustrato dei dodici giorni di Natale. Lo portai in camera da letto e mi sedetti alla scrivania. Era proprio quello. Il cigno che nuota. Cinque anelli d'oro. I tamburini che suonano il tamburo. E una pernice su un pero. E il bicchiere di latte? Sfogliai il libro, chiedendomi se fossi sul binario sbagliato. No. Mi concessi un mezzo sorriso. Otto donzelle che mungono. Allora, era un tortuoso riferimento a una canzone di Natale. Che significato poteva avere? Li scrissi nell'ordine in cui Elsie li aveva elencati: otto donzelle che mungono, nove tamburini che suonano il tamburo, una pernice sul pero, di nuovo nove tamburini che suonano il tamburo, cinque anelli d'oro, sette cigni che nuotano. Fissai l'elenco e poi all'improvviso gli oggetti sembrarono allontanarsi e i numeri fluttuare liberamente. Otto, nove, uno, nove, cinque, sette. Un numero familiare. Afferrai il telefono e composi il numero. Niente. Naturalmente. Chiamai e ottenni il prefisso di Otley, poi richiamai. Non ci furono squilli, solo un tono continuo. Era stato tagliato quando mi ero trasferita? In preda alla confusione chiamai Baird alla sezione omicidi di Stamford. «Stavo per chiamarla» furono le sue prime parole. «Volevo dirle...» mi interruppi. «Perché?» «Nessuno è stato ferito, non c'è nulla di cui preoccuparsi, ma temo che ci sia stato un incendio. La sua casa è bruciata la notte scorsa.» Non riuscii a parlare. «È ancora in linea, dottoressa Laschen?» «Sì. Come? Che cosa è successo?» «Non so. Ma c'è stato un gran caldo secco, che ha causato molti incendi. Potrebbe essere stato un corto circuito. Dovremo andare a controllare. Lo sapremo presto.» «Sì.» «Buffo che abbia chiamato proprio ora. Che cosa voleva dirmi?» Pensai alle parole di Elsie prima di addormentarsi la notte passata. «La mamma è nel letto di mamma. Ed Elsie è nelle braccia di mamma. E hanno gli occhi chiusi.» Eravamo addormentate e al sicuro o morte e fredde come le coppie di corpi passate sotto gli occhi di X? Leo e Liz Macken-
zie. Danny e Finn, accomunati dalla morte. «Niente veramente» risposi. «Volevo solo sapere come stavano andando le cose.» «Stanno progredendo» rispose. Non gli credetti. Capitolo 40 Mark, il giovane agente immobiliare, mi telefonò tardi quel pomeriggio. «Spero che abbia un alibi» mi disse allegramente. «Senta...» «Scherzavo, dottoressa Laschen. Non volevo offenderla.» «La mia casa è andata a fuoco.» «Nessuno si è fatto male, questa è la cosa importante. Ma d'altra parte, non che sia io a metterla in questo modo, ma se si vuol vedere il lato positivo della faccenda, lei è assicurata e qualcuno potrebbe, in un periodo come questo, far notare che guadagna di più ora che la sua casa è bruciata che a venderla.» «Come può essere?» «Non lo dico per noi, ma il mercato immobiliare è piuttosto lento e si riescono a vendere soprattutto le case con prezzi competitivi. Molto competitivi.» «Ma pensavo che la mia casa fosse molto commerciabile.» «In teoria lo era.» «Mi sembra piuttosto contento dell'intera faccenda. Anche lei era assicurato?» «Anche noi dobbiamo prendere delle precauzioni finanziarie.» «Allora sembra che questo disastro sia andato bene a entrambi.» «Ci saranno un paio di moduli da firmare. Forse potremmo discutere della cosa davanti a un aperitivo.» «Me li mandi. Buona sera.» Riappesi il ricevitore chiedendomi se l'incendio fosse stato un avvertimento o un regalo perverso da parte di una donna che sapeva delle mie manie piromani, o entrambe le cose. «È stata bene» mi disse la signorina Olds quando andai a prendere Elsie. «Un po' stanca questo pomeriggio, ma l'ho presa in braccio e abbiamo letto un libro insieme. Non è vero, Elsie?»
Elsie, che mi aveva fatto un cenno indifferente di saluto quando mi aveva visto, era nell'angolo della casetta, dove con un'altra bambina stavano mettendo del cibo di plastica su dei piatti di plastica e facendo finta di mangiarlo, il tutto senza una parola. Alle parole dell'insegnante alzò gli occhi, ma rispose solo con un cenno del capo. «Le cose sono state molto, ehm, difficili per lei recentemente» dissi. Avevo ancora il cuore che mi batteva all'impazzata in petto, come un'automobile su di giri prima di una corsa. Strinsi i pugni e cercai di respirare più lentamente. «Lo so» disse la signorina Olds con un sorriso. Anche lei doveva aver letto i giornali. Guardai di nuovo mia figlia, trattenendomi dal correre a prenderla e stringerla a me. «Già, ed è per questo che mi preoccupo che si senta al sicuro.» La signorina Olds mi guardò con comprensione. Aveva profondi occhi marroni e un piccolo neo proprio sopra il labbro superiore. «Penso che si stia adattando.» «Sono contenta» dissi. Poi aggiunsi: «Gli estranei non riescono a entrare facilmente qui, vero?». La signorina Olds mi toccò appena il braccio con la mano. «No» rispose «anche se ci sono dei limiti alla sicurezza che si può ottenere in una scuola dove ogni mattina arrivano duecento bambini.» Feci una smorfia e annuii. Le lacrime mi offuscavano la vista. «Grazie» dissi. «La bambina sta bene.» «Grazie.» Chiamai Elsie, le tesi la mano, e lei arrancò verso di me con il suo vestito giallo ranuncolo e un segno di pennarello blu come una cicatrice sulla guancia arrossata. «Vieni, cucciola.» «Andiamo a casa?» «Sì, a casa.» «Al centro della questione c'erano persone che non erano quel che sembravano.» Questo era ciò che avevo detto, astutamente, alla giornalista. L'avevo inteso come un velato ammonimento a Rupert Baird, ma da X, chiunque lei fosse, era stato letto e preso come un avvertimento. Mi aveva dimostrato ancora una volta che nessun luogo era sicuro. La mia casa era
stata bruciata e lei era riuscita a penetrare nella mente di mia figlia. Quando arrivammo a casa, misi Elsie nella vasca da bagno, per pulirla di tutto. Mentre lei giocherellava e parlava da sola, io andai a sedermi sulle scale e a fissare il muro, riesaminando gli avvenimenti. Non sapevo nulla della ragazza, ma sapevo qualcosa di Michael Daley. Era possibile che se avessi investigato sulla sua vita, avrei potuto trovare l'ombra da cui la ragazza era emersa. E pensai all'ultima immagine della casa sicura di Elsie. La mamma ed Elsie addormentate l'una nelle braccia dell'altra. C'erano due finali possibili alla storia. Elsie e la mamma che morivano insieme. Oppure Elsie e la mamma che vivevano per sempre felici e contente. No, era voler troppo. Mi bastava che vivessero. Il mio sogno a occhi aperti fu interrotto dallo squillo del telefono. Baird, naturalmente. «Spero che abbia un alibi» mi disse scherzosamente, come aveva fatto l'agente immobiliare prima di lui. «Non riuscirà a beccarmi, piedipiatti» risposi e lui si mise a ridere. Ci fu una pausa. «Tutto qui?» chiesi. «Abbiamo saputo che ieri c'è stato un incidente.» Allora si tenevano aggiornati. Era il momento di prendere una decisione, ma udii Elsie schizzare nel bagno e capii di aver già deciso. «È stato un malinteso. Elsie si è persa nel parco. Non è stato nulla.» «Ne è sicura?» Eravamo come due giocatori di scacchi che riesaminano la situazione prima di dichiarare patta e andare a casa. «Sì, sono sicura.» Avvertii il sollievo all'altro capo della linea. Mi salutò con calore, dicendo che si sarebbe tenuto in contatto, ma sapevo che sarebbe stata la nostra ultima conversazione. Tirai fuori dalla vasca Elsie, la portai sul divano avvolta nell'accappatoio e le misi sulle ginocchia un piatto di pane tostato e Marmite. «Posso guardare un film?» «Dopo forse, dopo cena.» «Mi leggi un libro?» «Tra un momento. Prima pensavo che potevamo fare un gioco.» «Possiamo giocare alle belle statuine?» «Non è molto divertente in due. Ti dico cosa faremo, tra un paio di settimane ci sarà il tuo compleanno e ci giocheremo alla tua festa.» «Festa? Avrò una festa? Per davvero?» Il suo visetto pallido si illuminò sotto le lentiggini. Con la punta della lingua rosa si leccò un baffo di Mar-
mite dal labbro. «Senti, questo fa parte del gioco. Dobbiamo organizzare la tua festa di compleanno e metteremo le cose più importanti della festa nella casa sicura.» «Per non dimenticarcene!» «Proprio così, per non dimenticarcene. Da dove cominciamo?» «Dalla porta.» Elsie si stava dimenando eccitata sul divano, una mano sporca di Marmite sulla mia. «Giusto! Togliamo la ghirlanda di foglie. Natale è passato da un pezzo. Che cosa ci mettiamo al suo posto, se dobbiamo fare una festa?» «Lo so, palloncini!» «Palloncini: uno rosso e uno verde e uno giallo e uno blu. Magari con delle facce sopra!» Pensai a una fila di bambine con i vestitini rosa e gialli, tutte venute per Elsie. Mi vennero in mente le mie feste da bambina: torta di cioccolato appiccicosa e biscotti con zucchero rosa, patatine e bibite frizzanti; attacca la coda all'asino e il telefono senza fili, un due tre stella e le belle statuine e alla fine un sacchetto per tutti con un pacchettino di Smarties, un pupazzetto di plastica che sarebbe stato adorato per un'ora e poi dimenticato per sempre, un fischietto e un palloncino lucido e sgonfio. Anche Elsie avrebbe avuto tutte quelle sciocchezze a buon mercato. «E poi?» «Lo zerbino, lo zerbino su cui Fing aveva messo un bicchiere di latte.» «Già, penso che nel frattempo abbiamo rovesciato quel latte.» Elsie si mise a ridacchiare. «Che cosa ci mettiamo al suo posto?» «Uhm, che cosa può andare sullo zerbino, mamma?» «Beh, una creaturina che amiamo molto, che si sta avvicinando quatta quatta alla tua Marmite, stai attenta, e che adora dormire sullo zerbino.» «Anatoly!» «Sarà il nostro gatto da guardia. Che cosa mettiamo in cucina? Che ne dici di una cosa che cuciniamo?» Elsie prese a saltare su e giù, così che il piatto scivolò a terra e io presi al volo la fetta di pane appiccicaticcia. «La mia torta! La mia torta a forma di casetta per il cavallo.» Mi ricordai. La torta di compleanno di un'amichetta aveva le pareti fatte di scaglie di cioccolato e dei cavallini di plastica in mezzo, ed Elsie era stata male a metà della festa. La abbracciai. «Una torta a forma di casetta per il cavallo. Bene, e che cosa mettiamo sulla televisione?» Corrugò la fronte. «Che ne dici del tuo regalo di com-
pleanno? Una cosa che volevi da tanto tempo, e che canta.» Rimase immobile. «Davvero, mamma, me lo prometti? Davvero?» «Andremo a sceglierlo insieme questo weekend. Un canarino in cima alla televisione allora, che canta.» «Posso chiamarlo Giallino?» «No. E che cosa mettiamo sulle scale?» Fu molto decisa: «Voglio Thelma e Kirsty e Sarah e la nonna e il nonno, perché vengono tutti alla mia festa. E quella bambina con cui giocavo oggi a scuola. E anche l'altra, quella che hai visto anche tu. Voglio mandare gli inviti». «D'accordo, tutti i tuoi ospiti sulle scale. Che cosa c'è nel bagno?» «Facile. La mia barca rossa con l'elica che non affonda mai, neanche se ci sono le onde alte.» «Bene.» Un'altra barca mi passò per la mente, una barca mezzo distrutta che si capovolgeva nel mare mosso. «E poi?» «La mia camera da letto.» «Che cosa mettiamo sul tuo letto, Elsie?» «Possiamo mettere il mio orsacchiotto? Possiamo tirarlo fuori dallo scatolone, così non perde la festa?» «Naturalmente. Anzi, non avrei mai dovuto metterlo lì. E infine, so che cosa c'è nel mio letto.» «Che cosa?» «Noi due. Tu e io. Siamo insieme nel letto e siamo sveglie e la festa è finita e tutti gli invitati se ne sono andati e noi parliamo di tutti i compleanni che farai.» «Sei molto vecchia, mamma?» «No, solo adulta, non vecchia.» «Allora non morirai presto.» «No, vivrò per tanto tempo.» «Quando sarò vecchia come te, sarai morta?» «Magari allora avrai dei bambini e io sarò una nonna.» «Possiamo vivere sempre insieme, mamma?» «Finché lo vorrai.» «E adesso posso vedere un film?» «Sì.» Chiusi la porta a Mary Poppins e andai in cucina, dove spalancai la fine-
stra. Il rumore di Londra invase la stanza: scolaretti che andavano a casa, risate e litigate, musica sincopata da un mangiacassette portatile, il ruggito dei motori, un clacson impaziente, una sveglia ignorata e insistente, sirene in lontananza, un aeroplano in cielo. Respirai l'odore di caprifoglio, di gas di scappamento, di aglio fritto, di caldo urbano, l'odore della città. Lei era là fuori da qualche parte, in quella confusione meravigliosa e inafferrabile, nella folla. Forse vicina o forse andata via per sempre. Mi chiesi se l'avrei mai più rivista. Magari un giorno o l'altro dall'altra parte di una strada, o in coda in un aeroporto, o in una piazza in una città straniera avrei colto di sfuggita un volto liscio piegato all'insù nel modo che conoscevo bene, mi sarei fermata, avrei scosso il capo e avrei proseguito rapidamente. La vedevo in sogno, che mi sorrideva ancora dolcemente. La sua libertà era un piccolo prezzo da pagare in cambio della sicurezza di Elsie. E avrei continuato a guardare i giornali. Era riuscita a svignarsela, ma senza i soldi. Che cosa avrebbe fatto adesso? Chiusi gli occhi e respirai il fragore di Londra. Danny era morto, ma noi, io ed Elsie, ce l'avevamo fatta. Era qualcosa. Dal soggiorno arrivava la voce squillante di Mary Poppins, che cantava ai bambini e alla mia bambina. Aprii la porta. Elsie era appoggiata allo schienale del divano, le gambe piegate sotto le ginocchia, e fissava lo schermo. Mi inginocchiai accanto a lei e lei mi diede un colpetto distratto sulla testa. «Puoi star qui a vedere il film con me, mamma, come faceva Fing?» Così rimasi a guardare il film, fino alla fine. FINE